Homo edens: regimi, miti e pratiche dell'alimentazione nella civiltà del Mediterraneo [1 ed.]


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Homo edens: regimi, miti e pratiche dell'alimentazione nella civiltà del Mediterraneo [1 ed.]

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HOMO EDENS

OEDENS REGIMI,MITIE PRATICHEDELL'ALIMENTAZIONE NELLA CIVILTÀDEL MEDITERRANEO a cura di Oddone Longo e Paolo Scarpi

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Questo volume raccoglie i contributi del Congresso "Homo Edens" realizzato dalla Fiera di Verona il 13-14-15 aprile 1987

© Ente Autonomo Fiere di Verona © Diapress/Documenti Diapress Sri, via Madre Cabrini 9 ·Prima edizione novembre 1989

SOMMARIO

11 Presentazione di Giuseppe Riccardo Ceni 13 Prefazione di Oddone Longo e Paolo Scarpi 17 Prologo di Carlo Tullio-Altan

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Prima Sessione cmo, CULTURA, SOCIETÀ Presiede: Giuseppe Nenci

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25! _}

PRATICHE ALIMENTARI E FORME DI DEFINIZIONE E DISTINZIONE SOCIALE NELLA GRECIA ARCAICA

di Giuseppe Nenci Suola Normale Superiore 31

39

Pisa

DETERMINAZIONEALIMENTAREE RIDETBllMINAZIONELINGUISTICA

di t Giorgio Raimondo Cardona Università di Roma - «La Sapienza» DEL FRITTO E D'ALTRO

di Maurizio Bettini Università di Siena 45 IL FRITTO NEL MONDO GRECO

di Giuseppe Pucci Università di Siena --5

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ela(ou enhl>dn hygrl>. 6) Il Lessico Universale Italiano dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana definisce il brasato come una carne «cotta a fuoco lento, in modo che lo strato abbrustolito alla superficie impedisca ai succhi interni di andare dispersi». 7) Cfr. R. VALBNSI,in Enciclopedia, Torino, 1977, s. v. Alimentazione, p. 354. 8) Physiologie du Gout, Des aliments en generai, sect. II, par. 2. 9) lbid., Theoriedelafriture, par. 1-2. 10) Pour une psycho-sociologie de l'alimentation contemporaine, in "Annales E.S.C" 16, 1961, pp. 977-86. Il) Cfr. Atlante paremiologico italiano, "Studi urbinati", Suppi. linguistico 3, Urbino, 198184, 5. 3. 18. 3. Debbo questa e tante altre informazioni al collega Pietro Clemente, che qui ringrazio. 12) Un punto di partenza è lo spoglio delle fonti letterarie fatto da W. HILOERS,Lateinische

Gefaessenamen, Bezeichungen, Funktion und Form roemischer Gefaesse nach den antiken Schrijtquelle, Dusseldorf, 1969. 13) Una è pubblicata in fotografia come confronto da M. ANNECCHIN0,Suppellettile fittile da

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15) 16)

17)

18)

School at Athens", 78, 1983, p. 107, fig. 9, p. 127, nn. 99-102. Un riesame di questa classe è stato condotto da Caterina Coletti per la pubblicazione dei reperti delle Terme del Nuotatore di Ostia (in Ostia V, in c.d.s.). Desidero ringraziarla per avermi messo a disposizione i dati risultanti dal suo lavoro. Cfr. HAYES, art. cii., p. 107. Eseguite da T. Mannoni, dell'Università di Genova, che ringrazio per le informazioni ancora inedite. Cfr. O. Pucc1, Comunae testae, in "La Parola del Passato", 164, 1975, p. 368 sgg., dove se ne stabilisce l'identificazione con i vasi "a vernice rossa interna" o "a engobe rouge pompeien". Tuttavia Egina fu famosa per la produzione di terraglie, tanto da meritare l'epiteo di chytropolis. Cfr. Comicorum Atticorum Fragmento III, p. 527, nr. 669 Kock. Che si trattasse di produzioni poco raffinate si desume, oltre che dai comici, da STRABONs 8, 376. Devo all'amicizia di O. Nenci la segnalazione di queste fonti.

IL ''MILK COMPLEX'' FRA I BANTU ORIENTALI di Piero Matthey

L•espressione milk complex evoca quella, molto più nota e affermata, di cattle complex, usata da Melville J. Herskovits alcuni decenni fa. Essa costituì infatti il titolo di un lungo articolo, The Cattle Complex in East Africa, comparso nel 1926 sull"'American Anthropologist". Lo studioso americano mise in evidenza l'importanza cruciale che il bestiame, i bovini in particolare, aveva presso varie popolazioni dell'Africa orientale dal punto di vista economico, sociale, religioso. In opere più tarde, Herskovits ribadì il suo punto di vista, sottolineando come tale complesso esercitasse un ruolo dominante sul loro modo di vivere e fosse il fattore principale, che dava senso e coerenza alla loro esistenza. Recentemente, in una breve lettera alla rivista "Man" (dicembre 1985) Lucy Mair ha ricordato le vicende, che portarono alla nascita della frase citata. Herskovits fu uno dei primi etnologi americani a lavorare in Africa, più esattamente nel Kenya. In America predominava allora una visione della cultura, intesa quale somma di elementi. Si procedeva al confronto globale di cultura, come fece Ruth Benedict in Patterns of Culture (1934), oppure si indagava se determinati tratti culturali fossero sorti indipendentemente in luoghi diversi oppure si fossero diffusi da un unico centro. Era importante quindi identificare complessi culturali, in modo analogo a quanto aveva fatto per lungo tempo la scuola viennese della Kulturkreislehre. Un simile complesso era tipico di popoli allevatori. Ciò fu osservato da Herskovits nell'Africa orientale. L'articolo citato comparve quando le opere di Sigmund Freud venivano conosciute in Gran Bretagna e, di riflesso, anche nei territori coloniali inglesi. Fra i coloni europei in Kenya diventò familiare la frase: «They bave a cattle complex», con riferimento alle popolazioni indigene pastorali. Secondo i criteri economici moderni, l'allevamento deve essere rivolto a un fine essenziale: fare degli animali la fonte costante e sicura di latte e carne, e soddisfare così le necessità alimentari degli uomini. I criteri seguiti in altri continenti sono molto diversi dai nostri, ma per tale motivo non sono meno fondati e ragionevoli. L'ossessivo interesse per gli animali, per mandrie le più numerose possibili, la loro rara macellazione, limitandosi prevalentemente a sfruttare i prodotti delle bestie vive, vale a dire il latte, tutto ciò presenta aspetti di ostentazione, ma contemporaneamente è sensato da un punto di vista economico. Milk complex vuole sottolineare invece il fatto che al latte viene attribuito il valore supremo, non tanto come unico alimento, anche se cibo preferito, quanto come -----------------------------

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il bene che riassume in sé ciò che di positivo e desiderato esiste sulla faccia della terra. La sua mancanza equivarrebbe a un disastro e alla fine di quel mondo, che lo ha innalzato a proprio emblema e simbolo. La sua preminenza è di carattere culturale. Ne consegue che esso è considerato superiore ai cibi solidi, cui si trova deliberatamente contrapposto. Nella regione dei grandi laghi in Africa orientale si incontravano varie società stratificate, in cui un'aristocrazia pastorale, talora numericamente esigua, dominava sulla maggioranza dei coltivatori. Tale situazione era comune ad alcuni regni tradizionali dell'Uganda, cioè Bunyoro, Toro, Ankole e tipica, in modo particolare, del Burundi e del Rwanda. I Bantu interlacustri sono stati oggetto di numerose e ottime indagini etnografiche. Esse offrono la possibilità di sistematiche comparazioni e permettono di ricostruire, e capire bene nel complesso, la successione degli eventi che hanno portato al costituirsi dello stato di cose studiato dagli etnologi in questo secolo. Mi limiterò a prendere in esame il Rwanda. Un profondo conoscitore della regione, il belga Jan Vansina, ha riassunto a grandi linee L 'évolution du royaume rwandades originesà 1900. Cosi suona il titolo di una sua opera del 1962. Ci si trova di fronte a un fenomeno tipico di questa parte del continente africano. Gli autoctoni sono cacciatori e raccoglitori, oggi sparuta minoranza dell' 1% , i Twa; immigrati più recenti sono i coltivatori, gli H utu; ultimi giunti, provenendo dall'Est, gli allevatori, i Tutsi. Non si deve pensare a campagne belliche folgoranti, a vittorie decisive seguite da trattati di pace che modificano confini e insediano una nuova autorità politica. I Tutsi, come gli Hima in Uganda, sono penetrati lentamente in una regione dove esistevano piccoli stati o principati hutu, retti da un re divino (umwaam1),simbolo e responsabile rituale del benessere del suo dominio. Nella regione del Mutara, nell'estremo nord-est del R wanda, sembra che i pastori abbiano occupato le pianure e che gli Hutu si siano ritirati a coltivare i terreni collinosi più fertili. La loro coesistenza era basata solo su rapporti di ordine commerciale, con scambio di prodotti della terra e dell'allevamento. Pare che gli Hutu avessero, sia pure in quantità limitata, del bestiame. È significativo che i capi dei piccoli domini hutu fossero sepolti avvolti in una pelle di toro. In una fase successiva si ebbe la colonizzazione del paese da parte tutsi e l'estendersi della loro supremazia. Ma questo fenomeno è stato sensibilmente diverso nel Rwanda, da regione a regione. Tuttavia il problema del pieno dominio economico e politico dei Tutsi sugli Hutu non si pone per il momento. Più tardi si hanno razzie tutsi, e abbastanza facilmente viene sconfitta la debole organizz.azione militare butu. Inoltre il prestito di bestiame da parte di piccoli lignaggi tutsi agli Hutu, sotto forma di ubuhake (il contratto di clientela), avrebbe dato origine a esigui domini comprendenti alcune colline. Dalla riunione di vari domini ne sarebbero nati di più grandi, quindi si ha la costituzione di stati tutsi. Questa lenta evoluzione, che pare abbracciare almeno uno o due secoli, ha visto l'affermarsi della minoranza tutsi (170/o). In ultimo essa giunge a prevalere sulla stragrande maggioranza hutu (830/o). Tale processo si conclude nel '400 e nel '500 con la nascita del Mubari, Gisaka e dello Nduga. Nello stesso periodo, all'inizio appunto del '500, il Rwanda propriamente detto, quello centrale, è un piccolo stato, confinante con quelli dello Ndorwa e del Gisaka, e gravita ancora nell'orbita del vicino Bugesera. Nonostante le grandi difficoltà incontrate nel tentare di ricostruire le vicende della regione, i limiti delle fonti ora50 -----------------------------

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li su cui ci si deve basare, le alterazioni e manipolazioni subite da queste nel corso del tempo, almeno a grandi linee ne conosciamo la storia. Il regno del Rwanda si è costituito a partire da un nucleo, un esiguo territorio, al cui esterno si trovavano zone di conquista dai limiti incerti, ed oltre regioni razziate, quando se ne presentava l'occasione. Le sue mire espansionistiche si rivolsero sia ad altri territori governati da Tutsi sia ai domini hutu. I Tutsi del Rwanda si videro costretti ad adattare la loro conquista alle popolazioni sottomesse. Lo dimostra la varietà delle istituzioni amministrative, create qua e là. Essi amministrano pertanto i territori inglobati nel Rwanda con criteri disuguali, a seconda delle circostanze e del luogo. A Ovest del Rwanda centrale, gli Hutu non tollerarono la perdita della loro sovranità e l'essere poi ridotti in una situazione di netta inferiorità sociale, sancita una volta per tutte. La forza delle armi tutsi li domò ma non in modo definitivo, come è dimostrato dalle numerose rivolte. Tale situazione perdurava ancora all'inizio del secolo attuale. Nel Rwanda centrale il dominio tutsi fu indiscusso e nacque una società di caste. Si è molto discusso sulla opportunità di evocare un'istituzione propria del subcontinente indiano per rendere conto di fenomeni sociali di questa parte dell'Africa. A ogni modo, un aspetto comune è costituito dai postulati, su cui si basano i rapporti fra le quattro caste indiane e, in Rwanda, fra Tutsi, Hutu e Twa. Questi sono stati riassunti da parte di J. J. Maquet a conclusione di una fra le migliori opere dedicate al Rwanda, comparsa prima in francese nel 1954: Le système des relations socia/es dans le Ruanda ancien, e poi in inglese nel 1961: The Premise of /nequality in Ruanda: A Study of Politica/ Relations in a Centrai African Kingdom. I principi basilari sono delle premesse, nel senso che automaticamente determinano e reggono i rapporti umani, fanno parte dell'ordine considerato naturale e quindi non possono essere alterati. Maquet li ha enunciati in dieci teoremi, intendendo per teorema, sulla scorta dello Shorter Oxford English Dictionary «una proposizione o un'affermazione generale, non evidente di per se stessa» ma che pervade senza scampo ogni aspetto dell'esistenza umana. Tutto ruota intorno al fatto che l'ineguaglianza è essenziale (I 954, p. 190). Ciò è ribadito dai miti delle origini, di ovvia matrice tutsi. Essi sanciscono una volta per tutte le differenze fra i tre strati della società rwandese. È reso evidente anche dal diverso aspetto fisico di Tutsi, Hutu e Twa. I primi, di razza etiopide, dalla pelle relativamente chiara, sono individui alti, slanciati, nel complesso esili e magri, non adatti - si afferma - al lavoro manuale, ma solo alla nobile arte del governo. Quanto conta è lo stereotipo, che viene cosi a essere creato e socialmente accettato, anche se la realtà non coincide pienamente con esso. Gli Hutu sono invece più bassi, tozzi, robusti, con fisionomia più grossolana. Ne consegue, nella visione del mondo tutsi, che essi siano naturalmente adatti ad affrontare le fatiche della coltivazione della terra e dell'allevamento del bestiame, concesso loro dall'aristocrazia dominante sotto forma di contratto di clientela. I diritti ultimi sui capi di bestiame restano però nelle mani dei Tutsi. Più in basso ancora sono i Twa; il loro stereotipo fisico è di fatto più animale che umano. Di pari passo procedono le qualità morali e spirituali: i Tutsi sono maestri sul terreno difficile dell'attività politica, destinati a comandare, capaci di dominare i loro sentimenti e di apparire distaccati, dotati di un gusto raffinato. Gli Hutu sono estroversi, facili ad adirarsi, obbedienti, privi di buone maniere. I Twa, leali ai loro ---------------------

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signori tutsi, ma pigri e privi di qualsiasi senso del limite. Ciò appare chiaro soprattutto nella loro tendenza a divorare il cibo in grande quantità. È possibile ora tornare all'argomento accennato all'inizio, al tema del milk complex. Nel Rwanda l'agricoltura e l'allevamento costituivano la base dell'alimentazione, con sensibili differenze tuttavia a seconda del gruppo sociale di appartenenza. La caccia aveva un'importanza secondaria; offriva ai Tutsi un'occasione di divertimento, pelli e avorio, mentre la carne degli animali uccisi era riservata ai Twa. La pesca era inesistente, i pesci essendo rifiutati come cibo da tutte tre le caste. Le piante alimentari comprendevano cereali quali il sorgo, l'eleusine e il mais, patate dolci, zucche, fagioli, banane, queste ultime consumate dopo averle fatte bollire. Molto diffuse e popolari erano le bevande fermentate, preparate di solito con prodotti vegetali: birra di sorgo oppure banana, ma anche idromele. Da parte sua l'allevamento contribuiva in misura limitata, in quanto i bovini non erano tenuti per essere sistematicamente macellati e consumati. Il loro ruolo nel creare e mantenere rapporti sociali era ben superiore a quello economico. Solo le mucche con vitelli erano munte. La produzione media risultava molto bassa: oscillava fra un litro e un litro e mezzo per animale, comprendendo quanto era consumato dal vitello. Proprio la rarità del latte contribuiva a fame il cibo per eccellenza, l'alimento preferito e sognato in particolare dai Tutsi. Per imitazione lo stesso punto di vista era condiviso dagli Hutu, ma soddisfarlo avrebbe richiesto un notevole numero di capi di bestiame, al di là ovviamente delle possibilità concesse dal contratto di clientela. Vale la pena di mettere a confronto le diverse diete dei Tutsi, Hutu e Twa, ma soprattutto il modo in cui erano considerate e valutate. Quella dell'aristocrazia pastorale era nel complesso più liquida che solida, basata su latte fresco e cagliato, birra di banane e idromele. A1 mattino e al mezzogiorno predominava il latte cagliato; idromele e birra rendevano più piacevoli le lunghe conversazioni con amici e clienti. Di solito esse avevano luogo nelle ultime ore del pomeriggio e nella tarda serata, dopo la cena. Proprio all'unico vero pasto della giornata, quello serale, erano riservati banane e fagioli bolliti, conditi con burro caldo. La carne vi compariva molto di rado. Va da sé che mentre si mangiavano questi cibi solidi, si beveva latte. Sono quanto mai significativi i dati di un'inchiesta riguardante i consumi alimentari, svolta nel 1968 fra i pastori Hima, nell'estremo Nord-Est del Rwanda, non lontano dal confine con l'Uganda. Gli apporti energetici e quelli proteici, calcolati in percentuale rispetto ai bisogni teorici dell'organismo umano, erano rispettivamente del 1.70Joe 1.60Jo,nel caso di un cereale, il sorgo. Si passava al 5.30Joe 9.IOJo per i fagioli, ma per latte e derivati si balzava al 62.80Joe addirittura al 132.30Jo.La dieta degli Hima era quasi esclusivamente lattea. Gli autori dell'indagine sottolineano come il regime alimentare fosse relativamente povero da un punto di vista energetico, ma ricchissimo di proteine di buona qualità (VIS, Y OUR.ASSOWSICY e v AN DEll BoROHT, 1972, pp. 93-94). L'alimentazione degli Hutu comprendeva invece poco latte, ed era basata su due pasti principali nel corso della giornata. Vi figuravano piatti solidi, vale a dire polente di mais, fagioli o piselli, oltre a patate dolci. Birra di banana e di sorgo erano le bevande più diffuse. I Twa vivevano di caccia e raccolta, consumavano senza ritegno quanto veniva loro dato in cambio dei servizi resi ai signori tutsi, accettavano perfino la carne di montone rifiutata sdegnosamente da Tutsi e Hutu. Riprendendo i termini della lingua tedesca, si può dire che nel Rwanda tre verbi 52 -----------------------------

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diversi riassumono l'atteggiamento nei confronti del cibo di ciascuna delle caste locali: trlnken si addice ai Tutsi, essen agli Hutu,fressen ai Twa. L'ultimo evoca il degenerare degli uomini a un livello inferiore, lo scadere in un mondo animale. Proprio nell'ambito dei paesi europei di lingua tedesca, si incontrano due casi interessanti. Nel centro storico di Bema si trova una fontana dominata da una statua: l'orco intento a inghiottire intero un piccolo bambino, spingendolo con la mano destra nella grande bocca spalancata, mentre due altri attendono lo stesso triste destino. In Schwyzer Dutsch è detto der Kindlifresser. Inoltre, come ci fece presente il compianto Ernesto de Martino in una conversazione di molti anni fa, un soprannome dato agli abitanti di Zurigo era quello di Totenfresser, i necrofagi. In entrambi i casi, le norme del vivere civile sono state infrante e calpestate e l'animalità ha preso il sopravvento. Non a caso nel Rwanda, per Tutsi e Hutu, i Twa erano più simili alle scimmie che agli esseri umani. Non deve stupire allora che i Tutsi mantenessero un atteggiamento quanto mai riservato e negativo verso i cibi solidi. Mangiare era quasi un atto di cui ci si dovesse vergognare. Il pasto serale era consumato nell'intimità dell'abitazione con categorica esclusione di estranei, anche se appartenenti allo stesso gruppo sociale, a maggior ragione di tutti coloro che avessero uno status inferi ore. Come si è già detto, quando un signore tutsi si intratteneva nel pomeriggio o nella tarda serata con clienti e amici, offriva loro delle bevande, birra e idromele, non cibo solido. La logica sottostante è chiara. La limitata produzione di latte non consentiva, anche a chi deteneva le mandrie, di basarsi solo su di esso. Una volta affermato che i Tutsi sono adatti esclusivamente alla nobile arte del governare, negati al duro lavoro dei campi e dell'allevamento, non si poteva apertamente ammettere che dovessero in parte nutrirsi esattamente come gli Hutu sottomessi. La realtà indigeribile non poteva essere eliminata, poteva essere nascosta e negata. Si ribadiva che un autentico Tutsi vive solo di latte e birra. Si affermava che un Tutsi in viaggio non mangiava cibo solido. Se il tragitto richiedeva due o tre giorni al massimo, spesso realmente non lo faceva. Beveva soltanto. Maquet parla di uomini anziani, che se ne vantavano. Lo stereotipo prevale sui fatti. Un'identità sociale è costituita non solo da certe caratteristiche, ma anche dalla loro netta contrapposizione rispetto a quelle dei vicini. Nel primo teorema della premessa dell'ineguaglianza, Maquet ha sottolineato che superiorità e inferiorità erano principi basilari della struttura sociale del Rwanda. I miti delle origini facevano provenire i Tutsi da un altro mondo; essi erano scesi dal cielo sulla terra. Le ineliminabili differenze somatiche non potevano non avere una controparte nel modo di vita. Liquido è superiore, solido è inferiore. La diversa umanità di Tutsi, Hutu e Twa era messa in evidenza in modo costante e ossessionante. L'immagine stereotipata degli Hutu, cui si attribuiva una gran voglia di mangiare, e lo smodato e incontrollato divorare dei Twa, sono pienamente coerenti con tutto ciò. Non deve però essere sottovalutato un altro fatto. I domestici hutu che prestavano servizio presso i loro signori tutsi, preparavano anche il pasto serale. Non potevano non conoscere quanto accadeva. Non stupisce che fosse loro vietato di parlarne. Se il divieto fosse stato infranto, sarebbero seguite automaticamente gravi sanzioni magiche. Dovevano comportarsi come se la realtà fosse del tutto diversa. Nello stesso tempo qualcosa di molto più importante era in gioco. Nel terzo teorema della premessa dell'ineguaglianza, Maquet ricorda che un superiore ha l'indiscusso diritto di controllare ogni settore della vita personale di un inferiore. Questi ------------------------------

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non può opporsi né, d'altra parte, si verifica il contrario. Mai un inferiore potrebbe intromettersi nella sfera privata di un superiore. Tuttavia la presenza necessaria di domestici e clienti hutu nelle abitazioni dei Tutsi costituiva una costante minaccia. Potevano ascoltare, riferire. Delicate decisioni a proposito di altri Tutsi oppure Hutu dovevano essere prese al riparo da orecchie indiscrete e da occhi attenti. Peter J. Wilson ha intelligentemente messo in evidenza tale fatto: «It is therefore very significant that Batutsi masters deliberately dismissed their Bahutu servants in the evening, when they partook of their main meal. This was the only time they ate solid food, and what is more, according to Professor Codere, they ate in the dark. Now one of the most important and symbolic ways by which the Batutsi maintained tbc doctrine of their natural superiority, and hence their power, was that they never needed to eat solid food.» (1974, p. 12). Segue la ragionevole ipotesi che, proprio nel momento di completa segretezza del pasto serale, venissero prese importanti decisioni politiche riguardanti i giochi di potere nella società rwandese. L'ossessione per il latte, il suo valore di bene supremo, il suo essere, come ricordava recentemente Pierre Smith, «substance riche et généreuse par excellence» e «une source intarissable d'abondance» (1979, p. 29), appaiono evidenti anche nel vicino regno del Burundi. Qui si ritrovano Tutsi, Hutu e Twa, disposti nel medesimo ordine gerachico. Non vi è esempio più pertinente di quello citato da una studiosa americana, Ethel M. Albert, che ivi svolse una ricerca sul terreno nel 1956-1957. Anche nel Burundi si riteneva che i Tutsi avessero un fisico e un animo più delicati. Non sono fatti per i lavori pesanti e non è loro conveniente il cibo solido dei coltivatori. Sono tanto delicati che solo i liquidi, preferibilmente latte e birra, sono gli alimenti adatti a loro. Questo era il punto di vista prevalente, indipendentemente dal fatto che tutti sapessero che i Tutsi consumavano anche carne, cereali, legumi. L'aspetto più paradossale ma coerente di tale modo di raffigurare la situazione è costituito dall'affermazione di coloro che erano domestici presso famiglie europee. Sostenevano che la cucina europea era "liquida" e non garantiva la forza e l'energia necessaria per il lavoro fisico. Tale tesi è molto più logica di quanto possa sembrare. Se i Tutsi che si trovano sul gradino più alto della scala sociale, nel Burundi come nel Rwanda, bevono soltanto e disdegnano i cibi solidi, a maggior ragione ciò deve valere per gli europei, signori indiscussi negli anni Cinquanta, ben prima del conseguimento dell'indipendenza nazionale da parte del Burundi. È proprio l'avvicinarsi della fine del dominio coloniale e l'approssimarsi dell'indipendenza ad ingigantire i timori dei Tutsi circa il loro futuro. La minoranza del 160'/onon poteva non essere cosciente del divario numerico rispetto alla schiacciante maggioranza dell'83G/oe, di conseguenza, dell'automatica vittoria degli Hutu, nel caso di elezioni sulla base del principio "un uomo, un voto". Nel Rwanda si giunge alla rivoluzione sanguinosa del novembre 1959 e alle stragi di Tutsi da parte degli Hutu, e nel settembre 1961 al referendum, che sancisce la fine della monarchia tutsi. Ho parlato di un Rwanda che oggi non esiste più, di una aristocrazia pastorale le cui supreme aspirazioni traspaiono evidenti dai testi del codice segreto (ubwiru), consegnato a uno studioso belga, Marcel d'Hertefelt, subito dopo il referendum dcli' autunno 1961, pietra tombale del dominio tutsi. Si riferiscono ai rituali che dovevano essere compiuti per garantire il benessere e la prosperità del paese. Mi limiterò a citare un breve passo tratto da La voie de l'abreuvage (1964, p. 111, vv. 299-303): 54 ------------------------------

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Voicidu lait: que le roi ait toujours du lait, Que /es tambours du Rwanda aient toujours du lait, Que /es hommes du Rwanda aient toujours du lait, Que lesfemmes du Rwanda aient toujours du lait, Que le Rwanda entier ait toujours du lait! Ma i venti del mutamento, come diceva Harold MacMillan, hanno soffiato sull' Africa e investito anche questa parte del continente nero. La via lattea dei Tutsi si è inaridita per sempre. Il milk complex appartiene al passato, non è più una realtà vivente. Il rilievo che aveva è messo chiaramente in luce anche da quanto Pierre Smith scrive in proposito: «Le lait, par exemple, n'est jamais traité de façon purement utilitaire et sa production, sa conservation, sa transformation et sa consommation sont sans cesse marquées de restrictions évocatrices qui exigent bien plus d'attention et de précautions que son importance réelle dans l'alimentation ne le mérite ... » (1979, p. 45).

BmLIOGRAFIA E. R. ALBmlT,La/emme en Urundi, pp. 173-205, in D. PAULME (ed.), Femmes d'Afrique Noire, Paris, 1960. R. Bmn!DJCT, Patternso/Culture, Boston e New York, 1934. M. D'HnTBPBLT e A. CoUPBZ,La royauté sacrée de l'ancien Rwanda, Tervurcn, 1964. M. J. Hnsx:ovrrs, The Cattle Complex in East Africa, in "American Anthropologist" 28, 1926, pp. 230272, 361-388,494-528, 633-664. L. MA.m,The Cattle Compio;, in "Man" (N.S.) 20, 1985, p. 743. J. J. MAQUJrr,Le systlme des relations socia/es dans le Ruanda ancien, Tervurcn, 1954. ID., The Premise of /nequality in Ruanda: A Study of Politica/ Relat/ons in a Centrai African Kingdom, London, 1961. P. SMJTB, L'eff,cacitédes interdits, in "L'Homme" 19, 1979, pp. 5-47. J. VANSINA, L 'évolution du royaume rwanda des origines à 1900, Bruxelles, 1962. H. L. VJS,C. YoURASSOWSltY e H. VAN DBR BoaOHT, Une enqulte de consommation alimentaire en Répub/JqueRwandaise, Butare,1972. P. J. WJLSON, Hidden Aspects of Power in Rwanda (unpublisbed manusaipt), pp. 1-25, 1974.

