George Steiner. L’ospite scomodo 9788834611203


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Italian Pages 72 Year 2022

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Table of contents :
Trama
Nuccio Ordine
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Sommario
Dedica
L’ospite scomodo
1. L’invisibile presenza di un “gagliardo giostratore”
2. L’intervista postuma e le altre conversazioni
3. Una vis oratoria straordinaria
4. Ci dobbiamo tenere al difficile
5. Il valore gratuito della conoscenza
6. Insegnare è una vocazione: maestri e allievi
7. Imparare par cœur: i classici e la memoria
8. Gli studi umanistici ci rendono più umani?
9. L’“ospite scomodo”: Steiner contro Steiner?
10. L’identità ebraica: “La verità è sempre in esilio”
11. Il parassitismo della critica e il critico-postino
12. Come sopravvivere nell’inferno?
Ringraziamenti
Conversazioni con George Steiner
L’intervista postuma
Altre conversazioni
Uno scienziato mancato
La rottura con il New Yorker
Correggere gli errori del mondo: su Sebastiano Timpanaro
La deriva dell’Europa
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George Steiner. L’ospite scomodo
 9788834611203

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Questo libro nasce come testimonianza della profonda amicizia personale e intellettuale tra George Steiner e Nuccio Ordine. L’amore per i classici, la passione per l’insegnamento, la difesa del ruolo del maestro, la funzione essenziale della letteratura per rendere l’umanità più umana costituiscono i temi di un intenso dialogo nutrito da oltre quindici anni di incontri e viaggi in varie città europee. Ordine offre un ritratto originale di Steiner, dipingendolo nelle vesti di “ospite scomodo”. Steiner, infatti, ha abitato l’ebraismo, la letteratura e la vita come un ospite speciale, dicendo, senza nessun rispetto per convenzioni e tabù, ciò che molti non avrebbero voluto sentirsi dire: ha ricordato a Israele che un ebreo non può essere nazionalista e che la sua condizione gli impone di stare sempre con la valigia in mano; e ha invitato all’umiltà i suoi colleghi, mostrando la natura “parassitaria” della critica letteraria e la vitale priorità dei classici. Ma anche la sua concezione della vita trova proprio nella nozione di “ospite” il suo più autentico fondamento. Un’arte difficile da praticare, ma necessaria: essere ospiti non è un invito a rispettare passivamente le leggi di chi ti accoglie. Al contrario: è un’opportunità per aiutare a migliorare la propria vita e quella in comune.

Nuccio Ordine (Diamante, 1958) è professore ordinario di Letteratura italiana nell’Università della Calabria e Presidente del Centro Internazionale di Studi Telesiani, Bruniani e Campanelliani. Le sue opere sono tradotte in 24 lingue (33 paesi), tra cui cinese, giapponese e russo. Autore del best seller internazionale L’utilità dell’inutile (2013), presso La nave di Teseo ha pubblicato Classici per la vita (2016), La cabala dell’asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno (2017) e Gli uomini non sono isole. I classici ci aiutano a vivere (2018). Fellow dell’Harvard University Center for Italian Renaissance Studies e della Alexander von Humboldt Stiftung, è stato invitato in qualità di Visiting Professor in diversi istituti di ricerca e università negli Stati Uniti (Yale, NYU), in America Latina (Universidad de San Buenaventura di Bogotà e Università Iberoamericana di Città del Messico) e in Europa (EHESS, ENS, Paris-IV Sorbonne, CESR di Tours, IEA Paris, Warburg Institute, Max Planck di Berlino). È Membro d’Onore dell’Istituto di Filosofia dell’Accademia Russa delle Scienze (2010) e membro dell’Académie Royale de Belgique (2020) e del Consiglio scientifico della Treccani. In America Latina e in Europa ha ricevuto 6 dottorati honoris causa. È stato insignito in Francia delle Palme Accademiche (Chevalier 2009 e Commandeur 2014) e il Presidente della Repubblica gli ha concesso la Légion d’honneur (2012). Il Presidente della Repubblica lo ha nominato Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana (2018). In Francia dirige, con Yves Hersant, tre collane di classici (Les Belles Lettres) e in Italia la collana “Classici della letteratura europea”. Collabora al “Corriere della Sera” e a “El País”.

le Onde.

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Dello stesso autore presso La nave di Teseo Classici per la vita La cabala dell’asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno Gli uomini non sono isole. I classici ci aiutano a vivere

Nuccio Ordine

George Steiner L’ospite scomodo

La nave di Teseo

© 2022 La nave di Teseo editore, Milano ISBN 978-88-346-1120-3 Prima edizione digitale La nave di Teseo aprile 2022 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

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Sommario

L’OSPITE SCOMODO 1. L’invisibile presenza di un “gagliardo giostratore” 2. L’intervista postuma e le altre conversazioni 3. Una vis oratoria straordinaria 4. Ci dobbiamo tenere al difficile

L D D 6. Insegnare è una vocazione: maestri e allievi A K E 7. Imparare par cœur: i classici e la memoria R U E 8. Gli studi umanistici ci rendono più umani? 5. Il valore gratuito della conoscenza

9. L’“ospite scomodo”: Steiner contro Steiner? 10. L’identità ebraica: “La verità è sempre in esilio” 11. Il parassitismo della critica e il critico-postino 12. Come sopravvivere nell’inferno? Ringraziamenti CONVERSAZIONI CON GEORGE STEINER L’intervista postuma Altre conversazioni Uno scienziato mancato La rottura con il New Yorker Correggere gli errori del mondo: su Sebastiano Timpanaro La deriva dell’Europa

A Piergaetano Marchetti, venator sapientiae

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L’ospite scomodo Poco noi sappiamo, ma che ci dobbiamo tenere al difficile è una certezza che non ci abbandonerà RAINER MARIA RILKE La tua verità? No, la Verità, e vieni con me a cercarla. La tua, tienitela. ANTONIO MACHADO

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1. L’invisibile presenza di un “gagliardo giostratore”

A distanza di due anni dalla sua scomparsa, Steiner continua a essere presente nella mia vita e in quella di tantissimi lettori che lo hanno amato. Si tratta di un’invisibile presenza, di un’ombra discreta che, in silenzio, ti accompagna in un museo, in una biblioteca, in un’aula scolastica o universitaria, in un concerto di musica classica o in uno di quei caffè in cui George aveva reperito i tratti più significativi dell’“idea di Europa”.1 Per moltissimi anni ho avuto il privilegio di dialogare con lui nelle occasioni più diverse. E dopo la sua morte ho ritrovato in una lettera di Francesco Petrarca, indirizzata nel 1363 a Barbato da Sulmona, una delle descrizioni più profonde e commoventi di come un amico lontano possa prendere parte comunque alla vita quotidiana dell’altro che lo ama. Certo, il poeta fiorentino evoca una separazione fisica tra i due amici. Ma le stesse parole possono tradurre benissimo anche la percezione di un’assenza più radicale e definitiva. Lontananza o morte, poco importa. Sta di fatto che “l’animo è sempre libero” (“est animus liber”) e che “nulla può vietarci che ci si abbracci con l’immaginazione” (“ab imaginario congressu nullis obicibus arceamur”).2 Si può vivere l’uno accanto all’altro, senza vedersi. Perché le esperienze condivise in nome dell’amicizia continuano, in ogni caso, a tenere uniti. Non c’è separazione che “con il cuore e il consiglio” possa impedire “di vivere sempre l’uno con l’altro”:

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Ma se questo ci vieta il destino noi faremo ciò che nessuno potrà mai vietarci di fare, di supplire cioè con il cuore e il consiglio sicché, abbracciandoci vicendevolmente col nostro affetto, non passerà giorno o notte, non ci saranno fatiche di viaggi o di studi, non si frapporranno chiacchiericci o piaceri, lavori o riposi che impediscano di vivere sempre l’uno con l’altro. Id si fato vetitum, quod vetari nequit, animo et cogitatione

supplebitur; tu me tuis affectibus, ego te complectar meis; nulla dies nulla nox nulla peregrinatio nulla lucubratio nulla confabulatio nulla iocunditas nullus labor nulla requies alteri sine altero transigetur. 3

La lettura di un libro, lo stare seduti su una zolla di terra in mezzo a un prato, una semplice conversazione o un qualsiasi umile gesto compiuto durante una giornata saranno preziose occasioni per avvertire la silenziosa presenza dell’amico assente, per continuare a condividere con lui le stesse passioni e gli stessi interessi: Quel libro che uno di noi prenderà in mano anche l’altro lo aprirà; dove l’uno vi fisserà lo sguardo l’altro lo leggerà; su qualsiasi zolla l’uno debba sedere avrà l’altro come compagno; ogni volta che abbia preso a parlare con se stesso o con altri vedrà l’amico ascoltarlo attentamente; qualsiasi cosa insomma egli faccia o dovunque sia o vada sempre avrà l’amico al suo fianco.

L D D A K alter aperiet; ubi alter oculos Quem librum alter nostrum arripuerit, E R alter cespite sederit, assidentem coniecerit, alter leget; quocunque U E alterum habebit; quotiens secum aut cum alio loqui ceperit, absentem amicum intentis auribus adesse conspiciet; denique quicquid alter egerit ubicunque fuerit quocunque se moverit, alter ad dexteram erit. 4

E per Petrarca, finanche “quando l’uno dei due sarà morto l’altro ne terrà viva la memoria” (“quando alter obierit, alter illum memoria prosequetur”), facendo in modo che continui a restare ancora in vita (“illum vivere opinabitur”, [“lo riterrà ancora in vita”]).5 Ma c’è di più: proprio nel perdere un caro maestro ho potuto verificare in prima persona il profondo valore delle magnifiche pagine che Montaigne ha dedicato al tema dell’amicizia. Ho capito quanto sia importante nella vita di uno studioso aver avuto la fortuna di incontrare grandi interlocutori in grado di aiutare a dare slancio alle proprie idee: Lo studio dei libri è un’operazione languida e fiacca, che non riscalda; mentre la conversazione insegna ed esercita al tempo stesso. Se converso con un animo forte, e un giostratore gagliardo, egli mi stringe ai fianchi, mi pungola a sinistra e a destra, le sue idee danno

slancio alle mie. [...] Come il nostro spirito si fortifica nel rapporto con gli spiriti vigorosi ed equilibrati, non si può dire quanto perde e s’imbastardisce per il continuo contatto e frequentazione che abbiamo con gli spiriti bassi e malsani. Non c’è contagio che si diffonda come questo. So abbastanza per esperienza quanto se ne può sapere. L’étude des livres, c’est un mouvement languissant et faible, qui n’échauffe point: là où la conférence apprend et exerce en un coup. Si je confère avec une âme forte, et un rude jouteur, il me presse les flancs, me pique à gauche et à dextre, ses imaginations élancent les miennes. [...] Comme notre esprit se fortifie par la communication des esprits vigoureux et réglés, il ne se peut dire combien il perd et s’abâtardit par le continuel commerce et fréquentation que nous avons avec les esprits bas et maladifs. Il n’est contagion qui s’épande comme celle-là. Je sais par assez d’expérience combien en vaut l’aune.

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E George, per il suo naturale temperamento, mi ha effettivamente pungolato “a destra e a sinistra”, mi ha stretto “ai fianchi”, mi ha fatto capire quanto l’incontro con “giostratori gagliardi” possa dar vita a una “conversazione [che] insegna ed esercita nello stesso tempo”. Ed è vero anche per questo che talvolta l’amicizia, in quanto libera scelta dell’altro, possa creare legami più forti e più intimi di quelli intrecciati con un fratello o con una persona di cui siamo innamorati (“E poi, quanto più si tratti di amicizie che ci vengono imposte dalla legge e dal dovere naturale, tanto meno entrano in gioco la nostra scelta e la nostra libera volontà” [“Et puis, à mesure que ce sont amitiés que la loi et l’obligation naturelle nous commande, il y a d’autant moins de notre choix et liberté volontaire”]).7 Come ci ricorda Montaigne, lontana da vincoli biologici (non scegliamo noi i genitori o una sorella) o amorosi (in cui esiste comunque l’egoismo di un desiderio erotico) la “comunione” di cui si nutre l’amicizia, sfuggendo a qualsiasi tipo di vantaggio utilitaristico, diventa l’espressione più alta e più nobile della gratuità. Per queste ragioni, le forze impenetrabili che legano indissolubilmente due esseri umani finiscono per costituire un insondabile “mistero”. Un enigma che Montaigne racchiude in una celebre formula – molto amata e citata da Steiner – destinata a spiegare la sua profonda amicizia con Étienne de La Boétie:

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Nell’amicizia di cui parlo, esse [le due anime] si mescolano e si

confondono l’una nell’altra con un connubio così totale da cancellare e non ritrovar più la commessura che le ha unite. Se mi si chiede di dire perché l’amavo, sento che questo non si può esprimere che rispondendo: “Perché era lui; perché ero io.” C’è, al di là di tutto il mio discorso, e di tutto ciò che posso dirne in particolare, non so qual forza inesplicabile e fatale, mediatrice di questa unione. En l’amitié de quoi je parle, elles se mêlent et confondent l’une en l’autre, d’un mélange si universel qu’elles effacent et ne retrouvent plus la couture qui les a jointes. Si on me presse de dire pourquoi je l’aimais, je sens que cela ne se peut exprimer qu’en répondant: parce que c’était lui: parce que c’était moi. Il y a, au delà de tout mon discours, et de ce que j’en puis dire particulièrement, ne sais quelle force inexplicable et fatale médiatrice de cette union. 8

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L’amicizia, insomma, come “santo legame” (“sainte couture”), trova nella “consonanza” (“conférence”) e nella “comunicazione” (“communication”) tra due persone il suo più alto “nutrimento” (“nourrice”).9 Così l’invisibile presenza dell’amico assente sarà sempre al nostro fianco e continuerà a parlarci attraverso le pagine dei suoi libri o i ricordi condivisi.

