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Italian Pages 234 Year 2011
Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta”
I Saperi della vita. Biologia, analogia e sapere storico in Kant, Goethe e W. v. Humboldt
COLLANA
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Riccardo De Biase
T INCIPIT INCIPIT
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Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta” dell'Università degli Studi di Napoli “Federico II”
6 INCIPIT COLLANA DI TESTI E STUDI DIRETTA DA
FABRIZIO LOMONACO
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a Benedetta, ai suoi frutti
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RICCARDO DE BIASE
I SAPERI DELLA VITA. BIOLOGIA, ANALOGIA E SAPERE STORICO IN KANT, GOETHE E W. v. HUMBOLDT
Giannini Editore
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Gli esiti di questo libro sono il risultato, oltre che di tre anni e mezzo di intenso lavoro, di due assegni di ricerca annuali consecutivi, attribuitimi dal Polo delle Scienze Umane dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Ringrazio di cuore il professor Fabrizio Lomonaco per aver accolto questo libro nella Collana da lui diretta. Ringrazio – come da oramai consolidata e per me piacevole consuetudine – la dottoressa Edvige Di Ronza, che ha pazientemente rivisto le bozze con la solita attenzione, e contribuito con osservazioni e suggerimenti, dovuti alla sua competenza specifica su questi temi, ad arricchire il tono generale dell’argomentazione.
Copyright © 2011 by Giannini Editore Via Cisterna dell’Olio, 80134 Napoli www.gianninispa.it
ISSN: 2037-9706 ISBN e-book: 978-88-6906 -018 -2
Questa pubblicazione si avvale di un contributo finanziario del Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta” dell’Università degli Studi “Federico II” di Napoli (ricerca dipartimentale anno 2011)
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INDICE IX
Introduzione
CAPITOLO PRIMO Kant. Il “filo d’erba” e la filosofia 1. La visione della vita tra Aufklärung e Romantik 2. Un passo indietro. Il contesto del dibattito 3. Una possibile via da battere: da Kant a Blumenbach e ritorno 4. Con Kant oltre Kant. La Kritik der Urteilskraft e il suo significato
5 9 27 61
CAPITOLO SECONDO Goethe. La vita e la storia della sua forma 1. Il dibattito postkantiano 2. Goethe: la vita informata
90 117
CAPITOLO TERzO Humboldt. Fondazione e Bildung: il reale e la comunità
Indice dei nomi
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IX
INTRODUZIONE * Ernst Cassirer si chiedeva in un saggio dell’inizio degli anni ’40 quale fosse il significato e la portata dell’impegno intellettuale kantiano in direzione dell’interpretazione della scienza biologica a cavallo tra Settecento e Ottocento1. Provava, il marburghese, a battere «un’altra via intepretativa dei pensieri fondamentali della Critica del giudizio, una via che, per quanto ne so – così Cassirer – non è stata ancora percorsa»2. Questo percorso, secondo Cassirer assai poco praticato, non riguardava primariamente il «punto di vista storico ma quello sistematico», scegliendo «non la via della pura analisi del concetto (…) ma di cosa ha da dire la moderna scienza biologica nei confronti del contenuto dell’opera»3. In pratica Cassirer, da sempre attentissimo e rigoroso lettore della scienza del suo tempo, e, nello specifico, dei risvolti epistemologici e del significato filosofico e storiografico di questi, intende appellare la scienza della vita dei tempi suoi (e dell’epoca immediatamente precedente) su cosa questa ha creduto di capire e di imparare dalla Critica kantiana, da quei paragrafi decisivi della Critica del giudizio teleologico che, come è noto, trattano magistralmente degli esseri naturali organizzati. Le domande che Cassirer rivolge alla sua epoca, *Il testo di questa introduzione è una versione rivista e modificata, per renderla ovviamente coerente con gli obiettivi diversi, ma non estranei, qui in gioco, di una lettura tenuta a Napoli il 16 novembre del 2010, in occasione di un Convegno internazionale su “Simbolo e cultura: a ottant’anni dalla Filosofia delle forme simboliche”, organizzato dal Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta” dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. 1 E. Cassirer, Kant und die moderne Biologie (1941/42), in Id., Geist und Leben. Schriften zu den Lebensordnungen von Natur und Kunst, Geschichte und Sprache, Hrsg. E. W. Orth, Leipzig, 1993, pp. 61-93. Per quanto riguarda le citazioni cassireriane, tranne che per l’appena nominata raccolta di saggi curata da Orth, ci rifaremo sempre all’edizione seguente: Ernst Cassirer Gesammelte Werke (d’ora in poi ECW, seguito dal numero del volume e da quello della pagina), Hamburger Ausgabe, Hrsg. B. Recki, Bde. I-XXVI, Hamburg, 19982008. 2 E. Cassirer, Kant und die moderne Biologie, cit., p. 62. 3 Ibid.
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X
allora, sono in dettaglio queste: «I problemi che in questo campo Kant si pone, sono oggi invecchiati? Hanno per noi la medesima validità? Oggi è esattamente un secolo e mezzo che l’opera è apparsa, e cosa non hanno significato questi centocinquant’anni per l’evoluzione della biologia, quali intimi sovvertimenti ha vissuto in quest’epoca! Non ci sarebbe nulla di sorprendente se i problemi di Kant, oggi, fossero antiquati, se avessero per noi solo un interesse di tipo storico»4; ma il fatto è che questo è proprio il problema che Cassirer, chiamando in causa la scienza e la filosofia del suo tempo, vuole percorrere in questo importantissimo saggio: è «esattamente la tesi inversa» che egli vuole «provare a sostenere (…): cercare di dimostrare che la Critica del Giudizio ci porta più vicini e non più distanti dal moderno sviluppo della biologia»5. Tesi assai sdrucciolevole, e Cassirer lo sa molto bene. Tesi che implica di fatto il riconoscimento dell’“antesignanità” e “precursorietà”, per dir così, della grande opera kantiana del 1790 rispetto alle ricerche empiriche e ai tentativi di fondazione ed autonomizzazione strutturale prese dalla scienza biologica negli anni ‘40 del Novecento, una disciplina che, mediante l’autorevolissma paternità ed eredità darwiniane, cominciava ad assumere i tratti di una vera e propria prima scientia inter pares. Ipotesi interpretativa, quella cassireriana assai audace, ché sarebbe come a dire che Kant si ponesse già – e consapevolmente - la questione se la biologia (allora nascente) potesse ambire alla stessa fondatezza epistemica e scientifica della fisica newtoniana. Secondo Cassirer, nella disputa per la spiegazione della natura vivente tra il matematismo sostanzialistico di Spinoza e il finalismo aristotelico6, a Kant, fin quando l’alternativa gli viene posta in questi termini («spiegazione della natura di tipo meccanicistica o teleologica, cause materiali o cause finali, necessità matematica o casualità: tertium non datur»7), non sa dare una risposta. Non la può dare. Glielo impediva la scelta per la sua “rivoluzione copernicana”, glielo negava l’imperio, da se stesso assegnatosi, di «cambiare l’impostazione stessa della questione», l’introduzione «di un altro sistema di riferimento teoretico»8, di «un altro alfabeto»9. Non solo: Cassirer credeva di alludere, attraverso la messa a fuoco di tale questione del “biologico” in Kant, un problema assai più ampio, 4
Ibid. Ivi, pp. 62-63. 6 Ivi, pp. 65-67. 7 Ivi, p. 67. 8 Ivi, p. 68. 9 Ivi, p. 69. 5
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XI
quello della ridefinizione e ristrutturazione, alla luce della dialettica individuo-molteplicità, propria dell’organismo vivente, del rapporto tra necessità naturale (scil. le costanti universali del mondo biofisico) e liberta del singolo organismo di accrescersi ed evolversi al di là dei limiti delle leggi immutabili della natura, insomma della posizione “finalistica” e “ottimistica” prospettata da Leibniz, che tutto – dalla materia bruta alle sfere dell’empireo – cantasse l’armonia prestabilita, salvaguardando libertà del singolo e necessità finalistica del tutto10. Quello di Cassirer è dunque un contributo che val la pena di seguire ancora per un po’, perché è con esso e tramite esso che si potrà meglio chiarire il compito della presente indagine. Ecco come Cassirer porta avanti la discussione. Per lui, Kant «evita di rispondere alla questione se la natura, nella creazione degli esseri organici, sia una “cieca necessità” o se sia all’opera un legislatore intelligente, un’intelligenza ponente e azionante fini; per la soluzione di tale problema, mancano infatti alla conoscenza umana tutti i dati; quello che noi chiediamo e che possiamo stabilire col metodo di questa conoscenza è: la struttura logica della biologia si coniuga semplicemente a quella della fisica matematica oppure è più complessa e richiede in un qualche modo, momenti nuovi e peculiari?»11. Naturalmente, come tutti sanno, Kant opta per la seconda possibile risposta al quesito, articolando il dispositivo del giudizio riflettente (teleologico). Ma di ciò a dopo. Vediamo, invece, come legge Cassirer questa opzione kantiana. Kant «teorizza un’autolegalità, un’ “autonomia” della conoscenza di tipo biologico. Questa autolegalità non consiste nel fatto che la biologia contesti una qualche legge della fisica matematica o che la dichiari non valida, anzi, non solo non vuole contrastare la costruzione di questa fisica, ma non la vuole intaccare in alcun punto. Ogni fenomeno della vita organica, per quanto possa essere complicato, deve essere accessibile in via preliminare col modo di osservazione e spiegazione di tipo meccanico-matematico»12. Ma “essere accessibile”, ‘zugänglich’ come scrive Cassirer, ossia percorribile, tale da consentire un cammino e un’andatura non accidentate della ricerca, non significa affatto spiegare l’articolazione dell’organizzazione vivente, come Cassirer giustamente sostiene essere il verace compito che il criticismo trascendentale si era assunto nei confronti della scienza biologica. La meccanica e la fisica matematica newtoniane forniscono il palcoscenico (l’unico palcoscenico possibile) su cui salgono e si esibiscono i fenomeni Ivi, p. 85. Ivi, p. 70. 12 Ibid. 10
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XII
viventi, ma quelle non possono spiegare adeguatamente questi, perché lo strumentario fisico-matematico, i suoi princìpi non concepiscono e prevedono un concetto di fine, in qualsiasi senso lo si intenda. E già, perché secondo Cassirer Kant appronta un concetto di finalità della natura che, pur portando lo stesso appellativo e la stessa impalcatura esteriore di quello classico aristotelico-scolastico, e pur ereditando alcuni spunti e suggestioni di quello leibniziano, è radicalmente diverso perché concepito «secondo il suo retto senso “critico”». Ma che significa, quali requisiti ha un concetto di ‘finalità’ dotato di quel senso criticotrascendentale che nella terza Critica non tradisce bensì amplia, perfeziona e arricchisce quello della Critica della ragion pura? Significa, per Cassirer, che nell’ottica kantiana «l’autonomia della biologia è (…) di genere logico e non metafisico» e che «la biologia dispone di un mezzo intellettuale specifico e di uno specifico mezzo di ricerca di cui servirsi per lasciar diventare osservabile il fenomeno della vita in quanto tale e coglierlo nella sua peculiarità»13. Da qui, Cassirer si impegna a passare in rassegna alcune delle più eminenti figure di scienziato (da Schleiden a Darwin, da Haeckel a Lamarck, a Gustav Wolff14) impegnato nella ricerca del “senso”, delle funzioni e soprattutto, nel caso di Darwin, della storia genealogica degli individui dotati di vita, ogni volta misurando l’impatto della mutata concezione del vivente inaugurata dalla terza Critica, sulle teorie via via susseguentesi nell’ambito del dibattito in questione; e, relativamente ai nomi interessati, apparirebbe una radicale distanza con Kant. Con Driesch, invece, abbiamo, sempre secondo Cassirer, una fondamentale testimonianza della necessità, quando ci avviciniamo agli organismi viventi, di una mutazione del quadro prospettico, trasformazione che è invece contestata dagli evoluzionisti di matrice meccanicistica. «Partendo dall’esperimento sull’uovo del riccio di mare, [Driesch] trovò che se si distrugge un blastomero germinale del riccio di mare, non si forma, come sarebbe supposto dalla teoria di Roux, una mezza larva, ma nasce una larva tutta intera, per quanto piccolissima15. Su questa ragione sperimentale Driesch costruì la sua teoria che ovviamente fin da subito attrasse 13
Ibid. Ivi, pp. 71-75. 15 Ivi, p. 76. Il curatore della raccolta cassireriana, rimanda in nota al libro di H. Driesch, Philosophie des Organischen, 2 B.de, Leipzig, 1909. Poi, sottolineando (ivi, p. 91) come «le analisi sul riccio di mare sono descritte esattamente alle pp. 33-44 e 59-69 del vol. I», Orth infine invita a leggere a tal proposito le pagine di Das Erkenntnisproblem IV, p. 202 e sgg. 14
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XIII
ricerche di filosofia naturale più ampie; l’evoluzione organica, così egli insegna, è dominata da forze che sono, in linea di principio, di altro genere rispetto alle forze di tipo fisico e chimico. Tutti i fattori fisici che entrano nella formazione dell’organismo sono sempre soltanto il mezzo di cui l’organismo si serve, essi non danno forma alla vita ma vengono solo da questa utilizzati»16. Ma ciò implicava la consapevolezza della necessità di un recupero di Aristotele e del suo concetto di entelechia. Non tanto e non solo, però, la ricerca di Driesch ebbe effetti sulla specifica indagine biologica; il suo valore andava ben oltre questo ambito di interessi, tanto che, secondo Cassirer, la dottrina drieschiana che si sarebbe individuata e classificata col nome di ‘vitalismo’, avrebbe in seguito – nei decenni tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento – provocato una vera e propria accesissima disputa tra “vitalisti” e “meccanicisti” soprattutto sul significato complessivo del concetto di “vita”, ossia ai veri e propri fondamenti concettuali ed epistemologici della scienza biologica. Ora, per tornare a Kant, Cassirer si chiede: «Come si sarebbe posto Kant in questa disputa tra meccanicismo e vitalismo se avesse potuto viverla da spettatore? Se si cerca la risposta a questa domanda traendo indizi che si trovano nella vasta e ramificata letteratura sulla disputa, si finisce immediatamente in incresciosi imbarazzi»17. Perché? Perché «entrambi i partiti, infatti, si sono sempre richiamati a Kant e creduto di poter citare passi dalla “Critica del Giudizio” che, a loro parere, avrebbero deciso della disputa a loro definitivo favore. Anche il giudizio degli storici della biologia è su questo punto per nulla unanime; alcuni di loro, come Nordenskiöld18, hanno sottolineato vigorosamente il forte contrasto che c’è tra Kant e il vitalismo, mentre ad esempio nella “Storia delle teorie biologiche” di Radl si trova l’osservazione che Driesch era talmente vicino al filosofo E. Cassirer, Kant und die moderne Biologie, cit., p. 76. Ivi, p. 79. 18 Ecco, fra parentesi, quanto compare in nota su questo autore nella versione del testo cassireriano che stiamo utilizzando: «(E. Nordenskiöld, Biologiens historia (3 parte, Stockholm, pubblicato tra il 1920 e il 1924); su ciò, cfr. Das Erkenntnisproblem IV, cit., p.136 e p. 204, e dello stesso Nordenskiöld, Die Geschichte der Biologie. Ein Überblick, Jena, 1926)». Non è chiarissimo in questo caso se le note siano autografe di Cassirer o aggiunte dal curatore. Dal richiamo posto ad inizio delle note, si evincerebbe che siano tutte di Orth, ma si rimane leggermente perplessi perché non sarebbe stato affatto strano che Cassirer avesse rimandato direttamente sia al lavoro dello storico della biologia Nordenskiöld, sia, nel 1940/41, ai suoi oramai celebri testi. 16
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XIV
Kant da poter essere chiamato suo prosecutore»19. Potrebbe sembrare che, nell’opinione di Cassirer, l’opera di Kant rispetto al suo significato per la biologia risulti essere talmente ampia e comprendente da naufragare in una sorta di indistinto bagaglio di nozioni e concetti impalpabili e, in virtù di ciò, indecidibili quanto alla loro effettiva direzione teorica. Nulla di meno esatto, perché questa sensazione è dovuta solo, e per un errato riflesso condizionato, al rigoroso vaglio cui Kant, invece, sottopone qualsiasi atto della ragione. Egli, in effetti, «volle fissare in questo modo la teoria della vita» per «preservarla dalle esuberanze della metafisica», visto che «entrambi, il vitalista come il meccanicista, sono animati dal desiderio di gettare lo sguardo nell’officina misteriosa della natura, vogliono in una certa misura origliare la natura nella produzione dell’essenza vivente»20. Vedere ed ascoltare la natura nel suo più intimo cuore, nel battito più fievole del suo respirare, nella sua ultima radice: questa è metafisica per il Kant che Cassirer legge. Atteggiamento assolutamente umano e comprensibile, degno sforzo di ogni scienziato pensante che si rispetti, anelito legittimo e persino per certi aspetti “logico”, in quanto aspirazione sempiterna dell’umano di dominare e assicurarsi il più possibile la prevedibilità degli eventi futuri. Ma «Kant non vuole penetrare all’interno della natura in questo senso, secondo il modo di una metafisica non critica, e non chiede come la natura proceda nella creazione dell’essenza vitale, vuole soltanto analizzare le diverse forme di conoscenza scientifica, far vedere i suoi concetti fondamentali e i suoi principi e attraverso ciò, fissare la loro differenza e i loro limiti. Una tale “determinazione del limite della ragione pura” è il suo autentico e massimo obiettivo, e con esso raggiunge il risultato che la biologia debba poggiarsi, nel suo aspirare a una spiegazione causale, alla fisica e alla chimica e debba legittimarsi sulle medesime leggi incondizionate, ma che non di meno, essa è autonoma nel suo ambito, ossia che essa delibera su concetti propri e proprie impostazioni problematiche»21. Un filtro, una straordinaria barriera – perché essenzialmente legata all’umanissimo modo di intendere e comprendere – contro le tentazioni oltreumane; un’arma affilata – Anche in questo caso, pare opportuno ricordare le note del curatore dell’edizione tedesca: «Cassirer si riferisce a E. Radl, Geschichte der biologischen Theorien in der Neuzeit, parte II, Leipzig, 1909. Si confronti pure Das Erkenntnisproblem IV, cit., p. 204, con indicazione di p. 532 del testo di Radl» (ivi, p. 91). 20 Ivi, p. 80. 21 Ivi, p. 81. 19
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proprio perché determinata attraverso l’umana verbalità, il filosofare, declinato all’infinito, disciolto e condotto tramite una irriducibile motilità – che seziona e discerne l’umanamente pensabile e desiderabile dalla volontà onnicomprendente, la disciplina e la nettezza del vedere indagante e ricercante dal titanismo autocelebrante della ragione, di una ragione che si atteggia a sovrumana iperpotenza che si slarga a dismisura oltre i suoi limiti. Ipotizzare e utilizzare, «per noi uomini [für uns]»22, il criticismo trascendentale e la finalità nell’ambito dei saperi concernenti la vita, è tutto l’opposto di un’ipertrofica scienza para o pseudo divina, è differente per essenza da un finalismo fideistico (anche nelle migliori intenzioni), o peggio da un’ortodossia messianica e autoritaria, non poggiantesi, neppure per ipotesi o congettura, su forze umane e tutte umane. “Orientarsi nel pensare”, “solo” orientarsi. Unicamente questo è concesso al pensare dell’uomo, orientarsi a fatica, seguendo un’esile e pur feconda Leitfaden nella “totalità” del reale. Ed è questa “totalità”, intesa come concetto euristico e insieme ermeneutico volto alla ricognizione della realtà, che Cassirer menziona al termine del suo splendido saggio, quell’idea di totalità impostasi nell’epistemologia filosofica dei tempi suoi e che, utilizzata magistralmente in biologia da von Bertalanffy23 nella sua mutazione dalla fisica più evoluta del tempo, ricompone e ripropone lo schema kantiano in tutta la sua potenza esplicativa e la sua cautela metodologica: «Oggi, il concetto di totalità non rappresenta più per noi alcuna barriera che separa la biologia da altri ambiti, dalla fisica alla psicologia; anzi, è proprio questa categoria che, sotto molti riguardi per noi, può lanciare dei ponti tra questi ambiti e che, da un punto di vista logico, rappresenta un importante e forse irrinunciabile raccordo fra di loro. Naturalmente non possiamo nasconderci che con ciò non solo non vengono soluti antichi problemi di universale teoria della conoscenza, ma che anche altri, del tutto nuovi, 22 è la classica, utilizzatissima locuzione che Kant ripete tutte le volte che sente la necessità di ribadire l’inoltrepassabile limite del filosofare. Ritroveremo assai volte questa espressione, e, laddove necessario, la faremo sempre emergere dal testo. Per orientarsi nel lessico kantiano e, più in generale, su quello filosofico, dal primo Illuminismo alla Vorromantik, si vedano i seguenti, utilissimi indici lessicali: C. C. E. Schmid, Wörterbuch zum leichtern Gebrauch der Kantischen Schriften (Jena, 1798), reprograf. Nachdr., hrsg von N. Hinske, Darmstadt, 1980; D. Krallmann-H. A. Martin, Wortindex zu Kants gesammelten Schriften, Bde. I-II, Berlin, 1967; D. von Wille, Lessico filosofico della Frühaufklärung. Christian Thomasius – Christian Wolff – Johann Georg Walch, Roma, 1991. 23 E. Cassirer, Kant und die moderne Biologie, cit., pp. 84-86.
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vengono posti. Saranno necessarie molte e accurate ricerche per accertare in che modo il concetto di totalità vada adoperato nel pensiero fisico, biologico e psicologico, e come esso, in ogni nuovo utilizzo, si modifichi e si differenzi in una determinata maniera. Attendiamo ancora al mantenimento di grandi e importanti compiti, ma credo di poter dire già da ora che la “Critica del Giudizio” appartiene alle opere che anche in questo campo serberanno e dimostreranno la loro potenza vitale, e che la teoria della conoscenza nel percorrere queste nuove vie, può consegnarsi con fiducia alla guida del suo antico maestro Kant»24. Riassumendo, dunque – e contestualmente preparando il solco della nostra ricerca – secondo Cassirer la Critica del giudizio avrebbe avuto l’inestinguibile merito di trovare un ambito d’accesso particolare al fenomeno dell’organizzazione vivente (dell’organizzazione del vivente), una via d’accesso in grado di raccogliere e far fruttare la sperimentazione empirica in connubio con la riflessione trascendentale, il pensiero della finalità della natura con l’osservazione sperimentale. In fondo, ci sta suggerendo Cassirer, Kant scopre una via organica, un“alfabeto”, così come abbiamo visto esprimere Cassirer, all’enigma dell’organizzazione della materia, una via che da un punto di vista metodologico e concettuale non rinnega ma amplia, irrobustisce e integra la via del criticismo trascendentale della prima Critica. Ma che significa parlare di una “via organica”, in che senso si tratta di una via e in che senso si può parlare di un’intima organicità della via scoperta da Kant? Quali spunti ulteriori può offrire una magnifica intuizione come quella cassireriana? In realtà, quello che il presente sforzo pretende è, se si vuole, ben più ambizioso e complesso: si vuole provare ad ampliare quasi a dismisura la dimensione di questo approccio, si vuole utilizzare la “questione biologica” come spunto e bussola teorica per un tragitto più lungo ed accidentato. Ciò perché l’argomento proposto da Cassirer resta secondo noi non solo aperto, ma gravido di sviluppi, e non soltanto in merito ad una valutazione storiografica – già di per sé meritevole – dell’opera cassireriana o kantiana, o a un’analisi singola riguardante l’uno o l’altro filosofo o un confronto tra i due. In breve (ma meglio proveremo a dirlo nel corso del lavoro), l’operazione che qui si vuole tentare adotta la biologia e la sua natura “spuria” per chiarire al meglio la dinamica di una crescita, l’esecuzione di un progetto non progettato né del tutto progettabile in modo consapevole dai suoi facitori, un viatico affascinante, accompagnato da un’ipotesi ardita. Al lettore, sia detto ora fuor di metafora, si vuole proporre un’interpretazione della 24
Ivi, pp. 86-87.
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storicità della filosofia che sia innervata dall’esemplificazione biologica e biografica (quest’ultima, chiaramente, in un senso del tutto particolare e sui generis: bio-grafia, nel senso di un tratteggiare la vita), si vuole offrire alla considerazione e all’analisi un tentativo di interpretare la storia dello storicismo, almeno nella sua fondazione e prima condensazione, attraverso lo schema e le vicissitudini della storia della biologia moderna, dove con ‘biologia moderna’ dovrà intendersi un insieme di saperi e discipline tutt’altro che coese e unitarie, almeno nella loro genesi come scienza. Progetto – lo affermiamo senza falsa modestia – complicato, articolato, esposto a diversi generi di obiezioni. Ma, ugualmente, progetto di veduta ampia, tentativo che non vuole attenersi a rigidi steccati settoriali, a rimasticate riflessioni sulle origini di quel movimento che a volte per pigrizia intellettuale si è troppo spesso abituati a chiamare ‘storicismo’, intendendo con ciò una confusionaria e tutt’avvolgente congerie di contributi e di teorie che poco o nulla hanno da spartire tra di loro. Chiarire, perciò, la storia di una versione dello storicismo, separandola dal flusso indistinto delle sue tante articolazioni e tipologie, è un altro degli obiettivi che il presente lavoro si prefigge. Obiettivo che, del resto, a chi scrive è parso meno difficile raggiungere esplicando questa separazione mediante una posizione di problemi, più che una serie di conclusioni. è naturale che una distinzione, con tutti i requisiti del caso, tra “uno” storicismo e gli “altri” storicismi, non possa che rappresentare un’evidente forzatura dell’andamento storico-ermeneutico. Ma, d’altra parte, una tale forzatura è vieppiù necessaria allorquando si tratta di vagliare un orizzonte di questioni che difficilmente potrebbero essere rese coerenti e omogenee senza una preliminare scrematura e una scelta di campo “autoritariamente” decisa. E qui ritorna in gioca, appunto, la linea genealogica che qui si propone in quanto linea “aperta”, “spuria”, pronta all’accoglimento di nomi e idee, ma pure linea salda e coerente di procedure e metodi di indagine filosofica e teoretica. Che l’intrattenersi interessato di Cassirer verso il rapporto tra Kant e la biologia del suo tempo fosse profetico – e a sua volta memore consapevole della capacità anticipatrice kantiana – lo dimostra (fra gli altri) un recente, apprezzabile lavoro di un giovane biologo molecolare che mette in evidenza la disposizione estremamente “moderna”, stupefacentemente preveggente dell’impostazione di Kant a riguardo del problema della specificità dello statuto di scientificità della biologia25. La tesi del lavoro in questione, detto in breve, parte 25
P. Šustar, Il problema delle leggi biologiche. Una soluzione di tipo kantiano,
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dal presupposto che «gli enunciati universali riguardanti l’ambito del vivente hanno costantemente esibito una problematicità peculiare per il dibattito epistemologico sul problema delle leggi di natura»26. Da sempre, secondo lo studioso croato, gli assiomi e i postulati dei fondamenti epistemologici della scienza biologica hanno sofferto di una sorta di inferiority complex nei riguardi di altre discipline come la fisica e la chimica, pur nella consapevolezza che determinate indagini «sul comportamento dei principali sistemi macromolecolari del mondo vivente, come, per esempio, quelli relativi alle proteine e agli acidi nucleici, si basano su determinati “princìpi generali” che godono dello stesso status assegnato nelle altre scienze alle leggi di natura»27. La qual cosa – lo si vede immediatamente – cessa di essere un mero problema di carattere tassonomico (la biologia appartiene oppure no alle cosiddette scienze esatte, e in che misura la si può classificare come tale?), per investire direttamente questioni di fondazione gnoseologica che travalicano i limiti oggettuali tematici di questa o quella scienza singola, perché se da un lato è obbligatorio «analizzare le posizioni assunte nel dibattito sulle scienze della natura in biologia», bisogna cercare di «vedere perché» taluni ne neghino addirittura «l’esistenza» mentre altri la sostengano «fermamente»28. Da qui risulta parametrato l’obiettivo dello studioso, che consiste innanzitutto nel «risalire al concetto generale di legge di natura che sta dietro le soluzioni analizzate» in riferimento alla biologia29, e in seguito – e come compimento della ricerca, «introdurre una strategia di tipo kantiano»30 (al posto di quella che secondo lui è tradizionalmente di «ascendenza humeana»31) per reperire una traiettoria filosofica e gnoseologica «particolarmente adatta per risolvere la specificità di uno status nomologico» in grado di «valere per gli enunciati sulle regolarità del mondo vivente»32. “Usare” Kant per evidenziare le ragioni profonde per le quali possiamo dire con discernimento perché e come le leggi che reggono le dinamiche Padova, 2005. 26 Ivi, p. 16. 27 Ibid. L’inciso virgolettato si riferisce a un lavoro di F. H. Crick, On Protein Synthesis, in «Symposia of the Society for Experimental Biology», (12) 1958, pp. 138-163, in particolare, p. 152. 28 P. Šustar, Il problema delle leggi biologiche, cit., p. 64. 29 Ibid. 30 Ivi, p. 111. 31 Ibid. 32 Ibid.
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del vivente abbiano una fondatezza sui generis, perché e come le leggi biologiche riescano a conservare uno statuto nomologico-deduttivo pur interessandosi di un oggetto che «non è semplicemente un obbietto tra gli altri obbietti, un elemento tra gli altri dell’universo»33. è questa – a noi pare – la linea metodologica che viene seguita da Šustar, una linea che ha l’indubbio merito di aver individuato in Kant – da un osservatorio in genere poco praticato dai filosofi – un aggancio epistemologico fondamentale per quelle che sono, o dovrebbero essere, risposte valide alle sue specifiche competenze. è chiaro però che con espressioni del tipo di quella che segue, ci troviamo in totale e “naturale” discrepanza rispetto agli obiettivi che invece noi vogliamo perseguire: «La storiografia filosofica concorda quasi unanimemente nel considerare le poche pagine del lavoro di Smart del 196334 come l’inizio ufficiale del dibattito sulle leggi di natura in biologia»35. Šustar non è così sprovveduto da credere realmente che questa sua affermazione sia vera e si cura, più avanti36, di precisare che in effetti l’ampiezza della sua analisi va fatta intendere come relativa alla riflessione filosofica rispetto alla biologia molecolare e 33
F. De Sarlo, Vita e psiche. Saggio di filosofia della biologia, Firenze, 1935,
p. IX. L’autore si richiama qui al libro di J. J. C. Smart, Philosophy and Scientific Realism, London, 1963, ed in particolar modo alle pagine 50-61 che – così come indicato da Šustar – rappresenterebbero il vero e proprio Sancta sanctorum dell’origine del dibattito in questione. Vero è che lo stesso studioso croato tende a retrodatare (ugualmente un po’ troppo poco, in verità) questa origine qualche riga più sotto: «L’argomento smartiano all’interno di Philosophy and Scientific Realism non costituisce l’inizio assoluto del dibattito sulle leggi biologiche. Vi è una sorta di preistoria. Lo stesso Smart indica esplicitamente l’articolo di W. I. Matson del 1958 (“All swans are white or black” Does this refer to possibile swans on canals on Mars ?, in «Analysis», (18) 1958, p. 97)». P. Šustar, Il problema delle leggi biologiche, cit., p. 64, n. 1. Restando nell’ambito propriamente scientifico, registriamo qui soltanto un parere difforme, secondo il quale «il contributo filosofico al sorgere della biologia molecolare» starebbe nell’intervento di Niels Bohr Light and Life al Congresso internazionale di fototerapia tenutosi il 15 agosto del 1932 a Copenhagen e pubblicato su «Nature» (131), pp. 421-423, pp. 457-459. Ciò perché in quella conferenza «Bohr postulò che fosse necessaria una nuova fisica per interpretare la vita che non è riducibile ad atomi fisici». M. Bischof, Field Concepts and the Emergence of a Holistic Biophysics, in L. V. Beloussov, F. A. Popp, V. L. Voeikov, and R. Van Wijk (eds.), Biophotonics and Coherent Systems, Moscow, 2000, pp.1-25, qui p. 3. 35 P. Šustar, Il problema delle leggi biologiche, cit., p. 64. 36 Ivi, p. 66. 34
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alla sua pratica sperimentale. Però fa un po’ effetto leggere determinate assunzioni di priorità – pur nella riconosciuta centralità della riflessione kantiana – quando soltanto in Germania tra la metà del Settecento e l’anno della morte di Hegel (1831) abbiamo un indefinito e indefinibile pullulare di riviste specializzate, dibattiti pubblici ed accademici, libri e pamphlet tutti con un unico tema: la forma, la natura e gli scopi del vivente, le leggi che ne reggono il funzionamento, le manifestazioni e le categorizzazioni classificatorie degli organismi mai visti prima di allora37. Non è questo – ovviamente – il luogo per inaugurare una polemica a distanza che, peraltro, non avrebbe alcun senso produttivo; cercheremo solo di mostrare in modo sufficientemente ampio, nel corso dell’analisi, che la portata degli interessi filosofici per una fondazione scientifica delle leggi della biologia è “fatto” di antica datazione, anche se non è certo questo il bersaglio principale della ricerca. Abbiamo detto infatti che la biologia – la riflessione filosofica sulla vita e sul vivente – è una sorta di schematizzazione funzionale atta alla definizione di un percorso teorico e storiografico più ambizioso, che adotta scientemente una particolarizzazione tematica e una prospettiva più generale. La difficoltà di tenere insieme questi due aspetti – l’ambito tematico ristretto della Philosophie der Form des Organischen38 e della sua Geschichte più L’esempio più celebre (nella misura in cui è stato titolo e “pretesto” argomentativo di un fortunato libro di Umberto Eco, cui si rimanda per i dettagli: U. Eco, Kant e l’ornitorinco, Milano, 1997) di tale querelle è la disputa – di ampiezza davvero continentale – sulla destinazione tassonomica dell’ornitorinco. Per quanto riguarda notizie e approfondimenti sul panorama complessivo delle questioni su accennate, rimandiamo al primo capitolo; solo per cominciare a dare qualche indirizzo pure in sede introduttiva, va menzionato l’utilissimo aa. vv., Philosophie des Organischen in der Goethezeit. Studien zu Werk und Wirkung des Naturforschers Carl Friedrich Kielmeyer, Hrsg. K. T. Kanz, Stuttgart, 1994, e, come introduzione generale alla storia della ricerca biologica A. Baumer, Geschichte der Biologie, vol. III, 17. und 18 Jahrhundert, Frankfurt a. M., 1996; Id., Bibliography of the History of Biology/Bibliographie zur Geschichte der Biologie, Frankfurt a. M., 1997. 38 è il titolo efficace di un libro di K. F. Bloch, Philosophie der Form des Organischen, Bonn, 1976. La letteratura – recente e più datata – su queste prospettive di ricerca è di tale ampiezza che solo una superficiale raccolta anamnestica, occuperebbe all’incirca lo metà dello spazio a disposizione. Rimandando, per quanto riguarda libri più direttamente coinvolti nelle particolari movenze della ricerca, ai luoghi specifici che si incontreranno via via nell’ambito del percorso, qui è opportuno richiamare qualche titolo (indicandone, peraltro, laddove importante, le tendenze – a volte diversissime tra loro – di impostazione teorica e 37
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“nobile” e quello delle origini e dei percorsi dello storicismo – non potrà culturale) di carattere generale, utile a fornire almeno un primo orientamento: fautore di un vitalismo non ortodosso, ad esempio, è il piccolo ma denso libro di H. von Wilucki, Lebendige Natur, Potsdam-Berlin, 1935, che fa di Goethe e del suo poetare un continuo esempio della natura autoformatrice della vita; molto importante per un orientamento solido sulla prospettiva vitalistica (ma non solo) è quello proposto da O. Feyerabend, Das organologische Weltbild. Eine naturwissenschaftlich-philosophische Theorie des Organischen, Tübingen, 1956; le riflessioni di carattere lebensphilosophischen – di tenore vagamente diltheyano, ma con accenti idealistici ben marcati – caratterizzano la ricerca storiografica di R. Eucken, Lebensanschauungen der grossen Denker. Eine Entwicklungsgeschichte des Lebenproblems der Menschheit von Plato bis Gegenwart, Leipzig, 1911, che, al di là dell’improponibile ampiezza dell’intento, rivela, però, taluni aspetti interessanti – almeno per il nostro scopo – nel riguardo a Leibniz (pp. 304-378) e Kant (pp. 409-428). Di discreta importanza testimoniale dell’interesse sul tema all’inizio del Novecento, ma di poca rilevanza scientifico-storiografica, è il libro di K. Joël, Seele und Welt. Versuch einer organischen Auffassung, Jena, 1912, che recupera una terminologia e una concettualità di indirizzo misticheggiante, volto a considerare i «parallelismi» e le sue «virtù» tra anima individuale e «anima mundi», tra «cervello e anima», come legittime analogie anche su un piano teoretico, senza ulteriori precisazioni o richiami. Molto utile, invece, è il libro di F. Nardi, Organismus und Gestalt. Von den formenden Kräften des Lebendigen, München-Berlin, 1942, e da due prospettive: la robustezza dell’impostazione scientifica e della consapevolezza storico-epistemologica; la contemporaneità con il saggio di Cassirer su Kant, in modo da essere un vero e proprio sensorio del clima culturale sui fondamenti della ricerca filosofica sulla biologia. Ci piace poi ricordare un aspetto non notissimo delle occupazioni storico-filosofiche del grande Étienne Gilson, che nel 1971 pubblica un libro dal titolo D’Aristote a Darwin et retour. Essai sur quelques constantes de la biophilosophie, Paris, 1971; tr. it., Biofilosofia da Aristotele e ritorno. Saggio su alcune costanti della biofilosofia, con Presentazione di E. Morandi, Genova-Milano, 2003. Infine, segnaliamo un libro assai efficace per comprendere l’insieme dell’approccio kantiano al tema del vivente: R. Löw, Philosophie des Lebendigen: Der Begriff der Organ bei Kant, sein Grund und seine Aktualtät, Frankfurt a. M., 1980. Discorso a parte meriterebbe la bibliografia sulla lettura, le eredità in campo scientifico e la concettualità goethiane del Leben in quanto tipo originario e in quanto schema interpretativo del reale. Di tale aspetto, però, se ne riparlerà a tempo debito, e per chiudere questa necessariamente breve rassegna, vale la pena ricordare tre libri italiani abbastanza recenti e utili al servizio di una consultazione intelligente e già più scaltrita di queste problematiche. Il primo è quello curato da V. Verra, Il problema del vivente tra Settecento e Ottocento: aspetti filosofici, biologici e medici, Roma, 1992; il secondo è la rilevante opera collettanea dal titolo La biologia:
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mancare, in virtù di quanto appena detto, di poggiare su testimonianze accreditate, di provare a trovare legami plausibili e chiavi prospettiche agilmente riscontrabili. Si tratta, cioè, di sondare un percorso finora poco battuto, di accedere a un viaggio alla ricerca di corrispondenze, di analogie, di similitudini e di metafore. Ma non solo di questo si tratta. L’occupazione che in queste pagine prende posto non rifiuta, certo, e non rifugge l’analogia tra pensiero della storicità e scienze della natura vivente – anzi la cerca e se ne fa forte – ma l’accompagna ad una visione tout court teoretica, un’interpretazione volta a mostrare come i teorici del geschichtlichen Leben (comunque essi chiamassero questo fondante aver cura del tempo storico) pensassero “biologicamente”, pensassero il rapporto individuo (finito)-totalità (infinita) come all’interrelazione tutto-parti propria dell’organismo vivente. Certo, il nostro è uno schema, una particolare griglia da applicare a ciò che resta di fissato e di indimenticato nelle riflessioni degli autori qui all’analisi, ma proprio perché il suo “oggetto” è l’inoggettivabile vivente (vita-che-vive) che progetta progettandosi, il nostro schematizzare è pronto e disposto a mutarsi, ma anche a mutare, “metamorfizzare” le testimonianze degli scritti via via analizzati. Il nostro schematizzare, proprio perché vuole essere troficamente attivo, è disposto a curvarsi sotto il peso della tradizione ma anche a forzarla, perché esso schema ambisce a rappresentare – come metafora nella metafora – respiro vivente che assimila dall’ambiente circostante (trasformandosi e trasformandolo), metabolizzandone il nutrimento e sintetizzando – o provando a farlo – prodotti teorici nuovi. E non è un caso che ad incipit del lavoro abbiamo chiamato in causa quelli che poi, anche dal punto di vista della ricostruzione storiografica, sono i due confini della ricerca: Kant e Cassirer. Non è un caso perché è con queste due personalità per certi versi così affini e per altri così diverse, che viene nominato interamente il percorso di un certo tipo di intendimento della ragione storica, una maniera di comprensione della storicità che – nelle pur evidenti diversità, negli ondeggiamenti, nelle parametro epistemologico del XIX secolo, a cura di M. Donzelli, Napoli, 2003, e alcuni saggi qui presentati: G. Barsanti, La biologia degli esordi (ivi, pp. 1134) e la sua corposa nota bibliografica; E. Gagliasso, Un fondamento epistemico sfuggente: l’evoluzionismo (pp. 59-86) e infine, utile e simile nelle tonalità e nella metodologia alla nostra ricerca, S. Caianiello, Il concetto di sviluppo tra biologia e storia (pp. 149-186); l’ultimo libro che vale la pena segnalare è quello di T. Pievani, Introduzione alla filosofia della biologia, Bari, 2005.
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oscillazioni – trova terreno comune in una serie di presupposti teorici e “intenzioni” filosofiche riconoscibili (o almeno da noi supposte come tali). Questi presupposti teorici e intenzioni non potranno essere qui tutte sviscerate, non saranno passate tutte in rassegna. Altri e più specifici lavori hanno rivisitato più e più volte il lasso temporale che anche noi abbiamo intenzione di percorrere, evidenziando chi la “preistoria” dello storicismo ben prima dell’epoca Kant39, chi sottolineando la robusta venatura linguistico-ermeneutica dell’Historismus classico tedesco40, chi accentuando fortemente la determinazione dello storicismo come “scienza storica”, arrivando in alcuni casi41 a definirlo «matrice disciplinare» della ricerca storica. Insomma, per non farla troppo lunga, qui adotteremo un punto di vista e una chiave di lettura volutamente
Come ad esempio U. Muhlack, Geschichtswissenschaft im Humanismus und in der Aufklärung. Die Vorgeschichte des Historismus, München, 1991, o, per venire in Italia, R. Celada Ballanti, Erudizione e teodicea. Saggio sulla concezione della storia di G. W. Leibniz, Napoli, 2004, nella cui Presentazione Fulvio Tessitore sostiene, confermando la bontà dell’intuizione dell’autore, ma pure sottolineandone indirettamente la parzialità, che «anche l’andamento storiografico tipicamente seicentesco, nell’indurre all’attenzione per la particolarità dei fatti storici, esige il “salto” verso ciò che è oltre il fatto, quello che Piovani ha chiamato la sollecita esigenza leibniziana e vichiana di trovare presto il fondamento universale dell’individuale (…). Ecco perché Leibniz, e Vico, pur non essendo un capitolo dello storicismo, sono all’origine della riflessione moderna e contemporanea sulla conoscenza storica, consentendo di individuare i problemi di questa conoscenza, che sono, per tanti versi, anche gli oggetti della filosofia dello storicismo, quando di questa si può parlare con rigorosa determinazione concettuale» (ivi, p. XIV). In merito ai luoghi piovaniani, si veda soprattutto P. Piovani, Conoscenza storica e coscienza morale, Napoli, 1972², p. 220 e sgg.; Id., La filosofia nuova di Vico, Napoli, 1990; Id., Vico senza Hegel, in aa. vv., Omaggio a Vico, Napoli, 1968, 1969, pp. 551-586. Infine, si vedano i saggi storicistici di Tessitore più dettagliatamente pertinenti alle nostre tematiche (di cui si darà conto al momento opportuno), presenti nei suoi ponderosi Contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, voll. I-V, Roma, 1995; Id., Nuovi contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, Roma, 2002; Id., Altri contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, Roma, 2007. 40 Ad esempio A. Escher Di Stefano, Historismus e ermeneutica, Napoli, 1997, e G. Scholtz, Zur Historismusstreit in der Hermeneutik, in aa. vv., Historismus am Ende des 20. Jahrhuderts. Eine internationale Diskussion, hrsg. von G. Scholtz, Berlin, 1997, pp. 192-202. 41 J. Rüsen, Grundzüge einer Historik, voll. I-III, Göttingen, 1983-1989. 39
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parziale e – per alcuni aspetti – unilaterale (necessariamente unilaterale), poiché l’ampiezza e la vastità del tragitto ci obbligano ad esserlo. Kant e Cassirer, si diceva. Kant e uno dei suoi più brillanti e problematici interpreti42 in quanto limiti cronologici e concettuali di un paradigma tematico ed interpretativo. All’interno di questo spazio teorico proveremo alcune (forse tra le più rilevanti) tra le mille e mille sfaccettature, curvature, avanzamenti, precognizioni, intuizioni che hanno caratterizzato questo paradigma, sempre tenendo a mente, sotto l’occhio indagatore, lo scenario approntato dalle scienze della vita. Formulare un’analogia tra bio-logia e storiografia sarebbe meno accidentato se si partisse da una mera considerazione linguistica, se ci si attenesse a considerare il plesso semantico che lega parole-cose come biologia (un “dire-la-vita”), biografia (la vita disegnata, tratteggiata, evidenziata, individuata), storicità (la vita storica individuale testimoniata nell’attimo del vivere stesso, testimoniata ma non condensata e solidificata, ma lasciata fluire e decorrere nel suo libero darsi), storiografia. Quest’ultima parola-concetto, poi, è quella che in un certo senso compendia e raccoglie – non eliminandole – le differenze e le rilevanze che è possibile osservare fra tutti gli altri “oggetti” qui al fuoco della discussione. Ad un primo sguardo, infatti, se ‘storiografia’ sta ad indicare propriamente uno “scrivere-di (dicendo-la)-storia”, ad una più approfondita analisi il concetto si mostra assai più ricco e plurivoco. Raccolta e anamnesi di una serie di “cose” (la cui natura è bene, per ora, La letteratura critica sull’interpretazione “fedele” o “infedele” cassireriana di Kant o, mutatis mutandis, l’eredità kantiana in Cassirer, consta ormai di numerosi titoli; per brevità rimandiamo qui soltanto a titoli di carattere generale o che, trattando tematiche particolari, toccano più da vicino argomenti affini al nostro: G. Cacciatore, Cassirer interprete di Kant e altri saggi, a cura di G. Gembillo, Messina, 2005; A. d’Atri, Cultura, creatività e regole: fra Kant e Cassirer, Cosenza, 1990; Id., Critica della ragion tecnica: Ernst Cassirer, Milano, 2004; J. Hubbert, Transzendentale und empirische Subjektivität in der Erfahrung bei Kant, Cohen, Natorp und Cassirer, Frankfurt a. M., 1993; B. Duttke, Cassirer und Heidegger in Davos: das Problem der Kant-Interpretation, Hamburg, 1999; M. Ferrari, Ernst Cassirer. Dalla scuola di Marburgo alla filosofia della cultura, Firenze, 1996; Id., Il giovane Cassirer e la scuola di Marburgo, Milano, 1988; aa. vv., Lebendige Form. Zur Metaphysik des Symbolischen in Ernst Cassirers «Nachgelassenen Manuskripten und Texten», (Cassirer Forschungen, Bd. 13), hrsg. R. L. Fetz-S. Ullrich, Hamburg, 2008; R. Makkrel, Cassirer zwischen Kant und Dilthey, in aa. vv., Ernst Cassirers Werk und Wirkung: Kultur und Philosophie, hrsg. D. Frede-R. Schmücker, Darmstadt, 1997, pp. 145-162. 42
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lasciare interdetta), la storio-grafia si struttura secondo la forma espressiva della scrittura, per cui appare contraddittorio parlare di una “storiografia orale”, di un’oralità storiografica. Ma – prima obiezione – è lo stesso Kant che ha detto che è «certamente lecito far congetture nel corso di una storia per colmare le lacune lasciate dai documenti»43. In prima battuta, però, è solo attraverso una attività peculiare del raccontare – la scrittura – che si può dare una scienza storica in quanto tale44, e ciò significa che la scienza (una scienza) è scienza solo se sottoposta al gesto tramandativo per eccellenza che è quello dello scrivere. Graf», grafw, è il termine greco che designa questo gesto, ma nella sua accezione originaria esso sta principalmente per ‘disegnare’, ‘incidere’, ‘fare un contorno’. Il disegno, il tratto, l’incisione che circoscrive la “cosa” che ha da essere evidenziata, è perciò la forma attraverso cui “passa” la cosa stessa. Ma cos’è, nel caso della storiografia, la cosa se non la vita nel suo trascorrente fluire? Che cos’è la ‘storiografia’ se non una “grafica” sapiente del vivente-vedente45? Evidenziare, manifestare ciò che è proprio dell’umano: tale è la funzione e il senso della storiografia, se intesa nel senso più “raccogliente” che è dato presupporre. Bagaglio sempre gravido di vite individuali, la storiografia è essa stessa vivente rammemorazione del fatto vissuto, di ciò che è stato vissuto, esperito, detto. In questo senso, la storiografia è, nel senso più pieno del termine, bio-logia, discorso sulla vita a partire dal vivente, perché «quando c’è una filosofia della vita, allora si può anche chiedere di una filologia, di una matematica – di una poetica, e di una storia della vita»46. Novalis, il I. Kant, Muthmaßlicher Anfang der Menschgeschichte (1786), in Kants Werke, Akademie-Textausgabe, Bd. VIII (Abhandlungen nach 1781), p. 109; tr. it., Congetture sull’origine della storia, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, Torino, 1998, p. 195. 44 In merito a ciò, forse, si potrebbero avanzare alcune note di riflessione sulle accuse derridariane di logocentrismo rivolte alla storia della metafisica occidentale; sarebbe il caso di ripensare – se le premesse del nostro discorso funzionano – questo logocentrismo come un “grafocentrismo”, una tirannia della scrittura filosofica a danno dell’oralità originaria. 45 Il vivente è vedente perché storico, perché, nella misura in cui histor deriva dalla radice indoeuropea wid, weid, questo vedere è trasmutazione testimoniante del passato “ocularmente” vissuto in solidificazione presente, in racconto hic et nunc proferito, è testimonianza inevitabilmente vivente di una vivente esperienza. 46 Novalis, Allgemeines Brouillon, in Opera filosofica, a cura di F. Desideri, vol. II, Torino 1993, p. 285. 43
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«molteplice Novalis»47, se inquadrato sotto l’angolo prospettico qui proposto, incarna per molti riguardi lo “spirito” dell’atmosfera culturale e filosofica che la presente ricerca vuole provare a definire. Nel suo dilettantesco (nel senso etimologico del termine: dilettarsi di qualcosa, gioire del mondo e dei suoi infiniti oggetti, manipolandolo coi pensieri) affaccendarsi con chimica, biologia, matematica, fisiologia, poesia e con innumerevoli altri campi del sapere, von Hardenberg è il prototipo (forse anche più dello stesso Goethe, più esperto quest’ultimo, più “professionale” nella sua straordinaria varietà di interessi) di un sapiente multivalente, di un curiosissimo “scienziato”, erede perfezionato delle scientiae curiosae di umanistica e rinascimentale memoria48. è questo genere di sapere, è questo tipo di saperi plurali, non specialistici, eccentrici che caratterizzano il clima intellettuale della Goethezeit che fornirà il materiale di contorno alla prima parte della nostra ricerca che, partendo da Kant ed attraverso appunto Goethe, giungerà ad osservare l’esperienza di Wilhelm von Humboldt come frutto maturo di un atteggiamento culturale ormai pronto a teorizzare specialisticamente sull’affinità tra scienze del vivente e storicità, tra biologia e riflessione storica. Humboldt è, nella nostra ottica, l’essenziale linea di congiunzione tra saperi disparati, la giuntura catalizzante – dotata di una sua specifica individualità, non sfumante solo nel suo ruolo funzionale – tra la visione individualmente teleologica della storia di Kant e l’interpretazione non positivistica dell’evoluzionismo bio-sociale di matrice darwiniana49. è dalla torsione “storicistica” humboldtiana che prende l’avvio, infatti, Secondo la splendida, fulminante definizione di J. L. Borges, Note critiche, in Id., Tutte le opere, voll. I-II, Milano, 1996, qui vol. I, p. 428. 48 Si vedano in merito al tema – peraltro vastissimo e di cui ancora si avverte un’eco ancora nelle parole di Descartes e Leibniz –, alcuni studi generali di particolare rilevanza: aa. vv., Magia e scienza nella civiltà umanistica, a cura di C. Vasoli, Bologna, 1976; E. Riverso, Dalla magia alla scienza, Napoli, 1961; B. J. Gibbons, Spiritualità e occulto dal Rinascimento all’Età Moderna, Roma, 2004; J.-P. Corsetti, Storia dell’esoterismo e delle scienze occulte, Roma, 2003, spec. pp. 145 e ssg. 49 Sulla rideterminazione in senso socio-politico della biologia evoluzionistica, si veda il saggio molto interessante di D. Guillo, La sociologie d’inspiration biologique au XIXe siecle: una science de l’“organisation” sociale, in «Revue française de sociologie», 41 (2000), pp. 241-275. Si veda su ciò anche il saggio di N. Badaloni, Autoorganizzazione biologica e trasformazione sociale: elementi per una discussione, in aa. vv., Scienza e filosofia. Saggi in onore di Ludovico Geymonat, a cura di C. Mangione, Milano, 1985, pp. 193-208. 47
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una comprensione del fatto storico non assolutizzante, apertamente antihegeliana, fondata non sull’idea di graduale e autocompientesi realizzazione dello spirito nella storia e come storia, tipica del tardo Hegel e dell’ancor più dogmatico tardo hegelismo50, ma sulla teorizzazione di un libero e indipendente darsi delle individualità nel loro decorso vitale; perché, se è pur vero che nulla «è più gravoso della molteplicità del reale»51, e che le società e la storia degli uomini sono costantemente afflitte da ineluttabili decorsi che travalicano le volontà dei singoli uomini, tuttavia le vite individuali e molteplici operano in comunità come singoli perché «al centro di ogni modo particolare dell’attività si trova l’uomo che (…) vuole soltanto rafforzare e accrescere le forze della sua natura, conferire valore e durata al suo essere»52. La Bildung è così anche il fine, oltre che il mezzo, col quale le vite si relazionano nell’ambito dell’accadere storico, ed è come quando in un organismo «ogni singola cellula può andare per la propria strada, subire una specifica trasformazione, senza che a ciò si leghi, di necessità, il destino [Geschick] delle cellule limitrofe»53. E che non paia, questa accezione analogica di biologia e storia, frutto incostante di scienziati positivisti in delirio d’onnipotenza, o risultato di una malcelata e maldisposta tendenza riduzionista: la libertà dell’individuale nel percorrimento del proprio destino, riunita e riconvertita in un finalismo complessivo di genere più alto, non è appannaggio di ricercatori e scienziati – come si vedrà – ma anche stimolo di speculazioni “istituzionalmente” considerate filosofiche. Si veda ad esempio quanto In un quadro interpretativo sostanzialmente diverso da quello da noi proposto, si veda su ciò il peraltro pregevole lavoro di C. Ferrini, Dai primi hegeliani a Hegel. Per una introduzione al sistema attraverso la storia delle interpretazioni, Napoli, 2003; cfr. anche la corposa bibliografia ivi presente, quella in special misura riferita alle primissime interpretazioni del pensiero di Hegel, pp. 35-44. 51 W. von Humboldt, Geschichte des Verfalls und Untergangs, in Wilhelm von Humboldts Gesammelte Schriften, Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften, hrsg. A. Leitzmann, Bände. I-XVII, Berlin, 1903-1936 (d’ora in poi, per questa edizione delle opere humboldtiane, HGS), qui Bd. III, p. 216. 52 W. von Humboldt, Theorie der Bildung des Menschen, HGS, cit., Bd. I, p. 283. 53 R. Virchow, Die Cellularpathologie in ihrer Begründung auf physiologische und pathologische Gewebelehre, Berlin, 1858, p. 14 (citato da: A. Orsucci, Dalla biologia cellulare alle scienze dello spirito. Aspetti del dibattito sull’individualità nell’Ottocento tedesco, Bologna, 1992, p. 60). Il testo tedesco dell’opera di Virchow è consultabile sul sito http://www.uni-giessen.de. 50
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scrive il giovane Dilthey, prendendo spunto proprio da una famosa conferenza dello stesso Virchow dedicata al Goethe scienziato54. Ed a noi pare che lo stesso schema – pur nelle sensibili differenze – regga le riflessioni di Droysen sulla metodologia storica che, prendendo a prestito la modalità esecutiva della filologia, un’«attitudine tipizzante»55, aspira a cogliere nel rapporto tra natura e storia un equilibrio dinamico improntato ad evidenziare sempre l’individualità e la tipicità: «La diversità è allora prodotto della storia, non certo di una Anlage predeterminata e tanto meno di un tipo originario. Nella storia è infatti operante un fattore dinamico, affine alla forza organica herderiana, una dotazione di energia in grado di metabolizzare i risultati dei processi storici e ricomporli in una nuova natura “seconda”»56. Né vi è troppo bisogno, qui, di indugiare sulla centralità del concetto di tipo in Max Weber, dell’organicità finalisticamente orientata (nella misura in cui essa vuole essere “razionale”) della sociologia storica comprendente e dell’agire sociale non come somma indistinta di decisioni individuali, ma come vita che «si autofonda, uscendo dalla casualità della relatività dei presupposti senza cedere, senza cadere, però, nel determinismo causalistico. La possibilità si fa realtà e acquista valore in virtù del sobrio uso della ragione non preesistente, non data, non assoluta ma costruita attraversa la circolarità della razionalizzazione (…)»57. Di tutto ciò, però, se ne potranno fare nel corso dell’indagine, solo menzioni eccentriche e 54 Si tratta della recensione diltheyana a R. Virchow, Goethe als Naturforscher und in besonderer Beziehung auf Schiller, Berlin, 1861 (rist. Darmstadt 1962), W. Dilthey, Gesammelte Schriften, Bd. XVI (Aufsätze und Rezensionen aus Zeitungen und Zeitschriften, 1859-1874, Hrsg. U. Herrmann, Göttingen, 1985²), pp. 334-340. 55 S. Caianiello, Scienza e tempo alle origini dello storicismo tedesco, Napoli, 2005, p. 273. 56 Ivi, p. 276. 57 F. Tessitore, Alcune osservazioni sulla “secolarizzazione” in Weber, in «Archivio di storia della cultura» (XIX), 2006, pp. 73-96, rist. in G. Di Costanzo-G. Pecchinenda-R. Savarese (a cura di), Max Weber. Un nuovo sguardo, Milano, 2007, pp. 17-40, qui, p. 34. Si veda, a proposito della concezione weberiana della biologia, un’interessantissima lettera che Weber scrive a Rickert nel 1907, commentando (positivamente nel suo insieme) la Geschichtsphilosophie che il maestro di Heidegger gli aveva inviato. Max Weber Gesamtausgabe, Abt. II, Bd. 5, Briefe 1906-1908, Hrsg. M. R. Lepsius-W. J. Mommsen, Tübingen, 1990, pp. 414-418. Lì si dice che per «la sociologia, e specialmente la sociologia economica, la biologia è cosa degna quantomeno di riflessione se essa viene vista come avaloriale [werthfrei]» (ivi, p. 415).
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suggestioni fuor d’opera: già sufficientemente impegnativo il proposito di individuare in Kant, Goethe e Humboldt (e con Kant, Goethe e Humboldt) la via organica alla storia durch la biologia, quella via accennata e adombrata da Cassirer di cui si parlava poc’anzi. Kant, Goethe, Humboldt. Fino a Cassirer. Da Kant a Cassirer e viceversa. Altrove58 ci siamo spinti a definire la concezione cassireriana della storia della filosofia come uno “storicismo morfologico”, argomentando la presenza, nel cuore stesso della sua filosofia, di uno schema interpretativo, riferito alla storia, di matrice goethiana. Tuttavia, ma pure comprensibilmente, da quella nostra lettura rimaneva fuori tutta la sequela e la sequenza teorica che invece qui si proverà a percorrere, avendo come uno dei fili conduttori, oltre che la sollecitazione cassireriana, quell’ispirazione incarnata da Friedrich Meinecke, che ha saputo vedere come pochi la “destinazione” etica e il fondamento kantiano dello storicismo: «Attraverso lo storicismo – così Meinecke – fu creato un nuovo tipo di cultura storica. Mediante il quale, cioè, individui del presente assumono in sé i materiali culturali del passato»59. Cassirer è inteso, così, il culmine di questa prospettiva, l’ultimo interprete di un kantismo ridiscusso problematicamente ma assunto in tutta la sua più pregnante espressività. Il valore assegnato da Cassirer al problema della biologia – abbiamo proprio iniziato queste poche note introduttive così – è cartina di tornasole adeguata al tono complessivo della nostra ricerca, ed in tale veste è stato letto, in veste non solo di abituale e attento frequentatore di palcoscenici erkenntnistheoretisch, ma anche e soprattutto di novatore di una tradizione “alta” del kantismo, un kantismo che crede nell’individualità, nella crescita, nell’organicità della storia – delle storie – della vita, vedendola e sapendola vedere come storia di forme plurali e pluralisticamente pulsanti, di incontri, scontri, neoformazioni dove l’individuo non si perde, ma neppure si isola. Anzi, proprio e solo perché l’uomo è nativamente “complice” dell’altro uomo e solidale ad esso, egli ha la possibilità della libertà, la possibilità di individualizzarsi rispetto all’alterità che gli è congenita. La storia – le storie – è insieme realizzazione morfologica (pedagogica, formativa, R. De Biase, La destinazione etica della storia della filosofia in Ernst Cassirer. Le testimonianze di Descartes e Goethe, Napoli, 2007. 59 F. Meinecke, Aphorismen (1942) in Werke, Herausgegeben im Auftrag des Friedrich-Meinecke-Institutes der Freien Universität Berlin von H. Herzfeld-C. Hinrichs-W. Hofer, Bd. 4 (Zur Theorie und Philosophie der Geschichte), Stuttgart, 1959, p. 234; tr. it., Aforismi e schizzi sulla storia, con Introduzione di F. Tessitore, traduzione di G. Di Costanzo, Napoli, 2006, p. 22. 58
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bildungsweise) della libertà del singolo nella società e costituentesi, progressiva e finalistica maturazione di un noi impensabile altrimenti, perché «respingere senz’altro come diverse ed estranee le dottrine passate» - ma diremmo, delle “vite” passate - «è (…) non solo errore in filosofia, ma in istoria, perché quel che si dichiara diverso, estraneo e a noi non appartenente, pur vive all’interno della nostra verità (cs. ns.) e ne forma un elemento essenziale ed è diventato nostro»60. Con Cassirer, probabilmente, questa ambizione all’analogia non omologante tra vita biologica e storia vivente coglie l’apice teoretico e la più opportuna consapevolezza etica. Il suo “storicismo morfologico” è pure storicismo etico, nella tradizione più nobile di Schleiermacher e Humboldt, di Droysen e Weber, ma di un’eticità che prova, kantianamente, ad essere presagente e razionale, “profeticamente” lucida e libertaria. Kant e Cassirer: in questa linea di pensiero la nostra ricerca prova a misurare se ancora si dà spazio alla capacità della ragione di essere all’opera, se non è troppo tardi per ripensare il legno storto dell’umanità come ancora proponente e conferente un senso per se stesso, se è legittimo ancora interrogarsi sulla necessità di una Kulturphilosophie in grado di chiedersi non soltanto cosa sia ora l’uomo, ma anche cosa sarà domani, che ne sarà domani dell’uomo quando il domani sta diventando – è divenuto – talmente repentino e subitaneo da essere confuso con l’oggi, quando la globalizzazione e i processi di “simultaneizzazione” sempre più radicali dei rapporti interpersonali e sovrapersonali rischiano di azzerare ogni attesa, ogni paziente ricerca dell’equilibrio tra le differenze – e l’opportuna via per la salvaguardia di queste differenze -, ogni sobria anamnesi che abbia di mira il futuro. Su ciò Cassirer ha saputo dire parole fondamentali: il “senso” della storia ha senso solo nella misura in cui essa va pensata e meditata come organismo coordinato e finalizzato, occhio pensante e valutante perché «è evidente che senza questa facoltà dello sguardo preveggente e anticipante, non sarebbe possibile quel fenomeno che chiamiamo “cultura” umana»61. E non casualmente, ci pare opportuno chiudere qui questa introduzione citando un’ulteriore, eminente testimonianza che quello che si sta tentando, in fondo, non è così lontano da certe vie e certi sviluppi della riflessione sulla storia e sulla storicità, tipica di un indirizzo ben individuabile. è Pietro Piovani che, non casualmente
B. Croce, Il carattere della filosofia moderna, Bari, 1963³, p. 62. E. Cassirer, Axel Hägerström. Eine Studie zur schwedischen Philosophie der Gegenwart (1939), in ECW, vol. XXI, Hamburg, 2004, p. 105. 60
61
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appellandosi proprio a Cassirer62, afferma che «l’aspirazione a cogliere le strutture del reale in una morfologia intesa secondo il suo primo senso goethiano, dunque in un sistema di forme trasformantisi, non legate a una naturalità statica, bensì in una rappresentatività osservata nel suo movimento, in una dialetticità interiore di cui diacronia e sincronia possano essere quasi le sistole e le diastole, è tentativo che si muove certamente nell’ambito di quella forma di conoscenza critica e dinamica che abbiamo giudicato una specie di sfondo gnoseologico comune a tutte le scienze umane»63. “Comune a tutte le scienze umane”, dice Piovani. Ecco quello che, al termine di quest’operazione di presentazione e quasi di “giustificazione” della ricerca qui proposta, ci viene di dichiarare: l’accordo, la convenienza con quest’espressione apparentemente secondaria e non fondante di Piovani. Comune a tutte le scienze umane, per lo “storicismo morfologico”, significa non dimenticare mai l’umano in ogni tentativo di coordinazione scientifica della ricerca filosofica, significa, a giudizio nostro, imprimere ed esprimere l’umanità ad ogni passo della riflessione. Con tutta la caducità da cui essa è affetta ma che, proprio perciò, è necessitata alla libertà e responsabilità formativa e trasformativa delle sue forme e delle sue oggettivazioni, alle sue esigenze e ai suoi bisogni di costruire e costituire solidificazioni.
P. Piovani, Il significato filosofico delle scienze umane (1971), in Id., Posizioni e trasposizioni etiche, a cura di G. Lissa, Napoli, 1989, p. 80. 63 Ibid. 62
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CAPITOLO PRIMO KANT. IL “FILO D’ERBA” E LA FILOSOFIA Sarebbe sin troppo semplice – né sarebbe cosa straordinariamente originale – indicare negli anni che vanno dalla pubblicazione della prima edizione della Critica della ragion pura fino alla morte di Hegel, un periodo di ineguagliabile fecondità culturale, scientifica e filosofica1. Una delle descrizioni più efficaci di questo rigoglioso afflato che investe la Germania – intesa come territorio culturale e non meramente espressione politico-geografica – si può leggere già nel sentimento espressivo di Goethe, una sorta di annuncio e insieme di invito “metafisico” all’umanità intera: Vista l’ampiezza diremmo “inumana” della bibliografia che si è occupata del periodo qui in essere – e secondo i più disparati oggetti: dalla letteratura alla ricerca scientifica sperimentale, dall’arte della guerra alla floricoltura –, possiamo qui segnalare unicamente alcune opere di carattere generale, particolarmente attagliate, tuttavia, agli scopi previsti per la nostra ricerca. In più, citeremo alcuni lavori monografici che hanno peculiare affinità con le tematiche che di qui a poco verranno affrontate: oltre al già nominato U. Muhlack, Geschichtswissenschaft im Humanismus und in der Aufklärung. Die Vorgeschichte des Historismus, voglio qui ricordare solo alcuni lavori che mi pare riassumano opportunamente e diano, in pochi titoli, un quadro sufficientemente completo dell’enormità dei temi in gioco nella Goethezeit: aa. vv., Die Wende von der Aufklärung zur Romantik, Bd. I (1760-1820), hrsg. von H. A. Glaser-G. M. Vajda, Amsterdam-Philadelphia, 2001; T. W. Danzel, Zur Literatur und Philosophie der Goethezeit, Stuttgart, 1962; H. A. Korff, Geist der Goethezeit: Versuch einer ideellen Entwicklung der klassisch-romantischen Literaturgeschichte, Bde. I-V, 4. Auf., Leipzig, 1954-1958; J. Hoffmeister, Die Heimkehr des Geistes. Studien zur Dichtung und Philosophie der Goethezeit, Hameln, 1946; O. Kein, Die Universalität des Geistes im Lebenswerk Goethes und Schellings im Zusammenhang mit der organisch-synthetischen Geistesrichtung der Goethezeit, Berlin, 1934. Per una ricostruzione anche geografica dello spazio socio-culturale dell’epoca, si veda il recente ed informato G. Schmidt-L. Ehrlich, Ereignis Weimar-Jena, Wien-KölnWeimar, 2008. Altre e più particolareggiate indicazioni, più attinenti a quanto si tratterà, saranno date al momento opportuno. 1
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E voi andate! Il mondo è aperto davanti a voi./ La terra è vasta, il cielo grande e sublime;/ Osservate, studiate, raccogliete i dettagli;/ Che la natura balbetti in voi i suoi misteri. 2 Una sorta di grande teatro delle possibilità si apre di fronte all’uomo, la cui sensazione è quella davvero di essere sul punto di una svolta totale, onnicomprendente. Quello che si avverte da queste parole per certi versi intenerisce e per altri atterrisce: intenerisce la spericolata ingenuità di chi si assume un compito titanico di tal fatta, atterrisce il pensiero della delusione nichilistica conseguente alla consapevolezza dell’irraggiungibilità del fine, della capacità, appunto, di udire i bisbiglî della natura. ‘Goethezeit’: questo – come universalmente noto – è il titolo che viene convenzionalmente assegnato a quest’epoca di ricchezza intellettuale, e però, senza neppure per un attimo voler entrare in una diatriba poco produttiva, il nome di Goethe, dato all’epoca, pur enorme, non dice ancora abbastanza. La delimitazione, pur conveniente e necessaria, nel nome di Goethe di quest’intervallo di tempo, va integrata con ulteriori idee, nomi, fatti, saperi. Soprattutto saperi. Catene e sequenze di conoscenze, avanzamenti, ampliamenti “modulari” di discipline interconnesse, di saperi solo apparentemente sparsi e disorganici. O forse, per meglio dire: una congerie di saperi con un’intima logica, sebbene insaputa e non facilmente ricostruibile, né riconducibile a un fondamento univocamente dato. Una logica – è vero – “diasporiforme” (già una prima immagine vegetale), alla cui base, però e nonostante tutto, appare possibile rintracciare una coerenza, un tratto comune. Questa logica, questa architettonica di saperi diffusi e dispersi, si raccoglie come logica delle finalità “storiche”, intesa come sintesi dei saperi sette-ottocenteschi della vita biologica, e, conseguentemente ma anche inauditamente, tradotta in termini di saperi storico-sociali. Un’inopportuna equiparazione? un’irricevibile identificazione di oggetti di conoscenza imparagonabili? Non è questo il luogo per definire la congruità, la liceità epistemica di questa sintesi tra saperi storici e biologici; ci basta, per il momento, appurare che altri l’abbiano ritenuta possibile o che abbiano potuto avvertire le condizioni storicospirituali per pensare (quasi mai coscientemente, per lo più in maniera 2 J. W. Goethe, Elegie von Marienbad, in Goethes Werke, Hamburger Ausgabe in XIV Bänden, hrsg. von E. Trunz, München Auflage 1981 (d’ora in poi, GW, seguito dal volume in numeri romani e dal numero di pagina), qui Bd. I, p. 385.
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frammentaria, parziale, episodica) la compresenza di saperi eterogenei l’uno accanto all’altro, tematicamente possibile, edificabile. Ma ancora più che compresenza, varrebbe qui la pena di parlare di simbiosi di saperi, una parola che, con tutta la sua carica sintattico-semantico-simbolica, evoca in misura perfetta la dimensione che a noi pare vada affrontata. Sim-biosi: dispositivo linguistico quanto mai adatto ad illustrare la vita che si immerge in se stessa come organismo e si aderge, osservandosi, come vita storica. Una simbiosi che lascia tuttavia al sapere organischen e a quello geschichtlichen una loro individualità ben delineata, una simbiosi dove le due “forme” di conoscenza non si fondono indistintamente ma si intersecano vicendevolmente, apparentemente sparendo dalla vista ma percorrendo invece carsicamente la vicenda complessiva della ricerca culturale dell’epoca. Ricercatori naturali a trecentosessanta gradi come Carl Friedrich Kielmeyer e il di lui maestro Blumenbach, medici, come i ben noti a Kant Christoph Wilhelm Hufeland e Thomas Soemmerring (che, come è noto, ha dedicato una sua opera a Kant stesso), e strani teorici del vitalismo come Caspar Friedrich Wolff, a metà strada tra alchimia e chimica, psichiatri ante litteram come Johann Christian Reil, studiosi in cerca del nisus formativus e sulla natura e i modi della Lebenskraft, antropologi fisico-culturali come Brandis, von Baader, Görres, poeti-scienziati come il già incontrato Novalis; tutte queste ed altre interessantissime personalità sostanziano un humus culturale, un’atmosfera di affaccendata e affabile ricerca che può essere illustrata in modo eccellente dalle seguenti, anonime parole: «Ci approssimiamo alla fine del Diciottesimo secolo. Ci gloriamo a voce alta e pubblicamente, molto più maturi e saggi di quanto lo fossimo prima. Raccontiamo con entusiasmo l’Aufklärung, i progressi nell’arte, la quantità di scoperte e di farmaci coi quali viene sconfitto l’ordinario esercito delle malattie. Elogiamo la luce che ci ha portato nuovissima esperienza e benediciamo i grandi uomini dell’epoca che ci hanno portato dall’oscurità alla luce, dal regno del verosimile [Wahrscheinlichkeit] al trono della verità imperturbabile»3. Nella molteplice coesistenza di tante e tante esperienze concettuali ed osservative, empiriche e teoriche, si struttura, coagulandosi, un sapere a molte facce, un plesso, un grumo di conoscenze tutte tese a scoprire il segreto più intimo e nascosto: il vivo principio d’organizzazione dell’individuo vivente accanto e all’interno dell’ambiente circostante4. Anonimo, Herzenserleichterung an denkende Aerzte, in «Almanach für Aerzte und Nichtaerzte» (1794), pp. 84-124, qui p. 84. 4 Si può agevolmente parlare – ed è stato ampiamente fatto: si veda, ad 3
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Kant è, da questo punto di vista, perfetto interprete ed erede di questa atmosfera spirituale, perché ben consapevole della “necessità” di una spiegazione razionalmente orientata e sistematicamente posta dell’enigma della vita nella sua più ampia accezione, ma contemporaneamente pure “emotivamente” predisposto a cogliere il bisogno di una finalizzazione dello sforzo del vivente ad autoporsi come individuo. Vedere come si articola questa doppia dimensione kantiana, l’una affidata alla rigorosità e alla determinazione del significato dell’accezione filosofica della vita biologica, l’altra finalizzata al mostramento del “biologico” in quanto dotato di “bisogno storico”, questo è l’obiettivo che ora ci proponiamo di cogliere, in tutte (o almeno per quelle che qui ci riguardano) le
esempio, uno dei primi utilizzi del termine in A. Liebert, Goethes Platonismus. Zur Metaphysik der Morphologie, in «Kant-Studien» (37) 1932, pp. 1-48; ancora, in tempi più recenti H. W. Ingensiep, Personalism, Sentientism, Biocentrism. Boundary Problems within non-human Bioethics, in «Theory in Biosciences» (116) 1997, pp. 169-191 – di “biocentrismo” della scienza Sette-ottocentesca, una Naturphilosophie che ha fatto delle nozioni di ‘vita’, ‘vivente’, ‘organismo’ le proprie parole d’ordine. Per questo aspetto, si consulti l’esauriente S. Poggi, Il genio e l’unità della natura. La scienza della Germania romantica (1790-1830), Bologna, 2000, in particolare per il carattere biocentrico di questa scienza (e le relative problematicità inerenti a ciò), pp. 18-37. Ipotesi di ricerca di Poggi – che vede affermarsi in primo luogo con Kielmeyer «il punto di vista “biocentrico” della scienza romantica» (ivi, p. 31) – è che il «rapporto che la scienza tedesca a cavallo tra i due secoli intrattiene con il tentativo idealistico d’una filosofia della natura è dunque in misura essenziale un rapporto con la filosofia della natura di Schelling» (ivi, p. 20), anche se si riconosce che le idee di Schelling relative alla natura come un alcunché di «vivente» erano «in realtà non diverse da quelle di cui si era già fatto sostenitore Goethe e che soprattutto (…) erano condivise da tutti coloro – ed erano molti – che già, nei primissimi anni del movimento romantico, avevano reagito con vero entusiasmo alle nuove scoperte della chimica e dello studio dei fenomeni elettrici» (ivi, p. 22). Noi, nella nostra lettura, proveremo a mostrare, contrariamente al pur rispettabile parere di Poggi, che non si sarebbe resa disponibile l’idea stessa di fondazione di una scienza empirica in quanto tale per la biologia, senza il necessario correlato dispositivo intellettuale, volto a pensare il cooriginarsi di empiria e finalità, di sperimentazione e princìpi a priori, di gusto per la centralità dell’esperienza e, insieme, ricerca inesausta delle leggi eterne e immutabili della vita vivente. Tutto ciò, a chi scrive, pare colorarsi di un tono solo secondariamente schellinghiano, pur se si vedrà come il grande pensatore dell’idealismo classico ritornerà più volte sotto il fuoco delle tematiche trattate.
