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Italian Pages 356 [182] Year 2013
MICHAEL MOORE
Guai in arrivo la storia della mia vita MONll,u)()JU
www.hawklegend.org
"Lo ammetto: avevo una testa decisamente grossa, ma non è che fosse una cosa tanto insolita per un bambino del Midwest. I crani dalle nostre parti sono progettati in modo da concedere al cervello un po' di spazio per crescere, qualora uno dovesse imparare qualcosa che va oltre la rigidità e l'isolamento delle nostre esistenze. Un giorno, magari, ci troveremo alle prese con qualcosa che non comprendiamo, chessò, una lingua straniera, o un' insalata. li volume cranico in avanzo serve a proteggerci da spiacevoli circostanze del genere." Michael Moore - regista di documentari che hanno fatto la storia recente del cinema, vincitore di un Oscar, autore di bestseller mondiali quali Stupid White Men, e massimo provocatore di tutti gli USA - è tornato, questa volta per raccontare la storia più incredibile di tutte: la sua. Incurante delle ammuffite regole dell'autobiografia, ci regala 24 storie di ampio respiro, irriverenti e assolutamente fuori dal comune. Eccolo, per esempio, a undici anni aggirarsi smarrito per il Senato americano fino a essere ritrovato da Bobby Kennedy; il momento successivo eccolo al cimitero di Bitburg in compagnia di un Ronald Reagan non propriamente lucido. Se si passa al 2003, eccolo scandalizzare il mondo quando, in occasione della sua premiazione agli Oscar, invece di dire "Vorrei ringraziare l'Accademia" come tutti si aspettavano, disse: «Viviamo in un'epoca fittizia. Viviamo in un'epoca di risultati elettorali fittizi che eleggono presidenti fittizi. Viviamo in un'epoca in cui c'è un uomo che ci manda in guerra per ragioni fittizie». Queste pagine che ci restituiscono i momenti più rivelatori e pazzeschi di una carriera pluridecennale sono proprio come Michael Moore: estremamente personali e profondamente oneste, divertenti e ricche di spunti, eccessive e piene di verità. I lettori di questo libro scopriranno i molti lati di una personalità poliedrica come quella di Michael Moore e avranno l'enorme privilegio di scoprire fino in fondo l'animo coraggioso e tremendamente candido di quest'uomo che ha saputo - coi suoi documentari e i suoi libri - risvegliare la coscienza assopita di un'intera nazione.
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Strade blu
Michael Moore
GUAI IN ARRIVO La storia della mia vita
Traduzione di Gianni Pannofino
.MONDADORI
A mia madre, che mi ha insegnato a leggere e a scrivere quando avevo quattro anni
e(
www.librimondadori.it)
~ Guaì in arrivo
di Michael Moore Collezione Strade blu
ISBN 978-88-04-53418-1 Copyright© 2011 by Michael Moore All rights reserved, including the rights of reproduction in whole or in part any form © 2013 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano Titolo dell'opera originale
Here Comes Troub/e I edizione ottobre 2013
Released by fagiolo
Diventando adulti tutto appare così irreversibile Il parere già disponibile Il futuro tutto deciso Separato e suddiviso Nella zona della produzione di massa In nessun luogo il sognatore O il disadattato È così solo... NEIL PEART CON I RUSH,
Subdivisions
Nota dell'Autore Questo è un libro di brevi racconti su episodi accaduti nella prima parte della mia vita. Molti nomi e altri dettagli sono stati modificati per proteggere gli innocenti e, talvolta, i colpevoli. Si dice che la memoria possa essere uno strano e perverso luna park, pieno di montagne russe e case degli specchi, spaventosi fenomeni da baraccone e aggraziati contorsionisti. Questo è il mio primo volume di racconti di questo genere. Volevo consegnarli alla carta prima che essa (e di conseguenza le librerie e le biblioteche) smetta di esistere.
Non dovrei smettere di fare film per fare qualcosa che conti come... come assistere i lebbrosi o diventare un missionario o qualcosa del genere? L'ALIENO: Làsciatelo dire, non sei il tipo del missionario. Non reggcrc~ti mai. ~ a proposito, non sei neanche Superman: sci un comico. Vuoi rendere davvero un servizio all'umanità? Trova battute più divertenti. SANOY BATES [WOOOY ALLENI:
Dal film
Stard11st Memories, di WOOOY ALLEN
Guai in arrivo
Epilogo
L'esecuzione di Michael Moore
Sto pensando di ammazzare Michael Moore, e mi domando se sarei capace di ucciderlo con le mie mani o se non sia il caso di ingaggiare qualcuno... No, credo di potercela fare. Credo che lui potrebbe anche guardarmi negli occhi - mi spiego? - e io riuscirei ugualmente a strozzarlo. È sbagliato? Ho smesso di portare il braccialetto con su scritto "Che cosa farebbe Gesù?" e, ormai, ho perso la cognizione di quel che è giusto o sbagliato. Un tempo, magari, avrei detto: «Sì, ammazzerei Michael Moore», ma poi guardando il braccialetto "Che cosa farebbe Gesù?" - avrei pensato: "No, tu non lo ammazzeresti, Michael Moore. Non con le tue mani, almeno". Be', sapete una cosa? Non ne sono più tanto sicuro. GLENN BECK, in diretta radiofonica durante il "Glenn Beck Program", 17 maggio 2005
Gli auspici per una mia prematura dipartita sembravano annidarsi dappertutto. Ad esempio, nella mente di Bill Hemmer della Cnn, in una soleggiata mattina di luglio del 2004. Gli era giunta all'orecchio una voce che voleva sottoporre alla mia attenzione. Perciò, mettendomi un microfono davanti alla faccia, nella sala che quell'anno ospitava la Convention democratica, mi chiese in diretta televisiva sulla Cnn un'opinione sui sentimenti degli americani nei confronti di Michael Moore. «Ho sentito dire che c'è chi vorrebbe vederla morto.» Mi sforzai di ricordare se avessi mai sentito un giornalista fare una domanda del genere a qualcuno in televisione. Dan Rather a Saddam Hussein non l'aveva fatta. Stone Phillips non l'aveva posta neanche al serial killer cannibale Jeffrey Dahmer, ne ero prati13
camente certo. Poteva darsi che Larry King l'avesse domandato a Liza, una volta ... ma non mi pareva. Chissà perché, però, sembrava perfettamente normale fare quella domanda a me, uno il cui principale reato era quello di girare documentari. Hemmer parlò come se stesse dicendo un'ovvietà, tipo: "Naturale che vogliano ucciderti!". Dava per scontato che il suo pubblico ammettesse questa verità lapalissiana, così come accettava che il sole sorgesse a oriente e il mais crescesse a pannocchie. Non seppi come rispondere. Cercai di riderci su, ma non riuscivo a capacitarmi di come potesse aver detto in diretta una cosa del genere, su una rete vista in centoventi paesi e persino nello Utah. Quel "giornalista" poteva aver dato un'idea malsana a qualche testa già deviata, a qualche decerebrato fan del "Rush Limbaugh Show" arrabbiato, mentre a casa si scaldava un donut pancettae-formaggio nel microonde con il televisore della cucina acceso, per caso, sulla Cnn: "Be', ancora freddo, oggi, nella Ohio Valley; un gatto a Philadelphia si arrotola il sushi da solo; e a seguire: c'è gente che vuole Michael Moore morto!". Hemmer, però, non aveva ancora esaurito la sua dose di sarcasmo. Volle sapere chi mi aveva dato l'autorizzazione per partecipare alla Convention. «Non è stato il Democratic National Committee a invitarla qui, vero?» mi disse, come fosse un poliziotto addetto al controllo documenti, e - ne sono certo - non avrebbe fatto quella domanda a nessun altro tra i presenti. «Infatti» risposi, «è stato il Black Caucus del Congresso a invitarmi.» La mia rabbia stava montando, perciò aggiunsi a effetto: «Quei congressisti neri, ha presente?». L'intervista si concluse. Nei minuti successivi, non più in diretta, restai lì a squadrare Hemmer mentre altri giornalisti mi facevano le loro domande. Lui andò a farsi intervistare da un blogger. Alla fine, non potei più resistere. Lo raggiunsi e gli parlai con la calma dell'ispettore Harry Callaghan, la Carogna: «È in assoluto la cosa più disgustosa che mi sia mai stata detta in televisione». Mi chiese di non interromperlo e di aspettare che finisse l'intervista con il blogger. "Certo che ti aspetto, brutto schifoso!" Poi, però, approfittando di un attimo di distrazione da parte mia, se la filò. Non c'era luogo dove potesse aver scampo! Cercò riparo 14
nella sala della delegazione dell'Arkansas- il rifugio di tutti i mascalzoni! - ma io lo scovai e gli parlai a muso duro. «Lei }1a fatto sembrare il mio assassinio accettabile» dissi. «Lei ha appena detto a un po' di gente che uccidermi sarebbe giusto.» Tentò di allontanarsi, ma io lo bloccai. «Voglio che lei rifletta su quel che farà se dovesse mai succedermi qualcosa. Crede forse che i miei familiari non verranno a cercarla? Verranno di certo.» Lui borbottò qualcosa a proposito del suo diritto di farmi tutte le domande che voleva, e io decisi che non era il caso di macchiare un curriculum di non-violento come il mio per prendere a pugni un verme della tv via cavo ("Risparmiati per 'Meet the Press', Mike!"). Hemmer riuscì a smarcarsi e si dileguò. Prima della fine dell'anno avrebbe lasciato la Cnn per andare a lavorare a Fox News, che sarebbe stato il posto giusto per lui fin dall'inizio. A voler essere giusti con Hemmer, non ignoravo che i miei film avevano fatto arrabbiare molta gente. Non di rado certi miei fan mi avvicinavano e, abbracciandomi, dicevano: «Sono così felice che tu sia ancora qui!». E non intendevano in quel luogo. Perché, infatti, ero ancora vivo? Da più di un anno ricevevo minacce, u:itim_idazioni, vessazioni e persino aggressioni in pieno gior~o. Era il pr~mo anno de~a guerra in Iraq, e uno dei massimi esperti m fatto d1 sicurezza (solitamente impiegato dal governo in operazioni di prevenzione omicidi) mi aveva detto: «Non c'è persona in America, a parte il presidente Bush, che sia più in pericolo di lei». Come diavolo era potuto succedere? Ero stato io a cercarmela? Certo che sì. E ricordo con precisione quando tutto ebbe inizio. Era la sera del 23 marzo 2003. Quattro giorni prima, George W. Bush aveva invaso l'Iraq, un paese sovrano che non solo non ci aveva attaccato, ma che aveva in precedenza anche ricevuto aiuti militari dagli Stati Uniti. Era un'invasione illegale, immorale, stupida ... ma gli americani non la pensavano così. Più del 70 per c~nto ~~ll'opinione pubblica era favorevole alla guerra, compresi certi liberal come Al Franken e i ventinove senatori democratici che avevano votato il War Authorization Act (tra i quali i senatori Chuck Schumer, Dianne Feinstein e John Kerry). Tra i liberal tifosi dell'attacco all'Iraq figuravano Bill Keller, editorialista e direttore del "New York 1ìmes", e David Remnick, direttore della rivi15
sta liberal "The New Yorker". Persino Nicholas Kristof del "New York Times" e altri erano saliti sul carro propagandando la menzogna secondo cui l'Iraq era in possesso di armi di distruzione di massa (Adm). Kristof aveva elogiato Bush e il segretario di Stato Colin Powell per aver "abilmente" dimostrato che l'Iraq disponeva di Adm. Ne aveva scritto dopo che Powell aveva presentato prove fasulle alle Nazioni Unite. Il "New York Times" aveva pubblicato in prima pagina molti articoli bugiardi in cui si affermava che Saddam possedeva armi di distruzione di massa. In seguito, quella testata avrebbe chiesto scusa per aver contribuito, con il suo rullare di tamburi, alla scelta in favore della guerra. Il danno, però, era fatto. Il "New York Times" aveva dato a Bush la copertura di cui aveva bisogno e la possibilità di sostenere che, se lo diceva un giornale liberal come il "New York Tunes", diamine, doveva essere vero! Eravamo, dunque, alla quarta notte di una guerra popolarissima, e il mio film Bowling a Columbine era candidato all'Oscar. Andai alla cerimonia, ma mi fu impedito, come a tutti gli altri candidati, di parlare con la stampa durante la passerella sul tappeto rosso, prima di entrare al Kodak Theatre di Hollywood. Si temeva che qualcuno potesse dire qualcosa ... mentre in tempo di guerra c'è bisogno che tutti sostengano lo sforzo bellico e siano sulla stessa lunghezza d'onda. L'attrice Diane Lane sali sul palco degli Oscar e lesse l'elenco dei candidati al premio per il miglior documentario. Poi aprì la busta e annunciò con una gioia sfrenata che io avevo vinto l'Oscar. La platea, piena di attori, registi e autori con nomination, scattò in piedi, e tutti mi applaudirono a lungo. Avevo chiesto ai candidati per gli altri documentari di raggiungermi sul palco nel caso avessi vinto, e così fecero. Quando l'ovazione si fu placata, io dissi: Ho invitato sul palco i miei colleghi candidati a questo premio. Sono venuti qui in segno di solidarietà con me, perché amiamo ciò che non è fiction. Ci piace la non-fiction, eppure viviamo in tempi di finzioni. Viviamo in un'epoca di risultati elettorali fittizi che eleggono presidenti fittizi. Viviamo in un'epoca in cui c'è un uomo che ci manda in guerra per ragioni fittizie. Che si tratti della finzione del nastro adesivo o degli allarmi arancioni, noi siamo contro questa 16
guerra, Mr Bush. Si vergogni, Mr Bush. Vergogna! E se hai contro il papa e le Dixie Chicks, il tuo tempo è scaduto! Grazie!
