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Italian, English Pages 68/65 [65] Year 1999
Èrato Poesia straniera con testo originale a fronte 3
André de Korvin
I quattro spigoli della guerra A cura di Alessandro Carrera
Edizioni Cadmo 1999
De Korvin, André. I quattro spigoli della guerra / André de Korvin; a cura di Alessandro Carrera. Fiesole (Firenze): Cadmo, 1999. X, 58 p. ; 19,5 cm. (Èrato ; 3) Tit. orig.: The Four Hard Edges of War Testo orig. a fronte ISBN 88-7923-181-2 I. Carrera, Alessandro 811.54 (ed. 20)
Traduzione dall’inglese di Alessandro Carrera Titolo originale dell’opera: The Four Hard Edges of War Wings Press, Houston, Texas 1990 © André de Korvin, 1990 © 1999 Cadmo s.r.l. Edizioni Cadmo Via Benedetto da Maiano, 3 50014 Fiesole (Firenze) Tel. 055-5018.1 Fax 055-5018.201 [email protected] Printed in Italy
INDICE
Il centro dell’esplosione
IX
I.
3
La vista da anni luce più lievi e lontani The View from Lighter Years Away
II. La vista spaziante The Far View
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III. L’arco di una vita A Lifetime
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IV. L’istante The Instant
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Un crinale molto sottile (nota per l’edizione italiana), di André de Korvin
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La poesia segue rotte irregolari, di Alessandro Carrera. .
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A mia moglie Marianne
IL CENTRO DELL’ESPLOSIONE Sono nato a Berlino, quattro anni prima della seconda guerra mondiale. I miei genitori erano emigrati russi e partirono per Parigi pochi giorni prima dell’inizio della guerra. Sono cresciuto franco-russo, vale a dire che ho acquisito uno stato d’animo né francese né russo. Nel 1960 emigrammo nuovamente, questa volta negli Stati Uniti. Arrivammo a Los Angeles. Io camminavo nello smog. Mio padre morì sei anni dopo. Mi sposai l’anno seguente. Subito dopo, mia moglie e io andammo ad abitare a Pittsburgh, in Pennsylvania, dove io insegnai matematica alla Carnegie Mellon University. Nel 1968 ci trasferimmo nell’Indiana, dove abbiamo vissuto quasi vent’anni. Mia madre aveva quasi finito di riordinare l’archivio di mio padre, che doveva essere mandato a Yale. Morì nel 1975. Finii il lavoro di mia madre e l’archivio si trova ora alla Beinecke Library della Yale University. Molti amici mi hanno chiesto: «Di che cosa scriveva tuo padre?» Mio padre era un ottimo poeta e io ho imparato molto da lui. «Se scrivi di una pietra», mi diceva, «devi sentire come sente una pietra». Fece parte della Resistenza e passò nove mesi in una prigione della Gestapo vicino a Lione. Io sono cresciuto tra letture di poesie tenute regolarmente a casa nostra. Nel 1982, a Indianapolis, allo scopo di migliorare le mie traduzioni, frequentai per la prima volta un seminario di poesia. Due anni più tardi pubblicai la mia prima composizione poetica. Nel 1987 mia moglie e io ci stabilimmo a Houston, in Texas, dove tuttora insegno matematica alla University of Houston. Affittammo un appartamento vicino al Bayou. È una via dove abita poca gente. Molto spesso sono io il solo a prendere l’autobus, tra isolati invasi da piuma delle pampe. Un giorno capii che vivevo al confine di una città che era stata livellata da un’esplosione accaduta circa cinquant’anni prima. Decisi di comprendere cos’era accaduto. Ogni sera mi spingo sempre più lontano dal mio appartamento di Houston. Tracce di spaesamento sociale ed economico soIX
no evidenti nel quartiere. Binari corrono verso l’orizzonte in direzione est. Dove il Bayou si allarga, le luci si riflettono lentamente nell’acqua. Una sera oltrepassai l’ultimo negozio per soli adulti e l’orologio della stazione degli autobus, con le sue lancette mancanti. Sapevo di essere ancora lontano dal centro dell’esplosione. Una sera mi avventurai molto lontano dal mio appartamento di Houston. Capii che da molti punti di vista ero stato fortunato. Ero così lontano da casa che mi ci sarebbe voluta una vita per esplorare il paesaggio che avevo scoperto. Molti mi hanno incoraggiato a scrivere. In particolare voglio ringraziare mia moglie Marianne, l’amico Victor Espino e le comunità letterarie di Indianapolis e Houston. Sono al centro dell’esplosione. Il cartello dell’autostrada indica l’uscita per la Zona di Guerra. Mio padre è appoggiato al suo bastone. «È l’istante che stavi cercando», dice. Questo libro è la storia della mia ricerca.
André de Korvin Houston, 29 maggio 1990
X
I QUATTRO SPIGOLI DELLA GUERRA
I. THE VIEW FROM LIGHTER YEARS AWAY The wind sings of grey clouds whose shapes you can never trust, mutable, like days of naval glory planted in the rocky field of an empty admiral’s head. The wind sings: if it were helium it would ascend in time becoming a general leading condemned houses in their uprise against commercial renovation. The wind sings all of that and much more as I board the 7 a.m. bus. What do I know of the wind song?
Gravity is the key to the wind song. I laugh so light that watertowers shoot up in the morning sky and stars fall from ceilings of hospital rooms on the eyelids of dreamers wheeled toward surgery, on the eyelids of outspoken professors lecturing about freedom to lobotomized deans. I laugh so light, that when I tell the driver you’re rolling through my past, my voice sings, a black stone 2
I. LA VISTA DA ANNI LUCE PIÙ LIEVI E LONTANI Il vento canta di nubi grige sulle cui forme non si può contare, mutevoli come giorni di gloria navale innestati nel campo roccioso di una testa d’ammiraglio vuota. Il vento canta: se fosse elio salirebbe a tempo diverrebbe un generale alla guida di case condannate in sommossa contro ristrutturazioni commerciali. Il vento canta di questo e di altro ancora mentre prendo l’autobus delle sette del mattino. Che ne so, io, di quel che canta il vento?
La gravità è la chiave del canto del vento. Rido così piano che gli acquedotti si stagliano nel cielo del mattino, stelle cadono dai soffitti di stanze d’ospedale sulle ciglia di dormienti scortati in chirurgia, sulle ciglia di combattivi professori intenti a sostenere diritti civili davanti a lobotomizzati presidi di facoltà. Rido così piano che quando dico all’autista stai attraversando il mio passato la mia voce canta, pietra nera 3
on the storm-beaten coast of Brittany. One must grasp all of the above, when talking about the song of the wind.
Time stretches in the palm of my hand, flat like a host handed out by the priest who, one morning, on his way to the courthouse sees the judge sentencing handcuffed miracles to twenty years and no parole. Miracles doing time is the whiteness of jails. In my hand, the host pales like the ghost of aspirin and lamps in the halls of justice light up, lovers of the Swiss guard writing poetry on the third floor. No one writes about the heart anymore.
Too cliché agree the critics and they bury the heart alongside faded rainbows and deflated clouds. The obituary can be read in every academic journal of neo-realism and latest trends. Cliché, cliché, cliché, voices of critics click like flashbulbs at the police station when pictures of the corpse are taken. 4
sulle coste di Bretagna battute da tempeste. Sono cose che bisogna capir bene, se si vuole dir qualcosa sul canto del vento.
Il tempo mi si stende sul palmo della mano, piatto come un’ostia tesa da un prete che, un mattino, sulla via del tribunale vede un giudice condannare miracoli ammanettati a vent’anni senza condizionale. Miracoli al fresco, è chiarore di prigioni. L’ostia mi impallidisce in mano come un fantasma di aspirina e lampade accese in corti di giustizia, le amanti della guardia svizzera scrivono poesie al terzo piano. Nessuno più scrive del cuore.
