I Templari in America


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Jacques de Mahieu I templari in America Titolo originale dell'opera: Les Templiers en Amérique. Traduzione dal francese a cura di: Alda Teodorani. Copyright 1998 Edizioni Piemme Spa Casale Monferrato. Piemme. A sette secoli dal rogo in cui trovò la morte Giacomo di Molay e dalla feroce persecuzione che ha segnato l'epilogo della loro vicenda, i Templari continuano a rappresentare un affascinante enigma storico. Dove sparirono gli archivi dell'Ordine, dopo che furono caricati a Parigi su carri diretti verso la costa? Dove si rifugiò nel 1307, stretta nella morsa del papa e del re di Francia, la flotta templare dell'Atlantico, di cui non si ebbero mai più notizie? Da dove venivano l'oro e l'argento con cui l'Ordine del Tempio inondò l'Europa del XII e XIII secolo? E a cosa serviva il porto di La Rochelle, che apparentemente non portava da nessuna parte? Le risposte, che i Cavalieri di Cristo celarono nella sacralità inviolabile del loro Secretum Templi, si svelano ora in modo imprevedibile ma convincente e si riassumono in una sola parola: America. Jacques de Mahieu è nato a Parigi nel 1915. Laureato in filosofia, in scienze economiche e in scienze politiche, nonché, honoris causa, in medicina, ha insegnato per molti anni a Buenos Aires presso l'Instituto de Ciencia del Hombre, da lui fondato e diretto. Ha pubblicato in Argentina numerosi saggi su questioni economiche e sociologiche, per poi dedicarsi quasi esclusivamente alla storia dell'America precolombiana e allo studio dei primi contatti tra il Vecchio Mondo e il Nuovo. Su queste tematiche ha pubblicato numerosi volumi, tradotti in diversi paesi. E' morto a Buenos Aires nel 1990. capitolo 1. Il segreto del Tempio. 1. Mistica e politica Siamo nel XII secolo, nel cuore della cristianità. Prima romanizzata, quindi germanizzata, la Chiesa non ha più molto a che vedere con la piccola setta ebrea dalla quale ha avuto origine. In tutti i campi, la tradizione dell'Occidente si è imposta allo spirito del deserto. Per ciò siamo molto distanti da quell'oscurantismo che verrà rimproverato al Medioevo durante l'Illuminismo. Il papa non è ancora infallibile e il suo potere temporale lo rende un capo di stato come gli altri, sottomesso alle esigenze e alle necessità della diplomazia e della guerra. Nella ristretta cerchia dei prelati, le idee fermentano e si esprimono liberamente, sotto la semplice copertura di un'ortodossia di facciata, più o meno sincera. Ma il realismo aristotelico non ha ancora conquistato l'Università, e lo farà solo nel secolo seguente. Dello Stagirita, si conoscono solo i trattati di logica. L'idealismo platonico, al contrario, domina gli animi: beninteso, si tratta di un platonismo che spesso viene osservato attraverso il prisma deformante dell'esoterismo plotiniano e gnostico, che trova nel Vangelo di san Giovanni una base di dottrina a cui non si può obiettare e al quale sant'Agostino ha offerto credenziali per il mondo intero. Assistiamo, così, a un ritorno del misticismo, di cui Cîteaux costituisce il centro primario

di diffusione. Questo impeto non è dovuto solo alle circostanze di quel periodo: un uomo gli dà vita e lo dirige con un talento senza eguali. Abate di Chiaravalle, che è la seconda casa dell'ordine contemplativo fondato nel 1098 secondo la regola di san Benedetto e nello spirito di sant'Agostino, il futuro san Bernardo domina la prima metà del suo secolo. Scrivano mistico che conduce alla salvezza tramite l'estasi, oratore sacro capace di tenere centoventi sermoni sul Cantico dei Cantici del re Salomone, ma anche di predicare ai signori e al popolo la seconda crociata, superiore intransigente di un ordine che, in trent'anni, si propaga in tutto l'Occidente, è anche consigliere dei papi. A uno di loro, Eugenio III, Bernardo indirizza le sue Considerazioni sui mali della Chiesa e i doveri del Sommo Pontefice. I principi lo temono, giacché non ignorano il suo astio verso il feudalesimo e possono constatare il suo ascendente sulle genti. Bernardo è l'uomo della Chiesa universale e teocratica, in questo Medioevo in cui tutta l'attività politica è dominata dalla disputa tra clero e impero, mentre Roma compie ogni sforzo per imporsi ai sovrani, a loro volta impegnati ad affermare la loro autonomia temporale contro il potere spirituale. Così, Bernardo esalta le crociate. Che da un lato sono un mezzo efficace per indebolire i feudi - come lui stesso riconosce - e dall'altro si propongono di frenare l'avanzata turca. Inoltre, offrono il vantaggio di ristabilire il contatto tra l'Occidente e Bisanzio, indispensabile alla riunificazione del mondo cristiano. Permettono, ancora, di risalire alle fonti della spiritualità orientale da cui è scaturito il cristianesimo: in fin dei conti, dopo la presa di Gerusalemme, il futuro santo Stefano, abate di Cîteaux, con l'aiuto di un gruppo di rabbini, aveva fatto studiare testi ebraici a tutti i suoi monaci. Anche lo stesso Bernardo aveva buone relazioni con le comunità ebree d'Europa, al punto da precipitarsi oltre il Reno per metter fine al pogrom. Le crociate, infine, forniscono un ottimo pretesto per la creazione di un esercito, quel fattore essenziale di potere che ancora mancava al papato. Un giorno dell'anno 1118, nove cavalieri francesi giungono a Gerusalemme e si presentano al re Baldovino II. Il loro capo, Ugo di Payns, nativo della Champagne, è imparentato con una famiglia di conti. Tre dei suoi uomini sono fiamminghi, come il re che, evidentemente, deve conoscerli. Un quarto, André di Montbard, della Borgogna, è lo zio di Bernardo. Non si sa nulla degli altri quattro, salvo i loro nomi di battesimo e, per uno di loro, il patronimico. Baldovino, al quale gli uomini devono esser stati caldamente raccomandati, senz'altro dall'abate, accoglie benevolmente questo strano gruppo che non viene né per combattere né per aggregarsi agli Ospedalieri di san Giovanni di Gerusalemme, incaricati della protezione dei pellegrini. Ugo espone la propria intenzione di fondare una comunità di monaci guerrieri, la cui missione pare essere quella di «sorvegliare le pubbliche strade». Baldovino concede il suo permesso e sistema i cavalieri in un'ala del suo palazzo, nel luogo in cui sorgeva il Tempio di Salomone, là dove oggi si erge la moschea di al-Aqsa. E, per far posto ai nuovi ospiti, fa traslocare i canonici del Santo Sepolcro. Qualche tempo dopo, il re lascia loro l'intero palazzo. Nonostante siano sempre laici, i cavalieri pronunciano dinanzi al patriarca di Gerusalemme i tre voti monastici di obbedienza, castità e povertà. Per dieci anni, Ugo di Payns e i suoi compagni restano in Palestina

senza far parlare di sé. E benché occupino un edificio dove vivono con tutti i comodi il re, la sua corte e i canonici, rifiutano qualsiasi reclutamento. Arriva a raggiungerli solo un decimo cavaliere, nel 1125: Ugo, conte di Champagne, un signore potente quasi quanto il re di Francia che, per raggiungere Gerusalemme, ripudia la moglie e abbandona i figli. Ma questi uomini si trovano lì veramente per sorvegliare le strade? Ci sono buone ragioni per dubitarne, tanto più che la forza militare di un gruppo così piccolo risulta essere insignificante e inadeguata all'incarico. I cronisti dell'epoca non segnalano la loro partecipazione a nessun combattimento. E allora? Allora, l'immaginazione può sbizzarrirsi. Senza l'ombra di una prova, si è raccontato che i nove cavalieri avessero il compito di cercare l'Arca dell'Alleanza e le Tavole della Legge - perfino che erano state trovate sgombrando le scuderie del Tempio - o ancora di raccogliere, per mezzo di un'iniziazione esoterica, l'«Antica Saggezza». La verità è che non sappiamo nulla sull'attività di Ugo di Payns in Palestina. E che possiamo solo sottolineare che dieci anni parrebbero ben lunghi se non si fosse trattato di preparare il terreno all'ordine cavalleresco che avrebbe fondato. Nel 1127, Ugo e cinque dei suoi compagni rientrano in Europa. Baldovino II li incarica di una doppia missione presso papa Onorio II e Bernardo: ottenere l'incoraggiamento per una seconda crociata, in modo da fornire al re i rinforzi di cui ha urgente bisogno. Ma non è questo il principale scopo del viaggio. In effetti, Bernardo affida loro la regola che ha stabilito, nello spirito di Cîteaux, per il nuovo ordine di cui essi costituiscono il fulcro. Quindi, nel gennaio del 1128, presiede a Troyes il concilio che lo ratifica. E' nato l'Ordo Pauperum Commilitonum Christi Templique Salomonici (Ordine dei Poveri Cavalieri del Cristo e del Tempio di Salomone). I suoi membri verranno chiamati Milites Templi (Cavalieri del Tempio), Fratres Militiae Templi (Fratelli della Milizia del Tempio), Commilitones Christi (Fratelli d'arme di Cristo) o più semplicemente Templarii. Bisogna riconoscere che è strano questo riferimento diretto al Tempio di Salomone, poiché l'Antico Testamento non era affatto apprezzato nel Medioevo. E pare legittimo pensare che il nome dell'Ordine sia semplicemente riferito all'edificio in cui si erano stabiliti i suoi fondatori. Bisognerebbe invece vedervi una conseguenza dell'interesse speciale di Bernardo per il Cantico dei Cantici, poema sottilmente erotico che la sua analisi leggeva come canto d'amore, esoterico e profetico della Chiesa, sposa di Cristo? O ancora il segno dell'intento di tornare alle fonti orientali del cristianesimo? Comunque sia, l'Ordine spicca subito il volo e si espande con una rapidità sorprendente. L'arruolamento è aperto: arrivano cavalieri e molti altri volontari - o meglio dire novizi? - che cavalieri non sono. Per alcune centinaia d'anni, i templari sorveglieranno le strade della Palestina e della Siria, ma, soprattutto, forniranno ai re franchi di Gerusalemme truppe agguerrite che, fino alla fine, prenderanno parte a tutte le battaglie. Contemporaneamente, fin dall'origine, l'Ordine si radica saldamente in Europa, diviso in nove province: Francia, Portogallo, Castiglia e Leone, Aragona, Maiorca, Germania, Italia, Puglie e Sicilia, Inghilterra e Irlanda. Qui non ci sono infedeli da combattere, ma un potere da stabilire e un preciso piano da realizzare. Le commende si moltiplicano, i domini crescono di giorno in giorno. Il processo si accelera dopo l'abbandono del Medio Oriente, quando il gran maestro si stabilisce a

Parigi. All'inizio del XIV secolo, i templari dispongono, in tutto l'Occidente, di qualcosa come diecimila commende, di cui circa mille in Francia. Diecimila commende, ma anche baliaggi (postazioni militari che vi sono annesse), e dei granai o cascine, che solitamente sono fortificati. Tre categorie di fratelli costituiscono l'ordine propriamente detto (1). Innanzitutto i cavalieri (milites o equites), tutti nobili di nascita, o più raramente nobilitati, ai quali toccano funzioni di comando. Quindi gli ecclesiastici (clerici), che sono collegati ai magistri (maestri) o che attendono ai servizi religiosi nelle chiese. Poi i sergenti (servientes), divisi in due classi: i servientes armigeri che forniscono ai cavalieri gli scudieri, i sergenti di armi e i fantaccini di accompagnamento, ma che sono incaricati anche dell'amministrazione dei beni del Tempio e di tutte le sue attività economiche, e i servientes famuli che includono i fratelli rurali, o conversi (fratres conventuales) e i fratelli residenti (fratres residentes), tra cui alcuni sono chiamati fratelli di mestiere (fratres officii). Infine, ci sono gli ospiti del Tempio (hospites o mansionarii Templi) che prestano servizio a titolo temporaneo. Gli ospiti (o almeno quelli che non sono sacerdoti) e sembra - alcuni residenti, possono essere sposati. L'Ordine, infine, concede la sua protezione ad affiliati di tutti i tipi: signori che offrono fedeltà, mercanti che ricorrono ai suoi servizi commerciali, artigiani che si stabiliscono nelle sue terre e molti altri ancora. Alla base della scala, troviamo i servi, legati alla gleba secondo le usanze feudali, e ancor più giù schiavi neri presi in Palestina. Alla sommità della piramide gerarchica troneggia il gran maestro, eletto da un capitolo di cavalieri che rappresentano le nove province; egli è sovrano assoluto ad eccezione di alcuni compiti che si riserva il capitolo stesso, come l'accettazione di nuovi cavalieri, la vendita dei beni dell'Ordine e la nomina dei grandi commendatori della provincia. Il termine «sovrano» deve essere inteso nel suo senso più ampio. Il Tempio, effettivamente, non accetta nessun'altra autorità se non quella del suo gran maestro: sfugge a ogni giurisdizione temporale e i suoi domini godono dappertutto del diritto di extraterritorialità. I fratelli e gli affiliati possono essere deferiti solo ai suoi tribunali. L'Ordine, ed è il solo oltre a Cîteaux, è esente da qualsiasi imposta, anche dalla decima del clero. Così come si sottrae alla giurisdizione ecclesiastica ordinaria, quella dei vescovi. I suoi ecclesiastici e sacerdoti affiliati sono i soli ai quali i membri dell'Ordine possano confessarsi: hanno il potere di assoluzione riservato all'arcivescovo (grazie a un editto del 1162) e dipendono solo dal gran maestro. E il gran maestro dipende unicamente dal papa, che lo teme. Stato sovrano al di sopra degli Stati temporali, chiesa indipendente in seno alla Chiesa, il Tempio ha sempre fatto a modo suo. Fino a quel giorno del 1307, in cui Filippo il Bello prende il toro per le corna, s'impadronisce manu militari delle commende, imprigiona i fratelli, manda al rogo Jacques de Molay e ottiene dal papa Clemente V di far sciogliere «provvisoriamente» l'Ordine dei Poveri Cavalieri di Cristo. Nel corso del processo, piovono le accuse. E i templari confessano. Confessano durante l'interrogatorio al quale vengono sottoposti dalla prevostura e dall'inquisizione reale. Confessano in Gran Bretagna, dove la tortura viene loro risparmiata. Confessano ancora sotto l'Inquisizione ecclesiastica, su specifiche istruzioni del papa che assiste e partecipa personalmente alle udienze, ascoltando

settantadue cavalieri e sergenti: «un interrogatorio che fu condotto lentamente, con molto riguardo e gentilezza, da alti dignitari della Chiesa, un arcivescovo, diversi vescovi ecc. Le deposizioni così ottenute meritano più credito delle confessioni - d'altra parte molto brevi e poco istruttive - che gli inquisitori e gli uomini del Re avevano strappato con la tortura, immediatamente dopo l'arresto» (2). E' vero, comunque, che gli accusati non erano liberi e potevano temere rappresaglie se avessero ritrattato. I costumi dei templari erano diventati meno rigorosi? C'è da crederlo, perché la regola monastica era sicuramente troppo dura per uomini d'arme influenzati dalle abitudini orientali: non si dice ancora «giurare come un templare?». Forse i fratelli praticavano la sodomia e, il giorno nel quale venivano accolti, dovevano baciare «la bocca, l'ombelico, le natiche e le parti virili» (2) del maestro che officiava? Non possiamo escluderlo, e la presenza di ragazzini nelle commende di questi monaci-soldati, ai quali erano vietati tutti i contatti con le donne, è un po' sospetta. Si davano alla stregoneria e sacrificavano bambini nelle loro cerimonie? Più difficile da credere, ma non impossibile: l'alchimia era di moda, nel Medioevo, e dall'alchimia alla stregoneria c'era solo un passo. Ma è anche vero che le religioni impopolari sono sempre state accusate di stregoneria. Comunque fosse, i fratelli non ispiravano fiducia, come testimonia anche un'espressione in uso a quei tempi: custodiatis vobis ab osculo Templariorum, state in guardia dal bacio dei templari. Che comunque non avevano alcun problema riguardo al reclutamento, poiché la regola permetteva loro di accettare cavalieri scomunicati (sacrileghi, spergiuri, ladri, assassini) che venivano prima assolti, senza difficoltà, dagli ecclesiastici dell'Ordine. Ciò che sembra certo è che il Tempio aveva introdotto alcune varianti poco ortodosse nella dottrina cattolica. Lasciamo da parte il problema del famoso Bafometto, idolo luciferino o gnostico che era stato oggetto di culto e che non si sa con certezza cosa rappresentasse per l'Ordine. Ma non si può mettere in dubbio che il futuro cavaliere, prima di pronunciare i voti, dovesse calpestare il crocifisso. Sicuramente non per rinnegare Cristo, ma, al contrario, per affermarne la gloria senza macchia: non era il figlio di Dio ad essere morto sulla croce, ma un agitatore politico che era stato sostituito a lui. I templari avevano raccolto in Palestina dei nuovi dati su questo punto? O, piuttosto, cercavano di liberare gli ebrei dall'accusa di aver ucciso Dio, eliminando quindi un ostacolo alla «conciliazione o [alla] riconciliazione del passato con il presente e il futuro, nel grande pensiero di unità divina», come afferma John Charpentier? (3) Quest'ultima spiegazione non può essere affatto rifiutata a priori. Il platonismo coltivato da Bernardo, quello alessandrino e di Giovanni - un po' tinteggiato di gnosi - era stato sicuramente rafforzato nei templari dai contatti intessuti non solo con Bisanzio, ma anche con i cabalisti ebrei e i sufi musulmani, senza parlare degli assasi (hashishi), un ordine mistico dell'Islam, il cui ordinamento e anche la divisa coincidevano stranamente con quelli dei fratelli del Tempio. Michelet (4) non esita ad attribuir loro un'intenzione ecumenica molto estranea allo spirito del cattolicesimo medievale: «L'idea del Tempio, più alta e ampia di quella della Chiesa, in qualche modo si librava su ogni religione. La Chiesa datava, il Tempio non datava. Contemporaneo di tutte le età, era come un simbolo dell'eternità religiosa». Un'intenzione ecumenica che spiegherebbe la neutralità benevola dell'Ordine riguardo ai catari

durante la spedizione fatta contro questi ultimi dai baroni del nord con la benedizione dell'abate di Cîteaux, Arnaud-Amaury. In quell'occasione, il Tempio si era dissociato di fronte ai successori di Bernardo, strettamente ortodossi. Ma non solo: circa trent'anni dopo, il Tempio dissimula appena la sua approvazione al progetto di Enrico II Plantageneto, re d'Inghilterra: la spartizione della Terra Santa con i musulmani che, nel 1180, si preparano a dare l'assalto finale, e vittorioso, alla Gerusalemme francese; cosa che faranno sette anni più tardi. Un progetto appoggiato dal conte di Tolosa, Raimondo V, protettore degli albigesi e... cognato del Saladino, che ha sposato sua sorella. Il Tempio, che sogna una monarchia universale sotto il suo controllo, non vede di cattivo occhio l'alleanza tra cristianità e Islam; quell'Islam dove, d'altronde, torneranno molti fratelli, dopo lo scioglimento dell'Ordine (5). Proprio in quel momento, il capitolo del Tempio decide di eleggere come gran maestro Robert de Sablé, della Linguadòca, le cui simpatie non sono davvero un segreto per nessuno. Il re di Francia si mette in allarme, così come il papa. Ma papa e re sono in profondo disaccordo, e i problemi tra Roma e Parigi domineranno tutto il XIII secolo, anche e soprattutto durante il regno del futuro san Luigi. Fino al giorno in cui, grazie a Filippo il Bello, il trono pontificale verrà occupato da Bertrand le Got, arcivescovo di Bordeaux, con il nome di Clemente V. Sarà la fine dell'Ordine del Tempio. 2. I beni dei templari. La potenza militare dell'Ordine non è certo trascurabile. Non si conoscono le cifre esatte a causa della sparizione degli archivi, di cui avremo occasione di riparlare, ma gli si attribuiscono 15.000 cavalieri e 45.000 sergenti, senza contare i conventuali, i residenti, gli ospiti e i vassalli. Questa armata, tuttavia, non è operativa, poiché è dispersa in tutta l'Europa occidentale. Così, sarà incapace di offrire la benché minima resistenza ai soldati del re di Francia. Ma è proprio questa dispersione la forza del Tempio, perché solo così l'Ordine può amministrare i beni che acquisisce con una incredibile rapacità e che fa fruttificare utilizzando metodi che l'Occidente non conosceva più dopo la decadenza romana. Perché se è vero che il Tempio è un ordine religioso e una milizia, costituisce anche un gigantesco trust, nel senso più capitalistico del termine. Ovviamente, all'origine di questa fortuna ci sono le elemosine e la guerra. Come tutti i religiosi, i templari fanno voto di povertà individuale, ma l'Ordine, come del resto tutti gli ordini, detiene il diritto di acquisizione. La regola conferisce anche l'obbligo di conservare ogni bene, e di non poter vendere, «né un pezzo di muro, né un pollice di terra», senza l'autorizzazione del capitolo. Un'avidità che spinge a rifiutare - contro le usanze dell'epoca - il pagamento del riscatto per i templari che sono stati fatti prigionieri, oppure di versare la propria quota per re Luigi IX, preso dai saraceni a Mansourah. Si può pensare che i pellegrini della Terra Santa abbiano contribuito volontariamente in maniera apprezzabile all'arricchimento del Tempio. I cavalieri e alcuni dei sergenti - ricchi borghesi che l'Ordine accoglie nelle proprie fila apportano la loro dote. Altri crociati, preoccupati per la salute della loro anima o ansiosi di procurarsi un appoggio decisivo negli innumerevoli conflitti feudali che dividono continuamente le forze francesi, fanno dono «a Dio, alla benevola Maria e ai fratelli della milizia del Tempio» dei beni o dei benefici che raccolgono. Si assale

e si taglieggia l'infedele, e forse si traffica un po' con lui nel corso dei lunghi periodi di calma tra una battaglia e l'altra. Il Tempio, inoltre, arma una flotta che prima rivaleggia con Venezia e poi cerca di assicurarsi il monopolio dei trasporti tra l'Europa e il Medio Oriente. A Maiorca, a Collioure, a Saint-Raphaèl e a Monaco, dispone di porti privati che, tuttavia, non paiono essergli sufficienti. Utilizza anche quello di Marsiglia, la principale città commerciale della Provenza, beneficiaria delle franchigie nel reame francese di Gerusalemme, al punto che i consoli si preoccupano, ed esigono una giusta ripartizione del noleggio tra i vascelli dell'Ordine e quelli degli armatori locali (6). Si occupa del trasporto delle truppe, molto ben pagato dai sovrani che partecipano alle crociate e dai principi invasati dalla Terra Santa, di quello dei pellegrini (che non era gratuito), ma anche e soprattutto del traffico delle merci. In Europa si imbarcano armi, cavalli e viveri, dalla Palestina si esportano vini locali, spezie e zucchero delle Indie, sete e tappeti di Persia, tessuti di Damasco, profumi d'Arabia. E' un commercio fruttuoso, in cui i templari recitano presto la parte del leone. Tuttavia, quello che l'Ordine accumula in Terra Santa non è nulla in confronto ai beni che riunisce in Europa. La pietà e la prudenza fanno sì che i sovrani e i grandi feudatari si assicurino le preghiere dei cavalieri e l'appoggio delle loro milizie donando al Tempio terre e castelli fortificati. Signori, grandi e piccoli, cedono o lasciano in eredità, in tutto o in parte, i loro feudi. Altri, diritti di pascolo, diritti di macina, diritti sugli argini per il passaggio del legname, «per ogni chiatta, barca o battello caricato di tronchi, un tronco e per ognuno di questi battelli caricato con fascine, una fascina». L'Ordine non disdegna nulla, tantomeno i cinque feudi che gli vengono regalati in una sola volta a Courbepine, in Normandia, nel 1205, e neanche i beni più preziosi di un defunto (o i cinque soldi in moneta, come preferisce) ogni volta che si verifica un decesso a Moulin-Robert, in Bretagna. Accetta anche immense tenute «per carità», com'è specificato in moltissimi atti notarili (e Filippo il Bello cerca di impedirlo inutilmente, prima di arrivare a misure più sbrigative). Eccepisce pure sul discutibile testamento di Alfonso d'Aragona, per rivendicarne tutto il reame. Non lo ottiene, ma acquisisce «terre, beni e fondi e profitti». Arriva anche, in una maniera o nell'altra, a possedere intere regioni, con i castelli, i villaggi, le foreste, le terre coltivabili e i servi. Ha, inoltre, i suoi vassalli, che pagano in canoni per ottenere una protezione, molto utile in questi tempi perturbati, e l'esenzione dalle imposte reali di cui beneficia il Tempio. Ma fin qui l'Ordine non fa che seguire, con alcuni privilegi complementari, l'esempio di tutte le comunità religiose del Medioevo, che vivevano senz'altro con le elemosine, ma soprattutto con lo sfruttamento delle loro terre. Si potrebbe appena sottolineare che i granai dell'Ordine - molte migliaia solo in Francia - annessi alle commende e coltivati dai «braccianti del tempio», mezzadri e servi, sono magnificamente amministrati. Nelle zone a produzione di cereali, alcuni hanno anche un deposito di grano. I templari immagazzinano il frumento per rivenderlo, in tempi di penuria, a prezzi abusivi? Ne vengono accusati: «La calunnia cade da sola - scrive Louis Charpentier (7) - dal momento che la regola proibiva a ogni templare, anche se dignitario, di vendere qualsiasi cosa che appartenesse all'Ordine senza la decisione del capitolo. E il grano acquistato

apparteneva all'Ordine. E non ci furono commercianti nel Tempio». Effettivamente, forse l'accusa di speculare sul grano è solo una calunnia, perché non si può negare che i granai in questione contribuirono prepotentemente, nell'XI e XII secolo, a evitare le carestie che prima devastavano l'Europa. Si sa anche che, in periodo di carestia, il Tempio dispone distribuzioni gratuite di segalata, quella mescola di grano e segale che costituisce la base dell'alimentazione medievale: la regola obbliga all'elemosina, che d'altronde rappresenta una buona politica. Ma ciò non toglie che l'Ordine si dedichi con cura all'attività del commercio e che vengano aggiunti magazzini alle innumerevoli commende che, d'altronde, proteggono i mercati. Ci limitiamo a darne una prova: a Nantes, il Tempio rifiuta di pagare al vescovo i diritti che provengono dalla vendita dei vini (8). Tuttavia i granai, e in generale i depositi annessi alle commende, non servono unicamente né principalmente allo stoccaggio dei prodotti agricoli che appartengono all'Ordine. Sono soprattutto depositi dove, dietro compenso, i paesani liberi e i mercanti mettono al riparo i loro beni dal saccheggio e dalle tasse dei signori. Ma questo è l'aspetto secondario di una delle attività del Tempio: la protezione delle strade. Le strade sono molto poco sicure nel Medioevo. I viaggiatori vengono spesso depredati da bande di briganti e, d'inverno, i lupi non esitano ad attaccarli. Il trasporto delle merci è gravato, d'altra parte, dagli innumerevoli pedaggi dei signori e dei comuni, come quelli che ancora oggi esistono su certe autostrade e ponti. Ora, senza un percorso sicuro, né un trasporto a buon mercato, il commercio langue, perché i prezzi aumentano vertiginosamente da una regione all'altra. Non è raro che un villaggio subisca gli effetti di una terribile carestia provocata dalla grandine o da un'epidemia bovina, mentre il comune o il feudo vicino possiedono grano e bestiame in abbondanza. Ma il costo del trasporto rende il prezzo inaccessibile agli affamati. Il Tempio si dedica, con successo, a risolvere questo problema. Le sue commende sono collegate da strade che coprono tutto l'Occidente in una fitta rete, pattugliate dai cavalieri. Queste strade offrono ai viaggiatori stazioni di sosta gli ostelli - dove possono passare la notte con i loro animali da soma e le loro merci. Su queste «strade templari» non c'è alcun pedaggio: l'Ordine ne ha preteso la soppressione, e nessuno, signore o magistrato comunale, oserebbe contrariarlo. I compensi percepiti dal Tempio sono minimi, ma l'aumento del traffico rende apprezzabile la rendita. Tuttavia non sono solo le difficoltà nei trasporti a ostacolare il commercio. Nel Medioevo il contante è molto raro e generalmente lo si riserva al pagamento delle imposte. Nei villaggi, è in uso lo scambio. Ma senza moneta gli scambi, in altra scala, sono difficili. Così il Tempio fonda una banca, e ogni commenda ne costituisce una succursale. I commercianti vi depositano il loro oro e per contro l'Ordine emette delle lettere di cambio. Quando non hanno valori monetari, lasciano merci in garanzia - il warrant dei nostri giorni e ricevono il controvalore in lettere. Tutto questo, naturalmente, dietro il pagamento di un aggio. D'altra parte, la banca templare riceve in deposito i tesori di signori e vescovi e perfino quello del re di Francia per il quale, in ogni caso, il Tempio si incarica dell'esazione di alcune imposte, giocando così il ruolo che qualche secolo più tardi passerà agli appaltatori generali. Il Tempio non lascia riposare nelle cantine delle sue

fortificazioni il metallo che gli viene affidato e quello che gli appartiene di suo, e che aumenta incessantemente. Lo presta: ai principi, ai signori grandi e piccoli, ai vescovi, ai comuni, a persone qualsiasi, talvolta su ipoteca. Nelle sue commende organizza anche dei monti di pietà, che praticano il prestito dietro cauzione. Ebbene, l'usura - e ogni interesse è usurario, secondo le norme dell'epoca - è strettamente vietata dalle autorità ecclesiastiche come anche dai poteri secolari. Possono praticarla solo gli ebrei perché godono di uno statuto speciale e non sono sottomessi, per i loro usi e costumi, né alle une né agli altri (anche se devono subire periodicamente il saccheggio dei loro beni da parte del popolo e le confische del sovrano). Ma, l'abbiamo già detto, il Tempio è extraterritoriale. Nulla gli impedisce di far concorrenza agli ebrei. Ne approfitta e ne abusa. Per citare solo un esempio, presta cinquanta soldi di Tours a un certo Peronnelle de la Gouberge, della parrocchia di Ormes, in Normandia, pretendendo la cessione di una rendita di ventiquattro soldi di Tours, di quattro capponi e un pollo con quarantun uova (9). Più del cinquanta per cento d'interesse all'anno! 3. Il finanziamento delle cattedrali. Tra i «beneficiari» dei crediti templari, ci sono buone ragioni per annoverare i vescovi e i comuni che, fin dal 1140, sotto l'ispirazione dei monaci cistercensi, cominciano a costruire le chiese gotiche. Di questo non esiste alcuna documentazione, poiché gli archivi dell'Ordine sono scomparsi. Ma Louis Charpentier l'ha provato senza ombra di dubbio in un'opera (7) dove, sfortunatamente, il peggio (cioè una visione esoterica del mondo medievale) si mischia al meglio. «Bisogna vedere le cose com'erano», scrive. «Quasi tutte le città francesi, soprattutto al nord della Loira, sono solo piccole borgate dai mezzi estremamente limitati. Il denaro è raro e non circola. Quando un comune possiede qualche mezzo, o può procurarselo, le costruzioni che realizza per prime sono le mura, che lo mettono al riparo - relativamente - dalle guerre continue e dalle bande di predoni che non rispettano le città aperte più di quanto lo facciano le truppe regolari. «Dunque, le città hanno solo piccole chiese e non posseggono i mezzi per farne costruire di grandi. Solamente nelle città ricche come Rouen - il secondo centro del regno - si moltiplicano le parrocchie e si abbelliscono le chiese grazie alle donazioni dell'uno o dell'altro. «Quindi, com'è stato possibile che in pochi anni, e in tutte le città contemporaneamente, da Parigi sino alle piccole borgate, si sia potuto trovare il denaro necessario per intraprendere queste enormi costruzioni? Per focalizzare il problema, non c'è borgata di oggi dell'importanza che aveva Chartres nel Medioevo, cioè circa diecimila abitanti, che possa riuscire a costruire una piscina, cioè solo un buco murato in terra. E queste borgate (Amiens e Reims sono appena più grandi di Chartres) possono, improvvisamente, permettersi il lusso di cattedrali che conterrebbero uno stadio!» E Louis Charpentier conclude: «Solo un'organizzazione, allora, era capace di assumere questo ruolo di banchiere-tesoriere, di apportare un aiuto efficace e continuo e di fare organizzare il lavoro: l'Ordine del Tempio. E' evidente che i cavalieri del Tempio non potevano assumersi l'onere della costruzione: le loro ricchezze, per

quanto fossero grandi, non sarebbero state sufficienti. Potevano solo fare un prestito». Quel che rafforza questo ragionamento, è la considerazione che l'Ordine ha sotto la sua protezione una congrega di maestri di bottega, intagliatori di pietre, muratori e anche pittori, scultori e incisori di immagini religiose. Ci vuole molta gente, oltre a una scienza straordinaria che, lo sappiamo, viene da Cîteaux, per costruire più di ottanta immense cattedrali in meno di cent'anni, senza parlare di circa settanta chiese di minore importanza. Ebbene, nel Medioevo, esistono tre confraternite di costruttori i cui membri, gerarchizzati in quattro gradi (iniziati, compagni, compagni accettati, affiliati) e sottomessi a una stretta disciplina, conservano gelosamente il segreto della loro arte che si trasmette nelle loro scuole-residenza, le caienne, per non dire di quello del «gran codice», associato a cerimonie riservate agli iniziati (10), di cui non sappiamo niente. I Figli di padre Soubise, fondati da un benedettino leggendario, dipendono dall'ordine di san Benedetto e si dedicano esclusivamente alla costruzione delle chiese romaniche. I Figli del Maestro Giacomo, la cui attività ci è meno nota, lavoravano solo nel sud della Francia, in particolare sul cammino per San Giacomo di Compostella. I Figli di Salomone, come indicato dal nome, sono legati al Tempio. Ne fanno parte come fratelli di mestiere, come affiliati, oppure costituiscono una specie di ordine minore laico, messo sotto la protezione dei cavalieri da Cîteaux? Non lo sappiamo, ma sappiamo che è grazie all'intervento dei templari che Luigi IX concede alle confraternite delle franchigie che Filippo il Bello annulla nello stesso momento in cui sopprime l'Ordine. Lungi dal piegarsi, i Figli di Salomone si danno allora alla clandestinità. Molti scelgono l'esilio, o prendono il nome di Compagni Stranieri del Dovere di Salomone. Riappaiono nel 1790, quando le corporazioni vengono sciolte, e sono misteriosamente tollerati, mentre la legge Le Chapelier proibisce qualsiasi associazione artigiana. Non è per caso che la massoneria, che ha preparato la Rivoluzione Francese, rivendichi, fino a oggi, l'«eredità iniziatica» del Tempio... Il finanziamento delle cattedrali pone comunque un problema. Non si possono pagare i salari con lettere di cambio. I prestiti concessi ai vescovi e ai comuni, quindi, devono essere versati in contanti. Ora, l'abbiamo detto, la moneta - esclusivamente metallica, naturalmente - è molto rara, nel Medioevo. Quella d'argento è praticamente inesistente. I pezzi che datano dall'epoca romana vengono usati da molto tempo. I crociati ne portano parecchie dalla Palestina, dove valgono più dell'oro, ma le quantità sono sempre minime, se si pensa che il tesoro del Tempio in Terra Santa al momento in cui fu evacuata era compreso in dieci carichi di muli, ossia meno di una tonnellata. In Europa, non ci sono miniere d'argento in funzione. Quelle della Germania non sono ancora aperte; quelle russe sono ancora sconosciute. Resta l'oro. Non siamo in grado di calcolare il costo per la costruzione di centocinquanta chiese gotiche, di cui ottanta cattedrali, in cent'anni. Ma non crediamo di sbagliarci dicendo che tutto il contante delle commende e tutti i depositi dei loro clienti non sarebbero stati nemmeno lontanamente sufficienti per fronteggiarlo. Nella zona di Tolosa, è vero, i templari riaprono alcune vecchie miniere, già esaurite dai tempi di Roma: e devono desistere. Tuttavia, hanno fatto arrivare dalla Germania minatori e fonditori, installati nelle carbonaie dove vivono in completo isolamento e sotto stretta sorveglianza. La fonderia continua a lavorare dopo la chiusura delle miniere. Nei dintorni, le

commende della Coume Sourde e dell'Ermitage battono moneta, come anche i loro vassalli, i signori di Bézu, fortezza imprendibile che si erge al bordo della strada templare che viene dal Portogallo. Le altre case dell'Ordine, in tutta l'Europa di quei tempi, fanno lo stesso. I pezzi coniati non sono più d'oro, ma d'argento. Si moltiplicano, nel corso del XII e XIII secolo, al punto che diventano rapidamente un mezzo normale di pagamento che contribuisce potentemente a suscitare una vera euforia economica. Ma da dove viene il metallo? Nessuno sa niente. O piuttosto, quelli che lo sanno tacciono. 4. Il porto segreto del Tempio. D'altronde, si tace su molto, fra i templari. L'ordine è sovrano. La sua regola è conosciuta solo dai cavalieri che non hanno nemmeno il diritto di conservarne il testo, perché temono che possa cadere in mano ai sergenti, benché anche questi ultimi siano fratelli. I magistri deliberano in grande segreto. Infine, gli archivi del tempio, che senza dubbio avrebbero potuto aiutarci a capire bene alcune cose, sono scomparsi. Così rimaniamo perplessi riguardo a molti fatti oscuri, talvolta inesplicabili. Uno di questi riguarda la flotta dell'Ordine. E' certo considerevole e, al tempo delle crociate, come abbiamo visto, assicura buona parte dei trasporti di truppe, di pellegrini e di mercanzie tra l'Europa e la Terra Santa, partendo dai suoi porti della costa mediterranea. Il Tempio dispone anche, per i suoi contatti con la Gran Bretagna, dove ha possedimenti, dei porti di Saint-Valery-en-Caux, a qualche chilometro a sud di Dieppe, protetto dalle commende di Blosseville e di Drosay, e di Barfleur, coperto dal balivo di Valcanville (entrambi in Normandia); senza parlare di altri, tra cui il più importante è quello di Saint-Valery-sur-Somme, sulle coste della Manica e del Mare del Nord. A queste basi marittime, postazioni che ci paiono logiche, si aggiunge, sull'Atlantico vero e proprio il porto di La Rochelle. Su questo piccolo villaggio, che non aveva mai fatto parlare prima di sé, abbiamo solo un riferimento anteriore: sull'isola di Aix, un poco a sud, si rifugiò san Malo dopo la morte del suo protettore, Judicael, il duca di Bretagna. Ebbene, si ipotizza che questo monaco-vescovo, celebre alla sua epoca, avesse accompagnato san Brandano nella navigatio che lo aveva portato in America tra il 536 e il 552. Louis Kervran (11) ha eseguito una rigorosa analisi sui testi medievali: il rapporto che ne consegue non lascia più sussistere molti dubbi sul viaggio in questione. Sembra che fosse falso, inventato, ma la leggenda ha goduto di enorme popolarità durante tutto il Medioevo, soprattutto, naturalmente, nelle regioni in cui si teneva particolarmente alla memoria del sant'uomo. Il porto è situato circa a 150 km a sud di Nantes, con le strade attuali, e a circa 70 km a nord di Royan (cioè dall'imbocco della Gironda), in fondo a un'ampia baia, ben protetta dalle isole di Ré e di Oléron, definita in un largo canale che porta ancor oggi il nome templare di Pertuis d'Antioche [Stretto d'Antiochia]. Qui il mare forma un bacino che si inserisce profondamente nelle terre, e la cui entrata è particolarmente facile da difendere: Richelieu se ne accorgerà in seguito, quando dovrà riprendere la città alle forze protestanti. Da questo punto di vista, la scelta dei templari non ci sorprende. Quello che ci sfugge è l'utilità che può avere un porto che non conduce apparentemente da nessuna parte, perché è troppo a sud della Gran Bretagna e troppo a nord del Portogallo,

con il quale, comunque, sono più facili i collegamenti passando dai colli Pirenei, sorvegliati dalle commende, che non attraverso il pericoloso Golfo di Guascogna. Ebbene, La Rochelle per il Tempio non è affatto una base secondaria; tutt'altro. E' sede di una casa provinciale che ha sotto la sua autorità tutte le commende e i baliaggi di una vasta zona. La popolazione se ne accorge in fretta e, ai tempi dello scioglimento dell'Ordine, la città costituisce un centro di una certa importanza, secondo i parametri del tempo. Partono da lì sette «strade templari», che coprono tutta la Francia. 1. La Rochelle-Barfleur, nel Cotentin, con ramificazioni verso la Bretagna; 2. La Rochelle-Abbeville (Baia della Somma), passando da Le Mans e Evreux; 3. La Rochelle-Sedan, passando da Angers e Parigi; 4. La Rochelle-Nancy, passando da Chatellerault e Troyes; 5. La Rochelle-Ginevra, tramite Guéret, Moulins e Mâcon; 6. La Rochelle-Saint Vallier, che passa da Limoges, Issoire e Saint-étienne; 7. La Rochelle-Valence, via Angoulême, Brive e Le Puy, con un prolungamento, come nel caso precedente, tramite il Rodano, fino a Marsiglia. Stando a Louis Charpentier (12), dal quale abbiamo ripreso questi dati geografici, bisogna senz'altro aggiungere un'ottava strada che si dirige verso Bordeaux e, da qui, raggiunge la strada dell'Atlantico a Narbona, stabilendo il legame con il porto di Collioure, nel Rossiglione. Forse i templari usano, per l'ultima volta, una di queste strade - quella che unisce Parigi a La Rochelle - il 12 ottobre 1307. Effettivamente, leggiamo nel verbale processuale (13) della deposizione fatta davanti al papa nel giugno del 1308 da Jean de Chalon, del Tempio di Nemours, diocesi di Troyes, che alla vigilia dell'arresto dei fratelli da parte degli uomini del re, egli vide tre carri coperti di paglia, nei quali erano nascosti dei forzieri che contenevano tutto il tesoro del grande ispettore di Francia, Hugo de Poiraud. I carri lasciarono sul far della notte il Tempio di Parigi, sotto la scorta di Gérard de Villers, che guidava cinquanta cavalli, e di Hugo de Châlons. Si diressero verso la costa, dove il loro carico doveva essere imbarcato per l'estero a bordo di diciassette navi dell'Ordine. Un foglio inserito nelle lettere di Clemente V (13) cita i nomi di Hugo di Châlons e di Gérard de Villers, «che ha armato 40 fratelli», tra i templari che sono fuggiti. Questi due documenti meritano un'analisi approfondita, perché pongono più di un problema. Il fatto che l'Ordine fosse stato avvisato sulle misure che il re si apprestava a prendere contro i templari è normalissimo: sicuramente aveva il suo servizio di informatori. Quel che può sorprendere è che sia stato informato così tardi: evidentemente il segreto dell'operazione era stato ben conservato. La composizione del convoglio sembra corretta: quarantadue cavalieri, all'epoca, costituivano una solida scorta e cinquanta cavalli rispondono esattamente ai loro bisogni. Invece, il numero delle navi non è affatto proporzionato con il carico di tre carri. Ma la cifra deve essere esatta poiché il Tempio di Parigi è sede di un grande dominio in cui si deve sapere tutto sui movimenti della flotta. Devono esserci stati altri convogli che, partiti da diverse

commende, si diressero verso il porto. Oppure bisogna pensare che i vascelli siano stati anche destinati ad altra missione, per esempio quella di portare in un luogo sicuro i fratelli fuggitivi, o alcuni tra loro. Sono due ipotesi, comunque, che non si escludono a vicenda. D'altra parte, contrariamente alle apparenze, non sappiamo in che cosa consisteva il carico dei carri. La parola «tesoro» è ingannatrice. Per noi, oggi, significa un «carico d'oro, d'argento, o di altri oggetti preziosi». Anche nel Medioevo aveva questo significato, ma la si applicava anche agli archivi di un principe o di una comunità: archivi segreti, beninteso. E' nella sua Tesouraria che il re del Portogallo custodisce le carte dell'America che Colombo e Magellano vi ruberanno (14). Ebbene, è difficile concepire che il grande ispettore di Francia, cioè il magister incaricato dell'ispezione delle commende, possa disporre, a titolo personale, di un tesoro nel senso attuale del termine. Forse di una «scatola nera». Ma certo niente con cui riempire tre carri. Non dimentichiamolo: in effetti, dal punto di vista economico, il Tempio è una banca. Al di fuori dei fondi per la circolazione del denaro, la valuta che percepisce viene immediatamente investita. Se Filippo il Bello trova così poco contante nei forzieri dell'Ordine da dover coprire le spese con i suoi beni immobili (che, tuttavia, verranno devoluti agli Ospitalieri di san Giovanni) questo non è dovuto al fatto che i templari abbiano nascosto il loro denaro liquido in qualche cripta accuratamente murata. Semplicemente non lo tesorizzano: lo «fanno lavorare», secondo l'espressione tragicomica degli economisti liberali di oggi. Le casse delle commende contengono ricevute, pagherò, lettere di cambio, contratti, cioè titoli relativi a operazioni bancarie e commerciali, ivi compresi i prestiti, per un ammontare globale di cinquecentomila lire ?* Antica moneta francese., accordate al re. Inutile dire che i fuggitivi non hanno il minimo interesse a esportare all'estero - dove non avrebbero alcun valore - carte di questo tipo. Per contro, il «tesoro» del Tempio contiene documenti segreti che bisogna mettere al sicuro, a ogni costo. Indubbiamente, a parer nostro, sono questi che riempiono i famosi carri, e forse molti altri ancora. D'altronde, gli archivi dell'Ordine non verranno mai ritrovati: «ne avvolge la sparizione un'oscurità profonda e anche misteriosa, come tutto quello che riguarda i templari» (15). La pergamena - perché la carta, che si importa dall'Egitto, è usata pochissimo all'epoca - non è così facile da distruggere... Resta da sapere verso quale porto si dirige il convoglio che parte da Parigi. Un porto templare, naturalmente: gli altri non sono sicuri. Quelli del Mediterraneo sono troppo lontani: i maestri del Tempio non sanno quale atteggiamento assumeranno il conte di Provenza e il conte di Barcellona, signori della regione. Se questi seguissero l'esempio del re di Francia - lo faranno qualche mese più tardi - i fuggitivi rischierebbero di trovarsi in trappola. I porti della Manica e del Mare del Nord sono molto più vicini, ma il re d'Inghilterra, anche se favorevole all'Ordine, non oserà tener testa al papa, e Jacques de Molay deve ben sapere cosa aspettarsi a questo proposito. Non resta che una possibilità: La Rochelle, una piazzaforte che i soldati si guarderanno bene dall'attaccare. Il porto è collegato a Parigi da una «strada templare» ben sorvegliata, dove di sicuro si troveranno cavalli freschi. A sessanta chilometri al giorno - che all'epoca rappresentavano la norma per un convoglio serve una settimana per raggiungere la flotta. I carri raggiungono la meta? Non ne abbiamo la minima prova. Ma sappiamo che il loro carico,

qualunque fosse, non è citato in nessun inventario di sequestro redatto dai notai reali, e che le navi ancorate a La Rochelle non si rifugiano in Portogallo, come fanno quelli che fuggono dai porti del Mediterraneo: spariscono, per sempre. 5. L'ipotesi americana Le pagine che precedono servono soprattutto a presentare i dati del triplo problema che quest'opera è destinata a risolvere: da dove veniva l'argento, il metallo introvabile in Europa di cui i templari inondarono, per due secoli, le loro nove province e grazie al quale ebbero la possibilità di finanziare la costruzione di ottanta cattedrali gotiche e settanta chiese minori? A che cosa serviva il porto di La Rochelle? Dove scapparono i vascelli, verosimilmente carichi del «tesoro» dell'Ordine, che fuggirono nel 1307? Non potremmo rispondere a queste domande senza aver prima definito le caratteristiche dell'Ordine dei Poveri Cavalieri del Cristo e del Tempio di Salomone. Prima di tutto, si tratta di un ordine religioso. I cavalieri sono monaci che hanno pronunciato i tradizionali voti d'obbedienza, di castità e di povertà. Gli altri fratelli, religiosi e laici, che si situano ai diversi livelli di una struttura estremamente complessa, sono anch'essi uomini di chiesa, siano o no sottomessi alle condizioni della vita monacale. Tutti, infatti, devono obbedienza al gran maestro, eletto dai cavalieri, che dipende solo dal papa. Nondimeno, il Tempio si prende alcune libertà rispetto al dogma. Gesù non è morto sulla croce. Ma, se è così, la redenzione tramite il sacrificio non è avvenuta. L'uomo, dunque, resta sotto il peso del peccato originale. Solo il Verbo, la cui illuminazione si ottiene attraverso l'amore, può liberarlo. Dalla mistica agostiniana, si arriva così facilmente all'esoterismo di Giovanni. E ancor più: la redenzione tramite il Verbo implica la salvezza dello spirito. Il corpo, che essenzialmente è diviso dall'anima spirituale, interviene solo per ostacolare il processo: è intrinsecamente malvagio (16). Così, ci si accosta ai catari in una concezione gnostica del mondo, con la tentazione di ricercare la Conoscenza e la Saggezza non solo nella contemplazione, ma anche negli arcani dell'alchimia, oppure della stregoneria. Non sappiamo fin dove si siano spinti i templari, o alcuni di essi, su questa strada. Ma abbiamo diverse buone ragioni per pensare che il «rilassamento morale» sia da attribuire, almeno in parte, a questo manicheismo larvato. Se l'uomo non può niente contro il peccato, quest'ultimo non ha, in ultima analisi, alcuna importanza. La liberazione dello spirito, dunque, non esclude la mancanza di scrupoli. Dio ha il proprio territorio e Satana - che chiameremo poi Bafometto - il suo. Questa è solamente l'ultima conseguenza del neoplatonismo di Cîteaux, dove l'ascetismo si collegava agli anacoreti egiziani e il misticismo al Vangelo e all'Apocalisse di san Giovanni; e fors'anche direttamente alla Cabala ebrea, a giudicare dall'interesse dimostrato riguardo ai vecchi testi ebraici. Nessun dubbio che questa tendenza sia stata rafforzata, nei templari, dai loro contatti in Palestina con i mistici musulmani e i cabalisti ebrei. Una tendenza che si imprime anche nello stile delle loro chiese. L'arte romanica, con le sue triple radici romane, celtiche e germaniche, era l'espressione architettonica compiuta dell'occidentalizzazione del cristianesimo. Malgrado la sua bellezza, il gotico, «contaminato di eccesso e di fioritura orientale», come l'ha descritto Louis Bertrand