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G. Steiner, Una certa idea di Europa, prefazione di Mario Vargas Llosa, prologo di Rob Riemen, Milano, Garzanti, 2006, pp. 29-31. 2 F. Petrarca, Familiarum rerum libri [XXI-XXIV] – Le Familiari [Libri XXI-XXIV], testo critico di Vittorio Rossi e Umberto Bosco, traduzione e cura di Ugo Dotti, collaborazione di Felicita Audisio, Torino, Nino Aragno Editore, 2009, t. V, [XXII, 4, 2], pp. 3130-3131. 3 Ibidem, [XXII, 4, 3], pp. 3130-3131. 4 Ibidem, [XXII, 4, 4], pp. 3130-3133. 5 Ibidem, [XXII, 4, 5], pp. 3132-3133. 6 M. de Montaigne, Saggi, traduzione di Fausta Garavini, note di André Tournon, testo francese a fronte a cura di F. Tournon, Milano, Bompiani, 2012, [III, 8], pp. 1710-1713. 7 Ibidem, [I, 28], pp. 334-335. 8 Ibidem, [I, 28], pp. 340-343. 9 Ibidem, [I, 28], pp. 338-339. 1

2. L’intervista postuma e le altre conversazioni

Sollecitato da amici e da alcuni editori a me più vicini, ho così deciso di raccogliere in un libriccino l’intervista postuma e cinque conversazioni pubblicate, nel corso degli anni, sul Corriere della Sera. Una maniera per sottrarre all’oblio pensieri che, apparsi sulle pagine di un quotidiano, non avrebbero potuto evitare il comune destino dell’obsolescenza, imposto dal ritmo incalzante della cronaca e della novità. Se la prima intervista vuole essere un “congedo” dai lettori e dalla vita con una serie di riflessioni autobiografiche, a tratti molto profonde e commoventi, gli altri dialoghi vanno considerati come testimonianze legate a circostanze occasionali. Già nell’idea di “intervista postuma” è possibile riconoscere l’originalità di Steiner, la sua capacità di cogliere sempre alla sprovvista i suoi interlocutori. Fu lui stesso a propormela, in uno degli incontri nella sua casa di Cambridge. Sentiva il bisogno di svelare alcuni “segreti” e di lasciare messaggi cifrati a persone che amava e ad amici con cui aveva litigato, conservando sempre il rimpianto di non aver trovato il coraggio e la forza di riannodare il legame perduto. Un’intervista-confessione in cui non mancano rilievi autocritici, analisi di fallimenti e di vittorie, di perdite e di acquisti. Chissà quanti episodi decisivi troveranno chiarimenti e spiegazioni nell’epistolario segreto che per anni George ha stilato, giorno per giorno, annotando come in un diario le sue riflessioni più intime sulle sue amicizie, sui suoi amori, sul suo lavoro, sulla sua vita in generale. Nessuno, tranne la misteriosa destinataria, ne conosce fino a questo momento il contenuto. Bisognerà aspettare ancora quarantotto anni, prima che le porte dell’archivio del Churchill College di Cambridge possano aprirsi alla curiosità degli studiosi e degli ammiratori che avranno ancora il desiderio di leggerle. Tra questi, però, non ci saranno più coloro che lo hanno conosciuto. Una scelta programmata per escludere, di fatto, familiari e interlocutori con cui George ha condiviso la sua esistenza. Una necessaria “distanza” temporale dagli avvenimenti raccontati per “proteggere” gli inconsapevoli protagonisti di questo suo journal intime, architettato come una

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raccolta di lettere. Le altre quattro interviste, invece, riguardano specifici episodi della sua lunga vita professionale: nella prima, spiegando come il suo interesse per le scienze fosse già radicato nella giovinezza, George racconta le sue velleitarie aspirazioni a diventare un fisico, frustrate sul nascere dalla bocciatura alla prova di matematica; nella seconda, rievoca i trent’anni della sua collaborazione al prestigioso New Yorker e l’improvvisa interruzione a causa di un litigio con la direttrice Tina Brown; nella terza, svela la sua infinita ammirazione per Sebastiano Timpanaro, il grande filologo classico italiano che aveva ispirato l’occulto protagonista del suo romanzo Il correttore, in cui un correttore di bozze avrebbe voluto eliminare l’errore nei testi (attraverso la filologia) e l’errore nella storia (attraverso il marxismo); nella quarta, infine, narrando la giornata tipo di un novantenne manifesta la sua inquietudine per il destino di un’Europa minacciata dalla xenofobia e dall’antisemitismo.

3. Una vis oratoria straordinaria

Nel corso di un paio di decenni ho avuto numerose volte il privilegio di ascoltare, dal vivo, conferenze di George Steiner. La sua elegante eloquenza, la sua voce appassionata, la sua mimica cangiante, il suo sguardo penetrante si sono imposti con forza all’attenzione del pubblico. Finanche l’uditore più distratto e superficiale non ha fatto fatica a percepire la gioia di una parola che desiderava essere comunicata, che trovava proprio nell’incontro con l’altro la sua ragione di esistere. Non capita a tutti i critici una fortuna del genere. A volte l’entusiasmo suscitato nel lettore da una pagina scritta viene severamente frustrato dall’incontro diretto con l’autore. Nel caso di Steiner – a mio parere – il successo non si spiega soltanto con una non comune vis oratoria. La sua eloquenza si nutriva di una passione per l’insegnamento, di un profondo desiderio di condividere con il pubblico l’amore per la letteratura e per il sapere. Si tratta di considerazioni che scaturiscono da un’esperienza diretta, da una verifica che ho avuto modo, più volte, di effettuare sul campo. Vorrei ricordare due incontri che Steiner ha tenuto in Calabria, molti anni fa all’alba della nostra amicizia, con studenti liceali di Crotone e di Cosenza. Proprio a contatto con questi giovani destinatari – in un contesto ben diverso da quello ufficiale e ingessato di una conferenza – ho visto all’opera un oratore in grado di esprimere al meglio tutte le sue qualità. Nel ridotto del Teatro Rendano di Cosenza, all’interno di una tavola rotonda organizzata dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Steiner parlava dell’importanza dei classici a più di trecento studenti che stavano ad ascoltarlo in religioso silenzio. Come un novello Orfeo, incantava il suo uditorio recitando a memoria versi di poeti o leggendo passaggi di autori antichi e moderni. Era fin troppo evidente che quelle parole suonavano come il resoconto di una testimonianza vissuta, di un itinerario personale segnato dall’amore per la lettura. In quei due incontri, ho ritrovato più tardi una serie di elementi che mi hanno aiutato a capire, retrospettivamente, alcune pagine degli ultimi libri di

Steiner. Mi sono reso conto che molte sue affermazioni – spesso marcatamente polemiche – affondavano le radici anche nella sua esperienza di discente, prima, e di docente, poi (ruoli che utilizziamo in senso lato: per chi concepisce la ricerca e l’insegnamento in maniera dinamica, infatti, un vero docente non può non essere, a sua volta, uno studente a vita). Si tratta di temi in profondo contrasto con le moderne pedagogie che a partire dagli anni ottanta hanno condizionato la politica scolastica in Italia e in diversi paesi europei. Vorrei provare, in maniera asistematica, a ridiscutere alcune questioni che ritornano con particolare insistenza in Vere presenze, in Nessuna passione spenta, in Errata e nella raccolta di conferenze La lezione dei maestri.

4. Ci dobbiamo tenere al difficile

La dominante pedagogia edonistica, in perfetta sintonia con le logiche del mercato su cui ritornerò tra poco, si fonda essenzialmente su due parole chiave: veloce e facile. Gli studenti devono terminare nei tempi previsti il percorso di “formazione”. Ma anziché domandare loro un piccolo sforzo in più, il legislatore ha deciso di abbassare notevolmente il carico di lavoro. Adesso bisogna rendere tutto più facile per garantire un sicuro approdo al conseguimento di un diploma nella secondaria o di una laurea universitaria. La ragione calculatoria della quantitas (il numero di studenti che raggiungono la “meta”) non tiene per nulla conto della qualitas (le reali competenze maturate dai discenti). Su questa specifica questione, le parole di Steiner tuonano come un monito: senza sforzo, senza impegno, senza quei piccoli sacrifici quotidiani non è possibile acquisire conoscenza. Non è vero che le difficoltà incoraggiano le sconfitte. Le difficoltà, molto spesso, servono da stimolo a fare meglio, ci aiutano ad affinare gli strumenti, ci preparano a godere di ogni conquista, anche la più modesta. Non sono parole astratte. Si tratta di esperienza vissuta. Chi è stato costretto a misurarsi, sin dall’infanzia, con un grave handicap lo ha provato sulla sua pelle: D’altra parte, ho avuto la fortuna di ricevere un’educazione improntata allo sforzo e al dominio di sé, che è oggi completamente messa al bando dalla terapia. Sono nato con una grave disabilità motoria – avevo un braccio immobile e attaccato al corpo –, che oggi si farebbe di tutto per alleviare. Mia madre – o come dico nel libro, “la mia radiosa madre” – mi ha invece insegnato a conviverci. Mi ha incoraggiato a scrivere con la mano destra, a dipingere e ad allacciarmi le scarpe a costo di nove mesi di agonia, quando sarebbe invece stato così facile eludere, schivare il problema utilizzando la mano sinistra.

Par ailleurs, j’ai eu la chance de recevoir une éducation empreinte d’effort et de domination de soi, qui est aujourd’hui complètement mise à l’index par la thérapie. Je souffrais à ma naissance d’un grave handicap moteur – j’avais un bras immobile et attaché au corps – qu’aujourd’hui on ferait l’impossible pour soulager. Ma mère – je dis “ma rayonnante mère” dans le livre – m’a au contraire appris à vivre avec. Elle m’a encouragé à écrire de la main droite, à peindre et à lacer mes chaussures au prix de neuf mois d’agonie, alors qu’il aurait été si facile d’éluder, d’esquiver le problème en me servant de ma main gauche. 10

Nove mesi di agonia per imparare ad allacciare le scarpe. Ma poi la gioia della riuscita. Steiner racconta la sua vita e, nello stesso tempo, lancia un messaggio in cifre ai più giovani: imparare ha un prezzo. E solo chi lo paga potrà conquistare il diritto alla parola.

Intervista rilasciata da George Steiner a Le Figaro Magazine del 10 ottobre 1998.

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5. Il valore gratuito della conoscenza

Intendiamoci bene: stiamo parlando di valori che con grande difficoltà possono trovare cittadinanza in scuole e università sempre più dominate dalla logica del mercato. Gli studenti non vanno più “formati”, ma devono essere solo “informati” per poi avere facile accesso nel mondo del lavoro. I presidi delle scuole secondarie e i professori universitari sono sempre più invitati a occuparsi di circolari ministeriali, di bilanci, di voci passive e attive, di entrate e uscite. La vita amministrativa non lascia più spazio allo studio, alla ricerca, all’insegnamento. Bisogna essere ottimi manager per decidere e per gestire le risorse, anche quelle “umane” (con questo orribile termine, “risorse umane”, si intende, nel linguaggio aziendale, l’insieme di impiegati e dipendenti di ogni ordine e grado). La logica è quella del profitto: i finanziamenti saranno distribuiti soltanto a quelle “imprese” in grado di rispettare la programmazione, di garantire che i cento studenti entrati nell’anno x possano poi conseguire diplomi e lauree nell’anno y. Ma all’interno di queste coordinate, come ricordare a docenti e discenti che la conoscenza deve essere amata di per se stessa? E che solo la gratuità e il disinteresse possono creare un rapporto autentico con lo studio e con il sapere? Con i miei insegnanti ho avuto fortuna: mi hanno convinto che nella sua forma migliore la relazione fra insegnante e studente sia un’allegoria realizzata di amore disinteressato. 11

Certo, è sempre più difficile far passare valori in cui i nostri comportamenti e i nostri gesti possano prescindere dal compenso, dal guadagno, dall’interesse, dal reddito, dal ricavo (“Nel tardo capitalismo parlano i soldi. Il profitto definisce il tempo e lo spazio”).12 Fino a ieri, ancora in qualche università europea, era possibile vedere compiersi un miracolo: riuscire a tenere insieme insegnamento e ricerca, rapporto diretto con gli studenti e isolamento nel laboratorio o in biblioteca. Oggi, invece, il processo di burocratizzazione delle

università ha finito per rendere incompatibili la ricerca e l’insegnamento. Quella frattura che già esisteva tra i centri di eccellenza (dediti alla pura ricerca) e gli atenei di massa (dediti all’insegnamento) si andrà sempre più allargando fino a recidere qualsiasi possibilità di contatto tra questi due universi: Queste dissociazioni fra la ricerca scientifica o umanistica da una parte, e l’insegnamento dall’altra, segnano il mondo accademico. Come possono le istituzioni di educazione superiore integrare – strutturalmente, finanziariamente, sociologicamente – la conservazione e la trasmissione del passato storico e intellettuale con la libera innovazione, con l’investimento nel gioco, soprattutto scientifico, delle potenzialità future? E come far quadrare questa dialettica incerta con il programma didattico, inevitabilmente semplificato, generalizzato e influenzato da fattori sociali e politici? 13

Steiner individua con lucidità il prezzo da pagare. Sa bene che questo processo finirà per danneggiare i centri di eccellenza e le università: entrambe “le parti perderanno qualcosa”.

G. Steiner, Errata, Milano, Garzanti, 1998, p. 147. Ibidem, p. 138. 13 Ibidem, p. 54. 11 12

6. Insegnare è una vocazione: maestri e allievi

George ritorna a più riprese, in Errata e in altri saggi, sull’importanza dell’insegnamento. A questo tema ha dedicato le sue Lessons of the masters (La lezione dei maestri), redatte per le harvardiane Charles Eliot Norton Lectures, interamente concentrate sul rapporto maestro-allievo e sul significato profondo della trasmissione del sapere. Pur riconoscendo la difficoltà di conciliare ricerca e divulgazione, erudizione e formazione civile, il critico non esita ad assegnare comunque all’insegnamento un ruolo fondamentale nella ricerca del sapere: In teoria, la ricerca e la filosofia serie possono nascere dal lavoro d’insegnamento. Sono convinto che dovrebbe essere così. L’insegnamento e la fraternità di provocazione reciproca in un seminario sono stati il mio ossigeno. Non posso concepire la mia opera – e persino, in misura particolarmente vivace, la mia narrativa – senza questi stimoli. Se lotto contro il pensionamento è perché i miei studenti mi sono indispensabili. In questo sono stato fortunato. 14

Ogni docente – e questo mi sembra essenziale per capire la genesi della vis oratoria di Steiner su cui mi sono soffermato prima – dovrebbe inevitabilmente essere anche “un attore, un professionista riconosciuto dell’eloquio e del gesto”:15 Il grande insegnante è coinvolto, persino fisicamente, nel processo di comunicazione e di esemplificazione. Colpisce quanto l’indagine e la dialettica metafisico-logiche possano, in mano a un insegnante ispirato, diventare qualcosa di memorabilmente fisico, un dramma dell’espressione facciale e corporale. 16

L’incontro con un docente può lasciare segni indelebili, può contribuire a consolidare un sistema di difesa che ci accompagnerà per tutta la vita (“Quando

un giovane è stato esposto al virus dell’assoluto, quando ha visto, udito, ‘odorato’ la febbre in coloro che sono alla ricerca della verità disinteressata, gliene rimarrà come un riverbero. Per il resto della loro carriera e della loro vita privata, magari del tutto normali, prive di distinzione, queste persone possederanno una protezione contro il vuoto”).17 Non a caso nel percorso autobiografico di George Steiner la rievocazione dei rapporti con i suoi maestri gioca un ruolo importantissimo. Si tratta di pagine che traspirano sincera gratitudine, anche quando sembrano toccare punte di graffiante ironia per questo o quell’episodio, per questo o quel particolare aneddoto. Basta scorrere a colpo d’occhio l’affascinante affresco degli anni di Chicago per cogliere fino in fondo gioie e delusioni, speranze e frustrazioni, entusiasmi e paure. Un’esperienza da cui, più tardi, lo Steiner docente non potrà prescindere soprattutto nel rapporto con i suoi studenti. Anche qui non mancano, nei suoi libri, esplicite testimonianze degli insegnamenti tenuti negli Stati Uniti, a Cambridge e a Ginevra: Il mio amore dell’insegnamento renderebbe incompleto un capitolo sui miei insegnanti se non venissero menzionati alcuni miei studenti negli Stati Uniti, a Cambridge o a Ginevra. La massima ricompensa per un insegnante è attrarre studenti e di scoprire che essi sono più capaci di lui e che i loro talenti li porteranno o dovrebbero portarli al di là del punto da lui raggiunto. 18

E sebbene l’esperienza “estrema” dell’allievo che diventa maestro del maestro finisca per essere sempre più rara – Steiner confessa di averla vissuta nella sua lunga carriera di docente solo quattro volte – l’insegnamento diventa in ogni caso frutto di un “amore condiviso”, di una passione in grado di produrre tanta gioia. L’atto di insegnare non può ridursi a un mestiere. Si tratta di una “vocazione” che dovrebbe coinvolgere in maniera piena l’esistenza di un docente. Preparare una lezione, leggere un classico, scrivere un saggio, dialogare con gli studenti rappresentano aspetti diversi di una stessa passione, di un unico tripudio, di un privilegio che dà un senso forte alla vita di chi insegna: Come è possibile stipendiare una vocazione? Come è possibile dare un prezzo alla rivelazione (Dictaque mirantum magni primordia mundi)?

