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Italian Pages 312 [311] Year 2013
Sebastiano Pinto
I SEGRETI DELLA SAPIENZA Introduzione a i Libri sapienziali e poetici
SAN PAOLO
© E D IZ IO N I SA N PA O LO s .r i , 2013 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. C orso Regina Margherita, 2 -10153 Torino ISB N 978-88-215-7877-9
PREMESSA
«DOVE ABITA LA SAPIENZA?» (Gb 28,20)
Un giorno il saggio disse: «Seguirò la regola d’oro e convertirò tutti gli uomini. M a... da dove comincerò? Il mondo è così grande. Comincerò dal paese che conosco meglio, il mio. Ma è così vasto il mio paese! Comincerò dalla città più vicina, la mia. Ma è così grande la mia città! Allora comincerò dalla mia stra da... No, comincerò dal mio caseggiato, o meglio, comincerò dalla mia famiglia. No, finalmente ho capito che cosa vuole la regola d’oro: comincerò da me stesso» (Anonimo).
Non so se all’età di quindici anni, quando mi sono imbat tuto per la prima volta in alcune pagine del Siracide, avessi in me chiara questa consapevolezza, quella di voler cambiare il mondo. D ’altronde, se certi sogni non si fanno quando un giovane si affaccia speranzoso alla vita, diventa davvero diffi cile osare qualcosa di nuovo in età adulta. E chissà: forse proprio l’amara (e spesso vera) frase di Qoelet «Niente di nuovo avviene sotto il sole» (Qo 1,9), ha stimolato in me la ricerca della novità e, con essa, della sapienza. Tale desiderio ha animato la stesura del presente manuale. Ai cinque scritti (Proverbi, Giobbe, Qoelet, Siracide, Sapien za), che rientrano in quella che è stata definita la «pentapoli sapienziale dai confini ben distinti»,1 ho voluto accostare Cantico e Salmi, genericamente definiti «poetici» a motivo1 1 L. Alonso S chokel - J. V i'lchkz LIndez, l Proverbi (Commenti Biblici), Boria, Ro ma 1988,17.
della predominanza dell’aspetto lirico.2 Essi non appartengo no in senso stretto alla corrente sapienziale. Tuttavia, già la tradizione ebraica palestinese e quella ebraica della diaspora (poi, quella cristiana) hanno considerato i sette scritti come appartenenti a un unico corpo canonico; inoltre, si constata un qual certo legame con i temi di fondo che caratterizzano gli scritti sapienziali in senso stretto, come il lettore constate rà utilizzando il presente volume. L’ordine seguito nella trattazione è dettato da motivi di dattici e cronologici: il libro dei Proverbi costituisce la base di partenza, essendo lo scritto più tipico e diretto in quanto offre una visione classica della sapienza come ordine del mondo (è quindi il più adatto ad aprire un corso su questa letteratura). Con Giobbe e Qoelet si passa a una riflessione più articolata e travagliata sul mondo e sul rapporto tra il saggio e Dio, per approdare successivamente con il Siracide ad argomenti sapienziali più tradizionali con cui si tentano delle risposte alle questioni aperte dai maestri più critici. In fine, con il libro della Sapienza (il più recente) si giunge a spostare nella vita oltre la morte la discussione sulla retribu zione dei giusti, consegnando la posizione più avanzata dell’intero Antico Testamento su questo argomento. La scelta di una bibliografia essenziale e principalmente in lingua italiana è dettata dalla volontà di offrire gli strumenti minimi per un primo approfondimento, rinviando il lettore ormai ben equipaggiato a ricercare in proprio «dove abita la sapienza». Infatti, chi scrive si augura che chi legge intraprenda l’av ventura della personale conversione nella continua ricerca dei segreti della Sapienza.3 2 Questa caratteristica appartiene anche a Proverbi, Giobbe (tranne prologo ed epilo go) e Siracide. 3 1 volumi sulla letteratura sapienziale di A. Bonora - M. Priotto, M. Gilbert, L. Mazzinghi, V. Moria Asensio vengono citati per esteso una volta per sempre alla p. 32.
PRIMA PARTE L IB R I S A P IE N Z IA L I
QUESTIONI INTRODUTTIVE. «INIZIO DELLA SAPIENZA: ACQUISTA LA SAPIENZA» (Pr 4,7)
1. Paternità salomonica La prima questione che affrontiamo è quella riguardante Salomone e il motivo in base al quale egli è considerato l’ini ziatore degli scritti sapienziali. Da uno sguardo ad alcuni te sti anticotestamentari che presentano la figura del re Salomo ne emerge, effettivamente, la sapienza come suo tratto speci fico. In IRe 3,4-15 si racconta il sogno di Gabaon. Agli inizi del suo mandato regale Salomone chiese al Signore non la ric chezza e il potere, ma il dono della sapienza:Il Il re si recò ad offrire sacrifici a Gabaon, che era l’altura più im portante; su quell’altare Salomone offrì mille olocausti. A G aba on il Signore apparve di notte in sogno a Salomone e gli disse: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda». Salomone rispose: «Tu hai usato grande benevolenza verso il tuo servo Davide, mio padre, ed egli ha camminato al tuo cospetto con lealtà, con giustizia e con rettitudine di cuore verso di te. Tu gli hai conser vato questa grande benevolenza e gli hai dato un figlio che se desse sul suo trono, come oggi accade. Ora, Signore mio Dio, tu hai fatto re il tuo servo al posto di Davide mio padre, ma io sono un ragazzo, non so come comportarmi. Il tuo servo si trova in mezzo al popolo che hai scelto, un popolo numeroso, che non può essere calcolato né contato, tanto è grande. Concedi dun que al tuo servo un cuore che sappia giudicare il tuo popolo, in
modo da distinguere il bene dal male; altrimenti chi potrà mai governare questo tuo popolo così numeroso?». Piacque al Si gnore che Salomone avesse fatto questa richiesta (IRe 3,4-10).
Il capitolo si chiude con una dimostrazione della saggezza del re che dirime la contesa tra due meretrici (IRe 3,16-28), e con l’attestazione di riverenza di tutto il popolo: «Tutto Isra ele conobbe il giudizio emesso dal re e nutrì un profondo ri spetto nei suoi riguardi, perché vide che c’era in lui una sa pienza divina per rendere giustizia» (v. 28). Continuando a scorrere 1 Re si legge che Salomone espresse tale sapienza anche per iscritto perché pronunciò tremila proverbi e com pose millecinque odi (5,12), interessandosi e investigando an che il mondo vegetale e animale. Queste sue prerogative sapienziali spiegano anche l’attri buzione della paternità salomonica di libri scritti diversi se coli dopo la sua morte. L’Antico Testamento riconduce a lui esplicitamente il libro dei Proverbi, mentre il rimando alla sua figura si può scorgere in Qoelet («Parole di Qoelet, figlio di Davide [come Salomone], re di Gerusalemme»: Qo 1,1) e nel libro della Sapienza. Questo accostamento si spiega con il fenomeno letterario della pseudoepigrafia, secondo il quale si attribuivano testi a personaggi illustri del passato. Tra gli «Scritti» della tradizione ebraica anche il Cantico dei Cantici, infatti, si apre menzionando Salomone come il protagonista dell’appassionata storia d ’amore con la donna. Questa prassi antica assolveva a due compiti principali: dare maggior valo re e autorità al testo e collegare al pensiero del maestro scritti a lui successivi, creando una continuità di pensiero con i suoi discepoli e attualizzandone la memoria. In questo senso pos siamo parlare di attribuzione tipologica,1 nel senso che si1 1 Cfr. W.A. BRUEGGEMANN, «The Social Significance of Solomon as a Patron of Wisdom», in J.G . G a m m ie - L.G. P e r d u e (edd.), The Sage in Israel and thè Ancient East, Eisenbrauns, Winona Lake (IN) 1990, 117-132.
vuole presentare Salomone come l’ideale iniziatore del movi mento intellettuale in Israele. Una simile raffigurazione di Salomone fa pensare che il primo luogo di creazione e di trasmissione delle sentenze sa pienziali sia stato l’ambiente della vita di corte, oltretutto in ragione delle numerose raccomandazioni rivolte al sovrano (Pr 8,15; 14,35; 16,10; 25,1; 29,14).2 In effetti, secondo alcu ni autori, attorno al X secolo a.C., quando Israele visse una condizione di grande prosperità, si crearono i presupposti di plomatici perché i funzionari della corte potessero recarsi in Egitto a imparare l’arte scribale. Gli scribi, all’interno della reggia, avevano una serie di mansioni: da consiglieri del re, carica piena di responsabilità che richiedeva competenze molto precise, ad addetti del registro delle entrate e delle uscite del tempio. Questi ministri, tra i quali possiamo inclu dere lo stesso Siracide (Sir 34,9-12), partivano assai frequen temente in viaggio e dovevano rappresentare, nelle missioni politiche e grazie alla propria arte oratoria, gli interessi del loro paese presso le corti straniere (2Re 20,12-19; Ger 27,13). La sapienza biblica, perciò, era rivolta a un contesto di corte e assolveva la funzione di scienza adatta all’istruzione dei rampolli dei nobili. Il matrimonio tra Salomone e la figlia del faraone potrebbe essere una conferma della positività dei rapporti diplomatici tra i due popoli (IRe 3,1; 7,8; 9,24). R.N. Whybray fa notare che Israele non ha vissuto isolato dalle culture limitrofe e, in particolare, da quella egizia e mesopotamica; la produzione sapienziale si ascrive a Salomone 2 Sotto questo punto di vista la tradizione dei sapienti in Israele sarebbe molto vicina a quelle dell’Egitto e della Mesopotamia, le cui istruzioni offrono indicazioni concrete sul la modalità con cui districarsi nell’insidioso mondo che ruotava attorno al sovrano. Un esempio è rappresentato dalla storia del giusto ministro Achikar nell’opera sumerica Le parole di Achikar, il quale viene tradito dal nipote ingrato per essere, successivamente, ria bilitato al servizio del re. Un’eco della storia di Achikar si ritrova in Tb 14,10 in cui si no minano gli intrighi di palazzo a Ninive, dove Nadab, figlio adottivo di Achikar che aveva gettato discredito sulla sua persona, viene smascherato e punito per questa sua ingratitu dine.
proprio per questa ragione e non solo, secondo l’autore, per ché si può affermare che egli fu in realtà anche un vero sag gio.3 Tuttavia, oggi si tende ad abbandonare queste ricostruzio ni poiché si ritiene più probabile dare al postesilio la stesura finale delle opere sapienziali, sebbene possa rimanere ancora valida l’ambientazione (milieu) iniziale alla corte palatina. In questo caso, però, saremmo al tempo di Ezechia (metà dell’VIII secolo a.C.), almeno stando a Pr 25,1: «Anche questi sono proverbi di Salomone, che hanno trascritto gli uomini di Ezechia, re Giuda». Possiamo ragionevolmente pensare che la sapienza sia cortigiana almeno nelle sue prime attesta zioni scritte, e che servisse nel periodo pre-esilico per la for mazione dei funzionari del regno. Ne è prova l’insistenza sul la virtù del consiglio, propria di ogni buon leader, che deve guidare l’azione di governo (Pr 11,14; 15,22; 20,18; 24,6). Meno chiaro, cioè ancora da dimostrare, è il luogo deputa to alla scrittura delle sentenze: una scuola presso la reggia? nella biblioteca del tempio (come lascerebbe intendere 2Mac 2,13-14)? Al momento non si dispone di alcuna scoperta ar cheologica che possa permettere di attestare la presenza di scuole scribali, anche se è probabile la loro esistenza nel pe riodo persiano e, soprattutto, ellenistico. Solo in Sir 51,23 si parla ma in modo generico di una bet-hammidras (casa della ricerca),4 ma è chiaro che anche Qoelet (III secolo a.C.) ha esercitato la sua docenza in un ambito non meglio precisato, almeno stando a quanto si legge nell’epilogo del libro: «Qoe3 Cfr. R.N. WHYBRAY, Wisdom in Proverbs. The Concept of Wisdom in Proverhs 1-9 (SBT 45), SCM, London 1965,20. 4 Nella scuola di Ben Sira «alcuni vedono il riferimento a una qualche forma di scuo la, più o meno istituzionalizzata, nel primo giudaismo; altri, invece, la interpretano in for ma metaforica, cioè la “casa di studio” di Ben Sira sarebbe una metafora per il suo libro quale compendio del suo insegnamento; ad ogni modo, Tuso metaforico dell’espressione presuppone una realtà conosciuta nell’ambiente dell’epoca» (N. C a l d u c h -B e n a g e S, «L a relazione maestro-discepolo in Ben Sira», in Parole, Spirito e Vita 61,2010,56).
let, oltre ad essere un sapiente, insegnò anche la scienza al popolo. Ascoltò, meditò, scrisse molte massime. Qoelet si sforzò di trovare parole piacevoli e scrisse la verità onesta mente» (Qo 12,9-10). Con G.L. Perdue possiamo ipotizzare che le scuole reali israelitiche caddero con la dominazione babilonese (VI seco lo a.C.), anche se istituzioni simili persistettero sotto i gover ni coloniali di Giuda, in quanto era necessario avere del per sonale istruito per mantenere il proprio potere. Nel postesi lio le scuole godettero del patrocinio dei sacerdoti del tempio di Gerusalemme: per redigere i testi, conservare i documenti e registrare gli introiti legati al sacrificio, si rendeva necessa ria la formazione dei sapienti; questo stato di cose spieghe rebbe il rapporto stretto tra sacerdoti, scribi e sapienti in epoca postesilica.5 Concludendo, possiamo dire che la paternità salomonica è di natura simbolica e può essere intesa ricorrendo alla satira. J.E . Miles identifica il figlio a cui si rivolge il libro dei Pro verbi con Salomone stesso: l’istruzione impartita più che es sere frutto della sapienza di Salomone è a lui rivolta perché impari la sapienza.6 Questa critica al re, cui allude la tesi di J.E . Miles, è suffragata dal rimando a IRe 1-11 in cui Saiomone è presentato non come re sapiente e accorto, ma come sovrano stolto che in preda alla propria fame sessuale si uni sce alle donne straniere peccando di idolatria. In effetti, a conferma del richiamo a questo epilogo della vita del re, una figura negativa che è centrale nella sezione di Pr 1-9 è pro prio la donna straniera, la quale seduce e perverte il giovane inesperto (cfr. Pr 2; 5; 7).
5 Cfr. L.G. P e r d u e , Proverbi (Strumenti - Commentari 55), Claudiana, Torino 2011, 30-32. 6 Cfr. J.E . MlLES, Wise King - Royal Pool. Semiotic, Satire and Proverbi 1-9 (JSOT.SS 399), Continuum, London 2004,53-54.
2. Procedimenti letterari «In ogni fissazione gnomica si produce anche un’umanizzazione dell’uomo».7 Con questa frase di G. von Rad (in un classico degli studi sulla tradizione sapienziale biblica) ci introduciamo nei procedimenti letterari attraverso i quali essa viene comunicata, partendo da una premessa: la forma letteraria incide sui contenuti perché quello che viene tra smesso è inscindibilmente legato al mezzo espressivo. Con tale affermazione, che trova molta eco nei processi massmediali moderni, si vuole dire che forma e contenuto vanno te nuti insieme, in quanto l’oggetto della comunicazione risie de (con minore o maggiore incisività) nella modalità espres siva. L’unità di base letteraria attorno alla quale si sviluppa la sapienza biblica è il m àsàl. Il suo stile conciso e incisivo ne facilita l’apprendimento mnemonico. Con una piccola frase - quasi una giaculatoria - mette nella condizione di coglie re la verità sostanziale che si vuole comunicare: «L a porta gira sul suo cardine e il pigro sul suo letto» (Pr 26,14). A tal fine contribuiscono il parallelismo tra gli stichi, la sonorità (ottenuta tramite rima, assonanza, allitterazione, paronoma sia ecc.) e il ritmo. Il parallelismo è un prezioso sussidio per la comprensione del detto. Nel m àsàl si ritrovano tre forme di parallelismo: si nonimico (i due membri esprimono la stessa idea, come in Qo 10,1: «Una mosca morta guasta l’intero vasetto di un guento; un po’ di stoltezza ha più peso della sapienza e della gloria»), antitetico (nei due stichi il contenuto è contrappo sto, come in Sir 21,20: «L o stolto spia dalla porta della casa, la persona educata rimane fuori»), sintetico (il secondo stico aggiunge qualcosa al primo, come in Sir 33,26: «Se fai lavora 7 G. VON R ad , La Sapienza in Israele, Marietti, Casale Monferrato 1975,38.
re il tuo servo con rigore, starai in pace; se risparmi le sue mani, cercherà la libertà»).8 Il m àsàl si coniuga e articola in forme espressive più evo lute. Vediamo alcuni esempi.9 - 1 dialoghi didattici: genere di proposizioni interrogative che rinviano, almeno indirettamente, a un'attività di tipo scolastico («Cresce forse il papiro fuori dalla palude e si sviluppa forse il giunco senz'acqua?»: G b 8,11). - 1 questionari catechetici: domande retoriche, che hanno a che fare con Dio e con l'uomo («Chi è salito al cielo e ne è disceso? Chi ha raccolto il vento nelle sue palme? Chi ha racchiuso le ac que nel mantello? Chi ha fissato tutti i confini della terra? Qual è il suo nome? Qual è il nome di suo figlio? Lo sai?»: Pr 30,4). - Le comparazioni: m àsàl, introdotto dalla particella min («più di, meglio che»), stabilisce la preferibilità di una realtà in rap porto a un'altra («E meglio poco con giustizia che molti beni senza l'onestà»: Pr 16,8). - 1 paragoni: m àsàl introdotto dalla particella k? («come») che commisura una cosa in rapporto a un'altra («Come una cerva anela ai corsi d’acqua, così l'anima mia anela a te, o Dio»: Sai 42,2). - 1 proverbi numerici: raggruppano realtà che considerate indi vidualmente non stanno insieme ma che, attraverso la progres sione numerica, sono accomunate dal medesimo giudizio espresso: «Per tre cose freme la terra, anzi quattro cose non le può sopportare: uno schiavo che si fa re, uno stolto che si sa zia di pane, una donna sgraziata che prende marito e una serva che soppianta la padrona» (Pr 30,21-23). 8 Si può dire che nel parallelismo il secondo membro conferisce un carattere enfatico che funziona come un rafforzamento e consolidamento: B è connesso ad A, avendo qualco sa in comune con esso, ma non è una semplice riaffermazione di A perché è connaturale a B seguire A e, quindi, aggiungervi qualcosa (spesso sotto forma di specificazione o di un’e spansione del significato); B riecheggia A connettendosi ad esso. In proposito si veda il capi tolo «L a dinamica del parallelismo» in R. ALTER, Larte della poesia biblica, GBPress - San Paolo, Cinisello Balsamo 2011,13-49. 9 Cfr. VON Rad , La Sapienza in Israele, 23-53.
- L ’enigma: una o più sentenze non immediatamente chiare e che necessitano di essere decodificate; l’enigma vela e svela al lo stesso tempo la realtà; è il gioco della scoperta della verità («Per chi i guai? Per chi i lamenti? Per chi le risse? Per chi i gemiti? Per chi le ferite senza alcun motivo? Per chi gli occhi sempre offuscati? Per chi si perde dietro al vino, per chi va in cerca di vino pregiato»: Pr 23,20-30; «Che cosa c’è di più pe sante del piombo? Eppure non deve considerarsi tale lo stol to»: Sir 22,14). - L’allegoria (da àllos «altro», agoréud «parlo»): è un metodo di composizione dei testi che permette di rinviare a un livello dif ferente il significato immediato delle parole (cfr. Qo 12,1-6).
3. Retribuzione I libri sapienziali affrontano direttamente il problema del male e della sofferenza. La fede ebraica serbava al suo inter no la credenza che se un uomo è buono riceverà il bene, mentre se un altro è cattivo riceverà, prima o poi, il male. Questa concezione sulla retribuzione è fortemente atte stata nella Scrittura, radicandosi nel concetto di elezione del popolo e nella consapevolezza che Israele esiste solo per la benevolenza divina. L’idea di fondo è la seguente: biso gna corrispondere alla munificenza divina con una condotta adeguata, pena la perdita delle promesse e dei beni a questa connessi (la terra, la ricchezza, la salute, la fecondità). Così recita il libro del Deuteronomio: «N on dire nel tuo cuore: “La mia forza e la robustezza della mia mano mi ha procu rato questa potenza” . Ricordati del Signore tuo Dio, poiché lui ti ha dato la forza di procurarti questa potenza, per mantenere l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri, come è ancora oggi» (Dt 8,17-18). E nel Sal 1 si proclama beato chi pratica la Legge («Sarà come albero piantato lungo corsi d ’acqua, che darà frutto a suo tempo; riusciranno tutte le
sue opere»: v. 3), mentre gli empi saranno dispersi come pula al vento (v. 4). Esiste, dunque, un ordine iscritto nell’intero universo che rinvia direttamente alla volontà del Creatore, e che permette al sapiente di trovare la spiegazione al senso profondo della vita: nelle sentenze sapienziali si riscontra «una fiducia nella stabilità delle relazioni elementari tra uomo e uomo, una fi ducia nella conformità degli uomini e delle loro relazioni, una fiducia nella costanza delle regole che reggono la vita umana o, di conseguenza, esplicitamente e implicitamente, una fiducia in Dio che ha messo in vigore queste regole».10 Possiamo distinguere due tipologie di retribuzione in base alle quali l’equilibrio viene mantenuto. La prima è quella au tomatica, secondo la quale il male arrecato si ritorce, prima o poi, contro il suo autore, in base a una retribuzione intrinse ca alle opere stesse: «I peccatori veramente al loro sangue tendono insidie, pongono reti alle loro proprie vite. Così so no i sentieri di chiunque ammassa rapina: essa prenderà la vi ta di coloro che la possiedono» (Pr 1,18-19). Il Siracide arri va a formulare quella che possiamo chiamare la legge del contrappasso: «Chi scava una fossa vi cade, e chi tende una trappola vi incappa; chi fa il male gli rotola addosso, senza che sappia da dove gli viene» (Sir 27,26-27). Su questa linea si pone anche la riflessione di Bildad, uno dei tre amici di Giobbe, a proposito della sorte dell’empio che incappa nella rete e cade nella trappola (Gb 18,5-21). La seconda tipologia di retribuzione si può denominare teologica e chiama in causa direttamente l’agire punitivo di vino. È lui che dona sia il bene che il male (Gb 3,10) in quan to difensore della vita dei deboli che è minacciata dai cattivi (Pr 3,32-35); perciò bisogna avere profonda fiducia nella sua volontà, così come raccomanda Siracide: «Quanti temete il 10 VON Rad, La Sapienza in Israele, 65.
Signore, confidate in lui, perché non vi mancherà la sua ri compensa. Considerate le generazioni passate e osservate: chi ha confidato nel Signore ed è rimasto confuso? Chi ha perse verato nel temerlo ed è rimasto abbandonato?» (Sir 2,8.10).
3.1. Il vocabolario della retribuzione Il lessico della retribuzione ricorre a diversi termini ebraici che esprimono aspetti diversi della ricompensa, la quale ri guarda sia le relazioni tra gli uomini sia quelle tra Dio e gli esseri umani. La radice verbale più prossima al concetto di retribuzione inteso nel senso comune - cioè una ricompensa, in termini di punizione o di premio, per un determinato comportamento, - è skr. Essa esprime il salario per una gior nata di lavoro (cfr. Gen 30,28) o per l’intera condotta di vita di cui, in Qoelet, non è dato godere: «I vivi sanno che devo no morire, ma i morti non sanno nulla; per loro non c’è più guadagno (sakàr)\ il loro ricordo è andato nell’oblìo» (Qo 9,3). Per il saggio, infatti, a differenza di quanto annuncia Is 62,11, non c’è alcuna ricompensa né individuale né collettiva. Una seconda radice è slm, il cui significato è legato al sen so di pace e di appagamento che deriva dall’avere a sufficien za ciò che si sperava di ottenere. Per esempio, nel rapporto con gli uomini essa descrive la soddisfazione per un credito incassato (cfr. 2Re 4,7) o, nel rapporto con il Signore, per la felicità da lui offerta perché si è compiuta un’opera meritoria (Davide che risparmia la vita del suocero Saul in lSam 24,20). Possiamo estendere il nostro sguardo anche alla ri compensa di cui godono i giusti nella vita oltre la morte de scritta nel libro della Sapienza; in questo scritto ricorre l’idea della pacificazione veicolata dalla radice slm, anche se la lin gua utilizzata è il greco: «Agli occhi degli stolti parve che i giusti morissero, una disgrazia fu considerata la loro diparti-
ta, e il loro viaggio lontano da noi una rovina, ma essi sono nella pace (eìréne)» (Sap 3,2-3). Infine, la radice gml consegna l’idea generale dell’essere ri pagato, del ricevere una ricompensa, in bene o in male, in base al comportamento. Si legge in Proverbi: «Dal frutto del la bocca l’uomo si sazia di beni, ciascuno sarà ripagato {gml) secondo le sue opere» (Pr 12,14). Ciò vale anche in rapporto all’agire divino: «Chi ha pietà del misero fa credito al Signo re; gli renderà {gml) la sua mercede» (Pr 19,17). Il salmista prende atto che la misericordia del Signore va ben oltre le colpe dell’uomo, che andrebbero punite e non perdonate: «Non ci hai trattato secondo i nostri peccati; non ci hai ripa gati {gml) in base alle nostre colpe» (Sai 103,10).
