Francis Ford Coppola. Apocalypse now. Un'analisi semiotica
 9788878704701, 8878704709

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cinema/studio collana diretta da Orio Caldiron

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PAOLO JACHIA

FRANCIS FORD COPPOLA: APOCALYPSE NOW UN’ANALISI SEMIOTICA

BULZONI EDITORE

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TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941

ISBN 978-88-7870-470-1

© 2010 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]

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A Maria Corti

e a Gabriella Pozzetto.

E alle donne di Apocalypse now, per sempre.

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INDICE

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Introduzione APOCALYPSE NOW: IL CARNEVALE TRAGICO DI FRANCIS FORD COPPOLA

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Apocalypse Now: prime linee di poetica

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Da Conrad a Coppola: una ricostruzione intertestuale

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Con Michail Bachtin: dal Carnevale all’Apocalisse

107 Da Il ramo d’oro di James G. Frazer e dall’Indagine sul Santo Graal di Jessie L. Weston: mito e romanzo 127 Da Johann Wolfgang Goethe e da Friedrich Nietzsche, tra mito e realtà 137 Apocalypse Now: una lettura freudiana e postfreudiana 153 Un altro filo rosso: La Bibbia I Vangeli e l’Apocalisse ALTRE TRACCE PER APOCALYPSE NOW: CITAZIONI E RIFERIMENTI CULTURALI 167 Thomas S. Eliot e la citazione critica come tecnica compositiva e formale 175 Gli uomini vuoti di Eliot e «Cristo la tigre» 179 Dante tra Inferno e Carnevale: «Io non Enea, non Paulo sono» 183 I Dispacci di Michael Herr e la verità della guerra in Vietnam

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INDICE

191 “The End” di Jim Morrison e dei Doors 195 Richard Wagner: da “La cavalcata delle Valchirie” all’opera d’arte totale 199 Le Upanishad, Il filo del rasoio di W. Somerset Maugham e If di Rudyard Kipling 203 L’Albatros, Charles Baudelaire e Thomas S. Eliot, Fëdor Dostoevskij e Hermann Hesse: una difficile poesia 211 Biografie 217 Bibliografia

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INTRODUZIONE

E la luce splende nelle tenebre / ma le tenebre non l’hanno accolta Vangelo secondo Giovanni Il sacrificio è un delitto religioso, lo sterminio e il genocidio sono ateismo Tzvetan Todorov, Di fronte all’estremo A poco a poco ho scoperto che la linea di demarcazione tra il bene e il male non separa né gli stati né le classi né i partiti, ma attraversa il cuore di ogni uomo e di tutta l’umanità Aleksandr Solzenitsyn, Arcipelago Gulag Così l’orrore è destinato a trasparire dappertutto, cola attraverso le più candide sicurezze Andrea Zanzotto, Introduzione a Joseph Conrad, Il compagno segreto

Il saggio che qui si presenta è un’analisi semiotica e storico-letteraria di Apocalypse Now di Francis Ford Coppola – in realtà di Apocalypse Now del 1979 e Apocalypse Now Redux del 2001 – in rapporto in primo luogo a Cuore di tenebra di Joseph Conrad e in secondo luogo all’Apocalisse e ai testi evangelici e biblici ed infine agli altri riferimenti letterari filosofici e culturali che l’innervano, ed in particolare James Frazer, Sigmund Freud e Thomas S. Eliot. Scrive Coppola nell’Introduzione alla sceneggiatura di Apocalypse Now Redux del 2001: «Quando girai il film [...] invece di portarmi dietro il copione tenevo in tasca una piccola copia verde di Cuore di tenebra, piena di appunti e di segni. Cominciai istintivamente a fare riferimento a questa più che al copione. [...] Il mio lavoro sulla sceneggiatura aumentò i paralleli con Conrad [...] e così ogni notte riscrivevo febbrilmente le scene del giorno dopo». Mostrare l’originalità del lavoro di Coppola e al tempo stesso la sua fedeltà al testo di Conrad è dunque il primo degli obiettivi di quest’indagine e questo nonostante il titolo del film non sia Cuore di tenebra ma – per la sua ontologica dimensione apocalittica e per l’insistito riferimento biblico, etico e religioso – Apocalypse Now. 11

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INTRODUZIONE

In secondo luogo sarà messa in luce la forte valenza etica, spirituale e anche politica tanto di Conrad quanto di Coppola. Entrambe le opere si iscrivono infatti a pieno titolo nella tradizione apocalittica contemporanea ed entrambi gli autori sono acuti interpreti del proprio tempo, schierati apertamente dalla parte della luce contro le tenebre: «E la luce splende fra le tenebre / e le tenebre non l’hanno accolta» (dal Vangelo secondo Giovanni). Se, a tutti gli effetti, il viaggio di Conrad nel “cuore delle tenebre” – storicamente quello compiuto dall’autore nel 1890 attraverso il Congo schiavista – è un viaggio iniziatico e dantesco alla riscoperta della luce, della verità della luce attraverso l’inferno delle tenebre, il significato profondo di Apocalypse Now è in gran parte analogo. Al centro del mio studio vi è insomma la consapevolezza che, tanto in Apocalypse Now (1979–2001) quanto in Cuore di tenebra (1899-1902) il gioco luce/tenebre è un leitmotiv ossessivo e fondante e, al tempo stesso, indeterminato: cos’è davvero luce? cos’è davvero tenebre? E cosa bene e male? E quale sarà il giudizio sulle nostre scelte nel giorno dell’Apocalisse? E l’Apocalisse, il Giorno del Giudizio, come ogni sapienza religiosa e laica sa, in realtà, non è domani, è adesso, ora, now. Ai temi apocalittici, biblici ed evangelici sarà dunque dedicato l’ultimo capitolo della prima parte, nella consapevolezza, con Nietzsche, che «una cultura secolarizzata» è pur sempre una cultura nella quale «i contenuti religiosi della tradizione» restano ancora vivi se non altro «come tracce, modelli nascosti e distorti, ma pure sempre profondamente presenti» (cfr. Coupe 1999, p.152)1. È significativo dunque che il Nietzsche del Così parlò Zarathustra e della Genealogia della morale sia citato nella versione del 1975 dello script di Coppola e John Milius e divenga così la quinta citazione esplicita dopo i libri di Frazer, Weston, Goethe e la Bibbia, che troviamo tutti nel Quartier Generale di Kurtz2. Allo 1 Non stupisce quindi, alla luce di queste riflessioni, il suggestivo incontro di Coppola con il grande storico delle religioni Mircea Eliade, il cui romanzo e la cui figura saranno fondamento del film del 2007 Un’altra giovinezza. Di Eliade allora almeno una frase coerente con quanto abbiamo ora affermato e con la complessa genesi, mitica e religiosa, di Apocalypse Now. Scrive Eliade – in uno dei passaggi che Gian Paolo Caprettini definisce come uno dei suoi spunti teorici più interessanti – «sotto certi aspetti si potrebbe dire che, nelle società desacralizzate, la religione è diventata “inconscia”; essa agisce sepolta negli strati più profondi del suo essere; ma ciò non vuol dire che non continui a svolgere una funzione essenziale nell’economia della psiche». (cfr. Eliade 1980, pp. 87-88 e Caprettini 1992, p. 24; colgo l’occasione per ringraziare della segnalazione il prof. Caprettini e per avermi guidato in questi studi). 2 Nella sceneggiatura del 1975 Nietzsche è citato con questa frase: «Quotes of Nietzsche “Nothing is true – everything is permitted”, ovvero con un rimando a «Nulla è vero,