Troppi cliché convengono i critici seppelliscono il cuore lungo arcobaleni sbiaditi, nuvole sgonfiate. Si può leggere il necrologio su ogni rivista di nuovo realismo e di ultime tendenze. Cliché, cliché, cliché, voci di critici scattano come flash alla stazione di polizia che fotografano cadaveri. 5
Later, when the body is hauled to the autopsy room and inspectors draw up a long list of victims, the heart unfolds maps of countries no one knows.
New republics slide across the dark window of the bus humming like the saxophone of the jazz player from Warsaw I met in Oklahoma City last summer. The chevrolet on the left lane is blue and dented like metaphysics showing up in its worn coat at the Savings & Loan Association because metaphysics is homeless these days. Blue and beaten it roams the streets, pushing its cart of secondhand clothes.
Tired, it sits on the curb and watches Pampas grass proclaim anarchy in full sight of banks. In every fountain, water-columns lean a little in the wind like the cyrillic letters that I forget more and more each year. 6
Più tardi, quando il corpo è condotto all’autopsia e gli ispettori stendono una lunga lista di vittime, il cuore dispiega mappe di paesi sconosciuti.
Nuove repubbliche scivolano via sugli scuri finestrini dell’autobus ronzante come il saxofono del jazzista di Varsavia che incontrai l’estate scorsa ad Oklahoma City. La chevrolet sulla corsia di sinistra è livida e dentata come la metafisica che mostra la sua giacca consumata alla cassa di risparmio perché di questi tempi la metafisica è sfrattata. Livida e malconcia batte strade, spingendo il suo carrello di vestiti usati.
Stanca, si siede sull’angolo e guarda la piuma delle pampe proclamare anarchia sotto gli occhi delle banche. Da ogni fontana, colonne d’acqua si sporgono nel vento come i caratteri cirillici che io dimentico ogni anno sempre più. 7
Street-lights hang their heads, preoccupied with night still wrapped around their necks. Each day, in my living room European friends walk away deeper into the wallpaper roses, away into Americana.
Buses coming in from the cold, out-of-tune buses. Buses of we the people, out-of-service buses. Buses of Lebanon, blown up buses. Buses of Oh-God-what-happens-after-death, dusty buses. Buses of Academia, flat-tired buses. Buses of loneliness: writing poems for every billboard girl. Buses of cute writing: the O of the moon rising over the A of the roof. Buses of poems: every vowel a cheerleader when stanzas parade on the outskirts of grammar-town.
One morning I woke up and understood I had not been listening. I had only recorded the sounds of objects not their music. Without the music, 8
Pende la testa ai lampioni, preoccupati della notte che hanno avvolta intorno al collo. Di giorno in giorno, nel mio salotto amici europei si allontanano nelle rose della tappezzeria, sempre più a fondo nell’americanità.
Autobus che vengono dal freddo, autobus stonati. Autobus di noi il popolo, autobus fuori servizio. Autobus libanesi autobus esplosi. Autobus di oh-Dio-che-accadrà-dopo-la-morte, autobus polverosi. Autobus d’Accademia, autobus dalle gomme a terra. Autobus della solitudine che scrivono poesie per le ragazze dei cartelloni. Autobus del bello scrivere: l’O della luna sopra l’A del tetto. Autobus di poesie: ogni vocale una majorette nella parata delle strofe alla periferia della città grammaticale.
Un mattino mi svegliai e capii che non stavo ascoltando. Avevo solo registrato il suono degli oggetti non la musica. Senza musica, 9
provinces of the heart were flooded tiles in the kitchen of quiet years. One morning my father told me to write above love then he boarded the bus that crossed the one-way bridge of demerol river and was not seen again.
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le province del cuore erano piastrelle inondate nella cucina degli anni quieti. Un mattino mio padre mi disse di scrivere d’amore poi prese l’autobus che attraversava il ponte a senso unico sul fiume del demerol e non ritornò più.
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II. THE FAR VIEW Awake and drifting in the water, counting the bridges that I pass. Lightning bolts slide across the river and leaping fishes mark circular targets where red faces of admirals flicker like bull’s eyes hit so many times that emptiness starts to fill their space. Corruption flowers, bright parades across the glazed eyes of stuffed heads nailed to the walls of the motel sporting shriner conventions. Smoke wipes out plazas and doesn’t stop to wait for morning trucks. I would like to sleep, oblivious of the thousand faces of corruption.
I would like to sleep, not see the faces. Time rolls, unpredictable like a bridge running away from trains while the accountant son is born after the steam trains have gone. Born after they are gone, gone before being born, being, born, gone. It’s the century of uprooted trees, their branches bend to seek depth 12
II. LA VISTA SPAZIANTE Sveglio, in deriva sull’acqua, conto i ponti che passo. Lampi slittano sull’acqua pesci saltano, marcando bersagli circolari dove facce rosse di ammiragli ammiccano come occhi di bue così malconci che il vuoto comincia a riempirli. Fiori della corruzione, brillanti parate negli occhi di vetro di teste impagliate inchiodate alle mura del motel che ospita il raduno di una loggia. Il fumo spazza le piazze e non aspetta i camion al mattino. Vorrei dormire, dimenticare le mille facce della corruzione.
Vorrei dormire, non vedere facce. Il tempo scorre, imprevedibile come un ponte che corre via dai treni mentre il figlio ragioniere nasce dopo che i treni a vapore sono scomparsi. Nato dopo di loro spariti via prima che sia nato, che sia, che nato, che via. È il secolo degli alberi sradicati, come rami piegati a cercare profondità 13
but the depth is gone so the branches hang over the ground, smiling at gravity, one of the few laws left. All paths curve to the station of nowhere. Trains lick landscapes like tongues of disaster and rails are the screams of pregnant women.
In rented space water sleeps in leaky pipes, cold like thoughts of brain-washed soldiers caught by an unknown foe. Someone dreams of IRS agents and IRS agents dream about money and money stops people from dreaming, money falls like a bamboo curtain over display windows of imported goods. Money drives bulldozers over dream houses where blue curtains float above explosions of poppy fields. Money never dreams anything and dreamless bankers count their money behind fire-proof doors. Clocks understand the change in time when factories liquefy into assets into blood into sweat into rain.
I drift in the water below a rainy sky I’m awake 14
ma la profondità è scomparsa così i rami pendono a terra, sorridendo alla gravità, una delle poche leggi rimaste. Tutte le vie si curvano verso le stazioni senza un luogo. I treni leccano paesaggi come lingue del disastro e le ferrovie sono grida di donne incinte.
In spazi affittati l’acqua dorme in tubi difettosi, fredda come pensieri di soldati indottrinati sorpresi da un nemico sconosciuto. Qualcuno sogna agenti delle tasse gli agenti delle tasse sognano denaro e il denaro non fa sognare la gente, il denaro cade come una cortina di bambù sopra vetrine di merci importate. Il denaro fa passare i bulldozer su case di sogno dove fluttuano tende azzurre su esplosioni di campi di papaveri. Il denaro non sogna mai niente mentre banchieri senza sogni lo contano dietro porte antincendio. Gli orologi capiscono che cambia il tempo quando le fabbriche si liquefanno in capitale costante in sangue in sudore in pioggia.
Vado alla deriva sotto un cielo piovoso. Sono sveglio 15
the IRS agent dreams of broken necks of green bottles embedded in the stone of Wall Street green like the ivy that grows from the silence of dolls with heads cut off, resting in the red room of a house left behind by Chinese immigrants. But immigrants are $$ on Wall Street and curbs lead to the monuments of the dead. The IRS agent is astounded as a dean denied tenure when he falls through miles of cornflakes while dark raisins sing in the sun.
This century plays broken images like an insane gramophone, sticking needles into the veins of sick men seeking darkness, seeking trains that do not run anymore while Soho policemen handcuff a man in a blue hat peddling poetry, while hands of city-clocks fall off as the midnight sun bounces off the roofs of adult bookstores. Tennis shoes of joggers peel back time soft like a fallen orange 16
l’agente delle tasse sogna di colli rotti di bottiglie verdi incastonate nelle pietre di Wall Street verdi come l’edera che cresce dal silenzio delle bambole dalle teste tagliate, addormentate nella stanza rossa di una casa abbandonata da immigrati cinesi. Ma gli immigrati sono $$ a Wall Street e le curve conducono ai monumenti dei defunti. L’agente delle tasse è allibito come un preside a cui si nega il ruolo quando cade tra miglia di fiocchi mentre scura uva passa canta al sole.