3.2. Retribuzione collettiva La Sacra Scrittura porta con sé un’idea di responsabilità diversa rispetto a quella comunemente condivisa, secondo la quale ognuno risponde delle proprie azioni. Per i popoli se miti antichi esisteva una concezione della responsabilità che possiamo definire «oggettiva», secondo la quale il singolo è coinvolto nella colpa del gruppo e, di conseguenza, nel pro cesso di riparazione. Il clan veniva prima del singolo mem bro, il quale si ritrova ad essere colpevole o giusto, indipen dentemente dalle proprie azioni. Se perciò c’era una sofferenza, c’era stato evidentemente anche un delitto per il quale si veniva castigati. Anche davan ti al male gratuito e alla sofferenza dell’innocente, si applica va questo schema legato alla colpa: qualcuno (i genitori, la comunità, il popolo di appartenenza) ha peccato, quindi il singolo sta pagando a causa dei misfatti altrui. Alcuni esempi aiutano a comprendere questa particolare concezione della responsabilità collettiva. In positivo, ricor
diamo che la benedizione di Abramo si estende ai suoi di scendenti (Gen 12), così come la giustizia di uno solo «contagerebbe» Sodoma e Gomorra salvandole dalla distruzione (Gen 18,17-33). In Is 53,5 la sofferenza vicaria del servo di Yhwh ha valore espiatorio per l’intero popolo («Egli fu tra fitto a causa dei nostri peccati, fu schiacciato a causa delle nostre colpe. Il castigo che ci rende la pace fu su di lui e per le sue piaghe noi siamo stati guariti»). In negativo, invece, non si può non citare la trasgressione di Adamo che ricade su tutti gli uomini (Gen 3) e la maledizione di Noè che col pisce Canaan a causa di Cam che ha mancato di rispetto contro di lui (Gen 9,25). Infine, il peccato di Davide con Bersabea ricade sul figlio poiché era stato concepito e che muore (2Sam 11-12), così come la richiesta che egli fa di un censimento di tutto il popolo, colpisce l’intero regno (lC r 21,1-17). Solo con il profeta Geremia si giunge all’annuncio della fi ne di questo rapporto mortificante legato alla responsabilità collettiva, professando il passaggio a una logica di retribuzio ne personale: «In quei giorni [quando ci sarà la nuova allean za] non si dirà più: i padri han mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono alligati» (Ger 31,29; cfr. anche Ez 18,2).
3.3. Le aporie della teoria davanti alla sofferenza La teoria della ricompensa rivelava aporie e contraddizio ni alle quali non ci si poteva facilmente sottrarre con irenici e preconfezionati asserti di fede sul male. Anche il tema della morte - che non è affrontato come questione teologica in sé, perché si è consapevoli della mortalità umana - si palesa nel la sua problematicità solo in presenza della fine prematura del giovane o del giusto: costoro, infatti, pur senza colpa hanno perso irrimediabilmente la possibilità di godere della
benedizione divina, visto che la credenza nella vita oltre la morte non è molto sviluppata nell’Antico Testamento. Giobbe e Qoelet in primis contestano, specificamente, l’e quazione: buono-benessere, cattivo-malessere. Significativo a riguardo è il testo di G b 1,1-9 in cui per tre volte ricorre il ri tornello: Giobbe «era integro e retto, timorato di Dio e alie no dal male» (Gb 1,1.8; 2,3). La sua condizione agiata è de scritta in termini simbolici: l’abbondanza di figli e la disponi bilità economica esprimono la pienezza della benedizione di vina. La fede di Giobbe, però, sembra essere inficiata da un tornaconto personale. In G b 1,8 è riportata, infatti, la do manda - quasi una sfida - posta da Dio a satana, alla presen za della corte celeste («i figli di Dio»), circa l’irreprensibilità del suo servo Giobbe: «H ai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra». La risposta “sata nica” è schietta ed esprime bene il senso dei fatti, chiamando in causa la categoria dell’interesse personale: «Forse che Giobbe teme Dio per nulla?» (1,9). Giobbe teme e rispetta Dio perché gli conviene: gli viene facile amarlo e venerarlo perché egli ha posto una siepe, una protezione, attorno a lui e alla sua casa. Satana dice: «Tocca quanto ha e vedrai come ti maledirà apertamente» (v. 11). Il testo attribuisce a satana l’origine del male. L’intenzione del redattore finale del prologo di Giobbe (IV secolo a.C.) vuole sfumare la responsabilità divina anche se nei versetti successivi non si fa problema di attribuire a Dio la sciagura: «N udo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò. Il Si gnore ha dato, il Signore ha tolto» (Gb 1,21). Giobbe nei primi due capitoli orienta tutto a Dio, anche il male, perché non c’è alcun altro principio all’infuori di lui: «Se da Dio ac cettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?»
(Gb2,10). La prima reazione alla sciagura che si abbatte sulla fami glia di Giobbe è, quindi, l’accoglienza docile del progetto di
vino per quanto misterioso esso sia: «In tutto ciò Giobbe non commise peccato né proferì alcuna insolenza contro Dio» (Gb 1,22). In G b 2,1-7 è descritta la seconda udienza presso la corte celeste. L’imputato è, nuovamente, Giobbe. Questa volta è toccato nella sua carne con una malattia grave e infamante, la lebbra (Gb 7,5). Il testo non ci spiega le ra gioni di tale accanimento, dichiarando solo che il protagoni sta persevera, pazientemente, nella sua sapienza, rimanendo seduto sul suo giaciglio fatto di cenere (in segno di peniten za): «In tutto questo non peccò con la sua bocca» (Gb 2,10). Giobbe viene raggiunto da tre suoi amici (Elifaz, Bildad, Sofar) che, dopo una prima reazione silenziosa davanti alla grande sciagura che lo ha colpito, si scagliano contro di lui ribadendo i canoni classici della teoria retributiva. Questa volta egli si ribella: dal capitolo terzo del libro inizia la sua protesta e la proclamazione fiera della sua innocenza (fino a giungere al c. 31): egli è pronto a entrare in un pubblico dibattimento contro Dio stesso, chiamato in causa per rendere ragione della sua condotta e, soprattutto, della sua ingiusti zia. Questa consiste nel non rispondere alle provocazioni e agli appelli di Giobbe. La risposta di Dio giunge nei due discorsi che egli rivolge a Giobbe (cc. 38-41). È una replica che riconduce il soffe rente all’interno della storia della salvezza. Egli ha sollevato numerosi dubbi ma la risposta di Dio riguarda la natura di colui che lo contesta: «D ov’eri tu quando io creavo il mon do?». La lezione consiste, quindi, nell’umiltà: l’uomo ignora il piano divino che si rivela nella creazione e, pur potendo scorgere qualche barlume, non ha alcun potere sul creato. Yhwh colloca Giobbe all’interno di un disegno molto più grande che non inizia e non finisce con lui. Il pericolo di chi soffre può risiedere nel chiudersi nel proprio dolore, man cando di uno sguardo sufficientemente ampio per individua re un progetto d’amore di più vasto respiro.
Solo alla fine Giobbe ammette di avere peccato e fa real mente penitenza su polvere e cenere (Gb 42,6). H a com preso la sua colpa: temeva per interesse un Dio di cui gli era nota - per averla appresa da altri - la bontà, senza avere ancora sperimentato in prima persona il Dio d ’Israele, e contemplato il suo vero volto: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto» (Gb 42,5). Nell’e pilogo del libro (Gb 42,7 -16) si legge che anche gli amici di G iobbe, proponendo acriticamente la retribuzione come qualcosa di automatico, hanno parlato stoltamente, al pun to che Giobbe intercederà a loro favore. Tuttavia, se è vero che la teoria della retribuzione è stata “smontata” lungo tutta l’opera, Giobbe alla fine saprà di essere stato benedet to nuovamente da Dio perché gli viene restituito molto di più di quello che possedeva, secondo un inatteso happy end. Qoelet, come Giobbe, denuncia l’ingenuità con cui è for mulata la teoria della retribuzione senza, tuttavia, approdare a una risoluzione piena del problema. Davanti a un pensiero troppo ottimistico e naif, esageratamente distante dalla storia degli uomini, Qoelet fa esperienza della complessità della vita e delle dinamiche che ne determinano il corso. In Qo 1,3-8 è descritta, infatti, una visione ciclica del tempo e della storia quasi un eterno ritorno - come se ci fosse un ineluttabile fato che tutto riporta al punto di partenza, vanificando ogni novità. Sebbene Qoelet possa essere stato influenzato dalla filosofia della storia del mondo greco, il suo pensiero nasce dall’osser vazione e giunge alla conclusione che spesso ci si deve con frontare con l’abitudinarietà delle cose della vita e con la fatica che tale esistenza comporta, soprattutto quando l’uomo assiste passivam ente allo scorrere degli eventi. L’«ottim ism o epistemologico»11 che guida il sapiente è possibile soltanto se nel mondo esiste un ordine delle cose: quando tale equilibrio1 11 MAZZINGHI, Il Pentateuco sapienziale, 35.
viene meno, salta la fiducia che anima la sua ricerca e, con questa, anche l’accesso a una lettura profonda della realtà. Qoelet, perciò, è conscio della superiorità della sapienza ri spetto alla stoltezza. Tuttavia deve ammettere che non c’è al cun vantaggio in ordine alla sorte finale dell’uomo: non è in differente essere stolti oppure essere saggi, in quanto vi è una luce che proviene dalla sapienza che gli stolti non possono co gliere («Il saggio ha gli occhi ben aperti in testa, lo stolto inve ce cammina nel buio»: Qo 2,14a). Sebbene lo stesso Qoelet si affretti a concludere che un’unica sorte, la morte, è riservata a tutt’e due (Qo 2,14b). Egli interroga criticamente e mette in discussione la teologia della storia della fede ebraica, incapace di cogliere non solo la complessità della vita come problema ma anche le dinamiche intrinseche e le sue risorse.
3.4. La scelta del male e il nuovo valore della sofferenza Il Siracide cerca di offrire una risposta al problema dell’in giustizia divina, sottolineando la responsabilità personale dell’uomo. In Sir 15,11-17 si scagiona Dio dalla responsabilità della sciagura («Non dire: “Ho peccato per opera del Signo re”, perché egli non fa quello che odia. Non dire: “Lui mi ha sedotto”, perché non gli serve l’uomo peccatore»: w. 11-12) e da un certo determinismo («A nessuno Dio ha comandato l’empietà, a nessuno ha dato la facoltà di peccare»: v. 20; egli infatti la aborrisce: «Il Signore odia ogni abominio»: v. 13). Tutte le opere di Dio sono buone e create con uno scopo ben preciso: se esiste qualcosa di dannoso (la morte, le fiere, gli ele menti cosmici ecc.) è per colpa dei peccatori, confermando so stanzialmente gli assunti classici del «dogma» retributivo (Sir 39,12-35). All’uomo è lasciato l’arbitrio per scegliere secondo il suo consiglio («Egli ha fatto l’uomo sin dal principio e l’ha la sciato in balìa del suo consiglio. Egli ti ha messo davanti il fuo
co e l’acqua: dove tu vuoi, stendi la mano. Davanti all’uomo, la vita e la morte, quanto desidera gli viene dato»: w. 14.16-17). Soltanto con il libro della Sapienza (circa 30 a.C.) l’oriz zonte della riflessione sulla retribuzione si sposta in una con dizione ultraterrena, giacché solo con il suo autore si giunge a dichiarare che la speranza delle anime giuste è piena d ’im mortalità (Sap 3,4), professando la sussistenza - oltre la mor te fisica - di una dimensione della vita umana, quella dell’a nima. Questo punto di approdo illumina le considerazioni precedenti sull’ingiustizia e sul ruolo di Dio nella storia, de scrivendo l’aldilà come destino ultimo e come luogo dell’inveramento della condotta umana: solo ai giusti è riservata la salvezza, mentre agli empi è preclusa (Sap 2,24). Se è vero che Dio mette alla prova l’uomo con la sofferenza, è altret tanto vero che i giusti sperimenteranno alla fine, proprio gra zie a queste tribolazioni, l’immensa misericordia del Signore: «D opo un breve soffrire, saranno largamente ricompensati, perché li ha provati e li ha trovati degni di sé» (Sap 2,5). Allargando lo sguardo al Nuovo Testamento, possiamo di re che il mistero del male e della sofferenza dell’innocente re sta un mistero anche per i contemporanei di Gesù, i quali, davanti al cieco nato, chiedono al maestro di chi sia la colpa di una simile situazione: egli spezza la spirale retributivo-punitiva indicando la gloria a Dio come scopo ultimo della sof ferenza di quell’uomo (Gv 9,2-4). Egli ha scelto ciò che ca ratterizza nell’intimo l’uomo, la sofferenza, proprio per redi merlo dal di dentro e rivelare la nuova e inaudita sapienza della croce (lC or 1,17-24).
4. Rapporto tra sapienza biblica ed extrabiblica Fino alla metà del X IX secolo si ignorava la reale consi stenza del rapporto tra la sapienza biblica e il mondo dei sa
pienti presso le culture dell’Antico Vicino Oriente. Quando si riuscì a decifrare l’antica lingua egizia (nel 1828 J.-F. Champollion decifra la stele di Rosetta) si ebbe ampio acces so a tutta una serie di testi sapienziali dell’epoca faraonica, i più antichi dei quali risalivano addirittura alla metà del terzo millennio a.C. In particolare, per quanto riguarda il libro dei Proverbi, quando negli anni Venti del secolo scorso fu pub blicata l’opera egizia Linsegnamento di Amenemope (1100 a.C.), innegabile parve il collegamento (per il contenuto e per l’indicazione del numero trenta che indica le stanze/capitoli dell’istruzione egizia) con il più recente testo di Pr 22,17-24,22, giungendo alla conclusione circa la matrice ex trabiblica della sapienza d’Israele. Riportiamo ora, in estrema sintesi, le principali teorie che spiegano la natura del legame tra la sapienza israelitica e quella egizia e mesopotamica, par tendo dalla chiara consapevolezza che Israele non è vissuto fuori dal comune background dell’Antico Vicino Oriente.
4.1. Egitto In Egitto le scuole di sapienza, oltre ad avere un taglio pratico, impartivano insegnamenti etici e religiosi, ponendosi a un livello sia individuale che sociale. A queste scuole si sa rebbero formati gli scribi che, nei libri dei Re, in Isaia e in Geremia, hanno ruoli simili a quelli dei colleghi egizi e babi lonesi. Da questi ambienti di corte, Israele avrebbe attinto anche la visione elitaria che emerge dal Siracide circa la supe riorità dello scriba rispetto alle altre professioni (Sir 38,2434). Per cui, è probabile che la sapienza di questi popoli sia giunta in Israele grazie ai legami degli scribi con i paesi stra nieri. La ragione, dunque, per la quale la sapienza straniera è presa in prestito, sembra essere l’educazione della classe poli tica.
4.1.1. Il prestito estero A livello contenutistico si ravvisa, per esempio, che tra le istruzioni egiziane e i dieci discorsi che troviamo in Pr 1-9 esiste una chiara corrispondenza per quanto riguarda l’ac centuato pragmatismo degli ammonimenti, il concetto di ordine, il concetto di divinità e di uomo, e circa l’autorità dell’insegnamento impartito: i saggi israeliti avrebbero fat to un lavoro critico di selezione di questi aspetti accentuan do la dimensione religiosa. Per dirla con R.N. Whybray: «gli autori israeliti hanno adattato e modificato la sapienza non-israelita, per cui vanno guardati come coloro che pren dono a prestito una forma letteraria straniera».12 Altri ele menti in comune riguardano la dea egizia M a’at, che pre siede alla giustizia, accostata alla Sapienza personificata di Pr 1 e 8, la divinità Iside che sarebbe il calco della Sapienza di Sir 24. «G li autori-editori dei Proverbi non solo hanno assem blato istruzioni e detti, ma li hanno anche risistemati e rimodellati»:13 è questa la posizione di R.J. Clifford, il quale sostiene che le istruzioni egizie e mesopotamiche sono state modificate e ricucite successivamente con poemi della Sa pienza personificata, così da conferire loro un effetto più incisivo, ponendole a un alto livello retorico. Per Clifford gli autori biblici hanno attinto da opere egizie, quali Amenemope, A ni, e mesopotamiche, quali Le istruzioni di Shuruppak, Consigli di Saggezza, alcuni proverbi sumeri, Le pa role di Achikar. La personificazione della Sapienza si rin traccia in Pr 8,30a nella parola ’amón, l’originario accadico di ummanu, che nella mitologia mesopotamica sarebbe il se mi-divino mediatore che dopo il diluvio porta la cultura all’umanità. Tra i testi egizi si segnala, inoltre, un antesigna 12 W h y b r a y , Wisdom in Proverbs, 53. 13 R.J. CLIFFORD, Proverbs: A Commentary (OTL), LouisviUe (KY) 1999, 2.
no del libro di Giobbe: Il Dialogo di un disperato con se stesso (o con la sua anima), risalente al 2000 a.C. circa, in cui di fronte al male e alla sofferenza l’unica via d ’uscita sembra essere la morte.
4.1.2. Un comune stock di conoscenze A questa prima posizione, che accentua fortemente il le game diretto con la cultura extrabiblica, se ne aggiunge una seconda che attenua la portata della prima a favore di una maggiore originalità della sapienza israelitica. Le similitudi ni esistenti tra il mondo egizio e quello dei Proverbi riguar dano, per R.E. Murphy, una comunanza di aspetti legati all’esperienza umana.14 L’anteriorità degli scritti egizi non dice automaticamente derivazione da questi ma, al limite, l’espressione di un comune stock di massime, derivante da varie fonti, che si diffonde in culture vicine, senza per forza concludere l’esistenza di un’ovvia parentela tra di esse. Questo spiegherebbe tra l’altro lo stretto rapporto che in tercorre tra Pr 22,17-24,22 e l’Insegnamento di Amenemope: entrambe le opere presentano una serie di consigli sulla vita sociale, necessari a ogni educando perché apprenda co me comportarsi in maniera retta. Anche in rapporto all’idea di ordine del mondo e di Ma’at si sostiene, facendo leva sulla radicale originalità degli scritti biblici, che gli Israeliti non hanno fatto propri ele menti dei testi egiziani facendone una sintesi e giungendo a una propria teoria, alta e astratta, di natura filosofica: i saggi d ’Israele non furono egittologi.15 Al limite si può definire il rapporto tra le istruzioni egizie e quelle di Pr 1-9 come rap14 Cfr. R.E. M u r p h y , Proverbi (WBC 22), Thomas Nelson, Nashville 1998,288. 15 Cfr. M.V. Fox, «World Order and Ma’at: A Crooked Parallel», in JAN ES 23(1995), 37-48.
porto di analogia (e non di influenza od omologazione), cioè di idee simili che si sviluppano indipendentemente in cultu re vicine.16
4.1.3. Inculturazione Una terza via porta a considerare le somiglianze tra scritti biblici ed extrabiblici nella logica delTinculturazione. Esisto no delle chiare derivazioni dalla sapienza egizia, che i maestri in Israele hanno accolto nel proprio patrimonio sociale e adattato alla propria fede yahvistica. Pertanto, se esiste un legame tra la dea egizia Ma’at e la Donna Sapienza di Proverbi (1; 8), si segnala anche la diffe renza legata all’uso della parola, in quanto nelle istruzioni egizie mai Ma’at prende la parola per istruire e parlare di sé; a ciò si aggiunga il fatto che nelle istruzioni egiziane non tro viamo l’idea della Sapienza come realtà in un certo qual mo do autonoma (in Pr 8 e Sir 24, per esempio, si parla della sa pienza che media il rapporto tra Dio e l’uomo, che parla, che ha una sua identità). Il mondo in cui vive la Sapienza, infine, è differente dal pantheon egizio e mesopotamico, abitato da innumerevoli presenze preposte al controllo di un determi nato aspetto della vita (la fecondità, la vita agricola, le arti ecc.). A uno sguardo più attento non sfugge neppure la distanza antropologica dei destinatari delle ammonizioni sapienziali. Se, infatti, nell’Antico Vicino Oriente si registra una forte stratificazione sociale, in base alla quale lo status di apparte nenza è fissato sin dall’inizio e la sapienza ha un valore pre cauzionale (bisogna fare in modo di perdere tale posizione sociale con l’apprendimento), nella Bibbia non c’è questo de 16 Per un approfondimento rinviamo al nostro articolo: «Il genere letterario nelle istruzioni egizie e nelle istruzioni di Proverbi 1-9», in Estudios Biblicos 65(2007), 427-461.
terminismo etico. La sapienza è rivolta a tutti perché tutti so no in grado di capire e praticare i suoi consigli: essendo me no elitaria, è rivolta principalmente a chi ne ha bisogno, fa cendo udire la sua voce all’ingresso della città, nella piazza, ai crocicchi delle strade (Pr 1,20-21 e 8,1-3): la Sapienza parla e vuole entrare nel vivo della comunità umana, non rimanere nel chiuso della corte a uso di pochi adepti ma scendere per le strade e parlare a tutti.
4.2. Mesopotamia Simile è il discorso che si può fare circa il rapporto di so miglianza ma anche di divergenza che esiste tra la sapienza biblica e quella assiro-babilonese {Le istruzioni di Shuruppak, I Consigli di Saggezza, Le parole di Achikar). All’euforia inizia le che induceva gli studiosi a leggere la Bibbia a partire da ca tegorie extrabibliche (è questa la stagione del panbabilonismo tra la fine del X IX e l’inizio del X X secolo), seguì un ap proccio più cauto e ponderato che teneva nella giusta consi derazione i punti di contiguità ma anche quelli di eterogenei tà, senza necessariamente immolare il dato biblico a quello extrabiblico. Con il progredire delle scoperte emergeva la complessità del mondo raccontato nelle opere assiro-babilo nesi la cui caratteristica principale sembra essere il richiamo alle pratiche magiche e divinatorie. Per quanto riguarda la sa pienza, segnaliamo la tesi di G. Buccellati, secondo cui in Me sopotamia non esisteva un vero e proprio genere sapienziale, a causa di una non unificata dottrina sapienziale, o di un uni co sistema o programma intellettuale; se ci sono aspetti e te matiche sapienziali vanno rintracciati all’interno dei racconti di cosmogonie, antropogonie e miti. Buccellati rimarca che non ci sono temi sapienziali esclusivi nel panorama della pro duzione letteraria mesopotamica. Inoltre, la componente sa
pienziale è una tra le altre componenti (accanto a quella reli giosa per esempio), e non è neanche quella preponderante.17 I paralleli, comunque, con la produzione letteraria assiro babilonese riguardano la figura del protagonista del libro di Giobbe, in rapporto al quale esiste un collegamento con ope re quali L’uomo e il suo Dio (o Giobbe sumerico, l’originale può datarsi attorno al 2000 a.C.), Voglio lodare il Signore (XIII-XII secolo a.C.) e La teodicea babilonese (1000-750 a.C.). Come nel libro biblico, anche in queste opere l’argo mentazione è sviluppata sotto forma di dialoghi, e cosparsa di interrogativi volti alla comprensione del senso della soffe renza che coinvolge il giusto oppresso sotto la pesante mano delle divinità (tra le quali spicca Marduk). Tra le opere mesopotamiche segnaliamo anche il poema di Ghilgamesh (1700 a.C. circa) che condivide con il libro del Qcfelet temi quali la vita come soffio, il tema della giustizia divina e una certa visione pessimistica della vita. In conclusione possiamo dire che oggi il rimando alla sa pienza extrabiblica è comunemente accettato. Permane la differente rilevanza accordata alle opere bibliche, perché per taluni studiosi questo contributo è esiguo rispetto alla premi nenza delle matrici egizie e mesopotamiche. Come sopra se gnalavamo, possiamo parlare di una vera e propria opera di inculturazione che i maestri d ’Israele hanno compiuto attin gendo al patrimonio culturale delle culture limitrofe. Tre so no gli assunti fondamentali confluiti nella produzione israeli tica: l’importanza dell’esperienza come fonte del sapere e il carattere pratico della sapienza, la cui natura non è esclusivamente intellettuale (quest’aspetto differisce anche dalla con cezione greca del sapere); la dimensione pedagogica degli ammonimenti e la grande importanza riconosciuta alla tradi17 Cfr. G . BUCCELLATI, «W isdom and not: thè Case o f M esopotamia», in JA O S 101(1981), 35-47.
zione e ai suoi rappresentanti, i quali sono i mediatori di quel bagaglio di conoscenze necessario per comprendere l’arte del vivere; infine, la dimensione religiosa dell’investigazione che rinvia al divino come garante dell’ordine iscritto nel mondo, anche quando quest’ordine viene messo in discussione dalla sofferenza e dal male in genere.
