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Italian Pages 1258 Year 1994
HORCYNUS ORCA romando Introduzione di Giuseppe Volitila
OSCAR MONDADORI
Romanzo di vasto respiro epico e lirico Horcynus Orca racchiu de in un'azione di pochi giorni, in quarantanove episodi e in uno spazio geografico compreso tra la Calabria e la Sicilia, una materia di violento potenziale m itico e simbolico. Usando molteplici piani narrativi - dall'onirico al realistico, dall'evoca tivo al visionario, dal soggettivo al corale - e affidandosi ad una straordinaria invenzione linguistica, D’A rrigo narra il ri torno a Cariddi, nello sfacelo dell’autunno 1943, di 'Ndrja Cambrìa, marinaio della fu Regia Marina, il quale percorre a pie di le devastate coste calabre per riapprodare al suo paese na tale. L’odissea del giovane, il quale avanza in un mondo alte rato e reso irriconoscibile dalla guerra, si rivelerà come una sua maturazione alla vita ed una iniziazione alla morte a ttra verso una sterm inata serie di visioni e di sogni dominati, nel mare dello Stretto, dalla presenza delle fere, i fam elici delfini, e dall'apparizione dell'Orcaferone, l’Horcynus Orca, mostro terrificante e canceroso: morte viva che dà la morte.
0021424-7 Lire 9.000 ( • • • )
© 1975 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano I edizione Scrittori italiani e stranieri gennaio 1975 I edizione Oscar Mondadori giugno 1982
Introduzione
Il viaggio di ritorno dell’eroe dalla guerra alla terra natale è il tema non solo dell’Odissea, ma di un poema epico, detto appunto dei Ritorni, che idealmente lo completava e che è andato perduto: tema affascinante, che dovette convergere con quello delle avventure marinare, diffuso già in età pregreca nell’area mediterranea, se un frammento egiziano, risalente al due mila avanti Cristo, ci presenta un naufrago, aggrappato a una tavola, che sbarca su un’isola meravigliosa; e tema occultamente religioso, in cui la meta era costituita dall’origine e il conoscere diventava alla fine un rico noscere. Dilatato nello spazio e prolungato nei secoli, sarà il motivo condut tore delYEneìde, il cui protagonista, approdando alla terra degli avi, com piva il vaticinio di Apollo: « Ricercate l’antica madre ». Nell’epos antico Ulisse, « bello di fama e di sventura », ritrovava a Itaca un mondo di valori intatto, incarnato da Penelope, « colei che strappa il filo della trama », la trama corruttrice degli usurpatori, per ricostituire il tessuto dei diritti originari. Nell’epos moderno di Horcynus Orca il pro tagonista non è più un condottiero vittorioso, ma un marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina, che, sullo sfondo della disfatta, varca lo stretto di Scilla e Cariddi per ritrovare un mondo sfigurato da una corru zione mostruosa, di cui l’Orca è l’emblema. E la sua morte casuale per ma no di una sentinella, in un primordiale scenario marino, non è che il sug gello tragico del suo precipitare verso un annientamento indecifrabile. Leggere in chiave simbolica Horcynus Orca mi sembra da un lato inevi tabile, ma dall’altro rischioso. È una sensazione contraddittoria, di quelle che si sarebbe tentati di eludere, anziché di capire. Ma non direi che nasce soltanto dalla riluttanza che proviamo, soprattutto di fronte alle opere più complesse e più ricche, a circoscriverle entro i confini di una interpreta zione e dal presagio che esse non potranno che oltrepassarli, come è proprio della loro energia inesauribile, della vita che misteriosamente le anima e le rende insieme vicine e inafferrabili. La percezione dello iato tra creazione e riflessione vi ha certo la sua parte. È questo iato, del resto, a stimolare e alimentare il coraggio dell’opera; nessuna ambizione è più tenace e teme raria di quella dell’artista, che, anziché « esprimere se stesso », come vor rebbero i più, tende a una meta infinitamente più importante: aggiungere 5
vita alla vita, scoprire mondi che sfuggono alle possibilità di previsione e di controllo, labirinti in cui Dedalo si ritrova e si perde. Tuttavia il caso di Horcynus Orca è più complesso. L ’autore stesso sem bra infatti sollecitare l’interpretazione simbolica, muovendo in una duplice direzione: sia proponendo continue variazioni dei temi, come in un con trappunto musicale o in una prospettiva il cui punto di fuga sia l’infinito (si pensi soltanto alle « fere », ai delfini dello stretto, e alla loro cangiante, iridescente vitalità, fatta di ferocia e di leggerezza, di crudeltà e di sedu zione, di amore e di efferatezza); sia attenendosi, con una insistenza per missiva, a un unico significato, che sopprime la polarità dei due termini e li fa coincidere (si pensi alla definizione dell’Orca: « Era l’Orca, quella che dà morte, mentre lei passa per immortale: lei, la Morte marina, sarebbe a dire la Morte, in una parola ». Eppure proprio la ininterrotta potenzialità simbolica dovrebbe indurre al la cautela: essa finisce per diventare non un problema da risolvere, ma un problema da porre. Anziché decifrare i significati molteplici dei simboli, come sempre è stato fatto, talora con finezza, spesso con conclusioni diver genti, occorrerebbe forse chiedersi il senso della loro onnipresenza enigmati ca. In un mondo dove tutto acquista valenze simboliche, di che cosa è simbolo il simbolo? Se dovessi racchiudere in una parola una risposta a questo interrogativo, direi: della metamorfosi. E infatti Horcynus Orca è un mitico ed epico poema della metamorfosi. Metamorfosi che non solo sconvolge il paesaggio, devastandolo con le ferite della guerra, ma intacca la coscienza dei pesca tori, trasformandoli in speculatori, in divoratori e commercianti delle ripu gnanti « fere »; metamorfosi che rende il figlio irriconoscibile al padre e che muta Ciccina Circè, la traghettatrice notturna di ’Ndrja sulle acque dello stretto, la custode di un universo di ombre, in una triviale appari zione diurna. L ’Orca stessa, squarciata dalle « fere » e morsa da nugoli di sarde, diventa una immane carogna, il cui fetore ammorba l’aria, ma non distoglie i « pellisquadre » dal tentativo di farne un immondo traffico. E anche in quel lucido, quieto, estatico delirio che è il soliloquio di ’Ndrja durante il colloquio con don Luigi Orioles, il continuo sovrapporsi e me scolarsi e fondersi delle parole « barca », « bara », « arca » adombra la catastrofe tragica attraverso il misterioso travaglio di una metamorfosi lin guistica. Straordinaria frequenza nella prosa di D ’Arrigo, quasi ad ogni periodo, della congiunzione « come »: ponte tra una immagine e l’altra, a volte passerella sull’abisso che divide due mondi, a volte passaggio quasi inav 6
vertibile tra due punti contigui; spesso accompagnata da un « se » che introduce l ’ipotesi di mondi paralleli o di mondi possibili. In mezzo non più la distanza, ma la relazione, non il percorso lineare, ma il percorso con centrico. Però il movimento non è solo centripeto, ma centrifugo: la forza che contrae il cuore è la stessa che lo dilata. L ’analogia, in Horcynus Orca, è lontana dalla similitudine classica, che dall’accostamento di una seconda immagine otteneva una intensificazione della prima, ma le lasciava distinte, nel nitore dei loro contorni; ed è solo apparentemente più vicina alla metafora barocca, che presupponeva con vergenze del mondo inorganico, vegetale, animale, umano: ma il loro punto di incontro era il palcoscenico, mentre in Horcynus Orca la meta morfosi non è più il gran teatro del mondo, ma è il mondo. La metamorfosi imprime un corso imprevedibile al linguaggio di D ’Ar rigo. In una stessa frase si amalgamano e si trasformano, per attrazione reciproca, termini, costrutti, intonazioni delle lingue locali della Sicilia, francesismi, latinismi; i neologismi, che affiorano da sostrati colti o popola ri, divisi o intercomunicanti, si assimilano al contesto con stupefacente na turalezza. Talvolta una parola stessa si trasforma nel corso della sua articolazione, come in un processo di moltiplicazione cellulare (« finimondo, finimondorioles »). E questa plasticità è insieme matrice e frutto di una idea dell’essere come continuo divenire. Anche le citazioni allusive che ricorrono nel testo hanno una funzione analoga: in quella valle di echi che è la letteratura, esse arricchiscono i suoni con l’eco di altri suoni, enigmatica metamorfosi che, alterandoli, li perpetua. Gasi mi sono ritornati alla memoria certi versi del Purgatorio dantesco (« Era già l’ora che volge il disio / ai naviganti... » e anche « Noi andavam per lo solingo piano / com’uom che torna a la perduta strada, / che ’fino ad essa li pare ire in vano ») leggendo, con effetto di reciproca intensificazione, un capoverso di Horcynus Orca: « Era l’ora tormentosa de gli spiaggiatori, di chi va, sinché è giorno, rivariva al mare e venendo notte, comincia a cercarsi con gli occhi un posto, una barca, un nascondiglio, dove fermarsi... ». La metamorfosi del suono, nella chiusa dell’episodio di Ciccina Circé, che con la sua barca si allontana da ’Ndrja: « Gli parve di ascoltare, per miglia addirittura, le fere e il mare frusciarne sotto di esse, sempre più fino e oscuro, sempre più confuso al silenzio della notte. Poi, sopra il silen zio, sentì solo il dindin della campanella, quel tintinnio d’unghia sull’orlo di un bicchiere; e lo senti ancora, anche quando quel bicchiere sembrò riempirsi d’acqua come dovesse contenere tutta l’acqua del mare. E poi lo 7
sentì ancora, anche quando intorno a lui, per aria, sul mare, nella notte, gli diventò inafferrabile ai sensi: lo sentì ancora e continuò a sentirlo, o a immaginare di sentirlo, nel suo orecchio, dentro, acconchigliato, senza suo no, come dovesse sentirlo ormai per tutta la sua vita ». A questa concezione metamorfica del linguaggio è riconducibile la sua no vità. Rifiutando ogni glossario, D ’Arrigo non intende solamente eludere qualsiasi atteggiamento didascalico ed esplicativo nei confronti delle lin gue millenarie o contemporanee, letterarie o parlate, cui egli attinge, ma dichiara la sua ambizione di fondere i loro apporti in un linguaggio unico, la cui piena espressività deve emergere frase per frase, entro l’orizzonte dell’opera. Non l’emancipazione dei dialetti né l’eversione prodotta dagli accostamenti incompatibili e neanche la satura degli accostamenti incon grui o imprevedibili: ma piuttosto la sfida di un linguaggio che sottraen dosi, con la sua ininterrotta metamorfosi, alle convenzioni della norma, su bordina però la presenza di qualsiasi parola alla tensione espressiva del contesto. A tale rapporto dell’autore con la lingua direi che deve rifarsi il lettore nel rapporto con il suo linguaggio: e anzitutto non attribuire alla prodigio sa, ma perciò irripetibile espressività del testo possibilità di uso in altro contesto; non trasformare insomma in lingua di comunicazione - magari per eccesso di entusiasmo - il frutto di un impegno grandioso a superarne i limiti. Ma altrettanto fuorviarne mi sembrerebbe scambiare l’intenzione costantemente espressiva di D ’Arrigo con la volontà di creare un universo linguistico « autonomo », sul modello di Firtnegan's Wake di Joyce. È vero che una mirabile rete di nessi, rinvìi, relazioni esplicite o dissimula te testimonia l’immensa articolazione e insieme l’unità del suo mondo nar rativo. Mai però l’innovazione linguistica appare staccata dalla sua neces sità evocativa, dalla sua evidenza plastica, dal suo potere di coinvolgimento direi corale. La mobilità del linguaggio di D ’Arrigo trova corrispondenza nella ecce zionale varietà dei registri stilistici e dei piani narrativi. Si pensi solo al l’inizio, luogo privilegiato del Romanzo, dove si concentrano sempre, come in un nucleo genetico, le potenzialità dell’opera. In Horcynus Orca esso si richiama alle precise coordinate di tempo e di spazio della grande narrativa dell’Ottocento, ma contemporaneamente le dilata in amplificazioni epiche, con l ’implicito paragone del viaggio di ’Ndrja e del viaggio del sole: « Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio, noc chiero semplice della fu regia Marina ’Ndrja Cambrla arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’e cariddi ». 8
Ma già nel paragrafo successivo la descrizione passa dalla oggettività impersonale allo sguardo del protagonista e al linguaggio della sua memo ria: « Imbruniva a vista d ’occhio e un filo di ventilazione alitava dal mare in rema sul basso promontorio. Per tutto quel giorno il mare si era alli sciato ancora alla grande calmerìa di scirocco che durava, senza mutamento alcuno, sino dalla partenza da Napoli: levante, ponente e levante, ieri, oggi, domani e quello sventolio fiacco fiacco dell’onda grigia, d’argento o di fer ro, ripetuta a perdita d’occhio ». Questa molteplicità contemporanea dei piani narrativi, di cui qui si colgono solo minimi indizi, si manifesterà nel corso del romanzo su scala dilatata, come compresenza di dimensioni oniriche e realistiche, evocative e visionarie, soggettive e corali: il sogno diventa un viaggio nella memoria (e consente a ’Ndrja di riprovare il primo contatto, adolescente, con le donne sirene) oppure una discesa agli inferi che portiamo dentro di noi (l’immagine del rossetto che rende ’Ndrja ripugnante a se stesso). E il sogno a occhi aperti trasporta ’Ndrja dentro l’immensa grotta che si allarga alla radice del cono vulcanico, nel cimitero delle « fere », che si inceneriscono nella schiuma ardente. Il trapasso tra un modo di sognare e l’altro diventa un unico processo, misterioso e fluido, un conoscere che è anche un vivere e un rivivere: « Aveva l’impressione di avere sognato, una volta a occhi aperti e una volta a occhi chiusi: sino all’uscita dal cratere di Vulcano era a occhi aperti e poi, da 11 in poi, sino a quella pantomima a sprezzo e sdegno che i pellisquadre gli improntavano a vista, era a occhi chiusi e senza averne minimamente coscienza, qualche stampa di sonno, un attimo o due, doveva esserselo fatto, sennò che doveva pensare? che pure i pellisquadre parati ad ammirargli e seduti a Corte Marziale per giudi carlo, pure la pantomima, con luiscimmiella dell’Eccellenza delfinaro, pure il nome messo per rossetto sulle labbra, quel senso d’infemminamento che gli faceva, quell’incubo, in una parola, dal quale gli pareva di tornare poi alla realtà come da un sogno di profondissimo sonno, pure questo si sogna va a occhi aperti, per quanto desiderio aveva che gli succedesse? ». Anche i bisbigli d ’amore tra il padre Caitanello e la moglie Acitana, che ’Ndrja ascoltava da piccolo dall’altra parte del tramezzo, si trasformano nella memoria in un lungo, tenero, indimenticabile dialogo lirico tra Aci e Galatea, dove riaffiorano tesse di mosaici classici, e tra Granvisire e Masi gnora, dove luccicano scaglie medioevali, in un susseguirsi di variazioni e amplificazioni e cerchi concentrici. Per verificare come dimensione realistica e dimensione visionaria, esterno e interno, superficie e profondità, visibile e invisibile trapassino di continuo uno nell’altro per fondersi nella potenza di un’unica immagine, basta rileg gere la prima apparizione dell’Orca, mentre si ridesta negli abissi: « La sua 9
mente si smuoveva dal sonno di roccia, avvolta in nebbie nere, in nuvolo sità nere fumose, il suo corpo immenso andava spostandosi nelle tenebre sterminate, impenetrabili dell’abisso, entro cui combaciava con le grasse scannellature e i grumi di sangue nero, nero come di pece, per tutta la sua terrificante, alta e lunga grossezza, come in un fodero di velluto nero, l’enorme mole affusolata andava spostandosi con possente, inesorabile len tezza: il fenomeno di natura fatalmente aveva inizio, fatalmente si muoveva al suo fine. Dagli sprofondi abissali veniva un rimbombo spento come il rotolìo di un tuono per quelle fosse e montagne sottomarine, e il mare alla superficie si scuoteva tutto ». E nelle righe successive la visione naturalistica e quella geologica, l’im magine tecnologica moderna e quella mitica primordiale trovano una loro misteriosa convergenza: « L ’animalone brancolava ancora cieco e sonnoso, oscuro e inavvertito come tutti i cataclismi nelle loro sotterranee origini, quando non se ne ha ancora segno e sono già sotto i nostri piedi. La sua im mensa mole affusolata saliva, preceduta dall’alta pinna dorsale ad ascia, come un sommergibile dal suo periscopio, e salendo, dalle bocchette dello sfiatatoio sprigionava un sibilo come di fuoco che va per acqua, di lava di vulcano che erutta dagli abissi e raffreddandosi, forma un isolotto in superficie ». La concezione del mondo come metamorfosi, che ispira il poema di D ’Arrigo, mi sembra affondare le sue radici nella religiosità mediterranea e nel prodigioso fiorire delle sue figurazioni a contatto con la civiltà dei Greci: incontro decisivo per la storia dell’Occidente, che produsse una mitologia di trasformazioni incessanti, degli dèi, degli uomini, degli ani mali, delle piante, degli elementi. Questo mondo increato, soggetto a una continua metamorfosi, si manifesta in Horcynus Orca non solo nei richiami espliciti che proiettano la vita dei pescatori su uno sfondo di millenni (dalle fere-sirene a Ciccina Circé, da Marosa-Penelope a Scilla e Cariddi): ma in una visione mitico-religiosa che, varcando la mediazione trascendente del cristianesimo, entra in conflitto tragico con la civiltà contemporanea, fondata sull’assoggettamento della natura e sullo spossessam elo dell’uomo. Perciò D ’Arrigo ha potuto creare un epos moderno, riprendendo, come Joyce nell’Ulisse, il tema mitico: perché in una età in cui l ’unico mito è la dissoluzione dei miti arcaici, solo la tragedia incommensurabile della loro perdita può essere il tema della tragedia. E si capisce, in questa prospettiva, come D ’Arrigo avesse scelto Hölderlin per la sua tesi di laurea, un poeta che aveva cantato la perdita degli dèi in un’epoca di privazione. Solo ’Ndrja, pur provato da quella sofferenza muta che segna tutti i nostri passaggi interiori e che coincide con una nuova coscienza della realtà, non si adegua a quella metamorfosi che negli altri è corruzione: nella dege 10
nerazione del mondo, è l’unico personaggio che conserva una oscura, dolo rosa fedeltà a se stesso. Perciò la morte che tronca la sua giovinezza è insieme casuale e necessaria: la pallottola « che gli scoppiò in mezzo agli occhi con una vampata che lo gettò per sempre nelle tenebre », gli impedi sce anche di aprirli a un mondo che non può riconoscere come suo. Ha scritto Carlo Diano in Forma ed Evento: « Ad Achille nessuna tra sformazione è possibile, perché lo spazio ch’egli si porta dentro, è immo bile e fuori del tempo, e la luce eh’è nella sua figura, è indivisa. Egli non ha perciò che una forma, come i suoi dèi, e mai, neanche a prezzo della morte, accetterebbe di vestire i cenci di Tersite. Ma Achille muore giovane, perché la forma, nell’urto con l’evento, non potendosi mutare né piegare, si spezza: Ulisse, mutabile e pieghevole, segue le spire dell’evento, e la morte lo coglie da vecchio. E le due morti sono anch’esse opposte come le due vite e conformi alla logica dei princìpi ai quali queste ubbidiscono, perché Achille va incontro alla morte vedendola e liberamente l’elegge, e Ulisse è ucciso per errore dal figlio Telegono, il “ nato in terra lontana” , che egli non conosce ». Nella ripresa moderna del mito le due figure trovano invece enigmatici punti di contatto, che sono come l’eredità di nuove esperienze millenarie: anche ’Ndrja, tornando nella sua terra, viene ucciso per errore da un uomo « nato in terra lontana », da un uomo che non conosce. E tuttavia egli non è Ulisse, ma Achille, giovane, immutabile, o meglio non ancora mutato. Però quello che fa di Achille un eroe nel senso indicato da Heideg ger, del « volere la propria morte », è negato a ’Ndrja, che è colpito da una cieca, impenetrabile fatalità. Eppure anche ’Ndrja è un eroe nel senso permesso dal tempo in cui vi viamo: non conosce il proprio destino, ma vuole sottrarsi a quello degli altri, perché non vi si riconosce. E questo è il pathos indimenticabile della sua giovinezza, della sua infinita pazienza, della coerenza in cui oscuramente crede. In un universo dominato dalla metamorfosi, la morte lo ferma per sempre in quella giovinezza ideale che, per essere eterna, per diventare eterna, deve sottrarsi al tempo. Giuseppe Pontiggia
Horcynus Orca
a Jutta, che meriterebbe di figurare in copertina col suo Stefano
Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina ’N drja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scilFe cariddi. Imbruniva a vista d ’occhio e un filo di ventilazione alitava dal mare in rema sul basso promontorio. Per tutto quel giorno il mare si era allisciato ancora alla grande calmerìa di scirocco che durava, sen za mutamento alcuno, sino dalla partenza da Napoli: levante, po nente e levante, ieri, oggi, domani e quello sventolio fiacco fiacco del l’onda grigia, d ’argento o di ferro, ripetuta a perdita d ’occhio. Solo da alcune ore, anche se lo scirocco era sempre quello e anzi aveva infocato la posta, aveva cominciato sotto sotto ad allionirsi. Era stato naturalmente nel farsi da mare rema, intrigato e invele nito alle prime tormentose serpentine di spurghi e di rifiuti, simili a gigantesche murene che egli, col suo occhio di conoscitore, andava scandagliando dal colore diverso, come di pietra muschiata, gelido e rabbrividente. Era stato, perciò, dopo che le Isole erano scompar se alla sua vista dietro Capo Milazzo, e Stromboli, Vulcano, Lipari, che intravvedeva per la prima volta distanti e da terra, dopo averle viste sempre dalla palamitara, salendo per il G olfo dell’Aria, sem bravano vaporare nel sole come carcasse di balene cadute in bo naccia. Intanto che camminava verso la punta del promontorio femminoto, il cielo davanti a lui sullo Stretto passava dall’ardente imporpo rato a una caligine di guizzi catramosi. Quando s’affacciò sul mare, e ancora si vedeva chiaro per dei barbagli madreperlacei dell’aria, la notte senza luna sopraggiunse di colpo, con quel repentino e tempo ralesco passare dalla luce all’oscurità con cui cadono, anche nella più chiara estate, le notti di luna mancante. Nuvolaglie fumose, come rotolassero giù dalle cime dell’Aspromonte e deH’Antinnammare, ave 15
vano sommerso e livellato, in un solo nero miscuglio, il varco aperto fra le due sponde. Qualcosa, in Sicilia, che per la coloritura violacea riflessa dall’ac qua, sembrava una grande trofia di buganvillea pendente sulla linea dei due mari, brillò per un attimo dal mezzo della nuvolaglia, poi il brillio cessò e lo seguì un risplendere breve breve e bianco di pie tra, e allora, nel momento in cui spariva nella fumèa, riconobbe lo sperone corallino che dalla loro marina s’appruava, quasi al mezzo, come per spartirli, fra Tirreno e Jonio. Su quella punta abitava il loro Delegato di Spiaggia, in una casi pola a cubo, che era una via di mezzo fra la cabina di bastimento e la garitta della sentinella. Lo sperone serviva per consigli e con versari; serviva pure da osservatorio sul duemari durante la passa, quando il sorteggio gli assegnava la posta ravvicinata rivariva, nel la quale non avevano mare sufficiente per piazzarvi la feluca dal cui albero l’intinnere scandagliava in circolo il primo appalesarsi di spa da, sicché s’imponeva uno scaglionamento di guardie a terra ed era anche allo sbracciamento o scappellamento di queste vedette, che il filere sull’ontro spiava, tutt’occhi, per avere avvisaglia d ’animale che s’appropinquava. ’N drja Cambrìa vedeva cosi la notte, una notte doppiamente te nebrosa, per oscuramento di guerra e difetto di luna, rovesciarsi fra lui e quell’ultimo passo di poche miglia marine che gli restava da fare, per giungere al termine del suo viaggio: che era Cariddi, una quarantina di case a testaditenaglia dietro lo sperone, in quella nu volaglia nera, visavì con Scilla sulla linea dei due mari. E intanto che la notte s’inondava sempre più per Tirreno, man giandosi il mare di sangue pestato come ci dilagasse dentro col suo nero inchiostro, e tratto tratto sembrava accorciare la diagonale che si seguiva a occhio nudo fra lo sperone incontro a Scilla e quel pun to di bassa caviglia calabrese dove si trovava, egli andava misurando, come una volta, stando a bordo all’ontro, la brevità di quel passo di mare, remando una palella dietro l’altra: oooh...oh... oooh...oh... sul poco fiato dello spada agonizzante che smaniava, smaniava contem po che scappava, nuotando nel suo ultimo sangue, e dentro quel breve miglio era già morto: e le acque davanti al paese delle Fem mine sentivano appena la punta della sua spada, perché, da Cariddi a lì, il suo era un salto solo nella morte. Quando capitava che nel suo strano capriccio di morte, lo spada 16
sbattesse per là, erano parole e scene sicure con quei notorii armimbrogli. Snelli di vita, delicati ed eleganti per natura, piacentissimi al le loro femmine, che sembra li tengano solo a quell’uso, almeno una volta, alla passa, il sorteggio di là e di qua li metteva posta a posta con loro, in uno stretto giro d ’acque. I pescatori femminoti, i baffettini sul labbro, se ne stavano come per figura su ontri e feluche: sembrava, a vederli di lontano, che aspettassero solo che uno spada stracquo e avvilito, meglio ancora se perso di sangue, scapolasse, da quelle di Sicilia, nella loro posta. Quando fatalità voleva che l ’ani male pigliasse quell’indirizzo storto, avesse pure la traffinera inalbe rata sulla schiena come stendardo di riconoscimento, quei galantomini facevano issofatto la mossa d ’incamerarselo, accampandoci so pra il diritto del malandrino. Tante volte, alla ladricella, tentavano persino di liberarlo dalla traffinera e di scaricare la corda in mano ai cariddoti; e tante volte, per strappargli il ferro, sottomano, in fret ta in fretta, lazzariavano le belle carni. Arrivavano là cogli occhi di fuori, girandogli strettistretti intor no, come per abbordarli: « Bello il gioco delle trecarte che ci faceste » gli dicevano i pellisquadre, schiumando dalla bocca. « D i anno in anno, vi fate più svelti di mano » Intanto, a prua, il lanzatore ripescava la traffinera, asciugava il ferro, lo lustrava col fazzolettone, fra indice e pollice, con la deli catezza dovuta a un diamante; faceva sentire poi lo scatto mor bido della chiusura delle tre punte intorno all’asta, e infine impu gnava la traffinera, calibrandola e bilanciandola, fra palmo e polso, come una lancia da scagliare. Faceva apposito, smaccatamente, perché lo vedessero che la traffinera gli scappava quasi di mano, che era pronto, prontissimo a lanzare cristiani come lanzava animali, e che anzi ci avrebbe messo tutti i sensi e i sentimenti. Quindi, sollevava gli occhi, stretti a feritoia, e mirava i femminoti: « Quell’animale là, lanzato, fu il sottoscritto che lo lanzò » affer mava. « Ci fu errore » rispondevano gli sfrontati. « Lo scambiammo per un povero orfanello solingo » E posavano l’osso.
Era già in fondo al promontorio, sotto i trafori della scogliera, quando gli giunse all’orecchio il rimbombo precipitoso della stam 17
pella di Boccadopa. I colpi si perdevano fra le cavità della scogliera, correvano sotto la massicciata, ed era come se la loro eco gli sfiorasse i piedi in un soffio d ’aria. Il rimbombo cresceva colpo su colpo, batteva e ribatteva sulla prescia di Boccadopa che il marinaio, nem meno a dirlo, non se lo voleva lasciare sfuggire, proprio ora che era no in pizzo al mare. La notte, col suo cadere improvviso fra i due versanti del promon torio, si era messa fra lui e i soldati come una cortina fumogena: doppiata la punta, quelli, si erano trovati fra le pareti della scogliera come in una galleria di tenebre, col marinaio sparito dentro, a non più di duecento metri davanti a loro. Si figurava, dallo sbattimento di stampella, la cazziata che Bocca dopa, sicurissimamente, fece a quel pelleossa di Portempedocle che, secondo il suo criterio dispotico, doveva mettergli il sale sulla coda e non perderlo mai di vista. E in effetti, per due giorni, con la paro letta che veniva a dirgli ogni tanto, col suo bonfare e il suo sorriso di scheletro ambulante, senz’altra opera di persuasione che questa, l ’aveva persuaso lui, a trattenersi, a non alzare i tacchi e lasciare Boccadopa e gli altri nel polverone che sollevavano con le pezze in cui tenevano fasciati i loro piedi. Ora, però, con tutto quello scu ro di mezzo, era come se li avesse distanziati due giorni prima. Ma il punto non era quello, il punto era che al mare si doveva fermare anche lui. Il rimbombo s ’interruppe e un istante dopo, nel silenzio cavo del la scogliera, scoppiò come un boato la voce di Portempedocle: « M oo...sè... M oo...sè » chiamava nella notte. S ’immaginò che Boccadopa lo tenesse come un cagnolo, agguan tato per il cozzo, dicendogli con l’affanno fra i denti: allettigato, chiamate, chiamate, fatevi uscire il fiato... Portempedocle era ormai di quelli che non si bagnano né si asciu gano, di quelli che non possono più dire, come si dice: bene e male sempre viene, perché il male gli era venuto in una tale quan tità, che anche il bene, si poteva dire, gli era venuto col male: non era uno scheletro ambulante? eppure, non camminava, rideva, viveva? Era uno scheletro, ma Boccadopa pareva non vedergli le ossa sotto la pelle, perché lo aveva preso a struggere come fosse convinto che ci fosse ancora da struggere in lui: e il fatto che Boc cadopa non se ne scandaliasse, a Portempedocle smuoveva una specie 18
di riso, anche se spesso, questo riso, gli restava dietro i denti, quasi in trasparenza. Anche in quel momento, pareva che se lo pi gliasse a pizzola, Boccadopa: « M oo...sè... M oo...sè... » Gridando, pareva giocare con la o come facesse bolle di sapone, e l ’eco si arrotondava in bocca al promontorio, come un gigantesco mormorio di meraviglia. Risorse il rimbombo della stampella di Boccadopa, per un poco batté: mbù, mbù, e poi Portempedocle tornò a gettare il suo richia mo alla notte: « Mosè, fermatevi, non scomparite... » gli gridò e questa volta c’era un certo affrevo nella sua voce, come una ribellione di accenti ansiosi. Ma forse pure quella, la febbrosità di tono, gli indettava, con la forza, Boccadopa. « Pigliatelo nel mazzo, tu, Boccadopa, e quel M osè che mi vai nominando » gli mormorò. Ormai, si doveva sciogliere dall’esercito. Con le femminote, se otteneva trasbordo per sé solo, doveva baciare in terra e guardare in cielo. Non sapeva quali parole e argomenti di persuasione trovare, e che promettergli, che inventargli, a quelle scabrose femmine, per farsi pigliare in barca, se barca c’era, se corrispondeva al sentitodire: figurarsi se poteva accollarsi anche quel pesomorto, quattro soldati di terra, di cui uno con una gamba sola e la stampella, tutti e quat tro, poi, poteva figurarseli, spagnatissimi, sia di mettersi, sia di non mettersi in mare. Per questo, da due giorni lo seguivano, non lo perdevano mai di vista, se lo covavano cogli occhi: per il mare; e per questo, quel pelleossa sfantasiato di Portempedocle, da due giorni l ’andava ap pellando Mosè, con tanta serietà che lui stesso, non solo si voltava a quell’apostrofe, ma certe volte, si scordava quasi quasi di chiamarsi ’Ndrja Cambrìa e gli pareva quasi quasi di essere stato inteso sem pre Mosè, Mosè marinaro. In quattro che erano, dopo un giorno o due che lo tallonavano, gli contavano i passi, lo tenevano d ’occhio dall’alba al tramonto, in mente a lui si erano come moltiplicati. Qualche volta, se si girava a occhiare verso di loro gli veniva d ’immaginare che il polverone sol levato dalle pezze in cui strascicavano i piedi, fosse solo l’inizio di una lunga nuvola biancastra, dentro la quale, per le coste calabresi, 19
il popolo ebraico, di guerra in guerra, si spostava verso sud, sudest, sempre affamato, ramingo, ferito, sempre in cerca d u n a patria, d ’un cielo e d ’una terra per tetto e rifugio. Avanzi di guerra miseriosi e pezzentieri, impiagati e mutilati, chi si vedeva e chi no, e la stam pella di Boccadopa ci stava come per insegna e simbolo, avevano l’aria di marciare veramente dietro a lui verso il Mar Rosso. Anche se ignari, quella era l ’aria, Portempedocle gliel’aveva proprio mar cata: l ’aria ebrea, siciliana, di quelli che tireranno il respiro solo quando passeranno il mare e solo là, di là, si sentiranno salvi. S ’illuderanno veramente, pensava. S ’illuderanno di sentirmele dire pure a me quelle parole mammalucchine: apriti, mare. Lasciaci pas sare. E lui s’apre, si fa di fianco e noi trasbordiamo sull’isola a cam minata, discorrendo e fumandoci una sigaretta. Questi rituffi di caffè, questi soldati di terra, lo avevano ignescato in alta Calabria, nelle vicinanze di un paese che si chiamava Praja a Mare e non senza ragione: da lì in poi, infatti, il terramare era, per miglia e miglia, plaia e plaia, costiere di sabbie dolci e sabbie dure, scavate, di tanto in tanto, dai letti asciutti e pietrosi delle fiu mare che brillavano in lontananza. G li era scoppiata là, a Boccadopa e compagni, tutta quella am bascia del mare da passare: e questo, in conseguenza di un incontro strano, per non dire fenomenale, che lui e loro, anche se separatamente, avevano fatto con una piccola comarca di femminote, stra viate lassòpra, che sarebbe come dire il Polo Nord per esse, dal loro verso e direzione abituali, che non furono mai di salire per Cala bria, ma di scendere e passare mare per Sicilia, dato che il loro stile di vita, stile mascolo cioè di buscarsi la vita, consistette sempre in arraffamento di sale franco a Messina e in ’spedienti per passarlo in Calabria senza pagare dazio, sotto l ’occhio di finanza e questura, fra manovre di treni e imbarco di vagoni, fra molo e ferribò, arrivi e partenze, merci e passeggeri, colli e bagagli, finestrini e staffe, scam bi e respingenti, latrine e stive, ponti e scalette, vapori di locomo tive e fischi di sirene. Straviate: come gabbiani dirottati sullo scili’e cariddi da qualche tempestona oceanica, che da Gibilterra rintrona nel Canale e fa ve nire il pellizzone, i brividori di pelle; o come rondini marine, che trasvolano atterrite verso terra, svolante nuvola nera davanti alla burrascata, che viene ribellando di lontano i cavalloni, rigonfi e tene 20
brosi, delle furie; o come le quaglie anticipate dal maggio all’aprile, che sbattono sulle dune di Casablanca o alle prime alture di Spartà, stracque e accaldate di sabbia africana, e sono segno che s’avvicina un’estate selvaggia, un tale terribilio di scirocco a levante, che si scioglierà il catrame sotto le barche al secco e lo spada, magari per tutti e quattro i mesi senza r, passerà basso, sotto i quindici metri, e là, non c’è occhio che possa scandaliarsene, là, anche l ’occhio più fino di falcone dovrà farci sopra una lagrimella e intinnere e filere si terranno sciolti in coffa, perché, prima o poi, gli si rove scerà il bianco degli occhi e precipiteranno a mare come sparati dal loro albero di vedetta, con la testa che gli fumiga sotto il cappello di paglia. Straviate cosi: come gabbiani, rondini marine e quaglie, quando sono fuori tempo e fuori luogo, e allora sono sempre avvisaglia di qualche novità, e novità sempre dispiacente, se si sa smorfiarla.
Stavano ai bordi di una plaia immensa, rientrata dalla marina vera e propria circa trecento metri e prolungata tanto, che non se ne vedeva la fine. Un’ora o due dopo mezzogiorno, era arrivato a una fiumara secca, sabbiosa e pietrosa che a occhio e croce doveva essere un mezzo mi glio fra una sponda e l’altra. Il ponte, che una volta l’attraversava, era stato fatto saltare pezzo a pezzo dai tedeschi in ritirata; restavano solo i piloni, che sembra vano dei baluardi frangiflutti per la piena delle acque invernali. A ll’altra sponda del ponte, alzata accanto a un pilone, c’era una tenda da campo. Non si vedeva nessuno di fuori, ma sotto la tenda, al riparo del sole, doveva esserci certamente qualcuno. Questo qualcuno, siccome era a quelli che pensava, gli passò per la mente che potessero essere una di quelle coppie di carabinieri che, correva voce, giravano a cavallo o a piedi, cogli ordini del re scom parso, che era ricomparso con trono e rintrono di proclami maestosi, nella città di Brindisi, nelle Puglie, e che, come Carlo dopo Roncisvalle, andava facendo l ’appello dei paladini morti per vedere se casomai qualcuno gli restò fedele e vivo, ma non per squartare fra due cavalli il suo già caro e onorato cugino ma solo, forse, per pro forma di re che regna. Fantasimi, diceva la gente di quelle coppie di 21
carabinieri erranti. Fantasimi, che in nome di re fantasima, gettano il bando di richiamata a soldati fantasimi anche loro, loro nemmeno a dirlo, più fantasimi di tutti. Fantasimi o no, aveva disceso la fiumara sino al suo sbocco. Là, sull’altra sponda, c’era un grande ammassamento di scogli, come se il mare si fosse ritirato lasciandoli allo scoperto, sprofondati nella rena. Si era levate le scarpe e girando e rigirando nei passaggi fra scoglio e scoglio, era uscito su quella plaia sterminata, silenziosa, bianca e accecante sotto il sole. Era come di piena estate, la sabbia e le pietrebambine bruciavano sotto i piedi, il cielo era azzurro e senza una nuvola, il mare mosso appena dal suo scintillio: nell’aria ferma, il rotolìo delle onde lente alla riva pareva scendere dentro la marina e prolungarsi lontano sotto la rena. Intorno, era dappertutto bianco e polveroso: c’erano solo delle macchie di canne lungo la fiumara, per il resto l ’occhio non avrebbe avuto dove posarsi, se non fosse stato che subito a sinistra, ad an golo retto con la fiumara, un fitto nereggiante di giardini bordava per un lungo tratto la plaia, attirante come un’isola di fronde e di frescura. Lontano, dove il boschetto finiva, si intravvedeva un pezzo di serpentina della strada. Risalì la spiaggia e poi, nella plaia vera e propria, seguì la trac cia che altri passi avevano lasciato sulla sabbiadura. Avvicinandosi, vide che erano alberelli nani, aranci e bergamotti, combaciatiti tra loro col ricco fogliame e il carico di bottoni verdeneri e lustri: su bito, al primo passo, lassòtto era cupo d ’ombre, tenebroso come per notte. Camminava lungo il boschetto, ancora con le scarpe in mano, e credette di sentire come un improvviso fruscio d ’aria fra le foglie secche, ma era invece qualcuno che gli faceva sordellino, con le lab bra ad anello, per richiamare la sua attenzione; e difatti, dietro al sordellino, una voce di femmina era sorta di là ad apostrofarlo: « A voi, marinaro con la barba... Una parola, una paroletta, per mettete, sentite... » Qua parlano l ’aranciare, era stato il suo primo pensiero. La voce infatti, seppure d ’intonazione tutta naturale e umana, umana anzi sino alla sfrontatezza, per lui che non vedeva la femmina, sembrò sgrovigliarsi, bassa e tenebrosa di segretezza, dalle parlanti radici di uno degli alberelli. 22
« A voi, marinaro ’ntartarato » insistette la voce. « Una parola, una paroletta... Permettete, sentite... » Con quel suo modo allusivo di pronunciarsi, mezza e mezza, dal l ’ombra, come dallo spiraglio di una porta o da dietro la grata di una finestra, la voce gli faceva lo stesso effetto di quella d ’una adescatrice, soldatara della cinta delle mura, sirena di bassoporto, una adescatrice di quelle che ti gettano l’esca e ti cantano canzonette, eppure sottosotto hanno un tono come di boria, risentito e sprez zante, un piglio d ’alterigia, che non si sa dove l ’appoggiano. Aguzzando gli occhi sotto gli alberelli e come orientandosi al suo no della voce, arrivò a scoprire, prima quella che lo aveva apostro fato e poi, da lei, le altre, una diecina, sedute qui e là, alla prim’ombra del giardino, ognuna sulla cofana d ’incannata; solo che mentre quella stava rialzata sul busto e poteva vederla, le altre in vece stavano chine in avanti, senza nessuna curiosità di lui: le lun ghe schiene ricurve, dal rigonfio delle gonne che gli incoffava il culo, al collo lungo e scoperto, alla testa con i capelli neri corvini, acco tonati sopra, attrusciati in tondo, per fare da appoggiatoio alla co fana in equilibrio quando camminano; i gomiti sulle cosce, le gambe larghe e le gonne tirate sui ginocchi per rinfrescarsi di sotto. Qual che lembo di colore rossofiamma spuntava dal numeroso fascio delle gonne: questa scoperta, delle gonne rosse fra le nere, che esse solo portano quasi per bellezza e bandiera, come a un segnale, gliele fece riconoscere per femminote. Le riguardò alla posa, allora, come di maghe nel nascondiglio. Femminote lontane dalla base? si chiese. Femminote straviate per nord, contrariamente al loro naturale? Ma non ebbe tempo, sul mo mento, né di capacitarsene né meravigliarsene quanto avrebbe dovuto. C ’era sempre quella che gli si era messa all’orecchio con la paro letta: quella, che stava ritta, cogli occhi aperti, come alla misa del passante, mentre le altre stavano a spalle piegate, quasi aspettassero che il sole gli passasse sopra il dorso. « Una paroletta, marinaro, bello mio. Una paroletta per il piacere vostro » insinuava. Ora, la vedeva bene: un soggetto capotico che a suo tempo doveva avere furoreggiato e ancora se la batteva, col personale grande e gio vanile, la faccia tosta e lucida, gli occhi di piratessa, mezzi chiusi e terribili, le rughe che le tagliuzzavano la faccia in forma di due mezzelune, fra gli zigomi e la bocca, e che non tanto parevano opera 23
di vecchiaia, quanto cicatrice di qualche vecchio sfregio, ricordo di spasimante tradito e furioso. Vecchiaia o rasoiate, quelle rughe, o intacche, le stavano sulle guance come un tatuaggio con la data, di quando doveva essere assai sbardellata e invogliarne, una gran campiona di galeota, passionale e tragediatora, e gli uomini che c’in cappavano, o finivano in carcere o finivano al cimitero. Allo sta to attuale, a lui, nell’insieme, gli riusciva sfrontata, trucchigna e sco stante. « Che c’è? » le fece. « Che è sta paroletta? » Una certa curiosità ce l’aveva, non poteva negarlo, anche se molto credeva di saperlo: non poteva mai immaginare però la stranezza di cosa femminina che quella paroletta gli avrebbe rivelato, seppure non svelato. Senza dargli conto, la femminota si girò indietro e si rivolse a una delle sue compagne, che stava più dentro al fogliame, invisibile a lui, L ’apostrofava: « Cata, bella mia » e le parlava a muso dolce, con parole ammielate all’orecchio di lei, con frasi strabilianti all’orec chio di lui. « Cata, bella mia, » le diceva « faceste caso al marinaro che vi venne qua davanti? Lo miraste bene com’è bello e com’è alto, che pare uno stendardo? Vi fa sangue, bella m ia? Ditemelo se vi fa sangue, ditemelo franca, non vi fate scrupolo... Vi viene a cono scere, a occhio vostro? Vi ricorda qualcuno, a mente vostra? Vi fa cuore d ’averci conversario? Eh, qualche paroletta, per caso, non ce l ’avete, in punta in punta, di dirgliela? Un purparlé con lui, eh, vi fa genio di avercelo, un trattenimento sotto le fresche frasche? Par late, bella mia, ditemi se questo regio marinaro v ’incontrò i carat teri, se ci faceste un pensiero sopra, sennò non v ’appenate. late, iate, gli dico. late per la strada vostra, marinaro, una volta che a Cata non le fate nessunissimo genio. Eh, bella mia, sentiste come gli dico? » « Scusate se mi intrometto... » la interruppe. « Un momento, aspettate un momento, voi... » lo zitti lei. « Ma che momento. Mi piace come disponete del sottoscritto. Una paroletta, se permettete, la vorrei dire pure io. Mi spetterebbe, mi pare » Quella Cata rise là nell’ombra e la femminota se ne mostrò sor presa: « Ah, vi strappò un riso? Allora, un p o’ v ’aggradisce il marinaro, vi fa sangue? La paroletta allora vi sentite di dirgliela? » 24
« Ma a me, non me lo domandate a me, se mi va di sentirla? » « Ah, meglio mi sento... Pure pregato volete? » « Pregato? Ma se nemmeno fui interpellato... Oh, questo, teatro vero vero mi pare: uno si trova a passare e voi, issofatto, disponete di lui a libito vostro. Vi comportate, forse mi sbaglio? come una sensala di matrimonio, però la parlata gliePandate facendo solo a quella tale Cata che vi sta dietro, mentre a me, né mi fate né mi date parola, mi pigliate e levate come un pupo dell’Opera dei Pupi. Ma secondo voi, io me la dovrei pigliare nel sacco? Io, secondo voi, un’occhiatella non gliela dovrei dare? » « E statevi quieto, statevi... » fece con smacco rabbioso, a lamen to. « Non immagina nemmeno la fortuna che gli capitò. La vuole vedere, fa pure l’esigente, con quell’aspetto di porcospino, tutta quella barba che si porta per lutto... La volete vedere? E vedetela. Ma lustratevi gli occhi prima, lustrateveli, sì... » « Va be’, me li lustro. Ma non è che mi fate comparire una zoppa, tignosa, con l ’occhio di vetro, i denti finti e il petto di pezze? » Ancora non sapeva che pensare: fingeva di pigliarlo a scherzo, sen tendo che scherzo non era. Parlava con quella, e intanto considerava e vedeva le altre che, se stava a lui dirlo, le avrebbe dette tutte mor te: seguitavano a non dare musione alcuna da sotto le schiene, qua e là qualcuna tirava un grosso sospiro, ma quanto ad alzare la testa, mostrare una minima curiosità per lui, per l’apostrofazione di Faccia tagliata e la parlata che gli faceva per quella sua Cata, niente, non gli arrivava niente: o era troppo vecchia la cosa per esse o erano esse troppo vecchie per la cosa. Facciatagliata aveva rovesciato una delle cofane e la spingeva sotto a forza di braccia, per incarcarla coi manici dentro la rena. Fatto questo, batté con la mano sopra una di quelle schiene, la più vicina a lei, e quella, come ci fosse un’intesa, si alzò senza domandare e si piazzò dall’altro lato della cofana: era una vecchia cannadastendere, che non aveva niente, all’aspetto, di quella Facciatagliata che mo strava ascendente sopra di lei, non aveva specialmente quella, la fac cia, col piglio dell’antica femminona e quelle intacche a luna man cante. Fronde e foglie si smossero nel boschetto, come se ci sbattesse contro con le ali un uccello che volava fuori di lì. Le due femminote poggiarono le dita in punta ai bordi della cofana: ma senza forzare, solo proforma, si vedeva che lo facevano per scena, e stettero così, 25
sinché quella che veniva avanti, suonando bambinescamente fra le fronde sotto cui passava, non apparve e si sedette sulla cofana come sopra un tronetto: con le mani in grembo e un sorrisetto strano, terribile e beato, che faceva a labbra unite, guardando davanti a sé, nel sole dove stava lui, nel taglio tenebrolucente del giardino. Fra le femminote è difficile trovare la brutta, non la bella; e anche fra quella diecina ammucchiate all’ombra del giardino, certamente non difettavano le belle, forse ve n ’era persino di più belle di quella Cata. Ma lei era diversa, era rara: non era una bellezza, era una beltà. Per questo, la sua sensala diceva che doveva lustrarsi gli oc chi per vederla: perché era differente da lei, da tutte. Non aveva niente dell’incarnato femminoto, tosto, prepotente, scuro, niente della movenza malandrinesca, tutta naturale, d ’un corpo statuario, di gran vista, però commisurato a se stesso, alla perfezione: un corpo alto di ponte, coscia lunga e gambe trampoliere, dalle larghe, nere, polverose piante dei piedi sempre nudi, sulle quali poggia potentemente, eppure morbido, elastico, come fossero vere statue che cam minano, animate di midollo di cannadindia, che gli dà quella movenza di fustino che vibra e di cui si risente persino l ’aria dove passano. Quella Cata non aveva niente di queste famose particolarità fem minote, e niente del piglio dispotico e sfacciato con cui manifestano il loro ascendente sull’uomo, niente, insomma, di quell’insieme galeoto che attira e contempo scoraggia nella femminota. Lei era tutto il contrario, la negazione d ’una femminota. Si restava a bocca aperta a girare gli occhi dalle altre e vedere lei, una femminella mignonetta, una miniatura, un gioiellino di perso nale che dal garbo di vita si sfilava nel pettazzolo che le gonfiava il corpetto fra i lacci, non come le mammellerie soverchiami che si ve devano in giro nel giardino, ma come un grosso sospiro: un figurino di femminella ch e'c’era, tanto per farsene un’idea, da intrecciare le mani a dondolo e balanzarla fra le braccia come una pupitta. Migno netta, e di pelle damaschina, il viso come squaglio di zucchero, una bianchezza così" vergine, di natura, da fare pensare che mentre le compagne, affumicate e tinte, camminavano perenni sotto il sole, lei invece si riparava gelosamente sotto un ombrellino; coi tratti di viso, poi, come li avesse disegnati a mano, formato piccolo, modellati giust’a puntino per quell’ovale, cogli occhi mandorlati, il bianco ap pena sgusciato e la pupilla a papuzza, come una farfalletta ancora chiusa, tondina nera traslucida. Era di una vaghezza avvincente, una 26
sorpresa tale a vedersi in quella compagnia, che levava il fiato: ve niva di mangiarsela cogli occhi, per concludere. Succedeva però, che quando s ’andava a cercarle lo sguardo, magari per farle occhiolino e intendersi, l ’entusiasmo si freddava, l ’intenzio ne moriva perché, per restare al paragone, gli occhi correvano da lei come due aponi attirati dall’odore di miele e subito se ne volavano via, allarmati di scoprire che quel profumo di miele si sprigionava da lei come da un fiore finto, o vero e carnivoro. D all’aria che aveva in faccia, si sarebbe detto che la sua mente ri guardasse quella sua bellezza di corpo, né più né meno, come una nuvoletta che gli stava sopra e ci giocasse quasi a fargli ombra, ora coprendolo, ora scoprendolo, ora fingendo di inseguirlo, ora di farsi inseguire. Era una impressione immediata, netta e insieme oscura, che si riceveva al primo sguardo: nell’ombra molle, sottomarina del giardino, sembrava di vederla come specchiata in un’acqua, sembrava non di vedere lei, col suo sguardo sano, reale, ma la sua immagine riflessa fuori di sé, svagatamente, nei suoi stessi occhi, come un pen siero cadutole di mente. Inquadrata così: quello che di lei figurava e si vedeva con quello che di lei sfigurava e non si vedeva, ne risultava una mignonetta, fra l’imbambolata e la sfantasiata, la quale d ’un verso pareva una ancora acerba che si figurava a femmina fatta, e d ’un altro verso, una gran de che si facesse a pargoletta, e pareva che in questo ci fosse qual cosa di ugualmente vero, come non fosse ancora tutta spigata, ma pure come fosse maturata tanto, che di più non poteva. Se ne stava là, posata più che seduta sul bordo della cofana, fra le due vecchie all’impiedi, tutte in muti riguardi, sola con quel suo sorriso strano, terribile, beato: in un’aria delicata, in vetrina, come qualcosa di intoccabile dietro un vetro, in un’aria tutta tangelosa, dove appariva contornata da una maestosità senza ragione e senza forza. Ed era questo il misterioso in lei, questo che chiamava verso di lei e allontanava da lei, questo che mentre spingeva quasi a pi gliarla nelle braccia, spingeva contempo quasi a scapparle di davanti agli occhi. Si era messo sulla rena e s’infilava calze e scarpe, intanto che la guardava. L ’aria di lassòtto si spiritò di odore di bergamotto. Con un tem perino, la femminota che faceva da aiutante all’altra, stava levando la scorza a un limoncello: quando lo nettò del callo e della pellic27
chia, lo passò alla sensala; questa lo apri e ne mise uno spicchio fra le labbra di Cata, aspettò che ne spremesse il dolce e poi si fece spu tare in mano la polpa amara. L ’altra, intanto, messa di dietro, le an dava riguardando i capelli che lei portava come le altre, intrecciati e accoronati sopra: li pigliava fra le mani incavate, ricalcandone l’ar rotondamento, come le imponesse in capo una corona. Facevano, lei e l’altra, come la preparassero a una cerimonia, al suo sposalizio, alla sua prima notte, anzi: una prima notte di pieno giorno, stando al frasario, fra di baliaggio e di ruffianaggine, che stilava con lei quella piratona di Facciatagliata. « Eh, bella, v ’aggradisce il marinaro? » tornò a chiederle, intanto che la imboccava di bergamotto. « L ’appuraste voi che è marinaro, sì, bella, l ’appuraste? Frinzi non ne ha più sulla divisa: scollo di so lino, cordoncino bell’annoccato e nastrino sul berretto, capace che se li giocò a zecchinetta, ma i pantaloni scampanati, quelli ancora li ha. Vi vengono a mente, bella, i pantaloni scampanati? » Le parla come a una babba, pensò. Non fosse babba, si lascereb be dire di tali babberìe? Pure fessa però, che non si scandalìa di sta gran fesseria dei pantaloni scampanati? Desiderò vederla da più vi cino, se musionava da babba o da scaltra, al tono di quella sua sen sala o ruffiana o mammana, quella che era. Il sole ormai specchiava fortissimo quasi a perfilo del giardino e lo abbagliava, perciò se ne andò all’ombra sotto il fogliame e si ap poggiò a un alberello a pochi passi dalle femminote. « Eh, bella, sì? la paroletta vi viene cuore di dirgliela? » conti nuava Facciatagliata. « Eh bella, ve lo mando lassòtto? Sentite, voi, gli dico, c’è una personella di riguardo che v ’ha da dire cosa fra le fresche frasche. Una certa Cata, che è le settebellezze, vi concede quest’onore e piacere d ’una sua paroletta. Così gli dico, eh? » « Ma che è sta paroletta? Eh, signorina, si può sapere o non mi ritenete degno? » s’intromise lui alle loro spalle: e s ’accorse di par larle anche lui vezzeggiandola, col tono simillimo a quello della sua mammana. Facciatagliata si girò scattosa, spalancando la bocca come per man giarselo vivo: subito però, si rigirò per osservare la sua pupilla. Que sta si era ottenebrata come se una nuvola le passasse in quel mo mento davanti agli occhi: si era accigliata e irrigidita, tratteneva il respiro e stringeva le pupille contro di lui, come si sforzasse di rico noscerlo, come lo guardasse di lontano, d ’assai, d ’assaissimo lontano. 28
La mammana si era ritratta d ’un passo e la spiava, con una mano fra bocca e mento, e l’altra vecchia la imitava, 11 allato, tenendosi in bocca, anche lei, con una mano la sua meraviglia, il suo impaurimento come di fronte al ripetersi di un tristo e triste fenomeno. Poi lei, confusi insieme respiro, sospiro, resospirò profondamente come uscisse di catalessi: il busto le si sciolse dentro il corpetto, riprese subito in faccia quel bianco di squaglio di zucchero, tornò lei, col suo sorriso strano, terribile e beato. Lui, ora, cominciava a scandaliarsi che senso aveva quel sorriso enimmatico, ammaliato, per questo, mentre in lei si ravvivava, in lui, se sorriso c’era sulle sue labbra, moriva. Facciatagliata, mammana o sensala, doveva conoscerla vecchia, quella cabala, e la smorfiava a menadito. Girò la testa verso di lui e gli disse: « Tornate di guerra, che nemmeno quella Morte grande vi volle, per come siete barbaro a vedervi, tornate così lordo, selvaggio e in famato la persona, che una cristiana tutta in sensi nemmeno con una canna vi toccherebbe: eppure vi va a capitare giusto a voi que sta trovatura di femmina, vacci a leggere, vacci a capire... Sta bambolalenci, preziosa e difficile di gusti, che quanti gliene proponete, tanti ve ne rifiuta, e succede invece che vi vede a voi, e invece di girarsi gli occhi dall’altra parte, pare che se li rifa, belli fiammanti, a guardarvi. Insomma, le aggradite. Le aggradite? Le piacete, pirdeu, le fate sangue, ve ne potete vantare, pirdeu: siete il primo, vi scelse a voi, siciliano, la calabrisella, con tutti sti disonorati che circolano, di levarle l’onore. Che andate cercando? Un tale tesoro vi viene tutto franco. Voi siciliani, se cadete a mare, tornate a galla col culo come una coffa di calamaretti... » Non gli dette tempo di risponderle, perché si chinò sulla sua pu pilla, le pigliò il viso fra le mani e la baciò sulla bocca con trasporto; anche l ’altra la baciò sulla bocca, pulendosi prima le labbra col dorso della mano. Facevano come la felicitassero; le facevano effusioni però, che sapevano anche d ’addio, come si dovessero separare da lei e la perdessero un poco, proprio come se la loro bambolalenci s’andasse di fatto a maritare. Lei manco batté ciglio: guardava lui a occhio fisso, pieno, sempre guardandolo si carezzò la fronte e si alzò, poi si girò all’indietro e allacciandolo dietro a sé con quell’ultimo sguardo, s ’inoltrò dondo landosi nell’ombra, che da lì in poi sembrava scavarsi profondamente 29
sotto gli alberelli, e sparì laddèntro, leggera e silenziosa, senza nem meno un fruscio di fronde stavolta, e subito divenendo inesistente come un’apparizione di mezzogiorno. « Andateci dietro: ma che aspettate, la carrozza? » gli fece fra i denti, biliatissima, Facciatagliata: piegandosi in due, come per sof focare il suo scatto di voce, con una mano s ’appoggiava a una coscia e con l ’altra sciabolava l ’aria fra lui e il fitto del giardino, pareva spingerlo, sdiruparlo, a colpi di fendente dietro a Cata. La faceva fatta, la faceva come intendeva lei, vecchia facciatosta: la faceva così fatta, che nemmeno se lo avesse visto, cogli occhi arraggiati di voglia, invaghito selvaggio, che da un momento all’altro si tuffava a pesce sulla sua pupittilla per annicchiarsi con lei fra le fresche frasche. Lui invece stava lì, appoggiato a una limoncella, co me si riparasse dal sole e non fosse lui la persona su cui la vecchia faceva calcolo per dare l ’incrignatura alla bella Cata: e se era vero che per tutto il tempo non aveva potuto levarle gli occhi di sopra a quello specchio di femminella, era anche vero però, che quanto a lui, era andato rimirandola sempre più spassionato, sempre più come una specie di miraggio solare femminino, che poteva vedere, ma non toccare. Non sapeva come comportarsi. Va be’, si era scandaliato che quella settebellezze era strambata, un poco o assai persa di sentimenti: pe rò, punto e basta, il resto gli era sempre oscuro, e quell’oscuro lo sconcertava. Perché Facciatagliata mostrava tutto quell’affrevo di metterla a tupertù con un uomo, la sua preziosa Cata, come si trat tasse d ’una medicina che le aveva ordinato il medico? Pensava forse di sanarla? E di che, precisamente? E perché, quella stravagante, aveva scelto proprio lui, uno che ancora scappava di guerra, agguan tandosi forte il culo con tutte e due le mani? Che particolarità, ave va lui? che era vivo, forse, mentre da lì in poi, a scendere verso il piede dell’Italia, tutti i maschi erano m orti? Ma lei era del tipo di femmina che fa risuscitare i morti più vivi, più mascoli e sbrigliati di prima. Perché dirgliela proprio a lui quella sua paroletta appar tata, paroletta che forse era veramente quello che s’immaginava, il solito baccaglio femminino per dire: infilami, ma chi l ’assicurava che, andandoci dietro, andandole dentro a sentirgliela dire quella paro letta, non gli succedeva che ancora non aveva finito di passare quelli di guerra e s’imbarcava in guai di pace? Quelle due: la femminona col tatuaggio e la femminella a baliaggio, quelle, ognuna per il suo 30
verso, erano, si capiva, femmine di conseguenze, di quelle che la sciano strascichi pericolosi: e doveva incapparci giusto lui? E se quella lo faceva per sfregio e se ne usciva qualcuno incavallato di coltello? O l ’impestava con la goccia, oppure contagiava con lo spu to di sangue? Tutto era possibile e invece, secondo Facciatagliata, doveva anche ringraziarle del regalo. E poi, c’erano quelle altre che se ne stavano zitte e curve sotto i loro pensieri, come per ritegno o disdegno di quello che gli arrivava all’orecchio, e lo soggezionavano e gli facevano apparire più oscura ancora la faccenda. Insomma, non si sentiva voglia né sentimento d ’infilarsi all’orbisca di quel giardino. Tutte sicure che lui s ’alliccasse i baffi all’idea della babbicella, le due fidate gli andavano facendo delle raccomandazioni. Gli diceva no d ’indelicarsi con quella bisquì, di scordarsi per quei cinque mi nuti del modo di vita rustico e barbaro che pigliò in guerra, e ricor darsi invece se ebbe mai garbo in borghesia e mettercene un poco con quel bambolotto di porcellana ché sennò gli si spezzava in mano... « Con l’orecchio teso stiamo » gli diceva Facciatagliata. « Se dal giardino esce un ahi, se la ronzate, se la martoriate, pirdeu... » « Ma che m ’andate infasciando? » le fece e gli venne da ridere. « Non vi biliate perché, tanto, non la tocco nemmeno con un dito. Ma v ’intestaste per davvero che ci vado insieme, che m ’isolo con lei dentro allo scuro? Ci mancherebbe che m’arruolo alla guerra vo stra, ora » « Ah, pirdeu, la chiama guerra, pure questa » fece lei disfiziata. « Senti, senti, questo ci rimette secondo lui, a sacrificio lo piglia... Oh Cata, Cata » chiamò poi all’indietro, ma a bassa voce, per scena, solo per farsi sentire da lui. « Venite, venite, bella, abbaglio pigliam mo, e prima di voi, io che lo dovrei vedere a distanza chi porta pan taloni veri e chi per figura. Ci sbagliammo d ’uomo, capiste? il qui presente non fa per voi. Venite, venite fuori, bella mia, rassettatevi alla cofana, trattenetevi ogni sfoggio, datelo a chi v ’apprezza il ricreo di beltà vostra... Passerà, passerà, non v ’allarmate, perché non tutti li ammazzò la guerra, quei cavalieri, passerà chi vi scambia per fata e vi piega il ginocchio davanti, in questo giardino... » « Che è fata, quanto alla bellezza, chi lo può negare? » le replicò, tanto per chiarire che gli occhi li aveva, e penetranti pure. « Ma oltre che fata, è pure fatata, mi pare: ci vuole forse l ’orbo per indo vinare questa ventura? Si vede da come guarda e sta in sorriso. 31
Questo voi lo potete negare? » E siccome gli consentiva col suo si lenzio, proseguì: « E la dovrei sfatare io? Gliela dovrei tirare io la riffa, laddèntro allo scuro? E se si getta al collo? » A questo punto però, lei gli dette un’occhiata sprezzante, fece una smorfia di schifo e lui si pigliò di puntiglio. Il tono alquanto acceso, continuò: « Ma me lo sapete dire perché io e non quello che passò di qua prima di me o quello che passerà dopo? Eh, perché proprio io? Che ci vedette in me? » « I pantaloni scampanati ci vedette, i calessoni marinari. Che vi pareva? La dondoliata di fianchi che avete? Il colore bello degli oc chi? » « Volete dire che mi scambiò per qualcun altro? » « Per un altro paio di calessoni, sì » « Era suo marito, forse, quello dei calessoni scampanati? » « E chiamatelo marito... » « Zito, allora? » « Uh, pirdeu » sbuffò. « Alquandalquando ne capitò uno e si ri velò questo cacone, questo domandiere fottuto... » Detto questo, tornò alla sua cofana, gettando di bocca pirdei, fa cendo uffa, uffa, come avesse rinunciato all’impresa: si curvò anche lei in avanti come le altre, pendoliando con la testa fra le gambe in modo che sembrava gettarsi il tribolo. « La vedete? » gli mormorò allora la vecchia aiutante, parlando con la mano alla bocca, alla ladricella. « Quando fa così, mi pare che pure lei, Jacom a, perse i sentimenti dietro a Cata... » « Ma quella Cata, fatemi capire, è sua figlia? E che le successe? Le morì il marito, lo zito? Com ’è che s’imbambolò? » La vecchia lo guardò arrugandosi in fronte: poi, alliccandosi un grosso neo peloso che aveva all’angolo della bocca, si decise e lo tirò per un braccio più in là, dove il giardino non era più tanto fit to e fra gli alberelli, sopra, sotto il fogliame lampeggiava il sole bat tendo sul biancore della fiumara. La vecchia s ’appoggiò alla sua spalla e cennandogli di continuo cogli occhi al sottocavallo e par lando in un bisbiglio anche se non potevano udirla, gli disse: « Ma perché v ’andate traccheggiando tanto? Avete il fare flaccommodo con la femmina o non vi sentite valìa? V ’inappetì la guerra o siete difettoso di cavallo per una qualche causa di natura? Par late, dite, non vi fate scrupolo, io nonnava vi potrei venire. Spie gatevi, spiegatevi che pesce siete, perché un pari vostro, vecchia, 32
vecchiona per quanto sono, non lo incontrai mai: oh, e ne incontrai d ’ogni colore e sapore... Uno però, che alla vista d ’una rosellina co me Cata, ancora col suo bottonello chiuso, s ’inghiotte l ’acquolina e si ricusa d ’andarla a sbottonare e a spampanarla tutta, senza pa gare dazio, anzi pregato, ringraziato, uno cosi, chi l ’incontrò mai? Disgraziate noi, sta guerra di sopra ammazza e di sotto si sgrava di portenti maligni. Focu, focu, per fare un esempio, voi: e non siete forse un vero fenomeno vivente, voi? Avreste a essere in un cir colo equestre, s’avrebbe a pagare il biglietto per vedervi, e che m ’annorbo, se v ’insulto o vi commedio... » Insultare no, commediare sì, però; era fina la vecchia cannadastendere, fina pure di mente. Non era quella grezza indiplomatica di Facciatagliata che cacone glielo diceva in faccia: fra l ’altro, non doveva essere intrigata tanto intimamente, quanto quella, con Cata. Lei non gli gettava infamia per insultarlo, commediava solo che gliela gettava: lo istigava, lo provocava per farlo uscire al naturale, naturale mascolino, per essere più precisi. Doveva pensare: ora, a questo gli viene rosso agli occhi, sentendosi screditare, s’incazza co me un toro e per darci risposta, se vale o non vale, si farà vedere all’opera con Cata. E magari, pensava che lui dicesse: ora vi fac cio vedere se sono un fenomeno vivente, senza pagamento di bi glietto ve lo faccio vedere. E doveva pensare che incazzato com’era, Cata correva rischio, dopo, che la dovevano raccogliere con il cuc chiaino. Non era fina, furbissim a? Chi non si sarebbe incazzato a sentirsi dire che come maschio valeva quanto un fiammifero spa rato? E chi, incazzandosi, si sarebbe trattenuto di dare prova del contrario, accendendosi e facendo fuoco e fiamme? E proprio que sto andava cercando la vecchia con gli insulti: di vederlo incazzato, perché a senso suo, quello era giusto il caso in cui incazzato diceva e faceva per incazzato. Lui, però, si sentiva solleticato da una gran voglia di riso e non glielo nascondeva: « Ma che vi passa per mente? » le fece. « Lo dissi e lo ripeto: non mi metto con una ’ncantesimata. Inutile che dite » « Ma allora, ’sendo ’cellentemente ’ncavallato, » continuò lei, per conto suo « come vi potete sentire l’almo di ricusarvi a quel lattume di spadella, a quelle carni di seta rosa? » « Sì, seta rosa... E poi, la mente allampata che ti guarda e ti fa venire i brividi » 33
« Pirdeu, pirdeu, questo alla mente guarda... Non guarda che la fessicella, a passarci il dito di sotto, si sente ancora la panna e il ve lo di come uscì di ventre a sua madre » « Sì, decantatemela, decantatemela... » « Voi forse direte: vergine, figurarsi. Sentite allora quello che vi dico, a rischio che Jacom a mi salìa. Damiano, il marito, dovete sa pere che non ebbe tempo nemmeno di farle sentire le tavole di letto fare ’nzùghiti, ’nzùghiti, perché la morte gli batté sulle spalle dicendogli: Damiano, finiscila di cavalcare Cata, che ora mi devi ca valcare a me. Capiste perché s ’imbabbì? Damiano le stava ancora sotto l ’arco della porta, le stava domandando: c’è permesso? posso entrare? e lei, la bella, aspettava cogli occhi chiusi quella meravi glia di entratura e invece s ’appresentano i carabinieri e glielo strap pano di sopra che ancora non le aveva scandagliato nemmeno Tantistanza... » « I carabinieri? Ma che c’entrano i carabinieri ora? Appena un secondo fa diceste che fu la morte che lo scavallò di sopra a Ca ta... » « Vi dissi morte e vi dico carabinieri » gli chiarì la vecchia, urta ta, ammussandosi nella voce. « Ci vedete discordanza? La morte governativa agisce forse da sola, la morte, dico, che più vi strafotte a voi giovinoni bruni e preziosi? È forse come l ’altra morte che di spone solo di vecchie malattie e di vecchiaia e per noi è come la scopa di casa e infatti, né femmine né maschi c’è bisogno di amma nettarci? La morte governativa invece, assai ne farebbe affari, e ve 10 dico per ’sperienza, senza carabinieri e armamentario... In guerra morirebbero solo i biondi, nemmeno a pagarlo a peso d ’oro lo tro verebbe un bruno, quella Nasomangiato. Ma che vi stavo per dire? Perdetti il filo... » « Sentite, non vi sforzate, risparmiatevi il fiato. Ora che mi pigliai un poco di frescura in questo giardino, alzo i tacchi e me ne vado » « Aspettate almeno che vi confido perché Jacom a vi fece la par lata per Cata... » gli fece agguantandolo per il braccio. Occhiò verso la sua socia e poi, tutta segretosa, d ’un fiato, gli disse: « Per sa narla » « Per sanarla? Mi pigliò forse per medico di levante che porto un guento e medicamento? » « Non siete medico ma l ’unguento l’avete, siete marinaro e avete 11 medicamento » sentenziò la vecchia. Spiò di nuovo fra gli albe 34
relli con la faccia appuntita, prima di dire, strettastretta, più smor fia che bisbiglio: « In pieno sole e bombardamento d ’agosto, fra polveroni e sputafuochi, fracasso e pericolo di germanesi che pas savano di Sicilia a qua, insanguinati e zannosi, vi dovete figurare che Jacoma, pigliatasi Cata per mano, alzò i piedi e s’avventurò per le strade: e da questo vi potete fare un conto di come l ’ama, Cata, e ci spasima... » « Ma non le è figlia? » la interruppe. « Allora si capisce che l ’a ma e ci spasima... » « Pirdeu, vero vero che siete un gran domandiere. Uffa no, no che non le è figlia, quel Damiano le fu figlio. Uffa, pirdeu, finiste di fare il domandiere ora? Trovaste sta vecchia di lingua sciolta e ve n ’approfittate. Saliata mi merito, saliata... » Si lamentò un poco, ma da vecchia qual’era, che non si sapeva se faceva il drqpima o la farsa, e poi, di netto a netto, riattaccò sul tono confidente: « Jacoma, Jacom a, in quel finimondo, vi stavo per dire, portò quell’animuzza da una certa sanatrice di Santa Cristina d ’Aspromonte, una specie di iattamammona ’sperta e lùngimira, che alla prima occhiata si svelò l’arcano di Cata: non solo si svelò gli spiriti e i sentimenti che s ’era persi, ma anche l ’aria di femmina màrtira, che non era più né pesce né carne, né signora né signorina. Sapete che fece? La volle accanto e quando l ’ebbe accanto: bella, le disse, fat ti vedere se hai l ’ovicello. E le mise una mano sotto e la sprovò col medio come una gallinella se ha l’ovo. Il medio mi dice, disse poi la iattamammona, che questo gingillino non ebbe fracasso beni gno. E allora Jacom a le contò tutto di Damiano e della sua sven tura. Lei l’ascoltò e poi papale papale disse: per sanarsi, sta storticella, c’è un solo rimedio e questo rimedio glielo potete procurare faciliimo, dato il portento di beltà che è. Insomma, dove marinaro la lasciò, marinaro la deve ripigliare: quello che marinaro princi piò, marinaro finirà. La storticella abbisogna di gettarsi a gridare, abbisogna di lamentarsi, di fare ahi, ahi, come fa ogni umana cri stiana quando l ’uomo la sperona e lei si sente al suo completo natu rale. E chi le dà la speronata, dev’essere fatalmente marinaro, torno e ripeto: lei deve vedere cogli occhi suoi che lo speronatore porta pantaloni scampanati. E questo marinaro, capitemi bene, si deve vedere e sentire che torna di mare e di guerra, che patì lontananza di casa e di femmina: e che torna tutto fervente, però non focoso, 35
assetato, però non arrabbiato di sete. Non sia mai che pure que sto fa una affacciatella e si ritira, o che s’addobba lui e a lei le strappa il boccone di bocca, perché sennò, dopo, la camicia di forza le dovete mettere, tenerla dietro le sbarre, nuda e cogli occhi spi ritati. Questo disse la iattamammona, comprendete? Per questo si raccomandò, in speciale, di sceglierlo bene il marinaro, di guardarlo tutto, dentro e fuori. Non deve avere ferita né mutila, disse. Se esce di guerra, assicuratevi che non ha niuna barbara macula alla figura, né di fuori né di dentro. Del resto, lo guardate voi prima, ma dopo se lo riguarda lei. Voi guardate se e come lo guarda lei: se lo guarda, cioè, come se lo ricorda lei, il marinaro che la lasciò a: carissimo amico... Se lo guarda e l’occhio voi glielo vedete re stare vivo, voi allora inviateglielo dietro dove vuole lei... E ora, lo capite ora, perché Jacom a se la carrìa dietro, quella bisqul, salendo per Calabria? Capite perché va scrutando per mare e per terra e sempre nix, sempre nisba marinari ’taliani, e prima tentò a Villa e ora tentava a Napoli se non v ’incontrava a voi? E capite perché, se fallite voi, quella con Cata per mano, per trovarle il marinaro a lei, s ’ardirebbe di salire ancora a pestarle la coda alla guerra e starci sem pre nelle vicinanze e contarle le scorregge che rintronano nell’aria? Ora capite perché, quando vi vedette a voi la sentii che mormora va: alla faccia tua, morte bastarda, qualcuno restò a galla? e perché s ’appropinqua quanto più può alla guerra, a dove c’è chi muore e c’è chi vive? Capite perché Jacom a vi corteggiò cogli occhi al primo vedervi e poi v ’apostrofò sfacciatamente? Eh, capite? Capi ste? E allora, giovinone bello, avanti, sursincorda, entrate nel giar dino, fategliela la grazia a quella meschina di Jacom a, andatele a speronare Cata, avanti, annacatevi sui fianchi, avanti, speronatore prezioso, v ’aveva a voi in mente, per l’ideale di Cata, la iatta mammona dell’Aspromonte, avanti, entrate nel giardinello di Cata, andatevi a improfumarvi tutto, allestitevi, pirdeu, se capiste l’an tifona... » E in cosi dire, la vecchia lo pigliò per il gomito e gli dette una spinta. « Ma che antifona ho da capire? » le disse. « Che antifona, in specie ora, dopo questo piede di canzone che m ’andaste piantan do? » « Piede di canzone, eh? Vi sentisse, vi sentisse quella gran sven turata... » 36
« Perché? Vi pare forse che la potrei mai offendere quell’ani mella? » « Animella? Cata, dite? Vi pare, lei, la sventurata? Cata? E chi c’è più felice di Cata? Vestita, svestita, imboccata, cullata, tenuta col fiato, nella bambagia... E che le manca? L ’uomo, sì: ma ne sente forse privazione medesma a un’altra? Soffre? E che ne sa lei? Jacom a lo sa, eccome lo sa che soffre. Ore e minuti, non fa che cardarsi per la vergogna di figlio che prova. Scellerato, g l’impreca a Damiano. Figlio fuori razza, ma di chi ne pigliasti? da chi nascesti? Tuo padre, appena m ’ebbe sotto, mi lazzariò tutta, mi fece un tale lago di sangue, che pareva una carneficina... Ah, non si dà pace per la mala riuscita che le fece Damiano » « Ma quale mala riuscita, scusate? Che partì marinaro e morì? » « Che morì senza gettare semenza, dovete dire » « In che senso, non gettò semenza? » La vecchia dovette pensare che tanta ingenuità la mostrasse per sfotterla: « In che senso? In senso di cazzo » sfuriò sboccata, e dopo una rapida occhiata all’indietro: « Vi riuscì più loquente ora? Oh, pirdeu, che baccalarone siete, più scaltri vi. facevo in Sicilia. Oh, ma non sentiste che dopo tre giorni e tre notti, letto letto, Cata la lasciò che si potevano dire sorella e fratello? » « Tre giorni? Ma non diceste che non ebbe tempo nemmeno di farle sentire le tavole di letto fare ’nzùghiti, ’nzùghiti, perché ven nero i carabinieri e se lo portarono via? » « E certo: con la licenza scaduta, lui ancora si traccheggiava, era ancora a: carissimo amico... Ma quale ’nzùghiti e ’nzùghiti, se quello ci andava con la vasellina, se forse nemmeno respirava per non sgraf fiarla con l ’alito? Si credeva forse di giocare a fare qualche pertuso nella rena, un granello alla volta, sempre orlo orlo, con l ’unghia del dito mignolo. E volete che a Cata, dopo che per tre giorni e tre notti la seviziò con sdolcezze che non le riempivano la pancia, non le veniva la bava alla bocca quando restò sola nel letto, non le scap pava il bene dell’intelletto? » « La seviziò perché la trattò in guanti gialli, pieno di riguardi, delicato, senza gettarsi sopra a lei come un allupato? E non si glo ria d ’un figlio così, quella vostra Jacom a? » « Focu, focu: di Damiano, volete che si gloria? Jacom a se la porta come uno scrupolo di coscienza Cata: ma in che lingua ve 37
lo devo dire? Sapete che dice tante volte Jacom a? Mascola, mascola mi dovrei svegliare una mattina. Per vera legge, la dovrei sa nare io Cata, mi toccherebbe d ’aggiustarlo a me questo gioielletto che guastò mio figlio... E per una come Jacom a, che se domandate labbàsso, vi diranno che femmina era, desiderarsi mascola, non so se mi spiego... » « Mah... » fece lui, stringendo le labbra, tirandosi in su i panta loni e svagandosi a guardare intorno, come le volesse intendere alla vecchia che lui^ci metteva un punto. « Pirdeu, pfrdeu » esclamò lei con accento schifato, ma che po teva sembrare persino ammirativo. « Siete santo di marmo e non sudate voi, eh? Non vi passano nemmeno per la prima pelle a voi, eh, le sventure del genere umano? Di dentro e di fuori, guardatelo, si raccomandò la iattamammona deH’Aspromonte. Eh, sì, gran fem mina ’sperta e lùngimira era quella... » In quel momento, a due, a tre, a cinque alla volta, sotto il giar dino scoppiarono, risuonando e annumerandosi fra le tenebrosità delle fronde, le voci delle femminote, chissà per quale causa improv visamente rinvenute. La vecchia era corsa da quella parte, ma poi si era fermata die tro gli alberelli e l’aveva aspettato: di dietro, col suo personale snel lo e leggero, si sarebbe detta una giovanotta che giocava all’ammucciatella con le amiche. G li fece segno con la mano verso quella Jacom a che da un sacco sulla rena stava sfagottando qualcosa, che poi sollevò per aria con una mano infilata dentro: pareva una grossa testa di pupo, fra nera e rossiccia, dall’occhiata inferocita, le labbrone a sprezzo e i mascel lari muscolosi, come fosse un fassimile di quella di Rodomonte, e di fatti non si sbagliava. « Lo vedete? » gli bisbigliò la vecchia. « Lo vedete come si ri dusse in mano a Jacoma quello che chiamavano duce ed era invece amaro? » Le femminote, girando appena la testa, chi mandava ingiurie con tro Jacom a, chi bestemmie e maledizioni contro quel mascherone che Jacom a aveva sfagottato: le due più vicine addirittura pigliarono la loro cofana e s ’andarono a sedere lontano da quella. «Ja c o m a , malanova: ancora col mascherone in mostra, col càn taro che fete lontano un miglio? » si sentiva dire. « Oh, Jacom a, pirdeu, pare che ci trovi gusto a tirarlo fuori... » 38
« C ’impesti, c’impesti tutte, con quel cesso ambulante, le budella ci fai rigettare » « Ma pirdeu, pirdeu, tu non la senti la puzza che sventa? Ti stop pò il naso, eh, Jacom a? » « Un boccazzaro come quello, pirdeu, che lui stesso si pisciava di sopra, chiacchierone fottuto, e si faceva da càntaro. Ora poi che gli piscia Cata, si scola da occhi, orecchi, narici e non solo di bocca: il mascherone, pirdeu, si sventa d ’ammoniaca come un pisciatoio pubblico » « Cata profumarlo può, non appuzzonirlo » fece Facciatagliata pigliando parola con una smorfia di sorriso provocatorio. Si scandalizzarono tutte: « Focu, focu... Oh, Jacoma! Ce la vuoi forse passare per Colonia Coty la pipì di Cata? » « Pirdeu, fosse la sola puzza, ma quant’è vomitevole, quanto, la vista di quell’infamone micidiatore... » « Come ora, nemmeno all’epoca lo vedemmo tanto, nemmeno quando chiudevi gli occhi, li aprivi e te lo trovavi sempre davanti con la bocca storta e pareva quasi, nella fotografia, di vedergli uscire di bocca le parole... » « Eppoi, Jacoma, pirdeu, iettatura ci getta, portarcelo in proces sione, quel ladro delle nostre carni, causa di tutto... » Jacoma aveva rovesciato il mascherone, pigliava pugni di rena e glieli gettava dentro. « Le giovanotte si schifano » gli spiegò la vecchia, con qualcosa che la rallegrava nella voce. « Perché, quello, oltre che gli svacantò i letti, è tutto pisciato. Jacom a, la vedete, voi che vi fate il pre zioso per un favore tanto piaceroso, lei anche a quello si sobbarca per Cata... Oh, Cata, Cata, » sospirò, facendogli strambotto a lui « la morte perché non ti piglia? Fosse maschia, pure la morte si get terebbe a pesce sopra un bocconcino come te. Fosse maschia, fosse maschio... » Intanto che le femminote andavano spicciolandosi a uno a uno i pensieri nella testa appendolata giù, la bocca come fiatasse tra la rena, la vecchia lo informò, a scopo forse di persuasione, di co me andava quella storia del mascherone in mano a Jacoma. Lo avevano pigliato a Reggio, nell’arraffarraffa che c’era stato alla caduta del Fascio. Pensavano di farci qualche lira col bronzo del mascherone, invece era risultato gesso bronzato e questo voleva dire 39
che i fascisti pure in famiglia stilavano i camuffamenti, e persino col loro capintesta: che si poteva sperare? Jacom a allora lo aveva por tato a Cata, casomai ci trovasse da giocarci, e Cata, l’innocente, ve dendo la forma di càntaro che pigliava il mascherone capovolto, se n ’ispirò: s ’alzò le gonne, s’abbassò e ci pipiò dentro ridendo. A Ja coma allora le era venuto spontaneo di dirle: pipìaci, bella, pipìaci nella testa dello scellerato. Usalo per orinare. E siccome Cata, fidelissima nella sua stramberia, non pipiò più se non in quella gran testa, Jacom a s’illuminò, vedendoci buon segno: che non appena il gesso del mascherone si rammolliva, a quello, alla Grantesta vivo vivo, veniva sconquasso mortale. « Per questo se la carrla sempre dietro, quella testa d ’orinale, per essere sicura che Cata pipìa là, se le viene di pipìare per via » « Pipla poco Cata, si deve dire » osservò allora lui alla vecchia, laddiètro agli alberi. « D a luglio, ormai passarono tre mesi e quello ancora dura sia in gesso sia in carne e ossa... » « Pazientate, pazientate e sentirete dire che se n’andò a pezzi. Il gesso già si mollacchiò e a sprovarlo, si stampa il dito. E pure lui in persona si mollacchiò e va sconsentendosi. C ’è dubbio? Ma co me, non lo sentiste dire che se lo misero in mezzo i carabinieri con le catenelle? A voglia, ormai, a liberarlo, a voglia a se ne fuire... Chi ci stette anche una volta sola in mezzo ai Fratelli Abbranca, re stò segnato per tutta la vita. E ssi, e ora se la cancella l’ombra dei pennacchi dalla fronte. Finì, fini di fare l’artificiero, di sparare ro telle pazze, mascoloni e cassinfernali, finì di fare guerre ogni due tre, come fossero feste da ballo, fini di mandare a morte st’omicelli bruni, di straviarli nel mentre fanno fare ’nzùghiti, ’nzùghiti alle tavole di letto, di tante, chi lo sa quante, disgraziate Cate, e finì, finì di mettere focogrande a certi nicchiarelli di primo pelo, paglionélli asciutti, infiammabilissimi, e poi magari non si trova un’ani ma buona, che dispone di acqua, dispone di gioventù, non so se mi capite, un’anima che si procura piacere raro e gentilmente si presta e glielo spegne. Ah, pirdeu, pirdeu, Giovanna » si apostrofò qui, scattosa, finendo di parlargli all’orecchio. « Troppo campasti, Giovanna vecchiarda. Questo mondo che ti faceva tanto genio, ti cominciò proprio a rincrescere... » E poi, curiosa, lo scrutò a lungo, casomai si fosse pentito del no e persuaso del sì in seguito alle sue parole: e infine abbassò gli occhi e li tenne chiusi, come cogitasse, con la mano alla bocca, 40
su quelle ultime parole che aveva pronunziato in via personale. Allora, cogitò anche lui un poco: sopra quella Grantesta di ma scherone, sopra quella Jacom a che ci aveva fatto sopra la fattura e sopra quella anìmola spersa, quel nicchiarello a focogrande, che ci piplava dentro. L ’aveva vista per Napoli, quella Grantesta, rovesciata dai balconi, scalpellata dai muri, abbattuta dai piedistalli, ammaccata e scheggiata, di bronzo vero e di marmo, o frantumata in mille pezzi, gessosa, le strade intaccate di bianco da quegli scoppi d ’occhi, di orecchi, di nasi, di labbra, che poi finivano smacinati e polverizzati sotto i tac chi di quelli che si trovavano presenti al fatto e che subito corre vano a mettersi sotto i piedi, come insetti pericolosi che bisognava schiacciare all’istante, ogni pezzo di quei connotati sfacciati e sfa sciati r\el crollo. Qui, però, era diverso. Anche se il mascherone era intero, vi sto ai piedi di quella Jacom a, faceva un effetto di rovina e di degra dazione massima, senza riparo, che colpiva e impressionava assai di più dei frantumi rumorosi di Napoli: e immaginato, poi, sottosopra, mentre Cata si alzava le gonne e s’abbassava, la distruzione della Grantesta si rappresentava allora agli occhi con un senso vivo vivo, sotto l ’aspetto barbaro di quella innocentissima che quello che fa ceva, sembrava farlo come ispirata da un volere divirio. Cata era pazza a causa di Damiano, ma facendo il calcolo, ci colpava unica mente la Grantesta se Cata era pazza a causa di Damiano: e Cata sembrava farlo questo calcolo e sembrava che in seguito a questo calcolo, si vendicasse del mascherone pisciandoci dentro: perché la mente pazza, è cosa notoria, è l ’unica fra tutte le menti, che a deci frarla manda un suono di verità, dolce o terribile, come di corde divine, qualcosa che fa trattenere il respiro e non si saprebbe mai spiegare, dire. Per opera dell’amico tedesco, si diceva, quella Grantesta tornò in auge nell’Altitalia, la rimisero sul piedistallo. Questo si diceva, e questo aveva sentito a Napoli, ma ora, da quello che un poco ve deva e un poco s ’immaginava, gli pareva che nell’Altitalia, in auge, sul piedistallo, avessero rialzato in realtà solo una statua di gesso, un mezzobusto bronzato, un ritratto labbruto, e gli pareva invece che qui, nella Bassitalia, sotto le aranciare, fra queste femminote straviate lontano come rondini nel vento contrario della tempesta, quel mascherone pisciato da Cata, quel mascherone che Jacom a ave 41
va sbrogliato dal sacco, col gesso mollacchio e fetente che schifava, fosse quella la Grantesta vera, mozzata in carne e ossa, decollata di persona, ed era come se il Duciamaro non ne avesse saputo nien te, che gli avevano scippato la testa ed era oramai solo un busto pettoruto, che ancora per poco si muoveva sulle gambe automaticamente, agitando le braccia contro l ’aria.
