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Italian Pages 172 Year 2013
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FILOSOFIE N. 306 Collana diretta da Pierre Dalla Vigna (Università “Insubria”, Varese) e Luca Taddio (Università degli Studi di Udine) COMITATO SCIENTIFICO
Paolo Bellini (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como) Claudio Bonvecchio (Università degli Studi dell’Insubria, Varese-Como) Mauro Carbone (Université Jean-Moulin, Lyon 3) Morris L. Ghezzi (Università degli Studi di Milano) Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza) Enrica Lisciani-Petrini (Università degli Studi di Salerno) Antonio Panaino (Università degli Studi di Bologna, sede di Ravenna) Paolo Perticari (Università degli Studi di Bergamo) Susan Petrilli (Università degli Studi di Bari) Augusto Ponzio (Università degli Studi di Bari) Luca Taddio (Università degli Studi di Udine) Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis) Antonio Valentini (Università di Roma La Sapienza) Jean-Jacques Wunemburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)
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Gabriella Pelloni
GENEALOGIA DELLA CULTURA Costruzione poetica del sé nello Zarathustra di Nietzsche
MIMESIS Filosofie
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Stampato con il contributo del Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere dell’Università degli Studi di Verona
© 2013 – MiMesis edizioni (Milano – Udine) Collana, Filosofie n. 306 Isbn 9788857520506 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]
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INDICE
elenco delle abbreviazioni adottate
9 11
PreMessa i. la catastrofe: i seMinari di c.G. JunG su Così parlò Zarathustra 1. La soglia epocale 2. Della forza dei simboli e del loro divenire 3. Wotan, o della patologizzazione del simbolo 4. Patologie collettive 5. L’io e la massa
21 21 26 33 43 48
ii. un’archeoloGia della cultura nell’ePoca Nel segno dell’immaginazione Il progetto terapeutico della genealogia Mitologie romantiche Dell’affermazione dionisiaca
55 55 65 77 86
iii. il “tiPo zarathustra” 1. Metamorfosi dello spirito. Sulla cura del singolo 2. Gesto, immagine, poesia. Sulla danza e sul volo 3. Il “grande ritmo”. Per un’etica dello stile 4. Formula e destino
99 99 109 123 139
del suo declino
1. 2. 3. 4.
edizioni adottate delle oPere di friedrich nietzsche
147
biblioGrafia
149
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Qui tutte le cose accorrono carezzevoli al tuo discorso e ti lusingano, perché vogliono galopparti sulla schiena. Su ogni similitudine qui tu galoppi verso ogni verità. F. Nietzsche, Il ritorno a casa
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ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI ADOTTATE
GT Nascita della tragedia PZG La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e scritti 1870-1873 WL Su verità e menzogna in senso extramorale DS David Strauss, l’uomo di fede e lo scrittore HL Sull’utilità e il danno della storia per la vita SE Schopenhauer come educatore WB Richard Wagner a Bayreuth MA/I e II Umano, troppo umano I e II M Aurora FW La gaia scienza e Idilli di Messina Za Così parlò Zarathustra JGB Al di là del bene e del male GM Genealogia della morale WA Il caso Wagner GD Il crepuscolo degli idoli AC L’anticristo EH Ecce Homo DD Ditirambi di Dioniso e poesie postume NW Nietzsche contra Wagner WM La volontà di potenza (a cura di M. Ferraris e P. Kobau) NL III/III-I Frammenti postumi 1869-1872 NL III/III-II Frammenti postumi 1872-1874 NL IV/I Frammenti postumi 1875-1876 NL IV/II Frammenti postumi 1876-1878 NL IV/III Frammenti postumi 1878-1879 NL V/I Frammenti postumi 1879-1881 NL V/II Frammenti postumi 1881-1882 NL VII/I-I Frammenti postumi 1882-1884 NL VII/I-II Frammenti postumi 1882-1884 NL VII/II Frammenti postumi 1884 NL VII/III Frammenti postumi 1884-1885
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Genealogia della cultura
NL VIII/I Frammenti postumi 1885-1887 NL VIII/II Frammenti postumi 1887-1888 NL VIII/III Frammenti postumi 1888-1889 BW I Epistolario (1850-1869) BW II Epistolario (1869-1874) BW III Epistolario (1875-1879) BW IV Epistolario (1880-1884) BW V Epistolario (1885-1888) Le opere di Nietzsche vengono citate con il titolo abbreviato nelle sigle sopra indicate, seguito dal numero del paragrafo o dell’aforisma, oppure, se presente, dal titolo della sezione o del capitolo, e dal numero di pagina. I frammenti sono citati con la sigla del volume corrispondente, seguita dalla cifra indicante il gruppo di frammenti, dal numero del frammento tra parentesi quadre, e dal numero di pagina. Dell’Epistolario sono riportati, accanto alla sigla del volume, il numero della lettera e il numero di pagina. Si è scelto di citare dalla traduzione italiana delle opere di Nietzsche. Solo laddove l’analisi riflette esplicitamente sul linguaggio e sullo stile dello Zarathustra si riporta la traduzione seguita dal testo in lingua originale.
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PREMESSA
In una lettera a Erwin Rohde del 22 marzo del 1873 Nietzsche rende partecipe l’amico del progetto di un nuovo libro sulla filosofia greca che si sarebbe dovuto intitolare “Il filosofo come medico della cultura”.1 La stessa metafora appare in una serie di appunti dell’autunno/inverno dello stesso anno, in cui il giovane filologo/filosofo immagina una filosofia come “alleanza delle forze connettive”.2 Le annotazioni confluiranno poi nel testo della seconda Inattuale, quello scritto dalla straordinaria importanza epistemologica in cui Nietzsche, dopo aver diagnosticato la malattia storica del proprio tempo, incoraggia all’uso di una storia che si ponga al servizio della vita. Già ne La nascita della tragedia, tuttavia, la filosofia di Nietzsche vuole essere tentativo di cura e di rigenerazione culturale a fronte della diagnosi impietosa di una modernità in cui le forze della salute sono destinate ad essere soffocate dalle potenze annichilenti del livellamento e dell’uniformazione. L’obiettivo della filosofia è dunque chiamato a coincidere con la salute della cultura: il progetto della filosofia è progetto terapeutico che mira al benessere collettivo. Che si tocchi con ciò un nodo cruciale del pensiero nietzscheano lo testimonia il riemergere di questa metafora nella fase finale della produzione, quando, nella seconda prefazione alla Gaia scienza, Nietzsche auspica l’intervento di un “medico filosofo” attento alla salute collettiva di popoli ed epoche e capace di rendere evidente il nesso tra la tensione del pensiero e la ricerca di “salute, avvenire, potenza, sviluppo, vita…”.3 Nel 1886 Nietzsche compie notoriamente una rilettura dei propri scritti alla luce dell’esperienza della stesura di Così parlò Zarathustra, l’opera che vede la nascita di quella dramatis persona di cui il filosofo continuerà poi ad occuparsi fino ad Ecce Homo, l’ultimo grande scritto nel quale, ricorrendo alle tonalità a tratti stridule di un istrionismo venato ad un tempo da entusiasmo e disperazione, dipingerà lo Zarathustra come il “vero libro 1 2 3
BW II, 300, p. 439. Cfr. anche NL III/III-II, 23[15], p. 136. NL III/III-II, 30[8], p. 338. FW, Prefazione §2, p. 19.
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Genealogia della cultura
delle cime”, alto e profondo ad un tempo, come il dono più grande che si possa fare all’umanità.4 Questa genealogia del sé, che si riflette nelle nuove prefazioni alle singole opere, si offre esplicitamente al lettore come il protocollo di un processo singolare di cura e di guarigione.5 Nietzsche confessa di essere stato a lungo incapace di riconoscere la propria malattia; al proposito parla spesso di autoinganno e falsità, dell’incapacità di confrontarsi con la verità, di accettarla e, per così dire, di farla propria incorporandola. La rilettura dei propri scritti dalla prospettiva di una salute conquistata a seguito dell’esperienza dello Zarathustra rinviene in essi, a posteriori, la sintomatologia di una condizione patologica e di una rimozione della stessa che si sarebbero manifestate principalmente nelle forme di un pessimismo di matrice schopenhaueriana e dell’adesione ad un’arte wagneriana dell’evasione metafisico-romantica. Da “medico della cultura” a “medico e ammalato in una stessa persona”, Nietzsche scrive di aver scoperto che la chance di guarigione dipende essenzialmente dal modo in cui ci si rapporta con la propria malattia: Allo stesso modo che un medico mette il suo ammalato in un ambiente completamente estraneo, perché sia sottratto a tutto il suo «finora», alle sue cure, ai suoi amici, alle sue lettere, ai suoi doveri, alle sue stupidaggini e ai suoi martiri della memoria, e impari a tendere le mani e i sensi verso nuovo nutrimento, nuovo sole, nuovo avvenire; così mi costrinsi, medico e ammalato in una sola persona, a un opposto e mai provato clima dell’anima, e in particolare a una divagante peregrinazione in paesi estranei, nell’estraneità….6
La malattia – Jaspers insisterà molto su quest’aspetto7 – è per Nietzsche l’eccettuarsi, lo stare nel mondo sciolti da ogni ordinamento naturale e morale, da norme e leggi oggettive che predeterminano la storia individuale. La vita malata diviene così il luogo privilegiato di emergenza del soggetto, e la filosofia e la poesia che scaturiscono dalla sofferenza della malattia sono espressione di tale posizione assoluta. In questa prospettiva, la cura 4 5 6
7
EH, Prologo §3, p. 267. MA I, Prefazione §1, pp. 3-4. MA II, Prefazione §5, p. 8. L’idea che il medico possa aiutare i propri malati solo se ha la sensibilità e il coraggio di riconoscersi anch’egli come tale, si legge anche nello Zarathustra: “Medico aiuta te stesso: così aiuterai anche i tuoi malati”. Za, Della virtù che dona, p. 91 K. Jaspers, Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierens (1936), tr. it. di L. Rustichelli, Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Mursia, Milano 1996, pp. 46ss.
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Premessa
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non consiste nel conciliare il soggetto con il mondo, ma nella capacità di trovare, partendo dalla malattia, la parola e la forma che del soggetto simboleggi il suo esser desiderio assoluto e incondizionato, al fine di evitare che l’esperienza della vita malata degradi a disperante nichilismo. La salute è il modo affermativo di rispondere a uno stimolo doloroso: “Vivere – vuol dire per noi trasformare costantemente in luce e fiamma tutto quel che siamo, nonché tutto quel che ci riguarda”; e poche righe prima: “proprio quest’arte della trasfigurazione è filosofia”.8 La guarigione è pertanto rinascita, formazione di una nuova psiche, che guarda con un sentimento di familiare estraneità al proprio vecchio sé.9 Partendo da tali considerazioni preliminari, questa proposta di lettura è animata dalla speranza di poter contribuire alla comprensione di quell’esperienza esistenziale così intensa che fu per Nietzsche la stesura di Così parlò Zarathustra accostandosi ad essa come al luogo simbolico di una costruzione poetica del sé intesa come possibile alternativa storica rispetto ai gesti dominanti di un’epoca di cui il suo autore aveva già acutamente diagnosticato la crisi. Opera concepita come un atto di resistenza contro l’oppressione di una società avvertita come repressiva e priva di vera cultura, lo Zarathustra scaglia un terribile anatema contro il proprio tempo per porre allo stesso tempo con urgenza la questione di una configurazione futura dell’umano, dopo aver mostrato con vivida pregnanza lo sconvolgimento dei codici morali e religiosi tradizionali e la crisi del pensiero umanistico. Visto in questa luce, l’esperimento che Nietzsche conduce qui in piena libertà con il proprio sé, dando vita a quella complessità di linguaggi che determina la particolare forma ibrida del testo, può rivelare un’attualità forse a prima vista inaspettata, venendo a costituire un valore di senso anche per il nostro presente dei falsi miti del neoliberalismo, della morte delle ideologie collettive, del cognitivismo imperante. In un’epoca in cui il singolo, sullo sfondo di una crisi culturale profonda, è chiamato al compito etico della cura di sé in uno spazio culturale non più codificato da simbologie collettive prestabilite, l’enfasi posta da Nietzsche sulla libera capacità espressiva del singolo e l’appello alla responsabilità individuale della 8 9
FW, Prefazione §3, pp. 17-18. Cfr. G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie (1962), tr. it. di F. Polidori, Nietzsche e la filosofia e altri testi, Einaudi, Torino20022, p. 175: “E’ chiaro ciò che Nietzsche vuole ottenere: una psicologia che sia una vera tipologia, fondata «sul piano del soggetto», dove anche le possibilità di una guarigione dipenderanno dalla trasformazione dei tipi (rovesciamento e trasmutazione)”. Deleuze ricorda come l’espressione “sul piano del soggetto” sia spesso usata da Jung quando denuncia il carattere “oggettivistico” della psicanalisi freudiana.
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Genealogia della cultura
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costruzione di sé possono forse entrare in un dialogo nuovo con il nostro presente, per quanto obsoleto possa talora risultare all’oggi il pathos con cui la complessa figura dell’Übermensch viene annunciata, nella modalità della personificazione, sull’affollato palco delle figurazioni zarathustriane.
*** Così parlò Zarathustra sembra tornato negli ultimi anni al centro dell’interesse della critica. A seguito della ricezione in Italia e in Francia nel dopoguerra, che ha dato impulsi decisivi ad una rilettura anti-ideologica del pensiero nietzscheano, riportando tra l’altro in primo piano il gesto della scrittura, è stata in particolare la recente discussione condotta in Germania a ridosso del Nietzsche-Jahr 2000 a contribuire ad illuminare la raffinata composizione del testo, portando avanti, da un lato, lo studio delle fonti e dei richiami intertestuali iniziato con il lavoro all’edizione di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, dall’altro andando ad indagare la poliedricità dei suoi stili, i registri simbolici e metaforici, l’uso dell’allegoria e della parabola, il ricorso al sogno e alla visione, il gesto parodistico.10 Filosofare in veste di poeta, come scrive Nietzsche nella Gaia scienza. Pare evidente che nello Zarathustra si tratta, per il poeta, di carpire un simbolo allo spietato e scintillante gioco di pensieri del Freigeist. Lo Zarathustra è una singolare narrazione autodiegetica che racconta la crisi dei codici morali e religiosi, la decadenza della cultura e la disgregazione sociale, tutte le forme del nichilismo moderno che trovano nel paradigma dell’ultimo uomo un simbolo gravido di cupi presagi. Ed è una narrazione che, nata da una crisi esistenziale autentica, si configura come un’impresa filosofica e psicologica ad un tempo, come un tentativo di cura dal nichilismo che trova evidentemente la sua forma espressiva migliore in una trama finemente intessuta di parabole, metafore e simboli. Alla luce della discussione in corso, che ha reso evidente la dipendenza dei nuclei filosofici del testo dai linguaggi e dagli stili attraverso cui essi vengono veicolati, sembra che un approccio interpretativo puramente filosofico sia inadeguato a mettere in luce le peculiari modalità di ciò che appare configurarsi come un originale tentativo di cura di sé in quello che Nietzsche stesso definisce essere un “ritorno del linguaggio alla natura 10
Cfr. ad esempio V. Gerhardt, Friedrich Nietzsche. Also sprach Zarathustra (2000), P. Villwock, Nietzsches «Also sprach Zarathustra» (2001), C. Zittel, Das ästhetische Kalkül von Nietzsches Also sprach Zarathustra (2000); ma anche, in Italia, B. Zavatta, La potenza dell’immagine, (2001) e, più recentemente, Cattaneo F., Marino S. (a cura di), I sentieri di Zarathustra (2009) e A. Giacomelli, Simbolica per tutti e per nessuno (2012).
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Premessa
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della figurazione”.11 Partendo dalla considerazione preliminare che è proprio in un tessuto legato all’immaginazione che il pensiero è in grado di trascendere la propria origine intellettualistica per coinvolgere la totalità della persona, si tenterà qui di illuminare le modalità specifiche con cui la scrittura nello Zarathustra non si fa semplicemente veicolo di un contenuto che sta altrove, oltre o dietro la forma, ma si dispone piuttosto ad accogliere le realtà conflittuali della psiche per dare ad esse espressione e forma, per articolarne le differenze in figure che ne sono l’espressione visibile, per ‘agire’ le immagini e saggiarle rispetto alla loro capacità di potenziare la vita. Parole ed immagini nello Zarathustra nascono da un fervido lavoro dinamico dell’immaginazione, che in Ecce Homo è descritto nei termini di un’ispirazione autentica che trova la sua possibilità di espressione rigorosa. Ecco che potenza della visione, ebbrezza e lavoro della coscienza sembrano coincidere e trovare una loro paradossale simultaneità in un’opera che attraversa la personalità dell’artista, guadagnando così al contempo la sua autonomia e la propria realizzazione.
*** Nel continuo rimando all’alterità in cui si disloca, tale modalità di scrittura poetica non può non coinvolgere il lettore che di questa alterità partecipa. Non stupisce, pertanto, che i primi eredi spirituali di Nietzsche, che nello Zarathustra riconobbero da un lato la diagnosi di una crisi antropologica e culturale di proporzioni impensate, dall’altro una celebrazione della pienezza della vita nell’ottica di un’estetica dell’esistenza come cura dal nichilismo moderno, furono proprio i componenti della comunità artistica e letteraria, senz’altro i più ricettivi nei confronti del carattere immaginifico e visionario dell’opera e del pathos della sua parola poetica. È noto, e già ben studiato, l’entusiastico plauso che l’opera riscosse presso le avanguardie. Nella prima fase della sua ricezione furono pochi gli artisti che si sottrassero al fascino di questo testo ibrido, che fin dall’inizio rappresentò una sfida notevole per lettori ed interpreti proprio in virtù delle peculiari modalità con cui l’enunciato filosofico è trasferito nell’intreccio simbolico di una narrazione che vede al suo centro, come protagonista, una figura fittizia. Pur nelle irriducibili differenze del loro pensiero, e del loro confronto con la filosofia di Nietzsche, che fu spesso manifestamente accompagnata da problematiche suggestioni politiche ed accese seduzioni belligeranti, tutti i maggiori esponenti della comunità artistica condivisero l’acuta analisi nietzscheana della decadenza e l’anelito di rigenerazione 11
EH, Così parlò Zarathustra §6, p. 353.
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Genealogia della cultura
dell’individuo rispetto ad una cultura morente espresso da un’opera che fu generalmente percepita come una “soglia epocale”, catalizzatrice di speranze di rigenerazione che solo il singolo individuo poteva rinnovare e mettere in opera. Ma cosa auspicava Nietzsche dalla lettura postuma del suo Zarathustra? “Aver capito sei frasi di quel libro, cioè averle vissute, innalza i mortali a un grado più alto di quello che gli uomini «moderni» potrebbero mai raggiungere”,12 scrive in Ecce homo, insistendo sul carattere di esperienza come di un processo da cui si esce trasformati quasi nei termini di una conversione. Dal momento che una lettura fruttuosa e feconda si dà esclusivamente in una consonanza ottimale di esperienze, è evidente che l’interpretazione di un testo è legata a presupposti che precedono l’atto stesso della lettura e che sono ancorati alla dimensione psicologica del lettore. Nietzsche situa d’altronde nella psicologia dell’autore, nella totalità della sua persona, la genesi stessa del filosofare: Mi si è chiarito poco per volta che cosa è stata fino ad oggi ogni grande filosofia: l’autoconfessione, cioè, del suo autore, nonché una specie di non volute e inavvertite mémoires; come pure il fatto che le intenzioni morali (o immorali) hanno costituito in ogni filosofia il vero e proprio nocciolo vitale, da cui si è sviluppata ogni volta l’intera pianta.13
In questa prospettiva lo Zarathustra, simbolo per eccellenza di un anelito di rottura e di protesta creativa contro il gesto dell’epoca e il suo sistema di valori, andrebbe letto innanzitutto come una forma di autoconfessione nata da un’intenzione morale del suo autore, posto che tale intenzione non è da collocare nella dimensione della coscienza, bensì nella sfera delle passioni: “le morali non sono altro che il linguaggio figurato delle passioni”.14 Alla luce di tali considerazioni, è parso opportuno iniziare l’indagine da un capitolo, sicuramente meno noto, della ricezione iniziale dell’opera, in cui la questione della cura venisse posta in primo piano. Riallacciandosi ad una ricerca precedente,15 l’analisi prende così avvio dall’allarmata diagnosi culturale proposta da C.G. Jung in occasione dei seminari su Così parlò Zarathustra tenuti a Zurigo tra il 1934 e il 1939. L’approccio allo Zarathu12 13 14 15
EH, Perché scrivo libri così buoni §1, p. 307. JGB, Dei pregiudizi dei filosofi, af. 6, p. 11. JGB, Per la storia naturale delle morali, af. 187, p. 85. Cfr. l’indagine, condotta in occasione della pubblicazione dei seminari junghiani in traduzione italiana, contenuta nel seguente volume: M. Gay, I. Schiffermüller (a cura di), Lo Zarathustra di Nietzsche. C.G. Jung e lo scandalo dell’inconscio, con la collaborazione di G. Pelloni, Moretti&Vitali, Bergamo 2013.
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Premessa
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stra dello psicologo che si confronta con il problema etico dell’“individuazione” ed elabora un progetto terapeutico del divenire-sé nel periodo più cupo della nostra storia di occidentali, rientra a pieno titolo nell’esperienza della ricezione sopra delineata. In una lettera scritta poco prima di morire, ritornando sul filosofo che aveva dato impulsi decisivi alla sua formazione, Jung ricorda infatti di essere stato colpito non solo dalla critica religiosa formulata da Nietzsche, ma anche dalla sua stessa Ergriffenheit, e dal suo riconoscere nella “passione” il “vero motivo del filosofare”.16 Jung non fece mai mistero del fascino che lo Zarathustra aveva esercitato su di lui in gioventù, quando era stato l’oggetto di una lettura convulsa, di un confronto sottratto alla comprensione intellettuale e all’interpretazione, tanto che durante il lungo seminario zurighese egli rammenta ancora l’impressione indelebile che il testo aveva prodotto in lui, con la bellezza dei suoi passi lirici e l’irresistibile suggestione del suo pensiero. A distanza di vari decenni i seminari junghiani sullo Zarathustra sembrano configurarsi come un’enorme superficie di proiezione della crisi culturale dell’epoca in cui si vanno delineando, inquietanti e minacciose, le ombre del Terzo Reich, e con esse i sintomi di una patologia collettiva che Jung proietta a sua volta sulla persona del filosofo. Segno tangibile e manifesto del declino dell’epoca è per Jung il fatto che l’energia psichica della collettività non possa più venire accolta e strutturata all’interno delle forme tradizionali della cultura, una volta che i simboli del cristianesimo e della cultura dell’umanesimo erano stati messi profondamente in discussione. Di fatto, si tratta di una diagnosi culturale che solleva questioni centrali sullo stato della salute collettiva di popoli e nazioni; non da ultimo proprio il problema di come si possa far sì che, in uno spazio culturale non più ‘garantito’ in un altrove metafisico ed organizzato in forme simboliche collettive, uno spazio percorso da tensioni, conflitti e fratture, le realtà psichiche possano tradursi e trovare espressione in forme culturali sempre nuove, non arrogantisi la pretesa di essere eterne, e pur di volta in volta efficaci. Fino a che punto sono in grado di resistere, e come possono anzi essere potenziate le forze della coesione e della simbolizzazione, e com’è possibile prevenire la caduta nell’anomia, nell’afasia, nella patologia collettiva?
*** La posta in palio per Jung è quindi la forza viva del simbolo, cui attribuisce la facoltà di accogliere e risolvere le energie conflittuali della psiche in 16
C.G. Jung, Lettere III, 1956-1961, a cura di A. Jaffé, in collaborazione con G. Adler, Edizioni Magi, Roma 2006, p. 322.
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Genealogia della cultura
una configurazione soggettiva inedita, che possa costituire un nuovo centro, e con esso una nuova base sicura per l’individuo. E Nietzsche, grazie al suo isolamento, avrebbe potuto esprimere nello Zarathustra, quindi in una forma poetica, l’intreccio fra parola, immagine ed energia che realizza la densità di ogni figurazione simbolica. Guida la lettura di Jung la ricerca di una forza rigenerante e di un potenziale terapeutico che tuttavia alla fine non trova, al punto che il testo, nella sua prospettiva, finisce per configurarsi come la rappresentazione di un’individuazione fallita e di una follia incipiente, che si sarebbe manifestata in primis nell’incapacità di Nietzsche di governare, attraverso il lavoro della coscienza, il flusso delle immagini inconsce. Se all’oggi il timore angosciato che innerva l’interpretazione di Jung appare quasi incomprensibile, e irrimediabilmente velata da una patina di storicità la tensione verso il centro e la totalità su cui si fonda la sua concezione di individuo, gli interrogativi da cui egli parte non hanno perso d’attualità e di pregnanza. Di fronte a quello che appare come il fallimento del progetto terapeutico della psicologia di fronte alla patologia più colossale della modernità, ad una deriva travolgente che sembra sancire l’irrealizzabilità di una cura e della possibilità di assumersi il passato per trasformare il “così fu” nel nietzscheano “così ho voluto che fosse”, sembra proprio essere lo Zarathustra, il testo che voleva essere la cura di Nietzsche, la sua risposta a quelle forze distruttive del moderno che preoccupavano così tanto Jung al punto di impedirgli di distinguere tra il progetto terapeutico di una filosofia dionisiaca e il wotanismo di una nuova barbarie, a tornare a sollevare la questione di una possibilità di guarigione legata al potere della simbolizzazione, alla forza dell’immaginazione e alla capacità d’espressione del singolo. In che senso quindi, lo sguardo genealogico nietzscheano, di cui già la Nascita della tragedia è espressione, può essere letto come una specifica proposta terapeutica, come la ricerca di una forza rigenerante al di là dei traumi e delle scissioni della coscienza occidentale in grado di ricostellare il passato ed infondere nuova vita al presente? E come si configurano le vie della cura che il testo esplora nel mezzo delle immagini e di una parola poetica vissuta come simbolo vivo, di un linguaggio artistico che ripristina come suo valore essenziale la materialità del significante e del significato, in opposizione alla sola corrispondenza tra ordine dei significanti e dei significati vigente nel linguaggio cognitivo? Nel presente lavoro si è provato a rispondere a questi interrogativi riallacciandosi principalmente alle riflessioni di Foucault e di Deleuze sulla genealogia, sul sogno e sull’immaginazione, sulla ripetizione come forza creativa ed affermativa, sulla
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Premessa
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cura di sé. La speranza è che emerga, se non altro nei suoi tratti essenziali, l’originalità del progetto terapeutico nietzscheano così come si realizza nello Zarathustra attraverso quei mezzi artistici con cui si approda ad una creazione di sé basata su una coscienza più ampia e più profonda di quella dell’io.
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I. LA CATASTROFE: I SEMINARI DI C.G. JUNG SU COSÌ PARLÒ ZARATHUSTRA
1. La soglia epocale In un frammento del 1884 che parafrasa la Histoire des origines du Christianisme di Ernest Renan, Nietzsche attribuisce allo Zarathustra un significato epocale quale inizio di un nuovo regno millenario: “Ho dovuto rendere onore a Zarathustra, un persiano: i persiani per primi hanno pensato la storia a grandi linee. Un susseguirsi di sviluppi, a ognuno di essi è preposto un profeta. Ogni profeta ha il suo Hazar, il suo regno millenario”.1 Il superamento dell’uomo, l’oltreuomo, il cui avvento è annunciato da Zarathustra nel capitolo Il sacrificio col miele, è la terza metamorfosi preparata dal leone del “sacro no”, il sì del fanciullo che gioca; è Dioniso, il dio affermatore che trasforma la sofferenza nel piacere di molteplici trasformazioni. L’annuncio dell’epoca post-cristiana è affidato al primo profeta e fondatore di religioni, significativamente a colui che, secondo quanto riporta Plinio il Vecchio, sarebbe scoppiato a ridere il giorno della sua stessa nascita.2 In una lettera del 20 aprile 1883 a Malwida von Meysenburg Nietzsche scrive infatti che con lo Zarathustra, il “libro sacro” con cui intendeva sfidare tutte le religioni, avrebbe introdotto nella religione il riso,3 quello scoppio di riso che libera dal peso dello spirito di gravità, attributo di una esistenza gioiosa che afferma il molteplice e il caso. Questa esistenza è immaginata in un futuro lontano, in cui, come racconta Zarathustra nel capitolo Di antiche tavole e nuove, “il divenire tutto mi sembrò una danza e un ilare scherzo di dèi, e il mondo sciolto e sfrenato e rifluente in se stesso”.4 1 2
3 4
NL VII/II, 11[53], p. 44. Cfr. al riguardo K.M. Higgins, Comic Relief. Nietzsche’s Gay Science, Oxford University Press, New York 2000, pp. 152 ss; V. Vivarelli, Nietzsche und die Masken des freien Geistes: Montaigne, Pascal, Sterne, Königshausen&Neumann, Würzburg 1998, pp. 147s. BW IV, 404, pp. 342-343. Za, Di antiche tavole e nuove §2, p. 241.
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Genealogia della cultura
Uno dei motivi per cui Nietzsche si richiama alla figura di Zoroastro è quindi il suo pensare nella lunga durata del tempo storico. Centrale in questa visione così potente, eppur non priva di una nota ironica, è l’immagine di una sequenza di hazar, di una storia che si snoda in una successione di lunghi regni che vengono di volta in volta annunciati da figure carismatiche di profeti e decadono quando degenerano i principi su cui si sono retti. In Nietzsche la consapevolezza di trovarsi a ridosso di una di queste soglie epocali è cocente, come esprime vividamente il grido dell’uomo folle nel celebre aforisma della Gaia scienza, che dà voce al senso di perdita, di vuoto e di lutto provocato dalla morte del dio cristiano: “Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte?”5 È solo nel momento in cui Nietzsche formula l’opposizione tra Dioniso e Cristo, individuando nel cristianesimo l’attività del nichilismo, che la coscienza della soglia, dell’apertura all’abissalità del mondo, si trasforma in convinta affermazione. In una serie di domande cariche d’angoscia l’uomo folle dà espressione ad un grande dubbio, ma ciò non gli impedisce di interpretare l’evento della morte del dio cristiano alla stregua di una “nuova aurora”, di una sfida che annuncia la “storia più alta” che vi può far seguito: Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!6
Chi forse più di altri seppe accostarsi all’opus magnum di Nietzsche in questa prospettiva, riconoscendovi il documento sui generis di una crisi individuale, specchio della malattia dell’occidente e precorritrice di future crisi collettive, fu Carl Gustav Jung, che, com’è noto, individuò presto nell’acuto giudizio psicologico di Nietzsche l’antesignano della propria ricerca psicologica.7 Jung riconobbe nello Zarathustra il tentativo di rielabo5 6 7
FW, af. 125, p. 151. Ivi. Al riguardo cfr. M. Liebscher, Die unheimliche Ähnlichkeit. Nietzsches Hermeneutik der Macht und analytische Interpretation bei Carl Gustav Jung, in R. Görner, D. Large (a cura di), Ecce Opus. Nietzsche-Revisionen im 20. Jahrhundert, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 2003, pp. 37-50; M. Liebscher, Libido und Wille zur Macht. C.G. Jungs Auseinandersetzung mit Nietzsche, Schwabe, Basel 2012. Ad uno sguardo più critico le analogie tra i due percorsi, da ricondursi a premesse epistemologiche diverse, si rivelano spesso solo apparenti, e riferibili
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La catastrofe: i seminari di C.G. Jung su Così parlò Zarathustra
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rare, in una scrittura guidata da un processo immaginativo, il lutto causato dalla morte del dio cristiano, un evento di grandi dimensioni che andava ad interessare una comunità intera, la quale veniva lasciata nell’assenza più totale di direttive e principi secondo cui orientarsi. Così, teso lui stesso nella ricerca di una risposta alla crisi, Jung lesse lo Zarathustra come il sintomo di una malattia epocale che da Nietzsche era stata vissuta in modo più acuto che non da altri, e, allo stesso tempo, come il luogo di una tentata cura, di un progetto terapeutico che non solo ambiva alla guarigione del singolo, ma si concepiva anche, in un’ottica collettiva, come cura dell’intera civiltà occidentale. Seguire Jung in questa sua lettura significa dunque accostarsi al testo di Nietzsche come ad un’impresa ad un tempo psicologica e sociologica, ed esplorarne, per affinità o per contrasto, le vie della terapia e dell’autoterapia che esso apre e sonda nel tentativo di superare il nichilismo dal punto di vista filosofico. Le lezioni zurighesi di Jung su Così parlò Zarathustra,8 che si svolsero di fronte ad una cerchia ristretta di allievi, analisti e studiosi sullo sfondo minaccioso degli eventi storici degli anni trenta, sono la testimonianza più importante e corposa del lungo e tormentato confronto che Jung condusse
8
più propriamente ad un “complesso Nietzsche” che Jung avrebbe sviluppato sulla scia di un atteggiamento apotropaico nei confronti dello Zarathustra quale specchio della follia collettiva, e che segnerebbe così di sé la genesi della psicologia analitica. Per questa prospettiva cfr. I. Schiffermüller, Le ombre di Zarathustra. Il complesso nietzschiano di C.G. Jung, in M. Gay, I. Schiffermüller (a cura di), Lo Zarathustra di Nietzsche. C.G. Jung e lo scandalo dell’inconscio, cit., pp. 29-58. Le trascrizioni dei seminari, a lungo accessibili solo nella forma di dattiloscritto, sono state rese disponibili ad un pubblico più ampio solo nel 1988 grazie alla pubblicazione in lingua inglese a cura di James L. Jarrett: C.G. Jung, Nietzsche’s Zarathustra. Notes on the seminar given in 1934-1939 by C.G. Jung, edited by J.L. Jarrett in two volumes, Princeton University Press, New Jersey 1988. In traduzione italiana sono apparsi tutti i quattro volumi previsti nel progetto editoriale della casa editrice Bollati Boringhieri: C.G. Jung, Lo “Zarathustra” di Nietzsche: seminario tenuto nel 1934-39, a cura di J.L. Jarrett, traduzione e curatela di A. Croce, Bollati Boringhieri, Torino; vol. 1 (2011): maggio 1934-marzo 1935; vol. 2 (2012): maggio 1935-marzo 1936; vol. 3 (2013): maggio 1936-giugno 1937; vol. 4 (2013): maggio 1938-febbraio 1939. La letteratura critica che ha preso in esame questa costellazione è tuttora, in ambito internazionale, abbastanza ridotta e limitata agli ultimi anni (cfr. i recenti contributi di Martin Liebscher, nota 7). In Italia sono usciti invece già negli anni Novanta alcuni studi che documentano un interesse critico interdisciplinare e un approccio più diversificato. Segnalo tra i primi Jung’s seminars on Nietzsche, in «Immediati dintorni», 1991, pp. 14-61, con contributi di D. Squilloni, M. Pezzella, F. Salza, T. Cavallo, F. Vercellone, G.P. Moretti, L. Farulli; inoltre il volume: M. Pezzella (a cura di), Lo spirito e l’ombra. I seminari di Jung su Nietzsche, Moretti&Vitali, Bergamo 1996.
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Genealogia della cultura
con il pensiero di Nietzsche. Al filosofo Jung attribuisce il merito di aver aperto la strada alla psicologia moderna e preparato il terreno per la svolta terapeutica della filosofia, come emerge con evidenza nella premessa a Psicologia e poesia, quello scritto pubblicato nel 1930 con cui Jung si augurava di contribuire, a livello di un orientamento generale, ad un’analisi psicologica del fenomeno estetico.9 Sicuramente Nietzsche gioca un ruolo importante già in Simboli della trasformazione (1912), l’opera che segna la rottura definitiva con Freud, cui Jung tra l’altro imputa di non essersi mai voluto confrontare con le anticipazioni filosofiche della psicologia del profondo nella Geistesgeschichte.10 In questo scritto chiave, centrale per comprendere il pensiero junghiano, il medico si accosta a più riprese alla parola poetica di Nietzsche, in particolare ai ditirambi dello Zarathustra, di cui sembra subire la forza di suggestione, gli effetti dello stile e il fascino dell’immagine. Partendo dall’idea che la radice comune di tutti i simboli siano le trasformazioni della libido, quel concetto che nella psicologia junghiana va a sostituire la teoria sulla sessualità di Freud, Jung ravvisa nel poeta Nietzsche, in virtù di una particolare tendenza introspettiva esaltata dalla solitudine, la facoltà di riportare alla luce antichi simboli iniziatici, come le mitologie connesse al simbolo del sole, l’immagine del serpente, o il fuoco. Nello specifico Jung riconosce in questi testi i simboli di un’introversione della libido che si inabissa nelle profondità della psiche: l’immagine di Zarathustra che si ferisce con la lancia nel ditirambo Tra uccelli di rapina viene letto come il simbolo della vita che trafigge se stessa, del momento in cui l’istinto si rivolta contro l’istinto provocando una sorte di morte psichica, la quale tuttavia preluderebbe, nel processo simbolico, ad una possibilità di progressione, alla risurrezione e all’intensificazione della vita stessa.11 Sarà poi proprio in Psicologia e poesia che lo Zarathustra viene accostato all’arte visionaria, alla capacità cioè di veicolare direttamente, come un medium, l’inconscio collettivo. Nell’opera d’arte visionaria salirebbe in superficie, senza la partecipazione della coscienza, il “simbolo vero”, “espressione di un’essenza sconosciuta”, di un fondo occulto della psiche carico
9 10 11
C.G. Jung, Psychologie und Dichtung (1930), tr. it. di M.A. Massimello, Psicologia e poesia, in Opere, vol. 10/1: Civiltà in transizione: il periodo tra le due guerre, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 357. Cfr. M. Liebscher, Jungs Abkehr von Freud im Lichte seiner Nietzsche-Rezeption, in «Nietzsche-Forschung», Sonderband 1, 2001, pp. 255-260. C.G. Jung, Symbole der Wandlung. Analyse des Vorspiels zu einer Schizophrenie (1912) tr. it. di R. Raho, Simboli della trasformazione. Analisi dei Prodromi di un caso di schizofrenia, in Opere, cit., vol. 5, 1990, p. 360.
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La catastrofe: i seminari di C.G. Jung su Così parlò Zarathustra
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di energia rigenerante.12 In questa sede Jung non entra ancora nel merito dello Zarathustra, limitandosi a costatare come il tentativo di compensazione di Goethe, che avrebbe cercato di “umanizzare” l’uomo faustiano, teso alla grandezza degli dèi, fondendolo con l’Eterno Femminino, non avrebbe avuto un’azione duratura,13 così che con Nietzsche l’umanità si sarebbe trovata ad assistere ad un tentativo di individuazione destinato a “precipitare nella sua propria rovina”.14 Il riferimento al tragico fallimento dell’oltreuomo nietzscheano non solo suggerisce già in che direzione vada la lettura di Zarathustra che Jung propone nel corso del seminario degli anni Trenta, ma aiuta anche a mettere a fuoco una premessa importante: ciò che Jung va cercando nell’opera d’arte cosiddetta visionaria è un nuovo simbolo di individuazione che sia capace, a fronte della particolare congiuntura storica, di rispondere alla ricerca di unità psichica e di ordine interiore. Addentrandosi nelle centinaia di pagine della trascrizione dei seminari sullo Zarathustra, si rende via via evidente come l’analisi junghiana sia tesa ad illuminare i nessi interni e le strutture psicologiche dell’universo simbolico del testo, per Jung specchio di una soggettività che avrebbe vissuto lo stato di prostrazione della chiesa cristiana e dichiarato inadeguato il suo messaggio, dando voce in questo a profonde tensioni collettive.15 L’idea che lo Zarathustra cristallizzasse in sé il dilemma dell’uomo del post-protestantesimo, che rappresentasse il sintomo di una crisi collettiva e la rottura con una precisa tradizione religiosa, era diffusa all’epoca. Centrale era il riferimento al protestantesimo e ai suoi esiti secolarizzanti. Significativamente, nelle Considerazioni di un impolitico, Thomas Mann scriveva che lo “spettacolo immortale ed europeo offerto dal suo [di Nietzsche, n.d.a.] sforzo di autosuperamento, di punizione e crocefissione di sé con l’olocausto della propria morte spirituale” non sarebbe stato concepibile al di fuori dell’ambiente protestante della casa del pastore di Naumburg, della 12 13
14 15
C.G. Jung, Psicologia e poesia, cit., p. 367. Jung conferisce un alto valore alla seconda parte del Faust, esempio di come un artista possa attingere all’inconscio collettivo compensando la hybris della coscienza. Cfr. al riguardo E. Heftrich, Faust contra Zarathustra. Zum NietzscheVerständnis von C.G. Jung (1980), in Id., Nietzsches tragische Größe, Klostermann, Frankfurt a. M. 2000, pp. 125-142. C.G. Jung, Psicologia e poesia, cit., p. 372. Cfr. S.E. Ashheim, The Nietzsche Legacy in Germany 1890-1914, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1994, pp. 20ss., che ha saputo riconoscere la rilevanza storica del commento di Jung. Cfr. inoltre E. Nolte, Nietzsche und der Nietzscheanismus, Propyläen, Frankfurt a. M.-Berlin 1990, che riprende l’idea dell’Erlebnis-Nietzsche (T. Mann) e la concezione della sua personalità come terreno di prova e di scontro delle tendenze e tensioni dell’epoca.
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Genealogia della cultura
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“sfera spirituale borghese” della Germania settentrionale.16 Secondo questa visione, Nietzsche avrebbe vissuto il dramma dell’individuo posto di fronte alle conseguenze estreme del pensiero protestante, con il suo condurre il singolo fuori dall’ovile comunitario, con il richiamo radicale alla responsabilità di una fiducia incondizionata nelle forze individuali e al dovere etico della creazione di sé. Un processo che, beninteso, Jung, anch’egli figlio di pastore, vive e afferma, poiché dire no alla comunità e ai suoi valori fondanti significa, così come per Nietzsche, dire sì a se stessi. Durante il seminario del 31 ottobre del 1934, dedicato all’evoluzione del pensiero religioso negli uomini, in una svolta centrale del discorso Jung stabilisce una correlazione significativa tra lo Zarathustra, la fine della concezione cristiana e l’avvento di una nuova mitologia: Lo Zarathustra, in certa misura, è un’interpretazione della nostra concezione cristiana. E l’individuazione è oggi la nostra mitologia. Ma che cos’è l’individuazione? È un grande mistero, un concetto limite: non sappiamo che cosa sia. La definiamo l’unicità di una determinata composizione o combinazione e al di là di questo non possiamo dirne nulla.17
Come suggerisce la citazione, Jung si rivela palesemente incline a riconoscere allo Zarathustra il valore di un’opera profetica situata sulla soglia epocale che segna la morte dell’universo simbolico cristiano e si prepara ad accogliere e a ‘risolvere’ le energie inconsce annunciando un nuovo simbolo. Sulla base di questo pare evidente che ciò che, con ogni probabilità, aveva attratto Jung dello Zarathustra era stato proprio il suo costituirsi come una risposta psicologica ai cambiamenti nella relazione dell’uomo occidentale con il divino, il suo dare voce al destino del singolo e della comunità quando si dichiara morta la divinità e si resta sprovvisti di un simbolo-guida, quando un intero universo simbolico esaurisce il potere di costellare a sé l’energia psichica della collettività. 2. Della forza dei simboli e del loro divenire La lettura di Jung si fa forte dell’idea per cui il pensiero mitico-simbolico si evolve continuamente da se stesso secondo una legge assoluta. Ad 16 17
T. Mann, Betrachtungen eines Unpolitischen (1918), tr. it. Considerazioni di un impolitico, a cura di M. Marianelli e M. Ingenmey, Adelphi, Milano 1997, p. 100. C.G. Jung, Lo “Zarathustra” di Nietzsche, cit., vol. 1, p. 223.
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La catastrofe: i seminari di C.G. Jung su Così parlò Zarathustra
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un certo livello della coscienza, che si potrebbe dire infantile, esso si esprime attraverso divinità, demoni, o immagini, i quali vengono assunti come eventi concreti, che si sono verificati o si stanno verificando.18 Tale manifestazione concreta delle divinità conterrebbe in sé, a livello simbolico, la successiva forma religiosa. È come un sogno dove si sviluppa un’azione, una performance recitata da persone concrete. Attraverso l’analisi e l’integrazione delle immagini del sogno viene trasmessa alla coscienza l’idea specifica, il pensiero che, a livello inconscio ed inespresso, esisteva già prima e che ha provocato il sogno. Il pensiero mitico di un’epoca sarebbe così un sogno collettivo che si manifesta nella sua mitologia e nella sua religione. Quando le divinità decadono, ossia non vengono più considerate vere, si apre per così dire una nuova scena, il palco è preparato per un’azione drammatica inedita, la quale conterrebbe in realtà in sé l’interpretazione dell’azione precedente. Apparentemente, ci dice Jung, si svolge un’azione del tutto nuova, e tuttavia essa è l’interpretazione della scena passata. L’epoca del cristianesimo sarebbe così il sogno di un’umanità un po’ più “sveglia”, la cui coscienza collettiva si sarebbe allargata al punto da dichiarare decaduti i vecchi dèi e richiedere una nuova integrazione da parte del materiale simbolico onirico. È importante mettere subito in rilievo, sulla base di questa visione, come per Jung la storia dell’umanità si vada svolgendo secondo un ritmo ciclico che vede alternarsi fasi di sonno, rigenerazione e sogno, a periodi di veglia, attività e interpretazione. Come nella vita di una persona la fase infantile coincide con il momento di maggior produzione creativa di nuove forme e simboli, così l’umanità, all’alba della sua esistenza, ha saputo produrre nella mitologia forme salvifiche per la vita del singolo e della collettività. Una facoltà che è via via venuta meno, in quello che è definito essere un processo di progressivo ampliamento della coscienza collettiva. Jung ha saputo riconoscere l’enorme rilevanza dei simboli per la vita e per la cultura, il loro significato progettuale e il loro valore di guida e di direzione per la vita di ognuno; questo spiega, in quella particolare fase storica, la sua preoccupazione per la salute collettiva e l’urgenza attribuita al proprio progetto terapeutico, alla necessità di una risimbolizzazione. La lettura junghiana dello Zarathustra fa leva su una definizione di simbolo che viene articolata, ancora all’epoca della rottura con Freud, nello scritto Simboli della trasformazione. Motivo centrale del libro è la discesa dell’eroe nel regno della madre primordiale, la nekjia, il cui locus classicus è la discesa negli inferi dell’Odissea, metafora spaziale dell’introversione 18
Ivi, pp. 221-222.
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Genealogia della cultura
della libido nelle profondità dell’inconscio, di quel processo di scioglimento, distruzione e rinascita in cui l’energia si rivolge all’origine per poi risalire in superficie in forma di simbolo. Un processo che, secondo Jung, sarebbe stato intuito dal Nietzsche della Nascita della tragedia, un libro importante per lo psicologo, che in Tipi psicologici (1921) fa riferimento alla contrapposizione nietzscheana tra Dioniso e Apollo, tra l’ebbrezza della natura, la dimensione istintuale, e la forma e la limpidezza della visione. Jung rimprovera Nietzsche di aver ridotto il problema della conciliazione tra i due impulsi ad un fenomeno puramente estetico, laddove con “estetico” sembra intendere un atteggiamento di mera contemplazione che “si mantiene al di fuori del problema”;19 tuttavia riconosce al filosofo il merito di aver intuito la singolare profondità della questione, il suo essere di natura più propriamente metafisica che estetica. In definitiva, la risoluzione dell’energia psichica pulsionale nel simbolo si configura per Jung come un evento irrazionale inconscio che si verifica senza alcun intervento della coscienza, un processo sottratto ad ogni forma di intenzionalità, una formazione spontanea della natura creatrice: in altre parole un’esperienza religiosa, “frutto di un’attesa ardente, di fede e di speranza”.20 Dalla lettura del capitolo dedicato a Nietzsche in Tipi psicologici, appare evidente come Jung si ponga in un atteggiamento timoroso e cautelare rispetto all’impulso dionisiaco che trasfigurerebbe l’individuo in “pura natura”: “sfrenato, sotto ogni aspetto un vero torrente in tempesta, [...] nemmeno un animale che si mantenga nei suoi limiti naturali”.21 Nella visione che Jung propone qui dello stato dionisiaco, l’individuo viene ricondotto alla sua essenza barbarica, dissolto nelle sue componenti collettive. Sullo sfondo dell’ancora recente conflitto bellico (sono gli anni in cui Freud scrive Al di là del principio di piacere), Jung confessa di temere l’enorme potenza delle forze istintuali compresse nell’individuo civilizzato, assai più pericolose degli istinti dell’uomo primitivo: Le forze istintuali compresse nell’uomo civilizzato hanno un’enorme potenza distruttrice e sono molto più pericolose degli istinti dell’uomo primitivo, il quale vive costantemente in misura modesta i propri impulsi negativi. Per questo motivo nessuna guerra del passato supera in orrore le guerre tra nazioni civili.22
19 20 21 22
C.G. Jung, Psychologische Typen (1921), tr. it. di C.L. Musatti e L. Aurigemma, Tipi psicologici, in Opere, cit., vol. 6, 1988, p. 153. Ibid. Ivi, pp. 151. Ivi, p. 152. Sull’atteggiamento ambivalente di Jung rispetto al dionisiaco nelle opere scritte tra il 1922 e il 1934, cfr. P. Bishop, The Dionysian Self. Jung’s Reception
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La catastrofe: i seminari di C.G. Jung su Così parlò Zarathustra
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Eppure l’impulso dionisiaco designa al contempo anche un salvifico attingere alla sorgente originaria, è metafora della discesa alle madri, da cui risale, in una sintesi di fattori inconsci, il simbolo, immagine di un movimento progressivo incipiente. Per Jung il simbolo possiede in sé un’eccedenza di significato, cioè dietro il senso oggettivo e visibile ne nasconde un altro invisibile e più profondo, pertanto solo in parte interpretabile. Più che interpretato il simbolo va meditato, lasciato agire dentro di sé, come principio catalizzatore di nuove energie e soprattutto di un nuovo assetto della personalità. Ciò vale in particolare per quei simboli che si propongono come trasformatori della personalità, in quanto atti a creare nuove linee di forza, e con esse un senso di rinnovamento e di risveglio. Dal disordine pulsionale e dalla sofferenza esistenziale è possibile il recupero del simbolo, intuibile già nella situazione iniziale di disagio e sofferenza, che Jung non vuole vedere ridotta ad uno stato di impoverimento, inaridimento e cancellazione.23 Molto più vasto del rimosso freudiano, l’inconscio è per Jung un intreccio di possibilità di realizzazione che è necessario ascoltare e integrare per tendere come individuo al proprio sé; e la psiche, lungi dall’essere affrontabile solo dal punto di vista causale, è un divenire che può essere compreso solo in modo sintetico o costruttivo: L’inconscio contiene anche le sorgenti oscure dell’istinto e dell’intuizione, l’immagine dell’uomo quale è sempre stato, da tempo immemorabile; contiene tutte quelle forze insomma che la semplice ragionevolezza e il senso pratico di una ordinata vita borghese non sono in grado di destare ad un’attività vitale, quelle forze creative che possono orientare continuamente la vita dell’uomo verso nuovi sviluppi, nuove forme e nuove mete.24
Si mostra già qui con evidenza la distanza fondamentale che si stabilisce rispetto alla lettura freudiana del sintomo. Se Freud legge tendenzialmente i sintomi come segni codificabili di deviazioni psichiche da reintegrare, Jung
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of Friedrich Nietzsche, Walter de Gruyter, Berlin 1995, in particolare pp. 156-186; dello stesso autore: C.G. Jung and Nietzsche: Dionysos and analytical psychology, in Id. (a cura di), Jung in contexts, Routledge, London 1999, pp. 205-241. Cfr. C.G. Jung, Der Inhalt der Psychose (1908), tr. it. di L. Personeni e L. Aurigemma, Il contenuto delle psicosi, in Opere, cit., vol. 3: Psicogenesi delle malattie mentali, 1999, pp. 159-184, dove Jung tra l’altro insiste sulla necessità di accostarsi alla malattia alla luce della sua dimensione psicologica. Cfr. al riguardo A. Uccelli, Jung e Nietzsche. Un intreccio di prospettive, in A. Monti (a cura di), Pensiero ermeneutico e pensiero dialettico, La Quercia, Genova 1984, pp. 43-76. C.G. Jung, Über das Unbewusste (1918), tr. it. di M.A. Massimello, Sull’inconscio, in Opere, cit., vol. 10/1: Civiltà in transizione: Il periodo tra le due guerre, 1998, p. 18.
