I dialetti del Piemonte orientale: Contatto e mutamento linguistico 9783110760187, 9783110760132, 9783110760248, 2021945884

This study analyzes the historical and sociolinguistic dynamics of dialect contact among Galloitalic dialects in Eastern

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Italian Pages 647 [648] Year 2021

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Table of contents :
Contenuti
Introduzione
1 Questioni generali
2 Fonetica e fonologia
3 Morfologia e sintassi
4 Lessico
5 Conclusioni
6 Bibliografia
7 Carte
8 Appendice
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I dialetti del Piemonte orientale: Contatto e mutamento linguistico
 9783110760187, 9783110760132, 9783110760248, 2021945884

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Lorenzo Ferrarotti I dialetti del Piemonte orientale

Beihefte zur Zeitschrift für romanische Philologie

Herausgegeben von Éva Buchi, Claudia Polzin-Haumann, Elton Prifti und Wolfgang Schweickard

Band 465

Lorenzo Ferrarotti

I dialetti del Piemonte orientale Contatto e mutamento linguistico

ISBN 978-3-11-076013-2 e-ISBN (PDF) 978-3-11-076018-7 e-ISBN (EPUB) 978-3-11-076024-8 ISSN 0084-5396 Library of Congress Control Number: 2021945884 Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über http://dnb.dnb.de abrufbar. © 2022 Walter de Gruyter GmbH, Berlin/Boston Typesetting: Integra Software Services Pvt. Ltd. Printing and binding: CPI books GmbH, Leck www.degruyter.com

Contenuti Introduzione  1 1.1 1.1.1 1.1.2 1.2 1.2.1 1.2.2 1.2.3 1.2.4 1.2.5 1.3 1.3.1 1.3.2 1.3.3

 IX

 1 Questioni generali  Questioni teoriche e prospettive adottate   1 Il mutamento linguistico   1 La diffusione spaziale del mutamento linguistico   4 La situazione piemontese   7 Demografia del Piemonte e diffusione di tratti linguistici  Il dialetto di Torino e la koinizzazione   15 Aspetti di diacronia del piemontese   21 Le classificazioni del piemontese   22 Cenni di storia del Piemonte   35 Metodo descrittivo   41 Struttura dei capitoli e trattazione della materia   41 Dati   41 Creazione delle carte e indicazioni per la lettura   45

2 Fonetica e fonologia   49 2.1 Vocalismo   49 2.1.1 Palatalizzazione di -āre; -āriu   49 2.1.2 [u] pedemontana   59 2.1.3 Dittongazione di ē, ĭ in sillaba aperta   64 2.1.4 Sincope delle vocali protoniche   68 2.1.5 Presenza di [ə] tonica da ē, ĭ in sillaba chiusa   71 2.1.6 Modificazioni di /a/ tonica prima di nasale   77 2.1.7 Altri fatti di vocalismo   81 2.2 Consonantismo   84 2.2.1 Articolazione della nasale intervocalica postonica   84 2.2.2 Esiti di -c-/-g- intervocalica   87 2.2.3 Velarizzazione di al   92 2.2.4 Esiti di -cl-   95 2.2.5 Esiti di -ct-   102 2.2.6 Esiti di -t-/-d-   107 2.2.7 Inserimento di [g] non etimologica   114 2.2.8 Esiti di c, g + e, i   116 2.2.9 Esiti di -tj-   121 2.2.10 Esiti di -ĕr(u), -ĕr(e)   123

 7

VI  2.2.11 2.2.12

 Contenuti

Esiti di w germanica   125 Altri fatti di consonantismo 

 127

3.4.8 3.4.9 3.5 3.6 3.6.1

 131 Morfologia e sintassi  L’articolo   131 Articolo determinativo maschile singolare   131 Articolo determinativo femminile plurale   134 Altre osservazioni sull’articolo   137 Il nome   139 Plurale della classe nominale in -a (femminili)   139 Genere di fiore, sale, miele, fumo   143 Altre osservazioni   145 Morfologia e sintassi dei pronomi   147 Pronome personale di 3sgm   147 Clitico oggetto 3sgm   151 Posposizione dei clitici complemento dopo il participio passato   152 Morfologia verbale   157 Infinito della III coniugazione   157 1sg indicativo presente   158 2sg indicativo presente   160 3pl indicativo presente del verbo essere   163 1sg indicativo presente del verbo avere   164 2sg indicativo presente del verbo avere   168 Pronome dativo locativo esistenziale e occorrenza con il verbo avere lessicale   169 [g] non etimologica nel paradigma di vedere   175 Altri fatti di morfologia verbale   176 Morfologia e sintassi della negazione   180 Altri fatti di morfologia e sintassi   190 Assegnazione degli ausiliari   190

4 4.1 4.1.1 4.1.2 4.1.3 4.1.4 4.1.5 4.1.6 4.1.7

 191 Lessico  Diffusione lessicale nel Piemonte orientale  Donna   191 Lavorare   193 Muovere   195 Ontano   197 Sordo   198 Cieco   200 Legno/falegname   202

3 3.1 3.1.1 3.1.2 3.1.3 3.2 3.2.1 3.2.2 3.2.3 3.3 3.3.1 3.3.2 3.3.3 3.4 3.4.1 3.4.2 3.4.3 3.4.4 3.4.5 3.4.6 3.4.7

 191

Contenuti 

4.1.8 4.1.9 4.1.10 4.1.11 4.1.12 4.2 4.2.1 4.2.2 4.2.3 5 5.1 5.1.1 5.1.2 5.1.3

 203 Accendere  Nomi di parentela: nonno/nonna, zio/zia   204 Giallo   208 Nudo   210 Altri fatti lessicali   210 Diffusione lessicale in tutto il Piemonte   219 Sedia   219 Campana/campanile   222 Undici/dodici   225

5.2.3

Conclusioni   229 Dinamiche diffusionistiche   229 L’«influsso lombardo» nel Piemonte orientale   229 Possibili lombardismi e koinizzazione in torinese   231 Il torinese come dialetto di koiné e la diffusione di tratti linguistici   235 Tratti urbani   237 Tratti locali e aree conservative   238 Il contatto linguistico nell’area   250 Classificazioni del piemontese e ripartizioni dialettali   253 Classificazioni generali   253 Piemontese orientale e occidentale: una proposta di classificazione   256 Rapporto piemontese-lombardo e classificazioni locali   259

6

Bibliografia 

7

Carte 

8

Appendice   393 8.1 Appendice a 2 Fonetica e fonologia  8.2 Appendice a 3 Morfologia e sintassi  8.3 Appendice a 4 Lessico   581

5.1.4 5.1.5 5.1.6 5.2 5.2.1 5.2.2

 265

 279

 393  507

 VII

Introduzione Già dagli albori degli studi linguistici, i dialetti piemontesi hanno ricevuto una grande attenzione da parte della ricerca scientifica, che li ha esaminati con metodi e obiettivi diversi. La maggior parte dei lavori, tuttavia, si è concentrata su un unico punto linguistico, su una singola zona, o su un numero comunque circoscritto di tratti linguistici: di rado sono state prese in considerazione aree medie e grandi o più tratti in una prospettiva generale. Questa mancanza rende ancora oggi piuttosto difficile avere una visione di insieme sui dialetti piemontesi, non essendo disponibile, oltretutto, un atlante regionale. Non è raro, infatti, che un tratto linguistico sia ritenuto tipico di una zona, quando può essere in realtà ampiamente diffuso in molte altre; inoltre, è frequente assistere all’accomunamento, per mancanza di dati, di aree linguistiche piuttosto diverse, sovente con una prospettiva condizionata dalla varietà dominante e meglio descritta, quella di Torino, o da quella meglio conosciuta dal singolo ricercatore. Questo appiattimento spesso oscura la vivace e significativa variabilità linguistica dell’area piemontese, che è caratterizzata dalla compresenza di varietà urbane innovative e aree rustiche conservative, nonché dalla sussistenza di sub-aree linguistiche piuttosto compatte e storicamente rilevanti. Uno dei principali obiettivi di questo studio,1 pertanto, è colmare, almeno in parte, questa lacuna. Si è scelto di indagare un’area scarsamente studiata nel suo complesso, cioè il Piemonte orientale. Si cercherà innanzitutto di soddisfare un’esigenza di tipo descrittivo, compiendo un’analisi delle caratteristiche linguistiche delle varietà in oggetto con approcci diversi, descrivendo i fatti linguistici sia in sincronia, sia in diacronia, sia dando conto della loro distribuzione geografica sull’area indagata, con l’uso di carte linguistiche. Per quanto possibile, si prenderanno in considerazione più livelli di analisi, anche tenendo presente la scarsa attenzione che gli studi di geografia linguistica tradizionalmente hanno dedicato alla morfologia e alla sintassi. La scelta del Piemonte orientale, si noti, non è dovuta solo a un interesse geolinguistico di tipo documentario, ma anche sociolinguistico, poiché quest’area rappresenta un caso ideale per descrivere i fenomeni di contatto tra le varietà dialettali del Nord Italia: non contenendo grandi centri urbani, è una zona piuttosto frammentata linguisticamente che 1 Il lavoro è il frutto di una rielaborazione della mia tesi del Dottorato in Lettere, curriculum in Dialettologia italiana, Geografia linguistica e Sociolinguistica (XXXI ciclo), Università di Torino, dal titolo Contatto dialettale e mutamento linguistico: il Piemonte orientale (tutor prof. Riccardo Regis), discussa il 4 marzo 2019 con una commissione composta dai proff. Silvia Dal Negro, Gabriele Iannàccaro e Davide Ricca. Alcune questioni preliminari relative al lavoro sono descritte in Ferrarotti (2021a). https://doi.org/10.1515/9783110760187-203

X 

 Introduzione

giace tra due grandi città, Milano e Torino, che, come è noto, hanno influenzato in maniera significativa lo spazio linguistico circostante. Non è chiaro, tuttavia, in quale misura e in quanto tempo ciò sia avvenuto: affrontare questo aspetto sarà un altro obiettivo di questo studio. In particolare, si cercherà di verificare se e come il dialetto di Torino, tradizionalmente considerato una koiné conosciuta in tutta la regione in qualità di varietà veicolare usata per la comunicazione tra parlanti di zone diverse, abbia potuto influenzare i dialetti locali. Lo studio di questi argomenti sarà condotto facendo riferimento ad alcune teorie sociolinguistiche di contatto dialettale (dialect contact), al fine di fornire una ricostruzione più fondata dei rapporti tra le diverse varietà. Nel cap. 1 si darà conto dei principali riferimenti teorici adottati (§1.1), di una rassegna dello stato dell’arte e di alcune questioni importanti per questa ricerca (§1.2), dell’impostazione e della struttura del lavoro (§1.3). I capp. 2, 3 e 4 contengono l’analisi dei dati, ai diversi livelli di analisi. Nel cap. 5 si sono tratte alcune osservazioni conclusive. Il cap. 6 contiene la bibliografia, mentre il cap. 7 contiene le carte che sono commentate nei vari capitoli; nell’Appendice, cap. 8, sono riportati i dati utilizzati per l’elaborazione delle carte. Ringrazio Riccardo Regis per la guida costante e i numerosi consigli; Silvia Dal Negro, Gabriele Iannàccaro e Davide Ricca per la lettura e le preziose indicazioni; Matteo Rivoira e la redazione dell’ALI per avermi consentito di usare i materiali inediti dell’Atlante. Ho un grande debito di gratitudine verso i miei informatori, senza i quali questo lavoro sarebbe stato incompleto: Giuseppe Castello, Bruno Ferrarotti, Carla Francesio, Piera Gagnone, Gianfranco Pavesi, Emanuele Regano, Enzo Rivalta, Alfredo Signorelli, Giuseppina Varese, Rina Varese; allo stesso modo ringrazio Stefano Bellone, Michelangelo Bonassisa ed Elena Signorelli per la loro generosa disponibilità. Infine, sono grato ad Andrea di Stefano e a Sergio Garuzzo per avermi fornito una copia delle loro grammatiche.

1 Questioni generali 1.1 Questioni teoriche e prospettive adottate In questo capitolo si esporranno alcune osservazioni teoriche preliminari all’esame della variazione linguistica nei dialetti del Piemonte orientale. In particolare, si terranno presenti alcuni assunti generali sul mutamento fonetico e fonologico e sulla diffusione delle innovazioni linguistiche nello spazio, che consentiranno di dare un fondamento più solido alle proposte interpretative che saranno avanzate nel corso del lavoro.

1.1.1 Il mutamento linguistico Nelle trattazioni di geografia linguistica non è infrequente trovare rappresentazioni cartografiche dell’esito di un determinato suono latino in funzione di un’unica base lessicale (es. esito di pl- in plangere), per caratterizzare aree dialettali. Questo approccio può essere utile per descrivere approssimativamente l’estensione dei diversi esiti, ma non è sufficiente per ricostruire il mutamento diacronico nel complesso e gli eventuali contatti linguistici avvenuti tra le diverse varietà di un’area linguistica. Il carattere insoddisfacente di questo modo di procedere è già evidente secondo l’ipotesi neogrammaticale (Osthoff/ Brugmann 1878; v. Labov 1994, 421–424; Campbell 2013, 187–188; Trask/McColl Millar 2015, 209), per cui il mutamento fonetico è regolare, o, più precisamente, avviene poco a poco foneticamente, ma è applicato in un unico momento a tutti gli elementi lessicali (phonetically gradual, lexically abrupt nei termini di Wang/Cheng 1977). Le irregolarità vanno spiegate in un altro modo, vale a dire considerandole l’effetto di un prestito linguistico o dell’analogia: una semplice applicazione di questi principi dovrebbe portare a tenere presenti più basi etimologiche per lo stesso esito (plangere, pluere, platea etc.). L’attenzione alla singola parola è anche alla base della concezione di Schmidt (1872), Schuchardt (1885) e Gilliéron (v. ad es. «lo studio della parola» in Gilliéron/ Mongin 1905, 27), che però negano la validità delle ipotesi neogrammaticali sulla regolarità del mutamento (Campbell 2013, 188–189; McColl Millar 2015, 209–210), in quanto «ogni parola ha la sua storia» (secondo un motto attribuito a Gilliéron o a Karl Jaberg), cioè ogni parola è può essere mutuata, e quindi provenire, da altre varietà dialettali in contatto (dialect borrowing). Come osserva Campbell (2013, 189) si tratta di due fenomeni diversi: il primo tipo di mutamento è strutturale, regolare e interno alla varietà; il secondo, invece, https://doi.org/10.1515/9783110760187-001

2 

 1 Questioni generali

può essere irregolare ed è di provenienza esterna. Essi possono, secondo Campbell, essere ricondotti rispettivamente a due tipi di mutamento tipici della linguistica laboviana: 1) change from below 2) change from above (Labov 2010, 307). Con from below e from above si intende «al di sotto» o «al di sopra» del livello della consapevolezza linguistica dei parlanti e contemporaneamente «dal basso» o «dall’alto», cioè se un mutamento provenga da una varietà alta o meno («dalla posizione nella gerarchia socioeconomica», Labov 1994, 78). Il mutamento regolare, di tipo neogrammaticale, sarebbe un mutamento dal basso, di cui i parlanti non sono consapevoli (se non quando il mutamento è arrivato a compimento) e che solitamente ha origine nei ceti bassi della popolazione. Il mutamento irregolare, legato a una singola parola, sarebbe invece un mutamento dall’alto, introdotto dalle classi più alte e più mobili (più esposte al contatto linguistico). Senza postulare la presenza di un esito «interno», «neogrammaticale», infatti, non sarebbe possibile individuare le eccezioni, cioè un mutamento esterno, dovuto a un contatto con una varietà dialettale simile (dialect borrowing, Campbell 2013, 189–190). Un tipo di mutamento che mette seriamente in crisi la teoria neogrammaticale è la cosiddetta diffusione lessicale (Chen/Wang 1975; Labov 1994, 421–439) osservata nei dialetti cinesi da Wang/Cheng (1977), ma in seguito anche in altri casi, come nell’inglese di Philadelphia da Labov (1989). In questo tipo di mutamento l’innovazione fonetica compare in alcune parole, estendendosi poi gradualmente ad altre: si tratta di un mutamento foneticamente improvviso, ma che si estende poco a poco nel lessico (phonetically abrupt, lexically gradual secondo Wang/Cheng 1977), l’esatto opposto del mutamento di tipo neogrammaticale. Questi fenomeni, osservati direttamente e non solo postulati, come accadeva nella linguistica pre-laboviana, sono quindi fondamentali per comprendere i meccanismi di attuazione del mutamento linguistico e impongono, nel caso di questo studio, di esaminare più oggetti lessicali nell’analisi dell’evoluzione di tratti fonetici e, in generale, di tenere presenti le complesse dinamiche sociolinguistiche che possono condizionare la diffusione di un’innovazione linguistica. Del resto, l’unione di un approccio sociolinguistico a uno più tradizionale di linguistica storica può gettare luce su aspetti precedentemente inspiegati del mutamento linguistico. Un esempio efficace di questo possono essere le apparenti rifonologizzazioni di fonemi defonologizzati (a cui la sociolinguistica anglosassone si riferisce come reversal of mergers). La defonologizzazione di un fonema, ovvero la convergenza di due fonemi in uno solo (merger) è un processo irreversibile quando è compiuto, poiché i parlanti non hanno consapevolezza storica della loro lingua: ciò è considerato un assioma della linguistica storica (Campbell 2013, 18–19). In alcuni casi si assiste, sulla base della docu-

1.1 Questioni teoriche e prospettive adottate 

 3

mentazione storica, a una violazione di questo principio. Un esempio molto efficace è riportato da Labov (1994, 295–309) e ripreso da Trask/McCollMillar (2015, 267–270), a riguardo degli esiti delle vocali lunghe dell’inglese medio di /a:/ (es. mate ‘compagno’) /ε:/ (meat, ‘carne’) ed /e:/ (meet, ‘incontrare’). Nella Londra del XVI e del XVII secolo, per via di una massiccia riorganizzazione del sistema fonologico già in atto da almeno un secolo (il grande spostamento vocalico, great vowel shift), si osserva che le vocali di mate e meat hanno avuto una convergenza fonologica ([mɛɪ t̯ ], peraltro ancora presente in alcune zone dell’Irlanda e nella Scozia settentrionale), opponendosi a meet [miːt]. Eppure, nel tardo XVII secolo, si ha un sistema diverso, che non può essersi evoluto da quello precedente: convergono meat e meet, come accade nell’inglese attuale ([miːt], vs. [mɛɪ t̯ ] mate). Non è possibile che un fonema precedente abbia recuperato una distinzione preesistente per unirsi a un altro: pertanto, questo fatto deve essere spiegato con altre ragioni. L’ipotesi più probabile è che il primo tipo di convergenza (mate–meat) fosse tipico solo di alcuni strati sociali, probabilmente quelli più alti, pertanto dotato di un certo prestigio. Alla fine del XVII secolo, con gli sconvolgimenti sociali legati alla Gloriosa Rivoluzione e l’ascesa a posti di comando di persone non provenienti dalla nobiltà, il sistema con il secondo tipo di convergenza (meat–meet) si sarebbe affermato e sarebbe diventato prestigioso a sua volta. I fattori storico-sociali, pertanto, possono venire in aiuto quando le attestazioni storiche dell’evoluzione di un determinato tratto linguistico forniscano dati non coerenti con un’evoluzione linguistica lineare. Un’altra combinazione molto proficua di sociolinguistica e linguistica storica è condensata in un approccio che si definisce di sociolinguistica storica, che cerca di applicare i metodi interpretativi, in particolare di tipo quantitativo, della sociolinguistica contemporanea a dati storici (v. Nevalainen/Raumolin Brunberg 2012). In questa sede non si adotterà tanto questo approccio nello specifico, quanto i principi che lo ispirano, cercando di interpretare la variazione linguistica del passato anche per mezzo di categorie sociolinguistiche, in base all’evidenza fornita dai testi e dai vocabolari storici. Un’altra prospettiva utile per valutare la diffusione del mutamento linguistico è di osservarne la diffusione su categorie lessicali diverse. Gli studi di linguistica del contatto hanno mostrato, perlopiù nel contatto tra lingue diverse (e non tra varietà dialettali simili), che alcune categorie lessicali sono più inclini di altre a entrare in contatto (v. alcune generalizzazioni in Matras 2009, 153–165): tendenzialmente, sono più mobili i nomi dei verbi e in generale molto poco la morfologia flessiva. È quindi possibile che categorie poco mobili possano mantenere esiti arcaici. Per questo motivo si cercherà di osservare la diffusione di un mutamento fonologico su categorie lessicali diverse, quando sarà possibile.

