Gli irriducibili teoremi della resistenza allo spirito del tempo 8886969597, 9788886969598


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Gli irriducibili teoremi della resistenza allo spirito del tempo
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TITOLI USCITI: Nella collana in.folio.asterios 1. SUSAN GE0RGE, Il rapporto Lugano La salvaguardia del capitalismo nel ventunesimo secolo, 224 pp., curo 15 2. NoAM CH0MSKY, Il nuovo umanitarismo militare Lezioni dal Kosovo, 240 pp., curo 15 3. IMMANUEL WALLERSTEIN, Capitalismo storico e Civiltà capitalistica, 136 pp., euro 15 4. PAUL VIRILI0,La strategia dell'inganno, 88 pp., euro I O 5. PAUL VIRILI0, La procedura silenzio, 88 pp., euro 1O 6. IGNACI0 RAM0NET, Marcos. la dignità ribe/k, 80 pp., euro 7,5 7. FAWZI MFllAH, Clandestino nel Mediterraneo, 128 pp., euro 10 8. R0NALD H. C0ASE, La natura dell'impresa, Il problema del costo sociale, 96 pp., euro 10 9. Nna.AS LUHMANN, Amore come passione, 226 pp., euro 17 1O. ARMIN P0NGS, In che società viviamo? 288 pp., curo 17 11.IMMANUEL WALLERSTEIN, Utopistica, Le scelte storiche del XXI secolo, 112 pp., euro 1O 12. GIACOMO SCOTTI, I figli del vento, La vita dei Romi con un'antologia della loro poesia orale, 128 pp., euro 12

Asterios Editore via Pigafetta, 1 • 34148 Trieste tel. 040/811286 • fax 040/825455 e-mail: [email protected] Se volete essere periodicamente informati sulla nostra attività editoriale, Vi preghiamo di inviarci i Vs. dati. Potrete ricevere così "Libri Nuovi'', la rivista dei libri, delle offerte e delle promozioni della Asterios Editore.

Per ]acques Hassoun e Daniel Singer, resistenti irriducibili allo spirito del tempo. "Che tu sia freddo o caldo, ma se sei tiepido, né freddo né caldo, allora ti vomiterò dalla mia bocca!" dice rApocalisse di Giovanni.

Daniel Bensa"id

Gli irriducibili Teoremi della resistenza allo spirito del tempo

Traduzione di

Rita Tomadin

Asterios Editore Trieste

Prima edizione: giugno 2004

© Asterios Editore SRL via Pigafetta, 1 - 34148 Trieste tel. 040-811286 - fax 040-825455 e-mail: [email protected] I diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento rotale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati. Ttcolo originale: Les lrréductib/.es, théorèmes ~ la résistance à l'air du temps © 2001, Lf.S EDffiONS TEXTUEL, PARIS Stampato in Italia ISBN 88-86969-59-7

Indice

Introduzione Atmosfera instabile ............................................ 13 Teorema I La lotta politica è irriducibile ali' etica o alr estetica .. 23 Corollario I. La storia non è risolvibile nel tempo frammentario, né il progetto nell'istante effimero .......................................................... 2 7 Corollario 2. Il luogo e la posizione non sono risolvibili nell'orribile silenzio degli spazi infiniti 28 Corollario 3. La contingenza strategica è irriducibile alla necessità economica ................................. 29 Corollario 4. Lo scopo non è risolvibile nel movimento, né l'evento nel processo.......................... 30 Corollario 5. La crisi non è risolvibile nell'eternità monumentale delle strutture ............................... 31 Corollario 6. La lotta politica è irriducibile al movimento sociale ..................................................... 32 Teorema 2 La lotta di classe è irriducibile alle appartenenze comunitarie ...................... ...................................... ......... 39 Corollario 1. Il dissenso sociale non è risolvibile nell'armonia comunicativa .................................. 52

Corollario 2. La differenza conflittuale non è risolvibile nella diversità indifferente ......................... 52 Corollario 3. "L'uomo plurale" non è risolvibile neff umanità frammentaria, né l' "io multiplo" nella disintegrazione del soggetto ................................ 66 Corollario 4. Il dominio non è risolvibile nell' egemonia ................................................................. 67

Teorema 3 Il dominio imperiale non è risolvibile nelle gratificazioni della globalizzazione mercantile ....................... 69 Corollario 1. La sovranità democratica non è risol. '" con 1a ma1usco . Ia ............. .76 v1·b·l 1 e ne li' "Uman1ta Corollario 2. Il diritto internazionale non è risolvi. '' umanttana . . ...................... .77 b1·1 e neIl a "I ez1one Corollario 3. Il bene comune dell'umanità non è risolvibile nella privatizzazione del mondo .......... 81 Corollario 4. Lo scambio tra la specie umana e l'ambiente naturale è irriducibile alla misura miserevole dei mercati finanziari ................................ 88

Teorema 4 Quali che siano le parole per dirlo, lo spirito del comunismo è irriducibile alle sue contraffazioni burocratiche.... 91 Corollario. La democrazia socialista non è risolvibile nello statalismo burocratico .................................. 96

Teorema 5 La dialettica della ragione è irriducibile allo specchio infranto della postmodernità ................................. l 07 Corollario 1. La totalità è irriducibile ai suoi frammenti sparsi ......................................... 115 Corollario 2. Luniversale non è risolvibile nel particolare ............................................................. 124

Corollario 3. Il reale non è risolvibile nel virtuale, né la ricerca della verità nell'incostanza delle opinioni ... ..................................................... ........ 125

Finale La corrente incandescente dell'indignazione non è risolvibile nelle acque tiepide della rassegnazione consensuale ................................................................. 129

Introduzione

Atmosfera i nsta bi le

I

Nella Confessione di un figlio del secolo ( 1836) Alfred de Musset evoca un "non so che di vago e d'indeciso" che segna il passaggio fra due mondi, fra un passato distrutto per sempre e un futuro incerto. Il tempo storico sembra ritrarsi allora in un presente ridotto all'attimo che fugge, mentre una generazione disillusa attraversa l'epoca "ben stretta nel cappotto degli egoistt. Niente più grandi promesse né grandi ambizioni: nel "mare spaventoso dell'azione senza scopo" è il momento della disperazione, del cinismo dei vincitori, dei piaceri insignificanti e delle piccole virtù. Era un periodo di reazione e di restaurazione. ·roccava vivere di briciole e avanzi. "Leclettismo è il nostro gusto", notava con tristezza Musset. Posti di fronte a nuove reazioni e a nuove restaurazioni, siamo forse condannati anche noi alle briciole e agli avanzi? Siamo ridotti al minimalismo e alla miniatura, al pensiero modesto e al pensiero debole, ai piaceri effimeri e alle azioni senza scopo? Siamo destinati al rimpicciolimento, alla riduzione, alla vertigine del lontano, al ripiegamento sul vicino e sul locale, come se la comodità casalinga fosse opposta e proteggesse dagli spazi sterminati della globalizzazione? Queste domande sono al centro della querelle sulla postmodernità. Postmoderno è un termine indetermi1 Alfrcd de Musset, la Confission d'un mfom du sièck, a cura di G. Barrier, l;allimard, Parigi 1973 [rrad. it. La confessione di rm figlio del secolo, a cura di I~ D. Lombardi, Mondadori, Milano 1996).

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nato. Il prefisso suggerisce una nuova epoca senza novità, la cui unica caratteristica sarebbe quella di arrivare dopo. Ma dopo che cosa? Dopo la modernità, certo. E quando comincia la modernità? Con la rivoluzione galileiana e l'invenzione delle scienze moderne, risponde qualcuno. Con la Rivoluzione francese, l' avvento dell'Illuminismo e le magie del Progresso, secondo altri. Con la Rivoluzione industriale e la produzione di massa, per altri ancora. D'altronde, la paternità del termine non è forse attribuita a Baudelaire? Nell'epoca dell'industrializzazione di massa, dell' organizzazione taylorista del lavoro e dello straordinario regno assoluto dell'elettricità, il modernismo avrebbe opposto una certa resistenza alr estensione del dominio mercantile sulle produzioni culturali. Non un'ostilità verso la tecnica e le macchine in quanto tali - celebrate sia dai futuristi sia, in parte, dai cubisti - ma ali' opposto una protesta contro la spersonalizzazione del legame sociale, la reificazione generalizzata e l'epoca delle masse anonime. Rappresentata dall'arte non figurativa, dall'espressionismo, dalla nuova poesia lirica o dal cinema d'autore tra le due guerre, la rivoluzione modernista costituirebbe una risposta culturale alla modernizzazione capitalistica. Il modernismo credeva di poter opporre un'ultima resistenza al trionfo assoluto della merce. [Arte con la maiuscola sembrava offrire un estremo rifugio alla gratuità antiutilitaristica e al desiderio d'eternità. Ma si trattava solo dell'ombra lunga del feticismo mercantile, deff ultimo sussulto prima del consumo standardizzato. La postmodernità appare dunque come il trionfo assoluto della merce nel cuore stesso della sfera culturale e anistica.

INTRODUZIONE

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"Il modernismo,, conclude Fredric Jameson, "era l'esperienza e il risultato di una modernizzazione incompleta." Il postmoderno nasce "quando il processo di modernizzazione non deve più sbarazzarsi di tratti arcaici, non incontra più ostacoli davanti a sé e fa regnare trionfalmente la propria logica'' 2 • Saremmo cosl agli albori di una nuova epoca, caratterizzata dalla riproducibilità tecnica dell'opera d'arte, dallo sviluppo di un' arte specificatamente mediatica, dall'emergere di un nuovo ordine comunicativo e dalla nascita di un nuovo linguaggio digitale. Simili tentativi di periodizzazione privilegiano un criterio estetico piuttosto che economico, sociale o politico. Anche se Fredric Jameson o David Harvey compiono uno sforzo notevole per elaborare un' articolazione coerente fra i vari campi, l'indeterminatezza e l'incertezza dei concetti non sono senza rapporti con questo approccio culturale. E l'uso improprio del "post" aggrava l'equivoco cronologico. Volendo assolutamente utilizzare cali concetti sarebbe preferibile concepirli come tendenze complementari e contraddittorie, come il dritto e il rovescio della logica culturale del capitalismo, giovanile o senile, "tardo" o precoce. Diventa allora possibile scorgere meglio il ricorrere di una tematica postmoderna - come il "gusto dell'eclettismo" rilevato da Musset - nelle fasi patologiche di sconfitta e di depressione politica, come pure l'ambivalenza di un autore come Marx, nel quale le due tendenze coesistono in maniera evidente. 2 Fredrìc Jameson, Postmodernism, or The Cultura/ logie of late Capitalism, Verso, Londra 1991, p. 366 [ed. Ìt. Il postmoderno, o la logica ctdturale del tardo capitalismo, Garzami, Milano 1989). Si veda anche Francisco Louça, A Maldiçao tks Mida. A cultura do capitalismo tardio, Cotovia, Lisbona I 994.

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In un clima dominante impregnato di un senso di disfacimento generalizzato (ma vada tutto al diavolo!), di liquidazione del futuro e di atrofia storica, è dunque necessario chiarire quale ruolo spetti a una rivoluzione tecnologica e culturale del tutto inedita e quale invece all'effetto propriamente politico delle sconfitte che si susseguono come una condanna infernale, l'amarezza delle quali perseguitava i sonni di Musset sotto la Restaurazione, lo spleen di Baudelaire dopo il 1848 o, infine, l'incubo di Blanqui e dell'"eternità attraverso gli astri"3 dopo l'annientamento della Comune di Parigi. Qualcosa è sicuramente finito con l'ultimo secolo. Ma che cosa? Il "secolo breve" di cui parlano gli storici, iniziato con la prima guerra mondiale e suggellato dalla caduta del muro di Berlino? Il periodo aperto dalla seconda guerra mondiale, dal bipolarismo della guerra fredda e dall'accumulazione fordista nelle metropoli industriali? O, ancora, un grande ciclo nella storia del capitalismo, inaugurato dall'espansione travolgente della seconda metà del XIX secolo, dalle conquiste coloniali e dalla nascita dell'imperialismo moderno e, infine, dalla formazione di un movimento di massa dei lavoratori con la creazione della prima e della seconda Internazionale? I grandi dibattiti strategici sull'emancipazione sociale risalgono in larga misura al periodo precedente la prima guerra mondiale, e ciò sia che si tratti dell' analisi dell'imperialismo (i contributi di Hilferding, Bauer, Rosa Luxemburg, Lenin, Trockij, Bucharin), della questione nazionale (ancora le tesi di Rosa Luxemburg, di 3 Cfr. Louis-Augusrc Blanqui, L'Étemiti par /es a.m-es. Hypothèse nstronomique [1872), a cura di L. Block de Bear, Slarkinc, Ginevra, 1996 (trad. ir. L'eternità attraverso gli astri, a cura di F. Desideri, Thcoria, Roma 1983).

INTRODUZIONE

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Lenin, di Bauer, di Ber Borokhov, Pannekoek, Strasser), dei rapporti fra partiti e sindacati e del parlamentarismo (i testi di Rosa Luxemburg, Georges Sorel, Jaurès, Domela Nieuwenhuis, o Lenin) o, infine, delle "vie del potere" (le polemiche fra Bernstein, Kautsky, Rosa Luxemburg, Lenin, Trockij). Queste controversie sono costitutive della storia contemporanea allo stesso titolo di quelle circa la dinamica conflittuale di rivoluzione e controrivoluzione nel periodo tra le due guerre: guerra di posizione e guerra di movimento, fronte unico, analisi del fascismo, dinamica della rivoluzione coloniale, questione nazionale e internazionalismo. Al di là delle differenze e delle opposizioni, spesso irriducibili, il movimento operaio di quel periodo disponeva ancora di una cultura e di un linguaggio comuni. Si tratta di sapere che cosa rimanga, oggi, di . . . . , . . . questo patnmon10 senza propnetan ne 1struz1on1 per l'uso. Perry Anderson ritiene che fin dalla Riforma luterana il mondo non sia mai stato così privo di alternative all'ordine dominante 4 • Ma la situazione attuale è caratterizzata piuttosto dalla progressiva scomparsa di un movirnento operaio internazionale indipendente. Eccoci così imbarcati in una transizione incerta, nella quale il vecchio va in agonia senza essere abolito e il nuovo fa fatica a spuntare, tra un passato non superato e i balbettii della scoperta di un mondo nuovo in gestazione. In questo difficile passaggio, la tentazione di aggrapparsi a qualche acquisizione dotata di sicura efficacia polemica sarebbe sterile quanto quella di far tabula rasa, pretendendo di ricominciare da zero. È con il vecchio che si fa veramente qualcosa di nuovo. /4 P(.·rry Andcrson, "Rcnt.·wals", in New Left Re11iew, n°1, gennaio 2000.

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Ma dipendiamo sempre, in ogni caso, da alleati e avversari. E a questo proposito il dibattito strategico tocca oggi il suo grado zero, come se il futuro dovesse ridursi a una ripetizione infernale dell'ordine esistente e la storia dovesse cristallizzarsi in un'eternità mercantile. La retorica della sinistra plurale, la cui ambizione è ormai limitata alla gestione prosaica di un presente senza domani, si riflette in Francia nella fiacchezza dei discorsi di resistenza e nel gusto equivoco dell' eufemismo e della perifrasi. Cerco, ognuno ha gli interlocutori che si merita. Eccoci dunque consegnati a una doppia responsabilità, la trasmissione di una tradizione minacciata di conformismo e l'invenzione coraggiosa di un avvenire incerto. Secondo il comune senso mediatico è sempre meglio essere aperti invece che chiusi, leggeri invece che pesanti, flessibili invece che rigidi. In tutte le teorie, la diffidenza verso le infatuazioni passeggere e le mode esige però confutazioni serie, prima di rimettere in discussione un paradigma fecondo. Non si tratta di conservare religiosamente un capitale dottrinario, bensì di arricchire e trasformare una visione del mondo alla prova di esperienze nuove. Il movimento operaio internazionale si è formato nella seconda metà del XIX secolo, in un duplice rapporto di continuità e di rottura rispetto ali' eredità illuminista e alla Rivoluzione francese. La controriforma liberale attuale non prende di mira solo l'evento fondatore della Rivoluzione e l'idea comunista: usando come pretesto le disillusioni del progresso, le aporie della ragion pura e la crisi dell'universalità, essa prende

INTRODUZIONF.

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di mira anche le fonti culturali, razionalistiche e repubblicane, della modernità. Tale offensiva congiunge in modo variabile una riduzione della realtà a "finzioni del discorso" o a "rappresentazioni discorsive" con una critica approssimativa dello scientismo e un ripiego minimalista sul "pensiero debole''. In un mondo mercantile dove tutto si equivale, questa "crisi di verificabilità", che si spinge fino alla rinuncia all'idea stessa di verità, alimenta il cinismo e l'indifferenza. Le retoriche negazionistiche rappresentano l'estrema, scandalosa manifestazione di questa "derealizzazione" della storia e "distruzione della ragione". Il "potenziale distruttivo" della crisi della cultura finisce infatti per minacciare le convinzioni ereditate dai Lumi. E, secondo Ricoeur, "è proprio nel dibattito sulla verità storica che è in gioco l' autocomprensione di tutta un'epoca''. Il "dovere della memoria" viene tirato in ballo fino all'abuso, "nell'intenzione di far entrare in cortocircuito la dimensione critica della storia". Siamo minacciati da una patologia della 1nemoria, sovraccarica di anticaglie, e da una mortale idolatria del ricordo, ripreso e rivisitato fino al risentimento fra impossibili pentimenti e colpe imperdonabili. Ricoeur propone dunque di sostituire al dovere "il lavoro della memoria", ponendo l'accento, come già Walter Benjamin, sulla dinamica della "rievocazione", della "rimemorazione" o della rimembranza piuttosto che sulla "statica del ricordo". Di fronte alle insensatezze delle quali è stato prodigo il ventesimo secolo, non si tratta di ritirarsi dietro la linea Maginot del razionalismo classico e del suo ideale di verità quanto di raccogliere la sfida della postmo-

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dernità, accogliendone la parte che può essere recepita. Le categorie di ragione, di progresso, di storia o di universalità hanno tutto da guadagnare accettando la prova della catastrofe e del disastro. E questa è l'intenzione dei teoremi della resistenza allo spirito del tempo. Il loro enunciato accentua deliberatamente il momento necessario del negativo: La politica è irriducibile all'etica o all'estetica. La lotta di classe è irriducibile alle appartenenu comunitarie. Il dominio imperiale non è risolvibile nelle gratificazioni

della globalizzazione mercantile. Quali che siano le parole per dirlo, lo spirito del comunismo è irriducibile alle sue contraffazioni burocratiche. La dialettica della ragione è irriducibile allo specchio infranto della postmodernità. A differenza di quei postulati indimostrabili che presuppongono l'assenso dell'interlocutore o di quegli assiomi che si richiamano alla forza dell'evidenza, si tratta di proposizioni dimostrabili. Con i relativi corollari e scolii, tali "irriducibili" e "irresolubili" danno vita a una critica del brodo di cultura postmoderno e dei suoi nuovi idoli di cenere* .

* Ringrazio Chrisrophe Aguiton, Sebastien Budgen, Alex Callinicos, Philippe Corcuff, Samuel Joshua, Eustache Kouvelakis, Michael Lowy, Francisco Louça, Stavros Tombazos, Slavoj Zizek, come pure Alfred de Musset e Auguste Blanqui, per quello che hanno fornito, con i loro scritti o la loro conversazione, a questo breve saggio [D. B.].

Teorema l

La politica è irriducibile ali' etica o ali' estetica

Hannah Arendt temeva che la politica potesse "sparire dalla faccia della terrà, non solo a causa delr abolizione totalitaria della pluralità, ma anche della sua dissoluzione nelle gelide acque del calcolo egoistico. E l'attuale tendenza alla depoliticizzazione conferma questo timore: lo spazio pubblico è schiacciato fra le costrizioni del1' orrore economico e i lamenti di un moralismo astratto. Il declino della politica e dei suoi attributi (il progetto, la volontà, l'azione collettiva) permea di sé il gergo della modernità. Al di là degli effetti congiunturali, dal momento che le trasformazioni del lavoro e l'inquietudine ecologica mettono in risalto la mala misura [malmesure] del mondo, si tratta effettivamente di un malessere e di una crisi interni alla civiltà. Il culto moderno del progresso riposava su una cultura del tempo e del divenire piuttosto che dello spazio. Ridotto a un ruolo accessorio, lo spazio era sinonimo di morte e immobilità: si opponeva alla facoltà creatrice del tempo vivente. La sensazione inebriante della velocità, al di là delle performance tecniche, ha un segreto. Le rotazioni frenetiche del capitale alterano incessantemente le condizioni della sua messa in valore. E questa vertigine dell'accelerazione schiaccia la durata sull'istante, cancella i luoghi nella dilatazione degli spazi. Lestetizzazione della politica è una risposta ricorrente alle crisi della democrazia. Linfatuazione per il locale e la prossimità, la ricerca delle origini, l'accumulo ornamentale e il simulacro dell'autenticità rivelano

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l'angoscia contemporanea di fronte all'incertezza delrazione politica. Sin dalla polis greca, la politica richiedeva una scala definita dello spazio e del tempo, simbolizzati dal perimetro cittadino e dal ritmo dei mandati elettorali. Oggi la cittadinanza è tanto più frequentemente invocata quanto più la città e i suoi abitanti sono spossati dallo sregolamento generale delle scale e dei ritmi. Il moralismo benpensante si sforza così di cogliere al volo ciò che sfugge a una politica democratica. Una simile secrezione intensiva di umori etici è tipica dei periodi di paura e d'impotenza, nei quali l'azione cerca giustificazioni talora al di qua talora al di là della politica. Contro questi cedimenti Freud notava semplicemente che un cambiamento dell'atteggiamento umano nei confronti della proprietà sarebbe più efficace di qualunque comandamento etico, che non ha nient' altro da offrirci che la soddisfazione narcisistica di ritenerci migliori degli altri. Eppure viviamo sempre "in un periodo nel quale esistono le città e nel quale il problema della politica si pone per il fatto che apparteniamo a questo periodo cosmico durante il quale il mondo è abbandonato al suo destinos". Non ci siamo perciò ancora congedati dalla politica in quanto arte profana della durata e dello spazio, in quanto sforzo ostinato di far arretrare i limiti del possibile in un mondo privo di dei.