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vede nei sintomi i simboli di possibili trasformazioni. In questa prospettiva la “funzione trascendente”25 che Jung riconosce al simbolo ne definisce una qualità essenziale, la facoltà cioè di realizzare traduzioni e passaggi tra stati conflittuali liberando l’energia psichica dalla pura animalità e permettendo l’evolversi dell’individuo sul piano della coscienza: Quando l’espressione inconscia rimane così intatta, essa non va risolta ma plasmata, in modo da divenire oggetto comune di tesi e antitesi. In tal maniera essa diventa un contenuto nuovo che domina l’intero atteggiamento, annulla la scissione e incanala a forza le tendenze in contrasto in un alveo comune. Con ciò la stasi delle forze vitali ha termine, e la vita può progredire scorrendo con nuovo vigore verso nuove mete.26
Jung mette in risalto l’energia produttiva del simbolo, la forza con cui esso può intervenire nel contesto individuale e collettivo. Così inteso il simbolo sembra incorporare una forza plastica di metamorfosi che si avvicina molto a ciò che Nietzsche chiama il potere dionisiaco, la forza dinamica che agisce nell’inconscio: “la grande attività fondamentale è inconscia. La massima parte delle nostre esperienze è inconscia e agisce”.27 Esiste tuttavia un’ambivalenza intrinseca nella concezione simbolica di Jung, che cede talora ad una visione più tradizionale, secondo cui il simbolo è rappresentazione di un oltre, immagine di un qualcosa di indefinito. Lungi dall’essere strutture atemporali e eternamente valide i simboli, ci dice infatti Jung, subiscono un percorso storico che conduce al loro esautoramento: essi restano vivi solo finché sono in grado di catalizzare a sé l’energia psichica, provocando una “partecipazione inconscia”. Proprio a questo aspetto è ricondotto un tratto essenziale del simbolo junghiano, il suo essere cioè “espressione migliore e più alta possibile di qualcosa di presentito e non ancora conosciuto”.28 Quando si trova la formula che ne articola il senso, quando viene tradotto in segno, in un significato comprensibile alla coscienza, il simbolo muore e conserva solo un significato storico. Stando a questo suo tratto, all’indefinitezza transitoria del suo significato, al suo essere immagine di qualcosa che ancora non è, il simbolo non sarebbe più tanto una forza attiva, immanente alla vita stessa, quanto l’immagine di un futuro ancora al di là da venire, il presagio di un avvenire sconosciuto. Se il simbolo non è più inteso come l’attività della 25 26 27 28
C.G. Jung, Tipi psicologici, cit., p. 529. Ivi, pp. 532-533. NL V/II, 11[46] , p. 346. C.G. Jung, Tipi psicologici, cit., pp. 525-526.
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La catastrofe: i seminari di C.G. Jung su Così parlò Zarathustra
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volontà inconscia, ma rappresenta un’individuazione che è ancora mistero, o mito, l’assetto della personalità rimane ancorato ad un nucleo oscuro, imperscrutabile e inesprimibile, quindi in qualche modo ‘garantito’ in un ‘altrove’ metafisico. Si può già premettere che è questo tratto del simbolo ad affermarsi e a governare la lettura dello Zarathustra che Jung sviluppa nel corso dei seminari degli anni Trenta: opera simbolica gravida di forza premonitrice di sviluppi futuri, lo Zarathustra viene letto come la rappresentazione dell’attività dell’inconscio che avrebbe anticipato tutti i grandi eventi storici e politici coevi.29 Jung si accosta allo Zarathustra come all’opera che, una volta dichiarato morto l’universo simbolico cristiano, dà vita, nel mezzo del simbolico, ad una nuova azione che inizia a svolgersi sul palcoscenico spoglio, nel vuoto di simboli e di direttive, dove il paesaggio è puro spaesamento e l’esistenza appare rimandata a se stessa nell’assenza di protezione e in un labirinto di vie senza segnali, ma dove, proprio per questo, è possibile rinunciare risolutivamente a convinzioni e a certezze radicate, qualora il radicamento fosse ormai solo vecchia consuetudine e inettitudine a continuare a pensare e a creare. Jung è probabilmente affascinato dalla radicalità con cui Nietzsche interroga le dinamiche dei simboli e afferma nello Zarathustra il loro divenire: “i migliori simboli debbono parlare del tempo e del divenire: una lode essi debbono essere e una giustificazione di tutto quanto è perituro!”30 Ma in un’epoca storica che già pare allungarsi a dismisura, in una fase cruciale in cui l’individuo è privato dell’“azione possente e nel contempo liberatrice di un simbolo sociale vivo”,31 è forse più forte la preoccupazione per una collettività che ha perso il potere di simbolizzare ed è esposta senza protezione a forze distruttive e facile preda di esaltazioni collettive gravide di temibili conseguenze. La storia che Jung ci racconta, storia della coscienza nel suo rapporto con l’esperienza mitico-simbolica, con la produzione di simboli e fantasie 29
30 31
C.G. Jung, Lo “Zarathustra” di Nietzsche, cit., vol. 3, p. 951: “Io stesso avevo molti dubbi, ma acconsentii a correre il rischio, in primo luogo in quanto si tratta di un’opera decisamente contemporanea, che ha molto a che fare con ciò che sta accadendo ai nostri tempi; pensavo che inoltrare lo sguardo nelle operazioni attuali della mente inconscia che ha anticipato tutti i grandi eventi politici e storici dei nostri giorni potesse avere un grande interesse. Ma devo ammettere che Nietzsche è molto involuto e che ciò cui dà origine in Così parlò Zarathustra appartiene ad un genere di cose in grado di agitare l’inconscio dell’uomo moderno in misura inquietante, tanto più in quanto il modo in cui tutto ciò opera risulta inavvertibile; opera segretamente, e a volte persino in maniera velenosa”. Za, Sulle isole beate, p. 101. C.G. Jung, Tipi psicologici, cit., p. 529.
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Genealogia della cultura
mitiche, è quella di una progressiva unilateralizzazione, di uno spegnersi graduale, sul piano della collettività, della facoltà rigeneratrice simbolicoimmaginifica, essenziale per la salute psichica. Ecco che allora la fantasia creativa dell’artista è investita di una funzione terapeutica essenziale. Nel contesto di una concezione estetica che Jung formula in questi anni, e che ripropone tendenzialmente le linee di un’estetica neoromantica, pare infatti significativo lo sforzo fatto per investire l’artista di una funzione essenziale per lo stato di salute della collettività. In Psicologia e poesia Jung descrive l’esperienza artistica con parole che riecheggiano la categoria del dionisiaco della Nascita della tragedia, come il ritorno all’unità primitiva che distrugge l’individuo, le cui parti smembrate vengono assorbite nell’uno originario; un’esperienza di sofferenza ma al tempo stesso benefica, poiché riassorbita e risolta nel piacere della partecipazione al volere universale: “egli ha toccato quella profondità psichica salutare e liberatrice nella quale ancora nessuna coscienza singola si è isolata, per seguire la via degli errori e del dolore, dove tutti ancora sono presi dallo stesso ritmo”.32 Fine catalizzatore di bisogni collettivi e di desideri inespressi, l’artista sa dare ad essi una voce e regalare così all’epoca un gesto o un simbolo che possono agire in senso compensatorio e contribuire alla sua cura. Determinante è anche qui l’idea secondo cui l’opera non è spiegabile secondo una logica psicologica causalistica, come nella concezione estetica freudiana, ma alla stregua di una riorganizzazione creativa del terreno nutritivo cui essa attinge: l’opera d’arte è simbolica, non sintomatica, ci dice Jung in polemica con Freud in Psicologia analitica e arte poetica (1922).33 Così intesa, la creazione artistica può ristabilire l’equilibrio psichico della coscienza collettiva allorché essa si smarrisce in un atteggiamento troppo unilaterale: “gli ‘istinti’ vivificati trasmettono le loro immagini nei sogni dei singoli, e nelle visioni degli artisti e dei veggenti, per reinstaurare l’equilibrio psichico”.34 Come un sogno che si rende manifesto si riferisce al mondo della veglia, così l’opera si riferisce al presente che ognuno esperisce quotidianamente: “La grande opera d’arte è come un sogno che, nonostante sia manifesto, non si autointerpreta, e che non ha mai un significato univoco”.35 Jung pone quindi ancora l’accento sull’eccedenza, 32 33
34 35
C.G. Jung, Psicologia e poesia, cit., p. 377. C.G. Jung, Über die Beziehungen der analytischen Psychologie zum dichterischen Kunstwerk (1922), tr. it. di M.A. Massimello, Psicologia analitica e arte poetica, in Opere, cit., vol. 10/1: Civiltà in transizione: Il periodo tra le due guerre, 1998, pp. 335-354. C.G. Jung, Psicologia e poesia, cit., p. 377. Ibid.
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o sull’indeterminatezza di senso dell’immagine del sogno, per sottolineare poi la necessità di trarne un significato efficace per la vita di ognuno: “esso presenta un’immagine, come la natura fa crescere una pianta, e siamo noi che dobbiamo trarne le conseguenze”.36 Ma come agiscono queste immagini dei sogni e delle visioni degli artisti, come si esplica il loro potere risanatore? Jung scrive che per comprenderne il senso bisogna lasciarsi afferrare e plasmare da esse, farle agire su di sé per riprodurre la stessa “esperienza primigenia” vissuta dall’artista, l’immersione nello “stato primigenio della partecipation mistique”: “L’esigenza psichica della collettività si adempie nell’opera del poeta, che di fatto significa per lui veramente di più del suo destino personale”.37 Nelle parole di Jung il processo di guarigione assume i tratti di un’esperienza mistica o religiosa, di un’autoredenzione attraverso il ritorno all’unità primitiva, che viene descritto come naufragio dell’individuo nell’essere originario da cui viene assorbito. La sofferenza della contraddizione si risolve così nel piacere superiore della partecipazione alla sovrabbondanza dell’essere unico, nell’assorbimento del molteplice in un fondamento primo. In breve, nella risoluzione del molteplice in unità, piuttosto che nella sua affermazione. 3. Wotan, o della patologizzazione del simbolo L’atteggiamento di Jung nei confronti del dionisiaco come naufragio dell’individuo nell’essere originario è soggetto ad un’evidente ambivalenza negli scritti degli anni Venti e Trenta. Se in Psicologia e poesia è esperienza benefica investita di valore compensatorio e terapeutico, significativamente in Tipi psicologici, scritto appena dopo la guerra, prevale l’atteggiamento difensivo di fronte alla frammentazione dionisiaca, su cui si proietta il timore della perdita dell’individualità e della regressione nella psicologia della massa, del soggiogamento individuale alle pressioni del collettivo. A fronte dell’emergenza della situazione storica sembra quindi rafforzarsi in Jung, non appena si produce un inabissamento nella sfera pulsionale ed istintiva, un moto di resistenza contro il carattere informe e caotico del dinamismo inconscio e l’urgenza della forma e della legge. Questo oscillare tra fascino e timore cede ad un impulso rigidamente difensivo di fronte a Nietzsche, come si rende evidente nel seminario degli anni
36 37
Ibid. Ibid.
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Trenta, cui Jung, a fronte dello sviluppo della situazione politica tedesca ed europea, conferisce quasi i tratti del rito esorcizzante.38 Per meglio comprendere la visione che Jung sviluppa dell’esperienza dionisiaca di Nietzsche, e che governa la sua lettura dello Zarathustra, è utile tornare all’epoca dei suoi primi tentativi di accostarsi al pensiero di Nietzsche. È a questo proposito significativo un passo dell’autobiografia, in cui Jung fornisce una rappresentazione breve ma pregnante dell’atmosfera degli anni della sua gioventù, rivelando quali fossero i principali flussi di forze che percorrevano lo spazio culturale: “gli archetipi di Wagner battevano già alle porte e assieme ad essi giungeva l’esperienza dionisiaca di Nietzsche, che meglio potrebbe ascriversi a Wotan, il dio dell’ebbrezza”.39 È probabilmente richiamandosi alla Nascita della tragedia che Jung ci dice che lo “spirito del tempo” si sarebbe manifestato in un intreccio di due forze non ben districabili: la musica di Wagner, che aveva riportato in vita antiche figure della mitologia germanica, e l’esperienza dionisiaco-wotanica di Nietzsche, che fu lo sfondo della sua “malattia”. L’accostamento tra le due divinità è significativo: similmente, nel famoso saggio del 1936, Wotan, Jung sostiene che è Wotan ciò a cui Nietzsche inconsciamente si riferisce quando scrive che “Zarathustra stesso è indovino, incantatore e vento di burrasca”.40 Di fatto, è la fisionomia di Wotan che Jung vede a tratti emergere nello Zarathustra e che lega l’opera al tragico periodo storico in questione: al “kairos – il momento presente del tempo – che [...] risulta adesso chiamarsi Wotan”, scrive ancora Jung nel saggio.41 Accogliendo alcune riflessioni di W.K.C. Guthrie,42 James Hillman ricorda come sulle rappresentazioni dei miti greci e sulle loro trasformazio38
39 40 41 42
Per un commento al seminario junghiano alla luce dell’ambivalenza Dioniso/ Wotan si rimanda al seguente contributo, qui ripreso e rielaborato: G. Pelloni, La danza di Dioniso e il volto del demone. Sulla lettura junghiana di Così parlò Zarathustra, in M. Gay, I. Schiffermüller (a cura di), Lo Zarathustra di Nietzsche: C.G. Jung e lo scandalo dell’inconscio, cit., pp. 59-96. C.G. Jung, A. Jaffé, Erinnerungen, Träume, Gedanken von C.G. Jung (1960), tr. it. Ricordi, sogni, riflessioni, raccolti e editi da A. Jaffé, edizione riveduta e accresciuta, traduzione di G. Russo, BUR, Milano 1978, p. 283. C.G. Jung, Wotan, tr. it. di M.A. Massimello, Wotan, in Opere, cit., vol. 10/1: Civiltà in transizione: Il periodo tra le due guerre, 1998, p. 281. Ivi, p. 290. Cfr. in particolare W.K.C. Guthrie, Dionysos, in The Greeks and their Gods (1950), p. 145: “The personal outlook of the writer or the spirit of the age will affect his exposition of the cult, if it be only in the choice of a starting-point, which must inevitably give prominence to some features and relegate others to subordinate places”. Cit. in J. Hillman, The Myth of Analysis. Three Essays in Archetypal Psychology, Northwestern University Press, Evanston 1972, p. 271.
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La catastrofe: i seminari di C.G. Jung su Così parlò Zarathustra
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ni moderne influiscano le inclinazioni personali degli autori e l’orizzonte culturale di un determinato periodo storico.43 Dioniso, figura dal carattere complesso e paradossale, offre ai suoi interpreti una grande varietà di prospettive e caratteristiche. Jung attribuisce unicamente agli studi classici del filosofo il riferimento al dio della mitologia greca, e riconduce l’esperienza psichica di Zarathustra a quella che definisce essere la componente più propriamente wotanica del dionisiaco. L’emergere di Wotan si annuncerebbe, secondo Jung, nella metamorfosi del cammello in leone, poiché Wotan sarebbe uno “spirito distruttore” che si scuote di dosso il peso del passato e spiana la strada per un nuovo inizio, un vagabondo senza obblighi e legami il cui intento è quello di agitare le acque e provocare scompiglio, arrecare guai e malintesi, ma anche portare nuova vita.44 La radice del suo nome, wot, significa “essere mentalmente eccitato”, ed è connesso al termine tedesco Wut, furore. Le immagini che ci vengono dai testi germanici antichi, in particolare dall’Edda poetica, sono discordanti. Wotan è manifestazione di luce e di buio: è il dio del vento e della tempesta, del conflitto e del furore guerresco, il vagabondo che dove arriva porta discordia e morte; ma è anche il dio delle rune e della poesia come creazione estatica e dono all’uomo.45 Wotan sarebbe legato a Dioniso in virtù delle componenti estatiche e entusiastiche della sua natura; tuttavia, mentre la cultura greca riuscì ad assimilare Dioniso, Wotan rappresenterebbe un’energia difficilmente assimilabile, che non fu mai sottoposta ad un principio di autorità come lo fu invece Dioniso nell’Olimpo. Negli anni in cui si svolgono i seminari, Jung vede riemergere Wotan in Germania con la potenza titanica di un torrente in piena. Integrare questa forza travolgente richiederebbe l’impiego di una energia disumana, un’energia che già Nietzsche, a suo tempo, non avrebbe avuto. A conclusione del saggio del 1936 sembra balenare tra le righe la speranza che la “psiche tedesca” possa ancora conoscere una rigenerazione ad opera di un fattore inconscio che Jung vede essersi riattivato e che, tuttavia, manifesta difficoltà ad interpretare. Se talora sembra infatti considerarlo alla stregua di una sorgente vivificante, di una forza archetipica nei confronti della quale si renderebbe innanzitutto necessaria un’accurata presa di contatto da parte 43 44 45
J. Hillman, Dioniso nelle opere di Jung, tr. it. in M. Pezzella (a cura di), Lo spirito e l’ombra, cit., pp. 97-113, in particolare pp. 105ss. C.G. Jung, Lo “Zarathustra” di Nietzsche, cit., vol. 3, pp. 955ss. Per una lettura del saggio di Jung in riferimento alla “fisionomia” del dio del panteon germanico cfr. P. Mura, Jung, Wotan e il 1936, in E. Banchelli, M.G. Cammarota (a cura di), Le vite del testo. Studi per Maria Vittoria Molinari, Edizioni Sestante, Bergamo 2008, pp. 177-185.
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della coscienza, e quindi un’opera di ridisposizione degli elementi ora verosimilmente noti, nei seminari Jung sembra invece escludere la possibilità che Wotan possa divenire il simbolo di una nuova integrazione della psiche. Ciò che emerge a mano a mano dal commento è piuttosto l’urgenza sempre più impellente di mettere in guardia i suoi uditori da ciò che viene descritto come una forza intrinsecamente disgregante, pura istintività sguinzagliata e flusso non arginabile che nello Zarathustra si manifesterebbe nel simbolo del vento di tempesta, letto da Jung come il sintomo della mancanza di un rapporto sano con il reale, della perdita di un contatto con la terra. Zarathustra rispecchierebbe così l’incapacità del suo autore di rendere conto dei bisogni del proprio corpo e di instaurare un rapporto sano con la collettività, di ergersi a suo rappresentante facendone suoi i bisogni. Il vento che nel sogno dell’indovino spalanca i portoni scaraventando addosso a Zarathustra smorfie, ghigni, risate e farfalle, starebbe così, in questa lettura, a significare l’esperienza di una sopraffazione della coscienza da parte dei contenuti autonomi ed informi dell’inconscio che essa non sa integrare:46 il vento come metafora meteorologica di una condizione di inflazione in cui conscio e inconscio sono disgiunti e quindi non comunicano; una condizione che vede Nietzsche-Zarathustra identificarsi completamente con il suo messaggio e assumere l’atteggiamento psicologico del “ver sacrum”, che trascura l’ombra, l’uomo inferiore. Wotan, questo Dioniso contaminato dal “caso Nietzsche”, è così portatore di uno smembramento che è scissione degli opposti e violenta emantiodromia. James Hillman ricorda che in Jung è presente anche un Dioniso meno assimilato al “caso Nietzsche”, il Dioniso smembrato, il dio della divisibilità in parti, fautore di un processo psicologico di rinnovamento che richiede una metafora corporea.47 Seguendo alcune intuizioni espresse da Jung stesso nei suoi studi sull’alchimia, Hillman ci dice che le lacerazioni possono costituire l’occasione per realizzare il vero rinnovamento che Dioniso propone, e suggerisce che questo rinnovamento non deve essere necessariamente pensato come un riassemblaggio delle parti in un ordine nuovo, 46
47
C.G. Jung, Lo “Zarathustra” di Nietzsche, cit., vol. 4, p. 1304: “Quella bara colma di risate è la paradossale coppia di opposti, i quali, commisti, costituiscono gli aspetti grotteschi e orribili dell’inconscio, in cui vi è assoluta mancanza di un ordine, in cui l’uomo è completamente andato a fondo. È chiaro: se t’identifichi con l’inconscio sei perduto, perché l’unico elemento di ordine è rappresentato dalla tua coscienza. Se nell’inconscio mantieni la tua coscienza, potrai istituirvi un ordine, ma se la perdi e sprofondi là sotto, diverrai una cosa sola con l’inconscio, e a quel punto sarai tu stesso quella bara e quella risata”. J. Hilman, Dioniso nelle opere di Jung, cit., pp. 105s.
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e probabilmente neppure come un processo che abbia come obiettivo la reintegrazione delle parti. Il Dioniso smembrato definisce piuttosto una forza dinamica che provoca il venire meno del controllo centrale dell’io e quindi il risveglio della coscienza del corpo nelle sue parti, un’esperienza di scioglimento che è liberazione e rottura di vincoli e leggi. In questo senso il rinnovamento non si risolverebbe più all’insegna della coincidentia oppositorum e nella realizzazione di un nuovo centro, ma operando per così dire dall’interno della frammentazione. Forse questa intuizione ci dice qualcosa di più sull’idea di una pluralità di forze in cui il tardo Nietzsche vede esplodere il soggetto. Sicuramente di più rispetto all’esperienza della violenta lacerazione degli opposti che Jung vuole attribuirgli in un atteggiamento di compensazione difensiva che lo porta ad accentuare la tensione verso il centro e la totalità. Si rende a questo punto evidente come il costituirsi della scienza analitica con il suo universo metaforico renda possibile la patologizzazione di un’immagine cui Nietzsche riconosce un senso e un valore ben diverso. Jung ricostruisce una sorta di genealogia del simbolo del vento, ne individua la presenza in vari testi di Nietzsche, dalla poesia giovanile Al dio ignoto, all’inno Al Mistral e al ditirambo Il lamento di Arianna.48 Completamente incurante del contesto in cui l’immagine è inserita, Jung appare ossessivamente teso a mettere in luce come essa veicoli la presenza di un’energia distruttiva e disgregante, che esploderebbe in modo tanto più minaccioso quanto maggiore era stata la pressione che l’aveva costretta: “La tempesta non porta all’integrazione, bensì distrugge tutto ciò che non vi si oppone. È come un moto successivo ad una lunga tensione, o ad una stasi, come l’acqua che erompe dopo essersi accumulata a lungo”.49 Si tratta ora di mettere in luce i meccanismi che governano questa patologizzazione e le strategie attraverso cui si esplica, trattandosi di fatto di un meccanismo di difesa e di compensazione che può, per contrasto, servire ad illuminare le vie rischiose per cui si avventura l’esperienza-limite nietzscheana. A questo proposito è utile ricordare un passo centrale dell’autobiografia, in cui Jung confessa che la lettura dello Zarathustra si era rivelata per lui un’“esperienza terribile”, e rievoca addirittura l’emer-
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C.G. Jung, Wotan, cit., pp. 281-283. C.G. Jung, Lo “Zarathustra” di Nietzsche, cit., vol. 2, p. 923: “Vedete, la tempesta non è causa di integrazione, ma distrugge tutto ciò che si lascia distruggere. È semplicemente il movimento dopo una tensione o un’immobilità prolungata, come le acque che si riversano dopo una lunga accumulazione. Ciò accadrà in diversi periodi della storia, quando le cose avranno raggiunto una certa unilateralità”.
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gere di un “freddo brivido”50 all’intuizione di un’affinità profonda, alla paura di assomigliare a Nietzsche. A distanza di tempo, dall’orizzonte di un approdo sicuro, Jung può affermare di aver compreso presto, a differenza del pur geniale filosofo, la minaccia insita nell’inconscio, nel proprio “n° 2”, cui Nietzsche avrebbe avventatamente concesso il predominio sulla coscienza: [Nietzsche] era stato sollecitato dalla puerile speranza di trovare uomini capaci di condividere le sue estasi e di intendere la sua ‘trasmutazione di tutti i valori’: ma aveva trovato solo filistei bene educati, e – in modo tragicomico – ne faceva parte egli stesso. Come gli altri anch’egli non aveva capito se stesso quando era precipitato nell’ineffabile mistero, e aveva voluto cantarne le lodi a un volgo ottuso disertato da tutti gli dei. Era questa la ragione di quel linguaggio roboante, di quel sovrapporsi di metafore, di quel fervore ditirambico che inutilmente tentava di farsi ascoltare da questo mondo perso dietro alle cognizioni senz’ordine e senza legame. E cadde - quel danzatore sulla corda persino oltre se stesso. Non aveva pratica di questo mondo – ‘ce meilleur des mondes possibles’ – e perciò era un invasato, uno con cui si poteva trattare solo con la massima cautela.51
Il riferimento al “linguaggio roboante”, al “sovrapporsi di metafore” e al “fervore ditirambico”, rende palese qual è il terreno su cui si scatena l’attrito e dove il disorientamento mette in moto meccanismi di difesa. Jung sembra subire la forza del vento che soffia nello Zarathustra, il linguaggio dell’eccitazione immediata, il ritmo della scarica pulsionale, e avverte nella forza perlocutiva dei discorsi di Zarathustra un sovraccaricamento archetipico52 che gli pare tradire una tensione estrema, sconfinante già nel patologico (una tensione cui probabilmente lo stesso Nietzsche si riferisce quando, nel capitolo Dei sublimi, accusa gli uomini solenni dalla “volontà eroica” e dalle “anime tese”, che non conoscono “muscoli rilassati” e “volontà staccata”).53 Una tensione che vede ripresentarsi a livello corale, nell’esaltazione di una collettività i cui simboli-guida si sono franti e non catturano più a sé l’energia della psiche. Di questa esaltazione collettiva,
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C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, cit., p. 139. Ivi, p. 140. Jung crede di riconoscere nell’inflazione di Nietzsche, e quindi nel personaggio di Zarathustra, la manifestazione dell’archetipo del “vecchio saggio”. Cfr. al riguardo M. Liebscher, Zarathustra – Der Archetypus des “Alten Weisen”, in «Nietzscheforschung», 9, 2002, pp. 233-245. Za, Dei sublimi, pp. 142-143.
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che avrebbe raggiunto in quegli anni drammatici proporzioni impensabili, Nietzsche sarebbe secondo Jung l’involontario colpevole.54 Prudenza è quindi la parola d’ordine per trattare un materiale definito “incandescente” e a cui, così sempre Jung, conviene accostarsi solo se muniti di un adeguato sapere psicologico e del suo strumentario di concetti. Nella collisione con il momento storico lo psichiatra si propone di sgonfiare possibili inflazioni attraverso l’astrattezza del concetto e la sobrietà della parola scientifica, di mettere in guardia dal rischio di pericolose esaltazioni collettive evocando la follia del filosofo, preludio della follia collettiva in cui è precipitata la Germania nazista. Jung guarda alla vita di Nietzsche e a come essa smentisca il suo messaggio, il quale, lungi dal farsi annuncio felice perché supportato dalla prassi di vita, resta parola vuota. È ancora nell’autobiografia che Jung ci consegna la formula più adatta a descrivere il suo atteggiamento di fronte a Nietzsche, così come si manifesta con massima evidenza nel seminario: “Mi resi conto che il linguaggio, non importa quanto accurato, non può sostituire la vita. Se cerca di sostituirla, non solo la vita perde vigore, ma si impoverisce esso stesso”.55 Ecco che allora lo sguardo diagnostico dello psichiatra si adopera in una ricerca selettiva del simbolo, oscurando a bella posta il gioco intenzionale con l’immagine, i continui ribaltamenti a cui è sottoposta, il senso che vi viene attribuito e il valore che va ad esprimere, palesando in questo un disorientamento che rende manifesti anche tutti i limiti del suo approccio alla creazione artistica. Jung ha evidentemente in comune con Nietzsche la sensibilità per la natura immaginale dell’inconscio quale sorgente creativa e produttiva, deposito di energia attiva che stimola l’emersione di nuovi simboli, immagini e forme culturali; tuttavia non sa riconoscere, o forse non vuole semplicemente valorizzare la complessa costruzione artistica dello Zarathustra, la sperimentazione con lo stile e il linguaggio, la creazione di spazi immaginali, l’esperienza del ritmo. Come tradisce un passo dell’autobiografia, in cui ricorda che il pensiero di poter produrre arte, balenatogli nel periodo di crisi in cui scrisse il Libro rosso, gli era apparso come una “tentazione dell’Anima”,56 Jung manifesta una riserva di natura prettamente etica nei confronti dell’esperienza artistica. Se Nietzsche intende Dioniso come potere di una parola che non ammutolisce di fronte alla ricchezza del soggetto (“Qui mi si dischiudono tutte le parole dell’essere, 54 55 56
C.G. Jung, Lo “Zarathustra” di Nietzsche, cit, vol. 3, p. 951. C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, cit., p. 232. Ivi, pp. 230-231. Cfr. P. Nill, Die Versuchung der Psyche. Selbstwerdung als schöpferisches Prinzip bei Nietzsche und C. G. Jung, in «Nietzsche-Studien», 17, 1988, pp. 250-279, in particolare pp. 268-269.
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balzando dagli scrigni che le contengono: l’essere tutto vuol qui diventare parola, e tutto il divenire qui vuole imparare da me la parola”),57 il simbolo di Jung, con il suo richiamo al trascendente, al divenire-sé come “mistero dell’individuazione”, sembra implicare invece il sentimento di una presenza invisibile, inudibile e indicibile, di un elemento sovrapersonale che non può essere comunicato. Probabilmente risiede in questa divergenza il riferimento di Jung alla “tentazione dell’Anima”: la curiosità che spinge Nietzsche a scivolare in ruoli sempre diversi, la potenza della metamorfosi, la libertà assoluta di un’anima che “fugge da se stessa, raggiungendosi nell’orbita più vasta”,58 sconcertano palesemente Jung, che pare piuttosto anelare al silenzio e auspicare il raccoglimento di fronte al mistero dell’imperscrutabile. Nel percorso intellettuale di Nietzsche Jung ravvisa così la progressiva scomparsa dell’iniziale dialettica tra apollineo e dionisiaco a favore della dimensione estroversa dionisiaca, che Nietzsche avrebbe però vissuto esclusivamente nell’opera, mentre nella vita si sarebbe progressivamente accentuata l’introversione e la tendenza alla solitudine e all’isolamento. Quando, in questa prospettiva, Jung sostiene che i “veri simboli” “accadono”,59 si danno all’individuo, non sono costruzioni che coinvolgono la sola coscienza, l’intento è quello di negare che nello Zarathustra Nietzsche sia giunto ad una vera simbolizzazione, perché non si sarebbe verificata la compensazione con il materiale inconscio. La mancata individuazione, ricondotta all’assenza di un lavoro ermeneutico da parte dell’io, alla mancanza di anima autoriflessiva, perturba così per Jung il linguaggio simbolico, crea disarmonie e disgiunzioni, e, soprattutto, produce flussi non arginati di contenuti inconsci, immagini violente e soggioganti contro cui si pone la parola del commento, armata di un apparato di concetti ed astrazioni deputati ad arginarne la potenza icastica. Nella veste dello psichiatra Jung diagnostica così il fallimento dell’individuazione, di cui il testo sarebbe la patografia quasi involontaria. Zarathustra, specchio dell’autore Nietzsche, non avrebbe integrato le immagini inconsce emerse, in un flusso spontaneo di pura visionarietà, nella forma di sogni, apparizioni, storie, di parvenze dalle tinte notturne, 57 58 59
Za, Il ritorno a casa, p. 224. Za, Di antiche tavole e nuove §19, p. 255. C.G. Jung, Lo “Zarathustra” di Nietzsche, cit., vol. 4, p. 1327: “Un simbolo non è mai un’invenzione dell’uomo. Gli accade. Sapete, quelle che magari definiamo ‘idee dogmatiche’ sono tutti fatti molto primitivi che accaddero all’uomo assai prima che egli iniziasse a pensarle; egli prese a pensarle molto tempo dopo che queste apparvero per la prima volta”.
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malinconiche e angoscianti, di figurazioni di componenti collettive della psiche, di eventi carichi di cattivi presagi e segnali di pericolo, e vi avrebbe opposto un nuovo linguaggio simbolico, una sovrastruttura creata a livello psichico per arginare il flusso del materiale inconscio scaricatosi in una specie di écriture automatique, un linguaggio arbitrariamente costruito dalla coscienza sulle rovine di quello precedente e per questo inevitabilmente destinato a collassare: “Solo ciò che ha radici nell’inconscio può vivere, poiché quella è la sua origine. Altrimenti si è come piante sradicate dal terreno. Che Nietzsche tentasse di costruire una struttura contro l’inconscio lo si può vedere ovunque”, sentenzia Jung.60 Sono quelle costruzioni che Jung chiama “invenzioni” e tra cui annovera innanzitutto l’oltreuomo, immagine di un’individuazione fallita, sintomo per eccellenza di una fuga da sé, della repressione dell’antitesi e del rifiuto delle componenti collettive della propria psiche individuale: l’eroe cavo che si erge sul vuoto di se stesso e che su questo vuoto implode. NietzscheZarathustra, sostiene Jung, si sarebbe rifiutato di ingoiare il serpente, sancendo con una risata trasfigurante una falsa vittoria sull’inconscio; il morso del serpente avrebbe sostituito la presa di coscienza realizzata attraverso l’integrazione dei contenuti inconsci, che, proprio perché respinti, si fanno più pericolosi: “Ogni passo che compi per respingerla accresce il potere di ciò che viene rimosso, e alla fine questo si trasforma in un oggetto non più suscettibile di una presa di coscienza”.61 Jung ci dice quindi anche che l’ombra, nella forma dell’orribile serpente nero che si infila nella bocca del pastore, non è più integrabile, che alla follia ormai non c’è rimedio. Il flusso del vento non è più governabile. Siamo evidentemente nel terreno della follia psichiatrica, l’arma che Jung usa contro Nietzsche, a monito dei contemporanei. Jung lo psichiatra e Nietzsche il paziente folle: ennesima tappa della storia della follia. È da notare che la patologizzazione della “follia dionisiaca” di Nietzsche risale almeno all’epoca della stesura di Tipi psicologici, quando Jung formula compiutamente l’idea della funzione trascendente del simbolo:
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Ibid.: “Qualsiasi struttura che si erge in contrasto con l’inconscio e sia costruita con la mente, per quanto ardita possa essere, finirà per crollare, poiché è priva di fondamenta, di radici. Solo ciò che ha un ancoraggio nell’inconscio è in grado di vivere, poiché la sua origine è questa. In caso contrario è come se fosse una pianta sradicata dal suolo”. Sulla lettura junghiana dei registri simbolici di Così parlò Zarathustra cfr. F. Salza, Un percorso sdoppiato. Jung, Nietzsche e lo spirito del Cristianesimo, in M. Pezzella (a cura di), Lo spirito e l’ombra, cit., pp. 33-56. C.G. Jung, Lo “Zarathustra” di Nietzsche, cit., vol. 4, p. 1369.
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Quando invece sussista una qualche inferiorità di una delle due parti, il simbolo sarà prevalentemente il prodotto dell’altra e sarà anche nella stessa misura più un sintomo che un simbolo, il sintomo cioè di un’antitesi soppressa. […] Nello Zarathustra troviamo verso la fine un esempio eccellente della soppressione dell’antitesi nella figura dell’uomo più brutto.62
Si potrebbe dedurne che questa idea di simbolo unificatore, che deve offrire alla personalità “una nuova sicura base”,63 maturi sulla diagnosi compiuta del paziente Zarathustra, del “caso Nietzsche”, ed è poi la camicia di forza applicata all’opera. Forse Jung resta troppo legato alla contraddizione tra l’unità primitiva e l’individuazione per apprezzare l’affermazione dionisiaca del tardo Nietzsche, della vita che non deve più essere risolta o giustificata; e il cugino ribelle di Dioniso dell’immaginario collettivo germanico, il demone che assoggetta e porta alla distruzione, ben si presta per designare ciò che è letto come un’esperienza disgregatrice di sopraffazione da parte degli istinti, l’esplosione distruttiva di energia in una coscienza smarritasi in un atteggiamento troppo unilaterale. Può servire a chiarire la lettura junghiana del “caso Nietzsche” la distinzione che Kerényi stabilisce tra le manifestazioni del cosiddetto “mito genuino” e quelle del mito definito “tecnicizzato”, cioè evocato intenzionalmente dall’uomo per conseguire determinati scopi.64 Furio Jesi, riprendendo il discorso di Kerényi, scrive infatti che le immagini mitiche evocate intenzionalmente, i cosiddetti miti tecnicizzati, non valgono in alcun modo come barriera contro il prevalere dell’inconscio, mentre sarebbe propria delle immagini evocate dal mito definito genuino la facoltà di opporsi alla caduta nell’irrazionalismo in virtù della realtà linguistica di carattere collettivo che determinano con la loro presenza al livello della coscienza.65 Il flusso del mito genuino, che sgorgherebbe spontaneamente dalle profondità della psiche, attiverebbe delle immagini che vi giacciono latenti, energizzandole e potenziandone al contempo la struttura, la quale, come elemento intrinseco della coscienza, si contrapporrebbe al predominio incondizionato dell’inconscio e al conseguente annichilimento della coscien62 63 64 65
C. G. Jung, Tipi psicologici, cit., pp. 531 e 533. C.G. Jung, Die Beziehungen zwischen dem Ich und dem Unbewußten (1935), tr. it. di I. Bernardini, S. Daniele e E. Sagittario, L’io e l’inconscio, in Opere, cit., vol. 7: Due testi di psicologia analitica, 1993, p. 218. K. Kerényi, Dal mito genuino al mito tecnicizzato, in E. Castelli (a cura di), Atti del colloquio internazionale su “Tecnica e casistica”, Istituto di Studi Filologici , Roma 1964, pp. 153-168. F. Jesi, Mito e linguaggio della collettività, in Id., Letteratura e mito, con un saggio di A. Cavalletti, Einaudi, Torino 2002, pp. 35-44.
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za. La caratteristica essenziale del mito definito genuino sarebbe l’oggettività “naturale”, e quindi la facoltà di determinare una realtà linguistica di valore collettivo, un universo comune al quale tutti partecipano. Jung sembra vicino a questa prospettiva quando sostiene che l’inconscio, di per sé collettivo, si mantiene in equilibrio nella psiche quando entra in relazione con una coscienza “in stato di veglia”, cioè non viziata dal soggettivismo. In questa visione le immagini affioranti naturalmente dall’inconscio salvaguarderebbero, con il carattere collettivo della realtà cui partecipano e che contribuiscono a creare, l’equilibrio umanistico tra inconscio e coscienza. 4. Patologie collettive La crescente complessità stilistica e strutturale dello Zarathustra resiste tenacemente al metodo psicologico, alla sovrapposizione di vita e opera. Pare significativo che, dopo aver commentato con acribia, quasi riga dopo riga, la prima parte del testo, Jung, avvertibilmente infastidito, decide di procedere per affondi e di approfondire solo alcuni “passaggi chiave”, che, come si rende evidente proseguendo nella lettura, sono scelti accuratamente tra quelli che meglio si prestano ad avvalorare la sua tesi, o in cui ravvisa un’attinenza con la realtà tedesca ed europea degli anni trenta, su cui le lezioni si diffondono sempre più ampiamente. Questa relazione viene stabilita sulla base di un confronto con il testo che si fa via via più episodico e ripetitivo, e che cessa repentinamente alla vigilia dello scoppio della guerra durante l’analisi del capitolo Delle tavole vecchie e nuove, senza che vi sia stato un attraversamento completo dell’opera. Così, ben lungi dal configurarsi come un’operazione ermeneutica in cui l’interprete indugia presso il testo e nel testo in un dialogo con esso che ne dispiega il senso, il commento assume piuttosto i tratti di una massiccia proiezione di contenuti sul fitto tessuto multiforme di immagini e simboli che costituisce l’opera. Jung scandaglia lo Zarathustra alla ricerca di una sintomatologia di cui si serve poi per spiegare la crisi in atto, rimettendo così il percorso di Zarathustra, la sua cura dal nichilismo e il potenziale affermativo del superuomo, al fallimento più cocente. Ma che rapporto avrebbe quindi Wotan con il momento presente del tempo? Nel saggio omonimo Jung, citando la Deutsche Mythologie di Jacob Grimm, insiste sul fatto che questo viandante-cacciatore a capo delle sue schiere non era in realtà mai completamente sparito, ma era rimasto sopito nelle tradizioni e nelle leggende popolari tedesche, nulla più che un fuoco fatuo nelle notti di tempesta, un cacciatore spettrale dal fischio
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inconfondibile che cavalcava accompagnato dal suo seguito.66 L’immagine dell’infaticabile viandante, del mettimale che andava operando magie e scatenando qua e là litigi, era stata interpretata dal cristianesimo come quella di un demonio, ma probabilmente nel momento sbagliato, tagliando cioè “querce ancora vitali”, non ancora pronte per entrare in una fase naturale di acquiescenza. Jung si esprime in modo molto duro con il cristianesimo, che viene incolpato di aver inferto un vero e proprio trauma alla “psiche tedesca”. Essa avrebbe quindi reagito con una rimozione, respingendo nell’inconscio quei contenuti psichici collegati a pulsioni giudicate intollerabili. Jung realizza un collegamento tra psiche individuale e collettiva, riconoscendo così nella tradizione storica il periodo di latenza in cui l’evento traumatico sarebbe stato al contempo conservato e rimosso, reso inesperibile e tuttavia in grado di influenzare e disturbare la vita conscia. La psiche collettiva tedesca, ci vuole dire Jung, ha sofferto per la perdita degli antichi dei, e quando le forze sociali e culturali che li avevano colpiti avevano perso a loro volta il proprio potere di presa sulla collettività, lasciando uno squarcio vuoto, ciò che era stato rimosso con violenza e ricacciato nel luogo psichico inaccettabile per la coscienza collettiva, avrebbe acquistato nuova dinamicità e sarebbe tornato a riemergere nella forma di sintomi nevrotici.67 Nel corso dei seminari Jung menziona un episodio dell’Edda in cui Wotan, per venire a conoscenza del segreto delle rune, appare appeso ad un albero in uno stato alterato di coscienza: “Io so che da un albero al vento pendetti/ per nove notti intere/ ferito da una lancia e immolato a Odino,/ io stesso a me stesso”.68 Nella psicologia junghiana l’immagine della lancia che trafigge provocando una ferita sta ad indicare la forza psichica autonoma dell’inconscio, che è qui personificata da Wotan, unione di incubo e succubo, schiavo soggiogato e al contempo potere assillante e assoggettatore. Quando nell’autobiografia scrive di non essersi potuto sottrarre allo spirito del tempo, Jung fa evidentemente riferimento proprio a questa
66 67
68
C.G. Jung, Wotan, cit., p. 285. Con una certa ansia, nel 1945, Jung ricorda di non essere stato ascoltato quando, negli anni successivi la prima guerra mondiale, aveva denunciato l’emergere della nietzscheana “bestia bionda” nei sogni dei suoi pazienti. Cfr. C.G. Jung, Nach der Katastrophe (1945), tr. it. di M.A. Massimello, Dopo la catastrofe, in Opere, cit., vol. 10/2: Civiltà in transizione: Dopo la catastrofe, 1999, pp. 13-37. H.A. Bellows (a cura di), The poetic Edda (The American-Scandinavian Foundation, New York 1923), cit. in C.G. Jung, Seminari. Lo Zarathustra di Nietzsche, cit., p. 201 (tr. it. di C.A. Mastrelli, Hávamál, st. 139, vv. 600-603, in L’Edda. Carmi norreni, Sansoni, Firenze 1982, p. 31).
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caratteristica di Wotan, al suo essere “un potente incantatore e illusionista, versato in tutti i segreti della natura occulta”.69 Prerogativa del “dio del vento” sarebbe quella di “afferrare” tutto quel che incontra, e abbattere ciò che non ha radici: “Quando soffia il vento, tutto ciò che è esternamente e internamente malsicuro vacilla”.70 Wotan sarebbe quindi l’Ergreifer, colui che afferra e possiede, e che richiede l’esistenza di un “posseduto”, di qualcuno che sia disposto a lasciarsi afferrare, un’unione che Jung definisce essere un “dato germanico primigenio”,71 ossia la facoltà dei tedeschi di essere “afferrati” da un dio, nucleo psichico carico di energia inconscia, così che “la loro casa è riempita da un vento selvaggio”.72 Nel saggio ciò che è definito essere “l’elemento che colpisce maggiormente” è il fatto che nella Germania del tempo colui che è evidentemente “posseduto” può a sua volta “possedere” la nazione al punto che tutto “comincia a avanzare e inevitabilmente anche a sdrucciolare pericolosamente”.73 La lettura junghiana ci pone quindi di fronte ad un fattore psichico di natura irrazionale che agisce con aggressività sulla natura umana, la quale viene identificata con un ambito culturale preciso, quello germanico. Jung sembra a tratti collocarsi in questa dimensione, come dimostrano quei passi del saggio del 1936 in cui crede di ravvisare in Wotan un potenziale nuovo inizio, un’energia che, una volta passata l’inondazione, potrebbe ancora venire incanalata ed agire da fattore rigenerante per la psiche tedesca. Il vecchio dio germanico che Jung vede riesplodere e dilagare viene invece descritto altrove alla stregua di un residuo ancestrale rimasto incastrato nella psiche inconscia dei tedeschi e mai assimilato dalla coscienza cristiana. Proprio perché non fu mai reso trasparente, né tantomeno guarito, Wotan avrebbe travolto la coscienza collettiva inondandola di un’intenzionalità ad un tempo vecchia e nuova, trascinando con sé componenti travolgenti di un universo arcaico, irrazionale e violento, e provocando un contagio di proporzioni impensate. Nel commento di Jung Nietzsche è identificato con Wotan, un arcaismo che ha perduto ogni capacità di autoriflessione e di psichificazione e che si manifesta quindi solo nella forma dell’eccesso. Di qui l’inflazione e la possessione collettiva, lo straripamento e la disgregazione che avrebbe causato una suggestione di massa di proporzioni impensate. Con il passare degli anni il seminario sullo Zarathustra si addentra sempre di più nel cuore della situazione europea contemporanea, mettendo a 69 70 71 72 73
C.G. Jung, Wotan, cit., p. 281. Ivi, p. 287. Ivi, p. 285. Ibid. Ibid.
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nudo quella che si può definire come l’ontologia junghiana del nazionalsocialismo, tesa nell’analisi di quelle forze distruttive, pericolose per la salute collettiva, che avrebbero portato alla catastrofe più ingente della nostra epoca.74 In questa lettura la Germania starebbe subendo le conseguenze catastrofiche dell’irruzione dispotica e violenta di un rimosso che riemerge con i suoi lati più umbratili e distruttivi dallo strato temporale profondo dei lunghi cicli storici, quello strato che nel modello storico di Fernand Braudel è chiamato la longue durèe,75 sorta di inconscio sociale in cui sono immagazzinate forme sovragenerazionali di pensiero e di comportamento determinate a livello psichico e culturale, forze impersonali che influenzano i livelli temporali sovrastanti, le congiunture economiche, demografiche e sociali, e che conducono agli eventi. Braudel immagina un’azione di influenza vicendevole dei diversi strati, un loro reciproco rispecchiarsi ed interagire, cui l’analisi storica deve rendere giustizia. L’analisi junghiana del periodo storico in questione sembra invece attribuire un carattere meramente sintomatico al tempo degli eventi, e finisce per tacere una componente fondamentale del fenomeno che si propone di spiegare: il ruolo determinante dei produttori del mito e l’uso consapevole e mirato dei media artistici, del film, del dramma e del Thingspiel, prestati alla necessità di fondare e convogliare una nuova mitologia; in breve tutta l’estetizzazione della vita politica e la strumentalizzazione dell’apparato tecnico operate dal fascismo e volto a soggiogare le masse nel culto del Führer. Un fenomeno ben rilevato, di contro, da Walter Benjamin, il quale intendeva notoriamente opporre la politicizzazione rivoluzionaria dell’arte all’estetizzazione della politica attraverso cui il fascismo puntava all’affermazione di una nuova mitologia e di una nuova teologia.76 Va da sé che spiegare un fenomeno complesso come il nazismo unicamente come il ritorno di un dio allontanato dalla coscienza sociale, la cui fisionomia si ripresenta in una patologia collettiva, è evidentemente riduttivo. Più acuta e già per molti 74
75 76
Sulla questione, già tanto dibattuta, della compromissione di Jung con il nazismo si veda in particolare il recente contributo di M. Liebscher, “Wotan” und “Puer Aeternus”: Die zeithistorische Verstrickung von C.G. Jungs Zarathustrainterpretation, in «Nietzsche-Studien», 30, 2001, pp. 329-350. F. Braudel, Historie et sciences sociales, la longue durée, in «Annales E.S.C.», Oct.-Dec. 1958, pp. 725-753. Cfr. W. Benjamin, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit (1936), tr. it. di E. Filippini, L’opera d’arte dell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Einaudi, Torino 1966, p. 46: “Alla violenza esercitata sulle masse, che vengono schiacciate dal culto di un duce, corrisponde la violenza da parte di un’apparecchiatura di cui esso si serve per la produzione di valori cultuali”.
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versi anticipatrice della complessità di un fenomeno che solo un decennio dopo sarebbe sfociato in un movimento di massa di enormi proporzioni, era stata la lettura del “wotanismo” che il drammaturgo Ernst Toller aveva presentato ancora nel 1923 nella commedia satirica Der entfesselte Wotan (Wotan scatenato),77 in cui il complesso mitico, spogliato da ogni vera o presunta forza originaria, veniva restituito al contesto storico e sociale in cui più propriamente in quegli anni si inseriva, ossia nella tradizione della mitomania germanica dell’Ottocento. Fin dall’inizio della vicenda il complesso mitico di Wotan si scinde nel “dio Wotan”, nei panni di regista di teatro e di illusionista, e nell’eroe della commedia Friedrich Wilhelm Wotan, personaggio grottesco ed inquietante ad un tempo, che esordisce sulla scena travestito con un ridicolo costume germanico. Il pregio della commedia sta indubbiamente nella decisione di non privare la figura simbolica di Wotan della forza pericolosa dell’immagine mitica; allo stesso tempo, però, Toller smaschera vividamente la strategia politico-demagogica e la re-mitologizzazione strumentale di cui essa è frutto, così da rendere evidente come la sua pericolosità non risieda tanto in una violenza di natura mitica, quanto nella moderna corruzione ideologica, estremo prodotto del declino sociale e culturale dell’età guglielmina. È evidente che questo lato del “fenomeno wotanico” sfugge completamente alla lettura junghiana, la quale nondimeno, pur in tutti i suoi limiti, ha l’indubbio merito di contribuire ad illuminare come i totalitarismi del Novecento siano fenomeni complessi, che non investono soltanto l’area del politico e della società, ma vedono anche mobilitarsi un universo simbolico che manifesta un ambito di esperienza autonoma, legato alla sfera del sacro. Nel senso fissato da Emile Durkheim in Le forme elementari della vita religiosa (1912), secondo cui le classificazioni simboliche possiedono un nucleo emozionale (Durkheim parla a proposito di “effervescenza”),78 Jung descrive efficacemente come un’esplosione di energia psichica a lungo soffocata e costretta possa ancorare le masse ai nuovi simboli culturali. Dietro allo stato totalitario sono attive forze che sfuggono alla stessa logica 77
78
E. Toller, Der entfesselte Wotan. Eine Komödie, G. Kiepenheuer, Potsdam 1923. Cfr. al riguardo l’interpretazione in chiave socio-patologica di R. Altenhofer, Wotans Erwachen in Deutschland. Eine massenpsychologische Untersuchung zu Tollers Groteske “Der entfesselte Wotan”, in B. Urban, W. Kudszus (a cura di), Psychoanalytische und psychopathologische Literaturinterpretation, Wiss. Buchgesellschaft, Darmstadt 1981, pp. 233-255. É. Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse (1912), tr. it. di C. Cividali, Le forme elementari della vita religiosa, Edizioni di Comunità, Milano 1963.