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INTRODUZIONE

stesso modo non è un caso allora – e nulla lo è in questo film – che i segni che mostrano a Willard l’inizio del regno di Kurtz siano le figure di tre crocifissi posti su una collina. Fermo ciò, è vero anche che Apocalypse Now – ma anche Cuore di tenebra – è un testo complessivamente postcristiano, ovvero presenta miti e cliché cristiani in un contesto dove però manca una risposta di fede chiara3. Ritengo ora opportuna, pur proseguendo su questa linea, un’ulteriore notazione per motivare il terzo capitolo, intitolato Con Michail Bachtin: dal Carnevale all’Apocalisse. E qui vorrei essere esplicito: gli strumenti di indagine da me utilizzati dipendono fortemente, ancora una volta, dagli studi di Bachtin. A lui in particolare dobbiamo un concetto quale quello di Carnevale, indispensabile per comprendere come il film e il romanzo qui analizzati siano, oltre che una parabola della modernità e della contemporaneità, un tragico e terribile Carnevale, una “festa”, o meglio un evento in cui pianto e riso, vita e morte si confondono, e si stemperano, nel compenetrarsi e ribaltarsi, ossessivo e continuo, degli opposti. E appunto, divisa tra luce ed ombra ed attraversata da entrambe ci appare, indimenticabile e a suggello dell’intero film, la figura drammatica di Kurtz, impersonata magistralmente dal densissimo e caravaggesco Marlon Brando. Credo però che la vera chiave, chiaroscurale e carnevalesca, delle opere di Coppola e di Conrad sia, in linea di principio, la figura del Fool, il re del Carnevale, il Buffone, la figura mitica che sostanzia tanto l’Arlecchino di Cuore di tenebra quanto il folle Fotoreporter di Apocalypse Now. La figura dell’“Arlecchino” – e il termine lo troviamo prima in Conrad, poi nello script del film datato 1975 e infine in Hearts of Darkness - Diario dell’Apocalisse, ovvero nel “making of” del film coordinato dalla moglie del regista e uscito nel 1991 – ci offre infatti una chiave imprescindibile per una corretta comprensione di principio tanto del film di Coppola quanto del romanzo di Conrad. Da questa linea interpretativa proviene il titolo della tutto è permesso», contenuto in Così parlò Zarathustra, IV, “L’ombra” (1885) e in Genealogia della Morale, § 24 (1887). Ma c’è anche un rimando, implicito da parte di Coppola e Milius, a Dostoevskij. Troviamo infatti come leitmotiv ricorrente nei suoi romanzi la seguente domanda: «Se Dio è morto, tutto è permesso?». «Ma allora, domando, che sarà dell’uomo? Senza Dio e senza vita futura? Tutto è permesso, dunque tutto è lecito?», scrive, ad esempio, lo scrittore russo in I fratelli Karamazov del 1880. Torneremo su Nietzsche e su questo nesso fondamentale nel quinto capitolo della seconda parte. 3 Anche in questo c’è un’analogia con gli Antievangeli nietzschiani, pur così assolutamente cristologici e cristocentrici. Si veda in questo senso la ricostruzione di Gianni Vattimo, ad esempio, nel suo prezioso Introduzione a Nietzsche.

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INTRODUZIONE

prima parte, ma idealmente, di tutto il libro: Il carnevale tragico di Francis Ford Coppola. Può bastare in questo senso una sola frase di Conrad per esplicitare quanto, e bene, Coppola abbia letto Cuore di tenebra e quanto ne abbia compreso l’humus carnevalesco. È quella in cui lo scrittore, per definire il côté colonialista e la sua tragicomica follia, parla di «allegra danza della morte e del commercio», riuscendo così a sintetizzare in modo carnevalesco tre concetti apparentemente opposti: commercio, morte e tragica e futile allegria, anticipando – profeticamente e realisticamente – cosa sarebbe stata la guerra in Vietnam tra il 1964 e il 1975 e il modo in cui Coppola l’avrebbe descritta4. Prima conferma di questa marca esegetica è il fatto che in entrambe le opere l’incontro del capitano Marlow e del capitano Willard – tutti e due definibili, in ultima istanza, nobili cavalieri erranti, con le parole del romanziere: «the great knights-errant» – con l’ambivalente e carnevalesco Buffone preceda e prepari quello con il tragico e regale Kurtz, un vero “Poeta-Soldato” per tutti e due gli artisti5. 4 Non è questa certo la sede per un’esatta ricostruzione storica e rimando pertanto all’ottimo e recente M. Frey, Storia della guerra in Vietnam, Einaudi, Torino, 2008. Invece un’obiezione importante rispetto alla nostra affermazione che Apocalypse Now è un film fortemente realistico – Coppola in effetti afferma: «Apocalypse Now non è un film sul Vietnam: è il Vietnam» – potrebbe essere quella che nel film non si vede la sconfitta militare degli Stati Uniti d’America da parte della guerriglia vietcong e dell’esercito del Vietnam del Nord sotto la guida del generale Giap. Ora, questo non è completamente esatto. Intanto si vede più volte la fortissima resistenza dei vietcong. Oltre la scena del villaggio possiamo ricordare anche la voce nella notte del ponte Du Lung che ripete all’infinito «Johnny vai a fare in culo», nonché la distruzione del ponte stesso da parte di un nemico invisibile, ma invincibile. Ma più ancora in Willard non c’è solo una crisi personale, ma la piena consapevolezza di una sconfitta storica ed epocale non solo della politica degli Stati Uniti, ma del colonialismo in generale: «State combattendo per il più grande niente della storia», viene detto brutalmente al capitano da uno dei reduci delle precedenti guerre coloniali. Ma è necessario riflettere ancora sulle parole di Willard: «Ogni ora che passa Charlie diventa sempre più forte». Insomma, in nessun fotogramma del film viene meno la consapevolezza della sconfitta statunitense, consapevolezza che è in Coppola e che è anche in Kurtz, e anzi è la premessa logico-filosofica e storica al film. Vertici di questa consapevolezza la “rassegna stampa” di Kurtz e il suo «Avessi avuto dieci divisioni dotate di moralità». Non bisognerebbe infine dimenticare che la frase e l’intero monologo di Kilgore sul “profumo di vittoria” hanno un fortissimo valore antifrastico: il Vietnam per gli americani profuma infatti di sconfitta. Infine, a conferma del fatto che questo sia il pensiero di Coppola, c’è una verifica extratestuale, ovvero un altro suo film, I giardini di pietra, dove la guerra in Vietnam viene definita tout court «genocidio» e anche «un errore di valutazione» e, più esplicitamente e in maniera carnevalesca, «una vaccata». 5 Se la regalità “geniale” di Kurtz e il suo essere “padre” della sua gente sono caratteristiche evidenti tanto del Kurtz di Conrad quanto di quello di Coppola, può essere invece interessante precisare che la locuzione «poeta-soldato» – che il regista usa in: «quell’uomo mi ha