(17) segna, al contrario, un netto regresso. Non solo perché i «libri di pietra» costituiti dalle cattedrali gotiche raffigurano tanti personaggi e tante scene dell'Antico Testamento, ma anche e soprattutto perché la levità stessa del gotico tende all'esaltazione mistica. La guglia gotica è il minareto incorporato a una tradizione europea ancora troppo solida per assorbirlo. Il Tempio è anche un ordine militare. I suoi cavalieri costituiscono un corpo d'élite, ben addestrato e molto disciplinato. Ebbene, ci troviamo in un'epoca in cui le armi dirigono la politica. Ogni feudo è costantemente sul piede di guerra, per difendere i propri territori o per conquistare quelli dei vicini. Ogni principe dispone solo della potenza che gli valgono le sue truppe e quelle di vassalli. Il Tempio è monolitico. Ignora le frontiere. Truppa di Cristo, tratta i sovrani dall'alto della sua missione. Come molti ordini religiosi, compensa i sacrifici che la regola impone ai suoi membri con la volontà di potenza, ad maiorem Dei gloriam. Non teme niente e nessuno e, nel corso di duecento anni, si fa temere da tutti. Se il Tempio sa sfruttare i fattori di potere dell'epoca la fede e le armi - anticipa i tempi in campo economico. L'abbiamo detto, si tratta, a costo di usare un anacronismo verbale, di un trust. Possiede le sue fattorie modello e i suoi laboratori. Pratica e incoraggia il commercio. Regola e protegge una rete stradale che permette il traffico delle merci. Batte moneta, presta denaro, emette lettere di cambio e dunque effettua più o meno tutte le operazioni delle banche attuali. Specula, percepisce interessi, fa usura. Ma accresce pure la produzione, stimola i cambi, attenua le carestie. Un capitalismo ante litteram, in una parola. Il Tempio costituisce una gigantesca società multinazionale che ha, nel suo gioco, un certo numero di assi nella manica che i «nostri» grandi trust non posseggono: è sovrano, quindi sfugge a ogni imposta e a ogni diritto di dogana, batte moneta, possiede la sua polizia e i suoi tribunali e dispone di un esercito dotato degli stessi mezzi di quelli dei paesi in cui si è insediato. Inoltre, si sente a posto con la coscienza, sicuro com'è dell'ispirazione dello Spirito Santo e, forse, dell'aiuto occulto di Bafometto. E' così potente che, per abbatterlo, ci vorrà l'imprevedibile alleanza del re di Francia e del papa, con l'effetto sorpresa di un'operazione militare magnificamente orchestrata. Sicuramente, il Tempio deve la sua potenza al rigore della sua organizzazione, alla qualità del reclutamento, alla fede dei suoi membri - anche e soprattutto se non è molto ortodossa e tende all'ermetismo - e al loro spirito di corpo. La deve anche alle sue ricchezze, perché nessun trust agricolo, «industriale» e finanziario può prosperare senza capitale. I templari ricevono, in terre e in rendite, innumerevoli beni. In Palestina accumulano un bottino ragguardevole. Ma non è con questo che possono finanziare, in meno di cent'anni, la costruzione di centocinquanta chiese, di cui ottanta cattedrali dalle dimensioni impressionanti, almeno per noi. La maggior parte dei loro fondi viene dall'argento di cui dispongono. Torniamo alla nostra prima domanda: da dove lo prendono? Jean de la Varende, studioso di storia della Normandia, fa dire al personaggio di uno dei suoi racconti (18) - e i suoi racconti, come i romanzi, sono ancora storia - che i templari prendevano il metallo dalle miniere del Messico, da cui l'espressione popolare «avere dell'argento», che noi usiamo ancora ?* In lingua francese, si usa il nome «argent» sia per il denaro che per il metallo.. Argent è

diventato sinonimo di «ricchezze», quando sarebbe - e soprattutto sarebbe stato - più naturale parlare d'oro. La Varende, sfortunatamente, non cita le sue fonti. Da parte di uno storico tanto scrupoloso e tanto ben informato sulle tradizioni della sua provincia, è perlomeno una valida indicazione. Ma niente di più. E' un'indicazione che viene rafforzata da un gruppo di personaggi che si trovano nel timpano centrale della basilica di La Madeleine, la chiesa templare di Vézelay, in Borgogna, che risale alla metà del XII secolo. Nell'adunanza dei popoli della terra che attorniano Gesù Cristo, si vedono un uomo, una donna e un bambino con orecchie smisurate. L'uomo è vestito di piume, come i guerrieri messicani e porta un elmo vichingo. La donna, a torso nudo, è vestita solo con una lunga gonna. Sono i Panotii, i «tutt'orecchie» in greco latinizzato, spesso riprodotti nei bestiari medievali. Questa raffigurazione si ispira a un testo di sant'Agostino (19): «Si può credere che certe razze mostruose di cui fa menzione la storia profana derivino dai figli di Noè, o piuttosto dal primo uomo, di cui essi sono discendenti? Come ad esempio gli uomini che, si dice, hanno solo un occhio in mezzo alla fronte; quelli che hanno la pianta dei piedi girata dietro le gambe, quelli a cui la natura ha dato due sessi, la mammella destra di un uomo e quella sinistra di una donna, e che (volta per volta) nel corso della riproduzione, generano e partoriscono; altri a cui manca la bocca e vivono solo respirando dalle narici, altri ancora la cui taglia è di un cubito, e che i greci chiamano pigmei, dalla parola che, nella loro lingua, significa cubito. Altrove, secondo le stesse tradizioni, le femmine concepiscono a cinque anni e non sopravvivono al loro ottavo anno. Si racconta ancora che c'è una razza d'uomo che ha solo una gamba su due piedi, e non piega il garretto, e che ha una velocità meravigliosa: vengono chiamati sciopodes perché, si dice, si difendono dall'ardore del sole all'ombra dei loro piedi; alcuni, senza testa, avrebbero gli occhi nelle spalle. I cinocefali...». E' tutto. I Panotii non compaiono sulla lista. Dunque bisogna che gli scultori medievali abbiano trovato altrove qualche indicazione al riguardo, che abbiano sentito parlare di persone con grandi orecchie. Si sa che gli Inca e senza dubbio i loro avi - che essi imitavano il più possibile - avevano la strana usanza di ingrandirsi le orecchie inserendo nei lobi dei pesanti anelli d'oro, di bronzo o di pietre chiamate ringrim (da ring, orecchini, in norreno). Qui si tratta di un processo difficile da immaginare. Per chi non avesse visto dei peruviani, l'espressione di «grandi orecchie» poteva corrispondere solo all'immagine fornita dallo scultore di Vézelay. Ma questi sapeva che si trattava di Vichinghi, come lo prova l'elmo dell'uomo, ma di Vichinghi «indianizzati», confondendo gli indigeni dell'altopiano andino con quelli dell'Anàhuac messicano. La sua ricostruzione delle persone dalle grandi orecchie, dunque, è logica, anche se falsa. Inoltre, questa volta, la prova che i templari conoscessero il continente che noi oggi chiamiamo America è definitiva. Recentemente, negli Archivi nazionali, sono stati ritrovati dei sigilli dell'Ordine, di cui si sono impadroniti gli uomini di Filippo il Bello nel 1307. Su uno di questi, apposto su un documento in cui un dignitario sconosciuto dà ordini al gran maestro, si legge l'iscrizione Secretum Templi (segreto del Tempio). Al centro, si vede un personaggio che può essere solo un amerindio. Vestito con un semplice perizoma, porta un copricapo di piume, come quelli che usano gli indigeni dell'America del Nord, del Messico e del

Brasile, o almeno alcuni di loro, e tiene nella mano destra un arco la cui forma non è esattamente quella che compare nel disegno che riproduciamo. D'altronde mancano anche due simboli che si vedono chiaramente a occhio nudo sull'originale: a sinistra, sopra l'arco, una svastica dai bracci ricurvi, la cui forma è esattamente quella che predominava in Scandinavia all'epoca dei Vichinghi, e, a destra, alla stessa altezza, un'odala o runa di Odino. La Varende, dunque, diceva il vero, almeno su un punto: i templari conoscevano l'esistenza del «nuovo mondo». Era un loro segreto. Un segreto così importante che l'Ordine si era dotato, per conservarlo e coltivarlo, di una gerarchia superiore, in questo campo, a quella del gran maestro. Un segreto in seno al segreto cui la Regola (segreta al punto che ne abbiamo solo un esemplare) faceva obbligo anche di fronte agli altri fratelli, i membri del capitolo. Un segreto di cui conosciamo l'origine (20), (15). Nel X secolo, alcuni Vichinghi germano-danesi avevano già passato ventidue anni in Messico, prima di fondare l'impero di Tiahuanaco, in Perù. Altri Irlandesi si erano già solidamente stabiliti nella parte orientale degli attuali Stati Uniti. All'inizio dell'XI secolo, Vichinghi norvegesi avevano già fondato a Vinland (nell'attuale Massachusetts) alcune prosperose colonie che mantenevano i contatti con la madre patria. Ebbene, nell'XI secolo, non era passato molto da quando il jarl Hròlf, detto Rollone, si era visto donare in feudo la Normandia, le cui relazioni con le terre del nord erano proseguite anche in seguito. Il servizio di informazioni del Tempio aveva forse sentito parlare di un continente lontano, d'oltre oceano. D'altra parte può darsi che qualche dotto ecclesiastico dell'Ordine avesse avuto occasione, a Bisanzio, di consultare la Geografia di Tolomeo, dove si racconta del viaggio fatto nel I secolo della nostra era, in America del Sud, dal comandante greco Alessandro, partito verso l'est dal Chersoneso Aureo, cioè l'Indocina. Sarebbe stranissimo il contrario. Resta da sapere se i templari ottenevano il loro argento proprio dalle miniere americane. II. L'argento del Tempio 1. La metallurgia precolombiana All'epoca della conquista, i diversi popoli che abitavano il Messico lavoravano oro, argento, rame e anche tre leghe: il tombacco (oro, argento e rame), il bronzo (rame e stagno) e una miscela di rame e piombo, sconosciuta in Europa. Conoscevano la fonte dei metalli, ci dicono gli archeologi, solo da circa cinquecento anni, il che conferma le tradizioni indigene secondo le quali le tecniche e l'arte della metallurgia furono introdotte, nell'anno 967 della nostra era, dall'eroe civilizzatore bianco Quetzalcòatl, divinizzato in seguito; cioè dal jarl vichingo Ullman (20). Ragion per cui la metallurgia comparve prima presso gli Olmechi della costa atlantica che nell'Anàhuac. Il metallo prezioso, e ancor più il rame, erano comunque rari. Così, per i gioielli, si usavano delle lamine sottili sbalzate, mentre le statuette erano cave, perché colate sopra la cera. In effetti, si ignorava la riduzione dei metalli a partire dal minerale. La mescolanza naturale d'oro e d'argento, una volta terminato il pezzo, veniva dissolta con amalgama di sale e ossido d'alluminio. Se i messicani in senso lato usavano oggetti di metallo prima dell'arrivo degli scandinavi - cosa dubbia, perché non

ne è stato trovato nessuno che risalga alla cultura di Teotihuacàn, né all'epoca classica dei Maya - questi potevano essere solo stati importati, o fabbricati a freddo. Il rame, l'argento, il tombacco e l'oro venivano usati per la gioielleria. Si sa che i Messicani, e più particolarmente i Toltechi, erano diventati maestri in questo campo. Dürer, che se ne intendeva, aveva assistito a Bruxelles (il 26 agosto 1520) alla prima esposizione di gioielli da poco inviati a Carlo V da Hernàn Cortés, e in seguito aveva scritto sul suo diario: «In tutta la mia vita non ho mai visto nulla che mi abbia tanto rallegrato il cuore». Purtroppo, di queste opere d'arte incomparabile non resta granché. I conquistadores trasformarono in lingotti quello che ricevettero dalla spartizione e, cosa ancora più imperdonabile, l'imperatore fece lo stesso con il quinto reale che gli spettava. Con il rame - era il metallo più raro e più pregiato - si facevano, oltre ai gioielli, strane monete: campanelle e coltellini a forma di T che servivano come mezzo di pagamento. E anche delle asce piatte, i cui bordi erano induriti a martellate, utensili da leva, aghi, ami, perfino alcune vanghe, uniche in America. Il bronzo serviva solo per produrre punteruoli, e con la lega rame-piombo si fabbricavano sonagli. Le armi di metallo erano molto rare - le asce di pietra erano assai più usate di quelle di rame - e gli utensili erano generalmente di legno. Per ciò che riguarda quest'ultimo punto, facevano eccezione solo i Taraschi e gli Zapotechi della costa del Pacifico, ma ci sono buone ragioni per credere che importassero dal Perù parecchi degli oggetti di metallo. Gli storici riportano che Bartolomeo Ruiz de Estrada, guida di Pizarro, incontrò in alto mare - a ovest dell'Equatore - una zattera peruviana carica di gioielli d'argento e d'oro, coltri di lana di lama e cotone. Il proprietario dell'imbarcazione, interrogato, disse che aveva ricevuto l'ordine di andare a Panama, per scambiare il suo carico con delle conchiglie rosse (Spondylus princeps), un mollusco che si trova solo sulle coste messicane e che serviva a tingere i tessuti. Sicuramente alcune volte le zattere arrivavano fino in Messico. Infatti sono stati ritrovati gioielli metallici di fattura peruviana nel cenote di Chichén-Itzà e a Copàn, nel territorio maya, e anche negli stati di Oaxaca e di Michoacàn, sulla costa del Pacifico. In particolare, Walter Krickeberg (21) cita un disco di metallo sbalzato nello stile Chavìn, scoperto in una tomba di Zacualpa, nel Guatemala, e un copricapo con fermaglio d'oro di Monte Albàn, di fattura chimù. Altri oggetti, come le pinzette da depilazione d'oro e d'argento che usavano i preti taraschi, erano fabbricati in Messico su modelli peruviani. Una tale influenza non ha niente che possa sorprenderci. Nel campo della metallurgia, il Perù era molto più avanzato rispetto all'America centrale. Il che pare logico. Da una parte, effettivamente, aveva ricevuto un importante apporto culturale d'origine cinese e indocinese, come è stato dimostrato definitivamente da Heine-Geldern (22): la cultura di Chavìn nacque bruscamente, senza precedenti locali, molti secoli prima della nostra era, con conoscenze tecniche apprezzabili che comprendevano la fonte dei metalli. E d'altra parte, i Vichinghi - rimasti solo ventidue anni in Messico - avevano governato per circa trecento anni l'impero di Tiahuanaco, e i loro discendenti, gli Inca, avevano ripreso il loro ruolo per due secoli e mezzo. In Perù si lavoravano l'oro, il champi - lega d'oro e di rame - l'argento, il rame, il bronzo e anche il platino. Si sapeva

fondere, laminare, lavorare a bassorilievo, sbalzare, modellare, saldare i metalli e colarli sulla cera. Si conoscevano la ricottura, l'intaglio, l'incavamento e la fabbricazione di oggetti bimetallici. E ancora, si sapeva dorare l'argento e argentare il rame, con una perfezione tale che A. Hyat Verrill (23) ha scritto: «Chiunque esamini [questi oggetti] senza conoscerne l'origine direbbe che sono stati lavorati con l'elettrolisi. Tuttavia, siccome non possiamo supporre che i chimù abbiano avuto una qualsiasi nozione di elettricità, abbiamo elaborato un'altra teoria per spiegare quale fosse la tecnica usata per ricoprire un metallo con un altro. Probabilmente, si utilizzava qualche procedura chimica, benché questo sembrasse altrettanto incredibile del sistema dell'elettrolisi [...]. La sola spiegazione accettabile è che il bagno fosse applicato tramite esalazioni e che, mediante qualche manipolazione con l'oro o l'argento fuso, ne uscissero delle emanazioni che si depositavano sull'altro metallo. Ma, quale che sia stata la metodica utilizzata, è certo che quest'arte è andata persa». Conosciamo meglio l'oreficeria peruviana di quella messicana. Perché - anche se Carlo V (con ordinanza del 13 febbraio 1535) diede quest'ordine incredibile: «Tutto l'oro e tutto l'argento del Perù dovrà essere fuso nelle zecche reali di Siviglia, Toledo e Segovia», e se ufficiali e soldati si affrettarono a trasformare in lingotti la loro parte di bottino - in seguito si sono contate innumerevoli scoperte nelle huacas (necropoli) che all'epoca della conquista erano rimaste inviolate. Questi ritrovamenti ci hanno permesso di raccogliere ammirevoli collezioni che danno magnifici esempi sull'arte incaica. Purtroppo, possiamo solo immaginare il giardino del Tempio del Sole di Cuzco, con i suoi alberi e i loro frutti, i fiori, gli animali di ogni specie, il campo di mais, le statue a grandezza naturale, tutto in oro, compreso il tempio, con le pareti interamente coperte di lamine d'oro. Al di sopra dell'altare c'era l'immenso sole che occupava tutta la larghezza dell'edificio, fatto dello stesso metallo, che un conquistador, si dice, giocò ai dadi e perse in una notte. Ma possiamo vedere il vasellame, le anfore, le statuette di uomini e animali e gioielli di ogni tipo, in oro e argento massiccio, lavorati come seppero farlo solo, più tardi, i grandi orefici del Rinascimento. Con il rame, al tempo degli Inca, si fabbricavano tutti gli oggetti comuni usati dal popolo: casseruole, calderoni, piatti, ecc. Il bronzo serviva per fare coltelli, strumenti da chirurgia, spilloni, fermagli, ringrim (benché questi anelli per le orecchie generalmente fossero d'oro o in pietra), strumenti musicali e molte altre cose ancora, fino alle bilance romane. E soprattutto armi: asce da combattimento, alabarde e mazze in particolare. Sfortunatamente conosciamo solo la metallurgia incaica, cioè quella di un'epoca di decadenza rispetto ai tempi dell'impero vichingo di Tiahuanaco. Una decadenza che è manifesta nell'architettura, il solo campo nel quale abbiamo elementi di raffronto. Gli Inca non erano che sopravvissuti che, con tenacia e coraggio, avevano incominciato a riconquistare i territori dei loro antenati - non vi erano riusciti del tutto al momento della rivolta di Atahuallpa e dell'arrivo degli Spagnoli per reinstaurare la civiltà distrutta dagli Auracani nel 1290 (20). In altre parole, cercavano, senza riuscirci pienamente, di imitare un passato che scoloriva sempre più mano a mano che si succedevano le generazioni. Non seppero ritrovare la scrittura runica dei loro avi, di cui sussistono tante iscrizioni in Paraguay e in Brasile, dove le abbiamo rilevate (24), (25), (26). Nel campo della

metallurgia, secondo le analisi richieste da Eric Boman (27) ed eseguite dai fratelli Morin, saggiatori della Banca di Francia, gli Inca estraevano il rame dai silicati, dai carbonati e dall'ossicloruro, mentre i costruttori di Tiahuanaco usavano dei solfuri che esigevano una tecnica molto più sofisticata. Essi, soprattutto, non riuscirono più a ripristinare l'uso del ferro. 2. Il ferro e l'acciaio di Tiahuanaco Hyat Verrill (23) scrive che le diverse civiltà preistoriche del continente americano, così varie in rapporto al loro concepimento, alle loro motivazioni e alle loro tecniche, avevano tutte una caratteristica comune: le costruzioni e le sculture in pietra. «Non solo i loro artigiani intagliavano le rocce più dure, compito che sarebbe difficile per un operaio di oggi equipaggiato con utensili d'acciaio temperato tra i più raffinati ed elaborati, ma - nella misura in cui siamo stati capaci di eseguirne le prove - lo facevano senza l'aiuto di alcun utensile di metallo. Nessun strumento che fosse sicuramente di ferro o di acciaio è mai stato trovato tra i resti di queste civiltà preistoriche. E' vero che qui si tratta di una semplice prova per difetto, e che il ferro e l'acciaio spariscono rapidamente senza lasciare tracce. E, come ora sappiamo che gli antichi Egizi possedevano raffinati strumenti in ferro, benché nessuno l'avesse scoperto prima dell'apertura della tomba del re Tutankhamon, è ancora possibile che si scopriranno utensili di acciaio in qualche tomba o tra le rovine americane. Sono stati trovati moltissimi utensili in rame o in bronzo, ma nessuno di loro offre la possibilità di spaccare la pietra anche più friabile, e la vecchia credenza che questi popoli possedessero l'arte di temperare il bronzo, ora persa, è solo un mito.» Il grande archeologo americano, a cui dobbiamo il ritrovamento delle gigantesche rovine di Coclé, a Panama, centra perfettamente il problema: è inconcepibile che gli intagliatori di pietre e gli scultori dell'America precolombiana - non possiamo dire «preistorica» - abbiano potuto realizzare le loro opere monumentali, la cui fattura è spesso di un'estrema squisitezza, con semplici strumenti di selce e di ossidiana, nel Messico, e di bronzo, in Perù. L'analisi tecnica più semplice dimostra che dovevano disporre di utensili d'acciaio. E' vero che non ne sono stati ritrovati. Ma, come giustamente fa notare Verrill, il ferro resiste difficilmente all'azione del tempo. Aggiungiamo che tali strumenti dovevano essere molto rari, e che, d'altra parte, non dovettero attirare l'attenzione dei conquistadores, per i quali erano di uso comune e privi di valore. Senza dubbio, inoltre, gli indios li avevano nascosti accuratamente erano il loro bene più prezioso - dal momento in cui gli «dèi bianchi» si erano rivelati semplici predatori. Eliminiamo fin d'ora un falso problema: in America, prima della conquista, si conoscevano perfettamente il ferro e l'acciaio. Almeno nei territori che avevano fatto parte dell'impero di Tiahuanaco. Ne abbiamo solide prove linguistiche. Nell'idioma ufficiale degli Inca, il quitchua, troviamo effettivamente la parola k'kellay, che vuol dire «ferro», ma nessuna che definisca l'acciaio. Nel guaranì del Paraguay, «ferro» si diceva kuarepotihü e acciaio kuarepotiata; in quello del Brasile, ci sono rispettivamente itahùna e itaite. Di questi termini della grande lingua del Sud America orientale riparleremo più avanti. Ma l'assenza, nel quitchua, del vocabolo corrispondente all'acciaio e la sua presenza nel guaranì devono

essere evidenziate fin da ora. Effettivamente, è escluso che i Vichinghi sbarcati in Messico nel 967 non possedessero armi e utensili d'acciaio: per loro l'età del bronzo era passata da millecinquecento anni e più. E' normale che in ventidue anni non abbiano avuto il tempo di insegnare ai Toltechi la metallurgia del ferro che, con i mezzi di cui si disponeva all'epoca, era molto più complessa di quella dei metalli più malleabili. Quei pochi strumenti che potevano aver lasciato dietro sé avevano avuto tutto il tempo di sparire, nei cinquecento anni che separano la loro partenza dall'arrivo degli Spagnoli. A Tiahuanaco, invece, essi avevano dovuto far lavorare il ferro, ma, verosimilmente, le tecniche corrispondenti erano andate perdute in seguito alla distruzione dell'Impero. Ne abbiamo almeno un indizio, se non una prova: gli Inca non possedevano, tra le armi, né gladi né spade, mentre i Messicani le fabbricavano in legno, incrostate con ossidiana. Ebbene, le truppe inca erano ben organizzate e ben armate: l'assenza di gladi, indispensabili per ogni fanteria, ci è quindi incomprensibile. A meno che, anteriormente, e cioè all'epoca vichinga, non si usasse l'acciaio per fabbricarli e che più tardi, una volta persa la procedura che permetteva di ottenerli, non si sia accettato di sostituire l'acciaio con il bronzo, che poteva garantire solo armi nettamente inferiori. All'arrivo degli Spagnoli, quindi, sia in Perù che in Messico, dovevano esser rimasti solo rari strumenti d'acciaio. Forse erano anche scomparsi tutti, poiché il nome del metallo era stato dimenticato. Ma non quello del ferro, che si continuava a trovare nelle miniere, senza saperlo lavorare. Al contrario, nelle regioni del Paraguay e del Brasile, dove si erano rifugiati alcuni tra i fuggitivi di Tiahuanaco, l'uso delle armi e degli utensili d'acciaio non si era interrotto anche se, con l'andar del tempo, era sempre meno diffuso. Ma par certo che quel ricordo fosse ancora vivo in seno alle popolazioni guaranì, all'epoca della conquista. Possiamo forse portare una prova tangibile dell'uso delle armi d'acciaio nell'impero di Tiahuanaco. Infatti, nel maggio 1976, ci siamo recati a La Rioja, una cittadina ai piedi delle Ande argentine, per riprendere un'iscrizione runica che ci avevano segnalato nella valle di Talampaya. Naturalmente ci mettemmo in contatto con l'autore della scoperta, il signor Martin Juàrez. Da circa vent'anni, questo archeologo dilettante trascorre i fine settimana, quando il tempo lo permette, ai piedi della precordigliera, e vi raccoglie tutto ciò che trova, dai cocci di ceramica indigena fino ai resti di animali preistorici; fotografa anche litogrammi, che non mancano. Le sue interpretazioni sono talvolta molto personali, ma nessuno ha mai potuto mettere in dubbio che sia onesto e disinteressato. Juàrez ci mostrò le sue collezioni. La maggior parte dei pezzi interessavano campi diversi dal nostro. Finché apparve un oggetto metallico: una lama d'acciaio con manico in argento sbalzato, senza alcuna guardia, né crocetta. A prima vista, si trattava di uno stocco, arma che gli Spagnoli non conoscevano ma che, invece, era di uso corrente tra le popolazioni germaniche dal Medioevo in poi. Uno dei nostri compagni di viaggio, il professor José Triviño, esaminando l'arma con una lente, vi notò quella che sembrava essere un'iscrizione. Allora pulimmo molto superficialmente quella parte della lama e apparvero quasi subito quattro caratteri runici, molto chiari. Juàrez ci raccontò - e più tardi lo testimoniò anche per iscritto di aver trovato il pezzo nel febbraio 1972 a Cerro Velezco - a 14 km

da La Rioja - incastrato tra le costole di uno scheletro, in una piccola grotta a cui si poteva accedere molto faticosamente, situata a 2.300 metri di altitudine. Non aveva potuto portar via lo scheletro per via del terreno accidentato. L'arma aveva subito solo una leggera ossidazione nerastra, cosa normale con l'aria secca delle Ande, e dopo la scoperta non era stata ripulita. Juàrez accettò di buon grado di affidarci lo stocco, per esaminarlo. Lo facemmo studiare a Buenos Aires, da uno dei nostri collaboratori, tecnico in metallurgia, che lo misurò con gli strumenti più perfezionati. Sfortunatamente, non potemmo eseguire l'analisi metallografica: era impossibile farlo senza danneggiare il pezzo. L'arma misura 519 mm, la lama 409 mm di lunghezza, 10,8 mm di larghezza media e 3,5 mm di spessore medio. La lama è in acciaio non temperato, di eccellente qualità. L'impugnatura, in argento sbalzato - come abbiamo già detto - porta un fregio decorativo sicuramente nordico. E' sormontata da una sfera di legno che sembrerebbe di fattura molto più recente e sulla quale è impresso un motivo che suggerisce un fiore a quattro petali. Nel punto di congiunzione con la lama, ci sono una rondella di rame e una di cuoio. Alcune lamelle d'acciaio, elastiche (una delle quali è stata riparata servendosi di un metallo giallastro, che sembra essere bronzo) servivano a fissare l'arma nel fodero, inesistente. I fili della lama, che non sono taglienti, portano tracce di arrotatura, cancellate nel punto che abbiamo pulito: ciò dimostra che l'arma è rimasta intatta dopo la sua scoperta. Dell'iscrizione sulla lama sono chiaramente leggibili solo quattro caratteri: un fehu - che ha una forma molto particolare già incontrata nelle scritte runiche su pietra del Paraguay e del Brasile (24), (25), (26) - un isa, un ansuz e un thurisaz: fiath. Beninteso, nulla prova che la f sia la prima lettera di una parola, poiché sembra preceduta da segni cancellati. Tuttavia, il professor Hermann Munk, runologo dell'Istituto di Scienze Umane che dirigevamo a Buenos Aires, ci dice che, in norreno, fia ha un senso che non stona su un'arma: «odiare». Se si tratta veramente di questo vocabolo, il th può essere solo l'inizio di un'altra parola; cosa ammissibile perché, nelle iscrizioni runiche, generalmente non ci sono separazioni tra i termini, perciò si possono indovinare due o tre lettere indefinite. Dunque, tutto sembra indicare che l'arma sia uno stocco vichingo, quello che i tedeschi chiamano Stab, il primo oggetto precolombiano in acciaio trovato nell'America del Sud. Senza un'analisi metallografica non possiamo essere più precisi. Facciamo notare che il fatto, in sé, non avrebbe nulla di sorprendente. Una delle strade reali incaiche - e preincaiche - attraversava l'attuale provincia di La Rioja, dove ne esistono ancora alcuni tratti. L'eccellente conservazione del pezzo sarebbe normale nella Cordigliera, mentre ogni oggetto di ferro o di acciaio vecchio di molti secoli si sarebbe da tempo disintegrato sotto i Tropici o l'Equatore. D'altra parte, si può abbandonare qualsiasi dubbio sull'autenticità dell'arma: perché si dovrebbe nascondere un falso in una grotta dov'era probabile che nessuno lo scoprisse mai? E' impossibile mettere in discussione l'onestà di Juàrez, che ha conservato l'oggetto per anni, senza dargli molta importanza e ha rifiutato, prima e dopo il nostro esame, di venderlo. 3. Le miniere del Perù

Possiamo provare che non si è mai prodotto ferro nel Messico prima della Conquista, perché i popoli dell'America centrale non conoscevano il lavoro delle miniere. Anche i metalli preziosi erano rari per la stessa ragione. Si estraeva faticosamente dell'oro - per lavaggio - dai fiumi degli attuali stati di Oaxaca, Veracruz e Guerrero, insieme a una piccola percentuale di argento, quando invece oggi il 25% della produzione mondiale di quest'ultimo metallo viene dal Messico e l'oro, per questo paese, è poco più che un sottoprodotto. Il rame si trovava in alcuni filoni superficiali nei quali il metallo si presentava allo stato puro. Per questa ragione era più apprezzato dell'argento, come l'argento lo era più dell'oro, che certo non abbondava. Il tesoro di Montezuma, costituito nel corso di diverse generazioni, conteneva solo 600.000 piastre d'oro (pesos de oro) secondo il racconto di Bernal Dìaz del Castillo (28), ossia, stando alle stime, 2.478 o 2.730 kg, quando il semplice ammontare della razzia di Atahuallpa, in Perù, fu di 1.326.539 piastre d'oro (5.545 o 6.035 kg), e di 51.610 marchi d'argento, cioè 10.786 o 11.742 kg. Se il Perù straripava di metalli preziosi, senza parlare del rame o dello stagno, questo derivava dal fatto che la produzione era stupendamente organizzata. L'oro si otteneva con lavaggio dei fiumi che discendevano dalle Ande, e dei canali, talvolta lunghi diversi chilometri, come quelli di Vinaque, nei pressi di Tiahuanaco, e di Chungamayo, nei dintorni di La Paz, nei quali si faceva passare su terre aurifere l'acqua proveniente dai ghiacciai. Ma si sfruttavano anche le miniere. A Huabamba (Nusta Hisspana) si possono ancora vedere, intagliate nella roccia, le strutture di una fonderia d'oro, in cui si trattava il minerale. E a Machu Picchu esistono le rovine di una macina che serviva a triturare il quarzo aurifero, da cui si estraeva il metallo per amalgama. Poznansky, un ingegnere, racconta che si tratta di un procedimento portato dagli Europei prima della conquista (29). L'argento, invece, proveniva quasi esclusivamente dalle miniere: le principali si trovavano nella regione di Porco, sul versante orientale delle Ande boliviane, che gli Spagnoli più tardi avrebbero chiamato Sierra de la Plata, sierra dell'argento. Lì si trovava il grande villaggio che venne denominato Villa de Plata, non lontano dal Poggio di Potosì, che non era ancora stato sfruttato prima della conquista e dal quale, nei secoli seguenti, sarebbero uscite ricchezze incalcolabili. Al tempo degli Inca, non esistevano minatori di professione. La produzione era assicurata da una ferma di lavoro. Ogni anno, dei giovani indigeni reclutati partivano per le zone metallifere della montagna, dove, durante i quattro mesi più caldi, raccoglievano grani e pepite nei fiumi o nelle casse di lavaggio; oppure estraevano il minerale nelle gallerie. Per loro era un onore, poiché i metalli andavano al Sole e all'imperatore, suo figlio. Il regolamento era molto rigido. Era proibito lavorare nei lavatoi e nelle miniere gli altri otto mesi dell'anno. Durante il servizio la recluta doveva, obbligatoriamente, essere accompagnata dalla sua donna. Le provviste, abbondanti, erano assicurate dai magazzini reali. Venivano organizzate feste, che rendevano allegro il lavoro. Non sappiamo se questo sistema fosse già in vigore all'epoca dell'impero di Tiahuanaco. Ma possiamo presumerlo, poiché gli Inca, per quanto possibile, fecero sempre tutto per imitare i loro avi. Per fondere grani, pepite, miscele o minerale, secondo il caso, si usavano, prima delle Conquista, forni a carbone di legna in cui si attivava il fuoco con l'aiuto di grossi cannelli. Spesso, siccome

richiedevano un notevole sforzo, questi ultimi venivano sostituiti da due sistemi particolarmente ingegnosi. Cieza de Leòn (30) racconta che il più primitivo tra questi consisteva nel fare delle forme con la terra, delle stesse dimensioni e nello stesso modo dei vasi da fiori spagnoli che avevano buchi e aperture un po' dappertutto. Questi huayra (la parola significa «vento») secondo Padre Barba (31) erano alti circa un metro e avevano un diametro di 40 centimetri, più larghi alla sommità che alla base. Venivano riempiti di carbone, sul quale veniva poggiato del metallo o del minerale. Quindi venivano messi «in cima ai poggi o sui fianchi delle colline, dove il vento soffiava più forte» e si ottenevano così delle pigne di metallo che venivano raffinate nei tocochimpo, dei piccoli forni. Anche l'altro metodo - che era più diffuso - usava il vento, che veniva «catturato» da padiglioni di cuoio, orientati in modo opportuno. Nei kjory-huayra-china, («forni a vento per fondere l'oro», in lingua aymara) e nei kollke-huayra-china, («forni a vento per fondere l'argento»), si produceva un metallo estremamente puro. Non è passato molto tempo da quando, la notte, si vedevano ancora ammiccare le luci delle «fonderie» indie sui fianchi del Cerro di Potosì. 4. L'argento fantasma del Paraguay Nel febbraio 1516, Juan Dìaz de Solìs, primo pilota di Spagna - una specie di ministro della Marina - costeggiava le coste dell'America del Sud con tre caravelle, alla ricerca dello stretto di cui si conosceva l'esistenza (15) ma che non era ancora stato localizzato, quando raggiunse l'enorme estuario formato dalla congiunzione tra Paranà e Uruguay, che più tardi sarebbe stato chiamato Rìo de la Plata, «fiume dell'argento». Lo risalì per circa 250 km, fino alla confluenza, dove, durante un tentativo di sbarco, lui e i suoi uomini furono attaccati e uccisi dagli indios. Priva del suo capo, la flottiglia intraprese la strada del ritorno. Uno dei tre vascelli fece naufragio sulla costa del Guayrà, la provincia marittima del Paraguay, ma il suo equipaggio riuscì a raggiungere, sano e salvo, l'isola costiera che oggi chiamiamo Santa Caterina, dove fu ben accolto dagli indigeni. Gli Spagnoli constatarono - rallegrandosene - che questi, sebbene «di livello culturale assai basso», disponevano comunque di oggetti d'argento. Si affrettarono a battezzare il loro rifugio Isla de la Plata, «isola dell'argento», nome che conservò su alcune carte per vari decenni. Ma presto dovettero ricredersi. Gli indios, dai quali i naufraghi avevano rapidamente appreso la lingua, dissero loro che quel metallo non proveniva né dall'isola, né dalla riva adiacente, ma dai territori del Re Bianco, la cui capitale, con palazzi di pietra coperti d'oro, era situata sulla montagna, in riva a un immenso lago. Vi si arrivava risalendo un fiume che si inoltrava all'interno delle terre, poi attraversando una regione particolarmente inospitale. I Guaranì avevano cercato diverse volte - nel corso degli ultimi secoli - di raggiungere questo paese della cuccagna che i loro avi conoscevano bene, ma ogni volta erano stati respinti dalle truppe di frontiera dell'impero che, si saprà più tardi, era quello degli Inca. Uno dei naufraghi, Aleixo Garcìa, un portoghese al servizio della Castiglia, decise di lanciarsi a sua volta nell'avventura, con tre spagnoli e un piccolo gruppo di indigeni. Traversò il Guayrà

nel 1521, senza molti problemi grazie a un percorso ben tracciato (24), raggiunse Paragua'y (l'attuale Asunciòn) dove reclutò circa duemila indios, quindi si diresse «verso ponente, per scoprire e riconoscere queste terre da dove si portavano bei vestiti e oggetti di metallo, sia per la guerra che per la pace» (31). La grande truppa risalì il fiume Paraguay fino al Cerro San Fernando, a qualche lega dal villaggio che portava ancora il nome nordico di Weibingo (24), (15), (26); si inoltrò nel Chaco, raggiunse i contrafforti delle Ande e penetrò in territorio inca - gli Spagnoli non avevano ancora occupato il Perù - fino a Tomina e Tarabuco. Ma i Charca, vassalli degli Inca, respinsero quella che costituiva una vera armata di invasione. Allora Garcìa intraprese la strada del ritorno, con un ricco bottino d'oro e d'argento, e riguadagnò il Paraguay. Sulle rive del fiume, delle tribù nemiche massacrarono i bianchi e un buon numero dei loro ausiliari. Alcuni indios del gruppo iniziale riuscirono a raggiungere l'isola di Santa Caterina, dove raccontarono quello che era successo e mostrarono i «souvenir» che avevano portato con sé. Quando, nel 1526, Sebastiano Caboto, partito dalla Spagna con quattro navi per seguire le tracce di Magellano, raccolse i naufraghi sopravvissuti e sentì il racconto che gli venne fatto sulla spedizione di Garcìa, non esitò a passar sopra agli ordini ricevuti e si inoltrò nel Rìo de la Plata, con l'intenzione di risalire il Paraguay e raggiungere la Sierra de la Plata. Respinto dagli indigeni all'altezza di Asunciòn, dovette tornare indietro. Non riparleremo dei tentativi fatti dagli Spagnoli nel corso dei decenni seguenti per conquistare, dopo il Paraguay, le terre favolose - ma assolutamente reali - del Re Bianco. Ricordiamo semplicemente che Ayolas, partito sulle tracce di Garcìa, subì la stessa sorte del portoghese dopo che aveva anch'egli raggiunto le Ande e raccolto un pesante bottino di metallo prezioso; anche Irala, più tardi, raggiunse la Sierra de la Plata, che era già occupata - ma lui lo ignorava - dagli uomini di Pizarro. Dappertutto, perfino molto più a nord, nella regione di Xarayes, gli indigeni avevano loro confermato l'esistenza del sovrano bianco dalle ricchezze incalcolabili, la cui capitale dai palazzi d'oro, abitata da uomini con lunghe orecchie, era situata nell'isola del Paradiso, in mezzo a un grande lago, non lontano dal villaggio delle donne senza marito (32). Lo storico argentino Enrique de Gandìa (33) ha dimostrato chiaramente che una parte delle dicerie raccolte dagli Spagnoli si riferiva, in un contesto geografico impreciso, al lago Titicaca e alla sua isola del Sole. Per noi, questo è un punto di estrema importanza: i Guaranì che nel corso dei tempi avevano attaccato i territori degli Inca non sapevano tuttavia nulla del loro sovrano e della loro capitale. Per loro, si trattava sempre dell'impero di Tiahuanaco. Cosa che non sorprende, dal momento che il Paraguay ne faceva parte. Abbiamo visto altrove (24), (26) che i Vichinghi stabilitisi sull'altopiano avevano tracciato dei «percorsi facili» (peaviru, in guaranì) che, collegati alle strade reali, conducevano all'Atlantico raggiungendolo in due punti principali: il golfo di Santos e la costa di fronte all'isola di Santa Caterina. Sulla strada del nord che da Weibingo arrivava alla città il cui nome attuale è Pedro Juan Caballero e quindi raggiungeva Santos, si trovava l'enorme complesso di Cerro Corà (26) con l'imponente fortezza non lontano dalla quale, al Cerro Guazù, abbiamo rilevato centinaia di iscrizioni runiche; il professor Hermann Munk è riuscito a tradurne sessantuno.