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della ricostruzione storica, e che non possono essere descritte solo con gli strumenti della razionalità sociale. Per tornare allo Zarathustra e al legame che Jung stabilisce con il momento presente del tempo, è significativo un passo di un saggio coevo, Psicologia e problemi nazionali, in cui Jung traccia esplicitamente un filo rosso tra la figura di Zarathustra e la psicologia del Führer: “Quando Nietzsche scrisse il suo capolavoro profetico Così parlò Zarathustra, non avrebbe mai e poi mai potuto immaginare che il superuomo che egli aveva tratto dalla sua personale desolazione e inettitudine potesse diventare l’anticipazione profetica di un Führer o di un Duce”.79 La teoria del predecessore, del filosofo autore di un sistema di pensiero autoritario e proto-fascista, si trasforma quindi nella lettura psicologica junghiana non solo nell’idea di un’intuizione profetica involontaria, ma anche nella costruzione di un meccanismo di compensazione volto a vincere un sentimento di personale inettitudine. Rende comunque bene il fenomeno della proiezione della storia contemporanea sulla figura di Zarathustra, nelle sue divaricazioni, proprio un appunto di Benjamin nei Passages: se Jung vede riemergere nello Zarathustra la fisionomia di Wotan, Benjamin considera significativa l’esistenza di un progetto, citato da Karl Loewith, in cui il “portatore della dottrina nietzscheana” avrebbe dovuto chiamarsi “Cesare”: Nietzsche avrebbe insomma presagito “la complicità della propria dottrina con l’imperialismo”.80 5. L’io e la massa Il confronto di Jung con l’opera di Nietzsche, che culmina nel lungo seminario degli anni Trenta, offre all’oggi l’occasione per riflettere su due tentativi di reagire alla crisi delle rispettive epoche attraverso un’idea di individuazione e di cura che si pone in rapporto dialettico con il proprio tempo. In questa prospettiva risulta particolarmente interessante il commento di Jung a quei passi del testo in cui Nietzsche mette in scena un confronto del protagonista con le realtà collettive dell’epoca, la folla, il mercato, lo stato. È contro queste realtà che si staglia il percorso di Zarathustra, la sua ricerca di una individuazione intesa come possibile alternativa storica 79 80
C.G. Jung, Psychology and National Problems (1936), tr. it. di M.A. Massimello, Psicologia e problemi nazionali, in Opere, vol. 10/1: Civiltà in transizione: il periodo tra le due guerre, p. 308. W. Benjamin, Das Passagen-Werk, tr. it. I Passages di Parigi, 2 voll., a cura di R. Tiedemann e E. Ganni, Einaudi, Torino 2007, vol. I, p. 126.
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rispetto ai gesti dominanti di un’epoca di cui il suo autore aveva già acutamente diagnosticato la crisi. Jung sembra avvicinarsi di più a Nietzsche proprio quando gli attribuisce il merito di aver intuito, grazie allo sguardo del nato postumo, il potenziale fallimento delle realtà collettive, la possibilità di una loro degenerazione futura.81 Quando commenta i capitoli Della guerra e dei guerrieri, Del nuovo idolo e Delle mosche del mercato Jung riconosce infatti a Nietzsche di aver percepito già nella sua epoca, e in Germania con forse maggiore urgenza, il bisogno di un’autorità e di nuovi simboli-guida, e prefigurato così l’avvento dei moderni totalitarismi. Seguendo Jung nella sua argomentazione saremmo quindi portati a dire che la percezione delle forze sotterranee che agitavano l’inconscio collettivo della sua epoca, e la visione di come si sarebbe potuto governarle e ricondurle ad una sintesi, avrebbe svelato a Nietzsche i possibili sviluppi storici futuri. Nietzsche avrebbe avvertito il “sogno della collettività” ed i rischi ad esso legati, e tentato di reagire ad esso con una nuova idea di individuo pensata come reazione all’uomo della massa. Nel commento di Jung, realizzato attraverso le lenti della propria epoca, si delinea vividamente il processo di degenerazione dallo stato nazionale allo stato totalitario, mentre emergono i pericoli in esso insiti per il singolo che deve costruire se stesso in spazi percorsi da energie conflittuali e distruttive. Jung finisce per patologizzare il tentativo di individuazione messo in atto da Nietzsche; tuttavia, nel corso degli anni in cui si svolge il seminario, sembra maturare un pessimismo anche nei confronti del suo stesso progetto terapeutico. Progetto che, a ben vedere, appare legato al persistere di un modello eroico, secondo cui il grande individuo deve prima o poi riuscire a risanare la frattura prometeica tra l’io e il collettivo e fare di sé il rappresentante delle masse e l’ideatore di nuovi patti sociali. Jung non riesce a svincolarsi da un ideale di grande individuo guida delle masse, uno schema che paga evidentemente ancora il suo debito ai valori di una borghesia elitaria ormai in declino, e che trova un ultimo, inquietante riscontro nei grandi leader delle ideologie di massa del Novecento. Nello Zarathustra, in questa complessa avventura della singolarità, tale modello appare vanificato già in partenza. In Della guerra e dei guerrieri Zarathustra lamenta la vista di soldati in uniforme, il cui simbolo è il cammello, di una collettività in cui la singolarità è schiacciata, ed esorta a 81
C.G. Jung, Lo “Zarathustra” di Nietzsche, cit., vol. 2, p. 616: “Ciò che Nietzsche sentì fu ovviamente il tremendo bisogno d’autorità diffuso in Germania; si trattava di un fatto, dunque di qualcosa d’inevitabile. Non dico che sia una grande profezia, ma fu un’intuizione molto vera: egli previde d’istinto quale strada avrebbero preso gli eventi”.
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essere guerrieri, ad affermare il conflitto come strumento che consente il superamento di concezioni acquisite e l’inizio di un percorso individuale consapevole. Il guerriero dal pathos aggressivo è per Nietzsche chi afferma e agisce, e per cui l’affermare e l’agire sono fonti di gioia.82 Il guerriero è il tipo che viene opposto all’ultimo uomo, all’individuo del risentimento, che vive nella logica del beneficio e vuole solo essere amato, nutrito e dissetato. Nello stato, la logica del beneficio e del profitto supera la dimensione del desiderio e del pensiero individuale e si fa sistema economico, sociale e politico. Quando il “popolo” è massa indifferenziata e lo stato è il principio autoritario che lo governa e lo soggioga, si riproduce il dualismo tra la dimensione normativa della ragione e dei valori da essa stabiliti, e la sua base materiale, portatrice di desideri e bisogni: “Distruttori son coloro che sistemano trappole per i molti e li chiamano Stato: su di essi affiggono una spada e cento cupidigie”.83 Nello stato moderno, come è rappresentato vividamente nel capitolo Delle mosche del mercato, l’individuo è tramortito dal baccano degli attori di grandi cause e ferito dalle parole velenose che percorrono gli spazi collettivi. La vita pubblica è attraversata da forze distruttive, dagli asserti categorici e assoluti delle personalità del momento, dal pathos impetuoso e violento.84 Zarathustra raccomanda di sconfiggere lo stato e la massa dentro di sé, le loro avidità, la brama di possesso e beni materiali. È in questo senso che, con un gesto provocatorio e assolutamente inattuale in un’epoca in cui lo stato, dopo l’avvenuta unificazione, era assurto a ideale supremo, e la chiesa, la nazione e l’esercito costituivano i riferimenti culturali obbligati, in Ecce Homo Nietzsche si definirà l’ultimo tedesco antipolitico. Il disinteresse del filosofo per la sfera politica della società trova un contraltare nel suo interesse per la psicologia, per l’individuo in lotta contro le maschere della morale, svincolato da stato e istituzioni e libero da idolatrie. La liberazione dalle forze reattive, dai valori e dai miti dominanti viene completamente rimessa al singolo, e il ritagliarsi un pro82 83
84
Za, Della guerra e dei guerrieri, p. 52: “Il vostro amore per la vita sia amore per la vostra speranza più alta: e la vostra speranza più alta sia il pensiero più alto della vita!” Za, Del nuovo idolo, p. 54. Per un commento a questi due capitoli cfr. A. Pieper, “Ein Seil geknüpft zwischen Tier und Übermensch”. Philosophische Erläuterungen zu Nietzsches erstem “Zarathustra”, Klett-Cotta, Stuttgart 1990, pp. 218244. Za, Delle mosche del mercato, p. 59: “Il momento li incalza: così essi ti incalzano: e anche da te pretendono un sì e un no. Guai, vuoi assiderti tra pro e contro”. È qui annunciato il grande tema che percorre tutto lo Zarathustra: il rischio di soggiacere alla volontà altrui e farsi rappresentare, e la necessità di vivere la propria “verità”.
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prio spazio di libertà assicurandosi solo quanto è necessario per vivere (la “piccola povertà” di cui parla Zarathustra) è il presupposto essenziale per seguire se stessi, per accogliere e assecondare la propria volontà. Jung, dal canto suo, riferisce il discorso di Nietzsche alla realtà europea a lui coeva e al moderno stato totalitario, fondato sull’ideologia di massa e sul culto del duce. Nella sua lettura, una collettività smarritasi in un atteggiamento troppo unilaterale della coscienza, e affamata di nuovi simboli e miti, si sarebbe “integrata” in un leader diventando in lui un unico individuo, a sua volta emblema, o simbolo della collettività, ma condannandosi in questo modo a rimanere, in quella che si potrebbe definire una individuazione collettiva, al livello del non-individuato, spazio di istinti e desideri contrastanti. Per Jung l’organizzazione delle masse nello stato totalitario verrebbe così a sostituire una mancata integrazione della psiche a livello individuale: “È il superuomo al livello di una mancata realizzazione. […] non avendo avuto luogo l’integrazione del materiale inconscio, l’intera popolazione si integra in una figura sacra – che nessuno crede veramente essere sacra”.85 Ritornano in mente le parole eloquenti con cui Thomas Mann, nel saggio Fratello Hitler, descrive il processo di “imbarbarimento” in cui vede scivolare l’Europa, il lato barbarico del dionisiaco che trova sfogo nei culti e nelle manifestazioni di massa del Terzo Reich.86 Nel racconto Mario e il mago Mann offre una rappresentazione pregnante delle arti ipnotiche dell’incantatore di folle, e ne smaschera l’abilità di agire mescolando trucchi di cui detiene il segreto a influenze miranti a confondere psicologicamente un pubblico non più in grado di opporre un
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C.G. Jung, Lo “Zarathustra” di Nietzsche, cit., vol. 2, p. 877: “E’ il superuomo così come si manifesta al livello della mancata presa di coscienza: l’intera popolazione è come un solo uomo, e viene esibito un solo uomo in quanto emblema o simbolo dell’intera nazione […]. non c’è neanche lontanamente un’integrazione dell’inconscio, ma l’intero popolo si trova integrato all’interno di un’unica figura sacra – che nessuno crede pienamente che possa essere sacra”. Jung segue di fatto l’analisi freudiana della psicologia della massa e dell’autosacrificio dell’Io nel processo identificazione con il leader; accentua tuttavia nella lettura del nazismo la dimensione del simbolico e del sacro, mentre Freud aveva spiegato l’identificazione con il capo a fronte di dinamiche di innamoramento, immedesimazione, ipnosi, che potrebbero far sì che l’oggetto prenda “il posto dell’ideale dell’Io”; cfr. S. Freud, Massenpsychologie und Ich-Analyse (1921), tr. it. di E.A. Panaitescu, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in Id., Totem e tabù. Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Bollati Boringhieri, Torino 2013, pp. 187-261, qui p. 232. T. Mann, Bruder Hitler (1939), tr. it. C. Lombardo e C. Origlio in Fratello Hitler e altri scritti sulla questione ebraica, a cura di A. Ruchat, Mondadori, Milano 2006, pp. 93-104, qui in particolare pp. 99-100.
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Genealogia della cultura
volere intenzionale e una coscienza lucida alle ingiunzioni del mago.87 In Fratello Hitler si rende evidente come Thomas Mann pensi nei termini di un’opposizione tra l’esaltazione dell’inconscio e la chiarezza dello spirito e della volontà di conoscenza, un’opposizione qui incarnata nel contrasto tra due figure emblematiche, Hitler, personificazione della furia esaltata e fanatica degenerata nella politica, e Freud, il “grande disincantatore” e smascheratore delle nevrosi. Di fronte alla follia che minaccia l’Europa Jung veste lui stesso i panni del disincantatore, mettendo in guardia dalle parole degli incantatori di folle e raccomandando di rafforzare l’io contro la pressione annichilente dell’ideologia dello stato e il rischio travolgente di galvanizzazione. Rafforzare l’io implica un lavoro di ricerca e contatto con il passato all’insegna di uno sviluppo personale che si fonda sulla continuazione piuttosto che su rotture e trasvalutazioni: Quanto meno capiamo che cosa cercavano i nostri padri e i nostri antenati, tanto meno capiamo noi stessi, e ci adoperiamo con tutte le nostre forze per privare sempre più l’individuo delle sue radici e dei suoi istinti, così che diventa una particella della massa, e segue solo ciò che Nietzsche chiama lo “spirito di gravità”.88
Un’opera di consapevolizzazione individuale rispetto ai propri bisogni e desideri, una presa di contatto con le componenti collettive della propria psiche che l’individuo deve riconoscere e rappresentare, ed infine un atteggiamento che si potrebbe definire utilitaristico nei confronti delle istituzioni (– sono necessarie e utili, ma ci credo solo con una metà di me stesso): così suona il rimedio che Jung propone ai partecipanti al seminario sullo Zarathustra. Con l’acutizzarsi della tensione in Europa e l’ineludibilità dell’avvicinarsi della guerra, l’ottimismo terapeutico sembra tuttavia visibilmente cedere ad un fatalismo rassegnato e ad un pessimismo anche rispetto al proprio stesso programma, e l’idea di individuazione, della realizzazione di un sé che spinge il soggetto ad allontanarsi dall’ovile collettivo verso un destino individuale, appare come travolta dalla pressione titanica delle 87
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T. Mann, Mario und der Zauberer. Ein tragisches Reiseerlebnis (1930), tr. it. di G. Zampa, Mario e il mago. Una tragica esperienza di viaggio, in Cane e padrone, Disordine e dolore precoce, Mario e il mago, introduzione di R. Fertonani, Mondadori, Milano 2011, pp. 139-196, qui p. 187: “È evidente che non si può vivere psichicamente di non-volere; non voler fare una cosa non è più, alla lunga, un indice di vita; non volere qualche cosa, e in genere non volere più – fare quindi, la cosa imposta – sono due posizioni, forse, troppo vicine, perché l’idea della libertà non debba trovarsi alle strette”. C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, cit., pp. 285-286.
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forze collettive. Jung aveva ben visto che “le religioni sono sistemi psicoterapeutici che hanno il compito di conservare l’equilibrio psichico”,89 e colto dietro al volto degli dèi e alla ritualità prescritta dalle religioni delle pratiche di cura e di gestione della sofferenza umana, altrimenti condannata alla nevrosi. Ed è in questo senso, all’emergere del pessimismo rispetto alla possibilità di far funzionare con la terapia il ciclo dei processi naturali, che a conclusione del seminario Jung arriva a deplorare la ferita inferta al cristianesimo, che per secoli aveva rappresentato per le masse la possibilità di proiettare in oggettivazioni vincolanti l’energia produttiva della psiche. Dovrebbe ormai apparire evidente come il seminario venga pensato nell’ottica di un progetto terapeutico (e auto-terapeutico) collettivo, e come Jung si serva di Nietzsche anche per sopprimere un’iniziale fascinazione per il nazismo, costruendo sul “paziente” la sua interpretazione del “fenomeno tedesco”.90 Allo stesso modo risulta palese che questa lettura che patologizza Nietzsche per costruire sulla sua diagnosi di inflazione un’interpretazione del nazismo si rivela palesemente riduttiva rispetto al fenomeno storico che si propone di spiegare e, soprattutto, lo rende in qualche misura più innocuo. Nel diario di Viktor Klemperer, LTI. La lingua del terzo Reich, che riflette lucidamente sulla violenza quotidiana della predicazione dell’ideologia, il discorso è condotto in modo molto più convincente al punto: quando distingue tra il fanatismo e la Schwärmerei, definita alla stregua di un’esaltazione appassionata che “preferisce staccarsi dalla realtà, ignorarne le reali condizioni per librarsi nei cieli che la sua passione gli fa immaginare”,91 Klemperer sostiene che ciò che ha più propriamente caratterizzato il nazismo è stato il fanatismo, ossia il fatto che “una condizione mentale molto prossima alla malattia e al crimine è stata considerata, per dodici anni, come massima virtù”.92 Al lettore d’oggi l’irritazione che innerva l’interpretazione di Jung appare quasi incomprensibile, e irrimediabilmente velate da una patina di storicità le tesi su cui essa si fonda. Se infatti oggi Così parlò Zarathustra è tornato al centro dell’interesse, ciò è probabilmente dovuto anche alla nuova attualità che l’opera ha riproposto nella nostra epoca, in cui al rifiuto 89 90 91
92
C.G. Jung, Über das Selbst (1948), tr. it. di L. Baruffi, Il Sé, in Opere, cit., vol. 9/2: Aion. Ricerche sul simbolismo del Sé, 2002, pp. 23ss. C.G. Jung, Wotan, cit., p. 285. V. Klemperer, Fanatismus, in LTI. Notizbuch eines Philologen (1947), tr. it. di P. Buscaglione, Fanatismo, in LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, prefazione di M. Ranchetti, Editrice La Giuntina, Firenze 1999, pp. 79-84, qui p. 81. Ivi, p. 84.
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Genealogia della cultura
delle ideologie collettive si è accompagnata una nuova attenzione sul soggetto e si è imposta con urgenza la necessità della cura di sé, di dare forma a se stessi, plasmandosi e trovando ognuno la propria legge. Nello specifico non sembra che consegnare Nietzsche ad un individualismo alienato, e per questo esposto ai rischi di una sopraffazione da parte degli istinti e delle componenti collettive, renda giustizia della lucida consapevolezza che Nietzsche/Zarathustra acquisisce rispetto alla distanza che lo separa dalle realtà collettive della sua epoca e dal suo sistema di norme e valori; distanza che, simile ad un moderno Sisifo, torna ogni volta a ripercorrere per esporsi sempre e di nuovo alle contingenze del campo reale, il quale lo rimanda poi a sua volta inevitabilmente indietro, nella sua solitudine.93 Allo stesso modo, in un’ottica più generale, la lettura junghiana non coglie affatto l’impegno di Nietzsche nella ricerca di una cura e il potente istinto di guarigione che dà forma allo Zarathustra e ai suoi linguaggi. Teso all’indagine esclusiva di forme del simbolico e di mitologemi, Jung non è in grado di cogliere il progetto della costruzione del sé che Nietzsche tenta di realizzare nel mezzo delle immagini, dello stile e del ritmo, in quel laboratorio vivo di ricerca e sperimentazione di forme e linguaggi che è lo Zarathustra. Volendo anche soprassedere alla patologizzazione che Jung opera ai danni dell’autore, che viene in fondo accusato di proiettare involontariamente la propria malattia nel nuovo mito a cui avrebbe tentato di dar vita, il problema che qui si apre è se una psicologia che, con il suo strumentario analitico, muove alla ricerca selettiva di immagini e di mitemi, fissandosi su un’ermeneutica dei simboli, non sia necessariamente destinata a sopprimere la potenza dell’immaginario e quindi a mancare la dimensione artistica della costruzione del sé, oppure a percepirla solo dall’esterno.
93
Come Jung, molti junghiani dopo di lui sostengono che Nietzsche avrebbe conosciuto solo la guerra contro l’ombra e le componenti collettive della propria psiche. Cfr., oltre a Uccelli, Jung e Nietzsche. Un intreccio di prospettive, cit., i seguenti commenti al seminario su Così parlò Zarathustra: L. Frey-Rohn, Jenseits der Werte seiner Zeit. Friedrich Nietzsche im Spiegel seiner Werke, Daimon, Zürich 1984; M. Lindner, Ein tiefstes Erlebnis. C.G. Jungs Lektüre von Nietzsches Also sprach Zarathustra anhand seiner Seminare von 1934-39, in R. Lesmeister, E. Metzner (a cura di), Nietzsche und die Tiefenpsychologie, Alber, Freiburg im Breisgau et al. 2010, pp. 107-120.
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II. UN’ARCHEOLOGIA DELLA CULTURA NELL’EPOCA DEL SUO DECLINO
1. Nel segno dell’immaginazione Se nella forza simbolica dello Zarathustra Jung sembra inizialmente intuire un potenziale rigeneratore e curativo, nel momento della ‘terapia’ egli finisce per reagire negativamente al ‘paziente’ e lasciarsi governare da un’esigenza profonda di salvaguardia e di autotutela, che, complice il momento storico, lo conduce nel vicolo cieco della patologizzazione unilaterale del progetto terapeutico ed autoterapeutico tentato da Nietzsche. La domanda che naturalmente sorge, a fronte della lettura junghiana, è quindi questa: posto che non è consono leggere nello Zarathustra l’inadeguatezza di un percorso di divenire-sé, e quindi l’anticipazione di una follia in senso psichiatrico, in cosa risultano inadeguati, rispetto al compito di terapeuta della cultura che Jung si assume, gli strumenti che egli maneggia? Il seminario sembra concludersi con un’ammissione di impotenza della psicologia di fronte alla follia collettiva: al di là di possibili blocchi di natura personale, o dell’evidente collisione con il momento storico, nonché con la fase certo più cupa ed imbarazzante della ricezione del pensiero nietzscheano, esistono degli ostacoli intrinseci ai costrutti della psicologia analitica ad impedire a Jung di sviluppare una strategia positiva di lettura delle immagini e della parola di Nietzsche, una strategia capace di trasportarle oltre la crisi del suo tempo e di tracciare con esse, e non contro di esse, percorsi alternativi di cura e di salute per i suoi contemporanei? Interessato al discorso terapeutico del sé, Jung interroga lo Zarathustra essenzialmente sulla base del suo contenuto simbolico, sulla base dell’assunto per cui ad un’opera d’arte è affidata la funzione di risolvere gli opposti in una nuova unità. Declinata nelle categorie del Nietzsche della Nascita della tragedia questa visione riproduce l’idea secondo cui l’immagine apollinea risolve in una forma l’energia dionisiaca. La patologizzazione operata da Jung, secondo cui l’energia inconscia a lungo repressa inonda la coscienza senza più trovare espressione in una forma, si
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Genealogia della cultura
può di fatto avvalere di questo costrutto. L’esegesi junghiana si imbriglia nel paradigma della rappresentazione: lo Zarathustra viene letto come una forma artistica di natura simbolica, la quale veicolerebbe nelle sue immagini un senso, un pensiero, una prassi che è possibile cogliere solo in maniera intuitiva. Di fronte al tessuto di immagini dello Zarathustra l’approccio adottato da Jung sembra quindi strutturarsi secondo le coordinate dell’ascolto e della contemplazione di un fondo oscuro che tali simboli dovrebbero rappresentare. Bisogna andare ad un ambizioso scritto di Michel Foucalt del 1954, che fungeva da prefazione all’edizione francese di Traum und Existenz (Sogno ed esistenza) di Ludwig Binswanger,1 per rinvenire una riflessione con l’esplicito obiettivo di dimostrare l’insufficienza di una lettura psicologica delle immagini oniriche e, su un piano più generale, l’incapacità della psicanalisi di guardare alla dimensione propriamente immaginaria dell’espressione significativa. Sulla scia della lettura binswangeriana, nell’orizzonte della follia che costringe l’individuo ad un’esistenza alienata, Foucault propone un’interpretazione del sogno all’insegna della liberazione: nell’ottica di un’ontologia dell’esistente, che non si darebbe sul terreno della psicologia, Foucault enfatizza la salute dell’immaginazione e dell’espressione poetica, capaci di restituire l’individuo alla sua presenza al mondo dinamica. In questa primissima fase del suo pensiero Foucault adotta una prospettiva antropologica e fenomenologica, attraverso la quale riesce a mostrare con evidenza come la psicologia freudiana finisca per spogliare la soggettività della sua unicità, esaurendone il contenuto nel concetto riduttivo di homo natura e inserendosi così di fatto nel solco del positivismo. Nell’angolatura specifica di questa riflessione, che ha come base la tradizione romantica, la profondità del sogno non è ridotta all’attrezzatura biologica degli istinti, ma si pone come il luogo in cui la vita si offre nell’indifferenziato della contrazione simbolica, irrispettosa delle differenze che la ragione ha faticosamente conquistato, e, proprio in virtù della libertà originaria che esso va a ripristinare, si fa fondatrice di un senso nuovo. Sulla singolarità scissa e interna alla dialettica tra coscienza ed inconscio teorizzata dalla psicanalisi, Foucault instaura così una variabile anarchica che è pensata come esperienza liminale e al contempo momento costitutivo, ambito pre-discorsivo e pre-categoriale che vive al di là della storia e può tuttavia instaurarla e renderla possibile. Espressione originaria dell’esistenza, il sogno avrebbe la medesima valenza dell’esperienza primordiale della follia: come si legge 1
L. Binswanger, Traum und Existenz (1930), tr. it. di C. Giussani, Sogno ed esistenza, introduzione e note di M. Foucault, SE, Milano 1993, pp. 87-122.
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Un’archeologia della cultura nell’epoca del suo declino
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nella prima prefazione del 1961 a Storia della follia,2 essa rappresenterebbe l’estremo vertice della singolarità, un’“esperienza indifferenziata”3 in cui il soggetto mostra la sua costitutiva vulnerabilità e, al tempo stesso, in una compresenza irriducibile e speculare, un’energia progettuale che lo rende capace di ridiventare protagonista attivo della propria esistenza. “Il mondo immaginario ha le sue leggi proprie, le sue strutture specifiche; l’immagine è un po’ più della realizzazione immediata del senso; essa ha il proprio spessore, e le leggi che vi regnano non sono soltanto proposizioni significative, così come le leggi del mondo non sono soltanto i decreti di una volontà, foss’anche divina”.4 Partendo da questa constatazione Foucault dà avvio ad una riflessione che, mentre stana le aporie insite nell’interpretazione psicologica delle immagini oniriche, mira ad una intuizione comprensiva del senso dell’esperienza espressiva. L’obiettivo è ristabilire la dimensione propriamente immaginaria del sogno come atto dell’espressione, il mondo, mai riducibile alla sola funzione semantica, che essa porta con sé nelle sue specifiche leggi morfologiche e nelle sue strutture di linguaggio. In questo senso l’argomentazione di Foucault può illuminare un aspetto importante del malinteso da cui prende avvio la lettura junghiana. Di fatto l’interpretazione di Jung si caccia nel vicolo cieco di una riduzione psicologica del fatto artistico, che viene completamente ricondotto al determinismo delle motivazioni inconsce. Si potrebbe sostenere che ciò avviene quasi suo malgrado, se si considera quel che Jung aveva teorizzato qualche anno prima nei saggi dedicati al rapporto tra psicologia e arte, e se si pensa, come ricorda lo stesso Binswanger, che aveva saputo cogliere il senso del processo individuativo nella liberazione del sé dalla forza di suggestione delle immagini inconsce,5 ed intuire il significato progettuale dell’esperienza onirica, sviluppando una teoria del sogno che mirava a sostituire lo sguardo essenzialmente fondativo della psicologia 2
3 4 5
M. Foucault, Préface, in Folie et déraison. Histoire de la folie à l’âge classique (1961), tr. it. di G. Costa in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 3 voll., Feltrinelli, Milano 1996-1998, vol. 1: Follia, scrittura, discorso, a cura di J. Revel, 1996, pp. 49-58. Ripubblicata recentemente in Storia della follia nell’età classica, a cura di M. Galzigna, BUR Rizzoli, Milano 2011. Si cita qui dalla prima edizione. Ivi, p. 49. Ancor prima che emergano i profili definiti e riconoscibili delle singolarità, la follia si esprime come terreno privilegiato all’interno di una “regione scomoda” (ibid.) in cui non è ancora avvenuta la scissione tra ragione e sragione. M. Foucault, Introduction, in L. Binswanger, Le Rêve et l’Existence, Desclée de Brouwer, Parigi 1954, tr. it. di L. Corradini, Introduzione, in L. Binswanger, Sogno ed esistenza, cit., pp. 11-85, qui pp. 22-23. L. Binswanger, Sogno ed esistenza, cit., p. 120.
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Genealogia della cultura
freudiana con una lettura dell’esperienza onirica che ne ricercava il senso nel suo momento generativo.6 Nei seminari sullo Zarathustra Jung, guidato dall’esigenza di un rafforzamento dell’io di fronte al rischio dell’inflazione collettiva, propone un metodo di interpretazione delle immagini che avanza secondo coincidenze significative, un procedimento simile ad un tentativo di decrittazione di un codice che si deduce e si intuisce a partire da un elemento preso in se stesso e che cerca via via conferma attraverso una verifica per mezzo di informazioni da fonti diverse. È questa di fatto la critica che Foucault rivolge all’analisi freudiana, la quale non avrebbe saputo interpretare coerentemente l’espressione veicolata dal sogno proprio perché non avrebbe tenuto conto della sua specificità come forma di espressione e quindi come forma specifica di esperienza.7 Con l’attribuire all’immagine onirica un valore simbolico, Freud vede nel sogno tendenzialmente un insieme di indizi oggettivi, seguendo i quali l’immagine svela strutture implicite di avvenimenti anteriori, esperienze rimaste nascoste e silenziose che essa cela nella sua indeterminatezza, e a cui però al contempo allude.8 Nella teoria freudiana, inoltre, l’immaginario onirico assumerebbe il valore di un segno poiché è interpretato come materiale da ricondurre alla condizione traumatica, come ciò che ritorna in forma sempre uguale dal passato in una temporalità bloccata, incapace di proiettarsi nel libero movimento della storia individuale del soggetto. Secondo il nesso globale e significativo della psicanalisi freudiana, il senso del materiale onirico si fonda infatti nel desiderio incestuoso, di regressione infantile, o di aggiramento narcisistico. In quest’ottica il soggetto viene inteso più come un contenitore di pulsioni e desideri che risponde a principi di causalità, che non come un’individualità concreta che si rapporta liberamente con le cose. Allo stesso modo, l’immaginario onirico perde il carattere di espressione libera di un’esistenza individuale 6 7
8
C.G. Jung, Vom Wesen der Träume (1945-1948), tr. it. L’essenza dei sogni, in Opere, cit., vol. 8: La dinamica dell’inconscio, 1994, pp. 301-319. Foucault osserva che se nella sua mitologia teorica Freud aveva recuperato l’idea di un nesso originario tra l’immagine e il senso e avvertito la necessità di riconoscere alla struttura dell’immaginario una sintassi e una morfologia irriducibili ad un significato univoco, poiché per l’appunto il senso viene per così a celarsi nelle forme espressive immaginarie, nella prassi egli avrebbe dato al linguaggio onirico lo statuto del linguaggio discorsivo, ponendo al centro dell’interpretazione psicanalitica del sogno lo statuto della parola e azzerando così la distanza che è data dalla densità di senso propria dell’immaginazione e dell’immagine visiva. Cfr. S. Freud, Die Traumdeutung (1900), tr. it. di C. Musatti, L’interpretazione dei sogni, in Opere di Sigmund Freud, Bollati Boringhieri, Torino 1976-1980, vol. 3, pp. 30ss.
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per venire ridotto ad una rete di contraddizioni di processi interni in cui la psiche resta per così dire intrappolata. La terapia analitica freudiana viene così sostanzialmente a configurarsi come un tentativo di recupero di un sé perduto che si formerebbe nelle prime fasi dello sviluppo psichico infantile e viene poi quasi del tutto dimenticato.9 Il merito di Binswanger consiste nell’aver restituito al sogno un carattere irriducibile alle determinazioni psicologiche nelle quali Freud l’aveva inserito,10 recuperando una tradizione di origine greco-latina che era stata messa in ombra dalla psicanalisi, ma che fino all’Ottocento aveva dominato l’orizzonte del sapere sul sogno, sul suo senso e sulla sua utilità. In questa tradizione il sogno costituiva una forma di esperienza assolutamente specifica, che veniva fatta rientrare nell’ambito della teoria della conoscenza: l’esperienza onirica intesa come profezia, rivelazione di una verità che oltrepassa da ogni parte l’individuo, e che si offre a lui nelle forme concrete dell’immagine; oppure il sogno come predestinazione, intuizione, avvertimento o segnale, o comunque manifestazione dell’anima nella sua interiorità. Come scrive Novalis: “Il sogno è spesso significativo e profetico perché è un’azione dell’anima della natura e quindi poggia su un ordine di associazione. È significativo come la poesia, ma anche per questo è irregolarmente significativo e assolutamente libero”.11 Lo stesso Nietzsche può rientrare a pieno titolo in questa tradizione, se si considera che non si limita a considerare il sogno come illusione e apparenza, ma lo definisce da subito “gioco del singolo uomo con il reale”.12 In quest’ottica l’arte sarebbe
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S. Freud, Abriss der Psychoanalyse (1938), tr. it. di C. Musatti, Compendio di psicoanalisi, in Opere, cit., vol. 11: L’Uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti (1930-1938), 1979, pp. 571-634, qui pp. 571ss. Per focalizzare la diversità di posizioni sviluppate, nell’arco del loro pensiero, da Freud e Foucault circa il metodo di approccio alla mente, è molto utile il contributo di P.H. Hutton, Foucault, Freud e le tecnologie del sé, in Tecnologie del sé. Un seminario con Michel Foucault, a cura di L.H. Martin, H. Gutman e P.H. Hutton, Bollati Boringhieri, Torino 20112, pp. 113-134. M. Foucault, Introduzione, cit., pp. 36-37: “Il sogno non ha dunque senso solo nella misura in cui si incrociano in esso e si intersecano in mille modi le motivazioni psicologiche o certe determinazioni fisiologiche; è ricco al contrario in ragione della povertà del suo contesto oggettivo. Tanto più vale quanto meno ha ragione d’essere. E fu questo a determinare lo strano privilegio dei sogni del mattino. Come l’aurora essi annunciano un giorno nuovo con una profondità nella chiarezza che non conoscerà più la veglia del mezzogiorno”. Novalis, Allgemeines Brouillon §959 (1798-1799), tr. it. in Opera filosofica, 2 voll., a cura di F. Desideri e G. Moretti, Einaudi, Torino 1993, vol. 2, p. 54. PZG, p. 49.
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quindi il “gioco con il sogno”;13 nelle parole di Herder, immagine prima della poesia, che è a sua volta la forma primitiva del linguaggio, “lingua materna” dell’uomo. Nietzsche mette inoltre l’accento sull’opulenza vitale del sogno, che dilata l’orizzonte dell’esperienza quotidiana: “Allargare l’esperienza. Vi sono casi nei quali i sogni arricchiscono realmente l’ambito della nostra esperienza: chi potrebbe sapere senza i sogni che cosa prova uno che sia librato nell’aria?”14 Il sogno non è quindi pura apparenza, ma non è nemmeno il veicolo di un sapere oggettivo che va a risaldare la coscienza dell’io. Il suo beneficio consiste piuttosto nell’essere il luogo di possibilità di una soggettività piena e integrale, qui letta da Foucault nella prospettiva di una metafisica dell’esistenza completamente incentrata sull’uomo e sulla sua corporeità, sul suo sviluppo e sui suoi contenuti storici. Il sogno va ad estendere la sfera del vissuto esperienziale, a maggior ragione se si pensa, come puntualizza già Nietzsche in un aforisma di Umano troppo umano, che esso invalida il rapporto di causa-effetto e di successione temporale con cui opera la coscienza nello stato di veglia.15 I sogni sono interpretazioni delle eccitazioni nervose durante il sonno, ma sono interpretazioni sempre diverse, libere, arbitrarie: “la vita allo stato di veglia non ha questa libertà d’interpretazione come quella del sogno, è meno poetica e sfrenata”.16 Foucault vede nel mondo del sogno il luogo in cui gli schemi dell’oggettività che tanto ammaliano la coscienza si attenuano nella densità del simbolo: “[il sogno] si dispiega in un mondo che cela i suoi contenuti opachi, e le forme di una necessità che non si lascia decifrare. Ma, nel medesimo tempo, esso è libera genesi, realizzazione di sé, l’emergere di ciò che vi è di più individuale nell’individuo”.17 Il simbolismo dell’immaginazione 13 14 15
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Ibid. NL IV/II, 23[20], p. 404. MA I, af. 12, pp. 22-24. In questo aforisma Nietzsche presenta una sorta di fenomenologia dei procedimenti logici del pensiero onirico. La sua tesi è che “il sogno è la ricerca e la rappresentazione delle cause per quelle sensazioni eccitate”, ossia delle presunte cause delle eccitazioni e degli stimoli che colpiscono il sistema nervoso, sia dal suo interno che dall’esterno, durante il sonno. Così accade che “una successione può apparire come una contemporaneità e perfino come una successione invertita”. Perciò, conclude Nietzsche, “da questi fatti possiamo rilevare quanto tardi si sia sviluppata una maggior acutezza del pensiero logico e la rigorosa determinazione di causa ed effetto, visto che le funzioni della nostra ragione ancora oggi retrocedono involontariamente a quelle primitive forme di ragionamento”. M, af. 119, p. 91. M. Foucault, Introduzione, cit., p. 50.
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onirica, pur essendo una condizione trascendente dell’esistenza, traccia un movimento per il quale e nel quale l’esistenza si proietta verso il mondo che si costituisce come il luogo della sua storia. È per questo che il sogno non può essere ridotto ad una rapsodia di immagini da interpretare per ritrovarvi un significato oggettivo. Il senso del sogno è sempre al di là dei simboli che la coscienza nello stato di veglia è in grado di raccogliere. Se la facoltà immaginativa è il luogo in cui appare “l’esistenza di una verità che da tutte le parti oltrepassa l’uomo, ma tende a lui e si offre alla sua mente sotto le specie concrete dell’immagine”,18 allora il sogno, come ogni esperienza immaginaria, appare come una forma specifica d’esperienza che non si lascia interamente ricostruire dall’analisi psicologica. Ciò implica che il ritrovamento di una soggettività piena può avvenire solo quando ci si allontana dalle pratiche significative e discorsive e sembra oscurarsi quel senso che ha valore sul piano della coscienza, quando ci si pone là dove i significati si attenuano nella pienezza dell’immagine. Si tratta quindi di non ammettere con la psicanalisi un’identità immediata tra il senso e l’immagine, ma di trovare una via libera verso il sogno cercando l’essenza dell’espressione oltre la struttura dell’immagine nella quale esso prende corpo. Bisogna cogliere il senso del sogno nel suo essere il momento originario di una genesi, il principio di un possibile divenire. Solo così il soggetto onirico non si riduce al significato unidimensionale cui lo confina l’interpretazione psicologica, ma diviene il fondamento di tutti i significati eventuali del sogno stesso.19 Il sogno è avvenire che si fa, la “scossa ancora segreta di un’esistenza che rientra in possesso di se stessa nell’insieme del suo divenire”.20 È merito di Foucault aver sviluppato un aspetto implicito nell’analisi di Binswanger che riguarda nello specifico il rapporto tra sogno e immaginazione, dimostrando come l’esperienza onirica coinvolga tutta un’antropologia dell’immaginazione che non può essere ridotta al determinismo delle manifestazioni inconsce. “Il sogno non è una modalità dell’immaginazio-
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Ivi, p. 38. Il riferimento è Spinoza, che nel Trattato teologico-politico specifica che l’immaginazione, oltre a rendere il contenuto dell’esperienza umana, rivela l’esistenza di una verità che trascende l’uomo, ma che al contempo si offre a lui nel sapere imperfetto e nella cifra misteriosa dell’immaginazione. Questo è il senso che Foucault attribuisce alla celebre affermazione di Eraclito: “L’uomo nello stato di veglia vive in un mondo di conoscenza; ma colui che dorme si è rivolto verso il mondo che gli è proprio”. Nel sogno l’individuo ritrova la libertà originaria della propria esistenza, prima di ogni suo possibile compimento o alienazione. M. Foucault, Introduzione, cit., p. 59.
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ne; ne è la condizione prima di possibilità”:21 ciò significa che immaginare è guardare a se stessi come fondamento e senso assoluto del proprio mondo, e soprattutto come movimento di una libertà che si fa mondo e si radica nella storia. L’analisi di Binswanger svela il punto decisivo in cui l’esistenza si aliena in una soggettività patologica, esponendola ai molteplici fattori patogeni che producono passività, dissoluzione, frammentazione, e in cui invece essa si realizza in un’espressione e in una storia oggettiva, ed è in questa prospettiva che Foucault riconosce al movimento di libertà dell’immaginazione un valore essenzialmente etico. Tale movimento non si compie nella modalità per cui si va ad aggiungere qualcosa di nuovo a quanto si sa già nel senso di una conoscenza oggettiva; l’immaginazione realizza qualcosa di nuovo proprio perché non è appiattita su una realtà intesa in senso effettivo. Al contrario essa veicola una “trascendenza” in cui l’individuo non è guidato da una volontà intenzionale, non obbedisce a sé stesso, ma è piuttosto preda di se stesso. È per questo che nell’immaginazione ognuno può decifrare le proprie leggi e riconoscere il proprio “destino”. Ciò che si immagina non è infatti mai compreso nell’ordine del dovere, della norma o della virtù, ma è piuttosto la dimensione della felicità o dell’infelicità individuale ad iscriversi nel registro dell’immaginario. Così inteso il sogno si costituisce come una forza dinamica, un porsi incessantemente al di là di sé e delle proprie immagini. Questo carattere di lavoro dinamico riconosciuto all’immaginazione manca completamente all’immagine, che è al contrario forma cristallizzata con carattere di surrogato del reale. Come riscontra Bachelard, cui Foucault si richiama esplicitamente, è il “realismo dell’irrealtà” a imporsi nel carattere materiale e dinamico dell’immaginazione.22 L’immagine riposa nella dimensione del “come se”, e in questo senso è fantasticheria, quasi-presenza, che, proprio perché può condurre ad una quasi-soddisfazione, finisce per bloccare il movimento dell’immaginazione nel suo tendere irresistibilmente verso soluzioni da cui dipende la realizzazione dell’esistenza. Sulla base dell’analisi di Binswanger, Foucault può arrivare a dire che nel malato la dimensione dell’immaginario è bloccata nelle immagini, che il libero movimento dell’esistenza è annientato dalla presenza di una quasi-percezione che lo immobilizza. Alla terapia, guidata dalla riflessione e dalla percezione, vie21 22
Ivi, p. 73. G. Bachelard, L’air et les songes. Essai sur l’imagination du mouvement (1943), tr. it. di M. Cohen Hemsi, Psicanalisi dell’aria. L’ascesa e la caduta, Edizioni RED, Milano 2007, p. 13. Bachelard stabilisce un nesso essenziale tra sogno e immaginario, a cui Foucault evidentemente si richiama, accentuando tuttavia rispetto a Bachelard l’aspetto iconoclastico dell’immaginazione.
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ne dunque affidato il compito di dissolvere le apparenze e liberare l’immaginario incatenato nelle immagini: riflessione e percezione distruggono l’immagine, mentre alimentano e rafforzano il movimento dell’immaginazione.23 Immaginare è salute proprio perché non significa annunciarsi qualcosa nel modo dell’irrealtà, ovvero assentarsi da questa realtà nel senso di una fuga e di una evasione in un altro mondo. Immaginare implica piuttosto un risalire le strade della propria presenza nel mondo per restituire così, lavorando per così dire dall’altro lato del sogno, un’immagine come modalità di espressione che prende forma in uno stile. L’immagine può allora offrirsi di nuovo, non più come rinuncia all’immaginazione, ma come sua realizzazione al contrario; [...] L’immagine non è più immagine di qualcosa tutto intero proiettato verso un’assenza che essa sostituisce; essa è raccolta in se stessa e si dà come la pienezza di una presenza; essa non designa più qualcosa, essa si rivolge a qualcuno. L’immagine appare ora come una modalità d’espressione e prende senso in uno stile, se si può intendere per stile il movimento originario dell’immaginazione quando assume l’aspetto dello scambio.24
È significativo che Foucault, pur riconoscendo la centralità di questa antropologia dell’immaginazione, ritenga che essa vada superata da un’antropologia dell’espressione: “dall’altro lato del sogno, il movimento dell’immaginazione prosegue; è dunque ripreso nel lavoro dell’espressione che dà un senso nuovo alla verità e alla libertà”.25 Il lavoro dell’espressione diviene oggettivazione della libertà: nell’espressione l’esistenza si “realizza in una storia oggettiva”,26 il fatto immaginario diventa fatto reale. La felicità nell’ordine empirico “non può che essere felicità d’espressione”.27 Il sogno diventa così il luogo di insorgenza di una soggettività che non si costituisce, come nella psicanalisi, nel momento in cui si vanno a scoprire le fonti nascoste del conflitto, a decodificare i ricordi emersi per divenire più consapevoli della storia vitale della psiche, bensì quando si elude il
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M. Foucault, Introduzione, cit., p. 80: “Quando percepisco questa porta, non posso avere l’immagine di Pierre che la oltrepassa; e tuttavia questa stanza in cui mi trovo, con tutto ciò che essa già comporta di familiarità, con tutte le tracce che porta della mia vita passata e dei miei progetti, può senza sosta, per il suo contenuto percettivo stesso, aiutarmi a immaginare che cosa vorranno dire il ritorno di Pierre e la sua ricomparsa nella mia vita”. Ivi, pp. 83-84. Ivi, p. 83. Ivi, p. 85. Ibid.
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potere del passato che si ripresenta nella forma dell’immagine e, in un movimento che di quest’ultimo è complementare e segretamente complice, ci si apre verso un futuro che si dà non tanto in una volontà intenzionale, quanto nel gesto dell’immaginazione. In questo senso la forza iconoclasta attribuita all’immaginario ha il compito di liberare dal peso del passato spezzando il fascino delle immagini: il gesto distruttivo, che elude il contenuto semantico per arrivare alla dimensione propriamente immaginaria dell’espressione, alla sua “struttura morfologica e sintattica”, si sostituisce all’interpretazione dei sintomi, configurandosi come una radicale desemantizzazione dei simboli. L’agomentazione di Foucault si rivela centrale principalmente per due motivi. Innanzitutto, l’accento su questa soggettività, la cui autonomia si estrinseca nella capacità di “bruciarsi” al fuoco del sogno e quindi affidarsi al lavoro dell’espressione, realizzandosi in un’esistenza oggettiva, sembra anticipare la successiva riflessione foucaultiana sull’estetica dell’esistenza, cui sarà legata l’esplorazione delle cosiddette tecnologie del sé, tecniche di individualizzazione e pratiche di auto-formazione attraverso cui il soggetto si autocostituisce autonomamente secondo i criteri di un’etica di soggettivizzazione che si concepisce come “pratica riflessa della libertà”.28 Anche a fronte di questo, essa pare inoltre gettare una luce nuova sul gesto di Nietzsche, che tra l’altro rivela, in questa accostamento, la sua profonda difformità rispetto agli intenti e alle strategie dell’archeologia freudiana. Se la terapia psicanalitica è paragonata da Freud al lavoro di un archeologo che, scavando nell’inconscio per portare alla luce il rimosso, ricostruisce le connessioni interrotte sulla base degli schemi della coscienza vigile, e ristabilisce una continuità tra esperienze passate e presenti allo scopo di rafforzare l’io,29 il punto di vista di Nietzsche, come si rende già evidente con la Nascita della tragedia, sembra piuttosto collocarsi là dove prende avvio la coscienza umana nel suo emanciparsi da quella condizione iniziale, vitalità divina o animale che sia, che viene concepita come un nesso vivo con il mondo. Nella Nascita della tragedia Nietzsche risale agli albori 28
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M. Foucault, L’éthique du souci de soi comme pratique de la liberté (1984), tr. it. L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, cit., vol. 3: 1978-1985: Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, 1998, pp. 273-294, qui p. 276. S. Freud, Compendio di psicanalisi, cit., pp. 61-79. Sulla metafora dell’archeologia cfr. S. Freud, Konstruktionen in der Analyse (1937), tr. it. di C. Musatti, Costruzioni nell’analisi, in Opere, cit., vol. 11, pp. 543-544. Cfr. al riguardo il capitolo Ricostruzione archeologica e costruzione preliminare in M. Lavagetto, Freud, la letteratura e altro, Einaudi, Torino 1985, pp. 181-191.
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della storia della cultura occidentale per disseppellire il luogo di insorgenza di un’unità primordiale ancora non asservita alla logica delle opposizioni binarie che definiscono la nostra cultura, e ritrova nell’artista dionisiaco l’espressione di una vitalità originaria che si situa per così dire a monte della scissione tra conscio e inconscio.30 Il gesto nietzscheano è evidentemente assimilabile ad un lavoro archeologico di scavo, tuttavia in un senso essenzialmente diverso rispetto a quello freudiano. 2. Il progetto terapeutico della genealogia La regressione che l’archeologia propone è un gesto particolare: essa non designa un movimento verso un fuori, e non implica nemmeno un regredire verso il passato. Piuttosto si tratta di procedere all’interno del proprio dispositivo, verso le premesse oscure, indicibili e non qualificabili del pensiero. Il suo presupposto è una critica radicale delle rappresentazioni, che appaiono governate da ben altro che non da criteri di oggettività e verità. Foucault rese esplicito tale nesso in un noto saggio del 1967,31 in cui 30
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Pur situando Nietzsche nell’orizzonte di un superamento dell’intellettualismo filosofico, Jung non coglie la tensione tra spirito e vita che segna di sé l’esperienza narrata nello Zarathustra e che invece costituirà il fulcro della lettura deleuziana di Nietzsche. Deleuze, cui spetta innanzitutto il merito di aver inaugurato, con il libro Nietzsche et la philosophie del 1962, una nuova lettura della sua filosofia, scardinando le tradizioni interpretative dei decenni precedenti, parte infatti proprio dalla ripresa di quell’unità di pensiero e vita, secondo cui la vita attiva il pensiero e il pensiero afferma la vita, che Nietzsche aveva rinvenuto nei pensatori presocratici. Cfr. NL IV/I 6 [48], p. 175: “Chi vuole la conoscenza, dovrà sempre nuovamente abbandonare la terra su cui vive l’uomo, avventurandosi nell’incertezza; e l’impulso che vuole la vita, dovrà sempre nuovamente cercare a tastoni un luogo abbastanza sicuro, per potersi fissare su di esso”. Il filosofo dell’avvenire è per Nietzsche colui che crea in virtù dell’unità tra pensiero e vita, quell’unità presocratica, nel frattempo dimenticata, in cui la tensione verso la conoscenza e l’impulso verso la vita ancora procedevano sotto un unico giogo. Nell’introduzione all’antologia di testi nietzscheani del 1965 Deleuze scrive: “ormai abbiamo solo esempi in cui il pensiero imbriglia la vita, la mutila, la doma, ed esempi in cui la vita si prende la rivincita, perdendosi con esso. Non abbiamo altra scelta se non tra vite mediocri e pensatori folli”. G. Deleuze, Nietzsche (1965), tr. it. di F. Rella, Nietzsche, a cura di G. Franck, SE, Milano 1997, pp. 21-22. Al riguardo cfr. G. Campioni, Sulla strada di Nietzsche, ETS, Pisa 1993, p. 62: “Non si trattava tanto di far vedere come i presocratici avessero anticipato moderne teorie, ma di mettere in luce l’originalità del loro sforzo anche nei confronti dei moderni”. M. Foucault, Nietzsche, Freud, Marx (1967), tr. it. in Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, cit., vol. 1, pp. 137-146. La triade dei “Maestri del sospetto”
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la triade Marx, Nietzsche e Freud veniva eletta a rappresentante di un’ermeneutica del profondo, instauratrice di discorsività che avrebbero introdotto nel registro umano del senso nuovi ambiti di sapere. La regressione archeologica decostruisce le rappresentazioni, le frantuma, apre dei varchi per portare alla luce ciò che esse sono venute a celare; tuttavia non la guida una tensione verso l’origine, né la ricerca di una verità interiore. L’interprete, scrive Foucault guardando proprio allo Zarathustra di Nietzsche, scava nel profondo allo scopo di “rendere la scintillante esteriorità che è stata ricoperta e sotterrata”: Il fatto è che, se l’interprete deve andare egli stesso fino in fondo, come un rovistatore, il movimento dell’interpretazione al contrario è quello di un’ascesa, di un’ascesa via via più alta, che lascia perennemente stagliarsi su di essa in modo sempre più visibile la profondità; e ora la profondità è restituita come segreto assolutamente superficiale, in maniera tale che il volo d’aquila, l’ascensione della montagna, tutta questa verticalità così importante in Zarathustra è, in senso stretto, il capovolgimento della profondità, la scoperta che la profondità era solo un gioco e una piega di superficie.32
I nomi di Nietzsche e Freud quali anticipatori di un metodo di regressione archeologica che sonda il sapere penetrando nei suoi strati sommersi, oscuri, inconsci, tornano a comparire fianco a fianco in una recente indagine di Giorgio Agamben contenuta in Signatura rerum, un libro in cui il filosofo si propone di chiarire problemi specifici relativi al proprio metodo, di “regredire nel proprio percorso fino al punto in cui qualcosa è rimasto oscuro e non tematizzato”.33 Nel capitolo in cui si appresta a circoscrivere il gesto e le strategie dell’archeologia filosofica, Agamben si richiama inoltre proprio alla lettura foucaultiana del sogno: il “movimento della libertà” che Foucault aveva attribuito al sogno e all’immaginazione condividerebbe con la sua visione dell’archeologia significati ed obiettivi. Ad essere accolta esplicitamente è quindi anche la critica al metodo freudiano, che
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viene introdotta in Francia da Paul Ricœur nel saggio De l’interprétation. Essai sur Freud (Parigi 1965), che distingue tra i tre pensatori, i “filosofi dell’interpretazione”, e i cosiddetti “filosofi della coscienza”. Foucault radicalizza tuttavia la tesi di Ricœur proponendo, sulla scia di Nietzsche, l’idea di una “interpretazione dominante” contrapposta alla possibilità di una “interpretazione corretta” che Marx e Freud avrebbero invece difeso. Foucault insiste sul “gioco infinito dei segni” che si sottrae ad ogni “passaggio di senso” e mira a produrre un continuo “conflitto di interpretazioni”. M. Foucault, Nietzsche, Freud, Marx, cit., p. 141. G. Agamben, Signatura rerum. Sul metodo, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 8.