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sue molteplici diramazioni, a partire, ovviamente, da un’opportuna contestualizzazione storico-teoretica. 1. La visione della vita tra Aufklärung e Romantik. Nella Critica del giudizio Kant scrive: «Il diritto di porsi alla ricerca di una spiegazione puramente meccanica di tutti i prodotti della natura è in sé assolutamente illimitato; ma la capacità di giungervi in questo modo soltanto, è, data la natura del nostro intelletto, nello misura in cui esso si occupa di cose come di fini naturali [Naturzwecken], non solo molto ristretta, ma anche racchiusa entro chiari limiti»5. è chiaro, anche da un punto di vista dell’evidenza grafica che il corsivo porta con sé, che si tratta per l’uomo di un ‘diritto’ il cercare e ricercare costantemente e senza posa una Erklärungsart, un modo di chiarire da un punto di visto meccanicocausale tutti i “moventi” della natura. Ma la natura è qualcosa d’altro e di più, un qualcosa che abbisognerebbe una «intuizione diversa da quella sensibile, ed una conoscenza determinata del sostrato intelligibile della natura»6, cosa che è impossibile «per noi in quanto uomini»7. è un fatto di “misura”: smisurato è l’ambito della natura che riguarda il vivente rispetto alla quantità e qualità delle conoscenze che è dato all’intelletto calcolante, numerante e deducente dell’uomo. Certo, sembra dire Kant, l’uomo, con tutta intera la sua dotazione scientifica, ha diritto a mettersi di fronte alla natura per carpirne i segreti, ma questo diritto è “vuoto” quando si ha a che fare con determinati «prodotti». Quali sono questi «Naturprodukte» che non possono essere spiegati dal meccanicismo? Ma, prima ancora: come si dà la possibilità di rendere il ricorso alle leggi meccaniche – vistone il diritto «illimitato» di cui l’uomo può disporre – fruttuoso, utile? Come facciamo a “sfruttare” questa nostra capacità – questa sì, senza confini – di conoscere le leggi universali e necessarie che regolano il mondo fisico ai nostri vantaggi? Insomma: a che ci serve una critica della pura ragione se essa può interrogarsi su alcuni fenomeni della natura e non su tutti? è noto che Kant risponde a tale questione con la determinazione del principio teleologico, «non
5 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, in Kants gesammelte Schriften-Preußischen Akademie der Wissenschaften, Bd. V, p. 417; tr. it., Critica del giudizio, a cura di A. Bosi, Torino, 1993, p. 386. 6 Ivi, p. 418; tr. it., p. 386. 7 Ibid.
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essendo il semplice meccanismo della natura sufficiente a spiegare»8 alcune delle forme in cui la natura si esprime. è vero, «nei fondamenti della possibilità dell’esperienza noi troviamo in primo luogo qualcosa di necessario, cioè le leggi universali senza le quali la natura (come oggetto dei sensi) non può venire pensata»9, ma la “natura” non si esaurisce – dal punto di vista della sua pensabilità per noi – nel suo essere intuita a priori; ciò perché la natura ha un “vocabolario” espressivo infinito, che si fa esperienza possibile non in quanto dotata di universale necessità e di apriorica sussistenza, ma “semplicemente” in quanto accadimento che accade: «gli oggetti della conoscenza empirica sono determinati, [fuori da ogni condizione formale del tempo]10 (…) o determinabili in diversi modi; sicché nature specificamente diverse (cs. ns.), a prescindere da ciò che hanno in comune in quanto appartenenti alla natura in generale, possono essere ancora causa in un’infinità di modi diversi»11. Le “nature” plurali e diverse che compongono il linguaggio totale della sintassi del mondo fenomenico, pur appartenendo alla Natura, vanno intese come derivanti (se vogliono essere rese accessibili al giudizio sussumente, e dunque pensabili) da altri passaggi, da altre direzioni. Hanno altre cause, altri viatici che quelli della causalità fisica, altre “storie”. Anzi, esse sono propriamente quelle “nature” il cui accadimento empirico si manifesta in un ambito del tutto particolare, perché sotto di esse opera un legame di coabitazione di due principi, la qual cosa è «cosa facile da supporre, ma difficile da affermare e dimostrare con certezza [schwerlich mit Gewißheit behaupten und beweisen konnte], cioè che il principio di una derivazione meccanica di prodotti della natura conformi a fini [zweckmäßiger Naturproducte] può sussistere accanto [neben] al principio teleologico, ma senza poterlo rendere superfluo»12. Questo coesistere di piani diversi – diversi non in ragione di una loro differenza “materiale”, ché entrambe le classi di oggetti che vi appartengono si “vedono” e si “toccano”, sono, cioè, fenomeni a pieno diritto – rende appunto complicato e forse impossibile la presupposizione di una esplicazione generale, un dispiegamento di una formula valida universalmente, il darsi stesso di un solo principio unitario di spiegazione-comprensione del reale, e d’altro canto, resta difficoltoso pure il mostramento della Ivi, p. 413; tr. it. p. 382. Ivi, pp. 182-183; tr. it., p. 160. 10 Questa frase: «außer jener formalen Zeitbedingnung» (ivi, p. 183) è espunta dalla traduzione italiana. 11 Ivi, p. 183; tr. it., p. 161. 12 Ivi, p. 409; tr. it., pp. 378-379 (corsivo nostro). 8 9
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coesistenza stessa. Ora, prima di procedere a vedere quali siano le “nature” che sfuggono dall’ordito ferreo della causalità meccanica, facciamo un breve passo a ritroso. Qualche anno prima della Critica del giudizio, Kant recensiva le herderiane Idee sulla filosofia della storia dell’umanità13, e nella Beilage sosteneva, riferendosi all’obiettivo della prima parte dell’opera di Herder, che questo «sta nel voler dimostrare [bewiesen werden], evitando ogni indagine metafisica, la natura spirituale dell’anima umana, la sua persistenza e il suo progredire verso la perfezione per analogia con le forme naturali (specialmente quelle nella loro organizzazione [Organisation]) della materia»14. Qui le parole guida appaiono da subito quelle di ‘analogia’ e di ‘organizzazione’, ma ne riparleremo tra un momento. Kant prosegue: «A questo scopo [Behuf] vengono assunte delle forze spirituali [geistige Kräft] tali da costruire come un regno invisibile della creazione, del quale la materia sarebbe solo il materiale di costruzione e che conterrebbe la forza vivente che tutto organizza [welches die belebende Kraft enthalte, die alles organisirt] (cs. ns.)»15. Qual è il giudizio che in definitiva Kant dà sulle linee programmatiche dell’opera herderiana? è molto importante ascoltare i risultati della recensione kantiana, perché è a partire dalle osservazioni (a volte fin anche in forma di vera e propria stroncatura16) rivolte ad Herder che meglio si possono comprendere gli sviluppi attuatisi, poi, nella terza Critica. Si tratta di comprendere che nel lavoro di Herder l’analogia che dovrebbe spiegare la relazione tra vita e spirito, tra organismo bruto e intelletto pensante, non può sussistere, perché quella qui presentata è come se venisse da un «anderswo»17, da un altrove, visto che la continuità I. Kant, Recensionen von J. G. Herders Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit, in Kants Werke, cit., Bd. VIII; tr. it., Id., Recensione di: J. H. Herder, «Idee sulla filosofia della storia dell’umanità», parte I e II, Riga e Lipsia, 1784-1785, in I. Kant, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, cit., pp. 151-175. 14 Ivi, p. 52; tr. it. pp. 159-160 legg. mod. 15 Ibid.; tr. it., p. 160. 13
Un’accurata ricostruzione della recensione kantiana (specialmente riferita alla questione dell’origine della diversità delle razze umane) si trova in L. Marino, I maestri della Germania (Göttingen 1770-1820), Torino, 1975, pp. 83-94. Si veda pure J. H. zammito, “Method” versus “Manner”? Kant’s critique of Herder’s Ideen in the light of the epoch of science, 1790-1820, in «Herder Jahrbuch», 1998, pp. 1-25. 16
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I. Kant, Recensionen von J. G. Herders Ideen zur Philosophie der Geschichte
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tra le forme organizzate meno sviluppate e l’uomo, presunta da Herder, richiede invece un salto qualitativo, e non può essere spiegata solo con l’idea – secondo Kant, herderiana – di un progresso infinitamente progredente delle forme organizzate. Ciò, per Kant, implicherebbe che la natura lasciasse “vedere” ciò che è invisibile, principio contrarissimo al supremo tribunale della ragione. E dando buon credito, in ogni caso, a Herder di una feconda intuizione, ecco come Kant cerca di esporre i termini di questo paradosso: «Ciò dovrebbe allora significare che egli [Herder] considerava queste forze spirituali come qualcosa di completamente diverso dall’anima umana, e concepiva questa non come sostanza particolare [besondere Substanz], ma solo come prodotto [Effect] di una natura universale invisibile, che opera sulla materia e la vivifica»18. Se le cose stessero così, allora Herder sarebbe rimasto un attimo al di qua rispetto alla linea che separa il possibile empirico (anche se indimostrabile) dall’impossibile metafisico o fantasioso; ed infatti questa «opinione noi però esitiamo ad attribuirgli»19. Perché? Perché per quanto riguarda la “presa di coscienza” dell’atto imprimente la vita da parte della natura sulla materia inorganica, «possiamo almeno imparare a conoscere, mediante l’esperienza, le leggi, anche se le cause rimangono ignote»20, mentre se si cerca, come Kant imputa a Herder, di spiegare l’inspiegabile con l’inspiegato (le “forze invisibili”) attraverso una deduzione “scientifica”, allora, in questo caso, «questa è sempre metafisica, certo molto dogmatica, per quanto il nostro autore la ripudi da sé, come vuole la moda»21. Anche per Kant vale il principio di fondo di filosofia naturale adottato da tutto il kant-fichtismo e da Schelling stesso, per il quale essa «rifiuta l’alibi vitalistico che conserva l’isolamento dell’organico dalla materia inorganica»22, ma il legame che avvince i due regni non è oggetto d’esperienza possibile, e perciò altra è la via per rendere ragione di tale “Sprung”, di tale salto dal morto al vivo, dall’inorganico al vivente. E’ noto che nella Critica del giudizio la “soluzione” dell’enigmatica questione si scopre relegata all’ambito del giudizio sussumente come attività della ragione teleologica, e come unica possibilità che ci è data di pensare l’“inspiegabile”. Ma di ciò si parlerà più avanti. der Menschheit, cit., p. 53; tr. it., p. 160. 18 Ibid.; tr. it., p. 161. 19 Ibid. 20 Ivi, p. 54; tr. it., p. 161. 21 Ibid. 22 I. H. Grant, Philosophies of Nature after Schelling, London, 2006, p. 18.
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2. Un passo indietro. Il contesto del dibattito Qui va ora definito l’orizzonte culturale che ha consentito a Kant e a Herder di disputare su tale questione. In altri termini, si tratta ora di immergersi a corps perdu nel clima dell’epoca, nell’atmosfera di un’epoca irripetibile. Kant è assolutamente aggiornato sugli sviluppi della questione della Lebenskraft, il misterioso impulso formativo, la vis activa che da Leibniz in poi assurge ad oggetto specifico di speculazione rigorosa; e tale interesse è già rintracciabile in un ancora immaturo filosofo alla ricerca di una sua via alla filosofia scientifica. Ne dà, secondo noi, dimostrazione efficace la terza obiezione al “secondo centrale errore” di Leibniz dei Gedanken von der wahren Schätzung der lebendigen Kräfte del 174723, lì dove la questione essenziale è sottoporre ad analisi «cosa sia un moto effettivo»24, cosa, in effetti, realmente, sia il passaggio di un oggetto da un punto a un altro nello spazio. Cosa sostiene qui Kant? Nel definire il passaggio da un punto A a un punto B è insufficiente la determinazione, per quanto esaustiva, delle proprietà del “posto” da cui l’oggetto si accinge a muoversi e di quello verso cui è teso a correre. «Per conseguenza – così il giovanissimo Kant – il vero ed unico carattere della forza viva è nel tempo impiegato nel movimento; ed è l’unica cosa mediante cui questa riceve una misura particolare prima di quella morta. Ora, possiamo renderci rappresentabile l’azione del tempo che trascorre dall’inizio del movimento fino all’impatto del corpo con un oggetto,
I. Kant, Gedanken von der wahren Schätzung der lebendigen Kräfte und Beurtheilung der Beweise, deren sich Herr von Leibniz und andere Mechaniker in dieser Streitsache bedient haben, nebst einigen vorhergehenden Betrachtungen, welche die Kraft der Körper überhaupt betreffen, in Kants gesammelten Schriften, Bd. I, p. 36. Esiste una traduzione italiana di questo scritto: I. Kant, Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive, a cura di I. Petrocchi, Pisa-Roma, 2000, p. 72, da cui, però, non abbiamo tratto la nostra traduzione che, perciò, va intesa sempre come condotta direttamente sul testo kantiano, salvo diversa ed esplicita indicazione. Per l’inquadramento storico-concettuale di questo scritto e del tema connesso, rimandiamo invece con grande sollecitudine alla Introduzione (ivi, pp. 11-41, con acclusa bibliografia) del curatore stesso. 24 Ivi, p. 34. è il titoletto del § 24, quello che immediatamente precede il venticinquesimo (dal titolo summenzionato circa l’errore leibniziano sulla misura della forza, ad indicarne, giustappunto, la continuità dell’oggetto a tema) dove è contenuta la notazione critica a Leibniz che qui vogliamo prendere in esame. 23
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mediante una linea AB in cui l’inizio è in A25. In B il corpo ha [hat] sì una forza viva, ma nel puntò di partenza A non ce l’ha [hat er sie nicht] poiché esso sarebbe un sostegno – che si opporrebbe al corpo – solo per imprimere una pressione al movimento»26. ‘uns…vorstellig machen’: tale è la locuzione utilizzata da Kant per rendere concettualizzabile il rapporto tra ‘noi’ e il fenomeno fisico da prendere in considerazione. Sennonché il fenomeno in questione è nientedimeno che il tempo, o meglio il trascorrere del tempo (che è poi il tempo stesso nel suo temporalizzarsi). Prendiamo atto di ciò e andiamo alla conclusione del ragionamento kantiano, e lì vedremo perché è così importante per i nostri scopi. Kant porta tre argomentazioni contro la dottrina leibniziana della continuità del movimento27, l’ultima delle quali suona come segue: «Ma quando certe determinazioni, che sono cause [Ursache] della proprietà di un corpo, si convertono a poco a poco in altre determinazioni che sono il fondamento [Grund] di una opposta proprietà, allora la proprietà che era una conseguenza [Folge] della prima condizione, esse si convertono parimenti pian piano in quella proprietà che è conseguenza dell’ultima»28. Il tipico, estremamente accidentato periodare kantiano non si smentisce, neppure in queste sue prime esercitazioni scientifiche, e, per lo più, non è dato essere del tutto presenti al significato che qui il filosofo vuole trasmettere. Ma non è questo – ancora – il momento decisivo. Infatti, subito dopo Kant aggiunge: «Ora, se io abbrevio nel pensiero il tempo AB (che è condizione di una forza viva in B), questa condizione della forza viva viene necessariamente posta dopo la condizione della forza morta rispetto a B: allora anche i corpi in C hanno realmente una forza viva che sopraggiunge a quella morta che era in B e ancora oltre se la pongo in D. Dunque, un corpo che sotto la condizione del tempo che trascorre [verflossenen Zeit] possiede [besitz] una forza viva, non può essere in ogni tempo tanto breve come si vuole. No, essa forza deve essere determinata e accertata; se fosse infatti più 25
Ibid. Qui, in nota, compare il disegno seguente
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Ibid. Su ciò, pagine secondo noi insuperate per lucidità e ampiezza sono state scritte dal giovane Cassirer de Leibniz’ System in seinen wissenscaftlichen Grundlagen, Marburg 1902; tr. it. Cartesio e Leibniz, traduzione di G. A. De Toni, Bari 1986. 28 I. Kant, Gedanken von der wahren Schätzung der lebendigen Kräfte, cit., p. 36. 27
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breve il corpo non avrebbe più questa forza vivente»29. Kant conclude, riferendosi qui specificamente alla dottrina di Leibniz: «Perciò la legge leibniziana della valutazione della forze non può aver luogo; essa, senza differenza, pone i corpi che hanno da muoversi in generale in un tempo lungo (e questo ancor più vuol dire che essi si muovono effettivamente), e la forza viva in questo tempo può essere lunga o breve quanto si vuole»30. Cerchiamo di evidenziare il “fatto”, per noi essenziale, che scaturisce da queste parole: per il Kant del 1747 si tratta di manifestare un’insoddisfazione rispetto alla spiegazione vaga che Leibniz dà (secondo lui, ovviamente31) della “specie” di forza viva che persiste in 29
Ibid. Ibid. 31 Naturalmente non è questo il luogo per dare “ragione” o “torto” a Kant in merito all’interpretazione di Leibniz. è chiaro che andrebbero svolte una serie di considerazioni in grado di mettere in giusta luce la potenza rivoluzionaria del concetto leibniziano di ‘forza’, con la conseguenza di pensare il reale come dinamicità e il movimento come dotato di una sua struttura “creatrice” di sempre nuove dinamiche. Straordinario e rivivificante erede (ma in un senso assai diverso) di una secolare tradizione di scientiae curiosae, Leibniz rilegge in forma creativa lo spirito del Rinascimento e i primi vagiti di una scienza polimorfica, intessuta di magia e occultismo, spargirica e botanica, anatomia e alchimia. Athanasius Kircher e Cardano, Paracelso e il Bacone del Primo libro del Novum organon, non potevano non essere noti a Leibniz, così come non si può non connettere la ricerca leibniziana della chiave linguistico-concettuale universale con l’ars magna di Lullo («che scoprì per suo conto, il calomelano, la preparazione degli olî essenziali, che egli ottenne distillando delle piante nelle quali egli sperava di trovare dell’argento». G. B. Baccioni, Dall’alchimia alla chimica, Roma, 1903, p. 12); Lullo che, a sua volta, come brillantemente mostrato da P. zambelli, L’apprendista stregone. Astrologia, cabala e arte lulliana in Pico della Mirandola e seguaci, Venezia, 1995, in particolare pp. 57-72, ha affinità e parentele con il mondo dell’ermetismo, della negromanzia e delle arti magiche Cinque-Seicentesche (su questo aspetto specifico, il rimando obbligato è pure a P. Rossi, Clavis universalis. Arti mnemoniche e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Milano-Napoli, 1960). Ciò che però non può essere accettato, nell’ammissione di una comune tonalità di interessi tra Leibniz e l’universo delle scientiae curiosae, è l’incapacità di saper leggerne le sostanziali differenze, l’enorme salto concettuale che il tedesco fa compiere alla legittimazione logica e metafisica del suo impegno e dei suoi risultati teorici. Il fondamentale lavoro di “sgrezzatura” messo in gioco dalle ricerche di Leibniz segue in tutto – e contemporaneamente lo apre – il destino della razionalità scientifica occidentale, una delle cui componenti è appunto quella “perdente” delle tradizioni ermetiche. 30
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un corpo in movimento, ossia di ciò che si conserva nella continuità del passaggio tra una posizione e l’altra nello spazio fisico. Sembra di capire, a tale proposito, che Kant individui, anche se con qualche incertezza, il centro della questione nel rapporto tra tempo e “vitalità” della forza. In altri termini, è come se Kant stesse dicendo che non può darsi valutazione scientificamente fondata di un effettivo movimento senza una preliminare valutazione (non una misurazione, attenzione, ma una Schätzung, una stima, un qualcosa, cioè, non esauribile tramite una determinazione rigorosamente quantitativa) del tempo. è a partire da questa valutazione del tempo che si può definire la presenza, nel corpo, della vita o la sua assenza, è a partire dall’esigenza di una effettiva, concreta visione del movimento in quanto tempo che si può esprimere la vita in quanto tale: «Un movimento si dice effettivo quando esso non si trova semplicemente al punto d’inizio, ma quando esso dura [währt] mentre un tempo è trascorso»32. è il durare della durata del 32 I. Kant, Gedanken von der wahren Schätzung der lebendigen Kräfte, cit., p. 35. Kant possedeva nella sua biblioteca due opere di Maupertuis, e quindi non gli doveva essere ignota neppure la memoria del francese, quasi coeva al suo scritto, dal titolo: Les loix du mouvement et du repos déduites du’un Principe Métaphysique, in «Memoires de l’Academie Royale des sciences et des belles lettres de Berlin», 1748, pp. 267-294, che però faceva risalire, subito, sin dalle prime battute della memoria, questo principio a dio onnipotente. In un’ottica diversa rispetto alla nostra, ma comunque non in aperto contrasto, si veda il parere di E. Watkins, Kant’s Justification of the Laws of Mechanics, in «Studies in History of Philosophy of Science» (29), 1998, pp. 539-560, secondo il quale, rispetto al lavoro giovanile, e in particolare nella Fondazione della metafisica dei costumi, «Kant cambia radicalmente posizione, sostenendo che ciò che è conservato non è la quantità di moto delle forze vive per sé [sic], quanto piuttosto la quantità di materia, dove per materia ha da essere inteso più generalmente in quanto movibile nello spazio o, in alternativa, in quanto sostanza spaziale» (ivi, p. 546). Interessanti sono alcune tesi di Luca Bianco, Analogia e storia in Kant, Napoli, 2003; in merito all’utilizzo di analogie nello scritto kantiano, Bianco sostiene che qui si presentava un’applicazione della «nozione di forza ad un ambito non più meccanico ma metafisico (…). D’altra parte, vi era in quell’opera giovanile una tendenza a coniugare matematica e metafisica che non è più possibile riproporre dopo gli esiti della prima Critica» (ivi, p. 88). D’altronde, come giustamente fa notare P. Grillenzoni, Kant e la scienza, vol. I (1747-1755), Milano, 1998, spec. per quanto riguarda i Pensieri, pp. 165-178, Kant, «con il termine Vivification o Lebendig-Werdung designa il processo in virtù del quale, in un determinato intervallo di teempo, il moto da impresso diviene libero e la forza da morta diventa viva» (ivi, p. 166). Infine, per una disamina molto ben
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movimento il discrimine tra una forza viva e una forza morta, e perciò è il temporalizzarsi del tempo che determina il carattere vivente di una vis. Se questo è ammissibile, allora dovremmo iscrivere il giovane Kant nella schiera degli adepti del vitalismo? Ma cos’è il vitalismo, cos’era all’epoca in cui Kant scriveva queste righe? Cominciamo col fare chiarezza: «Secondo la concezione dei vitalisti era necessario postulare l’esistenza di una particolare forza o fattore non fisico per comprendere il modo con cui gli organismi svolgono la propria attività»33. Ma la definizione generale ci riporta ancora alla questione circa la natura di questa forza che si attuerebbe mediante un fattore non fisico-meccanico; allora dobbiamo chiederci quale fosse il senso di questo vivere della potenza di cui qui si discute. La forza è viva quando “fa” muovere qualcosa nella misura in cui sia essa che ciò che è mosso sono qualcosa di animato e dinamico. Questo appare sufficientemente accertato fin dal conio del termine ‘Lebenskraft’ nelle sue varie declinazioni linguistiche. Le origini moderne del termine possono essere fatte risalire con una certa sicurezza, in ambito inglese, a Ralph Cudworth34 e al platonismo di Cambridge, cui, forse non a caso, Cassirer ha dedicato una celebre monografia35 e una serie di altri saggi e contributi36. E dopo Cudworth, il meno noto (forse ingiustamente) informata sui rapporti di lettura e comprensione da parte di Kant delle idee maupertuisiane, si veda J. Ferrari, Les sources françaises de la philosophie de Kant, Paris, 1979, in part., pp. 110-116, dove viene anche analizzato il punto di vista di Kant su Buffon. 33 R. Munson, voce ‘Meccanicismo e vitalismo’ , in Enciclopedia del ‘900, citato in G. Montalenti, Spallanzani nella polemica fra vitalisti e meccanicisti, in aa. vv., Lazzaro Spallanzani e la biologia del Settecento, a cura di G. Montalenti e P. Rossi (Atti del Convegno di Studi, Reggio Emilia-Modena-Scandiano-Pavia, 23-27 marzo 1981), pp. 3-16, qui, p. 5. 34 Soprattutto in R. Cudworth, The True Intellectual System of the Universe: The First part; wherein, All the Reason and Philosophy of Atheism is Confuted; and Its Impossibility Demonstrated (1678), London, 2005 (rist. an. dell’ed. 1820). Su Cudworth, si veda l’ampio libro di B. Lotti, Ralph Cudworth e l’idea di natura plastica, Udine, 2000, che mi pare molto attinente alle tematiche qui in gioco. 35 E. Cassirer, Die platonische Renaissance in England und die Schule von Cambridge, Berlin, 1932; tr. it., La rinascenza platonica in Inghilterra e la scuola di Cambridge, Firenze, 1947. Sul tema in generale e in particolare sulla riflessione cassireriana circa Cudworth, More e la Scuola di Cambridge, si veda la parte introduttiva di R. Bondi, L’onnipresenza di Dio: saggio su Henry More, Soveria Mannelli, 2001, pp. 4 e ssg. 36 E. Cassirer, Shaftesbury und die Renaissance des Platonismus in England
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John Needham sistematizzò in maniera efficace il problema della generazione del vivente nella cultura scientifica del Settecento, tanto che nel 1759 poteva scrivere (molto “leibnizianamente”) ad Albrecht von Haller che «è necessario ammettere sia la possibilità che la realtà degli enti semplici e del loro ordine metafisico; le quali cose, sebbene non possano in nessun modo essere provate a priori e vengano concepite in maniera assai imperfetta, tuttavia sono dimostrate a posteriori mediante un ragionamento sufficientemente corretto, concatenato e legato ai fenomeni [tamen ratiocinio satis justo, concatenato et cum phaenomenis nexo probantur a posteriori]», e, ancora più pregnantemente per i nostri scopi: «che d’altra parte la materia non sia una sostanza assolutamente morta e priva di qualunque attività risulta chiaro dalla natura stessa della cosa tanto dal punto di vista metafisico che fisico»37. Nella Francia di metà Seicento, dove il dominio del meccanicismo di matrice cartesiana comincia ad essere intaccato dall’osservazione sempre più approfondita e microscopica della generazione di organismi, che “assumono” la vita per «impénétrable mystère»38, troviamo le esperienze di medici, anatomisti e fisiologi, che, in quella straordinaria palestra di trasmissione di conoscenza che è il dialogo epistolare, dibattono con Harvey e fra di loro sullo sviluppo su base non materialiter39 dell’embrione, delle semenze – maschile e femminile – che paiono mostrare, nel loro incontrarsi e fondersi nel feto, lo sviluppo della vita individuale non per analogia di figura, come per Jean Riolan o per lo stesso maestro di Harvey a Padova, Fabrizio d’Acquapendente, ma come identità di forma40. Il che sta a significare – per ciò che più da vicino ci concerne – che la cultura scientifico-filosofica europea si trova a ridiscutere il problema delle forme sostanziali e del finalismo del moto della materia alla luce delle nuove acquisizioni cartesiane, a dover ricollocare – dopo (1932), in ECW, cit., Bd. XVIII, Hamburg, 2004, pp. 153-175, ma anche ivi, Schiller und Shaftesbury (1935), pp. 333-352. 37 J. T. Needham, Ideae quaedam generales de mundi sistemate, citato in M. Stefani, Corruzione e generazione. John T. Needham e l’origine del vivente, Firenze, 2001, pp. 109-110. 38 J. Roger, Les sciences de la vie dans la pensée française du VIII siècle. La génération des animaux de Descartes a l’Encyclopédie, Paris, 1963, p. 49. Questa monumentale ricerca è di utilità eccezionale per chi voglia addentrarsi nelle eredità e nelle molteplici variabili del dibattito francese sul problema della vita nei secoli XVII e XVIII. 39 Ivi, p. 116. 40 Ivi, p. 119.
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l’“ubriacatura meccanicista” causata dalla divulgazione (e forse volgarizzazione) di un Descartes scienziato forse non sempre rettamente letto e compreso – il tema dell’impossibilità di dare ragione, a partire da un mero contrapporsi e agitarsi delle forze meccaniche, della “natura” e della genesi del vivente. La questione della generazione degli organismi viventi (e, implicitamente, la questione stessa della vita) troverà in Francia adeguata organizzazione tematica in Buffon, il cui lavoro principale41 è stato a volte portato come fonte di Kant42 – anche se, in verità, nessuna delle opere di Buffon è stata trovata nella biblioteca del tedesco – e se ne ritrova esplicita traccia solo nel trattato sui corpi celesti del 175543 e poche altre volte, quasi sempre, peraltro, in modo non proprio lusinghiero44. E però non può essere sottaciuto che alla sua uscita il lavoro di Buffon fu salutato come un «nuovo Discorso sul metodo» perché oltre che a discutere tesi controverse all’epoca, esso sembrò «offrire una nuova concezione della scienza, cioè una nuova 41 G. L. L. Buffon, Histoire naturelle, premier discours: De la maniére d’éstudier et de traiter l’histoire naturelle, in Id., Oeuvres philosophiques, vol. I, Paris, 1954, pp. 7-26 (pubblicato per la prima volta in Histoire naturelle, générale et particulière, avec la description du Cabinet du Roy, vol. 1, Paris, 1749.
A noi pare questa l’implicita posizione assunta da E. Köhler, Vorlesungen zur Geschichte der Französischen Literatur, hrsg. von H. Krauß und D. Rieger, Bd. 5, Freiburg i. B., 2006, in particolare, pp. 21-34. 43 I. Kant, Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels oder Versuch von der Verfassung und dem mechanischen Ursprunge des ganzen Weltgebäudes, nach Newtonischen Grundsätzen abgehandelt, in Kants gesammelten Schriften, vol. I, cit., pp. 215-368; tr. it., Storia universale della natura e teoria del cielo, a cura di G. Scarpelli, Roma, 1987. 44 Soprattutto se si considera il tema degli organismi viventi, del problema dell’autorganizzazione degli individui e sulla connessione di questi fenomeni ad una teoria generale della biologia, c’è davvero poco che coniughi le idee kantiane a quelle di Buffon. Per due pareri quasi diametralmente opposti in riferimento al “biologismo” scientifico naturale di Kant, ovvero alla determinazione storico-teleologica del suo impegno nella ricerca biologica, si vedano (e fa bene a noi “filosofi” sentire come scienziati ed epistemologi discutano di queste tematiche) rispettivamente P. R. Sloan, Kant on the history of nature: The ambiguous heritage of the critical philosophy for natural history, in «Studies in History and Philosophy of Science Part C: Studies in History and Philosophy of Biological and Biomedical Sciences», (37) 2006, pp. 627-648, e, stessa rivista e stesso numero (pp. 748-770), J. zammito, Teleology then and now: The que42
stion of Kant’s relevance for contemporary controversies over function in biology.
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concezione, riflessiva e cosciente, dei rapporti dell’uomo con la natura»45. Per quel che a noi maggiormente preme, va detto soltanto che Buffon vede nell’approfondimento del concetto di specie biologica l’apporto più importante che la scienza della sua epoca può intraprendere nello studio del vivente: «E’ nella successione, nel rinnovamento e nella durata delle specie che la Natura appare quasi incredibile. Questa facoltà, che risiede negli animali e nelle piante, di produrre la sua somiglianza, questo genere di durevole unità che sembra eterna, questa forza procreativa che è perpetuamente esercitata senza essere distrutta, tutto questo è per noi un mistero»46. E ancora più chiaramente, ecco come lo scienziato francese determina il senso della irrefutabile realtà del vivente non in quanto individuo ma in quanto specie: «Questo potere di produrre a sua somiglianza, questa catena di esistenza individuali successive (…) costituisce la vera esistenza delle specie»47. Insomma, in modo seppur controverso48, le analisi del francese sembrano portate a svalutare, nel campo dello studio del vivente, il ruolo dell’osservazione, la funzione determinante della sperimentazione pratica, e da ciò a concludere che della generazione e conservazione delle catene delle specie viventi è responsabile, secondo quanto riporta il grande Spallanzani, una «nuova specie di esseri, da lui chiamate particole organiche, le quali quantunque, secondo lui, dir non si debbono né animali né vegetabili, vuol però si riscontrino in copia prodigiosissima si negli uni come negli altri, e dall’assembramento e dissociazione di queste dipende, siccome opina, la produzione e lo struggimento di quanto vive nell’universo»49. La vita vegetale e quella animale, se tale ha da essere, si contraddistingue secondo Buffon per il suo carattere di continuità, per la sua ferrea, se così si può dire, “incatenabilità” all’essere, per il fatto che essa si può far risalire, sempre ed in ogni luogo, «nella prospettiva di una circolazione di molecole organiche opportunamente convogliate e smistate per forze attrattive e repulsive e a mezzo del moule J. Roger, Les sciences de la vie dans la pensée française du VIII siècle, cit., p. 527. 46 G. L. L. Buffon, Histoire naturelle, cit., p. 233. 47 Ivi, p. 238. 48 Secondo J. Roger, Histoire naturelle et biologie chez Buffon, in aa. vv., Lazzaro Spallanzani e la biologia del Settecento, cit., pp. 353-361, Buffon tiene di conto sia le generalità della scienza biologica – l’astrazione, i modelli categoriali, le specie come “tipo” di manifestazione dell’essere – sia le particolarità, intese come studio descrittivo dei casi singoli. 49 L. Spallanzani, Opere, vol. V, p. 288. 45
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intérieur, e poi conservate, eliminate, disperse e restituite alla natura (…)»50, e che poi, aggregandosi, danno forma alle specie eterne e sempre classificabili degli esseri animati. Buffon, come tutta la serie di autori che qui incontreremo (ma, come già detto, ognuno dalla sua peculiare prospettiva), sembra avere davanti, innanzitutto, due problemi: «a) come dar conto dell’ordine di sviluppo d’una individualità (organo o organismo) a partire dalle sue parti costituenti? Nel senso che il XVIII secolo riserva a questo termine, questo è il problema dell’“evoluzione”; b) come dar conto della stessa formazione del germe o della semenza a partire dagli elementi della materia? Questa, propriamente, è la questione della genesi»51. Le “particole” originarie, le “molecole organiche” di cui parla Buffon rappresentano allora, per certi tratti, una riedizione del corpuscolarismo lucreziano che, nella disputa tra preformismo, vitalismo e meccanicismo, si colloca su un piano di antiempirismo che, seppur reso più malleabile dalla valutazione positiva delle osservazioni (in special modo di quelle botaniche), si caratterizza per rinviare il problema della vita e della sua generazione oltre i confini di un’attenta meditazione filosofica dei princìpi della scienza della natura. Se si leggono, invece, le parole che scrive Albrecht von Haller52, un insigne fisiologo contemporaneo e corrispondente di Buffon, si comprende appieno la differenza di impostazione che qui ci interessa far risaltare, la centralità, cioè, delle “sperienze” teoricamente condotte e non solo quantitativamente intese: «Dopo l’anno 174653 n’ho fatte io G. Solinas, Studi sull’Illuminismo, Firenze, 1966, p. 36. A. Ibrahim, La notion de moule intérieur dans les théories de la génération au XVIII siècle, in «Archives de Philosophie», (50) 1987, pp. 555-580, qui, p. 556. 52 A. von Haller, Mémoires sur la nature sensible et irritable des parties du corps animal (1756-1760), Lausanne, 1756; tr. it. Dissertazione intorno la natura sensibile, ed irritabile delle parti del corpo animale, Venezia, 1789. 53 Ivi, p. 39. Proprio in questo punto cade una nota a piè di pagina dove il medico-poeta svizzero scrive: «Quest’è l’Epoca delle mie frequenti esperienze sopra gli animali viventi. La disputa intorno la respirazione m’impegnò a moltiplicarle, ed a poco a poco se n’è diffuso il buon gusto per esse. Molti de’ miei Allievi vollero fare dei corsi d’Esperienze, per arricchirne le loro tesi inaugurali. Ho diretto le loro esperienze; ne feci un numero presso che incredibile; e parecchi disparatissimi fatti s’appresentarono da ogni parte sotto i miei occhi, nello stesso tempo che avevo in mira degl’altri fenomeni». Si noti l’insistenza – che ancora sarà ribadita, e che non mancheremo di evidenziare – di von Haller sull’efficacia non solo metodologica del numero delle esperienze (degli esperimenti), ma pure sulla pregnanza teorica della qualità delle osservazione, che 50
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medesimo molt’altre prima di lui54, e con lui, e dopo il principio dell’anno 1751. io ho sagrificati alla mia curiosità 190 animali, specie di crudeltà, per la quale io sentiva una ripugnanza, che non ha potuto esser vinta, che dal desiderio di contribuire all’utilità del genere umano»55. Colpisce, in queste frasi – ma un po’ in tutto il trattato e nella prosa intera di Haller – la sensibilità emotiva del ricercatore che si vede costretto a infliggere sofferenze indescrivibili agli animali da laboratorio56 per quello che ai suoi occhi doveva apparire un costo che valeva la pena di sopportare: «Mi sono tanto più volentieri determinato, a travagliare su questa materia, quanto maggiori rilevai i cambiamenti dei quali sono origine l’esperienze ch’espongo, in quello che riguarda la Fisiologia, Patologia, e Chirurgia, coll’iscuoprire molte verità contrarie alle opinioni generalmente ricevute»57. Ciò che spinge l’uomo58 e lo scienziato Haller andavano fatte sull’organismo vivo e non su un tessuto ormai morto. 54 Haller si sta riferendo a Johann Georg zimmerman, suo allievo, amico e pure parente, autore di una biografia del suo maestro dal titolo Das leben der Herrn von Haller, zürich, 1755, di un’altra opera dal titolo assai indicativo: Von der Erfahrung in der Arzneykunst, zürich, 1763-1764, e di un trattato in francese, Traité de l’expérience en général, et en particulier dans l’art de guerir, Paris, 1774, dove, con una chiarezza estrema – tanto da poterla esattamente attribuire anche ad Haller – dice (pp. 43-44): «Un’esperienza differisce da una semplice osservazione: la conoscenza che ci procura un’osservazione sembra presentarsi da sé; al contrario, quella che ci fornisce l’esperienza è il frutto di qualche tentativo che si fa nel disegno di vedere se una cosa è o non è (…) l’osservatore ascolta la natura, colui che sperimenta la interroga». 55 A. von Haller, Dissertazione, cit., pp. 39-40. 56 Ivi, p. 45: «Ho preso degli animali vivi di differenti generi, e differente età; dopo che ho scorticato la parte che io voleva esaminare, ho aspettato, che l’animale cessando i suoi movimenti, ed i suoi lamenti fosse in istato di tranquillità; allora ho irritato questa parte, col soffio, col calore, collo spirito di vino, collo scarpello, colla pietra infernale, coll’olio di vetriuolo, e col butiro d’antimonio. Ho esaminato attentissimamente, se toccando, tagliando, bruciando, lacerando quella parte, l’animale perdeva la sua tranquillità, se si agitava, se ritirava la parte ferita, se gli sopravveniva qualche convulsione, oppure se in siffatti esperimenti non avesse luogo giammai, veruno degl’indicati accidenti». 57 Ivi, p. 41. 58 Per misurare la statura umana e non solo scientifica di von Haller, anche in riferimento alla sua attività poetico-filosofica, si veda F. Desideri, Quartetto per la fine del tempo. Una costellazione kantiana, Genova, 1991, che dedica tutta la prima parte (pp. 15-73) all’analisi, in particolare, di un’ode sull’eternità dell’erudito svizzero. Desideri, in merito alla componente pietistica del sentire
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ad impossessarsi del dolore dei viventi è l’esigenza di mostrare verità controintuitive, di fatti che si oppongono alla percezione immediata di un osservatore incostante e distratto, o di un teorico con tendenze assolutizzanti, di coloro che «non fanno, se non poco, o niente di esperienze, e quello ch’è ancora più pericoloso, vi sostituiscon delle analogie, alle quali danno la medesima forza»59. Si impone urgentemente un cambio prospettico, va fatta una salubre ripulitura dagli scrostamenti di una scienza troppo legata alla sillogistica deduttivizzante, che poco o nulla lascia rispetto all’attivismo dello sperimentare prospettivistico. L’analogia (uno degli argomenti centrali nel corso del nostro lavoro) di cui parla Haller e che è da lui criticata, è uno strumento troppo spuntato rispetto alle nuove dimensioni che gli strumenti di indagine hanno acquisito, perché si tratta di un’analogia “forte” e “immobile”, un modo di approccio al reale che attribuisce alla propria attività un valore apodittico, dogmatico, poco elastico. Bisogna invece sì servirsi dell’analogia come forma d’indagine, ma di un analogizzare che accanto all’empiria osservativa metta in essere anche un’induzione “qualitativa” delle cose osservate, un’illazione analogica indispensabile per la «necessità dell’agire. Ogni azione infatti, ogni rapporto pratico con le cose sarebbero preclusi all’uomo, se non potesse più fare assegnamento sul fatto che ciò che la precedente costante esperienza gli ha insegnato varrà anche in avvenire e vi conserverà la sua efficacia»60. Il Cassirer che qui spiega il cambio di prospettiva implicato nella visione illuministica della scienza, è quel pensatore che ha imparato a fare i conti col pensiero storico, che dalla presunta eternità dei presupposti gnoseologici del sapere intorno alla natura, ha saputo cogliere invece (in se stesso e nella scienza dell’Illuminismo e della Romantik) il bisogno di un approccio diverso alla natura della scienza in quanto scienza di una natura non più intangibile ed eterna, ma anch’essa trasformantesi e soggetta a metamorfosi. «La deduzione dal passato al presente e dal presente al futuro non è dunque, è vero, una deduzione di logica formale, una deduzione sillogistica stringente: ma è ciò nondimeno religioso di Haller, rimanda a A. Lindt, Haller und das Christentum des 18. Jahrhunderts, in aa. vv., A. von Haller 1708-1777, Hrsg. K. S. Guthke, Bern, 1977, pp. 129-142. Opportuno ci è parso far risaltare la comune radice religiosa di von Haller e di Kant per sottolineare vieppiù la convergenza di alcuni modi d’approccio alla scienza comuni a entrambi i pensatori. 59 A. von Haller, Dissertazione, cit., p. 42. 60 E. Cassirer, Die Philosophie der Aufklärung, in ECW, cit., Bd. 15, Hamburg, 2003, p. 62; tr. it., La filosofia dell’Illuminismo, Firenze, 1952, p. 94.
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un’illazione per analogia, valida e indispensabile»61. Haller “vede” la reazione fisiologica delle parti del corpo degli animali vivisezionati, ripete le esperienze fino a un numero di casi sufficiente, suddivide le reazioni in due tipi, sensibilità e irritabilità, con ciò connettendo – pare per la prima volta62 - discipline come la fisiologia e l’anatomia, considerate fino ad allora come scienze separate; ritiene che le medesime reazioni svoltesi di fronte ai suoi occhi si ripeteranno anche in un esperimento ipotetico, determina una legge generale che però non esprime giudizi su ciò che non è dato osservare ed in effetti non fa altro che “rendicontare” momento per momento ciò che si sviluppa temporalmente nell’esperimento. Cronaca della vitalità del vivente e “racconto” descrittivo dei fatti che si svolgono in un tempo determinato. Era quello che Haller aveva appreso a Leida dal suo maestro Gravesande, proprio il fisico olandese che tanto aveva contribuito alla diffusione sul continente della filosofia naturale di Newton e che, ancora una volta non per caso, è assai citato dal Cassirer della Filosofia dell’Illuminismo63. Tanto basta a Haller, gli è sufficiente aver accertato, attraverso «il risultato di tutte queste esperienze (…) una nuova divisione delle parti del corpo umano che seguirò in questa piccola opera, distinguendo quelle che hanno la proprietà d’essere Irritabili, e Sensibili, da quelle che non la hanno»64. Che vi siano degli irrefutabili fatti secondo i quali certe zone del corpo vengono irritate, altre sensibilizzate, altre né l’uno né l’altro, Haller lo descrive raccontando passo per passo i suoi esperimenti. Perché tali fatti accadono resta un problema: «Qual è la cagione di queste due proprietà? Perché alcune parti ne sono esse dotate, mentre che alcune altre ne sono prive? Questi sono problemi teoretici, che io non prometto di risolvere», perché le ragioni per le quali le cose sono così e non altrimenti risultano «nascoste verisimilmente nella tessitura delle minime molecule della materia, che non cadono sotto lo scarpello, né 61
Ivi, pp. 94-95.
è l’opinione di A. Cunningham, The Pen and the Sword: recovering the disciplinary identity of physiology and anatomy before 1800 - I: Old physiology—the pen, in «Studies in History of Philosophical Biology & Biomedical Sciences», (33) 2002, pp. 631–665, in particolare pp. 653-654. Da questa separazione teorica, Desideri, Quartetto per la fine del tempo, cit., p. 28, vuole attribuire ad Haller «una traduzione fisiologica dell’inquietudine agostiniana del cuore». 62
E. Cassirer, Die Philosophie der Aufklärung, cit., pp. 61 e sgg.; tr. it., pp. 93 e ssg. 64 A. von Haller, Dissertazione, cit., p. 40. 63
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sotto il microscopio»65. Tutta kantiana – a noi sembra (e naturalmente qui si discute di ciò che noi, oggi, intendiamo per kantismo) – è la motivazione che Haller adduce a questo ritrarsi (ma non, si badi bene, cancellarsi) della ragione di fronte a ciò di cui non è dato fare esperienza: «tutto ciò che può dirsi su di questo si limita a congetture, che non azzarderò; son troppo lungi dal voler insegnare qual si sia punto di quel che io ignoro: e la vanità di voler guidare altri per cammini, ove non vi si vede neppur se medesimo, mi sembra esser l’ultimo grado dell’ignoranza»66. è in quelle “molecule” di materia che si nasconde l’inspiegabile della vita; meglio: nella “tessitura” di quelle particelle la vita si annida e opera la sua misteriosa azione. Non che vi possa essere dubbio sull’esserci della vita in quelle particelle – dice lo svizzero. Solo, io non posso dirne niente di certo perché non ho (attualmente, né nel mio passato) potuto farne esperienza e penetrarne i modi d’organizzazione (la tessitura). Questa organizzazione Friedrich Caspar Wolff crede di trovarla, nel definirla vis essentialis, nella più piccola “sede” dove la vita si genera: l’embrione per l’animale, il seme per il vegetale67. Il dibattito fra Haller e Wolff è uno dei momenti più interessanti di tutto questo periodo, controversia che per altro si amplia a tutta l’Europa sapiente (Haller era membro accademico delle università di Uppsala, Londra, Stoccolma, Berlino, Bologna e Parigi68) in virtù della rivoluzionaria Ivi, pp. 40-41, corsivo nostro. Ivi, p. 41, corsivo nostro. Estremamente utile in relazione a ciò di cui si sta discutendo è il bel libro di M. T. Monti, Congettura ed esperienza nella fisiologia di Haller. La riforma dell’anatomia animata e il sistema della generazione, Firenze, 1990. L’autrice ha un’ipotesi di fondo: ridimensionare la portata del cambio di prospettiva che Haller avrebbe attuato, dal suo iniziale preformismo alla svolta verso l’epigenismo (ivi, p. 121). Secondo S. A. Roe, Matter, life, Generation. 18th. Embryology and the Haller-Wolff Debate, Cambridge, 1981, Haller avrebbe addirittura perseguito «durante la sua vita, tre distinte teorie riguardanti lo sviluppo embrionale» (ivi, p. 21). 67 Per la bibliografia relativa a Wolff, ricordiamo qui solo le sue più famose opere: Theoria generationis (Edictio nova), Halle, 1774, pubblicato per la prima volta ad Halle nel 1759 (questa edizione ampliata – che noi utilizzeremo - è molto importante in quanto vi si presentano una serie di rilievi critici ad opere di Bonnet e dello stesso Haller che erano nel frattempo uscite a stampa); Id., Theorie von der Generation, in zwei Abhandlungen erklärt und bewiesen, Berlin, 1764; Id., Von der eigentümlichen und wesentlichen Kraft der vegetablischen sowohl, als auch der animalischen Substanz, als Erläuterung zu zwo Preisschriften über die Nutritionskraft, Sankt Petersburg, 1789. 68 Su ciò, H. Steinke, Irritating Experiments: Haller’s Concept and the Euro65 66
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scoperta halleriana della separazione tra facultas irritandi e facultas sentiendi. Ma con Wolff il problema si amplia ben oltre la determinazione della definizione e categorizzazione di due funzioni, anche se il dato funzionale resta come segno indicativo della via da seguire69. Superato da entrambi uno sterile ed inutile meccanicismo ortodosso (e gli effetti di questo superamento sono facilmente verificabili nelle prove “enciclopediche” di Diderot, D’Holbach e D’Alembert70), i due, in merito al problema dell’origine e della conservazione della vita, si schierano su due fronti opposti: Haller, in un primo momento – pare – fautore di una teoria preformista (che «postulava che nello sviluppo embrionale le strutture dell’organismo non si costituivano gradualmente, ma che esistevano già perfettamente compiute in forma minuscola, in un uovo fecondato»71); Wolff sostenitore dell’epigenesi – «che significa che tutti gli organi si formano l’uno dopo l’altro a partire da un’iniziale massa omogenea, del tutto non strutturata»72. Prossimo e più noto prosecutore dell’idea harveyana del «primordium ovoide comune a tutti gli animali» e della tesi, sempre dell’inglese, «che ciò che si formava derivava da una materia informe secondo la sequenza cronologica dello sviluppo degli organi»73, Wolff aveva esposto la prima volta nel 1759 pean Controversy, Amsterdam, 2005, p. 12. 69 Per questo aspetto, oltre che naturalmente il Cassirer di Substanzbegriff und Funktionbegriff (1910), in ECW, Bd. VI, Hamburg, 2000; tr. it. Sostanza e funzione, con Presentazione di G. Preti, Firenze, 1973, si veda un altro importante lavoro: W. Lepenies, Das Ende der Naturgeschichte: Wandel kultureller Selbstverstandlichkeiten in den Wissenschaften des 18. und 19. Jahrhunderts, Frankfurt a. M., 1976, dove si analizza in modo approfondito (pp. 52-77) il passaggio «von der Naturgeschichte zur Geschichte der Natur», che troviamo anche – ma lo vedremo tra un pò – nel Kant della terza Critica. 70 Si vedano ad esempio, di Denis Diderot, i Pensées sur l’interpretation de la nature (1753), Paris, 1754, pp. 170 e sgg.; tr. it. Pensieri sull’interpretazione della natura, a cura di P. Quintili, Roma, 1996, pp. 100 e sgg. (Delle cause), ma, in generale, per tutto quel che concerne l’attenzione dedicata dai Philosophes dell’Enciclopedia al tema della scienza della vita, si vedano ancora le dense pagine di J. Roger, Les sciences de la vie dans la pensée française du VIII siècle, cit., pp. 584-682. 71 J. Wellmann, Wie das Formlose Formen schafft. Bilder in der Haller-WolffDebatte und die Anfänge der Embryologie um 1800, in aa. vv., Oberflächen der Theorie, Hrsg. H. Bredekamp-G. Werner, Berlin, 2003, p. 105. 72 Ibid. 73 W. Pagel, Le idee biologiche di Harvey. Aspetti scelti e sfondo storico, Milano, 1979, p. 392. Su questo punto, si veda pure W. Bernardi, Le metafisiche
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pubblicamente la sua ripresa (aggiornata e rivista alla luce delle sue – in verità non frequentissime – osservazioni microscopiche) di Harvey nella Theoria generationis, che sarà polemicamente criticata da Herder74. In quest’opera, il giovane Wolff, volgendosi deferentemente nella forma ad Haller, ma attaccandolo fortemente sul piano teorico, così sostiene nelle Praemonenda: «§ I. Per consenso di tutti, col termine generazione del corpo organico naturale [Generationis corporis organici naturalis] si intende la formazione [formatio] di quello secondo tutte le sue parti, e il modo della sua composizione. § II Per principio di generazione si ha da intendere quella forza del corpo [corporis vis] che presiede alla formazione. E il modo, che quello muove, costituisce ciò che l’Illustrissimo Signor von Haller desidera come legge della generazione»75. L’attenzione dello scienziato, dopo queste premesse generali, si rivolge fondamentalmente a delineare quella che lui stesso considera la novità delle sue ricerche, la forza movente della generazione, ben sapendo di scontrarsi con le tesi preformiste. Questa vis è infatti essenziale perché solo in base alla sua determinante azione «perfezionatrice»76, le parti di un embrione, che in sé non hanno nulla di vitale, possono dare origine a un costrutto dotato di una sua autonoma e individuabile esistenza. Se ciò vale per l’embrione («conseguentemente (…) deve esistere una forza (…) che trasferendo particolari nutrienti dall’uovo all’embrione, non è sistole del cuore e delle arterie, né risultato delle vene vicine, né derivante dalla compressione dei muscoli»77), analogamente deve valere per la pianta, dell’embrione. Scienze della vita da Malpighi a Spallanzani, Firenze, 1986, in particolare, per quanto attiene a Wolff, pp. 42 e sgg. 74 Su ciò, S. Caianiello, Scienza e tempo alle origini dello storicismo tedesco, cit., pp. 176-177. Si veda anche la ricostruzione che N. Merker, L’Illuminismo tedesco: l’età di Lessing, Bari, 1974, pp. 372-374, fa del percorso scientifico di Herder. 75 F. C. Wolff, Theoria generationis, cit., pp. XI-XII. Più oltre, pp. LV-LXVI, Wolff enuncia una «apologia Auctores ad H a l l e r i difficultates», seguita immediatamente da una «obiectionum, a B o n n e t o propositarum refutatio», riferendosi a Charles Bonnet che nel suo Considerations sur les corps organisés, pubblicato ad Amsterdam nel 1762, scriveva: «La maniera in cui s’opera l’accrescimento del corpo organico è un punto della fisica molto oscuro. Quando una buona volta saremo in grado di conoscere come una semplice fibra s’ingrossa e si estende, allora comprenderemo come un grano diventa un albero e come un uovo un animale» (ivi, p. 4). 76 F. C. Wolff, Theoria generationis, cit., p. 95. 77 Ibid.
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ché in essa deve pur trattarsi, se si discute di una vita individuale, di una questione nutritivo-accrescitiva78. In breve, la vis è essenziale perché immette nella “storia” dell’individuo un alcunché di non preesistente alla sua propria azione: allora e solo allora – nel suo generarsi come forza motrice ed “essenziante” – la vita prende corpo e si installa nella materia morta. Particolare non di secondo piano, qualche decennio dopo, Blumenbach (la cui importanza nel campo della ricerca biologica è ben nota a Kant e assai apprezzata) vorrà con forza evidenziare le differenze tra il suo Bildungstrieb (o nisus formativus) e la vis wolffiana: «Questo impulso non ha nulla a che vedere con la vis plastica o con la vis essentialis, e neppure con fermentazioni chimiche, espansioni cieche o altre forze semplicemente meccaniche che taluni ammettono per spiegare la generazione»79. La centralità della disputa Haller-Wolff è comprensibile se si tiene conto che essa per certi aspetti rappresenta il teatro dove si svolge la rappresentazione sintetica di una serie di tendenze, di approcci, di avanzamenti e di proposte teoriche di ricerca. E ciò rende indispensabile una ricostruzione minima dei fatti salienti di questa diatriba. Nel 1758 Haller pubblica a Losanna un libro sulla formazione del cuore del Ivi, p. 1. J. F. Blumenbach, Über den Bildungstrieb (Nisus formativus) und seinen Einfluß auf die Generation und Reproduction, in «Göttingisches Magazin der Wissenschaften und Litteratur», (1) 1780, pp. 247–266, qui pp. 250-251. Il breve saggio fu poi ripubblicato nel 1781 e successivamente nel 1791, sempre a Gottinga, queste ultime con un’introduzione e con qualche ampliamento, senza che però questi cambiamenti modificassero il costrutto della struttura teorica dell’articolo del 1780. è stata pubblicata in italiano una traduzione del saggio, tratta dall’edizione 1871: J. F. Blumenbach, Impulso formativo e generazione, a cura e con un Saggio introduttivo (pp. 9-102) di A. De Cieri, Salerno, 1992. Più avanti (cfr. supra, n. 103), indicheremo nell’edizione del 1791 quella di riferimento utilizzata, e ne chiariremo i motivi. Qui, nell’articolo del 1780, all’occorrenza ‘forza plastica’, Blumenbach appone una nota a piè di pagina (che nell’edizione 1781 e quindi anche in quella italiana, entra invece nel corpo del testo), dove scrive: «Vis plastica sembra essere – in alcuni autori – una vuota parola per una qualitas occulta. Il concetto più determinante è ancora quello di Franz Bonamico, il noto aristotelico, nel suo De formatione fetus, p. 528» (ivi, p. 251). Qui lo scienziato tedesco sta accennando a Francesco Buonamici, membro dell’Accademia Fiorentina e noto soprattutto per un opera del 1591, De motu libri X, un trattato di filosofia naturale al modo scolastico, senza particolari crismi d’originalità. 78 79
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pollo80, le cui conclusioni impongono di considerare la preesistenza di tutte le forme e di tutte le funzioni vitali dell’individuo-pollo nella struttura ovarica della femmina prima della fecondazione81. Wolff, l’anno seguente, dopo aver pubblicato la sua Theoria generationis, a dicembre scrive ad Haller una lettera di accompagnamento alla Theoria, nella quale, dopo aver espresso una apparentemente sincera ammirazione per i risultati complessivi dell’opera dello svizzero, e, in particolare, su quelli della ricerca dell’anno prima, scrive, dopo i saluti e gli elogi di rito: «Né, illustrissimo, mi spaventa che Voi abbiate di recente reso onore alla teoria opposta alla mia col Vostro illustro nome e con la Vostra autorità. E ciò non solo perché sono convinto dell’amore sincero con il quale Voi perseguite la verità, per il quale il mondo intero vi ammira e che io credo di aver toccato con mano, ma anche perché quel genere di cose che sono state avanzate negli esperimenti meglio riusciti, non sono di genere tale da dovermi fare abbandonare la speranza nella verità della mia teoria»82. Una teoria, quella di Wolff, che è interessante vedere come venga recepita e diffusa dall’anonimo recensore che, nel 1769, ha di fronte proprio l’edizione del testo di Wolff che noi stiamo utilizzando: «In una sezione peculiare [l’autore] risponde a obiezioni di tipo fondamentale (…) che sono state rivolte contro la sua teoria da Herr von Haller e da Herr Bonnet. Non possiamo certamente qui esporre la teoria in breve, che del resto può essere letta sulla stessa Dissertazione. Vogliamo solo dire che l’autore sostiene l’ipotesi della predelineazione o evoluzione [Prädelineation oder Evolution], e che la sua teoria si regge [baut sich] sull’epigenesi. Egli crede tanto poco che in un seme è già formato l’albero intero con tutte le sue parti che deve nascere da quello, e che, se nasce si evolve solo nel tempo, diventando visibile, quanto a un lupo che un attimo prima è stato piccolo e che ora, nato, si evolve soltanto e diventa visibile. Egli tanto poco crede che il giovane embrione è già perfettamente formato, soltanto evolvendosi nel corpo materno, quanto a un arcobaleno che, appena nato, c’è sempre stato dall’inizio della creazione e che solo ora diventa visibile. Le ragioni dell’autore A. v. Haller, Mémoires sur la Formation du Cœur dans le Poulet, sur l’Oeil, sur la Structure du Jaune, & sur le Développement, Lausanne, 1758. 81 Questo risultato raggiunto da Haller permetteva, secondo Bonnet, Considerations sur les corps organisés, cit., p. 133, di «ottenere l’importante conseguenza che le ovaie di tutte le femmine contengono originariamente gli embrioni preformati, che per cominciare a svilupparsi non attendono che il concorso di certe cause». 82 Briefe an Albrecht von Haller, in «Historia Helvetiae», tomo XVIII, p. 12. 80
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sono seducenti [einnehmend], vivace la sua scrittura mediante la quale tiene il lettore in un attenta e vigile attesa in questa materia complessa e sottile»83. Perché era così importante leggere tutta (o quasi) la recensione al lavoro di Wolff? Si trattava di mettere in evidenza il carattere pressoché “divulgativo” cui erano giunte le comunicazioni scientifiche – riguardanti non solo la biologia – presso un pubblico composto anche da non esperti o non rigorosamente sperimentatori e professori universitari84. Il clima quasi euforico che attraversava la società illuminata e borghese si faceva forza di un processo progressivo di desacralizzazione della scienza e perciò di una sempre più diffusa utilizzabilità. Assumendosi il peso di una consapevole mancanza di certezze assolute, la scienza illuministica ottiene in cambio la patente di «“scienza profana”»85, opposta ad una “sacra”, una «“civiltà della critica”, animata dal progetto di fondare se stessa interamente sulla ragione e sulla libera investigazione»86. Insomma, quando Haller e Wolff discutono delle loro divergenze teoriche l’Europa sapiente e quella più evoluta dal punto di vista culturale è tutta orecchi, e non pare si tratti più di elitarie e snobistiche elucubrazioni tra due sapienti che volutamente tengono da parte i loro saperi. No. Il sapere – i saperi – che si strutturano e si perfezionano nelle “esperienze” di gabinetto, fluiscono con una rapidità mai vista prima dai laboratori e dalle aule universitarie. Si tratta di saperi “concreti”, fattivi, produttivi, appunto “curiosi”, e, come tali, adatti ad essere recepiti anche da un pubblico di non esperti. Ritornando brevemente al rapporto Haller-Wolff, bisogna tener conto che dal 1760 fino alla morte del primo, avvenuta nel 1777, i due intrattengono una serie di rapporti epistolari – ripetiamo: seguita da tutti i dotti dell’epoca – intervallata dalla pubblicazione delle loro opere e dalle recensioni di Haller a quelle di Wolff87. Ciò che più ci interessa, al proposito, è la fissazione del polarizzarsi, attorno ai due studiosi, di altrettanti “partiti” scientifici, Anonimo, Wolf, K.F.: Theorie von der Generation: Rezension, in «Allgemeine deutsche Bibliothek» (10) 1769, pp. 222 – 224, qui 223-224 (corsivo nostro). 84 Testimonianza di questo interesse è la già citata «Almanach für Aerzte und Nichtaerzte», rivista uscita a Leipzig e a Gera dal 1782 al 1797. 85 L. Pellicani, Dalla società chiusa alla società aperta, Soveria Mannelli, 2002, p. 149. 86 Ivi, pp. 149-150. 87 Per il dettaglio di questi momenti, si veda l’Appendice A in S. A. Roe, Matter, life, Generation. 18th. Embryology and the Haller-Wolff Debate, cit., p. 157. 83
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l’uno versato a considerare la preformazione come spiegazione della vita, l’altro ad utilizzare l’idea epigenetica allo stesso scopo, con una decisa prevalenza, tuttavia, visti nomi dei suoi fautori («il triumvirato Haller, Bonnet, Spallanzani»88) della prima rispetto alla seconda. Ad un certo punto, «con Blumenbach (…) la situazione cambia radicalmente»89. Ecco che dunque rientra in primo piano, e direttamente, sul piano della discussione in corso, il contributo straordinariamente innovativo del Kant che si avvia a pensare un nuovo modo di intendere il Leben nelle sue potenze manifestative. 3. Una possibile via da battere: da Kant a Blumenbach e ritorno Riprendiamo il filo del discorso kantiano lì da dove l’avevamo interrotto, e leggiamo la lettera che Kant scrive ad Haller in occasione dell’invio all’illustre scienziato-poeta del suo studio sulle forze vive, cui abbiamo fatto riferimento in precedenza. Innanzitutto, la lettera data 23 agosto 1749, ossia ben due anni dopo la prima stampa del lavoro: «Mio Signore, vorrei avere l’onore di giustificare la libertà che mi prendo, nell’inviarle un esemplare dei Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive, e di cercare di dare notorietà a questo trattato tramite l’importanza della sua irreprensibilità, e laddove l’esecuzione dello stesso renda questo onore non del tutto indegno, incitare, per le ragioni che vi sono portate, il mondo ad una più precisa ed imparziale [unpartheyischen] ricerca. La cosa importante della vera valutazione delle forze nella teoria della natura porta a esigere quantomeno di risvegliare la premura del tedesco a una decisione definitiva che, in merito a questo punto, sembra essersi addormentata. La stampa di questa operetta è terminata solo quest’anno, anche se l’inizio, come dall’indicazione sul titolo, fu avviato già nel 1746, ed il ritardo è stata colpa tanto di impedimenti esteriori quanto della mia assenza. Ho in preparazione pure un proseguimento di questi Pensieri in cui, accanto ad una loro ulteriore attestazione, vi vengono colte altre osservazioni mirate. Non appena uscirà a stampa sarà mio onore inviargliela ugualmente. Sempre al suo servizio, I. Kant»90. Perché Kant è convinto che Haller possa avere autorevolezza nel campo della valutazione delle forze vive? Perché il giovanissimo filosofo che si interessa di fisica si rivolge al celebre sperimentatore in fisiologia, al Ivi, p. 150. Ivi, p. 151. 90 Briefe an Albrecht von Haller, in Gesammelte Schriften, cit., Bd. X, pp. 1-2. 88 89
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teorico della differenza tra irritabilità e sensibilità? E poi: quale potrebbe essere stato il “proseguimento” della sua ricerca sulle forze vive? A che si riferisce Kant quando parla della preparazione di un lavoro avente di mira una sistemazione e un progresso dei risultati raggiunti nei Pensieri? Non a tutte tali questioni sarà possibile dare non diciamo risposta, ma almeno chiarificazione dell’ambito in cui esse si pongono, e resteranno aperte in quanto questioni come tali. Ma la ricerca, evidentemente, è qualcosa che per sua natura ha a che fare con le domande aperte e perciò in tale strategia appronteremo delle ipotesi di lavoro che non potranno avere riscontro esatto. Secondo noi, Kant è già nell’ottica di considerare i fenomeni “semplicemente” fisici – il moto, la quiete, l’urto tra corpi, i corpi stessi – come materia che non si esaurisce nella semplice determinazione quantitativa, meccanica, rispondente a sollecitazioni inerziali soltanto, a leggi unicamente fisiche. Nell’opinione di un sagace studioso italiano, insegnante ed operante a Parma tra fine Settecento e gli inizi dell’Ottocento troviamo forse una traccia del perché Kant si diriga verso Haller in merito all’apprezzamento a un lavoro apparentemente limitato al campo della teoria fisica della natura: «Mi pare, dice egli [Haller], essere l’irritabilità una proprietà tale de’corpi, specialmente animali, che contenga in sé medesima la cagione del suo movimento, e che renda in conseguenza questi corpi privi affatto d’inerzia»91. Secondo Tommasini, che lo cita direttamente, Haller avrebbe scoperto che «tolta l’irritabilità si toglierebbe ancora la vita; e merita pertanto l’irritabilità d’essere annoverata tra le proprietà primarie de’ corpi come quella che conviene a tutti gli animali e che forse è la sola la quale fa che viviamo»92. Ecco che Kant pensa ad Haller come possibile interlocutore al riguardo dell’esser-vive delle forze, su un piano non semplicemente “estensivo”, ma intensivo, profondo, spirituale. Non sarebbe sfuggito a Kant, infatti, 91 G. Tommasini, Raccolta completa delle opere mediche: con note aggiunte ed emende tipografiche. Edizione nuovissima, Bologna, 1833, p. 167. Non va trascurata l’opinione di chi, come il Grillenzoni, Kant e la scienza, cit., pp. 171-172, intende vedere nell’operetta kantiana un’anticipazione dell’Allgemeine Naturgeschichte del 1755, ossia l’idea che «i moti planetari legati alle forze vive» siano il «risultato non di una “spinta” esterna, bensì interna al corpo e prodotta in un tempo determinato». 92 G. Tommasini, Raccolta completa, cit., p. 167. Un libro assai utile a ricostruire il clima (soprattutto italiano, tra Spallanzani, Volta, Galvani, ma anche attento ai riflessi europei e in particolare halleriani) del dibattito tra irritabilità e sensibilità, è quello di W. Bernardi, I fluidi della vita. Alle origini della controversia sull’elettricità animale, Firenze, 1992.
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e probabilmente all’epoca della lettera la cosa era già presentita, «il desiderio di Haller di dissociarsi dalle posizioni di La Mettrie che a suo parere, avendo nell’Homme Machine orecchiato e usato maldestramente le scoperte altrui, aveva fatto dell’irritabilità l’arbitrario fondamento di un sistema contrario alla spiritualità umana»93. Insomma, Kant era già sufficientemente maturo (o curioso), all’epoca dei Pensieri, per porsi la questione della natura vivente (della natura del vivente) in modo problematicamente creativo. Questa germinale maturità (o curiosità) si acuirà ben più ampiamente col passare degli anni e delle esperienze intellettuali che via via si alterneranno nella sua vita. Un’attenzione, quella di Kant, che, giusta l’espressione di Enzo Paci, ha di mira non semplicemente una riedizione di visioni particolari, riguardanti questo o quell’aspetto della scienza biologica, ma già qui il «senso della sua posizione, e in modo decisivo nel Kant precritico, appare come ricerca 93 E. Agazzi, Il prisma di Goethe, Napoli, 1996, p. 21. Il celebre libro di La Mettrie, pubblicato a Leida nel 1748, e che a p. 291 dell’Index librorum prohibitorum ss. Domini nostri Gregori XVI Pontificis maximi (1852) fa egregia mostra di sé, rappresenta, per certi aspetti, l’apice di un processo di radicalizzazione illuministica della dottrina cartesiana dell’estensione, dell’uomo e del suo corpo come meccanismo simile agli ingranaggi degli orologi. E, come nella metafora cartesiana, egli utilizza analogie meccaniche per spiegare il funzionamento del corpo («è attraverso l’uso di pulegge – così il francese – che i meccanici sollevano corpi pesantissimi, e nell’uomo la natura si conduce nello stesso modo». J. O. de La Mettrie, L’Homme Machine, Leiden, 1748; tr. it., L’uomo macchina e altri scritti, a cura di G. Preti, Milano, 1973, p. 28. Pregevole lavoro introduttivo – e non solo – a La Mettrie e al movimento medico illuministico è quello di K. Wellmann, La Mettrie. Medicine, Philosophy, Enlightenment, Durham-London, 1992. Interessante il giudizio critico – forse troppo severo, in verità – che A. Moravia, L’enigma dell’esistenza: soggetto, morale, passioni nell’età del disincanto, Milano, 1996, p. 173 e sgg., propone a proposito della differenza tra l’homme machine di La Mettrie e l’homme sensibile di Cabanis, malamente letto, nell’opinione di Moravia, come un semplice prosecutore del pensiero del più famoso La Mettrie, più attento, invece, sul piano medico-fisiologico, quanto più profondo su quello spiccatamente filosofico (ivi, pp. 174-175). Su tutta l’eredità cartesiana dell’Illuminismo, concentrantesi in special modo – secondo l’Autrice – nei Philosophes dell’Encyclopédie, più che nel materialismo “ortodosso” dei La Mettrie e dei Maupertuis (secondo, invece, la celebre interpretazione di Vartanian, Descartes and Diderot. A Study of Scientific Naturalism in the Enlightenment, Princeton, 1953; tr. it., Descartes e Diderot, Milano, 1956), si veda di M. Spallanzani, L’arbre et le labyrinthe. Descartes selon l’ordre des Lumières, Paris, 2009.