LA RIVOLUZIONE DEI CEREALI EDEL VINO: DEMETER, DIONYSOS, ATHENA di Paolo Scarpi

Pentbeus, sovrano di Tebe, vive l'ingresso di Dionysos come un'esperienza sconvolgente, che trasforma i costumi degli abitanti della città, delle persone a lui più vicine, del vecchio Kadmos, della madre Agave; esperienza che conduce proprio lui, Pentheus, a perdere la propria identità e a smarrirsi nella dimensione del dio 1• Non meno sconvolgente è la ribellione di Demeter, che mette in crisi il sistema olimpico quando scopre che il rapimento della figlia Kore è il frutto di una transazione matrimoniale intercorsa a sua insaputa tra il padre della fanciulla, Zeus, signore dell'Olimpo, e lo zio paterno (e materno) della stessa, Aidoneus, signore dell'Ade 2 • Ma Teiresias, il cieco mantis che attraversa gran parte della tradizione mitica greca, reticente accusatore di Oidipus 3, uomo e donna e ancora uomo secondo una tradizione 4, colpevole d'aver visto nuda Atbena come d'aver rivelato agli uomini i mysteria degli dei 5 , inquadra proprio Demeter e Dionysos in un teologema che definisce la posizione e la funzione di queste due figure divine nel sistema politeistico greco (EUR., Bacch. 274-285). Per l'uomo, dice Teiresias, non ci sono divinità più importanti di Demeter e Dionysos. Demeter. la terra, con gli alimenti secchi nutre l'uomo mortale, al quale Dionysos, a sua volta, ha insegnato l'uso dell'umido frutto della vite, solo rimedio contro i mali della vita umana. E proprio Dionysos, che pure è nato dio, è l'oggetto delle libagioni che gli uomini compiono in onore degli dei per impetrarne i benefici, nella forma del succo della vite. È possibile che il senso di sconvolgimento, da cui sembra permeato ogni racconto mitico centrato sulla figura di Dionysos e analogamente che il senso di un'incombente e tragica minaccia, da cui pare accompagnato ogni racconto centrato sul ratto di Kore, dipendano da fatti realmente accaduti in un remoto passato. Ma non sapremo forse mai né quando né come questo avvenne. In ogni racconto mitico si condensa un sapere antico, funzionale alla società che lo ba elaborato e sottoposto a continue trasformazioni correlate alle mutazioni del sistema culturale. E se anche si potesse mai individuare il momento e la causa, il quando e il come da cui sono decollate le tradizioni mitiche che vedono Dionysos e Demeter come protagonisti (forse la cosiddetta "rivoluzione" agricola del Neolitico nel bacino del Mediterraneo?), non si spiegherebbe in alcun modo il significato che questi racconti hanno assunto per la Grecia dell'età classica. Quale dunque sia stata l'origine di questa e simili tradizioni mitiche, attorno ai prodotti "offerti" come doni da Dionysos e Demeter, il vino e i cereali, l'uomo gre-

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co ha elaborato un sistema mitico che lentamente è andato assumendo precise implicazioni ideologiche e politiche. Ma la Grecia classica, e forse l'intero mondo antico, non sembra aver prodotto una netta discriminazione tra sfera mitico-religiosa e sf era politico-ideologica. Quello che emerge è piuttosto un sistema mitico-ideologico che, centrato sui doni di Dionysos e Demeter, si rivela dialetticamente integrato con un complesso rituale, al quale viene demandato il compito di attualizzare periodicamente la "crisi" del sistema culturale, risolta una volta per tutte nei racconti mitici 6 • Discorsi diversi, quello mitico e quello rituale, entrambi convergono nella configurazione dell'universo delle poleis greche, le quali, attraverso di essi, esprimono e affermano la propria identità culturale. Un'identità che trova nelle linee di un regime alimentare un codice, anche se non il solo, di espressione e nel quale non pare contemplata una dieta di tipo carneo. Nella seconda metà del V secolo a.e., con l'affermarsi del pensiero razionale, il regime alimentare proposto da Dionysos e Demeter (e in particolare da quest'ultima), spogliato del suo addobbo mitologico, verrà assunto dalla scuola ippocratica come prodotto dal processo di civilizzazione dell'uomo. E il pane, frutto del complesso procedimento a cui è sottoposto il frumento, sta al centro di questo schema alimentare presentato come il più adatto per l'uomo (HIPP., Vet. med. 3). Lo stato ideale di Platone vede i suoi abitanti nutrirsi di prodotti vegetali e di formaggi, bere moderatamente vino, trascorrendo in tal modo una vita pacifica e in buona salute, sino a un'età avanzata (Resp. 372 a-d). Se si trascura la proiezione ideale del passo platonico, da esso emerge una società fondata su un sistema integrato di produzione cerealicola, orticola, vitivinicola e casearia, secondo uno schema che è centrale nell'economia e nella società greca fin dall'età arcaica. Ma per Platone il consumo di tali prodotti non sembra poter prescindere dalla concordia tra gli dei e gli uomini (ibid. 372 b), forse non diversamente da come Esiodo aveva inteso il lavoro agricolo 7 • Ancora per Senofonte nessuna attività agricola poteva prescindere dalla concordia con gli dei (Oec. 5.20; 16.3), che avevano insegnato proprio quell'attività agli uomini (ibid. 17.3) e continuavano a indicare loro i momenti opportuni per esercitarla (ibid. 17.2, 4). Si può così riconoscere una stretta relazione tra attività, che genericamente potremmo chiamare agricole, e pratica religiosa. L'attenzione richiesta all'agricoltore non è diversa dall'attenzione e precisione indispensabili nelle operazioni rituali. Il complesso di accorgimenti che Esiodo suggerisce per assolvere le diverse operazioni contemplate dalla vita dei campi (Op. 765 ss.) - si tratti del rispetto dei giorni «che provengono da Zeus», o dell'avvertenza di distinguere quelli adatti alla semina da quelli in cui conviene coltivare le piante (vv. 780 ss.); dell'accortezza con cui si deve gettare sull'aia spianata la sacra spiga di Demeter, del momento in cui si deve preparare il pithos per il vino ovvero del momento in cui lo si deve sturare (vv. 805 ss.) -, sfocia in una sorta di "beatitudine" del contadino. Senza commettere trasgressioni e capace di interpretare i segni che provengono dagli uccelli, attraverso il suo lavoro egli si rende innocente agli occhi degli dei: e allora ecco che il contadino diviene eudaimon e olbios (vv. 826-828). Se nell'Antica medicina della scuola ippocratica il conseguimento di un'alimentazione bilanciata è il frutto di un progresso della civiltà umana fondato sulla sperimentazione, per Platone e Senofonte sono ancora gli dei che guidano l'attività dell'uomo 8• Anche se queste divinità sembrano proiettate in una lontananza che le ren58 -----------------------------

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de quasi inavvicinabili, per cui all'uomo non rimane che tentare di ottenerne la benevolenza; anche se non molto più tardi Aristotele affermerà che forma e struttura del mondo degli dei sono una proiezione fantasmatica dell'uomo (Poi. 1252 b 2327), tuttavia in età classica e fino all'inizio almeno del IV secolo a.e. ogni forma di attività agricola si rivela ancora racchiusa entro un reticolo di rappresentazioni religiose 9 • E questo sistema trova la sua espressione più efficace nel complesso mitico centrato sulle figure di Dionysos e Demeter. L'uomo, per ottenere un raccolto abbondante, deve in primo luogo conciliarsi gli dei, placarli (hilaskestha1), dice Esiodo (Op. 338) e ribadisce Senofonte (Oec. 5.20) 10• Nell'inno a Demeter (vv. 273-274), la dea promette di insegnare agli uomini gli orgia, perché essi riescano a placare (hilaskestha,) il suo animo celebrando scrupolosamente l'atto rituale. E quando una violenta carestia colpisce il territorio di Figalia, l'oracolo della Pythia ammonisce gli abitanti perché rispettino le norme rituali e rendano i dovuti onori a Deo-Demeter, al fine di placarne (hilassestha,) l'animo (Paus. 8.42.6). La pratica dell'agricoltura non può prescindere dunque da una scrupolosità di ordine evidentemente religioso 11• Come il contadino di Esiodo è alla fine eudaimon e olbios (Op. 826), cosi anche l'uomo che è venuto a conoscenza del rituale eleusino a sua volta sarà, nell'inno omerico a Demeter, olbios (vv. 480, 486), e alle sue case Demeter e la figlia, delle quali ha ottenuto la benevolenza, invieranno Ploutos, dispensatore di abbondanza (vv. 486-489). Se poi nell'inno a Demeter è indubbio il collegamento di olbios con il rituale eleusino, in Esiodo è olbios il contadino che non ha colpe nei confronti degli dei, in quanto a conoscenza dell'indispensabile scrupolosità rituale che qualifica la sua attività. Traspare cosi un circuito di idee, in cui l'abbondanza dei raccolti discende dalla protezione che gli dei accordano agli uomini "saggi", sophrones, in cambio del culto loro tributato (XBN., Oec. 5.20). Ed ecco allora che i prodotti della terra sono un dono degli dei 12, un dono di Dionysos e Demeter. I prodotti della terra, ma soprattutto i prodotti legati a Demeter e Dionysos, i cereali e il vino, hanno rappresentato per quello che, con un termine oggi di moda, potremmo chiamare l'immaginario greco, il segno tangibile e concreto della vita civilizzata, dell'identità culturale greca, di contro alla brutalità ferina, allo stato selvaggioe alla barbarie 13 • Tuttavia le due figure divine, in questo immaginario mitico, percorrono itinerari diversi anche se analoghi. In entrambi i casi, infatti, l'introduzione e la diffusione del dono divino implica una trasformazione radicale delle forme di vita. Ma è una trasformazione che, nel momento in cui investe il mondo degli uomini, colpisce anche il pantheon olimpico, da cui Dionysos e Demeter appaiono "separati". Dionysos, figlio di Zeus e Semele, colpito da mania per volere di Hera, è costretto a un lungo pellegrinaggio attraverso le più lontane contrade sino ai confini dell'India con il suo seguito di Menadi, prima di poter nuovamente approdare in terra greca 14 • Demeter, sorella e sposa di Zeus (una delle sue spose-amanti), si allontana dall'Olimpo perché adirata con il fratello che a sua insaputa aveva concesso la figlia Kore ad Aidoneus 15, ovvero si allontana mossa semplicemente dal desiderio di ritrovare la figlia 16, Nel panorama offerto dalle tradizioni mitiche, Dionysos sembra quasi in lotta per affermare il proprio diritto a "esistere" come divinità, quasi a reclamare un proprio posto nel consesso degli Olimpi e il diritto per i suoi fedeli a celebrarlo ritual-

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mente. E in questa "lotta" egli si configura come lo "straniero" per eccellenza 17• Più discreta senza dubbio, Demeter non è meno xene quando si presenta alle case di Keleos, il sovrano di Eleusi, o degli altri suoi ospiti 18, né meno conflittuale è la sua posizione nei confronti-dell'Olimpo. Quello che a Demeter manca, in quanto donna, è il riconoscimento di una timé, che alla fine Zeus dovrà concedere assieme al ritorno periodico di Kore per risolvere la "crisi" che minacciava di distruggere l'equilibrio cosmico 19• Ed è nel corso dei loro vagabondaggi tra gli uomini che Dionysos e Demeter concedono il dono delle piante alimentari. Il dono della vite segue, nelle tradizioni mitiche, due grandi direttrici, tra loro in opposizione dialettica, che sfociano nell'accoglimento o nel rifiuto di Dionysos 20• Sono due linee che si trovano condensate nell'indatabile inno omerico a Dionysos 21, dove il dio si manifesta attraverso thaumatà érga, che sconvolgono i pirati, i quali l'avevano rapito credendolo un ricco giovane di nobili natali. Spaventati, essi si tuffano nel mare, dove divengono delfini, mentre al timoniere, che nel giovane aveva riconosciuto la divinità, il dio concede una prospera sorte. Da questo breve testo si è quasi condotti per mano a riconoscere nelle due direttrici le linee e le conseguenze dell'atteggiamento umano nei confronti del dio. Il mancato riconoscimento di Dionysos come il suo rifiuto conducono a una perdita irreversibile dei connotati umani, a una caduta senza ritorno nel territorio della bestialità. I pirati divengono dunque delfini, analogamente alle Minyades, che tardano a riconoscere il dio e si trasformano in uccelli 22• Lykurgos, che insegue Dionysos e le sue nutrici già nell'Iliade (6.130-140), diventa cieco e muore, ovvero è colto dalla mania inviatagli dal dio, commette o tenta di commettere incesto con la madre, uccide la moglie e il figlio, si mutila di un piede, si uccide, muore sbranato dai propri cavalli ... 23• E una delle conseguenze immediate, accanto alla morte dell'antagonista di Dionysos, è la disgregazione e dissoluzione dell'universo familiare. Non diversa pare la sorte che colpisce Pentheus, il quale si traveste da donna, ma non sarà donna, mentre la sua personalità si frantuma quando decide di assistere ai riti delle Menadi; e cosi si affievolisce e perde consistenza anche la sua ostilità nei confronti di Dionysos. E quando, sul Citerone, è scoperto dalle Baccanti, egli appare a esse non più come un uomo, ma come una fiera (EUR. Bacch. l 108), un leone montano (v. 1142), un vitellino (v. 1185), per divenire alla fine, nelle mani della propria madre, la vittima sacrificale necessaria all'instaurazione del "nuovo ordine" portato da Dionysos. Al contrario, riconoscere la divinità di Dionysos, accoglierlo e accettarlo assieme al suo dono, equivale a compiere una scelta culturale, scelta che però si rivela senza alternative, giacché il rifiuto del dio conduce a perdere inevitabilmente e irreversibilmente ogni identità e dimensione umana 24 • L'ingresso di Dionysos comporta comunque, anche là dove il dio è oggetto di ospitalità, uno sconvolgimento del sistema familiare attivo in quel momento. Come il dono del vino deve essere fatto circolare, divenendo strumento di relazioni sociali, così la famiglia si deve aprire agli scambi matrimoniali 2s. È in quest'ottica che si deve leggere la vicenda mitica delle Proitides, dove si trascorre da una sopravvalutazione dell'oikos paterno a una economia esogamica, conseguente all'introduzione dello scambio matrimoniale 26• In analoga prospettiva si colloca la vicenda di Oinopion, figlio di Dionysos, che ha appreso dal padre l'arte della vinificazione ed al quale Orion seduce o violenta la figlia 27• Ma in questa tradizione si avverte anche una forma di conflittualità latente con il sistema culturale rappresentato da Orion, la caccia 28• Così, anche se la circo-

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lazione delle donne è frutto della "violenza" di Orion, provocata dal suo stato di ebbrezz.a, è sull'eroe cacciatore che viene scaricata la responsabilità della ''crisi'' che ha colpito la casa di Oinopion, "crisi" di cui il vino è l'elemento scatenante. A loro volta anche le vicende di Demeter e Kore investono l'istituto familiare, ma in una prospettiva diversa da quella proposta dall'intervento dionisiaco. Già nel rapimento di Kore, cosi come esso si configura nell'inno omerico a Demeter, si possono riconoscere i tratti di un "atto matrimoniale" 29 • E che comunque si tratti di un matrimonio è sottolineato sia dalla terminologia - Zeus "concede" (dlìken) la fanciulla ad Aidoneus (v. 3), che la "conduce" (agein è verbo tecnico, corrispondente al lat. uxorem ducere: vv. 20, 30, 81) nel suo regno-, sia dalla risposta di Helios a Demeter, in cerca di spiegazioni sulla sorte della figlia: Zeus «la concesse ad Hades perché si chiamasse sua fiorente sposa» (v. 31) 30• Cosi, indipendentemente dal fatto che Kore va sposa al fratello del padre, il "matrimonio" della fanciulla si rivela come uno strumento per instaurare un sistema di comunicazione e di scambio tra due "gruppi", qui rappresentati da Olimpo e Inferi, e in cui la donna (Persephone) agisce come elemento di mediazione. Questo schema conosce però anche un registro espressivo nei termini di un ''codice alimentare'', in cui alle piante alimentari precerealicole è affidata una funzione referenziale o cognitiva nel momento in cui esse paiono scandire le diverse fasi attraversate dalla fanciulla Kore (e si potrebbe allora parlare di schema iniziatico 31). In questo modo le rose, il croco, le viole, le iridi, i gigli, il giacinto e il narciso, piante che rientrano tutte nell'antho/ogia di Persephone (hymn. in Cer. 6-8) 32, possono contribuire a definire lo status di Kore prima del rapimento. Si tratta infatti di piante commestibili che però sono il prodotto di una "raccolta" e sono proiettate perciò in una fase precerealicola, se nell'ottica greca la cerealicoltura appare come l'elemento che ha permesso all'uomo di approdare alle forme della vita civilizzata 33• Ecco allora che Kore occupa uno spazio pre-culturale definito dalle piante dell'anthologia, spazio che si disgrega definitivamente quando Hades riesce, forse seducendola, a farle ingoiare un chicco di melagrana (vv. 372-374). E proprio questo fatto, attraverso la successiva sanzione di Zeus, determinerà i cicli stagionali (vv. 445-447). Al di là del fatto che il chicco di melagrana si possa configurare come "cibo dei morti", da cui un "vivo" in visita agli Inferi si deve astenere se vuole ritornare nel suo mondo 34 , l'accettazione del cibo favorisce l'instaurazione di un rapporto definitivo tra Olimpo e Inferi attraverso Persephone-Kore. Ma la melagrana appartiene anche alla simbologia cultuale demetriaca a Eleusi ed è frequentemente associata a Kore sui monumenti figurati 35• La sua consumazione era tuttavia vietata agli iniziati ai Misteri di Eleusi ed era parimenti vietata nel corso degli Haloa, festa della trebbiatura in cui, accanto a Demeter e Kore, si onorava anche Dionysos. Una festa, questa, celebrata in dicembre, quando, dopo la prima fermentazione, il vino era pronto per essere bevuto, e nel corso della quale i fedeli approdavano a Eleusi in un clima di sfrenata libertà 36 • Al contrario, nei Thesmophoria, festa squisitamente femminile in onore di Demeter e dalla quale erano rigorosamente esclusi gli uomini, le donne si cibavano dei chicchi di melagrana, fatta eccezione per quelli caduti a terra, in quanto ritenuti proprietà dei morti, ovvero perché esse credevano «che il melograno / osse germinato dalle gocce di sangue di Dionysos» (CLEM.AI.Ex., Protr. 2.19.3). Cosi ci si imbatte nuovamente in Dionysos, ma attraverso i Thesmophoria si è anche ricondotti alla famiglia, che nel periodo di celebrazione della festa sembra dis------------------------------

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solversi per lasciare spazio a una società di sole donne 37• E il pericolo della dissoluzione della famiglia sembra costantemente aleggiare, minaccioso e inquietante, proprio alle spalle della famiglia eleusina, visitata da Demeter nel corso della sua disperata ricerca della figlia. Un pericolo che però è proiettato in una dimensione parallela e speculare rispetto alle vicende che coinvolgono il modello fornito dalla famiglia di Keleos, il sovrano di Eleusi, nelle cui case trova ospitalità Demeter, la quale concede, in segno di riconoscenza, con il dono dei Misteri, il dono della cerealicoltura perché fosse diffusa tra tutti gli uomini 38 • Al modello offerto da Keleos, l'uomo dal nome d'uccello, ottimo padre, marito fedele e garante dell'equilibrio familiare, ma anche guida del popolo e difensore della città, si contrappone l'immagine trasgressiva della famiglia di Pandion, sovrano di Atene, il quale concede in moglie al barbaro Tereus la figlia Prokne 39• E qui la dissoluzione e disintegrazione dei legami familiari è già implicata nelle nozze con il barbaro, che successivamente violenta la cognata e si ciba delle carni del figlio che per vendetta la moglie gli aveva imbandito, straziando travolta dall'odio il frutto delle proprie viscere. E se una variante di questa vicenda mitica conduce in terra d'Asia, a Efeso, dove il marito fedifrago e cannibale viene alla fine tramutato nell'uccello di cui il sovrano di Eleusi porta il nome (ANT. Lm., Met. 11), il destino che travolge Pandion e la sua famiglia occupa la scena di un'Attica che assiste contemporaneamente anche all'arrivo di Demeter alle case di Keleos e di Dionysos a quelle di Ikarios (A.PD. 3.14. 7). Spazio della trasgressione e della non-cultura, l'Atene di Pandion non conosce ancora i doni di Demeter e di Dionysos. Ma successivamente Atene si approprierà degli uni e degli altri, sia pure attraverso una situazione conflittuale che vedrà, per quanto concerne Eleusi, Atene contrapposta alla città di Keleos 40 • Se dalle case di Keleos prende avvio un movimento centrifugo, quasi determinato dall'infrazione della moglie del sovrano che impedisce l'immortalazione del figlio ·0 , movimento che favorisce la diffusione dei cereali e della civiltà tra gli uomini e di cui proprio Atene si approprierà, l'ingresso di Dionysos nelle case di lkarios fa decollare un analogo processo di diffusione. E anche questo investe l'Attica dapprima in forma conflittuale, quando Ikarios, per diffondere il dono ricevuto da Dionysos, «giunge presso alcuni pastori, i quali, gustata la bevanda e tracannatone abbondantemente ... , lo uccisero, credendo di essere stati avvelenati» 42• La configurazione dell'Attica come terra di pastori è probabilmente il frutto di una periodizzazione in cui la pastorizia viene collocata al livello di civiltà degradata e anteriore rispetto al prodotto della viticoltura e rispetto a quanto questa comportava. Ciò anche se il quadro offerto sembra collocare Atene e l'Attica in una fase di civiltà evoluta. Ma essa non è ancora la civiltà per eccellenza: mancano i cereali, manca il vino e manca la circolazione dei beni - lo stesso Pandion, sovrano di Atene, sposa la zia materna Zeuxippe 43 • Anche l'ingresso del vino, analogamente all'introduzione dei cereali, doveva essere sentito come un fatto culturale in grado di trasformare le forme della preesistente civiltà. Una fonte tarda, del II secolo d.C., Arriano di Nicomedia, attribuisce a Dionysos l'introduzione di ogni forma di civiltà, in stretta dipendenza dal dono del vino e in dichiarata opposizione con la missione di Triptolemos, che aveva invece ricevuto da Demeter l'incarico di diffondere in tutta la terra l'uso del grano. Non solo. Il dio insegnò agli Indiani, che erano nomadi, pastori e cacciatori alla stregua de62 ------------------------------

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gli Sciti, anche a seminare la terra e fu il primo ad aggiogare i buoi, trasf armando quella popolazione in sedentari agricoltori, ai quali insegnò pure il culto degli dei (lnd. 1.7 .4-8). Quale sia stato il motivo che ha indotto Arriano a coagulare attorno a Dionysos i connotati e gli attributi del dono demetriaco (e non si può certo parlare di sincretismo tout court, giacché egli oppone Dionysos a Triptolemos), ciò non sarebbe stato possibile se già al dono di Dionysos non fosse stato attribuito e riconosciuto un significato civilizzatore. Paniassi (ap. Athen. 2.37 a-b = frgg. 12.12; 14 k.), ma non il solo, riconosceva già nel vino il dono migliore che gli dei potevano fare agli uomini, per i quali era un vantaggio pari al fuoco. Ed è un vantaggio che, secondo una tradizione mitica (schol. Lycophr. 570), raggiunge i Greci agli albori della loro storia, nell'epoca in cui essi collocarono la definizione della propria identità di Hellenes,di contro al "diverso" che occupava il "paese d'oltremare", quand'essi partirono per la conquista di Troia 44 • Sono le Oinotropoi, Oinò Elals e Spennò, a cui Dionysos aveva concesso di trasf onnare in vino, in olio e in semi di frumento qualunque cosa avessero voluto, che provvedono al nutrimento dei Greci durante il loro soggiorno nell'isola di Delo, prima dello scontro decisivo con Troia. Ma le Oinotropoi sono le figlie di Anios, a sua volta figlio di Rhoiò, la "melagrana" o meglio «che dà i frutti del melograno», figlia di Staphylos, dal quale prenderà nome il "tralcio di vite", figlio a sua volta di Dionysos. Il cerchio dunque si apre e si chiude con Dionysos, che in questo caso evidentemente controlla i tre prodotti fondamentali dell'alimentazione greca, prodotti nei quali i Greci riconoscevano il segno della loro "superiore" civiltà. Se ora si riconosce in Dionysos un ruolo dinamico che introduce lo scambio nel complesso sociale, che instaura relazioni con l'esterno e trasforma la società, rendendola capace di assorbire le crisi che l'incontro con ciò che è a lei esterno può determinare, cosi da trasformare tali crisi in fatto culturale attraverso l'aggregazione, per cui lo scambio (il "dono" di Dionysos) diviene un prodotto, è possibile cogliere anche il senso dell'attribuzione al dio di valori culturali che la tradizione antica ha prevalentemente assegnato a Demeter e al suo dono. E quello dei cereali era un dono che veniva fatto coincidere con l'introduzione delle norme civili 45,attraverso cui l'uomo era stato allontanato dall'abbruttimento di una vita ferina, quando ancora il suo cibo era la carne e praticava addirittura il cannibalismo. Conseguenza di tutto questo sono i riti in onore di Demeter e i matrimoni, ai quali sono preposte le Melissai, le "api", il cui frutto, il miele, proprio Demeter aveva inventato, laddove le donne che celebravano i Thesmophoria in onore delladea portavano il titolo di mélissai 46 • Se con il dono di Dionysos si è di fronte alla dinamica dello scambio matrimoniale e della socializzazione 47 , con i doni di Demeter si è di fronte alla stabilità dell'istituto matrimoniale, che trova il modello eccellente nella famiglia del sovrano di Eleusi. È questo un modello che da Eleusi si estende ad Atene, la quale quel modello riproduce e moltiplica. E Atene, a un certo momento della sua storia, si proporrà come depositaria dei doni di Demeter e veicolo di cultura per tutta la Grecia, attraverso l'uso e la coltivazione del grano 48 • Ma alle spalle della città di Atene si erge la dea poliade, Athena, che dall'alto dell'Acropoli volge il suo sguardo vigile e discreto sulle attività degli Ateniesi. Atene, la città aperta, senza segreti né discriminazioni per gli str~eri, dispensatrice di benefici, modello per gli altri popoli (THUc., 2.37 .1; 39.1; 40.4), trova in Athena, già legata alle tecniche come Ergane ed Hephai------------------------------

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stia 49, l'inventrice dell'aratro, che rende più agevole per gli abitanti dcli' Attica la coltivazione del grano, dono di Demeter (SERV.,Aen. 4.402). Ma Athena è anche la divinità che, all'epoca della contesa con Poseidon per il possesso dcli' Attica, ha fatto spuntare per la prima volta la pianta dell'olivo proprio sull'Acropoli 50 • È un legame antico quello della pianta con la dea 51 : pianta g/auké se non addirittura glaukopis, come glaukopis è Athena 52• E come la dea è legata alla città e ha sull'Acropoli la sua sede, cosi l'olivo, e/aia, è asté, della città, e risiede sul1'Acropoli 53. Coltivato solo in Attica all'epoca del conflitto tra Atene ed Egina (HDT. 5.82), l'olivo risorge prodigiosamente dal ceppo carbonizzato, dopo l'incendio dell'Acropoli provocato dai Persiani (HDT. 8.55). Né alcuno poteva sradicare dal proprio campo un ceppo d'olivo sacro, pena la morte (in epoca arcaica: AlusT., Ath. resp. 60.2; cfr. Lvs., Areop. 2 e passim). Pianta imperitura, all'olivo sono legati i destini della città, che come l'olivo si radica saldamente nel suolo dell'Attica 54 • Il premio per i vincitori panatenaici era costituito dall'olio ricavato dalle moriai, gli olivi sacri; un olio che veniva custodito dai tesorieri di Athena (AlusT., Ath. resp. 60.1-3). Dono degli dei, anche l'olivo sembra collegato, come le piante cereali e la vite, all'introduzione della vita civilizzata, di cui Athena si fa garante. Si va cosi delineando un sistema in cui le conquiste alimentari si propongono come conquiste culturali, che incidono inevitabilmente anche sul sistema sociale. Sono tuttavia conquiste che si collocano al polo opposto delle conquiste ottenute attraverso Prometheus o Tantalos, attraverso cioè un furto o un inganno perpetrati ai danni degli dei olimpici. Sono anzi questi ultimi che, nelle figure di Demeter Dionysos e Athena, concedono agli uomini i prodotti della terra. E se le technai sono il risultato di un dolos del titano Prometheus (A.Esce., Prom. v. 459 ss), Athena, come Ergane e Hephaistia, riscatta l'uomo anche da questa colpa. Ma anche Demeter insegna agli uomini a placare il suo animo e del pari Dionysos insegna ad Amphyktìon, re dì Atene, a mitigare con l'acqua il vino, così che gli uomini potessero berlo senza subirne gli effetti disgreganti (ATHEN.2.38 c). Athena, da parte sua, inventa l'aratro e pure entra frequentemente in gioco come elemento risolutore proprio nella tragedia, che inserita nel culto dì Dìonysos è rappresentata a spese pubbliche ~~. E la tragedia, infine, ha per oggetto vicende che coinvolgono prevalentemente il contesto familiare (cf. AlusT., Poet. 1453 b 10-26) In questo modo sembra quasi dì essere di fronte a un circuito senz.asoluzione di oontinuità, in cui le diverse tradizioni si intersecano per via interstiziale e dove la oonquìsta alimentare si configura come conquista culturale che investe direttamente il nudeo della ,ita associativa: la famìglia. Così Dionysos sì coniuga allo scambio e alla dr'--olazione; Demeter alle leggi e alla famìglia esemplare; Athena alla città, modello dì civiltà e della quale gli uomini sono le mura!+. Ma Athena si coniuga anche al ,ino. che favoriS\.-ela socìaliuazìonc, ai cereali che nutrono e arriocbiscnl\o, all'olin.1 imperituro che radica saldamente i cittadini al suolo della patria.