4 

 1 Questioni generali

Un’ulteriore approccio qui adottato, intrinseco a tutta la sociolinguistica inglese e americana, è lo studio del mutamento linguistico per generazioni. La generazione è considerata l’unità di conservazione e propagazione del mutamento linguistico: in particolare, si presuppone che la varietà linguistica degli adulti non sia esattamente quella acquisita dai genitori, ma quella del «gruppo dei pari» (peer group), acquisita durante l’adolescenza e scarsamente modificata nella vita adulta (Trudgill 1986, 31–32; questa prospettiva è largamente alla base di lavori come Trudgill 2004). Conoscendo le date di nascita degli informatori, sarà possibile osservare, sia pur in maniera approssimativa, il comportamento linguistico di una determinata generazione (v. oltre).

1.1.2 La diffusione spaziale del mutamento linguistico Britain (2013, 472–473) osserva che che la geografia linguistica tradizionale non fornisce una rappresentazione geografica della lingua, ma più che altro cartografica: il dato umano è largamente assente e i dati linguistici sono semplicemente presentati su una carta. Questi dati, per via della complessità sociolinguistica che spesso è legata al mutamento linguistico, non sono sufficienti per ricostruire con precisione la diffusione di tratti linguistici. Il problema riguarda non tanto la rappresentazione grafica, quanto l’interpretazione che si dà della diffusione di tratti linguistici nello spazio. Spesso, infatti, la diffusione di un’innovazione è descritta mediante carte sintetiche o isoglosse, che oscurano la realtà geografico–umana sottostante: ciò denuncia una concezione della diffusione del mutamento molto idealizzata e basata fondamentalmente sulla «teoria delle onde» di Schuchardt e soprattutto Schmidt (1872), per cui le innovazioni si propagano come onde nell’acqua, cioè concentricamente verso l’esterno, ricoprendo altre aree linguistiche. Questa visione, integrata dalle cosiddette «norme areali» di Bartoli, può essere adatta a osservare la presenza di tratti su una scala molto grande (indoeuropeo) o grande (lingue romanze; v. Sobrero 1978, 319–321 per una critica in questo senso), per interpretazioni di carattere globale. Per un’area media, come quella oggetto di questo studio, si terrà presente il cosiddetto modello «gravitazionale» di diffusione di tratti linguistici nello spazio elaborato da Trudgill (1972), poi ripreso in Chambers/Trudgill (1998, 166–186). Il modello formalizza la concezione per cui il mutamento linguistico si diffonde soprattutto in relazione alle caratteristiche demografiche dei centri abitati e a come sono collegati da vie di comunicazione, prospettiva peraltro già presente in ambito dialettologico (v. ad es. Grassi 1958), ma sempre postulata e mai osservata dal vivo e quantificata numericamente. Questo approccio è stato applicato

1.1 Questioni teoriche e prospettive adottate 

 5

ai dialects dell’inglese e alle varietà di norvegese (Trudgill 1986), ma anche in ambito romanzo, ad esempio a varietà di spagnolo (Hernandez Campoy 2003). Il modello prevede una gerarchia tra centri abitati per stabilire in che modo si propaga un’innovazione. Sulla base degli studi geografici di Hägerstrand (1967) sulla diffusione di novità materiali come l’automobile in Svezia, si è osservato che un’innovazione si diffonde attraverso le vie di comunicazione dal centro più popolato verso i centri medi che «orbitano» su di esso: questi a loro volta la diffondono a quelli più piccoli, secondo un ordinamento gerarchico (visivamente questo movimento è stato associato a un sasso lanciato in uno stagno che tocca in più punti l’acqua). Trudgill prende a modello la legge di gravitazione universale di Newton, per cui la forza F è proporzionale al prodotto delle masse e inversamente proporzionale al quadrato della distanza tra i due corpi per calcolare l’influenza I di un centro i su un centro j (Figura 1):

Figura 1: Equazione di gravitazione universale di Newton ed equazione del modello gravitazionale (da Chambers/Trudgill 1998, 179).

L’influenza I di i su j, pertanto, è direttamente proporzionale al prodotto della popolazione P (le masse m newtoniane), poiché maggiore è la popolazione di un centro maggiore sarà la probabilità statistica delle interazioni con i suoi abitanti; è inversamente proporzionale al quadrato della distanza calcolata sulle vie di comunicazione. S (la costante di gravitazione universale G di Newton) è l’indice di somiglianza linguistica preesistente, poiché, osserva Trudgill (1972, 234) è psicologicamente e linguisticamente più facile adottare tratti da varietà che assomigliano alla propria. Rispetto al modello newtoniano, il tutto è moltiplicato per il rapporto tra la popolazione di i e la somma delle popolazioni di i e j, perché l’influenza di uno sull’altro deve essere proporzionale alla popolazione dei due centri. La conseguenza più diretta di tutto questo è, appunto, che i centri più piccoli «orbiteranno» intorno a quelli medi, che a loro volta orbiteranno intorno a quelli più grandi. In sostanza, sono molto importanti i rapporti tra le popolazioni dei vari centri. Il modello non è solo descrittivo, pertanto, ma ha anche un valore predittivo. Esso, tuttavia, non tiene in conto diversi fattori importanti che

6 

 1 Questioni generali

possono influire sulla diffusione di tratti linguistici. In Britain (2013, 481–482) ne sono riportati alcuni, per cui il modello: – è troppo appiattito su un concetto euclideo di spazio e non tiene conto di fattori geografici che possono influire sulla distanza (tipo di strade e collegamenti etc.); – non tiene abbastanza in conto alcuni fattori sociali: quali ceti siano più mobili e il tipo di coesione sociale presente nei vari centri, che può impedire o favorire la diffusione di tratti linguistici, come hanno mostrato gli studi dei Milroy a Belfast;2 – rende conto solo dell’innovazione e non della conservazione di tratti, che può essere un processo attivo delle comunità linguistiche, allo stesso modo dell’innovazione, ad esempio come resistenza a una varietà dominante; – non tiene conto dei fattori strutturali delle singole varietà che possono limitare la diffusione di un’innovazione, ad esempio collisioni omonimiche; – non vi è la concezione dello scontro di una forma vecchia con una nuova in termini di contatto tra due forme diverse, ma solo della sostituzione di una con l’altra. Si può aggiungere che non è nemmeno previsto il concetto di prestigio linguistico: pur essendo una categoria largamente impressionistica e spesso invocata in troppi casi per giustificare un mutamento linguistico, è sicuramente un fattore da tenere in conto, in particolare per quanto riguarda le innovazioni provenienti dalle classi sociali più alte. L’applicazione del modello ai dialetti galloitalici può essere giustificata in quanto si tratta fondamentalmente di varietà dello stesso sistema linguistico: tuttavia, sarebbe comunque difficile adottarlo nella sua interezza, sia per la parzialità dei dati disponibili (v. oltre), sia per le limitazioni elencate sopra. Tuttavia, si terranno presenti i suoi aspetti descrittivi, in particolare per quanto riguarda demografia, anche in prospettiva storica: per calcolare l’influenza di un centro abitato su un altro è importante il rapporto della popolazione tra i due centri e la distanza tra di loro, calcolata sulle vie di comunicazione. In generale, un centro molto grande sarà in grado di esercitare la sua influenza su quelli medi anche a una grande distanza («gravitazione a distanza»), mentre i centri piccoli «orbiteranno» intorno a quelli medi, piuttosto che direttamente su quelli grandi (come la Luna orbita intorno alla Terra e non direttamente intorno al Sole). Ciò impone quindi una riflessione più articolata sulla demografia del Piemonte.

2 «Linguistic change is slow to the extent that the relevant populations are well established and bound by strong ties, whereas it is rapid to the extent that weak ties exist in populations» (Milroy/Milroy 1985, 375).

1.2 La situazione piemontese 

 7

1.2 La situazione piemontese 1.2.1 Demografia del Piemonte e diffusione di tratti linguistici 1.2.1.1 La demografia dal XIX al XX secolo Come si è visto, l’aspetto demografico è determinante nello stabilire in che modo alcune varietà dialettali ne influenzino altre. Nello studio dei dialetti piemontesi, tuttavia, bisogna considerare che non è possibile usare la quantità di popolazione attuale per formulare ipotesi in questo ambito, poiché le dinamiche sociolinguistiche per cui i dialetti urbani influenzavano i dialetti rurali non sono più in atto almeno dagli anni ’50 del XX secolo e, soprattutto, perché sono molto cambiati i rapporti di forza fra i vari centri, in relazione al variare della popolazione in periodi storici diversi. Ciò fondamentalmente può essere dovuto al passaggio del rapporto italiano–dialetto da un regime di diglossia a uno dilalia, cioè con la comparsa dell’italiano parlato nei registri medi e bassi della lingua (Berruto 1987). Su questo punto, peraltro, servirebbero approfondimenti, poiché ci sono buone ragioni per pensare che nei centri urbani grandi l’italianizzazione, perlomeno delle classi alte, fosse anche precedente, sia per quanto riguarda quella dei dialetti urbani, in atto già da secoli, sia per quanto riguarda l’adozione dell’italiano come lingua parlata in contesti informali presso gli strati sociali più alti, che può risalire addirittura alla fine del XIX o all’inizio del XX secolo, come notava già De Mauro (1963, 87–88).3 In ogni caso, al giorno d’oggi, il dialetto di Torino – la varietà piemontese con il maggior numero di parlanti a partire almeno dal XVII–XVIII sec. – è tra quelli meno vitali di tutti per numero di parlanti, poiché l’italofonia è assolutamente dominante in città. Il dialetto come codice familiare resiste nei piccoli centri di campagna, in particolare, per quanto ho potuto riscontrare a Trino (e nel Vercellese) e durante le inchieste svolte per questo lavoro, tra le persone nate prima degli anni ’60; scompare come codice parlato abitualmente tra i nati dopo gli anni ’70 (per quanto non manchino, ovviamente, delle eccezioni). Si può anche osservare che sembra esserci uno sfasamento generazionale della dialettofonia tra i centri piccoli e le città: l’uso del dialetto sembra essersi ridotto con una generazione di anticipo in queste ultime.4 Per questi motivi, occorre fare riferimento alla demografia (e alla geografia in generale) del passato. Ho creduto opportuno prendere in considerazione un periodo ben preciso, quando Torino svolgeva sia politicamente sia demograficamente il 3 Ad es. ne L’idioma gentile (1905) di Edmondo de Amicis, la lettera alla cugina è una testimonianza dell’uso dell’italiano in una famiglia borghese, seppur con molti regionalismi, all’inizio del XX secolo. 4 Per alcuni dati quantitativi grezzi sull’uso contemporaneo del dialetto v. i dati ISTAT (2017).

8 

 1 Questioni generali

ruolo di capitale dello stato dei Savoia, del quale la demografia sia ben descritta, cioè i primi decenni del XIX secolo. Sono stati presi in analisi, infatti, i censimenti del Regno di Sardegna del 1838 e del 1848, quando le dinamiche sociolinguistiche di diffusione di tratti linguistici erano sicuramente vivissime. Inoltre, questi censimenti sono una fotografia della popolazione prima dello spopolamento delle campagne e dell’industrializzazione, processi che sono partiti massicciamente dopo l’unità d’Italia e hanno sconvolto l’assetto demografico precedente (v. De Mauro 1963, 63–88). Si può rilevare la grande differenza dei rapporti tra le popolazioni dei centri abitati osservando la quantità di popolazione nel 1838 dei 41 centri più popolosi (sede di divisione, provincia o mandamento) del Regno di Sardegna (si escludono le zone appartenute alla repubblica di Genova, Nizza e la Savoia), che al tempo aveva circa cinque milioni di abitanti (Tabella 1, Figura 2). Tabella 1:Classifica dei comuni più popolosi del Regno di Sardegna nel 1838 e la loro popolazione nel 2011. Suddivisioni amministrative: DIVISIONE, provincia, mandamento.

1. TORINO

Cens. 1838

Cens. 2011

117072

872000

2. ALESSANDRIA

39374

89411

4. Casale

24283

73899

19300

34812

3. Asti

5. CUNEO

18777

55013

18524

101952

18353

43308

16041

24710

15921

22253

10. Savigliano

15546

20935

11. Vigevano

15221

60109

14426

16940

13501

34854

14. Chieri

13274

35962

15. Carmagnola

12382

28563

16. Bra

11466

26965

10821

25986

10706

38174

10102

10028

20. Busca

8990

10049

21. Cherasco

8893

8652

22. Giaveno

8866

16281

23. Boves

8700

9725

6. NOVARA

7. Vercelli

8. Fossano

9. Mondovì

12. Saluzzo

13. Pinerolo

17. Tortona

18. Voghera

19. Racconigi

1.2 La situazione piemontese 

 9

Tabella 1 (continuata) Cens. 1838

Cens. 2011

24. Biella

8677

43818

25. Moncalieri

8602

55875 7861

26. Barge

8602

27. Villafranca

8572

4825

28. Ivrea

8475

23592

29. Alba

8286

30804 7437

30. Trino

8217

31. Carignano

7873

9156

32. Chivasso

7841

25914

33. Dronero

7716

7205

34. Cavour

7543

5568

35. Valenza

7477

19671

36. Oleggio

7420

13650

37. AOSTA

7126

34102

38. Borgomanero

7095

21166

39. Demonte

6953

2059

40. San Damiano

6767

8373

41. Acqui

6352

20054

In generale, dai censimenti si può osservare che i rapporti tra la popolazione del 1838 iniziano a cambiare dopo l’unità d’Italia; un ulteriore sconvolgimento dei rapporti si ha dopo il 1961. Dai dati di questi censimenti si comprende che centri che oggi sono considerati piccoli, in realtà, in passato hanno avuto più importanza, così come centri che oggi sono grandi in passato non dovevano essere davvero rilevanti demograficamente, a fronte di un aumento complessivo della popolazione italiana di circa il 300% (da poco meno di 20 milioni di abitanti del 1838 si passa ai circa 60 del 2011). Si può citare innanzitutto il caso dei centri medi Casale, Novara e Vercelli, che nel 1838 avevano grosso modo la stessa quantità di abitanti, mentre oggi Novara ha più del doppio della popolazione di Vercelli e Casale. È sorprendente anche che centri come Alba, Biella, Trino, Chivasso, Moncalieri e Ivrea avessero più o meno la stessa quantità di popolazione. Il mutamento di questi rapporti può essere rappresentato, per parte del Piemonte orientale, anche su una carta, in cui le proporzioni tra le popolazioni sono simboleggiate dall’area dei cerchi (Figure 3, 4). Evidentemente, la semplice osservazione dei dati demografici non può giustificare da sola l’influenza di una città: ad esempio, Alba e Biella, per quanto piccole, erano sede di diocesi (v. §1.2.5.2) e di amministrazione provinciale, e si può imma-

10 

 1 Questioni generali

Figura 2: Elaborazione di Tabella 1.

ginare che linguisticamente abbiano svolto la funzione di «centri medi», cioè di recettori di tratti linguistici dai centri più grandi. Allo stesso modo, bisogna tener presente che ciò che conta sono sempre i rapporti tra le popolazioni. Nel caso del Verbano e dell’Ossola, Domodossola e Pallanza hanno circa 2000 abitanti nel 1838, mentre Intra circa 4000; lo stesso vale per Mortara in Lomellina: esse tut-

1.2 La situazione piemontese 

 11

Figura 3: Rapporti tra le quantità di popolazione nel 1838.

tavia svolgono la funzione di centri medi, perché sono, in genere, contornate da centri ancora più piccoli (oltre a essere sedi di mercati e istituzioni). Anche le vie di comunicazione dell’epoca sono nettamente diverse da quelle di oggi. Per questo studio si sono tenute in particolare considerazione le vie di comunicazione tra centri grandi e medi, facendo riferimento alla Carta postale e stradale dell’Italia (Pinneti, G.A.F. Milano, 1831) e ai dati di Guderzo (1961). 1.2.1.2 La demografia prima del XIX secolo È più difficile rendere conto dei rapporti demografici prima del XIX secolo, perché i censimenti non sono stati pubblicati o sono incompleti. Levi (1985) osserva che Torino, a partire dalla fine del ’500, quando diventò capitale dello stato sabaudo, incrementò enormemente la sua popolazione, passando da essere un centro medio marginale a una vera e propria capitale di una monarchia assoluta, anche grazie a una massiccia immigrazione dalle campagne. Torino passa da circa quattordicimila abitanti nel 1571 a circa cinquantamila nel 1734, aumentando di popolazione anche durante il ’600, secolo in cui il saldo demografico del resto del Piemonte è ampiamente negativo, in parte «soffocato» proprio dallo

12 

 1 Questioni generali

Figura 4: Rapporti tra le quantità di popolazione nel 2011.

sviluppo di Torino. Barbero (1997, 373–376) osserva che Torino nel ’400 ha più o meno gli stessi abitanti di altri centri del Ducato di Savoia come Pinerolo, Cuneo, Savigliano, Chieri, Moncalieri, Vercelli e Mondovì. Nel corso dello stesso secolo e ancora durante tutto il ’500 queste città non sono state superate da Torino, ma alla fine del secolo solo Mondovì aveva ancora una popolazione non troppo inferiore a quella di Torino, mentre tutte le altre città erano ormai più piccole della capitale. Si può rendere questo andamento riportando su un grafico (Figura 5) i dati di Malanima (1998, 110–111; si noti che le città vengono considerate solo se superano i 5000 abitanti). Il grafico rende bene l’eccezionalità dello sviluppo demografico di Torino: nel ’400 la dimensione demografica della città scende a meno di cinquemila abitanti, ancora a inizio ’500 non è distinguibile demograficamente dagli altri centri; in un secolo inizia a superare tutti gli altri e nel ’700 ha raddoppiato la popolazione rispetto al secolo precedente. Se si confronta il caso torinese con le altre città importanti del Nord Italia, tuttavia, si può riscontrare che questo sviluppo è tardivo, e non raggiunge i livelli di Milano e Venezia (Figura 6).