Più o 'meno a metà di questa mia dichiarazione, si scatenò l'in-
f~m?. Ci ~ur~no ~ulati di disapprovazione molto forti dagli ordini d1 posti pm alti e da dietro le quinte. {Pochi - Martin Scorsese, Meryl Streep - cercarono di incoraggiarmi dal loro posto in platea, ma non ci fu partita.) Il produttore dello show, Gil Cates ord~ò all'orchestra di attaccare a suonare per coprire la mia vO::.e. Il microfono cominciò a ritirarsi dentro il pavimento, e davanti a me prese a lampeggiare uno schermo gigante con la scritta a grandi l~ttere rosse: JL TUO TEMPO È SCADUTO. Scoppiò un pandemonio, a du poco, e io fui portato via dal palco. Un fatto poco noto: le prime due parole che ogni vincitore di Oscar si sente rivolgere dopo la proclamazione, appena lascia il palco, vengono pronunciate da due giovani attraenti in abito di g~la ingaggiati dalla Academy proprio per congratularsi con il premiato appena dietro le quinte. Perciò, mentre nella sala del Kodak infuriava un caos disastroso un~ ~ov_ane donna in abito firmato mi raggiunse, inconsapevol~ dei rischi che stava correndo, e mi disse: «Champagne?». Me ne porse una fh1te. Accanto a lei, un elegante giovane in smoking le subentrò immediatamente dicendomi: «Mentina?». E me ne offrì una. . "':=hamp~gne" e "mentina" sono le prime due parole che ogni vmcitore d1 Oscar si sente rivolgere. lo, però, fortunato come sono, ne udii una terza. Un macchinista arrabbiato mi si avvicinò e mi urlò in un orecchio: «STRONZO!». Altri macchinisti corpulenti e incazzati mi mossero incontro. lo strinsi il mio Oscar a mo' di arma, brandendolo come avrebbe fatto uno sceriffo per tenere a bada una folla inferocita, o come un uomo solo intrappolato e circondato nei boschi, la cui unica speranza consista nel roteare la propria torcia contro i vampiri che si avvicinano. Gli addetti alla sicurezza dietro il palco, sempre all'erta, si ac-
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corsero del trambusto che stava per scoppiare e mi presero per un braccio accompagnandomi alla svelta in un posto più sicuro. Ero scosso, spaventato, sopraffatto dalla reazione negativa al mio discorso e, invece di godermi il momento magico, sprofondai nella disperazione. Ero convinto di aver rovinato tutto, di aver deluso i miei fan, mio padre seduto in platea, gli spettatori a casa, gli organizzatori dell'Oscar, la mia troupe, mia moglie Kathleen: tutte le persone che per me contavano qualcosa. Sentivo in quel momento di avergli rovinato la serata, di aver cercato di dire una semplice verità e di aver fallito. Quel che allora mi sfuggiva - e che non avrei potuto conoscere neanche se avessi avuto mille sfere di cristallo - era che in qualche modo bisognava cominciare, qualcuno doveva dirlo, e, sebbene non fosse mia intenzione farmene carico di persona (io volevo solo incontrare Diane Lane e Halle Berry!), le mie parole di quella sera sarebbero state la prima piccola salva destinata a diventare, con il passare del tempo, una rabbiosa e diffusa protesta contro le azioni di George W. Bush. Gli ululati di disapprovazione, nel giro di cinque anni, sarebbero andati tutti nell'altra direzione, e gli Stati Uniti, lasciandosi alle spalle il passato, avrebbero eletto un uomo che non aveva nulla in comune con chi ululava contro di me quella sera. La sera del 23 marzo 2003, però, io non potevo sapere nulla di tutto questo. Sapevo soltanto di aver detto qualcosa che non si sarebbe dovuto dire. Né agli Oscar né altrove. Sapete bene di che cosa parlo, cari connazionali. Vi ricordate come fu quella settimana, quel mese, quell'anno, quando nessuno osava proferire una sola parola di dissenso contro lo sforzo bellico... e chi lo faceva era un traditore, un nemico dei nostri soldati! Tutto ciò conferì ai moniti di Orwell un nuovo tocco di cupa perfezione, perché la verità profonda era che i soli nemici dei soldati erano coloro che li avevano mandati a combattere quella guerra non necessaria. Nulla di tutto questo, però, aveva la minima importanza per me, mentre me ne stavo nascosto dietro le quinte alla cerimonia degli Oscar. In quel momento provai una solitudine profonda: avevo deluso tutti. Un'ora dopo, quando entrammo al Govemors Ball, in sala calò immediatamente il silenzio, e i presenti si allontanarono da me 18
per evitare di essere immortalati al mio fianco. "Variety" avrebbe scritto: «Michael Moore è stato probabilmente protagonista del più rapido passaggio dalle stelle alle stalle nella storia dello show business». Pare che il produttore Saul Zaentz, più volte premiato con l'Oscar (Qualcuno volò sul nido del cuculo, Amadeus), abbia dichiarato: «Si è reso ridicolo». Eccomi lì, dunque, all'ingresso del Govemors Ball, accompagnato solo da mia moglie, ripudiato dall' establishment hollywoodiano. A quel punto vidi Sherry Lansing, allora a capo della Paramount Pictures, che mi veniva incontro con passo deciso. Ah, certo: era così che sarebbe finita. Stavo per essere strigliato dalla persona più potente della città. Negli ultimi vent'anni e oltre, Lansing aveva prima diretto la Fox e poi era passata alla Paramount. Mi preparai all'umiliazione pubblica: la decana dei direttori degli studios mi avrebbe sicuramente chiesto di andarmene. Restai lì immobile, le spalle ingobbite, la testa china, pronto per l'esecu.zione sommaria. E quando Sherry Lansing mi fu di fronte mi diede un grande e generoso bacio su una guancia. «Grazie» mi disse. «Fa male, oggi, ma un giorno si capirà che avevi ragione. Sono molto orgogliosa di te.» Mi abbracciò sotto gli occhi dell'élite hollywoodiana. Una dichiarazione inequivocabile. Robert Friedman, vice di Lansing alla Paramount (colui che anni prima mi aveva aiutato a convincere la Warner Bros. ad acquistare Roger & Me, il mio primo film), abbracciò mia moglie e mi prese la mano, stringendola con forza. Non accadde altro, in pratica, quella sera. L'inattesa manifestazione pubblica di solidarietà da parte di Sherry Lansing servì a tenere a bada chi mi odiava, ma ben pochi altri vollero rischiare di essere associati a me. In fin dei conti, lo sapevano tutti che la guerra sarebbe finita in poche settimane, e nessuno aveva voglia di essere ricordato tra quelli schierati dalla parte sbagliata! Ci sedemmo in silenzio al nostro tavolo e mangiammo il nostro roast beef. Decidemmo di saltare la festa successiva e tornammo in albergo, dov'eravamo attesi da amici e familiari. E lì scoprii che erano tutt'altro che delusi. Ci sistemammo nel soggiorno della mia suite, e ognuno a turno prese in mano la statuetta dell'Oscar e pronunciò il proprio discorso di ringraziamento. Fu una scena tenerissi19
ma e commovente, e io pensai che sarebbe stato meglio se fossero saliti loro su quel palco al posto mio. Quando mia moglie e io andammo a letto, non riuscii ad addormentamù, perciò mi alzai e accesi la tv. Per un'ora guardai i programmi delle stazioni locali sulla serata degli Oscar e, facendo un po' di zapping, ascoltai commentatori che, uno dopo l'altro, mettevano in dubbio la mia salute mentale, criticavano il mio discorso, ripetendo in sostanza: «Non capisco che cosa gli sia preso!»; «Di certo non avrà vita facile qui in città dopo un exploit del genere!»; «Chi crede che si azzarderà a fare un altro film con lui?»; «Quando si dice "un suicidio artistico"»... Dopo un'ora di questa solfa, andai su Internet, dove trovai altra roba simile, anzi di peggio, e da tutta l'America. Cominciai a sentirmi male. Vidi con chiarezza il pericolo: era la fine della mia carriera di film-maker. Credetti a tutto quello che si diceva di me. Spensi il computer e le luci e restai 11 seduto al buio a rimuginare su quel che avevo fatto. Ottimo lavoro, Mike. E tanti saluti. Nelle ventiquattr'ore successive dovetti sorbirmi a ltri ululati di disapprovazione: quando passai per l'atrio dell'hotel, dove Robert Duvall si lamentò con la direzione per il trambusto causato dalla mia presenza («Non gli piaceva l'odore di Michael Moore di mattina» avrebbe poi detto scherzando un membro della mia troupe), e anche in aeroporto (dove, oltre alle ingiurie, gli agenti della Homeland Security rigarono di proposito la lamina d'oro del mio Oscar). Durante il volo per Detroit, almeno dodici file di posti erano possedute dall'odio. Quando tornammo a casa nostra nel Michigan settentrionale, il comitato locale per l'arredo urbano aveva scaricato sul nostro vialetto d'accesso tre camionate di sterco di cavallo a formare uno strato alto un metro. Non potemmo accedere alla nostra proprietà, che peraltro era decorata di fresco da una decina di cartelli inchiodati agli alberi: SPARISCI! TRASFERISCm A CUBA! COMUNISTA DI MERDA! TRADITORE! VATTENE O VEDRAI! Non avevo alcuna intenzione di andarmene. Due anni prima della serata dell'Oscar e della guerra, in un momento storico più calmo e ingenuo - marzo 2001 - un giorno ricevetti una lettera indirizzata a "Michael Moore". 20
E il mittente? Era "Michael Moore". Dopo aver soppesato per un attimo l'aspetto escheriano di quella busta, la aprii e trovai una lettera che diceva:
Caro signor Moore, speravo che, vedendo questa lettera inviata da lei a se stesso - non proprio! - decidesse di aprirla. Anch'io mi chiamo Miclzael Moore. Non avevo mai sentito parlare di lei prima di ieri sera. Mi trovo nel braccio della morte in Texas e la mia esecuzione è fissata per questo mese. Ci hanno fatto vedere un film, ieri sera, Operazione Canadian Bacon, e ho saputo che lei si chiama come me! Non avevo mai visto il mio nome in un film! E lei probabilmente non avrà mai visto un titolo di giornale che dice MICHAEL MOORE SARÀ GIUSTIZIATO. Spero clze lei possa aiutarmi. Non voglio morire. Ho fatto cose terribili di cui mi pento, ma la mia morte non ri~ol~erà nulla': non cancellerà quello che ho fatto. Non ho goduto della 1111glzore delle difese. Il mio avvocato d'ufficio si è addormentato durante il processo. Sto presentando un ultimo appello al Texas Prison Board. Non ~otr~bbe_us~re la sua influenza per aiutarmi? Io credo di dover pagare per li 11110 cr11111ne. Ma non con la vita. Trascrivo, sotto, i nomi dei miei nuovi avvocati e della gente che mi sta aiutando. La prego: faccia il possibile. E il suo film mi è piaciuto! Divertente! Cordialmente Michael Moore matricola n. 999126 Restai li a lungo a fissare la lettera. Quella notte feci un brutto sogno. Mi trovavo all'esecuzione di Michael Moore e, inutile dirlo, non avevo nessuna voglia di essere lì. Provavo a uscire dalla stanza, ma le porte erano bloccate. Michael Moore, intanto, rideva. «Ehi, a_mico! Il ~-r~ss~o sarai tu!» Io restavo impietrito, mentre gli praticav~o 1uuez10ne letale, e lui morendo continuava a guardarmi. Il giorno dopo telefonai agli avvocati che lo stavano aiutando ~e~li atti_vi~ti contro la pena capitale. Mi offrii di fare tutto il possibile. M1 dissero che la situazione sembrava disperata - in fondo, si era in !exas, e lì nessuno otteneva mai la sospensione della pena o la grazia dal governatore-, tuttavia stavano presentando ugualmente un ultimo appello. Dissero che potevo scrivere una lettera al governatore del Texas o alla Corte d'Appello del Tribunale penale. 21