La vecchia tornò alla sua cofana: « Non vuole ricreo né sente pietà » disse a Jacoma, a voce altis sima, dopo tanto bisbiglio. « E che vuoi farci? » fece quella con la faccia a disfizio. « Eh, che possiamo farci? Diccelo tu, scellerato » aggiunse, ronzando col piede la Grantesta. In quel momento, la bella senza senno riapparve sotto gli albe relli: si era sciolte le trecce e i capelli ora le incorniciavano il viso che usciva dall’ombra più pallido ancora del suo naturale. S ’appog giò con le spalle a uno degli alberelli, che era non più alto di lei, e allora diventò come uno di quei tronchetti e parve che rami e fronde e bottoncini spuntassero da lei, dalla sua testa, dalle sue brac cia e spalle. Si alzava sulla punta di un piede, sollevando l’altro in avanti, e tendeva un braccio come per raggiungere le fronde più alte, però senza mai afferrarle. Sembrava, a guardarla, che fosse quello il posto suo naturale: in un giardino, a giocare con le fronde, fra i profumi misteriosi di quei frutti a lei somigliantissimi, di una freschezza inebriante che penetra persino i pensieri, eppure con qual cosa di imbalsamato, come profumi, non di frutti sull’albero, ma di essenze sigillate in un’ampolla. Dalla plaia, lontano, si udirono delle voci: erano i soldati che uscivano dagli scogli e venivano verso il giardino. Fu allora che co me l’avesse già vista con un paio d ’occhi dietro la testa, quella Jaco ma si girò verso la sua Cata: « Rinculate, bella. Incuneatevi più dentro allo scuro » la solle citò e siccome la fessicella continuava a giocare con le fronde, le ripetè: « Cata, bella, levatevi di vista, ritiratevi. Viene gente che non fa per voi » Ma Cata, pareva che non la sentisse nemmeno: guardava lui, co me fosse sola con lui in sogno. Jacom a allora si girò di furia con tutto il busto e le gridò: 42
« late, Cata, iate allo scuro, vi dissi... Li vedete i soldati pezzentieri che vengono? I soldati di terra, li vedete? Viva vi mangiano, quelli, se vi vedono, viva, capiste? Sparite, sparite, allestitevi » Cata stette un poco sospesa, col bianco degli occhi scintillante, e poi s’addentrò nell’oscurità del giardino: dietro a lei, le fronde si smossero a lungo, ancora con quel rumore lieve, smorzato e tene broso, come si muovesse un uccello, una tortorella, per tutta la pro fondità del giardino. Le femminote intanto, rialzando, chi gli occhi, chi la testa, chi il busto, tornavano alla vita: smirciando i soldati in appropinquo, avevano fra di loro qualche scambio di vedute, ma erano ancora vo ci senza faccia, di qua e di là, di sotto alle schiene, bocche che la sciavano cadere sulla sabbia le parole sfottenti, i concetti smagati d ’antica data: « Arrivarono quelli belli danarosi » dicevano. « Affari grossi in vista » « Fagli in pietra li fate? Piccioli niente, non gliene fate? » « Para la mano dove li vuoi messi... » « Pidocchi, di quelli, a voglia » « E voglie, no? A voglia di voglie che avranno... » « Focu, focu, voglie intartarate, oramai » « Meschine mogli che gliele leveranno » Boccadopa, con la furbizia del catanese, le sventò subito per fem minote. Entrò direttamente nel giardino e senza nemmeno un bongiorno, stampellando davanti alle cofane di culo, coi lineamenti alte rati, le apostrofò rabbiosamente come gliene chiedesse conto: « E voi, femminote, che ci fate quassòpra, così lontane? » « A passeggiata venimmo » gli risposero, mettendosi a sfottò. « Ma com’è che vi trovate a salire per Italia e non a scendere per Sicilia? » « Per Sicilia? Arretrato siete » « Ma che successe? Finì il sale in Sicilia? » « Volete sale? Spremetevi qualche lagrima e alliccatevela » Quelle, erano capaci di fargli mangiare i gomiti. Eppure, anche se era antipatico e aveva tono pretendente, quella volta, a Bocca dopa, non si poteva dargli torto: vedere femminote tanto in alto alla Calabria, era stranezza così grande, che doveva dare per forza nell’occhio, domandarsene la ragione veniva naturale. Lui stesso, ar rivando, se n ’era fatto meraviglia: solo che, fra la paroletta diJaco43
ma e la beltà di Cata, la cosa gli era completamente passata di mente. « Oh, per Sant’Aita » gridò Boccadopa inferocito. « Vi volete degnare di darmi qualch’informa? Se siete qua voi, che ne fu della Sicilia, eh? » « Focu, focu, a noi ci chiede conto della Sicilia, sentitelo sto le pido qua. Pare che ci pagò per guardargliela dai pericoli di guerra... » fecero quelle che assai s ’impressionavano se si era inferocito. « Galleggia sempre, non s’affondò, galleggia, non vi spagnate » gli fecero ancora. « Ma che volete dire? Che allusioni fate? Che è sto parlare a bac caglio? » « Parlare a baccaglio vi pare? Allora sentite quello che vi dicia mo papale papale: in Sicilia, noi non ci mettiamo più piede e cioè a dire non ce lo mette più nessuno, i ferribò afiondarono e non ne restò uno, Messina si fece lontana e per noi di qua, è come se l’isola se n’andò al largo mare » Per Boccadopa fu come una scoppola che lo fece piegare in avanti sulla stampella: « E come si passa senza ferribò? » riuscì a dire. « Come fa a pas sare in Sicilia, un siciliano? » Singultava, parlando con la voce ora tutta muta e ora tutta un grido: pareva di vederlo che inghiottiva acqua in punto di affoga re, come fosse già accaduto quello che lo spauriva tanto. G li altri tre, intanto, guardavano fra i bottonelli delle aranciare se ce n’era qualcuno meno acerbo, per farsi la bocca. « Ma siete sicure? Siete oneste e sincere? » insisteva Boccadopa con le femminote. « Per bocche di verità, c’è da dire, non passate certamente, perciò può essere che m ’infasciate. Non è che voi ci mettete sale a infasciare un mutilato, un soldato che torna appena appena di guerra dove dette alla Patria una gamba, capacissime voi di sfotterlo... » « Quanto alla gamba, rispettosissime ci diciamo » risposero, non si capiva se con o senza intenzione di offenderlo. « Una gamba in meno, niente dite... » « Queste qui, le gambe, sono il nostro armamentario » « Figuratevi se non lo sappiamo... » « Ire girando... » « Fuirsela da questurini e da finanzieri... » 44
« Stringere l ’uomo e farlo storcere per la carina quando se la promena letto letto... » « E ssi, la gamba è tutto... » S ’immedesimavano? Boccadopa ci stava quasi credendo e per que sto, forse, lo sfottò finale gli fece fare una smorfia un poco ridi cola: « E ssi, ve lo piglierete il culo a manate, spaiato di gambe... » gli conclusero. Eppoi, di seguito, da schiena a schiena, quelle galeote senza re né regno, gli dettero senza riguardi un’incalcata di smacco, con mano più pesante ancora: « Ma quante miria e miria di braccia e gambe avrà sta tale Pa tria? » « La gamba, dice questo, la detti alla Patria. Il braccio, quello dice, lo detti alla Patria. Gam ba, braccio... E che è per loro? Un fiore » « E quanta boria, quanta trionferia ci mettono a dirlo... » « È tutto un macello di guerre, ma se senti questi qua, ti pare quasi che sono tutte questioni di uomini per femmine, azioni di amanteria » « Ma che gli farà, sta Patria? » « Sarà speciale, lei » « L ’avrà filettata d ’oro, lei » « O ci avrà il miele » « Pirdeu, più ne ammazza e più ne trova di questi ladri, assas sini delle loro carni » « E certuni di questi che mutila, qua ne abbiamo un campione, pare quasi che se li innesta al corpo suo, per via di braccio, di gamba e via mutilando. Le portano a lei divozione, o al braccio, alla gamba, ai ricordini che le lasciarono? Focu, focu, e chi ci legge in questi m isteri? » Boccadopa, alteratissimo, arrancò verso le più vicine e alzò la stam pella: « Parola mia d ’onore, vi stampellìo » le minacciò ancora, però smuovendosi sulla stampella, perse l’equilibrio e si sconocchiò sul la sabbia, ai piedi della femminota. Portempedocle, col divertimen to che gli traspariva dagli occhi, pigliandolo per le ascelle, lo aiutò a sollevarsi di nuovo e a puntellarsi sulla stampella. 45
« Issatelo, issatelo, sennò si radica nella rena... » fece una delle femminote. Le altre rincararono la dose senza pietà, passandosi la parola co me una frusta che schioccava dalla loro lingua sulla rena, sollevando polvere contro Boccadopa: « Issatelo, questo cicognone » « Questo iambetta focoso » « Questo boccazzaro » « Questo linguto » « Avrebbe a passare col piattino, elemosinando un soldo di per dono e simpatia... » « Avrebbe a gettarsi cineraglia in testa... » « Sfigurato com’è... » « Per la gamba che perse... » « Per la gamba che si vanta che perse... » « Invece, sentitelo, sentitelo... » « Che prosopopea » « Che iattanza » « Che sprezzo » Boccadopa, o se la sciroppò zitto zitto, quella passata di smacco a levapelo, o doveva essere che la caduta lo aveva strambato un po co, l’aveva messo a terra non solo col culo, ma anche col piglio. Chissà, pensò forse di scontarsela con quella Jacom a, quando vi de la Grantesta messa di piatto per terra e la femminota che con la punta del piede gli scavava la rena intorno. Per non smentirsi, se ne scandalizzò: « Guardate qua dove arrivammo » fece fra l ’altezzoso e lo schi fato, rivolto a Portempedocle che lo sorreggeva con un braccio alla vita. « Questo lordume di femminota che ronza il duce, gli fa sfre gio e oltraggio. E si capisce, da queste parti, per il momento, cadde in bassa fortuna... Una volta, a sta beduina, l’attaccavano per me no assai... » « I peli più lunghi m ’attaccavano, una volta » gli fece Facciata gliata. « O ra, m ’attaccano quelli più corti... » Poi, come in un im peto, si tirò su tutte le gonne, scoprendo un gran paio di cosciazze abbronzate, ancora toste, muscolose, e dette un colpo di reni in avanti come per sbattergli il grembo in faccia a Boccadopa: « Attac catemeli voi, dato che ci siete » gli fece. « Avanti, Iam betta, venite all’attacco, fategli vedere al mascherone come lo sapete difendere » 46
Tutta la comarca si scompisciò dal ridere a quella uscita di Jacoma, e mentre ridevano, col riso che gli faceva sciacquìo dentro e gli faceva dare culate alle cofane cigolanti sotto il loro peso, parecchie altre si scosciarono come Jacom a, sfidando Boccadopa con lazzi e sollazzi ad attaccarglieli pure a loro, i peli: « Intrecciateceli » gli dicevano. « Fateceli a mazzetti, a ciuffetti, a riccioletti. Fategli l ’ondulazione permanente, la messa in piega... Avanti, mostrateci sta moda fascista d ’attaccare i peli d ’in mezzo all ’anche... » Boccadopa sputava con un mezzo sorriso sprezzante. G li altri tre soldati, per godersi meglio lo spettacolo, si erano gettati a pancia sotto sulla sabbia: le femminote sboccarono pure con loro e dopo un p o’ calarono il sipario. Solo allora, come ci avesse pensato a lun go, Boccadopa pigliò a dirgliene quattro: « Zingare, lordone e zingare... Vi manderei all’isola, a mangiare pomice vi manderei, tutte quante siete, all’isola, là sareste degne di vivere. Tanto, che campate a fare nel consorzio civile? Famiglia, patria, dio, vi dicono forse qualcosa a voi? V ’ardite di oltraggiare il ritratto del duce, il vostro dio in terra, vale a dire. V i dovreste sciacquare la bocca prima di nominarlo e invece, non appena quello gira gli occhi, vi gettate di sopra come iene. Che si può sperare da voi? Infamate il duce e mi faccio scrupolo se m ’insultate a me? Che ne potete sapere voi, femmine zingaresche, di me che persi una gamba e per chi e perché la persi? Nemmeno ve lo sognate, voi, chi sono io, una' domanda in carta da bollo mi dovreste fare per parlarmi... » Le femminote, prima gli dettero tutto l’agio di parlare e d ’illu dersi pure che zitte e mute si lasciavano spubblicare, anche perché s’erano curvate di nuovo in avanti, a testa sotto, e poi gli dettero un’altra allisciata di pelo. Cominciò una, che quando si sollevò dalla cofana, mostrò un personale di gigantessa: « Capiste? Abbiamo da fare con un illustrissimo in incognito, il portamento stesso lo dice, basta la mossa. Si vede che portò sem pre stivaloni e speroni ai piedi: gli manca una gamba? e che gli fa a lui? Lui, pure sopra un piede rintrona e sprizza scintille... » E poi le altre, dietro a questa gigantessa, dissero: « E st’illustrissimo si va preoccupando per i ferribò? Si spagna di non passare uno come lui? » 47
« Non passa nessuno, ma lui non è nessuno, lui, gl’inglesi lo passano... » « Gli negano forse il lasciapassare a lui? Forse è un quilibet qual siasi, lui? » « Nemmeno la disinfezione gli fanno fare a lui, per usargli ri guardo » « Non sia mai... Che lo mettono nelle baracche, a spuliciarsi con l’altra gente, lui? » « Che lo tengono in quarantena, lui? Lo cardano e rammollano con acqua bollente e sapone lisoformio, lui? » « Un signorino come lui, che contagio può portare? Che pulci e che pidocchi? Sanità può portare, lui... » « O forse lo sommettono all’interrogatorio, lui? A lui vanno a chiedere: chi sei, da dove vieni, dove vai, perché vai, eccetera ecce tera, a lui? » « Lui è a posto, lo porta scritto in fronte da dove viene e dove va » « Lui ha tutto: dio, patria, famiglia, capace d ’avere persino una madre, lui. Che gli manca, a lui? » « Insomma, gl’inglesi, appena lo vedono, si precipitano, si rom pono la schiena a fargli l’inchino: eccellenza, accomodatevi sullo zat terone, al servizio di vostr’eccellenza siamo... » « Come? Non passa il mare, lui? » « Eh... » Qui, con una delle sue uscite eccentriche, Cata ricomparve fuori dal giardino. I soldati fecero un passo indietro come davanti a un’ap parizione e quel pelleossa di Portempedocle batté persino le mani per la sorpresa. Cata si scioglieva dalle ombre, dagli alberelli e dal fogliame, chi nando il collo, ruotando il busto, sfarfalliando con le braccia, facen do mosse come di sogno, silenziose e senza peso: nei movimenti pe rò, il personale si disegnava caldo e tenero, tutt’un biancore di roton dità sotto le gonne e il corpetto. A lui stesso appariva più bella e attraente di un minuto prima. Quanto ai soldati, s ’ammutolirono, si scordarono d ’ogni altra cosa che avevano in mente, dedicandosi a lei, sguardi e pensieri. Anche Boccadopa si spensieriò, per quella, delle altre femminote, di tutta la bile e la rabbia che gli avevano messo in corpo con lo smacco, gli insulti e la sorpresa amara riguardo ai ferribò. 48
Jacoma s ’alterò tutta in faccia, trovandosela dietro la cofana, la riassettò e le restò davanti per coprirla ai soldati: « Cata, bella, perché riappariste? » le fece. « E perché vi sbro gliaste tutta la capigliatura? » La vecchia aiutante si mise allora dietro a Cata e pigliò a rifarle le trecce. I soldati si spostavano alle spalle di Jacom a per mirarla. Boccadopa saltellava appoggiato a Portempedocle. .Questi, a un cer to punto, allungò il braccio e toccò con un dito la babbabella: « Vera è » esclamò. Jacom a lo ronzò con una manata, si girò e ripassandoli tutti e quattro cogli occhi, disse gettando fuoco dalle narici: « Allascatevi, pirdeu. Non ci fate conto, pirdeu. Allascatevi, non è roba per voi, pirdeu » « Jacom a, non te n ’accurare » le fece la femminota gigantesca. « Se s ’azzardano con Cata, li facciamo come se morirono in guerra » Jacoma dette una sguardata mascola pure a lui: « Voi restate a godervi la vista, eh, calzoni scampanati? » gli fe ce e poi aggiunse, allusiva: « Che ve ne pare di questi galantomini? Questi, non ci mettono pensieri, a questi gli esce dai gambali dei pantaloni la voglia... M ’avreste a dire, ora, m ’avreste, se siete rego lare voi o sono loro » « Mah, fate voi... » le fece sentendo che arrossiva, mentre i sol dati lo spiavano in faccia senza capire. Fra le femminote, c’era quella imponente di faccia aquilina, che lo sogguardava con un mezzo sorriso di malizia e di compiacenza. Gli fece con gli occhi d ’avvicinarsi e quando le andò vicino si piegò in avanti, infilò una mano nella cofana, pigliò un grappoletto di uva corniola e glielo allungò, facendogli l ’occhiolino. Le fece segno con indice e pollice che non aveva un soldo e lei gli fece segno: chi vi domandò? « E assettatevi un poco » gli disse poi. « Dove andate con que sto schiatto di caldo? » Sedette 11 davanti a lei e cominciò a spizzolarsi la sua corniola. Alcune delle altre femminote avevano tirato fuori anch’esse dei grappoletti d ’uva e tanto per provare, l ’avevano offerto ai soldati. Però, non appena i soldati gli facevano segno con l ’indice e pollice che erano fagli e gli rovesciavano poi le tasche sotto gli occhi: uffa, pirdeu, che pezzentieri, facevano le femminote e gettavano contro il loro petto, come per liberarsene, il grappolo che tenevano ognuna 49
in mano. Anche Boccadopa ricevette il suo sul petto e non lo ri fiutò. I soldati poi tornarono a rimirarsi Cata: spizzolavano corniola e si squagliavano di desiderio per quella sciantiglì. « Ora vi piacerebbe farvi la bocca col fruttomagnolo suo, non è vero? » gli fece Jacoma. « Ah, magari... » fece sospiroso Petraliasottana che sembrava il più inseivaggito. « Ce ne moriamo... Che ci consigliate voi di fare? » « Fate come faceste sino a ora, fra voi mascoli, in guerra » fece lei. « Chi mette cazzo e chi mette culo e chi si risente davanti e chi di dietro... Oppure, fate il vostro bello cinque contro uno » Le femminote intanto si erano messe a parlottare dei bei tempi, quando passando in Sicilia, facevano un viaggio e due servizi: per ché, all’andata svuotavano coi viaggiatori le cofane di uva, fragola, corniola o liparota, e arance, e al ritorno, col sale, quando nient’altro, s ’incoffariavano coi ferretti all’uncinetto e fra Messina e Villa arrivavano a fare una pianta di piede, una caviglia con calcagno, op pure un braccio, una spalla, un collo, uno scollo. A poco a poco, il loro discorso cadde sui ferribò, sui bei ferribò spariti, persi: e doveva fatalmente cadere sui ferribò, perché era per quello, per la perdita di tutto quello, che si trovavano ridotte a quel punto, straviate terraterra, col culo sulla cofana. Case e locande e botteghe e negozi e piazze e mercati e treni e chiatte e transatlantici, insomma, l ’arcalamecca... Questo, era tutto questo e tutto quello, era tutta la loro arcalamecca, che avevano perso coi ferribò, e di quella, forse per la millesima volta, s ’erano messe a parlare: si trovavano nella polvere e si ricordavano del tempo in cui stavano in trono. Il discorso scese, scese, scavò, scavò, riapri la piaga sinché, anche que sto era fatale, dal discorso a conversario che era parlare accademico del più e del meno, sconfinò al tribolo, al parlare a singhiozzo, con scatti di voce oppure silenzi, gridi oppure sospiri. G li gettarono il tribolo sopra a ognuno, per nome e per figura, un tribolo tale, che se lo sentiva un forestiero all’oscuro della cosa, Vil la, Reggio, Messina, Aspromonte, Cariddi, Scilla, Mongibello, li avrebbe presi per nomi di cristiani morti e non di ferribò persi in guerra. Certo, convenienza e vanteria c’entravano molto nel tribolo; e c’entrava il comodo che avevano perduto, c’entrava il bello del l ’interesse che ci trovavano, sui ferribò. Certo, il sentimento se lo gettavano nell’utile e nel dilettevole che gli raffiguravano i ferribò, nei grandi ventri a due bocche, zigzagati di binari, ai loro occhi di 50
piedilungo contrabbandere. Certo, era notorio, le femminote non fa cevano poesia, tutto quello che facevano, era di buscarsi la giornata e quando uno deve buscarsi la giornata, nel modo poi in cui se la buscavano le femminote, battagliando ore e momenti, può mai con tempo fare poesia? E certo, neanche nel tribolo che si gettavano per i ferribò, era tutto oro quello che luceva, però lo stesso gli bruciava, ’Ndrja Cambrla ci avrebbe scommesso, messo addirittura la mano sul fuoco: poteva giurarlo che a tutta la comarca gli bruciava per i fer ribò, come le bruciava a Jacom a per Cata. G li bruciava senza lagri me, perché la vita può sonargli quanto e come vuole a lagrima, le femminote non le danno mai conto: gli bruciava perciò forse assai di più di chi trova sfogo al bruciore nelle lagrime. Poesia o no, gli bruciava la perdita della loro flotta mercantile, la perdita dei profitti di sale, e non gli avrebbe bruciato di più se quel tribolo se lo fossero gettato solo per poesia e per bellezza dei ferribò. G li bruciava e non per scena: scena eppoi per chi, a che scopo? Forse per lui e per quei quattro soldati, per impressionare loro? Ma impressionare a che sco po? A quel che sembrava, marinaio e soldati, per quello che le ri guardava, era come non fossero più presenti, là, ai bordi del giar dino, da quando erano venute a quel soggetto penoso. Senza fare alcun movimento, sembrarono incunearsi ancora di più dentro le spalle, incofanarsi più dentro ancora nella scurosità del boschetto; anche se stavano l’una accanto all’altra su di una fila, dettero l ’impressione di essersi isolate così fittefitte fra loro, da sembrare un circolo chiuso di schiene ricurve fra cofana e rena, di voci tribolate, strette l’una con l’altra, dopo l ’altra, a catena, che per effetto certo della posizione risonavano tutte cupe e cavernose, come gli salissero alla bocca dal più profondo delle visceri. Stavano con la bocca a un palmo da terra e a vederle, era come si piangessero il morto, ed era come se tutte le frasi, le parole con cui lo piangevano e compiangevano, le leggessero là stesso, là stesso sotto i loro occhi, smorfiandole dai granelli di rena, come le leggessero rigo per rigo in tutto quell’intrigo. E quando facevano: focufocufocu... come se per il dolore le parole medesme gli ardessero in bocca avvampando gli persino l ’aria che respiravano, si sarebbe detto, a sentirle, che vero, davvero il fuoco lo vedessero lingueggiare là, fra le pieghe del la rena, il ricordo a fuoco di questo o di quel ferribò arso, perso ar so, che ancora le infiammava col bruciore che gli faceva fare anco ra ahi. 51
Dopo quel primo parlottamento alla rinfusa, fecero un silenzio, un silenzio tale, che era come si potesse sentirlo, perché dentro, sot tosotto alle figure incofanate, sembrava succedesse uno sbrogliamento di pensieri che si muovevano verso la bocca, un movimento di lingue che facevano saliva di parole. E tutta d ’un fiato, come un sospiro lancinante che a qualcuna di loro le uscisse dal fianco aperto, da lì venne una voce lamentosa: « Ah, i ferribò belli... » Fu come se lo stesso silenzio aprisse inaspettatamente una bocca, sfogandosi per via di parole. Quello, invece, era di fatto il segnale d ’inizio del vero e proprio tribolo. « Nichelati, cromati, indorati, preziosi... » continuò infatti un’al tra voce senza dare tempo alla prima di freddarsi per aria. E andarono avanti così, ripigliandosi l’una con l’altra la frase di bocca, nell’attimo giusto in cui gli cadeva dalle labbra e passandosela di continuo ma filata filata, come aggiungessero ognuna una maglia alla stessa catena. In tante, facevano una frase che poi poteva essere stata detta da una, da ognuna. Il tribolo sembrava un’eco che si cer cava, aggiustandosi e ritrovandosi di bocca in bocca, anche se ognu na però aggiungeva ogni volta un piede nuovo e diverso alla canzone. D ’altronde, quello sui ferribò non era tribolo di questa o di quella femminota, non era faccenda personale, era tribolo femminoto, fac cenda di patria e popolo. Le parole, le frasi delle parole, i discorsi delle frasi, il tribolo dei discorsi, i ferribò del tribolo, questo con tava. D ’altronde, a bordo dei ferribò o straviate per terra, infrascate in quel giardino, non stavano sempre nella stessa barca? Cominciarono e finirono e non ce ne fu una che alzasse la testa e la schiena per mostrare che faccia aveva la sua voce. Prima, fecero una passata larga larga, con cenni sconsolati alla triste fine della bella flotta che non gli costava un soldo, inframmezza ti con altri, scattosi e taglienti, a quelli che ci colpavano. Poi dedica rono un pensiero particolare ai due beniamini della flotta, quello scardellino di Cariddi, mignuno come una chiatta, e quel gigantone di Aspromonte, pozzo senza fondo, antro di cui lo spratico stentava a ritrovare l ’uscita, fra tunnel, passaggi, giravolte, incunaglie che era no l ’ideale per levarsi di vista coi rotoli di sale. E da qui, pigliando spunto dall’Aspromonte, come cosa da cosa, fatalmente, il tribolo sui ferribò se lo gettarono sul personale, e precisamente sulle parti basse del personale, con un parlare sboccato, senza peli sulla lingua che 52
però, a sentirsi, non riusciva né laido né fetente, perché scendendo dalle parti alte alle basse, non ebbero tentennamenti, non mutarono accento né pensiero: passarono a parlarne, ne parlarono con la stessa connaturata impavidezza di mente che mettevano in ogni soggetto e oggetto della vita, che fosse nell’ordine naturale delle cose: spartana mente.
« . . . preziosi » Una voce non finiva di dire, che un’altra cominciava, l ’orecchio non faceva nemmeno in tempo né a separare né a mettere dei pun tini di sospensione tra l’una e l ’altra. In realtà, quel tribolo, una sola avrebbe potuto gettarlo a nome e a pensiero di tutte come di se stessa, e in apparenza, anche alla voce sembrava che fosse una sola a gettarlo, a una voce: « Oh, ’mari, come se ne calarono a mare. Sotto i nostri stessi oc chi. Sempre all’uscire di porto. A popparinculo. A girarsi e mettersi di prua. Caiccazzi, non navi. Flaccommodi, ’ntrafficati. L ’argano e l’organo volevano a girarsi. G li aviatori ’nglesi. Quei finocchietti. S ’approfittavano di quel momento. Gli posavano le bombe dentro i fumaioli. Con le mani. Fumandosi la sigaretta. Caicchi mansi, paci fici. Scambiati per corazzate. Focu, focu. I ferribò belli si sbafararono in mari di spume. Con trenimerci e treniviaggiatori. Arrotolati sui binari. Con tanta bella mercanzia nei carri e nei vagoni. Con tan ta ricchezza di bagaglio e di colli. Con vestiti, gioielli e denari. Con gente piccola e gente grande. Gente continentale. Cercava scampo e c’incappò. Chi si salvò e chi non si salvò. Il ferribò mai si salvò. Niuno niuno niuno si salvò. In culo a noi ci andarono, st’inglesi e ’mericani. Il culo a mollo, ce lo misero. Ma gli vogliamo dare la colpa a loro, ora? Dovevano guardarci in faccia a noi? Quelli guardavano cannoni e mitraglia. Cannoni e mitraglia stavano in vista sopra i ferribò. Questo non può mai essere ferribò, giustamente dovevano dirsi. Questa è nave di battaglia alterata. Infami, scellerati, quelli che li pararono a battaglia. Pirdeu, pirdeu, con cannoni e mitraglia. I ferribò in guerra. Tutti saliati di nostro sale. Con l ’Aspromonte. Oh, grandi cornuti. Con l ’Aspromonte pensarono di conquistarci Malta. Focu, focu, ci piazzarono le scale dei pompieri. Cosi s’arram picavano sulle rocce di M alta. Che ci voleva a pigliare M alta? L ’A spromonte e le scale dei pompieri. Quel caiccone dove ci accomoda 53
vamo noi. Con sale arance corniola e liparota. Quel caiccone casa lingo gli risolveva tutto. Con scale di pompieri e pompieri. L ’ave vano trovato il sistema. Pigliavano M alta. Vincevano la guerra. D e generati. Bombardari. Bavosi. Perdettero corazzate incrociatori cac ciatorpediniere. Cosi pensarono di perderci i ferribò a noi. Pigliarono di mira l ’Aspromontone nostro. Non lo mandarono a Malta poi. Troppo faciliima Malta per lui. Per lui corazzata potente. Qua a un passo mandavano la corazzata Aspromonte? Quale Malta e M al ta. Mare Néro. Mare Nero. Là poteva affondarsi bene. E là s’affon dò. Mare veramente nero fu per lui. Che doveva caricargli nel Mare N ero? Le corna forse che si erano perse guerra guerra? Focu focu focu. Dove andò ad affondarsi quel gigantone nostro. Servizievole. Comodoso. Pieno d ’abitudini e libertà nostre femminote. Nel Mare Nero s’andò a perdere il conto delle regole mie. Proprio sull’Aspromonte, in un angolo della latrina di stiva, ci tenevo un pezzo di ges so e ci segnavo le scadenze mie. Io il conto delle cose mie lo tenevo sopra lo Scilla: proprio nella latrina dei macchinisti. Io le regole mie, sinché non mi finirono, le segnai sempre sopra il Reggio. Ferri bò vecchio e vecchia femminota. Io invece, per il calcolo mio, gli detti sempre la preferenza al Cariddi, a quell’elegantone tutto allicchettato. E pure io, con Rosa, bazzicavo la latrina di prima e di se conda del Cariddello, rischio o non rischio, o mi regolavo lassòpra o sennò niente. E io pure, con Rosa e con Paola, ci trovavo il mio agio sopra quello scardellino lustro lustro. Lassòpra scadenziavo, m ’intolettavo. Eh, ma chi non ci spasimava per la sua siluettella? tucte quante noi non n’eravamo forse tutte come inganzate? E ppu re era un mignuno incommodissimo. Un ponte di barcaccia. Si stava stretti, gomito con gomito. E la stiva? C ’entrava a stento una littorina. Due spezzoni di binari. G iusto per quel trenetto di lusso. Nien te vagoni e carri per noi. Niente predellini e ritirate per intanarci e salire a bordo di sgarro. Ci toccava stare in vista di questura e fi nanza. Si rischiava la giornata. Si rischiava la libertà. Diversissimo da quei gigantoni di Aspromonte e Mongibello, tanto per dire. Spe cie di cavernone, tutti belli attunnellati. Ripieni di incunaglie oscure, nascondigli. Ma ci faceva sangue il Cariddello. G li passavamo sopra ai difetti. Cosiffatte siamo noi femmine femminote. C ’incapricciamo d ’uno scialacquone senz’arte né parte. D ’uno col fischio in bocca. Il garofano all’orecchio. E la coppoletta storta. D ’uno che consuma gli specchi ad alliffarsi i baffetti. D ’un travagliatore da letto. Però, è di 54
figura un figurino? S ’addondola sopra i fianchi? E questo noi cer chiamo. Focu focu. Che carognazze. Uno ci fa sangue? Gettiam o san gue per lui. E il Cariddello ci faceva sangue. Lo pigliavamo a passeg giata. Ci spiritava come collegiali. Era un rallegramento generale quando ci trasbordava lui, ’maro, ’maro. Levarcelo di vita. Così juvene. Così bello. Si portò i nostri mesi. Il nostro scadenziario. E come trovò di azzizzarsi anche allo scomparire. Come fu spiritoso anche all’addio. Come si profumò con l’ultimo pensiero. Decise di nettarsi. Di fumo di ciminiere. Di nerofumo di treni. Di ammoniaca di latrine. Sfumò in un grande spirito di arance di Paterno e di Lentini. Aveva solo quel merci ripiegato dentro. Non passava carrozzelittorine quella volta. I viaggiatori per Roma trasbordavano in treno a Villa. L à c’era il direttissimo che veniva di Reggio. Il Cariddello era tutto un’aranciara. Stivata fittafitta. Quel merci di tre vagoni. Di quattro vagoni. D i cinque vagoni. Di sei vagoni. Di vagoni e va goni. Carichi di tonnellate e tonnellate di Portogalli. Portogalloni sanguigni, scelti uno per uno. Portogalli simili, gli occhi nostri non ne vedettero mai prima. E non ne vedranno dopo. Portogalli desti nati a gente nordica. Così ricca che può mantenersi questo lusso dell’albero in Sicilia e del frutto sulla tavola nordica. E questi portogalli, lui, il Cariddello... Quando le bombe lo fracassarono e s ’affon dava in un subisso d ’acqua, che fece? Giocò col rigorgo. S ’ingeniò di poppa e di prua. Se ne calò, riassommò. Svacantò i vagoni e i Portogalli galleggiarono. Che spettacolo fu. Oh, Cariddello, se ci fos se una giustizia, dovevi avere occhi per vederlo. Fra tanto sconquas so di guerra. C ’illeggiadristi gli occhi con la vista d ’un mare arancia to. Fra tanto fetore d ’animali e cristiani che ci rivoltava lo stomaco. Ci profumasti l’aria per tutto il canale. A respirarla, il naso si fa ceva riccio. Ci ricreava. Per giorni e giorni il mare restò ’mportogallato. Un mare verdastro sotto e dorato sopra. Un mare di giardini d ’aranciare. E le arance, la rema le sparpagliò qui e là. Inondarono spiagge e plaie joniche e pure tirreniche. Ne ebbe bene la gente bas sa invece dell’alta. La gentuzza miseranda affamata. Ignara di dove venivano. Le pigliava in mano. Le guardava. Non gli parevano vere. E quando poi addentava la scorza. E la sentiva amara di sale. Dice va: dio ci mandò sta manna amareggiata. Chiamavano dio il Carid dello. E non se lo meritava? Dio francese si meritava chiamato. Perché come un dio francese s ’incazzò in sul momento estremo. Con tro la sua malasorte. Contro la nostra. La malasorte nostra. Di fem55
minote. Chi c ’era a quell’ultima corsa del Cariddello? Chi ebbe quel la ventura? Io c’ero. Io l’ebbi quella ventura. E io. E io. E io. La gente si calava sulle barche e noi ancora là. Chi stava e chi cammi nava. Mute mute. Insalanite. Con la mano alla bocca ci andavamo guardando intorno. Ponte scalette stiva saloneristorante, bar cucinequipaggio salamacchine cabinatimone persino. I nostri occhi commentariavano. Guardate che se ne va a fondo. Guardate che ci per diamo. Con quale cuore lo possiamo lasciare? Poi quell’ufficiale in seconda paradisoto ci gettò una voce. Che fate brave femmine? Ve ne volete colare a picco col ferribò al posto del capitano? Ci cono sceva vecchie il paradisoto. Ci conosceva nell’intimo a quasi tutte. Però si sentì un’altra voce che ci ferì. Forse v ’andate traccheggiando per arraffare fra bagagli e valige, eh? Doveva essere un qualche di sonorato. Le corna vostre che vi scordaste a bordo nella prescia. Quelle arraffiamo. Questo per tale segnale glielo dissi io. Quanto ci mise a calarsene. Cariddello Cariddello. Forse ci sentiva a noi sotto le piante dei piedi. Ci sentiva a noi sole mentre se ne calava. Se ne calava e a noi pareva che ci mancasse la terraferma sotto i piedi. Forse per i rotoli di sale? O forse perché ci spagnavamo? Gli altri. Gli altri che si perdevano? Qualche valigia. Qualche persona cara. Qualche. Noi ci perdevamo lui. Il Cariddello. Ci perdevamo, l’uno dopo l’altro, i ferribò. Ci perdevamo tutto il mondo. Anima e corpo. Noi. G li altri erano di passaggio. Di passaggio e di pedaggio. Quelli che gli camminavano sopra con tutte le scarpe. Queste sono le nostre parrocchiane. Le femminote. Così dovevano dirsi i ferribò, sentendo piedi nudi. Suola di scarpe gli diceva gente volandiera. Pelle di piede gli diceva invece abitué. Gente di casa. Femminote. Compagnone della loro vita. Noi i ferribò li tramutammo in casa In casa e casata. Focu focu. Più più. Noi sopra i ferribò domicilia vamo. Mongibello e Aspromonte. Scilla e Cariddi. Villa, Reggio, Messina. Ferribò di sale. Sale di ferribò. Vaeviene e alloggiamento. Là campammo. Battagliammo la vita. Buscammo la giornata. Là mangiammo e bevemmo. Ci sfamammo. Andammo di corpo e pipiammo. Lavammo, asciugammo, piegammo. Travagliammo all’unci netto. C ’inconversammo insieme a coniglio. Solinghe solinghe cogi tammo. Là fummo vergini e maritate. Là ci vennero i primi spurghi di sangue. Là ce li regolammo. Là passammo le gravidanze. Là a più d ’una ci successe di sgravarci persino. E chi se n ’accorse, appartate in cerchio fra di noi. Isolate in pizzo all’imbocco di poppa o attorno a 56
una bocca a vento? Bastava poggiarsi sopra un sacco, allargare le cosce... Qua, per prova, ci sono io, che Cosimo, il quinto, lo feci sul Mongibello. Non mi ricordo chi fu, che per mancanza di forbici, gli spezzò coi denti il cordone ombelicale. Mia madre lo pigliò per i piedi, lo mise a testa in giù, il ranunchio fece ngangà, ngangà e al lora tutte voi attorno armaste una gran pomponella, gridando più forte di lui. Qualcuna poi me lo infasciò e me lo mise in braccio. Insomma, stetti più a dire: mi sgravo, che a sgravarmi. Ma lì ne fa cemmo pure di bucati senza cenere. Con chi ci fece genio, perché no? ci levammo qualche sfizio. Qualche capriccio, qualche voglia, qualche sghiribizzo. Non ci spettava un dopolavoro? Qualche volta qualcuno ci faceva genio. Succedeva. Una volta l ’anno. Qualche vol ta ci sboriammo di tutto il sudore che gettavamo. Qualche volta na vigammo lassòpra con uomo, a bordo al suo crigno. Io se permettete mi vorrei citare per tutte io. Io sopra allo Scilla, una volta, mi ap poggiai all’imbocco d ’una scaletta della salamacchine. Stando là as sorta nei pensieri miei, a un certo punto mi sentii maniare di dietro, con tanto garbo di mano, tatto e galanteria, che non mi faccio scru polo a dirvi, issofatto benvolonté accondiscesi, muto lui e muta io. Il tempo poi di riassettarmi le penne, mi girai e sulla scaletta non vedetti nessuno: però stetti a sentire il rumore degli stantuffi, e stra no a dirsi, ci posi mente come non l’avessi mai sentito prima, quello nfunfù nfunfù. Al nuovo trasbordo sopra lo Scilla, subito m ’isolai e andai e mi rimisi a quell’angolino scognito, pelo pelo agli stantuffi che soffiavano aria calda di sotto: cosa che' mai, mi sentivo curiosità di vederlo in faccia, motorista o macchinista, chiunque era. Il feno meno si ripetè tale e quale la prima volta. E poi continuò, perché la curiosità se n ’era andata e m ’attirava la stranezza del percosìdire purparlé muto. Ma se badavo al rumore degli stantuffi nella salamacchine, il purparlé non era più muto: al punto che mi passò per la mente che a pigliarsi piacere con me non fosse un cristiano, ma fosse lo stesso Scilla. Pensate, mi passava per mente che quella speloncazza di salamacchine si trovava nel mezzo d ’una boscaglia fatata, di ferraglia e di legno, con alberi castelli ciminiere ponti; e nella speloncazza c’era l ’incanto d ’un famoso femminaro, uno, fatevi con to, come quell’attore là, quello con le basette a punta, quello che si chiamava Rodolfo e gli misero l’intesa di Valentino per dire la va lentia che ci metteva nel servizietto. N funfù nfunfù, facevano pi stoni e stantuffi come m ’insordissero: e chi poteva esserci incantato 57
se non un femminaro, uno ’spertissimo di nfunfù nfunfù? Allora, sempre a mente mia, appena mi posavo all’incunaglia solita nella speloncazza, quello scoppolava fuori di forma umana e m ’abbranca va. Insomma, spezzava l’incantesimo percome e perquanto mi desi derava a me. Certo, oggi, stess’io, sentendomi dire, mi dico: una millunanotte di cosa ti passava per mente. Sì, però, il fatto era, il fatto reale, era che appena fattomi il servizietto, mi. giravo e non ve devo nessuno: eppoi, sentivo il rumore degli stantuffi e m ’impressio navo, mi sentivo tremare tutta, e ci fantasiavo come non mi era mai capitato prima, quando nemmeno mi colpiva l’orecchio quello scon quasso di nfunfù nfunfù, di pistoni dentro cilindri, col loro sali scendi mascolino. Però mi dissi: ma che cazzo gli vai cercando? la carta d ’identità? Per giunta, data quella solitudine di scaletta, pen sai: ne posso profittare, questo può essere nascondiglio ideale per il sale, né guardie né finanzieri se ne scandalieranno mai qua. Così fu, e per un gran fottìo di trasbordi, io feci un viaggio e ricevetti due servizi dal galantissimo Scilla. Salivo a bordo al ferribò e veleggiavo, vento in poppa, a bordo al crigno mascolino. E ora perdonatemi se mi citai con lo Scilla. Tu come un’altra. Scilla come un altro. Eh, sì, ognuna di noi, se c’interroghiamo senza veli, ha di queste storie. Ognuna di noi, a senso suo, se la fece pure lei una fattispecie così, d ’incrignatura. Ognuna di noi s ’impurparlò con quei valentini di le gno e lamiere, con la spuma fresca di fuori e gli stantuffi calorosi di dentro. Eh, sì, ognuna di noi ha di questi segreti col diletto e col profitto, fra scalette e sale e vagoni e binari e ponti e prua e poppa e portelli e manovre e respingenti e nfunfù di stantuffi. A ognuna di noi le pareva forse che le succedeva a lei sola quella specie d ’infatamento e per questo forse non si confidava nemmeno con l ’amica più intima. Si temeva che a parlarne si rompeva l ’incantesimo e il folletto invece di manifestarsi a lei in quella certa incunaglia di fer ribò, alla data corsa e alla data ora, le spuntava a un’altra in un altro angolo scognito. Eh, sì, raro gli spiavamo in faccia chi era che ci rendeva il servizietto. Il bello per noi era che la cosa, là cominciava e là finiva, in pancia a quegli amici vaporosi. Che erano per noi? Scilla o Cariddi, Aspromonte o Mongibello, che si personificavano, tutti cascettoni, cascettoni... Che c’importava dell’aspetto, di chi era la faccia. Ora ci mancava che gli domandassimo a un ferribò di mo strarci i connotati e farsi riconoscere. Lo nfunfù nfunfù, per noi quello contava, quella era la carta d ’identità, lo nfunfù nfunfù de 58
gli stantuffi. Marinaio di coperta o commesso viaggiatore, fanalista di ferrovia o uomo di paranza, e chi li calcolava in sé e per sé? qual cuna di voi, per caso, li pigliò al personale? C ’era dubbio, forse, che era lo stesso ferribò ogni volta che ci abbordava in figura di fana lista o di commesso, a qualche passaggio scuroso? Poi però, all’atto pratico, si poteva smentire? la spoglia era di chi se lo sapeva lui, ma lo nfunfù, oh, quello, era suo di lui, col marchio di fabbrica. Eh, certo, certo: e sennò, come poteva succedere che un quilibet qualsiasi, uno che una volta sbarcate, nemmeno pagate a peso d ’oro l’avremmo degnato, e lassòpra invece, a bordo al crigno, ci faceva toccare il cielo col dito? Ma era merito suo? nfunfù nfunfù suo? Era del ferribò, nemmeno a dirlo. Il primo che capitava s ’illudeva forse di ricrearci, ma a noi era il ferribò che ci creava ogni sensazio ne: e chi gli poteva resistere a quel nfunfù nfunfù che ci assaltava come un mulo e ci scendeva sin all’unghia dei piedi? Eh, chi? Lo dice il fatto che bastava mettersi là, ’n pizzo alla salamacchine... E nfunfù, nfunfù. A ll’impiedi, a gambe aperte. E nfunfù, nfunfù. Dimodoché il calore e l ’aria di vapori ce li sentivamo sbuffare di sotto. Sbuffi, sbuffoni. Fra le gonne. Cosce cosce. E noi ci facevamo suggestione, spontanee e persuase, che un gran femminaro ci addob basse. Ci avvulcanasse di sotto. Questo dice dell’intesa che c’era. Quasi innamoramento. Quasi mogli e quasi mariti. E questo dice perché ci sentiamo come tante vedove. Senza ferribò, ora c’immignonammo. Andiamo povere e pazze. Vere derelitte. Piedilungo, ci dicevano. Ora femmine zingaresche, ci diranno. Ora che veramente andiamo vagabondando. Ora che pigliamo per sopra, invece che per sotto. In verso storto, straniato. D i questo passo dove ci scurerà un giorno? Ah, guerra, guerra scellerata, tanto valeva fare pure di noi carneficina, dato che la facesti dei ferribò. Ah guerra, guerra, a noi che ci colpammo, ci rovinasti già, mentre a chi ci colpa chi lo sa... Guerra? Che guerra? La guerra in testa a quel mascherone, la guerra che s ’inventò lui. La sua guerra ci rovinò a noi... » Si alzarono tutte, a eccezione di Facciatagliata, che altro che spu targli al mascherone, e tutte una dopo l ’altra, a organetto, sporgen dosi in avanti, sputarono in direzione della grantesta, e con questo finirono il tribolo. Boccadopa non si scandalizzò questa volta, perché con quelle brut tissime nuove sui ferribò, a un certo punto del tribolo, gli era venuto al labbro un tremólizio come di coniglio e sembrava quasi che gli 59
sarebbe spuntata la lagrimetta. Lèvatelo della testa che trasbordi in Sicilia: questo, a lui aveva detto il tribolo, e trattandosi di tribolo, persino le femminote, che erano le femminote, dovevano parlare con la verità. Anche gli altri tre però, erano rimasti impressionati, per ché dal tribolo risaltava veramente che le femminote erano sballate dallo Stretto e salivano per Calabria, come s’allontanassero dal luo go della sciagura. Petraliasottana gettò qualche bestemmia e poi si perdette a nettarsi le unghie, unghia con unghia; Montalbanodelicona s’indurì in faccia, però non batté ciglio e continuò a schiacciare fra i denti il rametto del grappolo d ’uva che aveva mangiato; quan to a Portempedocle, non si capiva che effetto gli facevano le male nuove sul trasbordo, a quel santolazzaro sempre a riso: stava ginoc chioni sulla sabbia con la bocca aperta e così restò sinché durò il parlottio delle femminote. D i ferribò a galla non ce n’era più nem meno uno: quando gli disse questo, il tribolo ai soldati pareva che non avesse più niente da dire. Del resto, non le conoscevano quanto le conosceva lui, le femminote, per essere presi anch’essi di mera viglia nello scoprire che quella razza di femmine, al cui confronto molti e molti uomini facevano la figura di femminelle, avevano anch’esse, a modo loro, qualche momento di debolezza, qualche dolidoli che non si tacitava, qualche ferita che non si cicatrizzava, qual che osso rotto che non si decideva a fare il callo: e i ferribò, che non erano nessuno di questi guai in particolare, lo erano tutti insieme in una volta, e quello che essi erano tutt’in contempo, tuttuno era il guaio più grosso come per dire la morte. Subito perciò, alle prime voci catastrofiche sui ferribò, i soldati parvero perdere quel rimasuglio di spirito che gli restava, e come non avessero più nessuna voglia di ripigliare il cammino, se ne sta vano mortizzi e sfantasiati a giocare con le mani nella rena. Però, non appena qualcuna delle femminote accennò a come si regolava lei con le sue scadenze sanguinose sopra l ’Aspromonte, il tribolo, per i soldati e idem per lui marinaio, pigliò una piega soldatara av vincente: un cinematografo. Intesarono gli orecchi, non si persero una sillaba, specie più avanti, quando quelle mascolare, con la ruffianaggine delle parole, quasi quasi gli passavano i ferribò per femminari. Però, facevano sforzi per contenersi e non farsi trasparire, l’uno con l ’altro, l ’eccitazione dei sensi. Ognuno dava occhiate alla ladricella ai quadri del cinematografo che gli passavano davanti agli oc chi dell’immaginazione. Era come se ognuno credesse di essere il 60
solo a origliare dietro la porta di quelle femmine i loro discorsi spar tani, senza veli né bavagli; ed era, per questo, come se li attanaglias se ancora l’emozione dello sbarbatello che per la prima volta scopre la femmina, la vergogna, Tingoffamento e il cuore in gola di quella emozione. Questa però, era una faccenda fra di loro, faccenda di soldati e di marinai, che in guerra avevano perso molte o poche del le loro penne mascoline, che ora qui gli andavano rispuntando, ma ci sarebbe voluto tempo ed essi per giunta non ne sapevano nulla e si comportavano come se nulla fosse stato. Quello che provavano, non le intrigava le femminote, che li avevano lasciati là presenti, quando si erano gettate sotto gli scialli nel tribolo, ma senza calcolarli nem meno, e ora forse senza ricordarsene più. Un cinematografo, forse le cose stavano proprio così: avevano tali cazzi di guai per conto loro le femminote, che coi cazzi di loro maschi c’entravano quanto le femmine del cinematografo, che parlano e si muovono in tutta libertà come se nessuno le sentisse e le vedesse, e difatti si vede poi che sono ombre e si scancellano dagli occhi contempo che si scancellano dai quadri tornati deserti, bianchi come lenzuoli. Si spie gava così, forse, se alla fine, ai soldati e a lui, invece di gettargli oc chiate alle femminote, che si riassettavano sulle cofane, gli succedeva di cercare cogli occhi quella incantesimata di Cata ancora fra le mani della vecchia cannadastendere che aveva continuato a intrecciarla per tutto il tempo con dita assai mastre, ma lentamente lentamente, co me se lo scopo vero fosse di carezzarla, di farle dolcezza dolcezza, fra le dita, ai capelli che, la vecchiarda doveva saperlo meglio di tutti, conoscono i pensieri. Cata: dovevano immaginarsi un quadro in cui stavano a fare il servizietto a una femminota e giravano gli occhi da quelle cavallone per posarli su quella pupitta tangelosa, che veramente a paragone di quelle femmine reali realissime, era una di quelle ombre che non si possono mai abbracciare, mai nemmeno co gli occhi, perché o stanno con la testa fuori quadro o di punto in bianco, c’è un bagliore e il fuoco se le divora. Ma forse anche questo era segno che la guerra aveva mischiato, nei soldati come in lui, il bianco col nero, il vero col falso, il sostanziale con l’apparente, il pratico con l’ideale, il desiderio col bisogno, la nostalgia col posses so, il passato col futuro, lo sbarbatello col vecchio. Doveva dire però di quella femminota gigantesca che gli aveva regalato il grappolo d ’uva. Questa gigantessa aveva la sua cofana alla fine della fila; e lui se n ’era stato là seduto sulla sabbia, con lei e il 61
resto delle femminote a destra e i soldati, a qualche metro, di fron te. Ora, doveva dire che per tutto il tempo che durò il tribolo, que sta femminota aquilina, statuaria, anche se stava pure lei gettata sotto, in avanti, e faceva pure lei la sua parte nel tribolo, pigliando e dando voce, in una maniera o nell’altra, andò intrigandoglisi e flanellandoci sempre più con gli occhi e con le mani, queste e quelli muovendo ladrescamente; o anche dandogli dalla cofana delle ron zate col culo, che gli arrivava fra spalla e collo come una trapunta di lana arrotolata: perciò se lo era fatto sedere lì accanto, per averlo a portata di mani e di culo. Infine, precisamente al punto in cui quella sua compagna raccontava del servizietto che le facevano sco nosciutamente all’imbocco della scaletta della salamacchine, gli levò il berretto e gli mise una mano sui capelli zazzeruti, poi avvicinan dogli la bocca all’orecchio, ladrigna, gli disse: « Eh, perché non glielo dimostrate a quella Jacoma che siete re golare, eh? E che se vi va, con chi vi va, fate nfunfù nfunfù, meglio di un ferribò, eh? » « Ah, pure voi, ora? » le fece. « Ma come ve lo devo dire che quella Cata, così insonnambulata, mi fa impressione? A me, sull’onor mio, mi sembrerebbe di fare sacrilegio... » « Cata? » ripetè la gigantessa, inscenandosi tutta a meraviglia nel la voce, alzando la palpebra dell’occhio destro e calando stretta quel la di sinistra come gli puntasse sopra un cannocchiale grande e lun go. « E chi parlò di Cata? Ci pensa Jacoma a Cata. U n’altra, dico io. Con un’altra, non vi sembrerebbe di fare sacrilegio, eh? U n’altra, tutta in sensi, un’altra delle presenti, e tanto, cioè soltanto per farvi un esempio, la sottoscritta, eh? » « Con voi? » le fece, e la risalì con lo sguardo dai piedi alla testa. Per dirle com’era spropositata a gusto suo, finse di gettare il capo all’indietro sulle spalle, perché sennò non ce la faceva a pigliarla tutta in uno sguardo. Fu questo a rassomigliargliela a M ata, la gi gantessa di cartone che stava sopra un cavallo, di cartone pure lui, accanto al marito Grifone, gigante altrettale, però negro, che d ’ago sto a Messina espongono come una delle sette meraviglie. Con M a ta, per portarle lo sguardo sino a lassòpra, cioè fra cavallo e pupazza, sino all’altezza dei balconi al primo piano delle case, non basta va gettare il capo all’indietro, ma bisognava allontanarsi di una cin quantina di metri dall’incastellatura di cartone. Sorridendo, finì di dirle: 62
« Con voi? Sacrilegio con voi? Io ? Voi, fareste voi sacrilegio a mettervi con me... » La femminota non si potette trattenere e si fece una gran risata sciacquosa, e a questa risata, come le suonasse offesa, forse perché prima si era sentita nominare con Cata, quella Jacom a, dall’altra parte delle cofane, gettò alla gigantessa una voce che pareva a scher zo e sottosotto invece scoppiava di nervino: « Spinnata, ti meriteresti, Peppinagaribalda, spinnata in mezzo all ’anche, Peppinagaribalda... » Peppinagaribalda, e si capiva che con questa nomina, le avevano voluto fare allusione ai caratteri sregolati e impacifici, ripigliò a ri dere a quelle parole, sciacquandosi tutta, piegata in due: « Provaci, Jacom a » rispose nel ridere a quell’altra tosta. « Vieni e provaci e io pelo a pelo ti spenno, di sopra e di sotto... » Jacoma non ci mise sale ad accettare la sfida: figurarsi, non aspet tava che quello, Facciatagliata. S ’imbustò tutta di colpo, s’alzò e te nendo sottomira Peppinagaribalda, lestamente, con tutte e due le mani, cominciò a levarsi forcine e ferretti dai capelli. La stessa cosa, allora, cominciò a fare, con un sorriso, la gigantessa. Manmano che se li toglievano, forcine e ferretti, se li mettevano fra le labbra, e quando la loro bocca si riempì, fittafitta come un pugno, di quelle punte d ’osso e di ferro, Facciatagliata e Peppina garibalda pigliarono issofatto un’apparenza ferrigna, minacciosa: sem brava di scoprire in quel momento che le due femminote, cosiffatte che l’una forse gliela vinceva all’altra di un punto, avevano il respiro dotato di un incanto, di un potere magico, cioè quello di forgiarlo a comando, nero, tagliente e acuminato, in lame, frecce e spilloni che potevano gettarsi fuori di bocca come sputi, l’una contro l’altra. Quello che facevano, per un verso pareva fatto come per loro norma di cavalleria, nel senso che si liberavano di tutti quei ferretti e for cine con cui potevano rischiare d ’accecarsi; per un altro verso, inve ce, sembrava che forcine e ferretti se li mettessero in bocca per aver li pronti tutti in un mazzo e non perdere tempo a cercarseli fra i capelli, mentre se li ficcavano nelle carni. Le chiome acchiocciolate s’allentavano, a Jacoma era già caduta una delle bande coprendole l’orecchio: nessuno fiatava, s’aspettava solo il momento in cui si sa rebbero accapigliate e cardate. Si era levato daccanto a Peppinagaribalda e si era messo da parte, mezzo sotto gli alberelli e mezzo alla luce. D a lì cercò di vedere 63
Cata, che per tutto quel tempo se n’era stata laddiètro alle spalle di Jacoma, come imbalsamata, a farsi intrizzare dalla vecchia: e a lui era venuto desiderio di darle un’ultima occhiata, prima di allonta narsi dal giardino. Fu lei a farsi vedere: con un braccio trafficò contro Jacom a per togliersela davanti, e Jacom a si scostò, girandosi a guardarla. G li oc chi della babbicella parevano cercarlo. Non sorrideva più a quel suo modo strano, terribile e beato; e quel biancore lucente che aveva negli occhi, si era offuscato, era come se una luce dentro di lei, acce sasi un momento, si fosse subito spenta. Stava seria, ora, si sarebbe detto, se poteva mai dirsi allegrezza quella di prima. Pareva avere un dolore, e che ci pensasse e lo capisse: pareva sanata, sana, ora. Poi, di colpo, lei gli levò gli occhi di sopra, lo cancellò dalla sua vista e si guardò intorno, svagata e indifferente, come passasse gli occhi da uno all’altro degli alberelli del giardino. Girando gli occhi, sembrò vedere, per caso, il mascherone nella rena; si chinò, lo svuo tò della rena e lo sistemò sottosopra, a orinale. Jacoma, ormai com pletamente scapigliata, si levò di bocca forcine e ferretti e la fermò che già si sollevava le gonne e s’abbassava sul mascherone: « Bella » le disse. « Pipiateci allo scellerato, ma non qua. G li vo lete forse ricreare gli occhi a questi qua? No, bella, vero? Questi qua, vedete, darebbero la mano destra per gettarvi un’occhiata di sotto; ai tesori vostri. Ma i tesori vostri sono di chi sono, lo sappia mo noi due sole di chi sono, eh? Vi potete mai mettere a farne scialapopolo qua? No, vero, bella? Voi, i tesori vostri dove è scuro fitto fitto ve li scoprite, eh, bella? E ssi, ora vi mettete a fare scialapopolo e gli mostrate a cani e porci la vostra bomboniera, essi... Là, bella incaramellata, là ’n fondo, là allo scuroscuro, andateci a pipiare là al mascherone. Sdiluviatelo, sdiluviatelo, bella, là, là » Cata però, s’intestava ad afferrarsi le gonne e abbassarsi, e ronza va Jacom a con le spalle, come pigliata di nervino. Jacom a riuscì a sfi larle di sotto il mascherone e subito mettendoglielo fra le mani, le passò un braccio intorno alle spalle, si strinse a lei, guancia a guan cia, le parlò all’orecchio, le cenno, cennando contempo al fitto del giardino intanto che col darle discorso ve la inviava, spingendola delicata delicata. Chissà quali argomenti, modi e frasario di compli cità, in quei momenti, le usava Jacom a, per persuaderla: perché an cora una volta la babbicella, mansa mansa, la ubbidì e dandole con la coda dell’occhio, fuggevolissima, una sguardata dove pareva es 64
serci intesa, lusinga, felicità addirittura, s ’addentrò sotto il fogliame col mascherone sotto il braccio. Erano in tanti lì, a guardarla, eppure lei pareva barbaramente sola, pareva che né sguardi né pensieri di alcuno la potessero raggiungere e farle compagnia. Come già prima, andava scomparendo sotto il giardino, simile a una figura d ’aria, una siluette senza esistenza, infantasimata. Ora però, nella sua solitudine c’era quel mascherone bronzato, col collo mollacchio e slabbrato, che lei si portava innocentemente sottobraccio per orinale: e quel contatto la sfigurava, la intaccava alla vita come una grossa macchia purulenta, un gonfiore schifoso, biancastro e rosso violaceo, la contagiava col senso di vera finzione e di falsa verità rappresentate da quel mascherone, senso di statua e di persona insieme, di vita e di morte reali e apparenti, presenti e inesistenti. Guardandola, si pensava al male che quella Grantesta di cazzo aveva fatto e quel male sembrava che lo avesse fatto tutto a lei. C ’era questo triste pensiero, quella triste realtà che Cata si lascia va dietro, nel massimo sole, sparendo nella oscurità del giardino: e laddèntro, nel più fitto del fogliame di limoncelli e d ’aranciare, ci s ’immaginava di vederle sulle labbra, bianco e freddo, quel suo sor riso strano, terribile e beato, nel mentre si tirava su le gonne, s’ab bassava e pipìava in testa a Mussolini. Bordo bordo al giardino, pigliò allora ad allontanarsi e sperando di passare inosservato, sperando, in altre parole, di levarsi presto di vista coi suoi pantaloni scampanati, contava a uno a uno gli alberelli che andava superando. Gli giunse però all’orecchio la voce di quella Peppinagaribalda che diceva ai soldati: « Perché non l’imitate il marinaro? Perché non ve n’andate tacchìando pure voi? » Da lì in poi, pensando al trasbordo, i soldati non l’avevano più perso di vista, anche se non fecero comunella e il solo con cui ebbe qualche scambio di parole fu Portempedocle, che strada facendo, ac celerava il passo e veniva a fargli visita. I soldati infatti, partitisi anch’essi dalle femminote, gli avevano arrancato dietro e fatto qualche chilometro, Portempedocle si staccò dal gruppo e venne da lui per il purparlé che gli veniva indettato da Boccadopa. Venne e si presentò col saluto fascista: « A vossignoria gli rincresce se gli parlo? » gli aveva detto sorri dendo, tutto sdentato e babbigno. 65
« Ma che pesce siete? Per bollire o per arrostire? » gli fece, om brandosi. « Che m ’intendete con quel saluto? In mente a voi, che sarebbe quello? Sfottò? » « Non sia mai » disse, e alzò anche l ’altra mano come in segno di resa. « Non sia mai. Con rispetto venni da vossignoria, non mi so gnerei mai di sfotterlo, a vossignoria » Quando non rideva, era peggio, peggio e. diverso; perché chiu dendo la bocca, la pelle si stirava sulle guance, gialle di pallore, che s ’appiattivano come quelle della spatola. « E torna con questo vossignoria... Ma che intendete col vossi gnoria e il saluto fascista? » Si sorprese, si mostrò molto contristato, pareva sincerazzo: guar dandolo bene, si capiva che dalla guerra tornava un poco strambato di mente. « Per rispetto vi chiamai vossignoria » fece checchìando un poco. « Va be’, va be’, ma ora lasciatelo stare il vossignoria. Vi sembro un vossignoria, io? » E vedendo che fra sì e no, era capace solo di checchìare, gli disse: « E il saluto fascista? Venite e mi vi presentate col saluto fascista? » Gli sorrise per rinfrancarlo: « Se vi vedono gli americani che alzate quella mano, ve la legano con quell’altra... » Lo vide ancora preoccupato e gli disse: « Non vi ricordate del bongiorno? Bongiorno, bonasera: tornarono di moda, quelli... » « Bongiorno » disse allora Portempedocle. « Bongiorno, paesano » E sorrise. « Bongiorno » gli rispose. « Dite, allora, parlate. Che c’è? » « Mi mandarono quegli altri paesani là » fece. « Una volta che seppero dei ferribò affondati, s ’impensierirono, sicché vi domandano se voi, in qualità di marinaro, gli date consiglio e aiuto al trasbordo di mare. Se potete aiutarli, a quel passo di mare pietroso, m ’incari carono di dirvi che vi saranno grati in eterno... » « A ssisterli? Pensarono forse che c’è qualche veliero che m ’aspet ta? Sennò, come pensarono che li trasbordo? Me li metto in collo, uno per uno? » « Eh, che ragione avete di farlo? » fece il pelleossa. « E non glielo dissi io? Come ci può provvedere il marinaro, al vostro passaggio di mare? Lo scambiaste forse per M osè? Vi credete d ’andare al Mare Rosso col profeta davanti? » Parlava per loro, di loro, come se lui si chiamasse fuori. Stette un poco a scrutarlo a bocca aperta e poi aggiunse: 66
« E vi pare che non glielo feci presente, io? Il marinaro, gli dis si si fa la croce con la mano manca, se gli vado a dire di aprirvi un passaggio a mare. Così gli dissi. Però, quello lì, lo vedete? quel lo che manca di gamba, il catanese, quello è un dispotico che non ce n’è l ’uguale. Andate e fate l ’ambasciata, mi disse, sennò vi sono sta stampella sulle corna... » Rideva con la bocca sdentata che gli faceva bollicine schiumose agli angoli. Aveva quel ragionare sminchiato, da fesso a savio, e pa reva di vederla, la sua mente, che si muoveva nel parlare come un uccello in volo, che di tanto in tanto non trovasse più aria per soste nere le sue ali e precipitasse in un vuoto, per ripigliare poi inaspet tatamente a volare e ancora precipitare. Alla fine, se n’era uscito a dire, tutto scaltrigno: « Io, sapete che faccio? Torno e gli dico: il marinarello benvolonté dice, se può. Al mare se ne parla, dice: vedendo, facendo... Eh, gli vado a dire così? » « Per me, pure cosà gli potete dire... » Così o cosà, si misero a strascinarglisi dietro, con le pezze ai piedi e la monchierìa di gambe. Lui era andato avanti col suo solito passo, la sua naturalezza: rallentava, accelerava, si fermava, partiva. Face va finta di non vedere che si fermavano a dormire sulla stessa spiag gia dove lui aveva deciso di passare la notte, o che si alzavano e ripigliavano a camminare, non appena lui si alzava e ripigliava a cam minare: che lo guardavano, insomma, orientandosi su di lui co me al sole medesmo che sorgeva e tramontava sempre davanti a loro. Né lui né loro fecero tanto così per fare comunella: qualche scam bio di parole l’ebbe solo con Portempedocle, con altri nemmeno la bonanotte, il bongiorno: specie con Boccadopa e Petraliasottana, che non gli calavano, l’uno per il suo dispotismo di mutilato, che se la scontava su Portempedocle, e l’altro, con la sua cera di allettigato, per l’aria di gran vitaiolo che pigliava con parlare di mani e di bocca. Il quarto invece, il quarto di quel bel campionario del fu esercito italiano, il quarto che era nativo di Montalbano d ’Elicona, ed era un uomo tutt’inquartato, con lo sguardo fermo e tosto sotto la visiera della bustina, che al confronto con quei tre si portava con tegnosissimo, anche lui, dopo Portempedocle, era venuto a parlargli, e con due dita di saluto al parocchio, lo aveva apostrofato: « Perdonate, monsù » 67
« M onsù? » « Lingua francese... » gli aveva spiegato. « Montalbano era domi nio di Rinaldo, che non so se lo sapete, ci aveva il castello suo, e siccome andava e veniva da Parigi a Montalbano, si fece una certa confusione di lingue » E poi gli aveva detto: « Monsù, vi dovrei pregare di un favore, quando saremo in punto di mare. Da solo a solo » Naturalmente, intendeva pure lui il trasbordo, solo che lui inten deva trattare la cosa personalmente. Se doveva dire, Montalbanodelicona gli aveva fatto simpatia e lo avrebbe senz’altro favorito, se ne avesse avuto il modo e la maniera. Ma la sua vera e unica simpatia era quella comica di Portempedocle, con la compagnia che gli faceva e come lo sboriava quando si staccava dagli altri e gli si veniva a mettere al fianco come un cane di carretto. G li diventò naturale chiamarlo Mosè: però non gli fece più parola del passaggio di mare, anche se Boccadopa lo scioglieva dalla catena e gli concedeva quelle piccole licenze unicamente per tenere in caldo il marinaro. « Tramite, Boccadopa mi nominò tramite tra voi e loro » gli fece una volta. « A voi, mi disse, vi diamo l ’onore di farci tramite con la marina... Ah, ah, con la marina dice, non è che dice con la monta gna. Il fatto è, capite, M osè? che lui si crede che voi fate esodo, e dato che fate esodo, andate al mare a fare il vostro famoso passag gio di mare, e lui là v ’aspetta, là, col vostro esodo, là, per il comodo suo. Capite, Mosè, quant’è soperchioso? Gli fate comodo con l ’eso do e con l ’esodo dovete essere: nemmeno gli passa per mente che questo non è tempo di esodo, ma di legge divina. Ieri, vi ricordate? passando per Fuscaldo, ci dettero un bicchierotto di vino a testa e il vino c’imbriacò un poco, e con questa scusa mi finsi che sparlavo, invece pensavo ad alta voce per farmi sentire da lui e intendergli che sopra a voi non ci può contare e non per malavolontà vostra. Là, in cima al monte, andavo sparlando, sparlando però a trucco, là va sa lendo Mosè in questo momento. E là, sopra al monte, s’alliscia la barba e aspetta che gli diventa bianca bianca e così dal cielo gli ca lano le Tavole della Legge e lui se le riceve... Lo sapete? Nemme no mi dette intesa, per ’mbriaco mi pigliò. Poi io pensai ancora ad alta voce. Lo sa dio, mi finsi ancora che sparlavo, come gli pesano, 68
forse fatica pure a camminare. Quasi quasi vado e gli dò una mano... Le Tavole, vi pare che capì? Lè palle, capì. E andate, andate, mi disse, sorreggetegli voi i coglioni, se gli pesano tanto. Pensate che m ’ingelosìo perché mi fate le corna? Anzi, teneteglieli fittifitti, sin ché arriviamo al mare... Sentiste? Io nemmeno lo so come lo sop porto uno così soperchioso, così sfrontato... » Però, anche se ci metteva lo sfottò, lo strapotere camorristico di Boccadopa doveva per forza impressionarlo. Gli faceva il garzoncel lo e s’assoggettava a ogni bassa corvè: e la più bassa, in ogni senso, era quella di assisterlo ogniqualvolta che, per sbisognarsi di corpo, Boccadopa doveva scendere dalla stampella e accicognarsi sull’unica gamba, dietro qualche troffa di canne o di fichidindia o in un giar dino lungo le spiagge: allora doveva starci presente e tirarlo per la mano quando finiva. Che aveva Boccadopa per persuaderlo o costrin gerlo a quella corvè? Perché, soldato semplice era lui e soldato sem plice era il mutilato, salvo che Boccadopa non gli volesse passare come uqa superiorità il fatto che lui aveva una gamba di meno. Quanto a grado, poteva anche avergli infasciato che era stato gene rale; e quanto ad apparenza autoritaria e boriosità di figura solda tesca, Boccadopa, una certa inchiavatura l’aveva e gli stava a pen nello, come di natura, mentre Portempedocle sembrava uno che per sbaglio avevano strappato dal letto nel mezzo della notte: dal letto e dal letto d ’un qualche ospizio o lazzaretto. Ma se ne era impressionato, non si poteva dire che ne era intimo rito, anzi, rideva quando Boccadopa lo minacciava di sonargli la stampella in testa, cosa che faceva ogni due, tre: « Vi dò una fiaccata di legnate con questa, la vedete? » gli anda va promettendo. « Vi dò tutto st’onore di spezzarvi in testa st’asta di bandiera... » Si tronfiava tutto con quella, a suo dire, asta di bandiera stampellata: un pezzo di legno tondo e liscio che poteva essere stato benis simo un bastone di scopa, invece che un morso d ’asta di bandiera, come sosteneva lui. Nessuno di loro l’aveva mai vista così da vicino una bandiera, per confermarlo o meno. Le bandiere si vedono solo di lontano, come le reliquie sottovetro nelle processioni: resti di màrtiri, corpi interi o parti. Passano sempre a quella certa distanza, calcolata giusta, per non essere scandagliate se sono finte o vere, rose o rosate, come di cera o cera, osso o d ’osso. « Pretendente, quello » gli aveva detto un’altra volta Portempedo69
eie. « Anche se mi pretende che sto a tenergli la fronte quando va al cesso, questo è niente, ora. Vedrete, vedrete che mi pretenderà con quella gamba, appena arriviamo in pizzo al mare. Capacissimo che mi pretende di svacantargli il passo di mare, che mi dice: avan ti, appozzatevi qua, bevete, prosciugatemi il mare, che cosi passo al l’asciutto, e poi magari aggiunge: imponetemi in collo. Capite che pecoro zoppo ho da impormi? Io scherzo, rido, rido, ma quello, a me mi fa improsé. Quello, soldo falso è, catanese: che è tipo d ’an dare in cerca di patria vera, quello? Quello, mare rosso o mare nero, non vede differenza. Quello, Sicilia solo vede. Sapete che dice? La Sicilia, me la ridà lei la gamba. Lei ne ha tre e una le è d ’avanzo, e quella me la rattoppo io, per malandrineria. Sentiste che dice? E arditevi di dirgli: tre gambe? e che animale è questo con tre gambe? SI, arditevi e vedrete... » Erano andati avanti così, un giorno, un altro giorno. I soldati gli contavano i passi e solo all’attraversamento dei paesi, mentre loro entravano fra le case per qualche boccone e qualche sorso che spera vano di ricevervi, lasciavano che lui ci girasse intorno dove poteva. Portempedocle, naturalmente, ci sperava anche lui in qualche boc cone e sorso di qualcosa: « Venite, venite » lo minacciava allora Boccadopa. « Ma se il ma rinaro scompare, meglio che scomparite pure voi dietro a lui » I paesi infatti, a un certo punto, lui aveva deciso di scansarli, sia per i carabinieri, sia perché, fattane ’sperienza, non aveva avuto più il coraggio di affrontare le femmine che li aspettavano al passo da vanti alle case: le loro scene allarmose, lo spavento di gentilezze che gli facevano e con cui, melate e lancinanti, lo martoriavano ricordan dogli che lui era vivo, lui si era salvato, e lo tastiavano, gli toccavano la punta delle spalle, gli carezzavano la guancia, lo stringevano per il polso, gli allargavano una mano sul petto come per sentirgli battere il cuore... A lui, gli ricordavano troppo le scene che succedevano sulla sponda di Cariddi, quando c’era stata tempesta, le barche c’era no incappate e la prima chiumma scampata toccava finalmente terra: era da quel momento, dal fatto che quella chiumma di scampati era no rientrati, che le femmine degli altri pellisquadre cominciavano a speranzarsi. L ’ultima volta che aveva dovuto passarci in mezzo e soffrire quel le pene del lino, era stato in un paese che veniva prima di quella grande plaia, con giardini di aranciare e limoncelli, un paese da nien 70
te, che di lontano non si vedeva nemmeno, nascosto in una nera bo scaglia di macchie di ginestre, che crescevano persino sulle case di pietre e di calce, spaccate e smangiate dal sole. Fin lì, le donne per dove passavano, chi gli avvicinava alla bocca l ’uvetta appassolita nel la cenere, dentro le foglie di vite, chi un fico secco, chi un boccaletto di vino, ognuna qualcosa, insomma, per ingraziarseli. Lì, invece, le donne li aspettavano davanti alle porte, col bacile pieno d ’acqua, una sedia, un canovaccio o una pezzuola alla spalliera, perché, tutto quel lo che avevano da offrirgli, era una lavatura di piedi. Siccome era entrato solo e per primo, il più gran daffare l’aveva avuto lui a stor cersi e fare la serpentina fra quelle braccia, quelle mani, quelle dita, che di qua e di là gli facevano la gabbietta, di dietro alla sedia col bacile e l ’asciugatoio. Scansandosi, ringraziando e sorridendo, sorri dendo come si sorride quando più naturale sarebbe piangere, era sca polato fuori dalle case, debole e come dissanguato. In faccia doveva essere tutto un pallore: si sentiva come se gli avessero succhiato co gli occhi sino all'ultima goccia di sangue. Era certamente il suo ri morso di non avere accettato la lavatura di piedi, eppure gli era co stato tanto, quel rifiuto, che gli pareva di averci dilapidato tutte le forze, tutto il sangue. Di lontano, mentre lui ne usciva, aveva visto i soldati che entra vano nel paese e subito si sedevano. Solo Montalbano andava avanti ancora un poco, forse pensava di resistere, ma poi si sceglieva una sedia anche lui, una figura nera di donna gli si piegava davanti e co minciava a sfasciargli i piedi. A due, tre chilometri, si vedeva il mare scintillante come un enorme, disteso ammasso di pietre scheggiate. Dal paese al mare, sembrava tutta spiaggia polverosa e scagliosa: un deserto senza voce né rumori. Fra le case, in silenzio, i soldati erano passati da sedia a sedia; pensava ai loro piedi, a quello di Boccadopa, che s ’imbiancavano dopo tutte quelle lavature, quelle sfrega ture per voto, quelle sciacquature per baratto. Aveva sentito il san gue che tornava a circolargli nelle vene, a colorirgli la faccia: che gli pizzicava gli orecchi, che gli formicolava e bruciava sugli zigomi, come arrossisse.
Strada facendo, a quella prima, grossa avvisaglia femminota, se ne erano aggiunte altre, alcune a sola conferma: c’è ferribò? N i sba ferribò; e altre, ad aggravio: velieri, chiatte, caicchi, lance, bar 71
che in una parola, barche, almeno, se ne trovano? nisba barche. Nisbarche nisb’arche. In una parola: a mano se lo poteva fare, il tra sbordo. Quelle due femminelle, per esempio, che aveva incontrato nel G olfo di Sant’Eufemia, quando dal giardino nei paraggi di Praja a Mare a lì, aveva fatto ormai tutto il collo del piede calabrese: tor navano da Villa ad Amantea, a piedi, figurarsi, s’erano perdute di casa. Lì, era all’incirca in mezzo del G olfo: dopo un lunghissimo tratto di marina frastagliata di lingue di mare, con isolette, conche d ’acqua e canneti, era stato tutto un andare sabbioso, tra marine e plaie, con saliscendi di dune alte e basse. Le due femminelle stavano nascoste alla vista dietro un dorsale delle dune, una specie di vallatella, brillante di pietrebambine, assai vicino alla riva. In quella solitudine, si erano messe un poco in li bertà e stando in sottoveste, mangiavano pane e olive nere. Quando se lo videro capitare davanti, che veniva rivariva, costeggiando la vallatella, erano rimaste col mangiare alla bocca, fissandolo mute. Anche quando disse bongiorno, continuarono a fissarlo, ferme e mute, non pensando nemmeno a ricoprirsi, afferrando e infilandosi i vestiti che erano stesi lì accanto, a braccia aperte, fermati con delle pietre contro il vento anche se non spirava alito, tutti e due di co lore nerolutto. Si vedeva che avevano lavato e quello che avevano lavato, era steso ad asciugare sulle pietrebambine: una camicia a lutto, bianca con bottoni neri, una muta di biancheria, maglia e mutande, calze nere, tutta roba da uomo, e poi parecchi fazzoletti da naso, bianchi bordati neri; e poi, c’era un grande fazzoletto rosso in cui forse era stata infagottata quella roba, e poi c’era una mappina ripiegata e den tro c’erano dei pezzi di pane biscottato, che doveva essere di prima della guerra, dei fichi secchi, e altre di quelle olive nere con cui ac compagnavano il pane. « Scusate » disse, pigliando un tono disinvolto. « Sapete se per Sicilia si passa? » E in così dire, fece qualche passo verso di loro, giusto per educazione, ma subito si era fermato, non capacitandosi di quello che stava succedendo. Con sua grande sorpresa, le due femminelle si erano gettate in la grime e gridi, l’una nelle braccia dell’altra, come per un dolore re cente e rinnovato: « Focu meu, focu meu » si lamentavano e lo guardavano. 72
Non sapendo che pensare, aveva fatto ancora la mossa di avvici narsi e quelle allora, lasciando cadere pane e olive, afferrarono i loro vestiti e alzandosi, s ’allontanarono di alcuni passi, sgomentate. « Perdonate, se v ’incomodai » disse a quel punto allargando le braccia e piegando le labbra. Soprapensiero, s’allontanava da quelle due disgraziate, quando la madre lo aveva richiamato: « A voi, aspettate, non ve ne andate » gli fece, e quando lui si girò, aggiunse: « Statevi là, che ora vi dico... » « Che mi dite? » le domandò: ormai pensava solo a quel piccio che si gettavano, mai più a ferribò e barca. « Aspettate che prima ci facciamo decenti le persone, madre e figlia » La madre la coprì e la figlia s ’infilò il vestito, poi la figlia coprì la madre e questa s ’infilò il suo. Allora tutto il bianco del collo, delle braccia e delle gambe scomparve sotto la stoffa nera e le due perso n ale, identiche, precise, sputate: tutte e due magre, sfilate, ossute, con le occhiaie di chi ha vegliato notti e notti per un malato e poi ha pianto il suo lutto, pigliarono un aspetto di funeraglia, come fossero la Morte in vacanza con sua figlia. Forse era quello che intendevano per farsi decenti le persone: pararsi di fuori, com’erano parate di dentro, e cioè a lutto. Potevano essere, fra lui e le due femminelle, una trentina di me tri, e la madre doveva gridare per farsi sentire; nel mezzo, c’era quella roba d ’uomo che asciugava e come prima cosa, la madre, ro vesciando la mano, indicandogli quei pezzi di biancheria come fos sero pezzi d ’un corpo umano sbranato da qualche belva, gli fece con accento catastrofico: « Vedete quella camicia? Vedete quella muta di biancheria? E quelle calze? Quella è roba del mio unico figlio, focu meu » « Del mio unico fratello, focu meu » la riecheggiò la figlia. Sette giorni addietro, secondo quanto madre e figlia, a entrare e uscire, presero a dirgli, erano partite da Amantea per Cannitello, dove c’era, e lui lo veniva a sapere in quel momento, lo sbarcombarco degli zatteroni ’nglesi che facevano vaeviene con Torre Faro in Sicilia. A piedi, due femminelle sole, si erano partite per portare a figlio e fratello una muta di biancheria, una camicia, qualche calza. « Si trova, per sua disgrazia, incarcerato? » domandò, sentendo questo. 73
« Peju, peju, peju assai » rispose lei. « M urato, murato vivo, si trova là, in faccia al mare e alla Sicilia, focu meu » « Capiste? » aggiunse di suo la figlia, avanzandosi accanto alla ma dre, appena appena con la punta del piede e con la mano, con la stessa mossa di un pupo dell’Opera quando piglia parola: « Pare che si murò: sta là, sopra le rocce di Cannitello, guarda la Sicilia morta e non si muove... Nemmeno per lagrime di madre e sorella si muo ve, focu meu » « Pare che gli scese alle piante dei piedi quel pensiero fisso » ri prese la madre. « Pare che lo radicò dentro quelle rocce, focu meu » « Capiste? » fece ancora la figlia. Ma era una parola capire. Stava murato là, dicevano, ma in che senso murato: murato, proprio murato? « Ma che fa là, scusate » domandò. « Questo, se vi devo dire, an cora non lo capii » La madre si mise una mano alla bocca, si fece gli occhi di cane bastonato e li girò di lato sulla figlia, le fece invito di parola, ma supplichevole supplichevole. La figlia pigliò scena e disse: « Che fa là? E che deve fare? Si consuma gli occhi a guardare per Sicilia » « Ma aveva forse qualche affare là in Sicilia, qualche affare che per causa della guerra dovette lasciare in sospeso? » Lui, era alla madre che si rivolgeva, gli pareva doveroso; se poi giocava alla passatella con la figlia facendole invito di parola, questo riguardava lei: « E quale affare? » fece infatti la figlia salendo di scena. « L ’unico affare era quello, la guerra, e quello, affare di soldati era, non gli competeva a lui » « Sì » fece la madre. « Perché mio figlio, dovete sapere, è offeso a una gamba e quando passò la visita, gli vedettero la zopperìa e non se lo pigliarono per soldato. Eppure, vi pare che è offeso molto? La gamba, sarà questione che è più corta dell’altra, un dito e forse nem meno » « Cadde da un’olivara e si spezzò l ’anca » aggiunse la figlia, senza invito, questa volta. Subito però, lasciò lui e parlò con sua madre: « Quanti anni poteva avere Sasà quando ebbe la disgrazia? T re dici, quattordici anni? Me lo ricordo come fosse ieri, era di luglio e Sasà, tutto bello parato a preticchio, col cappello largo, tondotondo, e le nappine, la veste nera abbottonata da sotto a sopra, e le scarpe 74
di coppale lucidelucide, venne dal seminario a passare le vacanze. Venne e la prima cosa che fece, come se fosse venuto con quel pen siero... » « La fatalità che lo chiamava » commentario la madre quasi per sé. « ... fu di salirsene sopra a quella olivara per pigliare un nido di passeri. Quando però fu lassòpra in cima, s ’imbrogliò con la veste e sbattette di lassòpra a terra come una pera sfatta. Mi ricordo che quando gli dicemmo: e a voi chi vi portò sopra all’olivara a pigliare nidi, a voi, don Sasà, voi, che non vi divertiste mai coi nidi, ora, giusto ora che siete previtello fate questo peccato di levarle i figli alla madre? Don Sasà fra le lagrime: fu il diavolo tentatore, disse, non gli seppi resistere... » « Che grande disgrazia fu » commentario ancora la madre. « Fu la grande disgrazia della sua e della nostra vita. Ci sdiregnammo le oli vare passando d ’un medico all’altro, specialisti e operazioni che non si sa quante furono, e la scianca non gliela levò nessuno. Non ci ve demmo più lustro per causa di quella gamba. Ci restarono quei quat tro piedi d ’olivare, giusto per non dovercene andare a giornata a rac cogliergli le olive agli altri... » Tanto per cambiare musica e non fare la parte di chi se ne stava zitto per stare a sentire i loro guai, disse: « Scusatemi, se non volendo, vi risuscitai sti tristi ricordi. Però, per la verità, io, parlando d ’affari, v ’intendevo dire se per caso non aveva spedito in Sicilia qualche merce, qualche partita di essenze di gelsomini o bergamotto, per esempio, e questa merce, lui non sapeva più che fine aveva fatto, con la guerra che si traslocò in continente, e per questo lui freme per passare nell’isola... » Ma che parlava a fare? Lo guardavano con l ’aria di pensare: par la, parla, ma se ti credi di farci dire perché e percome Sasà s ’impaz zisce per trasbordarsi in Sicilia, ti sbagli di grosso. L a madre girava gli occhi di babbannacchia dalla figlia a lui, quasi si aspettasse una nuova domanda da lui e la risposta che gli avrebbe dato la figlia. Ma che domandava a fare? che giocavano forse a indovinindovinaglia? Solo non capiva perché la madre lo aveva richiamato, dicendogli: venite, che tutto vi dico. Tutto di che? Che non c’era modo di tra sbordare, a questo c’era arrivato: se non trasbordava quello che ci smaniava, c’impazziva... Ma per il resto, tutto di che? Di niente? « Voi, signor mio, mi sbaglio o siete nativo di Sicilia' » fece la madre ripigliando parola come fossero tornati al punto di partenza. 75
« Sì, nativo di Sicilia, d ’un posto quasi visavì con Scilla » « Allora, per trasbordarvi lì vi tocca scendere a Cannitello, eh? E allora, questo Sasà che vi dicemmo, Sasà Liconti, figlio e fratello nostro, sicuramente lo vedete, e vi farete un concetto cogli occhi vostri di com’è ridotto: un pezzentiere, un domandelemosina... » « Un Sasà Liconti, che fu sempre un figurino di Parigi... » fece la figlia che ora, di continuo, salì e cadde di scena accanto e dietro alla madre. « Per arruffianarsi, sperando che un giorno si commovono e lo trasbordano, gli fa i servizi agl’inglesi: gli spacca la legna, gli piglia l ’acqua, gli sbarazza le macerie, e poi aiuta in cucina, gli lava i piat ti... » « Focu focu, un Sasà Liconti che fa lavori di caserma e bassoporto, un Sasà Liconti che non sollevò mai un filo di paglia. Oltre che for chetta e coltello, libro o penna, che sforzi fece mai, che ebbe a pi gliare in mano? » « E la prova più loquente da dire a questo proposito, ve lo scor date, figlia sennata? » le fece la madre, fermandola mentre si ritirava nella sua ombra, mostrandole contempo la mano destra col mignolo alzato. « Ah, sì, sì, l’unghia del dito mignolo... Fece una specie di voto, almeno questo fu quello che si capì. Si dovette dire: st’unghia me la farò crescere sinché non finisce la guerra. Gli diventò lunga come un becco di beccaccia, così lunga che si poteva grattare l’orecchio senza nemmeno alzare la mano, anzi qualcuno di questi che vanno per mare disse addirittura che l’aveva più lunga di quella del dito mignolo, destro e sinistro, di certi ricconi della lontana Cina che vengono intesi Mandarini forse perché, se sono ricconi, lo devono alle proprietà di giardini di mandarini... » Quei Mandarini, pure lui li aveva sentiti dire, però che stilassero d ’abitudine l’unghia lunga del mignolo destro e sinistro, questo non lo sapeva. L ’Apone allora, si poteva apparigliare benissimo a quei Mandarini, dato che avevano molto di eccentrico in comune, avendo smodatezza di soldi e smodatezza comune, avendo soldi e unghia. Apone era un riattere grosso, sia di persona e sia d ’importanza, e infatti lo intendevano apone in quanto era quello che mangiava soldi più di tutti, senza muovere un dito lui, perché c’erano gli altri, i riatteri di bassaforza, che travagliavano, volenti o nolenti, per lui. Apone, tuttalpiù, muoveva la famosa unghia del dito mignolo sini 76
stro, perché si serviva di quella per alzargli le branchie al pesce che gli puzzava alla vista, per appurare se sotto avevano fresco o stantivo il rosso di sangue. Apone, i soldi non sapeva più dove metterli quando, verso il ventinovetrenta, lui se lo ricordava in aria in aria, gli avevano fatto la festa, non s’era potuto sapere chi, gente però che doveva bazzicarlo, perché infatti gli avevano tagliato tutte e due le unghie dei mignoli, e per sfregio, una gliela misero in bocca e gli spuntava come l’osso dello spada, l’altra, gli fecero un buco nei pan taloni e gliela infilarono allo sbocco di bocca, al culo ovverossia. Per questo non gli riusciva nuova quella stravaganteria dell’un ghia lunga, però, se capiva quei Mandarini, e di più ancora capiva Apone, non capiva invece questo Sasà che per un capello non si era indirizzato a vescovo e gli veniva quello sghiribizzo di farsi crescere l’unghia del mignolo. Possibile che gli era venuto in mente da solo? O gliene aveva parlato qualcuno? Ma forse gli avevano insegnato pure quello in seminario, i vescovi, forse la stilavano pure loro l’un ghia del mignolo lunga spigata, chi lo poteva sapere? Madre e figlia intanto, andavano avanti: una volta tu, una volta io, a contargli le pene del lino che aveva passato quel loro Guerrino detto il Meschino, con un dire che aveva qualcosa del tribolo che le femminote gli gettavano sopra ai ferribò persi: « Ora g l’inglesi gliela danno qualche restatina di cucina, ma prima campò con qualche ficodindia selvaggio, qualche carrubba e qualche favetta col verme... » « E ghiande no? Pure ghiande mangiò. Un Sasà Liconti che mangia ghiande, lui che se poteva, quando stava al seminario, l’ostia della Comunione, sempre e solo quella si sarebbe mangiata, invece di pa sta e pane, perché solo l’ostia non gli faceva indigesto, tanto delicato era... » « E si sdegettò, ’maro figlio, perse ogni ritegno e pudore, non ci tiene nemmeno a salvare la faccia oramai. Lo vedemmo là, sopra la marina di Cannitello, fra tutta quella gente sinistrata, che sta come tante anime di dannati alla riva di mare, lo vedemmo come se la intende con scagnozzari, intrallazzisti, giocatori di carte, ciarlatani, e fallattutti... » « E malefemmine, femminazze pittate, mascolare... » « E lo sentimmo, là, con quella feccia là, parlare ed essere par lato con lingua sporca, con tali sboccataggini di cose, che io mi do vetti allontanare per non fargliele sentire a questa figlia mia... » 77
« Un Sasà Liconti che parla ed è parlato sboccato, uno come lui che studiava per seminarista nel Seminario di Paola e dopo qualche anno non parlava più proprio per niente l ’italiano, e con la bocca ancora di latte parlava sempre sempre in latino, quasi ci faceva im pressione a sentirlo, dato che pareva preciso un angelo. Un Sasà L i conti che si fece la faccia di suola, lui che in Seminario la parte del l ’Arcangelo Gabriele che scendeva dal cielo per dire a Giuseppe: piglia madre e bambino e vattene in Egitto, la faceva che pareva proprio l’Arcangelo Gabriele in carne e ossa e in rossore di faccia. Un Sasà Liconti che ora non si scandalizza più di niente, lui che sino ai diciottanni, e a st’età, a voglia da quanto tempo era uscito di Se minario, arrossiva che nemmeno io, una signorina, se sentiva parlare qualche giovanotto pocopoco sconvenientemente. Un Sasà Liconti, per farla breve, che dalle stelle se ne scese alle stalle, lui che per un capello non pigliò la carriera di vescovo per quella gamba che gli zoppiò, che non gli faceva niente se studiava per prete, perché un prete può zoppiate e la gente non se n’accorge nemmeno, ma gli fece, gli fece quello che gli fece, dato che studiava per vescovo, per ché il vescovo sfigura se non è fatto bell’e perfetto... » « Ma è inutile parlarvi, a Cannitello lo vedete cogli occhi vostri come si diventò un santolazzaro e un debosciato. E se non lo vedete, guardando fra quelli che stanno aH’imbarcarizzo, spiate e chiunque ve lo sa indicare, dato che è conosciuto come il pezzo da due soldi e per tutto un insieme di cose, diventò la favola d ’inglesi, siciliani e calabresi... » « La favola? M a’, m a’, dite, dite che se lo pigliano a sfottò, e a sfottò malo, maligno, e gli gettano la baia di continuo, dite, dite che gli dà spettacolo senza nemmeno passare col piattino... » « È tutto un insieme di cose... » fece la madre, come per tacitarla, con tono fatalistico. « Tutto un insieme di cose, di ’ventualità della vita... » Tutto un insieme di cose, che in parte forse avevano detto, madre e figlia, e in parte forse non avevano intenzione di dirgli, la madre almeno, perché la figlia una mezza intenzione l’aveva: « Questo insieme di cose, c’è da dire... » Guardava la madre, come per ispirarsi, se doveva farsi avanti di persona e di parola, oppure ritirarsi in buon ordine, lei e la sua in tenzione. Infatti, se ne calò tutta, tornando a rimmignonirsi nell’om bra della madre che faceva la mula sorda e senza tenere in alcunis78
simo conto quella mezza intenzione che aveva la figlia di quagliare un poco di più riguardo alle causanti che avevano spinto e tenevano a Cannitello il loro Sasà, rincalcava più fitto il coperchio che aveva messo sopra a quell’insieme di cose e restando sempre orlo orlo al superfluo per l’essenziale, insisteva col dire: « Inutile parlare. Voi stesso lo potete vedere, in pizzo alle rocce di Cannitello o bordobordo alla marina, solo e ridotto come un men dico fra la gente che sbarca ’mbarca, a farsi tossico di vedere i bar coni ’nglesi che vanno e vengono per le due sponde di mare... Pas sano merci e passano viaggiatori, passa però quel raro siciliano e solo siciliano, che ricevette disinfezione e lasciapassare dell’autorità ’nglese, che per lo Stretto, non so se lo sapete, diventò voce governati va. E che vi devo dire di più? E non ardì di presentarsi per il lascia passare? Eccome no, sprudentissimo: e non si spacciò per sici liano? » L a figlia tornò di scena, affiancandosi alla madre col dire: « E quelli, ’maro Sasà, il mare cogli zoccoli glielo fecero passare, per quante sfottiture e lisci e bussi che gli fecero » La madre cenno con occhi e fronte che la figlia le aveva fatto pia cere dicendo la sua, così, giustappunto, e poi continuò: « A ll’ufficio, le autorità ’nglesi gli dissero: dite ciciro, per spro varlo se era effettivamente quanto dichiarava, cioè a dire siciliano. Voi, » fece qui la madre, interrompendosi « sentiste mai dire di questo trucco infallibile di fare dire ciciro per appurare se uno è o non è siciliano? » « Sì, sì, mi pare, a scuola... » le rispose. Però, voleva dirle: lo sentii dire all’incontrario, nel senso che l ’inventarono i palermitani per sfrancesare i francesi che li avevano disonorati e cioè, con la spa da alla gola gli facevano masticare il ciciro siciliano, li sventavano per forestieri e issofatto li ammazzavano. « A scuola, eh? » ripete la figlia masticando e guardando la madre come ci fosse un sottinteso fra di loro. Ma veniva il più bello e la madre era tutta presa dal trucco del ciciro come se qualcuno glielo raccontasse a lei: « Dici ciciro, gli dicono, e lui dice ciciro. E quelli: no, gli dicono, sisiro, si dice. Tu siciliano? Tu nix siciliano. Tu francise. Ciciro francise, tu francise. Sisiro, sisiro, si dice. Sasà che fa? Ride e s ’az zarda di dire: la guerra, forse, la ridusse a babele la Sicilia? Un tale franciaspagna faceste a cannonate, eccellentissimi... » 79
« Focu focu, faceva il lepido, uno ignaro di mondo come lui... » commentariò la figlia scandalizzata. « E quelli si tramutano all’istante in tanti diavoli scatenati. E l’imminacciano, passandosi la mano in taglio alla gola come gl’intendessero dire: ti scippiamo la testa dal collo. Gli gridano da fargli ve nire i vermi, poi se n ’escono tutti in sorrisi, gli dànno manate in confidenza nelle spalle e poi lo mandano in un certo luogo baraccato che fecero in mezzo alle macerie del porto. E 11 lo mettono a nudo e lo fanno entrare e uscire da una baracca all’altra, dai bollori ai geli, fra fumiggini e vapori e spruzzi di medicinali disinfettanti: zolfo in polvere? lisoform io? crcolina? cose terribili cosi, cose che lo fanno vomitare e gli cardano e bruscano la pelle. Qui ti sani, gli dicono, se sei appestato. Non è che vuoi portare in Sicilia un contagio, il tifo petecchiale, putacaso? Figurarsi: quello per trasbordarsi, la pelle in sangue si faceva levare senza dire ahi. E difatti, lo ridussero più morto che vivo in quelle baracche. Poi lo riportano da quelli del ciciro e di nuovo: dici ciciro, gli dicono. Che risponde questa volta lui, innocente figlio? Sisiro, risponde lui. E quelli: no, ciciro si dice, gli dicono. Tu siciliano? Vorrai dire francise. Capiste? Il figlio si vedeva pigliato dai turchi. Ma come? si diceva. Mi cambiano le carte in ta vola? Prima sisiro, ora ciciro, un volta lo vogliono cotto, un’altra volta lo vogliono crudo. Questo è sfottò, si dice. Questi si bagnano il savoiardo nelle lagrime mie, gli piace il biscotto spugnato nel pian to di questo disgraziato chiamato Sasà Liconti. Allora, sempre stato agnello, e agnello di quelli da sacrificio, non ci vedette più dagli oc chi, inselvaggì e col residuo di forze che aveva, si gettò come una furia alla gola del primo che gli capitò: ciciro, sisiro, ciciro, faceva tempestandolo. E così g l’inglesi non ci scherzarono più, lo pigliaro no e lo chiusero in un posto che loro chiamano calabuscio e che poi sarebbe il carcere... » « E noi che ne sapevamo, fratello mio, di queste sue peripezie di patire? » fece la figlia, avanzando con piglio sconsolato accanto alla madre come fosse Angelica all’Opera, un’Angelica, liscia e secca co me un’aliccia, che non faceva impazzire nessuno d ’amore per lei, tutta presa dal pensiero di suo fratello M edoro: questa qui, non sapeva, ma quella, anzi, ne era presa sin troppo, al punto che, se a Messina non ci malignavano tanto, i pupari, e li facevano passare per fratello e sorella, a Catania e a Palermo, così si diceva, visto che erano così attaccati e che Angelica spasimava più per quel Medoro che per il 80
valoroso Orlando, c’era chi li faceva passare per ziti, chi per moglie e marito e chi per amanti. La madre consentì col capo, sempre guardando lui, e continuò dal dire detto dalla figlia: « Niente di niente: sparì di casa non appena la guerra si trasbor dò in continente dalla Sicilia e non ne seppimo più né vecchia né nuova. Ad Amantea, ci arrivò la notizia portataci da certi cosiddetti intrallazzisti, assetati di olioliva. Un certo giovane, questi qua ci vengono a dire, un certo giovane vi diciamo, ma per la verità la gio ventù non si può dire che gli pare in pieno o anche solo che gli tra spare alla figura, sto certo o incerto giovane, fatto così e così, tanto per darvene qualche segno a segnale di riconoscimento, posto che si proclama vostro figlio, vi manda saluti e v ’assicura del suo benesta re. Dove l ’incontraste? gli domando a questi intrallazzisti. Per dirvi la verità, mi rispondono quelli, lo vedemmo seduto sopra le rocce della marina di Cannitello; di dietro, con la testa chinata in avanti, ci parve sulle prime che pescasse e per questo ci avvicinammo. In vece, stava a fare niente di niente, ovverossia si specchiava nell’ac qua di sotto, fisso fisso, come quelli che aspettano di vedere un gior no intrasparire a galla nello Stretto il miraggio della Fata M orga na... » « E in effetti, che faceva e che fa? » disse la figlia, pigliando piede e parola. « Aspetta un miraggio che non gli comparirà mai. Infelice fratello mio, la barba gli diventerà bianca, si farà lunga e gli scen derà dalle rocce sino a mare » « E se questo dev’essere il suo destino... » fece la madre guar dando la figlia come la indettasse. « Se deve stare là... » « Se deve stare là, quel fratello mio, » completò la figlia « si può lasciarlo forse come un pezzellaro? Se deve stare là, in vista a tutti, che concetto si faranno della famiglia Liconti di Amantea, amici e conoscenti, vedendolo tanto miserrimo e degradato nella persona? Madre e sorella, che sono, diranno, delle lordone? E di me, ancora signorina, che diranno: immaginiamoci come tratterà il marito, quel la, quando si marita. Perciò... » « Perciò, per non sfigurare all’occhio sociale, » ripigliò la madre sospirando « facemmo un fagotto di roba sua e partimmo per Can nitello. A Cannitello trovammo che la notizia rispondeva a verità ve rissima. Là stava, seduto sulla sponda della marina di Cannitello, seduto giusto giusto accanto all’attracco di tavole di legno che get 81
tarono gl’inglesi, seduto là a mangiarsi cogli occhi lo zatterone che; arrivava e partiva: seduto là, in faccia a mare e Sicilia, che aspettava, il miraggio. SI, là stava, là sta: uno scempio d ’uomo, se lo vedete, ei lo dovevate conoscere prima, per farvene un’idea. Che vi devo d ire ?| Un individuo lazzariato, lazzariato peggio che se fosse tornato dal la guerra, patito d ’ogni stento e battaglia, un individuo, per giunta, assoggettato volontario a quei marinai là, un pezzentiere, un domandelemosina che aspetta che gl’inglesi gli fanno la carità di trasbor darlo in Sicilia. Stava là, sta là, ’maro figlio: si parti juvenello per Paradiso e per quella scianca fece tutta una caduta sino all’Inferno, e l’Inferno, si faccia conto, è quell’isola maceriata e persa, la Sicilia, e lui sta là, davanti alle porte dell’Inferno, gettato in ginocchio, lui, un quasi vescovo, e. si venderebbe l ’anima per avere entrata in quel l’inferno. E chi se lo poteva mai immaginare che a Sasà Liconti gli veniva questa gran fissazione di Sicilia, Sicilia e ancora Sicilia? » Stette un poco come a riflettere su questo, poi rovesciò le mani, so spirò a lungo e concluse: « Mah, sono le umane fatalità, le ’ventuaIità della vita. È volere divino: e noi, fango e polvere, ci possiamo opporre forse al volere divino? » Sfiatò ancora dal naso dietro queste parole a cantilena e si capì che per lei quello che c’era da dire, era stato detto e altro, lei, non aveva più fiato per dirlo: quello, per lei, era a chiusura e commentario di tutto, ci metteva un punto, in poche parole, alla storia di Sasà Liconti, ci metteva una pietra sopra al perché, percome s’impazziva per passare in Sicilia. Ma strabilio di cosa, la figlia fu di contrario avviso: strabilio per lui che l’aveva vista tuttuna con sua madre, come quando uno spic chio d ’arancia ha il figlio, uno spicchietto incorporato, parte dentro e parte fuori, ma strabilio massime per la madre che era lo spicchio. La figlia, di punto in bianco, si calò la visiera, o se l’alzò, conside rato che solo ora usciva al naturale, e chiamò la madre in campo aperto, visavì. Si poteva giurarci che era per tutto il viaggio, da giorni e notti prima, o anche da mesi, da anni prima, che pensava di affrontare la madre in un dichiaramento, però senza mai trovare il coraggio di farlo sinché stava con lei da sola a sola. Presente lui, un estraneo, si era finalmente decisa. Oppure, a farla decidere, fu il piantolino che la pigliò in quel momento. Si teneva le labbra fra i denti e ancora non piangeva, ma quando la madre occhiò verso di lei con la coda dell’occhio, una lagrima le 82
s p u n t ò issofatto dagli occhi, lei però, subito, la staccò con l’indice dal ciglio e la sfregò via prima che le sgocciolasse sulla faccia. La madre si portò la mano alla bocca, pigliando quell’aria di babbannacchia che stilava quando qualcosa le riusciva scabroso da ca pire, o da fare o da dire, o voleva darlo a intendere: « Che vi successe, figlia sennata? » le domandò. « D issi forse, non volendo, ’mara me, qualcosa che vi ferì? » « Fu quello che non diceste che mi ferì » fece la figlia, col pianto che rinforzava e lei non ce la faceva più a sfregarsi via dal ciglio le lagrime che ora le sgorgavano a getto continuo e le rigavano la fac cia. « Fu quello che non dite: ’mara m a’ » E siccome la madre faceva sempre più a non capire, la figlia per prima cosa si levò da laddiètro, dallato a sua madre: come le uscisse dall’ombra, questo significato sembrò dare alla cosa, piazzandosi qualche passo più in là, di fronte alla madre: e stringendosi nelle braccia come vi si rinserrasse, con la faccia diluviata dalle lagrime, con la voce spezzata dai singulti, le gridò: « La fotografia, ma’, la fotografia... La fotografia che Sasà mostra ai siciliani che s ’imbarcano e sbarcano, là, sulla spiaggia di Cannitello, la fotografia che di quanto passò di mano in mano, di quanto fu mostrata e vista, si consumò e invecchiò persino, la fotografia dove c’è una certa persona fotografata, per la quale persona lui, Sasà, gli spia a tutti se la conoscono, se l ’incontrarono mai, se per caso sanno se restò viva o morta nello sterminio di guerra in Sicilia, la fotografia di questa persona che a furia di essere guardata da tanti e tanti, pare quasi che si dovette consumare e invecchiare pure lei in carne e ossa, e pare che morì antica lassòpra alla fotografia. Così tanti, così tanti la vedettero quella fotografia, la vedettero cani e porci, quella foto grafia e quella persona, ma io no, io no, io sola no... » « Fotografia? Persona in fotografia? » fece la madre col massimo del suo tono ignaro, innocente, come di figlioletta ancora non scandaliata dalla vita. « Questa, all’orecchio mio, è la novità delle no vità » La figlia restò per un secondo allampata dalla sfacciataggine di sua madre, le si seccò di colpo il pianto e negli occhi le passò come un’ombra di dubbio. Poi però, senza più l’accoramento di prima, le rivolse la parola calma calma, assai più di prima persuasa e sicura di quello che diceva, eppure con un che di disperatamente disincan tato e rassegnato nella voce:
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« M a’, ma’, ma è mai possibile, è mai, mai possibile che ancora, ancora e ancora, al punto in cui siamo, vi pretendete di pararvi dal sole con la rete? Con Sasà che si gettò allo sbaraglio e sta là espo sto al pubblico sopra la spiaggia di Cannitello, e fa la tragedia e la farsa e lo vedono siciliani e calabresi, lo vedono intrallazzisti d ’olioliva, lo vedono intrallazzisti di frumento e di sigarette e la voce cammina, si sparge, non ci manca molto e lo saprà dio e tutto il mondo quello che gli capitò a Sasà Liconti di Amantea, e con tut to questo, voi, vi pretendete di nascondervi sinanche con vostra fi glia, vi pretendete, vi pretendete ancora di pararvi dal sole con la rete? » La madre, a un certo punto, aveva cominciato a fare soprasotto col capo, come se cercasse di colpirsi il petto con la punta del men to, e quando la figlia finì di dire, le levò gli occhi di sopra, si girò di tre quarti all’indietro e prima curvandosi, poi mettendosi sopra un ginocchio o sopra tutti e due, s ’intrafficò tutta, con la biancheria stesa ad asciugare. Ma s ’era appena curvata che la figlia, esasperata dal suo gesto d ’indifferenza, le venne sopra, scattosa e implorante, e come se le parole le uscissero fuori dagli occhi più che dalla bocca, talmente parlava a denti stretti, ricordandosi forse che c’era un estra neo, le disse: « Parliamo col vero, ma’, ma’ ’mara, parliamo col vero, parliamo col vero... M a’, ma’, ’mara m a’, solo col vero, solo se ne parliamo col vero, dalla vergogna ci può venire onoranza. Capiste? Col vero, col vero... » A questo punto poteva più stargli davanti? poteva mai essere così indelicato e facciatosta? Doveva lasciarle sole, libere di presenze ’stranee, padrone di apparolarsi come volevano sulle loro vergogne, sen za obbligarle ad aggiungere rossore a rossore: s’allontanò perciò sino alla sponda di mare e là si abbassò sui calcagni, facendo vedere che si sciacquava le mani, con la convinzione però che anche queste due femminelle, come le femminote, a un certo punto del loro incotturiamento di pensieri, non s ’accorgevano più se c’erano ’stranei a sen tirle, ovverossia ogni ’stranea cosa o persona si cancellava dalla loro mente. Occhiando all’indietro, vedeva la madre, ora seduta un poco di traverso, ora a quattro piedi, che s ’aggirava in mezzo al bucato, pi gliando questo e quel pezzo della roba di suo figlio, stringendolo nel pugno, tenendoselo a lungo spiegato vicinissimo davanti agli occhi, 84
■> avevano mormorato all’Eccellenza. « Pigliatela la carogna, ti spetta come a un parente stretto. Pigliatela, dàlie sepol tura » Avevano cominciato a sbragarla e quello lassòpra, intanto, cosa 224
da non credere ai propri occhi, si era fatta portare la camicia nera di fascista e continuando a guardare in sotto, l ’aveva indossata, rim boccandosi le maniche. Perché si levava dal ridicolo di torace nudo per mettersi in camicia nera? Si mette a lutto per la fera, si dis sero. Si veste d ’autorità per noi, pensarono ognuno, senza dir selo. Rovesciarono infine la fera in acqua e quando ancora galleggia va e non galleggiava, mezza nascosta fra gli spruzzi, il fascistazzo aveva fulmineamente imbracciato il moschetto e dando l’impressio ne di non mirarla nemmeno, le aveva scaricato il caricatore in testa. « Ci spara » si gridarono i pellisquadre, al primo fischio di pal lottola. « Non vede nessun valore di vita fascista in noi e ci leva dal mondo » « Questo può e questo decise? » « Questa faccia di battitore di portone, ci stabilì e dette morte? » « Questo orangutango ci fece da dio? » Ma spettava, al massimo, alla fera farsi sdegno e meraviglia: quello, lei aveva mirato e lei infallibilmente pigliato. Sparare era me stiere suo, bisognava riconoscerglielo, e un cacciatore come don Sa verio Gullì, anche a ventanni, gli poteva fare il garzonello: aveva fatto centro sei volte su sei, perché le aveva ficcato le sei pallottole dove bisogna necessariamente ficcargliele, là o là, dentro il rotolo di cervello della fronte bozzuta, come l’inchiodasse dentro l’acqua, ribattendo sempre lo stesso chiodo. La fera si risentì talmente del tradimento, che per un momento riapparve ancora ai loro occhi nella sua nomea di settespiriti e di quasi immortale. Dette infatti l’impressione di vivere ancora abba stanza per fare segno con l ’occhio dalla loro parte. Cavalieri, vi saluto, pareva dicesse. Perché, cavalieri mi apparite a paragone di questo maganzese che è peggio di me e con ciò vi ho detto tutto. Mi mostra la lagrima e poi m ’assassina nel mio stesso letto, mi dà una mano con un pugnale nascosto nella manica... Poi, la ’mara aveva fatto ah, sfumando ora e per sempre col suo respiro, perché veramente quella scarica di pallottole nel cervello aveva fatto co me ribalenare in lei una residua scintilla di vita. E subito, in mez zo alle bavesbave delle schiume, le onde l’avevano presa in loro balìa. 225
Così, aveva trovato la forma del suo piede, la scaltra aveva tro vato lo scaltrone. Quello, gliela vinceva di un punto, era più gros so, era ferone: e così, chi di fera ferì, di ferone peri. Il bastimento sventolava tutto di alalà e di battimani delle Ca micie Nere per il loro condottiero, l ’Eccellenza che aveva fatto quella bella sparata. Il capriccioso padreterno, infatti, aveva alzato un’altra volta la mano, anche se stavolta la mano del padreterno faceva il saluto fascista a tutta quell’imbarcata di fedeli per amore e per forza, e il vento si era risollevato a magnificare il suo colpo d ’occhio, il suo polso fermo, la sua infallibilità. Ecco perché un tale personaggione navigava per lontano, perché andava di persona a castigare la gente nera. La guerra in Abissinia non sarebbe durata molto col suo arrivo, anzi una volta che si conosceva lui, si poteva quasi dire che tutti gli altri, lassòpra a quella nave, sia alti sia bass’in grado, in Abissinia c’erano andati o ci andavano solo per accompagnare e complimentare lui, unicamente per fargli da cornice a questo bel campione della razza fascista che in quel momento vede vano salutare da prua, col braccio teso in alto, in basso, come un maestro di banda che dava il tempo ai cori di eia, eia e di alalà, lo vedevano e all’inchiavatura, giusto come gli passò per mente di di re ad Arturo Paiamara, pareva uscito proprio dall’anche a M us solini. Levatosi il capriccio del tiro a bersaglio, non li aveva più de gnati di uno sguardo: fatta la sblasata, né schi né sco né passa in là. L o videro per l ’ultima volta mentre attorniato dai suoi, si le vava la camicia nera, in quel momento che alzava le braccia in croce e scompariva, spalle e testa oscurate sotto la stoffa a funeraglia. Per finire, rischiarono di essere rovesciati dai cavalloni sollevati dalla nave che si rimetteva in navigazione, macchine a tutta forza, senza dargli nemmeno il tempo di scostare. Avevano dovuto rema re all’ammazzata, prima via di là, e poi di ritorno là, per ricuperare la carogna. Però, della testa, che era quella che contava per il pre mio, non ne potevano fare più uso: e non perché fosse tutta scon quassata, bucata e con le ossa sminuzzate sotto la pelle, ma per ché in Capitaneria avrebbero visto subito che quella era opera non di fucile, ma di moschetto. Portandocela, invece del premio, rischia vano l ’incarceramento. 226
Un casobello doveva fatalmente richiamargli l’altro. Da un pezzo ormai, dal ricordo dell’Eccellenza faceva affacciatella il signor Monanin, un Guardiamarina che era imbarcato pure lui sulla corvetta. Stava ancora a ricordare il casobello del trentacinque e da quello gli figliava questo, fresco, di ieri: sempreché non faceva offesa al signor Monanin, chiamare casobello quello che era stato un semplice purparlé. Ora, grazie al signor Monanin, sapeva da dove gli spuntava fuori quel delfino che si sognava a occhi aperti, quella fera di favola, un articolo continentale che né pagato né gratis, né per amore né per forza, nessuno potrebbe mai smerciare ai pellisquadre, a quelli che possiedono il marchio di fabbricazione della fera: un marchio come quello della Ferrochina Bisleri, col leone a bocca spalancata, un marchio con la mostra smorfiosa della bocca beccuta e il per filo tagliente di duecentosessantaquattro dentuzzi, sempre molati freschi, carichi e brillanti dell’ispirazione di quella mente elettrica, come i fili della corrente ad alta tensione, che si parte dalle ca bine sopra le quali c’è disegnato il teschio, e sopra il teschio, a stam patello, sta scritto: chi tocca i fili, muore. I pellisquadre le portano in carne sulla loro pelle, ossia sulle carni degli spada, ossia ancora sulle maglie delle loro palamitare, le intacche del marchio di fabbricazione, intacche con l’impronta a spinadirosa, indelebile come un bollo sulla ceralacca. Perché, allora, doveva sognarsi a occhi aperti di portargli il delfino ai pellisquadre, una fera che per essi non stava né in mare né in terra né in cielo? Che gliela portava a fare quella figurina sacra, quello che lassòpra, in continente, dipingevano un sanluigigonzaga, puro, vergine e mar tire? Forse per appenderselo al collo, per attaccarselo al capezzale? Vivo o morto, per essi il delfino era sempre una fera dell’altromondo: li voleva forse morti, i pellisquadre, per giocare nei mari del Pa radiso con quel delfino celestiale? Doveva esserci per forza un difetto in quel suo sogno a occhi aper ti: c’era e doveva essere dentro di lui, se tutta quella impresa nel l’oltretomba vulcanico, quel sogno di desio, alla conclusione di tut to, non lo faceva come scagnozzo dei pellisquadre, per portargli in regalo l ’arcano bell’e risolto delle fere trentenarie, ma lo faceva co me un garzonello, sia di Eccellenza e sia di Guardiamarina, per por targli canzonette al loro delfino. L ’unica sua scusante poteva essere che non era tutto in sensi: perché, con metàmente portava il meglio 227
ai pellisquadre e il peggio all’Eccellenza e al Guardiamarina, por tava cioè la fera morta, e con l’altra metàmente portava invece il peggio ai pellisquadre e il meglio all’Eccellenza e al Guardiamarina, portava cioè il delfino vivo, e vivo di vita eterna per giunta. Ma ormai più si pensava, si ripensava, e più si persuadeva, anzi se ne capacitava senza farsene scandalo e meraviglia, che era lui difettoso: uno che si era straniato, e gli stava bene quella parola delfino che gli sbavava di bocca e i pellisquadre gli stampavano come un ros setto sulle labbra. Era lui difettoso e ora, col signor Monanin, sa peva pure perché, percome lo era. Lo aveva riempito di prua il signor Monanin col suo delfino. La cosa gli era parsa finita quella stessa sera, perché aveva creduto che tutto quel decantamento gli fosse entrato da un orecchio e uscito dal l ’altro. Dopo più di un mese invece, ecco che scopriva che qualche conseguenza c’era stata, ecco che per via di sonno, quel delfino tro vava un qualche decantamento dentro di lui, si risentiva e gli spiri tava nella mente mezza a dormi, mezza a veglia, insomma pigliava acqua sullo scill’e cariddi: per un delfino, cioè per una fera trave stita da delfino, era come dire nel campo d ’Agramante. Quel delfino, il signor Monanin, un poco glielo aveva fatto in ghiottire, un poco a favola, un poco a bocca aperta di meraviglia; qualche cascame, qualche sfilaccio di quel delfino che il Guardiama rina gli aveva filato fra le labbra, doveva essergli volato dentro e c’era rimasto a sua insaputa. Saranno state una diecina, tutte femmine, ma i marinai vedevano quella sola e anche lui, ora, non ricordava, non vedeva che quella: quella, sapeva già come farsi guardare, mettersi in mostra e attirare gli sguardi. Faceva poppaprora, prorapoppa, a tribordo della cor vetta, e con quei suoi dentini rilucenti rideva in continuazione, la smorfiosa. Filava sott’acqua, saltava e rideva per aria; ricadendo, ri tirava il riso in gola e spremeva fuori contempo il suo ngangà di bebé; e poi tornava su fresca, nuovamente a ridere; e su e giù, nuo tava, voliava, spumeggiava, si baliava e si cocottiava tutta nuovoJiando di continuo continuo. Una femminella di primo pelo, ma una tale columbrina, che arrivare e appuntarsi addosso gli occhi di ogni uomo dell’equipaggio, era stato tuttuno per lei. D a La Maddalena, in formazione con due cacciatorpediniere, diri gevano su Livorno, uno dei primi giorni dell’agosto: veniva il tra monto, fra bei colori rossi di fiamma che viavia sfumavano sul mare 228
in tinte sempre più dolci e delicate. Certi momenti, si aveva l ’illu sione che fosse ancora un tempo innocente e senza guerra, ma la fine del giorno, come sempre, fatalmente, intristiva ogni uomo dell’equi paggio col desiderio di casa e col sentimento di madre o di moglie o di zita. Avevano incontrato però, quel branchicello di fere che saliva da ovest, forse dalle Baleari, e la loro comparsa aveva portato un certo cambiamento d ’umore nei marinai; non allegria vera e propria, no, ma come un’animazione, un senso di curiosità e di allianamento de gli intimi pensieri, perché erano cosi pigliati di nostalgia e sconfor tati, che qualsiasi pretesto era diversivo buono per essi. La luce, che andava intenerendosi, favoriva alla vista quella die cina di femminelle che, bisognava dirlo spassionatamente, erano del le vere bellezze nel genere. La loro siluette era ancora una svirgola tura, una s minuscola ancora, che cogli anni si sarebbe svolta nella serpentina di una grande S maiuscola. Dai caratteri accivettati e dal personalino che mostravano, si poteva calcolare che, o avevano già assaggiato il maschio all’ultimo maggio o lo avrebbero assaggiato al prossimo, e questo secondo, era il calcolo più sicuro: perché, se avessero già fatto la prima conoscenza del maschio, con quello zittiti in corpo, non se ne sarebbero andate a quel modo sperse per mare, fessicelle dal piedelungo, ignare di mine e bombe e siluri e reti di sbarramenti, ignare cioè del mare di rischi e pericoli in cui naviga vano. Gli aveva fatto davvero meraviglia di non vedere in testa a quel branchicello straviato neanche un maschio capoguida, come sarebbe stato d ’obbligo con quella eccentrica scuola di signorinelle: d ’altro canto, poteva mai essere, là con loro, un maestro, se l’avevano salata, la scuola, se stavano facendo campagnola? In quel caso, di regola, avrebbe dovuto esserci un anziano, un nonnavo fuoriuso, a fare da guardiano dell’harem. Ma ai maschi chissà dove gli lucevano gli oc chi, chissà in quali acque arrossate di sangue, ad aggiungere strage sopra strage, sfregio su sfregio, scompiglio e arraffamento, fra rot tami di navi e corpi umani: nelle acque attorno a Pantelleria per esempio, e per tutto il Canale, dove più c’era stato finimondo. Quel branchicello doveva essere scapolato di là, girando per le Baleari. C ’era da dire infatti, che non erano della famigerata specie di brune mediterranee: brune sopra, bianche di sotto, le brune, vec chie e radicate abitué dello Stretto, per intendersi. Violette sopra 229
e rossigne sotto, dovevano essere certamente d ’una qualche specie oceanica, di quelle scuole e colonie volandiere, che entrano da G ibil terra e vanno promenandosela fra Africa, Sicilia, Spagna, Baleari, sinché non si fanno pigliare a rimorchio da qualche nave e si riget tano in Oceano. In un primo momento, le piedelungo si erano fermate incuriosite, come per vedere passare le tre navi: a comarca, sguazzavano nell’ac qua, schizzavano per aria, facevano contorsioni ed equilibrismi, gor gheggiavano: ihihih... e si spruzzavano l ’una con l ’altra, proprio co me signorinelle al bagno. Di tanto in tanto, troncavano tutte insieme la pomponella e tutte intente guardavano in direzione della corvetta e dei due caccia. Sarebbe forse finita 11, se una di esse, una piritolla che forse non era ancora appennata ma doveva sentirsi già pizzicare il culo a man dolino, non fosse filata via dal gruppo, come con l’aria di andare die tro a qualche suo pensiero eccentrico. Le sue compagne, sorprese, restarono sul posto col becco per aria, poi, traccheggiatesi un poco, alla lontana, si erano partite anch’esse per raggiungerla, come non resistessero alla curiosità di vedere sin dove si sarebbe spinta quella sprudente. La luce le lasciava poco tempo per sbizzarrirsi, ma la columbrina entrò subito in ballo e quello che aveva da fare vedere, lo fece ve dere tutto alla prima mossa: la prima in senso assoluto, veramente la primiera m ossa che fa la fera come per presentarsi, quella che fa quando salta come lasciasse il mare per l’aria, e là per aria, s’incunea la coda di sotto, se la incorna di dietro e in questo, a libito suo di piritara, piritolla in senso stretto, sventa quanto più può di quelle sue scorreggette, a tempo di bebé che crepitla, musicandole a orec chio e a capriccio. Per la fera, questo è l ’abbiccì, ma quella non fece altro, anche se non era più tanto muccusa, da sapere solo l’abbiccì di tutte le miria di numeri di varietà e cocotterie di cui fa sfoggio una fera per il suo scopo. Quella fece la mossa e la ripetè e ripetè per buoni tre minuti, come l ’avessero caricata a corda per sempre. Lo spettacolo, per i marinai, era quasi tutto in quel moto perpetuo, che fra l ’altro lei faceva senza mai perdere contatto con la corvetta, mantenendosi là a tribordo, sempre allo stesso punto, come se il mare medesimo la portasse, spostandosi attorno alla nave e saltando sempre alla stessa altezza, da dove pareva gettare un’occhiata in coperta. 230
La fera puntava su questo per far colpo: quelli, a criterio suo, do vevano essere dei bis, bis di quei versi stomacosi, e tali bis lei pa reva concederli con vero piacere, con una frenesia fanciullesca, lusin gata certamente dai sorrisi che ogni volta, coi suoi prrr, prrr, strap pava al pubblico in corvetta. Non aveva più gli occhi chiusi, la giovanottella, e quella non doveva essere per niente la sola mossa che conosceva: sicché c’era da pensare che quella, che poi era mossa di stomaco, mossa di verso voltastomaco, la bissava a sazietà perché, avendola sperimentata già con successo, sapeva che quella mossa da bassoporto sortiva effetti infallibili di spensieramento sulle ciurme e sugli equipaggi arrozzati dalla vita di bordo. E infatti, ora l’uno, ora l’altro: sia quelli di corvè che andavano e venivano in coperta, e sia quelli che stazionavano ai diversi posti di combattimento, come lui che faceva il suo turno di guardia, giu sto là, a poppavia, come prima fila, alle catapulte delle torpedini, i marinai s ’affacciavano viavia a darle un’occhiata, o perlomeno face vano una girata d ’occhi, perché lei faceva di tali salti, che non ave vano bisogno nemmeno di sporgersi per guardare: e tutti, rigiran dosi da quella zingara, cercavano lo sguardo del compagno vicino e si sorridevano come ne avessero avuto, a occhio, un presagio buo no, una predizione di fortuna. Fu una fesseriola di diversivo, di momenti appena, eppure fu come se quella fera, col suo saltare a musica, soffiasse un venticello spiri toso in mezzo all’aria pesante che si respirava sulla corvetta, una fresca borietta di grecale dentro i pensieri, a ponente e levante. Si potè notare allora, qui e là per la nave, una certa animazione, un ravvivamento di visi, un chiacchiericcio svagante, di sguardi più che di parole, un talquale sollievo da quella specie di travaglio e di morsi lancinanti che dava la fine di un altro giorno di guerra in mare, con quel senso di barbara inutilità con cui passavano la loro meglio gio ventù e che a ogni tramonto, specie in navigazione, gli scendeva in cuore a tutti ed era come un senso di cosa funebre che li toccava col velario nero della notte incombente sul mare. Dal bene che aveva fatto ai giovanotti, quella feruzza stramba si sarebbe meritata una medaglia e se fosse stato in loro potere, certo gliela avrebbero data, anche se a occhio e croce, potè calcolare che perlomeno tre quarti dell’equipaggio, sarebbe a dire una trentina fra marinai, capi, sottocapi e ufficiali, non avevano mai visto prima, co gli occhi loro, fera o delfino, come si voleva dirlo, o non ci avevano 231
mai fatto caso, forse perché mai a nessuno di loro gli era capitato di vederne al tramonto e mai di trovarsi in condizioni di spirito tali, da doversi appigliare a un pretesto come quello per svagarsi la mente. I colori della fera, a un certo momento, s’intonarono a quelli del cielo al tramonto e fu cosa di meraviglia a vedersi. Il violetto anda va sparendo, confuso alle prime ombre, ma il rossigno della pancia risplendeva stranamente quando rovesciava la coda in quella mezza capriola, una tinta calda, come di pelle cotta dal sole, che dava agli occhi l’illusione di vedere qualcosa di un corpo femminino e veniva d ’immaginarsi il grembo, una coscia, una gamba, di cristiana o perlo meno d ’uno sbozzo di cristiana, d ’una fatta a femmina, una sirena, in una parola, una sirena che spuntava là, sotto i loro occhi, come se la fera stessa, con le sue mosse, l’avesse richiamata a galla dalla tenebrosità della loro mente. Sulla corvetta era calato il silenzio, si sentiva solo lo speronamento delle onde a prora, e poi, dopo qualche minuto, c’era stata una novità, perché erano venuti fuori il cuciniere e il cambusiere e ave vano gettato alla fera la marmitta della spazzatura: la fera svirgolava per aria sotto quella roba, agitando le manuncule e dando colpi di becco intorno intorno, come avesse cento bocche. Le sue compagne, che sino allora l ’avevano lasciata fare, restan dosene un poco discoste da poppa, come facessero da spettatrici, in quel momento tutte insieme caracollarono sul suo mare, sul mate di poppavia, dov’era piovuta la spazzatura, e s ’intrigarono di corsa a sbafare fra quei rifiuti galleggianti. Ma quella, subito, da sola le af frontò tutte, ne azzannò una, due, poi fu azzannata lei, si azzanna rono tutte, accapigliate e confuse in una mischia furiosa: la corvetta sfilò via, lasciandosele dietro per qualche tempo, un miscuglio con sprazzi di rosso e di viola, là a poppavia, fra le onde bluastre ribel late di schiume.