5 C. Castoriadis, La Po/itiq11e tk Platon, Seuil, Parigi 1999.

Corollario 1 La storia non è risolvibile nel tempo frammentario, né il progetto nell'istante effimero. Il rifiuto postmoderno dei "grandi raccontt, quelli dell'Illuminismo come dell'epopea proletaria, non implica solamente una critica legittima delle illusioni del progresso connesse al dispotismo della ragione strumentale, ma segna altresì una decostruzione della storicità, una rincorsa al culto dell'immediato, dell' effimero e della breve durata. In questi tempi disincantati, di illusioni senza illusioni e di politiche apolitiche, di "crudeltà malinconica" 6 nella quale progetti e programmi non hanno più corso, la grande disillusione non è più liberatrice ma, al contrario, distruttiva degli stessi principi della cultura7 • Nella combinazione dei tempi sociali, la temporalità politica deve dunque restare a medio termine, compresa tra l'istante effimero e l'inaccessibile eternità. Essa ha ormai bisogno di. una scala mobile della durata e della decisione.

Scolio - Come sta il mondo? - Corre! Corre così veloce che la politica e la storia non riescono più a stargli dietro. Sono malate di velocità! Scambiare l'effetto per la causa è tipico delle credenze magiche. E in un libro recente, un autore come Jean-Marc Salmon va in estasi di fronte ai prodigi di un Mondo ad alta velocità 8. Per questo pensatore" tgv" [il treno ad alta velocità francese, N.d.T.], l'accelera6 Cfr. Jacqucs Hassoun, La cruau1é mil.ancolique, Aubicr, Parigi 1995. 7 Cfr. Idem, Actualités d'un malaise, t.rès, Tolosa 1999. 8 Jc.-an-Marc Salmon, Un monde à grande viresse, Seuil, Parigi 2000. E si legga Libération del 10 novembre 2000.

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zione non dev, essere spiegata giacché si spiega con la velocità, proprio come il sonno si spiega con le "virtù dormitive'' della camomilla o dell'oppio! Internet crea la globalizzazione. La velocità crea la ricchezza e, per giunta, anche la felicità! Insomma: internet, la globalizzazione, e la tecnologia a guidare le danze. Larticolo di Libération che annuncia la stupefacente scoperta riporta il percorso biografico dell'autore, "un uomo di sinistra che non perde tempo in rimpianti": "Ex maoista sessantottino, ex di 'SOS-Razzismo, e della marcia dei Beur, ex di 'AC!' contro la disoccupazione, ex di 'Diritto alla casa', ex militante del partito socialista e della corrente 'la sinistra socialista', ex consigliere di Daniel Cohn-Bendit in occasione delle elezioni europee ... " Queste metamorfosi successive meriterebbero un camaleonte d'oro e una citazione generosa nel Dizionario delle banderuole redatto da Prosny d'Eppe nel 1831. Se la velocità fa la ricchezza, chi cambia più in fretta della propria ombra è destinato a una bella fortuna. Ma ciò non spiega, però, attraverso quale miracolo la circolazione mercantile trasformi il nulla in oro o il voltar gabbana in un'attività produttiva. L"ex" più veloce del reame ha superato il muro del suono: non ci metterà molto a raggiungere la velocità di fuga.

Corollario 2 Il luogo e la posizione non sono risolvibili nel1' orribile silenzio degli spazi infiniti. La contraddizione tra la mobilità geografica del capitale (come moneta e merce) e la relativa immobilità del lavoro appare, nell'epoca dell'imperialismo assoluto,

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come la forma dello sviluppo ineguale e congiunto degli spazi e dei tempi sociali. Lordinamento gerarchico dei territori e la crescente importanza del controllo dei flussi (commerciali e monetari, d'informazione e di materie prime) delineano un "nuovo ordine mondiale'' autoritario che predomina su un mosaico di stati deboli. Ebbene, l'azione politica ha i suoi luoghi e i suoi ritmi: l'evento porta nomi di città (la Comune di Parigi, Pietrogrado, Torino, Amburgo, Barcellona), di campi di battaglia, e delle date inaugurali (il 14 Luglio, il 17 Ottobre, il 26 Luglio). Se la mercificazione del mondo e il feticismo dell' astrazione monetaria rendono gli spazi uniformi, allora solo la lotta di classe, sosteneva Henri Lefebrve, può produrre ancora differenze spaziali irriducibili alla sola logica economica.

Corollario 3 La contingenza strategica è irriducibile alla . ' economica. . necessita Larte della decisione, del momento propizio, dell'alternativa aperta alla speranza è un'arte strategica del possibile. Non il sogno di una possibilità astratta, nella quale tutto ciò che non è impossibile sarebbe possibile, bensì l'arte di una possibilità determinata dalla situazione concreta: dal momento che ogni situazione è singolare, ristante della decisione è sempre relativo a tale situazione, commisurato allo scopo da raggiungere. Al di là delle antinomie formali del soggetto e dell'oggetto, della struttura e dell'evento, del materiale e del simbolico e del predittibile e del non predittibile, la ragione strategica è l'arte della risposta appropriata.

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Non domina la situazione. Non la sorvola. Non la sovrasta ma, al contrario, vi si addentra per rimettere in gioco regole e norme stabilite.

Corollario 4 Lo scopo non è risolvibile nel movimento, né l'evento nel processo. Il discorso della postmodernità concilia il gusto del1' evento senza storia, semplice happening senza passato né futuro, e quello della fluidità senza crisi, della continuità senza rotture, del movimento senza scopo. Nella sua retorica della rassegnazione, il crollo del futuro conduce al grado zero della strategia: vivere nelristante, senza nemn1eno divertirsi sul serio! Gli araldi di un futuro che finalmente abbandona le illusioni si limitano da parte loro a predicare un "comunismo del già successo", considerato come "un movimento graduale, permanente e sempre incompiuto che include alcuni momenti di scosse e rotture 9 ". E propongono "un nuovo concetto di rivoluzione", "un rivoluzionamento senza rivoluzione, un'evoluzione rivoluzionaria", o ancora un "oltrepassamento immediato" in "un'immediatezza fuori dal tempo" 10 • Per loro, "la rivoluzione non è più quella che era, poiché non c'è più un momento unico in cui le evoluzioni si cristallizzano", "non c'è più lo scatto improvviso, non c'è più l'assalto al cielo e neppure un limite decisivo' 1", ma un lungo fiume tranquillo di riforme gestionali. Alla luce del socialismo liberista e finanziario della sinistra plurale, 9 Pierre L'~rka, Un comnumisme ,ì mage immldiat, Plon, Parigi 1998. 10 Lucicn Sèvc, Commenur par/es fim, La Dispmc, Parigi I 999. 11 Roger Martelli, Le comm,misme, a11treme111, Syllepse, Parigi 1998.

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questo "comunismo del già successo" fa però una magra figura. Se non c'è un movimento rivoluzionario unico o un'epifania miracolosa della storia, nondimeno vi sono momenti decisivi e soglie critiche a partire dai quali si innesta una logica dell'evento. Annullare la rottura nella continuità corrisponde all'illusione di un potere statuale risolvibile nella disalienazione individuale: "La formazione progressiva di un'egemonia conduce presto o tardi al potere a condizione di un assenso maggioritario", assicura Lucien Sève. A forza di dar tempo al tempo, questo "presto o tardt, versione ridotta delle "leggi meccaniche della storia", giustifica una politica fuori dal tempo e pretende di ignorare il circolo vizioso della reificazione e della riproduzione delle servitù involontarie. E alla luce di un secolo nel quale i nomi e i luoghi del disastro (Italia, Germania, Spagna, Cile) si sgranano come altrettante stazioni di un calvario, questo ottimismo storico sembra molto in1prudente.

Corollario 5 La crisi non è risolvibile nell'eternità monumentale delle strutture. Il passato di un'illusione di François Furet si conclude con un giudizio desolatamente malinconico: "Lindividuo democratico vede tremare dalla base, in questa fine secolo, la storia come entità divinà'. Alla minaccia dell'incertezza qui si aggiunge lo scandalo di un futuro sbarrato: "Sia1no condannati a vivere nel mondo in cui viviamo.,, Il capitalisn10 sarebbe dunque diventato la fine definitiva della storia, l'orizzonte insuperabile di tutti i tempi. Non

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ci sarebbe più un dopo né un altrove: saremmo ormai condannati a girare in tondo nell'infernale ripetizione di strutture immobili come dentro il cortile di una prigione. Ma c'è ancora conflitto e contraddizione, il malessere è sempre più presente nella cultura e nella civiltà. Dal malessere alla crisi non c'è che un passo. La crisi è tutt'altro che una "svolta storica,,, che è, diceva Péguy, solo la modesta "metafora di un cavallino di legno,,. Arriva inaspettata tra le costrizioni della situazione e la contingenza dell'azione. Apre una breccia nel circolo vizioso delle ripetizioni. Perfora la crosta indurita delle dominazioni e semina il disordine nella routine ben ordinata delle opere e dei giorni. In questi "punti di crisi" e di "capovolgimento", la parte determinata confluisce nella parte non fatale del divenire, la logica storica nell'irruzione dell'evento. La crisi non è ancora l'evento, ma ne è già l'annuncio, la porta socchiusa da cui possono sorgere da un istante ali' altro quei possibili cosl tardivi che l'attesa stessa sembrava sopita: le ore si trasformano allora improvvisamente in minuti, gli anni in giorni.

Corollario 6 La lotta politica è irriducibile al movimento sociale. Fra lotta sociale e lotta politica non c'è né una muraglia cinese né una parete stagna. La politica nasce e trova le proprie risorse nel sociale, nelle resistenze ali' oppressione, nell'enunciazione di nuovi diritti che trasformano le vittime in soggetti attivi. Come istituzione separata che si pone al di sopra della "società civile,,, come incarnazione illusoria dell'interesse generale e garante nonostante tutto di uno spazio pubblico irri-

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ducibile all'appetito privato, lo Stato struttura un campo politico specifico, un rapporto di forze particolare, un linguaggio peculiare del conflitto. Gli antagonismi sociali vi si manifestano in un gioco di spostamenti e condensazioni, di alleanze e opposizioni. E la lotta di classe assume così la forma mediata di una lotta politica di partiti. Tutto è politico? In una certa misura e fino a un certo punto, o, se si vuole, in "ultima istanza" e in vari modi. Fra partiti e movimenti sociali, più che una semplice divisione del lavoro, interviene una certa reciprocità e complementarità. Mentre la subordinazione dei movimenti sociali ai partiti politici significherebbe una statualizzazione del sociale, la dissoluzione dei partiti nel movimento sociale significherebbe un inquietante indebolimento della politica: ridotta a un prolungamento diretto del sociale, essa si limiterebbe a una pressione corporativa. E la somma di interessi particolari, privi di volontà generale, finirebbe per delegare la rappresentazione dell'universale a una burocrazia onnipotente. La dialettica dell'emancipazione non è un cammino ineluttabile verso una conclusione assicurata: le aspirazioni e le attese popolari sono diverse, contraddittorie, non di rado scisse fra un'esigenza di libertà e una domanda di sicurezza. La funzione specifica della politica consiste perciò nell'articolarle e coniugarle nel corso di un processo storico la cui conclusione rimane incerta.

Scolio 6.1 Commentando la scomparsa di scelte politiche autentiche e notando come in alcuni paesi la reciproca interferenza delle alternative di classe si traduca nelle

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coalizioni "arcobaleno,,, in collage incoerenti e slogan multiuso legati al variare dei sondaggi d'opinione, Zygmunt Bauman si interroga sulla capacità dei "nuovi movimenti sociali" di fornire una risposta alla crisi delle politiche. Questi ultimi non sfuggono ai tratti tipici della postmodernità: breve durata di vita, scarsa continuità, formazione di gruppi temporanei di persone riuniti da una situazione comune di degrado ambientale o sociale e poi dispersi non appena raggiunto r obiettivo. Eppure, spiega Bauman, non è colpa dei programmi o dei dirigenti: in un'epoca disarmonica, quest'incostanza e quest'intermittenza riflettono piuttosto il carattere non cumulativo delle sofferenze e delle proteste. Tali movimenti dalle ambizioni modeste non sono quindi davvero capaci di reclamare trasformazioni importanti in merito a problemi importanti. La loro frammentazione è il fedele riflesso della perdita di sovranità dello Stato nazionale, ridotto a funzioni di vigilanza securitaria e di repressione penale nel quadro permissivo del lasser foire liberista 12 • Richard Rorty intravede uno stretto legame tra postmodernismo e politica rinunciataria 13. Slavoj Zizek indica nella dispersione dei nuovi movimenti sociali, nella proliferazione delle nuove soggettività e nel ritorno agli "stati", agli "statuti" e ai "corpi" la conseguenza dell'offuscamento della coscienza di classe e della rassegnazione di fronte alle sconfitte subite. A ciò egli oppone un radicale rifiuto della rimozione del sociale e del formalismo politico che imperversa nelle "filosofie politiche" dell'ultimo decennio: il 12 Lettera di Zygmunr Bauman a Dennis Smith, in Dennis Smich, Zygmunt Bauma11, Prophet ofPost-modernùy, Poliry Press, Cambridge 1999. 13 Richard Rorty, Philosophy and Sodai I-lope, Penguin Books, Londra 1999.

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gesto che vuole tracciare la frontiera tra politico e non politico per sottrarre alla politica alcuni settori disciplinari ben determinati, a cominciare da quello dall'economia, è ai suoi occhi "un gesto politico per eccellen7.à' 14 •

Scolio 6.2 Secondo Ernesto Laclau l'emancipazione sarebbe fatalmente e definitivamente contaminata dal potere: la sua completa realizzazione significherebbe l' estinzione totalitaria della libertà. La crisi della sinistra sarebbe così il risultato di una doppia implosione del futuro: il fallimento del comunismo reale e la bancarotta del riformismo keynesiano. La sua improbabile rinascita passerebbe attraverso la "ricostruzione di nuovo immaginario sociale". Ma poiché Laclau rinuncia fin dall'inizio a qualunque alternativa radicale, quest'espressione resta deliberatamente vaga. Di fronte alla nuova docilità del centrosinistra e alle sue remore intellettuali, Slavoj Zizek insiste, al contrario, sulla necessità di "tenere aperto lo spazio utopico di un'alternativa globale, anche se tale spazio deve restare vuoto in attesa di un contenuto". La "sinistra di sinistra" deve scegliere in effetti tra la rassegnazione e il rifiuto del ricatto liberale, secondo il quale ogni tentativo di trasformazione radicale condurrebbe necessariamente a una nuova catastrofe totalitaria. Lo stesso Laclau non abbandona tutte le pretese di unificazione. Ma la dispersione dei movimenti gli sembra insormontabile: acefali, reticolari e dispersivi, sarebbero condannati all'interiorizzazione subalterna del discorso dominante. Tuttavia i movimenti posso14 Judith Butler, Ernesto Laclau, Slavo; Zizek, Conringence, Hegemony. l Jnivt>l'Saliry, Verso, Londra 2000, p. 95.

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no anche annunciare un inedito dispiegamento di resistenze nelle varie sfere della riproduzione sociale, una moltiplicazione dei terreni di lotta. Essi sarebbero allora un annuncio di speranza, a condizione di superare la propria frammentazione e di riflettere sulla propria articolazione. Altrimenti non avrebbero altro futuro possibile che il ruolo di gruppi di pressione dalle ambizioni limitate; ne deriverebbe perciò la loro unificazione d'autorità, guidata dalla parola d'ordine di un maestro o di un'avanguardia scientifica, come ultima incarnazione del "socialismo scientifico,, di triste memoria, oppure la loro subordinazione a un' avanguardia "etica" e all'imperativo categorico della ragion pura. In poche parole, nell'estensione del dominio della lotta, i movimenti non riuscirebbero .' . p1u a nunirs1. Nei discorsi di resistenza questa difficoltà viene spesso ripresa, ma non risolta, in termini di "autonomia relativa", di ((articolazione" o di "omologia,,. L"autonomia relativa,, si oppone ali' autonomia assoluta, ma relativa a che cosa? Che cos'è che fonda "l'omologia" fra i diversi campi? Che cos'è che rende pensabile e possibile la loro articolazione? Non tutti i campi sono equivalenti. ((Nelle società contemporanee, scrive Bernard Lahire, il campo economico non è sostanzialmente distinto dagli altri ambiti". Anche quando si coltiva al grado più alto l'autonomia di un campo, si finisce sempre per incontrare, prima o poi, "la logica economica che è onnipresente" 1s. E Pierre Bourdieu ritiene che il campo politico possieda la particolarità di non poter diventare del tutto autonomo, dal 1S Bernard Lahire, Parigi 1999.

u travail sociologique rk Pierre Bourdin,, La Découverce,

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momento che instaura alcuni principi di visione e di divisione attinenti alla riproduzione sociale. È in particolare il caso dell'opposizione, carica di significato, fra differenza di classe e differenza di razza. Il rapporto di sfruttamento e l'oppressione sessuale hanno dunque un ruolo speciale. Che si traduce a sua volta nel ruolo specifico e nella posizione singolare dei sindacati e dei movin1enti delle donne nei "nuovi movimenti sociali'' . . E l'agente che rende malgrado tutto possibile la convergenza delle resistenze, al di là dei molteplici effetti di dominio propri della reificazione mercantile, è il capitale stesso.

Scolio 6.3 Queste osservazioni invitano a trattare con serietà un dibattito curiosamente sottovalutato in Francia. Il gergo filosofico della postmodernità significa certo, nelle versioni dominanti, un addio alla lotta di classe e al progetto d'emancipazione comunista. Eppure, un marxismo eterodosso e critico dovrebbe prendere sul serio le sue argomentazioni, tornando nuovamente sulla dialettica dell'universale e del singolare, della differenza e dell'alterità. Allo stesso modo, dovrebbe considerare la produzione dei discorsi e delle immagini come una dimensione essenziale del dominio simbolico. E dovrebbe intraprendere un profondo esame delle condizioni spazio-temporali della democrazia politica.

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La lotta di classe

è irriducibile alle apparten~n~e comun1tar1e

Il marxismo cosiddetto "ortodosso,, ha a lungo attribuito al proletariato una missione eroica: nel momento in cui la sua coscienza avrebbe raggiunto la sua essenza, divenendo ciò che è, sarebbe diventato il redentore di tutta l'umanità. Ma, per molti, le disillusioni del giorno dopo sono proporzionali alle illusioni della vigilia: invece di essere diventato "tutto'', il proletariato sarebbe ormai ridotto a meno di niente. La lotta di classe, in ogni caso, non ha granché da condividere con la sociologia positivista. Non c'è, in Marx, un approccio statistico alla questione. E non per via della condizione embrionale della disciplina (il cui primo congresso internazionale si tenne nel 1853), bensì per alcune ragioni più fondamentali. Non c'è, nel Capitale, una definizione classificatoria e normativa delle classi, ma al contrario un antagonismo dinamico, che prende forma innanzitutto a livello del processo di produzione, poi del processo di circolazione, e infine della riproduzione collettiva. Le classi non sono definite dal solo rapporto di produzione nel1' ambito dell'impresa. Sono invece determinate nel corso di un processo nel quale vanno a combinarsi i rapporti di proprietà, la lotta per il salario, la divisione del lavoro, i rapporti con gli apparati statuali e con il mercato globale, le rappresentazioni simboliche e i discorsi ideologici. Il proletariato non può quindi esser definito in maniera restrittiva, in funzione del caratte-

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re più o meno produttivo del lavoro, che non interviene che nel secondo libro del Capitale a proposito del processo di circolazione 16 • Nel XIX secolo si parlava di classi lavoratrici al plurale. Il termine tedesco Arbeiterklasse o l'inglese Working Class sono abbastanza generali. La "classe operaia", predominante nel vocabolario francese, ha invece una connotazione sociologica favorevole agli equivoci: indica infatti principalmente il proletariato industriale, escludendo i lavoratori dei servizi e del commercio, i quali subiscono però condizioni analoghe dal punto di vista del loro rapporto con la proprietà privata dei mezzi di produzione, del loro ruolo nella divisione del lavoro e della forma salariale del loro reddito. Marx parla di proletari: nonostante sia ormai desueto, il termine è insieme più preciso e più ampio di quello di classe operaia. Nelle società sviluppate, il proletariato dell'industria e dei servizi rappresenta fra i due terzi e i quattro quinti della popolazione attiva. Il punto interessante non è qui tanto la sua annunciata scomparsa, quanto le sue metamorfosi sociali e le sue rappresentazioni politiche. Se la componente industriale propriamente detta ha visto infatti un'effettiva diminuzione nel corso degli ultimi vent'anni, si è tut16 Queste tematiche sono state ampiamente dibauute negli anni '70, soprattutto in opposizione alle definizioni rescriuive che venivano sviluppate in quel periodo dal partito comunista (contenute in particolare nel rapporto su "Il capitalismo monopolista di stato"), oppure, a partire da altre considerazioni teoriche, da Nicolas Poulantzas (Pouvoir politiq11e et classes sociaks, Maspero, Parigi 1967 [trad. ic. Potere politico e classi sociali, 2a cd., Editori Riuniti, Roma 1975] e Les clasm dam le capitalisme d'aujourd'hui, Seuil, Parigi 1970 [trad. it. Classi sodali e capitalismo oggi, Ecas, Milano 1975)), o infine da Bauddot e Escablet, la petite bourgeoisù m France, Maspero, Parigi 1970. Si veda anche la serie delle riviste: Critique de l'économie politique, Critique communiste, Cahiers

ek la Taupe.