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INTRODUZIONE

Ribadiranno il valore di questa lettura bachtiniana e carnevalesca il resto della prima parte e l’intera seconda parte, Altre tracce per Apocalypse Now – in cui si allargheranno i riferimenti a If di Rudyard Kipling, “The End” di Jim Morrison e dei Doors, Gli uomini vuoti e La terra desolata di Eliot, Il ramo d’oro di Frazer, Faust di Johann Wolfgang Goethe, L’Albatros di Charles Baudelaire, fino all’Inferno di Dante, tutti presenti e ben identificabili nel vasto reticolo intertestuale che sorregge e arricchisce il film. E a questo proposito voglio subito anche esplicitare che la principale differenza stilistica tra Conrad e Coppola – mentre il contenuto è analogo6 – è proprio nella presenza, nel regista, di quello che possiamo chiamare il “citazionismo critico” di Eliot, ovvero la tecnica del grande poeta anglo-americano di inserire nella vicenda narrata – l’esempio capitale è The Waste Land – insistiti riferimenti a Frazer, ai riti di rigenerazione stagionale, al Graal e a una cinquantina di altri topos letterari e culturali. Per inciso va ribadito che anche Eliot è un autore “carnevalizzato” e che in alcune sue opere il tono “alto” e quello comico, “basso”, sacrilego, convivono e si integrano ed è proprio questo, “il serio-comico”, il tono complessivo delle poesie di Eliot citate da Coppola in Apocalypse Now. Dunque Eliot e La terra desolata – ma più ancora la sua tecnica compositiva carnevalesca “ad assorbimento”, di cui il poemetto è esempio e vertice stilistico – costituiscono un punto di riferimento imprescindibile per Coppola. Un verso – tratto proprio da La terra desolata – evidenzia in modo sintetico e magistrale quanto detto e sottolinea il citazionismo apocalittico di Eliot e Coppola: «Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine»7. Ma, vista la rilevanza di quanto detto, vorrei ribadire che il aperto la mente: è un poeta-soldato in senso classico» – la troviamo in Herr (1968-1977, p. 29) dai cui Dispacci dipende tanto della scrittura quanto del “colore” vietnamita del film. 6 Ancora sul piano contenutistico e in maniera altrettanto apodittica possiamo affermare – e lo preciseremo però per tutto il libro – che le riflessioni di Frazer e Freud serviranno a Coppola, in modo parzialmente consapevole e in modo parzialmente inconscio, a precisare le valenze latenti nel testo di Conrad, ovvero la sua componente etnologica (il rinnovamento del potere avviene attraverso l’uccisione del vecchio re e la sua sostituzione con un giovane guerriero: e Conrad racconta anche questo) e la sua componente psicologica: Conrad racconta anche un conflitto edipico. Dunque sul piano del contenuto, il contenuto del film è sì Conrad, ma è anche Frazer e Freud perché quel che racconta Conrad è Frazer e Freud. 7 Cfr. T.S. Eliot La terra desolata, v. 430, trad. it. Serpieri 2000. Impressionante inoltre constatare che tutto il percorso sia di Marlow che di Willard potrebbe essere effettivamente riletto alla luce delle teorie di Eliade in primis quella, ricordata anche da Coppola nel suo commento del 2006, dell’Eterno Ritorno e dei riti e miti di iniziazione e rigenerazione. Provabile che il primo incontro con il pensiero di Eliade per Coppola – rilevante anche per la sua interpretazione di

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INTRODUZIONE

punto da cui partire per comprendere il citazionismo coppoliano, è che Coppola legge Conrad alla luce di Eliot, dunque con un tono apocalittico, effettivamente fortissimo in Eliot, ma non così accentuato in Conrad. Infatti, coerentemente con questa Weltanschauung, nella prima versione di The Waste Land, che contava circa il doppio dei versi, era citata espressamente l’Apocalisse di Giovanni: «Io, Giovanni, ho visto queste cose, e le ho udite». Questo pertanto giustifica il titolo scelto per il film, Apocalypse Now, rispetto a Cuore di tenebra, che pure sarebbe stato legittimo a livello contenutistico. Sintetizzando in una formula, se Conrad è il contenuto del film di Coppola, è Eliot a determinarne la forma culturale e la tecnica artistica. Afferma il regista: «T.S. Eliot’s The Waste Land also seemed so apt for [...] the story» (citato da Cowie 1989, p. 123). Bisogna però tenere presente anche quanto sono complessi i rapporti tra Conrad ed Eliot e ricordiamo a questo proposito solo, per adesso, che in origine epigrafe della Terra desolata dovevano essere le estreme parole di Kurtz: «The horror! The horror!». Tornando ora sinteticamente alla struttura del mio saggio, se la prima parte offre plurime ma coincidenti letture complessive del film, la seconda si limita a segnalare altre presenze, “altre tracce” artistiche e culturali che nel film sono sì significative, ma non di uguale portata. Non vanno però dimenticate altre ombre gigantesche che incombono su Apocalypse Now come Richard Wagner e Friedrich Nietzsche, insieme a Totem e tabù e Il disagio della civiltà di Sigmund Freud. In particolare Freud diventa, nel quinto capitolo della prima parte, addirittura una prospettiva per rileggere altri temi capitali del film e del romanzo quali, ad esempio l’Edipo e il Doppio. È significativo per esempio che alle porte del regno del Kurtz di Coppola appaia una doppia figura di Sfinge. Inoltre, il complesso rapporto tra Willard e Kurtz risponde tanto alle caratteristiche di un rapporto edipico – e la Sfinge fa parte del mito di Edipo – quanto a quelle con un temibile e demoniaco alter ego. Ma non solo. Freud e la tradizione post-freudiana – soprattutto Eros e civiltà di Herbert Marcuse, seconda edizione del 1967, un libro che non può essere sfuggito a Coppola e a John Milius, il cosceneggiatore del film, e che anzi è, probabilmente, il vero “bigino” freudiano del regista – sono indispensabili per comprendere come, tanto Apocalypse Now quanto Cuore di tenebra, rappresentino e disquisiscano Eliot rispetto ai miti e romanzi del Santo Grall – sia stato attraverso lo “sciamanico” Dennis Jokob e proprio sul set di Apocalypse now. Ricordiamo solo per inciso che Eliade è in America dal 1956 e il suo pensiero è parte della cultura americana dalla fine degli anni Sessanta-Settanta: ad esempio è amico di Joseph Campbell ma incontra anche Jack Kerouak, Allen Ginsberg, Allan Watts, ecc. ed altri esponenti della beat generation e dell’ambiente hippie.

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INTRODUZIONE

sull’ambiguità costitutiva dell’uomo, diviso, e ontologicamente intriso, tra Eros e Thanatos, tra odio ed amore. «Sfuriava e piangeva il mio soldato perduto e io gli dicevo: “Ci sono due uomini in te, non vedi? Uno che uccide e uno che ama. [...] Siete entrambe le cose”», queste sono le parole della figura femminile più importante del film – insieme madre, sposa e Sibilla – e uno dei punti nevralgici di Apocalypse Now Redux del 2001, che per me è davvero, rispetto a quella del 1979, la versione di riferimento. Apocalypse Now è, quindi, in realtà e di conseguenza, una profonda riflessione sul destino dell’uomo, su quali debbano essere i fondamenti dell’etica, sui suoi principi e sulle menzogne spacciate nel suo nome8. A conferma della necessità di leggere Apocalypse Now in questa chiave eticopolitica, metto insieme un rapido collage – apocrifo ma degno di fede – di frasi tratte dal film e dal romanzo: «Vede capitano Willard», è un generale che gli parla, «in questa guerra, là fuori, le cose si confondono. Il potere, gli ideali, i vecchi codici morali [...]. Ma là fuori con quegli indigeni, essere un dio deve essere una tentazione. Perché in ogni cuore umano c’è un conflitto [...] tra bene e male, e a volte il lato oscuro ha la meglio». E ancora, dando la parola al colonnello Kurtz, questa la sua replica indiretta all’accusa rivoltagli dall’ipocrisia dei generali americani: «Sono ormai al di là della loro timida mendace moralità [...] e bisogna farselo amico l’orrore. L’orrore e il terrore morale sono i tuoi amici. [...] Se avessi avuto dieci divisioni di uomini [...] dotati di moralità». Commenta amaramente Marlow, e certamente Willard sarebbe d’accordo con lui: «Meglio il suo grido – molto meglio. Era un’affermazione, una vittoria morale [...] pagata al prezzo di innumerevoli sconfitte, [...] ma era una vittoria. [...] È per questo che sono rimasto fedele a Kurtz fino all’ultimo e anche oltre». E queste le parole di Willard che fanno da eco: «Non era un caso che toccasse proprio a me essere il custode della memoria del colonnello Walter E. Kurtz [...] e se la sua storia è in realtà una confessione, allora anche la mia lo è». A questo punto è importante ricordare che le dostoevskijane Memorie dal sottosuolo dovevano chiamarsi Confessione, mentre l’ultimo lampeggiante 8 In coerenza Coppola afferma che «Quando è uscito Apocalypse Now tutti mi dicevano che era un gran film di guerra fatta eccezione per il momento esistenziale con Brando, alla fine del film. Ora la gente ne parla come un gran film esistenziale e sulla guerra non dice quasi una parola», in «Cahiers du cinéma», 628, novembre 2007. Questa ipotesi viene confermata dal regista stesso che, nel commento audio al film del 2006, dichiara che il film è «una esplorazione surrealista della moralità... un viaggio dentro le questioni della moralità nei tempi moderni... e questo era il tema centrale di Cuore di tenebra e questa è l’essenza di Apocalypse Now, questo il suo vero tema».