Accanto, in quel momento, si era trovato Crocitto, che era, con lui, uno dei sette siciliani a bordo di quella corvetta, quello col quale se la diceva di più, forse perché era pescatore pure lui ed era per giunta di Spadafora, che sta in Tirreno ed è distante solo qualche miglio dalla linea del duemari, di conseguenza quello di Spadafora è il primo mare a morire nella rema calante e il primo a risuscitare nella montante. 232
C rodtto aveva il solo difetto di essere un gran gettatribolo, sem pre con qualche occupazione di cuore, qualche peso che gli gravava sulla bocca dell’anima, per cui immancabilmente veniva a sfogarsi con lui. Il suo patema più grande era la zita, che a sentire lui, doveva es sere una specie di calamita per attirarsi addosso tutto quello che di benigno e di maligno poteva capitare a Spadafora, corteggiamenti e proposte di giovanotti, bombardamenti, fame e simili disgrazie della guerra. E figurarsi in quei giorni, con gli Alleati alle porte di M essi na, non si teneva più, come se la sola mira che avevano gli Alleati, sbarcando in Sicilia, era lei, Cettina, la zita. Si malediva, perché non era scappato a Spadafora alla prima no tizia dello sbarco e invidiava quelli che senza pensarci due volte erano corsi di volata in Sicilia, di dovunque e comunque, con fucile e tutto. Interi squadroni di carabinieri, a suo dire, non avevano potuto bloccarli a Villa: arrivavano e riempivano i ferribò, come fos sero compagnie e battaglioni di qualche divisione trasferita urgente mente per la difesa dell’isola. E che facevano poi, se non difendere l’isola? Crocitto se li immaginava con invidia, uno a uno, coricati davanti al letto della moglie o di traverso sulla soglia di casa della zita, col fucile tra le mani, baionetta innastata: a guardarsi il suo, a farsi la guerricella sua. « Eh, eh, quelli se lo sentirono l ’almo di dargli ascolto al cuore, quelli... » concludeva sempre in massimo avvilimento. « E che gli fecero? Li fucilarono forse per disertori? Scappavano forse davanti al nemico? Anzi, all’incontrario: gli correvano incontro al nemico, la medaglia gli dovevano dare... Eh, quelli, i soldati di fanteria, arti glieria, quelli se lo sentirono l’almo, noi della Marina invece ci co minciammo a tirare il paro e disparo e ancora ce lo tiriamo. Quelli, i soldati, l ’alzarono subito, subitissimo l ’ingegno, e con l ’ingegno, al zarono pure i tacchi. Non appena il Bollettino disse: oggi gli Alleati sbarcarono in Sicilia, e oggi significava ieri o avant’ieri, si sa bene come stila il nostro Bollettino di guerra, quelli, issofatto, pigliarono la loro decisione e armi e bagagli drizzarono per sotto, furono tanti napoleoni a cavallo... » Quei napoleoni a cavallo, l ’amico però non diceva che i bagagli magari li portarono sino in Sicilia, ma l ’armi, quelle, pesavano trop po: e col fucile in spalla, se poi rispondeva a verità quella diceria, quel sentitodire, tuttalpiù arrivavano sopra il ferribò e poi se lo 233
lasciavano cadere di mano, a mare. D ’altra parte, che dovevano fare? Farsi trovare dagli Alleati col fucile in mano? Facevano benissimo, i soldati, ma parlava malissimo Crocitto, che parlava di almo, di napoleoni a cavallo: li voleva vedere, quelli, se invece di essere sol dati, erano marinai, per giunta imbarcati e per giunta sempre in mis sione, sempre a fare da scortaconvogli, sempre maremare, li voleva vedere se pure loro non si tiravano ancora il paro e disparo a trovarsi al posto suo, di Crocitto, e degli altri su quella corvetta, dove certe volte, in navigazione, di notte, sembrava che tutto il resto del mon do si fosse perso e restasse solo quella navitta con loro sopra, in cerca di scampo. Con lui e con gli altri sei siciliani imbarcati sulla corvetta, Cro citto si comportava, parlava come non credesse che quei patemi per parenti, stretti o larghi, come li aveva lui, li avessero pure loro, forse perché gli altri, a quei patemi intimi, personali, non gli facevano tutta la pubblicità che gli faceva lui. Agli occhi suoi, forse, gli altri siciliani dovevano apparire felici, su quella corvetta, con l’aria di andarsene in crociera, schiavi felici e illusi, che s ’erano scordati ormai di essere specie di incatenati al remo, mentre lui era il solo che si vedesse legato di forza all’alberomaestro, condannato per sempre a girare per quei mari, occhieggiando dal largo verso l’isola e gettan dole sospiri per il resto dei suoi giorni. Però, con tutto il patema di zita e il tribolo che si gettava, ormai più per abitudine che per altro, Crocitto, solo a vederlo, faceva ri dere, perché era nero nero in faccia come un africano, piccolo, snel lo, di statura molto più bassa della sua, sicché, quando si trovava in pieno parlare e alzava le braccia e gli poggiava le mani a palme aper te sul petto, restando un momento così, quasi abbracciasse la statua d ’un santo che andava invocando a testimone, lui aveva ogni volta l ’impressione che gli volesse venire in braccio e questo, ogni volta, non volendo, gli suscitava il riso, come se Crocitto, con tutta quel l ’aria tragica che aveva sempre in faccia, gli facesse il solletico. Quando fu di quella volta del casobello feradelfìno col signor Monanin, Crocitto erano parecchi giorni, prima ancora di andare a La Maddalena, che se ne stava muto, tutt’afflitto e quella nenticchiella di novità portata dalle fere, quei due soldi di trattenimento dato dalla più columbrina di loro, in qualche modo agì in bene pure su di lui. Le fere erano ancora là, che facevano parapiglia a poppavia, lot 234
tandosi per la spazzatura sparpagliata sopra e sotto mare: si abbran cavano ronzandosi e trattenendosi l’una con l ’altra, guadagnando e perdendo di continuo la fiancata della corvetta. « Cambrìa, li senti? » gli aveva detto a un certo punto Crocitto. « Delfino la chiamano, quella gran tappinara malazionaria. Ma da dove gli venne di metterle questo nome di delfino? D el... fino, del... fino... » ripetè sillabandolo, prima in italiano e poi in siciliano: « D u... fino, du... fino... » Si capiva subito che Crocitto non lo aveva mai sentito: cosa pos sibilissima, quel secondo o primo nome della fera, non doveva esser gli mai arrivato all’orecchio, là, a Spadafora. Lo pronunciava e ride va, sia che lo pronunciava in italiano e sia che lo pronunciava in siciliano: in siciliano però, pareva che gli facesse un effetto assai più ridicolo che in italiano, e per questo, bastava che s’immaginasse di stare sullo scill’e cariddi e di chiamare dufino la fera, spiando in fac cia ai pellisquadre di Spadafora l ’effetto da strabilio che gli faceva a loro. Perché, nemmeno a dirlo, anche a Spadafora avevano da ri dire sulla fera: quel punto, del resto, a chi non gli doleva, non solo sullo scill’e cariddi, ma anche nei viciniori? « Du... fino, du... fino... » faceva Crocitto. « Ah, sì, animale bello fino è: di fino carattere, fino sentire... Ah, me lo voglio appuntare questo nome delfino, anche se mi fece impressione troppo grande per farmelo uscire di mente. E pensare, pensare che arrivai a st’età sen za mai scandaliarmi di questo delfino, senza mai fare caso a ’n ani male tanto gentilino. E graziaddio che ci fu sta guerra e mi trovai qua, in questo momento, sennò restavo sempre fermo a fera. E tu, tu, Cambrìa? A te per caso, prima d ’ora, t’arrivò all’orecchio questo delfino, oppure campavi pure tu con quella falsa credenza di fera, ignaro del fino e credulo invece del grosso, eh? » Era stato precisamente a questo punto che, standogli alle spalle, il signor Monanin, contrariamente alle sue abitudini, si era intrigato nel conversario di Crocitto con lui. Il signor Monanin era Guardiamarina e somigliantissimo a un pupitto, sempre alliffato, stirato, lucidato, sia a terra e sia in navi gazione. Sulla corvetta si vociferava che il signor Monanin era un gran signore a casa sua. Era nativo di Venezia, di quella città col mare che l ’allaga per le strade e perciò la gente va e viene su certe lunghe barche col cornetto in punta, a mezzaluna, chiamate gondole. Di queste gondole, il signor Monanin ne aveva avuto una sua perso235
naie, sin da quando era ancora in fasce: questo l’avevano sentito qualche tempo prima, proprio per bocca sua, una volta che stava rac contandolo al signor Parisi, che era l’Ufficiale di macchina. Quella gondoletta, diceva, era per portarlo a spasso: era imbottita e tutta fo derata di trine e pizzi e aveva ricami e svolazzi, nappe e nappine, cap potte e tendine, veli e velari per non farlo bruciare dal sole o spor care dalle cacatine di mosche. Una carrozzina... L ’aveva chiamata così, noncurantemente, dopo che l ’aveva descritta come una bomboniera, una culla di figlio di re. Una comunissima carrozzina galleggiante. « A ll’anima della carrozzina » aveva commentariato Crocitto. « Una carrozzina per passeggiare un bebé maremare? E di chi era figlio, un tale bebé? » C ’era da credere, giustamente, che il signor Monanin dovesse es sere figlio perlomeno di un ammiraglio o di qualcuno similio, che sapendolo fatalmente destinato a fare grandi cose a mare, per non correre il rischio che all’atto pratico si scoprisse di soffrire il mare, il marevecchio, per esempio, che certe volte gli va nell’eccetera per sino ai pellisquadre più squadri, aveva pensato di fargli fare il callo ancora in culla. Ma se aveva fatto il callo al mare, bisognava pensare pure che quello sfesseggiamento in culla al mare, doveva essergli ri masto attaccato al culo come per vizio, perché aveva un’aria talmente ’stranea a bordo, un’aria di così naturale disinteresse e un modo di traccheggiarsi così addondolato, da dare l ’impressione, che corvetta 0 gondoletta, non faceva granché differenza per lui, salvo che là stava sempre disteso a letto, e qua c’erano delle volte in cui stava pure all’impiedi. Dopo, infatti, dopo che seppe della gondoletta, lui l’aveva inqua drato meglio il signor Monanin. Ogni volta, ad esempio, che posava l’occhio su quel figurino, non più alto di Crocitto, ma di pelle bian ca, faccitta e manette come si spalmasse ogni ora crema e vasellina, 1 capelli sempre imbrillantinati con la scriminatura di lato e con lunghe cimette sul collo, gli succedeva di pensare a quella sua car rozzina galleggiante e anche ora, così, anche cresciuto, anche in di visa di Guardiamarina, se lo immaginava benissimo sulla gondoletta, più a posto suo, più naturale, là, che sulla corvetta. Immaginazione a parte, al signor Monanin non doveva andargli molto a genio la carriera in Marina, perché, con tutto il suo grado di Guardiamarina, sulla corvetta non accusava né contava, e sem brava che non gliene importasse niente, considerato che persino il 236
maresciallo, cioè Capo Tarantino, gli aveva pigliato il dito con tutta la mano e sotto sotto lo trattava sprezzantemente, come non tratta va nemmeno marinai e sottocapi: lui, Capo Tarantino, che era un grezzone di quelli che, si penserebbe, in vita loro passano da una guerra all’altra, e le guerre pare che le dichiarino per dargli agio, sfogo e lavoro a loro, e mentre tutti muoiono, loro, i Capi Taranti no, non muoiono mai. Quando, per dire, vedeva il signor Monanin, cosa rara, sulla mossa di fare una qualche cosa che richiedeva un mi nimo sforzo, anche se si trattava solo di saggiare la resistenza di un nodo delle corde che assicuravano le scialuppe di salvataggio: lasci stare, signor Monanin, gli faceva, tutto a sfottò, lei, delicato com’è, non si deve strapazzare, capace che si spezza l ’unghia del mignolo o gli viene il male di testa... Il signor Monanin però, il nodo magari glielo lasciava sprovare a lui, ma senza mai degnarlo di parola o di sguardo, senza mai calcolarlo in niente. E dire che ce n’erano pochi ufficiali gentili come il signor Mona nin, metteva persino in imbarazzo il modo di dire e di fare che sti lava coi marinai. Lui si distingueva in ogni cosa dagli altri ufficiali. Agli altri, per esempio, gli poteva scappare di dire: coglione, oppu re: cretino, idiota, quando erano con l ’uovo storto, mentre a lui, il massimo che si poteva sentirgli dire, erano certe espressioni chie sastiche: Maria Vergine, questa era una, e un’altra era: benedeto, precisamente cosi, con una t in meno, stile veneziano, come se quella t s’allascasse fra i denti. Eppoi, c’era da aggiungere che lui, se anche l’aveva, non lo lasciava nemmeno trasparire che aveva l’uovo storto. Oltre questo, di differente, lui aveva ancora che mentre gli altri, per apostrofare, dicevano: ehi, tu... lui invece diceva: ciò, gli altri chia mavano sempre per nome: ehi, Cambrìa, e lui invece chiamava sem pre: ciò, marinaio. Pareva quasi che si facesse scrupolo a chiamarli per nome: con questo, mentre cogli altri ufficiali, dopo un mese o due d ’imbarco, tutti loro della gente di bordo, erano confidenzialissi mi, potevano dirlo e si poteva crederci, anche perché la corvetta non è una corazzata, erano come con amici, salve restando naturalmente le distanze, con lui invece restavano sempre un poco sconoscenti. Ora, per tornare a quel tardo pomeriggio d ’agosto, il signor Mo nanin, se ricordava bene, veniva dalla plancia, doveva essere uscito per dare una controllata alla vedetta del cannocchiale di babordo e poi era venuto a poppavia e s’era fermato a guardare da lì lo spetta colo di quelle fere, proprio dietro a lui e a Crocitto: 237
« Maria Vergine » aveva fatto, scandalizzatissimo, quando aveva afferrato che Crocitto chiamava fera il delfino. E poi, mettendogli la manetta sul braccio, gli aveva domandato: « Cosa cosa cosa, benedeto? Fera, benedeto? Fera? » Con la faccitta che si poteva paragonare a quella d ’una signorina, coi lineamenti piccoli e bene accordati, la pelle liscia, senz’ombra di barba, ora si voltava verso di lui e ora verso Crocitto, corrugando la fronte sotto la visiera del berretto, alzando e abbassando gli occhi in un continuo sorriso fra divertito e scandalizzato mentre ripeteva: « Fera, eh? Feera... feera... eh, così? » E dicendo fera, spingeva in fuori col fiato le labbrette, gli occhiet ti, tutta la faccitta a signorina, come se per lui, quella parola, fosse una grande stranezza, una stranezza tale, che soltanto a ripeterla, gli faceva l ’effetto d ’una nonsenseria strabiliante. Si guardarono con Crocitto, ma nessuno dei due ebbe la presenza di spirito di confermarglielo: sì, fera, vossia giusto dice. Il signor Monanin poteva pure credere che si sentissero in colpa, dato che se ne stavano zitti. « Eh, marinaio? Cosa è, cosa è che hai detto? Fera? » insistette il signor Monanin col suo sorriso. Aspettò un poco e poi gli fece: « H ai perduto la parola, benedeto? » e pareva intendesse dire quella, quella parola là, fera. Crocitto si era perso non solo di parola, ma addirittura d ’animo: apriva la bocca per parlare, ma non ce la faceva a spiccicare né sì né no. Il signor Monanin tentò allora con lui, e lui: « Sì, signor Monanin » gli fece subito, come per sgombrargli la mente di qualsiasi sospetto che gli fosse venuto in seguito al loro mutismo di prima. « Fera, precisamente. Intese bene, lei signor M o nanin » Il signor Monanin ebbe una smorfia in viso, come se in qualche parte avesse avuto una fitta: « Fera? Il delfino? Maria Vergine, Maria Vergine » si lamentò. « Fera, fera... » Masticava come con ribrezzo quella parola, e il di sgusto gli dava conati di raccapriccio. S ’era intesato sul bustino e gi rava intorno gli occhi, continuando a ripetere la sua meraviglia a Ma ria Vergine. « Fera, fera, Maria Vergine, fera, Maria Vergine... » S ’infemminava un poco, o forse c’era da dire, un poco di più di quanto non fosse sempre, di figura e di modi di natura: s ’infemmina238
va in specie quando diceva Maria Vergine, e questo faceva un poco senso, ma un poco senso faceva pure quando diceva: fera, Maria Vergine, fera... e all’orecchio faceva l ’effetto come se ora dicesse fera a Maria Vergine e ora dicesse Maria Vergine alla fera. « Cambrìa, ma che te ne pare? » gli fece Crocitto senza tanti ri guardi per il lì presente Guardiamarina. « Lo vedi come lo scanda lizzò la fera, al signor Monanin? » Crocitto si era rinfrancato e da qui in poi non fece che pigliare parola per replicare, confidenzialissimo, al signor Monanin. Quanto a lui, parlò se interrogato, sapeva che era fiato perso. Il signor Monanin li teneva tutti e due per il gomito, dondolava la testa, un poco moscio: a vederli di lontano, si doveva credere che il Guardiamarina gli stava spiegando qualcosa a proposito delle mine e delle catapulte. « Benedeti, benedeti... » aveva detto poi sospirando, come riflet tesse ad alta voce. « Siciliani, siciliani che chiamano fera il delfino, come se lo reputassero, che so io, un pescecane... » « Sì, pescecane... » gli smacco Crocitto. « A quel galantomo, gli getta infamia vossia, mi deve perdonare se m ’azzardo a dirglielo... » « Galantom o? » fece senza capire il signor Monanin. « Perché, non è forse un galantomo, quello? » rincalzò Crocitto. « Eh, Cambrìa? Si può mai citarlo per la fera, uno come il verdone che si fa i fatticelli suoi e con noi non s’incalmiera mai? Si può mai paragonarlo, il nostro pescecanazzo, a quella doppia puttana, ladra, traditora, disonorata, per dire solo quello che mi viene per prima sulla lingua? Uno come quello, retto di principii, retto e netto, che se micidia, nessuno ha da dire, eccetto lo sventurato che c’incappa, eh, Cambrìa? » Il signor Monanin non lo seguì in quel ragionamento che lo di sturbava, o per il ragionamento in se stesso o per Crocitto che quan do parlava pareva avesse un pugno di ceci abbrustoliti, ancora bru cianti in bocca. Fece allora con Crocitto come faceva con Capo T a rantino, lo ignorò e si rivolse a lui tutto poetico, poetico perché, muovendo le dita della mano sopra l ’orecchio come una conchiglia, gli chiese: « Ciò, ma tu, tu non senti che bel suono, che musica è all’orec chio questa parola: del... fi... no? » « Mah, che gli devo dire, signor Monanin? Io non mi fermo mai sulle parole » 239
« Eh, eh... » fece Crocitto, gongolante. « Ma questa non è una parola, benedeto. Questo è il nome del delfino, è del... fi... no, del... fi... no... Un soffio, meno anzi di un soffio, un sospiro... Ma prova, provate almeno, benedeti, provate per amor mio a dirlo, dite, ditelo del... fi... no, e sentirete come suona, come vi suona carezzoso all’orecchio... » « Lei, signor Monanin, mi deve scusare » gli dovette dire allora. « Anche la tromba marina fa suono bello all’orecchio, un suono che sentendolo si resta incantati, proprio a bocca aperta, se non si sa che c’è dietro a quel suono che s’avvicina... » Girandosi a guardare in cielo, dov’era già spuntata la luna che biancheggiava nella luce del giorno morente, il signor Monanin, con la sua faccitta affilatissima, aveva cominciato a sospirare: « Che peccato, che peccato... » mormorava dispiaciuto, dispiacente. « Che peccato, che peccato che non potete sentire col mio orecchio come suona bello, gentile, delfino, e come suona brutta, selvaggia, fera. Oh, non vi so proprio dire come mi suona male, barbara, que sta vostra parola... » « Si figuri a noi, signor Monanin » intervenne Crocitto. « A noi, si deve figurare, ci sona sopra la pelle, ci sona come una mazzola sona sopra un tamburo. Eh, Cambrla? » Ma che chiacchierava a fare, Crocitto? S ’illudeva di persuaderlo a parole, un uomo istruito come il signor Monanin? A parole, se li fumava: istruito, e per giunta, lui Guardiamarina e loro semplici m a rinai. Con un uomo istruito ci voleva solo la dimostrazione pratica, ci voleva che la vedesse all’opera, la fera, e forse nemmeno: ci voleva che ci passasse di persona, che si bruscasse il suo proprio pelo. Il signor Monanin era stato un pezzo a guardare in giro, aveva sorriso, bambinesco e malinconico, seguendo i salti della fera, poi pigliandosi, un poco a scena, la fronte fra le mani: « Ma sapete, sapete, benedeti, » aveva sospirato « sapete che m ’a vete scombussolato con questa vostra fera? Il delfino, una fera... » Non si dava pace. Col braccio fece segno verso la fera che compa riva e scompariva infallibilmente alla murata, mentre all’angolo della bocca gli spuntava un sorrisetto, una piega che si vedeva appena: « Quello là? » fece. « Quello là? » Li guardò tutti e due con uno strano sguardo, ardito, pietoso, insofferente: « Fere? I delfini? Ma ria Vergine... N o, no... Perché allora sarebbe finita, saremmo finiti, proprio finita, finiti... » 240
Crocitto si rivolgeva cogli occhi dalla sua parte, tutto interrogan te: ma che dice? che vuole, il signor Monanin? « Fera, fera... » gli venne ancora di ripetersi al signor Monanin come se quella parola gli rigurgitasse da sola in gola, in bocca, fra le labbra. « Ma perché, perché fera? » Non era una domanda, era piuttosto come sapesse il perché, ma non poteva capacitarsene, e questo pareva colorargli il viso di quelle stesse sfumature accoranti di malinconia, che erano nel cielo al tra monto, perché la parola, questo sembrava, non tanto lo indignava, quanto lo appenava, contristava. Crocitto però, lo pigliò per domandato: « Ma fera perché è fera, signor Monanin, fera perché tale è. Il nome stesso lo dice: fera... Com ’è che a lei non gli riesce loquente? Sarà, penso io, perché lei la fa mascolina, mentre quella è fatta tale, che maschio o femmina, è tutto un architettamento femminino. Eh, dissi bene, Cam brìa? » Preciso sputato suo padre con l’Eccellenza nel trentacinque: pure lui, Crocitto, s’illudeva di delucidargli la fera col solo nome, in una sola parola, come se il nome, da solo, gli potesse agire in mente, a quelli che altroché il nome, a quelli che nemmeno il ferro della traffinera può fargliela entrare in mente. Il signor Monanin, a questo punto, gli aveva domandato, a Cro citto, se sapeva il significato vero, ma veramente vero, della parola fera. « Ma a lei gli pare mai possibile che non lo so? » gli fece Cro citto, con un certo compatimento. « E dimmi, caro, qual è? » gli domandò allora il signor Monanin, con una intonazione di voce e un’espressione di faccia che non fa cevano minimamente pensare che s ’aspettasse di sentire da Crocitto il significato vero, veramente vero della parola fera, che era poi quello che aveva l ’aria di sapere lui senza ombra di dubbio. « Oh, Cam brìa? Ma che fa, scherza, il signor Monanin? » fece quasi scattoso Crocitto, rivolgendosi però, come al solito, a lui, a lui perché intendesse il signor Monanin: « Ma che te ne pare, Cambrìa? Ora, che mi fa l’interrogatorio, il signor Monanin? M a per davvero pensa che non lo sappiamo che significa fera? E ora se n ’esce e mi fa pure l ’interrogatorio? Oh Cambrìa, l ’interrogatorio, che con do vuto rispetto, avremmo a fargli noi a lui... » Crocitto, si vedeva, si sentiva, offeso magari no, biliato però sì, e 241
biliato sincero, sincerissimo, non c’era bisogno di dirlo, perché se lo era sempre sincero, sincerissimo, figurarsi se quel pazziscolo non lo era quando si biliava. E il signor Monanin, per non smentirsi, da quella persona perbe ne che era, e che bene o male, restò anche dopo, anche quando, al l’otto settembre, se uno si fermava alle apparenze, fu come se si mettesse una maschera, un mascherone anzi, in faccia per non smen tirsi che non lo sopportava di vedersi soffrire o penare intorno, disse a Crocitto, come per consolarlo di quel suo billo: « Vedi, caro, non è per offenderti, ma il fatto è che fera, tu non puoi saperlo, è una parola latina... » « Il signor Monanin mi scambiò per prete, forse » lo interruppe Crocitto, rivolto ancora a lui, e poi direttamente al Guardiamarina: « La parola latina, quella, lei solo può saperla. Lei sa la parola e noi la cosa. A noi, eh, Cambrla? ci basta che sappiamo quella, la cosa. Anzi, per meglio dire, quella ci basta e avanza... » Il signor Monanin aprì e richiuse la bocca parecchie volte, sbattè la lingua contro il palato: con le pupille strette, guardava Crocitto senza vederlo. Poi, puntò lo sguardo sulle feruzze che la corvetta ave va ormai distanziate e ormai quasi raggiunte dai caccia, correvano, si rincorrevano, a volo e a nuoto, s ’abbrancavano, sbrancavano, nuovolando nuovolando. Guardandole, sembrò isolarsi nei suoi pensie ri, pigliò un’espressione cogitosissima e a un certo punto mormorò come fra sé e sé, ma non perché non volesse che lo sentissero: « Chiamano fera il delfino, ma non sanno nemmeno il significato della parola fera... » « Ah, ma lei ancora non lo capì che lo sappiamo il significato, ec come lo sappiamo, lo sappiamo e ci costa caro perché e percome lo sappiam o? » lo contrassaltò Crocitto. Il signor Monanin girò allora gli occhi da Crocitto a lui, alzandoli un poco, dato che con lui non collimava, come con Crocitto, di sta tura, e lo guardò fisso, interrogativo, come lo chiamasse in causa per confermare o smentire. Dovette allora, quasi forzatamente, pigliare parola: « Sì, signor Monanin, fera per noi significa fera. A noi il signifi cato ce lo dà lei stessa, la fera, e ce lo dà loquentissimo. Per quello che fa, è fera, per come lo fa, è fera... » Potenza di nome: aveva parlato come se le parole gli scappassero di bocca senza poterci fare nulla. Ecco qua, al dunque, dopo quanto 242
aveva trovato da ridire sopra suo padre e sopra Crocitto che s’illu devano di potergli spiegare la fera ai delfinari, in forza dello stesso nome, veniva lui e pure lui s ’appellava al nome, mettendoci, se pos sibile, persino un poco di boria, veniva lui e scopriva l ’America con la fera che significava la fera. Il signor Monanin, ora, andava ripetendo lentamente, non perché sperasse di capacitarsi, ma come per sbalordirsi ancora di più: « Non sapete che significa fera, però sapete che le cose che fa, sono cose di fera... » « E lei insiste a mettere sempre avanti la parola... » sbuffò Cro citto. « Ma perché lei per una volta non fa la prova a mettere avan ti l’animale, lo mette all’opera e poi gli mette il nome? » Il signor Monanin finse di non sentirlo, pigliando ancora l ’aria di noncuranza che stilava con Capo Tarantino, aria che era poi di alterigia. Allora, ripigliò parola lui, anche perché ci teneva ormai, se ce la faceva, a delucidargliela veramente, la fera, quasi per puntiglio: « A noi, lei, signor Monanin, deve sapere, la parola ci serve solo per intenderci, ci serve insomma per dire: questa fu opera di fera, e questo intese dire Crocitto. Non è che la parola ci serve per spie garci la fera, perché la fera ce la spieghiamo con le sue azioni o per meglio dire, con le sue malazioni... » Fu forse perché questo fu lui a dirlo e non Crocitto, lui a pi gliare parola e dirlo, che sembrò per la prima volta stracangiarsi in faccia. « M aria Vergine... Malazioni, il delfino che fa malazioni... Il del fino... quello, quelli, dici, vero? » se ne uscì a dire come scandaliz zato, facendo nel contempo segno verso le feruzze, come se gli fosse venuto, allora allora, il dubbio che parlassero di due animali diversi, cosa che in effetti, forse, non era tanto sbagliata. « Quello, si, quelli » rimarcò Crocitto, con un che di smaccoso che lo faceva antipatico, nella voce: « Sissignore, signor Monanin: quello, quell’animale là » aggiunse allora lui come per fare zittire Crocitto. « L ’abitué nostro è bruno e bianco e questo è violetto e rossigno, ma tutta una razza è... » « Ma allora, se è quello, se fa sempre quello che fa in questo mo mento, perché mi d ite allora che a voi vi fa, come dite? malazioni il delfino? » « Il delfino, » s ’introm ise ancora Crocitto « a noi non ci fa nessu na azione, né m ala né buona. E chi lo vede, il delfino? » 243
« Gliene dico qualcuna » gli rispose allora lui, come se Crocitto non avesse aperto bocca. « Qualcuna, così, summo summo, anche per ché dirle tutte, le malazioni che fa, risulta di fatto impossibile, o perché mentre le vecchie non le finisce mai, non passa giorno, anzi ore e momenti, che non ne inventa di nuove... » Gliene disse perciò qualcuna e ognuna in due parole, semplici gocce di un mare di malazioni, tanto per dargliene una pallida idea. Ma per quanto pallida, e per quanto lui fosse un delfinaro, tutto apprò del delfino, che pratica il bene e il male lo ignora, il signor Monanin alla fine, se ne stette imbambolato a fissarlo, come se ci riflettesse sopra, alle notizie e a chi gliele aveva date. Scrutandolo poi, dentro gli occhi, quasi volesse scendergli con lo sguardo fino a dentro i pensieri più nascosti e più veri, gli aveva domandato: « Non saranno tutte voci, Cambrìa, tutte fantasie? » G li venne l ’impulso di rispondergli male, ma si frenò: « Lei, signor Monanin, non mi deve mortificare, ora, dopo quanto dissi, tanto quanto fu visto cogli occhi, pensando a voci, a fanta sie... » Ma lo sbaglio era stato di pigliare parola. Era fiato perso, l ’aveva detto: parlavano lingue diverse, parlavano di cose diverse, erano lontanissimi da un punto d ’incontro. « Perché vedi, caro, » insistette il signor Monanin « là, dalle tue parti, tra Scilla e Cariddi, non sono certo novità, queste, queste fan tasie, dico. Visto cogli occhi, tu dici. Eh, caro, le sirene non c’era uno che non le avesse viste cogli occhi suoi, ed erano voci che correva no, no? fantasticherie, invenzioni di marinai. Queste fere che voi di te, tanto terribili e selvagge, chi può dire che non siano pure queste, voci fantasie, o come si vogliono dire, immaginazioni e credenze, eh? Non potrebbero appartenere alla stessa razza inesistente di quelle si rene, eh? queste vostre fere, non potrebbero essere solo la parola, il nome, essere, insomma, solo parole, nomi, falsi nomi, non essere altri che gli innocenti delfini, calunniati e malfamati? » Forse, lo avrebbe interessato sapere che don Mimi Nastasi inteso Iam betta, era anche lui, più o meno, di quell’avviso, solo che don Mimi riteneva e voleva dimostrare vero tutto il contrario, risalendo alla esistenza delle sirene da quella delle fere. Ma non gli parlò né di questo né d ’altro, erano davvero lontanissimi da un qualsiasi pun to d ’incontro. M a per quanto delfinaro, e di quelli più buoni, più fini, quel ra 244
gionamento, che era stato come cancellasse con un colpo di spugna la loro fera, lasciando sulla lavagna solo il suo delfino, quel ragio namento che non pareva fatto da lui, ma da qualcuno che stilava pensarsela alla coatta quando sapeva di avere torto e voleva avere ragione, non doveva inorgoglirlo molto, né poteva accontentarlo, uno come lui, un titolato, ma in specie una persona perbene, una persona istruita, che se ti parlava, ti faceva pure parlare e parlare per sentirti, sentire il pensiero tuo e tenerlo in conto. « Cambrla » gli fece difatti giusto a quel punto, con l ’aria quatta quatta, da iattarello qual’era in effetti, come se gli fosse venuta un’ideona per chiudere la questione, facendoli contenti e gabbati. « Co sa è, cosa è che hai visto tu? I delfini che strappano le reti, i del fini che sbranano i pesci? Ciò, li hai visti con le maglie fra i denti, col pesce ancora vivo in bocca? » « Ma tu, Cambrla, mi credi se ti dico che non lo capisco certe volte il signor Monanin? » fece al suo solito, ma stavolta con ra gione, Crocino. « Scherza? Ci sfotte? Ora, secondo lui, per farci credere, gli dobbiamo pigliare la fotografia alla fera quand’è all’o pera, là 'n fondo, e traffichìa fuori e dentro la palamitara con ma glie e teste di questo e quello. Eh, Cambrìa? » Stavolta bene parlasti, pazziscolo, gli voleva dire, ma non gli disse. Per dimostrargli però, che l ’approvava, ripigliò a parlare, fa cendo seguito a lui, e disse: « Ma a lei non gli basta che vediamo reti e pesci lazzariati? » « Ma tu, i delfini, tu quelli li vedesti mai? Quelli mai, no? Tu sempre fere vedesti, fere e fere, quelle sapevi e quelle vedesti. Ve desti, dico, ma che è vedere quello che non si può vedere, che non esiste? Quanti furono a vederle le sirene? Non si sa quanti, tanti: tanti quanti ora, invece di sirene, vedono fere... » Aveva preso un tono così petulante, e contempo così savio, così ammastriato, che quasi gli dava il nervino. Di quel passo, o gli ri deva in faccia o s’alterava: e perché? perché doveva alterarsi e con trariarlo? Il signor Monanin aveva la sua bella amabilità, ma sotto l’impulso del delfino, non poteva succedergli di trasform arsi? Dopo mesi e mesi che lo vedevano andare e venire sulla corvetta in com pleta apatia, a quel che sembrava, aveva trovato qualcosa che lo animava: e cioè l’accompagnamento zingaresco, tutto pomponella e teatranteria, di quegli animali col culo a mandolino, per non chia marli né fere né delfini, quell’accompagnamento che per gli altri era 245
stato quello che era, passatempo, svagamento d ’occhi e sboriamento di pensieri, a lui invece, in più, aveva portato quel casobello delfi nofera, tutto quel lattariamento del delfinaro per il delfino, qualcosa per cui, bastava vederlo, finalmente si risentiva, a modo suo final mente s ’infervorava. E allora? Allora, per quanto mi riguarda, de cise in mente sua ’N drja Cambrla, bomprò gli faccia il suo delfino, al signor Monanin. C ’era Crocitto però, Crocitto che non si era inghiottito quel para gone di fere con sirene, e masticò, masticò, sinché lo dovette riget tare fuori: « Sirene? Sirene? Sirene? » si scannarozzò con la voce soprassal tante, coi toni più stonati, sbalorditi, e poi si mise a mani giunte e agitandogliele davanti alla faccia al signor Monanin, ora gettando fuoco dalle narici e ora lagrime di parole dalla bocca, quelle sire ne, fece di tutto per fargliele rimangiare al Guardiamarina: « Si rene? Ma lei lo sa che c’è gente che ci mori, gente, sarebbe a dire, che per causa di fere perse non solo averi, ma anche vita? Lo sa che gli venne il crepacuore a qualcuno, vedendosi preso di mira e bersagliato dalla fera? Eh, Cam brla? Digli, digli di quello 11 di G àl lico, che faceva chiumma con figli e generi, e le fere per tutto un mese, giugno o luglio, le lasciavano la sera e le ritrovavano la mat tina, sino a quando, dopo la prima uscita, il vecchio disse a generi e figli: mi vado a fare una stampa di sonno, io, qui dietro alla palamitara. E i giovanotti si fumarono la sigarettella, stettero, stettero e poi vedendo che non si svegliava, andarono e lo trovarono morto al l ’ombra della palamitara: morto che si stringeva la faccia fra le mani e la faccia l ’aveva ancora bagnata di lagrime. Diglielo, diglielo tu, Cambrla... Sirena? Per sirena la piglia lei? Ma lei mi crede se gli dico che ci sono famiglie dove se per sbaglio gli nomina la fera, alle femmine gli insorge subito il lutto in faccia, il massacro di cuore che quella micidiosa gli fece ai maschi con distruzione di reti, e carnefi cina di pesci? Lei se la figura la scena, con le femmine che si gettano il tribolo, piangono e si strappano i capelli, se la figura lei? E allora si può figurare se quella è inesistente, se è sirena, quando al solo sentirla nominare, alle femmine si riaprono le ferite... » Mentre Crocitto si riscaldava tanto, al signor Monanin la bella impronta di sorriso che aveva sulle labbra, si ravvivava viavia sem pre di più: « N o, no, no, no, nonnonò » gli fece a cantilena con quel sor 246
riso fra incredulo e divertito. « N o, quello no » e fece nuovamente segno verso il branchetto di feruzze, nuovoliante, agitato e confuso sulla scia dei mari schiumeggianti aperti che si richiudevano dietro i due caccia. « Ma guardatelo, guardatelo: cosa ha, cosa ha di sangui nario? Gioca, gioca, il delfino, gioca sempre... » « Io, della fera parlo » gli ribatte Crocitto, grezzo grezzo. « Lei invece parla di delfino. E chi lo conosce quello? Chi l ’ha mai sen tito e nominato? » Qui ebbe l’impressione che il signor Monanin si contrariasse un poco, al modo suo, suo di signorino, delle parole di Crocitto: « Io, Crocitto. L ’ho sentito e nominato io. Capito? » gli fece, bian co bianco in viso. Crocitto dovette capire che il signor Monanin si vestiva un poco d ’autorità: autorità di Guardiamarina e d ’uomo istruito. Ma con tutto questo, ebbe ancora l ’ardire di controbattergli: « Lei non se la deve pigliare per offesa, ma a noi, eh, Cambrla? delfino non ci dice niente di niente, nella nostra lingua... » « Nella vostra lingua? » esclamò stralunandosi e riprendendo quel suo sorriso appuntato cogli spilli. « Maria Vergine, ora pure la lin gua mi tirate fuori? Ma cosa è sta lingua che dici, cosa è sta lin gua che parli, la lingua forse che ha in bocca quella vostra fera là? Quella, se è quella, è vostra, hai ragione, quella solo, voi la parlate la lingua di quella là, e voi soli la parlate e voi soli la in tendete... » Fece una pausa e sorridendogli, però serio serissimo, gli mise una mano sul braccio in confidenza, come si fosse imposta una tale calma all’animo, che veniva di guardarlo con la più grande ammirazione, ma al dunque però si trattava di belle cose che vo levano il come davanti per il semplice fatto che non erano cose si cure, sicuramente quelle, anche se potevano esserlo, essere le cose che sembravano. E stando così, facendo sentire che là fra loro tre, la persona istruita era lui e facendo sentire contempo che peso ave va una tale persona, ripigliò e concluse: « ’scolta, caro. Noi tre qui che facciamo? Parliamo, no? Parlo io, parli tu, parla Cambrìa. Tu e Cambrìa parlate parlando contro quella vostra cosiddetta fera, mentre io parlo parlando del delfino che non è solo mio come è vo stra la fera. Voi non avete una lingua, non avete nessuna lingua, voi, hai capito? » « Ah, lei dice che non l ’abbiamo la lingua, noi? » « No » gli ribatte il signor Monanin e glielo ribatte in tale tono, 247
che Crocino si fece in faccia come gli avessero strappato anche la lingua che aveva in bocca.
Da un pezzo ormai il signor Monanin doveva essersi scocciato di quell’apparolamento, di quella resistenza che gli facevano, non tan to, anzi per niente alla persona, alla persona del signor Monanir. Guardiamarina, quanto al suo delfino che per tutta la sua vita, sino a quel momento, fu delfino delfino delfino: e loro, e con loro inten deva i Crocitto, anche se pure lui era loro, credevano davvero in un solo momento, in due parole, di cancellarglielo di mente e da gli occhi il delfino che ci fu sempre, per stamparci la fera che non ci fu mai? I loro Crocitto quanto a crederci, ci credevano, come no, e sen nò si mettevano a contrastare quel baronello o principino veneziano, quello che era, che non doveva essere affatto abituato a sentirsi, non contrastare, ma neanche contrariare e nemmeno forse a fare molta saliva per ridurre qualcuno ai suoi voleri, per avere insomma l ’ultima parola in una discussione? Cosi, a quel punto, senza alzare la voce, senza alterarsi, e d ’altra parte ed era tutto dire, nemmeno Capo Tarantino riusciva a farlo alterare, ebbe una mossettina scattosa den tro e questa gli trasparì solo nel modo come strinse le labbrette e schiacciò i mascellari: « Marinaio » gli fece secco secco, a Crocitto. « Ripeti dietro a me quello che io dico, lettera per lettera, sillaba per sillaba: capito? » E Crocitto capì e gli rispose solo: « Sissignore, signor Monanin » Così, là stesso, sui due piedi, accanto alle mine, coi marinai che andavano e venivano alle loro spalle, il signor Monanin si finse maestro di scuola per insegnargli a Crocitto a dire fera in lingua italiana, a dire cioè delfino: « D i... e... elle... Del... » « D i... e... elle... Del... » sillabava dietro a lui Crocitto come se gli pompassero il fiato. Se lo sentiva che prima o poi anche il signor Monanin sarebbe ar rivato a quella cerimonia: pure lui, poteva fallire? doveva attac cargli in mente con la saliva quella parola, delfino, nome di cosa astratta o per meglio dire, nome astratto di cosa reale. La prima mi ra di quei delfinari pareva quella di mettergli sulle labbra quel nome, 248
come gli facessero un segno di croce per fargli abbracciare la loro fede: precisi ai cristiani che spruzzavano l ’acqua in fronte ai sara ceni, sottomessi davanti a loro col ginocchio piegato, precisi a quel li, che con una mano li battezzavano e con l’altra gli tenevano la spada puntata alla gola. Aveva davanti agli occhi suo padre, che recitava gl’ingloria al delfino sotto la minaccia del moschetto dell’Ec cellenza fascista: e il qui presente signor Monanin, non per fare paragoni, non gli puntava contro anche lui, metaforicamente par lando, la sua spada e il suo moschetto, ovverossia grado di Guardiamarina e grado d ’istruzione? Restava solo da vedere se pure per il signor Monanin, quello era falso scopo, se cioè tutto quell’appassionamento di delfinaro nascondeva l ’improsatura per il delfino. Ma il signor Monanin non gli pareva tipo da moschetto né tipo tanto trucchista, che armava tutto quel teatro con quella mira, la mira di fare al tir’a bersaglio col delfino: per tante sfumature, se non pi gliava abbaglio, il signor Monanin gli pareva tipo, invece, attac cato ai nomi delle cose, piuttosto che alle cose, all’apparenza, piutto sto che alla sostanza. Quando glielo ebbe messo sulle labbra, a Crocitto, che storceva la bocca tanto ridicolo, che non si poteva guardarlo senza ridere, il signor Monanin passò a lui: « Di... e... elle... Del... » prese allora a ripetere lui, cercando di non farsi trasparire il risolino che gli veniva, a vedersi scrutato da Crocitto. Crocitto però, aveva quell’aria sopraccigliata, quell’incupimento di sguardo, di chi si mostra vinto ma non convinto. Le cose, per lui, o erano serie o niente: se non erano serie, le faceva serie lui. In vita sua, forse non era mai stato spiritoso, ora per giunta c’era quel pensiero fisso della zita che lo teneva giorno e notte impallato. « Bravi, bravi » gli fece alla fine il signor Monanin come per pre miarli dell’impresa. Poi, il signor Monanin, si dovette presumere, senza saperlo, un poco a Cristo, a Cristo che diceva agli apostoli di andare in giro a predicare fra le genti il verbo divino: andate e moltiplicatevi. Con questo tono gli parlò a lui e a Crocitto: « Dovete portarlo là, sullo Stretto di Messina, sto nome qua di delfino, farlo sapere a tutti, là, per quei mari vostri. Cosa è sta fera, cosa è sta fera? dite voi. Cancellate fera, segnate delfino, delfino, 249
delfino. E se vi chiedono: cosa è sto delfino, cosa è sto delfino? voi parlate, fatevi sentire. Sto delfino, ditegli, sto delfino, per vo stra norma, è il nome giusto ed è pure bello. Imparatelo, impara telo e vedrete che chi lo porta, sto nome appropriatissimo, non ve le strappa lui le reti, non ve li sbrana lui i pesci. Questo suc cedeva con la fera, ditegli, perché ci suggestionava il nome selvag gio e sanguinario: una volta che era delfino e noi lo chiamavamo fera, era naturale che tutto quello che succedeva di peggio, glielo passavamo al suo nome, gli davamo la colpa a chi aveva la nomina di fera. Perché, viene dal nome la nomina, si sa. E voi chiamatelo delfino, delfino, delfino, e delfino sarà... » Quel discorso dovevano andargli a fare ai pellisquadre, giusto quello. I siciliani, diceva, travagliavano di fantasia, i siciliani: lui, no, era realistico, lui. Parlava del nome del delfino come fosse un apriti, sesamo, una paroletta magica, che se si aveva quello, il no me, si aveva certissimo il fatto: le cose stavano così, secondo lui e non invece esattamente al contrario. Parlava del nome del delfino, c’era poco da dire, come i Crociati parlavano del nome di Dio: partivano con quel nome inciso sulla punta della spada, Dio era con loro e allora potevano fallire i fatti gloriosi, i colpi di spada, i fendenti, i saraceni decollati, fatti a pezzi, convertiti alla fede nel nome affilato, tagliente di D io? Certo: delfino, delfino e ancora delfino. Sì, come no? se non era che per quello... E quello che voleva il signor Monanin era una pro messa di marinaio, un sì che se n ’andava sperso per mare. Ma Crocitto era una dannazione, non s’arrendeva, doveva credere forse che c’entrasse pure in questo Cettina, la zita, e così, per quanto quel nuovo, autoritario signor Monanin un poco lo sbalordisse, teneva il punto: « Pure là, dice lei? Pure a casa nostra, pure borghesi, pure quan do usciamo a mare coi nostri mestieri di reti o di traffinera? Pure là, lei dice che dobbiamo dirlo il suo delfino? » Ora, che bisogno c’era? Non era un vero pazziscolo, quel Crocitto di Spadafora? Il signor Monanin, intanto, gli aveva dato le spalle; lanciava oc chiate verso prora, forse verso la cabina di timone, guardando che ora era sull’orologio d ’oro che aveva al polso, poi guardava in ma re, in direzione dei caccia che potevano essere a meno di un quarto di miglio dalla corvetta, e con la mano a parocchio per ripararsi 250
dall’abbaglio che faceva la luce bianca, bianca d ’un bianco come stil lasse latte, cercava le feruzze che svolazzavano fra i due caccia, ora visibili, e ora nascoste. L ’orecchio, però, l ’aveva sempre a Crocitto, il signor Monanin: « Quello là si chiama delfino, marinaio » gli ripete, difatti, senza levare gli occhi dalle feruzze. « Quello là, l ’incontri qui, l ’incontri là, ricordalo, è sempre il delfino » Ormai, pareva che il signor Monanin gli replicasse solo per un principio d ’autorità, per mantenere il prestigio. D ’altra parte, si po teva sminuire dicendogli lui stesso: guarda che la mia parola non è legge che ti può obbligare a chiamare delfino la fera per tutta la vita, anche quando, finita la guerra, se ne usciamo, tu te ne torni a pescare sullo scill’e cariddi e io me ne torno a navigare dentro Venezia...? « Va be’, delfino, signor Monanin » fece allora Crocitto, come un muccusello puntiglioso che si credeva di sottostare a un sopruso. « Delfino, va b e’, io me lo ricordo, ma lei perché non glielo dice pure a lui, al suo delfino, di ricordarselo per primo lui che è delfino e non si deve comportare come fera? » Ah, che bella testa per fare pidocchi, quel Crocitto pazziscolo. Persino al signor Monanin sembrò che gli venisse da ridere, ma gli si arricciò solo il naso, e poi come fra sé disse, senza pigliare nes sun tono, né di comando né di preghiera: « Taci, taci » M a Crocitto era proprio disfiziato, se la pigliava proprio a cuore. Standogli vicino, gli dette una stretta alla mano senza fargliene ac corgere al signor Monanin. Questo è il signor Monanin, gli aveva voluto dire a baccaglio, un Guardiamarina, ufficiale nostro. Siamo imbarcati con lui, nella stessa barca, ma lui è lavativo, se ne frega, da lui una malaparte non l’avremo mai, perciò, dico io, perché di spiacerlo? A che scopo? Che cambierebbe per noi, là, sullo scill’e cariddi se dal suo adorato delfino lo riducessimo alla nostra pes sima fera? Eppoi, a quale scopo, a quale, gli parli di fera, a uno che fa la vita di pascià a Venezia, a uno che, basterebbe dire, ave va la gondoletta personale quando ancora era in fasce? Fàllo dire, fàllo sfogare: che ci guadagni a rompergli il filo? Fàgli dire tutta l’arcalamecca che vuole di questo sanluigigonzaga di delfino e non ci rompere i coglioni pure tu, oltreché lui... Parlavano la stessa lingua e quel discorso, anche se muto, Cro citto lo dovette capire. D a quel momento, infatti, se ne stette all’in 251
tesa: ma si tacitò per quella stretta di mano o perché, forse per un puro caso, il signor Monanin lo toccò nel debole? « Ma voi due, voi due » gli aveva fatto, pigliandoli per le brac cia e come stringendosi a loro. « L o sapete voi due, che i delfini portano... » Qui però non avevano afferrato chiaramente quello che portano i delfini: se bon onore o bon’ore o semplicemente bene. « Capite? I delfini portano fortuna, portano bene. D ifatti, qual cosa di buono accade sempre a chi va per mare e s’incontra coi del fini » Meglio si sentivano: pure superstizioso era, il signor Monanin. Si guardarono negli occhi con Crocitto: quella era la prova massi ma, si dissero, che quei delfini del signor Monanin non si potevano assolutamente imparentare con le loro fere. Ma poteva mai parlare anche a nome di Crocitto? Per quel che lo riguardava, Crocitto non si sentiva più di sputarci sopra ai delfini. E difatti, covò un se condo o due, sforzandosi a cogitare, con la fronte strettastretta fra le rughe, e poi, facendogli tutta un’altra faccia, domandò al signor Monanin se quella comparsa di delfini poteva portargli, per fare un esempio, il bene della fine della guerra. Il signor Monanin allora, abbassando la voce, ma alzando contempo gli occhi per occhieggia re verso prora, gli aveva detto che più delfini si cominciavano a ve dere in giro e più si faceva vicina la fine della guerra, dando quasi quasi ad intendere che se oggi, domani, finiva la guerra, quella, dovevano considerarla un poco anche opera dei delfini. E rigiratosi tutto, tutto di spalle a prora, e detto a loro di non guardare verso di lui per fare credere che gli stava dando delle istruzioni, gli spie gò meglio, a senso suo, quella credenza intorno ai delfini che por tano fortuna e bene. Quella, innanzitutto, non dovevano pigliarla per una delle solite credenze di marinai, di quelle cioè che lui diceva prima, non dovevano, perché quella credenza non soltanto aveva un fondamento di vero, ma era una verità di fatto, ragionata e visi bile. Perché, ragionata? Ma perché lui, il delfino, è nemico mortale della guerra, anzi per meglio dire, è la guerra sua mortale nemica. Lui, per sua natura, nemmeno la concepisce una cosa tanto terri bile, tanto sporca e tanto infame, una cosa che gli mette in corpo un grande terrore e gli riempie il mare di cadaveri e di rottami di navi, di sangue e di nafta in fiamme. Lui è un tale bambinello, cosi pacifico, così dolce e timido di carattere, che non appena fiuta la 252
guerra, scappa e si va a nascondere. E perché visibile? Ma perché poi ricompare, il bambinello pacifico, dolce e timido, ricompare ed eccolo 11, lo vedevano. E se ricompare, questo non è un buon se gno? non è segno di fortuna e pace? Se il delfino ricompare, significa che la sua mortale nemica ha i giorni contati e che tornò il tempo suo, significa pace, in una parola, significa che fini il tempo di mo rire e che ricominciò il tempo di vivere... « Eh, si » fece a questo punto il signor Monanin come se sopra pensiero, si sbagliasse con le parole. « Fini il tempo di vincere o di morire, arrivò il tempo di perdere o di vivere... » « Ma quando potrebbe essere? » gli domandò subito subito Crocitto, riferendosi naturalmente alla fine della guerra. Anche Crocitto parlava a bassa voce: in quel momento, tutti e tre, strettistretti, avevano l’aria di complottare veramente per fare finire la guerra. « Intanto, » rispose il signor Monanin « da un momento all’al tro potremmo sentire dal Bollettino di guerra che gli Alleati han no occupato Messina, e allora, con l ’occupazione della vostra fa mosa città fantasma, che con le bombe non cadeva mai e invece cadde pure lei, tutta la Sicilia sarà in mano alleata. Poi, con lo sbar co in Calabria, la fine della guerra dovrebbe essere questione di giorni... » Il signor Monanin non era certo un indovinaventure, ma quello a Crocitto bastava, per lui la guerra, quando finiva in Sicilia, finiva in tutto il mondo: « Ah, sì? » fece tutto infervorato. « A lei, questo gli dissero i delfini? Ora che vedemmo i delfini, lei dice che ci potrebbe succe dere qualche grande fortuna? Ah, si? Allora, eh Cambrìa, ci do vremmo premiare che incontrammo sti delfini? Allora, come dice il signor Monanin, è sul serio una cosa reale, questo tale delfino? Quel la nostra lordona, eh, Cam brìa? bisogna proprio concludere che venne fuori razza. Oh, pare che la innestarono di selvaggio. Non ne pigliò nemmeno un pelo di questo gentilissimo delfino. Ma guar da, guarda... » andò ancora meravigliandosi. « Il delfino, il delfino, chi l ’avrebbe mai detto, eh, Cambrìa? È tutte la fera, però invece di portare disgrazia come la porta quella misdea, porta fortuna, fortunella. Una differenza di niente, eh, Cam brìa? » Crocitto se lo calò tutto, il delfino portafortuna, e poi restò a bocca aperta come ne volesse ancora. Il signor Monanin, senza 253
saperlo, l’aveva toccato proprio nel debole, nel lato della zita, e per quel lato, se lo era conquistato ai delfini, senza doverlo forzare, sen za sudarci. O ra che glieli aveva presentati come folletti di casa, ca paci, tanto per cominciare, di fare cadere Messina e fare finire la guerra in Sicilia, che per lui era come dire a Spadafora, Crocino ci giurava sui delfini, ci metteva la mano sul fuoco. D i questo, ’N drja Cambrla non si faceva né gabbo né meraviglia, dato il tipo, dato che quel pazziscolo non faceva che spasimare per quella sua zita, dilaniandosi il petto a sospirare ore e momenti sem pre con quel pensiero, quell’incotturiamento di mente per lei lon tana, esposta a rischi e pericoli di guerra, dato il tipo anzi, dato che il tipo era questo e andando avanti quello che era, restava, sem mai peggio poteva farsi, restava, perché non cambiava di sicuro, allora non si faceva né gabbo né meraviglia nemmeno se dopo il puro e semplice infedelamento, lo vedeva gettarsi faccia a terra, a sospirare la grazia da quel suo nuovo santino, nuovo perlomeno al nome delfino, ben sapendo che, fera o delfino, quello è santo di marmo e non suda. Il signor Monanin, ora che quella fera l ’aveva cancellata dalla lingua e dal mare, ora che era sicuro che i due marinai, al posto di quella, avevano messo, in lingua e in mare, il delfino, a comodo e piacere suo, aveva preso a lustrarglielo, facendoglielo splendere in maniera tale davanti agli occhi, che prima essi non riuscivano a distin guerlo, e poi non riuscirono nemmeno a poggiarvi sopra gli occhi, non lo videro più del tutto. Il signor Monanin gli fece sprizzare at torno alla testa un’aureola di parole così belle, dolci e commoven ti, che ne restarono abbagliati. Glielo portò per favola e alla fine nean che coi più grandi sforzi d ’immaginazione, neanche lontanamente ce la fecero a imparentare più quel suo delfino alla loro fera.
Glielo portò per favola, a senso loro: a senso suo, invece, gli contava un fatto successo in cui si poteva vedere il delfino all’o pera, per fare, questa era la morale della favola, un indiretto e invo lontario confronto fra l ’opera di delfino, sulla quale lui testimoniava per sentito dire, e quella di fera, sulla quale testimoniavano loro col visto degli occhi. L ì, su di un piede, gliene contò due di questi supposti fatti suc cessi, i primi due che gli venivano a mente, disse, senza nemmeno 254
sceglierli fra i tanti e tanti, tanti, a sentire lui, che a contarli tutti, sembrava che ci sarebbe voluto un giorno d ’estate. Due a caso, ma per caso, uno gli venne a riso e uno a pianto. Il primo, era quello in cui un uomo greco, che si chiamava all’incirca come l ’airone, e che si guadagnava il pane girando e poe tando con accompagnamento di chitarra, veniva abbrancato da certi pirati e portato sulla loro nave in mezzo a tanti altri. Doveva trat tarsi per forza d ’uno sbaglio: perché, dei pirati che se ne facevano di un poeta? E difatti, quando si rendevano conto che quello non era né femmina per godimento né uomo per lavoro, bensì poeta, un essere cioè che non era né pesce né carne, un essere che non valeva il pane che gli avrebbero dovuto dare per sfamarlo, decidevano di liberarsi di quella bocca inutile, gettandolo in mare e così, se non altro, sarebbe servito a sfamare i pescicani. Però, sebbene pirati, gli concessero, sebbene poeta, di esprimere un ultimo desiderio, e il greco disse che gli sarebbe piaciuto, prima di morire, pizzicare un’ultima volta le corde della sua chitarra: con cesso. Qui entravano in scena i delfini. Il poeta, che stava suonandosi la chitarra a morto, s’accorgeva che il suono della chitarra richia mava intorno alla nave delfini su delfini. In pochissimo tempo, col loro ondeggiare danzoso sull’onda della musica, e con ruscellio di lagrime che la musica gli faceva sgorgare dagli occhi, ingrossarono il mare a vista d ’occhio e dalle acque agitate si sollevarono dei caval loni contro la nave. A bordo, fra pirati e prigionieri, si fece una certa confusione: e fu allora che il poeta si tirò il paro e il di sparo, e fra una morte certa per scimitarra e una incerta morte per acqua, chiuse gli occhi e saltò a mare. Non bevette nemmeno un sorso, non scese nemmeno sott’acqua, aprì gli occhi e si trovò a cavallo di un delfino, con la chitarra in mano. I delfini gli sta vano intorno fittifitti e lo alliffavano con gli sguardi, sconchigliandosi con le code. Avevano ancora gli occhi gonfi dal piangere che gli aveva provocato con quella chitarrata a morto: in vita sua, non ricor dava d ’avere mai visto nessuno, nessun uomo naturalmente, ridotto a un tale stato dalla musica. Ripigliò allora a pizzicare le corde, suonando come mai forse, nemmeno davanti a re e regine, aveva suonato: e mentre lui suonava, in un mare di sospiri, un poco l’uno, un poco l ’altro, come fosse un privilegio, i delfini, con la lagrima all’occhio, sazi e felici, lo riportarono a terra come in trono, e là 255
Io collocarono sulla riva, facendoselo scivolare dolcemente di schie na in schiena come sopra un tappeto morbido e caldo, rigonfio di singulti. Il chitarrista greco poi, di gran premura, poesiava il gran fatto successogli e andava decantando il delfino per mari e per monti del la Grecia, buscandosi nel contempo anche un poco di fammiridere, perché dopo naturalmente passava col piattino. Il secondo fatto successo era quello in cui un guaglioncello, cioè a dire un muccusello d ’una settina d ’anni, figlio di un pescatore di Baia, vicino a Napoli, com’era, come non era, veniva a fare comu nella con un delfino. Diventarono così amici, che mattina per mat tina il delfino aspettava lì davanti, rivariva, il guaglioncello che usciva di casa, per andare a scuola, dall’altra parte della baia. Per non fargli fare tutto quel cammino via terra, se lo faceva venire di sopra a cavalluccio, le mani strette alla pinna dorsale, la cartella fra le gambe, bello comodo, e più trasvolando sull’onde che nuo tandoci dentro per non annacquarlo, lo portava a scuola presto e di vertito. Eppoi, quando suonava la campanella, il delfino era ancora lì, puntuale, mezzo all’asciutto sulla sponda, come un vaporetto: si ripigliava a bordo il guaglioncello e lo sbarcava davanti a casa. Per due anni, il delfino lo portò e riportò da un capo all’altro della baia, estate come autunno, primavera come inverno, bontempo o malotempo. Anche le domeniche, anche i giorni di festa, il delfino era lì sulla sponda, che lo aspettava: perché, per quanto geniuzzo, quello non poteva certo saperlo, quando era scuola e quando festa. Ed era lì, che lo aspettava, anche nelle burrascate di mare e nei temporali di terra, quando le chiumme non varavano e il guaglion cello non andava a scuola. Allora, da dietro i vetri della finestra, il guaglioncello spiava a mare, sicuro di vedere il suo fedele delfino che compariva e scompariva fra i marosi: e se erano giorni nei quali pioveva come se si fossero aperte le cateratte del cielo, e cielo e mare erano un nero miscuglio, e non si vedeva a un palmo dalla riva, il guaglioncello sapeva che il delfino era là, in quel subisso di schiume e di pece, che aspettava come sempre di vederlo spuntare sulla marina. Successe però che il guaglioncello un certo giorno si ammalò e in un vedere e svedère, dalla sera alla mattina, entrò in delirio: alle prime luci del nuovo giorno, domandò la cartella, fece per scendere dal letto, come si credesse d ’andare a scuola, e in quello, morì. 256
Quasi nello stesso attimo, come sentisse l’ultimo respiro che fuggi va di bocca al suo compagnello, rivariva il delfino aveva pigliato a lamentarsi da spezzare il cuore: il guaglioncello era ancora caldo e il delfino, col suo dolore, pareva gettato come un cane che gli ran tolava dietro la porta. Al guaglioncello gli fecero l’accompagnamento, lo seppellirono, le femmine se n’andarono alle case, le chiumme armarono e vararono, tutto tornò fatalmente come prima. Solo il delfino si lamentava sem pre maremare, straziante e inconsolabile. Per giunta, col passare dei giorni, cosa assai più miseranda, si fece palese che il dolore del delfino pigliava il verso deU’illusione. Continuava, difatti, a venire al vecchio appuntamento mattutino col guaglioncello: veniva, s ’affac ciava nel primo mare, fissava la casa con l ’occhio velato e si lamen tava, rantolando, un dolidoli che straziava, continuo, cupocupo. Aspet tava sinché non passava l ’ora di scuola, poi se ne andava per ritor nare l’indomani mattina. Si comportava proprio come se nello stes so momento, con un cuore lo sapesse morto e con un altro vivo. Però, con quel consumo goccia a goccia, quel dolidoli che lo mar toriava, di giorno in giorno più lancinante, dopo una settimana il delfino se ne morì di crepacuore, preciso a tanti fedeli cristiani. Lo trovarono 11 davanti, mezzo arenato, col collo allungato sulle pie trebambine e le manuncule alzate, come si aggrappasse alla sponda per non farsi trascinare via dal risucchio. Pareva che fosse venuto espressamente a morire là, sul luogo dell’appuntamento col suo com pagnello: perché doveva trovarlo ancora 11, quando ricompariva, come riscompariva ancora con la cartella di scuola sottobraccio.