Questa domanda mi ha turbato e mi ha messo a disagio durante tutta la mia vita di insegnante. Perché sono stato remunerato, pagato, per quello che è il mio ossigeno e la mia raison d’être? Leggere insieme ad altri, studiare il Fedro o La tempesta, introdurre (esitando) I fratelli Karamazov intorno a un tavolo, tentare di chiarire la pagina di Proust sulla morte di Bergotte o una lirica di Paul Celan – questi per me sono stati privilegi, premi, tocchi di grazia e speranza senza pari. 19

Con il rinvio all’orazione di Pitagora, attraverso la citazione di uno degli esametri ovidiani in cui il grande filosofo e matematico greco svela a discepoli muti e incantati i segreti della natura e i principi dell’universo, Steiner vuole alludere al valore “sacrale” dell’insegnamento, alla funzione “rituale” che accomuna chi insegna e chi apprende. Una lezione o una qualsiasi occasione di incontro con gli studenti presuppongono sempre parole e gesti che inevitabilmente, nel bene o nel male, segnano il destino di un giovane o di un adulto: Insegnare seriamente è toccare ciò che vi è di più vitale in un essere umano. È cercare un accesso all’integrità più viva e intima di un bambino o di un adulto. Un maestro invade, dischiude, può anche distruggere per purificare e ricostruire. Un insegnamento scadente, una pedagogia di routine, uno stile di istruzione che è, consapevolmente o meno, cinico nei suoi obiettivi meramente utilitari, sono rovinosi. Distruggono la speranza alle radici. Ecco perché un insegnamento “di cattiva qualità” produce effetti devastanti sui giovani allievi. Un professore, come avverte la radice etimologica greca di pharmakon, può essere un rimedio o un veleno, può dispensare la vita o infliggere la morte. Può suscitare entusiasmo o può alimentare, come un “becchino”, una “stanca indifferenza”, una mortifera noia: 20

Un insegnamento di cattiva qualità è, quasi letteralmente, un assassinio e, metaforicamente, un peccato. Immiserisce lo studente, riduce a grigia inanità la materia insegnata. Insinua nella sensibilità del bambino o dell’adulto il più corrosivo degli acidi, la noia, le esalazioni dell’ennui. Un insegnamento morto, esercitato dalla mediocrità forse inconsciamente vendicativa di pedagoghi frustrati, ha ucciso per milioni di persone la matematica, la poesia, il pensiero

logico. Gli schizzi di Molière sono implacabili.

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Per queste ragioni, Steiner è convinto che i grandi “maestri di scuola” siano forse “più rari degli artisti virtuosi e dei saggi”: L’anti-insegnamento è statisticamente quasi la norma. Insegnanti eccellenti, capaci di accendere un fuoco nelle anime nascenti dei loro allievi sono forse più rari degli artisti virtuosi o dei saggi. Maestri di scuola, allenatori di mente e corpo, consapevoli della posta in gioco, del rapporto tra fiducia e vulnerabilità, della fusione organica tra responsabilità e risposta (io chiamerei “respondibilità”, answerability) sono pericolosamente rari. 22

G. Steiner, Errata, Milano, Garzanti, 1998, p. 53. Ibidem. 16 Ibidem, p. 54. 17 Ibidem, p. 56. 18 Ibidem, p. 169. 19 G. Steiner, La lezione dei maestri, Milano, Garzanti, 2004, p. 25. 20 Ibidem, p. 24. 21 Ibidem. 22 Ibidem. 14 15

7. Imparare par cœur: i classici e la memoria

Sarebbe difficile concepire qualsiasi forma di insegnamento senza i classici, senza le opere d’arte, senza la musica. L’incontro tra un docente e un discente presuppone sempre un “testo” da cui partire. Per Steiner, le prime esperienze con la letteratura affondano le radici nella fanciullezza. Suo padre lo inizia alla lettura dei poemi omerici. E proprio nel ricordo di quei momenti dedicati alla morte di Patroclo e alla fulminante vendetta di Achille è possibile ritrovare i segni indelebili di una passione che andrà sempre più infiammandosi: L’Iliade e l’Odissea mi hanno accompagnato per tutta la vita. Ho cercato di ripagare un debito di amore studiando Omero e scrivendo su di lui (la filologa precisa e illuminante è mia figlia Deborah). 23

Recitare versi par cœur (o come si dice anche in inglese by heart) non significa solo imparare a memoria. Ma significa soprattutto “imparare con il cuore”.24 Anche qui le parole di Steiner suonano come un monito contro le vacue pedagogie edonistiche che, molti decenni fa, hanno demonizzato nelle scuole e nelle università il rito di apprendere poesie a memoria. I commoventi endecasillabi di Paolo e Francesca nel quinto canto dell’Inferno di Dante, i versi dei Quattro quartetti di T.S. Eliot, il breve componimento di Antonio Machado sulla ricerca della verità, il viaggio a Itaca di Konstantinos Kavafis non possono lasciare indifferenti: una volta imparati par cœur continuano a lavorare in silenzio dentro di noi, ci educano ad afferrare l’indicibile, ci invitano a “vedere” con gli occhi del cuore, ci incoraggiano a varcare spazi mai varcati. Ci accompagnano, come un prezioso tesoro, nel corso della nostra vita. E, soprattutto, costituiscono un patrimonio di cui nessuno ci potrà privare. Basti pensare alle tragiche esperienze di Primo Levi nell’inferno di Auschwitz o di Osip Mandel’štam nei tormenti del gulag: espropriati di ogni bene e della stessa dignità umana, nessun aguzzino ha però potuto impedire loro di recitare i canti della Commedia per aggrapparsi alla vita nei momenti più difficili e di

disperazione. Nell’appassionata difesa dei classici propugnata da Steiner, mi pare che possano ritrovare cittadinanza le acute osservazioni di Rainer Maria Rilke (“Le opere d’arte sono di un’indicibile solitudine e nulla le può raggiungere poco quanto la critica. Solo l’amore le può abbracciare e tenere ed esser giusto verso di esse”)25 o le parole che Max Scheler attribuisce a Goethe (“Non si impara a conoscere se non ciò che si ama, e quanto più profonda e completa ha da essere la conoscenza, tanto più forte, energico e vivo deve essere l’amore, anzi la passione”).26 È vero: senza un coinvolgimento interiore sarà difficile che il rendez-vous con un classico possa provocare quella salutare metamorfosi. Possa suscitare quelle necessarie “scosse sismiche” che rigenerano: Il dramma, il romanzo, la natura morta di Cézanne complicano, dislocano dalla solita banalità e vivificano la nostra introspezione (il moto spiritale di Dante) e la nostra percezione fino a trasformarci. Gli strati, il paesaggio delle nostre percezioni sono stati – in modo minimo o con la potenza di un terremoto – riordinati. 27

Ogni incontro autentico con un classico modifica necessariamente il nostro punto di vista, ci permette di rileggere o vedere con nuovi occhi anche ciò che abbiamo già letto o visto. Abbiamo soprattutto bisogno, per dirla con Franz Kafka, di libri che possano agire come la scure in grado di frantumare “il mare gelato dentro di noi”: Bisognerebbe leggere – scrive Kafka in una lettera del 27 gennaio 1904, indirizzata al suo amico Oskar Pollak –, credo, soltanto i libri che mordono e pungono. Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo? Affinché ci renda felici, come scrivi tu? Dio mio, felici saremmo anche se non avessimo libri, e i libri che ci rendono felici potremmo eventualmente scriverli noi. Ma noi abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di uno che ci era più caro di noi stessi, come se fossimo respinti nei boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio, un libro deve essere la scure per il mare gelato dentro di noi. 28

Non sempre, però, queste trasformazioni riescono a incidere nei nostri comportamenti. Non sempre siamo in grado di percepire l’appello che ci sprona

a tradurre in azione il nostro pensiero. E talvolta incontriamo opere che ci invitano solo in maniera più timida a reagire. In altri casi ancora – forse “nella maggior parte delle opere artistiche e letterarie” – questa sollecitazione resta implicita, sullo sfondo, o finisce per assumere una funzione formale.29 Molto dipenderà anche da noi, dalla nostra capacità di lasciarci coinvolgere e trascinare nell’avventura della metamorfosi: Se abbiamo in noi uno spazio sufficiente per la maturazione, un’apertura sufficiente al possibile, queste mutazioni dell’ascolto, della visione, della cognizione, queste nuove aggiunte al ricordo e alle aspirazioni, si tradurranno in azione. L’attributo e paradosso centrale del classico è la forza liberatoria dei suoi ordini. Il nucleo della nostra risposta, della nostra re-azione, è fatto di libertà coatta. 30

Alla luce di queste riflessioni, non può essere considerato casuale il fatto che la lettura dei classici abbia segnato sin da fanciullo, giorno per giorno, la vita di George Steiner. Un’esperienza precoce che certamente gli ha imposto anche dei costi altissimi. Ma che, in fin dei conti, ha fatto dell’esercizio ermeneutico una pratica quotidiana, costellata di risultati eccezionali. Proprio nel corpo a corpo diretto con i testi è possibile ritrovare le pagine più toccanti. Laddove dà la parola a Tolstoj o a Dostoevskij, a un tragico greco o a Dante, laddove rianima un romanzo o una poesia con il soffio vitale della sua lettura, il critico riesce a far vibrare abilmente tutte le corde del testo. Come uno straordinario violinista, si esibisce in una serie di “virtuosismi” in grado di svelare, nello stesso tempo, le enciclopediche competenze (filosofiche e scientifiche, musicali e artistiche, letterarie e teologiche) che sorreggono le sue analisi e la passione, l’entusiasmo, l’ingenua disponibilità allo stupore, alla meraviglia, alla sorpresa. Il critico professionista e il lettore innamorato diventano protagonisti di un duetto che fa presa immediata sui suoi destinatari. Steiner, sedotto dai classici, seduce a sua volta i suoi lettori. In ogni caso però, come testimoniano le affascinanti pagine di Nessuna passione spenta, la priorità spetta alla letteratura primaria: senza i classici, come vedremo tra poco, non esisterebbe la critica. E senza i classici si perderebbe in maniera definitiva anche la memoria. La dea Mnemosine, madre delle nove Muse, è nello stesso tempo fonte dell’ispirazione e personificazione del “ricordo” (inteso anche come conservazione delle conoscenze acquisite). Tanti segnali preoccupanti, ammonisce Steiner, ci fanno capire che questa dea già da molto tempo non ha

più cittadinanza tra gli esseri umani: “L’atrofia della memoria è la caratteristica precipua dell’educazione e della cultura nella seconda metà del Novecento.”31

G. Steiner, Errata, Milano, Garzanti, 1998, p. 21. Ibidem, p. 166. Ma sul tema dell’imparare by heart si veda anche la pagina in G. Steiner, Nessuna passione spenta. Saggi 1978-1996, Milano, Garzanti, 1997, p. 21. 25 R.M. Rilke, Lettere a un giovane poeta. Lettere a una giovane signora. Su Dio, traduzione di Leone Traverso, Milano, Adelphi, 1980, p. 25. 26 M. Scheler, Amore e conoscenza, traduzione, introduzione e commento di Livio Pesante, Padova, Liviana, 1967, pp. 21-22. 27 G. Steiner, Errata, cit., pp. 32-33. 28 F. Kafka, Lettere, a cura di Ferruccio Masini, Milano, Mondadori, 1988, p. 27. 29 G. Steiner, Errata, cit., p. 32. 30 Ibidem, p. 33. 31 G. Steiner, Nessuna passione spenta, cit., p. 22. 23 24

8. Gli studi umanistici ci rendono più umani?

Se mi limitassi a concludere qui il mio modesto ritratto di Steiner, finirei per offrire solo un riduttivo abbozzo di una delle due anime che abitano il critico. La prima, quella che ho sin qui disegnato, esprime con entusiasmo l’amore per i classici e per l’insegnamento, riponendo una certa fiducia nella loro funzione educativa. Ma l’altra anima, nello stesso tempo, dà voce al grido di dolore che proviene da un’umanità che ha subìto (e subisce) violenze, torture, genocidi, stermini: Cosa autorizza il pedagogo a ingozzare con le sue priorità e i suoi valori esoterici quello che Shakespeare chiamava the general (cioè coloro che non amano il caviale), soprattutto quando sa, nel profondo del suo cuore turbato, che i capolavori intellettuali e artistici non sembrano rendere la società e gli uomini più umani, più proni alla giustizia e alla clemenza? Quando intuisce che gli studi umanistici non umanizzano, che le scienze e persino la filosofia possono assecondare la peggiore politica? (Ho dedicato gran parte della mia vita e dei miei lavori a questo sinistro paradosso). 32

La disumanità è sempre esistita. Steiner lo sa. Ma ciò che è accaduto nel corso del Novecento non ha precedenti. Milioni di morti provocati da guerre, fame, deportazioni politiche non possono essere attribuiti all’eccezionale ondata di barbari invasori venuti da lontano. Così come l’indelebile orrore della Shoah non trova ancora ragioni plausibili in grado di spiegare tanta bestiale ferocia contro un popolo condannato allo sterminio, all’estinzione di ogni singola vita. Siamo di fronte a un evidente crollo dei più elementari valori umani: Il nazionalsocialismo, il fascismo, lo stalinismo (benché quest’ultimo caso sia più opaco) nascono dal contesto, dal terreno, dagli strumenti

amministrativi e sociali dei luoghi eccelsi della civiltà, dell’istruzione, del progresso scientifico e degli sforzi umanitari (d’ispirazione sia cristiana sia illuminista). 33

Il critico denuncia. Solleva questioni. Punta il dito contro contraddizioni che non possono restare nell’ombra. Esprime, con tutta la sua forza polemica, scetticismo e sfiducia. Si chiede come mai l’istruzione e la cultura non abbiano avuto la forza di arginare questa disumanizzazione diffusa. E, soprattutto, come sia stato possibile che raffinati intellettuali abbiano chiuso gli occhi o, addirittura, collaborato alla propagazione della barbarie: Secondo il liberalismo e il positivismo scientifico dell’Ottocento era ovvio che la diffusione della scolarizzazione, della conoscenza scientifico-tecnologica e dei suoi risultati, della libertà di movimento e dei contatti fra comunità si sarebbe accompagnata a un rafforzamento continuo del vivere civile, della tolleranza politica, dell’etica individuale e pubblica. Ciascuno di questi assiomi della speranza ragionevole è stato smentito. Non soltanto l’istruzione si è rivelata incapace di armare la sensibilità contro l’irrazionalità omicida. Ma, constatazione ancora più inquietante, gli intellettuali più raffinati, i più grandi creatori e fruitori d’arte, e gli scienziati più eminenti sono pronti a collaborare attivamente per soddisfare le esigenze totalitarie, oppure, nei casi migliori, rimangono indifferenti al sadismo che li circonda. I concerti stupendi, le mostre nei grandi musei, la pubblicazione di trattati eruditi, la ricerca accademica nelle scienze e nelle materie umanistiche prosperano accanto ai campi della morte. L’inventiva tecnocratica risponde all’appello del disumano, o rimane neutrale. L’emblema della nostra epoca è la preservazione di un boschetto caro a Goethe all’interno di un campo di concentramento. 34

Anche quest’anima di Steiner parla con lo stesso vigore e la stessa passione di quell’altra. Condensa in forma di fulminanti immagini problemi di ordine generale che non trovano facile cittadinanza nel dibattito sul valore e sulla funzione della cultura. Ma si tratta di argomentazioni che non possono essere assolutizzate, che non possono essere decontestualizzate. Le due anime del critico convivono. Esprimono punti di vista diversi. Diventano, insomma, testimonianza vivente di un pensiero che ha fatto anche del paradosso la sua

arma polemica più tagliente.