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~.-.-~ .:i1: ..:i1.t; .:i1~. .:i~: ~ ;-.;s.v Platone ha una posizione complessa che non può essere ricondotta a un rifiuto generalizzato. Il 8,tm,ov,cosi come è praticato nelle diverse situazioni, è senza dubbio l'unica forma di alimentazione esistente e lo stesso Socrate, come si è visto, vi si adatta. Questo tipo di alimentazione, tuttavia, anche senza considerare le varianti più pericolose, non deve essere accettato totalmente né dal punto di vista politico né dal punto di vista dell'educazione alimentare. Di conseguenza, è necessario riformare gli usi della tavola sia come momento di incontro di un nucleo sociale - la famiglia o l'eteria -, sia come quantità e qualità degli alimenti da consumare. Sul primo problema, com'è naturale, Platone insiste in notevole misura: l'importanza politico-educativa del cnxm'M\I - il pasto preso in comune da tutti i cittadini dello Stato ideale, senza distinzioni di sesso o di rango garantisce uno spazio preponderante a questo aspetto del problema. Ciò non toglie che anche la questione specificamente tecnica sull'alimentazione venga affrontata. L'origine dello scorretto uso degli alimenti, secondo Platone, è duplice. È moderna, per quanto attiene l'arte culinaria o gastronomica, che ha i suoi capisaldi nel-

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le raffinatezze della pasticceria attica e nella varietà della tavola siciliana 16• È antica perché in parte risale ai precetti dcli' età omerica, che prevedevano una dieta quasi esclusivamente fondata sulla carne di bue arrostita. In Repubblica III, 404d Platone sembra proporre quest'ultimo tipo di dieta come ottima per gli atleti. Però, sia gli atleti - come il pancraziaste Pulidamante 17 sia gli eroi sono troppo più forti dei comuni mortali per potere essere presi a modello. Per di più, la forza dei campioni del momento non è veramente tale: essi, infatti, hanno la tendenza ad ammalarsi non appena vengano sottoposti a un regime solo un po' diverso da quello che seguono normalmente 18• In realtà, Omero è stato frainteso: l'unico motivo per cui gli eroi dell'epopea tenevano un tale regime stava nella comodità pratica di arrostire il cibo sul fuoco senza impaccio di stoviglie e pentole 19• In sostanza, sia l'aderenza nostalgica al modello omerico, sia la perversione della gastronomia, sono le due facce di una stessa medaglia. Nel primo caso, le conseguenze dello squilibrio alimentare saranno un eccesso di aggressività dannosa alla conservazione della pace e priva di vera energia alla prova della guerra. Nel secondo caso, la corruzione e l'indebolimento delle risorse fisiologiche, provocati dall'eccessiva raffinatezza nel mangiare, sarà direttamente proporzionale all'aumento dei medici nello Stato 20 • L •alternativa concreta è proposta da Platone in un passo di Repubblica 21 che vale la pena di citare integralmente: «Si nutriranno di farine ricavate dall'orzo e dal frumento, ora cuocendole ora impastandole, e serviranno belle focacce e pani su canne o foglie pulite ... banchetteranno bene in compagnia dei loro figlioli e ci berranno sopra vino ... E Glaucone entrò a dire - Mi sembra che tu faccia pranzare la gente senza pietanze. Giusto - ammisi-. Mi sono scordato che dovranno averne e cioè olive, sale, formaggio e si cuoceranno gli alimenti propri della campagna, cipolle e legumi. Serviremo loro anche pasticcini di fichi, ceci e fave; e abbrustoliranno al fuoco bacche di mirto e ghiande, bevendoci sopra con moderazione. Cosi passeranno la vita, com'è naturale, in pace e buona salute, moriranno in tarda età e trasmetteranno ai discendenti un sistema di vita simile a questo». Un trattato ippocratico risalente alla fine del V secolo 22 aveva affermato il principio che il buon medico deve conoscere le usanze alimentari e i loro effetti sull'uomo. Il filosofo, in quanto possessore di una competenza enciclopedica, è il vero medico, così come è il vero legislatore, il vero politico e il vero amante 23• Platone non si limita a formulare questo principio teorico, ma arriva a modificare profondamente l'insegnamento ippocratico, dal quale pure aveva tratto indicazioni di primaria importanza. Il corpusdelle opere che vanno sotto il nome di Ippocrate aveva fornito una base relativistica alla cura delle malattie. Il regime dietetico andava stabilito np6c;·n, osservando le reazioni del singolo 24 • Inoltre, l'assunzione dei grassi animali viene minuziosamente regolata in base alle stagioni 25• Platone sconvolge questo sistema alimentare, istituendo per tutti i cittadini un regime vegetariano che la scienza moderna ha recentemente rivalutato con il nome di "dieta mediterranea". Come sempre accade, non è possibile scindere i motivi fisiologici di questa innovazione da quelli politici: il brano sopraccitato ne è testimonianza. L'uso della carne avrebbe creato problemi di allevamento del bestiame, soprattutto per la necessità di accrescimento del personale di servizio da adibire a questa cura: «Quel territorio che prima era sufficiente a nutrire i suoi abitanti, da sufficiente sarà diventato piccolo» 26 • Né il pesce, dallo stesso punto di vista, comportava minori problemi, anche se è

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significativo - credo - che i dialoghi non forniscano mai ragioni scientifiche che sconsiglino tale alimento. L'esclusione del pesce dalla tabella dietetica di Platone è quasi certamente da cercare nella "talassofobia" di cui l'inizio del IV libro delle Leggi 27 ci fornisce un esempio pregnante. Per lo Stato ideale il mare rappresenta solo un pericolo: dal mare i nemici trovano la strada per l'assalto e, quand'anche questo rischio sia scongiurato, si tratta comunque di «una molto amara e salata vicinanza, perché ciò riempie lo Stato di traffici e piccoli affari commerciali, facendo nascere in esso, nei suoi cittadini, costume di incostanza e promesse di falsità» 28• Concludendo, a esclusione di questa particolare idiosincrasia per un alimento in sé privo di controindicazioni, la ''dieta'' platonica risulta essere non solo parte integrante di un progetto educativo vastissimo e innovatore, ma anche un programma alimentare degno a tutt'oggi della massima attenzione. Al di là delle prescrizioni normative che spetta agli specialisti valutare al meglio, l'impostazione metodologica del problema da parte di Platone colloca la dieta nel suo ambito più opportuno e interessante per i moderni, quello che consiste nell'insegnamento di una disciplina di vita materiale e spirituale allo stesso tempo.

NOTE 1) Lachete, 188a. 2) E. A. HAVBLOCi.:, Cultura orale e civiltà della scrittura, Roma-Bari, 1983. In questo testo fondamentale viene sviluppata, fra le altre, la tesi che il dialogo platonico sia la risposta della cultura filosofica moderna e razionalistica all'"enciclopedia tribale", cioè a quel complesso di insegnamenti contenuti nei poemi omerici che, fmo al V secolo, costituirono la principale guida culturale e tecnologica del mondo greco. 3) Ci limitiamo qui a citare P. BoYANCB,Platon et le vin, "Bulletin de I' Association Ouillaume Budé", N.S. 4, 1951, pp. 3-198. 4) Secondo i recenti studi della cosiddetta "scuola di Tubinga", gli scritti costituiscono semplicemente una prima parte dell'insegnamento platonico, che si sarebbe sviluppato appieno solo nelle lezioni tenute in Accademia. Anche gli studiosi che respingono questa tesi non possono non ammettere che la tecnica ironica - il qualcosa che dissimula qualcos'altro - è concepita al fine di stimolare e raffol"7.lll'eper gradi lo spirito critico del lettore. In questo senso, è molto raro che i dialoghi platonici espongano in modo univoco un ragionamento o una teoria. Come appunto nel Simposio è detto di Socrate, anche i dialoghi devono essere aperti per rivelare il loro vero significato. Cfr. K. GAI• SEll, Protreptik und Pariìnese bei Plato, Stuttgart, 1959 e, dello stesso autore, Platone comescrittorefilosojico, Napoli, 1984.

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5) Tra i tanti campioni d'analisi possibili ne scegliamo due. Il brano 176a-e introduce la teoria del bere, mangiare e libare correttamente per contrasto con l'ubriacatura del primo festeggiamento. Abbiamo perciò: 8"1M)CJUo6«1 l:wxp«Wllç ... O'll:OIIMç ff oq,«C1t011)0CLo6«1 ••• hln,'t«t; -mv hòv XCLl -c&>.M ~ voµi,t6iuvat ... 't'~ KpÒçwv 1'6- (cfr. la triade simposiaca 1&1v, mva1v, &w.ty,a&n proposta da Pausania, 181a) e ancora: ~ nvoç ... ~ ~ llOlj.l.lY... ~6M)Y nv« ~ 1WGl6)(.Qualche rigo otVOY ••• più avanti incontriamo: w ,rol.w m1111v mpi 't'OIÌ µa&liax&o&!t... XCIÀIKÒY ~ µL8'J... x,m~ ... µfl &II̵t°'i( e infme cill'okw ,r(utt; ,rpòç~v. Ancora più ricco di elementi lessicali appartenenti all'ambito del bere è il brano 213e-214c dove Alcibiade descrive la bevuta pantagruelica che ha preceduto la sua visita ad Agatone: ~ µLy01,1rouov, lf6. vnç 1ri6µ&8ot. Nessuno dei codici ha liuxvc.iç(cfr. Gorgia, SOia) che, se si accettasse la correzione, significherebbe in modo più pregnante l'aspetto "tecnico" del bere. 6) Un brano del Protagora (347c-e) assimila due tipi di simposi: quello in cui si parla di poesia e quello ,:«;w cp®ÀIÀ~ e &xxd« sono, ancora una volta, due termini contrapposti che caratteri.u.ano il personaggio di Alcibiade, incapace di concepire la fl4Y{«al di fuori della dimensione dionisiaca. Cfr. E. A. HAvELOCK, op. cit. Le virtù del vino, esaltate da un uso moderato, vengono compendiate brevemente in Leggi I, 649a-b. È appena il caso di rilevare che una citazione omerica - lungi dall'essere il connotato di un'aristocrazia intellettuale come ai tempi di Goethe o di Holderlin - era alla portata di ogni ateniese, anche illetterato. Simp., 22le. I passi di Repubblica e delle Leggiche formulano il nuovo modello conviviale, il Ollffl'tWV,

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partono, ovviamente, da presupposti di tipo politico. Per quanto riparda il rapportofra Platone e il simposio aristocratico, cfr. F. SA1tro1U,Platone e le eterie, "Historia", 7, 1958, pp. 157-171. Che si tratti di un banchetto omerico è evidente non solo per la situazionein se stessa ma, ancora una volta, grazie a una citazione introduttiva (Odissea, IV, 242). Per un raffronto diretto con il banchetto omerico, cfr. Iliade I, 402 sgg.; VII, 463 sgg., IX, 89 sgg., XXIII, 35 sgg.; e Odissea I, 248 sgg.; IX, 5 sgg.; XIV, 463 sg.; XVI, 110 sgg.; XVlll, 288 sgg. Di utile consultazione K. BIELOHA wu, Precettistica conviviale e simposio/e nei poeti greci, in Poesia e simposio nella Grecia antica, Bari, 1983. Repubblica III, 404d. Repubblica I, 338c. Repubblica lii, 404a. Repubblica lll, 404c. Repubblica III, 404e-405a. Repubblica li, 372b sgg. La traduzione italiana riportata è quella di F. S.UrolU, Bari, 1971. li Ile.p!lìi«(ffiç li-yti!YTK, XX, ripreso da Fedro, 270c-e. Non a caso, nella prosecuzione del passo di Repubblica citato per esteso, Platone affronta i temi più importanti cui era connessa la funzione educativa del legislatore-filosofo. Cfr. Ile.pì't~ç. XIX. I primi due capitoli del Ilspt 3wffK lirti!YTK si occupano del regime alimentare del privato cittadino (tlìiwffK), graduando la quantità di carne da mangiare e stabilendo il modo (arrostita o lessata) di cucinarla. In manieraanaloga vengono trattate le verdure e il vino. Repubblica li, 373d. LeggilV, 704a-707d. Leggi IV, 705a.

I SOGNI DELLA FAME: DAL MITO ALL'UTOPIA GASTRONOMICA di Lucio Berte/li

La questione del cibo in una terra povera come quella greca è sempre stata di attualità: è una storia che si può iscrivere in un triangolo formato dalla naturale scarsità di risorse, dalla necessità di mezzi di sussistenza per una popolazione in costante crescita, dai sogni di evasione da una realtà quotidiana sottoposta alla legge della lesina e dell'oculato consumo. Le eccezioni a questa vicenda di povertà sono poche e di solito si trovano al di fuori della Grecia continentale: in Occidente nel mondo coloniale - la proverbiale "tavola siracusana" 1 -; in alcune città dell'Asia Minore, famose per la loro habrosyne e per la loro tryphé 2• In Grecia solo Atene - e per il breve periodo di una cinquantina d'anni - gode di una relativa abbondanza, dovuta ai vantaggi del suo impero marittimo che faceva affluire nell'Attica tutte le ricchezze del Mediterraneo, come osservava in un dettagliato elenco di merci il comico contemporaneo Ermippo 3, ricchezze di cui si avvantaggiava soprattutto il demos trasformato in "rentier" dello stato 4 , come malignamente sottolineava l'aristocratico autore dell'anonima Athenaion Politeia s.

Uaa dietamolto parca Ma anche all'epoca della maggiore prosperità era vita non certo lauta per il medio contadino attico, proprietario di un piccolo appezzamento di terra, il quale non godeva certo fama di gourmand, come i suoi vicini beotici o i lontani tessali e siculi: la sua dieta quotidiana rendeva pienamente onore alla fama che «i Greci si alzavano da tavola ancora affamati» 6 o poteva equamente giustificare le battute di un personaggio comico che confrontava gli usi alimentari greci con quelli persiani in questa maniera: «Ma che cosa possono mai combinare questi Greci mangiatori di erbe, con la loro misera tavola? Presso di loro tu potrai avere al massimo quattro bocconi di carne da un soldo. Ma presso i nostri antenati [i Persiani] si usava arrostire un intero bue, un porco, cervi e agnelli. Come piatto finale il nostro cuoco arrostiva un intero mostro e serviva al Gran Re un cammello caldo.» 7 • «La dieta base di un greco erano i farinacei: pane, pappe d'orzo, grande varietà di verdure, fagioli, aglio, lenticchie, ravanelli, bietole, insalate, tutti cibi di poca spesa. Pesce sia fresco sia salato, come anguille del Lago Copaide, pesciolini del Falero, tonno, acciughe, sardine del Ponto, costituivano il piatto principale e ... in epoca classica erano la delizia del palato. La carne - bue, agnello, porco, capra - era consumata meno frequentemente e la principale occasione in cui si mangiava carne ------------------------

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era il sacrificio religioso ... ma salsicce di budello di maiale o di altri animali riempite di intestini ... si trovavano nelle case sia dei ricchi sia dei poveri. Formaggi e olive erano derrate di largo consumo. si mangiavano uova cotte e crude, per addolcire si usava il miele. come dessert erano molto apprezzati datteri fichi mele.» 8 Questa in rapida sintesi la dieta normale di un ateniese medio del V secolo. La questione del cibo. con tutte le sue implicazioni economiche. sociali e politiche. è una specie di crocevia obbligato per tutte le soluzioni che in Grecia si sono escogitate nel corso del tempo per superare la condizione naturale della stenochoria. come la chiama Platone 9 • e della scarsità di mezzi di sussistenza: ma essa fin dalle origini è anche un punto di passaggio privilegiato di eventi culturali e fatti di mentalità. che con un percorso complicato partono da una storia di ventri e di invenzione mitica del cibo umano fino ai sogni di evasione dalla penuria quotidiana o. inversamente. dalla schiavitù del ventre. nei Paesi di Cuccagna o nelle revisioni filosofiche dell'età dell'oro. Un dramma con molti attori. dunque. della cui trama cercheremo qui di ricostruire soltanto alcune delle parti più significative.

Ventriaffamati E cominciamo con la storia dei ventri affamati. Nella Teogonia di Esiodo le Muse rivolgono ai pacifici pastori dell'Elicona uno strano rimprovero: «Pastori. che vivete nei campi. triste vituperio: altro non siete che ventri.» 10 Le Muse esiodee non intendevano certo accusare i pastori di essere dei volgari materialisti. insensibili ai richiami dello spirito. come pure hanno interpretato non pochi critici 11• Con l'evocazione dell'obbrobrio del ventre veniva richiamata una tradizione epica (omerica) dove la gastèr. la pancia. aveva un duplice ruolo ben definito nell'antinomia di valori che rappresentava in relazione alle diverse situazioni sociali. Semplice il ruolo del ventre per il nobile guerriero: esso deve essere adeguatamente riempito - soprattutto di abbondante carne 12 - per fornire vigoria nel combattimento. dove il guerriero si lancia come il lupo «dal ventre ben disteso» 13 pronto allo scontro; l'altra funzione del ventre guerriero è quella di essere la zona preferita dai mortali colpi di lancia 14• Il guerriero omerico non ha problemi di sussistenza: la sua fame di carne (boubrostis) trova sempre sicura soddisfazione in monumentali arrosti di carne bovina 15• Ma nel mondo omerico esistono altri personaggi per i quali il ventre è una presenza scomoda. maligna e inquietante nell'incertezza di trovare il modo e la materia per soddisfarlo: questi sono i mendichi e i vagabondi. i ptochoi. che spinti dal bisogno sono alla costante ricerca di cibo per il loro ventre «insaziabile» 16 e «consigliere di male azioni» 17• I canti XVII e XVIII dell'Odwea - i canti di Odisseo mendico di ritorno a Itaca sotto mentite spoglie e della sfida con l'altro celebre pitocco dal «ventre furioso». Iro - sono un compendio di filosofia della mendicità secondo i valori del mondo epico-aristocratico. Il povero vagabondo senza protezione o collocazione stabile all'interno della comunità e senza garanzie di sicurezza derivanti da rapporti di ospitalità - o di dipendenza servile -. spinto dal bisogno 18 deve sopportare tutte le umiliazioni per assicurarsi il fabbisogno alimentare. Può essere insultato sia dai servi 19• che godono di una sicura vita sotto la protezione di un padrone. sia dai loro signori. ai quali egli apparirà non un essere bisognoso di conforto materiale. ma un "mangiaufo" (molobros) 20 impenitente. che preferisce mendicare gli avanzi della mensa piuttosto che guadagnarsi da vivere col proprio lavoro. E per nutrire il suo «ventre maligno. rovinoso. vera sciagura per gli uomini» 21

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è disposto ad affrontare tutte le angherie che deve subire chi non ha beni propri o la protezione di un padrone. La sua posizione è la più bassa nella scala gerarchica della società omerica, inferi ore a quella dello stesso schiavo, il quale per lo meno in cambio del sacrificio della sua libertà personale e dei suoi servizi ha almeno il cibo assicurato. La logica del ventre mai sufficientemente sazio lo colloca anche in una zona di «inciviltà» e di «stato di natura» selvaggio, come quello delle fiere che assalgono le prede spinte dalla fame 22 • li ptochos è escluso dalla simbiosi di alimentazione e consumo culturale propria del banchetto omerico - preludio all'estetica del simposio della Grecia arcaica e classica -, dove esaurita «la voglia di cibo e bevanda» ci si compiace di rivolgere l'animo a «musica e danza», «ornamenti del banchetto»: la sua sfera vitale resta al di qua, nella zona soltanto materiale del bisogno del cibo 23• Nel quadro dei valori sociali omerici la gastèr, quando non si tratti del «ventre eroico», sta dalla parte di connotazioni tutte negative: fame insoddisfatta perché non può contare su beni propri - o altrui legittimamente sfruttabili - asocialità, ozio parassitario. Il mendico vagabondo si trova nella posizione di colui cui Zeus ha riservato solo «doni luttuosi», destinandolo al disprezzo e alla «cattiva fame» (kakè boubrostis) che lo insegue per tutta la terra 24• Ma è anche evidente che nell'epica omerica aristocratica la fame è una realtà marginale, riservata ai déracinés all'ultimo livello della scala sociale.

Una storiamiticadel dbo Fame e bisogno di cibo diventano una questione centrale della condizione umana con Esiodo: con la sua poesia «un elemento amaro entra a far parte dell'esistenza della gran maggioranza degli uomini: la preoccupazione individuale per i mezzi di sussistenza» 25• Esiodo non solo «scopri la fame come parte della condizione umana» 26 , ma - insieme agli strumenti per combatterlo - questo costante rischio per l'uomo diventa anche il nucleo centrale di una storia mitica della «sussistenza umana». Il divario di mentalità rispetto a Omero e alla tradizione epica eroica traspare anche nettamente dalle scelte linguistiche attraverso le quali Esiodo esprime questo nuovo elemento della condizione naturale dell'uomo: non più la boubrostis - il desiderio di carne omerico - ma la ricerca del bios, termine che indica insieme la vita e i mezzi per sostentarla, identificati in prima istanza con i prodotti della cultura cerealicola. La sussistenza si incarna in quel bios che è il frutto della terra, la «messe di Demetra», raccolta al tempo giusto e tenuta oculatamente in riserva per i tempi del bisogno (Opere, 31 s). Consumatori guerrieri - o nobili - di carne contro contadini consumatori di cereali r17È certo in ogni caso che la «nuova legge» del cibo strappato col faticoso lavoro alla terra trova in Esiodo la sua prima e complessa giustificazione tradotta ancora in termini mitici. Nel grande quadro dei miti di Prometeo e Pandora e delle cinque età Esiodo cerca di spiegare perché la vita dell'uomo sia legata alla dolorosa e ingrata ricerca dei mezzi di vita. Il poderoso meccanismo mitico cui Esiodo ricorre si regge sulla contrapposizione polare tra un'età originaria dell'uomo, piena di beatitudini (abbondanza di cibo spontaneamente offerto dalla terra, assenza di malattie e di decadimento fisico, assenza ovviamente di lavoro, pace e tranquillità assicurate), e un presente segnato dalla fatica, dal male, dall'ingiustizia, dalla decadenza fisica, dalla precoce sene-

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scenza e dalla morte penosa. Da uno stato originario semidivino, in cui gli uomini spartivano il loro cibo con gli dei, si è passati attraverso le "colpe" di Prometeo e di Pandora - o, nella versione corusca della decadenza elaborata nel mito delle cinque età, a causa dell'espandersi progressivo della violenza e dell'ingiustizia - alla presente "età del ferro", in cui l'uomo non ha più scampo dai dolori e dai mali. Tutta la felicità in i/lo tempore - sotto il "regno di Crono" -, tutto il dolore hic et nunc. Senza addentrarmi nei complessi e tortuosi meandri di questa storia mitica 21, mi limiterò a segnalare i significati più evidenti dei vari episodi in ordine al problema dell'alimentazione e della sussistenza dell'uomo: 1. il banchetto di Mecone e il trucco dell'ineguale spartizione delle porzioni di carne

tra uomini e dei operato da Prometeo 29 equivale nell'intenzione eziologica del racconto all'invenzione del sacrificio e alla separazione tra cibo umano e divino, simbolicamente alluse nelle parti carnose offerte agli uomini e nelle parti ossee della bestia, ricoperte di grasso, destinate agli dei, da consumarsi attraverso il fuoco; 2. furto del fuoco che ha ancora Prometeo come protagonista in veste di "trickster" 30: spiega il passaggio dall'alimentazione spontanea e naturale al fuoco alimentare, alla cottura dei cibi; 3. creazione della donna - l'anonima vergine della Teogonia (S70-89), la Pandora delle Opere e i Giorni (S9-82): segna l'emergere della generazione umana bisessuata, ma anche l'inizio dei mali dell'uomo attraverso la divisione dei ruoli tra maschio produttore, equiparato all'ape, e donna parassita e consumatrice dei frutti del suo lavoro, paragonata ai fuchi, con una strana inversione della distribuzione naturale dei sessi tra l'animale e l'uomo 31 •

La storia del ventre affamato si ritrova in questo mito dalla parte della donna sulla quale ricade il ruolo della "cattiva fame" omerica, ma inquadrata ormai nell'ambito istituzionale del matrimonio e della famiglia. Nella versione delle Opere e i Giorni (47-89) il mito di Prometeo subisce espansioni destinate a sottolineare la sua valenza alimentare: per le colpe di Prometeo gli dei «hanno nascosto i mezzi di sussistenza agli uomini» (Opere, 42); l'alternativa a questa condizione di carenza alimentare è presentata in duplice forma: prima come ipotesi di abbondanza 32, poi come visione mitica delle felici origini: prima che la sciagurata curiosità inducesse Pandora ad aprire il famoso vaso, «gli uomini vivevano lontani dai mali, dalla penosa fatica, dalle funeste malattie che portano morte» (Opere, 90 ss.). Nel mito delle cinque età (Opere, 109-201) Esiodo ribadisce l'opposizione tra un'età di Crono o dell'oro, in cui gli uomini vivevano felici nei campi godendo dei frutti che generosamente la terra arata forniva loro spontaneamente 33 , benedetti da un'eterna giovinezza e da una dolce morte simile al sonno, non tocchi da malattie, fatiche, dolori (Opere, 109-201), e un tempo presente che è il perfetto contrappasso dell'età dell'oro (ibid., 174-201). La realtà quotidiana dell'uomo è dunque rappresentata da un bios - un cibo - rimosso dagli dei, non più disponibile naturalmente come in origine: ma le Opere e i Giorni non sono un'apocalissi giudaica ed Esiodo lascia qualche scampo alla sopravvivenza di questo mondo presente. C'è un solo modo per sottrarlo alla condi106 ----------------------------

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zione di povertà e di fame: anche se non è vita molto amena, il destino di tribolazione del contadino, la sua totale «servitù verso la terra», gli concede almeno di ricavare sufficienti frutti dal «rigore della vicenda delle stagioni e della vita vegetale» 34• Sottoponendosi a quest'ordine naturale, sfruttando lo spirito di competizione che procura guadagno 35, nel rispetto della legge di Zeus e di Dike sua custode (ibid., 2S6 sgg.), l'uomo aveva la Speranza 36 di sopravvivere con sufficienti mezzi di vita. D dbo tra antropologia,evasioni pstronondcbee ucetlsmoffloaoflco Il quadro corusco e deprimente di Esiodo corrisponde a una situazione storica di effettiva crisi della piccola proprietà contadina, crisi che si evolve rapidamente tra il VII e il VI secolo a.e., stimolando la formazione di tirannidi - di solito filo-popolari - più o meno stabili e la nascita di regimi più solidi come le oligarchie e la democrazia ateniese. L'atteggiamento filo-popolare di certe tirannidi - i Cipselidi a Corinto, Pisistrato ad Atene - trova talora una rappresentazione a livello popolare nel segno di una rinnovata "età di Crono": cosi - a quanto attesta Aristotele 37 era definito dai contadini attici il governo di Pisistrato, particolarmente disponibile a provvedere alle loro necessità. La "questione del cibo" - o per meglio dire la ridistribuzione delle risorse (isomoiria) 38 - è mediata sul piano politico dove trova soddisfazione nell'eguaglianza di fronte alla legge (isonomia) 39• Lo spettro della fame, che per altro esisteva ed era impellente ancora almeno fino ai tempi di Pisistrato, come ci assicura la testimonianza di Solone, è esorcizzato dalla cultura aristocratica creatrice di quella poesia simposiaca, dove l'urgenza del bisogno di cibo è rimossa a favore dell'estetica e dell'etica delle buone maniere a tavola, espressione di una solidarietà di alto lignaggio e di una corrispondente visione di vita. Il sympotein, i canti e i discorsi pieni di grazia e di saggezza, che stabiliscono l'essenza e la qualità del sodalizio aristocratico - o almeno cosi ci vuol far credere la nota dominante di questo tipo di poesia - cominciano quando le mense sono state sgombrate, il pavimento pulito, e il cibo lascia posto al vino da bere con ordinata moderazione e i cibi del banchetto sono sostituiti dai dessert con cui accompagnarlo 40 • Anche se lpponatte sembra irrompere con plebea virulenza in questo equilibrato gioco di gusto raffinato evocando tematiche da "morto di fame" in assidua ricerca di beni materiali, in realtà la sua esibizione di elementari bisogni e di brutalità risponde a un gioco parodico altrettanto raffinato e stilizzato 41 • La città democratica - cioè l'Atene del V secolo - sembra essersi lasciata definitivamente alle spalle la scarsità di mezzi che angosciava Esiodo o costringeva a una vita servile una buona parte della popolazione attica ai tempi di Solone. L'impero procura ormai un sufficiente fabbisogno alimentare a prezzi moderati, lo sviluppo tecnico assicura espansione al commercio ateniese, e dove non arrivavano le risorse naturali - la terra - o quelle artificiali - lavoro e commercio - sopperivano le ricchezze dello Stato, che trasformavano la partecipazione politica in un mestiere retribuito, anche se a livello minimo 42 • L'ideologia egemonica della democrazia periclea è quella del progresso: e in questa prospettiva la "questione del cibo" si trasforma in un tema vincolato alla meditazione sulle fasi di sviluppo della civiltà. Nella teoria delle "origini della civiltà" - punto di incontro di molte voci nella cultura filosofica e parafilosofica del V secolo - il cibo viene a occupare il ruolo non più simbolico ma antropologico, di