Ebbene, nel 1975, facemmo una scoperta a Cerro Corà di cui non potevamo parlare prima che avesse avuto un senso per noi; e ora è arrivato quel momento. Vicinissimo all'Itaguambypé, la fortezza in questione, scorre un ruscello, l'Aquidabàn-Nigui, il cui corso è frammentato da una piccola cascata che abbiamo descritto nella nostra opera Le Roy vicking du Paraguay. Nella pietra del fondo sono intagliati gradini così larghi che possono essere stati lasciati solo da uomini molto più grandi dei Guaranì e dei Paraguaiani attuali. A strapiombo, si vedono le rovine di un edificio di 16,80 metri di lunghezza. Abbiamo ipotizzato che si trattasse di un posto di guardia, un fortino per proteggere i bagnanti - evidentemente disarmati - che usavano, come ancora lo fanno i soldati del distaccamento di Cerro Corà, il bacino naturale scavato dalle acque; o ancora di una sauna. Oggi, dobbiamo ricrederci su queste interpretazioni. Infatti, trovammo un oggetto sorprendente in mezzo ai blocchi sparsi dietro uno dei muri laterali dell'edificio, il cui basamento di pietra naturale - ma tagliata verticalmente dall'uomo - è ancora perfettamente conservato. Si tratta di un mattone rettangolare, di 11,5 cm di larghezza e 6 cm di spessore. La sua lunghezza attuale è di 21 cm, ma una rottura non permette di misurarlo esattamente. Per ragioni di simmetria si può comunque presumere che fosse circa 24 cm. Su una delle facce del mattone c'è una cavità a forma di tronco di piramide rettangolare, di 2,8 cm di profondità. La base - la parte aperta - misura 11 cm per 3,5 cm e la sommità - il fondo - 8,6 cm per 2,1 cm. Il centro di ogni piccolo lato della base è collegato alla superficie laterale esterna del mattone da un canale a forma di mezzo tubo, di 6,5 cm di lunghezza per 1,7 di larghezza e 1,2 cm di profondità. Almeno, queste sono le dimensioni della parte intatta. Dimensioni approssimative, visto il cattivo stato di conservazione di un pezzo visibilmente molto antico. Questo oggetto può essere solo uno stampo per metalli preziosi. Infatti, la forma della sua cavità corrisponde esattamente a quella dei lingotti d'oro e d'argento che si usano ancora oggi; una forma che non ha niente di arbitrario, poiché è l'unica che permette di estrarre facilmente il blocco di metallo dopo che si è raffreddato. D'altra parte, i canali sono inattesi. Uno poteva servire all'introduzione della colata e l'altro per far uscire l'aria, ma solo se lo stampo fosse stato doppio, cosa improbabile. Un orefice che abbiamo consultato e che è stato allievo di una scuola tecnica specializzata in Germania, ha ipotizzato che potevano esserci difficoltà nell'estrarre il lingotto, visto che le pareti della cavità non sono (e non lo sono mai state) perfettamente lisce, come quelle dei nostri stampi. Forse i due canali servivano a prolungare il blocco di metallo con due barre, facili da «scollare», che in seguito sarebbero state tagliate. Comunque, si tratta di un problema minore, perché la natura dell'oggetto è indubbia, come la sua origine precolombiana. Nell'interno del Paraguay, dopo la Conquista, non sono mai stati fusi oro né argento, di qualsiasi origine e per qualsiasi uso fossero. Più o meno deserto fino a una trentina d'anni fa, a parte qualche piccola tribù di indios e un gruppo di Guayachi nomadi, l'Amambay, dove si trova Cerro Corà, è popolato solo da rari agricoltori isolati nella foresta, ad eccezione di Pedro Juan Caballero. Dunque, bisogna rivedere le nostre ipotesi anteriori sull'edificio dell'Aquidabàn-Nigui, le cui dimensioni, d'altronde, sembravano

eccessive per un fortino o una sauna. Si trattava di una fonderia per metalli preziosi, e logicamente era vicina alla riva di un ruscello e sotto la protezione di una fortezza. Restano due problemi da risolvere: da dove venivano questi metalli e perché si riteneva necessario fonderli in lingotti? Riguardo al primo punto, la risposta è facile. I corsi d'acqua auriferi e le miniere d'oro e d'argento più vicine si trovano nella cordigliera delle Ande. Non ce ne sono in Paraguay, dove, comunque, gli indigeni non conoscevano l'uso dei metalli, ma ne sapevano il nome, cosa che a prima vista pare molto strana. In avañe'e, la lingua guaranì del sud, in effetti ci sono le seguenti parole: Metallo: kuarepoti, da kuare, cavità; re, che fu; tepoti, residuo: residuo estratto da una cavità, cioè da una miniera. Da queste parole, derivano tutti i nomi dei metalli: Oro: kuarepotiju, metallo giallo. Argento: kuarepotiti: metallo bianco. Rame: kuarepotinè, metallo maleodorante, e kuarepotipyta, metallo rosso. Piombo: kuarepotimembe: metallo malleabile. Stagno: kuarepotijy, letteralmente metallo cucinabile: metallo fusibile. Ferro: kuarepotihü, metallo nero. Acciaio: kuarepotiata, metallo duro. Come si vede, si tratta di termini artificiali, benché composti in conformità alla tendenza di una lingua come il guaranì, che unifica i vocaboli. La questione è sapere se sono stati coniati prima o dopo la Conquista, e le opinioni dei linguisti e degli etnologi su questo punto sono contrastanti. Facciamo notare, in primo luogo, che questi vocaboli non hanno subito alcuna influenza dallo spagnolo. Ciò sarebbe stato logico se fossero nati con l'importazione da parte dei conquistadores di metalli fino ad allora sconosciuti. E poi il guaranì, lingua che viene scritta solo da rari specialisti, benché sia parlata da milioni di persone, si è ispanizzato col tempo. Vi sono state introdotte molte parole spagnole, talvolta «guaranizzate» superficialmente, sia per esprimere concetti nuovi sia, più raramente, per sostituire termini che i dizionari oggi riportano come arcaismi, oppure semplicemente omettono. E' il caso dei nomi dei metalli. Nel dizionario guaranì-spagnolo di Jover Peralta e Osuna (34), ci sono - ne abbiamo rispettato l'antica ortografia ?* L'ortografia guaranì è stata unificata, nel 1950, dai rappresentanti di Argentina, Bolivia, Brasile e Paraguay, riunitisi a Montevideo. Le decisioni del congresso, tuttavia, non vengono sempre applicate, anzi. Comunque, non possono essere impiegate nel campo della toponomastica: bisognerebbe rettificare tutte le carte, a rischio di rendere spesso dubbiosa l'interpretazione di documenti e opere che si riferiscono a quattrocento anni e più della storia di quattro paesi. La confusione è particolarmente grande nel campo degli accenti, che subiscono la doppia influenza contraddittoria dello spagnolo e del portoghese. Diciamo che per buona regola nelle parole guaranì si evidenzia l'accento tonico con un accento acuto solo quando non si trova sull'ultima sillaba, come succede quasi sempre nel dialetto del sud e, meno di frequente, in quello del nord a causa del fatto che spesso viene aggiunto un suffisso fonetico. cuarepotitï, argento, e, come arcaismi, cuarepotiyu, oro, e cuarepoti, con la doppia accezione di metallo e di ferro. Per quanto riguarda quest'ultima parola, i dubbi non sono permessi:

prima della Conquista c'era un villaggio sul fiume Paraguay - il cui nome attuale è Rosario - che allora si chiamava Cuarepoti, di fronte a una strada che conduceva in Perù di cui esistono ancora circa centocinquanta chilometri. Tutto porta a credere, quindi, che i nomi dei metalli, semplici derivati di un termine generico, siano, come questo, anteriori all'arrivo degli Spagnoli. In caso contrario, bisognerebbe chiedersi come venisse definito dai Guaranì l'oro del Re Bianco di cui parlavano e l'argento che possedevano, come abbiamo già visto. A giudicare dal suo contesto (26) la fonderia di Cerro Corà risale all'epoca di Tiahuanaco, quando i Vichinghi e i loro corrieri usavano il peaviru del nord per recarsi a Santos. Le tradizioni locali aggiungono anche che in quei tempi le carovane di indios vi trasportavano regolarmente importanti carichi di metalli, senza dubbio trasportati da lama (35). Naturalmente questo traffico fu interrotto verso il 1290, alla distruzione dell'impero, e non venne ripreso ai tempi degli Inca poiché questi non riconquistarono mai i territori dell'est e i soli contatti che ebbero coi Guaranì si verificarono in occasione di conflitti sporadici lungo la frontiera. L'argento arrivava al Paraguay, dunque, attraverso il peaviru, dalla Sierra de la Plata. Perché lo si trasformava in lingotti? C'è solo una risposta possibile a questa domanda: perché bisognava esportarlo in pezzi uguali e facili da contare. A che altro poteva servire, visto che i Guaranì, rimasti allo stato neolitico, non usavano i metalli? L'argento - forse anche l'oro, ma in quantità molto minore - proseguiva nel suo cammino, un cammino che conduceva solo all'Atlantico. Ma in seguito dove veniva portato, e come? 5. Le strane miniere del Brasile Per raggiungere l'Atlantico - oltre a usare le strade che giungendo da Tiahuanaco, tramite la Sierra de la Plata, attraversavano il Paraguay - i Vichinghi si servivano dell'incomparabile strada fluviale costituita dal Rio delle Amazzoni; almeno nella stagione secca, quando le sue acque sono meno ingombrate da tronchi sommersi. Dei loro insediamenti nell'isola di Marajò - il delta del fiume - non resta niente, salvo le decorazioni a rune che ornano molti pezzi del famoso vasellame locale: ne abbiamo riprodotti alcuni in un libro precedente (25). Bisogna discendere 500 km verso sud per trovare, nella baia di Säo Marcos, le vestigia murarie di una «grande piazzaforte» e, sui laghi che forma il fiume Grajau, proveniente dal Mearim, quelle dei porti di cui si vedono ancora le «lunghe linee di basamenti pietrificati sopra i quali c'erano i cantieri navali», (36) come scrive Ludwig Schwennhagen che lo rilevò accuratamente verso il 1925. Ancora 300 km nella stessa direzione, e arriviamo all'imbocco del Parnaïba, un grande fiume navigabile il cui delta offre un eccellente approdo. Lì i colonizzatori portoghesi ebbero la sorpresa di scoprire rovine di mura fortificate fatte di pietre cementate ai bordi del villaggio di Tutòia (oggi Luiz Correia), il cui cacicco aveva autorità su tutte le tribù guaranì della regione. A 100 km all'interno delle terre si trova il luogo di culto di Sete Cidades (sette città) - una gigantesca copia dell'Externsteine della Bassa Sassonia - con alcune statue di uomini dai tratti europei e le magnifiche iscrizioni runiche che il professor Munk ha potuto tradurre senza problemi (25). Era senza dubbio sull'insediamento della città che attualmente porta il nome di Parnaïba (un tempo, Amarraçäo, «ammaraggio») che era

situato il porto vichingo: un porto minerario. Il Piauì, di cui Parnaïba costituiva lo sbocco sull'Atlantico, è oggi, dopo la sua occupazione da parte dei bandeirantes venuti da Säo Paulo nella seconda metà del XVII secolo, la regione più desertificata del Brasile. La popolazione delle sue campagne - meticci dai capelli biondi - vive grazie alle capre e a qualche piantagione di manioca, in un'economia di sussistenza. Ma qualche secolo fa non era così. I Portoghesi vi scoprirono, arrivando, moltissime miniere esaurite, in particolare nella Serra do Sumidoro dove si vedono molte gallerie aperte nelle rocce argentifere. Secondo Schwennhagen (35) le barre del Rìo Longa, affluente di Parnaïba, sono solo le vestigia di antiche installazioni per il lavaggio dell'oro raffinato. Ma c'è ancora di più. Il Säo Francisco è uno dei fiumi più importanti del Brasile. La sua sorgente si trova nel sud-ovest dello stato di Minas Gerais, che attraversa. Poi traversa Bahia, nella sua corsa verso il nord, quindi traccia una curva che lo conduce a gettarsi nell'Atlantico, tra gli stati di Alagoas e di Sergipe, ai quali serve da frontiera. E' navigabile per più di due terzi e vi si vedono ancora grandi barche che, per la loro forma, il modo con cui sono costruite e la figura della loro prua, ricordano indiscutibilmente i drakkar. I Vichinghi avevano insediato sulle rive alcune tribù guaranì che erano loro fedeli: lo facevano in tutti i fiumi che usavano come via di comunicazione. Oggi, tuttavia, le tribù si trovano solo all'imbocco e alle sorgenti. La spiegazione di questa anomalia è a un tempo la più semplice e la più complicata da immaginare: il corso medio del Säo Francisco all'epoca non esisteva. Al suo posto, tra l'attuale città di Remanso e le cascate di Paulo Afonso, su una larghezza media di 200 km, si estendeva un'immensa laguna, fatta di paludi e laghi che in inverno si riempivano e dai quali emergevano molte catene collinose, alcune delle quali raggiungevano un'altezza di 300 metri sopra il livello del mare. Tre fiumi ne drenavano le acque. Due di essi si dirigevano verso l'est: l'Opala, che porta oggi il nome di Säo Francisco, e il Reala, di cui non si sono più ritrovate le tracce. Un altro fiume seguiva la vallata che taglia le sierras tra Remanso e Säo Joäo do Piauì e si gettava nell'attuale Rìo Piauì, al quale doveva portare un volume d'acqua molto superiore a quello che gli proveniva da Säo Raimundo Nonato. Il fiume, dunque, doveva essere navigabile almeno a partire dalla congiunzione dei suoi due bracci e, in inverno, dalla laguna. Dal Parnaïba, di cui è un affluente, conduceva fino all'oceano. Nel 1587, lo storico Gabriel Soares, che nomina Schwennhagen (36), sentì parlare dai Guaranì di Bahia, del Sergipe e del Piauì della Grande Laguna (Upa-Assu), con le sue isole che ospitavano enormi miniere d'argento. Credevano che esistesse ancora. Le paludi, quindi, non si erano disseccate da tempi immemorabili. Ma come era successo? Lo sappiamo grazie alla relazione presentata dal generale Ivo Prado al Congresso di geografia di Belo Horizonte, nel 1919. La relazione verteva sul Rìo Reala: le acque della laguna, a un dato momento, trovarono una porta d'uscita sufficiente nelle cascate di Paulo Afonso e il corso medio del fiume Säo Francisco quale noi lo conosciamo è quel che resta dell'Upa-Assu. Il Reala scomparve e il Piauì perse uno dei suoi bracci. Una tale trasformazione fu fatta dalla natura? In una regione vulcanica, si potrebbe ammettere che un terremoto abbia bruscamente abbassato la soglia dello sbocco che dava vita all'Opala. Ma qui non si tratta di qualcosa di simile. Ci sono solo due spiegazioni

possibili: o che sia stato il risultato dell'erosione provocata dall'acqua che vi scorreva, o che si tratti di un magnifico lavoro di genio idraulico. Bisogna immediatamente scartare la prima ipotesi, perché l'usura della roccia avrebbe richiesto migliaia - o milioni di anni. Resta la seconda. E, di fatto, Ludwig Schwennhagen (36), la cui immaginazione lussureggiante non danneggia mai i risultati di un'osservazione precisa e leale, esaminò minuziosamente le cascate non ancora trasformate dall'attuale centrale elettrica e vi scoprì le tracce di una straordinaria opera d'arte: «cinque canali simmetrici che versano le loro acque separatamente nella stessa cavità quadrangolare, di 50 metri di profondità e intagliata nella viva roccia». Ma perché era stato effettuato questo lavoro? Fondamentalmente, per stabilire una via di comunicazione fluviale permanente - che non poteva essere rappresentata dalla Grande Laguna - tra una zona mineraria eccezionalmente ricca e l'Atlantico. Una zona che comprendeva non solo le vecchie miniere d'argento dell'Upa-Assu, ma anche il territorio dell'attuale Stato di Minas Gerais, dove si vedono innumerevoli miniere precolombiane e dove i Portoghesi, secondo uno storico che cita Fawcett (37) senza nominarlo, avrebbero scoperto nel XVI secolo una tribù i cui membri avevano la barba e la pelle chiara: i Molomachi, le cui donne erano «bianche come gli inglesi, coi capelli dorati, color platino o castani» e avevano «tratti delicati, mani e piedi piccoli e capelli belli e setosi». Come quelli del Paraguay, i Guaranì della regione conoscevano perfettamente i diversi metalli, benché tutto sembri dimostrare che ne ignorassero l'uso. Ciononostante, i nomi che davano ai minerali non erano gli stessi di quelli del Sud. Invece di usare la parola kuarepoti come base costante di suffissi variabili, utilizzavano la parola ita, il cui senso corrente è «pietra» ma che si rapporta etimologicamente a ogni corpo duro e in particolare al metallo. Senza parlare della sillaba fonetica, privata di ogni significato, che generalmente segue la vocale accentata nella lingua ñe'engatu, cioè il guaranì settentrionale ?* Nelle nostre opere precedenti, abbiamo usato come tutti l'espressione di «tupiguaranì» per indicare i guaranì del Brasile e la parola «tupi» per differenziare le tribù che lo parlano. Cosa che ci è valsa un'opportuna reprimenda da parte del nostro collaboratore e amico, il professor Vincente Pistilli, direttore dell'Istituto Paraguaiano di Scienze Umane e grande studioso di guaranì. «Tupi», dice, significa «rozzo», «selvaggio». I Guaranì applicavano il termine alle altre nazioni indigene di culture inferiori alla loro. Quelli del Sud chiamavano Tupina, «simili ai tupi» i loro cugini del Nord, tempo addietro. Sono stati i missionari del XVI e XVII secolo che, per ignoranza della lingua, hanno indebitamente ridotto alla sua radice, modificandone il senso, una parola che era un soprannome un po' peggiorativo. I Guaranì del bacino dell'Amazzonia chiamavano il loro idioma corrente (e lo chiamano ancora così) ñe'engatu, «buon linguaggio», e quelli del bacino del Rìo de la Plata lo definivano avañe'e, «linguaggio degli uomini». Le differenze dialettali tra queste due forme di guaranì sono minime.. Così abbiamo: Oro: itajùba, metallo giallo. Argento: itatìnga, metallo bianco. Rame: itanéma: metallo maleodorante, e itaiqueza, metallo in filo (da ita, metallo; i, determinativo; que (ke), particolare che indica la destinazione e sä, filo).

Piombo: itamembéca, metallo malleabile. Stagno: itayka, metallo fusibile. Ferro: itaùna, metallo nero. Acciaio: itaite, metallo superiore. Ludwig Schwennhagen conferisce a itaite il senso di «pietra doppia». Ma questo austriaco non doveva certo padroneggiare il guaranì, che non si parla più nel Piauì, dove abitava. Il professor Pistilli ci ha detto che ite, suffisso che designa il superlativo, può significare, per derivazione, «vero» o «autentico», ma niente altro. D'altra parte, nota nel finale nga di itatìnga, che non è guaranì, una contrazione di inga, la forma originale di «inca». Itatìnga, così, significherebbe «metallo bianco inca». Grazie a un'iscrizione runica di Sete Cidades (25) sappiamo che i Vichinghi di Tiahuanaco si servivano già del termine «inca», che in norreno vuol dire «discendenti». Dunque, non siamo sorpresi che gli indios del Piauì l'abbiano utilizzato per definire un metallo particolarmente ricercato dai loro «signori». Infine, notiamo che tutti i vocaboli di cui abbiamo fornito la lista qui sopra sono composti artificialmente, come quelli del Paraguay e che si trovano nella toponimia precolombiana. Il termine itaiqueza, metallo a filo, per designare il rame, dimostra che nel Piauì la metallurgia aveva raggiunto un alto grado di sviluppo tecnico. Resta da capire perché i Vichinghi sfruttavano miniere principalmente d'argento - nel Nord-Est brasiliano e davano tanta importanza ai metalli che estraevano, al punto da intraprendere e portare a buon fine gli enormi lavori richiesti dal disseccamento della Grande Laguna per ottenere un accesso più facile ai giacimenti del centro brasiliano dopo l'esaurimento di quelli del Piauì. Senza dubbio avevano bisogno, per loro e per le popolazioni indigene, di ferro, rame e stagno per farne armi e utensili. Ma a cosa potevano servire l'oro e l'argento, che evidentemente non inviavano in Perù, dal momento che ne rigurgitava? Potevano solo esportarlo dal loro porto di Parnaïba. Verso dove, e come? E' la domanda che ci siamo già posti riguardo ai metalli preziosi fusi in Paraguay, sulla strada che portava verso l'Atlantico. 6. L'ipotesi confermata Abbiamo ora il panorama completo della metallurgia precolombiana. In Messico si lavoravano il rame, l'argento e l'oro e, secondariamente, il tombacco, il bronzo e una lega di rame e piombo. Si ignorava la riduzione dei metalli a partire dal minerale. Dunque, ci si limitava a raccogliere l'oro e l'argento dei fiumi per lavaggio e a graffiare qualche filone superficiale di rame, di stagno e di piombo dove il metallo si presentava allo stato puro. Salvo alcune armi e alcuni utensili, non si produceva che oreficeria di un'eccezionale qualità artistica. L'argento era più raro dell'oro, che costituiva un sottoprodotto. In Perù, al contrario, dove si lavoravano l'oro, l'argento, il rame e senza dubbio il ferro, le miniere erano oggetto di un intenso sfruttamento industriale, come anche le casse di lavaggio dell'oro, gestite magnificamente. L'argento proveniva soprattutto dalla zona di Porco, situata in una catena di montagne della cordigliera, sul fianco orientale dell'attuale altopiano della Bolivia, a sud-est di Tiahuanaco: una catena che gli Spagnoli chiamarono Sierra de la Plata, sierra dell'argento, e dove si trovava un grande villaggio che chiamarono Villa de Plata, o Villa de la Plata. I Vichinghi di Tiahuanaco e i loro discendenti, gli Inca, usavano

il metallo prezioso per decorare i loro templi e i loro palazzi, per fabbricare vasellame, per costruire opere d'arte di gusto raffinato, alcune delle quali possiamo ammirare ancora oggi, benché gli Spagnoli abbiano fuso senza pietà né cervello tutte quelle che sono capitate nelle loro mani. Ai tempi del Vecchio Impero, tuttavia, non tutto l'argento estratto dalle miniere veniva utilizzato sul posto. Una parte - forse anche dell'oro, ma in quantità minima - veniva portata verso l'Atlantico, utilizzando il tratto nord del peaviru, quello che, in Paraguay, passava per Cerro Corà, dove il metallo veniva trasformato in lingotti. Non era utilizzato dalla popolazione locale, ne abbiamo la certezza, poiché gli indigeni vivevano ancora nell'età della pietra levigata e i nomi che davano ai metalli erano stati coniati artificialmente. Dal porto di Santos, evidentemente, l'argento partiva per mare, verso una destinazione sconosciuta. Questo traffico si interruppe quando Tiahuanaco fu presa dagli Auracani, verso il 1290. Tuttavia, i Guaranì lo ricordavano: descrissero agli Spagnoli la capitale lacustre con il palazzo d'oro del Re Bianco. Era la capitale di un impero distrutto, verso la quale inviavano ancora, all'inizio del XVI secolo, delle spedizioni sempre respinte, ma grazie alle quali raccoglievano fino all'isola di Santa Caterina - l'isola dell'argento - il metallo dei loro sogni e delle loro tradizioni. Una capitale alla quale conduceva un grande fiume che presto si sarebbe chiamato Rìo de la Plata, fiume dell'argento. Nel Nord-Est brasiliano, non era dal Perù che provenivano i metalli preziosi. Il trasporto via Amazzonia sarebbe stato troppo irregolare e aleatorio, e l'accesso al fiume partendo dalle regioni minerarie delle Ande sarebbe costato troppi sforzi. L'argento arrivava prima dal Piauì, poi dai giacimenti della Grande Laguna disseccata. Discendeva senza difficoltà il Rìo Parnaïba fino all'oceano, senza che si conoscesse la sua destinazione finale. Anche qui gli indigeni non l'utilizzavano e, come nel Paraguay, attribuivano ai metalli nomi artificiali, frutto di un adattamento linguistico a una realtà che era loro sconosciuta, e che lo resterà anche dopo il ripiegamento delle forze vichinghe, poiché in seguito non oltrepassarono mai il livello di una cultura neolitica. I Vichinghi di Tiahuanaco, nel XII e XIII secolo, inviavano quindi a Santos e a Parnaïba una parte dell'argento estratto dalle miniere della Sierra de la Plata e quello che proveniva dai giacimenti di Piauì e dell'Upa-Assu. Questo metallo spariva sull'oceano. Doveva ben andare da qualche parte, ma non sappiamo dove. Ebbene, nel capitolo I abbiamo visto che alla stessa epoca i templari, che conoscevano l'esistenza dell'America - come prova il sigillo che copriva il loro segreto - e che possedevano un porto inesplicabile a La Rochelle, sull'Atlantico, inondarono l'Europa occidentale di una moneta d'argento la cui origine è sempre rimasta misteriosa, ma che, in Normandia, la tradizione popolare situava oltre oceano. Per amor di logica, una conclusione s'impone: il Tempio importava l'argento americano. capitolo terzo. 1. i templari del Messico. 1. Il paese degli avi «Io vi considero come parenti, perché, da quello che mi dice mio padre, che l'aveva sentito dal suo, i nostri predecessori, dai quali io discendo, non erano nativi di questa terra, ma nuovi venuti, che arrivarono con un gran signore, il quale, poco dopo, tornò nella sua terra. Trascorsi molti anni, tornò a cercarli, ma essi non vollero

andarsene, perché si erano installati qui, avevano già bambini e mogli e grande autorità nel paese. Lui se ne andò molto deluso e disse che avrebbe inviato i suoi figli a governarli, e avrebbe assicurato la pace e la giustizia, le antiche leggi e la religione dei loro avi. E' la ragione per la quale abbiamo sempre sperato e creduto che quelli di laggiù sarebbero venuti per dominarci e comandarci, e penso che quelli siate voi, visto da dove venite». Secondo Lòpez de Gomara (38), e il testo coincide con quelli che ci hanno lasciato altri storici dell'epoca della Conquista, queste furono le frasi che Motecuhzoma II Xocoyotzin, che noi chiamiamo Montezuma, rivolse a Hernàn Cortés quando gli Spagnoli entrarono a Tenochtitlàn, l'attuale Messico. L'imperatore dalla barba bionda (28) si riferiva alla storia del quinto sovrano tolteco, predecessore della dinastia azteca nell'Anàhuac, da cui in effetti discendeva, perché il suo antenato recente e diretto, Acamapichtli, primo re della sua tribù nel 1376, era il figlio di una principessa della casa regnante anteriore. Sbarcato a Pànuco nel 967, Quetzalcòatl, «bianco, biondo, con la barba e di buone maniere (39)» - un jarl vichingo che verosimilmente si chiamava Ullman - si era alleato con i Toltechi che lo avevano riconosciuto come capo. Nel corso di un regno personale di vent'anni, aveva trasmesso ai suoi sudditi, particolarmente recettivi, l'alta cultura dell'Europa medievale. Nel 987, si era assentato, non per tornare nel suo paese, ma per imporre la sua autorità ai Maya dello Yucatàn. Alcune difficoltà con gli indigeni, testimoniate dagli affreschi del Tempio dei Guerrieri di Chichén-Itzà - che mostrano scene di battaglie tra indios e bianchi - l'avevano obbligato, due anni dopo, a tornare nell'Anàhuac, dove lo attendeva la cattiva notizia raccontata da Montezuma. Allora, aveva ripreso il mare in direzione dell'America del Sud, dove i suoi discendenti avrebbero fondato l'impero di Tiahuanaco. Abbiamo dimostrato tutto questo in un'opera precedente (20). Quel che dobbiamo stabilire ora è, prima di tutto, la ragione per cui l'imperatore azteco riconobbe gli Spagnoli come «figli» di Quetzalcòatl: «...penso che siate voi, visto da dove venite». Il suo ragionamento manifesta una certezza: il civilizzatore del Messico era arrivato da oltre oceano. Notiamo quindi che la migrazione via mare di cui si parla è solo quella di un gruppo di conquistatori che, beninteso, trova una popolazione preesistente nell'America centrale. Quest'ultima osservazione sarebbe superflua se non ci permettesse di capire il senso reale dei dati che ci forniscono, riguardo alla popolazione del Messico, i codici indigeni e alcune tradizioni rilevate dagli storici. Gli uni e le altre riferiscono, effettivamente, di tribù arrivate dal mare e provenienti dal nord o dall'est e nate già in America da Chicomòztoc, «le Sette Caverne», di cui altri testi parlano, tuttavia, solo come luogo di culto: «Tutte le nazioni di questa terra - dice Sahagùn - hanno l'abitudine di sostenere, non senza vanità, che furono create in queste sette caverne e che da lì nacquero i loro avi, cosa che è falsa, perché non vi nacquero, ma vi andarono a fare i loro sacrifici quando erano in quella valle», prima di arrivare a Tula. Fra queste tribù, il Codex Vaticanus - di cui Kingsborough ci fornisce un'interpretazione parla degli Olmechi, dei Totonachi e dei Chichimechi, per citare solo i più conosciuti, e fissa la data del loro arrivo nel 1194, quando i primi erano già stanziati sulla costa del golfo nel 31 a.C. (stele dei Tres Zapotes), i secondi hanno lasciato a Tajìn degli edifici che risalgono all'anno 400 della nostra era, mentre i terzi hanno invaso

il Messico alla fine del XII secolo, ma via terra, dal sud degli attuali Stati Uniti. In realtà, la storia di un popolo comincia solo il giorno in cui un avvenimento arriva a rompere la monotonia di un'esistenza che, fino ad allora, si trascinava attraverso le generazioni senza notevoli cambiamenti. In mezzo a quel popolo nasce un capo che lancia la sua gente in qualche avventura, o un conquistatore gli si impone, e questo modifica le usanze: si verificano fatti che restano incisi nella memoria e che si possono raccontare. La storia che nasce è quella creata da quell'uomo, o dal gruppo a cui si deve, bene o male, quella trasformazione, prima subita e poi accettata. Così la storia della Gallia risale a Cesare. E, allo stesso modo, la storia del Messico risale allo sbarco a Pànuco di Ullman e dei suoi uomini. Ebbene, Padre Diego Duràn (42) fissa nell'anno 902 l'arrivo delle «tribù», vale a dire in una data molto vicina a quella dell'arrivo dei Vichinghi. D'altronde, questo non impedisce che un altro gruppo ragguardevole - di cui ignoriamo tutto - abbia potuto apparire nell'anno 1194. In ogni modo, se Chicomòztoc è il luogo d'origine di emigranti d'oltremare, questi non erano certo indigeni americani. Padre Bernardino di Sahagùn (40) era il più sapiente e imparziale degli storici del Messico e usava un metodo di rilevamento molto avanzato per il suo tempo; interrogava sui loro usi e costumi indios acculturati - spesso dei sacerdoti - che avevano avuto accesso ai codici poi bruciati negli autodafé spagnoli. Egli ci ha fornito personalmente un'altra interpretazione delle Sette Caverne nell'introduzione a un suo saggio: «Sull'origine di questi popoli, gli anziani ci dicono che vennero dal nord via mare. E' certo che alcune navi sono arrivate, e non si sa come fossero costruite. Tra questi indigeni c'è una tradizione per la quale si ipotizza che partirono dalle sette caverne. E che queste sette caverne sono i sette vascelli o galere coi quali arrivarono i primi abitanti di questa terra [...] che sbarcarono nel porto di Pànuco, che essi chiamano Panco [in realtà, Panutlàn]; e che significa luogo dove arrivarono quelli che passarono l'acqua». Chiaramente, non si trattava di indigeni. Per prima cosa gli indios del Messico non disponevano di imbarcazioni in grado di traversare l'oceano; e poi tutte le tradizioni coincidono: fu Quetzalcòatl a sbarcare a Pànuco nel 967. Ci si domanda, tuttavia, da dove sarebbero potuti arrivare, via Atlantico, popoli di razza gialla. Perché, fuori dal «nuovo continente», si trovano dei mongolici solo in Asia e in Polinesia. E' sicuramente questo dato che ha spinto alcuni storici come il Padre di Sahagùn a individuare l'America del Nord come luogo d'origine degli indios del Messico - cosa che è vera solo per alcuni di loro - discendenti da emigranti che fecero un lunghissimo viaggio terrestre. Tanto più facilmente perché è nel nord che le tradizioni indigene situano il punto di partenza dei gruppi venuti dal mare, uno dei quali almeno - quello di Ullman-Quetzalcòatl - era composto, come abbiamo visto, da uomini bianchi, biondi e con la barba. Ma non nel nord dell'Anàhuac. I testi concordano: i popoli nahua, cioè le minoranze bianche conquistatrici, erano arrivate d'oltreoceano. La loro patria è definita con il nome di Tlapallàn, e tutti sono d'accordo sul senso di questo toponimo: «Paese al di là del mare» (Sahagùn) (40); «Paese verso l'est» (Rendòn) (43); «Nel mare dell'est» (Beauvois) (44); «Paese dell'aurora» o «Paese dell'Oriente» (Krickeberg) (21). Quest'ultima opinione è importante, tanto più che il suo autore fa

derivare Tlapallàn da tlapalli, rosso, e questo colore suggerisce più il Sole al tramonto che all'alba. Ma la spiegazione che fornisce Beauvois è infinitamente più convincente: tlap: est; al: acqua; lan: in, verso (nel senso di «attorno a»). Secondo Sahàgun, tlapcopa significa «Oriente». Al è una forma di atl che si trova in alcuni composti come alpichia, soffiare l'acqua, spruzzare; altia, mettersi in acqua; altépetl, montagna umida. Quanto a lan sarebbe solo la land, cioè terra, paese, delle lingue germaniche. Il senso esatto di Tlapallàn è dunque: «Paese di mare dell'est». E i dubbi si diradano ulteriormente, dato che il principe indio Chimalpàhin (46) precisa, parlando degli immigranti ai quali consacreremo il nostro prossimo paragrafo, che essi «abbandonarono il paese di Tlapallàn e attraversarono il mare, l'oceano». Un paese del nord situato a oriente dell'America centrale, che può essere solo l'Europa. Nel caso di cui ci occupiamo si trattava comunque del Nord Europa. I racconti nahua ci indicano, in effetti, che nel Tlapallàn c'era una città il cui nome è scritto diversamente dagli storici: Tulàn, Tullàn, Tollàn, Tulla o Tula. Ebbene, in Messico, la capitale dell'impero tolteco si chiamava nello stesso modo, cosa che ha creato una confusione alla quale nemmeno noi siamo sfuggiti. La spiegazione ci viene fornita da Lòpez de Gomara (38), quando scrive: «Perché venivano da Tulla, si stabilirono in seguito a Tullàn». Detto in altri termini, Ullman, diventando re dei Toltechi, diede alla sua capitale il nome della patria lontana. Un nome che si è trasformato lievemente, passando dal norreno al nàhuatl. Perché Tullàn è veramente - non siamo certo i primi ad averlo notato - molto simile a Thulé, un toponimo che veniva usato nell'antichità e nel Medioevo per definire le terre del Nord e in particolare l'Islanda. «Il nome di Thulé - sostiene Isidoro di Siviglia (46) all'inizio del VII secolo - viene dal sole perché è stazionario sul solstizio d'estate» e cioè perché non tramonta mai. La spiegazione non si spinge oltre. Comunque, è «di grande importanza se è giusta», scrive Beauvois (47); e niente prova che sia falsa. Infatti sono stati i Gaelici, come era naturale vista la vicinanza, i primi occupanti dell'Islanda, ed è nella loro lingua che bisogna ricercare un nome del sole analogo a Thulé. Si farebbe fatica a trovarlo non sapendo che spesso il teta greco corrisponde a s in gaelico; ce ne sono numerosi esempi [...] Dunque non è improbabile che 56ôoülû [Thoule] sia una trascrizione di Suli, isola del Sole, o Sulia, Sulai, paese del sole (dal gaelico sul, sol: sole; i, innis: isola; ua, ai; regione). Questa interpretazione, anche se sostenibile dal punto di vista filologico, è in ogni caso errata, benché ci metta sulla buona strada: infatti, troviamo già 56ôoülû nei racconti di Pitea sulla navigazione nell'estremo Nord, al IV secolo a.C., quindi molto prima che gli Irlandesi avessero occupato e senza dubbio scoperto l'Islanda. Ma l's non corrisponde al teta greco solamente nelle lingue gaeliche: è così anche per gli idiomi germanici, senza parlare dei latini. 56ôoülû potrebbe provenire anche dal norreno Soley, isola del Sole. Cosa che sarebbe pienamente soddisfacente dal punto di vista storico, poiché gli Iperborei, antenati dei Vichinghi, navigavano già mille anni e più prima della nostra era ed erano in rapporti con Pitea. Se quella tra Thulé e Tula (Tulla, Tullàn, Tollàn) fosse solamente una semplice assonanza, potrebbe essere dovuta a una coincidenza fortuita. Ma capita che il toponimo nàhuatl significhi precisamente

«Terra del Sole». In effetti, deriva da tonalli, sole, apocopato in base alla tendenza di questa lingua, e da lan, terra, paese. Da cui Tonalàn (Tonnallàn), sincopato in Tollàn, Tullàn, Tulla e Tula. Non c'è alcun dubbio riguardo a questa evoluzione: Tezozòmoc (48) dice, infatti, che gli Aztechi, recandosi dal nord nell'Anàhuac, «arrivarono a Coatépec, ai confini di Tonalàn, il luogo del sole». Ebbene l'Histoire des Mexicains par leurs peintures (49) precisa che «arrivarono a una collina che è davanti a Tula e che si chiama Coatebeque», mentre Padre Duran (43) scrive: «verso la regione di Tula [...] una collina che si chiama Coatépec». Questa Tula, chiamata ancora Aztlàn, «la Terra dei Bianchi» (47), non era che il primo stanziamento degli Aztechi in Messico, prima di Quetzalcòatl. Lo storico di Cholula, G. de Rojas (50), è molto chiaro al riguardo: «Si racconta che i fondatori di questa città [Cholollam=Cholula] venivano da un paese chiamato Tullam [Tula], così lontano nello spazio e nel tempo che non lo si conosce più e che, nel cammino, fondarono Tullam, a dodici leghe dal Messico, e Tullantzinco, che è altrettanto vicina. Essendosi stabiliti in questa città [Cholollam], la chiamarono ugualmente Tullam. Questa versione è la più verosimile di tutte, causa l'usanza, diffusa in tutti i popoli, di dare il nome della madre patria alle colonie; è quello che fanno specialmente gli Spagnoli nelle Indie». Lòpez de Gomara, come abbiamo visto, aveva fatto la stessa osservazione. Della Tula primitiva, Padre Augustìn de Vetancur (51) ci dice che si trovava a seicento leghe al di là del Nuovo Messico. E aggiunge: «Tutto prova con evidenza, ed è abbastanza razionale crederlo, [che i Toltechi] abbiano dato il nome di Tollàn alla prima città fondata da loro, perché erano venuti dall'impero di Tollàn, situato nelle regioni settentrionali». E al di là dell'oceano, poiché gli storici - per esempio Sahagùn, così degno di fede - associano di frequente Tula a Tlapallàn, di cui abbiamo visto prima il senso, assai chiaro. Cosa che, d'altronde, non esclude l'esistenza storica di una stazione intermedia nell'America del Nord: avrebbe potuto anch'essa chiamarsi Tula. Beauvois la colloca sul San Lorenzo. Per farlo, si basa sulla coincidenza toponimica - Terra dei Bianchi - di Aztlàn e del Huitramannaland colonizzato nel Canada, secondo le saghe irlandesi, dai papas gaelici; nonché sulla citazione di Vetancur che abbiamo appena riprodotto e sul fatto che gli storici descrivono i Toltechi, o «gente di Tollàn», - cioè i membri della minoranza dirigente - come «grandi, bianchi e con la barba» (52) e si stupiscono di trovare tal o talaltro dei loro discendenti «di alta statura e più bianco di qualsiasi spagnolo» (52) oppure «così bianco e barbuto» (39). L'indio Ixtlilxochitl (53) dice che se gli individui con queste caratteristiche fisiche non erano più molti all'epoca della Conquista ciò è dovuto a una legge promulgata dopo la distruzione del regno tolteco che «prescriveva di immolare, all'età di cinque anni, i bambini che alla loro nascita fossero molto chiari di pelle e biondi, e che restò in vigore fino all'arrivo degli Spagnoli». Sia come sia, la Tula-Tlapallàn originaria non era situata in America, bensì in Europa: su questo punto, i testi sono concordi. Le nostre conclusioni sull'origine dei civilizzatori bianchi del Messico sono confermate da un'opera di eccezionale importanza che rileva non tanto la tradizione dei Nahua, ma quella dei Maya. Il Manoscritto di Chichicastenango (54) è stato redatto poco dopo la Conquista, nel dialetto quiché ma in caratteri latini, da un indio culturizzato e che si era convertito di recente, almeno così pare, al

cristianesimo, ma che è ansioso di conservare il patrimonio storico dei suoi avi. Quest'opera descrive, secondo il suo anonimo autore, «il Popol Vuh, chiamato così in quanto si vedeva chiaramente che era venuto dall'altra parte del mare [...]. Il libro originale, scritto molto tempo fa, esisteva, ma è nascosto alla vista del cercatore e del pensatore». Il titolo dell'opera in questione, che significa Libro del Popolo, testimonia dell'introduzione nel dialetto quiché di termini latini e germanici, dovuta ai papas irlandesi che penetrarono nell'America centrale all'inizio del X secolo, e ai Vichinghi che vi si stabilirono nell'anno 967; nel primo caso forse non solo ai papas, come stiamo per vedere. Popol deriva infatti chiaramente da popolus in lingua latina e vuh dal tedesco buch, del quale ha il senso e la pronuncia. Non ci stupiamo che l'autore del Manoscritto in questione si riferisca a un libro scomparso: i Maya, come i Nahua, possedevano importanti biblioteche le cui opere, scritte con geroglifici che «venivano capiti solo dai sacerdoti degli idoli o da qualcuno degli indios più importanti» (55), furono sistematicamente distrutte dai monaci spagnoli. Ne restano solo alcuni, che conosciamo sotto il nome di codices, nascosti dagli indigeni e ritrovati più tardi. Altri racconti, non molto più numerosi, furono riprodotti dagli storici o ricostituiti dagli indios ispanizzati. Il Popol Vuh (54) è il più importante di questi. Qui non ci interessano le due prime parti dell'opera: il loro contenuto è puramente mitologico. La terza e la quarta, al contrario, sono di grande importanza perché contengono la storia del popolo Quiché. Prima vi troviamo un racconto sulla creazione dell'uomo da parte degli dèi progenitori e sulla moltiplicazione dei popoli, «laggiù nell'est»: «C'era allora un gran numero di uomini neri e di uomini bianchi, uomini di tanti tipi diversi e uomini di tante lingue diverse». Gli avi dei Quiché - e tra loro i Tecpan, ricordiamoci questo nome - «vestiti di pelli di bestie, erano poveri, ma la loro natura era quella di uomini prodigiosi» emigrarono e «avendo sentito parlare di una città, fuggirono lì». Questa città era Tullàn. Non vi rimasero molto e continuarono il loro viaggio. «Morivano di freddo» a causa «della grandine, della pioggia nera e della nebbia. Faceva un freddo indescrivibile». Essi seguirono comunque «la grande stella che si chiama Icoquih [Venere] e che sorge per prima davanti al sole, quando il sole nasce, la brillante Icoquih che era sempre davanti a loro, mentre erano a Tullàn-Zuivà». Fu allora che attraversarono il mare: «Non è molto chiaro come fecero a passare il mare; passarono da questa parte come se l'acqua del mare non ci fosse: passarono su delle pietre in fila sulla sabbia». I primi tempi in America furono difficili, e si dolevano spesso di avere abbandonato la loro patria. Ci furono guerre, tra loro e con le popolazioni locali, alle quali infine si imposero. Presero moglie. Un giorno, i figli di quelli che erano venuti «dall'altra parte del mare, dove nasce il sole» - Qocaib, figlio di Balam-Quitzé; Qoacutec, figlio di Balam-Abay e Qozhau, figlio di Mahucutah - decisero di tornare all'est. «Attraversarono il mare e arrivarono laggiù nell'est, dopo almeno un anno di viaggio», precisa il Titulo de los señores de Totonicapàn (56), un testo quiché anonimo che è datato 1554, «e lì dovettero ricevere l'investitura del regno. E tale era il nome del Signore, Re dell'Est da dove arrivarono. Quando si presentarono davanti al signore Naxcit, egli donò loro le insegne del regno... e le pitture di Tullàn, le pitture, come loro chiamavano ciò in cui mettevano le loro storie». Di ritorno in Guatemala,

organizzarono la regione e imposero la loro autorità ai confinanti. Quando arrivarono gli Spagnoli, regnava la dodicesima generazione di re dei Quiché. Cosa ci dice questo testo? Innanzitutto, che tra la creazione dell'uomo e la partenza degli «antenati» dei Quiché non succede nulla. E' logico: gli indios del Guatemala vivevano un'età selvaggia. La storia comincia per loro con la partenza da Tullàn dei loro civilizzatori. Poi, che la città in questione era situata nell'est - in rapporto all'America -, al di là dell'oceano. E' estremamente curioso notare che i commentatori del Popol Vuh, ivi compresi uomini come Walter Krickeberg (21), i cui lavori sono autorevoli, si ostinano a identificare questo Est nella «regione costiera dei moderni Stati messicani di Tabasco, di Campeche e dello Yucatàn», come sostiene Adriàn Recinos (54) che è il più recente traduttore dell'opera. Quest'ultimo arriva addirittura a scrivere questa frase inverosimile: «Il ricordo dei loro fratelli del Messico non si cancellò mai dalla memoria delle tribù guatemalteche, i cui membri piangevano l'assenza di coloro che avevano lasciato nelle terre del nord, cioè nell'est [evidenziato in corsivo da noi], perché tale era il nome che davano al paese da dove erano venuti e di cui, dopo tanti anni, avevano solo idee estremamente vaghe e imprecise anche riguardo la sua toponomastica». I tre stati di cui si parla qui sopra sono, effettivamente, nel nord del Guatemala. E chiamare «Est» il nord è veramente il colmo dell'imprecisione! Quando leggiamo che questo est è la terra del levante e che da lì si arriva attraversando il mare, bisogna ben ammettere che l'interpretazione appena riportata è non solo abusiva ma anche totalmente arbitraria. Tanto più che altri testi dell'epoca della Conquista confermano ampiamente, su questo punto, il Popol Vuh e dunque escludono qualsiasi errore da parte dell'autore. Ad esempio, quello che cita Fuentes y Guzman (57) e che comincia così: «Io, don Francisco Gòmez, Primo Ahzib quiché, scrivo su questa carta l'arrivo dei nostri padri e dei nostri nonni [cioè: dei nostri antenati] di laggiù dall'altra parte del mare, da dove sorge il sole». O ancora il Libro di Chilam Balam de Mani che racconta che gli avi dei Maya, partiti da Nonoualc, si recarono nell'ovest allontanandosi da Zuivà, regione o città situata nel Tulapàn: nel paese di Tula. C'è da notare ancora come l'arrivo dei civilizzatori che segnarono l'inizio della storia dei Quiché, imponendosi alle tribù locali, sia estremamente recente. I re Oxib-Queh e Beleheb-Tzi - i sovrani quiché regnavano due alla volta - che Pedro de Alvarado fece impiccare nel 1524, costituivano, l'abbiamo detto, la dodicesima generazione, contandole a partire da Balam-Quizté, il capo degli immigrati venuti dall'est. Allora, nel Messico, una generazione copriva un periodo di sedici anni, se ci basiamo sulla genealogia degli imperatori aztechi. L'arrivo, dunque, ebbe luogo verso il 1332. L'autore di Popol Vuh, e senza dubbio le tradizioni quiché in generale, sovrappongono talvolta questo arrivo a quello di Quetzalcòatl, come gli Aztechi confondevano quest'ultimo con quello dei monaci irlandesi che avevano evangelizzato il Messico all'inizio del X secolo (20). Gli indigeni chiamavano questi monaci culdei nello stesso modo in cui erano conosciuti anche in Europa: papas, dall'irlandese paba, che deriva dal latino papa, padre. Abbiamo visto che i figli di Balam-Quitzé e i suoi compagni erano tornati nel vecchio mondo per cercarvi «l'investitura del regno» e si presentarono davanti al Signore Nacxit. Ebbene, questo è il nome -