G. Steiner, Errata, Milano, Garzanti, 1998, pp. 141-142. G. Steiner, Grammatiche della creazione, Milano, Garzanti, 2003, p. 9. 34 Ibidem, p. 10. 32 33

9. L’“ospite scomodo”: Steiner contro Steiner?

Basta rileggere l’enorme bibliografia di Steiner per capire che siamo di fronte a un modo di procedere che caratterizza sin dall’inizio la sua produzione saggistica. George sfugge, infatti, alle facili classificazioni. Chi cerca di incasellare questo o quel libro sotto una precisa etichetta finisce per essere immediatamente smentito. Questa inafferrabilità rende difficile, probabilmente, qualsiasi semplificazione. Ma il gioco di contrapporre Steiner a Steiner non avrebbe senso se si perdesse la consapevolezza di un pensiero che non può fare a meno della provocazione e del paradosso. Steiner ha abitato la letteratura, l’ebraismo e la vita nelle vesti di ospite “scomodo”. Un ospite speciale perché, pur essendo ben radicato nella comunità che lo ha ricevuto, non ha potuto fare a meno di vivere al suo interno per testimoniare, in ogni caso, la sua alterità, la sua diversità rispetto ai valori dominanti. Da qui il suo essere “scomodo”: non perché incapace di esprimere gratitudine, tutt’altro. “Scomodo” in un’accezione ben precisa: di colui che, cosciente di essere ospite, non rinuncia mai a dire la sua, a svelarsi “sgradevole” a chi, in nome dell’accoglienza offerta, non vuole ascoltare parole che inevitabilmente possono provocare fastidio e talvolta anche dolore. Steiner era lì per questo: ha detto, senza nessun rispetto per convenzioni e tabù, ciò che molti non avrebbero voluto sentirsi dire. Si tratta di una scelta consapevole che investe l’essenza stessa della sua vita. La sua concezione dell’identità ebraica, come vedremo tra poco, trova proprio nella nozione di “ospite” il suo più autentico fondamento. Un’arte difficile da praticare, ma necessaria per rendere l’umanità più umana. Essere ospiti non è un invito a rispettare passivamente le leggi di chi ti accoglie. Al contrario: è un’opportunità per aiutare a migliorare la propria vita e quella in comune. Criticare, correggere, perfezionare sono maniere diverse per aggiungere sempre qualcosa in più, per cercare comunque di avanzare oltre la linea di confine:

È mia convinzione che l’ebreo della diaspora debba sopravvivere con il fine preciso di essere un ospite tra gli uomini. Tutti noi siamo ospiti della vita, gettati nella vita al di là del nostro volere e della nostra comprensione. Ora ci stiamo anche tristemente rendendo conto che siamo gli ospiti di un pianeta devastato. Se non impariamo ad essere ospiti l’uno dell’altro, l’umanità scivolerà nella distruzione reciproca e nell’odio permanente. Un ospite accetta le leggi e i costumi di chi lo ospita, ma può adoperarsi per correggerli. Impara la lingua di chi lo ospita, ma magari cerca di parlarla meglio. Soprattutto, se se ne va, per libera scelta o perché costretto, cercherà di lasciare l’abitazione di chi lo ha ospitato più pulita, più bella di quanto l’abbia trovata. Si sforzerà (il conatus di Spinoza) di aggiungere qualcosa che abbia un valore intellettuale, ideologico, materiale, a quanto ha trovato quando è venuto al mondo. 35

G. Steiner, I libri che non ho scritto, Milano, Garzanti, 2008, p. 135.

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10. L’identità ebraica: “La verità è sempre in esilio”

Per essere più chiaro, proverò a offrire due esempi che riguardano il tema dell’identità ebraica e la funzione parassitaria della critica letteraria. Le posizioni coraggiose – molto coraggiose – che Steiner ha assunto sulla creazione dello stato di Israele rivelano con forza il punto di vista di un ebreo laico: Purtroppo non riesco a sentirmi parte in causa nel patto contratto con Abramo. Di conseguenza non possiedo un certificato di proprietà, divinamente controfirmato, per qualche agro di terra nel Medio Oriente – o in qualsiasi altro luogo. È la pecca logica del sionismo, di un movimento politico-secolare, quella di invocare una mistica teologica e scritturale che esso stesso, se guarda in faccia la verità, non può sottoscrivere. 36

Il fatto che Israele sia “un miracolo indispensabile” – con tutte le motivazioni che ne spiegano l’esistenza – non giustifica agli occhi del critico “l’edificazione di uno stato-nazione armato fino ai denti”37 che per sopravvivere è costretto a considerare “la tortura come una normale pratica di governo”.38 L’ospite scomodo, pur avendo fatto della Shoah e della questione ebraica uno dei nodi centrali della sua produzione saggistica, non esita però a pronunciare parole che suonano come una provocazione per una gran parte della comunità a cui appartiene. Si tratta di una posizione aperta, fondata essenzialmente su una visione laica. Per queste ragioni, il tema dell’ebraismo figura come un pilastro tra i saggi che hanno dato vita a uno splendido volume intitolato I libri che non ho scritto. Qui, in maniera magistrale, George racconta le motivazioni che, nel corso degli anni, gli hanno impedito di portare a termine libri “che avevo avuto la speranza di scrivere ma che poi non ho scritto”.39 Per lui ogni forma di “privazione”, proprio perché più forte “del rifiuto di una possibilità”, finisce per provocare

“conseguenze che non possiamo prevedere o valutare con precisione”.40 Ecco perché il saggio dedicato a Sion si configura come un capolavoro in cui contraddizioni e lacerazioni contribuiscono a illuminare un’appassionata critica a ogni forma di nazionalismo, di violenza e di tortura: Sostanzialmente privo di potere per quasi duemila anni, l’ebreo in esilio, nel suo ghetto, nel mezzo dell’ambigua tolleranza della società dei gentili, non aveva una posizione da cui perseguitare altri esseri umani. Non poteva, per quanto fosse giusta la sua causa, torturare, umiliare, né deportare altri uomini e donne. Questa era la singolare nobiltà dell’ebreo, una nobiltà che ai miei occhi è più grande di qualsiasi altra. Per quanto mi riguarda, considero un assioma che chiunque torturi un altro essere umano seppur costretto da una necessità politica o militare, chiunque umili sistematicamente o privi della casa un altro uomo o donna o un bambino, perda l’essenza della propria umanità. 41

Per Steiner, “l’imperativo della sopravvivenza” ha progressivamente e pericolosamente ridotto “la condizione dell’ebreo a quella di un nazionalista qualunque”: L’imperativo della sopravvivenza, le ambiguità etiche del suo insediamento in quella che era la Palestina (attraverso quale sofisma un israeliano non credente, non praticante fa appello alla promessa di Dio ad Abramo?), hanno obbligato Israele a torturare, a umiliare, a espropriare – anche se spesso in misura minore dei suoi nemici arabi e islamici. Lo stato vive protetto da mura. È armato fino ai denti. Conosce il razzismo. In poche parole: ha fatto degli ebrei degli uomini come gli altri. In realtà la demografia minaccia questa sudicia normalità. Tra non molto in Israele ci saranno più arabi che ebrei. Solo una catastrofe nel mondo esterno potrebbe provocare una nuova ondata di immigrazione. È più che probabile che il crollo di Israele produrrebbe una crisi psicologica e spirituale irreparabile in tutta la diaspora. Ma non è cosa certa. Può darsi davvero che il giudaismo sia più grande di Israele, che nessun contraccolpo storico possa estinguere il mistero della sua resistenza. Forse il cristianesimo ha avuto la sua massima forza nelle catacombe. Semplicemente non lo

possiamo sapere. Nel frattempo, però, Israele sta riducendo la condizione dell’ebreo a quella di un nazionalista qualunque. Ha decurtato l’unicità morale, l’aristocrazia della non violenza nei confronti degli altri che erano la tragica gloria dell’ebreo. 42

George sa bene che è fin troppo facile criticare Israele per chi vive comodamente nella sua casa di Cambridge. Ma è anche cosciente che questa contraddizione, in ogni caso, non indebolisce la sostanza dei suoi argomenti: Conosco il costo inumano che comporta questa onnipotente impotenza. So quanto sia facile, e quanto sia meschino, criticare Israele quando non si è disposti a condividere gli oneri e il costante pericolo in cui vive. Però è proprio quel senso di decurtazione che mi ha impedito di diventare un sionista, di costruire la mia vita e quella dei miei figli in Israele. I sionisti da salotto sono una razza spregevole quanto lo erano i “compagni di strada” che facevano l’elogio dell’Unione Sovietica, ma che si guardavano bene dal mettere piede dentro ai suoi confini. 43

L’identità ebraica, insomma, non può prescindere dalla diaspora. Il nazionalismo di Israele è del tutto “estraneo allo spirito interiore del giudaismo”. Ma soprattutto è in contrasto con uno degli imperativi di Ba’al Shem Tov, riconosciuto maestro del chassidismo: “La verità è sempre in esilio.” Una massima che ha marcato l’esistenza di Steiner (“Questa massima è la mia preghiera mattutina”)44 a tal punto da indurlo a tenere sempre il bagaglio pronto per partire: L’arte di essere ospite è spesso quasi impossibile da praticare. I pregiudizi, l’invidia, gli atavismi territoriali da parte di chi ospita rappresentano una minaccia costante. Per quanto calda sia l’accoglienza iniziale, l’ebreo fa bene a tenere con discrezione i suoi bagagli sempre pronti. Se è costretto a riprendere il suo vagabondare, non considererà questa esperienza una deplorevole punizione. È anche un’opportunità. Non c’è lingua che non meriti di essere appresa, né nazione o società di essere esplorata. Né città che non meriti di essere lasciata alle spalle se soccombe all’ingiustizia. Si è complici di ciò che lascia indifferenti. La parola del giudaismo è Esodo, lo sprone a un

nuovo inizio, la stella del mattino. Hitler parlava in modo derisorio di Luftmenschen, dell’ebreo come di una “creatura dell’aria” che non ha casa. Ma l’aria può essere il regno della libertà e della luce. 45

Eppure, nello stesso tempo, questo ebraismo laico e antinazionalista convive con un bisogno di trascendenza che in Vere presenze si traduce in una teoria dell’ermeneutica e della critica in cui non mancano rinvii alla teologia: Come indica il titolo stesso, Vere presenze è un saggio in cui le preoccupazioni religiose sono implicite. Persino quando viene invocata soltanto come metafora, l’Eucarestia e la dottrina della transustanziazione possono aiutarci a porre domande decisive sulla presenza della realtà, della verità e degli imperativi morali nelle strutture formali della letteratura, dell’arte e della musica. Quando suggerisco che non può esistere un postulato razionale di significato nella lingua o nella forma estetica senza un’ipotesi attiva della possibilità della trascendenza o di Dio, propongo una scommessa, un rischio analitico (alla maniera di Descartes e Pascal) che trova la sua analogia migliore nella teologia. 46

G. Steiner, Errata, Milano, Garzanti, 1998, p. 68. Ibidem. 38 “Amnesty International ha una lista di più di cento nazioni (che includono Israele e la Gran Bretagna nell’Irlanda del Nord) dove la tortura è normale pratica di governo”: ibidem, p. 129. 39 G. Steiner, I libri che non ho scritto, Milano, Garzanti, 2008, p. 8. 40 Ibidem. 41 Ibidem, p. 133. 42 Ibidem, p. 134. 43 Ibidem. 44 Ibidem, p. 136. 45 Ibidem, pp. 135-136. 46 G. Steiner, Introduzione all’edizione italiana in Vere presenze, Milano, Garzanti, 1992, p. 12. Il rapporto tra atto creativo e questioni teologiche (che qui sono stato costretto a semplificare) costituisce uno dei nuclei centrali delle riflessioni contenute in Grammatiche della creazione. Non c’è dubbio che nella prospettiva indicata da Steiner è possibile reperire influenze che provengono soprattutto dalla teologia rabbinica (si pensi ai lavori di Gershom Scholem, il cui pensiero viene evocato con grande ammirazione in Errata) e che riguardano anche il percorso di altri critici di formazione ebraica (si pensi, tanto per citare un esempio significativo, al caso Benjamin, in cui l’utopia marxista non può prescindere da un orizzonte religioso). 36 37

11. Il parassitismo della critica e il critico-postino

Lo stesso discorso si potrebbe fare sul piano dei severi rilievi che Steiner muove alla critica accademica e, in generale, alla letteratura secondaria che imperversa sui giornali e sui media. In Vere presenze e in Nessuna passione spenta si leggono pagine di straordinaria densità, d’avvincente passione. La difesa dei classici e della letteratura primaria viene condotta con argomentazioni taglienti, folgoranti, sferzanti: Ogni giorno, per via del giornalismo e della pratica accademicogiornalistica, il valore intrinseco, le forze produttrici, i risparmi incorporati in moneta creativa, cioè nella vitalità dell’elemento estetico, vengono svalutati. Il Leviatano cartaceo del discorso secondario non solo trangugia il profetico (la profezia e la profezia del ricordo sono presenti in ogni seria invenzione poetica e artistica): quando lo risputa, quest’ultimo risulta indebolito e frammentato. In assenza di un garante, una forma di scambio fasullo in cui una recensione parla a un’altra recensione, un articolo critico si rivolge a un altro articolo critico, si muove in cerchi senza fine. 47