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dei fondamenti e della possibilità della scienza»94. Non si parteggia, nella nostra analisi, per una priorità gnoseologica che la biologia avrebbe nella scala kantiana delle materie scientifiche, ma, come mostrerà l’apoteosi teleologica della terza Critica, la scienza del vivente è il punto d’approdo “finale” e concludente del philosophieren di Kant. Allora, si diceva, con Blumenbach il panorama della ricerca su ciò che è “vivo” della vis cambia prospettiva. Il vecchio Kant, nel paragrafo intitolato La storia profetica dell’umanità ne La disputa delle Facoltà95, discute notoriamente della possibilità che il progresso del genere umano verso il miglioramento civile ed etico sia non solo auspicabile, ma addirittura necessario, un costante progredire che «non conoscerà più un totale regresso»96. In queste pagine, nell’attenzione tematica destinata alla facoltà “preveggente” di cui egli stesso si fa portavoce («ora io credo, anche senza essere dotato di spirito profetico, di poter presagire per l’umanità, in base agli elementi e ai segni precorritori dell’età nostra (…)»97), Kant esprime nella forma della più matura consapevolezza dell’importanza del finalismo nell’ambito della filosofia della storia, che il progresso, in effetti, è un evento talmente incidente nelle prospettive degli organismi umani associati, che esso non può più essere nascosto, ed è di siffatta natura che «un tale fenomeno [Phänomen] nella storia dell’umanità non si dimentica più [v e r g i ß t s i c h n i c h t m e h r ] poiché ha rivelato nella natura umana una disposizione ed un potere per il meglio tale che nessun uomo politico ha potuto fino ad oggi desumerlo dal corso delle cose»98. In questa dimensione argomentativa cade un significativo accenno al nome di Blumenbach, all’epoca ormai affermato professore a Göttingen. Kant sostiene che la “scoperta” dell’inevitabile progredire della umana società è «principio non solo giustificato e sotto l’aspetto pratico raccomandabile, ma (…) valido per la teoria più severa», perché, se così non fosse, accadrebbe che «alla prima E. Paci, Modalità, coscienza empirica e fondazione in Kant, in «Il Pensiero», (11) 1966, pp. 5-22, qui p. 8. 95 I. Kant, Der Streit der Fakultäten. Zweiter Abschnitt: Ob das menschliche Geschlecht im beständigen Fortschreiten zum Besseren sei? (§. 5: Wahrsagende Geschichte der Menschheit), in Kants gesammelten Schriften, cit., Bd. VII, pp. 187-189; tr. it., La disputa delle Facoltà (Storia profetica dell’umanità), in Scritti politici, cit., pp. 221-223. 96 Ivi, p. 188; tr. it., p. 222. 97 Ibid. 98 Ibid. 94
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epoca di rivoluzione della natura (che secondo Camper99 e Blumenbach, Petrus Camper, anatomo-antropologo olandese, morto un anno prima (1789) dello scritto di Kant qui all’analisi, si occupò sostanzialmente di fisiognomica, delle cause reali delle differenze fisiche tra le diverse razze umane. L’impressione tuttavia è che Kant si richiami qui a Camper a causa della convinzione dell’olandese – fondata su rigorose dimostrazioni scientifiche, con osservazioni empiriche e con l’utilizzo dei rapporti di viaggio di ricercatori e studiosi in tutte le parti del mondo – circa la necessariamente positiva direzione dell’evoluzione fisica dell’uomo. Camper, per il quale «il principale strumento di conoscenza era l’osservazione accurata» (M. C. Meijer, Race and Aesthetics in the Anthropology of Petrus Camper (1722-1789), Amsterdam, 1999, p. 28), è convinto infatti non solo del “naturale” miglioramento delle razze umane dal punto di vista fisiologico, ma scrive di essersi «sempre sforzato di ampliare la storia naturale [Naturgeschichte] attraverso il soccorso di fondamenti razionali, piuttosto che attraverso quelli che si fondano su fragili nomenclature». P. Camper, Zusatz zu der vorhergehenden Abhandlung aus einem Schreiben an die Naturforschende Gesellschaft von Petrus Camper, in «Schriften der Gesellschaft Naturforschender Freunde zu Berlin», (7) 1787, pp. 197-226, qui p. 219. Non doveva dispiacere a Kant questo modo di atteggiarsi del ricercatore olandese, del quale è probabile abbia letto e apprezzato le riflessioni contenute nelle Kleinere Schriften die Arzney- und Wundarzneykunst und Naturgeschichte betreffend, in tre volumi, tradotte dall’olandese in tedesco da J. F. M. Herbell e progressivamente pubblicate negli anni 1784-1790. Del resto, l’interesse di Goethe per le ricerche di Camper (in special modo, come meglio vedremo nel prossimo capitolo, a proposito dello studio dell’osso intermascellare) e il riferimento che è riportato da Novalis, secondo il quale per Camper «una sola trasformazione delle ossa spiega e produce tutte le altre trasformazioni» (Novalis, Allgemeines Brouillon, in Opera filosofica, cit. p. 435), lasciano pensare che l’atmosfera presente nelle opere di Camper doveva essere riguardata con attenzione da Kant. A questo proposito, a noi pare indicativo quanto Kant premetta nella Critica del giudizio nel citare tematicamente Camper. Nel § 42, Dell’interesse intellettuale per il bello, Kant tratta la possibile analogia tra il giudizio sull’arte fondato sul gusto e quello fondato sul sentimento morale: «Si dirà che questa interpretazione, che apparenta i giudizi estetici col giudizio morale, pare troppo dotta per valere come la vera spiegazione del linguaggio cifrato col quale la natura, con le sue belle forme, ci parla in modo figurato. Ma, in primo luogo (…); e, in secondo luogo, l’analogia tra il puro giudizio di gusto, che, senza dipendere da alcun interesse, provoca una soddisfazione e insieme la rappresenta a priori come conveniente all’umanità in generale, ed il giudizio morale, che fa la stessa cosa in base a concetti (…)». I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 301; tr. it. cit., pp. 274-275. La nostra attenzione qui è relativa all’uso che Kant fa dell’analogia tra il giudizio di gusto e quello morale, ai fini di mostrare il “bisogno” di un ragio99
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prima ancora che esistessero gli uomini, avrebbe seppellito le piante e gli animali), non seguisse anche una seconda, che dovrebbe similmente farsi gioco della specie umana per far posto sulla scena ad altri esseri e così via»100. è come se Kant avesse voluto dirci che l’organismo stesso è memoria vivente sulla cui materia tutto quanto si incide e vi resta come traccia mnestica. Blumenbach avrebbe avuto il merito di dimostrare, con i suoi studi di storia naturale, che è impossibile che l’organizzazione intima del vivente naturale decada e si destrutturi per cause interne sue proprie, che è impossibile che una serie indefinita di relazioni che si “naturalizzano” nel vivente non si “storicizzino” pure e si comunichino da organismo ed organismo, fondandosi e solidificandosi gradualmente in un corpus acquisito di conoscenze valide al mantenimento e all’incremento, teleologicamente inteso, della vita. Blumenbach, di cui è oramai accertata la grande influenza su un numero decisamente ampio di discepoli diretti e indiretti101, è ricordato da Kant in questo scritto particolare, per la sua attenzione al problema dell’estinzione delle specie viventi, specialmente se si considera poi che questa attenzione si delinea come presa di posizione a favore della necessità di dimostrare l’effettivo scomparire di una specie a partire dalla comparazione dell’individuo vivente con i fossili ed i reperti ossei degli antenati del vivente stesso102. namento per analogia per giustificare l’ingiustificabile idea, sul piano empirico, di un progresso costante dell’umanità. è, per certi aspetti, ciò che Kant sembra intendere delle conseguenze del pensiero di Camper. 100 I. Kant, Der Streit der Fakultäten, cit., p. 189; tr. it., p. 223. 101 All’uopo, si legga la lista lunghissima degli allievi di Blumenbach reperibile in G. Wagenitz, Göttinger Biologen (1737-1945): Eine biographischebibliographische Liste, Göttingen, 1988, fra cui, ad uno sguardo anche solo intermittente, si possono annoverare nomi come quello del medico Johann Carl Adolf Biermann (1797-1849), lo zoo-fisiologo Dietrich Georg von Kieser (1779-1862), Georg Henrich von Lansdorff (1774-1852), anch’egli medico e professore, fino a giungere all’allievo forse più celebre, quel Kielmeyer – di cui si tratterà in seguito – che proseguirà in maniera creativa la lezione del suo maestro. Su ciò, si veda l’articolo di F. W. P. Dougherty, Über den Einfluß Johann Friedrich Blumenbachs auf Kielmeyers feierliche Rede von 1793. Mit einem Anhang über Kielmeyers Göttinger Lektüre, in aa. vv., Philosophie des Organischen in der Goethezeit, cit., pp. 50-80. 102 Cfr. F. Blumenbach, Vom Gefrieren des Queksilber, in «Berlinische Sammlungen», (9) 1777, pp. 132-135; Id., Einige Naturhistorische Bemerkungen bey Gelegenheit einer Schweizer Reise, in «Magazin für das Neueste aus der Physik und Naturgeschichte», (5) 1788, pp. 13-24. Per questo aspetto del pensiero di
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Non si poteva, dunque, sostenere, secondo Blumenbach, una teoria circa la possibilità di una cancellazione completa della vita, se non adeguatamente corroborata da uno studio comparato delle “testimonianze storiche”, e, una volta accertata attraverso la concreta osservazione del “fatto” fossile, ciò implicava che la vita può sì cangiare la propria forma esteriore – ricordiamo qui, ancora, il dibattito sull’osso intermascellare – ma non può cessare del tutto, essendo l’organismo stesso depositario, “contenitore” di quell’elemento inestinguibile che è appunto il nisus formativus. Ecco che, allora, se la storia naturale diventa storia delle nature individuali degli organismi, “racconto” scientificamente fondato delle trasformazioni ed evoluzioni del Bildungstrieb nelle sue peripezie morfologiche, si comincia a comprendere meglio l’attenzione dedicata da Kant al tema aperto da Blumenbach col suo piccolo libro sull’impulso formativo103. In quest’ultimo viene innanzitutto premessa – con rispettabile onestà intellettuale – l’originaria e convinta appartenenza dell’autore alla schiera dei sostenitori del preformismo, di Haller e Spallanzani104, poi si aggiunge un’importante riflessione sulla casualità, quasi la paradossalità, dell’evento che induce a trasformare le proprie convinzioni: «La conseguenza inattesa di un piccolo esperimento che avevo addotto nel proposito di dimostrare la correttezza di quella teoria dell’evoluzione e il torto della formazione graduale [allmäligen Bildung], mi riportò soltanto al bivio e mi aprì improvvisamente una nuova via, del tutto opposta a quella di prima (…). Il motivo di quel saggio era: Blumenbach, si veda N. A. Rupke, Caves, Fossils and the History of the Earth, in aa. vv., Romanticism and the Sciences, edited by A. Cunningham-N. Jardine, Cambridge, 1990, pp. 241-259, in special modo, pp. 245-250. 103 Blumenbach compose il suo libro, la cui prima edizione esce, naturalmente a Gottinga, nel 1781, raccogliendo materiali nuovi insieme a due articoli che aveva già pubblicato [il primo con lo stesso titolo – che abbiamo già citato in precedenza (cfr. in questo capitolo nota 79) – il secondo dal titolo Über eine ungemein einfache Fortpflanzungsart, in «Göttingisches Magazin der Wissenschaften und Litteratur», (2) 1871, pp. 80-89]. Da ora in poi, citeremo questo lavoro secondo l’edizione pubblicata nel 1791 che, come sottolineato dall’autore stesso (p. 6), non cambia nulla in merito alla impaginazione della prima edizione, e però presenta «diverse aggiunte e annotazioni» che completano il quadro argomentativo generale con gli aggiornamenti e le revisioni scientifiche nel frattempo sopraggiunte. Laddove importante o necessario, riporteremo anche il luogo della traduzione italiana. 104 F. Blumenbach, Über den Bildungstrieb (1791), cit., pp. 26-27.
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avendo trascorso una giornata di ferie in campagna, in un ruscello trovai un genere di polipi artropodi verdi che si contraddistinguevano per il lungo corpo fusiforme mentre gli arti erano più corti di quelli di genere comune (…). In parte il caldo clima estivo ma ancor più la durevole costituzione di questi polipi, favorirono l’esperimento di riproduzione che sostenemmo, tanto che tutto sembrava andare verso l’uguale riproposizione dello stato precedente. Già a metà tra il secondo e il terzo giorno, le parti mutilate degli animali (arti, code, etc) erano ricresciute, solo, notavamo in modo sempre più distinto, che, nonostante il ricco nutrimento, le nuove parti dei polipi erano più piccole di prima, ed un tronco mutilato, anche rimettendo fuori le parti perdute che si insinuavano visibilmente nella stessa giusta misura, sembrava diventare più corto e più scarno»105. Tralasciamo in questa circostanza altri particolari che Blumenbach riporta per sottolineare l’accidentalità della sua “scoperta”106; ciò che ci interessa maggiormente è sapere che egli «da quell’epoca» dedicò «gran parte del suo ozio ad ulteriori esami e ricerche» a conferma di quegli esperimenti, e, alla fine, «osservazioni e riflessioni [Beobachten und Nachdenken]»107 lo condussero alla seguente chiarificazione: «Non preesiste alcun germe preformato: invece, in una matrice procreativa [Zeugungsstoff] dapprima grezza e informe del corpo organizzato, una volta raggiunta la sua maturità e il luogo della sua determinazione, è ridestato un particolare impulso agente tale da assumere dall’inizio la sua forma determinata e conservarla per tutta la vita, e laddove troncata, possibilmente riprodurla»108. Non crediamo siano necessarie troppe parole ad evidenziare la decisiva importanza di queste frasi, sia per i nostri scopi (mirati ad ottenere una solida breccia comunicativa e tematica tra biologia e storia), sia per la centralità che questi concetti assumono nel Kant della Kritik der Urtheilskraft. Si tratta, come sostiene Blumenbach, di una maturazione, Reife, di una determinazione-destinazione del vivente e, quando temporalmente giunte a sintesi maturazione e determinazione, l’attivarsi da se stessa di una forza che non – si badi bene – ha un principio, ma è il principio organizzativo della vita. «Un impulso – prosegue Blumenbach – che di conseguenza appartiene alle Lebenskräften, ma che tuttavia è chiaramente Ivi, pp. 28-29. Ivi, pp. 30-31. 107 Ivi, p. 31. 108 Ibid. 105 106
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diverso dal genere comune di forza vitale [Lebenskraft] del corpo organizzato (la contrattilità, l’irritabilità, la sensibilità etc.) in quanto forze fisiche universali del corpo in generale»109. Con una rispettabile cautela, ecco che Blumenbach termina come segue la definizione generale: «Questo sembra essere la forza più importante per tutto, per la procreazione, per il nutrimento e la riproduzione, e se la si vuole differenziare dalle altre forze vitali, la si può indicare col nome di Bildungstrieb (nisus formativus)»110. Quasi alla stessa epoca di queste riflessioni – e certamente in un clima intellettuale del tutto simile – Kant poteva scrivere: «In natura le ragioni [Gründe] di una determinata evoluzione del corpo organico (vegetale o animale), si chiamano germi quando questa evoluzione riguarda parti specifiche111; quando invece riguarda solo la grandezza o il rapporto tra le parti tra di loro, le chiamo disposizioni naturali [natürliche Anlagen]»112. Quando dunque si tratta di intendere la ragione fondamentale, il Grund, per la quale le cose in natura si sviluppano ed hanno un loro proprio corso temporale, bisogna, secondo Kant, fare un’importante distinzione tra due angoli prospettici separati: l’uno guarda all’evoluzione a partire dalla singola parte, dal singolo aspetto, e qui il Grund è il “seme”, il nocciolo vitale, decodificabile e individuabile secondo le procedure scientifiche, le tassonomie e le metafore tipiche del mondo biologico; l’altro guarda all’interrelazione tra le parti, guarda all’organismo nel suo insieme. In questo caso si presenta invece una ragione più profonda, un terreno di coltura dove la vita si genera macerandosi e ricostituendosi di continuo, un “nome” che secondo l’ancor giovane Kant, con splendida espressione, era “dimostrabile” solo col «presentimento di un non inesperto intelletto»113, non essendo definibile mediante le due dimensioni Ivi, p. 32. Ibid. 111 In realtà, il termine tedesco utilizzato da Kant è ‘besondere’, ‘particolare’; solo che, associato a ‘parti’, cioè al tedesco ‘Theile’, produceva un effetto singolare, ‘parti particolari’. 112 I. Kant, Von der verschiedenen Racen der Menschen (1775), in Kants gesammelten Schriften, Bd. II, cit., p. 434; tr. it., Delle diverse razze degli uomini (1777) [la diversa indicazione della data è dovuta alle ragioni spiegate, nell’edizione italiana, nella Nota storica (pp. 79-101 e in particolare pp. 79-80), in Scritti politici, cit., p.110 (legg. mod.)]. 113 I. Kant, Träume eines Geistersehers, erläutert durch Träume der Metaphysik, in Kants gesammelten Schriften, Bd. II, cit., p. 329; tr. it., Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica, in Scritti precritici, a cura di P. Carabellese, 109 110
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dello spaziotempo. Ciò accade perché né «il caso», né «leggi meccaniche generali (…) possono produrre tali adattamenti»114. Da questo punto di vista, Kant sembra smarcarsi dalla questione vitalismo-meccanicismo, e ancora di più da quella preformismo-epigenismo, perché se è vero che anche quegli «sviluppi occasionali» nel corpo organico (situazione climatica ambientale, sostrato fisico all’organismo, l’alimentazione etc.) possono essere considerati «preformati [f o r g e b i l d e t ]», questa assunzione in Kant appare mirata ad una “soluzione” assai più articolata che non la semplice adesione a un partito o a un altro: «Anche là dove non si riscontra alcuna finalità, la pura e semplice capacità di procreare [fortzupflanzen] il proprio carattere fissato dimostra già che vi è, nella creatura organica, un particolare germe o una particolare disposizione naturale a ciò: perché le circostanze esterne [äußere Ding] possono essere sì cause occasionali, ma non produttive di ciò che necessariamente si eredita e si trasmette»115. Non può essere escluso il “fatto” esterno nella determinazione complessiva della “storia” dell’organismo (cos’altro, infatti, contrassegna quell’individuo che è “risolto” nelle sue capacità di ereditare e di trasmettere, se non il carico del suo passato ereditato e il suo futuro come disposizione progettuale a perpetuarsi nella trasmissione di sé oltre sé?); e però questo “fatto” storico che si colloca ad un punto x dello spazio e del tempo deve sintetizzarsi con un altro genere di “fatto”: «Generazione e riproduzione (…) sono due modificazione di un’unica e medesima forza: l’ultima non è che una parziale ripetizione della prima, e una luce allargata sull’una deve sicuramente rischiarare anche l’altra»116. La sintesi tra passato immodificabile (ciò che il corpo organizzato eredita come factum stabilito) e futuro assente (come totale apertura alle possibili morfologie che le condizioni fisiche consentono nell’hic stans del presente) si matura nella forza vivente e formante che muove l’individuo, inteso non come somma di organi e individui subalterni, ma come via composita, tragitto organizzato e orientato, contrassegnato da innumerevoli stazioni intermedie. Non ci sembra di forzare eccessivamente il calco interpretativo se, ritornando a Kant, ipotizziamo la convinta adesione del königsberghese – quand’anche non sistematizzata e fors’anche in parte inconscia – a Bari, 1953, p. 380. 114 I. Kant, Von der verschiedenen Racen der Menschen, cit., p. 435; tr. it., p. 111. 115 Ibid. (legg. mod.). 116 F. Blumenbach, Über den Bildungstrieb (1791), cit., p. 92.
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questa posizione intellettuale, ed è pur vero che c’è, potente, in Kant il sentimento di razionale scetticismo che lo porta a rifiutare sia l’epigenismo di Buffon e di Maupertuis117 che quelle teorie che presuppongo in un organismo la vita già formata e dotata di un suo sviluppo interno grazie alla creazione divina118. Ma è innegabile una già matura visione, nel giovane Kant, della necessità di adoperare una grammatica del tutto a sé stante per i fenomeni naturali del nascere e dell’accrescersi, del vivere e del morire, dal momento che la natura «è ricca di una cert’altra specie di produzioni [Hervorbringungen], per cui ogni filosofia che riflette sul modo della loro nascita [Entstehungsart], si vede costretta ad abbandonare questa via»119, ossia la via della deduzione logica, propria delle leggi meccaniche della natura. Questo ‘portare’ hervor, questo metter-fuori-di-fronte e all’aperto, è coordinato ad uno entstehen, ad un tirare-via, quasi ad uno strappare la materia da un morto stato d’inerzia: «La struttura delle piante e degli animali dimostra una disposizione tale, che sono per essa insufficienti le leggi universali e necessarie della natura»120. Sorgimento dell’“innaturale” nel pieno e nel mezzo della natura, la vita è “risultato” di una dis-posizione, An-lage, di una posizione eccentrica della materia rispetto a se stessa, condizione che appare allo stesso Kant quant’altra mai «oscurissima [sehr dunkel]» e della quale egli stesso immagina «rimarrà anche tale»121. Ciò che si para davanti ai nostri occhi – occhi non semplicemente vedenti, ma osservativamente stupefatti – è lo spettacolo di quella “catena dell’essere” cui ci si richiamava poc’anzi, «una immensa ma sconosciuta scala di esseri e di nature attive, dalle quali soltanto vien vivificata la morta materia del mondo corporeo»122. Non basta la sola costatazione dell’impossibilità di una “comunicazione” causale, “creativa” e continua tra non vita e vita, in termini generali: qui, in questo orizzonte di attività incessabile, nella riflessione circa la congerie di individui polimorfici e semoventi, si struttura l’intima convinzione che così come «il caso, o Cfr. I. Kant, Der einzig, mögliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes (1763), in Kants gesammelten Schriften, Bd. II, cit., p. 115; tr. it. L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, in Scritti precritici, cit., p. 159. 118 Ivi, p. 114; tr. it., p. 158. 119 Ibid. 120 Ibid. 121 I. Kant, Träume eines Geistersehers, cit., p. 326; tr. it., p. 378. 122 Ivi, p. 330; tr. it., p. 381. 117
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cause fisico-meccaniche, non possono produrre un corpo organico, così pure essi non possono aggiungere qualcosa alla sua capacità riproduttiva, cioè cagionare qualcosa che si riproduca, quando si tratti di una particolare conformazione o rapporto fra le sue parti»123. Né la nascita né la crescita né la riproduzione possono essere chiarite con le leggi fisiche, al massimo possono – tramite un preliminare sforzo di distinzione teoretica – essere “dette”, descritte, senza che questo descrivere possa nella maniera più decisa essere scambiata per una spiegazione. Ecco il motivo dell’importante precisazione che Kant fa a piè di pagina nel trattato sulla diversità delle razze umane: «Noi comunemente prendiamo nello stesso senso i termini descrizione della natura [N a t u r b e s c h r e i b u n g ] e di storia naturale [N a t u r g e s c h i c h t e ]. è chiaro che, tuttavia, la conoscenza delle cose naturali come sono ora [j e t z t s i n d ] lascia sempre desiderare [wünschen] ancora la conoscenza di come quelle siano state [g e w e s e n s i n d ], e attraverso quale serie di cambiamenti [Veränderungen] siano pervenute in ogni luogo al loro stato presente»124. Che io sia in grado di dire come stanno le cose, che io possa affermare che la legge di caduta dei gravi fa sì che la natura si esprima così e così, che io abbia la capacita di predire un’eclisse o l’eterna ruota delle maree, che io conosca e percepisca le leggi di trasformazione chimica degli elementi, tutto ciò è insostituibile prerogativa della completezza della conoscenza umana. Eppure tutto questo sapere non basta, perché ad esso mancano due componenti ancora più essenziali, due fattori che però, a ben guardare, sono lo stesso e identico nucleo significativo osservato da due angoli prospettici diversi. Se da un lato, infatti, questo sapere “quantitativo” non ci può offrire la visione dell’evoluzione delle cose di cui si occupa (peraltro a pieno titolo), dall’altro questa mancanza si riflette in misura ancora maggiore nel campo dell’evoluzione delle cose di cui questo sapere non può e non potrà mai occuparsi: l’originarsi, il concrescersi e l’attuarsi della vita, la storia della vita, le storie delle vite. L’insoddisfazione di Kant per le soluzioni proposte dalle maggiori teorie biologiche all’enigma della vita – e perciò, la presenza attenta e la piena consapevolezza circa lo stato del dibattito dell’epoca125 – segnano inequivocabilmente le parole kantiane:
I. Kant, Von der verschiedenen Racen der Menschen, cit., p. 435; tr. it., p. 111. Ivi, p. 434; tr. it., p. 111 (legg. mod.). 125 Così come, significativamente, «Blumenbach nell’affrontare il problema 123
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certo, il problema posto è estremamente complesso, ma è chiaro, per Kant, che sia le «forme interiori del signor di Buffon» che «gli elementi di materia organica che, secondo l’opinione del signor di Maupertuis, si congiungono in conseguenza dei loro ricordi secondo le leggi del desiderare e dell’aborrire, sono o non intelligibili, proprio come la cosa stessa [die Sache selbst] o del tutto inventati arbitrariamente»126. Il fatto però che entrambe queste vie non rendano conto della complessità della questione della vita, non legittima il ricorso alla “scorciatoia” teologicometafisica, implicante che «tutti gli individui siano di origine soprannaturale». Infatti, «qualcuno ha forse mai resa comprensibile meccanicamente la facoltà del lievito, di generare il suo simile? Eppure non ci si appella per questo ad un principio soprannaturale»127. A noi appare (naturalmente guardata ex post) chiarissima l’impostazione criticista dell’ancor giovane Kant, che in queste pagine sottolinea che, al di là delle “ovvie” presupposizioni che si possono fare circa l’opera di Dio, sia per la genesi che per la crescita degli organismi viventi, egli ha «per scopo presente (…) soltanto quello di mostrare con ciò, come alle cose naturali si debba concedere una maggiore possibilità di produrre le loro conseguenze secondo leggi universali, di quanto comunemente si faccia»128. Insomma, sembra evidente che qui si tratta del nucleo germinale di un’idea, si tratta di avanzare il sospetto critico che quella disposizione naturale in grado di esprimere il “meccanismo” della vita possa essere letto con universale ed inconcussa aderenza alla Sache selbst, al decorso (senza meno temporale) che porta dall’organismo formato alla sua genesi, alla storia, cioè, della vita (per inciso, va ancora notato quel gusto peculiarmente kantiano del concreto nel rimando all’esempio del lievito, una tonalità esplicativa che è propriamente indicativa di un delle razze era in perfetta sintonia col suo tempo»: L. Marino, I maestri della Germania (Göttingen 1770-1820), cit., p. 81. 126 I. Kant, Der einzig, mögliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes (1763), cit., p. 115; tr. it., p. 159 (corsivo ns.). Nella sua biblioteca privata, Kant possedeva, come già detto, in traduzione tedesca, due opere di Maupertuis: il Versuch in der Moralischen Weltweisheit übersetzt aus dem Französischen des Herrn von Maupertuis (Halle 1750) e il Versuch, von der Bildung der Körper, aus dem Lateinischen, [...], übersetzt, von einem Freunde der Naturlehre, [...] (Leipzig 1761). 127 I. Kant, Der einzig, mögliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes (1763), cit., p. 115; tr. it., p. 159. 128 Ibid.
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atteggiamento decisamente antidogmatico e che ritroveremo più volte nel futuro critico del filosofo, ancor meglio pensata e appoggiata tematicamente). Questo germe d’idea – è percepibile in molti punti – è per certo ancora claudicante e insicuro, il suo sviluppo tutto da esprimersi e irrobustirsi, cosa che avverrà, nella nostra interpretazione, solo allorquando Kant si sarà confrontato a fondo con le proposte e le suggestioni che gli giungevano da Göttingen, Jena e dagli altri grandi centri di ricerca tedesca ruotanti intorno al problema della Naturphilosophie. Una rielaborazione, quella kantiana, delle più avanzate teorie sul carattere dell’origine e sviluppo dell’organizzazione della materia vivente, che necessitava come presupposto teorico l’assoluta separazione tra sensibilità e intelletto, la “scoperta” della facoltà giudicativa come medio e la spontaneità dell’immaginazione produttiva. Solo all’interno di questo quadro concettuale poteva sorgere, potente, la maturazione di quell’idea germinale di un “razionale” finalismo della e nella natura viva. Del resto, alcuni passi tratti dal saggio su Swedenborg ci paiono assai chiarificatori in rapporto a ciò. è noto che la questione precipua affrontata da Kant nei Sogni è l’esistenza possibile degli spiriti – sostanze immateriali dotate di intelligenza129 – un’esistenza che, «intricato nodo metafisico», «si può, a piacere, sciogliere o non sciogliere»130. La scelta per un modo o per l’altro di procedere è già sintomo dell’itinerario da compiere, ché in gioco c’è l’atteggiamento di fondo di ogni plausibile ricerca: Kant si sente obbligato infatti a «mettere in guardia contro le risoluzioni avventate che con la massima leggerezza penetrano nelle più profonde ed ardue questioni. E cioè, ciò che appartiene ai comuni concetti dell’esperienza, suol comunemente esser riguardato così come se se ne conosca anche la possibilità. All’opposto, di ciò che si scosta da essi e che non può esser reso sperimentalmente intelligibile neppure con qualche analogia, non possiamo certo farci un concetto, e perciò siam soliti di rigettarlo subito, volentieri, come impossibile»131. La vita non è un “concetto d’esperienza”, ma è esperienza Cfr. I. Kant, Träume eines Geistersehers, cit., p. 321; tr. it., p. 372. Ivi, p. 319; tr. it., p. 369. è il titolo della prima parte, quella «dogmatica», dell’operetta kantiana. 131 Ivi, p. 322; tr. it., p. 372 (corsivo ns.). Sul tema dell’analogia su specifici tratti e argomenti in Kant, segnaliamo – per ora – due saggi (G. Landolfi Petrone, Il cielo, l’uomo, i pidocchi. L’analogia della natura nella Theorie des Himmels di Kant; F. Battaglia, Kant e il terremoto di Lisbona: dalla natura alla storia) contenuti in aa. vv., Natura e storia, a cura di L. Bianchi, Napoli, 2005, 129
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e in quanto tale può almeno essere espressa per analogia; pertanto, vecchie ipotesi diventano ripensabili, seppur criticamente, anche alla luce dell’insufficienza delle teorie moderne – chiaro, come si vedrà, il riferimento ad Haller ed ai correnti all’epoca esperimenti di fisiologia sugli animali viventi – che pensano la vita come un alcunché di totalmente e pienamente intelligibile a partire da presupposti unicamente meccanici e/o metafisici: «Gli antichi infatti credevano di poter ammettere tre specie di vita: la vegetale, l’animale e la razionale. Quand’essi ne riunivano nell’uomo i tre princìpi immateriali, potevano forse aver torto; ma, quando ripartivano tali princìpi entro le diverse specie di creature crescenti e producenti loro simili [wachsenden und ihres Gleichen erzeugenden Geschöpfe], dicevano certamente qualcosa di indimostrabile [Unerweisliches], ma non perciò di assurdo [Ungereimtes]»132, laddove l’incapacità di rendere ragione di un fatto come quello della vita non è per nulla segno di impossibilità empirica del fatto stesso; anzi, in special modo per chi voglia considerare «la vita particolare delle parti staccate da alcuni animali, la irritabilità, proprietà così ben dimostrata per quanto al tempo stesso così inesplicata [unerkläriche], dei filamenti di un corpo animale e di alcune piante, dei polipi e di altri zoofiti»133, la questione diventa sempre più stimolante, fino al punto di assumere i contorni di una vera e propria sfida alla ragione, agli eterni princìpi della logica identitaria. “Al tempo stesso”, dice Kant, il fenomeno della vita è oscuro ed evidente, “pieno” e aleatorio, corposo e insondabile. In virtù di questa prerogativa del tutto a sé stante, è difficile prendere una via precisa e parteggiare per uno dei vari tentativi di chiarificazione di questo fenomeno, problematiche che Kant mostra di conoscere con estrema e dettagliata precisione: «Peraltro il ricorso a princìpi immateriali è rifugio della filosofia malsana134, e perciò, per quanto è possibile, è anche da evitarsi una spiegazione di tal rispettivamente pp. 155-179 e pp. 180-198. 132 I. Kant, Träume eines Geistersehers, cit., p. 331; tr. it., p. 382. 133 Ibid. (corsivo nostro). 134 Nella certo pregevole traduzione italiana che qui si sta utilizzando il termine ‘faul-faulen’ è reso con ‘pigra’ riferita alla filosofia; abbiamo preferito rendere con ‘malsana’ l’espressione kantiana (laddove si sarebbe potuto anche propendere per un peraltro troppo forte ‘putrida’, ‘guasta’, ‘marcia’) perché secondo noi più aderente al senso complessivo del periodo. Inoltre, la radice ‘fa’ dell’aggettivo ha chiara affinità con ‘fallen’, ‘fehlen’, il decadere, il mancare, l’insalubre essere della cosa denotata.
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fatta (…). Tuttavia io son persuaso che lo Stahl135, che volentieri spiega organicamente i fenomeni animali, sia spesso più vicino alla verità che non l’Hofmann (sic)136, il Boerhaave 137ed altri che traggono le forze immateriali dalla coesione, si attengono ai princìpi meccanici e seguono così un metodo più filosofico (…)»138. Ora, se consideriamo con attenzione le espressioni di Kant, viene da chiedersi perché coloro con i quali egli sembra essere in maggiore disaccordo teorico vengano tuttavia Georg Ernst Stahl (1659-1734), professore di medicina a Halle, è indicato per lo più come uno dei pionieri della teoria vitalistica, con una spiccata propensione, però, a vedere come centro della vita le funzioni dell’anima; qui Kant fa evidentemente riferimento alla dottrina della “diffusione” dell’anima in ogni parte del corpo vivente e alla individuazione di quella come «origine del movimento in ogni parte del corpo»: W. Pagel, Le idee biologiche di Harvey, cit., p. 138. Anche per quanto immediatamente segue nel dettato kantiano, si veda il lavoro di A. G. Debus, Chemistry and Medical Debate: van Helmont to Boerhaave, Canton, 2001, in particolare per ciò che attiene a Stahl pp. 207211. In merito, infine, alle sostanziali differenze riscontrabili tra Stahl e Kant sulla concezione dell’anima, si veda J. Bierbrodt, Naturwissenschaft und Ästhetik 1750-1810, Würzburg, 2000, in particolar modo pp. 92 e ssg. 135
Si tratta di Friedrich Hoffmann, medico e scienziato nato e morto ad Halle, noto all’epoca per aver scritto, fra le altre cose, un trattatello su un Gründlicher Bericht von dem Selter-Brunnen: dessen Gehalt, Würckung und Krafft, auch wie derselbe sowohl allein, als mit Milch vermischt, bey verschiedenen Kranckheiten mit Nutzen zu gebrauchen, Halle, 1727, ma certo più noto a Kant per le sue opere di fisiologia: Fundamenta medicinae, Halle, 1685, e Fundamenta physiologiae, Halle, 1718. è importante notare come certe posizioni teoriche di Hoffmann – certo influenzate dalla dottrina dell’armonia prestabilita di Leibniz – si pongano in forte contrasto con quelle di Stahl (su ciò, cfr. l’utilissimo I. Jahn, R. Löther, K. Senglaub, Geschichte der Biologie. Theorien, Methoden, Institutionen und Kurzbiographie, Jena, 1982, p. 231). Hoffmann è convinto, infatti, che per spiegare i moti del corpo non sia affatto necessario ipotizzare una “diffusività” ed una mutua interrelazione o influenza tra corpo ed anima, bensì che basti studiare la “iatromeccanica” fisiologica di ispirazione cartesiana, accordata all’immanente armonia stabilita da Dio nel cosmo intero. 137 Hermann Boerhaave (1668-1738), botanico e medico olandese (ma laureatosi a Leiden in filosofia), di osservanza cartesiana. Di lui Kant conosce certamente gli Elementa chemiae, Leyden, 1732, e un saggio dal titolo Versuche vom Quecksilber, uscito postumo in tre parti sull’«Hamburgisches Magazin, oder gesammelte Schriften, zum Unterricht und Vergnügen», (1) 1749, pp. 437-461 e pp. 510-529; 1750, pp. 69-79. 136
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I. Kant, Träume eines Geistersehers, cit., p. 331; tr. it., p. 382.
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indicati come quelli che, ottemperando all’“usuale” metodo deduttivomeccanico, seguono un «metodo più filosofico»; mentre invece quelli come Stahl che si attengono a spiegazioni di tipo «organico» sembrano all’ancor giovane Kant più vicini alla spiegazione del mistero della vita, della sua genesi e della sua produzione e riproduzione. Evidentemente ciò ha a che fare con l’idea che Kant si stava costruendo dello stato della filosofia della sua epoca, una progressiva messa in mora oltre che delle filosofie dogmatiche anche di un newtonianesimo anche, in fondo, ben inteso e interpretato: «Così Newton chiamò gravitazione di essa la sicura legge degli sforzi di ogni materia ad avvicinarsi reciprocamente» ed il merito di questa individuazione, per Kant, stette nel fatto che l’inglese «non volle implicare le sue dimostrazioni matematiche in una fastidiosa partecipazione a dispute filosofiche, che possono aver luogo intorno alla causa di essa»139. Giustamente Newton valutava come vacuamente dispendioso interrogarsi sulle cause – quesito appaltato da ruminanti ed inesauribili dispute filosofiche – dell’attrarsi e respingersi della materia, della manifestazione fenomenica delle forze nel loro moto. Ma, nonostante tutto, egli «non esitò a trattare questa gravitazione come un vero effetto di una universale attività reciproca della materia, e perciò anche le dette il nome di attrazione»140. Per quanto meritoriamente “non-dogmatica”, anche la filosofia “non filosofica” della natura di impronta newtoniana lascia insoddisfatta e irrisolta la questione autentica: la determinazione esplicativa dell’organizzarsi della materia in modo tale da rendere viva quella stessa materia. Kant è ben consapevole che per poter accedere a tale problema diventa più «difficile adoperare sempre il guardingo linguaggio della ragione»141 e che la grammatica da utilizzare per tale scopo è in ogni caso “arrischiata” e non proprio attagliata alla misura del suo vestiario filosofico142. Ed allora ecco vieppiù accentuato il bisogno di trovare altri linguaggi, altre sintassi filosofiche in condizione di poter sostenere la gravosità del compito: e quale linguaggio può essere può adeguato, quale grammatica può rendere Ivi, p. 335; tr. it., p. 386. Ibid. 141 Ivi, p. 333; tr. it., p. 384. 142 Ibid: «Perciò io, fidando sull’indulgenza del lettore, m’arrischio ad inserire qui un tentativo di tal fatta, che certo è un po’ fuori della mia via ed è anche abbastanza lontano dall’evidenza, ma tuttavia sembra dar occasione a supposizioni non sgradevoli». 139 140
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meglio – anche per affinità non solo linguistica ma pure analogica, di vera e propria assimilabilità concettuale e contenutistica – la problematicità del quesito circa la “natura” del fenomeno del vivente che non quello delle scienze della vita, dei saperi del bios? ‘Bildungstrieb’ e ‘Lebenskraft’ sono allora i due concetti chiave attorno ai quali ruota l’attenzione e del mondo scientifico di lingua tedesca e del Kant alla ricerca di una soluzione (o un’introduzione) alla questione in essere. Attenzione: nelle teorie blumenbachiane che andremo ad analizzare (in quanto “traduzioni” analogiche di ciò che Kant sarà in grado di prospettare negli anni più fecondi della sua maturità), i due termini non stanno ad indicare affatto vuote entità metafisiche, concetti amplissimi e perciò impalpabili, costrutti ontologici dotati di sostanzialità sovratemporale. ‘Bildungstrieb’ e ‘Lebenskraft’ nelle intenzioni e nelle ricerche teoriche di Blumenbach sono innanzitutto concetti operativi, determinazioni funzionali e gnoseologiche di un principio di vivificazione della materia peraltro indescrivibile se non attraverso i suoi effetti concreti, ossia il vivente-che-vive. Nello stesso anno in cui Kant scriveva il suo trattato sulle razze, usciva a stampa la prima edizione del De humani generi varietate nativa143, e utile ci pare leggerne alcune righe. Ciò servirà ad introdurci J. F. Blumenbach, De humani generi varietate nativa, Göttingen, 1775 (i termini tedeschi che troveremo nel corso dell’esposizione sono da riferire alla traduzione dal latino nella lingua madre dello scienziato e che è stata pubblicata col titolo di Über die naturlichen Verschiedenheiten im Menschengeschlechte, Leipzig, 1798). Molto interessante è la discussione che si è aperta in merito alla presunta “possibilizzazione” di elementi razzisti nel trattato di Blumenbach. Proviamo a riassumere la vicenda. Stephen Jay Gould pubblica nel 1996 un libro dal titolo The Mismisure of Man, New York-London, 1996, nel quale sostiene che con Blumenbach si attuerebbe il passaggio da un ordine “geografico” delle razze a un ordine “geometrico” delle stesse, ordine che avrebbe generato, secondo l’autore, l’idea di una gerarchizzazione delle razze umane non più in base a criteri “locativi” ma a criteri qualitativi (ivi, pp. 404-414), criteri che avrebbero consentito ad Hitler stesso di giustificare una scientificità alle sue deliranti disquisizioni sulla superiorità del tipo antropologico “caucasico” (l’attribuzione del nome al teschio dell’indoeuropeo è blumenbachiana). Ora, l’unica testimonianza chiamata da Gould a sostenere la propria ipotesi consiste in uno schema che Blumenbach apporta nella terza edizione del De humani generi, apparsa solo nel 1795, in cui compare effettivamente una “scala” evolutiva al cui apice si trova proprio un teschio caucasico, mentre ai gradini più bassi si possono 143
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gradualmente alle osmotiche relazioni tra lo scienziato e il filosofo, alla collaborazione – anche inconscia, anche “involontaria”144 – circa il reperimento di una possibile via preferenziale all’interrogazione naturgeschichtlich del reale, un’interrogazione che, nel suo nesso storico, prelude e si annoda alla presa di coscienza geistesgeschichtlich che a noi pare indicare con particolare rilievo in direzione delle culture filosofiche otto-novecentesche. «Quanto alle discussioni che, particolarmente in quest’epoca, hanno sollevato tante dispute attorno allo spirito, la ragione e il linguaggio etc. dei bruti, non mi sembrano essere realmente così difficili o confuse se appena un uomo avesse una moderata familiarità con le abitudini degli animali, qualche conoscenza di fisiologia del corpo umano e fosse sufficientemente libero da pregiudizi»145. è chiaro che vedere – in senso discendente – teschi di indiani americani e del tipo malese, e infine, all’ultimo grado, un tipo asiatico («mongolico») e uno africano («etiopico»). Sennonché questa illustrazione non è di Blumenbach, perché quella originaria, disegnata di suo pugno, è quella che compare proprio nella prima edizione del trattato. Qui c’è invece un’immagine in cui i cinque teschi (e dunque i cinque grandi “generi umani” la cui varietà è l’oggetto stesso del trattato) sono posti sullo stesso piano “gerarchico” e lasciati vedere al lettore in uno sguardo per così dire sinottico:
Ora, se l’argomento principale di Gould a favore del presunto carattere razzista (almeno in fieri) degli studi blumenbachiani si fonda su un disegno (peraltro non riconducibile direttamente a Blumenbach, né, per giunta, di “prima scelta”), allora basta solo la visione orizzontale dei teschi a smentire il presupposto stesso della critica. In merito a ciò, si veda la sentita difesa del metodo classificatorio di Blumenbach che già nel 1942 metteva in atto M. F. Ashley Montagu, The genetical Theory of Race, and anthropological Method, in «American Anthropologist», (44) 1942, pp. 369-375. 144 Sulla mutua influenza tra Kant e Blumenbach – in particolare, su ciò che meno ci si attenderebbe, ossia del secondo su alcune parti della Critica della ragion pura – si veda H. Müller-Sievers, Self-Generation: Biology, Philosophy and Literature around 1800, Stanford, 1997, pp. 48-63. 145 J. F. Blumenbach, De humani generi varietate nativa, cit., p. 7. Nel testimoniare la consapevolezza dell’estrema problematicità e, implicitamente, la contestabilità delle proprie ipotesi relative al «mistero» della «produzionecreazione» della vita, la teoria del Bildungstrieb, Blumenbach riferisce che «già l’allievo di Drelincourt Boerhave [sic], ha raccolto e messo insieme, dagli scritti
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qui Blumenbach sta riferendosi ad una secolare diatriba tra i sostenitori dell’appartenenza al genere umano di quegli individui che mostrino una qualsivoglia carenza intellettiva e quelli che la negavano, diatriba vieppiù alimentata dalla scoperta, in altri continenti, dell’esistenza di alterità sociali e antropologiche inclassificabili nelle usuali tassonomie aventi ad oggetto l’homo animal rationale146. «Infatti – prosegue Blumenbach (e questo è quello che più ci riguarda) – l’uomo preso per se solo è povero di ciò che sono detti istinti [Triebe], cioè di certe facoltà congenite per proteggerlo dagli attacchi esterni, per cercare cibo etc. I suoi sono tutti istinti artificiali [Kunst-Triebe], mentre degli altri possono esserne viste solo le tracce più piccole. Il genere umano sarebbe quindi assai disgraziato se non fosse preservato dall’uso della ragione, del quale gli altri animali sono chiaramente poveri»147. ‘Uso della ragione’. Non è a caso che in uno scritto kantiano avente per oggetto una questione affine a quella trattata da Blumenbach ritorni, e nello stesso senso, l’espressione ‘Vernunftgebrauch’, espressione, com’è noto, tipicamente kantiana. La questione che Kant vuole affrontare è quella della trasmissione ereditaria dei caratteri fisici e di uno specifico problema che gli appare come un enigma: «E’ sempre un fenomeno assai degno d’attenzione che, mentre nella specie umana vi sono dei caratteri ereditari – e talora importanti – (…), nessuno tuttavia sia necessariamente ereditario all’interno di una classe di uomini caratterizzata unicamente dal colore della pelle, e che invece quest’ultimo carattere ereditario (.,.) si trasmetta generalmente e immancabilmente, dei suoi predecessori, duecentosessantadue ipotesi senza fondamento circa la produzione-creazione - e nulla è più certo che il suo sistema costituisca il duecentosessantatreesimo!». J. F. Blumenbach, Über den Bildungstrieb (1791), cit., p. 13. 146 Su ciò, si veda il lavoro francamente divulgativo (ma che cita opportunamente Blumenbach) di V. Chilese, Popoli del pianeta terra, Verona, 2001, mentre per gli aspetti più incisivi della questione, si rivedano innanzitutto le famose e impressionanti per modernità riflessioni di Vico sugli abitanti della Patagonia nella Scienza nuova (1744), in Opere filosofiche, a cura di P. Cristofolini, Introduzione di N. Badaloni, Firenze, 1971, pp. 464, 473, 504, 593, ma anche, per una visione più generale, S. Landucci, I filosofi e i selvaggi (1580-1780), Bari, 1972. Più recentemente, e con riferimenti dettagliati a Kant e a Blumenbach, si veda N. zack, Philosophy of Scienze and Race, New York, 2002, in part., pp. 9-31. 147 J. F. Blumenbach, De generi humani…, cit., p. 7.
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sia all’interno di una classe, sia nella mescolanza con le altre tre»148. Proviamo a tradurre con qualche esempio: se un uomo, che fa parte della razza bianca, ha gli occhi azzurri, non è detto che trasmetta alla sua progenie quest’ultima peculiarità; il colore della sua pelle, invece, “unausbleiblich”, si trasmetterà ai figli con una gradazione tonica più o meno costante. Di questo fenomeno – della differenza per così dire di incisività dell’informazione genica – Kant si stupisce fino al punto di sostenere che è possibile, «forse» ottenere, «a partire da questo strano fenomeno», delle sollecitanti idee in merito alle «cause del perpetuarsi di tali particolarità che non appartengono per essenza al genere [Gattung], a partire dalla semplice circostanza che esse sono immancabili»149. Insomma, la questione è ben più seria e profonda di quello che potrebbe apparire: si tratta di capire perché la natura si regoli in maniera differente rispetto a processi che sembrano conformemente paragonabili, perché, in sostanza, quel carattere fisico si trasmette necessariamente e l’altro no. A tal proposito Kant immediatamente avverte che «tentare di capire a priori che cosa faccia sì che un carattere che non appartiene all’essenza del genere [Gattung]150 possa essere ereditario è un’impresa vana: in tale oscurità di conoscenze la libertà di ipotesi è così illimitata, che sarebbe tempo e fatica sprecata darsi a controbattere ciò che ognuno, in questi casi, s’immagina a suo arbitrio»151. Ed ecco allora una genuina e parca “profilassi” della ragione stagliarsi nelle parole kantiane: «Io, per parte mia, in tali casi considero solamente la particolare massima della ragione [Ve r n u n f t m a x i m e ] (…) che appare comunemente favorita152 per I. Kant, Bestimmung des Begriffs einer Menschrace (1785), in Kants gesammelten Schriften (Abhandlung nach 1781), Bd. VIII, cit., pp. 95-96; tr. it., Del concetto di razza umana, in Scritti politici, cit., p. 182 (legg. mod.). 149 Ivi, p. 96; tr. it., p. 182 (legg. mod.). 150 L’edizione italiana che qui si utilizza traduce con ‘specie’, in modo forse più adeguato rispetto alla nozione che Kant vuole evidenziare e rispetto al significato attuale del termine; noi, però, riportando l’occorrenza, ci limitiamo a segnalare la cosa e a tradurre con ‘genere’, in conformità a qualche rigo più su. 151 Ibid. 152 Qui va fatta un’importante precisazione, cosa che crediamo possa aiutare a farci penetrare ancora di più nel clima complessivo dell’epoca, nello spirito che animava il tempo in cui Kant scrive, e che, per giunta, ci darà lo spunto per far entrare in scena – già qui – un altro degli “eroi” di cui più diffusamente parleremo: Wilhelm von Humboldt. Partiamo dalla traduzione italiana del testo di Kant, testo che in questo caso specifico abbiamo completamente trasformato 148
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poi successivamente cercare la mia, in modo che questa renda incredulo rispetto alla prima. Essa suona come segue: «Per parte mia, in simili casi mi limito a considerare la particolare massima della ragione (…) che appare favorevole a quegli studiosi, e cerco successivamente la mia, che mi rende incredulo (…)». Non proseguiamo oltre perché il dato che vogliamo far risaltare si trova in questo passo. Chi sono questi “studiosi” che non compaiono affatto nel testo di Kant? E, in ogni caso: a chi o a che cosa Kant si riferisce quando parla di una “massima della ragione” che «gemeiniglich» viene data come “favorevole”, «begünstigen»? Sembra ragionevole pensare che Kant sapesse esattamente di stare toccando un argomento assai diffuso non soltanto negli ambienti accademici e di ricerca, ma anche in quelli più decisamente “alla moda”). A confortare questa idea, basta andare a consultare il numero degli articoli pubblicati sulle riviste dell’epoca aventi come tema quello dell’antropologia, della scienza antropologica; riviste, del resto, a cui non dobbiamo pensare come a pubblicazioni esoteriche, riservate solo a degli iniziati, come invece oggi si fa nel circuito delle pubblicazioni specialistiche di settore. O almeno non soltanto ad esse. Le riviste che circolano in Germania (specialmente a Berlino e a Gottinga) non solo sono cartine di tornasole dell’elettricità della situazione socio-politica alla fine del Settecento, ma assolvono ad un compito evidente di divulgazione scientifica, di propagazione delle idee illuministiche (con qualche distinguo, è pure ciò che sottolinea N. Merker nella sua Guida alla lettura a I. Kant, Che cos’è l’Illuminismo, Roma, 1987, pp. 65-67). In particolare, troviamo, ad esempio, riviste come il «Magazin für die Philosophie und ihre Geschichte», pubblicata dal 1778 al 1789, o, per venire al tema qui in essere, come il «Magazin für das Neueste aus der Physik und Naturgeschichte» (1781-1799), i cui intenti, per esplicita ammissione dei loro creatori e curatori, sono quelli di far leggere gli scrittori stranieri che «altrimenti il pubblico tedesco non potrebbe conoscere con facilità» (M. Hißmann, Vorbericht, in «Magazin für die Philosophie und ihre Geschichte», (1) 1778, p. 4), di propagandare e acquisire la cognizione che «nel frattempo che il metafisico e il moralista ricercano le proprietà dell’anima, le forze dell’intelletto e l’uso che l’uomo morale può e deve fare della propria ragione, il ricercatore naturale si occupa dell’uomo semplicemente dal punto di vista fisico, la cui conoscenza viene conseguita mediante tre scienze. Una viene detta antropologia. In sé e per sé, questa è molto semplice e si fonda soltanto su osservazioni quotidiane che sono molto facili da fare» (Anonimo, Zur Naturgeschichte der Menschen, in «Literatur und Völkerkunde», (2) 1783, pp. 977-987, qui, p. 977). Certo con un grado infinitamente superiore per profondità e sensibilità filosofica, anche Wilhelm von Humboldt si occupa di antropologia e di Naturgeschichte. Se ne occupa specificamente in un saggio del 1795 dal titolo di Plan einer vergleichenden Anthropologie, in HGS, cit., Bd. I, pp. 377-410, che più che rappresentare un progetto alle sue fasi embrionali sembra una vera e propria esposizione teoretica delle sue idee in merito alla centralità della scien-
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rispetto a tutte quelle spiegazioni, prima ancora che mi si facciano chiare le ragioni di opposizione»153. Ma torniamo a Blumenbach. L’uomo, si diceva – in quanto genere, in quanto “categoria” – pur non essendone sprovvisto, non si caratterizza per la sua istintualità, è povero di risposte adeguate e irriflesse all’ambiente154. Ciò non toglie che il singolo uomo, secondo Blumenbach – e in una sintonia a distanza con Kant - l’individuo nella sua piena compiutezza corporeo-animata, sia più o meno dotato degli istinti “naturali” che devono di necessità appartenere ad ogni corpo organico. La “quantità” di impulso che è proprietà dell’individuo-uomo, il motivo per il quale un individuo è più portato a fare dell’udito (ad esempio) il suo senso principale, mentre un altro no, il perché qualcuno avverta di più e meglio certe sensazioni e vi si adatti rispetto a qualcun altro, è questione – da questo punto di vista, e come nel Kant che sopra abbiamo letto – affatto misteriosa e sinnlos, “in-sensata”. Ma è la “qualità” dell’istinto che identifica – nella sua uniformità e povertà – gli individui umani in quanto genere: «L’istinto rimane sempre lo stesso, e non è accresciuto dall’acculturazione, né è più piccolo o più ampio
za antropologica rispetto alle “decisioni” sull’essenza della natura umana (una volta collegata, come suggerisce Albert Leitzmann, curatore del volume in questione (ivi, p. 437), con gli altri scritti coevi). Più avanti riprenderemo questo testo in modo più sistematico e approfondito; per il momento ci basti ascoltare Humboldt – nel primissimo periodo del saggio – porre i fondamenti metodologici e, diremmo, motivazionali della ricerca: «Così come nell’anatomia comparata, si discute lo stato [Beschaffenheit] del corpo umano tramite la ricerca su quello animale, altrettanto si può, in un’antropologia comparata, esporre l’una accanto all’altra le peculiarità del carattere morale dei diversi generi umani, e giudicarli comparativamente» (ivi, p. 377). 153 I. Kant, Bestimmung des Begriffs einer Menschrace (1785), cit., p. 96; tr. it., Del concetto di razza umana, cit., p. 182. 154 Heidegger, sulla scorta della lezione uexkülliana, parlerà, a proposito dell’animale come di un “esser-povero-di-mondo”, intendendo con ciò che il “mondo” dell’uomo non è precipuamente la “natura” – a cui invece si attaglia perfettamente il corredo biologico-istintuale dell’animale – ma la “cultura”, la sua adveniente, arrischiata processione storicizzata nel mondo che egli stesso costruisce. Cfr. M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt-EndlichkeitEinsamkeit (WS 1929/30), GA 29/30, Hrsg. W. F. von Herrmann, Frankfurt a. M., 1983; tr. it., Concetti fondamentali della metafisica. Mondo, finitezza, solitudine, a cura di C. Angelino, Genova, 1992.
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nell’animale giovane piuttosto che in quello adulto»155. L’analogia che nel passo immediatamente successivo Blumenbach propone non è allora un mero soccorso retorico, una sorta di necessità argomentativa, dettata da ragioni più o meno intrecciate con il bisogno di ottenere il riconoscimento di un diritto teorico delle proprie tesi. L’apporto dell’analogia non è qui raffigurazione di uno scenario per mostrarne un altro affine, ma è invece la presa in carico di una “realtà” di fatto, di un als ob che conserva i tratti tipici della descrizione naturalistica, rifuggendo da una specie di “virtualismo” concettuale, adoperando sì una simbolizzazione necessaria all’argomentare eppure rispettando in un certo qual modo le “cose stesse”: «La ragione, al contrario [dell’istinto], può essere comparata a un germe in sviluppo che, con l’aggiunta della vita sociale e di altre circostanze esterne, è come se si sviluppasse, si formasse e coltivasse nel processo temporale»156. La ragione, in quanto parte di un’organizzazione vivente – ma parte eminente – è sottoposta all’universale “disciplina” che il tempo impone alla costituzione semplicemente fisica della materia. La ragione non ha nulla a che fare con una dimensione ultratemporale, sovratemporale, eternizzata nella sua immota semplicità e uniformità, e, pertanto, l’interrogazione sui presupposti fisio-antropologici che sovrintendono alla descrizione dell’uomo come genere non può né deve prescindere dall’intransitabile trattenersi nell’ambito del suo essere fondamentalmente vita, “meta-fisica” strictu sensu, ciò che toto genere oltrepassa i limiti della composizione basica dell’oggetto da indagare e che fa, di essa interrogazione, autentica questione filosofica, si fa domanda circa la legge di continuità temporale che lega le individuali potenze della vita, diverso, qualitativamente, da quello che regola le “forze morte”: «Non si può restare colpiti nel modo più profondo, come io stesso lo sono, quanto dall’abisso imponente che la natura ha fissato tra la creazione vivente e quella non vivente, tra creature organizzate e non organizzate; ed io non vedo come, con tutto il rispetto per l’acume col quale i sostenitori della serie graduale o della continuità della natura abbiano disposto i propri passi, essi vogliano cavarsela nel passaggio dal regno organico a quello inorganico senza un salto realmente rischioso [einen wirklich etwas gewagten Sprung]»157. Blumenbach non vuole entrare nel novero di questi epigoni della continuità tra “ciò che è morto J. F. Blumenbach, De generi humani…, cit., pp. 7-8. Ivi, p. 8 (corsivo nostro). 157 J. F. Blumenbach, Über den Bildungstrieb (1791), cit., pp. 79-80.
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e ciò che è vivo”, e però ha ben chiara la difficoltà di esprimere con un concetto adeguatamente fornito di sostrato scientifico la “natura” di questo abisso. Ecco allora come prova a giustificare l’utilizzo di un concetto di tipo “regolativo” o “euristico” in ambito biologico158. «Solo questo va impedito: che non si debba aver bisogno di discutere di fenomeni [Erscheinungen] di una di queste due parti centrali della creazione con fenomeni dell’altra», come se, in altri termini, si trattasse di due regni separati assolutamente e senza alcuna capacità di dialogare. «E qui io non vedo – prosegue Blumenbach – il minimo argomento per dimostrare l’impulso formativo nel regno dell’organico ci cui non ci siano tracce tanto inconfondibili e tanto universali anche in quello dell’inorganico»159. Né negare né accettare supinamente; né nascondere l’abisso che c’è tra la vita e la non-vita, né prospettare una inspiegabile continuità. Blumenbach avverte con lucidità che la vera questione in gioco non è l’accettazione sic et simpliciter della teoria preformista, epigenetica o evoluzionista, perché a qualsiasi partito si decida di appartenere, resterà sempre pungente, acuminata, la questione decisiva: da dove, e come la vita? Ecco allora che ‘Bildungstrieb’ è concetto-nome (Wortbegriff, è idea che è stata indicata come genesi dello schematismo kantiano160) utile a far risaltare proprio l’oscurità della separazione, ecco che la «forza generatrice» (altro nome per nisus formativus)161 assume carattere funzionale, esplicativo non di una “cosa” preformata e data, ma di una disposizione attiva, di un atto di itinerante autoformazione
Ed è pur condivisibile quanto sostiene criticamente R. J. Richards, Kant and Blumenbach on Bildungstrieb: A Historical Misunderstanding, in «Studies in History and Philosophy of Biological and Biomedical Sciences», (31) 2000, pp. 11-32, secondo il quale applicare il nome ‘biologia’ alla riflessione di Blumenbach è, in senso tecnico, «anacronistico» (ivi, p. 12, n. 3). Ma la questione è proprio questa: un “sapere” circa la vita non era (ed è da discutere se lo sia oggi) e non poteva essere, tra Settecento ed Ottocento, appannaggio di una disciplina particolare, di una conoscenza tecnica, di un’epistemologia consolidata e matura. 158
J. F. Blumenbach, Über den Bildungstrieb (1791), cit., p. 80. Su ciò, U. Eco, Kant e l’ornitorinco, cit., p. 51 che rimanda pure, in merito a tale problema, a J. Kelemen, La comunicazione estetica nella Critica del Giudizio. Appunti per la ricostruzione della semiotica di Kant, in «Il Cannocchiale», (3) 1991, pp. 33-50. 161 Su ciò, L. Marino, I maestri della Germania, cit., p. 115. 159
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ed eteroformazione. E allora, fatta salva la «cimmeria oscurità»162 che penetra interamente il mistero della generazione, lo scienziatofilosofo ha il dovere di proporre un apparato di spiegazioni plausibili, un dispositivo di possibili avanzamenti del sapere, non astrattamente intesi ma fondati sulle Erfahrungen, sullo sguardo “visibile” lanciato sull’invisibile. Ecco che «la materia di cui i corpi organizzati – e tanto più, per quanto concerne l’uomo – è composta, differisce da tutta l’altra materia in ciò: che è l’unica soggetta all’influenza della forza vivente»163. Va aggiunto, non secondariamente, che 1) esistono più forze viventi164, e che fra queste, però, ce n’è una «che risalta in modo eminente»165, e 2) che quest’ultima, rispetto alla “ricettività” della materia (che, dal suo canto, è disposta o non disposta a riceverla a seconda se essa si rivelerà vivente o non vivente) è una vera e propria attività, una fenomenale forza agente e operante. Attenzione, operante non a caso o ciecamente, ma con un progetto, con piani operativi plurimi e contemporaneamente agenti; e sì, perchè «mentre agisce sulla bruta materia, informe ma matura, le impartisce una forma [f o r m a m ] regolare e definita, alquanto variabile in relazione alla natura particolare della materia. Per distinguere questa J. F. Blumenbach, Institutiones physiologicae (1787), Gottingae, editio nova auctior et emendatior, 1798, § 587, p. 463. Per la ricostruzione editoriale di questa importantissima opera di Blumenbach, cfr. S. Fabbri Bertoletti, Impulso, formazione e organismo. Per una storia del concetto di Bildungstrieb nella cultura tedesca, Firenze, 1990, (d’ora in poi, F. B.), pp. 11 e sgg. 163 Ibid. Qui in nota, Blumenbach rimanda al lavoro del suo allievo medico e chimico Christoph Girtanner, Über das Kantische Prinzip für die Naturgeschichte, Göttingen, 1796. Secondo il parere di W. Bonsiepen, Die Begründing einer Naturphilosophie bei Kant, Schelling, Fries und Hegel. Mathematische versus spekulative Naturphilosophie, Frankfurt a. M., 1997, p. 108, il Girtanner tenta, in questa opera, di «sintetizzare il principio preformista kantiano con quello epigenetico di Blumenbach». Non ci pare che le cose stiano esattamente così, anche se, visto l’indubbio grande successo del filosofo, era tentazione sufficientemente convincente per un allievo quella di ingraziarsi il suo maestro paragonandolo a Kant. Bonsiepen, laddove osserva quanto sopra riportato, non chiarisce se Girtanner si stia riferendo all’insieme delle due dottrine o se si limiti all’antropologia, ossia, più precisamente, alla teoria delle razze umane. Per Girtanner e il suo lavoro su Kant (su cui sarà importante ritornare, visti gli accenni al significato della dizione kantiana di Naturgeschichte), si veda pure S. Poggi, Il genio e l’unità della natura, cit., p. 83. 164 J. F. Blumenbach, Institutiones physiologicae, cit., § 588, pp. 465-466. 165 Ivi, § 587, p. 463. 162
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forza vitale dal resto, ci permettiamo di designarla col nome di nisus formativus»166. L’idea blumenbachiana inerente la non unicità del Bildungstrieb nel novero delle potenze formatrici operanti in natura, è ribadita nella sua opera più famosa: «Altre forze formative – non certo il Bildungstrieb (nisus formativus) nel senso che questo termina indica nella presente ricerca: esso è infatti una forza vivente [Lebenskraft] e di conseguenza impensabile in quanto tale nella creatura non vivente – mostrano conformazioni [Gestaltungen] assai regolari che vengono formate da una materia in precedenza informe»167. Insomma, pare di comprendere che ciò che differenzia il Bildungstrieb dalla congerie di altre forze (ricordiamoci la distinzione kantiana tra forze vive e forze morte) che si muovono in natura è la sua duplice funzione: da un lato, per così dire, ‘lebengebende’, una donazione di vita, una “accensione” di quella particolare materia «disposta» ad accogliere tale scintilla; dall’altro, una Formgebung nei confronti della medesima materia “attivata” in precedenza, un’azione plasmatrice “intelligente” di forme non preesistenti, che, proprio in virtù di questa nuova forma acquisita, si “evolvono” secondo gli schemi e le leggi proprie della vita incarnata nella materia ex bruta168. Se si leggono anche appena con superficialità gli scritti di Blumenbach, non è difficile cogliere una chiara insoddisfazione dello Ivi, pp. 463-464. J. F. Blumenbach, Über den Bildungstrieb (1791), cit., pp. 80-81. Secondo T. S. Hall, Ideas of Life and Matter: studies in the History of general physiology. 600 B. C- 1900 A. D., voll. I-II, Chicago, 1969, in Blumenbach si trovano per esplicita ammissione dello scienziato tre generi di forze attive: «una per la generazione e la crescita (…) ed altre due per la motilità e la sensibilità» (ivi, vol. II, p. 105). Strana attribuzione, perché Blumenbach ripete a più riprese quanto il problema della generazione resti vieppiù oscuro e insondabile. Comunque, nello stesso luogo, l’interprete sottolinea pure l’esistenza di una forza “aggiuntiva”, quella della «vita propria» del singolo organo, e da ciò arguisce che Blumenbach parli del Bildungstrieb come un tutto funzionale, mentre invece esso si presenterebbe, di fatto, come una serie di funzioni eterogenee. 168 La distinzione tra “corpo bruto” e “corpo vivente” è, come si sa, di origine lamarckiana. Su questo punto, assai importante anche perché Kant legge (e critica) Lamarck con attenzione, si veda la ricostruzione degli itinerari dello scienziato francese messa in opera da G. Barsanti, La mappa della vita. Teorie della natura e teorie dell’uomo in Francia. 1750-1850), Napoli, 1983, soprattutto, per ciò che più ci riguarda, il cap. 3, “Dalla «storia naturale» alla biologia. L’individuazione di un nuovo campo epistemologico”, pp. 105-128. 166 167
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scienziato per le teorie sul vivente, certamente per quella preformista (o evoluzionistica, o continuistica: al di là del fatto che queste teorie possano essere raggruppate sotto lo stesso ambito categoriale oppure no), ma anche per quella epigenista, ossia quella che per la tradizione interpretativa più diffusa sarebbe da individuare come la matrice dell’idea del Bildungstrieb169. Ora, la questione dell’effettiva aderenza del Non tutti gli interpreti, a dire il vero, optano per questa visione (si veda, ad esempio, F. Duchesneau, La Physiologie des lumières. Empirisme, modèles et théories, The Hague-Boston-London, 1982, in particolare, pp. 340-356 e 477549), però non vi è dubbio che la linea interpretativa più battuta è quella di individuare in Blumenbach un teorico (e fra i più lucidi) delle tesi epigeniste. Ma già a partire dal dibattito a lui contemporaneo, la nozione di ‘nisus formativus’ appare spesso identificata come una sorta di sintesi che «recupera molti aspetti della teoria fisiologica [preformista] di Haller, inserendoli nello schema interpretativo epigenetico, così come era stato riformulato dal Wolff, ma al tempo stesso è critico nei confronti di entrambi». F. B., cit., p. 20. Abbiamo già visto (n. 79 del presente capitolo), quanto Blumenbach avesse a cuore di distinguere la “sua” vis da quella di Wolff, e quanto lo sforzo di Blumenbach fu recepito in questo senso dai suoi lettori contemporanei, nel senso, cioè, di vederlo orientato al perfezionamento correttivo dell’epigenismo. Ma non solo. Salomon Maimon sembra incline a riconoscere nel concetto principale di Blumenbach una riedizione dell’antica idea di anima mundi (Weltseele), da lui stesso pensata come forza agente operante sulla e nella natura inorganica (S. Maimon, Philosophisches Wörterbuch, Berlin, 1791; cit. in F. B., p. 50). Di Girtanner abbiamo già detto, ma chi porterà maggiori sviluppi all’idea blumenbachiana sarà Kielmeyer che, nel dialogo serrato con tutte le componenti principali della cultura della Romantik apre nuovi scenari e dissoda, preparandolo, il terreno concettuale della ricerca biologica dell’Ottocento. Kielmeyer – e si fa riferimento qui per brevità solo all’universo culturale kantiano – è colui che più approfonditamente di ogni altro segue le indicazioni del suo maestro in direzione della rimodulazione del Bildungstrieb come principio euristico fondante la possibilità stessa di un’autonoma scienza del vivente. «Non è per caso – così una lucida interprete – che il concetto “biologia” come indicazione della scienza del vivente sia sorto proprio in quell’epoca in cui viene avvertita la necessità di riservare al vivente, alla natura organica, il concetto di forza». E. M. Engels, Die Lebenskraft – metaphysisches Konstrukt oder methodologisches Instrument? Überlegungen zum Status von Lebenskräften in Biologie und Medizin im Deutschland des 18. Jahrhunderts, in aa. vv., Philosophie des Organischen in der Goethezeit, cit., pp. 127-152, qui, p. 129. La tesi dell’interprete è che concetti come quelli di origine tipicamente kantiano-blumenbachiani (rivisti e sistematizzati da Kielmeyer soprattutto, ma anche da Reil, Brandis, Girtanner, Roose ed altri) rispondano (abbiano rispo169
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pensiero scientifico di Blumenbach alla versione epigenista ortodossa – per quanto non inseguibile qui in ogni sua sfaccettatura – non è di importanza accessoria. è attraverso di essa che si misura, infatti, direttamente e indirettamente, anche la portata e l’incisività della presa d’atto kantiana dell’inaggirabilità della posizione di un principio di finalità all’origine dell’analisi di una possibile filosofia critica della natura. Direttamente, perché non si scopre nulla di originale quando si sostiene la consonanza tra Kant e Blumenbach, quando si leggono le più volte nominate pagine della Critica del Giudizio che citano esplicitamente gli sforzi di Blumenbach nella medesima direzione kantiana. Indirettamente, in quanto la tonalità assunta dalla ricerca di Blumenbach, indipendentemente dall’intenzione di Kant di puntuali richiami teorici a Blumenbach, così, almeno, è stata letta dai loro contemporanei. Ne fa fede illustre l’altra celeberrima citazione goethiana rimandante alla terza Critica: «Nella sua Critica del Giudizio, Kant, a proposito di ciò che è stato fatto in questa importante questione170, sto) all’esigenza di autonomia propria di una disciplina intenzionata a separarsi – e con ciò a costruire i suoi presupposti epistemici – dalla fisica, dalla chimica e così via. In quest’ottica, ‘Lebenskraft’, ‘Bildungstrieb’, ‘Naturzweck’ alludono ad una ben precisa posizione: evidenziare una netta «distinzione tra un vitalismo ontologico e un vitalismo metodologico» (ivi, p. 128), e ciò, per quanto attiene a Kielmeyer, implicherebbe l’assunzione «del concetto di forza organica in prima istanza come categoria descrittiva, classificatoria» (p. 137). Di vita sempre si tratta, pare suggerirci la Engels, ma di un’idea di vita che rifugge dai “realismi metafisici”, dalle condensazioni ontologiche di una “vita” eternizzata o eternizzante. Che lo statuto epistemologico del Bildungstrieb sia divenuto comune patrimonio scientifico della biologia medica romantica, ce lo testimonia un eccellente osservatore della sua epoca, Treviranus, che così si esprime: «L’origine di tutta la vita risiede in un princìpio la cui essenza è l’autonomia dell’attività [Selbstthätigkeit]. Questa autonomia dell’attività si esprime [äussert sich] originariamente come impulso formativo [Bildungstrieb] ed è puramente immanente. Essa si conserva continuamente anche per l’organismo già formato e si esprime ulteriormente tramite la formazione e la produzione del medesimo». G. R. Treviranus, Biologie, oder Philosophie der lebenden Natur für Naturforscher
und Aerzte, Bd. 6, Göttingen, 1822, p. 5. Per seguire più peculiarmente il dibattito su tutto ciò, ci si confronti coll’esauriente saggio (e la vasta letteratura critica ivi presentata) di D. von Engelhardt, Wissenschaft und Philosophie der Natur um 1800. Prinzipien, Dimensionen, Perspektiven, in aa. vv., Philosophie des Organischen in der Goethezeit, cit., pp. 252-269. 170
La «questione» cui Goethe si riferisce è pure l’oggetto del suo frammento
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si esprime come segue: “Nel considerare questa teoria dell’epigenesi nessuno ha dato più del signor Blumenbach, sia per quanto riguarda la sua dimostrazione, sia anche nel fondare i princìpi autentici della sua applicazione, limitando, in parte, l’uso troppo ardito di tale teoria”»171. Fin qui Goethe riporta l’opinione di Kant, ma ora vediamo cosa poi ne pensa lui effettivamente: «Questa testimonianza del coscienzioso Kant mi indusse a riprendere in mano l’opera di Blumenbach, che in passato avevo pur letto, senza tuttavia comprenderla a fondo»172. La memoria del grande tedesco, riandando al lavoro di Blumenbach, evidentemente ritrova altre letture già digerite in passato, altri nomi da lui incontrati nella sua famelica opera di lettore, ma su cui, sembra chiaro, aveva sospeso il giudizio, non trovando né ragioni sufficienti per un’approvazione incondizionata, né critiche definitive. Ed ecco riproporsi la medesima questione anche da noi già analizzata: «Qui trovai il mio Caspar Friedrich Wolff come anello intermedio tra Haller e Bonnet, da una parte, e Blumenbach, dall’altra. Per motivare la sua epigenesi173, Wolff doveva presupporre un elemento organico di cui si nutrivano gli esseri destinati alla vita organica. A questa materia attribuiva una vis essentialis, che si adatta a tutto ciò che ha voluto riprodursi e quindi è giunto al livello del produttore»174. Al cordiale e finanche affettuoso riferimento a Wolff, non fa però riscontro una soddisfazione adeguata sul piano
scritto, ossia l’impulso formativo. 171 J. W. Goethe, Bildungstrieb, in Id., Die Schriften zur Naturwissenschaft, GW, cit., Bd. XIII, p. 32. La versione che appare nel testo è tratta da una traduzione italiana, J. W. Goethe, L’impulso formativo, in Id., Teoria della natura, raccolta di testi e traduzione di M. Montinari, Torino, 1958, p. 73, che naturalmente riporta, tradotto, il passo kantiano citato da Goethe secondo un proprio criterio. Nell’edizione della Critica del Giudizio che qui si utilizza, il passo suona come segue: «In relazione a questa teoria dell’epigenesi, nessuno ha fatto più del consigliere aulico Blumenbach, sia riguardo alle sue prove che ai veri princìpi della sua applicazione, ed in parte anche limitandone un uso troppo audace». I Kant, Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 424; tr. it., p. 393. Riprenderemo tra pochissimo queste fondamentali pagine kantiane. 172 J. W. Goethe, Bildungstrieb, cit., p. 32; tr. it., p. 73. 173 Si noti la decisione con la quale Goethe separa l’epigenesi wolffiana da Blumenbach, e questo è proprio quanto si sosteneva poc’anzi. 174 Ibid. Su quest’importantissimo passo goethiano, e più in generale sui rapporti tra Goethe e Blumenbach, si veda F. B., cit., pp. 108-112.
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scientifico. Per Goethe (così come per Herder175), è l’idea di ‘forza’, ed una sua conveniente analisi, ad esser stata completamente negletta sia dai preformisti sia da Wolff stesso176. Ecco che allora Blumenbach offre la possibilità (non dimentichiamolo: grazie alla lettura di Kant) di nuovi scenari e nuove idee. Più avanti e meglio analizzeremo questo fondamentale passaggio goethiano; teniamo di conto – per ora solo di passaggio – l’attribuzione del massimo grado di pregnanza teorica del Bildungstrieb in quanto concetto “antropomorfizzato” da Blumenbach, come a dire che solo un’analogia con l’umana attività può far penetrare adeguatamente nell’intimo della materia vivente creatrice, nei suoi meccanismi generativi, nelle sue pulsioni di vita. Si saggerà, al momento opportuno che l’attività umana produttrice – che ha come preferito esempio, quello del tessitore – rappresenta la chiave di volta fondamentale per una possibile Erklärung dell’origine e sviluppo del vivente177. Insomma, nel lasciare la trattazione specifica di alcuni momenti del pensiero di Blumenbach, per avviarci a definire l’ultimo tratto – quello più celebre, ma anche, forse, il più complesso – del pensiero kantiano sulla Naturphilosophie, ciò che ci portiamo dietro è sicuramente la delineazione di un orizzonte assai più complesso rispetto al panorama generale che le scienze del vivente avevano da offrire negli ultimi anni del Settecento. La polarità, ormai consolidata ma sbiadita e infruttuosa tra preformisti ed epigenisti, va ormai stretta alla temperie scientifica e filosofica più attenta; in questo clima, Kant è insieme stimolo e conseguenza di un impegno rinnovato, di un accanimento senza quartiere contro tutti gli oscurantismi scientifici e le negazioni dogmatiche. Nel suo pensiero più maturo, Kant giunge ad una decisiva riconcettualizzazione e revisione critica dei suoi stessi presupposti gnoseologici178, e così facendo rimodella la percezione che la filosofia Su questo punto, in merito a Herder, S. Caianiello, Scienza e tempo alle origini dello storicismo tedesco, cit., p. 181. 176 Cfr. J. W. Goethe, Bildungstrieb, cit., p. 32; tr. it., pp. 73-74. 177 Cfr., infra, Cap. II. 175
178 è molto difficile, nello spazio di una siffatta elaborazione, anche solo una panoramica sulle interpretazioni di Kant volte da un lato a sottolinearne la coerenza, o viceversa, ad evidenziarne la trasformazione sostanziale, e forse non solo è inopportuno e complicato sul piano tematico, ma lo è pure su quello squisitamente concettuale. Sostenere che la Critica del Giudizio sia più o meno matura della Critica della Ragion pura, se ne rappresenti un
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e la scienza del suo tempo avevano di loro stesse. Per ciò che più da vicino incrementa la nostra curiosità, Kant non può che rappresentare il primo gradino – quello più solido possibile – di una scala di domande completamento o un’innovazione, se siano comparabili, se l’una s’interessi di un oggetto e l’altra di uno diverso, o se entrambe parlino della medesima cosa; intrattenersi in modo esaustivo su tutto ciò, forse, potrebbe adeguatamente esser fatto tema di un’enciclopedica ricerca, non certo quella qui in itinere. Comunque è nostro compito almeno rimandare a qualche classico della critica su Kant, con particolare attenzione a coloro che, appunto, hanno indirizzato i propri sforzi a confrontare il suo percorso evolutivo. Si parta dal recentissimo saggio di R. Brandt, Überlegungen zur Umbruchsituation 1765-1766 in Kants philosophischer Biographie, in «Kant-Studien», (99) 2008 (1), pp. 46-67 (in particolar misura il paragrafo intitolato ‘Kant gegen Kant junior?’, ivi, p. 61) e a tutta la bibliografia di carattere biografico-filosofico qui riportata; si vedano anche, per rimanere a ricerche molto recenti (alcune, in verità, poco specialistiche e più attente alla divulgazione del pensiero kantiano), i seguenti titoli: M. Kühn, Kant: Eine Biographie, München, 2003; M. Geier, Kants Welt. Eine Biographie, Reinbek, 2003; S. Dietzsch, Immanuel Kant. Eine Biographie, Leipzig, 2003; (ovviamente la contemporaneità delle tre pubblicazioni non è casuale: l’occasione era il bicentenario della morte del filosofo, caduta nel 2004 e fonte di irresistibile richiamo per l’industria editoriale, specialmente tedesca. Esiste una recensione italiana che, oltre a ricordare i lavori di Geier e di Dietzsch, riferisce anch’essa sulle celebrazioni del centenario kantiano: D. Di Cesare, I limiti della ragione duecento anni dopo la morte di Kant, in «Il Manifesto», 12.02.2004). Per chiudere questa carrellata su lavori recenti (alcuni pregevoli soprattutto per i rimandi bibliografici) sulla vita e le opere di Kant, si veda aa. vv., Die Aktualität der Philosophie Kants, hrsg. von K. Schmidt-K. Steigleder-B. Mojsisch, Amsterdam-Philadelphia, 2005. Non ve ne sarebbe bisogno, vista la notorietà, ma altrettanto sarebbe errato non menzionare qui tre grandi classici dell’interpretazione novecentesca di Kant: E. Cassirer, Kants Leben und Lehre (19818), in ECW, Bd. VIII, Hamburg, 2001 (tr. it., Vita e dottrina di Kant, Firenze, 1977); K. Vorländer, Immanuel Kants Leben, neu hrsg. von R. Malter, 4 verb. Aufl., Hamburg, 1986; Id., Immanuel Kant: Der Mann und das Werk, mit einer Bibliographie zur Biographie von R. Malter und einer Verzeichnis der Biographien zum Werk Immanuel Kants von H. Klemme, Hamburg, 1992. Certo è che sembrano distanze siderali quelle che separano il giovane Kant che faceva sostenere all’intelletto «datemi solo della materia e vi costruirò un mondo!» (I. Kant, Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels, in Kants gesammelten Schriften, vol. I, cit., p. 229; tr. it., p. 41).