Feci di più. Lanciai una campagna sul mio sito web e chiesi al mezzo milione di persone che avevo nella mia rubrica elettronica di scrivere a loro volta. Mi pronunciai pubblicamente contro l'esecuzione di Michael Moore. Raccontai a tutti la storia di un giovane che aveva servito in Marina per nove anni e che da bambino era stato vittima di gravi abusi da cui non si era mai più ripreso sul piano mentale. A trent'anni teneva un quaderno con i no~ delle liceali che era solito perseguitare. Una sera aveva pensato d1 introdursi in casa di una di queste ragazze, per rubarle quel che poteva. Lei non era a casa. Moore aveva trovato, però, la madre della ragazza. Lui era ubriaco e, perso il controllo, l'aveva uccisa. Fermato un'ora più tardi per un'infrazione al codice della strada, aveva confessato spontaneamente alla polizia (ignara del delitto commesso) di aver appena fatto una brutta cosa. Ecco tutto. Aveva avuto un pessimo avvocato (che, gli va dato atto, presentò una dichiarazione a sostegno dell'appello, ammettendo di non aver fatto un buon lavoro per Michael) e un processo rapido. Michael Moore era stato riconosciuto colpevole e condannato al massimo della pena: la morte. In migliaia risposero al mio appello per fermare l'esecuzione di Michael Moore. Il governatore del Texas e la commissione penitenziaria furono sommersi di lettere e chiamate di protesta contro la condanna a morte. Dopo di che accadde qualcosa di insolito: alla vigilia dell'esecuzione, la Corte d'Appello del Texas concesse a Moore una sospensione della pena. Michael Moore non sarebbe stato ucciso! In Texas! Incredibile. Dico davvero: incredibile. Non so descrivere il sollievo che provai. Michael Moore mi scrisse un'altra lettera, per ringraziarmi. A quel punto sarebbe cominciato il duro lavoro del vero appello. Poi, però, ci fu 1'11 Settembre. Lo conoscete il cliché "nulla sarà più come prima"? Ecco, questa fu una delle cose che cambiarono. La compassione per gli assassini fu gettata immediatamente alle ortiche. Venne il tempo di uccidere, in America, e se poteva morire un innocente intento a mangiare una sfogliatina danese nel corso di una riunione d'affari a centosei piani d'altezza a Manhattan, un assassino in Texas non poteva certo sperare di rimanere 22
in vita. Uccidere o essere uccisi erano le sole cose di cui ci importasse; eràvamo ormai un popolo pronto a combattere, dovunque, una guerra dopo l'altra se necessario. Di lì a poco sarebbe tornata d'attualità la sintesi di D.H. Lawrence: «L'anima americana, nella sua essenza, è scabra, solitaria, stoica e assassina». Le procedure per l'esecuzione di Michael Moore imboccarono la corsia preferenziale. Gli appelli furono tutti respinti. Michael mi inserì nella lista di chi avrebbe potuto assistere alla sua uccisione... se avessi deciso di andare. Non ce la feci. Non fui in grado di andare in Texas ad assistere alla morte di Michael Moore. Avrei voluto essere lì per lui, ma proprio non ci riuscii. L'esecuzione di Michael Moore ebbe luogo alle 18.34 del 17 gennaio 2002, la prima dell'anno nello Stato del Texas. E, in effetti, il titolo sui giornali recitava: Michael Moore giustiziato. Le lettere minatorie dopo gli Oscar furono così tante che pareva avessero aperto, da Hallmark, un reparto apposito dove autori di cartoline d'auguri erano stati incaricati di vergare delle odi dedicate al mio trapasso ("Per uno specialissimo figlio di puttana... ", "Rimettiti presto dal tuo misterioso incidente d'auto!", "Tanti auguri per un felice colpo apoplettico!"). Le telefonate a casa furono più inquietanti. Scatta un meccanismo del terrore tutto diverso, quando quelle follie sono pronunciate da una voce umana, perché uno pensa: "Questa persona ha rischiato letteralmente l'arresto pur di minacciarmi al telefono!". Un fegato - o una pazzia - ammirevole. I momenti peggiori, però, erano quelli in cui la gente si presentava di persona a casa nostra. All'epoca non avevamo una recinzione né telecamere a infrarossi, non cani dai denti di titanio né dispositivi per folgorare gli intrusi, perciò questi individui imboccavano semplicemente il nostro vialetto d'accesso, sempre con un'aria da bocciati al casting della Notte dei morti viventi, mai troppo rapidi nelle movenze, ma comunque avanzanti, con ferma determinazione. Pochi erano veramente animati da odio; i più erano semplici pazzoidi. Per un po' tenemmo occupati i vicesceriffi, che a un certo punto ci consigliarono di dotarci di un nostro servizio di sicurezza o addirittura di una nostra forza di polizia. E così facemmo. 23
Incontrammo il capo di una delle più importanti agenzie di sicurezza private del paese, un gruppo d'élite serissimo che non assumeva ex poliziotti ("Perché mai saranno ex poliziotti?" "Esatto.") né "duri" né gente tipo buttafuori. Tendevano a impiegare solo i Seal della Marina o altri ex membri di forze speciali come i Ranger dell'Esercito. Uomini dalla mente fredda capaci di ammazzarti con un pezzo di filo interdentale nel giro di qualche nanosecondo. Per poter lavorare con quell'agenzia avevano dovuto sottoporsi a uno speciale addestramento di nove settimane: sapevano già uccidere alla perfezione, rapidi e silenziosi, dopo di che dovevano imparare anche a proteggere la vita di una persona. Cominciai col farmi mandare dall'agenzia uno di questi ex Seal. Prima della fine dell'anno, a causa dell'allarmante aumento delle minacce e delle tentate aggressioni da me subite, ne avevo ben nove intorno, ventiquattr'ore su ventiquattro. Erano perlopiù neri e ispanici (bisognava offrirsi volontari per occuparsi del mio caso, il che spiega la sbilanciata, ma molto gradita, composizione etnica). Ebbi modo di conoscerli a fondo; basti dire che, convivendo con nove Seal di quelli tosti e in un clima di simpatia reciproca, si impara molto sull'uso del "filo interdentale". Dopo il bailamme dell'Oscar, essendomi trasformato in persona non gradita e uomo più odiato d'America, decisi di agire come avrebbe fatto chiunque altro nella mia posizione, ossia girando un film in cui si sosteneva che il presidente degli Stati Uniti era un criminale di guerra. D'altronde, perché prendere la via più comoda? Per me, in ogni caso, era finita. Lo studio che aveva promesso di finanziare il mio film successivo mi aveva telefonato dopo il mio discorso alla consegna dell'Oscar per dirmi che avrebbero rescisso il contratto sottoscritto con me; e se non ero d'accordo, che andassi a farmi fottere. Per fortuna, l'impegno fu assunto da un altro studio, secondo il quale, però, avrei forse dovuto fare attenzione a non irritare troppo il pubblico pagante. Il proprietario dello studio aveva appoggiato l'invasione dell'Iraq. Io gli dissi che il pubblico pagante l'avevo già irritato e, quindi, perché non fare il miglior film possibile, con il cuore? Se non fosse piaciuto a nessuno, restava sempre la possibilità di passare subito alla distribuzione homevideo. 24
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Nel pieno di questo trambusto cominciai a girare Fahrenheit 9/1.1 . La mia trpupe trovò immagini di repertorio della Casa Bianca, con Bush, ché le reti televisive non avevano mostrato. Io le presi dagli archivi dei network perché ritenevo che la gente avesse il diritto di vedere la verità.* Dissi a tutti i miei collaboratori di muoversi come se stessero facendo l'ultimo lavoro della loro vita nel mondo del cinema. E il mio non voleva certo essere un discorso retorico: io credevo davvero che lo sarebbe stato, che già era una fortuna se riuscivamo a girare Fahrenheit, considerato quel che mi era piovuto addosso. Insomma, limitiamoci a fare il film che vogliamo fare e non preoccupiamoci delle nostre "carriere". L'idea della "carriera", in generale, è sopravvalutata! E così passammo gli undici mesi successivi a mettere insieme il nostro atto d 'accusa cinematografico contro un'amministrazione e un paese impazziti. Il film uscì nel 2004, poco più di un anno dopo l'inizio della guerra, in un momento in cui gli americani erano ancora in larga maggioranza favorevoli al conflitto. La première si tenne al festival di Cannes, dopo che la Walt Disney Company aveva fatto tutto quanto in suo potere per fermare l'uscita del film (il nostro distributore, la Miramax Films, era di proprietà della Disney). Andammo al "New York Times" a raccontare del tentativo di mettere a tacere Fahrenheit, e il quotidiano, cui ancora bruciavano le rivelazioni sulla falsità degli articoli pubblicati prima dell'invasione dell'Iraq, sbatté il sordido affare in prima pagina. Servì a salvare noi e il film e ci consentì di arrivare a Cannes ... dove la pellicola ricevette la più lunga standing ovation nella storia del festival. Fummo premiati con il massimo riconoscimento, la Palma d'Oro, da una giuria internazionale presieduta da Quentin Tarantino. Era la prima volta in quasi cinquant'anni che un documentario vinceva il festival.**
* Sono ancora al bando su una di queste reti per aver divulgato loro immagini del vicesegretario della Difesa Paul Wolfowitz che si ciucciava il pettine e di George W. Bush che si esibiva in smorfie e faceva lo spiritoso pochi secondi prima di annunciare, in diretta nazionale, l'inizio del bombardamento e dell'invasione dell'Iraq. ,.,. Fahrenheit 9/11 diventò poi il documentario con il maggiore incasso nella storia del cinema e il film con il maggiore incasso tra tutti i vincitori di Cannes (in un elenco che comprende opere come Apocalypse Now e Pulp Fiction).