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INTRODUZIONE

romanzo di Fëdor Dostoevskij doveva intitolarsi Vita di un Grande Peccatore. Anche Willard parla in modo ossessivo dei suoi “peccati” e prova un lancinante, edipico e amletico, senso di colpa9. Se poi rammentiamo che il critico russo Bachtin insiste sulla centralità del genere testamentario della confessione nell’opera di Dostoevskij, a ben vedere, ci rendiamo conto che i dialoghi di Kurtz con Willard sono a tutti gli effetti quelli che Bachtin chiama «dialoghi [...] rendiconto-confessione dell’uomo che sta sull’estrema soglia», dialoghi in cui cioè si discute con estrema e violenta sincerità delle «questioni ultime»: Dio, la libertà, la vita, la morte, ciò che è giusto e ciò che non lo è (cfr. Bachtin 1963, pp. 145, 204, 298, 346 e passim). È pertanto in linea con questa prospettiva etica e filosofica che in Hearts of Darkness, il “dietro le quinte” del capolavoro di Francis Ford Coppola, il film sul film organizzato sotto la supervisione di sua moglie Eleanor, il regista afferma: «Da un parte il film è una storia d’azione-avventura, è la storia di un viaggio in una zona strana e sconosciuta, dall’altra esisterà anche una parte filosofica e allegorica. [...] Ho continuato a farmi domande sulla sceneggiatura [...]. Quella era la storia – quattro [sic] ragazzi che andavano a uccidere un tizio [...] – ma [il problema era] rispondere alle domande che la storia mi poneva [...]. Sapevo che avevo costruito il film in modo tale che non rispondere a quelle domande voleva dire fallire». E ancora, in un’intervista rilasciata a Natalia Aspesi, Coppola confessa: «Agli inizi avevo pensato di fare un film sulla guerra del Vietnam come se non se ne fossero dovuti mai fare altri e avevo segnato ben duecento realtà diver-

9 In tutta la sua opera Freud lega costantemente Edipo a Amleto (cfr. Jones 1910-1949, Starobinskij 1975, p.138 e passim) ed è in queste pagine, tutt’altro che secondarie, bensì fondative, che matura in Freud il concetto, fondamentale anche per la nostra analisi, di «Edipo mascherato»: cfr. per esempio: Freud, L’interpretazione dei sogni, 1899-1900, pp. 140; 242247; 365-366 e passim; Cinque conferenze sulla psicoanalisi, 1909, p. 165; Introduzione alla psicoanalisi, 1915-1917, p. 489. Di assoluta rilevanza per quanto abbiamo qui affrontato anche la lettura freudiana, datata 1927, di I fratelli Karamazov intitolata significativamente Dostoevskij e il parricidio. Infine non andrebbe mai dimenticato che Nietzsche in La nascita della tragedia non solo in qualche modo avvicina Edipo ad Amleto, ma ci ribadisce la triplice caratteristica di Edipo: «l’uccisore di suo padre, il marito di sua madre [...] il solutore dell’enigma della Sfinge», e proprio la Sfinge – incubo, ricordo o premonizione? – appare all’inizio del film accompagnata, con assoluta coerenza, da quel “Edipo rock” che è la canzone “The End” dei Doors: «Father [...] I want kill you / Mother, I want to fuck you!». Dunque, fin dai primi fotogrammi sono presenti negli occhi e nelle orecchie di quel “principe Amleto” che è il nostro Willard tutti gli elementi del mito di Edipo, disperazione e senso di colpa inclusi (cfr. Freud 1927), ma anche su questo gruppo di problemi torneremo, e a lungo, più avanti.

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INTRODUZIONE

se che poi sono riuscito a mettere nel film [...]. Poi, mentre lavoravamo, i riferimenti a Cuore di tenebra si sono fatti sempre più necessari, il viaggio fisico lungo il fiume è diventato un viaggio mentale, una ricerca sulle contraddizioni, sui concetti di moralità, di bene e di male, di verità e ipocrisia. E noi eravamo come un corpo di spedizione nella giungla [...]. Anch’io ero a pezzi» («La Repubblica», 24 maggio 1979). È in questo “clima” e con questa tensione che va letto dunque anche il presente volume che deriva da Apocalypse Now e da Cuore di tenebra e che vorrebbe, con dedizione, restituirne tutta la vastità etica e artistica. Il postulato da cui parto è ovvio: se la guerra che racconta Coppola è una guerra nazista, una delle tante, il Congo di Conrad è già Auschwitz: «Fra il 1890 e il 1908 la popolazione del Congo verrà decimata, forse dimezzata: si parla di sei milioni di persone sradicate, torturate e assassinate con il sistema del lavoro forzato usato per estrarre l’avorio dal “cuore di tenebra”» (Binni 1999, p. XL) o, per dirla con le parole esatte usate da Sertoli in una sua preziosa introduzione al capolavoro di Conrad, in conseguenza di «una politica di rapina e strage». È coerentemente a tutto questo che il Kurtz di Coppola, a sintesi dell’intero film, ci dice: «Ho visto orrori, orrori che ha visto anche lei, Willard», frase a cui corrisponde nel romanzo di Conrad: «Ho visto il demone della violenza, e il demone della cupidigia e il demone della concupiscenza». Teniamo però sempre presente che “apocalisse” etimologicamente significa “rivelazione” mentre “now” implica uno sforzo, da compiere nel presente, di conversione, un’assunzione etica di responsabilità davanti al bene e al male, una scelta forte e irrimediabile. Apocalypse Now è così qualcosa che è avvenuto, sta avvenendo, avverrà e che pertanto chiede sempre una risposta decisa e personale: questa è dunque la profezia e la rivelazione del film. Possiamo allora chiudere questa introduzione ribadendo, ancora una volta, il valore fondante di un’opera di assoluta contemporaneità come questa vasta costellazione che, per convezione, chiamiamo Apocalypse Now. Un film duplice e carnevalesco. E questo è confermato dal fatto che oggi convivono sotto la sua egida, ma in piena autonomia, due film con un nome simile ma non identico, figli diversi di una medesima e irriducibile galassia etica, culturale, filosofica che in questo saggio, meramente sperimentale10, abbiamo cercato di esplorare.

10 Per ogni approfondimento si rimanda in particolare a Alonge 2001 e Zagarrio 1995 i cui lavori ho sempre tenuto presente.