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commetterebbe l’errore fatale di trascurare la dimensione più propriamente immaginaria del sogno e dell’espressione. La riflessione di Agamben è interessante in questo contesto per l’analogia esplicita tra regressione archeologica e psicanalisi che stabilisce e su cui riflette: in entrambi i casi si tratta di risalire ad un passato che non è stato vissuto e non può quindi dirsi passato propriamente, ma che più che il vissuto stesso dà forma e consistenza alla trama della personalità psichica e della tradizione storica nella forma di pulsioni, fantasmi, desideri che urgono alla soglia della coscienza: “[Ogni presente] è, anzi, ciò che resta non vissuto in ogni vita, ciò che, per il suo carattere traumatico o per la sua eccessiva prossimità, rimane inesperito in ogni esperienza”.34 Allo stesso tempo, però, Agamben rende esplicita la differenza tra il gesto con cui l’archeologia intende accedere al non-vissuto, ad un evento che non si è ancora dato, e le strategie e i fini della psicanalisi: la regressione archeologica non mira a realizzare il desiderio indistruttibile, come avviene secondo la dottrina freudiana nel sogno, che tende a ripristinare la scena infantile originaria, né tanto meno a portare alla coscienza i contenuti rimossi nell’inconscio come nella terapia analitica riuscita, in cui, come riassume Ricœur, si mira a “ridurre l’apparente novità alla riemergenza dell’antico: soddisfacimento scambiato, restaurazione dell’oggetto arcaico perduto, elementi derivati dall’immagine fantastica iniziale”.35 Il gesto che più propriamente caratterizza la regressione archeologica viene descritto da Agamben a fronte della concezione di archeologia sviluppata da Enzo Melandri in La linea e il circolo (1968), concezione che secondo Agamben sostituirebbe la visione pessimistica freudiana della regressione, incapace di superare la scena infantile originaria a cui sarebbe continuamente condannata a ritornare, con una visione dell’archeologia capace di risalire a monte della scissione fra conscio e inconscio, tra storiografia e storia. Melandri si riferisce al concetto nietzscheano di “storia critica”, la quale deve ripercorrere in senso inverso la reale genealogia degli eventi di cui si occupa. La divisione che si è venuta a creare fra storiografia (historia rerum gestarum) e storia reale (res gestae) è molto simile a quella che da sempre sussiste fra conscio e inconscio secondo Freud. Perciò la storia critica ha la funzione di una terapia mirante al recupero dell’inconscio inteso come “rimosso” storico. Ricœur e Foucault, come si detto, chiamano “archeologico” questo procedi34 35
Ivi, p. 102. P. Ricœur, De l’interprétation. Essai sur Freud (1965), tr. it. di E. Renzi, Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 2003, p. 488.
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mento. Esso consiste nel risalire la genealogia finché non si giunge a monte della biforcazione in conscio e inconscio del fenomeno in questione. Solo se si riesce a raggiungere quel punto la sindrome patologica rivela il suo reale significato. Si tratta dunque di una regressione: non però all’inconscio in quanto tale, bensì a ciò che lo ha reso inconscio – nel senso dinamico di rimosso.36
Significativamente, Melandri stabilisce un nesso tra archeologia e psicanalisi dopo aver reso evidente come, con la stesura della seconda Inattuale, Nietzsche avesse teorizzato un metodo di interrogare la storia teso a disseppellire i “fatti” nascosti sotto il sapere che giunge al presente attraverso la tradizione.37 Ma in che senso la “storia critica” può essere intesa come una terapia che non mira semplicemente a portare alla luce il rimosso che torna ad affiorare come sintomo? Nello sguardo di Melandri, Nietzsche avrebbe intuito il potenziale curativo di un movimento di regressione che non si lascia assimilare allo schema freudiano, al tentativo di sondare il passato per rafforzare l’io e amplificare così le sue capacità di affrontare realisticamente il presente.38 Nietzsche fu al contrario in grado di cogliere come un accumulo di sapere cosciente si rivela dannoso per la vita. In questo senso la “storia critica” della seconda Inattuale avrebbe il compito di distruggere il passato per rendere possibile la vita. Secondo quali modalità, dunque, questo si dovrebbe verificare? Guardiamo innanzitutto alla seconda Inattuale, che, ancor prima di un testo teorico, è il programma e l’applicazione di una sintomatologia nei 36 37
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E. Melandri, La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Il Mulino, Bologna 1968, pp. 84-85. Nietzsche renderà esplicita la frattura tra res gestae e historia rerum gestarum in Aurora: “Facta! Anzi, facta ficta! Uno storiografo non ha a che fare con quanto realmente è avvenuto, ma soltanto con i supposti avvenimenti: poiché questi soltanto hanno prodotto delle conseguenze. E così pure soltanto con i supposti eroi. Il suo tema, la cosiddetta storia del mondo, è costituito da opinioni intorno a supposte azioni e ai loro presunti motivi, che danno nuovamente occasione ad opinioni ed azioni, la cui realtà, però, subito svapora a sua volta e soltanto allo stato nebuloso determina delle conseguenze – un continuo generare e concepire fantasmi sopra le fitte nebbie della realtà insondabile. Tutti gli storici raccontano fatti che non sono mai esistiti, salvo che nella rappresentazione”. M, af. 307, pp. 185-186. Sull’argomento cfr. K. Ebeling, “‘Unterirdische’ an der Arbeit”: Nietzsche, Burckhardt, Freud als Archäologen des kulturellen Unbewussten, in J. Georg, C. Zittel (a cura di), Nietzsches Philosophie des Unbewussten, Walter de Gruyter, Berlin 2012, pp. 71-88. Tuttavia, l’archeologia freudiana e la genealogia di Nietzsche, che qui vengono placidamente accostate per spiegare il retroscena dell’argomentazione di Agamben, sembrano, alla luce di quanto si è detto, differire in modo sostanziale.
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Un’archeologia della cultura nell’epoca del suo declino
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confronti della conoscenza storica, in rapporto a ciò che la fonda e che essa tuttavia non contiene. Scrive Nietzsche: “abbiamo bisogno (di storia) per la vita e per l’azione, non per il comodo ritrarci dalla vita e dall’azione, o addirittura per l’abbellimento della vita egoistica e dell’azione vile e cattiva. Solo in quanto la storia serva la vita, vogliamo servire la storia: ma c’è un modo di coltivare la storia e una valutazione di essa, in cui la vita intristisce e degenera”.39 L’epoca di Nietzsche avrebbe inabissato il proprio senso perché non si sarebbe più posta la domanda circa la propria provenienza, o non l’avrebbe posta nel modo giusto. Essa avrebbe scordato, rimosso, rifiutato di accettare che la sua positività scaturisce da una negatività originaria, con la conseguenza che la vita le sarebbe divenuta incomprensibile ed inafferrabile. La storia ha origine dalla vita e la rappresenta, tuttavia i fatti disseminati nei libri di storia non sono altro che immagini di azioni e individui la cui natura intrinseca è di non essere mai completamente rappresentabile. Dimenticandosi di ciò, il sapere storico ha condannato le immagini a perdere la vita che le sorregge e a cui essa rimanda, producendo nel corpo che soggiace alle sue rappresentazioni un dolore sordo. È questa la malattia provocata da un eccesso di storia, di sapere oggettivo: essa si manifesta nell’estraneità tra il corpo e il sapere di esso, cosa che si verifica quando si sospende la sua serena frequentazione quotidiana seguendo le regole di un sapere già disposto. L’immagine ed il sapere del corpo sono sempre meno del corpo stesso, come un concetto è sempre meno dell’eccedenza originaria di forze che vi soggiace.40 La piccola ragione dello spirito rappresenta essenzialmente una riduzione di complessità rispetto alla grande ragione del corpo, che ama “creare al di sopra di sé”.41 Ciò significa che se ritrova la propria salute, il corpo distrugge e supera continuamente le figurazioni e i saperi che esso produce, per affermarne altri. Quando invece è malato, la sua potenza di distruzione viene meno, il sapere impone la sua fissità come il fine di tutte le cose, eliminando così l’eccedenza eterogenea e originaria del corpo.
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HL, Prefazione, p. 259. Cfr. WL §1, p. 357: “A questo punto viene fissato ciò che in seguito dovrà essere la «verità»; in altre parole, viene scoperta una designazione delle cose uniformemente valida e vincolante, e la legislazione del linguaggio fornisce altresì le prime leggi della verità”. La verità non è quindi altro che un “mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite, e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti” (p. 361). Za, Dei dispregiatori del corpo, p. 35.
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Genealogia della cultura
Nell’orizzonte complessivo dell’organismo vivente il sapere è solo un organo come tanti, che potrebbe però, ed è il caso attuale, arrivare a nuocere alla vita che ne costituisce il fondamento. È in questo senso che nella Nascita della tragedia Nietzsche imputa allo storicismo e al suo metodo scientifico-razionale la morte del mito,42 mentre nella seconda Inattuale scrive che un senso storico che domina incontrollato indebolisce l’istinto creativo di vita, distrugge le illusioni e sradica ogni possibilità di futuro.43 Da qui sorge allora la necessità di indagare la conoscenza storica a partire dalla vita intristita e malata, celata sotto la superficie. La conoscenza vale solo in rapporto ed in funzione della vita, quindi da un lato essa è l’oggetto percorso e indagato dallo sguardo critico, dall’altro è sapere sintomatologico che interroga le cause dell’esaurimento della vita in funzione della possibilità del ripristino della salute. Avendo la conoscenza asservito la vita a sé, essa avrebbe invertito il rapporto tra vita e ricordo in funzione del sapere del passato, facendo di questo il suo unico valore, e del ricordare il suo compito primario. In ciò si manifesta, se si vuole, l’analogia con la psicanalisi, se si considera che per molti aspetti essa può essere paragonata ad un’arte della memoria che si serve di tecniche precise, dall’associazione libera di idee e dal racconto dei sogni e all’analisi dei motti di spirito e dei lapsus verbali, allo scopo di estrarre i ricordi delle esperienze passate dall’archivio dell’inconscio.44 Per Nietzsche la vita che si esprime innanzitutto come oggetto della memoria è una vita defunta: facendone l’oggetto di un sapere se ne offusca la “cieca passione” e se ne rende impotente la “potenza storica”.45 Non è 42
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GT, §23, p. 151: “Ma è possibile che, ad un esame rigoroso, quasi ognuno si senta talmente disgregato attraverso lo spirito critico-storico della nostra cultura, da rendersi credibile la passata esistenza del mito forse solo per via erudita, mediante astrazioni mediatrici”. HL, §7, p. 313. Compito del medico è quindi vigilare la vita nella sua relazione con la scienza storica, ponendo come valore la salute del vivente: “Quindi la scienza ha bisogno di una superiore vigilanza e sorveglianza; un’igiene della vita si pone proprio accanto alla scienza, e una proposizione di questa igiene suonerebbe appunto: l’antistorico e il sovrastorico sono i rimedi naturali contro il soffocamento della vita da parte della storia, contro la malattia storica”. HL, §10, p. 352. Sul rapporto tra il metodo psicanalitico e la mnemotecnica cfr. P.H. Hutton, The Art of Memory Reconceived. From Rhetoric to Psychoanalysis, in «Journal of the History of Ideas», 48/3, 1987, pp. 371-392. HL, §1, p. 271: “Un fenomeno storico, conosciuto in modo puro e completo e ridotto a fenomeno di conoscenza, è, per colui che lo ha conosciuto, morto: egli ha infatti riconosciuto in esso l’illusione, l’ingiustizia, la cieca passione, e in genere tutto l’orizzonte terrestremente offuscato di questo fenomeno e insieme appunto la sua potenza storica”.
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Un’archeologia della cultura nell’epoca del suo declino
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quindi il dato oggettivo, o la storia come passato concluso e morto, a costituirsi come il riferimento dell’azione presente, sia pratica che conoscitiva. Il passato e il ricordo non possono essere intesi se non a partire dal corpo che li riattiva e li rimette in moto in quanto spinto dalla necessità di vivere e di aumentare la propria potenza. Con la definizione compiuta della genealogia nietzscheana si renderà evidente che a diventare essenziale è il modo in cui si fa agire il ricordo, se cioè il differire viene agito in una mera ripetizione del passato, perché chi agisce vuole unicamente rimanere fedele all’identico, tradendo così la vita e realizzando il circolo in cui l’uguale ritorna, oppure se viene fatto divenire diversamente, e si trasforma così in una differenza compiuta che realizza il divenire selettivo.46 La vita ritorna continuamente, spinta da una differenza che chiede di essere agita, non solo subita facendo continuamente tornare quel che non viene portato oltre, che si rifiuta di trapassare, di compiere un balzo al di fuori del cerchio di ciò che è già stato.47 Appropriarsi del passato in funzione della vita significa trarne la differenza presente, un compito che Nietzsche, a ben guardare, affida già alla storia critica: essa deve infatti intraprendere il rischioso tentativo di darsi “a posteriori un 46
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Cfr. G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie cit., pp. 101ss. Per Deleuze l’eterno ritorno è innanzitutto un principio cosmologico che afferma il puro divenire, e quindi implica una critica della possibilità di un suo stadio finale. Quindi funge da “principio etico e selettivo” della volontà di potenza, che desidera il ritorno dell’oggetto della sua affermazione. HL, §1, p. 267: “Dove si trovano le azioni che l’uomo sarebbe capace di fare, senza essere prima entrato in quello strato vaporoso di ciò che non è storico? O per lasciare da parte le immagini e per passare a illustrare con gli esempi, ci si figuri un uomo agitato e trascinato da una violenta passione, per una donna o per una grande idea: come cambia per lui il suo mondo! Guardando indietro si sente cieco, ascoltando accanto a sé percepisce le cose estranee come una risonanza sorda e priva di significato; ciò che in genere percepisce, non lo aveva mai percepito così, così tangibilmente vicino, colorito, risonante, illuminato, come se lo afferrasse contemporaneamente con tutti i sensi. Tutte le valutazioni sono cambiate e private di valore; tante cose non è più capace di valutarle, perché quasi non può più sentirle: si chiede se non sia stato fino allora lo zimbello di parole estranee, di opinioni estranee; si meraviglia che la sua memoria giri instancabilmente in un cerchio, e sia tuttavia troppo debole e stanca per fare anche un solo balzo fuori da questo circolo”. L’esperienza dell’eterno ritorno è invece proprio ciò che, nelle parole di Klossowski, apre ad una dimensione non storica: “l’Eterno Ritorno, come esperienza, come pensiero dei pensieri, costituisce l’avvenimento che abolisce la storia. […] (esso) deve aprire una prospettiva al caso singolo e sbarrare le porte alla specie in quanto tale: ciò che in essa era intellegibile diventa oscuro, incerto, angoscioso”. P. Klossowski, Nietzsche et le cercle vicieux (1969), tr. it. di E. Turolla, Nietzsche e il circolo vizioso, Adelphi, Milano 1981, p. 254.
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Genealogia della cultura
passato” da cui si vorrebbe discendere.48 Ciò vuol dire distruggere il passato già dato per stabilire una nuova abitudine, innestare un nuovo istinto, creare una seconda natura. La prima natura va così a spegnersi, assume una sembianza larvale, un’immagine priva della vita che è andata a incarnarsi altrove. Perché questo avvenga è essenziale che dietro l’impulso storico sia attivo un impulso plastico, modellante (Bautrieb), che funga da correttore e guida, arginando e convogliando la spinta dell’impulso storico in un agire selettivo, affinché si costruisca qualcosa di nuovo sul terreno che lo sguardo critico ha liberato.49 Si tratta di due movimenti irriducibili e speculari, che si innestano in un punto critico e costantemente minacciato, dal quale tuttavia può emergere un’intima ed enigmatica solidarietà tra distruzione e costruzione, tra perdita e arricchimento. Quando la genealogia torna ad un’origine non lo fa con l’obiettivo di cogliere l’essenza della cosa e di svelarne quell’identità nascosta che nel mondo fenomenico sarebbe mascherata dietro a quanto in esso si dà di casuale e contingente.50 L’origine che ricerca la genealogia, che trova il proprio oriz48
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HL, §3, pp. 285-286: “Infatti, dato che noi siamo i risultati di generazioni precedenti, siamo anche i risultati dei loro traviamenti, delle loro passioni e dei loro errori, anzi dei loro delitti; non è possibile staccarsi del tutto da questa catena. [ ] Arriviamo nel miglior caso a un conflitto fra la natura ereditaria e avita e la nostra conoscenza, o anche a una lotta di una nuova e severa disciplina contro ciò che è acquisito e innato da gran tempo; noi piantiamo una nuova abitudine, un nuovo istinto, una seconda natura, sicché la prima natura rinsecchisce. È un tentativo di darsi per così dire a posteriori un passato da cui si vorrebbe derivare, in contrasto con quello da cui si deriva – sempre un tentativo pericoloso [ ] Ma qua e là la vittoria arride lo stesso, e c’è anzi, per coloro che lottano, per coloro che si servono della storia critica per la vita, una notevole consolazione: quella cioè di sapere che anche tale prima natura è stata una volta, quando che sia, una seconda natura, e che ogni seconda natura che vinca diventa una prima natura”. Sul potenziale costruttivo dell’effetto distruttivo della storia critica cfr. anche K. Meyer, Ästhetik der Historie. Friedrich Nietzsches »Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben«, Königshausen&Neumann, Würzburg 1998, p. 181. In questo senso in Umano, troppo umano Nietzsche definirà questo procedimento come “artistico” e “selettivo”: “segno di cultura superiore” è la capacità di “isolare artificialmente” certe fasi del proprio sviluppo e immaginare come potrebbero crescere. Il presupposto per questo è concepirsi come “sistemi affatto determinati”, necessari e mutevoli ad un tempo. MA I, §274, p. 193. Cfr. al riguardo M. Foucault, Nietzsche, la généalogie, l’histoire (1971), tr. it di A. Fontana, P. Pasquino, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977, pp. 29-54. La categoria di Ursprung è per Foucault troppo legata alla logica metafisica tradizionale, per cui egli propone la sua sostituzione con quelle di provenienza (Herkunft) e di punto di insorgenza (Entstehung), che designerebbero più propriamente l’oggetto di ricerca del genealogista.
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Un’archeologia della cultura nell’epoca del suo declino
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zonte nell’ambito della vita dove tutto sussiste solo nel cambiamento, non rivela mai niente di originario.51 Essa designa piuttosto quel campo di forze e correnti che si rivela sotto il sapere, la rappresentazione di esso nell’identità del concetto, offrendosi all’infinita interpretazione e riscrittura di una vita che chiede continuamente di riformarsi e differenziarsi. Quando la genealogia regredisce a questo punto, lo fa prendendo avvio da una sofferenza, da una frattura che chiede di riprodursi in una differenza. Si può pensare questo punto come il riflesso della frattura del presente, che è spinta a cercarlo, in un gesto a ritroso, a partire dalla sua sofferenza presente.52 Tale ricerca non mira evidentemente a prodursi in un dire oggettivo, né vuole semplicemente conservare qualcosa, come fa una filologia mortifera che cerca rifugio nel passato rinunciando a sperimentare e a praticare ciò che la storia le consegna (è infatti già in questo senso che nel progetto di una quinta Inattuale che si sarebbe dovuta intitolare Noi filologi Nietzsche sentiva di dover opporre a questa conoscenza del passato una pratica filologica interpretativa intesa come Erlebnis, in un senso per cui l’antichità verrebbe appresa attraverso il
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Riferendosi all’uso che Nietzsche fa di questi due termini, Foucault sostiene che la ricerca della provenienza, opponendosi a riduzioni a sintesi astratte e privilegiando lo sguardo su “ciò che sta più vicino”, insiste piuttosto sulle fratture e le discontinuità, e rende così giustizia alla pluralità delle forze operanti nei fenomeni. Determinare la provenienza di un certo fenomeno storico significa soffermarsi sulle contraddizioni e sulle fratture che devono essere esibite nella positività del loro conflitto. In modo analogo rendere conto del punto di insorgenza, ossia dell’irruzione dei fenomeni nell’orizzonte della storia, significa esporli nella loro irruzione storica, facendo risaltare l’incisione che essi producono. Ciò implica un soffermarsi sul momento in cui un ordine, un insieme di regole, viene stabilito per pacificare il conflitto. Ordini e regole sono il prodotto di un’imposizione, finalizzata a mantenere le differenze di potenza, e non a rimuoverle. A proposito della ricerca dell’origine cfr. M, §44, pp. 39: “quanto più perseguiamo l’origine, tanto meno ne siamo partecipi con i nostri interessi; anzi, tutte le valutazioni e gli «interessi» che abbiamo posto nelle cose cominciano a perdere il loro senso, quanto più regrediamo con la conoscenza fino a giungere alle cose stesse. Con la piena cognizione dell’origine aumenta l’insignificanza dell’origine: mentre la realtà più vicina, quel che è intorno e dentro di noi, comincia a poco a poco a mostrare colori e bellezze ed enigmi e ricchezze di significato, cose, queste, di cui l’umanità non si sognava neppure”. GM, Prefazione §5, pp. 217-218: “precisamente qui vedevo il principio della fine, il momento dell’arresto, la stanchezza che volge indietro lo sguardo, la volontà che si rivolta contro la vita, l’ultima malattia che dolcemente e melanconicamente si annuncia”.
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Genealogia della cultura
vissuto presente, il quale viene a sua volta conosciuto tramite l’immagine dell’antichità che ne è scaturita).53 La genealogia seziona il corpo concettuale della storia per capire se la demolizione che essa esercita può dare vita a nuove forme, figure, impulsi e sensazioni di ogni genere.54 Ciò vale anche per la lettura del sintomo, che lo sguardo genealogico, a differenza di quello fondativo freudiano, non legge come l’effetto di una causa prima, di una verità iniziale cui si può risalire ripercorrendo all’indietro una sequenza lineare di eventi legati da una relazione di causa ed effetto. Il sintomo richiede piuttosto di creare nuove interpretazioni, che misurano il loro valore non sulla base di una corrispondenza alla cosa che interpretano, bensì in virtù della loro capacità di riportare la salute. La genealogia non è solo arte di interpretare, ma anche arte di valutare. Ad agire nella genealogia è la vita che frantuma la linearità delle narrazioni alla ricerca di una nuova rivelazione da cui riattivarsi, di un enigma originario che chiede al presente di prodursi in una nuova interpretazione di sé. Il genealogista rumina il passato per portarlo ad un completo dispiegamento, ad un ritorno nella differenza. In un movimento a ritroso egli illumina dei punti di particolare significatività per la vita, smembrando i concetti per rinvenire l’eccedenza che giace al di sotto. In questo substrato eterogeneo e conflittuale ci si può produrre in nuove creazioni e finzioni, dando vita ad un movimento discontinuo e conflittuale che segue il divenire della vita stessa. Qui tutto si conserva per essere rimescolato e trasformato, si dissolve per rinascere in una nuova salute. Salute significa quindi darsi momentaneamente un nuovo ordine, ma anche essere disposti a sacrificarlo costantemente: “la grande salute – una salute che non soltanto si possiede, ma che di continuo si conquista e si deve conquistare, poiché sempre di nuovo si sacrifica e si deve sacrificare”.55 Ne consegue che la salute non si ha quando il corpo coincide pacificamente con le immagini che lo raffigurano e i saperi che esso produce, ma nel momento in cui oltre53
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NL IV/I, 3[62], p. 101: “Si è spiegata l’antichità in base a ciò che si è sperimentato nella vita, e in base all’antichità così ottenuta si è stimata e valutata l’esperienza di vita. In tal modo, l’esperienza di vita è senza dubbio il presupposto incondizionato per un filologo. Ciò significa però: anzitutto essere uomo, e soltanto in seguito si sarà fecondi come filologi”. GM, Prefazione §7, p. 220: oggetto della genealogia è “il grigio, il documentato, l’effettivamente verificabile, l’effettivamente esistito, insomma tutta la lunga, difficilmente decifrabile, scrittura geroglifica del passato morale dell’uomo”, e il suo “fine” è scoprire “per il dramma dionisiaco del «destino dell’anima» un nuovo intreccio e una nuova possibilità”. FW, §382, p. 308.
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Un’archeologia della cultura nell’epoca del suo declino
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passa continuamente gli ordini che ha prodotto per trovare il proprio senso all’interno di un movimento di continua differenziazione e metamorfosi. Perché il corpo mette in campo sempre più forze e risorse rispetto a quelle che sono organizzabili e finalizzabili in un sapere o in un’immagine di esso.56 Così, l’immagine e il sapere del corpo si rivelano efficaci a stimolarne la potenza non nel momento in cui richiedono al corpo un’adeguazione e si impongono come fine,57 bensì quando sono in grado di attivare un movimento che inglobi continuamente se stesso, che crei nuovi ordini per poi superarli incessantemente. L’immagine e il sapere che il medico deve costruire per ridare la salute devono stimolare il continuo differenziarsi della vita. Come afferma Zarathustra: “i migliori simboli debbono parlare del tempo e del divenire: una lode essi debbono essere e una giustificazione di tutto quanto è perituro!”58 Zarathustra può essere inteso come il libro dei simboli per eccellenza solo se con simbolo si intende un’intensità che non vuol dire nulla, un composto che vibra e cattura le forze, le moltiplica e le arricchisce di nuove direzioni e nuovi sensi facendole entrare in un rapporto di intensità le une con le altre. L’orizzonte della genealogia è, quindi, l’ambito della vita, dove tutto è potenza di trasformazione e metamorfosi, e ogni conoscenza e immagine di essa sono interpretazioni e valutazioni destinate a venire da essa continuamente frante. Proprio per questo la genealogia nietzscheana si sottrae al tentativo di Agamben di restituire all’archeologia una fondazione ontologica:59 l’essere determina il proprio rapporto con il reale come nonmodificazione sostanziale, mentre per la vita nietzscheana la conoscenza non può essere intesa se non come intrinsecamente conflittuale e duale, come un processo di continua distruzione, dislocamento e differenziazione in cui nulla resta com’era. Essa è quindi inconciliabile con l’essere. 56
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Cfr. G. Deleuze, Per farla finita con il giudizio, in Critique et clinique (1993), tr. it. di A. Panaro, Critica e clinica, Raffaello Cortina, Milano 1996, pp. 165-176, qui pp. 171-172: “Era già il progetto di Nietzsche definire il corpo in divenire, in intensità, come potere d’investire e essere investiti, come volontà di potenza”. Za, Dei dispregiatori del corpo, p. 34: “Ciò che il senso sente, ciò che lo spirito conosce, non ha mai il suo fine in sé: Ma senso e spirito vorrebbero convincerti di essere il fine di tutte le cose: tanto son vanitosi”. Za, Sulle isole beate, p. 105. Costitutiva dell’archeologia per Agamben è la capacità di “cogliere i fenomeni al livello della loro insorgenza e del loro puro esserci”, effettuando quel passaggio “dall’antropologia all’ontologia” delineato da Foucault nello scritto del 1954 verso il luogo in cui “l’esistenza stessa, nella direzione fondamentale dell’immaginario, indica il suo proprio fondamento ontologico”. Cfr. G. Agamben, Signatura rerum, cit., p. 105.
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Genealogia della cultura
Nell’archeologia di Agamben è invece in gioco un essere ancora da venire, che il gesto dell’archeologo deve liberare dalle maglie della tradizione e dai fantasmi dell’inconscio per condurlo al suo compimento storico.60 Agamben mira evidentemente a correggere il gesto della genealogia foucaultiana, la quale pone come intrascendibile la volontà di potenza, e lo fa ricercando una forza operante nella storia che colleghi in una prospettiva messianica passato e futuro, senza lasciare i fenomeni alla pura dispersione, ad un’anarchica molteplicità.61 La specificità del progetto nietzscheano pare caratterizzato propriamente da Melandri quando descrive il movimento che è in gioco con l’archeologia come “l’esatto reciproco della razionalizzazione”.62 Il richiamo alla psicanalisi si rivela così importante solo in senso paradigmatico; essenziale è invece il richiamo alla Daseinsanalyse di Binswanger ripresa da Foucault, che comporta un risalire a quel linguaggio arcaico, informale e precategoriale in cui follia e ragione non hanno ancora subito una separazione. In riferimento alla storia critica nietzscheana Melandri definisce tale operazione regressiva come “regressione dionisiaca”.63 Con questo è evidente che non si tratta di immaginare uno stato felice originario prima della scissione, una condizione che non conosce rimozioni, consapevole 60
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“La regressione archeologica è elusiva: non tende, come in Freud, a ripristinare uno stato precedente, ma a decomporlo, a spostarlo, e, in ultima analisi, ad aggirarlo, per risalire non ai suoi contenuti, ma alle modalità, alle circostanze e ai momenti della scissione, che rimuovendoli, li ha costituiti come origine” (Ivi, p. 103). La regressione archeologica vuole liberarsi del passato “per accedere, al di là o al di qua di esso, a ciò che non è mai stato, a ciò che non ha mai voluto. Solo a questo punto il passato non vissuto si rivela per ciò che era: contemporaneo al presente, e diventa così per la prima volta accessibile, si presenta come «fonte»” (ibid.). Tenendo fermo che “la ricerca della provenienza non fonda”, il genealogista di Foucault accetta l’inquietudine di un’analisi che non poggia su punti fermi, né può raggiungere risultati definitivi, ma è in ogni momento consapevole del carattere inevitabilmente prospettico del proprio punto di vista. Il risultato non sarà un’interpretazione in grado di integrare nel proprio orizzonte il “sapere non ancora cosciente di ciò che è stato”, né una lettura che lo abbandona ad un relativismo scettico. L’archeologia “interroga il già detto al livello della sua esistenza” e descrive i discorsi “come delle pratiche specifiche nell’elemento dell’archivio” (cfr. M. Foucault, L’archéologie du savoir (1969), tr. it. di G. Bogliolo, L’archeologia del sapere, Rizzoli BUR, Milano 1980, p. 176), istituendo un quadro di formazioni, funzioni, differenze e regimi di oggetti il cui significato non è mai dato una volta per tutte, ma è prodotto di una connessione tra elementi eterogenei e disparati che non mira tuttavia a omogeneizzare il contraddittorio. E. Melandri, La linea e il circolo, cit., p. 85. Ivi, p. 86.
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e padrona di sé, che si è ad un certo punto divisa; in gioco è piuttosto la capacità di retrocedere verso qualcosa che non si può né vedere, né apprendere razionalmente. È la vita ad eseguire la regressione per ricercare il luogo soggettivo della storia individuale che offre al momento presente la possibilità di differenziarsi. In questo senso la storia critica nietzscheana presupporrebbe, nella visione di Melandri, una specie di soteriologia: la liberazione dal passato e dai complessi con cui esso ha ipotecato il futuro ne implica non solo, o non tanto, la comprensione, quanto un riscatto, perché così è da intendersi il recupero dell’alienato, dell’escluso e del rimosso. La “regressione dionisiaca” risale al luogo di una transizione incessante che non porge qualcosa da assumere così com’è, bensì offre alla vita una chance per riattivarsi. Non si tratta quindi di consentire a ciò che è stato,64 ma di regredire al punto in cui si manifestano forze eccentriche da cui è possibile ricominciare. In questo consiste la specificità del progetto di Nietzsche rispetto al pensiero giudaico-cristiano della salvezza e al suo culto della memoria. La regressione nietzscheana è dotata della forza iconoclasta che Foucault attribuisce al movimento dell’immaginazione, e in questo si contrappone ad ogni culto dell’immagine che assume su di sé il peso del passato, quindi anche alla fascinazione di Jung per le immagini così come essa emerge in particolar modo nei seminari zarathustriani, in cui ogni simbolo è letto come portatore di antichi miti, rituali e misteri iniziatici. Il gesto nietzscheano della regressione non rivela mete da raggiungere, né annuncia obiettivi da realizzare; piuttosto, esso libera un orizzonte in cui lo sguardo include, in una gioiosa simultaneità, una molteplicità di prospettive, e apre così ad un presente pieno in cui l’individuo può mettere in moto continui processi di creazione e trasformazione. Solo in questo senso la regressione offre un accenno di futuro, l’unico che si possa avere che sia aperto alla singolarità e alla differenza. 3. Mitologie romantiche Come si è ampiamente illustrato, un aspetto non irrilevante della lettura junghiana è dato dalla volontà di rappresentarsi un Nietzsche collocato ben 64
Così Agamben interpreta l’eterno ritorno come l’esatto reciproco della sua archeologia, che “non vuole ripetere il passato per consentire a ciò che è stato […] Vuole al contrario lasciarlo andare, liberarsene, per accedere, al di là o al di qua di esso, a ciò che non è mai stato, a ciò che non ha mai voluto”. Cfr. G. Agamben, Signatura rerum, cit., p. 103.
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Genealogia della cultura
più profondamente nella dimensione culturale germanica che non in quella greca. Nel percorrere questa strada, con i risultati che si sono descritti, Jung finisce per disconoscere il rigoroso lavoro filologico cui il giovane Nietzsche si dedica negli anni degli studi e dell’insegnamento universitario a Basilea, il cui prezioso frutto sono gli scritti Sulla visione dionisiaca del mondo e l’abbozzo di Noi filologi, le conferenze dedicate ad Omero e alla tragedia greca, quindi gli appunti delle lezioni sulla letteratura greca e latina, sulla retorica, sulla metrica e sulla ritmica antiche, lavori per molti aspetti pionieristici e innovativi,65 di cui la critica ha evidenziato l’apporto fondamentale alla stesura della Nascita della tragedia,66 ridimensionando in parte l’influsso, pur incontestabile e determinante, della filosofia di Schopenhauer e dell’opera di Wagner. In opposizione alla lettura di Jung, cui piace immaginarsi un Nietzsche preda inconsapevole delle “forze archetipiche” in atto nell’opera wagneriana, si può ricordare che in Umano troppo umano la filologia viene chiamata in causa come arma del disincanto del freier Geist contro seduzioni di natura metafisica,67 e che ancora nel Tentativo di autocritica, la nuova prefazione alla Nascita della tragedia redatta nel 1886, è al paziente lavoro filologico di scavo e di apertura di prospettive che viene affidato il compito di accostarsi all’enigma del dionisiaco, altrimenti materia del canto del poeta: “eppure in questo campo per il filologo rimane ancora oggi quasi tutto da scoprire e da scavare! Innanzitutto il problema, il fatto che qui ci troviamo di fronte ad un problema, e che i Greci, finché non avremo trovato una risposta alla domanda «che cos’è dionisiaco?», saranno ora come prima, completamente sconosciuti e inimmaginabili”.68 Il filologo, quindi, in veste di archeologo, “positivista felice”, la cui ricerca non è tesa verso una verità, ma indugia piuttosto sulle fratture, sulle discontinuità e sui conflitti, rendendo così giustizia della pluralità delle forze operanti nei fenomeni. 65
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Merita di essere menzionata la tesi secondo cui la ritmica antica non era caratterizzata dall’ictus, come fino ad allora generalmente postulato, ma solo dall’accento grammaticale. Su questo aspetto più diffusamente nel cap. 3. Per un’analisi dettagliata degli studi nietzscheani sulla metrica e sul ritmo degli antichi cfr. l’ancora fondamentale contributo di F. Bornmann, Nietzsches metrische Studien, in «Nietzsche Studien», 18, 1979, pp. 427-489. Per questo aspetto cfr. C. J. Emden, Sprache, Musik und Rhythmus. Nietzsche über die Ursprünge von Literatur 1869-1879, in «Zeitschrift für deutsche Philologie», 121.2, 2002, pp. 203-230. MA I, af. 3, p. 16: “È segno distintivo di una cultura superiore valutare le verità piccole, non appariscenti, scoperte con metodo rigoroso, più degli errori gratificanti e abbaglianti nati da epoche e uomini metafisici e artistici”. GT, Tentativo di autocritica §3, p. 7.
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Un’archeologia della cultura nell’epoca del suo declino
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Interprete acuto e raffinato della cultura antica, Nietzsche è profondamente radicato nella dimensione greca. Egli riesce per così dire ad acquisirne la visione e, dalla distanza storica data dall’aver assunto tale prospettiva, a misurare con questo sguardo lo sviluppo della cultura moderna. Come scrive Colli: “L’unicità nella cultura moderna di Nietzsche sta nell’aver gettato sul nostro mondo lo sguardo del greco antico. Ciò gli dà il distacco della prospettiva storica, proprio mentre parla storicamente”.69 In questa ottica, il privilegio che sembra opportuno attribuire al primo scritto consiste nell’aver disseppellito, agli albori della storia della cultura occidentale, il luogo di insorgenza di una potenza vitale, di una forza immediatamente attiva, la cui prima manifestazione storica si sarebbe data nel coro dionisiaco, nucleo della tragedia attica. È la scoperta della volontà ellenica che si dà senza mediazioni nel simbolo dionisiaco, “immagine della volontà stessa”, in cui Dioniso parla ancora senza mediazioni “per mezzo di forze”, prima di venire oggettivato nella “chiarezza e [nel]la saldezza della raffigurazione epica”.70 Ed è la prima intuizione di una potenza di trasfigurazione e di metamorfosi cui Nietzsche, nell’ultima fase del suo pensiero, si rivolgerà sempre come al potere affermatore di Dioniso. In particolare, quando si tratterà di correggere la direzione del primo scritto con una nuova prefazione, o di delinearne il gesto in Ecce Homo, Nietzsche non esiterà ad indicare in questa forza l’impulso originario di quei processi mimetici e simpatetici da cui sarebbe nato lo Zarathustra. Nel corso dell’analisi tracciata nei primi capitoli nella Nascita della tragedia, che mirano a definire la genesi e le caratteristiche della tragedia attica, Nietzsche offre una viva rappresentazione del poeta Archiloco, il “battagliero servitore delle muse” e primo grande poeta lirico dionisiaco. La forza espressiva di Archiloco, capace di esprimere “l’intera scala cromatica delle sue passioni e dei suoi desideri”,71 emerge da una condizione di libertà originaria, dall’abisso dell’essere, in cui ogni esperienza e manifestazione umana si rivela in tutta la sua assoluta singolarità e unicità. 69
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G. Colli, L’occhio greco, in La ragione errabonda, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 1982, p. 523: “Chi non lo possiede avverte nel discorrere storico di Nietzsche solo un’esteriore eterodossia, crede di trovarsi di fronte a una bravura letteraria. Attraverso di lui parla invece un Greco che giudica il mondo moderno”. GT, §8, p. 63. GT, §5, p. 40. Così recita il primo dei frammenti di Archiloco a noi pervenuti: “Io sono il servo del signore Enialo e conosco il dono amabile delle muse”, Archiloco, Frammenti, tr. it. di N. Russello, con un saggio di B. Gentili, Rizzoli, Milano, 1993, p. 73. È l’autoritratto del primo io lirico anti-eroico: Archiloco è soldato di professione, e non per desiderio di gloria; sebbene sia guerriero, Archiloco non celebra gesta di eroi e di guerre, ma narra e canta solo di se stesso.
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Genealogia della cultura
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Questa individualità lirica dai toni ruggenti, che sfrutta la parola nelle radici stesse delle sue potenzialità espressive, viene contrapposta all’ideale di contemplazione estetica disinteressata e di oggettivazione nell’opera d’arte; tuttavia essa non è nemmeno identificabile con l’io soggettivo moderno, ripiegato sulla sua interiorità e sul suo stesso sentimento, che tenta di dominare con l’intenzionalità della parola. Il canto di Archiloco, le cui immagini e metafore sono attinte solo all’ambito dell’esperienza sensibile, è rivestito di una concretezza assoluta, tramite cui dà voce ad un nesso vitale con il mondo oggettivo e le sue leggi: “Archiloco, l’uomo passionalmente acceso, l’uomo che ama e che odia, è solo una visione del genio, che già non è più Archiloco ma genio del mondo, e che esprime simbolicamente in quell’immagine dell’uomo Archiloco il suo dolore primigenio”.72 Significativamente Nietzsche individua il tratto costitutivo della lirica antica, di cui Archiloco rappresenta il paradigma originario, nell’identità immediata tra poesia e musica: a precedere il comporsi delle immagini poetiche non è tanto l’ordine causale di un pensiero, quanto una Stimmung musicale che esse riproducono in maniera immediata. Risvegliata dal tocco dell’alloro di Apollo, la vita ardente del cantore dionisiaco zampilla rigogliosa in “faville di immagini, poesie liriche che nel loro dispiegamento più alto si chiamano tragedie e ditirambi drammatici”.73 Così il suo canto, espressione di un potente risveglio delle facoltà simboliche dell’individuo, si fa immagine immediata dei moti dionisiaci, quasi una riproduzione nel mezzo della musica della sovrabbondanza dell’essere unico: L’artista ha già annullato la sua soggettività nel processo dionisiaco: l’immagine che ora la sua unità col cuore del mondo gli mostra è una scena di sogno, che dà una figura sensibile a quella contraddizione e a quel dolore originari, oltreché alla gioia originaria dell’illusione. L’«io» del lirico risuona allora dall’abisso dell’essere: la sua «soggettività» nel senso dell’estetica moderna è un’immaginazione.74
Attraverso il processo di simbolizzazione l’io subisce una trasformazione che lo estrania da una situazione puramente soggettiva per condurlo in uno spazio non più egologico: una condizione di “massimo potenziamento di tutte le facoltà simboliche”, in cui l’individuo giunge “a quel vertice di alienazione di sé che in quelle capacità vuole esprimersi simbolicamente”.75 72 73 74 75
GT, §5, p. 43. Ivi, p. 42. Ivi, p. 41. Ivi, §2, p. 30.
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È l’ebbrezza dionisiaca prodiga di nuova vita, a cui la coscienza razionale può contrapporsi arginandola con violenza (e siamo nel terreno della follia così temuta da Jung), oppure aprirsi come ad un oltre che trascende l’orizzonte dell’io soggettivo e che, coinvolgendolo in un’azione simbolica, mette in atto in lui una trasformazione profonda: “il fenomeno drammatico originario: vedere se stessi trasformati davanti a sé e agire poi come se si fosse davvero entrati in un altro corpo, in un altro carattere”.76 Questa visione della soggettività come medium di un volere che la trascende, come un’apparenza illusoria in cui la volontà universale si rivela in una modalità immediata, pressoché in una contiguità simbolica con se stessa, si inserisce ancora coerentemente nella mitologia romantica della Nascita della tragedia, in cui all’immagine dionisiaca viene attributo un primato essenzialmente ontologico sull’apparenza apollinea. Ciò si rispecchia nella tesi dell’origine della tragedia dal coro dionisiaco. La genesi della tragedia attica rende evidente come si sia potuta scaricare ed oggettivare la volontà dionisiaca nelle immagini apollinee delle sue scene, come il suo mondo di parvenze di sogno sia potuto crescere e svilupparsi dall’ebbrezza vitale del coro ditirambico, così prossimo a quel volere originario. A caratterizzarla non è tuttavia l’arbitrarietà di un universo fantastico, bensì lo stesso carattere di necessità e la stessa concretezza che possedeva il mondo dell’Olimpo per il religioso elleno. Nell’evocazione di questa soggettività radicale, quasi un genio della natura che appare così semplicemente vicino ai propri impulsi al punto da annullare, pressoché sfondandola in un sicuro gesto istintivo, la parete di divisione tra volontà e rappresentazione (oppure, per dirla con Jung, tra libido ed immagine), fa il suo ingresso un elemento che qui viene per ora solo contrapposto a questa unità primordiale, “centro motore” dell’universo delle sue immagini e oggettivazioni, ma a cui Nietzsche dedicherà una grande attenzione nel corso della sua trattazione: si tratta dell’“uomo sveglio”, empirico-reale, da cui sono lontani sia il sognatore apollineo immerso nella contemplazione delle immagini, sia il cantore dionisiaco dalla vita ardente e appassionata.77 È l’annunciarsi del genio socratico della decadenza, il fatale oppositore del dionisiaco, che Nietzsche definirà con un efficace rovesciamento: “mentre in tutti gli uomini produttivi l’istinto è proprio la forza creativa e affermativa, e la coscienza si comporta in 76 77
Ivi, §8, p. 60. Ivi, §5, p. 42: “Senonché questa accentuazione dell’io non è la stessa di quella dell’uomo sveglio, empirico-reale, ma si tratta dell’unico io veramente sussistente ed eterno, riposante sul fondo delle cose, e attraverso le cui immagini il genio lirico penetra con lo sguardo fino al fondo delle cose”.
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Genealogia della cultura
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modo critico e dissuadente, in Socrate l’istinto si trasforma in un critico, la coscienza in una creatrice”.78 Sarà questo principio di natura socratica incarnato da Euripide a contrapporsi alla tragedia e a rimuoverne il nucleo dionisiaco, snaturando inoltre ogni valore estetico col proclamare l’equivalenza tra bellezza e conoscenza razionale. Con Euripide la tragedia si trasforma in epica, diventa pura razionalizzazione e si appiattisce su un’estetica naturalistica delle passioni. Essa si corrompe così nella sua essenza, separandosi per sempre da se stessa. Pare rilevante il fatto che Nietzsche, alla fine della propria opera, scorga nel primo scritto due intuizioni fondamentali: innanzitutto la percezione del carattere affermatore di Dioniso, di una volontà di vita che non ha più bisogno di essere risolta né giustificata; quindi la scoperta della natura reattiva di Socrate, cui è fatto risalire il primo attacco mosso dalla ragione contro l’istinto, della lucidità contro l’ebbrezza, della moderazione contro l’eccesso. In effetti, la vera contrapposizione da cui prende corpo la Nascita della tragedia non risiede tanto nel conflitto tra Dioniso e Apollo, la cui precaria conciliazione è un’azione benefica che evita da un lato l’unilateralità della ragione e dall’altro l’esplosione incontrollata delle passioni, quanto nell’antagonismo che si viene ad instaurare tra Dioniso e la “fede, venuta in luce per la prima volta con la persona di Socrate, nella possibilità di attingere la conoscenza della natura e nell’efficacia risanatrice universale del sapere”.79 Con l’irruzione del fenomeno socratico nella cultura greca entra in scena l’uomo teoretico, che inaugura, agli albori della storia della cultura occidentale, il primato del sapere e della conoscenza razionale, di una natura da conoscere e realizzare attraverso l’oggettivazione in codici passibili di essere riprodotti e modificati, ma mai snaturati nella loro essenza: è “l’elemento ottimistico nella natura della dialettica, che celebra in ogni conclusione la propria festa gioconda e può respirare soltanto nella fredda chiarezza e consapevolezza”.80 Con la rimozione del tragico ha inizio la storia della coscienza occidentale, della filosofia e della scienza moderne, e con esse si impongono le domande circa l’origine, la verità, la causa e il fondamento dei fenomeni, manifestazioni di un’incapacità ormai costitutiva di sottrarsi al conforto delle proprie ragioni, di una razionalità che spiega i fenomeni secondo una logica causal-effettuale. In questo modo, dirà poi Nietzsche nella Genealogia della morale, “ci si lascia sfuggire la priorità di principio che hanno le forze spontanee, aggressive sormontan78 79 80
Ivi, §13, p. 91. Ivi, §17, p. 114. Ivi, §14, pp. 95-96.
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ti, capaci di nuove interpretazioni, di nuove direzioni e plasmazioni”:81 è l’attività tumultuosa che Nietzsche riconosce in un divenire storico a cui di contro nega una finalità evolutiva che tende all’adattamento; ed è anche la volontà che vede attiva in un organismo individuale, in cui essa agisce “in guisa attiva e informante”, generando non tanto un progresso lineare, quanto uno sviluppo articolato in modo complesso, segnato da fratture, scarti, collisioni, rimodellamenti e nuovi avvii. Sullo sfondo del positivismo, dell’evoluzionismo e dello storicismo coevi, ultime metamorfosi dell’elemento ottimistico incarnato dall’uomo teoretico, il gesto della Nascita della tragedia si profila con grande nitidezza. Con un ardito capovolgimento, Nietzsche colloca la propria prospettiva nel punto in cui si è prodotta la scissione socratica, e riscopre nell’artista dionisiaco un’individualità originaria che non conosce rimozioni e condizionamenti da parte delle immagini o dei saperi, ma solo un’affettività esplosiva che si fa beffa di ogni codice morale e sociale. La Grecia antica non fornisce quindi a Nietzsche materiale morto da conservare, bensì gli si offre come un modello vivo di grande attualità, che gli permette di interpretare i processi culturali della sua epoca e di renderli trasparenti. Inerente alla sua costruzione del passato antico è quindi la prospettiva del presente: la realtà culturale del Reich è illuminata attraverso il passato greco, cui viene di contro restituito ciò di cui lo avevano privato la filologia accademica e una storiografia orientata al modello storicistico. È un gesto che, sottraendosi ad una visione teleologica della storia, va ad aprire dei varchi a margine, degli spazi, come dirà un aforisma di Aurora, liberi dal giogo di autorità cui “si obbedisce non perché comanda ciò che a noi è utile, ma perché lo comanda”, e non condizionati dalla “paura di una potenza incomprensibile, indeterminata”.82 Se Freud guarda a questa potenza dal punto di vista di una coscienza raggiunta che di essa vuole produrre un sapere, raccontandola come di un “altro da sé”, Nietzsche si pone nel cuore stesso della sua esplosione, esponendo la ragione al suo magma indistinto e inquietante. Da un lato si ha quindi il discorso della ragione sulla follia, dall’altro un avventurarsi in essa e un praticarla.83 Jung, dal canto suo, si riferisce a tratti al gesto 81 82 83
GM, Colpa, cattiva coscienza e simili §12, p. 278. M, af. 9, p. 13. Nietzsche distingue qui il sentimento della tradizione dalla paura di un “intelletto superiore”, “di qualche cosa più che personale”. Così si esprime il coscienzioso dello spirito, la dramatis persona che incarna l’anima della scienza: “Dalla paura crebbe anche la mia virtù, che si chiama: la scienza./ Proprio la paura delle bestie feroci – fu quella che per tempo lunghissimo fu instillata nell’uomo, compresa la belva che egli porta e teme dentro di sé: – Zarathustra la chiama “la bestia interiore””. Za, Della scienza, p. 367.