1.2 La situazione piemontese 

 13

80 75 70 65

Popolazione in migiaia di ab.

60 55 50

Torino

45 40 35 30 25 20 15

Nizza Alessandria

Mondovì

10 5 1300.

1400.

1500.

1600.

1700.

1800.

Figura 5: Evoluzione demografica delle principali città dei domini dei Savoia (dati in Tabella 2). Le linee sottili indicano le città del Piemonte, la linea più spessa Torino, che non si distingue fino al XVI secolo e inizia a spiccare dal XVII, per poi dominare su tutte le altre. Tabella 2: Abitanti in migliaia. Dati di Malanima (1998). Città

1300.

1400.

1500.

1600.

1700.

Alba

 5









 7

Alessandria

16

10

 6

14

12

19  5

Aosta

1800.











10

 5

 8

 9

12

15

Boves











 6

Bra









 7

10

Busca







 5



 7

Carignano











 5

Carmagnola











10

Asti

14 

 1 Questioni generali

Tabella 2 (continuata) Città Casale Monferrato Cherasco Chieri Chivasso Cuneo

1300.

1400.

1500.

1600.

1700.





 7

10

10

1800. 16  5











 9

 6

 6

11

 8

11











 5 18

 5



 5

7

12

Fossano





 7

10

11

14

Ivrea









 5

 7

 5



10

11

 7

18

Mondovì Nizza



 7

12

16

15

Novara

 6

 5

 7

 8

 8

12

Pinerolo

 6





 8

 6

 9

Racconigi







 5

 7

12

Saluzzo







 5

 7

11

Savigliano

 6

 6

 7

 9

11

13

Torino

 7



 6

22

44

77

Tortona

 5



 5

 5

 5

 8

Valenza







 5





Vercelli

10



 7

10

 8

13

Villafranca di Piemonte

2–











 6

Vigevano

 2

 5

 6

10

 8

 9

Voghera

 2

 5



 5

 5



Questi dati sono molto rilevanti se coniugati con le teorie diffusionistiche di stampo trudgilliano: i centri «grandi», quelli maggiormente popolati, sono i maggiori diffusori di tratti linguistici, in virtù del loro peso demografico. È noto, infatti, che Milano, Venezia e Genova hanno plasmato lo spazio linguistico degli stati di cui erano capitali e ciò sicuramente è dovuto anche alla loro «potenza» demografica durevole nel tempo. Per Torino non è possibile dire lo stesso, poiché assume una demografia da capitale di un regno solo nel corso del XVII secolo e compiutamente solo nel XVIII: le «lingue medie» di queste città (secondo la definizione di Muljačić 2011) non sarebbero tutte sullo stesso piano, per quanto riguarda l’influenza che esse hanno potuto esercitare. A questo fatto bisogna aggiungere che il dialetto di Torino del ’600 è sensibilmente diverso da quello del secolo successivo, che invece ha una fisionomia più simile a quello ottocentesco e a quello contemporaneo. Questa variazione è molto importante, e se ne renderà conto nel paragrafo successivo.

1.2 La situazione piemontese 

 15

170 155

Venezia

Abitanti in migliaia

140

Milano

125 110 95 80

Milano Venezia

65

Genova

50 35 20

Torino 5 1300.

Torino 1400.

1500.

1600.

1700.

1800.

Figura 6: Sviluppo demografico delle principali città del Nord Italia. Dati di Malanima (1998).

1.2.2 Il dialetto di Torino e la koinizzazione Regis (2011) osserva che il dialetto di Torino della metà del XVII secolo, per come emerge dalle Canzoni Torinesi pubblicate in coda a due edizioni de I freschi della villa di Giulio Cesare Croce (Torino, 1663, 1677), è radicalmente diverso da quello del secolo successivo: «Nell’arco di appena cinquanta–sessant’anni [. . .], il dialetto di Torino subisce un rivolgimento che, in condizioni normali, avrebbe richiesto tempi molto più lunghi: un’accelerazione degli eventi tipica dei contesti di koinizzazione [. . .]. La lingua delle canzoni de I Freschi è profondamente irregolare, instabile, e risulta in qualche misura ostica per il lettore contemporaneo comune; è essa stessa il sintomo, probabilmente, di un processo avviato di mescolanza linguistica (uno stadio di pre–koinè), in cui alternative fono–morfologiche di segno e origine diversi coesistono [. . .]. Alla metà del Seicento, quando Torino sta subendo una notevole espansione demografica, il dialetto cittadino popolare ha dunque una fisionomia sfocata, che attende di essere meglio definita e circoscritta» Regis (2011, 21).

Questa osservazione è basata sulla presenza di alcuni tratti linguistici presenti nelle Canzoni (Tabella 3), ma assenti in testi successivi (in parte pubblicati nel secolo successivo e adeguati quindi al torinese settecentesco).

16 

 1 Questioni generali

Tabella 3: Occorrenza di alcuni fenomeni linguistici in testi piemontesi sei-settecenteschi. Da Regis (2011, 20). Canzoni torinesi (metà sec. XVII)

La pastorella semplice (fine sec. XVII)

’L Cont Piolèt (fine sec. XVII, rimaneggiato e pubblicato nel 1784)

L’arpa discordata (inizio sec. XVIII)

Canzoni di I. Isler (anni Venti/anni Settanta XVIII sec.)

+









Plurale metafonetico

+

(+)



(+)

(+)

Plurale con palatalizzazione della consonante finale

+









Centralizzazione e abbassamento di -etonica

+

+





+

Semplificazione di [wa] in [a]

+









Voci verbali di tipo dogn, stogn, etc.

+

(+)







Desinenza di IV persona -’mma/-ma

Questo mutamento così significativo è attribuito al grande aumento demografico della città durante il ’600, dovuto in gran parte a immigrazione. Che uno sconvolgimento sociale che causi la rottura o il mutamento delle reti sociali possa produrre mutamenti linguistici molto rapidi è un fatto ben attestato nella storia delle lingue (Trudgill 2011, 8–14). Più nello specifico, si tratterebbe di un processo di koinizzazione, cioè della nascita di una nuova varietà dialettale a partire dalla mescolanza di varietà preesistenti. Processi di questo tipo sono stati osservati in diversi contesti: nel caso della formazione di new towns, cioè città di nuova fondazione o pesantemente ripopolate, in particolare norvegesi (Høyanger, v. Trudgill 1986, 95–99), inglesi (Milton Keynes, v. Kerswill/Trudgill 2005, 208–209) o nel caso della formazione di nuove comunità linguistiche, come l’hindustani delle isole Fiji (Trudgill 1986, 99–102), il Bohjpuri della Guyana e soprattutto l’inglese australiano e neozelandese in Trudgill (2004). Una rilevante applicazione del concetto di koinizzazione nella storia della formazione dello spagnolo è Tuten (2003). Una definizione classica di koiné è presente in Siegel (2001, 175): «A koine is a stabilized contact variety which results from the mixing and subsequent levelling of features of varieties which are similar enough to be mutually intelligible, such as regional or social dialects. This occurs in the context of increased interaction or integration among speakers of these varieties.»

1.2 La situazione piemontese 

 17

Come si può vedere, le due parti fondamentali di questo processo sono la mescolanza (mixing) e il livellamento (levelling) di tratti di varietà mutualmente intellegibili.5 Esse costituiscono sempre fasi fondamentali dei modelli proposti per i processi di koinizzazione. Un primo è stato proposto da Siegel (1985, 373–375) per descrivere lo sviluppo di una koiné, applicandolo ad esempio nel processo di formazione del greco comune (koiné dialektos) di età ellenistica (un’interpretazione della formazione della koiné secondo questa impostazione si trova in Bubenik 1993) o alla formazione dell’hindustani delle isole Fiji e del bohjpuri della Guyana). Come osserva Tuten (2003, 23–28), il limite di questo modello è di essere ampiamente basato su quello proposto da Mühlhäuser (1980) per descrivere la formazione dei pidgin. Il modello di koinizzazione di Trudgill, invece, è stato formulato in modo specifico per descrivere situazioni di contatto dialettale e prevede un processo composto di cinque fasi (Trudgill 2004, 83–89): i. Mescolanza (mixing). In questo stadio le varietà dialettali mutualmente intellegibili vengono a contatto. ii. Livellamento (levelling). Le varianti linguistiche presenti nella mescolanza dialettale minoritarie demograficamente vengono eliminate. iii. Eliminazione di forme marcate (unmarking). Le forme più marcate, cioè meno comuni e regolari, sono eliminate in favore di quelle non marcate. iv. Creazione di forme interdialettali (interdialect development). A volte nella mescolanza vengono a crearsi forme che non appartengono a nessuno dei dialetti di partenza. Possono essere forme più semplici e regolari, oppure forme intermedie, di compromesso, tra le varietà. v. Riallocazione (reallocation). Eventuali forme minoritarie possono rimanere nella koiné come variabili marcate diastraticamente, diafasicamente o come realizzazioni allofoniche. Se poi a questo processo si aggiungerà una sesta fase di stabilizzazione non si parlerà più di koinizzazione, ma di formazione di nuovi dialetti (new dialect formation) con l’aggiunta di uno stadio: vi. Focalizzazione (focussing), le varianti selezionate dai processi precedenti si stabilizzano e assumono carattere di norma linguistica. Per questo modello è anche molto importante la dimensione temporale in termini di generazioni di parlanti. Affinché si formi una nuova varietà, sono necessarie due generazioni (circa cinquant’anni), a partire dalla situazione di mescolanza

5 Questo è uno dei parametri che distinguono i processi di koinizzazione da altri fenomeni di contatto come la formazione di pidgin e creoli.

18 

 1 Questioni generali

dialettale: la terza generazione sarà quella che acquisirà in modo nativo la nuova varietà (Trudgill 2004, 23). Un assunto molto forte di questo modello è che il mutamento linguistico, sotto certe condizioni ben precise, sia di carattere deterministico: vale a dire che, conoscendo l’input di una certa situazione sociolinguistica di contatto dialettale, è possibile predirne l’output. La mescolanza dialettale quindi non produrrebbe risultati casuali, ma motivabili sulla base di un rapporto di causa–effetto, secondo dei pattern previsti dal modello teorico di riferimento. Ciò è stato rilevato in particolare per la formazione degli inglesi coloniali dell’Oceania, per cui, partendo dai tratti linguistici delle varietà coloniali già formate e conoscendo in modo abbastanza buono il peso demografico delle varietà parlate dai primi coloni, si è potuto ricostruire con precisione che tipo di mescolanza dialettale abbia interessato il contatto linguistico. Anche in ambito italoromanzo sono state ipotizzate delle koinizzazioni di questo tipo: soprattutto per il veneziano nel tardo medioevo (Ferguson 2005) ma anche per il fiorentino dopo la metà del XIV secolo e il romanesco del ’500 (v. Regis 2011, 16). Fenomeni di koinizzazione sono stati rilevati anche in Ticino (Petrini 1988), seppure senza la formazione di una koiné stabile (focussing). Nel caso del torinese, si può immaginare che la fase di mescolanza dialettale sia fondamentalmente terminata nel corso del ’700, quando si fermò l’ondata migratoria: a fine secolo, con la grammatica di Pipino (1783a) si trova una varietà focalizzata.6 Può essere utile, dal momento che nella teoria di Trudgill sono fondamentali le varietà di origine degli immigrati che entrano in contatto, riportare la provenienza, cioè il luogo di nascita, degli abitanti di Torino nel 1705, alla vigilia dell’assedio francese del 1706 (Zucca Micheletto 2006, 140–141), basato su un campione di circa metà del censimento totale (Tabella 4). Tabella 4: Luogo di provenienza degli immigrati (in percentuale sulla popolazione) dal censimento del 1705 (Zucca Micheletto 2006, 140–141). La provenienza è disponibile per il 68,5% dei maschi (totale 1781) e per il 71,02 per cento delle immigrate femmine (totale 935). pop. maschile

pop. femminile

Milano

6,64

Crescentino

4,82

Viù

6,07

Rivoli

4,82

Chieri

3,61

Lanzo torinese

3,92

Biella

3,52

Viù

3,61

6 Anche se, in realtà, la grammatica di Pipino riporta alcune varianti che scompariranno nel corso del XIX secolo nel dialetto urbano: ciò può indicare che la varietà al tempo non fosse ancora del tutto stabilizzata.

1.2 La situazione piemontese 

 19

Tabella 4 (continuata) pop. maschile

pop. femminile

Lugano

3,44

Chieri

3,31

Lanzo torinese

3,36

Carignano

3,01

Varallo

2,79

Leinì

2,86

Mondovì

2,13

Mondovì

2,56

Crescentino

2,05

Asti

2,26

Asti

1,72

Chivasso

2,26

Rivoli

1,72

Biella

2,11

Bra

1,64

Venaria

2,11

Barcellona

1,56

Fossano

1,81

Chivasso

1,56

Racconigi

1,81

Ceva

1,48

Giaveno

1,66

Oneglia

1,48

Grugliasco

1,66

Poirino

1,48

Milano

1,66

Racconigi

1,48

Santhià

1,66

Ivrea

1,39

Bra

Lione

1,23

Totale

49,40

Carignano

1,07

Comunità restanti

50,60

Carmagnola

1,07

Totale

Moncalieri

1,07

Pianezza

0,98

Santhià

0,98

Venaria

0,98

Cuneo

0,90

Genova

0,90

Avignone

0,82

Leinì

0,82

Savigliano

0,82

Villastellone

100,00

0,82

Totale

61,56

Comunità restanti

38,44

Totale

1,51

100

Si segnala il peso di Chieri, Lanzo, Varallo (allora non facente parte del Ducato di Savoia), Mondovì e Viù (nelle valli di Lanzo). Tra gli immigrati maschi è importante anche la presenza di milanesi, biellesi, luganesi.

20 

 1 Questioni generali

Questo tipo di koinizzazione è una koinizzazione stricto sensu, in quanto è un processo che causa la formazione di una nuova varietà comune a partire da varietà diverse, che Regis (2011, 10–11) definisce primaria. Tuttavia, il termine koinizzazione può avere un’altra accezione: in particolare negli studi di dialettologia italiana, con dialetto di koiné si intende un dialetto che è diventato il riferimento di tutta una regione,7 cioè quello della sua capitale, come varietà veicolare generalmente nota. Questo dialetto prestigioso spesso ha la facoltà di influire sui dialetti dei centri medi e su quelli delle campagne, che ne acquisiranno tratti linguistici. Un esempio paradigmatico è quello di Venezia, il cui dialetto in molti centri urbani veneti ha soppiantato le varietà precedenti ed è conosciuto in tutta la regione. Regis definisce questo tipo di koinizzazione secondaria, poiché non si ha la nascita di una nuova varietà, ma solo l’estensione dei tratti di una varietà egemone su altre varietà periferiche; tuttavia, può seguire cronologicamente una koinizzazione primaria, vale a dire che la varietà urbana prestigiosa può essere il risultato di una precedente mescolanza dialettale. Nel caso del Piemonte, si ha l’estensione della varietà torinese a diversi centri del Piemonte occidentale, definiti appunto «pressoché totalmente torinesizzati» da Telmon (2001, 55), cioè Ivrea, Lanzo, Susa, Pinerolo, Dronero, Cuneo. In un’area a sud di Torino, che si estende da Saluzzo a Fossano sono presenti varietà pesantemente influenzate dal torinese, che mantengono alcuni tratti arcaici. La situazione di Asti è più sfumata, anche se la torinesizzazione del centro urbano è ben nota e attestata. Anche a Vercelli è ben documentato l’influsso del torinese (Canetti 2020). Meno chiara, invece, è la situazione per il resto del Piemonte orientale, in particolare per le zone rustiche. Poiché, come si è osservato in precedenza, queste dinamiche sociolinguistiche sono ormai inattive, l’unico modo per valutare l’influsso del torinese è di rilevare la presenza di tratti tipicamente torinesi nei vari dialetti. In ogni caso, sembra che in molte aree la conoscenza del torinese fosse un retaggio soprattutto delle classi più alte. Toppino (1902–1905) dà una testimonianza in questo senso: «Tutti sanno che in Piemonte i signori hanno a disdegno il vernacolo, e cercano di imitare il dialetto di Torino. [. . .]. Ma se il fatto si può, in una certa misura, ammettere per le città, dove il ceto signorile abbonda, appare strano ed intollerabile quando lo si afferma anche per le località campestri, solo perché ivi del torinese si valgono alla meglio il farmacista, il medico e il segretario comunale. [. . .]» (Toppino 1902–1905, 518–519 nota 1).