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tora ben lontani dalla sua estinzione. Come osservano Stéphane Beaud e Michel Pialoux nella loro inchiesta sulle officine Peugeot di Mon tbéliard, la "condizione operaia" non è scomparsa. È, invece, "diventata invisibile" 17. E le scienze sociali universitarie non sono prive di responsabilità in questo occultamento. A livello internazionale, la tendenza di fondo è verso la "proletarizzazione del mondo". Nel 1900 si contavano circa cinquanta milioni di lavoratori salariati, su una popolazione complessiva di un miliardo di abitanti. Oggi se ne contano circa due miliardi, su una popolazione di sei miliardi. La questione è tanto sociologica quanto teorica, storica e culturale. Lo storico inglese E. P. Thompson affermava maliziosamente che "non si può parlare d' amore senza amanti", né di classi sociali senza attori. La sua insistenza sulla "formazione" delle classi sottolinea che si tratta "di un processo attivo'': queste non sono sorte "come il sole", in un momento determinato, ma, al contrario, sono "parti attive della propria formazione''. Non si tratta né di una struttura immobile né di una categoria definitiva, bensì di un fenomeno storico che non si può arrestare a un momento particolare del suo sviluppo. Così è possibile parlare di classe "allorché, in seguito a esperienze comuni che appartengono alla loro eredità condivisa, gli uomini percepiscono e articolano il proprio interesse comune in opposizione ad altri uomini, i cui interessi si scontrano con i loro" 18 • Le classi si autoproducono secondo un proces17 Cfr. Stéphane Beaud e Michel PiaJoux, Retour sur la condition ouvrière, Fayard, Parigi 1999. 18 E. P. Thompson, The Making ofrhe English Working C/,as.s, Galloncz, Londra 1980.

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so di cristallizzazione di interessi collettivi, a partire da una coscienza di tali interessi e da un linguaggio per dirli. Si collocano all'incrocio di un concetto teorico e di una formulazione nata dalla lotta. E il senso dell' appartenenza di classe deriva tanto da un lavoro politico e simbolico quanto da una determinazione sociologica. In una prospettiva ispirata a Edward Thompson, Pierre Bourdieu distingue la "classe probabile,, dalla "classe mobilitata [ mobilisée] ". Perché probabile anziché improbabile? E inversamente, le interruzioni della mobilitazione significano un' eclissarsi delle probabilità? L offuscamento della coscienza di classe implica forse la scomparsa delle classi e delle lotte? Ed è congiunturale, legato al flusso e al riflusso dei rapporti di forza? Oppure strutturale, in funzione delle nuove procedure di dominio sociali e culturali, che Michel Surya riassume con la nozione di "capitalismo assoluto"? Se la realtà della lotta di classe è ampiamente attestata dalle resistenze quotidiane alla tirannia del mercato, la frammentazione individualistica postmoderna permette la ricostituzione di collettività solidali? La generalizzazione del feticismo delle merci e dell'alienazione consumistica, il regno dell'effimero e dell' istantaneo, la frenesia dell'istantaneo e dello zapping permettono forse di formulare ancora progetti durevoli, al di là dei momenti d'intensità fusionale senza futuro? Eppure, chi avrebbe mai il coraggio di porre seriamente in dubbio l'esistenza della borghesia "borghesizzante [bourgeoisante]"? Che non è solo una "classe probabile,,, ma anche una "classe mobili tata" incarnata molto bene dal Medef, il

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Movimento delle imprese di Francia 19. La prova della lotta di classe, insomma, è fornita dal barone Seillière in carne e ossa, che ne è il presidente. Esposti alla flessibilità, all'individualizzazione del processo lavorativo e ali' atomizzazione sociale, i lavoratori non si stanno invece trasformando dal canto loro in lavoratori senza classe? E dopo aver dimostrato che la "condizione operaia'' esiste eccome, Stéphane Beaud e Michel Pialoux si interrogano sul destino più incerto della "classe operaia". Alcune correnti della sociologia critica sottolineano l'aspetto costruttivista della nozione di classe, che non sarebbe il riflesso di una realtà, bensì il prodotto di una costruzione teorica. Ma quella di costruttivismo è una denominazione molto ampia. Ricordare che ogni nozione teorica è un "costrutto" sembra quasi una banalità. Sappiamo da lungo tempo che il concetto di cane non abbaia e che le parole non sono le cose. Ma cosa sarebbe una cosa innominabile? E senza le cose, le parole non sarebbero prive di senso? Affinché il concetto di cane sia intelligibile, ci devono pur essere dei cani reali che abbaiano e che mordono. La parola deve avere un rapporto con la cosa. Per quanto "costruita'' sia, la "mano invisibile del mercato" commette dei crimini ben reali! La lotta di classe non esiste indipendentemente dalle parole per dirla, ma tali parole presuppongono una realtà dicibile. Se si tratta di affermare in nome del costruttivismo che ogni concetto è una pura convenzione di linguaggio e l'effetto di rapporti di forza nel campo teorico, si 19 Cfr. Michcl Pinçon e Monique Pinçon-Charlot, Nouveaux parrons, notte Sociologie tk la bourgeoisie, La -Découverte, Parigi 2000.

veileJ dywuties, Calman-Lcvy, Parigi 1999,

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ricade in un idealismo linguistico, fra l'altro piuttosto paradossale: se la lotta di classe fosse in primo luogo un effetto di linguaggio, sarebbe un motivo di più per privilegiare questa rappresentazione del mondo di contro alle rappresentazioni in termini di conflitti razziali, etnici o religiosi. Nei sommovimenti della globalizzazione mercantile, il declino della coscienza di classe (soprattutto nella sua dimensione internazionalista) e la crisi delle legittimità nazionali alimentano una visione razziale o religiosa dei conflitti comunitari. Le pulsioni purificatorie in atto nei Balcani si iscrivono infatti in una tendenza planetaria ben più inquietante di quanto possano immaginare gli intellettuali allineati della NATO quando si limitano a scorgervi gli ultimi sussulti del totalitarismo "comunista,,. E la strisciante trasformazione di un conflitto nazionale, quello fra israeliani e palestinesi, in guerra di religione fra ebrei e musulmani ne fornisce una prova ulteriore.

Scolio 1 La pubblicazione in anni recenti di un testo inedito di Lukacs, scritto in difesa di Storia e coscienza di classe, contraddice parzialmente l'interpretazione secondo la quale la sua concezione del Partito sarebbe la forma finalmente raggiunta dello Spirito assoluto hegeliano 20 • Condannato per "soggettivismo,, nel 1925, in occasione del V Congresso dell'Internazionale comunista e della "bolscevizzazione,,, l'anno dopo contestava la tesi secondo cui il proletariato sarebbe condannato ad agire 20 Recentemente rinvenuto in Ungheria, questo testo di Lukacs ~ pubblicato in inglese con il titolo A Drfensr ofHisto,y and Class Consciousnrss. Tailism and Diakctic, seguito da una postfazione di Slavoj Zizek, Verso, Londra 2000.

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in modo conforme al suo essere e il ruolo del Partito si limiterebbe dunque ad "anticipare quello sviluppo". Lo specifico ruolo politico del Partito dipende secondo Lukacs precisamente dal fatto che la formazione della coscienza di classe si scontra in continuazione con il fenomeno del feticismo e della reificazione. Come osserva Slavoj Zizek nella postfazione, il Partito svolge allora la funzione di termine medio di un sillogismo, fra l'universalità della storia e la particolarità del proletariato. Per la socialdemocrazia, il proletariato sarebbe al contrario il termine medio fra la storia e la scienza incarnata da un partito educatore. Infine, negli stalinisti, il Partito prenderebbe come pretesto il "senso della storia,, per legittimare meglio il suo dominio sul proletariato.

Scolio 2 In una discussione con Slavoj Zizek, Ernesto Laclau sostiene che nulla di veramente anticapitalistico nasce spontaneamente dalle aspirazioni operaie. Largomento per cui la lotta di classe sarebbe portatrice di universalità in quanto si radica nel cuore del sistema, mentre le lotte culturali o identitarie sarebbero facilmente assimilabili alla sua riproduzione, gli pare tanto poco convincente quanto il compromesso consistente nell'aggiungere (sia pure con un'insistenza carica di sottintesi) lo sfrutta~ento di classe ali' elenco delle oppressioni più svariate (sessuali, nazionali, razziali, religiose o generazionali). Nella problematica marxiana il conflitto di classe non va ad aggiungersi alle varie identità sociali, ma costituisce il nucleo stesso attorno al quale si articolano e si definiscono le appartenenze: "Entrando a far

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parte di un elenco, il termine di classe perde questo ruolo senza acquisire in cambio alcun significato preciso." Diventa "un significante fluttuante,, 21 • E Laclau ne trae la conclusione che la lotta di classe non ha alcun ruolo privilegiato da giocare. Per Zizek, al contrario, gli elementi della lotta per l'egemonia non sono equivalenti. Il conflitto di classe determina tutto l'insieme della catena. Una comprensione non riduttiva della teoria marxiana presuppone di non considerare la cultura né come un semplice riflesso del rapporto di produzione, né come un elemento esteriore alla formazione dei rapporti di classe. Quando le classi sono considerate in quanto caratterizzate dalla "razza" [" racées"] e dal "genere" [" sexuées"], le analisi in termini di genere o di razza non rappresentano delle aggiunte accessorie o dei supplementi d'anima: l'articolazione complessiva si basa sull'intima connessione di sfruttamento e oppressione generata dal dominio del Capitale. Così, nella loro critica del "nuovo spirito del capitalismo", Luc Boltanski ed Ève Chiapello ricollocano giustamente al cuore delle sue contraddizioni il legame organico tra sfruttamento ed esclusione.

Scolio 3 Una ridefinizione globale delle strutture territoriali, dei rapporti giuridici e dei rapporti sociali, oggi ali' ordine del giorno, tende a rimodellare le condizioni del1' accumulazione del capitale e della riproduzione del legame sociale basandosi sulle "nuove tecnologie". La crisi "genetica'' di forze politiche tradizionali quali 21 Ernesto Ladau, op. cit., p. 297.

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la democrazia cnsttana, i conservatori britannici o la destra francese tradizionale e la rimessa in discussione della funzione cui hanno adempiuto dopo la seconda guerra mondiale nell'ambito del compromesso costitutivo dello Stato sociale e nella coesione dello Stato nazionale, rientrano in questa prospettiva. E in essa rientrano anche le trasformazioni della socialdemocrazia europea. Attraverso la privatizzazione del settore pubblico, le élite manageriali private e la nobiltà di Stato si alleano organicamente con le classi dirigenti borghesi. I partiti socialdemocratici, forti della debolezza dei diritti tradizionali, sono così indotti a svolgere un transitorio ruolo propulsivo ad interim nella fase di riassestamento del capitale. E trascinano nella loro orbita i resti dei partiti post-stalinisti, ossessionati da un passato che non passa, e la maggior parte dei partiti Verdi, affascinati dalle attrattive di una rapida istituzionalizzazione. Con il "nuovo centro,, o "la terza via'' cari a Tony Blair, a Gerhard Schroder, a Bill Clinton o a Romano Prodi, nella carta sociale europea minimalista o dietro il "patto sociale" del padronato si profila in tal modo non un liberalismo senza regole, bensì una forma inedita di liberal-corporativismo o di liberal-nazionalismo. Bisogna essere miopi per immaginare il populismo solo nella versione francese di un "sovranismo" alla Pasqua-Villiers. La crociata a favore dell'azionariato salariale e dei fondi pensione privati a scapito della solidarietà previdenziale mira a stabilire durevolmente le diseguaglianze e a rendere definitivo il regresso dei diritti sociali imposto durante gli anni di crisi. La "rifeudalizzazione" del legame sociale in atto attraverso i contratti individuali, sinonimo di subordinazione

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personale, comincia a prevalere sul rapporto con la legge impersonale e teoricamente uguale per tutti. Si va così delineando chiaramente una nuova forma di associazione capitale-lavoro, nella quale un ridotto strato di vincenti prospera a tutto svantaggio delle masse disastrate della globalizzazione. Questa tendenza è perfettamente compatibile con certe forme convulsive di nazional-liberalismo alla Putin o alla Haider. Putin è il prodotto della dislocazione di un impero burocratico e dell'avvento al potere di un capitalismo mafioso. Haider è il prodotto di una situazione segnata dal crollo del cuscinetto dell'Est, dall'integrazione dell'Austria nell'Unione europea e dall'avanzata di populismi vendicativi di tipo regionale. Ma è anche il frutto di tredici anni di gestione condivisa fra conservatori e socialdemocratici, di una scelta di costruzione europea liberale e di politiche d'austerità imposte in suo nome. Perciò sarebbe stupido demonizzarlo invocando un'analogia con gli anni '30, per legittimare, in nome di un antifascismo stereotipato, la sacra alleanza delle buone coscienze consensuali. È certo necessario lottare contro Haider, senza trascurare l'indulgenza dei suoi detrattori benpensanti nei confronti dei vari Berlusconi, Fini, Millon o Blanc. Ed è anche necessario sostenere l'opposizione austriaca e non credere di poterlo isolare efficacemente attraverso una messa al bando dell'Unione europea. Ma senza volgere in farsa le tragedie di ieri o dell'altro ieri, ora è urgente pensare le minacce inedite del presente: il ruolo dei regionalismi (carinziani o padani) nel nuovo assetto europeo, le nozze di sangue tra il nazionalismo e il liberalismo, la xenofobia di stampo autoritario dell"'Europa potenza mondiale".

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Intitolando un dispaccio d'agenzia "Blair e io contro le forze del conservatorismo" 22 , Haider si rivela non privo di un certo humour nero: "I nostri due partiti vogliono sottrarsi alle rigidità dello Stato provvidenza, senza tuttavia creare ingiustizia sociale,,; entrambi vogliono '~legge e ordine,,; entrambi ritengono che chi è in grado di lavorare non debba essere incoraggiato all'inattività da una qualche forma di sussidio. È ciò che proclama anche il Medef, per attaccare l'indennità di disoccupazione. E come Blair, Haider ritiene che "[' economia di mercato può creare nuove possibilità per i lavoratori salariati e le imprese", a condizione di "renderla flessibile''. Il partito laburista britannico e il FPO austriaco condividono un approccio "non dogmatico al mondo in piena trasformazione in cui viviamo", mentre "le vecchie categorie di destra e sinistra diventano instabili". Conclusione: "Blair e il Labour sono di destra poiché accettano gli accordi di Schengen e sono favorevoli a una legislazione rigida sull'immigrazione?" ('Se Blair non è un estremista, allora nemmeno Haider lo è!" 23. Come dovevasi dimostrare. Haider, in effetti, non è una semplice imitazione nostalgica del nazionalismo degli anni '30, bensì un nazionalista liberale contemporaneo, sostenitore della NATO, della moneta unica e dell'allargamento dell'Unione europea: è per questo che resta prigioniero della contraddizione fra il suo elettorato e il suo programma. Ed è, appunto, lo stesso motivo per cui la politica di sanzioni e di isolamento attuata per un anno dai governi europei era destinata al ridicolo e al fallimento. 22 Daily Telegraph, 22 febbraio 2000. 23 Ibid.

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Corollario 1 Il dissenso sociale non è risolvibile nell'armonia comunicativa. Come una sorta di musica, si riteneva che la comunicazione e il commercio potessero addolcire le maniere rudi del mercato. Qualcuno sognò di pacificare il mondo attraverso una lingua comune universale, I' esperanto o il volapi.ik. E Vilfredo Pareto immaginò un dizionario della comunicazione perfetta, che eliminasse gli equivoci e i malintesi, fonte di conflitto. Gramsci gli rispose che i pragmatisti formulano teorie astratte sul linguaggio inteso come fonte di errore. Ma non è possibile ridurre una lingua vivente a un tecnica utilitaristica priva di significati metaforici e di equivoci polisemici. Gramsci aveva una chiara percezione della parentela tra il formalismo logico della "regola del gioco'' e il formalismo giuridico delle teorie della giustizia. Mentre i soggetti consensuali della comunità comunicativa ideale appaiono come angioletti disincarnati o ectoplasmi senza emozioni né passioni, il linguaggio è un luogo dove si scontrano dei "dialetti": il discorso perentorio dei dominanti e la parola subalterna dei dominati. E ''I' agire comunicativo" non sfugge ai conflitti e ai rapporti di forza: ci sono parole che feriscono e parole che uccidono.

Corollario 2 La differenza conflittuale non è risolvibile nella diversità indifferente. Oggi è il momento della pluralità dei campi e delle COl)traddizioni, opposta alla dogmatica riduzione di ogni conflitto sociale al conflitto di classe. Tuttavia,

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nella consacrazione della merce, l'astrazione monetaria livella le qualità e i valori. E così non ci sarebbe più un'irriducibile opposizione fra rossi e bianchi, fra borghesi e proletari, posseduti e possessori: il loro antagonismo si annullerebbe in un'umanità media, ridotta a una clientela di oggetti di sondaggio e a una grigia moltitudine di "gente" senza qualità. Non ci sarebbe più né destra né sinistra, ma un homo politicus ambidestro. Spariti strofinacci e tovaglioli, ci sarebbero solo stracci. Non solo le opposizioni di classe, ma qualunque differenza si risolverebbe in ciò che Hegel chiamava "una diversità senza differenza", in una costellazione di singolarità indifferenti. Ciascun individuo è una combinazione unica di appartenenze molteplici. Ma la maggior parte dei discorsi della postmodernità spinge la critica della vulgata ortodossa fino al punto di dissolvere i rapporti di classe nelle acque torbide dell'individualismo metodologico. La difesa della differenza si riduce allora a una tolleranza liberale repressiva, semplice rovescio consumistico dell'omologazione mercantile. Contro questo siinulacro di differenza e il suo individualismo senza individualità, le rivendicazioni identitarie tendono inversamente a ipostatizzare e naturalizzare le differenze di genere o di razza. Un simile "narcisismo delle piccole differenze", già individuato in passato da Freud, è propizio al ritorno delle ascendenze più spietate, alle archeologie identitarie e al panico comunitario, i quali costituiscono altrettante risposte alienate a una situazione nuova. E come suggeriva il rimpianto Jacques Hassoun, le ipostasi della "piccola differenza" permettono di "disappartenersi" in quanto cittadini o in quanto membri di una classe sociale per aderire invece

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a un' "etnia primigenia" [ "ethnie matricielle'] e innalzare luoghi di culto sulle rovine desolate dello spazio pubblico. La dialettica della differenza e dell'universalità è al centro delle controversie sulla questione della parità come sul ruolo del movimento omosessuale. Mentre la differenza rappresenta una mediazione tra il singolare e l'universale, la diversità frammentaria rinuncia a qualunque orizzonte di universalità. E quando si rinuncia all'universale, ammonisce Alain Badiou, è J>orrore universale a trionfare. Qui non si tratta di incriminare il concetto di differenza - che permette di elaborare varie opposizioni strutturanti - quanto la sua naturalizzazione biologica e la sua assolutizzazione identitaria. La "Queer Theory" anglosassone proclama infatti la cancellazione delle differenze all'interno di un cangiante rispecchiamento di singolarità24. La logica dei bisogni sociali si dissolve allora nel desiderio di consumazione compulsiva e nella retorica mortifera del desiderio. Vivendo nell'istante una successione d'identità senza storia, il soggetto queer non è più un/a omosessuale militante, bensì un individuo ambivalente, un fascio di sensazioni fugaci e di voglie versatili. Non è sorprendente, dunque, che l'industria culturale americana abbia accolto un simile discorso con relativa benevolenza: la celebrazione del fluido e del labile favori24 Queer. bizzarro. Si tratta in origine di un insulto, ripreso e rovesciato dagli omosessuali per riaffermare una differenza che intende l'omosessualità non più come una differenza rispetto all'eterosessualità, ma invece come una decostruzione della norma. La Queer Theory ha ispirato Quur Studies universitari, dei quali la filosofa di Berkcly Judìch Butler è una notevole teorica. Il suo saggio dal titolo significativo, Gender Trouble, pubblicato nel 1990, ha suscitato vivaci e importami dibattiti, illustrati in particolare da Nancy Fraser nd libro justice lnterruptus: Criticai Ref/ectiom on the "Postsocialist" Condition, New York 1997.

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sce il flusso incessante degli scambi e delle mode. E la trasgressione, che sfidava le norme e preparava la conquista di nuovi diritti, finisce così per banalizzarsi nelle estasi ludiche della soggettività consumistica. Se il movimento queer proclama l'abolizione delle differenze di genere a vantaggio di orientamenti sessuali individuali non esclusivi, e svaluta ogni affermazione collettiva come obbligatoriamente riduttiva, Jacques Fortin adombra nell'Addio alle norme una dialettica della differenza, necessaria all'instaurazione di un rapporto di forza dinanzi all'oppressione, e del suo tramonto, compreso in una prospettiva storica di universalizzazione concreta25 •

Scolio 2.1 Una ricca discussione si è sviluppata in merito fra Nancy Fraser, Judith Butler e Richard Rorcy26 • In un articolo dal titolo significativo, "Dalla ridistribuzione al riconoscimento", Nancy Fraser cerca di riconciliare la rivendicazione identitaria del multiculturalismo e la politica keynesiana della socialdemocrazia classica. Contro la sacralizzazione e la reificazione delle identità, contro la tirannia di un comunitarismo repressivo esercitante sul gruppo (omosessuale o altro) una pressione normativa, lei propone una sintesi tra le politiche di riconoscimento e quelle ridistributive tale da non opporre più appartenenze esclusive e l'umanità condivisa. Considerare il "nonriconoscimento" (misrecognition) come ''un danno cul25 Cfr. Jacqucs Fortin, Homosexualitls, l'Adieu aux normes, Textud, Parigi 2000. 26 Gli articoli di Judith Budcr e Nancy Frascr sono riportati nei numeri 227 e 228 della New Lift Review ( 1998). La rivista Mouvemmts, n. 12 (novcmbredicembre 2000), pubblica un'illuminante scambio fra Richard Rorcy e Nancy Fraser.