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APOCALYPSE NOW: IL CARNEVALE TRAGICO DI FRANCIS FORD COPPOLA

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APOCALYPSE NOW: PRIME LINEE DI POETICA

Il film narra la missione di un capitano dei servizi speciali, Benjamin L. Willard, che, nel Vietnam in guerra, deve raggiungere un certo colonnello Kurtz e “porre fine” al suo comando. Kurtz è infatti ritenuto dal Comando Militare americano un folle disertore che è fuoriuscito dall’esercito regolare e si è messo a capo, al confine tra la Cambogia e il Vietnam, di una milizia composta da ex lege americani e indigeni, i montagnard, con la quale persegue una sua personale strategia tanto militare quanto ideologica. Il nostro eroe dunque, accompagnato dall’equipaggio di una motovedetta, risale un fiume che nella realtà è il Mekong e, dopo aver compiuto una lunga e avventurosa via crucis, raggiunge il luogo in cui regna Kurtz, un Marlon Brando lugubre e imponente, e lo uccide compiendo un violento rito scoronante. In realtà è Kurtz stesso, e con lui il suo popolo, a scegliere lucidamente la morte del vecchio Re e a consentire al giovane guerriero di trionfare attraverso una consapevolezza arcaica e totemica. Frazer, come vedremo, docet. I sudditi di Kurtz acclamano dunque Willard, il giovane eroe, come loro nuovo sovrano, ma il capitano si sveglia dall’“incantesimo” che lo ha guidato fino a questo punto e sceglie di tornare alla civiltà per dare «memoria» e «ricordo» di Kurtz e di un viaggio fino al «cuore delle tenebre»1.

1 La locuzione «Cuore di tenebra», quanto le precedenti parole tra virgolette sono di Conrad così come, lo preciseremo, l’ispirazione complessiva del film. Per il concetto di “viaggio iniziatico” rimando all’opera di Mircea Eliade ed in particolare a La nascita mistica. Riti e simboli d’iniziazione (1959), tr. it. Morcelliana, Brescia, 2002, dove in particolare si ricorda che si «possono decifrare temi iniziatici» in The Waste Land di Thomas S. Eliot. Cfr. anche Eliade 1980, p. 138 in cui si precisa che «un dotto studioso quale Jessie L. Weston non esitò ad affermare che la leggenda del Graal conserva tracce di un’antica iniziazione rituale. Questa tesi non è stata accettata dagli specialisti, ma è importante e significativa la risonanza culturale che il libro di Weston ha avuto [...]. T.S. Eliot poté scrivere The Waste Land solo dopo averlo letto».

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Obiettivi critici Questo primo capitolo vuole in primo luogo mostrare – ricostruendone più esattamente la trama – il legame del film di Coppola con la tradizione grottesca e carnevalesca che «appartiene alla struttura stessa del film» (cfr. Trotta 1996, p. 20)2. Nello stesso tempo, vuole iniziare ad analizzare la stretta relazione tra il film e uno dei romanzi più significativi di questa tradizione, Cuore di tenebra (1899-1902), fino a dimostrare che il chiaroscurale e carnevalesco romanzo di Joseph Conrad è, integralmente, l’effettivo plot genetico dell’intero film e che Apocalypse Now prende proprio da qui molta della sua efficacia poetica e della sua riuscita complessiva. A questo proposito, possiamo dire – tenendo conto della sostanziale fedeltà dell’operazione e, al tempo stesso, di una fortissima attualizzazione per cui il Congo di Conrad diventa il Vietnam di Coppola, le navi del romanzo si trasformano in motovedette ed elicotteri mentre l’atroce sfruttamento coloniale diventa esplicita guerra imperialista – che i criteri di trattamento del romanzo di Conrad messi in atto da Coppola risultano definibili come metodi di semplificazione e linearizzazione. Perciò, se la vicenda del romanzo divagava in anticipazioni e digressioni, la trama del film è lineare e si svolge secondo lo schema del “viaggio dell’eroe all’inferno e ritorno”, un modello prima classico e mitologico usato da Omero, Virgilio, San Paolo e Dante, e poi impiegato in tanti romanzi e, in particolare, appunto, in Cuore di tenebra. Così, mentre nel secondo capitolo procederemo ad una puntuale verifica testuale dei punti di contatto tra Conrad e Coppola, sottolineando che nel film, a livello macrostrutturale, rimane la stessa scansione del romanzo in tre parti o capitoli sommariamente definibili come “premessa”, “svolgimento” e “conclusione”3, ora credo sia opportuno pas2 Per una rapida definizione vedi quanto già detto nell’introduzione; per un approfondimento, invece, il terzo capitolo: Con Michail Bachtin dal Carnevale all’Apocalisse. 3 Non è difficile in realtà scorgere dietro questo schema un altro schema ternario le cui radici affondano nella teoria aristotelica e nella tragedia greca e che è ben noto – per complesse vicende storiche, artistiche e culturali, che ci portano dai neoaristotelici umanistici e rinascimentali ai formalisti russi – alle scuole cinematografiche americane (che Aristotele l’applicasse alla tragedia e non al romanzo o al film è per noi irrilevante: tanto è vero che da allora tutte le teorie della narrativa si sono rifatte a quel modello: cfr. Eco 1971, p. 5). Secondo questa teoria nel primo atto o segmento si presenta l’eroe e si pone l’obiettivo che egli deve conseguire ovvero, con le parole di Greimas, si definisce «il contratto» tra un’autorità (un re, un comandante, ecc.) che dà una missione da compiere, e un eroe. Nel secondo atto/

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sare a una più articolata analisi-riassunto del film al fine di precisarne, punto per punto, stazione per stazione, la straordinaria e carnevalesca prosegmento si affrontano le vicende che seguono a questo «contratto» e che costituiscono le premesse alla «catarsi»: con Greimas possiamo definire questa seconda parte «acquisizione delle competenze» o, con diversa terminologia, «percorso delle prove nobilitanti». In Apocalypse Now, il vertice di questo percorso è l’incontro di Willard con la Vedova dell’Eroe nella colonia francese. Nel terzo atto/segmento si presenta la “soluzione”, positiva o negativa che essa possa essere considerata, la catarsi o catastrofe. Per meglio precisare, pur sempre sommariamente, la tradizione aristotelica cui ho fatto cenno mi limito a ricordare due passi. Il primo è nell’Estetica di Hegel, nel paragrafo intitolato “L’opera d’arte drammatica”: «In relazione a ciò Aristotele già dice – nella Poetica, capitolo settimo – che un tutto è ciò che ha un inizio, un centro, ed una fine». Questa frase e gli stessi concetti sono ripresi da Viktor Šklovskij, nel primo capitolo del suo Simile e dissimile (1970), che dimostra la lunga frequentazione aristotelica di uno dei capifila dei formalisti russi e quindi la sua risonanza, via Jakobson, anche nella cultura statunitense (per le analogie tra Aristotele e i formalisti cfr. ad esempio Steiner 1984 pp. 44-45 e prima Erlich 1954). Ma d’altra parte, uscendo dal piano teorico e passando al piano dei modelli concreti, è da ricordare che il dramma tradizionalmente si divideva in tre segmenti – protasi, episodi ed epitasi (ovvero commenti all’azione), catastrofe/catarsi – e che Coppola, prima di affrontare i suoi studi cinematografici, presso la celeberrima UCLA, aveva anche frequentato la scuola teatrale dell’Università di Hofstra. Non sarebbe così difficile riconoscere una limpidezza classica al plot di Apocalypse Now e persino ritrovare nei “commenti off” di Willard qualcosa di molto simile agli interventi extra-diegetici del Coro delle tragedie greche. E ancora, coerentemente a questo, scrive Šklovskij nelle pagine conclusive della stessa opera prima citata: «Vediamo che la poetica di Aristotele non è morta e che la mitologia greca non era soltanto un terreno per l’arte antica, ma è rimasta il pane di cui si nutre l’arte nostra [...], vediamo come certi intrecci, certi temi vivono da millenni». Umberto Eco ha ulteriormente illuminato questo percorso “anglo-aristotelico” scrivendo che già nella sua giovinezza aveva scoperto che «la tradizione anglosassone aveva continuato a prendere sul serio la Poetica aristotelica e senza interruzione». A confermare questa teoria, «uno dei classici della teoria critica americana, Principles of Literary Criticism di Richards (1924), si apre con un rinvio ad Aristotele [...], la Theory of Literature di Wellek e Warren (1942) [...] fonde i principi della critica anglosassone con le ricerche dei formalisti russi e degli strutturalisti praghesi [...] perché si situa [...] sotto il segno di Aristotele [...]. La scuola di Chicago [...] si definiva senza riserve neoaristotelica», proprio come potremmo definire, neoaristotelici, sempre seguendo Eco «un teorico del teatro odierno come Francis Fergusson (The Idea of a Theater, 1949) [...] o Northrop Frye [...] Anathomy of Criticism, 1957». Non solo, ma, prosegue Eco, vanno ricordate «le analisi anglosassoni del plot romanzesco e drammatico. [...] in tutti costoro trovavo [...] un atteggiamento aristotelico [...], in fondo Aristotele [...] si presentava come il primo maestro di una analisi strutturale del plot [...]. Tra le mie prime scoperte dell’attualità di Aristotele ricordo un libro del 1937 di Mortimer Adler che aveva elaborato un’estetica del film su basi aristoteliche». Insomma, se pure la Poetica «non fosse capace di definire la letteratura “alta”, era pur sempre impiegabile come una teoria perfetta della letteratura e dell’arte popolare». «Non accetto certo», afferma ancora Eco, «l’idea che la Poetica non possa definire l’arte “alta”, ma è certo che con la sua insistenza sulle leggi dell’intreccio, si trova particolarmente