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Genealogia della cultura
nietzscheano come ad un’avventura che potrebbe aprire una nuova visione sull’esistenza. Tuttavia, guardando alla “pazzia” del filosofo, non nasconde la propria angoscia di fronte al dio dell’eccesso che sembra far ritorno dal passato a colmare il vuoto lasciato dalla morte del cristianesimo, quando invece la ricerca nietzscheana, per quanto possa apparire come il frutto di una volontà disperata di guarire l’occidente dalle sue lacerazioni, individua proprio lì la ratio essendi in grado di infondere nuova vitalità al presente. L’epifania di Dioniso scatena la crisi che provoca la distruzione di un mondo contraffatto, per spalancare le porte di un nuovo orizzonte dove tutto deve ancora cominciare: “Per poter creare, dobbiamo darci noi stessi una libertà più grande di quella che ci sia mai stata data; per questo, liberazione dalla morale e ricreazione per mezzo di feste […]. Attimi di beatitudine! E poi calare il sipario e rivolgere i pensieri a scopi solidi e vicini!”.84 Si tratta quindi di riacquisire lo sguardo dell’antico elleno, perché solo la visione tragica del mondo elargisce quella libertà da cui può poi procedere la concreta azione individuale. Il punto di partenza di Nietzsche è l’abisso: solo dall’esperienza del non-senso può prendere avvio un’esistenza autentica e concreta.85 Diversamente Jung, che pensa invece la vita come una pianta che attinge il proprio nutrimento dal terreno in cui è fortemente radicata: essa è pervasa da un’energia che fluisce incessantemente, mantenendo un senso oltre la concreta esistenza temporale, secondo l’economia di un processo di rigenerazione scandito nel ciclo di morte e rinascita degli esseri viventi: “non ho mai perduto il senso che qualcosa viva e duri oltre questo eterno fluire”, scrive nell’autobiografia.86 84
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NL VII/I, 21[6], p. 266. Cfr. gli appunti appena precedenti 21[2-5], che contengono il progetto per la terza e la quarta parte dello Zarathustra. Qui si legge: “«Io voglio!». Inno del convalescente e vittorioso. Il leone che ride e lo stormo di colombe. (Un tentativo – niente di più!)” (p. 262). Cfr. quanto dice Zarathustra agli uomini superiori: “Voi siete spaventati: il vostro cuore ha le vertigini? Vi si spalanca, qui, l’abisso? Ringhia, qui, contro di voi, il cane dell’inferno?/ Ebbene! Coraggio! Uomini superiori! Solo ora il monte partorirà il futuro degli uomini”. Za, Dell’uomo superiore §2, pp. 348-349. E ancora: “Ha cuore, chi conosce la paura, ma soggioga la paura, chi guarda nel baratro, ma con orgoglio” (ivi, p. 350). Secondo Heidegger il problema esistenziale con cui Nietzsche si era confrontato è strettamente legato al tempo e al suo trascorrere. La coscienza, che permette all’uomo di costruirsi un’identità personale, lo consegna contemporaneamente all’angoscia dovuta alla percezione della propria dis-continuità. Per Nietzsche l’affermazione di un assoluto eterno rappresenta una contraffazione e una fuga dall’autenticità dell’esistenza. Cfr. M. Heidegger, Wer ist Nietzsches Zarathustra? (1953), tr. it. di U. Ugazio e G. Vattimo, Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano 1976, p. 76. C.G. Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, cit., p. 28.
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Con uno sguardo alla ricerca di Nietzsche, che sonda il passato per rinvenirvi una forza vitale originaria in grado di restituire nuove possibilità a ciò che è già stato, la galassia psicanalitica, con la sua teorizzazione di una scissione tra conscio e inconscio, con le sue analisi dei meccanismi di rimozione, integrazione e compensazione, appare, a posteriori, adagiarsi più o meno pacificamente sulla logica dicotomica delle opposizioni binarie che governano la nostra storia di occidentali. La topologia junghiana, come già quella di Freud, pensa infatti l’individuo come se fosse da sempre scisso in conscio e inconscio, come se l’inconscio esistesse già da sempre. Nietzsche, al contrario, non parte dall’idea di una scissione costitutiva: la vita dionisiaca è un’immediatezza articolata in modo complesso, procede attraverso continue assimilazioni e “riscritture”, e si dà in una teatralità tesa ad intensificare la propria potenza. Il dramma di Zarathustra è il luogo in cui questa esistenza dionisiaca si offrirà all’immaginazione e al lavoro dell’espressione. Ciò spiega perché Nietzsche non cessi di polemizzare con chi riduce l’arte allo strumento di una purificazione e di una sublimazione morale (la catarsi aristotelica), la pensa nell’ottica di una contemplazione disinteressata (Kant), o ne scorge un mezzo per sospendere la volontà (Schopenhauer). A posteriori appare evidente che Nietzsche non avrebbe solidarizzato neppure con la visione freudiana, che riconosce all’arte la funzione di una “lieve narcosi”, di temporanea evasione e labile compensazione del desiderio indistruttibile.87 Jung sembra più vicino alla prospettiva nietzscheana quando insiste sulla funzione trascendente del simbolo, che, ospitando noto e ignoto, consente un passaggio, un transito, un passar oltre; se ne allontana però insanabilmente nel momento in cui enfatizza la ricerca di un nuovo centro, di una base sicura che si dà nella coniunctio oppositorum.88 Se per Jung la risoluzione dei conflitti psichici sembra fon87 88
S. Freud, Das Unbehagen der Kultur (1929), tr. it. in Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino 1971, pp. 199-282, p. 216. Il passo seguente tratto dal saggio Über das Unbewusste rende evidente non solo il divario da Freud, ma anche la difformità dalla visione di Nietzsche: “Un’interpretazione che riducesse l’affetto del clima religioso che pervade il sogno a una rimozione dell’istinto sarebbe […] del tutto infruttuosa e inutilmente distruttiva. Se invece affermiamo che il contenuto del sogno è simbolico, e intende offrire alla sognatrice la possibilità di giungere ad una comprensione riconciliante e capace di farle ritrovare l’unità interiore, otterremo un prezioso punto di partenza verso un’interpretazione che porti ad un accordo simbolico i valori opposti e che apra la strada a una nuova fase di sviluppo interiore”, C.G. Jung, Sull’inconscio, cit., p. 22. Cfr. G. Pasqualotto, Commento a F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, tr. it. di S. Giametta, Rizzoli, Milano 2011, p. 444: “Il Sé-corpo di Nietzsche è tutt’altro che un centro; è, casomai, un’incessante attività di scentramento. Inoltre
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darsi sul conseguimento di un nuovo equilibrio pacificato, la logica dello Zarathustra è piuttosto quella della connessione dell’eterogeneo e del disparato, che non si risolve mai in un’unità, ma resta tale coinvolgendo la vita nella prassi di una continua sperimentazione. Ciò risulta evidente dallo stesso andamento del testo: il percorso di Zarathustra non è infatti strutturato secondo una narrazione consequenziale, tanto meno segue uno sviluppo dialettico, ma sembra piuttosto riprodurre meccanismi che ricordano le dinamiche del sogno e della memoria involontaria: è un cammino attraversato da sogni, visioni, ricordi e “rivelazioni”, intessuto da canti, inni e ditirambi disseminati in costellazioni, simili a frammenti che prendono di volta in volta avvio da attimi disparati e appaiono divisi da cesure e mutamenti repentini. Si cerca invano una linearità narrativa, una tensione verso una meta, un progresso: l’andamento di fondo è piuttosto quello di un ritorno e di un nuovo avvio, di un continuo ripassare, che si sottrae tuttavia alla ripetizione ciclica del sempre uguale e sa assumersi il passato solo per riattivare e dare un’altra chance a ciò che è stato. Nelle sue trasfigurazioni ed ibridazioni, il percorso di Zarathustra manifesta il carattere di una ricerca, di esperimento di una coscienza che non cessa di testare la potenza di metamorfosi e la chance di ripetute differenze, che non si limita ad accogliere e a contemplare le immagini, assumendosene il peso, ma è capace di interrogarle, sperimentarle, trasvalutarle, in breve: di offrirle alla forza iconoclastica dell’immaginazione e al lavoro dell’espressione che dissipano le rappresentazioni e restituiscono i simboli al loro divenire. 4. Dell’affermazione dionisiaca È dunque con uno sguardo al positivismo e allo storicismo coevi che nella Nascita della tragedia Nietzsche festeggia nel dramma wagneriano la rinascita del mito tragico dionisiaco, e con esso il riscatto dell’arte sulla scienza, dell’espressione poetica sul linguaggio cognitivo del Begriff, della poesia e della musica sulla “odierna venerazione del naturale e del reale”.89 Sotto l’influenza di Schopenhauer e Wagner, nell’ottica di un’arte intesa come consolazione metafisica, questo primo Dioniso è ancora pathos che viene risolto ed oggettivato in un mondo di apparenze apollinee. Dioniso
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per Jung il Sé «non è altro che un concetto psicologico, una costruzione, che deve esprimere un ente per noi inconoscibile» […] per Nietzsche, invece, il Sé non è un concetto, ma è corpo; «concetto», costruzione intellettuale, è piuttosto l’«io»”. GT, §7, p. 53.
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Un’archeologia della cultura nell’epoca del suo declino
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“risolve” la sofferenza dell’individuazione col rendere partecipe l’individuo della sovrabbondanza dell’essere originario e del volere universale, producendo un piacere superiore e sovrapersonale. Questa prospettiva è riproposta nella quarta Inattuale, dove Nietzsche descrive l’effetto del dramma wagneriano sul pubblico nei termini di una purificazione e di una nobilitazione dello spettatore. Partecipe dell’evento sublime, della libertà, della ricchezza di senso e della bellezza espresse nel fenomeno estetico, il pubblico viene riconciliato con la limitatezza della realtà quotidiana: Abbiamo bisogno proprio del drammaturgo totale, perché ci liberi, almeno in certe ore, dalla terribile tensione che l’uomo veggente sente oggi fra sé e i compiti che gli sono imposti. Saliamo con lui sui più alti gradini del sentimento e solo allora ci crediamo di nuovo nella natura libera e nel regno della libertà [...] trasformati così in uomini tragici, facciamo ritorno alla vita, in un singolare sentimento di conforto, e con un nuovo senso di sicurezza, quasi che, dai più grandi pericoli, eccessi ed estasi, avessimo ora ritrovato la via verso ciò che è limitato e familiare: là dove ci si può comportare con superiorità benevola e in ogni caso più nobilmente di prima.90
Nietzsche ritirerà con fermezza la propria adesione al programma wagneriano, di cui criticherà radicalmente i gesti totalizzanti e demagogici e smaschererà la logica assoggettata alla concezione cristiana di colpa ed espiazione, sofferenza e riscatto. Com’è ben noto, lo Zarathustra contiene numerosi elementi satirici nei confronti della tetralogia del Ring des Nibelungen, similmente a come nella quarta parte si manifesta la volontà di parodiare il Parsifal, contrapponendo la particolare purificazione raggiunta nel rituale dionisiaco al miracolo della salvezza con cui si conclude l’opera wagneriana.91 Sembra tuttavia importante sottolineare come già queste prime posizioni estetico-poetologiche, che mostrano una netta apertura verso il pensiero antropologico, siano intese anche nell’ottica di una terapia della cultura che considera il malessere e la sofferenza dell’individuo moderno nel contesto culturale della sua epoca. Nietzsche chiarisce fin 90 91
WB, §7, p. 42. Cfr. Tutti i libretti di Wagner, a cura di O. Cescatti, con una prefazione di Q. Principe, UTET, Torino 1996, p. 765: “Parsifal: Sii salvato, purificato e libero!/ Ora io assumo il tuo ministero./ Sia benedetta la tua sofferenza,/ che donò la forza suprema della pietà/ e il potere della conoscenza più pura/ al folle incerto!”, e più oltre: “Tutti: Miracolo di suprema salvezza!/ Redenzione al Redentore!”. La stesura di una quarta parte rivela come Nietzsche intendesse richiamarsi alla consuetudine dei poeti tragici greci di presentare all’agone, in occasione delle feste dedicate a Dioniso ad Atene, una tetralogia, composta di tre tragedie e di un dramma satiresco.
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Genealogia della cultura
d’ora che nella visione tragica l’angoscia, l’inquietudine, e il disgusto per l’esistenza non è superato in un processo di sublimazione morale,92 tanto meno nell’accettazione dell’ottica schopenaueriana della rassegnazione. Dioniso, quale principio creatore da cui si origina la musica e il mito tragico, è essenzialmente fonte di un piacere estetico, piacere, scrive Nietzsche, paragonabile a quello generato dalla percezione della dissonanza nella musica, cosa che rende evidente il nesso costitutivo che viene stabilito tra l’essenza del tragico e la sfera estetica: “Il godimento che il mito tragico produce ha una patria uguale a quella della gioiosa sensazione della dissonanza nella musica”.93 Il piacere tragico è superiore alla piccola felicità di una coscienza che crede di aver raggiunto la sua conquista, al diletto e alla quiete di uno sguardo che non si sente minacciato; in breve, esso è superiore alla baldanza dell’ottimismo socratico, che è il bersaglio principale di questo scritto. Già nella Nascita della tragedia emerge a tratti una visione del dionisiaco come gioco artistico, innocenza gioiosa del fanciullo eracliteo, piacere di continue creazioni e distruzioni, di un’incessante metamorfosi che afferma la diversità e molteplicità del divenire. Tuttavia, sarà solo con lo Zarathustra che Nietzsche metterà in scena un “dramma”94 che farà sua quest’etica della gioia e dell’affermazione molteplice, superando definitivamente l’ottica della redenzione che ancora domina nel primo scritto. Il percorso di Zarathustra, l’esiliato dalla comunità estetico-religiosa di Bayreuth, si sottrae ormai completamente alla logica di un desiderio che deve venire giustificato, risolto, redento nella magia del suono della melodia wagneriana. A caratterizzarlo sono piuttosto l’esposizione costante alle realtà collettive e alle potenze storiche del suo tempo, dalla folla del mercato agli uomini superiori, la disponibilità di arrischiare un contagio da parte delle forze reattive dell’epoca, e, allo stesso tempo, un atteggiamento di assiduo 92 93 94
La polemica contro la concezione aristotelica della tragedia è formulata già nella Nascita della tragedia, cfr. par. 22. GT, §24, p. 159. È Gadamer a porre l’accento sulla cifra drammatica dello Zarathustra: “Ma se richiamiamo alla memoria questo libro e lo trasfiguriamo in un’azione drammatica in cui i discorsi di Zarathustra si trovano inseriti, si dissolve e svanisce quella successione che dà a questa raccolta di discorsi biblici-àntibiblici il tono di una predica che non vuole aver fine”. Per Gadamer lo Zarathustra ha il carattere di un’esperienza di liberazione per un incondizionato Jasagen; la possibilità di uscire dal ciclo dell’eterno ritorno è vista come un ricominciare: “Il dramma di Zarathustra è l’azione che lo rende libero di dire sì”, H.-G. Gadamer, Das Drama Zarathustras (1986), tr. it. di C. Angelino, Il dramma di Zarathustra, Il Nuovo Melangolo, Genova 1991, pp. 45 e 56.
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Un’archeologia della cultura nell’epoca del suo declino
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ascolto della propria “anima”,95 alla ricerca di quel desiderio di vita che vi è celato assieme alla sofferenza e all’errore, e che deve essere portato in superficie per venire trasformato in nuovi discorsi e nuovi gesti. In questo nuovo dramma del sé tutto è affidato alla forza del singolo, alla sua capacità di dissipare le rappresentazioni e di debellare il contagio delle forze reattive, alla sua disponibilità di farsi archeologo della propria vita e di tradurre in realtà i moti dionisiaci. La vita dionisiaca non designa un’origine e una pregnanza insuperabile, bensì una volontà che sta semplicemente accanto a Zarathustra come un’esigenza e una possibilità. In questo senso bisogna leggere la famosa lettera a Overbeck del dicembre del 1882, in cui Nietzsche si descrive invischiato in un’autentica crisi esistenziale e, allo stesso tempo, esprime la volontà di fare del negativo che minaccia di soffocarlo l’occasione di una trasformazione e di uno sviluppo, il presupposto per una vita più piena e consapevole: Quest’ultimo boccone di vita è stato per me finora il più duro da masticare, ed è ancora possibile che mi soffochi. Ho sofferto come di una follia per i ricordi degradanti e tormentosi di quest’estate […]. Se non riesco a scoprire l’espediente degli alchimisti per trasformare anche questo fango in oro, sono perduto. Qui ho la più bella opportunità per dimostrare che per me «ogni esperienza è utile, ogni giorno sacro e ogni uomo divino».96
Lo Zarathustra è questo tentativo di non rimanere schiacciato dall’angoscia e dal disgusto per l’esistenza, è l’esperimento alchemico con cui Nietzsche si accinge a superare il nichilismo dal punto di vista filosofico, a prendere il negativo nel modo migliore e a trasformarlo. Una volta convalescente, dopo aver eluso il peso di tutto quel che lo stremava pesandogli sulle spalle, e che lo aveva reso “come un malato”,97 Zarathustra esclamerà: “il mio baratro parla, la mia ultima profondità io l’ho rovesciata alla luce!”98 Il pensiero inedito di Zarathustra si manifesta così in una negazione della profondità e in una nuova esperienza dionisiaca della leggerezza: “Il conforto e la guarigione ch’io mi sono inventato era appunto: ch’io dovessi tornare a cantare”,99 e ancora: “Anima mia, io ti insegnai a dire 95
96 97 98 99
Con il concetto di Seele, che ricorre continuamente nello Zarathustra, Nietzsche non intende ovviamente un’essenza spirituale che pone il corpo come strumento dell’anima. Piuttosto l’anima “non è altro che una parola per indicare qualcosa del corpo”. Za, Dei dispregiatori del corpo, p. 34. BW IV, 364, p. 292. Za, La visione e l’enigma §1, p. 190. Za, Il convalescente §1, p. 264. Ivi, p. 268.
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Genealogia della cultura
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“oggi” come se fosse “un giorno” e “un tempo” e a danzare al di sopra di ogni “qui” e “là” la tua danza circolare”.100 Di fatto, lo Zarathustra è un unico, grande tentativo di liberarsi dal peso delle forze reattive, di vanificare quei pericoli che, nella forma di tentazioni sempre in agguato ad ogni angolo, agiscono come delle minacce vere e proprie per la vita. Sempre tuttavia nella consapevolezza che esse non possono mai venire superate in modo finale e risolutivo, perché non esiste una condizione di salute in cui insediarsi definitivamente, non esisteva come condizione originaria nel passato, e non esisterà nemmeno nel futuro. Sempre ad un passo dal cedere irrevocabilmente al disgusto per l’ultimo uomo e le sue piccole virtù, dall’abbracciare la visione nichilistica della vanitas delle cose, dal limitarsi ad articolare un risentimento, Zarathustra viene affetto in maniera sempre diversa dalle forze reattive, ed è capace di rispondere sempre e di nuovo agendo una differenza. Il testo è ricco di momenti critici che si rovesciano per così dire su se stessi: spaesamento, malattia, disgusto, malinconia, generano nuovo desiderio, guarigione, salute, attività. Nella logica specifica della temporalità instaurata dal pensiero dell’eterno ritorno, le forze reattive, spinte fino al punto del loro massimo potere, danno inspiegabilmente vita ad una nuova forza, forniscono una nuova volontà, “uno strano potere, attraverso il quale molte cose sono rimesse in discussione”.101 Come nella scena intitolata Della canaglia, in cui il motivo del soffocamento annuncia già la visione nichilistica e negativa dell’eterno ritorno: Faticosamente il mio spirito salì le scale, e con cautela; elemosine di piacere furono il suo ristoro; appoggiandosi al bastone procedeva lentamente la vita per il cieco. Che cosa mi accadde poi? Come mi salvai dal disgusto? Chi ringiovanì il mio occhio? Come volai all’altezza dove nessuna canaglia più siede alla fonte? Fu il mio stesso disgusto a crearmi ali e forze presaghe di sorgenti? In verità, dovetti volare alla massima altezza, per ritrovare la sorgente del piacere!102
Zarathustra ripercorre la propria vita malata, condannata dalla malattia ad un’azione più ristretta e limitata, al passo lento e stentato di un cieco. Non si tratta, però, di risalire alle cause del proprio malessere, bensì di vivere un’esperienza di vulnerabilità e di esposizione al rischio fino al punto in cui si può liberare quell’energia che genera un nuovo movimento 100 Za, Del grande anelito, p. 271. 101 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 99. 102 Za, Della canaglia, p. 116.
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Un’archeologia della cultura nell’epoca del suo declino
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e dà avvio ad una nuova storia. Qui non sembra sia in gioco una semplice capacità di operare una scelta, di accettare e decidere consapevolmente.103 La suggestiva scena Della visione e dell’enigma, in cui è rappresentato il momento di massima esposizione al fattore patogeno che sta quasi per soffocare il pastore, rende evidente che è un istinto profondo di vita ad agire la decisione, quasi un impulso primordiale che scuote il corpo del giovane e gli fa agire la differenza. È il balzo all’esterno del circolo, lo sporgersi fuori dalla propria storia e oltre la propria stessa natura “Non più pastore, non più uomo, – un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva!”.104 La paura, la presa di coscienza improvvisa e balenante del pericolo, della propria fragilità in quanto essere, è quindi la “via terapeutica di ritorno al senso della terra”, che ricomprende l’uomo nell’orizzonte dell’esperienza di sé: “L’esposizione al rischio, l’accettazione dell’esperienza nelle sue dimensioni-limite, nella misura in cui si ricollega l’uomo alla materialità del corpo, può anche liberarlo, orientandolo verso orizzonti di esperienza nuovi ed imprevisti, nei quali ogni evento ritorna”.105 In questi attimi cruciali in cui avviene la trasformazione si dischiudono scenari nuovi, attimi dal divenire ignoto ma, proprio per questo, riconsegnati alla libertà più completa. Dopo la conoscenza della negazione nei suoi vari aspetti e nelle sue varie forme, si offre all’immaginazione la visione di una sovrumana leggerezza, di squarci privilegiati di quiete conquistata in cui la vita torna ad essere pura sensualità di forme, colori, profumi e vibrazioni: “Estate io sono diventato tutto e meriggio estivo!”106 Sono spazi sottratti ad obblighi sostanziali e assegnazioni prestabilite, momenti palingenetici in cui si afferma la differenza e si gode di essa. Zarathustra
103 Sul problema della decisione in riferimento al morso del pastore cfr. G. Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano 1974, p. 206: “(In questa decisione) c’è un elemento istitutivo e fondante, e un elemento di accettazione. L’elemento istitutivo è il fatto che l’eterno ritorno deve essere generato, voluto (non accettato ma deciso, scelto come possibilità)”. Qui si concorda tuttavia con G. Franck, che interpreta la nozione di decisione alla luce della tonalità affettiva dominante dell’intero episodio, che è quella di un’“esperienza panica di terrore elementare”, per cui il meccanismo di risposta sarebbe messo in opera dall’istinto prodotto dalla paura piuttosto che dalla volontà intenzionale. Non è, insomma, una decisione mediata dalla coscienza. Cfr. G. Franck, Nietzsche: tempo sacro, tempo del gioco nel pensiero dell’eterno ritorno, in Crucialità del tempo. Saggi sulla concezione nietzschiana del tempo, a cura di M. Cacciari, Liguori, Napoli 1998, pp. 93-129, qui pp. 106ss. 104 Za, La visione e l’enigma §2, p. 194. 105 G. Franck, Nietzsche, cit., p. 108. 106 Za, Della canaglia, p. 117.
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Genealogia della cultura
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può allora festeggiare la magia dionisiaca del vento, simbolo della libertà riconquistata e del gioco guerresco della differenza: E come venti vigorosi noi vogliamo vivere a di sopra di loro, vicini alle aquile, vicini alla neve, vicini al sole: così vivono venti vigorosi. E un giorno voglio soffiare come un vento anche tra loro e col mio spirito togliere il fiato al loro spirito: così vuole il mio futuro.107
È davvero significativo che Jung interpreti esclusivamente nel segno della distruzione e della sopraffazione un’immagine che per Nietzsche veicola palesemente gioia, esuberanza, tracotanza, aggressività di una negazione attiva.108 Come scrive Bachelard, “la prima trasmutazione dei valori in Nietzsche è una trasmutazione d’immagini. Trasforma la ricchezza del profondo nella gloria dell’altezza”.109 Di fatto, il vento è un simbolo che percorre tutto l’immaginario nietzscheano,110 a designare sempre il punto in cui avviene il capovolgimento, l’impulso negativo si modifica, e si apre un’orizzonte sconfinato e libero da nubi. Solo ora si dischiudono quegli spazi di “quiete alciònia”, tipica dei giorni di calma del mare che si hanno in prossimità del solstizio d’inverno, quando secondo gli antichi nidificavano gli aironi. Essa designa la riconquistata serenità dell’anima di Zarathustra, che “senza impazienza, senza pazienza, [...] ha disimparato anche la pazienza – perché non “patisce” più”.111 Nel mezzo di questi paesaggi 107 Ivi, p. 117. 108 Tradizionalmente il vento è, sin dall’antichità, simbolo delle passioni, come in Saffo o in Ovidio; nelle liriche goethiane Meerestille e Glückliche Fahrt riappare come metafora del risveglio del desiderio che vince l’immobilità e il pessimismo nell’immagine di una quiete opprimente cede il passo al levarsi di nuove brezze, così che le navi possono salpare felici verso nuove mete. 109 G. Bachelard, Psicanalisi dell’aria, cit., p. 166. 110 Già nella Nascita della Tragedia, dove la forza dionisiaca è paragonata al vento di tempesta che disperde i resti di una cultura morente: “Ma come cambia improvvisamente il deserto or ora così foscamente descritto della nostra stanca cultura, quando lo tocca la magia dionisiaca! Un turbine afferra tutto ciò che è spento, marcio, rotto, appassito, lo avvolge roteando in una rossa nube di polvere e come un avvoltoio lo porta in alto”. GT, §20, p.136. 111 Nella tradizione filosofica e letteraria l’immagine di un paesaggio privo di vento è generalmente connotata da ambivalenza: in Platone essa esprime lo spegnersi della volontà, mentre in Seneca, al contrario, denota uno stato di tranquillità e serenità dell’anima. Nello Zarathustra Nietzsche accoglie questa duplice connotazione: l’assenza di vento si sposa talora con un’atmosfera plumbea e crepuscolare, espressione di una condizione di stanchezza, malinconia, intorpidimento; altrove indica una sensazione di pienezza e felicità che invade spirito e corpo, una condizione di pace con se stessi e con il mondo.
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Un’archeologia della cultura nell’epoca del suo declino
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metaforici, simboli di condizioni dell’anima, si compie la transvalutazione dell’immagine schopenaueriana della Meerestille der Seele che costituisce uno dei nuclei simbolici del Mondo come volontà e rappresentazione.112 Se in Schopenhauer la navigazione attraverso il dolore si conclude nella noluntas, per Nietzsche è la quiete della volontà a rappresentare la malattia, mentre il repentino levarsi del vento ha il sapore della potenza, annuncia la guarigione, l’emergere di nuovo desiderio, l’attività di una forza immediatamente attiva.113 Il vento veicola la gioia con cui è vissuta la propria differenza, per questo esso è spesso associato ad un movimento di danza, o alla risata: “sia lodato questo spirito di tutti gli spiriti liberi, la burrasca di risate, che soffia polvere negli occhi a tutti gli esulcerati melancolici!”.114 Fra tutte le immagini nietzscheane, il vento è forse quella che più garantisce una lezione istantanea, che meglio determina un movimento repentino. Esso non suggerisce a Nietzsche un paesaggio, ma un’azione, un tradursi dal passivo all’attivo. Grazie al suo carattere immediato si percepisce che la trasmutazione del negativo in positivo, del pesante in leggero, dell’immobilità in dinamicità, non si compie in un’emanazione dolce e lenta, ma è il risultato di una volontà istantanea, che è volontà pura. Il vento segna l’atto di una decisione che non si può revocare, lo scatto in cui si ritrova se stessi 112 L’“assoluta quiete dell’animo, pari alla calma del mare” è l’immagine schopenaueriana dello spegnersi della volontà. A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung (1819), tr. it. di S. Giametta, Il mondo come volontà e rappresentazione, Bompiani, Milano 2006, p. 1894. Cfr. al riguardo V. Vivarelli, «Meeresstille» und «röchelnde Todesstille» in Zarathustras metaphorischer Landschaft, in Nietzsches «Also sprach Zarathustra». 20er Silser Nietzsche-Kolloquium 2000, a cura di P. Villwock, Schwabe, Basel 2001, pp. 76-90. 113 Lo esprime già molto bene MA II, af. 349, p. 120: “Nel punto di congelamento della volontà. E finalmente un giorno essa viene, quell’ora che ti avvolgerà nella dorata nube dell’assenza di dolore: in cui l’anima gode della propria stanchezza e, felice nel paziente giuoco con la sua pazienza, somiglia alle onde di un lago, che in un quieto giorno d’estate, nel riverbero di un variopinto cielo vespertino, lambiscono la riva, la lambiscono e sono di nuove silenziose, senza fine, senza scopo, senza sazietà, senza bisogno, - tutto pace, che si allieta del mutamento, tutto fluttuare e rifluttuare nel battito della natura». Questo è il sentimento e il parlare di tutti i malati: ma se per loro giunge quell’ora, giunge anche, dopo breve godimento, la noia. Ma questa è il vento del disgelo per la volontà congelata: essa si sveglia, si muove e genera ancora desiderio su desiderio. Il desiderare è un segno di guarigione o di miglioramento”. 114 Za, Dell’uomo superiore §20, pp. 358. Ineludibile è questo tono anche nell’Inno al Mistral: “Chi non sa danzar coi venti,/ chi s’involge in bende e lacci,/ vecchi storpi menzogneri/ tizio e caio, oche virtuose,/ posapiano dell’onore,/ via dal nostro paradiso!” F. Nietzsche, Le poesie, a cura di A.M. Carpi, Einaudi, Torino 2008, pp. 114-119.
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e si ritorna alla coscienza di essere una volontà. Per questo, scrive Bachelard nel descrivere il cosiddetto “psichismo ascensionale” nietzscheano, “si intende malamente l’universo nietzschiano quando non si mette al primo posto l’immaginazione dinamica, se si considera l’universo come un immenso mulino che gira senza fine, che mastica sempre lo stesso grano. Un siffatto universo è morto, è annientato dal destino. Un cosmo nietzschiano vive degli istanti ritrovati da impulsi sempre giovani”.115 L’esperienza dell’eterno ritorno funge per Nietzsche da monito, ma non nel senso che vorrebbe Jung, che raccomanda di ascoltare la voce dello spirito di gravità che riconduce l’individuo alla saggezza della terra.116 A tal riguardo pare significativo che quando Jung si riferisce a ciò che Zarathustra chiama “plebaglia”, o “ultimo uomo”, sembra pensare ad una quantomeno supposta semplicità e genuinità dell’uomo normale, cui basta in fondo soddisfare i propri istinti, mentre nella visione di Nietzsche, ben meno edulcorata, l’ultimo uomo non è l’uomo naturale, bensì il prodotto della decadenza della società occidentale, l’uomo del risentimento, che solo con uno sforzo immenso, appunto sovrumano, riesce a liberarsi dallo spirito di gravità e di vendetta che soffoca la libera capacità espressiva del singolo. Condannato all’illusione di una piccola felicità, che è di fatto una passività in ogni istante possibile preda della malinconia e del risentimento, l’ultimo uomo è incapace di rovesciare l’assillo dell’eterno ritorno in un’occasione per vivere in modo pieno, per trasformarsi. È questo uomo l’oggetto del grande disgusto di Nietzsche, e da qui emerge la necessità di una liberazione totale, vissuta senza compromessi, che ad una vita fondata su valori e saperi che la trascendono,117 sostituisca creazioni e gesti nuovi compiuti 115 G. Bachelard, Psicanalisi dell’aria, cit., p. 163. 116 Il fatto che Jung veda in quest’immagine l’azione distruttiva di una forza non più governabile e risolvibile in un nuovo simbolo unificatore dice palesemente ben di più sulla sua resistenza a porsi nell’ottica della grande salute nietzscheana, che non sull’effettiva condizione di salute o di malattia di Nietzsche stesso. Volendo capovolgere le prospettive e adottare lo sguardo di Nietzsche, si dovrebbe arrivare a dire che ad agire nella lettura junghiana è principalmente una forza reattiva, che pensa la guarigione nell’ottica dell’adattamento e della parziale limitazione. Di fatto, è quest’ottica a parlare quando Jung giudica il morso del pastore una mossa da esaltato e interpreta la sua risata come la smorfia spasmodica di uno schizofrenico, mentre nelle parole del nano, che diffondono sprezzanti la visione ciclica e negativa dell’eterno ritorno, riecheggerebbe per lui la profonda saggezza della terra, l’ammonimento del pericolo che si corre anche solo a pensare oltre la propria stessa natura. Allo spirito di gravità, infatti, Zarathustra risponde adirato: “non prendere la cosa troppo alla leggera!” Za, La visione e l’enigma §2, p. 192. 117 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 27. Il continuo divenire che erompe come forza vitale inghiotte ogni sistema di giudizio fondato sul valore che tra-
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sulla base di esigenze immediatamente vitali, di per sé sempre innocenti. Zarathustra si sottrae alla logica della redenzione per porsi nell’ottica di una guarigione superiore, che non rinuncia al grado di intelligenza, attenzione e sensibilità che l’esperienza della sofferenza, della malattia e del disgusto hanno arrecato.118 Nella visione di Nietzsche il no della malinconia abissale viene capovolto nel sì di una leggerezza suprema e di un fatalismo gioioso, che se implica l’accettazione dell’inquietudine che l’idea di un divenire senza scopo e fine porta con sé, arma al tempo stesso il singolo di una libertà illimitata e di uno sguardo festoso con cui abbracciare una molteplicità gaia e cangiante di prospettive. Forse nessun’altra scena nello Zarathustra esprime così vividamente l’attraversamento e la trasformazione del negativo come il capitolo L’Indovino, l’annuncio dell’ultimo stadio del nichilismo e con esso del trionfo dell’ultimo uomo, dell’individuo che non ha più desideri, che non vibra più.119 Nella prima parte della scena si diffonde la credenza che esprime il gesto nichilistico dell’epoca, con il fatale rifugiarsi dell’anima angosciata nella generalizzazione del “tutto è vano”. L’indovino è l’uomo che rimugina, il simbolo di una vita schiacciata dalla storia, che ha perso la fiducia in un suo compimento teleologico-teologico. Come il cammello, o lo spirito di gravità, egli assume su di sé l’enorme peso del passato, senza essere in grado di interrogarlo e di ricostellarlo. La profezia si insinua nell’anima di Zarathustra, trasformandolo in un automa spento: la malinconia soffoca l’energia vitale, la mente naufraga in un mare di negatività. Abbandonatosi scende la vita. Su questo aspetto cfr. il saggio di Deleuze Per farla finita con il giudizio, cit. 118 La malattia affina la capacità ermeneutica. In Ecce Homo Nietzsche scrive al riguardo: “quell’arte della filigrana nel prendere e comprendere in genere, quel tocco per le nuances, la ma capacità psicologica di «vedere dietro l’angolo» e quant’altro mi è proprio, io lo imparai allora; fu il vero dono di quel periodo, in cui tutto si affinò in me, a cominciare dall’osservazione stessa e da tutti i suoi organi”. “Con ottica di malato guardare a concetti e valori più sani”. EH, Perché sono così accorto 1, pp. 272-273. In questo senso Franck scrive che “vi è sì dunque possibile riaffermazione dell’esperienza del corpo, culminante nel «tempo pieno» dell’«ora» in cui l’individuo riacquista la saggezza dei propri impulsi; tuttavia questa possibilità non è affatto affidata all’«ingenuità» di un comportamento spontaneo, ma si produce al contrario attraverso una inflessibile disciplina ermeneutica. Non vi è in Nietzsche esperienza senza critica, ma costante, reciproca incidenza di «innocenza» e «scrittura», «elaborazione» e «dato»”. G. Franck, Nietzsche, cit, p. 108. 119 Cfr. la profezia del proemio: “Guai! Si avvicinano i tempi in cui l’uomo non scaglierà più la freccia anelante al di là dell’uomo, e la corda del suo arco avrà disimparato a vibrare!” Za, Prefazione di Zarathustra §5, p. 11.
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infine al sonno, Zarathustra lascia la propria anima in balia delle forze negative del non senso che sono all’opera, quasi per vedere dove esse conducano. In questo sonno di semi-morte non può che venire un sogno orrendo, che ha tuttavia carattere profetico: si tratta di un’ulteriore annunciazione dell’idea nichilistica dell’eterno ritorno, mascherata nell’immagine di una resurrezione dei morti ad opera di un vento impetuoso che scoperchia le bare e scaraventa addosso a Zarathustra risate in mille forme, gettandolo a terra enormemente spaventato.120 Una volta sveglio, non sapendo interpretare il sogno, Zarathustra prega i discepoli di aiutarlo a sciogliere l’enigma. Al che il discepolo prediletto, dimostrando di aver imparato fin troppo bene la lezione di chi considera maestro, si affretta ad identificare Zarathustra con la risata travolgente che spalanca le porte della cittadella della morte e trionfa con la potenza di un vento impetuoso su mestizie e afflizioni. Zarathustra, stranito, si sottrae dapprima all’entusiasmo dei discepoli che lo festeggiano, la sua mente sembra ancora una volta vagare in remote lontananze. Improvvisamente, però, si risveglia, il suo occhio è trasformato, e con nuova energia propone di fare penitenza per i sogni cattivi con un lauto pasto, mentre con una battuta invita anche l’indovino a sedere alla sua tavola: “voglio anche mostrargli un mare, in cui possa annegare!”121 La trasformazione del negativo richiede la capacità di sviluppare mezzi sempre nuovi per rovesciare l’angoscia del non senso nella gioia di una libertà conquistata e nella spensieratezza suprema di un’anima che gode delle nuove e singolari tonalità che di volta in volta sa assumere. Il messaggio del sogno non viene svelato, bensì vissuto come un’esperienza che trasforma a livello subcosciente, senza che vi sia stata in primo luogo una comprensione da parte della coscienza. Zarathustra, quindi, non si lascia festeggiare dai discepoli, ma preferisce abdicare dal ruolo di portatore di una nuova dottrina, rifiutando l’ancoraggio alla propria autorità e sottraendosi ad un gesto che lo vuole assicurare definitivamente ad una rappresentazione di se 120 Nietzsche mette l’accento sia sull’“inconscia protezione di sé” di fronte “alla conoscenza più grave”, sia sulla volontà con cui il soggetto la ricerca e la crea: “I. Evocazione della verità del sepolcro. Noi la creammo, noi la destammo: suprema espressione del coraggio e del sentimento di potenza”. NL VII/I, 21[6], p. 265. Sulla scena in questione, per cui Nietzsche rielabora sia del materiale biografico, proveniente da due sogni propri, sia fonti letterarie, in particolare il racconto di un sogno inserito nel romanzo Siebenkäs (1796) di Jean Paul, cfr. le importanti considerazioni di A. Bennholdt-Thomsen, che insiste sul modus esperienziale e sul carattere oracolare del sogno: Träume und Visionen als Erkenntnis- und Darstellungsmittel in Also sprach Zarathustra, in Villwock (a cura di), Nietzsches «Also sprach Zarathustra», cit., pp. 55-75. 121 Za, L’indovino, p. 167.
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Un’archeologia della cultura nell’epoca del suo declino
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stesso. Tuttavia egli resta sovrano del proprio discorso, e imprime inaspettatamente alla scena una svolta comica, stabilendo la priorità del proprio appetito sulla necessità di interpretare il sogno e di soppesare gravemente l’accaduto. Di fatto, già nella Nascita della tragedia Nietzsche sottolineava l’effetto salvifico del comico, capace di scaricare a livello fisiologico il disgusto per l’esistenza. L’episodio dell’indovino anticipa la cena con gli uomini superiori del quarto libro, la quale allude, parodiandola, alla scena evangelica dell’ultima cena e al sacrificio di Cristo, ma anche, come rende evidente la conclusione della prefazione alla Nascita della tragedia, alla solenne festività wagneriana di Bayreuth, cui Zarathustra contrappone la festa dionisiaca e l’“arte della consolazione dell’al di qua”:122 E anche se sulla terra vi sono paludi di densa tetraggine: chi ha piedi lievi, riuscirà a correre anche sopra alla melma e a danzarvi come su ghiaccio polito. Elevate i vostri cuori, fratelli, in alto! più in alto! E non dimenticatemi le gambe! Alzate anche le vostre gambe, bravi ballerini, e, meglio ancora: reggetevi sulla testa!123
Se si vuole proprio parlare di un obiettivo, o di una meta verso cui potrebbe tendere il percorso di Zarathustra, si può forse indicare nell’esperienza di come la vita, nella sua essenza e profondità, e nonostante la sofferenza e l’errore, persista e continui indistruttibile, potente e gioiosa nella sua presenza e fisicità, così come lo era il coro dei satiri nella tragedia antica, che permaneva immutato al di là degli eventi che in essa si davano. Questa esperienza, di cui lo Zarathustra è la realizzazione espressiva, sembra trovare il suo gesto più proprio nel canto della mezzanotte ripreso e commentato a conclusione della quarta parte nella scena del Canto del nottambulo: “Profondo è il mondo,/ e più profondo che nei pensieri del giorno./ Profondo è il suo dolore –, Piacere – più profondo ancora di sofferenza”.124 È un canto corale intonato all’istante terreno vissuto nella sua pienezza più profonda, quando, accanto a Zarathustra, il gruppo degli uomini superiori sembra farsi consapevole della propria guarigione e trasformazione.125 Ciò che dell’eterno ritorno era pensiero, formula o idea, non viene interrogato a livello categoriale, ma si fa narrazione e canto. L’istanza redentrice è
122 123 124 125
GT, Tentativo di autocritica §7, p. 14. Za, Dell’uomo superiore §17, p. 357. Za, Il canto del nottambulo §12, p. 393. NL VII/I, 21[3], p. 263: “Momento decisivo: Zarathustra chiede a tutta la folla presente alla festa: «Volete tutto questo ancora un volta?» - Tutti rispondono «sì!» Allora muore di felicità”.
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Genealogia della cultura
il piacere che supera ogni sofferenza, la sua comprensione più profonda nell’ora della mezzanotte, e la volontà concreta di vincolare del tutto gli ospiti al momento presente e pienamente terreno.126 Questo istante è così unico e prezioso che non può essere diverso, così che il desiderio del suo eterno ritorno è per così dire la sua naturale conseguenza.
126 Sull’essenza dell’attimo cfr. G. Pasqualotto, Commento, cit., p. 483: “Mezzogiorno e mezzanotte non sono momenti privilegiati, attimi eccellenti, rispetto ai quali gli altri possono venir classificati meno degni di essere vissuti; ma sono «squarci» che dicono con più forza ed evidenza la «perfezione» di ogni attimo, ossia la sua essenza nel senso della «mobilità», della transitorietà, della precarietà; ossia dell’incessante divenire. Qui, inoltre, ancor più che nel capitolo La visione e l’enigma, questa «essenza» dell’attimo si fa più palese: se là, infatti, si diceva che l’attimo «trae dietro anche se stesso» per indicarne la momentaneità, ora questo concetto viene reso più evidente rappresentando l’attimo non come unicum, ma come un insieme dinamico di due elementi complementari, mezzogiorno e mezzanotte. In tal modo non si dice soltanto che ogni attimo travolge e muta se stesso, ma si dice anche che è in grado di farlo perché ha al suo interno due «principi» opposti, epperò complementari”.
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III. IL “TIPO ZARATHUSTRA”
1. Metamorfosi dello spirito. Sulla cura del singolo In una serie di appunti risalenti all’autunno del 1883, che contengono abbozzi e idee per la terza e la quarta parte dello Zarathustra, si legge l’esortazione seguente: “Fummo noi a creare il pensiero più grave – adesso creiamo l’essere per il quale quel pensiero sia lieve e beato!”1 Questa sollecitazione rende evidente come l’obiettivo dell’archeologia nietzscheana sia la creazione di un modello, di un “tipo” che, oltre ad essere il risultato di un percorso individuale, esprime anche la partecipazione ad un’esigenza sovrapersonale. Lungi dal volersi costituire come l’ennesima rappresentazione vincolante, il tipo è per Nietzsche un’astrazione figurale che circoscrive la zona intermedia tra determinazione obiettiva e realizzazione individuale, un paradigma che, pur nella sua singolarità, esprime anche una pretesa normativa, che si offre ad un tempo come oggetto di conoscenza e come strumento con cui interpretare l’oggetto stesso.2 In un frammento del 1881, eloquentemente intitolato Per la «cura dell’individuo», Nietzsche elabora già in questo senso un progetto preciso di costruzione di sé che, a fronte del successivo percorso fallimentare delle realtà collettive, appare pressoché profetico nel cogliere la necessità della cura sui: 1) Deve partire dalle cose più vicine e più piccole e stabilire per sé tutta la dipendenza nella quale è nato ed è stato educato 2) parimenti, deve comprendere il ritmo abituale del suo pensiero e del suo sentire, i suoi bisogni di nutrimento intellettuale
1 2
NL VII/I, 21[6], p. 266. Secondo Agamben (Signatura rerum, cit.) il paradigma è un “fenomeno storico positivo”, che rende intellegibile un contesto o un problema più vasto (p. 11), una forma di conoscenza che non è né induttiva né deduttiva e così neutralizza “la dicotomia tra generale e particolare” (p. 37).
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Genealogia della cultura
3) poi, deve tentare mutamenti di ogni specie, prima di tutto per rompere le abitudini (molti cambiamenti di dieta, con l’osservazione più acuta) 4) deve modellarsi sui suoi avversari, deve tentare di mangiare il loro nutrimento. Deve viaggiare in ogni senso. Durante questo periodo, sarà «incostante e fugace». Di tanto in tanto deve riposare sulle sue esperienze – e digerire. 5) A questo punto, il compito superiore: il tentativo di creare un ideale. Poi, un compito ancora superiore – vivere appunto questo ideale. 6) Deve passare attraverso una serie di ideali.3
Come si vede, tale percorso di cura contempla una serie di minuziose prescrizioni che ben si prestano ad essere lette come un commento alla parabola del cammello, del leone e del fanciullo, contenuta nel primo dei discorsi di Zarathustra. Senza voler ridurre la sceneggiatura simbolica della parabola, così potente nell’elementarità delle sue figurazioni, ad una sequela di disposizioni, si ritiene che questo frammento possa illuminare le sfaccettature dell’esperienza sottesa al processo simbolico raffigurato, aiutando ad ancorarla alla critica nietzscheana dei valori e alla polemica contro la realtà culturale e sociale del Reich e i suoi miti. Nel contesto di una rottura radicale con il codice morale esistente, l’esperienza di soggettivazione qui tratteggiata si configura come una cura dalla décadence e dal nichilismo nell’ottica di un’estetica dell’esistenza in cui l’individuo foggia per se stesso uno stile di vita nello stesso modo con cui un artista dà forma alla propria opera. In prima istanza si tratta di prendere coscienza della propria dipendenza dal contesto culturale, sulla base della considerazione secondo cui ogni individuo è plasmato, corpo e mente, dalle esperienze e inclinazioni dei propri genitori e antenati, e dai valori che essi gli trasmettono.4 Alla presa di consapevolezza dei propri ritmi vitali e bisogni “intellettuali” segue quindi una precisa “dietetica” mirata all’emancipazione dall’ambiente culturale in cui si è cresciuti e ci si trova ad operare. Rilevanti sono i piccoli spostamenti, le trasformazioni minuscole che l’individuo, in un lavoro del sé sul sé, è in grado di operare.5 Essenziale è poi il confronto con i cosiddetti “avversari”: la costruzione del proprio sé prevede l’assimilazione di voci altre, un processo di trasposizione e riscrittura che tanto più converge 3 4 5
NL V/II, 11[258], p. 424. JGB, Che cos’è aristocratico?, af. 264, p. 187: “È del tutto impossibile che un uomo non porti incarnate le qualità e le predilezioni dei suoi genitori e avi”. Cfr. EH, Perché sono così accorto §10, p. 304: “Queste piccole cose – alimentazione, luogo, clima, svaghi, tutta la casistica dell’egoismo – sono inconcepibilmente più importanti di tutto ciò che finora è stato considerato importante. Proprio da qui bisogna cominciare a cambiare tutte le proprie nozioni”.
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Il “tipo Zarathustra”
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sul piano della letterarietà quanto più vi trasporta il materiale tratto da una storia del pensiero che abbraccia la tradizione filosofica e letteraria antica, dai frammenti eraclitei alla tragedia attica, al platonismo, allo stoicismo e all’epicureismo, quindi le vicende vetero e neotestamentarie, la Bibbia di Lutero, il teatro shakespeariano, la tradizione del grande moralismo francese, la filosofia spinoziana e voltairiana, il romanticismo, il pensiero di Schopenhauer, nonché le maggiori composizioni della tradizione operistica e musicale.6 È difficile non pensare a Wagner come alla principale tra le figure di antagonisti-benefattori cui Nietzsche qui fa riferimento, se si considera che in Ecce Homo scriverà al riguardo: “Penso di conoscere meglio di chiunque l’enormità del potere di Wagner, i cinquanta mondi di estasi sconosciute, per i quali nessuno, a parte lui, ha avuto l’ala; e poiché sono abbastanza forte da volgere in mio vantaggio anche ciò che è più problematico e pericoloso, e trarne forza, io chiamo Wagner il più grande benefattore della mia vita”.7 La conditio di questo processo di Selbstwerdung consiste dunque nella disponibilità a sacrificare vecchi equilibri, ad arrischiare configurazioni inedite inoculando nuovo materiale che, proprio perché produce caos, disorientamento, insicurezza e malattia, può dare al tempo stesso vita a creazioni inedite, secondo un’economia che mira alla “nobilitazione attraverso la degenerazione”: “Per l’uomo singolo il compito dell’educazione suona così: renderlo così saldo e sicuro, che egli come tutto non possa più affatto essere deviato dalla sua strada. Ma poi l’educatore deve produrgli 6
7
Nel contesto del lavoro all’edizione critica Montinari fece riferimento alla modalità ad un tempo “esemplare” e “bizzarra” con cui la tradizione letteraria e filosofica aveva trovato collocazione nel tessuto intertestuale dell’opera (cfr. M. Montinari, Zum Verhältnis Lektüre – Nachlaß – Werk bei Nietzsche, in «Editio», 1, 1987, p. 249: “in Nietzsche (verdichtet sich) eine vielfache philosophische und literarische Tradition exemplarisch und eigentümlich”). Citazioni, allusioni, associazioni e reminiscenze vengono segnalate nell’apparato critico dello Zarathustra dell’edizione critica completa KGW (VI/4). A questa edizione fanno solitamente riferimento gli studi sulle fonti (Quellenforschung), cui si richiama l’attuale discussione sull’intertestualità e sulla parodia nel poema, che vengono da un lato interpretate come un “calcolo estetico” conscio nel contesto di un atteggiamento autoparodistico del protagonista (cfr. C. Zittel, Das ästhetische Kalkül von Nietzsches Also sprach Zarathustra, Königshausen&Neumann, Würzburg 2000), dall’altro lette nell’orizzonte della “memoria inconscia” (NL VII/I/II, 15[52], p. 153), per cui l’“oblio produttivo” diviene un momento fondamentale della produzione del discorso (cfr. E. Kleinschmidt, Verschiebungen: zu einer Kulturtheorie der Vergessenheit in Friedrich Nietzsches „Also sprach Zarathustra“, in P. Villwock (a cura di), Nietzsches «Also sprach Zarathustra», cit., pp. 125-142). EH, Perché sono così accorto §6, pp. 298-299.
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Genealogia della cultura
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delle ferite, o utilizzare le ferite che il destino gli produce, e quando così sono nati il dolore e il bisogno, qualcosa di nuovo e di nobile può essere inoculato nei punti feriti”.8 La stesura del poema rappresenta il momento decisivo di un percorso terapeutico volto alla costruzione di un tipo ideale. Che il tipo non rappresenti per Nietzsche solo una realtà biologica e psichica, ma anche storica, sociale e politica,9 è reso evidente in quella grande biografia intellettuale che è Ecce Homo, l’estremo gesto istrionico con cui Nietzsche espone la propria vita e le circostanze da cui nacque quell’esperienza esistenziale così intensa che fu per lui la stesura dello Zarathustra, proprio in riferimento al quale scrive appunto: “Solo a partire da me ci sarà sulla terra grande politica”.10 Stando a questa narrazione, la nascita del “tipo Zarathustra” è concomitante alla diagnosi implacabile di una profonda crisi antropologica e culturale che porge a Nietzsche il suo volto paradigmatico nella realtà culturale del Reich tedesco: Allora per la prima volta indovinai il nesso tra un’attività scelta contro il proprio destino, una cosiddetta «professione», per cui non si ha nessuna vocazione – e quel bisogno di anestetizzare un senso di fame e di desolazione per mezzo di un’arte narcotica – per esempio l’arte di Wagner. Guardandomi intorno con maggiore attenzione ho scoperto che un gran numero di giovani si trova nella stessa situazione di crisi [...] In Germania, nell’«Impero», per essere chiari, troppi sono condannati a decidersi prematuramente e poi a deperire sotto un peso che non riescono più a scrollarsi di dosso.11
La rappresentazione nietzscheana della realtà del Reich, con le sue strutture sociali, economiche e politiche, con i suoi ideali di progresso e di crescita economica e i suoi miti legati al lavoro e al dovere, dà senz’altro adito ad una lettura in chiave patologica dell’era Guglielmina. Il suddito dell’impero appare al filosofo ansioso ed inquieto, oppresso dai ritmi frenetici di una “vita attiva” che non offre nutrimento spirituale, condannato alla “stupidità del meccanismo”12 e ad una “disperata noia dell’anima”. Anima che, conclude Nietzsche significativamente, impara così ad “aver sete di un ozio pieno di mutamento”.13 Innumerevoli passi dell’opera nietzscheana offrono una vivida descrizione di come l’individuo, in una società norma8 9 10 11 12 13
MA I, af. 224, p. 162. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., p. 173. EH, Perché io sono un destino §1, p. 376. EH, Umano, troppo umano §3, p. 334. MA I, af. 283, p. 198. MA II, af. 220, p. 227.