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turale autonomo'' indurrebbe, al contrario, a separare l'ingiustizia culturale dalla sua matrice istituzionale e dalle diseguaglianze economiche. Nancy Fraser pane insomma da una distinzione tra ingiustizia distributiva e ingiustizia di riconoscimento. Le ingiustizie del secondo tipo non sono "semplicemente culturali", ma derivano da modelli valutativi e da rapporti sociali istituzionalizzati irriducibili alla cattiva distribuzione (misdistribution) delle risorse e delle ricchezze a essi connessa. Introducendo una distinzione fra classi sociali e status sociali, formula l'ipotesi che il processo di differenziazione, rilevato da Max Weber e poi esacerbato dal tardo capitalismo, approfondisca il divario tra classi e status. Non-riconoscimento e cattiva distribuzione non sono più, allora, "reciprocamente sostituibili": il punto decisivo è che "il non-riconoscimento costituisce un'ingiustizia fondamentale, che sia legato o no a una qualche ineguaglianza distributiva". E dunque non è più necessario dimostrare che può comportare discriminazioni economiche e sociali (nel caso specifico contro gay e lesbiche), per esigere che un simile abuso sia riparato. Le ingiustizie di status debbono essere considerate altrettanto gravi delle ingiustizie distributive, alle quali non sono riducibili: "I due tipi di abuso sono fondamentali e concettualmente irriducibili l'uno ali' altro." Richard Rorty riconosce che il termine di "riconoscimento" può descrivere ciò a cui aspirano i neri, le donne o gli omosessuali, ma fa notare il carattere arbitrario di un simile elenco di comunità che richiedono di essere "riconosciute". Questo "bisogno di riconoscimento" sostituisce secondo lui "lo sradicamento dei pregiudizi", che un tempo significava la lotta contro le

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discriminazioni. Si passa in tal modo dalla negazione dei danni inflitti alla rivendicazione positiva di un'identità, dalr "umanità condivisa'' al "riconoscimento di differenze culturali". Questo spostamento, dalla rivoluzione politica delusa alla rivoluzione culturale (o anche dal sociale al "societario"), sarebbe la conseguenza di una congiuntura fatta di riflusso e disinganno. Ma c'è un prezzo da pagare: una rivoluzione culturale dei costumi, staccata da una prospettiva di rivoluzione politica, porterebbe a una tribalizzazione delle culture, a un culto feticistico di differenze estranee a qualunque esigenza di universalità. Per Rorty la via dell'universale non passa attraverso la diversità delle culture, bensì attraverso la diversità degli individui "che si autorealizzano personalmente". E propone di ridare priorità alla dimensione economica piuttosto che culturale, alla ridistribuzione sociale e alla lotta contro i residui pregiudizi discriminatori. Nella sua risposta a Rorty, Nancy Fraser sostiene che invece di rinunciare a ogni politica di riconoscimento, è necessario riformularla in termini di status. E ciò per la ragione che il non-riconoscimento non si accontenta di disprezzare un'identità collettiva, bensì rappresenta un ostacolo alla partecipazione politica condivisa. Si tratta dunque di "vincere la subordinazione per mezzo di una decostruzione dei codici che si oppongono all' equità partecipativa, e di sostituirli con dei codici che sostengano quest'ultima". Il ricorso alla categoria di status in quanto distinta da quella di classe permetterebbe di non rifiutare, unitamente alla politica identitaria, anche il bisogno di riconoscimento. Il riconoscimento da solo è insufficiente. Eppure non si tratta di

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risalire indietro nel tempo per tornare alle vecchie politiche ridistributive della sinistra, come vorrebbe Rorty, anzi. Nancy Fraser si oppone precisamente alla scissione tra una sinistra culturale e una sinistra sociale. Una distinzione di questo genere è invece fatta propria, per esempio, da Jacques Julliard, quando oppone sinistra morale e sinistra sociale, o movimento dei sans-papier e scioperi di rivendicazione salariale. A condizione di non smentire il rispetto per ciò che è comune (quel che il poeta Jean-Christophe Bailly nomina "!'in-comune" [ "l'en-commun']), il riconoscimento culturale può essere un riconoscimento dell'universalità negata e scoraggiare la logica della separazione e il comunitarismo repressivo. Si tratta allora di "completare il rispetto dell'universale con un'attenzione sollecita alle differenze,, e "di opporre una salutare dose di scetticismo decostruttivo a ogni sistema classificatorio".

Scolio 2.2 Judith Butler rimprovera a Nancy Fraser di attuare "un marxismo neoconservatore": la accusa di subordinare le lotte contro l'oppressione eterosessuale alla lotta di classe contro lo sfruttamento capitalistico. E sottolinea invece la ricchezza dell' "autodifferenziazione'' dei movimenti sociali, che renderebbe possibili collettività non autoritarie. Se, come sostenevano le femministe degli anni '70, la lotta contro la famiglia potesse svolgere un ruolo decisivo nell'ambito della riproduzione sociale, la lotta contro questo tipo di regolazione familiare finirebbe per colpire al cuore il funzionamento stesso del sistema economico. E Judith Butler ne deduce dunque che la regolazione eteronormativa dei rap-

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porti sessuali è parte integrante della struttura economica, "sebbene non strutturi né la divisione sociale del lavoro, né i modi di sfruttamento della forza-lavoro". Per Nancy Fraser la distinzione tra economia e cultura rappresenta il punto centrale del dissidio con Judith Butler, il cui metodo astorico fa del modo di regolazione sessuale un'invariante del rapporto economico nel corso delle varie epoche. Le rimprovera infatti di estendere abusivamente al capitalismo alcuni tratti specifici dei rapporti di parentela tipici delle società precapitalistiche, come la mancanza di differenziazione fra rapporti sociali e struttura economica. E intende, al contrario, storicizzare tale distinzione, che diventa essenziale proprio nel tardo capitalismo. Così, temendo che storicizzare i rapporti di riconoscimento equivalga a renderli relativi, Butler incorrerebbe in una contraddizione. La storicizzazione è invece in grado di chiarirne la funzione e di misurare con più precisione lo sfasamento fra classi e status. E diventerebbe allora possibile colmare il fossato fra le correnti multiculturaliste, avide di riconoscimento sociale, e le correnti sociali e democratiche, legate alla giusti zia sociale. Secondo Nancy Fraser i torti fatti a gay e lesbiche non sono evidentemente solo simbolici, ma comportano discriminazioni giuridiche ed economiche. Le ingiustizie di "non-riconoscimento" sono tanto materiali quanto quelle derivanti dalla distribuzione iniqua delle ricchezze. E definisce "l'essenza del non-riconoscimentd' come "la costruzione materiale di una classe di persone svalorizzate e rese prive di un'equa partecipazione" alla vita comune. Derivando gli abusi culturali dalla struttura economica, Butler finisce per persuadersi che la

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trasformazione dei rapporti di riconoscimento basterebbe a trasformare meccanicamente i rapporti distributivi. Fraser si chiede allora se non sia indispensabile cambiare la struttura economica per riparare le ingiustizie economiche causate agli omosessuali. E invita a interrogarsi su cosa si debba intendere esattamente per "struttura economici'. La regolazione eteronormativa dipende in modo diretto dalt> economia capitalistica, o invece da una gerarchia di status "articolati in modo complesso"? E più in generale i rapporti di riconoscimento coincidono, nell'epoca del tardo capitalismo, con i rapporti economici? O invece le differenziazioni proprie del capitalismo contemporaneo si tradurrebbero in uno scarto più ampio fra status e classi? Nello scontro con Rorty e Butler, Nancy Fraser solleva alcune questioni pertinenti e avanza argomenti solidi. Ma nella misura in cui la discussione ha come oggetto le ingiustizie ridistributive e di riconoscimento, non si andrà più in là della formula evasiva secondo la quale sono "collegate in maniera complessa". Così tali ingiustizie sembrano staccate dai rapporti di produzione. E la nozione problematica di "struttura economica" non basta certo a colmare la lacuna: in Marx il capitale è il soggetto di un processo non strettamente "economico". Egli articola infatti i processi di produzione, di circolazione (dunque di distribuzione) e di riproduzione collettiva. La "critica dell'economia politica" è innanzitutto una critica del feticismo economico e della sua ideologia, che ci costringono a pensare "all'ombra del capitale". Separando le ingiustizie da questo movimento d'insieme ci si limita dunque a correggere le discriminazioni e a rettificare la cattiva

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distribuzione, senza dover tuttavia trasformare i rapporti di produzione e quindi i rapporti di proprietà. La riconciliazione fra sinistra culturale e sinistra sociale e democratica diventa allora possibile solo nell'ambito dei limiti fissati dalla tirannia del mercato.

Scolio 2.3 Alcuni autori oppongono la categoria biologica di "sesso'', "più concreta, specifica e corporea", alla categoria sociale di "genere". Pretendono in tal modo di oltrepassare il "femminismo di genere" per un "pluralismo sessuale" a geometria variabile. Non è molto sorprendente che rifiutino tanto il marxismo quanto il femminismo critico. Secondo loro le categorie marxiste avrebbero rappresentato uno strumento efficace finché si trattava di pensare le questioni di genere legate ai rapporti di classe e alla divisione sociale del lavoro. Per comprendere "il potere sessuale" e fondare un'economia dei desideri distinta da quella dei bisogni, diventa invece necessaria una teoria biopolitica autonoma. La nuova tolleranza mercantile e repressiva del capitale nei confronti del mercato gay conduce però a sfumare l'idea secondo cui gli orientamenti sessuali sarebbero per definizione contraddittori rispetto al principio di rendimento capitalista. La percezione, storicamente fondata, di un antagonismo irriducibile tra r ordine morale del capitale e gli orientamenti omosessuali ha potuto far credere che la semplice affermazione della differenza fosse un fattore sufficiente di sovversione spontanea: sarebbe bastato che gli omosessuali si proclamassero tali per scuotere l'ordine morale e sociale stabilito. La critica del dominio omofobico finisce

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così per esaurirsi nella sfida dell'autoaffermazione e nelle ipostasi identitarie. Ma se le categorie di "etero" e "omo" sessualità sono storicamente e socialmente costruite, allora il loro rapporto conflittuale con la norma ha come esito una dialettica della differenza e del suo tendenziale superamento.

Scolio 2.4 Per Jon Elster l'idea di una centralità della lotta di classe è propriamente "insostenibile". Ulrich Beck vede nel capitalismo contemporaneo il paradosso di un "capitalismo senza classi". E Lucien Sève afferma: "Se c'è sicuramente una classe a un polo della contraddizione, il fatto sconcertante è che non ci sia una classe all'altro polo." Il proletariato sarebbe dunque risolvibile nell'alienazione generalizzata. Non si tratterebbe più "di portare avanti una battaglia di classe", ma piuttosto "una battaglia di tutta l'umanità". Questa frase può essere intesa come una banalità consistente nel ricordare che la lotta per l'emancipazione del proletariato costituisce, sotto il capitalismo, la mediazione concreta della lotta per l'emancipazione universale. Ma è anche possibile scorgere in essa un'innovazione gravida di conseguenze strategiche: se lo sfruttamento di classe è ormai secondario rispetto all' alienazione universale, la questione dell'appropriazione sociale non è più decisiva. La trasformazione sociale si riduce allora a trasfor. . '' ., . . maz1on1 non p1u 1mprovv1se, ma costantemente graduali". La questione dello Stato si risolve attraverso "la conquista dei poteri". Così, "la progressiva formazione di un'egemonia porta prima o poi al potere, a condi-

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zione di un assenso maggioritario,, e senza scontri risolutivi. Dalla Germania al Portogallo, passando per la Spagna, il Cile o l'Indonesia, un simile "assenso maggioritario,, non si è però mai verificato fino a oggi. Ancora la stessa musica in Roger Martelli: ".Lessenziale non è più preparare il trasferimento di potere da un gruppo all'altro, ma cominciare a fornire a tutti la possibilità di appropriarsi delle condizioni individuali e sociali della propria vita." Per quanto legittima, la tematica della liberazione individuale porta però solo a un piccolo piacere solitario. E l' emancipazione sociale finisce così per dissolversi in un'umanità dispersa e frammentaria.

Scolio 2.5 Se certo si dà un,interazione tra le forme di oppressione e di dominio, e non come l'effetto meccanico di una forma particolare cosiddetta principale (il dominio di classe) sulle altre, giudicate "secondarie", tuttavia è sempre necessario delimitare l'ampiezza di tali interazioni in una data epoca e all,interno di un dato rapporto sociale. Si tratta di una semplice giustapposizione di campi e di contraddizioni, capace di originare discontinue alleanze interessate e alleanze effimere? O invece, malgrado le divergenze dei tempi sociali, la logica universale del capitale e del feticismo mercantile colpisce le varie sfere della vita sociale a un punto tale da creare le condizioni per una relativa unificazione delle resistenze? Non si tratta qui di ridurre la pluralità delle contraddizioni e dei conflitti a una linea di demarcazione prioritaria o esclusiva, né di opporre all'inquietudine post-

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moderna una feticistica totalità astratta, bensì di ammettere che l'uscita dalla totalità [la détotalisation] rivendicata dai microracconti, dalla microstoria o dalla microsociologia, presuppone in concreto la totalizzazione alla quale essa si oppone. Se non si basasse su una reale convergenza di tendenze, della quale proprio il capitale è l'agente impersonale sotto le forme perverse rivestite dalla globalizzazione mercantile, l'unificazione puramente soggettiva delle lotte si ridurrebbe a una volontà arbitraria, o, in altri termini, a un puro volon. . tansmo etico. Il pericolo ecologico non è limitato all'ecocidio capitalista: possiamo ricordare le devastazioni compiute dall'ecocidio burocratico a Cernobil o nel mare d'Arai. E non è poi meno determinato, qui e ora, nelle nostre società realmente esistenti, dalla legge del valore e dalle regolazioni "in tempo reale" del mercato. Da ciò le ricorrenti polemiche sulle eco-tasse e i diritti d'inquinamento: il rapporto dell, umanità con le condizioni naturali della propria riproduzione non è misurabile in termini mercantili. Analogamente, le questioni sollevate dalle biotecnologie toccano in modo diretto quell'umanità che noi vogliamo oppure non vogliamo diventare. Tali questioni non sono riducibili a criteri di classe. Ma la mercificazione del vivente, degli embrioni o dei geni condivide in maniera inscindibile la logica del capitale. E dunque non è possibile dissociare la gestione di queste possibilità inedite dal contesto della loro scoperta. Loppressione delle donne, al tempo stesso sociale, sessuale e simbolica, non è cominciata con lo sviluppo del capitalismo. Ed è ahimè probabile che sopravviva al regno della proprietà privata e del profitto, visto che

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l, evoluzione dei costumi e delle mentalità obbedisce a tutt'altri ritmi sociali rispetto alle decisioni legislative. Ma le forme dell'oppressione e del dominio hanno una storia, evolvono insieme al complesso dei rapporti sociali. Un gruppo sociale dominato dal criterio del profitto produce uno stretto intreccio fra divisione sociale e divisione sessuale del lavoro, un cambiamento dei rapporti fra sfera privata e sfera pubblica, una trasformazione del ruolo della famiglia e una forte svalutazione del lavoro domestico rispetto al lavoro salariato. Se i rapporti di classe e i rapporti fra i sessi sono irriducibili gli uni agli altri, tuttavia si condizionano e si determinano a vicenda, tanto che non sarà mai possibile lottare in maniera efficace contro l'oppressione senza lottare anche contro lo sfruttamento. Un approccio non naturalistico e non etnico alla questione nazionale deve partire anch'esso dal fatto che la nazione non significa lo stesso e non adempie alla stessa funzione nel momento, per esempio, della primavera insurrezionale dei popoli nel I 848, nelr epoca delrimperialismo moderno o dell'attuale globalizzazione imperiale. E oggi è determinata dallo sviluppo diseguale e male strutturato che sta sconvolgendo il pianeta. Questo doppio movi1nento - di unificazione dei mercati e di frammentazione degli spazi, di creazione d'insiemi continentali e di rivendicazioni regionalistiche - soffia sul fuoco delle frustrazioni sociali e nazionali. Non potendo iscriversi in uno slancio universalistico e in una concezione partecipativa e civile [citoyenne] della nazione, queste tardive aspirazioni alla sovranità finiscono talvolta per cercare la propria legittimità - "zoologica,,, scriveva Renan - nelle radici e nel mito delle origini, nella genea-

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logia e nell'archeologia. Ossia, in altri termini, nell' etnicizzazione dell'idea di nazione. La questione dell'urbanizzazione e dell'abitazione non può essere separata ancora a lungo da quella della proprietà fondiaria e della cosiddetta "produzione dello spazio". Così, se accettiamo la terminologia di Bourdieu, "il campo" dell'istruzione non è pensabile senza la divisione sociale del lavoro; il campo giuridico (soprattutto in materia di diritto internazionale) senza gli imperativi della globalizzazione; e quello giornalistico, senza la multimedialità e la produzione mercantile dell'informazione.

Corollario 3 "Cuomo plurale" non è risolvibile nell'umanità frammentaria, né l' "io multiplo"nella disintegrazione del soggetto. A proposito della condizione delruomo moderno, Bernard Lahire elabora il concetto di "uomo plurale", John Elster quello di "io multiplo''. Queste formule sono interessanti nella misura in cui si tratta di cogliere nell'individuo un nucleo di riferimenti e appartenenze irriducibili a un'unica funzione sociale, sia pure quella del lavoratore salariato. Noi non siamo mai solamen te questo o quello, ma questo e quello, e molto altro ancora: operai o borghesi, sessuati, bianchi, neri o "extra" 27 , settentrionali o meridionali, cattolici oppure atei. Fra queste determinazioni, l'accento si sposta a seconda della situazione, del momento e del luogo. Eppure, la pluralità dell'uomo e la molteplicità dell'io non vanno confusi con un "uomo frammentario'' fatto di parti e di pezzi, né con un io disperso che "si divide,, 27 Rendiamo così il termine "beur" che significa cittadino francese di origine araba nordafricana [N.d.T.].

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per ottenere un maggiore "godimento,,. Un simile smembramento corporeo è infatti rivelatore di una disintegrazione dello spirito.

Corollario 4 Il dominio non è risolvibile nell'egemonia. La teoria delregemonia di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe è fondata sull'idea di un'universalità al tempo stesso necessaria e impossibile, che esisterebbe solo in quanto incarnata e sovvertita dal particolare. Inversamente, la particolarità può accedere alla politica solo producendo degli effetti universalizzanti. Dal momento che la coincidenza perfetta delruniversale e del particolare è impossibile, il rapporto egemonico cornporterebbe la produzione di significanti tendenzialmente vuoti, che mantengano l'incommensurabilità tra runiversale e il particolare, permettendo così al secondo di rappresentare il primo. Laclau e Mouffe si sforzano dunque di liberare il concetto di egemonia dalle determinazioni di classe per dargli il senso di un,articolazione contingente di elementi eterogenei. E nella modernità occidentale la politica sarebbe l'altro nome di questa ricerca d,egemonia. Lantagonismo sociale non è certo riducibile a due campi fondamentali: le appartenenze sono sempre più ambigue, molteplici e composite. Da questa osservazione, difficilmente contestabile, Laclau e Mouffe deducono con un colpo di forza ideologico che "il classismo,, rappresenta ormai un ostacolo all'articolazione egemonica di soggettività autonome differenti 28 • Il compito della sinistra si limiterebbe, perciò, ad 28 AJex Callinicos su Slavoj Zizek , in Historical Materialism, n. 5, gennaio 200 I.

"approfondire ed estendere l'ideologia liberale nel senso di una democratizzazione radicale e plurale". E tale miraggio di una dissoluzione pacifica del capitale nell'egemonia plurale riveste, nella politica delle socialdemocrazie europee, il senso precipuamente pratico di un liberalismo di sinistra, per quanto compatibili possano essere tali parole. Legemonia secondo Laclau appare così come il terreno sul quale si sviluppano rapporti di rappresentazione costitutivi dell'ordine sociale: "la rappresentazione dell'irrappresentabile" diventa la condizione stessa dell'emancipazione. Essa presuppone la non trasparenza del rappresentante rispetto al rappresentato, vale a dire "l'irriducibile autonomia del significante rispetto al signifìcato" 2". Con il pretesto di una teoria della rappresentazione, incontriamo qui un'apologia della delega. La rappresentazione di un'impossibile totalità a opera di una forza sociale particolare ha in effetti come esito quello di appoggiare la lotta per una democrazia senza connotazioni, campata per aria, e ridotta a un consenso negoziato ben al riparo dalla temibile "questione sociale".

29 Ernesto Ladau, op. cic., p.66.

Teorema 3

Il dominio imperiale . non è risolvibile nelle gratificazioni della globalizzazione mercantile

Se "il mondo si rimpicciolisce man mano che diventa più grande", diventa altresì più frammentario man mano che diventa globale. I.:imperialismo è la forma che riveste il dominio sotto r effetto dell' accumulazione del capitale e dello sviluppo diseguale. In due secoli esso ha attraversato tre grandi tappe: quella delle conquiste coloniali e delle occupazioni territoriali (con la formazione degli imperi coloniali francese e britannico); quella della fusione del capitale industriale e bancario, dell'esportazione dei capitali, del saccheggio delle materie prime, tipica dell'era del "capitale finanziario" secondo Hilferding o dello "stadio supremo del capitalismo" secondo Lenin; e, infine, a partire dalla seconda guerra mondiale, quella della dominazione bipolare del mondo, delle indipendenze formali e dello sviluppo dipendente 30 • E ora si sta nuovamente trasformando, senza tuttavia scomparire. La sequenza storica inaugurata dalla grande guerra e dalla Rivoluzione russa si è conclusa insieme al secolo. Una nuova fase del dominio imperiale, che riprende le logiche in atto prima del 1914, è infatti ali' ordine del giorno. E ciò avviene ormai in molti modi: per mezzo del dominio finanziario e monetario, che permette di controllare i meccanismi del credito e di sottomettere le economie agganciate al dollaro; per mezzo del dominio scientifico e tecnico, che è messo in opera attraver30 Cfr. Alex Callinicos, "lmperialism Today", in Marxism a11d the New lmperia/sm, Bookmarks, Londra 1994.