In quel momento un marinaio, passando di corsa dietro a loro, aveva gridato basso basso, come a bocca chiusa: « I delfini... I delfini... Ritornano, ritornano... » E altri marinai, in grande eccitamento, si gridarono dall’uno al l’altro: « Volano, volano » Le fere, a furia di lottarsi per quelle restatine della cucina di bordo, e a furia poi di divertirsi a lottarsi, erano state distanziate dalla corvetta e raggiunte dai due caccia, che seguivano la corvet ta: per alcuni minuti, le fere, gli avevano folleggiato intorno, ora all’uno, ora all’altro e poi, a una velocità assai più alta di quella 257
delle navi, si erano lasciate nuovamente dietro i due caccia, per ri tornare alla corvetta. Sventagliate su una sola fila, facevano lunghi salti e tra l ’uno e l ’altro, pareva che nemmeno s ’infilassero nelle onde. Dietro, in un punto lontano oltre la Sardegna, il cielo si alzava in un’altissima curva di fiamme: le fere sembravano fare fuggifuggi, lontano da quei bagliori che le inseguivano col loro notturno annuncio. A tribordo, tutte insieme, tutte uguali, tutte allo stesso tempo, tutte alla stessa altezza, si rimisero al passo della corvetta, si rimi sero cioè di scena in vista all’equipaggio, si rimisero e issofatto piglia rono a buffoneggiare, avvitandosi per aria e facendo: iiih iiih iiih, ogni volta che si rilanciavano in alto, all’altezza della coperta, sino a toccare col becco le gambe dei marinai, come cani festosi coi pa droni. Il signor Monanin se ne mostrò non solo rallegrato, ma anche, e non poco, lusingato, anzi pareva proprio che se ne premiasse come fosse anche un p o’ merito suo se quelle ricchezze di casa tornavano a nuovoliare alle fiancate della corvetta. Eppoi, i suoi amatibeni tor navano giusti giusti e vivi vivi, quando lui finiva di commemorare quel veramente delicato di cuore, quell’amico da portare ad esem pio, amico del guaglioncello di Baia, tornavano giusti giusti come per risollevargli lo spirito da quella pena: perché, bastava sentirlo, il si gnor Monanin, per persuadersi che lui, per il delfino di Baia soffriva quasi quelle stesse pene che l ’animale soffri per il compagnello morto sino al punto di farsi schiattare il cuore. C ’era da riderci forse? A quel punto, a parte lo strabilio che un tale fenomeno gli faceva o non gli faceva, a ’Ndrja Cambrla, della passione, che era passione vera, ge nuina e senza scopo, non si discuteva, del signor Monanin, di uno cioè che altroché appassionato, passionale, altroché altroché, gli suc cedeva di pensarla allo stesso modo e quasi con le stesse parole di come la pensava per quel nuovo delfinaro, quel Crocitto che se si gettava a maganzese, lo scopo, uno scopo, lui l’aveva, e il suo scopo, la sua mira, l’aveva a Spadafora in Sicilia. Non posso e non potrò mai essere d ’accordo col signor Monanin, però non mi sento di far mene né gabbo né meraviglia, chiunque ci può passare, con delfino o con fera, con la delfìfera. Più o meno così la pensava, più o meno come dicevano le parole che trovava per dirlo, quelle e quest’altre qui. Affari suoi, sentimento suo. Va a sapere come stanno le cose nella città di Venezia... Sì, c’era quella pretesa di mettergli in verso 258
di lingua il nome del delfino, ma quello era un proforma, non levava né aggiungeva niente né a loro né alla fera: che gli costava ripetere delfino con la mossa di labbra che gli pareva a lui? Capriccio e non senseria di delfinaro e signorino: fra l’altro, il signor Monanin non aveva, con questo, un secondo fine, non mirava come l ’Eccellenza fascista a uno scopo preciso, quello cioè, di pigliare di mira il suo stesso delfino. Stava ad ammirarsi i delfini, i suoi delfini così suoi, suoi di lui solo, che nemmeno se li avesse inventati lui, alla lettera, alla lettera e allo spirito di quel nome che s’inventò, stava ad ammirarsi i del fini che l’uno dietro l’altro, a tribordo, con uno svirgolamento conti nuo, ininterrotto, come fossero l’uno ammillato, beccoculobecco, al l ’altro, tutti quanti erano piroettavano dal mare alla murata e lassòpra si vedevano, svedevano apparire, sparire di profilo, con quel l ’occhietto, come fosse sempre lo stesso che smirciava in coperta. Se li ammirava, in altre parole, come se tuttuno, guardandoli, si van tasse e se li vantasse per creature sue, esseri che s ’inventò lui, di nome e di fatto, la prima volta e s’inventava sempre lui, ogni volta, ogni fatto dove questi esseri comparivano. Così, quella volta, se li ammirava, quasi spudoratamente, veniva di dire, dando sempre più, a .vederlo, quell’impressione come se i delfini fossero là per lui, come se li avesse richiamati indietro lui, col suo pensiero, con le parole che decantavano le loro belle gesta. Si era girato poi verso di lui e Crocitto, la faccitta rosata di sole, gli occhi sfavillanti e come trovasse strano di non vedere nei loro occhi lo stesso sfavillio che c’era nei suoi e che gli veniva dal pia cere di stare al mondo, in un mondo abbellito dalla presenza dei delfini, come se cioè ancora a quel punto trovasse strano questo in primis, trovasse strano di non vederli compiaciuti come lui, con lui di stare in un mondo dove il delfino si chiama delfino, delfino, delfi no, con un tono, mezzo a mezzo, sciampagnino e rimbrottante, ma come se per lui fosse serio lo sciampagnino, e sciampagnino il rim brottante, gli aveva fatto: « E ora, e ora, ma che vi successe ora, per starvene così muti? Eh? » Lo domandava come a proforma, con l’aria di saperlo che gli suc cesse. ’N drja Cambrìa però lo guardava e si diceva che con un tipo tutto speciale come il signor, anzi il signorino Monanin, come si fa ceva a dire: fa questo, fa quello? Per esempio, si diceva, ha l’aria 259
che lo sa perché ci facemmo muti, ma lo sa davvero, quello che è davvero il vero motivo per cui ci zittimmo io e Crocitto; per cui anzi mi zittii io? Crocitto, lo sapeva lui per quale motivo si zittì, se si zittì. G li leggo in testa forse, in quella sua testa leggia per giunta, per parlare anche a nome suo e dire che si zittì per il mio stesso motivo. Eppoi, bisognava vedere per quanti minuti se ne stava a bocca chiusa quel figlio di buonamadre, prima di dire che s’azzittì e perché s’azzittì. In conclusione, se lui non se la sentiva di rispondere del motivo di Crocitto col suo stesso, come il suo stesso motivo, poteva mai sapere il signor Monanin che il motivo vero, per cui si zittì, non era quello che doveva quasi totalmente credere lui e cioè che s ’ammutolirono, sia Cambrìa sia Crocitto perché dal suo punto di vista era unico il motivo, dopo che lui gli polverizzò la loro fera e gli sbandierò il suo delfino, ma era bensì che perlomeno per quanto lo riguardava, si zittì, non potendo parlare, non potendo cioè da marinaio parlare da paro a paro a un ufficiale? Quel linguasciolta di Crocitto, col signor Monanin che allora al lora giratosi verso di loro tutto indelfinato, li stava a guardare ora l’uno ora l ’altro, come s’aspettasse una risposta dall’uno o dall’altro, perché li diceva a parole muti, cogli occhi però li faceva parlanti, a un certo punto non si tenne più e rivolgendosi a ’N drja Cambrìa come se il signor Monanin non esistesse nemmeno, commentario: « Favole sembrano, eh Cam brìa? » Parlava come se il signor Monanin non esistesse nemmeno, par lava però come se ora, oramai esistessero pure per lui i delfini, i delfini che sembravano favole in bocca al signor Monanin: e parlan do, parlava come per dargli atto al signor Monanin che giusto per quel motivo si erano ammutoliti. « Favole, veramente favole, eh Cambrìa? » ripetè, tanto per non essere frainteso. Eh, Cam brìa? Eh, Cambrìa? Ma chi lo capiva quel pazziscolo di Crocitto? Parlava spontaneo? Parlava a trucco? Se lo sapeva lui in che senso diceva: favole, sembrano. Il signor Monanin però, lui sa peva che lo diceva nel senso suo: rivolse infatti a Crocitto uno sguar do vanitoso, compiaciuto, uno sguardo che sembrava rivolto non tan to alla persona, quanto a quello che la persona gli rappresentava in quel momento, e cioè una vittoria personale, una piccola battaglia vinta nel nome del delfino, insomma un saraceno allora allora con vertito. E ora che gli aveva dato tanta bella materia di riflessione, 260
si girò e li lasciò soli, e si capì che appena appena giratosi, se n’era già scordato, si capì che difficilissimamente sarebbe tornato con loro su quell’argomento: occasioni come quella che lo aveva spinto a parlare dei delfini a quei due africanotti che i delfini li chiamavano fere, rarissimamente, per uno come lui, si ripetono due volte nella vita. Pure la regina, è vero, ebbe bisogno della sua vicina, ma ebbe, una volta, una volta sola: una volta sola passa per degnazione, due potrebbe sembrare privazione. Li lasciò e se ne andò a tribordo, ma sempre lì vicino, a poppa via, quasi alla loro altezza, ad ammirarsi i suoi delfini e a giocarci. Videro infatti che cercava nelle tasche e si metteva a strappare i fo glietti di un quadernetto, li appallottolava e li gettava alla feruzza più a poppavia, una piritolla che forse doveva ancora impennare, col suo biancore di sotto ancora così nuovo lattoso, perlaceo man dorlato allora allora sgusciato, che però lei da sola faceva più scena di tutte le altre, perché l ’occhio non vedeva che lei che saltava lì davanti a lui, e contorcendosi tutta, faceva delle grandi piroette, per afferrare al volo quelle pallottole di carta. Fanciullissimo, il signor Monanin non pareva più lui tanto mostrava di divertirsi, e c’era un momento, quando, alzato sulle punte dei piedi, si sporgeva sulle cor de della murata, allungando il braccio per farle cadere sul becco la pallottola di carta, che dava proprio l’impressione che se poteva la carezzava, baciava, abbracciava, quella cocottella. Che pena, che pena... Come v ’ammutoliste, come... Lo guardava e ci rifletteva, perlappunto, lo guardava, risentiva quella sua frase e pensava ancora una volta quant’erano lontani da un punto d ’incon tro, lontani come facessero rotte completamente opposte nella vita. Si erano ammutoliti, era vero, ma per lui, non certo per il delfino. Era sbalorditivo come ci credeva in quelle favole, come gli riusciva naturale, di natura: solo se fosse stato lui in persona, quel greco preso dai pirati, e come minimo, madre o padre di quel guaglioncello di Baia, avrebbe potuto fidarsene altrettanto ciecamente di co me effettivamente se ne fidava. Certo, aveva la sua bella istruzione, il signor Monanin: forse gli veniva dall’istruzione tutta quella capacità di passare per fatti suc cessi, e come successi a lui personalmente, favole come quelle, che nemmeno ai muccuselli si sarebbero potute raccontare. Il signor Monanin, un uomo istruito, che sapeva il latino... Ave va cominciato a guardarlo anche sotto quel nuovo profilo, assai più 261
che sotto quello di Guardiamarina; e intanto che osservava quella faccitta, con tutti i lineamenti in tondo, minuti, appiattiti, come quelli di una moneta d ’argento smangiata dall’uso, si domandava: è potente o è debole un uomo istruito come il signor Monanin? e se è potente, l ’istruzione sarebbe allora questo potere di campare e andare avanti con favole come queste sul delfino? e se è debole, l’i struzione sarebbe allora questa debolezza di potere? perché, insom ma, che potere può dare l ’istruzione, se è tutto il contrario della vita? potere di uomini morti, tuttalpiù: un potere debole, una debo lezza potente... Il signor Monanin, in altre parole, gli sembrava un Guardiamarina anche come uomo istruito, ma con questo, non vole va dire tanto che il suo grado d ’istruzione era pari al suo grado d ’uf ficiale, quanto che sia da uomo istruito sia da Guardiamarina si com portava allo stesso, stessissimo modo. Per capirlo, per fare il confronto con un altro uomo istruito, ’Ndrja Cambrìa aveva la sua bella pietra di paragone in mente: ave va il professore che cercava le uova d ’anguilla; e anche se la sua per suasione era fatta solo di impressioni lontane, di quelle impressioni di muccuso prima, e d ’uomo ignorante poi, che si appoggiano su niente e su tutto, ricordandosi di quel folletto di professore, sentiva lo stesso l ’impulso di proclamarlo forte, di bandiarlo in faccia a tutti i signor Monanin del mondo, che quello era vero uomo istruito, professore di uomini istruiti; e ricordandosi di quello, nel paragone col signor Monanin, doveva per forza concludere che se c’era difetto, questo non poteva mai essere nell’istruzione, bensì nell’uomo istruito. Il casobello delfinofera col signor Monanin, se casobello fu, di fatto finì là. Ebbe un proseguimento, un’aggiunta, almeno per lui, ma quella, lui non s ’ardiva a dire che fu un’aggiunta al fatto. Là, a tribordo, le fere come fosse la prima volta, le malanova, sa livano e scendevano, spuntando col becco e con le manuncule come per gettare un’occhiata in coperta, aspettandosi forse di vedere il cuciniere che usciva con un’altra marmitta di spazzatura: su e giù, giù e su, simili a solfarelli con la miccia continuamente accesa al culo, in alto in alto si spampanavano tutte, smorfiando in faccia ai cristiani. Di cristiani affacciati però, non c’era rimasto che il signor Monanin e qualche marinaio che si fermava, di passaggio, vicino a lui, a dare un’occhiata. Il signor Monanin, al suo delfino, non gli gettava più pallottole di carta, ma quella che prima era solo un’im pressione, ora veramente, quando quello gli sorgeva davanti, si 262
sporgeva col busto e allungava il braccio tentando di fargli una carezza. Là, tutto a un tratto, avevano visto Capo Tarantino che veniva a portargli la macchina fotografica per fotografare i delfini. Il signor Monanin, lo sapevano tutti, aveva quella passione, e quelli delle fotografie erano gli unici momenti in cui gli occhi che aveva sempre come velati, da insonnambulato, gli si accendessero di brillìi, come se dentro gli ritornassero gli spiriti che pareva avere sempre persi, come rinvenisse alla vita. Ed era per questo forse che il Comandante, che largheggiava in tutto con lui, gli passava pure quel capriccio, ma tante volte il signor Monanin abusava della sua condiscendenza e così tante volte, specie in navigazione, succedeva che il Comandante giocoforza gli sequestrava la macchina fotogra fica. Quella volta, si vedeva, Capo Tarantino capacissimo di avergli parlato lui al Comandante per la macchina fotografica: perché, c’era da dire, quel grezzone di Capo Tarantino, che a bordo aveva l’agire di un ras, mentre gli faceva, spesso e volentieri, lo sfottò, e oltre allo sfottò, qualche volta lo sfotteva di fatto a levapelo, altre volte, come quella, se ne usciva stranamente a fargli da balio asciutto. Il signor Monanin però, non si poteva dire che questi pensieri, queste atten zioni li mettesse mentalmente in un piatto della bilancia per equili brare l ’altro, pieno, pesante degli sfottò e delle sfottiture, che Capo Tarantino, quanto più il signor Monanin gli mostrava disprezzo, mo strando di ignorarlo, tanto più continuava a fargli, e se uno ci faceva caso, a questa stranezza di rapporto che c’era fra i due, pareva pro prio che si fossero scambiati di grado. Proprio no, non sembrava che dopo quelle gentilezze, ogni volta vero e proprio strabilio a vedersi, il signor Monanin, tenendone conto, non si diceva che m ostrasse per un momento di essergli grato o di calcolarlo di più, ma puramente e semplicemente questo di calcolarlo. Insomma, non si degnava, nem meno per una volta, di dare un qualche segno che finalmente pigliava atto della presenza a bordo di un certo Capo Tarantino, o che piglia va atto perlomeno della sua esistenza. Veniva di dire che come non dava segno di sentire gli sfottò, o meno che meno di risentirne, così dava a vedere, non di non gradire, ma addirittura di ignorare quei percosìdire riguardi che quel caporais gli usava, quando glieli usava, ignorando i suoi riguardi, e contempo stesso lui, lui in persona, nel l’atto, nell’attimo preciso che glieli usava, come quello in cui gli ri 263
portava la macchina fotografica facendo in modo che non se ne scandaliasse, nel caso davvero casuale che girandosi, gli occhi al signor Monanin gli andassero, cosa che mai, a posarsi sopra di lui. Il signor Monanin, continuando a giocare col delfino, aveva oc chiato al sole, alla luce che restava: e vedendo che era giusto il mo mento in cui il sole al tramonto sembra mandare, come estremo ad dio, un ultimo grande sprazzo di luce, attimi di vero fulgore, e poi è tutto un precipitare della notte, finì di traccheggiarsi e per la pas sione che lo animava, anzi le passioni: la prima, era che fotografava e la seconda, che fotografava i delfini, il suo soggetto preferito, fece vedere che fulmine di lestezza sapeva essere, se voleva. Dalle mani di Capo Tarantino, senza nemmeno degnarlo di una pa rola strappò la macchina fotografica, la caricò col rollino che gli por se lo stesso Capo Tarantino, nelle sue funzioni di balio asciutto, la re golò sulla luce, si alzò la visiera del berretto e mise l’occhio al mirino. Le fere erano ancora tutte là, zampillanti alla murata, e non ac cennavano minimamente ad allontanarsi: sembrava che gli avrebbe annottato là, a fare da candelotti a tribordo della corvetta. Il signor Monanin però, si dedicò a quella sola fera con cui aveva giocato get tandole pallottole di carta: scattò tutto il rollino su di quella, tra scurando le altre, e quando cominciò a scattare, sembrò scordarsi di tutto e di tutti, sembrò che per lui non esistesse nulla e nessuno, fuorché quella fera che gli saltava davanti in posa. Non levò più l’occhio dal mirino. Quando la fera si rilanciava in alto, lui s ’abbassava sulle gambe e poi, quasi accompagnasse la fera nel volo, si sollevava all’apparire del becco, cosicché, data anche la bassa statura, si veniva a trovare giusto all’altezza dell’animale so speso per aria, con la coda rovesciata sulla schiena: gli scattava al lora la fotografia come se mirasse specialmente a inquadrargli l’e spressione beccuta, la risata, la smorfia. Mirava e scattava, mirava e scattava, Capo Tarantino lo guardava imbambolato; lui, Crocitto e altri marinai si erano avvicinati per vedere: ed era come se tutti trattenessero il fiato, perché si sentiva il clic che faceva lo scatto quando vi spingeva sopra il dito. Doveva provarci un gran gusto: era accanito, rabbioso, si vedeva benissimo come stringeva i denti sotto la pelle stirata della guancia, sottile, trasparente, come una seta che i denti sforzavano e rischia vano di strappare. Pareva spiritato. La macchina fotografica, in ma no a lui, non sembrava più una scatoletta innocente, ma un mecca 264
nismo micidioso, la cassa di caricamento e sparo di un moschetto. Con tutto quello spasimo e quel calcolo che ci metteva, era come se in un colpo solo mirasse a fotografare e contempo ammazzare la fera, quasi fosse persuaso che solo con la morte dell’animale, la foto grafia poteva riuscirgli perfetta e diventare per lui un ricordo unico, vivo e parlante, un ricordo strettostretto, fra la fera e lui. Era come dire, che non potendosi portare via di peso la fera, ma solo la sua fotografia, questa gli avrebbe dato una soddisfazione ancora più grande, se guardandola, poteva pensare che era tutto quello che re stava dell’animale, sia da vivo che da morto, come se, per dire, la pellicola fotografica fosse la stessa pelle dell’animale che lui scor ciava e portava via per trofeo. Ma a quel punto, non era più la vista pura e semplice del signor Monanin a ispirargli quei pensieri: perché, doveva dire, dal mo mento in cui mise l ’occhio al mirino e mirò e scattò, quel figurino di Guardiamarina era andato alterandosi e imbastardendosi nel suo sguardo. E infatti, come se il ricordo gli rigurgitasse fuori dagli oc chi, ribellato dalla vista identica o quasi, del Guardiamarina che mi rava e scattava, a un certo momento, fissando quel figurino, aveva istintivamente cominciato a combaciargli, sopra e intorno, la figura grezzona e ventruta, pelosa e affumicata, dell’Eccellenza fascista nel l’atto medesimo, simillimo all’atto del fotografare, di scaricare sulla fera imbragata sull’ontro, più morta che viva, tutto il caricatore del suo moschetto. In quella falsa luce di tramonto, era stato come stravedesse il si gnor Monanin, che col suo personalino si ammassicciava nello sguar do, s’allargava, s’imbozzava, pigliando sempre più la sagoma di quel la specie di Raicevic con la voce gaglioffa di gallodindia. E gli era parso, perlappunto, come se il signor Monanin non poggiasse l ’oc chio al mirino di una macchina fotografica, ma a quello di un mo schetto, la cui canna brunita si profilava lungo il braccio dell’Eccel lenza, puntata sul loro delfino. Era rimasto a bocca aperta, sbalordito lui stesso. L ’idea di perso nificarsi il signor Monanin con l ’Eccellenza fascista non lo aveva nemmeno sfiorato. Non l’avrebbe mai mischiato, in coscienza, questo piumino da cipria con quello scimpanzé, questo bebé cerimonioso con quel fascistazzo di modi grezzoni, dispotico e altezzoso, questa personella perbene, questo signorino che infavolava il delfino e per lui se n’andava tutto in poesia, e quel maganzese, che al delfino gli 265
andava nell’eccetera, intrombandolo a moschettate, non appena quel lo girava gli occhi. Era come se Eccellenza e Guardiamarina fossero stati, sino a quel momento, precisi a due navi, che sopra un mare, che era lui stesso, la sua mente, s’aggiravano nella nebbia senza mai vedersi, e a occhio e croce, a giudicare da come manovravano, viste percosldire dal di fuori, si sarebbe detto, che per un verso si sfuggivano e per un al tro si cercavano: sinché, come per caso, tutte e due nello stesso tem po, le navi non uscivano in una zona di mare dove c’era buona visi bilità, e allora fatalmente s’incrociavano, e mentre incrociandosi face vano vedere di essere due tipi differentissimi di navi, differenti quan to una nave da guerra da una nave passeggeri, si restava sbalorditi nello scoprire che appartenevano tutte e due allo stesso armatore, dato che battevano tutte e due la stessa bandiera, la bandiera col delfino saltante in campo blummaré. Ma si diceva, nel momento in cui il signor Monanin si era messo a scattare fotografie con un tale accanimento, che a quel delfino, in vece di fotografarlo, pareva gli sparasse addosso tutta la sua ammi razione, i suoi occhi, si diceva, a causa forse di quell’ultimo riful gere latteo e abbagliante del giorno sotto il cielo ormai lunato, in vece di vedere, dovevano avere stravisto. Oppure doveva essere stata una svista dell’occhio della mente, un accavallamento di pensiero su sguardo. Si sforzava d ’andare alle origini, perché, a prima vista, non gli pareva giusto apparigliare il Guardiamarina all’Eccellenza, gli pareva anzi quasi una malazione verso il signor Monanin.
Dopo, col sole che sprofondava in mare, c’era stato l’ammaina bandiera. Questa era un’occasione in cui, volenti o nolenti, il signor Monanin e Capo Tarantino facevano coppia, perché il Guardiamarina la leggeva lui, quale ufficiale più giovane a bordo, la preghiera del marinaio, e il Nostromo, naturalmente, col suo fischietto faceva alla bandiera il saluto al fischio. Al signor Monanin, tutto preso da delfini e fotografie, l’ammaina bandiera doveva essere caduto di mente, ma Capo Tarantino, che di solito gli dava il dolce e l ’amaro, quel giorno, si vedeva, aveva de ciso di dargli tutto dolce e niente amaro. Così, senza dirgli niente, era andato ed era tornato col fischietto d ’argento al collo e la fascia azzurra per il signor Monanin. La gente libera in quel momento, col 266
Comandante e gli altri ufficiali, vennero a schierarsi a ferro di caval lo sotto il pennone di poppa, con grande giubilo delle feruzze, il luse forse che altro pubblico venisse ad ammirarle e a fargli regalie d ’immondezza. Nessuno invece andò a guardarle in quel momento, ma mentre il signor Monanin leggeva la preghiera e c’era assoluto silenzio, si sen tivano gli iiih... iiih... che sventavano in coperta a ogni loro affac ciata come per attirare l’attenzione della gente schierata; e poi, quando Capo Tarantino fischiò il saluto alla bandiera che calava dal pennone, le feruzze allora s ’impazzirono in maniera tale, che parec chi fra gli uomini schierati, istintivamente girarono un occhio a guardarle. Capo Tarantino, per come fischiava, era fatto apposta per rendere frenetiche le feruzze; fischiava, giostrandosi sopra, sotto, con medio, anulare, pollice, sul fiato che soffiava nel fischietto e trillando con una dolcezza così sconvolgentemente serotina, che commuoveva ed esaltava, e questo pareva impossibile, faceva quasi rabbia che venisse da quel grande disonorato, che non pareva fatto nemmeno di carne e d’ossa e aveva un solo piccolo debole, che era il signor Monanin, per ché il fascismo, piuttosto che il suo debole, pareva il suo forte. Le feruzze, a quei trilli, le pigliò come una frenesia, si rilancia rono più in alto ancora e pareva che mirassero a gettarsi in coperta. Finita la cerimonia, ci furono delle risate e dei commentarii divertiti, e poi tutti si spostarono a tribordo come per vederle bene in faccia, quelle sprudenti. Tutti, eccettuati il signor Monanin e Capo Tarantino: quello, era chiaro, s ’attardava intenzionalmente per non andare con gli altri, e questo s ’attardava, da parte sua, per andare col Guardiamarina. Il signor Monanin armeggiava con la macchina fotografica che gli era ricomparsa nelle mani e Capo Tarantino ripiegava benbene la ban diera e se la metteva sottobraccio. Poi, a passettini, fermandosi di continuo, come andasse maniando con la macchina fotografica,- anche se non si vedeva più, il signor Monanin andò allontanandosi a ba bordo, fianco a fianco a Capo Tarantino: questo qui pareva che gli parlasse, chinandoglisi di sopra con la sua mole, così stretto, che il signor Monanin pareva, tutto tutto quant’era, una gamba di lui. Il signor Monanin non si voltò più, né verso lui e Crocitto, né verso i suoi spasimati delfini: ma quelli, li aveva ormai nella sua macchina fotografica. 267
Aveva annottato in un girare d ’occhi, l’oscurità abbordò la cor vetta e le fere ci sparirono dentro. Ai vari posti si rifacevano i turni di guardia per la notte: in co perta i marinai andavano e venivano come ombre e ognuno sem brava solo coi propri pensieri, che forse erano ancora gli stessi tristi pensieri di prima che comparisse quel branchicello di feruzze, se non più tristi ancora, dopo quel momentaneo svagamento. Uno dei marinai che montavano alle catapulte, mentre lui ne smontava, era giusto Crocitto che ancora gli dava discorso e lo trat teneva in coperta: « Eh, Cambrìa » gli faceva. « Può essere, no? che portano for tuna, sti delfini... » Illudimi, pareva dicesse. Credeva forse che se s ’illudevano in due, l ’illusione diventava realtà. « Può essere. Come no? Tutto può essere » gli rispose a smacco. « A voi, a Spadafora, non vi portarono sempre fortuna, le fere? E figurati quanta ce ne portarono a noi, a Cariddi... » « Le fere? Che c’entrano le fere? » fece tutto innocente. « Non lo sentisti che questi sono delfini e che sono tutto un altro mangiare dalle fere? » « Oh, Crocitto... Cominciamo noi due, ora, con delfino e con fera? Ti dovrei convincere pure a te, ora, che la fera è fera? O mi pre tendi pure tu che ti recito delfino, delfino, delfino in punta di lin gua? » « Ma queste fere, allora, non le vedesti bene, Cambrìa? Non le vedesti che non avevano il disopra bruno ma violetto, e il disotto non l ’avevano bianco ma rossiccio? Non si somigliavano per niente alle nostre fere, st’animali qua... » G li dispiaceva di non poterlo vedere in faccia, perché avrebbe proprio voluto guardarlo dentro gli occhi, per scoprire dove finiva la sua fessaggine e dove cominciava la sua scaltrezza. G li disse: « V a’, va’, Crocitto, vatti a fare il tuo turno di guardia. O ti met testi in testa di farmi scendere il latte ai ginocchi, per caso? La que stione, insomma, si ridusse tutta a una questione di colore per te? Di colore bruno è fera, di colore violetto è delfino? Oh, per rag giungere il tuo intento con la zita, non ci pensi due volte a fare carte false... » « Ma allora, c’infasciò il signor Monanin? E ne sarebbe capace? Tu che pensi, Cam brìa? » 268
« Ma che ne so se c’infasciò o non c’infasciò. Lui, ci crede. E se ci vuoi credere pure tu, credici: chi te l’impedisce? » « Eh, chi te l ’impedisce, tu dici. Credici, credici pure tu, se ci vuoi credere, mi dici. A me mi pare che vai facendo mali pensieri sopra il sottoscritto, caro Cambrla » il cristiano e il saracino. Però, sia che sia, è sempre pericolosa: lo vedi, da come riduce l’uomo. Lo riduce, te lo devo dire io?V così lento di schiena, che anche voglioso di te e spasimantissimo, \non ne puoi/ fare mai grand’uso. Sì, tante volte puoi dire che p ro p rio ^ alla pietà ti viene l’improsatura... Tu ti rammenti, di quella volta, quindici o venti giorni fa, che facendo la strada per Palmi, girando peri quelle sabbie bianche e lunghe, sì, preciso là, dove una volta i soldati face vano il Tirassegno e ci sono ancora le palizzate di legno e le sagome tutte bucherellate, che sembrano soldati veri, ammazzati oggi, ti ram menti che là, avvistasti quella coppietta di finanzericchi all’opeha sul la sponda del mare? Li hai presenti? Inginocchiati, a testa sotto, la voravano di pala col palmo delle mani, addannandosi, furiosi di pre scia, nel polverone che sollevavano, per levare dalla vista di cani e di cristiani il morto che avevano ripescato. Però, che ti sembrarono a prima vista? Due che facevano scomparire uno che avevano am mazzato. Una vista, come di gente che si ritiene responsabile della morte del morto che va sotterrando, questo fu il tuo commentario. Ah, babbiona... E quella che era, quella che ti pareva una vista as sassina? Non era pietà pure quella, pure quello che facevano i finan zericchi? E la vista, l’impressione, l’impressionante vista, insomma, che ti fecero a te i finanzericchi sopra il morto, che era? Non era forse pure quella pietà? Pietà, pietà, babbiona, quella era la pietà tua, se non lo sai. Sì, meravigliati, meravigliati, baccalara. Ah, non mi credi tu, se ti dico che su questa cosiddetta pietà non puoi farci calcolo: se eccettui la fera, ma per quella è arabo, tutti, oggi o do 363
mani, proprio come le femmine incinte grosse, possono sgravarsi a pietosi. Ma di che si sgravano? Tante volte, a gente spratica, novella del concepimento pietoso, gli succedono cose terribili con la pietà. Tante volte, ai pietosi, gli succede come a certe incinte, deboli di costituzione, che, si sente dire, s’impressionarono per qualcosa che vedettero o sentirono e l’impressione gli s ’andò a imprimere sopra il figlio dentro la pancia, come un marchio a fuoco sulla cera; e que ste femmine vengono poi a sgravarsi di mali mostri, spaventevoli fenomeni di natura, esseri orrendissimi, con la testa o con la coda di pesce, oppure con questo o quello di sconosciuti, impressionanti animali. Tu li guardi, Ciccinella mia, e dentro di te dici: e questo scempio mostruoso le uscì di ventre a femmina umana? Ma allora, che specie di specie è sta specie nostra umana? »
Quella, le altre femminote, o le sdegnava lei o la sdegnavano loro: in ogni caso, una parola che era una, con le altre, si poteva scom mettere che non la scambiava. Chissà da quanto s’incommarava in quel fondaco nero con la sua eco sorda e muta, con la sua figura allo specchio, se ne aveva uno. E doveva ormai essere diventata tal mente schiava e padrona di quella sua compagna accomodante, alla quale poteva mettere in bocca, a piacere suo, silenzio o parola, che si capiva benissimo com’era che la preferisse a ogni altra, viva e par lante, sino al punto di portarsela dietro persino nei passaggi di mare. Andava avanti, così bell’accordata, a ciuciuliare con quell’altralei in visibile, che non c’era nemmeno da pensarlo di poterle minimamente separare l ’una dall’altra. Dal gusto che ci metteva, era chiaro che si sarebbe sentita sconzatissima, se un terzo si fosse intromesso fra lei e quella. Eppure, avrebbe potuto benissimo farselo un’altra volta il suo solitario, lasciare, insomma, il suo soliloquio per quando era sola e intanto, inconversarsi con lui. « Bravi? I finanzericchi? Bravissimi, ti ripeto e dico » andava pro seguendo con quella gran compagnona della sua vita. La sua voce cominciava ad arrivargli all’orecchio come un feno meno di natura, un suono della notte oscura: come il dindin, il nuo tare delle fere. Sembrava implenata di parole, incinta grossa: par lava, parlava, eppure, il suo parlare era una continua smania, un penìo che non trovava sfogo: « Insabbiano, insabbiano, con le mani e con le unghie, si mettono 364
sui ginocchi, sudano, s ’affannano, si riducono a pellipisciate, non è a dire che si risparmiano. Però, ahi, ahi, ai cristiani, senza saperlo, la pietà gli viene fuori col sudore, come le puzze alle fere, e c’incap pano. Tu li guardi in faccia, li guardi e che ti pare di vedere sulla loro faccia? Il morto, quello che insabbiarono prima, ma già schele trito, con la testa che gli diventò teschio: insomma, pare che gli co stò un secolo di vita o un secolo di morte, ai finanzericchi, gettargli un pugno di rena e un’occhiata al morto marino. Sopra quel loro in carnato di giovinoni, che pare che li allattò l’asina, sopra quella fac cia rossa importogallata, come fu, tu ti domandi, come successe che la faccia del morto ci restò stampata, guancia scavata e occhiaia, pal lore, pallore e nemmeno più una goccia di sangue? Guardateli, tu dici, guardateli, questi figli di madre: s ’impressionarono tanto, che la faccia bella rossa e lattosa, sgargiante di vita, che avevano, pare che gli cadde, mentre stavano a testa sotto, e pare chp^pir sb^glio l ’insabbiarono in luogo di quella del morto e pare che: questa g ira n do in faccia a loro. La vedi la pietà, Ciccina m ia? La (pietà è come la gravidanza, quando la madre s ’impressiona e quello\che la impres sionò, si sgrava e si ritrova in faccia alla creatura... Poi, per un gran pezzo, la femminota si mangiò tutte lep à ro le del suo sproloquio. E poi, la sua voce tornò a farsi udire, grossa e caver nosa, come gli arrivasse da dentro il tronco d ’albero in cui pareva scafata la barca. Si sarebbe detto che la voce le risorgeva nel mezzo di un discorso che andava facendo in mente sua e in quel momento, era al punto in cui si sfantasiava a infasciare qualcosa a quei due finanzericchi. Si riferiva ancora a quella volta del Tirassegno di Pal mi, ma lui non aveva afferrato, se quel discorso a trucco glielo aveva fatto veramente o era stato solo nelle sue intenzioni: « Bonfiglioli » li appelltfva. « Insabbiate, insabbiate. È cosa degna d ’andare alle stampe quello che fate, anzi che dico? degna di essere poesiata e poi, sbandiata di piazza in piazza, a scendere e a salire, sino a Santa Eufemia, sino a Crotone. Però, non vi dovete accorare tanto, non dovete metterci tutto sto cuore. Fatelo il dovere vostro, ma tanto e non più. Voi finanzericchi, che fate d ’abitudine vostra? Fermate contrabbandieri, bazzarioti, ladricelli, nettorecchi di sgarro, gente di sgobbo, coppolette storte, intrallazzisti, in una parola, questo fate, no? E voi, fingetevi che proprio questi fermate 11, alla marina, non quelli: con manate di sabbia, invece che con lan ette. Trattate questi idem, come quelli. Fra questi c’è qual365
cuno che fu cliente vostro abitué, da vivo, e forse ce n ’è più di qualcuno, non vi fate scandalo di questo che vi dico: per cognizione di causa vi parlo, non per un’immaginazione mia. Non è che li piglia ste tutti indistintamente per valorosi, popolo con le stimmate di eroi? Non è che crederete che il solo morire li nobilitò tutti dal pri mo all’ultimo e che a quelli che avevano la fedina macchiata e l’ani ma nera, gli fece di condono e medaglia, per non dire di santità? O il morire in guerra vi sembra privilegio, distinzione alta? No, figlicelli, sbagliati siete: è solo il morire dell’uomo prima del tempo suo, morire in forza di legge, e non di destino. Quale privilegio, quale distinzione, figlicelli? La distinzione che c’è fra il morto e il vivo? Bonfiglioli, bonfiglioli, quello è gran morire da fessi, scrivetevelo a mente, anche se muoiono più scaltri che fessi. Perciò, sentite a me, figlicelli, fatelo il dovere vostro, fatela st’opera d ’umanità, però non metteteci la lagrima, non invecchiatevi col morto e più del morto: potete mai sgravarvi di pietà sopr’ognuno? V ’arruolaste forse per scontare i peccati degli altri? Eppoi, vi ripeto: per chi, piangete? lo sapete, forse, per chi piangete? Figuratevi, e non vi dico altro, che vi potrebbe succedere di piangere per un certo Baffettuzzi di mia co noscenza, e piangere per quello, fidatevi di me, sono veramente la grime perse. Con quel Baffettuzzi, a saperlo che è lui, dovreste solo rinforzare lo spessore di sabbia: a lui non gliene dovete mettere un dito, ma gliene dovete imporre un palmo abbondante. Lo dovete te nere forte, sennò quello vi scappa... » Sospirò, sospirò, masticò so spiri e parole, poi concluse: « Eh, Ciccinella mia, t’avviziarono le tue fere. La corvé che queste ti fanno: ma che dico, corvè? servizio a puntino, d ’ancelle e guardiane, tu la pretenderesti, para para, dai finanzericchi, eh? Forse è il loro mestiere, questo? E forse ci colpano loro se sono cristiani, gente di pietà? N on li apparigli alle fere, ma tu, tali e quali li vorresti, eh? Tali alle fere, però quali finanzieri, sbaglio? Vorresti avere quello e quello, tu. E dillo, dillo, Ciccina Circé, dillo spartana, senza tanti giri di frase: l ’ideale tuo sarebbe quello di sapere che Baffettuzzi è morto e seppellito. Ma perché? Forse perché non ti basta di saperlo morto? O forse perché ti ba sta, ti basta, eccome ti basta di saperlo morto, tu ormai ti desideri solo di saperlo seppellito, quel bazzarioto, sapere che trovarono pace e ricetto Tossa sua, eh eh? Dillo, dillo, boccazzara, che con tutto questo seppellire di morti che si fa in giro, tu smanii per seppel lirne uno in particolare e non lo vuoi confessare, eh, fessa? Eh, 366
fessa larga? Tu, Ciccina Circe, che gran pretendente sei. Vorresti cazzo e calze di seta, eh? » A questo punto, come si ribellasse da sola, la campanella tintinnì, svelta svelta, una miria di dindin, ma era stata lei che aveva allun gato un braccio e l ’aveva acceleKtfaTpelsnigioni sue, che subito s’af f r e tt ò a dire: f \ « Sonagli, sonagli alle tue!fere, Ciccina. jChe vergogna puoi pro vare tu? Vai sola e pazza p e r d e s t i mari di morte e non c’è orecchio di vivo a sentirti. Parla franca, perciò, é non ti scrupoliare. Dillo, dillo alle fere: rigettatelo a terra, quel Baffettuzzi, fatene polvere e sconquasso, sfiguratelo, sfiguratelo: percm-, a che gli serve ormai la figura del figurino? Dai e dai, s’inganzò coìi la femmina giusta, quel la tale che è intesa Nasomangiato, e quella, non appena la toccò, se la pigliò per sempre l ’improsatura. Eh, quella lì non ci mise sale a spezzargli la vita a bastoncino... E lui, il gran femminaro, che di ceva sempre, tutto vantoso: a me, non c’è femmina capace di spez zarmi il filo di reni. Ora la trovò, la trovò quella che glielo spezzò... E ora, pensateci voi, fere: trattatelo come sapete voi e come si me rita lui, ve l ’affido. Questo digli alle fere, Ciccina, e poi, spensierati di Baffettuzzi, sciacquati la bocca e non profferire mai più il nome di Baffettuzzi. Così, così, Ciccina: spartana devi parlare teco stessa. Sgravati, sgravati del morto, alleggerisciti col vivo... » Se doveva dire, in certi momenti come quello, gli faceva pena. Era un ingombro nero a prua, ed era come fossero veramente due le femminote: una che la pettinava e spiccicandola, la intratteneva a con versario, e un’altra che stava sotto il manto aperto e tenebroso dei suoi capelli, invisibile e come imbavagliata, perché doveva stringere i denti al dolore che le procurava farsi spiccicare a quel modo, quel nodo.
La campanella rallentò, rallentò il tintinnio, sonò un din e poi ne sonò un altro, separato però dal primo, senza arrivare cioè a fare dindin: sgocciolò ancora qualche din, ma con un suono sem pre più lento e più sordo, come un suono a morto, e alla fine si spen se. Le fere dintorno mandarono allora dei gemiti strazianti come avessero dei pezzi di vetro fra le manuncule e li graffiassero coi dentuzzi. La barca parve arenarsi sul bastardello. La femminota, tutta in367
coffariata a dirsi e udirsi, una volta tanto dovette essere presa alla sprovvista. Non si scandaliò che la campanella perdeva di dindin, sic ché quell’avvisaglia d ’impantanamento le mise addosso il ritticchio: si sfagottò di furia, scatasciandosi in avanti, braccia e busto, sui re mi, e remò all’impazzata per rianimare la barca, ma dopo poche bracciate, capì che non sarebbe mai riuscita nell’intento e ci rinun ciò. La barca era ormai completamente ferma, ma lei non se ne mo strava minimamente sorpresa: neanche quello sembrava un impre visto per lei. Le fere sollevarono un mare di ngangà, sbattendosi l’una sull’al tra e accavallandosi dietro la barca, ma dando contempo l ’impressio ne di perdere contatto, distanziarsi. E ra come se dall’aperto mare fossero passati in un mare stretto e chiuso, un luogo marino cir condato dalla roccia: un passaggio, un anfratto, ma meglio ancora, una grotta, un mare completamente isolato. Le fere, di colpo, erano sparite, come lasciate fuori da quel luogo: e alla frescura del bastar delle era subito succeduta la bava dello scirocco. Fu, allora, il silen zio di tutto e la sentì respirare: « Oh, oh, per caso ci sfuggì di mano il bastardello? » fece tutta meravigliata. « O , per caso, ce ne andammo in secca su questo mor torio di rema? » Faceva la parte dell’ignara e non se lo nascondeva nemmeno. « Per la madò, che faccia tosta, per la madò che faccia di suola... » le fece, e lei ridacchiò. Sta coppola di cazzo in secca, le voleva aggiungere, ci arenammo nella morta, questo lo so pure io. Sapeva bènissimo, la bazzariota, che non si trattava di secca ma lei doveva sapere pure dove si trova vano, doveva saperlo a tal punto, che forse c’era venuta ad arte. E se davvero lo aveva fatto ad arte, doveva riconoscerglielo, lo aveva fatto anche con grande mastrìa. Non era culo di tutti scapolare da un bastardello, navigandolo pieno pieno, senza nemmeno patire un graf fio, né a legno né a persona. N o, quanto alla capacità, poteva fidarsi e affidarsi: a quel riguardo, almeno, poteva dire di averne scienza, ormai. Era il modo di tenerlo all’oscuro, in quello scuroscuro, che non s’inghiottiva, quel capriccio di portarlo nel sacco, aprendo ogni tanto la bocca per fargli una risatina sopra la testa: quel suo dispo tismo non s ’inghiottiva, quel modo di fare alla cappellara, strava gante, assoluto e sfottente. 368
E tanto per non smentirsi, si alzò e venne da lui, s ’incoffò sul ban chetto e accomodandosi, gli dette una manata sulla coscia. Ecco, pen sò lui. Ecco che viene ad alleggerirsi col vivo. « E voi, voi piuttosto, voi che ve la scapolaste, che vi teneste in vita: niente mi dite? niente mi contate? » Gli venne l ’impulso di dirle: così, vi seccò la saliva a forza di parlarvi addosso e vi ricordaste che qua c’ero io, eh? Ma lasciò stare questo e le disse, invece: « Sentitela: chiede di dirle e di contarle, lei che non c’è verso di farle dire e contare perché fece questo e perché quello. Ora, vi pare che mi dice perché ci fermammo qua e dove siamo qua? » « Qua è a manca di dove partimmo » fece lei come pazientasse. « Insomma, circa verso Scilla? » « Circa, sì. Circa là » « E pcù^ che fate voi? Di qua tagliate dritto per Sicilia? Capacis sima,7voi » \ «/G iusto, capacissima io. Eppoi, se volete sapere anche questo, qui ci fermammo pèrche ;~vers&-a- st’ora, alle fere gli comincia il tra vaglio del digerire che è cosa pietrosa per quelle sfondate, piene sino alt'orle di pesce grosso e di pesce fino che inghiottirono sano sano. Il rutto... » « Questo lo sappiamo » la interruppe. « E allora? Andate, andate dicendo » « Ah, lo sapete? E allora sapete pure che circa a st’ora, essendo sottosforzo, quelle porcariose mandano dal didietro dei vapori pesti feri. Aveste mai il bene raro di sentirli, quei vapori? » « Di quali vapori parlate? Le scorreggette che fanno, dite? » « Ecco, vedete: un amico mio, un tale che conoscevo una volta, non se lo sarebbe nemmeno sognato di chiamarmele col loro no me... » « E h , ma lui... » Baffettuzzi, stava per dire « quell’amico vostro, doveva essere un signore, lui » « Signore, no. Signorino, per essere precisi » E precisata quella differenza, che forse aveva un senso per lei, ripigliò il suo dire: « Allora, per finirvi di dire, io me li voglio risparmiare quei va pori: sicché, fermo il corteo, sciolgo la riunione e gli dò libertà di svomitarsi. Intanto, io m ’apparto in questo riconco riparato. Fra 369
l’altro, vi aggiungo, non gli voglio dare tutta sta confidenza di star ci insieme mentre pititìano, per non perdere, oggi o domani, la ri verenza... Ecco perché ci fermammo: vi capacita? » « Con voi, tutto è possibile, penso io. Può essere quello che dite e può essere pure che v ’appuntaste qua con questi galantomini che vanno bombardando maremare... » « Ah, che giovine lepido che capitai » fece, senza pigliarsela a offesa, anzi ebbe uno sciacquettio di riso in petto e contempo, gli dette una sferzatina con la coda di una treccia, e poi aggiunse: « Ma ditemi ora: come fu che restaste salvo, salvo e sano, se non faccio errore cosi allo scuro? » Continuava a giocargli con le trecce girate davanti, sinché, la più vicina, quella che andava sbattendogli sulla coscia, non gliela affefrèe se la trattenne in mano: un pelo duro, oleato e tagliente di ca vallo, che forse si sarebbe potuto usare come pelodiverme nella lenza. Sollevò la testa e stirò il collo, sinché non sentì tesa la'-treccia che lui teneva in mano. Due, tre volte lo sprovò, là in fondoàHasua lenza, e quando si fu accertata che lui benvolonté ci stava a te nerla agguantata per la coda, dette uno strappo secco: lui però, s ’era girata la cima, fittafitta, in mano, sicché, invece di strappargli la cima a lui, fu costretta lei a inclinare la testa verso di lui, come dicesse: m ’arrendo. Per un momento restarono annodati in questo nodo di tacita in tesa, fra più forte e più debole, fra maschio e femmina, e sembrò a lui, con soddisfazione reciproca: « Eh, sì, bravo, pirdeu » fece lei, poi. « Eh, eh, pirdeu » le fece eco lui, premiandosene. Lei gli si incuneò addosso, sforzandosi però di farsi mignuna e di aggattarsi, per non strappargli di mano la treccia: « Eh, voi, niente punti deboli, voi, come qualcuno che cono scevo io... » cominciò a dirgli, e dicendoglielo, lo tastiava con una mano larga, ruvida e liscia insieme, come pigliata da salsedine, piut tosto che dal sale che maneggiava: la mano di chi traffica sempre con l ’acqua di mare, spugnata e senza colore di sangue. « A voglia, a peli e barba, voi » diceva. « Barba sopra, barba sotto... Vi salvaste sano sano, voi, eh, nulla parte v ’offesero? Fronte, faccia, pupille, dentatura, orecchi, collo, braccia e mani, fianchi e petto, gambe e piedi: sano sano... » e in così dire, gli batté come per caso, sulla 370
sola parte che non aveva nominato e ripetè, come a conclusione di tutto: « Sano, eh, sì » Le altre parti non le aveva neppure sfiorate, come se la sanità di quella sola contasse veramente, per quella sola, putacaso non fosse r i s u l t a t a sana, ci sarebbe stato da mettersi le mani nei capelli. Batté ancora là, in silenzio come da lì s ’aspettasse una risposta, un segno:
« Eh, sì, sano » ripetè ancora una volta come le fosse stato rispo giusto per segno. Appurato questo, sospirò, sembrò presa da una grande afflizione, però per dire quello che disse, che cioè proclamò, trovò un piglio imperioso: « Eh, sì, pirdeu, questo è merito, questa è valentia: restarsene vivo, salvo e sano » Gli mise una mano sulla spalla, vi s ’appoggiò leggera, col mento sullam ano come una giovanottella con lo zito. Fu come un baleno e con quella, come con la zita, gli sembrò davvero di stare seduto rivariva a vedere tramontare il sole. Ah mente, mente, pensò. Gran de arcalamecca. Da lì gli parlò, ma anche l’ascoltò questa volta, come ogni civile cristiana: gli dette lei conversario, del domandare si fece un do vere, del rispondere una cortesia. « Si capisce che è quello il merito e quella la valentia... » andò dicendo. « A morire in guerra, chi non è capace? Al non morire si vede l’uomo e la sua nobilitate. Si vede dallo scegliere che fece fra quella femmina che sta per figura sopra i soldi e quella che sta per sostanza a casa... Quella là » fece con uno scatto della voce. « Vorrei sapere che ha quella, che un’altra non ha... H a, ha che lei sta sopra i soldi, col profilo di quelle che non gli puoi dire nem meno che begli occhi avete, questo ha » Sollevò la testa come in ascolto, poi s ’abbandonò un poco di più su di lui: « Non me lo volete dire, eh, com’è che vi levaste dal mezzo della guerra? Come fu il merito e come la valentia, eh? » « Ma quale merito, quale valentia? Vi pare che lo so di che par late? » « E come potete saperlo voi. M erito, valentia, simili cose, si san no forse? Si hanno e basta » Lei lo faceva brillante come il sole ma, beninteso, la sua mira s to ,
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era di oscurare BafTettuzzi: questo era il tacito ma loquente sottin teso e per questo, a suo dire, ogni cosa di lui o era merito o era valentia o tutte e due le cose. « A Napoli, » disse lui, forse sempre a quel riguardo « dato che noi marinai restammo senza nave né capitano, ci levammo solino e nastrino e li gettammo... » « E quello fu merito » commentario lei. « I napoletani » disse ancora lui « ci dettero una mano a ricove rarci dai tedeschi e noi gliela dettimo a loro a cacciarseli di casa. Oh, solo per simbolo, perché, dovete sapere che a fare ingiallire di paura i tedeschi, bastarono i soli scugnizzi e guaglioni. Gli fecero vedere i sorci con la coda pagiina... » « E quella fu valentia » commentario ancora lei. Ma non era che si sentisse tanto patriottica, era che si smidollava di sapere come mai lui si trovava là, sano e salvo: « Ma voi, levatemi sta curiosità, com’è che vi scioglieste? Com ’è che lasciaste di sparare e di farvi sparare e partiste? » gli chiese appena reputò il momento. « Com ’è che, mentre la guerra va a sa lire, voi ve ne scendeste? C ’era forse femmina che v ’attirava per qua? » « N o, nessuna femmina. Non c’era nemmeno mia madre, che mi morì da tanti anni » Poteva forse dirle di M arosa che era ancora una muccusa? Lei, magari, si sforzava d ’attirarlo col pensiero, ma a lui, a distanza, la muccusa, non gli faceva un effetto di calamita. « Ah, non c’era femmina? » fece. Masticò un poco la sua mera viglia e poi chiese: « Ma fate conto che c’era e v ’attirava col suo pensiero, fate conto, aspettate un poco, che col suo Segretario G a lante vi scriveva: mio gentilissimo sposo, con la presente ti vengo a dire che io la notte mi giro e mi rigiro senza chiudere occhio per il motivo che allungo la mano e non trovo il mio sostegno... Vieni, o mio sposo, vieni al più presto o uno di questi giorni sentirai di re che tua moglie si gettò da una pianta di basilico... Eccetera, eccetera. Allora, voi, che facevate per lei? Guerra o pace? Morte o vita? » « Pianta di basilico o pianta d ’olivo, con femmina o senza fem mina, facevo lo stesso quello che feci. Per forza: che potevo fare? » le rispose in questi termini, eppure lei restò ugualmente soddi sfatta. 372
« E per questo lo Chiamo merito e la chiamo valentia... » fece, e intanto, con la c o d a r d ia treccia di destra lo allisciava davanti, come gli scodinzolasse/ « E d item i ditemi. Vantatevi del vostro merito e della vostra valentia di vivo. Eh, chi morì non sa che si per dette a m orire...V I Non appena s ’avVkinaviKa Baffettuzzi, tornava lei, la smaccosa, con la sua bocca d ’oracolo. Chi, diceva: e chi, se non Baffettuzzi? Lei, con quel solo Baffettuzzi, marchiava morti per milia e milia. Anche il brogliaccista Pirri marchiava. Per puntiglio, le volle stabi lire la differenza che c’era fra il brogliaccista e quel suo donnìnniri, e perciò le disse: « A me, mi fate merito, mi fate valentia? A me perché me la scapolai, perché campai? Secondo me, vi sbagliate di grosso. Fra questi che non tornano, che morirono o non se ne sa né vecchia né nuova, qualcuno c’è, e se ve lo dico, vi potete fidare, che di merito e di valentia, n ’ebbe più lui a morire, che un altro a vivere... » « E chi sarebbe questo qualcuno con la stella in fronte? » chiese lei. « Un certo Pirri che però a voi non può venirvi a conoscere » Si alzò scattosa, gli strappò di mano la treccia, non gli scodinzolò più: Ciccina Circé si risentiva di nuovo, era finito il bello stare. « No, non mi viene a conoscere, però me ne viene uno, pirdeu, che mi basta per tutti » disse fra i denti, e fu solo il preambolo. « Che sarà questo vostro Pirri? O calabrese o siciliano, si capisce, uno di sti degni soggetti: che può essere, sennò? Uno di questi malazionari, neri, di faccia e d ’animo, come tizzoni. Tutti di qua, st’illusori di femmine che partono e vi dicono: vado e torno, mi puoi già preparare una muta di biancheria, per mi mutare, appena torno. Così vi dicono, e buffoneggiano pure: ’Talia? E chi è st’Italia? Chi è sta femminona che ’nargentano sul pezzo da cinque lire? Che vuole da me sta gran signora che mi mandò la cartolina? ’Talìa, ti chiami? E allora talìa, talìami bene, scruta sti connotati, per ché ora che seppi il tuo volere, il piacere di vedermi, te lo dò e non te lo dò più. Ah, io per te, la vita dovrei dare? Ah, la morte mia esigi? Ma spiegami perché: forse ebbi piacere da te, m ’entra rono a letto le bellezze tue rare e non ci feci caso? O m ’indiamantasti alle volte, mi facesti l’anello con brillante, la spilla alla cravatta e sbagliasti di persona e io niente ne seppi? Eh, questo devo pen sare, se tu, col sottoscritto che non ebbe mai l ’onore di riverirti, ti 373
pretendi tanto, di dirgli: non ti rincrescere, muori per la faccia mia. E me lo chiedi così, come un complimento che vuoi fatto, a buon bisogno, però, me lo mandi a dire coi carabinieri... » La femminota, intanto, li andava commediando sprezzantemente, Baffettuzzi e compagnia bella, ma la voce, invece di venirle fuori con inchiavatura mascolina, le veniva fuori con toni più che mai femminini, che la indelicavano come una signorina: sembrava per ciò che fossero quelli i toni di quei Baffettuzzi, come se, a crite rio suo, anche lì, nella voce, come nella persona, quegli illusori di femmine, fossero stretti di vita, agri come verdelli. « Linguti, così dicono... Boriosi, pezzentieri e cavalieri per sopram mercato... Magari è vero, magari la cartolina gli servì per segnare i punti della calabrisella e magari, a strapparli di casa, ci volle una coppia di carabinieri per ognuno, e magari, magari, passarono per carcere, prima di portarli a battaglia e lì, morire, se non li fucila rono, prima. Al dunque, però, sono i primi a caderle ai piedi, a quella femmina danarosa: qua sono, umile servitore vostro, morire è poco complimento per voi, padronella mia. Dopo, la padronella si consuma tutta e alla memoria gli passa il lusso d ’un telegramma che non lo potete usare nemmeno al cesso. E poi, morirono e vi con tinuano a ridere dal ritratto coi baffettuzzi e la dentatura, cogli occhi che vi seguono mentre trafficate per casa come vi pigliassero in giro. Ma la notte, la notte, vi ripagate, sognandovelo che uscì dal ritratto e diventò teschio, e il teschio suo è posato sopra un can none: ahi, ahi, vi fa, ahi, che gran dolore fu, morire senza suono di campane, e spera, chissà, misericordia forse. E che pretendi di più? voi gli fate. La pezza del lutto già c’era sulla porta. C ’era il nome di tuo padre morto alla Grande Guerra: mi bastò di levarci il nome suo e metterci il tuo. Ti lamenti che ti pareva stinta per tanti anni di pioggia e sole? Per forza, è sempre la stessa che servì a tuo padre per suo padre morto in Libia e che poi servì a lui e ora serve a te e servirebbe al figlio che tu, questo desio l’avevi, eh? mi volevi lasciare in pancia per ricordo » « Il discorso su misura, eccola qua » le fece interrompendola. « Voi, il discorso, ve lo fate come un vestito, tagliato su misura, e si capisce che vi va sempre bene. Ma aspettate, sedetevi, spassiona tevi un poco, venite qua... » La tirò per un braccio accanto a sé e ripigliò: « Sbagliate, vi dico. Quelle cose, per siciliani e calabresi, le volevate dire e le avete dette, ma quel Pirri, conoscente mio, che 374
vi dissi, non era né siciliano né calabrese, ma era continentale, in vece, e non era nemmeno nero o bruno ma biondo. E vi posso aggiungere che non stilava né baffi né baffettini, anzi, nemmeno bar ba aveva in faccia, pareva proprio uno sbarbatello. E per darvi an cora l’idea della diversità, questo che vi dico io, non morì per ma no d ’altri ma sua, perché una notte, a bordo, in piena navigazione, prese e tacitamente si sparò... » « Si sparò? » fece la femminota, che per la prima volta gli pa reva sinceramente presa alla sprovvista. « Così, senza sapere leg gere e scrivere, si levò la vita colle sue mani? » « E che vi sto a dire? Solo che questo Pirri, non solo sapeva leg gere e scrivere, ma si diceva che aveva studiato persino per ufficiale, anche se era marinaio come noi e si vociferava che veniva di car cere, quando pigliò imbarco sulla nostra corvetta, per starci, però, non più di sei o sette giorni. Un tipo delicato a vedersi, una figura così fina, così bella, mi dovete credere, che poteva passare benissi mo per una signorina: un tipo di quelli, ce n ’è, che voi dite: que sto non mangia e non ha bisogni di corpo, come vivesse d ’aria. Pe rò, un tipo tosto, di quelli che si spezzano, ma non si piegano, con certi occhi d ’acquamarina dove, a guardarlo, non ve lo sentivate l ’al mo d ’avventurarvi: un tipo di quelli insomma, che se ha in mente una cosa, è quella... » « Ed era biondo, dite? » « Biondissimo. E di capigliatura lunga, di capello fino » « E perché lo fece? Per una femmina? » Naturale, per una femminota, un uomo che s’ammazza, non può avere altro motivo che quello della femmina. « No, no, la femmina non c’entra » le rispose. « E meno che meno c’entra la vigliaccheria, che fu il motivo che ci volle dare a intendere, con mezze parole rabbiose fra i denti, un certo Capo Tarantino che era poi il Nostromo. Vigliaccheria, in quanto, secondo lui, Pirri si voleva arrendere... » « Com’è? Com ’è? » fece lei interessata. « Spiegatemi bene sta co sa: arrendersi? si voleva arrendere da solo? » « N o , casomai, tutti e tutto: equipaggio e nave, e così pareva, ma era troppo bello. M alta, M alta, si vociferava in mezzo all’equi paggio e su M alta, infatti, era la rotta, dopo il costeggiamento del la Sardegna. C ’erano pronti persino i barattoli di vernice e le pen nellesse, per pittare a prua i cerchi neri, e pronta pure la bandiera 375
nera che si doveva alzare al pennone di poppa: perché, dovete sa pere, che questo era nei patti dell’armistizio, in quanto i cerchi neri e la bandiera nera dovpvano^arci riconoscere come nave che anda va alla resa a Malta. Znvece, a una cert’ora, Malta sfumò. Napoli, si disse, o La Spezia. [Gli portiamo\ la nave ai tedeschi, ci dicemmo. Ci mettiamo a pecoroni davanti la quei ladri della nostra vita. A questa notizia, noi marinai, se vi/devo dire, ci pigliò tutti un senso di tristezza e di morte: pecò^quello che s ’ammazzò veramente fu solo lui, Pirri. Sapete chej fece, mentre la corvetta cominciava lo zigzagamento nella notte, virando e controvirando come giocasse a schiaffo al soldato? Sapete come agì? Vengono i brividi. Era di vedetta al cannocchiale di \babordo, se n’allontanò, scese e sbrogliò la sua branda, s ’allungò co), moschetto fra le gambe e si sparò alla bocca dell’anima » La femminota fece nzunzù colle labbra, meravigliata: « Focu meu, focu meu... Questa è pensata di biondo, non c’è che dire » « Eppure, Capo Tarantino, che, sentendo dire Napoli o La Spe zia, ovverossia tedeschi, lo capiste no? era tornato un ras, lo pigliò per strattagemma, precisamente così lo chiamò: strattagemma. Se condo lui, Pirri escogitò quel mezzo per alleggerirsi di tutto. Ora, io sentii molto parlare di tali strattagemmi per non fare la guerra: come bere acqua tabaccata, che è poi lo strattagemma che conosco meglio perché è quello che adottò mio padre, o come infilarsi al l’ascella una foglia di tabacco o come spararsi a un piede o come alzare un masso e sfilarsi la schiena o come fingersi sordo e muto... Ce ne sono tanti, di questi strattagemmi, e con le guerre se ne inventano sempre di nuovi. Però, di tali strattagemmi si sentì sempre e solo dire nella Bassitalia, mai nell’Alta. Sarà perché nella Bassitalia sia mo più vigliacchi o sarà perché siamo più coraggiosi: che vi posso dire io? Eppoi, non si sentì mai dire di uno che per non fare il mestiere della guerra, si privò di fare pure quello della pace, e sa rebbe a dire, quello della vita. Che strattagemma è, gli volevo dire a Capo Tarantino, mirarsi e spararsi senza misericordia alla bocca dell’anima? » L a femminota fece ancora nzunzù, ma stavolta sembrava signifi care che era più confusa che persuasa: « Sì, ma che merito è, che valentia, mi sapete dire? » gli chiese, e lui stette, pensò, sapeva che cosa dirle, ma non come dirglielo. 376
« O voi o lui » continuò lei con un tono irremissivo. « O il vivo o il morto: vogliamo forse fare confusioni di regni? O il vivo o il morto e il morto, capitemi bene, sia biondo che bruno, sia di mani d ’altri che sua. Vi ripeto che a tirare i remi in barca e rovesciarci, tutti siamo capaci, lo scabroso è remare, governare e non perdere la barca. Eh, allora voi credete che ve lo regalo il merito, ve la regalo la valentia? O vi volete deprezzare, mortificare? Loro sono là, voi qua, a me questo risulta... » Con la coda della treccia accompagnava le sue parole, battendo gli sul merito, sulla valentia: sulla loro metafora, vale a dire. Così, questo risultava a lei e lui non ci poteva competere. Lei aveva la parola, chissà da quanto masticata in bocca, aveva la sua convinzio ne personale e aveva la coda: sapeva tutti i suoi punti forti e sa peva tutti i deboli degli altri, come in quel momento di lui. Però, Pirri non glielo voleva concedere, non gli pareva bello di sacrificar glielo per quella allisciatina di coda che gli stava facendo: « Sapete invece che pensammo, noi, io e Crocitto? » disse. « Per ché, dovete sapere che Capo Tarantino ce l ’ordinò a noi, a me e a questo Crocitto, un amico mio di Spadafora, di preparare Pirri per la calata a mare: sennò, chi ne sapeva niente? Capo Tarantino vo leva una cosa alla svelta e alla ladricella, ma ce ne volle per infa gottarlo e noi, per giunta, perdemmo più tempo ancora, perché a un certo punto ci scordammo di tutto, noi due soli 11, fra le pertiche delle brande, col meschino Pirri ridotto a uno sfacelo di sangue: e stando noi tre soli soli là, lassòtto, come vi posso dire? ce ne appassionammo, se intendete quello che dico. Insomma, avemmo tempo di cogitarci sopra, e pensavamo: questo biondo, all’idea di Napoli o La Spezia, all’idea di resa ai tedeschi, s ’ebbe a dire: io là, vivo, non ci arrivo, e dopo che disse, fece, si comportò fedele. Pensa vamo questo con Crocitto e ci credete? ci sentivamo in colpa e ci sen tivamo al contempo riconoscenti con lui che si era comportato fedele al sentimento suo e noi no. A senso nostro, ci sdebitammo, perden doci tempo a infagottarlo come fosse una mummia parente nostra: e difatti, lo imbastimmo dentro certi sacchi di Caffè H arar che ci dette il cambusiere, con l ’ago grosso per i materassi, e con doppie agugliate di spago, e questo, lo facemmo, se non altro, per farglielo quanto più possibile difficoltoso a sarde e consimili fetenti soggetti, alliccosi di carne umana... » Lei faceva, come mai prima, nzunzù con le labbra, tutta presa 377
di nervino e a quel punto, gettò fuori lo sdegno che stava tratte nendo: « Ah pirdeu, tìirdeu » fec^. « Con questo, tutto all’inutile mi spol mono. Si comportò fedele, quello. Allora pure tu, Baffettuzzi, pir deu, pure tu ti comportasti fedele, gettandoti il sangue, pigliandolo nell’eccetera? Ah, pirdeu, pirdeu... » Si era alzata n u o v a m e n t e e gridava e lui fu colpito dal fatto che non faceva eco, come non fossero più o non fossero mai stati vera mente in acque chiese. E contempo che lui notava quella stranezza la barca ricevette i|ina culata e fu sollevata da un lento cavallone, la femminota si squilibrò e precipitò in avanti a quattro piedi: la campanella alla sila caduta scoppiò di dindin, dall’oscurità venne allora un rombo di motosiluranti che passavano non molto distanti e poi, non si capiva in quale direzione, s’allontanavano. Si rifece silenzio e il dindin tornò a scandirlo: scuroscuro si risentirono le fere, che andavano orientandosi lì intorno sulla campanella.
La barca andava linda linda, non velocissima, ma sostenuta. La direzione del bastardello da qualche tempo non era più cambiata, e la barca filava come seguisse il filo di un coltello, senza la minima deviazione, o il minimo sballottolio: navigava così ferma da dare a volte l ’illusione che si fosse fermata e che fosse il mare a correrle lungo le sponde, navigava, insomma, così limpida, che il battaglietto per dei lunghi periodi non aveva pendolamento, nemmeno per battere un din. La campanella, perciò, erano più i periodi in cui non si sentiva, che quelli in cui tintinniva e questo succedeva quan do lo scafo slittava ai bordi del bastardello e ne riceveva come una oscillazione. Non per questo, però, veniva meno o difettava o sca lava, in qualche punto, il fruscifrusci delle caterve di fere allop piate che nuotavano, le malanova, dolci all’orecchio, in armonia col mare, entrando e uscendo, a musica, dalle onde, come da una guaina d ’acqua a un’altra, sfilandosi e infilandosi in un solo suono conti nuo, quasi che l’acqua che toccavano, fosse la pelle che si perdevano dietro e quella stessa che intanto, rimettevano davanti. La campa nella, ormai, doveva averle caricate potentemente, se anche nei tratti vuoti di dindin continuavano a stare all’assoggettamento, come aves sero la riserva. Però, era proprio questo che cominciava a puzzargli, questo lungo starsene stranamente sottomesse, stranamente snatu 378
rate e nuotanti in un mare di dolci beatitudini: capaci che sotto quel l ’apparenza di sfessate, stavano a tranellare scuroscuro, capaci che c h i s s à da quanto, gliela davano a intendere anche a quella scaltra con la campanella. Si trovò fra le mani la cima di una delle sue trecce e si mise a giocarci con le dita, come per farci una qualche schermaglia amoro sa. Le cercò anche l ’altra treccia, girandole intorno ai fianchi con la mano aperta sinché non la trovò: lei si agitava voluttuosamente al contatto della sua mano, come se in quel punto si sentisse solle ticata, e si inarcava e gonfiava quanto più poteva da quella par là, in fondo alla schiena, sul banchetto. « Fermate la campanella » le disse, cogliendola in quello stato di debolezza e dandole un leggero strappo alle trecce, per attirare la sua attenzione e come per significarle: amoreggiamo, vedete, al pun to in cui siamo, un favore che vi domando, potreste pure farmelo. « Sì, perché non la fermate e le rimandate indietro, quelle fetenti? Ormai passammo, no? Vi servirono. A che vi servono più? Avanti, licenziatele, fatele riuscire al naturale... » Lei stava curva sui remi e lasciava che lui la governasse per le trecce e con qualche mossa, in silenzio, qui e là, lo provocava per ché gliele stirasse sempre di più. « Siete azzardoso, eh? » gli fece a denti stretti, sotto lo strappo delle redini. « La fera la volete a viso aperto, eh? E la femmina pure: a viso aperto? Ah, quanto siete azzardoso... Focu, focu, non potete pretendere tanto... » Le diede uno strappo più forte, portò in sopra le mani e l’affer rò a metà delle trecce: lei sospirò e lui provò un gran gusto a farle male e piacere insieme. « Fermate la campanella, sì o no? » le fece standole stretto. « T u t ta sta storia di fere manse e vellutate mi spoetizzò, lo volete ca pire? » Però, si sentiva preso nella schermaglia e le parole gli servivano poco o niente, a mascherare quello che sentiva; e lei se ne rendeva conto benissimo e ci godeva: « Tenetemi, stringetemi, strappatemi tutta... » gli mormorava, col fiato fra i denti. E lui faceva per esaudirla, tenendola al morso, accorciando nelle sue mani la lunghezza delle redini di pelo, aggrappandosi al dorso di lei, quando la scellerata ebbe l ’idea malvagia di dirgli, riso riso: 379
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:catevi qua, iattarelli, a queste mie trecce... Sentitele come ;he e forti e nere corvine... Legatevici... » la presa e la ronzò con rabbia, come per gettarla dalla
« Avete scherzi barbari » le disse. « Io sono bello e vivo, anche se il cuore a voi, d ’un filo di capello che era, pare che di colpo vi diventò di roccia... » Lei rise, ma soffocando subito, come pentita, il suo riso in sospiri lancinanti: « Ahi, ahi, focu meu, focu meu... Pirdeu, pirdeu, Ciccina Circe: ma me lo dici che vuoi, che ti passa per la testa? » si lagnava senza dolore. « Ahi, ahi, troppo sola restasti, la vedovanza ti disabituò, confondi il vivo col morto, l ’uno e l’altro offendi... » Stavolta, si scandaliò in tempo che la barca andava rallentando e stava per fermarsi. Erano nuovamente usciti dal fresco del bastar delle ed entrati di colpo nell’aria calda e sudaticcia dello scirocco intasato basso basso nella morta. Nello scapolare, la campanella aveva avuto una sfuriata di dindin ma, rapido come sorse, il tintin nio sfumò. Attorno, quel filo di musica senza suono che emanava dal nuoto delle fere e che una volta iniziato, pareva dovesse durare eterno come il mare, si troncò di netto a netto, seguito da un mo mento di assoluta sospensione, in cui le fere non dettero alcun se gno di vita. Poi, però, la campanella cominciò a tintinnire pazza mente, suonando e zittendosi, affrettata e improvvisa, perché la femminota si era messa a remare e dava alla barca grandi scossoni, per strapparla alla presa delle acque pantanose, che sembravano ora affos sarsi e ora rigonfiarsi contro le sponde, con uno sciabordio lungo, lento lento. Le fere smaniavano di nuovo, s’affollavano attorno al l ’imbarcazione, tornavano ad alliffarla con la coda, inarcandosi sotto il dindin. D a tutto questo, da tutto questo niente, sarebbe a dire, lui credette di capire che erano ormai vicini alla riva anche se, diso rientato e confuso com’era, non avrebbe mai saputo dire di quale delle due rive si trattasse: gli pareva, comunque, che lì il bastar delle si fosse rigirato all’indietro, scavallando la barca su poco fon do, dov’era ancora rema morta, ma dove, se non faceva errore, si sentiva già la confusione dei bastardella degli spurghi e dei rifiuti della remamadre jonica. La femminota remava, sola coi suoi pensieri, remando cioè, ma senza badare al remare, come se tutto quello che faceva, avesse po
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tuto farlo ugualmente dormendo. Remava e continuava a sbrigare le sue faccende di mente, remava e continuava a parlarsi addosso con un profluvio confuso di parole, mozzate continuamente dallo sforzo della remata, che le tagliava il respiro. Ma il senso di quel che diceva era questo: la donna sta, l ’uomo va. E naturalmente, era tornata a rimasticarsi il suo Baffettuzzi, snello e mosso come un’anguilla, quello che lei teneva sul canterano come un bigiù, evi tandogli ogni piccola goccia di sudore alla fronte, mantenendolo sem pre fresco e riposato ad aspettarla, mentre lei faceva avanti, indietro sul ferribò, buscando la giornata per tutti e due. « Smanioso, beduino... » gli diceva. « Quello scellerato attacca con la prima delle sue guerre e quest’altro scellerato, da vero beduino, sentendo Africa, Abissinia, vuole fare subito domanda di volontario. Non ho arte né parte, si mette a dire per trovarsi scuse. In A bissi nia, mi basta che mi guadagno una medagliella, torno e mi sistemo, torno e campo con la gamba a cavallo. Capaci che mi danno una li cenza di privativa di sale e tabacchi o qualche posto d ’usciere, di bidello... Come no? G li pareva l ’America, l ’Abissinia, un’occasione unica: contro i negri, che ci voleva a buscarsi una medagliella? I negri, se si mirano bene, si possono ammazzare a tre alla volta, an dava dicendomi. Ma sti negri, che sono, speciali forse? gli dicevo io. Che fanno, volano? Sono passeri per caso, che li ammazzi a tre alla volta, o sono cristiani come noi? Quando non sapeva che dire, il disonorato cantava, mi cantava a dispetto: parto e vado in A bis sinia, cara Ciccina, ti scriverò... Peuh, schifìo d ’uomo, ma se facevi la croce per firmare, come mi scrivevi? » Sparlava e remava. Gli venne l’idea che parlasse per lui, ora, per sfogarsi con un estraneo, qualcuno che non fosse lei o quell’altralei. Però, parlava sempre stile suo, sproloquiando all’impronta, alla sinfasò; e se parlava a lui, gli parlava come se lui fosse quell’altralei, che al riguardo suo sapeva tutto di tutto, e lei non aveva bisogno, con quella, d ’andare alle origini, dettagliare e delucidare. Seguiva un filo, quello di Baffettuzzi, naturalmente, ma per lui, quel filo era fatto di grossi e doppi nodi, da cima a fondo, come le trecce di lei. « T ’implorai, ti scongiurai... » Ora, pareva veramente persuasa che Baffettuzzi si potesse trovare in quei viciniori di mare, ronzato dalle fere, perché si piegava tutta in avanti, impaiata ai remi, come per arrivargli più vicino, con la 381
bocca fuoribordo, e gettargliele in faccia le parole, rinfacciargli la sua morte, ora che era morto: « Non mi partire, ti dissi. Che guerra vai cercando? Non ti ba sta la mia? Fai come ti dico: mettiti sotto il letto ed esci solo quando ci senti sopra il culo mio. Ma lui si lagnava, si lagnava di quella vita casa casa, si lagnava: sotto sale mi tieni. Parti ch’è scuro, torni ch’è scuro, mi sbatti un poco fra le cosce, mi dilaghi e mi dai una bella spolverata di sale. Così, mi rinnovi la sala moia... Si lagnava, in altre parole, che quella fessa gli teneva la mangiatoia bassa e lo manteneva al sicuro, ben cautelato da rischi e pericoli come sotto una campana di vetro. E che ne potevi sa pere tu, miserabile, potevi saperlo tu, che avevi il destino segnato e che ti tenevo per questo sotto la campana di vetro, lontano dalle maloccasioni, dalle disgrazie e dalle malattie? Passavi il tem po, facendo tutto il giorno il solitario con le carte, ma sapevi leggerci, forse? Tornavo io e mi dicevi: mi viene sempre la D a ma di Spade, due volte su tre mi s ’appresenta lei: che segno sarà? Che segno dev’essere? ti dicevo io. Segno che sei uomo di coltello. Potevo dirti: è segno di morte, la Dama di Spade è lei, la Morte, che ti s’appresenta? E potevo dirti: sinché ti viene la Dama di Spade, sarebbe a dire l’O tto, ancora, ancora è niente, un semplice avvertimento? Potevo dirti: quando t’incomincerà a ve nire il Quattro di Spade dietro al culo della Dama, allora, sì, tanti saluti, Baffettuzzi? E il Quattro di Spade, che ci mise a venire? Tor nai una sera e tu mi dicesti: mi viene sempre la Dam a di Spade, però non mi viene più sola, perché, s’avanza lei e dietro a lei si para il Quattro di Spade. Focu meu: morte e catafalco. Ah, B af fettuzzi, mi dissi dentro di me, ah, come ti vedo e ti piango. Ah, Baffettuzzi, i capelli non ti diventeranno mai bianchi. Oramai, ogni giorno che ti scura, è un giorno che ti viene regalato... » Sputò parecchie volte fuoribordo la saliva che le schiumava in bocca e poi, come se contempo lo compiangesse e lo ingiuriasse, gli gridò: « Ah, sventuuraaato, sventuuraaato... Tu non lo sapevi che eri destinato a morire ammazzato, lo sapeva la sottoscritta ma con la sottoscritta tu non morivi ammazzato, con la sottoscritta morivi in vecchiato, cent’anni campavi. Ma con la guerra, caro don Baffettuzzi, quando tirasti fuori tutta quella smania di partire, fare strage di abissini, pigliare medaglie, tutta sta frenesia che non ti sapevo: 382
focu meu, mi dissi, questa è la Dam a di Spade che gli fa l ’occhio lino. Perché, come ti potevi salvare tu, tu che già eri stabilito di morire ammazzato, in quell’ammazzammazza generale? Disgra ziato, ti volevo dire, coi piedi tuoi ci vai? Non aspetti nemmeno che ti richiamano? Disgraziatello, pure tu, mi ti vai contro? Eh, disgraziatello, t’allei contro di me con la tua Dama di Spade? » Passò PAbissinia, passò la Spagna e poi fu il macello grande. Lei allora tentò l’impossibile, tentò cioè di fare fattura a quell’infame dichiaratore di guerre, a quel ruinafamiglie che tenevano sempre sciol to, a piede libero, quel micidioso, reo di tutto. Si procurò un ritrat to, di quelli che si vedevano a bizzeffe sui giornali, e lo trafisse di spilli. Glieli ficcò fra le labbra, per ammutolirgli la lingua e in mez zo alle pupille, per offuscargli la vista; e poi, su due file in croce sulla fronte, e alla tempia, sulla vena del sonno. Ma senza un ca pello, un fazzoletto, uno scritto di quello scellerato, che speranza poteva avere di trafiggerlo mortalmente? Poteva mai partirsi e an dare nella grande Roma, per procurarsi qualcosa di personale suo? Eppoi, poteva mai fidarsi di Roma, che gli dava nascondiglio e ri fugio a un tale brigante di pazzo che gli levava la vita ai maschi e alle femmine, gli levava tutto il loro avere sfilandogli la vera dal dito? Poteva mai fidarsi di Roma, che lo teneva in trono e gli fa ceva tutti quei battimani trionfali che insordivano persino per ra dio, invece di scippargli la testa con un’ascia? Allora era tornata a implorare Baffettuzzi. « Che ti dissi, che ti dissi, disgraziatello? » protendendosi in avanti sui remi, lo apostrofava come se Baffettuzzi fosse veramente lì dintorno, maremare, iattarello fra iattarelli. « Travèstiti da femmina, ti dissi. Basta che ti radi quei quattro peli sul labbro e ti pettini alla garzonne. Poi ti metti un costume mio, con un corpetto allacciatissimo, e sinché c’è la guerra, ti mischi con noi femmine, avanti, indietro sui ferribò. Io stessa ti confonderei, sinuoso come sei... »
Ma lui, figurarsi, travestirsi a femmina, si sarebbe sentito infa mato, peggio che morire. Come dirgli: strappati le penne dalla cre sta, tagliati i bargigli che ti pendono... Poteva combatterci? Le guerre erano tante e lei era sola. Venne la guerra di Grecia e a quella Baffettuzzi non aveva saputo più re sistere: anche perché a lei era venuta la bava a furia di tenerlo fra 383
i denti per l ’ala, e alla fine aveva aperto la bocca. Vorrà dire che questa era la sorte tua, s’era detta in mente sua. La Dam a di Spade aveva ragione a comparire. L a donna greca, diceva per farla ingelo sire, non mi deve sfuggire. Chi ci fu in Grecia, con questi velieri che ci trafficano, racconta mirabilie della femmina greca: di come è perfetta di forme, popputa né troppo né poco, giusta giusta, e liscia di pelle, marmorina addirittura, statue in carne e ossa. Eh, sì, almeno per prova, la voglio assaggiare la femmina greca... Sparlava e remava; e il risentimento per Baffettuzzi le rinforzava i polsi, le aizzava i fianchi all’abbassarsi e all’alzarsi: la remata ave va gli stessi spasmi e scattosità della sua voce, sicché la barca an dava a scatti, a morsi e strappate: « Sdisonesto » lo ingiuriava. Prima così, come fra sé e sé, anzi fra sé e lui, e poi come l ’addentasse, strizzando le vocali del diso nesto che le scappava di bocca: « Sdisoooneeesto. L ’assaggiasti la donna greca, puttaniere. Mi mandasti pure la fotografia per sfregio e mi sembravi un donnìnniri, non un marinaio, in mezzo a quelle tappinare greche che andavi vantando. Però mi mandasti la fotogra fia per fare sfregio a me e ti restò a te lo sfregio con quello scelto campionario. Quali forme e quali statue? Lische d ’aliccia, altro che lisce di pelle: lische, pallide, allettigate e talmente allupate di fame, che due o tre si tenevano in palmo di mano, come fossero gioielli, le pagnotte militari. Eppoi, ti scialasti a poppeggiarle, eh? Ma quali poppute e poppute, quali giuste o ingiuste? In fotografia non si ve deva ombra né di poppa né di prua... Ah, puttaniere. Ma m o’, m o’, puttaniere, m o’, davvero e per sempre puttaniere, m o’, m o’, putta niere per la vita e per la morte... » Col fiato mozzo addentò e si mangiò per la vita e per la morte, sinché in bocca non le rimasero che vita e morte, e queste le pro nunciò per un pezzo, come per spronarsi a remare, e remando: avan ti e sotto, indietro e sopra, ora pareva che si strappasse la vita dalle più profonde visceri, e per un momento pareva che se la raccoglies se dentro il petto e là la stringeva coi pugni chiusi all’impugnatura del remo, sinché la vita non le fuggiva via dalla strozza in un gri do che pareva dicesse ita, ita, con rabbia e con rimpianto; e ora, pareva che respingesse la morte dal suo seno, la scacciava e gettava in mare, quasi con ribrezzo aiutandosi con le mani, coi remi nelle mani, coi polsi, con le braccia, con le spalle, col petto, con la testa, 384
con tutta la remata della persona, in un grido che pareva di pauroso scongiuro: orte, orte. « Tu statti con le forme perfette, con le pelli di marmo... » fece con affanno, allentando la remata e il respiro: « Staitene là, tu, sche letro, polvere di Baffettuzzi. Quelle greche dovevano avere tale fa me, che ti mangiarono vivo, ti spolparono pure l ’ossa. Tu là, là, staitene, mentre io me ne sto qua, qua, con le fuliggini alFanche » Qui, tutt’a un tratto, si zittì e sollevò i remi, come avvertisse qualcosa per aria: « Sganciate quella campanella » gli ordinò. La campanella era appesa a prora con una semplice cordicella: si spinse all’indietro, la raccolse nel pugno e la portò via. Subito, fu come se attorno a loro il mare si mettesse a sciacquare tutto: sem brava quasi che la montante rinvenisse in anticipo sulle quattr’ore ed erano invece le fere, che rinvenendo, così di colpo, dall’incante simo in cui le teneva il dindin, cominciavano a contorcersi e a sven tolare la coda contro l’acqua, con sbattimento di manuncule, sciac quìo di pinne e sbadigli da spezzarsi la noce del collo. Si urtavano e infastidivano le une con le altre, arrotando i denti, per farsi spa zio intorno; quelle che per prime si sbrogliavano da quell’ammassa mento, si partivano caracollando più lontano, subito provavano la voce per aria: iiih, iiih, e caprioleggiavano. L ’oscurità, dopo mo menti, era tutta uno smorfiare delle voci di quelle porcheriose naviscuole strette a bebé, e di biancheggii di pance, qui e là, come frange di luminosità sottomarine. « Scialatevi » gli disse la femminota. « Non le volevate al natu rale? » « Gli suono? » fece lui a scherzo ma sbatte sul serio la campa nella. « Finitela » gli fece prima perentoria e poi conciliante. « Finitela di fare il criato. Zittitevi e fatemi sentire » Aspettando, però, di sentire quello che doveva sentire, si mise a sparlare di lui, di Baffettuzzi, degli uomini che avevano in comune quel certo personale che, secondo lei, avevano Baffettuzzi e lui, mor morandogli dietro, sottovoce: « Non fa mai quello che gli dicono. E fa le cose che non si pos sono, che non si devono... La guerra continua ma per lui finì. Non ci sono barche per passare e lui eccolo qui che passa, grazie a que sta granfessa, che visto il suo impazzimento, non ci pensa due volte 385
e vara. E la campanella? Prima non gli va e poi gli va. Tale e quale Baffettuzzi. Tutti a un modo questi stretti di vita, tutti capricciosi e variabili questi bastoncini di bambù. Che mi disse Baffettuzzi? Non gli farò pigliare fresco all’anche tue, m ’invecchierò là in mez zo: questo mi disse. E invece, lui non c’invecchiò e Tanche mie si rinfrescarono, anzi centrarono i venti a predominio. Tutti uguali sti snelli di vita: essi vanno e le femmine stanno, sopra di essi non si posa vento e sulle femmine che si lasciano dietro, crescono le fu liggini come nelle stanze dove non entra più nessuno... » Dalla nera vastità di mare, il sibilo di sirena di un sottomarino si sprigionò, tre volte breve, tre volte passando sulla barca come una folgore d ’aria, umano e lacerante: la femminota si squassò tutta di brividi, sbattendo a pesomorto contro di lui, come se il primo sibilo l ’avesse pigliata con un terribile urto in piene spalle e poi gli altri due l ’avessero, da vere folgori, trapassata da parte a parte. Sbattè poi in avanti, contro i remi ed egli credette di vederla ro vinare dal banchetto, a testa sotto sul fondo della barca. M a allargò le gambe e si imbragò fra i remi e così, rinsaldatasi fra quelli, come fosse essa stessa parte della barca, una parte che improvvisamente si animava, partì remando alla morte, ruggendo in petto come il fuoco, ora ardente e ora cupo, in una forgia. Si rovesciava all’in dietro con le trecce pendenti davanti alla faccia di lui, come si of frisse alla sua stretta, alla sua protezione, e poi si rovesciava in avanti, come per sfuggire alla sirena, lamentosa e lancinante, del sottomarino. Si difendeva, scappando, da quei segnali ormai cessati, come la incalzassero ancora, e sempre più da vicino la scudisciasse ro a sangue sulla groppa. Remava come un potente vogatore, tutta all’impiedi, come stilano quelli del Ringo: e remava in direzione contraria a quella stranezza di terrore che le metteva addosso il semplice fischio di sirena di un sottomarino. Ma perché? si doman dava. Perché, se il sottomarino non ci sta speronando? Q ual’era il pericolo che ci vedeva? quale minaccia le portava? Però, quello che provava, fantastico o reale, mostrava di volerselo sbrigare da sola: secondo un verso suo, più che mai. Sola, con quello solo che presentiva. E anche se lo urtava e gli dava gomitate, lui sentiva di non esistere più per lei; e non esi stevano più nemmeno le fere, che con grande sbattimento di onde, come un forte grecale che si levava, erano schizzate via, scuroscuro, soprassaltate e disperse da quei sibili come da scosse elettriche: sen 386
za allontanarsi del tutto, però, perché si udivano nelle vicinanze, ormai sveglie e in sensi, dare cenni di risa e di pianti, come di spiriti maligni nel fitto della notte. Ma non solo lui, non solo le fere: per lei non esistevano più nemmeno i morti alla deriva, nem meno quel terrore grande che la pigliava al solo pensiero di sentir seli sbattere contro le sponde, di avvertire che le facevano imbroglio pruaprua, anche se, per come remava, non li avrebbe nemmeno sen titi, se le sbattevano contro. Remando per cento: uncinando l’acqua morta a fasci, schiaccian dola e macinandola per scavarsi laddèntro la sua fuga, fece di vo lata un pezzo di mare lungo forse un duecento metri, e sul finire andò virando con una larga svolta per cambiare direzione: in tale rischiosa manovra, s ’orientò con una sicurezza sbalorditiva, come se un’invisibile luna piena splendesse in cielo solo per lei.
Un raggio di luce azzurrognola cadde e svaporò in mare con un chiarore nebbioso, d ’aria di nerofumo. Tre volte dai due fari oppo sti si corrisposero, segnalando via libera al sottomarino che entra va. Quei pochi barlumi gli bastarono per darsi un’orientata. G ira e rigira, dunque, la femminota lo stava scaricando sulla porta di casa: intravvide, difatti, lo sperone corallino che s’appruava, 11 davanti a Cariddi, dentro alla linea dei due mari. Se dava una voce, di là, forse, Io sentivano: l’avrebbero dovuto vedere i pellisquadre, in quel momento, che tornava dalla guerra in barca, con una femmino ta ignescata senza esca, per giunta, come da una uscita in mare, un poco più lunga delle solite, un poco più lunga della loro uscita più lunga, che era quella che facevano al Golfo dell’Aria. A malapena si rese conto, dal rimescolio che faceva per rialzarsi, che la femminota si era accoffata sotto, tra i remi, all’accendersi di quelle luci azzurrognole. La barca, in quel momento, andava ancora a vuoto, disarmata, ma la femminota s’impaiò lesta lesta ai remi e ripigliando governo, e con poche remate poderose, remando a spal late, col peso di tutta la persona, si gettò incontro alla linea dei due mari che 11, a un passo, faceva un rintrono, cupocupo, scaraven tò la prua sopra il passo scabroso: e là, in mezzo allo schiumeggiare di Tirreno con Jonio, senza perdere un colpo di quella remata ac canita, si sbrogliò da quel puntomorto mortale e uscendo dall’in gorgo, fu con tutta la poppa nell’altro mare. La segui con l’orecchio, 387
sinceramente ammirato e anche un poco commosso, trepidante per lei, doveva dirlo, come si sfilava dalle dune sommerse, pelo pelo, quasi le vedesse, e come trapassava senza battere ciglio il rigonfio schiumante dei due mari: pellesquadra e figlia di pellesquadra, non c’era niente a che dire su questo. A manca, in quel momento, forse un miglio e mezzo o due, all’incirca verso la mezzerìa, ma più verso Scilla, ilsottomarino lan ciò ancora due fischi di sirena: poi, varcò la linea dei due mari e qualche minuto dopo, la barca fu scarrozzata dai marosi che la sol levarono in alto, come per sconocchiarla e sbatterla col quartodidietro sulla riva. Si trovava spreparato e fu sbattuto in avanti: rischiando di ca dere, gli capitò in mano una delle trecce della femminota, e vi si attaccò come ad una cima di salvataggio. Non pensò al male che poteva farle con quello strappo di capelli, perché fu cosa di un at timo e lei stessa, che remava tutta in piedi, un piede avanti, l’altro indietro, per levarsi dai marosi, non manifestò col capo segno al cuno di sofferenza o di insofferenza: affondò i remi e se lo tirò die tro, li sollevò e lo rimise giù, quasi non s’accorgesse nemmeno del peso che le torceva una delle trecce. Fuori dei marosi, la barca ricevette come una spinta e su quello slancio, la femminota alzò i remi e si abbatté su di essi, mandando fuori dal petto, come si sgonfiasse, un sospiro lancinante: « Uuuh » fece, con sollievo e disprezzo: ed era come avesse te nuto per un pezzo l ’anima fra i denti. « Vi spagnaste che ci speronava? » le domandò. « Uuuh » fece lei. « Allora che fu che vi spagnò? Qualcosa fu. Pigliaste una tale remata... » « Uuuh » fece ancora lei. E lui, che poteva dire di avere ormai la barca all’asciutto, lì, orlo orlo a Cariddi, più lei faceva uuuh, e più lui si divertiva a stuzzicarla perché s ’arruffava e sbuffava, dando quello strano segno, nuovo per lei, come di buffona: « Allora, che? Non ditemi che fu il fischio di sirena del sottoma rino... Non ditemi che non sentiste mai un fischio di sirena... » « Uuuh » fece ancora una volta, gettando stavolta la testa in sot to e rigettandola poi in sopra. Stavolta, lui non rise più. Stavolta ripetè quel verso da vera si 388
rena, ma da sirena viva, di carne. Fu come avesse sonato un cam panello addosso a lei, spingendo il dito sopra uno dei suoi bottoni di donna, utero, visceri, cuore. « Uuuh, uuuh » fece e rovesciò la faccia per alto, come si graf fiasse la gola per urlare qualcosa che urlava già da tanto, qualcosa che già da tanto la martoriava, che ora poteva solo rantolare, stra ziarsi la voce a specie di lupamannara. C ’entrerà anche qui Baffettuzzi, pensò. Baffettuzzi c’entrava in ogni cosa di lei. Poi pensò ancora: non dev’essere bello, no, essere una sirena e un giorno scoprire di non essere più sirena, ma semplicemen te una femmina. Ma facendo uuuh, facendolo viavia come un ritornello, come un motivo lancinante che viavia tornava all’orecchio quasi conciliante, la femminota aveva ripigliato lentamente a remeggiare, muovendo appe na i polsi attorno all’impugnatura, giusto per rivoltare la pala dentro l’acqua e frenare la corrente che frusciava di sotto e la tentava verso il basso. Remava, come si dice, con le scapole e il busto, la persona eretta e riposata, che è un remare fino, un accordo d ’orecchio, quasi un tuttuno fra rematore, remo e mare. Ed era con l ’orecchio che la sentiva, più che vederla, portare avanti rivariva la lunga imbarcazione, con l ’andamento naturale di un animo ormai privo di incanti, che passato per burrasche e procelle e uscitone salvo, non riesce a trarne motivo né di allegria né di sconforto, perché la sua vita è fatta in modo, che c’è passato e dovrà ripassarci.
Ora dovevano essere all’altezza delle tre palme: senza lo scirocco che le afflosciava e appesantiva, avrebbe certamente sentito lo sven tolio delle foglie e lo scricchiolio dei fusti. Pensava alle palme, si rivedeva lontano a guardarle di sotto, alte sopra di lui muccuso, le ricordava sventolanti nel grecale come grandi ventagli gialli e verdi, con qualcosa di materno e protettivo nelle larghe foglie: e fu forse questo che proprio lì, sulla porta di casa, gli mosse nella mente il sonno vecchio e intartarato di giorni. Fu forse quello sventolio, lento e conciliante, sulla testa piena di sonno, il ricordo, forse, dell’ombra che nell’aria calda e mossa dalle borie marine, gli facevano sulla fac cia, sul suo dormire col capo poggiato sulla sabbia, ammonticchiata come un guanciale alle radici e alle scaglie rugginose del fusto. Fu forse quello a calargli le palpebre sugli occhi, quello, unito al moto 389
sciroccoso della barca come di una culla, che la femminota balanzava delicatamente con un solo dito e già stava per fermare, col vava or mai conciliato al sonno. Non si trattò che di una semplice chiusura d ’occhi: perché, addor mentatosi a mare all’altezza delle palme, si ritrovò sveglio a terra da vanti alle palme. Un sonno attaccato con la saliva, potente però per il modo in cui gli ottenebrò la mente. Tirando le somme, sembrò che quel sonno servisse solo ai comodi della femminota, quasi che, per non scoprire qualcuna delle sue magagne o delle sue mosse trucchigne, volesse approdare senza essere vista da lui: e difatti, non veden dola, non si sarebbe mai capacitato come avesse fatto a tirare la barca in secco: quella sorta di barca, con lui sopra. Gliene aveva fatti miracoli, quella notte, ma questo gli pareva il più grosso di tutti. Quando riaprì gli occhi, stavano, lui in barca, seduto con le spalle al banchetto di prora, e lei, a terra, che gli passava una mano fra i capelli: « Giovinone bello » gli diceva, affondandogli le dita fra i capelli. « Siamo all’altra banda e voi dormite? Vi pare questo il momento? » « Ma che mi successe? Che razza di sonno mi feci? » « Che v ’importa? Vi finì il viaggio. Qua vi finì » « Ma qua, dove? » « Qua all’isola, no? Non v ’impazzivate per toccare Sicilia? » Ancora non riusciva a immaginare in che punto avesse toccato ter ra. Scrutò intorno, in quel buio fitto, sforzandosi poi di riconoscere il posto. D a lì vicino venne come uno scricchiolio di legno, un risen timento di fibre tese al massimo: e alzando gli occhi per aria dietro quello scricchiolio gli parve allora di intravvedere gli alti tronchi del le palme, che flessibili come grossi fusti di canne, si risentivano sotto il peso del loro fogliame. Questa scoperta che lo riempiva di mera viglia, s ’incantò per un momento dentro di lui, perché non gli pa reva possibile che tutto il suo dormire non fosse andato più in là d u n a calata di palpebre: che là, alle palme, fosse cominciato e lì fi nito. In altri termini, la femminota lo aveva sbarcato sulla soglia di casa, ma questo, a lei non voleva dirlo, anche se non c’era motivo di non dirglielo. Provava scrupolo, però, come gli sembrasse di ricam biarla con ingratitudine, di non rivelarle che approdando là, dove aveva approdato, lo aveva favorito come non poteva mai immaginare. Si meritava almeno una gentilezza: « Ma che m ’avete cantato, la ninnaò? » le disse per complimentar 390
la. « Ma che m ’avete suonato anche a me il dindin? » Si ricordò che aveva ancora in tasca la campanella, la tirò fuori e se la fece tintin nire piano piano fra le mani: « E h , si, giusto mi disse un vecchio spiaggiatore. Deisse sono, deisse. Solo che il vecchio dubitava assai, anzi assaissimo, che il sottoscritto riusciva a farsi pigliare in barca da una deissa... » « Deisse? Focu, focu: deisse? quelle, deisse? » fece la femminota con la voglia di riso. « Un vecchio spiaggiatore, eh? La morte non li vede, a quelli. Si piglia campioni di giovinoni, ma quei mamma lucchi non se li piglia mai. Figurarsi, deisse: quelle là... » « Quelle là no, ma voi si. D i voi, dopo sta traversata, posso dirlo che siete deissa, mi consta a me... » « Focu, focu, gli consta a lui che Ciccina Circé è una deissa. Si sforzò, la creò deissa per il trasbordo che ebbe... » Stette un poco, e poi con un’altra voce, mettendosi sulle sue, aggiunse: « Non vi pre miate, giovine bello, non vi vantate tanto che vi trasbordò una deis sa. Ebbi la mia convenienza, il tornaconto mio » Aspettò ancora un poco: stava davanti a lui, a prora, come sul punto di rimandare la barca nuovamente in acqua con lui sopra. Poi gli disse ancora, cruda cruda: « Perciò non illudetevi di potervi disobbligare con la lusinga, col complimento. Favore per favore » « Parlate, dite. Se c’è cosa in cui uno come me, che torna dalla guerra, vi può favorire, figuratevi... » « Pirdeu, pirdeu, non vi capacita ancora che varai in onore vostro e che per stanotte lasciai perdere il sale? O forse portai olio o car bone? E senza quelli, mi sapete dire con che cosa lo baratto il sale o un pugno di farina bianca o un fagottello di tozzi di pane? Con mazzetti di peli miei, per caso? Me li strappo a uno a uno, e baratto quelli, eh? » « Va be’, varaste per me, vi credo, me ne persuasi. Ma ora: come vi posso contraccambiare io? Questo dovete dirmi. Che ho da barat tare io? Mazzetti di peli, pure io... » « Eh, come vi deprezzate... » fece lei e accompagnò l ’allusione con un sorriso, un bagliore dei denti che le tagliò la bocca come uno sfre gio agghiacciante. L a vedeva contro il buio come una figura contor nata da una spessa mano di pece che la rinfocolava di dentro col ca lore che l’aveva sciolta: e da quel bianco della dentatura invece, gli era parso di spiarla dentro e vederla in una luminosità gelata, di bianca, lucente polvere di marmo. 391
Oh, se non vuole che quello, pensò. Ma com’era timida, com’era ingenua persino, se confrontata alla sfrontata della barca. A terra, dove aveva, con l ’uomo, anche l’agio, non trovava le parole, non sa peva dove mettere le mani. C ’era, dunque, qualcosa in cui le riusciva rasposo trovare il verso suo. Ma qui, forse, le faceva intimidimento il pensiero di Baffettuzzi, ma non sapeva se fargliela o meno tanta divozione a una femminota, e che femminota. Intimidita, io? avreb be detto lei. E per chi poi? Oh, pirdeu, pirdeu, per un Baffettuzzi? « Se si tratta di soldi, v ’avviso che non ho diciannove soldi per fare una lira » le disse per aizzarla. « Oh, i soldi » fece lei con disprezzo. « Ve li raccomando i soldi. Ogni soldato che arriva, ti leva i vecchi e ti dà i nuovi, col nuovo re, la nuova lingua e il nuovo valore. Peuh, e ne abbiamo visti di sol dati con facce nuove di re, imperatori e simili soggetti in mano, lisci o barbuti e baffuti, facce di bronzo e di rame, facce lordone, ma schere di fango, di fumeri di cristiani e d ’animali... E ce ne vuole di pietrapomice, ogni volta, per grattarci la sporcizia dalle mani... » « Però, vi posso rilasciare una carta, bella firmata, in garanzia. Eh, che ne dite? » insistette lui sempre intorno ai soldi, provocatorio. « E questa carta dove me la scangio? Alla Banca di Londra? » do mandò lei, smaccosa. « Io di qua vicino sono. Voi venite e io vi pago. Mi dovete dare tempo, però » « Di qua vicino, di dove? » chiese lei, finta ingenua. « Del Ringo » mentì lui sullo scherzo, ma lei doveva averlo sven tato da un pezzo che era di quei viciniori. « Del Ringo, eh? Uomini belli e valenti rematori, quelli del Rin go, non c’è che dire... Ah, voi del Ringo siete? Ah, pirdeu, pir deu, com’è menzognaro l’uomo di mare... Se la natura non fece sba glio, vita stretta, occhi azzurri, figura di menzognaro: la regola non falla » « Qua vi sbagliate, mi dispiace dirvelo. Grigi, li ho gli occhi » « G rigi? » fece lei e da sdegnata che era, sembrò sul punto d ’avere un assalto di riso. « Ma da dove vi venne l’idea di questo colore grigio? » « Dallo specchio: da dove credete sennò? Lo sapete, lo specchio, quel vetro, scuro di dietro, dove, se guardate, vi vedete raffigurata? » Lei non rispose niente a questo, intenta forse a ricordarsi di uno specchio, e se e quando si era vista raffigurata in quello: 392
« Eh, certo » disse poi. « Voi dite grigi. Potete mai dire azzurri? V ’inventate lo specchio e da menzognaro quale siete, ve l ’inventate menzognaro, si capisce... » Forse quel suo Baffettuzzi li aveva azzurri, era forse un bruno con occhi azzurri, un vero fenomeno di natura: e siccome per tutto il resto, lui e Baffettuzzi, secondo lei collimavano, rincresceva quella diversità di colore degli occhi. Ora, egli voleva lasciare perdere quel la fesseria del colore degli occhi e spiegarle invece perché le aveva detto Ringo, invece di Cariddi. « Però, a parte tutto, se vi dissi Ringo, vi giuro che... » « Ah, occhiazzurri, occhiazzurri... » lo interruppe lei a tribolo. « Non perdete mai, voialtri, sto vizio del giuro e spergiuro » « Voialtri, voialtri, dite... M ’avrete scambiato per qualcun altro. Voi, da uno solo, vi fate una stima di tutti » Si era alzato in piedi e rimessosi il berretto in testa, si aggiustava il camisaccio, come pre parandosi ad andare via: « Vi volevo dire solo questo » aggiunse poi, soddisfatto d ’averla fatta zittire. « Se vi dissi Ringo, non fu per im brogliarvi, mi venne così, senza sapere come, sulle labbra. Ma se vi devo confessare, mi dissi: vuoi vedere che la femminota s’ombrìa a sentire che pigliò in barca un cariddoto? » Lei cogitò un poco la cosa sulla cosa e poi sollevò la testa, si tese sulla persona, fece un passo più in là, come per essere sola, perché gli fosse loquente che con la posa e l ’accento che pigliava, quasi si rivolgesse all’aria tenebrosa, gli stava per fare un vaticinio: « Se la guerra lo rilasciò non solo vivo, ma lo rilasciò pure così furbo, come vorrebbe dimostrarsi a parole, allora guai a chi ci ca pita. Ma se la guerra lo rilasciò così innocente, bianco e senza ma cula, come si rivela di fatto, allora guai in primis a lui, e guai agli altri poi per causa sua... » Qui finì il vaticinio vero e proprio. Ma subito, tutto di seguito, aggiunse, però stavolta rivolgendosi direttamente a lui col viso spiat tellato all’insù, che ora pareva colorato seppia dal sangue in traspa renza, e ora nero, come di grumi oleosi e lucenti di nerofumo: « Ma voi, voi, che pesce siete? siete innocente? Furbo, sì per forza: restaste in vita, basta questo... Però, sapete che ancora, con tutto il merito e la valentia che vi riconobbi, ne dubito? Se penso che ve la scapolaste, certo, dico, fu furbo lui, paragonato a quelli che c’incapparono. Certo, dico, lui se lo riparò il culo dall’improsatura. Però, vedete, può darsi che qualche ammaestramento mi venne 393
da voi. Che diceste voi? Che io, da uno solo, faccio stima di tutti: e forse è vero, da quello forse non vi posso stimare a voi. Voi, pen so io, per quanto snello di vita e occhiazzurro, ammettendo che siete occhiazzurro, voi, forse, oltre a questo, non avete altro in co mune con quella tale razza di uomini marini, che tornano da una guerra o dall’altra, e navigando navigando, i marosi li sbattono come miserevoli relitti alla soglia di una femmina ignara, e questa li rac coglie e nutre, li tiene tutti flaccommodi e quelli ci stanno giusto il tempo di addobbarsi la pancia e rifarsi la cera di faccia e poi se la filano, rubandole persino la lana dei materassi. Ma del resto, sono affari vostri e qui si fa tardi... » Girò il capo all’indietro, come se spiasse nel buio sopra il mare più con udito che con vista, e aggiun se: « E l’alba non ci giova a nessuno dei due » « Comunque, quanto al mio disobbligo... » fece lui. « Va bene, va bene. Il disobbligo... » lo interruppe, arruffatissima. « Avanti, scendete dalla barca e spicciamoci » E mentre lui saltava giù: « Il disobbligo, il disobbligo... » ripetè sprezzante, come si sen tisse urtata dalla parola. Il disobbligo, lui, se lo levò di 11 a poco sotto le palme: dove, come e quando volle lei, cioè a dire. L ’aveva vista scomparire nel buio, come se, per un bisogno, si volesse abbassare dietro le palme. Aspettò e poi di là gli giunse una esclamazione soffocata: « Focu meu, focu meu » Andò da quella parte, sotto le palme che s ’ingigantivano nel buio: là, rinculando quatta quatta, la femminota venne ad addossarsi a lui: « Focu meu, focu meu » si lamentò ancora. Subito, gli attorcigliò i piedi coi suoi, gli pigliò le braccia, se le girò attorno alla vita, si chinò in avanti e se lo tirò dietro, piegato sulla groppa come se, arretrando davanti a un pericolo, cercasse ri fugio e riparo sotto di lui. E con ciò, credeva di avere trovato, come sempre, il verso suo: « Focu meu, focu meu » con la schiena s’aw ersava dentro di lui e andava spremendosi di meraviglia. Levateci sta farsa, le voleva dire. Che lo fate a fare questo teatri no? Chissà, s ’illudeva forse di salvare la faccia: d ’altra parte, non immaginava che disturbo gli portava a lui con quella posizione bar bara, le trecce e l ’odore d ’olio d ’oliva. Rivelava una certa, strana spra ticità e grezzosità di modi con l’uomo, eppoi, si dimostrava, per giunta, più del suo solito, dispotica. Aveva l’agire di una di primo 394
pelo e contempo, di una che il pelo ormai l ’aveva perso: l’agire, insomma, della signorina che ancora non sa e della vecchia che non ricorda più e sbaglia a mettere le mani e stroppia, alle volte. Eppure, lei non sembrava né l’una né l’altra, né signorina né vecchia. E lui sapeva il suo disobbligo. Dunque, che bisogno c’era di tea trino e di barbarità di m odi? Che doveva fare? Si mise a farle il compare: « Che fu che v ’impaurì? » le chiese. « Focu meu, focu meu » gridò questa volta e rivoltandosi, se lo tirò sopra a giacere. Sentì sotto le mani la radice sfilacciata della pal ma alla quale la femminota si era appoggiata, allungata verso il mare. Egli stava, mezzo sulla sabbia e mezzo su di lei. Lo agguantava ai muscoli, e cernendosi con la coffa di culo, scavava nella sabbia per aggiustarsi sotto di lui: « Pirdeu, pirdeu » faceva, non riuscendoci. Ma poi, infilatogli un braccio sotto e afferratolo per i fianchi, se lo prese addosso quasi di peso, mettendoselo in grembo, come un vava in fasce. Stette a ondeggiarle un poco sopra, senza riuscire a trova re stabilità. Dove lo toccava, il corpo di lei gli pareva stranamente molle, sfuggente e come imprendibile. Aveva l’impressione, nel buio, che dove toccava, toccava sempre petto, mammelle, le sue grosse mammelle, sciacquanti come otricelli lenti, che ora, stando distesa, le si erano appiattite e si espandevano flosce flosce intorno, soprasotto, come le arrivassero sino alle spalle e al ventre. G li pareva di stare sul corpo di una grande medusa, su quella gelatina che, sinché è in tatta, è non solo temibile e intoccabile, ma persino bella a vedersi: al primo urto però, la sua forma di fiore si sfa in un ammasso schi foso e il sole subito la distrugge, scompare e sembra che non sia mai esistita, né morta, né viva. « Focu, focu » gridò, sentendogli i baffi, come giocassero ad ac qua, acqua, fuoco, fuoco, e i suoi baffi fossero la cosa nascosta che lei doveva trovare. « Focu meu, focu meu, che baffi... E se tanto mi dà tanto, oh Baffettuzzi, che scardellino mi diventi non solo col tuo pelodiverme sopra il labbro... » Inutile dirle che i baffi gli erano venuti di necessità, con la barba di giorni e giorni, erano cioè provvisori, perché lui non li stilava. « Focu meu, » si compiacque ancora di dire « che capigliatura bella ricciuta, che capello, che barba, che pelo, focu meu » Focu, focu: potesse bruciare viva in quel fuoco di delizie... Il fuo co che invocava, pareva attizzarsi nella sua bocca e infiammarle l ’ali 393
to, che gli respirava in faccia, viavia che l’andava maniando, scanda gliandolo palmo a palmo, pelo pelo. Per darle quell’agio, stava sbilanciato, con una gamba sulla sab bia e l’altra sopra di lei, per aria, sicché si teneva scomodo come un cavaliere che ha montato a metà una cavalcatura. Ma anche sco modo, senza nemmeno rendersene conto cominciava a mettersi a verso con lei, a pigliarci gusto, cioè a dire: gusto all’odore d ’olio d ’oliva di cui erano zuppe le sue trecce, zuppe come se le trecce le servissero per passare in Sicilia l ’olio di contrabbando, strizzandole benbene, una volta nell’isola, e gusto all’odore come di naftalina, che sentiva sul suo corpetto di velluto. Era un gusto, erano odori che gli pareva di riconoscere, come li avesse avuti familiari, una volta: sopra sua madre o per casa, in qualche cassetto di biancheria, o nelle cose che stanno conservate, e per tanto tempo non si vedono e si scordano persino, e poi riappaiono e si ritrovano identiche a prima, con quel sentore di passato messo sotto spirito, nella naftalina, che si sprigiona all’aria come un profumo. C ’era qualcosa di simile in quel gusto, in quegli odori: come un profumo amarognolo, che lo persuadeva e lusingava, e come una lontana vaghezza di mani e di parole, che gli facevano da ninnananna e gli magnificavano le bellez ze, ancora tenere e nude, di vava. Ma infine, lei giunse a un punto in cui perdette la testa. Ebbe un sussulto, sollevò il capo e si piegò in due in avanti con uno scatto: « Focu, che focu, » spasimò, morendosene dietro alla voce « m ’av vampa la mano » Aveva come afferrato al volo l’affarecinese, così sgraziatamente che lui fu lì lì per ronzarla lontano. Lo teneva stretto nella mano, come non ci credesse ancora, come lo pigliasse per un fantasma che le passava davanti agli occhi, in quella tale stanza piena di fuliggini. « Focu, che voglia citrigna » spasimò ancora. E subito mandò un sospiro lungo, lamentoso, rabbrividito, come esalasse l ’anima, prima di calarsene, sprofondare dentro la nicchia di sabbia che s ’era scavata sotto le spalle, e lì farsi consumare dal fuo co che lei stessa sbraciò e attizzò più volte, sinché non si ridusse in cenere.