Bibliografia di riferimento e di approfondimento - P r io t to M. (edd.), Libri sapienziali e altri scritti (Lo gos - Corso di Studi Biblici 4), Elle Di Ci, Leumann (TO) 1997. C a p p e l l e t t o G. - M ila n i M. (edd.), In ascolto dei profeti e dei sa pienti. Introduzione all’Antico Testamento II, Messaggero, Pado va 2006.
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PROVERBI
1. Questioni storico-letterarie Il libro dei Proverbi è certamente il più tipico tra i libri sapienziali. I Padri della Chiesa lo hanno interpretato in termini anagogici (tesi cioè a ricavarne indicazioni per lo sviluppo morale del credente) collegandolo al libro del Qoelet e a quello del Cantico dei Cantici; la sequenza rav visata pone il libro dei Proverbi al primo posto (seguito da Qoelet e dal Cantico) o al secondo posto (preceduto da Qoelet e seguito dal Cantico) dei gradi della sapienza, il cui vertice resta il Cantico in quanto descrive l’unione mi stica con Dio. L’intuizione di fondo è ben espressa dalla prefazione al commento al Cantico di Origene: Salomone, che primo insegna agli uomini la filosofia divina, co me inizio della sua opera ha messo il libro dei Proverbi, nel qua le è esposta la morale: in tal modo, allorché uno avrà progredito nella riflessione e nei costumi, passerà alla disciplina che tratta della conoscenza della natura e qui, distinguendo la natura e la causa delle cose, conoscerà che bisogna abbandonare la vanità delle vanità e affrettarsi invece alle realtà eterne e perpetue [...]. Perciò dopo i Proverbi si viene all’Ecclesiaste, il quale insegna che tutte le cose visibili e corporee sono caduche e fragili; quan do se ne accorgerà, colui che si applica alla sapienza le disprez zerà, non le terrà in alcun conto e, rinunciando per così dire a
tutto questo mondo, tenderà alle realtà invisibili ed eterne, che sono insegnate nel Cantico dei Cantici.1 Anche noi, per comprendere gli altri libri del corpus sa pienziale, muoviamo dai Proverbi perché in esso sono rac chiuse le tematiche principali che si attestano - con variazio ni e amplificazioni - anche nelle altre opere didattiche.
1.1. Struttura La critica letteraria mette in luce l’eterogeneità del mate riale ponendo in risalto l’opera dei redattori. Il ricorso al parallelismo è la struttura portante della com posizione attestandosi sin dal prologo (Pr 1,1-7). In questi primi versetti i contenuti del libro vengono indicati attraver so una lunga serie di forme letterarie (massime, proverbi, enigmi, parole dei sapienti ecc.), di indicazioni sull’oggetto dell’insegnamento (sapienza, scienza, disciplina, destrezza, assennatezza, acutezza) e di forme verbali legate all’appren dimento (conoscere, comprendere, ascoltare ecc.), offrendo al lettore un assaggio del contenuto generale del libro. La ri petizione dei vocaboli è tipica di una modalità espressiva che privilegia l’accostamento dei termini secondo quella caratte ristica che nel capitolo introduttivo ho denominato «paralle lismo delle idee». La Sapienza non viene cristallizzata in una definizione né in questi versetti né lungo l’intero libro.12 Al prologo, in cui si indicano anche l’autore (Salomone) e i destinatari (il giovane, l’inesperto e il saggio), seguono i pri mi nove capitoli nei quali, più che dettare delle puntuali nor me di comportamento, si offrono i criteri per essere saggi. 1 ORIGENE, Commento al Cantico dei Cantici, Città Nuova, Roma 41997,56-57. 2 In Pr 24,13-14 si ritrova un accostamento con il miele: essa è buona, serve a dare gu sto e dolcezza alla vita.
Tale sezione (Pr 1,8-9,18) costituisce una vera e propria grande introduzione all’intera opera, per la quale è facilmen te pensabile una redazione finale postesilica in ragione del le game «al femminile» che connota sia i cc. 1-9 sia il c. 3 1.3 Questa cornice racchiude materiale più arcaico suddivisibile in sei sezioni di ampiezza e forma letteraria differenti da tabili, forse, o al tempo di Salomone (X secolo a.C.) o a quel lo di Ezechia (V ili secolo a.C.), il quale è espressamente no minato in 25,1: «Proverbi di Salomone» (10,1-22,16); «Parole dei sapienti» (22,17-24,22); «Anche queste sono parole dei sapienti» (24,23-34); «Anche questi sono proverbi di Salomone, trascritti dagli uomi ni di Ezechia, re di Giuda» (25,1-29,27); «Parole di Agur, figlio di Iake, da Massa» (30,1-14); Raccolta senza titolo di proverbi numerici (30,15-33).
Dal punto di vista della trasmissione del testo segnaliamo che spesso i Settanta si discostano dal testo ebraico (quest’ul timo è più lungo di venticinque versetti). Tale diversità non è solo riconducibile al traduttore ma anche alla presenza di uno scritto spesso diverso che viene letto dagli autori greci (se anteriore o posteriore a quello ebraico non è sempre faci le stabilirlo). La presenza di doppioni di singoli proverbi (ri petuti totalmente o in parte) si potrebbe spiegare ipotizzan do diversi interventi redazionali: un primo testo greco (che traduce liberamente dall’ebraico) fu rivisto in base a una ver sione ebraica diversa dalla prima che ha probabilmente avuto la sua stesura finale attorno al 350 a.C. Nel II secolo d.C. i Proverbi furono tradotti in siriaco di ventando parte della Peshitta. Girolamo nel 398 tradusse l’o 3 Si pone in relazione la Donna Sapienza dei cc. 1, 8 e 9, con la madre di Lemuel (Pr 31,1-9) e la donna forte ( ’èset-hayil) di Pr 31,10-31; a quest’ultima si oppone la figura della donna straniera descritta nei cc. 2, 5, 6 e 7.
pera in latino attingendo direttamente dall’ebraico e ricor rendo al greco e alle traduzioni giudaiche (che confluiranno successivamente nel midrash e nel targum) quando il testo gli sembrava maggiormente attendibile.
1.2. Genere letterario a) Il màsàl. In ebraico il libro si intitola mislè Selómóh («Proverbi di Salomone»: 1,1) indicando l’unità fondamenta le di cui si compone, cioè il m àsàl o proverbio. Il m àsàl si ri trova nelle sezioni centrali del libro sotto forma di ammoni menti con sentenze binarie, cioè costruite su due stichi, che affrontano varie tematiche sapienziali. In questi capitoli si descrivono in dettaglio le regole della condotta che il saggio deve far proprie o rifiutare (uso della parola, autocontrollo, umiltà, rapporti umani, ricchezza, povertà ecc.). Sull’impor tanza del m àsàl, sulla sua struttura e sulla sua funzione didat tica rinvio a quanto detto nell’introduzione (pp. 14-15). Il te sto greco di Proverbi si apre in modo simile: Paroim lai Salómdntos, cioè «detti», «paragoni», «sentenze» di Salomo ne, richiamandosi alla tradizione del re saggio per antonoma sia (cfr. pp. 5-6). b) distruzione. Nella sezione introduttiva del libro (1,89,18) e in 23,15-28 si ravvisa la presenza del genere letterario conosciuto come «istruzione didattica». In dieci componi menti (1,8-19; 2,1-22; 3,1-12; 3,21-35; 4,1-9; 4,10-19; 4,20-27; 5,1-23; 6,20-35; 7,1-27) ispirati alla retorica classica, il padre maestro intende educare alla sapienza. La tripartizione in exordium, propositio e peroratio, è di grande importanza in ordine all’efficacia della comunicazione educativa. Il padre maestro si introduce con lo scopo di orientare all’ascolto sen za ancora consegnare un vero e proprio ammonimento, ma facendone intuire la bontà (prima fase); successivamente en
tra nel merito della “lezione” fornendo i contenuti centrali della sua esposizione, illustrando i vantaggi e gli svantaggi le gati all’accoglienza o al rifiuto delle sue parole e, soprattutto, specificando la ragionevolezza dell’ammaestramento (secon da fase); infine rinforza la sua parola reiterando il senso stes so dell’istruzione, ravvivando l’entusiasmo di chi ascolta in vista dell’applicazione concreta (la terza fase è il momento “patetico” del discorso).4 Per quanto riguarda la tripartizione del discorso va tenuto presente che nella retorica classica l’oratore non è vincolato nel seguire tutti i passaggi che le regole impongono; in base al contesto egli può liberamente articolare e adattare le parti del discorso, pur seguendo un canovaccio di fondo. Anche nel libro dei Proverbi la struttura del discorso può essere semplificata o, al contrario, applicata in toto, a seconda della natura e della portata dello stesso: anche se nella tripartizio ne delle istruzioni bibliche formalmente manca, per esempio, l’importante elemento del discorso retorico come la probatio, è plausibile ipotizzare che i redattori di Pr 1-9 abbiano volu to porre in essere un testo intriso di tradizioni giudaiche ma seguendo la forma ellenistica, per quanto riguarda la struttu ra. Solo di recente sono state studiate, con l’attenzione che meritano, queste sezioni del libro dei Proverbi, facendo emergere un aspetto in precedenza trascurato: il ruolo fondamentale dei genitori nella trasmissione sapienziale giacché è la loro vita, insieme alle parole, a fungere da insegnamento da accogliere e praticare. E soprattutto il padre a impartire l’ammaestramento nelle istruzioni di Pr 1-9 e 23,15-28,5 seb bene anche la madre compaia in alcuni testi (1,8; 6,20; 4 Questa suddivisione risale a O. P l ò g ER, (Spruche Salomos [Proverbia] [BKAT 17], Neukirchener, Neukirchen-Vluyn, 1984, 23-24), ed è stata successivamente sviluppata da M.V. F o x («Ideas of Wisdom in Pr 1-9», in JBL 116[1997], 614-615). 5 Cfr. D.A.N. NGUYEN, «Figlio mio, se il tuo cuore è saggio». Studio esegetico-teologico del discorso paterno in Pro 23,15-28 (Analecta Gregoriana 299), Pontificia Università Gre goriana, Roma 2006.
23,22). In entrambi i casi in questi testi la loro parola è fatta risuonare con una pregnanza tale da essere accostata a quella della Sapienza. Lo scopo dell’educazione mira a mettere in guardia dalla seduzione della straniera e dei peccatori: le loro proposte al lettanti nascondono cattive intenzioni alle quali il figlio deve saper opporre, se desidera vivere, un risoluto rifiuto. Sia i di scorsi in prima persona della Sapienza sia quelli dei genitori, concorrono a sottolineare l’urgenza dell’ascolto.
2. Esegesi di Pr 2: «Se accoglierai le mie parole» 2.1. Le istruzioni come elemento strutturante di Pr 1-9 e il rapporto con gli interludi Il genere «istruzione» si caratterizza per la presenza di co mandi, esortazioni, direttive e motivazioni in base ai quali ac cogliere le indicazioni parentali. Gli elementi di cui si com pone in Pr 1-9 sono i seguenti: - un’introduzione con l’invito all’ascolto («figlio mio»; solo in 4,1 c’è «figli»); - il comando espresso in forme volitive (imperativo-iussivo negati vo) in cui un padre esorta il figlio a fare attenzione alle sue parole; - l’affermazione dell’autorità di chi parla; - l’esplicitazione dei vantaggi che dall’ascolto derivano e l’invito a mettere in pratica l’insegnamento; - l’insegnamento vero e proprio; - un ulteriore invito a cogliere la preziosità di ciò che si insegna.
Queste componenti possono essere organizzate nello sche ma già segnalato da M.V. Fox,6 il quale considera il genere
istruzione come l’impalcatura della prima raccolta del libro dei Proverbi, individuandovi una struttura tripartita assimilabile allo schema della dispositio della retorica classica.7 In Pr 2 lo schema della retorica classica si articola nel seguente modo: - Exordium (w. 1-11). Dopo l’indirizzo «figlio mio», l’invito consiste nell’accogliere le parole paterne e i suoi precetti, nel tendere l’orecchio alla sapienza accogliendo nel cuore la pru denza, nel desiderare l’intelligenza e la sapienza più dei beni preziosi (w. 1-4). La motivazione che sostiene tale invito con siste nell’accresciuta comprensione del timore di Yhwh e della conoscenza del divino (v. 5). - Propositio (w. 12-19). Il contenuto dell’insegnamento è evitare la via della malvagità e coloro che la percorrono, cioè quelli che godono nel delinquere contro gli altri e la donna straniera. - Peroratio (w. 20-22). La conclusione del discorso e l’ulteriore esortazione esplicita la convinzione che ai malvagi è destinata una sorte di annientamento e distruzione, mentre ai retti tocca in sorte la vita sulla terra.
Questo genere - secondo A. Lemaire - nasce come espres sione di uno status sociale altolocato per poi successivamente assestarsi nei ceti più popolari: «l’istruzione del maestro ini zialmente ebbe come scopo l’educazione dei figli apparte nenti alle famiglie più importanti, ed era connessa con il pa lazzo regale o con il tempio, anche se successivamente vide una crescente apertura all’istruzione popolare».8 Ma in Pr 1-9 accanto agli ammonimenti parentali si ravvi sano anche cinque interludi che offrono testi differenti: 7 Si veda anche quanto ho scritto in: «Ascolta Figlio». Autorità e Antropologia dell insegnamento in Proverbi 1-9 (Studia Biblica 4), Città Nuova, Roma 2006, 25-39; 4749; 103-124. 8 A. L e m a ir e , «The Sage in School and Tempie», in J.G . G a m m ie - L.G . P e r d u e (edd.), The Sage in Israel and thè Ancient Near Easty Eisenbrauns, Winona Lake (IN) 1990, 181; I d ., Le scuole e la formazione della Bibbia nellTsraele antico (Studi Biblici 57), Paideia, Brescia 1981.
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condanna dello stolto da parte della donna Sapienza (1,20-33); elogio della sapienza (3,13-20); quattro epigrammi circa la stoltezza e la malvagità (6,1-19); autoelogio della donna Sapienza (8,1-36); inviti della donna Sapienza e della donna Follia (9,1-18).
Il lavoro redazionale ha legato questi interludi alle dieci istruzioni che fungono, secondo il seguente schema, da prin cipio di unità strutturale della sezione:9 Prologo: 1,1-7 Istruzioni I:
Interludi
Inserzioni minori
1,8-19 A:
II:
2,1-22
III:
3,1-12
3,3a B:
IV:
3,21-35
V:
4,1-9
VI:
4,10-19
VII:
4,20-27
V ili:
5,1-23
IX:
6,20-35
X:
7,1-27
1,20-33
3,13-20
4,27a.27b C:
6,1-19
6,8a-8c.lla
D:
8,31-36
8,13a.l9
E:
9,1-6 + 11.13-18
9,7-10.12
Evidenziamo di seguito il rapporto che esiste tra gli inter ludi (secondo la maggioranza degli studiosi l’ultimo strato 9 Cfr. F ox, Proverbi, 323-324.
aggiunto all’interno della serie delle istruzioni) e le istruzioni stesse, per rilevare l’abile lavoro di tessitura finale di brani originariamente indipendenti e così collocare Pr 2 nel suo contesto prossimo. La complementarietà finale tra istruzioni e interludi emer ge dallo sguardo complessivo all’intero contesto di Pr 1-9. Circa il contenuto: l’interludio A (la Sapienza che ride e si fa beffa di coloro che non l’hanno ascoltata) aggiunge ironia al le minacce della I istruzione; l’interludio B (incoraggiamento allo studio della sapienza) ben completa l’istruzione III che loda la pietà e intima una certa cautela circa le capacità dell’intelligenza umana; l’interludio D (invito pubblico della donna Sapienza) contrasta con l’invito furtivo della donna straniera di 7,9-10; l’interludio E riprende il motivo dell’invi to della Sapienza (8,34) e il riferimento alla casa della donna adultera (7,27), rielaborandoli nel tema dei due inviti contra ri. Possiamo dire che gli interludi hanno una propria colloca zione logica, che però non va ricercata nell’estensione della logica delle istruzioni ma, al limite, nella logica della comple mentarietà. Ciò sembra suggerire che uno o più autori suc cessivi abbiano “mitigato” in qualche aspetto l’enfasi delle letture. Non si può, però, giungere alla conclusione che gli interlu di siano una trattazione a sé stante frutto del lavoro di un unico autore, e ciò a causa delle differenze che corrono an che tra gli interludi stessi. L’interludio A, infatti, condanna gli stolti che hanno ignorato il suo appello; ma in effetti la menzione di una chiamata si ha solo in D ed E. L’interludio E (9,1), in cui la Sapienza costruisce la sua casa, sembra non seguire la logica di D (8,34), dove la casa è già bella e pronta. L’autore dell’interludio D difficilmente avrebbe aggiunto l’interludio E, in quanto D con la narrazione dell’origine del la Sapienza e della benedizione che tocca a tutti coloro che la ascoltano, costituisce un gran finale alla sezione intera e ben
introduce alle raccolte che seguono. L’interludio E, perciò, con la sua caduta di tono sembra un’interruzione dopo il so lenne invito del c. 8. Per cui, a rigor di logica, la sequenza temporale degli interludi sembra essere E-D-A e non A-D-E. Non si può fare a meno di rilevare, comunque, che accanto a questa eterogeneità tra gli interludi esiste una coesione ine rente ai temi presenti negli stessi: oltre alla personificazione della Sapienza come donna, abbiamo il comune luogo in cui la Sapienza fa sentire la sua voce (alle porte della città e nelle strade) e la tipologia dei suoi ascoltatori (gli inesperti). Que sti aspetti appartengono principalmente ad A, D ed E, ma sono già prefigurati nell’encomio della sapienza in B (soprat tutto in 3,16-18). A livello della forma, infatti, numerosi sono gli indizi che ci permettono di rintracciare un’abile tessitura del testo. N u merose sono le ripetizioni lessicali e semantiche: timore di Yhwh (1,7.29; 2,5; 9,10), le lusinghe della straniera (2,16; 6,24; 7,5.21), inebriarsi (5,19; 7,18), legali (le parole, i pre cetti) al tuo collo, alle tue dita, scrivile sulla tavola del tuo cuore (3,3; 7,3), la saggezza come superiore all’argento, all’o ro e alle perle (3,15; 8,10-11), il Signore ha consolidato i cieli (3,19; 8,27) e fondato la terra (3,19; 8,29); infine il sintagma stereotipo proprio del genere letterario esortativo in riferi mento all’ascolto che il figlio (o i figli) deve al padre (1,8; 4,1.20; 5,1.7; 6.20; 7,1.24; 8,32). A ciò si aggiunge la presen za di alcune tematiche delle istruzioni negli interludi: l’invito a cercare la sapienza (2,4; cfr. 1,28), ad ascoltarla (2,2; 4,20; 5,1; cfr. 1,24; 8,32), a invocarla (2,3; cfr. 1,28), a trovarla (4,22; cfr. 1,28; 3,13; 8,17.35); le cattive conseguenze che vengono dal non ascolto della Sapienza (5,12-14; cfr. 1,2932); la personificazione della sapienza che lungo le istruzioni ricorre come metafora tra le altre (2,3-4; 4,8-9; 6,22; 7,4). Inoltre la donna Follia ha alcuni aspetti in comune con la donna straniera: la sua casa deve essere evitata (5,8; 7,25; cfr.
9,13-18), il suo sentiero porta alla morte (2,18-19; 5,5; 7,27; cfr. 9,18). Infine, non possiamo non segnalare le divergenze tra istru zioni e interludi. A livello concettuale la più evidente risiede nel diverso concetto di sapienza che essi contengono; le pri me comprendono la sapienza nelle parole e nel pensiero de gli uomini, nei secondi invece essa trascende il pensiero del singolo. Dal punto di vista dei destinatari, le istruzioni sono indirizzate da un padre a un figlio, mentre la Sapienza che parla negli interludi si rivolge agli uomini in generale (inter ludio B) o a uomini identificati nel testo (A, D, E). Rispetto alle altre, l’istruzione del c. 2 spicca per una par ticolarità visibile anche a una prima lettura: Vexordium (w. 1-11) è più lungo della propositio (w. 12-19). Ciò significa che il c. 2 ha un ruolo di rilievo, come ha avuto modo di evi denziare A. Meinhold, il quale collega questo capitolo all’in tera collezione rintracciando un’intricata rete di richiami.10 Il c. 2 presenta il programma del maestro sui seguenti temi: la giusta relazione con Dio (2,5-8 e 3,1-12) e con gli altri uomi ni (2,9-11 e 3,21-25), l’attenzione agli uomini cattivi (2,12-15 e 4,10-19 + 20-27) e alla donna straniera (2,16-19; 5,1-23 + 6,20-35 + 7,1-27). La seconda istruzione è, cioè, organizzata in modo tale da rispondere a questo piano generale: ci sono dieci insegnamenti del maestro (1,8-19; 2,1-22; 3,1-12; 3,2135; 4,1-9; 4,10-19; 4,20-27; 5,1-23; 6,20-35; 7,1-27), quattro poemi sulla Sapienza (1,20-33; 8,1-36; 9,1-6; 9,13-18) e tre brani-cerniera (3,13-20; 6,1-19; 9,7-12). Ma è il momento di analizzare con maggior attenzione il nostro testo. 10 Cfr. A. MEINHOLD, Die Sprìicke: Teii 1: Sprùche Kapitel 1-15 (Ziircher Bibelkommentare. Altes Testament 16.1), Theologischer Verlag, Zùrich 1991, 43-46. Volendo esse re un po’ critici con questa ipotesi, annotiamo che i w. 5-8, che riguardano la giusta rela zione con Dio, possono anche rimanere legati ai w. 9-11 (da Meinhold letti in rapporto alla giusta relazione con gli uomini): il tema delle relazioni sociali è, infatti, presente sia in 2,5-8 che in 2,9-11.
2.2. Traduzione e commento f ig lio mio, se accoglierai le mie parole e conserverai i miei pre cetti, prestan do ascolto alla sapienza e inclinando il tuo cuore alla prudenza, 3se invocherai l'intelligenza e alla accortezza rivolgerai la tua vo ce, 4se la cercherai come Pargento e come un tesoro la scaverai, 5allora intenderai il timore del Signore e la scienza di Dio trove rai. 6Perché è il Signore che dona la sapienza, dalla sua bocca la co noscenza e il senno; 7Egli riserva per i giusti il sapere e il discernimento per coloro che camminano rettamente, proteggendo le vie che conducono al diritto e custodendo i sen tieri dei suoi fedeli. 9Allora intenderai giustizia e diritto, rettitudine e ogni via che conduce al bene, 10perché la saggezza raggiungerà la tua anima e la scienza ti deli zierà, u la riflessione veglierà su di te, la prudenza ti custodirà. 12Per salvarti dalla via del malvagio, dalPuomo che parla di cose perverse; 13da quelli che abbandonano i sentieri diritti, che vanno per vie tenebrose, 14che godono nel fare il male ed esultano nella sua perversione: 13sono intrinsecamente contorti e sviati nelle loro decisioni. 16Per salvarti dalla donna sposata, dall'estranea che ha parole se ducenti, 17che ha abbandonato il compagno della sua giovinezza e ha di menticato l'alleanza del suo Dio. 18Daw ero la sua casa conduce verso la morte e i suoi sentieri verso le ombre: 19tutti quelli che vanno da lei non ritornano e smarriscono il senso della vita.
20Pcr questo andrai per vie buone serbando la giustizia: 21i retti, infatti, abiteranno la terra e gli integri vi porranno di mora; 22i malvagi, invece, saranno eliminati dalla faccia della terra e gli sleali saranno estirpati da essa.