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circa la congruenza di un percorso in grado di congiungere biologia e storicità, epistemologia filosofica del vivente e riflessione consapevole sul decorso temporale della vita. E la prima di queste domande è la seguente: qual è lo statuto razionale più opportuno per discutere in modo filosoficamente fondato del rapporto tra scienza della natura e comprensione umana di questa scienza stessa? «Se la risposta a questa domanda è per noi in generale accessibile, essa porterebbe chiaramente fuori dalla scienza naturale, ossia nella metafisica»179. Certo è «con diritto che la ragione chiama in gioco, nella ricerca naturale, dapprima la teoria e solo dopo la determinazione 179 I. Kant, Über den Gebrauch teleologischer Principien in der Philosophie (1788), in Kants gesammelten Schriften, Bd. VIII (Abhandlungen nach 1871), cit., p. 179. Esiste, a nostro sapere, una sola traduzione italiana: I. Kant, Circa l’uso dei princìpi teleologici in filosofia, a cura di E. M. Forni, in «Annali di discipline filosofiche dell’Università di Bologna», (3) 1981/1982, pp. 5-32. Non si insisterà mai abbastanza sul ruolo decisivo circa l’impostazione filosofica che Kant contribuì a legittimare nell’ambito della ricerca empirica. Nel clima intellettuale, nelle accese discussioni relative all’origine e ai modi di funzionamento delle strutture organiche, ricercatori di grande valore come Franz Joseph Gall e Johann Caspar Spurzheim potevano asserire nel 1809: «Nella descrizione del sistema nervoso ci atterremo meno alla sua struttura fisica o alla sua forma meccanica, quanto piuttosto a punti di vista [Ansichten] filosofici e fisiologici, ed in questo spirito speriamo anche di essere giudicati da uomini che sono abituati a riflessioni di genere più elevato». F. J. Gall-J. C. Spurzheim, Untersuchungen ueber die Anatomie des Nervensystems ueberhaupt, und des Gehirns insbesondere: Ein dem franzoesischen Institute ueberreichtes mémoire: nebst dem Berichte der h.h. Commissaire des Institutes und den Bemerkungen der Verfasser über diesen Bericht (ParisStrasbourg, 1809), reprint mit hrsg. von S. Oehler-Klein, Hildesheim-zürich-New York, 2001, p. IV. Ricordiamo appena che proprio Goethe è uno dei più interessati ascoltatori alle conferenze sulla fisiognomica che Gall tenne a Halle nel 1805/6. Per il rapporto tra Gall e Goethe si veda W. E. Gerabek, Physiognomik und Phrenologie – Formen der populären Medizinischen Anthropologie im 18. Jahrhundert, in aa. vv., Medizin in Geschichte, Philologie und Ethnologie. Festschrift für Gundolf Keil, hrsg. von D. Groß-M. Reininger, Würzburg, 2003, pp. 35-49, in special modo pp. 43-45, dove, oltre al resoconto di un dialogo pubblico tra i due scienziati – secondo le memorie di un ascoltatore lì presente – compare una gustosissima caricatura d’epoca raffigurante Gall che maneggia teschi e (verosimilmente) teste imbalsamate di cadaveri, insieme ai suoi colleghi e studenti interessati alla fisiognomica e alla frenologia.
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del fine. La mancanza della prima non può mai rimpiazzare né una teleologia né una finalità pratica»180. E però, che si preponga nello studio delle leggi della natura la teorizzazione e la concettualizzazione rispetto alla determinazione dell’“a-dove” queste siano dirette, non implica, solo perciò, che vi sia una gerarchizzazione delle fasi della ricerca. Anzi, nell’ambito dello studio delle regole fondanti dell’agire naturale – dell’agire della “natura” – ciò che al limite viene “prima”, se proprio di gerarchia fa d’uopo discutere, è la determinazione di un “senso” invertito, del carattere “ultimativo” delle cose di natura. Qui, nell’intento di comprendere a fondo questo problema della definizione del campo di coesistenza di teoria razionale e razionale determinazione dei fini della natura, Kant sostiene che la «maggiore difficoltà (…) sta nel nome»181. Che significa? Cosa ha a che fare la determinazione del nome dell’ “oggetto” con la priorità da attribuire alla scala epistemologica della conoscenza, della sua validità trascendentale? Riteniamo che nell’argomentazione kantiana che ora analizzeremo si tracci, insieme, un momento decisivo e dell’interno sviluppo del pensiero di Kant e dell’articolarsi complessivo della nostra ricerca. E’ fondamentale, crediamo, che qui Kant proponga – e proprio all’interno della discussione sull’operatività e validità dei princìpi teleologici nello studio della filosofia della natura, ma, anche, come suggerisce il titolo del saggio, dell’intera filosofia – una tematica squisitamente “storicistica”, un filo di discorso solo apparentemente incidentale e occasionale, ma che invece è erede di tutte le idee, i pensieri e le sollecitazioni che fin qui abbiamo cercato di traversare e illustrare. Certo, sarebbe eccessivo voler affidare a Kant l’impresa che alcuni hanno sensatamente visto svolgere – o tentato di svolgere – a Novalis, quella di «portare la vita nella filosofia»182, sarebbe improprio attribuire a Kant – e ai suoi accertati interessi per la biologia (per il significato filosofico della biologia) – uno slancio oltre i limiti rigorosi della dottrina trascendentale. E però, proprio perché di “trascendenza” qui si tratta, vale la pena di proporre, tipizzandola, una nuova via, una via d’uscita dal binomio teoretico classico kantiano di sensibilità e intelletto, mediati sì dall’immaginazione produttiva e 180 I. Kant, Über den Gebrauch teleologischer Principien in der Philosophie (1788), cit., p. 159. 181 Ivi, pp. 162-163. 182 J. Bierbrodt, Naturwissenschaft und Ästhetik 1750, cit., p. 40.
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dallo schematismo, ma purtuttavia sempre incentrato sul rapporto interno-esterno. Vale la pena di interrogarsi – proprio perché si discute di un trascendere l’ente (da conoscere, conosciuto, conoscibile) – di un “altrove” delle possibilità conoscitive circa la comprensione della natura, di un luogo della determinazione delle ipotesi scientifiche, che si situi in un determinare storicamente diretto. 4. Con Kant oltre Kant. La Kritik der Urteilskraft e il suo significato Quanto mai centrato – in riferimento all’adeguata collocazione della posizione kantiana circa la natura della ricerca naturphilosophisch e del significato ivi inerente di una riflessione storicisticamente orientata – ci pare il giudizio che Cassirer esprime, seppur, in questo caso, in un diverso contesto, a proposito della giusta metodologia d’investigazione filosofica che tenga conto dell’esigenza storicizzante ma che rispetti una retta sintesi di elementi cognitivi: «Tra tutti i problemi che la storia della scienza ci pone, la questione dell’origine della scienza esatta è quello che dal punto di vista filosofico sta al primo posto. Qui infatti non si tratta di una semplice questione singola della storia dell’erudizione che può essere messa allo stesso livello con qualsiasi altra che noi possiamo mettere in risalto nell’andamento continuo dell’accadere. Posto che voglia esercitarsi puramente con se stessa, la storia dell’erudizione si potrebbe occupare di descrivere la via evolutiva del sapere in modo da abbozzare un’immagine [Bild] dell’ampliamento del perimetro della conoscenza. Ma con ciò è preparato solo un lavoro preliminare, per quanto indispensabile e necessario; infatti ciò che della materia del sapere raggiunge il rango di pura conoscenza, è la forma [F o r m] specifica che porta in sé. Questa forma, tuttavia, non scaturisce tout court dai contenuti del sapere; per comprenderla, dobbiamo risalire non tanto alla struttura dell’essere oggettivo, quanto piuttosto alle funzioni fondamentali e originarie della conoscenza stessa. Se poniamo il problema in questo senso, si rivela che anche una sua trattazione puramente storica, richiede altri mezzi e altri metodi di quelli che di solito vengono applicati al rischiaramento di difficili punti di storia dell’erudizione. Il semplice metodo filologico di ricerca e di interpretazione qui tocca determinati confini; certo, esso
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ci insegna a riconoscere il materiale in quanto tale, ma se non si tratta soltanto di assicurare e ordinare questo materiale, ma di comprenderlo e di penetrarlo spiritualmente, allora esso ci nega la risposta»183. Insomma, per provare a penetrare anche solo nella “domanda” che intendiamo rivolgere a Kant, bisogna metodologicamente assicurarsi dello spirito con il quale ci appressiamo ad essa, dello spirito col quale assaggiamo lo spirito e la lettera di questo Kant “storicista”. Bisogna insieme asseverare e illanguidire lo sguardo teorico, cercare un equilibrio fra istanze di necessario rigore interpretativo e di ascolto emotivamente improntato, un equilibrio che ci aiuti a liberare da certi luoghi comuni storiografici, un procedere avvertito in grado di tenere di conto la storia della ormai più che bicentenaria lettura di Kant, ma in un conto non dogmaticamente asservito, in una considerazione libera da pregiudizi e da tonalità interpretative “nobili” ma impigrite dall’eccesso di rimastichio intellettuale. Ci troviamo – come il lettore avvertito può comprendere – in uno snodo decisivo di questa prima parte della nostra ricerca. Ci troviamo – e ivi sosteremo il giusto tempo – nello iato in cui a nostro avviso, Kant, sensibilizzato più che mai dalle discussioni, dalle suggestioni, dalle immagini dei risultati ottenuti della Forschung scientifica sul vivente (che naturalmente riprenderemo), “scopre” il nesso tra il senso filosofico della vita biologica e la radicale storicità, scorge la silhouette di un impianto teorico tale da dare ragione della vita storica “finalisticamente” intesa, e del tradursi di questo impianto dall’individuo organico alla collettività del genere, dall’organismo singolo e biologicamente irripetibile alla socialità dell’umanità in quanto umano autocostruirsi del proprio mondo storico. Ecco come tutto ciò può accadere. Dicevamo, dunque, che nel 1788 il Kant che si apprestava a pubblicare la Critica del giudizio (e che già – particolare non secondario – discuteva con i suoi contemporanei dei risultati raggiunti nella seconda Critica), rifletteva sul problema dell’attribuzione di un significato preciso alla Geschichte, come termine linguistico e come concettualità: «Il termine storia [Geschichte] nel significato dello stesso genere che il greco Historia (racconto [Erzählung], descrizione [Beschreibung]) esprime, è già troppo e da troppo tempo in uso rispetto a un altro E. Cassirer, Mathematische Mystik und mathematische Naturwissenschaft. Betrachtungen zur Entstehungsgeschichte der exakten Wissenschaft (1940), in ECW, cit., Bd. 22, Hamburg, 2006, p. 284. 183
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significato che gli si potrebbe facilmente lasciar portare, che gli competerebbe e che può indicare la ricerca naturale dell’origine [welche die Naturforschung des Ursprungs bezeichnen kann]»184. Ma questo significato ulteriore (che, peraltro, «non senza difficoltà» è adattabile in quanto «espressione tecnica»185) rimanda a una chiarificazione che più su Kant aveva già affrontato, ossia quella relativa alla «dubbiosa e certo da respingere come scadente distinzione tra descrizione naturale e storia naturale», quando a quest’ultima vi si attribuisca il senso di una Beschreibung di «datità di natura», e di voler comprendere con la ragione – qui sì realmente impotente – il «primo sorgimento di animali e piante» come se si trattasse di una «scienza per dei (…) e non per uomini»186. Fatto sta che, in nota, nell’intento di riordinare parole e concetti, Kant precisa: «proporrei fisiografia [Physiographie] per la descrizione naturale [Naturbeschreibung], mentre fisiogonia [Physiogonie] per la storia naturale [Naturgeschichte]»187. Una storia della natura – in termini umanamente e razionalmente umani – può essere concepita solo allorquando la naturalità del raccontare il racconto della natura, tocchi e incontri l’urgenza temporale di definire l’origo, la genealogia, il nascimento dei fatti storici e della interrogazione su di essi188. Kant, per I. Kant, Über den Gebrauch teleologischer Principien in der Philosophie, cit., pp. 162-163. 185 Ivi, p. 163. 186 Ivi, p. 162. 187 Ivi, p. 163. 188 Non che questi tre termini stiano ad indicare il medesimo oggetto, ma tutti essi però alludono a prospettive teoriche e riflessioni sulla storia e sulla vita da cui sentiamo di poterci fare accompagnare, e che possono, secondo noi, essere confrontate con sufficiente produttività per i nostri percorsi. All’origine come “fonte”, come rintracciamento dello zampillo superficiale di un tragitto carsico dell’accadere storico (la pre-istoria non tanto storicizzata né storicizzabile, quanto mitizzata, ma assolutamente umana), ci pare possa essere associata l’esperienza intellettuale di una tradizione di studi storico-religiosi che si concentrano – nei nostri tempi – nel nome di Rudolf Bultmann. Con Bultmann, infatti, viene a maturazione un movimento di idee teologiche che fanno dell’interrogazione storica e demitizzante il vero e proprio centro teorico forte del suo metodo. Per questo aspetto, si vedano soprattutto – ma non esclusivamente – i saggi di Bultmann raccolti in Glauben und Verstehen. Gesammelte Aufsätze, Tübingen, 1960; tr. it., Credere e comprendere, a cura di A. Rizzi, Brescia, 1977. L’ovvio riferimento ad una descrizione genealogica dell’accadere lo si può attuare con Nietzsche, con un Nietzsche visto con occhio sistemico e non occa184
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provare la bontà della sua procedura, volta a ripensare anche i fondamenti semantici della filosofia della natura, elegge a titolo d’esempio di detto procedimento il termine ‘razza’, e chiede: «Cos’è una razza? Termine siffatto non si trova nel sistema di descrizione naturale, ed è perciò presumibile che anche la cosa stessa non si trovi un po’ dovunque in natura. Soltanto il concetto che indica questa espressione è ben fondato nella ragione di ogni osservatore della natura che pensi ad una ereditaria peculiarità dei diversi e svariati animali procreanti che non stia, nel concetto del suo genere [Gattung], in comunanza della causa e neppure posta originariamente in una causa nella radice del genere stesso»189. Col linguaggio suo caratteristico – a volte quasi inafferrabile – Kant sembra però offrire il destro per leggerlo come segue: la razza non è un oggetto naturale, non può trovar luogo nelle ricerche dei naturalisti, non ha una sua configurazione scientificamente descrivibile e analizzabile secondo i crismi propri alle discipline che studiano la vita nel suo sorgere e svilupparsi; non è dato concepirne una causa legittima, un’origine, un decorso evolutivo. E però, essa esiste, opera, agisce, e ciò non tanto nell’ambito dell’osservazione dell’origine comune di un genere, di una specie, né, tanto meno, nell’individuo di natura isolatamente inteso, ma come correlato concettuale delle necessità “selettive” naturali, dei fini impliciti della natura e nella natura, questi sì manifestantisi ad un’osservazione dotata di una scientificità “altra” e alta, di una filosofica visione d’insieme. Ma quale scientificità, quale distretto concettuale può garantire questa visione che renda operante e efficace il concetto di razza? «Che questo termine non si presenti nella descrizione naturale sionale, un pensatore che - come è stato già detto (cfr. E. Mazzarella, Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della vita, Napoli, 1983) ma su cui forse non si è detto ancora tutto – può leggersi come un gran nostalgico di un pensiero autenticamente storicizzante. Intendiamo sostenere – anche alla luce di pregresse e più antiche ricerche personali sul Nietzsche “pensatore storico” – che un’interpretazione complessiva del pensiero nietzschiano deve avere l’ardire di osservarlo anche in una prospettiva “eterodossa”, ossia come pensiero della genealogia in quanto esperienza della temporalità originaria, e, in questa direzione, assumere la nozione della genealogia nietzschiana come esperimento realmente concreto con la vita. L’ultimo riferimento – forse il più ovvio, “naturale” – è quello, ancora una volta, al Vico delle Degnità assiomatiche della “nuova scienza”, dei fondamenti logico-metodologici della storia. 189 I. Kant, Über den Gebrauch teleologischer Principien in der Philosophie, cit., p. 163.
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[Naturbeschreibung] (e che invece al suo posto ci sia varietà), non impedisce190 di trovarlo necessario nell’intento di una storia naturale [Naturgeschichte]»191. Insomma, pare di capire che Kant intenda preservare al ricorso al raccontare storico, al risalire evenenziale (per quanto, o forse proprio in quanto puntato sull’accadere naturale) il compito di definire l’utilizzo altrimenti indefinibile di concetti-guida non naturali (secondo la definizione di natura tipicamente utilizzata dai suoi contemporanei). Alla storia (della natura) e solo ad essa spetta il «compito» di assolvere alla determinazione di «quel principio» di «discendenza [Abstammung] (…) e non del semplice carattere di somiglianza», e per la cui cura «nulla hanno a che fare la descrizione naturale e la semplice classificazione nominale [Benennung]»192. Meglio e più incidente ancora per le sue ricadute tematiche, Kant precisa che, per «ciò che può essere detto circa la varietà del genere-uomo, annoto soltanto che anche in considerazione a questa la natura non è formativa nella totale libertà, ma predetermina tanto quanto sia considerato nei caratteri razziali in quanto si evolvono essi stessi tramite disposizioni [Anlagen] originarie. Poiché anche in questa finalità e nella di lei stessa misurata conformità [gemässe Angemessenheit], viene trovato che non può esserci opera del caso»193. Il vocabolario kantiano, come si vede, è ormai quello della terza Critica e dei lavori degli anni successivi al 1790, ma lo è anche l’armamentario concettuale, il dispositivo progettuale, lo spirito filosofico. Il concetto (e l’oggetto ivi inerente) di razza è allora un esempio soltanto di quanto una prospettiva filosofica completamente diversa e assolutamente integrativa di punti di vista i più ampi e scientificamente efficaci, può ottenere nell’ambito della ricerca sui fondamenti del Leben194. I princìpi teleologici (e il loro utilizzo in Propriamente “non tiene lontano [abhalten]” Ibid. 192 Ivi, p. 165. 193 Ivi, pp. 165-166. 190
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Per questo punto, anche se forse si sopravvaluta il peso del tema razziale nell’economia complessiva del pensiero kantiano di questi anni, si veda il contributo di A. A. Cohen, Kant on epigenesis, monogenesis and human nature: The biological premises of anthropology, in «Studies in History and Philosophy of Science» (Part C: Studies in History and Philosophy of Biological and Biomedical Sciences), (37) 2006, pp. 675-693. Più in generale, per una visione ampiamente dispiegata e suddivisa, secondo le più svariate declinazioni dell’antropologia kantiana e non solo, si veda il volume 194
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filosofia) sono la testa d’ariete lanciata a tutta velocità sulle cattedrali dogmatiche del pensiero, sulla presunta sapienzialità e misteriosoficità di un invece inutile sapere eleusino circa la vita; e, d’altra parte, l’utilizzo di tali princìpi salvaguardia contemporaneamente l’importanza (anzi: la necessità) della ricerca empirica, dell’osservazione, dell’esperimento, delle Erfahrungen, che non perché accompagnate dalla riflessione vengono dichiarate vuote ed inservibili, ma che anzi così si mostrano in tutta la loro efficacia e, perché no, bellezza teoretica, eleganza argomentativa, significatività espressiva. Solo quando la ragione si manifesta nella sua rigorosa e severa ricchezza, e guida l’occhio indagatore del ricercatore naturale con spirito consapevole e preveggente (ricevendone, d’altro canto, benefico contraccolpo), l’empiria sperimentalista trova piena dignità e valore autenticamente scientifico195. Col Kant che, nel suo saggio sull’utilizzo in filosofia dei concetti teleologici per certi aspetti sta già scrivendo la Critica del Giudizio, si apre la possibilità di dotare la ricerca scientifica di una sua connettivante legittimità, di una oggettività non retorica o dogmatica, ma effettiva e soprattutto produttivamente creativa di ulteriori saperi. Di saperi al plurale si ha infatti da parlare, poiché è con questo dibattere interdisciplinare sui fondamenti filosofici delle “parti” che compongono il fenomeno-vita (dalla razza all’antropologia, dall’embriologia alla dinamica dei fluidi vitali, dalla frenologia alla fisiologia) che straripano altri saperi, non nuovi in sé, ma visti con occhi nuovi. La storicità che ogni discorso sull’usabilità dei princìpi teleologici presuppone; la determinazione temporale che la riflessione sul vivente soltanto (in quanto espressione di un’estensione da un’origine a un [una] fine) può offrire nella sua dimensione più confacente alla costituzione di un vivente-riflettente quale l’uomo è; la progressivamente maturantesi consapevolezza della radicale finitezza della vita individuale che però si perpetua, si riscatta e vuole comunque vivere nella e attraverso la specie; collettaneo aa. vv., L’année 1798: Kant et la naissance de l’anthropologie au siècle des lumières, Actes du colloque de Dijon (9-11 mai 1996), sous la direction de J. Ferrari, Paris, 1997. 195 Solo da questo punto di vista, allora, si giustificano le parole – altrimenti passibili di lesa modestia – di Johann Christian Reil, che, nel 1807 poteva scrivere, con un’analogia ardita, che «la ragione si specchia nell’organizzazione del sistema nervoso come la divinità si esprime in tutta la corposità [Leiblichkeit] della costituzione del mondo». J. C. Reil, Fragmente ueber die Bildung des kleinen Gehirns im Menschen, in «Archiv für Physiologie», (8) 1807-8, p. 2.
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tutto ciò – a noi pare – non è solo questione analogica, non è (anche se certo lo è pure) mera compitazione di somiglianze tra storicità e saperi della vita, semplice eguaglianza di terminologie, concettualità, interessi. La storicità – l’interesse al maturarsi dell’accadimento, agli sviluppi del fatto, alle “regole” della conoscenza delle molteplicità individuali, la “preveggenza” e la possibile “correzione” delle vie curve di questi sviluppi – è in se stessa vita all’opera, vita che si racconta e si slancia oltre se stessa, così come il bios è sviluppo autonomo e collettivo insieme, di individuo e di specie, sviluppo che si racconta nel modo che gli è più proprio, solcando sulla pergamena degli individui i segni del passato, ossia le mutazioni, le trasformazioni, gli adattamenti che il corpo organico manifesta come signa delle relazioni coi suoi simili e con l’ambiente circostante. Cosa si trova di tutto ciò nella Critica del Giudizio? Cosa si trova in questo pezzo fondamentale della storia del pensiero occidentale, del dibattito sulle scienze della vita che abbiamo cercato di evidenziare nelle pagine precedenti, e come lo si trova, secondo quali crismi qualitativi, in vista di quali finalità? L’ultima parte di questa prima tappa del nostro viaggio proverà a rispondere a tali quesiti. Non un’analisi del testo – o almeno non solo – ma un tentativo di leggervi una “traduzione” e di proporne una “tramandazione”. Traduzione, perché il giudizio – la capacità del giudizio di svolgere la propria funzione di giudicare – è «termine medio tra l’intelletto e la ragione»196, perché mondi altrimenti incomunicabili, addirittura per essenza intangibili l’uno per l’altro, quello della libertà e quello della sensibilità, devono possedere in comune un «fondamento il cui concetto, pur insufficiente a darne una conoscenza sia teorica che pratica (…) permette tuttavia di passare dal modo di pensare secondo i princìpi dell’uno a quello secondo i princìpi dell’altro»197. Tramandazione, perché il futuro, la finalità della natura come concetto – così come da Kant pensata – è in primo luogo risultato di una promessa, di un patto; la finalità, in quanto essa è l’orizzonte trascendentale di possibilità della realizzazione della libertà umana è questione per eccellenza storica, esperienziale, per essenza trascorrente tra libertà e fine, perchè non solo «il suo concetto [il finalismo della natura] non può essere dato a
196 197
I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 177; tr. it., p. 155. Ivi, p. 176; tr. it., p. 154.
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priori, ma solo mediante l’esperienza»198, ma esso fa qualcosa in più perché «ci promette [verheißt], del fondamento ultimo della natura, un concetto che, tra tutti quelli che possiamo pensare, conviene esso solo al soprasensibile, cioè il concetto di un intelletto supremo come causa del mondo»199. Questa promessa (pro-missio è qui da noi letto come correlato e consanguineo di trans-missio) è un mettere a favore qualcosa a qualcuno traversando qualcosa d’altro, ossia il diaframma del presente che separa il passato – tempo della tradizione tramandata – dal futuro (tempo dell’inverarsi della promessa speranzosamente attesa); essa legittima e istituisce la possibilità di pensare il soprasensibile come esistente al di là di ogni possibile negazione razionale, di qualsivoglia obiezione sensista (ed è questo il senso funzionale della trascendalità fondamentale del giudizio: né intelletto, né sensibilità, e neppure la libertà nella sua “inservibilità” possono esaurire la funzione giudicatrice. Ma di ciò, più oltre). Il finalismo della natura è ciò su cui si può contare perché «esso di fatto orienta [ausrichtet]200 secondo il principio del giudizio riflettente, ossia secondo la costituzione della nostra facoltà conoscitiva (umana)»201. Non di un finalismo astrattamente inteso qui si discute, non di una salvifica, volatile, soggettiva istanza Kant parla. Il finalismo – congeniale a, e fatto della stessa materia costitutiva della capacità umana di conoscere – è finalismo della natura, cioè qualcosa che per essere giudicata come tale, e che come tale produce oggetti, «richiede qualcosa in più»202 che non quel finalismo (peraltro anch’esso parte fondamentale della produttività umana) che ha di mira e raggiunge l’oggetto in quanto «prodotto dell’arte (vestigium hominis video)»203. Per sgombrare immediatamente il campo d’indagine da un possibile e sopravveniente equivoco, va qui subito fatta un’importante precisazione: non è lecito pensare che Kant opti per una condizione di separatezza tra i prodotti della cultura (umani) e quelli della natura, dando la “priorità” a questi ultimi in ragione di una loro conchiusa Ivi, p. 476; tr. it., p. 446. Ibid. 200 Si è preferito il verbo ‘orientare’ rispetto a quello di ‘mantenere [la promessa]’ perché in ‘aus-richten’ (e nel suo sostantivo ‘Aus-richtung’), si manifesta chiaramente la “direzione” di senso, la Richtung che un buon orientamento deve saper prevedere nel cammino della conoscenza e dell’esperienza umana in quanto tale. 201 Ibid.; tr. it. legg. mod. 202 Ivi, p. 370; tr. it., p. 341. 203 Ibid. 198
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e trascendentale pensabilità, restando, i primi, semplice correlato “estetico”, particolare di un universale finalistico della natura nella sua totalità. Se rileggiamo con cura il non breve passo col quale Kant delinea questa distinzione, ci rendiamo conto meglio di ciò che una riflessione attenta non può non recepire: la differente “qualità”, appunto, tra prodotti della cultura e fini della natura. «Se qualcuno scoprisse, in un paese apparentemente disabitato, una figura geometrica, magari un esagono regolare disegnato sulla sabbia, la sua riflessione, cercando di farsene un concetto, giungerebbe ad afferrare, mediante la ragione, sia pure oscuramente, l’unità del principio che presiedette alla sua produzione»204. E’ il caso idealtipico del “Robinson Crusoe”, dell’acculturato che si trova nel pieno di un mondo completamente altro rispetto a quello perduto per colpa del naufragio, e che si affanna alla ricerca di un segno della presenza dell’umano205. Kant dice che alla vista di quel segno, la «ragione» sarebbe in grado, «oscuramente», di fornire una ricostruzione delle forme concettuali del segno, tale che questo segno stesso potesse essere compreso completamente nella sua principialità. «E quindi – prosegue Kant –, giudicando secondo la ragione, non attribuirebbe al vicino mare, ai venti od anche agli animali, le cui impronte conosce, o ad altra causa priva di ragione, il principio della possibilità d’una simile figura»206. Come è possibile questo esagono? Quali le condizioni che rendono possibile la sua esistenza reale, qui ed ora di fronte ai miei occhi, come, attraverso quale serie causale si è potuto giungere alla manifestazione ultima del segno che mi trovo davanti? Tali le domande su cui, secondo Kant, il “naufrago” – che, 204
Ibid. Cassirer riprenderà l’esempio del naufrago in alcune pagine del suo Nachlass: «Poniamo di trovarci da soli in una contrada completamente isolata, come Robinson Crusoe su un isola dove non c’è alcun indizio di presenza di uomini, l’ambiente che ci circonda consiste unicamente in ciò che la percezione ci porta: la sabbia della costa, l’acqua dell’oceano, gli scogli della riva. Ma improvvisamente ora il nostro sguardo cade su una pietra che ci attira per la particolarità della sua forma. Presumiamo che questa forma non è casuale ma voluta (cs. ns.), che non è semplicemente prodotta dalla natura, ma che è prodotta dall’ ‘arte’. In quest’attimo ci troviamo di colpo in un altro mondo, nel mondo dell’ ‘uomo’ come creatore di cultura, nel mondo dell’ ‘homo faber’». E. Cassirer, Grundprobleme der Kulturphilosophie, in Id., Nachgelassene Manuskripte und Texte, Bd. 5, Hrsg. R. Kramme, Hamburg, 2004, p. 68. 206 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 370; tr. it., p. 341. 205
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si noti, «conosce» le orme degli animali e in virtù di questa pregressa conoscenza può escluderle dall’identificazione con l’esagono – si trova a riflettere, ed a cui, con notevole fatica e oscuramente, riesce a dare una determinazione concettuale, procedurale e, per così dire, genealogica, nel senso che del segno se ne riesce a comprendere l’originaria natura di artefatto a fondamento razionale. Vediamo, dunque, come prosegue il discorso Kant: il “naufrago” attribuirebbe la causa dell’esagono ad una mente razionale anche perché «la improbabilità [Zufälligkeit]207 d’una coincidenza con un simile concetto, possibile solo con la ragione, gli sembrerebbe così infinitamente elevata, che tanto varrebbe escludere l’intervento di leggi naturali, e quindi anche di cause della natura considerate come meccanismo»208. Prima di giungere alla conclusione del ragionamento – e dunque alla fatidica distinzione (che già abbiamo citato e che riciteremo per non spezzare il già complicato argomentare kantiano) – tra prodotti naturali e prodotti dell’ingegno – va fatto notare che Kant sostiene che la deduzione che qui il “naufrago” fa, non è per nulla una deduzione logica, bensì, per così dire, empirica, perché non c’è alcun nesso logico che nega assolutamente la fattura naturale dell’esagono, ma solo l’elevatissima improbabilità che ciò avvenga. è come se si pensasse: tutti i segni della natura che ho visto fin dalla mia nascita ad oggi non sono identificabili con l’esagono; non ho mai visto – né sentito – che vento, onde, animali, fulmini e tutto ciò che può indurre la materia a modificarsi abbiano mai potuto creare la regolare, distinta forma dell’esagono; se così fosse, dovrei rimettere in questione tutto ciò che so – perchè appreso – e che percepisco di continuo (riportandolo a quanto appreso) circa le leggi meccaniche della natura. Come si può osservare, se questo è effettivamente il procedimento volto a escludere l’intervento di cause naturali, non c’è un solo momento di questo ragionamento che non implichi l’esperienza, e la memoria dell’esperienza. Kant non dice che non si può assolutamente verificare un evento come l’esagono in quanto evento naturale, nel senso di una necessità logica, ma presenta la possibilità che ciò accada come un assurdità empirica, una “cosa mai vista” prima d’allora209. La conclusione di questo controverso passo va 207 Sui motivi – condivisibili – per i quali il curatore della traduzione italiana qui in uso adotta ‘improbabilità’ per ‘zufälligkeit’, invece che il canonico ‘casualità’, si veda la Nota sulla traduzione, in ivi, pp. 67-68. 208 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 370; tr. it., p. 341. 209 Kant sembra riconoscere perfettamente il timbro humeano di questo
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allora intesa come il primo pezzo di strada di un ragionamento ancor lungo e articolato: «Solo il concetto di un tale oggetto [l’esagono], in quanto concetto che solo la ragione può dare, confrontando con essa l’oggetto, può contenere la causalità d’un simile effetto; questo pertanto va considerato senz’altro come fine, ma non come fine naturale, bensì come prodotto dell’arte (vestigium hominis video)»210. Tali rilevantissime questioni di natura squisitamente erkenntnisstheoretisch, sottostanti, peraltro, all’intero filo del discorso che qui stiamo provando a portare avanti, ci distoglierebbero tuttavia dal flusso primario del tema qui in essere. Quest’ultimo deve procedere con l’analisi di quei momenti del riflettere kantiano atti a mostrare che l’intento del filosofo di fornire una fondazione (trascendentale) salda al problema delle leggi della natura, dello sviluppo biologico del corpo organizzato individuale, è condizione imprescindibile per l’apertura di un panorama intrinsecamente – se non necessariamente – volto alla fondazione della vita come storicità. argomento (e di tutti gli sforzi fatti nella Critica della ragion pura per confutarlo), tanto è vero che sentirà, nelle pagine successive, l’esigenza di fondare trascendentalmente la necessaria consequenzialità del nesso causa-effetto in merito al giudizio teleologico. Resta, quello dell’“argomento del naufrago”, un bell’esempio di come Kant sia divenuto ormai conscio delle difficoltà in cui era incorso nella prima Critica sul problema della fondazione dei giudizi empirici (si tratta, infatti e nel caso specifico, non di un giudizio del tipo: ‘l’esagono regolare possiede queste o quelle proprietà geometriche’, ma: ‘non conosco le cause di ciò che vedo e desidero scoprirle’), e del tentativo di risolverli nell’opera del 1790. Per questo aspetto, si vedano le sempre illuminanti pagine di Eco, Kant e l’ornitorinco, cit., pp. 76 e ssg., perché Kant, raccontandoci «come si sviluppa un abduzione degna di Robinson Crusoe», sembra voler risolvere, almeno a livello di tentativo teorico, il problema dei giudizi empirici nel 1790 con una «versione teleologica dello schema» utilizzato in modo diverso, invece, nella prima Critica. Secondo Eco, questo tentativo kantiano si può delineare come segue (ivi, pp. 78-79): «Se lo schema dei concetti empirici è un costrutto che cerca di rendere pensabili gli oggettti di natura, e se dei concetti empirici non si può dare sintesi mai compiuta, perché nell’esperienza si possono scoprire sempre nuove note del concetto, allora gli schemi stessi [così come dedotti nella Critica della ragion pura] non potranno essere che revisibili, fallibili, destinati a evolversi nel tempo. Se i concetti puri dell’intelletto potevano costituire una sorta di repertorio in temporale, i concetti empirici non possono che diventare “storici” o culturali, che dir si voglia». 210 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 370; tr. it., p. 341.
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Da questo punto di vista si prepara il grande tema dell’analogia come strumento conoscitivo indispensabile all’istituzione fondata del nesso organismo vivente individuale-organismo vivente collettivo-leggi di sviluppo di entrambi-giudizio come capacità di fondare queste leggi. Un primo accenno su ciò può darcelo immediatamente la semplice enunciazione del titoletto dei paragrafi 65, 66, 67 e 68 della Critica del Giudizio. Nella traduzione italiana qui in uso, essi suonano come segue: «§ 65. Le cose in quanto scopi della natura sono esseri organizzati»211, «§ 66. Del principio del giudizio sulla finalità interna degli esseri organizzati»212, «§ 67. Del principio del giudizio teleologico sulla natura in generale come sistema di fini»213, e infine «§ 68. Del principio teleologico come principio interno della scienza della natura»214. è chiaro che è prevalentemente in questi paragrafi che il grosso del nostro argomentare intorno a Kant deve concentrarsi, ma non sarà inopportuno andare a vedere, rapidamente, le premesse di fondo che Kant espone all’inizio della parte dell’opera del ’90 dedicata al giudizio teleologico. Insomma, una breve ricostruzione dei passaggi che portano Kant alle conclusioni (per i nostri scopi) decisive è obbligatoria, altrimenti il timore è che non potrebbe venir fuori adeguatamene il senso del nostro discorso. A tal proposito, iniziamo da un passo che dà proprio l’impressione di rappresentare un vero manifesto programmatico della problematica intera: «Tuttavia, con diritto il giudizio teleologico viene applicato, quanto meno in modo problematico, alla ricerca naturale»215. “Tuttavia”, dice Kant, evidentemente considerando un argomento contrario – anch’esso da intendere legittimamente – al diritto che il giudizio teleologico ottiene nel suo applicarsi alla scienza sulla natura. Questo ipotetico divieto di utilizzare il giudizio teleologico può essere così riassunto: «Facendo riferimento ai princìpi trascendentali, si hanno buone ragioni per ammettere una finalità soggettiva della natura nelle sue leggi particolari, in vista della sua comprensibilità da parte del Giudizio umano, e della possibilità di connessione [Verknüpfung] di esperienze particolari in un sistema»216; e però «che le cose della natura Ivi, p. 372; tr. it., p. 343. Ivi, p. 376; tr. it., p. 346. 213 Ivi, p. 377; tr. it., p. 448. 214 Ivi, p. 381; tr. it., p. 351. 215 Ivi, p. 360; tr. it., p. 332, legg. mod. (corsivo nostro). 216 Ivi, p. 359; tr. it., p. 331, legg. mod. 211 212
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[Dinge der Natur] stiano tra di loro in rapporto di mezzo a fine, e che la loro stessa possibilità si possa comprendere a sufficienza solo mediante questo tipo di causalità, l’idea generale di natura [allgemeinen Idee der Natur] come insieme degli oggetti dei sensi, non ci dà nessun motivo di pensarlo»217. Vista questa stridente contraddizione – la presenza di «buone ragioni» per ammettere una finalità soggettiva, l’assenza di una sostenibile motivazione nel pensiero di un “sistema” dei fini degli oggetti della natura – il compito del filosofo, «tuttavia», può esercitarsi convenientemente nel comprendere il giudizio teleologico come specillo trascendentale da immettere nella ricerca naturale, «ma solo per sottoporla, seguendo l’analogia con la causalità secondo fini, a princìpi di osservazione e di investigazione, senza pretendere di poterla così spiegare [erklären]»218. Il metodo principale che si conviene a tale ricerca è quello dell’analogia219; quello correlato è la coniugazione dell’analogia con la sperimentazione; il termine della ricerca non è affatto un’onnipotente prospettiva chiarificante, ma l’acquisizione «perlomeno [di] un principio in più per ricondurre a regole i fenomeni naturali»220. In fondo, quello che sta prospettando Kant non è né una tecnica particolare mirata alla comprensione assoluta del fenomeno naturale, né una fiduciaria scommessa sull’intrinseca finalità della natura, come se essa avesse di per sé degli scopi da portare a termine, una sua propria intelligenza, un suo proprio carattere, e il pensiero umano dovesse 217
Ibid. Ivi, p. 360; tr. it., p. 332. 219 Si noti, solo di passaggio (ma meglio ancora più oltre), la già matura elaborazione, nel giovane Kant, del ruolo giocato dall’analogia, la quale «sempre deve soccorrerci in questi casi in cui viene a mancare all’intelletto il filo della dimostrazione infallibile». I. Kant, Allgemeine Naturgeschichte und Theorie des Himmels, in Kants gesammelten Schriften, vol. I, cit., p. 315; tr. it., p. 125. Del resto, per provare a misurare, con una controprova sufficientemente corroborante, il valore euristico dell’analogia, si vedano le riflessioni sopravvenienti da un universo di interessi filosofici diametralmente opposti a quelli kantiani, rappresentate in un articolo di Ernst Mach, Aehnlichkeit und Analogie als Leitmotiv der Forschung, in «Annalen der Naturphilosophie», (1) 1902, pp. 5-14. Alla luce di esempi classici (Keplero, Galilei, Huygens) e di altri, tratti dalla ricerca scientifica della sua epoca o giù di lì (Herschel, Faraday, Fourier), Mach evidenzia la “funzionalità” del procedimento analogico nella vera e propria sperimentazione da laboratorio, e non solo nella ricerca teorica di base. 220 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 360; tr. it., p. 332. 218
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abbandonarsi alla mera osservanza di questo agire della natura e inferirne, con ciò, la sacralità e intangibilità. La tensione tutta filosofica di Kant è quella di pensare «quantomeno [wenigsten]» un’armonia tra l’arte nascosta (anche qui un’analogia) della natura di produrre un alcunché di determinato, e i modi propri nostri (degli uomini) di giudicare (pensare) sotto condizioni trascendentali le regole secondo le quali opera questa creatività. Il «diritto», dunque, di utilizzare il giudizio teleologico – in quanto esso è giudizio riflettente221 – non è desunto da una qualche virtù particolare presente nella singola personalità riflettente, nell’unico, geniale pensatore-scienziato immerso nei suoi calcoli; né è derivato da una qualche ancestrale prerogativa del mistico in comunicazione con la sua entità rivelatrice. Neppure esso si trova nelle stesse cose della natura, in una trama presente e già costituita nella totalità degli oggetti naturali, tanto che al pensiero pensante non serve altro che impararne a leggere l’alfabeto ed essi non avranno più segreti per lui. Il diritto trova la sua ragion d’essere, pertanto, in un luogo non troppo ben definito, all’incrocio di facoltà e princìpi, di rappresentazioni e intuizioni, di concetti e regole. Leggiamo, per meglio comprendere la dimensione di questa straordinaria prospettiva, un lungo passo kantiano in cui il periodare stesso, il suo affermare e negare (parzialmente) quanto appena sostenuto, l’andamento discorsivo e l’ardua sintassi, ancora più “kantiani” del solito, indicano sia la difficoltà intrinseca del tema, sia l’accorto e prudente inoltrarsi in un territorio quanto mai impervio. Il punto di partenza è rendere conto dell’esser-formale della finalità oggettiva [objectiven Zweckmäßigkeit]222 rispetto a ciò che può essere Si noti l’attenzione logico-discorsiva (ed anche l’onestà intellettuale) con la quale Kant esclude la possibilità di una riposante riconduzione del principio produttivo della natura nell’ambito del giudizio determinante; ciò per seguire la logica fondazionale di tipo trascendentale che non può consentire l’applicazione ai fenomeni della natura né della ragione giudicante, tendenzialmente regolativi, né, tanto meno, di un’intuizione intellettuale: «Se noi invece supponessimo nella natura la presenza di cause operanti intenzionalmente, fondando la teleologia non solo su di un principio regolativo per il mero giudizio dei fenomeni (…) ma anche un principio costitutivo per derivare [Ableitung] i suoi prodotti dalle loro cause; in tal caso il concetto di scopo naturale non converrebbe al Giudizio riflettente, ma a quello determinante» (ivi, pp. 360; tr. it., p. 333). 222 Preferiamo indicare con ‘esser-formale’ quanto Kant intende dire, per non usare il termine ‘formalismo’, già assai compromesso nell’analisi dell’etica kantiana. 221
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materia di una finalità riguardante oggetti. Il ragionamento kantiano inizia con una riflessione a prima vista poco congruente: «è infatti proprio nella necessità di ciò che è finalistico e conformato come se [als ob] fosse intenzionalmente destinato al nostro uso, e che tuttavia sembra convenire [zuzukommen schein] originariamente all’essenza delle cose, senza riguardo all’uso che ne facciamo, che sta la ragione della grande ammirazione [Bewunderung] che la natura desta non tanto fuori di noi, quanto nella nostra stessa ragione»223. In questo quasi inspiegabile armonizzarsi da un lato del “come se” la comprensione delle finalità naturali apparisse destinata a noi, e dall’altro del sembrar-convenire delle cose a se stesse indipendentemente da noi, opera una meravigliosa e ammirabile forza movente, quella motricità che ci spinge a restare allibiti di fronte al “fatto” – altrimenti completamente oscuro – che le cose della natura possono essere comprese in quanto dotate di una loro propria programmaticità, di una loro forza interna ben vedente. Kant, si badi, non sta dicendo che l’ammirazione sorge dalla comprensione del nascosto meccanismo delle leggi naturali, ma che essa arriva alla nostra Vernunft dalla sensazione (da fondare ancora, ma possibilmente fondabile) di un adeguarsi del “come se” al “così è”, della “finzionefunzione” razionale che le cose abbiano un fine da noi concepibile e che questo fine sia quello che si compie nella realtà di fatto. Ora, questo compiacimento della ragione con se stessa, nella capacità di restare meravigliata da questa congruenza, è solo, per così dire, la molla dell’esercizio della ragione stessa, la quale non può sostare muta di fronte alla legittima ammirazione avvertita. Se essa è ragione trascendentalmente all’opera, deve trovare le relazioni fondative tra giudicare umano e fini della natura, a prima vista inclinanti verso un godimento “solo” estetico. Infatti, «sebbene questa finalità intellettuale sia oggettiva (e non soggettiva come quella estetica), la si può bensì pensare, quanto alla sua possibilità, come puramente formale (non reale) [(nicht reale)], ossia come finalità che non esige a fondamento un fine, e quindi una teleologia»224. Insistere, insistere ancora di più, provare a dare conto di questo incredibile combaciare tra giudizio e cose, facoltà e produzioni naturali, regole e organismi individuali, schemi sussuntivi e ritmi viventi, insomma, tra legge che agisce finalisticamente e libertà della vita nella sua incoercibilità. La cura con la quale Kant, ad ogni 223 224
Ivi, p. 363; tr. it., p. 335. Ivi, p. 364; tr. it., p. 335 (corsivo nostro).
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passaggio del suo argomentare, delinea il campo teorico dove far comparire la definizione della prospettiva teleologica dei prodotti della natura deve essere seguita con altrettanta attenzione: se è vero che siamo noi che attribuiamo (nel nostro pensiero) una finalità alla natura, «si vede anche bene, e appare legittima, l’ammirazione per una finalità che si intravede [einsehen]225 nell’essenza delle cose (in quanto i loro concetti possono essere costruiti). Le molteplici regole, la cui unità (fondata su un principio) desta questa ammirazione, sono nel loro insieme sintetiche e non derivano da un concetto dell’oggetto, ad es. un cerchio, ma hanno bisogno che quest’oggetto sia dato nell’intuizione»226. Noi e le cose della natura: deve esserci un modo di poter pensare questa possibile unità/ differenza sotto il segno della consapevole e razionalmente orientata disposizione alla comprensione. Infatti, ancora, per questo comprendere sui generis non è sufficiente la dicotomia, quand’anche cofunzionale e coagente, di concetto e intuizione, perché in tal modo «viene a sembrare che questa unità abbia empiricamente un principio regolatore estraneo e diverso dalla nostra facoltà rappresentativa, e che quindi l’accordo dell’oggetto con l’esigenza di regole che è propria dell’intelletto, sia in se stesso accidentale (…)»227. La Übereinstimmung che qui si cerca, l’accordo, la concordanza – che ha da essere pure convenienza – non è quella pretesa dalla ragione pura, ma da una ragione – ci sia consentito il termine – spuria, una disposizione capace di agire “come se” fosse pura e nello stesso tempo consapevole che per suo stesso agire è indispensabile l’“impurità” della riflessione trascendentale rivolta alle «operazioni della natura», e pur tuttavia impostata secondo regole oggettive, sempre Anche in questo caso – vista l’estrema delicatezza della questione – vale la pena di sottolineare che mentre nell’ottima traduzione italiana da noi consultata, nel luogo in essere si utilizza il verbo ‘percepire’, noi abbiamo preferito tradurre (e rendere) il kantiano ‘einsehen’, con ‘intravedere’, perché più consono, secondo noi, al tenore complessivo alquanto “investigante” di Kant. Del resto, la percezione – o meglio, il percepire come azione di una facoltà – è termine legato invariabilmente alla sensibilità, che è sì in questione nell’argomentare della Critica del Giudizio, ma 1. non ne è, in generale, il centro, e 2. nel passo in questione, come poi si vedrà, l’intuizione sensibile dell’oggetto percepito non può essere intesa alla stessa stregua delle indagini kantiane sull’esclusiva facoltà teoretica. Su ciò (ed altro) si veda il bel saggio di T. Catena, Sentire. Una riflessione sulla Ragion Pura, il Giudizio (e oltre...), Napoli, 2010. 226 Ibid. 227 Ivi, p. 364; tr. it., pp. 335-336 (corsivo nostro). 225
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ripetibili, sempre richiamabili in causa ogni qual volta esse servano. Una disposizione razionale, più che una ragione pura, un fondamento dinamico, una mobile attuazione dell’intelligenza: ecco ciò che Kant sta proponendo in queste pagine. E se è vero che impostare in tal modo il problema del giudizio teleologico offriva il destro all’accusa, mossagli dai suoi avversari, di «trovarsi di nuovo dinanzi all’aprirsi del baratro, dello hiatus irrationalis»228, Kant si mostra invece pienamente in grado di controllare le possibili eccedenze di un’incostanza della lucidità analitica, provando a tradurre quest’ultima in quanto radicalizzazione e raffinamento teorico dell’analogia, perché se è «pur vero che l’intelletto possiede a priori delle leggi universali della natura, senza le quali quest’ultima non potrebbe affatto essere oggetto d’esperienza; ma esso ha inoltre bisogno [es bedarf] che la natura presenti un certo ordine nelle sue regole particolari, che esso non può venire a conoscere se non empiricamente, e che rispetto ad esso sono contingenti»229. L’intelletto non è affatto una “macchina”, indistruttibile, sostanziale, bisognosa a se stessa. Esso ha “bisogno” di un disporsi della natura verso di lui, e questo inclinarsi della natura, che consente una fondazione razionale e non solo empirica e contingente delle leggi che la sovrintendono è garantito dall’analogia, che, come medio trascendentale tra universalità a priori dell’esperienza e particolarità del dato fattuale, offre la possibilità concreta di incamminarsi alla ricerca di un nesso tra l’uomo e la natura: «Queste regole, senza le quali non sarebbe possibile passare dalla analogia generale di un’esperienza possibile in quanto tale all’analogia particolare, l’intelletto deve pensarle come leggi (cioè come necessarie); perché altrimenti esse non costituirebbero un ordine della natura»230. Ecco dunque entrare in scena, prepotentemente, la “struttura” fondamentale che Kant manipola, rinnovandola, ai fini di una precipua sistematicità dell’interrogazione qui in gioco. L’analogia rappresenta uno snodo decisivo del Kant della terza Critica e ci offrirà il destro, se rettamente intesa, per “analogizzare” noi stessi la biologia come storia del vivente231; perché se la «finalità della natura è dunque un particolare S. Poggi, Il genio e l’unità della natura, cit., p. 90. I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 184; tr. it., p. 162. 230 Ibid. 231 Non sfuggiamo qui, e proprio ora, alla appena ovvia obiezione che può essere sollevata contro l’affermazione testé fatta, quella obiezione assolutamente legittima, cioè, che ricorda il ruolo fondamentale delle Analogien der Erfahrung 228
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concetto a priori, che ha la sua origine esclusivamente nel giudizio della prima Critica. A questo serve (pure) l’apparato critico extratestuale: a fornire gli elementi fondamentali di una questione che, se affrontata nel corpo del filone principale della ricerca, non potrebbe essere neppure accennata, ma che, in virtù di una ripresa per capi della questione stessa, può e deve apparire nell’andamento teorico del lavoro. Nella prima Critica – è risaputo – la problematica del valore filosofico-scientifico dell’analogia è discussa nell’Analitica trascendentale e, sul piano esemplificativo, si sviluppa nelle tre analogie dell’esperienza (Sez. III, Cap. II, Lib. II); è un fatto la presenza esclusiva, nella seconda edizione, di un lungo brano iniziale posto all’inizio della sezione terza, insieme al cambiamento della titolazione, come pure è un fatto la sostanziale trasformazione dei primi brani di tutte e tre le analogie. Indiscutibile è pure l’intatto dettato della definizione vera e propria dell’analogia. Leggiamo questo brano fondamentale. «I precedenti due princìpi [Assiomi dell’intuizione e Anticipazioni della percezione] che ho chiamato matematici» - ricordiamo che le Analogie dell’esperienza e i Postulati del pensiero empirico in generale sono detti da Kant ‘dinamici’ - «concernevano i fenomeni secondo la loro pura possibilità (…). Perciò, possiamo chiamare questi princìpi costitutivi. Tutt’altra cosa dev’essere praticata [bewandt] con quei [princìpi] che devono portare l’esistenza dei fenomeni sotto regole a priori. Questa esistenza infatti non è costituibile (…). Questi princìpi non potranno avere altra funzione che quella di princìpi regolativi (…). In filosofia, le analogie hanno un significato assai diverso da quello che hanno in matematica. In questa [le analogie] sono formule che enunciano l’eguaglianza di due rapporti quantitativi ed è sempre il caso di analogie costitutive (…). Invece in filosofia l’analogia non esprime l’eguaglianza di due rapporti quantitativi, bensì qualitativi», e, in virtù di ciò, io, dice Kant, «entro in possesso di una regola per rintracciarlo nell’esperienza [il rapporto tra termini], di un segno per scoprirlo». I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, in Kants gesammelten Schriften, Bd. IV, cit., pp. B 221-222. «Ganz anders»: così dice Kant. Completamente altri sono i criteri coi quali ci dobbiamo (muß) accostare a questi princìpi «regolativi» (ivi, p. B 222), che fanno della dinamicità la loro peculiare caratteristica. E quale il motivo? Perché essi trafficano con l’esistenza (Dasein) attuata, con la “reale” partecipazione degli oggetti ai concetti, e non alla loro possibile pensabilità, e che pure si servono di “segni” e “rimandi”, non potendo accedere alla piena cognizione (ivi, pp. B 222-223). La traduzione dei passi kantiani qui presenti è da considerarsi nostra; quando, d’ora in poi, dovremo citare dalla Critica della ragion pura, l’edizione di riferimento è: I. Kant, Critica della ragion pura, a cura di P. Chiodi, Torino, 1967 (rist. 1986). I passi in questione si trovano a p. 218 e p. 219). A noi sembra (e si perdoni la sinteticità del nostro argomentare) che qui a Kant interessi soprattutto individuare una modalità metodica (l’analogia) non in quanto espressione di una concettualità articolata al suo interno, ma come determinazione particolare di un “sistema”
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riflettente», in quanto «non si può attribuire ai prodotti della natura qualcosa di simile ad un rapporto della natura a scopi, ma si può soltanto usare questo concetto per riflettere su di essa riguardo al nesso tra fenomeni in essa»232, questa “usabilità”, questo modo per passare da un ambito all’altro dei saperi – mai abbandonando il rigore della teoresi più lucida – questa disciplina che permette di pensare (giudicare) un oggetto “come se” fosse un altro (per poterne dare ragione), ebbene tutto ciò, se l’analogia è in grado di farlo, lo può consentire anche nella dell’esperienza in generale (e a priori) degli oggetti, esperienza configurabile secondo il presentarsi degli oggetti alla percezione. Non è inopportuno parlare di sistema dell’esperienza (anche senza giungere a quelli che forse sono eccessi di “volontà di sistema”, come quelli in cui incorre P. Krausser, Kants Theorie der Erfahrung und Erfahrungwissenschaft, Frankfurt a. M., 1981, in particolare pp. 16-18, dove si sostiene la comparabilità della teoria dell’esperienza kantiana alla teoria cibernetica), e su ciò, oltre che al classico H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, Berlin, 1871, si leggano le per certi aspetti conclusive ricerche di H. Holzhey, Kants Erfahrungsbegriff: Quellengeschichte und bedeutungsanalytische Untersuchungen, Basel, 1969; tr. it., Il concetto kantiano di esperienza: ricerche filosofiche delle fonti e dei significati, con Presentazione di G. Gigliotti, Firenze, 1997. Rispetto alla terza Critica sembra che la sistematizzazione dell’esperienza operata da Kant lasci fuori, almeno in parte, l’aspetto più marcatamente “giudicativo” della percezione. Tutto questo non esclude affatto che nella Critica del 1781/87 l’analogia non sia valutata nella sua centralità: essa è parte dell’apparato strutturale col quale l’uomo può conoscere un qualcosa in quanto qualcosa. Il fatto è che nella terza Critica essa diviene problema, come è stato giustamente sostenuto da J. Peter, Das transzendentale Prinzip der Urteilskraft, in «Kant-Studien», Ergänzungshefte 126, Berlin-New York, 1992, pp. 69-70 (su questo piano, anche se rigorose e attente, meno condivisibili sono le tesi di V. Melchiorre, Analogia e analisi trascendentale: linee per una nuova interpretazione di Kant, Milano, 1991). Diventa problema perché problematico è l’oggetto a cui si applica (rispetto alla Critica della ragion pura), ossia al giudizio sulla percezione del dato particolare e non categorizzabile, sul giudizio rispetto al non noto e non riconducibile allo schematismo. Del resto, è la stessa dottrina dello schematismo che è attraversata, nel ’90, da un’evidente rivisitazione. Ancora una volta, rimandiamo per approfondire questo aspetto, a U. Eco, Kant e l’ornitorinco, cit., pp. 14-15 (per l’analogia come modo del conoscere in generale) e pp. 60-63, per i giudizi percettivi in Kant. Si veda anche il saggio ricostruttivo di B. Sassen, Varieties of Subjective Judgements: Judgements of Perception, in «Kant-Studien», (99) 2008, pp. 269-275. 232 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 181; tr. it., pp. 158-159 legg. mod. (corsivo nostro).
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trasmissione di senso tra biologia (intesa come discorso-sulla-vita) e storia (vita-che-si-discute). Ma su ciò, più avanti. Ora dobbiamo proseguire, riandare al dettato kantiano, e vedere come, nel concreto argomentare, Kant usi l’analogia allo scopo di connettere la finalità della natura con le determinazioni proprie dei concetti. Si tratta di capire quel «schon mehr», quel «qualcosa in più» mediante il quale soltanto si dà un possibile comprendere la finalità degli esseri di natura. Tralasciamo, per la loro grande notorietà, le pagine dedicate agli esempi che Kant porta al fine di chiarire, anche se ancora in via preliminare233, che «una cosa esiste [existiert]234 come scopo della natura, quando è causa ed effetto di se stessa (sebbene in due sensi diversi»235. è polisemica già nella sua prima e preliminare discussione questo esser-causa di sé a sé dell’ente naturale, è soggetta ad una duplicità di significato già nella sua determinazione originaria – linguistica e concettuale – perché «espressione [Ausdruck] (…) impropria e indeterminata che richiede [bedarf] di essere ricondotta ad un concetto definito»236. Per fare ciò di cui c’è bisogno237, allora, il cammino da intraprendere porta a concludere «Ich würde vorläufig sagen». Si noti l’utilizzo, qui, di ‘existieren’, un verbo che lascia pochi dubbi rispetto alla modalità prescelta da Kant di mostrare le cose di natura nella loro pienezza. D’altro canto, per sostanziare ulteriormente quanto andiamo dicendo, va fatto notare che è proprio la differenza di contesto tematico e finalistico rispetto alla Critica del giudizio che spinge Kant a sostenere nei Metaphysische Anfangsgründe der Naturwissenschaft, in Kants gesammelten Schriften, Bd. IV, p. 497; tr. it., p. 27, che «la materia riempie lo spazio non semplicemente mediante la sua semplice esistenza [Existenz], ma tramite una particolare forza movente», riproponendo, in sostanza – ma non staremo qui a ulteriormente provare questo aspetto – il meccanico darsi delle cause moventi come carattere del darsi di un corpo materiale di fatto de-esistenzializzato. 235 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 370; tr. it., p. 341. Parliamo dei tre momenti nei quali si può declinare la finalità causale naturale: l’autoproduzione e conservazione della specie-albero, l’autoproduzione dell’individuoabete, la coordinazione autoproduttiva di parti (foglia) e di tutto (tronco, radici etc.) (ivi, pp. 371-372; tr. it., pp. 342-343). 236 Ivi, p. 372; tr. it., p. 343. 233
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237 Ricordiamo che in tedesco il verbo ‘bedürfen’, pur derivando da ‘dürfen’, ‘potere’ nel senso di chiedere per ottenere un permesso, se ne distacca sensibilmente, quanto meno nella sua etimologia. Esso, «forse», deriverebbe «dal gotico ‘prafstjan’, confortare [trösten], esortare [ermahnen], ‘anaprafstjan’, ristorare [erquicken], lasciar giungere in pace [zur Ruhe kommen
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che devono esistere due tipi di processi causali, il «legame causale che vien detto delle cause efficienti (nexus effectivus)» e quello che «viene detto delle cause finali (nexus finalis)»238, il primo da nominare, forse meglio, come «connessione delle cause reali, il secondo di quelle ideali [Vernüpfung der realen, die zweite der idealen Ursachen nennen]»239. Si faccia estrema attenzione a quanto Kant sta approssimandosi a dire: c’è una serie di connessioni, nelle cose della natura, su cui è dato giudicare secondo criteri di effettualità tali che di essa serie si può riconoscerne la coerenza interna. Su questa idea di serie, lo scopo si trova ad essere pensato come connesso ad un «intero [Ganzen]»240 che lo determina in quanto separato dalla materia delle parti di cui questo intero è composto. Lo scopo che in questo genere di finalità si evidenzia è uno scopo prodotto da una causa «ragionevole [vernünftigen]», attuabile nelle sue manifestazioni più proprie, «esistenza e forma [Dasein und Form]», mediante un “artificio” razionale, senza alcuna connessione necessaria con i contenuti, sia esistenziali, sia formali, che lo hanno causato così com’è. Insomma, questo tipo di “fine-della-natura”, dice Kant, non può che essere Kunstwerk 241, prodotto reso finale da una conduzione estrinseca, perché non necessariamente e non universalmente riconducibile ad una coordinazione intrinseca di forma e materia. «Ma se una cosa, in quanto prodotto della natura, deve contenere in sé e nelle proprie interne possibilità un rapporto a fini (cioè essere possibile solo come scopo della natura e senza la causalità di esseri ragionevoli ad essa interni), si richiede in secondo luogo che le sue parti si connettano a formare un tutto in modo tale da essere reciprocamente, l’una per l’altra, causa ed effetto della loro forma»242. Ecco dunque il primo discrimine che separa la causalità “ragionevole”, estrinseca, sì, organicamente disposta come mutua coordinazione di parti e tutto, forma e materia, ma alla cui base vi è ciò che non è naturale, ossia la ragione, dalla causalità intimamente naturale: si tratta del carattere di legge di reciprocità coordinata di causa ed effetto, di forma e materia, di generale e lassen] (per prafsta-, indogermanico trop-sto-?)». J. Pokorny, Indogermanisches etymologisches Wörterbuch, Bern, 1959, p. 1078. I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 372; tr. it., p. 343. Ivi, pp. 372-373; tr. it., p. 343, legg. mod. 240 Ivi, p. 373; la traduzione italiana, p. 344, rende con ‘totalità’. 241 Ivi, p. 373; tr. it., p. 343. 242 Ibid.; tr. it., p. 344. 238
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particolare. è in virtù dell’esistenza di tale “legge” che la causalità naturale può essere pensata da noi in quanto finalità. «Solo così è infatti possibile che a sua volta l’idea del tutto [Idee des Ganzen] determini la forma e il legame di tutte le parti (…), perché offre a colui che giudica, il fondamento conoscitivo [Erkenntnißgrund] dell’unità sistematica della forma e la connessione di tutto il molteplice che è contenuto nella materia data»243. L’altro punto discriminante – per dirla alla “heideggeriana” – è la non-bisognosità, l’Unbedurftigkeit, l’autonomia della coordinazione rispetto ad ogni tipo di attivazione e regolamentazione esteriori. Infatti, un orologio, pur essendo una cosa che è organizzata al suo interno mediante una catena di meccanismi causali, di forme strutturate e che è composta di una materia data, non potrà mai dirsi Naturprodukt dotato di un fine naturale, perchè la causa produttrice «dell’orologio e della sua forma non è contenuta nella natura (di questa materia), ma sta fuori di esso in un essere capace di agire secondo le idee d’un tutto possibile mediante la sua causalità»244. Questi due elementifondamento della produttività naturale rappresentano – nell’ottica di Kant, che manifestamente qui ricorre a Blumenbach – un potere della natura, ma è anche l’umana condizione di possibilità della pensabilità di questo potere stesso. Il potere della natura presuppone che «un essere della natura» non sia che pensabile in modo radicalmente, ontologicamente differente da «una semplice macchina, dotata solo di forza motrice [b e w e g e n d e Kraft ]: esso ha in sé una forza formatrice [b i l d e n d e Kraft], che si comunica ai materiali che non la possiedono (li organizza); si tratta di una forza formatrice propagantesi [sich fortpflanzende]245, che non si può spiegare con la sola facoltà di movimento (il meccanismo)»246. Come dire questa forza? Quale “dizionario mentale”247 finito è in grado di poter concepire questa forza, incredibile e indicibile – in termini esclusivamente di ragion pura248 – 243
Ibid. Ivi, p. 374; tr. it., pp. 344-345. 245 Lasciamo immutata la traduzione adottata qui; non possiamo però sfuggire alle evidenti suggestioni goetheane che la Fortpflanzung inevitabilmente richiama. 246 Ivi, p. 374; tr. it., p. 345. 247 L’ovvio riferimento è al vichiano «lessico (…) necessario per sapere la lingua con cui parla la storia ideal eterna, sulla quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni». G. Vico, Scienza nuova (1744), cit., p. 295. 248 Si vedano, a tale riguardo, le precipue indicazioni della Erste Einleitung alla Critica del Giudizio (Kants gesammelten Schriften, Bd. XX, p. 216; tr. it., 244
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eppure necessaria? Insomma: come pensare la Bildungskraft? «Forse» dice dubitando Kant, e sappiamo che egli non considera questa opzione quella più opportuna, ma intanto la presenta, e le dà quella connotazione probabilistica che quanto meno lascia il lettore nella dimensione della possibilità. Ma non è questa la cosa importante - «ci si avvicina maggiormente a questa proprietà imperscrutabile [unerforschlichen] chiamandola un analogo della vita [A n a l o g o n d e s L e b e n s]»249. Poco su, Kant aveva, in modo più deciso, escluso anche che questa facoltà potesse dirsi come un analogo dell’arte250. Quali nomi-concettigiudizi restano ancora? Come esprimere convenientemente la possibilità di quello «strumento (organo che produce le altre parti (ed è reciprocamente da esse prodotto)», quale unità di forma, materia e finalità corrisponde, in quanto prodotto della natura, all’«essere organizzato ed auto-organizzantesi»251 alla facoltà per la quale possiamo pensarla come esistente wirklich, effettuale e fattuale, agente e paziente? «A rigore, l’organizzazione della natura non si può dire abbia alcuna analogia con alcuna causalità a noi nota»252. A rigore, appunto. Ma la situazione metodica, argomentativa, concettuale e anche linguistica non è affatto impostata ad una fredda e calcolante logica dell’ineffabile. Tutto presuppone questo stato del riflettere tranne che un rigorismo intellettualistico o anche soltanto un rigore precipuamente formale e/o razionale; tanto è vero che essa, in quanto concetto regolativo del giudizio e non costitutivo «dell’intelletto o della ragione», diviene pensabile con una «lontana analogia con la nostra causalità secondo fini in generale»253. Già qui appare la necessità del pensiero umano di prefigurarsi un’analogia – per quanto lontana – con questa finalità, equiparandola, immaginandola, “forzandola” entro la nostra causalità. E, meglio ancora, questo nel precipuo riguardo ad un approccio effettuale, concreto, un presupposto preliminare ad ogni impiego p. 108): «Scaturisce qui il concetto di una finalità della natura, quale concetto proprio del Giudizio riflettente, non della ragione». Su queste pagine della Erste Einleitung si esercita compediosamente ma efficacemente M. Ewers, Philosophie des Organismus in teleologischer und dialektischer Sicht. Ein ideengeschichtilicher Grundriss, Münster, 1986, spec. pp. 18-19. 249 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 374; tr. it., p. 345. 250 Ibid. 251 Ivi, pp. 373-374; tr. it., p. 344. 252 Ivi, p. 375; tr. it., p. 345. 253 Ivi, p. 375; tr. it., p. 346.
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intellettuale e razionale, che di questa pensabilità degli esseri di natura come finalità organizzati in un tutto se ne possa fare. Questa necessità di analogizzare la finalità naturale con la nostra finalità secondo scopi, nasce infatti «non nell’interesse della conoscenza della natura [Kenntniß der Natur] o di quel suo principio supremo, ma piuttosto di quella stessa facoltà pratica che è in noi, ed in analogia con la quale consideriamo la causa di quella finalità»254. Ecco, perciò, un primo risultato fondamentale di tutto il nostro discorso: la vera e propria analogia, il vero e proprio “strumento” di traduzione per poter pensare trascendentalmente l’immenso e oscuro darsi del bios organizzato come vita naturale è un’analogia manifestantesi nell’interesse di quella conduzione pratica dell’intelletto, e solo grazie a questa. E si badi bene che qui è in gioco non tanto e non solo un’analogia strutturale, o un’analogia onomastica, o, ancora, un tipo di assimilazione per concetti (sia pur essi finalistici). Esclusa, infatti, ogni “somiglianza” di tipo ontologico, il genere di analogia più appropriata che qui va intesa è quello della funzionalità di attuazione dei membri compresi nel confronto. Se la finalità della natura, e più in particolare del corpo organizzato vivente, presuppone degli scopi già sempre introdotti all’origine stessa dello sviluppo in quanto funzione di attuazione del corpo, questo concetto è pensabile e traducibile, per noi, solo se la facoltà pratica pensa se stessa come dotata di una peculiare funzionalità mirata al raggiungimento degli scopi, ossia come consapevole del possesso di mezzi adatti allo scopo. Questa idea è tanto più fondata, in quanto, nel tanto citato § 66 255, proprio lì dove si trattava Ivi, corsivo nostro. Solo per ricordare alcuni lavori che hanno specificamente di mira questa sezione dell’opera di Kant, si vedano: V zanetti, Die Antinomie der teleologischen Urteilskraft, in «Kant-Studien», (83) 1993, pp. 341-355; il già citato M. Ewers, Philosophie des Organismus in teleologischer und dialektischer Sicht, pp. 19-21; molto importante è la monografia di R. Löw, Philosophie des Lebendigen, cit., che oltre a dedicare sistematicamente al concetto di organico in Kant le pp. 127-233, aggiunge una parte finale (pp. 271-320) in cui esprime interessanti notazioni sul valore “attuale” delle ricerche kantiane per la cibernetica, per l’etica e l’ermeneutica; più datato, ma estremamente rivelante dell’indirizzo specifico di studi, è il lavoro di E. Ungerer, Die Teleologie Kants und ihre Bedeutung für die Logik der Biologie, Berlin, 1921, laddove, da biologo qual è, l’autore giustamente individua in questi paragrafi (66 e 67) un «grande significato per l’intera dialettica (§§ 69-78) e la Dottrina del Metodo (§§ 79-81) della critica 254 255
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di escludere ogni sorta di analogia tra causalità naturale e causalità «a noi nota»256, ecco Kant aggiungere a piè di pagina: «Si può, invece, tramite un’analogia con detti fini immediati della natura, fare luce su una certa connessione, che però viene trovata più nell’idea che nella realtà»257. La Verbindung di cui sta parlando Kant è quella dell’espressione della trasformazione [Umbildung] di un popolo in uno Stato258 mediante la sua «O r g a n i s a t i o n », ossia della condizione autoregolantesi e concrescentesi delle componenti di una società civile. Questa idea può essere resa analogicamente secondo l’accostamento ai fini immediati delle cose di natura, viventi, organizzate tra parti e tutto: «In un tale tutto infatti ogni membro non deve essere solo mezzo, ma al tempo stesso anche fine, e, mentre contribuisce alla possibilità del tutto, quanto a posizione e funzione, essere determinato dall’idea del tutto»259. Kant, del giudizio teleologico» (ivi, p. 6, n. 3). Importante è questo testo anche perché si trova a confrontarsi, all’inizio degli anni venti, con l’apice, forse, dello auf Kant zurückgegangen preconizzato e anelato da Otto Liebmann nel 1865 – o almeno alla sua versione più attenta agli scopi qui in essere – in quanto si richiamano lavori assolutamente legati alle tematiche in gioco, a partire da quelli di Hermann Lotze (voce Leben, Lebenskraft, in Handwörterbuch der Physiologie, hrsg. von R. Wagner, Bd. I, Braunschweig, 1842, ivi, p. 90, nota 8), di Richard Kroner (Zweck und Gesetz in der Biologie, Tübingen, 1913, ivi, p. 26, nota 1), dello stesso Liebmann (Zur Analysis der Wirklichkeit, Straßburg, 1911, ivi, p. 44, nota 1) e Nicolai Hartmann (Philosophische Grundfragen der Biologie, Göttingen, 1912) per giungere al più volte citato Driesch (Biologie als selbständige Grundwissenschaft und das System der Biologie, Leipzig, 1911, ivi, p. 42, nota 1; Id., Analytische Theorie der organischen Entwicklung, Leipzig, 1894, ivi, p. 76, nota 1; Id., Vitalismus als Geschichte und Lehre, Leipzig, 1905, ivi, p. 101, nota 2), al fine di indicare la centralità «dell’idea di finalità in biologia» e della disputa ad essa relativa condotta appunto dai soprannominati, grandi, interpreti di Kant (ivi, p. 3). Si veda, infine, un recentissimo e interessante saggio di A. Grandjean, Teléologie juridique et teléologie historique chez Kant, in «KantStudien», (101), 2010, pp. 40-58 che pur non cadendo immediatamente nelle tematiche qui a fuoco, parte dalla Critica del giudizio per mostrare il bisogno kantiano di tenere sistematicamente in gioco il finalismo all’interno di ogni fare umano, tanto quelli storici e giuridico-morali, quanto quello propriamente riguardante le idee regolative della ragione teoretica. 256 Cfr., supra, n. 252. 257 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 375; tr. it. p. 245, legg. mod. 258 Ibid. 259 Ibid.; tr. it., pp. 245-246.
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all’inizio della nota a margine qui in questione, dice che questa analogia tra organizzazione statuale e organismi naturali si riscontra nell’“idea” [Idee] più nella “realtà” [Wirklichkeit]. Ora, con le premesse fatte durante tutta la nostra interpretazione, questa solo apparente diminutio si rivela invece perfettamente coerente con tutto il filo argomentativo. Non può certo essere trovata negli effetti, nell’effettuale concretizzarsi del reale, questo “pensiero analogico”; non si può certo sperare di incontrare “nelle cose”, “nei fatti” una condizione di pensabilità tale da consentire una deduzione – sia pur essa trascendentale – dal mondo del vivente a quello degli uomini impegnati nell’impresa di costruzione del vivere civile regolato da leggi e norme. Si tratta di un ideale, di una tendenza regolativa del pensiero, di un’inclinazione a “credere” che le cose possano stare così, che è possibile pensarle in questa modalità, che non è esclusa – in ogni senso – una pensabilità relazionale tra fini della natura vivente e vivente (cioè, storico) organizzarsi degli individui in gruppi, avente di mira sia la conservazione e il consolidamento di detti individui, sia la costituzione del progressivo accrescersi di un tutto integrato e potenziato. Un pensiero coerentemente volto a proibire ogni impropria commistione tra “realtà” effettuale e metafisica gnoseologica, non può – nella situazione misurata sul presente – fare molto di più, perché, in tutto questo porre analogie, bisogna «tenersi rigorosamente entro i propri confini» per non «immischiarsi in compiti estranei (che spettano alla metafisica)»260, laddove la presa di distanza è chiaramente intesa come rifiuto della metafisica wolffiano-leibniziana, tipico e consueto campo d’indagine delle riflessioni polemiche kantiane261. Semmai quella di Kant è adesione – ragionata, “ragionevole”, sempre aperta a rivalutazioni e a mettere in discussione se stessa – a una «iperfisica»262 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, cit., pp. 382-383; tr. it., p. 353. Cfr., I. Kant, Welches sind die wirklichen Fortschritte, die die Metaphysik seit Leibnizens und Wolffs Zeiten in Deutschland gemacht hat?, in Kants gesammelten Schriften, Bd. XX; tr. it I progressi della metafisica, a cura di P. Manganaro, Napoli, 1977. 262 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 423; tr. it., p. 393. è il termine che Kant utilizza invero per stigmatizzare i «difensori della teoria dell’evoluzione», coloro che, dichiarandosi «per la preformazione», intendevano «lasciare qui almeno qualcosa alla natura», nel senso che optavano per una teoria extrameccanica dell’origine della vita (ivi; tr. it., pp. 392-393). Noi, invece, adottiamo questo termine – applicandolo alle idee kantiane – nel senso di evidenziare il costante sforzo del tedesco di esprimere la regola della causalità naturale in ac260
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analogica, un sapere in condizione di ottenere la «conoscenza dello scopo finale (scopus) della natura, il quale abbisogna di un rapporto di quest’ultima con qualcosa di soprasensibile, che trascende di gran lunga ogni nostra conoscenza teleologica della natura: perché lo scopo della natura stessa dev’essere cercato al di sopra della natura»263. Un contenuto conoscitivo “qualitativo” come quello di un fine, di uno scopo, di una “previsione” gonfia di elementi che non si errerebbe a definire “valoriali”, non può che essere oggetto di una forma anch’essa qualitativa, quell’«identità del rapporto tra ragioni e conseguenze (cause e d effetti), nella misura in cui il suo darsi [Statt finden] prescinde dalla specifica diversità delle cose o di quelle proprietà in sé (cioè considerate al di fuori di questo rapporto), che contengono la ragione di simili conseguenze»264. Fondamento e scopo, forma e contenuto, origine e fine: tutte queste in apparenza irrisolvibili opposizioni, per poter essere pensate come trascendentalmente congiungibili, devono essere costantemente “analogizzate”, continuamente portate a simbiosi. Non basta, per portare a compimento quest’operazione sempre in movimento, né pensare la singolarizzazione del “fatto naturale” in quanto fine (il singolo organismo), né l’idea di una valutazione circa l’insieme dei corpi organizzati secondo uno scopo in una sciolta e vaga totalità sregolata. Per poter sufficientemente penetrare il mistero della vita (origine e fine di essa), considerare che «solo la materia, nella misura in cui è organizzata, implica (…) necessariamente il concetto di fine naturale, perché questa sua specifica forma è al tempo stesso un prodotto della natura»265, rappresenta il presupposto, ma non è tutto. Il giudizio riflettente che lavora in questo analogizzare trascendentale, è il «filo conduttore [Leitfaden]»266 regolativo – ossia tale che, “agendo”, cordo tra meccanicità e finalismo degli esseri organizzati. 263 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 378; tr. it., p. 349, legg. mod. (corsivo nostro). 264 Ivi, p. 466; tr. it., p. 433, legg. mod. 265 Ivi, p. 378; tr. it., p. 349. 266 Ivi, p. 379; tr. it., p. 349. Al significato del termine kantiano ‘Leitfaden’ (per come utilizzato nella terza Critica) riserva giustamente grande importanza il saggio di S. Marcucci, Kant e le scienze della vita, in aa. vv., Percorsi kantiani nel pensiero contemporaneo, a cura di M. Millucci-R. Perini, Perugia, 2007, pp. 23-33, in particolare, pp. 26-28 (e si veda anche tutta la puntuale bibliografia di Marcucci, richiamata dallo stesso autore in nota a p. 27, e relativa proprio all’oggetto in questione, ossia alla determinazione di una peculiare variante del
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dà esso stesso una regola – che ci è dato, e che utilizziamo «secondo un nuovo ordine di leggi, estendendo la scienza naturale secondo un altro principio, cioè quello delle cause finali, senza però pregiudicare quello della causalità meccanica»267. I “due ceppi” causali devono interagire integrandosi, perché essendo solo così funzionali all’uso del giudizio riflettente, essi operano e cooperano in una modalità “scoprente” che è assolutamente loro peculiare: essi – teleologia e meccanicismo – lavorano all’unisono in direzione dell’ignoto, perché «il giudizio riflettente deve sussumere sotto una legge che non è ancora data», e dunque in direzione di «oggetti» - che questa legge deve in un certo qual senso “ridisporre” «per i quali oggettivamente ci manca del tutto una legge»268. Il passaggio attraverso Kant è quasi al termine; solo poche altre considerazioni conclusive e saremo in condizione di aprire la nostra ricerca alle riflessioni postkantiane. Va subito detto che la ragione che esce fuori dalle pagine della Critica del giudizio (e che pare voglia essere figlia e sintesi delle due Ragioni cronologicamente precedenti) è una ben strana ragione: è quella che indaga da un lato la propria bisognosità (risultante da una indagine sulla sua insufficienza a spiegare i fenomeni della vita) e dall’altro che si interroga su una legge (e sugli oggetti, loro sì, esistenti, che da essa dovrebbero essere garantiti) che invece non c’è affatto. è – quella qui in gioco – una ragione (la sola) mediante la quale poter pensare ad una “causa” in grado di presagire le condizioni future degli accadimenti storici, in quanto appurabili da e mediante «G e s c h i c h t s z e i c h e n (signum rememorativum, demonstrativum, prognostikon»269, e che è ragione tutta, ma proprio tutta, pienamente e finitamente umana, senza l’intevento di un fattore esterno o trascendente. E quando Kant, in modo quasi “scandalosamente” vichiano, sostiene che «comprendiamo perfettamente solo ciò che noi stessi possiamo fare e realizzare [machen und zu Stande bringen] secondo concetti»270, viene da pensare quasi immediatamente, quasi con riflesso condizionato, che nella parte della Critica che abbiamo letto, qua e là, più o meno consapevolmente, si stia criticismo gnoseologico kantiano applicato alle scienze del vivente). 267 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 379; tr. it., p. 350. 268 Ivi, p. 385; tr. it., p. 355. 269 I. Kant, Der Streit der Facultäten, in Kants gesammelten Schriften, Bd. VII, p. 84; tr. it., Il conflitto delle facoltà, a cura di D. Venturelli, Brescia, 1994, p. 164. 270 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 384; tr. it., p. 354.