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passaggio obbligato nell'evoluzione dell'umanità dallo stadio ferino - il famoso bios theriodes di Euripide e di altri 43 - alla fase della civilizzazione: rovesciando la concezione esiodea, la cultura illuministica e progressista del V secolo concepisce le origini dell'uomo in termini di vita selvatica del tutto analoga a quella animale, connotata ovviamente con segno negativo. Il cibo naturale di esiodea memoria resta si spontaneo, ma subumano: sono le erbe e le radici adatte a bestie, non a uomini. Il passaggio dal "crudo" al "cotto" per un medico come l'autore della Antica Medicina 44 segna anche l'evoluzione dall'umanità ferina all'umanità civilizzata. È un tema questo su cui concordano i più illuminati pensatori "laici" del periodo, non a caso tutti favorevoli alle istituzioni democratiche, che diventano da questo punto di vista il culmine dell'evoluzione civilizzatrice: Anassagora, Protagora, Democrito sono i nomi più illustri di questo composito milieu culturale; ma anche un oligarca come Crizia, che non nutriva certo simpatie per la democrazia ateniese, scandiva nel suo Sisifo (88 B 25 D.-K.) la storia dell'uomo nella fase primitiva della «vita disordinata e ferina», non sottoposta ad alcuna regola, e nello stadio successivo dominato dal «timor degli dei», introdotto da qualche «uomo ingegnoso e saggio» per tenere a freno gli istinti aggressivi e subdolamente delittuosi. Accanto a questo coro esaltante le umane sorti progressive troviamo alcune voci dissonanti, non convinte che la città come centro di civiltà sia la sufficiente contropartita nel presente della mitica età aurea, e che essa possa offrire una vita divina come quella immaginata negli antichi miti. Sono voci che cercano la piena soddisfazione dei bisogni lontano dalla città, dai suoi costumi e dalle sue istituzioni, voci che trasmettono messaggi elaborati in ambienti molto diversi, come possono essere quelli del teatro comico e delle scuole filosofiche. L'erudito Ateneo nei suoi Filosofi a banchetto (Deipnosophistai, VI, 267e-270a) presenta un'ampia antologia di passi ricavati da una serie di commedie attiche messe in scena tra gli anni 440-400 a.e. 45: gli autori in parte sono noti, come Cratete e Cratino, ma in parte sono anche minori o poco noti, come Teleclide, Ferecrate, Nicofonte, Metagene. Un gruppo molto eterogeneo dunque, ma accomunato da una tematica ricorrente che costituisce lo scheletro dell'antologia di Ateneo: tutti i frammenti hanno come argomento la rappresentazione della vita "ai tempi di Crono" o - con terminologia moderna - del Paese di Cuccagna, caratterizzata dalle variazioni sul leit-motiv della grande bouffe e dell'assenza di schiavi - o di lavoro -, sostituti dal cibo spontaneo, precotto nelle più svariate ricette, fornito gratuitamente in massiccia quantità da una natura molto disponibile, cibo che non attende altro che di cadere letteralmente in bocca ai fortunati beneficiari di questo Bengodi: anzi nelle Bestie di Cratete l'automatismo si estende alle stoviglie e alle suppellettili della cucina e del bagno ~. La spontaneità del cibo è un evidente repèchage dal mito dell'età aurea di Esiodo, mito esplicitamente richiamato in causa da Crono nella sua rievocazione del genere di vita da lui stesso in principio assicurato ai mortali negli Anfizioni di Teleclide 47 e nei Ploutoi di Cratino 48 , dove i personaggi del coro di tal nome sono appunto discendenti dei Titani compagni di Crono e assimilabili agli uomini della aurea stirpe esiodea, post mortem già da Esiodo trasforma ti in benigni demoni «donatori di ricchezze» (ploutodota1) 49 • Ma piuttosto che insistere sulle ripetute immagini dei fiumi di polenta, di brodo, sui tappeti di salsicce e di carni saporose, sui delicati manicaretti a base di pesce, 108 ---------------------------

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che attirarono l'attenzione di Ateneo, dal canto nostro è più interessante sottolineare la collocazione di questi paradisi della gola rispetto alla geografia del quotidiano. E sotto questo profilo si deve notare che essi si configurano per lo più non come mondi alla rovescia, desiderati contro una realtà angosciosa, ma o come modi di vita originari, ormai irrimediabilmente perduti, ma qualitativamente superiori al presente 50, o come mondi collaterali situati in regioni proverbiali per la loro ricchezza, come la Persia st, o come la favolosa - ma non troppo - Thuriopersia,combinazione della fertilità di Turi con le traboccanti ricchezze persiane, una terra nella quale il Cratis e il Sibaris portano sulle loro onde focaccine ben cotte, involtini di beccafichi, arrosti, aragoste, calamari, frittelle e via desiderando 52• Questi sogni di un gola insoddisfatta o si orientano verso paesi di proverbiale - ma fantasticamente rivisitata - ricchezza, o sognano un ritorno al passato felice dell'età aurea, o ricorrono al mito aureo per criticare situazioni deprecabili nel presente. In questa rassegna del trionfo dei ghiottoni due casi meritano una menzione speciale per certe loro particolarità nella soluzione fantastica. Ferecrate nei Minatori s3 collocava il solito Paese di Cuccagna, ricco dei consueti menù gustosi, sotto terra, ali' Ade, un Ade tuttavia molto speciale in quanto si trovava nelle miniere del Laurion S4, il posto più infernale immaginabile da un ateniese per le inumane condizioni di lavoro, che ovviamente ricadevano sulle spalle di masse di schiavi dal ciclo vitale piuttosto breve: insomma un oltretomba nel regno non di Crono, ma di Nicia 55• Ancor più strano è il fatto che a descrivere quel luogo dove «tutto è mescolato di ricchezza e impastato in forma di ogni genere di bene» 56 sia una donna, elemento estraneo a quell'inferno del lavoro servile, a meno che non si tratti di una vivandiera o una taverniera, data la sua abilità nel descrivere i manicaretti di laggiù 57• Sappiamo troppo poco di questa commedia per capire con certezza quale fosse la funzione di questo scenario da Paese di Bengodi, trasferito in ambiente minerario: certo è che esso doveva suonare cinica irrisione delle condizioni di lavoro là vigenti, a meno che non si tratti di una specie di critica a rovescio proprio di quelle condizioni disumane. In ogni caso qui si che ci troviamo davanti al totale contrappeso rispetto alla realtà quotidiana nota, a un mondo alla rovescia. Cratete nelle Bestie introduceva un dialogo tra due personaggi, uno dei quali proponeva l'abolizione della schiavitù in sostituzione della quale avrebbe reso «semoventi» (hodoiporounta) tutte le cose, evidente riedizione delle favolose statue animate che lavoravano nella fucina del divin fabbro Efesto. A parte questo suggestivo sogno di automazione, che facilitava le operazioni culinarie e balnearie, la commedia prendeva il titolo e l'argomento dalla protesta delle Bestie- costituenti il coro - che cercavano di convincere gli uomini ad adottare una dieta a base di verdure e di pesci con con~guente astensione dalle carni animali: Cratete con questa proposta sconfinava dal Paese di Cuccagna a base carnivora per approdare a un'altra interpretazione dell'età aurea in chiave sempre alimentare, ma votata a una dieta vegetariana per rispetto dei "fratelli" animali ss. È una concezione questa che ci introduce all'ultimo atto della "sacra rappresentazione'' della sussistenza dell'uomo nella sua versione ascetica, nata in ambito religioso orfico e nelle sette pitagoriche. Secondo un antico discorso orfico, ricordato da Platone s9, «vi fu un tempo in cui non si osava neppure assaggiare carne di bue e non si facevano sacrifici di animali agli dei, ma si offrivano loro focacce, frutti inzuppati di miele e altre simili pure offerte, un tempo in cui ci si asteneva dalle carni per la credenza che non fosse cosa santa mangiarle tanto quanto contaminare di san---------------------------

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gue gli altari degli dei... insomma gli uomini allora vivevano cibandosi di cose inanimate e astenendosi da tutti gli esseri animati». Questa descrizione di una primivita età di purezza vegetariana, incontaminata di spargimento di sangue animale, altro non è che il verbo del bios orphikos, secondo il quale le origini dell'uomo sono macchiate dall'allelophagia 60 - il mangiarsi reciprocamente - comprendente anche il sangue animale versato per il sacrificio o per l'alimentazione: simbolo di questa "colpa" originaria era l'uccisione e lo sbranamento di Dioniso da parte dei feroci Titani, i primi uomini. Per raggiungere una vita santa e felice non solo bisognava rifiutare la pratica del sacrificio cruento, ma astenersi anche nella vita quotidiana dal consumo delle carni animali, in quanto porzioni mistiche del corpo smembrato di Dioniso 61• Gli Orfici non erano i soli a pensarla a questo modo: Empedocle nell'ordine cosmico primitivo, dominato da Philia o Afrodite, sognava di una fratellanza tra uomini, fiere e uccelli 62, nel quale gli uomini ricambiavano la benignità dei fratelli animali giudicando «massimo obbrobrio mangiare le nobili membra del toro dopo avergli strappato la vita» e, pertanto, sugli altari spargevano offerte di aromi, di mirra, di biondo miele, senza contaminarli con il sangue dell'amico animale 63• Il divieto di mangiar carne è uno dei tabù fondamentali di quel sistema di pratiche alimentari a finalità ascetica che costituisce uno degli aspetti più esclusivi e caratteristici della setta pitagorica. Le pratiche dei seguaci di Pitagora cercano di ricreare una condizione di unità con la divinità attraverso alimenti primitivi, ma nello stesso tempo dotati di virtù soprannaturali: tra gli a/ima e gli adipse - i cibi cioè consigliati per togliere la fame e la sete e avvicinare l'uomo allo stato di grazia - i Pitagorici attribuivano un ruolo rilevante a due vegetali le cui virtù erano già state esaltate da Esiodo, la malva e l'asfodelo 64 • Coerentemente anche per gli adepti della setta vale la proibizione di immolare il «bue aratore» e gli animali in genere, atto assimilato a un vero e proprio assassinio. L"'uomo divino" pitagorico offre agli dei figurine di pasta, favi di miele, incenso 65• Su questa linea del rifiuto di mangiare come gli uomini e del bisogno di cibo divino si colloca anche la scelta del famoso prof eta e purificatore cretese Epimenide, il quale per superare la fame e la sete ricorreva a pillole di un composto di malva e asfodelo; la sua scelta alimentare, uscendo dal circolo della nutrizione normale, gli permetteva di insultare i suoi conterranei con un adattamento degli improperi delle Muse esiodee: «Cretesi, sempre bugiardi, animali nocivi, ventri oziosi...» 66 • ConclaslonJ A questo punto il cerchio si chiude: il problema del cibo evocatore di sogni di Paradisi perduti nei miti esiodei si trasforma in una cosciente reazione ascetica alla legge del ventre sempre in cerca di soddisfazione materiale - possibilmente abbondante carne - della città reale e delle sue evasioni gastronomiche. L'astensione dal consumo della carne e parallelamente dalla celebrazione del sacrificio cruento assume il senso di una netta separazione dal cosmo della città, rispetto alla quale proprio la celebrazione del sacrificio e la consumazione della vittima erano gli atti simbolici per eccellenza esaltanti la solidarietà della comunità umana di fronte agli dei. La ricerca di un cibo divino tra gli elementi vegetali spontaneamente offerti dalla natura sottolinea il bisogno di una condizione dell'uomo solidale non con i suoi concittadini, ma con gli esseri naturali, un bisogno di ricreare le condizioni dell'età dell'oro contro la civiltà della polis. Il legame del ventre che unisce l'uomo a questo 110 ---------------------------

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cosmo politico - legame fortissimo in quanto è richiesta di sussistenza biologica deve essere interrotto sostituendolo con un restaurato vincolo con la natura, cioè con ciò che sta fuori della città. A questo punto si chiude la storia mitico-ideologica della sussistenza dell'uomo e comincia quella più propriamente filosofica. La scelta della malva e dell'asfodelo - scelta ascetica anti-politica - apre la via alla relegazione del bios, del bisogno di cibo e bevanda, di mezzi di sussistenza, di tutto ciò che ha a che fare con la vita organica, al livello più basso della sfera umana, alla sottomissione della gasteral logos operata da Platone. Il bisogno di cibo viene esorcizzato eliminandolo dal centro delle preoccupazioni umanee riservandolo magari soltanto alla «vita da schiavi», oppure relegandolo alla periferia della città, tra gli elementi destinati a procurare cibo al resto della comunità. Nella contesa tra gastrimarghia67 e predominio dell'intelletto, dopo gli entusiasmi materialistici del V secolo - e in ambito filosofico c'è appena bisogno di ricordare che i Sofisti in fatto di sussistenza materiale avevano idee molto chiare, anche se queste non godevano dell'approvazione di Platone- sappiamo come sono andate le cose: i trionfi dei Paesi di Cuccagna si spengono di fronte ai pallidi e macerati seguaci di Diogene, di Epicuro, di Zenone, anche se dalla scena la commedia continua imperterrita a sciorinare menù e liste complicatissime di cibarie e a esaltare le tecniche culinarie come tecniche prometeiche donatrici di civiltà all'uomo 68 , ma con uno spirito ben diverso rispetto ai comici dell' Archaia. Infatti le interminabili liste di cibi dei vari Nicostrato, Anassandrida, Eubulo, Antifane, Alesside, più che fughe verso il Paese di Cuccagna danno l'impressione di essere raffinate classificazioni gastronomiche, che fanno il verso agli astrusi elenchi di "cose simili". gioco prediletto dagli Accademici contemporanei.

NOTE I) Sulla «tavola sicarusana» (Syrakoslon trapeza) v. AluSTOPANB, Daltales, fr. 216 Edmonds; PI.ATONE, Resp., III, 404dl, Epist., VII, 326b-d. In Gorgia, Sl8b Platone ricorda un certo Miteco, autore di un trattato sulla «cucina siracusana». 2) Per l' habrosyne dei Colofoni, degni allievi dei Lidi, v. Senofane, fr. 3 Diehl. In generale cfr. S. MAzzA.luNo,li pensiero storico classico, v. I, Bari, 1966, p. 82; 8. Gmmu, Poesia e pubblico nella Grecia antica, Bari, 1984, p. 113. 3) Nella commedia 1 facchini, fr. 63 Edmonds, scritta con ogni probabilità intorno al 42S a.e. L'immagine di Atene - democratica e imperiale - importatrice a buon mercato di «tutte le delizie di Sicilia, Italia, Cipro, Egitto, Lidia, Ponto» è anche ben presente nella pseudosenofontea Athenaion Politeia, Il, 7. Per il raffronto tra il testo di Ermippo e quello dello Ps.-Senofonte. Cfr. MAZZAIUNo,op. cii., p. S69. 4) La felice formula è proposta da D. LANZA-M.

VsOETTJ,L'Ideologia della cittd, "Quaderni . di Storia", I, 2, 197S, p. lS (poi in: D. LAN· ZA-M.VBOBTTl·C.CAIANI-F. SlllCANA,L'i• deologiadellacittd, Napoli, 1977, p. 18. S) Cfr. in part. Ps.-XBN., Ath. Poi., I, 16 e il commento di E. FLolll!S,li sistema non riformabile. La pseudosenof on tea "Costituzione degli Ateniesi" e l'Atene periclea, Napoli, 1982, pp. 23 sgg. 6) Opinione attribuita da Erodoto, I, 133, 2, ai Persiani. 7) Le battute sono pronunciate da Pelope nella commedia Pelope o Enomao di Antifane (fr. 172 Edmonds). 8) Cfr. B. A. SPARXES,The Greek Kitchen, "Joumal of Hellenic Studies", 82, 1962, p. 123. 9) Cioè "ristrettezza del suolo": Leges, IV, 708b. IO) Teogonia, 26. 11) Per la critica alle interpretazioni "spiritualistiche" del discorso delle Muse esiodee rinvio

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a J. SVl!NBllo,La parola e il marmo. Alle origini della poetica greca, tr. it., Torino, 1984, pp. SS sgg. Anche per la semantica epica della gaster utilizzo ampiamente gli ottimi suggerimenti di Svenbro. 12) «Combattere è il lavoro dell'eroe; mangiare e bere sono i suoi peculiari piaceri, e arrosti di carne e vino sono il suo peculiare cibo e bevanda»: cosi lapidariamente F. H. ST11BBINOS, Food and Agricoltura, in A. J. B. WACB-F.H. STUBBINOS (cds.), A Companion to Homer, London, 1968, p. 523. Ma lo stesso A. riconosce che questa è un'impressione fuorviante della dieta omerica, in quanto il consumo abbondante di carne avviene solitamente in occasioni rituali (sacrifici), mentre il cibo tipico dell'uomo omerico è il «pane e il vino» (li., S, 341s) o la farina d'orzo e di grano (alphita kai aleiata), «midollo degli uomini» (myelon ton andron) (Od., 20, 108). Del resto anche Telemaco nel suo viaggio a Pilo carica sulla nave vino e «fior di farina di grano ben macinata» (Od., 2,349 sgg.). In effetti ha buoni motivi Thalia P. HoWE, Liner Band Hesiod's Breadwinners, "Trans. Procccd. of Amer. Philol. Ass.", 89, 1958, pp. 44-65, nel proporre il confronto tra i Micenei allevatori di bovini e «mangiatori di carne» e gli uomini omerici soprattutto «mangiatori di pappe» di farina di varia composizione. 13) li., 16, 163. Per il significato della similitudine «lupo-guerriero» cfr. M. OBTIENNE-J.

lupi a banchetto o la città impossibile, in M. DBTIBNNE-J.-P. VB11.NANT, La cucina del sacrificio in tella greca, tr. it., ToriSVENBllO, /

no, 1982, p. ISO. 14) Il colpo «nel mezzo del ventre» possiede nell'Iliade un apparato formulare (cfr. Il., 4, 531; 13, 506; 16, 465, 17, 313 e varianti). Per la tipicità delle scene di ducllo e di ferimento cfr. B. FBNix, Typical Battle Scenes in the /liad, Wiesbaden, 1968. 15) Boubrostis è glossa rara in Omero: essa compare solo in Il., 24, 532, dove chiaramente denota la fame che perseguita il mortale perseguitato da Zeus. E nel senso di magna fames la intesero anche i commentatori antichi (cfr. p. Scholia A ad //., I.e.): in realtà, come ha messo ben in evidenza L. J. D. R1cHAllDSON, Mycenaean Boubrostis?, "8.1.C.S.", 8, 1961, pp. 15-22 (dello stesso A. sul medesimo argomento v. anche The origin of the pref IX BOU-in Comedy, "Hermathena", 95, 1961, pp. 53-66), il significato originario doveva essere quello di «mangiare in modo sproporzionato» dove il prefisso bou- doveva essere un maggiorativo. Richardson avanza l'ipotesi che già l'impiego aedico del termine avesse perso di vista il significato iniziale del termi-

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ne, forse di risine miceneae coUepto con l'atto di mangiare un bue, non proprio, ma di altri. Insomma la ka/cè boubrostis sarebbe stata la conseguenza di un atto di abigeato (boelasie). Quanto al consumo di carne bovina da parte dcll'eroe omerico, la deroga a questa norma coincide di solito con situazioni nelle quali l'eroe si trova in condizioni di particolare necessità, eccezionali rispetto al suo normale stile di vita, come Odisseo e compagni in Sicilia, i quali, una volta esaurite le scorte della nave, si danno alla caccia e alla pesca (Od., 12, 325 ss.), o Menelao in Egitto in analoghe circostanze (Od., 4, 368 sgg.). Gastèr dnaltos: l'espressione compare solo nell'Od. (17,228; 18, 36-4)e esclusivamente riferita al ptochos che mendica il cibo: è ovvio che essa non appaia nell' li. dove si suppone che l'eroe non abbia di questi problemi. Gastèr kakoergos: Od., 18, 53 s. Od., 17,502. Od.,17,219sgg. Od., 17, 219s; 18, 26. Od.,17,473s. Od., 6, 133. Il banchetto omerico - in situazioni normali, quclle cioè descritte nell'Odissea-, anchese non è ancora strutturato con le rigide regole del symposion eterico del VII-VI secolo, presenta già tuttavia una netta demarcazione tra momento della soddisfazione fisica di cibo e bevanda e momento "culturale" del canto aedico, «ornamento del banchetto» Od., I, 152: cfr. 8, 99, dove è lo strumento del cantore, la phorminx, a essere definita «compagna del ricco banchetto». La cesura tra i due tempi conviviali è sottolineata dal verso formulare «come la voglia di cibo e di vino cacciarono» Od., I, I SO;3, 67, 473; 4, 68; 8, 72 etc.). L'estetica del banchetto omerico (odisseico) è espressa pienamente da Odisseo durante la festa nella reggia di Alcinoo: «E io ti dico che non esiste momento più amabile / di quando la gioia regna fra il popolo tutto, I e i convitati in palazzo stanno a sentire il cantore, / seduti in fila; vicino son tavole piene / di panee di carni, e vino al cratere attingendo, / il coppiere lo porta e lo versa nei calici: / questa in cuore mi sembra la cosa più bella» (Od., 9, 511, trad. it. di R. Calzecchi Onesti). Per il rituale simposiaco greco cfr. M. VETTA, Poesia

e simposio nella Grecia antica. Guida storica e critica, Roma-Bari, Laterz:a, 1983: in part. cfr. saggi di M. VETTA Poesia simposiale nella Greciaarcaicae classica, pp. XIII-LX, e di K. 81ELOHJ..AWES:, Precettistica conviviale e simposio/e nei poeti greci (da Omero fino alla silloge teognidea e a Crizia), pp. 95-131, 14648 (Gastmahls-und $ymposionskhren bei grie-

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cJùac/tenDiclttm,. (Yon HofMT bis t:.11r Theognissammhlng und Kritias), "Wiener Studien", 58, 1940,pp. 11-30. 24) Il., 24, 531 s. 25) K. POLANYI, La sussistenz.adell'uomo, trad. it. Torino, 1983, p. 194. 26) /bia. 27) Cfr. T. Pmu.ms HoWB, art. cit., pp. 55 sgg. 28) Sul complesso mitico che ha come prota,oni-

sti il titano Prometeo e la "prima donna" Pandora esiste ormai un florido fùone ermeneutico, che non oessadi rinnovarsi: oltre ai contributi classici raccolti da E. Hmnca, Hesiod. "W.d.F" 44, Dannstadt, 1966, pp. 327 sgg., non si possono dimenticare le nuove tendenze interpretative rappresentate soprattutto dai contributi di J.-P. VBJlNANT (cfr. in part. Il mito di Prometeo in Esiodo, in: Mito e società ne/l'antial Grecia, trad. it., Torino, 1981, pp. 173-191; Alla tavola degli uomini: mito difondaiione del sacrificio in Esiodo, in l>BnBNNBVBJlNANT, La cucina del sacrif,cio, cit., pp. 27-89, 206-216); su questa linea cfr. recentemente anche GBNEVIÌIVBHoFPMANN, Plllldora, la jarre et l'espoir, Quaderni di Storia 24, 1986, pp. 55-89. A proposito dell'interpretazione vernantiana sono utili le precisazioni polemiche di F. FBB.IWU,Prometeo, Esiodo e la "lectun! du mythe" di Jean-Pierre Yernant, Quaderni di Storia 7, 1978, pp. 13745. Cfr. inoltre P. Pucc1, Il mito di PQlldora in Esiodo, in Il Mito Greco, a curadi B. Gentili e G. Paioni, Roma 1977, pp. 207-229. 29) Teogonia, S35-S51. 30) Per questa definizione cfr. K. Knmm, Epllegomma, in P. RADIN-C. G. JUNo-K. Kl!uNYI, Il Briccone Divino, trad. it., Milano, 1979, p. 216. 31) Teogonia, 591-602. 32) Opere, 42-46: «Gli dei tengono nascoato il cibo qli uomini: infatti sarebbe facile anchese tu lavorassi un solo giorno avere di che vivere per un anno, anche standotene in ozio: subito sopra il focolare potresti appendereil timone e alla malora il lavoro dei buoi e delle mule avvezze alle fatiche». (automate) 33) La terra che offre spontaneamente i suoi frutti qli uomini è BTIBNNl!, I giardini d'Adone, trad. it., Torino, 1975, pp. 47 sgg. La fonte dello strano cibo di Epimenide è PtUTAllCO, Convito dei sette sapienti, 157 D. Il verso citato sarebbe l'inizio dell'opera di Epimenide - Teogonia o Oracoli crete.si-, citato da S. PAOLO,ad Titum, I, 12 (cfr. 3 B 1 Diels-Kranz). Cfr. PLATONl!,Timeo, 73a ("insaziabilevoracità"). Si veda soprattutto l'elogio dell'arteculinaria come generatricedi progresso nei Samotraci del comico Atenione (lii sec. a.C.) in EDMONDS, op. cit., IIIA, p. 252, fr. 1, e il commento di H. Do1111,Magelros. Die Rolle des

Kochs in der gri«hisch-romischen Komodie, Miinchen, 1964, pp. 169 sgg.

TERZA

SESSIONE

PER UNA GEOGRAFIA ALIMENTARE Presidente:

Bernf ried Schlerath

CIBO DEGLI DEI E CIBO DEGLI UOMINI NELLA TRADIZIONE VEDICA di Bernf ried Schlerath

Vorrei gettare qui uno sguardo sulla cultura del mangiare e del bere, quale risulta dai più antichi testi indiani, ossia quelli vedici. Come in molte altre letterature, anche in quella vedica accade che proprio ciò che vogliamo sapere non si trova nei testi. Gli autori hanno costruito per mezzo della lingua un mondo proprio, ma questo mondo ci è estraneo. Esso si trova in rapporti di reciproco influsso con strutture sociali che noi conosciamo soltanto imprecisamente, - e queste strutture sociali poggiano su una base economica che noi solo a fatica intravvediamo attraverso la ricerca scientifica. La base socio-economica determina naturalmente l'ideologia, ma si tratta di un influsso generico. Più importante è l'altro aspetto dei rapporti: lo spirito umano interpreta il mondo circostante in modo sempre diverso. Quest'interpretazione prende forma in una struttura, si coagula in un organismo. Grazie all'azione dello spirito, il mondo esteriore si trasforma in un fenomeno di cultura. Quest'azione si rivela nel linguaggio. Lo spirito umano ha oltre a ciò la forza di trasformare le condizioni materiali secondo le sue idee. La curiosità umana (e quindi la curiosità del ricercatore) abbraccia molte cose, che i testi non offrono spontaneamente, cosi che urge una lettura della storia, per cosi dire "contropelo". Sul significato del sacrificio come banchetto stilizzato sappiamo relativamente molto, ma molti sono anche i particolari che ci sfuggono. Lefond Il Veda si compone di diversi generi letterari. Lo strato più antico è il Rigveda, una collezione di più che mille inni, che si recitavano (naturalmente non tutti insieme!) nel corso del sacrificio. In questi inni i poeti esaltano le gesta degli dei e glorificano le loro qualità. Nella successiva collezione di canti, I' Atharvaveda, troviamo un argomento nuovo rispetto al Rigveda, ossia gli inni magici. Quanto all'alimentazione il Rigveda e I' Atharvaveda offrono pochi dati concreti. All'età del Rigveda e dell' Atharvaveda, segue nella letteratura vedica quella dei Brahmana, testi dedicati quasi esclusivamente alla spiegazione filosofica dei sacrifici. I Brahmana costituiscono assieme ai Sutra Oo strato più recente)- manuali per i sacrifici - la fonte principale per l'impiego dei cibi nel sacrificio vedico. Apparentemente i Sutra descrivono i sacrifici con ogni cura fin nei minimi par- 117

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ticolari: per esempio in quale direzione un sacerdote debba andare e quanti passi debba fare, in quale posizione debba tenere le mani, come e quali strumenti del sacrificio debba prendere, e persino che cosa debba pensare in un determinato momento. Ma se si vuole realizzare un sacrificio vedico - cosa che fu tentata come ricostruzione erudita per esempio una volta in Poona - si constata che molti dettagli ci mancano. Perciò è molto importante la scoperta di una tradizione sacrificale ininterrotta fatta in India meridionale da F. Staal e pubblicata con tutta la documentazione nel 1983. Ma anche in questo fortunato caso, manca per esempio una descrizione del modo di preparare una torta sacrificale. Le originiindoeuropee La ricerca delle origini indoeuropee del sacrificio vedico e per questa via anche del1'origine del banchetto solenne, è un obiettivo affascinante. Naturalmente, non possiamo ricostruire gli elementi della civiltà indoeuropea nella stessa maniera con cui ricostruiamo gli elementi della grammatica indoeuropea. Ma è possibile comparare le forme del sacrificio come esse si vedono in parecchi popoli indoeuropei e porre in rilievo l'essenza comune. Nella maggior parte dei casi tali ipotesi non godono delle garanzie che dà l'etimologia. Sebbene non sia possibile definire il significato esatto di una parola ricostruita, ciononostante è necessario fare tutti i tentativi per trovare un appoggio etimologico a un pattern culturale che riteniamo di origine indoeuropea. Per il banchetto sacrificale abbiamo soltanto l'indoeuropeo • dap-, • dapno(gr. 3cxMYJJ "spese", lat. daps, a. isl. tafn "sacrificio d'un animale, sacrificale", armen. tawn "festa"). Del significato di dap- si è occupato G. Benveniste. Egli giunge alla conclusione che • dap- significhi «banchetto che aveva luogo dopo un sacrificio». Quindi non il sacrificio in sé, ma un'azione collegata a una festa. Benveniste colloca • dap- fra le feste che gli etnologi chiamano potlatch, nelle quali si elargiva cibo a prof usio ne a una gran quantità di gente, allo scopo di scremare il sovrabbondante e con ciò raggiungere una relativa uguaglianza degli uomini a livello sociale. Per diversi motivi io ritengo che il grande studioso francese in questo caso abbia torto. Noi sappiamo dalle ricerche di W. B. Leist e di P. Thieme che cosa veramente fosse il sacrificio tra i popoli indoeuropei. All'origine il sacrificio non è altro che un banchetto. A tale banchetto sono invitati gli dei, proprio come si invitano gli ospiti terreni. Gli dei si accostano al fuoco e si siedono al posto che viene loro offerto. Durante il pranzo si offrono cibi e bevande e aedi cantano le imprese degli dei e degli eroi. In generale l'ospitalità ha avuto un grande significato nella vita sociale. In via di principio non esiste differenza fra sacrificio e banchetto. Il banchetto e il sacrificio sono sullo stesso piano nell'ideologia e nella pratica quotidiana. La solennità del sacrificio rispecchia l'importanza dell'ospitalità. L'ospitalità raffinata e quasi ritualizzata, che è generalmente un tratto caratteristico del feudalesimo, dobbiamo supporre sia esistita nell'età indoeuropea. Il centro della casa è costituito dal fuoco e dall'acqua. Questi due elementi fondano la comunione della casa: aquae et ignis communio, come si sarebbe detto più tardi a Roma. Senza fuoco e senza acqua una casa non può esistere, perché mancando loro non sarebbe possibile sacrificare, cioè preparare i cibi per gli dei e per gli 118 ----------------------------

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ospiti terreni. Con il pranzo si onorano in primo luogo gli dei, che vengono cosi incorporati nella società feudale e nella famiglia; quindi si onorano gli antenati defunti; seguono gli ospiti, i membri della famiglia, e infine il padre e la madre, che mangiano i resti del banchetto.