7 Si noti che questo termine è ambiguo, poiché si sovrappone al significato amministrativo italiano di ‘regione’ (v. §2.5); è del tutto possibile che una koiné regionale non sia stata in uso o comunque non abbia influito linguisticamente sull’intero territorio di una regione amministrativa (proprio come accade nel caso del Piemonte).

1.2 La situazione piemontese 

 21

Lo stesso Toppino registra una torinesizzazione di alcune traduzioni della Novella del re di Cipri in Papanti (1875). Lo stesso si è riscontrato sicuramente per le traduzioni in Papanti (1875) di Desana, in provincia di Vercelli, in parte per Casale Monferrato e, curiosamente, per la traduzione della Parabola del figliol prodigo di Suno in provincia di Novara contenuta in Rusconi 1878 (Ferrarotti 2018). In realtà, l’adozione di queste varietà da parte di alcuni individui in molti casi non ha lasciato una traccia sulle varietà parlate dalla maggioranza della popolazione. In ogni caso, un obiettivo di questo lavoro sarà proprio di rilevare quali tratti il torinese sia riuscito a trasmettere e con quale estensione.

1.2.3 Aspetti di diacronia del piemontese Alla luce di quanto è emerso nei paragrafi precedenti, si seguiranno alcune norme generali per la ricerca di tipo diacronico sui dialetti piemontesi. Per quanto riguarda le attestazioni storiche, si tenderà a evitare un confronto con i testi dei Sermoni Subalpini (circa XIII sec.), per via della loro collocazione geografica e linguistica poco sicura (v. Villata 2013). Si è dato particolare peso a due testi, per motivi storici. Un importante riferimento è l’Opera Jocunda di Giovan Giorgio Alione (ed. Bottasso 1953; Villata 2007), pubblicata nel 1521: si tratta principalmente di testi teatrali scritti in astigiano (9 farse, 1 commedia, altre opere minori in prosa e in versi). Il suo valore storico linguistico è notevole, poiché si ha una rappresentazione di un dialetto piemontese di età rinascimentale di una città all’epoca molto grande, sicuramente non ancora influenzato dal torinese come l’astigiano contemporaneo. Altri testi molto rilevanti per l’analisi diacronica sono le Canzoni Torinesi edite da Clivio (1974) e pubblicate originariamente nella seconda metà del ’600. Sono una delle poche attestazioni (v. sopra) del dialetto di Torino prima del ’700: sicuramente non sono state rimaneggiate e normalizzate linguisticamente come altri testi seicenteschi (v. Regis 2011). La lingua in cui sono scritte è popolare, ed è sensibilmente diversa dal torinese del secolo successivo e della Pastorella semplice della fine dello stesso secolo. Altri testi saranno menzionati di volta in volta nei vari capitoli. Lo studio dello sviluppo diacronico dei dialetti piemontesi sarà utile anche per chiarire due casi di contatto linguistico su cui si è scritto molto: i lombardismi e i gallicismi. Nel caso del Piemonte orientale, si è spesso parlato di «influsso lombardo» (v. la classificazione di Berruto 1974), espressione che tuttavia non è mai stata precisata, in quanto non è chiaro che cosa si intenda con «lombardo», a quale periodo risalga il contatto linguistico, quali parti della lingua ne siano interessate. Più preciso, in questo senso, è l’influsso lombardo sul torinese postulato da Clivio (1976b; 1976c; 1978): lo studioso sostiene che a

22 

 1 Questioni generali

Torino si siano affermate forme di tipo milanese, soprattutto in base all’esito fonetico non piemontese di alcuni parossitoni: Clivio insiste particolarmente sui numerali da ‘undici’ a ‘sedici’, che sarebbero lombardi (per la questione v. §4.2.3), così come la parola per ‘fegato’. In ogni caso, il modello gravitazionale e le condizioni storico–culturali generali indicano che l’unica città in grado di diffondere tratti linguistici a distanze così grandi è, dal Medioevo, Milano (v. §2.1.2), per via del suo peso demografico, sempre molto rilevante, e per la sua preminenza politica e culturale. In questo studio, pertanto, si terrà in grande considerazione il ruolo di Milano come centro grande in grado di esercitare la sua influenza sulle città e le campagne, con la capacità di plasmare intere aree linguistiche (v. Lurati 1988). Un’altra questione aperta è quella relativa ai gallicismi, spesso definiti invariabilmente «francesismi» in piemontese (ad es. Gebhardt 1978; per una problematizzazione v. Regis 2019, 185–191). Si tratta, in effetti, di un’etichetta piuttosto generica, che sembra raccogliere parti di lessico entrate in piemontese in epoche diverse. Si hanno, in particolare in torinese, francesismi attribuibili al ruolo del francese come lingua di cultura, a partire dal ’700 (es. [minyˈzje] ‘falegname’ < menuisier) e molto numerosi nel torinese urbano (es [burˈzwa] ‘borghese’ < bourgeois): la loro origine è chiaramente indicata dalla loro veste fonetica, che presuppone un contatto con il francese contemporaneo (nel caso di bourgeois, si ha [burˈzwɛ] prima della fine del Settecento, in seguito solo [burˈzwa]). Altre parole definite francesismi, tuttavia, devono essere state adottate in tempi più antichi, sempre per via della fonetica, che non rimanda al francese contemporaneo, ma a quello di età moderna o addirittura precedente (v. ad es. §4.1.3). In questa categoria possono essere inclusi gli esempi di Clivio (1972; 1975), che rileva la presenza, ancora in età rinascimentale, del tipo appellare al posto del clamare odierno per ‘chiamare’, così come di prehendere al posto di piliare per ‘prendere’; un altro esempio sarebbe il tipo, oggi più diffuso, *tripaliare per ‘lavorare’ (es. tor. [travaˈje]). In questi casi è da indagare se si tratti di prestiti dal francese come lingua di cultura o da qualche varietà galloromanza centro–meridionale, al fine di comprendere se si tratti di francesismi in senso stretto o di più generiche concordanze tra galloitalico e galloromanzo, probabilmente di origine antica.

1.2.4 Le classificazioni del piemontese 1.2.4.1 La definizione di «piemontese» Il glottonimo «piemontese» è in un certo modo ambiguo, poiché esso non indica solo l’insieme delle varietà dialettali del Piemonte ma, almeno da Pipino (1783a;

1.2 La situazione piemontese 

 23

1783b) è usato anche col significato di ‘dialetto di Torino’ con una sineddoche pars pro toto per cui la varietà del centro egemone assume il nome della varietà regionale (v. Regis 2013a): non a caso, tutti i vocabolari e le grammatiche piemontesi descrivono in realtà il torinese. Questa ambiguità è spesso presente anche negli studi: di conseguenza, chi non è pienamente consapevole di questa sovrapposizione potrebbe confondere le due accezioni, e non è raro, in effetti, che caratteristiche del torinese siano attribuite a tutto il piemontese solo a causa di questa sovrapposizione terminologica. Si aggiunga, oltretutto, che anche «piemontese» nel senso di ‘insieme delle varietà dialettali del Piemonte’ è piuttosto insoddisfacente, poiché, lo spazio geografico occupato dal gruppo dialettale propriamente classificato come «piemontese» è più piccolo del territorio regionale (v. ad es. Figura 7 §1.2.4.4). Del resto anche la regione Piemonte è, in realtà, un concetto approssimativo, giacché col termine si può intendere, da una parte, quella definita dalla costituzione del 1948, nata artificialmente nell’800 come unione di province a fini statistici (v. oltre); dall’altra, il concetto storico di «Piemonte», che designava i domini dei Savoia: almeno fino al Rinascimento, questa fu l’accezione principale della parola, considerando che, ancora dopo la fine del Medioevo, tutta l’Italia settentrionale era chiamata Lombardia e i suoi abitanti si definivano lombardi (v. «Lega Lombarda»). Il concetto di Piemonte e di piemontese (la parola Pedemontium inizia a comparire intorno al XIII secolo) è inestricabilmente legato all’espansione dei domini dei Savoia nella Pianura Padana (Rosso 2003, 384). Il resto era, appunto, Lombardia: questa concezione è ancora ben visibile nelle Farse in dialetto astigiano di Giovan Giorgio Alione, dell’inizio del ’500: il personaggio Nicolao Spranga dell’omonima Farsa sostiene che el fa ancour sì bon vive an Ast / com a gnun leu de Lombardia (‘c’è ancora un così buon vivere ad Asti / come in nessun luogo di Lombardia’ (Farsa de Nicolao Spranga, vv. 43–44; v. Villata 2013, VI), così come in generale gli astigiani si identificano come «Lombardi».8 Del resto, ancora nel XVI secolo inoltrato, Stefano Guazzo (Casale o Trino 1530 – Pavia 1593), intellettuale legato a Casale Monferrato, allora parte del marchesato del Monferrato, nel secondo libro de La civil conversazione, dialogo incui si affrontano problemi legati alla questione della lingua, lascia intendere che al suo tempo i Monferrini si considerassero Lombardi e che, per di più, anche la loro lingua fosse conosciuta come lombarda: il Cavaliere afferma (Quondam 1993, 102 8 Il «Piemonte» è ancora visto come una terra estranea, come si può evincere in alcuni luoghi delle Farse: Et s’o gl’arriva forester de Pemont o de Lengadoc ‘se ci arriva un forestiero dal Piemonte o dalla Linguadoca’ (in contesto genovese, Farsa de Nicolao Spranga, vv. 62–63); Jan Peyrorer per soa bontà ven de Pemont [. . .] lì anver Biella ‘Ian Pentolaio, per sua bontà viene dal Piemonte [. . .] lì verso Biella’ (Farsa del Lanternero, vv. 96–97, 98).

24 

 1 Questioni generali

[2, 68]) che dal suo modo di parlare egli si farebbe «conoscere per lombardo», cioè italiano settentrionale, ma non si riuscirebbe a capire la sua origine precisa, cioè «questo membro di Lombardia chiamato il Monferrato».9 D’altronde il marchesato del Monferrato era orientato culturalmente verso Milano, Pavia e Genova (Rosso 2003, 399). Ancora nel Settecento ci sono tracce del fatto che chi scrive in dialetti del Piemonte orientale non identifica la propria varietà come «piemontese». Ad esempio in un Sonett Varsleis (‘sonetto vercellese’) del 1763 (Gasca Queirazza 2010c, 248, I vv. 1–4) si legge che l’autore del sonetto identifica il suo parlare come Varsleis ‘vercellese’ in contrapposizione ai Piumonteis (sic) e ai Milaneis. Si noti che il sonetto è scritto in un dialetto vercellese che non sembra mostrare segni di torinesizzazione (v. Ferrarotti 2018). Più o meno nello stesso periodo (contemporaneamente alla pubblicazione delle opere di Pipino), Giuseppe De Conti scrive una traduzione della Gerusalemme Liberata (e anche altri componimenti poetici, v. Gasca Queirazza 2010c) in lingua monferrina. Ancora all’inizio del XIX secolo, vi è una consapevolezza della distinzione tra il Piemonte per così dire «atavico» e quello acquisito nei secoli dai Savoia: la famosa definizione Lombardia Sabauda per le quattro province del Basso Piemonte usata da Carlo Denina nella Istoria della Italia occidentale è emblematica (Cini/Regis 2014, 219). All’evoluzione del termine «Piemonte» in termini storico-culturali bisogna, infine, sovrapporre l’accezione amministrativa attuale, che è nata fondamentalmente come unione a fini statistici delle allora province di Torino, Cuneo, Alessandria e Novara (istituite col decreto Rattazzi del 1860, v. oltre, §1.2.5; oggi le quattro già menzionate, da cui sono state scorporate Vercelli, Biella, Asti e Verbano-Cusio-Ossola) in Maestri (1868) e soprattutto Pozzi (1870). Queste regioni statistiche diventarono politiche con la ripartizione in regioni della costituzione del 1948, attuata nel 1970.

9 Nello stesso dialogo, peraltro si menzionano ibridismi toscano-monferrini – che oggi forse diremmo «piemontesismi» – come parole «lombarde» (v. Marazzini 1984, 58–60; Quondam 1993, 101 [2, 67]), in contrapposizione a quelle italiane: moizo, feia, sgroglia vs matto, pecora; guscio; barba, tempesta e verzi vs zio, grandine, cavoli; pari, mari, incrosto, pareiso, voi dite padre, madre, inchiostro, paradiso ecc. Si noti che moizo, feia, sgroglia sono rispettivamente [mɔi̯s] ‘matto’ (ancora presente in qualche centro del Monferrato e in Valsesia, v. AIS 723, moicz in Alione), [ˈfeja] ‘pecora’ (oggi soprattutto astigiano e alto monferrino) e [ˈzgrøja] ‘guscio’ (forma tipicamente basso-vercellese e monferrina, v. AIS 1133). Verzi ‘cavoli’, pari ‘padre’ e mari ‘madre’ rimandano chiaramente al monferrino [ˈvɛrzi], [ˈpari] e [ˈmari], anche per il vocalismo finale in -[i]. Interessante anche la forma pareiso, che è l’esito atteso di paradisu ed è attestato nell’Alione (pareys, Farsa de Nicola et Sibrina, v. 416).

1.2 La situazione piemontese 

 25

1.2.4.2 Classificazioni generali Per quanto possa sembrare paradossale, i dialetti piemontesi non sono mai stati definiti univocamente su base linguistica. Nelle varie classificazioni del piemontese, infatti, a criteri linguistici (peraltro applicabili con difficoltà a tutta l’area piemontese) sono stati associati criteri storico-geografici e, talvolta, amministrativi. Si può osservare brevemente come gli studi più importanti che si sono occupati di definire il piemontese su base linguistica, insieme alle altre varietà dialettali galloitaliche, non sono poi molti (v. un riassunto in Tabella 5 oltre). Il primo è sicuramente Biondelli 1853 (e poi 1856), in cui si traccia un profilo linguistico dei dialetti galloitalici: la classificazione di Biondelli, che sotto molti aspetti è obsoleta, considera comunque tipici del gruppo pedemontano (suddiviso in canavesano, piemontese e monferrino), oltre alla presenza dei suoni [y] e [ø] e alla caduta delle vocali atone diverse da -a comuni anche ad altri gruppi, il passaggio di -are a -/ˈe/ negli infiniti della I coniugazione (palatalizzazione in [purˈte] ‘portare’) e la sincope delle vocali protoniche (es. [bzɔɲ] ‘bisogno’, v. Biondelli 1853, XLVIII–XLIX). La classificazione di Ascoli (1882–1885) aggiunge alcuni tratti a questi: – il dittongamento di ē ed ĭ tonici (> [e]) in sillaba aperta es. bĭbere > [ˈbɛi v̯ e] ‘bere’ (Ascoli 1882–1885, 104), anche ligure ed emiliano; – la presenza di una nasale velare [ŋ] da -n- in posizione intervocalica es. [ˈlaŋa] ‘lana’ (Ascoli 1882–1885, 105–106), anche ligure; – il dileguo di /d/ da -t- e -d- es. ridere > [ˈrie] ‘ridere’ (Ascoli 1882–1885, 106), anche ligure e parzialmente lombardo; – la presenza di clitici soggetto (Ascoli 1882–1885, 107), tipica di tutti i dialetti galloitalici; – i cosiddetti tratti «gallici», che Ascoli riteneva un influsso del sostrato celtico, cioè l’esito [i t̯ ] di -ct- es. factu > [ˈfai t̯ ] ‘fatto’ (che in lombardo passa a [t͡ʃ], [fat͡ʃ]), presente in piemontese, lombardo e ligure, e la a riduzione a [j] di -ces. manica > [ˈmanja] ‘manica’(Ascoli 1882–1885, 106), presente solo in piemontese (si noti che solo quest’ultimo tratto è considerato esclusivamente piemontese da Ascoli, mentre tutti gli altri sono in comune con uno o più gruppi, v. Tabella 5 oltre). La descrizione di Bertoni (1916), che contiene un lungo elenco di tratti linguistici riscontrabili nei dialetti italiani, è stata piuttosto influente sugli studi successivi. Bertoni attribuisce al piemontese gli stessi tratti attribuitigli da Ascoli, con tre aggiunte: – La riduzione a -/u/ di diversi suffissi latini, ricondotti a «-ẹn e -ul di fase anteriore» (Bertoni 1916, 75–76), cioè -ĭnu, -ĭne, -ănu, -ŭlu, es. asinu > *asen > [ˈazu] ‘asino’, incugine > *incugen > [aŋˈkyzu] etc.

26  – –

 1 Questioni generali

Il passaggio da -cl- all’interno di parola a [j], definito «francese e provenzale» es. auric(u)la > [uˈrija] (Bertoni 1916, 97); La velarizzazione di l dopo vocale e «davanti a dentale» (in realtà coronale), es. cal(i)du > [kau̯d] (Bertoni 1916, 91).