abbreviato e un po' deformato - che i Quiché davano a Topiltzin Acxitl Quetzalcòatl, che i Maya del nord chiamavano Kukulkàn. Un tale errore non ci sorprende perché, all'epoca del soggiorno nello Yucatàn del re bianco dei Toltechi, i popoli del Guatemala non avevano ancora storia e la loro conoscenza di avvenimenti che avevano coinvolto i Maya civilizzati poteva derivare solamente da contatti molto tardivi con questi ultimi. Per i Quiché del XVI secolo, la terra degli antenati era la patria di Quetzalcòatl - cosa abbastanza esatta - e il sovrano, divenuto un dio, doveva essere immortale. Ammesso che il loro viaggio abbia avuto veramente luogo, ignoriamo da chi Qocaib, Qoacutec e Qoahau avessero ottenuto conferma della loro autorità. Ma il nome di Nacxit - Quetzalcòatl - dimostra che l'arrivo dei civilizzatori dei Quiché fu di molto posteriore a quello dei Vichinghi. 2. Le «genti del Tempio» I dati fornitici dai testi che abbiamo citato riguardo all'arrivo in Messico, via oceano, di gruppi di emigranti europei sono confermati, rafforzati e - su un punto fondamentale della nostra ricerca - completati dalla cronaca di Francisco de San Antòn Muñon Chimalpàhin Cuauhtlehuanitzin (45). Egli scrisse la storia del suo popolo all'inizio del XVII secolo. Era discendente, cristianizzato e ispanizzato, dei principi di Chalco, regione che attornia il lago omonimo. Non si trattava della storia dei Chalca, tribù nàhuatl arrivata verso l'anno 1250, ma di quella di un gruppo molto particolare: «I Nonohualca Téolixca Tlacochcalca, che ora vengono chiamati Tlamanalca Chalca, che arriveranno poi a prendere il nome di Chalca, come vengono chiamati adesso». La culla di questo gruppo era Tlapallàn Nonohualco, o Tlapallàn Chicomòtzoc. Abbiamo già visto qual è il significato di Tlapallàn, identificata da Chimalpàhin nelle Sette Caverne mitiche seguendo il Codex Telleriano-Remensis (58) e il Codex Vaticanus (41), i quali menzionano i Nonohualca tra le tribù provenienti da Chicomòtzoc. Per lo storico, come abbiamo visto, non c'è alcun dubbio che questo luogo d'origine fosse situato oltremare: «Quando i Nonohualca Tlacochcalca abbandonarono il paese di Tlapallàn, attraversarono il gran mare, l'oceano». Più esattamente, teohuatl Ylhuicoatoyatl, «il gran mare divino». Il traduttore francese di questo testo, Rémi Siméon (59), autore di un Dictionnaire de la langue nàhuatl che è ancor oggi molto autorevole, aggiunge che navigarono su «delle conchiglie». «L'uso di questo termine per indicare una nave commenta il francese Beauvois (44) - non deve sembrare troppo strano per noi che usiamo nello stesso senso il termine coque (guscio) derivato dal latino concha (conchiglia)». Una recente traduzione in spagnolo ci dà una versione del tutto diversa (45): «Portando con loro delle conchiglie di lumache di mare e gusci di tartaruga», aggiungendo tra parentesi: «come strumenti musicali». Non siamo qualificati per scegliere tra queste due interpretazioni. Ci limitiamo a segnalare, da Krickeberg (21), che un codice, trattando di migrazioni di un gruppo di Toltechi, mostra la sua traversata dell'oceano su zattere e gusci di tartarughe, cosa che sembra appoggiare la prima interpretazione. D'altronde, questo è un dettaglio senza importanza. Se il senso di Chicomòtzoc e quello di Tlapallàn non permettono dubbi, non è la stessa cosa per Nonohualco. Krickeberg (21) traduce questo termine con: «Paese dei muti», cioè «Paese di quelli che

parlano una lingua straniera». Brinton (60), adottando la grafia Onohualco che troviamo in Torquemada (39), fa derivare questo vocabolo da onoc, «essere capito», e lo confronta con onohuayan, «luogo abitato», riferendosi anche a nonoyan, «luogo di residenza». In favore della prima interpretazione, se lasciamo da parte l'aspetto filologico del problema, che ci sfugge, notiamo come il termine Nonohualca sia applicato, in numerosi testi nahua, a diversi gruppi di popolazioni disseminate in tutto il Messico, compresi i paesi maya; in favore della seconda, notiamo che l'insieme Nonohualca Téolixca Tlacochcalca, che cita Chimalpàhin, sembra esigerla, come vedremo. Il termine Téolixca, ci dice Beauvois (44), «si decompone in teotl (dio), ixtli, faccia e catl al plurale, cioè ca, gente. Il tutto può essere reso in gente che sta in faccia a dio, o con gente dalla faccia divina o a immagine di dio. Ma siccome l'ambasciatore o il messaggero è l'immagine di colui che rappresenta, ixtli significa anche inviato, missionario, e teotlixcatl corrisponde esattamente al termine greco äggelos, messaggero sacerdote, e apostölos, messaggero». Torquemada (39), d'altronde, definisce Teotlixco, il paese dei Téotlixca, «il posto dove sorge il sole» - il Dio Sole -, cioè l'est. Tlacochcalca non è meno facile da tradurre: la parola, sempre secondo Beauvois (44) è «composta da tlacochtli apocopato, che significa tratto, freccia, e da calli, casa, con il suffisso ca, per definire le persone legate a questo luogo. Il tutto significa: Gente della casa delle armi, in latino milites». Più tardi, nell'impero azteco, il titolo di tlacochcatl sarà attribuito a uno dei due capi militari principali. Soustelle (61) suggerisce che si trattava del responsabile degli arsenali. Ci sembra più logico - poiché l'alto dignitario era definito con il nome tlacateccatl, «colui che comanda i guerrieri», quindi le truppe in guerra - che si trattasse del capo delle caserme, quindi delle truppe a riposo. Seguendo il senso che diamo a Nonohualca, la tripla espressione di Chimalpàhin significa quindi sia «stranieri, inviati di dio, militari» che «residenti, inviati di dio, militari». Se abbiamo aggiunto le virgole che non ci sono nel testo, è perché qui non si tratta di una denominazione unitaria, ma di un accostamento di categorie. Da una parte, in effetti, la lingua «agglutinante» che è il nàhuatl avrebbe reso in una sola parola il concetto di «stranieri religiosi e militari» o di «residenti religiosi e militari». D'altra parte, queste genti, considerate nel loro insieme, portano un altro nome, quello di Tecpantlaca, di cui Beauvois (44) dà un'analisi indiscutibile. La parola è composta da: tecpan, tempio, palazzo, che proviene da tecuhtli, signore; da pantli, padiglione - nel senso di edificio -, muro; e da tlacatl, persona, al plurale tlaca. Da ciò deriva «Gente della casa del signore» o «Gente del tempio». Il nostro autore dice che è in quest'ultima accezione che si deve intendere il nome dei Tecpantlaca, poiché il tecpan ove servivano era quello del dio Tezcatlipoca. Accezione già ammessa al tempo della Conquista: lo storico Muñoz Camargo (62) chiama templarios, templari, i sacerdoti messicani. «Questo tempio, o almeno uno di quelli che erano consacrati a questo dio - aggiunge Beauvois - portava il nome caratteristico di Tlacochcalco (casa delle frecce, o arsenale). A differenza di teopan (da teotl, dio, e pantli) che significa esclusivamente Casa del Signore dei cieli, tecpan riunisce lo stesso senso con quello di Casa del Signore della terra». Perché, per l'illustre americanista, non c'è alcun dubbio: i Tecpantlaca non

erano altri che i membri dell'Ordo Pauperorum Commilitonum Christi Templique Salomonici emigrati in Messico. Così, egli vede nei tre termini accostati usati da Chimalpàhin la semplice traduzione del nome delle tre categorie di fratelli: i cavalieri (milites, o tlacochcalca), gli ecclesiastici (clerici, o téolixca) e i sergenti (servientes), qui ridotti ai residenti (residentes, o nonohualca). Se sostituiamo «residenti» con «stranieri», d'altronde, otterremo un risultato altrettanto comprensibile: questo, infatti, significherebbe che i servientes portati dall'Europa non erano abbastanza numerosi perché continuassero a essere una categoria speciale. «Stranieri», allora, si applicherebbe ai cavalieri e agli ecclesiastici. Questa ipotesi sembra confermata da Chimalpàhin, secondo il quale i Nonohualca «avevano una lingua che abbandonarono. I loro anziani hanno nascosto l'anno in cui cambiarono linguaggio», dunque cominciarono a parlare nàhuatl. Lo storico, è vero, fa risalire il fatto alla Torre di Babele, non senza aggiungere innocentemente che la cronologia dei Chalca non corrisponde a quella dei cristiani... Una cosa che resta valida in questa informazione è che i Tecpantlaca parlavano, originariamente, una loro lingua - cosa che non ci sorprende, poiché venivano dall'Europa - e la dimenticarono col tempo. L'esistenza dei sergenti (servientes) nell'ordine messicano, ma solo del grado più basso dell'organizzazione templare (residentes), sembra, ciò nonostante, derivare dalla gerarchia che, nel XVI secolo, sopravviveva ancora nei Tlamanalca e i Chalca, cioè tra le popolazioni che erano state sottomesse all'autorità diretta dei Tecpantlaca. Infatti, i tre ministri principali del regno si chiamavano (45) uno tetzauhquacuili, il «Reverendo Monaco» (39), «con la tonsura alla Tezcatlipoca» (8), (40), il secondo xochpoyo, il «Predicatore» e il terzo caccole, il «Male Cacciato». Questi titoli sembrano ben corrispondere alle tre categorie di fratelli del Tempio. Forse gli emigrati avevano incorporato reclute indigene per ricostituire la struttura tradizionale dell'ordine. Chimalpàhin dice che i Tecpantlaca erano arrivati in Messico alla fine del XIII secolo. Le due date che fornisce - 1272 e 1294 possono riflettere, nella loro discordanza, l'imprecisione che circondava fatti storici ben anteriori alla conquista, per lui che scriveva all'inizio del XVII secolo, ma possono anche corrispondere a due ondate successive di immigranti. Dopo aver lasciato Tlapallàn, cioè, come abbiamo visto, l'Europa, i templari attraversarono «il gran mare divino» e raggiunsero la «terra secca, [la terraferma] in un punto dove sboccava un grandissimo fiume. Ne seguirono le rive fino al primo ramo. Allora abbandonarono il fiume e andarono verso oriente, camminando sempre dritto senza voltare la schiena al sole». Dopodiché, tornarono in mare per visitare l'isola di Acihuatlmichintlaco. Quindi passarono per molti luoghi che non possiamo identificare e, in seguito a tre anni di peregrinazioni, raggiunsero Tullan, che abbandonarono vent'anni dopo per stabilirsi (nel 1299) sulle rive del lago di Chalco. Da cui una terza data di arrivo in Messico, ma sempre nello stesso periodo: 1279. Questo itinerario non è così vago come sembrerebbe a prima vista e Eugène Beauvois (44) l'ha ricostruito in maniera convincente. Quale poteva essere il «grandissimo fiume» raggiunto in America da navi a vela provenienti dall'Europa? I venti e le correnti tracciavano percorsi: uno, che passava dalle Canarie, non ancora scoperte nel XII secolo, finiva nel golfo del Messico, nel quale sfocia un solo corso

d'acqua importante, il Mississippi, le cui caratteristiche non rispondono alla descrizione dello storico. L'altro percorso era diretto, e conduceva al golfo di San Lorenzo. Risalendo il fiume omonimo fino al primo ramo e dirigendosi per via di terra verso est, si penetra nella penisola di Acadia (Nuovo Brunswick e Nuova Scozia), dove i papas irlandesi si erano insediati nel X secolo (20), (63), e si ritrova l'oceano. A nord è situata l'isola di Terranova, celebre per i suoi luoghi di pesca. Che corrisponde magnificamente al nome dell'isola visitata dagli immigranti: Acihuatlmichintlaco. Michin, in nàhuatl, significa infatti pesce; tla, abbondanza e co, luogo: «luogo dove abbonda il pesce». Resta acihuatl. Beauvois (44) sostiene che il termine deriva dall'associazione di atl, acqua, apocopato, e di cìhuatl, donna, signora. Così avremmo «Signora delle acque», trasposizione della Stella maris delle litanie cattoliche e di un documento emanato da un templare (2): «Maria, Stella maris, perducat nos ad portum salutis: Maria, stella del mare, ci conduca al porto della salvezza». I marinai dei paesi cattolici hanno sempre avuto una devozione particolare per Nostra Signora, nome dato frequentemente alle chiese dei porti di pescatori. I templari, dal canto loro, servi Dei et beatae Mariae (servi di Dio e della beata Maria) (2) si erano messi sotto la protezione della Vergine, chié de la religion (2), cioè capo dell'Ordine, il quale era stato fondato in honore beatae gloriosae virginis Mariae (in onore della beata e gloriosa vergine Maria). Forse è per semplice coincidenza che le montagne di Gaspesie, al sud della prima curva del San Lorenzo, si chiamino ancora oggi Monti di Notre Dame (Nostra Signora). Tuttavia, sappiamo, dai racconti dei fratelli Zeno (20) che, alla fine del XIV secolo, nella regione c'erano alcuni discendenti dei papas, o almeno dei loro oblati sposati, che erano civilizzati all'europea e possedevano libri latini che non capivano più. Non stupisce, dunque, che nell'isola di Terranova ci siano stati, cento anni prima, un monastero o una cappella dedicati a Nostra Signora. A meno che l'isola di Acìhuatl - perché nel Medioevo si scriveva spesso «isola», invece di «penisola» - non fosse stata la Nuova Scozia, l'Escociland (64) degli Zeno: la terra degli Scozzesi o Irlandesi. Secondo Chimalpàhin, fu dunque nel 1299 che i Tecpantlaca raggiunsero la regione di Chalco, dove si stabilirono definitivamente alcuni anni più tardi, dopo avere ricevuto il rinforzo di un nuovo gruppo, i Payauhtèca, o gente di Panohuayan, cioè di Panutlàn, il porto che gli Spagnoli, l'abbiamo detto precedentemente, chiamarono Pànuco, lo stesso dove erano già sbarcati Ullman-Quetzalcòatl e i suoi Vichinghi nell'anno 967. I Tecpantlaca, comandati da un capo religioso e militare che aveva il titolo di teohuatecuhtli (signore che possiede Dio: il gran maestro) e che era assistito - oltre che da molti altri dignitari dai tre ministri di cui abbiamo già detto, si imposero alle popolazioni locali che li avevano preceduti nel paese, tra cui due tribù tolteche di un buon livello culturale. Essi, dice lo storico, «non erano dei chichimeca (dei barbari) ma uomini di corte». Tra loro c'era «un gran numero di cavalieri e di nobili d'alto rango» da cui nessuno poteva esigere imposte o servizi, degli uomini «di lignaggio estremamente antico». Per circa cent'anni, i nuovi venuti, benché deboli (45) conquistarono o vinsero, una dopo l'altra, venticinque signorie che

occupavano buona parte di Morelos, Puebla e Tlaxcala, attuali Stati del Messico: «anche se la loro estensione - scrive Beauvois - fu lontana dall'essere paragonabile a quella della confederazione messicana, nella quale furono inglobati più tardi, per il tempo formavano un insieme abbastanza imponente, dai 100 ai 150 km di larghezza. Se la loro sottomissione (all'influenza religiosa, ci sembra, più che al potere militare) non era stata volontaria dappertutto, alla fine lo divenne, poiché [le signorie] presero le difese dei loro principi spodestati dai messicani». I templari riuscirono a civilizzare in parte anche i Chichimechi, ancora selvaggi, che avevano fondato un vasto impero sulle rovine di quello dei Toltechi. Si può attribuire a loro «quella rinascita della civiltà pre-Cortés che suscitava tanto l'ammirazione degli Spagnoli. E' probabile che, senza di essi, la piana dell'Anàhuac sarebbe rimasta barbara». E ancora, un gruppo sulle tracce di Quetzalcòatl si recò nei paesi maya. Per cui i testi - lo abbiamo visto - segnalano l'arrivo dal mare dei «tecpan» partiti da Nonouac o Tulapàn, la regione di Tullàn-Zuivà situata da qualche parte nel nord, dall'altra parte dell'oceano. All'inizio del XV secolo, evidentemente non restavano più Tlacochcalca (cavalieri), né Téotlixca (ecclesiastici) autentici: anche i più giovani tra gli ultimi immigrati erano morti da molto tempo, senza lasciare discendenza] salvo, forse, qualche sanguemisto. I residenti sposati venuti dall'Europa non avevano portato sicuramente le mogli in un viaggio che costituiva una spedizione militare e i loro figli non potevano essere che meticci. L'ordine istituzionale, le funzioni e i titoli erano stati conservati, ma lo spirito non poteva più essere lo stesso. D'altronde, non si parlava più di Tecpantlaca, ma semplicemente dei Chalca, dal nome della loro capitale. La loro religione, come vedremo, così diversa da quella indigena, si era anch'essa modificata nel tempo, conservando anche strane particolarità. Il nàhuatl si era sostituito alla loro lingua dimenticata, non senza adottarne qualche parola. Dal 1407 (45), data nella quale i capi dovettero espatriare per sottrarsi alle esigenze dei Ténochi, o Aztechi, il loro indebolimento era manifesto. I cacciatori nomadi venuti dal nord cominciarono a conquistare l'Anàhuac... e a civilizzarsi al contatto con i loro nuovi vicini. Rilevarono, una dopo l'altra, le signorie di cui il teohuatecuhtli era sovrano. Nel 1459, pretesero senza successo che gli eredi dei Tecpantlaca portassero pietre per la costruzione di un tempio in onore del dio Uitzilopochtli (42), (48), (65). Il rifiuto scatenò una guerra sanguinosa che finì nel 1465 con la disfatta dei Chalca, i cui principi furono eliminati e, per il momento, rimpiazzati da governatori stranieri. Quando arrivarono gli Spagnoli, il paese dei templari era sotto il giogo da più di mezzo secolo. La popolazione occasionalmente si sollevava contro i suoi oppressori, alleandosi ai nemici del Messico, in particolare ai Tlaxcaltechi. Nel 1519, i principi chalca andarono a ricevere Cortés a Amaquemecàn, e lo chiamarono il loro teotl, raccontandogli che i loro antenati «avevano detto che sarebbero venuti a governare quelle terre degli uomini con la barba d'oro, che sarebbero arrivati da dove si alza il sole, e che, in ragione delle cose che hanno visto, eravamo noi». Così lo riporta lo storico Bernal Dìaz del Castillo (28), del quale rispettiamo lo stile e la grammatica. E uno dei conquistadores, Francisco de Aguilar (66), aggiunge che «i Chalca furono, fin dall'inizio, sottomessi al re

[Carlo V] e grandi amici degli Spagnoli». Di fatto, con i Tlaxcaltechi, contribuirono notevolmente alla presa del Messico. Tra loro e i Ténochi non si trattava solo di una questione politica: la religione aveva la sua buona parte, come ci ha dimostrato l'episodio del tempio a Uitzilopochtli. 3. Gli dèi nemici Dobbiamo ripetere quanto scritto in un'opera precedente (20): un serio pericolo minaccia coloro che, senza avere una profonda formazione teologica, si applicano a studiare le credenze religiose dei popoli indios. Infatti, le conosciamo solo attraverso i racconti degli storici spagnoli o ispanizzati, che si limitarono a descriverci con poco discernimento e meno ancor benevolenza le «idolatrie» dei Nahua, dei Maya e dei Quitchua come le avevano sentite raccontare dagli indigeni. C'è solo qualche rara eccezione, e in particolare quella di Padre Bernardino di Sahagùn. Di conseguenza, ignoriamo tutto sulla teologia precolombiana dei popoli americani, che ci si presenta dissimulata dietro innumerevoli miti, spesso contraddittori e talvolta incoerenti. Ebbene, per noi che siamo abituati a religioni rivelate, i cui dogmi si deducono razionalmente da testi immutabili, non è facile capire il senso di una mitologia e, potremmo dire, i suoi procedimenti. I popoli pagani ricorrevano, infatti, a rappresentazioni simboliche che servivano da quadro a interpretazioni il cui grado di profondità mutava a seconda della capacità intellettuale e mistica di ciascuno. C'è di più: questi simboli non erano uniformi. Non solo ciascuna tribù, a volte ciascun villaggio, esprimeva una credenza comune con una modalità propria - così che ogni racconto giunge a noi in diverse versioni che talvolta si contraddicono - ma ancora i personaggi mitici mancano di consistenza. Da un certo dio, in un certo momento, nasce una nuova individualità che è solo l'espressione simbolica di una qualità o di un potere del suo «padre», e due dèi possono arrivare a «fondersi» senza comunque perdere le distinte apparenze sotto le quali erano conosciuti. Si nota questo fenomeno specialmente nella mitologia dell'America centrale, in ragione della sovrapposizione che si verificò nell'Anàhuac e nei paesi maya con l'arrivo successivo di civilizzatori bianchi e di tribù di cacciatori nomadi che si mischiarono a popoli di antica cultura e spesso li dominarono. Tutti portavano con sé i loro dèi, e questi furono incorporati nel pantheon preesistente che venne arricchito e modificato sostanzialmente, nel quadro di quello che potremmo chiamare un panteismo sincretista. Perché ciò che caratterizza la mitologia messicana è la personificazione antropomorfica delle forze della natura, considerate come emanazioni, ipostasi o metamorfosi di un Dio supremo che, nello stesso tempo, crea il mondo e gli appartiene. Non è affatto una concezione inedita: la troviamo nei popoli indoeuropei e in particolare nei paesi germanici. Gli abitanti dell'America centrale consideravano questo dio supremo «invisibile e impalpabile come la notte e come l'aria», dice Sahagùn (40): «Il Dio grazie al quale noi viviamo; il Tutto Potente che conosce i nostri pensieri e il dispensatore di tutte le grazie: il Dio invisibile, incorporeo, perfettamente compiuto e puro, sotto le cui ali troviamo riposo e sicuro rifugio». Non si rendeva un culto a questo Padre del Cielo, poiché era al di là dei sacrifici, inaccessibile alle preghiere e non poteva essere rappresentato fisicamente. Era onorato nella persona degli dèi creati, espressioni diversificate della sua potenza assoluta. Sembra avere un nome,

Hunahcu, solo tra i Maya, e anche questo non è sicuro. I Nahua lo definivano con l'aiuto di perifrasi: «Colui che è immediatamente prossimo», «Colui grazie al quale noi viviamo» e più comunemente Tonacatecuhtli, «Signore della nostra carne». Agli occhi dei credenti, il Padre del Cielo era più specificatamente personificato da un dio principale (teotl, in nàhuatl, parola simile, in ragione della loro origine comune - Dyeva - al theòs greco) che era considerato come capo degli dèi creati, al quale si rendevano i più grandi omaggi. Ma questo Dio non era necessariamente lo stesso in tutte le epoche, né presso tutti i popoli della stessa fede. Non solo ogni gruppo, ogni strato sociale e ogni tribù o comunità aveva il suo dio protettore, ma sceglieva anche a suo gusto il dio principale. Così, gli Aztechi adoravano come tale Ollin Tonatiuh, nato dall'unione tra Tonacatecuhtli, il Padre del Cielo, e Tonacacìhuatl (Signora della nostra carne), la Madre Terra. E' il dio solare per eccellenza: questo significa semplicemente che il Sole ne è la rappresentazione visibile. Altrove (20), abbiamo visto che la parola Tonatiuh - che non ha alcun senso in nàhuatl - sembra formata dai nomi degli dèi germanici Thonar (Thor) e Tiu (Tyr): è legittimo domandarsi se Ollin, benché questo termine in sé significhi «movimento», non sia una trasformazione del nome di Odino (Odhinn, in norreno, con un dh che si pronunciava come il th dolce inglese). Forse Ollin Tonatiuh era una nuova personificazione trinitaria di Huehuetéotl, il «vecchio Dio», o Dio del fuoco che occupava ancora un posto indefinito nel pantheon azteco e il cui nome sembra indicare che prima era stato il Dio principale. Secondo un altro mito (40), (49), Ollin Tonatiuh - a volte confuso con Uitzilopochtli - aveva un fratello, Quetzalcòatl, nato dalla coppia suprema. La Madre Terra, qui chiamata Coatlicue, li aveva concepiti in una maniera molto speciale, che richiama il mistero cristiano dell'Incarnazione: il primo dopo aver nascosto sotto la biancheria una piuma bianca trovata in un tempio e il secondo dopo aver inghiottito una pietra preziosa. Ma secondo altri racconti Quetzalcòatl era figlio di Iztac Mixcòatl - eroe civilizzatore divenuto dio della Via Lattea e della Tempesta - e della Terra Madre, qui chiamata Chimalpan o Chimalman. Questo Mixcòatl è anche chiamato con il nome di Camaxtli. I suoi capelli biondi, ritrovati dagli Spagnoli, erano conservati come reliquia a Tlaxcala, «cosa che prova - dice Muñoz Camargo (62) - la veridicità di quello che raccontavano gli anziani: che era un uomo bianco con i capelli biondi». Un codice tardivo (49) cerca di unificare questi dati contraddittori: da Tonacatecuhtli e Tonacacìhuatl nacquero quattro figli: Tezcatlipoca rosso (Xipé, dio della Terra); Tezcatlipoca nero; Quetzalcòatl e Uitzilopochtli. Così sparirebbe Ollin Tonatiuh, a vantaggio degli dèi più recenti che lo spodestano. Lasciamo da parte Uitzilopochtli, dio solare degli Aztechi, che essi, dopo la loro conquista dell'Anàhuac, hanno sovrapposto ora a Ollin Tonatiuh ora a Quetzalcòatl. E' quest'ultimo che ci interessa qui, e più ancora Tezcatlipoca. Dio principale dei Toltechi, molto considerato anche dopo che Uitzilopochtli ha preso il suo posto o si è confuso con lui, Quetzalcòatl ha una doppia origine storica. Sotto il suo aspetto guerriero, è il jarl vichingo Ullman, diventato quinto re dei toltechi nell'ultimo terzo del X secolo. Sotto l'aspetto sacerdotale, Quetzalcòatl è la personificazione dei papas irlandesi che evangelizzarono l'Anàhuac e il paese maya qualche decina d'anni prima.

Da un lato, conquistatore e organizzatore al quale i popoli del Messico devono le loro leggi, i calendari, le tecniche agricole e metallurgiche e, in parte, la loro alta cultura e le credenze religiose. Dall'altro, un riformatore che porta agli uomini una nuova concezione della vita e della morale, e che cerca di sostituire il culto sanguinario dell'eroismo con una religione della penitenza. Con lui appaiono le nozioni associate del peccato, dei rimorsi, del perdono e, come corollario, della redenzione. Unificate dai Nahua, queste due personalità, non meno divinizzate, restano ben separate presso i Maya: le caratteristiche del loro Itzamnà sono simili a quelle del Quetzalcòatl ascetico, mentre Kukulkàn conserva la configurazione del Quetzalcòatl guerriero che, nell'Anàhuac, tende a confondersi con Ollin Tonatiuh, dio della guerra, e nella sua iconografia prende le sembianze di Odino (20). Dio ascetico o bellicoso, Quetzalcòatl manifesta caratteristiche costanti attraverso i miti più contraddittori; personifica sempre la luce ascendente. Lo vediamo prima acquisire il ruolo di guida del Sole, con il nome di Signore dell'Aurora: si identifica con la Stella del Mattino, il pianeta Venere che precede l'astro divino, e ne porta i simboli. A questo titolo, regna sul mondo dell'Est. Si avvicina anche ad Apollo, dio degli Iperborei portato in Grecia dagli Achei nella prima migrazione scandinava verso il Mediterraneo. E' ancora solamente un dio solare. A poco a poco, invade i poteri di Ollin Tonatiuh, Dio-Sole, sino a confondersi con lui e, alla fine, a sostituirlo come dio principale. I Toltechi arrivano ad attribuirgli la creazione del cielo, del Sole e della Madre Terra, cioè a fare di lui un unico Dio (21), (67). Nel corso della sua vita terrestre, il Quetzalcòatl guerriero aveva avuto serie difficoltà con suo «fratello» Tezcatlipoca, sotto gli ordini del quale aveva lasciato la guarnigione di Tollàn in occasione del suo viaggio nello Yucatàn. Alcuni racconti ci mostrano il luogotenente sollevarsi contro il suo capo quando quest'ultimo si indignò, constatando che i Vichinghi, in sua assenza, si erano uniti a donne indigene e con loro avevano avuto figli. Altri racconti, più leggendari, vedono Tezcatlipoca come un mago che, per sbaglio, spinse il re-sacerdote a ubriacarsi e a unirsi con la bella Quetzalpétatl. Scoraggiato nel primo caso, umiliato e pentito nel secondo, Quetzalcòatl abbandonò il suo reame, si diresse verso la costa e si imbarcò con i suoi fedeli. Così i Toltechi trasformarono il suo sleale compagno nel dio del Sole imputridente, nemico dell'uomo e della terra. Dopo la sparizione del regno di Tula, Tezcatlipoca guadagna sempre più importanza. Fratello nemico di Quetzalcòatl, è il dio della Stella della Sera, Venere, che precede il Sole al tramonto e, per estensione, il dio dell'oscurità notturna, durante la quale divora l'astro divino: è simboleggiato da un giaguaro. Un dio solare, dunque, eretto contro il Sole: un dio potente, però malvagio. «Era considerato come un vero dio invisibile, che stava dappertutto: nel cielo, sulla terra e nell'inferno; - scrive Sahagùn (40) - scatenava guerre, inimicizie e discordie, da cui derivavano fatiche e disgusto. Si diceva che agitasse gli uni contro gli altri perché scoppiasse la guerra. Così veniva chiamato Necociautl, cioè seminatore di discordie da due parti. E si diceva che lui solo si occupava di governare il mondo, che lui solo conferiva prosperità e ricchezze; e che lui solo le toglieva quando ne aveva voglia». Dio giovane per sempre, che «camminava meglio e arrivava primo» (40), era il guerriero

per eccellenza, o, meglio ancora, il nemico (yàotl), come lo chiamavano i sacerdoti aztechi di Uitzilopochtli. «Benché sia un dio - scrive Laurette Séjourné (67) - le sue contraddizioni non potrebbero essere più umane: stimola la licenza sessuale, nello stesso tempo figura come confessore, è il padrone dei beni di questo mondo che può al tempo stesso dare e riprendere; è l'amico dei potenti, che lo adulano o l'insultano, e degli schiavi, di cui è protettore a pieno titolo». Lo chiamano Moyocoya, colui che agisce secondo la sua volontà, che fa come gli pare. Verrà un giorno in cui, spinti da lui, i Mostri del Crepuscolo sorgeranno dal fondo dell'Occidente per distruggere gli esseri viventi, mentre il Mostro della Terra sbriciolerà il globo tra le sue zanne. Come spiegare il fatto che, bruscamente, nel XIV secolo e in una sola regione dell'Anàhuac, quella di Chalco, Tezcatlipoca perde il suo carattere «satanico», al punto da vedersi attribuire l'epiteto di Napatecuhtli, «quattro volte Signore», «perché perdonava, spandeva buone azioni, era misericordioso ed esaudiva le preghiere» (39)? E al punto di accedere al rango di Dio unico, oppure, nel tempo, di perdere il proprio nome per divenire solo Teotl? «Benché alcuni capi e signori - scrive l'indio Juan Bautis -ta de Pomar (68) - adorassero idoli e offrissero loro sacrifici, tuttavia dubitavano della loro divinità; pensavano fosse un errore credere che statue di legno e di pietra, fatte dagli uomini, fossero dèi. Soprattutto Nezahualcoyotzin [re del Texcoco, antenato di Juan Bautista di Pomar] era molto perplesso cercando la luce relativamente al vero Dio [...]. Questo principe tornò a quel che adoravano i suoi antenati, come testimoniano molti antichi canti di cui si conoscono i frammenti (62), perché vi si trovano molti nomi e definizioni in lode di Dio: vi si dice che c'era un solo Dio, creatore del cielo e della terra, che manteneva tutto quello che aveva fatto e creato; che stava in un luogo senza eguali, in un posto situato al di là dei nove livelli [del cielo]; che non s'era mai mostrato in forma umana, o corporea, né in altra forma». A questo Dio supremo e sconosciuto - il Dio che «adoravano i suoi antenati» Nezahualcoyotzin eresse un tempio a nove piani, che fu chiamato Chililico, luogo dove sta il chilitli, in latino medievale schilla, o chilla, campana (45). Questo succedeva nel XV secolo. Cent'anni prima, il dio di Nezahualcoyotzin portava ancora un nome: Tezcatlipoca. Cento anni più tardi, quando Chalco era ormai sottomessa da molto tempo al potere azteco, la sua immagine non era del tutto sbiadita: «Gli indigeni - scrive Torquemada (39) - lo vedevano come non creato e invisibile e come il primo di tutti gli dèi. Dicevano di lui che era l'anima del mondo [...]. Essi adoravano Tezcatlipoca o Titlacahua [Titlacahuan: «quello di cui siamo tutti schiavi»] e lo riconoscevano come dio o come l'immagine della divinità di cui non sapevano né il principio né l'origine, non ritenendolo essere mortale, bensì l'immortale creatore di tutte le cose. Non è con lo stesso rispetto che adoravano e guardavano un altro dio chiamato Huitzilopochtli, poiché lo tennero come dio delle battaglie e loro protettore nelle guerre». Cerchiamo di vederci chiaro. Il Quetzalcòatl del pantheon messicano attinge al tempo stesso dall'Odino scandinavo, dio solare guerriero, e dal Dio dei cristiani. L'origine di questo doppio aspetto, di questa personalità confusa, ci è noto: l'apporto culturale dei Vichinghi e dei papas. Il Tezcatlipoca dei Toltechi - al tempo stesso Loki (scandinavo) e Satana - si erge di fronte a lui. Ma ecco che questo dio del Sole notturno, questo dio del male, diviene

improvvisamente, con i Tecpantlaca, il dio supremo sconosciuto; o, se si preferisce, i Tecpantlaca attribuiscono al loro dio il nome di una divinità preesistente nell'Anàhuac, le cui caratteristiche, a prima vista, si prestano male a una tale operazione sincretista. Ma a prima vista solamente, perché nel Medioevo europeo i catari avevano già operato un'identica trasmutazione. Si sa che per gli gnostici dei primi secoli dell'era cristiana, il Nuovo Testamento non si limita a rettificare il Vecchio: al contrario, segna una rottura con la tradizione ebraica. Geova non è Dio, ma il Demonio, creatore della materia intrinsecamente malvagia. Dal vero Dio, sconosciuto, emana la creazione perfetta, ma lo Spirito, a partire dal quinto cielo, si scontra con il caos, che lo frena e l'imprigiona. «All'inizio era la Parola», dice il Vangelo di san Giovanni a cui si ispirarono gli gnostici - o quelli che si ispirano a loro -, «e la Parola era in Dio e la Parola era Dio [...]. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini. La luce splende nelle tenebre [...]». Il nostro mondo è sede del conflitto tra le due Potenze: tra la Luce, proiezione spirituale del Dio sconosciuto, e le Tenebre, creazione materiale del Demiurgo, di Geova. L'uomo partecipa all'una e all'altra. Solo la Conoscenza può liberarlo dalla sua prigione carnale. Dio la trasmette con la sua illuminazione, ma anche per mezzo dei suoi Inviati, e i più importanti sono Lucifero e il Cristo. Queste sono le tesi fondamentali riprese dai catari. Per loro la salvezza può essere ottenuta solo ripudiando la materia. Ascesi, contemplazione, magia, tutto serve per diventare «perfetti». L'amore umano che escluda l'unione carnale e, di conseguenza, la riproduzione, è un esercizio spirituale: stesi nudi nello stesso letto, l'uomo e la donna dominano il loro desiderio «materiale» e non si toccano... Nella simbologia catara, la Parola è rappresentata dal Sole. Per gli albigesi, l'astro divino non è - come per i pagani - espressione visibile dell'ordine del mondo fisico e dei valori del mondo morale (la gerarchia, l'eroismo, la forza, la bellezza, l'amore che procrea) ma quella del Dio sconosciuto, fonte di Luce spirituale. Lucifero, o Lucibello, come lo chiamano, non è il Demonio come per i cristiani ortodossi, ma Portatore di Luce, l'angelo solare provvisoriamente vinto da Geova; un essere divino, come il Cristo non incarnato benché abbia preso le sembianze di un uomo. Ebbene, Lucifero non è un nome biblico, anche se è stato applicato a Satana: è il nome che i latini davano al pianeta Venere, alla Stella del Mattino, quella dei figli di Giove e dell'Aurora, che i poeti rappresentano come il conduttore degli astri, il messaggero che annuncia la luce del Sole. Ma «Stella del Mattino» è anche, nel Nuovo Testamento, uno dei nomi dati a Cristo (Seconda lettera di Pietro, 1, 19). I catari, dunque, riabilitano il Lucifero satanico della chiesa ufficiale e vedono in lui un alter ego del Redentore immateriale. Ci sono buone ragioni per credere che i templari li seguano - o li precedano - su questa via: in particolare, lo indica la loro concezione del Cristo non crocifisso. Si va troppo lontano dicendo che Bafometto potrebbe essere il Portatore di Luce per quelli che, relegando Natale e Pasqua a rango secondario, fanno della Pentecoste - la discesa dello Spirito Santo - la loro festa principale? E' ciò che affermava, nel secolo scorso, Le Conteulf de Cantelen (69): «Il grande agitatore dell'energia magica, il fuoco vivente e astrale, è il serpente dell'antico libro della Genesi. I profani lo chiamano Diavolo, ma per gli ermetisti è il dio Pan, il dio della nostra scuola filosofica contemporanea, il dio dei teurgi della

scuola di Alessandria e dei mistici neoplatonici dei giorni nostri, il dio delle scuole gnostiche primitive, l'Ahriman dei persiani, il Typhon degli egizi, il Python dei greci, il serpente degli antichi Ebrei. E' il Bafometto dei templari [...]». Comunque sia, i Tecpantlaca, con Tezcatlipoca, operano una trasmutazione ancora più completa di quella a cui i catari sottopongono Lucifero. La Stella della Sera diventa Stella del Mattino e il Sole della Notte diventa Sole di Luce. Tezcatlipoca, all'inizio uguale al Quetzalcòatl ascetico, non tarda a spiazzarlo dal suo rango di dio principale per identificarsi, alla fine, con il Dio sconosciuto. Così, nel Messico, i templari fanno diventare pubblico il culto segreto che, nelle loro commende in Europa, rendevano alla Parola luminosa. Quella Parola luminosa, la cui doppia personificazione, per i catari ai quali li avvicinavano tante credenze, contemperava gli aspetti di Portatore di Luce e di Cristo. In queste condizioni, è logico che, senza ripudiare il secondo, essi abbiano dato preminenza al primo: l'arcangelo guerriero ingiustamente calunniato e condannato - come loro - dalla chiesa cattolica. Tutto porta a credere, dunque, che Tezcatlipoca non fosse altro che Lucifero. Vedremo nel capitolo seguente che un fatto tangibile rafforza questa interpretazione. 4. I Bianchi di un tempo Si può presupporre che non fu per caso che i Tecpantlaca andarono a stabilirsi a Chalco. Diverse tribù li avevano preceduti nella zona: le prime (42), (49) che avevano abbandonato Aztlàn, la «Terra dei Bianchi», mitico stanziamento americano dei popoli migratori civilizzati del Messico, e gli Aztechi che pretendevano di ricollegarsi questi ultimi. C'erano i Xochimilca, che adoravano Quilaztli, un cervo a due teste (Beauvois (44) sostiene che si tratta di un cavallo con il suo cavaliere) che avevano conosciuto grazie a Iztac Mixcòatl, il civilizzatore bianco e biondo di cui abbiamo già parlato. Poi i Cuitlahuaca, il cui dio della pesca, Amimitl (da atl, acqua e mitl doppio, freccia) era simbolizzato dall'arpione donato loro da Mixcòatl, non senza raccomandarsi di adorare anche il cervo a due teste. Quindi i Mizquica, con il loro dio Quetzalcòatl, e i Chalca, con Tezcatlipoca. Xochimilca (70) e Mizquica (49) discendevano dai Toltechi, dai quali avevano ereditato la capacità e le conoscenze nel campo delle arti, dell'architettura, della carpenteria e della meccanica (70). I primi avevano una solida reputazione di taumaturghi, al punto che il loro nome, più tardi, fu applicato in questo senso agli Spagnoli. I Cuitlahuaca e i Chalca erano perlomeno imparentati con i Toltechi, non fosse che per la loro unione con due piccole tribù, i Tlayllotlas (45) e i Chimalpaneca (52), che venivano dalla Mixtèca, paese situato sul litorale dell'Oceano Pacifico, i cui membri erano, d'altra parte, sapienti e abili in astrologia. Tutti questi popoli avevano una particolarità in comune: conservavano tradizioni relative agli europei che, nel X secolo, avevano apportato al Messico conoscenze che avevano contribuito al progresso culturale dei Toltechi e dei Maya, e credenze che, pur se cancellate, erano rimaste impresse nella mentalità degli indios. Delle quattro tribù principali alle quali i Tecpantlaca si imposero prima di confondersi con loro sotto il nome di Chalca, tre si collegavano dunque alla doppia tradizione dei Vichinghi; vale a dire, sul piano religioso, al paganesimo indoeuropeo, panteista in quanto a concezione del mondo e solare per il suo simbolismo culturale, e ai

papas gaelici, cristiani ortodossi malgrado il loro particolarismo un po' ebreizzato. I Chalca primitivi, al contrario, adoravano il sinistro dio del Sole e della Notte, paragonabile, l'abbiamo detto, al Loki scandinavo e al Satana dei cristiani. I templari non avevano nulla di pagano e, finalmente liberi di esprimere le loro credenze, non avrebbero saputo fare ritorno al culto di Geova. L'influenza dei civilizzatori europei anteriori su Mizquica, Xochimilca e Cuitlahuaca favoriva certamente la loro penetrazione e se, come scrive Beauvois (44), «la profezia di Quetzalcòatl fu loro applicata, la fede nella futura dominazione degli uomini dell'Est di sicuro non fu estranea all'ascendente che essi guadagnarono così rapidamente nella nuova patria». Paradossalmente, fu proprio presso i Chalca che trovarono la base teologica indispensabile al sincretismo senza il quale non avrebbero potuto imporre le loro convinzioni religiose. Più precisamente: in ragione della sua somiglianza con il Lucifero dei cristiani, Tezcatlipoca si prestava a una mutazione simile a quella realizzata dai catari; e gli adoratori di questo dio non potevano certo lamentarsi, visto che la loro divinità tribale sarebbe così diventata dio supremo, espressione unica del Dio sconosciuto. I racconti degli storici non lasciano dubbi sul fatto che questi quattro popoli abbiano avuto stretti rapporti con i diversi gruppi di europei stabilitisi in Messico prima della Conquista. Quando Montezuma ricevette dalla costa atlantica i messaggi che l'informavano dello sbarco di Juan de Grijalba, accompagnati, secondo l'usanza, da tele dipinte su cui erano rappresentate le navi degli Spagnoli e i loro cavalieri, si rivolse ai diversi abitanti della regione di Chalco al fine di ottenere informazioni che gli servissero a stabilire quale atteggiamento tenere di fronte agli invasori. Gli Xochimilca gli inviarono uno dei loro anziani, Quilastli, che portava manoscritti miniati degli avi, e che - secondo Padre Duràn (42) disse all'imperatore «che sapeva sarebbero arrivati nel paese degli uomini a cavallo su una collina di legno così grande da contenere uomini in gran numero e che serviva loro da casa, e che in quella mangiavano e dormivano e che sul suo dorso facevano cuocere il loro nutrimento e che vi marciavano e giocavano come sulla terra ferma e grassa e che questi uomini erano bianchi e con la barba, vestiti con colori diversi e che portavano sulle loro teste delle acconciature rotonde, e che nello stesso tempo sarebbero arrivati altri uomini, sopra bestie simili ai cervi e altri su aquile ?* Sulle barche che la loro velatura faceva assomigliare ad aquile, secondo l'interpretazione di Beauvois (v. nota 44). che volavano come il vento. E, tirando fuori un dipinto molto antico, gli mostrò la nave e gli uomini vestiti nel modo che aveva detto e lui [Montezuma] vide lì altri uomini a cavallo e altri su aquile che volavano e tutti vestiti di colori diversi, con acconciature sulla testa e la spada alla cintura». I Mizquica e i Cuitlahuaca menzionarono le tradizioni relative a Quetzalcòatl e al ritorno dei suoi figli, precisando che questi avrebbero portato un costume diverso dagli indios e che non capivano la loro lingua. Le vecchie immagini che esibirono per sostenere i loro discorsi mostrarono anch'esse dei bianchi - molto diversi dagli Spagnoli - rappresentati sulle tele dipinte inviate all'imperatore da Pànuco (42). Senza dubbio i Cuitlahuaca diedero prova di grande prudenza illustrando i loro manoscritti, perché non era passato molto tempo - era il 1517 - da quando Montezuma aveva fatto uccidere un discendente di Iztac Mixcòatl, Tzompantecuhtli, signore di Cuitlahuactizico, perché questi aveva trattato Uitzilopochtli da falso dio, annunciando che il regno