Fece tutto lei, ed egli si trovò a volere e a fare, tutto quello che lei voleva e faceva. Quasi dubitasse di lui, gli aveva messo un brac396
ciò intorno al collo e se lo teneva stretto. E così stando gli parlò, sinché potè, in un confuso resospirare all’orecchio, molto a supplica ma un p o’ anche a minaccia. Però, la campanella era in tasca a lui e qualche volta sentiva gli urti, lungo la sua coscia e risonava, ai col pi di coda della femminota, soffocata ma vicina. Questa volta, cara Ciccinella, le diceva in mente sua, te lo sonano a te il dindin che inventasti tu, te lo sono io, col mio battaglio sul tuo argento, bronzo o ghisa, quello che sia, e tu mi stai sotto all’imposizione, precisa iden tica a una fera, e nemmeno tu hai più quella smorfia di granvissuta, e pure tu ti cerni, tale e quale, bell’e alloppiata, e io ti dico: tra vaglia, travaglia torà. Ora la fai tu la corvè, e falla bene, dato che la fai a me: fammela come se tu la facessi a Baffettuzzi, perché anche a me è tanto che non mi fanno questa corvè... « Cavalcatemi, cavaliere » gli resospirava intanto all’orecchio. « Fa te, fatemi vedere se veramente fu merito, fu valentia, restarvene sal vo e sano. Non lo pigliate per capriccio, non mi fate offesa, non mi ridete sopra. Mi scordai di quant’è che non assaggio uomo. Fate con to che sotto le fuliggini ritornai verginella. E voi usatemi delicatezza, usatemi forza di persuasione, come si usa a una verginella. Ma ca valcatemi, cavaliere, cavalcatemi. Cavalcatela senza risparmio la ca valcatura, speronatela, cavaliere. E fate, fatemi, fatemi sangue quan to ne volete, feritemi, feritemi, fatemi fare ahi, fatemi sentire ancora viva, in mezzo a questo mare di morti. Abbiate bontà, giovinone bel lo: pietà... » Pietà? Ma prima, in mare, non diceva che la inorridiva? Non le doleva, quella parola, non le strappava tanti ahi, ahi? Doveva avere pietà di lei? Allora, lo voleva lento di schiena? Non diceva questo a quella sua Ciccinella: che la pietà, alle volte, riduce l ’uomo così lento di schiena, che la femmina non ne può fare grand’uso? Però, questa cosiddetta pietà, pensava, dev’essere veramente un’arcalamecca, se gli fa sentire il bisogno d ’essere ingravidati persino a quelli che ne conoscono i rischi e se ne stanno sull’avviso : cioè non solo ingravida contro forza, ma certe volte fa addirittura che la preghino. Solo che, nel suo caso, lui non capiva perché gli domandava pietà, se spasimava per essere ferita, per avere fatto sangue... Poi, la femminota se n ’era stata zitta, tutta intenta a ricordarsi come, da dove, nasceva il piacere di uomini come Baffettuzzi, co me questo, dalla vita sottile e flessibile di bambù: a ricordarsi se 397
era ancora brava a filare quel piacere come intorno a un fuso, col cuore sospeso.
Poi, dov’era stato il fuoco, si rovesciò il mare. Per quei minuti, era stato come non avesse sentito più il mare, quasi che il respiro della femminota che saliva e scendeva dal suo orecchio, come la bava di un vento terribile, penoso, imprigionato dentro di lei, fosse più forte del rumore delle onde; ed era stato come si rendesse conto do po, di questo, quando si staccava dalla femminota e gli pareva che il mare gli risorgesse in quel momento all’orecchio e ne era come so prassaltato: lo sciacquio delle onde alle sue spalle gli sembrava un rombo di cavalloni, di ondate gigantesche che rotolavano dietro a lui e si alzavano all’altezza delle palme per sommergerlo. Il mare invece, nemmeno a dirlo, era come lo aveva lasciato qualche minuto prima, che veniva e svampava basso basso alla sponda, e poi si ritirava, fa cendo quel risucchio, quello sgretolio di rena, che di notte è così ac corante a sentire. Per suggestione, forse, si ricordò di un gioco che facevano, muccusi, con Edoardo lì davanti alle palme, perché il gioco era basato sulla renavergine e lì ce n’era una lunga falda, che era quello che voleva il gioco. Si mettevano a una certa distanza sul ba gnato, si gridavano: pronti? Via, si chinavano allora sulla renavergi ne, e come su una lavagna, scrivevano una parola col dito, poi cor revano, scambiandosi di posto, per leggere, l ’uno quella dell’altro, prima che la bava di mare la cancellasse. M a nessuno dei due arrivò mai a leggere la parola scritta dall’altro, il mare arrivava sempre prima. Lei era come infossata nella rena, fina come polvere e soffiava sempre più debolmente fra i denti, come avesse finito allora allora, la miseranda, di assoggettarsi chissà a quali maltratti. Che disobbligo mi levai, gli veniva di domandarsi, sentendola respirare a quel modo tormentoso, se la cosa finì con lei a vittima e col sottoscritto a car nefice? Le detti o non le detti piacere? In crin an d ola, mi sarei gio cata la testa che si divertiva, ora però, pare quasi che fece un sa crificio. Ma del resto, era quello il disobbligo che lei aveva mo strato di apprezzare di più: senza dire che lui non aveva altro modo di disobbligarsi, lì, su due piedi. Gli mise le mani contro il petto e senza una parola, col capo gi rato da un’altra parte, lo ronzò via da sé, come una cosa che l ’im 398
picciava: come già fosse lontana, a sbrigare altre faccende, sue per sonali, col pensiero e coi sensi e con tutto. Vuoi vedere, si disse, vuoi vedere? che lo fece per un puntiglio al suo Baffettuzzi e già se ne pentì e mi odia a me? Come per sboriarla dai pensieri, pigliando un tono sciampagnino, le disse: « Ma lo sapete che pure io nemmeno mi ricordavo di quant’era che non assaggiavo più femmina? E dire che n ’ebbi, e di belle, occa sioni in viaggio... » « Uffa » fece lei. « Ma che parlate a fare? Lo so che la riservaste a me sta primizia, lo so, ma non ci stonate... » « Oh, per la madò, siete bella e cara, ma quando avete l’ovo stor to, quando uscite al naturale... Ma, vi pare forse che mi voglio van tare, premiare? Vi detti forse l ’impressione di essere un conquista tore, un femminaro? » « Si dà da fare, però » fece a mormorio, parlando di lui come d ’un altro, per conto suo. Questo, a lui, sembrò così comico, che gli venne da ridere sino alle lagrime: « Ve lo dissi, no? che persino m ’ero scordato di com’era fatta la femmina... » riprese poi a dire. « M a, a proposito: vi viene a cono scere una certa Cata, una paesana vostra che è veramente le settebellezze, senza disprezzare a voi » « Non conosco nessuna fata, io » « Quasi quasi, la chiamaste col suo vero nome. Precisa una fata, pare. Peccato che è un poco strambata di mente. E fu per questo, se vi devo dire, che non mi potetti persuadere ad andarci insieme. Mi faceva genio, assai me ne faceva, non per disprezzare voi, ma nem meno sparato io le mettevo un dito sopra, a quella. Con voi invece, e il bello è che non so nemmeno che faccia avete, ci venni con piacere grande, forse non ve n’accorgeste... » « Uffa, pirdeu » proruppe ribellandosi. « Uffa, uffa. Lo so, lo so che la riservaste a me sta primizia, ma quante volte ve lo devo dire? O ve lo devo mettere per iscritto? O volete che vi dico grazie? E grazie, grazie... » Poteva sembrare persino sincera col suo grazie, non faceva dello spirito. Solo che non voleva tornare sulla cosa: sacrificio sull’altare o solo alzata di gamba, il purparlé che aveva avuto con lui, per lei era cosa conclusa, passata, scordata. Col ricordo di Baffettuzzi, con rimorso o pentimento, con spavalderia o immalinconimento, o con 399
altro, se la sbrigava da sola, da sola o con quell’altralei, questo or mai si sapeva. Le era già sceso di cavallo quando, come ricordandosene all’improvviso, lo aveva trattenuto per la gamba e infilandogli, zitta zitta, una mano in tasca, si era ripigliata la campanella. Poi, si mise su di un ginocchio e si sbatte le gonne. E mentre s ’accomodava, come cosa senza importanza, che si può fare mentre se ne fa un’altra, agitava la campanella, allungando il braccio verso il mare. Bastarono pochi din din e sul mare, a quel segnale, la notte si spremette di ngangà, ngangà. Richiamate all’ordine, come non avessero mai perso il con tatto, le fere cominciarono a rispondere ai suoi dindin, dindin, fini e come smorzati sotto la mano, facendole ngangà, ngangà come fanno i lattanti, ancora cogli occhi chiusi, quando sentono il petto della madre. Alla riva, però, s ’ammutolirono, ammassandosi quiete quiete: si udivano solo respirare e questo era come un ronfare, un soffiare di vapori dalle narici e sembrava che a quella sponda di mare, la cal meria di scirocco si fosse poco poco mossa. Si poteva sentire lo scor rere della rema che, bella, unita e frusciarne, veniva a infrangersi con tro quell’ammassamento, ingolfandosi e spumeggiando a lungo fra le schiene e le pinne delle fere, come un fiume in un ingorgo fra i massi. Poi, per avere le mani libere alla barca, la campanella se la legò a una cima di treccia: a ogni movimento dell’anca e del busto, la campanella tintinniva dietro a lei con dei din, din senza suono, come per segnalare, allo stesso modo degli appestati che la portano al collo, che lei era 11, dove la sua persona faceva din, din, e non s’ardissero di toccarla, le fere, naturalmente, perché erano le fere che dovevano capire l ’antifona. Se ne stava andando. La vide stringersi tutta a prora: ora, forse, non ce la faceva più a spingerla con una sola mano, e nemmeno con tutte e due, sicché doveva appoggiarvisi contro e spingere con tutta la persona. Ma non si muoveva, le andò vicino, lei girò il capo e lui ebbe in quell’attimo la visione d u n a faccia d ’un colore scorti cato, bianco e rosé crudo, come avesse avuto la faccia bruciata e quella era la pelle nuova che le andava ricrescendo; gli pareva pure, in quel lampo, che stringesse le labbra tra i denti e corrugasse la fronte, co me pensasse, soffrisse; ma figurarsi se poteva vedere tutte queste sfumature in quel buio fitto, doveva essere stato uno scintillìo degli occhi a dargli quell’illusione. 400
« Ripassate all’altra banda? » le chiese. « Ripasso all’altra banda, sì » « Ma ora, subito, ad andare e venire? » « Ora subito, sì, ad andare e venire » « Ma così? A mani vuote? » le chiese ancora lui. « A mani vuote? » ripete lei come non capisse. « Ah, pirdeu, pirdeu, non si capacita, no » imprecò contro di lui ma come se lui non ci fosse. E poi, rivolgendosi distrattamente a lui, spavalda e contem po avvilita, smaniosa e contempo biliata: « State tranquillo che me la buscai la nottata, anche se trasbordai per un capriccio. O pensate che sta disgraziata di Ciccina Circé non si poteva permettere questo lusso? » Stette un p o’ e poi murmuriò, si parlò in bocca: « Non si vive di solo pane né si vive di solo ricordo. Perciò non ti fare patemi, Ciccina Circé, non t ’ammalinconire. A te ti piace la cosa fresca, la cosa calda calda... Non ti piace a te la cosa sottosale... » Cominciò a girare attorno alla barca, battendo sul legno col pugno come per sprovarla, qua e là, e la campanella che tintinniva dietro di lei sembrava assicurarla ogni volta della compattezza della barca. In quello, ripigliò a sproloquiarsi come proseguisse un discorso che aveva per le mani, perenne, con quella tale Ciccina Circé che aveva sempre lì pronta e disposta, separata da lei e tuttuna con lei, come il suo orecchio dalla sua bocca: « E perché? Forse non glielo dissi a quel bello sciscì, non glielo dissi spartana spartana, una di queste ultime notti che mi venne a visitare? Al solito, lo sai, no? mi si presenta muto muto, vestito co me un cavalluzzo di parata, la giacchetta stretta e un garofano rosso all’occhiello. Mi viene, al solito suo, a guardare in mezzo all’anche, spiando se in questo frattempo lo tradii, oppure no. Visto che no, visto che le fuliggini sono là, intatte, gli occhi allora gli ridono: te 10 ricordi, no? come gli ridono di vanteria, poi si leva dall’occhiello 11 garofano rossofiamma e me lo mette, il disgraziato, a profumare il posto che sai. T i rendi conto, Ciccina? Mi mette il suo sigillo, ogni volta così: mi spia in quel posto, e vedendo sempre tremolare sane sane le fuliggini, ride di vanteria e m ’ingarofana. Eh, no, gli dissi, qualche notte fa. Eh, no, bazzarioto bello. Mi vorresti, forse, fare una ghirlanda con tutti i garofani che mi porti? Eh, no, gli dissi, la ghir landa a te ti dona, morto Baffettuzzi. Aspèttati di trovarmele rotte e sconquassate, una notte o l ’altra, le fuliggini che tanto ti lusingano, Baffettuzzi pomatoso, Baffettuzzi vantoso, da vivo e da morto; rotte 401
e sconquassate da uno che torna dalla guerra, dal primo che passa e trovo di garbo mio, da un marinaio, se lo vuoi sapere, da qualcuno che a criterio mio, anche se lontanamente, ti somiglia. Con uno così t’incornicio, cosi per uno sghiribizzo mio. Napule è china ’e femmine, eh? E d ’uomini, no, non è piena? Eh, ti vai persuadendo ora che il morto tace e il vivo si dà pace? O t’illudevi che m ’intappavo là, m’intappavo sopra la fessa in mezzo all’anche pugni su pugni di sale e che me la mettevo sottosale, eh? Andavi pensando per caso che le fuliggini me le lasciavo crescere come l’edera sino davanti agli occhi? E che obbligo avevo? T i dovevo forse portare fedeltà per omnia secula seculorum? A te? A te, ladricello della mia vita? V a’, va’, vattene a fare lo scheletro... Finisti di spadroneggiare sopra a Ciccina Circe, fini il tempo bello, Baffettuzzi... Sentisti, Ciccina, co me gli parlai? Spartanamente, eh? E ci credi? Non passò un giorno, e quello che gli dissi, lo misi in pratica, fui di parola » Parlando, aveva continuato a battere sulla barca con le nocche delle dita, girandole intorno, da prora a poppa, come se quella fosse la tomba di Baffettuzzi e con quel battere lei ne tenesse sveglia l’at tenzione, perché l ’ascoltasse, sino all’ultimo. Quando fini di battere, si rivolse a lui, all’altro lato della barca: « Sapete solo di che mi dispiace? D i non avervi visto la faccia con tutto questo scuro, di questo mi dispiace. Non l’avete per caso un cerino? » « Eh, no. N é sigarette né cerini » « Ma no, lasciate stare. Che guardate con questo scuro? » s’affret tò a dirgli. « Peccato » « Non mancherà sempre la luna » le disse. « Se mi dite che tor nate, a questo stesso posto, col primo lustro di luna... » « Eh » fece lei, finta incredula. « Col lustro di luna, mi vi figuro, tutto smorfioso: che vuole sta vecchia? mi direste voi, senza nessu nissima pietà » « Che ne sapete? Forse m ’immagino già come siete e mi state bene come siete » « Lo stesso parlare di tutti » fece. « Tutti così. Tornano di guerra e si gettano a occhi chiusi sulla prima che capitano. Una deità gli sembra, fosse pure una vecchia tafanaria. Poi, con la prima sazietà, diventano esigenti. Peuh, dicono, con chi mi misi. Posso pretendere di meglio, io, di questa zoccolara... Così ora, così nella Grande Guer ra, e così nelle guerre prima... » 402
« Ma voi, che ne sapete della Grande Guerra? Dite vecchia, vec chia, ma io vi faccio ancora lattante nella Grande Guerra... » Scoppiò a ridere, bell’e spontanea, traboccante, proprio come si ride quando il ridere piglia alla sprovvista: nel buio gli pareva, an che se non era sicuro, che si vezzeggiasse sul busto, beandosi tutta in sussulti di riso che la campanella, sobbalzando sul suo culo, tra smetteva fuori di lei, intorno, per aria, in mare. Il dindin sembrava venire da lei stessa, tintinnito dalle sue campanelle di gola, di petto, di cuore, con un timbro tenero, umano, fra ebbro e melanconico, ed era come se col dindin, col complimento del giovanotto, le risorgesse dentro un’emozione, una lusinga, una qualche eco, forse, del primo improvviso dindin amoroso. Finendo di ridere, si dimenò un poco di più, curvandosi in avanti e facendo sballottolare le trecce lungo i fianchi: la campanella gettò una sfuriata di dindin e le fere, là davanti, nel primo mare, imme diatamente se ne risentirono. La campanella subito si zittì, perché lei aveva tirato la treccia e l ’aveva soffocata fra le mani: presto, con rabbia. S ’appoggiò, poi, coi gomiti ai bordi della barca, e con voce neghittosa, sparlò un poco, di sé riguardo a lui, spassionatamente, come una che ’sendo ormai smagata della vita, non può, non deve più farsi certe illusioni: « Ah, Ciccina Circé, ah tapina e tappinara... Bruscata di pelo, in gannata, seviziata, tu capacissima, come no? di t’illudere ancora. Tor na dalla guerra, il giovine, e questo lo fa generoso con la prima che gli levò il selvaggiume di femmina allo scuro. La prima volta, con la voglia intartarata, ti pigliò per la Venere. Ma provaci ancora, mettiti faccia all’aria sulla rena, col lustro di luna mettiti e sentirai che ti dice: zoccola, ti pare che torno sempre dalla guerra, incinto con la voglia grossa, in punta in punta? »
Poi, tutto avvenne così all’improvviso e così rapidamente, che egli non si rese ben conto di come andarono le cose. Sentì la campanella sbattere con fracasso contro la barca come se lei ve l ’avesse lanciata contro: non aveva sentito il rumore dei passi che venivano verso le palme e capì solo che lei si rivoltava di furia su se stessa. In quel momento, però, dal buio dintorno, all’incirca dalla direzione della Lanterna Vecchia, gli giunse all’orecchio la voce di Marosa e poi, in risposta, quella della madre di lei, e se ne me 403
ravigliò tanto, quanto se ne sarebbe potuto meravigliare, se invece di sentirle là, dietro le case di Cariddi, quelle voci, le avesse sentite lon tanissimo di là; e difatti, fu così, illusoriamente, che gli parve di sentirle, come fosse lontanissimo di là. Francamente parlando, gli era completamente passato di mente che era tornato e si trovava or mai a Cariddi, come fosse cosa da potersene scordare: arrivavano Ma rosa e donna Rosalia, che invece di essere nel meglio sonno, se n’an davano girando scuroscuro, quasi venissero apposta per quello, e lo riportavano alla realtà... Poteva sapere quella Ciccina Circé come lo aveva straniato di mente? « M a’, m a’, fermatevi... » implorava Marosa, contrariata e com 3 sul punto di piangere dalla rabbia. « Dove vi ficcate in questo scuro? Vi schiatta, il cuore, vi schiatta... » « Non mi schiatta, non mi schiatta... » le rispose sua madre, d ’as sai vicino alle palme. « Aspettami, che torno. Appena mi sincero se sentii o non sentii parlare, qua davanti alle palme » M arosa seguiva sua madre alla lontana, come non s’ardisse di av venturarsi con lei sotto le palme, dove il buio era più fitto. « Chi c’è là? » fece in un soffio donna Rosalia, quando arrivò all’incirca sotto la prima palma. « Chi c’è là? Spirito o cristiano in carne e ossa? » E ra spaventatissima e la voce le tremolava come una foglia, ora le restava in gola come un grido abortito, ora le usciva come un sof fio. Però, si dava coraggio, s’ardiva, invece di filarsela, veniva a farsi una chiacchierata coi fantasmi. Eccone un’altra, pensò a questo punto: un’altra col cuore come un filo di capello. Con questa vi somigliate di cuore, voleva dire alla fèmminota. Non so di voi, se l’avete o no un filo di capello, perché prima, il cuore vi manca, morite, al solo pensiero di sentirvi battere contro la barca da quella gente pallida che vaga maremare, mentre poi vi gettate a remare che mi sembrate un pellesquadra con un paio di polsi grossi così e un cuore altro che di roccia, d ’acciaio; e poi, come non so, scarrozzate da sola la barca all’asciutto, e poi vi fate la lotta con me sotto la palma, un tale squasso di lotta, che mi veniva di pensare: all’anima dell’ammalata di cuore... Per questo vi dico che non so di voi, vi dico che dopo quanto vi vedetti fare coi remi, non ce la metterei la mano sul fuoco che il cuore, voi, l ’avete tanto deli cato come dite. D i Rosalia Orioles invece, di questa femmina che sentite, lo so, lo so che il cuore ce l’ha un filo che si può spezzare a 404
ogni momento. Anche se è bombolotta e non pare nemmeno a veder la, ha il cuore piccolo, stretto: un cuore di passero, glielo disse pure il medico a don Luigi quando la portò a visitare, dopo che si sgravò di Marosa. E infatti, donna Rosalia non si può minimamente strapaz zare ed è M arosa, sino da quando aveva sei, sette anni, che fa i ser vizi e donna Rosalia la guarda come fosse lei la figlia, guarda M aro sa, la guarda mansa mansa e forse s ’affatica persino a guardarla, con tutto il vaeviene che fa quella M arosa, una spola continua continua, un vero giramento di testa, identica alla navitta della Singer. E senti tela ora, invece, sentitela pure lei come rema, sentitela come viene ad apostrofare gli spiriti in questo scuroscuro, come s ’avventura, da parere quasi che il cuore di passero le diventò d ’aquila: « Spirito? Sei spirito, vero? » diceva Rosalia Orioles. « T i cono sco? Vivesti qua, a Cariddi, dentro al tuo corpo mortale? Fammiti, fammiti riconoscere, se puoi, fammi un segno per ti riconoscere » « M a’, ma’ » la chiamò da più vicino M arosa, ma lei sembrava trop po presa per darle retta. « Spirito, sconti forse qualche condanna nel tuo nuovo regno? Sei anima di purgatorio, eh? Vaghi, forse, in cerca di preghiere per ab breviarti la pena? Per questo t’aggiri qua, dove forse visse il tuo corpo: per domandare preghiere a ristoro della tua anima affannata? Parla, spirito, parla. Sei per caso lo spirito di qualcuno dei nostri giovanotti spersi in guerra? Dillo, manifesta il tuo essere. Io che ti parlo, sono Rosalia Orioles, moglie di Luigi Orioles: ti ricordi di Rosalia Orioles? Se te la ricordi, lo sai, ti puoi fidare a occhi chiusi di Rosalia Orioles. Sei ’N drja Cambrla, per caso? Sei Duardo Cacciola? O Salvatorello Schirò? O Federico Scoma? Eh, spirito, chi sei? » Aspettò un poco, la risposta non venne, gettò un sospiro di delusio ne: « Non fa niente, non fa niente, figlio mio, se non puoi o non vuoi manifestare l ’essere tuo. Per me, figlio, lo sai, tutti uguali siete, e se t’abbisogni di preghiere, conoscente o sconoscente, nemico o in nimico, vedi? Rosalia Orioles s’inginocchia e te le dice all’istante. A ristoro della tua anima affannata, figlio, a guadagno della eterna pace... » Forse, si stava piegando per davvero sui ginocchi, perché faceva ahi ahi ahi, come le dolorassero le giunture, ma arrivò M arosa e scu roscuro dovette andare a sbatterle contro: « M a’, m a’, ma v ’impazziste forse? » le fece Marosa tra i denti. « Che fate in ginocchio? Con chi sparlate? » 405
« Ah, figlia, certe volte, veramente veramente, Marosa ti chiami e maroso ti riveli, un cavallone che non c’è potenza che viene leg gero. Ecco, figurarsi ora se quello non se ne andò. Lui, già era diffi dente di natura, una parola, un segno non glielo potetti strappare: e figurarsi ora con questo fracasso, chi lo sa dove si straviò... » « Ma chi, m a’? Di chi parlate? Che fu che v ’attirò qua? » « Qua, qua, sotto le palme, c’era un’anima in pena... » « Ma che anima, m a’, che anima? Qualche bazzarioto, qualche intrallazzista di questi che vanno bombardando per pesce maremare... » « Ma se ti dico che di qua, dalle palme, veniva come un affanno, un arrancarranca di respiri. Qualche anima affannata sarà, mi dissi, pensando giustamente che ormai circolano più anime che gente viva, la notte... » « E due di sti spiriti siamo noi qua, madre e figlia... Ma non ve dete? Parlate di anima e mi dite che respirava, aveva l ’affanno: può essere mai che l’anima respira? Ancora volete insistere? » « Io, figlia, se devo giurare, quell’impressione ebbi: che si trattava di spirito. Ora, per il sì e per il no, mi pare che il dovere mio sa rebbe di andarli a informare, informarli di st’impressione che ebbi, i padri dei giovanottelli nostri che chi mori sicuro come Duardino Cacciola e chi non si sa che fine fece, come Enzuccio Schepis e co me Federico Scoma... » « O come ’Ndrja Cambrìa, forza, ditelo, ma’... » « Oh, M arosa, M arosa, io nemmeno ci pensavo a ’Ndrja... Però, dicevo, che male c’è se per uno scrupolo gli accendono il lume e lo tengono bassobasso nella casa di ognuno dei giovanotti? Una me schina madre che pensa? Pensa: e se fosse vero che c’è un’anima in pena che vagola qui dintorno? e non sia mai, fosse lo spirito di mio figlio che venne in cerca di pace e rifugio e non trova la casa di sua madre in questo scuroscuro, non s ’orienta e gira, gira e i tormenti suoi non hanno mai fine? Pensa questo una madre e allora gli accende il lume, regola la fiamma tenuissima e poi l ’avvicina alla finestrella, per farle all’anima da segnale: perché, vogliono dire, che la fiamma del lume l’attira, e l ’anima si mette a svolazzare attorno al lume come fosse farfalletta o moschitta di scirocco... » « M a’, m a’, vi sfantasiate che uno vi piglierebbe per muccusazza, con tutti gli anni che avete... Ma ora ci vogliamo ritirare, ora? Eh, 406
ma’, ci vogliamo ricettare per stanotte? La pigliaste la boccata d ’a ria, no? Ve lo rianimaste il cuore? » « SI, sì, figlia, ma aspetta un istante, aspetta. Là, là, verso l’ultima palma, alla sponda di mare, dimmi, Marosa, tu non lo vedi qualcosa di scuroso e lungo come fosse una barca, eh, non vedi niente tu? » « Che vi dissi, che vi dissi? » fece Marosa, furente e spaventata. « L ’anima degl’intrallazzisti sentiste, e fra un poco sentiamo pure le bombe... Ma che fate ora, che fate? Per dove pigliate? » Donna Rosalia s ’era partita per appurare che era quella cosa scurosa e lunga. Se appura la barca, pensò lui, appurerà contempo chi ci sta aqquattato dietro. La faccio la malafigura se donna Rosalia mi scopre quaddiètro e si scandalìa che le feci il fantasma muto, ma non sordo... E inoltre, c’era quel maroso di muccusa: poteva figu rarsela se lo sventava con la femminota. Però, bella scocciatura che erano, madre e figlia. La femminota che sino a quel momento pareva che si trattenesse persino il respiro, non appena donna Rosalia si mise ad arrancare verso la barca, cominciò come a ribollire, gettando aria dalle narici, inquietandosi tutta. D a sotto le palme venne un rumore, come se donna Rosalia fosse andata a sbattere coi piedi nelle grandi rame spezzate dal vento, che seccavano sulla rena. Dava calci, infatti, co me per liberarsi, era lì a un passo da loro, sentivano il suo respiro affannoso: ma giustintempo, M arosa le arrivò alle spalle, la trat tenne e trafficò con parole e con mani e con piedi, per trascinarla via di lì. La femminota, però, si era come terrorizzata dall’avvicinarsi di donna Rosalia e fu come perdesse la testa; si ribellionò in tutta la persona e all’ammazzata, si mise a dare spallate alla barca, varando a precipizio. A ogni due, tre spinte, però, si fermava e girandosi sul fianco e allungando il collo: « Uuuh » faceva, raschiandosi in gola, col suo tenebroso ululio di sirena. « Uuuh, uuuh » continuò ancora senza pietà, anche quando dovette sentirle bene pure lei, madre e fi glia, tutte in terrore, che dopo un frenetico trapestio fra le foglie secche, come non si orientassero più, cadendo, rialzandosi, erano in fine scappate con un affanno tale che si sentivano ancora, quando già erano arrivate alla Lanterna Vecchia. « Ma perché? » le chiese fra i denti, raggiungendola in due salti. « Perché, per la m adò? D i che vi spagnate? Sono madre e figlia, due brave femminelle, le conosco io » 407
Ma non mostrò nemmeno di sentirlo e lui allora provò come l’im pulso di afferrarla per le trecce e fermarla, ma in quello stesso, stes sissimo attimo scopriva che non era per domandarle ragione di quello che aveva fatto, che voleva afferrarla per le trecce, ma per trattenerla dal varare. « Uuuh, uuuh » faceva e lo fece, sinché la barca non scivolò dalla sponda e lei la segui in acqua, agganciata per una mano e le dette ancora una spinta per levarla dal secco e portarla a galleggiare, e sinché non si sollevò sulle gambe lunghissime e vi si sedette sopra: la campanella pigliò a sbatterle con le trecce in fondo, tintinnendo allarmata. « Ma statevi, statevi » le disse allora, rincorrendola con le parole. Franò in acqua con la punta delle scarpe, il braccio allungato alla barca, ma senza più raggiungerla: « Nemmeno fosse la finanza, per la madò. Vi dico che sono due femminelle di casa, nient’altro che due femminelle. Vi faranno buona faccia, se vi vedono, parola d ’ono re, le conosco io... » « Peuh » fece con disprezzo. « Femminelle? Culiseduti. Le la sciate alla sedia e là le ritrovate, succedesse pure il finimondo, tutte sporche di cacatine di mosche. Peuh, razza fortunata, culi all’ingras so ... A quelle, il maschio di casa, se parte, immancabilmente gli ri torna. Alla caviglia gli legano il loro unico, miserabile pensiero co me fosse una specie di corda d ’acciaio. Capaci solo di pensare a lui, sempre a lui. E gli dànno tutta la corda che vuole e lui può credersi persino libero, ma se fa per correre e scappare o se fa per restare, dove gli piacerebbe per sempre restare, allora sente, eccome lo sen te, lo strappo della corda alla caviglia. Schiave, càntari sempre pie ni: eppure, si permettono il lusso di regine, il lusso di tenere alla catena, per la vita, tanti splendidi prigionieri. Peuh e peuh, culi di focolare. Non fanno altro che aspettare il giorno o la notte che quel lo gli batterà alla porta... » Era rimasta seduta a prora, le lunghe gambe di fuori e i piedi dentro l ’acqua, come se la barca fosse stracolma di passeggeri e lei non avesse trovato posto dentro. Anche le trecce dovevano rica dérle fuoribordo, penzolanti, perché la campanella urtava contro il legno, un dindin ora, un altro dopo, mantenendo, apposta o per caso, le fere a bagnomaria. Per alcuni momenti potè ancora seguire la barca che dondolandosi rivariva, si muoveva lentamente lentamente nella oscurità come un 408
grosso tizzone d ’albero. Lei non aveva ancora messo mano ai remi e questo voleva dire che non ripassava dall’altra banda, ma conti nuava a scendere. Per una cinquantina di metri, passo passo lungo la striscia di sabbiadura che inizia oltre le palme, riuscì a non far sela scapolare dagli occhi e stare sempre alla sua altezza. A quel punto, però, la barca pigliò forse il verso della rema calante, e andò pigliando contempo velocità: in un attimo allora, gli sparì dagli oc chi, confusa nell’immenso nerame. « Aspettate » le gridò senza potersi trattenere. « Aspettate, Ciccina Circe. Non ve ne andate così, non ve n ’andate a gettasangue » « Ricettatevi, onesto giovine, ricettatevi » gli rispose e la sua vo ce, smaccosa e malcondiscendente, a causa forse della sterminata oscurità, sembrava alzarsi di lì, dalla riva, e provenire contempo dal l’altomare. E poi disse ancora, con quello sfottò tutto tipico di Ciccina Circe: « L ’alzaste la caviglia? Sentiste la corda che vi lega? Sentiste co me s ’intesò? » Ancora era lì che parlava e lui sentiva, come con rincrescimento, che la faccia di lei s ’affumicava già, precipitosamente, nel suo ricor do. Nel buio, però, risorse chiaro, argentino, il tintinnio della cam panella, ed era come se la barca già navigasse a rema e la campanella, da prora, già facesse dindin al mareggiare delle fere. « Ciccina Circe. Oh Ciccina Circé » la chiamò ancora e se ne sor prese, come se la voce gli fosse sfuggita dal petto, e non la ricono scesse nemmeno, con tutto quell’accoramento che c’era dentro. E lei gli rispose, e anche di questo si sorprese; e si sorprese di come gli rispose e di quello che gli rispose. G li rispose come un’om bra, un’ombra invocata, col solito smacco ma in più, con neghitto sità, con noia, gli rispose una stranezza di parola indecifrabile, oscura: « Kalimera, kalimera... » E che significava? Che parola era? Parola, forse, di qualche bac caglio, capacissima di conoscerne più d ’uno, di baccagli, lei. Così, dopo tanto di quello sproloquio, che gli aveva fatto venire la bava a sentirla, l ’ultima parola che diceva, era una parola enimmatica per lui. Lo lasciava come lo aveva pigliato, in fondo: stesso stile, sia a comparirgli che a scomparirgli. Si sentiva amaro in bocca, per quella parola, non per la parola in sé e per sé, che forse non signi 409
ficava nulla d ’importante: si sentiva amaro, perché gli pareva che quella parola che lui non avrebbe mai potuto capire, lei l’avesse detta unicamente per schernirlo un poco, per deprezzarlo, se non per di sprezzarlo. L ’oscurità risonò ancora di un tintinnio lontano, finofino, come un precipitoso sfarfallio di dindin, dindin spersi e soffocati nel mare fitto di tenebre: pensò alla campanella che le sballottolava sulle na tiche, annodata alle trecce, e immaginò che Ciccina Circé si fosse mossa per mettersi ai remi. Ma non la sentì se con essi smazziava la rema, facendo perno per girare la barca e risalire controcorrente. Forse continuava a scendere per Jonio, forse si dirigeva fuori dello scill’e cariddi, in mare aperto, verso M alta: forse qualcuno, qual cosa, la richiamava lassòtto, dietro la Calabria. Si ricordò della vela e si chiese se l’aveva già alzata. Probabilmente voleva guadagnare il tempo perso per lui e con lui. Non aveva varato apposta per lui, come diceva lei e nessuno poteva smentirla, ma che avesse fatto per lui quella deviazione, per l'utile di lui e il dilettevole suo, su que sto ora non aveva più dubbi. Non riusciva, però, né a premiarsene né a scordarsene. Si sentiva come lasciato a mezzo, come se la sua navigazione si fosse interrotta innaturalmente e si trovasse sbar cato alla prima isola che avevano incontrato: e là, non riusciva a trattenere a terra col corpo il suo pensiero. E poi, dal largo, all’incirca dalla mezzerìa, come per effetto di un’eco contempo montante e calante portata dai medesmi bastardelli di rema attraverso la linea del duemari, all’orecchio gli arriva rono ancora dei dindin isolati, appena appena udibili, stillanti nella grande oscurità come scintille davanti agli occhi stralucenti. Sotto quelli poi, come risucchiato in una conchiglia e messo a musica tenebrosa all’orecchio, sentì nuovamente il frusciare rigonfio delle fere che s ’inarcavano e si affusolavano, s ’infilavano e si sfilavano d ’onda in onda col loro nuotare di seta, il loro mareggiare di son nambule in crociera con la barca nera e pizzuta, con la campanella attaccata a prora, o alle trecce di Ciccina Circé, che se le portava dietro per lo scill’e cariddi, e se le portava a piacere o meglio, a ca priccio suo, se le portava a modo o smodo suo, se le portava là, da sponda a sponda, perché là, da là a qua, le faceva comodo portar sele, ma avrebbe potuto portarsele sino in capo al mondo, legate per la vita e per la morte, come a un filo di capello, a un dindin da niente. 410
Gli parve di ascoltare, per miglia addirittura, le fere e il mare frusciante sotto di esse, sempre più fino e oscuro, sempre più con fuso al silenzio della notte. Poi, sopra il silenzio, sentì solo il dindin della campanella, quel tintinnio d ’unghia sull’orlo di un bicchiere; e lo sentì ancora, anche quando quel bicchiere sembrò riempirsi d ’ac qua come dovesse contenere tutta l ’acqua del mare. E poi lo sentì ancora, anche quando intorno a lui, per aria, sul mare, nella notte, gli diventò inafferrabile ai sensi: lo sentì ancora e continuò a sentir lo, o a immaginare di sentirlo, nel suo orecchio, dentro, acconchigliato, senza suono, come dovesse sentirlo ormai per tutta la sua vita.
Girò attorno al villaggio a testaditenaglia: lo risalì per il lato della plaia, camminando nella cannamele, rasente alle case, andò poi per il lato nord, costeggiato dal canneto, e quando arrivò alla fine del camminamento, trovò con sua meraviglia che nella casa d ’ango lo, la casa di suo padre, era acceso il lume. Vuoi vedere, pensò, che donna Rosalia si premurò veramente di passare per le case dei giova notti spersi in guerra, per avvertire i padri che un’anima in pena s’aggirava in quei dintorni? Così, doveva, poteva essere venuta da suo padre, dicendogli: accendetegli il lume a ’N drja, don Caitanello. Se quell’anima è ’Ndrja, l’attirerete attorno al lume come una far falla. Sì, ma ora perché nelle altre case il lume era spento ed era acceso solo qua? Sulla parete di dietro, la luce filtrava fuori da certe lesionature fra pietra e pietra, che prima non c’erano, come se, per la caduta di una bomba o per una scossa di terremoto, la malta fosse saltata via e fra le pietre scardinate si fossero creati buchi e spiragli. Istintivamente, avvicinò l’occhio a una di quelle fessure e in tanto che ne sprovava il giusto verso per adattarvi la pupilla, si sentì pizzicare il naso da un sentore sanguoso, acre e dolciastro, della stessa specie di quello che svaporava da porte e finestre nel paese femminoto, con la sola differenza che qui era freddo sentore di fera cruda e là era sentore caldo, ribollente di fera cotta. Non si sarebbe saputo che scegliere fra quello e questo. Qui, al sentore schiumoso del sangue, si mischiava quello dell’acetoforte, profuso a piene mani, e l ’acetoforte ribellava il tanfo di carne cruda che andava macerando, inselvaggendolo ancora di più. Il lume, stranamente, stava in pizz’in pizzo sul canterano, come per fare luce ai piedi del letto. Sforzando l ’occhio verso il basso, lì davanti, alla sinistra del letto, scoperse il paramento di mosciame; 412
la grande gistra tonda e^sopra, la fera tranciata, il solo quartodidietro, rovesciato sullapan cia, col bianco del ventre già in gran par te scannellato e sanguinante. E ra da non credere: Caitanello Cambrla che ammosciava pure luì la sua parte di fera. Il lume svampava con la fiamma lingueggi ante fuori dal tubo di vetro, che s’andava affumicando alla strozzatura. Caitanello, però, non veniva a regolarlo. Forse era caduto in sonno nel mezzo del l’opera, forse dormiva dall’altro lato del letto dove non riusciva a vederlo: ma che sonno doveva avere? peggio, peggio ancora di quello di suo figlio, c’era da pensare, per essere capace di addor mentarsi in quella camera dove l ’aria fermentava barbaramente per l’accoppiamento di fera e acetoforte? Lui, che dormiva affogato in quella puzza di taglio fresco di pescebestino? Caitanello Cambrìa, un pellesquadra pari suo, con quel radicato disprezzo per la fera, sarebbe arrivato al punto di portarsela in casa, quasi a letto, a dor mirci culo con culo? Proprio non riusciva a capacitarsene. Si era tirato indietro dallo spiraglio e poi, rimessosi a guardare, si ritrovò suo padre collocato lì davanti, quasi occhio con occhio: parato di faccia a lui, con le spalle al lume, faceva una siluette com pletamente nera davanti, in una posa enimmatica che lo sconcertò. Quell’omicello gli riusciva, se doveva dire, più sconoscente che cono scente, per questo forse, non gli dette una grande emozione rivedere suo padre dopo tanto. La luce gli batteva sulle spalle e si apriva al collo come due pa raocchi luminosi che gli alteravano i connotati: perché, contrastata da quelle due bande di luce, la sua faccia sembrava la maschera del la vecchiaia, tutta tagliuzzata di rughe e come imbrattata di fulig gini. Il buio gli si ammonticchiava tutto sul davanti, stretto fra le luci, cancellandogli, coi lineamenti del viso, anche ogni sembianza di vita. Non fosse stato per il tanfo ferino e acetoso, avrebbe detto che se la stava sognando, quella siluette. Fra l’altro, era come se le parti si fossero invertite e fosse suo padre non visto, che spiava lui visto. Suo padre, invece, scandaglia va la parete lesionata: cercava gli spacchi più larghi e viavia li tap pava, spingendoci dentro delle pezze col manico di un cucchiaio, salendo sopra una sedia per raggiungere le smagliature più alte. Dal suo spioncino lo vedeva trafficare quatto quatto, inzeppando e fer mandosi a scandagliare i muri con occhi puntigliosi. Una volta s’in terruppe e venne a mettersi sui talloni vicino alla gistra; con lo 413
scorciatore dalla lama tutta a punta, sprovò qua e là la fera, ventre e sottocoda, e poi, da un bacile che stava lì accanto, con la mano ci spruzzò sopra dell’aceto, perché s ’imbevesse nei punti dove l ’ave va sprovata: crudo crudo, il tanfo sfiatò nella camera come fumo da un tizzone e per lo spiraglio gli arrivò al naso in un miscuglio pizzicoso d ’aceto. Dopo, suo padre piantò come un segnale lo scorciatore sulla pelle bianca, stillata di gocce di sangue lucenti e vischiose come gocce di minio, quasi dicesse alla fera: aspettami che torno, non ti muo vere. E subito, di gran premura, si era gettato a ficcare pezze nelle fessure, come se per una scommessa con se stesso, pretendesse di parare con le pezze quella ribellione di fetore, imprigionandolo nella cameraperdormire. A quel che sembrava, era quello il fetore che gli premeva che non trapelasse di fuori, non la luce, anche se il fetore l’intartarava sopra l ’origliere dove poggiava la faccia per dormire. Perché no? Poteva essere quello il suo scopo: tenere segreta la cosa, fermare il tanfo all’origine, impedirgli di scasare e sbandiare di fuori che Caitanello Cambrìa si era gettato sotto le bandiere e ormai ammosciava pure lui. Poteva essere questo il suo scopo, come no? Conosceva il tipo: il suo stile era più qui, che nella osservanza dell’oscura mento di guerra. Eccolo là, che manteneva un altro punto. Caitanello Cambrìa man teneva sempre un punto, un puntiglio: con qualcuno, sua moglie, suo figlio, un amico, o con una spadessa, una sola o una intera pas sa, o col tempo, una stagione, la luna o il sole, le reme o i venti, la calmerìa di scirocco, la fera... Era basso di statura, ma era muscoloso e inquartato come un leon cello, con la testa grossa, scattosa e nervina, gli occhi grandi e teme rari e leali come quelli dello sprudente e coraggioso Astolfo, il naso bello, timoniere, che faceva piacere a guardarlo. Per quel naso aveva pigliato una vera passione una Dama della Croce Rossa, quando, nella Grande Guerra, Caitanello fu all’Ospedale di Padova. Questa grandama, profumatissima, portandogli sigarette e biscotti e dolci, ven ne a trovarlo tutti i giorni che lui stette ricoverato: veniva e invece di stringergli la mano, gli pigliava il naso con tutte e due le mani e glielo carezzava, a occhi chiusi, lungamente, con sospiri di beati tudine. Quando era in bonis, la sua statura non ne guadagnava, ma se 414
aveva qualche contrarietà e s ’intestardiva a tenere uno di quei pun ti, allora s ’impennava e in quel piglio nervino di spalle e di testa, dava l’impressione di essere più alto di quello che era: e siccome ne aveva di punti da sostenere, era più quando pareva di alta sta tura che di bassa. Ora però, anche se aveva per le mani quel punto pieno di tanfo, da quello che vedeva della sua persona, non gli pareva della sta tura dell’impennata, tutto rimmignonito nelle ossa e con un ciuffo di capelli bianchi che gli cadeva bambinescamente sulla fronte. Intanto, come cercasse altre pezze, era andato guardandosi intor no, poi aveva pigliato il lume dal canterano, aveva aperto l ’armuaro e lo specchio ovale, che stava dietro lo sportello, aveva lampeggiato alla fiamma del lume. Caitanello posò il lume sul canterano e armeggiò dentro l’armuaro: vide allora, e questo lo contrariò moltissimo, che tirava fuori, appese alle stampelle dove le aveva sistemate lei stessa con le sca glie di naftalina nelle tasche, le vesti di sua madre. Quelle vesti non ricordava di avergliele mai vedute addosso a sua madre, doveva averle indossate prima che lui nascesse, se non addirittura prima che lei si maritasse, quando era signorina ad Aci reale, prima di fare la fuitina con il cariddoto e seguirlo in quel pizzo di Sicilia. Erano tre, una azzurra, una viola e una verdina con rose bianche, tutte e tre di stile collegiale con le maniche lunghe e il collo abbottonato: quella viola però, aveva un nastrino rosa attorno al collo e quella azzurra era un poco scampanata dietro. Quando lei era morta, quelle vesti restarono dove e come si tro vavano quando lei era in vita: inforcate alle stampelle, con le pic cole tasche piene di scaglie di naftalina. In seguito, aveva scoperto che suo padre provvedeva lui a rifare la scorta di naftalina, e di solito era Rosalia Orioles che gliela comprava al Faro. Era come se lui fosse convinto che la sua Acitana, questione di tempo era, ma sarebbe tornata: sennò, perché si sarebbe preoccupato tanto di te nere nella naftalina le vesti di lei? Durante gli anni, nemmeno una volta aveva lasciato che, consumandosi le scaglie, le vesti rimanes sero senza naftalina: finché si ricordava di mettere la naftalina nel le tasche delle sue vesti, per fargliele ritrovare intatte, bell’e pronte perché le indossasse, le speranze di vederla tornare non erano tutte perse. In mente sua, le vesti le dovevano fare da richiamo, all’Acitana, così come, a detta di Rosalia O rioles, il lume alla finestra 415
attirava le anime in pena che s ’aggiravano nella notte intorno alle case, nei luoghi dove visse il corpo. Suo padre stava tirando fuori la veste viola: tenendo il lume con la mano sinistra, stringeva nella destra il bastone della stampella sotto la veste, come stringesse per la vita sottilissima sua moglie; e sollevava il braccio come per innalzarla sopra di sé di tutta una te sta, all’altezza di personale che effettivamente lei aveva e così im pediva, contempo, che la veste strusciasse per terra; aguzzando la vista come guardasse lontano, si rimirava la siluette di stoffa viola, e il personalino dell’Acitana, alto, flessuoso come una cannadindia, che quella forse gli ricordava, pareva ancora inorgoglirlo. Ma non era solo questo che colpiva nel modo in cui alzava e te neva esposta alla luce la veste viola, col lume d ’incontro, perché si vedesse come un vessillo: ecco, pareva anche dire, a quella e alle altre due vesti, con l ’aria di rimarcare un miracolo, il miracolo del la loro conservazione, la guerra non vi potette. Crollarono le grandi città, pietra su pietra, si distrusse ogni cosa anche d ’acciaio, cemen to e roccia, niente resistette alle bombe, questa stessa casa rimase scardinata, e voi invece, pezze di stoffa, tangelosissime, non si cre derebbe, voi non soffriste alcunissimo sfregio, la minima macula... Ma col voi si rivolgeva all’Acitana, non parlava alle vesti, ma alla vestita, era lei che ritrovava intatta dopo tanto sconquasso, di questo era ammirato, non certo delle vesti: non era il tipo, Caitanello, quelle vesti di rimirarsele sulla stampella come sacri sten dardi cuciti con le reliquie delle vesti che vergini e martiri porta vano al momento del loro trapasso. Forse ammetteva, lui, che l ’Acitana aveva avuto trapasso? E in questo, il luogo e il momento pa revano stranamente aiutarlo, perché quel miscuglio di sangue cru do di fera e d ’aceto che rivoltavano la camera, contrastava con ogni senso di morte, anzi ribellava per aria un prepotente, selvaggio senso di vita, che solo col fatto che veniva dalla fera si poteva spie gare. Suo padre, una alla volta, pigliò e distese le tre vesti sul letto, dalla parte di sua moglie, aiutandosi ogni volta con l ’avambraccio, con sommo riguardo, a spiegarle bene: poi, pigliò il lume che fumi gava, ne regolò la fiamma e ve lo passò e ripassò sopra a ognuna, dalla testa ai piedi, come ci studiasse. Infine, riappese nell’armuaro la veste azzurra e quella verde con rose bianche e lasciò fuori la sola viola: viola con qualche rossìo come di foglia di vite a novem 416
bre, che lo venava. Sotto il lume, fra luce e penombra, la veste man dava dei brillìi come ci respirasse dentro la persona viva: Caitanello, piegato di sopra, doveva vederci la sua Acitana, quasi si fosse stesa un momento sul letto, così come si trovava, vestita e senza nemmeno fare la fossa sul materasso, tanto poco o niente pesava. A ll’inizio, pareva in cerca di pezze, ora, invece, pareva non avere altro scopo se non quello ammirativo, devoto. Oppure, avendo già deciso di sacrificare la veste viola, prima di farlo, in quel preciso momento, la stava commemorando col ricordo dell’Acitana, ricor dava cioè la veste per la persona viva che vestì. Però, non si trat tava di commemorazione, si trattava di qualcosa di meno e di qual cosa di più: perché suo padre stava sacrificando qualcosa, ma non la veste viola. Gliela vide alzare per le spalline, sollevarsela davanti agli oc chi, allontanarla e riavvicinarla, piegando il capo, ora a destra, ora a sinistra, lentissimamente. Ecco che la sacrifica, pensava ancora. Studia dove strapparla prima. G li ricorda sua moglie e per sugge stione ne è un p o’ trattenuto. Quello che ricorda però, si dovet te appannare assai ai suoi occhi, passarono tanti anni in pochi an ni di guerra e quello che ricorda, forse non è più così vivo, così forte, da fermargli la mano che s ’attenta a sbranare veste e siluette viola. Tutto a un tratto però, suo padre si mise a fare sì, sì, col capo alla veste viola, come per dirsi, per dirle che finalmente l’aveva messa a fuoco, la guardava dal giusto punto di vista. Allungò nuovamente la veste sul letto, sempre lì, dal lato dove dormiva l ’Acitana: andò a ripigliare il lume e girando attorno al letto, venne al suo lato: col piede sinistro scostò dal letto la gistra col quarto di fera, e poi come assalito da grande, subitanea stanchez za, si piegò sulle gambe, si mise in ginocchio davanti al letto; poi posò il lume lì per terra, si rialzò e sedutosi sulla sponda del letto, a capo chino, come pigliato di sonno o cogitoso, si sfibbiò la cinghia dei pantaloni. A questo punto, inaspettatamente, si sporse in avanti, avvicinandosi con la faccia al lume, ci soffiò sopra e lo spense. Lui non se l ’aspettava e fu pigliato di sorpresa: strappò l ’occhio dal suo osservatorio, ma non fece in tempo. Si sentì arrossire, la faccia gli bruciava, assaltata di sangue, ed ebbe come l ’impressione che suo padre gli avesse soffiato in faccia a lui la fiamma del lume, 417
essendosi scandaliato che qualcuno di fuori stava a spiargli la sacra intimità. Senti le tavole del letto che si risentivano sotto Caitanello, che si stendeva e girava sul fianco destro. Mandò un primo grosso ge mito e poi continuò a rantolarsi cosi, come avesse una ferita fresca, ancora aperta, da quel lato: ma una ferita cosi grande, così mor tale, cosi immortale, che il soffrire doveva essere per lui tanto e ta le, che in qualche punto poteva scambiarlo persino per piacere. Suo padre, ecco, pareva entrare vivo vivo, altroché strapparla, in adorazione di quella veste viola. Sino a quel momento, suo padre era stato tutto nuovo per lui, ma facendo per girare attorno alla casa e uscire sullo sperone, la voce di Caitanello prorompette come non fosse più solo laddèntro. Si rivolgeva a qualcuno, come se questo qualcuno se ne fosse rimasto sino allora nascosto allo scuro: « Nasomangiato? Nasodicane? » l’apostrofava sprezzantemente. D a quest’apostrofe, egli seppe subito chi c’era con suo padre nel la camera buia, e questo gli levò il fiato, gli ribellò un pianto rab bioso. Lo ritrovava dove l ’aveva lasciato, come si fosse allontanato uno, due minuti, non tre anni: sempre allo stesso punto, invecchiato con Nasodicanemangiato, quella tale femmina scabrosa che veniva facendo quel rumore d ’ossa che dava i brividi, veniva sola e se ne andava sempre in compagnia di qualcuno. « Nasomangiato? » l’apostrofava, smaccheggiandola come al soli to. « G ià ti mettesti alla misa, eh? E puoi fallire, lordona tutta os sa? Senti che mi vado ad abboccare con l ’Acitana e issofatto scappi, lasci denaro a contare e mi ti presenti. Avanti, Nasomangiato, forza, vieni, opponiti al nostro purparlé, opponiti se te ne senti l’almo, marfisara, vieni e facci il solito contrasto... » Aveva voglia a provocarla, quella, e voglia a usarle lo smacco e per tutt’oltraggio, ingiuriarla Nasomangiato o Nasodicane: quella fa ceva fatti e non parole, suo padre poteva arrivare alle mani con lei, persino al corpo a corpo, per non farsi sconzare il purparlé con la sua Acitana, ma di bocca, una parola che era una, non gliel’avrebbe mai strappata. « Oh? Mi senti? » la sprovò ancora. « Avanti, dammi a intendere che non ci sei, che non le stai ai calcagni, all’Acitana... Forse che non ti conosco, eh? Non sei capace tu, con la bella gioventù che ti passa per le mani, non sei capace, eh? di lasciare di contare fiorfiore 418
di giovanotti morti in guerra, per correrle dietro a lei e trattenerla per i capelli, quella meschina d ’Acitana? » Qui, di colpo, lasciò cadere quel tono smaccoso, quella mossa di voce iattante, spavalda, e tutto scaltrigno, diplomatico, si rivolse co sì a Nasomangiato: « Ma dimmi, illustrissima, levami questa curiosità, se puoi: per ché t’accanisci con lei, una nessuna, una quilibet qualsiasi, una mischiata con niente? Una femminella, che gusto può darti? È forse principessa, duchessa che ti dedichi tanto e da tanto a lei? Com’è che non te la scordi nemmeno di questi tempi che cadesti nell’oro con questa grande trovatura di guerra? Possibile che ti premii di una femminella di pace, più di tanti ominoni di guerra? O non sarà che non ti puoi digerire che dopo tanti anni che te la pigliasti, non appena sospiro e non finisco nemmeno di dire: Aci... l’Acitana im pavida, vera valorosa, non vede e non sente più niente, non ragiona più e per quanti guardiani tu le tieni a guardia e per quanto scuro e profondo, a quanto si dice, è il tuo regno sotterraneo, non la puoi mai trattenere, eh? E che le getto? Un sospiro, ma per lei è come una cima di bastimento, s ’afferra e sale linda linda, mi sale qui, al fianco mio... E tu qua devi venire, qua, Nasodicane, di persona ti devi degnare di pigliarla per il tuppo, se dopo te la vuoi riportare indietro, perché lei, spontanea non ti seguirebbe mai. E tu ti sco modi e lasci cadere caterve di morti battaglianti e vieni qua, vieni, anche soltanto per ricordarmi che chi regna ora sopra l ’Acitana sei tu e non io. Proforma, Nasomangiato, proforma... Io le faccio sordellino con le labbra e l’Acitana perde la testa, non riconosce più né re né regno, e scappa verso l ’antico stato in questo pizzo di ma rina con la faccia che ancora le avvampa. Ma tu, lordume di fem mina, che ci vedi di male in questi purparlé, fra me e la mia si gnora, più lunghi a dire che a fare? Eh, perché te li dobbiamo strap pare coi denti, questi bocconi e boccate d ’abboccamenti? Eh, che ci trovi di tanto scandalizzante? Ma chi eri tu, malanova di femmina? Vivesti mai o nascesti morta, morta scheletrita, fatta apposta per es sere quello che sei, eh? » Dopo, la voce dietro la parete si fece mormorio, bassa bassa, im brogliata di respiri e sospiri, e poi si soffocò. Questo non era nuovo per lui e sapeva bene che questo era solo il preambolo per suo padre: il peggio veniva quando, a senso suo, l’Acitana arrivava là, nella loro camera e poi, dietro la prigioniera 419
fuggitiva, arrivava a tamburo battente la sua grande guardiana Nasodicanemangiato. A ll’inizio, infatti, non c’erano né l’una né l’altra; ma perché l’Acitana gli arrivasse là, pareva che Caitanello dovesse prima forzatamen te figurarsi di apparolarsi con Nasodicane: doveva passare per lei, perciò, se non veniva lei, la provocava lui a venire. Questo, quando suo padre pigliò e tenne quel punto, fu grande mistero per lui muccusello. Ma perché, gli veniva di chiedersi, per ché, prima si mette a musica e l ’apostrofa7: Nasom angiato? N asodi cane? le sbandìa che si sta per abboccare con l ’Acitana e poi s’in furia se quella lì veramente viene a cogliere i passi della sua prigio niera? Perché stuzzica Nasodicane che dorme? Quelle primissime volte, nemmeno a dirlo, l’opera che Caitanello faceva con Nasodicane, per lui era tutta vera. Anche quando capì che Nasodicane e Morte erano la stessa persona, ancora per molto, lui continuò a credere che la Morte in persona si presentava notte tempo davanti al letto di suo padre, e ci credeva tanto da sembrar gli che Caitanello, quel grande sprudente, si mettesse ogni volta a gran repentaglio ingiuriandola, provocandola, mozzicandole l ’orec chio.
Girò l ’angolo e senza passare davanti alla porta, proseguì dritto per lo sperone, e cercando di fare quanto meno possibile rumore, s ’allontanò dalla casa. Avrebbe fatto un giro, scendendo alla marina e risalendo poi dietro le case fino al canneto. Gli voleva dare quel comodo a suo padre, gli accordava il tempo che ci voleva a fare un giro intorno alla testaditenaglia del villaggio, il tempo per conclu dere l ’opera senza conclusione. Andava all’orbisca nell’oscurità, i piedi lo portavano da soli, vera mente come un’anima che torna sui luoghi dove fu il suo corpo, sulla pietra corallina dello sperone, sulla sabbia e sulle pietrebambine del la marina, sull’argilla della plaia, fra l ’erbapulici, la cannamele, il mur murc delle canne nel canneto... Per la madò, andava dicendosi, per la madò, con tutto quello che successe e che succedeva, lui era sempre a un punto, tre persone in una. Per la madò, lo ritrovava con quel delirio che lo pigliava allora, col primo sonno, e all’inizio si sarebbero dette le febbri di Malta che lo divoravano, non appena chiudeva gli occhi. Ma che 420
si trattasse di questo: di febbri di M alta, potevano pensarlo solo i pellisquadre che lo vedevano di giorno e vedevano come si riduceva ogni notte e parlavano tra di loro che Caitanello bisognava che pi gliasse qualche pastiglia di chinino. Ma lui era lì, con lui, lo sen tiva la notte, sapeva che non era con il chinino che si poteva cu rarlo di quella specie di febbre, che due notti sì e una no, lo faceva sparlare e smaniare come si colluttasse con qualcuno. A ll’origine di tutto, doveva essere il fatto che Caitanello non era presente quando l ’Acitana morì. Padre e figlio, saliti coi pellisqua dre al G olfo dell’Aria, erano stati pigliati da una burrasca e sbattuti alle Isole. Da Panarea erano stati portati a Milazzo, da qui a M es sina e poi, da qui erano tornati alle case: intanto erano passati al cuni giorni e in questo tempo l’Acitana si era sgravata e lei e la sua creatura erano morte. Caitanello, perciò, arrivò a cose fatte, non la vedette morire, e per lui l’Acitana morì e non morì. I primi giorni non trovò parole. Andò e venne dal mare zitto zitto e nemmeno una volta girò gli occhi verso le palme, al re cinto sabbioso che gli faceva da camposanto ai cariddoti. Le prime notti, le passò seduto davanti alla porta, in casa non ci mise quasi piede. Al massimo, per non fargli entrare freddo a lui che dor miva, appena dentro, prima della credenza chiudeva la porta e si rintanava laddiètro come un beduino. Però, dopo sei, sette giorni che faceva quella storia, una notte che, lì sulla soglia, cadde di sonno, bell’e sfottuto di stanchezza, allora gli parlò delicatissimo come per farlo credere in sogno, lo tirò su, gli mise le braccia ai fianchi, gli fece fare quei pochi passi sempre come in sogno, lo fece stendere sul letto. Dormì ma verso l’alba, era ancora scuro fuori, attraverso il tramezzo, lo sentì chia mare: « Acitana? Acitana? » La chiamava con un filo di speranza, ma col cuore che gli moriva dietro la voce, manmano forse che si ricordava che quel nome non gli avrebbe raffigurato più nulla davanti agli occhi. Poi, era sceso dal letto, aveva acceso il lume e facendo luce, aveva perlustrato la camera, poi aveva aperto la finestrella e gettata luce nel viottolo e nel canneto: infine, era venuto nell’antistanza, aveva tenuto il lu me un poco sopra di lui che stava con gli occhi chiusi, e poi si era affacciato alla porta e di là aveva chiamato ancora: « Acitana? Aci tana? » con le lagrime che lo strozzavano, e una stranissima, terri 421
bile rabbia, un impazzimento senza rimedio, la fine del mondo, la morte di tutti e di tutto. Alle spalle di suo padre che chiamava al vento: Acitana? Acitana? a lui muccusello tremò il cuore al pensiero che Caitanello, rientrando nella stanza e posando gli occhi su di lui, si sarebbe do mandato, forse, perché quel muccuso era ancora vivo, con lui, quan do tutto il mondo era morto. Quella mattina, era andato da donna Cristina Schirò, che aveva assistito l’Acitana sino all’ultimo : « Patì? » le aveva domandato, e questa fu tutta la sua allusione alla morte. Donna Cristina lo aveva rassicurato da quel lato, dicendogli che l ’Acitana era morta di punto in bianco e non aveva avuto nemmeno il tempo di perdere colore. Aveva detto solo: ahi che fitta, e aveva portato la mano a sinistra. Avevano pensato a una minna infero cita, al quaglio di latte, invece era il cuore che le mancava e così era morta. « Viveva e morì. La morte se la rubò come un ladro che passa e allunga la mano » gli aveva concluso la mammina. « Ma niente disse? » aveva ancora voluto sapere Caitanello. « Ve lo dissi. Disse ahi che fitta » « Ma nient’altro? Solo ahi che fitta? » « Ah, sì, sì » aveva fatto allora donna Cristina. « Quasi mi cadeva di mente » E concentrandosi, sembrò ripetergli le precise parole dell’Acitana: « Aitano, Aitano, sovrano mio, dove ti trovi? Tu sei lontano per mare e qua c’è chi ti distrugge il regno tuo, il cuore mio » Questo non era vero, l ’Acitana aveva avuto tempo solo di mori re, ma Caitanello si aspettava qualcosa del genere e la mammina, impietosita, le aveva messo in bocca quella menzione amorosa, che non lo dimostrava, ma doveva averlo fatto andare in estasi. Ma lui, non contento, le aveva domandato dell’altro: « E mi dite che non si perse di colore? Mi dite che me la posso ricordare bella sino a quel passo? » « Sino e oltre. Bella come quando voi ve la portaste qua da Aci; e noi ci facevamo il segno di croce con la mano manca come po teva essere che quello sciòllero di acitana si squagliava tutta per un orangutango come Caitanello Cambrìa » Caitanello aveva abbassato le palpehre e se n ’era stato un pezzo, 422
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così, ritirato dentro, come andasse rivedendo l ’Acitana, cogli occhi girati all’indietro, nel loro passato. Donna Cristina, più bassa di lui, una specie di nana tutta testa, gli vedeva solo il bianco degli occhi, come se tenesse effettivamente rovesciate all’indietro le pupille di sotto le palpebre. Per alleviar gli, a criterio suo, l’intimo dolidoli, gli aveva fatto segno verso le palme che si dondolavano davanti a quel lungo rettangolo di sab bia cintato di canne, che di lontano si poteva scambiare per una mellonara come le altre ed era invece una cristianara: « Lo sapete con chi la mettemmo? » gli disse. « La mettemmo in compagnia di Lucia Pantò e di Savina Licandro. Vi ricordate co me se la confacevano? Non vi parve una buona pensata? » Caitanello però, non aveva guardato verso le palme, non aveva guardato neanche verso donna Cristina, non aveva guardato a nul la del presente: anzi, aveva avuto come un tic agli occhi, stringen doli con forza ancora di più sotto le palpebre. Donna Cristina lo conosceva anche lei il tipo, il tipo che teneva il punto in ogni cosa: ma quello era forse un punto che si potesse mai tenere? Nemmeno le passava per mente che Caitanello fosse arrivato a un punto tale, non si sognava nemmeno che le cose di cui si premurava informarlo, lui, non solo non si desiderava di saperle, ma gli riuscivano persino spoetizzanti. Ignara com’era, venne a parlargli per soprammercato della cassa. Gli disse che si erano serviti anche per l ’Acitana del legno della Polare che avevano messo in disarmo l’ultima estate, tirandola vidno alla Lanterna Vecchia all’inizio della plaia: però non era de stinata a incarcassarsi nella sabbia perché, ancora sgocciolava e su bito cominciarono a smantellarla per fare la cassa alla vecchia Tana Chillemi. « Era legno buono, gelso bello » gli aggiunse per rifinirgli la cosa. « La cassa della vostra Amalia venne proprio pulitella » Come d ’istinto, Caitanello aveva allora riaperto gli occhi e aveva dato un’occhiata accigliatissima, lì a destra della casa di donna Cri stina, nell’erbapulici sotto la Lanterna, dove s’intravvedeva quello che restava della carcassa della Polare, il timone, la spina della ca tena e qualche traversina del fasciame. Donna Cristina aveva immaginato che cogitasse sulla barca che si spogliava della sua armatura di gelso e la dava ai morti, che se condo lei era un vero peccato che non si facesse sempre, perché 423
sarebbe cosa giusta e naturale se è vero che i morti devono navigare per andare dove vanno. « Eh, don Caitanello? » gli aveva detto, nel mentre lui guardava fisso da quella parte. « Chi se lo sarebbe immaginato che quello sfa sciarne di barca era capace di imbarcare una vecchia, una maritata e una giovanottella che poi sarebbero Tana Chillemi, Melina Currò e la vostra Amalia... Pare quasi che le imbarcò per campioni di tutte le età che abbiamo noi femmine, eh? » Caitanello fece ancora come fosse sordo e muto, solo levò gli oc chi dalla carcassa e li girò a mare. E qui, come seguisse sempre quell’idea del viaggio, donna Cri stina aveva lasciato il corpo e pigliata l ’anima. S ’era azzardata, lo sapeva benissimo, specie con un tipo come Caitanello Cambrìa, per ché i pellisquadre s’inguardiavano tutti a sentire anima, come fosse un sacco nero senza fondo e questo sacco gliel’apparassero in testa per pigliarli in trappola. « E riguardo all’anima, » gli aveva detto « da quel lato non vi dovete dare pensiero. Facemmo ogni cosa come di dovere. Quando fu il momento, io, Rosalia Orioles e Stena Paiamara, non perdemmo tempo: io velai lo specchio dell’armuaro perché non si stampasse là, e Rosalia aprì la finestrella di dietro e Stena spalancò la porta. E tutte e tre, contempo, con le sole labbra, le dicemmo dietro: va’, anima di Amalia, volatene liberamente... » Caitanello, se lo sapeva lui se la stava a sentire oppure no. Con tinuava a tenere gli occhi girati a mare come quando stava a filere sull’albero dell’ontro e se non dava segno di gradire, non lo dava neanche di sgradire: e donna Cristina, che volere o non volere, era stata a un capello dal farsi monaca, e infatti se ne scappò che era già rapata, ne aveva approfittato per somministrargli, a senso suo, una dose ancora più forte di anima. Più forte ma anche più gradi-’ bile, ragionava la mammina: gradibile, ow erossia credibile, perché, per un pellesquadra non poteva esserci niente di gradibile in unacosa che, tanto per cominciare, non aveva niente di credibile. Se-j condo lei, perché gli andasse a genio ai pellisquadre, bisognava por-j targliela a gusto loro, come cosa di tutti i giorni, cosa che i loro ; occhi vedevano e le loro mani toccavano: e che poteva essere que-i sta cosa se non il pesce? Ora, se gli veniva portata sotto specie di' pesce, doveva andargli per forza a genio. Del resto, l’avevano purej 424
dimostrato una volta che, fatta a pesce, l ’anima non li strambava, non li riduceva chiusi e spinosi come ricci... Effettivamente, quella dell’anima a pesce, a pescerondine, per es sere precisi, non era un’invenzione di donna Cristina Schirò. Chi ne parlò per primo e per primo lo sperimentò, fu Simone Gaspiroso. Certo, doveva ricordarsi di Simone G aspiroso, don Caitanello. Quel li di una certa età se lo ricordavano tutti, per forza dovevano ricor darsene, anche se era solo per quel motivo che se ne ricordavano: anzi, ci sarebbe stato da credere persino che quella eccentricità gli fosse servita solo per lasciarsi dietro quel ricordo in forma di pe scerondine che lo ricordasse. Simone Gaspiroso era nientemeno dal sessanta che andava sper so pei mari. Nel sessanta, quando lui aveva solo quattordicianni, a quella punta di Sicilia era arrivato Garibaldi come una ventata, e in quella ventata il muccusello non si era visto più. Si dice va, ma non era cosa sicura, che Simone era stato uno di quelli che a Garibaldi gli avevano fatto da piloti per non farlo incappare con le navi nell’imbroglio delle reme e dei garofani vorticosi. Però, una volta a M elito, Simone spari, non si seppe mai che fine fece: se ne persero le tracce e per cinquantanni, di lui non arrivò nem meno una cartolina, nessun segno di vita. Padre e madre gli mori rono, gli mori pure sua sorella Caterina, e l ’unica parente che gli restò, fu la figlia di quella sorella, che si chiamava Isabella: Isabella si maritò con Ninai Scarfl, e quelli erano madre e padre dell’attuale Jano Scarfl. Tutti, insomma, avrebbero giurato che Simone Gaspiroso era morto e sepolto chissà dove, chissà da quanto: invece era ricom parso, verso il millenovecentonove, o il millenovecentodieci, poco dopo comunque il Ventottodicembre, come avesse avuto bisogno di quel terribile terremoto per ricordarsi dove e da chi era nato. Era ricomparso senza preannuncio, nero di sole e segaligno, con una argentina, un paio di pantaloni a larghe falde e le scarpe da tennis, vestito insomma più come scagnozzo che parte per pigliare imbarco che come un marittimo che finalmente si sbarcò e torna a casa coi capelli bianchi. Cercava di sua sorella Caterina e trovò la figlia di sua sorella. Isabella e Ninai Scarfl lo ricevettero, facendogli bella faccia come a un parente resuscitato, però era naturale che nel fondo gli sembrasse di essersi messo in casa un forestiero, perché, se per caso invece di 425
essere quello che diceva, era un altro, non avrebbero potuto mai scandaliarsene. Simone Gaspiroso, comunque, tornava con la sua morte già pre parata e pronta, a portata di mano, come l’avesse nella sacca che te neva girata dietro la spalla, e che era tutto il suo bagaglio. Dentro quella sacca portava uno splendido vestito blu, una camicia bianca, una cravatta a farfalla dello stesso colore del vestito, e un paio di scarpine di coppale come nessuno ne aveva mai viste: quello era il suo armamentario da morto, tutta roba che aveva comperato a San Francisco prima di partire. Disse alla nipote che era inutile che lo conservasse, era meglio lasciarlo sopra una sedia accanto al suo letto, dato che a momenti, cosi disse, ne avrebbe avuto bisogno. Pareva che avesse tenuto la sua morte in sospeso, per i mesi che era durato il viaggio, sinché non arrivava a destinazione; e una volta a destinazione, sinché non gli pescavano quel pescerondine che di ceva: solo allora, la sua morte, non avrebbe mancato più di nulla per essere e sarebbe stata. C ’era voluto l ’argano e l ’organo per decifrare dalla sua bocca quel la che là per tutti era una novità indecifrabile e per lui invece sem brava cosa semplice e ordinaria. Parlava una lingua che era un frit tomisto, un purpurrì come quello che parlano quelli come lui che stanno imbarcati tutta una vita, facendo dei bastimenti patria, casa e famiglia e avendo per compagni di bordo e compagnoni nei porti, marinai d ’ogni razza e lingua. Quando, alla fine, sbarcano, sono co me Simone Gaspiroso, che non si ritrovano più nemmeno con la lo ro lingua: però là, fra loro, è un mistero come se l’intendono a me raviglia. Il signor Cama, che era uno di quelli, perché era stato im barcato trentanni prima di venire a Cariddi come Delegato di Spiag gia, si vantava sempre che lui, americani, francesi o tedeschi, gli bastavano due parole di americano e due di siciliano per spiegarsi con chiunque fosse, anzi, se non ci metteva il siciliano, non lo capi vano. E gli bastava dire, per un esempio, di quella volta che a Sciangai in un ragionamento difficile che avevano per le mani, gli aveva concluso così a certi marinai inglesi, portoghesi e cinesi: Papa co me pope al so rait, ma Papa come King, che nicchinnacchi? E quelli d ’accordissimo, gli avevano pagato persino da bere. In tutti i modi, dopo giorni e giorni, interpretarono la cabala che parlava aiutandosi più che con le parole, con smorfie e gesti, anche 426
se dopo, quella per loro restò lo stesso una cabala quanto ai signi ficati più reconditi. Si trattava di questo. Quando moriva, badassero bene, lui non desiderava che gli mettessero tra le labbra né quella porcheria di favetta che poi faceva il verme, la papuzza con le ali, e volava, né soldi nel palmo di mano per pagarsi il traghettamento, perché non avendolo mai fatto da vivo, non era disposto a farlo da morto, di pagare qualcuno per un passaggio in barca. Favetta e soldi, inten deva dire, che stilavano qua e là, per il mondo, e favetta e soldi gli diceva a loro, nel caso in cui anche loro stilassero favetta o soldi, ed era chiaro che lui non se ne ricordava più. « Quanto a me, » aveva detto a Ninai Scarfì « se adocchi pescerondine, pescamene un poco: sarà oggi, sarà domani, quando lo pe schi, quello sarà il mio giorno di morire. Piglia una femmina, cer cale le uova e spalmamene un poco fra labbro e labbro. Ormai, di tutti i pesci del mare, quello solo mi giova, che ha le ali. L ’anima mia, se vuole, ne può approfittare; ha l’ali e vola, se deve volare, ha pinne e nuota, se deve nuotare. Con tutto questo mare, io dico, il pescerondine è quello che ci vuole » Come disse, fece, fu. Come lo decidesse lui quel momento, si ten ne il respiro e morì quando suo nipote Ninai gli trovò il pesceron dine. Prima però, e giustamente, avevano pensato che se voleva un pesce con le ali, l ’alalonga ne faceva mille del pescerondine e do veva convenirgli assaissimo di più; ma lui non ne aveva voluto nem meno sentire. Fortunatamente, due scagnozzi di Spadafora pizzica rono un pugno di quei pesci volanti e dato che si era sparsa la voce, li portarono a Ninai Scarfì. Ora, quei due scagnozzi erano ancora in mare e don Simone G aspiroso, come aveva stabilito, moriva: le sue labbra erano ancora calde mentre sua nipote Isabella gliele ri passava con quelle ovarine invisibili e trasparenti, che sulle labbra sembravano bollicine della sua saliva. Fu forse per come si tenne in vita a libito suo, sinché non ebbe il pescerondine, che i pellisquadre presero in considerazione quella novità e cogitandoci sopra, dovettero trovarci qualche fondamento. Il pescerondine, infatti, è un piccolo pesce, più che altro di vista: una specie di sardona, si faccia conto, solo che è bianca e blu e ha pinne a doppio uso d'ali: siccome non sta sempre in acqua e per lunghi tratti vola, quando viene annugolata, è uno spettacolo da ve dere e da sentire, un vento fino, bianco e nero, pelo pelo all’acqua, 427
che fa ronzio. La sua carne però, anche se tenera, è liscia e dissapita, di gusto paglino: il pescatore non ci perde tempo, perché non vale un soldo e ai riatteri nemmeno se gliela regalate, per non dire poi che pochi pesci come quello sono difficilissimi a pescare per il fatto che perlopiù perlappunto vola. Però, ora che Simone Gaspiroso gliel’aveva fatto notare, poteva darsi che una tale babberìa di pesce non esisteva per essere ven duto ai riatteri e mangiato, forse era destinato solo a quello: ovarina, a essere spalmato in mezzo alle labbra perché l’anima, lo spi rito, il respiro, quello che era, traboccando trovasse, 11 pronte, tutte quelle pinn’ali per traslocarsi dilà, viamare: perché, per un pescatore deve trattarsi obbligatoriamente di passare un mare, pigliare acqua, navigare. Il pescerondine li persuadeva, poteva essere benissimo, quella, la figura di pesce che avrebbe preso la loro anima: sennò, perché ave va quella stranezza delle pinn’ali? sennò, perché la sua carne era liscia e dissapita, sapeva di niente come fosse solo apparenza e pro forma, quello che giustappunto doveva essere il sapore della cosid detta anima? Quello fu un momento di gran favore per l ’anima, mai forse si era visto tanto lustro da loro. Però, venendogli dal pescerondine, quel lustro si doveva per forza e in breve tempo appannare. Infat ti, che facevano? Ognuno che moriva, dovevano perdersi di casa in cerca di pescerondine? E se pescavano, semmai lo pescavano, il pesce per il morto, il pesce per il vivo quando lo pescavano? Cioè a dire: quando se la buscavano la giornata? Il pescerondine era forse cre sciuto di valore con l’aggiunta dell’anima? I riatteri avevano forse preso ad apprezzarlo? Un affare per essi e per essa, sarebbe stato, se l’anima, invece del mignunaro pescerondine, avesse scelto per il comodo suo di viaggio lo spada in primis o la citata alalonga, o la ricciola, la cernia, il dentice, o anche il tonno, il tonnacchiolo, il palamito, anche se con questi soggetti ricercatissimi correva il rischio di non arrivare mai a destinazione. Così, passando gli anni, quel pensiero del pescerondine, i pellisquadre lo avevano lasciato quasi tutto alle femmine perché quelle faccende di nascere e di morire se le sbrigano meglio le femminelle e come fanno, fanno sempre bene, purché non si lamentino. Persuasa però, che col pescerondine non si poteva arruffare, don na Cristina passò a dirgli: 428
« Per giunta, siccome si presentò la combinazione di un pugno di pescirondine fuori stagione e con le femmine implenate, ci sembrò peccato che non ne approfittavamo per spalmarle ad Amalia un poco d ’ovetti sulle labbra. L ’anima, pensammo, casomai trovò impaccio a uscire, quando i pescirondine metteranno le ali tra le sue labbra, se ne volerà via che sarebbe una bellezza vederla, se si potesse ve derla. Bella invenzione ci portò don Simone Gaspiroso con questo pescerondine, eh, don Caitanello? Pensatela, la vostra Amalietta, pen satela come le sta a pennello la rondinella in volo. Può pure essere che con le pinnett’ali del pescerondine si piglia delle buone abi tudini della rondinella di mare che parte e che torna in continua zione, non vi pare? Capace che viene e si posa alla vostra finestrella, oppure vi volteggia intorno alla testa, facendovi rinrin mentre state sull’albero dell’ontro. Eh, don Caitanello, voi ormai dovete stare con l ’orecchio teso, non appena s ’avvicina maggio... » Qui però, Caitanello, aveva girato le spalle e se n’era andato, senza dirgli né vi ringrazio né chi vi pregò. Donna Cristina restò sempre però con l’impressione che quella rondine di mare che a maggio tornava con lo spada e con la quaglia e veniva a fargli rinrin attorno alla testa, gli aveva lasciato il segno dentro. Ma la mammina non doveva conoscerlo molto bene, se lo faceva tipo d ’accontentarsi solo di quello.
Passarono, senza che succedesse nient’altro, i mesi con la r: feb braio, marzo, aprile, venne maggio e finalmente sullo scill’e cariddi s’affacciarono i primi spada, e con essi, come sempre, ogni cosa, pensiero o fatto, bello o brutto, passò in seconda linea. Venne, coi mesi senza r, il gran daffare della passa, dei sorteggi e delle poste, il traccheggio d ’amore e di morte, e Caitanello Cambrìa sali sull’al bero di filere a guidare la quadriglia dei pellisquadrè cogli spada. Gli spada, se per un verso lo sboriavano, per un altro, metten dogli di continuo sotto gli occhi il loro amore sviscerato per la fem mina e quel loro impazzirsi e precipitarsi a morire dietro a lei, con lei, come se ai loro occhi anche il mare morisse, con la morte della fianchipieni, gli mantenevano fatalmente il dito sulla piaga. Caitanello Cambrla non era ancora tornato ad essere lui; aveva perso il puntiglio e l ’animosità che metteva in ogni cosa e sull’al bero non faceva il solito magnifico uso dei suoi occhi di falcone. 429
Faceva mare e casa, dalla parte delle palme nemmeno guardava e di sua moglie non parlava mai, come non la ricordasse, né da viva né da morta. Fu verso la fine di luglio, dopo tre mesi fitti di sole in cima al l ’albero di filere, che una notte si mise a sparlare: rivolgeva la pa rola a qualcuno che chiamava non per nome ma con l’intesa di Nasodicane o Nasomangiato, che era poi la stessa cosa, come fosse lì da vanti a lui, e fu quella volta che lui credette che questo Nasodicane 0 Nasomangiato fosse qualcuno, una specie di guardia carceraria, tanto per dire, che veniva da parte di sua madre, come si trovasse prigioniera in qualche posto, non morta, condannata all’isola, per esempio. Per questo, sinché Nasodicane non gli si svelò alla mente per femmina, e che femmina, pensò che sua madre poteva essere una sovversiva e in quel momento s’illanguidiva forse al confino di Lipari e si sforzava allora di immaginarsela fra quei sovversivi che 1 pellisquadre, remando per il G olfo dell’Aria e incrociando il po stale che faceva Milazzo Lipari, riuscivano a vedere qualche volta, legati insieme per i polsi con le catenelle, attorniati dalle guardie coi moschetti: stavano isolati verso poppa, girati a guardare il mare fuori della murata e don Luigi Orioles quando gli passavano davanti si alzava a mezzo e levandosi il berretto, si inchinava. « Finalmente, finalmente... » se n’era uscito a dire Caitanello. « Ti aspettavo, Nasodicane, ti aspettavo. Che novelle mi dai di quel la tale personella? » E dopo un p o ’ : « E allora? Io pronto sono. Forza, Nasomangiato, fammi strada per dove tieni l ’Acitana » Pareva ci fosse già conoscenza fra di loro. Suo padre credeva for se che Nasodicane lo avrebbe accompagnato dall’Acitana, ma sicco me, quella, col silenzio, sembrava dirgli sangue, sangue, lui preten deva che portasse lei da lui, là, nella cameraperdormire. M a N aso dicane, sempre zitta, non l’intendeva. La strambotto, l’ingiuriò, le sputò sui piedi, la provocò in ogni modo e maniera, di puttana la pigliò e di puttana la lasciò. E infi ne, quando l ’ebbe ridotta come una pellepisciata, passò a dettarle le sue condizioni con tono che non ammetteva replica: « Levati di là. Spostati » le ordinò. « Lascia il passo a mia moglie. E mentre è qua, scordatela. Non ti azzardare a dire o fare nulla, non t’intrigare, non pipiate... » A sentirlo, era come se fosse lì, presente e viva sotto i suoi occhi, alle spalle di Nasodicane, l ’Acitana. E lui che continuava a dormire 430
sul materasso fra le sedie nell’antistanza si era soprassaltato nel son no, aveva trattenuto il fiato. Eccolo che tornò lui, si era detto, quan do si fu orientato e sbiancando aveva capito chi veramente c’era laddèntro con suo padre. Eccolo che si risente un potentomo di pun tiglio, che non si arrende e se non è Orlando né Rinaldo, è però Astolfo che non vede pericoli, parte e va direttamente nella Luna, a ripigliare il respiro dell’Acitana. Eh, non c’è proprio niente da dire: coraggio ne ha persino di soverchio, l ’ha astolfino, il cuore... Tremava per lui e se ne inorgogliva: contrastava la M orte, la chia mava a disfida: per un puntiglio, per quel puntiglio, forse si stava giocando la vita. Quando finisce di parlare, pensava, si può conside rare morto. Sin troppo parlò, per il carattere di quella Nasodicane. Da quello che ne aveva sentito dire, sapeva che quella era una donna di scopo. Era come il carabiniere, il finanziere e il questurino, che se venivano, non venivano mai in visita di piacere. Il suo scopo, quella volta, era Caitanello Cambrla, il marito dopo la moglie: piglia ta la spadessa, col suo comodo veniva a pigliarsi lo spasimante Pulci nella. Doveva sapere meglio di tutti, lei, di quell’afflizione del ma schio, quando si ritrova solo, senza più la compagna della sua vita, così solo che sembra quasi ringraziare il lanzatore che manda anche lui a morte e lo accoppia al suo bene. Però Nasodicane non faceva musione di sorta, suo padre parlava e non gli succedeva niente di male, anche se era pure vero che non gli succedeva niente di bene. Girava, girava ed era sempre a un punto; la sfidava, ma Nasodicane pareva stare in cima alle mura d ’una città fortificata, dove teneva prigioniera l’Acitana, e di lassòpra vedeva quel palmo di cristiano di sotto nella polvere che gridava, le gridava ingiurie, la sbordellava, per provocarla a duellarsi con lui ma a lei da un orecchio le entrava e dall’altro le usciva. Le ultime parole che quella prima volta le indirizzò furono que ste, se le era impresse bene nella mente, perché gli pareva un grave fatto quello che stava succedendo nella cameraperdormire: « Nasodicane? Sentimi bene. Porto a tua conoscenza che venni nella decisione di abboccarmi con la mia legittima sposa. Ci trovi niente da ridire? T ’avviso, che se non me la rimandi con le buone, vengo di persona e me la piglio con la forza, vuoi o non vuoi. C ’in tendemmo? Ti dissi che m ’abbocco e m ’abbocco... » A quel punto, s ’aspettò che Nasodicane facesse sentire finalmente la sua voce, invece non fiatò. Questo però non voleva dire che col ta 431
cere acconsentiva, le parole di Caitanello avevano l ’aria troppo mafiosa: se lo poteva mai sopportare Nasodicane? Che succederà la prossima volta? si era domandato. Però, non c’era voluto molto tempo per capire che suo padre parlava troppo per fare fatti e N aso dicane, da parte sua, taceva troppo per non farli, per cui, quanto più suo padre vinceva a parole, tanto più perdeva nei fatti. D ’allora in poi, suo padre e Nasodicane si ritrovarono regolar mente sempre d ’estate, nei mesi senza r, amore contro morte, nel traccheggio di miele e fiele, fra il ferro della traffinera e le carni di seta rosa delle spadesse, fra lo zampillio vaporoso del loro sangue e quello dei loro maschi che subito si mischiava al loro come lo cala mitasse. Ogni fianchipieni intraffinata era allora, per Caitanello, l’Acitana e lui stesso era ogni Pulcinella che si gettava a corpomorto per es sere trafitto dal ferro che sgocciolava ancora del sangue della fem mina, e tentava di saltare accanto a lei sull’ontro e tante volte suc cedeva che restasse in vita, ma non perché i pellisquadre si potessero permettere quel lusso di pietà, ma perché la fianchipieni, gettata sull’ontro, gli impediva il pieno governo della barca; e succedeva che il Pulcinella seguisse a riva la sua femmina e aspettasse là di ricevere dai pellisquadre quella grazia.