Di questi tratti, solo i primi due sono considerati esclusivamente piemontesi. I profili linguistici di Merlo (1936) e Bertoni (1940) non aggiungono tratti significativi ma, al contrario, sembrano consolidare l’insieme di tratti elencati fino ad ora, attribuendoli direttamente al piemontese. Solo Bertoni (1940) ritiene un tratto presente in Piemonte (ma non caratteristico del piemontese) la desinenza -[ˈuma] per la 1pl dei verbi. Le classificazioni successive non alterano fondamentalmente questo quadro, se non per alcuni dettagli. Ad esempio in Telmon (1988), assume molta rilevanza anche -[ˈuma], che è considerato un tratto fortemente caratteristico del piemontese (Telmon 1988, 473–474); oppure, in Loporcaro (2013, 96–99) viene aggiunta la palatalizzazione di -ariu e non solo di -are, e alcuni tratti sintattici, come l’enclisi del clitico pronominale al participio [a la ˈdavne dui ]̯ ‘ve ne ha date due’ (del torinese e di buona parte del piemontese, tratto già descritto in Telmon 1988, 476) e la posizione postverbale della negazione (come in lombardo). Si può quindi concludere che la classificazione nel suo complesso è frutto di una stratificazione, generata per accumulazione sulla base di studi di epoche diverse, come è possibile osservare in Tabella 5. Tabella 5: Tratti caratteristici del piemontese nelle varie classificazioni. LI = ligure, LO = lombardo, EM = emiliano.  

Biondelli 1853; 1856

Ascoli 1882/ 1885

Bertoni 1916

Merlo 1936

Bertoni 1940

Telmon 1988

Loporcaro 2013

1. -are > -/ˈe/

+

+

+

+

+

+

+ (–ariu)

2. Sincope voc. protoniche (con EM)

+

+

+





+

+

3. -ct- > [i t̯ ]

(+)*

(+)

(+)



(+)

+

(+)

4. -c- > [j]



+

+

+

+

+

+

5. -[ŋ]- (con LI)



+

+



+

+



6. Dittongazione di ē ed ĭ in sill. aperta (con LI, EM)



+

+



+

+



1.2 La situazione piemontese 

 27

Tabella 5 (continuata)  

Biondelli 1853; 1856

Ascoli 1882/ 1885

Bertoni 1916

Merlo 1936

Bertoni 1940

Telmon 1988

Loporcaro 2013

7. Dileguo di -t-, -d- (con LI, a volte LO)



+

+



+

+

+

8. -[u] (< *en, *ul)





+

+

+

+

+

9. al > [au̯] (con LI, parte di LO)





+









10. -cl- > [j]





+



+

+



11. -[ˈuma]









+

+

+

*Si segna tra parentesi quando non è ritenuto un tratto caratterizzante dell’intera area, ma solo ricondottovi genericamente; solo in Telmon (1988) -ct- > [i t̯ ] è considerato tipicamente piemontese.

Nella letteratura, pertanto, sono stati considerati tipici del piemontese i seguenti tratti, che verranno analizzati criticamente in questo lavoro (si riporta come riferimento il capitolo in cui ognuno di essi è trattato): 1. palatalizzazione di a tonica in /e/ (par(abo)lare > [parˈle]) negli infiniti in -are e in alcuni casi anche in -ariu (macellariu > [maˈzle], §1.1.1; 2. sincope delle vocali protoniche, §1.1.4; 3. -ct- > [i t̯ ] (> [t͡ʃ] in alcune varietà), §1.2.5; 4. lenizione di -c- in [j], §2.2.2; 5. presenza della nasale velare [ŋ] in posizione intervocalica, §1.2.1; 6. dittongazione di Ē ed Ĭ in sill. aperta, §1.1.3; 7. dileguo di /d/ da -t- e -d-, §2.2.6; 8. riduzione a -/u/ di diversi suffissi latini, §1.1.2; 9. velarizzazione di l dopo vocale e «davanti a dentale», §2.2.3; 10. passaggio da -cl- all’interno di parola a [j], §2.2.4; 11. presenza della desinenza -[ˈuma] per la 1pl dell’ind. pres., §3.4.9.1. 1.2.4.3 Il confine orientale del piemontese nelle classificazioni Può essere utile, prima di esaminare le suddivisioni interne al piemontese, verificare con quali criteri siano stati definiti i confini orientali del piemontese nelle varie classificazioni. La classificazione di Biondelli (1853), per quanto superata, contiene un confine geografico ancora ritenuto valido dalle classificazioni successive, ovvero il fiume Sesia, che divide il piemontese (pedemontano in Biondelli) dal lombardo (Biondelli 1853, XLVII–XLVIII, 4–5)

28 

 1 Questioni generali

Il Sesia come spartiacque linguistico riappare in Merlo (1936, 271–272), che compie alcune precisazioni di tipo areale piuttosto rilevanti. Egli afferma, sicuramente sulla base di Spoerri (1918, 747–748), che il valsesiano è piemontese (per la questione, v. §1.2.4.5). Attribuisce al piemontese anche il pavese antico, in qualche modo forzando l’interpretazione di Salvioni (1902), che osserva la presenza di tratti di tipo piemontese nei testi pavesi antichi. Questa visione è confermata in Merlo (1960, 4, v. Loporcaro 2013, 99–100) e prevarrà in tutti gli studi successivi; determinanti per l’affermarsi di questa concezione saranno Berruto (1974, 47) e Massariello Merzagora (1988), che nei loro profili delle regioni considereranno il Sesia come il confine linguistico tra piemontese e lombardo. 1.2.4.4 Le sottoclassificazioni del piemontese Biondelli (1853) divide il pedemontano in tre gruppi: piemontese, canavese e monferrino, con diverse suddivisioni interne.10 Lo studioso certamente coglie diversi tratti importanti della variazione all’interno dell’area linguistica pedemontana: osserva che il monferrino e il canavese divergono dal piemontese per quanto riguarda la desinenza dell’infinito: i primi due hanno -à ed -ar, mentre il secondo ha -è (Biondelli 1853, 475); tuttavia, questo tratto confligge con la classificazione generale del pedemontano, di cui sarebbe caratteristico l’infinito in -è rispetto agli altri dialetti galloitalici. Il monferrino, inoltre, tende ad avere -č [t͡ʃ] in luogo di -tt -[t] nei participi e la tendenza delle ü [y] a diventare i [i]. Tipico del gruppo piemontese è il «pleonasmo» del pronome sul participio, es. chiel n’a faine per ‘egli ne ha fatto’ (Biondelli 1853, 476). Un ultimo tratto molto rilevante per Biondelli è «l’uscita dei futuri» (che in pratica corrisponde alla 1sg dell’ind. pres. del verbo avere): -ö [ø] per il piemontese, -ù [u] per il canavese, -ò [ɔ] per il monferrino (Biondelli 1853, 477; per altri tratti locali, v. Biondelli 1853, 478–505). La classificazione di Biondelli, tuttavia, è sbilanciata e viziata dal campione eterogeneo di varietà dialettali di cui disponeva l’autore e non si basa solo su criteri linguistici, ma anche geografici (i confini tra i vari gruppi sono basati sui fiumi Orco, Po, Sesia e le Alpi; v. Biondelli 1853, 471–472). Ad esempio, sovraestende i tratti del gruppo canavesano, addirittura includendovi i dialetti di Andorno Micca nel Biellese e di Vercelli (!). La classificazione interna di Biondelli non è più stata ripresa, per via del suo scollamento dalla realtà linguistica.

10 In particolare il piemontese è suddiviso tra i pianigiani (Torinese, Astigiano, Fossanese, Valdese e Lanzese) e gli alpigiani-occitanici (v. Telmon 1988 per una schematizzazione).

1.2 La situazione piemontese 

 29

Una suddivisione del piemontese di maggior successo è quella proposta da Flechia (1896–1898, 111), poi ripresa da Bertoni (1916; v. Cini/Regis 2014, 217–218), che suddivide il piemontese in alto e basso. Questa ripartizione separa il piemontese in due aree in base al vocalismo atono del suffisso della classe flessiva dei nomi femminili in -a e della 2sg dei verbi: una parte occidentale (alto-piemontese, Torino e Cuneo) avrebbe -[e], mentre una orientale (basso-piemontese Alessandria, Novara)11 avrebbe -[i]: [ˈskarpe], [ˈspale], [t ˈpɔrte] / [ˈskarpi], [ˈspali], [t ˈpɔrti] ‘scarpe’, ‘spalle’ ‘(tu) porti’. La stessa ripartizione è ripresa da Merlo (1936, 271) e Bertoni (1940), con qualche cambiamento e qualche precisazione (ad esempio riducendo il tratto classificatorio al solo femminile plurale, v. Cini/Regis 2014, 217). Tale distinzione, basata su un unico tratto e su ripartizione areale piuttosto impressionistica, è stata l’unica suddivisione del piemontese adottata nella Carta dei dialetti d’Italia (Pellegrini 1977; v. Cini/Regis 2014, 220–221), che fondamentalmente separa le province di Torino e Cuneo dal resto del Piemonte. Sono state poi proposte delle suddivisioni in varietà locali del piemontese, su base locale. Molti aree sono caratterizzate già in Terracini (1957, 208–210), ma la prima e più determinante classificazione è quella di Berruto (1974, 12–13), che suddivide il piemontese in diversi sottogruppi (non si riportano le varietà provenzali e francoprovenzali):

A) B)

piemontese ( = torinese); varietà del piemontese: Ba) canavese, Bb) biellese [include il valsesiano] Bc) langarolo-monferrino, 12 Bd) alto-piemontese

[. . .] E) zone intermedie: Ea) vercellese (piemontese+lombardo), Eb) alessandrino (piemontese+ lombardo +emiliano+ ligure), Ec) fascia meridionale del Piemonte (piemontese+ ligure); F) zone non-piemontesi: Fa) novarese e Ossola (lombardo), [. . .] 11 Qui si riporta Novara come nella versione originale di Flechia (1896–1898). Bertoni (1916) riporta curiosamente Novi (in provincia di Alessandria), che è un centro di parlata ligure–genovese, la cui parlata non ha -i atone ma -e atone nei femminili plurali, come il genovese. È del tutto probabile che si tratti di un refuso di Bertoni lettore di Flechia: si può immaginare che Novara sia stata abbreviata Nov. in un appunto manoscritto e quindi erroneamente trasformata in Novi. Le classificazioni successive non riportano questo errore (ad esempio Merlo 1936 e Bertoni 1940 sostituiscono «Novi» con «Vercelli»). 12 La definizione di «alto-piemontese», ristretta rispetto a quella di Bertoni e Merlo, in Berruto non ha un corrispondente «basso-piemontese».

30 

 1 Questioni generali

Questa classificazione, ancora ampiamente in uso, è stata integrata da Telmon (1988, 476), che propone di distinguere il langarolo dal monferrino. Se ne possono osservare determinate caratteristiche. Ad esempio, l’accezione di «alto piemontese» di Berruto, che sarà adottata in questo studio, è diversa da quella di Bertoni, Merlo e Pellegrini: la prima indica «le parlate della pianura pedemontana a Sud di Torino, confinanti lungo le vallate alpine con le parlate gallo-romanze, ed aventi caratteri comuni sia col torinese che con il canavesano che soprattutto con la limitrofa varietà langarola. Si tratta insomma di un piemontese che potremmo definire ‘rustico’, con arcaismi e relitti probabilmente anche provenzali e con aree di diffusione dei fenomeni mal delimitabili» (Berruto 1974, 34).

mentre la seconda indica le varietà piemontesi occidentali tout court. In generale, il raggruppamento in aree sembra basato più su criteri storico-geografici e geografico-amministrativi e solo parzialmente su fatti linguistici: per ogni varietà sono forniti alcuni tratti, che tuttavia non sembrano essere inseriti in un’ottica classificatoria sistematica, quanto più semplicemente descrittiva delle singole sottovarietà. Oltre a ciò, alcune definizioni possono essere fuorvianti: il langarolo-monferrino, nella definizione di Berruto, non sembra comprendere tutta la regione storica del Monferrato, quanto più le Langhe e il Monferrato astigiano (il resto del Monferrato va ricompreso nell’alessandrino, Berruto 1974, 31); il biellese, inoltre, comprende anche il valsesiano (Berruto 1974, 28). L’aspetto linguistico delle «zone intermedie» è reso mediante l’intersezione con altri gruppi linguistici del galloitalico. Questo fatto e in generale tutta l’impostazione della classificazione mostrano che essa è basata in larga parte sulla somiglianza al torinese delle diverse varietà locali. In Telmon (2001, 55–79) è presente la più ampia descrizione di varietà locali del piemontese. Lo studioso elenca diverse varietà: – Il torinese/piemontese, parlato a Torino e in alcuni centri «pressoché integralmente torinesizzati», cioè Ivrea, Lanzo, Susa, Pinerolo, Dronero, Cuneo; – L’alto piemontese e le varietà peritorinesi e pedemontane rustiche, sulla collina torinese, intorno a Torino dal Canavese a Fossano; – I dialetti monferrini (a est delle colline torinesi e a sud del Po); – I dialetti alessandrini; – I dialetti langaroli; – I dialetti canavesani; – I dialetti biellesi; – I dialetti vercellesi; – I dialetti valsesiani.

1.2 La situazione piemontese 

 31

Per ogni varietà sono citati uno o più tratti linguistici tipici di essa, che spesso coincidono con quelli di Terracini (1957). Le suddivisioni di Berruto e Telmon, tuttavia, non hanno un fine classificatorio su base linguistica, per cui le varietà non sono messe in opposizione le une alle altre per mezzo di tratti linguistici, ma solo descritte in base a essi. Le aree in cui è suddiviso il piemontese, infatti, sono di tipo storico-culturale. Sarebbe piuttosto complesso riassumere tutti i tratti elencati nei due profili per le varietà locali;13 si terranno comunque presenti nella trattazione dei singoli tratti linguistici. In conclusione, si può osservare che le classificazioni delle varietà locali del piemontese sono basate solo parzialmente su fatti linguistici: in gran parte esse sono state raggruppate in base a zone storico-culturali e ai confini amministrativi. Una classificazione più articolata, in particolare per quanto riguarda il Piemonte occidentale è fornita da Duberti (2016), che introduce alcune interessanti ripartizioni del piemontese occidentale, ma non include innovazioni significative per il piemontese orientale, se non l’introduzione della Lomellina come area di transizione. Come si potrà vedere, è una questione molto rilevante. A queste sotto-classificazioni si può aggiungere la classificazione locale dei dialetti della provincia di Alessandria presente in Garuzzo (2011, 403–407), che ha l’obiettivo di delimitare le varietà «piemontesi» (cioè di tipo alessandrino o alto-basso monferrino) da quelle lombarde (di tipo tortonese) e da quelle di tipo ligure (genovese dell’Oltregiogo) sulla base di alcuni tratti linguistici. Il piemontese dell’alessandrino si contrappone al lombardo-emiliano poiché il primo ha la desinenza del femminile plurale dei nomi in -a e della 2sg dell’ind. pres. dei verbi in -[i]/-[e] ([ˈdɔni], [ˈdɔne] ‘donne’ [at ˈmand͡ʒi] / [at ˈmand͡ʒe] ‘(tu) mangi’), mentre il secondo ha desinenze zero ([dɔn] ‘donne’, [t mand͡ʒ] ‘mangi’); si contrappone invece al ligure per la caduta di -[u] finale, conservata, appunto, dai dialetti di tipo genovese ([gat] vs. [ˈgatu] ‘gatto’). Il risultato è una linea tracciata dai fiumi Po, Tanaro, Bormida e Orba, che suddivide in tre parti la provincia. Dei comuni di Alessandria e Bosco Marengo solo alcune parti sono piemontesi, altre lombarde (in particolare le frazioni più orientali). Garuzzo precisa anche la distinzione tra alto e basso monferrino: il primo ha l’uscita dell’infinito in -[ˈe] e presenta /a/ velarizzato in [ɒ]; del secondo è tipico l’infinito in -[ˈa]. Infine, Garuzzo propone anche una suddivisione tra «piemontese occidentale» e «piemontese orientale» (Tabella 6). 13 Anche per via delle numerose sovrapposizioni di tratti tra le diverse varietà, nonché per la diversa delimitazione delle varietà a seconda del profilo. A volte, un tratto tipico di un’area più ampia può essere considerato tipico di un’area più piccola in essa compresa (es. in Telmon 2001 i femminili in -[i] sono considerati tipici dei dialetti piemontesi orientali, ma anche di parte dell’alto piemontese e dei dialetti vercellesi).

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 1 Questioni generali

Figura 7: Il piemontese dalle classificazioni di Berruto 1974, Telmon 1988 (v. anche Loporcaro 2013, 97). In rosso i confini linguistici e le aree linguistiche, in blu le sottoclassificazioni. In grigio chiaro i confini provinciali e le sigle delle province, in grigio scuro i confini regionali e nazionali.

Questa classificazione, anche se poco nota, coglie alcuni aspetti molto importanti della variazione nei dialetti piemontesi e pertanto sarà tenuta in considerazione. 1.2.4.5 Due casi particolari: la Valsesia e la Lomellina Come si è visto in precedenza, Merlo (1936; 1960) è stato determinante nel consolidare la visione secondo cui il Sesia è il confine linguistico tra piemontese e lombardo e la Valsesia è linguisticamente piemontese. Su quest’ultimo punto, è probabile che la pubblicazione di Spoerri (1918) sia stata decisiva per questa

1.2 La situazione piemontese 

 33

Tabella 6: Tratti classificatori di Garuzzo (2011). piemontese occidentale

piemontese orientale

-ct-, -cl- (nocte ‘notte’, veclu < vetulu ‘vecchio’)

-[it], -[i] [nøi t̯ ], [vei ]̯

[t͡ʃ], [t͡ʃ]/[d͡ʒ]: [nøt͡ʃ]]/[nɔt͡ʃ], [vɛt͡ʃ]/[vɛd͡ʒ]

habeo (1sg di ‘avere’)

[ai ]̯

[ø], [ɔ], [u]

habes (2sg di ‘avere’)

[as]

[a(i)], [ɛ]

canto (1sg ind. pres)

-[u] [ˈkantu] ‘(io) canto’

-Ø [kant] ‘(io) canto’

art det. f. pl.