Questo secolo suona immagini spezzate come un grammofono insano che infila aghi nelle vene di ammalati in cerca di buio, in cerca di treni soppressi mentre poliziotti di Soho ammanettano un tale dal cappello azzurro, venditore abusivo di poesia, mentre mani di orologi cittadini cadono al sole di mezzanotte che rimbalza sui soffitti di negozi per adulti. Scarpe da tennis di salutisti scorticano il tempo molli come arance cadute 17
and pendulums of plaza clocks are nailed into coffins and put on display. I wait for you at the botton of the river where lightning bolts zig-zag slowly like question marks and the question drifts as pollution into tunnels where trains don’t run anymore. In the negative suburbs of the city nothing runs anymore. What was in museums has departed, has become nostalgia and nostalgia rises through ventilators of restaurants where no one eats. It drifts over ethnic neighborhoods over plazas where beer is drunk from glasses darkened by the bruised lips of permanent disability.
Disconnected words come and go seeking the blinding flash of linguistic recognition. They line up over 500 miles of freeways, pushing like weeds against the chain link fence of an unborn poem, gone before it was born 18
e pendoli di orologi di piazze vengono inchiodati in bare e messi in mostra. Ti aspetto sul fondo del fiume dove lampi zigzagano lenti come punti interrogativi e le domande scorrono come l’inquinamento in gallerie dove i treni non corrono più. Nella periferia negativa della città niente corre più. Quello che c’era nei musei se n’è andato, è diventato nostalgia e la nostalgia si alza dai ventilatori di ristoranti dove nessuno mangia. Scorre su quartieri di altre etnie su piazze dove birra si beve da bicchieri oscurati da labbra escoriate da una disfunzione permanente.
Parole sconnesse vanno e vengono cercando il lampo accecante di un’agnizione linguistica. Si mettono in fila su 500 miglia di autostrada, si spingono come erbacce contro il reticolato di un poema non nato, spariscono prima che sia nato 19
on 500 miles of freeways and ivy grows from dolls with cut off heads and the house of Chinese immigrants is empty. I wait for you at the bottom of the river my eyes follow the slow bolts of lightning bouncing off second, days and years.
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su 500 miglia di autostrade e l’edera cresce dalle bambole dalla testa tagliata ed è vuota la casa dei cinesi. Ti aspetto sul fondo del fiume i miei occhi seguono i lampi lenti che rimbalzano momenti, giorni, anni.
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III. A LIFETIME Sitting on the porch, I watch clouds roll by. Sailing like poems thrown away by policemen marching on the road to exile, they drift through the red waters of an evening, deep and still as a lake. Later, when the wind dies down, they huddle, old men waiting at the doors of the welfare building where a winter sun knocks on dirty windows, trying to put its seal of approval on documents of missing persons filed away by nocturnal bureaucrats, too busy to see anyone as they structure their own city. Since they all think the same way, places where their many visions converge pick up names: Berlin, Paris, Los Angeles. Most cities have no names; free dreams go separate ways. From my porch, I watch time roll past no-name cities.
The dark water had no end. For months I would listen as silence spread like fog over the blood-stained earth. The dark water was the months, I would listen to the fog that was the silence that was the blood that was 22
III. L’ARCO DI UNA VITA Seduto sotto il porticato, guardo le nuvole passare. Veleggiano come poesie gettate via da poliziotti in marcia sulla strada dell’esilio, galleggianti sopra le acque rosse di una sera, fonda e calma come un lago. Più tardi, quando muore il vento, si assiepano, vecchi in attesa alle porte dell’assistenza sociale dove un sole d’inverno bussa a finestre sporche, cercando di mettere il suo sigillo su documenti di persone scomparse archiviati da burocrati notturni, troppo occupati per concedere [appuntamenti mentre pianificano la loro città. Poiché pensano tutti allo stesso modo, i posti dove convergono le loro visioni prendono nomi: Berlino, Parigi, Los Angeles. Molte città non hanno nome; sogni liberi su corsie separate. Dal mio portico, guardo il tempo che oltrepassa città senza nome.
L’acqua scura non finiva mai. Per mesi ho ascoltato mentre il silenzio dilagava come nebbia sulla terra macchiata di sangue. L’acqua scura erano i mesi, ascoltavo la nebbia che era silenzio che era sangue che era 23
the earth. I tried to catch the whisper of trees that had never seen the sunlight. I was the binary signal: Yes, no, yes, no. I was the blood that had never seen the outside light. And now the outside grows in the space outlined by two masked faces. I scream: why are you so close to the sky? My words are in the language spoken by the dark river and they don’t seem to understand. A fan gently blows the pages of the calendar hanging crooked on the wall. December 13, ’35 is written on the first page.
The merry-go-round had only four horses, I would ride the dapple-gray. Leaning back, I could see grownups play in the stadium built at the bottom of the hill. Everyday the men would march, singing: we R! we R! we R! At night, they swam in the river near the steel factory. Some said there was too much metal in the water. Time flew by as I rode my dapple-gray. Two years later, most of the stadium men wore stainless-steel parts. Those who had only one metal leg or one metal arm took orders from those who had more steel. They never stood still. Even asleep, they kept looking around, their eyes rolling like metal marbles. Often, they tried to make crosses but they never got it right. The tips were always broken. 24
terra. Cercavo di afferrare il mormorio degli alberi mai illuminati dal sole. Ero un segnale binario: sì, no, sì, no. Ero il sangue che non vede mai la luce dell’esterno. E ora l’esterno cresce in spazi limitati da due facce mascherate. Grido: perché siete così vicini al cielo? Le mie parole appartengono al linguaggio del fiume scuro, non sembrano capirmi. Un ventilatore sfoglia gentilmente il calendario appeso storto al muro. 13 dicembre ’35, sta scritto sulla prima pagina.
La giostra aveva solo quattro cavalli, a me piaceva il grigio pomellato. Sporgendomi all’indietro, vedevo adulti giocare nello stadio costruito alla base della collina. Ogni giorno marciavano cantando: noi SIAMO! noi SIAMO! noi SIAMO! La notte nuotavano nel fiume vicino alla fabbrica d’acciaio. Qualcuno disse che c’era troppo metallo nell’acqua. Il tempo passava, io cavalcavo il mio grigio. Due anni dopo, la maggior parte degli uomini stadio vestivano [pezzi di acciaio. Quelli che avevano solo una gamba o un braccio di metallo [prendevano ordini da quelli più acciaiati. Non stavano mai fermi. Anche dormendo si guardavano intorno, [gli occhi roteanti come biglie di metallo. Spesso cercavano di formare croci ma non ci riuscivano mai. Le punte si rompevano sempre. 25
Those that made stars or crosses that were straight were put behind barbed wires. The stadium-men would gather, chanting: they ant! they ant! they ant!
One day, a small man rode into the stadium, his right arm was raised very high. He had a stainless-stell head that was not screwed on right because it hung at a funny angle. He was so angry that when he spoke about sports and stadiums it came out SS! SS! Some followed him, their sad screams clancked off the city court, SS! SS! Soon there were too many men yelling so they built bigger stadiums. Crowds paraded in the street, roaring Hi! Hi! Hi! They threw stones at the windows of people without broken crosses. Factories opened up all over to produce stainless-steel parts. The metal-headed man kept broadcasting: solvency is a genetic matter. A month later, my family took the last train out. My father said: we are dying without ageing on the pavements of Europe.
We moved into a two-room appartment, East on the second floor. There was no merry-go-round in this city. The lady next door was a cocaine addict who at night bounced back and forth between visions of her mother and gangsters trafficking 26
Quelli che facevano croci o stelle dritte venivano messi dietro il filo spinato. Gli uomini stadio si radunavano cantando loro nonsono! nonsono! nonsono!