Di estate in estate, era andato persuadendosi che gli spettacoli che vedeva dall’albero di filere, dovevano avere su suo padre catastrofici effetti contagiosi. Il peggio era quel sentore d ’ovarume, di quaglio d ’ova a cova che gli restava nelle mani e nel naso se quel giorno aveva toccato o accostato la faccia allo spada: perché, lanzato in piena cova e tirato fuori dall’acqua, il Pulcinella sfuma da tutto il corpo una specie di forte effluvio, eccitante e schifevole, un fetore improfumato di ovarina e di lattume, una zaffata degli spurghi delle ovaie della fianchipieni che gli arrivano in un mazzo vischioso con le ova da covare che quella matrona di madre si lascia cadere a scata fascio dallo spacco di sotto senza nemmeno girarsi, e che mezzo fa chiudere e mezzo aprire ancora di più le narici. Caitanello però, ne avrebbe aperto quattro di narici, non due, se le avesse avute. Andan do a letto che sapeva tutto di quel dolciastro selvaggio d ’ovarume, passato da spadessa a spaduzza, fatalmente si metteva a covare pure lui a maschio e femmina. Col sonno gridava come in delirio e fatal 432
mente, tempo passava e si scambiava con lo spada che al giorno aveva visto impazzirsi attorno all’ontro nel mare lacerato dalla sua femmina, allora allóra ammazzata. E allora pure lui, Pulcinella vedo vato, pure lui si sfiancava attorno all’ontro, sopra al quale vedeva sfumare in vapori rosa e rossi la grande, leggiadra sagoma della fian chipieni, e smaniava di morire, s ’avventava col suo osso spadato con tro l ’imbarcazione, lo sbatteva di punta e di taglio contro lo scafo incatramato, come bussasse alle nere porte della Morte. M a Nasodicane stava là, come ai piedi del letto, a prora dell’ontro, e con la traffinera lo teneva bordo bordo, nell’odorata sanguinosa dell’Acitana, senza ammazzarlo mai. E per questo, una notte, fece scambio di persona, pigliando Luigi Orioles per Nasodicane. Lanzate, lanzatemi, forza, lo sfidava ingiuriosamente. Lanzatemi, miserabile Orioles N a sodicane. E che vi costa a voi, lazzarone, che vi costa con la traffi nera impugnata, pigliarvi sta vendetta? Lanzate, lanzatemi, come lanzaste la femminella mia... Per una ragione quasi identica, in quanto la fera faceva in quei mesi coi suoi denti, come don Luigi con la traffinera, ma per dieci o cento volte lui, la sua bella carneficina di spadesse, un’altra volta Nasodicane pigliò ai suoi occhi quella sembianza smorfiosa. Fera? Nasodiferamangiato? l’aveva apostrofato ed era rimasto per qualche momento senza parola, colpito forse dalla straordinaria somiglianza di connotati e di caratteri fra le due illustrissime. Pensa che bellez za d ’intesa ingiuriosa ti trovai, le disse quando ritrovò la parola. Intesa ingiuriosa? Ma sentimi, sentimi che ti dico, intesa ingiuriosa ti dico... Ma sentimi, sentilo sto rimbambinito che questa sì, che è ingiuria... commentario tra sé e sé, e per la prima volta, da quando faceva quell’opera, lo aveva sentito spremersi, anche se maligno ma ligno, un p o’ di riso. Non sapeva precisare quando, in quale estate, in quale mese d ’e stà, fece come si abboccasse veramente con sua moglie. Nasodicane, nemmeno a dirlo, era sempre presente. Aveva voglia a boccazziarsi, parlava per farsi schiuma in bocca, non riusciva mai a scacciarla dalla camera: forse, vincerla non poteva, ma forse non voleva nemmeno e sotto sotto si compiaceva forse che lei assistesse al suo purparlé con l ’Acitana. Ma chi voleva infasciare? Nasodicane? L ’Acitana? O solo se stesso? O tutti e tre? O nessuno? Ma lui, come faceva a dirlo? Era cosa troppo grande per l ’età sua, l’età d ’un muccusello che era ancora come avesse gli occhi chiusi, ancora all’oscuro di vita di 433
morte di tutto. Però, poteva dire questo: dopo la pantomima con Nasodicane, Caitanello dava netta l’impressione di abboccarsi con l ’Acitana, come se l ’apparolamento che faceva con Nasodicane muta, gli servisse per quello, d ’incentivo, stimolo, sprone. Ora, tirava fuori anche la veste viola, ora, forse, anche la veste viola faceva parte del suo armamentario, aveva bisogno anche di quel l ’incentivo, stimolo e sprone, ora: ora, forse, non ce la faceva più a competere da solo, col solo coraggio, con Nasodicane, anche un Astolfo si fa vecchiarello. Per questo, se voleva ancora strappare l ’Acitana dalla sua guardiana Nasodicane, gli abbisognava figurarsela davanti agli occhi dentro quella veste viola. E poi, aspettare, aspet tare, come il miracolo di San Gennaro, che quella reliquia gli su dasse sangue nel palmo delle mani.
Camminando in mezzo alla cannamele, rasente alle case, era risa lito nuovamente sino al canneto: e nello stretto passaggio, ripassan do dietro i muri, dietro le spalliere dei letti, aveva risentito il respiro degli addormentati, ora grosso, ora fino. Questa è la mammina, donna Cristina Schirò, si diceva nominandoli mentalmente. Queste sono ma dre e sorella di Duardo, rimaste senza più maschio in casa. E questi, Jano e Margherita Scarfì, e questi poi Arturo e Stena Paiamara e figli. E questi, don Luigi e donna Rosalia Orioles, e questa, Marosa, che dev’essere una colomba quando dorme, almeno quando dorme... Dopo questi respiri cristiani, seppe subito di trovarsi dietro la casa ad angolo, alla fine del canneto, anche se il muro non era più lineato di luce, dal barbaro respirare che faceva invece suo padre: con scompiglio, da gran vegliante, imbrogliandosi col respiro, in ghiottendo saliva, gorgogliando e arruffandosi tutto come un mutangolo, che scava, scava e si contorce tutto, per disseppellirsi di dentro, alla fine, infelice aborto di parola. Pareva che soffiasse a grandi sbuffi il suo fiato e che questo, smuovendo il tanfo di fera e il sentore d ’acetoforte, sventasse fuori per le lesionature dei muri: ed era come se Caitanello respirasse per tante bocche, quante erano le crepe per cui spirava fuori il suo sospiroso, affannato checchìare di mutangolo. Decise, senza nemmeno fermarsi, di accordargli un altro giro. Caloma, caloma, si diceva: diamogli ancora caloma, corda corda, sa gola, al Pulcinella, finché non si perde di lena ora che, tanto fece e finalmente ci arrivò che smania col ferro della traffinera ficcato nel 434
fianco... Si diceva questo, diceva di volergli accordare a Caitanello un altro giro, un altro p o ’ di tempo, e aveva sempre l ’impressione di ac cordarlo anche, anzi, per primo, a se stesso, un altro giro, un altro rinvio al suo incontro con Caitanello e ne avrebbe fatto un altro an cora, di giri, se occorreva e ancora un altro, sinché insomma suo pa dre non riaccendeva il lume: e andava passando, svoltava l’angolo con passo leggero, quando la voce cavernosa di Caitanello si sparpagliò fuori per le fessure. Parlava all’Acitana e si scioglieva miele in bocca. « Partiti, vieni, Acitana » le diceva. « Non hai bisogno dello stabene di Nasodicane, partiti, vieni, non ti spagnare, Nasodicane nulla ti può e la guerra sarà un mese e mezzo che passò e finì lo scon quasso di bombe e cannonate che non ti faceva sentire quando ti chiamavo. Partiti, vieni, fa’ come ti dice Aitanello tuo. Trattieni il respiro, muovi i piedi, spingili per dietro, congiungi le mani, piglia manate d ’acqua e cacciatela di davanti alla faccia, apriti l’onda scura. Vieni, così, così... » Anche questa era una novità: si sarebbe detto che l ’Acitana gli venisse per mare, ora, perciò la istruiva al nuoto, come andare sot t’acqua, sommozzarsi e riassommare. Ma il mare forse, l ’intendeva metaforico, mare di tenebre: oppure intendeva mare per mare e dun que aveva pigliato atto che l ’Acitana era seppellita nelle sabbie sot to le palme. D i là, dicevano ai muccuselli, si scendeva sprofondando nella sabbia, si scendeva per laddèntro, lassòtto sinché non s’incon trava l’acqua salata, e scandendo poi il nero fondo marino. Allora bisognava trattenere il fiato, ma chi l ’aveva più il fiato sotto quel le sabbie? e nuotare, nuotare sinché di sopra non arrivava uno spec chio di luce. Allora si poteva riassommare e una volta a galla, quel lo che vedevano mare calmo e trasparente, traboccante di pesci che da soli, mansi mansi, saltando in barca, nella mano, senza bisogno di reti né ami né fiocine né traffinere, quello, era il loro paradiso di mare, là si sarebbero ritrovati tutti, famiglia per famiglia, chiumma per chiumma... Ma doveva sembrargli un azzardo, doveva sembrargli di metterla in un rischio troppo grande: « No, no, fermati » le gridò pentito. « Non fare natamento alcu no, rilassati, non ti esporre, tu tanto delicata, innocente e spratica di tutto. Aspetta, aspettami che ti vengo a pigliare io. Dammi tem po di scandagliarti dov’è che ti trovi in mare, dammi tempo che m ’o riento... » 435
A queste parole era seguito, dietro il muro, l ’arruffio straziante, ringhioso, di lui che si gettava in quell’impresa come un cane arrab biato, con la bava alla bocca, che scavasse dentro la sabbia con le unghie e coi denti, disseppellendo e gettando all’aria fra la polvere, ossa su ossa, vuote secche porose come pietrapomice. Scavava, questo senso dava: ma dove, dove? Scavava forse den tro la veste viola, fra le ossa insabbiate dell’Acitana e le ragnatele della sua siluette, sopra, sotto, affannandosi a scavare, a cercare l’in trovabile, fra gli strappi del suo respiro e nugoli di polvere acre e sciroccosa. Certe volte pareva che si riempisse di sabbia anche la bocca e il petto e certe volte pareva che il suo respiro fischiasse vi brando con un risentimento di corda tesa nel vento, che sfrega con tro l ’anello e si riscalda e brucia, e sfilaccio dietro sfilaccio, sta per spezzarsi, con un ultimo sibilo e con fragore di alberatura che ro vina. S ’allontanò che arrossiva e impallidiva; s ’allontanò che gli pareva di essere, ora muccusello che tornava di guerra e stava dietro il muro di casa, ora marinaio che dormiva dietro il tramezzo; s’allontanò che sentiva grandi impulsi di furore e di tenerezza; s ’allontanò che pen sava: meglio la guerra vera, mortale e dichiarata, meglio la guerra di cannoni e di fucili. Oh, Caitanello, padre mio meschino, la tua è guerra che non la vuoi né sai perdere, e guerra pure che non puoi mai vincere. Se pensava all’incontro con suo padre, lo pigliava un grande strin gimento di cuore e confusione di mente perché, quali parole, quali gesti doveva usargli per non tradirsi, per non lasciarsi trasparire quel lo che aveva visto e che non gli pareva, non gli pareva cristiano... Ora, pensava, non ha nemmeno bisogno di addormentarsi, l ’ope ra l ’arma a occhi aperti, a piacere suo. Ecco, gli viene di abboc carsi con sua moglie, lascia di fare quello che fa e s’abbocca. Anche se quello che fa, è cosa abominevole, cosa di fera, mosciame, e con quelle mani non si dovrebbe mai incalmierare con l’Aci tana. Astolfo sprudente, testardo, si comportava nel suo piccolo come un grande dio francese, iattante, superbioso, tutto fumo e polvere in quella tanfosa cameraperdormire che si era eretta a fortilizio: si fabbricava la vita dell’Acitana con le sue stesse mani, come chi tira fuori ta bacco e cartina, si fa la sigaretta e se la fuma. E ora, non solo poteva armare la sua opera di punto in bianco, fra una cosa e l’altra, a lascia questo e piglia quello, ma poteva fare 436
a meno anche della stagione propizia, dell’està e del sentore vomitoso che sale dai mari dove la fianchipieni si svacantava delle sue ova in punta allo spadino del suo fidelissimo, innamorato pazzo, che gliele cova. Eppure, quante belle e invidiabili estati aveva avuto Caitanello Cambrìa, anche se ora, là, a sentirlo in quella camera come faceva il mendico, costava un certo sforzo ricordarsi di quel Caitanello Cambrìa, che non si poteva concepire se non d ’estate, a filere sopra gli appoggi dell’alberello dell’ontro, fra vento e sole, coi suoi occhi di falcone che ora spiavano in cima alla feluca, alla vedetta intinnere che gli doveva gettare il grido d ’intesa che lo ribel lava tutto e ora perlustravano la posta e oltre la posta, il mare mon tante, il mare calante, la grande fiumara dello scill’e cariddi inalbe rata di ontri e feluche, scandagliata da occhi famelici, silenziosa o vociata con grida di scannati dalle vedette come tanti condannati al palo, al supplizio del sole. Il falcone senz’ali volava cogli occhi sopra la cupa azzurrità di mare rigata dallo zigzag degli spada, dentrofuori, dall’amore alla morte: una lavagna d ’acque, scheggiata dai ferri delle traffinere, incrociata dalle balenanti ombre delle lunghe aste, una iavagna schiumeggiante di salsedine, bava e sangue, la lavagna dove il destino di tutti si cancellava, si segnava, tornava a cancellarsi, a segnarsi, senza fine. E così la vita scorreva come il mare, col mare, il mare della vita senza sponde, e la morte, una morte, la morte di una persona, di un’Acitana, a questo mare di vita non ci poteva: i suoi poteri finivano sulla riva, ma il mare della vita dilagava anche a terra, anche a terra, nel suo flusso e riflusso, la cancellava un poco, la morte, la rendeva perlomeno indecifrabile. Così, a giudicare da Caita nello, sembrava che il mare della vita avesse svuotato d ’ogni signifi cato la morte dell’Acitana, mischiandola a sé, confondendola al de stino degli spada che muoiono un anno e tornano a vivere tutti gli anni. Ma diceva lui: si può mai svuotare di significato la morte di chi morì? Caitanello, seduto sulla riva, s ’era messo a svuotare il mare con le mani? Doveva dargli ancora caloma, corda, corda: poteva forse andare a bussargli e guastargli l’opera? Si rimise a girare intorno alla testaditenaglia, col respiro arruffato di suo padre, ora grosso, ora fino, den tro l’orecchio: il respiro grosso di lui, il respiro fino dell’Acitana, perché Caitanello spartiva con lei il suo stesso respiro, glielo getta va come una cima e con quella corda invisibile, più sottile d ’un ca pello, se la tirava di qua, e qua si stringevano insieme. Al suo orec 437
chio, quel respirare di uno più uno, meno uno, era come qualcosa di grosso con dentro qualcosa di fino, qualcosa di potente con dentro qualcosa di debole, qualcosa che se fosse stato morto, non sarebbe stato più morto di quanto lo era da vivo. Davanti agli occhi, come un simbolo, gli venne un verdone sco dato, un verdone che alcune fere avevano pigliato a tradimento e gli avevano strappato la coda, facendolo poi galleggiare come un rottame, giocandoci e facendosene miserabile zimbello, spettacolo tra i più terribili e pietosi che lui avesse mai visto. Un pescecane scoda to: qualcosa di grosso con dentro qualcosa di fino, qualcosa di po tente con dentro qualcosa di debole, qualcosa di vivo con dentro qualcosa di morto. Era brutto citarglielo per simbolo a Caitanello, ma forse, se non era sacrilegio dirlo, era anche bello, perché gli pa reva di riconoscergli qualcosa di più a suo padre, citandogli per sim bolo quel verdone, invece di quello dello spada spasimante: gli pa reva così di rendergli vera giustizia, anche se così c’era veramente da piangerlo per morto. Quel verdone, insomma, gli sarebbe venuto per parabola, sennò perché avrebbe dovuto riassommare dal fondo della sua memoria alla superficie del mare proprio in quel momento, come muovesse le labbra, dicendo: guardami, e dimmi se io, gran lazzariatore di pe sci, ridotto in questo stato, un moncone, non ti ricordo tuo padre in questo momento. Era un rispecchiamento pietroso, lo capiva, non era più quello all’acqua di rose dello spada. Questo però, s’attaglia va a suo padre, lui per lui, inutile girarci intorno e farsi scrupoli di figlio. Caitanello Cambrìa e il verdone scodato erano due figure un fatto: il fatto di pestare acqua nel mortaio, il fatto di pensare di navigare e girare a folle senza più timone, il fatto di girarsi cogli oc chi all’indietro come per vedersi rispuntare la mogliecoda e illudersi di potere ancora nuotare, andare e venire, soprasotto ingirogiro, nel grande, profondo ondoso mare sotto le lenzuola, agitando la bella, esaltante, timoniera mogliecoda; il fatto di non-capacitarsi, di non avere occhi per vedersi, una volta scodati, ranunchiati per sempre sull’acqua, ancorati, sinché la morte non veniva a liberarli, sopra uno sputo di mare... Per avere un’idea di quello che effettivamente può significare la vista d ’un verdone scodato, bisognerebbe avere prima un’idea del verdone quando ha ancora la coda ed è il verdone, è cioè un padre terno. 438
Il verdone, si sa, è lui il vero pellesquadra, lui è lo squadro di no me e di fatto, lui è l’origine, pelle per squadrare, rasposa come la cartavetrata: e come è la pelle, tale è il carattere, rustico e scabroso, dello stesso colore verdastro, bilioso, del perpetuo, micidioso cupocupio che gli impronta la faccia. M a sul verdone, a parte il fatto che è verdone, non c’è proprio niente da dire. Sopra, sotto per lo scill’e cariddi, solo con la sua ombra, fa il suo mestiere e si vede, non fin ge il contrario, non se la nasconde l ’intenzione con cui viene. D i na scosto, nascosto di natura, ha solo la bocca, che è come gli facesse pure da bocca dello stomaco, ma quella, la bocca, fa presto a mo strarla: se viene, viene per farti danno, viene e lo vedi, lo sai, se puoi, ti ripari. Porta scritto in fronte il suo assassinaggio, non si maschera, è sempre lì che si guadagna il pane da pescecane, campan do sulla vita degli altri. Se si pensa alla fera, viene di portarlo in palma di mano: un galantomo, per dirlo con quel pazziscolo di Crocitto, un incallito, ma a modo suo, serio, spartano micidiatore. Non è con lui, con lo squadro, che a cuore leggero può pigliarsi di con fidenza la fera, quella vigliacchissima e tradimentosa, ma quando le viene a tiro e le viene pure il calcolo del rischio, la confidenza al lora se la piglia una volta per tutte: e forse, poche altre cose nella sua vita, che è tutto un piacere, devono darle un piacere più barbaro e raffinato di questo, di questo cioè di vedere quel terribilio ridotto per sempre col culo a terra. Ricordava come fosse stato ieri quel verdone troncato in coda. Gli avevano sempre detto che strazio era quella vista, una vista che non si poteva descrivere, e poi quel giorno lo vide e allora fu veramente come se nessuno mai gliela avesse descritta con parole appropriate, quella vista di scempio. Ma d ’altra parte, come si fa a dire, con quali parole, che il vero, l’originario pelledisquadro, il pescecane, quello, l’abitué dello scill’e cariddi, il verdone, quel diocenescampi, che è dei peggio, vi commosse e vi fece pietà? C ’era già la guerra, era il mese di novembre del millenovecentoquaranta, e ricordava che quella volta erano tutta una chiumma di scagnozzi: lui, Duardo, Salvatorello, Federico Scoma, Enzo Schepis e Ninai Scarfì, tutti, salvo Ninai, giovanotti del venti e del ven tuno, e tutti di lì a poco partivano, chi per il Crem di Taranto, chi per il Crem di La Spezia. Quella era stata, insomma, una delle pri me e una delle ultime volte, se non l’ultima, che uscivano da soli, gli scagnozzi, per dimostrare ai pellisquadre che ormai sapevano 439
buscarselo pure loro il pane: ma qualcuno intanto scriveva il loro nome e cognome sopra una cartolina e gliela spediva, ordinandogli di lasciare tutto e partire. Era un pomeriggio di sole e soffiava un poco di maestrale, poco, quanto bastava per mantenere allegrotta e scoppiettante l’onda di superficie. Verso Casablanca, avevano avvistato un piccolo branco di fere. Di lontano, pareva se la sciacquettassero come stilano quan do sono sazie, col sacco di merda dello stomaco pieno sino all’orlo di cantari di sarde. Figurarsi che abbaglio avevano pigliato, veden dole di lontano nuotare e voliare, fare a quel modo le baraondose, tutte un nuovoliare in un grande schiumeggiare intorno intorno sem pre in un medesmo mare. Avvicinandosi, videro però che si palleg giavano qualcosa, non'si capiva cosa: qualcosa però, che quelle sciampagnone trattavano come una palla, lanciandola per aria, saltandole dietro, lasciandola cadere in acqua e tuffandosi tutte insieme a ripi gliarla e accapigliandosi a ripigliarla ognuna prima delle altre, in mischie arruffate e schiumeggianti, fra contorsioni e sventagliate di code e becchi che si puntavano per aria, gettando risolini di denti. Spinti dalla curiosità, erano andati accostando da quella parte e le fere, che se n’erano scandaliate chissà da quanto tempo, avevano al lora lanciato quella specie di palla più in là, senza smettere però la pomponella, spostandosi solo di mare: in quel punto di mare che esse avevano sgomberato della loro presenza, apparve allora ai loro 'Occhi il verdone e capirono, vedendolo, che era la sua coda quell’af fare che si palleggiavano. Le barbare l ’avevano scodato e poi, per sfantasiarsi, gli si erano trattenute intorno a sollazzarsi con la sua coda, sbattendogliela con tro, schifandogliela, facendogli insomma, dopo la mutilazione, mat tane e martirii. Lui stava con la testa un poco sollevata dall’acqua, a bocca aperta, il terribilissimo, solitario micidiatore, coi denti a se ga sotto bava e schiuma: tutto sminchiato e come pigliato dai turchi, girava intorno i tremendi occhi, persi, smarriti, derelitti. Galleggiava pesantemente, affondato a metà, come un natante che imbarca ac qua, un natante a cui una tempesta strappò il timone, e non navighe rà mai più e andrà come un relitto alla deriva. Quel verdone scodato non lascerà mai più la superficie, mai più si sommergerà, sarà schia vo del sole e della mutevolezza del mare, ora lo squasseranno le bur rasche, sbattuto e rovesciato dai cavalloni, ora resterà come inchioda to sulle onde in bonaccia; arriveranno, attirate dal suo fetore, le mo 440
sche cavalline e non se ne allontaneranno più, levandosi e posandosi dalla piaga del suo moncone: puzzerà tanto, da appestare il mare per miglia intorno, ma morrà difficilmente in conseguenza della cancre na. Non morrà cosi presto: prima, resterà esposto al crudo capriccio di ogni più vile e mignunara specie di assalitori, ladricelli di strada, immondezzari, minutaglie di pesci come la sarda, che prima non erano né grandi né vivi abbastanza perché il suo occhio si degnasse di vedere che esistevano. Quelle pulci armate di dentuzzi a spillo, e non ve n’è di più ta glienti e sbrigativi, sarda e consimile minutaglia, non si sforzeranno nemmeno, non avranno nemmeno bisogno di addentare la sua pelle dura e grisposa come la cartavetrata; dal moncone della coda, morso a morso, sempre nel tenero, lo apriranno, lo scaveranno, gli arrive ranno sino al cuore. A centinaia e centinaia, si precipiteranno intorno a lui e ognuno gli porterà via un pezzetto di carne; anche sazi, tor neranno ad addentare quello che resta di lui e ne verranno sempre di nuovi, anche solo per un assaggio, per simbolo, perché lui è, era, l’inaccostabile, terrorizzante verdone: ma per quanto numerosi, in carogniti e lesti, la sua agonia non sarà mai breve, la sua morte mai abbastanza rapida. Guardandolo, però, si sarebbe detto che neanche a essere man giato vivo, avrebbe sofferto più di quanto soffriva, in quel momen to, per lo scherno delle fere che giocavano a carambola con la sua coda, e chissà che avrebbe dato per nuotare un’ultima volta verso quelle sue carnefici. Quando non le aveva di fronte, perché le onde, come sopra un perno, lo muovevano lentamente intorno, storceva gli occhi da quella parte, e allora non si capiva se era la sua coda che lo richiamasse, gridandogli dal suo sangue aiuto, aiuto, oppure se era lui che la cercava e non la trovava, ed era questo, forse, il fatto che più doveva disorientarlo, era di sentirsi scodato e d ’essere ancora in vita. Nei grandi, terribili sforzi che faceva per disincagliarsi, riusciva a imprimere al suo moncone uno scodinzolio, che appena appena si vedeva e come fatto col didietro, una m ossa svergognata, quasi d ’infemminato. Qualche volta, le onde gli si rovesciavano sopra coprendolo tutto, e allora forse doveva temere di affondarsene come pesomorto, per ché insorgeva e lottava impotentemente col muso dentuto e scattoso, frantumandosi l’acqua davanti come una lastra di ghiaccio che lo imprigionava: in quell’attimo, pareva tornato all’antico, feroce splen441
dorè, di quando aveva ancora la coda, di quando s’avventava, come un fulmine di silenzio, in fragore sulla sua preda. Ma dopo quel breve scompiglio, più grande e più tremenda appariva l ’impotenza di quel troncone, il tragico e il ridicolo che erano nel corpo scodato di un solennissimo squadro. La vita medesima, allora, cogli occhi goffi e sbalorditi del verdone, sembrava fissare stralucendo il mare im menso, da una distanza sempre meno calcolabile per lui, intorno a lui, come lo comparasse alla misera goccia, che si era ridotto sotto di lui, a quello sputo su cui si sarebbe incarognito. Aveva ancora denti e ferocia, astuzia e forza, ma non aveva più la coda, ed era come dire che non aveva più niente. Scodato, era nessuno mischiato con niente: la sua fortuna, la sua scabrosa imperiosità, dipendevano dalla coda, principio del suo vivere, anche se non della sua vita, e principio del suo morire, anche se non della sua morte. Si pen sava, guardandolo, che ci fosse qualcosa di terribilmente ingiusto e sbagliato nel fatto che ancora vivesse: perché il troncamento di coda non era contempo troncamento di vita per lui? Sulla palamitara si erano zittiti tutti. Poi, tutti insieme, tutti con lo stesso pensiero, si erano trovati a remare accanto al verdone. Men tre Federico Scoma lo mirava con la fiocina per dargli il colpo di gra zia, il verdone li fissava tutti, uno per uno e nessuno, coi suoi occhi pietrosi, gli occhi di chi non pratica pietà cogli altri e non la chiede per sé. A ll’ultimo istante, come avvertisse la fine, si sforzò ancora di smuovere il suo mozzicone di coda con la pelle a brandelli e la carne sanguinante e schiumata di salsedine: pareva che lo smuovesse coi denti, ma a malapena si vedeva che lo smuoveva. Quando però Fede rico gli piantò la fiocina dentro il collo e si ribellò in un impressio nante morire scattoso, fu capace, quel mozzicone di coda, di sbatter lo avanti, indietro come una mazza, fracassando quel poco di mare che gli era rimasto di sotto e che gli alzò intorno in un ribollore di schiume. Quella macchia tempestosa di salsedine spiccò per un mo mento ai loro occhi contro la smisurata curvatura marina, bluastra, verde e azzurra, come uno sfogo, misero e furente di impotenza. Poi, la carogna scodata ricomparve fra le ultime bolle di schiuma tra le sue bave confuse alla bava del mare. Era quel verdone scodato, che ora gli veniva in parabola per suo padre. C ’era una sola differenza ed era che il verdone, per sua di sgrazia o sua fortuna, non si poteva sfantasiare a fare l’opera che faceva suo padre, illudendosi di potersi riattaccare la coda con gli 442
sputi di saliva che gli veniva in bocca a furia di sparlarsi da solo. Ecco qui infatti: mentre il verdone, perduta la coda, perdeva isso fatto anche la vita, perché il suo dio si scapricciò a farlo senza pin ne di galleggiamento, dimodoché lo sventurato micidiatore solo a quel prezzo, col muoversi continuamente, tenendosi a summo col tictac della coda, che si muove come da sola anche di notte quando dorme, si tiene a galla; a suo padre, invece, a prestargli orecchio, là, nella cameraperdormire, sembrava che la coda gli fosse rispun tata, o per meglio dire, a furia di spremersi sopra quella veste vio la e farsi sudare sangue nel palmo delle mani, a furia di scavare come un cane dentro le ossa insabbiate di quella siluette, a furia e a furia di bramarla e sfantasiarla, da tutto questo impasto di sabbia e di polvere, di respiri e sudori, di desideri e di sangue, da questo impasto fangoso di gelo e di calore, di morte e di vita, gli era ri spuntata dal fianco la moglie. Ora, a furia di questo: di tutto questo cristiano, barbaro miscu glio, ma a furia anche e in specie di battibecco e accapigliamento con Nasodicane muta, il verdone, poteva mai arrivarci il verdone? pote va mai concepire di giostrarsi a chiacchiere con le sue Nasodicane, le fere, per riavere indietro, anche se in temporanea riconquista, la sua coda? e concepire, poi, che la coda, attaccata con uno sputo, gli potesse funzionare come prima?
Suo padre, invece, se la giostrava a piacere suo, Nasodicane, se la faceva indispensabile. Tornava a dire che se n ’era scandaliato subito, ancora muccusello, e se n’era sempre persuaso col tempo, che per abboccarsi con l’Acitana, suo padre non poteva fare a meno di appa r ta r s i prima con la sua guardiana Nasodicane, gettandole ingiurie e improperiandola a levapelo e questo, tornava a dire, doveva servirgli per infiammarsi al vivo della cosa e superare il punto morto che c’era fra lui e l ’Acitana. Doveva aggiungere poi che col tempo gli sembrò che suo padre pigliasse vero gusto, proprio un gusto particolare che non aveva nien te a che vedere con quello che si pigliava con l’Acitana, a fare quella pantomima con Nasodicane: anzi, per dirla francamente, qualche vol ta ebbe la stranissima impressione che Caitanello, la parte più bella e appassionata della sua amanteria per l’Acitana, la mettesse negli accenti sprezzanti e ingiuriosi che sapeva trovare per Nasodicane, 443
come se non fosse più la ragione del contendere che lo ispirava, ma il contendere. Ma lui, e lo aveva già confessato, aveva avuto immediata l’impres sione che Nasodicane non contendesse per niente, e anzi, a orecchio, si sarebbe detto che condiscendesse, e non solo per il fatto che non pigliava mai la parola, ma perché alla conclusione dell’opera, Caitanello otteneva sempre il suo scopo. E ottenuto lo scopo, allorché aveva l’Acitana al suo fianco, Nasodicane fingeva di ignorarla sprez zantemente. A ssettati le quattr’ossa, le diceva certe volte a sfottò. Oppure, alla pantomima che aveva già fatta, faceva un’aggiunta, uno svolazzo malandrino, e la scacciava fuori dalla stanza. Avanti, march, fila, tacchla, le ordinava. Fuori, fuori. Levaci il disturbo. Fuori, die tro la porta, aspetta là, se vuoi. Avanti, march. A sentirlo, chi non l’avrebbe creduto che l ’aveva incavallata e che Nasodicane l’obbedisse immantinente, andandosene fuori, dietro la porta, con la coda fra le gambe come un cane, come un nasodicane bastonato? Giudicando dal di fuori, spassionatamente, doveva francamente dire che lui allora si vergognava per questa sblasata di suo padre. Provava una vera pena per Nasodicane che riteneva ingiustamente vilipesa: e se la immaginava, mentre usciva dalla cameraperdormire e passava accanto a lui, nascosto sotto la coperta, nel suo letto fra le sedie, se la immaginava cogli occhi bassi, avviliti, del cane da guar dia, che non aveva, in fondo, altra colpa che questa, di fare il cane da guardia all’Acitana. Ma forse s’opponeva a Caitanello? Si avven tava contro? G li abbaiava? Gli ricusava mai il purparlé con l ’Acitana? Faceva il cane da guardia per figura e poco ci mancava che la pigliasse a calci. Ora, per Nasodicane, non provava più né dispiacere né spiacere e questo invece, dispiacere e spiacere, lo provava tutto per suo pa dre, che si faceva rispuntare la coda e con quella coda era come quelli che, per un fenomeno di natura, la coda ce l’hanno veramente, una punta, uno spuntone, in fondo alla spina dorsale. Hanno la for za di Sansone, però devono guardarsi dal farsi pigliare per quella punta, perché afferrati per là, diventano debolissimi, si sentono come se ogni spirito di vita li lasciasse e uno che gli volesse male, cono scendone il debole, li può mettere in ginocchio, farli stramazzare a terra con un solo dito. 444
Cominciava a pensare che donna Rosalia Orioles c’era andata vi cino scambiandolo per un fantasma. Girava e rigirava attorno al vil laggio, come un’anima in pena, che prima di essere ammessa in una di quelle case, aveva quel pegno da pagare: rivivere il passato, quel la che fu la sua vita a fianco di quel padre, e questo forse era il pegno che doveva pagare perché tornava vivo dalla guerra e vivere, quello era, quello gli costava. A quello scopo, la casa di suo padre gli faceva da conchiglia. Se ci poggiava l’orecchio, gli pareva di sentire suo padre che per lui risol levava i venti caduti ormai per sempre nel suo medesimo petto, che risoffiava il verso d u n a vita che non era più vita, e non era ancora morte, ed era un accorante sentire, come è d ’un vento quando cade senza riparo e sul nuovo vento che s’è alzato, fa quella mossa infe lice di tornare a soffiare e resta un aborto pietoso: come nel grande scirocco di levante e ponente, quello sghiribizzo incredibile, di bo ria finafina, col fiato in gola, che piglia in grecale quando presume di tornare, da Malta o dalle Isole, sullo scill’e cariddi, dove fu allora allora detronizzato da quell’africano a doppia faccia, e soffio sopra soffio, si asfissia nello scirocco, schiacciandosi sopra il mare, come una quaglia sfinita dal vento contrario. Girò ancora una volta, rasente a tutte quelle pareti di case che parevano quasi attaccate l ’una all’altra, come una cerchia ininterrot ta di mura traspiranti di fiati di addormentati, dove c’era chi si la gnava in sonno, chi mandava esclamazioni e gridava di paura, chi chiamava, invocava qualcuno, entrando e uscendo da visioni. Il lume era ancora spento nella cameraperdormire. Origliò alla pa rete e non sentì niente, ma dopo un poco, Caitanello cominciò a so spirare macinandosi il petto, come avesse sopra basole di lava. So spirò, sospirò e poi con una stranissima alterazione di voce, una voce come di femminomo, strozzata al femminino, quasi un filo, un fildiferro tremolante, parlò e disse una sola parola, una, ma famosa: « Granvisire... » Granvisire, era una parola famosa anche per lui. Quando la senti va dall’antistanza: ecco, pensava, cominciano i conciliaboli. Gran visire, infatti, era l’appellativo con cui l ’Acitana lo apostrofava e che gii riserbava come un lusso raro per le epoche di carestia, di miseria. Ora, però, andava sentendo, Caitanello si rifaceva a mano pure quello, ma s ’illudeva, glielo garantiva lui. Granvisire era una parola splendida, detta di bocca dell’Acitana, e lui muccusello s’incantesi445
mava quando gliela sentiva pronunciare dall’altra parte del tramez zo e si svegliava come si trovasse dentro tenebre ’nfatate. Ora però, quella magnificenza d ’appellativo, lo spoetizzava sulla bocca di suo padre: ma non era tanto la parola, quanto lui che gli faceva senso con la voce smorfiata al femminino, una voce talmente ingaglioffita, dell’uomo che non è uomo, che c’era d ’arrossirne. Si limiterà all’appellativo, pensò. Sentirà che l’Acitana non c’en tra per niente con questa specie di pelodiverme che gli esce di gola, sentirà che quella vocetta, agra e magra, di vecchia sdentata o di vava in fasce, sa più di fera che di Acitana. Sentirà, sentirà, ma se parlava, poteva contempo sentire? Se sentiva, non sentiva certamen te con l ’orecchio; e con quello con cui sentiva in quel momento, do veva essere convintissimo di smorfiarla alla perfezione la voce dell’Acitana, doveva credersi che l ’apostrofasse lei in persona, con la sua intonazione acitana, amabile e un poco neghittosa e sfottentina; e forse si rivedeva ancora Granvisire e quello che allora questo ap pellativo gli rappresentava. Con Granvisire, con questa parola maga, l’Acitana se lo favoleg giava in bocca, lo rivestiva da Millunanotte, con sbuffi di seta, con fibbie e babbucce trapunte e dorate, con scimitarra damascata, con valore e onore, con beni sontuosi di fortuna, con meriti in gran co pia, con pregi personali illustri, con imprese da andare alle stampe. Con questa apostrofe, gli carezzava il pelo arruffato dalle contrarie tà: gliela gettava qua e là come un balsamo, come quando, per pol pi, rivariva, si stilla olio d ’oliva, una goccia qua, una là, nello sco glioso, e le acque, torbide e agitate dalla maretta, s ’illimpidiscono e quietano e allora si può guardare profondo, cosi chiaro, che pare d ’esserci. Poi, quello che temeva, successe, perché Caitanello non si limitò a Granvisire. « Granvisire? Granvisire? » ripigliò a dire la vocetta gaglioffa, scoglionata. « Che avete da sospirare tanto pietroso? Che ambascia vi tiene, che dolidoli? Non volete che vi sgravo, Granvisire? D ite mi, ditemi... Non la fate degna di confidenza, sta femminella vostra? » Il senso che faceva. Le aveva sentite anche lui, non sapeva quante volte, quelle parole, dette a suo tempo, da chi andavano dette: e ora, a sentirle smorfiate da suo padre con quella vocetta di fera, era per lui come se la vera voce di sua madre fosse anch’essa allora,' sotto sotto, un poco smorfiosa, un poco di fera. 446
Per la madò, di tutto s t’organo e argano abbisognava ora per quagliare con l’Acitana: di stimoli e d ’espedienti, di veste e voce, di nappe e nappine? Questo gli portava la vecchiaia: l ’intimità un poco spubblicata? l ’Acitana alterata? questo senso di fera che era per aria, nella camera, nella sua voce e nella sua mente? Sentì che ritornava di voce mascolina: scatarrava, armeggiando con !e corde grosse della sua voce di natura, ma non era perché si rinsa viva, bensì per dire la sua, cioè a dire, saliva di scena lui, entrava nella parte del maschio per rispondere all’Acitana: « Io, signora, Granvisire? Un tale miserabile lo scambiaste per Granvisire? » E poi, subito, intrafelandosi, tornò a ingaglioffirsi al femminino: « Granvisire, Granvisire, ve lo giuro... » replicò per bocca sua l’Acitana. A questo punto, quella voce di femminomo lo soverchiò e allora s’allontanò ancora, per fare un altro giro. Non c’era più dubbio or mai: Caitanello sarebbe andato avanti a quel modo sempre più den tro nei conciliaboli dove era stato Granvisire, con quella voce a maschio e femmina, marito abboccato a moglie, moglie abboccata a marito... E qui d ’improvviso, come gli si rivelasse l ’arcano, capì che era quello il bello che doveva vederci suo padre in quella voce, capì che per quello se la ingaglioffiva senza vergogna: per il fatto che doveva sembrargli di abboccarsi come mai con l ’Acitana, come mai così, come due anime in un corpo.
Il Granvisire arrivava sempre con la carestia di mare, di maiotempo. Per giorni e giorni, i pellisquadre sprovavano il mare in lungo e largo, in sopra e in sotto, pescando sempre peggio, sempre meno. Scompariva il pesce di valore: ricciola, dentice o cernia; scom pariva il pesce di sostanza: palamiti, alalonghe, tonni, arunghi; scompariva il pesce medio: tonnacchiolo, murena; scompariva il quattro un soldo: cefalo, sauro, o sgombro; scompariva alla fine la spatola, e quello era il segno più brutto. Argentata, larga le dita di una mano, lunga da mezzo metro a più d ’un metro, di sapore appe tente anche se saziarne, la spatola è la fortunella dello scill’e cariddi, il folletto per casa, il boccone indispensabile che non si fa desiderare mai e per quanto deprezzata dai riatteri per il fatto, appunto, che si 447
mangia sempre e la gente si stufa, anche a pescarne una, quella sola basta, arrotolata, a riempire occhi e gistra. Quando la spatola manca, allora il pellesquadra si speranza, quel lo è segno che la carestia sdiregnò ogni pesce cristiano. Il pellesqua dra s ’attacca allora al pescebestino: un pescepalumbo o un pescevacca diventano sopraffinerie, portarne uno a terra pare gran bravu ra. Ma dal pescepalumbo al pescevacca, s ’arriva al bestino in pietra, allo smeriglio, che sarebbe una specie lontana di pescecane ma ha la carne che pare alalonga, e poi al pescecane giusto, a quel tale ver done, quel tale squadro, a quel rusticone di modi, col naso sempre che gli fete. Ma bisogna arrivarci, al verdone, mettergli le mani sopra non è come fumarsi una sigaretta. Però, i pellisquadre sanno che ce ne sono di quelli che non sono impossibili e a tentarci, non si rischia la vita. Sono verdoni coi giorni contati, i verdoni che dopo ogni pas sa, si vedono in giro con l’osso dello spada che li attraversa da parte a parte: vivi che muoiono manmano che gli va in cancrena la spada che il valoroso Pulcinella gli lasciò dentro, morendo. Ma anche questi verdoni, segnalati all’occhio dalle punte bianche d ’osso che gli spuntano dai fianchi, finiscono: restano quelli sani e restano le fere, restano per dare la misura del mare deserto, dello spopolamento che fece la carestia, come corvi e cacciaventi che vol teggiano sopra le carogne nelle grandi morie. Ma la carestia di mare, che è la carestia di mare? Cosa difficilis sima a dirsi. D i fatto si sa, perdio se di fatto si sa, ma non si sa dire a parole, non si sa, non si può definirla: perché la carestia di mare non è una maledizione che viene necessariamente per tutti in una volta, per l ’intero Canale e l ’intero scill’e cariddi, perché può venire unicamente per un pescatore, una chiumma, un villaggio, e può succedere persino che nello stesso mare, nella stessissima posta e quasi stessissima goccia di mare, dove uno soffre la carestia, un altro gode di grande abbondanza. Il mare si essicca in un punto solo, la fortuna ha l ’uovo storto solo per qualcuno, per certuni.
È già cominciata, anche se a terra non se ne scandaliarono ancora,' quando comincia il grande mutismo dei pellisquadre, mutismo fra di loro, fra loro e le femmine, fra le femmine e i vecchi e gli sbarba telli; eppoi i muccuselli, i muccuselli che muoiono sennò, sulle pri me si parlano cogli occhi e con le mani, e poi, per sfogarsi a parlare* 448
o si allontanano verso le palme o se ne vanno alla spiaggetta della ’Ricchia, perché non ne possono più di tenersi in bocca quella cosa proibita che diventò la parola. Il primo e più impressionante segno della carestia è sempre que sta moria di parole, e non di parole di discorsi, ma di parlottamenti e sgridii e incitamenti del varo: oooh... issa, m o’, ora... come questi, tanto per dire, e persino degli elementari saluti, bongiorno, bonanotte, benedicite. Insomma, quel poco, cioè lo stretto ne cessario scambio di parole che stila il pellesquadra, nemmeno quello si sente più, è come una moria di animali in periodo di siccità, come il malsecco che stronca le limonare: le parole si seccano e muoiono perché non sono più abbeverate dagli argomenti, dagli argomenti chiamati pesci. Il silenzio viene dal mare e pare, certe volte, che i pellisquadre varano solo per farne delle grandi imbarcate e di lontano, a giudi care dalla pesantezza della remata, verrebbe da credere che fecero finalmente scialibi di pesce: e poi, mentre disarmano, pare veramen te di sentirlo che si rovescia sulla riva e fa un gran fracasso di taci turnità all’orecchio. Il silenzio si sprigiona di là, dalle acque incarognite, e tocca terra, entra nelle case, contagiando tutto e tutti, come un vento colloso che appuzzisce il fiato e s ’attacca strettamente alle labbra, e queste si sec cano e piagano come provate da una sete di mare, prolungata e in cattivita dall’acqua salata: per la lingua invece, pare nutrimento ric co e malvagio, cresce, si gonfia in bocca, si muove come per scap pare e col suo contatto velenoso dà bruciature al palato in tutto si mili a quelle che dà la medusa, dolorosissime. L ’ultimo atto di parole dei pellisquadre è per spiegare ai riatteri, di solito dopo tre giorni di: novità? enne enne, che per qualche tempo si possono risparmiare la venuta, dato che caddero in care stia: quando sia che finisce, se gli lasciò ancora fiato in corpo, gli dànno loro una voce, a quella bella gente. Poi, i pellisquadre si ritirano dentro di loro e pare che fecero taci tamente voto di perdersi l’uso della parola. A guardarli allora, se putacaso le parole si potesse vederle, si vedrebbe che a ognuno di loro gli cadono dalla bocca intorno alla persona, una sopra l ’altra, come mattoni che si alzano in giro, come le pareti di un pozzo, e li murano. Continuano a fare le stesse cose di prima, nel senso che va rano sempre e sempre tornano a mani vuote, ma ogni cosa a bocca 449
chiusa, ormai. Nemmeno per nome si chiamano più: del resto, che avrebbero da dirsi? Lui, aveva avuto la sua prima carestia a sette anni e ricordava tre cose, massime, fra tutte: quel silenzio, il ridere delle fere la notte e certe volte di giorno, che faceva impressione ancora di più della notte, come un risolino di spiriti maligni che uscivano nel mezzogior no a pigliarsi sazio delle disgrazie della povera gente; e terza cosa massima, ricordava suo padre mutangolo, quando, alla calata del so le, sedevano alla tavola davanti alle suppiere ripiene di niente. Allora, dovevano sbrigarsi e approfittare dell’ultimo sole se vole vano darsi ancora un’occhiata, perché nemmeno il lume accendevano più per mancanza di petrolio. In quel momento, la faccia di suo padre gli sembrava ogni volta la faccia di uno che andava sott’acqua e tratteneva il respiro, un poco più sotto ogni giorno di più, come si misurasse la lena per scommessa, e rischiando ogni giorno di più di asfissiarsi. Sembrava sommozzato, cogli occhi irritati di sale, annac quati, con la pupilla smorta e contempo spiritata. Veniva una sera in cui pareva di vedergli zampillare il sangue dal' la bocca e dagli occhi. Pensava allora: stanotte, stanotte riassomma, sale a pigliarsi una boccata d ’aria fresca, stanotte riaggalla al fianco dell’Acitana e s ’abbocca con lei per rinnovarsi l ’aria nei polmoni* rianimarsi gli spiriti... ì E quella notte, o l ’altra, Caitanello faceva con l ’Acitana viva quelli lo che faceva ora con l ’Acitana morta: lui, allora, un poco era d molto si faceva morto, e l’Acitana di parte sua, per ravvivare lui, unj poco era e molto si faceva viva: perché, quella notte o l ’altra, aglij occhi dell’Acitana, quell’uomo lazzariato spariva e appariva il Grartij visire. Il Granvisire arrivava una delle notti dei giorni più neri dellaj carestia, quando non avevano più da mangiare nemmeno una crosta di pane per pane e una mollica per companatico: sorgevano allori le tre lune del Granvisire, le tre lune che credeva di vedere chinan dosi a guardare dentro l ’Acitana, specchiandosi in quel pozzo senzi fondo. Erano le notti dei giorni di carestia che mandavano conciliaboli le notti dei giorni arrabbiati, le notti dei giorni di moria di paro! che puzzavano nel fiato. In una di quelle notti, i conciliaboli sgoccic lavano nel buio come pioggia di chicchi di riso, come gocce dure t pioggia, dopo mesi che non piove, sopra il fango secco, le pietre ai roventate, il polverone: la pioggia che tante volte, quasi che col su 450
tambureggiare richiami a galla i pesci, taglia la carestia, come tante volte taglia le pestilenze, sventando i focolai e disperdendo i vapori pestiferi.
Il fottere, si dice, non vuole pensieri; ma allora, quello del Granvisire e dell’Acitana che era? che era quella specie di fiore che fa cevano fiorire col loro fiato nottetempo? il fiore di una piantina paragonabile al ficodindia selvaggio che spunta dalla sabbia polve rosa, in giro alla plaia, dove non arriva filo d ’acqua e fa quel frutto mignunaro, spinosissimo, che in bocca ha un sapore acidulo, come se si masticassero formiche? che era quello? Forse non era vero fottere o non era solo quello: o non era quella la parola o non era quello il fatto o non era quello il significato o non era quella la sostanza. Certamente non era fottere per fottere, no, non doveva essere quello per quello. Almeno per lui, che stava a sentire dall’antistanza, tutto il teatrino basso basso che facevano come tenessero la bocca sotto le lenzuola e poi a un certo punto, pareva che se ne scendessero dentro la sabbia, dentro dentro, nasco sti, vergognosi. Per lui, allora, calava il sipario, perché un muccuso dell’età sua poteva immaginare mai che chiusi i conciliaboli, conti nuassero l ’opera dietro il sipario, in qualche altra maniera, senza più parole, a bocca chiusa? In quelle notti, col sonno leggero leggero a causa della pancia va cante, il primo sordellino che si facevano, le prime parole soffiate fra le labbra strette ad anello, bastavano a svegliarlo: subito, al suo orecchio, era come se il silenzio si spaccasse qua e là, ai sospiri di suo padre, come una crosta di fango secco. Caitanello faceva all’inizio come si sforzasse di spietrarsi del fiele, di tutte quelle pietre verdastre e faceva come avesse una grande diffi coltà di parola, si arruffava con le sillabe e soffriva di non riuscire a spiccicarne una: la lingua, troppo gonfia, gli s’imbrogliava tra i den ti, gli sforzava il palato e come gli si rovesciasse in gola, ne venivano fuori suoni di mutangolo. Ogni volta, immancabilmente, lui pensava che a furia di silenzio si era disaw ezzato al punto, che forse aveva perso l ’uso della parola. Ormai, fattane esperienza, doveva sapere benissimo che si trattava del solito preambolo, che era, mezzo d ’ingraziamento e mezzo di amanteria: l’esperienza però non gli giovava, e l ’assaliva sempre 451
quel pensiero, che non parla oggi, non parla domani, gli si era atro fizzata la favella. Erano quelli, invece, i primi segni che gli tornava la parola; per parlare, però, lui aspettava che parlasse l’Acitana, come se col suo esempio lei lo istruisse sul modo di muovere la lingua, di formare le labbra e di farsi uscire di bocca le parole. Checchìava, e sospirava da rompersi il petto. L ’Acitana, o dormiva veramente, o per abbel lirgliela, si faceva sospirare un p o’ di tempo, prima di farsi viva. Stilava così: come se il segno che era il momento per lei di compa rire fosse quando Caitanello faceva un certo stabilito numero di so spiri. Poi, inaspettata tanto, quanto era aspettata, entrava in scena con la sua voce fina, com’era lei nel personale, una voce pensata mol to, sembrava, perché si sentiva che prima di dirla, se la era ripetuta dentro muta muta. « Chi si lamenta? Chi soffre e si m artiria? Chi ha tale dolidoli che è come avesse basola di lava sopra il petto? » faceva, tutta igna ra, in primo dire. Poi, come se allora girasse gli occhi intorno e lei vedesse, esclamava: « Oh Granvisire, voi qua? Voi, splendidissimo} sulla soglia della misera dimora mia? » ■ Lo appellava sorpresissima, con la meraviglia di chi all’im prow isq si vede comparire davanti agli occhi qualcuno che mai si sarebbe aspettato di vedere. Una volta lui aveva cercato di immaginarsi la scena: quel Granvisire che forse aveva passato i guai suoi nel Cai naie, salendo da M alta, si trovava a passare lì davanti, col suo ve: liero provato dalla tempesta, che navigava lento, accostato a riva; A bordo, quel Granvisire sospirava talmente che i sospiri arrivavano all’orecchio dell’Acitana dentro casa e lei istintivamente usciva in contro a quei sospiri, perché il cuore le diceva che quel particolari accento di sospiri lei lo aveva già sentito. Così, ogni volta era da sospiri che pigliava lo spunto per appellarlo: « Oh Granvisire, Granvisire... » lo apostrofava, e apostrofando^ lo salutava, ossequiava, compiangeva, desiderava, implorava, servivi comandava... i Caitanello stava, stava e poi come Granvisire tornava parlante pi ricusarsi, in primis, a quel titolo grandioso: « Io, Granvisire? Un miserabile pari mio, Granvisire? Ah, Mas gnora, me lo merito il vostro sfottò, non mi merito altro... » Per un poco andavano avanti così, fra cerimonie di lei e queH 452
monie di lui: quasi mai cambiavano, quasi mai ci mettevano novità di parole, quasi mai d ’altronde cambiavano le cose, quasi mai la vita ci metteva novità di fatto e di fatti; e il sentimento che c’era fra loro due, nemmeno quello poteva avere cambiamento alcuno, perché sca larlo era impossibile e crescerlo altrettanto. L ’amore fra Caitanello e l’Acitana era infatti come un figlio nella pancia di una incinta ai nove mesi, quando è ormai bello e completo di fattezze e non resta che partorirlo e farlo vivere da solo. L ’unica differenza era, che essi non lo partorivano mai e sempre ne erano incinti, sempre, perenne, lo tenevano in quello stato calmo e trionfante, vecchio e bamboleg giato, perfetto e manchevole, maturo e acerbo, fisso e svagato, in cui vive e a volte sembra che sogni, una in due, la femmina in cinta. « Granvisire, Granvisire, ve lo giuro... » insisteva lei, con calore di fiamma. « Ah, se voi vi vedeste cogli occhi miei, se vi vedeste, se vi... V ’apparireste pure voi a voi stesso un Granvisire... » E il Granvisire: « A mare, là, mi vorrei vedere Granvisire... » E l’Acitana: « C ’è bontempo e c’è malotempo, ve lo devo dire io? Certo, per un Granvisire, bontempo o malotempo, sempre un tempo dovrebbe essere, il tempo che gli aggrada a lui. Però, glielo faceste mancare mai il pescedipane alla gente di casa vostra, a moglie e figlio? Quello, ce lo pescate sempre, da vero Granvisire » E il Granvisire: « Il pescedipane, Masignora, s ’ignesca senz’esca, asciutto e secco, col pelodiverme della credenza, sinché il fornaio faroto ce la fa... Ma il pesce di mare, quello non si pesca a credenza. Eh, sì, a mare, col pesce pescato, là mi vorrei vedere Granvisire... » E l ’Acitana: « E non vi vedete quando siete a filere, agli appoggi dell’ontro, no? Non vi vedete che bellezza di Granvisire mi diventate non ap pena l ’intinnere dalla feluca si scappella per segnalarvi qualche mae stosa fianchipieni che s ’avanza col meschino Pulcinella che bacia il mare per dove lei passa? Non vi vedete come vi ribellionate in cima al vostro alberello e come pigliate potere di voce e governo di bar ca? E il putiferio che fate, e quant’almo ci mettete per gridare alla chiumma. Alle palelle... Alle palelle... Là, là, di prora, di prora, lánza tela, lanzatela, per l ’anima mia, per l’anima mia miratela, lanzatela, 453
ahi ahi ahi, vi scapola, vi scapola, per l ’anima mia, ’ma mia, ’maaa mia, ’maaa m ’aaa... quando gridate questo, non vi vedete, eh? Non vi vedete che pare questione di vita o di morte, che o muore la fian chipieni o morite voi, e tante volte pare che morite voi e pare che gridate madre, madre, ’maaa m ’aaa, e invece gridate alla chiumma d ’ammazzarla, ammazzarla la fianchipieni per salvarvi l’anima a voi, e la chiumma di sotto si sente venire i brividi alla spina dorsale, non vi vedete, no? E non vi vedete che d ’ogni posta di Sicilia e di Calabria come tutti si fermano e v ’ammirano? Quello è Caitanello Cambrla, si dicono, perché vi conosce Dio e tutto il mondo, famoso come siete per gli occhi di falcone maltese. Non vedete a mare, no, che siete un Granvisire? Ma se non vi vedete voi, vi vedo, vi vedetti io, Granvisire, quando vi sorteggiano la posta ravvicinata a terra e avete un tale rintrono di voce che mi pare di essere sopra all’ontro, sotto a voi, coi brividi che mi vanno e vengono per la spina dorsa le... Ma possibile, possibile mai che coi vostri occhi di falcone mal tese non vi vedete, Granvisire? » E il Granvisire: « Gli occhi di falcone maltese? Per cosa vedere dopo agosto, Ma signora, me lo sapete dire? Per cosa vedere d ’altro quando vedettero l’ultimo spada? Dopo la passa, Masignora bella, a voglia di scanda gliare, il falcone maltese... Ah, Masignora, vi pare che bastano due occhi di vista buona per fare un Granvisire? » E l ’Acitana: « Bastano, bastano e avanzano... E se m ’è lecito farvi un esempio, io femminella a voi Granvisire, vi conto d ’una certa signorina di Aci che un giorno che si trovava a innaffiare il basilico sopra il bal cone di casa sua verso marina, e dal balcone vede un giovanotto che sbarca da una barca con altri giovanotti e s ’avanza, prepotente a ve dersi, con un terribilio d ’occhi neri e maliatori che arrivano dapper tutto e di tutto sembrano s ’impadronire. E questi occhi, quando ar riva di sotto, li alza al balcone e per la signorina di Aci è finita. Il giovanotto veniva di sopramare, precisamente di qua, dello scill’e cariddi, per ordinare certi remi proprio al padre della signorina, però lei lo piglia per un potentato saraceno o fatevi conto, per un Gran visire d ’Oriente, un Granvisire sotto mentite spoglie, che passò il Canale e sbarcato, guarda, e tutto quello dove si posa il suo sguar do, femmine, plaie e marine: è tutto mio, sembra dire. La signorina s ’incantesima, resta col boccale d ’acqua in mano, si scorda del basi' 454
lico, non è capace di dire nemmeno ah, e le pare quasi che il giova notto gli dette ordine ai suoi occhi di falcone di volarsene sopra il balcone e abbrancarla per il collo con artigli di velluto, rapirla in somma, come fosse un conigliuzzo. Così, in effetti fu: per la signo rina, vederlo e seguirlo fu tuttuno, e per il padre fu come se la fi glia gli fosse intrafugata dai pirati, in un vedere e svedère. E voi ancora dite che non bastano due occhi come quelli per appellare Granvisire chi li porta? » E il Granvisire: « Bell’impresa che fece quel giovanotto, si può proprio premiare dei suoi occhi di falcone. Pescatore pezzente, s’azzardò con una si gnorina come quella, figlia unica, una signorina servita di tutto pun to, una signorina che disponeva di balcone e maritatasi, se lo do vette scordare per sempre. Ah, quale abbaglio pigliò la signorina d’Aci, stimando quel miserabile un Granvisire... Doveva avere il sole che le straluceva negli occhi quella mattina... » E l ’Acitana: « Il balcone, il balcone, questo balcone che sempre dite, Granvi sire, a che mi serviva il balcone se restavo ad Aci una volta che ve detti voi? A piangerci forse, innaffiando di lagrime il basilico? O mi serviva per gettarmi di sotto, una volta o l ’altra, scrutando notte e giorno di vedervi ricomparire? Il balcone, finì di servirmi, tenetevelo a mente, Granvisire, quando di là vi vedetti a voi » E il Granvisire, che non voleva soltanto essere vinto, ma anche convinto: « Ve lo raccomando, Masignora, ve lo raccomando il vostro Gran visire, ridotto come un pezzentiere dalla carestia. E vi pare, M asi gnora, che un Granvisire non troverebbe il modo e la maniera di sputarci sopra alla carestia? Non troverebbe, un Granvisire, di ar mare e navigare per qualch’altro mare, avventurandosi per M alta, nel Canale e occorrendo, gettarsi per Gibilterra nel grande oceano? Non dovrebbe, un Granvisire, tentare l’intentabile, avere questo co raggio civile, farsi così ardito? Eh, Masignora, ribrezzo, ribrezzo, vi dovrebbe ispirare un tale Granvisire incarognito... » E l’Acitana: « Ah, darei una bella parte della mia vita per farvi vedere come vi vedo io, con questi occhi, Granvisire. M a questa sarebbe opera di magia e non è per me: io, meschina me, io ho solo le parole mie e queste non saranno mai all’altezza vostra, della figura che vi vedo 455
io, di Granvisire che mi naviga bello e pieno d ’ardimento di vita, sopra un veliero prezioso di legno di cedro e di vele di seta, un Granvisire che mi dà tutto st’onore e piacere, che mi entra in casa e in persona, e casa e persona me le sento ricolme d ’ogni essenza di profumi, di merletti e di trine, e in bocca e negli occhi è come aves si il colore e il sapore dei pesci dal gusto più reale e sopraffino: ricciole, dentici e cernie, saraghi, orate, spigole, ombrine e spada, spada, spada che lanzaste cogli occhi vostri, Granvisire mio... » E il Granvisire, che più lei lo lustrava, più lui, almeno a parole, s’appannava: « Che strana lingua parlate, Masignora. Ricciole, dentici, spa da... Che roba è? Roba che si mangia, per caso? Sarebbero pe sci, questi che dite? Forse li conobbi, in passato, ma quasi ne persi memoria di quant’è che non ne vedo più. C ’era un mare, bello, qui davanti, una volta, una volta... Ora, quel mare malandrino ci diventò peggio del pantano di Ganzirri, una lordura, una spazzatura di ma re, una carogna, un carognone... » E l ’Acitana, risentita e pietente con lui come avesse detto sacri legio: « Non gli mostrate sprezzo, per carità, Granvisire. Fatelo per amor mio, non schifatelo così azzardosamente, ché potrebbe farci pentire... » E il Granvisire: « Ma come? Dovrei usargli riguardo, per giunta, a quel lazzariatore delle nostre carni? Vi scordaste di quanti giorni è che mi pre sento a voi, frontoso, a testa bassa, cogli occhi dello sventurato che andò limosinando a questa e a quella porta di questo spettabile ma re, bussandogli persino al suo ricco G olfo dell’Aria e dicendogli: ; consentimi di campare quella moglie e quel figlio, oppure: consenti mi di morire a me... Ma lui non apre né porte né finestre, l ’eccel lentissimo: forse lo riguarda la carestia dello scill’e cariddi? È tal mente grande, lui, che nemmeno gli va il pensiero allo scill’e ca-.j riddi... » E l ’Aci tana: « Vi fa tornare, Granvisire, questo so, di questo non mi scordo. Sinché vi consente di tornare, sinché vi rivedo, bello vivo, che mi tornate in grazia sua, Granvisire, ve lo giuro, anche faglio, agli oc chi miei mi sembra che pescaste tutti i pesci del mare. Per farviuna idea, Granvisire, vi dico questo: se il mare fosse un mendicoj 456
spiaggiante, piagato, coperto di croste, infetto e puzzolente, e un giorno mi comparisse qua davanti sotto queste apparenze, io lo farei accomodare sopra sedia e cuscino, gli laverei i piedi e quell’acqua che mi servì per lavarglieli, me la berrei sorso a sorso in faccia a lui, senza mostrargli schifo o disgusto, un sorso per ogni volta che vi fece tornare, un sorso per ogni volta che vi farà tornare. Questo farei, Granvisire, se il mare mi comparisse in persona qua davanti. Perché vi fece tornare sinora, perché vi faccia, sempre, vi faccia, Granvisire... » E il Granvisire, che qui stava un poco di più a rispondere: « Torno, sì, torno, per vedere voi che mancate di tutto e vi desi derate dall’acqua al sale... Se penso che a casa vostra di signorina, vi fosse anche venuto desio di lingue di uccello di paradiso, don Ignazio, vostro padre buonanima, lasciava di svetriare i remi che aveva per mano, non ci pensava due volte e partiva pure a piedi, per farvi passare quel desio. O ra, io: Caitanello, mi dico, la rovi nasti quella figlia unica di don Ignazio, sulla coscienza te la porte rai, la signorina imbalconata di Aci... » E l ’Acitana, che qui aveva uno scoppiettio di riso come lo te nesse stretto in una piega del lenzuolo che apriva e subito richiudeva: « Oh, Granvisire, ma che andate pensando? V i pare che ancora signorina, mi sentivo di tali voglie di maritata incinta? Ero forse una principessa pallida e spiritata che si scapricciava in lingue di uccelli di paradiso? Questa impressione vi detti? V i feci forse im pazzire con voglie consimili, quando mi ingravidai di nostro figlio, eh, Granvisire? » Vinto e convinto da quel lato, Caitanello sonava un’altra corda. Ripigliava a lamentarsi, ma ora si lamentava per stare meglio. L ’A citana lo aspettava, lo lasciava sospirare ancora un poco e poi era ancora lei a dargli il la: « Oh, Granvisire, non mi regge il cuore di sentirvi come vi ma cinate di sospiri... » E il Granvisire: « Fossi nato fera, fossi nato... Quella sì, che si può pretendere a Granvisire... Per lei veramente, bontempo o malotempo è sempre un tempo. Fossi, fossi nato fera... » Era insaziabile: sapeva di darle una trafittura ma sapeva pure che lei si sarebbe provata a non fargli invidiare la fera. E l ’Acitana: 457
« Oh, Granvisire, non mi vi fate sentire... Tanto vi decadde lo spi rito, da desiderarvi fera? Perché, dico io, non vi spensierate un po co? Mi posso ardire, splendidissimo, mi posso, ditemi, di pregarvi a mani giunte di sbarcare qua davanti, per qualche momento, e de gnarvi d ’entrarmi in casa e darmi una stampa d ’udienza? Allianatevi un poco, Granvisire, datevi un poco di ricreo. Avvampo a dirvelo, ah che sfacciata che sono, ma fate che vi sbroglio a uno a uno que sto gomitolo di sospiri e poi ripigliate mare, se dovete, ma ormai, rianimato gli spiriti e le forze. Eh, Granvisire, per sfrontata mi pigliate? » E il Granvisire: « Sapete, Masignora, che mi domando tante volte? Che potetti fare per meritarvi? Che feci, che potetti, oltre che stare sempre sperso per mare? Questo mi domando tante volte » Si capiva che ormai era sulla porta e metteva piede in casa e già si scioglieva l’armatura e si rilassava. E l ’Acitana: « Oh, Granvisire, scordatevi ora di quel mare tinto, fatemi que sto complimento: scordatevi di lui e ricordatevi di me. Pigliatevi svago, sboriatevi con questa femminella, datele due soldi di tratte nimento. Ancoratevi qua col vostro veliero intartarato e venite, ve nite avanti, datemi la mano, venite qua vicino, ecco, ecco, ancora un poco avanti, cosi accomodatevi, entratemi nella divozione, da tevi svago, ricreatevi, qua nel vostro siete, questo è mare fedele, pescosissimo, qua con ogni diritto vi potete vedere Granvisire, Gran visire voi e io vostra devota, devotissima... » Il Granvisire qualche volta sì, qualche volta no, sospirava grosso un’ultima volta, facendo un risucchio col fiato e sembrava allora che pigliasse una grande boccata d ’aria come se già allora, da viva, l’Acitana si trovasse al fondo di un mare e lui si doveva sommozzare e nuotare a lungo sott’acqua per raggiungerla e abboccarsi con lei. L ’Acitana l ’accoglieva e non li sentiva più, né parlare né respira re: era come morissero, come se appena morti, i loro corpi fuggis sero via; o come se, accogliente e accolto, fitti abbracciati, tratte nendosi, abboccati l ’uno con l’altro, il fiato, passassero per il letta e per la sabbia, calandosi in fondo al mare, dentro una grotta, dove, per il tempo che ci stavano, stavano fuori del mondo, ma non si po tevano dire né veramente vivi né veramente morti. A quel punto, sempre, con rabbia e pianto, muccusello ancora.;
non scandaliato di niente, nel suo letto dietro il tramezzo, s ’imma ginava d ’essere solo al mondo: s ’alzava sui gomiti, sbarrava gli oc chi scuroscuro, rizzava gli orecchi, stava un poco in ascolto, ma di là non veniva mai segno di vita. Intorno a lui era solo silenzio, sopra il silenzio rotolava il mare, che risonava cupocupo dentro le grotte della ’Ricchia, e quel fragore ingigantiva ogni volta il pauroso si lenzio notturno che Caitanello e l ’Acitana si erano lasciati dietro, scomparendo senza pensiero di lui. Pensava di chiamare: m a’, m a’... e ci rinunciava, pensava d ’an dare a vedere e ci rinunciava, poi il sonno lo ripigliava a tradimento e gli risolveva ogni patema. Però, lo seguiva sino a dentro il sonno una specie di risentimento per padre e madre come se gli avessero fatto un torto grande, perché gli pareva che lo avessero lasciato or fano senza nemmeno avvertirlo che morivano e forse senza essere morti. Ma questo successe sinché l ’esperienza non lo rassicurò del fatto che Caitanello e l ’Acitana, dopo che scomparivano, ricomparivano sempre, e sempre come rinati. Per quella notte, per quella volta, il Granvisire e la Masignora non ricomparivano più: era come se il Granvisire avesse ripigliato ma re, addobbatizzo dalla Masignora, la quale, a sua volta, s’era ritirata in casa per riuscire alla nuova comparsa del veliero del Granvisire. Il Granvisire e la Masignora, in altre parole, avevano fatto la lo ro parte: perché, di quei due appellativi, col primo che richiamava il secondo, l ’Acitana e Caitanello se ne servivano come di masche re sotto le quali si nascondevano il rossore del piaceruzzo che si andavano a pigliare e poi, una volta che se lo erano pigliato, le ma schere se le levavano e di Granvisire e Masignora non se ne par lava più, quasi che si vergognassero di quel poco di teatrino che avevano fatto per non sentirsi troppo svergognati di quello che sta vano per fare. Qualche volta succedeva che ricomparivano ed erano già usciti al naturale: Caitanello s ’accendeva un mozzone d ’indigena, se l’ave va, e l ’Acitana, come per fargli compagnia sinché lui non aveva fini to di fumare, gli dava un p o’ di conversario, e naturalmente gli do mandava della carestia in corso, a che punto era, perché ora sapeva di potergliene domandare. Per quella notte, allora, era tutto finito. E doveva dire che a criterio dell’Acitana, il Granvisire, quell’appel lativo che era tutto il suo sotterfugio di femminella, la sua panto 459
mima di ritegno a conclusione della quale, un p o’ per ridere e un po’ per non morire, portava Caitanello al suo piaceruzzo di marito, come un bicchiere d ’acqua e limone che gli facesse bere per levarsi un poco della grande bile, quel Granvisire che degnatosi di gradire la sola cosa di lusso che una M asignora acitana poteva offrire a un Granvisire, subito. spariva, dato che solo per quello appariva, vole va dire che quel fotterello che si era pigliato come Granvisire, quello bastava da solo a spietrare dalla bile Caitanello, a dargli quel rilas samento e allianamento di cui abbisognava per andare ancora avan ti con quella vita, con quella carestia, con quella vita di carestie. Questo però dipendeva dalla bile e dall’ammutimento e lazzariamento di Caitanello, dipendeva cioè da come si era messa la carestia, perché se la carestia si era messa barbara, e due su tre si mettevano sempre barbare, l’Acitana allora doveva sapere in parten za che il Granvisire, e quello che gli dava come Granvisire, non po teva bastargli a Caitanello, per levarsi un poco dai pensieri neri co me di tartaro: doveva dargli qualcosa anche per la mente, qualcosa di più di un Granvisire, di un appellativo, di una parola di fumo, qualcosa di più di un fotterello, di un bicchiere d ’acqua e limone. G li dava allora un nome, un nome che doveva avere portato per lui dal suo paese, come parte della sua dote di signorina: un nome con cui lo dichiarava reale e che faceva coppia con un altro, per lei, con cui lui le faceva gala. Cosi, madre e padre che erano scomparsi come Masignora e Gran visire, che erano come persone di famiglia per lui, con la loro lin gua andante, di tutti i giorni, ricomparivano che non sembravano più gli stessi, come fossero veramente rinati, in altro luogo, con altri nomi e altre vite, e lui non c’entrasse più.
Prima, veniva come un rumore di rena rotolante, una frana sab biosa da cui sfuggivano gemiti e richiami di persone seppellite vive, che boccheggiavano per mancanza d ’aria. Venivano poi grandi so spiri e risospiri e se li immaginava allora come se fossero caduti in ; catalessi e solo in quel momento se ne sollevassero. E venivano in- * fine delle voci affannose e incomprensibili, che però arrivavano al-1 l ’orecchio sempre più vive, come se Caitanello e l ’Acitana s’avvici-j nassero di lontano, tenendosi a braccetto e stranamente ciuciuliando: j stranamente, perché si dicevano solo due parole, una lei, una lui, eì 460
quasi sempre la stessa, eppure, forse perché la sillabavano compli mentosamente, davano quella impressione di ciuciullo tenebroso, ovat tato e trillante, come un cicaleggio, a punta di becco, di passeri sull’aranciara. « Aci mio » gli diceva lei. Oppure: « Aci reale mio » « Gala tea » le rispondeva lui. Oppure: « Gala a tea » Solo questo, ma che intendevano dirsi? La prima volta che li aveva sentiti, gli era parso che lei gli dicesse: Acireale mio, come lo chiamasse, chissà perché, col nome del suo paese di nascita, men tre in effetti gli diceva: Aci reale mio. E gli era parso che lui le dicesse, una volta: Gala a te, come la proclamasse degna di pompa e di sfarzo, e un’altra: Galatea, come le dicesse galatota, col nome del paese di Galati Mamertino che però non c’entrava, né con lei né con lui, mentre in effetti la chiamava Galatea. Solo questo, sempre questo: Aci mio... Aci reale mio... lei, e: G a latea... Gala a te... lui, ed era come si passassero e ripassassero, sem pre uno stesso garofano lei a lui, sempre una stessa rosa lui a lei: ogni volta però, pareva che un altro garofano si aggiungesse a quell’unico, e un’altra rosa a quella sola rosa, come scoprissero una sfumatura sempre nuova di colore nel garofano e nella rosa che si regalavano, come un pensiero, una frase detta in toni sempre differenti e alla fine era come si infiorettassero con grandi, sempre più grandi, con freschi, sempre più freschi buché di complimenti, e come se di tali complimenti sarebbero stati capaci di farsene per notti e notti an cora, per mille e una notte di giorni di carestia di mare. Allora, però, a lui muccusello potevano mai venirgli a mente garofani e rose? In mente sua, invece, quel ciuciulìo meschinello, continuo: Aci mio. Galatea. Aci reale mio. Gala a te... gli faceva pane e pane, crosta con mollica, mollica con crosta. Per questo, gli ricordavano qualche volta i muccuselli come lui, quando mangiavano pane e spezzandolo si dicevano: questa è carne, mangio pane e carne di pane, oppure: questo è capicollo, mangio pane e capicollo: oppure questo è panedispagna, mangio pane e panedispagna... M a padre e madre si mettevano forse pure loro a fare i muccuselli giocando a pa ne con idem come prim a? Si mangiavano quei due nomi, accompa gnandoli forse con carne di belle frasi, con capicollo di galanterie, con panedispagna di pensieri reali e di parole di gala? In fondo, quel muc cusello, scherzandoci, era andato molto vicino alla verità, ma che po teva saperne allora lui di quella verità? Allora, a senso suo, al senso 461
di quel muccusello, quella gli pareva una nonsenseria. La prima volta l’aveva pigliata addirittura per opera di pazzia: che s’intendano di es sere, ora? si era domandato. Si rimbambirono? Uscirono di senno? G li erano parsi anche un poco ridicoli e vergognosi come tornassero a fare zito con zita, come se parlassero con la lingua fra i denti e senza sapere perché, all’orecchio gli facevano lo stesso effetto di quelli che tornano dal servizio di leva in continente e non fanno che ripetere: mica, mica, e credono di parlare italiano con quella paroletta che nel mangiare italiano si mette come il prezzemolo, dove c’entra e dove non c’entra, ma da sola è come un mangiare di solo prezzemo lo. Ma chi era quell’Aci che era detto reale? qualche principe di sangue per caso? E quella G alatea? sua moglie, c’era da immagina re, per avere gala anche nel nome, no? Ma chi erano, chi erano, che nomi erano quelli, che suggestione gli davano, quanta varietà di cose, quante sfumature di rose e garofani, quanta carne e capicollo e panedispagna gli rappresentavano davanti agli occhi, solo a pro nunciarli, solo a dirli, sempre sempre, idem come prima? Era gente di Aci e di Acireale sicuramente: questo lo diceva il nome di lui a prima vista, tanto che pareva che fosse un’intesa che gli avevano messo col nome stesso del paese, oppure doveva essere uno di quei principi e baroni così ricchi che anche il nome del paese dove stan no è come di proprietà loro. Eppoi, se ce ne fosse stato bisogno, che fosse gente di Aci l ’ebbe confermato da qualcosa che l’Acitana dis se a Caitanello, una volta che non era di carestia e non era di notte e che fu poi l’unica volta, sia di notte e sia di giorno, che a Cai tanello e all’Acitana lui gli sentì fare un accenno a quel riguardo e dire qualcosa in più dei nomi puri e semplici. E che c’entra? sentì dire quella volta all’Acitana, in risposta a qualcosa che Caitanello doveva averle detto a proposito delle Grotte di Polifemo, che sareb bero delle scogliere vicino Milazzo, e lassòpra c’era il carcere. E che c’entra Milazzo? Il fatto ad Aci successe, ad Acireale: e sennò, quello si chiamava Aci e reale per giunta? Ma potrebbe pure darsi che quello lì, il gigantone, Polifemo Unocchio, scappa scappa, arrivò a Milazzo e s ’ingrottò là. Questo sì, ma quanto al fatto, fu fatto successo ad Aci, quello... Gente di Aci: ma chi erano, chi erano, che fatto gli era successo e che c’entrava quel tale Polifemo Unocchio? Ma chi gli poteva ri spondere? Questo sapeva e questo seppe, se era sapere quello. Gen te di Aci, precisamente questo erano per lui, forestieri e sconoscen 462
ti, che apparivano, facevano coi nomi quella sconclusione di ciuciulìo e poi sparivano; gente di Aci che in quelle notti di carestia se n’andavano come venivano e a lui gli lasciavano solo un solletichio di suoni senza senso, assonnolenti, all’orecchio, come se quel ciuciulìo di sillabe, passando per l ’anima delle canne del tramezzo, si fosse raccolto tutto lì, nel suo orecchio. Gente di Aci, non gente di Cariddi, gente di casa, confidente, co me il Granvisire e Masignora. Con questi, tanto per dire, avrebbe potuto intrigarsi a occhi chiusi nei loro conciliaboli: svegliandosi, poteva dire subitaneamente a che punto erano arrivati: perché il Granvisire e M asignora s’inventavano solo quel poco di fottere ed era come se l’inventassero per la prima volta e per questo ogni vol ta un p o’ per celia e un p o ’ per non morire, armavano quell’ope retta, quella pantomima a Granvisire e Masignora come per scono scersi un poco e vergognarsi di meno; e poi se n ’uscivano subito al naturale: l’Acitana e il Caitanello andanti, con la lingua e le cose di tutti i giorni, tornavano gli afflitti e patiti padre e madre che appena giorno, sursincorda, sursincorda, avrebbero ripigliato ad an dare avanti con quella vita. Aci e Galatea invece, si svegliava e poteva dire che erano sempre a un punto. Non s’inventavano nulla, non armavano nessun’opera, nessuna pantomima, facevano solo quel ciuciulìo di nomi: acimiogalateacirealemiogalaté... Solo questo, eppure questo solo gli dava al l’intonazione di voce un’aria di sazietà, dava alla loro voce un tono felice di sazi, sembrava dall’intonazione di voce dargli un’aria di fe licità, una felicità piena, sazia anche se malinconica, sotto sotto con tristata da qualcosa, come se quella felicità gli costasse troppo, l ’a vessero raggiunta a caro prezzo. Una nonsenseria, questo gli pareva allora, ma contempo, allora, era come lo capisse che se gli pareva una nonsenseria era perché non se ne capacitava. Non era cosa che lui potesse decifrare coi suoi soli mezzi, era cosa troppo intima, segreta fra lui e lei. La morte di sua madre scoprì un fianco a quell’enimma, proprio come lasciò un posto vuo to a letto: e una notte, per un caso, fu quasi sul punto, per quel varco, di trovarsi dentro all’enimma, nel mezzo, fra Galatea e Aci. Per un caso, diceva: per un azzardo, doveva dire, per un vero az zardo, un azzardo di quelli che incoscentemente può fare solo un muccuso. Era successo una notte che sua madre era morta da alcuni mesi 463
e da pochi giorni suo padre gli aveva detto di venirsene a dormire al posto di lei. S ’illudeva forse che questo gli registrasse gli spiriti esaltati: perché, doveva averlo per forza qualche sospetto di come, una notte Granvisire, una notte Aci, tornava a muovere i pupi con Masignora e Galatea, da quel punto dove li aveva lasciati con la morte dell’Acitana. Perlopiù, si trattava di mugugni come se sproloquiasse a bocca chiusa e di tante parole solo qualche sbavatura succedeva che gli passasse tra le labbra, ma rarissimo pronunciava parole nette, che avessero un senso, se si eccettuavano M asignora e Galatea, Gran visire e Aci: pronunciava questi nomi belli chiari, ma subito dopo pareva parlarsi in dentro, con la lingua imbrogliata, dalla bocca giù giù per la strozza. Quella notte, potevano essere ancora nel primo sonno, aveva detto: « Galatea » ma con sua sorpresa, non aveva finito di dirlo che lo ridisse, però interrogativo: « G alatea? » E poi, come se nel più profondo del sonno lo cogliesse un terribile dubbio, si era incantato come un disco a chiamarla, chiamarla: « G alatea? G alatea? G ala tea? » A lui gli faceva pena, ma anche, e di più, paura. Istintivamente, si era ritirato nel suo angolo di letto, e là gli era venuto un groppo di lagrime e questo groppo era riuscito a scioglierselo in gola, in ghiottendosi le lagrime senza nemmeno un singhiozzo. Poi come fos se di un altro, aveva sentito la sua voce parlare da sola, salirgli come un filo d ’acqua, tremula e prorompente, dalle venature lagri móse del petto e sgorgargli di bocca, come fosse la voce di un in visibile folletto che diceva dentro di lui: « Aci mio... Aci reale mio » Ancora non aveva finito di dire mio e già sbarrava gli occhi di terrore, già si diceva che non doveva avere i sentimenti compietamente a posto per commettere un simile azzardo, una tale insensa tezza, di rispondere a suo padre spacciandosi per l ’Acitana. Caitanello aveva fatto con la testa di qua e di là sul cuscino, co me un cieco che sente un ostacolo ignoto e impreveduto davanti alla faccia. Aveva sentito la stonatura e questa doveva avergli strambato un poco il sonno. N o, non era tornato in sensi, questo fortunatamen te no, il sonno gli si era come incantato, lasciandolo che pareva so speso a un filo, come un sonnambulo. 464
« G alatea? G alatea? » aveva chiamato ancora, dopo qualche se condo. Quella voce a occhi chiusi, im pastata di speranza, di dubbio, di incredulità, con un che di guardingo e di sospettoso nel fare la ri prova, nell’interrogare un’ombra nell’ombra, gli aveva dato i brivi di. Aveva un tono accigliato, tremendo che a lui lì, al suo fianco, faceva trattenere il fiato: sembrava che da dentro il suo sonno, aguz zando gli occhi di diffidenza, si orientasse verso quella voce che in risposta, lo aveva apostrofato Aci m io... Aci reale mio... Se lo im maginava nel sonno come circondato da alte caverne che gli riman davano l ’eco lontana delI’Acitana, con un timbro così fresco, che per forza doveva sentirla ancora viva, lì dintorno, fra le caverne del letto, le pieghe pietrose delle lenzuola. « G alatea? G alatea? » sprovò ancora Caitanello. « Aci mio... » gli fece eco lui, perché di eco si trattava. Ormai s’era compromesso, non poteva più tirarsi indietro, ormai ci voleva più coraggio a zittirsi che a dire Aci mio... o Aci reale mio... Se chiamando Galatea, si fosse sentito rispondere il silenzio, anche il silenzio avrebbe potuto dargli un contraccolpo e risvegliar lo. Se non si svegliava del tutto, era per quella specie di eco che lo teneva come imbalsamato, fermo d ov’era, là, pelo pelo al sonno. Ma con la paura che aveva, anche lui era rimasto come assincòpato nella stessa posizione in cui si trovava quando il primo Aci mio... gli era scappato di bocca: con la coperta tirata sulla faccia, gli oc chi girati dall’altra parte, non osava muovere nemmeno un soprac ciglio, perché era sicuro che se appena appena cambiava posizione, variava anche solo il respiro, quello solo sarebbe bastato a risve gliarlo. « Gala tea? » « Aci mio... » « G alatea? » « Aci reale mio... » Caitanello era parlante, ma non sembrava respirare, non muove va neanche le labbra ed era come se la voce gli uscisse dal ventre: stava smanicato con le braccia fuori della coperta, a faccia all’aria. Con la coda dell’occhio poteva vedere il suo profilo nero, un poco sollevato sul cuscino, come si sporgesse in avanti verso una visione, con l ’orecchio teso. Cominciò a metterci lentezza nel chiamare, ma a lui quella lentez 465
za dava i sudori freddi, perché in essa gli pareva addirittura di po terlo vedere, con la fronte aggrottata, mentre scandagliava con l’o recchio, col naso e con la mente e con tutto, teso teso, insomma, dallo sforzo di figurarsi G alatea nella voce che gli veniva data in risposta. Forse lavorava di fantasia, spagnaio com’era, ma aveva l ’im pressione che partitosi di lontano, confuso e ingombro di sonno, passo passo dietro quella voce di Galatea, Caitanello avesse viavia guadagnato sempre più in sensi e lucidità di mente e ormai doveva essersi scandaliato del trucco: per questo, andava pensando con ter rore che da un momento all’altro gli sarebbe comparso 11 a fianco e tuttuno, avrebbe girato gli occhi verso di lui e alzata la mano, per sbattergliela di cozzo sulla bocca. Veniva a toccare con mano, in ogni senso, lo sapeva, quello era Caitanello, e gli pareva di sentire già il sapore del sangue sulle lab bra. Caitanello, nelle cose dove, secondo lui, si vedeva quant’era furbo, doveva sempre dare una qualche pubblicità di parole e di gesti maniscoli, per pentirsene magari subito dopo. Ma da dove mi venne di fargli l’Acitana? si chiedeva. Non po teva nemmeno pentirsene, perché sapeva di non averci niente a che fare con quella voce spiritata che gli era uscita di bocca. Ma chi me la ispirò, chi? si chiedeva. Era persuaso di non potersi dare una risposta, ma nello stesso tempo che se lo chiedeva, aveva avuto come una rivelazione. Pensò che gliel’avesse potuta ispirare lei stessa, l’Acitana, per pietà del suo Caitanello. Non si trovava forse al posto di lei nel letto, dove forse era rimasto il suo spirito quando se n ’era andato il corpo? In quel momento non ebbe più paura, non solo, ma sentì dentro uno scat to di ribellione contro la pietà dell’Acitana e contro se stesso, per ché le aveva fatto da portavoce. Non era giusta, ma era benigna quella pietà: sprofondava la guancia dentro il cuscino e gli pareva così di gridarla in un sussurro direttamente a lei, all’orecchio dell’Acitana, quella protesta e quella pena che gli gonfiava il cuore. Quel momento venne: senza aprire gli occhi, senza muoversi, Caitanello mandò il suo braccio a tastare da quella parte del letto. Incontrò il suo fianco, sollevò la mano e gliela posò fra i capelli, e come per appurare se si trattava di capelli corti o lunghi, li scor reva a ciuffi fra le dita: gli pigliò poi l’orecchio, come cercasse al lobo un orecchino. Qui però, ribellato da uno scoppio di tosse, si svegliò completa 466
mente. A fior di labbro, allora, come volesse e non volesse appurare chi era la persona che gli stava a fianco, lo chiamò: « ’N drja? » fece una prima volta, pianissimo, e poi una seconda, più piano ancora di prim a: « ’N drja? » Sapeva benissimo che era sveglio, nessuno glielo avrebbe levato di testa, ma doveva essere convinto che quel muccuso, per paura di buscarsi qualche pelliata, si sarebbe guardato bene dal risponde re, standosene tacitamente addormentato, come gli faceva comodo a lui. Non era venuto, perciò, per toccare con mano la verità né per sgonfiare le labbra a suo figlio che gli imitava l ’Acitana, non ve niva col coraggio civile di appurare l’inganno, ma anzi, con la paura che il figlio gli stroncasse il piacere dicendogli: te la rifeci io l’Acitana, io ti corrisposi con Aci mio o con Aci reale mio; non veniva a domandargliene conto, ma al contrario, a pietirgli silenzio e com plicità: non veniva insomma, realistico ma illuso, illusorio. Fu questione di istanti: capì che non ci avrebbe riprovato a chia marlo, ormai doveva pensare che il figlio si sarebbe tenuto la posta, e non doveva, non doveva... « E h ? » gli fece, e per non lasciargli scampo, non si volle fingere nemmeno che era stranottato, che usciva allora allora di sonno. « Mi chiamasti, p a’ ? » Qualcosa gli succedeva dentro: gli moriva quel bene ammirativo che aveva sempre sentito per suo padre, e un’altra specie, uguale e diversa, di bene lo sostituiva e a lui sembrava il suo bene di prima scambiato con quello di suo padre per lui, come il bene di un padre verso un figlio, un bene tenero e duro, un bene, in una parola, protettivo. « Ah, non dorm i? » gli fece Caitanello, finto incredulo. E poi: « Quant’è che non dorm i? » « Mah, sarà un’ora » Stette un gran pezzo a sciropparsi questo: s ’accese il mozzone di indigena, che teneva sempre a portata di mano, tirò qualche bocca ta, poi disse, gettandosi allo sbaraglio: « M ’arrivò una voce strana in sonno che non so che diceva: ac cia, acciara, acciarino... Qualcosa così, ma non l’afferrai la parola vera. Non mi spiego che fu, chi fu... » « Sì, sì, non te lo spieghi... » gli fece con rabbia, e scese le gambe a terra, sedette sulla sponda del letto dandogli le spalle: « Chi fu, chi fu... Pare che non lo sai che fui io... » 467
« T u? Parlasti tu? » « Uffa, lo sai, pa’, lo sai » « Oh, muccuso? Che tono mi usi, eh, muccuso? » G li diceva muccuso, muccuso, e lui sentiva che questo non aveva più senso per lui, proprio perché sentiva di non essere più un muccuso e come lui e come lo sentiva lui, doveva sentirlo forse anche suo padre. « Parlò lui, parlò... Ma che disse, vorrei sapere, che disse questo muccuso? » andava scandagliandolo, ma lo sfidava più a non dire, che a dire, si capiva. « D issi Aci mio... e dissi Aci reale mio... questo dissi » gli fece papale papale, per levargli ogni illusione, anche se, a dirgli questo, là sulla sponda del letto, si era sentito avvampare gli orecchi. Caitanello pigliò tempo a rispondere e quando rispose, non si mostrò animoso, ma arrendevole, arrendevole e stanco, e stranamente bisognoso di sapere, di appurare. « E perché dicesti questo? D a dove ti venne? » « Nemmeno io lo so. Mi scappò » « Ma da dove ti venne? Da qualche parte ti dovette venire » « Forse mi venne perché stavo a letto qua » « E che senso gli dài tu al fatto che stavi a letto qua? » « Che senso? Il senso che tu dicevi Gala a tea e a me mi venne di dirti Aci mio... » Caitanello masticò la sua saliva, sbattè le labbra, si vedeva il fian co scoperto e non sapeva che farci: « Ma tu, muccusello, che fai? » finì col dirgli, forse solo per prò-, forma di autorità e prestigio. « Invece di dormire, ti metti alla mK sa, gli orecchi tesi a spiare quello che si sognano gli altri? » j « Sì, sì, ora vuole ragione, per giunta... Si mette all’orecchio, si] mette a musica notte per notte e vuole che dormo... » j « E perché non te ne torni a dormire dove dormivi prim a? Per-: ché non vai e ti pari il letto fra le sedie, eh? » E qui, all’incirca a questo punto, per la rabbia, gli erano venuti le lagrime. Si sentiva il cuore stretto in una morsa, perché suo pai dre cadeva sempre più nelle bambinaggini, mentre l ’idea sua era che doveva levarlo lui dalle bambinaggini, dato che erano due e uno doveva fare per forza il realistico, se l ’altro faceva poesia. Per que sto piangeva, perché sentiva che per lui era arrivato il momento d fare il grande prima del tempo, come nelle case dove un giorno i padre non torna dall’uscita in mare e il primo maschio, sbarbatelli 468
o muccuso, diventa capofamiglia. Piangeva per questo, e quelle era no forse le sue ultime lagrime di muccuso. Si alzò dal letto e fece qualche passo, piangeva e diceva: « Pure subito, ora, me lo vado a parare il letto... » « Fermati » gli intimò, alzandosi sul busto. « Non ti muovere di dove sei. Te lo dico io quando te ne devi andare. Ma guardate, guar date questo muccuso quant’acqua che sta pigliando... Piange ora, piange: ihihih... Prima s ’intromette, s’intriga in cose che non gli competono, e poi piange... » Col torto che aveva, faceva schiuma, schiumogeni, era naturale. Poi passò tanto tempo, che sembrava tutto finito. Lui si era se duto nuovamente sulla sponda, Caitanello aveva trafficato con moz zoni di sigarette e cerini, poi a poco a poco si era allungato sul letto. E che conclusi? s’andava dicendo. Ora lo persuade di nuovo il sonno, e si rimette a musica con G ala a tea. E allora che conclu si con questa scena? Ma era qui che si dimostrava ancora muccu so, perché credeva che in una cosa come quella si potesse arrivare a una conclusione, e perché credeva che potesse dipendere da lui, arrivarci. Non se lo sarebbe mai aspettato che Caitanello ripigliasse lui il discorso: « ’N drja? » lo aveva chiamato. « Mi devi dire perché dicesti Aci mio. Eh, perché? » « Perché ti sentii dire a te Gala a tea. Per questo, te lo ripeto » « Io dissi G ala a tea? A me lo sentisti dire? » « A chi allora? A te. Parlasti in sogno » « Io, parlai in sogno? » « Ah, non lo sai? T i pare la prima volta cheparli? Parli sem pre... » Glielo disse abbassando la voce in soffio, come si vergognasse di svergognarlo. Suo padre, allora, con un tono sincerissimo di curiosità, gli do mandò: « Ma tu che ne sai di questo Aci e di questa G alatea? » « Niente ne so. Che ne posso sapere io? » « Però dici Aci, se senti Galatea... » « Vi sentivo a te e a ma’... M a’ che diceva Aci mio e tu che le rispondevi Gala a tea » « G alatea » lo corresse lui. « G a... la... te... a » 469
« G a... la... te... a » si corresse lui. « Sentivi... » fece Caitanello come ci riflettesse. « Dormivo e mi svegliavo... » disse a sua scusante. « Parlavamo tanto forte, io e tua madre? » « N o, anzi, leggerissimi. Però vi sentivo e mi svegliavo » « E tu allora che pensavi? » « Niente. Che dovevo pensare? Sentivo solo il vostro ciuciulìo » « Ciuciulìo? Allora non sentivi solo Aci e G alatea? » « N o, solo Aci e Galatea » « Ma non dicesti che sentivi un ciuciulìo? Che ciuciulìo? » « Aci mio, Galatea, Aci reale mio, Gala a tea... Questo ciuciulìo » Perché non gli aveva detto anche del Granvisire e di Masignora? Forse perché il Granvisire e la Masignora, alla fine, si scoprivano la faccia e tornavano andanti, giornalieri, quelli che conosceva: Cai tanello e l ’Acitana, con la loro vita e lingua di tutti i giorni. Ora, se Caitanello si pretendeva a Granvisire, anche ora che l ’Acitana era morta, e rifacevano, lui e Masignora, i conciliaboli di una vol ta, questo non poteva riuscirgli pericoloso, non poteva creargli nes suna illusione spietata. Aci e Galatea invece, non sapeva chi o che cosa gli rappresentavano, non avevano l ’aria andante e giornaliera del Granvisire e della Masignora, col loro parlare delle cose di tut ti i giorni, compresi i sogni, che poi altro non erano che i loro bisogni. Per questo, quelli non gli ispiravano fiducia. Poteva esclu derlo lui che a Caitanello, a lui come a quell’Aci, non gli avrebbe fatto un effetto amaro, maligno, ora che quella Galatea era morta? « Ma per te, per te, » insisteva Caitanello « per te, che senso ave vano st’Aci e sta G alatea? L ’avevano un senso e che senso per te? » « Che senso? » ripetè con un risolino. « Che senso dovevano ave re? Nessuno, per me » « Niente, niente? Non ti dicevano niente a te? » « Niente. Un ciuciulìo, te lo ripeto, un ciuciulìo » Sbuffò, poi allungò un braccio, gli mise una mano sulla spalla e lo tirò a sé con uno strappo come se lo pigliasse il nervino: « Ma allora, don muccuso, perché non ti stai zitto se senti tuo padre che si fa un morso di sogno e gli scappa qualche parola di bocca? Mi vuoi spiegare perché t’intrighi in cose che nemmeno ca pisci, eh? Perché pigliasti parola, vorrei sapere io? Ti competeva a te, forse, dirmi Aci mio, eh? » 470
« Me ne pentii subito... » gli fece. Lo strinse più forte alla spalla: « Mi volevi pigliare in giro, per caso? » « Sì, in giro... Sta voglia mi sentivo... Ma se nemmeno lo so co me fu. Mi sentii dire Aci mio, senza sapere come » Le lagrime gli risalirono agli occhi, si scivolarono inbocca e fra le lagrime aveva aggiunto: « Poi mi passò per mente persino che mi indettò l’Acitana... » « L ’Acitana? » ripete come se si scandalizzasse del nome, di sen tire, come fosse la prima volta, che anche lui la chiamava innocen temente Acitana. « Dai la colpa a tua madre ora? La pigli a scu sante? » « Te lo giuro che veramente questo mi parve, che me la dette lei, ma’, l’ispirazione, per quant’era forse che si sentiva chiamare senza poterti mai dare risposta di persona » « Ma non era per caso che ti sognavi pure tu, eh? » « Ah, non mi credi che la bocca mi parlò come se fosse la bocca di ma’ e come se parlando di dentro a me lo spirito suo diceva Aci mio? Ah, non mi credi che mi lasciò a bocca aperta? » « E l ’Acitana sceglieva un muccuso pari tuo per darmi la sua ri sposta? Non è che le facevi lo sfottò? le facevi la ripassata, tanto per dire? » « No, no... » gli gridò sbattendosi e sgocciolandosi tutto di lagri me. « Lo sfottò, la ripassata... A me mi venne quasi l ’istinto di ri voltarmi con l ’Acitana, questo mi venne di farle: di rivoltarmi, non di farle lo sfottò... » « Che dicesti, che dicesti, muccuso? » fece lui, strabiliato. « Ti venne di rivoltarti contro l’Acitana? E perché? » « Perché mi smuoveva la lingua a me per dirti Aci, Aci... per farti la pietosa » s ’ardì azzardosissimo di dirgli. « Perché ti faceva la piaga cancrenosa... » Qui Caitanello s’avventò come una murena, gettandosi verso di lui col pugno, ma si limitò alla mossa: « Oh, muccuso » lo apostrofò fra i denti. « Non t’azzardare, muc cuso, di parlarmi di tua madre con questo tono, sennò ti dò una làllara in faccia che t’insordisco... G li venne di rivoltarsi a questo muccuso, gli viene di rivoltarsi, si rivolta, si rivolta, questa pulce, contro sua madre si rivolta... H a ancora la bocca che gli puzza del latte di madre e si rivolta per addentare la minna che l’allattò... » 471
S ’avvill tutto a sentirlo come cercava di cambiare le carte: alla Donna Acitana, ora, metteva sopra la Regina madre, la rimetteva nei riguardi di madre, perché ora gli conveniva giocare questa carta per vincere la partita col figlio. « Per causa tua, per causa tua fu, se mi venne di rivoltarmi... » gli gridò e tanto per cambiare, s ’inondò ancora di lagrime. « Per causa tua, che chiami sempre Galatea, ti spremi, ti spremi, e l ’Acitana a te ti pare che non ti sente, che non si risente, a te ti pare, ma la sento io dentro all’origliere come ciuciulìa: Aci mio... Aci mio... Tu chiami, lei chiama, vi chiamate tutte e due e non vi sen tite. Io, invece, di fuori ti sento a te e di dentro sento a lei. La sento, la sento dentro all’origliere, come la sentivo all’epoca, quan do lo faceva con te il ciuciullo, e quell’Aci che sempre dice, che dice che è reale ed è suo, mi entra nell’orecchio a me, notte per notte. E così stanotte mi uscì di bocca, per forza mi doveva uscire. E per que sto tu la sentisti, per me: sennò tu mai la sentivi. Ci dormi tu, forse, sull’origliere suo? Non ci dormi tu, tu no, mentre tutto suc cede per causa tua, per causa tua... » Lo fece sfogare e non lo interruppe. Stava rialzato, col gomito sul cuscino e stava a sentirlo: stava a sentirlo con sentimento, que sto era lo sbalorditivo. G li rinfacciava la sua colpa e lo stava a sen tire come se si dichiarasse vinto davanti a suo figlio, al muccuso: come se ne morisse sulle parole che si sentiva dire, se ne morisse di pietà per se stesso e di amore per l ’Acitana e di dolcezza per suo figlio. Per lui era come un balsamo. Era come se suo padre lo abbrac ciasse, allacciandolo a poco a poco, con braccia tenere, impacciate, con braccia che non ardivano, braccia di elemosinante: ma dentro quelle braccia al figlio gli passava l’infuriatura, pensava all’Acitana, a quanto gli voleva bene lei a questo terribilio di palmo d ’uomo e si sentiva un vero malazionario, al confronto. Si sporse poi attraverso il letto e allungò il braccio come per dar gli la mano: « Avanti, ’Ndrja, vienitene a letto a dormire, qua, accanto a me » lo invitò con la voce stranamente fessa. « Sennò al G olfo dell’Aria come vieni? Restammo intesi con don Luigi che dopo Enzo, Salvatorello e Federico, ti toccava a te stavolta di venire al Golfo, ma se non dormi... Che ora facemmo? » gli domandò. Andò a spiare dalla finestrella sul canneto: là, era ancora scuro 472
fitto ed era segno che la luna si trovava ancora a salire in mezzo al cielo, sullo scilPe cariddi. « Saranno le nove » gli disse tornando. « Ci sono ancora buone tre, quattro ore di sonno. Vieni, ’Ndrja, vieni e dormi. Sennò t’addormi sulla palamitara e don Luigi mi fa: ma questo muccuso non l ’ha un letto a casa? che venne al Golfo, per dormire? » Lo zittiti pensava di dargli, lo zittiti: credeva forse d ’accattarselo con quella andata al G olfo... « Dormo, dormo... » gli fece, smaccandogli. « Dormo, se tu mi fai dormire, dormo, se dormi pure tu » « E che faccio io? Veglio forse? » fece come non ricordasse più la questione. Se doveva fargli il realistico, quello era il momento. E così si trovò a parlare a suo padre come se si fossero scambiati i vestiti: « Non vegli, ma nemmeno dormi. Ti sogni, questo fai » gli pre cisò senza avere pietà. « E ti sogni sempre di st’immaginari Aci e Galatea. Forse, penso io, tu ti fai qualche illusione che sai tu, e a te forse ti pare bella, ti pare benigna st’illusione. Eh, certo, nemme no a dirlo, io non posso parlare: che ne capisco io? che conto io? Muccuso, muccuso, tu dici, però pure io, muccuso, lo capii che quel la Galatea e quell’Aci non ti possono rappresentare bene, ma male, penso io. A ll’epoca dell’Acitana ti servivano per farci ciuciulìo, ma ora che l ’Acitana non c’è più, ti possono forse servire ancora per ciuciulìo? T i pare che bene ti fa? Muccuso, sì, muccuso, ma a me mi fa specie quando ti sento che t ’intraffichi con st’immaginari Aci e Galatea. Quasi quasi pare che te li personifichi ora che non c’è l’Acitana, mentre con lei si capiva che era solo ciuciulìo di parole... » In mezzo al letto, Caitanello di tanto in tanto pendoliava il capo come se non si capacitasse delle parole del figlio o delle proprie notturne gesta. Alla fine, sollevò la testa e disse: « Ah muccuso, muccuso. Ah, quante cose capisti, muccusello. Ca pisti pure che Aci e Galatea non sono nessuno, non esistettero, fu rono sempre immaginarii, immaginari che ci facevamo l ’Acitana e io, eh? Ah quanto capisti, muccusello scaltro... Capisti più tu, muc cusello, che madre e padre, eh? » concluse e lui quasi ci credeva, tanto era serio, triste lo smacco che gli faceva. Stette un poco a sbuffare dalle narici, dondoliandosi col busto, e poi sembrò pigliare una grande decisione: 473
« Portami qua quel lume » gli ordinò e accese un cerino per far gli luce dal letto verso il canterano. G li portò il lume e mentre l’accendeva e regolava la fiamma nel tubo, mormorò: « Ora lo vedi, se st’Aci e sta Galatea esistono oppure no, ora li vedi, ora li vedi... » Pareva che il lume gli servisse per illuminare in faccia Aci e G a latea, come li sapesse presenti là, in qualche angolo, allo scuro. G li fece rimettere il lume sul canterano, da dove la luce cadeva ai piedi del letto: s’accese un’altra indigena e si mise seduto co modo coi ginocchi alzati e le spalle alla testiera del letto, poi gli ordinò di venirgli accanto e allora, tirando boccate di fumo, cogli occhi fìssi al lume, sembrò 11 lì per ammetterlo a quella grande con fidenza, confidenza che lui s’aspettava che lo facesse grande da muccuso, confidenza che invece non ci fu e lui restò più muccuso di prima. Suo padre infatti sembrava essersi alloppiato a guardare il lume: aveva avuto come una scossa solo quando la sigaretta, consumando si, gli aveva bruciato le dita, ma nemmeno allora, nemmeno per un momento, aveva levato gli occhi dal lume. Pareva che il lume gli avesse cancellato ogni memoria, oppure che gliela facesse insorgere tutta, passata e anche futura, dalla fiamma del lume. Lui se ne stava zitto, lo guardava di sotto, dal fianco, e gli na sceva una immensa, quieta, malinconica rassegnazione di fronte a quel fatto più grande di lui. Capiva che suo padre s’era messo a sbrigare faccende sue, di mente e di cuore. Lo aveva sentito che si passava e ripassava la mano sulla faccia come per togliersi delle fu liggini. Pareva che qualcosa gli smaniasse dentro, lo sforzasse per traboccargli di fuori e lui la tratteneva per vergogna del figlio: era come un lamento che gli veniva di eruttare, un rantolo di visceri attorcigliato e confuso, fra godere e soffrire, un rigurgito di sensa zioni e ricordi, di parole e cose che gli facevano groppo e lo stroz zavano. Poi se n ’era stato zitto come dormisse. Ma lui lo aveva sentito a lungo, sveglio, a faccia all’aria. Senza volerlo, gli si era spinto a poco a poco vicino, strettostretto, schiacciandosi sotto: di là pas sava gli occhi assonnati dalla palla del lume a Caitanello che stava a faccia all’aria, cogli occhi aperti e non si muoveva più, ed era come guardasse al passato dentro i suoi pensieri dentro la memoria 474
dentro la stanza dentro al letto dentro la palla del lume sul cante rano. Aveva chiuso gli occhi sotto quel profilo come cadesse in avanti tra i barbagli fumosi del lume: gli era parso di aggrapparsi alla spalla di suo padre e doveva essersi addormentato là, sotto quell’ala dura e rasposa di pellesquadra, dentro il suo gomito puntato. Si era svegliato sulla palamitara in mezzo ai pellisquadre che re mavano fra le fumate dei loro respiri: suo padre doveva averlo por tato in braccio e caricato come facesse parte dell’armamento. C ’era la luna ancora, ma era giorno ormai: da poco si erano lasciate a manca le Isole e davanti ai suoi occhi si apriva il G olfo dell’Aria con la costa taureana che si delineava di fronte, in lontananza, ed era come si guardasse da mare aperto, come se la palamitara tornasse da una lunga navigazione in altomare. « Benedìcite » gli fecero a sfottò i pellisquadre. « Vossia dormì bene? Lo dondoliammo a dovere a vossia o non sia mai, ebbe qual che scossa? » « Dàtti da fare » gli disse suo padre. « Fagli vedere a sti signori di che sei capace » Doveva incunearsi a poppa e manmano che lo calavano, favorir gli e agevolargli lo sbrogliamento del conzo: rete e lenze, sugheri, piombi, pelidiverme, mazzi di ami ed esche, casomai il conzo si fos se imbrogliato nell’arrotolamento delle reti dentro le gistre. Intanto che i pellisquadre scioglievano le lenze e spuntavano dal sughero i mazzi di ami ignescati per sgombri coi fiocchetti di la na, si portò a poppa, tenendosi mezzo in equilibrio, alle spalle dei pellisquadre: e là, prima di farsi posto fra le gistre, fece pipì. D i quella notte non ebbero più motivo di parlare: né di quella notte, né dell’Aci e della Galatea di quella notte. Non ne parlarono. Non ebbero mai motivo di parlarne insieme, beninteso, perché, di Galatea, finto Aci, Caitanello continuò a parlarne sempre per conto suo, e continuava ancora, a quel che sembrava: anzi, di più, per ché senza l ’Acitana viva di persona, che gli restava da fare se non parlare di lei con lei, di lei con chi, almeno per lui, non poteva mai morire: Galatea, perlappunto, o di lei con chi aveva fatto morire la Masignora acitana, con Nasomangiato perlappunto? E col passa re del tempo, con lui che invecchiava e lei che restava eternamen te giovane, aveva bisogno di parlarne sempre di più, sempre di 475
più e non più forse per averci ricchi purparlé e abboccamenti, ma solo per scambiarsi qualche mezza parola a scappa e fuggi, qualche sillaba o mossa di labbra alla ladricella, come coi carcerati a collo quio in parlatorio: per lui doveva essere come chinarsi a raccogliere le mollichelle, i resti ormai invasi dalle formiche, di un banchetto sontuoso, e doveva essere anche come distillare un intero, già splen didissimo giardino, attaccato dal malsecco, per una sola goccia inaf ferrabile di quel profumo. E quanto a lui, dopo quella notte forse era veramente cresciuto, veramente aveva finito di essere muccuso. Con l ’andare del tempo, andò capacitandosi sempre più che quelle non erano cose da poterci fare i realisti: meno che meno, con le forze di un muccuso d ’una diecina di anni che si trovava a competere con soggetti che avevano Tossa come quelle di Nasodicanemangiato, troppo dure per i denti ancora teneri della sua mente. Se la citava, nottata d ’arruffamento fra padre e figlio, era solo per la storia: per lui, come per suo pa dre, era rimasto tutto come prima. Anche se quell’Aci e quella G a latea erano esistiti, anche se Caitanello e l’Acitana li avevano cono sciuti di persona, non gli potevano aggiungere né levare nulla a lui, non gli cambiavano in niente il ricordo di quelle notti dei giorni di carestia, quel ciuciullo nell’aranciara finofino, tenebroso, con le sil labe acimiogalateacirealemiogalaté come miglio nel becco. Quello era il suo ricordo e quello restava al suo orecchio di muccusello: suoni di parole senza le parole, suoni senza senso. Solo dopo, con l ’andare del tempo, gli era passato per la mente che quella che cre deva una nonsenseria, quel ciuciulìo di acimiogalateacirealemiogalaté, proprio quei nomi col reale e con la gala, quello, per Caitanello e l ’Acitana, potesse essere il rumore della carrozza, l’eco della festa ricca con cui si illude la povera gente, il rumore, l’illusione di un’al tra vita, della bella vita che va in carrozza. Doveva essere con quel lo che si svagavano l ’Acitana e Caitanello col suono di due, tre sil labe, col lontano rumore di una carrozza sulla quale sedevano un certo Acireale e una certa Galatea: una notte, inaspettatamente, una di quelle notti di quei giorni di carestia, in cui le parole, le sillabe di moglie e marito cadevano goccia a goccia fra le tenebre, come piog gia chiamata dai petti a dare ristoro all’aria siccitosa, rigonfia di conta gio. E cosa che lo lasciava ancora a bocca aperta, subito dopo, da padre e madre, veniva quell’impressione sbalorditiva di sazietà che davano col loro acimiogalateacirealemiogalaté, come non avessero 476
più bisogno di nulla, ma non era come se campassero d ’aria, bensì come se si fossero effettivamente sbisognati di tutte le privazioni della carestia. Da quegli splendidi, meschini Masignora e Granvisire che partivano, lasciandosi dietro quel tribolo di pescidipane e di pane di pesci, madre e padre, sotto il nome di Aci e Galatea, pareva che tornassero addobbatissimi di tutto, spirando benessere da den tro i loro nuovi, magici nomi, come una specie di sazietà di spirito e di pancia, ed era come avessero gli occhi abbuffati dalla vista di grandi pescate al G olfo dell’Aria, di lanzate di maestose fianchipieni. La Masignora e il Granvisire erano andati a seppellirsi con la ca restia ed erano venuti Aci e Galatea col loro ciuciulìo come un mangiarello di sillabe che non li saziava mai, perché la loro felicità do veva forse consistere tutta nel fatto che non si potevano saziare mai, perché la felicità non c’è cibo che la possa saziare. A un certo punto, nel ciuciulìo, era come facessero un’altra stra na specie di fottisterio, perché le due voci si confondevano, le sil labe di Aci dentro le sillabe di G alatea, e davano allora l ’idea di avere figliato tante altre voci in una sola a maschio e femmina. A quel punto, però, facevano veramente come i passeri nell’aranciara che pare che si baciano e s ’imboccano, ma non si sa, non si riesce a vedere, a capire quello che precisamente fanno dentro il frullare delle loro ali, toccandosi e ritoccandosi col becco, arruffandosi e al lisciandosi le piume all’unisono con picchiettio di becchi, quel ciu ciulìo basso e dolce, piano e veloce veloce, e fra vista e udito, è come un capogiro, un leggero, inebriante senso di vertigine. Richiudeva gli occhi a sentirli: il sonno lo invadeva, e quel suo no col sonno, quel ciuciulìo conciliante, quella gentile miserevole nullità del mondo era come gli favoleggiasse di qualcosa di indeci frabile e di potentemente persuasivo, di cui l’Acitana e Caitanello conoscevano il segreto. Il più delle volte, forse perché il più delle volte nella sua men te la carestia pigliava l ’impronta delle labbra di suo padre, mute, secche e screpolate dal silenzio come zolle di terra inaridite dalla sic cità, quel suono di sillabe che si lasciava fuori del sonno, quel pi golio e picchiettio di parole sminuzzate sulle labbra secche, gli si rappresentava veramente al senso come quello delle prime gocce che battevano alla superficie del mare la notte e si sentivano venire dal largo verso la riva, e sulle prime non ci si spiegava quel picchiet tare lontano contro l ’acqua, come di uccelli trampolieri che zampet 477
tavano sulle onde e s’avvicinavano fragorosamente ed erano gocce di pioggia. E sempre, sempre, all’ultimissimo istante, col tacere di tutto, col sonno, gli risorgeva all’orecchio il rumore magno del mare. G li pa reva allora di lasciare per sempre il mondo bombardato dalla dol cezza di quel rombo che saliva dalla ’Ricchia sino a sotto il suo materasso steso fra le sedie, sino a oltre il tramezzo, sotto il letto dell’Acitana e di Caitanello: gli pareva anche che madre e padre e figlio, con tutte le loro grandi pene e tutte le loro piccole illusioni, scomparissero a poco a poco, rapiti in quella eco dolce e tremenda che andava e veniva, su e giù, e si alzava ai lati del letto, ai piedi, alla testa, li chiudeva, li isolava, su e giù, su e giù, ora era una culla, ora era una bara, ora il rombo soffocato, abissale della loro vita, ora il silenzio fragoroso, assordante della loro morte.