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so una sorta di monopolio sui brevetti; per mezzo del controllo delle risorse naturali e delle fonti energetiche; per mezzo del dominio delle vie commerciali; per mezzo della brevettazione del vivente; per mezzo del1' attuazione di un, egemonia culturale sorretta dalla diffusione delle tecnologie informatiche e dall, esportazione di modelli educativi; e, infine, per mezzo dello sfoggio di una supremazia militare, apertamente ostentata in occasione delle guerre del Golfo e dei Balcani 31 • A questo stadio della globalizzazione imperiale, la subordinazione diretta dei territori diventa secondaria rispetto al controllo dei mercati: rapporti nuovi di signoria sono infatti instaurati attraverso i dispositivi che disciplinano il debito del lèrzo Mondo, la dipendenza energetica, alimentare e sanitaria e i patti di alleanza militare. È poi messa in atto una nuova divisione internazionale del lavoro: alcuni paesi, che sembravano avviati con decisione sulla via dello sviluppo annunciato, ricadono così nella spirale del sottosviluppo. LArgentina ridiventa esportatrice di materie prime, la soia è ormai il suo primo prodotto d, esportazione. [Egitto, che si vantava della riconquistata sovranità, dei progressi nell'alfabetizzazione - forniva ingegneri e quadri ai paesi del Golfo e del Medio Oriente - e di un avvio di "industrializzazione industrializzante', come nell'Algeria di Boumediène, si trasforma in un paradiso per turisti: medici e insegnanti finiscono a fare i camerieri nelle crociere sul Nilo. Dopo le due crisi del debito (nel 1984 e nel 1994) e l'integrazione nel NAFTA, il falli31 Cfr. Gilberc Achcar, La No11velle gtm7e froide. Le montk après le Kosovo, PUf, Parigi 1999 ; Noam Chomsky. Le Nouvel H11manisme milita ire. Leçons du Kosovo, Page Deux, Losanna, 2000 [trad. ic. // nuovo umanitarismo militare. Lezioni dal Kosovo, Ascerios, Trieste 2000); Claude Serfati, "Le bras armé de la mondialisation". in les Temps Modernes, gennaio~fcbbraio 2000.

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mento del populismo burocratico in Messico è suggellato dalla vittoria elettorale di un partito liberale capeggiato da un ex amministratore delegato della Coca-Cola; e ora il paese sembra più che mai il cortile del "gigante nordamericano,,. Quanto all'Algeria, da oltre dieci anni va dibattendosi in conflitti a sfondo religioso e in una guerra civile strisciante.

Scolio 1 La trasformazione dei rapporti di dominio e di dipendenza si traduce in un mutamento della guerra stessa. Cosl non è più possibile parlare di guerra al singolare, bensì di guerre multiple, inestricabilmente connesse tra loro 32 • E mentre l'ingiunzione a "scegliere il campo,, fra Est e Ovest rispondeva a una logica binaria povera, le poste in gioco ingarbugliate di oggi impediscono qualunque approccio manicheo, in termini di buoni e cattivi. I conflitti recenti evidenziano tutta l'indigenza di una risposta che esprima il punto di vista unico di un dio onnisciente o di un,Internazionale concepita come sua incarnazione profana. Nel labirinto degli interessi e delle alleanze, la comprensione condivisa delle poste in gioco continua a essere - da una parte e dall'altra della barricata - la condizione imprescindibile di una politica internazionalista. Questa comprensione si traduce in orientamenti pratici differenti a seconda della situazione concreta di ogni protagonista. E così, nella guerra delle isole Falkland/Malvine, l'opposizione alla spedizione imperiale dell'Inghilterra tatcheriana non obbligava in alcun modo i democratici argentini a sostenere la fuga in 32 Cfr. Ernesr Mandd, The Meaning of rhc Second World \Var, Verso, Londra 1986.

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avanti dei dittatori militari. Nel conflitto tra Iran e Irak, un pacifismo rivoluzionario rifiutava di privilegiare uno dei due dispotismi rivali. E nella guerra del Golfo, l'opposizione internazionale ali' operazione "Tempesta del deserto" non comportava alcun sostegno al regime dittatoriale di Saddam Hussein. Analogamente, di fronte all'intervento della NATO nei Balcani, una visione globale della situazione spingeva a condannare i bombardamenti ovunque, a Parigi, a Londra, a Roma o a New York, senza rinunciare tuttavia a difendere i giovani disertori serbi e a sostenere la resistenza armata dei kosovari per il proprio diritto all' autodeterminazione. Lapproccio al conflitto si differenzia dunque a seconda del luogo e del momento: la cessazione dell'intervento prendeva il soprawento nei paesi della NATO; la difesa del diritto ali' autodeterminazione dei kosovari avrebbe dovuto costituire robiettivo prioritario di un'opposizione internazionalista in Serbia; e, infine, la difesa di uno stato multietnico e di garanzie collettive per i serbi del Kosovo avrebbe dovuto rappresentare un imperativo per i resistenti kosovari sostenitori del pluralismo democratico.

Scolio 2 Il nuovo discorso della guerra imperiale coniuga la retorica della "guerra giusta" con la mitologia di una guerra santa: il feticcio di un'Umanità con la maiuscola, per di più ventriloqua, sembrerebbe in tal modo sostituirsi al giorno del Giudizio e al senso della Storia. La crociata "etica" predicata da Tony Blair, BernardHenry Levy o Daniel Cohn-Bendit in occasione del1' intervento della NATO nei Balcani confonde la morale e il diritto, la ragione umanitaria e la ragion di stato.

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E contribuisce così al tramonto della politica, stretta fra l'ineluttabilità di un mercato-automa e gli "obblighi infiniti'' di un'etica a senso unico. Eppure, se "l'arma è l'anima dei combattenti", la nuova guerra tecnologica, dove il rischio non è più reciproco tanto la supremazia tecnica è schiacciante, dove la distinzione fra combattenti e civili si inabissa sotto i fulmini del castigo aereo, preannuncia la barbarie inaudita di una guerra assoluta.

Scolio 3 Attualizzare il concetto di imperialismo, non solo dal punto di vista dei rapporti di dominio economico, ma anche in quanto sistema globale (tecnologico, ecologico, militare, geostrategico, istituzionale, culturale), diventa un compito estremamente urgente allorché certe teste, normalmente ritenute attendibili, co~inciano a credere che tale concetto sia divenuto obsoleto con il crollo del suo "doppio" burocratico a Est. Mary Kaldor è stata, nei primi anni '80, un'attivista della campagna per il disarmo nucleare, contro "la politica di sterminio" e contro il dispiegamento dei missili Pershing in Europa. Ma, oggi, ritiene che "la distinzione tipica dell'era westfaliana33 tra pace interna 33 Con il cerminc di era o epoca wescfaliana si intende il periodo inauguraco dai rracrati di Vcstfalia, che posero fine alla guerra dei Trenr' anni nel 1648. Tale periodo è carancrizzaro da un sis1ema incernazionalc fondato sugli stati nazionali quale unico soggetto di diritto. Oggi esso sarebbe messo in crisi dalle mucazioni economiche legate alla globalizzazione, che annuncerebbe un passaggio verso i cosiddcui sistemi di rete, basati sull'egemonia delle grandi imprese multinazionali e di scrutturc istituzionali atipiche. Cfr. ad es. Bcrtrand Badie, la Fin des territoim. Essai sur k dlsordre internationai et sur l'utiiité sociak du respect, Fayard, Parigi 1995 [trad. ir. La fine dei terriwri. Saggio mi disordine internazionak e mll'utilità sociak dei rispetto, Asccrios, Trieste 1996] [N.d.T.].

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e guerra esterna, tra legge e ordine in patria e anarchia internazionale, abbia trovato la propria conclusione con la guerra fredda". Saremmo dunque entrati in un'era di "progresso costante verso un sistema legale globale,,. Senza alcun timore di incorrere in una contraddizione in termini, certi parlano ormai di "imperialismo etico", e Mary Kaldor addirittura di un "imperialismo benevolo". La campagna mediatica orchestrata in occasione della guerra dei Balcani ha generato un effetto di messa a fuoco della sofferenza, peraltro reale e intollerabile, dei kosovari, occultandone però la prospettiva storica e il contesto geostrategico. In nome dell'urgenza umanitaria, essa ha ridotto l'evento a un presente senza precedenti né conseguenze e il discorso bellico a un proclama etico depoliticizzato. La denegazione del rapporto di dominio imperiale permette in tal modo di modificare gli enunciati del conflitto e di ricentrare la visione del mondo intorno a un'opposizione teologica fra il Bene (l'Occidente, la democrazia, la civilizzazione) e il Male (il totalitarismo e i cosiddetti stati canaglia, rough States). Lintervento militare viene allora giustificato in anticipo come legittima difesa della civiltà minacciata e come spedizione punitiva contro i delinquenti o i terroristi internazionali: l'altro ieri il Panama, ieri il Golfo, oggi i Balcani; e domani, chissà, la Colombia?

Corollario 1 La sovranità democratica non è risolvibile nell' "Umanità" con la maiuscola. È esistito un tempo nel quale certi pretendevano di rappresentare la giustizia nel nome di una "Storia" con

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la maiuscola. E altri - a volte gli stessi - pretendono oggi di gestirla in nome di un' "Umanità,, con la maiuscola. Da dove proverrebbe loro il diritto di parlare e di giudicare in suo nome? Infatti l'umanità non è una sostanza della quale ci si possa appropriare, ma, al contrario, un divenire, una costruzione, un processo di umanizzazione. Essa si sviluppa attraverso il diritto, i costumi, le istituzioni, in un lento lavoro di unificazione delle diversità umane. Nell'attesa, l'invocazione di una legittimità umanitaria serve talora da paravento agli interessi della potenza imperiale. Così, Alain Madelin ha potuto proclamare che l'intervento della NATO nei Balcani "suonava il rintocco funebre per una certa concezione della politica, dello stato e del diritto,,: "Ormai, l'unico sovrano assoluto, è l'uomo.,, Ma quale uomo? Un uomo astratto, senza storia né appartenenze sociali? Un simile "diritto del più debole,, somiglia come una goccia d'acqua alla morale del più forte. Nel processo della globalizzazione diseguale esso giustifica allora l'ingerenza del forte sul debole e la soppressione unilaterale delle sovranità democratiche.

Corollario 2 Il diritto internazionale non è risolvibile nella "lezione" umanitaria. La funzione degli stati nazionali quale è andata istituendosi nel XIX secolo si sta esaurendo. La loro essenza si disperde verso l'alto, in uno spazio sovranazionale, e verso il basso, in una moltitudine di "paesi" e di regioni. I..:Europa ha visto apparire, negli ultimi anni, più di dieci nuovi stati formalmente sovrani e delinearsi più di quindicimila chilometri di nuove frontie-

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re. Ma il termine peggiorativo di "sovranismo" confonde il nazionalismo becero e il patriottismo sciovinista con l'aspirazione legittima a una sovranità democratica opposta all'ostilità di tutti contro tutti. Il diritto dei bosniaci, dei kosovari, dei ceceni o dei palestinesi all'autodeterminazione resta in effetti una rivendicazione di sovranità. Il diritto internazionale è tuttora destinato a procedere stabilmente su due binari e a congiungere due legittimità: quella, emergente, dei diritti universali dell'uomo e del cittadino - certe istituzioni come la Corte penale internazionale ne rappresentano le concrezioni parziali - e quella delle relazioni interstatuali, sulle quali sono basate istituzioni come l'Organizzazione mondiale delle nazioni unite. Senza per questo attribuire all'ONU virtù che non ha e senza dimenticare il suo bilancio fallimentare in Bosnia, Somalia e Ruanda, bisogna osservare che uno degli obiettivi dell'intervento militare nei Balcani era la trasformazione dell' architettura del nuovo ordine imperiale a vantaggio della NATO (le cui missioni sono state allargate proprio nella primavera del 1999, in occasione del vertice del cinquantenario), dell'Organizzazione mondiale del commercio e del ristretto club del G7. Tutto ciò, beninteso, sbandierando un'ostentata ricerca di risultati efficaci, contrapposta alla miseria budgetaria e all'impotenza militare delle Nazioni Unite. Modellata dai rapporti di forza generati dalla seconda guerra mondiale, l'ONU deve esser riformata e resa più democratica tenendo conto dei cambiamenti sopraggiunti nello scacchiere mondiale. Non più di quanto rantiparlamentarismo non impedisca di proporre rifor-

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me legislative democratiche, la critica delle istituzioni internazionali non vieta di richiedere un rafforzamento dei poteri dell'Assemblea, una riforma del consiglio di sicurezza e la soppressione del suo consiglio permanente. Non si tratta di attribuirle una legittimità legislativa, sempre illusoria, ma piuttosto di fare in modo che una rappresentanza della "comunità internazionale'', per quanto imperfetta, rifletta la diversità degli interessi e dei punti di vista, come ha ben mostrato la presa di posizione dei settantasette paesi subalterni contro un diritto d'ingerenza a senso unico. Allo stesso modo, è estremamente urgente una riflessione critica sulle istituzioni giudiziarie internazionali quali il tribunale dell'Aia, i tribunali penali ad hoc o la futura Corte penale internazionale.

Scolio 2.1 Philippe Corcuff mette saggiamente in guardia dal sottovalutare l'intervento umanitario, che finirebbe per sminuirne la dimensione politica e l'apporto dato ai nuovi movimenti sociali. Riducendo il mondo a un semplice calcolo utilitaristico, ciò significherebbe distruggere tutte le ambizioni umanistiche e universaliste di una politica di emancipazione sociale34 • Il discorso umanitario non è certo una maschera di comodo posta davanti alle potenze oppressive dominanti. Spesso vi si trovano inestricabilmente intrecciati il gioco degli interessi e la salvaguardia dei valori. Aiutando per principio la parte delle vittime, l'impegno dei e delle militanti umanitari va spesso a scontrarsi con i rapporti di dominazione in atto. Nel pro34 Cfr. gli articoli di Philippe Corcuff e Philippc Mesnard nella rivista Mouvements, n. 12, novembre-dicembre 2000.

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prio rapporto con il precario concetto di umanità, il discorso umanitario muove infatti da un'acquisizione profondamente politica, assumendo che tutti gli esseri umani siano tali allo stesso titolo. E solleva due problemi teorici e pratici di primo piano nel contesto della globalizzazione: quello della trasformazione del diritto internazionale e quello della solidarietà internazionale. Quale che sia la sincerità delle sue intenzioni, il discorso umanitario non può tuttavia esser dissociato dai suoi presupposti e dai suoi effetti. Una "politica della pietà" che assuma la sofferenza delle vittime quale unico fondamento e metro di riferimento finirebbe per sottrarle al campo concreto dei rapporti di potere e imprigionarle in uno status di oggetto compassionevole, invece di farne i soggetti della propria emancipazione. È ciò che mette in evidenza Rony Brauman quando indica, grazie a un'indiscussa esperienza, "la sostanziale difficoltà cui va incontro il discorso umanitario nelrindividuare le conseguenze ambigue della propria azione". Il movimento si è adagiato comodamente nello spazio già predisposto per lui. Tenendo a distanza il conflitto, il contesto, le poste in gioco del potere, questo discorso generoso si ferma così davanti alle soglie della politica. Ed è questo il limite, il confine invisibile, oltre il quale il "biglietto umanitario non è più valido" e a partire dal quale l'universale tanto invocato finisce per diventare un puro atto di fede 3s. Detto in altri termini, non è possibile eludere il rapporto che lega il discorso umanitario alla politica e alrideologia dominanti: se l'impegno umanitario non si riduce a una funzione di legittimazione, nemmeno le 35 Rony Brauman, intervisca in Philippe Mesnard, Comciences dt la Shoah. Kimé, Parigi 2000.

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sfugge del tutto. Quando i padroni del mondo parlano di guerra etica o di guerra umanitaria, sono il carattere e gli scopi di una tale guerra a essere camuffaci dietro la falsa apparenza dell'intervento compassionevole. E ne deriva un'insopportabile confusione tra la morale e il diritto, secondo la quale la conclamata purezza dei fini giustificherebbe i mezzi più abietti. Philippe Corcuff individua gravi lacune nella politica umanitaria. Le mancherebbero un rapporto con il tempo, il ricordo delle sconfitte e delle vittorie passate, la capacità di proiettarsi in un avvenire radicalmente altro. E sarebbe inoltre troppo insensibile alla dimensione "machiavellica'' della politica, troppo cieca dinanzi al fatto che i rapporti di forza possono sviare le migliori intenzioni in risultati catastrofici. Ed è proprio a questo punto che l'ideologia umanitaria, pretendendo di fare le veci della politica, diventa una politica senza politica, ossia un'impresa di depoliticizzazione.

Corollario 3 Il bene comune dell'umanità non è risolvibile nella privatizzazione del mondo. Si dice che ci siano "luoghi infestati dagli spiriti". Nel novembre 1999 Seatde è diventata uno di quei luoghi, simbolo di cambiamento nel clima dominante. Non che l'atmosfera fosse diventata improvvisamente scarlatta, ma, rispetto alla sinistra in doppiopetto degli anni di Bill Gates e di George Soros, aveva comunque ripreso un ceno colore. Come ulteriore conferma, lo stallo della Fondazione Sainc-Simon·i6 di Parigi e il fano che Bernard36 Creata nel 1985, la fondazione Sainr-Simon di Parigi ha come obiettivo qudlo di "sviluppare l'analisi del mondo comemporanco'' e annovera fra i suoi

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Henry Levy torni a interessarsi a Sartre piuttosto che ad Aron ne sono gli innegabili indizi. Percorrendo il mondo e disegnando al proprio passaggio una strana geopolitica delle resistenze, "lo spirito di Seatde" ha poi soffiato su Millau, su Praga, su Porto Alegre, su New York, su Bangkok, su Nizza e su Dakar. La sua dichiarazione di principio ha fatto il giro del pianeta: "Il mondo non è una mercd". E questa formula si spinge troppo in là, ben oltre la sua ieratica concisione, perché non sia presa sul serio. Il "mondo" non è una merce? Che cos'è, allora, il mondo? Dove comincia, e dove finisce? Se, insomma, non è una merce, come neppure lo è la conoscenza del mondo, né il vivente del mondo, né il diritto alla salute, all'istruzione, ali' abitazione e così via. Ecco che appare il valore pedagogico dell'ambigua controversia francese sull' "eccezione culturale", che insite sulla necessità di sottrarre al dispotismo del mercato alcune attività sociali e i loro prodotti. Gli indici di Borsa e l'ordine fatalistico della dimensione economica vanno esattamente in direzione opposta, ben oltre "l'appropriazione privata dei mezzi di produzione e di scambio", persino molto oltre la privatizzazione dei servizi e della previdenza sociale. La privatizzazione generalizzata del pianeta si estende infatti all'informazione, al diritto (il contratto privato comincia a prevalere sul diritto consuetudinario), alla solidarietà (le assicurazioni private e i fondi pensione contro le assicurazioni previdenziali e la previdenza sociale), alla violenza (esistono attualmente in dirigenti François Furec e Alain Mine. È nota come uno dei serbatoi di pensiero (think thank) conservacori inrernazionali, insieme al Manhaccan lnstitut di New York, all'Adam Smirh Institut di Londra e alla Dcutschc Bank-Stifcung di Francofone (cfr. Pierrc Bourdicu e Loie Wacquanr, "La nuova vulgata planeraria", in Le Monrk diplomatique, maggio 2000) [N.d.T.].

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Francia più sorveglianti e poliziotti privati che poliziotti "pubblici") e alle prigioni. Ma si spinge ancora oltre. La terra già era proprietà privata. Adesso è arrivato il turno della città, con i quartieri protetti e le città securitarie per i benestanti; del1' acqua, con i fruttiferi acquedotti di Vivendi e soci; del1' aria, con il proge~to di un mercato mondiale dei diritti d'inquinamento; del vivente, con la frenesia della corsa al brevetto e nella prospettiva ormai probabile di un mercato degli embrioni, dei cloni e dello sfruttamento privato del genoma umano. E questa contrazione dello spazio pubblico, ridotto a una pelle di zigrino, è gravida di pericoli per la democrazia, formale e no. E poi arrivato il tempo dei mercenari e delle mafie, delle diseguaglianze galoppanti e della criminalità informatica. A partire dalle crisi monetarie del 1998, le istituzioni internazionali cominciano a preoccuparsi di tale scenario, naturalmente meno per generosa filantropia che per sollecita attenzione ai propri interessi. Così, tra seminari e colloqui, il presidente della Banca mondiale James Wolfensohn si stupisce che la crescita finalmente ritrovata vada a riflettersi in più profonde diseguaglianze, in una mortalità infantile esplosiva e in fenomeni di analfabetismo di ritorno·P. "Non c'è assolutamente alcun motivo" afferma, "perché ogni giorno migliaia di bambini muoiano di malattie evitabili.'' Eppure, muoiono proprio per questo. "Non è normale" continua, "che milioni di abitanti dell'Asia, dell'America latina e dell'Africa siano esclusi dall'innovativo flusso di idee che trasformano il resto del mondo.,, Eppure, ne sono effettivamente esclusi. "Non 37 James Wolfensohn, "S'unir pour agir dans une économie mondiale", in Le Monde, 14 aprile 2000.