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tiva di convenzioni e istituzioni, diventi vittima di un quotidiano abuso che ostacola il lavoro sul proprio sé e la ricerca di un orientamento personale.14 Nel Reich la vita è ridotta a mansioni da svolgere e attività monotone da eseguire, che soffocano la libera capacità espressiva del singolo e producono fiacchezza, apatia, nevrosi: “L’attività macchinale e quel che compete ad essa – come l’assoluta regolarità, la puntuale, irriflessa obbedienza, l’acquisizione una volta per tutte di un determinato modo di vivere, il riempimento del tempo, una certa autorizzazione, anzi una certa costrizione educativa alla «impersonalità», all’oblio di sé, alla «incuria sui»”.15 In veste di “medico della civiltà”16 Nietzsche è interessato fin da subito alle possibilità di una cura. Quanto più la sua lettura è sintomatologica, tanto più essa si fa mappatura delle forze in gioco, carta strategica tesa ad intravedere il cosiddetto inattuale, e con esso la possibilità di smarcarsi da un presente arrestatosi in se medesimo e divenuto soffocante impasse. E se nella quarta Inattuale, nella prospettiva di un’arte intesa come consolazione metafisica, si insiste ancora sul potenziale terapeutico del dramma musicale wagneriano,17 dopo la rottura con Wagner la diagnosi si farà più radicale, e constaterà che il suddito del Reich viene privato della chance di una vera guarigione perché gli si concede esclusivamente la possibilità di alleviare la sofferenza attraverso “sedativi” di ogni genere, siano essi il lavoro, la religione, oppure l’arte di Wagner. La descrizione del giovane wagneriano nel passo succitato presenta in questo senso il tipo del suddito subordinato, asservito ad una rete di obbedienza, routine ed integrazione che ostacola la costruzione del sé individuale e prevede esclusivamente forme di purificazione e di sollievo psichico di natura metafisica e religiosa. Sarà il distacco doloroso da Wagner e dal facile mito di Bayreuth, la lucida presa di coscienza della distanza dai valori e dalla sensibilità dell’epoca, e il definitivo abbandono dell’insegnamento universitario dovuto al peggioramento della salute, ad inaugurare in Nietzsche l’esistenza del Freigeist,18 esistenza sciolta dai vincoli della professione e governata solo 14
15 16 17 18
M, af. 178, p. 129: “I quotidianamente utilizzati. Questi giovani non difettano né di carattere, né di buone abitudini: ma non si è lasciato loro il tempo di darsi una direzione, piuttosto sono stati abituati, fin dall’infanzia, a ricevere una direzione”. GM, Che significano gli ideali ascetici §18, p. 339. NL III/III/II, 23[15], p. 136. WB, §7. Cfr. cap. 2.2. Cfr. G. Campioni, Von der Auflösung der Gemeinschaft zur Bejahung des »Freigeistes«, in «Nietzsche-Studien» 5, 1976, pp. 83-112; Il concetto di geistiges Nomadenthum viene a Nietzsche da Montaigne; cfr. V. Vivarelli, Nietzsche und die Masken des freien Geistes, cit..
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Genealogia della cultura
dalla ricerca di luoghi e climi in cui il corpo possa trovare quiete, lo sguardo acquisire una consapevolezza storica della propria epoca, e la mente attingere ispirazione che dia nuovi impulsi alla propria opera.19 Ha così inizio la vita errabonda e inquieta del Wanderer, che molte anime ha nel suo petto, vita ricca di insidie perché, come dirà Zarathustra alla propria ombra, maggiore è il rischio di tornare prigionieri di “una fede ristretta, di una severa e dura illusione”.20 Il senso di tale libertà, incarnata dal simbolo del leone del “no sacro”, sta nella possibilità di impossessarsi del progetto della propria vita, un’impresa che Nietzsche affida alla disponibilità di emanciparsi da appigli metafisici per prendere il destino nelle proprie mani, ad una vitalità di corpo e di mente che possiede in sé la “tensione verticale”21 senza sentire l’esigenza di attrattori esterni. Lungi dall’essere intesa come una presa di coscienza dei conflitti irrisolti del passato e delle fonti delle difficoltà presenti, la cura proposta da Nietzsche si configura come un processo creativo provocato da un moto libero e teso a costituirsi in uno stile che, una volta “incorporato”, regna sovranamente nell’individuo fornendogli un’arma per raschiare via le schegge di malattia
19
20 21
Per una poetica dei luoghi nell’opera nietzscheana cfr. M. Riedel, Freilichtgedanken. Nietzsches dichterische Welterfahrung (1998), tr. it. di S. Wagner e N. Russo, Pensieri all’aria aperta. L’esperienza poetica del mondo di Nietzsche, Guerini e Associati, Milano 2005. Sulla concezione dello Zarathustra in particolare pp. 181ss: “In quanto intenzioni ludiche dello spirito libero e secondo l’immagine che questi aveva di se stesso, i pensieri e gli orientamenti connessi in quella concezione erano già dati aforisticamente. Si trattava di carpire […] al scintillante gioco di pensieri un simbolo e di porre questi ultimi in un reciproco riferimento poetico, di trasformare in opera poetica il gioco dello spirito libero con immagini e pensieri tramite l’amplificazione dei motivi musicali e liederistici. Sulla base di questo procedimento Nietzsche ha creato poeticamente la stessa sede della sue Muse, luoghi e regioni del paesaggio di pensiero in Alta Engadina”. Za, L’ombra, p. 333. P. Sloterdijk, Du mußt dein Leben ändern. Über Anthropotechnik (2009), tr. it. di P. Perticari, Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, Cortina Raffaello, Milano 2010, pp. 455ss. Cfr. Za Il saluto, p. 340: “Al pino, o Zarathustra, io paragono chi, come te, cresce: lungo, silenzioso, duro, solo, fatto del migliore e più duttile legno, splendido, – / infine, però, coi rami forti e verdi protesi verso il suo dominio, con forti domande per i venti e i temporali e tutto quanto abbia domicilio sulle altezze / – con risposte ancora più forti, un dominatore, un vittorioso: oh, chi non salirebbe su alti monti per contemplare simili piante?” Su questa immagine cfr. G. Bachelard, Psicanalisi dell’aria, cit., p. 154: “Quest’albero diritto è un asse di volontà; meglio ancora, è l’asse della volontà verticale, centrale in Nietzsche. Contemplarlo vuol dire rizzarsi; la sua immagine dinamica è proprio la volontà che contempla se stessa, non attraverso le sue opere, ma attraverso la sua stessa azione”.
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che sempre si insediano in lui.22 È in questo senso che in Ecce Homo, per descrivere la tensione di tutto l’individuo verso un’ideale di soggettivazione che non ha ancora potuto conoscere, Nietzsche parla dell’attività infallibile dell’istinto che opera sotto il livello della coscienza, dell’“idea chiamata al dominio” che emerge sulla superficie di una coscienza mantenuta pura da “qualsiasi grande imperativo”.23 Il sé è un materiale attivo e duttile con cui lavorare per una poiesis, per foggiare se stessi come opera d’arte, e si costituisce attraverso la forma che esso dà a se stesso. Nessuna forma è però da intendersi come definitiva (“Deve passare attraverso una serie di ideali”). Nietzsche avverte appieno la paradossalità della condizione umana: l’uomo è un essere che crea forme che finiscono poi ironicamente per imprigionare la sua stessa creatività, in un’alternanza incessante di creazione e coercizione. Tuttavia, Nietzsche non pone l’accento sulla ripetizione, bensì sulla trasformazione, sul gioco del fanciullo, simbolo dell’innocenza dell’oblio e di ogni nuovo inizio.24 Lungi dall’essere irrevocabilmente plasmato dalle proprie creazioni passate, l’individuo può continuamente riplasmarle e modellarle creativamente ai bisogni del presente. Questa prospettiva consente di mettere meglio a fuoco i tratti dell’esperienza patologica della perdita di sé che viene descritta in Ecce Homo sia nei termini di un eccesso di mondo esterno, sia come adesione a valori e a potenze nocive per la vita. Lo stadio dello spirito simboleggiato dal cammello che assume su di sé l’imperativo del “tu devi!” si palesa sia nella forma di un’aberrazione dell’istinto, sia nel dolore del corpo che si manifesta con essa.25 L’inattualità di Nietzsche rispetto al proprio tempo consiste anche nell’aver aperto lo sguardo sulla dimensione concreta e reale della malattia legata al fenomeno del nichilismo e della decadenza della società europea, dimensione di cui vive la rappresentazione del corpo in Ecce Homo, con i dettagli poco edificanti che essa espone, dallo stordimento 22 23 24 25
M. Foucault, L’herméneutique du sujet, tr. it. di M. Bertani, L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France 1981-1982, a cura di F. Gros, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 14-15. EH, Perché sono così accorto §9, p. 303. Za, Delle tre metamorfosi, p. 25. EH, Umano, troppo umano §3, p. 333. Il corpo possiede un sovrappiù di energia da consentire un continuo, creativo auto-superamento; se questa energia non viene sfruttata produce malattia e sofferenza. Per una lettura in chiave psicosomatica del quarto discorso di Zarathustra, Dei dispregiatori del corpo, che appare immediatamente connesso all’esperienza qui descritta, cfr. N. Loukidelis, Die „grosse Vernunft“ des Leibes und das Über-sich-hinaus-Schaffen. Eine Interpretation zur vierten Rede Zarathustras, in V. Caysa, K. Schwarzwald (a cura di), NietzscheMacht-Größe, Walter de Gruyter, Berlin 2012, pp. 213-223.
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della febbre alla “povertà del sangue”, dalla “debolezza muscolare” al “penoso vomito di muco”.26 Sembra che siano proprio le reazioni del corpo malato a costringere ad un nuovo ascolto del proprio sé, ad un esercizio di attenzione e percezione cui è fatto risalire l’inizio della guarigione: “Il mio sé più profondo, che era come sepolto, come zittito per aver dovuto costantemente ascoltare altri sé (– leggere vuol dire proprio questo!) si risvegliò lentamente, timido, dubbioso – ma alla fine ricominciò a parlare”.27 La quiete e la forza del corpo tornano ad instaurarsi quando si pone fine allo stato di “altruismo” indotto dall’inerzia, dal senso del dovere e dall’inesperienza cui Nietzsche riconduce l’esercizio di una professione imposta dalle leggi dell’utilità sociale, e il singolo torna ad esprimersi liberamente: “basta guardare «Aurora» o anche «Il viandante e la sua ombra» per capire che cosa fu questo «ritorno a me stesso»: una specie suprema di guarigione!”.28 Non è irrilevante che, nel contestualizzare la genesi dello Zarathustra, Nietzsche si preoccupi di descrivere minuziosamente i mutamenti dello stato di salute che l’avevano accompagnata. Dapprima accenna al clima sgradevole e molesto, all’insonnia tormentosa, alle emicranie e alle sofferenze del corpo, che nel corso dell’inverno erano andate peggiorando, finché all’improvviso, in grazia di una “serie di giornate limpidissime”,29 la malinconia indotta dal declino fisico si capovolge nell’euforia e nel vigoroso sentimento di potenza cui si devono le stesure dello Zarathustra, e quindi la nascita del “tipo” in grado di fare del pensiero del ritorno la chance di una trasformazione verso una realizzazione piena dell’esistenza, contro l’abnegazione della rinuncia e l’esigenza della verità e della certezza. Questo concepimento viene notoriamente descritto in Ecce Homo secondo i tipici stilemi di un’estetica dell’ispirazione, quella condizione in cui si è “soltanto medium di poteri che ci sovrastano”.30 Non si tratta, tuttavia, di 26 27 28 29 30
EH, Perché sono così saggio §1, pp. 271-272. EH, Umano, troppo umano §4, p. 335. Ivi, pp. 335-336. BW IV, 372, p. 304. EH, Così parlò Zarathustra §3, p. 348. Il riferimento classico per una descrizione dell’ispirazione poetica è lo Ione platonico, in cui il poeta è descritto da Socrate come Ekphron, fuori di senno, e i suoi versi detti scaturire da una privazione della facoltà intellettiva. Il poeta è “fuori di sé” perché è invaso dal dio e da lui spinto oltre i confini dell’io cosciente. L’invasione del dio sovverte quella soggettività che, grazie a techne e ad episteme, conosce il reale ed opera su di lui. Non per mezzo di techne o di episteme poeti e rapsodi compongono quindi i loro versi, ma in grazia di un’imprevedibile forza divina, theia dynamis, che irrompe svelandosi come unica autrice. Cfr. Platone, Ione, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2001.
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Il “tipo Zarathustra”
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una possessione dall’esterno, bensì del frutto di un’attività subconscia che si produce al di fuori di ogni intenzione cosciente ed è guidata da una volontà interna di forma. Qualcosa accade e si rende visibile come visione (“il tipo di Zarathustra stesso: più esattamente, mi assalì...”),31 afferra come un’intuizione, e chiede di essere accolta dentro di sé, di “farsi decidere da essa fino a «sceglierla» come il proprio destino”.32 Nietzsche tiene a descrivere le condizioni concrete che avevano generato tale stato: la scelta del clima e del luogo, l’equilibrio dell’alimentazione, l’intera “casistica dell’egoismo”.33 Se ne deduce che è l’energia del corpo a creare le condizioni dell’ispirazione da cui scaturisce il nucleo filosofico del poema. La vitalità ritrovata produce un sentimento di gioia che si riversa a sua volta sul corpo, da cui era scaturito anche il primo impulso per l’opera: “Avevo sempre la mia massima scioltezza muscolare quando la più ricca forza creativa scorreva in me. Il corpo è entusiasmato: lasciamo l’«anima» da parte… spesso mi hanno visto ballare: ero capace, allora, di andare su per i monti per sette, otto ore, senza sentire mai un qualche senso di stanchezza”.34 Tale condizione di creatività ispirata viene evidentemente addotta a testimonianza del fatto che solo un atteggiamento di affermazione verso una realtà che rivela anche il suo volto più tragico e oscuro, che si manifesta nella sua smorfia più dolorosa e disgustosa, può liberare la forza necessaria per il cambiamento. La stesura dello Zarathustra è l’esperienza di una condizione psico-fisica indotta da un’intuizione che, una volta “incorporata”, accettata radicalmente in tutti i suoi aspetti, inizia a guidare autonomamente l’esistenza, dando avvio ad un processo di metamorfosi che coinvolge la persona nella sua totalità, potenziando la forza apollinea della visione e l’arte dionisiaca della trasfigurazione (“ogni specie di mimica e di arte da commedianti”).35 Non si tratta tuttavia di una rinuncia all’autocoscienza e alla vigilanza, ma di uno stato avvicinabile al kantiano “vaneggiar con la ragione”:36 l’accendersi di passioni, l’“esser-fuori-di-sé” non comporta un sacrificio del Geist alla vita, perché è accompagnato dalla “coscienza più precisa” del sentimento di potenza che scuote il corpo.37 31 32 33 34 35 36 37
EH, Così parlò Zarathustra §1, p. 346. G. Franck, Nietzsche, cit., p. 109. In questo senso Peter Sloterdijk riconosce a ragione in Ecce Homo i prodromi di una dottrina positiva di autotraining sulla propria forma vitale, e il manifestarsi di un senso estetico legato a pratiche di atletica e dietologia. EH, Così parlò Zarathustra §4, pp. 350-351. GD, Scorribande di un inattuale §10, p. 114. BW IV, 391, p. 325. EH, Così parlò Zarathustra §3, pp. 348-349.
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Genealogia della cultura
Resta da definire, alla luce del quadro tratteggiato, in cosa precisamente si esplichi, in questo progetto di cura del sé, il beneficio apportato dalla malattia. Com’è ben noto, Nietzsche si lascia alle spalle ogni significato convenzionale di salute a vantaggio di un’elevazione psicologica e spirituale della vita.38 La malattia acquisisce un senso nuovo ed originale perché dà diritto “al capovolgimento completo” di tutte le antiche abitudini, e introduce una condizione privilegiata di ozio contemplativo che sottrae all’esubero degli impulsi esterni: “mi concesse, mi comandò di dimenticare; mi fece il regalo di obbligarmi all’immobilità, all’ozio, all’attesa, alla pazienza... Ma pensare è appunto questo!”39 Una vera svolta verso il nuovo si dà quindi esclusivamente per il tramite del negativo, della malattia, che promuove l’oblio di sé, l’interruzione, l’attesa, e stimola così una riflessione nuova.40 Si sbaglia, quindi, a riconoscere in questo stato di indugio contemplativo solo un atteggiamento di passività, o di mera disponibilità ricettiva; piuttosto, esso va inteso come il presupposto per l’emersione dei propri “contenuti”, per la percezione di quella volontà interna di forma che dirige sovranamente l’azione, anziché consegnarla inerme all’arbitrio degli impulsi: “è questa la propedeutica prima alla spiritualità: non reagire subito ad uno stimolo, ma padroneggiare gli istinti che inibiscono e precludono”.41 L’incapacità di opporre un fermo no agli stimoli esterni è già di per sé sintomo di quella fiacchezza della volontà che per Nietzsche è sorella della mediocrità e della vacuità dello spirito. Se non agisce un istinto che inibisce ed impone pazienza, l’azione s’intrappola nel meccanismo ripetitivo 38
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Cfr. NL VIII/I, 2[97], p. 96: “Sanità e morbosità: si usi prudenza! Il criterio rimane il rigoglio del corpo, l’elasticità, il coraggio e l’allegria dello spirito – ma, naturalmente anche, quanta morbosità esso sappia prendere su di sé e superare – sappia trasformare in sanità. Ciò che rovinerebbe gli spiriti più delicati fa parte degli stimolanti della grande salute”. Sulla concezione di salute e malattia sviluppata da Nietzsche, in riferimento alle norme e ai tabù del proprio tempo, restano sempre fondamentali le considerazioni di T. Anz, Gesund oder krank? Medizin, Moral und Ästhetik in der deutschen Gegenwartsliteratur, Metzler, Stuttgart 1989, pp. 1-52. Cfr. anche P Klossowski, Nietzsche e il circolo vizioso, cit., pp. 264-265, che insiste sul fatto che è solo la vita piccola, che tende a risparmiare, a vedere in un dispendio di energia vitale una perdita e una diminuzione e non il profitto e la crescita che vi sono legati. EH, Umano, troppo umano §4, p. 335. Cfr. MA I, af. 289, pp. 199- 200: “Valore della malattia. L’uomo che giace a letto ammalato può talora rendersi conto che la sua malattia è dovuta di solito al suo ufficio, ai suoi affari o alla sua società, e che, a causa di queste cose, egli ha perso ogni capacità di riflettere su se stesso: egli guadagna questa saggezza dall’ozio a cui la malattia lo costringe”. GD, Quello che i tedeschi non hanno §6, p. 105.
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Il “tipo Zarathustra”
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della mera reazione, e non fa che protrarre e riprodurre il già esistente. Si comprenderà allora perché Nietzsche inviti pensatori, artisti e “spiriti inventivi” a tollerare la noia (Langeweile), quella “bonaccia dell’anima” che precede ogni “viaggio felice”, ogni processo veramente creativo.42 Significativamente Heidegger sosterrà che è nella noia profonda, in cui si è tenuti in sospeso, “sollevati dal flusso del tempo”, che si dischiudono le possibilità autentiche del Dasein.43 E in un senso analogo Walter Benjamin definirà la noia “l’uccello incantato che cova l’uovo dell’esperienza”,44 il tempo in cui può dispiegarsi quella “facoltà di ascoltare”45 che sopraggiunge solo con l’oblio di sé. La noia, quindi, come esperienza che risponde alla moderna perdita di esperienza; come un allentamento dell’io cosciente che rende possibile ogni autentico processo di assimilazione ed elaborazione che si compia nel profondo. 2. Gesto, immagine, poesia. Sulla danza e sul volo Creare un ideale che incarni i valori di una nuova morale, e regali alla vita nuovi stili e forme, è il momento centrale del percorso di cura pensato da Nietzsche. Significativamente il filosofo affida questa creazione alla scrittura poetica (dichten), quindi ad un’esperienza artistica che è in primo luogo un’esperienza dell’immaginazione. Immaginazione che si scatena inevitabilmente nei momenti di instabilità e di crisi come quelli che Nietzsche stava vivendo. Lo Zarathustra è un testo scritto per risolvere una crisi autentica, un testo dall’“impronta leggendaria” e che tuttavia, come si legge in una lettera a Karl von Gerdsoff del giugno del 1883, contiene la sua filosofia più profonda.46 Poesia e leggenda convergono quindi in un pen42 43
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FW, af. 42, pp. 78-79. M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit (1929-1930), tr. it. di P. Coriando, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, a cura di C. Angelino, Il Melangolo, Genova 1992, pp. 185ss. W. Benjamin, Der Erzähler. Betrachtungen zum Werk Nikolai Lesskows (1936), tr. it. Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, con un saggio di F. Desideri, Einaudi, Torino 19952, pp. 247-274, qui p. 255. Ibid. BW IV, 427, p. 364: “Non lasciarti ingannare dall’impronta leggendaria di questo libriccino: dietro ognuna di quelle parole semplici e inconsuete c’è il mio credo più profondo e la mia intera filosofia”. Cfr. P. Klossowski, Nietzsche, le polythéisme et la parodie, tr. it. di F. Ferrari, Nietzsche, il politeismo e la parodia, con uno
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Genealogia della cultura
siero che si fa narrazione favolistica, che sul modello del racconto biblico e di testi mitologici antichi47 si cela e al contempo si espone in una fitta rete di parabole, metafore e simboli. Procedere per immagini, ripudiando l’esposizione discorsiva basata sulla consequenzialità logica, significa per Nietzsche riportare in vita una tradizione antica, che aveva raggiunto il suo apice nella poesia greca, in Omero e nella tragedia, prima di tramontare definitivamente con il genio socratico, accanito nella ricerca di una verità dietro i veli dell’illusione e dell’apparenza. In questo tessuto linguistico legato all’immaginario e ad un uso della parola come simbolo vitale, il pensiero supera la propria matrice intellettualistica e viene ad includere la totalità della persona. Qui emerge il valore più propriamente terapeutico della scrittura poetica inaugurata da Nietzsche con la Gleichnisrede.48 L’enfasi con cui il filosofo elabora un nuovo linguaggio poetico per esprimere le realtà psichiche più intime è dovuta alla diagnosi dello stato allarmante in cui versa il linguaggio nell’epoca moderna, allorché, per convenire alle esigenze della comunicazione, nel corso della storia della Zivilisation esso si è sempre più allontanato dalla sfera del sentimento, del Gefühl, fino a divenire un complesso autonomo mostruoso, svuotato dalla vita che lo sosteneva e dotato di un potere violento e soggiogante, nocivo per la vita stessa: Dappertutto il linguaggio è malato, e l’oppressione di questa mostruosa malattia pesa su tutto lo sviluppo umano. Il linguaggio ha dovuto percorrere tutta la scala delle sue possibilità, per abbracciare il regno del pensiero, cioè l’esatto opposto del sentimento, allontanandosi in tal modo proprio dalle forti manifestazioni del sentimento, che esso alle origini poteva esprimere in tutta la loro schiettezza. La sua forza si è esaurita per questo stiramento eccessivo nel breve spazio di tempo della civiltà moderna: sicché il linguaggio ora non può più conseguire il suo unico e vero scopo: far sì che i sofferenti si intendano tra loro
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scritto di M. Blanchot, SE, Milano 1999, p. 14: “in lui si scatena una lotta tra il poeta e il sapiente, tra il visionario e il moralista”. Per l’associazione con le teogonie e le cosmogonie orfiche, in particolare con la Teogonia di Esiodo, dove l’ispirazione del poeta è descritta come “respiro” soffiato dalle Muse dentro al pastore, cfr. A. Giacomelli, Simbolica per tutti e per nessuno. Stile e figurazione nello Zarathustra di Nietzsche, Mimesis, Milano 2012, pp. 49ss. Come sostiene Wolfram Groddeck, si tratta di Heilung durch Sprache, di una guarigione che ha luogo non attraverso il linguaggio, ma nel linguaggio stesso. Cfr. W. Groddeck, »Es«, »Selbst« und das »Gleichniss«. Aus Nietzsches Zarathustra, in G. Overbeck (a cura di), Auf dem Wege zu einer poetischen Medizin: Vorträge der Georg-Groddeck-Gesellschaft, Verlag für akademische Schriften, Frankfurt a. M. 1996, pp. 44-52.
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Il “tipo Zarathustra”
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sulle afflizioni più elementari della vita. L’uomo non può più farsi conoscere nel bisogno mediante il linguaggio, cioè non può comunicare veridicamente: in questo stato oscuramente sentito, il linguaggio è diventato dappertutto una forza a sé, che ora con braccia di spettro afferra e respinge gli uomini dove essi non vogliono veramente andare.49
Oltre a non possedere più le parole ed i gesti per articolare e comunicare il proprio “autentico” sé, l’uomo moderno, dolorosamente ammutolito, soffre sotto la morsa del linguaggio astratto della convenzione, che lo aliena sempre più crudelmente da se stesso. L’entusiastica partecipazione di Nietzsche all’arte drammatica wagneriana sembra così principalmente motivata dall’adesione ad un linguaggio tornato alla potente natura dell’immagine, ma di un’immagine che agisce per immediatezza, in cui la vita dionisiaca parla ancora “per mezzo di forze”.50 Wagner è per l’autore della Quarta Inattuale ancora l’artista che più di ogni altro si rivela capace di interrogare e drammatizzare gli impulsi e i conflitti psichici più reconditi, e di affidarne l’espressione alla musica, al gesto e alla parola: un “ponte tra sé e non-sé”.51 Il dramma wagneriano appare caratterizzato dall’apertura alla mitopoiesi, dalla sensibilità per una parola carica di forza figurativa ed evocativa, potente alla radice delle sue capacità espressive, affrancata dal giogo del concetto, della logica e della causalità. A questa concezione del linguaggio Nietzsche rimarrà fedele anche dopo il distacco da Wagner; anzi, si potrebbe azzardare l’ipotesi che sia proprio questo il terreno su cui si verifica la rottura.52 Se nella quarta Inattuale domina ancora il riconoscimento per la sensibilità del compositore, successivamente Nietzsche individuerà nella musica wagneriana tutti i sintomi della decadenza e della malattia, che viene essenzialmente ricondotta alla 49 50 51 52
WB, §5, p. 28. GT, §8, p. 63. WB, §6, p. 38. Cfr. W. Busch, I linguaggi dell’inconscio collettivo. Richard Wagner e l’arte ditirambica di Nietzsche nello Zarathustra, in M. Gay, I. Schiffermüller (a cura di), Lo Zarathustra di Nietzsche, cit., pp. 181-222, p. 195: “È il confronto con la “semiotica drammatico-musicale” di Wagner il luogo in cui Nietzsche trova un linguaggio per il proprio sé, in cui articola le proprie maschere e finzioni, ma anche il suo essere autentico”. ”. Nella nostra epoca dominata dalla necessità dell’informazione è difficile comprendere il senso di tale problematica senza cedere alla tentazione di relegarla nell’ambito di una “religione dell’arte” (Kunstreligion) che ha perso ogni carattere di attualità. Il pathos della superiorità di un linguaggio artistico su un altro appare tendenzialmente incomprensibile allo sguardo di un’epoca appiattita su un uso del linguaggio come mezzo di comunicazione e incapace di cogliere il senso del suo farsi veicolo del sé individuale.
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Genealogia della cultura
mancanza di sincerità nei confronti di se stessi, e quindi alla necessità fisiologica di una messinscena involontaria e fatale, di un’infatuazione isterica e di una mimesi coatta in cui non trovano più espressione i veri moti del sé.53 La scena intitolata Il mago nello Zarathustra offre una vivida rappresentazione di una sceneggiata dai tratti isterici che Nietzsche riscontra nei personaggi wagneriani.54 Non a caso, a confluire nel ditirambo che vi è inserito, Il lamento di Arianna, è proprio la semiotica clinica dell’isteria:55 il linguaggio riproduce le fasi del tipico attacco isterico che all’epoca veniva riprodotto tramite ipnosi dai medici della clinica parigina Salpêtrière a scopo di dimostrazione e di studio, e rende manifesta quella che agli occhi di Nietzsche è la psicologia dell’artista moderno della decadenza.56 In cosa consiste, dunque, alla luce di questa diagnosi, la specificità del linguaggio sperimentato da Nietzsche nello Zarathustra? Se lo scritto giovanile Su verità e menzogna in senso extramorale fa ancora di una concezione di linguaggio come mero tropismo, strumento retorico volto ad esercitare un effetto e non a dire il vero,57 la propria bandiera, nel poema il linguaggio sembra invece inteso preminentemente in senso gestuale: esso 53
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Cfr. NL VII/III, 40[60], p. 347: “[...] la ripugnanza di se stesso, il verme di un multiforme disprezzo di sé, la necessità di stupefacenti, compresa la sua arte, per sopportare la vita in genere, e ancora la nausea dopo l’ebbrezza, e insieme a tutto ciò la coscienza della commedia, la pressione della mancanza di libertà di cui soffre chiunque debba travestirsi per il fatto di non sopportarsi nudo”. Cfr. Wa, §5, p. 17: “L’arte di Wagner è malata. I problemi che egli porta sulla scena – né più né meno che problemi da isterici –, il carattere convulso delle sue passioni, la sua sovreccitata sensibilità, il suo gusto che anelava a droghe sempre più piccanti...”. Cfr. W. Groddeck, Friedrich Nietzsche – „Dionysos-Dithyramben“, 2 voll., Walter de Gruyter, Berlin, vol. 2: Die „Dionysos-Dithyramben“. Bedeutung und Entstehung von Nietzsches letztem Werk, 1991, pp. 209-213. NL VIII/III, 16[89], p. 306: “L’artista moderno, prossimo nella sua psicologia all’isterismo, è contraddistinto anche come carattere da questa morbosità. L’isterico è falso, mente per il gusto di mentire, è ammirevole in ogni arte di dissimulazione […] L’assurda eccitabilità del suo sistema, che di tutti i fatti che gli capitano fa delle crisi […] Non è più una persona, ma tutt’al più un convegno di persone, di cui ora questa ora quella salta fuori con impudente sicurezza. Appunto perciò è grande come commediante: […] meravigliano con il loro virtuosismo mimico, di trasfigurazione, di penetrazione in quasi ogni carattere voluto”. Nella concezione ancora funzionale del linguaggio esposta in questo scritto la verità è un “mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi” (WL, p. 233); a ciò segue l’idea che ad una verità come essenza che il pensiero ricerca, si oppone una verità come qualcosa che va di volta in volta creata nel mezzo del linguaggio. Cfr. al riguardo l’importante studio di S. Kofman, Nietzsche et la métaphore, Payot, Paris 1972.
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Il “tipo Zarathustra”
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è “stile”, ovvero espressione carica di tutto quel che compie un’esistenza, di quella “grande attività inconscia”, scenario di forze conflittuali e di profonde trasformazioni, di cui l’attività cosciente è solo il sintomo di superficie. Si legga quel che Nietzsche scrive in Ecce Homo in riferimento allo Zarathustra: Comunicare uno stato, una tensione interna di pathos, per mezzo di segni, compreso il ritmo di questi segni – questo è il senso di ogni stile; e visto che in me la molteplicità degli stati interni è straordinaria, mi trovo ad avere molte possibilità di stile – forse la più molteplice arte dello stile di cui un uomo abbia mai disposto. Buono è qualunque stile che comunica realmente uno stato interno, che non si sbaglia sui segni, sul ritmo dei segni, sui gesti – tutte le leggi del periodo sono un’arte del gesto.58
Così inteso, il testo apre uno spazio in cui il visibile e il sensibile emergono in uno stato ancora puro, in cui la sfera del corpo e del sentimento si proietta in una modalità immediata, ad un livello prerazionale e precategoriale, e non rappresentativo, razionale, imitativo: “Tutto avviene in modo involontario al massimo grado, ma come in un turbine di senso di libertà, di incondizionatezza, di potenza, di divinità [ ] Tutto si offre come l’espressione più vicina, più giusta, più semplice”.59 In questa dimensione, colta come una totalità individuale di scintille e frammenti che si proiettano in scenari cangianti di simboli e figurazioni, l’io è legato corporalmente e spiritualmente al mondo della sua situazione, dei suoi ricordi e dei suoi desideri. Qui parole ed immagini sembrano nascere come il prodotto di un’attività autentica del soggetto, ed esprimere una maniera radicale di fare esperienza del proprio mondo. In questa dimensione prediscorsiva, in cui il pensiero si tiene lontano da teorizzazioni, vanno a vanificarsi quei segni e quei codici che la coscienza ha ideato per orientarsi, e si sacrifica l’ordine che la ragione ha dispiegato nella storia. L’io viene rituffato così in una prospettiva nuova, restituito a quell’’inutilità’ che dissolve i valori che fondano la sua realtà. Venire afferrati in questo senso è possibile solo se c’è la disponibilità a sottrarsi alle ingiunzioni della coscienza, senza cessare però con questo di essere accessibile allo spirito (Geist). Come rivela il passo succitato, questo nuovo linguaggio artistico coinvolge l’intera semiotica della capacità espressive dell’uomo:60 tutto ciò che 58 59 60
EH, Perchè scrivo libri così buoni §4, p. 313. EH, Così parlò Zarathustra §3, p. 349. GT, §2, p. 30.
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Genealogia della cultura
è eccitazione interiore, tensione, emozione, deve divenire parola, gesto e ritmo, per farsi comunicazione e scambio autentico. Da ciò si deduce che per Nietzsche il soggetto (la molteplicità degli stati interni) si costruisce nell’atto dell’espressione, e quindi attraverso un’arte dello stile in grado di esprimere questi stessi stati attraverso mezzi artistici (Kunstmittel) ogni volta nuovi e diversi. In un appunto del 1882 si legge a proposito che ciò che del linguaggio si comprende meglio non è la parola, bensì “il tono, l’intensità, la modulazione, il ritmo con cui una serie di parole vengono pronunciate – insomma la musica che sta dietro le parole, la passione dietro questa musica, la personalità dietro questa passione”.61 L’idea qui implicata trascende evidentemente una comprensione puramente semiotica del linguaggio, per intenderne piuttosto il “senso” come un’attività del soggetto nel discorso. Fu Emil Benveniste ad indagare sistematicamente quei processi linguistici, esclusi dalla langue, che si realizzano nel discours.62 Tra questi egli annovera la soggettività, intesa come l’interdipendenza tra il soggetto ed il significato, la “situatività” temporale e spaziale, e la performatività. Secondo Benveniste, nel discorso il soggetto si esprime nello spazio e nel tempo, nell’hic et nunc del messaggio linguistico, e solo attraverso queste associazioni si produce il cosiddetto “senso”.63 La prospettiva nietzscheana sembra situarsi in questa ragion d’essere del linguaggio, inteso come lo spazio in cui il soggetto si costruisce in modo sempre diverso ed imprevedibile. Ciò implica la conseguenza radicale che un approccio allo Zarathustra che colga nelle sue “parole semplici e inconsuete”64 un mero esperimento linguistico non può non trascurare quello che appare essere l’intento ben più serio che soggiace alla scrittura, ovvero il tentativo
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NL VII/I/I, 3[1]296, p. 81. Secondo Heidegger l’esistenza si dischiude nella modalità specifica del discorso poetico. Cfr.: M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), tr. it. di P. Chiodi, Essere e tempo, a cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 20083, p. 200: “L’indice linguistico della manifestazione della situazione emotiva dell’inessere da parte del discorso è costituito dalla cadenza, dalla modulazione, dal «tempo» del discorso, dal «modo di parlare». La comunicazione delle possibilità esistenziali della situazione emotiva, cioè l’apertura dell’esistenza, può costituire il fine specifico del discorso «poetico»”. É. Benveniste, Problèmes de linguistique générale (1966), tr. it. di M.V. Giuliani in Problemi di linguistica generale, Il Saggiatore, Milano 1994. Ivi, p. 316: “Il linguaggio è quindi la possibilità della soggettività, per il fatto che contiene sempre le forme adeguate alla sua espressione, e il discorso provoca l’emergere della soggettività, per il fatto che consiste di situazioni discrete. Il linguaggio propone per così dire delle forme «vuote» di cui ogni parlante si appropria nell’esercizio del discorso e che riferisce alla sua «persona»”. BW IV, 427, p. 364.
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Il “tipo Zarathustra”
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di dare forma, nel mezzo di un linguaggio che ripristini la materialità del significante e del significato, reintroducendo rispettivamente la dimensione ritmica e sonora e quella dell’immagine, a quella vita dionisiaca che, potentissima, si offre all’immaginazione nietzscheana come una gamma multicolore di realtà psichiche che cercano espressione in nuovi gesti e nuovi stili in cui i sintomi della decadenza devono venire risanati. Sostenere che Nietzsche abbia inteso associare all’arte dello stile solo elevate ambizioni artistiche implicherebbe un misconoscimento di questa volontà di cura, che altro non è che una cura del sé nel linguaggio ed attraverso il linguaggio.65 Sembra essere in questo senso che, nel capitolo Della conoscenza immacolata, Zarathustra contrappone la forza di una parola poetica che sfonda, per così dire, la parete di confine tra energia ed immagine, e si fa veicolo di un volere immediato, ad un atteggiamento di contemplazione che si limita ad accogliere le immagini rinunciando a crearle e a viverle: “Dov’è la bellezza? Là dove io non posso non volere con tutta la volontà; dove voglio amare e tramontare, affinché un’immagine non rimanga immagine soltanto”.66 Il motivo articolato in questa scena si inserisce nel complesso tematico della rivendicazione della terrestrità, di un sentimento di potenza che è affettività e sensazione, di un volere che si esercita affermativamente in rapporto con una vita d’artista intesa come vita attiva, di contro al perseguimento di una spiritualità esangue.67 Le invettive di Zarathustra contro i poeti si iscrivono nella volontà di stabilire questa ragione d’essere superiore della lingua poetica: “Ad un soffio, un guizzo di fantasima si riduce, per me, tutto il loro arpeggio; quando mai hanno saputo che fosse la passione dei suoni?”68 Ecco che, ragionando in termini storico-letterari,
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Come scriverà molto eloquentemente Max Kommerell nel 1936, nel discutere la teoria schilleriana dello Spiel nell’ambito di un rinnovato impegno per un programma terapeutico di educazione estetica dell’uomo, e rifacendosi ad un’idea drammatica di arte, nietzscheanamente intesa come “sola possibilità di sopravvivenza per l’individuo”: “l’arte è l’unico modo per agire sull’inconscio e trasformarlo”. Cfr. M. Kommerell, Schiller als Psychologe (1936), in Id., Geist und Buchstabe der Dichtung. Goethe, Schiller, Kleist, Hölderlin, Vittorio Klostermann, Frankfurt a. M. 19916 , pp. 175-242. Za, Della conoscenza immacolata, p. 148. È in questa prospettiva che nell’Anticristo Nietzsche distinguerà il sogno come potenza attiva dalle finzioni prodotte dalla coscienza cristiana al fine di negare la vita e bloccarne l’incessante sviluppo. Cfr. AC, §15, pp. 181-182: “Questo mondo di pure finzioni si differenzia, con suo notevole svantaggio, dal mondo del sogno per il fatto che quest’ultimo rispecchia la realtà, mentre esso falsifica, svaluta, nega la realtà”. Za, Dei poeti, p. 156.
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Genealogia della cultura
la visione nietzscheana appare superare a piè pari la sensibilità del simbolismo, il suo concepire la poesia come immaginazione del segno ed evocazione di qualcosa di irreale, come incanto e redenzione nella magia del suono. Alla tensione tra elaborazione intellettuale cosciente e desiderio di annullamento di sé, al misticismo e alla fenomenologia magica del linguaggio che Hugo Friedrich indica come costitutivi della lirica moderna,69 Nietzsche sembra contrapporre un linguaggio come forza plasmante che si immerge nella profondità dell’istintuale e regala all’individuo nuovi gesti caratterizzati da un elevato grado di consapevolezza e, al tempo stesso, da una passionalità al cui fuoco purificatore sono andati sacrificati residui grezzi, eccessi ed alterazioni. Alla luce di quanto detto, non stupirà allora la palese predilezione di Nietzsche per i gesti della danza e del volo,70 immagini in cui si impone il dinamismo dell’immaginazione e l’anima sembra scrollare da sé tutto il suo essere pesante. Significativamente, nel Canto dei sepolcri, in cui è espresso il lutto per la perdita delle visioni e dei miti della giovinezza,71 alla “cupa orrida melodia” intonata da Wagner, al “suono tetro di corno” di colui che era stato un tempo il cantore “più caro”,72 Zarathustra contrappone la leggerezza della danza, del ritmo realizzato con il corpo: “Solo nella danza io so parlare i simboli delle cose più alte”.73 Il riferimento al tallone quale unica parte vulnerabile del corpo di Achille è capovolto nell’immagine di un tallone che custodisce un volere infallibile, che resiste ai colpi del destino e anela a esprimersi secondo un ritmo proprio: “Coi miei piedi essa vuole percorrere il suo cammino, la mia volontà antica; il suo senno è duro di cuore e invulnerabile. Solo al tallone io sono invulnerabile”.74 Dall’immagine del piede si può ricavare un’intera fenomenologia dell’andare, e, in un senso più ampio, di ogni attività dinamica che coinvolge in un processo di trasformazione: chi ha poca tolleranza per il camminare lento e costante accelererà il passo per arrivare prima alla meta prefissata, imboccherà vie 69 70
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H. Friedrich, Die Struktur der modernen Lyrik, Rowohlt, Reinbek 1956, tr. it. La struttura della lirica moderna. Dalla metà del XIX alla metà del XX secolo, Garzanti, Milano 1983, cfr. Introduzione e pp. 148ss. Determinanti per il mio discorso sono le considerazioni sull’immaginazione dinamica di Bachelard (Psicanalisi dell’aria, cit., pp. 130-170), che sostiene tra l’altro la tesi secondo cui in Nietzsche si affermerebbe un’immaginazione dall’“impronta aerea”. Per un commento del capitolo cfr. A. Venturelli, Das Grablied: zur Entwicklung des jungen Nietzsche, in «Nietzsche-Studien», 28, 1998, pp. 29-51. Za, Il canto dei sepolcri, p. 135. Ivi, pp. 135-136. Ivi, p. 136.
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Il “tipo Zarathustra”
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più brevi, o si lascerà semplicemente distrarre da altre attività. Chi tollera invece il tedio di un procedere lento e monotono, finirà per lasciarsi cullare dalla cadenza del proprio passo e darà vita a gesti inediti: dal passo normale nascerà un passo di danza. Nel capitolo Dello spirito di gravità Zarathustra potrà così esclamare: In verità, anche io ho imparato a fondo l’arte di attendere, – ma soltanto di attendere me stesso. E sopra ogni altra cosa ho imparato a stare e andare e camminare e saltare e arrampicarmi e danzare. Ma questa è la mia dottrina: chi vuole imparare un giorno a volare, deve prima di tutto imparare a stare e andare e camminare e arrampicarsi e danzare: – il volo non s’impara a volo!75
Nel fluire delle immagini il testo si arricchisce di grandi pensieri: insegna all’uomo ad amare se stesso, a “interrogare e tentare le strade da solo”.76 La tensione ascensionale espressa in queste metafore non recide il legame con la terra: nella danza e nel volo l’uomo porta il corpo con sé. In essa sembra piuttosto affermarsi un dinamismo impresso ad una sostanza da trasmutare, che si sposa con l’affermazione di un nuovo senso della terrestrità, e con la leggerezza di chi avrà “spostato tutte le pietre di confine”: “esse tutte voleranno in aria per lui, ed egli darà un nuovo nome alla terra, battezzandola – “la leggera””.77 Queste scene mostrano con evidenza come nello Zarathustra il procedere per immagini non sia un aspetto secondario in un testo che, come è stato ripetutamente osservato, non intende veicolare un contenuto dottrinario forte, un messaggio in senso univoco. Il discorso di Zarathustra, con la sua fluida semantica, si sottrae consapevolmente all’ottimismo definitorio dell’uomo teoretico, che pretende di cogliere l’essenza dietro le apparenze e farsi annunciatore di una verità assoluta, o, addirittura, di un annuncio dogmatico. Se Zarathustra è sovrano del suo discorso, è indubbiamente un “sovrano che ama abdicare”,78 che ben si guarda dal trasformare i discepoli
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Za, Dello spirito di gravità §2, p. 238. Ibid. Ivi, p. 235. Cfr. F. Ferrante, Come parlò Zarathustra? Un retore per tutti e per nessuno, La città del sole, Napoli 1996, p. 37: “Se nel discorso il retore è sovrano, Zarathustra sembra dunque essere un sovrano che ama abdicare, anche perché dietro le quinte si cela un Nietzsche di certo restio a presentare un profeta che imprigiona l’ascoltatore nelle geometrie del “senso univoco” dei propri messaggi singolarmente presi. Il fine sembra piuttosto educare all’arte di evaderle”.
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Genealogia della cultura
nell’ennesimo gregge.79 Tuttavia, sembra fuorviante considerare il pathos che lo anima alla stregua di un artefatto, o addirittura di una messinscena in cui ogni senso giunge a frantumarsi nell’alveo di un facile e scettico relativismo. Così facendo si ignorerebbe la tensione di un’immaginazione come fenomeno autonomo che attira a sé il pensiero e che anima, in una duplice coerenza, l’immagine poetica e il valore di cui essa si fa portatrice. Come si legge in un frammento del 1887: “Il mio ideale di Dioniso... Punto di vista di tutte le funzioni organiche, di tutti i più forti istinti di vita: la forza che vuole l’errore in ogni vita; l’errore come presupposto stesso del pensiero: prima che si «pensi» si deve già essere «inventato»” (gedichtet nell’originale).80 L’immagine non si costruisce quindi su un valore, ma lo produce nel movimento dinamico dell’immaginazione. Come scrive Bachelard, “l’ideale è rendere l’essere grande e vivo come le sue immagini [...] l’ideale si realizza, si realizza decisamente nelle immagini, non appena queste vengano assunte nella loro realtà dinamica, come una mutazione delle forze psichiche immaginanti”.81 Sembra quindi essere questo uso del Gleichnis, che si costituisce come un’unità immediata di pathos e pensiero, Sinnbild e Denkbild ad un tempo, ad obbligare a leggere il testo come una composizione concreta, frutto di un’immaginazione dal carattere dinamico, che crea nuovi valori per l’entusiasmo di una poesia nuova.82 Nel Canto dei sepolcri, nel cuore di quel secondo libro in cui lo spazio figurativo espone una tensione che serve al superamento di sé, Nietzsche celebra quella volontà di vita nascosta nel proprio intimo seguendo la quale ci si libera da pesi, rimpianti, rancori, da tutto ciò che dentro di noi guarda al passato, e si può rinascere in gesti nuovi. Quando l’essere è drammaticamente sospeso sopra l’abisso, il canto e la danza sono le uniche possibilità di sopravvivenza.83 La danza è metafora di un divenire innocente e amora79 80 81 82
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Za, Dello spirito di gravità §2, p. 239: “Questa, insomma, è la mia strada, - dov’è la vostra?” NL VIII/II, 10[159], pp. 191-192. G. Bachelard, Psicanalisi dell’aria, cit., p. 155. Nel mezzo delle immagini il filosofo-poeta ha la possibilità di sperimentare i valori per il loro carattere di condizioni di vita e di modi di esistere, con ciò invalidando tanto la pretesa di un carattere assoluto dei valori, quanto una loro finalità relativa e puramente utilitaristica. Sul poema come arte di “valutare” cfr. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., pp. 45-48. In una lettera del 22 marzo del 1883 a Heinrich Köselitz, Nietzsche, in riferimento al poetare ditirambico nello Zarathustra, scrive: “Ma anch’io, amico caro, ero di nuovo tutto contento, quando ascolto questa musica c’è qualcosa in fondo in fondo a me che si agita, e allora ogni volta mi propongo di resistere e di sfogare la mia peggiore cattiveria piuttosto che – soccombere”. BW IV, 392, p. 327.
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Il “tipo Zarathustra”
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le, ed esprime la gioia della leggerezza, della mobilità e della differenza. Nello Zarathustra sono numerosi gli esempi di uno psichismo della pesantezza, proprio perché non esiste una condizione di leggerezza definitiva, come ricorda beffardo a Zarathustra il nano, ennesima incarnazione dello spirito di gravità: “Tu, pietra filosofale! Hai scagliato te stesso in alto, ma qualsiasi pietra scagliata deve – cadere!”84 Nella dimensione dell’immaginazione e delle immagini che di essa sono l’espressione immediata, si rende percepibile la prossimità degli stati e dei valori tra cui Nietzsche vede dibattersi l’essere. L’uomo si trova ogni giorno nella condizione di doversi affermare sullo spirito di gravità nel gesto della danza, dell’ascesa, del volo. La quiete temporaneamente raggiunta è una quiete piena appunto perché non è mai data definitivamente, o semplicemente concessa, ma viene ogni volta riconquistata: “Come un vento leggiadro, non visto, danza sul mare liscio come l’olio, – lieve, leggero come una piuma: così – il sonno danza su di me./ Non mi chiude l’occhio, l’anima si lascia vegliare. È lieve, davvero! lieve come una piuma”.85 Nell’evocazione di questa leggerezza sembra che Nietzsche scuota da sé tutte le metafore e le immagini in esubero che una poesia subalterna avrebbe accumulato, per viverne poi pienamente l’assoluta realtà: nelle parole di Foucault, la metafora si darebbe così “come la pienezza di una presenza”,86 in essa il linguaggio è sottoposto ad una torsione che lo riempie, manifestando la presenza di una singolarità. Nell’immaginario poetico nietzscheano la rivoluzione dell’essere che ha luogo con una trasformazione dell’energia vitale sembra realizzarsi in rovesciamenti decisivi che imprimono al sé il carattere dell’oltreumano. Ne è un esempio la conclusione del capitolo Del leggere e scrivere, in cui Zarathustra, dopo aver vinto contro il demone della gravità, esclama: “Adesso sono lieve, adesso io volo, adesso vedo al di sotto di me, adesso è un dio a danzare, se io danzo” (“Jetzt bin ich leicht, jetzt fliege ich, jetzt sehe ich mich unter mir, jetzt tanzt ein Gott durch mich”).87 La ripetizione dell’avverbio jetzt e l’uso di verbi, pronomi e preposizioni monosillabici imprime al verso il carattere di una trasformazione repentina, di un tonico risveglio, di un’esplosione di gioia dionisiaca che viene catturata nelle movenze di una danza.88 Sembra qui emergere un altro aspetto centrale della scrittura nietzscheana nello Zarathustra: lo slancio dell’immaginazione riceve dalla 84 85 86 87 88
Za, Della visione e dell’enigma §1, p. 190. Za, Mezzogiorno, p. 334. M. Foucault, Introduzione a Sogno ed esistenza, cit., p. 84. Za, Del leggere e scrivere, p. 43; KSA 4, p. 50. Su Dioniso quale divinità della danza cfr. R. Reschke, Die andere Perspektive. Ein Gott, der zu tanzen verstünde. Eine Skizze zur Ästhetik des Dionysischen im Za-
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Genealogia della cultura
lingua impulsi decisivi. In particolare, il flusso di immagini sembra da un lato obbedire ad una psicologia dell’istante, che fa uso dell’energia della lingua per creare stacchi, inversioni, ribaltamenti, accelerazioni; dall’altro, negli attimi di pura quiete, esso pare rispondere ad un’intima esigenza di distensione, che estende ed allunga le immagini, sostituendo ad un lirismo dell’immediato righe colme di un’ebbrezza che è insieme dionisiaca e apollinea, sintesi di eccitazione e lievità, di pienezza traboccante e immota luminosità. I voli di ascesa e discesa ne offrono forse l’esempio migliore. Nella scena raffigurata ne Il fanciullo con lo specchio, in cui il motivo del desiderio, della solitudine, della sofferenza per la troppa pienezza, convergono nell’ebbrezza di una discesa impetuosa dalle vette, l’energia del linguaggio stimola il flusso di immagini in quello che si rivela essere un vero e proprio gesto di creazione. Il tema del donarsi è un motivo ricorrente dello Zarathustra, che in questa scena trova espressione nelle immagini di un fiume che si precipita a valle travolgendo ogni cosa nella sua corsa folle verso il mare, di una tempesta ridente e scatenata che si abbatte con impeto bellicoso sui flutti. I mutamenti sono repentini: alla sofferenza della solitudine segue l’angoscia della consapevolezza e quindi la felicità al pensiero della prossima azione: Zarathustra è trasfigurato, come “un veggente e un cantore che sia investito dallo spirito”.89 La discesa verso il mare e alla volta delle isole Beate viene realizzata nominando gli elementi e le energie in gioco, in una trama rapsodica di sollecitazioni incalzanti ed esclamazioni serrate che stimolano il movimento, lo assecondano, e generano così un crescendo di entusiasmo: “Precipiti pure il mio torrente d’amore in sentieri impervi! Come non dovrebbe alla fine un torrente trovare la via verso il mare!” (“Und mag mein Strom der Liebe in Unwegsames stürzen! Wie sollte ein Strom nicht endlich den Weg zum Meere finden!”).90 Il sentimento dominante della scena è un’euforia profonda, l’esaltazione di un sentimento di felicità e libertà. In un discorso che si gonfia di slancio l’io si rivela istanza creatrice. Un pathos mordente, colmo di impeto vitale, accompagna l’atto della creazione. L’eccitazione si riversa in una poesia aperta dalla cadenza ditirambica, in cui il linguaggio, lontano dall’assumere un carattere simbolico, è di immediata passionalità, e diventa tutt’uno con la cosa che nomina. L’anima di Zarathustra si allarga e si trasfigura: ora
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rathustra, in Friedrich Nietzsche. Also sprach Zarathustra, a cura di V. Gerhardt, Akademie Verlag, Berlin 20122, pp. 193-213. Za, Il fanciullo con lo specchio, p. 98. Ibid. KSA 4, p. 106.