L ’indomani, apparentemente, non c’era nulla di cambiato. A ll’albeggiare, suo padre si ritrovava all’aperto cogli altri pellisquadre per armare. L ’Acitana compariva dietro a lui e gli porgeva il bacile per sciacquarsi la faccia; poi, lei gli scaldava un tazza d ’ac qua con una fetta di limone o qualche foglia di lauro, e gliela por tava: lui la sorseggiava a piccoli sorsi calcolati, smirciando intanto al cielo di levante, al rosé che spuntava da dietro l’Aspromonte. Quando le ridava la tazza, le metteva una mano sulla spalla e si guardavano. Dopo, era lui che si sobbarcava al più gravoso dell’ar mamento e del varo, facendo anche, con una specie di smania, quel lo che non gli competeva a lui. Poteva essere suo padre o un altro, o due o tre insieme, quello o quelli, insomma, a cui la moglie durante la notte, facendogli cre dere magari che per lei avevano gusto di miele, di confetti che si squagliavano in bocca, avevano macinato fra i denti le pietre della bile, svuotandogli il sacchetto, che ancora un poco e gli sarebbe scoppiato, mentre ora l’avevano nuovamente vuoto e nuovamente potevano riempirlo. Quand’anche un solo pellesquadra, in una di quelle notti di quei giorni di carestia di mare, passava per la moglie come per un setac cio che ne tratteneva l ’estraneo e lo sporco, la bile e i veleni, quello solo bastava a dare lena agli altri, a rianimarli con la sua smania di muoversi, di fare, di dire come se quello fosse il giorno segnato per 478
la fine della carestia. Quasi non era da credere, ma una notte l’una e una notte l’altra, ora Amalia Cambrìa e ora Margherita Scalfì, ora Rosalia Orioles, e ora Stena Paiamara, tanto per dire, c’era sempre una femminella che la notte non dormiva e sola e senz’armi in vista, sfidava l’assedio della carestia e passava le linee per andarsi a ri pigliare il suo uomo che non aveva più la forza di tornare di là. Era talmente facile riconoscere il pellesquadra che aveva avuto ricreo da sua moglie, che faceva persino vergogna mostrargli di ri conoscerlo: anche perché nessuno di loro faceva niente per nascon dersi e Caitanello meno di tutti, lui era come lo portasse scritto in fronte e come si premiasse per l ’Acitana, dell’Acitana. Trafficava per armare, portando remi e conzi alla palamitara, o i cunei di legno per varare, e frattanto, ogni due, tre, alzava gli occhi e spiava al colorito del cielo come aspettasse con animo di sfida e di conquista il giorno che veniva. Spandeva intorno un senso di spe ranze nuove e animose: mostrava prescia e impeto di varare e por tarsi al largo, come se durante la notte avesse sognato un grande mare gonfio di cavalloni che è segno di massima abbondanza e porta onore al pellesquadra che lo ha sognato.
Passò la soglia di casa e al suo viaggio spuntò la coda, e la coda, si sa, è sempre la parte peggio a levarsi dalla pelle: se poi si tratta d ’uno scabroso pellesquadra che si chiama Caitanello Cambrìa, allo ra per levargli la pelle di codata e sottocodata, vi fa gettare sudori di sangue. Suo padre, infatti, se ne uscì che non riconosceva in quello sco nosciuto suo figlio: si calò la visiera sugli occhi e invece di gettargli le braccia al collo, lo costrinse a battergli sulla corazza del cuore, gli pretese, insomma, prove della sua identità di figlio, se quello, come asseriva, era il suo vero essere. E dire che lui ci andava con cautela per non fargli venire un colpo. « Don Caitanello? Don Caitanello Cambrìa? » l’aveva chiamato più volte di dietro alla porta. Subito, aveva visto spegnersi la luce e poi era venuta fuori la voce di suo padre come sorgesse dalla tomba: « Chi è st’estraneo che mi parla? Che vuole da me? » « Un amico, don Caitanello, un amico che ha da darvi delle buo ne notizie » 479
« N otizie? Che notizie? Buone notizie a me? Chi siete? Chi vi manda? D a dove venite? » « Aprite, che tutto vi dico. Per questo venni » « A quest’ora di notte? E senza lustro di luna? » « Ma don Caitanello, che pretendevate? Che aspettavo la luna nuova? Eppoi, s’aprite, v ’accorgete che non avete bisogno di lustro né di luna » « Non ho bisogno d ’aprire, questo so » « Me lo dissero che siete testardo » « A ll’inutile chiacchierate. Non m ’incantate » « V ’incanto? Ma perché v ’incanterei? Che mira posso avere? Che scopo? Avete tesori in casa? Diventaste ricco, alle volte, col vostro mestieruzzo? » « Seta, seta, bella seta fina... » smacco lui per uffa. Ancora pareva tutto naturale, uno che proprio non sospetta né immagina: ma con Caitanello come si poteva dirlo? Che traccheggia va a fare con lui? Tanto valeva sprovarlo tutto: « Ma possibile mai, io mi domando e dico » gli fece. « Possibile mai che non vi viene a conoscere sta voce che sentite? » Non rispose, ma dopo qualche momento lo senti che abbassava il saliscendi, apriva uno spiraglio della porta e se ne stava zitto allo scu ro, con la sua sagoma biancheggiante, i mutandoni ai ginocchi, la ma glia con le mezze manichette, i capelli e la faccia di pallore, in mezzo alla striscia nera della porta. « D i chi sarebbe sta voce che dite? » chiese malfidente. « Perché mi dovrebbe venire a conoscere? Chi sareste voi? » Fece male, ma fu un gesto istintivo: invece di rispondergli, allun gò una mano verso la sua sagoma di fantasima e andando alla cieca, invece del braccio o della spalla, gli mise la mano al collo: Caitanel lo si ritrasse di colpo richiudendo in un lampo la porta. « Che intenzioni avete? » gli fece tutto alterato di laddiètro. « V e niste forse per mettermi le mani alla gola? » « Ma quali mani alla gola? Una stretta di mano vi scandalizza tanto? » « Bella cosa la stretta di mano, ma mi dite perché, eh, perché ci dovrebbe essere sta stretta di mano fra noi due? Voi, che mi venite, voi a m e? » Forse si era rimbambinito senza, con questo, perdere quel suo to no tutto suo, incarnato, di chi presume in un colpo d ’occhio, anche 480
nello scuro più fitto, di contarti quanti peli hai. G li veniva di pale sarsi, di dirglielo che era suo figlio, ma un timore lo tratteneva, per ché si sapeva, in tempo di guerra, di quanti padri e di quante madri cadevano secchi assincopati aprendo la porta e sentendosi dire: ma’, pa’. I figli se la scapolavano e i genitori c’incappavano, sempre di morti in guerra si trattava. L ’unica era di mandare avanti un amico, qualcuno per preparare i parenti a notizia sia di morte sia di vita. Ma lui dove lo pigliava a quell’ora un amico? « Don Caitanello, lasciate stare » gli fece scoraggiato. « Chiude tevi, chiudetevi, ritiratevi. Scusate il disturbo » « Ah, ve n’andate? Vista la malaparata, ci rinunciate, eh? » « Va be’, sì, ci rinuncio, avete ragione voi. M ’accorsi che siete troppo scaltro per pigliarvi di sorpresa » La voce di suo figlio non gli diceva niente, non gli scandaliava l’orecchio, pareva essersela scordata completamente, dopo tanto che non la sentiva: ma un padre può mai scordarsi della voce del figlio? non gli parla dentro? Si mise a sedere sulla soglia, senza far rumore, e badando a non appoggiarsi nemmeno alla porta. Suo padre era sempre laddiètro, alle sue spalle: « Ehi, voi » lo chiamò dopo alcuni momenti. « Ehi? Ci siete an cora o ve la filaste? » « Qua sono, qua. Me la filai? E perché? Vi dissi che venni per vedere voi » « Vedere me, dite? Vedere me? » « Sì, sì: vedere voi » gli rispose parlandogli con la guancia ade rente al legno della porta. « Qua sono, dietro la porta; e di qua non mi muovo. Qua mi troverete a giorno » Dovette dargli da pensare, questo: se ne stette zitto e non si mosse. Lui fischiettò e intanto gli venne di cercarsi nelle tasche come per fare un repulisti: trovò il pettinino spezzato, il fazzoletto che sapeva di mare per quanto lo aveva lavato in viaggio, usando la rena per sapone e poi, perché si asciugasse in cammino, tenendolo spie gato all’aria per un pizzo come fosse la banderuola di pezza bianca, di uno che s ’arrendeva; trovò ancora qualche rimasuglio del ciocco lato con cui era partito da Napoli, ma oltre questo e i soliti peli di tabacco, non aveva nient’altro nelle tasche, né tesserino, né foto grafie, né lettere, niente: se moriva per strada e avessero dovuto riconoscerlo, non gli avrebbero trovato nulla che servisse a quello 481
scopo, il vecchio insoldatato della spiaggia taureana, al suo paragone, era fornitissimo di segni di riconoscimento. « Ehi, voi? » tornò a chiamarlo Caitanello. « Vi sentireste l ’almo di farvi spiare in faccia sotto il lume? » Gliela portava come un’impresa di gran coraggio: se non si era rimbambinito, quella era farsa. Dove non arrivava la sua scaltreria... « E perché no? A piacere vostro. Eppoi, per la verità, qualche freddo me lo sento, dopo non so quanto che stetti maremare » « Venite di mare? » fece tutto sorpreso, interessato. « E allora di dove? Di terra? » « Ora, qua davanti sbarcaste? Questo intendete dire? » « Ora sì perlappunto, qua davanti » « Sbarcaste? » insistette come non si capacitasse. « Veniste nuo tando? Ve la faceste a nuoto di Calabria in Sicilia, questo mi volete infasciare? » « Ma quale nuoto? Chi vi disse nuoto? E che ero Colapesce che in quattro bracciate si faceva da sponda a sponda? » « Ah, sentiste parlare pure voi del famoso Colapesce? » « E vi meraviglia? Ma voi, mi pigliaste davvero per trapanese o palermitano? » « A nuoto, no. Allora, come? » continuò per conto suo. « Con uno zatterone inglese per caso? Per caso, fecero un’eccezione per voi? » A conversario si metteva, a conversario con la porta di mezzo, uno dentro e l ’altro fuori: « Allora, che fate con quel lume? » gli chiese per troncarla, per ché non ce la faceva più a storcere il collo per avvicinare la bocca alla porta. Lo sentì andare e tornare col lume acceso, con la luce che s’avvi cinava sul pavimento, arrivava dietro la porta e attraverso le smozzicature del legno in basso, s’affacciava sulle intacche e le scannella ture delle due basole sulla soglia. Si alzò, levandosi il berretto, mentre suo padre apriva la porta: « Avanti. Venite alla luce » gli fece. Si teneva indietro, forse per non esporsi, forse per non fare luce fuori. Gli lasciò libero il passo, e appena messo piede dentro, se lo vide davanti armato di lume: stirandosi col braccio, lo sollevava in avanti di tutta una testa in faccia al figlio, sicché, mentre vedeva, non era visto. 482
Restarono lì, subito passata la soglia. Gli spiò in faccia un bel pezzo senza parlare: lui cercava di piegarsi col busto in avanti e dargli tutto l’agio di spiarlo ma non riusciva a tenere gli occhi aperti davanti alla fiamma del lume. Dal tempo che ci metteva, c’era da credere che per quanto barbuto, baffuto e zazzeruto, doveva averlo ormai riconosciuto e ora inghiottiva a poco a poco la sua commo zione. Invece, se anche da quello smirciare gli veniva una qualsiasi emozione, questa stava scambiandosela dentro, punto per punto, col suo scabroso puntiglio: « Chi siete? Chi cercate? » gli fece senza battere ciglio, come a conclusione del suo smirciare. Allora, ebbe un impulso scattoso, e incarcandosi il berretto in te sta con tutte e due le mani, gli scappò di dire: « Per la madò, per la madò... E sapessi almeno se è farsa... A l tera talmente i connotati la guerra, talmente, che il padre non rico nosce più il figlio? » Ebbe un tentennamento e la mano che impugnava il lume tremolò un poco. Menomale, pensò: si risentì. Ritirò un poco il braccio e si tenne il lume alto sulla spalla come volesse gettarsi luce sulla per sona, perché il figlio vedesse lui a sua volta. Questo lo raddolcì, e lo fece pentire del suo scatto. E allora lo guardò, lo vide bene, rive dendolo dopo tanto e gli pareva come l’avesse lasciato il giorno pri ma, se non fosse stato per quel ciuffo bianco che gli svolazzava senza vento sopra una tempia e per quelle screziature bluastre sugli zigo mi, sotto gli occhi, come gliele avessero fatte le lagrime stillandogli sopra goccia a goccia, per anni. Qui la dolcezza si fece intenerimento, e forse era commozione, quella. Stavano zitti tutti e due, e sembra vano così commoventi e commossi che gli restava solo di abbracciar si. Ma non doveva ricordarselo più tanto bene che tipo da spiaggia era Caitanello. « Ma a chi glielo cantate questo piede di canzone? » se ne uscì, infatti, a dirgli. Gli parve di vederlo tirarsi indietro nelle spalle e allentare le pu pille, come se avesse già visto quanto doveva e poteva ritornarsene sulle sue posizioni, rimettendo la giusta distanza fra loro due. Era sicuro come la morte che l ’aveva riconosciuto ad occhio: restava da sapere ora, quando si sarebbe deciso a riconoscerlo a parole. « Figlio, figlio... » gli smaccheggiò. « Ma chi cercate? » proseguì di bene in meglio. « D i quale padre per virtù di Spirito Santo sa 483
reste figlio, voi? Mi compariste di notte per darmi i numeri, alle volte? » Forse era partito di mente, stilava quei comportamenti, mai però di quel genere sacro. Per imporsi la calma, dovette levare gli occhi da lui e fingere di dare un’occhiata intorno. A quella occhiata, allora, come se l’odorato si risvegliasse cogli occhi, risentì di là del tramezzo la puzza di fera squartata fresca, quel tanfo insopportabile di selvaggio che macerava nel bagno d ’acetoforte. Il tanfo, piuttosto che esalare, sembrava sgocciolare terraterra, quasi materiato. Le tenebre dalla cameraperdormire parevano dilagare sul tramezzo, la luce raggiata dal lume, la ribellava qua e là, facendola ballare sopra e sotto secondo lo svampare della fiamma: là in mezzo, il tanfo si animava nella im maginazione ed era un oscuro, spaventoso abominio di cose sba gliate, mischiate e scambiate ad opera di quello stravagantissimo di padre, con la fera squartata dentro la veste viola stesa sul letto e con I’Acitana fatta a pezzi dentro la gistra. Rigirando gli occhi verso suo padre, si trovò senza volerlo che gli dava corda e gli parlava a uso suo, estraniandosi da figlio, come lui da padre: « Stabiliamo questo per intanto » gli disse. « Voi l ’avevate o non l ’avevate un figlio? E questo figlio si chiamava ’Ndrja? E aveva o non aveva una voce che, tanto per fare un esempio, si avvicinava alla mia? » « Una voce si fa presto a contraffarla, » oppose lui, partendo dalla fine « e un nome, presto a sapersi » Posò il lume sulla tavola, regolò la fiamma, si dedicò a questo come ritenesse ormai chiusa la questione, ma stava solo studiando le parole. Poi, accucchiaiò una mano davanti al lume, e deviando la luce da lui, alzò gli occhi e lo guardò e disse aguzzo: « E quanto al figlio che dite, l’avevo, non l ’ho, l’avevo: una vol ta... » Ci mise vera e propria astiosità in questo dire, ma non contro la malasorte che poteva avergli strappato il figlio, bensì contro lo stes| so figlio: gli sonava all’orecchio, stranamente, col tono risentito di Ciccina Circe verso Baffettuzzi. Ma questionammo in passato, di persona o per lettera, e non me ne ricordo? gli voleva dire. T| portai offesa? Che poteva essere? Gli avesse spezzato il filo con l’A| citana, l’avrebbe capito, ma da quel Iato era sicuro. | 484
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S ’armava di pazienza: era come all’inizio di un duello, sapeva quanto gli sarebbe costato scalfire la corazza di quell’uomo testardo. Duellarci? Arrenderglisi, avrebbe dovuto. « L ’avevate? Ma perché? Volete dire che non è più a questo mon do, quel vostro figlio? » « E che devo dire? Sarà magari ancora a questo mondo, ma per gli altri, non per me. Sono tre anni che se ne sta piedipiedi, lon tano di casa, se non lo sapete, tre... » e faceva tre con le dita. « E sono sei mesi: sei, » fece con una mano più l’indice dell’altra « sei mesi che non dà segno di vita. Debbo dire che l ’ho, un figlio così? L ’avevo, devo dire, l’avevo » « Ma se arrivo io e vi dico, per scienza mia, che l ’avete ancora, arrivo io e vi porto questa bella notizia, voi mi credete? » « Finirono, caro amico, le belle notizie per Caitanello Cambrìa. Quando fu che ebbi l’ultima nemmeno me lo ricordo più. Ormai, me ne posso aspettare una sola di belle notizie e quella, tempo pas serà, ma mi sarà portata » « Allora, se non mi credete, scusate il disturbo. Benedìcite, don Caitanello » S ’aggiustò nella divisa e fece per andarsene, suo padre impugnò nuovamente il lume e lo alzò come per fargli luce: ormai non pote va dirsi più commedia, lo lasciava andare, e gli faceva luce sul passo di soglia, gli gettava ponti d ’oro. I loro occhi però, in quel momento s’incontrarono e si cercarono col cuore in mano, come si lasciassero davvero per sempre, ma vo lessero conservare di loro almeno quest’ultimo leale ricordo. Forse per questo, Caitanello gli apparve in quel momento, piccolo e dimi nuito come i vecchi che, asciugandosi e rinsecchendosi, ritornano alla corporatura di muccuselli. La sua testa, la sua muscolatura, le sue spalle, avevano perso quell’apparenza fulva e malandrina di leon cello che certe volte lo statuavano: era spoglio e rattrappito come il pellesquadra fatto vecchio e come il pesce che al sole si riducono la metà, e aveva lo sguardo dell’occhio dello spada con la luce spez zata dentro, quello splendore scheggiato di pietra sottomarina. Non immaginava come potesse apparire lui a suo padre, però non c’era alcun dubbio che quello era stato per tutti e due un momento di verità. Caitanello infatti, mentre si girava per uscire, lo pigliò per l’ala e lui si lasciò pigliare: « Venite avanti, venite avanti... » gli fece. « Volente o nolente, 485
ormai che m ’entraste in casa, onoranza vi devo, specie se forestiero e se straniero... » Pareva un altro che parlava a un altro: a uno straniero, si, per ché no? Come lo suggestionasse la parola, si sentì stanco e mortifi cato nelle membra, quale si poteva ritenere che dovesse sentirsi uno straniero in quella circostanza. Suo padre posò ancora una volta il lume sulla tavola, pigliò una sedia e la girò verso di lui: « Venite, accomodatevi » disse. Venne avanti, si levò di nuovo il berretto, sedette su quella sedia, s’appoggiò col gomito sulla tavola e guardò da straniero suo padre che chiudeva la porta e poi gli domandava per cerimonia: « Che vi posso offrire? » « Un bicchiere d ’acqua, grazie, se non vi è di disturbo » « Un bicchiere d ’acqua? » ripetè Caitanello che forse non s’aspet tava tanto assecondamento ed era rimasto a bocca aperta. « Un bicchiere d ’acqua, si, però, ripeto, se non vi è di disturbo * Perché si meravigliava? Lo straniero di passaggio, che stila di do-i mandare? Un bicchiere d ’acqua, no? j S ’intrafficò tutto per quel bicchiere d ’acqua, andò di là, tornò, fece per aprire la credenza ma subito ci rinunciò, sentendo il rumori di cocci che cadevano. i Seguiva le sue mosse e si guardava intorno e quello che vedevi non era certamente con occhio di straniero che lo vedeva, però stra namente quello che rivedeva, non gli dava grande emozione e turba mento. ? Alla sua sinistra, c’era come sempre la tavola, e a destra c’era 1 credenza: di fronte, nel mezzo, dalla tavola alla credenza, era siste mato il tramezzo incannato che separava l’anticamera, ow erossi camerapermangiare, dalla camera vera e propria che era la camen perdormire. Quando campava l’Acitana, la camerapermangiare, se lo meritav l’appellativo: la credenza brillava parata con bicchieri, tazze e ta zine, anche se mai si usavano, contornata d ’ogni lato dalle fotograf come un altarino; la tavola da mangiare aveva sempre un centrif nel mezzo, un portafiori con dentro delle margherite finte che l ’Ac tana aveva fatto lei stessa da signorina; attorno alla tavola, c’eraf quattro sedie, una per ogni lato, e per terra si sarebbe potuto mal giare, tanto era pulito e lustro. 486
Dopo la morte dell’Acitana, quell’apparenza era finita: anche se ogni cosa era rimasta dov’era prima, si vedeva lo stesso che senza la mano dell’Acitana, la camerapermangiare, perso quel lustrìo che era tutto il suo bello, s ’ammignonava sempre più, polverosa e mise randa, sotto gli occhi e anche le margherite di carta crespata, che allora sembravano sempre fresche, si sarebbe detto che appassivano per mancanza d ’acqua. Ma quello era niente al confronto dell’impressione che ora gli faceva. O ra pareva addirittura che un vento tempestoso di libec cio avesse soffiato laddèntro per la porta spalancata, fracassando i cristalli della credenza, le tazzine e i bicchieri, spingendo negli an goli e sopra la tavola nugoli su nugoli di polvere sabbiosa. Si alzò e andò davanti alla credenza, di là gli domandò: « Permettete che dò un’occhiata a queste fotografie? » Caitanello che era sempre in cerca di quel bicchiere d ’acqua, s ’af facciò dal tramezzo con la quartara vuota in mano: « Fate, fate... » gli disse, fissandolo e restando poi lì a guardarlo. Rivide le fotografie di suo nonno ’Ndrja, in divisa di marinaio da sbarco a Tripoli nel millenovecentoundici; di sua madre signorinella in una processione ad Acireale: aveva il capo coperto da un velo bianco e portava un cero in mano, in fila con altre signorine come lei; marito e moglie, poi, che venendo da Acireale, si erano fermati a Messina e lì si erano fatti fotografare davanti alla Matrice, col Gallo della M attina e il Leone del Mezzogiorno; poi, c’era la fotografia di lui in fasce in braccio a sua madre e l’altra, ancora di lui, che ave va mandato a suo padre e a M arosa, appena vestito di marinaio a La Spezia. Cominciò qui, davanti a questa fotografia, dove si vedeva lui bian co e sorridente, davanti allo scenario del fotografo con lo sfondo di mare finto e le barche a vela all’orizzonte, una specie d ’interroga torio di questura tra padre e figlio, col padre che faceva l ’inquisitorio per non riconoscerlo, e lui figlio che dava l ’anima, insieme alle gene ralità, ai connotati, ai segni caratteristici, a quelli particolari, a quei dati segnali, a quelle date prove, per farsi riconoscere, e non c’era modo, non c’era maniera... Cominciò lui, perché interesse suo era, cominciò di punto in bian co, indicandogli quella fotografia e dicendogli: « Quello, quasi quasi, potrei essere io, eh, che ne dite? Io, al Corpo Reale Equipaggi Marittimi di La Spezia nell’aprile millenove487
centoquarantuno. Io me la vedo una certa somiglianza con questo marinaio qua. Voi che ne dite? » Caitanello s’avvicinò alla credenza per dare, proforma, un’occhiata: « D i questa fotografia qua, mio figlio in persona vi potette dire » replicò noncurante, senza farsi tanti scrupoli, impavidissimo. E andarono avanti cosi per un pezzo padre e figlio. Il figlio diceva: « Riceveste da La Maddalena verso il trenta di aprile una carto lina in franchigia? » Il padre replicava: « Anche questo ve lo potette dire mio figlio in persona » Il figlio diceva: « Partii con un amico mio carissimo che si chiamava Duardo Cacciola, pure lui di qua, non c’è bisogno di dirlo. Io fui destinato a La Spezia e Duardo a Taranto. Io pigliai imbarco sopra una corvetta e Duardo sopra un incrociatore, questo incrociatore affondò e Duar do morì nell’affondamento... » Il padre replicava: « E non vi potette dire pure questo mio figlio in persona? » Il figlio diceva: « C ’è qui una muccusa che si chiama Orioles Maria Rosaria, ma; viene intesa Marosa, perché di carattere è come un maroso fattoi femmina » j Il padre replicava e questa volta, per soprammercato, aggiungeva^ un mezzo sorriso scaltrigno: i « E vi pare che mio figlio non vi potette dire pure lui in persona^ di questa M arosa? » Per la madò, tutto suo figlio in persona poteva avergli detto. Sue figlio in persona, perlappunto, perlappunto: sennò chi? Granvisire, fu sul punto di dirgli. Se vi dico Granvisire, vi zittii sco, v ’intaccio per sempre, perché non mi verrete a controbatter« che pure questo mi potette dire quel vostro figlio in persona, puri l ’appellativo notturno che vi dava l’Acitana, eh? Questo particolari intimo non si metteva certo a sbandiarlo in giro, quel vostro figlio questo, me lo concedete, lo sentii io, d ’orecchio mio... Però, non disse Granvisire, non lo avrebbe detto nemmeno se gl fosse rimasto quel solo mezzo per farsi riconoscere da suo p a d « Eppoi, si trattava solo di fargli passare quel capriccio: si voleva sci pricciare, non poteva trattarsi d ’altro. 488
Caitanello però, doveva averci pigliato proprio gusto a quella farsa del riconoscimento: girava attorno alla tavola, sfregandosi sui pan taloni le mani su cui il sangue della fera andava raggrumandosi, e due volte andò a spiare fuori, da uno spiraglio della porta. « Eh, eh, qualcosa di più sostanzioso mi dovete portare » gli fece. « Qualche neo di bellezza, non l’avete, per esempio? Qualche voglia o segno particolare non me lo potete mostrare? » Sapeva benissimo che non aveva né nei né voglie. Lo faceva sen tire un venditore ambulante di tagli di stoffe, che sciogliendo i nodi dei suoi fagotti, gli andava mostrando questo o quello, senza che lui incontrasse mai nulla di suo gradimento, come certe signore di gusto difficile che fanno: non avete qualcosa di meglio? Qualcosa che non sia andante, qualcosa insomma che vada a pennello per me? Non hanno nessuna intenzione e domandano l’impossibile. « Avrei qualcosa da mostrarvi » gli fece su questo pensiero. « Non si tratta di nei o di voglie, però è lo stesso una rarità che posso avere solo io. Non lo so se vi va bene a voi... » « M ostrate, mostratemi, non si sa mai » accondiscese, però aveva l’aria di fargli perdere il tempo. « Se lo ritenete, » gli premesse « potete sprovarmi, come volete, toccarmi con mano e scandagliarmi col lume, facendomi lustro in fac cia, quello che volete insomma, per farvi capace della cosa » E ra sin cero, poteva pure passargli coi piedi sulla faccia, se questo poteva farlo capace. Caitanello impugnò di nuovo il lume e lo protese davanti a lui, in alto, pigliando la posa di certe statue di marmo bianco, che stanno per monumenti sopra le tombe dei cimiteri, con la fiaccola in mano, per fare luce al morto che viaggia dove è sempre scuro di notte. E qui l ’interrogatorio di parole si fece confronto di persona, per lustrazione di figura, prova provata con mano. I segni di pelle che gli mostrò, anche se non erano nei o voglie, fecero effetto lo stesso, e doveva dire di più, su Caitanello. E pote va esserci dubbio? Erano come cicatrici di ferite che s’era procu rato in battaglie combattute sotto il suo comando: potevano lasciar lo insensibile? Il figlio passava, lo scagnozzo no: il padre poteva traccheggiarsi col figlio, il pellesquadra non poteva con lo sca gnozzo. Si calò un poco sulle gambe, abbassando la testa: « Qua » disse, toccandosi il punto che diceva. « Qua, accanto al 489
l’occhio sinistro, se guardate bene, noterete delle lineature che han no tutta l’apparenza di bruciature » Chiuse gli occhi e aspettò: la fiamma gli riscaldava la faccia e l’o dore di petrolio si mischiava a quello dell’aceto e del sangue di fera che suo padre aveva attaccato sopra alla persona. Caitanello lo toccò vicino all’occhio, prima la punta di un dito, poi con due, allontanando i capelli e stirando la pelle segnata da quella specie di bruciatura. A quel contatto, gli venne di domandarsi che c’era di cambiato. Poteva essere benissimo la sera di quel lontano giorno, anche allora suo padre si faceva lustro col lume per vedere se il bromo gli aveva toccato l’occhio. Sai che sembrano? gli diceva intanto. Dentate di for chetta. Malanova di bromo, queste sono cicatrici che s’incarnano. T e le porterai per bellezza... E difatti se le portò, se le portava, le vedeva. Eh, che c’era di cambiato, eccetto loro due? « Assai tempo passò e forse si cancellarono » disse a voce alta. « Ma dubito che si cancellarono completamente, perché un certo pellesquadra, all’epoca, mi disse che sta brutta razza di cicatrici restano incarnate come un marchio di bellezza » « E non si sbagliava » fece quel pellesquadra con tronferia. Finalmente, si disse. Qualcosa comincia ad ammettere. Arrivam mo, forse. Forse. Rifletteva quasi quasi che fosse ormai il momento delle tenerezze, quando si sentì domandare: « Avete altro da mostrarmi? Una bruciatura di medusa può capi tare a tutti a mare » « Faticavo di meno... » mormorò masticando amaro. « Faticavo di meno se effettivamente non ero suo figlio... » Però c’era qualcosa in quella cerimonia di riconoscimento, qual cosa, sembrava incredibile, che pigliava pure lui: qualcosa che non arrivava ancora alle parole, ma che scavava lontano lontano, nelle pieghe profonde, nascoste, ormai dimenticate, della conoscenza tra padre e figlio. « Guardatemi qua, questo polso qua » gli disse. Si tirò su la manica del camisaccio e scoperto il polso sinistro, glielo rovesciò sotto gli occhi. Lo guardò: quello strappo di carne doveva costargli qualche pena a rivederlo. Le cicatrici che lascia la traffinera, non sono quelle del bromomedusa, perché non sono bruciature, strisciate di forchetta, ma sguarri. Era lì, il ratipunto, fra il sangue e la luce del lume che lo colora 490
vano in rosa come un polipetto, con la pelle tenera cucita nel mezzo e i filamenti ai due lati della cicatrice. Chino, suo padre fissava il polso con la fronte aggrottata e le na rici che gli si arricciavano: ricordava forse suo figlio come si faceva viavia sempre più pallido e s ’illanguidiva per il sangue che perdeva dagli squarci al polso e che non riuscivano in nessun modo a tampo nargli. L ’avevano adagiato a prua, il polso stretto in un fazzolettone che subito si era inzuppato di sangue: il sangue sgocciolava in mare e fere e verdoni, richiamati dall’odore alliccoso, erano venuti a fare la coda alla palamitara. I pellisquadre, intanto, remavano via dalle acque di Punta Cavallo, nei cui paraggi si trovarono quando era suc cessa la disgrazia, per portare il ferito da un medico. Remando al l ’impazzata, col malaugurio della coda bestina, erano andati rivariva in direzione di Villa gridando a ogni anima che vedevano sulla linea del mare: un medico, un medico, dove si trova un medico? Dalla riva però gli aprivano le braccia, restando a quel modo finché la barca non passava. Remando, remando, dalle parti di Cannitello, era no capitati quasi in mezzo a una compagnia di soldati d ’artiglieria che stavano dentro l’acqua coi cavalli e li lavavano. Qui, con questi soldati, c’era un medico, anche se non era un medico di cristiani ma di cavalli: però, cristiani o animali, sanava, no? lo sapeva stagnare il sangue? Eppoi, ’Ndrja se non si sbrigavano, rischiava di fare la fine della fera quando la sgocciolavano maremare. I soldati allora portarono uno di quei loro cavalloni sottobordo e passarono il muccuso sulla groppa dell’animale. Il tenente medico, disteso in branda sotto una tenda, stava in co stume da bagno e leggeva il giornale. Aveva dato da bere al ferito qualcosa di ardente da una borraccia e ’N drja si era come impallato chiudendo gli occhi; allora gli aveva fatto persino una iniezione anti tetanica. ’Ndrja, caduto in una specie di sonnolenza, ogni tanto, come una ranocchia, scalciava e basta. Poi, sempre a dorso di cavallo, i sol dati lo avevano ripassato sulla palamitara ancora con gli occhi chiusi, talmente indebolito, che non aveva nemmeno la forza di sollevare le palpebre. Sentiva suo padre che si disperava ora più di prima, forse perché lo vedeva pallidissimo. Don Luigi, diceva a Luigi Orioles, mi pare morto mio figlio. Ma che morto, gli faceva Luigi Orioles. Se ne andò in sangue, naturale che si fece di cera. Avrebbe voluto dargli un segno a suo padre, ma non ce la faceva nemmeno a dire pa’. 491
Suo padre abbassò lo stoppino e passò col lume nella cameraperdormire dove aveva i suoi affari: con questo, significando forse che finalmente lo aveva riconosciuto e di conseguenza, si poteva permet tere di lasciarlo là, allo scuro, o di farselo venire dietro, laddèntro, nel suo santuario. Appena di là, cominciò a mormorare contro il figlio, e lui, ancora nello scuroscuro, nell’antistanza, si rimise a sedere e stette a sentire. E subito, ancora una volta, il modo di pensare e il parlare e sparlare di suo padre, gli riportò all’orecchio quello di Ciccina Circé, quello stesso stilare dispotico della femminota verso Baffettuzzi. « Mancò poco, mancò... » sproloquiava, miserevole e sprezzante. « Si fece pigliare in signoria col buon vivere, mangiare e bere, ve stire e fumare. Carne di macello, ma il trattamento gli piaceva, si capisce, e passava un anno, passavano due, e suo padre qua, a sbro gliarsela da solo con amici e con nemici, senza nessuno accanto per potergli dire, se gli sfilava il cuore: pigliami un bicchiere d ’acqua, perché muoio di sete. A gente ’stranea, la vita all’occorrenza, notte e giorno a montargli di sentinella, fucile imbracciato, pallottola in can na, e suo padre, si guardava intorno e non lo trovava per dirgli: guardami le spalle, figlio, ché non di tutti i lati mi posso parare e solamente di te mi fido » Si sarebbe detto, a sentirlo, che il figlio era andato alla festa a Reggio e in questo mentre, a lui asserragliato in casa, avevano mosso guerra i saraceni. Col lume in mano, girava fra l ’armuaro, il canterano e il letto, sproloquiando e dicendo un cofano e una sporta di fesserie sul fatto che suo figlio, in due anni e più, non aveva saputo trovare la strada di casa: « Forse l’aveva pigliata per una questione sua personale, la guer ra... » faceva lo smaccoso. « Forse gli dissero: ti facciamo signore di M alta. O signore di Biserta. Questo forse gli dissero, e lui, babbione, se l’inghiottì. O gli promisero spada per tutti i mesi dell’an no con r e senza r? Forse gli dissero: te li mandiamo al nome tuo, a casa, bell’e imboattati, e tutte fianchipieni: insomma, se non muori in guerra, campi con la gamba a cavallo... Ma che gli dissero, che gli promisero, per trattenerlo tanto a comodo loro? » In questo, divergeva da Ciccina Circé: agli occhi di Ciccina Circé lui era uno di quelli che si era messo i piedi in collo per correre a 492
casa, anche se lei, c’era da dire, lo confrontava con un morto, perciò il suo ritorno da guerra le appariva lestissimo, un fulmine di amore di femmina e sentimento di casa, e gli proclamava gran merito e va lentia, perché era tornato sano e salvo. Caitanello invece, più esigente ancora, lo confrontava ai vivi e lo confrontava per giunta a quei vivi, vivissimi siciliani, tanto vivi che a furia di sentirli complimentare, da Crocitto, da suo padre e chissà da quanti ancora, gli stavano venendo in grande simpatia, quelli là, cioè, che al primo vocifero d ’uno sbarco alleato in Sicilia, erano scap pati per sotto, verso il padre. E bisognava sapere che era cosi poten te la loro intenzione d ’arrivare al padre, che a Villa, migliaia che era no e tutti con la bava alla bocca, pigliarono d ’abbordaggio quei due o tre ferribò che ancora restavano e che servivano tutte e tre per i rinforzi tedeschi in arrivo: avevano afferrato i tedeschi per il tre spolo del culo, gettandoli a mare, che quelli ancora non si erano scandaliati di nulla ed erano con lo spicchio d ’arancia in bocca. L ’abbordaggio gli riusciva nuovo, se non se lo inventava lui per fare più valorosi quei buoni figli di padre a deprezzamento di suo figlio. E continuava, infatti, dicendo che una volta a casa, montarono là di sentinella, la montarono al sonno e alla salvaguardia del padre. E quando finalmente arrivarono i liberatori, se lo pigliarono in spalla e lo portarono ai bordi dello stradale per dove entravano gli ameri cani, perché gliela vollero dare al loro padre quella soddisfazione di vedere gli americani sbarcati in Sicilia, dopo che per tutta la vita seppero solo di siciliani sbarcati in America. Secondo lui, ormai s ’era ben capito, la calamita che a lampo atti rava in Sicilia quei siciliani, marinai e soldati, la calamita che per Crocitto era la zita, per lui era il padre: e che era per quei figli il loro padre? Non pareva solo padre, pareva padre e zita, padre e mo glie, padre e figlio, padre e sorella. E che era quel padre per quei figli? Che era? G ià, dovevano essere padri proprio specialissimi. Ma, non conten to, oltre che a quei figli, lo confrontò addirittura con se stesso, gli citò il caso suo, come se non gliel’avesse mai citato. Se suo figlio avesse avuto un sincero amore di tornare, aveva bell’e pronto a spingerlo, l’esempio di lui, di suo padre, che bevve acqua tabaccata quando si vide portare al fronte e si sentì dire: spara. Sparo? si era detto lui. Se sparo io, c’è chi spara a me. Ma perché 493
poi, perché ci spariamo? Io, con chi? L ’altro, chi è? Come si chia ma? Lo conosco io? Chi è quell’austriaco che dite? Che successe per sfidarci così? Fece malazione? Levò il pane di bocca a muccuselli? Disonorò qualche femmina? Fece violenza, sopruso, camorristeria? Avvelenò l’acqua a mare? Pescò con la bom boatta? E c’era poi, mo tivo di principalissima importanza, che lui aveva lasciato a casa l’Acitana, ancora fresca di Aci e bisognosissima di lui. Con l’acqua tabac cata si strambò tutto, dopo qualche sorso si rassomigliò a un allettigato vecchio di anni: fu ricoverato nell’Ospedale di Udine e da que sto a quello di Padova: da dove lo spedirono a casa, convinti che stava per morire e anzi, fino a Roma, lo affidarono a un soldato ro mano che stava meglio di lui. « Ma io, io, il sincero amore di tornare l’avevo, io » concluse pre miandosi tutto. G li scappò pure a lui, allora, una mormorazione, se la fece pure lui una bella sfogata là, di là, allo scuro: « Valeva la pena, eh? valeva la pena che ti mettevi le ali ai piedi per scappare da questo putiferio di cristiano, da questo Ferrati più A stolfo: valeva la pena, eh? Appena allora entravano a Napoli i primi americani, quelli che sembravano napoletani andati e tornati: forse ci mettesti tempo a partire? E quale tempo, se i morti del l’ultimo cannoneggiamento tedesco, quello che fecero scappando, verso l’alba, dal Vomero, sulla città di sotto, erano ancora caldi di sangue e i parenti nemmeno ci credevano e li portavano davanti alla porta sopra le sedie, oppure li tenevano per le ascelle affacciati ai bal coni, e li guardavano, con un occhio loro e con l ’altro gli americani, illudendosi forse che il chiasso bello e desiderato che facevano per le strade napoletani e liberatori, gli risonasse in petto richiamandoli in vita. Che ti ricordi, tu, di quella liberazione? Tutto quel chiasso della vita che veniva da Portici, e mentre cresceva per Napoli e insor diva, tu, senza frapporre tempo, per dove arrivavano gli americani, per là tu partivi. Insomma, proprio quando finivano i patemi e co minciava il bello: libertà, cioccolato, sigarette, tu, gran babbigno, pi gliasti la corsa per tornare. E poi, mentre la gente per via apriva tan to d ’occhi vedendo un marinaio tornare sano e salvo e chi gli faceva faccia e chi se lo voleva addirittura accaparrare, quando finalmente arrivi a casa, a casa tua, a stento ti fanno mettere piede dentro e ti tocca ancora sudare sangue per farti riconoscere, e devi mostrare per sino le cicatrici vecchie che hai in pelle per provargli chi sei e devi 494
dire menomale, menomale che ti feristi quand’eri muccuso, devi dire grazie a quel brav’uomo, a quella traffinera... » A un certo punto, suo padre era andato zittendosi, per mettersi in ascolto del suo mormorio. Dalla fiamma del lume capì che stava tra l’armuaro e il tramezzo, e questo lo spinse istintivamente a indi rizzarsi, senza tanti giri, a lui: « Parla lui, parla lui che aveva l ’Acitana che l’aspettava piena di premure e aveva le carte in regola per farsi congedare col suo trucco dell’acqua tabaccata. Io chi avevo che m ’aspettava? Lui, avevo, un pellesquadra, un verdone risentito, che manco si degna, manco si de gna di riconoscerti, e intanto se vengono i carabinieri, mi riconosco no loro, eccome, mi pigliano per il cozzo e non lo so ancora se mi fucilano, dato che il comandante ci disse: sì, filate per casa, se po tete... ma che carta ho in mano io che ci disse questo il comandante? per i carabinieri sono, né più né meno, un disertore... » Qui si alzò, facendo rumore con la sedia e Caitanello allora s’affac ciò subito dal tramezzo: si fermò a fissarlo col muso addolcito e in tanto alzava la fiamma del lume, e come un segnale d ’amistà, tra lui e suo figlio, nella camerapermangiare, si fece una più chiara luce. Diede un ’occhiata alla cameraperdormire, e di nuovo notò solo le strisce di mosciame appese, quasi alla sua altezza, ad alcuni pezzi di romanello stesi ad angolo fra la finestrella e la testiera del letto. Per il resto, non gli pareva che fosse così gran tempo che non ci met teva piede, forse per il fatto che l ’aveva come rivisitata cogli occhi poco prima. La gistra con la fera e lo scorciatore piantato sopra, era ancora mezza nascosta sotto il letto, insieme al bacile e alla bagna rola. Sul letto però, non c’era più la veste viola. L ’odore dell’aceto era fortissimo e gli pizzicava la gola: si sareb be detto che tutta la camera ne fosse impregnata come se suo padre non se ne fosse servito solo per stordire il crudo di fera, ma l’avesse spruzzato dappertutto, usandolo per disinfettante in luogo della crco lina. Schiacciato a terra, fra le crepe sabbiose della gettata di ce mento e pietrisco, il sentore tanfoso dava sempre più viva quella impressione di un essere animale che mandava effluvi puzzolenti e pa reva respirare: s ’apriva e si richiudeva come una branchia di polpo. Suo padre aveva posato il lume sopra il canterano e muovendosi a capo chino, a destra e a sinistra della gistra, aveva avuto improvvi samente un’accorante insorgenza di voce: « Sempre tempesta, sempre tempesta... Quando cade il vento, gli 495
orecchi ti fischiano tanto, che nemmeno lo senti che passò la tempe sta e si fece sereno » Sembrava chiedersi: chi fa scoppiare le tempeste? La voce gli tre mava e checchìava un po’. Poi s ’avvicinò a lui sempre a capo sotto, lo tirò per il gomito più verso il lume, gli levò il berretto dalle mani e lo mise sul canterano. Allora rialzò il capo, sfregandosi ancora le mani lungo i mutandoni che avevano delle strisciate come di vernice rossastra, simili a costu re sbafiate: « Ma che ti morì il barbiere? » gli fece, dandogli il tu per la pri ma volta dal suo arrivo. Ma non erano barba e zazzera che gli interessavano. Si appoggiò con una mano al petto del figlio e gli chiese: « Fosti ferito? Restasti sfregiato? M utilo? Mancante? » e aspettò la risposta, guardandolo fisso negli occhi. A parte gli scopi, anche quella Jacoma, anche Ciccina Circé ave vano avuto quella curiosità per primo piatto. Per un momento, la coincidenza gli dette da pensare ma poi tornò a Caitanello: « State tranquillo » lo rassicurò. « Nemmeno un graffio, nemmeno un’unghia » Il padre allora gli afferrò la mano sinistra e stringendola nella sua, con la destra si dette a saggiargli quel braccio, dal polso alla scapola, come per assicurarsi che ce l ’aveva ancora tutto: cominciò da lì a tastargli tutto il corpo, ogni parte del corpo, quasi ogni parte del corpo. Come Ciccina Circé, quasi come Ciccina Circé. Alzandosi sulla punta dei piedi, coi polpastrelli gli sentì la fronte, le tempie, le palpebre, gli zigomi, gli orecchi, la nuca: fissandolo in tanto negli occhi, ma vedendolo come un cieco al tatto. « P a’, nemmeno un graffio, vi dissi, nemmeno un’unghia » Fra l ’altro, quella verifica, quel toccare con mano e appurare al vivo, gli dava un certo impaccio di persona perché, doveva dirlo? gli pareva tale e quale la stessa funzione di Ciccina Circé, anche se la grande femminota mirava, senza farsene scrupolo, a un solo preciso punto delle parti basse e su tutto il resto della persona sorvolava. Ma inutilmente gli ripeteva: nemmeno un graffio, nemmeno un’un ghia, dava l’impressione di non sentire, come si fosse ritirato tutto dentro, lasciando fuori le sole mani per ripassare fra le dita ogni sin gola, piccola o grande, vitale o mortale, parte della persona del figlio. 496
Quando finì di sprovargli la testa, si trattenne un poco con le mani poggiate alle sue spalle e mormorò chiudendo gli occhi: « T i ringrazio intanto per la testa, e in specialissimo, per gli oc chi della testa... » Poi scese con le mani per le spalle, sprovandogli i muscoli; sci volò lungo le braccia, sentì i polsi, le dieci dita, uno per uno, poi i fianchi, le gambe, i ginocchi, abbassandosi come gli s ’inginocchiasse davanti, sinché non gli sentì le caviglie, la forma dei piedi, i calca gni e sotto la pelle delle scarpe, quelle altre dieci dita, uno per uno: « Grazie, grazie, grazie » recitò accoccolato ai suoi piedi, toccan dosi la fronte con le dita unite come salutasse qualcuno degno del suo ossequio. « Grazie, grazie e ancora grazie » continuò dicendo. « E chi si sognava di ringraziarti più per qualcosa? Invece vedo, vedo e te ne dò atto, che questo giovane, questo stendardone con la sua gioventù bella fiammante, non lo guardasti con gli occhi tremendi che stili in guerra ma con gli altri, quelli che stili quando non hai intorno alla testa nuvole temporalesche che te li offuscano. Grazie, grazie. Io, parola mia, mi professavo indegno di tanto favore » Era come ringraziasse, per la salvezza in mare di suo figlio mari naio, il Grand’Ammiraglio, il Comandante in capo di tutte le arma te a mare. Era la prima volta, per quanto potesse ricordare, che si rivolgeva, a parole almeno, al G rand’Ammiraglio. Quando si rialzò, aggrappandosi alle sue gambe e ai suoi ginocchi come si arrampicasse al fusto di un albero, si sentì travolgere da un’ondata di commozione, una tenerezza che gli dette un urto al cuore e lo fece vacillare. In piedi, gli arrivava al petto: lo guardava col ciuffo bianco so pra un occhio, e gli veniva voglia di pigliarselo fra le braccia. « Neanche ti sfigurò » fece, guardandolo in modo divorante, col labbro che gli vibrava come quello di una cernia. « Una guerra così, eh? ti lasciò in vita e non ti fece nemmeno una macula, eh? » Gli pizzicò un fianco con le dita e disse quello che diceva quando, lui per primo, a vedetta dell’ontro, avvistava i primissimi spada che comparivano a maggio e li stimava a una occhiata: « E non ti ridus se nemmeno fiacco una guerra così, perché in carne mi sembri, eh? » Eppoi ripetè cogli occhi lucidi, bambinescamente meravigliato: « Una guerra così, eh? non pare nemmeno vero, eh? una guerra così, una guerra come sta sorta di... » E quello fu il suo solo parlare della guerra, di guerra: la guerra 497
stava ormai fuori, lontana dalla persona di suo figlio, ne parlava come di un mare forza otto, dove incappato per disgrazia sua, suo figlio miracolosamente non si era annegato. Questo era Caitanello: anche quello che aveva visto e sentito pri ma, sempre, in quella camera, battagliare con la Morte per avere un purparlé con l ’Acitana, era suo padre, ma questo lo era di più. Gli piaceva come teneva aperti e chiari, lucidi e commossi, intrepidi e onorevoli i suoi occhi di padre e di pellesquadra che sapeva parlare da pari a pari anche con un G rand’Ammiraglio. S ’accorse che piangeva appoggiato al suo petto come a un muro: piangeva silenzioso, con un rivo continuo, come fosse da tempo pie no di lagrime e per sfogarsi cercasse solo un muro dove nascondersi la faccia. Anche questo succedeva per la prima volta, per quanto ricordasse. Non sapeva che fare, gli mise le mani sulle spalle, strette e magre, e gli sembrò di consolare un muccusello, anche se puzzava vecchio di fera. Ma fu cosa d ’istanti: si scostò da lui e impettendosi, se lo guar dò con uno sguardo senza più lagrime, cogli occhi secchi, con scintil le e vapori, come se l’orgoglio li avesse toccati con un ferro rovente. Si scostò da lui e tornò alla gistra, pigliò lo scorciatore che stava conficcato sulla ventresca biancastra e scannellata di sangue, mise un piede sul bordo della gistra e insieme sulla fera: « Siediti » disse. « Un istante che mi sbrigo con questa schifezza e poi parliamo un momento. Due parolette ti devo dire » E così dicendo, teneva sempre il piede puntato sulla fera, come San Giorgio la zampa del cavallo sul drago a pancia all’aria.
Si mise sui calcagni, in coda alla fera, e impugnando lo scorciatore, col pollice piegato sopra il manico di legno, lo ficcò in un punto della pancia dove era ancora intatta, e fatta penetrare la lama di circa due dita dentro la ventresca, con polso sicuro tirò a sé il coltello verso la coda, sino a fare una incisione parallela al solco sanguinoso che si era venuto a creare in ventre alla fera, trinciandole striscia ac canto a striscia, come fosse pelle di suola e in mano avesse un trin cetto. Staccava poi la striscia, pigliandola per il capo di sopra, sollevan dola manmano che la lama dello scorciatore la sfilava di sotto, come se disossasse: alla fine, con un ultimo forte strappo, la liberava di 498
qualche filamento che ancora la tratteneva, e subito, in un rossastro sgocciolio, la immergeva nel bacile con l’aceto dove la teneva a ma cerare giusto il tempo di trinciare un’altra striscia. La tirava fuori dal bacile e sul bordo della stessa gistra, la divideva in tre o quattro parti lunghe ognuna un palmo di mano circa; poi pigliava dello spago, tagliandolo pezzo a pezzo da un brandello di acciara che stava lì per terra: l’acciara ha maglia stretta, un poco meno della sciabi ca, e per avere un buon laccio, doveva tagliare insieme parecchie ma glie dello stesso lato. Faceva un cappio a un lato e incappiava la striscia di mosciame, poi faceva un cappio dall’altro lato e c’incappia va uno dei fili di romanello stesi all’angolo della stanza, appenden dovi così il mosciame. G li vide fare ancora quattro strisce e poi il bianco di ventresca sparì: la fera restava ancora bianca sopra il ventre, ma un buon mo sciame si concepisce solo di quella parte là, dove la fera non piglia sole e dove, femmina o maschio, ha quello spacco che gli serve a tutti gli usi. Ora poi, col ventre scavato, era un fosco pullulare di sprazzi rossi e neri, come se le avessero strappato alla radice le ovaie, gli annessi e connessi con cui la malarazza si riproduce. Si era seduto dall’altra parte del letto, a spigolo col canterano su cui stava il lume: da lì, certe volte, gli pareva che suo padre traffi casse sotto il letto, ora con l’aria di trincettare come un dannato qualcuno, lassòtto, che non si decideva mai a morire, e ora con l’aria di dissotterrare qualcuno o qualcosa che mai veniva comple tamente alla luce. Si domandava se in vecchiaia Caitanello non si fosse per caso sco perto il gusto del mosciame, o se ammosciava con quel medesimo pensiero delle femminote, in vista d ’un domani ancora peggio del l’oggi. Ma non gli veniva di cogitarci troppo sulla cosa: sul momen to, oltre che guardare, non si sentiva spirito di fare altro. E anche il solo guardare, a volte anche solo tenere gli occhi aperti, si rive lava un’impresa difficoltosa per lui. Il suo sonno, stantivo ormai da troppo tempo, gli faceva la posta con le fauci aperte e il fiato fe tente: ammalagnito dalla fame, non aspettava che un’occasione e un luogo come quelli, con la luce del lume, il calore della fiamma, l’o dore di petrolio bruciato e il contatto col letto, per saltargli addosso e mangiarselo vivo; e contribuiva pure la vista di suo padre, col suo daffare silenzioso come dentro un sogno; e contribuiva pure il fatto che a un certo punto, sentendo caldo, si era levato il camisaccio, ed 499
era stato come levarsi l’armatura e scoprirsi di fronte al sonno; eppoi, contribuiva pure, e non poco, l’odore di naftalina lasciato sul letto dalla veste viola di sua madre, leggero, leggero dentro l’aceto e la puzza di fera dominanti nella camera, ma bastevole perché lui si sentisse, seduto su quello spigolo di letto, come tornato muccusello. Solo l’odore pizzicantissimo dell’aceto, che si ribellava dal bacile ogni volta che suo padre metteva e levava la striscia di ventresca, riusciva a mantenerlo sveglio; l ’aceto, e quel sentire rivoltante della fera, macerata e incattivita dall’aceto, che scolava per terra dalle strisce di mosciame appese ai fili del romanello come tanti ritagli di carta moschicida. Ancora non si capacitava, anche se lo conosceva vecchio, il sogget to, e sapeva perché faceva ogni cosa che faceva: ma come, con quale barbaro coraggio aveva potuto decidersi ad appendere il mosciame al chiuso, nella cameraperdormire, al capezzale del letto, invece di metterlo fuori, all’aperto, appeso a un palo o teso a essiccarsi sopra un’incannata? E che genio poteva venirgli di dormire con quello schifo sotto il naso, sul naso? Ma d ’altra parte: dormiva Caitanello? gli risultava che dormiva la notte? Parlava di Caitanello, era chiaro, perché, quanto a lui, col sonno che lo invadeva, era sicuro che avrebbe dormito anche col mosciame che gli pendeva sulla faccia.
Due parolette ti devo dire... premise e promise, e fecero l ’alba quasi. Calcolava summo summo, ma calcolava restandogli ancora oscuro quanto era durato il trasbordo sulla barca di Ciccina Circé, che fossero tra le nove e le dieci, e fuori andava sbiancando quando lui finì le sue due parolette. Due parolette, e gli contò l ’arcalamecca, le mille e una notte. « A che proposito? » gli chiese. « A proposito di me, di tuo padre: non ti basta? » gli fece pun tandosi al petto lo scorciatore. « Ma che fu? Che ti successe? Qualcosa di grave? » « E sennò mi trovavi così, chiuso dentro, prigioniero volonta rio? » « Come, prigioniero volontario? » « Come, come? Mi levai dalla vista, gli levai il piacere di vedere la faccia mia a tutta quella manica di pellisquadre... » 500
« Ma perché? Vi fecero cosa? Sgarbo, torto, mancanza di rispetto, villania? » « No, no, niente di questo » disse con la testa e con le mani e poi, con parole di bocca: « Peggio » « Peggio? Qualcuno vi alzò le mani forse? Qualcuno vi fece mal tratti? » « N o, no, no » fece e agitando ancora la testa e le mani. « Ma che vogliamo andare avanti a domande e risposte? Vuoi o non vuoi farmele dire queste due parole? » ripigliò, come gli venisse il ner vino e s ’imponesse pazienza, intanto che con lo scorciatore sembrava segnare nell’aria punti esclamativi e punti interrogativi. « Mi fai get tare sangue a modo m io? Ore e momenti, mi ripetevo: appena torna mio figlio, mi sfogo con lui, appena lo vedo mettere piede in casa, questa è la prima cosa che gli dico e questa cosa che ti dovevo dire me la scrivevo qua, in mente, e la cancellavo, l ’aggiustavo, me la ripassavo. Due parolette, tanto per metterlo a giorno, mi dicevo. Ora, queste due parolette, me le vuoi fare dire, ascoltandomi zitto zitto? Sono o non sono padrone, nella mia qualità di padre, di pre tendere questo da mio figlio? Sentisti, muto sull’attenti, discorsoni che ti facevano i ciarlatani per venderti la morte tua, e ora interrom pi tuo padre per due parolette... » « Ditele, avanti, non v ’interrompo » s’impegnò. Che poteva essere quella cosa grave se non era uno sgarbo o un maltratto che gli avevano fatto? Un suo sghiribizzo, capace: che offesa o che affronto potevano avergli fatto i suoi simili, i pellisquadre, che per lui avevano un debole, fra l’altro, per spingerlo a rinserrarsi in casa? Di sicuro c’era che doveva essersi allontanato da loro sdegnoso e alleonito, gettando vampe dal naso, ritirandosi quin di sotto la tenda. La prima cosa che gli dico... Ripeteva le sue parole, mirandoselo con un sorriso nascosto, quel grande armimbrogli. La prima cosa che gli dico... E s ’era visto: prima di concedergli quel privilegio di pigliarselo per sacco, altroché orecchio, e rovesciargli dentro le sue due parolette di sfogo, gli aveva fatto le mattane per riconoscerlo. Se doveva giudicare da quello, c’era da pensare che quelle due paro lette erano un segreto di Stato: per questo aveva dovuto accertarsi sino in fondo, dubitando persino della sua stessa scienza di padre, che quello a cui andava a confidarlo era proprio suo figlio, sangue del suo sangue. E infatti solo a quello scopo sembrava averlo rico 501
nosciuto: gli aveva forse domandato se si sentiva fame, freddo o de bolezza? Nemmeno quel bicchiere di acqua si era più premurato di dargli. Sì, aveva appurato se era ferito, sfregiato, mutilo o mancan te: sì, e appurandolo lo aveva commosso persino, ma ora, e dopo, specialmente dopo quella caterva di parolette, che doveva conclu derne? Non doveva concluderne forse che aveva inteso assicurarsi solamente se caldo caldo di rischi e di strapazzi guerreschi, di stenti e di patimenti di viaggio, suo figlio aveva la capacità fisica di ascol tarlo sino alla fine di quella barbara parlata con cui lo avrebbe impallato? Era incinto grosso di parole e parolone, altrocché parolette, co me le chiamava lui delicatamente. Era incinto, implenato di parole, con le voglie e le doglie di parlare che gli scappavano da tutte le parti: doveva sgravarsele all’istante, tutte quelle parole bell’e fatte, che lo spingevano di dentro, sennò gli morivano e gli facevano set ticemia. Covai frasi, covai parole, stanotte l ’uovo si ruppe e il pulcino fa piopìo... Suo padre era anche in questo, quasi anche in questo, co me Ciccina Circe, quasi come Ciccina Circe. Ma si trovavano tutti in una stessa condizione, tutti con la parola in punta, tutti quelli dove incappava lui? Due parolette, due parolette, e gli disse quell’arcalamecca di co se, quella millunanotte di fatti e fatterelli. Due parolette, su una faccenda personale, e si mise a contargli e contargli storie e storiette di quello e di quell’altro, dove non si vedeva che ci fosse di suo personale. Ogni volta, era tentato di chiederglielo: che c’è di tuo personale in questa storia che mi contasti? questo cartellone che mi pittasti, dove ti rappresenta a te? in quale scena, in quale quadro? Quelle due parolette non erano per caso un pretesto, un puntiglio, per stranottarlo a furia di parlare, parlare e fare schiuma di bocca? G li veniva di chiedergli: non ti vendichi per caso, perché a criterio tuo mi trattenni troppo alla guerra? Per amore di pace, però, se ne stette zitto: figurarsi, quel dispotico, se si fosse sentito ancora inter rompere. Alla fine, gli contò la storia sua personale e allora si vedette che le storie che gli aveva illustrato prima, figuravano come quadri di contorno alla sua storia, come scene e scenario al quadro dove ope rava lui; si vedette che quelle storie, se anche non c’entrava di per sona, lui le aveva contate pigliandole per quel verso che più gli rap 502
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presentavano il verso della sua storia personale: le contava insomma per preambolo al contare che gli bruciava a lui e non era facile scan daliarsi se e quanto sinceramente gli bruciavano, se cioè gli brucia vano per pena o per scena. Prima di scandaliarsi di questo, gli fece scendere il latte ai ginoc chi, salire il quaglio a galla del suo sonno: prima, insomma, d ’arri vare a quelle due parolette, uffa, uffa, per la madò, quanto fu lungo...
Due parolette, due parolette, su di una questione personale, sua, e ci fece entrare cielo, terra e mare, cristiani e animali, due paro lette, e si partì nientemeno da un sole, un sole d ’agosto che divam pava in bassissimo cielo sopra lo scill’e cariddi: « Prova, prova a guardarlo » Lo sfidava, puntando alle sue spalle, a levante, lo scorciatore, co me se quel gran disco abbagliante fosse sceso 11, nella camera, den tro il tubo a bombé del lume sul canterano. « Prova, prova se ne sostieni la vista... » Come per commisurare la sua immaginazione a quel terribilio di sole, gli raccomandava di non tenergli troppo gli occhi sopra, se non voleva bruscarsi il pelo, ciglia e sopracciglia, o addirittura acce carsi. « Il famoso sole di giorno diciassett’agosto... » pigliò così, smaccoso, a illustrarglielo. « Te lo raccomando, lo splendido amico. Un bastardo camorrista, un piratone africano, tutto arraggiato... » Sino al giorno prima, sedici agosto, non si era riscaldato tanto, si era tenuto al primaverile come per fare un puntiglio a quelli che il caldo lo facevano cannoneggiando e scavando crateri con le bom be, come per fargli concorrenza a lui. Però, fu chiaro che l’amico si teneva la posta, riserbandosi il colpo alla scordata: aspettava ago sto per avvamparsi massimo, aspettava di fare la faccia del Leone che getta ruggiti di fuoco e lampi abbaglianti dagli occhi. E infatti, l’estate scoppiò quel giorno d ’agosto e durava ancora dentro ottobre. Il diciassette agosto erano stati svegliati da quel sole che, ancora lontano, invisibile nelle oscure profondità dietro l’Aspromonte, gli raggiava sino a dentro il sonno e il sudore gli colava dagli occhi chiusi. Mandava una tale avvisaglia di caldo, da sembrare mezzogior no all’Africa, con la luna che c’era ancora in cielo, cresciuta a po 503
nente di tre quarti: la sabbia sotto fumigava nella oscurità, rosseg giava tenebrosamente come lava. Scappiamo, si erano detti, scappiamo, il malandrinone con la cre sta alzata sorge. Sorge? Insorge. Scappiamo, prima che apre l ’occhio e c’incenerisce tutti. Erano scappati così come si trovavano, pensando a salvare solo il più prezioso: la vita, e con la vita i ferri delle due traffinere, le fio cine, le gistre di conzo coi sugheri e le reste di ami, i remi, le lampàre ad acetilene e le reti, specie la più valorosa, e cioè la palamitara. Alle barche palamitare, a ontro e feluca, dissero invece, alme no con le labbra, forzatamente addio. Era come andassero in cerca di un nuovo mare, perché quello vec chio oramai lo potevano considerare perso. Scappavano arrampican dosi aH’Antinnammare con gli strumenti del loro mestieruzzo, come se lassòpra, sulla cima boscosa di alberi fitti, sperassero di trovare sabbia, acque salate e barche da varare, scafate con le unghia nei tronchi dei castagni. Contempo, come se già ci fosse un’intesa fra quella Gransoldatara e il Sole, si sentì per la riviera il rombo di ferraglia della guerra che dalla Plaia di Catania sopra i carrarmati veniva a scotrumbare lì davanti, col tedesco che si ritirava, ripassando in Calabria con grande, compatto, precipitoso sconquasso. Però, nel quadro che gli faceva Caitanello, i cariddoti che scappa vano all’Antinnammare, non scappavano davanti alla guerra, ma da vanti a quel sole, che a senso loro, li aveva pigliati di mira. Li vedeva in quella scena come se ci fosse stato. Erano un pugno di pellisquadre con le loro famiglie, che cercando scampo, scappavano fatalmen te da marina a monte, s ’arrampicavano a quattro mani in cima all’Antinnammare come se li minacciasse il diluvio: col mare che saliva, saliva dietro i loro passi, e i cavalloni che si rovesciavano sulle terre sempre più lontani e più alti, come se insomma potesse essere quello il giorno in cui si sarebbe avverata la voce di popoli antichi che diceva: quando i pesci saliranno sugli alberi, sarà la fine del mondo. Perché, se il pescatore scappa per alto, è sempre per terre moto maremoto, o per terremaremoto in uno, per qualcosa cioè che viene e non può venire che dal mare o sennò dal sole, da quello insomma che gli sta sotto i piedi o che gli sta sulla testa. Per questo, dato che quel diciassett’agosto non scappavano a cau sa del mare, a senso loro, scappavano dal sole, e come gli scappa 504
vano? gli scappavano andando per alto, sopra un pizzo di monte, gli scappavano cadendogli in bocca: rischiarono di fare la fine che fecero gli uccelli quel giorno, rischiarono cioè di bruscarsi il pelo sopra all’Antinnammare, di sentire l ’uno con l’altro di bruciatic cio. « Saettava così micidioso quel giorno, che anche gli uccelli più in calliti ci lasciarono le penne... » e Caitanello gli citava falconi e cor vi, cacciaventi e albanelli che si trovarono nei giorni seguenti, por tati dal mare alla riva, col piumaggio delle ali tutto bruciato e con la pelle arrosolata come fossero stati passati alla fiamma. Là in fondo, sullo scill’e cariddi, la sabbia e l’acqua mandavano fumi e barbagli, le due rive erano accese di lampi, mare e cielo era no uno sconquasso di zatteroni e aereoplani, pioveva fuoco e s’ince neriva il legno dei natanti e la carne dei cristiani. Dal mare e dalla terra, la cenere saliva in una nube verso il cielo: questo si anneriva per un p o’ e poi si ravvivava, da rosso incandescente tornava di fuo co bianco e sprizzava e svampava fra le nuvolaglie di cenere.