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c,è alcun motivo,, prosegue ancora, "perché lo sviluppo economico si traduca nella distruzione delr ambiente.,, Eppure, il pericolo ecologico aumenta di giorno in giorno. Nel migliore dei mondi mercantili possibili, le "anomalie', e le inconseguenze sono la regola. E le promesse reiterate in occasione degli incontri del G7 o del Fondo monetario internazionale restano senza effetti tangibili: gli impegni mai mantenuti dei vertici di Rio e di Kyoto sul controllo delreffetto serra ne sono la dimostrazione lampante.

Il Rapporto 2000 delle Nazioni unite sullo sviluppo umano mostra in maniera schiacciante che la crescita tanto sbandierata degli anni '90 non ha contribuito a ridurre le diseguaglianze fra paesi ricchi e paesi poveri, anzi, al contrario: "Il rapporto fra benessere econo1nico e sviluppo umano non è né automatico né evidente,,, constatano i relatori. Llndice di sviluppo umano non ha conosciuto un regresso così vistoso da nessun, altra parte come in Russia, dove il caotico ingresso nel mercato mondiale, ben lungi dal significare un accesso all'Eldorado dei consumi, si riflette in una vera e propria esplosione delle diseguaglianze. Del resto la crescita non si è tradotta in una riduzione della povertà e delle diseguaglianze neppure in seno agli stessi paesi ricchi. E mentre il 20% più ricco della popolazione consuma, in Francia o in Germania, fra le quattro e le cinque volte in più rispetto al 20% più povero, esso consuma fra le otto e le nove volte in più negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Infine, la crescita non è andata a vantaggio di una maggiore eguaglianza sociale fra i sessi: le donne rimangono, infatti, le grandi vittime della globalizzazione a livello mondiale.

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Nel luglio 2000 il vertice dei paesi ricchi di Okinawa ha riconosciuto "le inquietudini sollevate dalla globalizzazione,,, raggravarsi dei conflitti armati e la proliferazione delle crisi umanitarie, cercando di porre rimedio agli eccessi della deregolamentazione mercantile. Ha espresso cioè il desiderio di una globalizzazione ben temperata, di una concorrenza dal volto umano. Una pietà commovente, questa, visto che la globalizzazione imperiale si basa proprio sulla contraddizione fra la pretesa alruniversalità e gli interessi privati del capitale. E quest'antinomia non può essere superata che con un cambiamento di programmazione: inventando un mondo che non sia più una merce, opponendo al sacro diritto di proprietà il diritto profano all'esistenza, che Hegel chiamava anche "il diritto della necessità".

Scolio 3.1 Lesempio del sistema operativo Linux e dei programmi "liberi,, illustra bene la contraddizione inerente alla tendenziale socializzazione delle conoscenze: questi ultimi possono essere considerati come la traduzione in un dato linguaggio di programmazione di un ragionamento simile a un'argomentazione matematica. La loro conferma è fondata sulla libera circolazione delle informazioni tra i ricercatori, che permette di correggere eventuali errori. È allora possibile capire 'Tetica" professionale rivendicata da alcuni creatori di programmi liberi, che va ben oltre una sfida lanciata ai monopoli come Microsoft. Essa rivela infatti la crescente integrazione di attività intellettuale socializzata nella produzione e riproduzione sociale collettiva. Allo stesso modo, nella maggior parte delle ricerche mediche o scientifiche, la

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circolazione dell'informazione è una garanzia essenziale di affidabilità e di qualità. Invece, la brevettazione dei programmi informatici ha come esito il fatto che istituzioni pubbliche (di ricerca, di statistica o di formazione) non possono più pagare raccesso, divenuto esorbitante, a informazioni che hanno contribuito a produrre grazie a finanziamenti pubblici. L'esigenza della "libera circolazione delle idee e delle conoscenze" sembrerebbe così costituire un argomento paradossale per i cantori della libera circolazione liberale e della deregolamentazione estrema sostenuta dall'Organizzazione mondiale del commercio. Ma si dimentica qui la differenza capitale tra la "libera circolazione mercantile", pagata sempre a caro prezzo, e la "libera circolazione gratuita". Eppure, quello che ancor ieri poteva sembrare un'ingenua utopia, diventa ora una possibilità concreta. L'opposizione fra la logica di cooperazione e la logica commerciale, fatta di competizione selvaggia e di diffidente tutela del segreto, lascia intravedere certe possibilità incoraggianti. E il criterio che si è rivelato "efficace nella concezione e nello svi1uppo di programmi liberi, potrebbe esserlo altrettanto in ogni attività creativa''-~8 •

Scolio 3.2 La privatizzazione del mondo ha come rovescio della medaglia un aumento della "pubblicizzazione" della vita privata. Non solo quella degli uomini cosiddetti "pubblici", che esibiscono la propria immagine privata per bisogni di promozione mediatica, ma anche quella dei cittadini qualunque raggiunti nel loro spazio priva38 Robert Sihol, "Les logicids libres, une alcernacive à Microsoft?", in /11 Extenso, n. 1O, Digione 2000.

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to dai sondaggi telefonici, dalla telesorveglianza, dal controllo dei flussi di comunicazione o dai sistemi di osservazione militare. È il segno di un enorme sconvolgimento in atto nella grande linea di demarcazione tra pubblico e privato affermatasi a partire dalla Rivoluzione francese. Il voyeurismo mediatico e l'esibizionismo procedono appaiati: perciò l'intimità diventa una merce remunerabile e il pudore un ferrovecchio vittoriano. "Non c'è più nessuno che non desideri esser visto", fa notare Michel Surya, che brillantemente definisce tale desiderio come "desiderio di trasparizione [transparition]". La "visibilità,, è la parola d'ordine di una società fatta di lusinghe, spettacoli e apparenze 39 • Questo "commercio del visibile" istituisce, secondo Paul Virilio, un "mercato dello sguardo'' che va ben oltre una semplice funzione di réclame promozionale: "la legge bronzea" 40 della concorrenza impone di spiarsi a vicenda, di fare confronti, di copiarsi o addirittura di plagiarsi reciprocamente, in una versione cibernetica della guerra di tutti contro tutti. Sotto l'occhio pervasivo del ciclope elettronico, lo spionaggio informatico, la denuncia e la delazione generalizzata non sono mai molto lontane. Le multinazionali delle indagini private si lanciano alla conquista del mercato dell'investigazione. La sorveglianza globale si cela dietro l'esaltazione ipnotica della "trasparenza", come se l'inflazione della parola potes-

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39 Cfr. Miche! Surya, De la domination. capital la tramparmce et /es affeim, Farrago, Tours 1999. 40 Allusione alla "legge brom..ca dei salari", la legge economica, enunciata prima da Ricardo e poi da Lassalle, secondo cui in regime capi1alistico il salario dell'operaio si riduce al minimo vitale necessario alla sua riproduzione. [N.d.T.]

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se compensare la mancanza di una reale democrazia. "Limmediatezza nuda e la nudità senza resto,, hanno ormai un'identità, ironizza Michel Surya: "Quest'epoca vuole la trasparenza come altre volevano prima la rivoluzione." E la trasparenza è comunemente vista come una forma di opposizione al segreto della cultura, al segreto bancario, al segreto di stato e ali' opacità degli affari. In realtà, in suo nome viene avviata "la più grande operazione di giustificazione ideologica" del dominio. Ma, nonostante tutto, alla fine la democrazia avrebbe la meglio? "Nascondendosi dietro la copertura degli affari e di là dalle perorazioni che invitano alla trasparenza", il dominio del capitale opera piuttosto affinché siano "ridefinite le condizioni imprescrittibili della proprietà,,. Dietro la trasparenza diafana e la purezza celeste, riappare la sacra proprietà terrena. La controriforma religiosa si era preoccupata, un tempo, di sottrarre alla vista il sesso degli angeli. La controriforma liberale è oggi orgogliosa di metterlo in mostra. Nel 1968 una mano ispirata aveva scritto sui vetri delle finestre del campus di Nanterre: "La trasparenza non è trascendente". Una frase profetica.

Corollario 4 Lo scambio tra la specie umana e l'ambiente naturale è irriducibile alla misura miserevole dei mercati finanziari. Alla radice degli squilibri planetari troviamo I' opposizione fra una crescente socializzazione delle conoscenze, del lavoro e della culcura e la loro appropriazione privata: che si tratti di organizzare i rapporti sociali, gestire le risorse, distribuire le ricchezze o misu-

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rare gli scambi, il valore di mercato sta diventando sempre più irrazionale. Affermare che "il mondo non è una merce" equivale a dire che la concorrenza ha dei limiti, che i benefici attribuiti alla mano morta del mercato sono ben lungi dal compensare le colpe del suo pugno visibile, che il valore commerciale e monetario non è la misura di tutte le cose. E l'unica logica alternativa davvero possibile è quella del servizio pubblico e del bene comune, del diritto imprescrittibile al patrimonio comune dell'umanità che si tratti delle risorse naturali (l'acqua, la terra, l' aria), dei prodotti farmaceutici o delle conoscenze accumulate lungo il corso dei secoli e delle generazioni. I.:idea di un dominio pubblico dell'informazione, evocata a proposito del successo delle telecon1unicazioni elettroniche, o quella di un libero accesso dei paesi poveri ai medicinali, sono dunque solo i casi particolari di una questione "globale", che tocca più in generale la stessa globalizzazione capitalistica.

Teorema 4

Quali che siano

le parole per dirlo, lo spirito del comunismo è irriducibile alle sue contraffazioni burocratiche

Proprio come si sforza di ridurre l'imperialismo alla concorrenza leale della globalizzazione mercantile, la controriforma liberale vorrebbe ridurre il comunismo allo stalinismo. Il dispotismo burocratico sarebbe allora la conseguenza ineluttabile dell'avventura rivoluzionaria, e Stalin il discendente legittimo di Lenin e di Marx. Lo sviluppo storico e l'oscuro disastro dello stalinismo sarebbero già stati presenti in nuce nei concetti di dittatura del proletariato o di partito d' avanguardia: in questa nuova versione della genesi, il peccato originale e il verbo guidano il mondo. Tuttavia, una teoria sociale è solo un'interpretazione critica propria di un'epoca. Se è doveroso indagare sulle lacune e le debolezze che ne hanno causato l'impotenza di fronte alle prove storiche, non è invece possibile giudicarla secondo i criteri anacronistici di un'altra epoca. Le aporie della democrazia ereditate dalla Rivoluzione francese, l'impensato del pluralismo organizzato, la confusione fra popolo, partito e stato, la fusione per decreto della dimensione sociale e della dimensione politica e la cecità davanti al pericolo burocratico (considerato secondario rispetto al "pericolo principale" della restaurazione capitalista) finiranno dunque per favorire la controrivoluzione moderata nella Russia degli anni '30. E infatti, se intendiamo con Marx la controrivoluzione come "una reazione dello stato contro la societf', si trattò proprio di una formidabile controrivoluzione.

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Malgrado il mito fondatore della tabula rasa, questo processo combina in maniera inestricabile elementi di continuità e di discontinuità. Oggetto di infinite controversie, la difficoltà a datare con precisione il trionfo della reazione burocratica nell'Unione sovietica deriva soprattutto dall'asimmetria storica fra rivoluzione e controrivoluzione. La controrivoluzione non è, insomma, l'immagine rovesciata della rivoluzione, una specie di rivoluzione al contrario. Come diceva Joseph de Maistre - un vero e proprio esperto - a proposito di Termidoro, la controrivoluzione non è una rivoluzione in direzione contraria, bensì "il contrario di una rivoluzione". E le cosiddette rivoluzioni di velluto sono l' epilogo finale di sconfitte maturate già molto tempo . pnma. Trockij colloca l'inizio della reazione conservatrice alla morte di Lenin. Ma essa diventa veramente vittoriosa solo all'inizio degli anni '30, con la vittoria del nazismo in Germania, il processo di Mosca, le grandi purghe e il terribile anno 1937. Nelle Origini del totalitarismo Hannah Arendt adotta una cronologia simile, datando al 1933 o al 1934 l'avvento del totalitarismo burocratico propriamente detto. E alcuni lavori storiografici più recenti, come quelli di Mikha"il Guefter, basati sull'esperienza personale e l'apertura degli archivi sovietici, giungono a conclusioni analoghe. Nel libro Russia-URSS-Russia, lo storico Moshe Lewin 41 mette in luce la crescita esponenziale dell'apparato burocratico statale alla fine degli anni '20. La repressione dei movimenti popolari negli anni '30 non è la semplice prosecuzione di ciò che già prefìgurava41 Moshe Lewin, Russia-Um-Russia, the Drive and Drift ofa Superstate, New Prcss, New York 1994.

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no, all'inizio degli anni '20, le pratiche della Ceka42 o il campo di concentramento nelle isole Soloveck.ie. Essa segna piuttosto un cambiamento di scala, un salto qualitativo grazie al quale la burocrazia statale distruggerà e assimilerà il partito che aveva creduto di poterla controllare. La discontinuità testimoniata dalla controrivoluzione burocratica si rivela fondamentale da un triplice punto di vista. Per quanto riguarda il passato: la storia non è affatto il racconto insensato di un idiota, ma, al contrario, il risultato di fenomeni sociali, di conflitti d'interesse dall'esito incerto e di eventi decisivi nei quali entrano in gioco le masse e non solo i concetti. Per quanto riguarda il presente: gli effetti a catena della controrivoluzione staliniana hanno contaminato l'epoca nella sua globalità, e hanno pervertito in maniera durevole il movimento operaio internazionale: moltissin1e contraddizioni e impotenze del presente sono inintelligibili in mancanza di una vera comprensione dello stalinismo. E, infine, per quanto riguarda il futuro: le conseguenze di quella controrivoluzione, dove la minaccia burocratica assunse forme e proporzioni inaudite, peseranno ancora molto a lungo sulle spalle delle nuove generazioni. Come scrive Eric Hobsbawm, "non è possibile comprendere la storia del 'secolo breve ' senza la Rivoluzione russa e i suoi effetti, diretti e indiretti".

42 La polizia politica segreta del governo bolscevico, che fu auiva all'inizio della Rjvoluziont: russa e venne sciolca nel 1922 per essere sostituita dalla GPU. [N.d.T.]

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Corollario La democrazia socialista non è risolvibile nello statalismo burocratico. Dedurre la controrivoluzione staliniana dai vizi originali del "leninismo", concetto forgiato nel 1924 in occasione del V congresso dell'Internazionale comunista per legittimare la nuova ortodossia di stato, non solo è storicamente falso, ma anche politicamente mistificante. Basterebbe, insomma, aver capito e corretto gli errori e le deviazioni teoriche, per premunirsi dai "pericoli professionali del potere" e assicurarsi in tal modo una società democratica e trasparente. La lezione di quell'esperienza disastrosa obbliga a rinunciare alla risorsa magica dell'abbondanza, che renderebbe la società immune da scelte e decisioni dolorose: se i bisogni sociali sono storici, l'abbondanza è per forza di cose relativa. La difficile esperienza del secolo obbliga anche a rinunciare, con ciò, al mito di una trasparenza assoluta, fondata sull'omologazione di un popolo fondamentalmente buono (o di un proletariato finalmente emancipato) e sulla rapida abolizione dello stato. È necessario trarre tutte le conseguenze della "discordanza dei tempi": le scelte economiche, ecologiche, giuridiche, l'arte, le mentalità e i costumi, dipendono da temporalità differenti. Le contraddizioni di genere e di generazione non si risolvono allo stesso modo e allo stesso ritmo degli antagonismi di classe. I.:ipotesi del tramonto dello stato e del diritto in quanto sfere separate non può, insomma, significare la loro abolizione per decreto, se non si vuole correre il rischio di ritrovarsi con una società statalizzata invece che con un potere condiviso socialmente.

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La burocrazia non è la deplorevole conseguenza di un'idea sbagliata, bensì un fenomeno sociale. Essa ha assunto una forma peculiare nell'accumulazione originaria in Russia e in Cina, ma affonda le proprie radici nella gestione delle risorse scarse e nella divisione sociale del lavoro. È presente, in gradi diversi, a livello universale. Questo insegnamento storico induce ad approfondirne soprattutto le conseguenze programmatiche che toccano il pluralismo politico, l'indipendenza e l'autonomia dei movimenti sociali rispetto allo stato e ai partiti, il diritto e la separazione dei poteri4j . Nel vocabolario politico del XVII e del XIX secolo il termine di "dittatura" era riferito a un'istituzione virtuosa - lo stato d'eccezione temporaneo legalmente nominato dal senato romano - opposta alla "tirannia", che era il nome del potere arbitrario44. Ma è ormai troppo carico d'ambiguità, e associato a esperienze storiche troppo dolorose, per essere utilizzato ancora senza rischi di fraintendimento. Tuttavia, questa semplice osservazione non può impedire di sollevare ancora le questioni della democrazia rappresentativa, del rapporto fra il sociale e il politico, delle condizioni di declino del dominio, alle quali proprio la "dittatura del proletariato", nella forma "finalmente trovata" della Comune di Parigi, aveva preteso di fornire una risposta.

Scolio 1 Pensare lo stalinismo non con1e la conseguenza inevitabile della Rivoluzione d'ottobre, bensl come una 43 Si veda il documento intitolato La démocratie socialùte, adottato nel 1979 dall' XI congresso della IV Internazionale. 44 Cfr. Alessandro Galante Garrone, Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell'Ottocento (1828-1837), 2a cd., Einaudi, Torino 1972.

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controrivoluzione burocratica che attecchisce fra enormi contraddizioni sociali, permette di spogliare la storia della sua aura destinale. E oggi questo è tute' altro che un dato condiviso: controriformatori liberali e stalinisti pentiti concordano infatti nel vedere nella reazione staliniana lo sviluppo naturale e genetico della rivoluzione bolscevica. È anche la stessa conclusione cui arrivano i cosiddetti rinnovatori poststalinisti, quando pensano lo stalinismo come una "deviazione teorica" e non come la formidabile reazione sociale che esso e' stato. Roger Martelli vede nello stalinismo essenzialmente una metamorfosi della "forma partito". Non avendone colto il ruolo socialmente controrivoluzionario, egli colloca 'Tapogeo del comunismo" addirittura dopo il 1945. Nel libro Commencer par /es fins, Lucien Sève ritiene invece che la tappa "socialista", intesa come tappa preliminare alla società comunista, se ne allontani anziché avvicinarvisi nella doppia forma dello statalismo socialdemocratico e del dispotismo staliniano. Questa tesi potrebbe dar vita a un dibattito fecondo qualora fosse messa in relazione con le controversie storiche e strategiche del periodo tra le due guerre sulla "rivoluzione permanente" e il "socialismo nel paese unico", non solo a partire dagli scritti di Trockij, ma anche da quelli di Gramsci o di José Carlos Mariategui 4~. I.:accento posto su un "errore" teorico, slegato dai processi storici e sociali della burocratizzazione, suggerisce l'idea che sarebbe sufficiente correggerlo per scongiurare il pericolo burocratico. La spiegazione dello 45 Lucien Sève, Commencer par les fins, op. cic.

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stalinismo attraverso una "deviazione teorica,, finisce così per assomigliare alla ricerca di un peccato originale. E conduce non solo a una liquidazione del "leninismo", ma, in larga parte, anche a una rinuncia al marxismo critico, ovvero all'eredità dell'Illuminismo: dal "tutta colpa di Lenin" si fa presto a passare al "tutta colpa di Marx", quando non addirittura al "tutta colpa di Rousseau''! Se lo stalinismo fu soprattutto l'effetto di un' "incomprensione", come scrive Martelli, una migliore lucidità teorica dovrebbe essere sufficiente a evitarlo46 • Ma sembra davvero troppo facile. E, a proposito d'incomprensione, la povertà delle discussioni attuali rivela un denso strato d'ignoranza e d'oblio che va a ricoprire le grandi polemiche del passato. Che pure erano state arricchite dai contributi, fra gli altri, di Trockij, di Evgenij Preobrazenskij, di Anton Pannekoek, di R. Dunayevskaia, di Bruno Rizzi, di Burnham, Milovan Djilas, di Ernest Mandel, di Rudolf Bahro, di Tony Cliff, di Pierre Faville, di David Rousset, di Moshe Lewin; o, ancora, da quelli di Lukacs, di Henri Lefebvre e di Merleau-Ponty. Eppure c'è qui un'urgenza intellettuale, e una cultura storica, di tutt'altro livello rispetto ai balbettii contemporanei, che peraltro hanno a disposizione fonti incomparabilmente più . numerose e precise.

Scolio 2 La pubblicazione in Francia del Secolo breve di Eric Hobsbawm è stata salutata a sinistra come un'opera di pulizia intellettuale, in grado di fornire una replica alla 46 Roger Martelli, le commimisme autrement, op. cit.

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storiografia di Furet o all;1 criminalizzazione della storia secondo Stéphane Courtois. Quest'accoglienza venata di sollievo lascia però in ombra la parte problematica del libro. Hobsbawm non nega la responsabilità degli affossatori moderati, tuttavia la minimizza, archiviando gli eventi come qualcosa che sarebbe dovuto necessariamente accadere in virtù delle leggi obiettive della storia. Non vedendo cos'altro si sarebbe potuto fare, ne deduce perciò quello che gli appare come il paradosso di questo "strano secolo": "È un'ironia della storia che ... il risultato più duraturo della Rivoluzione d'ottobre, il cui obiettivo era il rovesciamento del capitalismo su scala planetaria, sia stato quello di salvare i propri nemici, sia nella guerra, con la vittoria militare sulle armate hitleriane, sia nella pace, procurando al capitalismo dopo la seconda guerra mondiale l'incentivo e la paura che lo portarono ad autoriformarsi" 47 • Come se si trattasse, insomma, di una conseguenza naturale della rivoluzione e non piuttosto del risultato contingente di immensi conflitti sociali e politici, dei quali la controrivoluzione staliniana rappresentò l'epilogo conclusivo. I..:oggettivazione della storia realmente esistente, a scapito delle sue possibilità scartate, porta così logicamente a ritenere che "già nel 1920 i bolscevichi commisero ciò che può essere considerato oggi un errore assai grave e cioè la divisione permanente del movimento socialista internazionale" 48 • Anche se le circostanze in cui furono adottate e applicate le "21 condi47 Eric J. Hobsbawm, Age of E-.:tremes. Thr Short Twemieth Cent11ry 19141991, Random Housc, Londra 1994 [trad. it. // secolo breve. 1914-1991: l'era dei grandi cataclismi, Rizzoli, Milano 1995, p. 20]. 48 ibidem, p. 88.