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parlando di un sapere circa la storicità della vita in quanto prodotto della ragione storica, di una facoltà di tipo per così dire aspecifico, un fare che teorizza e una teoria che produce e fa. E però, questo sapere – proprio perché è sapere di essere “forma formante e formata”, Bildungstrieb – non si può accontentare di espandersi e di accrescersi indefinitamente, senza regole, senza condotte. Il suo occhio prova a non essere cieco, la sua finalità cerca di porre in questione nientemeno che il “meglio” per se stessa in quanto facoltà degli uomini associati. è infatti solo quella «facoltà pratica che è in noi» che decide di volta in volta il cosa e il come delle specificità da assumere o da non assumere, le crescite e le rinunce, le svolte e le diritture. è la valutazione che si fa (usando la ragione e non facendosene usare) nell’associare le diversità delle cose, a promuovere l’opportuna analogia e la confacente identità. è la sobrietà teoretica del precetto tendente a differenziare saldamente l’“insegnare filsofia” e l’“insegnare a filosofare”271. In altri termini, laddove divenga necessario – per l’agire stesso, perché la nostra umanità addivenga a se stessa in quanto agente – giudicare su uno scopo in generale, l’analogia con l’organizzazione delle cose di natura è quello che meglio si confà al giudizio: «L’interna forma di un semplice filo d’erba può dimostrare a sufficienza per la nostra facoltà umana di giudicare, che la sua origine non è possibile che secondo la regola dei fini»272.
Facciamo qui riferimento alle celebri parole dell’Architettonica della ragion pura: «Di tutte le scienze razionali (a priori) soltanto la matematica si può dunque imparare, non la filosofia (tranne che storicamente): ma per quanto concerne la ragione, si può imparare a filosofare». I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, p. B865; tr. it., p. 626. Alle tante e variegate letture di questo passo (a cominciare, con esplicito riferimento all’incidenza dello “storico” nella filosofia kantiana e post-kantiana, da F. Tessitore, Comprensione storica e cultura: revisioni storicistiche, Napoli, 1979, p. 162, nota 176, per proseguire con P. Natorp, Herbart, Pestalozzi und die heutigen Aufgaben der Erziehungslehre, Stuttgart, 1899, pp. 47 e sgg., con Cassirer, Kants Leben und Lehre, cit., p. 52; tr. it., Vita e dottrina di Kant, cit., p. 47), aggiungeremmo soltanto quella, assai interessante, di N. Hinske, Zwischen Aufklärung und Vernunftkritik. Studien zum Kantschen Logikcorpus, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1998, che con doviziosa indagine, e attraverso un’opportuna analisi della sua «Vorgeschichte», fa risalire la genesi concettuale kantiana della differenza tra “imparare la filosofia” e “imparare a filosofare” alla metà degli anni ’60 del Settecento. Cfr. ivi, pp. 42-51. 272 I. Kant, Kritik der Urtheilskraft, cit., p. 378; tr. it., p. 349. 271
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CAPITOLO SECONDO GOETHE. LA VITA E LA STORIA DELLA SUA FORMA. Sia ancora una volta beninteso: indicare nel Kant della Critica del giudizio il prospetto privilegiato attraverso cui seguire la maturazione e l’evoluzione di un’idea precipua di storicità non significa affatto proporre Kant come “scopritore” del pensiero storico1, né come ideatore di un categoriale (il nesso vita-storia) in grado essere esplicato e attraversato da una “filosofia della biologia”. La funzione rimessa a Kant è quella piuttosto – e per rimanere nella metafora biologica – quella di un agente virale, di ceppo diverso ma assimilato all’individuo-obiettivo, in grado di attaccare un organismo apparentemente sano (il corpus delle dottrine sulla scienza della vita del Settecento) e di trasformarlo sensibilmente, offrendogli nuovi mezzi di crescita e nuovi codici filosofici di adattamento. Si potrà obiettare che questa funzione Kant l’ha svolta per tutto lo scibile del sapere all’alba dell’Ottocento (e per i nostri giorni), ma è un’obiezione che – a noi pare – più che infirmare la nostra ipotesi la corrobori vieppiù2. Misura utile – appena qui da abbozzare – alla Da questo punto di vista, talune conclusioni poste dal pur informato saggio di E. Barbachina, Über die historische Bestimmung der philosophischen Wissenschaft, in aa. vv., Kant und die Berliner Aufklärung, Akten des IX. Internationalen Kant-Kongresses, 9, 2000 (Bd. IV: Sektionen XI-XIV) hrsg von V. Gerhardt-R. P. Horstmann-R. Schumacher, in Auftrag der Kant-Gesellschaft, Berlin, 2001, pp. 10-18, paiono eccedere i limiti che abbiamo invece proposto qui; in special modo lì dove (ivi, p. 16), seppur in un contesto sufficientemente problematico, si afferma che «il primo inizio è perciò un avvenimento storico eccellente. Nella presentazione d’insieme della storia, ammissibile in linea di principio con un’interpretazione causale, Kant sceglie la congettura che si dirige al primo inizio della storia, in quanto disposizione che viene prodotta dalla natura». 2 Sarebbe persino ovvio sottolineare che una buona ricerca debba anche prevedere (e far notare) tesi completamente opposte – o almeno di molto contrarie – alla propria idea-guida. Riteniamo che già nelle pagine passate abbiamo evidenziato momenti di ricerca sulle prospettive qui in gioco, assai diverse dalle nostre; qui, a consuntivo delle pagine kantiane e ad esordio di quelle “go1
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comprensione della straordinaria dimensione dei dibattiti stimolati dalla Critica del giudizio e da tutto quanto le concerneva3, può essere intesa la molteplicità quasi paradossale degli “utilizzi” del pensiero kantiano che secondo Novalis vengono alla luce nella comunità scientifica di allora: «Si potrebbe pensare una serie estremamente istruttiva di esposizioni specifiche del sistema kantiano e di quello fichitiano, per esempio un’esposizione poetica, una chimica, una matematica, una musicale ecc. Una in cui la si considerasse come scienziati del genio fil[osofico], una storica e così via»4. Più distese, ethiano-humboldtiane”, ci sembra opportuno citare il saggio di P. McLaughlin, Kants Organismusbegriff in der Kritik der Urteilskraft, in aa. vv., Philosophie der Organischen in der Goethezeit, cit., pp. 100-110, la cui ipotesi teorica centrale consiste nel ritenere che il modo di porre la questione [Fragestellung] biologica in Kant, «se non anche il suo concetto di organismo, è e rimane meccanicistico nel senso del 18mo secolo» (ivi, p. 105). 3 E ciò, sia detto, lasciando da parte l’immensa mole delle risposte a Kant sul piano della filosofia dell’arte che la terza Critica aveva ingenerato, in particolare in Schiller, che le avrebbe ulteriormente amplificate. Su ciò si veda il saggio di B. Recki, “Lebendigkeit” als ästetische Kategorie. Die Kunst als Ort des Lebens bei Cassirer, Goethe und Kant, in aa. vv., Casstrer und Goethe, Hrsg. B. Naumann-B. Recki, Berlin, 2002, pp. 195-219. Il contributo della studiosa tedesca ci offre il destro per una serie di riflessioni che solo a latere del lavoro principale è possibile svolgere. Non è inopportuno, infatti, segnalare ancora una volta che per ovvi motivi di congruenza e di concentrazione, non sarà possibile seguire il (i) dibattito (i) provocato (i) dall’opera di Kant del 1790. I piani di sviluppo di questa discussione – che coinvolse tutta l’Europa, sapiente e meno sapiente, e che ancora vivissima ancor oggi – si possono seguire con agevolezza anche solo scorrendo i titoli (e andando a cercarvi le parti relative alla Critica del giudizio) del recente aa. vv., Kant today-Kant aujourd’hui-Kant heute, eds. H. Lenk-R. Wiehl, Berlin-Hamburg-Münster, 2006. Non solo. Volendo ulteriormente semplificare – e come ogni semplificazione, per certi aspetti, banalizzare – e riassumere in “sezioni” trainanti l’opera kantiana, potremmo tripartirla in ‘storia’, ‘arte’ e ‘scienza’. Essendo compito del presente lavoro mettere in luce la prima rispetto alle scienze della vita, per le ultime due “sezioni” valga, per ora, quanto scritto da Goethe a zelter il 29 gennaio del 1830: «è illimitato merito al servizio del mondo – e devo dire anche al mio – quello del vecchio Kant quando nella sua Critica del giudizio pone l’una accanto all’altra l’arte e la natura e ad entrambe riconosce diritto di trattare a partire da grandi princìpi». Goethes Briefe, Hamburger Ausgabe, Bde. I-IV, hrsg. von K. R. Mandelkow, Hamburger Ausgabe, Bde. I-IV, Hamburg, 1962, qui Bd. IV, p. 368. 4 Novalis, Allgemeines Brouillon, in Opera filosofica, vol. II, cit., p. 365.
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forse più accettabili in un consesso di urbana comunicazione di esiti scientifici, sono le parole dello stesso von Hartenberg sul medesimo argomento qualche riga prima: «Il processo vitale – il processo di rimpimento – e di articolazione dello spazio e del tempo – determina l’individualità. Lo studio completo di tale processo ci fornisce la serie naturale, veramente storico-naturale – il completo sistema naturale di un individuo (…). Qui Kant ha svolto il ruolo di Copernico dichiarando un pianeta l’Io empirico insieme al suo mondo esteriore e ponendo il centro del sistema nella legge morale o nell’Io morale (…)»5. Ancora (e, significativamente, da due frammenti titolati l’uno ‘Istorica’, l’altro ‘Filosofia’): «La pura storia (movimento, formazione) è musicale e plastica. La storia musicale è la filosofia. La storia plastica la cronaca – la narrazione – l’esperienza (…). Il sistema autenticamente fil[osofico] deve contenere la pura storia della fil[osofia]. Applicato alla cronaca speciale della formazione della fil[osofia] tra gli uomini – dà la storia della filosofia umana»6. E non è qui il caso (o almeno non lo è ora) di proseguire nella rassegna di espressioni, di tensioni, di dispute, di dibattiti, di questioni specifiche consentite e lasciate aperte dall’esplicito impegno kantiano in direzione della definizione di una scienza trascendentale della storia7. Ma è chiaro che questo è Ivi, pp. 363-364. Ivi, p. 364. Un ottimo lavoro di introduzione all’opera del poeta tedesco (visto sotto i più svariati punti di vista della sua poliedrica personalità creativa) è quello di B. Loheide, Fichte und Novalis. Transzendentalphilosophisches Denken im romantisierenden Diskurs, (Supplementa a «Fichte-Studien»), Amsterdam, 2000, che pur partendo dalla tesi di fondo (peraltro non ignota alla critica) di un rapporto speciale tra Novalis e Fichte (una «‘Symphilosophie’ mit Fichte», arriva a sostenere l’autore a p. 130), compie un’analisi completa e dettagliata di tutta la serie di relazioni e di rapporti intessuti da Novalis. Altra ricerca critica assai importante – certo, più specialistica, ma non per questo meno a vasto raggio – è quella – da riprendere tra qualche riga – di J. Daiber, Experimentalphysik des Geistes. Novalis und das romantische Experiment, Göttingen, 2001. Ancora – e sempre più vicino agli obiettivi della nostra analisi – J. Neubauer, Das Verständnis der Naturwissenschaften bei Novalis und Goethe, in aa. vv., Novalis und die Wissenschaften, hrsg. von H. Uerlings, Tübingen, 1997, pp. 49-63. 7 Per un’approfondita analisi di questo tema, si vedano le prime illuminanti 40 pagine del ponderoso volume di G. D’Alessandro, Dalla causa alla vita. Il pensiero storico tedesco tra la fine dell’illuminismo e inizi dell’idealismo, Napoli, 2008. Più di una suggestione (seppur limitatamente al campo d’indagine specifico del dibattito esclusivamente storico tra Sette e Ottocento) sarà utile trarre 5 6
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il problema nascosto, lo scenario, ancora in penombra, che sottostà da queste pagine al fine di chiarire il milieu culturale in cui ci troveremo ad operare. Ad esempio, ci pare produttivo, per i nostri fini (e proprio ricollegandoci alle ultime affermazioni di Novalis, appena ricordate), sottolineare quanto D’Alessandro suggerisce (ivi, p. 14): «Emerge così [al declinare del Settecento e nell’ambito disputa sull’applicabilità del criticismo kantiano alla scienza storica] la centralità della filosofia morale kantiana e di quella schellingiana dell’assoluto (…). Le discussioni sul rapporto tra storia e filosofia, scoppiate negli anni Novanta, si scandirono in base al confronto con la filosofia kantiana (…). La questione riguardava in fondo il significato e il ruolo della storia, se essa potesse essere scienza autonoma o non dovesse piuttosto derivare i suoi princìpi dalla filosofia, coinvolgeva i diversi generi storiografici e il metodo della ricerca storica, finiva col riguardare la definizione stessa di illuminismo e di cultura». E tutto ciò porta, come opportunamente rilevato, ad un fondamentale scambio semantico-concettuale, perché «non è un caso che il termine “crisi” emerga in più contesti (…) per indicare appunto la situazione di stallo tra le diverse opzioni ideali e culturali, riconducibili fondamentalmente a quella razionalisticofilosofica e a quella empiristico-storica. Il farsi avanti e il progressivo imporsi di termini quali “spirito” (…) e, appunto, “vita” (a partire dalla jacobiana filosofia del sentimento e della vita, dallo Schillerweg mediatore tra sensibilità e ragione, dalla filosofia fichtiana, e ancora più da quella schellingiana, da tematiche herderiane e goetheane) denota l’esigenza di sanare quei contrasti elevandoli in una sfera superiore completezza e perfezione, quella Volkommenheit da raggiungere a conclusione del processo [si veda, nel testo, appunto l’idea di processualità storico-vivente espressa da Novalis] di continuo perfezionamento morale caratterizzante la destinazione dell’uomo» (ivi, p. 15). Ricordiamo pure, in questa necessariamente breve ricognizione degli studi sulla filosofia della storia kantiana, i libri di L. Tundo, Kant. Utopia e senso della storia, Bari, 1998; Y. Yovel, Kant and the Philosophy of History, Princeton, 1980; F. Proust, Kant. Le ton de l’histoire, Paris, 1991. Un’altra importante testimonianza circa l’incremento quantitativo e qualitativo della scienza storica a partire da Kant, è quella di S. Di Bella, La storia della filosofia nell’Aetas Kantiana: teorie e discussioni con appendice di testi, Napoli, 2008. Molto utile (perché estremamente aggiornato in merito alla bibliografia sul tema) e il recentissimo libro a più voci curato da A. O. Rorty, Kant’s Idea for a universal History with a cosmopolitan Aim: a critical guide, Cambridge, 2009. Ci piace segnalare, infine, un bel libro, che pur non mirato allo specialistico studio della concezione kantiana della storia, propone un percorso di analisi originale tra antropologia ed etica: C. Hengstermann, Der Mensch: Endzweck von Geschichte und Kosmos: Immanuel Kants Begründung der Würde des Menschen als Anspruch an Ethik, Politik und Theologie, Münster, 2005. Sul tema dell’antropologia, rimandiamo al momento opportuno una più accurata bibliografia.
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alle indagini “biofilosofiche” – per così dire – che qui si stanno tentando. E il legame più opportuno che a noi pare meglio renda accessibile le plurime “grammatiche” filosofiche qui in gioco è lo studio della ricezione pre-romantica e tardo-illuminista dell’ambito problematico investente il significato della filosofia della natura che Kant aveva lasciato aperto. Non sembra incompleto, a tal fine, il seguente elenco riassuntivo di quelli che rappresentano i princìpi fondamentali e i nodi centrali degli interessi dei filosofi-scienziati della Frühromantik: «a) L’assioma dell’identità di natura e spirito; le leggi dello spirito concordano con le leggi di natura. b) La fede nell’unità della natura oltre e al di là della molteplicità del mondo fenomenico e della differenza tra natura organica ed inorganica. c) L’esistenza di cosiddetti principi-guida che danno validità a tutti gli ambiti naturali. Questi sono: polarità, analogia, potenziamento e metamorfosi. d) La convinzione che nell’esistenza umana, al fine di cogliere la natura, insistano, accanto all’intelletto, anche elementi irrazionali: fede, sentimento, sogno»8. Sembra di trovarci in un altro mondo, sembra di aver travalicato di un’era intera il clima rigoroso delle indagini kantiane circa la pensabilità trascendentale: sembra la festa pagana dell’analogia, del tout se tient, l’immagine mitica della sabbatica Walpurgisnacht. L’espressione schlegeliana – «fisica sperimentale dello spirito»9 – ben rispecchia il tentativo – a volte ingenuo, a volte disperato, a volte ricco di suggestioni e motivazioni filo o pseudorazionalizzanti, di idee e contributi geniali – di una teoria di spiriti magni, dediti con fiammante energia a cercare il Nesso Finale, la Chiave del Tutto. Ce la caveremmo rapidamente, nello scegliere vie d’indagine chiare e distinte, se sottoscrivessimo senza ulteriori specificazioni questa dicotomia apparentemente insanabile: da un lato lo sforzo sistematizzatore criticistico di Kant, dall’altro la gioia dell’assoluta mescolanza. Due mondi agli antipodi, due sfere incomunicabili, due linee parallele mai intersecantesi. Ma le cose stanno veramente così? E se pure stessero così (e, secondo noi, così non stanno) non varrebbe almeno la pena di interrogarsi circa il
8 J. Daiber, Experimentalphysik des Geistes. Novalis und das romantische Experiment, cit., p. 55. 9 F. Schlegel, Die Athenäums-Fragmente (nr. 75), in Kritische-Friedrich-Schlegel-Ausgabe, Bd. 2, p. 176.
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perché da Kant e attraverso Kant si giunga più che alla ridefinizione, ad un’ipotetica inconciliabile contrapposizione romantica circa i saperi della vita rispetto al kantismo10? 1. Il dibattito postkantiano Un primo, rilevante suggerimento per iniziare ad orientarci ed addentrarci nell’intricatissimo groviglio di prospettive qui di fronte a noi, senza correre eccessivi rischi di imboccare sentieri poco produttivi, o di adeguarci alla a volte ricercata asistematicità dei romantici, ci pare quello – non a caso – di un insigne studioso di Goethe (oltre che di Alexander von Humboldt) e delle condizioni di possibilità (filosofiche) delle scienze biologiche, quell’Adolf Meyer-Abich11 che giunge a scrivere, nel leggere l’opera di Alexander von Humboldt, che questi per arrivare alle sue ultime posizioni concettuali, identificabili con una sorta di «olismo»,
Per un primo, riassuntivo saggio su questo sconfinato tema, si legga aa. vv., Die Wende Von Der Aufklärung Zur Romantik 1760-1820: Epoche Im Überblick, hrsg. von H. A. Glaser-G. M. Vajda, Amsterdam, 2000, in special modo i saggi di U. Winter, Naturphilosophie und Naturwissenschaft, pp. 173-208 e di M. Maurer, Historiographie und historisches Denken, pp. 337-367. 11 Tra le tante opere dedicate agli argomenti più precipuamente qui all’analisi, ricordiamo soltanto le seguenti: A. Meyer-Abich, Biologie der Goethezeit. Klassische Abhandlungen über die Grundlagen und Hauptprobleme der Biologie von Goethe und den grossen Naturforschen seiner Zeit: Georg Forster, Alexander v. Humboldt, Lorenz Oken, Carl Gustav Carus, Karl Ernst v. Baer und Johannes Müller, Stuttgart, 1949; Id., Die Vollendung der Morphologie Goethes durch Alexander von Humboldt; ein Beitrag zur Naturwissenschaft der Goethezeit, Göttingen, 1970; Id., Organismen als Holismen, in «Acta Biotheoretica», (11/2) 1955, pp. 85-106; Id., Geistesgeschichtliche Grundlagen der Biologie, Frankfurt a. M., 1963. Un importante saggio che mette in relazione la concettualità morfologica con la teoria dell’evoluzione è quello di L. Nyhart, The Disciplinary Breakdown of German Morphology (1870-1900), in «Isis», (78) 1987, pp. 365-389. Soltanto questi pochi titoli sono impressionanti per la cogenza con le tematiche che da qui a poco andremo ad affrontare, ed in virtù di ciò ritroveremo ancora il nome del grande epistemologo della biologia e scienziato sperimentatore egli stesso, una tipologia di attività fra il teorico e lo sperimentale che, al di là delle enormi differenze, ricorda senz’altro quella dei grandi maestri sette-ottocenteschi fin qui incontrati. 10
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«non era affatto passato dal giovanile vitalismo al meccanicismo»12. Ciò perché questa è «l’unica via di sviluppo possibile sia sul piano filosofico quanto su quello storico-spirituale [geistesgeschichtlich]. Infatti il pensiero meccanicistico è in tassativa avversione col vitalismo che è però di fatto preparazione e presupposto dell’olismo»13. Ma da dove Humboldt assumerebbe e porterebbe a maturazione propriamente scientifica e di osservazione empirica le concettualità e le potenzialità filosofiche legate a quest’area tematica? Ecco come prosegue Meyer-Abich: «Humboldt non guarda più alla differenza essenziale tra organicismo e “an-organico” (come Schelling chiama il non vivente) in termini chimico-materiali, ma in termini di totalità fisiologica, e dunque in termini di olismo. Nello stesso senso egli si appropria di una massima dell’anatomista Henle14 e alla definizione di “organismo” risalente a Kant secondo cui A. Meyer-Abich, Nachwort, a A. v. Humboldt, Ansichten der Natur, Stuttgart, 2004, p. 165. Cfr. anche dello stesso autore Organismen als Holismen, cit., pp. 90-91. 13 Ibid. Per una prima introduzione al termine e al significato di ‘olismo’ rispetto all’evoluzionismo, si veda l’esplicativo saggio di R. Fondi, Evoluzionismo e olismo: due paradigmi interpretativi differenti per il fenomeno dell’evoluzione biologica, in aa. vv., La logica dell’evoluzione dei viventi. Spunti di riflessione, (Atti del XII Convegno del Gruppo Italiano di Biologia Evoluzionistica – Firenze, 18-21 febbraio 2004), a cura di F. Scapini, Firenze, 2005, pp. 25-44. Un altro interessante saggio sul complesso del problema logico ed epistemologico indotto dalla teoria dell’evoluzione, è quello di V. Cappelletti, Evoluzione ed evoluzionismo, in Scienza e filosofia. Saggi in onore di Ludovico Geymonat, cit., pp. 609-626. Per quanto riguarda invece lo svilupparsi del concetto sul piano appunto “naturphilosophisch”, si leggano le poche ma dense pagine di K. Köchy, Ganzheit und Wissenschaft. Das historische Fallbeispiel der romantischen Naturforschung, Würzburg, 1997, pp. 62-64. Dello stesso Meyer-Abich, si leggano le decise affermazioni tratte dai Geistesgeschichtliche Grundlagen der Biologie, cit., p. 31: «Olismo può avere un senso in biologia solo quando esso si costituisce sul meccanicismo e iniziare dove questo termina. Dove non c’è più meccanicismo, solo allora c’è olismo». 14 Friedrich Gustav Jakob Henle, autore di fondamentali trattati di anatomia e patologia umane (ricordiamo qui solo l’Handbuch der rationellen Pathologie. Braunschweig, 1846-1853 e l’Handbuch der systematischen Anatomie des Menschen. Braunschweig, 1855-1871) che in un’altra sua importante opera attribuiva a due motivi fondamentali e fondanti la «particolarità della materia organica: 1. Nel modo della sua origine [Entstehung]. La sostanza [Substanz] organica è formata solo [gebildet] tramite lo sviluppo dell’organismo, nei vegetali 12
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“nell’organismo tutto è reciprocamente mezzo e fine”, e dunque anche secondo la visione di Kant gli organismi si differenziano per essenza dal mondo senza vita»15. Alexander von Humboldt riflette, secondo il suo interprete, su un aspetto determinante del finalismo kantiano e ne fa un punto decisivo delle sue Ansichten circa l’infinita variabilità delle manifestazioni della natura. Appunto, si tratta di trarre indicazioni (più che princìpi) di natura filosofica da osservazioni, da esperienze, in stretta sintonia con lo spirito illuministico che abbiamo incontrato. L’atteggiamento del fratello di Wilhelm è dunque un prospetto di invitante analisi, un ottimo viatico metodologico da seguire per cercare di passare senza eccessivi traumi da una situazione storico-spirituale ad un’altra, passaggio che, come meglio di chiunque altri ci ha insegnato Cassirer, è allo stesso tempo frattura e continuità, trasformazione e prosecuzione, dinamica e statica delle idee16. Arduo compito. Lasciar fuori dai nostri discorsi chi e perché? Quando un’epoca intera si mette in moto dal punto di vista culturale, e procede come un solo, apparentemente univoco movimento, alternando cose di estremo interesse a ripetitive e stanche riflessioni, solo dovute alla moda del momento, diventa estremamente complicato discernere il succo dalla scoria17. Il nostro criterio di selezione – che e negli animali a partire da elementi, e da materia di forma [Bildung] organica già pronta. Non è noto il genere della forza [Kräfte] sotto il cui effetto queste combinazioni vengano a manifestarsi nel corpo vivente. 2. Nella composizione [Zusammensetzung]. Non si parla semplicemente del fatto che più elementi cooperano alla formazione di un corpo; è peculiare soprattutto il gran numero di atomi di elementi che sono contenuti in un atomo di un corpo organico, espressione, per dirla brevemente, di un grande peso atomico. Con ciò, le proporzioni in cui le quantità degli atomi semplici stanno in un atomo organico, è molto più complicato che nei composti inorganici». F. G. J. Henle, Allgemeine Anatomie. Lehre von den Mischungs- und Formbestandtheilen des menschlichen Körpers, Berlin, 1841, p. 16. 15 A. Meyer-Abich, Nachwort, a A. v. Humboldt, Ansichten der Natur, cit., pp. 165-166. 16 Fra le tante letture possibili qui, ci piace, anche per motivi personali, richiamare le pagine di E. Cassirer, Descartes und Königin Christine von Sweden, in ECW, Bd. XX, Hamburg, 2005; tr. it., Descartes, Corneille e la Regina Cristina di Svezia, con Introduzione di F. Lomonaco, Napoli, 2009, pp. 73-181.
Un solo, breve esempio degli ostacoli in cui ci imbattiamo e ci imbatteremo, può essere ben illustrato dal caso di uno sperimentatore-filosofo operante nei primissimi anni dell’Ottocento, quell’Hans Christian Ørsted 17
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non vuole affatto assurgere a unico o privilegiato modus operandi – si preoccuperà allora di trovare una Leitfaden tra le idee, una via d’accesso che non trasfiguri quella appena lasciata, pur accentuando caratteri di asistemicità ed eccentricità più consoni, secondo noi, a dare ragione del clima culturale da attraversare. In altri termini, al fuoco del nostro argomentare non ci sarà Goethe e Wilhelm von Humboldt (anche se in loro, naturalmente, si concentrerà la maggiore attenzione), Schelling18 o che, sconosciuto ai più, lavora invece fianco a fianco con i nomi che più volte sono comparsi e che continueranno a comparire nella nostra analisi. Lo scienziato danese – i cui interessi gravitarono soprattutto attorno ai problemi dell’elettromagnetismo – entrerebbe, infatti, a pieno titolo nel novero delle personalità di spicco che un lavoro come il nostro avrebbe intenzione di frequentare con profitto teorico. Egli entra in contatto più che solo professionale con i fratelli Humboldt, con Novalis, ascolta le Vorlesungen fichtiane sulla Dottrina della scienza fra il febbraio e il marzo del 1802, e, più in generale, frequenta attivamente le scuole di scienziati accademici di Jena e Göttingen. è dunque altamente improbabile che sia rimasto fuori dai dibattiti teorici sui fondamenti filosofici delle scienze della natura che lì si svolgevano; ed è pressoché certa la valenza dei suoi contributi a questo stesso dibattito (oltre che, come tutti i suoi amici e colleghi, poeta, saggista, narratore e, appunto, ricercatore sperimentale. Si veda, e valga solo a titolo unico di una produzione ben più ampia, Der Geist in der Natur, Stuttgart, 1851, traduzione tedesca di molte delle pubblicazioni di Ørsted). Ed allora: perché lui no ed altri sì? Perché di lui non ci procureremo gli elementi storiografici e teorici per porlo all’attenzione del lettore, mentre di suoi interlocutori faremo più volte accuratamente menzione? Insomma: quali i criteri per una retta scelta delle argomentazioni e delle vicende della nostra ricerca? Naturalmente la risposta a tali quesiti non potrà che rendersi manifesta nel corso del lavoro. In ogni caso, per orientarsi con sufficiente stabilità nell’opera dello scienziato danese, rimandiamo a aa. vv., Hans Christian Ørsted and the Romantic Legacy in Science: Ideas, Disciplines, Practices, Eds. R. M. Brain, R. S. Cohen, O. Knudsen, Heidelberg, 2008. Per i commenti di Schelling alle conclusioni della Critica del giudizio particolarmente rilevanti nella lettura romantica del concetto di organismo, si veda in special misura: F. W. J. Schelling, Von den Weltseele: eine Hypothese der höheren Physik zur Erklärung des allgemeinen Organismus, in Schelling’s sämmtliche Werke, hrsg. von K. F. A. Schelling, Stuttgart-Augsburg, 1856, qui Bd. I/2, pp. 222 ssg. Un commento a questa e a altre letture schellinghiane di Kant, si trova in G. Cusinato, Il corpo e la persona. IL concetto di esperienza e di organismo nella critica di Schelling a Kant, in «Il Pensiero», (XXV) 1996/1, pp. 61-82, in part., pp. 72-80. 18
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Fichte, Novalis o i fratelli Schlegel, Herder, Schiller o Schleiermacher. Il procedimento qui in gioco vuole essere, cioè, più attento, in questa fase, ad una vera e propria Begriffsgeschichte, o meglio una Ideengeschichte, con tutto ciò che di problematico19 e irrisolto che questa scelta metodologica necessariamente comporta, non foss’altro che per mere ragioni classificatorie20. Un percorso “granulare”, un’andatura il più possibile sinottica e diacronica tra biologia, storia, filosofia e, in generale, saperi della vita. “Organismo”, si diceva a proposito della nozione più apprezzata da Alexander von Humboldt circa la concettualizzazione kantiana “utile” alle ricerche sperimentali, ai riscontri sul campo del grande viaggiatore Uno studio come il nostro, che si è finora dibattuto tra Naturgeschichte, Bildungstrieb, preformismo, vitalismo, epigenismo etc. non può che stare molto attento a passare, apparentemente di punto in bianco e senza un’opportuna chiarificazione, a problemi connessi alla dinamica della dialettica storica di concetti, idee, insomma a mostrarsi chiaramente come storiografia filosofica. Ma la sfida è proprio questa: trovare nella storiografia filosofica la radura dell’incontro dei “due regni” (le scienze fisiche e le scienze umane), tradizionalmente considerate in conflitto irrisolvibile. 20 Il dibattito sulla sostanza e coerenza di una disciplina dal nome ‘storia delle idee’ è tutt’ora vivissimo. Un’ottima ricapitolazione dello statuto storico-disciplinare ed epistemologico di una ‘storia delle idee’ (declinata anche come ‘storia della cultura’ e ‘storia per concetti’, ‘Kulturgeschichte’ e ‘Begriffsgeschichte’) lo si può leggere nelle pagine dell’editoriale al numero iniziale dello «zeitschriften für Ideengeschichte», (1) 2007, pp. 3-6, scritto dai curatori, U. Raullf-H. Schmidt-Glintzer-H. T. Seemann, Ein Anfang machen. Warum wir eine Zeitschrift für Ideengeschichte gründen, dove, tra le altre cose, vengono ricordati i famosi antecedenti storici del «Journal of History of Ideas» di Lovejoy e alla «MeineckeSchule» dell’inizio degli anni ’30 del Novecento in Germania. Si vedano, inoltre, l’attenta analisi sul tema svolta nella memoria lincea da F. Tessitore, Storicismo e storia della cultura, Roma, 2003, ed il più divulgativo – ma molto esperto del tema – M. Maurer, Kulturgeschichte. Eine Einführung, Köln-Weimar-Wein, 2008. Nè va dimenticato, in questo contesto, il grande impegno cassireriano in questa direzione. Testimoniano in tal senso, oltre che i numerosissimi contributi di Cassirer allo sviluppo di una nuova “disciplina” filosofica (molti dei quali contenuti nei suoi postumi: cfr., tra gli altri, tutto il volume di E. Cassirer, Kulturphilosophie. Vorlesungen und Vorträge, in Ernst Cassirers Nachgelassene Manuskripte und Texte, Bd. 5, cit.). Infine, in questa ovviamente brevissima rassegna, ci piace segnalare un prezioso documento, costituito dai contributi di alcuni dei nomi più illustri della storiografia (e non solo) italiana: aa. vv., Le storie e la storia della cultura, con Presentazione di F. Tessitore, Napoli, 1988. 19
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berlinese. L’espressione kantiana che abbiamo visto essere richiamata da von Humboldt (nella ricostruzione di Meyer-Abich) è esattamente tratta non dalla Critica del giudizio, ma da una nota a piè di pagina, in un contesto argomentativo completamente diverso, nel breve scritto del 1791 dal titolo Sul fallimento di tutti tentativi filosofici in teodicea21, e suona, nell’intera sua estensione, come segue: «Sebbene il concetto peculiare di saggezza rappresenti soltanto la proprietà di un volere che si accorda al sommo bene in quanto scopo finale di tutte le cose, mentre al contrario l’arte rappresenta soltanto la capacità dell’uso del mezzo più idoneo a scopi qualsiasi, tuttavia all’arte, quando si dimostra tale che è adeguata all’idea la cui possibilità oltrepassa tutta la comprensione della ragione umana, può essere, non senza ragione, anche riservato il nome di arte divina (per esempio, quando mezzo e scopo si portano a scambiarsi l’un l’altro come nei corpi organici)»22. Si percepisce con sufficiente chiarezza che qui Kant non sta affatto esponendo una definizione dell’organismo; semmai sta adottando un’analogia per chiarire l’impossibilità di una teodicea senza il rapporto alla coscienza morale. In questo gioco di riferimenti analogici, di metafore, di simbolizzazioni più o meno scoperte, più o meno funzionali alla chiarificazione di qualcosa d’altro, resta fermo che per Kant la nozione di ‘organismo’, nella sua più assoluta “discrezione” teorica e semplicità espositiva, non può andare oltre il concetto di un sistema che ha la capacità di autoriprodursi secondo una finalità (naturale). è peraltro assai condivisibile l’idea che questa nozione «non è un semplice sinonimo del concetto biologico di organismo»23, e non abbiamo lesinato sforzi – nel corso dell’analisi – a mostrare prove a favore di questa assai differente ampiezza del concetto kantiano in questione. Ora, la questione da porre è che cosa sia potuto scaturire da quest’idea di autoproduttività nell’economia degli studi d’inizio Ottocento sulla generazione, sulla riproduzione, in breve, sul meccanismo mediante il quale una vita sorge, si sviluppa, decresce e perisce. Secondo molti specialisti del settore, epistemologi della biologia I Kant, Über das Mißlingen aller philosophischen Versuche in der Theodicee, (1791), in Kants gesammelten Schriften, Kleine Schriften (1784-1800), Bd. VIII, cit., pp. 253-271; tr. it. Sul fallimento di tutti i tentativi filosofici in teodicea, in I. Kant, Scritti sul criticismo, a cura di G. De Flaviis, Roma, 1991. 21
Ivi, p. 271 (ultimo corsivo nostro). P. McLaughlin, Kants Organismusbegriff in der Kritik der Urteilskraft, in aa. vv., Philosophie der Organischen in der Goethezeit, cit., p. 108. 22 23
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e storici della scienza, l’idea che, nella movimentatissima dinamica concettuale dei cenacoli scientifico-filosofici tedeschi prevale su tutte le altre, è quella di progresso24. Posizione senza meno accettabile, sennonché nella prospettiva qui adottata, si perderebbe eccessivamente di vista il sentiero principale della problematica se ci si facesse distrarre un’ipotesi di lavoro talmente ampia come questa. Preferiamo seguire per il momento il terreno della ricezione della nozione di ‘organismo’ (con tutti i suoi derivati linguistici e concettuali) che viene continuamente battuta, perchè avvertita da un lato come rivoluzionariamente nuova e dall’altro sufficientemente probante sul piano empirico. Testimonianza di valore unico in questo senso è il famoso libro di Thomas Soemmerring Über das Organ der Seele25, che però non può essere analizzato senza Un riassunto di queste posizioni, con una sostanziosa parte dedicata alle «radici storiche» di questa idea di progresso (proprio rispetto ai luoghi e ai tempi qui da studiare), si può trovare articolato in B. Rosslenbroich, The Notion of Progress in Evolutionary Biology – the unresolved Problem and an Empirical Suggestion, in «Biology and Philosophy», (21) 2006, pp. 41-70. 24
25 S. T. Soemmerring, Ueber das Organ der Seele, Königsberg, 1796, nachgedruckt Amsterdam, 1966. Riassumiamo qui e nelle note a seguire, molto succintamente, gli elementi fondamentali e gli eventi culturali che ruotano intorno a questo libro, rimandando, per una più corposa e ampia visuale del rapporto Kant-Soemmerring, a W. Euler, Die Suche nach dem “Seelenorgan”, in «Kant-Studien», (93) 2002, pp. 453-480 e alla ponderosa e specifica bibliografia ivi presente; si veda, inoltre, per la figura del medico tedesco, aa. vv., Samuel Thomas Soemmerring und die Gelehrten der Goethezeit, Beiträge eines Symposiums in Mainz vom 19. bis 21. Mai, hrsg. von G. Mann-F. Dumont, Stuttgart-New York, 1985. Soemmerring scrive una lettera a Kant sicuramente prima dell’agosto del 1795. Ne abbiamo certezza perché la risposta di Kant, datata 10 agosto 1795 (in Kants gesammelten Schriften: Briefwechsel, Bd. XII, p. 30) è assai importante, e testimonia che Kant aveva già letto, all’epoca e in manoscritto, il lavoro di Soemmerring sulla localizzazione dell’anima. è inoltre chiaro che Kant trova già nel manoscritto, suscitandogli evidente piacere, la dedica all’ormai celebrato filosofo, che Soemmerring farà pubblicare nell’edizione a stampa dell’anno successivo. C’è di più. Nella stessa lettera, Kant accenna al proposito di partecipare di buon grado al «progetto [Entwurf]» (ivi) di integrare il trattato ancora da pubblicare, con una sua aggiunta sull’argomento. Nel settembre successivo (il 17 per la precisione; cfr. Kants gesammelte Schriften: Briefwechsel, Bd. XII, pp. 41-42) Kant, su richiesta dell’editore königsberghese Nicolovius, informa Soemmerring su quelli che saranno grossomodo i nuclei essenziali della sua appendice. Non conosciamo esattamente le reazioni di
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tener conto del rilievo che la pubblicazione di questo libro – e con quale autorità ! – suscitò negli ambienti scientifici dell’epoca26. Nella sua opera Soemmerring si dice convinto di aver trovato una soluzione definitiva al secolare problema dell’individuazione del posto dell’anima e, ancora più importante sul piano squisitamente filosofico, di aver proposto una condivisibile e nuova idea circa il rapporto tra la mente e il corpo27. Detto con estrema sinteticità, la soluzione proposta dal medico riguarda la “sede” in cui si concentrerebbe la funzione dell’unità della natura psicofisica dell’uomo, il luogo dove avverrebbero tutti i fenomeni di relazione tra lo psichico e il corporeo. L’identificazione di questo luogo Soemmerring alla lettura di questa lettera (che espone l’intenzione di Kant di integrare l’appendice con delle precisazioni non proprio secondarie alle teorie del trattato). Fatto sta che effettivamente, l’anno dopo (1796) il trattato di Soemmerring appare con un’aggiunta (pp. 81-86) autografa di Kant. 26 Appena due anni dopo l’uscita di Ueber das Organ der Seele, il già nominato (a proposito della fisiognomica) Gall scrive un saggio dal titolo Schreiben über seinen bereits geendigten Prodromus über die Verrichtungen des Gehirns der Menschen und der Thiere, an Herrn Jos. Fr. von Retzer, in «Der neue Teutsche Merkur», (3) 1798, pp. 311-332. Il cosiddetto fondatore della frenologia («senza che tuttavia Gall abbia mai usato questo termine»: M. Hagner, The Soul and the Brain between Anatomy and Naturphilosophie in the early Nineteenth Century, in «Medical History», (36) 1992, pp. 1-33, p. 1) esprime un significato totalmente diverso dei suoi esperimenti scientifici, e ritiene che le affermazioni di Soemmering circa l’organizzazione del corpo vivente in quanto animato da una sorta Urleben, di vitalità originaria (che si svilupperebbe nel fluido cerebrale), siano sostanzialmente assimilabili a teorie metafisiche, perché egli, Gall, «rifiuta ogni forma di trascendentalismo» (M. Hagner, cit., p. 13) in campo anatomico. Per il confronto GallSoemmerring, molto chiare le pagine introduttive di O. Breidbach, The Origin and Development of Neurosciences, in aa. vv., Theory and Method in the Neurosciences, eds. P. K. Machamer-R. Grush-P. McLaughlin, University of Pittsburgh Press, 2001, pp. 7-29, in particolare, per quel che concerne il nostro tema, pp. 9-12. 27 S. T. Soemmerring, Über das Organ der Seele, cit., pp. 36-37. Goethe avrebbe poi scritto a Soemmerring nell’agosto del 1796, sottolineandogli l’inappropriatezza di certe sue commistioni tra filosofia e fisiologia, e di legare a tal fine le esigenze specifiche della ricerca anatomica a problemi di metafisica. Cfr. Goethe und Soemmerring. Briefwechsel (1784-1828), in Soemmerring-Forschungen, Bd. 5, hrsg. von M. Wenzel Stuttgart,1988, pp. 106-107.
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– da non confondere con il concetto di ‘localizzazione’28 – viene fatta col fluido acquoso (Liquor cerebrospinalis) presente nelle cavità cerebrali «che ha la funzione sia di separare e rendere distinguibili i fasci nervosi e gli impulsi di cui essi sono portatori, sia di unificarli»29. In altri termini, è esattamente il nome dato in seguito alla teoria di Gall, il quale, al contrario di Soemmerring, sostiene che «le capacità e le inclinazioni hanno la loro sede, il loro fondamento [Grund] nel cervello», e che «non solo le capacità sono essenzialmente diverse e indipendenti dalle inclinazioni, ma anche che le capacità e le inclinazioni sono diverse ed indipendenti tra loro stesse». F. J. Gall, Schreiben über seinen bereits geendigten Prodromus über die Verrichtungen des Gehirns der Menschen und der Thiere, cit., pp. 17-18, chiaramente in senso polemico verso la “diffusività” dell’organo dell’anima propugnata da Soemmerring. Certo, Soemmerring individua nel cranio il “posto dell’anima” perché localizza lì la sede del cervello e ne fa una sorta di “centrale operativa” in cui i fluidi cerebrali interagiscono con le pardi solide (molle) del cervello e con le terminazioni nervose. Resta però chiaro che egli esprime una decisa posizione “dinamica” fra le parti organiche e quelle “spirituali” dell’uomo, uno scambio energeticofunzionale che se apporta senz’altro confusione nell’ambito della scienza “pura”, ha certo il merito appunto di saper individuare la quasi incomprensibile complessità delle funzioni cerebrali. è questo il punto di maggiore frizione con Kant, come fra pochissimo si vedrà. C’è solo da aggiungere in questa sede che l’opposizione tra Soemmerring e Gall, oramai luogo classico di dibattito nella storia della scienza (e in particolare della storia della neurologia), va inserita in un dibattito assai più ampio concernente l’elettricità animale, il magnetismo, il vulcanismo etc. che andava solleticando in modo sempre più vivo gli ambienti scientifici europei. La tonalità, però, che questo dibattito assume in Germania è del tutto peculiare, e concerne, in massima parte e, ovviamente generalizzando, il significato filosofico che questi indizi di una relazione sussistente tra fenomeni viventi e non, implicavano per la riflessione. Probabilmente ciò si deve alla grande influenza, oltre che di Kant, del più maturo Herder, non casualmente costante corrispondente epistolare di Gall. 29 E. Oeser, Anatomia della coscienza: il metodo trascendentale kantiano come neuroepistemologia, in Natura e cultura, a cura di G. Cantillo-R. Bonito Oliva, Napoli, 2000, pp. 325-341, qui, p. 330 (in realtà, i passi citati nel nostro testo non possono essere univocamente attribuiti a Oeser, quanto piuttosto ai due curatori del saggio in questione, M. Vicinanza e M. Celentano, che in una nota a piè di pagina allargano il campo dei riferimenti storiografici, filosofici e scientifici impliciti nel saggio di Oeser, che, ricordiamolo, è stato, insieme a Konrad Lorenz e a R. Riedl, il fondatore della Scuola di Altenberg. Il testo originale del saggio di Oeser è tratto da Id., Psichozoikum, Berlin-Hamburg, 1987, pp. 97-104). 28
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la “sede” dell’anima si identificherebbe senza residui nell’articolazione delle terminazioni nervose con la materia cerebrale, ed il fluido che in questa alberga: «Per supportare la sua ipotesi, sviluppò una teoria della funzione dell’organo dell’anima, con la quale tentò di spiegare il processo di trasmissione nervo-segnale nel fluido cerebrospinale e nell’interazione tra il fluido e i nervi cranici»30. Il fatto notevole di tutto ciò è che lo scienziato tedesco approda sì a questa conclusione a partire da osservazioni sperimentali rigorose, solo che suddivide il suo trattato in due sezioni ben separate, dove espone gli esiti raggiunti: la prima, appunto, descrive minuziosamente le procedure utilizzate e i fenomeni riscontrati durante gli esperimenti31, la seconda «teoretica, di “fisiologia trascendentale”»32. Un esempio particolarmente efficace di questa a volte confusa commistione tra risultanze sperimentali e conclusioni “metafisiche” tratte dai dati sperimentali stessi – cosa che, come si vedrà, sarà uno dei punti centrali della critica kantiana alle prospettive pur aperte da questo lavoro – è rappresentato dal caso della decapitazione. Secondo Soemmerring, infatti, la «forza vivente [Lebenskraft] nel cervello fa sì che anche dopo la decapitazione quest’ultimo conservi ancora il sentimento [Gefühl] della sua esistenza»33. Soemmerring, evidentemente influenzato da letture kantiane, non adopera il termine che sarebbe più congruo per uno scienziato – ‘sensazione’ – ma quello di ‘Gefühl’, di ‘sensazione’ specificamente, di ‘sentimento’ in senso lato, ma con una chiara connotazione “animistica”. Certo , ‘animo’ gli è assai più funzionale quando si tratta di mostrare che la persistenza del liquor nella testa staccata dal corpo permette la persistenza dell’attivita sensoriocoscienziale nell’‘anima’, e non in una parte qualsiasi dell’organismo umano. Ma, per il Kant che ha premura di scrivere una integrazione al testo di Soemmerring, per il Kant «non del tutto inesperto nelle scienze naturali»34, questa mancanza di chiarezza trascendentale, questo M. Hagner, The Soul and the Brain between Anatomy and Naturphilosophie in the early Nineteenth Century, cit., p. 5. 31 S. T. Soemmerring, Über das Organ der Seele, cit., pp. 1-34. 32 M. Hagner, The Soul and the Brain between Anatomy and Naturphilosophie in the early Nineteenth Century, cit., p. 5. è proprio questo l’aspetto per così dire metodologico che Kant stigmatizza negativamente nell’appendice a Ueber das Organ der Seele (citiamo da Kants gesammelten Schriften, Bd. XII, cit., pp. 31-35, d’ora in poi, Anhang). 33 S. T. Soemmerring, Über das Organ der Seele, cit., p. 8. 34 I. Kant, Anhang, in Kants Gesammelte Werken, Bd. XII, cit., p. 31. 30
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«mescolare compiti fisiologici a compiti metafisici»35 è esattamente il punto d’attacco critico di una lettura del concetto di organismo ben più rigorosa e – in termini generali – complessa, una lettura che, come abbiamo visto, proprio in quegli anni successivi alla Critica del giudizio si andava arricchendo dell’analogia storia-vita: siccome «per Gemüth si intende soltanto la capacità di comporre le rappresentazioni date, e l’unità dell’appercezione produttiva empirica (animus)»36, esprimere una sede di questo “oggetto” – l’anima – in termini sostanzialistici, espone gravemente 1) all’accusa di contraddittorietà topologica e 2) è lacunosa in merito alla funzionalità del costrutto escogitato da Soemmerring. Vediamo come. «Con diritto – dice Kant - può accadere» che questo «concetto» di «sede dell’anima» venga chiamato ad esercitarsi come coordinatore tra un «rapporto spaziale [Raumesverhältniß]» e il «presente locale [locale Gegenwart]»37. Ora, siccome quest’ultimo è la determinazione «del senso interno» ed è «determinabile solo secondo condizioni del tempo»38, mentre per quanto riguarda il primo ci troviamo nell’ambito di un «presente virtuale [virtuelle Gegenwart], che appartiene puramente all’intelletto e non attiene al luogo», il concetto di “posto” della coordinazione tra senso e intelletto «contraddice se stesso»39. Il “luogo”, sembra dire Kant, è sì una determinazione pura a priori della sensibilità, ma ha un rapporto – diremmo – ancestrale col tempo, nella misura in cui quel luogo di cui si parla è il luogo dove la vita vive nella presenza del presente, il luogo in quanto vi si esprime l’esserci del vivente. Il senso interno, nella sua determinazione “locale”, è un senso vivente e non “virtuale” (quest’ultimo sì appannaggio esclusivo dell’intelletto puro), è indistricabilmente interconnesso con la Ivi, p. 32. Ivi, p. 32. 37 Ibid. 38 Ibid. 39 Ibid. Più avanti, Kant analizza più dettagliatamente un altro aspetto della contraddittorietà della teoria di Soemmerring: «Se si assume come ipotesi che l’animo [Gemüth] nel pensiero empirico – e cioè nella scomposizione e composizione delle rappresentazioni sensibili date – sia sottoposto alla capacità dei nervi, secondo la loro diversità, di decomporre l’acqua dello iato cerebrale in quella materia originaria [Urstoffe], e così, tramite lo sciogliere [Entbindung] l’uno dall’altro, poter rappresentare sensazioni diverse (…), si potrebbe affermare che quest’acqua sarebbe continuamente organizzata, senza essere tuttavia organizzata» (iv, p. 34). 35 36
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dimensione spaziotemporale del corpo che fa esperienza di sé, e non può essere mai pensato come disomogeneo rispetto alle sue componenti costitutive, come qualcosa d’altro rispetto alle parti che lo determinano in quanto tale. Soemmerring, individuando in un «Flüssig», in un fluido, la “sede”, il posto di questa capacità sintetica, attribuisce impropriamente (contraddittoriamente) “corpo” a un concetto. Ma se pure fosse ipotizzabile – ed è la seconda e forse più importante carenza – un concetto che si applica contemporaneamente allo spazio come astratta determinazione intellettuale pura e al corpo fungente, la sua natura, così come pensata dall’anatomista-filosofo tedesco, sarebbe in ogni caso un costrutto vuoto ed inutilizzabile per la vita. Come mai? «Il fluido è una materia resistente di cui ogni parte, all’interno dello spazio che riempie, può essere rimossa dal suo posto da una forza piccolissima»40; esso fluido, o acqua (ricordiamo: per Soemmerring, il vero e proprio posto dell’anima) appartiene in questo senso al puro regno della materia, regolato dalle leggi eterne e immutabili della meccanica; ma proprio in questo senso «questa proprietà sembra contraddire il concetto di una materia organizzata [organisirten Materie]»41. L’organizzazione della materia è peculiarità di un organismo all’opera, e, in quanto tale, è funzione della vita e funziona come concreta attuazione della concettuabilità stessa dell’anima. Soemmerring, invece, con la proposta di considerare il liquor, «in parte liquido, in parte solido», come «Seelenorgan», “luogo” dove accadrebbe l’unità sintetica delle appercezioni, «in parte [ne] spiega la funzione (Function), in parte la annienta»42, visto che «l’acqua, in quanto fluidità, non può essere pensata come materia organizzata senza una conforme organizzazione finalistica, ossia in un costante ordinamento delle sue parti nella loro forma»43. Ecco dunque la decisiva lacuna della “scoperta” di Soemmerring: egli assume come dato il fatto che sia possibile pensare una funzione come un costrutto fisico, confondendo il pensabile col sensibile, la funzione con il funzionamento, lo scopo con il il meccanismo. «Se al posto di un’organizzazione meccanicistica, fondantesi sulla messa l’una accanto all’altra delle parti che configurano una forma, io invece proponessi un’organizzazione dinamica che si fondi su princìpi chimici (come pure su quelli Ivi, p. 33. Ibid. 42 Ibid. 43 Ibid. 40 41
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matematici), in grado di coesistere con la fluidità di quella materia, come sarebbe questa organizzazione?»44. Ecco allora la pars costruens (ammesso che quella finora espletata fosse una critica solo distruttiva, e abbiamo visto che così non è del tutto) dell’integrazione all’opera di Soemmerring. E qui si può misurare ancor meglio e di più la grandezza di un pensatore come Kant. L’affermato, celebre filosofo, chiamato da tutte le parti d’Europa ad esprimere giudizi su questa o quella questione, poteva cavarsela o ripetendo esattamente le tesi raggiunte nella Critica del giudizio o fingendo un apprezzamento incredulo nell’opera che andava presentando. No. Kant comprende che nella pur confusa e a volte pretenziosa ricerca di Soemmerring si offrono alla riflessione elementi tutt’altro che trascurabili, tali addirittura non si dice in grado di modificare alcuni fondamenti delle proposte della terza Critica, ma certo da arricchirli, integrandoli con nuove prospettive. Dunque, quale poteva essere, per Kant, la forma di un’organizzazione della materia, in condizione di adeguarsi alla scoperta soemmerringhiana dell’ubiquità fisiologica del liquor nella cavità cranica, ma pure in grado di esprimere una determinata ipotesi non metafisica circa il rapporto tra pensiero (come sintesi appercettiva) e vita individuale (come organismo, nel complesso delle sue parti, unitario)? Con chiarissimo riferimento all’ancora all’epoca attualissimo dibattito sulla natura del vivente in generale, la sua genesi e la sua conservazione, Kant sostiene che, siccome con le ricerche di Soemmerring «propriamente il compito proposto da Haller non viene risolto, perché esso non è semplicemente fisiologico, ma deve servire anche come mezzo per rendere rappresentabile l’unità stessa della coscienza (che appartiene all’intelletto) nei rapporti spaziali dell’anima con gli organi del cervello (che appartiene ai sensi esterni)»45, evidentemente l’idea di definire una nozione di “organo dell’anima” sufficientemente libera da impacci metafisici, non può che essere un compito tutto ancora aperto: «Così come la divisione matematica di uno spazio e della materia in esso contenuta (ad esempio la cavità cerebrale e l’acqua che la riempie) tende all’infinito [ins Unendliche geht], anche una divisione chimica, in quanto dinamica (separazione in una materia di generi diversi scambievolmente disciolti in altri), potrebbe essere prodotta in modo che, per quanto ne sappiamo, tenda
44 45
Ibid. Ivi, p. 34.
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nello stesso senso all’infinito (in indefinitum)»46. Insomma, sembra che Kant voglia dire che per poter opportunamente discutere di un argomento così complesso come dell’ “anima”, della sua allocazione e delle sue facoltà, non si possa prescindere da una preliminare analisi sui rapporti che questa “cosa” ha con le funzioni che essa svolge; ma le “funzioni” dell’anima (la funzione sintetizzatrice, quella appercettiva, insomma, l’io trascendentale, per esprimersi con brevità) hanno necessariamente ha che fare con un concetto di organismo vivente che è ben lontano (Kant ammette implicitamente) dall’essere chiarificato dalle ricerche biogiche e fisiologiche. Questo chiarimento, lui, Kant, lo ha iniziato individuando il fatto che è proprio dalle funzioni di un organismo che si deve partire per tracciare un disegno accettabile della sua “natura”. Non “cos’è” un organismo, bisogna innanzitutto chiedersi, ma “cosa fa”, come agisce, come si esprime nel tempo. Questo compito, allora (sembra dire il vecchio filosofo, superati ormai i settant’anni) ha bisogno di rinnovellata energia, di forze intellettuali fresche, di approfondimenti scientifici sempre più raffinati. E non è affatto detto che si riesca a risolverlo. Ma ciò non significa affatto sottrarsi all’impegno, significa invece che, se la riflessione sull’“organico” necessita di un’interrogazione probabilmente infinita, è perché la natura stessa “tendenziale” del concetto non può essere avvicinata che con una visione finalistica. Se una cosa ha una tendenza (il pensiero trascendentalmente fondato riguardo al corpo vivente, così come il corpo vivente stesso) è perché c’è una segreta analogia, una ancora indefinita affinità tra modulo concettuale teleologico e Faktum dell’individuo che nasce, cresce e perisce. E se non è sbagliato dire, come è stato detto, ma riferendosi alla giovinezza del pensatore tedesco, che «ciò a cui Kant sta pensando (…) è il trascendentale come limite, come non-luogo entro cui ogni luogo accade, come intemporale entro cui accade ogni tempo»47, è anche vero che Kant non si acquieta, nella sua tarda maturità, del riconoscimento di questa aporia utopocronica, seppur densa di significato per la fondazione trascendentale della filosofia critica. Kant – il Kant, lo ribadiamo, della Critica del giudizio ormai acquisita nella coscienza della cultura europea del tempo – assume con grande interesse le ricerche di Ivi, p. 33. F. Leoni, L’inappropriabile, in aa. vv., Al di là del mondo. Filosofia, estetica, psicopatologia, a cura di F. Leoni e F. Maldonato, Bari, 2002, pp. 67-88, qui, p. 71. 46 47
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Soemmerring, le valuta con l’opportuno rilievo, sa che lo schema offerto dalla visione finalistica della natura è più adatto a rispondere al problema del vivente, ma accoglie le parti del discorso “fisiologico” di Soemmerring, rifiutandone le implicazioni metafisiche. E ciò perché egli ha chiaro almeno il principio di fondo di ogni possibile pensiero sul e del vivente: la materia vivente è sostanzialmente differente da quella non vivente perche quella “tende” (come l’“acqua” del cervello di Soemmerring) e questa no, al di là del principio regolativo che la guida e la mantiene nel suo tendere. Ma se una cosa materiale può tendere, questo tendere non può che svilupparsi nel tempo, non può che fenomenizzarsi e rendersi pensabile, percepibile e immaginabile (compiendosi così nell’unitarietà di tutte le sue possibili manifestazioni per noi) nel suo temporalizzarsi, incarnarsi nel tempo, essere tempo. L’organismo è storico o non è. Il “biologico” si snatura se pensato come staccato dall’effettivo manifestarsi di se stesso, e questo manifestarsi è processualità distendentesi nel tempo, prima ed oltre che coordinazione parti-tutto finalisticamente orientata. Ciò che si orienta ed ha un fine, un’intenzione, ha perciò anche un “passato”, un’origine. In più, questo svilupparsi è autopoietico e orientato. Ma questo è proprio parte importante di ciò di cui discutono i migliori cervelli europei alla luce delle proposte kantiane: l’organismo (che è processo per essenza) è l’“uno” che nasce, si sviluppa e degenera oppure è anche i “tutti” che questo processo investe nella sua “storia”? L’organismo, in quanto processo, è oppure no distinguibile in senso specifico da ciò che lo nutre, da ciò che lo limita spazialmente, da quanto lo tocca e vi entra in relazione? Insomma, la questione che inevitabilmente si pone come intrecciata a quella dell’organismo è quella se dell’organismo si possa parlare come di unità individuale (e quali, in tal caso, i suoi propri limiti) o se, viceversa, e con l’approfondirsi graduale degli strumenti di misurazione e osservazione della materia vivente, non si debba piuttosto problematizzare radicalmente l’idea stessa di organismo individuale e, in sovrappiù, autonomo dagli altri individui e dall’ambiente circostante. Sarà, questo aspetto, evidenziato soprattutto all’atto di verifica empirica e accertata della cellula vivente48, ma è già all’inaugurarsi dell’Ottocento 48 è noto che la storia della scienza indica in Matthias Jacob Schleiden (1804-1881, per il mondo vegetale) e in Theodor Schwann (1810-1882, per quello animale), gli apripista di una moderna teoria cellulare. Ad essi va ovviamente aggiunto il celebre nome di Rudolf Ludwig Virchow (1821-1902) con
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che la congerie di problemi sorti dalle analisi kantiane verrà messo a fuoco. Quasi a suggerire, infatti, una continuità non solo ideale ma pure tempisticamente e concretamente relata, l’anno successivo alla pubblicazione dell’opera di Soemmerring esce a Braunschweig il lavoro di quel Thomas Georg August Roose, allievo di Blumenbach, che è convenzionalmente indicato come il libro in cui appare la prima occorrenza del termine ‘biologia’ per come esso era inteso nella comunità scientifica di allora, e rispecchiante pure il senso che noi oggi comunemente attribuiamo alle scienze della vita49. Alla il suo Cellularpathologie in ihrer Begründung auf physiologische und pathologische Gewebelehre, zweite, neu durchgesehene Auflage, Berlin, 1859, ad aver inaugurato il vero e proprio studio sistematico delle cellule come organo individuale del corpo vivente, dotato di funzionale indipendenza e specifica interrelazione con gli altri organi. 49 T. G. A. Roose, Grundzüge der Lehre von der Lebenskraft, Braunschweig, 1797 (si veda pure l’interessantissima ed insolitamente lunga recensione a questo libro che J. C. Reil scrive nell’«Archiv für die Physiologie», 1802, pp. 318334). Va precisato, altresì, che la prima occorrenza, invece, che appare sul titolo di un libro è quella relativa all’opera di Treviranus (già da noi citata in precedenza, ma secondo l’edizione del 1822; cfr. Cap. I, n. 193), dal titolo, appunto, di Biologie, oder Philosophie der lebenden Natur für Naturforscher und Aerzte, che esce in prima edizione sempre a Göttingen nel 1802. Per il significato della primarietà dell’utilizzo in senso moderno del concetto di ‘biologia’ e sulla rilevanza del suo manuale che ha per oggetto la Lebenskraft, oltre al già citato E. M. Engels, Die Lebenskraft – metaphysisches Konstrukt oder methodologisches Instrument? Überlegungen zum Status von Lebenskräften in Biologie und Medizin im Deutschland des 18. Jahrhunderts, in aa. vv., Philosophie des Organischen in der Goethezeit, cit., pp. 129-130, si vedano: N. C. Karafyllis, Lebewesen als Programme, in aa. vv., Disziplinen des Lebens: Zwischen Anthropologie, Literatur und Politik, Hrsg. U. Bröckling, Tübingen, 2004, pp. 235-256, in particolare, pp. 238-239; E. Clarke-L. S. Jacyna, Ninetheen-Century Origins of Neuroscientific Concepts, Berkeley, 1987, spec. per quello che riguarda Gall e Reil, pp. 51 e ssg. Uno studio benemerito sulla situazione scientifico-culturale europea (con un occhio particolare a quelle di Germania e Francia) tra la fine del Settecento e i primi trent’anni dell’Ottocento è quello di K. T. Kanz, Nationalismus und internationale Zusammenarbeit in den Naturwissenschaften: Die Deutsch-französischen Wissenschaftsbeziehungen zwischen Revolution und Restauration, 1789-1832, Stuttgart, 1997. Il libro (e in ciò risiede pure uno dei suoi maggiori pregi) ha di mira non soltanto, come suona il titolo le relazioni scientifiche tra Germania e Francia, ma amplia lo sguardo all’intero continente. Non solo. Kanz analizza con acribia tutte le modalità, oltre ai libri (le lettere, i rapporti interpersonali,
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consapevolezza (certo, in grande misura eredità degli stimoli kantiani) di trovarsi di fronte un momento di svolta decisivo per i destini di una neodisciplina del vivente, la comunità scientifica sembra corrispondere con un impegno sempre crescente e sempre più acuto anche sul piano autoriflessivo e teorico. Nominare uno soltanto di questi filosofiscienziati-sperimentatori potrebbe forse apparire riduttivo nei confronti dell’ampiezza di questo panorama che qui si è prospettato, ed elevarlo a emblema singolo di un movimento così multiforme e complesso. E però non si può ignorare il ruolo fondamentale svolto da Carl Friedrich Kielmeyer in questo contesto con la sua celebre Rede dal titolo, che è già di per sé un manifesto di impegno e di lavoro, di Über die Verhältniße der organischen Kräfte unter einander in der Reihe der verschiedenen Organisationen, die Geseze und Folgen dieser Verhältniße, forse vero punto di svolta del moderno atteggiamento dello scienziato della vita50. Vuoi perché Kielmeyer, al pari di Novalis (ma ovviamente con minore disposizione poetica51) incarna e interpreta al massimo grado la i viaggi, vere e proprie esplorazioni naturalistiche, la funzione fondamentale delle traduzioni, le recensioni, i congressi, le attività delle Accademie ecc.) con le quali gli scienziati entrano in contatto e scambiano informazioni essenziali per la circolazione del sapere teorico e sperimentale. 50 Discorso fatto a Stoccarda, famoso col nome di “Karlsschule Rede” e «tenuto l’11 febbraio 1793 in occasione del sessantacinquesimo genetliaco del Duca di Württemberg». K. T. Kanz, Einleitung a aa. vv., Philosophie des Organischen in der Goethezeit, cit., p. 9. Kanz è pure il curatore dell’anastatica di questo discorso (integrato con un altro scritto dal titolo Über die Verhältniße der organischen Kräfte untereinander in der Reihe der verschiedenen Organisationen, die Gesetze und Folgen dieser Verhältniße, Marburg an der Lahn, 1993), mentre la prima edizione esce a stampa nello stesso 1793 a Tübingen. Noi citeremo da C. F. Kielmeyer, Gesammelte Schriften, hrsg. von F. Holler, Berlin 1938. Una sì grande impressione destò questo discorso in tutti gli ambienti intellettuali interessati al tema, che Schelling, Von der Weltseele, cit., p. 565, scrisse che grazie ad esso «senza alcun dubbio le future epoche attenderanno l’epoca di una storia naturale [Naturgeschichte] completamente nuova». Ancora dal benemerito volume Philosophie des Organischen in der Goethezeit, si veda, per le conseguenze di questo discorso – e del pensiero di Kielmeyer in generale – su Schelling, su Hegel e Schopenhauer, il saggio di T. Bach, Kielmeyer als «Vater der Naturphilosophie»? Anmerkungen zu seiner Rezeption im deutschen Idealismus, pp. 232-251. 51 A tal proposito, con bella immagine, è stato detto che con von Hardenberg quello che si aggiunge alla famelica sete di conoscenza scientifica degli scienziati romantici o protoromantici, è il «procedimento di (…) ‘poetizzazio-
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dimensione multilaterale dello scienziato del Romanticismo più avvertito e cosmopolita, vuoi, soprattutto, perché è perno importantissimo per la nostra ricerca, visto che, non solo «Goethe cita espressamente in uno degli schemi preparatori per il [concetto di] tipo (…) lo scritto Über die Verhältnisse der organischen Kräfte»52, ma anche perché in lui, come è stato opportunamente messo in evidenza53, ricompaiono, approfonditi nel senso “tecnico” della disciplina, alcuni dei fondamenti critici del pensiero biologico-trascendentale di Kant. Meglio di qualsiasi altra testimonianza, ecco allora le parole di Kielmeyer54 che si confanno in modo eccellente a quanto abbiamo creduto di leggere negli sforzi kantiani, alla costante presenza in Kant di una griglia concettuale in grado di esprimere la complessità cronotopologica dell’organismo, il quale, secondo Kielmeyer andrebbe esaminato «storicamente attraverso la descrizione dei cambiamenti che accadono in momenti significativi, attraverso la determinazione delle sue relazioni di durata e successione, di coesistenza con un altro organismo, e con riguardo alle condizioni esterne, nella misura in cui queste possono essere determinate per gli organismi e le loro classi»55, ma pure «teoreticamente, mediante la determinazione dei cambiamenti più o meno generali interni e esterni ne’ o ‘romanticizzazione’ del mondo. La trattazione ‘simbolica’ delle scienze singolari, in particolare della fisica, deve condurre, con un particolare linguaggio di enigmi e tropi, a un nuovo tipo di intuizione delle cose [Anschauungsweise der Dinge] ed aprire all’osservatore la dimensione inabituale del loro significato». G. Rommel, Romantik und Naturwissenschaft, in aa. vv., Romantik-Handbuch, hrsg. von H. Schanze, Stuttgart, 1994, pp. 607-617, qui, p. 611. 52 P. Giacomoni, Le forme e il vivente. Morfologia e filosofia della natura in J. W. Goethe , Napoli, 1993, p. 135. 53 T. Lenoir, Kant, Blumenbach and German Biology, in «Isis», (71) 1980, pp. 77-108, in particolare pp. 99-100. Dello stesso Lenoir, un interprete davvero attento alle tematiche qui in gioco, si veda pure il più sistematico The Strategy of Life: Teleology and Mechanics in Nineteenth Century German Biology, Amsterdam, 1982. Lenoir cita e commenta (ivi, p. 99) nell’articolo del 1980, un altro breve scritto di Kielmeyer dal significativo titolo di Ueber Kant und die Deutsche Naturphilosophie, in Gesammelte Schriften, cit., pp. 250 e sgg. 54 In questo caso tratte da una sua precedente opera, l’Entwurf zu einer vergleichenden Zoologie (1790-1793), in Gesammelte Schriften., cit., pp. 10 e ssg. Per questo aspetto, si veda di T. Bach, Biologie und Philosophie bei C.F. Kielmeyer und F.W.J. Schelling, Stuttgart-Bad Cannstatt, 2001, pp. 50 e ssg. 55 C. F. Kielmeyer, Entwurf zu einer vergleichenden Zoologie, cit., p. 22. Cfr. T. Lenoir, Kant, Blumenbach and German Biology, cit., p. 100.
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in momenti individuali significativi; mediante la determinazione dello loro leggi; mediante la riduzione delle variazioni stesse a classi valide per differenti classi di organismi»56. Al di là di certi eccessi riduzionistici, piuttosto ricorrenti in un atteggiamento scientifico, e dunque anche al di là di quella tendenza generalizzante (anch’essa piuttosto comune), che porta a sottovalutare la funzione e la concettualità relativa alla fondabilità dell’individuo in quanto tale, quello che di notevole appare in queste parole è l’individuazione del fattore-tempo come costante (e non come variabile) nell’analisi e concezione dell’organismo. C’è di “kantiano” in queste parole la consapevolezza della complessità relazionale dell’organico, nella misura in cui di esso si può sostenere la pensabilità stessa solo in relazione con le componenti ambientali e temporali del suo esserci. C’è, di esplicitamente criticistico – e, forse, addirittura “heideggeriano” – la raggiunta cognizione che la «connessione delle cose si chiama mondo, nella misura in cui esse sono l’una accanto all’altra»57, che il «tutto integrale della vita [das Integral des Lebens]»58 non si può neppure concepire senza una visione dinamica e interrelata delle cinque forze (sensibilità, irritabilità, riproduttività, forza secretiva e forza propulsiva)59 che determinano l’unità sistematica del «piano 56
Ibid. D. Kuhn, Uhrwerk oder Organismus. Carl Friedrich Kielmeyers System der organischen Kräfte, in Philosophie des Organischen in der Goethezeit, cit., pp. 33-49, qui, p. 41. E’ ovvio che qui si richiama Heidegger solo ed esclusivamente attraverso le parole dell’interprete tedesca, che però, a parer nostro, non tradiscono il tenore complessivo delle idee di Kielmeyer relative all’integralità del tutto delle “cose di natura”. Su ciò, 58 C. F. Kielmeyer, Entwurf zu einer vergleichenden Zoologie, cit., p. 27. 59 C. F. Kielmeyer, Ueber die Verhältniße der organischen Kräfte, in Gesammelte Schriften, cit., pp. 12-13. Ricorda D. Kuhn, Uhrwerk oder Organismus, cit., p. 41, nota 26, che la «sensibilità e l’irritabilità giocano un ruolo particolare nelle rappresentazioni di Albrecht von Haller, cui Kielmeyer pure si richiama». Questo richiamo conferma, a nostro avviso, la linea teorica e storiografica che abbiamo proposto e che stiamo seguendo. Esiste una linea di continuità e, per così dire, di costante raffinazione delle problematiche inerenti la “natura” del (dei) vivente (i). Da Haller a Kielmeyer, da Kant a Goethe – come ci apprestiamo a vedere – l’accentuarsi dell’acribia intellettuale (con l’avanzamento tecnologico dei mezzi di ricerca) non tradisce il sentiero di fondo di tutto questo percorso: il fatto che la “vita” è innanzitutto un fenomeno che si esprime nel suo evolversi e svilupparsi mediante dinamiche e forze, appunto, vive e temporali, come il giovanissimo Kant aveva già scritto. 57
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della natura [Plan der Natur]»60. Meno kantiana, sicuramente, è la relativamente poco sviluppata funzione dell’analogia e la riproposizione del concetto di “scala naturae” non discussa a fondo, ma assunta attraverso una cosiddetta «Kompensationgesetz» che equipara gli individui alle cinque forze di cui sopra in una graduale ascesa dal meno perfetto al più perfetto61. Ma è ovvio che non è questo il luogo per uno sguardo C. F. Kielmeyer, Ueber die Verhältniße der organischen Kräfte, cit., p. 35. Ivi, pp. 17-18. Sia bene inteso: non può essere sostenuto, con buone ragioni, che Kielmeyer non avesse compreso o compreso male il significato rivoluzionario della Critica del giudizio, tant’è che, come ricorda opportunamente Bertoletti, «nel 1807 Kielmeyer affermò [in Über Kant und die Deutsche Naturphilosophie, in Gesammelte Schriften, cit., pp. 249-251, n.d.r.] che la costruzione filosofica kantiana rappresentava la fondazione teoretica per una visione dinamica della natura e per un’indagine empirica della forma organica», F. B., cit., p. 189. Il problema, piuttosto, investe un ambito ben più vasto: la recezione kantiana nel mondo scientifico-accademico è talmente diversificata e polifonica che districare affinità o contrarietà, somiglianze e concordanze, reali punti di accordo o similitudini solo apparenti, resta compito difficilissimo. Il fatto è che tutti questi uomini di saperi plurimi discutono fra di loro in un atmosfera di rutilante comunicazione, di continuo, imperterrito dialogo a più voci. La coralità di questo movimento è sicura; meno facile individuare le differenti intonazioni. E di Stimmung ha da parlarsi, di una tonalità intellettuale – meglio, rimanendo nella metafora musicale, di una timbrica, di una coloritura – per questo insieme di contributi eruditi, teorici ed empirici. Ci siamo soffermati il tempo giusto – crediamo – su Kielmeyer perché è quello che forse meglio di altri segna il passaggio a Goethe e alla ricerca biomicroscopica in senso contemporaneo, e alla “rivoluzione” evoluzionistica che prende le mosse alla metà dell’Ottocento; ma si potevano anche mettere a fuoco le figure del già incontrato Christoph Girtanner (autore di una Ueber das Kantische Prinzip für die Naturgeschichte. Ein Versuch diese Wissenschaft philosophisch zu behandeln, Göttingen, 1796, che, citando il saggio kantiano sulle razze, scrive che «questo principio kantiano [quello dell’ “immancabilità” della somiglianza fra le razze nella loro diversità, e quindi della comune radice umana, n.d.r.] è utilizzabile in modo eccellente per la riflessione nella storia naturale, perché è in grado, in un esperimento, di guidare in modo sicuro l’applicazione del principio», ivi, p. 39), di Johann David Brandis, che può essere inteso come una sorta di anello di congiunzione (almeno come contrapposizione teorica) tra Kant e Schelling, essendo uno dei più frequenti interlocutori polemici di quest’ultimo (Schelling cita in Von der Weltseele, cit., pp. 247, 254 e 257, criticandone i fondamenti teorici, l’opera di Brandis uscita nel 1795 dal titolo Versuch über die Lebenskraft; e Schelling cita Brandis anche in Ideen zu einer Philosophie del Natur (1797), in Sämmtliche 60
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completo su un panorama – la Kielmeyers Forschung – che, peraltro, è un compito ancora per certi aspetti tutto da svolgere62.