1-11. L’ exordium. La prima parte dell’istruzione può esse re suddivisa in tre sottosezioni in ragione della presenza della proposizione condizionale ’im («se») nei w. 1.3.4, della cor relativa ’az («allora») nei w. 5 e 9 - che apre alle motivazioni dell’insegnamento - e della congiunzione causale kt («per ché») nei w. 6 e 10. Si disegnano, perciò, una premessa (w. 1-4) e due strofe (w. 5-8 e 9-11). 1-4. Il discepolo come custode dei precetti. In questa prima strofa le tre proposizioni ipotetiche (w. 1.3.4) esaminano l’at teggiamento del discepolo e il suo ruolo in rapporto all’ac quisizione della sapienza. Nel v. 1 le parole del padre-mae stro ( ’am àrày) sono in p arallelo con Ì suoi p recetti {miswótay). La miswàh è un comando impartito da Dio, dai suoi rappresentati come il re (2Re 18,36; Est 3,3), oppure da altri leader come Mosè (Gs 22,5), Ionadab (Ger 35,14-16): esso è sempre veicolato con una certa autorità. Questa con notazione della parola magistrale che si ritrova in Pr 2,1, è ri chiamata in altri passi di Proverbi (2,1; 3,1; 4,4; 6,20; 7,1-2), testi in cui è sempre il padre il soggetto che consegna con au torevolezza il proprio insegnamento. I verbi utilizzati («accogliere» e «conservare»: v. 1) espri mono la capacità positiva posseduta dall’educando di com prendere e di custodire, cioè osservare, i precetti. Questa cu stodia od osservanza è legata all’ascolto attento e vigile in vi sta della totale obbedienza all’ammaestramento del padre. II verbo qàsab del v. 2 indica l’atteggiamento del dare ret ta, dell’ascolto attento, dell’essere attento (Is 28,23; 32,3; Sai 17,1). Quando si trascura questo atteggiamento, allora si in
corre nella disobbedienza volontaria e colpevole. In Ger 6,10 e Zc 7,11 la radice verbale - come in Pr 2,2 legata al sostanti vo ’dzen («orecchio») - veicola l’idea di chi volontariamente si rifiuta di dare ascolto alle parole profetiche, trascurando l’urgenza e la vigilanza connesse a tale invito (Ger 6,17). Raf forza questa idea l’espressione «inclinare il cuore» (nàtah léb del v. 2), che nella forma hifil esplicita lo slancio di chi, appli candosi, tende verso qualcosa (il cuore è il centro intellettivovolitivo della persona). Il padre-maestro consegna, cioè, in questi versetti iniziali l’iter educativo che il figlio-discepolo deve seguire: a un atteggiamento più passivo legato all’acco glienza dell’istruzione sapienziale, ne segue uno più attivo le gato all’invocazione (v. 3) e alla ricerca fattiva della sapienza (v. 4). Al termine ebraico hokmàh si possono attribuire quattro distinti significati: una sagacia pratica, cioè la conoscenza delle cause e delle conseguenze che nella vita di ogni giorno un soggetto può individuare (cioè un’abilità generale all’uso della ragione e alla comprensione, ma anche un’abilità politi ca e tecnica riferita a un mestiere o professione); una sapien za etica e religiosa; una sapienza speculativa per comprende re la vita e il mondo; una sapienza come tecnica intellettuale per conseguire questa sapienza speculativa, legata a una di sciplina dell’apprendimento. Tra le eventuali definizioni che si possono dare della sapienza (conoscenza pratica delle leggi della vita e del mondo basata sull’esperienza; ricerca della com prensione di sé in rapporto alle cose la gente e il Creatore)11 preferisco intendere sinteticamente la hokmàh come arte del vivere bene. Questa sapienza va ricercata. Il tema della sua ricerca (spesso faticosa) è un tema classico, un topos, degli scritti sa pienziali ed esprime il ruolo dell’uomo nell’acquisizione della1 11 Cfr. M o r la A s e n z io , Libri sapienziali>31-45.
sapienza (Gb 28; Qo 1,18; Sir 6,19.24-26). In Pr 8,5.10 l’ine sperto deve imparare ad accettare la correzione della Sapien za se vuole guadagnarla, così come in Sir 6,19.24-26.29 in cui la fatica del discepolo è paragonata a quella del contadino che coltiva la sua terra e che alla fine ne gusta i frutti, e anche a quella di chi per essa si mortifica corporalmente con ceppi. L’autore del Qoelet dice che per conseguire la sapienza è ne cessario molto affanno, molta fatica (Qo 1,18); in G b 28 l’uo mo mette in atto una pluralità di azioni (frugare, scavare, scandagliare, scambiare, acquistare ecc.) per trovare il luogo della Sapienza, eppure non ci riesce. Nel libro della Sapien za, infine, l’impegno nella ricerca è premiato dalla Sapienza stessa, la quale previene per farsi conoscere quanti la deside rano, e chi si leva per essa di buon mattino non faticherà, la troverà seduta alla porta (Sap 6,13-14). 5-8. Il Signore protegge la via dei giusti. Il v. 5 rappresenta la seconda parte (apodosi) del periodo ipotetico iniziato con il v. 1. Le premesse dei w. 1-4 consentono di maturare l’at teggiamento religioso legato al timore di Yhwh. Questa cate goria positiva, che è legata alla giusta venerazione da tributa re a Dio ed è all’origine della sapienza in Proverbi (Pr 1,7; 9,10) e in Siracide (Sir 1,14.18; 19,18; 50,29), è qui messa in paragone con la rara espressione «scienza di Dio». Questo ti po di conoscenza in Os 4,1 e 6,6 è in rapporto alla presenza interiore, e non solo formalistica, di Dio nella vita del cre dente. L’accostamento del v. 5 tra le due espressioni sembra vei colare l’idea che dalla sapienza paterna derivi una maggiore comprensione (il verbo ebraico byn ha una sfumatura intel lettiva) e una maggiore coscienza del sentimento religioso che lega il discepolo a Yhwh. Non c’è, infatti, opposizione al cuna tra sfera intellettiva e quella religiosa perché entrambe sono legate a Dio: da lui procedono la sapienza e la cono scenza, unitamente alla protezione che da queste discende.
A. Vignolo, a proposito del timore del Signore in Pr 2, anno ta che «questa sua qualifica di principio della sapienza in Pr 1-9 possiede senza dubbio una forte carica intellettuale, anzi in nuce tutta una teoria della conoscenza, che dal senso reli gioso e dalla fede nel Signore non solo non si trova imbaraz zata o impedita, ma al contrario se ne sa inaugurata ed eman cipata; evidentemente l’idea non va verso una riduzione in tellettualistica, né rivendica alcuna pretesa esaustiva, quanto piuttosto avanza un profilo fondativo».12 Nei w. 7 e 8 ricorre l’immagine «difensiva» che si struttu ra intrecciando due principali significati: Yhwh protegge i giusti e come uno scudo li difende, Yhwh assicura la perma nenza nel bene di quanti si comportano con discernimento. Si tratta della protezione costante e fedele di chi non fa man care la propria vicinanza attiva, più che di un’assistenza in caso di pericolo. 9-11. La sapienza come delizia dell’anima. Questi versetti, una piccola peroratio all’interno dei w. 1-11, costituiscono la terza strofa dell’exordium: la particella avverbiale «allo ra» introduce il riepilogo degli effetti positivi che derivano dall’ascolto delle parole paterne (la comprensione del bene, il gusto della vita e la protezione), rafforzando l’invito all’a scolto. In questi undici versetti iniziali si può individuare lo stile pedagogico sapienziale che prende avvio con l’acco glienza delle parole paterne (v. 1) per poi destare l’attenzio ne del discepolo (v. 2), invitandolo ad attivarsi per raggiun gere la sapienza, chiamandola (v. 3) e ricercandola attiva mente (v. 4). In un secondo momento è offerto un livello religioso di sapienza che ritrova in Yhwh la sua sorgente (w. 5-6), per poi esplicitare i benefici che sono legati alle parole paterne: protezione divina (w. 7-8), piena luce nel 12 A. VlGNOLO, «Pregnanza e limiti della pedagogia sapienziale di Proverbi 2», in M. M a c c a r in e l l i (ed.), Un padre per vivere. Lesperienza della figura paterna tra istanze reli giose e socio-culturali, Il Poligrafo, Padova 2001,32.
cammino morale e religioso unitamente a una vita «sapori ta» (w. 9-11). Infatti, se il cuore è la sede in cui il figlio deve valutare la bontà dell’insegnamento e decidersi per esso, è nella nefes (interiorità) che deve gustare il sapore della sapienza. Le pa role parentali non vengono offerte con distacco né come una semplice somma di virtù da maturare, ma si consegnano co me una proposta desiderabile di vita di cui l’educando può godere e deliziarsi. La preponderanza dell’esortazione rispet to alla costatazione, si può, in ultima analisi, spiegare proprio in ragione di tale vicinanza pedagogica: «le ragioni di quest’espansione dell’ammonimento possono ricondursi al fatto che l’evidenza fenomenologica constatativa, come pure quella della pur motivata monizione abitualmente veicolate dagli antichi meshalìm ormai non parlano più da sole, così che vanno riaccese attraverso un contatto più caldo, meno costrittivo, unito a un discorso più ampiamente ragionato, capace piuttosto di far riflettere sulle sue impegnative condi zioni e di allettare per il cospicuo risultato attingibile, identi ficato nella scoperta di un’interiorità teologale».13 La conclusione di questa prima parte dell’istruzione resta generica in quanto non ha ancora concretizzato le scelte che il discepolo deve compiere; questa genericità persiste lungo l’intero capitolo la cui sostanza non è tanto «cerca la sapien za», quanto piuttosto «se tu ricerchi la sapienza, la troverai». Con M.V. Fox, notiamo che lo scopo dell’istruzione di Pr 2 è quello di incoraggiare il neofita alla ricerca della sapienza conducendolo attraverso il logico processo educativo. U exor dium, che generalmente introduce la lezione perché si presti il dovuto ascolto, è il cuore stesso del messaggio, il centro del capitolo, mentre la funzione della lezione è essenzialmente retorica, illustrare il contenuto deW’exordium.14 » Ivi, 36. 14 Cfr. Fox, «The Pedagogy of Proverbs 2», 241.
12-19. La propositio. Dopo il lungo exordium la funzione della propositio sembra passare in secondo piano, poiché il messaggio è stato in parte consegnato: il maestro non ha fatto la paternale sull’attuazione di minuziose norme comporta mentali, ma ha indicato la scaturigine stessa della vita morale, cioè la sapienza come opzione di fondo che precede ogni sin gola scelta. Nei versetti che compongono il cuore dell’inse gnamento si delineano due figure negative dalle quali il di scepolo, ormai istruito e ben preparato, deve guardarsi: i malvagi e la donna altrui. Se ne dipingono i tratti fondamen tali in due strofe parallele (w. 12-15 e 16-19) costruite in ma niera identica: le (per) + infinito costrutto + min (da). En trambi i soggetti hanno abbandonato il bene (lo stesso verbo ‘zb), proferendo discorsi che nascono da intenzioni cattive (w. 12 e 16). Comune è, inoltre, il verbo nsl («salvare»: w. 12 e 16) che attesta la valenza delle parole paterne in ordine alla preservazione dalla pericolosa seduzione che caratterizza questi anti-modelli. 12-15. I malvagi che hanno abbandonato la retta via. Si ri trova un linguaggio riferito al male (via cattiva e cose perver se: v. 12; fare il male e perversità del male: v. 14) e alla con dotta malvagia (vie diritte abbandonate e vie tenebrose per corse: v. 13; sentieri contorti e cammini sviati: v. 15). La lun ga introduzione all’ammaestramento vero e proprio mira al conseguimento di quelle virtù (umane e religiose) necessarie per potersi salvare da coloro che pongono in essere il male e che si dilettano nel perseguirlo. La loro pericolosità risiede nella parola (così come per la donna straniera). Il termine tahpukót del v. 12, attestato dieci volte nel libro dei Proverbi (solo una volta in Dt 32,20), esprime la modalità del parlare (Pr 2,12; 8,13; 10,31-32; 23,33) ma anche il contenuto di ciò che si proferisce (Pr 6,14), esplicitando, inoltre, l’atteggia mento stesso di chi agisce e pensa tahpukót (Pr 2,14; 16,28.30; cfr. Dt 32,20). Il senso complessivo di questo voca
bolo nella sua forma plurale è «cose perverse», cioè cose pre se per un verso sbagliato, distorto, in quanto non corrispon dente alla realtà. In una società orale dove la verità si afferma o si nega in base all’uso buono o cattivo della parola, la per versione del linguaggio può avere esiti profondamente sov versivi. L’immagine della via ( ’orhót ydser, cioè «sentieri diritti»: v. 13) richiama la condotta morale, mentre il riferimento alle te nebre significa sia l’epilogo a cui conduce la condotta perver sa (la morte come in Pr 9,17-18) sia l’habitat di chi delinque (cfr. Gb 24,14-16: l’omicida, il ladro e l’adultero come com pagni dell’oscurità; si veda anche Is 29,15). In 15b il testo ebraico dice alla lettera che i sentieri dei malvagi sono sviati nel loro percorso o cammino {bem a‘g^lótàm). L’autore sacro vuole indicare che non solo la condotta dei malvagi è tortuo sa ma essi stessi sono costituzionalmente perversi. L’aggettivo con cui sono connotati i loro sentieri ('iqqesim) significa, in fatti, «essere perversi, sviati»: nel libro dei Proverbi sta in rapporto al parlare (4,24; 6,12; 8,8; 19,11), al cuore (11,20; 17,20; 19,1) e alla via percorsa (22,5; 28,6; 28,18). Da questo piccolo quadretto emerge la fisionomia dei malvagi: «sembra trattarsi di vere e proprie bande di violenti, malfattori, mafio si che arricchiscono e cercano benessere con qualunque mez zo, ivi compresa la violenza attuata con quell’efferata e sadica soddisfazione che tradisce un grado eminente di malvagità e contumacia».15 16-19. La donna sposata che ha abbandonato il proprio com pagno. È questa la prima occorrenza dell’espressione ’issàh zàràh (alla lettera «donna estranea») che nel v. 16 è in paral lelo con nokrtyyàh («straniera»). L’aggettivo zar ha un signifi cato etnico: è in rapporto alla legge del levirato, che impedi sce allo straniero di sposare la vedova di un Israelita (Dt 15 ViGNOLO, «Pregnanza e limiti della pedagogia sapienziale di Proverbi 2», 44.
25.5) e in rapporto al servizio dei leviti che esclude hazzàr (Nm 1,51; 3,10; 18,4). Nei profeti zar designa chi non appar tiene a Israele e che, generalmente, è inteso come un nemico (Is 1,7; Ger 2,25; Ez 31,12). Il significato di nokrìyyàh è simi le a quello di zar. «gente straniera» (Es 21,8), «uomo stranie ro» (Dt 17,15), «stranieri che non sono Israeliti» (G dc 19,12). Nel periodo esilico e postesilico la coppia zr/nkr ap pare soprattutto nella letteratura profetica, in cui si vietano i matrimoni esogami (Esd 10,2.10-11.14.17-18.44; Ne 13,2627) con riferimento agli stranieri nemici di Giuda (Abd 11; Is 61.5) e alle straniere di Esd 9-10. Accanto all’immediato significato etnico di ’issàh zàràh se ne ricava uno etico: colei che osserva una condotta che la rende «estranea», ovvero la pone fuori dalla prassi comune a cui ella si dovrebbe attenere. E proprio sulla sua immoralità che il padre punta il dito: ella ha rinunciato al patto coniuga le stabilito davanti a Dio tradendo il proprio marito (v. 17). La fisionomia che si delinea da questa prima occorrenza del la straniera permette, perciò, al padre-maestro di stigmatizza re l’adulterio che nell’Antico Testamento è spesso associato all’idolatria, come si legge in Osea (Os 4,13-14), Geremia (Ger 5,7; 29,23), Ezechiele (Ez 23). Ricordiamo, a proposito delle straniere, la vicenda dello stesso re Salomone il quale, a causa delle tante mogli pagane, finì per peccare di idolatria: egli, infatti, amò molte donne straniere (moabite, ammonite, edomite e ittite), prassi proibita dal comando del Signore, sposando settecento principesse e circondandosi di trecento concubine; tutte queste donne a corte lo indussero all’idola tria (IRe 11,7-10). Il maestro amplifica la portata di questa condotta immora le collocando tale specie di donna direttamente nella dimora della morte: scoraggia quanti vogliono frequentare la sua ca sa perché, come dallo se ’òl, da essa non si fa più ritorno (v. 19). L’immagine dei passi e dei sentieri che conducono alla
morte trova eco nel più ampio contesto di Pr 1-9 e dell’inte ro libro (5,5; 7,27; 12,28; 14,12; 16,25). Analogamente a quanto osservato a proposito dei perversi, anche per la don na si mette in guardia il discepolo dall’uso che ella fa della parola. La seduzione delle sue parole è più pericolosa di quella del suo stesso aspetto (menzionato solo in 6,25), rive lando che l’opposizione principale dell’intero c. 2 è da ravvi sare tra le parole di vita del padre-maestro e quelle di morte dei suoi antagonisti (malvagi e donna straniera). 20-22. La peroratio. In questi versetti si tirano le conse guenze dell’insegnamento sopra esposto mentre se ne richia mano i temi portanti: la rettitudine morale e l’antitesi bene/ male (hlq/m date, smr/custodire, derek e ’arhót/vie, tobtm/ buoni, $edeq/giustizia, y asar/giusto, temim m/retti, r^sa'im / malvagi). L’affermazione circa la sorte dei giusti menziona la terra ( ’eres) come estensione della riflessione sulla vita che discen de dalla sapienza. «Non è una coincidenza il fatto che l’ac cento posto sull’abitare il paese si trovi immediatamente do po il primo discorso sulla donna estranea», fa notare L.G . Perdue: «L’esplicito legame tra lo stare alla larga dalla donna estranea e abitare il paese fa pensare che i saggi che hanno formulato questa istruzione intendevano affermare che la proprietà e l’eredità della terra - cui si dà un grande valore ed è una preoccupazione reale dell’antico Giuda postesilico - sono collegate alla pratica delle virtù della sapienza e della rettitudine».16 La retribuzione riservata ai malvagi è indicata dall’autore in forma impersonale, facendo supporre una sor ta di automatismo, insito nella realtà stessa, che bilancia le sorti umane (Pr 11,18), sebbene nel capitolo successivo sia attestato l’intervento diretto di Dio che punisce i cattivi e premia i malvagi (Pr 3,32-35; cfr. anche Sap 3; 5,15; Sir 2,8). 16 L.G . PERDUE, Proverbi (Strumenti - Commentari 55), Claudiana, Torino 2011, 110.
Nel c. 2, in conclusione, si consegna l’assunto di fondo che la sapienza è un dono divino: quando viene richiesta con tutte le forze, accolta nel cuore e sentita nella propria interio rità, viene donata al discepolo ben disposto che è pronto a ri fiutare il vizio e le seduzioni della vita. Resistere alla seduzio ne è, infatti, l’obiettivo globale cui mira l’intera sezione di Pr 1-9, e ciò spiega l’insistenza sull’adulterio che riflette la pre occupazione dei maestri per una prassi che scompagina la vi ta sociale e viola il comandamento della Legge. Società e reli gione sono, in effetti, i due macro-orizzonti in cui si colloca no le sentenze dell’intero libro dei Proverbi, nella consapevo lezza che il comportamento deviante arreca danno non solo alla comunità ma scompagina, allo stesso tempo, l’ordine re ligioso voluto da Dio e fonda le regole etiche. La retribuzio ne contenuta nella peroratio richiama il tema classico delle due vie che ritornerà nel resto del libro: alla fine il maestro mira a incentivare la pratica del bene, perché da questa sca turiscono i beni fondamentali legati alle promesse divine di cui la terra è cifra, beni dai quali i malvagi sono irrimediabil mente esclusi.
3. Linee teologiche Lo sfaccettato messaggio del libro dei Proverbi può essere ricondotto a sei linee teologiche. a) Il tim ore■ del Signore. «Il timore del Signore (yir’at Yhwh) è l’inizio della sapienza» (Pr 1,7) e suo «fondamento» (9,10). La sapienza che il padre-maestro trasmette ha un’ori gine teologale in quanto ha in Dio la sua fonte. Nel libro dei Proverbi dal timore di Yhwh deriva la vita (10,27; 14,27; 19,23), l’umiltà (22,4) e la serenità che nasce dall’assenza di invidia verso i peccatori (23,17-18). Questo timore di Dio è un’espressione che richiama il contesto esodale della paura
davanti alla teofania sinaitica17 e rimanda ai doveri legati alla vita religiosa e all’esecuzione minuziosa degli atti formali del culto. La letteratura sapienziale estende la tematica del timo re di Yhwh fino a farne un leitmotiv dell’atteggiamento di af fettuosa riconoscenza e profonda gratitudine verso colui che è la sorgente di ogni sapienza (1,7.33; 2,5; 9,10; 15,16.33; 19,23; cfr. anche Sir 1,9; 16,2; 19,18). Nel Salterio il timore di Dio «abita» nei fedeli, nei «timorati», appunto, che parteci pano devotamente al culto e conducono una vita irreprensi bile (Sai 22,24; 31,20; 66,16; 103,11.13.17). Questa seconda accezione etica diventa evidente soprattutto nei testi in cui si trova la menzione dell’alleanza del Signore con il suo popolo (Sai 25,12,12.14; 34,8.10). Si può dire che esiste un’identifi cazione tra l’osservante e il timorato, cioè tra colui che segue piacevolmente i precetti del Signore e colui che lo teme. Il timore di Yhwh in Proverbi esprime l’atteggiamento di rispetto e venerazione nei confronti di Dio, l’obbedienza alla sua volontà e la scoperta della sua santità. Yir’at Yhwh è, per ciò, un concetto positivo che pone nella giusta relazione co loro che ricercano la sapienza e non si chiudono nell’auto sufficienza (Pr 3,5). Inoltre in Pr 15,33 si dice che il timore di Yhwh è musar, termine ebraico che significa «istruzione», «am m aestram ento», sostantivo che esprime il tratto più orientativo e costrittivo dell’educazione, richiamando la cor rezione - legata a ogni sana pedagogia - alla quale si sotto mette chi ama il Signore. h) L’educazione. Si può asserire che la teologia del libro dei Proverbi si presenta, principalmente, sotto le vestigia dell’antropologia. Sia i discorsi in prima persona della Sa pienza sia quelli dei maestri (presentati come genitori attenti alla formazione dei propri figli), concorrono a porre l’accen to sull’urgenza dell’ascolto. Questo sdoppiamento di voci 17 Cfr. Es 19-20. In Dt 5,23-29, per esempio, il popolo avverte la paura di Yhwh e, come in Es 20, chiede a Mosè di fungere da interlocutore diretto di Dio.