Il mostro cartaceo finisce per uccidere gli oggetti che tocca. In queste pagine viene implicitamente accolto l’ammonimento di Rilke a non far diventare “rigide e mute” quelle cose che cantano: Io temo tanto la parola degli uomini. Dicono sempre tutto così chiaro: questo si chiama cane e quello casa, e qui è l’inizio e là la fine. E mi spaura il modo, lo schernire per gioco, che sappian tutto ciò che fu e sarà,

non c’è montagna che li meravigli; le loro terre e giardini confinano con Dio. Vorrei ammonirli: state lontani. A me piace sentire le cose cantare. Voi le toccate: diventano rigide e mute. Voi mi uccidete le cose. Ich fürchte mich so vor der Menschen Wort. Sie sprechen alles so deutlich aus: Und dieses heisst Hund und jenes heisst Haus, und hier ist Beginn und das Ende ist dort. Mich bangt auch ihr Sinn, ihr Spiel mit dem Spott, sie wissen alles, was wird und war; kein Berg ist ihnen mehr wunderbar; ihr Garten und Gut grenzt grade an Gott. Ich will immer warnen und wehren: Bleibt fern. Die Dinge singen hör ich so gern. Ihr rührt sie an: sie sind starr und stumm. Ihr bringt mir alle die Dinge um. 48

L’invito di Rilke a “sentire le cose cantare” diventa ancora più avvincente quando si pensa che stiamo assistendo, nelle scuole e nelle università, alla graduale espunzione dei classici. Non conosco bene la situazione degli altri paesi europei. Ma in Italia, negli ultimi trent’anni, ci siamo trovati di fronte a una proliferazione insensata della letteratura secondaria (manuali, guide, profili, antologie della critica ecc.). A questa moltiplicazione di strumenti didattici corrisponde, sul piano editoriale, una graduale chiusura delle grandi collane di classici (si pensi agli “Scrittori d’Italia”, alle collane della Utet o ai “Classici” Mondadori, solo per fare qualche celebre esempio). Le due curve (quella ascendente e quella discendente) non possono essere considerate casuali. Molte case editrici – soprattutto quelle ormai non più indipendenti – seguono le tendenze del mercato. Con il risultato che gli studenti sentono parlare di oggetti (i classici) sempre più difficili a reperire e sempre più misteriosi. Sarà improbabile che possa scoppiare un amore per l’Orlando furioso se si

leggono pochi versi antologizzati o un riassunto in prosa. Un banale errore di stampa in un manuale – Astolfo si reca sulla luna per cercare il seno (e non il senno) perduto di Orlando! – non creerà nessun sospetto in uno studente che di quel poema non ha mai letto un verso. In questo desolante paesaggio, la crociata steineriana apporta un raggio di sole, un conforto, uno stimolo a ritrovare l’amore per la letteratura anche nell’esercizio della critica e dell’insegnamento. Sono gli autori e le loro opere, insomma, a rendere possibile l’esistenza dei commenti e delle interpretazioni. Eppure la critica – quando considera il testo come un puro pre-testo, per occupare da sola la scena della comunicazione – può anche stravolgere perversamente la sua funzione. Il vero critico non dovrebbe mai dimenticare – come ricorda opportunamente George prendendo in prestito una metafora creata dal grande poeta russo Aleksandr Sergeevič Puškin – che il suo ruolo dovrebbe coincidere con quello di un “postino”: L’autentico insegnante, curatore, critico, storico dell’arte, interprete musicale o musicologo è colui che ha dedicato la sua esistenza a una passione consumante, che coltiva in sé, fino ai limiti estremi delle sue abilità secondarie, quegli assoluti autistici della possessione e dell’auto-possessione dai quali nascono un teorema d’Archimede o un quadro di Rembrandt. È un essere felice e fiero di essere ammorbato dal pensiero, incurabilmente drogato di conoscenza, di percezione critica, di trasmissione al futuro. Sa che il novantanove per cento dell’umanità nell’Occidente sviluppato aspira probabilmente a un unico vestigio di immortalità: il proprio nome nell’elenco telefonico; ma sa anche che esiste l’un per cento, o forse meno, i cui scritti cambiano la storia, i cui quadri modificano la luce e il paesaggio, la cui musica si radica per l’eternità nell’orecchio della mente e la cui capacità di tradurre in linguaggio matematico mondi coerenti, totalmente irraggiungibili per i nostri sensi, restituiscono la dignità alla specie umana. Quell’uomo non fa parte di quell’uno per cento. Egli è soltanto, come dice Puškin, il “postino necessario”, oppure, come l’ho chiamato prima in questo saggio, un parassita amorevole e sensibile. 49

La metafora è potente e molto efficace. I postini, infatti, sanno di esistere perché c’è qualcuno che scrive lettere. Alla stessa maniera, la critica esiste

perché c’è qualcuno che scrive opere. E, come il postino, il critico dovrebbe essere, con discrezione, al servizio delle opere, per ascoltarle, per proteggerle, per lasciarle parlare, per aiutarle a raggiungere i loro destinatari. Si tratta di un ruolo importante, a volte decisivo (a cosa servirebbe scrivere una lettera se poi venisse smarrita o se finisse in una cassetta postale sbagliata?). Ma a patto, però, che la “lettera” continui a occupare la sua piena centralità! Eppure, ancora una volta, la scrittura di Steiner produce un paradosso: proprio nell’assalto più agguerrito al discorso secondario, il lettore finisce per scoprirne anche il suo profondo fascino. I saggi di George seducono il suo pubblico mentre il critico demolisce la critica (sarebbe meglio dire: un certo tipo di critica). Anche in queste pagine, insomma, in cui si ridicolizza il ruolo parassitario del saggista è possibile assistere al miracolo della creazione. Nel farsi creativo, lo sforzo interpretativo di Steiner diventa esso stesso prova di quanto l’assunto di fondo su cui si regge l’intera struttura argomentativa possa essere minacciato dal suo interno.50

G. Steiner, Vere presenze, Milano, Garzanti, 1992, p. 55. R.M. Rilke, Die frühen Gedichte (Le poesie giovanili), Poesie. I (1895-1908), edizione con testo a fronte a cura di Giuliano Baioni, commento di Andreina Lavagetto, Torino, Einaudi-Gallimard, 1994, pp. 92-93. 49 G. Steiner, Nessuna passione spenta. Saggi 1978-1996, Milano, Garzanti, 1997, pp. 217-218. Qui però Steiner non fornisce purtroppo nessun riferimento agli scritti dove il grande poeta russo utilizza la metafora del postino. Ho fatto delle ricerche, anche con l’aiuto di specialisti russi di Puškin, ma non sono riuscito a individuare l’opera dove compare questa immagine. 50 La questione è molto complessa e non può essere certo liquidata in poche parole. Ma Steiner stesso riconosce naturalmente l’esistenza di una critica che perde la sua funzione parassitaria fino a elevarsi all’altezza dell’oggetto di cui parla: “Inoltre ci sono argomenti che si oppongono al mio intero progetto. Alcuni studi eruditi, alcune interpretazioni critiche sull’arte, la musica e la letteratura, persino alcune recensioni (benché siano rare) rivendicano legittimamente la dignità della creazione. Nessun canone assennato della sensibilità vorrà cancellare le pagine di Samuel Johnson o di Coleridge su Shakespeare, quelle di Walter Benjamin su Goethe o il saggio di Mandel’štam su Dante. Come si può separare il secondario dal primario, il parassitico dall’immediato, nei Discourses (Discorsi) di Reynolds, nelle letture che offre Erwin Panofsky dell’arte e dell’iconografia medievale e rinascimentale?”, G. Steiner, Vere presenze, cit., p. 33. 47 48

12. Come sopravvivere nell’inferno?

Al termine di questo percorso, mi sento insoddisfatto. Probabilmente, in queste poche paginette ho condensato in maniera disordinata una serie di temi che spesso sono stati oggetto di lunghe conversazioni con George. Nelle frequenti passeggiate parigine e negli avventurosi viaggi compiuti sulle tracce di Gesualdo a Venosa o di Pitagora a Crotone non sono mai mancati lunghi dialoghi, sempre all’insegna della passione, alternati a eloquenti silenzi. Momenti indimenticabili, caratterizzati da incontri e scontri, da scatti d’ira e da affettuose attenzioni. Più volte ci siamo interrogati sul nostro ruolo di professori e sulla funzione dei classici e dell’insegnamento. Al mio ottimistico entusiasmo, George ha sempre opposto la sua anima scettica, ricordandomi l’inferno che ci circonda: So che l’innominabile tecnologia dell’umiliazione, della tortura e del macello – soltanto citarli significa sfigurare e in certo senso disumanizzare il linguaggio, come ho provato a mostrare in Linguaggio e silenzio (1967) – nata da una demonologia irrisolta e forse dall’odium sui del cristianesimo europeo ha creato su questa terra un’immagine speculare dell’Inferno immaginario. Il tempo e lo spazio furono trasformati in eternità statiche di sofferenza in quello che i nazisti, riecheggiando inconsapevolmente Dante, chiamavano lo “sfintere del mondo” (Auschwitz). 51

Sin dalle prime pagine di Grammatiche della creazione è detto con chiarezza “che per tutta l’Europa e la Russia questo secolo è stato un inferno”.52 E proprio sollecitato dalla drammatica immagine dell’inferno, non ho potuto fare a meno di ripensare allo stupendo dialogo finale tra Marco Polo e Kublai Khan che chiude Le città invisibili di Italo Calvino. Incalzato dalle preoccupazioni del sovrano, l’infaticabile viaggiatore ci offre un drammatico affresco dell’inferno che ci circonda:

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. 53

Ma cosa potrà aiutarci a capire, in mezzo all’inferno, ciò che non è inferno? È difficile rispondere in maniera assoluta a questo interrogativo. Lo stesso Calvino nel suo saggio Perché leggere i classici, pur riconoscendo che i “classici servono a capire chi siamo e dove siamo arrivati”, ci mette in guardia dal pensare che “i classici vanno letti perché ‘servono’ a qualcosa”.54 È vero. Ma, nello stesso tempo, è anche vero che “leggere i classici è meglio che non leggere i classici”.55 Ascoltare un concerto, divorare un romanzo, contemplare un quadro non significa perdere tempo: significa guadagnare tempo per sé e per gli altri, contribuendo a rendere l’umanità più umana. Per questo credo che sia in ogni caso meglio continuare a batterci, pensando che i classici e l’insegnamento, la musica e l’arte, la ricerca scientifica di base e la cultura in generale – nonostante tutti i limiti – possano comunque sostenere il nostro impegno a “resistere”, a tenere accesa la speranza, a intravedere quel raggio di luce che ci aiuti a percorrere un cammino dignitoso. È sempre più importante ricordare l’esistenza dell’inferno a chi non vuole vederlo. È sempre più necessario dispensare ogni nostra risorsa per dare voce alle vittime della violenza e dell’ingiustizia. È sempre più urgente denunciare ogni forma di discriminazione e puntare il dito sulle terribili disuguaglianze sociali ed economiche. E in questa battaglia non saremo soli. I libri e le videolezioni di George Steiner, il suo amore per i classici e per l’insegnamento, la sua passione e le sue taglienti riflessioni critiche, continueranno a essere sempre al nostro fianco.

G. Steiner, Errata, Milano, Garzanti, 1998, p. 128. G. Steiner, Grammatiche della creazione, Milano, Garzanti, 2003, p. 9. 53 Italo Calvino, Le città invisibili, in Id., Romanzi e racconti, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, 1992, vol. II, pp. 497-498. 54 Italo Calvino, Perché leggere i classici [1981], in Id., Saggi. 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, 51 52

Milano, Mondadori, 1995, p. 1824. 55 Ibidem.

Ringraziamenti

Vorrei esprimere la mia gratitudine e il mio affetto a David Steiner che ha seguito la genesi di questo libro e che, insieme a sua sorella Deborah, ha accolto con favore la notizia della sua pubblicazione. Un vivo ringraziamento va anche ad Antonio Troiano (responsabile della sezione cultura del Corriere della Sera) e a Piero Ratto (suo vice) per aver accolto le mie interviste nelle pagine del quotidiano e nel suo inserto (La Lettura) e al direttore, Luciano Fontana, per avermi concesso l’autorizzazione a riutilizzarle in questo volume. A George Steiner debbo un grande dono: attraverso di lui ho avuto modo di incontrare George Embiricos e sua moglie Maria; così – grazie ai numerosi incontri conviviali tra la Svizzera e la Grecia – è nata una lunga e intensa amicizia, frutto anche di un autentico amore condiviso per l’arte, per la letteratura, per la musica e per la cultura classica. Ho dedicato questo lavoro a Piergaetano Marchetti, che ho avuto modo di conoscere grazie a Elisabetta Sgarbi: a lui mi lega ormai una sincera amicizia e un’ammirazione per la sua capacità di coniugare diritto e cultura, erudizione e impegno civile.