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fondità. In sintesi, il carnevalesco accompagna e dà respiro metafisico al grottesco4. Guerra a sangue agli specchi! Dal buio emerge la prima immagine della giungla. Silenzio. Poi un elicottero, un altro, le fiamme del napalm e la voce di Jim Morrison, apocalittica e drammatica, che con i Doors canta «This is the End». In, sovrimpressione compare il primo piano rovesciato del viso del giovane protagonista: è il primo segno di una realtà “altra” e allucinata, capovolta, in cui «la morte fa parte del paesaggio» (cfr. Trotta 1996, p. 54). Nel frattempo il rumore delle pale degli elicotteri si confonde e si mescola con quello delle pale di un ventilatore a soffitto e vediamo la stanza dove il protagonista è steso riverso sul letto. Quando finiscono visioni e incubi, che non sappiamo se siano ricordi o premonizioni, ma sono comunque provocati dalla violenza delle immagini di guerra e dal adatta a descrivere le strategie dei mass media. La Poetica di Aristotele è certamente la teoria, tra l’altro, del western alla John Ford – e non perché Aristotele fosse un profeta, ma perché chiunque voglia mettere in scena un’azione attraverso un intreccio (ciò che un western fa senza residui) non può fare diversamente da quanto aveva intravisto Aristotele». Se è inutile ripetere l’importanza di Ford in Coppola (Kilgore è il John Wayne di John Ford) è utile invece ricordare che Eco giunge a sostenere tout court che «la Poetica è al tempo stesso l’atto fondante sia della teoria della letteratura che della critica occidentale», e, con un brusco ma motivato passaggio, ci ricorda che Ombre rosse non solo ha «davvero realizzato gli ideali della Poetica», ma è «un capolavoro dell’intreccio spettacolare moderno [...], un’epica moderna asciutta ma ricca di tensioni pittoriche», in piena conformità, dunque, al dettato della Poetica aristotelica che prescrive «inizio, tensione, climax, scioglimento e catarsi». Se ciò non bastasse ancora, Eco ci ricorda che il romanzo poliziesco (e la quest di Willard è anche un’azione giudiziaria) e i film che ne derivano non sono altro che «La Poetica di Aristotele ridotta alla sue coordinate essenziali» (cfr. Eco 1968, pp. 291-292; Id. 1971, p. 5; Id. 1978, pp. 9-10; Id. 1983, p. 253; Id. 1994, p. 80; Id. 2002, pp.253-273; Id. 2007, pp. 282-283, ecc.). Aleksandr Veselovskij infine ci ha ricordato che lo schema ternario dei romanzi d’avventure (contratto – competenze e prove nobilitanti – sanzione del percorso) e, possiamo aggiungere, di molti “cineromanzi” ha come ulteriore antecedente l’universo delle fiabe: «Il romanzo (d’avventure ) è ancora oggi condizionato da schemi e metodi risalenti alla fiaba» (Veselevoskij trad. it. pp. 54-55 e cfr. per una conferma Eco 1965 e Caprettini 1980). Con tutto questo non ci siamo allontanati da Apocalypse Now, ma abbiamo invece, credo, illuminato l’origine complessa della perfetta classicità del dramma che Coppola, con assoluto rigore artistico, mette in scena. 4 Dostoevskij è uno dei vertici della letteratura carnevalizzata ed è attraverso i suoi abissali e apocalittici romanzi che il carnevalesco e il polifonico irrompono nella letteratura contemporanea e da qui nell’immaginario teatrale e cinematografico. Cfr. Jachia, 2007 e ivi, terzo capitolo.

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whisky, il giovane si alza barcollando, va alla finestra, guarda attraverso le veneziane ed esclama: «Saigon. Merda». Il termine scatologico, dopo l’ubriachezza e gli incubi, ci offre un’ulteriore conferma che l’azione si svolge in un mondo “ex lege”, carnevalizzato. Sappiamo però sin da subito che si tratta di un Carnevale tragico: l’angoscia e il senso di tragedia grottesca, oltre che dalle immagini e dai rumori, sono resi dalla canzone e dalla leggenda, tragica, di Jim Morrison che morirà suicida giovanissimo. Si giustifica così immediatamente il titolo: il Vietnam è la fine, l’apocalisse tragica, ma anche assurdamente comica, di una civiltà, la nostra. L’uomo anonimo delle scene iniziali, che lotta in mutande contro se stesso, ne è dunque il primo icastico segno. Scopriremo poi che Willard – il capitano Willard – è in licenza, è stato in America giusto il tempo di divorziare ed è subito tornato in Vietnam. È reduce in particolare da missioni speciali, in cui è incluso anche l’omicidio. A proposito di uccisioni, non credo sia inutile ricordare che “The End”, la canzone di Jim Morrison che sentiamo a commento delle scene iniziali (e di quelle finali) del film, è tout court una versione rock e apocalittica del mito di Edipo e sfocia nella celeberrima e iper-censurata strofa «Father, I want to kill you / Mother, I want to fuck you!». Approfondiremo più volte questo tema in seguito parlando del ruolo simbolico della “Vedova dell’Eroe” francese, ma basti ora sapere che si tratta, in qualche modo, di un’anticipazione sintetica dell’intero film (cfr. Alonge 2001). In questa direzione gioca anche la possibile presenza tra le carte di Willard di un libro fondamentale per la vicenda del film, Il ramo d’oro di James G. Frazer su cui torneremo più avanti e della cui importanza parla Coppola nel 1979: «È così chiaro! [Il film] è un’illustrazione filmata del primo capitolo di Il ramo d’oro di Frazer. La storia del re anziano che deve morire per mano del nuovo re giovane che ne prende il posto. Brando rappresenta una cultura che deve morire, ed è cosciente, sa che deve essere ucciso. E cita Eliot e Conrad perché sono legati. Weston ha scritto il libro sulla ricerca del Santo Graal avendo letto Frazer. Eliot ha scritto le sue poesie con Weston in mente, e ha dedicato The Hollow Men, che Brando cita, al libro di Conrad Cuore di tenebra che ho usato come supporto per la sceneggiatura» (per l’intervista citata, cfr. R. Celi, «Musica», 24 maggio 2007). Rilevante notare che questi concetti vengono ancora ribaditi – assieme al ruolo avuto da Dennis Jakob – anche nel commento audio al film fatto dal regista nel 2006). Nella seconda sequenza ci troviamo ancora nella stanza e vediamo Willard, seminudo – quindi “vestito” buffonescamente – colpire con violenza la propria immagine allo specchio. La lotta contro il doppio, contro l’altro 27