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è un lago che basta a se stesso, ora un torrente in piena che precipita a valle; quindi è nuvola gravida di fulmine e grandine, vento di disgelo, tempesta, e mare sbattuto dal vento. L’intensificazione del desiderio si dà nell’impeto stesso dell’autoesortazione: si tratta di produrre nuova energia nell’ebbrezza del discorso e così procedere nel gesto della creazione. La distensione si produce invece attraverso un andamento cadenzato e prolungato che suggerisce la declamazione: I fichi cadono dagli alberi, essi sono buoni e dolci; la loro rossa pelle si screpola, quando cadono. Io sono un vento del settentrione per fichi maturi. Così, simili ai fichi, cadono a voi questi insegnamenti, amici miei: bevetene il succo, la loro polpa dolce! Tutt’intorno è autunno e cielo puro e pomeriggio. Die Feigen fallen von den Bäumen, sie sind gut und süß; und indem sie fallen, reißt ihnen die rote Haut. Ein Nordwind bin ich reifen Feigen. Also, gleich Feigen, fallen euch diese Lehren zu, meine Freunde: nun trinkt ihren Saft und ihr süßes Fleisch! Herbst ist es umher und reiner Himmel und Nachmittag”.91
Alle iterazioni è attribuibile una duplice funzione: da un lato esse aiutano, assieme alle allitterazioni (Feigen – fallen – Freunde – Fleisch) e alle assonanze (gut – süß), a strutturare, in assenza della rima, la densità figurale del passo; dall’altro esse servono ad intensificare le sensazioni e ad introdurre nuove sfumature di senso in una composizione che si contrappone al procedere ordinato del pensiero da parte di un intelletto ordinatore, per riprodurre invece l’immagine di un mondo iridescente, labirintico e multisignificante. Decisiva è l’intensità delle passioni, che infonde al linguaggio forza stilistica e perlocutiva ed imprime alle immagini un sapore di potenza.92 Come nel capitolo Della canaglia, in cui l’ascensione prende avvio da una serie concitata di quesiti: “Ma che cosa mi accadde? Come mi salvai dalla nausea? Chi ringiovanì il mio occhio? Come potei raggiungere a volo l’altezza dove nessuna canaglia più siede alla fonte?” (“Was geschah mir doch? Wie erlöste ich mich vom Ekel? Wer verjüngte mein Auge? Wie er91 92
Za, Sulle isole Beate, p. 100. KSA 4, p. 109. Cfr. S. Giametta, Commento a Così parlò Zarathustra, in F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, introduzione, traduzione, note e commento di S. Giametta, testo tedesco a fronte, Bompiani, Milano 2010, p. 911: “Il messaggio d’amore dunque non è soltanto un’apertura programmatica (in senso tecnico), ma una dirompente verità poetica, il cri du coeur di Nietzsche-Zarathustra, che alimenta la sua magniloquenza ditirambica e fa sì che essa non scada a vuota retorica”.
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flog ich in die Höhe, wo kein Gesindel mehr am Brunnen sitzt?”).93 Ad un andamento agitato e convulso, ad un crescendo drammatico prodotto dagli interrogativi che incalzano l’io nella serie di pronomi in cui si esprime la sua presenza (mir, ich, mich, mein), segue una fuga lirica che disegna un movimento di elevazione fino al punto in cui sgorga la “sorgente del piacere”. Il discorso procede come se avesse vita propria, come se si fosse emancipato dalla volontà intenzionale del soggetto per catturare le energie che scuotono il corpo di Zarathustra. L’esperienza di trasmutazione non si dà quindi in un sapere della coscienza, bensì nel discorso poetico, il cui senso non va cercato solo sul piano semantico, ma risiede anche e soprattutto nell’intensità della parola e nella concertata modulazione del verso. La ritrovata felicità è espressa in una sequenza di esclamazioni esultanti: Finita l’indugiante tetraggine della primavera! Passata la cattiveria dei miei fiocchi di neve a giugno! Estate io sono diventato tutto, e meriggio estivo! Un’estate sulle cime con fredde sorgenti e silenzio beato: oh, venite, amici, perché il silenzio diventi ancora più beato!” Vorbei die zögernde Trübsal meines Frühlings! Vorüber die Bosheit meiner Schneeflocken im Juni! Sommer wurde ich ganz und Sommer-Mittag!/ Ein Sommer im Höchsten mit kalten Quellen und seliger Stille: oh kommt, meine Freunde, dass die Stille noch seliger werde!94
La trasfigurazione della persona negli elementi del paesaggio si realizza per il tramite della tensione verticale, di un volo che ha creato una nuova poesia, un canto supremo che coincide con lo slancio vitale. Mentre la “canaglia” è espressione di una collettività in cui i singoli non hanno ancora sviluppato una propria individualità,95 in questi atti di creazione linguistica, in questi voli liberatori in cui l’essere si slancia tutto intero fuori da sé, i confini della soggettività sono trascesi e l’anima si allarga ad abbracciare stati opposti: malinconia e beatitudine, estate infuocata e frescura. Riflessione e canto sono divenuti una cosa sola: mentre si chiede dove risieda la vita, il testo la realizza nella retorica stessa che inscena. Il discorso non ha, quindi, una meta verso cui affrettarsi, e non pare guidato da un’intenzionalità esterna; in esso si manifesta piuttosto una volontà di 93 94 95
Za, Della canaglia, p. 116. KSA 4, p. 125. Ivi, p. 117. KSA 4, p. 126. Allo stesso modo dei soldati, cui Nietzsche contrappone la figura del guerriero. Cfr. Za, Della guerra e dei guerrieri, p. 50: “Io vedo molti soldati: vedessi molti guerrieri! “Uniforme” si chiama ciò che essi indossano: possa non essere uniforme ciò che essi in tal modo nascondono”.
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vita che non vuole convincere, incoraggiare, ottenere, ma inebriarsi solo di se stessa, in una vitalità dionisiaca che è sensualità di forme, sensazioni, e colori. Zarathustra incarna il tipo di un’intelligenza che è capace di infiammarsi nella retorica del suo discorso, che sperimenta la pienezza di un sentimento di vita di cui il pensiero non è giudice o nemico, ma si produce nell’ebbrezza della creazione poetica. La creazione artistica ha per così dire risucchiato in sé il suo creatore e sembra vivere di vita autonoma, senza tuttavia che alla vita vengano sacrificati lo spirito e la conoscenza. 3. Il “grande ritmo”. Per un’etica dello stile In contrasto con una concezione romantica dell’arte, fondata sui tratti istintivi dell’intuizione immediata, su categorie quali “ispirazione” ed “improvvisazione”, Nietzsche accentua la componente architettonica e costruttiva del discorso poetico, che guadagna in “forza e libertà” solo quando si sottopone alle regole ferree del metro e del ritmo, al vincolo della “tirannide di tali leggi arbitrarie”:: “Ogni Ogni artista sa quanto sia distante dal sentimento del lasciarsi andare il suo stato «più naturale», la libertà, cioè, con cui egli ordina, stabilisce, dispone, dà forma, negli attimi dell’«ispirazione»”.96 L’elemento costruttivo e plastico è sicuramente centrale per l’impianto di un testo come lo Zarathustra, che è ben lungi dal configurarsi alla stregua di un’opera ispirata, dettata dalle intuizioni improvvise e dai bagliori fulminei di un’anima ebbra.97 Nella cosiddetta fase illuministica del suo pensiero, Nietzsche scorge proprio nell’improvvisa esplosione dell’affla96 97
JGB, Per la storia naturale della morale, af. 188, p. 86. Cfr. A. Giacomelli, Simbolica per tutti e per nessuno, cit., p. 55: “Il testo dello Zarathustra, derivato dalla folgorante intuizione dell’eterno ritorno avuta da Nietzsche nel 1881 sul rive del lago di Silvaplana, ci appare dunque di primo acchito come espressione di un inconscio primitivo, come frutto di una creatività metaforizzante e mitopoietica che rende ardua ogni classificazione e collocazione di tipo tradizionale: tuttavia dietro a quello che si presenta come un linguaggio caratterizzato dai tratti istintivi dell’intuizione, è in realtà celato con magistrale sprezzatura un ponderato e paziente labor limae”. Dello stesso avviso B. Zavatta, La potenza dell’immagine. Metafora e simbolo in “Così parlò Zarathustra”, Aiep, Repubblica di San Marino, 2001, p. 15, che sembra tuttavia propendere più per il lavoro calcolato mirato ad un effetto che Nietzsche si proponeva di conseguire: “[...] esso non fu il modo dell’ispirazione, ma il frutto di un paziente e meticoloso lavoro. Così abbiamo ragione di credere che anche la forma di quest’opera non sia dovuta ad un’improvvisa esplosione di afflato poetico, ma ad un attento e ragionato calcolo”.
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Genealogia della cultura
to poetico il residuo ostinato di una visione romantica (e neoromantica) dell’arte, cui contrappone l’acribia del mestiere dell’artigiano e il pensiero artistico “scelto con serietà e sforzo”.98 Se senz’altro i discorsi ed i canti di Zarathustra non vanno ridotti ad un mero calcolo estetico dettato dal giudizio, è evidente che essi non sono neppure unicamente assimilabili ad un flusso ispirato di pura visionarietà estatica che non conosce rallentamenti, arresti ed indugi,99 ovvero all’ebbrezza originariamente propria del ditirambo dionisiaco che si esprime nella varietà delle modulazioni stilistiche e ritmiche del poema e sembra vanificare ogni tentativo di contrapporvi una disposizione armonicamente ordinata delle parti. Piuttosto, nello Zarathustra “possessione” inconscia e lavoro della coscienza sembrano convergere nella costruzione di un sé che, pur piegandosi alla legge di una necessità interna, trascende la ricchezza di intuizioni immediate tipiche di un’opera ispirata per sottoporsi anche ad uno sforzo di riflessione e di percezione che agisce sul tessuto immaginario e linguistico per costruire, combinare, deformare e trasformare. La costruzione del sé richiede ricchezza e varietà di contenuti, ma anche la capacità di elaborare mezzi artistici con cui dare forma al caos. È in questo senso che Nietzsche lamenta l’esaurimento della forza organizzatrice in quelle epoche che si contraddistinguono per la tendenza alla commedia e per l’arte del mero artificio: “è la forza costruttiva che ora resta paralizzata; viene meno il coraggio di fare piani a lunga scadenza; cominciano a mancare i genii organizzatori”.100 È cosa nota che, nella diagnosi nietzscheana, la decadenza non si manifesta solo sul piano del contenuto, ma anche e soprattutto a livello formale. Come documenta lo scritto Il caso Wagner, Nietzsche riscontra nella melodia infinita wagneriana la tendenza a cedere all’attimo e al dettaglio, la minaccia della disintegrazione dell’insieme in una miriade di particelle 98
MA I, af. 163, p. 130: “Si possono nominare grandi uomini di ogni specie, che furono poco dotati. Ma essi acquistarono grandezza, divennero «geni» (come si dice), con qualità della cui mancanza non parla volentieri nessuno che ne sia consapevole: essi avevano tutti quella solida serietà del mestiere, che impara a formare perfettamente le parti prima di osar comporre un gran tutto; a tal fine essi prendevano tempo, perché provavano un piacere maggiore nel far bene il piccolo, il secondario, che nel mirare all’effetto di un insieme abbagliante”. 99 Heidegger evidenzia il sentimento della paura provata da Zarathustra di fronte alla necessità di accettare il pensiero abissale, ed è questa paura che, nella sua lettura, darebbe vita al ritmo rallentato ed indugiante dell’opera. Cfr. M. Heidegger, Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?, cit., p. 69: “Davanti a tale divenire Zarathustra si ritrae spaventato. Questo spavento determina lo stile, l’andamento indugiante e sempre di nuovo rallentato dell’opera”. 100 FW, af. 356, p. 265.
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dotate di vita propria.101 Ecco che nel fraseggio wagneriano si renderebbero manifeste due carenze fondamentali: innanzitutto l’attenzione ossessiva per il singolo gesto (la frase), l’abilità sempre più raffinata nell’esibizione del dettaglio, nella scelta degli artifici retorici e nella facoltà di mettere in scena l’attimo nel modo più convincente possibile; quindi, in conseguenza di questo, il venir meno della forza plasmante e della capacità organizzatrice. Come si legge in una lettera del 1886 all’amico compositore Carl Fuchs, la frase si imporrebbe sulla melodia, l’atomo sul tutto, ma anche, significativamente, “il pathos sull’ethos (carattere, stile, o come lo si vuol chiamare —)”.102 Pare significativo che Nietzsche torni a discutere questioni relative al ritmo, riesumando i risultati degli studi filologici condotti a Basilea sulla ritmica e sulla metrica antiche, proprio in concomitanza con la stesura de Il caso Wagner e con i progetti della cosiddetta “fisiologia dell’arte”, ovvero nel momento in cui la diagnosi della decadenza trova la sua espressione compiuta.103 Due ulteriori lettere a Carl Fuchs dell’agosto del 1888, così come i numerosi riferimenti all’arte del “grande ritmo” contenuti in Ecce Homo, rendono evidente la rilevanza attribuita al ritmo non solo come materia di riflessione antropologica ed estetica, ma anche come dispositivo nel contesto della propria produzione artistica.104
101 Cfr. Wa, §7, p. 23: “[ ] il suo scindere, il suo ricavare piccole unità, il suo animarle, sbalzarle in evidenza, il suo renderle visibili”. 102 BW V, 688, p. 177. 103 Così anche J.H. Gleiter, Nietzsches ‚extremster Ästhetik‘ der Modernität: ‚Der grosse Rhythmus‘, in R. Reschke (a cura di), Bilder – Sprache – Künste. Nietzsches Denkfiguren im Zusammenhang, (Nietzscheforschung. Jahrbuch der Nietzschegesellschaft, vol. 18, Nr. 1), Akademie Verlag, Berlin 2011, pp. 17-26. 104 Non è un caso che, nei più recenti studi sul ritmo nelle arti, Nietzsche venga spesso citato come l’artefice di una teoria che attribuiva al ritmo la facoltà di rendere fertile il pensiero e di affinare la scrittura. A titolo di esempio cfr. B. Naumann (a cura di), Rhythmus: Spuren eines Wechselspiels in Künsten und Wissenschaften, Königshausen&Neumann, Würzburg 2005, pp. 8-9, e C. Brüstle et al. (a cura di), Aus dem Takt. Rhythmus in Kunst, Kultur und Natur, transcript, Bielefeld 2005, pp. 9-10. In effetti pochi altri pensatori hanno dato tanta importanza al ritmo nelle arti e nella filosofia come Nietzsche, che vi attribuiva anche un influsso diretto sull’ambizione gnoseologica del pensiero. Lungi dall’essere inteso solo alla stregua di un ornamento, il ritmo è per Nietzsche una struttura per così dire aprioristica, un principio trascendentale, sia esso da considerarsi di natura cosmologica o fisiologica. Cfr. FW, af. 84, p. 111: “Ancor oggi, dopo un lavoro di secoli nel combattere questa superstizione, anche il più saggio di noi diventa all’occasione un invasato del ritmo, non fosse altro per il fatto che egli sente più vero un pensiero ove abbia una forma metrica e venga incontro con un divino oplà”.
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Di fatto, è stato spesso rilevato un legame inscindibile tra la struttura ritmica della lingua negli scritti nietzscheani ed il suo potenziale d’effetto, che hanno portato a vedere nel ritmo un artificio stilistico legato alla categoria retorica della persuasio.105 Tuttavia, pare evidente come Nietzsche fosse in realtà ben lontano dal ridurre il ritmo ad un fenomeno linguistico, e dall’esaltarne l’efficacia su un piano puramente retorico. Come si evince dall’aforisma §84 della Gaia scienza, il valore attribuito al ritmo sembra piuttosto risiedere nell’azione purificatrice che già gli antichi gli avevano ascritto, nella facoltà di scaricare le passioni e di rigenerare l’equilibrio psico-fisico, nel potere di guarire l’ebbrezza degli invasati attraverso un’ebbrezza di altra natura.106 Visto in questa luce, il ritmo appare come un fenomeno dipendente in ugual modo dall’eccitabilità fisiologica e dalla disposizione spirituale dell’ascoltatore, come un’assuefazione elementare, un’ingiunzione che produce nel corpo e nell’anima un desiderio irresistibile di accordo e di sincronia: “non soltanto il movimento dei piedi, ma anche l’anima stessa segue la cadenza”.107 Già nelle Rhythmischen Untersuchungen (“Analisi ritmiche”), in un passo intitolato Kraft des Rhythmus (“Forza del ritmo”), Nietzsche annota che in ogni individuo sono presenti svariati ritmi interni, sicché la percezione di un ritmo esterno compie un “attacco al corpo” che impone una legge nuova: tutto inizia improvvisamente a muoversi secondo un ritmo inedito, che regola ed organizza quelli già esistenti.108 Dalle prime lezioni sulla lirica e sul dramma dei greci fino all’ultimo grande scritto Ecce Homo, è ineludibile l’enfasi posta da Nietzsche su questioni relative all’accento e al ritmo quali strumenti attraverso cui tradurre nel linguaggio il pathos degli affetti. Fu tra l’altro proprio Nietzsche a scoprire che la ritmica antica si basava esclusivamente su criteri quantitativi, legati all’economia della durata, e non sull’accento della parola, e quindi sull’alternanza di arsi e tesi.109 Presso gli antichi il verso era strutturato solo secondo una successione di sillabe lunghe e brevi, e non attraverso l’accento dinamico caratteristico delle lingue germaniche, che veniva prodotto tra105 Cfr. H.-J. Frey, Vier Veränderungen über Rhythmus, Urs Engeler, Basel/Weil am Rein/Wien 2000, pp. 42-56. 106 Cfr. FW, af. 84, p. 109 107 Ibid. 108 KGW II/3, p. 322. 109 Al riguardo cfr. C. Benne, Good cop, bad cop. Von der Wissenschaft des Rhythmus zum Rhythmus der Wissenschaft, in G. Abel, M. Brusotti, H. Heit (a cura di), Nietzsches Wissenschaftsphilosophie: Hintergründe, Wirkungen und Aktualität, Walter de Gruyter, Berlin 2011, pp. 187-210, qui pp. 194-195.
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mite un’emissione particolarmente pronunciata della sillaba accentata.110 Secondo Nietzsche, con l’introduzione dell’ictus avrebbe avuto luogo il “declino del vocalismo antico”,111 e con esso la scomparsa del senso della misura, della proporzione e del tempo nel linguaggio parlato.112 Nelle lingue germaniche, il pathos espresso dall’accento, e concentrato solo su alcune sillabe, avrebbe dato vita ad una nuova tipologia di ritmo, non più basata sul tempo (Zeitwechselwelle), bensì su oscillazioni di intensità (Stärkewechselwellen).113 È a questa teoria che Nietzsche si richiama nel 1888, quando, nelle succitate lettere a Fuchs, definisce la cosiddetta “ritmica barbarica” delle lingue germaniche uno strumento per esprimere le passioni, mentre la ritmica antica, strutturata principalmente secondo criteri temporali, serviva ad attenuare e a contenere il pathos dell’oratore.114 Queste riflessioni, che si concludono con la costatazione lapidaria secondo cui “il nostro tipo di ritmica appartiene alla patologia, quella antica all’«ethos»”,115 conducono direttamente nel cuore dell’analisi nietzscheana dell’estetica di Wagner, in cui la moderna décadence parlerebbe il suo linguaggio più intimo. Nella prospettiva del ritmo, la musica wagneriana sarebbe caratterizzata dall’esasperazione della cosiddetta “ritmica barbarica” e, di contro, dall’indebolimento dell’antica “ritmica del tempo” organizzatrice. Tuttavia, lungi dall’interessare esclusivamente fenomeni di natura temporale come la mu110 Mentre presso gli antichi l’accento era “anima vocis”, ovvero si realizzava tramite l’altezza del tono, o la lunghezza della sillaba, nelle lingue germaniche la “vita della parola” era concentrata nella sillaba accentata. Cfr. KGW II/3, p. 398. Sul concetto di ritmo nell’opera giovanile di Nietzsche cfr. la dettagliata analisi di F.F. Günther, Rhythmus beim frühen Nietzsche, Walter de Gruyter, Berlin 2008, qui pp. 20-42. 111 KGW II/3, p. 307. 112 Ivi, p. 308. 113 Nietzsche rifiuta quindi di concepire ritmo e tempo come costanti antropologiche, e li considera fenomeni culturali legati alla lingua. Nella sua teoria della “ritmica quantitativa” si nega sistematicamente ogni relazione tra unità di tempo da un lato, e ritmo e metro dall’altro, la cui equivalenza era stata posta come incontestabile nella storia della ritmica moderna. 114 BW V, 1097, p. 718: “Il nostro ritmo rappresenta un mezzo per esprimere l’affetto: al contrario il ritmo antico, basato sul tempo, ha la funzione di padroneggiare l’affetto e, in una certa misura, di eliminarlo. La declamazione dell’antico rapsodo era estremamente appassionata (nello Ione di Platone si trova un’incisiva descrizione dei gesti, delle lacrime, ecc): l’armonica scansione del tempo veniva percepita come una sorta di olio sulle onde. Il ritmo, così come lo intendevano gli antichi, è dal punto di vista morale ed estetico il freno che veniva messo alla passione”. 115 Ibid.
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sica o il linguaggio parlato, la “décadece ritmica” tipica delle epoche dal gesto istrionico e virtuoso coinvolgerebbe anche la dimensione spaziale, ovvero ogni configurazione di forme percepibile attraverso la vista,116 e così anche il fenomeno della scrittura, sia essa in forma di prosa o di poesia. All’arte wagneriana della presa ipnotica, della sovreccitazione delle parti, della gestualità convulsa ed allucinata e dell’irriflessività isterica, Nietzsche contrappone una scrittura artistica come spazio etico in cui dare forma al pathos degli affetti attraverso lo stile, la riflessione e la ricerca di una nuova chiarezza e lievità di espressione. “Io sono, tanto quanto Wagner, il figlio di questo tempo, voglio dire un décadent: solo che io ho compreso ciò, mi sono difeso contro di ciò”,117 si legge ne Il caso Wagner.118 Nel contesto della diagnosi della decadenza, l’arte dello stile sperimentata nello Zarathustra è quindi da intendersi non solo come reazione all’usura della lingua quotidiana, o alla rigidità del linguaggio concettoso della filosofia accademica, ma anche come la forma artistico-letteraria in cui il sé opera in una costruzione artistica di se stesso che fa del “grande ritmo”, per il quale si rivela determinante il confronto filologico con la ritmica antica, il principio strutturale decisivo per una differenziazione e un superamento della malattia del linguaggio artistico wagneriano: Nessuno ha mai potuto prodigare tanti mezzi artistici nuovi, inauditi, creati in realtà appositamente per la prima volta. Restava da dimostrare che fosse possibile fare una cosa simile in lingua tedesca: prima di realizzarla, io stesso avrei rifiutato questa possibilità nel modo più deciso. Prima di me non si sapeva
116 BW V, 1096, p. 714: “Nella misura in cui l’occhio si adegua alla singola forma ritmica (frase), diventa miope per quanto riguarda le forme ampie, lunghe, grandi: esattamente come nell’architettura del Berninismo. Un cambiamento dell’ottica del musicista – sta verificandosi ovunque: non solo nell’eccesso di vivacità ritmica delle parti più minute, la nostra capacità di godimento si limita sempre più alle cose delicate, piccole, sublimi”. Che la ritmica antica fosse principalmente una tecnica di organizzazione dello spazio, e non solo del tempo, viene spiegato ancora una volta nella lettera a Fuchs. Nella tragedia antica le unità ritmiche servivano ad organizzare gli spazi e le forme attraverso i movimenti di danza che avevano luogo sul palco, così che i rapporti temporali venivano rappresentati a livello simbolico da quelli spaziali (cfr. KGW II/3, p. 325). 117 Wa, Prefazione, p. 5. 118 Lo sforzo di chiarezza nell’articolazione delle differenze sembra essere uno dei maggiori pregi del pensiero e della scrittura di Nietzsche, contro quello che è stato spesso bollato come un facile prospettivismo. Cfr. al riguardo W. Stegmaier, “Philosophischer her Idealismus” und die “Musik des Lebens”. Zu Nietzsches Umgang mit Paradoxien. Eine kontextuelle Interpretation des Aphorismus Nr. 372 der Fröhlichen Wissenschaft, in «Nietzsche-Studien», 33, 2004, pp. 90-128.
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cosa si può fare con la lingua tedesca, – che cosa si può fare con il linguaggio in genere. L’arte del grande ritmo, il grande stile del periodare, per esprimere un immenso su e giù di passione sublime, sovrumana, questo è stato scoperto per la prima volta da me; con un ditirambo come l’ultimo del terzo Zarathustra, intitolato «I sette sigilli», ho volato migliaia di miglia al di sopra di tutto ciò che finora si chiamava poesia.119
Per Nietzsche i fenomeni ritmici non si esauriscono nella sfera della Ergriffenheit, di un’immediatezza creativa e ricettiva, del puro Erlebnis e dell’espressione spontanea dell’anima. Al contrario, Nietzsche considera il ritmo come il mezzo artistico più adatto per potenziare e al contempo dominare le passioni. È infatti significativo che nella Nascita della tragedia il ritmo non sia annoverato tra i fenomeni dionisiaci che inducono stati di ebbrezza e di trance, ma venga piuttosto ricondotto nella sfera apollinea dell’individuazione e della limitazione come principio architettonico capace di domare i moti della volontà dionisiaca e di ricondurre la molteplicità caotica del divenire ad un ordine temporale e spaziale. Al ritmo, quale forma specifica di autoaffermazione contro il caos dionisiaco, Nietzsche riconosce fin da subito un alto valore antropologico e terapeutico per la vita e per la cultura. Disconoscere la funzione del ritmo come principio strutturale in grado di organizzare nel tempo e nello spazio il discorso prodotto dal soggetto, è prerogativa di una visione semiotica, che, concependo il linguaggio come un sistema di segni, è destinata a ridurre il ritmo ad una sottocategoria della forma. Fu il lirico francese Henri Meschonnic, nel contesto di una critica 119 EH, Perchè scrivo libri così buoni §4, pp. 313-314. Significativamente, Significativamente, nell’aforisma 246 di Al di là del bene e del male, in contrapposizione alla mancanza di sensibilità dei tedeschi per lo stile, Nietzsche esalterà il valore di un linguaggio plasmato con “arte” e “intenzioni”. JGB, Popoli e patrie, af. 246, p. 160: “Che non sia lecito restare in dubbio sulle sillabe ritmicamente decisive, che si senta come voluta e quindi come affascinante la rottura di una simmetria troppo rigorosa, che si tenda l’orecchio sottile e paziente ad ogni staccato, ad ogni rubato, che si indovini il senso nella successione delle vocali e dei dittonghi e con quale delicatezza e ricchezza essi possono colorirsi e cangiar di tonalità nella loro sequenza: chi tra i Tedeschi leggitori di libri ha tanta buona volontà da riconoscere questa specie di doveri e di esigenze e da prestare ascolto a tanta arte e tanti intendimenti nel linguaggio?” In un appunto del 1885 riferito allo Zarathustra si legge: “non credo assolutamente che oggi qualcuno sia in grado di udir risuonare il suo tono complessivo: la sua comprensione inoltre presuppone un tale lavoro filologico, e più che filologico, quale nessuno oggi può impiegarvi, per mancanza di tempo” (NL VII/III, 38[15], p. 298). Ciò che conta per una lettura efficace di un testo, ha valore anche per la sua creazione, che presuppone quindi ampie cognizioni filologiche e maestria nel forgiare il linguaggio per mezzo di artifici stilistici.
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Genealogia della cultura
radicale del segno, a riprendere, in un saggio del 1982120 evidentemente ispirato a Nietzsche e alle indagini di Benveniste sulla funzione del discorso, il significato preplatonico del termine rhythmos allo scopo di affrancare il concetto dalle maglie della tradizione metrica. Vale la pena soffermarsi brevemente sul modello di Meschonnic perché esso illumina con grande chiarezza la portata dell’intento di Nietzsche e della sua estetica del “grande ritmo”. In un pionieristico scritto del 1951,121 Benveniste aveva sottolineato che, se Platone aveva definito il rhythmos come metro, come alternanza misurabile e calcolabile di sillabe, nella filosofia ionia esso era invece inteso come “forma del divenire”, quindi come una “configurazione improvvisa e temporanea”. Richiamandosi alla teoria di Benveniste, Meschonnic riscopre nel ritmo un principio in grado di descrivere l’individuazione nel linguaggio: non più assimilato, nel senso platonico, ad uno schema ripetitivo, o di misura del verso, il ritmo designa un fenomeno più ampio, un assetto provvisorio, imprevedibile, singolare, che non si dà necessariamente sul piano della produzione orale. In questa prospettiva, il ritmo rappresenta l’attività di un soggetto che si configura in ogni sua esternazione in modo sempre diverso e sorprendente, creando una semantica specifica che non è mai riducibile al contenuto lessicale, ma è anche prodotto della struttura sintattica e della materialità sonora e ritmico-prosodica dei significanti. Il ritmo è la configurazione nel discorso di quel senso che non risiede solo nella semantica delle parole. Ed essendo questo senso espressione dell’attività del soggetto nel discorso, il ritmo designa necessariamente l’organizzazione del soggetto nel suo discorso.122 Si ritiene che sia proprio in questo senso che debba essere intesa la nota affermazione contenuta nel Tentativo di autocritica, che non a caso si conclude con una citazione dallo Zarathustra: “avrebbe dovuto cantare,
120 H. Meschonnic, Critique du rythme. Anthropologie historique du langage, Editions Verdier, Paris 1982. Solo recentemente la Nietzscheforschung ha messo in rilievo l’analogia della concezione di Nietzsche con la teoria di Meschonnic. Cfr. C. Benne, Good cop, bad cop, cit., pp. 200-201. Più diffusamente sulla teoria di Meschonnic cfr. H. Lösener, Der Rhythmus in der Rede. Linguistische und literaturwissenschaftliche Aspekte des Sprachrhythmus, Niemeyer, Tübingen 1999. 121 É. Benveniste, La notion de «rythme» dans son expression linguistique (1951), tr. it. La nozione di ritmo nella sua espressione linguistica, in Id., Problemi di linguistica generale, cit., pp. 390-399. 122 H. Meschonnic, Critique du rythme, cit., p. 71: “Si le sens est une activité du sujet, si le rythme est une organisation du sens dans le discours, le rythme est nécessairement une organisation ou configuration du sujet dans son discours”.
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quest’«anima nuova» - e non parlare!”.123 È quindi nel mezzo del ritmo che l’individuo ideale nietzscheano costruisce se stesso attraverso la configurazione delle passioni e degli affetti in un’espressione artistica, ossia riorganizzandosi ogni volta di nuovo nell’economia spazio-temporale di un discorso poetico.124 Si ha qui un’ulteriore prova del fatto che il senso del linguaggio dello Zarathustra non va ricercato solo sul piano lessicale, ma anche e soprattutto su quello del tono, dello stile, della modulazione e del ritmo, ovvero delle caratteristiche materiali e soprasegmentali della lingua.125 Lo Zarathustra opera nello stile di un movimento ampio, che appare tuttavia calcolato nel più piccolo dettaglio. Già nelle Rhythmische Untersuchungen Nietzsche costatava che la forza sensuale del ritmo si origina dall’interazione di due cadenze, di cui la più ampia suddivide e organizza quella più breve.126 Nel poema si riscontra essenzialmente la presenza di due ritmi tra loro contrastanti: un ritmo più sincopato, che si caratterizza per l’immediatezza concitata, per le cesure e le interruzioni, ed un ritmo dal respiro più ampio, che agisce sulla lunghezza, che tende a fondere le tonalità e ambisce ad una purificazione delle passioni.127 L’articolazione 123 GT, Tentativo di autocritica §3, p. 7. 124 Una lettera del 13 luglio 1883 ad Heinrich Köselitz, nel quale viene commentato il passaggio dalla prima alla seconda parte dello Zarathustra, testimonia la centralità della questione del ritmo per la stesura del poema: “Questa è l’epigrafe della seconda parte: da essa derivano armonie e modulazioni diverse da quelle della prima parte, ma parlare in questi termini a un musicista è quasi disdicevole”. BW IV, 433, p. 375. 125 In un contributo situato programmaticamente tra estetica e antropologia culturale, Gert Mattenklott ha indagato in questo senso ritmi e gesti in alcuni aforismi della Gaia scienza, dimostrando come il ritmo conferisca ai suddetti aforismi il gesto rappresentato dal loro contenuto: “Seine Sprachform [des Aphorismus] erhält die Plastik des zögernden Gehens, des aufatmenden Seufzens, als der Gedanke endlich heraus ist”. Cfr. G. Mattenklott, Der Taktschlag des langsamen Geistes. Tempi in der fröhlichen Wissenschaft, in F. Hager (a cura di), KörperDenken. Aufgaben der Historischen Anthropologie, Reimer, Berlin 1996, pp. 137-151, qui p. 140. 126 KGW II/3, p. 322. 127 Si concorda con Gleiter quando scrive che il “grande ritmo” è caratterizzato sia dal pathos della “ritmica barbarica”, sia dal gesto ordinatore della ritmica antica. Cfr. J. H. Gleiter, Nietzsches ‘extremster Ästhetik’ der Modernität: ‘Der grosse Rhythmus’, cit., p. 25: “Die Gegensätze unaufgelöst in eine neue Einheit einzubinden, dafür steht das ‚Große‘ bei Nietzsche”. Cfr. un appunto concomitante alla stesura della quarta Inattuale, in cui Wagner è ancora dipinto come colui che “preserva il tessuto dalla disintegrazione”; cfr. NL IV/I, 11[20], pp. 260-261: “Egli ha, per usare un termine medico, qualcosa di astringente, egli unisce con la forza ciò che era isolato e debole, inerte”.
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ritmica del verso, che dispone e struttura il flusso di immagini, cattura, per così dire, l’energia che scuote il corpo e l’anima di Zarathustra. Zarathustra vuole parlare e comunicarsi, nel discorso monologico che instaura con se stesso il tumulto delle passioni va incontro a potenziamenti e distensioni: “Certo, dentro di me è un lago, solitario, che basta a se stesso; ma il mio torrente d’amore lo trascina giù in basso con sé – verso il mare!/ […] Troppo lentamente scorre per me ogni parlare: – io salto sul tuo carro, tempesta!” (“Wohl ist ein See in mir, ein einsiedlerischer, selbstgenugsamer; aber mein Strom der Liebe reisst ihn mit sich hinab – zum Meere!/ […] Zu langsam läuft mir alles Reden: – in deinen Wagen springe ich, Sturm!”).128 Il ductus stilistico del linguaggio ditirambico si manifesta nella sintassi semplificata, ridotta pressoché all’ossatura, nella drammatizzazione ottenuta con l’inserimento di interrogative ed esclamative, nell’enfasi conseguita tramite le parole accentate.129 Momenti di sosta, interruzione, indugio, vengono resi graficamente con il trattino, che separa e così evidenzia singole parole, sintagmi e frasi. L’interpunzione, che nella scrittura corrisponde al fraseggio in ambito musicale,130 serve ad esporre la struttura del discorso e ad animarne i singoli segmenti, i quali trovano una disposizione sicura nel ritmo ampio del verso. Come annota Nietzsche in Ecce homo, nello
128 Za, Il fanciullo con lo specchio, p. 98. KSA 4, p. 106. 129 La quarta Inattuale contiene il nucleo originario della successiva rappresentazione di sé come artista ditirambico, i cui tratti fondamentali, in questa descrizione guidata da un impeto di identificazione e di idealizzazione, vengono ancora attribuiti a Wagner: “corposità dell’espressione, temeraria concisione, forza e ritmica varietà, una notevole ricchezza di termini forti e significativi, semplificazione della struttura del periodo, una inventività quasi unica nel linguaggio dell’ondeggiante sentimento e del presentimento, una popolarità e sentenziosità scaturenti a volte con estrema purezza”; e soprattutto “la gioia del legislatore. Domare impetuose masse contrastanti, trasformandole in ritmi semplici” (WB, §9, pp. 59 e 66). 130 Cfr. BW V, 1096, p. 714: “Questo animare, questo dar vita alle parti più minute del discorso musicale (- vorrei che Lei e Riemann adottaste le parole che si conoscono dalla retorica; periodo (frase), due punti, virgola, a seconda delle dimensioni, come pure frase interrogativa, frase condizionale, imperativo – la teoria del fraseggio, infatti, è semplicemente ciò che le regole dell’interpunzione sono per la prosa e la poesia), - dunque: abbiamo esaminato questo animare e dar vita alle particelle più minute, cosa che in musica rientra nella prassi di Wagner, e a partire da lui è diventato una modalità interpretativa quasi imperante (persino per attori e cantanti), in rapporto ad analoghe manifestazioni in altre arti: è un tipico sintomo di decadenza, la dimostrazione del fatto che la vita si è ritirata dall’intero e prospera nelle parti più piccole”.
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Il “tipo Zarathustra”
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Zarathustra è “il bisogno di un ritmo teso in ampiezza” la “misura della violenza dell’ispirazione”.131 Attimi di distensione e di appagamento succedono a momenti di tensione, di pathos, di irruenza, prodotti rispettivamente dal rallentamento e dallo slancio accelerato del ritmo. La scrittura non è l’organo attraverso cui dare sfogo agli impulsi (Triebe), bensì lo spazio di una spiritualizzazione (Vergeistigung) delle passioni che si raggiunge attraverso un loro potenziamento, plasmato tuttavia da leggi ferree, mai uguali a se stesse, e tuttavia sempre vincolanti. È in questo senso che, in riferimento al ritmo ampio dell’inno I sette sigilli, Nietzsche parla del “grande stile del periodare, per esprimere un immenso su e giù di passione sublime”.132 L’ampiezza della misura e dell’oscillazione ritmica di questo inno, che appare conseguita essenzialmente attraverso il ductus sillabico, testimonia di un’esperienza di affermazione dell’istante terreno che la persona può fare con se stessa: Se mai tesi al di sopra di me cieli immoti, e volai con le mie ali nei miei cieli: Se nuotai senza fatica in profonde lontananze di luce, e l’uccello “saggezza” della mia libertà giunse: – – ma l’uccello “saggezza” parla così: «Ecco, non c’è sopra né sotto! Slanciati e vola: in giro, in avanti, all’indietro, tu che sei lieve! Canta! non parlare più! – non sono le parole, tutte, fatte per i grevi? Non mentono tutte le parole per chi è lieve! Canta! Non parlare più!». – Wenn ich je stille Himmel über mir ausspannte und mit eignen Flügeln in eigne Himmel flog: Wenn ich spielend in tiefen Licht-Fernen schwamm, und meiner Freiheit Vogel-Weisheit kam: – – so aber spricht Vogel-Weisheit: »Siehe, es giebt kein Oben, kein Unten! Wirf dich umher, hinaus, zurück, du Leichter! Singe! sprich nicht mehr! – »sind alle Worte nicht für die Schweren gemacht? Lügen dem Leichten nicht alle Worte! Singe! sprich nicht mehr!« – 133
Senza perdere il dominio di sé l’io si abbandona al ritmo di un canto che afferma la sua leggerezza contro il peso delle parole. Nella Seconda canzone di danza, in cui la saggezza di Zarathustra, come nel primo Lied, si confronta con il gioco di metamorfosi, pericoloso e seducente ad un tempo, che la vita conduce con se stessa, all’oscillazione verticale, al “su e giù” 131 EH, Così parlò Zarathustra §3, p. 349. 132 EH, Perché scrivo libri così buoni §4, p. 314. 133 Za, I sette sigilli §7, p. 282. KSA 4, p. 291.
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Genealogia della cultura
della passione, si sostituiscono movimenti orizzontali, fluttuazioni, fughe e balzi. La tensione tra saggezza e vita assume il ritmo di una scena di caccia, che, libera da norme o regole metriche prestabilite, conferisce alle rime in cui è articolata una cadenza che imita quella del cantastorie. Come scrive Gadamer, il canto è “ricolmo del «grande anelito» dell’anima verso il grande liberatore Lyaio, Bacco, Dioniso”,134 e Dioniso è anche scherzo, lazzo e buffoneria: Questa è una danza di salti sopra fossi e siepi: io sono il cacciatore, - vuoi essere il mio cane o il mio camoscio? E ora da me! E presto, coi tuoi salti maligni! E ora su! Via laggiù! - Ahi! Ecco che nel saltare sono caduto anche io! Das ist ein Tanz über Stock und Stein: ich bin der Jäger, – willst du mein Hund oder meine Gemse sein? Jetzt neben mir! Und geschwind, du boshafte Springerin! Jetzt hinauf! Und hinüber! – Wehe! Da fiel ich selber im Springen hin!135
L’andamento scandito dalla rima interna non è fluido, bensì interrotto da cesure che sospendono lo slancio dei versi,136 da interrogativi ed esclamazioni che rendono il ritmo esitante, discontinuo e straniante. Il ritmo del gioco e della metamorfosi si rivela più importante del senso, al punto che non risulta più così determinante che cosa si canta, ma solo come e chi canta. La “verità” del linguaggio poetico non sembra risiedere nel contenuto, bensì nella conformazione sintattica e nella struttura ritmica dei versi, conseguita attraverso il corpo sillabico delle parole e l’uso particolare dell’interpunzione: – Che mi accade? Zitta! Mi trafigge – ahi – nel cuore? Nel cuore? O spezzati, spezzati cuore, dopo una tale felicità, dopo una tale trafittura! – Come? Non divenne proprio ora perfetto il mondo? Rotondo e maturo? Oh il rotondo anello d’oro – dove vola mai? Io gli corro dietro! Su, su! Was geschieht mir? Still! Es stich mich – weh – ins Herz? Oh zerbrich, zerbrich, Herz, nach solchem Glücke, nach solchem Stiche! Wie? Ward die Welt nicht eben vollkommen? Rund und reif? Oh des goldenen, runden Reifs – wohin fliegt er wohl? Laufe ich ihm nach! Husch!137 134 H.-G. Gadamer, Il dramma di Zarathustra, cit., p. 43. 135 Za, La seconda canzone di danza §1, p. 275. KSA 4, 283. 136 G. Agamben, Idea della cesura, in Idea della prosa, Quodlibet, Macerata 2002, pp. 23-24. 137 Za, Mezzogiorno, p. 336. KSA 4, p. 344.
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Il “tipo Zarathustra”
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Al pathos di un linguaggio accolto passivamente, in cui domina l’elemento semantico ed iconico, si contrappone una struttura ritmica, attraverso cui si solleva in superficie ogni traccia di interiorità nascosta e irrisolta. Ancora una volta, l’uso del ritmo rende evidente come non siano questi i canti di un ispirato, ma di qualcuno che è in possesso di una techne che sa maneggiare con naturale, sicura, irriflessa destrezza, per costruire, plasmare, dare forma al proprio materiale; quasi un’operazione chirurgica sul linguaggio che, lungi dal costituire un atto contemplativo a distanza, presuppone un toccare, un palpare, un manipolare e un modificare gli elementi. Non a caso, nel periodo illuministico centrale, il “mestiere”, appreso attraverso uno studio ed un esercizio paziente ed assiduo, viene inteso come uno strumento del disincanto nelle mani dello spirito libero contro tentazioni di natura metafisica. In ogni caso, è in questi momenti di incertezza e di esitazione in cui il sé si pone in ascolto di se stesso, così come nella volontà di esporre il momento costruttivo, che il linguaggio si sottrae a pretese e a gesti totalizzanti. In Ecce Homo Nietzsche potrà scrivere al riguardo: “Qui non parla un fanatico, qui non si «fanno prediche», qui non si pretende la fede: da una pienezza infinita di luce e da una profondità abissale di beatitudine cade goccia su goccia, parola su parola – una tenera lentezza è il ritmo di questi discorsi”.138 Ciò va letto, e non in ultima istanza, come una forma di dissenso rispetto ai gesti totali ed assoluti dell’arte wagneriana, ad un’estetica dell’immediatezza drammatica e dell’incanto del suono che, come ha suggerito Adorno,139 è ottenuta nel medium di una melodia che cela consapevolmente i momenti della sua nascita, così che l’opera d’arte si presenta come se originasse autonomamente da se stessa. Adorno ha parlato al proposito di “perdita di soggettività”, dello svanire di ogni traccia della costruzione soggettiva nell’incanto della melodia.140 Proprio ill procedimento opposto si riscontra nello Zarathustra, il cui linguaggio poetico espone intenzionalmente il lavoro di articolazione ritmica di immagini e parole, rendendo in tal modo riconoscibile la pratica riflessa, anche laddove la lingua sembra anelare ad una fusione del pensiero e dello stile: Un pretendente della verità sei tu? – dicevano beffarde – No! Solo un poeta! Un animale scaltro, predace, sguisciante, 138 EH, Prologo §4, p. 268. 139 T.W. Adorno, Versuch über Wagner (1952), tr. it. Wagner, prefazione di M. Bortolotto, Einaudi, Torino 2008, p. 81. Al riguardo cfr. W. Busch, I linguaggi dell’inconscio, cit., p. 197. 140 Ivi, pp. 87-89.
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Che deve mentire, Che deve – sapendolo, volendolo – mentire: Di preda cupido, Celato in variegate maschere, E maschera per sé E per sé preda – Questo – il pretendente della verità? No! Giullare soltanto! Soltanto poeta! Der Wahrheit Freier? Du? – so höhnten sie – Nein! Nur ein Dichter! Ein Thier, ein listiges, raubendes, schleichendes, Das lügen muss, Das wissentlich, willentlich lügen muss: Nach Beute lüstern, Bunt verlarvt, Sich selber Larve, Sich selbst zur Beute – Das – der Wahrheit Freier? Nein! Nur Narr! Nur Dichter!141
Nella disposizione ellittica del discorso diretto, che elenca proposizioni nominali asindetiche, nascono volute polisemie semantiche, che si offrono a letture contrastanti.142 Il ritmo esitante dei primi versi e la tensione generata dagli interrogativi si sciolgono in un movimento libero che allude ad un passo di danza: “Ein Thier, ein listiges, raubendes, schleichendes, / Das lügen muss, / Das wissentlich, willentlich lügen muss”. Fedele al principio secondo cui non esistono verità in sé, ma soltanto “verità secondo cui si può danzare”,143 il linguaggio crea strutture relazionali in cui gioca per così dire con se stesso, sfiorando la dimensione del puro suono. Quello di Nietzsche è un semantismo percettivamente pregnante, in cui innervazioni ritmiche, allitterazioni e assonanze danno vita a slanci, armonie e fusioni: − sono qui assiso ed annuso la migliore delle arie, Una vera aria di Paradiso, Un'aria luminosa leggera, che d'oro è striata, 141 Za, Il canto della melancolia §3, p. 362. KSA 4, pp. 371-372. 142 Groddeck propone due possibili letture: una scettica (“solo poeta e non pretendente della verità”) e una enfatica (“solo un poeta può essere il pretendente della verità!”). Cfr. W. Groddeck, Friedrich Nietzsche – „Dionysos-Dithyramben“, cit., pp. 13-14. 143 NL VIII/II, 10[161], p. 192.
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Il “tipo Zarathustra”
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Tutta la buona aria che mai Sia giù caduta dalla luna – – sitze hier, die beste Luft schnüffelnd Paradieses-Luft wahrlich, Lichte leichte Luft, goldgestreifte, So gute Luft nur je Vom Monde herabfiel –144
In questo ditirambo, intitolato Tra figlie del deserto, l’universo nebbioso ed umido della malinconia nordica viene trasfigurato nella fantasmagoria di un asciutto paesaggio desertico accarezzato da una lieve brezza lunare. Lo slancio impresso al passo da quel Lichte leichte Luft, sottolineato dall’allitterazione e dall’assonanza, rende percepibile l’ebbrezza di cui è colmo l’istante di distensione, in cui l’anima non è consegnata ad una volontà informe, bensì vibra nel piacere di respirare la purezza e la salubrità dell’aria. La liberazione da virtù e falsi pudori, da afflizioni e malinconie, avviene nel mezzo dell’immagine, del linguaggio e del ritmo, attraverso cui si producono i nuovi valori dell’universo nietzscheano. Zarathustra è divenuto tutt’uno con i suoi canti, che, nelle parole di Gadamer, raccontano “la leggerezza di un bimbo, la facilità con cui dimentica la sua temporalità, il suo schiudersi nell’hic et nunc dell’attimo”.145 La costruzione del sé nello Zarathustra implica un potenziamento che si raggiunge solo se ci si piega ad una necessità esterna, se si sottopone la propria ricchezza interiore all’ingiunzione di una legge: “Ogni essere vivente è un essere che obbedisce […] anche se comanda a se stesso: anche in questo caso deve espiare il suo comandare. Deve diventare il vendicatore, la vittima della sua stessa legge”.146 Una lettura di questo passo nella prospettiva del ritmo ne rende il senso immediatamente evidente: Nietzsche traccia i contorni di un’esperienza che presuppone la disponibilità ad esporre ogni nuovo ordine alla crisi, a non insediarsi mai in una configurazione stabile e definitiva. Affermare la molteplicità del proprio sé significa esprimere ogni moto dell’anima conferendovi una forma che si accetta tuttavia sempre come passeggera: “Arte come volontà di superare il divenire, come «eternare», con uno sguardo limitato secondo una certa prospettiva; si ripete per così dire in piccolo la tendenza del tutto”.147 Nell’esperienza del ritmo, in
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Za, Tra figlie del deserto §2, p. 373. KSA 4, p. 382. H.-G. Gadamer, Il dramma di Zarathustra, cit., p. 46. Za, Della vittoria su se stessi, p. 138. NL VIII/I, 7[54], p. 297.