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La travolgente risposta iniziale a Fahrenheit 9/11 spaventò l'amministrazione Bush e convinse i responsabili della campagna per la sua rielezione che quel film poteva rappresentare, dal loro punto di vista, una svolta negativa. Ingaggiarono un sondaggista per scoprire quale effetto avrebbe avuto Fahrenheit sugli elettori. La sua proiezione davanti a tre diverse platee in tre città diverse fornì a Karl Rowe notizie tutt'altro che positive. Il film non solo stava fungendo da stimolo quanto mai necessario presso la base democratica (che lo aveva accolto con entusiasmo), ma aveva anche, stranamente, un effetto particolare sulle elettrici repubblicane. Un altro sondaggio condotto indipendentemente dallo studio cinematografico aveva già fornito un esito sconvolgente: un terzo degli elettori repubblicani - dopo aver visto il film - diceva che ne avrebbe raccomandato la visione ad altra gente. Fahrenheit 9/11 aveva scavalcato la linea di confine. I sondaggisti della Casa Bianca, però, riferivano un dato ancora più allarmante: il 10 per cento delle donne repubblicane affermava che dopo aver visto il film aveva deciso o di votare per John Kerry o di restarsene a casa. In un'elezione che si sarebbe potuta decidere per pochi punti percentuali, si trattava di una notizia devastante. Il comitato elettorale di Bush fu caldamente invitato a giocare d'anticipo sul film e ad assicurarsi che alla base repubblicana non venisse neanche in mente di dargli un'occhiata. «Dovete impedire che entrino nei cinema. I repubblicani e gli indipendenti non devono vedere questo film.» Se l'avessero visto, infatti, una certa percentuale di essi non sarebbe riuscita a superare la propria reazione "emotiva" alla morte e alla distruzione che il film attribuiva a George W. Bush. Benché sapessero che la maggior parte dei repubblicani avrebbe liquidato il film senza vederlo, nulla doveva essere lasciato al caso. Il sondaggista, seduto in sala nelle ultime file, vide di persona i «colpi fatali», come li definì, inferti dal film e, in particolare, da una scena con la madre di un soldato americano deceduto. Per una parte del pubblico - piccola ma significativa - era troppo straziante. «Se perdiamo le elezioni di novembre>> mi disse il sondaggista poco dopo l'uscita di Fahrenheit, «questo film sarà una delle tre ragioni principali.»
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Con Fahrenheit 9/11 avevo varcato il Rubicone ed ero penetrato nell'America nazional-popolare, ma non avevo ancora capito che non ci sarebbe stato un ritorno alla vita semitranquilla del mio quasi-anonimato. (Avevo goduto fino a quel momento di un mio seguito di "culto", anche convinto, ma relativamente piccolo, che aveva reso la mia vita piacevole senza intralciarla.) A quel punto, invece, mi trovavo in territorio ostile: se è vero che non avrei più avuto il problema di avere un tetto sopra la testa, la mia famiglia e io avremmo però pagato un prezzo molto alto per questo "successo". Quello che avevamo fatto non era un piccolo documentario come tanti- e io non ero più considerato come una specie di "moscone", una presenza certamente fastidiosa ma che poteva essere ignorata. Ero in zona "copertina di 'Time"'. Roba da ritrovarmi seduto nel box presidenziale accanto a Jimmy Carter alla Convention nazionale del Partito democratico. Stabilii un record di quattro presenze in sei mesi al "Tonight Show". Il film all'esordio fu il più visto in tutto il Nordamerica (la prima volta, per un documentario). E ciò, a peggiorare le cose per la Casa Bianca, in tutti e cinquanta gli Stati, persino nel profondo Sud. Persino nel Wyoming. Sì, persino nell'Idaho. Fu il film più visto in installazioni militari come Fort Bragg. I soldati e i loro familiari andavano a vederlo e, secondo diverse fonti, divenne il video pirata più diffuso fra le truppe in Iraq. Al botteghino, nel primo weekend di proiezioni, infranse il precedente record detenuto dal Ritorno dello Jedi, della saga di Guerre stellari, pur essendo uscito in forse neanche un migliaio di sale. Fu, per usare il gergo di "Variety", un "gran successo", un "rullo compressore". Tutto ciò fece di me un bersaglio. E non soltanto della destra o della stampa. Fahrenheit 9/11 colpiva un presidente degli Stati Uniti in carica e le sue speranze di essere rieletto. · Per questa ragione, il film - insieme al suo regista - doveva essere descritto come qualcosa di così disgustosamente antiamericano da far apparire l'acquisto del biglietto al botteghino come un atto di tradimento. Gli attacchi contro di me erano balle costruite ad arte, menzogne colossali a cui mi rifiutai di rispondere per non dare impor27
tanza a quel clamore. Alla tv, alla radio, in editoriali e commenti, su Internet - dappertutto - si ripeteva che Michael Moore odiava l'America, era un bugiardo, un invasato teorico della cospirazione e mangiatore di croissant. La campagna contro di me doveva impedire che troppi repubblicani vedessero il film. Funzionò. Naturalmente, ebbe un peso anche il fatto che John Kerry fosse un candidato fallimentare. Bush vinse le elezioni per un solo Stato, l'Ohio. Tutti i discorsi pieni di odio pronunciati contro di me dagli opinionisti repubblicani ebbero un altro triste e tragico effetto collaterale, perché fecero saltare un equilibrio già precario. E la mia vita passò dalle pasticciate letterine minatorie (una specie di San Valentino al contrario) a tentate aggressioni fisiche in piena regola ... se non peggio. Gli ex Seal della Marina vennero a vivere con noi. Quando uscivo in strada dovevano letteralmente formare un cerchio intorno a me. Di notte usavano i visori a infrarossi e altre apparecchiature speciali che secondo me ben poca gente, a parte quelli di Langley, aveva mai visto. L'agenzia che mi proteggeva aveva un ufficio valutazione rischi incaricato di indagare su chiunque mi avesse minacciato in maniera anche solo vagamente credibile. Un giorno chiesi loro di farmi consultare il dossier. Il responsabile dell'ufficio cominciò a leggermi un elenco di nomi, ognuno con le relative minacce e con una valutazione del rischio che queste rappresentavano. Dopo avermi letto la prima dozzina di voci, si fermò per domandarmi: «Vuole che vada avanti? Ne è sicuro? Ce ne sono altri quattrocentoventinove». Altri quattrocentoventinove? Quattrocentoventinove dossier su persone che vogliono farmi del male o addirittura uccidermi? Ogni fascicolo conteneva relazioni dettagliatissime sulla vita di queste persone e su ciò di cui erano probabilmente capaci. Non avevo nessuna voglia di continuare ad ascoltare. Mia sorella restò sbalordita dal numero. «Immaginavo che fossero una cinquantina» disse, come se "una cinquantina" fosse una quantità che saremmo magari riusciti a gestire. Non potevo più comparire in pubblico senza che capitasse qual28
che incidente. Cominciò con piccoli fastidi: persone che chiedevano di essere cambiate di tavolo al ristorante se io prendevo posto vicino a loro; tassisti che si fermavano in mezzo al traffico per urlarmi dietro qualcosa. C'era gente che si metteva a inveire contro di me senza badare al luogo: in autostrada, a teatro, in ascensore. Chi assisteva a queste scene a volte mi domandava: «Le capita spesso?», perché rimaneva sconvolto dalla violenza e dall'aleatorietà dell'aggressione. Una donna decise di dimostrarmi il suo odio alla messa di Natale. «Possibile?» le dissi. «Proprio a Natale? Neanche oggi riesce a prendersi una pausa?~ Dalle aggressioni verbali si passò in breve a quelle fisiche, e i Seal erano sempre in allerta al massimo grado. Su suggerimento dell'agenzia, non entrerò troppo nei dettagli a questo riguardo, per ragioni di sicurezza, ma anche per non concedere a questi criminali l'attenzione di cui erano in cerca: -A Nashville, un uomo armato di coltello salì sul palco su cui mi trovavo e si diresse verso di me. Un Seal lo afferrò per un passante della cintura e per il colletto e lo scaraventò giù dal palco, sul pavimento di cemento. Qualcuno dovette ripulire il suo sangue dopo che i Seal lo ebbero portato via. -A Portland, all'aperto, un tizio salì sul palco e cercò di avventarsi su di me brandendo un corpo contundente,. con la chiara intenzione di darmelo in testa. Un mio assistente lo frenò dando ai Seal l'opportunità di bloccarlo e di portarlo via. -A Fort Lauderdale, un uomo ben vestito mi vide passare su un marciapiede e diede fuori di matto. Tolse il coperchio dal bicchiere di carta che aveva in mano e mi gettò il caffè bollente in faccia. Il Seal che mi era più vicino vide svolgersi la scena, ma non ebbe a disposizione quella frazione di tempo in più che gli sarebbe servita a bloccarlo. Sta di fatto che mise la sua faccia davanti alla mia e si prese la doccia bollente in faccia. Il caffè lo ustionò al punto che dovemmo portarlo all'ospedale (con ustioni di secondo grado), ma non prima che il Seal avesse modo di atterrare l'aggressore, di piantargli un ginocchio nella schiena e di ammanettarlo. - A New York, mentre tenevo una conferenza stampa davanti a uno dei cinema in cui veniva proiettato Fahrenheit 9/11, un tale 29
di passaggio mi vide e, preso dalla rabbia, estrasse da una tasca l'unica arma di cui era in possesso: una matita di grafite n. 2 molto appuntita. Quando si protese per tentare di usarla a mo' di pugnale, il Seal se ne accorse e all'ultimissimo istante mise la mano sulla traiettoria della matita, che gli si conficcò nella carne. Avete mai visto un Seal appena pugnalato? Aveva l'espressione che noi avremmo scoprendo di aver finito lo shampoo. Il proprietario della matita, quel giorno, si convertì sicuramente a un'idea di società senza carta, dopo che il Seal si fu occupato di lui e di quello strumento di scrittura cinquecentesco. - A Denver partecipai a una proiezione del mio film. Gli addetti della security trovarono un uomo armato di pistola e lo portarono via. Capitava spesso di trovare gente armata, sempre in modo legittimo, ovviamente, grazie alle nuove leggi che consentivano a chiunque di presentarsi armato agli eventi pubblici. - Più volte, degli individui dalla pelle bianca hanno tentato di prendermi a pugni. Una volta ebbi a che fare con un gruppo di skinhead. Un'altra volta fu un agente immobiliare. Ogni volta, i Seal si sono frapposti e hanno usato il loro corpo per difendermi dagli assalitori. Nella maggior parte dei casi non coinvolgevamo neppure la polizia, perché non volevamo fare troppa pubblicità a questi episodi, temendo che potesse incoraggiare l'emulazione. E poi ci fu Lee James Headley. Nella solitudine della sua casa in Ohio, Lee aveva grandi progetti. Il mondo, stando al suo diario, era dominato e mandato in rovina dai liberal. I suoi commenti sembravano presi da una qualunque puntata del "Rush Limbaugh Show". Lee aveva anche compilato una lista - breve, ma pur sempre una lista - di persone che dovevano morire. I nomi erano quelli dell'ex procuratore generale Janet Reno, dei senatori Toro Harkin e Toro Daschle, di Rosie O'Donnell e di Sarah Brady. In cima all'elenco, però, l'obiettivo numero uno era "Michael Moore". Accanto al mio nome aveva scritto: SEGNATO (nel senso di "condannato a morte", avrebbe spiegato in seguito). Per tutta l'estate del 2004, Lee aveva accumulato una gran quantità di armi da guerra e una scorta di migliaia di munizioni, oltre a materiali vari per la produzione di ordigni esplosivi. Si era com30