Un giorno un piccoletto entrò nello stadio, il braccio destro molto alzato. Aveva una testa di acciaio non avvitata bene pendeva con una strana angolazione. Era così arrabbiato che quando parlò di sport e stadi venne fuori un SS! SS! Certi lo seguirono, tristi grida risuonanti fuori dai cortili, SS! SS! In breve furono così tanti a gridare che costruirono stadi più grandi. Folle in parata nelle strade ruggivano Ehi! Ehi! Ehi! Gettavano pietre alle finestre della gente senza croci rotte. Fabbriche si aprirono dovunque per produrre acciaio. Il testa di metallo trasmetteva annunci: la liquidità è un fatto genetico. Un mese più tardi la mia famiglia prese l’ultimo treno. Mio padre disse: moriremo senza invecchiare sui selciati [dell’Europa.
Prendemmo un appartamento di due stanze, a est sul secondo piano. Non c’erano giostre in quella città. La vicina di piano era una cocainomane che a notte andava avanti [e indietro tra visioni di sua madre e criminali trafficanti 27
in some Southern port. The man on the first floor had a parrot that didn’t talk very much. The school stretched for many blocks. The geography teacher beat shapes of countries into the faces of slow learners. The math teacher didn’t care very much about anything. Then one day, the stadium-men came. They filled many streets, parading and singing in a language few understood. One evening, they took away my father. He came back nine months later. They took little Albert and his parents. They never came back.
They never took Albert’s sister who that day came late from school. She became a prostitute and moved to a room that had a large mirror on the ceiling. Soon after, Bonaparte stepped out from the pages of my history book. He followed me around. No one else could see him. He stood on my desk, six inches tall. He walked behind me in the streets, taller than the tallest building. He made faces at the stadium-men. He stuck his tongue out at the geography teacher. One day, he sat on the police station, his boots resting on the curb, stretching longer than the longest shadow. 28
in qualche porto del Sud. L’uomo al primo piano aveva un pappagallo che non parlava molto. La scuola si stendeva per molti isolati. L’insegnante di geografia sbatteva forme di paesi sulle facce dei lenti di comprendonio. All’insegnante di matematica non importava un gran che di niente. Un giorno vennero gli uomini stadio. Riempirono molte strade, [marciando e cantando in una lingua che pochi capivano. Una sera si presero mio padre. Tornò dopo nove mesi. Presero il piccolo Albert e i suoi genitori. Non tornarono più.
Non presero la sorella di Albert che quel giorno tornò tardi da scuola. Diventò una prostituta e andò ad abitare in un appartamento che aveva un grande specchio sul soffitto. Poco tempo dopo, Bonaparte prese a uscir fuori dalle pagine del mio libro di storia. Mi seguiva dappertutto. Nessun altro lo vedeva. Stava sulla mia scrivania, alto sei pollici. Mi camminava dietro per le strade, più alto dei palazzi più alti. Faceva boccacce agli uomini stadio. Mostrava la lingua [all’insegnante di geografia. Un giorno si sedette davanti alla stazione della polizia, gli stivali [a riposare sul marciapiede, più lungo dell’ombra più lunga. 29
His hat was the same shape as the galaxy we kept learning about in our cosmography class. Everytime I dreamed of New York with its skyscrapers, at night, Bonaparte would raise his galaxy-hat over the Empire State Building. He floated into my dreams of Chinatown, clearing the Golden Gate Bridge and never getting his feet wet.
Days blurred like spokes of a fast turning wheel. Long corridors leading from teacher’s office to teacher’s office. Hours chiming at the end and the beginning of each class. Long procession of children dressed in dark clothes. Lines of people waiting for rationed food. Churches, almost empty, crowded police stations. One day, the stadium-men went away. Bells rang for hours. We stood by the open window, my mother and my father, who had just returned, and Bonaparte with his hand stuck inside his coat. The National Anthem, played over and over, broke apart like tomatoes thrown by indignant spectators at a bad concert. For several years, I played amid mountains of bricks and glass, excavating bullets, bones and bombs. I pulled weapons out of the earth like turnips, like carrots, like unexploded tomorrows. My mother said I spent too much time harvesting the crops of war.
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Il suo cappello aveva aveva la forma della galassia che continuavamo [a studiare nell’ora di geografia astronomica. Tutte le volte che sognavo di New York e dei suoi grattacieli di notte Bonaparte alzava il suo galattico cappello sopra l’Empire State [Building. Galleggiava sui miei sogni di Chinatown, passava sotto il Golden Gate senza neanche bagnarsi i piedi.
I giorni si sfocavano come raggi di una ruota veloce. Lunghi corridoi che andavano dall’ufficio di un insegnante all’ufficio di un insegnante. Le ore scampanellavano alla fine e all’inizio di ogni classe. Lunghe processioni di bambini vestiti di scuro. File di gente in attesa di cibo razionato. Chiese quasi vuote, stazioni di polizia piene. Un giorno gli uomini stadio se ne andarono. Le campane suonarono per ore. Stavamo alla finestra, mia madre e mio padre, appena ritornato, e Bonaparte con la mano nel cappotto. L’inno nazionale, suonato e risuonato, si squagliò come un [pomodoro tirato da spettatori indignati a un brutto concerto. Per molti anni giocai tra montagne di mattoni e di vetro, scavando pallottole, ossa e bombe. Ho estratto armi dalla terra come rape, come carote, come domani inesplosi. Mia madre diceva che passavo troppo tempo a vendemmiare nelle [vigne della guerra.
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We emigrated to a city where Jesus Saves was painted over brick walls in bad neighborhoods. For months I walked in the smog. Sitting on the pavement of Mission Street I couldn’t make up my mind if Jesus would save all the electricians every gas-station attendant. My dreams turned imprecise like a metronome blurring at the edge of sleep. When my father passed away, sorrow fell on the hardwood floor taking the shape of unopened letters and my room became a warehouse for lost and found guilt. Bonaparte grew hazy, like a candle flame. At night he couldn’t lift his hat higher than the tower of the local TV station. Later, I understood that my father had emigrated because a few minutes before his heart stopped, he said: this is the train of the last metamorphosis.
Hey emigration! sitting on the porch watching clouds roll by. This poem is your song, no-name city. Stadium-men sleep somewhere East of your heart and their collective breath snakes through the grass of indifference. This poem is your song, no-name city. When your bureaucrats asked Bonaparte: are you the emperor of ice cream? his answer was to melt into the skyline 32
Emigrammo in una città dove Gesù Ti Salva era scritto sopra muri di mattoni in quartieri malfamati. Per mesi camminai nello smog. Seduto sul selciato di Mission Street non riuscivo a capire se Gesù avrebbe salvato tutti gli elettricisti tutti gli addetti alle pompe di benzina. I miei sogni divennero imprecisi come un metronomo incerto ai confini del sonno. Quando mio padre morì, il dolore cadde sul pavimento di legno duro con la forma di una lettera mai aperta, e la mia stanza divenne un magazzino di colpe smarrite. Bonaparte divenne alonato come la fiamma di una candela. Di notte non poteva alzare il cappello più in alto della torre della TV locale. Poi mi resi conto che mio padre era emigrato perché pochi minuti prima che il suo cuore si fermasse, disse: questo è il treno dell’ultima metamorfosi.
Ehi, emigrazione! Seduto sotto il portico guardo passare le nuvole. Questa è la tua canzone, città senza nome. Gli uomini stadio dormono da qualche parte a est del tuo cuore e il loro respiro collettivo serpeggia tra l’erba dell’indifferenza. Questa è la tua canzone, città senza nome. Quando i tuoi burocrati chiesero a Bonaparte: sei tu l’imperatore dei gelati? lui per tutta risposta si sciolse nell’orizzonte 33
and throw his hat away. Now his hat is larger than your city with all of its suburbs. This poem is your song, no-name city. In the end, we return to the dark river whose language we could never forget. No-name city! Suddenly invaded by sunflowers as my father dreams of his native Kiev.