Quel diciassett’agosto s ’assistette al sole che s’inganzava con la puttana guerra. Ma come? Quella maestosità si degettò sino a que sto punto? Eh, sì, quella maestosità che leva il respiro, sia alla ve nuta sia alla partuta, per l’altezza e l’imponenza del suo stilare net to, splendente, meravigliosissimo, quella maestosità s’abbassò al li vello di quella femmina infame, si infiammò per quella gran lordona. Così, fra tanti spaventevoli fenomeni che si erano visti, si do vette vedere pure questo, il fenomeno di quel mascolone magno che s ’incrignava quella pidocchiosa, quella miserabile sanguinaria, il fe nomeno di sole e guerra, insomma, che s ’appattavano e a maschio e femmina facevano razza. L a guerra che Caitanello, da spratico, s ’inventava, come se dall’Antinnammare l’avesse vista all’opera coi suoi occhi di falcone, la guerra che gli pittava sotto gli occhi maneggiando lo scorciatore co me un pennello apposito per quella pittura pericolosa, e sputacchian do sulle parole come se persino a parlarne lo schifasse, gliela rap presentava personificata in una femmina laida e scarmigliata, una ve ra furia d ’inferno, una mostruosità di figura rivoltante: giovane, bron zata e lucente, di dietro, e davanti invece, vecchia, con una pancia di troia gravida, nera e tesa come pelle di tamburo che sta per spac 505
carsi, i seni cascanti, secchi e rugosi, gli occhi iniettati di sangue e le mani piene di croste. Alla sagoma e all’impronta, la Gransoldatara che gli raffigurava Caitanello, sapeva moltissimo di quelle zingare infami che la notte s ’attendano sulle spiagge e come segno del loro passaggio, lasciano le ceneri dei fuochi e le pezze fetenti dei loro sfoghi mestruali, fra grandi macchie di sangue che tingono le pietrebambine e inzuppano la rena li intorno, come se avessero sgozzato qualcuno. Una laidura di femmina, come fatta di ferro, che nella mischia si dava da fare per mille, con mille paia di occhi e di braccia. E c’era il sole che la impotentiva, incrignandola di continuo col suo sguardo dardeg giarne, mantenendole vivo addosso il fuoco che le infocava il corpo di ferro e questo, arroventato, sprizzava scintille. Linguette di fuo co, fiammelle che nel loro insieme le facevano dalle mani alle spalle, come un rosso piumaggio, spuntavano dal sangue che imbrattava le sue braccia: agitando queste ali di sangue, fiammeggianti, la guerra volteggiava sullo scill’e cariddi, infuriando in terra, in cielo e in ma re, era qui e in ogni luogo tra le accensioni abbaglianti e gli scop pi. Era dovunque, dove il sole le svampava addosso per pigliarla e lei si gettava a faccia all’aria per farsi pigliare, senza risparmio, con le sue vergogne, il suo cannoneggiare, il suo mitragliare, il suo sconquassare e massacrare, spalancate tutte alla luce, perché il dardone di lui le arrivasse sino all’unghia dei piedi e natura maschia e femmina umana, liquefacendosi insieme, facessero razza, finimon do. In un battibaleno, la Gransoldatara s’ingravidava di sole e con tempo si sgravava di catastrofi: morti, feriti, squartamenti di mem bra, fiamme, scoppi, squarci, ondate schiumose di sangue, fumo e neri crateri, gridi, implorazioni, lamenti tedeschi e italiani, ameri cani e inglesi, che però parlavano a quel punto tutti la stessa lin gua, portavano tutti la stessa divisa, morivano tutti la stessa mor te, tutti passavano per mano alla Gransoldatara arraggiata di sole, tutti insieme, confusi, finivano nel paesaggio che lei si faceva sotto i piedi e si lasciava dietro per segnale del suo passaggio, come le marine insanguinate dagli sfoghi mestruali delle zingare, passaggio di mari ribellati, di cenere e scheletri di cristiani, di rottami di barche e zattere, di tizzoni di rami, di braccia e gambe, di tronchi d ’alberi e tronconi umani carbonizzati, di schiuma di sangue e schiuma di mare di nafta fiammeggiante... 506
E così, dopo tanti anni, i pellisquadre si ritrovavano in cima a quella antenna sul mare, dove muccusi erano saliti anch’essi per spia re, da Jonio o Tirreno, l’apparizione dei bastimenti, mercantili e pe troliere, che navigavano per settimane senza fare scalo e gli equipaggi perciò approfittavano di quel passo di mare per gettargli bottiglie o cassettine d ’alluminio con dentro le lettere che volevano imbucate, assieme a un poco di picciolame, parte per l’affrancatura delle lettere e parte in regalo per loro, oltre a qualche sigaretta. D all’Antinnammare, i pellisquadre vedevano sotto di loro lo scill ’e cariddi massacrato. Lo vedevano con la sua anima di sale allo scoperto: sui suoi ricci e sulle sue frange ondose, dove non appariva macchiato dalle grandi bolle nerastre e rosseggiami di nafta e san gue che scolavano alle rive incatramandole in lunghi orli neri, vede vano galleggiare di lassòpra come un velo di latte, un quaglio, una patina bianchiccia che né rema calante né rema montante riusci vano a staccare e trascinarsi dietro, per basso o per alto, come avesse dei filamenti profondissimi che l ’ancoravano di sotto. Era una materia mai vista prima e i pellisquadre s ’andavano immaginando che forse erano i fiati, le anime schiumate dei guerreggianti che ave vano respirato per l ’ultima volta, con la bocca presa di sale, sopra allo scill’e cariddi. Quella vista, che per un verso era addolcita e per un altro incru delita dalla distanza, ai pellisquadre dava come una languidezza mor tale: ed era naturale, perché quello, lo scill’e cariddi, per loro era l’essere più smisuratamente vivo che conoscessero, e se era morto lui, come poteva essere ancora vivo chi fu sempre solo un pro forma di vivo, chi campò sempre delle sue mollichelle di vita? loro, insomma, come potevano campare loro, minutaglie di quella vita all’ingrosso? che campavano a fare più? Ma non era morto e glielo comprovavano le fere, e nessuno po teva più di quelle. Quando di lassòpra le ignescarono cogli occhi, col bruno di dorso e col bianco di pancia, caracollavano in lunghe file, annugolate, come ombre di nuvole nel vento: voliavano qui e là, ammassandosi, sparpagliandosi, in una girandola di vita, esaltate forse dal ritrovarsi i soli esseri viventi sopra quel quaglio di mare. Quando se ne scandaliarono, i pellisquadre non sapevano se ridere o piangere, se complimentarsi o se lamentarsi con quelle scellerate che col loro vivere gli rappresentavano contempo il sopravvivere dello scill’e cariddi. Col ragionare realistico avevano però concluso 507
che la fera, volenti o nolenti, faceva parte di tutto quello: mare, mestieruzzo, vita. Perciò, se tornava quella abitué dello scill’e cariddi, tornava lo scill’e cariddi, e i pesci nello scill’e cariddi, e il me stieruzzo con cui si buscavano la vita sullo scill’e cariddi, tornava insomma la vita sullo scill’e cariddi: la guerra era passata, l ’epoca di morte per stavolta era finita, e tutto quello che era la loro vita, che era lo scill’e cariddi, male e bene, fere e pesci, era rimasto, con tinuava, questo concludevano col ragionare realistico. Ma se la vita delle fere abitué, sommando i prò e i contro, gli rappresentava più prò che contro, girando appena gli occhi verso M alta, di quella vista e di quei prò, ne ebbero tanti, da uscirgli da gli occhi: perché, qualche giorno dopo, forse il diciannove, forse il venti, quando ancora montante e calante si muovevano come grandi fiumare di sangue, cadaveri, nafta e rottami, ci fu sullo scill’e ca riddi un grande, impressionante concentramento di fere, qualcosa di mai visto, fere di ogni mare e di ogni oceano, d ’ogni colore e sa pore, e dovevano al signor Cama, che per trent’anni aveva fatto solo imbarchi oceanici, se erano riusciti a sapere chi avevano l’onore di vedersi arrivare in casa. I pellisquadre, una gran parte perlomeno, e fra questi lui, Caitanello, lo confessava onestamente, non si sognavano nemmeno che potessero esistere tante fere, tante e così diverse dalle loro abitué, fere che non erano brune di sopra e bianche di sotto, fere che ave vano altra imponenza di forme ed eccentricità di caratteri: non pen savano, insomma, che potessero esistere tante e tali varietà di fere e perlopiù di fere più fere delle loro abitué, forse perché le abitué, quando si mettevano all’opera, gli davano un senso di sazietà massi ma, di soverchio: quelle sole, insomma, erano sin troppe, gli basta vano e avanzavano. Figurarsi perciò com’erano rimasti senza parola e a bocca aperta, mammalucchiti dalla meraviglia di fronte a quella sparata di fere che partitesi d ’in capo al mondo, dai quattro punti cardinali, per una causa che nessuno poteva mai immaginare, com parivano in basso scill’e cariddi e salendo per Jonio, gli sfilavano da vanti gettandosi in Tirreno. Per loro quel volovolo variopinto, at traentissimo, ma contempo misterioso, seguito con qualche patema d ’animo, era una grande cabala di fere, di colore, stili e schieramenti diversi, che non avrebbero potuto mai, nemmeno lontanamente smorfiare senza l ’aiuto del loro Delegato di Spiaggia: perché, se si eccettuavano alcune razze notorie sia di là che di qua di Gibilterra, 508
le più notorie del resto, il grosso erano tutte razze oceaniche, e dei presenti chi poteva dire qualche parola, quanto a oceano e animali oceanici, era solo il signor Cama, dato che lui, una volta che ebbe il suo primo ingaggio a Genova e uscì da Gibilterra, tutti i suoi anni d ’imbarco li aveva passati oceanoceano e quando rientrò per Gibilterra, rientrò come un emigrante, da passeggero. Il signor Cama, naturalmente, glieli illustrò summo summo, senza grandi delucide, secondo quello che se ne ricordava, secondo quello che aveva visto qui e là per gli oceani, quando succedeva che incon travano quelle terribili scialacquone e quello che poteva avere visto, e quindi ricordare, non doveva essere granché, trattandosi di fere. Anzi di più certamente doveva essere quello che aveva visto e po teva rivedere sempre, a sua volontà, quando e quanto voleva, per ché le fere erano fotografate e pittate tra le pagine, e di là non potevano scappare, nel suo famoso libro colorato, sopra al quale lui, Caitanello, non aveva bisogno di dilungarsi perché ’N drja lo co nosceva benissimo, anzi lo conosceva meglio di lui e questo era vero. D ifatti, era naturale che un libro di quel genere gli smuovesse la fantasia più ai muccusi che ai pellisquadre: un libro tutt’a scene colorate di bianco come bianco di latte, del bianco di quell’eterno mistero che ai loro occhi e alla loro mente erano neve e ghiacci e ghiacciai per cui tante volle nemmeno si aveva idea dell’oceano, e tutt’a figure di giganti marini, giganti chi di mole, chi di ferocia e chi d ’intelligenza, animali tutti fenomenali, e la loro impressionante fenomenalità cominciava dal fatto che respiravano mezzo a pesce e mezzo a uomo, e come in conseguenza del fatto che avevano il san gue caldo non facevano che assaltare, sbranare, lottare e mangiarsi anche fra di loro, in certe scene che a prima vista si tratteneva il fiato per lo spavento e veniva d ’istinto di fare un passo indietro. Muccusi e muccuselli, giudicando dal libro del signor Cama, erano persuasi che nell’oceano non vivessero pesci cristiani, pescicelli dello stampo di quelli che vivevano sullo scill’e cariddi: ope, triglie, saraghi, cernie, sgombri, tanto per dire, ma pensavano che ci vivessero solo gli animaioni che vedevano all’opera fra le pagine del libro, come draghi d ’acqua, draghi e persino liocorni, perché tale e quale a un liocorno dell’Opera dei Pupi gli appariva un certo narvalo, im pressionantissimo col suo dente fuoruscito e prolungato in avanti come una lancia appuntita, lunga perlomeno un metro e mezzo. Per questo forse la fotografia più guardata del libro era quella dove si 509
vedeva un muccusello esquimese molto bellicchio, coi capelli sulla fronte, a frangetta, che impugnava il dentone del narvalo conficcato per terra, che era più alto di lui di almeno due teste. L ’esquimesello sorrideva con l ’aria di sapere con quanta invidia e ammirazione lo guardavano i muccuselli della lontana Cariddi, invidia per la for tuna che gli era toccata a toccare con mano il magico dentelancia del narvalo, e ammirazione per il coraggio, anzi noncuranza, con cui lo toccava. Col signor Cama che s ’era fatto l’occhio all’epoca giovanile, ma non l’aiutava più la vista, fecero così: Caitanello o un altro con uguali occhi di falcone, scandagliava per lui le fere, là in fondo allo scill’e cariddi, manmano che ognuno di quei branchi, scuole e co lonie, ingrediava da Malta verso la linea dei due mari, e il signor Cama allora dall’inchiavatura e dal variopintume della loro pelle, quasi fossero divise e insegne soldatesche, scudi scolpiti e piumaggi di elmi, ne smorfiava la razza, connotati, provenienza, e le appellava per quelle che erano. Caitanello con la mano a parocchio scrutava sullo scill’e cariddi fra gli schieramenti che s’avanzavano da M alta, scrutava e scrutando, riferiva al Delegato di Spiaggia: « Oh grandiddio, grandiddio... » esclamò subito impallidendo per l ’emozione. « Oh grandiddio, che dovevano vedere gli occhi miei pri ma di chiudersi, oh grandiddio, che spopolo di fere, che spavento di cristiani, che barbara meraviglia a vedersi... » « Ma che vedete? Si può sapere che vedete? » gli fece il signor Cama, che era l’unico a non arrivarci con la vista, mentre gli altri pellisquadre intorno a lui, chi più chi meno, vedevano quello che vedeva Caitanello Cambrìa e si spiegavano la sua agitazione. « Uno spopolo di fere, questo vedo, signor Cama, glielo dissi a vossia. Vedo una marea lunga lunga di quelle malanova che volieggiano per qua variopintamente. Potentiddio, tante e tali razze di fere esistevano al mondo? Ma da dove scasarono? Ma quante razze saranno? » Caitanello Cambrìa, se lui la sua impressione d ’allarme, la sua agi tazione, la gettava fuori a parole, loro se la sentivano dentro, che gli traspariva sulla faccia che s ’andava sbiancando. Vedevano, là, in fondo in fondo allo scill’e cariddi, continuo con tinuo, come un grande spuliciamento di mare, uno spuliciamento di pulci che pesavano cantàri, fere mai immaginate né viste, di quanti e 510
quali colori, forme e stili non era possibile dire, una grande, lunga massa di corpi variopinti, come una fascia d ’arcobaleno sinuosa annugolata voliante per alto, con un capo che era ormai all’altezza di Rosarno e l’altro ancora lassòtto, che nemmeno si vedeva, dietro Melito Portosalvo. Mai forse si era visto prima un così impressio nante spostamento di quei geni e genie di pescibestini, né forse si sarebbe mai più visto dopo. Era un’apparizione che metteva ansia e disorientamento, e faceva paurosamente nascere in testa il pensie ro di qualcosa d ’oscuro e minaccioso che veniva con quel mare di fere, qualcosa che trattandosi di fere, non era sicuramente un caso che venisse e avvenisse, ma era, doveva forzatamente essere per chissà quale lavorìo di mente, per chissà quale calcolo d ’intelligen za. Ma lo strabilio, tanto per cominciare, era come avevano potuto, le malanova, darsi una voce, richiamarsi e riunirsi insieme, tutte quelle caterve di fere di diversa razza, fere oceaniche che forse baz zicavano quali l ’Atlantico e quali il Pacifico, quali un Polo e qua li l ’altro: come, con che specie di tamtam, tamtam, battuto con la coda sulla pelle del mare, tesa e risonante come un tamburo? con che specie di alfabetomorse, con che specie di fischio di onde ma gnetiche? Qualcuno dei pellisquadre, che Caitanello non riconobbe perché pose orecchio alle parole e non alla voce che le diceva, gridò labbàsso, verso le case, da dove andavano affacciandosi femmine, muccusi e muccuselli. G li altri girarono gli occhi, qualcuno ripetè a mo glie e figli di levarsi di vista e poi tornarono tutti a scrutare sullo scill’e cariddi, più tranquilli ora che le famiglie non stavano là in vista. Ora, ragionando a mente fredda, ci poteva essere più nonsenseria di quella? Perché, femmine e muccusi, quale pericolo vero, reale, conosciuto, correvano a stare là in vista al mare? lo sapevano dire quale, che specie di pericolo? Non lo sapevano. Eppure c’era sem pre qualcuno in momenti come quello che pensava per prima cosa a fare rientrare in casa le famiglie, e se non era uno, era l’altro. Questo, più di tante parole doveva dare a ’Ndrja il senso di quello che succedeva e per cui si sbiancavano in faccia. E poi, come se rimasti soli fra loro uomini potessero parlarsi spar tanamente, ci fu Saro Ritano che il senso di quello che succedeva lo dette a chiare lettere dicendo: « E questa è la fine del mondo, la fine nostra... » 511
’N drja lo sapeva, come lo sapevano tutti, quello che intendeva dire Saro Ritano: intendeva dire che la loro fine, la fine del loro mondo, se doveva venire, era dal mare che sarebbe venuta, e la lo ro fine, la fine del mondo di terraferma, sarebbe stata il principio del mondo dell’acqua salata, il principio del mondo della fera: e se avveniva, quando avveniva, erano persuasi che sopra, sotto, avanti, indietro, in mezzo, nel cuore del cataclisma, un attimo prima di finire annegati, avrebbero visto la smorfia dell’infamona lampeg giare sopra di loro, sarebbero morti con l’impressione che quelle te stericche stavano addirittura per saltare a terra, sulla marina, alla ’Ricchia. Un tale apparamento di fere, una tale massa di quelle cervellute in movimento doveva avere per forza una causa e un fine, la fera non era tipo d ’andarsene in crociera solo per poesia; era novità troppo grossa per non essere segno e malo segno di preannuncio, preannuncio di qualche tremendo stravolgimento, che per i cri stiani era ancora in mentedei e quelle millunanotte invece dove vano averne avuto già sentore, anzi, per esse la cosa avveniva già. A vederle come dilagavano per lo scill’e cariddi, annugolando di barbara, variopinta vita quel mare ormai da troppo tempo deserto di barche e di cristiani, veniva istintivamente di collegare la loro comparsa alla guerra: perché, a prima vista, la prima impressione era che quel segno allarmante, quell’avvisaglia di cataclisma, l’avesse figliato proprio la guerra. Ecco, questo è il loro grande momento, veniva di dire a guardarle. È il momento che aspettarono sempre e nemmeno Dio le fermerà, perché a Dio gli stessi cristiani gli pigliarono la mano ed era ormai arrivato il tempo in cui coman dava chi si alzava per primo la mattina, e se era per questo, le fere non le spodestava più nessuno: perché quelle, se dormono, caso mai è con un solo occhio che dormono. I cristiani si massacravano paroparo fra di loro, uno per uno, si no a che forse non ne restava più nessuno? E le fere pigliavano acqua, s ’impopolavano alleandosi e sommando i loro midolli di mente in un solo terribilio d ’intelligenza, e in massa facevano movi mento per le acque attorno alle terre desolate dei cristiani, davano dimostrazione che ora facevano sul serio, assai, assaissimo di più dei cristiani: perché, pigliavano acqua, acqua d ’oceani e di mari, e st’acqua era tutta arrossata dal sangue dei cristiani. Forse era veramente 512
venuto il tempo loro, il tempo del loro regno e sdiregno: la mano passava, o ripassava a loro, alle manuncule. « Uno spopolo di fere, questo vedo, signor Cama, già glielo dissi a vossia » fece Caitanello, pigliando finalmente a soddisfare la curio sità del loro Delegato di Spiaggia. « Questo vedo io e vedono pure gli amici attorno a noi. Si vede una marea senza fine di quelle inala no va che volieggiano per quassòpra variopintamente. E ora si co mincia a vedere pure che s’avanzano in grandi schieramenti di scuole e colonie, nette e separate le une dalle altre, e ora si cominciano a vedere pure sagome e coloriture. Perciò, gli posso dire a vossia che sta mandria che s’avanzano per prime, hanno una coloritura viola di sopra, e poi, verso i fianchi e la pancia, il viola gli diventa grigio, grigio fumoso con qualcosa di rosé. Eppoi, sono belle impo nenti di mole, qualche metro in più forse della nostra abitué. Gli di ce niente a vossia? » « Il becco, v ’arriva l ’occhio a vedergli il becco? Ce l’hanno cortitto per caso? » « Sissignore, cortitto, l ’indovinò vossia, cortitto ce l ’hanno, pro prio uno spuntone paragonato al becco della nostra abitué. Ma allora vossia l’inquadrò già in mente sua? » « Cosa facile fu. Si tratta difatti delle cosiddette N aso a botti glia e le Naso a bottiglia largheggiano assaissimo di numero fuori di Gibilterra » Qui Luigi Orioles e Saro Ritano precisarono che quelle N aso a bot tiglia bazzicavano forte pure dentro Gibilterra, perché bazzicavano d ’abitué quei paraggi dell’Africa, Portogallo, Spagna, Baleari, Si cilia, Sardegna, e tante volte facevano un salto persino alle Isole più più vicine, Filicudi, Alicudi... Ma bazzicavano pure in Mar Nero, e difatti Orioles e Ritano le avevano incontrate tante volte là verso il millenovecentotrenta, quando stavano con la Anita G . e facevano di continuo Trieste Costantinopoli. « Sì, largheggia molto » ripigliò il signor Cama. « È del tipo più visto, più andante e ordinario persino di quella rusticazza della no stra abitué. E difatti, i caratteri di queste N aso a bottiglia hanno molto a che dividere con quelli dell’abitué: la sollazzosità, ad esem pio, la teatranteria, la ruffianaggine col marinaio che naviga... » E del resto, bastava vederle mentre gli passavano davanti, che se non fosse stato per il colore della pelle, c ’era quasi da scambiarle con le abitué. Sembrava incredibile che si potessero mostrare tanto 513
sciampagnine dopo chissà quanto mare, chissà quante milia e milia d ’oceano che andavano caprioleggiando. Dovevano essere alcune cen tinaia, tutta un’intiera colonia, intere scuole e famiglie, dalle non nave più che trentenarie alle piritolle d ’un massimo d ’una seina di mesi, che si vedevano nuotare davanti alle madri o dietro, che si vedeva al primo vederle al tufl’in tuffo, ondulose per onde per aria, che dovevano sentirsi già pizzicare il culo a mandolino. Viaggia vano come una tribù di zingari scialacquoni per i quali bontempo o malotempo è sempre un tempo e dove gli scura, ci mettono un punto. Le madri giocavano coi figli, sommozzandosi all’improvvi so e tirandosi dietro i muccuselli, che però a riassommare non ce la facevano e allora le madri di sotto li gettavano fuori a uno a uno per la pancia e i bebé ridevano per aria facendo iiih di pau ra e di piacere; e c’erano quelli che ciuciuliavano fittofitto e quelli che s ’inseguivano con sgridii, quelli che correvano avanti e quelli che avanzavano a rilento, fermandosi e formando crocchi, facendo riunione in circolo. Da tutto l ’insieme, insomma, venivano risate, voci senza pensieri, rumori in sordina come di una grande comarca zingaresca in movimento. Non c’era dubbio, l’impronta quella era, non c’era dubbio che queste Naso a bottiglia appartenessero alla stessa razza delle abitué. Però, mentre la tribù passava e risaliva per Tirreno, il signor Cama disse come a commentario: « Oh, qua ridono, scialano, ma dalle loro parti, che poi sarebbe un certo posto deH’America che chiamano il Nord Carolina, se la vedono pietrepietre certe volte, pietrepietre veramente, non per mododidire: e difatti, per quelle coste là del N ord Carolina, quei pellisquadre ne fanno di tali retate, che poi quando le tirano a ter ra, per un miglio almeno rivariva è tutta una mostra di Naso a bot tiglia che s’addannano per sbrogliarsi dalle reti e rigettarsi a ma re... » « Retate, disse vossia? Gli calano le reti alle fere? E di che reti si tratta? Saranno d ’acciaio, per calargliele alle fere... » « Ma quale acciaio... Si tratta di reti come le nostre palamitare, con le maglie giuste per incappiargli i nasi a bottiglia. Gliene parano un poco come un conzo senza esca e un poco come una rete di sbarramento, e quando succede che tutta una mandria c’investono contro e con tutta la loro scaltrezza finiscono nei cappi, allora i pellisquadre tirano le reti come una sciabica, e le N aso 514
a bottiglia si trovano a essere imprigionate davanti e di dietro » « Ma che se ne fanno? Per caso ne fanno spubblico in massa? E per spubblicarle cosi gigantescamente, che sorta di massacri gli fanno queste N aso a bottiglia? » « N o, quale spubblico... Quelli con le N aso a bottiglia, ci fanno il fammiridere. E sapete come? Si vendono le teste, ma non come voi che le portate in Capitaneria per prova che ammazzaste una fera e vi dànno un premio di cinquanta lire per ognuna, o cento se si tratta di femmina implenata. N o, quei pellisquadre le teste gliele vendono a certi fabbricanti che il cervello di fera lo pagano a peso d ’oro per il fatto che ne hanno assolutamente bisogno. Per nutrirsi, penserete voi, e invece no, non ve lo potete mai immaginare l ’uso che ne fanno e quando ve lo dico, capite perché sempre vi dissi che l’americano è un grande uomo businisso, e sarebbe a dire uomo d ’af fari, uomo dall’agire smagato, senza veli né peli, uomo che se vede che una cosa a lui gli necessita come il pane, tira fuori il porta foglio, paga quanto sia sia e se la piglia. Ora, dovete sapere, quei tali fabbricanti là che vi dissi, con quel terribilio di merdarella ful minante che la fera si tiene nel suo cranietto sulla fronte, precisamente con quella potente, fetente materia grigia, ci fanno un olio fino, sopraffino, che gli serve, figuratevi a che gli serve, gli serve per oliare certi costosissimi orologi di precisione, come quello, fatevi conto, che fa cantare il Gallo o gli fa gettare a mezzogiorno in punto il suo ruggito al Leone della Matrice di Messina, orologi precisi, pre cisissimi come questi o come quelli che fanno partire e arrivare i treni e che devono obbligatoriamente spaccare il secondo. Vi capa citaste perciò che razza di grande, genione businisso è l ’americano? Sperimenta, sperimenta, l’andò a trovare alla testa dell’acqua l ’olio per lubrificarsi i suoi orologi di precisione, lo trovò giustappunto nel la testa della fera, che quanto a precisione e calcolo di mente, non c’è congegno più infallibile. E ditemi, ditemi: dico bene o dico male? » Nessuno gli rispose al signor Cama se diceva bene o male, per ché d ’impulso gli veniva di dire: granfesse, quelle Naso a bottiglia che si fanno incappiare e tirare a riva intere mandrie come fossero sciabachello, minutaglia e non fere. Con le abitué li vorremmo ve dere quei signori pescatori, con le nostre abitué, essi, assai ne fa rebbero affari... Però, contempo, li pigliava un dubbio: l’olio di cervello delle nostre abitué sarebbe buono lo stesso, stessissimo del 515
l ’olio di cervello delle Naso a bottiglia per oliare quegli orologi d ’al ta precisione? E poi, schieramento dietro schieramento, da Malta vennero sa lendo altre, sempre nuove e diverse razze di fere: e lui, Caitanello, sforzando i suoi occhi di falcone, vedeva avanzarsi di lontano fere dalle coloriture, e in qualche caso anche dalle forme, così eccentri che, che prima gli veniva istintivamente di dubitare della sua vi sta e poi, quando appurava che la coloritura era proprio quel la, qualche volta doveva cercare nella sua mente per trovare le pa role giuste e fargliene la descrizione al signor Cama, e qualche volta s’imbrogliava fra colori e parole, s’impuntava, e allora c’e ra uno scambio di vedute fra lui e qualche altro pellesquadra di vista lunga come ad esempio Jan o Scarfl, e se c’era identità, be ne, sennò aspettavano che le fere in discussione si facessero più vicine. Ora, dato che i carichi, e cioè le potenti Grampo Grigio, come nella briscola vennero per ultimo, facendo apparire quelle che le avevano precedute, figure di fere anche belle, non c’era che dire, da ammirare, se viste di lontano e di passaggio, se viste cioè per quelle forestiere pinte e non. per le loro abitué tinte, come vere e proprie scartine, e cioè come le altre trentasei carte del mazzo di fronte a quelle quattro che rappresentano gli assi, lui, Caitanello, i connotati che di queste qua aveva dato il signor Cama, li rapportava in stile telegrafico, perché, se non era per fare massa nel quadro, queste scartine avrebbe potuto senz’altro passarle sotto silenzio. Le prime che passarono dopo, e diceva passarono perché a nes suno di loro gli sfiorava la mente che non si trattava di passag gio, del misterioso passaggio di una moltitudine di fere, furono quelle dal Fianco Bianco similiime in tutto e per tutto alla loro abi tué, solo che avevano il becco più corto e avevano quella partico larità del fianco bianco: difatti, erano bianche sotto e nel resto del corpo erano brune come le abitué. Si chiamavano Fianco Bianco, ma contrariamente al loro nome, ce n ’erano pure col fianco giallo: lun go il fianco bianco o giallo, una striscia nera dalla testa gli arrivava sino in coda, come un’ala di rondine o di canaria, e tali sembra vano nel passargli davanti, nugoli di gigantesche rondini e uccelle canarie che salivano svoliando a pelo d ’acqua. Le Fianco Bianco provenivano dal N ord Atlantico, disse il signor Cama, ed erano le scuole più numerose perché arrivavano anche a 516
mille soggetti, mentre quella che gli sfilava davanti doveva essere una scolicella che non passava il centinaio. Passarono poi quelle dal Dente Duro, che non avevano altra parti colarità che quella dei denti dritti e appuntiti, che insieme al becco lungo e piatto, gli dava un’aria più di coccodrilli che di delfini. Di colore erano tutte bluastre sopra e bianche sotto, e bianco avevano pure il becco, sopra e sotto, e anche questa era una loro particolarità. Passarono poi le cosiddette Vere Genuine, che erano belle, ele ganti all’esteriore, più belle, più eleganti delle abitué: sul petto ave vano come un gran neo di bellezza, una macchia bianca che sul blua stro spiccava precisa precisa alla pettina d ’una camicia di cerimonia. Sul dorso però, presentavano, cosa mai vista, un gravissimo difetto di natura: la mancanza della pinna soprana, e questa mancanza le faceva apparire come navitte senza bandiera, galli senza cresta. Pas savano per vere genuine, perché i pellisquadre di quelle parti dove bazzicavano, nel Pacifico nientemeno, gli davano una caccia a levapelo, dato che le stimavano interamente genuine, cioè a dire pi gliavano tutto, carne pelle e ossa, senza gettare niente. E passarono quelle dalla Bandiera Bianca, che venendo dopo le Genuine spinnate di sopra, risaltavano ancora di più per il fatto che la pinna soprana non solo l ’avevano, ma l ’avevano per giunta pittata bianca come per farla vedere di lontano. Eppoi, secondo il signor Cama, queste Bandiera Bianca presentavano ancora un’altra differenza rispetto alle Genuine, e cioè che quei lontani pellisqua dre di dove bazzicavano loro e precisamente l ’Oceano Pacifico, quel lo però di parte cinese, non ardivano minimamente di toccarle per il fatto che i loro antichi dicevano che queste Bandiera Bianca le ave va partorite una certa principessa, e chissà che bello spicchio di put tana doveva essere sta principessa per farsi implenare da una fera. Quei pellisquadre cinesi erano stranissimi però, perché principessa o non principessa, qualche volta la festa gliela facevano lo stesso: allora lo sapevano pure loro come sfruttarle senza gettare nulla, nemmeno il grasso, dato che se lo spalmavano sul corpo per non sen tire freddo: cosa schifevole da sentire, ma più schifevole forse era il freddo che sentivano quei pellisquadre cinesi. E passarono infine una mandria di Porpose, che sono e non sono vere e proprie fere: dall’esteriore bastardolo, grezzo e ridicolo, corte e malecavate, non superano i due metri, col muso rotondo, un poco a proboscide mozza alla radice, il becco rientrato, i denti a zappa 517
e la testa un tuttuno con la schiena e col collo che s’alza in una specie di gobba e poi scende sul dorso come nel maiale. D i colore era tutta nera, ma quanto al colore, un’altra curiosità di queste cu riosissime Porpose consisteva nel fatto, come li informò il signor Cama, che avevano gli occhi d ’un bellissimo rosa. « Ma che è sto franciaspagna? » fece il signor Cama che s’era scandaliato subito di chi si trattava. « La porposa aggregata al dophino? E che successe per esserci sto franciaspagna, sta confusio ne di lingue? Bella porca, sta porposa, un vera porcella... » Si capiva che porpose era la parola americana Porpoises che stava scritta di fuori sul suo libro di scene e figure oceaniche. Si capiva, anche senza sapere leggere né americano né italiano, perché la parola era scritta in nero sopra l ’animale in parola che era tutto bianco. Bianca era pure la balena sotto la parola W hales, che veniva per prima, e bianca la fera che veniva per ultima sotto la parola Dolphins, e così s’intitolava il libro: Whales Porpoises and Dolphins. E si capiva pure, solo a vederla, che chiamandola: bella porca, vera porcella, il signor Cama intendeva senz’alcun dubbio deprez zarla e disprezzarla, ma in effetti la chiamava col suo nome, porpoise, che all’italiana risulta porca, porca di mare. « Però, perché non fischiano? » si domandava il signor Cama: perché, secondo lui, presentavano pure quest’altra curiosità. « Avreb bero a fischiare, avrebbero a fischiare quando riassommano, perché in quell’istante contempo che ripigliano a respirare, gettano aria dal naso fischiando come avessero in bocca un fischialetto... » Le Porpose passavano nuotando sott’acqua per una ventina di me tri e poi risaltando fuori: allora davanti a ognuna si faceva un bian cheggio di schiume vorticoso come bolle di sapone e in quel mo mento pareva che soffiassero sull’acqua con tutto il loro fiato, e for se veramente fischiavano. Avevano già oltrepassato la linea dei due mari, quando il suono trovò forse la giusta via d ’acqua e d ’aria e sentirono allora il fischio stonato dei fischialetti delle porcelle. Con queste, tutte le scartine erano passate e venivano gli assi, i carichi di undici, se era vero che il signor Cama lo sapeva sfogliare e leggere quel libro di quaranta pagine. Venivano come i mascoloni che coi loro rimbombi secchi secchi mettono punto ai fuochi d ’arti ficio: davanti avevano le forestiere, con le ultime ad almeno mezzo miglio, all’incirca verso Rasocolmo, e dietro, a sventagliate di colore bruno, blu cangiante, o brublu, venivano un gran codazzo di fere abi518
tue e paesane, il basso popolo diavolesco che bazzicava di qua di Gibilterra, che gli correvano dietro come i muccuselli nei cortei, nelle processioni e negli sposalizi, quando aspettano il lancio dei confetti. Queste, si vedeva lontano un miglio che erano tutt’un altro man giare e lui, Caitanello, se ne scandaliava alla prima occhiata. Prima di parlare però, stette un poco tutt’aguzzato d ’occhi, la fronte ru ghe rughe, come ci cogitasse sopra impersuaso. Poi disse: « Vossia sa che vedo ora? Vedo avanzarmi uno schieramento, non grosso per la verità, una fazzolettata a paragone delle N aso a botti glia, però, per fare numero, gli basta l ’aria che si dànno, gli basta la maniera di portarsi grezze grezze e noncuranti, appartate dalla compagnia. Pare che si sentono fetere il naso, vossia mi deve cre dere. Ora io gliele rappresento e così vossia ce le appresenta. Per cominciare, quanto a grandezza, si manifestano per dei bestioni, per lomeno due volte la nostra abitué, pesanti due tonnellate, penso io. Non tutte però, perché ce ne sono dell’altre nel mezzo della mandria, grandi la metà, e queste che penso devono essere le femmine, sono marrò, mentre i bestioni maschi sono d ’un colore grigio, d ’un grigio ferroso, ferrarrugginito che però calando per i fianchi, si va sbian cando e sotto la pancia infatti sono completamente bianche come le nostre abitué. I fianchi però, i fianchi, è possibile mai? mi pare che li hanno tutti tatuati, perché si vedono sgraffi e svirgolature, tagliuzzamenti a ics e intacche a forma di stelle marine, tutt’un giocofoco di segni e disegni in carne, che gli brillano al sole bianchi bian chi... » « Ahi ahi, capii, capii... » si lamentò il signor Cama. « Becco non ne hanno, vero? E ditemi, la mascella sopra non pare tutta un gran naso, per cui st’animaloni si rassomigliano di faccia a certi cristiani nasoni, eh? » « Sì, come no? Nasoni, nasonazzi, vossia li pittò senza vederli, parola d ’onore. Eppoi, mi pare che... » « Ahi ahi, basta, basta, don Caitanello, non dilungatevi più a rap presentarmele, capii capii, ahi ahi, eccome, eccome capii... » Circa a questo punto successe, o per meglio dire, stette per suc cedere qualcosa d ’inaspettato, qualcosa che sembrò fatto apposta, quasi per chiudere in bellezza la presentazione di quelle ferazze che strappavano lamenti al signor Cama, issofatto che dalle parole di Caitanello le smorfiava e se le raffigurava. Le fere venivano in sopra un poco meccanicamente, a mezza forza, 519
come portate dalle pinne pettorali e dalla coda, senza alzarsi molto per aria né calarsene troppo in acqua, con un’andatura poderosamen te fiancuta, ma l ’aria svagata come se fossero noiate a morte di tro varsi dove si trovavano. Lo zatterone degli inglesi, che faceva avantindietro fra il Faro e Cannitello, in quel momento tornava di Calabria ed era arrivato più o meno ai bordi della mezzerìa. Procedeva ad angolo retto con le fere e da terra si aveva l ’impressione che ci fosse troppa distanza di mez zo perché lo zatterone potesse mai speronare gli animali o gli ani mali speronare lo zatterone: difatti non ci fu speronamento, ma ci mancò poco, perché lo zatterone passò pelo pelo rasente al branco delle fere. Ora, se in un tale frangente si fossero trovate le abitué, figurarsi, c’era da aspettarsi qualsiasi scena di teatranteria, sia per spavento vero e sia per spavento finto, sia se lo spavento lo ricevevano e sia se lo davano. Queste invece, st’animalazze forestiere, non batterono ciglio, nemmeno girarono gli occhi che di lontano pareva come se da un momento all’altro gli si chiudessero di sonno, dettero anzi l ’impressione, col loro contegno di assoluta noncuranza, come non s ’avvedessero nemmeno dello zatterone, che gli passava pelo pelo né sentissero il rombo tonante che faceva. Non rallentarono né s ’affret tarono minimamente mentre lo zatterone gli tagliava la strada, pro cedettero al loro naturale passo come se il mare davanti a loro fosse in quell’istante liberissimo. « Ahi, ahi, loro loro sono » si lamentò allora, come se veramente soffrisse, il signor Cama. « Mostrarono la carta d ’identità da come si comportarono. Ahi, ahi, amici miei, preghiamo, chi sa pregare, che non si fermano qua. Ahi ahi, non la vedo giusta sta radunanza, soggetti scabrosi arrivarono sullo scilPe cariddi... » G li domandarono allora: « E che sarebbe sta razza di fere che gli strappano lamenti a vossia? » « Certe R isso’s sono, ma voi forse da queste parti non le sentiste mai nominare con questa nomina » « Rissose, eh? Sarebbe a dire che s ’arrissano di continuo? S ’arrissano di nome e di fatto insomma? » « È la prima volta che le sentiamo queste rissose... » « Vi dovette capitare però, di sentirle, sentirle e risentirle, col loro nome di battaglia che sarebbe Gram po Grigio: perché quella, 520
cari giovanotti, è la famigerata Gram po Grigio, diocenescampi, e spe riamo che passi dritto. Vi dice niente a voi sta parola grampo? » « E si capisce che ci dice » fecero qui e là. « Ci dice quello che dice: crampo ci dice, il crampo che quando ci piglia, a un muscolo di gamba o a una mano o a un piede, malanova a lui allora, malanova quando ci piglia... » « Ma quale crampo, quale crampo che veramente vi pigli? Gra, gra, gra, grampo, grampo... S t’intesa di grampo gliela misero in America e vorrebbe dire che gli misero l’intesa di gladiatore: gram po grigio, gladiatore grigio, e per essere inteso gladiatore grigio, vi potete fare un’idea del soggetto scabroso che dev’essere » « Gladiatore? » fece Luigi Orioles. « Tale e quale allora all’uo mo di forza dei tempi antichi, una specie di Cam era e Raicevic che affrontava tigri e leoni ed era capace di spezzargli l’osso del collo con le sole mani, un Ursus in una parola » « Ma allora che nicchinnacchi con la fera? Chec’entra conquella ’nfamona st’intesa di gladiatore? » « Ma da dove gli venne di mettergli a così tale animalazzo sel vaggio, al più tale dei tali anzi, di mettergli sta nomina onorevole? » « Se la insognano che quella affronta tigri e leoni... » « Giovanotti... » gli fece un poco arruffato il signor Cama. « Pre tendereste per caso di giudicarla con la vostra abitué? Vi pare che quando le dettero quel nome di battaglia di Gram po G rigio, glielo dettero per scherzo? Glielo dettero invece serissimamente, per con traddistinguerla dalle altre razze di fere, mettendo sull’avviso sia pe sci sia cristiani che quella è fera non comune, si piglia la questione, combatte, s’accanisce ed è dannivola: e difatti, là ci sono le cica trici, le cicatrici che si porta ai fianchi in ricordo dei suoi combat timenti, per specie di trofei... » Sentendo questo, i pellisquadre strabiliarono: « Combattimenti? Che intende dire, vossia? Che combatte? che combattimenti fa? » « Combattimenti, la fera? Architettamenti, vorrà dire, vossia. Architettamenti di mente dentuta... » « Che bisogno ha di combattimenti con quella mente tranellatrice? » « Quando mai fu vista scendere in campo, a viso aperto e pi gliarsi la questione? » « Rischia mai? Pericola forse la vita quando si mette all’opera? » 521
« Risolve tutto a tavolino, quello è lo stile suo » « La mente, il midollo che ha nella frontina, quello è lo stile e lo stiletto suo... » « Questa col crampo che dice vossia, non stila lo stesso stile? Venne forse fuori razza? » « Giovanotti, non le pigliate sempre a modelle, le vostre abitué... Non vi scordate che quelle l’oceano bazzicano, e là non hanno la man giatoia bassa come ce l’hanno qua dove il boccone preferito se lo vanno a scegliere nelle reti che voi calate... Là, tante volte se lo de vono travagliare il pane, là veramente pesce grosso mangia pesce fino e là più grossi di lei ce ne sono, eccome. Per questo vi dico, non le pigliate per pietra di paragone le vostre abitué, hanno poco o niente a che vedere con quelle, fidatevi, fidatevi di me... » Qui ci fu qualcuno, e questo qualcuno, ’Ndrja se lo poteva benis simo immaginare, fu Artù Paiamara, che per non smentirsi, non si seppe trattenere di dire: « Però, sempre fere sono... » « E invece no, non sono fere » scattò a ribattergli il signor Cama, arruffandosi tutto, e per fare arruffare un tipo pazientoso come il signor Cama ci voleva un tipo incresciosissimo di bocca come A r turo Paiamara. Gli venne un tale nervosismo al signor Cama, che contrariamente al suo naturale, anche se si capiva che lo faceva per un puntiglio nei riguardi di Arturo Paiamara, se n ’uscì a sdegnoso, ad altezzoso, sarebbe più giusto dire, gettandogli in faccia i suoi do’phini e il suo oceano, il suo imbarco di trenta, quarantanni inin terrottamente e il suo prezioso libro figurato. « E invece no, non sono fere. Sono d o’phini questi, d o ’phini. Oh per la madonna, tutte fere, tutte fere, tutte abitué devono essere, per forza per forza... Possibile mai che la pigliate sempre a pietra di paragone la vostra abitué, tutte a lei devono rassomigliare, tutte, è possibile mai? Ma la colpa è mia, la colpa è mia che dall’inizio non vi controbattei sentendovi dire sempre fera, e anzi la dissi pure io per un certo ri guardo all’animo vostro che vi brucia proprio per causa di fera, men tre invece, d o’phino vi dovevo dire io, e così gettavo le carte in tavola, le carte cioè coi do’phini che conobbi io, fuori di qua, e così non mi succedeva che mi spolmonavo a spiegarvi che sta Gram po Grigio, sta gladiatora, tutta ricoperta di cicatrici, è ’na ’nimala più unica che rara, per sentirmi poi dire: sempre fere so no... Ben mi sta, ben mi sta, a me mi dovrebbe cadere la lingua 522
a pezzi quando mi metto a parlare con voi di cose che non sa pete... » Per rabbonirlo, facendogli capire che Arturo Paiamara non lo do veva nemmeno calcolare perché gli altri erano tutti persuasi che di ceva il vangelo, quel gran diplomatico di Luigi Orioles gli fece: « In altre parole, si potrebbe dire che queste Gram po Grigio vennero fuori razza, vossia non crede? » Al signor Cama gli passò subito il nervino e sembrò premiarsi della domanda che gli faceva il bosso come volesse approfondire il soggetto Grampo Grigio. Un segno che gli era passata, fu che con tinuò a parlare di fere dove avrebbe dovuto parlare di do’phini, tan to per confermare quello che aveva detto prima e cioè che ci colpava più lui che loro in quella confusione di lingue: « G iusto, fuori razza. Non vi capacita? L ’animale comune non viene mai fuori razza quand’è della stessa specie: la murena tanto per dire, qualsiasi pigliate, lu n a fa quello che fa l’altra, ve lo devo dire io? Ma lei, la fera, che ha dell’animale comune? quasi niente, e invece, voi me l ’insegnate, ha quasi tutto dell’animale cristiano e la specie cristiana, come si sa, è una, ma ha tante specialità, e così pure la sua specie ha tante specialità e proprio ora ce ne passò un bel campionario di qua davanti. O ra, c’è dubbio, che di tutte le specialità della sua specie sta Gram po Grigio è la più speciale? Forse è cosa di tutti i giorni vedere una colonia sana sana di fere, ognuna con tutte quelle cicatrici ai fianchi? Ma anche una, una so la, la vedeste mai segnata di qualche cicatrice di ferita? La vedeste al massimo con qualche osso di spada che l’aveva trapassata da parte a parte mentre a tradimento lo scodavano. Dove la piglia la cicatrice di ferita? Per avere cicatrice, ci vuole ferita, e per avere ferita ci vuole combattimento e lei questo non l’intende. Voi stessi lo dice ste che lei risolve tutto a tavolino e che l ’arma sua è la mente che, m ’immagino io, quando è che idèa tranelli e ladroneggi, le deve gi rare e sprizzare scintille come una pietra di mola quando affila la la ma del coltello. È naturale, siccome non se la sente di rischiare, non se la sente di gettare né sudore né sangue, la vigliaccheria le sviluppa il genio di mente e l’istinto tradimentoso. M a voi la sapete assai, assai meglio di me, l’abitué. Io vi posso dire che l ’abitué non è la sola, che pure quell’altre sono cosiffatte. Vi fate un’idea ora dell’abisso che c’è tra la Gram po Grigio e quelle? Il meno che si può dire, il meno, è che venne fuori razza. Francamente, se ve la 523
’nsognavate voi, ci avreste mai creduto che poteva esistere una razza di fere che stilano spartanamente il combattimento, che lo stilano e lo stilano antico, prova ne sia che sono tempestate di cicatrici ai fianchi, tanto che gli uscirono l ’appellativo dei tempi antichi, gladiatore sarebbe a dire, eh, ci avreste mai creduto? » Sentitelo, commentariava in mente sua Caitanello, che con l’orec chio sentiva la polemica che facevano dietro di lui, e con gli occhi occhiava sullo scill’e cariddi. Sentitelo che gli domanda. Quelli non ci credono nemmeno vedendola alla luce del sole e figurarsi inso gnandosela... « Insomma, » fece Luigi Orioles « tutti d ’una ventre, ma non tutti d ’una mente... Mi pare che il detto antico gli sta bene pure alle fere, eh signor Cama? » « Gli sta a pennello, anzi gli sta come se noi e loro fossimo una cosa sola. E difatti, non solo c’è straneità fra razza e razza, ma per sino fra fera e fera d ’una stessa razza, perlappunto come tante vol te succede fra noi, fra figlio e figlio d ’una stessa madre. E qui sotto mano, bell’e pronto, ho un esempio che pare proprio me l ’invento io, talmente mi viene accommodo nel discorso: ma si tratta del fa moso Pelorus Jack, tanto famoso che certamente qualcuno di voi lo senti dire e non si può mai pensare che me l ’invento io... » Nessuno dei presenti l’aveva mai sentito nominare quel Pelorus Jack che pure, a detta del signor Cama, per trentanni corse* di bocca in bocca fra gli equipaggi delle navi che toccavano i porti del N uo vissimo Mondo. Il signor Cama infatti lo senti di bocca d ’un suo paesano delle Isole, un tale di Filicudi che lui incontrò nel ventisei a Sidney mentre si preparava a partire per la Tasmania con una baleniera. Per farla breve, questo Pelorus Jack s ’addimorò per una trentina d ’anni, in altre parole per tutta la sua vita, in uno Stretto della Nuova Zelanda che era più stretto del loro Stretto, ma per tutto il resto era somigliantissimo, proprio un fassimile, e per giunta aveva anche il nome somigliantissimo al nome del loro Stretto, perché inve ce di essere Peloro, era Pelorus. Anzi, quell’amico del signor Cama era persuaso che fosse proprio lo stesso nome in origine, perché quel lo secondo lui doveva essere stata opera di qualche loro paesano, di quelli che pigliano imbarco e nell’imbarco, attaccano fotografie e cartoline all’armadietto personale e attaccano i nomi di casa a ma ri, a porti, a mangiari e persino a femmine. Così, quel loro paesano, 524
entrando in quello Stretto, si dovette dire: ma guardate, guarda te, mi pare d ’essere nello Stretto del Peloro, sullo scilPe cariddi, ci mancano solo i monti Peloritani e poi è tale e quale al Pe loro. Disse Peloro, la voce girò e Peloro gli restò: solo che passan do di bocca in bocca e di lingua in lingua, si storpiò un poco là in coda. Ma per passare dal nome al nominato, il nome dello Stretto glie lo dettero per cognome all’animale, aggiungendoci Jack per nome, come fosse un trovatello, e difatti, proprio come un trovatello, una mattina albeggiò là come se il cielo l ’avesse gettato e quel mare pi gliato: e come se non sapesse che fuori di quel canalone c’erano l ’immense acque dell’oceano, restò là esattamente per trentadue an ni e se poi, tutt’all’improvviso come apparì, scomparì, fu certo per ché ormai trentenario, venne a morire. Che fece là per tant’anni? Fece il pilota, giorno per giorno, pilotò le navi che passavano per lo Stretto e così si buscò il pane onesta mente, campò senza rischiare, giorno per giorno, di morire per cam pare. Stava là, facendo la spola da un capo all’altro dello Stretto e non appena avvistava una nave, volava e si piazzava a prua, e là, mentre intratteneva l’equipaggio a suoni e danze con musica di culo a mandolino, con tamburelli e castagnole di scorreggette, pilotava la nave all’uscita: gli dava così l ’utile e il dilettevole, perché gli uomini s ’allianavano e i capitani non ebbero mai da lamentarsi se invece di venirgli a bordo il pilota cristiano, era quel do’phino che sbrigava il servizio di pilotaggio, senza dire che le compagnie spa ragnavano, eccome. Vedilo oggi, vedilo domani, anno dopo anno, gli equipaggi prima s ’abituarono e poi s’avviziarono alla sua vi sta e il saluto che gli dava Pelorus Jack prima ancora di gettare l ’àncora o subito dopo che avevano salpato, pigliò l ’aria di un rito. Diventò il pupillo di tutti gli equipaggi che avevano la ventura di passare per lo Stretto del Pelorus e vedere quella rarità di do’phino, e c’erano di quelli che scendendo a terra, invece di andarsene a di vertimenti di femmine e di liquori, s’accattavano un paio di chili di pesce e se n ’andavano rivariva chiamando: Pelorus Jack, Pelorus Jack, ognuno con la speranza, allettandolo coi pesci, di farlo avvi cinare, per dirgli e poi sentirsi da lui ognuno il proprio nome. E alcuni ci riuscivano, più che altro per merito di Pelorus Jack, il qua le finì per sapere a memoria un certo numero di nomi, specie quelli del tipo Dick, Tom , Bill, che quando li pronunciava, facevano un 525
suono come di pernacchietta: e questi nomi, quando si metteva a pi lota di una nave, li gettava fuori dal primo all’ultimo, e c’era sem pre qualcuno fra gli uomini dell’equipaggio che credeva di sentirsi chiamato personalmente per nome. G li facevano, nemmeno a dirlo, trattamenti di pascià e lo stesso governo della Novazelanda, vedendo che quel d o’phino scherzando e ridendo, aveva pigliato talmente piede fra la popolazione, che guai a chi glielo toccava, mise espressamente una legge severissima per proteggerlo, legge per la quale se qualcuno si fosse attentato a fargli anche uno sgraffio, veniva condannato issofatto a tot anni di carcere e per sempre infamato. Per case e per navi, al capezzale di letti e di cuccette, e persino dietro il banco degli spacci di vino e liquori, come fosse il Bambin Gesù, si vedeva l ’ingrandimento di Pelorus Jack e c’erano di quelli, fra gli uomini degli equipaggi, che la fotografia la tenevano nel por tafoglio come fosse la fotografia della zita. Erano gusti barbari ma gari, ma bisognava capirli: molti di quei marinai c’invecchiarono in sieme con Pelorus Jack e quando scomparì dai loro occhi, per tanti di loro fu come perdessero il sostegno morale e la vita gli sembrò senza più scopo, perché sostituirlo con un cane o con un gatto, con una scimmia e persino con una femmina, anche se, dati i gusti, i più non dovevano intendersela molto con le femmine, gli sarebbe parso sempre di sostituirlo indegnamente. Per questo fu come un lutto che li colpì tutti, chi più chi meno, e per lo Stretto del Pe lorus si vedettero per molto tempo le navi che entravano e usciva no con la bandiera mezz’ammainata al pennone di poppa. « Eh, sì, bisogna proprio dirlo: » fece il signor Cama a quel punto « tutti d ’una ventre e non tutti d ’una mente. E sennò come si spie gherebbe un tale fenomeno di natura quale fu quel Pelorus Jack ? Come si spiegherebbe che un d o’phino come quello, tutto casa e chiesa, un d o’phino che per poco non lo misero sull’altare per ado rarlo, proveniva da sta banda di notorii gladiatori? Come si spieghe rebbe l’enimma d ’un Gram po Grigio che usciva dalla congrega e si ritirava su quello Stretto d ’acque, come i santi penitenti nel deserto, e là invece di dare gli spettacoli barbari e sanguinari che stila la sua razza, dava spettacolo di vivere degno, meritorio, civile? Come si spiegherebbe, in parole povere, un Gram po Grigio tranquillo e pacifico, buono come un pezzo di pane? Non si spiegherebbe, si spiega solo col fatto che uscì contronatura, fuori razza... » 526
Si guardavano fra di loro e poi guardavano il signor Cama come un innocente, un innocente delfinaro. Fuori razza, diceva, ma fuori di quale razza? di quella piccola, la razza delle Gram po Grigio, non certo della razza grande, della razza delle fere, perché riguardo a quella, c’era dentro, dentrissimo, anzi, se ne era uscita come Gram po G rigio, come Pelorus Jack c’era rientrata in mezzo, in pieno. Po tevano farsi un’idea della gran doppia puttana che doveva essere stata, dall’alzata d ’ingegno che aveva avuto levandosi dalla vita di continuo rischio che facevano le Gram po Grigio e ritirandosi in quello Stretto del Pelorus dove si mise per sempre la barca all’a sciutto, pasciuta da tante mani e tanti occhi. Si figuravano benissi mo che genio di mente doveva avere per farsi pigliare in protezione addirittura dal Governo, per farsi uscire una legge espressamente per lei... Il signor Cama, capace che se lo era inghiottito, che ci credesse ciecamente in quella Gram po Grigio che lui chiamava al mascolino: do’phino, al mascolino americano, perché il delfino, lui, doveva aver lo sentito la prima volta nella lingua americana e in quella gli era rimasta, e anche se a Cariddi si era messo a masticare pure lui la fera che masticavano tutti, e sennò come s’intendevano? ogni tanto, vuoi o non vuoi, il do’phino fatalmente gli tornava sopra come un piccolo rigurgito. Ma si capiva, umanamente lo capivano. Pure lui, in trenta, quarantanni d ’imbarco, doveva essere passato per qualche Stretto del Pelorus, per uno dei tanti sterminati Pelori dove la nostalgia fa dolidoli in petto al marittimo che naviga per pane, solo e lontano. Pelori invisibili, che si aprono qui e là, dovunque nell’immensità dell’oceano, e trovano sempre spreparato, senza dife sa, con l ’occhio a lagrima, l ’emigrante di mare. E là, qualche zingarella, fera o d o ’phino, il nome non aggiungeva né toglieva, doveva avere allianato pure lui con balli e teatranterie, schiarito pure a lui l ’occhio, pure a lui strappato un sorriso. Questo si capiva, lo capi vano pure loro che una smorfiosa di quel genere, grande comme diante e ballerina, poteva riuscire gradevolissima a chi la vedeva dall’alto, da bordo di una nave, senz’avere un interesse in gioco se non quello di sboriarsi un poco, e capivano pure che là in mezzo all’oceano, a un povero disgraziato incotturiato di pensieri tristissi mi, la vista e la compagnia di una fera che l ’intrattiene per miglia e miglia di solitudine, tutta danzosa, deve sembrargli addirittura la vi sta e la compagnia d ’una Salomè. Questo si capiva, umanamente lo 527
capivano che in un certo senso il signor Cama, magari inconsape volmente, poteva sentirsi percosldire obbligato col suo do’phino. Aveva qualcosa di leale in questo, il signor Cama, come una specie di lealtà per i giorni i mesi gli anni che aveva passato nelle lun ghe solitudini dei mari, e quella specie di lealtà toccava di riflesso naturalissimamente pure il d o’phino. Ora, posto questo, se quel Pelorus Jack se lo era inghiottito co me un’ostia, potevano mai dirgli: signor Cama, va be’, puro sic come un angelo, Santus Pelorus Jack, ma ai pescatori di quello Stret to Pelorus gli domandarono per caso che ne pensavano? Vossia che pensa che ne pensavano di quel santomo di Pelorus Jack ? Vossia pensa che ne pensavano pure loro rose e fiori? Ma potevano armare un casobello col signor Cama come fosse un delfinaro d ’altobordo, di quelli di passaggio, quelli che sputavano in mare persuasi di in grossarlo? Il signor Cama, non c’era nemmeno bisogno di dirlo, era tuttalpiù un delfinaro di bordo, mai d ’altobordo. Il signor Cama, bi sognava ricordarsene, veniva dal morto, dato che prima di pigliare imbarco, aveva fatto pure lui con suo padre, là alle Isole, questo stesso miserioso mestieruzzo, e doveva averci sbattuto pure lui con la fera, anche se alle Isole ci bazzica di straforo, e un’opinione do veva essersela fatta, anche se summo summo. Poi, imbarcato, emi grante sperso per mare, aveva dovuto fatalmente cambiare opinio ne, s ’era persa l ’abitudine alla fera e pigliato il vizio del do’phino, e s’è visto perché, percome, s’è visto che è come per il carcerato pigliare il vizio del carceriere. Ma ci avrebbero giurato, il signor Ca ma non aveva mai portato nel portafoglio la fotografia d ’un qual che Pelorus Jack, anche se poteva raccontare di quelli che l’avevano portata senza scandalizzarsene, mostrando anzi di capacitarsi benis simo della cosa, e comprendere. « In conclusione, » aggiunse il signor Cama « perché Pelorus Jack gli faceva a tutti quell’effetto strabiliante? Questo era il punto, qua vi volevo portare. Forse perché faceva quello che faceva: pilotava le navi, imparava a memoria i nomi dei suoi amici marinai e li ripeteva, eccetra eccetra? Certamente no, quella è ordinaria ammi nistrazione per un d o’phino, anzi una N aso a1 bottiglia può fare di meglio e forse può farlo pure la nostra abitué. L o strabilio di Pe lorus Jack consisteva invece nel fatto che era un Gram po Grigio, un notorio gladiatore, che per legge di natura doveva essere in giro per l’oceano a gladiare e invece stava 11, sullo Stretto Pelorus, co 528
me un bebé nella bagnarola, e non gladiava. Capiste qual’era lo stra bilio di Pelorus Jack ? Era che era un Gram po Grigio e non aveva macula in pelle, non aveva il minimo sgraffio ai fianchi, insomma non aveva niente di tutto quel giocofoco di cicatrici che gli vedeste a queste qui che vi sfilarono davanti... » « D i certo è » fece Orioles, mettendo da parte quella favola di Pelorus Jack e ripigliando le Gram po Grigio « che queste qui ce l’hanno, le cicatrici, e ne hanno a bizzeffe pure e non si può pen sare che se le fecero da sole grattandosi con le manuncule. Eppoi, quella nomina di gladiatore del tempo antico gliela dovette dare qualche professore, qualche persona istruita, e si vede che riconob bero che se la meritava, si vede che se a loro gli danno una ferita, chi gliela dà, ci rimette la vita. Eh sì, le cicatrici sono loquenti, parlano da sole, le cicatrici non sono menzognere... » « Ma gli dovreste vedere i denti... » incalzò il signor Cama, che ora si sentiva nel suo centro paonesco e per questo forse ci metteva un’aggiunta al riconoscimento della Gram po Grigio. « Ne vedet ti uno io tanti anni fa, l’anno non me lo ricordo, ma fu a P a nama che lo vedetti questo dente di Grampo Grigio. L ’aveva al col lo un giovanottello che lo portava per scaramanzia, diceva lui, e fa ceva schifo a vedersi. Uno ne vedetti, per campione, ma mi bastò. Uno, un dente dico? Uno spuntone, una scheggia. Andategli, anda tegli a guardare i denti e ditemi poi se quei denti consumati sino alle gengive, vi sembrano denti di fera tranquilla e pacifica. Se la memoria non m ’inganna, denti in bocca ne ha pochi, non le centi naia della nostra abitué, appena appena sette od otto per parte, e quei pochi se li massacra, se li scheggia e se li consuma sino alla radice. Andategli, andategli a dare un’occhiata ai denti, se vi volete passa re una curiosità... » Pareva, a sentirlo, che dipendesse solo da loro andargli a guar dare in bocca e non pure dalle stesse Gram po Grigio. « Le cicatrici ci bastano, signor Cama, per credergli, sia a vossia sia alla Gram po Grigio » gli disse allora Luigi Orioles. « Le cica trici sono più dei denti. I denti può essere che se li consumò a fare ogni sorta di scialibi. Le cicatrici no, quelle, per farsele ci potette essere un solo modo, per questo sono cicatrici. Giustamente disse vossia: e c’è più prova di quelle? G li brillano al sole e si vedono pure di lontano... » Quanto a vedere, si vedevano, le cicatrici: le intacche bianche 529
crude risaltavano dal grigio ferrarrugginito lungo i loro fianchi, per la maggior parte in quella forma di stella marina che non c’era dub bio solo le ventose dei polipi giganti potevano avere stampato sul la pelle delle Gram po G rigio: e inoltre, il ragionamento di Luigi Orioles era giusto, aveva senso, filava, perché quella nomina di gla diatore doveva avergliela data solo una persona istruita, un profes sore del tipo di quello che cercava le uova d ’anguilla, quindi c’era stato un perché in quella nomina, eppoi era anche vero che le ci catrici erano loquenti, anzi loquent’eloquenti, non potevano essersele fatte da sole grattandosi con le manuncule... Però lui, Caitanello, con tutto questo, diceva che siccome la fera era capace di fargli vedere tre lune nel pozzo al più scaltro dei cristiani, restava lo stesso impos sibilissimo dire se si trattava di fera veramente fuori razza, di fera con un certo coraggio civile, oppure se si trattava della solita fera bazzariota che gettava fumo negli occhi. Comunque, Gram po Grigio o crampo blu, gladiatora o brigantona, l’unica sarebbe stata di veder la all’opera: ma dove? ma quando? Non c’era nemmeno da pensarlo né volevano pensarci di poterla mai vedere all’opera. Ma, commentariava allusivo Caitanello, ci fu chi la vide, gli venne a qualcuno di sua conoscenza, quel crampo. In tutti i casi, bella gente veniva da Gibilterra, c’era solo da au gurargli:. buona la venuta, ma meglio ancora la partuta. Ma ormai erano passate, proseguivano, ormai non c’era più da dubitarne: era chiaro che entrate da Gibilterra, e perché no? anche da Suez, do veva avergli fatto comodo tagliare per lo scilPe cariddi. D ifatti, le prime dovevano essere lì lì per affacciarsi incontro alle Isole, mentre le ultime erano ancora alle secche di Rasocolmo, abbastanza vicine quindi per distinguere ancora le poderose sagome delle Gram po G ri gio e frammiste a corteggio, le sagome più corte e più svirgolate delle abitué e di tutte le altre paesane, tutte le altre brune, blua stre, brublu mediterranee, abitué di Canale e coste africane, maiorchine e marocchine, tripoline, egiziane, greche, turche, iugoslave. Sot to il loro caracollo il mare sembrava ora soffrire e ora gioire, alliffato e pigliato a pistolette da tutte quelle miria di code, trattenuto e ronzato di continuo alle rive in ondate spumeggianti e fragorose, in cavalloni che scappavano lontani da sotto il culo di quelle pazze cavalcatrici.
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Non si gettarono fuori dello Stretto, nemmeno doppiarono Capo Milazzo, erano arrivate dove dovevano arrivare: si fermarono den tro al Tirreno e sparpagliandosi fra le G rotte di Polifemo e la linea del duemari, si misero come ad aspettare, ad appostare non si ca piva però chi, che cosa, come, dove, quando, perché. I pellisquadre se lo sentirono subito che quella era aria maganzese, impresa roncisvalla. Mentre si domandavano che ci potesse es sere sotto quel fenomenale concentramento, in mente a ognuno, re condita recondita, una voce rispondeva: spada, spada. Non era un’i spirazione, non era la voce dello Spirito Santo che li indettava: era l ’aria africanesca che avevano cominciato a respirare dopo quello scoppio infocato d ’estate ritardata. Subito dopo, infatti, l’aria era andata sciroccando e lo scirocco si era messo istantaneo a ponente e levante, si era messo a zucchero e miele, come gli piace ai Pul cinella, come gli piace da morire con quel fielemiele: si era mes so a chiamarli, a tentarli, ad attirarli fuori dall’immenso, misterio so oceano dove si trovavano, si era messo a stillargli le sue essen ze inebrianti sulla punta della spada, si era messo a calamita, a calamitoso. Non poteva fallire, lo sentivano nell’aria lo spada, come fosse maggio, primissima estate. Per loro, era come se il delicato anima le nei precedenti tre mesi senza r, impressionato dal subisso di guerreggiamento che trovava in Mediterraneo non appena sboccava da Gibilterra, si fosse ogni volta rigettato all’indietro, in oceano: in tutti i casi, per loro era come si fosse strambato da quella che era annualmente, fatalmente la sua rotta per l’Africa, sud, sudest. In altre parole, per loro quell’anno gli spada non s’erano ancora visti nello scill’e cariddi, la guerra ve li aveva tenuti lontani. M a guer ra o finimondo, niente a quel punto avrebbe potuto tenerli: il ri chiamo dello scirocco a levante e ponente gli poteva di più. Furono come il lampo col tuono: e all’apparire degli spada che calavano dalle Isole, trapuntando il mare fittofitto di scoppi di spuma, i pellisquadre si confermarono che quello delle fere era ap postamento roncisvallo e si spiegarono di conseguenza che se erano venuti per il Canale e saliti per M alta, era stato per tagliare la stra da ai Pulcinella e fargli la posta dentro quel passo di mare. Le maganzesi, mettendo nel mazzo pure le decantate Gram po G ri gio, quelle gladiatore spartane avevano avuto tutto il tempo di di sporsi al loro infallibile tranellare; parando pelo pelo le loro trap 531
pole beccute, le loro morse e seghe dentute, scaglionate fittefitte, ma con dei passaggi obbligati qui e là, specie di varchi a entrare e usci re, però a fondo cieco, in un gira e rigira labirintico, come tanti inviti ai meschini Pulcinella destinati così a essere sbranati senza scampo, destinati a fare in quella gigantesca cameradellamorte, pre cisa, precisissima, la fine che facevano i tonni nelle tonnare dei milazzesi. E d eccoli là, gli innocenti, tutti spiritati di sentimenti d ’amore, affacciarsi da Capo Milazzo, un lontano brillio ed effervescenza di bolle schiumose davanti alle bianche punte d ’osso. Quelli che si vedevano entrare nel quadro di Caitanello, erano un mare di spada, una vera esagerazione: tanti, quanti non se ne vedono in una intera e ricca passa. Ignari, chissà quali delizie si ripromettevano, e li aspettava una morte barbara, non la morte ra pida e netta, che di necessità ma con umanità, gli dànno i pellisquadre, quando la traffinera la maneggia un lanzatore non solo di pol so ma anche di coscienza: un Ferdinando Curro, all’epoca sua, tanto per fare qualche nome, e dopo, un Luigi Orioles o anche un Saro Ritano, che non gliene fanno nemmeno accorgere all’animale, e difatti non ci fu mai animale che lanzato da loro, campasse tanto da sen tirsi martoriare dal ferro a tre punte che gli era spampanato nelle carni. Faceva pena, nient’altro che pena. A qualcuno gli scappò un gri do, ma dallo sperone avevano voglia a gridare per avvertirli che sta vano incappando a Roncisvalle, perché questa fu: una Roncisvalle, una carneficina, una strage degli innocenti, uno sterminio. Quella, o era vendetta o era fame grande, arretrata, sennò non si spiegava l’accanimento che ci misero a sterminarli tutti: a sbranare e mangiare, mangiare, abbuffarsi, senza mai alzare gli occhi. Si fos sero trovati tutti là, gli spada esistenti nei mari, forse si sarebbe per duta la razza, perché le fere non salvarono nemmeno una fianchipie ni, nemmeno la madre, come si dice. Si comportarono serie quelle oceaniche, e i pellisquadre si fecero un’idea di quale doveva essere l’andamento di vita, di vita e di morte nell’oceano; né si poteva dire che le Gram po Grigio, che a fare san gue erano del mestiere, si dimostrassero dappiù delle altre: contro i Pulcinella, d ’altra parte, non si trattava nemmeno di vero e proprio combattere, contro i Pulcinella, pure le pulci hanno la tosse, e non perché lo spada non si sente l ’almo di combattere, anzi lo sanno quan 532
to e come è arditissimo, ma perché, oltre quel filo d ’osso per spada, non ha armamento pari di denti a sega, di manuncule, di coda, di mole, d ’astuzia e inganno. Si comportarono serie, eppoi non finiro no a sollazzo quando furono sazie, non li smerdiarono i restanti Pul cinella, lasciandoli mezzi vivi e mezzi morti e qualcuno scodato, per puro, barbaro capriccio, come stilavano le abitué quando il sacco gli traboccava e lo spada gli usciva anche dagli occhi. Queste continua rono con più lena di prima, ad assaltare, ad affondare il becco nelle tenere carni, a segare, squartare, strappare, a incalcarsi dentro bran delli sanguinanti come cominciassero in quel momento. Non fecero nessuna pomponella, non gli sgridarono né gli sbat terono manuncule contro le manuncule per spaurirli e straviarli lon tano, a rinculo: gli fecero la posta per sterminarli e li sterminarono. Non si difesero i Pulcinella? E si poteva dubitarne? Ce n’erano ancora in giro di fere, che magari sciampagnavano con le altre co me niente fosse e avevano la pancia attraversata da parte a parte dal le spade degli intrepidi Pulcinella. Si difesero? Forse non si difese il conte Orlando a Roncisvalle? E così si difesero e morirono i Pulci nella, specie valorosissima di orlandicchi.
Qui, suo padre faceva come Malagigi, cugino mago di Carlomagno, che per sbrogliare i paladini da certe scene dove non avevano più via d ’uscita, s ’appellava alla sua arte magica e con un semplice col po di bacchetta scongiurava le potenze d ’inferno, i diavoli cioè a dire, di venire alla sua presenza: subito in un grande rimbombo d ’aria, quelli gli scoppolavano davanti, lui gli ordinava l’impossi bile e i diavoli gli ubbidivano, facendogli possibile l ’impossibile. O ra, le potenze d ’inferno che Caitanello gli mostrava nel quadro seguente erano le fere, e queste potenze di bassomondo, sotto sot to, veniva da pensare che se anche non gli obbedivano a lui, gli fa cevano ugualmente un qualche gioco a lui: ma quale? Ancora non si capiva perché, quelle diavolesse, le piazzava subito nel suo car tellone dello scill’e cariddi, ad apertura dei quadri tragici che poi andò rappresentandogli, quasi che quelle diverse razze di fere fos sero tutte insieme la razza che facevano, accoppiandosi fra di loro, so le e guerra: sole che volle dire scirocco a levante e ponente, e guerra che volle dire odorata di sangue sino a Gibilterra e oltre. Non si ca piva dove, in che modo, quelle diavolesse che scasavano da Gibilterra 533
per fare scialibi di spada sullo scill’e cariddi, gli potessero giovare a lui, non si capiva insomma, da quale situazione scabrosa lo doves sero sbrogliare: perché, se non era lui il mago Malagigi, bensì il caso che ordinava a quelle potenze di basso oceano di venire in aiu to d ’un qualche paladino, poteva essere però giusto lui il paladino che si metteva nei guai, giusto quell’Astolfo leggero di testa, che senno lui personalmente non ne ebbe mai, né di nascita né di cre scita, eppure, o forse proprio per quello, si precipitava nella Luna sopra un cavallo con le ali per riportargli il suo a Orlando. Lo conosceva quel cantastorie e per questo si sentiva di dire che trop po le andava intrigando per non fargli al momento opportuno da causante o da scusante, o se lo sapeva lui che cosa. Insomma, gli rappresentava questo: le fere forestiere, invece di girarsi per Gibilterra, si mettevano comode a sguazzare nel mare di sangue che avevano fatto fra le restatine degli spada, ossa e bran delli di carni che piangevano di fronte a Dio. In altre parole, s’in signorivano dello scill’e cariddi, forestiere e abitué, nemmeno a dir lo, tutte in un mazzo. Cominciava a intrigarle la notte stessa o quella dopo che erano scesi dall’Antinnammare, quando una bomba gettata da un aereoplano, che non si riusciva a immaginare se di nazionalità tedesca o ame ricana o altra, né perché, percome la gettavano su quel pizzo di Si cilia, cadeva dal cielo e sfracellava casa e persone dei Castorina. E d era qui, in questa fatalissima disgrazia, che Caitanello, le fere taci tamente gliele rappresentava, quasi parepare, come le potenze d ’in ferno di Malagigi. Non arrivava a dire che la disgrazia era opera loro, di mano loro, però gliele figurava come se di quella sventura che doveva colpire i cristiani, esse fossero già al corrente e se l ’a spettassero e come se da quella sventura dei cristiani, esse piglias sero altr’acqua, s ’alzassero, cioè a dire, in nuova boria e imponenza di fronte ai cariddoti.
Quella dello sdiregnamento dei Castorina era stata una calma, stel lata notte di agosto. C ’era uno specchiato silenzio e i cariddoti sen tivano solo, come un lontano troneggiare, il lamentoso brontolìo delle loro visceri vuote. Però presenti, sveglie e scintillate dalla lu na, c’erano pure le fere. Caitanello, che aveva come un presentimen to, quella notte, e non riusciva a pigliare sonno, le sentiva ridere, 534
pessimo segno: iiih... iiih... e nel ridere farsi sotto alla marina, come giocassero a farsi scarrozzare dalle onde. Stavano 11, trattenendo le risatelle e le capriole, ciuciuliavano sottosotto, e certo avevano un loro scopo a tenersi rivariva quasi, sul primo, primissimo mare, in mezzo alla notte, non poteva esserci alcunissimo dubbio che avevano uno scopo, non per il fatto che perdevano il sonno, perché, quanto a questo, non si sa come fanno, le spiritate, la notte la fanno sem pre giorno, ma perché non c’è niente che fanno per niente. E lo scopo che avevano era quello: godersi la vista, pigliarsi sazio dei Castorina. E poi cadeva quella bomba, senza la minima avvisaglia di aereopiani. Si senti come un turbine di vento, una tromba d ’aria che pre cipitava avvitandosi e poi diventò un boato che fracassò l’aria, la terra e insordì i cariddoti: la bomba sfondò la marina proprio dove le case s ’aprono davanti al mare a testaditenaglia e si sfogò sotter raneamente, facendo un cratere da dove sgorgò immediatamente il mare. Prima però, con qualche immensa scheggia e col solo sposta mento d ’aria, la bomba pigliò d ’infilata e sradicò la casa dei Castori na, 11 sul fianco, la prima sul mare: scheggiona, aria, o scheggiona d ’aria, fu come se per opera di fatalità una casa e una famiglia den tro la casa in un lampo c’erano e non ci furono più. Un muccusello di sette anni di nome Nino, una muccusa di sedici anni di no me Ina, un’altra signorina di ventuno di nome Franchina, una ma dre di famiglia di trentanove anni di nome Marta e un padre di fa miglia di nome Paolo Castorina, di punt’in bianco volavano per aria, senza peccato né colpa, volavano a mare ancora caldi caldi, in contro al tristo destino che li aveva vegliati sino allora al capezzale con la faccia della fera mentre ignari dormivano: cogli occhi chiusi erano e cogli occhi chiusi restarono. Nel quadro notturno, a questo punto, dandogliele quasi per vi ste, Caitanello gli faceva sentire le fere che sbordelliavano dalla sponda: fingendo, prima, di spaurirsi al gran fischiare che faceva la bomba per aria, si rotolavano all’indietro, come se il mare medesmo le risucchiasse a salvamento, ma poi, allo scoppio, le barbare schifose, pomponellavano baraondose, scialandosi tutte, senza ritegno, alle volanti nudità dei Castorina che gli passavano di sopra. E qui Caitanello gli lasciava intendere che le diavolone correvano a sol lazzarsi scuroscuro cogli infelici Castorina, aggiungendo ludibrio a massacro. 535
A tacitarsi di tutto, Caitanello, cogli altri pellisquadre andava al l’aperto, sotto una luna che pareva giorno. Affacciandosi sulla ma rina scoprivano il cratere pullulante d ’acqua e scoprivano che della casa dei Castorina erano rimasti solo dei mozziconi di muro. In bas so al muro, dal lato delle palme, dove i Castorina accendevano il focolare, c’era ancora qualche traccia di nerofumo e quel nerofumo che pareva ancora caldo sotto le dita, gli faceva l’effetto come d ’un segno di vita bruciata in un lampo e contempo, un segnale di lutto, un avviso di morte, come la macchia scura, sul legno della porta, che, dopo anni, quando pioggia e sole la distruggono, lascia la pezza nera con la scritta: per lutto di famiglia. Trovarono qualche trespolo di letto, un materasso sventrato col crino sparso in giro, e poi trovarono una scarpetta di Nino, il muccusello, quasi sulla sponda, come se essendosi scordati di lui in quel la partenza a gettasangue, il muccusello si fosse precipitato dietro a madre, padre e sorelle e là, sulla sponda, gli si era sfilata dal pie de la scarpetta. Poi, spiando meglio nella luce scurosa, lì davanti, sotto i loro occhi, vedevano qualcosa, come un ammucchiamento strano e con fuso, che si muoveva imbrogliato nella maretta e s’arenava e non s’arenava: entravano in acqua e in quelPammucchiamento scopriva no i meschini Castorina. Erano senza la minima roba addosso, nudi e mischiati insieme, capelli lunghi e capelli corti, le due sorelle strette l’una all’altra, come dormissero spalla a spalla, e lì accanto il muccusello pareva te nersi per mano a Franchina; donna M arta, a faccia sotto nella m a retta che ora le rialzava e ora le abbassava la testa, stava dietro a suo marito, come gli dicesse: sì, sì, qua dietro a te sono, coi tuoi figli. Non conoscendoli, i Castorina, si sarebbe detto che erano sven turati naufraghi che il mare rigettava a terra allora allora, si sareb bero detti, cioè, una di quelle famiglie, padre madre e figli, che vi vono acciurmate sopra una di quelle barcacce che fanno carichi di capperi e pietrapomice, di quartare e bomboli fra il Canale e le Iso le: la barcaccia che governano, ci buscano il pane e gli fa da casa, sicché quando sventuratamente gli succede di perdersi in mare, per dono contempo vita e averi, così si levano ogni pensiero. Questo si sarebbero detti: una famiglia di quelle, che per fatalità erano in cappati in una tempesta e laddèntro si erano persi, però senza di 536
sperdersi l ’uno dall’altro, e il mare, difatti, li rigettava tutti e cinque insieme, ancora uniti a famiglia. Ancora caldi di letto, Caitanello glieli raffigurava così i Castori na: come fossero stati giorni e giorni, stracquati per mare, e come infine, rotti e strapazzati dai marosi, fossero stati sospinti a quella riva amica. Ma sospinti da chi? Dalle ondate, forse? N o, dalle pistolette e dalle scoppole delle fere: bastava guardarli, quei meschi ni, come li avevano sfigurati, coi lineamenti tutto un gonfiore illivi dito, a furia di ronzarli, a furia di codate e manunculate. La bom ba non c’entrava, non erano opera di bomba quelle sgraffiature sulla pancia e sul collo, quelle ammaccature agli zigomi, quelle lividure violacee, quelle, erano opera di fere. La bomba li aveva ammazzati con lo spostamento d ’aria, gettandoli sani sani in mano alle fere. C ’erano dubbi? E quali dubbi? Stavano là, dentro l’acqua: erano venute pure le femmine e tutte facevano un gran pianto sopra a Ina, a Franchina, sopra al muccusello, e facevano una gran pietà di mani che levavano dall’acqua i corpi nudi e li avvolgevano nelle co perte... Stavano là, dentro l’acqua e dentro le lagrime, pigliavano e allineavano l ’uno accanto all’altro sulla sponda quei lazzariati Ca storina e contempo sentivano, appena al largo, le risatelle delle fere ammassate scuroscuro, tronfie, maligne. C ’erano ancora dubbi che ci colpavano? E quali dubbi?
Voleva vedere dove aveva intenzione d ’arrivare con tutta quel l ’acqua che pigliavano le fere, voleva vedere perché la pigliava tanto larga, da tanto largo di mare e stretto di fere, se si trattava di due parolette strettamente personali, questo solo voleva vedere. A voglia intanto, quant’acqua, quanto sazio, si pigliavano ancora le fere: perché, dopo quella che si pigliavano coi Castorina, se ne pigliavano dell’altra e se la pigliavano grossa questa volta. Questa volta non si trattava più di quei meschini Castorina che era gente come tutta la gente e non poteva dargli gran sazio: questa volta, chi gli dava sazio, anzi saziissimo, a quelle scellerate, chi gli offri va spettacolo indecoroso, sconveniente, e non per causa di bomba, per fatalità, bensì spontemente, era qualcuno molto in vista, qual cuno con un nome, qualcuno notorio, qualcuno insomma che era qualcuno. « Te lo figuri tu, » gli faceva suo padre passando a quel nuovo 5>7
quadro « te lo figuri tu un cristianone come Ferdinando Curro, uno come lui, uno inteso Noè, nientedimeno, uno all’età sua, con la sua celebrità di pellesquadra, che si va a spubblicare maremare, in mez zo a tutti quegli occhi di fere che lo spiavano? E te lo figuri come gli riempi i fianchi di sazio a tutte quelle forestiere? Perché, c’era bisogno di dirlo? le abitué si premurarono di illustrarglielo subito, a vista, quel gigantomo vegliardissimo, che si era varato, in defini tiva, non da terra a mare, ma da vita a morte. Eh, te lo figuri? » Domandava proforma, infatti non aspettò la sua risposta e prese a raffigurarglielo lui, don Ferdinando Curro, e per prima cosa lo apostrofò tre volte come volesse fargli giungere la sua voce là, dove si trovava, in qualche mare dell’altromondo: « Oh, don Ferdinando, don Ferdinando, don Ferdinando... » E poi lo apostrofò ancora, e ancora tre volte, quel venerato pellesqua dra, con l’intesa che tutti avevano all’orecchio meglio del nome: « Oh, inteso Noè, Noè, Noè... Ricetto all’ossa vostra, ma che vi passò per la gran mente? Io, Caitanello Cambrla, rispettosamente parlando, ancora mi domando e dico perché vossia non se ne stette, bello, seduto, alla sua sedia. Chi lo sconzava di là, a vossia? Chi glie lo levava mai a vossia il boccone di bocca, o con rispetto parlando, la sedia di sotto al culo? Chi mai avrebbe osato dire a vossia: vos sia si deve levare di qua e si deve mettere più in là? L ’unica volta che vossia non si potette mettere al posto suo, fu quel giorno della disgrazia, quel diciassett’agosto quando ce l’imponemmo a braccia con tutta la sedia sino a lassòpra, alPAntinnammare, e per noi pia cere fu, noi patrono e santo portammo lassòpra sulle spalle. Per que sto dico, per noi vossia poteva stare millanni là, esposto al sole, santo sopra la sua sedia: e chi non l’onorava a vossia, vero N oè per noi? Qua, ogni pellesquadra dell’età mia gli deve la vita a vossia, perché se oggi lo portammo noi a vossia all’Antinnammare, il Ventottodicembre ci portò vossia verso monte, tutti quanti eravamo, muccusi e muccuselli, mettendoci in salvo sopra gli alberi come tan ti passerelli stracquati: e sennò, se stava ai nostri padri, chi, chi se la scapolava dal grande, terribile maremoto del Ventottodicembre? Per questo mi domando e dico: ma che gli passò per la mente a vossia? gli passò per caso che qua era di troppo? » Ferdinando Currò inteso Noè: quello veramente era una favola vivente, una favola che lui e gli altri muccusi, solo a guardarlo se duto sulla sedia che gli scompariva di sotto, avevano l’impressione 538
ogni volta di leggergliela rigo per rigo sulla faccia, piega per pie ga sulla persona. Qualcuno in vista, diceva Caitanello, e poteva dire pure in gran vista, perché, oltre che in vista per i meriti, stava effettivamente in vista, là sulla marina, e le abitué sempre con l ’occhio a terra, dove vano saperlo davvero a memoria quel cristianone che vedevano sem pre là in faccia al mare, senza mai muoversi, come una grande sta tua che da una di quelle case mettevano ogni mattina fuori della porta e lasciavano là tutto il giorno, come per stornare gli spiriti maligni, che si chiamavano terremaremoto, carestia, tromba marina, per non dire di lei, della fera, che non è spirito, ma gliela vince d ’un punto agli spiriti.
La sedia impagliata, coi rinforzi di asticelle ai piedi e alla spallie ra, che gli aveva fatto suo nipote Anseimo, era per lui casa, lastri co, marina, letto. I più muccusi lo avevano conosciuto già seduto davanti alla porta che non si muoveva più, e poiché sapevano le mirabilia di sforzi che aveva fatto nel Ventottodicembre, a tutti gli veniva di immaginare che doveva essersi strapazzato tanto allo ra, a salvare gente grande e gente piccola, fra terremoto e maremo to, che dopo aveva dovuto sedersi lì e non fare più niente. Quando ci facevano l ’occhio, i muccusi passavano davanti a lui col sentimento di quando passavano davanti alla Lanterna Vecchia, che era come Noè, fuori uso, qualcosa che aveva brillato nel passato e la sua luce si era spenta prima che essi potessero vederla. Ma l ’avevano vista e goduta i loro padri e per questo, i pellisquadre, al cuni dei quali dovevano la vita a Noè, come altri la dovevano alla Lanterna Vecchia, si levavano il berretto davanti a quel grandioso pellesquadra, dicendogli: benedìcite, baciamo le mani a vossia, e cennavano col capo e con gli occhi, muovendo le labbra davanti al ru dere della lanterna ad acetilene come le mormorassero: grazie per vita salva. Al chiuso Noè moriva: doveva odorare il mare vivo vivo, sennò moriva. Lo dovevano mettere all’aperto in ogni stagione e se dilu viava, lo dovevano mettere almeno dietro l’uscio, nel vano della porta mezz’aperta. La più parte delle notti d ’estate non voleva es sere smosso di dove stava, tuttalpiù, sua nipote Catina, se sentiva l’aria rugiadosa, gli metteva sulle spalle una coperta, perché la m at 539
tina non si trovasse bagnato sino alle ossa dall’acquazzina del sereno. Catina e Anseimo, per la verità, gli indovinavano i pensieri. Ave vano una vera e propria venerazione per lui, come e meglio che per un padre: d ’altra parte, per amore di Anseimo, che era figlio di una sua sorella ed era rimasto orfano di madre e di padre giusto nel cataclisma del millenovecentotto, don Ferdinando non si era nemme no ammogliato, e volevano dire che era rimasto addirittura verginello perché la femmina, era morto senza sapere nemmeno com’era fatta. Aveva più di ottantanni e pesava più di un cantàro; era sta tura tissimo e quanto a forza, sino all’ultimo che si era retto in piedi, se si piantava in mezzo a una palamitara, gli avrebbero potuto scio gliere sulle spalle la velatura, senza che ci fosse gran differenza fra l ’albero e lui. D a dieci, quindici anni, come l ’avesse ormai incorporata, era così gonfio di nefrite da non potere poggiare i piedi per terra, quasi cie co e sordo, era ormai una massa di vecchia carne salata che si asciu gava e seccava al sole. L a salsedine di cui si era imbevuto in tanti anni, gli risaliva a galla svaporando sulla faccia, sulle mani, sui pie di: il sale si spolverava sulla sua pelle, specie nell’orbita degli oc chi, fra dito e dito, dietro e dentro gli orecchi, ed era come se quel poco di sale che gettava ogni giorno, lo conservasse imbalsamato. Se Catina gli metteva in mano un pezzo di pane, l’accompagnava senza volerlo col suo sale: non aveva più denti e non trovava più la bocca per imboccarsi, così leccava il pane e leccava la mano. E Nicolino, il muccusello di Catina e Anseimo, si metteva sulla sab bia, ai piedi della sedia, anche lui col suo pezzo di pane, e fra un boccone e l ’altro, dava delle leccate alla mano del nonno. Il sale, poi, lo squamava qua e là, nell’inverno, e le squame gli intaccavano la pelle: narici, orecchi, sopraccigli, sotto specie di ci catrici recenti, ancora tenere che facevano pensare a un tatuaggio con l ’inchiostro bianco. Quando quelle squame cominciavano a cadérgli, allora era primavera e cambiava la pelle: le narici gli vibravano co me pizzicate da un vento lontano e solo da questo si vedeva che le stagioni passavano anche per lui e che effettivamente viveva e che non era solo, come sembrava, acqua che quagliava in sale e sale che svaporava in acqua, in un giro continuo, infinito. Quando si sentiva Luigi Orioles ancora scuroscuro che faceva pre mura ai pellisquadre, dandogli la posizione di sole con luna: alle 540
stitevi, giovanotti, che va salendo sopra all’Aspromonte quel malandrinone, e sta nottambula vagabonda si pigliò di pallore a sentirlo dall’Antinnammare e subito si alzò le vesti per scapparsene più le sta, Catina e Anseimo allora, pigliavano don Ferdinando, lo issavano sulla sedia e lo portavano all’aperto fra i pellisquadre che venivano fuori per armare, coi remi, il timone, le gistre, le reti, le lenze del conzo, le fiocine, i coltelli, le corde, gli arpioni, il bombolo d ’acqua, e in quel vaeviene allo scuro, pareva che anche quella specie di saccone o di albero infasciato nella velatura, che Anseimo e Catina portavano fuori di casa e depositavano vicino alla palamitara, faces se parte, come il resto, dell’armamento. Fra un’uscita e l’altra, poi, li guardava che ricucivano gli strappi alle reti o raggiustavano gli spaghi delle lenze, sostituivano gli ami del conzo e li ignescavano, o facevano il comento allo scafo della palamitara, stoppando e spalmando catrame. Per ore, dedicava gli occhi, ora alle mani di questo, ora alle mani di quello, fissando a lungo ogni cosa, o il suo ricordo di ogni cosa. A maggio, il primo spada che lanzavano, lo portavano a lui per ché gli facesse l’indovinaglia: dalla mossa che faceva, si regolavano sulla passa appena cominciata. Tastava l ’animale, e il maschio gli serviva meglio per questo, per ché il maschio ha un’agiatezza di peso variabile, arriva grosso, arri va fino, non ha l ’imponenza fissa della femmina che arriva sempre coi fianchi pieni: glielo sorreggevano per traverso sui ginocchi, e lui lo tastava sottogola, alle alette, alla pinna soprana, e se gli diceva bene, faceva scorrere carezzosamente i polpastrelli sull’ossa a spada come sopra un flauto. Se gli diceva male, invece, ritirava la mano e se la lasciava cadere come morta di fianco, corrugandosi fittofitto in mez zo alla fronte, come se qualcosa lo avesse scandaliato e messo in so spetto: ma se non si rigettava all’indietro con le spalle e restava te so, capivano che voleva fare una riprova. Questa volta l ’indovinaglia la faceva sopra la fianchipieni: la prima che lanzavano, gliela mette vano vicino e lui la palpeggiava a occhi chiusi come fosse una bella femmina, e se aveva ancora il lattume, ne assaggiava una punta sulla lingua. Afferrava indizi e segnali loquenti da ogni sfumatura, anche dal sapore e colore delle uova, come le femmine che sanno dire, alla vista e al gusto dell’uovo, quello che mangiò la gallina. Poi, deli cato, cercava con l ’unghia fra le pinne della fianchipieni una traccia 541
che lui sapeva, un residuo d ’estraneo, un filo di aria, una bava di vento, un granello di sabbia, una tinta d ’acqua, come chi dicesse i granelli di polvere, i fumi e i sentori dello spada e certi incontri che poteva avere fatto, specie a partire dal momento in cui era en trato per Gibilterra e subito, appena al chiuso, aveva sentito caldo. Qualche volta, che non si orientava, scandagliava pure l ’osso a spa da: ne grattava la punta con un temperino, o la smozzicava coi den ti e quelle scarde quasi invisibili se le portava al naso e le odorava a lungo. Cogli occhi non faceva capire niente, ma il senso era che doveva esserci qualcosa che in aria in aria gli riusciva peloso da de cifrare e tante volte la spiegazione gli veniva proprio dall’osso. Quel le scarde, poi, se le teneva in mano tutto il giorno, e poi gliele ve devano ancora nei giorni seguenti che le ripassava fra le dita, le stringeva nel pugno, e poi, passato molto tempo, Catina gliele ritro vava in una tasca. In effetti, quella cerimonia la facevano più che altro per lui, che quando gli portavano il Pulcinella e se lo sentiva sboriargli sotto il naso delle ovarine della fianchipieni, questo si vedeva benissimo che gli allungava la vita. A maggio, lo vedevano tutti, lo pigliava immancabilmente un tor mento, una frenesia che gli faceva arricciare le narici bianche e scar nite, che non tanto era la primavera, quanto la passa dello spada, che era poi la stessa cosa. Lo vedevano rinvenire come gli passas sero sotto il naso una boccettina che una volta era stata piena di un inebriante elisire, ed era come se quel lontano sentore gli scen desse in cuore a ringiovanirlo, a cancellargli le rughe. Una mattina, suo nipote Anseimo veniva a portare la bella no tizia che suo zio Ferdinando si sentiva rivivere, smaniava e s’arrizzava tutto e qualche volta, per giunta, alzava una mano alla faccia irsuta e si grattava per dire che voleva essere sbarbato. A quella no tizia, era un rallegramento generale e immantinente ridavano una mano di nero all’ontro, rialzavano l’albero della feluca, don Luigi riguardava i ferri delle traffinere, in altre parole, ritiravano fuori l’ar mamentario. D ifatti l’inquietamento benigno di don Ferdinando signi ficava che quella notte gli era arrivata una prima avvisaglia di sci rocco, di quello fatto apposito per incotturiare d ’amore e chiamare al suo destino lo spada, e significava che il Pulcinella era per via, e assai vicino pure, forse alle Isole, sempre più mammalucchito dal le vante e ponente della sua fatalità: perché, se Ferdinando Curro da 542
va quei segni, si spuliciava tutto come uscisse dal letargo, ci poteva no puntare che quello era scirocco a doppio gusto, di levante e di ponente. Lo scirocco non è vento fedele di carattere, vento sempre a una faccia e sempre netto di faccia, non è, tanto per dire, greco o mae stro, che persino un muccuso alla fine ci sa leggere. Lo scirocco è vento africanazzo su cui non si può fare il minimo assegnamento, perché il nome è uno e le razze sono tante. Per lo scirocco ci vuole l ’indovino per sapere come e da dove ti piglia, se ne viene uno o una mandria, se viene per allisciarti bavabava o per graffiarti la fac cia e accecarti coi suoi granelli di sabbia, e se si getta in calmeria o se ti gonfia tutto. Eppoi, quando te ne scandalii, lui ormai s ’è piaz zato, perché non è vento di vista, è vento cascettone, spalmato di vasellina, che arriva nell’eccetera e solo allora senti la sua presen za... Per questo, ci vuole l’indovino, ci vogliono vecchi che hanno rughe di ottantanni, pieghe strette e profonde come nascondigli nel la memoria, per cui riescono a calamitarlo e a spremerne il succo, biondo e nero: perché i vecchi pellisquadre, i mummioni seduti tut to il giorno in faccia al mare, lo scirocco se lo desiderano come il trinciato forte, non possono più fare a meno di quel veleno, che prima li risuscita, li ringiovanisce magari di dieci, ventanni, e poi li lascia più morti di prima. Ma per appurare sino in fondo che pesce era lo scirocco in arri vo, bastava vederlo, don Ferdinando, come si comportava l ’indoma ni mattina, seduto sulla marina. Fiutava lo scirocco come tabacco da naso e il naso gli diventava come una ventosa e aspirava così svel to, che era come se rinvenisse a vista d’occhio da un mancamento dei sensi. Il gigantomo si animava alle boccate di scirocco, ravvivan dosi e appannandosi sugli occhi, come uno scoglio investito dai ma rosi, che ora appare luccicante, ora ottenebrato. C ’erano momenti, a stargli lì davanti e vederlo, che scirocco e spada passavano in se conda linea di fronte a quel colosso mangiato dal sale che elemosi nava dallo scirocco una stilla di ricordo, una goccia della sua fam o sa gioventù. Fatalmente sorgeva alla mente il confronto con quell’Èrcole mustacciuto, sulla quarantina, che nel Ventottodicembre lottava coi cavalloni alti come montagne, che fra rimbombi e boati gli rovina vano sopra, per strappargli i muccuselli che salvava a quattro a quattro, a intere bracciate, aggrappati al suo collo, alle braccia, alle 543
gambe, tanti passerelli sdiluviati che posava sopra i rami delle limo nare e delle olivare, per le rasole di Spartà dove si potevano dire al sicuro: tanti, che a contarli uno per uno e ritrovarli oggi pellisquadre e padri di famiglia, tutti i muccusi che salvò allora, si po teva dire veramente che don Ferdinando Curro aveva salvato la raz za cariddota. Il maremoto si ruppe le corna con lui. Il mare si alzava impen nandosi sino all’altezza della rocca di Scilla e delle volte, quel ca vallone pazzo, schiumante, si ergeva sino all’Aspromonte, eruttando lassòpra grandi masse di lava argentata che erano interi banchi di cicirella sollevati dall’abisso, e poi di lassòpra, con spaventevole scotrumbo, si precipitava sopra marine e alture, sommergendo vil laggi e paesi: Ferdinando scompariva ogni volta alla vista, ma ogni volta, schiumando di rabbia, il cavallone tempestoso rinculava dai piedi di quel gigantomo fatato, come dal tronco di un albero incrol labile, dai rami carichi di muccuselli, stretti abbracciati aggrappati, che vi avevano trovato scampo. E ora eccolo là, quell’Èrcole, là, sulla sedia, che si sbavava per una stampa di scirocco: col cavallone pazzo della vecchiaia, nem meno lui poteva farci nulla.
Caitanello, tanto per non sbagliare, glielo metteva bene in vista anche a lui, lì, nel quadro che gli andava facendo: « Un uomo con quella rinomanza che lo sapevano tutti, cristiani e fere, in questi paraggi, un uomo che quando i nostri padri s’av vilivano sotto i cavalloni, tenendoci sollevati sulle mani fuori del l’acqua, era sempre lui che ci veniva a pigliare dalle mani pericolanti di nostro padre e ci portava in salvamento sopra le armacìe pietrose di Spartà, mettendoci sopra gli alberi, abbracciati ai rami e dicendo ci: tenetevi forte, ora torno. Per noi don Ferdinando fu vero mira colante d ’acqua, ebbe coraggio fenomenale e fenomenale forza di polsi: e chi se lo può dimenticare mai un santo miracolante come don Ferdinando? Per questo, ci sembrò roba da niente quel diciassett’agosto, che ce lo imponemmo a spalla e lo salimmo come in processione sino in cima all’Antinnammare, anche se era tanto pe sante, che ci pareva di morirgli sotto. Ma poi, poi, ancora mi do mando e dico, perché poi, perché, dopo uno o due giorni che lo calammo alla marina, faceva quella bella pensata di farci trovare 544
una mattina la sedia vuota? Ma allora, dico io, allora non era me glio trainarci la palamitara in cima aU’Antinnammare? Quella, al meno, ce la ritroveremmo oggi, a quella non le saltava il ticchio di vararsi e scomparirsene in mare scuroscuro... » E infatti, ecco il quadro: albeggiava e Catina e Anseimo trova vano la sedia vuota dove l’avevano lasciato la sera prima, quasi sot to l ’arco della porta, perché quello scoppio d ’està tardiva lo acca lorava molto e aveva voluto essere messo là, sperando in un poco di ventilazione di mare. E ra là, incredibilmente vuota, con la paglia affossata e la spalliera sconocchiata, così incredibilmente vuota, che a Catina e Anseimo: Catina, che di continuo batteva le mani, pal ma contro palma, a meraviglia, o le teneva giunte come per pre ghiera, e Anseimo che aveva un sorrisetto sforzato di incredulità, gli pareva di sognare, mentre la portavano in giro e la facevano vedere come se non si capacitassero che il loro zio non ci stava più seduto sopra. Don Ferdinando Curro non era scomparso da solo, però: Seba stiano Schirò, Vito Imbesi e Cono Ritano, nonnavi come lui, e con lui, tutti insieme, sempre fedelissimi, inchiummati, sia sopra ontro e sia sopra palamitara, risultavano anche loro mancanti, anche le loro sedie avevano albeggiato svacantate della loro persona. Con la loro, s ’appurava contempo la scomparsa della Borietta, una lancitta d ’antica data, che serviva più ai muccusi per spassarsi a lanzare aguglie, che per altro, e che era l’ultimo avanzo della stirpe infelice delle loro barche, l’unica che avevano potuto rimediare dopo lo sterminio di guerra e che tenevano un poco fuori di vista, sotto lo sperone, come per campione della razza e per figura: per figura, per ché oltre al fatto che c’era proibizione inglese di varare, chi s’az zardava a pigliare mare con quella fesseriola di barca mezza scassata? E se si erano azzardati Ferdinando Curro e compagni, quello non ci voleva molto a capirlo, per loro non doveva essere stato un azzardo, ma calcolo, calcolo ponderoso e ponderato. Dei parenti dei quattro nonnavi, nessuno si gettava alle grida, nemmeno Catina e Anseimo per don Ferdinando, perché più gran de del dolore che provavano, era lo sbalordimento che gli dava quel la pensata dell’altromondo, che avevano messo in atto quei quattro vecchioni. Forse con la loro orbaria, nemmeno ce la facevano più a vedersi l’uno con l’altro dalle loro sedie, quando li mettevano davanti alla 545
porta; e quando si trovavano l ’uno accanto all’altro sulla marina, pareva che non si riconoscessero nemmeno: per questo, appariva un mistero come si fossero abboccati per arrivare a quella intesa, coi particolari, il modo e il momento. Quello che si poteva immaginare, era solo che la vecchia chiumma aveva deciso di ritrovarsi ancora una volta col mare sotto. C ’era quella lancitta, e quella dovette dargli l ’idea. Dovevano averla armata: ma con quali remi se quelli della Borietta stavano in casa del Delegato di Spiaggia e là restaro no? E dovevano averla varata: ma come, con quali forze, se tre di loro, eccetto il solo Cono Ritano dovevano trasportarli sulla sedia perché da soli non ce la facevano a stare all’impiedi? E poi dove vano avere pigliato il largo: e chi aveva remato? chi aveva sbroglia to la rema? E poi la chiumma di nonnavi doveva avere drizzato al largo, assai al largo a quel mare dove non si pescano pesci: e que sta fra tutte era la parte meno indecifrabile di quel mistero. Al calare del sole di quello stesso giorno rividero la Borietta. La lancitta stava in Jonio, nella fascia di mezzerìa, così lontana che si distingueva appena anche perché lì intorno le fere facevano una gran confusione fra mare e aria, saltando e caprioleggiando sulla lancitta, rovesciandola di continuo e forse battendoci sopra a colpi di coda come una grancassa. Scurò con lancitta e fere ancora là. L ’indomani all’alba trovarono la Borietta rovesciata e mezza are nata fra gli scogli renosi davanti alla ’Ricchia. Naturalmente era ope ra di fera, quella, e le fere abitué e forestiere, brune e grige, bian che e nere e marròrosé, Gram pi e Porpose, stavano sventagliate in quei paraggi con l’aria di stare lì ad aspettare, per vedere quello che succedeva quando i cristiani avrebbero vista la Borietta: ma se s ’aspettavano grida, pianti e capelli strappati, restavano deluse, quel sazio non l ’ebbero. A questo punto del quadro, Caitanello metteva la parola in bocca ai pellisquadre e al signor Cama. Stavano sopra lo sperone, davanti alla casipola del Delegato di Spiaggia dove avevano riportato la Borietta: la lancitta non pareva nemmeno che si fosse sfottuta granché fra mare e fere, e solo per ché era ancora bagnata, si capiva che era scesa in mare. I pellisqua dre la guardavano fìssi fissi, cogitandoci sopra con gli occhi, come s’aspettassero di sentire da quelle quattro traversine di gelso che fine avevano fatto Ferdinando Curro e i tre nonnavi che aveva avu 546
to a bordo: se si erano detti parole, chi remava, in quale mare si erano calati. Ma la lancitta non parlava e allora parlavano loro, ma a che scopo? Erano forse nella misteriosa mente di quei nonnavi quando pensarono di metterci un punto? « Si annegarono » diceva Luigi Orioles e questo lo pensavano tut ti, ma nessuno ancora l’aveva detto: naturalmente spettava a Luigi Orioles di dirlo, perché Luigi Orioles era sempre quello che guarda va spassionatamente in faccia alle cose, talmente spassionato che certe volte poteva dare persino l ’impressione di non avere sentimen to né cuore. « Forse volontariamente si annegarono » proseguiva. « Anzi, senza forse: fu di volontà loro, lo decisero senza mezzi ter mini » « Eh, certo » faceva Arturo Paiamara. « Sennò, chi li smuoveva dalla sedia? Ci voleva una tromba marina per portarseli a mare... » « Si vedevano vecchi, oramai, troppo vecchi » diceva Anseimo, il nipote di Ferdinando Curro. « Un pellesquadra come Ferdinando Curro, non si poteva più vedere ridotto in quello stato, che lo do vevano sbottonare come un muccusello sennò si pipìava nei pan taloni... » « Naturale, naturale: si vedettero troppo, troppo vecchi,.. » gli consentivano tutti. « Va be’, si vedettero troppo vecchi: ma questo che vuole dire? » sopravveniva, stile suo, Luigi Orioles, che la cosa lasciata sottintesa non poteva soffrirla e se riteneva che quello fosse dovere suo, d ’uo mo realistico, a costo magari di mostrarsi disumano, quella tale co sa doveva chiamarla col suo nome. « Questo, per essere spartani, in altre parole, vuole dire che si vedettero mangiapane a tradimento, bocche inutili. Il ragionamento che dovette farsi un galantomone come don Ferdinando Curro, è semplice e lineare. C ’è sta gran fame nera, si dovette dire. Se non ci fossi io, Nicolino, innocente muc cusello, invece di mangiare quattro favette, ne mangerebbe otto, si mangerebbe anche la parte mia. Nicolino è lattume ancora, deve spi gare ancora: io invece che mi nutro a fare? dove intendo arrivare? Questo ragionamento dovette farsi e il ragionamento filava, pure io avrei ragionato così... » Lui solo? Tutti avrebbero ragionato così ma specie don Ferdi nando, specie lui, Ferdinando Curro. Per questo, il ragionamento filava, perché era in carattere con la sua fama di salvatore di muc547
cuselli, tantoché, per finire in bellezza, ne aveva salvato ancora uno, cioè suo nipote Nicolino: se non di fatto, l’aveva salvato simbolico, per non smentirsi. Poi, ai pellisquadre, il pensiero gli andò a quella imbarcata di nonnavi, domandandosi come mai la lancitta era ricomparsa in quei viciniori, e il mare non gli aveva rigettato lì davanti i corpi dei quat tro vegliardi: come mai non ne aveva rigettato nemmeno uno? e come mai non gli rimandava nemmeno un mutandone, una maglia? « Forse s ’incorrentarono e la calante forse li sviò oltre M alta, in mare aperto forse... » « Oppure, col suo risucchio li incamerò qualche garofano d ’abis so, magari saranno qua davanti e lassòtto girano, girano e gire ranno... » Non c’era altra spiega per loro, lo scill’e cariddi per quegli scaltroni era rema ed era garofano, fere no, non era fere, le fere non le nominavano nemmeno, le fere che intasavano lo scill’e cariddi, così fitte che a camminarci sopra, si sarebbe potuto passare a piedi in Calabria. Gliele mentovò lui, allora, Caitanello, era proprio cu rioso di sentire perché le lasciavano fuori: « E non potette essere, eh, don Luigi, » gli fece al bosso « non potette essere che se li incamerarono le fere, invece di reme e ga rofani? Tanto sicuro siete che non c’entrano? Tanto innocentine le fate, da non citarle nemmeno? » « Se li incamerarono le fere? E a quale scopo? Intendete dire forse che se li incamerarono per giocarci? »