[le]

[əl]

attribuzione.14 Tuttavia, è utile rileggere quanto lo studioso afferma nel suo lavoro, poiché l’attribuzione tout court della Valsesia al gruppo piemontese è fuorviante. Nelle conclusioni, infatti, vi è una lunga riflessione di tipo storico e linguistico (basata su decine di tratti, più o meno pertinenti) sulla posizione della Valsesia tra piemontese e lombardo. Si tenga presente che lo studio di Spoerri è la monografia più completa mai scritta sulle varietà valsesiane nel loro complesso, realizzata a inizio XX secolo con diversi informatori arcaizzanti di ogni zona della Valsesia, che prende in esame moltissimi aspetti fonetici e morfologici (mentre non affronta direttamente la sintassi e il lessico; ciò tuttavia non ne pregiudica la qualità). Se si rileggono le conclusioni di Spoerri sul valsesiano nella loro interezza, si può osservare che esse non sono compatibili con un piemontese che finisce al Sesia: «Nell’estensione dei differenti fenomeni linguistici [. . .] costatiamo il progredire di questa invasione [del lombardo] nell’Ossola, nel Novarese e lungo il Po, sopratutto nelle grandi città: Novara, Casale, Alessandria. Il valsesiano però è di pretta base piemontese. In tutti i fenomeni che staccano decisamente il piemontese dal lombardo, il valsesiano si accosta al piemontese. Le poche connivenze del valsesiano col lombardo si spiegano in parte come fasi arcaiche, che si avvicinano come tali al lombardo, che è da principio più arcaico di fronte al piemontese. La speciale affinità del valsesiano coll’ossolano-novarese ci rammenta l’evoluzione storica di queste contrade. [. . .] Se possiamo forse attribuire tal connivenza del valsesiano col lombardo al tempo della dominazione milanese, dall’altra parte

14 Si noti come definiva Bertoni (1916, 76) il valsesiano, prima della pubblicazione di Spoerri (1918): «questo tratto si rinviene anche nel dialetto valsesiano, il quale è di tipo per più rispetti piemontese, ma dimezza per vari fenomeni fra piemontese e lombardo, pur avendo caratteri propri, come la conservazione -u: gumbiu ‘gomito’ orbu, neigru, ecc.)». In Bertoni (1940, 51) l’attribuzione al piemontese è più sicura, probabilmente a causa di Spoerri: «Il tipo dialettale della Valsesia tramezza fra il piemontese e il lombardo, ma si può ascrivere piuttosto al sistema piemontese per lo sviluppo di -are in -ée, di é in ei, delle desinenze _́inu, _́ anu, _́ ulu, in u e per la caduta di -d- intervocalico, tutti fenomeni illustrati qui sopra».

34 

 1 Questioni generali

le numerose attinenze coll’Ossola e col Novarese ci fanno pensare alla già antica unione di questi paesi sotto la tutela del Vescovo di Novara. Così possiamo parlare d’un dialetto novarese in senso più largo, che sarebbe da staccare dal lombardo comune e da mettere in rapporto col monferrino e tutta la regione centrale che ha serbato un carattere più originale e rurale di fronte ai dialetti civili di Torino e di Milano. Dentro i limiti di questo dialetto novarese, il valsesiano si determina come più conservativo [. . .]. Non c’è una sola caratteristica che mostri una particolare evoluzione. Nella povertà della valle, nella già antica ed estesa emigrazione, insomma nella mancanza di vita collettiva scorgiamo la causa di questa stagnazione linguistica, e la posizione isolata sarà cagione dell’aver serbato quasi intatto il patrimonio dialettale: Il valsesiano quindi è un dialetto novarese-piemontese di carattere arcaico» (Spoerri 1918, 747–748; grassetto originale).

Per Spoerri, pertanto, il valsesiano è legato sia culturalmente sia linguisticamente all’Ossola e soprattutto al Novarese, rendendo quindi incompatibile un’inclusione del valsesiano nel piemontese e un confine piemontese-lombardo sul Sesia. D’altronde, questo profondo legame tra Novarese e Valsesia era già presente nella raccolta di Rusconi (1878) I dialetti del Novarese e della Lomellina, in cui la Valsesia era inclusa e considerata parte del Novarese (v. anche le vicende storiche della Valsesia, §1.2.5). Più in generale, si ha il sospetto che l’inclusione odierna del valsesiano nel piemontese e del novarese nel lombardo (al netto di questioni linguistiche) sia anche dovuta alla geografia amministrativa, poiché la Valsesia si trova in provincia di Vercelli,15 che è stata creata nel 1927 scorporata da quella di Novara. Si tratterebbe quindi di un appiattimento dei confini linguistici su quelli provinciali. Anche nel caso della Lomellina si ha il sospetto che l’attribuzione alla provincia di Pavia (col decreto Rattazzi del 1859) e la conseguente attribuzione alla regione Lombardia abbia in qualche modo influenzato la classificazione del dialetto locale. Un lavoro che può aver contribuito alla caratterizzazione del Lomellino come dialetto lombardo è l’opuscoletto di Rossi Casè (1914), in cui si accostano dieci tratti linguistici16 (alcuni peraltro formulati in maniera imprecisa) del dialetto lomellino al piemontese (torinese) per dimostrare la sua estraneità.17 15 Si noti che, come osserva Spoerri, la Valsesia politicamente ha sempre avuto legami importanti con Novara (della cui diocesi continua a far parte ancora oggi); sono stati meno significativi, al contrario, i rapporti con Vercelli. 16 I palatalizzazione di -are; II velarizzazione di al; III esito di ariu-; IV dittongamento di ē, ĭ tonici; V esito di -oriu, -oria; VI conservazione di -e dei femminili plurali; VII esito di ct; VIII esito di cl; IX esito di li + vocale; X esito di -ant -ent -unt. 17 Rossi Casè ha buon gioco a dimostrare le sue tesi, pur linguisticamente fondate, con una comparazione di questo tipo. Tuttavia, basterebbe la comparazione con un dialetto piemontese orientale per dimezzare la differenza rispetto al torinese.

1.2 La situazione piemontese 

 35

1.2.5 Cenni di storia del Piemonte 1.2.5.1 Assetto politico-amministrativo del passato Nella convinzione che gli attuali confini amministrativi siano poco indicativi dell’assetto linguistico effettivo sottostante, ma che i processi storici che hanno portato alla loro formazione siano di grande rilevanza per interpretare la varietà linguistica, si darà qualche cenno della storia politico-amministrativa del Piemonte, con particolare riferimento all’evoluzione degli stati preunitari. I dati riportati provengono da Barbero (2008). Il territorio del Piemonte, a partire dall’età augustea, era compreso solo in parte nell’Italia ed era diviso in due regioni: IX Liguria, che comprendeva tutti i territori a sud del Po dalle valli alpine (escluse) fino al Trebbia, a sud si spingeva fino al mar Ligure; XI Transpadana, che si estendeva a nord del Po dalle valli alpine fino all’Oglio. Le valli alpine meridionali facevano parte della provincia delle Alpes Maritimae, così come la Valsusa delle Alpes Cottiae. Con la riforma dioclezianea del III secolo, la regione IX fu unita alle Alpi Cozie; la regione XI fu unita alla VII (Aemilia) e rinominata Liguria (e in seguito divisa nuovamente). Con la dominazione longobarda, si passò a un’amministrazione basata sui ducati, su cui spesso si hanno notizie frammentarie: si possono ricordare i ducati di Torino, Ivrea, Asti, Pavia, Milano, Genova. Intorno all’anno 1000 il territorio è diviso in quattro marche, tradizionalmente nominate in base al marchese fondatore: Arduinica (Torino, Piemonte occidentale, Liguria occidentale), Anscarica (gran parte della Lombardia attuale, Ivrea, Piemonte settentrionale), Aleramica (lungo il corso del Po, futuri territori del Marchesato del Monferrato, con estensione fino a Savona), obertenga (Alessandrino, Liguria occidentale, Emilia occidentale). Si noti che da questo periodo fino almeno all’età rinascimentale tutta l’Italia settentrionale, a eccezione delle valli alpine occidentali, è denominata Lombardia. Con l’età dei comuni (i più rilevanti nell’area furono Alba, Asti, Chieri, Ivrea, Mondovì, Novara, Torino, Tortona, Savigliano, Vercelli e Vigevano) e soprattutto delle signorie, si osserva la nascita e l’espansione di nuove entità politiche, che saranno determinanti per la diffusione di nuove varietà linguistiche. Esse sono soprattutto lo stato di Milano, i domini dei Savoia, il Marchesato del Monferrato. L’espansione, a opera dei Visconti, portò lo stato di Milano a includere, nel corso del ’300 e del ’400, ampie porzioni del territorio, tra cui il Novarese e l’Ossola, la Valsesia, la Lomellina (parte del Pavese), il Vigevanasco, l’Oltrepò Pavese, il Vercellese (con il Biellese), il Tortonese, Asti, Cuneo. Nel corso del ’400, tuttavia, perse diverse aree (la città di Vercelli nel 1427, ceduta ai Savoia): rimasero milanesi il Novarese, l’Ossola, il Verbano, la Valsesia, la Lomellina, il Vigevanasco, l’Alessandrino e il Tortonese fino al ’700. Il dominio del Ducato passò agli Sforza, quindi a fasi alterne alla Francia, infine alla Spagna e all’Austria.

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 1 Questioni generali

Il Marchesato del Monferrato ebbe origine dalla marca Aleramica, in particolare nell’area lungo il corso del Po, dal Canavese fino alla confluenza col Sesia nei pressi di Casale Monferrato (Basso Monferrato). Nel ’300 acquisì i territori non direttamente confinanti di Acqui Terme (Alto Monferrato) e Alba. Inizialmente governato dagli Aleramici, passò in seguito ai Paleologi e quindi fu incorporato nei domini dei mantovani Gonzaga. A partire dal ’600, fu gradualmente inglobato nei domini dei Savoia. Le origini dei domini sabaudi si possono rintracciare nella contea di Savoia, sorta intorno al 1000, in una zona compresa tra il lago di Ginevra e le alpi piemontesi, allora parte del regno di Borgogna. Nel 1046 i Savoia acquisirono la Marca di Torino (arduinica), nel corso del ’200 Pinerolo e Chambéry, che divenne la capitale dello stato. Nel corso del ’300 il ducato acquisì la contea di Nizza, la marca di Ivrea e Biella; nel 1416 la Contea divenne Ducato grazie all’imperatore Sigismondo. A inizio ’400 fu incorporata buona parte del vercellese e nel 1427 Vercelli (tolta agli Sforza); nel 1531 fu la volta di Asti. Nel corso del XVI secolo il Ducato fu invaso ripetutamente dalla Francia. Nel 1558 Emanuele Filiberto tornò in possesso dei suoi possedimenti e nel 1563 Torino diventò la nuova capitale, riorientando verso l’Italia il baricentro politico del Ducato (l’italiano fu reso lingua ufficiale con il celebre Editto di Rivoli). Da questo momento iniziò un’aggressiva politica di espansione (v. Figura 8): nel 1588 venne annesso il Marchesato di Saluzzo, nel 1631 Trino e Alba allora parte del Marchesato del Monferrato. Col trattato di Utrecht del 1713 fu annesso il resto del Marchesato, con la Lomellina (ma non il Vigevanasco), la Valsesia e l’Alessandrino dal Ducato di Milano. Il ducato divenne Regno nel 1720 (inizialmente di Sicilia, quindi di Sardegna): le ultime acquisizioni furono il Novarese e il Tortonese nel 1738 (trattato di Vienna), il Verbano, il Cusio, l’Ossola, l’Oltrepò Pavese e il Vigevanasco nel 1748 (Trattato di Aquisgrana). Con la Restaurazione il Regno si arricchì dei territori dell’ex Repubblica di Genova. Un passo fondamentale per l’assetto amministrativo attuale è il decreto Rattazzi del 1859, in seguito alla conquista della Lombardia nella prima Guerra d’indipendenza. Le divisioni e le province dell’ordinamento amministrativo precedente, che fondamentalmente riprendevano gli antichi confini statali e locali, vengono rivisti: le divisioni vengono rinominate province e in certi casi vengono cambiati alcuni confini. I mutamenti più significativi, nel territorio piemontese, sono l’incorporazione di una buona parte di territorio dell’ex Repubblica di Genova (Oltregiogo) nella provincia di Alessandria, e l’attribuzione della Lomellina (inclusa Vigevano) e dell’Oltrepò Pavese (precedentemente sotto Novara) alla provincia di Pavia (Figura 9). Ciò causerà l’inclusione della Lomellina in Lombardia e del Novarese nel Piemonte (v. §1.2.4.1 per la formazione delle regioni).

1.2 La situazione piemontese 

 37

Figura 8: L’espansione (approssimativa) dello stato sabaudo tra il 1418 e il 1748 entro i confini italiani attuali (elaborazione da Lane Poole 1902, Ferraris 2006).

Le altre province presenti oggi sono state scorporate nel corso del ’900: Vercelli da Novara (1927), Aosta da Torino (1927), Asti da Alessandria (1935), Biella da Vercelli (1992), Verbano-Cusio-Ossola da Novara (1992). 1.2.5.2 Le diocesi Le diocesi sono un tipo di suddivisione amministrativa piuttosto importante, soprattutto per il potere temporale che la Chiesa Cattolica ha esercitato a partire dalla fine dell’Impero Romano. Esse rappresentarono per molto tempo delle suddivisioni di tipo politico e sociale che possono aver influito sulla diffusione di varietà o di tratti linguistici già a partire dall’alto medioevo. Nella zona oggetto di studio sono presenti attualmente 16 diocesi e 4 arcidiocesi (Figura 10): – Arcidiocesi di Torino, da cui dipendono le diocesi suffraganee di Cuneo, Fossano, Asti, Alba, Pinerolo, Saluzzo, Susa, Aosta, Mondovì, Acqui Terme;

38 

 1 Questioni generali

Figura 9: Le province del Decreto Rattazzi (1859). Da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/ commons/thumb/3/3a/Regno_di_Sardegna_province_1859.svg/640px-Regno_di_Sardegna_ province_1859.svg.png?1539947400328.

– – –

Arcidiocesi di Vercelli, da cui dipendono le diocesi suffraganee di Biella, Novara, Casale Monferrato, Alessandria. Arcidiocesi di Milano, da cui dipende Vigevano. Arcidiocesi di Genova, da cui dipende Tortona.

I confini delle diocesi non corrispondono ai confini amministrativi provinciali, e a volte nemmeno regionali. Si segnala in particolare la situazione di alcuni comuni appartenenti alla diocesi di Vercelli oltre il Sesia, che amministrativamente appartengono alle province di Novara (Vinzaglio, Recetto, Landiona, Vicolungo, San Nazzaro Sesia, Casaleggio, Biandrate, Casalbeltrame) e Pavia (Lomellina: Palestro, Robbio, Confienza, Candia Lomellina, Castelnovetto, Langosco, Cozzo), oltre a Borgovercelli in provincia di Vercelli. Questi centri orbitano su Vercelli dal Medioevo (v. Barbero 2016). Un altro sconfinamento importante è quello delle diocesi di Mondovì e Acqui Terme, a cui appartengono molti centri dell’alta Val

1.2 La situazione piemontese 

 39

Figura 10: Le diocesi attuali del Nord Ovest. Le arcidiocesi sono sottolineate.

Bormida, in Liguria (provincia di Savona): si segnala in particolare Cairo Montenotte (Acqui Terme). Le diocesi, tuttavia, assumono l’assetto definitivo attuale solo nel XIX secolo. La situazione nei secoli precedente era molto diversa: darne brevemente conto potrà contribuire a comprendere come la situazione sia mutata radicalmente (dati di Cappelletti 1858; Orsenigo 1909).

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 1 Questioni generali

Nell’alto Medioevo erano presenti solo nove diocesi nell’area, tutte di origine tardoantica: Vercelli, Torino, Novara, Acqui Terme, Asti, Tortona, Aosta, Alba, Ivrea. Tutte le diocesi erano suffraganee dell’arcidiocesi di Milano. Molte di esse comprendevano le altre diocesi odierne, che in seguito furono scorporate: – Vercelli comprendeva la diocesi di Biella e gran parte della diocesi di Casale Monferrato; – Torino comprendeva le diocesi di Pinerolo, parte della diocesi di Susa, Saluzzo, Fossano; – Novara comprendeva Vigevano; – Acqui Terme comprendeva la diocesi di Alessandria; – La diocesi di Asti aveva un’estensione considerevole, poiché comprendeva le diocesi di Mondovì, Cuneo, parti di Fossano, Saluzzo, Alba, Alessandria. Non è sempre facile ricostruirne esattamente i confini. L’erezione di nuove diocesi solitamente rispondeva a esigenze politiche. Due diocesi furono erette nel Medioevo, cioè Alessandria, da Acqui (1175, ma operativa solo a inizio ’400; si noti che la città è stata fondata ufficialmente nel 1168 da abitanti di centri vicini, in funzione anti-imperiale) e Mondovì (1388), da Asti. Nel 1474 fu eretta Casale Monferrato, da Vercelli e parte di Asti, ricalcando i domini del Marchesato del Monferrato. Nel 1511 Saluzzo fu scorporata da Torino, parte di Alba e Asti e posta direttamente sotto il controllo della Santa Sede: il territorio corrispondeva ai possedimenti del Marchese di Saluzzo. Nel 1515 Torino fu staccata dalla giurisdizione di Milano, divenendo arcidiocesi metropolitana, alle cui dipendenze furono poste Mondovì e Ivrea; Fossano fu fondata nel 1592 con scorporamento da Torino e Asti, di cui diventò suffraganea. Nel 1530 Vigevano fu staccata da Novara. Nel 1748 Pinerolo fu scorporata da Torino, nel 1772 Biella fu scorporata da Vercelli, Susa da Pinerolo e San Giovanni di Moriana (Savoia). Un grande sconvolgimento si ebbe con le guerre napoleoniche, per cui molte sedi rimasero vacanti. Su impulso di Napoleone, le diocesi furono riorganizzate tra il 1803 e il 1805, per adeguarsi ai nuovi dipartimenti dell’Impero. Le diocesi assunsero l’assetto attuale nel 1817, con la Restaurazione: molti confini risultano modificati rispetto all’assetto ancien régime. Inoltre, furono rese suffraganee di Torino tutte le diocesi del Piemonte occidentale, a cui si aggiunse Cuneo, scorporata da Mondovì. Vercelli fu elevata ad arcidiocesi metropolitana, a cui furono sottoposte Novara, Vigevano, Biella, Casale Monferrato, Alessandria. È importante notare che un’area della Bassa vercellese che ha fatto parte della diocesi di Casale fino al 1805 con questa riorganizzazione passò definitivamente sotto Vercelli (v. §5.1.5.7 per un’analisi dettagliata).