India:vegetarianismo,non-violenzae adorazionedei bovini Prima di dare uno sguardo generale ai cibi impiegati nel sacrificio vedico, vorrei esaminare un fenomeno tipico dell'India, che ha attirato l'attenzione di tutti coloro che si sono occupati di questo paese, voglio dire il vegetarianismo, la non-violenza e l'adorazione della vacca (o per meglio dire di tutti i bovini). Tre studiosi hanno esaminato questo triplice fenomeno: L. Alsdorf (1961), Hanns-Peter Schmidt (1968) e A. Wezler (1978). Do un rapido quadro dei risultati cui essi sono giunti. Gli Indù e anche i Buddhisti sono vegetariani. Il vegetarianismo è praticato nel modo più coerente dai seguaci del giainismo, che con grande consequenzialità rispettano persino i parassiti. Nei particolari la situazione è però molto differenziata; le prescrizioni si articolano soprattutto per caste. Gli esperti presumono che solo meno della metà degli Indù siano effettivamente vegetariani. Naturalmente il mancato consumo di carne, pesce e in molti casi anche di uova, riveste una notevole importanza economica. Ciò vale anche per il comandamento che proibisce di uccidere i bovini, cosa che ha come conseguenza la realtà di innumerevoli bestie denutrite e malate che senza ragione popolano il paese. Si è calcolato che se si riuscisse a ridurre alla metà il numero dei bovini in India (la terra più ricca di bovini in tutto il mondo), basterebbe ciò a eliminare la cronica denutrizione di questa popolazione. Chiunque conosce i testi, sa bene che vegetarianismo e rispetto dei bovini in India non sono fenomeni antichissimi. Ci sono numerosi passi dai quali risulta che nell'età vedica si è mangiato carne, che si sono fatti arrosti di manzo, e che anche nel buddhismo e nel giainismo all'origine mangiar carne era cosa del tutto normale. Ben nota è la prescrizione che a un monaco buddhista è consentito mangiar carne e pesce, ma a tre condizioni: che egli non abbia visto uccidere la bestia per lui, che non gli sia stato detto e che non ne abbia alcun sospetto. Che molte volte si uccidessero animali esclusivamente per l'ospite, lo sappiamo da fonti vediche, nelle quali l'ospite è chiamato apertamente goghna-, uccisore di bovini. Ossia: uno non poteva eludere il costume di uccidere un bovino per l'ospite, anche quando in situazione normale non l'avrebbe fatto o non ne avrebbe avuto assolutamente voglia. Lo sviluppo del vegetarianismo in India si può ricostruire molto bene dal codice di Manu. Nello strato più antico di questo testo è consentito mangiare animali puri; in un secondo strato si proibisce l'uso della carne nella vita quotidiana ma esiste l'assoluta prescrizione di uccidere gli animali nel sacrificio: e quindi è ovvio che nello svolgimento del sacrificio si sia mangiato carne; infine s'incontra un terzo strato testuale che prescrive un vegetarianismo rigoroso e che implicitamente prende posizione contro il sacrificio vedico. Negli scritti più antichi si trovano liste di animali impuri, che non è consentito mangiare. Queste liste variano fortemente nei particolari. L'esempio più importante di una prescrizione alimentare è costituito da un versetto che consente di mangiare cinque animali a cinque unghie: riccio, istrice, lepre, tartaruga e lucertola. Se ne deduce che è proibito mangiare tutti gli altri animali a cinque dita, uomo compreso. H. ----------------------------

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Liiders ha ricercato questa prescrizione in tutta la letteratura giuridica, nell'epica e nel canone buddhistico in lingua pali. Si dànno anche prescrizioni su singoli vegetali che non è consentito mangiare, per esempio aglio, cipolla e funghi. Alsdorf riteneva che il vegetarianismo e la venerazione dei bovini fossero un'eredità dello strato preariano, e che la proibizione di mangiar carne, normale nelle protopopolazioni, sia nel corso dei secoli lentamente penetrata e si sia imposta fra gli indoeuropei. Ma noi abbiamo prove certe che nella civiltà non i.e. dell'Indo (Mohenjo Daro) era del tutto normale mangiar carne. Si può aggiungere che ancor oggi presso le tribù non-indo-ariane del subcontinente non c'è traccia di vegetarianismo. Al contrario i sacrifici estremamente sanguinosi per Kali e Durga risalgono al substrato. I Giaina vanno ancora oltre: non è loro permesso distruggere neppure le piante (ma naturalmente possono mangiare verdura e frutta raccolte da altri). Il loro rapporto con gli elementi terra, fuoco, acqua e aria è molto limitato. Non è loro permesso di battere o scaldare l'acqua, né di avere contatti col fuoco, né di adoperare ventagli, perché in tal modo potrebbero ferire le anime dell'acqua, del fuoco e dell'aria. H.-P. Schmidt ha mostrato con tutta chiarezza che questo rigoroso animismo dei Giaina non è uno sviluppo tardo, ma ha le sue radici nell'età dei Brahmana. In questi testi l'espressione «sacrificare un animale» è tabù e viene sostituita da un'altra, cioè «prendere l'animale»; invece di uccidere si dice «far si che l'animale sia d'accordo», e l'uccisore diventa il «mitigatore». L'animismo rigoroso s'esprime specialmente nell'idea di un mondo alla rovescia. Ogni uomo patisce nell'aldilà la stessa sorte che ha procurato ad altri in questo mondo. Cosi nell'altro mondo gli alberi segano gli uomini e le piante li mangiano. Per evitare simili conseguenze quando si taglia un albero per farne un palo sacrificale, si usa mettere fra la scure e il tronco un filo d'erba, in modo che la violenza non colpisca direttamente l'albero. Nei due stadi della vita, quello dell'iniziazione al Veda e quello della fuga dal mondo, l'uomo è obbligato all'assoluta non-violenza: non può accendere il fuoco, e conseguentemente non può fare alcun sacrificio. I doveri dell'iniziato vengono identificati con le azioni rituali del sacrificio. Il respiro dell'eremita viene identificato col fuoco del sacrificio e cosi egli mangiando compie automaticamente un sacrificio. Dalle ricerche di Schmidt risulta chiaro che si deve immaginare uno sviluppo, per cui il vegetarianismo è all'inizio solo un comandamento per i due suddetti stadi di vita (iniziazione e fuga dal mondo); poi, in un secondo momento, si estende a tutti i brahmani, e poi quindi a tutti gli uomini, cioè a tutti gli Indù. Il vegetarianismo dei Buddhisti e dei Giaina è una parte di questo grande sviluppo. Quindi il rigoroso comportamento dei Giaina, che includono entro il comandamento della non-violenza anche le piante e gli elementi, non è un'estensione secondaria del vegetarianismo bensi la conservazione conseguente a una visione animistica del mondo. Al contrario, il vegetarianismo degli Indù è una poco coerente deviazione determinata da ragioni pratiche. La venerazione dei bovini non è da vedersi nel contesto del vegetarianismo ma ha un'origine diversa. In questo contesto occorre rinviare all'appassionato rifiuto fatto da Zarathustra del sacrificio sanguinoso e crudele dei bovini. È assai probabile che Zarathustra non abbia rifiutato del tutto il sacrificio dei bovini, ma che abbia sostenuto solo un altro tipo di uccisione, verosimilmente senza versamento di san120 ---------------------------

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gue, cosi come si sacrifica in India. In ogni modo l'origine della venerazione dei bovini resta oscura. Le offerte sacrificali a) Burro La civiltà dell'India vedica è contrassegnata dall'allevamento dei bovini. Per poter dire di aver realizzato una vita perfetta occorre aver posseduto mille bovini, raggiunto l'età di cento anni e messo al mondo dieci figli. La reputazione di un uomo dipende dal numero dei bovini che possiede. Il possesso di bovini presuppone anche la disponibilità di un ampio spazio, nel quale le vacche possano pascolare indisturbate. L'importanza economica dei bovini è rispecchiata nella poesia vedica, e - possiamo aggiungere - in quella indoiranica. All'importanza economica dei bovini corrisponde l'importanza dei latticini nel sacrificio. Al primo posto sta il ghee, qualcosa come il burro fuso. Ogni indiano vedico deve più volte al giorno versare ghee nel fuoco come cibo per gli dei. Il fuoco, Agni, coincide per l'occasione col sacerdote stesso, e, personificato nel dio Agni, porta agli dei le offerte votive versate nel fuoco.

b) Latte Le menzioni più frequenti del latte si incontrano nel contesto di una metonimia di vasto uso, laddove spesso non si capisce bene dove finisca la metafora poetica e dove cominci l'identificazione ancorata all'ideologia. Cosi il latte e l'acqua erogatrice di vita sono posti sullo stesso piano. Il latte si trova anche nella pianta e quindi si identifica con la linfa. Anche con la linfa della pianta Soma che si spreme nel rito. Anche la pioggia viene identificata col latte. In principio gli dei posero il latte nella mucca, affinché gli nomini se ne potessero servire come alimento. Il poeta vedico è rimasto particolarmente affascinato dall'idea che il latte si può immediatamente gustare, mentre la mucca è 'cruda', e si può mangiare solo dopo che sia stata arrostita. Parole del poeta: "Voi dei, avete posto il cotto (vuol dire il latte) dentro il crudo" (che sarebbe la mucca). Più tardi si è posto l'accento sul fatto che gli dei hanno messo il bianco latte dentro la mucca nera, rossa o a più colori. Vorrei ora passare a un rito col latte - il pravargya - che è ricordato più volte nel R V e che poi è descritto minutamente nei Sutra. In primo luogo si descrive attentamente la fabbricazione rituale dei vasi di argilla necessari al sacrificio. Quindi i vasi vengono posti su un fuoco di legna e carbone fino a farli diventare rossi e a questo punto si versa dentro burro liquido. Si aggiunge poi latte di mucca e di capra. Quando questo latte bolle, viene offerto agli Asvin, che sono i Di6scuri vedici. Quindi si versa ancora una volta nei vasi latte freddo e lo si fa nuovamente bollire. Quando il latte va fuori dal vaso, in quel momento il sacerdote pronuncia la formula: «Trabocca in abbondanza per la linfa, trabocca per la forza, per la casta dei sacerdoti, per i guerrieri, per l'acqua, per le erbe, per gli alberi, per la terra e il cielo, per il benessere, per il buon nome dei sacerdoti, per il promotore del sacrificio, trabocca per me, si che io possa diventare il primo, trabocca». Si può dedurre che anche in ambito profano si sia bevuto latte bollito. Come si può ricavare da un passo del RV, esisteva l'idea che il latte, che secondo l'immaginazione vedica era già "cotto" (cioè potabile) dentro la mammella della mucca, sul fuoco subisse una seconda cottura, e che fosse proprio questa doppia cottura insieme con l'alta temperatura della bollitura a dargli una efficacia particolare. Un'im-----------------------------

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portanza minore aveva nel sacrificio il dadhi, che è una specie di ricotta. Un ruolo particolare gioca anche il latte come additivo nella bevanda che si ricava dal soma. Quello del soma era il sacrificio più grande e più solenne. Questa pianta, botanicamente non identificata, veniva spremuta ~ liberata dei resti delle fibre attraverso un filtro. Ne veniva fuori un succo concentrato dal sapore molto forte, che si poteva bere solo se allungato con acqua. Tuttavia, anche cosi il sapore restava troppo forte e aspro, e perciò in alcune cerimonie veniva mescolato con latte. Questo uso era già indoiranico. e) Cereali In numerosi sacrifici si spargono anche chicchi, soprattutto di riso e d'or-

zo. L'orzo è specialmente sacro al dio Varuna. Durante il sacrificio spesso veniva macinato grano e con la farina che ne risultava si facevano torte, verosimilmente focacce, che poi venivano offerte alla divinità su piatti. Nel rito questa torta spesso veniva sbriciolata, per es. nell'offerta alla dea Anumati, che è la personificazione della Grazia, mentre la sua antagonista, la dea Nirrti, cioè la personificazione della sventura, la riceveva intera. Gli gnocchi di farina e burro erano riservati ai Mani. Già nel RVè nota l'offerta sacrificale di un piatto di riso cotto nel latte. d) Carne In molti testi si descrive accuratamente l'uccisione della bestia sacrificale. Un ruolo importante giocava il palo sacrificale, al quale l'animale era legato. L'uccisione avveniva per strozzamento con una corda o per soffocamento con un panno. Quindi l'animale veniva sdraiato sul fianco destro, gli si apriva il ventre all'altezza dell'ombelico, se ne estraeva l'omento (la rete), e lo si arrostiva come offerta agli dei. Dopodiché la bestia veniva tagliata a pezzi. Delle interiora si utilizzava solo il cuore, per arrostirlo allo spiedo. Viene menzionata carne di bovini, di capre, ma mai di maiale.

Per concludere questo quadro necessariamente frammentario, io credo che lo sviluppo della civiltà alimentare in India, dall'età vedica fino al moderno induismo, mostri chiaramente che una cultura non dipende soltanto dai rapporti economici e sociali. Nei particolari - e i particolari contano - la cultura non è determinata dalle condizioni esterne; essa offre invece uno spazio libero all'ingegno umano, che mira a conoscere il mondo e a rappresentarlo secondo le sue idee.

BIBLIOGRAFIA L. ALsooR.F,Beitriige zur Guchichte von Vegetarismus umi Rinderverehrung in lndien, "Abbandlungen dcr Akad. dcr Wisscnscbaften und dcr Litcratur in Mainz", Jabrgang 1961, n. 6. E. BBNVENJSTE, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Paris, 1969, I, p. 74 sgg. W. B. LBIST,Alt-ArischesJusGentium 1889. H. LODBll.S,Philologica Indica, Ausgcwlibltc Kleinc Scbriftcn, Gottingcn 1940, p. 175 sgg. HANNs-PBTEllScHMJDT, Mélange d'indianisme à la mémoire de Louis Renou, Paris, 1968, p. 625 sgg. P. THmME,Kleine Schriften, Wiesbadcn, 1971. A. WBZLBll,Die wahren "Speiseresteesser", "Abhandlungcn dcr Akad. dcr Wisscnschaftcn und dcr Literatur in Mainz", Jahrgang 1978, n. S.

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QUESTIONI DI GUSTO NELLE LINGUE: NOTE PRELIMINARI * di Franco Crevatin

Sottopongo all'attenzione dei colleghi alcune riflessioni, basate su un discreto campionamento di lingue prevalentemente africane, relative alla categorizzazione dei sapori. L'argomento non è stato molto studiato, probabilmente perché, a prima vista, i dati sembrano spesso ripetitivi: nel campo delle lingue naturali, inoltre, quando esse abbiano come correlato culture alimentari di poco eccedenti il livello di sussistenza, le terminologie del gusto non sono né numerose né varie. Ragioni di interesse, a mio avviso, peraltro non mancano. Prima di affrontare il tema, ricorderò - anche se è cosa a tutti nota - che la degustazione avviene tramite chemocettori, ripartiti in zone diverse della lingua, sensibili ai quattro gusti fondamentali, cioè dolce, amaro, acido e salato; inoltre il sapore (o i sapori) del cibo viene fondamentalmente arricchito e precisato dalla percezione olfattiva. 1. Tratterò innanzi tutto il caso dell'egiziano antico (incluso il copto): avanzata tecnologicamente e fortemente stratificata nell'assetto sociale, la cultura egiziana mostra attenzione per una cucina elaborata sin dall'Antico Impero; ciononpertanto la terminologia del gusto è molto povera, anche ammettendo lacune nella documentazione. Come agg. e v. ndm indica la piacevolezza soprattutto della percezione di gusto e olfatto: cibi, bevande, fiori, profumi, legni aromatici. Già dal medio egiziano, peraltro, ndm sembra estendere il suo àmbito d'uso a una piacevolezza sensoriale che supera gusto e olfatto: l'aria, l'acqua sono 'piacevoli', il canto, le disposizioni d'animo, ma l'uso è coerente con la semantica di derivati molto antichi come ndmm.t ''piacere sessuale'' (Testi delle Piramidi). L'agg. bnr (o, forse meglio, bnJ) indica invece specificamente il gusto "dolce", ed è inapplicabile ad altre percezioni. Naturalmente, sia ndm che bnj possono essere usati come traslati, senza peraltro estensioni al giudizio morale ("buono") o alla gradevolezza visiva. È l'aggettivo nfr che sin dalle epoche più antiche mostra un'estensione semantica amplissima: esso qualifica la gradevolezza al gusto, all'olfatto, all'udito (il canto, ad esempio), alla vista (la bellezza, cioè) ed è usuale come giudizio morale o di valore. Il contrario di bnj è d/:lr, usualmente tradotto come "amaro": «il miele, dolce • La ricercapubblicata in questo volume è parte di un più ampio lavoro sulla categorizzazione linguistica delpercettosensoriale.

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per gli uomini, è dl;,r per i morti», si sostiene in una formula magica recitata a protezione dei bambini (Mutt. u.Kind C 2, 4). Per inciso, si rilevi la tipica inversione che l'aldilà rappresenta per alcune correnti di pensiero egiziane: secondo tali scuole, di tradizione molto antica, il defunto nell'aldilà rischia di trovarsi in posizione rovesciata, di camminare sulla testa, mangiare escrementi ecc. Oltre all'inversione, che in sé la morte è rispetto alla vita, l'idea era motivata dalla concezione del cielo notturno come immagine dell'aldilà, pensato in posizione speculare (e dunque invertita) rispetto al cielo diurno. Ci sono però attestati casi nei quali - con senso traslato - dl;,r si oppone a ndm (Ani 8, 7): usualmente però a ndm si oppone (soprattutto per l'odorato) dw, "sgradevole" (con ampi usi di valutazione morale o fisica), mentre a nfr si oppone bjn, "cattivo, di poco pregio, inutile, dannoso", prevalentemente usato come giudizio di valore o morale. Non è attestato nell'egiziano storico un aggettivo che valga "acido" o "salato" (v. però oltre). La storia di queste designazioni è molto istruttiva; nel tardo neo-egiziano le designazioni antiche sopravvivono solo nella tradizione dotta oppure subiscono, quando si continuano nel parlato, una considerevole ristrutturazione, il cui esito finale è ben riflesso nel copto: natam ( < ndm) indica ancora la piacevolezza sensoriale (gusto e udito), ma per lo più è legato, come mlfar ( < n/r), al giudizio di valore ("buono, caro, utile"). Tho ( < dl;,r) significa solo "essere moralmente cattivo", come bl>on( < bjn; "cattivo, malvagio") e cu-akb(< dw: "il male"). Designazioni specifiche di gusto sono hlok' ( < dem.h/g) "dolce", usato anche come traslato, s'TJe "amaro" ( < dem.s!Jj, antico s!Jw, nome della bile) e hmoc "essere acido": quest'ultima voce è però un prestito neoegiziano del semitico (ebr. J;,ome(l"aceto"; ar. /;,amai)"essere agro"; neoeg. /;,md"aceto", copto hmc) nel senso specifico di "aceto", per cui è probabile che la designazione più genuina sia taf "aspro", amaro, acido, piccante" < neo-eg.ldem. d3Jldwf "bruciare". L'equivalenza "amaro= acido", molto comune, potrebbe essere addebitata (con continuità di struttura semantica) all'antico dl;,r, usualmente reso con "amaro". 2. La percezione del gusto Baw/é (Costa d'Avorio) obbedisce a un'opposizione fondamentale, tra ciò che è gradevole (ffi) e ciò che è sgradevole (ql) al palato: lo "sgradevole" è per lo più l"'amaro", senza però che l'equivalenza abbia valore di necessità. Per indicare l'acido o il dolce si ricorre invece agli ideofoni (blsìblsl e mllmli): di fatto, però, anche l'acido può essere fi a meno che esso non provenga dal deterioramento di un sapore originariamente diverso kd"acido"; zande Kiia "esser acido" (stato) rispetto a kundo "esser (diventato) acido"; berbero tamazight tb.arr"esser acido" ( +amaro, piccante) rispetto a ehD)a8"esser (diventato) acido" (+molto salato); nell'aizi Ji indica il gusto acido (di un frutto o anche del vino di palma) mentre z:, o sa indica il gusto inacidito (soprattutto del latte). Come si vede la situazione è molto diversa rispetto alle molte terminologie recuperabili per "salato" che però sono semplici derivati dal nome del sale. Mentre la categoria "amaro" è concordemente giudicata sgradevole, quella dell'acido può essere ritenuta piacevole, almeno entro certi limiti; ciò è abbastanza comune come giudizio alimentare, ma ne è molto rara una sua lessicalizzazione: logbara ndz;Jandz.,a(v. § 5); l'élé n'ono (vb.) "gradevolmente agro" rispetto a bwéré o nàmboboro "sgradevolmente agro" (+amaro). 7. Per quanto non sia definibile propriamente un sapore, lo "scipito, insipido" è noto in pressoché tutte le lingue da me esaminate, ed è espresso anche con ideofoni collegati esclusivamente al gusto. Segnalo una curiosa concordanza onomasiologica tra il l'élé tata/ ed il pende lahu che valgono, oltre che insipido, "tiepido", forse semplicemente una temperatura né calda né fredda, come il gusto né buono né cattivo. 8. Non considero invece in questa breve esposizione il gusto "piccante", poiché esso è in realtà una sensazione sostanzialmente tattile, e come tale viene trattata da moltissime lingue (che brucia, pizzica, punge, scotta e sim.), pur se talora viene inserita nella classe "amaracido". 9. Quanto sin qui detto, comunque in modo sintetico, non esaurisce che gli aspetti generali del problema. In questo paragrafo noterò qualche particolare: in prima istanza è chiaro che l'approccio sopra sbozzato parte da un referente oggettivo della dimensione semantica, ossia i chemocettori della lingua; l'approccio è euristicamente lecito ma semanticamente ambiguo, poiché tiene solo parzialmente conto dell'arbitrarietà del segno. Per fare un esempio, che più oltre sarà ripreso, sinora non si è tenuto conto della categoria "rancido", e ciò non perché essa non abbia una sua individualità come percetto, ma semplicemente perché non identifica un gusto fondamentale; naturalmente, un approccio semanticamente corretto deve invece tener conto anche di designazioni come questa. Per tentare di dare un ordine accettabile alla tipologia generale sarà inoltre opportuno tenere in considerazione il giudizio dei parlanti sul percetto, almeno quando esso ci sia noto. Riprendo dunque in considerazione il problema da queste prospettive. Esistono situazioni semantiche estremamente semplici, nelle quali si oppongono binariamente, senza ulteriori distinzioni, il gradevole allo sgradevole: mbai mbe "buono/àtà "cattivo, amaro, acido"; nubiano (dongolawi, kenzi) irJgrr-buono!/ naddi- "sgradevole" ("amaro, acre, acido, troppo salato"]; una situazione non dissimile sembra esistere, in kikuyu, dove a -ega "buono" si oppone ndoro "sgradevole, amaracido": la radice verbale etimologica "proto-Bantù • -rç,r "esser amaro" si----------------------------

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gnifica "avere un percetto troppo intenso" (salato, acido, amaro, pepato, dolce[!)). Tracce di strutture analoghe sono probabilmente reperibili in altre lingue che, apparentemente, hanno articolazioni più elaborate. Nel mlJre al "gradevole" (n6gho; con ulteriore specificazione, bolboto, "molto gradevole") si oppone l' "essere amaro", toma, che però vale contemporaneamente "spiacevole al gusto": l' "acido" (mrsa: vb.) è legato etimologicamente al concetto di "fermentare" (mik1) e non ha accezioni traslate, a differenza di nlJgho e toma (essere moralmente piacevole/ spiacevole); inoltre l' "amaro", a livello di ideofoni (gègè, giis giis), è inclusivo dell' "aspro". L'evoluzione della categoria "gradevole al gusto" sembra chiara: la focalizzazione (anche attraverso ideofoni) del grado superiore "molto gradevole" e/o "dolce" rende automaticamente il grado inferiore aperto a giudizi di cultura alimentare molto ampi, resi evidenti da frasi usualmente tradotte "dolce = gradevole come il sale". Sembrerebbe, inoltre, che la costituzione a livello lessicale del "dolce" sia posteriore a quella della categoria "amaracido". Quest'ultima categoria è abbastanza complessa, e ciò a causa di due fattori: innanzi tutto in essa confluiscono sia sapori propri di uno stato naturale (acido come il limone; amaro come l'assenzio ecc.) sia sapori che precedono o seguono quello dello stato naturale stesso (aspro come un frutto immaturo; acido come il latte fermentato ecc.). Inoltre non sempre l'arcisema dell'amaracido equivale a "sgradevole al gusto": se questo è vero per l'amaro, sull'acido - come si è visto - il giudizio può essere variabile. In ngizim, ad esempio, si distingue tra/au "di sapore acido, forte", con valore positivo o negativo, e gdFtlà "di sapore amaracido, forte", con valore negativo: alla categorizzazione negativa sembrano pertenere l,àgwaagwàk "amaro, aspro" e l'ideofono cal.ak "molto acido", mentre ambiguo sembra zhòm "(divenuto) acido". Un'altra caratteristica frequentemente rilevabile è lo squilibrio presente in molte lingue nelle categorie "gradevole" /"sgradevole", per cui quest'ultima è spesso più articolata della prima: nel pende ci sono due designazioni per l'amaro (Iuta [vb.], samu) due per l'acido, aspro (buabua, khua) e un ideofono per il molto amaro (kakaka), contro una per il saporito (fu/a) e due ideof oni (?) per il dolce (mbembembe, nzenzenge); analoga ricchezza in mende ecc. Siccome lo stesso avviene anche nella categorizzazione degli odori, per cui la terminologia più o meno discreta di quelli cattivi supera di gran lunga quella dei positivi, sarei prudentemente portato a credere che, analogamente, la categoria "amaracido", pur con qualche ambiguità, pertenga all'arcisema "sgradevole al gusto". In base ai dati sinora in mio possesso, sono portato a credere comunque che la distinzione tra acido e amaro sia l'unica fondamentale all'interno della categoria, in quanto entro di essa si collocano gusti come il "(troppo) salato", l'aspro e il rancido, quando non siano equivalenti a "che ha troppo sale dentro", "acerbo", "putrido, guasto", cfr. chimiini haraarisi [ < somalo] "amaro" lsuta "acido, salato", ecc.). Per contro non mi è ancora del tutto chiaro se esista o meno una prevedibilità nelle successive articolazioni della categoria; in altre parole, se l'acquisizione di un lessema autonomo per "salato" segua o preceda quello per "aspro" o viceversa. Sarei tentato di ritenere che - come sopra ho lasciato intendere - ogni ulteriore distinzione segua quella fondamentale tra acido e amaro: esiste però almeno una lingua, lo shillukh, che sembra costituire un'eccezione. In essa esistono infatti i termini 128 ----------------------------

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FRANCO CREVATIN

per "gustoso" (mtt), "amaracido" (kaJ), "sgradevole" (l}ieTo) e "aspro, troppo salato" (mar). Si vedano per contro i sistemi propri del dinka ("gustoso" [mit], "dolce" [/im], "acido" [wac], "amaro" [kec], "salato" [/aid]), bobo ("gustoso" [drà], "dolce" [dlnà], "acido" [Slnl], "amaro" [sDgD],"aspro, amaro astrigente" [mugu], "salato" [nyDmà]) e del bambara ("saporito" [timi], "dolce" [wanawana], "acido" [kùmu], "amaro" [kuna], "aspro" [basi]). 10. Come è noto, i cibi si assaporano per l'interazione tra gusto e olfatto, e ciò ha una precisa controparte sia nella terminologia del "sapore", spesso equivalente a "odore", sia nelle sinestesie semantiche degli aggettivi che esprimono un giudizio. Sapore e odore si confondono in shillukh (yomo), dinka (ngir), logbara (Ddzl), berbero cabilo (*n\' "aver odore/sapore"), babaju (ja?a), zande lfuo), wolayta (sawo1), ecc. Non è possibile intrattenersi a lungo sull'importante tema delle sinestesie semantiche nel giudizio, per cui mi limito ad accennare solo cursoriamente alla questione. Le lingue possono esprimere il giudizio positivo sul percetto ("è buono, bello" e sim.) con sistemi molto diversi - e trascuro qui come ininferente se ciò avvenga con categorie nominali o verbali: alcune lingue hanno una sola designazione (propria, non traslata) che copre quasi l'intero ambito sensoriale (per quanto ne so, tatto di norma escluso), ad esempio il uwt mbSIJ,egiziano nfr, estensibile, ma non di necessità, al giudizio morale; per lo più, tuttavia, la designazione è sinestesica e di solito congiunge gusto/odore e vista/udito ("buon cibo/odore": "bel disegno/canto"). Rare sembrano le sinestesie gusto/udito (asante, otatala) o gusto/odore(udito (sara kaba, wo/oj). Naturalmente non considero, per quanto posso, designazioni banalizzanti del tipo 'piacevole' e simili. La sinestesia parrebbe raggruppare ragionevolmente i sensi più informativi (vista/udito) e quelli meno informativi: stranamente, il tatto sembra essere il grande assente, poiché sono pochissime le lingue che estendano a una sensazione tattile una designazione propria di altro ambito sensoriale, come il francese doux e il berbero cabilo ihtliw "dolce; liscio", mentre è proprio il tatto a fornire gran copia di terminologie traslate al gusto/odorato (es. "ruvido; duro" per il gusto acre, e sim.). Si rileverà inoltre che terminologie riguardanti specificamente il percetto piacevole del singolo senso sono di gran lunga più frequenti il gusto o per la vista ("buono" /"bello"), come del resto si anticipava prima quando si sosteneva l'esistenza della categoria "gradevole al gusto": ciò non avviene, tuttavia, senza curiose dissimmetrie, come ad esempio nel logbara, dove la gradevolezza al gusto (alu, vb.) è ben distinta da quella dell'olfatto (ndrl: esteso anche alla vista ["bello"] e al giudizio morale e di carattere ["gentile"]), mentre "sapore" e "odore" confluiscono in un unico segno (àdz(). Le dissimmetrie sono però molto accentuate tra le sinestesie relative al giudizio positivo rispetto a quello negativo: nel kikuyu -éga è positivo per cibo/odore e guòakara per vista/udito, mentre -oni è negativo per cibo/ odore/udito e -òoku per la vista; nello sloveno dialettale (S. Croce [Trieste]) il positivo per il gusto è duobro per la vista /jep, per l'udito/olfatto/eist, ma il negativo per il gusto è "nonfeist" e il sapore/odore è definito duh. Sarà opportuno riprendere altrove questo tema.