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e gettò via il cappello, che adesso è più largo della vostra città con tutte le sue periferie. Questa è la tua canzone, città senza nome. Infine ritorniamo al fiume scuro il cui linguaggio non si scorda. Città senza nome! D’un tratto invasa da girasoli come i sogni di mio padre, della sua nativa Kiev.
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IV. THE INSTANT Idle hours spill from the black ashtray and memory grows night-moth wings to beat against my window. River-boats depart for yesterday.
I’m twelve. Across the bridge Soldierex opens its first shop. They have rented a small space in the hotel lobby. War will start in a few days.
Up in the attic, I’m watching troops pushing music through narrow streets and music, I remember, music didn’t want to go to war. It lingered in school-yards long after the troops had gone.
A month later, a warm wind scattered the clouds. They tumbled, crumpled pages from some book and Spring rushed in. Like an accountant gone crazy it kept multiplying military parades. Dust flew in all directions. The radio said the enemy was everywhere and the plaza clock would chime every time tanks rolled on by.
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IV. L’ISTANTE Ore oziose colano dal portacenere nero La memoria nutre ali di falene che mi battono contro la finestra. Battelli salpano verso ieri.
Ho dodici anni. Di là dal fiume Soldierex apre il primo negozio. Hanno affittato uno spazio nell’ingresso dell’albergo. La guerra comincerà tra pochi giorni.
Dal solaio guardo truppe che spingono musica per strade strette e la musica, me lo ricordo, la musica non voleva andare in guerra. Rimaneva nei cortili delle scuole molto dopo che le truppe erano andate.
Un mese più tardi un vento caldo disperse le nuvole. Caddero come pagine consunte di chissà quale libro e la primavera arrivò di corsa. Come un ragioniere impazzito [continuava a moltiplicare parate militari. La polvere scorreva ovunque. La radio diceva che il nemico era dovunque e l’orologio della piazza rintoccava ogni volta che i carri armati passavano.
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Each morning, Soldierex lined up their second-hand soldiers for display. The orange-haired general had only one eye, a faded patch of blue on his wooden face. His iron soldiers were rusting away.
On weekends the displays were more elaborate: aluminum nurses with red crosses on their sleeves, smiling at tin politicians, drowned in confetti, the color of blood and manikins, dressed up as priests sat around a table, using their beads as abacuses to count the dead.
By the end of Spring Soldierex took over the whole lobby. They hung their sign by the hotel door, a glass rifle painted chrome and black that went round and round, like a barber pole.
Within a two-mile radius its reflection slid across bedroom walls. Some lost sleep with all that dazzle others went to the suburbs.
Martial law soon took effect. The glass rifle was fired every half-hour. Conversation died down on account of hearing problems. 38
Ogni mattina Soldierex allineava in vetrina i suoi soldati di seconda mano. Il generale dai capelli d’arancio aveva solo un occhio, un intreccio sbiadito di blu sulla faccia di legno. I suoi soldatini di ferro arrugginivano.
Ai fine settimana la disposizione era più elaborata: infermiere di alluminio con croci rosse sulle maniche sorridevano a politici di piombo sepolti nei coriandoli, colore del sangue e manichini vestiti da preti sedevano a un tavolo usando i rosari come pallottolieri per contare i morti.
Alla fine della primavera Soldierex si prese tutto l’ingresso. Appesero l’insegna alla porta dell’albergo, una carabina di vetro, nera e cromo, che girava e girava come il cilindro del barbiere.
Entro un raggio di due miglia il suo riflesso trapassava i muri delle stanze da letto. Certi persero il sonno in tutto quel bagliore altri se ne andarono in periferia.
Presto la legge marziale entrò in vigore. La carabina di vetro sparava ogni mezz’ora. La conversazione morì per problemi d’udito. 39
It was the Summer of changes. The orange-haired general and the priests were pulled off the shelves almost overnight to be replaced by key-wounded soldiers.
They stood sixteen inches tall and when wound up, they seem to go forever. Even by night, they went in endless circles, keys stuck in their backs like crosses.
At the start of Winter Soldierex had taken over every floor. They opened new centers, all over the city for emergency production.
The soldiers would just keep on going till their spring broke. Metal wheels littered the streets. There were rumors that the war was over.
Some whispered that Soldierex was the real enemy because it had vested interest in a never-ending war. Others whispered that untold profits
went to key officials. Dissidents were caught and locked in special vans that circled the city 40
Fu l’estate dei grandi cambiamenti. Il generale dai capelli d’arancio e i preti vennero tolti dagli scaffali nello spazio di una notte e rimpiazzati da soldati a molla.
Erano alti sedici pollici e una volta caricati funzionavano sempre. Anche di notte camminavano in cerchio, senza fine, le chiavi nella schiena come croci.
All’inizio dell’inverno Soldierex aveva occupato ogni piano. Aprirono nuovi centri in tutta la città per le scorte d’emergenza.
I soldati continuavano a marciare finché la molla si rompeva. Ruote di metallo ingombravano le strade. Correva voce che la guerra fosse finita.
Alcuni mormoravano che Soldierex fosse il vero nemico perché aveva cointeressenze in una guerra senza fine. Altri mormoravano che profitti non denunciati
andassero a ufficiali a molla. Dissidenti vennero presi e chiusi in furgoni speciali che percorrevano la città 41
24 hours each working day and on weekends too.
Most of the men that went to war were not seen again. Some came back and never said nothing. They just kept staring at the ground their eyes rusting away.
Years drifted in the river, dull days tangled up as weeds. Sunday fishermen looked at the muddy waters unable to make sense of their washed out lives.
Then one day, Soldierex went public with their secret findings: war was peace and peace was war.
A few months later concrete booths went up on all major intersections. People lined up for miles to get in. They came from every part of the country. Traffic jams were the worst in history.
And each person that walked in came out with a key stuck in the back. The key would slowly turn making a strange noise, like some giant insect.
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24 ore ogni giorno lavorativo, fine settimana compreso.
La maggior parte degli uomini che andarono in guerra non tornò più. Alcuni tornarono e non dissero nulla. Continuavano a fissare per terra, gli occhi arrugginiti.
Gli anni scivolavano sul fiume, giorni oziosi attorcigliati come erbacce. Pescatori della domenica guardavano le acque fangose incapaci di capire qualcosa nelle loro vite stremate.
Poi, un giorno, Soldierex se ne uscì con la sua trovata segreta: la guerra era pace la pace era guerra.
Alcuni mesi più tardi bancarelle di cemento armato sorsero agli incroci più importanti. La gente si allineava per miglia per entrarci. Venivano da ogni parte del paese. I peggiori ingorghi della storia.
E ogni persona che entrava usciva con una chiave nella schiena. La chiave girava lentamente faceva lo strano rumore di un insetto gigantesco.
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For weeks I went out only at night keeping my back to the walls terrified that at any instant I would feel the pain of a key unlocking some emptiness I had unknowingly carried.
These days, the fear is gone. I sit in my room for hours not doing anything but flipping ashes into the black ashtray, watching night-moths beat against my window.
I fall asleep at the table. A huge key protrudes from the middle of the river. Dwarfing every building on the bank it turns without sound.
The North wind breaks amorphous clouds into strings of snowy S’s. A cobalt-blue sky stumbles, like an exhausted patient, through corridors of corroded roofs.
From each mirror vacant faces stare back. I yearn for my image. Later, the snow erases monuments to the dead.
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Per settimane io uscii solo di notte strisciando con la schiena contro i muri terrorizzato che da un momento all’altro avrei sentito il dolore di una chiave aprire qualche vuoto che senza saperlo portavo dentro me.
Ormai la paura è passata. Siedo per ore nella mia stanza senza fare niente se non lasciare le ceneri cadere nel portacenere nero, guardando le falene che mi battono contro la finestra.
Mi addormento con la testa sul tavolo. Una chiave enorme sporge dal centro del fiume. Gira senza rumore rendendo nani gli edifici sulla riva.
Il vento del nord rompe nubi amorfe in strisce di S nevose. Un cielo blu cobalto inciampa come un paziente esausto per corridoi di tetti corrosi.
Da ogni specchio facce vuote mi ricambiano lo sguardo. Cerco la mia immagine. Poi la neve erode i monumenti ai morti.