Conversazioni con George Steiner

L’intervista postuma*

“Il segreto di una buona vecchiaia non è altro che un patto onesto con la solitudine”: non ho potuto fare a meno di pensare a questa stupenda riflessione di Gabriel García Márquez quando ho appreso la notizia della scomparsa di George Steiner. Ieri è deceduto verso le quattordici, per complicazioni causate da una febbre acuta, nella sua casa di Barrow Road a Cambridge. L’ultima volta ci eravamo sentiti sabato scorso per telefono e mi aveva confidato, con una voce molto roca, che “non ce la faceva più a sopportare la fatica della debolezza e della malattia”. Così Steiner, uno dei più acuti e importanti critici letterari del Novecento, ha vissuto gli ultimi anni della sua vita lontano dai riflettori, dai media, da congressi e conferenze, da qualsiasi appuntamento pubblico. Ho avuto il privilegio di frequentarlo anche in questa ultima fase di isolamento volontario. Dopo oltre vent’anni di incontri tra Parigi, l’Italia e altre città europee, le telefonate mensili e l’annuale visita a Cambridge erano ormai diventate un rito. Ma l’ultimo appuntamento programmato per il 14 giugno del 2018 non ha avuto seguito: il giorno prima George l’ha annullato, perché non si sentiva bene e non voleva mostrarsi affaticato e avvilito. Fu in uno di questi incontri (il 21 gennaio del 2014), che Steiner pensò di concedermi un’intervista postuma: raccogliere alcune sue riflessioni da rendere pubbliche solo all’indomani della sua scomparsa. Una maniera discreta per rompere il silenzio e congedarsi dai suoi amici, dai suoi studenti, dai suoi numerosi lettori. Su questo testo, poi, è ritornato anche lo scorso anno, modificando qui e là qualche parola e chiedendomi di riscrivere alcune frasi. Chissà nel 2070, quando sarà possibile studiare le centinaia di lettere “autobiografiche” ora sigillate nell’archivio del Churchill College di Cambridge, quanti aspetti sconosciuti della sua vita e del suo pensiero potranno venire alla luce! Ora che non c’è più, oltre al profondo dolore per aver perso un caro amico e un vero maestro, avverto con maggiore evidenza le conseguenze di quel forzato silenzio e il vuoto incolmabile che lascia tra i difensori dei classici e della letteratura. Penso ai suoi libri, al suo sapere enciclopedico animato da una

sorprendente curiositas. E penso, soprattutto, alla sua passione per l’insegnamento, alla sua capacità di condividere con gli studenti e con il pubblico l’amore per la letteratura e per la conoscenza. George non eccelleva solo nella parola scritta. Era anche un grande oratore: la sua elegante eloquenza era capace di infiammare studenti e colleghi. Qual è il segreto più importante che vuoi svelare in questa intervista postuma? Posso dirti che per trentasei anni ho indirizzato a una interlocutrice (il suo nome deve restare ancora segreto) centinaia di lettere che rappresentano il mio “diario”, in cui ho raccontato la parte più rappresentativa della mia vita e gli avvenimenti più significativi che hanno marcato la mia quotidianità. In questa corrispondenza, ho parlato degli incontri che ho fatto, dei viaggi che ho compiuto, dei libri che ho letto e scritto, delle conferenze che ho tenuto e anche di episodi semplici e banali. Si tratta di un “diario condiviso” con la mia destinataria, in cui è possibile ritrovare anche i miei sentimenti più intimi e le mie riflessioni estetiche e politiche. Saranno conservate a Cambridge, in un archivio del Churchill College insieme ad altri carteggi e documenti che testimoniano le tappe di una vita, forse troppo lunga. Queste lettere-diario, in particolare, saranno sigillate e potranno essere consultate solo dopo cinquant’anni dalla mia scomparsa, cioè dopo la morte di mia moglie e (forse) dei miei figli. Saranno rese pubbliche, insomma, solo quando molte delle persone a me vicine non ci saranno più. Qualcuno le leggerà dopo tanto tempo? Non lo so. Ma non potevo fare diversamente... Perché un’intervista postuma? Mi ha sempre affascinato l’idea dell’intervista postuma. Di qualcosa che dovrà essere resa pubblica proprio nel momento in cui io non potrò più leggerla sui giornali. Un messaggio per coloro che restano e una maniera per congedarmi facendo sentire l’ultima mia parola. Un’occasione per riflettere e abbozzare bilanci. Del resto, ho raggiunto un’età in cui ogni giorno, più o meno normale, è da considerarsi come un valore aggiunto, come un bonus che la vita ti regala. In questa fase, sono i ricordi del passato che diventano l’unico e vero futuro interiore. È un viaggio all’indietro fondato sulla rimembranza che ci permette di coltivare alcune speranze. Non abbiamo le parole esatte che ci servono per indicare il ricordo che racchiude in se stesso il domani. Mi trovo in un momento della mia vita in cui il passato, i luoghi che ho frequentato, le amicizie che ho intrattenuto, l’impossibilità di rivedere persone che ho amato e continuo ad amare e la stessa relazione con te costituiscono l’orizzonte del mio

futuro più di quanto possa esserlo il futuro reale. C’è qualcosa che ti rimproveri in particolare? Certamente. Mi rimprovero più di una cosa. Ho scritto un piccolo libro intitolato Errata, in cui ho parlato degli errori che ho commesso. Senza alcun dubbio non sono riuscito a cogliere alcuni fenomeni essenziali della modernità. La mia educazione classica, il mio temperamento, la mia carriera accademica non mi hanno permesso di comprendere a pieno l’importanza di certi grandi movimenti del modernismo. Non ho capito, per esempio, che il cinema, in quanto nuova forma espressiva, avrebbe potuto svelare talenti creativi e nuove visioni meglio di altre forme più antiche, come la letteratura o il teatro. Non ho capito il movimento contro la ragione, il grande irrazionalismo della decostruzione e, per certi aspetti, del poststrutturalismo. Avrei dovuto rendermi conto che il movimento femminista – che ho appoggiato a Cambridge con grande convinzione, riconoscendo l’importanza del ruolo delle donne – avrebbe poi assunto, nella lotta per occupare un posto dominante nella nostra cultura, una funzione politica e umana straordinaria. Sul piano più strettamente personale, quali sono gli errori che hai commesso? Avrei dovuto, essenzialmente, avere il coraggio di cimentarmi nella letteratura “creativa”. Ho scritto racconti e da giovane anche versi. Ma non ho voluto mai assumere il rischio trascendente di sperimentare qualcosa di nuovo in questo ambito che mi appassiona molto. Il critico, il lettore, l’erudito, il professore sono mestieri che amo profondamente e che vale la pena di esercitare bene. Però è tutt’altra cosa rispetto alla grande avventura della “creazione”, della poiesis, del produrre nuove forme. E, probabilmente, è meglio fallire nel tentativo di creare, che avere un certo successo nel ruolo di “parassita”, come mi piace definire il critico che vive alle spalle della letteratura. Certo, i critici (l’ho sottolineato più volte) hanno anche loro una funzione importante: nella mia lunga esperienza ho cercato di lanciare, talvolta con successo, alcune opere e ho difeso autori che ritenevo meritevoli di sostegno. Ma non è la stessa cosa. La distanza tra chi crea la letteratura e chi la commenta è enorme: una distanza (per usare una parola pomposa) ontologica, una distanza dell’essere. I miei colleghi universitari, naturalmente, non mi hanno mai perdonato l’aver sostenuto queste tesi: molti baroni e una certa critica strettamente accademica non hanno visto di buon occhio che io prendessi in giro la loro presunzione di essere, talvolta, più importanti degli

autori di cui parlavano... A chi vuoi indirizzare un messaggio in questa intervista postuma? Penso ad alcuni allievi, più brillanti di me, che stanno portando a termine lavori importanti: il loro successo è per me una ricompensa enorme. Penso, con una profonda gratitudine, ad alcuni miei colleghi che mi hanno accompagnato lungo il cammino accademico. E penso soprattutto a persone più intime – come te – che hanno compreso ciò che ho cercato di fare e grazie alle quali ho potuto vivere un’intensa avventura intellettuale e affettiva. Ma, in questo momento, cerco in primo luogo di capire perché stia crescendo sempre di più la distanza tra me e l’irrazionalismo moderno e, oso dire, la crescente barbarie dei media, la volgarità dominante. Credo che stiamo attraversando un periodo che si fa sempre più difficile... Qual è la cosa che ti ha fatto più soffrire? Mi ha fatto soffrire la coscienza di aver pubblicato saggi che avrei desiderato scrivere meglio. Certo: ci sono pagine della mia opera che ho difeso e difendo con convinzione, e anche aspramente. Però so che probabilmente non è ciò che io avrei desiderato di scrivere. E penso spesso all’ingiustizia del grande talento: nessuno capisce come abbiano origine e come siano distribuiti questi doni supremi. Penso a un fanciullo di cinque anni e mezzo che disegna un acquedotto romano vicino Berna e poi, improvvisamente, raffigura un pilastro con delle scarpe: da allora grazie a Paul Klee, questo è il suo nome, gli acquedotti camminano nel mondo intero. Nessuno può spiegare le sinapsi neurologiche che possono scatenare in un ragazzino questo “colpo di fulmine” della metamorfosi, questa intuizione geniale che cambia la realtà. Ho pensato che sia un’ingiustizia il fatto che noi possiamo provare, riprovare, sforzarci ancora, per riuscire solo a restare sulla scia dei grandi, ma senza raggiungerli, perché loro sono diversi da noi. E la cosa che ti ha fatto più piacere? La felicità di aver insegnato e di aver vissuto in molte lingue. Felicità che ho cercato di coltivare ogni giorno fino all’ultimo, tirando fuori dalla mia biblioteca un poema per tradurlo nelle mie quattro lingue (francese, inglese, tedesco e italiano). E anche se non l’ho tradotto bene, ho comunque avuto l’impressione di aver aperto una finestra per far entrare un raggio di sole nella mia quotidianità.

Quali sono i desideri che non hai potuto realizzare? Non ho realizzato tantissimi desideri: viaggi che non ho avuto l’audacia di intraprendere, libri che avrei voluto scrivere e che non ho scritto, ma soprattutto incontri cruciali che ho evitato per mancanza di coraggio o di disponibilità o di energia. Avrei potuto, per esempio, incontrare Heidegger: ma non ho osato. E credo di aver avuto ragione. Ho sempre rispettato un principio: non bisogna importunare i grandi. Loro hanno altro da fare. E poi non ho mai sopportato coloro che si rendono importanti con il collezionare appuntamenti con grandi nomi. Le persone eccellenti hanno il diritto di scegliere gli interlocutori con cui vogliono “perdere” il loro tempo. Poi accade che un giorno, aprendo i libri di memorie, si leggano frasi del tipo “Sono stato importunato dal signor X che ha insistito per incontrarmi, ma non aveva niente da dire”. Ho sempre temuto di poter scivolare in un errore così grossolano. Penso a Sartre, per esempio, un vero specialista nel rivelare circostanze legate a famosi “scocciatori”. Ma tra i desideri che non ho potuto realizzare vorrei ricordarne ancora uno: mi è costato molto rinunciare, negli ultimi tempi, alla compagnia di un cane. Dopo la morte di Muz, ho capito che alla mia età era molto rischioso prenderne un altro. Amo questi animali, ma alla soglia di novant’anni mi sembrava terribile offrirgli una casa per poi lasciarlo improvvisamente solo... Qual è la vittoria più bella? Quella di aver insistito sull’idea che l’Europa continui a essere una necessità importantissima e che, nonostante le minacce e i muri che si costruiscono, non bisogna abbandonare il sogno europeo. Sono antisionista (posizione che mi è costata molto, fino al punto di non riuscire a immaginare la possibilità di vivere in Israele) e detesto il nazionalismo militante. Ma adesso che la mia vita volge al tramonto ci sono momenti in cui ho qualche vivo rimpianto: forse mi sono sbagliato? Non era meglio lottare contro lo sciovinismo e il militarismo vivendo a Gerusalemme? Avevo il diritto di criticare, comodamente seduto sul divano della mia bella casa a Cambridge? Sono stato arrogante quando, dall’esterno, ho cercato di spiegare a persone in pericolo di morte come avrebbero dovuto comportarsi? Ti ricordi di aver pianto nella tua vita? Certo. In questi ultimi tempi mi capita spesso di ricordare particolari circostanze. Penso, per esempio, a grandi esperienze umane che si sono

concluse senza che io ne avessi previsto la fine. La scomparsa improvvisa di alcune persone che non potrai più rivedere. O luoghi che hai frequentato e che non potrai più frequentare. E penso anche a cose più semplici, forse banali: pesci e cibi che hai gustato in alcuni posti magici e che non potrai più gustare. E, talvolta, incontrare nell’angolo di una strada o in un giardino l’ombra di una persona che ami, e di cui hai un enorme bisogno, ma che sai di non poter più raggiungere. Che peso ha avuto l’amicizia nella tua vita? Un peso enorme. E nessuno meglio di te può saperlo. Avrei vissuto malissimo questi ultimi decenni della mia vita senza di te e senza altri due o tre amici, con cui ho intrecciato una fittissima corrispondenza. Interlocutori privilegiati, con cui ho condiviso una profonda intimità affettiva. Forse l’amicizia è più preziosa dell’amore. Difendo questa tesi, perché nell’amicizia non c’è nessun egoismo del desiderio carnale. L’amicizia, quella autentica, si fonda su un mistero che Montaigne (nel tentativo di spiegare la sua amicizia con Étienne de La Boétie) ha racchiuso in una bellissima frase: “Perché era lui; perché ero io.” E l’amore? L’amore ha avuto un peso grandissimo, forse troppo, troppo grande. In primo luogo, la felicità che mi ha dato il mio matrimonio, che non posso spiegare a parole, in maniera razionale. E poi uno o due altri incontri che sono stati decisivi nella mia vita. Penso che le donne abbiano una sensibilità potenziale superiore a quella degli uomini. Ho avuto l’enorme privilegio di fare l’amore parlando diverse lingue (ho scritto molto su questo tema): il dongiovannismo poliglotta è stato per me una grande ricompensa, un’occasione per vivere molteplici vite. Ed è curioso che né la psicologia, né la linguistica, si siano mai occupate di questo appassionante fenomeno. Ecco perché in Dopo Babele, ho coniato una definizione originale della traduzione simultanea: è un orgasmo ben riuscito. Il fenomeno delle parole e dei silenzi in relazione all’eros è sempre stato per me un tema capitale... Ti capita di pensare alla morte? Continuamente. Ma non solo ora. Anche quando ero giovane mi capitava. Sono cresciuto all’ombra della minaccia hitleriana e ricordo bene che della mia classe di liceo solo io e un altro compagno siamo riusciti a sopravvivere. Papà e

la vita mi hanno preparato ad affrontare i temi della perdita e del pericolo della morte. Adesso penso che il confronto con la morte possa essere interessante, possa rivelarsi una maniera per capire meglio tante cose... Tu pensi che ci sarà qualcosa dopo la morte? No... sono convinto che non ci sarà niente. Però il momento del passaggio potrà essere molto interessante. Mi pare infantile la reazione di coloro che, dopo aver pensato sempre al nulla, nella fase finale della loro vita cambiano idea, immaginando un “mondo” ultraterreno. Credo che sia un fatto di dignità il non avere paura: non bisogna perdere il rispetto della ragione e le cose vanno chiamate chiaramente con il loro nome. Certo, si può cambiare idea. Ho avuto la fortuna di vivere sempre a contatto con grandi scienziati e so bene che ogni giorno si imparano nuove cose e se ne correggono altre. Ma questo è normale nella scienza. Credere in una vita altrove, invece, è ben altro affare... In questa intervista postuma, vorresti scusarti con qualcuno con cui hai litigato? Sì, vorrei scusarmi con una persona di cui non posso dire il nome. Penso che lui stesso preferirebbe restare anonimo. Si tratta di un uomo eminente, per lungo periodo amico intimo, con cui ho litigato per una stupida questione: una frase mal scritta in una lettera ha finito per mandare in frantumi la nostra antica relazione. Ho imparato tanto da questa esperienza: come, talvolta, un attimo insignificante possa trasformarsi in qualcosa di decisivo nella tua vita. Corriamo spesso questo rischio: un gesto irrilevante o una semplice parola, in un solo secondo, possono provocare vere e proprie tragedie. E adesso, dopo tantissimi anni, vorrei dire a questo mio amico: vieni, pranziamo insieme e ridiamoci sopra. Però, con molto rimpianto, mi rendo conto che ormai non c’è più tempo. È troppo tardi... Ma la tua irascibilità è famosa. È stato sempre un punto debole del tuo carattere? È vero. Ma non solo da adulto. Ricordo che da ragazzo andavo in escandescenza per piccole cose e, talvolta, senza vere ragioni. Questi comportamenti hanno creato molte inimicizie. Poi con gli anni ho dovuto imparare a moderarmi. Ma ho anche pagato per la mia ironia, spesso molto tagliente e non sempre gradita. E forse la tristezza, frutto della coscienza della mia mediocrità, ha messo non poche volte a disagio alcuni miei interlocutori. In tanti anni ho collezionato, purtroppo, molte ostilità e ho rotto tante amicizie. È triste riconoscerlo. Ma è così...