11. Per quanto esista buona copia di studi sull'alimentazione e sui suoi connotati culturali, mancano ancora studi non impressionistici sui gusti nelle società tradizio----------------------------

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nali (ad esempio S. BAHUcHET,Les Pygmées Aka et la forlt centroafricane, Paris, 1985), che pur sarebbero utili per stringere più da vicino il problema qui discusso. Vorrei, dunque, avviarmi a concludere con un'ultima osservazione: come si è detto, il giudizio di "buono al gusto" può essere esteso al giudizio morale, e lo stesso vale per il giudizio negativo. Ebbene, la situazione è abbastanza complessa: nelle lingue gur e mande sud della Costa d'Avorio su un totale di 32 varietà solo S mostrano di aver uniformato il giudizio; per contro etimologicamente i tipi sono spesso molto vicini. In altre parole, la tendenza ad assimilare i due valori è costantemente bilanciata e frenata: il gusto consente ampie possibilità di usi linguistici traslati, che però entrano in conflitto con altre categorie, prima di tutte quella dell' "essere adatto, utile, giovevole, di valore". È, questo, un guardare al concetto di 'buono' in un modo dissimile da quello al quale siamo ormai abituati culturalmente.

STEMMA DEL GUSTO

GUSTOSO-----

MOLTO GUSTOSO --

DOLCE

[SALATO GIUSTO]

DISGUSTOSO ----

MOLTO DISGUSTOSO

DIGUSTO CATTIVO

~~- honoratus)"

mactus(-e)

0

rispetto al derivato "magis augere, auctare ( > honorare)" "sacrificare" indica che l'equivalenza sincronica è una sequenza di diacronica propria del derivato di mactus,mactare:«magis augere, auctare (> honorare)» > "sacrificare". A parte la figura per cui mactusconserva - anzi come non più vitale se non in formule e linguaggio sacrale (da cui l'antiquaria e la poesia) non può che conservare il valore più antico - il buon senso (che, tradotto in pillole, si chiama anche 'metodo') ci dice che "sacrificare" è valore derivato in quanto più vitale e in espansione (cosi da produrre il valore "interficere") e, insieme, perché meno motivato rispetto alla partenza mag-, che, a sua volta, era motivata nel contesto di magise magnus.Il tutto con la premessa che si abbia uno stesso verbo, il che, a rigore, è ancora da dimostrare; meglio, sono da precisare i termini per cui non può che essere geneticamente lo stesso verbo, con specializzazioni semantiche che hanno importato coesistenze sincroniche dei valori, ma con un andamento diacronico "auctare" > "auctare-sacrificare" > "(auctare) sacrificare" > "(auctare) sacrificare, interficere" (ritengo sia esistita anche una fase "(sacrificare) interficere" testimoniata in forme romanze come spagnolo matar:ma di questo, che va contro antiche e nuove spiegazioni [Malkiel) tratterò altrove). Il discorso è semplice: una omofonia di due mactllrenon geneticamente connessi è impensabile. Esclusa la trafila mactusvs. mactedi Risch, non resta che l'unitarietà genetica, quale denominativo, poi differenziatosi nel senso visto. La differenziazione è logicamente successiva non solo a una simultaneità sincronica dei valori ormaidistinti, ma a una simultaneità di valori entro una unità concettuale non ancora distinta, o, meglio, distinta forse come applicazione semica ma compresente nel1'unità concettuale: e questo è un livello di cui va fissata, se possibile, la cronologia relativa non tanto perché è una meta della ricostruzione, ma perché, in quanto ricostruita, è una spiegazione, oltre che per il livello sincronico cui pertiene, anche per gli sviluppi che ne conseguono.

mactlire

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Questo "punto" o "livello" di unità concettuale trova rispondenza nella configurazione semantica di magmentum che, come si è mostrato sopra, è insieme un "magis augmentum" e l' "offerta agli dei": "offerta agli dei" porta la tessera mancante al collegamento fra mactare"auctare" e mactare"sacrificare", e precisamente quella tessera che la componente semica "honorare" del valore "auctare" faceva prevedere: l' "auctare" diventa (o "è" anche) "sacrificare" tramite l'area concettuale di "offerta agli dei". Tornando a mactus, è da riaffermare che il "magis auctus" - al pari che per magmentum, ove non sia interpretato come "aggiunta" - è una etimologia contenutistica non più capita dagli antiquari latini che risponde perfettamente a una impeccabile etimologia formai e: mactus è il participio di un •maglre non attestato, alla base di magnus, quasi-participio come dDnum, a. ind. diJna-lo è della radice diJ (•deH3). mactus è dunque 'l'accresciuto', 'l'ingrandito' in uso nella terminologia sacrificale e mactare, denominativo, significa "accrescere, ingrandire" e insieme "sacrificare''. Ciò è vero prima e indipendentemente dal problema posto da macte nei giri sintattici in cui si trova: mactus è la spiegazione e macte è l'obscurius che può essere o no spiegato ma che non può, come obscurius, essere fonte di spiegazione quando si sia escluso che mactarene sia un delocutivo. Riassumendo: mactus "magis auctus" è termine sacrificale; mactare "magis augere" e "sacrificare" riproducono la figura semantica di magmentum "magis auctum" e "parte sacrificale": la congiunzione preservata dagli antichi sulla base della corradicalità ancora trasparente è dunque valida in assoluto. Il latino documentale conserva dunque la semanticità di una serie lessicale ormai disintegrata, ma non è in grado di restituirne le applicazioni pragmatiche: si sa che magmentum è un "accrescimento", come mactus è l'"accresciuto" e mactareè l'accrescere-ingrandire, ma non si sa perché questo è detto, anzi è per lo più specializzato, di quello che si offre o sacrifica alla divinità. L'assenza di motivazione nel rituale di Roma non è una particolarità di questo caso. Tuttavia questo caso, per accidentalità o fortuna, permette di proseguire tramite la comparazione. J. GoNDA(1959) ha rivendicato l'unità di sscr. mahas nel senso di "offerta agli dei" intesa come 'accrescimento' e, insieme, di vedico mah- (pp. 472-3) The eight different meanings of mah-, mdhati etc. given by Grassmann 7 resolve themselves into one: "to make (orto be) great(er)" which, in the religious and ritual sphere comes to: "to fortify, to strengthen, to a being's greatness or majesty - i.e. superiority to common conditions" maintain. The verb - which in the atmanepadam may mean: "to become or be great": 8, 12, 6 - admits, generally speaking, of a double construction: either the name of the god whose greatness is to be maintained 8 is the accusative, or an object which is to be presented to the god. In translation the choice of the most suitable English equivalent may of course depend on the context.

L'inizio dell'articolo si apriva con un interrogativo di comparatistica relativa al rapporto tra sscr.mah-e latino mactas/mactiJre;dopo la lunga peregrinazione di filologia indiana l'articolo si chiude ritornando a mactus (pp. 481-2): Let us finally return to the above-mentioned controversy with regard to the Latin verb mactare. Like mahati this verb occurs in double construction: deos extis mactare means "to strengthen the gods through sacrifices", i.e. "to magnify, glorify, honour, worship"; but also beyond the religious sphere: to present, rcward, or honour with anything good or bad:

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macto:rehonoribus "to heap honours on, extol" etc. deis hostiam mactare originally means "to strcn,thcn a sacrifice on behalf of the gods", i.e. "to sacrifice ... " 9 • This verb obviously derives from the adjective mactus which, in religious language, means "glorified, honoured (by presents etc.)", whereas, beyond that sphere, it is an exclamation of applause or congratulation •0 • The expression mactus vino therefore originally meant "stregthened by means of wine" (in a religious sense), mactus virtute "fortified by (deeds of) valour or courage"; being a formula of congratulation the latter pbrase may, with or without the imperative, be translated by "increase in valour, go on in excellence". The adjective mactus no doubt belonged to a no longer extant verb • mag-ere which must bave meant "to make great(er)" (cf. mag-is "grater, more"), The adjective has no doubt been preserved in a specialized sense, the derivative macto:realso admitting of a "bad meaning", viz. "to afflict or trouble a person with .. ": cf. e.g. magno mactare malo "to afflict with great evil", which, I suppose, may bave 'originally' meant: "to make somedoby greater (to increase him) with a great evil, to heap evil on him"'. In consideration of alJ this is beyond doubt that • magere, mactus, mactare belong to magnus "great" and to the above Sanskrit words. lf I bave been right in assuming the identity of mdhas "gréatness, majesty" and mdhas "religious festival or ceremony" and in regarding mahayati "to make great, magnify etc." as closely relateci to mah- "great", there is no longer any rational ground for the much discussed alternative: does the Latin mactus belong to m4has "greatness" orto mdhas "festival"? 11•

Secondo questa prospettiva si avrebbe un primitivo valore astratto dell"'accrescere = essere grande", conservato in entrambe le tradizioni ma con una fissazione tutta romana nel concreto "sacrificare" a Roma. Questo valore astratto era stato rivendicato per Roma poche righe sopra contro la concretezza già sostenuta dal Wagenvoort (1947 "Rom. Dyn." p. 119 sgg.). Ma il discorso è parziale perché non rende conto di magmentum che, come offerta può si essere una concretizzazione romana di un concetto astratto, ma che invita comunque a una revisione generale. La materialità di mah- in ambito indiano è stata rivendicata da R. LAZZERONI (pp. 48-50; anche al seguito di H. LODERS,Varuna II pp. 555 sgg. e 559; sulla ideologia di vrdh "crescere"). Dopo alcuni esempi relativi a mahas come crescere materiale, Lazzeroni riprende Liiders e conclude (cito eliminando le note implicite nei riferimenti già dati): H. Liiders ha mostrato che nell'ideologia vedica l'inno rituale, la preahiera, sono equiparati al cibo e alla bevanda sacrificale e producono sul corpo degli dei lo stesso accrescimento materiale: «proprio come la bevanda e il cibo sacrificale saziano nutrono e rafforzano il dio nel corpo, cosi anche per mezzo del canto si ottiene un rafforzamento non del suo senso soggettivo di forza, ma della sua forza e grossezza oggettiva».

R V, III, 34, 1: brahmajatas tanvll vllvrdhllnobharidlltrailpf(lad rodasTubhe «Stimolato dal brahman-, accresciuto nel corpo, il munifico (se. lndra) riempi i due mondi» RV, VII, 19, 11: nQ indra Jara stavamllnaQ/1brahmajatas tanvll vavrdhasva«Ora, o signore lndra, invocato per l'aiuto, stimolato dal brahman-, rafforzati nel corpo». L'equiparazione del componimento religioso al cibo sacrificale sta, dunque, alla base del valore concreto di mah-: la preghiera, proprio come il cibo sacrificale, è il nutrimento degli dei e li rafforza nel corpo rendendoli capaci di rafforzare, a loro volta, chi li prega 12• Se, dunque, è vero che mah-, riferito agli dei, caratterizza la loro superiorità rispetto alla condizione umana 13, è anche vero che questa superiorità implica una precisa nozione fisica. Il principio non è privo di riferimenti tipologici: nel pensiero cosiddetto primitivo, ha osservato S. Eitrem ", le dimensioni superumane caratterizzano spesso la rappresentazione degli dei e dei eroi 15•

[Faccio notare - qui en passant ma con pregnanza più sotto a proposito di alo: •- oleo - che mah- compare più spesso al causativo senza sostanziale differenza di si155

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gnificato: esempi in Gonda cit., cfr. Lazzeroni cit.]. La tesi di Lazzeroni (-Liiders) ha tanto più valore perché è del tutto svincolata da lat. magmentum; ma una volta che si è dimostrato che latino magmentum - connesso con l"'augere" (cfr. il derivato mactllre)....... è il sacrum che 'si dà' agli dei (e quindi si distrugge, v. Pltosoocno 1985, "Sacerdos"; 1984, "Rite", cit.), il tutto viene a configurarsi nel senso che ciò che si dà agli dei li 'accresce': questa ideologia indeuropea antica e tipologicamente arcaica si è poi fissata nelle singole tradizioni in armonia coll'evoluzione ideologica specifica: verso l'ideologizzazione e l'astrazione in India (anche in connessione con le fonti innologiche), con conservazione della concretezza nello strumento sacrificale a Roma (anche in connessione con le fonti rituali che, però, conservano il senso

dell'augere). Adoleree connessi Da quanto visto finora il sacrificio concerne la distruzione di una parte per gli dei (sacrumdare);questa parte, come si desume da mactus e magmentum, era concepita come strumento che "fa crescere" gli dei. Questa "crescita" potrebbe restare nell'ambito di un crescere del "mana" che, qui come altrove, prima che errata, è una non spiegazione (cfr. anche appresso). La giunzione dei fatti vedici e italiani propone che lo strumento della crescita sia stato il cibo, qui cibo degli dei. Si può mostrare che il cibo dei dèi era differenziato dal cibo degli uomini per essere "degli dei" cioè a loro destinato ("sacrum" in termini italici) ma non per essere un cibo speciale, cioè non era un cibo speciale nella funzione che è propria allo statuto di 'essere cibo'. Ciò porterà lontano, fino alla ricostruzione di una articolata unità concettuale di cui sarà da valutare oltre o più che la posizione ideologica e strutturale, l'evoluzione. Il termine chiave dell'operazione è il verbo adoleo 16 di cui va rivista la posizione, chiarissima agli antichi ma oscurata o banalizzata dai moderni etimologi. Riprendo verbatim la prima parte della voce del Thesaurus(I, col. 793) contenente le testimonianze erudite e grammaticali (tenuemente commentate): adoleo -!vi, -ultum, -ere. [cf. esse videtur cum umbr. w;Jetu 'incendito, adoleto ', fortasse cum o/ere Th.J Non. 58 adolere verbum est proprie sacra reddentium, quod significat votis vel supplicationibus numen auctius facere, ut est in isdem 'macte esto' (c/. Serv. Aen. 4, 57), et intellegi debet ab eo, quod est 'adolevit' id es: crevit, et 'adultum', quod est auctum et aut aetate aut aliqua causa maius solito factum, ducere proprietatem. /audat deindelocos Vergilianos. similia affert p. 247, ubi vertit augere honorare propitiare praemittit tamen adolere est urere. Serv. Aen. I, 704 adolere proprie est augere. in sacris autem XC11't',ùfY111.10J1ÒY adolere per bonum omen dicitur; nam in aris non adolentur aliqua. sed cremantur (similia SceoL. Stat. Theb. I,. 514). SERv. ccl. 8, 65 adole: incende. sed XC11ÙÙfTlll.10J1ÒY dicitur, nam 'adole' est auge. cf. GLOSS.V S49; 4 nimirum subest doctrina vetustioris grammatici, qui adoleo et adolesco utique eiusdem stirpis et abolere et adolere contraria esse voluit. Dtow. gramm. I 373, 18 'adolui' volunt quidam in sacrificio dici et venire ab eo quod est 'adoleo'. sed et in sacrificio active (Accius codd.) Cassius ad Tiberium secundo 'adolevi' dicit sic (v.l. 61) et in passiva declinatione 'adulta', non 'adoleta'. Probi observationes ridetur turbasse PlUSC.gramm. Il 439, 4, cuius codices habent adoluerunt. addii idem: passivi quoque participium 'adultus' pro 'adolitus' prolatum est (sequitur focus VAL.ANT. I. SJ). praecedit p. 488, 19 aboleo abolevi, adoleo adolevi. cf. tamen Gwss. Il 564, 19 adoletum victimatum bustum. Il 382, 23 ~ÀolCCIUO'to( v) adolitum. V 437, 20 adoleta quae in areis sunt combusta. de structura dat vilia ARvs-MEss. gramm. VII 457, 24, verbum priscum et religiosum (hoc verum inest in NONISERVItestimoniis) casu nobis non agnosciturante VAL.ANT., nam de ENNIOresesi dubia.

Un primo dato fondamentale: nessuna connessione è data con oleo 'sapere odore 156 ---------------------------

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di ... », unico verbo semplice che pure si sarebbe prestato semanticamente alla trappola in cui sono caduti gli studiosi moderni, a partire dall'estensore della voce del Thesaurus che premette gli esempi: «accendere comburere, plerumque de hostia ture inferiis, quorum/umus odorque dis sunt accepti (corsivo nostro)». Le decine di citazioni che seguono mostrano chiaramente che «plerumque etc.» è una invenzione esplicativa pseudoetimologica su odor e ollre. [Anche qui riprendo verbatim il seguito della voce del Thesaurus:] I accendere, comburere, plerumque de hostia ture inf eriis, quorum fumus adorque dis sunt accepti: ENN. (si suntipsius verba) Lact. inst. I, Il, 63 hostiam ... totam adolevit. VAL.ANT. ann. frg. 61 eo omnes hostiae vituli viginti et septem coniecti et ita omnia adulta sunt (Corp. Xl 1420 bosque et ovis ..• mactentur eaeque hostiae eo loco adoleantur). VEllo. ecl. 3, 65 verbenasque adole (NON. 58 adde cumula GLOSS.113, 31.-v,falsum utrumque; recte NoN. 247 SEav. r.l. 3,f) pinguis et mascula tura. Aen. 3, 547 lunoni Argivae iussos adolemus (Gwss. turificamus) honores. Ov. met. 8.739 qui divum spemeret et nullos aris adoleret odoDiom. gramm. I 373,20et Prisc. gramm. 11489,4 est (at Prisc.) contra res (honores ç). CASSIVS Aegyptiis maximum sacrificium, ubi integrum anserem adoleverunt (adoluerunt Prisc. codd.). PI.IN.nat. 28, 27 in mensa utique id (cibum e manu prolapsum) reponi adolerique ad Larem piatio est. TAC. ann. 6, 28 subire patrium corpus inque Solis aram perferre atque adolere narratur phoenix. PAVL.FBST.5 altaria sunt quibus igne adoletur. 181 equum ventis immolant ibidemque adolent. C.AllM.adv. Mare. 3,147 incenditque aras adolenda cada vera lucos nat. 7, 25 (bis). PACIAN.par.Stura DtcT. 5, 8. VVLO.exod. 30, 1 (lignis ed. princ.). AII.NOB. thymiama (lii reg. 9, 25). exod. 30, 1 thymiama (lii reg. 9, 25). exod. incensum (6uy.~1v: 40, 5. 40, 25 et saepissime in VVLO.).lev. 2, 11 nec quidquam fermenti ac mellis adolebitur. 4. 26 adipem. num. 15, 3 adolentes (mxi'pot1)odorem suavitatis domino de bobus sive de ovibus. Pavo. Symm. 1, 222 tura. Cl.Avo. 10,210 fiamma lucos adolete Sabaeos. MACll. sat. l, 16, 3 hostiam. SmoN. epist. 3, 14, 4 incensum. dicitur de ipsis flammis igni ara: 0v. epist. 15, 333 adolebunt cinnama flammae. fast. I, 276 baec (ara) adolet flammis cum strue ferta (farra codd.) suis. 3,303 viscera qui tauri flammis adolenda dedisset. PEnoN. 115 Licbam ... rogus •. adolebat. VAL. Ft. 3,443 APVL. met. 3, 18. transjertur ad ipsa loca, quibus accenditur quaeque fumo et odore complentur: Lvca. 4, 1237 sanguine ... conspergunt aras adolentque altaria donis. VERO.Aen. I, 704 flammis adolere (Ssav. colere) penates (MAca. sat. l, 24, 22). 7, 71 castis adolet dum altaria taedis Lavinia. Su.. Il, 276 adolere focos. TAC. hist. 2, 3 precibus et igne puro altaria adolentur. ann. 14, 30 cruore captivo adolere aras. Awn. losepb 3, 17 thymiama, quo adolent altaria (ace.) piae mentis. CYPJl.GALL.gen. 326 iud. 267. OJlEST. 33 Minervales donis adolebat (addebat codd.) Athenas. STAT. silv. 2, 4, 34 Assyrio cineres adolentur amomo. PAVIL.NoL. carm. 6, 37 antistes sacros adoleverat ignes. ENNOD.opusc. 9 p. 417, 15 turicremis Panchaeus adoletur ignis altaribus. audacius i. q. colere: Avo. civ. 10, 3 deum suavissimo adolemus incenso. u.sulatiore in re non sacra: de accendendo ignem, conquendo comburendo materiem: MollET. 37 fiamma gelidos adolere liquores. Ov. met. l, 492 leves stipulae demptis adolentur aristis. CoLVM.12, 31 corpus bestiolae igne adoleatur. GELL. 17, 10, 7 petivit ut Aeneida ... adolerent. ACTA Arv. a. 224 5 arbor(um) ... adolendar(um). TEllT. nat. 2, 17 vellet luno Punicam urbem ... ignibus adoleri (-ere Agob.). Hsoss. 5, 20, 2 subiectis ignibus ... instrumenta. STAT.Theb. l, 514 focos. SoLIN. 15, 3 ossibus adolent ignes focorum (alant MELA2, 15). APVL. met. li, 24 flammis adultam facem. EVTllOP.10, 18 prunas (PRvo. Symm. 2, 1087). AvsoN. 466, 4 ignem (AMBR.off. l, 25, 119 fug. saec. l, 3. HEOBS. 5, 42, 3 igne adulto). Aloa. exam. 2, 3, 14 flamma adolet ignem. ibid.: ignis adoleverit lumen. transiate: PANEo. 12, 23 cum pauci homines ... totius incendium continentis adolerent. AVJEN.Arat. 389 tribus stellis adoletur dextera Cancro chela. 1280 aurea cacio ... adolent Pisces incendia. 1357 Titan istud astrum adolet flammis. AMBa. exam. I, 8, 31 libidines. S, 3, 7 fotu ... sui caloris animare et spiritu adolere (alere cod. interp.) suofetus. Noe 16, 57 insipientis anima ferinos acuit motus atque adolet venena serpentum. paenit. l, 13, 63 luxuria ... carnis culpam adolet. in psalm. 118, 6, 18 amoris ... vim .. sermonibus. 18, 19 vaporem fidei et devotionis (syn. infiammare, accendere). HBOES.5, 3, I Titus bellum adolebat (c/. p. 802, 29. Pttvo. Symm. 2, 1076 resides ... faces amorls.

A parte gli esempi assolutamente preponderanti in cui non vi è questione di odori, è ----------------------------

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significativo in negativo che proprio dove si parla di profumi l'accento sia posto sulla loro combustione e non sul loro profumo. Data la pseudotrasparenza con ollre è poi sbalorditiva la rarità di casi come il gioco pseudoetimologico di Ovidio ''olere odores" e la tardività del conferire con ollre. Anche qui è istruttiva la citazione integrale del Thesaurus (in cui si noterà l'insistere sugli odori in modo del tutto deformato e deformante). O recentiora: I confertur cum oleo (afjinis est usus antiquus de ture sim.); oritur sensus fragrandi: Ps. APVL. herb. 42, 7 codas tres, quae adolent suavitcr. GLOSS.IV 304, 43 adolet incendit vel valdc olct. adolentpro olent cod. B. PLAVT.Cas. 236.

La sfortuna di questo verbo negli studi moderni è testimoniata dal lemma dell'Ernout-Meillet5 (p. 9) (qui è anche riassunto un precedente studio di Ernout): adol~. ~. eur, adultum (adultus dans Ics Gramm., cf. Thcs. 1793, 41 sqq.; adolitus, adoJl.. tus dans Ics Gloss. ), -ere: fairc brQler, consumer par le fcu. Appartient surtout à la langue religicusc; n'apparalt dans la langue communc quc cbcz Ics écrivains dc l'Empirc, surtout chcz Ics poètcs. Verbc rare, de coulcur arcba.lque. Le sens dc «faire bnller» est bien attesté, tant dans Ics textes que par Ics Gloses; cf. Vg., B. 8, 6S, uerbenasque adole pinguis; Ae. 3, S47; 7, 71, etc.; et, entre autres, Festus, 190, 24, Lacedaemonii in monte Taygeto equum uentis immolanl, ibidemque adolent, ut eorum fatu cinls eius per jinis quam latissime differatur. C'est ce scns qui est conservé aussi dans l'iodigitamentum Adolenda et le composé adolefaciD (Acta Aru. 16, a. 224). Toutcfois, en raison de la rareté et du caractère technique du verbc, le scns ancien a cessé rapidement d'ètre compris et l'étymologie populaire a rattaché adoleD à adollscD, l'opposant à aboleD, sur le modèlc fourni par Ics groupes adeo, abeD, etc. Ainsi Servius, Ae. 4, S7, et Nonius interprètent adollre par auctius facere, auglre, et Tacite écrit, A. 14 30, captiuo cruore adol~ penates. lnversement, adoleD semble avoir déterminé certains emplois dc aboleo; v. Emout, Pbilologica, I, 53 et s. Plus tard mème, a été rapproché de o/eo«scntir».

Se c'è una cosa evidente è che gli antichi conoscevano benissimo gli usi di questo verbo malgrado non ne capissero più (cioè non fossero più in condizione di capirne) le precondizioni semantiche e pragmatiche che avevano portato agli usi e significati attestati; e ciò è riprova della bontà dei significati portati: "auctius facere", "magis augere'' non può essere un autoschediasma e il collegamento con mactus non può essere una causa ma è una conseguenza del significato (tanto più che come si è visto sopra lo stesso valore di mactuslmactare come "magis augere" costituiva già una difficoltà). Serie di etimologie disperate si hanno per quanto concerne quelle comparative in WALDE-HOFMANN (I pp. 13-14), mentre sono da prendere in considerazione il confronto con umbro ufetu da sempre avanzato (AUFR.ECHT-KnlCHHOFF e seguenti "adoleto"; eccezioni: PAULI, DEVOTO; difficoltà in ERNoUT,1961) 17 e la spiegazione come causativo di alo, •oleo "mache wachsen", avanzata dal Tm.nlNEYSEN (1907, p. 800) ma poi dallo stesso abbandonata per oltre (nel Thesaurus; sia pure "fortasse" cfr. anche ALL 13, p. 13). Umbro ufetu (imperativo) non può essere trattato in questa sede perché il suo valore non può essere definitivo etimologicamente e neppure contestualmente, ove - quale hapax nelle tavole lguvine - "contesto" sia ristretto a quello immediato; per le caratteristiche sia di redazione che di contenuti del rituale in cui occorre il termine (PROSDOCIMI, 1978, Umbro ad TI III-IV, completamente rivisto in TI 11-111),il 158 ----------------------------

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termine non può essere discusso che nel contesto più ampio, quale implicazione (dare e avere) del senso del rituale, ancora da chiarificare. Per quanto concerne il nostro ufetu, può significare "accendere o alimentare il fuoco" (quindi con -oleo di adoleo:v. sopra e appresso) e anche, sia pure meno verosimilmente per semantica (valore contestuale) e per morfosintassi (transitivo con oggetto e non intransitivo) "odoribus inbuere" (DEvoro, cit. per presunta corrispondenza con lat. oleo, intrinsecamente intransitivo); quello che pare escluso è un valore "sacrificare". Quale ne sia il valore e il rapporto con ad-oleo, umbro ufetu è come minimo neutro per l'etimologia latina esposta sotto, mentre non è vero Pinverso: un suo collegamento all'insegna del "bruciare, accendere" (altamente probabile) sarebbe di grande significato per lo sfondo ideologico italico in quanto comune al latino in una evoluzione semantica non ovvia. [Su Adolenda, dea-indigitamento degli Arvali, v. l'Appendice A] Il valore d'uso di lat. adolereè "accedere, comburere", di sacrifici; la spiegazione di questo valore come "auctius facere" degli antichi, non essendo giustificata da niente, deve essere fondata su una dottrina antica di cui si era persa la ratio ma non il dettato. Sul collegamento - prevedibile da quanto si è visto per mactus - ritorneremo; prima è da considerare la chiusa "auctius facere": questo valore rende sicura anche semanticamente l'etimologia formale quale causativo di alo avanzata da THUllNEYSEN e rifiutata senza motivo nel W ALDE-HoFMANN che, quasi contraddicendosi, trova difficile spiegare quel vocalismo o che il causativo spiega, anzi esige; il residuo di difficoltà tra a e o si risolve qui con una corretta notazione faringale: • Hiel- in alo vs. • Hz/in -oleo 18 (il causativo su un verbo già transitivo ha un parallelo nell'indiano mah-, di norma come causativo come si è visto sopra: non dovrebbe essere una pura coincidenza, ma dovrebbe essere insita nella specificità della semantica connessa con una determinata ideologia di questo "far crescere"). Quanto al valore "auctius facere" questo deve essere primario e non invenzione dei grammatici e/o antiquari perché non era fondabile su niente; non solo alo non è menzionato nelle spiegazioni antiquarie e/o grammaticali, per le quali non sarebbe nella logica dell'etimologia antica - basata più su assonanze .vocaliche che consonantiche - un congiungimento con alo; in più, e decisivo, i grammatici tendono a espellere le forme come adultus che portano al paradigma di alo per adoletus(o adolltus) "far crescere" del causativo si appaia perfettamente allo stativo incoativo ado/escoe a tutta la famiglia: il modello di crescoha fornito verisimilmente il paradigma -evi,-etum che per la specularità della coppia adoleo-adolesco(specularità arrivata fino all'uso di adolescoper adoleo in VERO., Georg:IV, 379, su cui SERVIO, anche auct.), è entrato nel paradigma di adoleo.