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se stesso, contro l’ambiguità costitutiva dell’uomo sospeso tra bene e male è in effetti il tema del film ed è un argomento tipicamente carnevalesco e dostoevskijano, come d’altra parte lo è anche lo specchio, perché appunto legato al tema del doppio e del sosia parodico. Lo specchio è insomma sì un tema prima romantico e poi esistenzial-novecentesco, ma sempre carnevalesco, intrinseco cioè a un “mondo altro”, e questo lo insegna anche un testo minore come Attraverso lo specchio di Lewis Carroll. Lo specchio è in effetti un limite e infrangerlo, o attraversarlo, segna l’ingresso in un altro mondo, apre a un’altra dimensione esistenziale di taglio carnevalesco, in cui le situazioni narrate non sono quelle ordinarie e quotidiane, ma ambigue ed estreme, sempre tragicomiche, sia che il tono prevalente sia il comico sia, come in questo caso, il tragico. Dopo aver segnalato tutto questo non dobbiamo farci ingannare: Willard è, anche se vestito di panni succinti e carnevaleschi, un cavaliere errante in missione per la gloria del suo Re. Dunque il romanzo cavalleresco “di prove” è in realtà alla base prima di Cuore di tenebra di Joseph Conrad (1857-1924) e poi del film di Francis Ford Coppola (1939) che deriva direttamente, come approfondiremo più avanti, da questo romanzo. Ricordiamo ora invece che il “romance” – ovvero il romanzo medioevale cavalleresco di cui i maggiori esempi sono Perceval e il ciclo cavalleresco del Graal – si struttura tipicamente come una sequenza di avventure minori che preparano l’avvenimento principale o culminante (cfr. Frye 1957, p. 248)5 e che allo stesso modo, nel ro5 Ci conferma l’importanza di questo riferimento al “romance” Antonio Costa il quale scrive che «I tre possibili livelli di lettura del racconto di Conrad (storico, gnoseologicometafisico e metalingusistico, come ben precisato da Giuseppe Sertoli nella sua ottima nota introduttiva al romanzo di Conrad) trovano una trasposizione, attraverso la mediazione eliotiana, nel pattern del romance-quest sul quale è marcatamente modellato il racconto della missione segreta di Willard» (Costa 1993, p. 196). La presenza di Lucas nella genesi di Apocalypse Now (cfr. Coppola 2001, pp. 7-8) e il suo essere uno dei possibili candidati alla regia del film fa sì che sia utile inoltre ricordare che l’intera opera di Lucas «rimonta alle radici del romance [...] e che la quest del Graal [...] ha presieduto più o meno sotterraneamente a ogni affabulazione del regista, da American Graffiti del 1972 in poi» (cfr. Arecco 1995, pp. 16, 33-35, 40, 59-62, 75-82, 110-112). Sulla continuità del “romance” in America sia nella letteratura e nella cultura cosiddetta “di élite” che in quella “di massa” e popolare si vedano oltre che, naturalmente, Alonge 2001, Fidler 1967 e AA.VV. 1978. Da sottolineare inoltre che «La forma finale del romance [...] ha di solito [...] tre stadi: quello del viaggio pieno di pericoli e delle avventure minori preliminari; la lotta cruciale, che di solito è una battaglia in cui l’eroe o il suo nemico o tutti e due devono morire; infine l’esaltazione dell’eroe» (Frye 1957, p. 248), ma su questo “schema ternario” siamo già intervenuti.

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manzo e nel film, la lenta e tragica risalita del fiume ci prepara al drammatico e abissale incontro con Kurtz. In coerenza a questo legame con la tradizione del romanzo di prove cavalleresco – che, secondo Bachtin, affonda le sue radici addirittura nei primi esempi di romanzi conosciuti, i cosiddetti “romanzi alessandrini” – potremmo definire la scena successiva al Quartier Generale statunitense come una vera e propria “cerimonia di investitura cavalleresca”. È bene però precisare subito che il plot del romanzo d’avventura cavalleresco usato da Conrad e Coppola è oramai quello rivisitato in maniera carnevalesca da Miguel de Cervantes con il suo Don Chisciotte, il cui protagonista è un «santo e folle giullare» (ed in effetti quanta pazzia, autentica e blasfema, c’è nella guerra in Vietnam e nel film, senza dimenticare di citare uno dei versi della canzone di Morrison datata 1967: «e in una terra disperata / tutta la nuova generazione è folle»). Dunque Willard è sì un “cavaliere” – e infatti ha le caratteristiche fisiche e morali dell’eroe medioevale: la bellezza, la giovinezza, il coraggio, il senso d’avventura e la assorta malinconia – ma è un cavaliere tragicomico che deriva, pur differenziandosene, da Don Chisciotte. Su di lui agiscono cioè, oltre alla tradizione del romanzo cavalleresco, anche altre tradizioni romanzesche, e in particolare quelle romantiche ed esistenzialiste, in cui il carnevalesco puro si attenua e si confonde con il grottesco creando un tono che Bachtin definisce lugubre, spettrale, e qui apocalittico. Il segno complessivo dell’avventura del capitano-cavaliere Willard non è però il Carnevale allegro di Rabelais e del Rinascimento, quando la festa storica del Carnevale influenzava ancora direttamente la letteratura infondendogli un senso di continua rinascita, il riso era pieno e anche la morte aveva un senso e dava frutto – ma quello di un Carnevale triste e tragico. Willard, ci dice sinteticamente e semplicemente la moglie del regista, è «una persona le cui convinzioni non reggono più», (cfr. E. Coppola 1979, p. 197), ossia un uomo – per entrare da subito nell’ottica del film – giunto alla fine del mondo. La guerra in Vietnam – questo è il contesto in cui vengono collocati il protagonista e la sua avventura – è così, fin dalle prime scene e prima ancora che si sappia qualcosa del nostro eroe e della sua pericolosa missione, una tragica buffonata: «Non c’era da stupirsi che Kurtz fosse un dito nel culo per i Comandi. La guerra veniva combattuta agli ordini di un gruppo di clown a quattro stelle che avrebbero finito per dar via tutto il 29