1.3 Metodo descrittivo 

 41

1.3 Metodo descrittivo 1.3.1 Struttura dei capitoli e trattazione della materia La materia è stata suddivisa in base ai livelli di analisi della lingua. Il cap. 2 Fonetica e fonologia, suddiviso in vocalismo e consonantismo sarà impostato principalmente sull’evoluzione di fonemi latini nei dialetti, ma in alcuni casi si osserveranno anche tratti di tipo fonetico. Nel cap. 3 morfologia e sintassi si renderà conto di fatti morfologici (soprattutto fonomorfologici) e sintattici: la materia è stata suddivisa in base alle varie categorie lessicali interessate. Il cap. 4 è dedicato al lessico. Al fondo di ogni capitolo sarà presente un paragrafo che conterrà tratti linguistici minori o riferibili ad aree linguistiche locali. Nel cap. 5 si esporranno alcune osservazioni conclusive, in base alle premesse del cap. 1 e all’analisi dei dati. Nella sezione §7 Carte sono poste le carte linguistiche (con numerazione indipendente da 1 a 112) relative ai paragrafi principali. L’Appendice (§8) contiene i dati che sono serviti ad elaborare le carte principali e quelle secondarie più piccole e inserite nel testo (numerate come figure). La trattazione sarà suddivisa in paragrafi, ciascuno dei quali riguarderà un solo tratto linguistico. Avranno una struttura tripartita in sottoparagrafi: 1. nell’introduzione si esporranno le questioni principali riguardanti il tratto, con riferimenti allo stato dell’arte e ai problemi più importanti; 2. si descriverà quindi la distribuzione areale emersa nelle carte linguistiche; 3. infine, si analizzerà linguisticamente il tratto e la distribuzione areale emersa, con eventuali interpretazioni fondate sugli aspetti diacronici e diffusionistici. In alcuni casi, se sarà necessario, si proporrà anche un’analisi sincronica dei fatti linguistici emersi.

1.3.2 Dati I dati usati per elaborare le carte sono di provenienza diversa e sono stati raccolti in tempi diversi: questa eterogeneità si è sempre tenuta ben presente in fase di analisi. In generale, si sono scelti tratti linguistici che si possono immaginare stabili nel corso di circa cento anni, nel contesto sociolinguistico dei dialetti italiani, fatta eccezione per alcuni, soprattutto di tipo lessicale. L’uso di dati di provenienza diversa si è rivelato piuttosto fruttuoso, poiché spesso sono emerse concordanze (o interessanti discordanze) tra fonti eterogenee, rendendo così piuttosto valido l’insieme dei dati nel loro complesso.

42 

 1 Questioni generali

L’ossatura del lavoro è costituita dalla rete dei punti degli atlanti linguistici italiani: l’Atlante Italo-Svizzero (AIS, Sprach- und Sachatlas Italiens und der Südschweiz) e l’Atlante Linguistico Italiano (ALI). Del primo, pubblicato integralmente, si sono usate le numerosissime carte linguistiche, che sono un importante serbatoio, sfruttato solo in parte, di dati per i dialetti piemontesi e italiani in generale. L’atlante non contiene solo dati lessicali (motivati da ragioni etnografiche), ma anche molti sintagmi, frasi e in generale dati di interesse morfologico, che sono di grande valore per la ricerca dialettologica. I materiali dell’AIS per l’area oggetto di questo studio sono stati raccolti da Paul Scheuermeier negli anni ’20 del XX secolo. È stata fondamentale, per la stesura di questo lavoro, la versione elettronica NavigAIS. I dati dell’ALI, raccolti da Ugo Pellis tra gli anni ’20 e gli anni ’40 del XX secolo, sono stati pubblicati solo parzialmente, a partire dal 1995, nei volumi I– IX. Si sono comunque adoperati i numerosi materiali inediti presenti all’Istituto dell’Atlante Linguistico Italiano a Torino. La rete dei punti dell’ALI raffittisce notevolmente quella dei punti dell’AIS; tuttavia, il questionario dell’ALI, pur essendo molto più esteso di quello dell’AIS, è meno sistematico e meno concentrato su tratti morfosintattici. Alcuni punti (v. oltre) sono presenti in entrambi gli atlanti. Diverse inchieste sono molto incomplete. L’uso dei dati atlantistici come base per questo lavoro è motivata da alcuni fatti importanti. Innanzitutto, si tratta di dati già raccolti che sono stati usati solo parzialmente per il Piemonte che possono fornire un quadro molto esauriente delle varietà dialettali piemontesi. Inoltre, possono testimoniare, in certa misura, una certa variabilità diastratica all’interno del codice dialetto, poiché a quel tempo erano ancora attive le dinamiche di contatto linguistico tra dialetti di cui si è parlato al §1.2.1.1. In particolare è utile tenere in conto i dati sugli informatori che i raccoglitori hanno registrato (in Jaberg/Jud 1987; Massobrio et al. 1995) dai quali si può capire, combinando la loro data di nascita e la loro biografia, se siano innovativi o conservativi e a quale generazione appartengano. I dati atlantistici, come si è già osservato, hanno diverse limitazioni, che hanno pesato in una certa misura sul lavoro. Nello specifico, è stato piuttosto difficile conciliare dati di fonetica articolatoria registrati da raccoglitori diversi con diversi sistemi di trascrizione, spesso ridondanti e adattati al momento dell’inchiesta. Inoltre, non è stato possibile valutare con sufficiente sicurezza eventuali distinzioni fonematiche basate sulla lunghezza vocalica, comuni nelle varietà di tipo lombardo milanese. La scarsa attenzione ai dati morfosintattici (in particolare dell’ALI) ha limitato la scelta di alcuni tratti da analizzare; in certi casi, l’analisi è stata forzatamente superficiale per la parzialità di alcuni dati. La rete dei punti scelti si è dimostrata sufficiente per delineare la distribuzione areale dei vari tratti. Alcune zone di particolare interesse, che avrebbero

1.3 Metodo descrittivo 

 43

potuto contribuire a una migliore definizione dei dati geolinguistici, tuttavia, sono rimaste scoperte, sia per la mancanza di fonti sia per l’incompletezza di alcune di quelle disponibili. Si tratta principalmente della Lomellina orientale, del Novarese settentrionale e lungo il corso del Sesia, dell’estremità occidentale del Basso Monferrato, delle zone tra il Biellese e il Vercellese. Per quanto riguarda il Piemonte nel complesso, si deve segnalare una lacuna molto significativa: sono disponibili pochissimi punti degli atlanti e nessuno studio per l’area alto-piemontese tra Torino, Savigliano, Fossano e Cuneo. La conoscenza delle varietà di questa zona sarebbe molto importante per comprendere meglio le dinamiche di diffusione di tratti linguistici da Torino. Per il punto di Campiglia Cervo (Biella) e nei casi in cui si è esaminata anche l’area occidentale del Piemonte, si sono presi in considerazione i dati dell’ALEPO (Atlante Linguistico ed Etnografico del Piemonte Occidentale), anche inediti. L’esigenza di redigere alcune carte – e quindi di ampliare la trattazione – al Piemonte occidentale, includendo le aree occitane e francoprovenzali, è motivata dal fatto che in molti casi dei tratti linguistici importanti dividono in due il Piemonte, e con una carta limitata al solo Piemonte orientale essi non sarebbero stati visibili in modo soddisfacente. Inoltre, molte dinamiche diffusionistiche che si irradiano da Torino spesso sono molto significative e più avanzate in quest’area (riguardando anche varietà galloromanze) che nel Piemonte orientale. Per molti punti del Piemonte orientale si sono usati studi, grammatiche e vocabolari (v. le tabelle in §8 Appendice). Poiché sono materiali molto eterogenei, a volte non redatti da specialisti, si è usata molta cautela nell’adoperarli. Si segnalano alcune particolarità: Gardinali (2006) per Robbio ha solo un abbozzo di grammatica e vocabolario; Di Stefano (2017), per Biella, indica varianti per Biella città e per il Biellese, che sono state riportate tutte sotto il punto di «Biella». Arnuzzo (1969–1970) è una tesi di laurea i cui dati sono stati in parte ripubblicati in Arnuzzo (1974) e Arnuzzo (1976); per alcuni dati mancanti in questi due articoli si è fatto occasionalmente riferimento alla tesi originale (in particolare per il punto di Breme in Lomellina, che è stato aggiunto solo in alcuni casi). Per alcuni punti dell’area astigiana e alessandrina si è fatto uso di tesi di laurea inedite discusse presso la ex Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino sotto la guida di Lorenzo Massobrio tra gli anni ’90 del XX e ’10 del XXI secolo (Quattordio: Sclauzero 1990–1991; Oviglio: Adaglio 1991–1992; Mirabello Monferrato e Fosseto di San Salvatore: Buzio 1994–1995; Azzano d’Asti e Rocca d’Arazzo: Ghia 2011–2012). In altri casi tesi di questo tipo sono state usate come controllo e integrazione per dati dell’ALI (Felizzano: Bugnano 1990–1991, Sordevolo: Girelli 2003–2004). In questi casi, nell’appendice (§8) in cui sono riportati i dati, si è segnato il numero del questionario della domanda (questionario DAPAL, Dizionario Atlante delle Parlate Alessandrine o ALI) e non quello della pagina.

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 1 Questioni generali

Per i dati morfosintattici si è spesso fatto riferimento a Manzini/Savoia (2005), che hanno raccolto materiali linguistici estremamente interessanti, per punti a volte anche molto marginali. Infine, si sono svolte alcune inchieste sul campo per raccogliere dati su varietà dialettali non descritte. Si è scelto di distribuirle in quattro zone storico-culturali distinte, con informatori di profili diversi. – Trino (VC), 17 km a sud ovest di Vercelli, nella bassa vercellese, in una zona appartenuta al Marchesato del Monferrato di cui era un centro importante politicamente. La varietà di Trino è la mia varietà nativa, a cui sono stato esposto dall’infanzia (in particolare a quella di persone nate tra gli anni ’20 e gli anni ’50); ho una competenza prevalentemente passiva, che tuttavia mi consente di produrre frasi e di valutarne la grammaticalità. Informatori: – Rina Varese (1926). Nata e cresciuta a Trino, vissuta a Pontestura (AL) per 40 anni dagli anni ’70. Ha lavorato nelle risaie e in fabbrica. Istruzione elementare. Informatrice principale. – Giuseppina Varese (1930). Nata e vissuta a Trino. Istruzione elementare. Informatrice di controllo e per i nomi di parentela, §4.1.9. – Bruno Ferrarotti (1952). Informatore di controllo. – Palazzolo (VC), a circa 6 km a ovest di Trino. È stato scelto per analizzare la microvariazione tra due centri confinanti. Ha una varietà grammaticalmente molto simile a quella di Trino, ma foneticamente piuttosto marcata. Vi è anche una certa variazione lessicale. – Giuseppe Castello (1939). Nato e cresciuto a Palazzolo. Ha lavorato in fabbrica. Istruzione professionale. Informatore principale. – Enzo Rivalta (1948). Informatore di controllo. – Piera Rivalta (1952). Informatrice di controllo. – San Germano Vercellese (VC). Centro del Vercellese, che, a differenza dei precedenti, è sempre stato legato a Vercelli e ne ha seguito la storia politica. – Carla Francesio (1927). Nata e cresciuta a San Germano, conosce anche i dialetti dei genitori, di Alice Castello (VC) e Cossano Canavese (TO), a est di San Germano; le varianti di Alice Castello sono state cartografate. In alcuni casi ha fornito anche varianti dei paesi vicini, e anche queste sono state cartografate. Ha studiato presso la scuola di avviamento professionale commerciale e ha lavorato sempre in campagna. – Cigliano (VC). Centro del Vercellese occidentale, ai confini del Canavese. –



Emanuele Regano (1994). Istruzione universitaria.

Zeme (PV). Centro della Lomellina centro-occidentale, orbita su Mortara. A differenza della vicina Cozzo (presente sia nell’AIS sia nell’ALI) non fa parte della diocesi di Vercelli, ma di quella di Vigevano.

1.3 Metodo descrittivo 

 45





Alfredo Signorelli (1955). Cultore del dialetto locale. Ricorda bene gli arcaismi dei genitori e della generazione a essi precedente. Istruzione universitaria. Borgolavezzaro (NO). Comune del Novarese meridionale, al confine con la Lomellina. – Gianfranco Pavesi (1961). Cultore del dialetto locale. Ricorda gli arcaismi, fornisce molte indicazione sui dialetti circostanti (in particolare della confinante Cilavegna, dialetto lomellino dai tratti particolari): quando è stato possibile, questi dati sono stati cartografati. Istruzione universitaria.

La scelta di informatori di tre generazioni diverse, anche se discutibile a livello metodologico, ha fornito dati piuttosto coerenti, che si sono armonizzati con dati di altra provenienza. Tuttavia, si è rilevata la difficoltà di recuperare parole arcaiche legate al mondo contadino utili ai fini di questa trattazione. Non è più recuperabile in alcun modo la variazione diastratica ancora presente al tempo della raccolta dei dati degli atlanti nazionali, se non attraverso ricordi occasionali degli informatori più anziani.

1.3.3 Creazione delle carte e indicazioni per la lettura I fatti linguistici sono stati rappresentati su carte analitiche simboliche (§7), in cui ogni punto corrisponde a una località. Si è preferita questa soluzione, poiché è quella che rende in maniera più immediata il carattere simbolico e astratto delle carte linguistiche. Altre soluzioni, come l’uso di poligoni tracciati a partire dai punti, possono falsare visivamente il significato della rappresentazione cartografica. Allo stesso modo, non sembra essere sensato raffigurare nelle carte i confini comunali, poiché questi comprendono parte di territorio che non fa parte del centro abitato in cui è parlata la varietà (campagne etc.) e ciò potrebbe deformare la prospettiva areale. Il tipo di rappresentazione delle carte in generale è sembrato soddisfacente; solo per alcuni tratti del lessico esso si è rivelato poco pratico (in particolare per le parole con molti tipi lessicali, ad es. §4.4.1.9). In riferimento alle questioni teoriche esaminate in §1.1.2, si sono inseriti, seppur in maniera molto limitata, alcuni elementi di geografia umana che possono essere utili per osservare la diffusione di tratti linguistici, seppur in modo prudente e poco invasivo. Alcune informazioni più puntuali riguardo alle carte: – I punti con il nome tra parentesi e in corpo minore sono frazioni. – La dimensione demografica, basata sul censimento del 1838, è visibile nel nome dei punti geografici. I nomi in stampatello in corpo piccolo rappresentano centri con meno di ventimila abitanti, quelli in stampatello in corpo

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– –

 1 Questioni generali

grande rappresentano i centri con più di ventimila abitanti (centri medi e grandi). Si sono segnate le vie principali di comunicazione, in particolare quelle che collegano i centri grandi a quelli medi. Si sono segnate, sullo sfondo, le principali valli alpine.

I dati rappresentati nei punti provengono da fonti diverse: si è indicato con un simbolo in apice al nome della località la loro provenienza: – Senza indicazioni, si tratta di un punto di atlante. – Con * in apice: dati di studio, grammatica o vocabolario. – Con + in apice: dati misti (cioè provenienti da più fonti; per i dati di atlanti diversi v. sotto). – Con ° in apice: dati provenienti da un’inchiesta. – Con A in apice: dati ALEPO (solo nella carta estesa al Piemonte occidentale). I simboli usati per rappresentare un tratto linguistico sono di tipo geometrico o astratto, e sono sempre riportati nella legenda della carta. Quando sono presenti più risposte per lo stesso punto, si riportano più simboli uniti da una parentesi tonda, con eventuali indicazioni scritte accanto al punto. Si è cercato di rispettare il più possibile le abbreviazioni presenti negli atlanti. Si elencano le più comuni: v, vecchio, vecchi: forma arcaica, in uso presso gli anziani o ricordata dall’informatore corr.: autocorrezione dell’informatore (accanto alla forma corretta) soll.: sollecitazione del raccoglitore rec.: forma recente civ., borgh.: civile, borghese (forma cittadina o diastraticamente alta) ant: antico, arcaico ai, *, **= altro informatore XY: iniziali dell’informatore (ALI) In alcuni casi (Torino, Milano, Cozzo, Vigevano, Novara, Asti), si hanno inchieste sia nell’AIS sia nell’ALI. Quando i dati dei due atlanti concordano o quando è presente un dato solo per un atlante non si è indicata la differenza. Quando vi sono risposte diverse si indicano con la sigla dell’atlante scritta accanto. Ciò accade anche in alcuni punti del Piemonte occidentale (Cortemilia, Pietraporzio, Val della Torre [anche ALEPO], Bersezio di Argentera [anche ALEPO]). Le carte (§7) sono state elaborate a partire dai dati dell’Appendice (§8), dove sono espressi in modo esteso. Tutti i materiali, per uniformità, sono stati trascritti in IPA (quelli degli atlanti secondo le indicazioni di Canepari 1978). Spesso, a

1.3 Metodo descrittivo 

 47

causa della ridondanza delle grafie fonetiche atlantistiche, si sono dovute compiere delle approssimazioni. In particolare, il parametro di apertura e chiusura delle vocali medie anteriori [e]/[ɛ] e posteriori arrotondate [o]/[ɔ] sembra essere rappresentato in modo diverso, ovvero più spostato verso l’apertura, nell’AIS rispetto all’IPA (v. anche Pautasso 1969). Il sistema dell’ALI, invece, ripartisce l’apertura vocalica in tre (vocali aperte, medie e chiuse): spesso il valore della vocale media non è per nulla chiaro, e in questa sede si è deciso, con un certo grado di arbitrarietà, di rappresentarlo con la vocale chiusa. I dati degli atlanti sono registrati in tabelle (§8). La carta dell’atlante è indicata in numero progressivo per l’AIS. Per l’ALI, con numero romano e arabo sono indicati rispettivamente il volume e la carta per i materiali pubblicati; con numero arabo progressivo le voci non pubblicate. PS III indica la «parte speciale III» del questionario, non pubblicata, che contiene i materiali morfologici, raccolti in modo molto parziale. Per le grammatiche, i dizionari e gli studi si ha il riferimento bibliografico con il numero di pagina. Qualora siano presenti più dati nella stessa casella, i numeri di pagina sono separati da una virgola. Il punto e virgola separa invece i numeri di pagina che si riferiscono a caselle diverse, progressivamente da sinistra a destra. Sono presenti anche carte minori, inserite all’interno del testo: esse seguono la numerazione delle figure e i dati relativi si trovano nell’Appendice (§8) sotto il capitolo in cui sono inserite. L’area scelta per rappresentare il Piemonte orientale è in un certo senso arbitraria. Tra tutte le opzioni possibili (v. §1.2.4.1), si è scelto di comprendere tutti i domini storici più orientali dei Savoia. Si sono considerate le aree a est della Dora Baltea a nord del Po (a partire dal vercellese) e a sud del Po da Asti verso est, poiché l’astigiano occidentale è notoriamente gravitante su Torino. All’estremità orientale, si è posto il limite sul Ticino e sul Po, antico confine degli stati sabaudi a partire dalla metà del XVIII sec.; a sud est il limite è il Tortonese, ma si sono incluse Voghera e Pavia come punti di controllo. A sud, non ci si è spinti oltre l’Alto Monferrato e l’Alessandrino, evitando le varietà liguri dell’Oltregiogo e quelle di transizione della Val Bormida (che avrebbero dilatato notevolmente la prospettiva del lavoro). Sempre come punti di controllo, si sono considerate ovviamente le città di Torino e Milano. A nord, si è deciso di comprendere l’area verbano-ossolana, che, pur essendo chiaramente di parlata lombardo-alpina, è utile per verificare fenomeni diffusionistici da Milano, e perché è sempre appartenuta alla diocesi di Novara, a cui quindi è stata legata. Si riporta di seguito (Figura 11) una carta con indicate le principali zone storico-culturali e geografiche usate in questo studio. Le valli sono rappresentate in forma stilizzata da aree più scure, le vie di comunicazione da linee, i fiumi principali da linee d’acqua puntinate, i confini nazionali da linee tratteggiate.