Adoko "auctius facere" > "bruciare" (agli dei). La riprova della spiegazione data sopra per ado/eoviene da aboleo che ne è l'antonimo formale nell'opposizione ad- - ab- e ne è pure l'antonimo semantico ove si riconosca la radice• Hiel- di alo nella morfologia di causativo: se adoleo è il "far crescere", aboleo è il "far decrescere" > "annullare". Anche qui l'Ernout-Meillet 5 (p. 4; evidentemente Ernout che ne aveva trattato in precedenza) stravolge dati e ragionamento abollo, -llscO ont formé couplc antith~quc avec ado/esco,adolelJquc l'étymologic populairc

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avait rapprochés (cf. adoleo); et l'on peut se demander si ce n'est pas le sens de «auglre» donné à adoleo qui a amené la création de aboleo; cf. Emout Philologica, I, 53 et s.

Non è etimologia popolare, nel senso di giunzione di quanto era disgiunto, ma è etimologia propria che, all'opposto, la storia (sinonimo di quella dizione pessima- in quanto connotata da un giudizio di valore - che è "etimologia popolare") ha disgiunto: adolere"bruciare" e abolere"distruggere" non sono associati, né possono esserlo, perché l'antonimia di ab- vs. ad- ne rende incomprensibile la quasi-sinonimia; l'antonimia è possibile solo al livello di adoleo "auctius facere" vs. aboleo "• minus facere". Resta però un punto del ragionamento, e cioè che vi deve essere stata correlazione tra i due verbi per importare in aboleo il paradigma in -evi, che tuttavia non è arrivato ad• aboli!tumper abolitum di causativo (cfr. monitum e nota 18). Ma ciò, nella corretta prospettiva significa solo che "auctius facere" degli antiquari/ grammatici come valore di adoleo - condizione di antonimia con aboleo e non più esistente nel valore "bruciare" - doveva essere presente e vitale in data relativamente recente, anche se la documentazione letteraria porta il solo valore "bruciare'': ciò non solo conferma che gli antiquari si fondavano su una buona tradizione, ma pone la questione di antichità e conservatività della tradizione teologica "esplicativa". Adoleo come "far crescere" restituisce non per "etimologia popolare" - cioè per convergenza secondaria- la originaria specularità della coppia adoleo ''far crescere" vs. adolesco "crescere" (cito qui dal Thesaurussolo le attestazioni antiquarie; gli usi nelle fonti sono ben noti): 2. adolesco, -evi, -ultum, -ere. (cps. ex ad et alescere, cf c. ab-in-ex-olescere. Th] cf VAB.Ilo rust. 1, 44, 4 p. 801, 42. NoN. 248 adolescere crescere, unde aduliscentem dicimus. PAVL.Fl;ST. S 'adolescit' a graeco il&fiox,.,(aliso cod.) id est adcresco venit. unde fiunt 'adultus adulescens'; 'altare', eo quod in ilio ignis excrescit, et 'exoletus', qui excessit olescendi id est crescendi modum, et 'inolevit' id est crevit. cf. p. 80 sub 'exoletus'. AoROBC. gramm. VII 118, 21 adolescere augmenti est, inolescere coaugmenti, exolescere evanescendi. DroM. gramm. I 373, 17 adolesco adolevi facit. legituradolui apudVAB.It. I. IS, quodPJusc. gramm. 11480, 2prave

ad ad oleo re/ ert.

La morfologia di preteriti e participi in -ui e -ulto- nei paradigmi dei due verbi è un indice della storia morfologica: un causativo •-oleo che avrebbe dato un paradigma • o/ui (* -ulu1),-ultum, ha le forme "normali" comuni con lo stativo -o/esco,ma ha pure -olui, attestato e attribuibile a entrambi. Ciò significa una storia morfologica complessa basata sul presente dove si è imposto -i!-che ha fornito la base per un perfetto "regolare". cioè automatico o almeno formato secondo un determinato automatismo sul tema di presente, il che è caratteristico della ristrutturazione del sistema formale indoeuropeo come sistema latino e italico; -i!- in adolevidi adoleo non può provenire che dalla specularità di adolesco dove -i!-può essere, insieme, primario di stativo e per influsso di cresco,nel quale però -i!-appartiene alla radice; a sua volta il grado o di adolescopotrebbe essere primario, ma può anche essere dovuto a un incrocio (o fondazione) su -o del causativo ad-oleo. È una storia complessa, in cui pare impossibile ricostruire la sequenzialità- se sequenzialità c'è stata - ma di cui si possono ricostruire le relazioni logiche. Lo schema dei rapporti, anche senza l'indicazione delle frecce che segnalano possibili sequenze o direzioni logiche, rende iconicamente l'evidenza dell'antico sistema

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che riuniva col rapportodi transitivo-causativo vs. intransitivo, adoleovs. ado/esco. -ui -ui

moneo --

~ (ad-) oleo

( --

?) (ad-) o/esco -

/\ -l-ui . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . (pateo)

crl-sco --

ollVi

i

crevi

Anche in questo caso vi è la questione della cronologia relativa e, potendo, assoluta: quando il sistema ha cominciato a dissolversi? Vi sono indizi - come già per ado/eopreso isolatamente - che il sistema antico, o almeno la possibilità di risalirvi, sia arrivato a fonti cui potevano attingere gli antiquari. E con questa indicazione di massima chiudo il discorso "fonti". Vi aggiungo un possibile indizio cronologico. È possibile, forse probabile, che vi sia una traccia formale o di cronologia relativa nel vocalismo -()- di adolescorispetto a -u- di adulescens(molto più raro -o-): altamente significativa è la compresenza di -o- in adolescerevs. -u- di adulescensnei grammatici/antiquari - cioè nelle loro fonti - proprio nel proporre la connessione, anzi la derivazione dell'uno dall'altro. Una -èJ-si è oscurata in un caso e non nell'altro, ed era una -èJ-che non era in condizioni di oscurarsi in quanto seguita davocale -e- e, comunque, non si vede il perché di un oscuramento in un caso e non nel1'altro. Vi sono vari livelli di spiegazione: 1) (sicuro) adu/escensnon ha seguito adolescoperché da vecchia data ha seguito una sua via semantica, andando a fissarsi in una casella tecnica della tassonomia dell'età dell'uomo; ma ciò non spiega -o-vs. -u-; quindi: 2) se adulescensè termine uscito o autonomizzato rispetto al paradigma di adolesco il fenomeno gli è proprio: -o- diviene -u-perché uscito dal paradigma, e quindi fonetico, mentre -o- di adolesco,in quanto nel paradigma, deve essere morfologico; ciò significa: 3) la presenza di condizioni morfonologiche diverse, e queste probabilmente dovevano esserci dei verbi oleo e o/escocome autonomi e sufficientemente vitali. Se ciò è vero tra molti possibili il termine discriminante è l'apofonia latina: adulescenssi è autonomizzato prima e quindi -o- ha subito la sorte di una breve atona preliquida ("pinguis") mentre -o-,non in composizione, in quanto tonico è rimasto • -o- e di qui ha mantenuto il paradigma dei composti: pertanto un • oleo causativo rispetto ad a/eredeve essere stato vitale durante e almeno appena dopo la apofonia latina 19•

Nutrirecome "far crescere" Finora si è parlato genericamente di "(far) crescere"; ma non è un far crescere generico bensi un (far) crescere per nutrimento, come è evidente dal latino a/ere20• Ciò ha profonde implicazioni ideologiche sia per il versante "laico" che per quello "religioso". Per il versante religioso l'idea del "far crescere" come "onorare, sacrificare" la divinità è stato associato all'idea di "mana" sia per sscr. mah- lat. mactus che per augere21 sia per adollre tramite Adolenda (W AOENVOORT 1947, Rom. Dyn, p. 80 sg. v. anche appresso 'Appendice'). A parte le rezioni anti-manai-----------------------------

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22 , il saggio di LAZZBlloNI ste di DUMBZIL su sscr. mah- presuppone un'interpretazione più concreta sia per il cibo che fa crescere sia per l'implicazione che la divinità che cresce grazie al cibo si configura come antropomorfa è neaativa, ma non esclusiva per il "mana". La nostra interpretazione di mactus e magmentum congiunta al sacrificio come distruzione della porzione sacrificale in quanto "(dis) sacra" conferma un'interpretazione concreta, poi dissolta a Roma (e probabilmente dell'Italia) in correlazione alla assenza di mitologia o alla diversa configurazione che assume a Roma (e in Italia) la funzione che altrove è espressa dalla mitologia. Quale sia la motivazione di ciò è evidente che l'assenza di una mitologia di tipo indiano o greco toglie le premesse, - molte se non tutte - alla concezione per cui "far crescere= sacrificare gli dei" si configuri come un nutrirli allo stesso titolo in cui si nutrono e quindi crescono i mortali. Ritengo utile qui riprendere il concetto di "mana" in termini negativi, e ciò per evitare la trappola che il "mana" presenta come termine esplicativo, anche ove sia negato: la reazione al manaismo del tipo di quella di Dumezil va in senso opposto, ma sta nello stesso binario dei sostenitori del "mana" specialmente per quanto concerne la trasformazione di concetti ideologici in giudizi di valore, come è nell'uso del termine "primitivismo" per l'esplicarsi del numinoso in un modo piuttosto che un altro. Non neghiamo, anzi sosteniamo fermamente 23, che nell'asse assoluto dell'evoluzione ci siano forme sociali - ideologie e correlato modo di darsi - che nascono e che quindi rappresentano una evoluzione assoluta, dal più primitivo ( = prima assoluto) al meno primitivo (=dopo assoluto). Ma riteniamo che ciò sia applicabile a momenti cruciali e assoluti dell'evoluzione filogenetica (anche qui ancora senza giudizi di valore): non pare il caso di Roma e dell'Italia antica. A parte il discorso tutto da verificare (e per me altamente discutibile) che mitologia e antropomorfismo rappresentino qualcosa di "non-primitivo" - o di menoprimitivo - la questione centrale non è se vi sia "mana" ma delle modalità in cui può manifestarsi il divino in assenza di mitologia e di correlate personalità divine ben disegnate, come non è il caso storico di Roma (e dell'Italia antica) che non ha (o ha perduto) la mitologia: è evidente che non può configurarsi che come manifestazione di "forza divina", e ambito di azione, che è allo stato puro ove non ci siano precedenti figure divine ('teologia dell'Atto') e che tende a espandersi a detrimento delle figure là ove ci sono 24• La restituzione del sistema a/o-(ad)oleo porta un dato importante se non decisivo: la pertinenza del "crescere-far crescere" è del cibo, non come cibo degli dèi, ma semplicemente in quanto cibo. Solo in quanto "cibo degli dèi" - per dèi che si configurano allora in termini antropomorfi - il "(far) crescere" assume caratteristiche particolari quali "sacrificare", "bruciare", "onorare". Per attenerci alla radice •Hiel- di a/o/adoleo, le specializzazioni semantiche dei suoi derivati - dal germ. alt a lat. altus, indoles, pro/es etc. - implicano una eccezionale centralità del "far crescere" in quanto dovuto al cibo. Ciò potrebbe reintrodurre il concetto di "mana" spostato sul "cibo". Si tratterebbe comunque di una questione diversa e di un altro orizzonte ideologico e cronologico. Per ragioni generali, anche oltre quanto detto sopra, non ritengo utile - se non a fini di euresi intellettiva - la sovrimposizione di concetti esterni quali il "mana"; ritengo più corretto, comunque utile, di trarre le implicazioni dalla restituzione di relazioni-identità che portano alla pregnanza eccezionale di concetti poi banalizzati. Non sta peraltro

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a me restituire il quadro cronologico e culturale in cui il "cibo" può avere avuto questa centralità: ricordo solo che può essere una costante che si è rinnovata a seconda delle varie situazioni (anche "stadi") storico culturali, e che solo di recente nella cultura borghese occidentale, di norma ben pasciuta, si è banalizzato. Alla luce di quanto detto ritengo sia da riprendere i collegamenti semantici e ideologici che sottostanno al filone lessicale che unisce lat. Ceres, creo, cresco, gr. xops-ecc. (convenzionalmente da comprendere sotto la radice • ker H1) 25• Lo sfondo ideologico e culturale qui pare evidente, la cultura cerealicola; quello che è da verificare è se vi sottostia solamente il lato "crescere-far crescere" o se questo non sia collegato, fino a una possibile quasi identificazione, con il cibo "cereale". Per porre la questione si deve ricorrere a un altro lessema del campo semantico del "crescere", quello rappresentato dalla radice • leudh- che riporta un "crescere interno" 26 quindi con una potenziale polarizzazione rispetto al "crescere per somministrazione di cibo (i.e. dall'esterno)". Il filone di Ceres sembra appartenere al tipo di aloladoleo: ciò pare suggerito da alcuni indizi del filone in Italia (Cerls è anche il pane) ed è confermato da xop,- del greco. Ciò pone il problema della posizione reciproca nell'ambito semantico tra • Hiel- e• KerHr cosi come •!eudh- deve essere correlato con •teu(H). Vi è un'ulteriore correlazione: tra auglre e • maglre e, attraverso questo, il senso del "crescere" di auglre rispetto a tutto il resto: non si dimenticherà che con auglre è connesso augur(ium), augustus e, in India, l' ojas-. Ma, a questo punto, il tema che ha già richiesto parecchia carta richiederebbe, oltre a nuova e molta più carta, che sarebbe il meno, molte più forze ed impegno. Mi limito a un ultimo punto: l'etimologia di •Hiel-. •H,el- di alo/(ad-)oko "crescere/far crescere"come "nutrire" e ittita hallcl- "ce-

reali,grano". Tramite la restituzione del sistema alol(ad-)oleo siamo arrivati a postulare un •Hiel-, fornendo non ancora un'etimologia, ma un indice di collegamento formale con un contenuto semantico che porta al "crescere (tramite cibo)": anche cosi non si è ancora al minimo di ciò che si intende (o almeno io intendo) come "etimologia" e tanto meno a quello che si intende come etimologia remota, cioè il riscontro di forme apparentate in altre lingue (qui specificamente l'indeuropeo). Una etimologia di questo tipo esiste con l'ittita; ma quello che è importante, anzi centrale, non è il fatto che esista, ma i termini in cui - oltre che esistere, che può esseredovuto a una conservazione lessicale casuale - è stata raggiunta: come risultato, e non come partenza, di quanto si è identificato all'interno del latino tramite una predittività, a partire dalla postulata radice • Hiel- in altre lingue indeuropee, verificabile praticamente solo per l'ittita, lingua per cui in casi di questo tipo la ricostruzione con laringali è significativa rispetto alla ricostruzione tradizionale; la predittività, cioè la proiezione in ittita di • Hiel-, trova un riscontro formalmente preciso, semanticamente rispondente alle attese (che conferma e precisa) e, infine, tale che fornisce di etimologia una parola ittita già considerata di etimologia oscura (o con più etimologie senza fondamenti validi, il che è lo stesso). Ciò ha due conseguenze rilevanti: 1) conferma dall'esterno, anzi ne è riprova a mio avviso decisiva, l'etimologia interna di alol(ad-)oleo, tramite •Hiel 'crescere (per cibo)'; ---------------------------

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2) apre nuove prospettive culturali per fasi remote e contribuisce a riproporre gli aspetti tassonomici e/ o areali di ciò che implica la cerealicoltura per la nutrizione; 3) propone un nuovo motivo per le conservazioni che accomunano il latino e l'ittita. Secondo la dottrina corrente - comune a tutti i "laringalisti", da quelli minimali che ammettono una sola laringale, a quelli che ne ammettono di più - -H2-dovrebbe dare in ittita h-; in quanto segue dovrebbe rispondere a -e/- o -al-. E l'ittita risponde puntualmente 27• ha/ki- c. 'Oetreide, Kom' (entsprechend akkad. u1{atum), gelegentlich auch in der Bedeutung 'Emte (ertrag)', sowie spezieU 'Gerste' ( = akkad. le'um, s. ausf. HoFPNER.Alimenta S. 60-64 mit. Lit.); auch vergèittlicht dHalki (entsprechend ideogr. dNISABA, ph. Kait, s. LAllOCHB Recherches S. 26, 73, 103, vgl. auch lat. Ceresals Personifikation der Nahrung). Als Kulturwort wohl fremder Herkunft, Ktl0NASSER VLFH 22S; EHS 211 (wo weitere Kulturwèirter und religiose Termini mit fremdem Suffix -k(k)i-) denkt an das Hurrische als aebende Sprache; vgl. auch SoMMEllHuH 9S; RoSENUANZ, in: JEOL 19, 1967, S06; GuSMANILI 30. Das Wort scheint dann auch in andere Sprachen weiter gewandert zu scin; NEUMANN(brieflich) match auf gr. .O.içm. 'Speltgraupen' (nur ben Chrysipp von Tyana (bei Athen. 14, 647 d), also einem kla. Autor) aufmerksam, daraus wiederum wird lat. a/ica, halica 'Speltgraupen' entlehnt scin (W. - HoPMANN129; Flusx GEW 173); auch etr. ha/xZll'Bier' kann damit zusammenhigen (PFIFFIG, Religio lguvina, 1964, 77 Anm. 228).

La parola ha avuto molte etimologie, di cui nessuna evidente (il che significa che, finora, è senza etimologia): Von den zahlreichen indogermanistischen Erklarungsversuchen vermag keiner zu iiberzeugen, vgl.: HaoZNt SH 12 (zu gr. XÀ6'1J 'Gras, Kraut'; phryg. C(Àxia. À«XClVOt (Griinkohl, so Hesych); aksl. zlakb 'Gras' usw.; wiederholt von MAllST1lANDBR 134, 145; PBDBRSBN Groupement 46; Hitt. 177; SPBCHTUrsprung 187; DucHBSNB-GUILLEMIN 86; HAMMBRICBS6; aber schon von CoUVJtBURH S9; W. - HoPMANNI 514; SZEMERÉNY 1942, 398 abgelehnt). JUllBT,in: REL 16, 69 f. (zu lat. legumen, schon von W. - HoPMANN1871 abgelehnt). JUllBT 12 (als Erbwort zu lat. alica, halica 'Speltgraupen', s. o.; wiederbolt von PotoMÉ, in: Lg 28, l 9S2, 451). HAMP,Evidence 132 (zu gr. ciÀf'l n. 'Gerstengraupen'; alban. elb 'Gerste'). CoP, Hethitica 4, 1971, 31 f. (aus idg. +a/g"h- in ai. drhati 'ist wert'; gr. «Àf'l'Erwerb'; lit. a/gà 'Lohn' usw., s. P 32 f.; semantisches Bindeglied ist dabei heth. t,alkuel§ar 'Emte', als N. act. zu einem verbalen +f}alcu11ai-;ganz analog CAllRUBA1976, 130 'mit Matathesc der Aspiration'). EtCBNBR,in Mss 31, 1972, S4 (zu idg. +a/-'mahlen' P. 28; wohl in Analogie zu der von FRJSx I 73 aufgenommenen Erklarung von WALDELsw 2 25 von ciliç 'Speltgraupen' als zu ciì.tw'mahle'). Hierher t,alkuellar n. rln-St. 'Emte', pluralisch 'Erst-lingsfriichte' (der Emte als Opfergabe; vgl. auch H0PFNBRAlimenta 2S ff.); kollektiviertes Nominalabstraktum (mit unklarem -u-, vgl. LAllOCHB,in: RHA S2, 1950, 39 f.; KtlONASSl!R EHS 290; ein denominales Verbum als Zwiscbenglied anzunehmen (ROSBNUANZ, in: JEOL 19, 1967, 503 und COP I. c.: + t,alku11ai-),beseitigt diese Schwierigkeit nicht).

Pare evidente che• Hzelol- "crescere, far crescere" del latino corrisponde a• Hzel o/- dei "cereali" e del "grano" dell'ittita: il cibo che è connesso alla nutrizione è il

prodotto della cerealicoltura. Ciò fornisce, come detto, una nuova e convincente etimologia al termine ittita; delle "etimologie" precedenti può essere recuperato o reinterpretato quanto rientra nel quadro posto senza sforzi formali o semantici (cosi lat. (h)alica, gr. «Àq>TJ alban. alb ecc.).

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Ciò fornisce anche uno sfondo culturale che riporta, almeno per il mondo indoeuropeo, al farsi dell'agricoltura nella correlata dimensione culturale e nella proiezione lessicale; ciò apre prospettive nuove in assoluto e in rapporto al concorrente •ker(H)- di lat. Cerls, crlsco ecc. (ben oltre, s'intende, ai richiami occasionali o generici quali "vgl. auch lat. Ceresals Personifikation der Nahrung"). Con questa indicazione di massima si chiude questo scritto, ma non cosi la prospettiva che si è aperta. AppendiceA - Adoleoda

Questa divinità è ricordata in due occasioni negli atti degli Arvali insieme con altre della stessa struttura formale e, sotto, ideologica. Negli atti del 183 a causa di un fico nato sul tetto e nel 224 per una caduta di alberi per il fulmine si prescrivono dei sacrifici. Riprendo anche qui il lemma interpretativo del Thesaurus. Adolenda, -ae dea adolendo praef ecta. hanc una cum Commolenda (sive Coinquenda) et Deferunda pro uno numine fratres Arva/es colebant, cf. Henzen, Acta fr. Arv. p. 147. AcTA Arv. a. 183 p. II S jici (in fastigio aedis deae Diae innatae) eruendae atque operis incohandi causa Adolendae Commolandae Deferundae oves II immolavit. 13 operis perfecti causa Adolendae Commolandae Deferundae oves II. a. 224, 12 arborum (ictu fulminis attactarum) eruendarum, ferro fendendarum, adolendarum, commolendarum causa Adolend(ae) Coinq(uendae) ov(es) li immolaverunt. periit hoc nomen in lapidefracto a. 218, 4.

Su ciò vi è il commento di K. LATTE(1960 'Rom. Rei.' p. 54; sostanzialmente seguito da DuMÉzn. 1966, Rom. Rei. cit. p. 49). erhalten in den Akten von 183 Adolenda, Commolenda und Deferunda, in denen von 224 quod vi tempestatis ictu fulminis arbores sacri l(uci) d(eae) D(iae) attactae arduerint earumque arborum eruendarum, ferro fendedarum, adolendarum commolendarum Adolend(a) und Coinq(enda) ein Opfer. Die alphabetische Ordnung, die zu dem Vorgang selbst im Widerspru~ cht steht (nattirlich muBste das deferre der Zweige dem Zerhacken und Verbrennen vorangehen), zeigt hier bereits priesterliche Konstruktion. Die Feminina und die Gerundivfonn, die mediopassivische Bedeutung haben muB, lassen keine andere Erklirung zu, als daJ3arbor zu erginzen ist. Das hat Wagenvoot (Roman Dynamism 80 ff.) mit Recht betont. Eine Schwierigkeit ergibt sich aus dem spiten Aufreten dieses Opfers, von dem die ilteren Arvalakten, auch soweit sich die Gottheiten des Lustrum aufzihlen, nichts wissen. Dazu tritt die Bedeutung, "verbrennen" fiir adolere, die sich erst spiter entwickelt haben kann (oben 45, 2). Es wird sich also nicht vermeiden lassen, in diesen Reihen eine kaiserzeitliche Neuschopfung zu sehen».

L'utilizzazione dell'ordine alfabetico significa molto di più e in più sensi di quanto abbia visto il Latte: · 1) significa che i nomi delle divinità devono preesistere e non essere neoformati, verisimilmente in una sequenza alfabetica di indigitamenta; 2) la sequenza di indigitamenta come alfabetica doveva essere un residuo antiquario; questa ipotesi è avvalorata dalla comparsa in epoca post antoniniana, cioè duecento anni dalla (ri)fondazione del culto arvalico congiungendo I e 2 si evince: 3) l'utilizzazione è spuria ma i nomi - e con essi i contenuti - sono antichi. Ciò ha due conseguenze: 4a) per il culto arvalico e la sua 'genuinità' (di ciò altrove) 28; 4b) per il senso delle divinità chiamate in causa in rapporto alle azioni rituali sot-

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5) "bruciare" (adolenda) e "fare in poltiglia" (commo/enda) si spiegano male come sequenza, anche ammesso l'ordine alfabetico; si spiegano male anche in rapporto alla "cosa", perché se si vede come dei rami siano da bruciare (adolenda), non si vede perché prima o dopo siano da fare in poltiglia (commolenda); quindi: 6) le due divinità, ormai puri nomi (o poco più: da individuare) sono state recuperate impropriamente da un contesto perduto per la Roma antoniniana e forse già per quella augustea della restaurazione del culto. Ma non forse per chi integri quanto visto finora, dal sacrificio-distruzione (specialmente per fuoco) al complemento nel rituale iguvino che all'erus dirsti "si dia il sacrum" (distruzione) fa sempre seguire il comolom "fare poltiglia" 29 • Da ciò discende: 7) una fase originaria in cui Adolenda è la dea della distruzione sacrificale per fuoco e Commolenda è il complemento di distruzione per poltiglia dei residui, come risulta nel rituale iguvino nella coppia erus dirstu - comoltu; 8) la struttura di questi nomi in -nd- è stata spiegata (Sommer, Kr. Eri. p. 183, seguito da RADKE,Gotter s. v. p. 56) come un participio di necessità senza significato passivo "colei che deve ... ". La spiegazione di WAOENVOORT (1947 Rom., Dyn. p. 80 sgg.) ripresa dal LATTE(1960 cit.) è una non spiegazione: non si vede perché «dass Arbor zu erganzen ist». La spiegazione è più semplice se integrata nella "teologia dell'Atto", per cui il teonimo è Atto, cioè è attivo, quale semplice trasposizione dell'atto cui si riferisce: non è la struttura morfologica ma l'ideologia che vi opera. La iguvina Torso, "il Terrore > Fuga" è colei che mette in fuga non per la struttura morfologica (tipo i teonimi in -tor d'agentis del sacrum Ceriale) 30 ma per essere "il Terrore" come trasposto. Cosi Adolenda è la trasposizione di 'ciò che si deve bruciare', Commolenda 'ciò che si deve fare in poltiglia ecc. Resta un ultimo punto: 9) l'utilizuazione degli Arvali è stata impropria per Adolenda e Commo/enda che sono costanti, mentre è stata propria per Deferunda e Coinquenda che non sono costanti e alternano, precisamente per il fatto che rispondevano all'azione specifica di asportare o ripulire, atti di ben altra evidenza quanto alle trasparenze lessicali rispetto ai due spettri del passato, Adolenda e Commolenda.

AppendiceB - Veneticomagetlone augar La rivendicazione di un lat. •maglre alla base dell'offerta sacrificale apporta nuova luce al venetico magetlon oggetto di un verbo di dono (tolar) in un'iscrizione del Nord 31• Tra le varie ipotesi, il valore contestuale di "dono" mi aveva fatto proporre il confronto con vedico magha- "Gabe, Geschenk", e avestico maga "Gabe, Opfergabe" (secondo HUMBACH"MSS" II 1952 (1957) pp. 15-24); a questo punto la questione concerne solo se e come le forme indoiraniche citate appartengono al filone • meg(h)- (più esattamente • megH-) 32• La forma venetica si spiega meglio con lat. mactus, magmentum: tale accostamento era stato proposto da LEJEUNE(1952 in "REA" p. 175), ma senza un adeguato inquadramento della parola latina era una non-spiegazione, tanto che lo stesso Lejeune pensa a un valore sacrale generico. Al contrario: i precedenti indicano un valore tecnico nell'offerta agli dei che li "accresce" e la forma in -tlo- di strumento indica il mezzo mediante cui la divinità viene accresciuta, precisamente il dono. Resta da vedere se magetlon su una laminetta votiva indichi come dono la laminetta

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stessa o un oggetto su cui la laminetta fosse applicata (escluderei la memoria di un sacrificio). La nuova probabile isoglossa lessicale latino-venetica mentre contribuisce a stringere sempre di più le due lingue, pone però questioni in sé e in rapporto al fatto che in venetico - nella stessa località - è attestato augar(Gt 5; la forma costituisce tutta l'iscrizione) all'apparenza da collegare ad aug-di a. ind. ojas, lat. augurecc. In questa sede (e in chiusura) ci limitiamo alla segnalazione.