ottiene un’articolazione di appelli e di toni: entrambi i sog getti educanti sono concordi nel collegare esplicitamente l’a spetto morale a quello religioso. Il discepolo, chiamato a di ventare saggio, è colui che si lascia plasmare dalla voce dei maestri in ragione della sua docilità spirituale: interiorizza le norme - dettate da una buona dose di senso comune - in quanto vi riconosce un disegno superiore e una valenza che trascendono quella che potrebbe essere la contingenza di un semplice bagaglio culturale, inserendosi nel cuore stesso del la fede ebraica. Il sapiente, quindi, fa teologia quando educa e trasmette i valori di cui è depositario: forgiando il carattere delle nuove generazioni, professa il proprio Credo nell’uomo che Yhwh ha creato, contribuendo a perpetuare e, laddove necessario, ristabilire quell’equilibrio cosmico che è stato deturpato dal la cattiveria umana. Ed è proprio questo legame con il cosmo a permettere la saldatura tra la riflessione, sull’uomo e quella sul mistero di Dio, in quanto esso rappresenta l’essenza stes sa della teologia dei sapienti in genere e anche dei Proverbi. c) Il giusto rapporto con gli altri uomini e con Dio. Il giova ne deve discernere le relazioni che conducono al bene da quelle che portano alla morte. Queste ultime, anche se allet tanti in quanto promettono un immediato godimento econo mico (dividere il bottino con i delinquenti: Pr 1,13-14) e ses suale (soddisfare i propri impulsi peccando di adulterio e in frangendo ogni regola sociale e religiosa: cc. 2; 5; 6; 7), si ri velano disastrose nelle loro conseguenze. Sin dalle prime battute del libro (1,4) ci si rivolge all’ine sperto, affinché colga la relazione che gli consenta il vero be nessere psico-fisico, sociale e religioso. A un primo livello, quello fisico, egli deve apprendere a non sciupare le energie economiche e sessuali in incontri occasionali («Chi frequenta le prostitute dissipa i propri beni»: 29,3) alieni da qualsiasi progettualità familiare. La raccomandazione parentale, con
scia della bontà dell’unione fisica all’interno del matrimonio, incita il giovane a godere della bellezza della propria moglie («donna della tua giovinezza»: 5,18), la cui presenza allieta il marito (12,4). A un secondo livello, quello sociale, la condot ta improntata a saggezza porta con sé l’onore e la stima degli uomini (3,4; 21,21). Il sapersi accontentare di ciò che si pos siede è la migliore garanzia di equilibrio e amabilità («Non darmi né povertà né ricchezza, ma fammi avere il cibo neces sario»: 30,8) nella consapevolezza che «è meglio poco con giustizia che molti beni senza l’onestà» (16,8). Infine, il cor retto orientamento a Dio dell’intera esistenza è fonte di be nedizione per il giusto, mentre i progetti del cattivo sono sconvolti dall’intervento divino (10,3.6.7; 11,11; 14,11; 24,20). Il saggio ha ben chiara, inoltre, la consapevolezza del la corrispondenza tra l’azione moralmente buona e la fede, in quanto «chi opprime il povero offende il suo Creatore, chi ha pietà del misero lo onora» (14,31). d) Le compagnie da evitare. Nel libro dei Proverbi non è attestato alcun determinismo morale: anzi, la Sapienza si ri volge espressamente all’inesperto e all’ingenuo (peti) affinché si ravveda. Questi, a causa della giovane età e della scarsa co noscenza della vita, è facile preda dei malintenzionati. A una lettura più attenta, tuttavia, si delinea la tipologia comporta mentale del lès («beffardo», «arrogante») il quale è così defi nito: «Orgoglioso e superbo sono i nomi del beffardo, egli è uno che reagisce con orgoglio smisurato» (21,24). Il saggio sa che la parola virulenta del lès rende inefficace, anzi dannoso, ogni tentativo di correzione (9,8). Dagli ammaestramenti si evince la volontà di mettere in guardia dalle cattive compagnie le quali si concretizzano in alcune figure negative. Anzitutto si disapprovano i peccatori, gli hattà’im. Il termine è generico ma in 1,10-19 rimanda a un gruppo dedito abitualmente alla delinquenza: essi affascina no il giovane promettendo un guadagno facile frutto di rapi
na e violenza. Accanto ai peccatori si tratteggia la fisionomia dei malvagi (ra'im ) soggetti pericolosi e intrinsecamente in capaci di comprendere il bene (28,5). Il male si annida nei lo ro pensieri perché lo desiderano (14,22; 21,10), emerge dalle loro parole (2,12-15; 12,13) e si palesa nella condotta votata all’ozio (6,12) e alla ribellione (17,11). Una terza figura «fata le» è la donna straniera, la ’issàh zàràh chiamata anche nokriyyah, descritta in diversi passi (2,16-19; 5,1-23; 6,24-35; 7,5-27; 9,13-18): ella, presentata come una prostituta o un’a dultera (23,27), seduce il peti attirandolo nella sua casa dalla quale, come dagli inferi, non c’è via d ’uscita. e) La Sapienza in «persona». Abbiamo già posto in rilievo l’accostamento tra la sapienza biblica e quella dell’Antico Vi cino Oriente (Egitto e Mesopotamia). Tra le tante considera zioni che si possono fare circa questo rapporto (tutte a favore della diversità di contenuti a fronte di una formulazione spesso simile) notiamo che l’accostamento tra la dea egizia Ma’at che presiede alla giustizia e la Sapienza di Pr 1-9, pale sa una radicale differenza nell’uso della parola: mai Ma’at è presentata nell’atto di proferire un discorso. Risalta, inoltre, a uno sguardo attento - pur riconoscendo una contiguità formale tra la sapienza biblica e quella extra-biblica (si pensi, per esempio, alle opere didattiche egizie Ptahhotep, Merikara, Ani, Amenemope e Ankhsheshonqy o all’istruzione babilo nese Le Parole di Ahikar) - la profonda distanza teologica (in Proverbi lo sfondo è monoteistico e non politeistico), antro pologica (lo stolto può ravvedersi e divenire saggio nel testo biblico, diversamente da quanto accade nelle opere egizie nelle quali prevale una sorta di determinismo di status) e so ciologica (il mondo “magico” dei testi egizi e mesopotamici stride con la laicità nella quale si muove l’Israelita, per il qua le l’unico riferimento al mondo sovra-umano è Yhwh). Nei brani dei Proverbi in cui si rintraccia la personifica zione della Donna Sapienza (1,20-32; 8,1-36; 9,1-6.13-18), el
la pronuncia un appello affinché il suo messaggio sia ascolta to. Tale Sapienza viene indicata in 1,20 e 9,1 con un sostanti vo femminile plurale (hokmót, «sapienze») anche se i verbi sono accordati al singolare. La finale -òt può derivare da una forma femminile arcaica nello stile cananeo o fenicio18. La presenza del plurale nelle due occorrenze di 1,20 e 9,1 si può anche interpretare in rapporto al ruolo della sapienza: questa forma permette, in tal modo, di contrassegnare la Sapienza personificata che parla in prima persona rispetto alla sapien za insegnata dai maestri. La Sapienza si narra, rivela il suo rapporto di mediazione tra Yhwh e gli uomini, proclama apertamente la propria missione nei luoghi in cui vivacemen te brulica la vita dei suoi destinatari («In cima alle alture, lungo la via, agli incroci delle vie ella si pone; accanto alle porte, all’ingresso della città, sulle vie di scorrimento ella gri da»; 8,2-3). f) La sapienza e la Légge. Le parole del sapiente in Pr 1-9 spesso si caricano di risonanze bibliche che ammiccano ai te sti legislativi. Quando si leggono le raccomandazioni del pa dre ad accogliere la sua parola, non è difficile pensare ai testi del Deuteronomio in cui si invita all’ascolto dell’insegnamen to che Mosè consegna prima di morire (Dt 4,1), insieme ai brani che raccomandano l’osservanza delle norme e delle leg gi che rendono Israele il popolo intelligente: esso si guarda bene dal dimenticare e trascurare i dettami di Yhwh (Dt 4,19), l’unico Dio da temere e da amare con tutto il cuore e tut te le forze (Dt 6). Questi rimandi deuteronomistici conferi scono autorità canonica alle istruzioni che, a mo’ di introdu zione, aprono l’intero libro dei Proverbi. Con lo stesso orien tamento ermeneutico possono essere interpretate le parole di rim provero/esortazione della Sapienza personificata (Pr 1,20-32). Echi del Decalogo (Es 20 e Dt 5) risuonano, anco
ra, nella prima raccolta (cioè in Pr 1,8-9,18): alcune delle «dieci parole», legate all’educazione del desiderio (il verbo hàmad, «bramare», ricorre esplicitamente in Pr 6,25), sono oggetto dell’ammaestramento sapienziale («non uccidere»: 1,10-12.15-16; «non commettere adulterio»: 2,18-19; 5,3-6; 7,22-27; «non rubare»: 1,10.13.19; «non pronunciare falsa testimonianza»: 6,19; «non desiderare la moglie del tuo pros simo»: 6,25). In un tempo storico (probabilmente il tardo periodo per siano, V-IV secolo a.C.) accanto al sacerdozio e alla profezia le parole del saggio, più che in altri periodi storici, assolvono al compito di attualizzare la Legge di Dio.
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G IO B B E
1. Questioni storico-letterarie Nel prologo al libro di G io b be, G irolam o constatava che rendere dall’ebraico un simile testo è come tentare di tenere nelle mani un’anguilla o una piccola murena: più forte la si prem e, più velocem ente sfugge di m a n o .1 Q uesta fam osa frase rende bene l’idea della com plessità dello scritto sapienziale, redatto quando la co m unità d ’Israele sta sperim entando lo sm acco del rap porto con Yhwh (il rientro non troppo esaltante dall’e silio al tem po di Neem ia, nel V secolo a.C .), rapporto che si è incrinato a m otivo di un’idea di autom atism o retributivo che sollevava più problem i di quanti ne ri solvesse.
1.1. Testo e versioni Fino agli anni Settanta del secolo scorso si credeva che il libro di Giobbe fosse tra i meno comprensibili dell’Antico Testamento, almeno stando al giudizio di N.C. Habel: «Il testo ebraico di Giobbe è probabilmente il più corrotto di1 1 Incipit Prologus Sancti Hieronymi in libro lob, in R. W e b e r (et al.), Bibita Sacra iuxta Vulgatam versionemyDeutsche BibelgeseUschaft, Stuttgart 52007>731.
ogni altro libro biblico».2 Negli ultimi decenni le considera zioni si sono fatte più caute anche grazie al progresso degli studi nel campo della poesia ebraica e del confronto con la linguistica comparata, sebbene la difficoltà di tanti passaggi permanga anche in ragione degli innumerevoli hapax legomena (termini che occorrono una sola volta nella Bibbia ebraica). Il 30% del libro resta, per alcuni autori, scritto in un ebraico incomprensibile. Il testo ebraico, che contiene numerosi aramaismi, rimane spesso oscuro. Il confronto con la versione greca non sempre è di grande aiuto, anzi spesso complica le cose. Questo testo, infatti, è più breve ri spetto a quello masoretico e talvolta ricorre a quella che pa re essere una parafrasi dell’ebraico che, come indicato, pre senta glosse e molte incertézze. Si ipotizza, perciò, che i co pisti greci avessero tra le mani un testo ebraico differente dal presente. Si nota però anche che il G iobbe greco è me no «eversivo» rispetto a quello ebraico e, in alcuni passaggi, più teologicamente connotato: i traduttori greci hanno for se voluto mitigare alcuni passaggi ritenuti particolarmente duri od offensivi. A rao’ d ’esempio cito il caso di G b 19,26, perché le dif ferenze testuali hanno avuto ripercussioni persino sull’utilizzo nella liturgia cattolica. Il testo ebraico non è imme diatamente comprensibile: «D opo che mi avranno strazia to la pelle ormai senza carne vedrò D io». Il senso sarebbe: Giobbe, ormai ridotto a pelle e ossa, spera di riuscire a ve dere Dio (cioè di essere ascoltato e guarito). E possibile un’altra traduzione (anche se meno sicura): «D opo il mio risveglio, mi innalzerà presso di sé». I Settanta inseriscono un elemento nuovo: «Risorgerà/si rimetterà la mia pelle 2 N.C. H a b e l , The Book o f]o b , Cambridge University Press, Cambridge 1975, 11. Cfr. M. DAHOOD, «Northwest Semitic Texts and Textual Criticism of thè Hebrew Bible», in C. BREKELMANS (ed.), Questions disputées d’Ancien Testamenti méthode et théologie, Leuven 1974, 11-37.
che sopporta tali cose, poiché il Signore me le ha presen tate». Con il verbo amstémi che può significare «alzarsi/ mettersi in piedi», ma anche «risuscitare», il versetto rin vierebbe a Dio come a colui che porrà fine alle sofferenze di Giobbe, anche se il rimando alla risurrezione non sem bra estraneo, così come si evince dalle variabili testuali che esprimono quest’aspetto legato all’escatologia.3 R i mando invece sviluppato dalla versione latina di G irola mo, con l’esplicito intento di leggere l’esperienza di G iob be alla luce della risurrezione, tanto che questo testo è sta to incluso nel lezionario della liturgia dei defunti: «E t rur sum circumdabor pelle mea et in carne mea videbo Deum» («Di nuovo sarò circondato della mia pelle e nella mia car ne vedrò D io»). Questa sarà la lettura che i Padri della Chiesa preferiranno.
1.2. Struttura «È il solo libro sapienziale con una trama; il libro della Sa pienza di Salomone presenterà una reale unità interna, ma più a livello d ’argomentazione teologica che di sviluppo di una trama».4 Scorriamo i capitoli dell’opera alla ricerca del piano redazionale che racchiude il cuore della storia (3,1— 42,6) che è in poesia dentro una cornice narrativa in prosa (cc. 1-2; 42,7-17).
3 Cfr. T.X. T e r r en c e , «Resurrection: A Reai Preoccupation of thè Septuagint?», in G. BONNEY - R. VlCENT (edd.), Sophia - Paideia. Sapienza e educazione (Sir 1,27). Miscellania di studi offerti in onore del prof Don Mario Cimosa, LAS, Roma 2012,140. 4 G ilbert , La Sapienza del cielo, 64.
1-2 Prologo: iniziale benessere di Giobbe e sua perdita dei beni, dei
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figlie e della salute. I: Dibattito tra Giobbe e suoi tre amici. 27 monologo iniziale di Giobbe: lamento sulla situazione di disgrazia e desiderio della morte. 14 Primo ciclo di discorsi Elifaz: la sofferenza è legata alla colpa; Giobbe: dichiara di non essere capito e rifiuta le spie gazioni perché egli sente di essere ormai prossima alla morte; Bildad: ribadisce il rapporto delitto-castigo; Giobbe: Dio è despota e colpisce l’innocente; Sofar: invita a Giobbe a chiedere perdono per essere guarito; Giobbe: ironizza sulle risposte degli amici, contesta i loro argomenti e si appella direttamente a Dio. Secondo ciclo di discorsi Elifaz: critica Giobbe e rinnova la teoria della retribu zione; Giobbe: descrive Dio come suo oppressore invocando un difensore celeste e denuncia lo scherno che la sua si tuazione gli arreca; Bildad: rimprovera Giobbe e descrive la sorte del malvagio; Giobbe: accusa Dio e gli amici e rinnova l’aiuto di un difensore; Sofar: la prosperità degli empi è passeggera; Giobbe: i malvagi prosperano e la retribuzione è falsa. Terzo ciclo di discorsi Elifaz: accusa Giobbe invitandolo alla conversione; Giobbe: desiderio di un confronto con Dio; Bildad: Dio è potente mentre l’uomo è debole; Giobbe: respinge le argomentazioni, protesta la sua giustizia e dichiara la sventurata sorte dei malvagi. II: Inno sull’inconoscibilità della Sapienza. Ili: Arringa finale di Giobbe. IV: Discorsi di Eliu. V: Due risposte di Dio a Giobbe e due sue reazioni. Epilogo: Giobbe ristabilito nella sua situazione di prosperità.5
5 Manca l’ultimo discorso di Sofar che per la Bibbia di Gerusalemme (Dehoniane, Bo logna 2009) sarebbe da individuarsi in 27,13-23 anche se nel testo non compare il suo no me. Nella nota si legge: «Il brano del discorso di 27,13-28 difficilmente si può attribuire a Giobbe, sembra piuttosto che debba venir attribuito a uno degli amici, di cui riprende una delle tesi. L’attribuzione a Sofar è la più indicata. Tuttavia, se questi w. sono da asse gnare a Giobbe, si possono intendere come un richiamo alla dottrina sulla retribuzione: Giobbe vuol dire ai suoi amici che la conosce anche lui».
a) Gb 1-2 costituiscono il prologo in prosa del libro, spie gano come su Giobbe, il «super giusto», riconosciuto tale an che da Ezechiele (14,14.20), si sia abbattuta la sventura in modo improvviso e drastico. L’insistenza su questo dato si spiega in ragione del fatto che, all’insaputa del protagonista, va maturando un vero e proprio processo a suo carico, nel quale il capo d ’accusa è rappresentato proprio dalla sua giu stizia. L’iniziativa è di Dio che convoca la sua corte celeste in cui compare anche satana: «Hai fatto attenzione al mio servo Giobbe? Sulla terra non c’è un altro come lui: uomo integro e retto, timorato di Dio e alieno dal male» (1,8). Con queste pa role rivolte proprio a colui che misteriosamente si rende pre sente in un luogo che non dovrebbe appartenergli, Dio lancia una sorta di scommessa. La risposta di satana non tarda a far si udire, svelando il centro della questione affrontata nei qua rantadue capitoli di cui consta lo scritto sapienziale: «Forse che Giobbe teme Dio per niente? Non hai forse protetto con una siepe lui, la sua casa e tutto ciò che possiede? Tu hai be nedetto le sue imprese e i suoi greggi si dilatano nella regione. Ma stendi la tua mano e colpisci i suoi averi e vedrai come ti maledirà in faccia!» (1,9-11). A Giobbe, sembra insinuare sa tana, conviene servire Dio: è ampiamente ricompensato per la sua giustizia e per il suo timore religioso. Non avrebbe motivi per avercela con Dio il quale è stato premuroso e oltre misura generoso con il suo «campione». Dio ha coscienza del fatto che la posta in gioco è alta e che Giobbe potrebbe non regge re all’impatto di ciò che satana sta per scatenargli contro. Tut tavia, gli concede un certo margine di autonomia: «Il Signore disse a satana: Ecco, quanto possiede è in tuo potere, ma non stendere la mano su di lui. Satana si ritirò dalla presenza del Signore» (1,12). In un sol giorno Giobbe perde i suoi averi e i suoi figli ma non si scompone: «Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto» (1,21). È un dato che forse stona con le sottigliezze di
certe teologie e teosofie sulla sofferenza, ma Giobbe orienta tutto a Dio, anche il male, perché non c’è alcun altro princi pio all’infuori di lui: «In tutto ciò, Giobbe non commise pec cato né proferì alcuna insolenza contro Dio» (1,22). Ma non è ancora tutto. Nel capitolo secondo si narra di una seconda convocazione del tribunale divino: la scena è simile ma la richiesta di satana questa volta mira direttamente a smontare in modo irrevocabile la tesi dell’innocenza di Giobbe: «Satana disse al Signore: pelle per pelle; tutto quello che possiede, l’uo mo è pronto a darlo per la sua vita. Ma stendi di grazia la tua mano e colpiscilo nelle ossa e nella carne e vedrai come ti male dirà apertamente!» (2,4-5). Satana alza la posta in gioco e rilan cia. Dio, con qualche precauzione, accetta: «Il Signore disse a satana: Eccolo in tuo potere. Soltanto risparmia la sua vita» (2,6). Giobbe si ammala di lebbra e neppure lo sfogo della mo glie, che mal sopporta la sua fede incrollabile in Dio che elargi sce incomprensibilmente una sofferenza così gratuita e deva stante, riesce a smuoverlo. La prima reazione all’accanimento della sciagura è, quindi, l’accoglienza docile e cieca del progetto divino per quanto misterioso esso sia e neppure le parole della moglie smontano la sua convinzione: «Sua moglie gli disse: “Ri mani ancora fermo nella tua integrità? Maledici Dio e muori!”. Ma egli rispose: “Parli come un’insensata! Se da Dio accettia mo il bene, perché non dovremmo accettare anche il male?”. In tutto questo, Giobbe non peccò con le sue labbra» (2,9-10). Il timor di Dio, cioè l’assoluta venerazione del suo volere, sorreg ge il sofferente rendendolo incrollabile nella fede, al punto che la pazienza di Giobbe è diventata proverbiale e come tale viene riconosciuta anche nel Nuovo Testamento (Gc 5,11).6 6 Questo aspetto ha ispirato autori del passato come Gregorio Magno e Tommaso D ’Aquino, ma anche dell’epoca moderna come C.G. Jung, J.W. Goethe, F. Kafka, G. Le opardi, S. Kierkegaard, R. Girard, E. Bloch. Cfr. A. PlERETTI, Giobbe: il problema del ma le nel pensiero contemporaneo. Atti del seminario di studio, 23-26 Novembre 1993, Citta della, Assisi 1996. Forse all’origine sta la lettura che ne dà Girolamo nella versione latina del libro di Tobia: cfr. M. Zappella, Tobit, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010,189.
Il prologo si chiude menzionando i tre amici di Giobbe (Elifaz di Teman, Bildad di Suach e Sofar di Naama) che, avendo saputo dell’accaduto, lo vanno a trovare: costernati per tanto dolore gli si siedono accanto e si chiudono per sette giorni e sette notti in un profondo e compassionevole silen zio (2,11-13). b) Gb 3—27 è il cuore del libro nel quale prende corpo la ri flessione sulla ricerca del senso da attribuire alla sofferenza di Giobbe. Forse è il nucleo più antico del libro. Non è facile se guire la logica di questi capitoli perché gli argomenti sembra no ripetersi sia in riferimento a Giobbe che, forte dell’eviden za del contrasto che esiste tra la sua condizione di rettitudine e la malattia che lo attanaglia, rifiuta di riconoscersi ingiusto sottraendosi alle spire della teoria della retribuzione, sia in rapporto agli amici che proprio attorno a questa argomentano la difesa dell’onore divino e la conseguente accusa di Giobbe (i malvagi periscono, i giusti prosperano, l’uomo è debole e li mitato davanti a Dio e non può sindacarne la volontà). Giobbe, dopo l’iniziale silenzio, dal c. 3 prorompe in un grido di dolore maledicendo il giorno della nascita e conside rando preferibile la morte a una malattia così atroce: alter nandosi con i tre amici che a turno gli rispondono fino al c. 27, in tre cicli di discorsi (cc. 4-14; 15-21; 22-27) dibatte sulla retribuzione intesa classicamente come rapporto diretto tra delitto e castigo. Quanto più Giobbe protesta la propria innocenza tanto più gli amici contestano la sua colpevolezza, invitandolo a chiedere perdono per ottenere la salute del cor po e il conseguente recupero della stima sociale persa a causa dell’infamante malattia della lebbra. Nessuno è puro davanti a Dio (4,17). Quindi Giobbe nasconde il proprio peccato; sa rebbe meglio «patteggiare», riconoscere la colpa e invocare il perdono: «Quanto a me, mi rivolgerei a Dio - suggerisce Eli faz - a Dio affiderei la mia causa: a lui che compie prodigi in sondabili e meraviglie senza numero. Perciò felice l’uomo
che Dio corregge. Non ricusare, dunque, la correzione delPOnnipotente, perché è lui che produce la piaga e la gua risce, colpisce e con le sue mani risana. Da sei angustie ti li bererà, e alla settima non soffrirai nessun male. In tempo di fame ti scamperà dalla morte e nel combattimento dal filo della spada. Sarai al riparo dalla lingua pungente e non avrai timore, quando giunge la rovina» (5,8-9.17-21). La fanno facile i tre amici perché non sono essi a portare direttamente il peso del dolore, proclamando una «grande grazia» e una beatitudine riservate al sofferente che si dispo ne ad accoglierle. Giobbe, invece, si guarda bene dall’ammis sione di colpevolezza insistendo nel rivendicare la sua giusti zia. Anzi, egli arriva a mettere sotto accusa Dio rimproveran dolo di essere un despota che non si degna nemmeno di ri spondere e che si accanisce contro un uomo fragile, sempre impari al confronto con la sua onnipotenza: «Certo, so che è così; come può un uomo essere giusto davanti a Dio? Se uno volesse disputare con lui, non gli risponderebbe una volta su mille. Se rapisce qualcosa, chi lo può impedire? Chi può dir gli: che cosa fai? Anche se rispondesse al mio appello, non crederei che ascolti la mia voce, lui, che mi schiaccia nell’ura gano e moltiplica senza ragione le mie ferite. Non mi lascia riprendere fiato, anzi mi sazia di amarezze» ( 9,2-3.12.16-18). In questi ventotto capitoli alcune tematiche, come già det to, vengono reiterate nei tre cicli di discorsi: il destino dei cattivi e dei giusti e le lamentazioni di Giobbe su e contro Dio, occupano lo spazio maggiore; ma si parla anche della li mitatezza umana, della lode che va tributata a Dio e della speranza. Uno schema semplificato dei temi presenti in Gb 4-27 si ritrova in J. Lévèque, e tra questi ci sembra interes sante evidenziare quello della speranza di Giobbe.7 Esplicita mente la si menziona nella seconda serie di discorsi (16,187 Cfr. L. LÉVÈQUE, Job. Le livre et le message (Cahiers Evangile 53), Cerf, Paris 1985,16.