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Genealogia della cultura
cui si riproduce la struttura del pharmakon,148 se si viene orientati verso un nuovo ordine, verso una formula apollinea che condiziona il futuro e conferisce al divenire il carattere dell’essere, immediatamente dopo si viene riconsegnati alla crisi, all’eccesso, alla dissonanza. Il principio di individuazione espresso nella configurazione ritmica non si dà quindi mai attraverso un’oggettivazione e una conciliazione degli opposti in una forma stabile. Similmente al suo antico significato, il ritmo è per Nietzsche forma del divenire, e il divenire è “inventare, volere, negazione di sé, superamento di sé; non un soggetto, ma un fare, un porre, creativamente, «niente cause ed effetti»”.149 La capacità di creare una configurazione ritmica, concepita come dinamicità, variabilità e crisi perenne, diviene così il principio di un’esistenza spirituale attiva, in contrapposizione ad una vita ciecamente eccitata e a forme di istrionico illusionismo. Considerare l’essere come una configurazione che è sempre in procinto di “tramontare” e superarsi, significa abbandonare la sicurezza di una relazione originaria e naturale tra gli elementi, esperita come eternamente significante, per accettare un divenire che è sempre in procinto di negarsi, di lacerarsi, di interrompersi e di cambiare. Il ritmo del divenire è una forma che non è più in grado di giustificare se stessa: lacerando l’interdipendenza stabilita tra il segno ed il suo contenuto concettuale, lo spazio tra gli elementi si svuota e si sottrae ad un senso già dato. In questo modo il testo torna ad essere un luogo libero ed abitabile in modo sempre differente, uno spazio poroso e permeabile, punteggiato di pause, interruzioni e vuoti. Esso si offre così apertamente come costruzione di elementi eterogenei, ma al tempo stesso raccoglie in sé le realtà psichiche in fusioni ritmiche, suggestioni ed intensità sempre nuove.
148 Sul pharmakon cfr. il noto scritto di J. Derrida, La pharmacie de Platon, in La Dissémination, Editions du Seuil, Paris 1972. Per l’analogia con il ritmo cfr. D. Payot, Der Rhythmus des Kunstwerks, in P. Primavesi (a cura di), Geteilte Zeit. Zur Kritik des Rhythmus in den Künsten, Argus, Schliengen 2005, pp. 171-177, qui p. 173: “Der Rhythmus ist Heilmittel und Gift zugleich, er vermag nur zu heilen, indem er zunächst den Paroxysmus eben jener Besitzergreifung und Besessenheit bedeutet, von der er uns doch befreien soll. Die Poesie ist eine Weise, die größte Gefahr, die der unwiderruflichen Auflösung, zu umschiffen, um ihr zuletzt vielleicht, zu entkommen. Aber es gibt keine andere Chance, ihr zu entrinnen, als dieses gefährliche Spiel mit der göttlichen Raserei”. 149 NL VIII/I, 7[54], p. 297.
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Il “tipo Zarathustra”
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4. Formula e destino Molti passi dello Zarathustra, dai singoli sermoni ai canti, agli inni e ai ditirambi, si leggono come Rollengedichte, voci e variazioni presenti nell’anima del protagonista. Sono messinscene di attimi particolari, che non hanno carattere rappresentativo, ma sono piuttosto da leggersi come tracce sulla via di un rinnovato ascolto di se stesso, spazi di sperimentazione con il “materiale” che il sé mette a disposizione. Non bisogna dimenticare che lo Zarathustra nasce da una condizione labile e precaria di malattia e di radicale isolamento, su cui incombe, sempre in agguato, la minaccia del pessimismo e della malinconia. Su questo sfondo biografico da cui scaturisce l’opera, la vita dionisiaca che Nietzsche vagheggia si realizza nel medium di un dire poetico che, lungi dall’operare scissioni o repressioni, è costantemente disposto a sperimentare con gli stati d’animo da cui Zarathustra è afferrato. Malinconia, tristezza, nostalgia, rimpianto, rapimento, euforia, eccitazione, felicità, spensieratezza scanzonata e scherzosa, tutto deve trovare espressione nel linguaggio: “Qui mi si dischiudono tutte le parole dell’essere, balzando dagli scrigni che le contengono: l’essere tutto vuol qui diventare parola, e tutto il divenire qui vuole imparare da me la parola”.150 Lo Zarathustra è il dramma di Nietzsche stesso, un dramma in cui il pathos si fa organo di conoscenza, ricerca di espressione e di comunicazione. Nel modello artistico-letterario della Gleichnisrede Nietzsche mette in scena una moderna poiesis del sé che prende avvio da una liberazione dai valori nichilistici della propria epoca. Come un tonico e salutare “vento del settentrione”151 Zarathustra soffia sulle patologie della modernità, dalla malinconia e dal pessimismo alle isterie e alle nevrosi piccolo-borghesi, ovvero su tutte le articolazioni del nichilismo come vuoto conseguito alla morte di Dio e come insensatezza dovuta al venir meno di valori e fondamenti assoluti. Con lo Zarathustra, un’opera definita nel complesso dal suo autore un ditirambo “alla purezza”,152 comincia per Nietzsche la nonesistenza per i più, una sorta di autoemarginazione, volontaria e inevitabile ad un tempo, che appare essere il punto di arrivo di un processo inattuale di costruzione del sé. Nietzsche indica sempre nell’inadeguatezza dell’uomo moderno l’ostacolo per una comprensione profonda dello Zarathustra; la decisione di riservare la quarta parte dell’opera solo agli amici più cari, a 150 Za, Il ritorno a casa, p. 224. 151 Za, Sulle isole Beate, p. 100. 152 EH, Perché sono così saggio §8, p. 284.
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Genealogia della cultura
quella che riteneva essere una sorta di oligarchia intellettuale, è in questo senso da leggersi come una reazione provocatoria alla quasi totale assenza di risonanza da parte di un pubblico che acuirà la sua idiosincrasia nei confronti dell’ottusità di una massa sorda, incapace di emozioni e di nuova esperienza.153 Allo stesso tempo, tuttavia, egli continua ad essere scosso dall’esigenza della comunicazione, ripone speranza in una rinascita postuma, e non lesina né sforzi né spese per rendere l’opera accessibile e fruibile ai posteri come ai contemporanei. È illuminante, in questo senso, una delle ultime auto-stilizzazioni, la beffarda identificazione con Prado, il delinquente parigino “superiore ai suoi giudici e ai suoi avvocati in autocontrollo, esprit e spavalderia”.154 Identificazione irriverente e provocatoria, essa implica l’accusa contro una società del livellamento e dell’uniformazione che fa dell’aristocratico del carattere un folle e un criminale. L’asserzione secondo cui Ecce homo sarebbe scritto in “stile Prado” illumina non solo lo stile di questa rappresentazione di sé, ma anche la specificità di questo ultimo gesto, che, a fronte dei numerosissimi riferimenti allo Zarathustra che vi sono disseminati, può a ragione essere letto come il tentativo di illuminare un’esperienza che tra i contemporanei aveva notoriamente suscitato solo critiche ed incomprensioni.155 Pare importante soffermarsi, in conclusione, su questo scritto perché in esso parla ancora una volta il “medico della civiltà” che intende offrire, a se stesso come al suo lettore, la lucida dimostrazione di essere in grado non solo di compiere una precisa diagnosi delle patologie della cultura moderna e della propria esistenza di malato, ma anche di opporvisi creativamente, stabilendo, con uno sguardo costante all’esperienza di Zarathu153 Nietzsche insisterà sempre sulla necessità di una comprensione del poema basata sull’esperienza, sull’Erlebnis. Cfr. GM, Prefazione §8, p. 221: “ad esempio, il mio «Zarathustra», non può considerarsi suo conoscitore chi non sia stato di volta in volta ora ferito a fondo ora estasiato a fondo da ognuna delle sue parole”. 154 BW V, 1176, p. 823. Sul “tipo” del criminale nel contesto della critica nietzscheana della modernità cfr. M. Stingelin, Verbrechen als Lebenskunst. Das Problem der Identität, die Identifizierung von Verbrechern und die Identifikation mit Verbrechern bei Friedrich Nietzsche, in J. Linder et al. (a cura di), Verbrecher – Justiz – Medien, Walter de Gruyter, Berlin 2012, pp. 135-154. 155 BW V, 1159, p. 807: “Questo libro parla solo di me – alla fine vi compaio con una missione di carattere storico-universale. È già in stampa. – In esso si fa luce per la prima volta sul mio Zarathustra, il primo libro di tutti i millenni, la Bibbia del futuro, la più grande esplosione del genio umano, in cui è racchiuso il destino dell’umanità”. Sul legame tra Ecce Homo e lo Zarathustra cfr. A.U. Sommer, Nietzsche-Kommentar, vol. 6/2, Walter de Gruyter, Berlin 2013, p. 338.
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Il “tipo Zarathustra”
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stra, una norma inedita, un nuovo concetto di individuazione che scardina concezioni prestabilite di unità e continuità del soggetto, e presuppone il costante sacrificio di un quantum di salute all’affermazione di nuove possibilità creative. Quel laboratorio vissuto così intensamente da risultare ora enunciabile solo attraverso le cifre enigmatiche di un’estetica dell’ispirazione, si piega ad una narrazione che vuole rinnovarne l’esperienza affermativa per diffondere un ideale di salute di cui il protagonista del poema, in quella che diventa qui un’autoidentificazione tout court, è l’immagine sensibile e il paradigma antropico. Come rende evidente l’identificazione con il criminale citato a giudizio che, pur in una situazione di estrema insidia, rimane sovrano della situazione, in questa messinscena istrionica del sé l’autodifesa del proprio operato156 si capovolge nel pathos aggressivo ed euforico di una rinnovata offensiva per la quale l’io si dichiara ancora una volta pronto. Le citazioni tratte dai discorsi e dai canti di Zarathustra, che rafforzano il gesto affermativo dello scritto, sono una prova di come esso intenda riferirsi esplicitamente al messaggio di Zarathustra per produrre un nuovo fondamento di senso per il futuro e farsi annuncio di una visione positiva dell’uomo e del mondo. La specifica dimensione performativa del testo si dà in una narrazione che non è finalizzata ad esporre il risultato di una ricerca di senso, ma torna ancora una volta, a fronte del proprio percorso di vita, a cercare e a costruire questo stesso senso. Anche l’intento che soggiace a Ecce Homo non si esaurisce quindi nella trasmissione di un sapere, di un insegnamento, nella descrizione di un “tipo”, ma si esplica in una rinnovata volontà di farlo agire e comunicarsi, in una proiezione vertiginosa verso un futuro che trascura il momento presente, il cui primato sembra implacabilmente inghiottito nella lucida e agghiacciante consapevolezza di poter ormai vivere solo per i posteri. Parlare di sé “con tutta l’«astuzia» psicologica e la serenità possibile”157 per non essere scambiati con il proprio contrario, ovvero con il tipo del “profeta” che in Ecce homo viene descritto come “uno di quegli spaventosi esseri ibridi di malattia e volontà di potenza che vengono chiamati fondatori di religioni”:158 con queste parole Nietzsche definisce a posteriori l’intento che soggiace alla scrittura. Fin dall’incipit il lettore è pertanto chiamato a confrontarsi con differenziazioni tipologiche, ipotesi figurali 156 Come testimonia tutta una serie di lettere, la narrazione della propria vita, che Nietzsche pensava di far precedere alla Umwertung aller Werte, viene concepita allo scopo di prevenire malintesi rispetto ad un’opera cui Nietzsche attribuiva un valore e una portata epocali. 157 BW V, 1137, p. 177. 158 EH, Prologo §4, p. 267.
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Genealogia della cultura
situate tra la dimensione dell’individuale e dell’universale, modelli con cui la vita viene esplorata, saggiata e rappresentata. Ecce Homo si presenta quindi come una Selbstnarration che realizza una trasfigurazione tipizzante della propria persona come alternativa alla definizione di uomo nella cornice dell’ordo mundi morale.159 Significativamente, nell’ultimo capitolo intitolato Perché io sono un destino, Nietzsche si definisce “l’uomo del fato”,160 termini che designano quella zona di confine in cui la necessità di mantenere ogni nuova disposizione nell’ambito della singolarità del sé apre alla volontà di partecipazione ad un’urgenza collettiva. D’altronde, già la ricerca di un nuovo linguaggio nello Zarathustra rispondeva non solo ad una necessità individuale, ma anche all’esigenza della rappresentabilità. L’obiettivo esplicito è quello di costruire sulla figura di Zarathustra un nuovo discorso sull’uomo, e di offrirne la rappresentazione simbolica. In questo senso il testo rende anche testimonianza del fatto che il destino di ogni discorso sull’uomo sia quello di superare i confini della mera descrizione per perseguire scopi normativi. Nella formula che sussume le caratteristiche del “tipo Zarathustra”, Nietzsche intende regalare ai posteri un simbolo di quella vita dionisiaca che nello Zarathustra era divenuta “azione suprema”.161 Zarathustra è descritto come colui che ha “la visione più dura, più tremenda della realtà”, ma che sa trovare nel pensiero abissale non tanto un’obiezione contro la vita, quanto un motivo in più per essere l’“opposto di uno spirito negatore”.162 Dionisiaca è, quindi, l’ampiezza della sua anima, la capacità di accedere agli opposti senza tendere a conciliazioni, ma anche senza che si verifichi mai una alienazione completa del sé. Zarathustra è l’individuo che domina con sovranità l’arte di un continuo decentramento e di una continua mobilità di prospettive:
159 Cfr. H.G. Hödl, Der letzte Jünger des Philosophen Dionysos. Studien zur systematischen Bedeutung von Nietzsches Selbstthematisierungen im Kontext seiner Religionskritik, Walter de Gruyter, Berlin 2009, pp. 533-594. 160 EH, Perché io sono un destino §1, p. 376. 161 EH, Così parlò Zarathustra §6, p. 352. In Ecce Homo Nietzsche porta a coincidere Zarathustra con i simboli di Dioniso, quando nel poema egli appare invece inferiore a Dioniso, e si rivela piuttosto essere il suo profeta e annunciatore (Deleuze, Nietzsche, cit. p. pp. 38-39: “Zarathustra chiama il superuomo figlio suo, ma è superato da suo figlio, il cui vero padre è Dioniso”). Cfr. Za, L’ora senza voce, p. 180: “Oh Zarathustra, i tuoi frutti sono maturi, ma tu non sei ancora maturo per i tuoi frutti!”. 162 EH, Così parlò Zarathustra §6, p. 354.
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Il “tipo Zarathustra”
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– l’anima dall’estensione più ampia, che dentro di sé può correre ed errare e vagare, nelle più vaste lontananze; la più necessaria, che per suo piacere si precipita nella casualità: – – l’anima che è, e che s’immerge nel divenire; l’anima che ha, e che vuole gettarsi nel volere e nel desiderio: – – che fugge se stessa, raggiungendosi nell’orbita più vasta; l’anima più saggia, cui la follia parla più suadente di tutto: –163
Nietzsche conduce il “tipo Zarathustra” ad una figura-limite, priva del senso creaturale del caduco, del precario e dell’organico, e disposta a osare tenacemente oltre la propria natura. La sconfitta del dolore e del negativo non ha tuttavia nulla della sopportazione eroica. La percezione di sé come buffone (Hanswurst), l’avvertimento della comicità della propria missione, servono da antidoto contro forme di fanatismo e fungono da contrappeso alla tensione verticale, da strategia di sgonfiamento contro il rischio di inflazione. Zarathustra è il Narr che “si comporta sempre parodisticamente verso tutti i valori, per pienezza”,164 l’iniziatore dell’epoca della commedia dell’esistenza, di una “gaia scienza” che segna la fine del tempo della tragedia, delle morali e delle religioni. Già nella Gaia scienza, nel passo ripreso in Ecce Homo, Nietzsche annovera tra i tratti della grande salute l’essere “vivente, involontaria parodia”165 dei valori esistenti. Ecco che il filosofo potrà dire di essere “Dio e pagliaccio”,166 e che il suo canto a Dioniso, terribile e comico ad un tempo, sarà la sua “ultima forma di follia”.167 Si tratta quindi di sopprimere, nella simbolizzazione del sé, ogni rischio di percepire nel proprio destino una necessità divina, o quantomeno assoluta. Lo Zarathustra propone l’esperienza di una necessità finita e mutevole, che mette continuamente in dubbio se stessa, un’esperienza in cui il sé non è mai subordinato ad una legge assoluta o trascendente, ma ad una necessità che opera nello spazio compreso tra l’io, il corpo ed il mondo, in cui trovano posto la molteplicità ed il caso. Il sé senza più dei è un sé continuamente decentrato, che sperimenta liberamente con se stesso nella tragedia e nella parodia, nella leggerezza e nella disperazione. La narrazione della propria vita, culminante nell’esperienza dello Zarathustra, acquista una sua tensione peculiare nel confronto con la dimensione dell’inenarrabile, della malattia e della sofferenza come esperienze
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Za, Di antiche tavole e nuove §19, pp. 254-255. NL VIII/I, 7[54], p. 298. FW, af. 382, p. 309. NL VIII/III, 25[6], p. 409. BW IV, 392, p. 327.
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Genealogia della cultura
tabuizzate dalla società. Nel tessuto di citazioni tratte dallo Zarathustra trovano infatti spazio momenti di malinconia profonda (Nachtlied), tuttavia l’atteggiamento generale che connota la scrittura è quello di un’affermatività completa ed integrale, ove anche l’affermazione della sofferenza serve a sviluppare un sentimento di potenza. L’io resta ricettivo, aperto alla possibilità di essere affetto da un pathos, che, nelle parole di Deleuze, è il “sentimento di base di un divenire”.168 Ecco dunque che la narrazione non tende in nessun caso all’armonia, al dominio di sé, alla delimitazione, ma ricerca piuttosto un potenziamento delle passioni, l’esaltazione e l’eccesso. Nel pathos che sostiene il racconto il testo trascende il livello della riflessione e trasporta l’io nello slancio reale del sentimento dionisiaco. Sembra significativo che la prospettiva autoriale non sia assimilabile a quella di un autore che riflette sulla propria opera, ma piuttosto a quella di un narratore che si appresta a modellare e a conferire continuità alla propria vita.169 La narrazione retrospettiva si presenta come il risultato dell’atteggiamento affermativo di un costruttore che lavora sul proprio passato munito di quella forza plastica e selettiva che già nella seconda Inattuale veniva contrapposta ad una volontà di conservazione e di oggettivazione della storia: “voglio dire quella forza di crescere a modo proprio su se stessi, di trasformare e incorporare cose passate ed estranee, di sanare ferite, di sostituire parti perdute, di riplasmare in sé forme spezzate”.170 Nell’orizzonte della perdita di un principio ordinatore del reale, non è tanto un’arbitrarietà 168 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit. p. 95. 169 Sicuramente Nietzsche può essere chiamato in causa quale anticipatore di un discorso sulla morte dell’autore. Nota è al riguardo la celebre affermazione contenuta nella Genealogia della morale: “non esiste alcun «essere» al di sotto del fare, dell’agire, del divenire; «colui che fa» non è che fittiziamente aggiunto al fare” (GM, Buono e malvagio, buono e cattivo §13, p. 244). In questo senso Paul de Man legge l’opera di Nietzsche come l’esempio di una retorica in atto che mina ogni pretesa di verità. Cfr. P. de Man, Retorica dei tropi, in Id., Allegorie della lettura, Einaudi, Torino 1997, pp. 113-129, qui pp. 128-129: “Se noi leggiamo Nietzsche con l’intelligenza retorica che caratterizza la sua teoria della retorica, ci accorgiamo che la struttura generale dell’opera somiglia al gesto ripetuto senza fine dell’artista che «non sa imparare dall’esperienza e cade sempre di nuovo dal medesimo pozzo»”. Questa lettura trascura però il fatto che un concetto “forte” di autore riveste un ruolo centrale nel pensiero nietzscheano. Al “soggetto”, inoltre, Nietzsche attribuisce anche una funzione vitale come strumento di conoscenza al fine del potenziamento della vita. A questo proposito cfr. già A. Nehamas, Nietzsche. Life as Literature, Harvard University Press, Cambridge 1985. 170 HL, §1, p. 265. Nella prefazione a Umano, troppo umano, è l’“eccesso di forze plastiche, capaci di guarire a fondo, formare di nuovo, ricostituire” a rappresentare una delle caratteristiche della grande salute. Cfr. MA, Prefazione §4, p. 7.
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Il “tipo Zarathustra”
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cieca ed irriflessa ad affermarsi, quanto un desiderio di ricongiungersi con una volontà di vita che agisce in maniera selettiva, artistica, curativa sul proprio sé, così che il “così fu” diviene un “così volli che fosse”.171 La narrazione della propria vita, che mira esplicitamente all’interpretazione della storia della propria malattia,172 è tesa a dimostrare come il narratore abbia interiorizzato la propria costruzione e sia divenuto il proprio tipo ideale. Essa mira all’intensificazione della vita, senza tuttavia mai consentire alla disgregazione del soggetto che, nel divenire una cosa sola con il suo racconto, si fa catalizzatore degli affetti che vengono intensificati ed espressi nel medium della scrittura. Il pessimismo viene qui intenzionalmente combattuto e debellato, affinché non pregiudichi la costruzione di una “seconda natura”. Se l’“essere benriuscito” deve rendersi percepibile nello stile del suo discorso, l’“ottica del malato” non può prendere il sopravvento e la prospettiva autoriale deve quindi insediarsi nel luogo della salute, senza tuttavia rinunciare al grado di sensibilità psicologica e di raffinatezza stilistica conseguiti grazie alla malattia. Significativamente, Nietzsche scriverà a posteriori, in una lettera a Köselitz, che il testo sarebbe scaturito da “antica autorevolezza” e “buon umore”.173 Tuttavia, alla luce del pathos eccessivo che investe il lettore, del tono penetrante che cede a tratti ad intensità stridenti, la prospettiva autoriale sembra corrispondere più allo spazio di una tensione estrema, che non al luogo da cui si possa dispiegare un’azione sovrana e ridente. Ecco che il positivismo emozionale con cui Nietzsche salvaguarda una posizione che è una prospettiva voluta ed affermata, pare talora in procinto di capovolgersi nel suo opposto, e la narrazione, nell’impeto delle forze che essa stessa potenzia, sembra tendere verso un limite in cui minaccia di essere risucchiata nel vortice del suo stesso dinamismo. Il fatto che ciò non accada, che l’artefice della propria ebbrezza si dimostri sempre in grado di “contenerla” nel linguaggio, è forse da leggersi proprio come l’ultimo, estremo atto di forza di Nietzsche, “profeta” inascoltato che più di chiunque altro nella sua epoca aveva saputo cogliere i rischi del fanatismo, ed intuire, nell’elaborazione di una 171 Za, Della redenzione, p. 170. 172 Cfr. B. Moroncini, L’autobiografia della vita malata. Benjamin, Blanchot, Dostojewskij, Leopardi, Nietzsche, Moretti&Vitali, Bergamo 2008, p. 53: “Il culmine del deperimento fisico e mentale, il totale esaurimento delle forze, l’estremo della decadenza, addirittura la vita seppellita, sono i simulacri delle convalescenze, della nuova salute ogni volta conquistata, della vita restituita in sovrappiù: la perdita simula il guadagno e il debito il credito. La vita malata diventa significante soggettivo”. 173 BW V, 1142, p. 782.
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Genealogia della cultura
diagnosi implacabile delle patologie del tempo, la futura minaccia di una degenerazione collettiva. L’appello appassionato contenuto già nel prologo (“Ascoltatemi!”), l’esortazione ripetuta a non scambiarlo per un nuovo fondatore di fedi assolute, la domanda angosciata “Sono stato capito?”, lasciano trapelare l’acuta consapevolezza del pericolo del fraintendimento, del rischio che l’istinto comprenda se stesso troppo presto e in modo affrettato, del divario insanabile tra il “nato postumo” e la propria epoca.
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EDIZIONI ADOTTATE DELLE OPERE DI FRIEDRICH NIETZSCHE
Per l’edizione tedesca delle opere si rimanda a F. Nietzsche, Sämtliche Werke, Kritische Studienausgabe, 15 Bde, hrsg. von G. Colli, M. Montinari, Walter de Gruyter, München/Berlin/New York, 1980 [KSA] Per l’edizione italiana delle opere si rimanda a F. Nietzsche, Opere, 22 voll., a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964ss [OFN] Per le Vorlesungsaufzeichnungen si rimanda a F. Nietzsche, Werke, Kritische Gesamtausgabe, 40 Bde in 9 Abteilungen, Walter de Gruyter, Berlin 1967ss [KGW] Per la versione critica delle lettere si rimanda a Friedrich Nietzsche. Sämtliche Briefe, Kritische Studienausgabe, 8 Bde, hrsg. von G. Colli und M. Montinari, Walter de Gruyter, Berlin/New York 1986 [KSB] Per l’edizione italiana delle lettere si rimanda all’Epistolario di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, proseguito da G. Campioni, F. Gerratana e M.C. Fornari, Adelphi, Milano 1976-2011
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Genealogia della cultura
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Genealogia della cultura
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Il presento libro è l’esito di una ricerca svolta presso il Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere dell’Università degli Studi di Verona. Essa è iniziata nell’ambito del progetto dipartimentale “Salute, malattia e luoghi di cura nella tradizione letteraria”, e ha trovato una continuazione nel contesto di un’indagine sullo Zarathustra di Nietzsche nella lettura di C.G. Jung condotta dalla sezione di Letteratura tedesca del Dipartimento veronese in collaborazione con la Libera Scuola di Terapia Analitica di Milano (Li.S.T.A.). Desidero quindi ringraziare i coordinatori e i partecipanti a questi progetti, in prima istanza coloro che mi hanno coinvolto e accompagnato nel corso delle mie indagini. Un primo, sentito ringraziamento va pertanto a Isolde Schiffermüller, per aver seguito fin dal principio il mio lavoro con grande attenzione, sensibilità e sollecitudine. Ringrazio poi gli amici veronesi e padovani per l’atmosfera piacevole e vivace che hanno saputo creare nel corso dei numerosi incontri e seminari. Rivolgo infine un pensiero di profonda gratitudine a Walter Busch per i suggerimenti e gli spunti di riflessione che mi ha donato nel leggere le mie pagine. È alla sua memoria che dedico questo libro.
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FILOSOFIE Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 28/02/2019
Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Luca Taddio 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30.
Deborah Ardilli, Prima della virtù. Esperienza, conoscenza e innocenza nella filosofia di Stuart Hampshire Francesco Borgia, L’uomo senza immagine. La filosofia della natura di Hans Jonas Antonino Trusso, L’uomo allo specchio Fulvio Carmagnola, Il desiderio non è una cosa semplice. Figure di agalma Giovanni Chimirri, Filosofia e teologia della storia. L’esistenza umana in divenire Pietro D’Oriano, Draga Rocchi (a cura di), Il male e l’essere. Atti del convegno internazionale di studi Girolamo Fracastoro, Della Torre ovvero l’Intellezione Giovanni Invitto, Fra Sartre e Wojtyla. Saggi su fenomenologie ed esistenze Mauro La Forgia, Morfogenesi dell’identità Giovanni Leghissa, Incorporare l’antico. Filologia classica e invenzione Giovanni Carlo Leone, Marx dopo Heidegger. La rivoluzione senza soggetto, Stefano Mancini (a cura di), Sguardi sulla scienza del giardino dei pensieri Julia Ponzio, Filippo Silvestri, Itinerari nel pensiero filosofico di Giuseppe Semerari Giovanni Rossetti, Le radici estetiche dell’etica in Gregory Bateson Stefania Tarantino, La libertà in formazione. Studio su Jeanne Hersch e Maria Zambrano Bruno Accarino (a cura di), Espressività e stile. La filosofia dei sensi e dell’espressione in Helmuth Plessner Angela Ales Bello, Patrizia Manganaro (a cura di), Le religioni del Mediterraneo. Filosofia, Religione, Cultura Roberto Armigliati, Responsabilità illimitata. “Per una nuova era di responsabilità” Mimmo Pesare, Abitare ed esistenza. Paideia dello spazio antropologico Francesco Borgia, Appartenenza e alterità. Il concetto di storicità nella filosofia di Martin Heidegger Adriano Bugliani, Contro di sé. Potere e misconoscimento Damiano Cantone, Cinema, tempo e soggetto. Il Sublime kantiano secondo Deleuze Silvia Capodivacca, Danzare in catene. Saggio su Nietzsche Giovanni Chimirri, L’arte spiegata a tutti. Il senso spirituale della bellezza in dieci lezioni Maria Lucia Colì, La natura e l’ontologia in alcuni inediti dell’ultimo MerleauPonty Vincenzo Cuomo, Figure della singolarità. Adorno, Kracauer, Lacan, Artaud, Bene Daniela De Leo, La relazione percettiva. Merleau-Ponty e la musica Gaia De Pascale, Qui non si canta al modo delle rane. La città nelle poetiche futuriste Giovanni Di Benedetto, L’ecologia della mente nell’etica di Spinoza. Amore della natura e coscienza globale sulla via della complessità Josef Dietzgen, L’essenza del lavoro mentale umano e altri scritti
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31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49. 50. 51. 52. 53. 54. 55. 56. 57. 58. 59. 60. 61. 62. 63. 64. 65.
Roberto Fai, Genealogie della globalizzazione. L’Europa a venire Fabio Farrotti, Il concetto dionisiaco della vita. Uno studio sul nichilismo Sergio Franzese, Darwinismo e pragmatismo e altri studi su William James Giacomo Fronzi, Etica ed estetica della relazione Giuliano Glauco, L’immagine del tempo in Henry Corbin. Verso un’idiochronia angelomorfica Cristina Guarnieri, Il linguaggio allo specchio. Walter Benjamin e il primo romanticismo tedesco Federico Italiano, Tra miele e pietra. Aspetti di geopoetica in Montale e Celan Michael Konrad, Amore e amicizia: un percorso attraverso la storia dell’etica Vanna Gessa Kurotschka, Chiara De Luzenberger (a cura di), Immaginazione etica interculturalità Riccardo Lazzari, Massimo Mezzanzanica, Erasmo Silvio Storace (a cura di), Vita, concettualizzazione, libertà. Studi in onore di Alfredo Marini Stefano Marino, Ermeneutica filosofica e crisi della modernità. Un itinerario nel pensiero di Hans-Georg Gadamer Markus Ophälders, Filosofia arte estetica. Incontri e conflitti Riccardo Pozzo, Marco Sgarbi (a cura di), I filosofi e l’Europa Vincenzo Rosito, Espressione e normatività. Soggettività e intersoggettività in Theodor W. Adorno Barbara Scapolo, Esercizi di de-fascinazione. Saggio su E. M. Cioran Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Sui miti. Le saghe storiche e i filosofemi del mondo antichissimo Renato Troncon, Estetica e antropologia filosofica Francesco Valagussa, Individuo e stato. Itinerari kantiani ed hegeliani, Roberta Cavicchioli, Breve storia di un’ingratitudine. Victor Cousin nell’album di famiglia della scuola repubblicana Leonardo Tomasetta, Destra e sinistra. I due corni del dilemma borghese Dario Sacchi (a cura di), Passioni e ragione fra etica ed estetica Mario Alcaro (a cura di), L’oblio del corpo e del mondo nella filosofia contemporanea Luciano Arcella, L’innocenza di Zarathustra. Considerazioni sul I libro di Così parlò Zarathustra di F. Nietzsche Tiziana Carena, La pneumatologia teologico-estetica di Vincenzo Gioberti, Susi Pietri, L’opera inaugurale. Gli scrittori-lettori della Comédie Humaine I Antonio Rainone, Il doppio mondo dell’occhio e dell’orecchio Francesco Giacomantonio, Introduzione al pensiero politico di Habermas. Il dialogo della ragione dilagante Emanuele Profumi, L’autonomia possibile. Introduzione a Castoriadis Fabio Vander, Essere e non-essere. La Scienza della logica e i suoi critici Gianluca Verrucci, Ragion pratica e normatività. Il costruttivismo kantiano di Rawls, Korsgaard e O’Neill Emanuele Mariani, Kierkegaard e Nietzsche. Il Cristo e l’Anticristo Viviana Meschesi, Sistema e trasgressione. Logica e analogia in F. Rosenzweig, W. Benjamin ed E. Levinas Giorgio Brianese, L’arco e il destino. Interpretazione di Michelstaedter Mario Cingoli, Marxismo, empirismo, materialismo Nicola Magliulo, Cacciari e Severino. Quaestiones disputatae
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66. 67. 68. 69. 70. 71. 72. 73. 74. 75. 76. 77. 78. 79. 80. 81. 82. 83. 84. 85. 86. 87. 88. 89. 90. 91. 92. 93. 94. 95. 96. 97.
René Scheu, Il soggetto debole. Sul pensiero di Aldo Rovatti Andrea Amato, Agli esordi dell’esserci. Ancor privi del senso del bene e del male Franco Manti (a cura di), Res publica Luca Marchetti, Oltre l’immagine Giuseppe Di Giacomo (a cura di), Ripensare le immagini Rossella Bonito Oliva, Labirinti e costellazioni. Un percorso ai margini di Hegel Luca Gasparri, Filosofia dell’illusione. Lineamenti di glottologia e di critica concettuale Julia Ponzio, Giuseppe Mininni, Augusto Ponzio, Maria Solimini, Susan Petrilli, Luciano Ponzio, Roland Barthes. La visione ottusa Ornella Crotti, La bellezza del bene. Il debito di Hannah Arendt nei confronti di Immanuel Kant Stefano Zampieri, Introduzione alla vita filosofica. Consulenza filosofica e vita quotidiana Vincenzo Comerci, Filosofia e mondo. Il confronto di Carlo Sini Felice Accame, Mario Valentino Bramè, La strana copia. Carteggio fra due avversari su natura e funzione della filosofia con documentazione a sostegno di entrambi Carlo Burelli, E fu lo stato. Hobbes e il dilemma che imprigiona Antonio Di Chiro, La notte del mondo. Luoghi del senso, luoghi del divino Claudio Lucchini, Il bene come possibile processo concreto. Natura e ontologia sociale Manuel Cruz, La memoria si dice in molti modi. La priorità della politica sulla storia Giovanni Invitto, Marleau-Ponty par lui-même. Una pratica filosofica della narrazione di sé Valentina Tirloni, L’enigma del colore. Un approccio fenomenologico e simbolico Giacomo Fronzi, Contaminazioni. Esperienze estetiche nella contemporaneità Alessia Cervini, La ricerca del metodo. Antropologia e storia delle forme in S. M. Ejzenštejn Luciano Ponzio, L’iconauta e l’artesto. Configurazioni della scrittura iconica Chimirri Giovanni, Siamo tutti filosofi (basta volerlo) Bordoni Giorgia, I nomi di Dio. Religione e teologia in Jacques Derrida German A. Duarte, La scomparsa dell’orologio universale. Peter Watkins e i mass media audiovisivi Filippo Silvestri, Segni significati intuizioni. Sul problema del linguaggio nella fenomenologia di Husserl Romeo Bufalo, Giuseppe Cantarano, Pio Colonnello (a cura di), Natura storia società. Studi in onore di Mario Alcaro Stefano Bracaletti, Individualismo metodologico, riduzionismo, microfondazione. Problematiche e sviluppi del paradigma individualista nelle scienze sociali Giovanni Invitto, La lanterna di Diogene e la lampada di Aladino Andrea Camparsi, Irene Angela Bianchi, L’autocoscienza e la prospettiva sul mondo Veronica Santini, Il filosofo e il mare. Immagini marine e nautiche nella Repubblica di Platone Jean-Pierre Vernant, L’immagine e il suo doppio. Dall’era dell’idolo all’alba dell’arte Barbara Chitussi, Immagine e mito. Un carteggio tra Benjamin e Adorno
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98. 99. 100. 101. 102. 103. 104. 105. 106. 107. 108. 109. 110. 111. 112. 113. 114. 115. 116. 117. 118. 119. 120. 121. 122. 123. 124. 125. 126. 127. 128. 129. 130.
Marco Jacobsson, Heidegger e Dilthey. Vita, morte e storia Lorenzo Bernini, Mauro Farnesi Camellone, Nicola Marcucci, La sovranità scomposta. Sull’attualità del Leviatano Francesco Barba, Il persecutore di Dio. San Paolo nella filosofia di Nietzsche Augusto Mazzone, Il gioco delle forme sonore. Studi su Kant, Hanslick, Nietzsche e Stravinskij Aldo Trucchio (a cura di), Cartografie di guerra. Le ragioni della convivenza a partire da Kant Victorino Pérez Prieto, Oltre la frammentazione del sapere e la vita: Raimon Panikkar Fabio Martelli, Un libertino nel “Plenilunio delle monarchie” Angelica Polverini, L’inganno dei sensi. La percezione sinestetica tra vista e tatto dall’antichità all’arte del Cinquecento Federica Negri, Ti temo vicina ti amo lontana. Nietzsche, il femminile e le donne Maieron Mario Augusto, Alla ricerca dell’isola che non c’è. Ragionamenti sulla mente Casini Leonardo, Corporeità. La corporeità nelle Ergänzungen al Die Welt di Schopenhauer e altri scritti Giuseppe Campesi, Soggetto, disciplina, governo. Michel Foucault e le tecnologie politiche moderne Bertolini Mara Meletti (a cura di), Ragion pratica e immaginazione. Percorsi etici tra logica, psicologia ed estetica Cattaneo Francesco, Domandare con Gadamer Pantano Alessandra, Dislocazione. Introduzione alla fenomenologia asoggettiva di Jan Patočka Luisetti Federico, Una vita. Pensiero selvaggio e filosofia dell’intensità Fichte Johann Gottlieb, Lezioni sulla destinazione del dotto (1811). La Dottrina della Scienza, esposta nel suo profilo generale (1810) Marcello Ghilardi, Il visibile differente. Sguardo e relazione in Derrida Farotti Fabio, Ex Deo-ex nihilo. Sull’impossibilità di creare/annientare Paolo Aldo Rossi, Paolo Vignola (a cura di), Il clamore della filosofia. Sulla filosofia francese contemporanea Vallori Rasini (a cura di), Aggressività. Un’indagine polifonica Francesco Paparella, Imago e verbum. Filosofia dellʼimmagine nellʼalto Medioevo Gaspare Polizzi, Giacomo Leopardi: la concezione dell’umano tra utopia e disincanto F. Mazzocchio, Le vie del logos argomentativo. Intersoggettività e fondazione in K.-O. Apel Soardo Andrea, Accade l’accadere Antonio Martone, Le radici della disuguaglianza. La potenza dei moderni Pierre Macherey, Jules Verne o il racconto in difetto Elena Irrera, Il bello come causalità in Aristotele Alessandro Amato, L’etica oltre lo Stato. Filosofia e politica in Giovanni Gentile Carlo Chiurco, Etica e sacro. Il Bene e l’Autentico oltre l’Occidente Auguro Ponzio, In altre parole Grigenti Fabio, Giacomini Bruna, Sanò Laura (a cura di), La passione del pensare. In dialogo con Umberto Curi Scoto Eriugena Giovanni, Il cammino di ritorno a Dio. Il Periphyseon, a cura di Vittorio Chietti
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164. 165. 166. 167. 168. 169. 170. 171. 172. 173. 174. 175. 176. 177. 178. 179. 180. 181. 182. 183. 184. 185. 186. 187. 188. 189. 190. 191. 192. 193. 194. 195. 196. 197. 198. 199. 200.
Massimo Canepa, Friedrich Nietzsche. L’arte della trasfigurazione Ginette Michaud, Veglianti. Verso tre immagini di Jacques Derrida Paulo Barone, Utopia del presente Giuseppe Bonvegna, Politica, religione, Risorgimento. L’eredità di Antonio Rosmini in Svizzera Luca Caddeo, L’Operaio di Ernst Jünger. Una visione metafisica della tecnica, 2012 Simona Bertolini, Eugen Fink e il problema del mondo: tra ontologia, idealismo e fenomenologia Enrico Mastropierro, Il corpo e l’evento. Sullo Spinoza di Deleuze Giuseppe Di Giacomo (a cura di), Volti della memoria Domenica Bruni, Politici sfigurati. La comunicazione politica e la scienza cognitiva Emanuele Mariani, Risonanze impolitiche. Riflessioni filosofiche tra ragioni e fedi Giovanni Chimirri, Teologia del nichilismo. I vuoti dell’uomo e la fondazione metafisica dei valori Angelo Bruno, L’ermeneutica della testimonianza in Paul Ricoeur Maria Grazia Turri, Biologicamente sociali, culturalmente individualisti Leonardo Caffo, La possibilità di cambiare. Azioni umane e libertà mora Francesco Vitale, Mitografie. Jacques Derrida e la scrittura dello spazio Andrea Velardi, La barba di Platone. Quale ontologia per gli oggetti materiali? Davide Gianluca Bianchi, Dare un volto al potere. Gianfranco Miglio fra scienza e politica. In Appendice il carteggio Schmitt-Miglio Riccardo Corsi, Incroci simbolici Francesco Valagussa, L’arte del genio. Note sulla terza critica Vinicio Busacchi, Tra ragione e fede. Interventi buddisti Giuseppe Di Giacomo, Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori italiani del Novecento Daniela De Leo, Una convergenza armonica. Beethoven nei manoscritti di Michelstaedter e Merleau-Ponty Stefano Bracaletti, Microfondazione. Problematiche della spiegazione individualista nelle scienze sociali Giorgio Palumbo, Finitezza e crisi del senso. La nostra insecuritas e il richiamo dell’assenza Mario Augusto Maieron, C’era una volta un re...! Intorno alla mente (Περί ψυχῆς) tra neuroscienze, filosofia, arte e letteratura Tiziano Boaretti, La via mistica. Itinerario filosofico in quindici stazioni. Massimo Frana, Il segreto dei fratelli del libero spirito Enzo Cocco, La melanconia nell’età dei lumi José Ortega y Gasset, Appunti per un commento al Convivio di Platone, a cura di Pietro Piro Antonio Coratti, Karl Löwith e il discorso del cristianesimo Sarah F. Maclaren, Magnificenza e mondo classico Jean Soldini, A testa in giù. Per un’ontologia della vita in comune Matteo G. Brega, Multimedialità digitale e fruizione parcellizzata. Estetica e forme d’arte del Novecento Francesca Marelli, Fisica dell’anima. Estetica e antropologia in J.G. Herder Mario Cingoli, Hegel. Lezioni preliminari Tommaso Ariemma, Estetica dell’evento. Saggio su Alain Badiou Gianfranco Mormino, Spazio, Corpo e moto nella Filosofia naturale del Seicento
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201. 202. 203. 204. 205. 206. 207. 208. 209. 210. 211. 212. 213. 214. 215. 216. 217. 218. 219. 220. 221. 222. 223. 224. 225. 226. 227. 228. 229. 230. 231. 232. 233. 234. 235. 236. 237.
Maria Teresa Costa, Filosofie della traduzione Giuseppe Zuccarino, Il farsi della scrittura S. Fontana, E. Mignosi (a cura di), Segnare, parlare, intendersi: modalità e forme Giovanni Invitto, La misura di sé, tra virtù e malafede. Lessici e materiali per un discorso in frammenti Enrica Lisciani Petrini, Charis. Saggio su Jankélévitch Anthony Molino, Soggetti al bivio. Incroci tra psicoanalisi e antropologia Franco Rella, Susan Mati, Thomas Mann, mito e pensiero J. D. Caputo e M. J. Scanlon, Dio, il dono e il postmoderno. Fenomenologia e religione Friedrich W.J. Schelling, Esposizione del Processo della Natura Stefano Poggi (a cura di), Il realismo della ragione. Kant dai Lumi alla filosofia contemporanea Ruggero D’Alessandro, Le messaggere epistolari femminili attraverso il ‘900. Virginia Woolf, Hannah Arendt, Sylvia Plath Giovanni Invitto, Il diario e l’amica. L’esistenza come autonarrazione Luca Mori, Tra la materia e la mente Alberto Giacomelli, Simbolica per tutti e per nessuno Paulo Butti, Un’archeologia della politica. Letture della Repubblica platonica Erasmo Storace, Ergografie. Studi sulla struttura dell’essere Francesco Maria Tedesco, Eccedenza sovrana Marco Vanzulli (a cura di), Razionalità e modernità in Vico Marcello Barison, Estetica della produzione. Saggi da Heidegger Elio Matassi (a cura di), Percorsi della conoscenza Mirko di Bernardo, Danilo Saccoccioni, Caos, ordine e incertezza in epistemologia e nelle scienze naturali Liliana Nobile, Democrazie senza futuro Giacomo Fronzi (a cura di), John Cage. Una rivoluzione lunga cent’anni, con unʼintervista inedita Paolo Taroni, Filosofie del tempo. Il concetto di tempo nella storia del pensiero occidentale Roberto Diodato, L’invisibile sensibile. Itinerari di ontologia estetica Bruno Moroncini, Il lavoro del lutto, Materialismo, politica e rivoluzione in Walter Benjamin Antonio Valentini, Il silenzio delle sirene: mito e letteratura in Franz Kafka Giuseppe Maccaroni, Sociologia Stato Democrazia Damiano Cantone (a cura di), Estetica e realtà, Arte Segno e Immagine Marino Centrone, Rocco Corriero, Stefano Daprile, Antonio Florio, Marco Sergio (a cura di), Percorsi nellʼepistemologia e nella logica del Novecento Pierdaniele Giaretta (a cura di), Le classificazioni nelle scienze Luca Grion, Persi nel labirinto. Etica e antropologia alla prova del naturalismo Marco Piazza, Il fantasma dell’interiorità. Breve storia di un concetto controverso Emilio Mazza, La peste in fondo al pozzo. L’anatomia astrusa di David Hume Luca Marchetti, Il corpo dell’immagine. Percezione e rappresentazione in Wittgenstein e Wollheim Monica Musolino, New Towns post catastrofe. Dalle utopie urbane alla crisi delle identità Barbara Troncarelli, Complessità dilemmatica, Logica, scienza e società in Giovanni Gentile
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238. Emanuele Arielli, La mente estetica. Introduzione alla psicologia dell’arte 239. Emanuele Arielli, Wittgenstein e l’arte. L’estetica come problema linguistico ed epistemologico 240. Giuseppe Fornari, Gianfranco Mormino (a cura di), René Girard e la filosofia 241. Erasmo Storace, Genografie 242. Erasmo Storace, Tanotagrafie 243. Erasmo Storace, Poietografie 244. Erasmo Storace, Il poeta e la morte 245. Lucia Maria Grazia Parente, Segreti mutamenti 246. María Lida Mollo, Xavier Zubiri: il reale e l’irreale 247. Susan Petrilli, Altrove e altrimenti. Filosofia del linguaggio, critica letteraria e teoria della traduzione in, intorno e a partire da Bachtin 248. Pietro Piro, Le occasioni dell’uomo ladro. Saggi, polemiche e interventi tra Oriente e Occidente 249. Giorgio Cesarale, Marcello Mustè e Stefano Petrucciani (a cura di), Filosofia e politica. Saggi in onore di Mario Reale 250. Silvia Bevilacqua e Pierpaolo Casarin (a cura di), Disattendere i poteri. Pratiche filosofiche in movimento 251. Franco Maria Fontana, Immagini del disastro prima e dopo Auschwitz. Il “verdetto” di Adorno e la risposta di Celan 252. Antonello Sciacchitano, Il tempo di sapere 253. Gabriele Scardovi, L’intuizionismo morale di George Edward Moore 254. Fabio Vander, Il sistema Leopardi. Teoria e critica della modernità 255. Riccardo Motti, La mistificazione di massa. Estetica dell’industria cultura 256. Francesco Gusmano, Naturalismo e filosofia 257. Gemmo Iocco, Profili e densità temporali 258. Marco Sgarbi, Kant e l’irrazionale 259. Amato, Fulco, Geraci, Gorgone, Saffioti, Surace, Terranova, L’evento dell’ospitalità tra etica, politica e geofilosofia. Per Caterina Resta 260. Luca Serafini, Inoperosità. Heidegger nel dibattito francese contemporaneo 261. Renato Calligaro, Le pagine del tempo. Scritti sull’Arte 262. Paolo Scolari, Nietzsche fenomenologo del quotidiano 263. Fabio Ciaramelli, Ugo Maria Olivieri, Il fascino dell’obbedienza. Servitù volontaria e società depressa 264. Giovanni Invitto, Lanx satura. Asterischi filosofici su soggetti, temi ed eventi dell’esistenza 265. Vinicio Busacchi, Itinerari buddisti. La sfida del male 266. Plotino, Enneadi. I-II e vita di Plotino di Porfirio 267. Luca M. Possati, La ripetizione creatrice. Melandri, Derrida e lo spazio dell’analogia 268. A. Lavazza, V. Possenti (a cura di), Perché essere realisti. Una sfida filosofica 269. Mattia Geretto e Antonio Martin (a cura di), Teologia della follia 270. Vittorio Pavoncello, Il serpente nel Big Bang 271. Afonso Mário Ucuassapi, Dalle indipendenze alle libertà. Futurismo e utopia nella filosofia di Severino Elias Ngoenha 272. Roberto Fai, Frammento e sistema. Nove istantanee sulla contemporaneità 273. Francesco Giacomantonio (a cura di), La filosofia politica nell’età globale (1970-2010)
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274. Alberto Romele, L’esperienza del verbum in corde. Ovvero l’ineffettività dell’ermeneutica 275. John Burnet, I primi filosofi greci, a cura di Alessandro Medri 276. Giovanni Basile, Il mito. Uno strumento per la conoscenza del mondo. Saggio introduttivo attorno all’ermeneutica mitica 277. Andrea Dezi, Potenza e realtà. Il sovrarrealismo ontologico nel pensiero di F.W.J. Schelling 278. Vincenzo Cuomo, Leonardo V. Distaso (a cura di ), La ricerca di John Cage. Il caso, il silenzio, la natura 279. Augusto Ponzio, Fuori luogo. L’esorbitante nella riproduzione dell’identico 280. Alessandra Luciano, L’estasi della scrittura Emily L. di Marguerite Duras 281. Enrico Giorgio, Esercizi fenomenologici. Edmund Husserl 282. Sara Matetich, In no time. Forme di vita, tempo e verità in Virginia Woolf 283. Marco Fortunato, La protesta e l’impossibile. Cinque saggi su Michelstaedter 284. Antonio De Simone, Alchimia del segno. Rousseau e le metamorfosi del soggetto moderno 285. Francesco Giacomantonio, Ruggero D’Alessandro, Nostalgie francofortesi. Ripensando Horkheimer, Adorno, Marcuse e Habermas 286. Fortunato Cacciatore, Isonomia/Isogonia. Percorsi storico-filosofici 287. Vallori Rasini, L’eccentrico. Filosofia della natura e antropologia in Helmuth Plessner 288. Enzo Cocco, Le vie della felicità in Voltaire 289. Rodolphe Gasché, Dietro lo specchio. Derrida e la filosofia della riflessione, traduzione e cura di Francesco Vitale e Mauro Senatore 290. Andrea C. Bertino, “Noi buoni Europei”. Herder, Nietzsche e le risorse del senso storico 291. Franco Ricordi, Pasolini filosofo della libertà. Il cedimento dell’essere e l’apologia dell’apparire 292. Viviana Meschesi, Passaggi al limite. Linguaggio ed etica nei periodi di crisi 293. Franco Sarcinelli, Paul Ricœur filosofo del ’900. Una lettura critica delle opere 294. Federica Ceranovi, Dal giogo dell’idea alla festa del pensiero. I sentieri della ἀλήθεια nel saggio L’origine dell’opera d’arte di Martin Heidegger 295. Augusto Ponzio, Il linguaggio e le lingue. Introduzione alla linguistica generale 296. Augustin Cochin, Astrazione rivoluzionaria e altri scritti 297. Pierfrancesco Stagi, Di Dio e dell’essere. Un secolo di Heidegger 298. L.E.J. Brouwer, Lettere scelte, a cura di Miriam Franchella 299. Franco Aurelio Meschini, Materiali per una storia della medicina cartesiana. Dottrine, testi, contesti e lessico 300. Roberto Gilodi, Origini della critica letteraria. Herder, Moritz, Fr. Schlegel e Schleiermacher 301. Fiorella Bassan, Antonin Artaud. Scritti sull’arte 302. Rossella Spinaci, Razionalità discorsiva e verità 303. Marcella d’Abbiero (a cura di), Passioni nere 304. Umberto Curi e Luca Taddio (a cura di), Pensare il tempo. Tra scienza e filosofia 305. Lucia Parente, Ortega y Gasset e la “vital curiosidad” filosofica
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Finito di stampare ottobre 2013 da Digital Team - Fano (PU)
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