del Dio vero, creatore di ogni cosa, si avvicinava (42): si diceva che conoscesse seicentosedici profezie... I Chalca non possedevano più manoscritti relativi agli uomini dell'Est: solamente alcuni bestiari (42), (65) del Medioevo, di cui abbiamo parlato nel capitolo I, sui quali erano raffigurati gli esseri fantastici nati dall'immaginazione degli Antichi e introdotti nel mondo cristiano da sant'Agostino. «Quelli di Malinalco - dice Padre Duràn (42) - tirarono fuori una pittura che raffigurava uomini con un occhio sulla fronte, come i ciclopi, riferendogli che i loro antenati avevano detto che sarebbero venuti nel paese e ne avrebbero preso possesso, e altri che avevano solo un piede. Quelli del Marchesato gli raccontarono e gli mostrarono un dipinto con uomini che da sotto la cintura erano pesci, e gli dissero che quelli dovevano venire nel paese. Altri mostrarono personaggi dipinti, metà uomini e metà serpenti». Libri di questo genere - e qui sta il valore dei «dipinti», secondo Padre Duràn - non potevano essere arrivati in America con Ullman-Quetzalcòatl, poiché i Vichinghi, all'epoca, erano ancora pagani. Non è da escludere in assoluto che li avessero portati i papas, perché esiste un Liber Monstrorum che risale al IX secolo. Nondimeno, è poco probabile. I bestiari, infatti, apparvero pubblicamente solo nel XII secolo, con quello che Filippo di Thaon dedicò a Elisa di Lounain, regina d'Inghilterra dal 1121 al 1135, e si diffusero veramente solo nel XIII secolo. Né, tanto meno, i Chalca avevano subito, prima del XII secolo, alcun influsso cristiano. Dunque, tutto porta a credere che i libri in questione provenissero dai templari. E lo stesso si può affermare per le tradizioni - non scritte, per quel che ne sappiamo - sul ritorno dei Bianchi che Nezahuapilzintli, re del Texcoco (e figlio di Nezahualcoyotzin, del quale abbiamo già menzionato la fede in un Dio unico e sconosciuto), spiegò al suo alleato Montezuma: il suo regno, un tempo, era stato sottomesso ai Tecp l'Indocina. Sarebbe stranissimo il contrario. Resta da sapere se i templari ottenevano il loro argento proprio dalle miniere americane. II. L'argento del Tempio 1. La metallurgia precolombiana All'epoca della conquista, i diversi popoli che abitavano il Messico lavoravano oro, argento, rame e anche tre leghe: il tombacco (oro, argento e rame), il bronzo (rame e stagno) e una miscela di rame e piombo, sconosciuta in Europa. Conoscevano la fonte dei metalli, ci dicono gli archeologi, solo da circa cinquecento anni, il che conferma le tradizioni indigene secondo le quali le tecniche e l'arte della metallurgia furono introdotte, nell'anno 967 della nostra era, dall'eroe civilizzatore bianco Quetzalcòatl, divinizzato in seguito; cioè dal jarl vichingo Ullman (20). Ragion per cui la metallurgia comparve prima presso gli Olmechi della costa atlantica che nell'Anàhuac. Il metallo prezioso, e ancor più il rame, erano comunque rari. Così, per i gioielli, si usavano delle lamine sottili sbalzate, mentre le statuette erano cave, perché colate sopra la cera. In effetti, si ignorava la riduzione dei metalli a partire dal minerale. La mescolanza naturale d'oro e d'argento, una volta terminato il pezzo, veniva dissolta con amalgama di sale e ossido d'alluminio. Se i messicani in senso lato usavano oggetti di

metallo prima dell'arrivo degli scandinavi - cosa dubbia, perché non ne è stato trovato nessuno che risalga alla cultura di Teotihuacàn, né all'epoca classica dei Maya - questi potevano essere solo stati importati, o fabbricati a freddo. Il rame, l'argento, il tombacco e l'oro venivano usati per la gioielleria. Si sa che i Messicani, e più particolarmente i Toltechi, erano diventati maestri in questo campo. Dürer, che se ne intendeva, aveva assistito a Bruxelles (il 26 agosto 1520) alla prima esposizione di gioielli da poco inviati a Carlo V da Hernàn Cortés, e in seguito aveva scritto sul suo diario: «In tutta la mia vita non ho mai visto nulla che mi abbia tanto rallegrato il cuore». Purtroppo, di queste opere d'arte incomparabile non resta granché. I conquistadores trasformarono in lingotti quello che ricevettero dalla spartizione e, cosa ancora più imperdonabile, l'imperatore fece lo stesso con il quinto reale che gli spettava. Con il rame - era il metallo più raro e più pregiato - si facevano, oltre ai gioielli, strane monete: campanelle e coltellini a forma di T che servivano come mezzo di pagamento. E anche delle asce piatte, i cui bordi erano induriti a martellate, utensili da leva, aghi, ami, perfino alcune vanghe, uniche in America. Il bronzo serviva solo per produrre punteruoli, e con la lega rame-piombo si fabbricavano sonagli. Le armi di metallo erano molto rare - le asce di pietra erano assai più usate di quelle di rame - e gli utensili erano generalmente di legno. Per ciò che riguarda quest'ultimo punto, facevano eccezione solo i Taraschi e gli Zapotechi della costa del Pacifico, ma ci sono buone ragioni per credere che importassero dal Perù parecchi degli oggetti di metallo. Gli storici riportano che Bartolomeo Ruiz de Estrada, guida di Pizarro, incontrò in alto mare - a ovest dell'Equatore - una zattera peruviana carica di gioielli d'argento e d'oro, coltri di lana di lama e cotone. Il proprietario dell'imbarcazione, interrogato, disse che aveva ricevuto l'ordine di andare a Panama, per scambiare il suo carico con delle conchiglie rosse (Spondylus princeps), un mollusco che se cattedrali gotiche proveniva dall'America del Sud e che il porto di La Rochelle, sull'Atlantico, serviva a importare il metallo. Resta da sapere dove si erano diretti i vascelli, presumibilmente carichi degli archivi dell'Ordine, che erano fuggiti dalla Francia nel 1307 e di cui nessuno aveva mai più sentito parlare. La risposta a questa domanda adesso pare evidente: nel Messico. Le tradizioni della Normandia riportate da Jean de la Varende (18), secondo le quali i templari andavano a cercare il prezioso metallo in America, erano false solo a metà. I fatti che abbiamo presentato, seguendo molto da vicino la compilazione e l'analisi di diverse cronache fatta da Beauvois (salvo in quel che riguarda il paragrafo 3), ci mostrano chiaramente che due gruppi di uomini bianchi erano arrivati nel Messico sulle tracce dei papas irlandesi e dei vichinghi germano-danesi. Uno negli ultimi anni del XIII secolo e l'altro nei primi anni del XIV secolo. Il loro paese d'origine, che gli indigeni chiamavano Tlapallàn e Tullàn, o Tula, era situato all'est del «gran mare divino», dell'Oceano Atlantico, quindi in Europa dove, effettivamente, le terre settentrionali, nell'antichità e nel Medioevo, erano conosciute con il nome di Thulé. Tuttavia, i toponimi in questione sono anteriori alla migrazione che c'interessa ora: risalgono, infatti, all'epoca di Ullman-Quetzalcòatl. Gli ultimi arrivati erano dunque venuti

dall'Europa, come i Vichinghi, ma non necessariamente provenivano dalla stessa regione. Comandati da un gran maestro, «il Signore che possiede Dio», assistito da tre ministri principali, il «Reverendo Monaco», il «Predicatore» e il «Male Cacciato» - che sembrano corrispondere alle tre categorie cavalieri, ecclesiastici e residenti, benché ci sia un dubbio riguardo a quest'ultimo termine - i membri della comunità portavano un nome che li comprendeva tutti: quello di templari. Costituivano un ordine militare e religioso. Da una parte, avevano conquistato con le armi un territorio di apprezzabile estensione le cui popolazioni, fin qui governate secondo le norme feudali d'Europa, erano sottomesse alla loro autorità; dall'altra, avevano imposto una nuova religione il cui Dio sconosciuto era rappresentato da un essere solare, un Inviato incaricato di portare la luce dello Spirito nel mondo materiale. Il bisogno di sincretismo li aveva spinti a designare come tale un dio malefico della mitologia india, Tezcatlipoca, debitamente riabilitato. I catari e, senza dubbio, i templari d'Europa avevano agito nello stesso modo restituendo a Lucifero - che i cristiani ortodossi avevano confuso con Satana - il titolo e il ruolo di Portatore di Luce; proprio a Lucifero che, nella mitologia romana era, come Tezcatlipoca, il dio del pianeta Venere, la «stella» che precede il Sole nella sua corsa. Vedremo nel capitolo seguente che la somiglianza non si arresta qui e interessa anche le cerimonie di culto. Già fin d'ora possiamo affermare che i templari del Messico erano tutt'uno coi templari europei. «Anche quando si contestasse il valore di una parte delle prove e degli argomenti sopra esposti - scrive Beauvois (44) - resterebbe abbastanza perché sia impossibile contraddire le nostre conclusioni spiegando in modo diverso dal nostro le vestigia archeologiche, le credenze, le pratiche religiose, le testimonianze storiche e le reminescenze.» Non c'è nient'altro da aggiungere. Resta da sapere come mai i templari andarono a installarsi in Messico. Non ci stupisce che conoscessero l'esistenza dell'America centrale. Sappiamo che frequentarono per circa centocinquant'anni, le coste dell'America del Sud dove le loro navi andavano a caricare lingotti d'argento. Sappiamo anche che erano in stretto contatto con i Vichinghi i cui avi, nei dintorni dell'anno 1000, erano venuti dal Messico. Non è nemmeno escluso che verso il 1194 abbiano fatto una puntata in viaggio di esplorazione, ma senza insistere, poiché la zona non era in condizione di fornir loro il metallo che allora costituiva la ragione delle loro spedizioni d'oltreoceano. La situazione cambiò del tutto quando l'alleanza del papa e del re di Francia mise in pericolo la stessa esistenza dell'Ordine che, al contrario degli Ospitalieri, non era mai riuscito a ottenere un territorio pienamente autonomo dove essere al riparo dalle pressioni e dalle minacce del doppio potere spirituale e temporale. Le cose potevano mettersi male da un momento all'altro e i templari pensarono di assicurarsi una base di ripiego. Anche se commerciavano con loro, i Vichinghi non avevano mai riservato ai templari accoglienze molto calorose. Prima del 1290, l'eventualità di stabilirsi nell'America del Sud non sembrava affatto attraente. Più tardi, bisognò perfino escluderla: l'impero di Tiahuanaco era distrutto, in preda al saccheggio e all'anarchia. Restava il Messico. Tutto, comprese le date forniteci da Chimalpàhin - imprecise poiché multiple - porta a credere che l'Ordine inviò negli ultimi anni del XIII secolo un'avanguardia in America centrale, e che questa fu

ricevuta a braccia aperte perché gli indios non avevano dimenticato Queztalcòatl né la sua profezia di un ritorno degli uomini bianchi con la barba, ai quali sarebbe stato vano resistere. Soggiornarono a Tullàn, antica capitale dei Toltechi, ma forse bisogna vedere questa tappa solo come una conseguenza del fatto che le tradizioni indigene assimilavano i nuovi venuti agli europei del X secolo. Quindi, i templari si stabilirono a Chalco, dove ricevettero un nuovo contingente di fratelli che erano approdati a Panutlàn, la Pànuco di oggi. Questo, secondo Chimalpàhin, avveniva nel 1304: in realtà era il 1307, data in cui l'Ordine venne sciolto. Alcuni uomini si imbarcarono in Francia e non si sa dove si diressero; nello stesso periodo, in Messico, sbarcarono degli uomini che non si sa da dove provenissero. La conclusione s'impone da sola. Se gli archivi del Tempio furono caricati a La Rochelle - come tutto sembra indicare sulle navi della flotta atlantica dell'Ordine, furono messi al sicuro a Chalco. In questo caso, cosa ne è stato? Furono distrutti dagli Aztechi o scoperti dagli Spagnoli e consegnati da loro alla Santa Sede? Non lo sappiamo. Con ogni probabilità i fratelli, partendo per l'America, ipotizzavano che si trattasse solo di mettersi sotto coperta fino alla fine della tempesta. Se questa fu la loro previsione, si dimostrò errata. L'Ordine sparì per sempre. Isolati oltre oceano, i templari ebbero la possibilità di agire a modo loro, dando libero corso alla loro sete di conquista e proclamando le dottrine che fino ad allora avevano dovuto sempre celare accuratamente. Ma nessuna nuova recluta venne a colmare i vuoti che la morte compiva nelle loro fila. I cavalieri e gli ecclesiastici erano votati al celibato. I residenti sposati venuti dall'Europa - sarebbero solo i marinai delle navi non avevano portato le mogli con sé. Tutti scomparvero senza lasciare altra discendenza che qualche meticcio. Dunque, il Tempio si «indianizzò» rapidamente e, cinquant'anni dopo l'ultimo arrivo, non doveva più contare nessun bianco. La fine fu prevedibile. Al momento della Conquista, dei templari restavano solo alcune credenze deformate e alcuni riti. E il ricordo di un'avventura più o meno confusa con quella - molto più antica - degli autentici Figli del Sole. IV. Simboli templari in America 1. La croce Dal momento in cui i conquistadores misero piede sulla terraferma del Continente, iniziò per loro una serie di sorprese. Si aspettavano di trovare, come nelle Antille, dei «selvaggi di cui si poteva dubitare - come fecero papi e concili - che fossero uomini e non scimmie parlanti». Ed ecco che si ergevano davanti a loro delle città, più ordinate di quelle europee, i cui palazzi e templi rivaleggiavano - spesso superandoli - con quelli di Siviglia o Saragozza. Città abitate da un popolo civile, la cui aristocrazia, dai modi raffinati, viveva in mezzo a opere d'arte incomparabili e conservava nelle sue biblioteche manoscritti miniati nei quali i veri sapienti ritrovavano i fatti di una storia multisecolare, i miti di una religione complessa ma profonda, i dati di una astronomia progredita almeno quanto quella che si insegnava a Salamanca. Poi Cortés ascoltò Montezuma, l'imperatore dalla barba bionda (28) che gli parlava dei suoi avi, uomini bianchi che tempo prima avevano

conquistato il Messico e dei quali gli Spagnoli potevano osservare i rari discendenti dalla carnagione rivelatrice (38). In Perù, qualche anno più tardi, gli uomini di Pizarro si trovarono, manoscritti a parte, davanti a uno spettacolo altrettanto sconcertante: ancor di più, forse, poiché l'aristocrazia - gli Inca propriamente detti - era integralmente bianca e bionda, anche se, senza dubbio, vagamente di sangue misto (75). Ma gli avventurieri, cristiani alla loro maniera, sino al fanatismo, non credettero ai loro occhi quando constatarono che quegli adoratori di «idoli mostruosi», nel nord come nel sud, veneravano nei loro templi, ergevano nei loro cimiteri e imprimevano nei muri il simbolo per eccellenza della redenzione: la croce. «Nella nostra America - scrive Adàn Quiroga (76) - la profusione con la quale si trova [questo] simbolo è tale che sicuramente non c'è popolo che non l'abbia impiegato come segno sacro o quantomeno figurativo.» In Messico, gli storici della prima epoca (40) ne segnalano la presenza in un tempio di Tenochtitlàn e in quello di Popayàn. Cortés, nel corso della sua spedizione a Tabasco, si imbatté in una croce di pietra alta circa un metro. A Guatulco, i conquistadores videro un'altra croce: era impressa su una roccia, a fianco dell'immagine del «santo» (77) e l'attribuirono a qualche apostolo che avesse evangelizzato la regione: la sua natura era così evidente che il vescovo di Oaxaca, Juan de Cervantes, la fece trasportare nella sua cattedrale. A dire il vero, ce n'erano dappertutto e l'iconografia messicana ne fornisce numerosi esempi. Quetzalcòatl portava una croce greca sul copricapo o sul mantello. Tezcatlipoca aveva una croce di sant'Andrea sui suoi paramenti; Huehueteotl, il «vecchio Dio», o «Dio del fuoco», sulla sua enorme acconciatura aveva una croce di Tiahuanaco, curiosamente in stile peruviano. Si vede una croce latina sulla «cappa» di un sacerdote riprodotto nel Codice Magliabecchi. Le tombe dell'Anàhuac erano tracciate a forma di croce, mentre quelle dell'isola di Cozumel, nel paese maya, erano sormontate da croci: d'altronde, gli abitanti portavano in processione una croce in tempi di siccità. Tutti conoscono la croce di Palenco nello Yucatàn. Ma si tratta veramente di una croce? L'uccello che la sormonta permette di dubitarne, poiché è il simbolo del Sole al quale andavano a unirsi i guerrieri caduti in battaglia e le donne morte partorendo: questo simbolo si ritrova sugli Alberi della Vita in Messico, che assomigliano - tanto da poter trarre in inganno - all'irminsul germanico e al frassino Yggdrasil degli scandinavi, nel quale rappresenta il Walhalla, dimora eterna degli eroi. A Palenco, tuttavia, l'Albero, se Albero è, prende indiscutibilmente (per sincretismo simbolico?) l'aspetto di una croce latina. Nel Perù, come in tutte le regioni dell'impero di Tiahuanaco, le croci greche abbondano, in forme leggermente diverse, sui muri degli edifici, sul vasellame, nelle incisioni su pietra. Ma si trova anche la croce latina come elemento di architettura e su pezzi di vasellame. Anche a Tiahuanaco il nostro corrispondente Fritz Ferger ne ha trovate due: una sul monolito Ponce, dissotterrato solo da qualche anno, e l'altra su una lastra di pietra, nel luogo chiamato Kantatayita. Erano ancora croci quelle che servivano come confini alle strade reali. Gli imperatori inca portavano lo stesso segno, ma nella sua forma greca, nelle loro lettighe, a volte sugli abiti.

Durante la festa di Kàpac Raymi (78) in cui festeggiavano, in dicembre, il solstizio d'estate, gli Inca indossavano la huahuaclla nera e gialla, che aveva al centro una croce rossa. A Cuzco, i sovrani conservavano una croce di diaspro, bianca e rosa, nella cappella del loro palazzo. Dopo la conquista, gli Spagnoli la misero nella sacrestia della cattedrale, attaccata a un chiodo a cui era appesa una corda che passava dal buco aperto alla sommità di uno dei bracci. «La croce era quadrata - racconta Garcilaso (78), che la vide ancora nel 1560, prima di tornare in Spagna - tanto larga quanto alta. Misurava circa tre quarti di vara [60 cm], forse meno, tre dita di larghezza e altrettante di spessore. Era fatta di un unico pezzo, molto ben lavorato, con angoli perfetti.» A Carabuco, al bordo del lago Titicaca, si venera ancora una grande croce latina fatta col legno di una quercia che si trova solo all'est della Cordigliera. Secondo la tradizione, fu portata verso il 1250 dal prete cattolico che gli indios del Paraguay chiamavano Pay Zumé (Pa'i, secondo l'ortografia guaranì unificata) e che i Vichinghi di Tiahuanaco chiamavano Thul Gnupa (Padre Gnupa, in norreno) e di cui riparleremo nel capitolo seguente. A questo personaggio si riferisce la croce che ha dato il suo nome all'attuale provincia boliviana di Santa Cruz de la Sierra. Era incisa su una roccia, a lato di due impronte di piedi, le «frecce» con cui i Vichinghi segnavano i loro sentieri (24). Nel Paraguay, abbiamo trovato due croci latine: una nel frammento del fregio che sormontava il rifugio sotterraneo di Cerro Tuja Og (26), vicino alla fonderia di metalli preziosi dell'Aquidabàn-Nigui, l'altra su una pietra trovata negli scavi del tempio vichingo di Tacuati (26), verosimilmente cristianizzato in conseguenza della predicazione di Pa'i Zumé. Potremmo riempire un'enorme opera con citazioni di questo tipo, semplicemente riprendendo gli studi di Quiroga (76) e di Jiménez de la Espada (79). Diciamo solamente che, in tutta l'America centrale e in quella del Sud, si trovano croci precolombiane un po' dappertutto, in grandissimo numero. I religiosi che accompagnavano i conquistadores si impressionarono - non tutti, comunque - vedendovi la prova di un'evangelizzazione anteriore, e quelli in buona fede si mostrarono piuttosto scossi nel trovare il simbolo della loro religione in mezzo a idoli esecrati. I loro successori fecero un passo in più, identificando Pa'i Zumé con san Tommaso (santo Tomé, in spagnolo) che, secondo la religione cattolica, era apostolo delle Indie orientali. Dal secolo scorso, molti americanisti hanno reagito contro queste interpretazioni improprie. Ma spesso l'hanno fatto senza discernimento. La croce, in sé, è una figura geometrica molto semplice, poiché è fatta con due bracci che si incrociano ad angolo retto. Con il cerchio, costituisce uno degli elementi di base della geometria, scienza conosciuta necessariamente da tutti i costruttori. E' ugualmente legata all'astronomia e c'è una ragione se la costellazione più riconoscibile e la più utile dell'emisfero australe porta il nome di Croce del Sud. E infine si rifà alla croce la Rosa dei Venti, anche e soprattutto ridotta alla sua espressione più semplice, cioè la rappresentazione dei quattro punti cardinali. Iscritta in un cerchio, ne divide lo spazio in quattro parti uguali e si trasforma in ruota che tende a girare sul suo asse. Diventa anche un simbolo solare, come la svastica, o croce gammata, che ne è il perfezionamento. Non sorprende, dunque, che la croce sia conosciuta fin dalla

preistoria da tutti i popoli in grado di accedere al concetto, dunque al simbolo, astratto per definizione. Ma, proprio perché esprime più di quanto non sia, ogni simbolo suscita venerazione in coloro che sanno interpretarlo ma anche tra quelli che non lo decifrano e per i quali rappresenta l'incomprensibile, quindi il divino. Da qui deriva il suo significato religioso. Ebbene, la croce, al contrario della svastica, è un simbolo estremamente facile da immaginare e da tracciare. Così la troviamo pressappoco dappertutto, senza che ci sia bisogno di cercare la minima spiegazione sulla diffusione del fenomeno. C'è da dire che la croce non è legata esclusivamente al cristianesimo, che anzi l'ha adottata piuttosto tardi come simbolo della redenzione. Ci sono anche molte buone ragioni per pensare che la Chiesa, facendola sua, abbia solo ripreso - conformemente alla sua tattica dei primi secoli - un vecchio simbolo pagano, volontariamente confuso con lo strumento di tortura del Calvario, il quale, nondimeno, aveva la forma di un tau. Questo spiega perché non si sia mai riusciti a unificare la figura del segno cristiano per eccellenza. Le chiese d'Oriente hanno conservato, anche abbellendola in vari modi, la croce greca dai quattro bracci uguali. La chiesa d'Occidente è riuscita solo di recente a imporre la croce latina, più giudeo-cristiana dell'altra, in quella che è la forma più lontana dal simbolo pagano originale. Non è per caso che le sette protestanti l'hanno adottata tutte. Le diverse croci precolombiane, di cui abbiamo visto prima alcuni esemplari particolarmente rappresentativi, non sono necessariamente la conseguenza di una predicazione del cristianesimo. Alcune non lo sono certamente; quelle, ad esempio, di cui ci parla lo storico Zamorra (20): Sua-Kon, che veniva chiamato anche Hukk-Kon (il «re delle navi», in norreno, da kukkert, nave e kon, re) inviato da Kon-Tiscsi-Huirakocha (civilizzatore bianco del Perù) presso gli indios del Nord, insegnò loro a dipingere delle croci sui loro mantelli per «vivere santificati in Dio». Ma non è escluso che altre lo siano, soprattutto quando adottano la forma latina. Tra queste ultime, due degli esempi che abbiamo fornito sono discutibili. Uno potrebbe benissimo essere un semplice motivo di decorazione architettonica e l'altro il mero risultato di un pessimo tracciato. La croce di Palenco è latina, ma abbiamo visto che si confonde con un Albero della Vita, cosa che sarebbe sufficiente a spiegare la sproporzione dei suoi bracci. Per contro, quelle di Tacuati e di Tiahuanaco, senza parlare di quella di Carabuco, sulla quale torneremo nel capitolo successivo, sono perfette. Nondimeno, lo ripetiamo: la croce geometrica è impiegata troppo comunemente perché la sua presenza permetta qualsiasi conclusione definitiva. Ma ce ne sono alcune che escludono ogni possibile dubbio. 2. Altri tipi di croci Lasciamo da parte la croce inscritta in un cerchio, quella che in generale viene chiamata «croce celtica», benché sia stata conosciuta millenni prima che i Celti apparissero nella storia: da una parte, l'abbiamo detto, costituisce una figura molto semplice la cui invenzione può esser stata spontanea. D'altra parte, l'abbiamo trovata sull'avamposto vichingo di Yvytyruzù, nel Paraguay, in mezzo a iscrizioni runiche che sono state tradotte. Qui, almeno, la sua origine scandinava è indiscutibile. Non insistiamo nemmeno sulla svastica, simbolo per eccellenza dei popoli indoeuropei: è un segno troppo elaborato e specifico perché gli possa essere attribuito

un carattere autoctono, ma tutto porta a credere che la sua introduzione in America sia dovuta ai Vichinghi. Limitiamoci alle croci patenti (cioè, i cui bracci si allargano o si incurvano alle estremità). Da quando il cristianesimo adottò la croce greca come simbolo, le diverse chiese, le sette e - più tardi - gli ordini religiosi, si applicarono a dare alle croci, per il proprio uso, un aspetto diverso. Tuttavia, per la sua semplicità, il segno non si prestava affatto a variazioni. Salvo che per due punti: la forma dei bracci, che poteva allargarsi partendo dal centro fino a raggiungere, al limite, la forma di un triangolo, e quella delle loro estremità, che permetteva molte creazioni. Così apparirono le croci patenti. Non c'era dunque nulla di spontaneo nella loro creazione, ma, al contrario, uno sforzo intenzionale di diversificazione. Un caso fortuito, una coincidenza potrebbe rappresentare la spiegazione del perché uno stesso simbolo complesso sia stato composto in due zone diverse senza contatti tra loro. Ma anche l'azzardo ha i suoi limiti. E, d'altronde, in America - dove troviamo molte croci patenti - il parallelismo tra Messico e Perù è troppo evidente perché non si possa vedervi il risultato di una stessa influenza. Non ci soffermiamo sulle croci massicce a braccia triangolari: sono troppo geometriche perché sia possibile trarne una conclusione definitiva. Consideriamo invece quella che Quetzalcòatl porta sul suo scudo. Non è consentito alcun dubbio: si tratta di una croce di Malta, o croce di san Giovanni. La ritroviamo a Tiahuanaco, senza il cerchio, e su un vaso dell'isola di Marajò, nel delta dell'Amazzonia. Quattro di quelle che sono raffigurate su un pettorale in bronzo, riprodotto nel volume di Pierre Honoré, La Legenda de los dioses blancos, Barcellona, 1965, hanno bracci che sono leggermente arrotondati alle estremità. La quinta è fatta interamente con tratti dritti. Una di esse ha, per la sua posizione, l'apparenza di una croce di sant'Andrea. Le differenze che si notano tra le une e le altre, e fra tutte quelle dello stesso tipo, sono insignificanti. La forma è essenzialmente la stessa, in tutti i casi. Evidentemente, la presenza in America della croce chiamata «di Malta» non può essere dovuta ai Vichinghi sbarcati nel X secolo nel golfo del Messico (20), visto che la Scandinavia, all'epoca, era ancora pagana. Non possiamo nemmeno attribuirla ai papas irlandesi che, anteriormente, avevano predicato il cristianesimo ai Nahua e ai Maya (20): ne ritroviamo la traccia solamente in Messico, mentre la croce in questione appariva anche in Perù. Restano i templari. Ebbene, la croce di san Giovanni è esattamente quella che compare sul sigillo del gran maestro occulto dell'Ordine ritrovato, insieme a quello che abbiamo descritto nel capitolo I, negli Archivi nazionali di Parigi: l'autentica croce templare, a partire dalla quale si differenziano, con il tempo, la croce a otto punte che ci è più familiare, simile, in forma più massiccia, a quella degli Ospitalieri, e quindi la croce a bracci ineguali, sempre più simile a una T, che i cavalieri portavano sui loro abiti e sulle vele delle navi templari. Altre croci patenti non meno europee - ma lineari - si aggiungono, confermandoli, ai simboli precedenti. Quella, ad esempio, che appariva sulla stele di Monte Albàn, in Messico e che ritroviamo, anche se in posizione differente tra i segni di diversa origine -

rune, lettere latine, le cifre dette «arabe» - che, secondo lo storico inca Phelipe Guaman Poma de Ayala (80) adornavano la tunica e la cintura dell'imperatore di Cuzco e il cui insieme ci resta incomprensibile. Un'altra, con due bracci che si ramificano, all'estremità, in due branche divergenti, compare in un'incisione su pietra nel Cerro Negro, vicino a Tinogasta, nella provincia argentina di Catamarca che faceva parte dell'impero di Tiahuanaco e di quello di Cuzco. Fritz Berger, ingegnere tedesco e consigliere dell'esercito paraguaiano tra il 1940 e il 1946, del quale abbiamo parlato in un'opera precedente (26) e al quale sono dovute moltissime scoperte di primaria importanza nell'Amambay, riproduce questa stessa croce, ma completa, in una delle sue lettere a un'amica di Monaco, ma sfortunatamente senza precisarne l'ubicazione. Ebbene, conosciamo già questo segno: è stato trovato su un medaglione dissotterrato a Montségur durante gli scavi del 1965. Non è necessario ricordare che Montségur è la fortezza che, nelle mani dei catari, resistette per un anno, nel XIII secolo, all'assedio del siniscalco degli Arci e dei suoi crociati. Alla sommità del Cerro Tuja Og in Paraguay, nella zona dove aveva lavorato Berger, abbiamo trovato un'altra croce leggermente diversa i cui bracci si ramificano in tre branche. E' identica a quella che orna un altro medaglione cataro. Ebbene, abbiamo esposto brevemente, nel capitolo I, le ragioni che spingono a credere a una coincidenza ideologica, dunque a esplicitare rapporti tra albigesi e templari. Queste ragioni vengono prepotentemente rafforzate dalla presenza in America del Sud di simboli catari, che possono esservi stati portati solo dalle navi dell'Ordine. 3. Simboli ermetici C'è ancora una varietà di croci che abbiamo rilevato sempre nella regione paraguaiana dell'Amambay, ad alcune decine di chilometri dalla fortezza vichinga di Cerro Corà, ai piedi della quale si trovava la fonderia per metalli preziosi di cui abbiamo già parlato. A tre chilometri a nord-est dell'Yvyty Perö, il poggio che le tradizioni indigene presentano come l'antica dimora del re bianco Ipir e sotto il quale è stata trovata un'enorme cavità che, per mancanza di mezzi, non è stato ancora possibile aprire, si erge il Cerro Kysé. Sulla superficie del banco di pietra intagliata che ne costituisce la sommità si trova una serie di simboli sorprendenti (26). Uno di questi, che è presente due volte, a prima vista somiglia a un algiz (R) dell'antico futhark runico o a un hagalaz (h) di quello nuovo. L'abbiamo così definito, del resto, nella nostra opera precedente (26). Ma troppo sbrigativamente. Il segno in questione è costituito da un'asta che passa per il centro di una croce di sant'Andrea. Indipendentemente dal contesto, quel che oggi ci fa dubitare che si tratti di una lettera runica è il fatto che l'asta sia «piantata» in una specie di piedistallo. Infatti, la figura prende così l'apparenza del crisma semplice (il monogramma di Cristo) della simbologia cristiana, formato dalle due lettere greche I e X (iota e chi) iniziali di Iêsous Kristòs. Ma simboleggia anche il Sole in cima all'Albero del Mondo. Sotto questi due aspetti congiunti, si tratta di una rappresentazione più schematica del Cristo solare, che esprime in un

modo più concreto l'ostensorio della liturgia cattolica. René Guénon (81) ci dice che eliminando il piede della «croce» e unendo due a due le estremità, si ottiene «la figura ben conosciuta dell'esagramma, o sigillo di Salomone, formato da due triangoli equilateri opposti e intrecciati [...]. L'ermetismo cristiano medievale vedeva, nei due triangoli e nell'esagramma, tra le altre cose, una rappresentazione delle due nature, divina e umana, personificate in Cristo; e il numero sei, con il quale questo simbolo è naturalmente in relazione, ha, tra i suoi significati, quello di unione e mediazione [...]. Questo stesso numero, secondo la cabala ebraica, è anche il numero della creazione (l'«opera dei sei giorni» della Genesi, in rapporto con le sei direzioni dello spazio); [...] l'attribuzione del suo simbolo al Verbo si giustifica altrettanto bene: insomma, si tratta di una specie di traduzione grafica dell'omnia per ipsum facta sunt del Vangelo di san Giovanni». Aggiungiamo che, sul piano mistico, i due triangoli del sigillo di Salomone esprimono uno l'illuminazione da parte del Verbo e l'altro la contemplazione nell'amore, mentre il loro equilibrio, in architettura, simboleggia l'Arte Reale nel suo insieme e, più particolarmente, il tratto degli «affiliati». Ragion per cui i Figli di Salomone avevano adottato l'esagramma come marchio: lo si ritrova su molte delle chiese che i templari hanno costruito. Come si vede, il sigillo di Salomone, con i suoi significati ermetici multipli - pagano, ebreo e cristiano, ma tutti orientali - è un simbolo eminentemente sincretista che, per il suo senso, il suo nome e l'uso che ne facevano i compagni affiliati all'ordine, non era affatto estraneo al Tempio. Al contrario, i popoli germanici dell'era pagana in generale e i Vichinghi in particolare non lo conoscevano. Ebbene, Fritz Berger - come testimonia la sua corrispondenza - lo vide inciso per due volte su rocce dell'Amambay, nei dintorni di Cerro Corà. Purtroppo non ne indica l'esatta collocazione e non abbiamo ritrovato queste figure. Ma sulla loro esistenza non paiono esserci dubbi. In compenso, sempre alla sommità del Cerro Kisé abbiamo rinvenuto un altro simbolo che viene segnalato sempre dal nostro ingegnere-archeologo. La sua presenza in Paraguay - lo dicevamo nella nostra precedente opera (26) - costituisce «un mistero che forse un giorno chiariremo». In effetti si tratta di un pentacolo, o pentagramma, apparentemente molto vicino a quello del sigillo di Salomone, ma di fatto assai differente. Berger ne riproduce uno impeccabile, che non abbiamo potuto localizzare. Quello che compare a fianco del crisma sul cerro di fronte all'Yvyty Perö è incompleto, mal disegnato ma perfettamente riconoscibile. Se ne distacca una linea spezzata, alla sommità della quale vediamo un gruppo di piccoli caratteri. I primi tre - gli altri sono cancellati - hanno una netta apparenza runica, benché sia impossibile trascriverli con certezza e dunque il dubbio sia legittimo. Il pentacolo, che i Tedeschi chiamano Drudenfuss, mano di stregone, è di origine pitagorica. Per i membri della setta esprimeva l'unità dell'universo e l'eternità del ciclo cosmico. I neoplatonici e gli gnostici lo ripresero come simbolo della perfezione della natura. Nel Medioevo, gli alchimisti vi vedevano l'immagine della Grande Opera, cioè della comprensione microcosmica dell'armonia universale. Lo usavano anche gli ermetisti musulmani, che l'hanno lasciato in eredità ai Marocchini: infatti il pentacolo compare sulla bandiera del Marocco. I templari sicuramente lo conoscevano, benché non lo

abbiano impresso da nessuna parte. Cosa normale se pensiamo alla cura con la quale nascondevano la loro dottrina segreta, appena accennata e manifestata pubblicamente nell'abacus, il bastone dal pomo piatto dei pitagorici - e dei Figli di Salomone - che i gran maestri portavano in guisa di pastorale. Il pentagramma a lato del crisma, dunque, non ci sorprende. Resta il simbolo templare per eccellenza: quello della tripla cinta, formata da tre croci quadrate concentriche unite tra loro da quattro linee rette perpendicolari. Ebbene (81), vi si sono voluti vedere i «tre cerchi dell'esistenza» della tradizione druidica, o i «tre cerchi celesti» che, presso gli indù, attorniano il Meru, cioè la Colonna del Polo, asse del mondo, e i tre gradi di una società iniziatica. Quest'ultima spiegazione è certo la più soddisfacente, perché ci sembra veramente molto strano che un popolo qualsiasi abbia mai avuto l'idea strampalata di rappresentare un cerchio con un quadrato, anche se si volesse invocare, per giustificare la teoria, la quadratura del cerchio (sic!). Comunque, a rischio di sembrare un po' semplicistici, confessiamo che secondo noi la tripla cinta non è altro che il Tempio di Salomone, espressione materiale, per i cristiani, per i musulmani e gli ebrei, della Saggezza attribuita al suo costruttore e, nello stesso tempo, dell'Ordine che si è prefisso come scopo di restaurarlo alla sua maniera. Così abbiamo un triplo simbolo: quello dell'unione di tre confessioni monoteiste, quello di tre categorie di fratelli in seno all'Ordine (cavalieri, ecclesiastici e sergenti) e quello della società futura, fondata sul triplo potere dello Spirito, delle armi e del denaro. Come tutti gli altri - salvo, beninteso, il crisma - il simbolo della tripla cinta è anteriore al cristianesimo che ne ha solo modificato il senso. Lo si trova sui monumenti megalitici di Francia e Spagna e anche nell'Acropoli. Lo si ritrova nel Medioevo, ad esempio nel chiostro di San Paolo, a Roma, che risale al XIII secolo, come anche in Terra Santa, in Siria e a Cipro. E' inciso sulle mura del castello templare di Gisors e scarabocchiato su quelle della prigione di Chinon, coperte di graffiti dai fratelli che vi furono rinchiusi dopo lo scioglimento dell'Ordine. Pierre Carnac (82) ci mostra la tripla cinta anche in Colombia, sulla piana di Cundinamarca (Kondanemarka, strada reale danese, in norreno) e in Bolivia. Evidentemente, non l'hanno tracciata gli indios, né i Vichinghi. 4. L'ostensorio di Tezcatlipoca La croce non è il solo simbolo cristiano che i templari hanno introdotto in America. La liturgia del culto di Tezcatlipoca, come ce la descrivono gli storici spagnoli della prima epoca, conservava molti aspetti del rituale romano. Nei templi dei Tecpantlaca l'altare aveva la stessa forma e occupava lo stesso posto che nelle chiese cattoliche (42) e vi era acceso un fuoco perpetuo, come davanti al Santo Sacramento (42). Nel corso delle cerimonie, l'officiante usava un incensiere ornato da una croce di sant'Andrea, e tenuto in mano non con una catena ma con un manico, che si alzava e abbassava ritmicamente. Queste potrebbero essere solo coincidenze, poiché l'altare, il fuoco e l'uso di incenso sono comuni a molte religioni non cristiane. Fatto sta che a tutti questi elementi è collegato un altro

oggetto, molto più significativo. Le statue di Tezcatlipoca portavano, nella mano destra, un oggetto che si chiamava itlachiayàn. Eugène Beauvois - che qui riprendiamo sostiene che questa parola proviene dal nàhuatl tlachia, vedere, con il prefisso i, suono, e il suffisso yan che esprime la destinazione. Itlachiayàn significherebbe dunque «ciò che serve a vedere». Su questa base, alcuni storici hanno tradotto il termine con «specchio». Due di loro (42), (71) descrivono l'utensile in questione come una specie di ventaglio che al centro aveva un disco d'oro, molto brillante, in mezzo al quale era tracciato un piccolo cerchio da cui partivano quattro tratti in forma di croce. Padre Duràn ce lo mostra nel suo album, aggiunto alla sua opera, le cui illustrazioni sono tratte dai codici messicani. Ne fornisce anche una variante: una stella circondata dai raggi, in mezzo alla quale si vede un supporto a semicerchio. Beauvois sostiene che in entrambi i casi si tratta di un'imitazione dell'ostensorio, o sole, che nell'Europa del XIII secolo tendeva a sostituirsi all'antica usanza dell'esposizione. F. de Mély (83) scrive che la festa del Santo Sacramento, celebrata per la prima volta a Liegi nel 1247, «porta diverse modificazioni nell'ostensorio [...]. E' certo che quando la festa non era ben fissata, all'inizio furono usate antiche esposizioni, nelle quali le reliquie innalzate vennero sostituite con una mezzaluna d'oro o d'argento che conteneva l'ostia [...]. Con le trasformazioni successive, quando l'ostensorio diventa un sole con i raggi, la mezzaluna è sostituita da una lunetta in cristallo, nella quale è inserita l'ostia». Il nostro autore aggiunge che «l'ostensorio propriamente detto dev'essere dunque stato studiato, in realtà, solo a partire dalla fine del XIII secolo [...]. Tutt'al più si potrebbe accettare come vero ostensorio quello del 1286, donato da Heildewige al priorato di Herkenrode, attualmente alla chiesa di San Quintino a Hasselt». Questa data è troppo tardiva e lo stesso F. de Mély ne dà prova quando scrive che l'«ostensorio è il simbolo di santa Chiara, di san Norberto e di san Bernardo». Quest'ultimo, di cui abbiamo visto il ruolo nella fondazione dell'Ordine del Tempio, doveva dunque conoscerlo già nel XII secolo, pure se non era nella sua forma definitiva. Il preteso specchio - o il supporto a semicerchio - del simbolo di Tezcat -lipoca era dunque l'equivalente della lunetta nella quale sta l'ostia, cioè il Cristo solare transustanziato. Allo stesso modo che sulle bandiere delle processioni cattoliche del Corpus Domini, l'ostensorio, o nauholin (il Sole creatore), figurava sullo stendardo dei Comandanti del Sole, appeso all'altare del loro tempio, nella scuola militare dove venivano formati i giovani nobili (42). «E' senza dubbio questo Portatore di dio o Teomama, come si chiamava in nàhuatl - scrive Beauvois (44) - che ha dato il suo nome al dignitario incaricato dell'ostensorio negli stati dei Tecpantlaca.» I Tlacochcalca portavano in processione l'ostensorio durante la grande festa del loro Dio, che cominciava il primo giorno del mese di toxcatl, e cioè - secondo Padre Duràn - «il 20 maggio, e le cui cerimonie eguagliavano quelle del Corpus Domini che, quasi sempre, cade nello stesso periodo [...]. La festa aveva lo scopo di invocare l'acqua dal cielo, nella stessa maniera delle nostre rogazioni e delle litanie che si svolgono sempre nel mese di maggio; così la si celebrava in quel mese, cominciando il nono giorno per finire il diciannovesimo» (42). Chimalpàhin (45) racconta come, nel 1332, i Tlacochcalca di Yacapichtlàn Cohuatepec, maltrattati dalla

popolazione, si ritirassero con il Teomama che portava Tezcatlipoca. Seguì una siccità di quattro anni. I Chichimechi dovettero fare onorevole ammenda e mettersi sotto la protezione delle «genti del Tempio». Il loro re se ne andò a cercare la statua di Dio, che fece mettere in un tabernacolo e alla quale rimise il «brillante bastone ricurvo», cioè il pastorale, simbolo della gerarchia episcopale nella Chiesa cattolica, che portava già Quetzalcòatl. I sacerdoti gli accordarono allora il titolo di «signore spirituale», Teohuateucli, e l'abbondanza tornò nel paese. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare di un ordine militare, i templari organizzavano sovente processioni di questo genere. Ne abbiamo la testimonianza di Antoine Syci, notaio apostolico e imperiale, cappellano e cancelliere del Tempio, riportata da Michelet (2): «Ho visto molte volte una croce [...] che si diceva essere quella del lago in cui fu battezzato Cristo. I templari la conservavano nel loro tesoro e, talvolta, quando il calore e la siccità erano eccessivi, il popolo di Ancon [Acco, o Aca, cioè San Giovanni d'Acri, precisa Beauvois, del quale riportiamo la traduzione] li supplicava di portarla in una processione del clero. Talvolta, ho visto in questa cerimonia il patriarca di Gerusalemme, accompagnato da uno dei cavalieri del Tempio, che portava la croce con adeguata devozione. Dopo queste processioni, grazie alla clemenza divina, l'acqua del cielo bagnava la terra e temperava il calore dell'aria». Talvolta, invece dell'ostensorio, i Tecpantlaca usavano, nelle loro rogazioni, un libro sacro. Chimalpàhin (45) usa la parola tlacuilolquiauh, che deriva da tlacuilolli, pittura, e da quiauitl, pioggia, che la traduzione spagnola rende con «pioggia dipinta»; un non senso. Invece Beauvois (44) - e tutto porta a credere che abbia ragione - legge «pioggia di scrittura», la pioggia «ottenuta per mezzo dei libri». Lo storico indio aggiunge che i Tecpantlaca persero molta della loro influenza quando, nel 1347, non riuscirono a scongiurare la siccità con questa procedura. I culdei di Scozia usavano, nelle stesse circostanze, recarsi in processione con i manoscritti di san Colombano oppure, in mancanza di questi, con messali o formulari di litanie (84). Non è sorprendente, dunque, che la stessa pratica sia stata adottata, nell'Anàhuac, dai loro successori. I templari avevano trovato in Messico popolazioni che avevano ricevuto l'impronta dei monaci gaelici, e che, naturalmente, li avevano accolti favorevolmente. Ne era seguita una interpenetrazione di costumi i cui risultati talvolta sorprendono. Così, per esempio, i sacerdoti di Tezcatlipoca, eredi diretti dei fratelli del Tempio, portavano la tipica tonsura dei clan culdei irlandesi: si rasavano i capelli sulla fronte, sino all'altezza delle orecchie e li lasciavano crescere e scendere in una coda sulla schiena. I sacerdoti di Uitzilopochtli, al contrario, puramente aztechi, avevano adottato la tonsura a corona dei religiosi medievali europei dagli ecclesiastici dell'Ordine, che tuttavia essi non avevano conosciuto, poiché erano arrivati in Messico molto tempo dopo. D'altronde, tutti loro, quando cercavano di farsi identificare dagli Spagnoli all'epoca della conquista, si attribuivano il nome di papa, che, lontano dall'essere nàhuatl, era quello dei culdei. Tutti portavano «sottane» nere e cappucci «come quelli dei domenicani» (28). All'inizio del XVI secolo, la chiesa messicana godeva di una solida struttura. Era diretta da due grandi sacerdoti, uno incaricato del

culto di Uitzilopochtli, l'altro di quello di Tlaloc, che portavano il titolo comune di «quequetzalcoa»: successore di Quetzalcòatl. Per sceglierli, scrive Sahagùn (40), «non si teneva in nessun conto dell'origine, ma solo dei costumi e della pratica religiosa, della conoscenza delle dottrine e della purezza della vita. Si sceglieva quello che era virtuoso, umile e pacifico, ragionevole e serio: non superficiale, ma accorto, rigoroso e scrupoloso, pieno d'amore e di misericordia, di compassione e d'amicizia per tutti, devoto e timorato di Dio». Questi due pontefici, e lo spiega molto bene Soustelle (61), consacravano con la loro presenza «la sintesi delle due ideologie fondamentali del Messico, amalgamate dagli Aztechi divenuti nazione dominante: quella dei nomadi bellicosi e quella dei contadini, ciascuna con il suo ideale e il suo paradiso». Ma entrambe poste sotto il segno del dio-re dei Toltechi, sacerdote modello. Sotto la loro direzione, un clero gerarchizzato come quello della Chiesa romana - il Padre di Sahagùn non esita a paragonare i suoi capi ai vescovi - serviva i templi dedicati agli innumerevoli dèi «nazionali» e locali, un po' come le chiese cattoliche sono dedicate a diversi santi. I suoi membri, cosa che è molto strana nel quadro di una religione pagana, dovevano restare celibi; erano dunque monaci, come i culdei e come gli ecclesiastici del Tempio. La tradizione cristiana, derivata da due apporti successivi rapidamente unificati, li aveva segnati tutti. 5. Tracce tangibili I dati appena esposti confermano solidamente le conclusioni alle quali ci hanno portato le nostre analisi dei capitoli precedenti. All'inizio, abbiamo posto tre problemi: da dove veniva l'argento del Tempio, a cosa serviva il porto di La Rochelle e dove si era rifugiata la flotta atlantica, verosimilmente caricata del «tesoro» dell'Ordine. La soluzione sta in una sola parola: America. Dal «Nuovo Mondo», ufficialmente ancora sconosciuto, i Vichinghi di Tiahuanaco esportavano, non si sapeva dove, il metallo che i templari importavano nella stessa epoca, non si sapeva da dove. E' logico stabilire un rapporto tra questi due fatti complementari. Tanto più che un sigillo dell'Ordine, ritrovato di recente, ci mostra l'immagine indiscutibile di un amerindio. Il motivo dell'esistenza di La Rochelle diventava così evidente, palese: il traffico con l'Atlantico esigeva non solo porti di imbarco, dei quali conosciamo l'esistenza nell'America del Sud, ma anche un porto di sbarco che doveva essere situato sull'oceano e offrire tutte le garanzie al «segreto del Tempio». D'altra parte, l'arrivo in Messico, in una data che coincide con quella dello scioglimento dell'Ordine, di monaci-soldati cristiani la cui organizzazione era del tutto simile a quella dei templari - dei quali portavano lo stesso nome in nàhuatl - ci ha permesso di situare nell'Anàhuac il luogo d'asilo dei fuggitivi, seguendo le tracce fornite da Eugène Beauvois. In queste condizioni, sarebbe stato sorprendente che le genti del Tempio non avessero lasciato segni materiali della loro presenza nell'America del Sud e centrale. Senza dubbio, bisogna almeno attribuire ai templari alcuni dei libri e dei «dipinti» di origine precolombiana che esistevano ancora in Messico nel XVI secolo. Però i manoscritti sono spariti, come la maggior parte dei codici indigeni, sistematicamente bruciati dagli Spagnoli che d'altronde, per «motivazioni religiose», non facevano altro che seguire l'esempio di