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UN CRINALE MOLTO SOTTILE (nota per l’edizione italiana)
Nel periodo in cui vissi in Francia fui testimone della seconda guerra mondiale, della guerra d’Indocina e del conflitto in Algeria. Negli Stati Uniti sono stato testimone della guerra del Vietnam e di quella del Golfo. A Parigi studiavo gli scrittori francesi e andavo a letture pubbliche di scrittori russi. Negli Stati Uniti ho assistito a molte letture di poeti e scrittori in città molto diverse: Los Angeles, Pittsburgh, Indianapolis e Houston. A Houston ho avuto la fortuna di incontrare molti scrittori di lingua spagnola. Suppongo che I quattro spigoli della guerra rifletta queste influenze: l’esilio, la guerra, un paesaggio multinazionale. Mio padre mi ha insegnato molto sullo scrivere. Mi ha dato il coraggio di affrontare temi importanti come l’esilio, la guerra, la fame, la solitudine e lo scorrere del tempo. La vita ha cercato di farmi da maestra con tutte le sue energie, e si è data molto da fare per mettermi di fronte a queste cose. Mi sembra che uno scrittore debba camminare su quel crinale molto sottile che separa il personale dall’universale. Ogni scrittore deve affrontare le difficoltà di quel cammino. Se ti pieghi troppo a sinistra il lettore non riesce più a seguirti. Se ti pieghi troppo a destra il lettore trova solo quello che sapeva già. È lo stesso confine che si stende tra il reale e il surreale, tra ciò che è familiare e ciò che è sconosciuto, l’io che comprendiamo e lo straniero che abita in noi. È il filo ad alto voltaggio della tensione poetica, e lo scrittore è l’acrobata che cerca di trovare un equilibrio mentre fa vorticare parole, strofe, immagini ed idee. Il fallimento è cadere nell’oblio; il successo è farsi crescere le ali e lasciarsi sostenere dal vento, come le canzoni che canticchiamo senza pensarci. E lo scrivere è una cosa così misteriosa che lo scrittore è di volta in volta un angelo caduto oppure uno che si sostiene in volo senza ali, come un mago. André de Korvin Houston, maggio 1995 47
LA POESIA SEGUE ROTTE IRREGOLARI di Alessandro Carrera Il nome di Houston non si incontra spesso sulle mappe letterarie d’America. I suoi tre milioni di abitanti ne fanno la quarta città degli Stati Uniti; i quaranta ospedali del suo Texas Medical Center la rendono il più grande centro medico del mondo; la vicinanza della Nasa l’ha immortalata come la prima città nominata dalla Luna («Houston, the Eagle has landed», «Houston, l’Aquila è atterrata», sono state le prime parole pronunciate da Neil Armstrong); gli eclettici grattacieli di Philip Johnson e i due maggiori musei, opera di Mies van der Rohe e di Renzo Piano, le danno un rispettabile pedigree architettonico. Ma per quanto riguarda l’iconografia letteraria la superiorità della vicina New Orleans (relativamente vicina: sono dieci ore di autostrada) è schiacciante: per le sue strade hanno vissuto e scritto, per nominarne solo alcuni, Tennessee Williams, William Faulkner e Walker Percy. Anche la grande musica del Sud è passata da Houston prendendovi solo una residenza temporanea. Il blues ha risalito la Highway 61 fino a Chicago, Robert Johnson ha effettuato le sue storiche registrazioni a San Antonio, giù verso il confine messicano; la capitale alternativa del country è la vicina Austin, e la ricca stagione del rhythm and blues degli anni Cinquanta e Sessanta, con numerose etichette cittadine indipendenti che sfornavano artisti locali uno dopo l’altro, ha lasciato un corpus di grande rilievo, ma conosciuto e apprezzato solo dagli esperti del settore. Lightnin’ Hopkins è stato l’unico folksinger che, anche quando aveva raggiunto la fama sufficiente per trasferirsi a New York o a San Francisco, ha preferito continuare ad abitare nel povero, ma a suo modo storico, quartiere di Fourth Ward. Un grande scrittore, per essere precisi, a Houston è cresciuto, ha diretto il Museo di Arte Contemporanea, ha insegnato scrittura creativa alla University of Houston ed è morto prematuramente nel 1989. Parlo di Donald Barthelme, uno dei maestri, con Thomas Pynchon e John Barth, della prosa postmoderna americana. Ma lo sfon49
do ideale dei racconti di Barthelme è quasi sempre New York, la città dove ha raggiunto la maturità creativa. Un genius loci houstoniano è arduo da trovare, e la città è troppo ultramoderna e troppo petrolifera per averlo già generato dalle proprie viscere. Nonostante questo, Houston abbonda di scrittori. Attirati negli anni Ottanta dagli alti salari resi possibili dal boom del petrolio, hanno creato rispettati dipartimenti di Creative Writing nelle due maggiori università cittadine. I nomi di Max Apple, Rosellen Brown, Edward Hirsch, Richard Howard, Phillip Lopate e Cynthia Macdonald non dicono molto al lettore italiano, ma si tratta di poeti e narratori pubblicati dalle maggiori case editrici e tenuti in una certa considerazione nell’ambiente letterario americano. Per lo più, però, sono newyorchesi duri a morire, che hanno accettato l’incarico come se andassero a insegnare in un paese straniero, con la speranza di trovare il tempo, nella più rilassata atmosfera meridionale, di scrivere finalmente il bestseller che li riporterà a un appartamento con vista sul Central Park. Il genio del luogo non va cercato tra loro. È più agevole trovarlo nel catalogo della Arte Publico Press, la casa editrice legata alla University of Houston e che pubblica solo opere di autori chicanos (messicani o centroamericani nati o emigrati negli Stati Uniti). Per quegli autori il Texas è già il Nord America, e Houston è già New York, il che significa: è già un mondo, il mondo nel quale approntare la scenografia della memoria e della speranza, della rabbia dell’emarginazione e del progetto, quando c’è, dell’integrazione. Tale premessa è necessaria per capire come mai quando André de Korvin, apolide mitteleuropeo, giunse a Houston nel 1987 proveniente dall’Indiana, le poesie che scriveva destarono immediatamente l’attenzione di un gruppo di scrittori variamente espatriati, dalla Spagna, dai Caraibi o dall’Italia come nel caso del sottoscritto, arrivato a Houston lo stesso anno. Tutti noi trovammo nel suo lavoro l’accento inconfondibile dell’esiliato che porta con sé l’orizzonte del suo paesaggio. Gli altri, troppo impegnati a ricostruire Manhattan nei salotti letterari cittadini, non avevano il tempo di accorgersene. Il che spiega, tra l’altro, anche questa traduzione. 50
Da dove parla la voce di de Korvin? A un primo sguardo, solo una via negativa sembra poterlo definire: de Korvin non è russo, anche se entrambi i suoi genitori lo sono; non è tedesco, anche se è nato a Berlino; non è francese, anche se ha passato venticinque anni in Francia; e non è americano, anche se vive negli Stati Uniti da trentacinque. La poesia ha seguito una rotta irregolare, si intitola una sua sceneggiatura. Esiste una poesia stanziale e una poesia di passo, una poesia di migratori stagionali e una poesia puramente nomade, che non prevede il ritorno, non lo cerca, e trae ispirazione da un passato che non c’è mai stato. De Korvin appartiene forse a quest’ultima classificazione, la cui connotazione negativa è talmente articolata da rovesciarsi infine in una definizione positiva. De Korvin non è russo, non è tedesco, non è francese e non è americano perché è fra questi mondi, e appartiene tanto ai loro punti di sutura quanto alle smagliature che interrompono la tela.1 E, del resto, l’unico vero paesaggio che de Korvin esplora ossessivamente è quello della scrittura. La Germania hitleriana, la Francia occupata, i grattacieli di New York, le periferie di Los Angeles, le pianure dell’Indiana e i fiumi fangosi del Texas sono conseguenze locali di un macropaesaggio linguistico dominato dalla figure dell’ipostasi e della comparazione. Dai Quattro spigoli della guerra apprendiamo che le colonne d’acqua delle fontane d’America si perdono nel vento come i caratteri dell’alfabeto cirillico che l’autore dimentica ogni anno sempre più; che un autobus carico di scrittura vezzosa trasforma un tetto in una A e la luna in una O; che parole scollegate premono su poesie non ancora scritte come l’erba selvatica preme sui bordi delle autostrade; che le nuvole si allontanano nel cielo come poesie gettate via da poliziotti in partenza per un loro strano esilio; che i discorsi di Hitler sono un sibilo di S che ritornano, ridotte al silenzio, nelle forme delle nuvole invernali modellate dal vento. Il passato, buono o cattivo che sia stato, vuole essere scritto, e tormenta l’autore con la visione di un mondo in cui la necessità della scrittura tuona dal cielo come un compito divino. In Dreaming Indigo Time, la raccolta successiva ai Quat51