22; 17,3; 19,25-27), ma un tono di speranza si coglie anche implicitamente nella prima serie (7,16-19; 14,13-17). Ma di che natura è la speranza di Giobbe? Quella di una vita oltre la morte è da escludere in ragione dell’assenza di tale verità teologica che si affermerà solo dal III secolo in poi (si veda quanto dirò a proposito della sorte dei giusti nel libro della Sapienza: pp. 173-174). In 7,16-19 Giobbe desidera di essere sottratto dallo sguar do pensante di Dio per respirare nuovamente e avere un po’ di pace, mentre in 14,13-17 vorrebbe scendere nel regno dei morti e così essere al riparo, trovando sollievo alle sofferenze. In questo secondo testo egli spera che Dio possa cambiare atteggiamento, convertirsi e perdonare il suo peccato: «Oh, volessi tu nascondermi nel regno dei morti e occultarmi, fin ché sarà passata la tua ira, fissarmi un termine e poi ricordar ti di me! Se l’uomo che muore potesse rivivere, allora io aspetterei tutti i giorni del mio servizio, finché giunga il mio cambio! Mi chiameresti e io risponderei, quando tu avessi nostalgia per l’opera delle tue mani. Mentre ora tu vai con tando i miei passi, non spieresti più il mio peccato: sigilleresti in un sacco il mio peccato e cancelleresti la mia colpa». Ac canto a questa prima espressione di speranza se ne segnala una seconda legata all’aiuto di mediatore che consenta a Giobbe di superare la terribile situazione che sta vivendo. Egli si appella in 16,18-22 a un avvocato celeste, un arbitro che, come accade nelle dispute umane, possa dirimere il suo contenzioso con Dio: «O terra, non coprire il mio sangue e il mio grido non abbia sosta! Ma, ecco, sin d’ora il mio testi mone è nei cieli, il mio difensore è lassù in alto. Miei difenso ri presso Dio sono i miei lamenti, mentre verso di lui alzo i miei occhi piangenti. Se ci fosse un arbitro tra l’uomo e Dio, come c’è tra un uomo e il suo avversario! Ma passano i miei anni contati e io me ne vado per una via senza ritorno». L’ac cusa di Giobbe è rivolta a Dio stesso dal quale, tuttavia, do
vrebbe giungere anche l’aiuto, rivelando la palese ambiguità del ruolo riconosciuto a Dio che sembra avere due volti, uno buono (perché deve prendere atto del sangue versato) e uno cattivo (perché è lui che lo ha sparso); egli è, infatti, arbitro ma anche parte coinvolta nella controversia. Infine, tra i versetti più conosciuti del libro, anche in ra gione del suo utilizzo nella liturgia funebre (cfr. pp. 64-65), in 19,25-27 Giobbe si appella a un «vendicatore/riscattatore» (g d ’él): «Io so che il mio Vendicatore è vivo e che, ulti mo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, io, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso; i miei occhi lo contempleranno, e non un altro. Le mie viscere si consumano dentro di me». Il gd ’él è il parente più stretto (Lv 25,25.49) incaricato di salvaguardare i diritti del proprio clan in quattro situazioni principali: la perdita del patrimonio (Lv 25,23-28), la limitazione della libertà (in caso di schiavitù come in Lv 25,47-53), l’impossibilità di avere una discendenza (il parente che è morto lasciando la moglie senza figli come in Rt 3,9-13; 4,5-7), l’uccisione di un membro del clan (Nm 35,12-13; Dt 19,6.12; G s 20,3.5.9). In tutti questi casi il gd ’èl subentra nella situazione del sogget to debole promuovendone la tutela. Nel caso di Giobbe la menzione del sangue in G b 16,18-22 conferisce a tale figura il ruolo di un mediatore che fa giustizia, riequilibrando i di ritti delle parti ovvero liberando il sofferente dal proprio male. In questa linea «garantista» Giobbe spera, ormai ri dotto in fin di vita (cioè pelle e ossa), di essere nuovamente ammesso alla presenza divina: è una speranza tenue che at tende un nuovo contatto con Dio, una percezione «visiva» diversa che, alla luce dell’intera vicenda, giungerà solo dopo che Dio avrà smesso di avvalersi della facoltà di non rispon dere e gli si sarà rivolto direttamente («Ti conoscevo per sentito dire ma ora i miei occhi ti vedono»: 42,5). Nei cc. 4-27, in realtà, tra Giobbe e i tre amici intercorre un dialogo
tra sordi, un girare a vuoto attorno al problema senza in ma no una soluzione, perché ognuna delle parti è arroccata sulle proprie posizioni. c) Gb 28 è un capitolo autonomo rispetto al suo attuale contesto e da un lato chiude l’interminabile quanto inutile scambio tra Giobbe e i tre amici, dall’altro invita a fare un primo bilancio del libro: la sapienza è inaccessibile all’uomo se questi non si apre a una luce superiore che viene da Dio. Il ritornello («Da dove viene la Sapienza? E il luogo dell’intelli genza dov’è?»), formulato in modo quasi identico nei w. 12 e 20, segna il movimento del brano, delineando tre strofe. Nel la prima (w. 1-12) il protagonista è 1'homo faber, egli scava miniere, fora pozzi, fruga fino all’estremo limite della terra, è artefice di profondi sconvolgimenti, riuscendo a scovare an che le cose più nascoste pur rimanendo nell’ignoranza circa il luogo in cui abita la Sapienza. Nella seconda strofa (w. 1320) viene presentato Yhomo oeconomicus, il quale, pur cono scendo l’arte del commercio, non può esercitarla con la Sa pienza perché questa non può essere trafficata: essa è supe riore all’oro, quello più puro, all’argento, al berillo, allo zaffi ro, al topazio e a tutte le perle preziose. Nella terza strofa si interpella Yhomo religiosus (w. 21-28), il solo ad avere intuito che la ricerca sapienziale può realizzarsi solo aprendosi al do no che viene dall’alto. Infatti, anche gli esseri mitici, quali la Morte e gli Abissi, devono confessare la propria incapacità di rintracciare la Sapienza: ne hanno solo udito la fama, ma non l’hanno incontrata personalmente (v. 22). d) I cc. 29-31 costituiscono l’ultima arringa di Giobbe (ve ra e propria apologia della propria innocenza piena) nella forma di un monologo, giacché Elifaz di Teman, Bildad di Suach e Sofar di Naama non prendono più la parola. Medi tando sulla felicità di un tempo (c. 29) Giobbe constata ama ramente lo stato di prostrazione nel quale egli versa attual mente (c. 30), profondendosi in un ultimo appello a Dio per
ché possa rendere conto della sua condotta e liberarlo dalla lebbra. Rivendica per l’ultima volta la sua innocenza (c. 31) prima di sfidare sfacciatamente Dio: «Oh, avessi uno che mi ascoltasse! Ecco la mia firma! L’Onnipotente mi risponda! Il documento scritto dal mio avversario, io lo porterei sulle mie spalle e me lo cingerei come un diadema! Gli darei resoconto di tutta la mia condotta; mi presenterei a lui come un valoro so» (w. 35-37). e) Gb 32-37: questi capitoli ritardano la risposta di Dio tanto invocata, presentando quattro discorsi del giovane sag gio Eliu (cc. 33; 34; 35; 36-37) preceduti da un prologo nel quale egli deplora la debolezza retorica dei tre amici che lo hanno preceduto nel dibattimento e che non sono riusciti a dimostrare la colpevolezza di Giobbe (c. 32). Dal suo nome (Eliu significa «Lui è il mio Dio») si intuisce come egli sia un figlio d ’Israele anche se non ci sono altri elementi che ne connotino con più precisione la figura. Con un tono molto più duro rispetto a quello di Elifaz, Bildad e Sofar, egli reite ra la teoria della retribuzione rincarando la dose e citando spesso le dirette parole di Giobbe nel tentativo di confutarle. Per Eliu, Giobbe ha un deficit di comprendonio perché non è attento alle modalità (sogni, visioni, dolori) con cui Dio si rivela: «Dunque, tu hai detto alle mie orecchie e io ho udito bene il suono delle tue parole: Puro sono io, senza peccato, sono innocente, non ho colpa! Eppure Dio trova pretesti contro di me e mi considera come suo nemico; pone in ceppi i miei piedi e scruta tutti i miei passi. Ebbene, in questo non hai ragione, io ti rispondo, perché Dio è più grande dell’uo mo. Perché gli hai intentato un processo, dato che non ri sponde ad ogni tua parola? Dio parla in un modo o in un al tro, ma nessuno fa attenzione» (Gb 33,8-14). Nessuna eco viene concessa a quest’ultimo ed estremo tentativo dei mae stri d ’Israele di salvare un sistema religioso ormai in crisi che non rende giustizia né a Dio né all’uomo.
f) N ei due discorsi (38,1-40,2; 40,6-41) che Dio rivolge a Giobbe egli si rivela come il Dio d ’Israele, creatore e libera tore: è questa la prima lezione che Giobbe è chiamato a re cepire. Egli non sta dialogando direttamente con il Dio d ’I sraele ma sta ponendo una generica - seppur autenticamen te religiosa - obiezione teologica su Dio, semplificando la questione del dolore ed eludendo la complessità della vita e della fede. G iobbe si fa forte della propria rettitudine al punto da proporsi come maestro di Dio: è talmente giusto che giunge a montarsi la testa, diventando arrogante. Per cui, «drammaticamente Dio deve parlare perché Giobbe lo ha sfidato a un duello verbale; a questi livelli la neutralità di Dio è impossibile: se non interviene affatto, la dottrina de gli amici rimane screditata, poiché si può accusare Dio im punemente. E Giobbe ne esce vincitore, perché ha lasciato Dio senza parole».8 La risposta di Dio è globale e ricondu ce, dunque, il sofferente all’interno della storia della salvez za. Giobbe ha sollevato numerosi dubbi ma la risposta di Dio è in ordine alla sua creaturalità: «D ov’eri tu quando io creavo il m ondo?». La lezione riguarda, quindi, l’umiltà: l’uomo ignora il piano divino che si rivela nella creazione e, pur potendo scorgere qualche barlume, non ha alcun pote re sul creato. Yhwh colloca Giobbe all’interno di un dise gno molto più grande che non inizia e non finisce con lui. Il pericolo di chi soffre può risiedere nella chiusura all’inter no del proprio dolore, mancando di uno sguardo sufficien temente ampio per individuarsi in un progetto d’amore di più grande respiro. La sofferenza del giusto a volte ha un effetto paralizzante e non permette di leggere la propria vi cenda con serenità e verità. La prima reazione di Giobbe al discorso divino è il silen zio: «Che ti posso rispondere?» (40,3-5): solo adesso egli si 8
L . ALONSO S c h ÒKEL - J.L . SlCRE D iaz , Giobbe. Commento teologico e letterario
(Commenti Biblici), Boria, Roma 1985,597.
rivolge direttamente a Dio chiamandolo Yhwh. Tacere per cercare di capire è sapienza, mentre parlare a sproposito è stoltezza. La seconda risposta di G iobbe (42,1-6), infatti, ammette la sua mancanza di discernimento: si fa strada una nuova concezione di Dio che nasce da un contatto diretto con lui. La sofferenza, la ribellione, lo scoraggiamento, il pianto, il grido, l’invocazione della morte, hanno trasforma to e trasfigurato Giobbe, il quale è ormai pronto per il fiori re di una nuova relazione. Solo adesso Giobbe ammette di avere peccato e fa realmente penitenza su polvere e cenere (42,6). Alla fine ha capito qual è la sua colpa: temeva per interesse un Dio di cui gli era nota —per averla appresa da altri - la bontà, senza avere ancora sperimentato in prima persona il Dio d ’Israele, e contemplato il suo vero volto: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti han no visto» (42,5). g) N ell’epilogo (42,7-17) Dio loda Giobbe e lo reintegra nella sua fortuna mentre non gradisce i discorsi dei suoi tre amici i quali, proponendo semplicisticamente la retribuzio ne come qualcosa di automatico, hanno parlato stoltamen te, al punto che G iobbe dovrà intercedere a loro favore. Sebbene tale «dogma retributivo» non sia una realtà auto matica, tuttavia l’uomo percepisce che Dio gli è favorevole solo attraverso eventi concreti legati al benessere totale del la persona. Al redattore finale non è parsa una contraddi zione presentare il «doppio volto di G iobbe»9: il ribelle del dramma poetico centrato sulla lamentazione e il pio del rac conto che nutre fiducia; per l’agiografo, nonostante la ten sione tra le due principali sezioni del libro, questi due at teggiamenti sono possibili e possono coesistere nella stessa persona.
9 Cfr. C. WESTERMANN, «Il doppio volto di Giobbe», in Concilium 9 (1983), 33-48.
1.3. Genere letterario Non è facile determinare il genere del libro. Esistono due ipotesi principali, tra loro complementari, che presentiamo con i loro punti di forza e di debolezza.
1.3.1. Dibattito giudiziale Nel lontano 1953 J. Van Dijk10 pensò al dibattito come genere noto in M esopotamia e applicabile alla storia di Giobbe. Questo dibattito si sviluppa in quattro passaggi fondamentali: - un’introduzione in cui si precisano i contendenti, coloro che interverranno e l’oggetto della controversia; - il dibattito vero e proprio in cui si mettono a confronto i con tendenti e le loro ragioni; - un appello alla divinità perché emetta la sentenza finale; - la riconciliazione finale in cui la giustizia è ristabilita.
Nel libro di Giobbe si può ravvisare tale schema anche se con qualche variazione. In un primo caso di diatriba i soggetti coinvolti sono: Dio che fa il giudice, Giobbe l’accusato, gli amici che difen dono l’onore di Dio, satana che agisce da pubblico ministe ro promotore della colpevolezza dell’accusato. Il capo d ’ac cusa attiene alla presunta giustizia di Giobbe: essa non è di mostrata e le prove (cioè la sua malattia) sembrano schiac cianti perché secondo lo schema classico della retribuzione se uno ha commesso un delitto riceve, prima o poi, un ca stigo (in questo caso la lebbra). Satana è stato il primo a sollevare il problema puntando il dito sul merito: la fede di 10 Cfr. J. VAN D i jk , La sagesse suméro-accadienne, Leiden, Brill 1953,38-40.
Giobbe è segnata dal tornaconto personale e non nasce da autentica e gratuita religiosità. I tre amici di Giobbe, insie me al giovane sapiente Eliu, difendono l’idea di un Dio re tributore e giusto che rende a ciascuno in base alla propria condotta: non hanno in mano argomenti schiaccianti contro Giobbe e, in buona sostanza, la loro difesa è d ’ufficio per ché sono guidati da un concetto di giustizia troppo ingessa to e astratto, frutto di un automatismo religioso che vorreb be far controfirmare alla divinità proiezioni legalistiche tipi che degli uomini. Le dinamiche appena descritte possono rendere ragione di una prima parte del processo a carico di Giobbe ma non dell’intero svolgimento. Cambiano, infatti, le parti coinvolte o, meglio, si assiste a un capovolgimento del ruolo dell’ac cusato che diventa l ’accusatore. G io b b e non accetta quell’applicazione particolare dello schema retributivo con cui i suoi amici intendono dirimere la causa. Egli è piena mente consapevole di essere dalla parte del giusto; per cui se c’è qualcuno che sta venendo meno alla sua funzione questi è Dio. Paradossalmente egli rovescia l’automatismo punitivo con cui è messo alla sbarra e lo rivolge contro Dio, il quale è reputato ingiusto almeno per due motivi: non può contendere con una creatura mortale poiché egli è un essere onnipotente e, quindi, vincerebbe un’eventuale gara di for za. Il suo modo d ’agire è oltremodo dispotico perché non si degna neppure di rispondere alle lamentele: qualora si de gnasse non potrebbe che riconoscere la rettitudine di G iob be. La sua apologia finale (cc. 29-31) non ha altro scopo se non quello di forzare Dio a mostrarsi. Tuttavia, in questo secondo caso di diatriba la differenza più marcata rispetto al genere mesopotamico risiede proprio nell’ambiguità del ruolo della divinità e il suo essere giudice (a cui spetta la sentenza definitiva) ma anche parte in causa (responsabile della disgrazia). Per cui potremmo dire che per il libro di
Giobbe si può parlare di un particolare caso di genere lette rario, il «dibattito giudiziale». C ’è da dire, inoltre, che non tutto il materiale testuale si amalgama con tale genere: non vi rientrano i cc. 28 (la meditazione sul luogo in cui abita la Sapienza) e 32-37 (i discorsi di Eliu che riaprono l’accusa contro Giobbe).
1.3.2. Il dramma La seconda tesi in rapporto al genere è quella del dram ma già individuato da Teodoro di Mopsuestia (IV secolo) nel suo commento a G iobbe (Patrologia Graeca 66, 697698) e riabilitato da L. Alonso Schòkel e Sicre Diaz.11 Il dramma seguirebbe questo svolgimento: Prologo (1-2); Preludio (3); Atto I (4-14); Atto II (15-21); Atto III (2227); Interludio (28); Atto IV: prima parte: parola di Giobbe (29-31); Inserzione: parola di Eliu (32-37); Seconda parte: parola di Dio (38,1-42,6); Epilogo (42,7-17). I cc. 28 e 3237 che meno si adattavano al genere «dibattito giudiziale» in questa seconda ipotesi servirebbero, rispettivamente, ad anticipare la soluzione del dramma (intermezzo) e a presen tare il dolore in una prospettiva pedagogica. Effettivamente questo genere interessa l’intero libro e, per tale ragione, si presenta molto interessante benché rimanga generico sui suoi contenuti (non aiuta a capire il quid del dramma). Vo lendo tentare una sorta di sintesi, possiamo dire che si trat ta di un dramma a carattere giudiziale, salvando in questo modo l’impianto di fondo ma caratterizzando l’oggetto del la tragedia.
1.4. l ì ambientazione Il libro si apre affermando che « c ’era nella regione di Uz un uomo chiamato G iobbe». La terra di Uz (proba bilmente tra Edom e la Siria) non è Israele. Una simile ambientazione per un’opera così intrisa di fede ebraica può avere differenti spiegazioni. L a prim a riguarda la menzione di G iobbe in Ez 14,14 annoverato tra i giusti insieme a N oè e Daniele. Probabilmente circolava un an tico racconto che risalirebbe all’epoca dei patriarchi, tra dizione che l ’autore del libro sapienziale avrebbe rispet tato e riportato all’inizio della sua opera. A questa prima spiegazione se ne aggiunge un’altra, legata alla portata delle parole pronunciate dal protagonista: avrebbe potu to un Israelita contestare la giustizia divina e criticare aspramente gli assunti fondamentali della fede dei padri senza creare scandalo? In bocca a un pagano le invettive di G iobbe sarebbero parse meno dissacranti. O ppure, in m odo più pertinente, collocando la vicenda fuori da Isra ele si intende universalizzare la situazione: in ogni parte della terra esiste un giusto sofferente che invoca una ri sp osta che gli perm etta di com prendere il senso della propria pena. Dalla lettura globale del libro emerge che tale responso è possibile attingendo luce dalla fede giu daica, e dialogando non con un’anonima presenza divina ma con il D io d ’Israele.12
12 Un ultimo tentativo di spiegazione si lega al nome stesso di Giobbe i’tyyób) che po trebbe anche essere inteso come «nemico» ( ’5yèb)> anche grazie alla collocazione di Uz, nel territorio di Edom: Giobbe sarebbe un Edomita, grazie al discendente di Esaù (cfr. Gen 36,11) e, perciò, nemico di Giacobbe. Tale ipotesi, un po’ articolata, supporrebbe che la localizzazione di Uz fosse conosciuta al punto da menzionarla con il suo significato specifico, senza neppure spiegare il senso della sua utilizzazione nel libro.
2. Esegesi di G b 3 1 :l’apologià del giusto Questo capitolo del libro riporta le ultime parole pronun ciate da Giobbe che, nella sua arringa finale, fa emergere il profondo convincimento, già espresso a più riprese nel dibat tito con gli amici (4-27), di essere giusto e irreprensibile. Questa professione della propria rettitudine è presentata con tale vigore da trasformarsi in un vero e proprio atto di forza nei confronti di Dio, mirando a squarciare la sua sordità. Si è giunti, infatti, a questo punto dell’opera, a un punto cruciale in cui il silenzio divino è diventato per il giusto sofferente un vero tormento: dalla sua risposta o dalla mancata risposta di pende l’esito dell’intera narrazione. Per questo Giobbe fa la voce grossa nel tentativo di mettere sotto scacco Dio.
2.1. Genere letterario e contesto prossimo Il c. 31 è incentrato sulla giustizia di Giobbe e appartiene al genere «giuramento di innocenza»; egli afferma di essere retto corroborando tale deposizione con una dichiarazione solenne e definitiva.13 La formulazione ricorre al periodo ipotetico che si compone di una protasi (prima parte) e un’apodosi (seconda parte). La protasi ha due sviluppi: uno posi tivo («Se ho commesso tale cosa...») e uno negativo («Se non ho osservato tale cosa...»). Nella frase positiva si dichiara la 13 L’invito a giurare per il nome di Yhwh si attesta in Dt 6,13 e rielabora o, comun que, interpreta il comandamento del Decalogo di Es 20,7 in cui si vieta l’utilizzazione in debita del nome di Yhwh (lo spergiuro, la bestemmia o la magia) ma non il giuramento. Sicuramente il ricorso a tale pratica esplicita la debolezza della parola umana e sottinten de la falsità delle intenzioni altrui se si invoca la presenza divina come garante della paro la. Questo intervento della divinità può indurre alla blasfemia nel momento in cui con fal sità ci si accosta al giuramento. Nel libro dei Numeri è descritta la motivazione, la ritualità e la formula del giuramento (Nm 5,19-22); normalmente la casistica del giuramento ri guarda l’adulterio ma anche, più genericamente, i peccati contro il prossimo e contro Dio (cfr. Sai 7 e 37).
trasgressione della quale si giura di non essere colpevoli; in quella negativa si richiama una norma o un comportamento per il quale si giura che è stato osservato. L’apodosi contiene la punizione relativa e conseguente alla premessa. In G b 31 sono almeno sei le colpe di cui il protagonista ammette di non essersi mai macchiato, misfatti che si ricol legano a norme della legislazione israelitica (soprattutto il Decalogo di Es 20): agire con falsità («non rubare»), w. 5-6, bramare i beni altrui («non desiderare la roba degli al tri...»), v. 7, desiderare la donna del prossimo e commettere adulterio («non desiderare la donna del tuo prossim o...»: vv. 9.11-12), venerare il sole e la luna («non avrai altri d èi...»: w. 26-27), praticare la magia per procurare la mor te del nemico (cfr. Lv 20 che vieta la negromanzia). Negli altri casi enunciati da Giobbe sembra esserci non un pun tuale riferimento morale alla Legge, ma un rimando ai con sigli dei sapienti, i quali invitavano a una carità che andasse oltre il precetto e coinvolgesse direttamente il cuore (difen dere i deboli, gli schiavi, il forestiero). La formulazione del giuramento, tuttavia, può presentarsi anche con una certa libertà, al punto da sottintendere l’apodosi (che si immagi na, evidentemente, sempre negativa) e soffermandosi enfa ticamente sulla protasi. G b 31 è il terzo capitolo della perorazione finale che chiude la difesa di Giobbe e comprende, come segnalato, tre momenti: il ricordo lieto di un passato ormai perso (Gb 29), l’amaro riscontro della disgraziata condizione presente (G b 30) e la ferma rivendicazione della propria integrità morale (Gb 31). Richiamare il passato conferisce maggiore enfasi alle parole del c. 31 ancorandole alla scena madre del libro, cioè la presentazione iniziale dell’integrità di Giobbe. Egli non rinnega Dio come scaturigine della propria pro sperità rivelando, tuttavia, l’obiettivo al quale tende la sua arringa finale: mettere al centro se stesso e la propria soffe
renza. Abbiamo già detto che un limite grande che può ca ratterizzare l’uomo sofferente è quello di ingigantire la pro pria sventurata condizione al punto da perdere il contatto con il resto del mondo: in ciò anche la memoria è inficiata da questa inclinazione aH’autocommiserazione. I ricordi, nel caso specifico, si tingono di orgoglio e compiacimento nella raffigurazione di G iobbe come impavido giustiziere (29,14-17). Questo glorioso passato rende ancora più inso stenibile il presente. Giobbe si profonde in una lunga la mentazione sulla sua miseria. Ciò che lo fa soffrire maggior mente è il disonore dei giovani e di coloro che, nella prece dente condizione di stima sociale, non sarebbero stati degni di rivolgergli neppure la parola in ragione della loro bassa condizione. Il responsabile di tutto questo male è Dio. E lui che ha ritirato la protezione e lascia Giobbe in balìa dello scherno e della malattia fisica che non gli lascia scampo neppure di notte e, cosa ancora più insopportabile, neppu re gli risponde (30,20). Da questo sguardo sgorga l’accusa di crudeltà e di «bullismo cosmico»14 rivolta a Dio: «Ti sei fatto crudele con me e mi perseguiti con tutta la forza del tuo braccio. Mi sollevi e mi poni a cavallo del vento, mi fai travolgere dalla bufera» (30,21-22).
2.2. Struttura Questo capitolo racchiude le ultime parole di Giobbe pri ma della risposta di Dio: «Sono compiute le parole di Giob be» (31,40b). Dal confronto con il passato e dalla disamina della situazione presente, Giobbe ricava maggiore livore nel protestare la propria irreprensibilità, giurando sull’integrità della propria vita. 14 A lter , Larie della poesia biblica, 139.
Siamo davanti a un «esame di coscienza» centrato su quat tordici trasgressioni della morale:15 I. II. III. IV. V. VI. VII. V ili. IX. X. XI. XII. XIII. X IV
1-4 5-6 7-8 9-12 13-15 16-18 19-20 21-23 24-25 26-28 29-30 31-32 33-34 38-40
lo sguardo impudico lanciato a una giovane donna la frode negli affari la sete di ricchezza l’adulterio la mancanza di rispetto per i diritti dei servi la mancata attenzione per gli affamati il rifiuto di vestire i poveri ringiustizia pubblica verso l’orfano la fiducia nei propri beni il culto del sole e della luna godere della disgrazia di un avversario il ripudio dello straniero non avere confessato una colpa la disonesta acquisizione di un campo
L’ordine dei versetti viene spesso cambiato dai traduttori moderni e dalle versioni ufficiali della Bibbia. Le ragioni van no rintracciate nella logica dei contenuti: secondo la nostra logica i w. 38-40a dovrebbero seguire immediatamente il v. 34, per poi chiudere l’intero capitolo con il v. 40b. Questa è, per esempio, la scelta della Bibbia CEI del 2008 e anche del la precedente traduzione del 1974.16 Dal punto di vista della critica letteraria, invece, questa operazione non è giustificata perché i testimoni antichi (testo ebraico, greco e latino) ri portano la sequenza progressiva dei versetti.
15 Cfr. J. LÉVÈQUE, «Ahamnèse et disculpation: la conscience du juste en Job, 29-31», in M. GILBERT (ed.), La sagesse de l’Ancient Testament (BETL 31), University Press, Leu ven 21990, 240. Il numero quattordici per Fautore può avere una valenza simbolica: Giobbe formula una dichiarazione d’innocenza totale ed esaustiva (p. 245). 16 La maggioranza degli studiosi moderni riconosce che i w. 38-40a fanno problema nella collocazione attuale dopo le solenni parole pronunciate in 35-37. Diverse sono le ipotesi di cambiamento: cfr. LÉVÈQUE, «Anamnèse et disculpation», 239-240.