Werke, cit., Bd. II, p. 57), oppure di quel personaggio estremamente interessante che è Christoph Wilhelm Hufeland, autore, fra le altre cose, nel 1795 a Jena (si noti: stesso anno, stessa presenza del termine ‘Lebenskraft’ dell’opera di Brandis), delle Ideen über Pathogenie und Einfluß der Lebenkraft auf Entstehung und Form der Krankheiten, in cui teorizza (ivi, p. 25) l’identificazione dell’organismo con la – per così dire, con un orrido neologismo – “caldità” del corpo: «La materia calda (…), nella connessione vivente, disperde una parte delle sue proprietà, rapporti e affinità chimiche, e si unisce, si divide, si raccoglie e si disperde secondo le leggi della Lebenskraft, dell’animalità [Animalität]; ossia è materia calda animalizzata, Calor animalis». è ben nota la consuetudine teorica che Kant instaura con Hufeland (si vedano al proposito, le pagine della Postfazione di Vincenzo Bochicchio, a I. Kant, De medicina corporis, Napoli, 2007, a cura dello stesso Bochicchio, pp. 73-119); resta però, forse, ancora tutta da attuarsi un’attenta e puntuale verifica dell’insieme della produzione scientifica e “filosofica” del medico tedesco, delle sue interessanti riflessioni, ad esempio, sul “senso” del dolore. Né, in questo panorama così eclettico e ricco, può essere sottaciuta l’opera scientifica e intellettuale di Hans Christian Ørsted, uno degli scopritori degli effetti dell’elettromagnetismo (su ciò, si veda S. Rieger, Manuale des Stroms. Der Elektromagnetismus und die Induktion des Wissens, in aa. vv., Text und Wissen. Anthropologische und technologische Aspekte, hrsg. von R. Lachman u. S. Rieger, Tübingen, 2003, pp. 45-74), che recentissimamente più di un interprete ha letto come colui che ha saputo mettere in pratica fruttuosamente l’idea kantiana dell’“als ob”, dell’esperimento del pensiero e col pensiero, in breve dell’analogia tra “cosa” e “pensiero”, tra lo sprituale e il corporeo (si vedano, per questo interessantissimo aspetto: R.M. Brain, The Romantic Experiment as Fragment, in aa. vv., edt. by R. M. Brain, R. S. Cohen and O. Knudsen, Heidelberg, 2007, pp. 217-233; D. Cohnitz, Ørsteds “Gedankenexperiment”: eine Kantianische Fundierung der Infinitesimalrechnung? Ein Beitrag zur Begriffsgeschichte von ‘Gedankenexperiment’ und zur Mathematikgeschichte des frühen 19. Jahrhunderts, in «Kant-Studien», (99), 2008, pp. 407-433). Anche la forma dialogica del suo trattato più “filosofico” (Der Geist in der Natur, trad. ted., Leipzig, 1850), che tratta specificamente delle relazioni tra l’arte e la filosofia, induce a riflettere sui rapporti che Ørsted intrattenne sia con Goethe che con Niebuhr. Insomma, Kielmeyer rappresenta qui una sorta di nome collettivo per indicare al meglio lo sforzo dell’ambiente kantiano da cui sorgono gli interessi più lucidi e le idee più affilate circa la natura del vivente e della sua storicità. 62 Si consideri che, a tutt’oggi, non è stata ancora effettuata una completa collazione e catalogazione della totalità degli scritti di Kielmeyer.
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2. Goethe: la vita informata Non vi è dunque ulteriore motivo di indugiare nel passare ancora in rassegna il clima intellettuale dell’epoca: basta infatti rivolgersi più specificamente a Goethe per rendersi conto, in prima battuta, della straordinaria importanza dell’atmosfera di dialogo intellettuale in corso a cavallo del passaggio tra Settecento e Ottocento. è noto infatti che Goethe, per certi aspetti, “scopre” l’osso intermascellare ben prima della pubblicazione dei risultati delle sue ricerche osteologiche di anatomia comparata63. è noto altrettanto che la graduale chiarificazione dei termini sperimentali e teorici inerenti il problema in questione, è offerta a Goethe in grossa misura anche dall’intenso rapporto epistolare instauratosi con Soemmerring per oltre quarant’anni64. Del resto, è lo stesso Goethe (e Ne fa fede una lettera ad Herder del 27.3.1784 (il che sta ovviamente a significare che le sue ricerche dovevano essere iniziate ben prima). Cfr., Goethes Briefe, cit., Bd. I, pp. 435-436. Si veda pure la testimonianza diretta di Goethe, allorquando in un frammento dal titolo Zur Geschichte dieser Studien, Goethe ricostruisce il progredire delle sue osservazioni di anatomia, e retrodata questi interessi fin «dall’inizio degli anni ottanta (…) quando non mi era ancora spuntata l’idea della Metamorfosi delle piante», J. W. Goethe, Zur Geschichte dieser Studien, in Id., Schriften zur Naturwissenschaft, Stuttgart, 1999, pp. 159160. In merito alla definizione della formazione scientifica di Goethe, si vedano per ora, tra la ponderosa bibliografia pubblicata, un interessante – ma troppo squilibrato nelle sue tesi di fondo – libro, che mette in rilievo la consonanza dell’approccio scientifico goethiano con la tradizione ermetica della Germania Cinque-Seicentesca: R. C. zimmermann, Das Weltbild des jungen Goethe, Freiburg i. B., 1969, spec. pp. 75-97, e un altro lavoro, di indirizzo più sistematico, ma di viva utilità per la meticolosissima cura ricostruttiva delle fasi della vita di Goethe e la corposa bibliografia, R. Benz, Goethes Leben, Hamburg, 1949, riprodotta in GW, cit., Bd. IV, pp. 343-582. Infine, si consultino due titoli assai utili ai fini della visione complessiva dell’impegno intellettuale e scientifico di Goethe: H. A. Korff, Die Lebensidee Goethes, Leipzig, 1925; H. J. Schrimpf, Das Weltbild des späten Goethe. Überlieferung und Bewahrung in Goethes Alterswerk, Stuttgart, 1956. 64 Di cui è ottima testimonianza la relativamente recente edizione del già incontrato Goethe und Soemmerring: Briefwechsel (1784-1828), cit. è notevole – e chiaramente riscontrabile in questa corrispondenza (soprattutto, ivi, pp. 108-110) – il ripetersi quasi puntuale del tenore kantiano delle critiche rivolte da Goethe alla commistione di fisiologia e filosofia nell’Über das Organ der Seele di Soemmerring. 63
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non potrebbe essere altrimenti) che dà atto, nel resoconto a posteriori – e più volte65 – al corrispondente-scienziato, di decisivi contributi alla scoperta di questo osso, che rappresenta per molti aspetti il reperimento di quell’«osso-tipo universale»66, traccia di una nascosta armonia che lega ogni vivente al suo simile in quanto organizzazione vivente. Ed il “tipo” – l’Ur-Typus, il “fenomeno originario” – è pure l’anello di congiunzione con Kielmeyer, col quale Goethe discute e mette sempre più a punto le sue idee biologiche. Ma, a dire il vero, esprimersi con Goethe in termini di ‘idee biologiche’ è sostanzialmente riduttivo, avvilente la molteplicità delle relazioni, degli incroci intellettuali ed esperienziali, la ricchezza e la vivacità dell’intelligenza e dell’immaginazione creativa del tedesco. Già solo la mole, a volte scoraggiante per l’interprete, di testimonianze e osservazioni, di pensieri – a volte, anzi spesso, in forma non sistematica – notazioni, frammenti diaristici, progetti teorici non terminati, schizzi autobiografici, insomma già solo il vero e proprio oceano di informazioni da vagliare e analizzare67, esclude in modo radicale la possibilità che Goethe pensi alla ‘biologia’ 1) come una disciplina con una sua programmatica, con protocolli e metodi definiti, così come noi oggi intendiamo una disciplina scientifica, e 2) che la identifichi con un alcunché di separato in modo assoluto da altri saperi quali la geologia, la matematica, la fisica, l’ottica etc. Ed allora, quale l’approccio più opportuno per almeno avvicinare appena quella titanica potenza cretiva intellettuale senza svilirne il senso complessivo, ma pur conservando un sufficiente rigore interpretativo e la giusta dirittura teorica? Nella consapevolezza dell’impossibilità di individuare una via regia per l’accesso al “vero” Goethe, al suo possesso, non possiamo far altro 65 Riferimenti a Soemmerring compaiono in Zur Geschichte dieser Studien, cit., a pp. 162, 164, 171 66 Ivi, p. 160. 67 Una bella pagina, circa questo aspetto, è stata scritta da E. L. Stelzig, The Romantic Subject in Autobiography, Charlottsville, 2000, p. 127, dove, sottolineando come «Goethe aveva un bisogno compulsivo di registrare le sue esperienze, di ricordare se stesso tanto quanto lasciare un ricordo della sua vita e della complessa essenza della sua proteiforme personalità», si prospetta pure una sorta di analogia tra questo impulso autobiografico-testimoniale di Goethe (la sua incessante attività produttiva ed autoproduttiva) e la teorizzazione goethiana della Bildungstrieb come «modo di autocomprensione, autoespressione ed autoformazione» della vita nel proprio approccio alla conoscenza (ivi).
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che proseguire sul sentiero fin qui tracciato, lavorare di cesello sulla concezione goethiana dell’“organico”, delle molteplici sue valenze, della sua polimorfica significazione68. A testimoniare, allora, l’ampiezza dei dibattiti e delle influenze, delle relazioni teoriche e spirituali intrattenute da Goethe coi suoi contemporanei, ecco un’espressione che non può che essere “goethiana”: la vita è «un’incessante trasformazione, che il linguaggio indica assai bene con il termine ‘Bildung’, ciò che è formato [Gebildetes] in quanto si forma [sich Bildendes]»69. Questa espressione Una bibliografia sul tema, sia pur per sommi capi, non può che essere qui accennata, oltre che frutto di una nostra personale scelta interpretativa, viste le infinite o quasi possibilità di connessione che l’“organico” in Goethe instaura con il tutto della sua produzione (e citiamo, qui di passaggio, per poi ritornarvi nel corso della ricerca, l’universo semantico-concettuale Form-Bildung-Gestalt, la nozione di ‘polarità’, quelli di ‘tipo’, di ‘morfologia’, di ‘metamorfosi’ di ‘fenomeno originario [Urphänomen], così decisimanente ripreso, e non a caso, da Cassirer, come si vedrà; ma anche quelli “tradizionali” – ripresi e arricchiti – di ‘impulso formativo [Bildungstrieb]’, di ‘Lebenskraft’ etc). Comunque, e rimandando ad una ricognizione della a tutt’oggi più completa bibliografia sul tema, F. Armine, Goethe in the History of Science: Bibliography, vol. I (1776-1949) e vol. II (1950–1990), New York-Bern, 1995, nella difficoltà che già solo il compito di assumere una linea critico-storiografica in questo mare magnum di interpretazioni e valutazioni, ci pare in primo luogo fondamentale richiamare Carl Gustav Carus, uno dei primi studiosi (e amico stimato del poeta) che si sono posti il problema del significato complessivo e sistematico della scienza della natura in Goethe (uno «studio che, nonostante la sua rapsodicità e incompletezza, ha lasciato belli ed essenziali progressi per la scienza»: C. G. Carus, Goethe: Dessen Bedeutung für unsere und die kommende Zeit, Wien, 1863, p. 67) che ha dedicato più di un opera a Goethe. Per i nostri scopi sono importanti il suo Göethe zu dessen näherem Verständniß, Leipzig, 1843 e Erfahrungsresultate aus ärztlichen Studien und ärztlichen Wirkend während eines halben Jahrhunderts, Leipzig, 1859. Non si può tacere, in questo contesto, dei due saggi scritti da Herrmann von Helmholtz all’attività scientifica di Goethe: Über Goethe’s naturwissenschaftliche Arbeiten, in «Allgemeine Monatsschrift für Wissenschaft und Literatur», 1853, e Goethes Vorahnung kommender naturwissenschaftlicher Ideen (1892), ora entrambi in W. v. Helmholtz, Vorträge und Reden, rispettivamente Bd. I, pp. 1-45 e Bd. II, pp. 335-361. Helmoltz è estremamente preciso nell’indicare nell’«analogia tra le diverse parti e l’essere organico» una delle «idee guida che Goethe lasciò alla scienza». Infatti, «gli organismi superiori mostrano una ripetizione molteplice delle singole parti». H. v. Helmoltz, Über Goethe’s naturwissenschaftliche Arbeiten, (1853), cit., p. 383. 69 C. G. Carus, Von den Naturreichen, ihrem Leben und ihrer Verwandtschaft, 68
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di Carus – quasi un vero e proprio manifesto concettuale – è del 1820, un’epoca in cui le ricerche e i risultati ottenuti da Goethe nello studio del vivente cominciano a sedimentarsi come patrimonio conoscitivo condiviso, e nello stesso tempo offrono nuove possibilità e nuovi orizzonti alla ricerca sperimentale70. In Goethe e, per così dire, nella cerchia delle discussioni goethiane, das Organische sembra da subito assumere l’aspetto e la funzione di un incrocio plurisignificante di tematiche e concetti affini, e, proprio per questo, appare come categoria universalissima in cui far convergere le idee-guida del vivente secondo Goethe. Tanto sembra opportuna questa scelta, in quanto la mobilità delle “categorie” goetheane rende legittimo, contemporaneamente, sostenere, come il vecchio Goethe fa dialogando con il Cancelliere von Müller, da lui stesso designato come esecutore testamentario e curatore del lascito letterario71, che «a lungo mi sbagliai sul semplice tipo originario [Urtypus]; nessun essere organico è del tutto corrispondente all’idea che gli sta a fondamento [zu Grunde liegt]; ognuno vi appunta l’idea somma; questa è il mio dio, questa è il dio che noi tutti eternamente cerchiamo e speriamo di contemplare; ma noi lo possiamo solo presagire, non vedere»72. L’organico fondante, l’ “idea” di organico, ciò che imprime la propria (apparentemente) indelebile, perenne forma concettuale sul tutto del “mondo”73, sembra essere in «zeitschrift für Natur- und Heilkunde», (1) 1820, pp. 1-72, qui, p. 5. 70 Se proprio deve essere fatta una periodizzazione della prevalenza delle occupazioni di Goethe, a patto che la si assuma cum granu salis e con estrema elasticità, si può allora individuare nel ventennio 1780-1800 il massimo del vigore intellettuale rivolto alle scienze naturali. Con la grossonalità di tutte le semplificazioni, si può sostenere che, dopo questo periodo, i suoi interessi “pubblicati” e pubblici si concentrano maggiormente sulla teoria dell’arte e sulla composizione narrativa e poetica. 71 L’eco di questi dialoghi è stata fissata nelle Unterhaltungen mit Goethe, pubblicato per la prima volta nel 1870 a Stuttgart(e passato quasi inosservato). Oggi l’edizione di riferimento è: Kanzler v. Müller, Unterhaltungen mit Goethe, Kritische Ausgabe, besorgt von E. Grumach, Weimar, 1956. 72 Goethes Gespräche, hrsg. von W. v. Biedermann, Bde. I-X, Leipzig, 18891896, qui vol. VII, p. 303. 73 Dell’“attributo” della costanza infinita dell’organico, sia detto qui solo preliminarmente: si vedrà che la sua motilità o la sua immobile fondatezza saranno entrambi caratteri necessari alla definizione storico-funzionale della riflessione goethiana.
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qualcosa di “vuoto” da riempire ogni volta col carattere (morfologia, tipo, forma, ecc.) di volta in volta più funzionale alla spiegazione del fenomeno preso in questione. Questa la nostra ipotesi di lavoro74. Dobbiamo leggere ora approfonditamente nelle pagine goetheane se essa è fondata dai testi in modo sufficientemente saldo. Il “dio da presagire”, il “tocco dell’assoluto” che Goethe ci fa balenare nelle sue parole, si dimostrerà uno schema conforme sì alla teleologia funzionale kantiana – e perciò in essa vi si salvaguardia la linea di continuità storiografica, concettuale e interpretativa ipotizzata – ma, d’altronde, si osserverà che con l’“organico” di Goethe (rielaborato, certo, e ulteriormente suffragato da altri fattori, nella nostra lettura, da Wilhelm von Humboldt), la potenza dell’analogia biologia-storia (come sintesi di vita storica), amplierà ancor più i luoi limiti, fino a rendere sostenibile, per le usuali modalità della categorizzazione filosofica, l’altrimenti terrificante e destabilizzante urto dell’evoluzionismo darwiniano alle porte. Nei famosi resoconti delle idee goetheane titolati Dialoghi con Eckermann75, Goethe riferisce della sua intenzione (e delle sue sensazioni in merito) di entrare in lizza nella pubblica discussione tra Cuvier e Saint-Hilaire (tanto era sentito urgente dal tedesco, «che, per essa, dimenticò di seguire gli avvenimenti della Rivoluzione di luglio»76), che 74 Non siamo, ovviamente, da soli a sostenere questa ipotesi. Tanto per cominciare, si potrebbe citare il parere di W. Hagemann, Organismus versus Zellentheorie: zur Geschichte, in aa. vv., In der Mitte zwischen Natur und Subjekt. Johann Wolfgang von Goethes Versuch, die Metamorphose der Pflanze zu erklären, (1790-1990). Sachverhalte, Gedanken, Wirkungen, hrsg. von der Senckenbergischen Naturforschenden Gesellschaft durch W. ziegler, Frankfurt a. M., 1992, pp. 111-117, secondo il quale «la dottrina della metamorfosi di Goethe era riferita all’organismo» (ivi, p. 112) e «la sua tipologia, in quanto metodo analitico dell’intelletto, era diretta alla chiarificazione della molteplicità integrale degli organismi percepibili (…)» (ivi). Senza forzare troppo – crediamo – la tensione interpretativa, anche Merleau-Ponty ci sembra associabile a chi considera il pensiero di Goethe (e in particolare il suo concetto di organico) leggibile come una “Philosophie de l’ambiguité”. 75 Per quanto riguarda le citazioni tratte da questo testo, ci rifaremo, laddove non diversamente esplicitato, alla versione presente sul sito http://gutemberg.spiegel.de, alla sezione “Goethe”; qui si fa riferimento al dialogo del 21 dicembre 1931. 76 G. Barsanti, La mappa della vita, cit., p. 52.
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si andava consolidando in tutta Europa, e che era stato acceso un anno prima del dialogo con Eckermann in questione, ossia nel 1830, dalla disputa culminata in un memorabile evento pubblico il 22 febbraio del 183077 tra i due eminenti scienziati francesi, seguita dalla pubblicazione, nel marzo successivo, della memoria di Saint-Hilaire dal titolo Principes de philosophie zoologique 78. Ecco, allora, i ricordi di Eckermann: «Alla fine di questo e all’inizio dell’anno successivo, Goethe si rivolse ancora I fatti, ricostruibili anche attraverso la stessa testimonianza di Goethe, andarono così: nell’ottobre del 1829 due ricercatori francesi, Laurencet e Meyranx, inviavano all’Accademia Francese delle Scienze i risultati di un loro studio sui cefalopodi, iniziato ben sei anni prima. Il segretario dell’Accademia, Georges Cuvier – già in rapporti non proprio idilliaci col Saint-Hilaire - tende a far slittare il più possibile la discussione pubblica della memoria. Il Collegio dell’Accademia, nel frattempo, nomina ad arbitro della discussione, tra gli altri, proprio Saint-Hilaire. Il motivo del ritardo della convocazione della seduta, si deve, secondo molti interpreti (citiamo solo il ben informato H. Le Guyader, Geoffry Saint-Hilaire. A Visionary Naturalist, Chicago, 2004), al fatto che Cuvier era pervicacemente contrario a dare spazio ad un lavoro scientifico che proponeva la continuità morfologica tra vertebrati e molluschi, essendo egli convinto dell’esistenza di “regni” separati tra le forme viventi. Comunque, la seduta viene convocata solo nel febbraio del 1830, e il rapporto arbitrale di SaintHilaire è «entusiasta» dei risultati presentati dai due ricercatori, fino al punto di imbarazzarli addirittura, nel pericolo di perdere le grazie politico-accademiche potentissime di Cuvier. Questo arbitrato di Saint-Hilaire non verrà mai stampato, ma solo letto nella seduta del 15 di febbraio; al che, Cuvier si sente in dovere di replicare con un “report” dal titolo Considération sur les Mollusques, et en particulier sur les Céphalopodes, che viene letto all’Accademia il 22 di febbraio successivo. è la seduta determinante cui Goethe fa riferimento nel saggio dal titolo, non a caso, identico a quello che Saint-Hilaire mise alla sua ricerca del 1832 (vedi nota successiva): Principes de philosophie zoologique, pubblicato, in due sezioni (rispettivamente nel settembre del 1830 e nel marzo del 1832), nello «Jahrbücher für wissenschaftliche Kritik». «Di fatto» – così commenta Hans Joachim Becker, curatore del fondamentale volume Goethes Biologie: die wissenschaftlichen und die autobiographischen Texte, Würzburg, 1999, p. 377 – «nella seconda sezione Goethe tratta la storia dei suoi studi anatomico-comparativi, come parte integrativa all’edizione franco-tedesca della Metamorfosi delle piante, pubblicata nel 1831, col titolo di Der Verfasser teilt die Geschichte seiner botanischen Studien mit». è chiara, in tutte queste testimonianze, la posizione favorevole presa da Goethe rispetto alle tesi di Saint-Hilaire; ma di ciò, meglio più avanti. 78 I. G. de Saint-Hilaire, Principes de philosophie zoologique, Paris, 1830. 77
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una volta ai suoi prediletti studi di scienze naturali, occupandosi, in parte, di incitare Boisserée a penetrare ancora più le leggi dell’arcobaleno79, e, in particolare, come partecipante alla disputa tra Cuvier e SaintHilaire, avente per oggetto la metamorfosi delle piante e quella del mondo animale»80. Il vecchio Goethe, nelle parole di Eckermann, recupera, al crepuscolo della sua vita, l’energia potente per non solo ricordare, non solo per testimoniare i suoi più datati interessi scientifici, ma per provare ad incidere ancora, ancora di più, con nuove idee, nuove ricerche, nuove esperienze al progredire delle conoscenze, quel sapere che, solo, spinto all’estremo è in grado costituire il «riempimento del nostro essere», ossia nel fare in modo che la vita che si metamorfizza per poter continuare a vivere, in continuo movimento, «questa insufficienza (…) divenga evento [Ereignis]»81. Non si tratta di nostalgiche rimembranze, ma di attivi interessamenti alla questione che in Francia veniva dibattuta con foga sulla distanza tra chi, come Cuvier, «lavora come separatore [Unterscheidender]» e chi come Saint-Hilaire «si adopera a favore delle analogie delle creature viventi e delle loro misteriose affinità»82. Prendendo chiaramente partito per la seconda posizione, ossia per Saint-Hilaire, Goethe prosegue prima riassumendo i lineamenti
Sulpiz Boisserée, tedesco di Colonia, nonostante il nome, collezionista e storico dell’arte, autore di un libro dal titolo Geschichte und Beschreibung des Domes von Köln, Stuttgart, 1823, ritenuto come uno dei primi specifici esempi di studio sulla storia dell’arte architettonica, e, anch’egli, intenso corrispondente epistolario di Goethe (cfr. S. Boisserée, Briefwechsel mit Goethe, Stuttgart, 1862). Nel caso specifico, Goethe fa riferimento ad una serie di esperimenti che Boisserée confida a Goethe di voler compiere, sulla luce delle vetrate della Cattedrale di Colonia, e che rimandavano allo studio dello spettro cromatico dell’arcobaleno (cfr. S. Boisserée, Briefwechsel mit Goethe, cit., pp. 582-588). 80 Gespräche mit Goethe (21 dicembre 1831) sito http://gutemberg.spiegel.de, sez. Goethe. 81 C. F. von Weizsäcker, Einige Begriffe aus Goethes Naturwissenschaft, in GW, Bd., XIV, cit., p. 584. La potente vena descrittiva, unita alla precisione metodica fanno di questa Nachwort del grande fisico-filosofo di Kiel una vera e propria silloge dei fondamenti filosofici della scienza goethiana. Il saggio, un classico della letteratura su Goethe, compare inedito alle pp. 539-555 del volume XIV dell’edizione delle opere complete di Goethe che stiamo qui utilizzando. 82 J. W. Goethe, Principes de philosophie zoologique, in GW, Bd. XIV, cit., p. 220. 79
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– anche storici83 – della controversia, poi, provando a pensare una soluzione ragionevolmente equanime e produttiva, funzionale alla prosecuzione, in spirito di collaborazione, degli studi sul vivente: «Da parte nostra si potrebbe certo dire, in questa occasione, che separare [S o n d e r n ] e unire [Ve r k n ü p f e n ] sono due inscindibili atti di vita [Lebensatke]. Forse, detto meglio: è indispensabile, lo si voglia o meno, andare dal tutto al singolo e dal singolo al tutto e più si tengono insieme queste funzioni dello spirito [Funktionen des Geistes], in modo vitale, come l’espirare e l’inspirare, tanto meglio si avrà cura della scienza e dei suoi amici»84. La vita organizzata, l’individuo vivente, pensato sul piano filosofico, hanno il loro significato più profondo di fondamento della natura nella misura in cui non li si intenda come costrutto sostanziale, perché, essi sono, di fatto, la Natura stessa nel suo contrarsi fenomenico. L’organismo è atto organizzato in vista di un fine, non sostrato metafisico, ed ogni sforzo di darne un quadro simile non può che fallire sia sul piano concettuale che su quello propriamente esistentivo. Poiché «alla natura c’è da portare eterno rispetto ed è eternamente conoscibile fino a un certo punto»85, questa consapevolezza porta irresistibilmente a considerarla nella sua unità dinamica, attiva e vivente motilità, ed è in questo senso che «assumiamo perciò senza’altro a nostro scopo la funzione [F u n k t i o n ]»86. Questa, «compresa nel modo giusto, è l’esistenza pensata nell’attività [das Dasein in Tätigkeit gedacht]»87, il darsi – l’unico possibile darsi – del superamento della «frattura tra idea ed esperienza»88, quell’anello di congiunzione sia intellettuale che “carnale” che «tramite un qualsiasi organo corporeo agisce su una determinata materia» in modo tale che «il lavoro ottenga la sua esistenza [Dasein], la sua realtà effettiva [Wirklichkeit]»89. Il lavoro, ‘die Arbeit’, 83 Ivi, pp. 220-232. Goethe richiama anche i nomi e le esperienze di Buffon, Kielmeyer, Soemmerring e altri importanti (anche se meno noti) ricercatori dell’epoca. 84 Ivi, p. 233. 85 Ivi, p. 241. 86 Ibid. 87 Ibid. Questa espressione, così pregna di fondamentali suggestioni, è ripresa nell’identica forma anche da J. W. Goethe, Maximen und Reflexionen, GW, Bd. XII, cit., p. 371. 88 R. Pettoello, Il Satin e la garde-robe. Divagazioni goethiane, in «Materiali di Estetica», (3) 2000, pp. 149-160, qui p. 153. 89 J. W. Goethe, Eileitung in die Propyläen, in Id., Schriften zur Kunst, GW,
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dice Goethe riferendosi nei suoi scritti sulla creazione estetica, alla produzione dell’opera d’arte, in analogia al modo proprio in cui poter concepire l’incidenza relazionale del materiale non organico sulla materia viva; ‘lavoro’, dice Goethe, per definire quel modo di attuazione mediante il quale il corpo si “idealizza” e lo spirito si “incorpora”, dando origine all’“opera”90. Anche qui, allora, come in Kant, vien di fatto da pensare che per poter convenientemente esprimere il carattere complessivo del problema dell’organismo vivente, senza peraltro farne perdere di valore sia scientifico che epistemologico, Goethe debba necessariamente far ricorso all’analogia con l’opera d’arte, abbia, costretto dall’indicibilità della “cosa stessa”, a determinare e a ideare un’analogia di un’analogia: rendere trasmissibile e comprensibile (attraverso l’analogia creazione estetica=creazione e produzione naturale) il contenuto “analogico” stesso che si esplica e si distende de re nel regno dell’organico91. ‘Urtypus’ è quella forma originaria inapplicabile se intesa come struttura fissa a rigida determinazione causale, ma inevitabile se intesa quale condizione di possibilità della vita organizzata, e vita essa stessa. La sua concettualiatà è infatti già nella sua determinazione un alcunché di difficilmente compatibile con le usuali rappresentazioni cui si è soliti ragionare in termini di fondamento della realtà. «Nessun fenomeno» – neppure quello originario, sosteniamo noi – «si spiega da e per se stesso; solo molti fenomeni, osservati insieme e ordinati metodicamente, possono dare in ultima analisi qualcosa che conti per la Bd. XII, cit. p. 47. 90 è nota l’importanza attribuita da Cassirer al concetto di ‘opera’, sia nella sua configurazione funzionale, sia nella sua ricostruzione storico-genealogica. Si veda, con un solo esempio, E. Cassirer, Über Basisphänomäne, in Id., Zur Metaphysik der symbolischen Formen, in Nachgelassene Manuskripte und Texte, cit., Bd. I, pp. 155-156. 91 Del resto, come ci informa il manualistico ma prezioso e assai accurato I. Jahn, R. Löther, K. Senglaub, Geschichte der Biologie. Theorien, Methoden, Institutionen und Kurzbiographie, cit., pp. 301-303, Saint-Hilaire mise a punto una vera e propria «teoria dell’analogia che stava a significare che organi uguali avevano luogo in siti identici, e che nei singoli generi animali, da materiali uguali (elementi costitutivi identici), secondo fini diversi, sarebbero poi variati e trasformati in maniere molteplici. Qui – prosegue il manuale – egli seguiva un’idea simile a quella del Goethe alla ricerca della “pianta originaria” [“Urpflanze”] e dell’“animale originario” [“Urtier”] nella formulazione della dottrina della metamorfosi (1790) e della scoperta dell’osso intermascellare nel cranio umano».
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teoria»92. In questo quadro – se è ammissibile una ferma e decisa opposizione di Goethe ad ogni forma di monismo fondativo, ad una Sostanza Ontologica Unica (e di ciò fa fede l’utilizzo praticamente esclusivo del plurale, «Urphänomene», quando messi in gioco e richiamati nei suoi scritti a fini concettuali93) – ciò che può rendere accessibile all’intelletto, meglio di ogni altra espressione, questa analogia dell’analogia che qui si ipotizza, non v’è nulla di meglio che la resa in immagine del corpo umano e della sua organizzazione. Se «ogni cosa che esiste è un analogo [Analogon] di tutto l’esistente»94, se l’«analogia», intesa in questo senso supremo, «ha due traviamenti da temere: sciupare l’arguzia [Witz] lì dove scorre per nulla; l’altro di avvilupparsi in tropi ed uguaglianze, che però è meno nocivo»95, ecco che l’oramai prossimo alla morte Goethe, scrivendo assai significativamente a Wilhelm von Humboldt, sostiene che «gli antichi dicevano che gli animali vengono istruiti attraverso i loro organi; io aggiungo: per gli uomini è la stessa cosa, però, di contro, essi hanno il vantaggio di istruire di nuovo i loro organi»96. Ciò accade perché «per ogni azione, per ogni talento viene richiesto un alcunché di congenito [Angebornes] che agisce da se stesso e che porta con sé le occorrenti disposizioni ignote; precisamente anche per questo esso continua ad agire come se abbia in sé la stessa regola che può svolgersi con un fine ultimo e senza uno scopo»97. Facciamo notare, per inciso, la forte intonazione kantiana presente in queste righe, intonazione, del resto, molto ben appoggiata sullo Humboldt che, come si vedrà, esprime forse in modo anche più sensibile di Goethe il significato e l’impronta kantiana nella sua riflessione sul carattere vivente della storicità. Ma Goethe prosegue nella sua analisi di questo InnatoInconscio che tende a marcare, in quanto disposizione (kantianamente «Anlage»), la differenziazione tra il vivente-uomo e il resto del vivente. J. W. Goethe, Maximen und Reflexionen, GW, Bd. XII, cit., p. 434. Ad esempio, le massime 15, 16, e 17 in ivi, pp. 366-367. Quando invece Goethe intende riferirsi a un fenomeno originario, lo fa sempre indirizzandolo ad una specifica partizione dell’ente e/o delle singole discipline scientifiche; si veda, come paradigma, la massima 19 (ivi, p. 367) che tratta del «fenomeno originario magnete». 94 Ivi, p. 368. 95 Ibid. 96 Goethe an W. von Humboldt (17 marzo 1832), in Goethes schönste Briefe, Leipzig, 1953, p. 107. 97 Ibid. 92
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«Prima l’uomo si accorge – così Goethe – che c’è un mestiere [Handwerk], che c’è un’arte [Kunst] che lo soccorre all’elevamento regolato delle sue disposizioni naturali, più egli è fortunato; ciò che egli riceve dall’esterno non nuoce alla sua congenita individualità»98. Anzi, proprio perché l’individuo è in sé molteplice attrazione e repulsione di vita, è poco sensata una distinzione tra corpo e mente, interno e esterno, organo e funzione: «Il miglior genio è quello che accoglie tutto in sé, che sa di tutto appropriarsi senza che l’autentica determinazione fondamentale – quella che si chiama carattere – rechi il minimo danno, e anzi tale che si elevi solo nel modo giusto e, mediante ciò, si abiliti secondo possibilità. Qui soltanto sopraggiungono i molteplici rapporti tra coscio e incoscio; si pensi ad un talento musicale che deve predisporre99 una partitura significativa: coscienza ed assenza di coscienza si rapporteranno come ordito e risvolto, un paragone che utilizzo volentieri»100. Ed ecco, proprio quando si tratta di far comprendere ancor meglio all’amico questa relazione tra disposizioni conscie e misteriosa, innominabile capacità creatrice dell’uomo, non bastandogli, evidentemente, la metafora del tessuto, Goethe richiama la “struttura operativa totale” dell’uomo, quel “luogo del’anima” dove si giocano i destini dell’organizzazione mirata a un fine: «Gli organi dell’uomo, attraverso l’esercizio, la teoria, la Ivi, pp. 107-108. Il tema dell’individualità in Humboldt (e di converso, anche in Goethe, in quanto trattasi di un’individuale sorgente da una polarità) è svolto da S. Caianiello, La “duplice natura” dell’uomo. La polarità come matrice del mondo storico in Humboldt e in Droysen, Soveria Mannelli, 1999. Anche con Wilhelm von Humboldt – come finora metodologicamente fatto – si appronteranno a tempo dovuto gli opportuni richiami bibiliografici volta per volta, secondo il succedersi delle tematiche appellate in gioco. Ciò non toglie che una nota critica generale verrà apposta quando – fra non molto – si passerà più da vicino ad occuparsene. 99 è nota – ed anche un pò curiosa – l’idiosincrasia, quasi l’odio, di Goethe per il termine ‘composizione’: si confronti, ad esempio, il colloquio con Eckermann datato 20 giugno 1831 (tr. it. cit. vol. II, p. 338), dove Goethe dice che ‘composizione’ (intendendo il termine ‘Komposition’) è «una parola abietta (…) che noi dobbiamo ai Francesi, e dalla quiale dovremmo cercare di liberarci al più presto. Come si può dire che Mozart ha composto [komponiert] il Don Giovanni! – Composizione! – come se si trattasse di un pasticcio o di un biscotto, che risulta di uova, di farina e di zucchero. Esso è una creazione spirituale: le singole parti come il tutto sono compenetrate da un solo spirito e da un solo impeto, dal soffio di una sola vita». 100 Goethe an W. von Humboldt, in Goethes schönste Briefe, cit., p. 108. 98
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riflessione, la buona e la cattiva riuscita, l’incoraggiamento e il contrasto, connettono senza coscienza l’acquisito e il congenito in una libera attività, in modo da produrre un’unità che stupisce il mondo»101. Gli organi sono l’organizzazione. La funzione mediante cui l’opera (e, si faccia caso che qui non ci si limita all’opera d’arte, al valore “semplicemente” estetico delle creazioni umane) viene al mondo è il carattere d’essere – per così dire – della vita. Vivere è attività creatrice organizzata, e creare è dare-forma, bildenden Kunst. L’organicoorganizzato – non è dato sapere con esattezza da quale fonte, certo mediante un libero cooperare di materia bruta e forma, di disposizione inconscia e di consapevole attuazione – “funziona” naturalmente all’autoriproduzione, alla crescita e alla produzione dell’altro-da-sé. L’organismo, se è realmente tale, produce e crea insieme il suo simile e il suo dissimile, poiché, se è vero che «quei corpi che noi chiamiamo organici hanno la proprietà, in sé o a partire da sé, di produrre il suo simile», e «ciò conappartiene al [gehört mit zu] concetto di essere organico [organischen Wesens], e noi non possiamo darne alcun altro conto»102; se è giusto sostenere che «il nuovo [essere] è all’inizio sempre una parte del vecchio, ed in questo senso deriva da questi», è altrettanto vero che «tuttavia il nuovo simile non si può sviluppare dal vecchio senza che il vecchio non assuma dall’esterno un certo nutrimento in modo da giungere a un tipo di perfezione»103. Mirabile e misteriosa attività, l’organizzazione organica non si sviluppa per derivazione strutturale, come un’aggiunta graduale di “pezzi” d’organo l’uno sull’altro, per addizione geometrica di strati materiali e funzionali. Né, dall’altro versante, l’organismo si può intendere come fluente e informe 101
Ibid. J. W. Goethe, Betrachtung über Morphologie, in GW, Bd. XII, cit., p. 121. Il frammento in questione, contenuto nella nostra edizione di riferimento sotto la sezione denominata Morphologie, ivi, pp. 53-250, viene composto – così come da indicazione del curatore (ivi, p. 585 e sg.), «certamente dopo il 1794», e riguarda «non solo l’osservazione delle piante, ma si riferisce anche ai corpi naturali e alla loro trattazione secondo diversi livelli di conoscenza scientificonaturale». Il curatore aggiunge poi, opportunamente, che «qui, diversamente che nell’uso odierno, per fisiologia Goethe intende (in quanto osservazione di processi vitali, decorsi funzionali e modalità d’azione degli organismi, analizzati e ricondotti a cause fisiche e chimiche) una teoria generale della vita sulla base di una forza vivente spirituale [geistigen Lebens-Krafts]» (ivi). 103 J. W. Goethe, Betrachtung über Morphologie, cit., p. 121. 102
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trasformazione, quasi una magica operazione a distanza, in cui le parti e il tutto si chiamano e si richiamano solo esotericamente, sregolatamente, eccentricamente, casualmente. No. L’organismo – il fungere vivente – è costitutivamente diaframmatico, sistodiastolico, assorbente e producente, affamato e generoso, egoista e premuroso. E lì, dove l’organismo raggiunge la sommità estrema delle sue possibilità, lì dove si coniugano l’istinto animale, la struttura fossile e la ragione all’opera, lì nell’uomo deve accadere un’attenzione e un’affilata cura, perché egli «è il supremo, l’oggetto proprio dell’arte formativa! Per intenderlo, per disavvilupparsi [herauszuwickeln] dal labirinto della sua costituzione, è indispensabile una cognizione universale della natura organica»104. «La forma umana [menschliche Gestalt] non può essere semplicemente compresa tramite l’osservazione della sua superficie; si deve mettere a nudo il suo interno, selezionare le sue parti e annotarne le connessioni, riconoscere le diversità, informarsi degli effetti e dei controeffetti, e, se effettivamente lo si vuole osservare e imitare, imprimersi il velato, statico fondamento della manifestazione, ciò che si muove di fronte al nostro sguardo in quanto bello, inseparabile intero nelle onde viventi [lebendigen Wellen]»105. Una “Critica della ragione organica”, quasi una “zoografia” J. W. Goethe, Eileitung in die Propyläen, cit., p. 43. Ibid. Assai puntuale, su questo punto, ci pare il contributo di P. Hunemann, Naturalising Purpose: From comparative anatomy to the ‘adventure of reason’, in «Studies of History and Philosophy of Biological and Biomedical Sciences», (37) 2006, pp. 649–674. Il saggio in questione, pur non avendo Goethe come punto focale, è però assolutamente centrale nella nostra attuale discussione. Si tratta, per Hunemann, di vedere come «l’anatomia comparata di Cuvier, che sul piano storico è esplicitamente legata all’idea di organismo di Kant, dava un’istantanea dei ‘princìpi regolativi del giudizio teleologico’ appropriata alla scienza delle cose viventi [living things], nella forma dei princìpi di fondo che userebbero zoologi e paleontologi» (ivi, p. 658). Questo parere, assai discordante dal nostro (non fosse per altro che per la ricostruzione dei rapporti tra Goethe, Cuvier e Saint’Hilaire appena proposta), va però accolto come spunto importante perché, al di là della differenza di posizioni, testimonia la centralità di Kant, del Kant della terza Critica e delle sue «sezioni cruciali» (ivi, p. 656) relative al concetto di organismo, per l’esistenza stessa del dibattito tedesco sui fondamenti filosofici della scienza biologica. Del resto, lo stesso autore, con esplicito riferimento critico a Lenoir e ad altri interpreti, anche da noi incontrati (ivi, pp. 653 e sgg.), ha cura di attribuire a «Goethe, Schelling e più tardi Saint’Hilaire un’altra interpretazione del giudizio regolativo [kantiano]» (ivi, p. 661). Ed a proposito della tendenza – tipicamente tedesca – di attribuire 104
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dell’umano106 (e dunque, forse, proprio una bio-grafia): ecco la “disciplina” che Goethe prospetta ed auspica al fine di avvicinare, mediante l’uomo e per fine l’uomo, la comprensione della funzione (che è la natura stessa) dell’Organische. è vero, la possibilità stessa di questa scienza del vivente, a partire dalla sua funzione, è resa quasi disperata per una difficoltà apparentemente insuperabile: «Un essere organico [organisches Wesen] è così multilaterale nel suo esterno, così molteplice ed inesauribile al suo interno, che non è possibile scegliere sufficienti punti di osservazione, non è possibile formare sufficienti organi, al fine di separarli, senza ucciderlo»107. Se c’è morte non c’è vita, e se manca la a se stessi delle primogeniture specifiche circa i problemi inerenti la vita e la sua dinamicità, si veda quanto scrive R. von Engelhardt (in verità, con qualche eccesso nazionalistico, tale da rendercelo abbastanza sospetto, visto anche il clima e la temperie dell’epoca): «Noi tedeschi siamo hegeliani anche se non ci fosse mai stato uno Hegel, in quanto (al contrario di tutti i latini) attribuiamo al divenire lo sviluppo infinitivo di un senso più profondo e di un valore più ricco». R. von Engelhardt, Organische Kultur, München, 1925, p. 106. Il libro di Engelhardt, peraltro, si fa apprezzare, nonostante pericolosi avvicinamenti, per la precisa indicazione di Kant quale presupposto teorico di un tipo di filosofia culturale tedesca, intessuto di tensioni e impulsi viventi, per il senso del tragico (ivi, p. 107), per l’osservazione partecipe del processo naturale. La “colpa” più pesante di libri come questi, sta però certamente nel fatto di essere serviti – consapevolmente o meno – ad altre pubblicazioni, come ad esempio quella di P. Krannhals, Das organische Weltbild: Grundlagen einer neuentstehenden Deutschen Kultur, Bände I-II, München, 1936², ben più che compromesse col nazismo. Si veda, su ciò, il recente lavoro di K. Poewe, New religions and the Nazis, New York, 2006. Per il significato, infine, del lavoro scientifico ed epistemologico di Cuvier, cfr. D. Guillo, La sociologie d’inspiration biologique au XIXe siecle: una science de l’ “organisation” sociale, cit., pp. 251 e sgg. 106 Di ‘zoonomia’ parla Goethe in Betrachtung über Morphologie, cit., p. 126, sostenendo che «non c’è nulla di più naturale di provare ad esporre una zoonomia, le cui leggi si occupino di ricercare secondo che cosa [wornach] una natura organica è determinata a vivere». 107 J. W. Goethe, Inwiefern die Idee: Schönheit sei Vollkommenheit mit Freiheit, auf organische Naturen angewendet werden können, in GW, Bd. XIII, cit., p. 21. Esiste una traduzione italiana di questo breve saggio (da cui, salvo diversa indicazione, non trarremo le nostre citazioni) dal titolo In qual misura l’idea che la bellezza è perfezione nella libertà, può essere applicata a nature organiche, in J. W. Goethe, Teoria della natura, raccolta di testi e traduzione di M. Montinari, Torino, 1958, pp. 45-48. Il saggio, pubblicato per la prima volta postumo soltanto nel numero 14/15 dello «Jahrbuch der Goethe Gesellschaft», 1952/53, fu
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vita manca la funzione; ma se una cosa “non funziona”, osservarla sul piano scientifico non ha alcun senso. Eppure, nonostante questo divieto assoluto, Goethe afferma: «Io provo ad applicare alle nature organiche l’idea che la bellezza è la perfezione con la libertà»108. Con la determinazione di una finalità estetica, il Goethe del 1794 – e dunque non ancora lettore espertissimo del Kant del giudizio teleologico e della finalità naturale – provava ad individuare una via d’accesso al problema dell’organico, della sua attività inesauribile, della sua prolificità. Sappiamo – e ancora vedremo – che questa soluzione non verrà mai del tutto rigettata dal vecchio Goethe109, ma sarà accompagnata da altre idee fondamentali. è però importante vedere come già qui si pone la questione della necessità di esprimere il mistero della natura organizzata non mediante una ricerca fondata sulle ricognizioni delle varie dottrine (epigenetismo, preformismo, “evoluzionismo” in genere, creazionismo), incapaci di penetrare, complessivamente intese, le dinamiche effettive attraverso cui la materia dura e bruta si fa vita elastica e palpitante. Ma era importante sottolineare questo momento in cui viene alla parola la libertà come aspetto decisivo riguardante l’attività dell’organismo. Riprenderemo fra non molto questa fondamentale piega del ragionamento; dobbiamo qui ancora sostare sulla centralità del concetto di ‘organico’ così come inteso da Goethe, e mostrare come in esso vengono a convogliarsi le tematiche essenziali della biologia goethiana. Se, come detto, la vita è innanzitutto prodotto di un’attiva arte formativa, è d’obbligo, per l’interprete, confrontarsi con il vero e proprio “manifesto” del pensiero di Goethe: la sua morfologia. Vedere l’“a-che” della forma; osservare la significazione puntualmente funzionale di inviato da Goethe a Schiller il 30 agosto del 1794, e ritrovato nel Nachlass di quest’ultimo da Gunther Schulz nel 1953. 108 Ibid; tr. it., p. 45. 109 Si vedano, per esempio, alcune celebri massime: «Il bello è una manifestazione [Manifestation] di leggi segrete di natura che ci rimarrebbe eternamente nascosta senza il suo farsi fenomeno [Erscheinung]»; «Arte: un’altra natura, certo misteriosissima, ma più comprensibile; infatti essa sorge dall’intelletto»; «Lì dove il particolare rappresenta l’universale non come sogno o ombra, ma come rivelazione vivente nell’attimo [lebendig-augenblickliche Offenbarung], lì c’è il vero simbolico»; «Non conosciamo alcun mondo se non nel riferimento all’uomo; non vogliamo alcuna arte che sia uno stampo di questo riferimento». J. W. Goethe, Maximen und Reflexionen, cit., p. 467, 471, nell’ordine le massime n. 719, 722, 752, 725.
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questa riflessione sulla forma del vivente; chiedere al grande tedesco di sciogliere di fronte ai nostri occhi le seducenti, costanti immagini del suo discorrere di forma e vita, nel mare magnum del suo infinito ingegno; aspirare a dare un quadro il più possibile ampio ed integrato della straordinaria potenza e acutezza delle riflessioni goethiane; provare a definire tutto ciò sarà utile e funzionale all’ultimo momento della nostra frequentazione con Goethe: il tratto che potremmo istituire come descrizione e analisi della vera e propria analogia tra storia e vita, tra interrogazione scientifico-naturale e riflessione sulla storicità, sul senso di questa storicità, pensabile solo come finalità organizzata dell’umanità110. Questa storia è la storia mescolata e mescolante, in cui la vita, proprio perché processo, non si struttura in una fissità mortuaria. Questa storia è la dimora dell’uomo, dove «legge e caso si intrecciano l’un l’altro»111, e lì, dove sembra non esserci una traccia, un segnale, un’indicazione della ragione, lì «c’è l’incalcolabile, l’incommensurabile della storia universale [Weltgeschichte]»112. Del resto, cos’è la morfologia se non un altro modo di dire la storicità? Cosa rappresenta questo dare-forma (e il discorso su questo atto supremo di creazione-produzione), se non un’interpellanza di fronte all’accadere, una convocazione di fronte e nel divenire temporale, unico medium in cui può darsi l’autotrasformazione dell’organico vivente? La morfo-logia è, a un tempo, il dire lo sviluppo nel tempo e lo sviluppo stesso, la dicente espressività sul divenire e il divenire stesso che si distende come forma sempre cangiante, perdendo il suo passato equilibrio, acquisendone uno presente per raggiungere la stabilità futura, che poi a sua volta sarà il passato di una nuova disposizione figurale, e così via113. Senza naturalmente dimenticare che questo passaggio si renderà più chiaro e più coerente, nella misura in cui, in questo scenario e in questa disposizione teorica, la figura di Wilhelm von Humboldt rappresenta l’importantissima sponda interpretativa che qui si presenta. 111 J. W. Goethe, Materialien zur Geschichte der Farbenlehre, in Die Schriften zur Naturwissenschaften (2), GW, cit., Bd. XIV, p. 49. 112 Ibid. 113 Sarebbe assai utile e istruttivo, in siffatto contesto, andare a confrontare questa idea di sviluppo – che noi attribuiremmo senza eccessive esitazioni a Goethe – con la concettualità dispiegata da Hegel nella Phänomenologie des Geistes. In altri termini, si potrebbe aprire un filone estremamente interessante non appena si intraveda la possibilità di una “morfologia idealistica” e se, e in che misura, essa possa essere confrontata con quella goethiana. L’espressione 110
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«I. Tutto ciò che nasce [Alles Entstehen], tutto ciò che si forma da sé in questione – ce lo dice Cassirer in Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, Bd. IV (Von Hegels Tod bis zur Gegenwart – 1832/1932), in ECW, cit., Bd. V, Hamburg, 2000, pp. 159-173 – è «stata coniata da Emanuel Rádl nella sua “Geschichte del biologischen Theorien” (2 Bde., Leipzig 1905/1909)» (ivi, p. 168, n. 57), ma viene «chiaramente esposta» in un altro lavoro, quello di A. Naef, Idealistiche Morphologie und Phylogenetik (Zur Methodik der systematischen Morphologie, Jena, 1919). Il problema, evidentemente, è quello di mostrare quali e quante differenze sussistano – se sussistono – tra la morfologia goethiana e la dialettica triadica. Ora, è chiaro che per battere convenientemente questa traccia non può essere sufficiente interrogarsi sulle determinazioni più note della dinamica dialettica hegeliana: ad un primo sguardo, infatti – e senza entrare qui in particolare – le due dimensioni concettuali non sembrano essere troppo distanti. Il fatto è, però, che se si vuole intendere correttamente questo confronto, non ci si può limitare all’opera del 1807, perché la questione della “vita biologica”, in quanto filosofia della natura, qui non è affrontata se non incidentalmente. Allora compito di tale ricerca sarebbe quello di avanzare sospetti seri già solo sulla identificazione che Michelet fa degli intenti di Goethe e di Hegel, sotto la rubricazione di una unitaria “fisica speculativa” (cfr. l’Avvertenza a G. W. F. Hegel, Filosofia della natura, a cura di V. Verra, Torino, 2002, in particolare, pp. 65-66). Inoltre, se si leggono le pagine hegeliane – sia pur sommessamente come noi ora stiamo facendo, e consapevoli che le Aggiunte presenti in questo prezioso testo, prima fonte che toccheremo, non possono rappresentare un discrimine assoluto per un’analisi esaustiva – è difficile recuperare quel gusto tutto empirico del particolare e della fenomenizzantesi motilità dell’organico goethiane: «L’organico è l’effettivamente reale – dice Hegel – che si conserva e percorre il processo in se stesso; è a sé il suo universale, che si scinde nelle sue parti che si superano, in quanto producono il tutto (…); l’organico si scinde quindi in due estremi universali, la natura inorganica e il genere, di cui esso è il medio (U-S-P) e con ciascuno dei quali qui è ancora immediatamente uno (Eins), a sua volta genere e natura inorganica. L’individuo ha qui la sua natura inorganica in se stesso, e si nutre di se stesso, in quanto consuma se stesso come la sua propria inorganicità». G. W. F. Hegel, Filosofia della natura, cit., p. 393. Sembra in effetti che quanto meno le immagini concettuali della concrescenza su se steesso dell’organismo vivente siano assimilabili in Goethe e in Hegel; e meglio ancora più avanti (ivi, pp. 395-396): «L’organico comincia con la singolarità e si innalza al genere (Gattung). Questo decorso è però immediatamente anche l’opposto: il genere semplice scade a singolarità, poiché il completamento dell’individuo come genere attraverso il suo venir superato è altrettanto il divenire della singolarità immediata del figlio (…). Mentre l’organismo geologico è il semplice sistema del configurare senza idealità, questa interviene ora con la soggettività della vita delle piante. Come
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[alles sich Binden] lo è per essenza come prodursi [Hervorgehen] di un determinato [Bestimmten] a partire da un’indeterminato determinabile l’idealità presente in tutte le sue membra, la vita è però essenzialmente il vivente; e il vivente viene puramente stimolato dall’esterno (…). Se queste categorie hanno poi tuttavia ancora da essere adoperate, deve esserne rovesciata la natura; e allora si può dire che il vivente è la causa di se stesso». Ora però, la produttiva intuizione hegeliana (di inclinazione – questa sì – esplicitamente “goethestoricista”) che la “vita” altri non è che il vivente, l’individuo che si pone insieme come prodotto e processo irripetibile, viene vieppiù ridimensionata quando, qualche pagina prima, Hegel sostiene che il «concetto ha il materiale per il suo lavoro qui dove i momenti dell’organico sono presenti nella loro totalità; non si può parlare di una vita universale della natura, per cui la natura sia dovunque vivente, ma dell’essenza della vita: essa va compresa concettualmente, va esposta nei momenti della sua realtà, e questi momentiu vanno mostrati» (ivi, p. 386, corsivi nostri). Ben sapendo di stare operando per enormi faglie e separazioni, ci pare sostanzialmente altro l’interesse di Hegel, il fine determinante della sua esposizione del significato dell’organico. In fondo, l’esperienza che la coscienza fa di se stessa è già tutta compresa nel concetto, origine e termine di ogni dinamicità. L’organismo individuale, in questo caso, è solo, appunto, un caso dell’andare e del divenire del concetto a se stesso. A ogni momento, a ogni curva, a ogni incrocio del suo andare e divenire, l’individuo – è vero – si arrichisce e si articola e definisce sempre più chiaramente, ma lo fa e può farlo solo nella misura in cui è già da sempre “destinato” ad essere, ad essere parte del tutto, se si vuole, ma certo ad essere. Non è concesso il non-essere-altro come estrema “scelta” dell’individualità non dialettizzata, non è ammessa altra determinazione che la confluenza necessaria delle storie degli individui nell’alveo universale e onnicomprendente del compimento del concetto. In ogni caso, val qui quanto già detto: non è opportuno far qui un’approfondita analisi delle affinità e delle differenze tra Goethe e Hegel, troppo intrigante e troppo fuori dai nostri confini. Rimandiamo, per opportuni riferimenti, a: W. Bonsiepen, Die Begründung einer Naturphilosophie bei Kant, Schelling, Fries und Hegel, cit., pp. 445-541; T. Kalenberg, Die Befreiung der Natur: Natur und Selbsbewusstsein in der Philosophie Hegels, Hamburg, 1997, pp. 204-350; O. Breidbach, Das Organische in Hegels Denken, Würzburg, 1982, pp. 134-185; Id., Überlegungen zur Typik des Organischen in Hegels Denken, in aa. vv., Logik, Mathematik und Naturphilosophie im objektiven Idealismus, hrsg. v. V. Hösle-W. Neuser, Würzburg, 2003, pp. 207-227; V. Verra, Introduzione a G. W. F. Hegel, Filosofia della natura, cit., pp. 9-49; Id. Dialettica comtro metamorfosi, in Letture hegeliane, Bologna, 1992, pp. 99-112; P. G. Milanesi, L’albero, il bruco e la farfalla. Sulla metamorfosi dei sistemi (da Goethe a Marx), Roma, 2002, pp. 25-109; A. De Cieri, Filosofia e pensiero biologico in Hegel, Napoli, 2002.
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[Umbestimmten Bestimmbaren]. II. Tutto ciò che trascorre, tutto ciò che regredisce è un risolversi di un determinato in un indeterminato che fin da subito ridiventa capace di una nuova determinazione»114. è quanto scrive il già incontrato Carl Gustav Carus nella “rivista” di riferimento degli studi goethiani e di studiosi di interessi goethiani115. Ed è proprio nello spirito che queste espressioni racchiudono che crediamo valga la pena di scandagliare nelle pagine di Goethe, perché è in questa direzione che sarà necessario andare per aprire la via alla storia. E dunque, ciò che è opportuno mettere in rilievo nelle parole di Carus – parole che potrebbero stare benissimo in bocca a Goethe – è che la trasformazione dell’organismo, il processo mediante il quale una forma trascolora in un’altra, è sempre una. è trasformazione una che tocca un singolo organismo. Nel 1794, in una famosa lettera, Schiller scrive a Goethe: «Lei coglie la natura intera tutta insieme per fare luce sul singolo [Einzelne]; nella totalità di tutti i suoi modi di manifestazione, lei cerca la ragione per spiegare l’individuo (…). Una grande e davvero coraggiosa idea che mostra a sufficienza quanto il suo spirito tenga stretto il tutto, ricco della sua rappresentazione, in una bella unità»116. C. G. Carus, Grundzüge allgemeiner Naturbetrachtung, in «zur Morphologie», 1823, Bd. II, pp. 84-95, qui p. 84. 114
è probabile che non sia proprio corretto – né filologicamente né concettualmente – definire ‘rivista’ la serie di pubblicazioni che dal 1817 al 1824 accolsero molti scritti di Goethe, alcuni mai più in seguito ripubblicati, e di molti altri studiosi, fra i quali, appunto Carus. Certamente, il fatto che i Grundzüge di quest’ultimo fossero presentati nella cornice editoriale che Goethe aveva cominciato a immaginare già dal 1806, lascia facilmente immaginare la considerazione in cui Goethe aveva lo scritto (e lo studioso) in questione. 116 Schiller an Goethe (23.08.1794), in Briefwechsel zwischen Schiller und Goethe in den Jahren 1794 bis 1805, Bd. I (Erster Theil vom Jahre 1794-1795), Stuttgart-Tübingen, 1828, p. 14. Una traduzione italiana della lettera è in Goethe-Schiller. Carteggio, a cura di A. Santangelo, Torino, 1946, pp. 30-32, e una traduzione parziale della corrispondenza tra Schiller e Goethe è in J. W Goethe – F. Schiller, Carteggio, a cura di A. Santangelo, Torino, 1946, in part., pp. 46 e sgg. Su questa lettera e sul suo contenuto molto è stato scritto. Qui, per questa specifica valutazione del Goethe-pensiero scientifico, rimandiamo solo a G. F. Frigo, Scienza e filosofia della natura in Goethe, in aa. vv., Arte, scienza e natura in Goethe, a cura di G. F. Frigo-R. Simili-F. Vercellone-D. von Engelhardt, Torino, 2005, pp. 171-186, particolarmente, pp. 177-178 e a D. Hurson, Les mistères de Goethe. L’idée de totalité dans l’œuvre de Johann Wolfgang von Goethe, Lille, 2003, in part., pp. 270-271; mentre per una visione d’insieme del significato 115
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L’idea “coraggiosa”, ardimentosa che Schiller attribuisce a Goethe sta nel be-trachten, nel considerare, trattandola e osservandola, una possibilità di visione e interpretazione della natura in grado di “dare ragione” e spiegazione (Erklärungsgrund) della cosa individuale, una lettura del “fatto” naturale in grado di rappresentare non aristotelicamente (ed anzi antiaristotelicamente), la possibilità di una vera scienza del particolare. Nelle parole di Schiller si avverte l’ammirazione per l’“eroico” e improbo compito che Goethe si è dato come destino di vita, quello di «osservare sempre in che cosa gli oggetti di cui acquistiamo la conoscenza si differenziano, piuttosto che ciò per cui sono uguali tra loro. Il distinguere è più difficile, più faticoso, del trovare la somiglianza»117. Ciò accade perché, nella rigorosa osservazione empirica del succedersi dei fenomeni, «che noi anche giustamente chiamiamo Facta»118, non si dà mai piena e completa spiegazione del fenomeno in questione. Il singolo fenomeno – proprio perché singolo ma non irrelato – non sempre appare chiaramente nel suo “avanti” e nel suo “indietro”, nel suo estendersi al “prima di lui” e al “dopo di lui”. Infatti, lo scienziato che cerca di «cogliere e di fissare» in casi generali i casi individuali, lo può fare molto spesso solo nella misura in cui aspira a conoscere «non soltanto come i fenomeni appaiono, ma anche come dovrebbero apparire»119, come essi, i fatti, che gli esperimenti debbono comprovare, possano «sembrare conseguenti l’uno dall’altro (…) ma non tanto quanto noi crediamo»120. del carteggio fra i due grandi tedeschi e delle occasioni per così dire “metatestuali”, si veda V. C. Dörr, Zwischen Intertextualität. Das Deutungspotential von Briefen, Tagebüchern und Geschprächen im Falle der Zusammenarbeit Goethes mit Schiller, in aa. v.., Goethe nach 1999. Positionen und Perspektiven, Hrsg. M. Luserke, Göttingen, 2001, pp. 57-66. 117 J. W. Goethe, Naturlehre, in “Der Teutsche Merkur”, Bd. 1 (1789), pp. 252-256, qui p. 255; tr. it., in Teoria della natura, cit., p. 22. Su questa idea di natura, si veda l’importante libro di M. Wyder, Goethes Naturmodell, WeinKöln-Weimar, 1998, in particolar modo il paragrafo dal significativo titolo di «La natura conserva una storia» (ivi, pp. 106-113), mentre sul significato specifico di questo frammento goethiano e di altri contributi coevi, mirati alla prima definizione di una teoria generale della natura in Goethe, si veda P. Giacomoni, Le forme e il vivente, cit., pp. 71 e sgg. 118 J. W. Goethe, Erfahrung und Wissenschaft, in GW, Bd. XIII, cit., p. 23. 119 Ivi, p. 24 (corsivo nostro). 120 J. W. Goethe, Der Versuch als Vermittler von Objekt und Subjekt, in GW, Bd. XIII, cit., p. 14; tr. it., L’esperimento come mediatore tra soggetto e oggetto,
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Il “discorso sul metodo” che qui Goethe esplicita, si sviluppa con conseguenze assai gravide: «Non si fa mai sufficiente attenzione a non dedurre conseguenze da esperimenti con troppa rapidità, a non voler dimostrare immediatamente qualsiasi cosa ed attestare teorie sulla base di esperimenti; in questo iato, infatti, nel passaggio dall’esperienza al giudizio, dalla conoscenza all’applicazione, si annidano, per l’uomo, tutti i suoi nemici interni: l’immaginazione [Einbildungskraft], che con le sue ali già lo rapisce dalla terra per portarlo in cielo, mentre egli crede sempre di stare camminando sulla terra, l’impazienza, la precipitazione, l’autocompiacimento, la testardaggine, la forma mentale [Gedankenform], l’opinione precostituita, la pigrizia, la leggerezza, la volubilità, e l’intera schiera delle loro conseguenze, comunque essa possa chiamarsi»121. Si faccia caso al primo (verosimilmente il primo in ordine alla sua incidenza e pericolosità) “nemico” che l’uomo alla ricerca di risposte sulla natura deve temere: non la “fantasia”, la «mutevole attestazione dei sensi»122, ma proprio la capacità di informare, di produrre forme. «Lì dove sorge il pericolo, lì cresce pure la salvezza» dice Hölderlin più o meno negli stessi anni123; e lì, sembra, si addensano pure i nostri interessi per definire, in una contemporaneità non casuale di approfondimento del kantismo di Goethe e di sviluppo del tema della morfologia – nel senso di una sua sempre più accesa funzione storicopratica, più che meramente epistemologica – gli ambiti e i limiti della riflessione goethiana sulla storia. Il testo che qui abbiamo visto, come da indicazioni del curatore delle Werke da noi utilizzate124, risulta essere l’epilogo di un manoscritto di Goethe datato da lui stesso al 28 aprile del 1792125. Ora, è noto che in Teoria della natura, cit., p. 33. Commentano opportunamente su questo punto Breidbach e Di Bartolo, “Metamorfosi” e “Tipo” in Goethe, in aa. vv., Arte, scienza e natura in Goethe, cit., pp. 35-51, che in Goethe c’è la «ricerca di una costruzione scientifica “unitaria e superiore”», e che essa ricerca si struttura nella «chiamata a raccolta dei singoli fenomeni» (ivi, p. 35). 121 J. W. Goethe, Der Versuch als Vermittler von Objekt und Subjekt, cit., p. 15; tr. it., p. 33, legg. mod. 122 R. Descartes, Regulae ad directionem ingenii, A.T. X, p. 368. 123 F. Hölderlin, Patmos, in Sämmtliche Werke, Historische-Kritische Ausgabe, Hrsg. N. Hellingrath, Leipzig, 1913, qui Bd. IV, p. 199. Il testo originale suona come segue: «Wo aber Gefahr ist, wächst/Das Rettende auch». 124 Cfr. Anmerkungen, GW, XIII, cit., pp. 565-566. 125 Ivi, p. 565.
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Goethe comincia a proporsi di studiare sul serio il pensiero di Kant appena tre anni prima, chiedendo soccorso a Reinhold per introdursi con piena consapevolezza, testuale e interpretativa, alla prima Critica126. Ma è attestato da più di una testimonianza autografa, diretta e indiretta, che la vera e propria Beschaftigung di Goethe col pensiero di Kant – e, particolare fondamentale, fin da subito con la Critica del giudizio – inizia l’anno successivo, il 1790127. All’inizio di questa occupazione, è altrettanto noto128, Goethe non riesce ad entrare in piena ed energica sintonia con Kant: «Ieri [Goethe] è stato qui [a Jena], e subito il discorso è andato su Kant. E’ interessante come egli riveste quello che legge e sorprendentemente lo riporta alla sua propria maniera, ma certo non disputerei volentieri con lui sulle cose che mi stanno più a cuore»129. Per questa notizia, si veda K. Vorländer, Kant-Schiller-Goethe. Gesammelte Aufsätze, Leipzig, 1923², p. 138 e sg. è imponente la messe di notizie biografiche che questo testo riporta, notizie, poi, che hanno un diretto rilievo storico sulla genesi dell’approfondimento filosofico di Goethe nei confronti di Kant. Da allora (ossia dal 1906, data di pubblicazione della prima edizione), grandi passi avanti circa conoscenze in merito non se ne sono compiuti. Uno degli ultimi risultati di questa ricerca è il lavoro di L. van Eynde, Goethe lecteur de Kant, Paris, 1999. Con altri intenti, ma pure molto utile (anche per noi) è il contributo di S. Domandl, Goethe, Kant, W. v. Humboldt: Zur Aktualität der deutschen Klassik, Berlin-Bern-Wien, 1997. Molto importante (anche se il maggiore interesse è circoscrivibile alle annotazioni di Goethe alla Critica del giudizio) è il prezioso lavoro di G. von Molnár, Goethes Kantstudien: Eine Zusammenstellung nach Eintragungen in seinen Handexemplar der “Kritik der reinen Verninft” und der “Kritik der Urteilskraft”, Weimar, 1994. Si veda, per completare la bibliografia vorländeriana in riferimento alla ricostruzione delle radici storiche della diffusione del kantismo, il saggio dal titolo Die ältesten Kant-Biographien, Ergänzungshefte am «Kant-Studien», (41), 1918. 127 Da una lettera del 6 ottobre 1790; per questa notizia, cfr. K. Vorländer, Kant-Schiller-Goethe, cit., pp. 149-151. 128 Cfr. K. O. Conrady, Goethe. Leben und Werke, Bd. I-II, Königstein, 1982, in part., Bd. I, pp. 110-117; Bd. II, pp. 98-105, ma pure R. Pettoello, Introduzione a E. Cassirer, Goethe e il mondo storico, cit., p. 30. 129 Schiller an Körner, 1.11.1790, in J. W. Goethe, Begegnungen und Gespräche, begründet von E. Grumach und R. Grumach, Hrsg. R. Grumach, Bd. I-VI, Berlin-New York, 1965-1999, qui, Bd. III, p. 365. Non si devono dimenticare, per avere un quadro completo della eco del kantismo in Germania, alcuni lavori molto utili a questo fine: Immanuel Kant in Rede und Gespräch, Hrsg. R. Malter, Hamburg, 1990, che utilizza fonti le più svariate (diari di viaggiatori e nobildonne, epistolari e aricoli di gazzette) per evidenziare la presenza 126
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Ma ciò non implica e non allude ad una falsa comprensione del filosofo di Königsberg, bensì, con la forza del suo carattere indomitamente antidogmatico, alla ricerca di una via originale a Kant: «Il suo studio ora sembra essere Kant, e, a suo modo e col suo metodo, l’uomo», scrive un altro conoscente ad un amico comune130. Siamo circa al termine del 1790, ed è presumibile che lo studio dell’“uomo”, così come si dice nella lettera, apra la possibilità che stesse leggendo le, per così dire, ricadute antropologiche della Critica del giudizio. All’iniziare dell’anno prima, ecco che Wieland scrive a Reinhold che «Göthe (sic) impiega il suo tempo a studiare la Critica [della ragion pura] con grande applicazione, ed ha intenzione di tenere con Lei a Jena una grande conferenza su ciò»131. E però, come lo stesso Goethe testimonia, sempre ostica gli risultò la lettura della prima grande opera criticistica di Kant, tanto che essa «era già apparsa da lungo tempo, ma era completamente fuori dal mio ambito»132. Celebre passaggio, questo di Goethe, più volte utilizzato – e a ragion veduta – per provare quella sorta di “Kehre” goethiana nei confronti della filosofia kantiana, dopo gli inizi non proprio incoraggianti133. E celebre – ed a noi utilissimo – in quanto conferma indirettamente che Goethe considera lo svilupparsi della sua confidenza con Kant direttamente collegato con una per ora generalissima questione antropologica: «Tuttavia assistei a diversi di Kant nella cultura non solo accademica dell’epoca; aa. vv., Neue Autographen und Dokumente zu Kants Leben, Schriften und Vorlesung, hrsg. v. R. Brandt -W. Stark (Institut für Philosophie, Philipps-Universität, Marburg), Hamburg, 1987; altro documento importante, anche se non attendibilissimo sul piano della freddezza analitica, ci pare il resoconto di Johann Gottlob Heynig, col suo Berichtigung der Urtheile des Publikums über Kant und seine Philosophie, pubblicato a Colonia nel 1797 e ristampato in anastatica a Bruxelles nel 1969. 130 Von Schuckmann an Reichardt, 26.9.1790, in J. W. Goethe, Begegnungen und Gespräche, cit., p. 358. 131 Wieland an Reinhold, in J. W. Goethe, Begegnungen und Gespräche, cit., p. 274. Cfr. anche K. Vorländer, Kant-Schiller-Goethe, cit., p. 140. 132 J. W. Goethe, Einwirkung der neueren Philosophie, in GW, Bd. XIII, cit., p. 26; tr. it., Influenza della filosofia moderna, in Teoria della natura, cit., p. 66. 133 Ci limitiamo soltanto a segnalare, fra gli altri, l’articolato parere di P. Giacomoni, Le forme e il vivente, cit., pp. 70-86 e pp. 145-150, dove, oltre al recupero della storia della possibile influenza kantiana sul Goethe all’alba degli anni ’90, si discute pure del sostanziale accordo tematico circa l’idea di morfologia come prodotto del carattere regolativo della costituzione genealogica dell’idea di metamorfosi.