Ricordi un consiglio ricevuto che ti ha cambiato la vita? Eccome: soprattutto quelli che, con grande affetto, ho avuto in dono dalla mia mamma. Debbo a lei gli incoraggiamenti a una fruttuosa convivenza con il mio handicap. Da piccolo, per scuotermi nei momenti di sconforto, mi diceva che la “difficoltà” era un “dono” divino: oltre ad avermi salvato dal servizio militare, infatti, mi aveva anche offerto l’occasione per imparare a fare meglio. Per cercare di capire che senza sforzo non si ottiene nulla nella vita. L’ho ricordato in diverse circostanze: uno dei traguardi più belli della mia esistenza è stato quando, per la prima volta, sono riuscito ad allacciare le scarpe con la mano offesa...

Corriere della Sera, 4 febbraio 2020; in traduzione spagnola El País del 5 febbraio 2020.

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Altre conversazioni

Uno scienziato mancato*

“Avrei voluto diventare uno scienziato. Ma al primo anno dell’Università di Chicago, tra il 1949 e il 1950, per colpa della matematica i miei sogni svanirono presto. Non fu facile rassegnarsi, soprattutto dopo aver avuto il privilegio di ascoltare le lezioni di fisica del grande Enrico Fermi”: George Steiner ci accoglie nel suo studio ottagonale che campeggia nello splendido giardino fiorito della casa di Cambridge. Qui, nel suo “rifugio”, a settantasette anni compiuti, uno dei critici letterari più importanti del Novecento non nasconde la sua prima grande delusione. E nonostante gli studi umanistici gli abbiano fatto conquistare premi e cattedre di prestigio internazionale, rimane ancora vivo il rimpianto per quel mondo fatto di numeri e di grandi questioni legate ai misteri della vita e dell’universo. “Avevo studiato chimica, fisica e un po’ di biologia nella speranza di poter continuare su quella strada. Ma l’esame di matematica non andò bene. Era un momento storico particolare. La scienza, dopo l’invenzione della bomba atomica, veniva sempre più identificata con la fisica nucleare. E mi fecero capire che senza la matematica, senza i suoi aspetti creativi e originali, non valeva la pena di continuare. Probabilmente, qualche anno più tardi, mi avrebbero detto: ‘Provi con la biologia o con un’altra disciplina scientifica.’ Non a caso negli Stati Uniti, in quel preciso frangente, c’era una frase sadica sulle porte dei laboratori: ‘O si fa fisica nucleare o si fanno corbellerie.’” Però quel primo anno di studi scientifici non fu del tutto inutile. Subito dopo l’università, George Steiner fu immediatamente accolto nell’Institute for Advanced Study di Princeton, uno dei centri di ricerca più prestigiosi degli Stati Uniti. “Qui, per ben due anni, ho frequentato uno scienziato eccezionale, Robert Oppenheimer, direttore dell’Istituto. Era uno studioso di immensa genialità: si diceva che solo Leibniz e lui, per le loro straordinarie conoscenze, fossero in grado di individuare i problemi di fondo in ogni branca del sapere. Lo ricordo attorniato da tanti premi Nobel. E, nonostante i suoi ottimi lavori di astrofisica, non ricevette mai la fatidica telefonata da Stoccolma. Credo che questa ‘attesa’ fosse un vero dramma per un uomo così ambizioso.” Proprio in quegli anni,

nella prestigiosa comunità scientifica di Princeton, erano al centro del dibattito gli effetti devastanti della bomba atomica. “Ricordo che già alcuni autorevoli studiosi avevano detto no all’uso militare del nucleare: Leo Szilard e lo stesso Albert Einstein. Ma, dalla maggior parte dei ricercatori, la bomba veniva considerata un deterrente per evitare lo scoppio di altre guerre. E poi si parlava anche delle rivoluzioni positive che questa energia avrebbe determinato nella vita quotidiana. Nello stesso tempo, però, cominciavano a circolare, sottovoce, i primi articoli in cui si sospettava un rapporto tra la morte di cancro di alcuni giovani ricercatori e il nucleare. Poco dopo scrissi un saggio, che non ho mai pubblicato, interamente dedicato al patto faustiano tra la scoperta nucleare e il cancro.” L’amore per le scienze, come i primi grandi amori, durano tutta la vita. E, di fatto, George Steiner non ha mai smesso di divorare libri scientifici. “Dal 1964, ho avuto la fortuna di vivere a Cambridge, tra veri prìncipi della scienza e premi Nobel. Passo molto tempo con loro e ascolto con interesse i resoconti delle loro ricerche. Adesso ci troviamo davanti a tre grandi porte che dovrebbero aprirsi presto: quella dell’origine dell’universo e del tempo (i buchi neri, la spiegazione del Big Bang, la cosmologia), quella della creazione in vitro (le molecole replicative) e quella, più inquietante, della struttura chimica dell’Io (in che maniera un’aspirina, o un qualsiasi altro farmaco, può cambiare chimicamente la personalità umana).” Questioni che, per Steiner, anche la stessa letteratura ha anticipato, a suo modo, in opere interamente dedicate all’intreccio tra scienza e morale, apparati tecnologici e vita civile. “Basta leggere Il mondo nuovo di Aldous Huxley, un grande romanzo pubblicato nel 1932, per capire che tipo di implicazioni le scoperte scientifiche possono avere nella vita quotidiana degli esseri umani. Avremo degli svantaggi. Ma avremo anche dei benefici enormi. Proviamo a immaginare il nostro futuro quando si arriverà a riparare il gene che provoca l’Alzheimer.” Per Steiner, spetta innanzitutto agli umanisti abbracciare il sapere scientifico. “Noi studiamo il passato, ci occupiamo del ‘tramonto’. Gli scienziati invece ci parlano del domani e del dopo-domani. C’è un enorme squilibrio. E tocca soprattutto a noi comprendere le scienze. I grandi scienziati, con qualche eccezione, esprimono sempre una certa modestia perché non possono bluffare. In questo campo chi bluffa viene subito eliminato. Un giorno un Nobel, a Cambridge, mi chiede di spiegargli una pagina di un certo signore francese: nonostante gli sforzi, non riusciva a capirla. Era un saggio di Lacan. Io provai vergogna perché era un linguaggio incomprensibile, vuoto, tronfio, arrogante,

totalmente oscuro. Avrei voluto dire all’amico: ‘Non perdere più tempo con questi libri...’” Steiner, si sa, è tagliente nei suoi giudizi. E non perde occasione di deridere anche i tentativi, effettuati negli ultimi decenni del secolo scorso, di teorizzare una “scienza della letteratura”. “Nel campo della letteratura e dell’estetica è veramente ridicolo pensare a un metodo scientifico: non ci sono prove possibili. Tolstoj, per esempio, diceva che Re Lear era un’opera teatrale mal riuscita. Si possono opporre opinioni a opinioni, ma nessun metodo ci permetterà di verificare il nostro giudizio estetico. Siamo nel campo delle intuizioni, del gusto, del contesto storico, delle ideologie. Niente a che vedere con la scienza...” Ben altra cosa è, per Steiner, servirsi della scienza per discutere questioni inerenti alla lingua e alla letteratura. “In Dopo Babele, nel tentativo di comprendere la presenza di oltre ventimila lingue in un piccolo pianeta, la teoria darwiniana mi è stata molto utile. Come le tante specie di mosche, anche le lingue riempiono una nicchia nella coscienza umana e hanno diritto a sopravvivere. Uccidere una lingua è come eliminare per sempre una specie animale o vegetale, o distruggere i paesaggi che ci circondano. Anche i grandi temi legati alle questioni dell’inizio mi hanno affascinato. Nella Grammatica della creazione ho tenuto presente il recente dibattito sull’origine dell’universo e gli sviluppi della neurofisiologia.” E poi non bisogna dimenticare che tanti grandi scrittori hanno potuto contare sulle loro conoscenze scientifiche. “Penso a talenti eccezionali come Robert Musil e Thomas Mann. Ma anche alla prosa letteraria di scienziati puri come Galileo o Descartes, Darwin e lo stesso Solženicyn.” Eppure, per Steiner, la scienza dovrà fare i conti con un grande problema che rischia di ipotecarne il futuro: l’ultraspecializzazione. La velocissima moltiplicazione delle branche del sapere finisce per rendere sempre più difficile una visione d’insieme delle questioni e dei risultati acquisiti. “Gli scienziati a Cambridge sono molto inquieti. Oggi si fonda una rivista specializzata e già domani ne nascono altre cinque specializzate in diversi sottosettori. Come sarà possibile offrire un’educazione scientifica ai giovani, in un mondo dove i grandi risultati sono raggiunti da ricercatori che hanno meno di trent’anni? E ancora: senza una visione d’insieme, senza scienziati alla Oppenheimer, quale futuro per la scienza e per l’umanità?” Steiner ci congeda: è l’ora della passeggiata con Ben, il suo amatissimo cane. E, nel salutarci, il grande umanista ripete con convinzione: “Oggi non ci si può dire uomini o donne di cultura, nel senso

generale della parola, senza conoscere la scienza.”

Corriere della Sera, 21 agosto 2006. Questa intervista è stata realizzata insieme al mio carissimo amico Giulio Giorello (1945-2020): ringrazio sua moglie, Giulia Pelachin, per avermi concesso l’autorizzazione a pubblicarla. *

La rottura con il New Yorker*

“Il New Yorker è una rivista unica al mondo. Nella storia della cultura europea non esiste qualcosa di simile. La lista dei suoi illustri collaboratori (Borges, Nabokov, Salinger, Brodskij) è una specie di Panthéon della letteratura del Novecento.” George Steiner, una delle voci più autorevoli della cultura contemporanea, non nasconde la sua commozione nel ricordare gli appuntamenti settimanali che per oltre trent’anni hanno segnato la sua attività di critico letterario sullo storico magazine newyorchese. Dal 1966 al 1997, il celebre comparatista ha offerto ai numerosi lettori del New Yorker – oggi gli abbonamenti superano di gran lunga il milione – più di centotrenta articoli. La sua rubrica fissa ha dato vita a una pinacoteca in cui è possibile ritrovare brillanti ritratti, solo per citarne alcuni, di Beckett e Orwell, Borges e Forster, Lévi-Strauss e Solženicyn, Eliot e Conrad, Canetti e Rilke, Bulgakov e Foucault, Cellini e Benjamin, Brecht e Cioran, Pessoa e Céline. Partendo da un romanzo o da una biografia, da un libro di storia o di filosofia, da un carteggio o da un saggio, Steiner ha sempre cercato di leggere i testi in profondità: prendere le mosse da una parola o da una frase per poi svelare inediti, e quasi sempre provocatori, cortocircuiti tra scrittura e mondo. Un esercizio della critica che si è incarnato in uno stile creativo capace di catturare l’essenza di un autore in una serie di suggestive e felici immagini metaforiche (la prosa di Bernhard, per esempio, ricorda in alcuni momenti una “sega monotona e mal affilata che ronza e stride senza fine”). Di questa straordinaria avventura al New Yorker offre oggi una nutrita testimonianza l’ultimo volume di Steiner, Letture, a cura di Robert Boyers, pubblicato da Garzanti. Raccoglie ventotto saggi, in cui figura anche una sezione interamente italiana con interventi sullo scrittore Salvatore Satta e su libri dedicati a Cavour, Garibaldi, Verdi e al rapimento Moro. Il grande comparatista – che incontro a Milano, in una saletta riservata del ristorante La Cometa – accetta con gioia di ripercorrere le tappe significative della sua esperienza. “Nel 1966, dopo la fine della collaborazione del grande critico

Edmund Wilson, ricevo una telefonata da William Shawn che mi chiede di recensire la biografia di Churchill scritta dallo stesso figlio dello statista inglese. Non era un buon libro, ma conteneva spunti interessanti. Subito dopo mi chiese un’altra recensione e poi un’altra ancora. E, dopo avermi messo alla prova per ben tre volte, mi propose una rubrica fissa...” “Shawn,” continua Steiner, “era un maniaco della scrittura. Spesso mi telefonava anche di notte, dimenticando il fuso orario tra New York e Ginevra, per discutere una virgola, un qualsiasi dettaglio stilistico. Per me l’esercizio della critica deve tradursi in uno stile alto. Molti colleghi accademici, che scrivono male, mi hanno accusato di essere un amateur, un ‘dilettante’. Ma l’ultraspecialista non sarà mai un vero critico...” In tre decenni di intenso lavoro, il comparatista ricorda la grande libertà di cui ha goduto nella scelta dei temi e dei libri da recensire. “Una sola volta,” precisa Steiner, “Shawn mi spiegò che non avrebbe potuto pubblicare un mio articolo che, tra l’altro, gli era piaciuto. Avevo analizzato la ristampa di una biografia di un’ebrea romantica, Rahel Varnhagen, che Hannah Arendt aveva pubblicato nel 1958. Nel saggio mi chiedevo che senso avesse rimettere in circolazione, dopo tanti anni, un’opera giovanile ormai superata. Ma Shawn mi rivelò che Hannah, in fin di vita all’ospedale, non avrebbe certo apprezzato. Mi sembrò una scelta umanamente giusta...” Qualche raro “rifiuto” però venne anche da Steiner. “Ho avuto una regola nella mia vita che ho sempre cercato di rispettare: non parlare mai di autori che non apprezzo o con i quali ho avuto dispute personali. Per questa ragione, tre o quattro volte mi è capitato di non accogliere l’invito...” Per Steiner, infatti, la grande critica è innanzitutto un debito d’amore verso i testi che abbiamo letto e che ci hanno entusiasmato. “È rarissimo,” spiega il comparatista, “che io possa parlare male di un libro: in genere non ne parlo, se non ne riconosco il valore. Sono un critico positivo: scrivere di un libro significa anche saldare un debito di gratitudine. Uno dei rari casi in cui ho trasgredito questa regola riguarda proprio un articolo sul New Yorker dedicato allo scrittore Cioran: le sue opere odorano di falso...” L’articolo su Cioran non a caso figura nell’antologia. “La selezione dei miei saggi,” confessa Steiner, “è stata liberamente effettuata dal curatore del volume: Boyers ha scelto e io ho visto l’indice solo quando ormai il libro era in bozze. Mi è sembrata un’ottima cernita. Sono soprattutto contento per la presenza degli interventi su Albert Speer (mi intrigava il suo autentico amore per Hitler), su Lévi-Strauss (che ho contribuito a far conoscere agli americani), sul carteggio Benjamin-Scholem (uno dei capolavori filosofico-letterari del secolo),