prato The Anarchist Cookbook, un manuale per costruire le bombe, e il romaJitZO razzista The Turner Diaries. Tra i suoi appunti c'erano diagranutù di lanciarazzi e armi varie, alternati ossessivamente alle scritte: "Combatti! Combatti! Combatti! Uccidi! Uccidi! Uccidi!". Era in possesso anche di disegni di svariati edifici federali dell'Ohio. Una sera del 2004, però, mentre era in casa, gli partì accidentalmente un colpo di Ak-47. Il suo vicino sentì lo sparo e avvertì la polizia. I poliziotti arrivarono e trovarono quel deposito di armi, munizioni e materiale esplosivo. Oltre alla sua lista degli obiettivi. E finì in galera. Qualche giorno dopo ricevetti una telefonata dall'agenzia che si occupava della mia sicurezza. «Dobbiamo dirle che la polizia ha arrestato un uomo che progettava di far saltare in aria casa sua. Ora il pericolo è passato.» Io non fiatai. Cercai di elaborare l'informazione appena ricevuta: ora ... il pericolo... è... passato. Fu la goccia che fece traboccare il vaso, per me. Crollai. Non ne potevo più. Mia moglie era già da un po' sprofondata nella depressione per la rinuncia obbligata alla nostra solita vita. Tornai a domandarmi: che cosa avevo fatto per meritarmi quella sorte? Avevo girato un film? Un film ha spinto qualcuno a cercare di far saltare in aria casa mia? Non si usa più scrivere lettere di protesta ai direttori dei giornali? A quanto pareva, il mio crimine era quello di presentare domande e idee a un pubblico di massa (una di quelle cose che ogni tanto capitano, in una democrazia). Il pericolo non risiedeva nelle mie idee, ma nel fatto che milioni di persone, all'improvviso, smaniavano dalla voglia di ascoltarle. E non soltanto nei cinema o ai raduni di sinistra. Venivo invitato a parlarne a "The View!". Al "Martha Stewart Show". Da "Oprah", quattro volte! Poi Vanna White girò le lettere del mio nome alla "Ruota della fortuna". Mi fu data la possibilità di diffondere dappertutto le idee di Noam Chomsky e di Howard Zinn, di I.F. Stone e dei fratelli Berrigan. E questo mandò la destra completamente fuori dai gangheri. Non era nelle mie intenzioni, ma è quel che accadde. E il continuo bombardamento contro di me si intensificò, con i programmi radiotelevisivi conservatori che mi descrivevano come 31
un essere subumano, una "cosa" che odiava le truppe, la bandiera e tutto ciò che è americano. Questi ignobili epiteti venivano ammanniti a un pubblico poco istruito, abituato a una dieta fatta di paura e ignoranza, che non sapeva neppure cosa significava la parola "epiteto". Così, nel febbraio del 2004, Bill O'Reilly scherzò in presenza del sindaco di New York Rudolph Giuliani, in diretta tv durante il suo programma su Fax News: «Be', voglio uccidere Michael Moore. Okay? Bene. E sono contrario alla pena di morte... Era solo uno scherzo a Moore». Che risate... Con il passare dei mesi, anche dopo la rielezione di Bush, la campagna contro di me continuò sempre più aggressiva. Glenn Beck, dopo aver detto via etere che meditava di uccidermi, non fu multato dalla Federal Communications Commission né arrestato dal Nypd. In sostanza, aveva lanciato un appello perché fossi ammazzato, e a quel tempo nessuno sui media riportò la cosa. Nessun commissario della Fcc condannò quelle parole. Parlare di me in quei termini, alla radio e in tv, era semplicemente ammissibile. Dopo di che un uomo violò il nostro domicilio e lasciò qualcosa sotto la finestra della nostra camera da letto, mentre io ero fuori casa. Mia moglie ne fu terrorizzata. Quel tale pensò addirittura di filmarsi, mentre lo faceva. Quando la polizia gli chiese conto delle sue azioni, lui rispose che stava girando un "documentario". Disse che si intitolava Shooting Michnel Moore. E se si andava sul suo sito web, quando sullo schermo compariva quel titolo si udiva contemporaneamente il rumore di uno sparo. I media ci si buttarono a capofitto, e il tizio fu invitato in molte trasmissioni televisive (ad esempio, da Sean Hannity). «Tra poco in onda: vuole fare assaggiare a Michael Moore un po' della sua stessa medicina! Ora Moore ha qualcuno alle costole!» (Effetto audio a concludere: KA-BOOM!) Quel tizio inoltre metteva a disposizione video e mappe, non solo per raggiungere casa mia, bensì anche per entrare illegalmente nella nostra proprietà. Non disse, però, quel che gli ex Seal avrebbero fatto a chi si fosse fatto sorprendere." "l gruppi e i presentatori di talk show di destra non furono i soli mandanti di que-
sti attacchi. Anche certi settori economici si mossero investendo grosse somme per fermarmi. Quando annunciai che il mio film successivo avrebbe parlato del
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Fu così che un uomo dell'Ohio organizzò dei piani e mise insieme il matetjale necessario per fare a casa nostra quello che Tunothy McVeigl). aveva fatto a Oklahoma City. «Andrà in prigione e ci resterà a lungo, Mi.ke» disse per tranquillizzarmi il capo dell'agenzia di sicurezza. «Se tutti falliscono è perché hai adottato le contromisure giuste.» «E perché questo tizio aveva un vicino di casa ficcanaso che ha chiamato la polizia» aggiunsi io. «Sì, anche per questo.» Non intendo dilungarmi sull'impatto che tutto ciò, all'epoca, ebbe sulla mia vita privata: basterà dire che non lo auguro a nessuno. Più di una volta mi sono domandato se il mio lavoro valesse davvero tutta quella pena. E, se avessi potuto rifare tutto, mi sarei comportato allo stesso modo? Se avessi potuto rimangiarmi quel discorso alla consegna dell'Oscar, salire di nuovo su quel palco, ringraziare il mio agente e lo stilista dello smoking e andarmene senza aggiungere una parola, lo avrei fatto? Se mi avessero garantito che la mia famiglia non si sarebbe più dovuta preoccupare della propria sicurezza e che io non sarei più stato continuamente in pericolo... Be', lo domando a voi: che cosa avreste fatto, voi? Lo sapete bene, quel che avreste fatto. Per i due anni e mezzo successivi, non uscii granché di casa. Dal gennaio 2005 al maggio 2007 non partecipai a un solo programma televisivo. Smisi di tenere conferenze nei college. Mi autocancellai dai radar. Aggiornavo saltuariamente il blog sul mio sito web e non facevo altro, o quasi. Nell'anno precedente avevo parlato in più di cinquanta università. Nei due anni successivi, lo feci solo in una. Rimasi vicino a casa e collaborai a diversi progetti loca-
sistema sanitario degli Stati Uniti, si formò un consorzio di compagnie di assicurazione sanitaria e case farmaceutiche per tentare di bloccare la pellicola, in particolare spendendo centinaia di migliaia di dollari in campagne di disinformazione miranti a screditare me e la mia opera. E se il loro piano non avesse funzionato, avrebbero fatto ciò che si doveva per "buttar giù Michael Moore dalla rupf'. Fu Wendell Porter, vicepresidente di Cigna Insurance, a darne notizia parlando con il giornalista Bill Moyers e poi nel suo libro Deadly Spin. 33
li nel Michigan, dove abitavo - cose come la ristrutturazione e la riapertura di uno storico cinema in disuso, la creazione di un fe-
stival cinematografico eccetera-, cercando nel frattempo di riuscire a dormire la notte. Alla fine, a correre in mio soccorso fu il presidente Bush. Disse una cosa che mi aiutò a riscuotermi. L'aveva già detta altre volte, ma in questo caso, quando lo sentii, fu come se stesse parlando a me direttamente. Disse: «Se cediamo ai terroristi, i terroristi hanno vinto». E aveva ragione. I suoi terroristi stavano vincendo! Contro di me! Che cosa ci facevo chiuso in casa? Che cazzo! Spalancai le tende, tolsi di mezzo la parte di me più incline all'autocommiserazione e mi rimisi al lavoro. Feci tre film in tre anni, mi impegnai con tutto me stesso per l'elezione di Barack Obama e contribuii a ottenere le dimissioni di due repubblicani del Michigan eletti al Congresso. Inaugurai un sito web molto visitatQ e venni eletto membro del consiglio di quegli stessi Academy Awards da cui ero stato cacciato a suon di urla e fischi. Poi Kurt Vonnegut mi invitò a cena a casa sua. Fu la prima di quattro cene che, nell'ultimo anno della sua vita, condivisi con lui e sua moglie. Le conversazioni furono sempre fittissime, divertenti, stimolanti... ed ebbero il potere di resuscitarmi, insufflandomi letteralmente nuova vita, restituendomi al mio posto nel mondo. Mi disse che da un po' di tempo assisteva alla "crocifissione" (disse proprio così) che stavo sopportando... e che aveva alcune cose da dirmi. «Gli estremi a cui sono giunti i sostenitori di Bush per colpirti sono direttamente proporzionali all'efficacia che hai avuto» mi disse ww volta, alla sua terza sigaretta del dopocena. «Li hai intralciati più di quanto immagini. Può darsi che sia tardi per noi tutti, ma devo dirti che tu mi hai restituito un po' di speranza per questo triste paese.» Una sera andai da lui e lo trovai ad attendermi seduto sui gradini davanti a casa. Mi disse che aveva smesso di meditare sul "senso della vita" perché suo figlio Mark gliel'aveva finalmente trovato: «Siamo qui per aiutarci l'un l'altro ad arrivare in fondo a questa esistenza, qualunque cosa sia». E lui mi stava aiutando. 34
Vonnegut, negli ultimi anni di vita, si era messo a scrivere non-fictipn. «È la sfida più grande, per me» mi disse, «perché la realtà attuale sembra talmente irreale che una non-fiction credibile diventa difficile da realizzare. Tu, però, ne sei capace, amico mio.» Andammo a piedi all'appuntamento con sua moglie e gli altri amici con cui avremmo cenato. Gli domandai se valesse davvero la pena scrivere, girare film, fare politica. «No, non del tutto» rispose, alla Vonnegut. «Perciò tanto vale smetterla di lamentarsi e rimettersi al lavoro. Non hai nulla di cui preoccuparti. Non te ne verrà alcun danno.» Poi, rendendosi conto che forse non ero del tutto convinto, aggiunse, con la voce di Dio: «COSÌ HO DETTO!». Mi fermai, lì sulla East Forty-eight Street, e guardando quel folle figlio di Mark Twain scoppiai a ridere. Era proprio quel che avevo bisogno di sentire. Se non la voce di Dio, almeno il garbato appello di Billy Pilgrim, il protagonista di Mattatoio n. 5. Così vanno le cose. Quella sera mi regalò uno dei suoi disegni, con la scritta: "Caro Iraq, fa' come noi: dopo cent'anni libera i tuoi schiavi; dopo centocinquanta concedi il voto alle tue donne. Con amore, Zio Sam". Vi aggiunse una dedica: " A Michael Moore, il mio eroe- K.V.". Tornai a vivere. Decisi di non cedere. Avrei voluto, e tanto. E invece mi rimisi in forma. Ora posso assicurare che, se provate a darmi un pugno, succederanno tre cose: 1) vi romperete la mano. È questo il bello di dedicare mezz'ora al giorno alla propria struttura muscolo-scheletrica: si trasforma in kriptonite; 2) vi cadrò addosso. Sto ancora lavorando sui miei problemi propriocettivi, sicché se mi colpirete io perderò l'equilibrio e vi schiaccerò. Non lo farò apposta, e state pur certi che, mentre voi cercherete di respirare, io farò del mio meglio per sgravarvi del mio peso; 3) i miei Seal vi spruzzeranno il Mace o qualche altra miscela autoprodotta a base di peperoncino aracnicida direttamente negli occhi mentre siete immobilizzati a terra. Ho sentito dire che provoca dolori atroci. Essendo io un pacifista, vi prego di accettare le mie scuse anticipate... e non usate mai più la violenza, né contro di me né contro altri. (ALLARME PREDICA)
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Solo i vigliacchi ricorrono alla violenza. Temono che le loro idee possano avere la peggio nel dibattito pubblico. Sono deboli e hanno paura che la gente possa accorgersene. Si sentono minacciati dalle donne, dai gay, dalle minoranze... Cristo, minoranze! Sapete perché si chiamano "minoranze"? Perché non hanno il potere: siete voi ad averlo! Non per niente vi chiamate "maggioranza"! Eppure avete paura. Paura dei feti non nati, degli uomini che baciano altri uomini (o peggio!). Paura che qualcuno possa togliervi le vostre pistole, che vi siete procurati perché... avete paura! Vi prego, per il bene di tutti: RILASSATEVI! Vi vogliamo bene! Che diamine, siete americani!