NOTE una classe di verbi che derivano da locuzioni I) MilQUAllDT 1889 'Culte' I, p. 221; WJSSOWA 1912 'R.u.K.' 2 p. 418; LATTE 1960 'Rom. già fatte, e non da nomi come i denominativi: Rei.' p. 389 n. 2: sono sostanzialmente inclini cosi it. salutare da "salute; fr. (re)mercierda all"aggiunta'. Le quantità non sono di nonna merci, lat. salvtre da salvl, questo in opposisegnalate, salvo il caso di una loro pertinenz.a zione a salvllre denominativo di salvus: come nell'argomentazione (ove la quantità non sia si vedrà appresso in testo, questo esempio è ovvia come per esempio nei verbi in -iJreetc.). decisivo per escludere mactare come delocutivo da macte della formula. 2) Cioè in relazione alle hostiae che si sacrificano senzadistruzione di carni (in onore degli dei), 7) H. GIWISMANN, Worterbuch zum Rig-veda (cfr. M.uQUARDT1889 'Culte' I, p. 222 n. 3). (1872), l011 f. These eight meanings are: «to Come in altri casi, la dottrina esegetica tra nobe happy, glad; to make glorious, beautiful; mi e realtà è confusa, ma traspare una classe to glorify; to make happy, glad; to give, predi hostiae di cui nessuna parte (neppure gli exsent; (mcd.) to show oneself great; to rejoice ta?) sono offerti agli dei: questa classe di ho(in); to put somebody in possession or». stiae dovrebbe corrispondere a quelle di cui 8) lnstead of a divine being a useful object (imnon 'protollitur' il magmentum. plement) etc. may be the object of the verb. 9) See F. PJllsTBR,in Pauly's Real-Encyclopiidie 3) In un altro lavoro avanzo l'ipotesi che possa identificarsi col mundus (Cereris) o con una der Xlassischen Altertumswissenschaft, ed. sua sezione, come ripostiglio di ciò che è proby G. Wissowa and W. Kroll,.Stuttgart, 1986 prio di Ceres/Tellus, i frutti della terra (Paoff., Xl, 2171 f.; the same, Die Religion der soocna, Date ftsse e date mobili nel ciclo del Griechen und Rlimer, 1930, p. 118; H. J. Rograno, in stampa). In ogni caso il magmentaSB, in "The Classical Quarterly", 22, Lonrium Telluris non può esserealtro che il (fadon, 1938, p 220 ff. num) contenitore del magmentum di Tellus, 10) For particulars about tbc construction see(M. evidentemente non quali parti aggiunte Leumann) J. B. HoFMANN, Lateinische Grammatik, Mùnchen, 1928, p. 405. tantomeno di parti aggiunte di vittime sacrifiLATTE 1960 'Rom. 11) Contemporaneamente cate - ma di ciò che è sacro a Tellus (-Ceres): Rei.' p. 45 e nota 2 « ... mactare ... "mehren" i frutti della terra e quanto vi è correlato. 4) r>..osoocna 1978, Umbro pp. 620-621, 656; bedeutet. Objekt ist alter Sprache regelmiissig der Gott, das Opfer steht im lnstrumentals. 1984 •Rite'; 1985 'Sacerdos'; il tutto ripreso con modifiche in TI 11-111. Es heisst also: den Gott mit dieser Darbrin5) Per la dottrina moderna delle prosiciae e delle gung mehren, seine Kraft verstarken»; segue parti aggiunte(?) v. MilQUAllDT 1889 'Culte' il rimando a nota 2, dove vengono date fonti I, p. 219-220; con minore precisione WJSSOWA antiche e bibliografia moderna: qui Latte ri1912 'R.u.K.' 2 p. 418; LATTE 1960 'Rom. tiene "jungere" il costrutto alternativo, che Rei.• p. 389-390. Siamo convinti che tutta la compare« ... zuerst Pacuv. 289 R., wohl nach dottrina romana degli exta e delle prosiciae Analogie von immolare». La nostra tesi è insia da riprendere sia per i dati interni sia per dipendente dalle questioni di coesistenza e/o una revisione dei dati provenienti dall'esterdi priorità delle costruzioni, ma le scelte di no, specialmente dal rituale umbro di Gubbio Latte nel giudicarne una seriore non sembra(su cui Paosoocna TI 11-111). no sufficientemente motivate, o, almeno, non 6) Come è noto E. BBNVENISTB (in Mélanges è dato il significato della seriorità, specialmente rispetto al parallelo (esterno) iniziano e Spitzer 1958, pp. 57-63, poi in Probl~mes de llnguistique générale 1966, =pp. 332-342 delal parallelo (interno) di adolere (su cui nota seguente): cosa significa seriorità? Seriorità la trad. italiana,Torino 1971) ha identificato

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cronologica? o seriorità logica= seriorità ( = secondarietà, sequenzialità) concettuale? Il parallelo indiano è per la seconda alternativa: quando 'aumentare' assume una determinata specializzazione rituale, può assumere anche una correlata (=più rispondente) espressione morfosintattica. 12) L'autore cita se stesso in "St. e Saggi Ling." XXI, 1981, p. 25. 13) Cfr. J. GoNDA,art. cit., p. 449. 14) Symb. Osi., vm, 1929, p. 53 ss. (citato da J. GoNDA,art. cit., p. 482). 15) Concordano con questo assunto le formule in cui mah- e vrdh- hanno per oggetto il sacrificio, cfr. J. HAUDRY,L 'emploi des cas en védique, Lione, 1977, p. 228 ss.; J. GoNDA,art. cit ., p. 459 ss.: ingrossare la vittima sacrificale, anche se figurata, vuol dire accrescere l'offerta agli dei e favorire il loro accrescimento. 16) LATl1!1960 'R6m. Rei.' pp. 45-46 n. 2. a proposito di mactare osserva che «Die g)eiche Konstruktion hat adolere in den iiltesten Belege [seguono esempi per cui v. sotto alla voce del Thesaurus), was fiir die Ableitung von o/ere, subo/es espricht (gegem Walde-Hofmann Wb. s.v.)»: per l'affermazione finale dal Latte non ulteriormente perseguita - v. appresso. Die um17) A partire da AUFllBCHT-KlllCIDIOPP, brischen Sprachdenkmiiler, li Berlino, 1851 p. 369 e, al loro seguito, tutti, con le eccezioni di PAULI("aspergito") e DEVOTO,Tabulae lguvinae, Roma, 1937, p. 375 sgg.: "odoribus inibuito"); tentativo di mediazione da parte di PoULTNBY,The bronze Tables of /guvium, Baltimora, 1959, p. 203. Tra i "mots de sens obscure" in ERNOUT,Le dialec:tombrien, Parigi, 1961, p. 138. 18) Cole-jo/e- è la normale morfologia del causativo; per il latino cfr. moneo < • mone-jole rispetto alla radice men- di memini; per possibili metaplasmi rispetto alla flessione in -e-v. più avanti; cfr. anche nota 19. 19) La cronologia dell'apofonia latina è fissata, salvo eccezioni ribassiste fino all'arrivo dei Galli all'inizio del IV secolo, al VI sec. a.e. in connessione storica con l'influenza etrusca su Roma e con essa dell'accento protosillabico etrusco: v. PROSDOCIMI 1986 •Accento'. 20) Si lasciano da parte altri aspetti semantici della crescita come età, tipo ted. alt (su cui MASTIU!W in "AGI", 1961); all'interno del latino è da rilevare l'antichità di specializzazioni semantiche indice di una semanticità pregnante del "nutrire/crescere": alumnus con il participio in -mno- residuale solo in pochissimi casi (tipo columna; Vertumnus), rimanda a una remota antichità. 21) Per la semanticità differenziale, rispetto a

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mag- aug- risponde a una"crescita" carismatica. 22) Le molte prese di posizione sono condensate nella Religion romaine archa1que, Parigi, 1966, p. 33 sgg. 23) PaOSDOCoa, Lingua e preistoria. Appunti di lavoro, in Miscellanea Manni, Roma, 1979, pp. 1833-1890. 24) La "teologia dell'Atto" è esposta in PaosooCIMI, Le religioni de/l'Italia antica, sezione dell'opera Die Religionen der Welt, a cura di H. KANCIX(in stampa), e, più condensatamente, nella monografia Le religioni degli Italici, in Italia omnium terrarum a/umna li (a cura di O. Pugliese caratelli), Milano 1989. 25) •kerH1lkreH1 con H=Crientra nello Schwebeablaut tipo •perklprek-: v. Paosoocoa. Latin nel lavoro miscellaneo sulla fonologia dell'indeuropeo curato da W. WINTEJl(in stampa). 26) Cfr. PotWRNY,lndogermanische Etymologische Worterbuch s.v. Significativo al proposito l'a.irl. luss < •1udh-to- 'pollone'. 27) Riprendo da TrscHLl!ll... 28) In una comunicazione tenuta nel marzo del 1978 presso l'Istituto di Filologia classica dell'Università di Firenze (tuttora inedita) ho sostenuto che il Carmen Arvale è un pastiche (forse di Verrio Fiacco) per un culto ricreato da Augusto per ragioni politiche (su ciò v. anche ScHEm, Les frères arvales, Parigi, 1975). Non è necessario per quanto qui si sostiene questa tesi radicale; basta il fatto - comune, anche se implicito, talvolta inconsciamente, a tutti gli storici - che il culto è una rifondazione talmente radicale da essere propriamente una fondazione. 29) Per la dottrina dell'erus e del comolom v. Paosoocoa: Umbro in (A. L Paosoocoa ed.), Lingue e dialetti dell'Italia antica, Roma-Padova, 1978, pp. 585-787; Rite, in Miscellanea Guarino ... ; Sacerdos, in stampa nella Miscellanea Polomé. Alcune correzioni nelle Religioni citata a nota 17 e in Prosdocimi Tavole lguvine li e 111,in stampa. 30) Fabio Pittore in Servio auct. ad Oeorg. I 21; cfr. LATTB1960 "R6m.Rel." p. 208. 31) Su venetico tolar cfr. Paosoocoa,Il Venetico, in Le lingue indeuropee di frammentaria attestazione, Atti del Convegno SIO-ldg. Oesellscbaft, Pisa, 1983, p. 153-209 e in G. FoOOLARI-A. L. Paosoocoa, / Veneti antichi, Lingua e cultura, Padova 1987. 32) Per questo vedi in particolare PaOSDOCoa, Latin, cit. a nota 18, e Sy/labicity as a genus, Sievers' Law as a spec:ies,in Papers /rom the 7th lnt. Coriference on Historical Linguistics, Amsterdam-Philadelphia, 1987, pp. 483-505.

TABÙ ALIMENTARI E FUNZIONE ONIRICA IN GRECIA di Giulio Guidorizzi

È naturale,

scriveva Galeno 1, che chi ha fame sogni di mangiare senza mai saziarsi e chi ha sete di bere senza fine. Questa situazione onirica, vagamente da Paese della Cuccagna, è spesso ricordata in altre fonti antiche 2 : ed è verosimile che in una società esposta al rischio di carestie, e di alimentazione certo non ipercalorica (come in generale fu quella antica), un sogno come questo fosse ricorrente, perlomeno nell'ambiente dal quale Artemidoro ricavava le sue informazioni: un ambiente - è stato notato 3 - di condizione sociale modesta, costituito prevalentemente da proletariato urbano, contadini, schiavi, per i quali il soddisfacimento dei desideri fisiologici primari è uno schema onirico perfettamente verosimile. Una situazione analoga è stata registrata da Roger Bastide presso le popolazioni negre, di degradate condizioni sociali, delle / avelas brasiliane, dove il tipo di sogno più frequente è quello non simbolico, infantile, grazie al quale trovano ./ diretta soddisfazione alcune pulsioni elementari: ubriacarsi, fare l'amore, mangiare abbondantemente 4 • Questa forma di immaginazione appartiene alla categoria che gli esperti di onirocritica definivano enjpnion: un sogno sprovvisto di funzioni semantiche, per cosi dire una forma inferiore di sogno (almeno, secondo la concezione degli antichi) poiché non offre alla psiche del dormiente nulla se non il riflesso dei bisogni alimentari dell'organismo. Ma il rapporto tra sogno e alimentazione si può osservare, nella cultura greca, anche per altri e certo più significativi aspetti. Nel sistema elaborato dagli interpreti, sognare cibo occupava una serie di valori simbolici che si possono, in parte, recupeiàre anche df Artemidoro, nel quale le spiegazioni che 1'1mtl5feattfiouisce· aÌle immagini oniriche riflettono in generale associazioni simboliche largamente condivise dal suo pubblico e dunque in qualche modo culturalmente significative: cosi, leggiamo che i legumi sono un segno funesto (I, 68), le carni sono buon segno, le mele indicano· i piaceri d'amore -in.quanto sono sacre ad 1irtodtte, ilhel()gràrii servitù e sòttomissione «a causa del mito di Eleusi» (I, 73). ---npuntò di partenza del mio discorso è la nozione di «tabù alimentare», ossia il divieto di accedere a una serie di cibi o bevande esteso a particolari gruppi della comunità (ad esempio, i membri di una setta) o a particolari momenti dell'esistenza individuale (ad esempio, prima della consultazione di un oracolo o nel corso di un rito iniziatico).

aallibro

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Il dibattito sulle origini e le funzioni del tabù è stato un argomento centrale della ricerca antropologica sin dalle origini di questa scienza 5 ; certamente, la nozione di tabù è fondamentale per comprendere i meccanismi sociali di una civiltà tribale, in quanto investe primariamente le due sfere, quella sessuale e quella alimentare, che toccano, caricandoli di una significazione emotiva e simbolica, i due rapporti sociali fondamentali: la produzione e la riproduzione. Certamente non si potrà discutere che il tabù vada connesso con il problema, più vasto, del funzionamento dei sistemi simbolici, e questo è tanto più evidente nel caso del tabù alimentare; cibarsi significa infatti anche essere partecipe di un codice di comportamento che non è solo dietetico, ma socioculturale, mitologico, e perciò necessariamente anche simbolico. Se il cibo degli dei è distinto da quello degli uomini ed esiste tra queste due comunità un sistema incrociato di divieti 6 , anche il modo di accedere al cibo di un iniziato si contrappone a quello di un profano; per la Grecia, valga il caso dei Pitagorici, il cui tenore alimentare era sottoposto come si sa a una serie di restrizioni, oppure quello del sistema alimentare di Sparta arcaica, dove le modalità di consumazione del cibo erano collegate alle classi d'età: gli adulti, che avevano superato l'iniziazione militare, consumavano il pasto comune nei sissizi, i giovani in forme individuali e semiclandestine 7 • Tutto questo giustifica, spero, la mia escursione nel campo del sogno, non solo perché esso è per definizione il campo del simbolico, ma anche perché il simbolismo onirico, come Freud ha dimostrato, è esso stesso il prodotto di un sistema di tabù, consistenti nell'azione di quella che egli chiama la "censura onirica", la quale permette che in un sogno filtrino solo quelle forme che non sono messe al bando dalla morale collettiva 8 • Il nesso tra divieti alimentari e attività onirica era percepito nella cultura greca a vari livelli: non solo si riconosceva comunemente che il cibo (o la sua mancanza) potesse determinare un sogno in cui si realizza un soddisfacimento fisico, ma anche che la qualità del cibo potesse interferire con la produzione simbolica della psiche addormentata. Il trattato pseudo-ippocratico Sulla Dieta 9 si conclude con una sezione dedicata ai sogni, che vengono concepiti nello stesso tempo come il prodotto di una determinata dieta e come un segnale di natura fisiologica: il presupposto è che l'alimentazione inneschi nell'organismo una serie di secrezioni umorali le quali a loro volta influiscono sulle fantasie notturne. Se nell'organismo predomina una pienezza di bile gialla (l'umore che era collegato alle qualità del "caldo" e del "secco") compariranno tipicamente in sogno immagini calde e luminose, come fuochi e incendi; mutando la dieta in modo da compensarla con alimenti di natura opposta, si modifica pure la simbologia onirica. I medici ritenevano anche che esistesse un preciso rapporto tra il temperamento dominante nell'organismo e la produzione onirica: a questa sfera d'idee va ricondotta anche la tesi (che si mantenne sino alla medicina rinascimentale) secondo la quale le persone maggiormente predisposte a sogni "veri" (ossia, profetici) fossero quelle di temperamento me· lancolico 10• Ma, al di là della medicina, era una credenza generalmente diffusa anche a livello popolare che l'alimentazione tendesse a inibire certe forme, per cosi dire, superiori di sogno: per chi ricercava un sogno divino diventava dunque necessario controllare l'alimentazione. 170 ----------------------------

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GIULIO GUIDORIZZI

L'eccesso di cibo e di vino provoca sogni confusi e inattendibili in cui la fmezza della mente prof etica risulta ottenebrata: di qui deriva la credenza che i sogni più veri compaiono al mattino, quando gli effetti dell'alimentazione sono completamente smaltiti e l'anima è finalmente sola con se stessa O , e anche l'idea che i sogni visti in autunno, cioè nella stagione di maggiore disponibilità alimentare siano falsi, mentre quelli veraci compaiano preferibilmente a primavera, quando (per usare le parole di Alcmane) «tutto fiorisce, ma non si può mangiare in abbondanza»: lo stesso schema di credenze si trova tra certe popolazioni africane (i "Cafri") presso le quali si crede che i sogni veri compaiano in estate, quelli falsi in inverno 12• Nella lingua greca, l'antitesi sogno vero/sogno falso è semanticamente esprese pare significativo che mensa da una coppia di aggettivi (w8uov1tpoç/ 3uaov,c.poç) tre il secondo è attestato prevalentemente in rapporto all'alimentazione, il primo non lo è mai: dunque, mentre non vi sono cibi che «producono sogni veri», altri sono indicati esplicitamente come contrari alla comparsa di essi. Uno di questi, secondo Plutarco (Quaest. conv. 8, 10), era la testa del polipo (forse, per il valore afrodisiaco che veniva attribuito a questo alimento?). La comparsa di sogni con contenuto sessuale, definiti 6v,~orµot, era dalla medicina antica ritenuta un sintomo patologico, al punto che si usavano erbe e pozioni per controllare questo tipo di manifestazione onirica 13; le fave, secondo Dioscoride (I, 105), un argomento su cui converrà ritornare in seguito. In generale, il cibo è considerato inversamente proporzionale alle capacità profetiche della psiche: tanto più essa è alleviata dalla necessità di subire i disturbi dovuti alla digestione, tanto più è libera di esprimere nel sogno la sua naturale potenza divinatoria. Si riconoscerà in questo un aspetto della ben nota dottrina "orfica", secondo la quale l'anima dell'uomo diviene maggiormente padrona di se stessa, il che equivale a dire maggiormente vicina al divino, nei momenti in cui riesce a liberarsi dagli opprimenti legami della materia: quando evade dal corpo durante il sonno o l'estasi, oppure quando si avvicina al momento della morte 14• In questa prospettiva, il discorso sulla funzione culturale dei rapporti tra sogno e alimentazione può procedere solo se viene connesso con un più generale campo di fenomeni, ossia quello delle manifestazioni estatiche. Nella cultura greca, è generalmente escluso l'impiego di sostanze alimentari o erbe in funzione allucinogena, per indurre artificialmente stati psicologici paranormali; condizioni di estasi e trance sono fenomeni ben noti anche in Grecia, ma ottenuti senza il ricorso a droghe, come invece avviene sovente presso altre culture. Ciò non derivava né dalla mancanza di erbe o piante allucinogene, che naturalmente crescevano nelle terre abitate dai Greci come in ogni altro luogo, né dalla mancanza di nozioni sulle loro qualità, poiché anzi la potenza allucinogena di talune piante era ben nota ai botanici antichi; Dioscoride parla del giusquiamo (IV, 88: toax6lipoç 3ç x«Ì 9v7}wç WY lit' lx9uYr- ~ Ml UlpCIX'tlXGt 'tv x.«G'Gnvov &p.c.,v, ~iç i)(p(imo wiç ff 't(,)V

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29) Cfr. da ultimo OJUOJt, Le mamtt~ all'alba della civiltd occidentale, trad. it., Bologna 1983.

QUARTA SESSIONE

MERCATO, SCAMBIO, APPROVVIGIONAMENTO Presidente:

Giorgio Savio

I PRODOTTI ALIMENTARI COME MERCI DI USO E DI SCAMBIO di Giorgio Savio

Non è semplice collocare questa relazione nell'ottica del Colloquio su "Homo Edens", nel cui ambito sono state chiamate a confrontarsi discipline umanistiche e discipline scientifiche con la finalità di indagare sui complessi rapporti fra alimentazione e cultura. Il contributo che il merceologo può proporre a questo stimolante confronto è quello di evidenziare le dinamiche dei costumi e degli stili alimentari in relazione ai fatti economici, alla realtà economica. In questa prospettiva è utile richiamare il significato che la scienza economica attribuisce tecnicamente al termine "merce": merce è ogni bene o servizio che viene scambiato contro moneta. Questa definizione permette di distinguere fra il concetto di baratto e quello di scambio monetario. Il baratto è la forma rudimentale e forse iniziale con cui ba cominciato a manifestarsi all'interno dei primi gruppi sociali, e fra gli stessi, la volontà di scambio di beni materiali destinati a soddisfare i reciproci bisogni. Certamente questa forma di scambio sussiste ancora fra gruppi e tribù di popolazioni che si trovano a stadi di sviluppo primitivi. Tuttavia, inteso in questa ottica, un bene non può essere definito come "bene economico" nel senso tecnico della parola. Esso lo diventa quando lo scambio avviene vtilizzando, come bene intermediario, una misura comune del valore, in particolare la moneta: è solo a questo stadio di sviluppo della struttura sociale che l'attività di scambio diventa mercato e che il bene economico diventa merce, il cui rapporto di scambio ne determina il prezzo. Gli alimenti sono beni materiali che soddisfano il bisogno primario per eccellenza. È accettabile pensare che nel periodo di tempo in cui l'uomo cominciò la sua evoluzione di adattamento con le piante e gli animali, quando cioè circa diecimila anni fa le comunità di viaggio passarono gradualmente a comunità con residenza fissa, l'unica forma di economia che si potesse manifestare era l'autarchia della singola economia domestica o di gruppo; una economia senza scambio, di sussistenza, nel cui ambito oltretutto il numero di specie animali e vegetali disponibili si andava riducendo mano a mano che la domesticazione evolveva nella direzione di intensificare le produzioni e di concentrare le stesse sulle specie più produttive. Prima che i prodotti alimentari possano diventare oggetto di una qualche forma di scambio, è necessario prefigurare orgaoiZZBzioni sociali abbastanza evo____________________________ 179

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Iute in cui cominci a disegnarsi una certa divisione del lavoro, una differenziazione delle funzioni nell'ambito della collettività, una separazione degli interessi. È necessario, in altre parole, pensare a fonne di civiltà che avessero già sviluppato in certo grado sia mezzi e tecniche di produzione, sia conoscenze sulla fissazione di pesi, misure e valori di scambio, sia capacità di reddito e conseguente potere d'acquisto. Né è da pensare che i prodotti alimentari potessero fonnare oggetto dei primi scambi a distanza: nelle loro prime manifestazioni, tali scambi dovevano necessariamente essere circoscritti a beni che, in piccoli volumi, incorporassero il più elevato valore possibile (quelli che oggi chiameremmo "articoli di lusso"). Solo a stadi più avanzati di sviluppo sociale, con una relativa sicurezza delle vie e dei mezzi di comunicazione su terra e su acqua e con l'uso della moneta come intermediario di scambio, si può immaginare un progressivo allargamento dei traffici a merci di grande massa, comprendenti anche prodotti alimentari. Possiamo, in ultima analisi, aff ennare che ogni popolazione e ciascun gruppo etnico ha sviluppato, nel corso della propria evoluzione storica, modelli e comportamenti alimentari fortemente condizionati dalle risorse naturali del proprio habitat, potendo contare in modo pressoché autarchico sulle disponibilità alimentari indigene. Questi modelli, rimasti pressoché inalterati per millenni, stanno radicalmente mutando nelle regioni e nei paesi più avanzati verso forme che tendono ad allontanarsi sempre più dalla tradizione, sotto la spinta di fattori diversi che influenzano in vario modo gli aspetti quantitativi e qualitativi dei comportamenti abituali. Scopo della relazione è di tentare una interpretazione di tali dinamiche mutuando gli strumenti dell'analisi dalla teoria economica, nella consapevolezza peraltro dell'errore di prospettiva storica che è facile commettere quando si introducano delle semplificazioni o quando si guardi alle cose dal punto di vista ex post.

I fattori di produzione e la domanda Alcune delle variabili prese in esame per sviluppare l'esposizione attengono più propriamente all'offerta, altre alla domanda: si tratta di due aspetti distinti della realtà economica che, tuttavia, si influenzano e si determinano reciprocamente. Dal lato dell'offerta, la prima variabile che interessa considerare è costituita dalle risorse naturali. Non sono disponibili dati quantitativi che ci permettano di conoscere le produzioni di alimenti presso le più antiche popolazioni, mentre sono numerosissime le testimonianze da graffiti, bassorilievi, affreschi, papiri, terrecotte e da tutta l'ampia raccolta di materiale archeologico, che ci permettono una ricostruzione qualitativa di quanto nelle diverse epoche era disponibile come cibo e come bevanda. Più che indugiare in una elencazione che riuscirebbe sempre incompleta, conviene concentrare l'attenzione sul fatto che sono ormai numerose le prove accumulate in anni recenti circa la possibile indipendenza dei centri di domesticazione di diverse specie animali e vegetali. Fino a non molto tempo fa era accreditata l'ipotesi che la deliberata domesticazione da parte dell'uomo di piante e animali per ricavarne alimenti fosse da considerare una scoperta cosi radicale e cosi complessa da essersi potuta sviluppare soltanto una volta (o forse due) nella storia dell'umanità, dopodiché il sistema si sarebbe diffuso per stimolo naturale.

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Figun1 1 - Diffusione deU'agricoltun1 in Europa ricavata da un'analisi di regressione secondo due ipotesi: a) velocità di diffusione costante nel tempo e nello spazio; b) velocità di diffusione non isotroplca (linee marcate).

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Lo schema innovativo che si va ora delineando è che diverse specie animali e vegetali possano essere state domesticate indipendentemente e ripetutamente in più regioni, in epoche diverse o simultanee. L'effetto di estensione e di diffusione per molte specie dovrebbe essere stato pertanto più lento e forse anche più limitato di quanto si pensasse qualche tempo addietro. In un'ottica economica, è importante sottolineare la distinzione fra il concetto di origine e di domesticazione. La domesticazione è infatti un processo selettivo e adattativo indotto dall'uomo con la creazione di un ambiente artificiale che porta a una stretta interdipendenza fra sé e le specie animali e vegetali domesticate, al punto da condizionare la reciproca sopravvivenza. Sembra in ogni caso abbastanza chiaramente documentato che l'area mediterranea sia stata interessata dall'avanzamento dell'agricoltura e dell'allevamento con una diffusione iniziale dal vicino Oriente all'area della Grecia e dei Balcani e, in seguito, a ventaglio in tutta Europa (fig. 1). Quando inizia la crescita e lo sviluppo delle prime grandi civiltà mediterranee, sono già domesticate tutte le specie di animali e vegetali che sono allevate e coltivate ai nostri giorni, seppure con le varianti che l'ibridazione e la selezione genetica naturale, o intenzionale dell'uomo, hanno indotto sulle razze ancestrali. ---------------------------

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Le favorevoli condizioni pedoclimatiche contribuirono a rendere disponibile per le popolazioni dell'area mediterranea una vastissima gamma di risorse alimentari. Sono relativamente pochi i nuovi prodotti alimentari che gli Europei impareranno a conoscere a seguito della scoperta delle Americhe e dei contatti diretti con l'Oriente: dalle Americhe principalmente il mais, la patata, il pomodoro, il caffè, il cacao; dalla Cina il tè. Fatta eccezione per questi prodotti "nuovi", le antiche popolazioni mediterranee potevano contare sulla disponibilità di alimenti vegetali e animali non molto dissimili da quelli dei nostri giorni. La variabile principale che dal lato della domanda si correla con la disponibilità di risorse alimentari è la popolazione. Valutazioni indirette e molto approssimate della popolazione nel periodo storico in cui ebbero inizio le pratiche dell'agricoltura e della domesticazione degli animali (ossia, come generalmente si ritiene, intorno all'8000 a.C.) stimerebbero in circa otto milioni di unità la dimensione assoluta degli abitanti della terra. Numerosi antropologi e storici concordano su questo ordine di grandezza sulla base del numero di individui che, nelle condizioni sociali e tecnologiche allora presumibili, potevano sopravvivere. Supposta valida questa stima sulla dimensione assoluta della popolazione in quel momento storico, è abbastanza agevole ricostruire le linee generali dell'incremento della popolazione umana, ricorrendo a semplici relazioni matematiche riguardanti il tasso di incremento e i fattori che lo determinano. Senza entrare nel merito della statistica demografica, la ricostruzione suddetta evidenzia che la storia della popolazione umana può essere grosso modo divisa in due periodi: un lunghissimo periodo di incremento lento e un brevissimo periodo (in pratica gli ultimi duecento anni) di incremento rapido (/ig. 2). Numerose indicazioni fanno supporre che, nel lungo periodo di incremento lento della popolazione, siano aumentati sia il tasso di fertilità sia il tasso di mortalità, con un leggero margine in più del primo rispetto al secondo, ma con aumento della speranza di vita media pressoché inavvertibile. È probabile che, nel lungo periodo, le diverse regioni abbiano presentato andamenti oscillanti della popolazione, con una alternanza di periodi fortuiti di bassa mortalità seguiti da periodi di mortalità più elevata causata da epidemie e carestie ricorrenti. Anche per questa variabile non disponiamo di dati quantitativi per misurare gli effetti del fenomeno nello spazio-tempo delle epoche più remote, tuttavia essi devono essere stati comuni alle piccole concentrazioni di villaggi sparsi come alle più complesse organizzazioni sociali urbane delle grandi civiltà del passato. Il più antico periodo per il quale sono disponibili dati utili (e non per questo certi) è l'inizio dell'era cristiana, con i censimenti che Roma decretava per raccogliere informazioni sull'entità della popolazione della Cina e dell'India. Ma è solo nel secondo millennio dell'era moderna che si cominciano ad avere stime meno approssimative sulla popolazione urbana e rurale di alcune aree circoscritte. Ed è da questo periodo che sono ampiamente documentate anche le gravi pandemie che hanno colpito l'Europa pre-industriale, provocate da peste, colera, vaiolo, tifo, febbri e altre malattie misteriose. Il grande balzo demografico che si avrà a partire dalla metà del '700 in avanti sarà determinato dalla diminuzione del tasso di mortalità reso possibile da miglioramenti delle condizioni sanitarie, dell'igiene pubblica, della medicina e da una maggiore disponibilità di cibo e di altre risorse materiali. 182 ----------------------------

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