sullo storico dell’arte Anthony Blunt (spia al servizio dei russi) e sul romanziere italiano Salvatore Satta (purtroppo la speranza che il mio articolo incoraggiasse traduzioni delle sue opere è stata vana). Ma la mia assoluta preferenza va al saggio sul gioco degli scacchi: mi sono divertito tantissimo a rileggere Nabokov e altri scrittori alla luce di questo straordinario gioco di intelligenza. Gli scacchi rappresentano il simbolo del conflitto ultimo del pensiero. Sembra che siano espressione di una musica matematica...” E a proposito di scacchi, Steiner ci tiene a ricordare un saggio che finì per occupare quasi l’intero numero del New Yorker e che successivamente fu pubblicato come libro. “Si tratta,” continua sorridendo il critico, “del resoconto dello storico scontro in Islanda tra Bobby Fischer e Boris Spassky. Fischer, che all’ultimo momento aveva deciso di non giocare, arrivò con venti minuti di ritardo. Tutti pensammo che avrebbe perso. Invece cominciò a fare le prime mosse e distrusse l’avversario. Ho visto nel campione la crudeltà pura: niente poteva sedurlo. Alcuni a lui vicini mi raccontarono che aveva ricevuto una telefonata da Kissinger per convincerlo a giocare in nome degli Stati Uniti. Ma Fischer chiese chi fosse questo Kissinger. E quando seppe che si trattava del segretario di stato sbottò: ‘Cosa vuole da me questo stupido che non sa nulla di scacchi?’” Ma questo lungo articolo non poteva figurare nell’antologia. “Letture,” osserva Steiner, “raggiunge già quasi quattrocento pagine. Avrei voluto, certamente, che altri miei interventi fossero presenti: quello su Broch (autore che stimo tantissimo) o quello su Celan (che avevo contribuito a far conoscere al pubblico anglosassone attraverso le pagine del Times)...” Succedere al New Yorker al grande critico Edmund Wilson richiedeva un impegno particolare. “Per me era un grande onore,” racconta Steiner, “e così decisi di scrivere a Wilson per chiedergli consigli. Mi rispose che l’unico consiglio che poteva darmi riguardava la vita privata: ‘non divorzi mai; i miei tre divorzi mi hanno costretto a devolvere alle ex mogli tutti i miei notevoli guadagni di collaboratore...’” Al trentunesimo anno però un “incidente” diplomatico segna la fine del sodalizio con il New Yorker. “All’epoca era Tina Brown,” spiega Steiner, “al timone della rivista. Un giorno mi chiama la sua segretaria dicendomi che la Brown voleva parlarmi con urgenza e mi invitava a pranzo a New York. Non l’avevo mai vista prima e appena arrivato nel celebre ristorante Four seasons mi chiese a bruciapelo: ‘È vero che lei, durante una cena a Londra, ha affermato che io trivializzo e barbarizzo la rivista?’ Risposi di sì. E lei, con grande

freddezza, mi disse che la mia collaborazione era finita. Non ho mai indagato per sapere tra gli otto invitati presenti nella fatale riunione londinese chi fosse stato Giuda...” Il ricordo di quella rottura è ancora vivo. Ma, un momento prima di salutarmi, Steiner aggiunse: “Il mio agente con grande saggezza mi confortò: ‘George puoi essere contento. Hai tenuto la tua rubrica per tantissimi anni e prima o poi doveva finire...’”

Corriere della Sera, 17 luglio 2010.

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Correggere gli errori del mondo: su Sebastiano Timpanaro*

“Sì, è vero: senza la straordinaria figura di Sebastiano Timpanaro non avrei trovato l’ispirazione necessaria per il protagonista del Correttore.” George Steiner, per la prima volta, accetta di parlare senza veli del suo rapporto con il grande filologo scomparso il 26 novembre del 2000. E lo fa in occasione di un convegno, “La lezione di un Maestro”, organizzato nell’Università della Calabria, per il quinto anniversario della morte di Timpanaro, dal Dipartimento di Filologia e dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Tra gli illustri invitati, la presenza di Steiner suona come un sentito omaggio. “Alla mia età solo una forte ragione ti spinge a intraprendere un così lungo viaggio da Cambridge fino a Cosenza.” E di ragioni ce ne saranno state tante, se fu proprio Timpanaro a fornire la materia narrativa per Il correttore, pubblicato da Garzanti nel 1992. “Mi aveva sempre affascinato la possibilità di concepire la filologia come allegoria dello scrupolo morale. E in questo eccezionale filologo, che ha lavorato per tantissimi anni come correttore di bozze, ho trovato un esempio vivente di come sia stato possibile coniugare due anime tanto distanti: lo specialismo dell’erudizione e l’entusiasmo per la rivoluzione.” Un fatto singolare nella storia di una scienza che non ha avuto molti studiosi in grado di intrecciare il rigore ecdotico all’impegno politico. “Credo che Timpanaro sia stato uno dei pochi a mantenere unite, a un così alto livello, queste due passioni che sembrano tanto in contraddizione. Mentre i grandi filologi dell’Ottocento e del Novecento, con qualche eccezione, si sono tenuti molto lontano dalla politica, egli, al contrario, ha fatto della filologia pura continuando a coltivare le sue speranze rivoluzionarie in campo sociale.” Ma anche se lo studioso e il personaggio del romanzo hanno tanto in comune, Steiner ci tiene a precisare che si tratta comunque di una finzione letteraria. “Non bisogna dimenticare che Il correttore è basato su un Timpanaro immaginario. Ho cercato di dimostrare in questo racconto che un correttore di bozze può essere l’allegoria di qualcuno che voglia correggere il mondo. Correggere un errore tipografico, infatti, non è una piccola cosa: significa

credere in un mondo dove possano esistere l’esattezza e la verificabilità. Tutto ciò può rinviare simbolicamente a un’utopia della precisione. Ci può essere, insomma, uno stretto rapporto tra correggere lo stato sociale, filosofico e politico del mondo e, nello stesso tempo, correggere gli errori sulla pagina: il correttore di bozze, come il rivoluzionario, è un uomo che lavora per un sogno molto utopico. Non esiste, infatti, un’edizione perfetta. Anche la migliore edizione conterrà sempre qualche errore.” La conversazione scivola lentamente verso il ricordo del primo “incontro” con Timpanaro. “Stavo certamente rileggendo alcune poesie di Leopardi, uno dei miei autori preferiti, quando ho trovato una serie di riferimenti ai suoi saggi. Subito dopo ho scoperto Lapsus freudiano, tradotto in inglese nel 1975.” La critica a Freud e alla psicanalisi, condotta abilmente con gli strumenti della filologia, contribuì a creare una ulteriore convergenza di interessi. “Anch’io, nelle vesti però di semplice dilettante, ho sempre nutrito una forte ostilità per la psicanalisi. Non voglio naturalmente sminuire né l’importanza che essa ha avuto, né la genialità di Freud. Ma come metodo, come terapia mi ha lasciato veramente molto scettico. E devo dire che Lapsus freudiano è un vero capolavoro di humour, di ironia, di argomentazioni creative. Per me la scoperta di questo saggio è stata una grande gioia.” Ma qui Steiner avanza un’ipotesi. “Non c’è dubbio che la filologia sia stata uno strumento importante per mettere in discussione Psicopatologia della vita quotidiana. Bisognerebbe capire però, come lo stesso Timpanaro lascia intendere in una lettera indirizzata a Carlo Ginzburg, se nella sua lotta alla psicanalisi non abbia anche pesato un fallimento terapeutico da lui stesso sperimentato.” Una tappa importante nel rapporto Steiner-Timpanaro è segnata dalla pubblicazione italiana di Vere presenze (1992). Nella premessa il critico di Cambridge non esita a esprimere la sua ammirazione per l’illustre filologo: “Personalmente mi sento debitore dei suoi metodi di lettura e di critica testuale. I suoi studi di frammenti poetici latini arcaici, il suo lungo dialogo con le note filologiche di Leopardi, le sue interpretazioni di testi-chiave nella storia dell’illuminismo e del materialismo marxista hanno fatto di Timpanaro uno dei più eminenti maestri moderni della comprensione.” Steiner, inoltre, ci tiene a sottolineare di sentirsi impegnato, insieme al filologo, nella lotta comune contro l’antistoricismo poststrutturalista e decostruzionista. E per questo, scrive nella premessa, “sarebbe importante per me se Timpanaro leggesse questo libro, fosse soltanto per giudicarlo inaccettabile”.

La reazione di Timpanaro non tardò a venire. Prima una cordiale lettera del 10 aprile 1992 indirizzata allo stesso Steiner (“Da molti anni sono un ammiratore dei Suoi scritti e delle Sue opere artistiche ed etico-politiche”) e poi una serie di appunti per un’inedita recensione a Vere presenze in cui, insieme ai consensi, non mancano rispettosi dissensi. Ma alla lettera di risposta del critico di Cambridge (25 aprile), ancora ricca di elogi e di riconoscimenti, non ne seguirono altre. Le due missive e la nota manoscritta, pubblicate da Michele Feo sul numero speciale de Il Ponte interamente dedicato a Timpanaro (ottobrenovembre 2001), restano le uniche testimonianze di un rapporto diretto tra i due importanti interlocutori. Probabilmente il silenzio si spiega con la pubblicazione, pochi mesi dopo, dell’opera di Steiner, Il correttore, di cui il critico dà notizia allo stesso Timpanaro nella sua lettera di aprile. Il romanzo, infatti, suscitò molte polemiche. “Gli attacchi che ho ricevuto da alcuni pretoriani del pensiero di Timpanaro mi hanno molto sorpreso. E proprio di recente ho letto una lettera, che all’epoca non potevo conoscere, indirizzata a Cases il 29 gennaio 1966: qui lo stesso filologo fa riferimento al ‘suo sistema nervoso scassato che non gli consente di parlare in pubblico’ e alla sua scelta forzata di essere correttore di bozze. Questo, in fondo, è il senso del mio romanzo: la parabola del Correttore è tutta in questa frase.” Ma Timpanaro, non riconoscendosi nel personaggio, si rifiutò esplicitamente di esprimere il suo giudizio sul romanzo. “A distanza di tempo mi rendo però conto,” conclude Steiner, “che alcuni dettagli personali potrebbero essere stati percepiti come una violazione della privacy da un uomo così discreto, così lontano dalla mondanità. Forse è stata questa invasione della sua vita intima a irritarlo. Ma, lo ripeto, non era nelle mie intenzioni ferirlo. Al contrario: volevo solo rendere omaggio a uno dei più grandi filologi del Novecento.”

Corriere della Sera, 27 gennaio 2006.

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La deriva dell’Europa*

“Ho un pensiero particolarmente affettuoso per i miei lettori italiani: la mia età non mi consente più di viaggiare, né di uscire di casa. Però il ricordo dei miei soggiorni a Roma, a Torino, a Bologna, a Venezia, a Firenze, a Palermo, a Cosenza, a Napoli è ancora vivo. Come dimenticare il profumo del gelsomino in Calabria e in Sicilia, i sapori dei cibi italiani, i vini piemontesi delle Langhe. E poi le chiese, i palazzi e i monumenti, i preziosi musei, le opere d’arte di inestimabile valore. Qui ho vissuto in una delle mie tantissime patrie...” George Steiner, uno dei critici letterari più influenti del Novecento, ha compiuto il 23 aprile novant’anni e decide di rompere il suo lungo silenzio per i lettori del Corriere della Sera. Ormai da molto tempo vive ritirato nella sua casa di Cambridge, nel Regno Unito. E ha rinunciato finanche a percorrere pochi metri per raggiungere il suo studio ottagonale nel giardino, dove per numerosi decenni ha pensato ed elaborato i suoi preziosi libri. “Sento la fatica degli anni,” ci confessa Steiner, “e molti dei miei amici non ci sono più. Però i ricordi mi mantengono vivo. E nell’album dei miei momenti felici, l’Italia occupa un posto di primo piano. Non potrò mai dimenticare la cerimonia della laurea honoris causa nell’Università di Bologna e le serate passate con Umberto Eco. Così come è ancora forte l’emozione dell’inaugurazione del Salone del Libro di Torino o delle lezioni tenute in molti licei meridionali, tra tanti studenti appassionati.” Il salone-biblioteca, con ampie vetrate sul prato inglese, si è trasformato negli ultimi anni nel suo quartier generale: “Adesso passo le mie giornate in poltrona,” aggiunge Steiner, “leggendo soprattutto libri di storia, di filosofia e di politica. Non posso farlo per molte ore, perché mi stanco facilmente. Ma è un appuntamento a cui non rinuncio. E mi delizio anche con la musica classica. Proprio ieri, mentre ascoltavo i madrigali di Gesualdo, ho ripensato all’emozionante viaggio a Venosa, sulle tracce dello straordinario musicista e del suo sublime conterraneo, Orazio...” All’inevitabile domanda sulla scrittura, Steiner risponde con un eloquente

silenzio. “L’età e i malanni,” afferma dopo una lunga pausa, “non mi permettono di concentrarmi e di creare facilmente.” Ma già nel febbraio del 2008, all’indomani della traduzione francese presso Gallimard del volume I libri che non ho scritto, aveva rivelato al Corriere della Sera la presa d’atto di “un’impossibilità”: “Ho avvertito il bisogno di dire addio: un quasi ottantenne non ha più il tempo per scrivere ciò che vorrebbe scrivere.” Un congedo poi smentito dai fatti e dai nuovi saggi pubblicati. Da allora, però, sono passati dieci anni. E Steiner sa bene che il successo e i premi, le cattedre prestigiose e i riconoscimenti più importanti non impediscono di conoscere la tristezza dell’“impossibilità”. Autobiografia e riflessione critica in un intellettuale di razza come lui si intrecciano a tal punto che un saggio non scritto “è come un’ombra attiva che accompagna, con ironia e tristezza, le opere realizzate. Si tratta di una vita che avremmo potuto vivere e non abbiamo vissuto, di un viaggio che avremmo potuto compiere e non abbiamo compiuto”. L’impossibile talvolta può diventare possibile. E nel conversare con Steiner su questo delicato tema non ho potuto fare a meno di ripensare allo scambio di battute tra Don Chisciotte e lo scrittore-galeotto Ginesio di Passamonte: “‘E come s’intitola il libro?’ chiese Don Chisciotte. ‘La vita di Ginesio di Passamonte,’ rispose lo stesso [Ginesio]. ‘Ed è finito?’ domandò Don Chisciotte. ‘Come può esser finito,’ rispose lui, ‘se ancora non è finita la mia vita?’” Per un critico come Steiner l’esercizio della scrittura, in effetti, coincide con la vita stessa e, certamente, non può finire se non finisce la vita. E anche se lui sembra escluderlo categoricamente, chissà se i suoi numerosi e affezionati lettori non riceveranno ancora in regalo un breve saggio o un nuovo sorprendente intervento. Adesso non sembra essere questa, in verità, la sua preoccupazione più importante. Prima di congedarsi, Steiner esprime la sua inquietudine per la deriva dell’Europa: “Ora si respira un’aria pericolosa nel nostro continente. Sono molto in apprensione per il vento xenofobo e antisemita che sta soffiando in molti paesi europei. L’odio per lo straniero, la caccia all’ebreo, l’apologia dell’autodifesa e delle armi sono i pericolosi segni di una terribile regressione, un preludio alla violenza.” E con un filo di voce conclude: “Continuando su questa strada della barbarie cosa resterà dell’Europa dei caffè, dell’Europa del pensiero e della cultura?”

Corriere della Sera, 27 aprile 2019.

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