Itzcòatl, quarto re degli Aztechi: egli aveva ordinato di distruggere i manoscritti che si riferivano alla storia precedente il suo regno, perché «contenevano molte menzogne» (40). Si sa che gli Inca, da parte loro, avevano proibito l'uso della scrittura per cancellare il ricordo della sconfitta subita dai loro avi verso il 1290 e far risalire la loro storia alla creazione del nuovo impero da parte di Manko Kàpak. Dunque, non c'è da stupirsi se in Messico mancano iscrizioni che avrebbero dovuto, normalmente, esser state lasciate da papas, Vichinghi e templari, la cui influenza fu abbastanza forte da introdurre centinaia di parole di origine europea presso i Maya. Questo è un punto che abbiamo affrontato in un precedente saggio e su cui torneremo nel capitolo seguente. Per la stessa ragione nel Perù non sussiste nessuna iscrizione runica, mentre ne abbiamo rilevate centinaia in Paraguay e in Brasile, le antiche province di Tiahuanaco che gli Inca non ripresero mai e nelle quali la penetrazione spagnola e portoghese si verificò molto tardi, quando lo slancio iconoclasta dei conquistadores si era già placato. Beninteso, i sovrani aztechi non potevano pensare di «epurare» la loro religione dagli elementi cristiani che vi si erano introdotti. Anche se la loro mentalità sincretista non vi si fosse opposta, non avrebbero avuto il potere di farlo, perché dominavano solo una parte dell'America centrale. Itzcòatl, d'altronde, era stato un'eccezione. Anzi, i suoi successori si vantavano volentieri della loro parentela con i bianchi scomparsi: l'abbiamo visto nel caso di Montezuma. Così gli Spagnoli trovarono ancora sia nell'Anàhuac che nei paesi maya tradizioni teologiche e liturgiche delle quali non misero mai in dubbio l'origine cristiana, seppure con riluttanza, e anche delle croci. Si trattava indubbiamente di croci lineari, che potevano essere semplici linee geometriche oppure avere un significato naturalista, anche se associate al culto. Ma c'erano anche croci patenti delle quali almeno alcune - la croce di Malta, o di san Giovanni - si collegano esclusivamente con la tradizione monastica europea e, in particolare, a quella del Tempio. Per quanto riguarda il Messico, si potrebbe esitare nell'attribuirle ai Tecpantlaca piuttosto che ai papas. Il dubbio svanisce prendendo in considerazione le croci che si trovano nell'America del Sud, dove i culdei non arrivarono mai. Tanto più che le troviamo nel Paraguay, in una zona dove i Vichinghi possedevano un forte che difendeva il percorso per l'Atlantico e dove avevano creato una fonderia di metalli preziosi. Queste croci in particolare sono associate ad altri segni che possono provenire solo dai fratelli del Tempio: non solo croci catare, ma ancora il sigillo di Salomone, insegna dei compagni affiliati all'Ordine, e il pentacolo - la mano dello stregone -, uno dei simboli degli alchimisti. La tripla cinta della Colombia e del Perù, che si trova dovunque passarono i templari, completa il quadro. La similitudine tra l'itlachiayàn messicano e l'ostensorio delle cerimonie cattoliche potrebbe solo essere una coincidenza fortuita, in altro contesto. Ma questa spiegazione è resa poco verosimile da molti fatti: l'itlachiayàn si trovava solo nei templi di Tezcatlipoca, serviti dai Tecpantlaca, la cui disposizione era in molti aspetti identica a quella delle chiese romane. Veniva usato nelle processioni di maggio, che Padre Duràn non esita a paragonare a quelle del Corpus Domini. Infine, altri oggetti liturgici - l'incensorio, il pastorale completano un quadro tanto evocatore che i religiosi spagnoli

dell'epoca, anche se con assoluta malavoglia, dovettero arrendersi all'evidenza. V. Irlandesi, Vichinghi e templari 1. I tre arrivi Le analisi eseguite nei capitoli precedenti ci permettono ora di delineare un quadro esatto degli stanziamenti europei nell'America centrale e meridionale prima della Conquista. Parliamo al plurale perché non è affatto escluso che prima ci siano stati altri contatti, benché sporadici, che non hanno lasciato alcuna traccia. Anche se a questo proposito non c'è niente di certo. Il primo arrivo storico fu quello dei monaci irlandesi, i culdei, appartenenti all'ordine di san Colombano. Si sa che dal IV al XII secolo i legami che univano la Chiesa cattolica e quella dei paesi gaelici di Gran Bretagna e Armorica erano molto deboli. Infatti, il cristianesimo era stato introdotto in questi paesi da monaci siriani e copti. I predicatori inviati dal papa - Germano di Auxerre, Loup, Patrizio - per combattere il pelagianesimo e imporre il rito romano ebbero grande influenza ma, ciononostante, le particolarità di una organizzazione ecclesiastica fondata sul monastero sparirono molto più tardi. Nel corso dei secoli non ci furono vescovi in Irlanda, Scozia, Galles e in Bretagna: erano gli abati a sostituirli. E quando alla fine Roma riuscì a nominarli, la loro autorità fu molto limitata, e si impose ai religiosi solo con l'andar del tempo. Ebbene, ed è questo il punto che ci interessa, i culdei rifuggivano dal mondo. Da una parte, i loro conventi fortificati costituivano i centri di veri e propri feudi: ciascuno di essi, con i suoi monaci, che erano sacerdoti, e i suoi fratelli conversi, amministrava i terreni lavorati da oblati laici e sposati. All'inizio, solo i primi portavano il titolo di paba, deformazione gaelica della parola papa che veniva usata parallelamente in latino. Ma poco a poco questo privilegio si estese a tutti i membri della comunità. D'altro canto, i seguaci di san Colombano, fedeli ai costumi che avevano ereditato dagli anacoreti orientali, si isolavano volentieri, individualmente o in piccoli gruppi, per andare a far penitenza in qualche luogo ritirato, il più ostile possibile. Più in particolare, le isole del nord attiravano questi uomini, eredi di un popolo di marinai. Così, quando alla fine dell'VIII secolo il monastero di Iona, nelle Ebridi, a nord della Scozia, si sentì troppo minacciato dai Vichinghi, i suoi monaci non esitarono a emigrare in Islanda, con i loro conversi e oblati: ne conoscevano da molto tempo l'esistenza e le risorse. Altre comunità li seguirono. In qualche centinaio d'anni, grazie all'apporto continuo dei monaci irlandesi, si impiantarono solidamente tre monasteri dei quali conosciamo ancora i nomi caratteristici: Papeys, Papos e Papyli. Poi apparvero di nuovo i Vichinghi. Una parte dei religiosi preferì ceder loro il terreno. Nell'anno 877 partirono una cinquantina di battelli. Per quanto ne sappiamo, non se ne sentì mai più parlare. Meno di cent'anni più tardi, nel 963, il vichingo Ari Marrsòn fu gettato da una violenta tempesta su una costa sconosciuta, «a ovest, vicino al grande Vinland», come racconta il Landnàmabòk: era quella del «Huitramannaland [Terra degli Uomini Bianchi], che altri chiamano Irland it Mikla [Grande Irlanda] [...]. Ad Ari non venne permesso di ripartire. Fu trattenuto là e battezzato. A raccontarlo fu Rafn, commerciante di Limerick [in Irlanda], che vi

aveva abitato molti anni. E, inoltre, Thorkill Geltssòn, conte delle Orcadi, assicurava che Ari era stato visto a Huitramannaland, e che, anche se non poteva avere il permesso di tornare, là era molto stimato». Questo racconto, che è importante perché dimostra che nel X secolo esistevano dei contatti tra l'Irlanda e la sua «colonia» d'America, è completato dalla saga, incorporata nel Flatteyjarbòk, nella quale il figlio di Ari Marssòn, lo skalde Ari il Saggio, racconta che suo padre, raccolto da una nave islandese, era tornato nel suo paese, dove si era sposato. Non è l'unica citazione di Huitramannaland che può essere ritrovata in saghe. Sappiamo da queste che nel 1007 Thorsfinn Karlsefni fu prigioniero degli indiani nel Vinland. Più tardi, in Groenlandia, dopo aver imparato il norreno, gli raccontarono che nel nord del loro paese vivevano uomini vestiti di bianco, i quali, in giorni prefissati, uscivano in processione con grandi pezzi di stoffa attaccati a pertiche, «parlando molto forte». Nel 1209, nel corso di un viaggio da Dublino in Islanda, il vichingo Gudhleif Gudlanssòn fu trasportato verso sud-ovest da una violenta tempesta e trascinato su una costa sconosciuta, dove venne fatto prigioniero da uomini che parlavano irlandese. Gli fu salvata la vita grazie all'intervento di un vecchio che arrivò a cavallo e gli parlò in norreno. Si trattava di Bjorn Asbrandssòn, l'eroe di Breidavik, esiliato nell'anno 999, dopo un'avventura amorosa finita male. Dove si trovava la Grande Irlanda la cui esistenza era così conosciuta nel Medioevo che il geografo arabo el-Edrisi ne parla, nel XII secolo, chiamandola Irlandeh el-Kabirah? Su questo punto gli autori sono divisi, senza che comunque le loro opinioni si escludano a vicenda. Alcuni la collocano a sud di Vinland, altri a nord. In un'opera senza pretese scientifiche ma ben documentata, lo scrittore del Québec Eugène Achard (63) la situa nell'Acadia (Nuova Scozia e Nuovo Brunswick) e in Gaspesia. Senza dubbio ha ragione. Il nome di Huitramannaland compare - in forma abbreviata e latinizzato - su una carta del 1515, dovuta a Jòn Godmindssòn: Albania, la «Bianca». Anche quello di Nuova Scozia è molto significativo, poiché gli Irlandesi, nel Medioevo, venivano spesso chiamati Scotii, come gli Scozzesi. Tutto porta a credere che gli antichi Irlandesi emigrati dall'Islanda nell'877 andarono a stabilirsi in America, dove, comunque, li troviamo nel 963, data del naufragio di Ari Marssòn. Forse altri gruppi li avevano preceduti. In ogni caso, conoscevano l'esistenza del «nuovo mondo» dai racconti di viaggio di san Brandano, che parlavano di un'isola dal clima paradisiaco, situata al di là del mare occidentale, e che ben presto - fin dal IX secolo furono trascritti da alcuni monaci. E anche, in maniera ancora più diffusa, dalle leggende che si raccontavano, la sera, in tutta l'Irlanda e dove si parlava dell'Hy Breasail, o Hi Brasil, terra fantasma che talvolta appariva nella bruma agli abitanti dell'isola di Aran. I colombani erano marinai, oltre che religiosi. Erano abituati a navigare nelle acque ghiacciate dell'Artico e univano lo spirito di avventura al desiderio di mortificazione e al dovere di apostolato. E' escluso che, una volta recatisi in America, avessero bruscamente cambiato la loro mentalità e si fossero chiusi nei monasteri. Devono essere partiti ben presto verso il sud, in viaggio di esplorazione lungo le coste, senz'altro attratti dall'isola di San Brandano e cioè - se le analisi di Louis Kervran [85] sono corrette come crediamo - per Cuba, da cui il Messico distava solo qualche ora

di navigazione. Ebbene, sappiamo dalle tradizioni indigene che il primo arrivo di Bianchi nell'America centrale fu quello dei religiosi vestiti con lunghi abiti bianchi, che venivano chiamati papa (20) (papi, plurale di papar, il nome dei paba irlandesi in norreno). Nell'Anàhuac, il loro capo (o il loro gruppo personificato) fece nascere il Quetzalcòatl ascetico e, nel paese maya - a Itzamnà - il suo alter ego. La loro influenza fu straordinaria, perché riuscirono non solo a predicare un cristianesimo il cui ricordo non si era ancora cancellato dopo cinquecento anni, ma anche a trasformare i costumi degli indios. Tuttavia, la loro presenza dev'essere stata breve. Verosimilmente, si trattava solo di monaci che, votati al celibato e separati dalla loro base, non furono più sostituiti. Se alcune famiglie di oblati facevano parte del gruppo, i loro discendenti possono solo essersi confusi con la popolazione indigena, diventando meticci, nel giro di qualche generazione. Tutto porta a credere che non restasse niente dei monasteri culdei - più probabilmente, semplici eremi - quando il jarl Ullman, nel 967, toccò terra a Pànuco, nel golfo del Messico. Non è necessario, ora, parlare a lungo di questo secondo arrivo, l'«ultimo» per i Maya: abbiamo dedicato quattro opere alla presenza vichinga nell'America centrale e in quella del Sud. Ricordiamo semplicemente che Ullman sbarcò con sette navi e circa settecento vichinghi, uomini e donne, originari dello Schleswig, e conquistò l'Anàhuac, dove divenne il quinto re dei Toltechi (il Quetzalcòatl guerriero). Dopo una ventina d'anni, con parte dei suoi uomini, si recò nello Yucatàn dove veniva ricordato con il nome di Kukulkàn; quindi, in seguito a difficoltà con gli indigeni, riprese il cammino via terra. Una volta tornato, trovò che alcuni dei Vichinghi che vi aveva lasciato si erano uniti con donne indios, da cui erano nati alcuni piccoli meticci. Allora abbandonò il Messico, riprese il mare, sbarcò sulle coste dell'attuale Venezuela e traversò l'America del Sud fino al Pacifico, dove un nuovo capo, Heimlap («pezzo di patria», in norreno) fece costruire delle barche in pelle di foca. I Vichinghi discesero lungo la costa fino all'altezza di Arica, fermandosi lungo il cammino per fondare il reame di Quito e imporre la loro autorità ai Chimù; poi salirono sull'altopiano. Dalla loro capitale Tiahuanaco, sulle rive del lago Titicaca, si lanciarono alla conquista del subcontinente. Il loro impero si estese ben presto fino a Bogotà, nell'attuale Colombia, a Valparaiso, al Cile, con due sbocchi sull'Atlantico: l'Amazzonia a nord e il Peaviru a sud, il «percorso facile» che, dalla Sierra de la Plata, raggiungeva il Paraguay e l'oceano. Erano circa quarantamila (25) quando, verso il 1290, gli Auracani del cacicco Kari, venuti dal Cile, si impadronirono di Tiahuanaco. Alcuni dei sopravvissuti al massacro che seguì risalirono la costa fino all'Equatore dove si imbarcarono, verso la Polinesia, su zattere di balsa. Altri, tra cui le famose amazzoni, si rifugiarono nella foresta amazzonica e paraguaiana, dove abbiamo ritrovato i loro discendenti. Altri ancora ripresero le forze nell'Apurìmac - nel Perù vero e proprio - e, qualche decina d'anni più tardi, discesero su Cuzco, dove fondarono il Nuovo Impero, quello degli Inca, cioè, in norreno, dei «Discendenti». Poi arrivarono i templari. La data di questo «terzo arrivo» non è esattamente stabilita, poiché Chimalpàhin situa il fatto prima nel 1272, poi nel 1294, menzionando anche l'immigrazione di un nuovo gruppo nel 1304. Questo storico, per quanto fosse discendente dei principi di Chalco, scriveva nel XVII secolo, e non si può affatto

pretendere maggior precisione. Diciamo che i templari apparvero in Messico negli ultimi anni del XIII secolo, cioè all'epoca in cui in Europa stavano incontrando una crescente resistenza. Senza dubbio cercarono di prepararsi una base di ripiego o, più semplicemente, di conquistare un territorio dove fossero liberi da qualsiasi pressione da parte della Chiesa e del re. Comunque sia, nel 1307 (e non nel 1304), l'anno della partenza da La Rochelle della loro flotta atlantica, devono aver benedetto Dio o Bafometto - per aver loro ispirato un'idea che si era rivelata così opportuna. Ora siamo in grado di stabilire una cronologia - imperfetta ma soddisfacente - sull'arrivo e gli spostamenti delle diverse ondate di europei che nel Medioevo raggiunsero il «Nuovo Mondo». 877. Arrivo dei papas in Acadia. Poco dopo, spostamento verso il Messico di un gruppo i cui membri - essendo sacerdoti - si estinguono nel corso di un mezzo secolo, visto che i più giovani di loro dovevano avere almeno trent'anni. Le famiglie dei loro oblati, se ne avevano portati con loro, si confusero per incrocio in due o tre generazioni. 966. Arrivo in Messico di Ullman-Jarl. 969. Partenza di Ullman e della maggior parte dei suoi compagni. Circa 1000. Arrivo dei Vichinghi a Tiahuanaco. In un'opera precedente avevamo indicato come probabile la data 1050/1100. Dobbiamo rettificarla, perché il cambiamento di dinastia, presso i Chimù, ebbe luogo intorno all'anno 1000. Tra al 1272 e il 1294. Arrivo dei templari in Messico. Circa 1290. Distruzione dell'impero di Tiahuanaco. Circa 1300. Fondazione dell'impero degli Inca. 1307. Arrivo in Messico della flotta templare fuggita dalla Francia. Non abbiamo considerato le spedizioni norvegesi nel Vinland, che ebbero luogo a partire dall'anno 1000, perché non hanno, in effetti, alcun rapporto diretto con il nostro argomento. 2. Parole francesi tra i Maya Una ricerca come quella che facciamo da trent'anni nel tentativo di definire l'apporto genetico e culturale degli europei al «Nuovo Mondo» precolombiano implica una progressione che non è esente da rettifiche. In un'opera precedente (20) abbiamo riassunto lo studio linguistico di étienne Brasseur de Bourbourg (86), che aveva dimostrato come nel quiché-maya fossero presenti centinaia di radici indoeuropee, che rivestivano forme germaniche, latine, inglesi, gaeliche e francesi. Allora non sapevamo ancora che i Vichinghi di Ullman erano partiti da possedimenti danesi in Gran Bretagna e non dallo Schleswig, di cui erano originari. Ce l'avrebbe rivelato alcuni anni più tardi l'analisi delle iscrizioni runiche del Paraguay (24), (26), il cui «alfabeto» contiene caratteri appartenenti al futhorc anglosassone. Non sapevamo niente nemmeno sull'insediamento dei templari in Messico. Così avevamo preso in considerazione solo i termini germanici e latini. I primi potevano provenire solo dai Vichinghi; e attribuivamo i secondi esclusivamente ai monaci irlandesi. Avevamo lasciato da parte i vocaboli di forma gaelica che, benché potessero anch'essi esser dovuti tutti ai culdei, erano identici o avevano forti rassomiglianze con il loro equivalente germanico, cosa che faceva aleggiare un dubbio sulla loro origine. Restavano i termini di forma inglese e francese. In realtà, difettando di migliore spiegazione, avevamo considerato i

primi come derivati dal germanico antico e i secondi dal latino o dal tedesco antico, cosa che attualmente dobbiamo rettificare. Al contrario, non dobbiamo cambiare nulla della nostra disamina, presente nella stessa opera, sull'analisi filologica del quitchoa, dovuta a Vicente Fidel Lòpez, perché si è limitato a paragonare l'idioma del Perù al sanscrito, considerato all'unanimità, nel XIX secolo, come la lingua madre di tutti gli idiomi europei, mentre deriva - come questi ultimi - dall'indoeuropeo originale. Non siamo linguisti e non ci era stato quindi possibile completare il suo lavoro. Avevamo appena potuto aggiungere alcuni vocaboli danesi o latini che, anche per noi profani, sembravano costituire la forma primitiva dell'uno o dell'altro termine citati. Limitiamoci, anche qui, ai rilevamenti di Brasseur de Bourbourg, che alla metà del secolo scorso era curato di Rabinal, un grande villaggio indigeno nel Guatemala di 6.000 indios di lingua quiché, e di San Juan de Sacatepéquez, dove si parlava un dialetto maya molto vicino a quello precedente, il cakchikel. Non dimentichiamo, quindi, che Brasseur de Bourbourg poteva disporre, oltre al latino, solo dei dizionari in lingua moderna. La sua analisi filologica, insomma, poteva essere fatta solo in funzione dei derivati attuali - danese, tedesco, olandese, neerlandese, inglese, gaelico e francese - dei termini impiegati nel Medioevo. Ne scaturisce qualche errore: un certo numero di parole inglesi, indicate come radici di termini quiché, in realtà sono francesi e sono state incorporate a quelle inglesi solo dopo la conquista normanna, quindi all'arrivo degli Irlandesi e dei Vichinghi in Messico. Anche qui c'è una spiacevole imprecisione: non sappiamo quanti vocaboli a cui Brasseur de Bourbourg attribuisce un'origine inglese autentica provengano dal termine anglosassone corrispondente o da uno dei loro analoghi in norreno o germanico continentale. Ma quest'ultimo problema è meno importante, visto che in entrambi i casi l'introduzione dei vocaboli in questione nel quiché può essere dovuta solo ai Vichinghi. Qui ci interessano unicamente le radici francesi. E quelle che il nostro linguista cita come tali non sono numerose. A seguire, forniamo i termini quiché (in grassetto) con la loro traduzione. Quindi, la radice francese (in corsivo) e il suo significato in italiano. BOB, cotone. Bobine (rocchetto) BOL, rotondo. Boule (palla) BU, ammorbidire la terra. Boue (fango) BUR, essere gonfiato. Bourré (pieno) BUX, ostruire, chiudere. Boucher [la «X» quiché si pronuncia come il «ch» francese] (tappare) CHER, ingrassare. Chair (carne) EN, eM, in. En (in). GOL, resina, unguento. GOLIH, incollare. Colle, coller (colla, incollare) HIG, singhiozzare, soffocare, affogare. Hoquet (singhiozzo) HUN, uno. Un HUR, strappare, tirare, sguainare. Hors, dehors (fuori, al di fuori) LACH, separarsi, divorziare. Lacher (lasciare) LIM, accordare, ordinare. Limer (limare) LUZ, torcere. Luxer (torcere) MAX, duro, aspro. Masse, massif (massa, massiccio) MU, mUB, bagnare, stemperare. MUD, fango. Mouiller (bagnare) OREL, buco. Oreille (orecchio) PAM, ventre. Panse (pancia)

PARAN, camminare al riparo. Parer, parapluie (riparare, ombrello) PATAH, catturare uccelli con la colla. Pâte, empâter (pasta, impastare) PAYOH, pagare gente per lavorare. Payer (pagare) PITZITZ, sciogliersi come un frutto maturo, la cui polpa si spande al di fuori. Pisser (urinare) POZ, specie di pietra utilizzata per ripulire superfici dure. Ponce, poncer (pomice, passare alla pomice) QUI, essi, loro. Qui (che, chi) [la forma arcaica di essi, loro, in francese, era Qui] QUIT, tagliare, separare, togliere. Quitter (lasciare) RUL, discendere. Rouler (rotolare) TANBAL, strumento a percussione per chiamare. Timbale, tambour (timpano, tamburo) TATON, camminare a tentoni. Tâton (tentoni) TAZ, ordine, rango, stadio, grado; ordinare le cose mettendole una sull'altra. Tasser (sistemare) TI, carne, mangiare. Titi (antica parola per la carne in alcune province della Francia. Ma tI può derivare anche dall'antico tedesco thier, animale, origine del titi dialettale francese) TIR, aggiustare, intorpidirsi, irrigidirsi. Tirer (tirare) TOPOTA, toccare con la punta delle dita. Tapoter (picchiettare) TUB, mammella della donna. Tube (tubo) TUTAH, proteggere. Tutelle (tutela) VOR, forare, sodomizzare. Forer (forare) A questi termini, la cui origine sembra molto chiara, anche se certe rassomiglianze - ma non tutte - possono essere attribuite al caso, se ne aggiungono alcuni che Brasseur de Bourbourg fa risalire a parole inglesi e che, in realtà, non provengono dall'anglosassone, né dal norreno, ma dall'antico francese. BOZ, aprirsi, del fiore, dell'uovo. (Inglese: to butt, schiudere). Butter (rincalzare) CHEK, vincere. (Inglese: to check, vincere). Eschec (scacco) QACH, prendere, afferrare, raggiungere, mordere. (Inglese: to catch, prendere, afferrare, raggiungere). Francese dialettale normanno: cachier (ingabbiare) RUZ, precipitato. RUZRUT, che corre con ansia, con precipitazione. (Inglese: rush, corsa precipitosa). Reusser (correre con precipitazione) TON, fare rumore battendo i piedi o le mani, o come un tamburo. (Inglese: tone, tono, rumore). Ton, Tonnerre (tono, scoppio) TUN, trombetta, tamburo cavo in legno. TUNAH, tastiera di uno strumento. (Inglese: To tune, intonare canti o musica). Ton (tono) Citiamo anche alcuni termini che il nostro filologo collega al latino, dimenticando la forma francese ai quali, comunque, sono più vicini: AM, anno. (Latino: annus). An (anno) BOM, buono. Plurale, bOMBON. (Latino: bonus). Bon (buono) CUR, fare un passo incrociato. (Latino: curvatim). Courbe (curva, curvo) GUZ, saporito. (Latino: gustus). Goût (gusto) MUL, volta, particola per contare. (Latino: multus). Moult (molto) PUH, pus e pUZ, quello che marcisce. (Latino: putrefactio), Pus (idem) RAM, grande pezzo di legno. (Latino: ramus). Rame (ramo) Esiste un'altra parola, cUN, cui l'abate Brasseur de Bourbourg conferisce significato nel linguaggio pudico del suo tempo e del suo

mestiere: «parti segrete della femmina»; senza indicarne la radice, cosa che, in un'opera precedente (20), abbiamo fatto per conto nostro: connus, in latino. L'impiego di questo termine, con una tal insistenza che si è potuto inserire nel quiché, da parte degli ascetici culdei non aveva mancato di stupirci. Ma all'epoca, non avevamo alcun elemento che ci permettesse di affrontare la possibilità di una qualsiasi influenza francese sulle lingue dell'America centrale. Oggi la situazione è diversa. Ci sembra anche del tutto normale che i templari, la cui grossolanità, lo sappiamo, è ancor oggi proverbiale, abbiano usato e abusato di un termine francese [si tratta del vocabolo con, che significa sesso femminile, N.d.T.] che, già nel Medioevo, non apparteneva esattamente al linguaggio ecclesiastico. Lo stesso ragionamento si può effettuare per una decina di parole. Fuori dal contesto del nostro studio, sarebbe permesso di dubitare, come prima è successo anche a noi, della loro reale origine. Ma oggi sappiamo che uomini di lingua francese arrivarono all'inizio del XIV secolo a installarsi in Messico, dopo che sicuramente lo avevano già esplorato prima. La linguistica ci conferma che uno dei loro gruppi, seguendo le tracce dei due Quetzalcòatl, si stabilì nel paese maya dove le cronache (21) segnalano, in effetti, la presenza dei Nonohualca. Ma fu nell'Anàhuac che occuparono una posizione dominante. Dunque, devono aver lasciato lì tracce dello stesso tipo, molto più profonde. Malgrado tutte le nostre ricerche, purtroppo non ci è stato possibile prendere visione dei due studi consacrati alle radici indoeuropee del nàhuatl (87), (88). Possiamo appena citare la parola papalotl, farfalla [papillon, in francese, N.d.T.], che, pur se estranea al linguaggio liturgico, può, sicuramente, derivare dal latino papilio, ma più probabilmente ha trovato la sua origine nel termine francese che ha lo stesso senso. 3. Le navi del Medioevo Dobbiamo rispondere qui a un'obiezione che ci è stata mossa con insistenza dal dottor O.G. Landverk, collaboratore di Alf Mongé al quale la runologia deve un apporto fondamentale: la scoperta, in alcune iscrizioni runiche della Scandinavia e dell'America del Nord (e anche in certi testi latini medievali dell'area nordica), di inserzioni crittografiche - date e nomi propri - fondate sul calendario perpetuo della chiesa norvegese (89). Una scoperta che ha permesso di eliminare il dubbio che aleggiava sulla pietra di Kensington (20) e sulla carta di Vinland (15) a cui si aggiunge la Relatio tartara del 1440, ancora tacciata di falso, nel 1974, dall'Università di Yale che ne aveva proclamato l'autenticità nel 1965. Il dottor Landverk, infatti, sostiene che le navi del Medioevo non permettevano una traversata diretta dall'Europa all'America: erano adatte solo alla navigazione sottocosta. All'epoca, quindi, sarebbe stato impossibile raggiungere il «Nuovo Mondo» da altra via che non fosse quella del nord - passando per l'Islanda e la Groenlandia - molto sorvegliata dai Norvegesi che disponevano di un «monopolio di navigazione». I Vichinghi del Messico e del Perù, dunque, potevano venire solamente dalle colonie groenlandesi del Vinland. Benché la data del loro arrivo e soprattutto il fatto che parlassero un dialetto dello Schleswig eliminino questa interpretazione, è il caso di soffermarsi sull'argomento «marittimo». Siamo poco informati sulla navigazione medievale. Leggendo alcuni autori, che si fanno forti di un'affermazione interessata del

geografo el-Edrisi (15) - gli Arabi, loro, andavano fino alle Indie e oltre! - si potrebbe credere di buon grado che ai tempi dell'«oscurantismo» gli europei non osassero più allontanarsi dalle coste, occupati com'erano a grattare il suolo con le unghie per estrarne le radici delle quali si alimentavano. Così si ammette almeno tacitamente che ci sia stata un'interruzione millenaria tra le ultimi navi di Roma e le caravelle di Colombo. Niente di più falso. Le popolazioni del litorale atlantico - per attenerci a quelle che ci interessano qui - non rinunciarono in nessun momento alle loro attività marittime. Dobbiamo ancora a Louis Kervran (85) uno studio, breve ma ricco di dati, sulle navi di cui disponevano, nell'epoca in questione, i popoli gaelici. L'imbarcazione più conosciuta era il coracle, già descritta da Cesare. Era costituita da una carcassa di rami d'albero ricoperta di pelli di vacca cucite tra loro. Le cuciture, poi, venivano impermeabilizzate ricoprendole di burro. Alcune grosse traverse in legno assicuravano la rigidità laterale dell'insieme e servivano da banchi per i rematori. Il modello più piccolo - da quattro a otto rematori - di coracle misurava da 12 a 18 piedi celtici (da 3 metri e mezzo a 5 e mezzo) di lunghezza per 4 di larghezza. Lo si trova ancora in Irlanda, ma le pelli sono state sostituite da una tela catramata. Il modello più grande era lungo 36 piedi celtici (11 metri e mezzo) e largo 8. Portava sedici rematori ma, in alto mare, ricorreva normalmente alla vela rettangolare, molto bassa, che tuttavia permetteva di navigare solo con vento in poppa o a tre quarti di poppa. Come fa notare molto appropriatamente Kervran, oggi che le baleniere e le scialuppe delle navi commerciali e da guerra sono state sostituite dai gommoni, non c'è più bisogno di sostenere la «debolezza» di tali imbarcazioni. D'altronde, fu su grandi coracle, in grado di trasportare quasi due tonnellate di carico, che i monaci culdei irlandesi raggiunsero l'Islanda, quindi l'America, sicuramente per la via del nord. I Bretoni preferivano grosse navi di legno che Cesare chiamava pontones. Erano grandi barche, ponteggiate, come indica il loro nome, che misuravano all'incirca 72 piedi celtici (quasi 23 metri) per 24 di larghezza. Queste dimensioni, che ne facevano dei battelli «rotondi», le rendevano particolarmente adatte alla navigazione d'altura sull'Atlantico: sono ancora così quelle dei tonnari bretoni. Il loro albero era attrezzato con una vela quadrata. Potevano navigare controvento grazie all'albero di dolone: molto inclinato a prua, portava una piccola vela quadrata che, debitamente orientata, aiutava a governare la nave. Probabilmente, fu su un pontone che san Brandano fece il suo viaggio a Cuba. Ed è su navi di questo tipo, a parte l'attrezzatura, che i pescatori bretoni navigano ancor oggi sull'Atlantico spingendosi fino a Terranova. Non è necessario parlare a lungo dei drakkar vichinghi. Erano navi molto sottili (rapporto 6|1 tra la lunghezza e la larghezza, mentre quello dei pontones era di 3|1) lunghe circa 80 piedi, con una portata di circa 20 tonnellate. Portavano da 30 a 60 rematori ma in alto mare navigavano a vela, sempre col vento a prua, cosa che riduceva la loro capacità di manovra. Che fossero in grado di attraversare l'Atlantico è stato definitivamente provato nel 1893, quando una copia esatta del naviglio di Gokstad raggiunse Terranova dalla Norvegia, col cattivo tempo, in 28 giorni esatti. Notiamo che si trattava di navi da guerra. La maggior parte della flotta vichinga si componeva di cargo, dei

quali il tipo più diffuso era il knörr: una nave «tonda», lunga dai 15 ai 20 metri e larga dai 4,50 ai 6 metri (rapporto 3,3|1), che aveva al centro una stiva aperta particolarmente adatta al trasporto del bestiame. Costruito come il drakkar, ma molto più alto sull'acqua, era stato realizzato per la navigazione in alto mare, qualunque fosse il tempo; a vela, perché c'erano pochi scalmi davanti e dietro per le manovre. Per comodità di linguaggio, si usa troppo spesso - e l'abbiamo fatto anche noi - il termine drakkar quando si parla dei viaggi di conquista e delle colonizzazioni condotti dagli scandinavi. Le loro flottiglie, in questi casi, erano composte di uno o più battelli da guerra, ma i «civili» e bestiame erano imbarcati sui knerrir (plurale di knörr) ed erano ancora dei knerrir ad assicurare il traffico di uomini e di mercanzie con la metropoli. Nel XII secolo, in tutta l'Europa, le navi da carico - in rapporto al X - si erano un poco perfezionate. Il loro tonnellaggio si era accresciuto. Non possedevano ancora il timone a poppa - e si sarebbe dovuto attendere ancora un secolo per averlo - ma la velatura multipla aveva reso le imbarcazioni più maneggevoli. All'albero tradizionale s'erano aggiunti un albero di mezzana e dei piccoli alberi di guida sui castelli di poppa e di prua. Quattro vele invece che una o due permettevano di risalire il vento senza grosse difficoltà. Furono navi di questo tipo che assicurarono il trasporto dei crociati. Alcune erano anche - dettaglio estremamente moderno provviste di pannelli ribaltabili destinati all'imbarco dei cavalli. A maggior ragione queste navi potevano navigare sull'Atlantico, molto meno pericoloso che il Mediterraneo dalle onde dirompenti. Né i pontones gaelici, né drakkar e knerrir vichinghi, né le navi templari erano limitati a una navigazione di cabotaggio. Niente impediva loro di seguire, attraverso l'oceano, una strada diretta, come fecero sicuramente Brandano dopo le Canarie e Ullman dopo che i Danesi si impossessarono della Gran Bretagna; e, dopo di loro, i templari e i Normanni. E come fecero, lungo i secoli, i cacciatori di balene, e, ai nostri giorni, i pescatori di merluzzo di tutta la costa francese. Poi venne l'epoca della scoperta ufficiale dell'America. Dei tre navigli di Colombo, uno era una nave classica, da 140 tonnellate, molto vicina a quelle che abbiamo finora descritto, mentre le altre due, caravelle da 80 tonnellate, avevano uno scafo simile a quello dei pontones, ma portavano quattro alberi, i due principali attrezzati con vele latine. Salvo che per il timone di poppa, che certo era un'innovazione importante, ma non determinante, questi battelli differivano pochissimo da quelli che si usavano cinquecento anni prima. Non c'è bisogno di aggiungere che la flottiglia del Grande Ammiraglio attraversò l'Atlantico senza il minimo inconveniente per la rotta delle Canarie e che quindi innumerevoli navi e caravelle seguirono lo stesso cammino. Quando, nel 1534, Jacques Cartier originario di Saint-Malo - se ne andò a «scoprire» il Canada, mentre i suoi concittadini ne frequentavano le coste da secoli nel più gran segreto, non prese affatto la strada dell'Islanda. Fece vela verso Terranova dove, comunque, era già stato a pescare molte volte. Disponeva di un guscio di noce da 40 tonnellate, appena più grande di un pontone. L'obiezione legata all'inadeguatezza delle imbarcazioni cade da sola. I battelli del Medioevo erano perfettamente in grado di attraversare l'Atlantico, senza passare per la Groenlandia, le cui acque, sia detto tra parentesi, sono molto più pericolose di quelle del mare aperto. Non erano diversi dalle navi, né dalle

caravelle, dell'epoca della Conquista, né dalle barche ancor oggi si recano sui banchi di Terranova, né dagli anno si lanciano a centinaia sull'oceano con equipaggi Il controllo norvegese della rotta artica, dunque, non lasciare indifferenti templari e Danesi.

di altura che yacht che ogni di dilettanti. poteva che

4. I Neri del Messico Fino al primo viaggio di Colombo alle Antille, la storia della navigazione come ci viene insegnata non oltrepassa il quadro del mare nostrum. La Bibbia ci dà una vaga idea del commercio marittimo dei Fenici con le terre, assai indefinite, di Ophir e del Ponto, e da Erodoto e Strabone abbiamo notizia di spedizioni sulle coste dell'Africa. Sappiamo dai geografi che gli arabi dell'alto Medioevo navigavano sull'Oceano Indiano, fino all'Indonesia. Ma cominciamo appena ora a non dubitare dell'autenticità del viaggio di Pitea a Tula, nel IV secolo a.C. E solo recentemente, grazie a Jürgen Spanuth (90), abbiamo avuto uno studio serio sulle migrazioni dei «popoli del mare» nel 1200. Non sappiamo, a tutt'oggi, niente sulle traversate che condussero i costruttori dei megaliti dell'Europa occidentale in Corea e anche in Polinesia. Quando si parla dell'America, tutto diventa ancora più difficile. La regola è il conformismo. Come fa notare molto bene Patrick Ferryn (91), gli etnologi - poiché purtroppo non esistono quasi più veri antropologi - non esitano, e hanno ragione, ad ammettere le migrazioni attraverso il Pacifico di primitivi che disponevano solo di piroghe; però chiudono gli occhi e sorridono con una sufficienza velata di commiserazione quando si presentano loro le prove materiali dell'arrivo nel «Nuovo Mondo», prima della Conquista, di rappresentanti dei popoli civilizzati, le cui navi, già nell'età del bronzo, valevano tanto o quasi quelle del XVI secolo. In realtà, tutti andavano in America, prima di Colombo. Ivi compreso lo stesso Colombo, se è vero che il suo viaggio a Tula ebbe luogo, com'è probabile. Tutti, o più esattamente tutto il Vecchio Mondo, e cioè i popoli delle coste asiatiche, europee e dell'Africa del Nord. Lo provano le straordinarie statuette precolombiane raccolte dal professor von Wuthenau (92) in Messico. «Non sembra che siano scrive Patrick Ferryn - la rappresentazione di dèi, demoni, né di eroi: ecco un «maya medio», un «tolteco uomo della strada», una madre con il suo bambino, un suonatore di flauto, un guerriero, un piccolo portatore d'acqua, un mercante, quella che sembra una giovane donna, una testa d'uomo un po' grottesca. Sono veri piccoli capolavori, alcuni sconcertanti [...] perché qui si tratta di un aspetto dell'arte precolombiana con il quale non abbiamo particolare familiarità; qui non ci sono tremendi personaggi con i copricapo incredibili dei sacerdoti o dei guerrieri zapotechi; non ci sono teste inquietanti e macabre, che crollano sotto una moltitudine di attributi, secondo il simbolismo complicato dei Maya. No, qui ci sono solo esseri umani, di grande semplicità, con le loro gioie, i loro dolori, le speranze, i rimpianti e le angosce impresse nell'argilla da mano abile.» Questa troppo lunga citazione è motivata non solo dall'esattezza dell'analisi che contiene, ma anche dal nostro desiderio di eliminare ogni sospetto di parzialità. Le statuette in questione, infatti, non ci presentano solamente personaggi indios della vita comune, ma ci mostrano anche tipi razziali che «ufficialmente non possono essere lì». Perché vi si trovano visi barbuti di europei, facce cinesi la cui presenza non ci sorprende, profili semitici ben

caratterizzati - e la barba di alcuni ci impedisce di confonderli con quelli, d'altronde molto simili, dei Maya - di cui non è stata ancora fornita nessuna spiegazione soddisfacente; e anche alcune teste di negroidi o indiscutibilmente di neri. Nel 1964, al Congresso internazionale degli americanisti a Barcellona, quando il professor von Wuthenau espose i suoi lavori, un etnologo portavoce dei conformisti rispose inutilmente che quelle figure che si pretendeva non fossero indios potevano essere solo «fantasie artistiche». L'immaginazione ha i suoi limiti. Si può ammettere che uno scultore abbia puramente inventato tale o tal altra delle caratteristiche estranee agli individui che lo circondano; ma il calcolo delle probabilità esclude che l'abbia potuto fare per tutti i particolari di un viso, ivi compresa l'espressione che rivela tutte le sfumature biopsichiche più delicate dell'appartenenza a un'etnia. Per quel che riguarda i tipi negroidi che qui ci interessano particolarmente, nessun ricorso all'immaginazione può spiegare la congiunzione dei caratteri tipici all'Homo afer, come il prognatismo, le labbra grosse, il colore della pelle e i capelli crespi così diversi da quelli degli indios. E' necessario che gli artisti abbiano avuto dei modelli davanti agli occhi. E noi sappiamo che li avevano. Si deve allo stesso Colombo la prima menzione dei neri dell'America centrale. Si tratta solo, è vero, di un riferimento indiretto: infatti gli indigeni dell'Hispaniola (Haiti) gli raccontarono, nel corso del suo secondo viaggio, che ogni tanto venivano attaccati da gente di colore nero che abitava nel sud o nel sud-est. Quegli uomini, del tutto diversi dai Caraibici delle Piccole Antille, erano armati di zagaglie fatte da una lega d'oro, d'argento e di rame che interessò talmente il Grande Ammiraglio da fissare l'itinerario del suo terzo viaggio per scoprirne l'origine. «Colombo dice che pensava di verificare, seguendo questa strada, ciò che dicevano gli indios dell'Hispaniola riguardo a quegli uomini di colore nero che venivano con zagaglie le cui punte erano fatte con un metallo che chiamavano guanìn.» (93) La seconda testimonianza è più concludente. Vasco Nuñez de Balboa, durante la spedizione che attraverso l'istmo di Darien gli permise di raggiungere il Pacifico, «entrò nella provincia di Quareca, dove non trovò dell'oro, ma alcuni neri schiavi del padrone del posto. Domandò al signore dove aveva trovato quegli schiavi neri, e lui rispose che quelle genti di colore abitavano là vicino e che erano costantemente in guerra con loro». Lo storico Lòpez de Gomara (94), a cui dobbiamo questa informazione, aggiunge: «Quei neri erano identici a quelli della Guinea, e io penso che nelle Indie non se ne siano più visti». Dunque, erano pochissimi. Il paragone con i neri di Guinea esclude del tutto sia i Dravidi asiatici che i Melanesiani, cosa confermata dai tipi che ci mostrano le statuette raccolte dal professor von Wuthenau. Su alcune di esse vediamo, infatti, dei visi che uniscono i tratti negroidi e semitici. A giudicare dal contesto archeologico - ma si sa che questo fattore è dubbio - potrebbero essere le più antiche, risalenti a prima della nostra era. Al contrario, altre statuette - i cui soggetti sono neri africani della costa occidentale - apparterrebbero all'epoca detta post-classica (900-1521), cioè al nostro Medioevo. E' concepibile che i modelli delle prime - dei meticci - siano arrivati in America su navi di semiti sconosciuti - impossibile non pensare ai Fenici - che, a giudicare dalle altre statuette già menzionate, avrebbero raggiunto, due o tre millenni or sono, il golfo del