2 3 . Traduzione e commento *«Avevo fatto un patto con i miei occhi, di non fissare lo sguar do su una vergine. 2E invece quale sorte Dio mi ha assegnato di lassù e quale eredi tà l'Onnipotente ha preparato dall'alto? 3Non è forse la rovina per il perverso e la sventura per chi com pie il male? 4Non vede egli la mia condotta e non conta tutti i miei passi? 5Se ho agito con falsità e il mio piede si è affrettato verso la frode, 6mi pesi pure sulla bilancia della giustizia e Dio riconosca la mia integrità. 7Se il mio passo è andato fuori strada e il mio cuore ha seguito i miei occhi, o se la mia mano si è macchiata, 8io semini e un altro mangi il frutto e siano sradicati i miei germogli. 9Se il mio cuore fu sedotto da una donna e ho spiato alla porta del mio prossimo, 10mia moglie macini per un estraneo e altri giacciano con lei; 1poiché questo è un'infamia, un delitto da denunciare, 12un fuoco che divora fino alla distruzione, e avrebbe consuma to tutto il mio raccolto. 13Se ho rifiutato il diritto del mio schiavo e della schiava in lite con me, 14che cosa farei, quando Dio si ergerà giudice, che cosa rispon derei, quando mi interrogherà? 15Chi ha fatto me nel ventre materno, non ha fatto anche lui? Non fu lo stesso a formarci nel grembo? 16Se ho negato agli indigenti quanto desideravano, se ho lasciato languire gli occhi della vedova, 17e da solo ho mangiato il mio tozzo di pane, senza spartirlo con l'orfano, 18poiché fin dall'infanzia come un padre io l'ho allevato e dal grembo di mia madre gli ho fatto da guida,17 17 Uebraico non è chiaro: «Poiché fin dalla mia fanciullezza mi allevò come un padre e dal grembo di mia madre la guidai». Anche i Settanta leggono lo stesso testo. Manca il soggetto dei verbi; per cui ho preferito tradurre come se fosse Giobbe.
19se mai ho visto un misero privo di vesti o un indigente senz'a bito, 20se non mi hanno benedetto i suoi fianchi, riscaldati con la lana dei miei agnelli, 21se ho alzato la mano contro l'orfano sapendomi sostenuto dal tribunale, 22mi si stacchi la scapola dalla spalla e il mio braccio si spezzi dal gomito, 23poiché mi spaventa la paura di Dio e non potrei reggere da vanti alla sua maestà. 24Se ho riposto la mia speranza nell'oro e detto all'oro fino: “Tu sei la mia sicurezza! ”, 25se ho goduto perché molti erano i miei beni e perché la mia mano aveva accumulato la ricchezza, 26se quando vedevo risplendere la luce e la luna che avanzava maestosa, 27si lasciò sedurre segretamente il mio cuore, mandando un ba cio con la mano alla bocca, 28anche questo sarebbe stato un delitto da denunciare, perché avrei rinnegato Dio che sta in alto. 29Mi sono forse rallegrato della disgrazia del mio nemico e ho goduto quando lo ha colpito la sventura? 30Non ho neppure permesso alla mia lingua di peccare, augu randogli la morte con un'imprecazione. 31Non diceva forse la gente della mia tenda: “A chi non ha dato le sue carni per saziarsi?". 32U forestiero non passava la notte all'aperto e al viandante io aprivo le mie porte. 33Non ho nascosto come uomo la mia colpa, tenendo celato il mio delitto dentro di me, 34come se temessi l'opinione della folla e il disprezzo della fami glia mi spaventasse, sì da starmene zitto senza uscir di casa. 35Oh, avessi uno che mi ascoltasse! Ecco la mia firma! L'Onni potente mi risponda! Il documento scritto dal mio rivale, 36io lo porterei sulle mie spalle e me lo cingerei come un diadema! 37Gli renderò conto di tutti i miei passi; mi presenterò a lui co me un valoroso.
38Se la mia terra ha gridato contro di me e i suoi solchi hanno pianto con essa, 39se ho mangiato i suoi frutti senza pagarli, facendo sospirare i suoi coltivatori, 40crescano spine al posto del frumento e ortiche al posto dell’or zo». Fine delle parole di Giobbe.
1-4. G iobbe stipula un patto con i suoi occhi per non guardare una betùlàh, cioè una vergine (cfr. Gen 24,16; Es 22,16; Lv 21,3.14; IRe 1,2). Il capitolo si apre esplicitando il proposito di non peccare di adulterio neppure con gli occhi. L’eccitazione visiva è, infatti, il primo passo verso la consu mazione di un rapporto fisico e per questo si raccomanda la morigeratezza dello sguardo.18 Questo dato prudenziale na sce dal realismo antropologico che considera più intelligente l’atteggiamento di chi evita di incorrere nell’occasione pecca minosa piuttosto che combatterla. Sin dall’inizio del poema emerge come il pio Giobbe abbia ritenuto ogni consiglio dei maestri adoperandosi per una purità non solo del suo corpo ma anche del suo cuore. Nei versetti successivi ribadirà nuo vamente questo concetto (v. 7). I w. 2-6 chiamano in causa direttamente Dio. I due nomi divini che compaiono sono ’él e Sadday. Sappiam o che nell’Antico Testamento a Dio si attribuiscono diversi nomi, in precedenza attribuiti a divinità diverse, come bene atte sta Es 6,2-3: « ’élóhim disse a Mosè: io sono Yhwh. Sono apparso ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe come ’él Sadday, ma con il mio nome di Yhwh non mi sono manifestato a lo
18 «N on stare a osservare una vergine, per non essere punito insieme con lei. Non dar ti in balìa delle prostitute, per non perdere il tuo patrimonio. Non curiosare per le vie del la città e non vagare nei suoi angoli deserti. Allontana Pocchio dalla donna avvenente e non fissare le bellezze d’una estranea: molti ha sedotto la bellezza d’una donna, il suo amore brucia come un fuoco» (Sir 9,5-8).
ro». ’èl (attestato 55 volte in Giobbe) è con ’eloha19 il sin golare di ’éldhim, il nome divino del primo racconto della creazione (Gen 1,1-2,4), nome generico degli altri dèi, quelli pagani, i falsi dèi (Dt 6,14; 13,18; IRe 11,14.18; 14,9; Sai 81,10; Ger 1,16; Dn 11,37). L’altro nome divino che tro viamo in G b 31,2 è Sadday, il cui significato resta parzial mente oscuro; probabilmente appartiene a un tipo comune di epiteti divini legati a un elemento naturale. Il significato sembra essere «D io della montagna», e ciò si ricava dal le game con un vocabolo cananeo che significa «montagna» (tdy). È impossibile determinare se Sadday sia: «a) Baal-Hadad sul monte Saphon (luogo in cui si ritira B a‘al dopo aver sconfitto il dio del mare Yam); b) un epiteto di El,20 oppure c) un’antica divinità amorrea abitante sulla montagna, che venne ben presto identificata dai patriarchi con il cananeo El; in base a quanto ci è noto ‘b ’ e ‘c’ sembrano le soluzioni più probabili»21. È interessante notare che su 48 attestazio ni di Sadday nell’Antico Testamento 31 si ritrovano nel li bro di Giobbe; ciò sta a dire che il Dio al quale il sofferente si rivolge non è principalmente quello della fede yahvistica, rivelando la parzialità della visióne teologica che fa da sfon do all’intera questione del male. Questo deficit rende la questione della sofferenza dell’innocenza un enigma insolu bile, perché non lo colloca nella cornice biblica della storia salvezza ma in un non meglio precisato universo dominato da divinità dispotiche. 3-4. La convinzione classica della retribuzione è ripetuta sotto forma di domanda retorica nel v. 3, idea portante dell’autodifesa che Giobbe applica direttamente alla propria 19 Forma rara e tardiva, è utilizzata principalmente in Giobbe (41 volte su circa 60 complessive). 20 Si segnala nell’Antico Testamento anche l’uso composto di ’èl con un attributo: ’èl 'olam («Dio eterno/anziano»: Gen 21,33), ’èl 'eliyón («Dio altissimo»: Gen 14,18). 21 F.M . C r o s s , « ’£/», in H.-J. F abry - H. RiNGGREN (edd.), Grande Lessico dell’Antico Testamento. /, Paideia, Brescia 2006,540-541.
condizione ricorrendo a un’altra domanda retorica circa l’o perato divino («Non vede... non conta...?»). Che Dio scruti la condotta umana è un dato attestato nei salmi (33,13-15; 119,168; 139,1-4; ma cfr. anche Sir 17,15), ma che tale sguar do sia considerato alla stregua di un contabile che applica le regole palesa l’idea che Giobbe ha della divinità. 5-6. Qui si incontra il primo ’im («se») del poema. La pro tasi evoca il peccato di truffa e, mediante l’immagine della bi lancia, invita alla pesatura del cuore del defunto, motivo ri corrente in Egitto in base al quale il destino dopo la morte dipende dall’equilibrio tra il cuore e la giustizia (Libro dei Morti, cap. 125). In Proverbi si legge a proposito: «L a bilan cia e i piatti giusti sono del Signore, tutti i pesi del sacco sono sua opera» (16,11); e ancora: «Se dici: “Ecco, noi non lo sa p ev am o!” , forse chi pesa i cuori non ha intelligenza?» (24,12a). Continua lo sviluppo dell’idea del Dio contabile: al la constatazione del peso deve seguire il calcolo del valore e della preziosità della «merce G iobbe» («riconosca la mia in tegrità»). 7-8. Giobbe giura di non avere bramato le ricchezze. Nella protasi (v. 7) viene coinvolto l’uomo colto nella condotta (i passi), nelle intenzioni profonde (cuore), nei desideri proibiti (gli occhi) e nell’operatività (la mano). La sequenza è la se guente: gli occhi percepiscono una realtà come attraente, il cuore dà l’assenso e le mani eseguono quanto è maturato co me scelta.22 Nel giusto Giobbe non abita alcuna traccia di cupidigia per le cose materiali. Egli ha già esplicitato nella ouverture del capitolo che i suoi occhi sono castigati in rap porto alla brama sessuale; qui aggiunge che nessun’altra bra mosia è entrata in lui tramite il canale visivo, veicolo ordina 22 Molto vicina a questo testo e a queste dinamiche che conducono al male è la breve ma efficace descrizione del malvagio in Proverbi; «Il perverso, uomo iniquo, cammina pronunciando parole tortuose, ammicca con gli occhi, stropiccia i piedi e fa cenni con le dita. Nel suo cuore il malvagio trama cose perverse, in ogni tempo suscita liti» (6,12-14).
rio attraverso il quale si fa strada il desiderio del proibito (cfr. Gen 3,6; Q o2,10). L’apodosi del v. 8 indica la punizione conseguente al pre sunto peccato di Giobbe. Il non trovare frutto è la maledizio ne tipica che colpisce l’aspirazione dell’uomo e della donna alla vita (si pensi al grembo sterile). La punizione per coloro che non osservano i comandamenti divini in Lv 26,16 anno vera, tra le altre sciagure, anche quella legata alla perdita del raccolto: «Seminerete invano le vostre sementi: le mangeranno i vostri nemici» (cfr. anche Is 65,22 che dichiara la fine di una simile prassi punitiva). I germogli possono richiamare due aspetti: continuano la metafora vegetale ammiccando al la continuità della specie e rinviando ai figli intesi, appunto, come virgulti (Is 11,1); riferendosi alla discendenza, permet tono un collegamento con il v. 1 del capitolo in cui Giobbe evoca l’alleanza abramitica (Gen 12) che contiene la promes sa di un popolo numeroso come le stelle del cielo e come la sabbia del mare. Egli ha perso tutti i suoi figli pur avendo perseverato nel patto di fedeltà. Anche sotto questo aspetto egli dichiara, velatamente, che Dio è ingiusto. 9-12. In questi versetti viene descritto l’adulterio e le sue conseguenze negative. Il v. 9 costituisce la protasi, mentre il 10 l’apodosi. La donna al v. 9 richiama il peccato dell’adulte rio; lo lascia intendere ’issàh usato in senso assoluto, senza specificazioni, differentemente dal v. 1 in cui si menziona la giovane non ancora sposata (betùlàh). Il verbo «macinare» del v. 10 indica l’atto sessuale violen to. Un’immagine simile ricorre anche nella tradizione profeti ca; in Isaia, per esempio, nel lamento contro Babilonia e nell’annuncio della sua distruzione, a proposito della donna violata si legge: «Poiché non sarai più chiamata tenera e vo luttuosa. Prendi la mola e macina la farina, togliti il velo, sol leva i lembi della veste, scopriti le gambe, attraversa i fiumi. Si scopra la tua nudità, si mostri la tua vergogna» (Is 47,1-3).
Nelle parole di Giobbe abbiamo una sorta di riproposizione della legge del taglione: se ha desiderato la donna di un altro, altri violentino sua moglie (un concetto simile si attesta anche in 2Sam 12,11-12 circa il peccato di adulterio di Davide). La proibizione dell’adulterio è espressa nel v. 11 con un linguaggio giuridico (Lv 18,7; 20,14); è un delitto che va con tro la Legge (Es 20,14). Per questo motivo deve ricevere una pena. Sappiamo che la Legge contemplava una notevole di sparità di trattamento circa l’adulterio. Il marito non incorre va nell’adulterio se aveva rapporti con un’altra donna non sposata in quanto la poligamia era permessa (si veda quanto affermerà Gesù in Mt 19,9). Si ha, invece, adulterio qualora questa donna sia sposata (Lv 20,10; Dt 22,22) o anche fidan zata (Dt 22,23); in quest’ultimo caso la lapidazione costitui sce la pena per tale delitto (Dt 22,14). Nel primo caso di adulterio (includendo anche le donne sposate adultere) la pe na è la morte. Il marito, comunque, poteva perdonare la mo glie infedele oppure ripudiarla scrivendo un atto di ripudio (Dt 24,1) ed esponendola a una sorte pubblica infamante (Ez 16). Giobbe, si dice nel v. 11, avvertirebbe l’onta dell’adulte rio, qualora l’avesse commesso. L’immagine del fuoco del v. 12 può richiamare il rogo co me punizione dell’adulterio (si pensi alla sorte di Tamar, nuo ra di Giuda, condannata a questa morte perché si è prostitui ta in Gen 38), oppure, più opportunamente, può rimandare al fuoco della gelosia del marito tradito, che si avventa contro l’uomo che ha consumato il rapporto con sua moglie (cfr. Pr 6,27-28.34). Un ulteriore richiamo al fuoco si può ritrovare, infine, in riferimento alla brama che arde nel cuore dei lussu riosi secondo la descrizione che ne dà Sir 9,8; 23,17. 13-15. La colpa di cui G iobbe afferma di non essersi macchiato inerisce alla prassi della schiavitù. Nel Penta teuco si attestano tre autorevoli pronunciam enti sugli schiavi: Es 21,2-11; Dt 15,12-18; Lv 25,39-55. Si nota che,
pur tra contraddizioni, si fa strada una legislazione più at tenta al dato umano che condanna l’abuso sugli schiavi23. Ma che lo schiavo abbia addirittura il diritto di citare in giudizio il proprio padrone pare francamente poco proba bile. Eppure G iobbe dichiara di essersi fatto attento an che nei confronti di questi soggetti deboli, richiamando il principio della parità di condizione di tutti gli uomini da vanti a Dio (in Sap 7,1-6 il re racconta il suo ingresso nella vita comune a ogni altro essere umano). Per la prima volta è menzionato nel v. 14 il tribunale presieduto da Dio (è lui che si alza nell’atto di leggere la sentenza, come in Is 31,2) nel quale, però, egli è anche accusatore (intenta l’inquisi toria). Anche nei Sai 50 e 76 (vv. 9-10) si ritrova questa immagine di Dio-giudice. 16-18. Inizia una serie relativa a tutto ciò che possiamo chiamare «opere di misericordia». I soggetti a cui sono ri volte le attenzioni di Giobbe sono i più deboli della società verso i quali egli non ha omesso il soccorso: i poveri in ge nerale (dallim ) e, nel concreto, la vedova ( ’almànàti) e l’or fano (yàtóm ). La Legge tutela gli orfani e le vedove (Es 22,22) tanto che Dio è descritto come loro difensore (Sai 68,6); per l’orfano e la vedova nel secondo tempio è riser vato un deposito di carità (cfr. Tb 1,8; 2Mac 3,10) e a loro andava una parte del bottino di guerra (cfr. 2Mac 8,28-30). La predicazione di Isaia è rivolta alla difesa di quelle cate: gorie sociali più vulnerabili alle quali il pio Israelita non può non volgere la propria attenzione e il proprio aiuto; un 231 tre grandi codici legislativi, scritti in epoche differenti, palesano una serie di con traddizioni relative al tempo in cui concedere la liberazione (dopo sei anni come esplicita to in Esodo e Deuteronomio, mentre nel Levitico dopo cinquantanni), il sesso dei desti natari (la liberazione è solo per gli schiavi uomini secondo quanto scritto in Esodo a diffe renza del codice del Deuteronomio che la estende anche alle donne) e la loro nazionalità (si può rendere schiavo un Ebreo per Esodo e Deuteronomio, mentre per il Levitico tale prassi è proibita). Infine, si ricordi Am 2,7 in cui il profeta rimprovera il padre e il figlio che si uniscono alla stessa schiava domestica.
culto che ostenti la sua fastosità autoreferenziale e trascuri la giustizia sociale è un’offesa a Dio (Is 1,13; 10; cfr. anche quanto si dice nella Lettera di Giacomo sulla vera religiosi tà: G c 1,27). Il v. 18 è un inciso a carattere agiografico che rincara la dose con cui è descritta la carità di Giobbe. Egli sin dalla sua tenera età è stato caritatevole: quando non aveva ancora l’età per prendersi cura degli altri, egli come un padre ha soccorso e guidato chi era privo della figura paterna. 19-20. Vestire chi è nudo e coprire chi è povero è l’atteg giamento del vero credente e Giobbe, elencando la sua carità sconfinata, sta neppure troppo sottilmente declinando la propria religiosità irreprensibile. In Is 58,6-7, infatti, si legge: «Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel divi dere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?». La benedizione che Giobbe dichiara di avere ricevuto è riservata proprio a chi fa del bene ed è generoso con il povero (Pr 22,9): a fronte di tanta bontà egli, tuttavia, riceve nel presente disprezzo e malattia. 21-23. Nel v. 21 la protasi del giuramento descrive il gesto dell’oppressione nei confronti dell’orfano in tribunale (alla lettera: «porta», luogo della città dove si amministrava la giu stizia). «Alzare la mano» può significare, in ragione della pre posizione ‘al («su, contro»), usare violenza e, quindi, essere ostili (cfr. Is 19,16) oppure fare segno (cfr. Is 11,15; 13,2; Zac 2,13), votando contro nella sentenza, perché il debole sia in giustamente condannato. La protasi del v. 22 è simile all’immagine del salmo che di ce: «Se ti dimentico Gerusalemme si dimentichi di me la mia destra» (Sai 137,5) con la differenza che qui si chiede qualco sa di molto doloroso (frattura multipla scomposta) mentre
nel Salterio la punizione coincide con l’impossibilità di muo vere il braccio. Il v. 23 è ipotetico quanto l’intera serie, sin qui elencata, dei «non delitti» di Giobbe. Egli dice che, qualora fosse in stato di peccato, non potrebbe comparire alla presenza di Dio e si sentirebbe schiacciato dalla sua sublimità. La forbice tra l’idea di Dio che ha Giobbe e quella dei suoi amici si al larga sempre più, perché se in G b 25,2 Bildad asserisce che in Dio non vi è paura e dominio, qui Giobbe professa l’esat to contrario; alla fine del libro entrambe le parti dovranno ri vedere le proprie convinzioni teologiche. E bene, comunque, ricordare che siamo nella sfera della pura ipotesi: poiché egli è integro, non teme il confronto con Dio che, anzi, ricerca apertamente. 24-25. La proposizione contenuta in questi versetti è so spesa (come quella dei w. 26-27) e presenta l’imprecazione corrispondente. G iobbe non ha confidato nelle ricchezze perché sembra consapevole del pericolo di un simile atteg giamento, così com’è bene esplicitato nel Sai 49. Chi fonda la sua vita sulle certezze materiali illudendosi di vivere bene e a lungo, illude se stesso perché la vita resta indisponibile per l’uomo e non si può comprare. Il pericolo insito nell’abbon danza di ricchezze risiede nel suo effetto narcotizzante: «L’uomo nella prosperità non comprende di essere simile agli animali che periscono» (Sai 49,21). Dalla ricchezza discende anche l’idolatria perché ad essa l’uomo è disposto a legare il suo cuore (cfr. Sai 62,11) e a tributare tutte le energie pur di accaparrarsela (cfr. Le 12; Col 3,5). Il tema della vera ric chezza riguarda sia i comandamenti divini (cfr. Sai 119,127) sia la Sapienza come somma ricchezza per l’uomo (cfr. Pr 8,19): entrambi hanno un valore superiore a quello dell’oro più fine. 26-28. Il richiamo all’idolatria appena evidenziato è esplici tamente menzionato in questi versetti. La luce ('ór) che ri
splende nel primo stico è il sole, anche se non compare il so stantivo ebraico semes (cfr. anche G b 37,21; Is 18,4; Ab 3,4). Anche nel non utilizzo del nome della divinità Giobbe è accor to, mettendo in atto una sorta di «repressione della lingua»24 a conferma delle sue più intime disposizioni. Giobbe nega di avere venerato gli astri dal cui fascino il Deuteronomio cerca di mettere in guardia (Dt 4,19). In Israele, infatti, come in qua si tutte le culture, il sole, la luna e gli astri in genere sono stati oggetto di culto e di adorazione. La riforma del re Giosia (622 a.C.) cercò di purificare il tempio di Gerusalemme dalle statue e dagli arredi che i re d’Israele avevano immagazzinato duran te gli anni (cfr. 2Re 23; tra gli altri, al v. 5 si menzionano: il so le, la luna, lo zodiaco e tutto l’esercito del cielo). Anche i pro feti denunciano fermamente il culto astrale (cfr. Is 24,23; Ger 8,2; Ez 8,16) rivolto alla Regina del Cielo (cfr. Ger 7; 44). Giobbe descrive le movenze dell’idolatra che, compiendo un gesto molto comune nella pratica religiosa, si porta la ma no alla bocca per mandare un bacio alla divinità. Egli non ha peccato neppure nel suo intimo, perché il suo cuore è stato ir reprensibile e - non contravvenendo all’autentica fede - non ha commesso delitto contro il primo comandamento del De calogo (Es 20,2-5; Dt 5,6-9). L’annotazione «Dio che sta in al to» può avere una connotazione spaziale: gli astri sono sotto la volta celeste in una posizione subordinata, in quanto crea ture, rispetto a quella del Creatore il cui trono è collocato nel la sfera più alta dei cieli (cfr. Sai 11,4; IRe 8,27; 2Cr 2,6). 29-30. L’ennesima «non colpa» di Giobbe è la vendetta. Giobbe è esente dal piacere che si prova di fronte alla caduta del nemico e non avverte neppure il trasporto di rispondere al male ricevuto invocando lo stesso male. In effetti, alla fine del libro, egli si dimostrerà magnanimo intercedendo per il bene dei suoi tre amici (Gb 42,8-9). 24 D J.A . CLINES, Job, Thomas Nelson Publishers, Nashville 2006, 1026.