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zioni per l'adesione all'Internazionale comunista" richiedono un esame critico, non è possibile imputare la divisione del movimento operaio internazionale a un errore dottrinario, bensì allo choc fondatore della rivoluzione, che determinò una nuova demarcazione fra coloro che ne presero le difese, sia pur criticamente, come Rosa Luxemburg, e coloro che, per un verso o per l'altro; si unirono alla santa alleanza imperialista. Lo storicismo di Hobsbawm rientra in quell'atteggiamento che induce taluni a vagheggiare una nuova fondazione moderata della sinistra. Se il periodo fra le due guerre significa "una guerra civile ideologica su scala internazionale", quella guerra non vede opporsi le classi fondamentali, il capitale e la rivoluzione sociale, ma, al contrario, dei "valori": progresso e reazione, illuminismo e oscurantismo, antifascismo e fascismo. In una simile prospettiva, il bilancio critico della rivoluzione tedesca, della rivoluzione cinese del 1926-27, della guerra civile di Spagna e dei fronti popolari passa nel novero delle perdite e dei profitti. Invece di affrontare corpo a corpo la controrivoluzione burocratica, Hobsbawm si limita così a prendere atto che "quando finì di ricadere la polvere delle battaglie", ossia già dall'inizio degli anni '20, "l'antico impero russo ortodosso degli zar risorse essenzialmente intatto, ma sotto l'autorità dei bolscevichi". Eppure, secondo lui sarebbe solo nel 1956, con la repressione della rivoluzione d'Ungheria, che "si esaurì la tradizione della rivoluzione sociale" e che "la disintegrazione del movimento internazionale a essa votato" fornì la prova dello "spegnersi della rivoluzione mondiale", come un incendio che muore poco a poco nell'oscurità notturna. E, in fin dei conti, "il bolscevismo di Lenin avrebbe cambiato il

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mondo innanzitutto con la propria organizzazione". Da ciò ad attribuire la rivoluzione a una collaudata tecnica di colpo di stato, non ci vuole poi molto. Tale orazione funebre fa le veci di una critica seria della burocrazia, indicata, fra l'altro, come un semplice "inconveniente" dell'economia pianificata basata sulla proprietà sociale. Come se quella proprietà fosse, nella Russia burocratica, veramente sociale, e come se la burocrazia ne costituisse solo una deprecabile spesa accessoria, anziché una tremenda forza di oppressione e reazione! Nonostante le sue qualità, il lavoro di Hobsbawm va così a inscriversi nella prospettiva di una "storia degli storici" piuttosto che di una "storia critica" o strategica, che restituisca tutta la loro importanza alle grandi svolte evenemenziali. Pierre Naville ha ben sottolineato la portata di questo aspetto metodologico: "Gli awocati del fatto compiuto, chiunque siano, non mancano mai. Il fatto è che, paradossalmente, gli storici hanno la vista più corta degli uomini politici. Il marxismo attivo e militante predispone a un'ottica spesso opposta a quella dello storico." Affermando che la politica deve ormai "prevalere sulla storià', Walter Benjamin va nella stessa direzione. Gli storici, che considerano naturale l'evento rivoluzionario finché il movimento sta avanzando, sono spesso i primi a ostacolarlo quando le cose si complicano e diventa indispensabile andare controcorrente. E, in quel momento, hanno grandi difficoltà a comprendere l'imperativo politico di "passare a contrappelo la storià'49 • "Ciò fornisce alla storia" conclude Naville, "la possi49 Walter Benjamin, Ueber dm Begriffder Geschichte, in Schriften, Suhrkamp, Francoforte 1955 [trad. ic. Tesi sulla filosofia tk/Ja storia, in Angel11s Novw. Sat,gi e frammenti, Einaudi, Torino 1962, p. 79, e Tesi sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997].

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bilità di sfoggiare la propria saggezza retrospettiva enumerando e classificando i fatti, le omissioni e le manchevolezze. Ma, sfortunatamente, tali storici si guardano bene dall'indicare la giusta via che avrebbe consentito di guidare un moderato verso la vittoria rivoluzionaria, oppure, al contrario, di indicare una politica rivoluzionaria ragionevole e vittoriosa in un periodo conservatore. "

Scolio 3 È perciò necessaria una discussione approfondita tanto della nozione di totalitarismo in generale (e dei suoi rapporti con l'epoca dell'imperialismo moderno), quanto di "totalitarismo burocratico" in particolare. Colpisce l'uso frequente che di tale categoria fa Trockij, il quale ne coglie lo spirito in modo esemplare quando nello Stalin esclama: "La società, sono io!" Tuttavia egli non chiarisce né lo statuto di un concetto che può tornare utile per pensare alcune tendenze contemporanee (le classi fran turnate e disperse in masse, l' etnicizzazione e il tendenziale declino della politica) studiate da Hannah Arendt nella trilogia Le origi.ni del totalitarisma50, né la forma particolare che queste assumono nel caso particolare del totalitarismo burocratico. Un chiarimento del genere può evitare che un uso improprio e fin troppo elastico del termine serva a fare dell'opposizione fra democrazia pura e totalitarismo indeterminato l'unica linea di demarcazione legittima del nostro tempo. 50 Hannah Arendt, The Origim of Totalitarism, Harcourr, Brace and World, New York 1950 [trad. it. Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1996].

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Scolio 4 I tentativi di spiegazione dello stalinismo (attraverso la tesi del "capitalismo di stato", da Mattick a Tony Cliff; attraverso quella della "nuova classe dominante'', da Rizzi a Burnhan1 e a Castoriadis, o, infine, attraverso quella dello ((stato operaio degenerato", da Trockij a Mandel) hanno avuto conseguenze pratiche divergenti. Sono, però, tutti compatibili con l'idea di una controrivoluzione burocratica. E insistere su questa caratterizzazione non significa affatto liquidare il dibattito sul bilancio delle rivoluzioni del secolo appena trascorso, ma, al contrario, riprenderlo alla luce di una migliore prospettiva critica51 • Quando si sostiene che la lotta contro la nomenklatura al potere richiedeva una nuova rivoluzione sociale, e non soltanto una rivoluzione politica, non si tratta di una semplice modifica terminologica. Secondo la tesi di Trockij, sviluppata da Mandel, la principale contraddizione della società di transizione era quella tra la forma collettiva delreconomia pianificata e le norme distributive borghesi, all'origine dei privilegi e del parassitismo burocratico. La "rivoluzione politica" sarebbe allora consistita nell'adeguare la sovrastruttura politica all'infrastruttura sociale acquisita. Ma ciò significa dimenticare che "nelle società postcapitalistiche lo stato è parte interessata dell'infrastruttura, nel senso che esso svolge un ruolo determinante nella strutturazione dei rapponi di produzione; è da questo punto di vista che, al di là della comune forma salariale, la burocrazia, gruppo sociale statuale, può venire a trovarsi in rapporti di sfruttamento con i produttori direttt 52 • 51 Cfr. i contributi di Catherinc Samary, Michcl Lequenne e Amoine Arrous in Critique comuniste, n. 157, inverno 2000. 52 Antoine Arcous, op. cit.

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Losservazione è pertinente, anche se sarebbe meglio evitare di etichettare tali società con un allusivo "post,,, come se venissero cronologicamente "dopo" il capitalismo, mentre sono a esso contemporanee e conunuano a essere determinate dalle contraddizioni dell' accumulazione capitalistica a livello mondiale.

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La dialettica della • ragione è irriducibile allo specchio infranto del la postmodern ità

Il discorso filosofico della modernità, dice Habermas, era "permeato del presentimento che qualcosa sarebbe accaduto,,. Si cercava un senso nella storia universale: quello del cammino della ragione e del progresso illimitato. La grande disillusione del 1848 ha intaccato quella gioiosa fiducia nell'avvenire: critici della modernità, Baudelaire e Nietzsche sono anche i precursori della modernità. Orfana della propria dimensione sacra, l'arte cerca allora nuove funzioni pedagogiche e critiche. E diventa così il fine 4i se stessa: l'artista appare come l'antitesi del lavoratore asservito e la sua opera, sfidando il tempo, come l'antitesi della merce corruttibile. Privilegiando una periodizzazione estetica, i concetti di modernità e di postmodernità non rappresentano due sequenze cronologiche, ma, al contrario, due tendenze inerenti alla logica del valore che si autovalorizza: centralizzazione e frammentazione, cristallizzazione e dissoluzione, delocalizzazione e territorializzazione, risparmio prolungato e sperpero effimero, unità e dispersione, universalità e singolarità, ragione e sragione. Le due tendenze sembrano di volta in volta prendere il sopravvento in funzione di variazioni congiunturali: la postmodernità prevale nei momenti di malessere e di depressione, quando scocca l'ora dell' eclettismo e della rassegnazione. E come un contrappunto oggi accompagna la controriforma liberale, la derego-

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lamentazione mercantile e l'accumulazione flessibile. Tendenza storica o invece fenomeno transitorio? Già nel Manifesto del partito comunista Marx ha colto nella sua origine questo doppio movimento: "Tutto ciò che vi era di stabile e solido se ne va in fumo. Tutto ciò che vi era di sacro viene profanato.,, Massime della modernità, come sostiene Marshall Berman? O invece temi caratteristici della postmodernità, come afferma David Harvey53 ? Le due cose insieme, dal momento che la modernità è essenzialmente ambivalente. Baudelaire ne scorge lo spirito proprio nella stretta dell'eterno e dell'effimero: "La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell'arte, di cui l'altra metà è l'eterno e l'immutabile.,, Nietzsche segnala la singolarità autodistruttiva delr epoca: "Questo mondo, un mostro d'energia senza inizio né fine, circondato dal nulla come frontiera; un mare di forre che s'inseguono e si scontrano, che eternamente mutano ed eternamente ricominciano ... Il mondo dionisiaco, che perpetuamente si autogenera e si autodistrugge, questo mondo misterioso al di là del bene e del male, senz'altro scopo che la gioia delt> eterno ritorno che ha se stesso come scopo." In quella Lettera di Lord Chandos che è un manifesto della dissoluzione della parola e del racconto, della dispersione, del movimento incessante e della disseminazione di ogni cosa, Hofmannsthal evoca un mondo che "scappa via da tutte le parti": "Questa è in breve la mia situazione: ho completamente perduto la facoltà di pensare o di parlare in modo coerente su un S3 Marshall Berman, Al/ That is So/id Melts bzto the Air. The Experience of Modemity. Sìmon and Schuster, New York 1982 (trad. it. L'esperienza della modernità, Il Mulino, Bologna, 1999]; David Harvey, The Còndition of Posrmotkrnity, Blackwdl, Oxford I 989 [trad. it. la crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano 2002).

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argomento qualunque. Tutto per me si disgrega in parti, le parti in altre parti e nulla si lascia più cogliere da un concetto,,. Tutti moderni, dunque? O invece postmoderni? Il "discorso filosofico della modernità" si presentava come una retorica della chiarezza, come una logica del terzo escluso, vale a dire dell'incompatibilità dei contrari, dell'ostilità verso l'incrocio, l'ibrido, il meticcio, il composito, l'impuro o il bizzarro, e di avversione per il "vischioso" (Sartre) o "l'abietto" (Kristeva). Esso ha condotto una guerra senza quartiere contro l'ambiguo e l'indecidibile. Al contrario, il gusto postmoderno dell'ambivalenza e dell'incompiutezza è legato a un dubbio ben poco metodico e a un relativismo scettico ben più senile che critico. La postmodernità appare allora come una protesta ricorrente contro la modernità, contro la matematizzazione dello spazio e del tempo, contro il dispotismo della carta geografica e del cronometro, contro gli effetti dell'urbanizzazione di massa e del lavoro asservito. Esprime una rivolta contro la fede secolarizzata nel progresso e nel senso della storia. E pretende di offrire una rivincita contro le leggi inflessibili della ragione, così sovente associate al potere dello stato e alle illusioni del progresso. La "bassa modernità,, (quella del "tardo capitalismo,,, secondo la formula che Fredric Jameson trae da Ernest Mandel) va incontro, come il basso medioevo, alla dissoluzione delle regole e allo sregolamento della misura. Sotto lo choc della mercificazione generalizzata essa riflette un processo di confusione e dedifferenziazione. Si assiste in tal modo alla celebrazione del miscuglio, dell'in-

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crocio e della trasversalità, mentre avanzano sullo sfondo i fantasmi purificatori. Non c'è più il popolo, ma "gente,, senza qualità. Non ci sono più classi, ma famiglie, gruppi e mafie. Non ci sono più progetti, manifesti e avanguardie, ma frammenti e aforismi. Artistiche o politiche, le avanguardie sono invecchiate e ridotte attraverso un'ironica inversione di senso a proteggere la retroguardia di una civiltà minacciata. La politica passa direttamente dall'arcobaleno alla tinta unita. E la cultura del consenso prevale su quella del conflitto. Il postmoderno, riassume Perry Anderson, "è quel che arriva quando il nemico [di classe] sembra essersi ritirato senza aver subito sconfitte''. Questo discorso deprimente non lascia molta speranza di rovesciare l'ordine del capitalismo e la sua "violenza capitalizzatà'. Esso accenrua unilateralmente l'una o l'altra tendenza del feticismo mercantile, ma, in realtà, non traduce una presunta fatalità tecnologica della rivoluzione informatica, quanto l'intreccio di tale rivoluzione tecnica con le sconfitte politiche subite da vent'anni. Intimamente legata alla "critica sociale,, delle ingiustizie e delle diseguaglianze negli anni '60 e '70, la "critica alternativà' (o "comunitarià') dell'alienazione finisce così per distaccarsene sotto i colpi delle disillusioni, foriere di cooptazioni sociali e carriere raccomandate54. Il linguaggio del commercio e del consumo stravince, la moda fa le veci del nuovo. E con il pretesto di farla finalmente finita con il calcolo egoistico e la ragione strumentale, è l'ora del simulacro e della finzione: ci si invita ormai senza scrupoli e senza vergogna alla danza 1nacabra del capitale e al ballo infernale delle merci. 54 Cfr. Luc Bolcanski e t.vc Chiapello, Le nouvel esprit du capicalisme, Seuil, Parigi 1999; Michd Surya, Pomaic dc l'intcllcctucl cn animai de compagnie, Farrago, Parigi 2000.

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Eppure, il reincanto postmoderno e la sua mitologia non costituiscono un antidoto contro le sragioni del moderno: il rifiuto dell'argomentazione razionale, la dissoluzione della totalità nelle parti, il disprezzo dell'universalità a favore delle origini, delle radici e delle appartenenze e l' estetizzazione depoliticizzante della politica presiedono infatti a questo nuovo, scellerato connubio di arte e tecnica. Come i due volti di un Giano bifronte, modernità e postmodernità costituiscono dunque i due poli magnetici dell'accumulazione capitalistica. Lopposizione fra modernismo e postmoderno si dissolve per "lasciar spazio ali' analisi dei rapporti interni prodotti dal capitale nel suo complesso,, 55 • Va così delineandosi il buon uso possibile della critica postmoderna. Questa spinge a trattare la differenza e l'alterità altrimenti che come appendici accessorie della critica dell'economia politica. Contribuisce a riconoscere tutta l'importanza del ruolo della produzione simbolica nella riproduzione sociale. Invita a esaminare le condizioni spaziali e temporali della democrazia politica. Riabilita il ruolo decisivo della "produzione dello spazio". E mette in atto un materialismo geostorico che va a confrontarsi con la ricomposizione dei territori e la circolazione accelerata del capitale, con la nevrotizzazione della vita quotidiana e il sentimento malato della fuga del tempo. Eppure, malgrado la sua pertinenza, questa critica non sarà mai in grado di fare piazza pulita dell'illuminismo della modernità, del suo orizzonte di universalità e della sua ambizione di verità. 55 David Harvey, op. cit.

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Scolio 1 Secondo la formula canonica di Baudelaire, la modernità si caratterizza come ciò che è effimero e fuggitivo, come il transitorio in opposizione all'ideale di bellezza eterna. La postmodernità appare allora semplicemente come una modernità accentuata, come una sorta di modernità al quadrato. Da ciò derivano la mancanza di consenso intorno alla sua definizione e quelle difficoltà di periodizzazione che fanno persino dubitare della sua esistenza: l'elasticità del concetto è . . pagata con una scoraggiante 1mprec1s1one. Più in generale, il termine di postmodernità evoca semplicemente la condizione umana successiva alla perdita di fiducia nelle grandi promesse del futuro. Per Zygmunt Bauman è la morte del comunismo, in quanto avventura esemplare della modernità, a porre fine al brutto sogno del progresso e a spegnere definitivamente i Lumi. Altri ritengono invece che se la postmodernità coesiste con la modernità, allora la querelle di cui essa è oggetto sottolinea un nuovo rapporto di continuità-discontinuità nella riproduzione dell'ordine esistente56 • La modernità indicherebbe così una configurazione sociale, politica e culturale ordinata in vista di una ricerca sistematica del profitto, dello sviluppo scientifico, dello stato nazionale moderno e della grande promessa di un progresso perpetuo. E l'intellettuale "legislatore'' ne sarebbe, secondo Bauman, il sacerdote secolare, colui che en un eia la legge e veglia a che sia rispettata. Inversamente, la postmodernità tradurrebbe l'indebolimento e il declino degli stati nazionali, l'abbando56 Si veda Fredric Jamcson, op. cit. e The Cultura/ Turn, Verso, Londra 1998; Perry Andcrson, The Origins of Postmotkmiry, Verso, Londra 1998; Alex Callinicos, Again.st Postmodernity, Polity Press, Cambridge 1989.

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no dei compromessi keynesiani e delle forme rigide d'economia, il montare dell'incertezza e dell'insicurezza. E da legislatori, gli intellettuali delusi diverrebbero qui semplici commentatori e interpreti di segni.

Coroll~io 1 La totalità è irriducibile ai suoi frammenti sparsi. Il discorso filosofico ~ella postmodernità appare come un'impresa metodica di depoliticizzazione del sociale e di estetizzazione della politica. Lo spazio pubblico va declinando sotto lo choc della compressione spazio-temporale legata all'accumulazione del capitale globale. Le solidarietà si dileguano nella decomposizione dell' "io multiplo" e nelle soggettività disperse di una socializzazione ridotta in frantumi. La personalizzazione in serie del consumatore di massa risponde alla diversità delle strutture di dominio e dei campi di potere cui egli è ormai asservito: appartenenze di classe, di genere, di sesso, etniche o nazionali. E nessuna contraddizione, essenziale o trasversale, sembra più in grado di raccoglierle e unificarle. Ma un "grande racconto" sopravvive, nonostante tutto, alla fine proclamata del Soggetto con la maiuscola e della sua epopea. È il racconto del Capitale ventriloquo, soggetto tirannico impersonale sulla scena desolata del mondo. Gli individui ne sono, a loro insaputa e loro malgrado, gli organi e i membri. Lideologia dominante si perpetua così sin dentro la fine annunciata delle ideologie. Senza un orizzonte d'attesa e un filo conduttore che ne guidi le idee, I' "io puntuale" fluttua insieme al fluire degli istanti. La pluralità della dimensione sociale

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finisce così per raddoppiarsi nella molteplicità interiore degli "Io" contraddittori che si sovrappongono nevroticamente in ognuno e in ognuna. "Eh va bene, sia pure! Mi contraddico ... c'è molto spazio in me ... lo racchiudo una pluralità ... ,,, diceva infatti Walt Whitman. Ma questa congiura degli ego non permette affatto di riconciliare il rivendicato rispetto delle identità oppresse con il proclamato ideale di uguaglianza. Una società "multiculturale" sembra richiedere perlomeno una nozione ampiamente condivisa di pluralità e tolleranza, cosa tutt'altro che acquisita. Appare così il pericolo di un rifiuto dogmatico della totalità e del suo decomporsi, come scriveva Hofmannsthal, in "parti di parti" prive di una coerenza globale, ridotte a membra sparse e a sterili antinomie. Luscita postmoderna dalla totalità [dé-totalisation] presuppone paradossalmente la mediazione di una totalità articolata e in tÙtima istanza la sua determinazione. In mancanza di ciò, l'insalata letteraria e il brodo di coltura mercantili non potrebbero nemmeno dar luogo a un vero pensiero. Per Hegel, al contrario, l'uno è sempre l'altro dell'uno, nel divenire di una totalità in movimento 57 • La logica intima del Capitale non è ceno quella di una totalità sostanziale, bensì quella di una totalità relazionale, da organismo vivente o da sistema cibernetico, e non da meccanica a senso unico. Come nel celebre test della teoria della Gestalt, la totalità può essere percepita sia come un'anatra, sia come un coniglio. Essa conferisce senso alla loro unità: anatra e coniglio! Ma, per scorgere il coniglio, è necessario cominciare a liberarsi dalla falsa evidenza unilaterale dell'anatra. 57 Martin Jay ha ripercorso in Marxism and Totality. The Advent11res of a Concept from Lukacs to Habermas, Polity Press, Cambridge 1984, le vicende di questo concetto di totalità e le sue trasformazioni storiche.