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dialoghi su ciò, e con attenzione potei notare che si rinnovava la vecchia questione centrale: in che misura contribuiamo noi stessi e in che misura il mondo esterno contribuisce alla nostra esistenza spirituale»134. “Noi stessi” e “nostra esistenza spirituale” stanno qui come paradigmi di ogni possibile scienza critica, di ogni definibile indagine sulla natura della conoscenza. Infatti Goethe ammette che prima d’allora non aveva mai «separato le due cose» e che quando rifletteva lo faceva con «inconsapevole ingenuità», credendo di “vedere” le sue «opinioni davanti agli occhi»135. «Ma quando si cominciò a discutere su questa questione, volentieri mi misi dalla parte che fa più onore all’uomo, e detti la mia approvazione a tutti gli amici che con Kant affermavano: se anche tutta la nostra conoscenza andava di pari passo con l’esperienza, certo non tutta sorgeva [entspringe] dall’esperienza»136. Eppure, convenendo con tutto ciò, consentendo alla necessità dell’apriorismo e dell’inevitabile fondazione del conoscere nella possibilità dei giudizi sintetici137, Goethe, quasi con mestizia, ammette (somma ingiuria e bruciante rivelazione per un poeta di tale dimensione): «Tuttavia non avevo le parole per tutto ciò e ancor meno frasi»138. Pare di capire che Goethe intraveda nel Kant della prima Critica una sorta di chimerica, irraggiungibile – perché indicibile – spiegazione al misterioso darsi vicendevole di uomo e mondo. Ed è importante appurare che egli, Goethe, proprio in virtù di questa affamata aspirazione, mette alla prova le sollecitazioni kantiane quando prova ad «indagare seriamente la formazione e la trasformazione delle nature organiche»139. Ma la sensazione di irresolutezza, di quasi afasica inanità, rimaneva. Poi, le promesse kantiane, non mantenute nella prima Critica, fioriscono: «A questo punto mi venne tra le mani la Critica del giudizio; a essa sono debitore di un periodo sommamente lieto della mia vita»140. Perché? Certamente perché Goethe, come scrive Körner a Schiller il 6 ottobre del 1790, «nella critica del giudizio teleologico ha trovato nutrimento per la sua filosofia»141, e pure perché, in J. W. Goethe, Einwirkung der neueren Philosophie, cit., p. 26; tr. it., p. 66, modificata. 135 Ivi, pp. 26-27; tr. it., p. 66. 136 Ivi, p. 27; tr. it., pp. 66-67, mod. 137 Ibid. 138 Ibid. 139 Ibid. 140 Ibid. 141 Citato in K. Vorländer, Kant-Schiller-Goethe, cit., p. 144. 134
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quegli anni di studio attentissimo della terza Critica, senza alcun dubbio ora «riconosce la sistematica coappartenenza delle due “Critiche”»142, ma c’è di più. Questo “di più” – come in Kant, si ricorderà – accade come messa a punto di un “sistema” complessivo dell’approccio al mondo, un approccio che, vedremo, ha i caratteri fondativi della storicità intesa come autoesecuzione vivente della vita all’opera. Tanto più importante era, a questo punto, la pur rapida collocazione adeguata delle fonti kantiane di Goethe, in quanto la questione che dobbiamo affrontare è esattamente “kantiana”, e proprio nel senso proposto nella Critica del giudizio: il passaggio dalla dimensione strettamente organicistica (quasi meccanicista, nella lettura di Goethe) ed erkenntnistheoritisch del Leben a quella dell’individuazione del vivente come compresenza coabitante e cooperante dell’universale nel particolare. Dobbiamo ora ritornare ad un punto che abbiamo già toccato in precedenza143, e cioè, lì dove Goethe sostiene, in un altro breve scritto, Bildungstrieb, risalente, nella sua prima stesura, al 1817144, che la lettura dell’opera kantiana del 1790 gli aveva mosso una straordinaria curiosità di consultare la Über den Bildungstrieb di Blumenbach145. Secondo lui, quest’ultimo avrebbe espresso «nel modo più elevato, quando rese antropomorfica [anthropomorphisierte] la parola di questo enigma», riferendosi alla vis essentialis di Wolff, quando «chiamò la cosa in questione nisus formativus, un impulso, un’alacre attività [heftige Tätigkeit] che dovrebbe creare la forma [Bildung]»146. Si K. Vorländer, Kant-Schiller-Goethe, cit., p. 145. Cfr. Supra, n. 177 e sgg. 144 J. W. Goethe, Bildungstrieb, cit., pp. 32-34; tr. it., Id. L’impulso formativo, cit., pp. 73-75. Pubblicato per la prima volta in Zur Morphologie, I, 2, 1820, si trova appuntato sul diario di Goethe in vari momenti (ma sempre nel 1817) e diverse titolazioni. Su ciò, le Anmerkungen al volume XIII della edizione qui consultata, p. 571. 145 J. W. Goethe, Bildungstrieb, in GW, Bd. XIII, cit., pp. 32; tr. it., p. 73. 146 Ivi, p. 33; tr. it., p. 74. è chiaro che qui non è neppure il caso di accennare alla straordinaria ricchezza del termine tedesco ‘Bildung’, alle sue numerose varianti semantiche, al suo profondo bagaglio storico, e, a partire da tutto ciò, alla difficoltà cui si trova avanti il traduttore, che deve ogni volta individuarne il significato a seconda del contesto tematico in cui è inserito. Ci piace e ci pare utile qui, in ogni caso, rimandare alle precise ricostruzioni fatte da Gadamer in Wahrheit und Methode, Tübingen, 1965; tr. it. Verità e metodo, a cura di G. Vattimo, Milano, 1972, in part. pp. 31-42. In queste pagine, dove Vattimo rende 142
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tratta, in fondo, dello stesso problema di Kant (e, come visto, di Goethe): come dire l’indicibile, originario modificarsi pulsante della materia vivente da un punto di visto non immaginifico, disarticolato, e senza cadere in campi (teologici, morali, o di quotidiano buonsenso) che poco hanno a che fare con l’indagine scientifico-filosofica. Prendiamo atto già in prima battuta che 1) Goethe fin da subito conferma che il peso sulla giusta “dizione” di questo enigmatico quid conserva un valore elevatissimo; 2) la necessaria torsione antropologica che un’occupazione indagativa di tal genere deve assumere per potere aspirare ad una sua fondatezza esaustiva. Bisogna che la terminologia stessa si umanizzi, bisogna che la parola che designa la vita nel suo sorgere – Bildungstrieb – si ammanti e si ricopra, incarnandola, di una veste umana, divenendo umana. Ma una volta acquisito il vocabolario adatto, ecco che sorge il bisogno, correlato e gemello, di schiarimento teorico di questo dire la vita. Per ciò, per far sì che oltre alla lingua – imputabile, inavvertitamente, il tedesco ‘Bildung’ con ‘cultura’, il confronto sia con la tradizione che questo termine porta con sé, sia con le accezioni e derivazioni più moderne, è condotto con maestria e senso della misura tali da poter essere preso ad esempio anche da indagini come la nostra che vogliono puntare specificamente sull’aspetto più spiccatamente naturphilosophisch del termine. Se, come sostiene Gadamer, ‘Bildung’, a partire dal classicismo, viene sempre più «a unirsi strettamente con quello di Kultur» in modo da indicare non soltanto il significato originario legato allo sviluppo e al compimento di una forma naturale, ma «anzitutto il modo peculiare in cui l’uomo educa le proprie e facoltà naturali», questo fatto (storico, ma anche per così dire “destinale”) non solo non implica una vacua e impoverita torsione umanisticizzante, ma anzi consente un arricchimento ulteriore, perché «in Bildung, infatti, c’è Bild. Il concetto di forma [Form] non è così ricco da comprendere la misteriosa ambiguità di Bild (immagine), che include in sé i concetti di riproduzione (Nachbild) e di modello (Vorbild)» (ivi, pp. 32-33). Insomma, sempre di “umano” si discute, e in particolar misura di quell’impulso alla formazione che è contemporaneamente impulso all’autoformazione, in senso “morale” come in senso “fisico”. Si veda su ciò, e preliminarmente, essendo questo uno dei tratti più importanti da trattare nel prossimo capitolo, il senso – di cui a noi Gadamer appare fortemente debitore – di ‘Bildung’ che espone Wilhelm von Humboldt: «Quando nella nostra lingua parliamo di ‘Bildung’, intendiamo con questo termine qualcosa di più alto e insieme di più intimo, cioè quella peculiare disposizione spirituale che la conoscenza e il sentimento, intesi come atto di tutto lo spirito e di tutta la moralità, producono, riflettendosi sulla sensibilità e sul carattere». W. von Humboldt, Einleitung zum Kawiwerk, in HGS, cit., Band VII, 1, p. 30.
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di rivelarsi solo vox clamans in deserto – anche l’insieme delle facoltà umane riesca ad avvicinare questo mistero, un passaggio ulteriore si rende necessario: «Io però mi induco a sostenere che, quando ci si presenta un essere organico, non sia possibile cogliere [fassen] l’unità e la libertà dell’impulso formativo senza il concetto della metamorfosi»147. L’impulso, l’aspirazione alla forma (meglio: l’aspirazione a dar-forma, a una Formgebung mai risolta definitivamente, mai data per terminata) si costituisce e caratterizza per questi due fattori determinanti: l’unità e la libertà. L’unità individuale e la libera disposizione all’agire formante sono i caratteri essenziali del Bildungstrieb, e tali caratteri, nella misura in cui essi vengono, per così dire dire, analogizzati e universalizzati, con un movimento di generalizzazione mai compiuto né esauribile, ma pure accertabile e ripetibile secondo le usuali norme della scienza sperimentale, adempiono pienamente alla costituzione “naturale” dell’impulso alla forma. Universalizzare l’individuale, generalizzare il singolare è però consentito solo allorquando lo strumento analogico sia adeguatamente acuminato e sia talmente elastico e malleabile, da chinarsi da un lato (l’individuale) e dall’altro (l’universale) per rispondere al bisogno di chiarezza e comprensibilità. Ecco, allora, i consigli che Mefistofele dà allo scolaro desideroso di apprendere i misteri della natura: «Usate [Gebraucht]148 il tempo, fugge via così rapido! L’ordine, poi, vi insegnerà come guadagnare tempo. Mio caro amico, vi consiglio pertanto, e in primo luogo, il corso della logica [Collegium Logicum]. Il vostro spirito verrà così ben ammaestrato e stretto dentro stivali spagnoli149 in modo J. W. Goethe, Bildungstrieb, cit., pp. 34-35; tr. it., pp. 74-75, modificata. L’edizione da noi consultata ed a cui faremo riferimento (J. W. Goethe, Faust e Ur-Faust, traduzione e cura di G. V. Amoretti, testo originale a fronte, voll. I-II, Milano, 1999, qui vol. I, p. 93), traduce ‘sfruttate’; a noi è parso più opportuno rendere con ‘usate’ (rispettando il senso del ‘servirsi-di’, dell’utilizzare), perché, secondo noi l’idea di un’“uso pratico” del tempo, si rivela più adatto dell’immagine di uno sfruttamento del tempo stesso, e, forse, meglio si attaglia al lessico di inizio Ottocento. Va aggiunto, come informazione importante per il lettore, che la traduzione italiana qui utilizzata, è condotta sul testo della seguente edizione tedesca: J. W. Goethe, Sämtliche Werke, in 18 Bänden, Artemis-Gedenkausgabe, hrsg. von E. Beutler, zürich, 1949. 149 Il curatore dell’edizione italiana, in nota (Faust e Ur-Faust, cit., vol. I, p. 352) sostiene trattarsi di un richiamo ad uno strumento di tortura. Eppure potrebbe qui adombrarsi anche un’allusione alla rigorosa logica della seconda Scolastica spagnola, qui, forse anche ironicamente, intesa come esercizio in sé 147
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che potrà, in seguito, avviarsi, con prudenza, sulla via del pensiero [Gedankenbahn] e non andarsene per diritto e traverso come fuochi fatui»150. Usare bene il tempo, per chi ha davvero voglia di percorrere i gradini della conoscenza, significa non perdersi in faccende e faccenduole; significa avviarsi a un duro apprendistato, a una rigida disciplina, abituarsi man mano ad ascoltare il linguaggio della natura esteriore e quello della natura interiore; significa interiorizzare un ordine – quello misterioso mediante il quale le cose vengono all’essere – per poi farlo fruttuosamente agire al fine creativo di sempre nuove forme. «La fabbrica dei pensieri [Gedankenfabrik] è simile ad un bel lavoro eseguito dal tessitore dove un colpo del piede mette in movimento mille fili. Le spole vanno rapide in qua ed in là, i fili scorrono invisibili, ed un sol colpo genera mille maglie [Verbindungen]»151. La straordinaria immagine della ‘fabbrica’ dei pensieri rende in maniera sobria e allo stesso tempo magnifica, la visione di un luogo dove con la modestia tipica dell’artigiano, si fabbricano nientemeno che le concettualità, il crogiuolo dove le materie confuse producono, una volta organizzate dal sapiente manufattore, idee, nozioni, pensieri. Ma l’artigiano, il tessitore può svolgere a dovere la sua funzione perché è libero, ed è libero perché fa bene il suo lavoro: «Libertà? Una bella parola per chi la intende rettamente. Cosa volete sia la libertà? Qual è la libertà più libera? Fare bene! [Recht zu tun!]»152. è chiaro allora che la “parola” dirimente, il concetto decisivo per non solo dire-la-vita ma pure per comprenderla, deve possedere un radicale carattere antropologico, una spiccatissima matrice umana, un’analogia tra processo creativo universale e processi produttivi umani. Questo concetto è quello di morfologia e di tutto vuoto e inutile, ma propedeutico, se rettamente portato avanti, limitandone gli eccessi, ad ogni reale e concreta conoscenza 150 Ivi, p. 93, modificata. 151 Ivi, pp. 93-95. Il tema del telaio e del tessitore ritorna in un altro importantissimo passo dell’Ur-Faust: «Nei flutti della vita, nell’impeto dell’azione, mi innalzo e mi abbasso, ondeggio in qua ed in là; nascita e morte, un eterno mare, una mutevole vita! Così opero io al ronzante telaio del tempo e tesso la vivente veste della divinità» (ivi, vol. II, pp. 681-683). è lo Spirito della terra che, rivolgendosi a Faust, gli rivela il segreto della vita intesa quale infinita e irriducibile attività motrice a carattere diastosistolico. 152 J. W. Goethe, Egmont, IV (Der Culenburgische Palast), in Goethe’s Werke (Vollständige Ausgabe Letzer Hand), Bd. VII, Stuttgart-Tübingen, 1828, p. 261.
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l’universo sintattico-semantico ad esso collegato. In questo caso, dire-laforma equivale a fare-la-forma, ed è solo perché chi fa la forma ha pure la prerogativa di comprenderla: «Chi vuole riconoscere e descrivere un essere vivo tenta, in primo luogo, di cacciarne fuori lo spirito. Ne ha così le parti in mano, manca, purtroppo! solo il legame spirituale [geistige Band]»153. L’analogia è completa, l’affinità comprovata: è inutile comportarsi da mero anatomista quando si vuole realmente comprendere il vivente, non apporta alcun risultato il sezionare (naturalmente non solo in termini letterali, ma soprattutto teorici) l’essere che vive nella misura in cui lo si fa non “partecipando” del suo carattere ontologico più proprio, ossia la vita stessa. La vita che è forma vivente, è incomprensibile se chi la vuol comprendere non si “analogizza”, con la sua vita, con la vita che ha di fronte, se non condivide con il vivente messo a cura, il fondamento (e la comunanza di questo fondamento stesso) determinante la loro “natura”. Insomma, ciò che si richiede quando si vuol comprendere il carattere della forza vitale, dell’impulso alla forma, è l’esatta, conforme, pensata “misurazione” dell’affinità tra ricercante e ricercato: «Misurare una cosa è un’operazione grossolana che può essere applicata ai corpi viventi soltanto in modo estremamente imperfetto»154. Questo tratto per così dire anticartesiano di Goethe è sostanzialmente mitigato quando si pone l’esigenza (volontaria) di dover comprendere e con ciò esprimere, la “misura” del vivente in quanto tale: «Una cosa vivente non può essere misurata da nulla che sia al di fuori di essa, bensì, se la si vuol misurare» - ed in tale volere si deve vedere la propensione radicalmente umana al conoscere, la libera decisione di promuovere un approfondimento sulla materia vivente che poi è la medesima del conoscente - «bisogna che la misura sia data da essa stessa; questa però è estremamente spirituale [höchst geistig] e non può essere trovata dai sensi»155. Infatti, l’idea, la “natura” dell’idea di metamorfosi, si può dire e comprendere solo allorquando si è preliminarmente ammesso e concepito di occuparsi di una questione in cui ne va dell’intero dell’umano, un problema che investe e raccoglie l’integralità del senso dell’umano. Quanto Goethe scrive a Max Jacobi nell’agosto del 1799 è assai indicativo del sentimento problematico con cui ci si J. W. Goethe, Faust e Ur-Faust, cit., vol. I, p. 95. J. W. Goethe, Studie nach Spinoza, in GW, Bd. XIII, cit., pp. 7-10, qui p. 7; tr. it., Studio da Spinoza, in Id., Teoria della natura, cit., p. 18. 155 Ibid. 153
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deve disporre all’ascolto del significato della morfologia: «Sto cercando di occuparmi particolarmente della metamorfosi degli insetti. Se non ci si vuole perdere in questo labirinto, anche qui si deve su molti punti, ritenere possibile il semplice costante percorso della natura che si organizza e, tramite le idee, separare l’inseparabile [das Unteilbare teilen]»156. è atto precipuamente e solo umano dividere l’indivisibile, è atto che può inverarsi solo «durch den Gedanken», attraverso quella specifica e genuina modalità dell’analogia che si sviluppa nell’intelligenza immaginativa e produttiva sempre all’opera nella costruzione scientifica più accorta e avveduta. «L’idea di metamorfosi è un dono del cielo estremamente onorevole, ma al tempo stesso estremamente pericoloso [gefährliche]», ribadisce Goethe molti anni dopo157. Lo è perché tale ideare «conduce a ciò che è privo di forma [Formlose], distrugge il sapere, lo dissolve»158, ed in quanto è tale, in quanto necessita di una 156 Goethe an C. W. M. Jacobi, 16.08.1799, in Goethe’s Werke, cit., Bd. XXXVIII, p. 34. 157 J. W. Goethe, Probleme, in GW, XIII, cit., p. 35; tr. it., Problemi, in Teoria della natura, cit., p. 111. Si tratta dell’aggiunta che Goethe inserisce ad una lettera inviata al professore di botanica a Königsberg Heinrich Friedrich Meyer il 2 febbraio del 1823, e viene pubblicata, come inserto autonomo, in Zur Morphologie, II, 1, del medesimo anno. A costo di voler apparire fautori di un sincretismo culturale spinto, crediamo non sia fuori luogo cogliere questa suggestione sulla pericolosità di ciò che, in generale, ci viene “donato” e che noi stessi dobbiamo essere in condizione di riconoscere e far fruttare il più possibile. In questa dimensione di affinità di Stimmung, di tonalità emotiva di un’epoca tutta, vogliamo sottolineare che anche Hölderlin – e anch’egli in una decisa intonazione privata e intimista, trattandosi di un frammento mai pubblicato e risalente all’anno 1800 – si riferisce al linguaggio come a ciò che vi è di «Gefährlichstes» tra tutti i benefici concessi all’uomo, come a quel tratto umano che, proprio perché umano e solo umano, responsabilizza e imputa, fa vivere e dilania, crea e distrugge ogni costruzione di senso. Nell’esperienza – er-fahren – che noi facciamo di noi stessi in quanto uomini, è racchiuso pure il Pericoloso – ge-fahren – sempre all’opera nel nostro incedere mondano; vede dunque giusto Heidegger quando, e seppur tuttavia in una variante del tutto dissimile, valuta come «storico» il carattere complessivo della poetica hölderliniana, proprio perché completamente e radicalmente affondata nella sua estrema e indigente umanità. Cfr., M. Heidegger, Erläuterung zu Hölderlins Dichtung, in Heideggers Gesamtausgabe, Bd. 4, hrsg. F.-W. von Herrmann, Frankfurt a. M., 1981; tr. it. La poesia di Hölderlin, a cura di L. Amoroso, Milano, 1988. 158 J. W. Goethe, Probleme, cit., p. 35; tr. it., p. 111.
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neutralizzazione teorica dei suoi possibili strali distruttivi, l’idea di morfologia ha da essere sostenuta da un sapere diverso e più alto, da un sapere che riconosce il “donato”, ma che ugualmente sa porre la “posizione” e le condizioni della sua propria scientificità rinnovata e rinnovante. «Dovremmo far posto a un procedimento artificiale [künstlichen]. Sarebbe da proporre una simbolica [Eine Symbolik wäre aufzustellen]! Ma chi deve dirigerla? Chi riconoscere ciò che è stato diretto?»159. Che Goethe nomini qui il ‘simbolo’ quale possibile via d’uscita dall’intricato groviglio di problemi che si annida nell’alveo della ricerca di questa sapienza produttiva e prospettica è molto importante e segna certamente un momento fondamentale delle analisi che stiamo conducendo. Ma il fatto essenziale insiste più sull’acquisita consapevolezza di Goethe dell’assoluto bisogno della costituzione di una scienza del vivente fondata su basi diverse e più congrue all’oggetto. Per sua natura, infatti, «l’uomo (…) impone delle leggi, prima di tutto nel campo morale (…) quindi nel campo religioso (…). Nel governo, sia esso pacifico o bellicoso, avviene la stessa cosa (…). Nelle arti è lo stesso»160. Ora, però, siccome «l’uomo conosce se stesso soltanto in quanto conosce il mondo, di cui si rende conto soltanto in se stesso, proprio come nel mondo prende coscienza di sé»161; siccome accade che, nel vivere “ad occhi aperti” dell’uomo avvertito, «ogni nuovo oggetto, se ben contemplato, dischiude un nuovo organo [Organ]»162, la morfologia, in quanto pensiero “simbolico-formativo”, deve tener conto in massimo grado l’aspetto intramondano del vivere del vivente-che-pensa. Questo pensiero-ponente non può avere quale polo della ricerca, solo un contenuto oggettivo, un alcunché di definito, accorpato una volta per tutte, ma, proprio perché esso stesso è dinamico e transeunte, pone a sua volta i modi analogici coi quali inseguire la vita, un “oggetto” dinamico, sempre da rincorrere, sempre da ripensare, rimodellare, ricreare. La teoria morfologica, l’“idea” di metamorfosi, allora, non è qualcosa da intendersi come un piano orizzontale (il profilo oggettivo del vivente) e Ivi, p.36; tr. it., p. 112, modificata. Ivi, pp. 36-37; tr. it., pp. 112-113. 161 J. W. Goethe, Bedeutende Fördernis durch ein einziges geistreiches Wort, in GW, Bd. XIII, cit., p. 38; tr. it. Notevole incoraggiamento per una parola intelligente, in Id. Teoria della natura, cit., p. 115. è la recensione che Goethe scrive nel 1823 – pubblicandola nello stesso anno in “zur Morphologie” – per l’Anthropologie di Christian Friedrich August Heinsoeth, psichiatra lipsiense. 162 Ibid. 159 160
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una dimensione sincronica (la perpetuità ed eternità del concetto di vita, valida per sempre e per ognuno), a cui, poi, si applichi un risultato intellettuale, un ideale di esattezza valevole esaustivamente, implicante un progresso certo della conoscenza. La morfologia è un porre nel tempo: «Come nel campo artistico, così in quello scientifico, e anche in quello matematico, tutto dipende dalla verità fondamentale [Grundwahre], il cui sviluppo [Entwickelung] non si rivela tanto facilmente nella speculazione [Spekulation] quanto nella prassi [Praxis]»163. Atto sempre fungente, risultato di una libera decisione, l’idea di scienza morfologica è tale ed è efficace solo se è un “dire-facente-la-vita”, una biologia biografica delle forme sempre mobili della vita, una morfogenesi e una morfografia dinamiche, inarrestabili ed inesauribili. In questo senso la verificazione concreta, empirica, individuale della “bontà” della soluzione analogica pensata dalla morfologia rappresenta «la pietra di paragone [Prüfstein] di ciò che lo spirito ha concepito, di ciò che è stato ritenuto vero dal senso interno»164. La riuscita di una ideazione, il realizzarsi concreto di una “scoperta” a base morfologica di un piccolo frammento di ciò che si chiama ‘vita’, può verificarsi solo allorquando, dice Goethe, le condizione effettive sopravvenute confermano il progetto preliminarmente pensato. Ma la cosa straordinaria è che il “morfologo” deve sapere che il “risultato” conoscitivo ottenuto è la sintesi tra l’oggetto scoperto e la stessa posizione della domanda. Insomma, quando «l’uomo, convinto del contenuto dei suoi propositi, si rivolge all’esterno e pretende dal mondo non soltanto che esso sia d’accordo con le sue rappresentazioni [Vorstellungen] ma che si adatti a lui, obbedisca a quelle idee e le realizzi, allora soltanto si ha per lui l’importante esperienza [Erfahrung] che gli permetterà di stabilire se si è sbagliato nella sua impresa, o se la sua epoca non è in grado di riconoscere il vero [das Wahre…erkennen]»165. Come a dire che, con tipico lessico kantiano, l’ipotesi sostenuta in sede teorica – proprio perché l’uomo è uomo perché vive nel mondo ed è impensabile senza questo – non ha alcun significato senza il riscontro del “mondo”; come a dire che per esprimere un giudizio sulla validità di un’ipotesi circa il vivente, si ha da attendere il corso vitale dell’oggetto per vagliarne la verità. Il che vuol dire che 163 J. W. Goethe, Naturphilosophie, in GW, Bd. XIII, cit., p. 44; tr. it. Filosofia della natura, in Id., Teoria del cielo, cit., p. 137, modificata. 164 Ibid. 165 Ivi, modificata.
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ogni ipotesi scientifica riguardante l’origine e lo sviluppo dell’individuo vivente è sempre soggetta a revisione, a verifica ulteriore, ed è, perciò, sempre aperta ad essere rivista o, al limite, eliminata dal novero delle possibili spiegazioni. Ma se fosse solo questo, Goethe non avrebbe ipotizzato altro, per l’idea di metamorfosi, che un semplice ed accorto principio di prudenza – di per sé, certo, utile, ma altrettanto certamente non provvisto di quella carica di sovversiva novità che lo stesso poetascienziato le attribuisce. Ed allora dov’è la vera novità dell’atteggiamento morfologico? Qual è il carattere di autentico novissimum che l’idea di morfologia apre? è fuor di dubbio che Goethe stia dicendo in primo luogo che la verità di un’ipotesi la può confermare solo la storia della sua evoluzione e che per accettarne o rifiutarne le ricadute bisogna che il corso degli eventi faccia la sua parte. Sembrerebbe una cauta ammissione di relativismo scientifico, l’idea per altro condivisibile e moderna, che la verità di un’ipotesi la determini non certo la tradizione, il nome del ricercatore, la correttezza dei presupposti teorici, bensì l’estendersi e il coagularsi, nel tempo, di un soddisfacente accordo negoziale della comunità scientifica, dell’uso pratico della scoperta, delle ricadute sociali della stessa. Ma c’è di più. C’è che, in una meravigliosa identità con la creazione artistica, l’idea di scienza a fondamento morfologico, diventa realmente scienza nella misura in cui assume i tratti di metafora di una metafora, di un’analogia di analogie: «Tuttavia rimane un segno distintivo [Hauptkennzeichen] per cui si può differenziare nel modo più sicuro il vero dal miraggio: il vero dà effetti [wirkt] sempre in modo fecondo [fruchbar] e favorisce chi la possiede ed alimenta; il falso in sé e per sé rimane lì morto e infruttuoso, ed anzi è da considerare come una necrosi, dove la parte che muore impedisce a quella vivente di portarsi a piena salute [Heilung vollbringen]»166. Ci troviamo in un punto di snodo teorico essenziale. Ci troviamo di fronte a un bivio di fronte al quale la nostra ricerca ha due soluzioni di fronte: da un lato, mostrare come questo pensiero morfologico di Goethe appronti – ovviamente non isolatamente da altri contributi e idee – un campo di possibilità teoriche ed epistemologiche in grado di aprire lo scenario della cultura europea all’ingresso alla fondazione di una visione della storia come mondo storico. L’idea, come è noto, non è nuova. Da Meinecke a Cassirer, e con loro altri ma meno noti
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Ivi, p. 45; tr. it., p. 137, modificata.
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interpreti167, la nozione che Goethe stia alle origini della ridefinizione di un modello peculiare dell’interpretazione della scienza storica, non rappresenta certamente un momento di particolare inventiva. Ma: è proprio scontato che in una via d’indagine già battuta sia impossibile riscontrare elementi di novità? Non si possono dare, in un percorso già sperimentato, ulteriori spiragli e punti di vista? Riteniamo che ciò sia non solo possibile, ma addirittura necessario, una volta definito il campo metodologico, i criteri e i limiti dell’ampliamento del punto di vista. Abbiamo visto come con Goethe venga a maturarsi un sapere intorno alla vita che, alla luce pervenutagli da Kant, ha saputo aggiungere elementi peculiari e nuovi ad un complesso di teorie, visioni, idee, consentendo un decisivo passo in avanti della conoscenza. La biologia (le “biologie”) goethiana è certo figlia del suo tempo, ma attraverso gli strumenti di indagine ereditati dal Kant della Critica del giudizio, essa ha saputo ergersi a schema fondamentale entro cui far convergere lo studio dell’individuo vivente. Ora, la concezione della metamorfosi che Goethe – abbiamo visto – intende non solo come uno specifico metodo d’indagine sperimentale, ma, appunto, una generalizzazione concettuale, una modalità del porre la questione della vita, rappresenta un punto centrale di tutta l’indagine qui in corso. Si tratta, abbiamo detto, sempre dell’uomo, si tratta di comprendere che nell’affermarsi, con Goethe, del passaggio dalla visione illuministica del mondo a quella romantica, ciò che si trasforma – senza perdere il suo tono peculiare – è l’importanza attribuita al destino dell’umanità, intesa quest’ultima come composta di individui; si tratta, per dirla con Cassirer, del fatto che «la filosofia illuministica trova sul terreno della storia l’idea di una scienza filosofica dell’uomo; l’idea di un’“antropologia” universale»168. Si tratta, ancora, di fondare un’idea di evoluzione, di sviluppo, che sappia dare di conto dell’organicità, complessità e multidimensionalità del rapportarsi umano al mondo, alla ragione, al pensiero e all’alterità umana stessa. è l’idea, ben espressa dagli ultimi passi citati da Goethe, che un sapere circa la vita è un sapere circa colui che la vita la vive in tutta la sua estensione, quantitativa e qualitativa; è l’idea della presa 167 Naturalmente non è facile allargare oltre Meinecke e Cassirer – che già assunti singolarmente rappresenterebbero su ciò un peculiare ambito di studi – l’ambito degli studiosi che hanno saputo vedere, e come, Goethe all’origine dello storicismo. 168 E. Cassirer, Die Philosophie der Aufklärung, cit., p. 237; tr. it., p. 314.
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d’atto graduale che in ogni impresa di conoscenza, ciò che determina il valore della conoscenza stessa è la condivisione nel tempo di questo valore, è la prospettiva comunitaria e intersoggettivamente pensata del fine cui questa conoscenza è diiretta. L’idea goethiana di metamorfosi (così intrisa di elementi “biologici” in senso sia particolare che generale) è splendida analogia di un sapere storico che si coniuga, o intende farlo, alla rigorosità dell’analisi, avendo di mira una fondazione più salda e più congruente ad un’umanità in cammino. Ma l’idea di metamorfosi, così come pensata da Goethe, avrà bisogno, per affermarsi in quanto metafora e segno dell’avvenuto cambio di prospettiva storicistica, di un nuovo contributo, di una compagnia estremamente sollecitante e stimolante. Avrà bisogno dell’esperienza intellettuale di Wilhelm von Humboldt.
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CAPITOLO TERzO HUMBOLDT. FONDAZIONE E BILDUNG: IL REALE E LA COMUNITÀ La “struttura” e l’esecuzione della presente ricerca si trova, in questo preciso momento, in una nuova e svoltante necessità: quella di mostrare come da un dialogo breve e poco frequente – quello di Goethe e di Humboldt – possa sorgere un terreno d’indagine fruttoso e fondato. Ovvero cosa può esser nato di importante e di innovativo – nella nostra ottica di ricerca – da un rapporto di mutue influenze e discorsi in parte solo accennati. Con un’aggiunta, quella costituita dal legame teorico tra le due personalità e le due impostazioni naturphilosophisch: quella di Herder1. Senza, ovviamnente dimenticare la sostanziale Sarebbe impossibile, viste le finalità, puntigliosamente trattenersi sul rapporto a tre che coinvolge Goethe, Humboldt ed Herder. Certo è che l’uomo a cui Goethe dedicava l’appellativo di «fratello» in occasione del quindicesimo anniversario della sua morte (Herder), e che tanto, nel bene come nel male, aveva significato nella vita e nella formazione del poeta, può essere ben visto come un vero e proprio anello di congiunzione teorica, non foss’altro che, per così dire, la simmetria dei suoi interessi: da un lato la filosofia della storia e la visione “analogica” della stessa; dall’altro l’interesse per il linguaggio e la sua decisa natura bildungsweise. Abbiamo già, nel corso della ricerca, incontrato il nome di Herder (cfr. infra, cap. I, n. 13 e sgg.), ma soprattutto per ciò che riguardava le critiche – rispettose e costruttive – rivoltegli da Kant in merito al suo più celebre scritto sulla storia. Goethe, nei suoi scritti e nelle sue memorie, ritorna spesso su Herder, sul valore della sua amicizia, nata quasi per caso a Strasburgo nel 1770 («l’evento più significativo, quello che per me doveva avere le conseguenze più importanti, fu la conoscenza di Herder e la relazione con lui, da allora sempre più forte». J. W. Goethe, Dichtung und Wahrheit (Buch 10), in GW, cit., Bd. IX, p. 402), e sugli eventi che portarono alla progressiva, quasi inavvertibile chiusura dei loro rapporti («era troppo ritroso e aspro talvolta», così ricorda Goethe in un dialogo con Eckermann datato 9.11.1824, tr. it., vol. I, p. 127, pur riconoscendo, qualche riga sopra, che le Idee sulla storia dell’umanità erano, «indiscutibilmente la più eccellente» delle sue opere). Da questo punto di vista, si può sostenere, con qualche ragione, che i “risultati” maggiori della collaborazione tra Goethe e Herder si concretizzano nella prima parte delle Ide1
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atmosfera kantiana respirata da tutti e tre i pensatori. In altri termini, intendiamo sostenere una linea interpretativa che fa della coralità delle voci individuali e originali di Herder, Goethe e Humboldt, il proprio metodo e dello sfociare di questo coro (a canovaccio kantiano) in una visione della storia matura, rispettosa delle individualità, rifiutante ogni metafisica “oltreumana” e provvidenziale della storia stessa. Ciò è potuto avvenire perché nel contesto delle diversità delle voci all’opera, il tessuto connettivo è rimasto sempre un progetto comune, quello di intendere la storia come un altro nome della vita, come vita storicizzata, vivente, organizzata – per analogia, che, abbiamo visto, non è semplice metafora retorica ma vero e proprio strumento di conoscenza – come organismo en herderiane (cfr. P. Giacomoni, Le forma e il vivente, cit., p. 60), oppure che in Herder il «tempo storico è caratterizzato (…) da una sorta di costanza “economica”, da una parte, e da una strutturale processualità dall’altra delle singole epoche» così come, per analogia, c’è nel pensatore un «corollario se non precisamente “energetico” quantomeno “economico”, legato all’idea del preservarsi, nelle trasformazioni delle organizzazioni viventi» e ciò alluderebbe al «vincolo formale della metamorfosi» goethiana (cfr. S. Caianiello, Scienza e tempo alle origini dello storicismo tedesco, cit., risp. p. 202 e p. 182). Così come pure solide argomentazioni inducono W. Pross, Herders Konzept der organischen Kräfte und die Wirkung der Ideen zur Philosophie der Geschichte der Menschheit auf Carl Friedrich Kielmeyer, in Philosophie der Organischen in der Goethezeit, cit., pp. 81-99, a ritenere che, nella sua «formulazione estetica», il principio herderiano storico-naturale di «unità nel molteplice», venga presentato in maniera paradigmatica nel celebre discorso di Goethe dal titolo Zum Shakespeares-Tag (GW, cit., Bd. XII, pp. 224-227). Ancora. Ci pare giusro sostenere, come è stato fatto da H. B. Nisbet, Goethes und Herders Geschichtsdenken, in «Goethe Jahrbuch», (110) 1993, pp. 115-133, che, in termini generali, il giovane Goethe di Strasburgo avrebbe sostanzialmente appreso dal più maturo Herder un «modo di pensare contestualizzante [kontextbezogenem], che in senso ampio può essere indicato come storico» (ivi, p. 116); che però, poi – e, su ciò, in forte dissenso con Meinecke – Goethe avrebbe considerato «astratto» (ivi, p. 125) il pensiero storico di Herder, facendosi invece portatore di una «scepsi» antiteleologica rispetto all’idea stessa di storia. E però, forse, la visione del passaggio di una concezione della storia in Goethe da un punto di vista illuministico a quello prima romanticheggiante, poi del tutto autonomo e originale, a causa dei dissapori con Herder (ché a tale presupposto tutto quanto giustamente, per altro, precedentemente affermato, fa riferimento implicitamente), a noi pare ancora troppo poco. Ed è questo tentativo – brevissimo peraltro – di problematizzare il rapporto Goethe-Herder attraverso Humboldt, che apre questa terza parte della presente ricerca.
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tutto relato alle parti e come parte organica relata al tutto della Umwelt. In Herder, e soprattutto nel dialogo a distanza tra Goethe e Humboldt, ciò che sostanzia la continuità è la graduale, sbalordente scoperta della validità della visione analogica della biologia con la storia, e il significato vivente, intersoggettiva senza perdere di coerenza interna, che quest’ultima assume se vista con queste lenti. Ciò che “manca” a Herder lo completa Goethe, che a sua volta è “riempito” da Humboldt: alla fine di questo ricco processo di sollecitazioni, suggestioni, critiche – anche aspre ma mai banali – accoglimenti, festa di analogie e di contributi, ciò che si disporrà sarà l’umido terreno di coltura dove potra costituirsi un forte e potente pensiero della storia – in senso sia soggettivo che oggettivo – un pensiero critico e autonomo che pone a proprio infinito compito la consapevolezza – sempre in pericolo, sempre da ricostruire e rinnovare – che «nessuna idea, nessuna tendenza nella storia agisce in modo assolutamente puro e senza mescolanza, ma appunto per questo per nessuna di esse può essere adottata una misura assoluta nel giudicare il suo valore o non valore, la sua azione benefica o funesta»2. Festa delle analogie – si diceva – sabba del “come se”, notte di Valpurga del demoniaco3 e, contemporaneamente, lucido confluire di metafore, metonimie, tropi, sineddochi. Attività (Tähtigkeit) come F. Meinecke, Die Idee der Staatsräson in der neueren Geschichte (1924) in Werke, cit., Bd., 1, p. 301; tr. it., L’idea della ragion di stato nella storia moderna, a cura di D. Scolari, Milano, 1977, p. 345. 3 Sul tema del ‘demonico’ in Goethe in generale, si vedano: dal punto di vista della concezione estetica, J. H. An, Goethes “Wahlverwandtschaften” und das Andere der Vernunft, Würzburg, 2003, spec. pp. 29-50; V. Mathieu, Goethe e il suo diavolo custode, Milano, 2002; A. Nicholls, Goethe’s concept of the daemonic, New-York, 2006; A. Raabe, Das Erlebnis des Dämonischen in Goethes Denken und Schaffen, Berlin, 1942. Senza entrare nel merito di una trattazione particolareggiata, va detto che più volte il ‘demonico’ goethiano è stato equiparato al demone socratico ed eracliteo (basti citare qui solo gli importanti riferimenti storici generali che dà E.-M. Schulak, Daimon: über die Motive philosophischen Denken, Wien, 2001); a noi pare che, attraverso una rapida lettura di alcuni passi goethiani, vada la pena di individuare una sostanziale, profonda diversità dell’intendimento del demoniaco nel tedesco rispetto a quello della Grecia. Il vecchio Goethe sostiene, dialogando con Eckermann, che il demoniaco è il «terzo possente», ciò che ci «possiede» in una relazione d’amore, e che perciò rende triadico il rapporto con l’altro individuo (cfr. Gespräche mit Eckermann, cit.; tr. it. vol. II, pp. 305-306). Una triadicità, però, che non si risolve nè si acquieta in una conciliante sapienza, o esperienza, oltreumana. 2
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vita e vita come organizzazione multipla, dinamica e multilaterale delle parti e fra le parti: non è questa un’analogia per dire un decorso, una storia? «Non si deve rimproverare il pensare per analogie. L’analogia ha il vantaggio che non isola e, propriamente, non vuole l’estremo [nichts Letztes will]; l’induzione, invece, è dannosa, porta allo sguardo un fine prefissato (…) trascinando vero e falso con sé»4, come a dire che un pensiero analogico è per sua intima disposizione e natura, aperto, connesso, intercomunicante con gli oggetti – e il giudizio di verità su di essi – con cui ha a che fare. La relazione uno-molti, parte-tutto, è garantita, prima ancora che epistemologicamente, vitalmente, dal fatto che, sottesso al variare del variabile, il giace un fondo di comune appartenenza: «Ogni esistente [Jedes Existierende] è un analogo [Analogon] di tutto l’esistente [alles Existierenden]; per questo l’esistenza [Dasein] ci appare sempre, nello stesso tempo, separata e unità. Se si segue troppo l’analogia, tutto si raccoglie nell’identico; se la si evita, si disperde tutto nell’indefinito. In entrambi i casi l’osservazione ristagna, una volta come sopravvissuta, l’altra come morta»5. «Comunicare attraverso analogie lo ritengo tanto utile quanto gradevole: il caso analogo non è invadente, non vuole dimostrarsi; si pone un altro caso davanti senza mischiarsi a lui. Molti casi analoghi non si uniscono in serie chiuse, e sono come una buona società che sempre più si stimola sempre di più dà»6. Questo principio, così tipicamente goethiano, che presuppone un accoppiarsi dei concetti senza indistintamente sovrapporsi; questa “immagine” che disegna un’opposizione reale dei contrari senza conciliazione, ma fruttuosa e libera, è – ancora una volta mediante un’analogia di analogia – rappresentabile attraverso la raffigurazione “magnetica” della polarità: «Se si pensa la facile eccitabilità di tutto l’essere [Wesen] come al minimo cambiamento di una condizione, ogni alito manifesta nei corpi la stessa polarità, che in loro, propriamente, dormicchia»7. «La tensione è lo stato, in apparenza indifferente, di un essere dotato di energia [energischen Wesens] in piena preparazione a manifestarsi, differenziarsi, polarizzarsi»8. Ora, se queste affermazioni - così a tratti persino eccessive 4
J. W. Goethe, Maximen und Reflexionen, in GW, Bd. XII, cit., pp. 368-
369. Ivi, p. 368 (cfr. supra, Cap. II, n. 95). Ibid. 7 Ivi, p. 369. 8 Ibid. Un approfondimento a parte meriterebbe soltanto la tematica della 5 6
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– di spiccata predilezione goethiana per l’utilizzo non meramente retorico o didattico dell’analogia, bensì epistemologicamente fondato, non dovessero bastare a vedere nel poeta un “ordine della ragione analogica” almeno abbozzato, bisogna pensare al fatto che il punto centrale della teoria della conoscenza herderiana è proprio il principio dell’analogia. è Herder, infatti, che nel 1778 – dunque in pieno clima di sodalizio emotivo e scientifico con Goethe – scrive che «ciò che sappiamo lo sappiamo soltanto [nur] dall’analogia, dalla creatura a noi e da noi alla creatura»9, intendendo con ciò il movimento dinamico che si costituisce nel rapporto soggetto conoscente-oggetto conosciuto. Questo “terzo” che, lui solo, rende possibile il rapportarsi di soggetto e oggetto – e che è il rapporto stesso – è proprio l’analogia: «Una nuova forma [Bild], una analogia, un’incidente uguaglianza [Gleichnis] che fa nascere le migliori e più audaci teorie»10. Goethe – il Goethe delle prime, affaccendate ricerche di “storia naturale” – avrebbe ben potuto condividere queste ipotesi, queste linee-guida di lettura a fondazione analogica. E ciò, per di più, se si guarda alle prime prove dello scrittore Herder, viene vieppiù confermato allorquando questi, recensendo nel 1771 un’opera di carattere storiografico11, sostiene che il libro in questione non rispetta un principio di fondo del lavoro storico, ossia di osservare e registrare «come il generale [Allgemeine] soccomba sempre al particolare [Besondern], e il millenario destino più energico si incurvi nella più pura assenza di vincoli delle cose»12. Non può esserci ragionevole polarità. è stato scritto, con una qualche, seppure parziale ragione, che «la vera e propria dottrina della vita del Romanticismo era la polarità (…) e la si trovava dovunque, non solo nella filosofia della natura». E. Hirschfeld, Romantische Medizin. Zu einer künftigen Geschichte der Naturphilosophischen Ära, Leipzig, 1930, p. 56. 9 J. G. Herder, Vom Erkennen und Empfinden der menschlichen Seele (1778), in Herders sämmtliche Werke, Hrsg B. Suphan, Bd. VIII, Berlin, 1877-1913, p. 170 (nachgedruckt, Hildesheim-New York, 1978-1979). 10 Ivi, p. 165. 11 J. G. Herder, Rezension von Karl Deninas Werke‚ Staatsveränderungen von Italien, in Herders sämmtliche Werke, cit., Bd. V., pp. 431-434. Si tratta della recensione al primo volume, tradotto in tedesco e pubblicato nel 1771, del libro di Carlo Maria Denina, Delle rivoluzioni d’Italia libri ventiquattro, pubblicato due anni prima a Torino. 12 G. Herder, Rezension von Karl Deninas Werke ‚Staatsveränderungen von Italien, cit., p. 433.
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dubbio, allora, che il gusto (ma ben più che in senso solo marginale o occasionale) del dettaglio, l’apprezzamento dell’irripetibile, unico darsi del fenomeno, in quanto espressione a pieno titolo scientifico della natura, il necessario temporalizzarsi delle forme come origine, sviluppo e crescita dell’individuo, insomma, che molti dei tratti salienti della dottrina goethiana della metamorfosi trovino in Herder e nel dialogo con lui un luogo di calda incubazione. «La più bella metamorfosi del regno inorganico – scriverà Goethe, assai significativamente, anni dopo – è quando, nel nascere, l’amorfo [das Amorphe] si trasmuta in un che di formato [Gestaltete]. Ogni massa [Masse] ha, per ciò, impulso [Trieb] e direzione [Recht]»13. Ma avere impulso e direzione significa, nella prospettiva “protostoricistica” attribuibile a Goethe, avere storia, essere storia che si sviluppa nel vivere e attravero il vivere. Ed è fin troppo celebre la ricostruita e ricercatissima metaforica herderiana della prima parte delle Idee per non riconoscervi molti degli spunti naturphilosophisch di Goethe14. Ma non solo. Se da queste espressioni, già in prima battuta così dense e significative, si passano a leggere alcune pagine di Humboldt, si resta impressionati per la concordanza concettuale e, per così dire, emotiva che ne trapela. L’obiettivo di Humboldt, in questa pagina importante, è quello di capire come i greci possano aver costruito la loro grandezza attraverso la genialità di una «nazione intera»; per far ciò, però, bisogna «fare un passo indietro e considerare l’individualità»15. J. W. Goethe, Maximen und Reflexionen, in GW, Bd. XII, cit., p. 370. Si vedano, specificamente su ciò, le acute osservazioni di R. Bubner, Naturgesetzlichkeit und Menschheitsgeschichte, in «Goethe-Jahrbuch», (110) 1993, pp. 135-145, in part. p. 139, dove viene messo in rilievo come Goethe (il Goethe maturo della pubblicazione definitiva dei suoi tre saggi introduttivi alla teoria della metamorfosi, ossia 1) Das Unternehmen wird entschuldigt; 2) Die Absicht eingeleitet; 3) Der Inhalt bevorwortet; cfr. GW, XIII, cit., pp. 53-63), renda merito alle Idee di Herder di avergli «alleggerito, e pure addolcito» la «faticosa, tormentatissima ricerca» presentata al lettore (ivi, p. 63). 15 W. von Humboldt, Ueber den Charakter der Griechen, die idealische und historische Ansicht desselbe, in Werke in fünf Bänden, hrsg. von A. Flitner-K. Giel, Bd. II, Darmstadt, 1963, p. 66. A proposito dello spiccato e noto riguardo di Humboldt per la “grecità”, si vedano le interessanti – perché scritte da un osservatorio semi-contemporaneo – osservazioni di G. Schlesier, Erinnerungen an Wilhelm von Humboldt, Bde. I-II, Stuttgart, 1843-45, qui vol. I, spec. pp. 208-212, ma anche J. Quillien, G. de Humboldt et la Grèce. Modèle et histoire, Lille, 1983. 13
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Ed ecco sopravvenire, indisturbata, esplicita, l’indicazione analogica dell’affresco biologico: «L’individualità di un uomo è una col suo impulso [Trieb]. L’universo intero esiste [bestehen] solo mediante l’impulso, ed esso vive ed è [ist] intanto e fin quando, nello sviluppo, lotta per vivere e per essere. Siccome l’impulso non può essere che determinato, anche la forma della vita [Form des Lebens] diviene attraverso di lui, e tutta la diversità dell’esistenza [Existenz] si fonda solo sulla diversità dell’impulso vivente, o la sua possibilità [Möglichkeit] si rielabora ininterrottamente mediante la resistenza che trova»16. è stato detto, ed a giusta ragione, che Humboldt – specificamente parlando di questo libro, anche se non dello stesso passo – pensa l’idea di storicità in modo tale che essa «porta il reale sulla soglia del possibile»17, ed è proprio questo l’ambito per così dire “simbolico” – ma certo analogico – in cui si muovono le relazioni, le affinità, le simmetrie e le crescite di questo dialogo a tre che stiamo misurando. Portare il “reale sulla soglia del possibile” vuol dire, una volta pensata la vita come decorso di forme radicalmente e individualmente cangianti, porsi la questione di quelle “costanti” mediante le quali è possibile fare di una semplice osservazione un alcunché di fondato sul piano scientifico. Quando Herder, in consonanza con quanto la tradizione gnoseologica della sua epoca riteneva18, sostiene che «con la figura eretta dell’uomo ci sta l’albero, le cui forze sono così proporzionate che devono dare al cervello i succhi più dolci e ricchi, così come i suoi fiori e chiome»19; che «un popolo sta a una pianta della natura quanto una famiglia: solo quella con più rami»20; che, in ultima analisi, «tutti gli oggetti dei nostri sensi divengono solo tramite noi, nella misura in cui noi li garantiamo, ossia indichiamo con le impronte della nostra coscienza 16 W. von Humboldt, Über den Charakter der Griechen, die idealische und historische Ansicht desselbe, cit., p. 67. 17 F. Tessitore, Hegel e Humboldt: l’antico tra ontologia e antropologia, in Id., Contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, cit., vol. II, p. 652. 18 Si confronti a tal proposito N. Tetens, Philosophische Versuche ueber die menschiche Natur und ihre Entwickelung, Bde. I-II, Leipzig, 1777, in part. Bd. I, p. XXII: «L’uso dell’analogia racchiude la conclusione che se una cosa è simile alle altre rispetto ad alcuni caratteri, lo sarà ancora riguardo a molti, senza che risulti evidente la connessione fra questi ultimi caratteri e i primi». 19 J. G. Herder, Über Bild, Dichtung und Fabel (1787), in Herders sämmtliche Werke, cit., Bd. XV, p. 128. 20 Ivi, p. 129.
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in modo più o meno chiaro e vivace (…). La nostra vita intera è in conformità a ciò, una poetica: noi non vediamo, piuttosto ci creiamo le nostre immagini (…). Da qui risulta che la nostra anima e la nostra lingua allegorizzano costantemente»21: quando tutto questo viene affermato e sostenuto in una cornice argomentativa mirata alla fondazione di una “disciplina” avente per fine una «filosofia della storia» che sì, non «può apportare (…) nessuno sviluppo a priori», ma che, nonostante questo, vuole opporsi fortemente a «chi crede non si dia alcuna filosofia sui facta» e che, in tal misura, costui (Kant, ovviamente), «si distingue» da Herder22; quando tutto questo è detto con siffatta altezza di significato, allora questo atto allegorizzatore è da intendersi l’effetto di una determinata, potente volontà di definire i caratteri per i quali la storia possa essere pensata come scienza. Ed allora, se è vero che l’impresa grandissima di “portare il reale sulla soglia del possibile” individua lo sforzo di conferire ampiezza programmatica al pensiero storico filosoficamente fondato in nuce, la correlativa aspirazione a portare il “possibile sulla soglia del reale” significa tentare di proporre condizioni di accertabilità epistemologica tali da rendere concepibile e trasferibile l’“oscuro” nel “chiaro”: «Di fronte all’abisso di certe sensazioni oscure (…), la nostra filosofia chiara e luminosa inorridisce al massimo grado», afferma Herder nella sua opera più marcatamente epistemologica23, ed è per questo che la prospettiva intellettuale e metodologica del sapere impone di riconoscere, nell’altro testo riconducibile ad intenti erkenntnistheoretisch, che «l’essere reale [Realsein] Ibid. Utilizzando in special modo le poetiche di Mallarmé e di Valéry (ma non dimenticando, a giusto titolo, la figura di Novalis), A. Prete, Il demone dell’analogia. Da Leopardi a Valéry, Milano, 1986, p. 152, esprime un’immagine che può essere valutata affine a quella appena citata di Herder: «L’analogia è l’esperienza di un’approssimazione a quella soglia del linguaggio cui né senso né la destinazione possono introdurre. Si potrebbe leggere l’analogia, secondo una congettura letterale e insieme violenta, come esperienza della prossimità al logos». 22 Herder an Wieland, Ende Januar 1785, in J. G. Herder, Gesamtausgabe, Briefe, Bd. V, Weimar, 1979, pp. 102-103. La lettera esprime, con accenti anche amari, il disappunto di Herder per la recensione kantiana al libro sulla storia, quella stessa recensione di cui si è fatta larga menzione nel primo capitolo della presente ricerca. 23 J. G. Herder, Vom Erkennen und Empfingen, in Herder sämmtliche Werke, cit., Bd. VIII, p. 179. 21
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è il primo concetto assoluto»24, impone di assumere il tanto di paradossale che concerne il fatto che «i concetti sommi della filosofia dell’attrazione e repulsione [Anziehung und Zurückstossung] sono le cose più semplici del sentimento; quanto poco sappiamo! Il sommo della filosofia è contemporaneamente primo e noto [Erste und bekannt]»25. La posizione di Herder appare tendenzialmente chiarita. Il suo dilemma è, come in Kant e nel Goethe lettore della Critica del giudizio, quello di fondare l’esperienza quando questa è il prodotto di un rapporto vivente col mondo, ossia quando l’esperienza storica si compone sotto il concetto generale di vita. A tal fine, ecco l’utilizzo dell’analogia come modello esplicativo della relazione conoscenza-vita. Ma, a differenza di Kant e di Goethe (in loro ancora certo presente seppure non chiarita, ancora inesplicita in quanto “funzione”), l’analogia considerata da Herder si caratterizza per una certa rigidità epistemica, per un’invarianza schematica che difficilemente accetta trasformazioni, metamorfosi, in altri termini, la novità, l’ignoto. Infatti la filosofia della storia, herderianamente pensata, servendosi dell’analogia come ad un affresco in grado soltanto di mostrare le affinità e le somiglianze tra la storia dell’organico oscuro e la storia dell’organico autocosciente, perde efficacia, se così intesa, in termini di funzionalità. Se è vero – come è vero, almeno sul piano storiografico, se non anche su quello categoriale – che «il concetto di ‘analogia’ (…) si accompagna fin dalla sua prima definizione al concetto di ‘funzione’»26, quella di Herder rappresenta un’analogia “defunzionalizzata”, depotenziata rispetto all’utilizzo che ne farà una scienza storica arricchita e innervata dal decisivo ripensamento di Humboldt. Questi, infatti, rappresenta come pochi la figura e il ruolo di una sintesi avanzante, di una sponda – creante e produttiva, a sua
24 J. G. Herder, Versuch über das Sein, in Werke, Bde. I-II, hrsg. von W. Pross, München-Wien, 1984, qui Bd. I, p. 583. Per una breve ma intensa analisi di questo giovanile e controverso saggio di Herder, M. Baum, Herder’s Essay on Being, in aa. vv., Herder Today: Contributions from the International Conference (Nov., 5-8, 1987 – Stanford), edt. By K. Mueller-Vollmer, Berlin, 1987, pp. 126-137; 25 J. H. Herder, Studien und Entwürfe zur Plastik, in Herder sämmtliche Werke, cit., Bd. VIII, p. 97 e sgg. 26 (Bedau-Boniolo-Di Fiore-Ferraguti-Floridi-Giaimo-Lorusso-Mameli-Minelli-Pigliucci-Testa), Filosofia e scienze della vita. Un’analisi dei fondamenti della biologia e della biomedicina, a cura di G. Boniolo-S. Giaimo, Milano, 2008, p. 106.
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volta, di nuove vie – alle riflessioni goetherderiane, all’ombra di Kant. Con Humboldt, e attraverso di lui27, si costituisce il ceppo gnosoeologico – destinato a fortificarsi sempre di più – di una visione della storia come quella riflessione intorno a uno sviluppo unitario di individui distinti, e di come di questa possa darsi scienza. Dire, allora, ‘sviluppo unitario di individui singolari’ sta come dire la storia come corpo organico, e sviluppo, di per sé, non indica affatto una univoca, già fondata via di percorrimento, ma un sempre instabile, sempre “da-darsi” funzionale dell’accadere temporale. Il costituirsi della storia come sviluppo e progetto, implica l’assunzione della sintesi di funzionalità e teleologismo, metamorfosi e visione preveggente, rapporto cangiante e scambievole di forma e direzione. Scienza umana come nessun altra, l’interrogazione riflettente, condotta storicamente sulla storia, co-implica i caratteri “formali” e “contenutistici” del fabbro della storia stessa, perché «più l’uomo è abituato a vivere [zu leben gewohnt ist] nelle idee e nei sentimenti, più è forte e raffinata la sua forza intellettuale e morale, tanto più cerca di eleggere [wählen] quelle situazioni esteriori che danno più materia [Stoff] all’uomo interiore, oppure quelle, capitategli per destino, in cui potersi quanto meno conquistare quelle situazioni»28. La vita che si caratterizza come abitata (abituata29) da idee e sentimenti, è quell’individuo vivente in cui «soddisfare i bisogni fisici, immediatamente 27 Naturalmente non solo di lui. è difficile, infatti, immaginare la genesi di una “scuola” come quella storicistica “classica” senza i contributi di uno Schleiermacher, in primo luogo, di Hamann, di Schiller e dei fratelli Schlegel, per finire agli storici “di professione” (scil. la distinzione tra “storicismo dei filosofi” e “storicismo degli storici”, esplicitata da Gentile, ma in nuce già percepibile nel dibattito d’inizio Ottocento tra concezione della storia come “storia critica”, come “intuizione della vita” e come idea di storia universale; si veda, al tal proposito G. D’Alessandro, Dalla causa alla vita, cit., spec., pp. 136-212). 28 W. v. Humboldt, Ideen zu einem Versuch, die Grenzen der Wirksamkeit des Staats zu bestimmen (1792), in HGS, cit., Bd. I, p. 117. 29 ‘Wohnen’ è il verbo tedesco ‘abitare’, ma, così come in molte lingue, esso ha un’inscindibile relazione con l’habitus, con l’“abitudine” e, dunque, con l’“esser-abituati-a”, “abitati-da”. Che non si tratti semplicemente di giochi linguistici lo testimonia sia intrinsecamente il ricorrente insistere di Humboldt sul ‘gewohnt’ come attitudine, ossia tendenza, sia estrinsecamente le grandi operazioni ermeneutiche di Heidegger in Bauen Wohnen Denken (1951), in Vorträge und Aufsätze. Heidegger Gesamtausgabe, Bd. VII, Frankfurt a. M:, 2000; tr. it. Costruire, abitare, pensare, in Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Milano, 1985.
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o mediatamente o raggiungere in generale fini esteriori, è puntualmente connesso a sentimenti interiori»30, e questo “impulso” all’unità è tale che, quanto più è forte, «tanto più libero cresce l’occuparsi esteriore che si sceglie»31. Ma, ancora, esiste una determinazione – una condizione – ancora più originaria di questo pur elevantesi ambire all’unità di esterno-interno, di disposizione meta-morfologica del “dentro” e approccio funzionale al “fuori”. Questa «condizione necessaria, naturalmente [freilich] è la libertà, senza la quale anche l’occupazione più calorosa non potrebbe produrre effetti salutari [heilsamen Wirkungen]»32. Il quadro iniziale che possiamo farci da subito è ben riassunto da un interprete quasi coevo di Humboldt stesso, che nel 1847 può descrivere come segue la filosofia del berlinese: «Lo sviluppo spirituale del genere umano si presenta primariamente come duplice: come sviluppo dello spirito pratico e dello spirito teoretico. Il principio e contemporaneamente il fine del primo è la libertà morale, o, colto oggettivamente, il bene, il suo organo assoluto la volontà umana, il suo prodotto singolo è l’attività e la forma assoluta della sua realizzazione in generale è la storia. Ugualmente, principio e contemporaneamente fine del secondo è la conoscenza razionale, o, in senso oggettivo, la verità, il suo organo assoluto il pensiero umano, il suo prodotto singolo la rappresentazione determinata ed il linguaggio la forma assoluta della sua realizzazione»33. La “salute” della vita individua è l’obiettivo di ogni filosofare, e l’organizzazione mediante la quale una vita può dirsi effettivamente “una” e “sana”, è il libero darsi dell’autoaggregazione delle forme – a loro volta singolari – che compongono il corso della vita, ossia la vita stessa. «Metamorfosi del soggetto come metamorfosi del vivente», è stato giustamente rilevato34, e ciò perché «l’analogia biologica comincia 30 W. v. Humboldt, Ideen zu einem Versuch, die Grenzen der Wirksamkeit des Staats zu bestimmen, cit., p. 117 31 Ibid. 32 Ivi, pp. 116-117. 33 M. Schasler, Die Elemente der Philosophischen Sprachwissenschaft Wilhelm von Humboldt’s, Berlin, 1847, pp. 71-73. 34 P. Giacomoni, Formazione e trasformazione. “Forza” e “Bildung” in Wilhelm von Humboldt e la sua epoca, Milano, 1988, p. 15. Altro lavoro che è assai utile alla presente ricognizione humboldtiana è quello di S. Caianiello, La “duplice natura” dell’uomo. La polarità come radice del mondo storico in Humboldt e in Droysen, cit. La menzione di questo libro ci offre il destro per evidenziare quanto gli studi italiani su Humboldt siano stati efficacemente stimolati dal lavoro di
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ad assumere un ruolo importante nelle riflessioni dell’epoca: il soggetto, Fulvio Tessitore, che ha tenuto in gran conto l’opera del tedesco soprattutto in virtù della sua chiara tendenza etico-politica. Una tendenza aperta e possibilizzata dagli studi di Humboldt sul linguaggio, sulla “destinazione” essenzialmente comunitaria di quell’essere parlante che è l’uomo. Ha sostenuto a tale riguardo Tessitore, con termini quasi definitivi, che questo interesse humboldtiano per il linguaggio sta a significare, calandolo da un piano particolare ad una visione più generale, «che le produzioni infinite del linguaggio non si raccolgono nell’unità oggettiva di un prodotto, ma nell’unità ideale di un’attività. Vale a dire che l’essenza non è da ricercare in un dato a cui si aggiungono i suoi significati, i suoni, i simboli delle parole, ma è un articolato lavoro di espressione del pensiero, in reciproca dipendenza dalle parole. Insomma, si può e si deve dire che l’essenza è attività». F. Tessitore, Appendice in Id., Contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, vol. IV, cit., p. 323. L’individuazione tessitoriana del pensiero di Humboldt come momento fondamentale dello sviluppo dell’idea del mondo storico dal punto di vista etico-politico deriva certamente dai primi, pioneristici studi sulla figura del tedesco confluiti nel libro del 1965 su I fondamenti della filosofia politica di Humboldt, Napoli, e proseguiti, in varie riprese e ritorni, con saggi come L’etica di Humboldt e l’idea di perfezione, in F. Tessitore, Comprensione storica e cultura, cit., pp. 95-111; Id., Humboldt, Niebuhr e la ‘Decadenz-idee’, ivi, pp. 113-165; eppure l’impressione che si ricava dalla letture dei suoi più recenti studi humboldtiani – (per citarne solo uno, quello recentissimamente ripubblicato in F. Tessitore, Ultimi contributi alla storia e alla teoria dello storicismo, voll. I-III, Roma, 2010, dal titolo La filosofia di Humboldt, ivi, vol. I, pp. 3-62, che però compariva già come Introduzione a W. v. Humboldt, Scritti filosofici, a cura di G. Moretto-F. Tessitore, Torino, 2004) – è la compresenza, accanto al tema di fondo, di un nuovo gusto teoretico, di un’analisi più specificamente logicoepistemologica della filosofia di Humboldt. Naturalmente qui si fa un discorso assai generalizzante, a cui va associato il dato costante della rilevazione di Humboldt come di uno dei “fondatori” della grande stagione storicistica tedesca, e su ciò si veda F. Tessitore, Introduzione allo storicismo, 4. ed., Bari, 2003, in part., pp. 10-26. è un fatto, però, che l’aumentato interesse di Tessitore per le pieghe teoretiche della filosofia del linguaggio (ma non solo) di Humboldt, non solo non esclude l’attenzione al dato etico-politico, anzi, se possibile lo conforta e lo rafforza, perché, come afferma un altro degli interpreti maggiormente attenti – e più “tecnicamente” cogenti – alla linguistica humboldtiana, il linguaggio è «lo specchio migliore dello spirito umano». J. Trabant, Mithridates im Paradies. Kleine Geschichte des Sprachdenkens, München, 2003, p. 210 (ma dello stesso Trabant, e dello stesso tenore interpretativo, seppur specializzati in semiotica e linguistica, si vedano pure Was ist Sprache?, München, 2008, spec. pp. 26-51 e 242 e sgg.; Apeliotes, oder, Der Sinn der Sprache: Wilhelm von Humboldts SprachBild, München, 1986). Non sapremmo qui ampliare ulteriormente il campo
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l’individuo non è più un dato, è in primo luogo divenuto, trasformato, modificato, non è qualcosa di cui sia definibile un’essenza, ma ambito di mutamento, forse di costruzione e quindi di azione»35. E allora: se la storia è «simile alla vita che agisce [handelnden Leben]»36, una scienza che riesca a tenere uniti l’incancellabile materiale empirico dell’esperienza individuale vivente e la fondazione trascendentale a priori di questo sapere non può mai essere una scienza delle cause prime, proprio perché non ci può mai essere “un” prima, se non radicalmente accompagnato da un dopo e da un altro “prima” prima di lui, non può mai essere una dialettica degli opposti risolventesi nella riconciliazione dell’identità dell’identità e della non identità. Insomma se una scienza storica c’è da pensare, questa non può e non deve – proprio perché è la stessa vita che bibliografico degli studi sulla filosofia del linguaggio in Humboldt, se essa, inoltre, possa essere definita strictu sensu tale, o se si tratti di una “linguistica”, di una “semiotica”, di una “semiologia” o di altri “saperi positivi” e forse non ne è neppure il caso, viste le indagini preziose già fatte su questo problema (aa. vv., Wilhelm von Humboldt e il dissolvimento della filosofia nei saperi “positivi”, a cura di F. Tessitore-A. Carrano, Napoli, 1993, soprattutto i saggi di J. Quillien, L’antropologia filosofica di W. von Humboldt come interpretazione originale del kantismo, ivi, pp. 23-48, di M. Riedel, Antropologia trascendentale e teoria della Bildung: l’originaria idea della scienza di Wilhelm von Humboldt, ivi, pp. 49-69, di J. Trabant, Articolazione: il lavoro dello spirito, ivi, pp. 159-188 e di P. Giacomoni, Antropologia humboldtiana e morfologia goethiana: interiorità e superficie, ivi, pp. 189-218); più importante, nella nostra ottica, è la consapevolezza (nostra e sua) del possesso da parte di Humboldt di una chiara visione d’insieme degli scopi formativi della Sprachwissenschaft, affinata grazie all’esperienza sul campo (si ricordino i suoi numerosissimi viaggi in terre e lingue esotiche), limata attraverso il filtro kantiano della creatività e spontaneità dell’immaginazione umana, elaborata alla luce di una precisa volontà fondativa. Tutto ciò non può che far nascere la convinzione che Humboldt avesse ben chiara la matrice per così dire “direzionale” delle sue ricerche sul linguaggio e sui linguaggi; e direzionale sia nel senso etico – nel senso di una prospettiva significativamente volta a raffigurare nel linguaggio il luogo dell’incontro tra uomo e uomo – sia nel senso diacronico e sincronico delle origini e sviluppi delle forme grammaticali storicamente determinatesi in un tempo e in un luogo. Per quest’ultimo aspetto, si consulti il bel volume curato ancora da Trabant, dal titolo Sprache der Geschichte, München, 2005. 35 P. Giacomoni, Formazione e trasformazione, cit., p. 15. 36 W. von Humboldt, Über die Aufgabe des Geschichtschreibers, HGS, cit., Bd. IV, p. 40.
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si autosserva e autodirige – raccogliersi nelle pur grandi manifestazioni dell’intelligenza umana, nella filosofia di Aristotele e di Hegel. Così come per Goethe – per cui Kant rappresentava la via maestra alla comprensione della chiastica compresenza, nella natura, di uno e tutto – anche per Humboldt la filosofia critica è l’unica possibile modalità di pensare l’unità (non dialettica, non conciliatoria, ma conflittualmente evolventesi in un tendere costante) tra individuo e totalità. In un saggio giovanile del 1792, Ueber die Sittenverbesserung durch Anstalten des Staats37, c’è un breve ma assai significativo accenno all’idea che Humboldt si stava formando della filosofia critica – e non a caso, pure lui in palese riferimento alla Critica del giudizio. Il discorso di Humboldt verte, come sottolinea il titolo del saggio, su come un insieme di “molti” (lo Stato) possa coesistere con, e addirittura migliorare, le capacità morali del singolo individuo. Come spesso accade in Humboldt, l’avvio dell’argomentazione non prende corpo da riflessioni “specialistiche” sull’organizzazione statuale, sulle varie forme di governosemmai comparate secondo vari e diversi esempi storici passati e presenti - bensì dalla considerazione del legame strettissimo tra “corpo” sociale rappresentativo e “corpo” organico del genere-uomo38. Per cui, la prima istanza teorica da accettare è la seguente: «I sentimenti, le inclinazioni e le passioni sensibili sono quelle che in primo luogo si manifestano nelle più impetuose espressioni e negli uomini. Laddove esse tacciono, prima di essere raffinate dalla cultura, o perché l’energia dell’anima ha dato un’altra direzione, è spenta anche tutta la forza [Kraft], e nulla di buono e di grande si può prospettare. Esse, quanto meno, sono primariamente efficaci ad insufflare nell’anima un calore vivente, a spronare a una qualche attività»39. Come ricorda Cassirer in un suo famoso saggio40, secondo i primi tentativi di ricostruzione concettuale e storiografica del pensiero humboldtiano, due sarebbero state le influenze prevalenti sul pensiero di Humboldt, influenze sintetizzate brillantemente da Steinthal nella formula “spinozismo kantianizzato”41. E, forse, non è del tutto Apparso per la prima volta in «Berlinische Monatsschrift», (11) 1792, pp. 419-444, ora in Wilhelm von Humboldts Gesammelte Werke, Bd. I, cit., pp. 318-335. 38 Ivi, pp. 318-319. 39 Ivi, pp. 319-320. 40 E. Cassirer, Die Kantischen Elemente in Wilhelm von Humboldts Sprachphilosophie (1923) in ECW, Bd. XVI, Hamburg, pp. 105-133. 41 Ivi, p. 118. Cassirer rimanda qui, con l’espressione succitata, a H. Stein37
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errato leggere in alcuni momenti della filosofia del berlinese una qualche attenzione – e forse più di una qualche attenzione – al pensiero di Spinoza42. Ma, appunto, si tratta al più di una qualche attenzione lessicale, dell’impressione, probabilmente, suscitata in Humboldt dalla teoria spinoziana delle passioni, mediatagli probabilmente da Jacobi – ma, attenzione, dallo Jacobi romanziere, non dal filosofo del «sentimento»43, non dal pensatore della filosofia delle cose divine44. Del thal, Die Sprachwissenschaft Wilhelm v. Humboldt’s und die Hegel’ sche Philosophie, Berlin, 1848; tr. it., La scienza della lingua di Wilhelm von Humboldt e la filosofia hegeliana, Napoli, 1998. 42 Come, notoriamente, è avvenuto per Goethe. Uno dei più famosi saggi scientifici di Goethe è infatti quello dal titolo Studie nach Spinoza, in GW, Bd. XIII, cit., pp. 7-10. Se questa fonte spinozistica comune (al di là della valutazione della pregnanza in entrambi i casi) può essere già elemento sufficiente per intavolare un discorso su una più profonda affinità tra Goethe e Humboldt, non è qui problema da affrontare esaurientemente. Su questo punto, almeno in modo assai ampio per quanto attiene Goethe, si veda A. Jungmann, Goethes Naturphilosophie zwischen Spinoza und Nietzsche : Studien zur Entwicklung von Goethes Naturphilosophie bis zur Aufnahme von Kants “Kritik der Urteilskraft”, Frankfurt a. M., 1989. Riferendosi ad Humboldt, va letta un importante nota di E. Troeltsch nel suo Der Historismus und seine Probleme (1922), in Gesammelte Schriften, Bd. III, Aalen, 1961, pp. 252-253; tr. it. Lo storicismo e suoi problemi, a cura di G. Cantillo-F. Tessitore, Napoli, 1989, vol. II, pp. 41-42. Si veda pure un interessante spunto di G. Walther, Niebuhrs Forschung, Stuttgart, 1993, pp. 560-561, dove si disegna un possibile confronto tra Humboldt e Spinoza sul piano delle nozioni di “carattere” e di “impulso” [Trieb]. Rimane però la sensazione che non si colga l’essenziale dell’impegno intellettuale di Humboldt quando lo si paragoni, direttamente o indirettamente, ad una versione più o meno canonica del razionalismo moderno. Sembra che si perda troppo di vista, in tali accostamenti, la straordinaria svolta impressa da Kant a tutto il pensiero europeo, soprattutto, e proprio in quegli anni, a partire dall’universo culturale tedesco. La sensazione di trovarsi di fronte a territori totalmente ignoti con un nuovo strumento d’indagine doveva essere intensissima, e certo Humboldt era uno di particolare sensibilità per il nuovo e, in special misura, dell’ “uso pratico” che in campo educativo la svolta kantiana poteva ed ha in effetti rappresentato. 43 Per come lo definiva Hegel in Glauben und Wissen, in G. W. F. Hegel, Jenaer Kritische Schriften, Gesammelte Werke im Auftrag der Deutschen Forschungsgemeinschaft, Bd. IV, Hamburg, 1968, p. 321, p. 347 e pp. 360-361; tr. it., Fede e sapere, in Primi scritti critici, a cura di R. Bodei, Milano, 1990, p. 131, p. 165 e pp. 182-183. 44 Ricordiamo la recensione di Humboldt, Über Jacobi’s Woldemar, la pri-
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resto è difficile conciliare sul piano concettuale l’eternale “immobilità” del sistema spinoziano con l’idea stessa di un miglioramento (in generale), e dei costumi morali del singolo individuo, poi, ad opera di un istituto (composto a sua volta di individui) quale lo stato. Le passioni, le inclinazioni e in sentimenti, secondo Humboldt, non sono infatti meri accadimenti fisiologici, non sono fisicità e sensibilità fini a se stesse, non esprimono soltanto delle “essenze vitali”, bensì «portano vita e, in questa, capacità di tendere [Strebekraft]: se insoddisfatta, la rendono attiva nell’applicarsi al rinvenimento di progetti, coraggiosa nell’esercizio; se soddisfatta, esse promuovono un leggero e libero gioco di idee [Ideenspiel]»45. Se si seguita a leggere il passo humboldtiano, le affermazioni importanti messe in gioco, difficilmente si può non rimanere colpiti dalla prossimità con la celebre descrizione dell’immaginazione produttiva kantiana46. Infatti ecco che le passioni, le inclinazioni e i sentimenti «portano in generale tutte le rappresentazioni [Vorstellungen] in un movimento [Bewegung] grande e molteplice, mostrano nuovi punti di vista [Aussichten], conducono a nuovi lati che prima rimanevano non notati»47. «Senza calcolare» – prosegue Humboldt – «i diversi modi del loro soddisfacimento sul corpo e sull’organizzazione, e, di nuovo, il ripercuotersi di questo sull’anima, in una maniera che naturalmente per noi è osservabile solo nei suoi risultati»48. Si vede già con una qualche chiarezza l’impostazione di fondo e il tenore originario delle propensioni filosofiche di Humboldt: il gusto per l’analogia tra ma volta in «Jaenische Literatur-zeitung», 1794, pp. 315-317, poi ampliata in HGW, cit., Bd. I, pp. 288-310, alla terza edizione del Woldemar di Jacobi. Su ciò, sul rapporto Humboldt-Jacobi, si veda, oltre che P. Giacomoni, Formazione e trasformazione, cit., p. 44, che, in nota, rimanda ulteriormente, e giustamente, alle ricerche di Tessitore sul medesimo rapporto ne I fondamenti della filosofia politica di Humboldt, cit., il già citato saggio dello stesso Tessitore, La filosofia di Humboldt, pp. 8-11. Si veda pure, su ciò, M. Ivaldo, Filosofia delle cose divine, Saggio su Jacobi, Brescia, 1996 45 W. v. Humboldt, Über die Sittenverbesserung durch Anstalten des Staats, cit., p. 320. 46 Sulla assimilazione humboldtiana delle potenzialità implicate nel concetto kantiano di Einbildungskraft, cfr. F. Tessitore, La filosofia di Humboldt, cit., pp. 34-36. 47 W. v. Humboldt, Über die Sittenverbesserung durch Anstalten des Staats, cit., p. 320. 48 Ibid.
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“corpo” organico e “corpo” statuale, la compresenza necessaria di indivuduo e comunità – e tanto più necessario, allora, diventa il lavoro per armonizzare questa simultaneità relazionale di ineliminabili individualità e di contesto sociale – il tentativo di individuare la soglia di questa relazione nell’impulso alla forma, un tendere alla costituzione oggettuale del mondo storico come apertura di senso e di situazionalità esistenziali individualizzate. è ciò che in prospettiva si può leggere ancora in un altro suo breve contributo, allorquando si tratta di capire qual è il proprium che fa dell’uomo un uomo: «Questo quid, a lui ancora sconosciuto, non è 1) nulla di meccanico, che si possa realizzare con la semplice applicazione di regole precostituite o addirittura con il semplice intelletto (…) non è 2) nulla che assicuri utilità o piacere, che si limiti a porre in mano all’uomo degli strumenti o a lusingare le inclinazioni sensibili, ma piuttosto qualcosa in grado di influenzare profondamente l’umanità, consolidandone le energie più intime»49. Solo l’uomo che ha cura del proprio «carattere»50 e che di questo si occupa costantemente; solo l’uomo che che sa che su «questa affinità tra l’essenziale di ogni categoria e l’essenziale dell’umanità in generale, si fonda la possibilità» – si badi: mai la certezza – «di trovare un punto di vista unico, alla luce del quale confrontare e valutare [beurtheilen] ogni cosa»51; solo l’uomo che si costruisce questo “punto di vista”, può «appropriarsi adeguatamente di ciò che lo circonda [e] agire su di esso al fine di conferirgli una forma [bildend darauf zurückwirken]»52. Ma il “punto di vista” che qui si nomina e si richiede per l’assunzione completa dell’umanità del singolo uomo, non si identifica con uno “stato”, con un fondo immobile, con un reperto situato e conchiuso una volta per tutte, non si esprime con una misura statica, con un vedere univoco e fisso, ma, affinché da questa 49 W. von Humboldt, Über den Geist der Menschheit (1797), in Wilhelm von Humboldt’s Gesammelte Werke, Bd., II, cit., pp. 327-328; tr. it. Lo spirito dell’umanità, in Id., Il compito dello storico, a cura di F. Tessitore, traduzione di G. Moretto, Napoli, 1980, pp. 77-92, qui pp. 83-84. 50 Sul tema del carattere, così ampiamente presente nelle pagine humboldtiane, si veda, tra gli altri, S. Domandl, Kant, Goethe, Humboldt, cit., p. 30 e nn. 51-52, ma anche, e più specificamente riguardante il tema delle caratterizzazioni linguistiche degli idiomi storici, E. Coseriu, Der Sinn der Sprachtypologie, in Energeia und Ergon. Sprachliche Variation, Sprachgeschichte, Sprachtypologie, Tübingen, 1988, pp. 161-172. 51 W. von Humboldt, Ueber den Geist der Menschheit, cit., p. 329; tr. it., p. 85. 52 Ibid. (corsivo nostro).