La Legge cercava di mitigare il rancore e lo spirito vendi cativo perché una moralità fondata sulla rivalsa a lungo anda re rivela tutta la sua forza disgregante per l’intera comunità (cfr. Lv 19,18; Es 23,4), sebbene la caduta del nemico sia sa lutata con compiacimento (cfr. Sai 58,11). D libro dei Prover bi affronta direttamente questo tema, scoraggiando la ven detta personale e rinviando alla giustizia di Dio: «Non dire: Renderò male per male, ma spera nel Signore ed egli ti salve rà» (Pr 20,22; cfr. anche 24,17). E in Sir 28,1 si legge: «Chi si vendica troverà la vendetta del Signore, che gli chiederà rigo roso conto dei peccati». Permane, tuttavia, un certo senso di rivincita in un proverbio confluito anche nel Nuovo Testa mento (cfr. Rm 12,20): «Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare, se ha sete, dagli da bere, perché così ammasse rai carboni ardenti sul suo capo e il Signore ti ricompenserà» (Pr 25,21-22). Notiamo, infine, che in Siracide c’è un testo molto vicino a quello che sarà il messaggio di Gesù sul per dono dei nemici, raccomandazioni che si fondano sulla cadu cità umana che rende vano ogni atteggiamento di rancore (cfr. Sir 28,2-4). 31-32. Orfani, vedove, schiavi e indigenti in genere: ma Giobbe non si risparmia neppure nei confronti dello stranie ro. Il senso della frase «dare le proprie carni per saziarsi» può avere tre principali significati. 1) E una metafora dell’ag gressività e rimanda alla violenza in genere. Mangiare la car ne di qualcuno ha un immediato senso legato all’ostilità per ché in genere il «cannibalismo» è sinonimo di oppressione (cfr. Dt 9,19). Sono i cattivi, infatti, ad attentare all’incolumi tà del giusto (cfr. Sai 27,2). I nemici d ’Israele, invece, saranno puniti sfamandosi della propria carne per il male commesso contro il popolo eletto (cfr. Is 49,26). Stando a questa inter pretazione G iobbe non sarebbe stato aggressivo neanche quando sarebbe stato incitato a farlo, proprio come non ha gioito della disgrazia del nemico. 2) Dare la propria carne
per sfamarsi ha un rimando sessuale, sebbene questa espres sione non abbia dei paralleli in altri luoghi biblici. Il senso del versetto sarebbe: ciò che la gente avrebbe potuto dire di Giobbe è che si è dato a tutti cioè ha avuto continui rapporti sessuali; in questa linea la menzione della tenda indicherebbe il luogo in cui tali incontri si consumavano.25 Questa lettura stride con quanto Giobbe dice di sé e con quello che dall’in tera vicenda conosciamo sulla sua moralità. 3) L’ultima inter pretazione va nella linea della totale disponibilità di Giobbe: tenendo conto del contesto del brano in cui sono passati in rassegna le “gesta” dell’eroe, qui si intende dire che Giobbe è stato ospitale e disponibile oltre misura, similmente all’e spressione di Paolo «Mi sono fatto tutto a tutti» (lC or 9,22). Come per gli schiavi anche per lo straniero igèr) la legisla zione d ’Israele conosce graduali aperture e maggiore atten zione umanitaria. In effetti il termine gèr non significa solo estraneo nel senso etnico (cioè non appartenente al popolo eletto) o religioso (colui che venera un culto diverso) ma, più generalmente, estraneo al luogo e ai costumi di quella società nella quale egli risiede stabilmente provenendo da un luogo diverso (cfr. G dc 17,7). Tenendo presente che prima dell’VIII secolo i testi in cui si annoverano gli stranieri tra i sog getti da tutelare sono scarsi (cfr. G dc 19,16), si può ipotizza re che solo dopo la caduta di Efraim (722 a.C.) - così come si legge anche negli oracoli di Geremia (Ger 7,6; 14,8; 22,3) ed Ezechiele (Ez 14,7; 22,7.29; 47,22) che esercitarono la profe zia dopo questo evento - essi siano annoverati tra le catego rie deboli, cioè prive di diritti, a causa del mutato contesto sociale. Questo nuovo quadro sociale esige nuove norme, dif ferenti da quelle di Es 34,11-16, e rinnovate basi teologiche. Il Deuteronomio, infatti, estende il significato del termine «straniero» riferendolo alle categorie delle vedove, degli or
fani e anche dei leviti (Dt 14,28; 16,1.14; 24,17-21; 27,19). Giobbe, dunque, ha ospitato prontamente i senzatetto con formemente ai dettami della Legge. 33-34. Giobbe giura di non avere nascosto alcuna colpa (pésa 0 o delitto ( ‘àwón), alla maniera degli uomini in genere e del primo uomo, Adamo, in particolare (Gen 3,8-10). Ciò significa che egli ha peccato e, quindi, confessa il misfatto senza nasconderlo, anzi, riconoscendolo (come nel Sai 32 in cui l’orante non copre il peccato ma lo confessa). In altri pas saggi del libro, Giobbe cede alla possibilità di avere peccato (Gb 7,20) anche a causa della natura umana (Gb 9,2), segna ta dal peccato di Adamo che egli ha avuto premura di richia mare, rimanendo però convinto che la pena che sta scontan do non derivi da una sua caduta. Per cui possiamo dire che, siccome Giobbe non ha commesso alcuno dei peccati elenca ti fino ad ora egli vuole, in buona sostanza, che si riconosca la verità di quanto fino a questo punto ha confessato. Ma di quali peccati G iobbe non si accusa? Il termine p ésa ' allude a una vasta gamma di reati. Nei suoi oracoli contro le nazioni il profeta Amos specifica la casistica dei peccati commessi accostando a questo sostantivo i delitti po litici legati ad alleanze non gradite al Signore e a deportazio ni di massa (c. 1), a violenze sui deboli (Am 1,13: sventrare le donne incinte; 2,6: vendere i poveri, opprimerli con vio lenza), al disprezzo della legge di Dio (Am 2,4) mediante la profanazione del tempio e l’appropriazione delle offerte ad esso destinate (Am 2,8), infine a pratiche che rendono impu ri (Am 2,7: padre e figlio che vanno dalla stessa donna). G e remia annovera anche l’idolatria (Ger 5,6-8). Anche ‘àwón riguarda i peccati contro Dio (cfr. Es 20,5; Dt 5,9; Is 1,4; 27,9; Ger 11,10) e quelli contro gli uomini; questi ultimi so no legati principalmente a pratiche rituali infrante a causa di comportamenti sessuali (cfr. lSam 3,14; 2Sam 3,8). Parafra sando il v. 34 possiamo dire che, in ogni caso, Giobbe si sen-
te pienamente sicuro di sé al punto da non temere lo stigma sociale conseguente allo smascheramento della propria ini qua condotta: ha agito alla luce del sole e non si è lasciato intimorire da alcuna diceria nei suoi riguardi (anche perché infondata). 35-37. «Incom incia la perorazione che chiude quanto precede con la sfida finale all’avversario nel giudizio».26 Giobbe pronuncia le sue ultime parole raggiungendo il mo mento dell’arringa finale. Egli vuole qualcuno che lo ascol ti: è mai possibile, si chiede, che nessuno, neanche Dio On nipotente (Sadday) al quale a più riprese ha chiesto di esse re preso in considerazione (Gb 13,6.17; 21,2), gli risponda? L’espressione «ecco la mia firma»27 suggella la parola defi nitiva di G iobbe che non ha più nulla da aggiungere. Fa problema capire che cosa significhi «il documento (sefer) scritto dal mio avversario» anche perché l’ebraico omette la preposizione che aiuterebbe a capire l’autore del documento/libro. Ipotizziamo due possibili interpretazioni. 1) G iob be presenta una petizione: ha scritto il suo documento, fir mandolo; in questo caso il documento è per o contro il suo avversario. 2) Il documento lo deve scrivere il giudice che si farà carico della causa: Giobbe ha firmato la querela e ora la pratica passa al giudice. La prima interpretazione pare la più corretta e coerente con il contesto giudiziale del libro: il sefer è scritto per l’avversario di Giobbe, cioè per Dio che egli considera come suo rivale nel contenzioso giudiziario (rtb). Questa lettura del versetto aiuta a comprendere anche il fine al quale tende il procedimento innescato da Giobbe: «N ella lite, infatti, il querelante (l’accusatore, colui che ge stisce l’azione giuridica) non cerca la condanna del colpevo le, ma la sua conversione, nell’intento ultimo di perdonare e 26 A lo n so S ch Ok e l - S icre D iaz , Giobbe, 507. 27 Alla lettera: «ecco il mio tau», cioè l’ultima lettera dell’alfabeto ebraico, anticamen te a forma di X, usata anche come firma.
quindi di riannodare la relazione m ediante l ’auspicata riconciliazione».28 I vv. 36-37 ritraggono G iobbe come il campione che ostenta fieramente la sua giustizia. Egli è convinto di uscire vincitore dal dibattimento e indossa il documento che garan tisce questo successo come un mantello sulle spalle e come una corona. Il ragionamento di Giobbe è il seguente e sem bra mettere il suo avversario all’angolo: «D a parte di Giobbe il giudizio è avviato, ora la parola spetta al contendente; se tace è perché non ha ragione [...]; se parla o presenta un do cumento scritto, dovrà esporre le sue ragioni e Giobbe lo confuterà; in entrambi i casi, silenzio o parola, Giobbe vince rà la sua causa con Dio».29 Egli parla di sé come di un valoroso (nàgid), un guerriero abile in battaglia che non ha paura di presentarsi al cospetto del nemico {nàgid è Saul in lSam 10,1 ma anche Davide in lSam 25,3). L’espressione «gli renderò conto di tutti i miei pas si» svela la convinzione di voler palesare la propria integrità: se precedentemente è Dio a contare i passi di Giobbe (14,16; 31,4), adesso è lui stesso che pone mano a tale computo. 38-40. Abbiamo già segnalato l’incongruenza «climatica» {climax) di questi versetti, cioè la caduta di tono successiva alla perorazione dei w. 35-37 e la ripresa della disamina della moralità di Giobbe. In questi ultimi tratti del lungo giura 28 M. C ucca - B. Rossi - S.M. S essa , «Quelli che amo io li accuso». Il rib come chiave di lettura unitaria della Scrittura. Alcuni esempi, Cittadella Editrice, Assisi 2012, 11. La frase è tratta dalla prefazione di P. Bovati. Accanto alla normale azione giudiziaria condot ta nell’ambito del tribunale e conclusa con la condanna dell’accusato da parte del giudice {mispàt)yl’antico Israele conosce un’altra procedura giuridica {rib)yil cui esito mira invece alla diretta conciliazione tra il colpevole e l’innocente. Perché si possa dare un rib occorre che i due contendenti siano legati da un vincolo di natura familiare o giuridica (per esem pio, marito-moglie, suocero-genero, signore-vassallo): la parte che si considera offesa con voca l’altra, rimproverando l’infrazione del patto, porta le prove, confuta le motivazioni addotte come scuse. Il rib può concludersi in tre modi: con il pagamento del debito o la riparazione dell’offesa, con una compensazione o composizione mutuamente concordata (il patteggiamento), con il perdono pieno o parziale concesso dalla parte offesa. 29 A lo n so S c h ò k e l - S icre D iaz , Giobbe, 508.
mento d ’innocenza egli non si accusa di avere acquisito in giustamente un campo e di non avere oppresso i suoi lavora tori. Il grido della terra è una sorta di rivalsa ecologica con un fine sanzionatorio: essa si ribella contro l’usurpatore e ha diritto di parola per denunciarlo, alla stregua del legittimo proprietario che si presenta in tribunale per far valere i pro pri diritti. L’immagine della terra che solidarizza con la con dotta umana o reagisce ad essa, si trova anche altrove nella Bibbia rivelando le conseguenze dell’uso della libertà dell’uomo sul suo habitat (cfr. Gen 3,17-19; 4,12; Lv 18,28). Il capitolo si chiude annotando la fine del discorso di Giobbe iniziato in Gb 29,1. Non c’è altro da aggiungere per ché il protagonista della vicenda ha sviscerato ogni argomen tazione a sua difesa. Giurando solennemente di non aver peccato neppure col pensiero né contro Dio né contro il prossimo, egli si è costruito un alibi intaccabile che lo richiu de nella prigione della propria sofferenza elevata a sistema, a partire dal quale egli giudica l’intera vicenda umana. L’atto di forza contro Dio ha raggiunto la sua espressione più estrema: secondo il pensiero di Giobbe, la prossima mossa di Dio, qualunque essa sia, sarà comunque perdente, perché non po trà che confermare la tesi dell’accusatore: Dio è ingiusto. E p pure, proprio partendo da questa risposta, Giobbe vedrà smantellato il proprio impianto accusatorio e, con umiltà, dovrà rivedere i suoi giudizi, riconsiderare la propria teologia e prendere atto della stoltezza delle sue parole.3
3. Linee teologiche a) La sofferenza del giusto occasione per un nuovo rapporto con Dio. La sofferenza del giusto è il cuore del libro. Dallo sviluppo dell’opera si coglie il mutamento del valore attribui to al dolore rispetto ai convincimenti religiosi classici. Se ri-
mane valido quanto si credeva in altri luoghi biblici che, cioè, la sofferenza mette alla prova le reali intenzioni dei cuori ed è voluta da Dio che tramite essa corregge con amore paterno (cfr. Dt 8,2-6; Pr 13,24), radicalmente nuovo è il ruolo del sofferente. Egli non deve più invocare il perdono per espiare una colpa e avere, in questo modo, la guarigione così come spinge a fare il Sai 38, una preghiera che i tre amici di Giob be vedrebbero bene sulla sua bocca (w. 2-5.19). Il giusto che soffre invoca giustizia perché è arbitrario credere che la ma lattia sia ipso facto la cifra del peccato. Giobbe vuole tirarsi fuori da questa spirale teologica che gli toglie il fiato e la di gnità, appellandosi a un concetto nuovo di giustizia divina che sappia tener conto della sua condizione. Grazie a Giobbe anche il concetto di «giusto» va rivisita to: egli è così convinto del suo retto agire al punto da diven tare arrogante. La lezione che deve apprendere è in ordine all’umiltà. La malattia è gravida di un valore medicinale per ché relativizza l’uomo facendogli riscoprire la propria natura e, sebbene tale dolore innocente rimanga un mistero impene trabile, c’è un progetto d’amore che supera (perché precede e sorpassa l’infermo) le sue timide riflessioni su Dio e sull’uo mo. Nella sua seconda reazione al discorso divino emerge chiaramente l’esito al quale conduce la sofferenza di Giobbe: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti han no visto» (Gb 42,5). E maturato un nuovo rapporto con Dio, più diretto e coinvolgente: è un Dio al quale si può dare del «tu» senza per questo mancargli di rispetto, un Dio che è da temere e da amare allo stesso tempo, pantocratore perché regge le sorti del mondo ma anche onnipotente nell’amore. c) Il malessere (psichico, fisico, sociale, economico, religio so) non è, comunque, un valore: non lo è per l’uomo biblico dell’Antico Testamento ancorato a questa terra e per cui la prospettiva dell’aldilà non è il fine positivo al quale tutto ten de, e non lo è neppure per chi si proietta con slancio verso la
contemplazione del volto di Dio nella vita eterna. La fede nella vita ultraterrena sposterà il momento della retribuzione rin viandolo alla vita dopo la morte e gettando, evidentemente, una luce nuova sulla sofferenza (cfr. Sap 3), perché c’è ima sa pienza legata alla croce quando si scopre su quel legno il volto di un Dio che è solidale con il sofferente (lCor 1,17-24). Ma non sarebbe umanamente salutare (per non dire masochistico) l’atteggiamento di chi considera la malattia una condizione privilegiata e, addirittura, preferibile per incontrare Dio. c) La sofferenza del giusto occasione per un nuovo concetto di retribuzione. Come indicato nell’introduzione (pp. 16-18), il concetto di retribuzione, pur esplicitandosi con molte sfu mature (può avere, cioè, sia un carattere personale che collet tivo), si fonda su una logica «dare-avere»: se uno è buono avrà il bene, se è cattivo gli toccherà in sorte il male. Signifi cativi a riguardo sono i primi due capitoli del libro che pre sentano, per tre volte, un ritornello: «G iobbe era un uomo giusto e retto, timorato di Dio ed era alieno dal male» (1,1.8; 2,3). La sua condizione agiata è descritta in termini simbolici: l’abbondanza di figli e la disponibilità economica esprimono la pienezza della benedizione divina. C ’è di più: Giobbe è, addirittura, scrupoloso, offrendo dei sacrifici a favore dei propri figli per gli eventuali peccati commessi. Giobbe anco ra non sa che la sua virtù sarà messa a dura prova dalle scia gure che satana, con il permesso divino, sta per scagliargli contro. La sua reazione (cc. 3-27; 29-31) porterà a nuove considerazioni su Dio, sull’uomo sofferente e sulla retribu zione in genere. Non reggerà ancora per molto la teoria clas sica della retribuzione che, davanti al male gratuito e alla sof ferenza dell’innocente, ricorreva a schematismi legati alla col pa: qualcuno (i genitori, la comunità di appartenenza, il po polo) ha peccato; quindi il singolo sta pagando a causa dei peccati altrui. In verità, già con il profeta Geremia si palesa la debolezza di tale impianto religioso, pervenendo all’annun
ciò della fine di questo rapporto mortificante centrato inge nuamente sulla responsabilità collettiva, e professando il pas saggio alla logica della retribuzione personale: «In quei gior ni (quando ci sarà la nuova alleanza) non si dirà più: i padri han mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono alligati» (Ger 31,29; cfr. anche Ez 18,2). In conclusione: la teoria della retribuzione è stata smonta ta lungo tutta l’opera ma Giobbe alla fine saprà di essere sta to benedetto nuovamente da Dio perché gli viene restituito quello che aveva e molto di più, secondo un repentino lieto fine. Accogliendo tale messaggio che gli giunge dalla sua nuova condizione, egli «può recuperare la pace del cuore e assentire alla sua condizione; ma il mistero della sofferenza di un innocente resta tutt’intero; Giobbe non ha che qualche misero convincimento in più: che il senso della giustizia di Dio non è alla sua portata; che il Signore non l’ha condanna to, anzi non l’ha nemmeno accusato, ma che, dilatando il suo campo visivo, gli resta misteriosamente presente; e, infine, che la sapienza, anche per chi soffre senza' ragione e per chi soffre senza aver meritato quella sofferenza, è perseverare nel timore del Signore, nell’adorazione amorevole del suo silen zio e nel tenersi lontano da ogni cattiveria».30 d) La malattia di Giobbe. Ritornando al «lieto fine» della storia di Giobbe, negli ultimi anni è maturato un certo inte resse sulla questione della reale guarigione di Giobbe dalla malattia. Segnalo la posizione di E Mies la quale sostiene che egli non avrebbe recuperato la salute fisica: la sua malattia è persistente ma non mortale e, sicuramente, non è la lebbra intesa dalla scienza moderna.31 Tra i diversi argomenti che 30 G ilbert , La Sapienza del cielo, 103. 31 Cfr. F. M ie s , «Job a-t-il été guéri?», in Gregorianum 89(2007), 703-728; cfr. anche B. C ostacurta , « “E il Signore cambiò le sorti di G iobbe” . Il problema interpretativo dell’epilogo del libro di Giobbe», in V. COLLADO BERTOMEU (ed.), Palabra, prodigo, po esia. In memoriam P. Luis Alonso Schòkel, s.j. (Analecta Biblica 151), Pontificio Istituto Biblico, Roma 2003,252-266.
l’autrice offre a sostegno della sua tesi segnaliamo: 1) se Giobbe fosse stato guarito si sarebbe ritornati al punto di partenza della storia, mentre il finale indica una novità nella vicenda narrata (molti più figli, molti più beni ecc.); 2) il ver bo swb che compare in G b 42,10 («Il Signore ristabilì la sor te di Giobbe») non significa normalmente «guarire», azione espressa mediante la radice rf\ 3) manca un momento pub blico e ufficiale attraverso il quale Giobbe è reinserito nella comunità, aspetto necessario qualora la lebbra fosse sparita così come prevedeva Lv 13 o vicende simili di guarigione (Eliseo in rapporto a Naaman il siro: IRe 5). La mancata guarigione conferirebbe al personaggio di Giobbe maggiore libertà e autenticità di fede: «Il Dio della teofania si è rivelato come un Dio libero il cui piano sorpassa ogni conoscenza umana [...]; Giobbe, a sua volta, si mostra libero di abitare nella malattia; gli basta essere al servizio del Signore (42,8) e di vivere in tutta semplicità».32 Queste riflessioni, talvolta, sembrano risentire di una sorta di letteralismo: nell’epilogo, infatti, non tutto viene spiegato o ripreso (per esempio mancano le figure di satana e della moglie di Giobbe), ed è chiaro il ricorso al linguaggio simbo lico tipico della leggenda popolare che, per quanto riguarda l’età, esagera le cifre per dichiarare la pienezza della benedi zione divina (Giobbe visse altri centoquarant’anni: 42,16). Pur accettando che la longevità di Giobbe si possa spiegare con la natura della malattia (per E Mies è cronica ma non mortale), sembra davvero strano che tale situazione grave, in guaribile e permanente consenta una vita oltre la durata na turale.33 Rimane interessante, comunque, il tentativo di collocare teologicamente la complessa vicenda di Giobbe che, come 32 MlES, «Job a-t-il été guéri?», 726. 33 Infine, circa la lebbra, va evidenziato che il momento del pubblico reinserimento è assente così come manca quello della pubblica estromissione.
aveva ben intuito Girolamo, sembra sempre fuggire di mano: tale inafferrabilità vale non solo a proposito della questione testuale ma anche del senso globale da attribuire all'opera.
Bibliografìa di riferimento e di approfondimento A l o n so S c h o k e l L. - J.L. SlCRE D ì AZ, Giobbe. Commento teologi
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Giobbe. Analisi simbolica, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1995. C L IN E S D J.A .,/ o£, Thomas Nelson Publishers, Nashville 2006. J a n z en G., Giobbe, Claudiana, Torino 2003. M a rco n L., La notte oscura dell’anima: Giobbe e Leopardi, Guida, Napoli 2005. M a rco n i G. - T er m in i C. (edd.), I volti di Giobbe. Percorsi interdi sciplinari, Dehoniane, Bologna 2003. R a d e r m a k e r s J., Il libro di Giobbe. Dio, l’uomo e la sapienza, Dehoniane, Bologna 1999. R avasi G., Giobbe. Traduzione e commento, Roma, Boria 1979. W H YBRA Y N., Job, Academic Press, Sheffield 1998.
Q O ELET
1. Questioni storico-letterarie «Qoelet, nel suo ufficio di obiettore, esprime la resistenza di Israele a qualunque tentativo di trovare rifugio in un mon do parallelo; il suo messaggio agisce come una medicina, li berando il saggio da una certa pompa e dalla responsabilità di essere un agente della storia universale».1 Questa frase di P. Beauchamp proietta la lettura del piccolo libro di Qoelet (appena l’ l% della Bibbia ebraica) su uno sfondo ermeneuti co che non intende addomesticare la carica provocatoria del pensiero del saggio. Le valutazioni complessive sul Qoelet sono davvero di scordi: egli è stato descritto come predicatore della gioia ma, spesso, anche scettico, deluso dall’esperienza, contestatore, accusatore di una facile felicità, cinico, ribelle, solitario, di sgustato dal mondo, sentinella critica, teologo insensibile, maestro del sospetto, razionalista della sapienza, agnostico e persino ateo. Insomma, nonostante le dimensioni ridotte, il piccolo scritto suscita numerosi interrogativi, che meritano di essere analizzati.1
1 P. BEAUCHAMP, L'Uno e l'Altro Testamento, Paideia, Brescia 2000,150.
1.1. Autore In ebraico, qdhelet è un participio femminile della radice verbale qhl («radunare») da cui deriva anche qàhàl, cioè «as semblea». In epoca persiana questo participio potrebbe com portare una sfumatura intensiva e significare «colui che chia ma a raccolta l ’assemblea».2 Nella versione greca Qoelet di venta ekklèsiastés che rinvia direttamente alla parola greca ekklèsia («assemblea, comunità»): l’Ecclesiaste sarebbe colui che prende la parola in un’adunanza. Quanto al senso preci so della parola possiamo parlare di uno pseudonimo che in dica sia l’ufficio, sia il soggetto che svolge, pensando a una scuola sapienziale o a un pubblico più ampio (Qo 12,9), la funzione di convocare il raduno. In Qo 1,1 l’autore si presenta come figlio di Davide e re su Gerusalemme mentre in 1,12 si aggiunge che egli è re d ’Isra ele in Gerusalemme: secondo la narrazione, soltanto Davide e Salomone regnarono a Gerusalemme su tutte le dodici tri bù di Israele. Insomma il lettore si trova davanti a un nuovo caso di attribuzione pseudoepigrafica di uno scritto sapien ziale al re saggio per antonomasia (Salomone) come già visto per Proverbi e, come si annoterà, per il Cantico dei Cantici. Qualche informazione in più sull’autore ci giunge dall’epilo go del libro (12,9-14)3 che insieme all’introduzione è chiara mente opera di un editore:4 «O ltre a essere un sapiente, 2 Simili parole ebraiche venivano utilizzate per indicare uffici o funzioni; mediante un ampliamento secondario si riferivano al titolare di tale ufficio o funzione, come nel caso di sdferet, «ufficio di scriba» o «scriba». 3 L’epilogo (Qo 12,12) potrebbe contenere una piccola critica nei confronti di Ben Sira: «In Qo 12,12 probabilmente un secondo epiloghista [il primo si ritrova nei w. 9-11] ag giunge un ulteriore ammonimento, diretto contro quei molti libri che si scrivono, ma che non meritano di essere letti. L’atmosfera sembra essere quella della Gerusalemme del II se colo a.C. e si ha quindi l’eco di un probabile dibattito intorno a quali testi dovessero costitu ire il bagaglio dei giovani allievi della Gerusalemme del tempo, futuri funzionari pubblici» (MAZZINGHI, Il Pentateuco sapienziale, 137). 4 La sua mano si ritrova anche in altri luoghi del libro: nel titolo (1,1) e nei primi ver setti (1,2-3), in 7,27 in cui si menziona l’autore e, come indicato, nell’epilogo.
Qoelet insegnò anche la scienza al popolo; ascoltò, meditò e scrisse molte massime» (Qo 12,9). A proposito della paternità salomonica dello scritto, vale la pena di ricordare che per la tradizione ebraica Salomone avrebbe scritto il Cantico in gioventù, i Proverbi nella matu rità e Qoelet nella vecchiaia (Shir Hashirim Rabbah 1,1); per la tradizione patristica, coloro che progrediscono nella vita di fede iniziano leggendo Proverbi, avanzano con Q oelet e giungono alle vette della perfezione solo con il Cantico: da una sapienza prettamente umana (Proverbi) l’uomo, con Q o elet, si abitua a considerare vanità tutto quello che si fa sulla terra per giungere, infine, alla sublime unione con Dio espressa dal Cantico dei Cantici.5
1.2. Datazione e lingua6 Gli studiosi concordano su una datazione successiva all’e silio babilonese (587-539 a.C.), perché sia la grammatica che il lessico sono tipicamente postesilici. Numerosi sono gli aramaismi; solo per citarne alcuni: il pronome relativo se («che», «colui che»; compare 68 volte sulle 89 del più comune ’àser)\ l