Una sera ad Aventura, Florida, portai il mio nuovo io entusiasta e un amico al mail sulla William Lehman Causeway a vedere un film. Un giovane sulla trentina mi passò accanto e ne approfittò per dirmi: «Testa di cazzo». E continuò per la sua strada. Io mi fermai e mi voltai verso di lui. «Ehi, tu! Torna qui!» Il tizio proseguì. «Ehi, non scappare!» gridai, più forte. «Non fare il coniglio. Torna qui e affrontami!» "Coniglio" è un boccone indigesto per quel genere che va a testosterone. Si bloccò di colpo, si voltò e tornò verso di me. Quando fu a un paio di metri gli dissi, con estrema cortesia: «Ehi, amico... perché mi hai detto quella cosa?». Fece una smorfia ghignante e si irrigidì, pronto alla rissa. «Perché so chi sei, e sei una testa di cazzo.» «Ecco, ci risiamo con questa espressione. Tu non hai la più vaga idea di chi sono o di che cosa ho in mente. Tu non hai visto neanche uno dei miei film.» «Non ne ho bisogno!» ribatté a conferma di quel che già sospettavo. «Le so già le cose antiamericane che hai avuto il coraggio di dire.» «Sta' a sentire, amico, non è giusto. Non puoi giudicarmi sulla base di quello che qualcuno ti ha detto sul mio conto. Tu sei troppo intelligente per accontentarti. Mi sembri uno capace di decidere da solo. Fammi un favore: va' a vedere uno dei miei film. Fidati: se anche non sarai d'accordo con tutte le mie posizioni politiche, posso garantirti che guardando il film 1) capirai all'istante quan36
to io amo questo paese; 2) troverai che sono una persona di cuore; e 3) riderai più di una volta. Se poi vorrai ancora darmi della "testa di cazz:o", potrai farlo, ma non credo che lo farai.» Si calmò, e parlammo per almeno altri cinque minuti. Ascoltai le sue lamentele sul mondo e gli dissi che probabilmente, tra noi, c'erano più ragioni di accordo che di disaccordo. Lui si rilassò ulteriormente e alla fine gli strappai un sorriso. Gli dissi che dovevo andare, per non perdere l'inizio del film. «Ehi, amico» disse il tizio, tendendomi la destra per stringere la mia. «Scusami se ti ho offeso. Hai ragione: in realtà non so niente di te, ma il fatto che ti sia fermato a parlare con me dopo che ti ho detto quella cosa... be', mi ha fatto pensare che davvero non ti conosco. Ti prego di accettare le mie scuse.» Le accettai, e ci stringemmo la mano. Nessuno mi avrebbe più mancato di rispetto o minacciato... ed era proprio quell'atteggiamento che mi metteva al sicuro, nella misura in cui a questo mondo è possibile. Da quel momento in avanti, chi avesse attaccato briga con me ne avrebbe pagato le conseguenze: l'avrei convinto a vedere un mio film. Qualche settimana più tardi, dopo una lunga assenza, tornai al "Tonight Show". Quando ebbi finito e stavo per lasciare il palco, l'addetto alla "giraffa" mi si avvicinò. «Lei probabilmente non si ricorda di me» disse, timidamente. «Temevo di non incontrarla mai più e di non avere più occasione di parlare con lei. Non riesco a crederci.» "In che senso?" pensai. Mi preparai all'idea che quell'uomo potesse fratturarsi una mano. «Finalmente posso porgerle le mie scuse» disse, mentre gli occhi cominciavano a riempirglisi di lacrime. «Eccola qui, di nuovo. Ora posso liberarmi di un peso: io sono quello che le ha rovinato la serata dell'Oscar, quello che le ha gridato "STRONZO" all'orecchio, dopo che lei aveva lasciato il palco. Io... io... [si sforzò di ricomporsi] Io credevo che lei stesse attaccando il presidente... ma aveva ragione. Lui ci aveva davvero mentito. E io mi sono portato questo peso per tutti questi anni, di averle fatto quel torto in quella serata per lei così speciale... Sono mortificato.» 37
A quel punto cominciò a dar segni di cedimento, e io non trovai di meglio da fare che abbracciarlo. «Va tutto bene, amico» gli dissi, con un gran sorriso. «Accetto le tue scuse, ma non ce n'è bisogno. Non hai fatto nulla di male. Che cosa è successo, in fondo? Hai solo creduto al tuo presidente! Ma è normale che uno creda al presidente! Se non possiamo aspettarci come minimo neanche questo, da chi occupa quella carica, allora siamo proprio rovinati.» «Grazie» disse lui, risollevato. «La ringrazio per la sua comprensione.» «Comprensione?» dissi. «Non si tratta di comprensione. Sono anni che vado in giro a raccontare questa storia delle due parole che uno si sente rivolgere dopo aver ricevuto l'Oscar... e di come a me ne fu rivolta una terza! Amico, non privarmi di questa storia! La gente la adora!» Lui rise, e risi anch'io. «Già» ammise, «non se ne sentono molte, di storie belle come questa.»
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Gattonare all'indietro
Il primo figlio dei miei genitori non è mai nato. Poi sono venuto al mondo io. C'era un bambino in arrivo, un anno prima della mia nascita, ma un giorno mia madre aveva avvertito un dolore acuto, e di lì a pochi minuti Mike I aveva avuto dei ripensamenti sul suo tanto atteso avvento sulla Terra e, dopo aver chiesto il conto, era uscito dall'utero prima che il pubblico, con i suoi applausi, potesse stabilire chi fosse la Regina per un Giorno. Questo evento improvviso e malaugurato aveva reso mia madre molto triste. Per consolarla, allora, mia nonna la portò in pellegrinaggio in Canada per chiedere la grazia alla santa patrona delle donne in travaglio, la madre della Vergine Maria in persona, sant'Anna, che è anche la santa patrona del Québec. C'era un santuario a lei dedicato nella basilica di Sainte-Anne-de-Beaupré, nello Stato del Québec. Questo luogo sacro accoglieva alcune ossa della santa insieme ad altre reliquie incastonate nella Scala Santa che fa parte del santuario. Se una donna saliva quella scala in ginocchio - si diceva -la madre della Vergine benedetta l'avrebbe aiutata a fare ciò che le vergini non fanno, ossia a concepire. Mia madre salì in ginocchio tutti e ventotto i gradini e nel giro di qualche settimana, quant'è vero che Iddio è insieme mio testimone ed esperto di fecondazione, in una calda notte di luglio fui concepito prima come mera idea e poi... be', il resto lo lascio alla vostra immaginazione. Basti dire che nei nove mesi successivi, l'uovo fe39
condato si trasformò in feto e alla fine diventò un maschietto di tre chili e sei etti con il fisico da linebacker e una capoccia da Thor. Mia madre fu anestetizzata, per risparmiarle l'esperienza di prima mano del miracolo della vita. Io non ebbi la stessa fortuna. Mi pungolarono, mi stuzzicarono e mi spinsero, invece di lasciarmi risolvere il problema con i miei tempi; mi afferrarono e mi tirarono fuori, in questo mondo di luci accecanti e di sconosciuti che tenevano delle mascherine sulla faccia al solo scopo, ovviamente, di nascondermi la loro identità. Prima che io potessi percepire l'amore in quella sala, mi diedero uno sculaccione di quelli potenti, vecchio stile, anni Cinquanta. Ehi! e schioccò le dita, come se in quel modo potesse magicamente apparire un negro a dimostrazione della sua tesi. «Si metteranno insieme ai negri di Flint e verranno ad ammazzarci tutti!» 130
Benché non avessi mai sentito nulla di tanto fantasioso prima di allora, non mi era ignoto l'atteggiamento prevalente a Davison sulla qu~stione della Gente di Colore. I neri - o negri, come molti nostalgicamente li chiamavano - non erano i benvenuti, e basta. Per quel che ne sapevo, non c'era un solo abitante nero tra i 5900 di Davison. E se si considera che eravamo appena fuori Flint, dove vivevano circa cinquantamila persone di colore, si capisce che non poteva essere un caso. Nel corso degli anni, gli agenti immobiliari avevano sempre saputo come comportarsi in presenza di negri desiderosi di trasferirsi da Flint a Davison. E tra i residenti la legge non scritta, ma non sempre taciuta, era che nessuno doveva vendere la propria casa a una famiglia nera. Ciò servì a mantenere le cose in ordine, ed esclusivamente bianche, per decenni. Un secolo prima questa mentalità non esisteva. Negli anni Cinquanta e Sessanta del XIX secolo, Davison era una fermata dell'Underground Railroad, nodo di una rete clandestina che si estendeva in direzione nord dalla valle del fiume Ohio attraverso l'Indiana e lo Stato dell'Ohio, per poi entrare nel Michigan e varcare il confine con il Canada, dove gli schiavi neri in fuga ritrovavano la libertà perduta. Questa "ferrovia" contava più di duecento fermate nel solo Michigan. All'Underground Railroad collaboravano attivamente molti membri del neonato Partito repubblicano nel Michigan, che aiutavano gli schiavi in fuga, garantendo loro passaggi sicuri e offrendo loro rifugio nelle proprie case. Ai cacciatori di taglie del Sud, però, la legge federale consentiva di sconfinare negli Stati come il Michigan e rapire qualsiasi schiavo trovassero per riportarlo al padrone. Era uno dei tanti compromessi a cui il Nord era dovuto scendere per accontentare gli Stati schiavisti e tenerli legati all'Unione. Per gli schiavi in fuga, perciò, non era sufficiente rifugiarsi in uno degli Stati dove la schiavitù non esisteva: dovevano arrivare in Canada. Non fu priva di pericoli, quindi, la scelta di centinaia di abitanti del Michigan che si impegnarono a proteggere le vittime di questo sistema crudele e barbaro. Una di queste persone era proprietaria della casa all'angolo tra Main Street e Third Street a Davison, a un centinaio di chilometri dal confine canadese. A distanza di anni ancora si diceva che nella casa di quella famiglia ci fosse un na131
scondiglio in cantina, su cui i compaesani avevano sempre mantenuto il segreto durante le incursioni dei cacciatori di taglie. (Quella abitazione, alla fine, sarebbe diventata la casa dei miei nonni.) Divenne motivo d'orgoglio per i cittadini di Davison il fatto di partecipare a qualcosa di importante e di storico. Molti ragazzi della regione sarebbero presto partiti per la Guerra di Secessione e, una volta abolita la schiavitù, la popolazione locale poté fregiarsi del merito di aver dato il proprio contributo. Non era questa, però, l'atmosfera nella torrida giornata d'agosto del 1924 in cui ventimila persone si radunarono all'ippodromo Rosemore di Davison per presenziare al raduno dei Caritatevoli Cavalieri del Ku Klux Klan. Guardando le foto di quel giorno, con migliaia di cittadini in tonaca bianca, viene da domandarsi quanto dovessero aver caldo, soprattutto quelli sotto i cappucci a punta! Molti, però, non indossavano il cappuccio: non c'era ragione di nascondere la propria identità, perché pareva che tutti ma proprio tutti fossero membri di quella graziosa organizzazione dedita a terrorizzare e linciare i neri. Nell'estate del 1924, però, a Flint, il problema non era tanto quello dei negri (che perlopiù avevano capito qual era il loro posto e imparato a restarsene tranquilli). No, il problema che il Klan in quella domenica pomeriggio intendeva affrontare era costituito dai "papisti", ossia dai cattolici. Questi ultimi, a quanto pareva, avevano cominciato a rialzare la testa. Si stavano espandendo in un quartiere destinato ai soli protestanti bianchi, e ciò andava evidentemente a turbare l'ordine naturale delle cose. I cattolici avevano anche cominciato a praticare i matrimoni misti, cosa che aveva creato un grave disagio tra i fedeli lì riuniti. Il matrimonio, secondo loro, doveva celebrarsi esclusivamente tra un protestante e una protestante (e, sì, anche tra un cattolico e una cattolica; mai, però, tra un cattolico e una protestante o una cattolica e un protestante). Il padre di mia madre (il nonno Wall) non capiva queste regole (e c'era da perdonarlo, perché in fondo veniva dal Canada). Nel 1904 lui, anglicano, aveva sposato mia nonna che era una cattolica romana. Per questa sua scelta, il Klan aveva sistemato una croce nel giardino di casa sua a Davison e le aveva dato fuoco. 132