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assunzione risulti una «realtà feconda, capace di suscitare entusiasmo attorno a sé e di irradiare ovunque vitalmente scintille apportatrici di vita»53, v’è bisogno che questo autoaffinamento non conosca «limiti di sorta nel proprio perfezionamento. Il suo processo è infatti infinito e non esiste un solo punto in cui esso possa dire di aver raggiunto il proprio fine ultimo ed esaurito la propria misura»54. E qui Humboldt chiude il suo ragionamento con un passo da un lato di particolare bellezza anche stilistica, dall’altro di grande significato programmatico, un piano di lavoro teorico, un’idea che lo impegnerà a fondo negli anni a venire: «si tratta dell’energia di una forza viva, e la vita cresce con la vita»55. E che di un programma di vasto respiro quest’ultima espressione sia silloge e ricapitolazione, lo mostra l’esperimento teorico più importante56, forse, di tutta la vita di Humboldt, quel tentativo di integrare, per la prima volta e con ricca e piena consapevolezza teorica, vita e storia, quella proposta di dare unità funzionale al plesso individuocomunità, coglimento dell’irripetibilità del singolo evento e ricerca della legalità intrinseca delle conformazioni storiche. E si badi bene che ciò non vuol dire affatto considerare il resto del lavoro intellettuale di Humboldt mera compitazione, oppure riedizione di problemi già esaminati a fondo dalla filosofia europea, oppure ancora espressione di una disciplina ben accurata sì – la sua linguistica – ma, in fondo, un sapere già con una tradizione e una storia (da Leibniz a Lambert, ad esempio57). Non sarebbe affatto serio sostenere infatti qui queste tesi, sarebbe del tutto fuorviante sottovalutare il fondamentale impatto delle analisi humboldtiane sul senso e sul significato del linguaggio “ascoltato”, più che parlato, sulla “ich-du-Beziehung” che immediatamente si instaura tra uomo e uomo nell’istante della sola intenzione comunicante, prima ancora addirittura dell’assoluto bisogno dell’espressione sonora
Ivi, p. 330; tr. it., p. 86. Ibid. 55 Ibid. 56 W. von Humboldt, Über die Aufgabe des Geschichtschreibers, cit., pp. 3553 54
56 57 Certo, afferma G. Mounin, all’inizio del suo Storia della linguistica dalle origini al XX secolo, Milano, 1989, la «linguistica generale è una scienza ancora più giovane della linguistica semplicemente, che è nata al principio del XIX secolo» (ivi, p. 5), ma è altrettanto vero che «si può seguire la teoria dell’“arbitrarietà del segno” (…) da Platone, Descartes, Leibniz e Condillac (…)» (ivi, p. 9).
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della voce parlante58. Ma nello scritto del 1821 sul compito dello storico, Humboldt manifesta una maturità teoretica e un sentire pratico talmente vividi, segmentati e organizzati in una organica e pulsante sistematicità, che è difficile non accogliere questo breve contributo come l’autentico legame che può convincentemente portare all’ulteriore passaggio in vista della grande epoca pre-darwiniana e propriamente darwiniana (e, complementarmente, alla stagione della scoperta e del consolidamento scientifico della teoria cellulare59). Del resto è lo stesso Humboldt, con grande acutezza e onestà intellettuale, a dichiarare che il «linguaggio è uno degli aspetti nei quali la forza spirituale umana nella sua universalità appare in operosità perennemente attiva»60, e perciò non il solo, neppure per un momento pensabile come elemento disintegrato dalle collaterali “pregnanze” (l’arte, la scienza, la Bildung)61 Si veda a tal proposito quanto scrive Cassirer in un frammento tratto dai suoi lavori postumi, in Geshichte-Mythos, in Ernst Cassirers Nachgelassene Manuskripte und Texte, cit., Bd. 3, p. 16. Anche Trabant, Articolazione: il lavoro dello spirito, cit. Lo stesso Humboldt, scrive ne Über die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaues und ihren Einfluß auf die geistige Entwicklung des Menschengeschlechts (1830-1835), in HGS, cit., Bd. VII, p. 24; tr it., La diversità delle lingue, traduzione, introduzione e cura di D. Di Cesare, Bari, 2000³, p. 18, che «l’uomo si ricollega sempre a ciò che già esiste. Per ogni idea , la cui scoperta e la cui realizzazione danno un nuovo slancio alle aspirazioni umane, è possibile dimostrare, con un’indagine sagace e accurata, come essa sia stata presente nelle menti e sia via via maturata». 59 Cfr., supra, Cap. II, n. 48. 60 Die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaues und ihren Einfluß auf die geistige Entwicklung des Menschengeschlechts (1830-1835), cit., p. 20; tr it., p. 15. Non ci pare un caso che proprio qui Humboldt rimandi in nota al suo Compito dello storico. 61 S. Domandl, Kant, Goethe; Humboldt, cit., p. 132, riporta il parere su Humboldt di uno dei teorici della politica culturale del Terzo Reich, quell’Alfred Baeumler tra i maggiori responsabili dell’“affiliazione” di Nietzsche al nazionalsocialismo, secondo il quale nella Bildung di Humboldt non c’è alcun «“gusto estetico”, poiché il concetto di individualità non è per lui [Baeumler] estetico, ma da intendere come concetto di forza [Kraftbegriff]». Ora, questo interessante rimando ci offre il destro per anticipare una questione che dovremo giocoforza incontrare, seppur marginalmente, nelle prossime pagine. è indubbio che la distorsione di talune espressioni, di taluni movimenti spirituali, di talaltre concettualizzazioni di certi protagonisti che abbiamo incontrato possano aver rappresentato un invincibile stimolo per la nascita e lo sviluppo della 58
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dell’esperienza che rendono l’uomo quale esso dovrebbe essere. Si badi, una tensione, un contrasto, quello tra essere “reale” e dover essere “ideale” dell’uomo, giammai risolvibile ed appianabile in maniera definitiva e quasi autoassolutoria62. Ed anche su questo piano, la cultura (o pseudocultura) biologistica di stampo nazista. La questione, nelle sue linee di fondo e nella sua storiografia, non è stata ancora del tutto vagliata. Prova indiretta ne sia che anche in ricerche recenti e discretamente informate (come, solo a titolo d’esempio, quella di A. D’Onofrio, Razza, sangue e suolo. Utopie della razza e progetti eugenetici nel ruralismo nazista, Napoli, 2007 – ma si vedano pure gli accenni di R. Esposito, Termini della politica. Comunità, immunità, biopolitica, con introduzione di T. Campbell, Napoli, 2008, pp. 150-154) è riproposto il tipico argomento (pericolosamente speculare) della “condanna” razziale del popolo tedesco a esprimere il proprio fundus animi come sentore tragico-apocalittico dell’Essere, l’Essere pensato come tragicità nell’origine e nel destino dell’umanità, il rimando alle origini e alle tradizioni del popolo germanico, la sua virginea e rude purezza. Il fatto è però, come dimostra la lettura di alcuni documenti dell’inizio dell’epoca nazista – leggibili nell’importante saggio di B. Massin, Anthropologie und Humangenetik in Nationalsozialismus oder: Wie schreiben deutsche Wissenschafltler ihre eigene Wissenschaftgeschichte?, in aa. vv., Wissenschaftlicher Rassismus. Analysen einer Kontinuität in den Human- und Naturwissenschaft, Hrsg. H. Kaupen-Haas-C. Saller, Frankfurt a. M., 1999, pp. 12-64 – che gli scienziati hitleriani della razza sono così poco “tedeschi” nel loro ottimistico e propagandistico operare scientifico, così poco “humboldtiani” (nel significato di un radicale senso della caducità e provvisorietà di ogni teoria scientifica degna di questo nome) e così affaticati a sottomettere il sapere alla politica, senza l’humboldtiano equilibrio tra le prerogative e le competenze di uno stato non solo efficiente, ma anche eticamente contrassegnato, che tutto ciò dà la forte impressione di un’immagine caricaturale della dinamica della politica culturale tedesca tra le due guerre mondiali. Ovviamente ciò che qui si è detto, lo si è detto avendo ben presente che si sta parlando per grandi generalizzazioni e schemi, di necessità, molto elastici, non potendoci trattenere oltre sul tema. 62 Su ciò, P. Giacomoni, Formazione e trasformazione, cit., p. 49. Si veda pure, in riferimento al tema del perfezionamento dell’uomo come qualcosa di mai raggiunto né raggiungibile, F. Tessitore, L’etica di Humboldt e l’idea di perfezione, cit., spec. pp. 102-103. Si veda pure il saggio di C. Menze, Storia e Bildung nella prospettiva di Wilhelm von Humboldt e di Hegel, in W. von Humboldt e il dissolvimento della filosofia nei “saperi positivi”, cit., pp. 219-269, dove si mette in luce, giustamente, l’elemento “presagente” quale insostituibile qualità dello storico (dell’uomo “formato” in generale), un presagire non frutto di incostante e fluttuante attenzione, una sorta di scommessa, o, all’inverso,
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funzione metodico-esplicativa dell’analogia con il Leben organico gioca un ruolo centralissimo, visto che è nel «mondo dei corpi» che va cercato il «metodo sicuro» per «rintracciare le possibili analogie» col «mondo spirituale»63. Il supremo paradigma teorico-metodologico e, insieme, funzional-esplicativo, di Humboldt, ossia la sua concezione antinomica, duale, polarizzante della realtà, che non si risolve in uno sterile dualismo e in un’opposizione dialettica già nata per riconciliarsi in unità, non contraddice affatto la “necessità” teorica e, per così dire, esistentiva dell’individuo, la sua insostituibilità sia come concetto che come concretezza sensibile. E questo sicuramente accade in quanto i «poli si attraggono perché dalla fusione delle loro unilateralità sorge la vita»64, ma non soltanto. La polarità non esclude l’individuo in primo luogo perché esso non è che il tutto, visto, percepito, concepito e vissuto da un altro punto di vista (che è appunto l’ “altro” dell’uno): «Ogni [Jede] individualità umana è un’idea [Idee] che si radica nel fenomeno [Erscheinung]», ed è vero che solo «in alcune» questo “corporizzarsi” individualizzante «risplende con un tale fulgore che sembra aver assunto la forma dell’individuo [Form des Individuums] solo per rivelarvisi»65, ma, ugualmente, «ogni» individualità è funzione potenzialmente inesauribile del manifestarsi dell’ideale unità del tutto. Lo è perché in essa si esprime immancabilmente, senza residui, la sua attività, che è sviluppo incessante e compenetrante di Formbildungen, di incroci e incontri formativi tra individualità, perché così «come nell’individualità c’è il mistero di tutta l’esistenza, tutto il progresso storico-universale dell’umanità sta nel grado, nella libertà e nella peculiarità del loro mutuo rapportarsi»66. Emerge, così, potentemente, la visione – tutta kantiana, ma pure originalmente rivista – che l’«elemento, in cui la storia si muove, è il senso della realtà [Sinn für Wirklichkeit]67», e ciò che rende risultato dell’apprensione di un’interna necessità dell’accadere, ma sostegno e presupposto teorico di ogni indagine sulla storia (ivi, p. 226). 63 W. von Humboldt, Ueber die Aufgabe des Geschichtschreibers (1821), cit., p. 54; tr. it., p. 137. 64 S. Caianiello, La “duplice natura” dell’uomo, cit., p. 45. 65 W. von Humboldt, Ueber die Aufgabe des Geschichtschreibers (1821), cit., p. 54; tr. it., p. 138. 66 Ivi, pp. 52-53; tr. it., p. 136 legg. mod. 67 Si noti l’importante modo di costruzione della frase, con il ‘für’ invece che il ‘von’ o l’ ‘um’, o il ‘nach’, insomma con una specifica coloritura lessicale. Come a dire che ciò che contraddistingue lo storico (il carattere d’essere della
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ancora – se così si può dire – più atterrente e titanico il compito dello storico, è il fatto che «la realtà, ad onta della sua accidentalità, è pur sempre vincolata ad una necessità interna»68. Inesprimibile compresenza di individui generanti forme per libertà, e di regole (non leggi assolute), miranti ed aspiranti ad un’unità e coerenza necessarie. Rottura di ogni logica dialettica o dialettizzante, dove gli opposti (il duale e l’individuale, l’uno e i molti, il particolare e il generale) si mantengono in costante tensione, senza risolversi o superarsi vicendevolmente, senza acquietarsi in un’unità somma, ma sempre dinamicamente gegenstoßenden, sempre soggetti a contraccolpi, a respingimenti, a spezzettamenti e ingrossamenti. Il rapporto tra gli individui, rapporto che non può che costituire il tessuto connettivo della storia, è dunque pure l’osmosi cui vanno incontro le “particole” fisiche che compongono il vivente e che analogicamente qui si può disegnare a partire dallo studio del costituente ultimo della vita che all’epoca cominciava a chiamarsi cellula69. Ed è questa “forma”dell’interrogazione humboldtiana circa l’individuo (quali i suoi confini, quali le sue qualità, quale la sua potenza generativa) a dare la misura di quell’«antropologia della conoscenza», per la quale «l’“esperienza” non significa soltanto la sintesi di intuizione e concetto, ma la concezione del dato empirico nella sua particolare datità che si sottrae alla descrizione metrica come all’oprazione logica dell’intelletto»70. è chiaro che quando nella nostra lettura vengono sistematicamente fatte interagire componenti di trascendentalismo critico e analogie tra pensiero storico e funzione euristica della biologia, ciò può divenire sostenibile sul piano interpretativo solo in virtù dell’assunzione paradigmatica che ciò di cui si tratta non può essere pensato senza un adeguato gusto per il senso storico che pertiene, e deve farlo, ad un’analisi di tal fatta. In altri termini, è impossibile seguire il percorso storia) in termini essenziali è il suo aver senso per l’effettualità, per quel reale concreto che si manifesta, e può farlo, solo nell’effettuarsi. 68 Ivi, pp. 39-40; tr. it., p. 123. 69 è di infatti appena diciassette anni successiva al Compito dello storico, e di un paio alla morte di Humboldt, la prima definizione quasi completa della teoria cellulare per i tessuti vegetali ad opera di Matthias Jacob Schleiden, Beiträge zur Phytogenesis, in «Archiv für Anatomie und wissenschaftliche Medicin», 1838, pp. 137-176, e di Theodor Schwann, Mikroskopische Untersuchungen
über die Übereinstimmung in der Struktur und dem Wachsthum der Thiere und Pflanzen, Berlin, 1839, per quelli animali. 70
M. Riedel, Antropologia trascendentale e teoria della Bildung, cit., p. 52.
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qui ipotizzato senza la preliminare idea di vita come processualità storica, assunta quest’ultima non come elemento importante sì, ma secondario, bensì come fondamento decisivo dell’impostazione metodico-epistemologica della ricerca. Ancora. L’ulteriore passaggio che si potrebbe preparare – da Humboldt al “pieno” Ottocento e al giovane Dilthey (cosa che qui non è in programma, ma che potrebbe essere un ulteriore, futuro sviluppo della ricerca) – risulterebbe incomprensibile e ingiustificabile senza la previa legittimazione di una visione del rapporto tra vita e storia, raccolta e dispiegata nella forma di uno sguardo di viva e storicizzante apertura al significato dell’accadere come sfera propria della costituzione umana, nella modalità di una interpretazione della storia in quanto funzione-forma dell’autocomprensione sempre perfezionantesi (almeno come tendenza, almeno come compito) dell’umano. è in questo ineludibile senso che si può sostenere, allora, che Humboldt “anticipa” e per certi versi fonda l’ottocentesco dibattito delle relazioni e somiglianze tra vita biologica e società, fra organismo vivente e corpo statuale, un dibattito, certo, dopo Darwin penetrato da eccessi e radicalismi positivistici da rifiutare nella loro valenza scientifica, ma da registrare come testimonianze di un clima intellettuale ancora disposto ad accogliere, comunque, le possibili interazioni tra saperi differenti come aspetti del progresso scientifico e filosofico. Come si sa, il sogno positivistico di una sola Scienza, della reductio ad unum di tutto il possibile sapere umano sotto la categoria dell’inesauribile, inevitabile segno dell’avanzamento, sarà miseramente destinato a fallire, ma è a seguire dall’epoca della morte di Humboldt che il problema filosofico rappresentato dal significato della vita storica (in ogni sua accezione semantica e declinazione teorica71) assumerà 71 Che ciò sia vero lo dimostra corposamente un saggio di C. Bermes, (1836-1936). Von der Mikroskopie des Lebens zur Inszenierung des Erlebens, in «Archiv für Begriffsgeschichte», (44), 2002, pp. 175-198, dove vengono affrontate le vie d’evoluzione semantiche e concettuali di un altro termine cruciale del pensiero europeo, quello di ‘Lebenswelt’, che non nasce, né direttamente né indirettamente, con lo Husserl della Krisis e delle Cartesianische Meditationen, bensì, secondo Bermes, con Heinrich Heine nel 1836 (ivi, p. 175), e prosegue intrecciandosi strettamente con la ricerca biologica, intreccio facilitato dalle scoperte permesse dal costante perfezionamento tecnico del microscopio ottico (ivi, p. 181). Già, del resto, il giovane Cassirer dell’Erkenntnisproblem – come ricordato da Bermes (ivi, p. 180) – aveva puntato l’attenzione sugli anni dell’impetuosa crescita delle conoscenze sul vivente, ed aveva guardato loro
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una dimensione tale da renderlo quasi martellante tema d’indagine di miriadi di ricerche. è solo in virtù di tutte queste preliminari assunzioni che può essere accolto come del tutto inseribile nelle analisi qui in essere, le affermazioni humboldtiane che si concludono che «anche la nazione è un individuo, e il singolo è un individuo dell’individuo»72, perché il presupposto di questa analogia tra società e individuo è che l’io «senza il tu è un assurdità». «In virtù del vincolo, incomprensibile ma non per questo negabile, che salda l’organizzazione [fisico-organica] con il carattere [moral-intellettuale], questa individualità diventa più solida e si dischiudono diversi suoi ambiti, nei più lontani dei quali l’organizzazione svolge sempre un ruolo più importante»73. Era già nelle corde intellettuali e culturali di Humboldt considerare dunque come scientificamente e culturalmente sostenibile un’analogia tra organismo vivente (inteso come vita all’opera, decorso temporale evolutivo di un individuo), e corpus sociale (come storia universale, con un corso insieme (e all’esperienza di Schleiden, in particolare, in quanto «discepolo di Kant»: E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, cit., vol. 4, p. 244) come ad un moto di idee volto a considerare che «vita significa azione e perciò è possibile solo una definizione funzionale della vita» (ivi, p. 297). Altro esempio illuminante, vista la siderale distanza teorica e di tradizione di studi donde essa deriva rispetto alle nostre presenti occupazioni, ce lo offre Enzo Vitiello, che in passo tratto da un dialogo a tre con Bruno Forte e Massimo Cacciari, dice: «Tornando all’origine greca del problema della storia (…) mi chiedo: il pre-istorico è l’“immemoriale” che caratterizza lo sguardo onniveggente della Musa-Mnemosyne? O non è, l’eterno presente della Musa, già la prefigurazione dell’orizzonte nel quale si muove il vistor-histor?». In questa fase del dibattito, il tema specifico è quello riguardante il rientrare o meno nel “compito dello storico” (allo stesso tempo testimone-raccontatore) quello di considerare storia il “fuori-dalla-storia”. Insomma, mutatis mutandis, se la realtà di cui lo storico fa esperienza è effettivamente “storia e nient’altro che storia”, e se sì, in che senso. Ecco che Vitiello prosegue: «Se anche lo sguardo della Musa appartiene a quello che con terminologia kantiano-hegeliana definiamo orizzonte dell’autocoscienza trascendentale, allora cos’è il pre-istorico? La Vita, la Natura vivente, la Vitalità. E non sono anche questi termini propri della cultura storica? Di più: tipici della cultura storica moderna?» M. Cacciari-B. Forte-E. Vitiello, Filosofia e cristianesimo. Dialogo sull’inizio e la fine della storia, Napoli, 1997, p. 23. 72 W. von Humboldt, Betrachtungen über die Weltgeschichte (1814), in Wilhelm von Humboldt’s Gesammelte Schriften, cit., Bd. III, p. 355; tr. it., Considerazioni sulla storia universale, in Id., Il compito dello storico, cit., p. 101. 73 Ibid.
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libero e destinale). Perché «neppure per la storia» così come per le forme della natura, «si tratta di trovare (…) qualcosa di singolare, e tanto meno di inventarlo. Solo facendo propria la forma di tutto ciò che accade lo spirito deve comprendere meglio la materia realmente esplorabile e può imparare a scoprirvi più di quanto non sia possibile alla mera prestazione dell’intelletto»74. Solo in-formando se stesso di sé e della materia che occupa il suo interesse, l’uomo può entrare nell’enigma della storia universale e provare ad orientarvisi. Del resto, nel suo libro più conosciuto e giustamente lodato, Humboldt dichiara apertamente che «l’attività del singolo, pur essendo sempre discontinua, tuttavia in apparenza, e fino a un certo punto anche in realtà, è un’attività che procede nella direzione identica a quella dell’intero genere umano, poiché, essendo condizionata e a sua volta condizionante, si salda in un rapporto di continuità con i tempi passati e con quelli futuri. Per altro verso, però, la direzione del singolo, qualora la si consideri più approfonditamente nella sua essenza, diverge da quella dell’intero genere, di modo che la trama della storia universale, nella misura in cui riguarda l’interiorità dell’uomo, è costituita da entrambe queste direzioni che, pur incrociandosi, non cessano al contempo di concatenarsi strettamente»75. Individuo e sistema organico integrato; particolare esistenza vivente e “Umwelt” insiemistico di esistenze altre; mutuo, contemporaneo e scambievole concorrere di durata temporale singola e di tempo storico-universale: le coordinate filosofiche di Humboldt si chiariscono sempre di più non come una semplice disciplina – l’antropologia filosofica – staccata dal contesto collettivo, dove l’uomo invece trova la sua più piena realizzazione, o, d’altro verso, come disincarnato e astratto impegno intellettuale circa un’essenza iperurania dell’uomo-umanità, la cui indubitabile costituzione spirituale non deve e non può non essere accompagnata (se di polarità gnoseologica ha da parlarsi) dal suo necessario correlato “organico”. L’antropologia di Humboldt (che qui va soppesata come un tratto costante delle sue ricerche e dei suoi libri) è in primo luogo arena epistemologica della stessa possibilità concettuale dell’idea di sviluppo, dell’idea di processualità organizzata secondo regole, della nozione amplissima di “vita” come dinamica relazionante di individualità 74 W. von Humboldt, Über die Aufgabe des Geschichtschreibers (1821), cit., p. 38; tr. it., p. 122. 75 W. von Humboldt, Die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaues (1830-1835), cit., p. 32; tr. it., p. 25.
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costituenti un tutto organico. Ecco perché, dunque, è necessario per chi si impegna – per passione, per professione, per semplice diletto, o per insopprimibile “amore della verità” – con l’oggetto-storia, lasciarsi il più possibile «umanamente [menschlicher]» ispirare «dalla natura e dalle circostanze»76, far sì che con sempre «maggiore purezza (…) si imponga la propria umanità»77. E ciò non si deve intendere solo quando si ha intenzione di inseguire quelle che sono le grandi testimonianze della storia, le “storie monumentali”, perché basta «ripercorrere mentalmente anche solo una vita umana» per rimanere «colpiti da questi diversi momenti [i rapporti causali e la considerazione della temporalità], per i quali la storia eccita e affascina»78. L’uomo che si rapporta alla storia, l’uomo che domanda attorno al senso e al significato del trascorrere del tempo, questo uomo ha un presupposto e un valore incommensurabili da far giocare e funzionare sullo scenario interpretativo: è vivo, ed in quanto tale in condizione di rapportarsi con la vivente processione degli eventi, cosa che non è data alla «storia teleologica», che «non raggiunge mai la vivente verità dei destini del mondo, anche perché l’individuo non può trovare il proprio vertice che all’interno dell’arco della sua esistenza fuggevole, mentre la storia teleologica non può affatto riporre il fine ultimo degli avvenimenti [letzen Zweck der Ereignisse] in qualcosa di vivo, ma lo ricerca in situazioni in qualche modo morte e nel concetto di un tutto ideale (…)»79. Ecco allora perché e come il Plan di un’antropologia comparata, forte impegno giovanile di Humboldt, trova compimento negli anni ’20 in una concreta continuità e in una vivente cornice tematica80. Lo trova perché un’antropologia a base formativa, “biologica”, non ha significato teorico senza la correlata autonormatività a base storica che l’uomo deve dare a se stesso, non trova direzione etica se non integrata da una visione, 76 W. von Humboldt, Über die Aufgabe des Geschichtschreibers (1821), cit., p. 38; tr. it., p. 122. 77 Ibid. 78 Ivi, p. 40; tr. it., pp. 123-124. 79 Ivi, p. 46; tr. it., p. 130. 80 «L’antropologia come studio fenomenologico dei caratteri individuali e l’antico come studio storico di un ideale spirituale da raggiungere in base ad una normatività già sperimentata (…) diventano indispensabili per non lasciare in tronco il programma avviato con prepotente originalità». F. Tessitore, L’etica di Humboldt e l’idea di perfezione, in Id., Comprensione storica e cultura, cit., p. 109.
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almeno come tendenza e sforzo orientativo, onnicomprendente, una prospettiva che come tensione porta ad integrare ed a far interagire ciò che per sua natura non potrebbe essere integrato e rapportato: la serie multiforme e irripetibile dei fatti storici individuali. è specifico compito dello storico – ma lo è tanto anche dell’uomo che può dirsi degnamente tale – «apportare [m i t z u b r i n g e n] nella considerazione degli avvenimenti, labirinticamente aggrovigliati, della storia universale – quali sono impressi [eingeprägt] nel suo animo – la forma, sotto la quale soltanto viene in luce la loro vera connessione [Zusammenhang], è di estrarre [a b z u z i e h e n] da essi stessi questa forma»81. Nell’ipotesi più benevola, ciò che dice Humboldt può apparire un vago e vano gioco linguistico, il rincorrersi di inani metafore e paradossali contrapposizioni. Nella più maliziosa interpretazione, queste espressioni potrebbero non essere che assurdi vagheggiamenti di una mente non troppo attenta al piano dell’ordine argomentativo, del metodo espositivo, della coerenza logica del discorso. Humboldt è però sì ben avvertito, da mettere in primo piano egli stesso la difficoltà (apparente) cui il suo discorso andrebbe incontro: «La contraddizione, che qui sembra insinuarsi, scompare a una più attenta considerazione. La comprensione di una cosa presuppone quale sua condizione di possibilità un’analogia [Analogon] tra colui che comprende e la cosa effettivamente [wirklich] compresa, una consonanza previa e originaria tra soggetto e oggetto»82. E che a tali espressioni corrispondano saldi e ben meditati princìpi concettuali, gnoseologici e metodologici, lo conferma, oltre a tutto il resto del materiale di ricerca linguistica di Humboldt, una delle lettere che questi scrive a August Wilhelm Schlegel un anno dopo la pubblicazione del Compito dello storico83. In questa lettera esemplare sul piano della chiarezza espositiva e della precisione teorica, Humboldt mostra, nella pratica attuazione scientifica dei suoi interessi linguistici, quanto poco vi sia di vago, inconcludente o assurdo nelle soluzioni proposte nel saggio sul compito dello storico. Il discorso di Humboldt nasce dall’esigenza di informare Schlegel della risposta negativa di 81 W. von Humboldt, Ueber die Aufgabe des Geschichtschreibers (1821), cit., p. 47; tr. it., p. 131. 82 Ibid. 83 Humboldt an Schlegel (19 maggio 1822), in Briefwechsel zwischen Wilhelm von Humboldt und August Wilhelm Schlegel, Hrsg. A. Leitzmann, Halle, 1908, pp. 49-61.
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Niebuhr alla questione, posta allo storico dallo stessso Schlegel, della presenza nella Biblioteca Vaticana di manoscritti in sanscrito84. Da qui, lo spunto per commentare il lavoro di Schlegel sull’etimologia comparata del sanscrito con il tedesco ed altre lingue europee. «Sua Eccellenza a p. 283 rifiuta il parere che il basso bretone sia originariamente celtico. Nonostante le ragioni da Lei portate in favore di questa posizione, chiedo se ci sia effettivamente bisogno di farne occasione di discussione. E’ anche possibile che questo dialetto sia giunto nella sua forma attuale solo nel 5 secolo dai Britanni, e in tal caso la prima questione è allora se la lingua nativa dei britanni non sia appunto il celtico. Ora, anche se conosco poco queste lingue, a me pare molto verosimile. Infatti chiamo celtico solo la lingua degli antichi galli, e gli ornamneti gallici e molte parole degli antichi galli trovano, in questa nativa lingua degli inglesi, la loro spiegazione e derivazione»85. La discussione, poi, si inoltra in tecnicismi linguistici che qui non vale seguire fino in fondo; basti ricordare qui soltanto l’insistenza humboldtiana nel rifiutare un’analisi onnicomprensiva di tutti i linguaggi particolari, tale, cioè, da riporre l’enigma dell’origine delle lingue in un astratto, monolinguistico e mitico passato adamitico86; o, come adombrerà più avanti, in un Ivi, p. 49. è noto l’interesse di Schlegel per la cultura e la lingua dell’antica India. Tanto è grande questo interesse da indurlo ad essere uno dei maggiori promotori e divulgatori – insieme a Franz Bopp, Antoine-Léonard de Chézy e Silvestre de Sacy – della «Indische Bibliothek», una collana di pubblicazioni sotto forma di rivista che, sulla scia della celebre opera di Bopp, Über das Konjugationssystem der Sanskritsprache in Vergleichung mit jenem der griechischen, lateinischen, persischen und germanischen Sprache, Frankfurt a. M., 1816, lavoro che inaugurava e di fatto fondava la disciplina dell’indogermanistica, esprime il notevole sforzo di legittimare le ricerche di linguistica comparata. Il riferimento è importante, perchè è dalla lettura della terza sezione della Bibliothek (un «trattato assai bello scritto in latino» - così si esprime Humboldt, ivi, p. 49) che vengono tratti gli spunti più interessanti anche per quel che riguarda la nostra lettura del pensiero del grande tegeliano. 85 Humboldt an Schlegel, cit., pp. 49-50. 86 Ivi, pp. 50-53. Almeno per Humboldt, questa ipotesi non è empiricamente verificabile, dunque da riporre come inutilizzabile ai fini di una ricerca effettiva. Ricordiamo quanto è stato detto nelle nostre pagine precedenti a proposito del gusto tutto “illuminato” di un Blumenbach, per esempio, per l’esperimento, per l’esperienza, per il trattenersi dal dedurre leggi universali da fenomeni non ulteriormente sperimentabili attraverso il controllo strumentale e l’osservazione. Humboldt, da questo punto di vista, prosegue questa tradizione, ma, dopo 84
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logicismo assoluto e senza effettiva attenzione all’evolversi storico dei linguaggi singoli. Tanto è vero che, in una pagina molto esplicita – pur al cospetto del più anziano, autorevole e rispettato interlocutore – Humboldt dice: «Perciò non è affatto il mio sistema [System] che tutta la grammatica sia stata originariamente una serie di parole effettive [wirklicher] l’una dietro l’altra e che questa sia durata fin quando l’uso non ne abbia cancellato le tracce. Neppure è stato originario un tale agglutinare87, e non soltanto per le lingue già formate, ma anche in quelle rozze, dove, ad esempio, in una lingua americana l’ottativo forma sempre un raddoppiamento delle vocali (waadenan invece di wadenan) per indicare brama, oppure quando in un participio trasforma la vocale in un dittongo, e così via».88 Detto in parole meno specialistiche, Humboldt sta sostenendo che non è nella sua concezione dell’origine e sviluppo delle lingue ammettere uno strato unico di intangibile ontologicità da cui far derivare i linguaggi individuali dei popoli e delle nazioni (giammai del singolo uomo concreto: è impensabile, infatti, il linguaggio in un monologante e autoreferenziale appartenere ad un uomo estraniato dalla comunità). Infatti, «per spiegare [zu erklären] la storia [Geschichte] delle lingue, assumo, secondo quello che è il mio modo, sempre due fondamenti: quello sviluppo linguistico [Sprachentwicklung] che si può dimostrare a partire da concetti generali e che perciò, come tutto ciò che è meccanico, possiamo inseguire logicamente solo in modo meccanico, in quanto può essere disbrigo dell’intellettualità; poi, quella deviazione [Abweichung] da questi modi, e l’abbreviazione [Abkürzung] degli stessi, che l’individualità della nazione procura e che, se condotto con perfezione, è geniale, e non può più essere previsto logicamente o dimostrato passo dopo passo»89. La questione che qui Humboldt sottopone a Schlegel è dunque chiara: non è possibile procedere con metodi intellettualistici o logicamente ineccepibili, ma vuoti di contenuto e di “materia” viva, quando si discute Kant e attraverso di lui e il teleologismo “corretto” utilizzato come metodo per l’analisi comparata delle lingue, Humboldt aggiunge una potente aspirazione al “sistema” del linguaggio, come si leggerà, del resto, nel prosieguo della lettera che stiamo vagliando. 87 Humboldt si riferisce al concetto metodologico di “agglutinazione” che Schlegel (e Bopp) avevano proposto come sistema di formazione delle lingue da un ceppo comune. 88 Humboldt an Schlegel, cit., p. 53. 89 Ibid.
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l’originarietà di ciò che è cooriginariamente umano, il parlare, l’intendere, il capirsi. Questa comprensione – che è una “spiegazione” nel senso tutto diltheyano dell’erklären (come del resto il dettato humboldtiano esprime senza equivoco) – si può mettere in atto solo col mettere in gioco l’espressione collettiva, la dimensione comunitaria dell’uomo. In questa dimensione, la variante – la “deviazione” – dall’esecuzione dal mero compito filo-logico del risalimento ai dati fonetici, sintattici e semantici, è rappresentata dal “genio di un popolo”, inteso come quell’ambito di irripetibile individualità che ogni serie di accadimenti imprime in un insieme di uomini che si associano consapevolmente ma anche, per così dire, per biologica costituzione. è, per altri versi, quanto sostiene ancora una volta Cassirer quando dice che Humboldt, «il primo ad aver dato uno sguardo di tipo sistematico alle diverse tipologie delle lingue»90, «non giunse, nella sua accurata ricerca, ad attribuire alle lingue indoeuropee un valore particolare e una preminenza logica e filosofica. Per lui la forma di queste lingue – il metodo della flessione – è, come egli dice, “l’unica forma dotata di regolarità [gesetzmäßige]”, l’unico tipo linguistico che segue regole chiare e rigorose»91. Qui, secondo Cassirer, si pone la più pronunciata differenza dal punto di vista metodologico rispetto all’analisi logica del linguaggio, una “scelta”, quella di Humboldt, massimamente indicativa e decisiva per l’inquadramento completo del suo lavoro filosofico. «Questa superiorità logica del tipo flettente [flektierenden Typus] è fondata nel fatto che qui, e solo qui, incontriamo una differenza distinta tra gli elementi fondamentali della proposizione, fra il soggetto, il predicato e la copula»92. Come a dire che la flessione è l’unica, promettente ragione su cui costituire una possibile scienza linguistica perché è “elemento di relazione” tra elementi diversi che diversi hanno da rimanere, è “antistruttura” che fonda una possibile struttura E. Cassirer, Die Einfluß der Sprache auf die Entwicklung des wissenschaftlichen Denkens (1942) in Id., Geist und Leben, cit., pp. 287-316, qui, p. 292. 91 Ibid. Il riferimento a Humboldt è tratto da Die Verschiedenheit. Un buon lavoro che si occupa, nella sua prima sezione, di evidenziare proprio «gli elementi humboldtiani nella Filosofia delle forme simboliche» di Cassirer, è quello di R. M. Peplow, Ernst Cassirers Kulturphilosophie als Frage nach dem Menschen, Würzburg, 1998, in part. pp. 26-33. 92 E. Cassirer, Die Einfluß der Sprache auf die Entwicklung des wissenschaftlichen Denkens, cit., pp. 292-293. 90
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semantica, ovvero, nell’ottica delle indagini di Humboldt trascendentale, del reale concreto. Questo intermezzo in questioni così strettamente tecniche, tali da sembrare in condizione di spostare il fuoco dell’analisi dal suo alveo centrale, era strettamente funzionale ad evitare l’impressione che l’indagine si stesse occupando di un Humboldt solo immaginario, di un pensatore solo occasionalmente attratto dalle problematiche linguistiche e invece tutto teso ad occuparsi del senso e significato della storia. Non è questo, infatti, lo schema qui proposto. Humboldt è e resta un pensatore interessato a dare un filo coerente ai suoi studi, alle sue ricerche che oggi, forse non troppo propriamente (o almeno da dotare sempre di opportune specificazioni) chiameremmo di storia e di filosofia delle culture93. Resta, Humboldt, uno studioso di fatti empirici, verificati sul campo, e non un teorico della storia e/o delle scienze naturalistiche. Ma è proprio questo il suo più acuminato valore, l’apice del suo contributo a quella linea di uomini, moderatamente e senza fondamentalismi, ma pure rigorosamente convinti che la ‘Kulturgeschichte’ e ‘Kulturphilosophie’ sono infatti termini e “discipline” che, come è risaputo, hanno trovato definitiva allocazione nominale e definitoria solo nei primi decenni del Novecento. Non sosterremo qui troppo a lungo ad indicare precipuamente la letteratura di riferimento essenziale sul tema (solo ci sia consentito di menzionare T. Jung, Geschichte der modernen Kulturtheorie, Darmstadt, 1999; W. Perpeet, Kulturphilosophie: Anfänge und Probleme, Bonn, 1997; A. Giugliano, Materiali filosofici per una “storia della cultura”, Soveria Mannelli, 2002 e la letteratura – specialmente italiana – ivi richiamata); vale la pena, però, suggerire qualche titolo che più da vicino può essere utile corredo delle letture proposte. Una visione del rapporto tra letteratura goethiana e il concetto stesso di ‘Kulturgeschichte’ ci è proposto da J. Heinz, Narrative Kulturkonzepte. Wielands »Aristipp« und Goethes »Wilhelm Meisters Wanderjahre«, Heidelberg, 2006. In un’importante raccolta di saggi sul tema in ambito kantiano e post-kantiano, si possono leggere due contributi assai utili per l’approfondimento del tema, proprio perché proponenti lo stesso argomento da due prospettive differenti: M. Fischer, Kommentar zu: Kein Ende der Geschichte? Kulturphilosophie nach Kant, in aa. vv., Nach Kant: Erbe und Kritik, hrsg. von I. Kaplow, Münster, 2005, pp. 134-158; G. Hartung, Kommentar zu: Was wird der Kultur? Kulturphilosophie nach Kant, ivi, pp. 159-184. Un buon esempio di come si possano fruttuosamente utilizzare le storie delle ricerche scientifiche – anche di quelle più specifiche - in un quadro kulturgeschichtlich, è il libro di F. Henschen, Der menschliche Schädel in der Kulturgeschichte, Berlin-HeidelbergNew York, 1966. 93
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ricerca sulla “natura delle cose” non sia esclusivo appannaggio di una filosofia perfetta nelle sue evoluzioni logiche, ma arida sul piano della “produttività” di ulteriori domande, assoluta dal punto di vista della propria ambizione a porsi come Risposta Unica alle domande umane, ma, proprio perciò esilissima, rispetto all’infinità varietà del molteplice dell’esperienza umana. Il carattere unitario e insieme multiforme della personalità intellettuale di Humboldt, la coerenza metodologica delle sue esplorazioni scientifiche, associata ad una vivissima curiosità per ogni aspetto del reale e del “culturale”, un’idea di processo conoscitivo dotato sempre di grande rispetto per gli oggetti da conoscere, il quasi sacrale e insieme laicissimo approcciare l’oggetto concreto da studiare e portare alla luce ma senza violarlo, lasciandolo nella sua propria dimensione semimisteriosa, incomprensibile, enigmatica. Ecco, questo è il tenore dell’esperienza filosofica di Humboldt che ci portiamo dietro al momento del congedo. Un tenore eccellentemente dimostrato quando si tratta di definire compiti, relazioni e tendenze dell’Idea, quel concetto che Hegel aveva ipostatizzato, dandone, proprio attorno agli anni del Compito dello storico, una versione totalizzante e onnicomprensiva, pervasiva addirittura, “irrispettosa” di ciò che non si conforma ad essa. «L’idea – secondo Humboldt, invece – può manifestarsi soltanto nell’unione con la natura, per cui anche a proposito di quei fenomeni [il costituirsi delle individualità nazionali] si può addurre una quantità di cause favorevoli, il passaggio dal meno perfetto al più perfetto, cause e passaggio che a ragione si possono presupporre nelle enormi lacune della nostra conoscenza»94. Le “ungeheuren Lücken”, le lacune abissali delle possibilità conoscitive umane che devono essere date come presupposte, lungi dal rallentare l’impulso alla verità o dall’immobilizzare addirittura il movimento del pensiero, sono invece la spinta, la sollecitazione più rispondente all’incompletezza costitutiva dell’uomo. La consapevolezza di questa genetica finitezza e incompletezza dell’individuo, è il sigillo della nobiltà della ricerca, ed è parimenti la figura “meravigliosa” che l’idea ritaglia intorno a sé per adempiere alla sua grande funzione produttiva: «Il lato meraviglioso [Wundervolle] (…) non sta meno nel cogliere il primo orientamento [Richtung], nello scoccare della prima scintilla. Senza questa ultima neppure le circostanze favorevoli possono operare, senza di essa nessun esercizio, nessun progresso graduale, fosse W. von Humboldt, Ueber die Aufgabe des Geschichtschreibers (1821), cit., p. 53; tr. it., p. 136. 94
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pure di secoli, può condurre alla meta [Ziel]»95. Lo spettacolo dell’idea che, lacera nella sua origine, si ricompone costantemente per dare origine ad una serie (causale, morfologica, cronologica), ha, secondo Humboldt del “meraviglioso”, è la grazia stessa della natura delle cose che si mostra nella sua nuda povertà e bisognosità, ma pure in tutta la sua enorme grandezza e nobiltà. Senza questa nativa manchevolezza dell’idea, in quanto generata dall’essere bisognoso per ecellenza, dall’essere che è «anche un essere sensibile»96, e che proprio in virtù di ciò “capisce” la natura nel suo polivalente e polimorfo orizzonte, potendola associare convenientemente alla “cultura”; senza questa idea sempre in cerca dell’altro da sé, sempre operante e operosa, tanto da correre sempre il rischio di dissociarsi e disintegrarsi, cadendo nel bieco materialismo o irrigidendosi in una immota purezza inabile e inutile; senza l’idea, pensata humboldtianamente, ossia pensata come ricerca ininterrotta ed infinita, come scintilla creativa e fattiva della conoscenza, non si darebbero, allora, neppure «l’idea di lingua e l’idea di libertà»97, altri nomi per dire lo stesso “concetto”, correlati immancabili della costituzione e dello sviluppo dell’uomo-individuo-comunità. Ecco come Humboldt definisce i contorni di questa funzione fondamentale della creatività e conoscenza umane, e si noti l’utilizzo metaforico e analogico tratto, e non casualmente, dal mondo vegetale, quasi una rivivificazione e risignificazione della goethiana morfologia botanica. «L’idea può confidare unicamente in una forza spiritualmente individuale, ma: che il germe che essa vi depone si sviluppi a suo modo; che questo modo poi rimanga lo stesso anche là dove venga applicato ad altri individui; che la pianta, sorta da quel germe, raggiunga da sé la fioritura e la maturità per poi appassire e scomparire, quale che sia il modo di configurarsi dcelle circostanze e degli individui; [tutto ciò] sta a dimostrare che è proprio la natura autonoma dell’idea [selbständige Natur der Idee] a imprimere questo corso al fenomeno»98. è la “natura” individualmente autonoma Ivi, p.53; tr. it., pp. 136-137. F. Tessitore, Introduzione allo storicismo, cit., pp. 14-15. 97 Ivi, p. 15. 98 W. von Humboldt, Ueber die Aufgabe des Geschichtschreibers (1821), cit., p. 53; tr. it., p. 137, legg. mod. Si converrà che è assai difficile non leggere in queste espressioni di Humboldt un’eco di suggestioni goethiane, una semantica morfologica che Humboldt doveva aver assimilato e tenuta cara sin dalle prime frequentazioni con la Morphologie di Goethe, e, in generale, dell’intera sua opera biologica, fino agli anni ’20 e oltre. 95 96
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dell’idea; è la sua autonomia individuale (e non la sua autocompientesi assolutizzazione razionale) ad imprimere nei fenomeni (diversi, disparati, dispersi) il proprio precipuo carattere, inducendoli sì alla radicale loro individualità, ma donando loro, pure, l’espressione dell’unica possibile, ammissibile universalità concessa ad un’idea umanamente autonoma e libera: «In questo modo, in tutte le varie specie di esistenza [Gattungen des Daseyns] e di generazione spirituale [geistigen Erzeugung], si realizzano forme [Gestalten zu Wirklichkeit] nelle quali si riflette un qualche aspetto dell’infinito, la cui presa sulla vita [Eingreifen ins Leben] produce sempre nuovi fenomeni»99. La produttività del sapere, un suo Gebrauch forte, un impiego rivolto ad una sana e concrescente cooperazione tra uomini, istituzioni, Stati: tale era il sogno dello Humboldt “politico” e operoso interprete delle esigenze di istituzionalizzazione, trasmissione e diffusione dei fatti culturali e scientifici, scaturenti dagli sforzi di singoli ricercatori100. Parlarsi, comunicarsi le proprie scoperte e idee, più e meglio di quelle dovute a iniziative private e singole, legate al dibattito per specialisti, all’attivismo di circoli e clubs di spiriti affini, di società di eruditi, di Accademie Reali, alla buona volontà di editori e gazzettieri, o lasciate alle esclusive cure dell’università iperelitaria dei suoi tempi101. Con 99 W. von Humboldt, Ueber die Aufgabe des Geschichtschreibers (1821), cit., p. 53; tr. it., p. 137, legg. mod. 100 L’attività di Humboldt come coordinatore di iniziative ed accordi, ad altissimo livello isituzionale, è ricordata e raccolta con grande precisione dai volumi scritti da G. Schlesier, Erinnerungen an Wilhelm von Humboldt, cit., un minuzioso lavoro di registrazione delle vicende culturali che hanno contrassegnato la vita del grande berlinese. 101 La fondazione dell’Università berlinese che porta il suo nome, e l’organizzazione che seppe darle, sono meriti straordinari di Humbold. A guardarla con occhi odierni, l’università pensata da Humboldt ci appare come un’università per pochi ed eletti figli della nobiltà e dell’alta borghesia industriale e imprenditoriale dei primi anni dell’Ottocento. Ma non doveva apparire tale, all’epoca dell’“invenzione” del modello universitario humboldtiano, agli occhi di chi (e si faccia conto del caso dell’istruzione femminile), per la prima volta aveva libero accesso – almeno sul piano formale – ad un’educazione garantita dallo Stato, di alto livello educativo e contenutistico. Ovviamente il testo-base per un’analisi di questo aspetto dell’attività di Humboldt è il già citato saggio Ideen zu einem Versuch, die Gränzen der Wirksamkeit des Staats zu bestimmen.
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l’università inaugurata dall’energia di Humboldt e dei suoi compagni di strada102, diventa possibile, per la prima volta nella storia europea, mettere davvero in cantiere concretamente il grande sogno cartesiano, illustrato nella sesta parte del Discorso sul metodo, di un uomo finalmente «signore e padrone della natura»103. è una vera e propria accelerazione progressiva, un intensificarsi graduale, ma continuo e iperpotenziantesi, di progetti, invenzioni, scoperte, idee, abbozzi, scambi, scontri, confronti. Humboldt stesso si mostra consapevole del fatto che quanto stava avvenendo – quanto era nei suoi progetti e speranze – era di capitale importanza per le sorti della civiltà dell’Occidente tutta. Se si dimostrava fondamentale, nell’ambito di un progetto educativo a trecentosessanta gradi, l’intervento di uno Stato forte che regolamentasse i criteri di fondo dell’insegnamento (da quello elementare a quello accademico), ciò non escludeva (anzi, garantiva) la «Freiheit»104 della scienza, la libera determinazione dei propri fini da parte della scienza. Il sapere (i saperi) che forma, la Bildung, non conosce distinzioni tra scienze naturali e scienze dell’uomo, perché al «centro di ogni particolare modo dell’attività si trova l’uomo»105. L’impresa ideativa, organizzativa e costitutiva di Humboldt riveste tanto più merito in quanto, come è stato rilevato con esattezza, la «ricchezza di tali dialoghi, la varietà di scambi vivaci e nient’affatto sporadici – zoologi e botanici interessati anche alla filosofia e all’etica, filosofi intenti a mettere a profitto i più recenti indirizzi biologici – scaturisce da un’attitudine ‘combinatoria’ che, in Ricordiamo qui, mediante l’accurata e nello stesso tempo compendiosa ricostruzione di H. Weimer e J. Jacobi, Geschichte der Pädagogik, Berlin, 1991, che Humboldt collaborò alla fondazione dell’Università berlinese con altri celebri nomi come Georg Heinrich Ludwig Nicolovius, editore e statista formatosi seguendo le lezioni di Kant a Königsberg (e pubblicando lui e tanti altri nella casa editrice che porta il suo nome), come Johann Wilhelm Süvern, pedagogo allievo di Fichte, come il teologo Ludwig Natorp ed altri autorevoli rappresentanti delle istituzioni culturali e politiche tedesche. 103 R. Descartes, Discours de la Methode, A.T. VI, p. 62. 104 W. v. Humboldt, Über die innere und äussere Organisation der höreren wissenschaftlichen Anstalten in Berlin (1810), in HGS, cit., Bd. X, pp. 250-257, qui 254. 105 C. Menze, Die Bildungsreform Wilhelm von Humboldts, Hannover, 1975, p. 267. Dello stesso interprete, si veda pure – vista l’affinita ricercata e trovata da Menze, tra progetto educativo e antropologia filosofica humboldtiane – il libro dal titolo Hilhelm von Humboldts Lehre und Bild von Menschen, Ratingen, 1965. 102
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ambiente tedesco, viene attivamente promossa dall’organizzazione stessa degli studi universitari»106. Questa peculiare intonazione dell’andamento della formazione universitaria, un’intonazione che tentava di ricalcare (aprendola però a un pubblico enormemente più vasto) lo schema del dibattere erudito di fine Settecento, è la causa prima di come l’istituzione accademica tedesca sia riuscita a preservare «un suo peculiare equilibrio, facendo in modo che la specializzazione crescente degli studi» non annullasse, anzi riconoscesse come assai importanti «le “predisposizioni metafisiche” degli uomini di scienza»107. Quale maggior e più somigliante rispecchiamento dell’immagine della Bildung che Humboldt aveva proposto nei suoi scritti teorici? Il progetto educativo e formativo che Humboldt propone riconosce, infatti, l’importanza della specializzazione disciplinare e della tecnicizzazione e usabilità degli insegnamenti scientifici, ma non ne fa fondazione teorica; sostiene l’operatività e le ricadute pratiche implicate nelle sperimentazioni dei professori impegnati nelle lezioni accademiche, ma apprezza e promuove la connessione e la comunicazione tra ambiti diversi; e, quel che più conta da un punto di vista anche del con-sentire, dell’afflato umano che si avverte leggendo certe sue pagine, in Humboldt «si radicava in maniera sempre più crescente “l’amore per il popolo, la concordanza col suo modo di sentire semplice e schietto, la compassione per la sua posizione e la sua sprovvedutezza, per il quale trovare un mezzo idoneo è buono e puro proposito”»108. Questo “mezzo idoneo”, commenta sagacemente l’interprete, «era ora una costituzione che non richiedeva una teoria universale dell’umanità, non riguardava lo “spirito di popolo” [“Volksgeist”] (…) ma tale da essere in grado di dare una forma alla vita politica»109, ossia una Bildung insieme “di Stato” e individuale110, tale che l’ultima debba necessariamente rafforzare e beneficare l’altra, che, A. Orsucci, Dalla biologia cellulare alle scienze dello spirito, cit., p. 27. Ivi, pp. 27-28. L’inciso riportato tra virgolette è riferito a T. Lenoir, The Göttingen School and the development of trascendental Naturphilosophie in the romantic era, in «Studies in History of Biology», (5) 1981, pp. 111-201, in part. p. 112. 108 S. A. Kaehler, Wilhelm von Humboldt und der Staat: ein Beitrag zur Geschichte deutscher Lebensgestaltung um 1800, Göttingen, 1963, p. 429. L’interprete qui sta citando, dal Februardenkschrift, il discorso sulla Costituzione prussiana tenuto il 4 febbraio del 1819 da Humboldt. 109 S. A. Kaehler, Wilhelm von Humboldt und der Staat, cit., pp. 429-430. 110 Ivi, p. 430. 106
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a sua volta, ritorna sulla prima in modo autorevole ma liberalmente e libertariamente. E dunque: se componente fondamentale dell’educazione formante è il suo “fine”, la finalità donante dignità e autonomia all’individuo inteso come nucleo costitutivo del reale, questa capacità formativa (che Humboldt cerca di esprimere anche attraverso la delineazione di una potente e rispettosa forma-Stato) è esattamente quanto si annuncia in tutta la letteratura scientifica che dibatte di “vita” nell’ambito dell’Accademia tedesca, a partire dalla metà degli anni ’20 del secolo XIX. Non si può, qui, neppure entrare nel generale della questione, perché siamo alla fine del nostro persorso. Si tratterebbe, in caso contrario, di fornire un’ulteriore prospettiva tematica, una via che qui non può essere battuta, ma che a nostro giudizio varrebbe la pena cominciare ad ipotizzare. Si tratterebbe di annunciare soltanto che la direzione intrapresa da Kant, Goethe e Humboldt non si esaurisce con loro, ma che anzi si inrigoglisce e si accresce sempre più, fino a (ed è questa l’ipotesi “forte” solo annunciata) determinare una traccia visibile nel cuore del “secolo storico”, nell’ambito dell’epoca darwiniana da un lato, e storicistica, dall’altro. Si tratterebbe, infine, di indicare nella prospettiva “morfologica” e nell’ottica di una specifica sintesi tra saperi della vita e sapere storico, l’avviarsi e l’ingrossarsi di un potente movimento di idee e personalità nel mondo della cultura tedesca. Ma tutto ciò è da venire. Riterremmo di avere in mano una coerente linea di proseguimento dell’analisi, se il rischio di un eccesso di enciclopedismo e di un’ipertrofia contenutistica non fossero argomenti sufficienti a fermare qui la ricerca. L’energia scaturita dalle esperienze intellettuali di Kant, Goethe e Humboldt garantirà, all’alba del “secolo darwiniano” così come del “secolo storicistico”, quello spirito culturale di libera ricerca e di libera disposizione alla conoscenza, così tipico della Germania ottocentesca. La biologia troverà, nell’Ottocento compiuto, maestri ineguagliati e pionieri di gran nome, da Johannes Müller e al suo allievo Rudolf Virchow, a K. E. von Baer, da Karl Friedrich Burdach a Heinrich Rathke e Wilhelm Eysenhardt, daTheodor von Seeboldt a Gabriel Valentin: nomi importanti, tutti gravitanti tra Jena, Weimar e Königsberg, che compongono il coro di voci che precedono di pochissimo quelle più celebrate di Schleiden e di Schwann, i veri “scopritori” della teoria cellulare, fino a giungere, infine, tra Ottocento e Novecento, alla grande
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stagione della ricerca biologica che va sotto il nome di Hans Driesch. Ma, e davvero è il momento di chiudere: è un caso che Trendelenburg e il giovane Dilthey siano lettori attentissimi di questi autori appena citati? è un caso che la “scuola storica” abbia un confronto costante con questi interpreti dei saperi del vivente? è un caso che Friedrich Meinecke tratti più volte il tema dello “sviluppo” nelle sue più mature riflessioni? Ecco, ripetiamo, questo è il campo che si apre per ulteriori riflessioni. Immaginiamo che non sia un tema del tutto astruso ed astratto. Ma, come già detto, tutto ciò è di là da venire.
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INDICE DEI NOMI
(Per motivi comprensibili, i nomi di Kant, Goethe e Wilhelm von Humboldt non vengono compresi in quest’indice, il quale rende col corsivo del numero di pagina le occorrenze presenti esclusivamente in nota, col tondo quelle solo nel testo, mentre dà visione della presenza nel testo e in nota con opportuna segnalazione) Agazzi, E., 29 d’Alembert, J.-B. Le Rond, 22 Amoretti, G. V., 143 Amoroso, L., 146 An, J. H., 155 Angelino, C., 49 Aristotele, XIII, XXI, 166 Armine, F., 119 Ashley Montagu, M. F., 45 Baccioni, G. B., 11 Bach, T., 112 Bacone, F., 11 Badaloni, N., XXVI, 46 Barbachina, E., 91 Barsanti, G., XXII, 53, 121. Battaglia, F., 40. Baum, M., 161. Baumer, A., XX Becker, H. J., 122 Bedau, M., 161 Beloussov, L. V., XIX Benz, R., 147 Bermes, C., 175, 176. Bernardi, W., 22, 28. Beutler, E., 143 Bianchi, L., 40 Bianco, L., 12
Biedermann, W., 120 Bierbrodt, J., 42, 60 Biermann, J. C. A., 32 Bischof, M., XIX Bloch, K. F., XX Blumenbach, J. F., 3, 24 e n., 27, 30, 31, 32 e n., 33 e n., 34, 35, 36, 38, 44 e n., 45, 46 e n., 49, 50 e n., 51 e n., 52, 53 e n., 54, 55, 56 e n., 57, 82, 111, 113, 141, 181 Bobbio, N., XXV Bochicchio, V., 116 Bodei, R., 168 Boerhaave, H., 42 e n., Bohr, N., XIX Boisserée, S., 123 e n. Bondi, R., 13 Boniolo, G., 161 Bonito Oliva, R., 104 Bonnet, C., 21, 23, 25 e n., 27, 56 Bonsiepen, W., 52, 134 Bopp, F., 180, 181 Borges, J. L., XXVI Bosi, A., 5 Brain, R. M., 99, 116 Brandis, C. A., 3, 54, 115, 116 Brandt, R., 58, 139
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Bredekamp, H., 22 Breidbach, O., 103, 134, 137 Bröckling, U., 111 Bubner, R., 158 Buffon, G. L. L., 13, 15 e n., 16 e n., 17, 37, 39, 124 Bultmann, R., 64 Buonamici, F., 24 Burdach, K. F., 189 Cabanis, P. J. G., 29 Cacciari, M., 176 Cacciatore, G., XXIV Caianiello, S., XXII, XXVIII, 23, 57, 127, 154, 164, 173 Campbell, T., 172 Camper, P., 31 e n., 32 Cantillo, G., 104 Cappelletti, V., 97 Carabellese, P., 35 Cardano, G., 11 Carrano, A., 165 Carus, C. G., 119, 120, 135 e n. Cassirer, E., IX-XVII e nn., XXI, XXII, XXIII e n., XXIX e n., XXX e n., XXXI, 13 e n., 19 e n., 20 e n., 61, 62, 98 e n., 150 e n., 166 e n., 182 e n. Catena, M. T., 76 Celada Ballanti, R., XXIII Celentano, M., 114 Chilese, V. 46 Chiodi, P., 78 Christine von Sweden, 98 Clarke, E., 111 Cohen, A. A., 65 Cohen, H., XXIV, 79 Cohen, R. S., 99, 116 Cohnitz, D., 116 Conrady, K. O., 138 Corsetti, J.-P. XXVI Coseriu, E., 169 Crick, F. H., XVII
Cristofolini, P., 46 Croce, B., XXX Cudworth, R., 13 e n. Cunningham, A., 20, 33 Cusinato, G., 99 Cuvier, G., 121, 122, 123, 129, 130 D’Alessandro, G., 93, 94, 162 d’Atri, A., XXIV, D’Onofrio, A., 172 Daiber, J., 93, 95 Danzel, T. W., 1 Darwin, C., XII, XXI, 175 de Chézy, A. L., 180 De Cieri, A., 24, 134 de Condillac, É. B., 170 De Flaviis, G., 101 de Sacy, S., 180 de Saint-Hilaire, G., 121, 122 e n., 123, 125 De Sarlo, F., XIX De Toni, G. A., 10 Debus, A. G., 42 Denina, C. M., 157, 158 Descartes, R., XXVI, XXVIII, 14, 15, 29, 98, 137, 170, 187 Desideri, F., XXVI, 18, 20 Di Bartolo, M., 137 Di Bella, S., 94 Di Cesare, D., 58, 171 Di Costanzo, G., XXVIII, XXIX Di Fiore, P. P., 161 Diderot, D., 32 e n., 29, Dietzsch, S., 58 Dilthey, W., XXIV, XXVIII e n., 190 Domandl, S., 138, 169, 171 Donzelli, M., XXII Dörr, V. C., 136 Dougherty, F. W. P., 32 Drelincourt, C., 46 Driesch, H., XII e n., XIII, 85, 190 Droysen, J. G., XXVIII, XXX, 127, 164
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Duchesneau, F., 139 Dumont, F., 102 Duttke, B., XXIV Eckermann, J. P., 121, 122, 127, 153, 155 Eco, U., XX, 51, 79, Ehrlich, L., 1 Engels, E. M., 54, 55, 111 Escher Di Stefano, A., XXIII Esposito, R., 172 Eucken, R., XXI Euler, W., 102 Eysenhardt, W., 190 Ewers, M., 82, 84 Fabbri Bertoletti, S., 52, 115 Fabrizio d’Acquapendente, 14 Faraday, M., 73 Ferraguti, M., 161 Ferrari, J., 13, 66 Ferrari, M., XXIV Ferrini, C., XXVII Fetz, R. L., XXIV Feyerabend, O., XXI Fichte, J. G., 93, 100 187 Firpo, L., XXV Fischer, M., 183 Flitner, A., 158 Floridi, L., 161 Fondi, R., 97 Forni, E. M., 59 Forster, G., 96 Forte, B., 186 Fourier, J. B. J., 73 Frede, D., XXIV Fries, J. F., 52, 134 Frigo, G. F., 135 Gadamer, H. G., 141, 142 Gagliasso, E., XXII Galilei, G., 73 Gall, F. J., 59, 103, 104, 111
Galvani, L., 28, Geier, M., 58 Gembillo, G., XXIV Gentile, G., 162 Gerabek, W. E., 59 Gerhardt, V., 91 Geymonat, L., XXVII Giacomoni, P., 113, 136, 139, 154, 163, 165, 168, 172 Giaimo, S., 161 Gibbons, B. J., XXVI Giel, K., XXV Gigliotti, G., 79 Gilson, E., XXI Girtanner, C., 52, 54, 115 Giugliano, A., 183 Glaser, H. A., 1 Gould, S. J., 44, 45 Grandjean, A., 85 Grant, I. H., 8 Gravesande, W. J., 20 Grillenzoni, P., 12, 28 Groß, D., 59 Grumach, E., 120, 138 Grumach, R., 138 Grush, R., 103 Guillo, D., XXVI, 130 Guthke, K. S., 19 Haeckel, E., XII Hagemann, W., 131 Hägerström, A., XXX Hagner, M., 103, 105 Hall, T. S., 53 Hamann, J. G., 162 Hartmann, N., 85 Hartung, G., 183 Harvey, W., 14, 22, 23, 42 Hegel, G. W. F., XX, XIII, XXVII e n., 1, 52, 112, 120, 132-134, 159, 166, 167, 172, 184 Heidegger, M., XXIV, XXIX, 49, 114, 146, 162, 163
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Heine, H., 175 Heinsoeth, C. F. A.., 147 Heinz, J., 183 Hellingrath, N., 137 Hengstermann, C., 94 Henle, F. G. J., 97 e n. Henschen, F., 183 Herbart, J. F., 89 Herbell, J. F. M., 31 Herder, J. G., 7 e n., 8, 9, 23 e n., 7 e n., 100, 104, 117, 153 e n., 154 e n., 155, 157-161 e nn., Herrmann, U., XXVIII Herschel, F. W., 73 Herzfeld, H., XXIX Heynig, J. G., 139 Hinrichs, C., XXIX Hinske, N., XV, 89 Hirschfeld, E., 157 Hißmann, M., 48 Hofer, W., XXIX Hoffmann, F., 42 e n. Hoffmeister, J., 1 d’Holbach, P.-H. T., 22 Hölderlin, F., 137 e n., 146 Holler, F., 112 Holzhey, H., 79 Horstmann, R. P., 91 Hösle, V., 134 Hubbert, J., XXVI Hufeland, C. W., 3, 116, Hunemann, P., 129 Hurson, D., 135 Huygens, C., 73 Ibrahim, A., 17 Ingensiep, H. W., 4, Ivaldo, M., 168 Jacobi, C. W. M., 145 e n. Jacobi, F. H., 167, 168 Jacobi, J., 187 Jacyna, L. S., 111
Jahn, I., 42, 125 Jardine, N., 33 Joël, K., XXI Jung, T., 183 Jungmann, A., 167 Kaehler. S. A. 188 Kalenberg, T., 134 Kanz, K. T. XX, 111, 112 Kaplow, I., 183 Karafyllis, N. C., 111 Kaupen-Haas, H., 172 Keil, G., 59 Kein, O., 1 Kelemen, J., 51 Keplero, J., 73 Kielmeyer, C. F., 3, 4, 32, 54, 55, 112 e n., 113 e n., 114, 115, 116 e n., 118 Kircher, A., 11 Klemme, H., 58 Knudsen, O., 99, 116 Köchy, K., 97 Köhler, E., 15 Korff, H. A., 1 Körner, C. G., 138 Krallmann, D., 3 Kramme, R., 69 Krannhals, P., 130 Krauß, H., 15 Krausser, P., 78 Kroner, R., 85 Kuhn, D., 114 Kühn, M., 58 La Mettrie, J. O., 29 e n. Lachman, R., 116 Lamarck, J. B., XII, 53 Landolfi Petrone, G., 40 Landucci, S., 46 Laurencet, G., 122 Le Guyader, H., 122 Leibniz, G. W., XI, XXI, XXIII, XXV,
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9, 10, 11 e n., 32, 86, 170 e n. Leitzmann, A., XXVII, 49, 189 Lenk, H., 92 Lenoir, T., 113, 129, 188 Leoni, F., 109 Leopardi, G., 160 Lepenies, W., 22 Lepsius, M. R., XXVIII Lessing, G. E., 23 Liebert, A., 4 Liebmann, O., 85 Lindt, A., 19 Lissa, G., XXXI Loheide, B., 93 Lomonaco, F., 98 Lorenz, K., 104 Lorusso, M. L., 161 Löther, R., 42, 125 Lotti, B., 13 Lotze, H., 85 Lovejoy, A. O., 100 Löw, R., XXI, 84 Lullo, R., 11 Luserke, M., 136 Mach, E., 73 Machamer, P. K., 103 Maimon, S., 54 Makkrel, R., XXIV Maldonato, F., 109 Mallarmé, S., 160 Malpighi, M., 23 Malter, R., 58, 138 Mameli, M., 161 Mandelkow, K. R., 92 Manganaro, P., 86 Mangione, C., XXVII Mann, G., 102 Marcucci, S., 87 Marino, L., 7, 39, 41 Martin, H. A., 3 Marx, K., 134
Massin, B., 172 Mathieu, V., XXV, 155 Maupertuis, P. L. M., 12, 29, 37, 39 e n., Maurer, M., 96, 100 Mazzarella, E., 63 McLaughlin, P., 92, 101, 103 Meijer, M. C., 31 Meinecke, F., XXIX e n., 100, 150 e n., 154, 155, 190 Melchiorre, V., 79 Menze, C., 172 Merker, N., 23, 48 Merleau-Ponty, M., 121 Meyer, H. F., 146 Meyer-Abich, A., 96 e n., 97 e n., 98, 101 Meyranx, P., 122 Michelet, K. L., 133 Milanesi, P. G., 134 Millucci, M., 87 Minelli, A., 161 Mojsisch, B., 58 Mommsen, W. J., XXVIII Montalenti, G., 13 Monti, M. T., 21, Montinari, M., 56, 130 Morandi, E., XXI Moravia, A., 29 More, H., 13 Moretto, G., 164, 169 Mounin, G., 170 Mueller-Vollmer, K., 161 Muhlack, U., XXIII, 1 Müller, J., 96, 189 Müller-Sievers, H., 45 Munson, R., 13 Naef, A., 133 Nardi, F., XXI Natorp, L., 187 Natorp, P., XXIV, 89 Naumann, B., 92
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Needham, J. T., 14 e n. Neubauer, J., 93 Neuser, W., 134 Newton, I., 20, 43 Nicholls, A., 155 Nicolovius, G. H. L., 102, 187 Niebuhr, B. G., 116, 164, 167 Nisbet, H. B., 154 Nordenskiöld, E., XIII e n. Novalis (G. F. P. von Hardenberg), XXV e n., 3, 31, 60, 92 e n., 93, 94, 95, 99, 100, 112, 160 Nyhart, L., 96 Oehler-Klein, S., 59 Oeser, E., 104 Oken, L., 96 Ørsted, H. C., 99, 116 Orsucci, A., XXVII, 188 Orth, E. W., IX, XII, XIII Paci, E., 30 Pagel, W., 22, 32 Paracelso, 11 Pecchinenda, G., XXVIII Pellicani, L., 26 Peplow, R. M., 182 Perini, R., 87 Perpeet, W., 183 Pestalozzi, J. H., 89 Peter, J., 79 Petrocchi, I., 9 Pettoello, R., 124, 138 Pico della Mirandola, 11 Pievani, T., XXII Pigliucci, M., 161 Piovani, P., XXIII, XXXI e n., Platone, 170 Poewe, K., 130 Poggi, S., 4, 52, 77 Pokorny, J., 80 Popp, F. A., XIX Prete, A., 160
Preti, G., 22, 29 Pross, W., 154, 161 Proust, F., 94 Quillien, J., 159, 164 Quintili, P., 22 Raabe, A., 155 Rádl, E., XIII, XIV Rathke, H., 189 Raullf, U., 100 Recki, B., IX, 92 Reichardt, J. F., 139 Reil, J. C., 3, 54, 66 Reinhold, J. M., 139 Reininger, M., 59 Richards, R. J., 51 Rickert, H., XXIX Riedel, M., 165, 174 Riedl, R., 104 Rieger, D., 15 Rieger, S., 116 Riolan, J., 14 Riverso, E., XXVI Rizzi, A., 63 Roe, S. A., 21, 26 Roger, J., 14, 16, 22 Rommel, G., 113 Roose, T. G. A., 54, 111 e n. Rorty, A. O., 94 Rossi, P., 11, 12 Rosslenbroich, B., 102 Roux, W., XII Rupke, N. A., 33 Rüsen, J., XXIII Saller, C., 172 Santangelo, A., 135 Sassen, B., 79 Savarese, R., XXVIII Scapini, F., 97 Scarpelli, G., 15 Schanze, H., 113
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Schasler, M., 163 Schelling, F. W. J., 1, 4, 8 e n., 52, 97, 99 e n., 112, 113, 115, 129, 134 Schiller, F., XXVIII, 14, 92, 100, 130, 135 e n., 136 e n., 138, 139, 140 e n., 141, 162 Schleiden, M. J., XII, 110, 174, 176, 180 Schleiermacher, F., XXX, 100, 162, Schlesier, G., 158, 186 Schmid, C. C. E., XV Schmidt, G., 1 Schmidt, K., 58 Schmidt-Glintzer, H., 100 Schmücker, R., XXIV Scholtz, G., XXIII Schrimpf, H. J., 117 Schulak, E. M., 155 Schumacher, R., 91 Schwann, T., 110, 174, 190 Scolari, D., 155 Seemann, H. T., 100 Senglaub, K., 42, 125 Shaftesbury, A. A. C., 13, 14 Simili, R., 135 Sloan, P. R., 15 Smart, J J. C., XIX Soemmerring, S. T., 3, 102 e n., 103 e n., 104, 105 e n., 106 e n., 107, 108, 110, 111, 117 e n., 124 Solinas, G., 17 Spallanzani, L., 13, 16, 23, 28, 27, 33 Spallanzani, M. L., 29 Spinoza, B., X, 145, 167 e n. Spurzheim, J. C., 59 Stahl, G. E., 42 e n., 43 Stark, W., 139 Stefani, M., 14 Steigleder, K., 58 Steinke, H., 21 Steinthal, H., 167
Stelzig, E. L., 118 Šustar, P., XVIII, XIX e n. Süvern, J. W., 187 Tessitore, F., XXIII, XXVIII, XXIX, 89, 100, 159, 164, 165, 167, 168, 172, 178, 185 Testa, G., 161 Tetens, N., 159 Thomasius, C., XV Tommasini, G., 28 Trabant, J., 164, 165, 171 Treviranus, G. R., 55, 111 Troeltsch, E., 167 Trunz, E., 2 Tundo, L., 94 Uerlings, H., 93 Ullrich, S., XXIV Ungerer, E., 84 Vajda, G. M., 1 Valentin, G., 190 Valéry, P., 160 van Eynde, L., 138 van Helmont, J. B., 42 Van Wijk, R., XIX Vartanian, A., 29 Vasoli, C., XXVI Vattimo, G., 142, 163 Venturelli, D., 88 Vercellone, F., 135 Verra, V., XXI, 133, 134 Vicinanza, M., 104 Vico, G., XXIII, 46, 64, 82 Virchow, R. L., XXVII, XXVIII e n., 111, 189 Vitiello, E., 176 Voeikov, V. L., XIX Volta, A., 28 von Baer, K. E., 96, 189 von Engelhardt, D., 55, 135 von Engelhardt, R., 130
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von Görres, J. J., 3 von Haller, A., 14, 17-22 e nn., 23, 24, 25 e n., 26, 27 e n., 28, 33, 41, 54, 56, 108, 114 von Helmholtz, H., 119 von Herrmann, W. F., 49, 146 von Humboldt, A., 96 e n., 98 e n., 100 von Kieser, D. G., 32 von Lansdorff, G. H., 32 von Molnár, G., 138 von Müller, F. (Kanzler), 120 von Retzer, J. F., 103 von Schlegel, K. W. F., 95, 100, 162 von Schlegel, W. A., 100, 162, 189 e n., 180 e n., 181, 182 von Schuckmann, F., 139 von Seeboldt, T., 190 von Weizsäcker, C. F., 123 von Wille, D., XV von Wilucki, H., XXI Vorländer, K., 58, 138-141 Wagner, R., 85 Wagenitz, G., 32 Walch, J. G., XV Walther, G., 167
Watkins, E., 12 Weber, M., XXVIII e n., XXX Weimer, H., 187 Wellmann, J., 32 Wellmann, K., 29 Wenzel, M., 103 Werner, G., 22 Wiehl, R., 92 Wieland, C. M., 139 e n., 160, 183 Winter, U., 96 Wolff, C., XV, 86 Wolff, F. C., 3, 21 e n., 22, 23 e n., 24, 25, 26 e n., 54, 56, 57, 141 Wolff, G., XII Wyder, M., 136 Yovel, Y., 95 zack, N., 46 zambelli, P., 11 zammito, J., 7, 15 zanetti, V., 84 zelter, C. F., 92 ziegler, W., 121 zimmerman, J. G., 18 zimmermann, R. C., 137
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COLLANA INCIPIT Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta” dell'Università degli Studi di Napoli "Federico II"
1. Rosalia Peluso Logica dell’altro. Heidegger e Platone (2008) 2. Ulderico Iannicelli Le Ricerche Logiche di Martin Heidegger Logica e verità tra fenomenologia e filosofia trascendentale (2009) 3. Christian Vassallo La dimensione estetica nel pensiero di Plotino. Proposte per una nuova lettura dei trattati Sul bello e Sul bello intelligibile (2009) 4. Fabio Seller Scientia astrorum La fondazione epistemologica dell'astrologia in Pietro D'Abano (2009) 5. Salvatore Principe Kant: La capacità di giudicare. Il ruolo del Giudizio nell’organon della ragione pratica (2011) 6. Riccardo De Biase I saperi della vita. Biologia, analogia e sapere storico in Kant, Goethe e W. V. Humboldt (2011)
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