Messico. Quelli dei più recenti possono essere arrivati solo con i templari. I neri africani, infatti, erano poco adatti come marinai. Nessuna delle loro tribù ha mai costruito navi di qualsiasi tipo. Si sono limitati, nella migliore delle ipotesi, a piroghe fatte con un solo pezzo di legno, destinate alla pesca costiera. Sicuramente non si può escludere che alcune di queste precarie imbarcazioni siano state trascinate dalla tempesta fino all'America e nemmeno - per quanto sia improbabile - che il loro equipaggio sia sopravvissuto alle condizioni di una traversata del genere. Ma, anche se così fosse stato, tutto porta a credere che gli indios li avrebbero scambiati per demoni e immediatamente uccisi. La nostra ipotesi, dunque, è molto più verosimile. Perché i templari, che in Palestina - come abbiamo visto - avevano adottato costumi musulmani, possedevano schiavi neri, presi come bottino o ricevuti in regalo, che non avrebbero certamente evitato di portarsi appresso. 5. Il Padre Gnupa, ecclesiastico del Tempio Chiudiamo questa parentesi sulla navigazione medievale attraverso l'Atlantico per tornare alle attività dell'Ordine nel «Nuovo Mondo». Esse forniscono, oltre alla soluzione dei problemi posti nel quadro europeo dal «segreto del Tempio», anche dati che contruibuiscono notevolmente a chiarire tre aspetti della storia americana. Ne abbiamo analizzato uno inerente al Messico. Gli altri due riguardano l'impero di Tiahuanaco. Dopo aver ottenuto la prova che le navi templari caricavano nel golfo di Santos e nel porto di Parnaïba i lingotti d'argento che permettevano all'Ordine di battere moneta e di finanziare la costruzione delle cattedrali gotiche, ci siamo immediatamente posti la domanda: qual era la controparte? Oltre che marinai, guerrieri, pirati alla bisogna, i Vichinghi erano anche dei commercianti. Non avrebbero giammai coltivato l'idea di regalare un metallo che certo per loro era inutile, ma di cui conoscevano il valore e la cui estrazione e fusione richiedevano comunque lavoro. Dunque, poteva trattarsi solamente di baratto. Ma cosa potevano offrire i templari in cambio dell'argento? Sicuramente alcuni prodotti di lusso, come tessuti e vini, ad esempio. Forse armi. Ma tutto quello che si può immaginare in questo campo è ben lontano dall'equilibrare la bilancia. Bisogna cercare altrove. Mettiamoci nei panni delle migliaia di Vichinghi che nel 1150 si erano stabiliti nell'area di una vecchia borgata indigena, i cui abitanti, senza per altro essere selvaggi, non avevano passato l'età della pietra levigata. I loro avi, sbarcati in Messico nell'anno 967, si erano recati in spedizione di conquista, e avevano portato con sé cavalli, ma non bestie da lavoro (26). Nelle loro fila, si dovevano contare solo i pochi artigiani per le navi in legno: carpentieri e fabbri. Certamente non c'erano tagliatori di pietra, poiché nella Scandinavia del decimo secolo si costruiva solo con il legno. E ancor meno architetti. Ebbene, sull'altopiano non esisteva nessuna foresta che potesse fornire il materiale indispensabile alla costruzione tradizionale. Gli indios, d'altra parte, giudicando dall'assenza totale di edifici anteriori al 1000, erano ben lontani dal padroneggiare l'Arte Regia. I Vichinghi, dunque, furono costretti a vivere per più di un secolo in capanne molto poco confortevoli. Quest'aspetto non aveva molta importanza negli anni in cui combatterono - insieme alle truppe aymara che reclutarono - in tutta

l'America del Sud per conquistare e organizzare un loro impero. Ben presto, tuttavia, il bisogno di una capitale degna della loro potenza si doveva essere fatto sentire. Nel linguaggio moderno, diremmo che per fondarla mancava loro la tecnologia indispensabile. A fornirla provvidero i templari: fu la loro merce di scambio. Non si tratta di una semplice supposizione. Altrove (20) abbiamo visto che l'edificio principale di Tiahuanaco, che gli indigeni chiamano Kalasasaya e che non era terminato quando la città venne conquistata nel 1290 dagli Auracani di Kari, era una chiesa cristiana. Il professor Hector Greslebin ha potuto costruirne un modellino, riproducendo in gesso a scala ridotta le rovine attuali e i blocchi di pietra lavorata che si trovano a un chilometro di distanza, in quello che costituiva un cantiere. Inoltre, la statua alta due metri che gli indios chiamano El Fraile, «il Monaco», è la copia esatta, a parte lo stile, di uno degli apostoli che si ritrovano sul portale della cattedrale gotica di Amiens: stesso libro con chiusura metallica nella mano sinistra, stesso rametto con manico nella destra, stesse proporzioni del viso. D'altronde, l'apertura della porta monolitica conosciuta come Porta del Sole, che venne trovata, abbattuta e spezzata, nella cinta del Kalasasaya e che doveva costituire una delle entrate, è ornata di un fregio che riproduce, sempre nello stile di Tiahuanaco, l'Adorazione dell'Agnello, uguale a quello del timpano nella cattedrale di Amiens. Il motivo centrale riecheggia nei minimi dettagli la descrizione apocalittica dell'Agnello. Le quarantotto figure delle tre fasce superiori rappresentano, con i loro rispettivi attributi, i dodici apostoli, i dodici profeti minori e i ventiquattro anziani con le cetre e le coppe d'oro, così come li descrive san Giovanni [Apocalisse, 6-8]. Nella fascia inferiore si vedono degli angeli che stanno suonando la tromba, strumento sconosciuto nell'America precolombiana. D'altra parte, il profilo delle figure dal viso umano è decisamente nordico. Amiens si trova in Piccardia, sulla frontiera della Normandia, e Dieppe, che appartiene a questa provincia, costituisce il suo porto naturale. La sua cattedrale fu costruita tra il 1220 e il 1288 e il portale tra il 1225 e il 1236. Dunque, è necessario che un architetto e uno scultore (o un architetto-scultore) siano arrivati a Tiahuanaco dopo quest'ultima data. Di fatto, i racconti indigeni che abbiamo citato a lungo in un'opera precedente (24) parlano di un monaco cattolico che era apparso sull'altopiano verso il 1250, dopo essere sbarcato nel golfo di Santos e aver attraversato il Paraguay. Era quel Pa'i Zumé che abbiamo già citato prima e che gli indios del Perù ricordavano con un nome a metà tra il norreno e il quitchua: Thul Gnupa Vihinkira, Padre Gnupa figlio dei Vichinghi. Era un uomo magro, alto, bianco, con gli occhi azzurri e la barba rossa, che aveva i capelli ondulati con il taglio a corona. Lo dipingono vestito di un lungo abito bianco con cintura, talvolta con una camicia viola e un manto rosso scuro. Tiene in mano un breviario e un pastorale, o un bastone. Aveva portato con sé una grande croce, fatta con un legno sconosciuto in Perù e che è stata ritrovata in seguito a Carabuco, dove viene venerata ancor oggi. Sicuramente è da ricollegare al suo arrivo il ritrovamento (nel XVI secolo), tra le ceneri del vulcano Arequipa, di una «tunica senza cuciture, di un colore cangiante» (95), «fatta di un materiale sconosciuto» (96), che poteva essere solo una cotta di maglia, pezzo di equipaggiamento che i Vichinghi del X secolo non usavano ancora, e che gli Spagnoli del XVI portavano da poco, ma che, nel XIII secolo, costituiva l'essenziale della tenuta militare dei

templari. Tutto, dunque, porta a credere che Padre Gnupa fosse un ecclesiastico dell'Ordine: un monaco normanno, o qualcuno che conosceva bene la cattedrale di Amiens; a meno che non si trattasse di uno dei discepoli che gli vengono attribuiti dalle tradizioni indigene. Padre Gnupa era incaricato di evangelizzare i Vichinghi pagani di Tiahuanaco: una missione di cui sarebbero rimaste molte tracce nella religione degli Inca (20). Portò con sé il progetto di una chiesa, o un architetto capace di tracciarlo sul posto. Non doveva essere una chiesa gotica: avrebbe richiesto l'arrivo di troppi compagni. Si doveva trattare di un edificio in stile normanno, cioè romanico - e questo è indicato dal modellino di Greslebin - per la costruzione del quale erano necessarie solo poche persone. Questo prova che i Bianchi di Tiahuanaco disponevano già di una manodopera indigena - intagliatori di pietre, muratori, scultori - altamente qualificata: quella che precedentemente aveva costruito, nella capitale e altrove, i numerosi templi e palazzi in pietra intagliata di cui vediamo ancora le rovine, e senza dubbio molti altri che sono completamente scomparsi. Una manodopera che poteva essere formata solo dai mastri artigiani che i templari avevano messo a disposizione. Dunque, non sorprende che nel 1933, quindi molto prima delle nostre ricerche, Edmund Kiss (97) nella conclusione di un articolo sull'architettura pre-inca - in cui le illustrazioni dei monumenti ricostruiti di Tiahuanaco sono quantomeno audaci ma, nell'insieme, esatte - abbia potuto scrivere; «Uomini di razza nordica devono aver abitato nella città di Tiahuanaco. Le opere d'arte della capitale preistorica sono probabilmente dovute a loro. E' chiaro che non si tratta di architettura indigena». Il quadro, ora, è assolutamente chiaro. Verso il 1150 gli uomini di Titicaca, una volta conquistato il loro impero ed essersi assicurati le vie di comunicazione fino all'Oceano Atlantico grazie alla loro alleanza con i Guaranì (25), ripresero contatto con l'Europa, senza dubbio a Dieppe, ad alcuni chilometri dal porto templare di Saint-Valery-en-Caux. Nel più grande segreto, secondo i costumi dell'epoca, Vichinghi e templari si misero d'accordo e, ben presto, le navi dell'Ordine cominciarono a frequentare le coste sudamericane. Grazie agli artigiani del Tempio, a Tiahuanaco e dintorni sorsero grandi edifici in pietra intagliata, sostituendo sempre più rapidamente le capanne di argilla o di pietra grezza, mano a mano che gli indios assimilavano le tecniche europee. Per la stessa ragione, la metallurgia prese nuovo slancio. All'oreficeria di origine asiatica, che gli indigeni della costa peruviana conoscevano già, si aggiunsero procedimenti più complessi, come la colatura su cera e il ferro lavorato. Le asce e gli scalpelli in pietra vennero sostituiti da utensili in bronzo e acciaio. Furono aperte miniere, permettendo così alle navi dell'Ordine di caricare i lingotti d'argento che partivano regolarmente per La Rochelle. Si trattava unicamente di scambi fruttuosi per entrambe le parti, senza alcuna interferenza dei templari nella vita dell'impero. Se le tracce del loro passaggio sono state ritrovate solo nell'Amambay paraguaiano, non lontano dalla fonderia di metalli preziosi che lì era stata installata, non è affatto per caso. Senza dubbio avevano accesso a Tiahuanaco solamente gli artigiani «sotto contratto», e alcuni ambasciatori. Fu solo verso il 1250 che un gruppo di ecclesiastici del Tempio seguì le tracce dei costruttori, non senza che la loro predicazione suscitasse diversi incidenti (24). Sotto

quella influenza, l'impero cominciò a cristianizzarsi, almeno superficialmente. Nella capitale si intraprese la costruzione di una chiesa i cui motivi scultorei venivano da Amiens. Ma ben presto, nel 1290, gli Auracani vennero a interrompere il lavoro. Tagliata fuori dalle miniere abbandonate della Sierra de la Plata, la fonderia di Cerro Corà dovette cessare le attività. Forse le navi del Tempio hanno potuto continuare per qualche anno a caricare lingotti a Parnaïba. A ogni modo, l'avventura finì nel 1307, in conseguenza dello scioglimento dell'Ordine. In piena anarchia il Perù, che non aveva mai veramente aperto loro le porte, non costituiva un luogo di rifugio soddisfacente per i fratelli in fuga dall'Europa: così preferirono il Messico. 6. Tre problemi minori I capitoli precedenti hanno permesso di risolvere i tre grandi problemi posti dalla storia del Tempio e rimasti, finora, senza spiegazione: quelli che si riferivano al «segreto» dell'Ordine. Siamo stati in grado di completare la nostra analisi, questa volta dal punto di vista dell'America, dando a due domande - secondarie ma importanti - una risposta che non era stata fornita dai nostri precedenti studi, e chiarendo ulteriormente un terzo punto già trattato nel suo insieme in maniera soddisfacente. Il terzo arrivo degli europei in Messico, quello dei templari, ci ha, in effetti, dimostrato che Brasseur de Bourbourg non si era sbagliato riconoscendo nel quiché-maya l'esistenza di alcune radici francesi in mezzo ad altre, molto più numerose, di origine germanica. Aveva involontariamente minimizzato questo apporto facendo risalire all'inglese alcuni vocaboli franco-normanni che all'epoca della partenza dei Vichinghi di Ullman dalla Gran Bretagna non vi erano ancora stati introdotti. E ancora aveva attribuito al latino alcuni termini che, a una più scrupolosa analisi, risultano molto più vicini ai vocaboli francesi che alla parola latina da cui derivano. Il primo arrivo, quello dei monaci irlandesi che si trovavano già nel Messico nei primi decenni del decimo secolo, spiega in modo soddisfacente il doppio apporto linguistico latino e gaelico; e il secondo, quello dei Vichinghi dello Schleswig venuti dalla Gran Bretagna nell'anno 967, spiega l'introduzione dei termini in norreno, tedesco e anglosassone. Restavano i vocaboli francesi, riconosciuti o no da Brasseur de Bourbourg. Ora sappiamo da chi provenivano. L'arrivo dei templari dà ragione anche della presenza di personaggi negroidi, o del tutto neri, nelle sculture precolombiane del Messico. Certo non si può escludere la possibilità che alcuni dei soggetti rappresentati siano meticci, come le caratteristiche razziali ci permettono di pensare, portati molto tempo prima dai semiti. Ma questa spiegazione è meno valida per i neri, poiché le statuette che li rappresentano sembrano risalire al periodo detto postclassico, cioè al Medioevo. Nell'Europa nord-occidentale, all'epoca delle spedizioni irlandesi e vichinghe, i neri erano sconosciuti. I templari, al contrario, avevano portato schiavi di razza africana dalla Palestina. Resta un terzo punto, che riguarda Padre Gnupa, l'evangelizzatore arrivato nel Perù verso il 1250. Sapevamo che era venuto dalla Normandia e che aveva introdotto a Tiahuanaco non solo il cristianesimo, ma anche modelli architettonici nettamente europei e alcuni motivi scultorei della cattedrale di Amiens. Ora possiamo aggiungere che si trattava verosimilmente di un ecclesiastico del Tempio. Questo fatto non avrebbe molta importanza se non ci

permettesse, indirettamente, di capire in cosa consisteva la controparte dei lingotti d'argento forniti dai Vichinghi. Una controparte che oggi possiamo riassumere con una sola parola: tecnologia. E questo era l'ultimo dei problemi minori che restavano da risolvere. Le considerazioni che ci inducono ad affermare che l'America del Sud era conosciuta dai templari, ci permettono anche di spiegare un ultimo aspetto della questione che le nostre ricerche precedenti non avevano pienamente chiarito. VI. L'eredità portoghese 1. Templari e Normanni Per comprendere bene la concatenazione dei fatti che abbiamo appena esposto bisogna tornare nell'ambiente del Medioevo europeo, assai diverso dall'immagine che ce ne è stata data dopo il XVIII secolo. E' uno scenario di incredibile effervescenza intellettuale, difficilmente controllata dalla Chiesa nel quadro - molto meno rigido di quanto l'esistenza dell'Inquisizione faccia supporre - di una dottrina mal definita e di una gerarchia che non sempre si distingue da quella del mondo feudale. Preti e vescovi sono sposati o vivono in concubinaggio senza che vi si trovi nulla da ridire. La mitologia germanica, i racconti dei vangeli apocrifi e quelli che narrano della ricerca del Graal ispirano gli scultori delle chiese almeno quanto l'Antico Testamento. Fate e gnomi si mescolano, nelle leggende di cui si nutre l'immaginazione popolare, ai draghi di un'agiografia in cui trionfa il meraviglioso. La teologia si impegna in vie molteplici che hanno in comune solo l'eterodossia e rivaleggia, in quest'ordine di idee, con una filosofia che cerca la sua strada attraverso i testi greci e romani, riscoperti con fervore. Nel campo di cui qui ci occupiamo, la cosmografia rinasce dalle sue ceneri. I geografi di lingua araba riportano in Occidente le conoscenze degli antichi che i crociati, dal canto loro, ritrovano a Bisanzio. Nessuno, negli ambienti colti, ignora che la Terra è rotonda. Se ne conosce anche la circonferenza più o meno esatta 40.033.400 metri, invece che 40.007.520 - misurata dai Musulmani, dopo Eratostene, nel IX secolo. Si ricomincia a leggere Tolomeo, che riprende da Marino di Tiro la storia del capitano greco Alessandro che, nel primo secolo d.C., aveva raggiunto via Pacifico - dopo «un numero di giorni così elevato» che non era «stato possibile contarli» - la città ben conosciuta di Cattigara (15). Da Plutarco, da Teopompo, da Macrobio, si sa che esiste una immensa terra di sogno al di là del Mare Tenebroso; o, perlomeno, l'isola paradisiaca coperta di foreste solcate da fiumi navigabili, di cui lo pseudo-Aristotele dei Racconti meravigliosi attribuisce la scoperta ai Cartaginesi (e Diodoro Siculo ai Fenici) (15). Gli ecclesiastici del Tempio non possono ignorare tutto questo, visto che nel XII secolo beneficiano dell'appoggio dei sapienti monaci di Cîteaux, strettamente legati ai rabbini di Borgogna; a Bisanzio hanno l'occasione di risalire alle fonti dell'informazione. Nelle commende come nei conventi e nei castelli si legge il resoconto della navigazione di san Brandano verso le rive dell'Occidente. D'altra parte, è senza dubbio lecito pensare che il servizio di informazioni dell'Ordine raccolga tutti i dati utili in materia sia in Medio Oriente che in Irlanda. Quindi i mercenari vichinghi di Bisanzio devono aver sentito parlare del Vinland e i culdei della Grande Irlanda. Forse anche, ma è molto meno certo, del Messico.

Ed ecco spiegato come i templari abbiano potuto lanciare le loro navi sull'oceano, alla scoperta di una terra della cui esistenza non v'era alcun dubbio. Ma, sulla base di questi dati, avrebbero dovuto dirigersi verso il nord o, a rigore, verso il centro del «Nuovo Mondo». Ebbene, sbarcarono nell'America del Sud, precisamente nel luogo in cui si trovava il metallo prezioso che cercavano. Quell'America del Sud nella quale i Vichinghi danesi si erano già stabiliti da centocinquant'anni. Fortunosamente, trascinati dalla tempesta? Possiamo immediatamente scartare ogni spiegazione di questo tipo. In un caso del genere, se si fossero schiantati su una costa deserta e se si fossero salvati per miracolo, non avrebbero potuto raccogliere nessuna informazione su miniere situate lontano, nell'interno delle terre. Oppure, sarebbero caduti nelle mani dei Vichinghi che erano poco teneri verso chiunque, e a maggior ragione verso degli intrusi. Ancora, in quest'ultima ipotesi, bisognava che gli uomini di Tiahuanaco si fossero stabiliti sull'Atlantico senza nessuna ragione, cosa inverosimile. Al contrario, è difficile pensare che una volta conquistato e consolidato il loro impero, non abbiano avuto voglia di riprendere contatto con il loro paese d'origine. E' logico ritenere che i porti dell'isola di Santa Caterina e del golfo di Santos e i «percorsi facili» che vi arrivavano siano stati costruiti con questa intenzione. Dunque, tutto porta a credere che furono i Vichinghi a stabilire il legame con l'Europa. Non nel 1250, come abbiamo supposto (24) tenendo in riserva, d'altronde, viaggi anteriori, ma un centinaio d'anni prima. Perché e come si recarono a Dieppe non lo sappiamo ma non è difficile immaginarlo, poiché nel XII secolo i rapporti tra Normandia e Inghilterra, da dove erano partiti i loro avi, erano molto stretti. Comunque, furono i Normanni che, verso il 1250, cominciarono a importare in Europa il legno dell'Amazzonia. E furono loro che, nella stessa epoca - prima la cartografia era inesistente prepararono una carta sulla quale figuravano sia il Vinland che l'America del Sud (15): una carta fondata su dati che, provenendo rispettivamente dai Vichinghi norvegesi e dai Vichinghi danesi, potevano essere riuniti solo a Dieppe, come abbiamo dimostrato (15). Gli uomini di Tiahuanaco non avevano nessuna ragione di entrare in contatto con i templari dei quali, comunque, non potevano conoscere l'esistenza. E se l'avevano fatto involontariamente, se, per esempio, una loro nave fosse stata catturata dalla flotta dell'Ordine, si può essere certi che le informazioni che avrebbero fornito non sarebbero mai state conosciute dai dieppesi, né da chiunque altro. Al contrario, è facile ipotizzare che le autorità templari del porto di Saint-Valery-en-Caux abbiano sorvegliato la costa molto da vicino era quella la loro ragion d'essere - e in primo luogo il porto di Dieppe, e che si siano facilmente procurata - al Tempio non si poteva rifiutare nulla - l'informazione ricevuta da oltre Atlantico. Con la sua flotta già imponente, l'Ordine era assai più equipaggiato di semplici pescatori per farla fruttare. Fu solo cent'anni dopo che gli armatori dieppesi si trovarono in condizione di recarsi, anch'essi, a fare baratti nel «Nuovo Mondo». E' sintomatico che non si siano arrischiati a far concorrenza ai templari andando a cercare metalli preziosi ma, anzi, si siano limitati a importare dall'Amazzonia dei carichi di legno, che non interessava i loro vicini. Beninteso, avrebbero potuto farlo solo accordandosi con i Vichinghi che controllavano tutta la zona. Qual era la loro moneta di scambio? Lo sappiamo (26): cavalli da tiro

e bestiame che liberavano, forse, a Parnaïba - la presenza di cavalli nel Piauì prima della conquista permette di pensarlo - ma soprattutto nel golfo di Santos, da dove li inviavano nelle ricche terre da pascolo dell'Ivinheima. E' appena necessario ricordare quello che abbiamo già dimostrato pienamente altrove (15): i dati geografici che permisero di redigere la carta di Dieppe non potevano essere stati forniti dai Normanni, né - aggiungiamo noi adesso - dai templari. Gli uni e gli altri si limitarono a navigare verso i porti e, tutt'al più, lungo le coste dell'America. Ebbene, la carta in questione mostra il profilo completo del subcontinente e inoltre, come ha scoperto Paul Gallez (98) da un planisfero di Henricus Martellus che risale al 1489, il corso di tutti i grandi fiumi e la posizione delle principali catene montuose. Un rilevamento di questo tipo poteva essere fatto solo da marinai, che avevano profonde conoscenze geografiche, e che si erano stabiliti da molto tempo nella regione. 2. Templari e Portoghesi Dopo quella della Francia, di cui la Normandia faceva parte, benché nel XII secolo fosse ancora legata all'Inghilterra, la provincia del Portogallo era la base più solida del Tempio. L'Ordine vi si era installato prima ancora di essere fondato ufficialmente. La principessa Teresa, figlia naturale di Alfonso IV di Castiglia, il cui figlio sarebbe poi diventato il primo re del Portogallo, aveva portato in dote al marito Luigi di Borgogna quello che fino ad allora era stato solo un contado, d'altronde occupato in gran parte dai Mauri. Quindi, nel 1126, la principessa aveva offerto un castello a Ugo di Payns. Per lei, evidentemente, si trattava di assicurarsi il concorso della futura milizia nella guerra di Riconquista e Bernardo, consigliere della casa di Borgogna, aveva dovuto garantirglielo. Fatto sta che i templari convogliano una parte delle loro forze a favore del futuro regno, che contribuiscono a liberare. Gualdim Païs, che sarebbe diventato priore provinciale dell'Ordine, partecipa a tutte le battaglie, fino alla presa di Santarém e di Lisbona. Per ringraziamento, il re Alfonso Enrico offre a Bernardo il terreno e i fondi necessari per la costruzione dell'abbazia di Alcobaça. Inoltre, dopo avere incaricato il Tempio di garantire la frontiera che separa il Portogallo dall'Andalusia, ancora nelle mani degli infedeli, gli concede tutte le terre situate tra Santarém e Tomar. In quest'ultima zona, Gualdim Païs costruisce un'enorme fortezza, ben presto attorniata da una decina di commende, senza parlare del porto militare di Serra d'El Rei, sull'Atlantico, da dove forse entravano anche carichi d'argento. Tomar resterà la sede del priorato provinciale fino al 1320, data nella quale, senza transizione, diventerà sede della grande signoria dell'Ordine di Cristo. In Portogallo, come altrove, il Tempio è sovrano, ma la sua influenza qui è molto più forte che nelle altre province. In Francia, in Inghilterra, in Germania, in Castiglia, viene sopportato perché è temuto. I re borgognoni di Lisbona, al contrario, non solo gli devono in gran parte la riconquista del territorio e il trono, ma ne dipendono ancora militarmente per via della minaccia musulmana, sempre latente. L'Ordine comunque è più potente di loro e le sue commende attorniano la capitale, di cui potrebbe impadronirsi molto facilmente. Dunque, fin dall'origine, si stabilisce un modus vivendi di mutuo appoggio. Diciamo che i templari possono contare sul re come il re può contare su di loro. Ma non si tratta di un'alleanza egualitaria. Fino al 1307 è l'Ordine che, malgrado le apparenze, sfrutta la monarchia. In seguito, sarà la monarchia a fare

dell'Ordine un suo strumento. Quando Filippo il Bello adotta le misure che ci sono note contro il Tempio e Clemente V ne decreta lo «scioglimento provvisorio», gli altri sovrani s'inchinano, la maggior parte assai volentieri, visto che, come il re di Francia, subivano di cattivo grado l'invasione dei loro Stati da parte di una potenza che sfuggiva alla loro autorità. Uno solo fa eccezione, quello del Portogallo: Dionigi. Per riconoscenza? Si tratta di una virtù poco comune in politica. Più probabilmente, il re calcola che i templari, privati del loro statuto, dunque della loro sovranità, non possono più rappresentare per lui il minimo pericolo; e che, al contrario, gli è permesso di servirsene. Potrebbe impadronirsi delle loro ricchezze; forse preferisce beneficiare del loro segreto. Fatto sta che Dionigi non solo non prende alcuna misura contro il Tempio, ma accoglie anche i fratelli che, fuggendo, arrivano a raggiungere i suoi stati. La flotta templare del Mediterraneo giunge al porto di Serra d'El Rei. Per tredici anni, il priorato del Portogallo continua ad esistere, come se non fosse successo niente. Poi, nel 1320, il re fonda l'Ordine di Cristo che lo assorbe. In apparenza non è cambiato nulla: stessa regola, stessa organizzazione, stessi uomini, stessi beni. Tranne un dettaglio: il gran maestro non è più eletto dai cavalieri, ma nominato dal sovrano. Il nuovo Tempio è sì un'eredità del precedente, ma perde la sua autonomia. Ormai, è un ordine nazionale. Si può pensare che quello che interessa particolarmente a Dionigi non sia la guardia alle frontiere, che le sue stesse truppe, ora che il reame si è consolidato, potrebbero assicurare occupando le fortezze templari, bensì la flotta che ha ripiegato su Serra d'El Rei. Il Portogallo non è una potenza marittima. L'oceano che bagna le coste è già sfruttato nelle sue risorse ittiche da Baschi, Bretoni e Normanni, senza che si sappia bene dove caccino la balena o peschino il merluzzo. Forse, il re sa pure che le navi del Tempio portavano da paesi lontani metalli preziosi, fattore principale della ricchezza e della potenza dell'Ordine. Tuttavia, il tempo passa senza che succeda niente. I fratelli tacciono nell'attesa che le misure prese contro di loro da Clemente V siano annullate? Oppure il Portogallo non è in condizione di sfruttare le informazioni che i templari forniscono? Comunque sia, è solo cent'anni più tardi che l'infante Enrico il Navigatore comincia a preparare l'espansione marittima del paese. Questo gran maestro dell'Ordine di Cristo - è un caso? - crea l'Académie de Sagres, dove riunisce arabi sapienti e, soprattutto, ebrei che si buttano sui libri e sulle carte riunite misteriosamente. Organizza un servizio di informazioni che interroga ogni capitano che tocchi terra in Portogallo. Fonda cantieri navali da cui non tardano a uscire navi solide, capaci di affrontare l'oceano, per le quali le navi templari forniscono un modello solo da perfezionare. Quando muore, nel 1460, i vascelli del reame hanno raggiunto Madera e le Azzorre, come altri avevano fatto molto prima di loro, e trafficano già con il Senegal, da cui importano avorio e, soprattutto, i primi schiavi neri che alla lunga modificheranno la razza dei Portoghesi. Poi le scoperte accelerano. Nel 1484, Diego Cal raggiunge la foce del Congo. Due anni più tardi, Bartolomeo Dìaz doppia il Capo delle Tempeste, ribattezzato Capo di Buona Speranza. La rotta delle Indie è aperta: poco dopo, Vasco de Gama la seguirà. Qual è la parte dei templari in questo paese minuscolo, popolato da un milione e mezzo di abitanti? Non lo sappiamo. Sappiamo solo che le navi lanciate sull'oceano portano tutte sulle vele la croce

dell'Ordine di Cristo, cioè la croce patente rossa del Tempio. Si tratta di una semplice testimonianza di riconoscenza verso l'Ordine, proclamato così come iniziatore dei marinai che stanno per fare del Portogallo la prima potenza marittima del mondo? Oppure, nell'epoca delle grandi conquiste, gli armatori di questi vascelli sono obbligatoriamente affiliati al nuovo Tempio, come i Figli di Salomone erano affiliati al vecchio all'epoca della costruzione delle cattedrali? Domanda senza risposta: non sappiamo di più sulle attività dei Cavalieri di Cristo che su quelle dei templari propriamente detti. 3. Da Dieppe a Lisbona Ci sono state diverse spedizioni portoghesi partite prima di Colombo alla ricerca delle terre d'oltreoceano: quelle di Diego de Teive (1452); José Vigado (1462); Gonzalo Fernàndez de Tavira (nello stesso anno); Ruy Gonçalves de Cámera (1472); Antonio Leme (1476) e molte altre ancora. Niente ci permette di affermare né di escludere che queste spedizioni abbiano raggiunto l'America del Sud. Non ne resta alcuna traccia, cosa che il segreto del Tempio e il segreto del re potrebbero essere sufficienti a spiegare. Comunque, non potevano essere che viaggi di esplorazione, poiché la distruzione dell'impero di Tiahuanaco aveva interrotto la rotta dell'argento. Ma, ad ogni modo, non possiamo dubitare che i Portoghesi conoscessero l'esistenza del «Nuovo Mondo». Ne abbiamo, in effetti, un indizio e una prova. Il 4 marzo 1493, Colombo tocca Lisbona tornando dal suo primo viaggio nel corso del quale ha «scoperto» solo le Antille. Il 15, entra nel porto di Palos. Il 3 maggio, il papa spagnolo Alessandro IV promulga una prima bolla che concede al reame di Castiglia le Indie che sono state scoperte e quelle ancora da scoprire. L'indomani, ne promulga una seconda che divide il globo terrestre in due metà tramite una linea che, da un polo all'altro, taglia in due l'oceano Atlantico a cento leghe da «una qualunque delle isole conosciute come Azzorre e Capo Verde»; le terre non ancora assegnate dell'ovest apparterranno alla Castiglia, quelle dell'est al Portogallo. La corte di Lisbona, che all'inizio si è mostrata d'accordo, non tarda a protestare con veemenza. Si intavolano negoziati che nel giugno 1494 portano al trattato di Tordesillas: la linea di demarcazione è stata spostata a trecentocinquanta leghe da Capo Verde. Qual è la differenza? Semplicemente il Brasile, la cui enorme punta orientale viene così incorporata nel dominio portoghese. Ebbene, nel 1494 nessuno ha ancora ufficialmente riconosciuto le coste del subcontinente australe e Colombo non ha nemmeno raggiunto la terraferma. A Lisbona dev'essere successo qualcosa per giustificare un cambiamento di atteggiamento così repentino. Evidentemente, è stata consultata una carta del «Nuovo Mondo»; una carta che gli Spagnoli non posseggono, visto che senza rendersene conto cedono ai loro concorrenti la metà delle terre che il Sommo Pontefice ha appena assegnato loro nell'America del Sud. Questa carta in effetti esiste: l'abbiamo dimostrato in un'opera precedente (15). Si tratta della carta che Colombo aveva consultato clandestinamente qualche anno prima nel Tesouraria dove il re del Portogallo conservava i suoi archivi segreti; la stessa che Magellano copierà qualche anno dopo, prima di andare a offrire i suoi servizi a Carlo V. Ancora la stessa che Renato II, duca di Lorena, farà pubblicare nel 1507 dal Gymnase vosgieni. E' una carta che localizza esattamente il continente «sconosciuto», e riporta, oltre al Vinland,

a cui si riduce l'America del Nord, il tracciato completo dell'America del Sud, con lo stretto. La carta permette a Colombo di affermare, contro i dati più «solidamente stabiliti» dei geografi, che la terra del Gran Khan, vale a dire l'Asia orientale, è molto più vicina di quanto si creda all'Europa e occupa uno spazio che in realtà - ma si guarda bene dal dirlo - è quello del «Nuovo Mondo». La stessa carta fornisce a Magellano un argomento decisivo per convincere l'imperatore e i suoi ministri, ai quali mostra lo stretto che si ripromette di raggiungere. Uno stretto del quale - secondo Pigafetta, il diplomatico pontificale che lo accompagnò nel suo viaggio conosce non solo la latitudine approssimativa, ma anche i minimi dettagli topografici. La stessa carta fornisce al re di Francia, desideroso di opporsi alla bolla che gli chiudeva le porte dell'America, una prova che questa era già ben conosciuta prima della sua scoperta ufficiale da parte dei Castigliani, e un'arma che gli avrebbe permesso di conquistare il Canada. Sappiamo molto bene dove è stata redatta questa carta: a Dieppe, in Normandia. Infatti era l'unico luogo dove fosse possibile radunare, nel Medioevo, i dati geografici forniti, da una parte dai Vichinghi norvegesi che avevano colonizzato il Vinland, e dall'altra dai Vichinghi danesi che si erano ritagliati un impero nell'America del Sud. Era solo a Dieppe, e in altri porti normanni secondari, che alcune navi scaricavano i merluzzi di Terranova e altre il legno brasile dell'Amazzonia. Ed era normale che si fosse imbarcato a Dieppe un monaco venuto da Amiens, distante circa 100 km, deciso ad andare in America per evangelizzare Vichinghi e indios. Là furono redatte le carte che - per la prima volta - mostrarono un «Nuovo Mondo» separato dall'Asia. Fu da Dieppe, infine, che partì Jean Cousin, che sicuramente raggiunse la foce del Rio delle Amazzoni nel 1488, e sarà da lì che partirà Gonneville che, nel 1503, passerà sei mesi sulle coste del Guayrà, cioè del Paraguay (24) di allora, a sud del golfo di Santos. Tutto questo l'abbiamo ampiamente dimostrato in L'imposture de Cristophe Colomb. Resta solo una domanda in gioco: come aveva fatto la carta di Dieppe a finire nelle mani dei Portoghesi? Mancando di una migliore spiegazione, avevamo suggerito un'operazione di spionaggio. Gli agenti di Lisbona che, effettivamente, erano molto attivi in tutti i grandi porti europei, si sarebbero resi conto che alcune navi, tornando ufficialmente dalla Guinea, rientravano cariche di pesci di una specie sconosciuta sulle coste dell'Europa o dell'Africa, o di un legno per tintura che poteva provenire solo da un'isola sconosciuta dell'Atlantico. Allora, si sarebbero procurati, in un modo o nell'altro, la carta che utilizzavano i piloti normanni per questi viaggi, il cui fine e il cui itinerario erano circondati da tante precauzioni al punto di far giurare sul Vangelo i membri dell'equipaggio di conservare al riguardo il più stretto segreto. Questa ipotesi era errata. Le nostre analisi ci hanno dimostrato che i templari conoscevano molto bene quello che abbiamo chiamato «il segreto di Dieppe» (15) e che lo sfruttavano già per conto loro, prima ancora che gli armatori normanni fossero in condizione di farlo. Ebbene, se non c'era nessun rapporto tra Dieppe e Lisbona, ce n'era uno, molto stretto, tra il Tempio e il reame del Portogallo, che costituiva la sua provincia più importante dopo la Francia. E nel Portogallo l'Ordine sopravvive, anche se ora è sottomesso allo Stato, quando ormai è scomparso in tutto il resto dell'Europa. Se il Tempio

ha avuto la prudenza di assicurarsi una base di ripiego, c'è da supporre che vi abbia messo al riparo nella prima allerta - ed era molto che si sentiva minacciato - se non i suoi archivi, almeno le copie dei documenti indispensabili. Logicamente, dunque, la copia della carta di Dieppe doveva essere depositata a Tomar o a Serra d'El Rei. Se la logica è in difetto, se il priorato possedeva solo i suoi archivi provinciali, resta il fatto che alcuni dei templari fuggiti dalla Francia dovevano appartenere all'amministrazione del Secretum Templi. In un modo o nell'altro, la carta di Dieppe passa così al potere del re. E' troppo tardi perché ne possa fare uso: i fornitori di metalli preziosi sono scomparsi dalle coste americane. Senza dubbio alcune spedizioni hanno confermato, di volta in volta, questa situazione. In mancanza d'argento, le spezie costituiscono la più desiderabile delle fonti di ricchezza. Ma è possibile procurarsele solo in Oriente. Le navi portoghesi, quindi, si inoltrano sulla rotta delle Indie. Inutile per il momento, la carta di Dieppe giace nel Tesouraria dove il re conserva i suoi archivi segreti. Laddove, successivamente, arriveranno Colombo e Magellano a rubarla. 4. La fine del mistero Tutto è chiaro, ora. Sulla traccia dei monaci culdei irlandesi, i Vichinghi dello Schleswig, partiti dai possedimenti danesi della Gran Bretagna, scoprono il Messico, e poi l'America del Sud, dove si installano verso l'anno 1000. Una volta terminata la conquista del loro impero che si estende, sul Pacifico, dalla piana di Kundanemarka (Cammino reale danese), nell'attuale Colombia, al Cile centrale, sentono il bisogno di riprendere i contatti con l'Europa. Per farlo, aprono due vie di comunicazione verso l'Atlantico: il Peaviru, «percorso facile» che taglia la foresta paraguaiana, e l'Amazzonia. E affidano la guardia di queste vie ai loro alleati guaranì. Nel porto dell'isola di Santa Caterina, costruiscono una nave che, verso il 1150, fa vela verso l'antico Danelaw britannico. Ci si trovano un poco spaesati, poiché la regione è governata da una dinastia normanna di origine danese che l'ha riconquistata meno di cento anni prima, quando a Rouen regnava il duca che noi chiamiamo Guillaume, ma che il quadro di Bayeux chiama Willelm. L'Inghilterra è ancora solo un paese agricolo. La Normandia, al contrario, ha conservato le tradizioni marinare della sua popolazione vichinga. Le due regioni hanno lo stesso sovrano. Così è comprensibile che la nave americana abbia deviato, alla fine, su Dieppe, il porto normanno più vicino alla costa inglese. I Vichinghi di Tiahuanaco non hanno alcuna ragione di nascondere ai loro cugini quello che conoscono sull'America del Sud. Al contrario, devono essersene vantati. Lasciano che i Dieppesi prendano una copia della carta che hanno redatto in centocinquant'anni di navigazione lungo le coste del subcontinente e di esplorazione di un territorio che occupano all'ovest delle Ande e che controllano, a nord e a est, dall'Orinoco al Rìo de la Plata. Una carta che verrà arricchita, sulla base delle informazioni ricevute dagli scandinavi, con i quali la Normandia mantiene stretti contatti, con il tracciato del Vinland, cioè delle terre colonizzate o conosciute nell'America del Nord, dai Vichinghi norvegesi. I Dieppesi, secondo l'usanza dell'epoca, serbano gelosamente un segreto da cui sperano, non senza ragione, di poter trarre più tardi vantaggi commerciali. Ma non sono i soli a conoscerlo. Il Tempio è onnipotente, nella regione ancor più che altrove. Infatti, possiede

un porto di importanza vitale a Saint-Valery-en-Caux: da questo porto dipendono in gran parte le sue comunicazioni con la Gran Bretagna, e le autorità portuali non possono ignorare l'arrivo improvviso di una nave su cui viaggiano uomini vestiti in modo strano, che sicuramente portano magnifici gioielli d'oro e d'argento. I templari si informano. Il loro rapporto non deve sorprendere oltremodo il gran maestro: conferma le informazioni già raccolte a Bisanzio e altrove riguardo al «Nuovo Mondo». Ma apre prospettive insperate, poiché ipotizza una gran ricchezza di metalli preziosi. Dunque, si stabiliscono contatti con i Vichinghi americani, negoziando un accordo. Ben presto le navi dell'Ordine prendono la strada dell'America, dove i suoi tecnici da una parte organizzano lo sfruttamento dei giacimenti nella Sierra de la Plata, e dall'altra tracciano i piani della nuova Tiahuanaco, rapidamente messa in cantiere grazie alla manodopera indigena che istruiscono. Il metallo non tarda ad arrivare nel porto di La Rochelle, destinato in special modo alla navigazione transatlantica. Le risorse del Tempio ne vengono straordinariamente moltiplicate e vengono usate per finanziare la costruzione delle cattedrali gotiche. Tanto più che alle miniere delle Ande vengono ben presto ad aggiungersi quelle del Piauì, e, quando queste ultime si esauriscono, quelle di Minas Gerais, al prezzo del grande lavoro di disseccamento della Grande Laguna. Il Secretum Templi, testimoniato dai sigilli recentemente ritrovati, compreso quello che mostra un indio americano, copre un'operazione così importante da giustificare la costituzione di una nuova gerarchia che, almeno nel suo campo, supera quella di cui il gran maestro costituisce il vertice. I Vichinghi, pagani, non permettono tuttavia ai templari di stabilirsi nel loro impero. A prezzo di grandi difficoltà e, alla fine, della vita, un ecclesiastico dell'Ordine - che i Guaranì chiamavano Pa'i Zumé e i Danesi, nella loro lingua, Thul Gnupa, il Padre Gnupa - riesce a penetrare nell'America del Sud e a evangelizzarne superficialmente le popolazioni. E' dovuta a lui la costruzione, a Tiahuanaco, di una chiesa romanica - con motivi scultorei provenienti dalla cattedrale di Amiens - che non è stata ancora terminata nel momento in cui la capitale vichinga viene presa, verso il 1290, dagli Auracani in rivolta. Quando, una volta sparito il reame francese di Gerusalemme, i sovrani dell'Occidente cominciarono a mostrarsi inquieti per la potenza dell'Ordine e del papa, per una eterodossia teologica che scaturisce da un contatto troppo stretto con Ebrei e Musulmani, il Tempio pensa ad assicurarsi una base di ripiego oltreoceano e a costruire uno Stato sovrano che gli permetta di evitare qualsiasi costrizione. Viene inviata una nave nell'America centrale, e i membri del suo equipaggio sono accolti con entusiasmo dagli indigeni che aspettano da tre secoli il ritorno di Quetzalcòatl. I templari sono delusi, perché non vi trovano quantità apprezzabili di metalli preziosi. Invece sono gradevolmente sorpresi di incontrare popolazioni che non hanno del tutto dimenticato gli insegnamenti dei papas irlandesi. Dunque, il Tempio si stabilisce nel Messico, sulle rive del lago di Chalco. Alcuni anni più tardi, nel 1307, la squadra di La Rochelle sbarca a Pànuco: non solo gli archivi dell'Ordine, ma anche un forte contingente di cavalieri, con gli ecclesiastici, i sergenti e i conversi. Così rinforzata, la comunità impone la sua autorità a tutta la regione di Chalco, dove trasporta, mutatis mutandis, le istituzioni feudali europee. Può farlo solo adattandosi alle credenze e agli usi locali: e d'altronde la vocazione

sincretista del Tempio spinge nella stessa direzione. Ma, dopo il 1307, viene troncato ogni contatto con il Vecchio Mondo. I templari, votati al celibato, muoiono uno dopo l'altro senza lasciare discendenti, tranne qualche incrocio meticcio. Il francese della vita quotidiana e il latino della liturgia spariscono molto presto, benché alcune parole - egualmente attribuibili, nel secondo caso, agli antichi Irlandesi - si introducano nel maya (ne abbiamo la prova) e probabilmente nel nàhuatl. Il Tempio si messicanizza a ritmo accelerato e con lo stesso ritmo perde la sua autorità sulle popolazioni indigene. All'arrivo degli Spagnoli resta solo una struttura ecclesiastica ancora differenziata in seno alla chiesa azteca e alcune credenze, tradizioni, riti e simboli più o meno confusi con l'eredità lasciata dal Quetzalcòatl irlandese e dal Quetzalcòatl vichingo. I Normanni, dal canto loro, impiegano più tempo dei templari - dei quali non posseggono né il capitale, né la flotta - a sfruttare le informazioni ricevute dagli emissari di Tiahuanaco. Le loro navi cominciano solamente nel 1250 a caricare balle di legno brasile in Amazzonia e a liberare, in cambio, forse a Parnaïba ma sicuramente a Santos, dei cavalli e del bestiame. Non sono toccati, naturalmente, dallo scioglimento dell'Ordine del Tempio, e anzi questo consente loro di potersi muovere liberamente nell'America del Sud. Ma, poco prima, i Vichinghi, il cui impero è distrutto, hanno abbandonato le coste. Il commercio continua ugualmente, con gli indigeni che vengono pagati con baratti, fino all'arrivo dei Portoghesi. E anche molto più tardi, poiché la Francia - alla quale la Normandia è stata annessa dopo il XIII secolo - nel XVII secolo occupa ancora la Grande Guyana delimitata dall'Orinoco, dall'Amazzonia e dal mare, l'attuale stato di Maranhäo, a sud del Rio delle Amazzoni, e, a parte la città di Pará, la valle di Tocantins. Senza parlare della base temporanea che ha stabilito a Rio de Janeiro alla fine del XVI secolo, con l'appoggio degli indios. I templari, tuttavia, non sono del tutto scomparsi. Il Portogallo, al quale avevano reso grandi servigi durante la Riconquista e che costituiva la loro provincia più importante dopo la Francia, ha rispettato le loro persone e i loro beni e ha anche fondato per loro, con il controllo dello Stato, l'Ordine di Cristo. E' probabile che a Tomar, il suo priorato provinciale, o a Serra d'El Rei, il suo porto di guerra, il Tempio conservi copie dei suoi archivi marittimi, o che vi si siano rifugiati, nel 1307, dei cavalieri al corrente del «segreto dell'Ordine». In ogni caso, è certo che la carta di Dieppe, ormai inutile poiché le miniere d'argento dell'America del Sud sono state abbandonate dai Vichinghi, si trovi nel Tesoro del re, a Lisbona, nel XV secolo. Colombo la copia e si serve di quei dati al fine di ottenere da Isabella di Castiglia l'autorizzazione per andare a «scoprire» una terra che è necessario presentare come il regno del Gran Khan, mentre egli sa benissimo che si tratta di un continente in cui tutti si recano da secoli. Alcuni anni dopo, Magellano la ruba a sua volta e la usa per ottenere da Carlo V il permesso di «scoprire» quel passaggio del sud che i Vichinghi conoscevano perfettamente. E che figura già sul globo costruito nel 1515 da Johannes Schöner, copia completa della carta di Dieppe, probabilmente fornita dal re di Francia, e che è stata fatta pubblicare senza lo stretto otto anni prima dal duca di Lorena. Dunque, dagli Irlandesi agli Spagnoli, passando per i Vichinghi, i templari e i Portoghesi, tutto si collega senza che vi sia la minima lacuna. Il solo punto che restava ipotetico nella nostra conclusione

di L'imposture de Cristophe Colomb (15) ora è chiarito. Sappiamo che il Tempio prendeva dall'America del Sud il metallo col quale batteva moneta, che il porto di La Rochelle serviva al suo traffico con il «Nuovo Mondo», che i suoi archivi, precipitosamente portati via da Parigi alla vigilia del colpo di mano di Filippo il Bello, furono imbarcati verso il Messico o che, almeno, tutto sembra indicarlo. Sappiamo anche che si deve ai templari l'introduzione di parole francesi nel maya e forse nel nàhuatl, che i neri rappresentati da certe statuette trovate nell'America centrale erano i loro schiavi e che Padre Gnupa, evangelizzatore del Paraguay e dell'altopiano nel XII secolo, era uno dei loro ecclesiastici. Ma sappiamo anche che fu per loro intromissione che la carta di Dieppe passò dalla Normandia al Portogallo. Quella carta che permise a Colombo e a Magellano di «scoprire» ciò che tanti altri conoscevano benissimo da secoli. La nostra ricerca è lontano dall'essere conclusa. Ma il suo scenario storico è ormai completo. Note bibliografiche (1) Maillard de Chambure: Règle et statuts secrets des templiers, Parigi, 1840. (2) Michelet, Jules: Le Procès des templiers, Parigi, 1841-1851. (3) Charpentier, John: L'Ordre des templiers, Parigi, 1945. (4) Michelet, Jules: Histoire de France, tomo I, Parigi, 1858. (5) Paris, Geffroy de: Recueil des histoires des Gaules et de Franc, tomo XXII, Parigi, 1865. (6) Boudin, Amédée: Histoire de Marseille, Parigi e Marsiglia, 1852. (7) Charpentier, Louis: Les Mystères de la cathédrale de Chartres, Parigi, 1969. (8) Guillotin de Corson: Les Commanderies de Nantes, Nantes, 1897. (9) Guéry, abate: Les Commanderies dans le département de l'Eure, Evreux, 1903. (10) Perdiguier, Agricol: Mémoires d'un compagnon, Parigi, 1943. (11) Kervran, Louis: Brandan, le grand navigateur celte du VI siècle, Parigi, 1977. (12) Charpentier, Louis: Les Mystères templiers, Parigi, 1970. Tr. it: I misteri dei templari, Roma, 1981. (13) Archivi segreti del Vaticano, parte «Register Averr.» n. 48 Benedicti XII, tomo I, folii 448-451. Citato da Sède, Gérard, in Les Templiers sont parmi nous, Parigi, 1962. (14) Biblioteca nazionale di Parigi. Manoscritto latino 10919, folio 84, verso, id. (15) Mahieu, Jacques de: L'imposture de Christophe Colomb, Parigi, 1979. (16) Delaville Le Roulx: Documents concernant les templiers extraits des archives de Malte, Parigi, 1882. (17) Bertrand, Louis: Louis XIV, Parigi, 1923. (18) Varende, Jean de la: Les Gentilshommes, Parigi, 1955. (19) Sant'Agostino: La città di Dio, Libro XVI, c. VIII. (20) Mahieu, Jacques de: Le Grand voyage du Dieu-Soleil, Parigi, 1971. Tr. it: Il grande viaggio del Dio Sole, Roma, 1979. (21) Krickeberg, Walter: Las Antiguas culturas mexicanas, Messico, 1961. Tr. tedesca: Altmexicanische Kulturen, Berlino, 1956. (22) Heine-Geldern, Robert von, et Ekholm, Gordon F.: Significant parallels in the symbolic art of Southern Asia and Middle America, negli Atti del XXIX Congresso internazionale degli americanisti, vol.