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 1 Questioni generali

Non si sono riportati i confini amministrativi (regionali, provinciali) perché non influenzassero troppo la trattazione (v. §1.2.4.4).

Figura 11: Area considerata dallo studio con le designazioni delle principali aree storico-culturali.

2 Fonetica e fonologia 2.1 Vocalismo 2.1.1 Palatalizzazione di -āre; -āriu 2.1.1.1 Introduzione La palatalizzazione di -āre (inf. I con.) è ritenuta uno dei tratti più tipici dei dialetti piemontesi (v. §1.2.4.2); qui si tratterà anche il suffisso -āriu18 poiché è accomunato a -āre in Berruto (1974, 18) e in Loporcaro (2013, 97–98). In particolare, si valuteranno gli esiti: i. in relazione ai nomi dei mesi (januariu ‘gennaio’ e februariu ‘febbraio’); ii. in relazione a un nome di un oggetto di uso comune (cochleariu, ‘cucchiaio’); iii. in relazione al nome di un mestiere formato con suffisso agentivo (macellariu, *beccariu, ‘macellaio’); iv. in relazione a un nome di un oggetto arcaico (lat. volg. *telariu, ‘telaio’, v. DELI s.v.). Si ricordi che la palatalizzazione di ā tonica in /e/19 è un tratto piuttosto diffuso nei dialetti galloitalici; in particolare quelli occidentali sembrano particolarmente interessati da questo fenomeno in alcuni contesti: i) in sillaba libera (Rohlfs 1966, 39–41); ii) in combinazione con una palatale, che è il caso di -ariu che interessa i dialetti piemontesi (>  *-ari >  *-air >  *-eir, [ˈd͡ʒɛra] ‘ghiaia’ >  glarea >  *glarja, v. Rohlfs 1966, 33–36; Aebischer 1978; Pfister 1995, 197–199); iii) prima di [r] (es. [ˈɛrbu] ‘albero’ in alcune varietà di piemontese, v. Rohlfs 1966, 48–49). Queste palatalizzazioni, perlomeno quelle in sillaba libera, possono essere considerate molto antiche, poiché già i dialetti galloitalici di Sicilia mostrano 18 Per l’origine del suffisso v. Arias Abellán (2002). In origine era un suffisso derivazionale nome > aggettivo, che poteva formare i) se riferito a entità animate, aggettivi denotanti persone legate a un determinato oggetto (ad esempio la professione); ii) se riferito a entità inanimate, aggettivi indicanti un luogo o uno strumento legati a un oggetto. In seguito questi aggettivi si sono sostantivizzati, passando a indicare, col genere maschile o femminile, dei nomi d’agente, oppure, col genere neutro, nomi di strumento o di luogo. 19 Si indica per convenzione /e/ per rappresentare la qualità della vocale, che può variare notevolmente per grado di apertura o chiusura nelle diverse varietà. https://doi.org/10.1515/9783110760187-002

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 2 Fonetica e fonologia

forme in -/ˈe/ nell’infinito presente (v. Rohlfs 1966, 40–41). Da questa trattazione sono esclusi i cultismi di -ariu, probabilmente di data piuttosto antica, come -ari in [arˈmari] ‘armadio’ (v. Arnuzzo 1974, 657). 2.1.1.2 Distribuzione areale di -āre La distribuzione del tratto sembra raggrupparsi in aree piuttosto compatte. L’infinito in /ˈe/ è attestato nelle alte valli dell’Ossola (Valle Antigorio, Val Divedro) e a Vagna, frazione di Domodossola; lo si riscontra anche in Valsesia, in Valsessera, nel Biellese, nelle campagne intorno a Vercelli e nella città stessa, nel Novarese (ma non a Novara città), a Cilavegna e Gravellona in Lomellina, nell’Astigiano e in parte dell’Alessandrino occidentale. L’infinito in /ˈa/, invece, si riscontra in Val Vigezzo, a Domodossola e nella bassa Val D’Ossola, in Valle Antrona, Valle Anzasca, sul Lago Maggiore (Intra), intorno al Lago D’Orta (Cusio), a Novara città, in Lomellina, nell’Alessandrino occidentale e, infine, in un’area che va dal Basso Monferrato immediatamente a nord di Alessandria (Quattordio), e si estende da Casale Monferrato fino alla pianura della bassa vercellese, arrivando fino a Crescentino (e a Montanaro in provincia di Torino, nel Canavese). Quanto ai capoluoghi regionali, Torino ha l’infinito in / ˈe/ e Milano in / ˈa/. Si noti che in molti centri sono diffusi allofoni di /ˈa/ come [æ], [ɑ] [ɒ],20 così come l’infinito in /ˈe/ oscilla tra [e] ed [ɛ], spesso in modo difficilmente inquadrabile arealmente. Spicca la situazione di Quarna Sotto nel Cusio sopra il lago d’Orta, che ha un’alternanza tra /ˈar/ ed /ˈer/ a seconda del contesto. 2.1.1.3 Analisi Le Farse dell’Alione presentano un’oscillazione tra -e ed -er (Villata 2008, 84), ma non è chiaro quanto sia solo di tipo grafico; i personaggi delle Farse che parlano basso-monferrino, invece, sono già rappresentati stereotipicamente con l’infinito -ar (v. Ferrarotti 2021b). Alla fine del ’600 il dialetto urbano di Torino aveva invece stabilmente l’infinito in /ˈe/ (v. le Canzoni Torinesi in Clivio 1974, 27 sté a mercandé etc.). Si può osservare dai testi settecenteschi e ottocenteschi di Vercelli e Casale Monferrato che la forma dell’infinito era già corrispondente a quella attuale: infinito in /ˈa/ a Casale ed /ˈe/ a Vercelli21 (v. Ferrarotti 2016, 81–82). Lo stesso vale per i testi riportati da Biondelli (1853, 128–150)22 e Rusconi (1878, 39–55, 84)

20 Per Fontanetto Po e Palazzolo Vercellese, cf. §1.1.3. 21 Per il casalese, Gasca Queirazza (2010b, 235, es. v. 5) fà tornà (1814); per il vercellese, Gasca Queirazza (2010c, 248, v. 1) fè (1763). 22 Si noti che Biondelli pone il valsesiano e l’intrese tra i dialetti lombardi «verbanesi».

2.1 Vocalismo 

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rispettivamente per la Valsesia23 e per la Valle Intragna:24 l’infinito presenta la forma attuale, cioè /ˈe/ per la Valsesia (paghè, vardè Rusconi 1878, 40) e /ˈa/ per la zona di Intra (dav ‘darvi’, sta, Rusconi 1878, 84). In generale, i testi riportati nelle raccolte ottocentesche (Biondelli 1853; Papanti 1875; Rusconi 1878) non sembrano fornire dati diversi, per i singoli punti, da quelli atlantistici. Il milanese ha già dal ’500 per l’infinito la forma attuale. Pertanto, sembra possibile affermare che a livello diacronico questo tratto sia particolarmente stabile e poco prono al mutamento, anche in virtù della sua funzione morfologica. In via preliminare, bisogna precisare che la distribuzione dei due tipi di desinenza non è stata descritta in modo accurato nella letteratura. Ad esempio, sulla Carta dei dialetti d’Italia (Pellegrini 1977) è tracciata un’isoglossa (5, Figura 12) per questo tratto, ricavata principalmente dai dati dell’AIS, che non riproduce esattamente la distribuzione areale dei due tipi. L’isoglossa descrive correttamente la presenza dell’infinito in /ˈa/ in Lomellina e sul Lago Maggiore (includendo però erroneamente Borgomanero) e nell’Alessandrino orientale (comprendendo anche Alessandria città e Acqui terme che invece hanno l’infinito in /ˈe/);25 pone correttamente il Novarese nell’area in /ˈe/, ma non l’isola linguistica di Novara, che, come si è visto, ha l’infinito in /ˈa/; non coglie la variazione nelle diverse valli dell’Ossolano; infine, ignora l’esistenza dell’ampia area in /ˈa/ presente tra il Monferrato e la Bassa Vercellese. Si noti che la presenza di quest’area era già stata notata da Spoerri (1918, 741):26

23 La guerra de’ Morgiazzi, un poema in dialetto valsesiano frammisto a italiano e walser che narra di un’insurrezione avvenuta in Valsesia nel 1678, cf. Viazzo (2015, 285), prima edizione in Tonetti (1883) (un’altra edizione è presente in Rusconi 1878). Non è chiaramente databile, né è noto il suo autore (ma Biondelli e Rusconi riportano Prospero da Borgomaynero): si può comunque credere che sia una rappresentazione del dialetto valsesiano anteriore alla metà del XIX secolo. Contiene anche inserti in italiano (parlato dai nobili milanesi) e una lingua mista galloitalica e walser (parlata dagli abitanti di Alagna). Spoerri (1918, 393) sostiene che all’epoca del suo studio il poema fosse ancora molto popolare e si potessero udire «delle vecchiette recitarne centinaia di versi». 24 La valle che si apre a monte di Intra. I testi sono un Sonetto dei facchini reduci del carnevale di Milano del 1738 e un breve racconto in prosa «facchinesca» del 1766. Il riferimento ai facchini, presumibilmente, rimanda all’Accademia dei facchini della Val di Blenio, un gruppo di artisti attivo a Milano alla fine del ’500, di cui fece parte e di cui fu per un periodo guida il poeta dialettale Giovanni Paolo Lomazzo (v. Isella 1993; 2005). 25 La linea, a onor del vero, sembra ricalcata sui confini amministrativi, cioè sul confine tra la provincia di Alessandria e quella di Asti. 26 Una descrizione più sommaria è presente anche in Meyer Lübke (1890, §86, su cui si basa anche Spoerri), in cui è esplicitato che la distribuzione di questi tratti è basata su uno spoglio delle novelle presenti in Papanti 1875. Un’altra descrizione che sembra recepire l’impostazione

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 2 Fonetica e fonologia

Figura 12: Isoglossa (5) dell’infinito /ˈa/-/ˈe/ in Piemonte, Pellegrini (1977). ©Pacini Editore. Immagine riprodotta per gentile concessione dell’editore, che si ringrazia. «Piemontese e lombardo: caratteristiche che connettono il valsesiano col piemontese comune sono: 1. -are = è [. . .] Il territorio dell’e comprende la Valsesia, parte dell’Ossola e del Verbano, la Valle Divedro, Antigorio e Verzasca, il Novarese fino al lago d’Orta, il Vercellese lungo il Cervo, la quale regione si continua nella Val D’Aosta. Fra questo territorio dell’e e quello a mezzogiorno del Po si frappone come un cuneo il lombardo a abbracciando la Lomellina fino a Trecate e la regione del Po fino a Trino. (A mezzogiorno non oltrepassa l’imboccatura del Tanaro). A questo cuneo corrisponde il canavese (-ar, -a) che tocca quasi

di Spoerri è in Merlo (1942, 10, con carta), che riconduce la presenza della palatalizzazione a un antico influsso ligure.

2.1 Vocalismo 

 53

colla sua estremità orientale la regione lombarda. Il confine del territorio dell’e al sud segue il confine dell’emiliano e del genovese volgendosi poi verso nord nella linea Mondovì-Torino» [grassetto nel testo].

In aggiunta a ciò, considerando la distribuzione nel Piemonte occidentale (v. ad es. AIS 178, ALI II 138) la distribuzione di /ˈe/ sembra limitata a Torino, Cuneo, alla pianura che si estende tra questi due centri (area della varietà «alto-piemontese»), ad alcuni centri delle basse valli piemontesi; nelle alte valli si trovano solo desinenze del tipo /ˈa/ e /ˈar/.27 A complicare il quadro, la desinenza /ˈe/ è attestata in diverse aree francoprovenzali, ma non in Provenza (ALF 1023); la si ritrova, tuttavia, nella parte settentrionale del Canton Ticino (AIS 178). Pertanto, un’interpretazione diffusionistica come quella di Grassi/Sobrero/ Telmon (2003, 138–140), che apparentemente sottostima la presenza dell’infinito in /ˈe/ al solo Piemonte occidentale, quando in realtà è presente in larga parte di quello orientale e che vede il torinese come recettore e in seguito diffusore di un tratto galloromanzo (di una varietà non direttamente confinante col torinese), non sembra in realtà fondata. Se si può immaginare che il torinese abbia diffuso questo tratto almeno laddove la sua influenza è stata più forte, cioè nei centri «pressoché totalmente torinesizzati» (Telmon 2001, 55), la pianura tra Torino e Cuneo (v. sopra e Regis 2011, 11–12) e le basse valli alpine (dove è chiaro che l’innovazione in /ˈe/ proviene dalla pianura) non pare sicuro affermare che la sua influenza sia andata oltre. Infatti, la desinenza con vocale palatalizzata è un tratto che era già presente in area nord-occidentale prima che il torinese diventasse un dialetto urbano influente (si pensi alle opere dell’Alione, v. sopra) e, in secondo luogo, questo tratto è diffuso in luoghi in cui postulare un’influenza profonda del torinese è impossibile (valli ossolane etc.) e perché già a pochi chilometri da Torino è presente l’infinito in /ˈa/ (o /ˈar/ nel Canavese). Inoltre, la desinenza dell’infinito sembra essere un tratto diacronicamente piuttosto stabile e poco incline al mutamento per contatto linguistico. Pertanto, l’ipotesi (Ferrarotti 2016, 82–83), per cui a Vercelli e Alessandria la presenza dell’infinito in /ˈe/ sarebbe dovuta alla koiné a base torinese, deve essere messa in dubbio. Si può affermare, senz’altro, che in area novarese l’area di /ˈe/ in passato doveva essere più estesa, essendo /ˈa/ un’innovazione del milanese, accolta a Novara città (visto il suo peso demografico rilevante nel passato, secondo il modello gravitazionale), a Domodossola e Intra; in seguito si sarebbe diffusa in alcune valli ossolane. La questione è diversa per l’ampia area in /ˈa/ del Basso Monferrato e

27 In alcune valli del Canavese la desinenza può palatalizzare se preceduta da palatale, cf. Rohlfs (1966, 40).

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 2 Fonetica e fonologia

della Bassa Vercellese, in quanto, come già osservato in Ferrarotti (2016, 81–82) essa sembra corrispondere approssimativamente a un’area che, tra il ’200 e il ’600, ha fatto parte del Marchesato del Monferrato (v. §5.1.5.7), che già ai tempi di Alione sembrava essere caratterizzata da un infinito non palatalizzato (v. sopra e Ferrarotti 2021b per la questione). Una situazione simile si può trovare in Lomellina e nel Novarese, dove i territori appartenenti alla diocesi di Vigevano hanno l’infinito in /ˈa/, mentre quelli della diocesi di Novara hanno l’infinito in / ˈe/.28 La situazione di Quarna Sotto, invece, è del tutto singolare, poiché -are ha due esiti: -[ˈar] ed -[ˈer]. Il primo è notevole in sé, poiché è una forma arcaica dell’infinito in -/ˈa/ non attestata altrove nell’area. Il secondo è una variante con palatalizzazione, probabilmente condizionata dal contesto. Si ha infatti [maˈɲar] ‘mangiare’ ( *ordən

iuvene

*juven > *juvən

(stras)ordon [ˈʊrdʊŋ] giovon [ˈd͡ʒʊvʊŋ]

[ˈurdu] ‘ordine’ [ˈd͡ʒu(v)u̯] ‘giovane’

organu

*organ > *orgən

orgon [ˈɔrgʊŋ]

[ˈɔrgu] ‘organo’

cantant

*cantan > *cantən

canton [ˈkantʊŋ]

[ˈkantu] ‘cantano’

Si noti che la desinenza -[u] di 3pl è estesa di solito a tutte le coniugazioni (con i verbi regolari all’indicativo, in tutti i casi al congiuntivo e al condizionale): potrebbe essere un’altra conferma della convergenza di *-en (es.