«Non era poi 'sta gran croce» avrebbe osservato in seguito mia nonna. «Ero convinta di valere qualcosa di più di una croce alta un metro «r venti!» Per tutti gli anni Venti e Trenta del Novecento, Davison e altre parti del Michigan furono culla di un bigottismo sfrenato. Dalle invettive antisemite di padre Charles Coughlin, che ogni domenica presentava il suo programma radio a diffusione nazionale da Royal Oak, ai raduni che il Klan teneva, sempre di domenica, a Davison (e al Kearsley Park, a Flint), ce n'era a sufficienza per vergognarsi e per restare stupiti nel vedere fino a che punto lo Stato del Michigan si era allontanato dai giorni dell'amore umanitario del Partito repubblicano originario, un partito che aveva abolito non solo la schiavitù, ma anche la pena di morte, e aveva cercato di concedere il diritto di voto alle donne. E ora, invece, si assisteva a scene come quella di Henry Ford che riceveva medaglie da Hitler. Era il 1967, ultima settimana di luglio, e avevo in mente un'unica cosa: presto saremmo andati ad abitare a sei isolati di distanza in una via asfaltata! Detroit, intanto, distante un centinaio di chilometri, era in fiamme. Lo si era visto al telegiornale della sera precedente. Da quel che avevo capito, la polizia aveva cercato di arrestare tutti i neri in un locale notturno dov'era in corso una festa per due reduci del Vietnam. La festa aveva disturbato gli abitanti della zona e innescato proteste immediate che erano sfociate in atti di violenza. Era stata chiamata la Guardia nazionale, e in buona parte del Michigan sudorientale si credeva che le rivolte a sfondo razziale scoppiate a Watts due anni prima - e a Newark solo due settimane avanti - fossero ormai in pieno svolgimento anche nel nostro Stato. Quel che ai tempi non appariva chiaro era che in realtà si trattava di un'insurrezione dei poveri di Detroit, e quei poveri si ritrovarono ad avere a che fare con una polizia e una Guardia nazionale violente, decise a sparare contro qualunque nero dall'aria sospetta. A Flint, però, la situazione era diversa. L'anno precedente, la città aveva eletto il primo sindaco nero d'America, Floyd McCree, molto amato anche se Flint era ancora all'80 per cento bianca. Gli elettori di Flint avrebbero presto approvato la prima legge ameri133
cana sulla casa che vietava ogni discriminazione razziale nell'affitto o nella vendita. Benché i quartieri di Flint fossero ancora in gran parte segregati, si percepiva il desiderio di "aggiustare le cose" in campo razziale. A maggior ragione, quindi, la fuga concitata della famiglia di Walter mi pareva assurda, e rimasi lì a guardare. Flint non sarebbe esplosa, e i neri che ci abitavano non mi avrebbero ammazzato. Non ebbi neanche bisogno di parlarne con i miei genitori per averne la certezza. La mia paura, piuttosto, era che mia madre potesse aver sentito Walter quando aveva detto "negri", una parola che in casa mia non veniva mai pronunciata ed era, anzi, espressamente vietata. Sarebbe stato imbarazzante se lei mi avesse gridato di rientrare a casa, ma per fortuna non accadde, perché lei e mio padre erano troppo presi a organizzare il trasloco in Main Street. La station wagon era piena fino all'orlo di provviste e paranoia e sgommò via lungo la strada e verso la salvezza, facendo schizzare qua e là il ghiaino con le gomme. A Flint non accadde nulla, ma a Detroit i tumulti infuriarono per una settimana. Per alcune sere, al telegiornale, le scene di guerra del Vietnam furono sostituite da scene di guerra a Detroit. Fu come una scossa per l'intero Michigan: la bella e generosa città di Detroit non sarebbe più stata la stessa. In anni successivi sarebbe stato sempre più difficile comprendere la portata di quegli eventi, ma per chi a quei tempi cresceva nei paraggi Detroit era la Città di Smeraldo, e quel luogo- così pieno di vita, con i marciapiedi gremiti di persone, i negozi che facevano invidia a tutto il Midwest, le università, i parchi, i giardini e il museo d'arte (con il murale di Diego Rivera), la Detroit di Aretha Franklin e di Iggy Pop, di Bob Seger e degli MC5, di Belle Isle e Boblo Island, e del dodicesimo piano dei grandi magazzini Hudson, dove il vero Babbo Natale sedeva sul suo trono e ci prometteva un futuro infiocchettato di possibilità ed eterno entusiasmo: «Su, Cometa! Su, Cupido! Donner e Blitzen!» - in un batter d'occhio scomparve. Completamente. Sapevamo bene dov'era finito e non avevamo dimenticato il perché. Sapevamo quando era scomparso. Aveva risalito Woodward Avenue ed era sceso per Twelfth Street, fino a Grand River Avenue e oltre lo stadio dei Tigers, per fermarsi 134
solo dopo averci strappato fino all'ultimo boccone di ottimismo. E a quel punto noi eravamo fuggiti, da-doo-run-run, per allontanarci da ~oro e abbandonarli, a soffrire e a sguazzare nella miseria da cui non erano mai realmente usciti da quando noi gente del Michigan avevamo guidato la lotta per la loro liberazione. Al quarto giorno, il presidente Johnson inviò a Detroit 1'823 divisione aerotrasportata, con tanto di carri armati e mitragliatrici scintillanti: la guerra del Vietnam era ormai in casa. Alla fine dei tumulti, quarantatré persone erano rimaste uccise, duemila edifici erano stati sventrati o inceneriti, e il nostro spirito era sepolto sotto cumuli di macerie. Questa era l'atmosfera quando, un paio di settimane più tardi, mio padre portò l'intera famiglia a Detroit per vedere una partita dei Tigers. I biglietti erano stati acquistati all'inizio dell'estate e, sebbene mia madre avesse dato voce ai suoi dubbi circa la saggezza di quella "gita" a Detroit, credo che alla fine l'idea di buttar via dei biglietti pagati sarebbe stata persino peggiore, ai loro occhi, e così partimmo. Era un martedì sera, giorno e orario insoliti per andare a Detroit a vedere la partita di baseball, almeno per noi. Mio padre preferiva andarci di giorno là in auto, e tutte le nostre precedenti partite le avevamo viste in diurna, di sabato e di domenica. Ma stavolta si giocava contro i Chicago White Sox, che quell'anno avevano Tommy John e Hoyt Wilhelm tra i lanciatori, e l'ex dei Tigers Rocky Colavito nell'outfield. Mio padre era convinto che sarebbe stata una buona partita, dato che le due squadre erano in lotta per la testa della classifica. Non fu una bella gara. I Tigers persero 2-1, ma fu la mia prima partita in notturna e, anche se dicendo questo non sembrerò un grande intenditore di sport, fu un momento magico, per me, vedere quello storico diamante illuminato da una luce che sembrava venire dal paradiso o, al limite, dalla vicina centrale elettronucleare Enrico Fermi. Alla fine della partita c'era tensione tra la folla che lasciava lo stadio, in quel quartiere confinante con la zona dei tumulti. Sembrava la Marcia dei Bianchi Spaventati, con quel modo di camminare in 135
fretta che si adotta quando suonano le sirene dell'allarme antiuragano. Cammina, non correre... ma sbrigati! Scappa, se vuoi salvarti! Tornammo alla nostra auto, una Chevy Bel Air del '67, che mio padre aveva messo in un parcheggio a pagamento, invece che nella solita, gratuita via traversa. Risparmiare i soldi del parcheggio a meno di un mese dai tumulti non era una priorità per nessuno. Tornare a casa vivi, sì. Lasciammo il parcheggio, dalle parti di Cochrane Street, e prendemmo Michigan Avenue fino alla svolta a destra che ci avrebbe immesso sulla Fisher Freeway in direzione nord. A pochi metri dalla rampa d'accesso alla superstrada, dal cofano dell'auto cominciò a uscire del vapore. Convinto che dovesse esserci un'area di servizio appena superata la rampa mio padre proseguì per un tratto in territorio inesplorato. A quel punto, però, la Chevy si spense. Guardai i cartelli stradali. Eravamo in Twelfth Street, nel cuore della zona dei tumulti. Lo feci notare a mio padre, e lui si agitò come raramente gli era capitato, in precedenza, davanti a me. > mi disse Richard. «E poi, magari, ci scrivi un pezzo per il "Multinational Monitor".» Wow! Inviato in missione internazionale, io, sotto mentite spoglie, l'intrigo! Un lavoro retribuito! Mia moglie mi accompagnò in un negozio di abbigliamento e scelse per me una tenuta adatta al resort: un paio di t-shirt da golfista, pantaloni larghi di lino, una camicia hawaiana e un completo di tessuto rigato giallo assai economico. Il tutto al prezzo di una settimana di sussidio di disoccupazione. Poi mi fece un taglio di capelli da imprenditore e 324