I, Chicago, 1951. (23) Verrill, Hyat: Old Civilizations of the New World, New York, 1938. (24) Mahieu, Jacques de: L'Agonie du Dieu-Soleil, Parigi, 1974. (25) Mahieu, Jacques de: Drakkars sur l'Amazone, Parigi, 1977. (26) Mahieu, Jacques de: Le Roi viking du Paraguay, inedito in Francia. Tr. tedesca: Der Weisse König Ipir, Tübingen, 1978. Tr. spagnola: El Rey vikingo del Paraguay, Buenos Aires, 1979. (27) Boman, Eric: Antiquités de la région andine de la république Argentine e du désert d'Atacama, Parigi, 1908. (28) Dìaz del Castillo, Bernal: Historia verdadera de la conquista de la Nueva España, Messico, 1960. (29) Poznanski, Arthur: Tihuanaco, the Cradle of American Man Tihuanaco, cuna del hombre americano, edizione bilingue, tomo II, La Paz, 1947. (30) Cieza de Léon, Pedro: La Crònica del Perù, Siviglia, 1553. (31) Alonso, Alvaro: Arte de los metales en que se enseña el verdadero beneficio de los de oro y plata por açogue, Madrid, 1640. (32) Dìaz de Guzmàn, Ruiy: Historia argentina del descubrimiento, conquista y poblaciòn del rìo de la Plata, Asunciòn, 1845. (33) Gandìa, Enrique de: Historia crìtica de los mitos de la conquista americana, Buenos Aires, 1929. (34) Jover Peralta, Anselmo e Osuna, Tomàs: Diccionario guaranì-español y español-guaranì, Buenos Aires, 1950. (35) Herrera y Tordesillas, Antonio de: Décadas (IV, L. I, cap. 1), Madrid, 1601. (36) Schwennhagen, Ludwig: Antiga història do Brasil, Teresina, 1920. (37) Fawcett, P.H.: Exploration Fawcett, Londra, 1953. (38) Lopez de Gomara, Francisco: Conquista de México, Barcellona, 1887. (39) Torquemada, Juan de: Monarquìa indiana, Siviglia, 1615. (40) Sahagùn, Bernardino de: Historia de las cosas de Nueva España, Madrid, 1829. (41) Kingsborough, Lord: Antiquities of Mexico, Londra, 1830. (42) Duràn, Diego: Historia de las Indias de Nueva España y islas de Tierra Firme, Messico, 1867-1880. (43) Rendòn, Sonia: Introduzione a Chimalpàhin Cuauhtlehuanìtzin, Francisco de San Antòn Muñoz, Relaciones originales de Chalco Amaquemecan, VI e VII relazione, Messico, 1965 (45). (44) Beauvois, Eugène: Les Templiers de l'ancien Mexique, in Le Museon, nuova serie, volume 3, Louvain, 1902. (45) Chimalpàhin Cuauhtlehuanìtzin, Francisco de San Antòn Muñoz: Relaciones originales de Chalco Amaquemecan, VI e VII relazione, Messico, 1965. (46) de Séville, Isidore: Liber etymologiarum, L. XIV. (47) Beauvois, Eugène: La Tula primitive, berceau des papas du Nouveau Monde, in Le Museon n. 2, Louvain, 1891. (48) Tezozòmoc, Hernando Alvarado: Arte en lengua mixteca, Messico, 1593. (49) Icazbalceta, Joaquìn Garcìa: Historia de los mexicanos por sus pinturas, in Nueva colecciòn de documentos para la historia de México, Messico, 1886-1892. (50) Rojas, G. de: Relaciòn de Cholula, citato da Beauvois, Eugène in Les Blancs précolombiens figurés et décrits dans les plus anciens

documents du Mexique et de l'Amérique centrale, in Revue des questions scientifiques, seconda serie, tomo XVI, Louvain, 1899. (51) Vetancur, Agustìn de: Teatro mexicano, citato da Beauvois, Eugène: La Tula primitive, berceau des papas du Nouveau Monde, in Le Museon n. 2, Louvain, 1891 (47). (52) Ixtlilxòchitl, Francisco de Alva: Historia chichimeca, tomo IX, in Kingsborough, Lord, Antiquities of Mexico, Londra, 1830 (41). (53) Ixtlilxòchitl, Francisco de Alva: Obras Històricas. Cuarta relaciòn: de la vida de los reyes toltecas, Messico, 1891. (54) Anonimo: Popol Vuh, Messico, 1953. Tr. it.: Popol Vuh, Torino e Milano. (55) Ponce, Alonso: Relaciòn breve y verdadera de algunas de las muchas cosas que sucedieron al Padre Fray Alonso Ponce en las provincias de la Nueva España, in Collecciòn de documentos para la historia de España, tomi LVII e LVIII, Madrid, 1873. (56) Anonimo: Tìtulo de los Señores de Totonicapàn, citato nell'introduzione di Anonimo, Popol Vuh, Messico, 1953 (54). (57) Fuentes y Guzmàn, Francisco Antonio de: Historia de Guatemala, o Recordaciòn florida, Madrid, 1882. (58) Codex Telleriano-Remensis, Biblioteca nazionale di Parigi, riprodotto da Hamy, E.T., Parigi, 1899. (59) Chimalpàhin, Cuauhtlehuanìtzin, Francisco de San Antòn Muñoz: Annales, traduzione francese di Relaciones originales de Chalco Amaquemecan (VI e VII relazione, Messico, 1965), a cura di Siméon, Rémi, Parigi, 1889. (60) Brinton, Daniel G.: Ancient Nahuatl Poetry, in The Library of Aboriginal American Literature, tomo VII, Filadelfia, 1887. (61) Soustelle, Jacques: La vie quotidienne des Aztèques, Parigi, 1955. (62) Muñoz Camargo, Diego: His -toria de Tlaxcala, Messico, 1892. (63) Achard, Eugène: Un Couvent de moines en Nouvelle-Ecosse avant l'an mille, Québec, 1972. (64) Beauvois, Eugène: Analyse de l'étude de M. Gravier «Les Colonies européennes du Markland et de l'Escociland (Domination canadienne) au XIV siècle et les vestiges qui en subsistèrent jusqu'aux XVI et XVII siècles», Congresso internazionale degli americanisti, Lussemburgo, Resoconto, Lussemburgo-Parigi, 1878. (65) Tezozòmoc, Hernando Alvarado: Crònica mexicana, Messico, 1878. (66) Aguilar, Francisco de: Breve relaciòn de la Conquista de la Nueva España, in Anales del Museo de México, pubblicato da Icazbalceta, Joaquìn Garcìa, Messico, 1885-1892. (67) Séjourné, Laurette: El Universo de Quetzalcòatl, Messico, 1962. (68) Pomar, Juan Bautista: Relaciòn de Tezcuco, Messico 1886-1892. (69) Le Conteulf de Cantelen, conte: Les Sectes et les sociétés secrètes politiques et religieuses, citato da Nilus, Sergej in Antichrist, Mosca, 1911 (tradotto dal russo). (70) Ixtlilxòchitl, Fernando de Alva: Relaciòn del origen de los xuchimilcas, in Kingsborough, Antiquities of Mexico, Londra, 1830 (41). (71) Herrera y Tordesillas, Antonio de: Décadas, II, Madrid, 1601. (72) Mendieta, Gerònimo de: His -toria eclesiàstica indiana, Messico, 1945. (73) Garcìa, Gregorio: Predicaciòn del Evangelio en el Nuevo Mundo, citato da Kingsborough, Antiquities of Mexico, Londra, 1830 (41).

(74) Musset, Lucien: Introduction à la runologie, Parigi, 1965. (75) Pizarro, Pedro: Relaciòn del descubrimiento y conquista de los reinos del Perù, in Colecciòn de documentos inéditos para la historia de España, Madrid, 1844. (76) Quiroga, Adàn: La Cruz en América, Buenos Aires, 1901. (77) Garcìa, Gregorio: Origen de los indios del Nuevo Mundo e Indias Occidentales, Madrid, 1729. Tr. it.: Commentari reali, Milano, 1980. (78) Garcilaso de la Vega, Inca: Comentarios Reales, Madrid, 1722. (79) Jiménez de la Espada, Marcos: El Hombre blanco y la cruz precolombina en el Perù, Congresso internazionale degli americanisti, Bruxelles. Resoconto, Bruxelles, 1879. (80) Ayala, Phelipe Guaman Poma de: Corònica y buen gobierno, La Paz, 1944. (81) Guénon, René: Symboles fondamentaux de la science sacrée, Parigi, 1962. Tr. it.: Simboli della scienza sacra, Milano, 1975. (82) Carnac, Pierre: Les Conquérants du Pacifique, Parigi, 1975. (83) Mély, F. de: voce «Ostensoir», in La Grande Encyclopédie, tomo 25, Parigi, 1892. (84) Brand, J.: Observations on the Popular Antiquities of Great Britain, Londra, 1853. (85) Kervran, Louis: Brandan, le grand navigateur celte du XI siècle, Parigi, 1977. (86) Brasseur de Bourbourg, étienne: Grammaire de la langue quichée, Parigi, 1862. (87) Denison, T.S.: The Primitive Aryans of America, Chicago, 1908. (88) Mendoza, Gumersindo, direttore del Museo Nacional de Antropologìa, Messico. Senza referenze. (89) Mongé, Alf, e Landsverk, O.G.: Norse Medieval Cryptography in Runic Carvings, Glendale, California, 1967. (90) Spanuth, Jürgen: Le Secret de l'Atlantide, Parigi, 1978. (91) Ferryn, Patrick: Races extracontinentales en Mésoamérique, in Kadath, Bruxelles, maggio-giugno 1975. (92) Wuthenau, Alexander von: Terres cuites précolombiennes, l'image humaine du Nouveau Monde, Parigi, 1969. (93) Herrera y Tordesillas, Antonio de: Décadas, I, Madrid, 1601. (94) Lòpez de Gomara, Francisco: Historia general de las Indias, Madrid, 1858. (95) Ramos, Alonso: Historia del célebre y milagroso Santuario de la insigne imagen de Nuestra Señora de Copacabana y sus milagros y invenciòn de la Cruz de Carabuco, Lima, 1621. (96) Techo, Nicolàs del: Historia provinciae paraquariae, Lilla, 1673. (97) Kiss, Edmund: Nordische Baukunst in Bolivien, in Germanien, Berlino, 1933. (98) Gallez, Paul: Les Grands fleuves de l'Amérique du Sud sur le Ptolémée londonien d'Henri Hammer (1489), in Erdkunde, Bonn, 1975. Un rigoroso storico eterodosso Di certo Jacques de Mahieu (Parigi 1915 - Buenos Aires 1990) è stato uno storico eterodosso. E' stato, in altre parole, un ricercatore convinto che la storia dell'umanità non dovesse necessariamente e ad ogni costo coincidere con quella che, dalle scuole medie fino all'università, ci è stata raccontata dai manuali e

dai sussidiari scolastici, troppo spesso conformisti e pigri. Ma, a differenza dei troppi saggisti che dagli anni Sessanta in poi si sono accontentati di presentare le loro rivoluzionarie argomentazioni collezionando materiale di seconda o terza mano, de Mahieu è stato sempre e rigorosamente uno storico: uno studioso che ha accettato di rimandare ogni sua teoria alla prova dei fatti, di rispettare il giudizio ben poco sindacabile dei dati. Per questo le sue tesi ardite non possono assolutamente essere bollate come voli pindarici o fantasie stravaganti. Una vita, la sua, che pare divisa a metà, con il 1968, anno in cui fondò a Buenos Aires l'Instituto de Ciencia del Hombre, a fare da spartiacque. Sino a quel momento de Mahieu era stato uno studioso di sociologia, economia, scienze politiche e storia delle idee, autore di diverse pubblicazioni. Influenzato da giovane dalle teorie di Alexis Carrel e Georges Sorel, si era laureato in scienze politiche e filosofia, nonché, honoris causa, in medicina. Trasferitosi in Argentina, aveva insegnato nelle Università di Cuyo (1948-55) e Buenos Aires (1953-55), quindi in Salvador (1964-65) e di nuovo a Buenos Aires (1972-76). Era stato membro dell'Accademia argentina di Sociologia (1952-55), vice-rettore dell'Università di Scienze Sociali (1963-68) e direttore del Dipartimento di Antropologia della capitale argentina. Nel corso di vent'anni aveva pubblicato una dozzina di saggi, tra cui, Filosofia de la estética (1950), Evolucion y porvenir del sindacalismo (1954), El Estado comunitario (1962), Diecionario de ciencia politica (1966), Tratado de sociologia general (1969). E aveva continuato, nel frattempo, a mantenere contatti con la Francia, dove sono stati tradotti molti dei suoi libri, collaborando a riviste come Nouvelle Ecole, che lo annoverava nel proprio comitato scientifico. Ma qui sono gli ultimi vent'anni della sua vita che più ci interessano, quelli in cui de Mahieu si è dedicato soprattutto, anzi esclusivamente, all'analisi dell'America precolombiana e alla questione dei primi contatti tra il Vecchio Mondo e il Nuovo, tracciando con i suoi lavori una storia assai diversa da quella ancora oggi raccontata dai più. Una storia che, di opera in opera, è andato delineando con precisione sempre maggiore, via via che procedeva in ulteriori scoperte che consentivano più approfondite analisi e ancor più puntuali deduzioni. Perché, a differenza di tanti saggisti e storici eterodossi, Jacques de Mahieu non si è affatto accontentato di basare i propri lavori su testi pubblicati da altri: ha scelto di verificare ogni cosa sul campo, effettuando esplorazioni e campagne di scavi, anche attraverso l'Istituto di Scienza dell'Uomo. Un'operazione - quella del de Mahieu storico - permeata da un'unica tesi di fondo: in America Latina, dal Messico alla Mesoamerica, sin giù al Cile, ben prima della scoperta «ufficiale» attribuita a Colombo e datata 1492, giunsero varie ondate di europei che lasciarono tracce del loro passaggio, della loro opera civilizzatrice. Tracce di ogni genere, che de Mahieu si propone di documentare nei suoi libri: archeologiche, scritturali, architettoniche, linguistiche, mitologiche, religiose, perfino negli usi e nei costumi. A questo scopo intraprese spedizioni in zone assai poco esplorate dell'Argentina, del Brasile, del Paraguay e dell'Uruguay, ricavando documentazione di ogni tipo, tra cui sconcertanti «iscrizioni runiche». In sintesi - se si deve effettuare un bilancio complessivo della sua opera storica, cui mi sono interessato fin dagli inizi degli anni

Settanta, quando lui stesso mi inviò il primo libro in cui esponeva queste tesi - de Mahieu ritiene che, prima del navigatore italiano e dei conquistadores, il Nuovo Mondo avesse già ospitato gli stanziamenti di gruppi di monaci irlandesi (i culdei) nel IX secolo, di Vichinghi germano-danesi nel X secolo (e gli Incas sarebbero i loro discendenti), di Vichinghi norvegesi nell'XI secolo. Fu quindi la volta dei templari, che raggiunsero per la prima volta il Messico alla fine del 1200, per poi installarvisi dopo il 1307. Ed è proprio questo il volume, dedicato a quest'ultima ondata europea precolombiana, in cui de Mahieu pare riassumere tutte le ricerche compiute, precisando gli ultimi contorni del suo quadro, ampliando le sue tesi e pure, onestamente, rettificandole in parte. Templari e America. L'Ordine più enigmatico e misterioso e il continente delle meraviglie. Un connubio che a prima vista ci appare fascinoso e fantasioso, nulla più. Ma de Mahieu fornisce una tale massa di materiale documentario (a partire dall'esame di antichi testi in spagnolo, opera di missionari e di Inca convertiti), di verosimili deduzioni, di puntigliose analisi, che terminata la lettura non pare proprio possibile relegare tout-court questo lavoro nello scaffale delle fantasticherie. Da Le grand voyage du Dieu-Soleil (1971) a El Imperio vikingo de Tiahuanacu (1983), passando per L'agonie du Dieu-Soleil (1974), Drakkars sur l'Amazone (1977), L'imposture de Christophe Colomb (1979), El rey vikingo del Paraguay (1980), fino a questo Les Templiers en Amérique, con la sua ventennale opera controcorrente, ma certo non a-scientifica né a-filologica, in barba alle accuse lanciate comunemente agli studiosi eterodossi, Jacques de Mahieu ha in pratica riscritto un'intera sezione della storia dell'Occidente tra l'800 e il 1500. Una riscrittura, la sua, che ha innumerevoli implicazioni e che, d'altra parte, risolve in modo logico, anche se imprevedibile, molti aspetti inesplicabili della Conquista. Sono quegli stessi aspetti che, per altro, erano stati rigorosamente registrati dai cronisti dell'epoca e che invece moltissimi storici contemporanei dimenticano, minimizzano, addirittura nascondono. Gianfranco de Turris Indice dei nomi. persona e di luogo (In corsivo i nomi di luogo) Abbeville 27 Acadia 94, 95, 160, 164 Acamapicthli 76 Acìhuatl 96 Achard, Eugène 160 Acihuatlmichintlaco (isola di) 94 Acropoli 145 Africa 178, 205 - del Nord 179 Ahriman, 110 Aix (isola di) 25 Alagoas 66 Al-Aqsa 7 Albania 160 Alcobaça 198 Alessandro 40, 194 Alessandro IV 202

Alfonso d'Aragona 17 Alfonso Enrico 198 Alfonso IV di Castiglia 197 Amambay 60, 137, 138, 139, 141, 142, 188 Amaquemecàn 98 Amarraçao 65 Amazzonia 73, 133, 163, 196, 204, 206, 210 Amburgo 125 America 25, 30, 38, 42, 47, 73, 77, 83, 85, 86, 94, 114, 117, 121, 124, 132, 134, 146, 152, 159, 160, 161, 172, 174, 177, 178, 179, 182, 185, 189, 197, 204, 208 - centrale 43, 52, 76, 80, 84, 100, 119, 120, 129, 154, 157, 161, 162, 170, 180, 209, 212 - del Nord 38, 79, 171, 203, 207 - del Sud 40, 48, 51, 55, 76, 117, 119, 120, 129, 138, 152, 154, 162, 184, 191, 195, 196, 202, 203, 204, 206, 207, 210, 211 Amiens 22, 184, 185, 186, 189, 191, 204, 208 Amimitl 111 Anàhuac 38, 41, 76, 79, 81, 97, 98, 100, 102, 103, 104, 106, 108, 126, 150, 152, 154, 161, 162, 171 Andalusia 198 Ande (cordigliera delle) 49, 52, 53, 57, 58, 61, 73, 207, 208 André di Montbard 7 Angers 27 Angoulême 28 Antille 123, 178, 202 Antioche (Pertuis d') 27 Apollo 104 Apurìmac (Perù) 163 Aquidabàn-Nigui 59, 61, 128 Arabia 17 Aragona 10 Aran (isola di) 160 Arequipa (vulcano) 186 Argentina 62, 126, 137 Ari il Saggio 159 Arica 163 Armorica 157 Arnaud-Amaury 14 Artico 161 Asbrandssòn Bjorn 160 Asia 79, 203, 204 Asunciòn 57 Atahuallpa 45, 52 Atlantico (oceano) 25, 28, 58, 63, 66, 68, 71, 72, 73, 79, 117, 118, 152, 154, 163, 174, 176, 177, 182, 188 Aurora 109 Ayolas 58 Aztlàn 82, 111 Azzorre 201, 202 Bafometto 13, 33, 35, 109, 164 Bahia 66, 67 Balam-Abay 85 Balam-Quitzé 85, 87, 88 Baldovino II 7, 8

Barcellona 31, 134 Barfleur 25, 27 Bassa Sassonia 65 Bayeux 206 Beauvois, Eugène 79, 80, 82, 90, 91, 92, 94, 97, 111, 112, 113, 115, 117, 119, 146, 147, 148, 149, 150, 153 Beleheb-Tzi 87 Belo Horizonte 68 Beltràn, Alberto 161 Berger, Fritz 137, 138, 141 Bernardo 198 Bertrand le Got 15 Bertrand, Louis 34 Bézu 24 Bisanzio 6, 14, 40, 194, 207 Blosseville 25 Bogotà 163 Bolivia 62, 72, 144 Boman, Eric 46 Bordeaux 15, 28 Borgogna 7, 36, 194, 198 Brasile 39, 46, 48, 49, 51, 62, 65, 66, 69, 153, 202 Brasseur de Boubourg, étienne 165, 166, 167, 169, 170, 189, 190 Breidavik 160 Bretagna 17, 27, 158 Brinton, Daniel G. 90 Brive 28 Bruxelles 42 Buenos Aires 50, 51 Caballero, Pedro Juan 58, 61 Caboto, Sebastiano 57 Cal, Diego 201 Campeche 86 Canada 82, 177, 204 Canarie 94, 177 Capo di Buona Speranza (Capo delle Tempeste) 201 Capo Verde 202 Carabuco 128, 131, 186 Carlo V 42, 44, 99, 203, 211 Carnac, Pierre 144 Cartier, Jacques 177 Castiglia 10, 56, 198, 202 - e Leone 10 Catamarca 136 Cattigara 194 Cerro Corà 58, 59, 61, 63, 72, 139, 141, 189 Cerro Guazù 58 Cerro Kysé 139, 141, 142 Cerro Negro 136 Cerro San Fernando 57 Cerro Tuja Og 128, 138 Cesare 78, 172, 174 Chaco 57 Chalco 89, 94, 96, 106, 111, 113, 116, 120, 163, 209 Charpentier, John 13

Charpentier, Louis 18, 21, 22, 28 Chartres 22 Chatellerault 27 Chersoneso Aureo (antico nome dell'Indocina) 40 Chiaravalle 6 Chichén-Itzà 43, 76 Chichicastenago 83 Chicomòtzoc 77, 78, 89, 90 Chimalpàhin Cuauhtlehuanitzin, Francisco de San Antòn Muñon 80, 89, 90, 91, 92, 93, 96, 120, 148, 150, 163 Chimalpan (Chimalman) 102 Chinon 144 Cholula (Cholollam) 82 Chungamayo 53 Cieza de Leòn, Pedro 54 Cile 163, 206 Cipro 144 Cîteaux 6, 7, 9, 11, 22, 23, 33, 194 Clemente V 12, 15, 29, 199, 200 Coatépec (Coatebeque) 81 Coatlicue 102 Coclé 47 Collioure 16, 28 Colombia 163, 206, 144, 155 Colombo, Cristoforo 30, 172, 177, 178, 179, 180, 181, 201, 202, 203, 206, 211, 212 Congo 201 Copàn 43 Corea 178 Cortés, Hernàn 42, 75, 98, 123, 124 Cotentin 27 Coume Sourde 24 Courbepine 17 Cousin, Jean 204 Cozumel (isola di) 126 Cristo 9, 13, 34, 36, 108, 109, 110, 140, 148, 149 - (Cavalieri di) 12, 201 - (Ordine di) 200, 201, 211 Croce del Sud 129 Croce di Malta 133, 134, 135, 136, 154 Croce di sant'Andrea 125, 134, 139, 145 Cuarepoti 63 Cuba 161, 175 Cuitlahuactizico 114 Cundinamarca (Kondanemarca, Kundanemarka) 144, 206 Cuzco 45, 128, 136, 137, 163 Damasco 17 Darien (istmo) 181 De Aguillar, Francisco 99 De Alvarado, Pedro 87 De Ayala, Phelipe Guaman Poma 127, 136 De Càmera, Ruy Gonçalves 201 De Cervantes, Juan 124 De Chalon, Jean 29 De Châlons, Hugo 29

De Gama, Vasco 201 De Gandìa, Enrique 58 De Gomara, Lòpez 75, 80, 82, 181 De Grijalba, Juan 113 De la Varende, Jean 36, 39, 117 De Mély, F. 147 De Molay, Jacques 11, 31 De Poiraud, Hugo 29 De Pomar, Juan Bautista 106 De Rojas, G. 82 De Sablé, Robert 14 De Tavira, Gonzalo Fernandez 201 De Teive, Diego 201 De Villers, Gérard 29 Dìaz de Solìs, Juan 55 Dìaz del Castillo, Bernal 52, 99 Dìaz, Bartolomeo 201 Dieppe 25, 185, 188, 195, 196, 197, 201, 204, 205, 206, 207, 211, 212 Diodoro Siculo 194 Dionigi 199, 200 Drosay 25 Dublino 159 Dürer, A. 42 Ebridi 158 Egitto 31 El-Edrisi 160, 172 Elisa di Lounain 115 Enrico II Plantageneto 14 Enrico il Navigatore 200 Equatore 43, 52, 163 Eratostene 194 Ermitage 24 Erodoto 178 Escociland 96 Eugenio III 6 Europa 8, 10, 15, 16, 17, 18, 24, 25, 32, 41, 73, 76, 80, 83, 88, 93, 94, 98, 100, 117, 118, 121, 147, 163, 172, 176, 178, 188, 189, 190, 195, 196, 203, 204, 205, 206 Evreux 27 Fawcett, P.H. 69 Ferger, Fritz 127 Ferryn, Patrick 178 Filippo di Thaon 115 Filippo il Bello 11, 15, 17, 23, 30, 38, 199, 212 Francia 10, 15, 18, 20, 23, 27, 29, 30, 117, 120, 144, 164, 168, 197, 198, 199, 203, 205, 210, 211 Fuentes y Guzmàn, Francisco Antonio de 86 Galles 157 Gallez, Paul 197 Gallia 78 Garcìa, Aleixo 56, 57, 58

Garcilaso 128 Gaspesie 96, 160 Geltssòn, Thorkill 159 Geova 108, 109, 112 Germania 10, 24, 60, 198 Germano di Auxerre 157 Gerusalemme 7, 8, 9, 14, 16, 149, 209 Ginevra 27 Giove 109 Gironda 26 Gisors 144 Godmindssòn, Jòn 160 Gokstad 175 Gòmez, Francisco 86 Gonneville 204 Grajau 64 Gran Bretagna 12, 25, 27, 157, 165, 177, 190, 206, 207 Gran Khan 203, 211 Grande Guyana 210 Grande Irlanda (Irland it Mikla, Irlandeh el-Kabirah) 159, 160, 194 Grande Laguna (Upa-Assu) 67, 68, 71, 73, 208 Grecia 104 Greslebin, Hector 184, 186 Groenlandia 159, 172, 178 Gualdim Païs 198 Guascogna (golfo di) 27 Guatemala 43, 85, 86, 87, 166 Guatulco 124 Guayrà 57, 204 Gudlanssòn, Gudhleif 159 Guénon, René 140 Guéret 27 Guerrero 52 Guinea 181, 204 Haiti (Hispaniola) 181 Hasselt 147 Heildewige 147 Heimlap 162 Heine-Geldern 43 Henricus Martellus 197 Herkenrode 147 Herrmann, Paul 125 Honoré, Pierre 134 Hròlf (detto Rollone) 39 Huabamba 53 Huehuetéotl 102, 125 Huitramannaland (Albania) 82, 159, 160 Huitzilopochtli 107 Hunahcu 101 Hy Breasail (Hi Brasil) 160 Indiano (oceano) 178 Indie 17, 82, 172, 182, 201, 202, 206 - orientali 129

Indocina 40 Indonesia 178 Inghilterra 10, 31, 196, 197, 198, 206 Iona 158 Ipir 139 Irala 58 Irlanda 10, 157, 159, 160, 173, 194 Isabella di Castiglia 211 Isidoro di Siviglia 80 Isla de la Plata 56 Islanda 80, 81, 158, 159, 160, 172, 174, 177 Isola del Paradiso 58 Isola del Sole 58, 81 Issoire 28 Itaguambypé 59 Italia 10 Itzamnà 104, 161 Itzcòatl 153, 154 Ivinheima 197 Ixtlilxochitl 83 Iztac Mixcòatl (Camaxtli) 102, 111, 114 Jimenéz de la Espada, Marcos 129 Jover Peralta, Anselmo 62 Juàrez, Martin 49, 50, 52 Judicael (duca di Bretagna) 25 Kalasasaya 184, 185 Kantatayita 127 Kàpac Raymi 127 Kari 163, 184 Karlsefni, Thorsfinn 159 Kensington 171 Kervran, Louis 25, 161, 172, 173, 174 Kingsborough 77 Kiss, Edmund 187 Kondanemarka 145 Kon-Tiscsi-Huirakocha 131 Krickeberg, Walter 43, 79, 86, 90 Kukulkàn 88, 104, 162 Kundanemarka 206 La Madeleine 36 La Paz 53 La Rioja 51 La Rochelle 25, 27, 28, 29, 32, 73, 117, 120, 152, 164, 188, 208, 209, 211 Landverk, O.G. 171, 172 Le Conteulf de Cantelen 110 Le Mans 27 Leme, Antonio 201 Le Puy 28 Liegi 147 Limerick 159

Limoges 28 Linguadòca 14 Lisbona 198, 201, 202, 204, 205, 211 Loira 21 Loki 108, 112 Lòpez, Vicente Fidel 166 Loup 157 Lucibello 109 Lucifero 108, 109, 110, 112, 118 Luigi di Borgogna 198 Luigi IX 16, 23 Luiz Correia 65 Machu Picchu 53 Mâcon 27 Macrobio 194 Madera 200 Maestro Giacomo 23 Magellano 30, 57, 203, 206, 211, 212 Mahucutah 85 Maiorca 10, 16 Malinalco 114 Manica 25, 31 Manko Kàpak 153 Mansourah 16 Marajò (isola di) 64, 133 Maranhäo 210 Marchesato 114 Mare del Nord 25, 31 Mare Tenebroso 194 Marino di Tiro 194 Marocco 143 Marsiglia 16, 28 Marssòn Ari 159, 160 Massachusetts 39 Mearim 64 Medio Oriente 10, 16, 194 Mediterraneo (mar) 31, 32, 104, 176, 199 Mendoza, Abel 103, 104, 125, 145 Messico 36, 38, 41, 43, 47, 48, 49, 52, 71, 76, 77, 78, 79, 80, 82, 83, 86, 87, 88, 89, 90, 92, 93, 94, 97, 99, 103, 110, 111, 113, 115, 117, 119, 120, 123, 124, 126, 132, 135, 136, 150, 151, 152, 153, 154, 161, 162, 163, 164, 165, 166, 171, 172, 179, 183, 189, 190, 194, 206, 209, 212 - (golfo del) 134, 162, 182 Michelet 14, 149 Michoacàn 43 Minas Gerais 66, 69, 208 Mississippi 94 Mixtèca 111 Monaco 16, 137 Mongé, Alf 171 Monte Albàn 43, 136 Montevideo 62 Montezuma (Montecuhzoma II Xocoyotzin) 52, 75, 76, 113, 114, 115, 123, 154

Montségur 137, 138 Morelos 97 Morin (fratelli) 46 Moulin, Robert 17 Moulins 27 Munk, Hermann 51, 59, 65 Muñoz Camargo, Diego 92, 102 Nacxit 88 Nancy 27 Nantes 19, 26 Narbona 28 Nemours 29 Noè 37 Nonohualco 89, 90 Nonoualc 87 Normandia 17, 21, 25, 36, 39, 73, 117, 185, 191, 196, 204, 206, 207, 210, 212 Norvegia 175 Notre Dame (Monti di) 96 Nuñez de Balboa, Vasco 181 Nuova Scozia 94, 96, 160 Nuovo Brunswick 94, 160 Nuovo Messico 82 Nusta Hisspana 53 Oaxaca 43, 52, 124 Ocuituco 116 Odino (Odhinn) 39, 102, 104, 107 Oléron (isola di) 26 Ollin Tonatiuh 101, 102, 104 Onorio II 8 Opala (Säo Francisco) 65, 66, 67, 68 Ophir 178 Orcadi 159 Oriente 206 Orinoco 207, 210 Ormes 21 Osuna, Tomàs 62 Oxib-Queh 87 Pacifico (oceano) 42, 43, 111, 162, 179, 181, 194, 206 Padre Augustìn de Vetancur 82 Padre Barba 54, 55 Padre Bernardino da Sahagùn 77, 78, 79, 82, 99, 100, 105, 151 Padre Diego Duràn 78, 81, 113, 114, 116, 146, 147, 148, 155 Padre Gnupa (Thul Gnupa) 128, 182, 185, 186, 190, 208, 212 Padre Soubise 23 Palenco 126, 131 Palestina 8, 9, 11, 13, 17, 24, 34, 35, 182, 190 Panama 43, 47 Pànuco (Panco, Panutlàn, Panohuayan) 76, 78, 96, 114, 120, 162, 209 Papeys 158 Papos 158

Papyli 158 Parà 210 Paragua'y 57 Paranà 55 Paraguay 46, 48, 49, 51, 56, 57, 58, 60, 61, 69, 70, 71, 72, 73, 128, 132, 137, 138, 139, 141, 142, 153, 154, 163, 165, 185, 204, 212 - (fiume) 57, 63 Parigi 10, 15, 27, 29, 32, 135, 212 Parnaïba 65, 67, 71, 73, 183, 189, 197, 210 Paulo Afonso (cascate di) 66, 68 Pay (Pa'i) Zumé 128, 186, 208 Peaviru 163 Peronnelle de la Gouberge 21 Persia 17 Perù 39, 42, 43, 44, 47, 49, 52, 53, 55, 57, 63, 71, 73, 123, 126, 131, 132, 135, 153, 155, 163, 166, 172, 186, 189, 190 Piauì 65, 70, 71, 73, 197, 208 Piccardia 185 Piccole Antille 181 Pigafetta 203 Pirenei 27 Pistilli, Vincente 69, 70 Pitea 81, 178 Pizarro 43, 58, 124 Plutarco 194 Polinesia 78, 163, 178 Ponto 178 Popayàn 124 Porco 53, 72 Portogallo 10, 24, 27, 30, 32, 197, 198, 199, 200, 202, 205, 211, 212 Potosì (Poggio di -, Cerro di -) 53, 55 Poznansky, Arthur 53 Prado, Ivo 68 Provenza 16, 31 Pseudo-Aristotele 194 Puebla 97 Puglie 10 Python 110 Qoacutec 85, 88 Qoahau 88 Qocaib 85, 88 Qozhau 85 Quareca 181 Québec 160 Quetzalcòatl 41, 76, 78, 79, 82, 88, 96, 97, 102, 103, 104, 105, 107, 110, 111, 112, 113, 116, 120, 124, 125, 132, 133, 149, 151, 161, 162, 171, 209, 210 Quetzalpétatl 105 Quilastli 113 Quilatzli 111 Quiroga Adàn 124, 126, 127, 129, 137 Quito 163

Rabinal 166 Rafn 159 Raimondo V 14 Ramos, Bernardo da Silva 133 Ré (isola di) 26 Reala 66, 67 Re Bianco 56, 58, 63, 72 Recinos, Adriàn 86 Reims 22 Remanso 66 Renato II (duca di Lorena) 203, 211 Rendòn, Sonia 79 Reno 7 Richelieu 27 Rìo de Janeiro 133, 210 Rìo de la Plata 56, 57, 73, 207 Rio delle Amazzoni 64, 204, 210 Rio Longa 65 Rio Piauì 66 Rodano 28 Rollone (Hròlf) 39 Roma 6, 15, 158, 172 Rosario 63 Rossiglione 28 Rouen 22, 206 Royan 26 Ruiz de Estrada, Bartolomeo 42 Saint Vallier 28 Saint-étienne 28 Saint-Malo 177 Saint-Raphaèl 16 Saint-Valery-en-Caux 25, 188, 196, 207 Saint-Valery-sur-Somme 25 Saladino 14 Salamanca 123 Salomone 6 - (Figli di) 23, 143, 201 - (Tempio di) 7, 9, 32, 143 - (sigillo di) 140, 141, 154 San Benedetto 6, 23 San Bernardo 6, 7, 8, 9, 13, 14, 147 San Brandano 25, 160, 175, 177, 194 San Brandano (isola di) 161 San Colombano 150, 157, 158 San Giacomo di Compostella 23 San Giovanni 6, 13, 30, 34, 108, 133, 135, 140, 154, 185 San Giovanni d'Acri (Acco, Aca, Ancon) 159 San Juan de Sacatepéquez 166 San Lorenzo (fiume) 82, 95, 96 - (golfo di) 94, 95 San Luigi 15 San Malo 25 San Norberto 147 San Paolo (chiostro di) 144 San Pietro 109

San Quintino 147 San Tommaso 129 Sant'Agostino 6, 36, 114 Santa Caterina (isola di) 56, 57, 58, 73, 195, 206 Santa Chiara 147 Santa Cruz de la Sierra 128 Santa Marìa 126, 127 Santarém 198 Santo Stefano 7 Santos 58, 63, 72, 73, 183, 185, 195, 197, 204, 210 Säo Francisco (Opala) 66, 67, 68 Säo Joao do Piauì 66 Säo Luìs 64 Säo Marcos (isola di) 64 Säo Paulo 65 Säo Raimundo Nonato 66 Saragozza 123 Satana 33, 108, 109, 112, 119 Scandinavia 39, 134, 172, 183 Schleswig 162, 165, 171, 190, 206 Schöner, Johannes 211 Schwennhagen, Ludwig 65, 67, 68, 70 Scozia 150, 157, 158 Sedan 27 Segovia 44 Séjourné, Laurette 103, 104, 106, 125 Senegal 201 Sergipe 66 Serra d'El Rei 198, 199, 205, 211 Serra do Sumidoro 65 Sete Cidades 65, 70 Sette Caverne 77, 78, 89 Sicilia 10 Sierra de la Plata 53, 57, 58, 63, 73, 163, 189, 208 Siméon, Rémi 89 Siria 9, 144 Siviglia 44, 123 Soares, Gabriel 67 Soustelle, Jacques 91, 149, 152 Spagna 57, 128, 144 Spanuth, Jürgen 178 Stati Uniti 39, 77 Strabone 178 Sua-Kon (Hukk-Kon) 131 Syci, Antoine 149 Tabasco 86, 124 Tacuati 128, 131 Talampaya 49 Tarabuco 57 Tenochtitlàn 75, 124 Teopompo 194 Teotihuacàn 42 Teresa di Castiglia 197 Terra dei bianchi 82, 159 Terranova 94, 96, 175, 177, 204

Terra Santa 14, 16, 17, 24, 25, 144 Texcoco 106, 115 Tezcatlipoca (Necociautl, Moyocoya, Titlacahua) 92, 102, 105, 106, 107, 110, 111, 112, 118, 119, 125, 145, 146, 147, 148, 150, 155 Tezozòmoc 81 Thonar (Thor) 101 Thulé 80, 81, 118 Tiahuanaco 39, 43, 45, 46, 47, 48, 49, 53, 54, 58, 63, 70, 72, 73, 76, 120, 126, 127, 128, 131, 133, 134, 137, 152, 153, 163, 164, 183, 184, 185, 186, 187, 188, 191, 195, 196, 202, 207, 208, 210 Tinogasta 136 Titicaca 58, 128, 163, 187 Tiu (Tyr) 101 Tlaloc 151 Tlapallàn 79, 80, 82, 83, 89, 90, 93, 118 Tlaxcala 97, 102 Tocantins 210 Toledo, 44 Tolomeo 40, 194 Tolosa 24 Tomar 198, 205, 211 Tomina 57 Tonacacìhuatl 101, 102 Tonacatecuhtli 101, 102 Tordesillas 202 Torquemada 90, 91, 107 Tours 21 Triviño, José 50 Troyes 9, 27, 29 Tula (Tulàn, Tullàn, Tollàn, Tonalàn, Tulla, Tullam) 77, 80, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 87, 94, 97, 105, 118, 120, 178, 179 Tulapàn 87, 97 Tullantzinco 82 Tutankhamon 47 Tutòia 65 Typhon 110 Tzompantecuhtli 114 Ugo di Champagne 8 Ugo di Payns 7, 8, 198 Uitzilopochtli 102, 103, 106, 114, 150, 151 Ullman 41, 76, 78, 79, 80, 96, 103, 114, 117, 118, 162, 164, 165, 177, 190 Upa-Assu 68, 69, 73 Uruguay 55 Valcanville 25 Valente 28 Valhalla 126 Valparaiso 163 Venere 104, 109 Venezia 16 Venezuela 162 Veracrux 52 Verrill, A. Hyat 44, 46, 47

Vézelay 36, 37 Vigado, José 201 Villa de Plata (o de la Plata) 53, 72 Vinaque 53 Vinland 39, 159, 160, 165, 171, 194, 196, 203, 204, 207 Von Hagen, Victor 161 Von Wuthenau, Alexander 179, 180, 181 Weibingo 57, 58 Willelm (Guillame), duca di Rouen 206 Xarayes 58 Xipé, 102 Yacapichtlàn Cohuatepec 148 Yale 171 Yucatàn 76, 86, 87, 88, 105, 126, 162 Yvyty Perö 139, 142 Yvytyruzù 131 Zacualpa 43 Zamorra 131 Zeno (fratelli) 96 Zuivà 87, 97par Fine