tro spigoli, si ha la sensazione che anche il presente, anche l’America, chieda disperatamente di essere convertita in un alfabeto di immensi geroglifici. Vi troviamo una «macchina per poesie» azionata da un uomo «con la faccia di luna»; l’autore cerca di proiettare la parola «verso» nel cielo solo per vederla sfilacciarsi ad opera del vento (ma tutte le parole scritte nel cielo mancano di qualche lettera, come il nome russo di de Korvin padre, mai trascritto correttamente sul suo passaporto di esule); i pali del telefono si piegano a terra, confusi dal peso di parole che portano; onde di erba tagliata si scontrano contro le virgolette di una «brutta copia lontana»; le torri degli acquedotti sono navi spaziali arrugginite che «atterrano su qualche altra poesia». Finché l’autore stesso prende la parola e ammette:
Ho assistito anch’io al declino della mia lingua: parole indigene massacrate a vista da fanatici agenti di una grammatica straniera. Aggettivi in rivolta rinchiusi nel Webster come in uno zoo e verbi in uniforme che danno multe per violazioni al codice della strada a una punteggiatura ubriaca e priva di controllo. (I too have witnessed the downfall of my language: native words shot on sight by fanatic agents of a foreign grammar. Insurgent adjectives hid in the Webster Zoo and uniformed verbs wrote tickets for traffic violation to a disorderly and drunk punctuation. ) Dalla terza raccolta, The Day the Clocks Spoke Russian, ci soccorrono altri esempi. Ma resta la questione: di quale lingua sta 52
parlando de Korvin? Del russo che «pioveva sui campi di Polonia» mentre suo padre li attraversava nell’esilio verso Berlino? Di un accento che l’autore confessa di non riuscire a disimparare? Forse si trattava di una più misteriosa e universale lingua planetaria che parlava con la voce di un «fiume nero» (la Sprea che attraversa Berlino?) e che l’autore appena nato non sapeva ancora pronunciare? Sia come sia, de Korvin scrive nell’ultima lingua che ha appreso. Il suo inglese è il tentativo di parlare quella lingua del pianeta che non sostituirà mai la lingua delle origini, ma che diviene, per esclusione progressiva, l’unica con la quale si può raccontare la provvisoria conclusione della propria storia. De Korvin si è così ritagliato un inglese essenziale in cui non vi è spazio per altre declinazioni, e che si riferisce continuamente ad un mondo plurilinguistico senza mai farcene sentire il suono. È l’inglese universale degli espatriati, degli uffici dell’Immigrazione e della burocrazia (le pagine sbiadite e stracolme di timbri del passaporto di suo padre ritornano con insistenza esasperante in The Day the Clocks Spoke Russian); lo stesso inglese universale con cui l’ho sentito spesso leggere i suoi versi, con una pronuncia arricchita da un doppio accento russo e francese (o, come direbbe lui, né russo né francese) nei ritrovi abituali di quel mondo sospeso che è la comunità internazionale houstoniana, città dispersiva e cosmopolita, ma anche abbastanza confortevolmente provinciale per sapere che ci si troverà al bar Dolce & Freddo alle undici di sera anche senza darsi appuntamento. C’è una strategia, nella decisione di scrivere in questo inglese. Da un lato è il desiderio di restituire all’America il dono della cittadinanza – e si prenda questa affermazione con tutta la serietà esistenziale che comporta: fossero pure solo astiose invettive, le opere dell’esiliato, se scritte nella lingua del paese che l’ha accolto, sono una forma di restituzione. Le opere scritte in inglese dagli emigrati di tutto il mondo, non importa quanto critiche nei confronti dell’America, equivalgono all’affermazione civis americanus sum. E d’altra parte un poeta emigrato come de Korvin, nel momento in cui sceglie di scrivere in una lingua burocratica, accuratamente 53
spuntata da ogni presenza etnica (nessun intraducibile termine familiare russo o francese turba la trasparenza della pagina di de Korvin), rischia l’invisibilità. Non è né abbastanza etnico da essere riconoscibile né abbastanza americano da confondersi nei ranghi della letteratura nazionale. Il fatto è che de Korvin non è, da nessun punto di vista, un poeta etnico. Non vi è mai il minimo accenno, nei suoi versi, alla memoria come folklore della memoria. Il suo esilio è, fin dall’inizio, irrimediabile e marcato da un’assoluta mancanza di patria, se non quella, perduta ab origine, della lingua russa. A differenza di molta poesia dell’esilio o dell’emigrazione, i suoi testi non offrono mai il minimo sospetto che «laggiù» avrebbe potuto essere meglio che «quaggiù», o che l’origine possa vantare una superiorità morale sul destino.2 L’istanza paterna che domina la sua opera è essa stessa mobile e inquieta: un rifugio del cuore, certamente, ma non un tempio incastonato nella roccia. L’albero genealogico della poesia di de Korvin, dunque, va cercato altrove. Vi sono differenti modi in cui la letteratura dell’emigrazione e dell’esilio si pone di fronte alla soglia della modernità. Ci si può integrare nella cultura del paese ospite o si può mantenere un atteggiamento rivendicativo che cerca di preservare la specificità etnica e culturale della minoranza da cui si proviene. In entrambi i casi, però, non si attraversa ancora la porta del Novecento, o perlomeno della sua corrente maggioritaria. Nel Novecento, e ci si perdoni l’inevitabile semplificazione, il problema della letteratura non è la rivendicazione del soggetto, ma il che fare della sua dissoluzione. Ragione per cui la letteratura etnica rivendica spesso irrintracciabili diritti di pari cittadinanza in un paese la cui anagrafe è già stata dispersa nel vento. È vero che i paradigmi di fine secolo cambiano in fretta, e che molta scrittura che fino a poco tempo fa rientrava nella categoria dell’etnico viene ora definita come post-coloniale. E le voci più interessanti della letteratura post-coloniale non vengono né da chi rimpiange un’identità perduta né da chi si accontenta di politicizzare la propria memoria, bensì da chi parte dalla propria differenza e ne fa un’ar54