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Leterogeneità presuppone 1, omogeneità. Laltro, lo stesso. La misura relativa, la misura assoluta 58 • E la parte, il tutto. Affinché punti di vista differenti facciano senso simultaneamente, si è costretti ad ammettere uno sfondo comune. Per Lukacs, la parte non ha senso che come passaggio e come momento di totalizzazione, dato che la totalità non dogmatica non è Essere o Essenza, bensì divenire. La "categoria decisiva,, di totalità concreta si oppone dunque alla logica di atomizzazione e di frammentazione propria della riproduzione del capitale. Essa si oppone alla totalità astratta, alla "falsa totalità,, che grava su tutto l'insieme dei rapporti sociali e che obbliga a pensare, volenti o nolenti, alle condizioni imposte dal capitale. Mentre l'ideologia dominante è quella dell,immediatezza e delle apparenze, la critica combatte 1, evidenza ingannevole dei fatti irrelati e il falso concreto dei dati immediati della coscienza: "La categoria diventa dialettica solo nel contesto della totalità. ,, 59 Così, per esempio, la "totalità articolata a dominante sovradeterminata,,, invocata da Alchusser, tiene conto del ruolo delle mediazioni e della discordanza dei tempi. Ed è pensabile solo attraverso il suo sviluppo storico. Manifestazione di una "causa assente", è più vicina al "dio nascosto,, di Pascal che alla "totalità espressiva" hegeliana, nella quale ogni parte sarebbe l' emanazione e una sorta di ologramma del tutto. La totalizzazione dialettica presuppone l'impossibi-

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La misura assoluta, in passato chiamata .. metrctica", corrisponde all'idea stessa di misura sulla quale si basa appunto la possibilità di una misura adeguata alla cosa. 59 G. Lukacs, Tailism a11d Dialectic, op. cit., p. 113. Già Damascio ritiene che il primo atto di pensiero consista nel "porre il tutto". Ma, aggiunge, la negazione del tutto è la condizione stessa dell'affermazione del tutto.

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lità per dei soggetti singolari di avere accesso a una simile posizione di controllo dall'alto. In un contesto in cui l'ebbrezza dell'istante si oppone all'intelligibilità storica, in cui i concetti universalizzanti sono indeboliti, il concetto di totalità diventa sospetto di derive totalitarie. Ma il fatto di considerare "modestamente" il capitalismo come un insieme incoerente, come un semplice collage di poteri giustapposti e non come un tutto governato da una logica immanente, permette di conciliare le resistenze parziali e specifiche con la complessiva subordinazione alla tirannia del sistema. Per Fredric Jameson, la teoria di Marx risponde a un "imperativo di totalizzazione". La "guerra alla totalità" esprimerebbe, in compenso, un timore diffuso nei confronti di qualunque progetto radicale di rivoluzione sociale. Dissipato questo malinteso, l'effettiva questione posta da una visione che si fa carico della totalità è, in definitiva, quella che riguarda le sue condizioni storiche di possibilità.

Scolio I.I Nel Politico di Platone lo straniero di Elea obietta all'argomento della divisione fra Greci e non-Greci che le gru dividerebbero gli esseri viventi in gru e non-gru. Il tutto ordina la logica della differenziazione e della contraddizione: le classi, i gruppi, i generi non sono sostanze autonome, esteriori e indifferenti le une alle altre, le quali entrerebbero in opposizione solo in un secondo tempo, bensì i poli conflittuali di un rapporto interno alla totalità. E nella formazione sociale contemporanea, tale rapporto non è altro che il Capitale stesso.

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Scolio 1.2 Non ci si sbarazza facilmente della totalità. Pierre Bourdieu parla di totalizzazione ipotetica o condizionale. Henri Lefebvre, di "totalizzazione aperta,,. Sartre, di "totalità detotalizzata,,: "C'è lotta solo se il Tutto non è mai l'unità sintetica totale e se il particolare non si isola completamente" 60 • Se la totalità astratta ha qualcosa di totalitario, la totalizzazione concreta, aperta alla propria negazione, si oppone alla tirannia del1' assoluto. In una polemica con Lukacs, Adorno rifiuta a giusto titolo il miraggio di una totalità pacificata e armoniosa, di una visione del mondo unificato in un sistema non problematico di valori estetici e morali. E le oppone il lavoro del negativo, del particolare che riassume e rifrange il tutto. Eppure la totalità non scompare. Anzi, rinasce incessantemente dalle proprie parti. Allo stesso modo in cui l'universalizzazione presuppone l'universalizzabile e l'unificazione l'unificabile, questa totalità relazionale, o questo processo di totalizzazione agli antipodi di una totalità dispotica, già data in anticipo, presuppone a sua volta il totalizzabile: vale a dire una totalità, un universale e un'unità allo stato di possibili in divenire.

Scolio 1.3 La liquidazione postmoderna della totalità appare come un rifiuto dogmatico delle strutture e dei sistemi. Essa va contro le ricerche svolte nelle scienze naturali (biologia e chimica organica) o sociali (che si tratti per 60 Jean-Paul Sartre, Cahiers pour une morak, Gallimard, Parigi 1983, p.92 [trad. it. Q11aderni per una morale: 1947-1948, Edizioni Associate, Roma

1991. p. 87].

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esempio di teorie dell'informazione o del concetto di ecosistema, centrale per lo sviluppo di un'ecologia critica). A partire dalla linguistica saussuriana o dalla Teoria generale dei sistemi di Bertalanffy, le nozioni di causalità strutturale o sistemica, di autoregolazione e di omeostasi hanno conosciuto applicazioni sempre più estese. Queste non dipendono né da una logica meccanica né da semplici combinazioni chimiche, ma, al contrario, da una logica organica della totalità. Senza il sistema della lingua, la parola risulterebbe insensata. Senza la coerenza di un modo di produzione, i rapporti sociali si ridurrebbero a un aggregato incomprensibile. Invece di ripudiare la logica dialettica della totalizzazione, sarebbe dunque meglio cominciare a chiarire il modo d'articolazione fra il tutto e le parti. "Determinazione in ultima istanza", efficacia propria di una causa assente? "Eppure, dice Bourdieu, non possiamo fare a meno d'interrogarci sulla società globale". Il rapporto fra i diversi campi della pratica sociale prende in lui la forma dell' "omologia". La questione, però, rimane: cos'è che fonda l'isomorfismo in quei campi? E svolgono tutti un ruolo equivalente? All'interno di una formazione sociale storicamente determinata, alcuni rapporti (di sesso e di classe) assumono forse un'importanza particolare, che si ripercuote sulle altre sfere della vita sociale senza abolirne tuttavia la relativa autonomia? Così, il capitale non riduce il dominio fra i sessi a rapporti di classe, ma ne trasforma le modalità cambiando la funzione della famiglia. Esso non esaurisce la questione dei rapporti fra società e natura, ma la pone in maniera specifica, nel quadro della misura mercantile del mondo. E, infine, non sopprime le oppressioni naziona-

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li, ma le ridistribuisce secondo la legge dello sviluppo ineguale e articolato.

Scolio 1.4 Jean-François Lyotard ha definito la postmodernità come "l'incredulità verso i grandi racconti''. E la formula comprende tanto il rifiuto del funzionalismo a vantaggio della fusione degli stili e dei generi, quanto le tendenze filosofiche poststrutturaliste anglosassoni o il "nuovo spirito del capitalismo". Essa rivela insomma "un sentimento della fine", delineando una rottura apocalittica con il discorso dei Lumi e l'epopea del Progresso. Il presente non trae più la propria giustificazione dal futuro. La verità si discioglie come neve al sole, la realtà diventa virtuale. È il momento della flessibilità e dell'incostanza, dei mostri amorfi e dei pen. . saton contors1on1st1. Questa "condizione postmoderna" finisce per creare con facilità nostalgici pastiche di un passato storico mitizzato. Perciò non stupisce, in tali condizioni, che il reincanto del mondo proceda congiuntamente al ritorno del religioso, a un millenarismo da quattro soldi e alla "spiritualità totalitaria" della New Age. Ormai non si è più ciò che si fa, ma ciò che si compera. E così il pellegrino diventa un turista e un consumatore di esotismo climatizzato, il nuovo ricco un trafficante di indulgenze di Borsa. Il modernismo voleva essere un'estetica dell' autocoscienza. Esprimeva un sentimento forte del tempo e della storicità, celebrava il culto della novità permanente. E le avanguardie ne erano le teste pensanti. Per Zygmunt Bauman, la modernità univa in tal modo il

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sentimento del cambiamento permanente, l'avvento dello Stato nazionale, la consacrazione del potere scientifico, la lotta profana per il progresso terreno e la razionalizzazione di un capitalismo controllato. Al contrario, la condizione postmoderna giunge quando si è smesso di credere alle grandi promesse. E quest'implosione degli orizzonti d'attesa rimanderebbe al declino degli stati nazionali, ali' abbandono delle regolazioni keynesiane e al tramonto dell'imperialismo europeo. Ne deriverebbe un diffuso senso d'insicurezza, espresso dalla "società del rischio" di Ulrich Beck o dall' "euristica della paura" di Hans Jonas. Arriva allora il momento delle interpretazioni senza verità, di una proliferazione di sottoculture mai vista prima. Nel 1989 Modernità e Olocausto ha segnato una svolta nel lavoro di Bauman, una disaffezione nei confronti di una modernità della quale egli era stato un fervente apologeta. E quest'inversione rassegnata si è poi saldata con un ritorno identitario ali' ebraismo, fino ad allora rimosso in nome di un universalismo risolutamente cosmopolita. Questa traiettoria non ha nulla di eccezionale: già altri hanno fatto a ritroso il cammino da Damasco alla yeshiva. Nel 1991 Bauman descrive in Modernity and Ambivalence la modernità come un desiderio d'ordine (economico, culturale e militare) simbolizzato dal Panopticon di Bentham. La nuova élite postmoderna sembra qui quella dei grandi viaggiatori aerei transcontinentali, dei guerrieri informatici, dei ministri giramondo e dei "capitani coraggiosi di Internet" in una sorta di nuovo medioevo. La loro visione del mondo, reticolare e sempre aggiornata, è simbolizzata da un Sinopticon: anziché un uomo solo a sorvegliare la folla,

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sono ormai gli sguardi delle masse a convergere verso i volti anemici dello spettacolo televisivo.

Scolio 1.5 Per Fredric Jameson, l'epoca postmoderna è quella che ha dimenticato come pensare storicamente. Limitazione insignificante sostituisce la parodia. La frenesia del "neo,, o del "post,, tradisce la colonizzazione del presente operata delle mode nostalgiche, quasi fossimo condannati a fare del finto nuovo con del vecchio vero. E mentre il romanzo storico (Walter Scott, Dumas o Zevaco61 ) rispondeva a un'esperienza del presente come momento storico, la cinematografia di un futuro ridotto a una dimensione puramente spaziale annienta il luogo negli spazi infiniti. Il modernismo rappresenterebbe dunque "un' esperienza incompleta della modernizzazione", una frontiera mobile messa alla prova da avanguardie intrepide. E il postmoderno sarebbe l'estremo soffio vitale di un periodo di transizione, lo spirito di un mondo senza spirito, l'ideologia di una nuova piccola borghesia alla moda e di una nuova élite globale in equilibrio fra due epoche del capitalismo. Ben consapevole del carattere paradossale del tentativo di dare un ordine sistematico a ciò che si presenta come radicalmente antisistemico, di storicizzare ciò che vuol essere radicalmente astorico, Jameson non intende né celebrare né condannare una postmodernità scissa tra la repulsione neoromantica e l'attrazione feticistica e affascinata per la merce. Egli cerca piuttosto di comprenderla per sovvertirla. meglio. E allora gli appare come "una rivoluzione per61 Michel Zcvaco ( 1860-1918), scrittore corso, autore di popolari romanzi di cappa e spada [N.d.T.].

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manente nella vita intellettuale e nella cultura", come una salutare resistenza al pericolo d'irrigidimento in dottrine dogmatiche che minaccia di continuo le teorie critiche. Rinunciando a una critica sistematica del capitale, il gergo filosofico della postmodernità contribuisce tuttavia a naturalizzare e a depoliticizzare il campo econo1nico. E in tal modo limita la propria contestazione a un bagliore di esperienze ludiche, senza seguito né progetti? O contribuisce invece a ripoliticizzare certe resistenze relegate sino a ieri nel santuario inviolabile della vita privata? La relativa autonomia e il contenuto critico della cultura sono forse neutralizzati dalla logica mercantile del tardo capitalismo? O l'espansione di una cultura profana fin dentro i pori più intimi della vita quotidiana contribuisce invece a una desacralizzazione liberatoria? Questo dilemma, insieme politico ed estetico, riprende il dibattito tra Benjamin e Adorno sull'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica e sulla perdita d'aura. Posta in una simile forma alternativa, come "o ... o'', la controversia è senza via d'uscita. Si tratta allora di lavorare al cuore di una contraddizione nella quale possibili opposti entrano in collisione62 •

Corollario 2 Cuniversale non è risolvibile nel particolare. Luniversalità astratta è, non di rado, l'alibi e la maschera del dominio coloniale o maschile. La critica dell'universalità astratta e del suo formalismo non può evitare il riferimento implicito a un'universalità con62 Si veda Walter Benjamin, Écrits français, Gallimard, Parigi 1991.

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creta in divenire: la demistificazione della prima presuppone infatti la seconda. E il progetto di "trasformare il mondo,, si basa su una classe particolare, portatrice di universalizzazione concreta. Questo universale deve rimanere, secondo Ernesto Laclau, "un posto vuoto, un vuoto che non può essere riempito che dal particolare, ma che, attraverso la sua stessa vacuità, produce una serie di effetti decisivi di destrutturazione e ristrutturazione dei rapporti socialt63. Qual è, allora, l'avvenire dell'universale nelle nostre società disgregate? È condannato dalla proliferazione indifferente di particolarismi che rappresentano ormai le uniche, modeste alternative al sogno di un' emancipazione universale? E queste devono rassegnarsi alle ambizioni limitate del "pensiero debole'' e al suo orizzonte sbarrato? O si può ancora sperare in un rilancio dell'emancipazione universale a partire da una moltitudine riconosciuta?

Corollario 3 Il reale non è risolvibile nel virtuale, né la ricerca della verità nell'incostanza delle opinioni. Lapologia del fatto compiuto discende dalla percezione unilaterale di un mondo ridotto a pezzi staccaci senza capo né coda. E il feticismo tautologico dei fatti che "sono i fatti", ottusi e testardi proprio come fatti, è il prezzo di questa rinuncia a ogni orizzonte di verità. Ma il pensiero si mette alla prova solo nel divenire che concorre a determinare. Slavoj Zizek sostiene che la politica rivoluzionaria non è una questione di opinioni, ma di verità. Eppure, 63 Ernesto Ladau, Contingmcy. Historicity, Universality, op. cit., p. 58.

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dal punto di vista della totalità, errore e verità sembrano piuttosto giocare a nascondino. "Prenderai la via della verità,, raccomanda Parmenide, "ed eviterai la via dell'opinione". Come se le due vie fossero parallele, o semplicemente opposte, senza incroci né innesti. La condanna del sofista come antifilosofo decretata da Alain Badiou o del dossografo come antisociologo decretata da Pierre Bourdieu, dipende da quella dicotomia ideale fra verità e opinione della quale sarebbero garanti proprio il filosofo-re o il sociologo-re. Ma oggi come ieri sofisti e dossografi sono legati al mercato e al commercio delle immagini. E il loro bisogno di sedurre l'opinione pubblica che li mantiene è sempre gravido di tentazioni demagogiche. Gioca con l'apparenza e l'inautenticità. Tradisce una soggettività adulterata, distaccata da tutto, che si aggira nella piazza affollata dove le merci adescatrici si offrono al desiderio e ai capricci di un cliente ormai avvezzo. Eppure, il sofista è doppio. Sovente demagogo e venale, egli è anche l'indispensabile doppio del filosofo, il democratico che fissa dei limiti al dispotismo della verità dogmatica. Come creare la trama di un legame sociale solido a partire dalle differenze? E come dare vita a una città senza tale pluralità costitutiva? In questa vecchissima storia, prima il filosofo e poi lo scienziato hanno preteso in nome del buon sapere di cacciare l'opinione falsa, i preconcetti e i pregiudizi. Però non sono mai riusciti a evitarli del tutto. La verità non è estranea al senso comune. Ma il senso comune ha una storia: critico impertinente, in passato, delle gerarchie del sapere, oggi esso intrattiene un noto rapporto di connivenza con l'ideologia dominante.

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La politica non è né una competenza particolare né una scienza esatta. La democrazia scommette sul fatto che la somma delle incompetenze individuali possa costituire alla fine una competenza collettiva, o, perlomeno, la minore incompetenza possibile. Non è quindi possibile fare a meno dell'opinione senza incorrere nell'incubo di un qualche dispotismo illuminato. Thomas More cercò nell'Utopia di allacciare con lei un rapporto nuovo, di "condotta obliquà', capace di forzare le resistenze pur tenendo conto delle loro obiezioni: "Se non potete estirpare radicalmente delle opinioni erronee, non è una ragione per staccarvi dalla cosa pubblica. [ ... ] È meglio procedere obliquamente e sforzarvi quanto potete di ricorrere a quella giusta, di modo che, se non siete pervenuti a ottenere una buona soluzione, avete almeno preso la meno cattiva possibile. Poiché come potrebbero essere perfette tutte le cose, se gli uomini non lo sono molto di più, cosa che spero non accada domani.'' La politica, in effetti, non appartiene a un sapere scientifico, bensì a un sapere strategico. Non obbedisce a una verità autoritaria priva di contraddittori. Stabilisce invece dei "rapporti di verità" relativi a una situazione concreta. E mette in tensione verità e opinione.

Scolio 3.1 La fine delle credenze mistiche e delle certezze assolute non significa la scomparsa di ogni certezza relativa. Che le verità siano relative non significa che tutto sia permesso o che tutto sia possibile, che sarebbe di ritorno il tempo della magia: "Luomo deve assumere la propria finitezza ponendo l'esistenza non come transitoria e relativa, ma, al contrario, riflettendovi l'infìni-

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to, ossia ponendola come assoluta,,. 64 Poiché "l'Assoluto non è il punto di vista di Dio sulla storia, è il modo in cui ogni uomo ed ogni collettività concreta vivono la propria storia. Rinunciando alrassoluto trascendente non cadiamo nel relativismo, ma rendiamo all'uomo il suo valore assoluto. ,,65 I...:ipostasi della verità risulta dalla scissione tra il soggetto e r oggetto. Allora essa si riduce a un'oggettività inerte: quel che resta allorché la soggettività è stata messa fuori gioco. Al contrario, Hegel coglie il vero come soggetto e come divenire. Appare così il nucleo temporale di un processo di verità concepito non come adeguazione alla cosa re la corrispondenza fedele tra la realtà e il suo concetto re bensl come divenir-vero della cosa stessa attraverso lo sviluppo dei suoi propri . moment1. E sembra così possibile oltrepassare l'opposizione assoluta fra verità e senso comune. Nella conoscenza dei fenomeni sociali, la verità riveste la forma paradossale di "verità relative,, o di "rapporti di verità,,. Ha dei gradi di certezza e di probabilità. Che la verità, insomma, abbia una storia, permette di evitare la sterile opposizione fra dubbio e certezza: le certezze non sono risolvibili nel dubbio, ma neppure il contrario.

64 Simone de Beauvoir, Pour une morale de l'ambiguiré, Gallimard, Parigi 1947 [trad. it. Per una morale dell'ambig11ità, SE, Mila no 200 I]. 65 Jean-Paul Sartre, op. cit., p. 437 (crad. ic. cic., p. 408).

Finale

La corrente incandescente del l'indignazione non è risolvibile nelle acque tiepide della rassegnazione consensuale

Da cosa si riconosce il nostro contemporaneo, l'homo resignatus? Da cosa si riconoscono i nostri uomini politici ben temperati, quelli della destra del centro, del centrodestra, come pure quelli della sinistra del centro, del centrosinistra? Da cosa si riconoscono i nostri intellettuali, smaliziati giocatori in Borsa di giorno e predicatori pronti a fare i moralisti di sera? Dalle loro ginocchia martoriate da infinite genuflessioni davanti ai nuovi feticci e ai vecchi idoli. Dalla loro schiena curva a forza di inchini e rospi inghiottiti davanti all'altare dei mercati. Dal loro sangue freddo e dall'impassibilità di batraci davanti all'ordine inamovibile delle cose. Dalla loro arrogante indifferenza, dagli infiniti accomodamenti e dalle infinite rinunce a cui sono scesi. Perché noi, che non siamo mai stati veramente moderni, dovremmo risvegliarci all'improvviso postmoderni? Perché noi, che non siamo mai stati vissuti, dovremmo all'improvviso scoprirci cinici? Perché noi, che non abbiamo mai rinunciato a ridere di tutto, ma non con il primo venuto, dovremmo ormai accontentarci di sogghignare per niente? Al di là della modernità e della postmodernità, ci resta la forza irriducibile dell'indignazione, che è l'esatto contrario dell'abitudine e della rassegnazione. Anche quando ignoriamo come potrebbe essere la giustizia del giusto, ci resta la dignità dell'indignazione e il rifiuto incondizionato dell'ingiustizia.

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I..:indignazione è un inizio, una maniera di alzarsi e mettersi in cammino. Ci si indigna e ci si ribella, poi si vedrà. E ci si indigna con passione, ancor prima di trovare le ragioni di una simile passione. Si affermano i principi, ancor prima di conoscere le regole che c~lcolano gli interessi e le opportunità. "Che tu sia freddo o

caldo, ma se sei tiepido, néfreddo né caldo, allora ti vomiterò dalla mia bocca!" dice l'Apocalisse di Giovanni.



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