mi spalmò in testa il suo gel. Mi procurai una spilletta con la bandiera am~ricana da appuntare al risvolto della giacca. Mi misi addosso dei:gioielli da uomo comprati nel quartiere di Tenderloin, a un angolo di strada. Non sembravo più io. Mi iscrissi al convegno fingendomi amministratore delegato di una piccola azienda manifatturiera con "meno di cinquanta dipendenti" e partii per il Messico, intenzionato a capire come fare per lasciarli tutti senza lavoro. Mentirei se negassi di aver provato un certo nervosismo -paura, persino - quando sbarcai ad Acapulco nel mio completo di tessuto increspato a strisce. Non avevo voglia di essere smascherato. C'è gente, in Messico, che scompare. E i corpi non vengono più ritrovati. Feci il mio ingresso nel piano attico dell'Excelaris Resort, che sovrastava le meravigliose spiagge dorate di Acapulco. La targa sopra la porta diceva: IL LAVORO RENDE TUTTO POSSIBILE (traduzione per i lettori di lingua tedesca: Arbeit macht Alles moglich). Sentii due tipi che confabulavano, dicendo che il Dipartimento del Commercio non aveva potuto"esporsi troppo" a sostegno di quella iniziativa perché pareva che al Congresso qualche democratico con simpatie per i sindacati avesse trovato una clausola in una "legge assurda" che dichiarava illegale- illegale! - l'utilizzo di denaro pubblico per trasferire posti di lavoro all'estero. Il Dipartimento, perciò, era presente, ma non in forma ufficiale: aveva lasciato che a gestire l'iniziativa fossero la Camera di Commercio e l'agenzia di pubbliche relazioni messicana Montenegro Saatchi & Saatchi Compton. La sala era piena di banchieri, dirigenti d'azienda, imprenditori e consulenti, tutti pronti ad aiutare chi era venuto ad Acapulco a studiare una maniera per chiudere bottega negli Stati Uniti e trasferire le proprie attività a sud del confine. Feci del mio meglio per mimetizzarmi tra i presenti, e il primo giorno nessuno ebbe sospetti sul mio conto. Dimenticavo che con la gran parte di quelle persone bastava essere un uomo bianco e ben vestito per fare "bella figura". Verso la fine del 1986, molte aziende americane avevano cominciato, di soppiatto, a trasferire attività in Messico. Non abbastanza, però, da attirare attenzioni particolari. La General Motors aveva solo tredicimila dipendenti in Messico (una goccia nel mare della GM, 325
che ne contava più di mezzo milione), mentre la General Electric ne aveva ottomila. Le aziende americane avevano aperto stabilimenti in una decina di località di confine, sul lato messicano ma, in alcuni casi, a neanche duecento metri dalla frontiera. Era come operare in patria, salvo che si potevano pagare gli operai 40 cent all'ora, li si poteva far lavorare per dieci ore al giorno, stando certi che non avrebbero accampato diritti. Oltretutto, il 70 per cento della manodopera in queste fabbriche era formato da donne, spesso minori di ventun anni e talvolta addirittura tredici-quattordicenni. Le aziende americane non volevano assumere capifamiglia maschi, perché questi erano più inclini a riunirsi in sindacato e a pretendere pause per andare in bagno. Le giovani donne erano più malleabili. L'unico vero problema era che, come le giovani donne di tutto il mondo, anche le messicane tendevano prima o poi a rimanere incinte. Erano anche malnutrite e affamate. La GM, allora, ebbe una bellissima idea: si mise a distribuire gratuitamente anticoncezionali, per ridurre l'alto tasso di ricambio del personale, e prime colazioni (dato che a causa degli svenimenti alla catena di montaggio le auto a volte uscivano, ad esempio, senza parabrezza). Il signor Al Cisneros, della Commissione per lo Sviluppo economico del Texas, mi parlò con entusiasmo dei progetti della GM di diventare "l'azienda con il maggior numero di dipendenti in Messico". «Avranno, in totale, ventinove impianti in Messico» mi disse. «Ne apriranno dodici solo nel prossimo anno!>> Mi disse che il presidente della Generai Motors, un certo Roger Smith, aveva affermato qualche tempo prima che "trasferire la produzione in Messico è una questione di vita o di morte". Ci pensai su un attimo e mi domandai su che pianeta vivesse questo Smith. "Questione di vita o di morte?" Nell'anno precedente, il 1985, la GM aveva racimolato profitti di poco inferiori ai 4 miliardi di dollari. Nel 1984 aveva stabilito il proprio record di tutti i tempi facendo utili per 4,5 miliardi di dollari. Era la più grande azienda del mondo. Eppure i suoi dirigenti erano sempre lì a lamentarsi di dover "lottare" per sopravvivere. Era tutta una fregatura organizzata per convincere l'opinione pubblica: se non avessero trasferito la produzione in Messico sarebbero potuti entrare in crisi ... e tutta l'economia nazionale sarebbe crollata di conse326
guenza. Era una gigantesca bugia, ma l'amministrazione Reagan se l'era bqvuta e a quel punto si stava impegnando a diffonderla. E la di~fo~qeva l?erché Reagan, ex leader sindacale, voleva distruggere 1 smdacah. Aveva vinto le elezioni convincendo molti operai sindacalizzati bianchi a votare per lui. Facendo appello alle loro paure - quella degli iraniani che prendevano in ostaggio gli americani, dei neri, del governo - cavalcò un'onda che alla fine avrebbe sommerso la stessa gente che lo aveva eletto. . Ovvi~ente, non potevo dire nulla di tutto questo al signor CISneros, m parte perché allora non conoscevo il futuro, ma soprattutto perché mi sarei tradito. Temevo, anzi, di portarmi stampato in faccia tutto il paragrafo precedente, parola per parola. «Assolutamente» dissi io. «La GM deve rimanere competitiva. Se non taglia i costi, potrebbe... potrebbe... » Non sapevo bene come concludere la frase: mi sarei dovuto esercitare un po' meglio. «Be', J?Otrebbe scoppiare un gran casino.» «Altroché» concordò Cisneros (anche se non saprei dire su che cosa). Cisneros aveva un'altra preoccupazione: il comunismo. Credeva che, se le imprese americane non fossero calate qui a crearvi una solida testa di ponte capitalistica, il Messico avrebbe probabilmente imboccato la via di Castro o dei sandinisti. «La libera impresa è l'unica cosa che può salvare il Messico da una rivoluzione comunista» disse. «Se non promuoviamo lo sviluppo del Messico, avremo un altro Nicaragua alle porte di casa.» A-ha! Certo! In che altro modo un reaganiano poteva giustificare e spacciare l'esportazione di posti di lavoro americani in Messico? Con la scusa di dover salvare il paese dai comunisti! Se noi li aiuteremo a migliorare il loro tenore di vita, facendoli lavorare per noi, loro non vorranno più il socialismo perché preferiranno godere degli agi della classe media. «Sono convinto che, in meno di quindici anni, queste cittadine di confine messicane assomiglieranno ai quartieri residenziali americani»* aggiunse Cisneros.
.. Be', ehm, questo non si verificò mai. Con il loro enorme quantitativo di violenza collegata al traffico di stupefacenti, quelle cittadine cominciarono ad assomigliare invece ai più malfamati fra i quartieri delle città americane.. 327
Paul D. Taylor, il vicesottosegretario di Stato per gli Affari interamericani dell'amministrazione Reagan, aveva dichiarato nel corso di quell'anno che la costruzione di stabilimenti americ~ in Messico avrebbe contribuito a frenare la Marea Rossa sul confme meridionale. Le fabbriche americane potevano aiutare il Messico a "cambiare l'orientamento" della sua economia, abbandonando ogni tendenza socialista in favore del nirvana capitalistico del suo vicino settentrionale.
«Ma Roger» lo supplicai, usando il suo nome di battesimo come se fossimo grandi amici, e vidi chiaramente che non ne fu contento, «sono sicuro che rimpiangerebbe di non essere stato alla prima proiezione del mio film. Lei non ha mai visto niente del genere. Parla del Midwest, di cui anche lei è originario ... » Mi interruppe. «Stia a sentire» disse, seccato, «ho detto che lo vedrò domani e così farò. La questione è chiusa. E ora, se vuole scusarmi... » Si allontanò da me vagamente turbato, infastidito, forse addirittura incazzato: "Chi è questo scemo di Flint che viene a rompermi i coglioni in questa maniera?". Mi sentii un idiota. Sarebbe stato un miracolo, a quel punto, vederlo alla proiezione dell'indomani, e figurarsi se gli sarebbe piaciuto! Perché avevo adottato quell'approccio e quel tono da stalker? Ah, quale disperazione dovevo avere incollata in faccia come un cartellone pubblicitario! Uno dei miei amici che aveva collaborato al film, Rod Birleson, cercò di consolarmi. «Non preoccuparti, Mike. Ha detto che verrà domani, e così farà. Avrà probabilmente apprezzato il tuo entusiasmo.» «Sì» dissi io. «L'entusiasmo di un serial killer.» La festa per le strade volgeva al termine, e tutte le persone altolocate si avviarono verso l'Opera House per il galà. Noialtri, invece, ci incamminammo verso l'estremità più lontana della via principale diretti alla sede dell'Ordine dei Frammassoni, per andare a sbobinare il nostro capolavoro. Notammo con piacere, arrivando al "cinema", che nonostante la concorrenza della serata di gala c'era il pienone anche per il nostro film. Più o meno cinque minuti prima dell'inizio della proiezione, guardai fuori dalla finestra della sala e vidi in strada un uomo di 355
una certa stazza che si avvicinava, solitario, alla Mason Hall. Era nientemeno che Roger Ebert. Entrò e trovò ad attenderlo il suo persecutore. «Non dica niente» mi ingiunse, alzando una mano e girando la testa per non guardarmi negli occhi. «Sono qui. Non c'è altro da aggiungere.» «Ma... » feci io, disobbedendogli, subito interrotto da Ebert. «Sono qui perché il suo strano sguardo, prima, mi ha convinto a cambiare idea. Ed eccomi allora.» Entrò nella sala della proiezione e occupò l'ultimo posto rimasto, a tre file dal fondo. Mi astenni da ulteriori pressioni. Entrai a mia volta e presi posto in ultima fila. Le mie sorelle si erano sedute in modo da avermi tra loro, per confortarmi - da buone sorelle che erano (e sono) - e aiutarmi a sopportare il momento incombente dell'imbarazzo e dell'insuccesso. Le luci alla Mason Hall cominciarono a smorzarsi, e Arme e Veronica mi presero per mano, stringendo forte. Sarebbe andato tutto bene, in qualunque caso. In quell'istante partì la musica, e sullo schermo comparve il titolo del film ...
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Epilogo: L'esecuzione di Michael Moore Gattonare all'indietro Battuta di caccia La canoa Pietà Tet Natale '43 Un Giovedì Santo L'esorcismo Boys State Zoe L'auto della fuga Due appuntamenti galanti Venti nomi Milhous, dramma in tre atti Gestione emergenze Un'istruzione pubblica Raid Bitburg Una benedizione Abu anche tu Una nazista sexy e abbronzata Pamassus Gratitudine
Michael Moore è nato a Flint, in Michigan, nel 1954. È regista, produttore, sceneggiatore, scrittore e molto altro ancora. Ha vinto l'Oscar nel 2003 col documentario Bowling a Columbine e la Palma d'oro del Festival di Cannes nel 2004 con Fahrenheit9/ 11. Attraverso i suoi originalissimi documentari e libri ha sviluppa• to una profonda, corrosiva e puntuale critica alla politica interna ed estera degli Stati Uniti, diventando in breve la voce dissidente più ascoltata e apprezzata in patria e nel mondo. Tra i suoi libri ricordiamo Stupid White Men, Ma come hai ridotto questo paese?, Ingannati e traditi e Chiedilo a Mike!, tutti pubblicati da Mondadori
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Questo volume è stato stampato presso ELCOCRAF S.p.A. Stabilimento - Cles (TN) Stampato in Italia - Printed in ltaly
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