ma espressiva, gettandola in faccia all’esausto canone della letteratura bianco-europea (americana compresa) senza attendere né riconciliazioni né rimborsi per danni subiti. Ma che dire di un de Korvin, che non si pone come etnico, non è postcoloniale, e che porta con sé un’eredità tutta europea proprio nel cuore di un dibattito dove sembra esserci posto per ogni differenza tranne che per la sua? L’operazione di de Korvin consiste in una riappropriazione poetica (una riterritorializzazione, si potrebbe dire, se l’italiano non fosse così ostile alle parole con più di sette sillabe) delle macerie del modernismo. A suo modo, tale riappropriazione è anche una déterritorialisation de la langue, ma non nel senso invocato da Deleuze e Guattari quando cercavano di definire gli scopi politici di una «letteratura minore» (minore perché politica e rivendicativa).3 Ciò che de Korvin deterritorializza, e di cui si riappropria, è proprio l’algida oggettività, l’assenza di voce inflessa a cui la lingua inglese è stata piegata, dall’imagismo prima, e dal correlativo oggettivo poi. Il repertorio dei tropi di de Korvin si nutre alla stessa fonte da cui scaturisce l’attacco della eliotiana Canzone d’amore di J. Alfred Prufrock: «.. . quando la sera si stende contro il cielo / Come un paziente eterizzato disteso su una tavola...». Sono questi i versi che echeggiano nella conclusione dei Quattro spigoli: «Un cielo blu cobalto inciampa / come un paziente esausto / per corridoi di tetti corrosi.» Con ostinazione instancabile, la poesia di de Korvin scava e porta alla luce le tutt’altro che esaurite possibilità della rapida comparazione di un dato naturale e paesaggistico con un frammento desunto dall’universo della tecnica. Ma tale risoluzione stilistica non nasce affatto, da parte di de Korvin, dalla volontà di mettersi nel solco dei maestri del modernismo. La sua circoscritta ma efficace originalità, la sua “deterritorializzazione”, sta in questo: nei suoi versi anche l’immaginario modernista è ridotto a un puro objet trouvé, a un residuato di guerra, a un frammento rilucente della città esplosa. Tra corpi che si meccanizzano e macchine sinistramente umanizzate; tra contabili, politici e generali che si muovono grevi come piombo sullo sfondo di stadi, altoparlanti, guerre, medaglie e 55
detriti, l’esplosione non si è mai quietata, anzi continua a deflagrare. La memoria non la pone a distanza, il presente non ne attenua gli effetti, il futuro non la redimerà. Gli orologi, senza lancette come quello della stazione degli autobus di Houston (una vaga memoria del Posto delle fragole di Bergman si affaccia), o furiosi nel tentativo di amministrare un tempo che non gli appartiene più («la repubblica degli orologi andò in bancarotta», leggiamo in The Day the Clocks Spoke Russian, «quando il tempo smise di essere denaro»), testimoniano che anche il tempo è solo una pedina nel gioco del potere. Al paranoico scatenamento dell’efficienza militare e bancaria, alla loro guerra senza quartiere per impadronirsi della memoria, l’autore contrappone la rapidità dell’associazione libera quasi fosse una tecnica per schivare le pallottole. E mentre dalla zattera di salvataggio del suo porticato attende l’istante prodigioso (forse il momento più intenso del libro) in cui tutte le «città senza nome» ridiventeranno Kiev, la città dei girasoli, dell’origine perduta e della lingua del padre e della madre, il surrealismo a cui i Quattro spigoli fa ricorso non è una questione estetica ma una scelta di sopravvivenza. Anch’esso una maceria, certo, ma perché tra le macerie si trovano buoni materiali da costruzione. Che questa particolare maceria sia scritta in inglese è accidentale, ma nel senso in cui l’accidente combina la casualità con il destino. Ciò che l’émigré impara, quando lo impara, è che ogni capriccio della sorte va accolto come un’allegoria della grazia: l’ambigua grazia di sapere ciò che non gli sarebbe accaduto se fosse rimasto in patria. È qui che de Korvin passa la soglia dove la casualità, più che combinarsi, si trasmuta essa stessa in destino, e dove anche il più ingrato degli esili diviene un consapevole autoesilio: «Una sera mi avventurai molto lontano dal mio appartamento di Houston», scrive de Korvin nell’introduzione ai Quattro spigoli. «Capii che da molti punti di vista ero stato fortunato. Ero così lontano da casa che mi ci sarebbe voluta una vita per esplorare il paesaggio che avevo scoperto». Da questo punto in poi il ritorno non è solo impossibile; è anche inutile. Non vale più la pena di scambiare la lingua dell’esperienza per quella dell’innocenza. Né 56
sarebbe saggio rinunciare al paesaggio della maturità, ora che è talmente esteso che circoscrive quello dell’infanzia come un mare che circonda un’isola. Ricavo il paragone dall’ultima inquadratura di Solaris, il film di Tarkovskij basato sul romanzo di Stanislaw Lem. Solaris è un pianeta interamente coperto da un oceano senziente, un immenso cervello che ricrea olograficamente la memoria di ogni essere vivente che abbia la ventura di atterrarvi. Ogni scienziato inviato sul pianeta viene circondato da un submondo composto dai propri ricordi. Belli o terribili che siano, nessuno riesce più a farne meno, e tantomeno a iniziare il viaggio di ritorno. Il protagonista, un astronauta russo, crede di esservi sfuggito e di essere infine tornato al sicuro sulla Terra, e infatti lo vediamo entrare nella dacia di famiglia quasi a ricevere la benedizione di suo padre. Ma suo padre, prima che il figlio partisse, gli aveva detto: «Tu sei troppo razionale per lo spazio». E ora che il figlio crede di essere tornato ecco che la pioggia comincia a cadere, innaturale, fuori e dentro la casa del padre. La cinepresa si alza, e a quel punto comprendiamo che l’astronauta non ha mai lasciato Solaris. La collina su cui sorge la dacia è un’isola sperduta sul mare tremante del pianeta. Una sera, a Houston, incontrai de Korvin all’uscita del cinema della Rice University, dopo una proiezione di Solaris. La discussione sul film si era già abbastanza inoltrata nella notte quando ci rendemmo conto, io ed altri, che de Korvin era l’unico fra noi che non aveva avuto bisogno di leggere i sottotitoli. Avrebbe dovuto essere ovvio, e invece non lo era, tanto eravamo abituati a considerare la sua identità russa attraverso il filtro del suo accento francese e dei suoi versi inglesi. Ma il mare d’America, come quello di Solaris, è vasto a sufficienza perché ognuno vi porti con sé la propria isola, la dacia segreta e diversa per ognuno in cui la lingua del padre e della madre è parlata e compresa secondo i suoi suoni e le sue regole, anche se le orecchie altrui non la possono sentire, e gli occhi devono accontentarsi dei sottotitoli. New York, giugno 1995 57
NOTE 1
2
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Per una distinzione tra poeta emigrato, esiliato, o diviso fra due (o più) mondi, e per molti altri importanti suggerimenti, sono debitore agli scritti che Paolo Valesio ha dedicato all’argomento: Il nuovo tribalismo, «Alfabeta», maggio 1987, pp. 12-13; Writer between Two Worlds: Italian Writing in the United States Today, «Differentia. Review of Italian Thought», 3-4, Spring-Autumn 1989, pp. 259-276; Lo scrittore fra i due mondi, in Bologna, la cultura italiana e la letteratura straniera moderna, 3 voll., a cura di Vita Fortunati (Ravenna, Longo, 1992), vol. 2, pp. 105-120; Riscoperte poetiche dell’America, «Annali d’italianistica», 10, 1992, pp. 298-324; I fuochi della tribù, in Poesaggio. Poeti italiani d’America, a cura di Peter Carravetta e Paolo Valesio (Treviso, Pagus, 1993), pp. 255-290. Si veda ad esempio Unsettling America: An Anthology of Contemporary Multicultural Poetry, a cura di Maria Mazziotti Gillan e Jennifer Gillan (New York, Penguin, 1994). Gilles Deleuze e Félix Guattari, Kafka: Pour une littérature mineure (Paris, Minuit, 1975), p. 33. Sull’uso riduzionistico delle già riduttive tesi di Deleuze e Guattari, ad opera di alcuni sostenitori di una letteratura “etnicamente corretta”, rimando al mio Frail Identities along the Canadian Shield, «Differentia. Review of Italian Thought», 6-7, Spring-Autumn 1994, pp. 283-296.
Alessandro Carrera (Lodi, 1954) vive a New York, dove insegna letteratura italiana alla New York University e collabora con l’Istituto italiano di cultura. In passato ha insegnato alla University of Houston, in Texas, e alla McMaster University di Hamilton, in Ontario. Si occupa di letteratura, filosofia e musica. Recentemente ha pubblicato: L’esperienza dell’istante (Lanfranchi 1995), La sposa perfetta / The Perfect Bride (Book Editore 1997), La stagione della strega (Diabasis 1998), A che punto è il Giudizio Universale (Mobydick 1999). 58
Finito di stampare nel gennaio 1999 dalla Tibergraph Editrice s.r.l. Città di Castello (PG)