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circo»6. È proprio coerentemente con questo assunto che il primo scontro in cui vediamo impegnato il “capitano-cavaliere” Willard è appunto quello contro la propria immagine riflessa nello specchio. Alla fine di questa farsesca e tragica lotta contro i mulini a vento, Willard rompe lo specchio, si ferisce e piange sul letto sporco di sangue7. Una conferma della nostra interpretazione secondo la quale il film ci presenta una realtà carnevalizzata e tragica che costituisce la premessa per una libera discussione dostoevskijana sulle cosiddette questioni ultime – il senso della vita e della morte, l’esistenza di Dio e del Diavolo, cosa sia giusto e cosa no – è, come già accennato, il volto di Willard rovesciato. Questo però non è solo il segno di un mondo sottosopra. Ci troviamo dinanzi a una «waste land», una “terra guasta” – come viene tradotto in alcuni casi il verso di Eliot – ma anche all’aprirsi di un Inferno e di un’Apocalisse, di una visione della fine del tempo. Sono due ulteriori tracce presenti in queste scene a confermarcelo. La prima – la minore e la più sottile delle due – è il ronzio di una mosca che Willard cerca di afferrare e che è simbolicamente il primo messaggio di Kurtz-Belzebù. Belzebù infatti è il diabolico signore del mosche, insetti che, sia in Conrad che in Coppola, circondano Kurtz. Tutto questo però lo sapremo solo alla fine del film e del romanzo e, significativamente, il Kurtz di Coppola in una delle ultime sequenze acchiapperà la mosca che invece sfugge a Willard all’inizio del film. La seconda e maggiore traccia è la sinistra apparizione, in sovrimpressione tra le fiamme, di un mostro diabolico quale è la Sfinge che viene avanti dal fuoco per parlarci, come la canzone dei Doors, di Edipo e del Regno del Padre Kurtz. Che sia proprio la Sfinge il fantasma che vediamo nell’incipit, lo confermano due fatti: lo script del 2001 descrive 6 Il circo con i suoi clown e i ricordi che genera è uno dei grandi tramiti attraverso cui si carnevalizza prima la letteratura e poi il cinema. Una traccia genetica ne è la libertà ideologica e lessicale che dal Carnevale si riflette nella breve ma significativa frase willardiana qui citata. Per un’ulteriore conferma si veda la frase della moglie del regista: «Ieri sera [...] sul set del ponte di Do Lung [...] sembrava di essere al circo» (E. Coppola 1979, p. 93). Il riferimento al circo è esplicito nel film di poco successivo Un sogno lungo un giorno (1982) ma anche, almeno, in Dracula di Bram Stoker (1992). 7 Le lacrime, come l’alcool, le droghe, il sangue e il linguaggio osceno e scatologico, sono elementi carnevaleschi perché spezzano il mondo consueto, convenzionale e ufficiale e, non casualmente, sono presenti in modo ossessivo nel film quanto il lessico sboccato e scurrile, tipicamente “da caserma”. Ma sono elementi carnevaleschi anche, e persino a un livello più profondo, le fiamme che cancellano la realtà preesistente e aprono all’ignoto: il fuoco è un altro dei simboli centrali del Carnevale.

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così il tempio di Kurtz: «Le dimensioni delle rovine sono enormi. Grandi enigmatici volti cambogiani scolpiti nella pietra migliaia di anni fa [...]. È come se il fiume si riversasse fra le grandi braccia di questa sorte di Sfinge»; e prima il diario della moglie del regista: «Fuori c’era un grosso atelier con uno scultore e cinque o sei assistenti che stavano modellando l’enorme testa e le decorazioni del tempio. [...] Lavorano su fotografie di Angkor Wat [...], ma la modella per l’enorme testa era una bella ragazza filippina» (E. Coppola 1979, p. 17). Durante l’apparizione della Sfinge è da notare anche un’ulteriore anticipazione: un fotogramma del viso “mimetizzato” di Willard nella scena in cui egli uccide Kurtz. Il capitano dunque prevede – o sogna o ricorda – quello che farà o ha fatto alla fine del film, uccidere il Padre Kurtz. Tutto questo è coerente (anche) alla frase dell’Apocalisse: «Io sono l’alfa e l’omega», ovvero nell’inizio c’è la fine e viceversa. Subito dopo, però, con l’arrivo di due agenti della polizia militare, il principio di realtà si impone. «Per cosa mi arrestate?», chiede Willard. «Non vi arrestiamo signore, abbiamo l’ordine di portarvi al Comando», rispondono mentre lo trascinano prima sotto la doccia poi al Quartier Generale. Willard, sotto il getto dell’acqua che lo risveglia, urla, ma il suo grido resta di fatto, come la sua profonda disperazione, muto. L’investitura Al Quartier Generale di Nha Trang, un generale prospetta a Willard il suo nuovo incarico, la sua “missione”: dovrà risalire il fiume Nung – in realtà si tratta del Mekong – sconfinare dal Vietnam del Sud in Cambogia, mettersi in contatto con il colonnello Kurtz e «porre fine al suo comando». Gli viene fatta poi ascoltare una registrazione della voce di Kurtz che pronuncia una sua frase “lisergica” (in realtà iniziatica) sulla straordinaria capacità delle lumache di «strisciare indenni sulla lama di un rasoio», ovvero di andare al di là di quelle che sono le convenzioni sul male e il bene. Mentre i generali non sono in grado di capire quel che sta dicendo Kurtz, Willard già “intravede” qualcosa nella voce e nelle parole del colonnello ed Eliade ci informa non solo della loro fonte precisa, ovvero le Upanishad, ma del loro forte valore iniziatico (cfr. Eliade 1956 pp. 114-116 e quanto diremo più avanti). Importante poi rilevare che anche il Kurtz di Conrad fa la sua apparizione come una voce e Coppola riesce a tradurre in modo geniale il dettato del romanziere – «quell’uomo si presentava come una voce» – ricorrendo letteralmente a una registrazione. 31

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Cominciamo così a conoscere il nostro deuteragonista – è difficile chiamarlo antagonista – di cui nel corso del film veniamo a sapere che ha frequentato la prestigiosa Accademia per ufficiali di West Point, è stato eroico combattente in Cambogia, Corea e Vietnam diventando rapidamente colonnello e mettendo le basi per una vertiginosa carriera. Nonostante questi presupposti, Kurtz però, prima ha preferito dare un calcio a questa brillante prospettiva presentando al Presidente degli Stati Uniti un rapporto molto polemico sulla conduzione della guerra da parte dei comandi militari, poi farla addirittura a pezzi arruolandosi nei paracadutisti e tornando in Vietnam come soldato effettivo. Una volta qui, Kurtz ha iniziato una sua guerra personale, sì contro i vietnamiti, ma anche in polemica con i vertici militari americani con i quali ha di fatto tagliato ogni contatto. Le ultime notizie lo danno a capo di un’enclave di disertori e guerriglieri locali, i “montagnard” che lo adorano e gli ubbidiscono fanaticamente, cioè, usando le parole di Conrad, «come un dio eseguono i suoi ordini, anche i più assurdi»8. Il comando americano, che lo ritiene pazzo o peggio, insubordinato, lo accusa inoltre di aver giustiziato senza permesso degli agenti sud-vietnamiti doppiogiochisti. Dunque Kurtz paradossalmente – proprio nell’epicentro di una guerra senza quartiere – è ricercato per aver commesso un omicidio. Il commento carnevalesco e scoronante di Willard al capo di imputazione è: «Sarebbe come multare qualcuno per eccesso di velocità a Indianapolis», mentre questa è la replica, ulteriore e tragica, di Kurtz: «E mi chiamano assassino. Come si dice quando gli assassini accusano l’assassino? Mentono [...]. Le accuse sono ingiustificate. In realtà e nelle circostanze di questo conflitto, sono assolutamente folli [...]. Quei nababbi, li odio, li odio davvero». Dunque Willard deve, secondo gli ordini del Comando americano e della CIA, per i quali però «questa missione non esiste e non esisterà mai», ristabilire l’ordine militare in un Vietnam insanguinato da uno dei più violenti conflitti che si ricordino e all’interno di uno dei più giganteschi affari commerciali del secolo. In Vietnam infatti, per dirla con il linguaggio colorito e carnevalesco di Willard, «c’è tanta di quella merda che per starne fuori ci vogliono le ali». Questa è la guerra del Vietnam per Coppola, ed è 8 Il fatto ha comunque un fondamento storico. I montagnard, popolazione ancora “semiprimitiva”, hanno infatti in qualche modo collaborato alle operazioni della CIA coordinate dall’allora agente “Tony Poe” Poshepny. Si può trovare un’eco di questa vicenda storica ancora nei recenti reportage di Thomas Fuller per il «New York Times».

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APOCALYPSE NOW: PRIME LINEE DI POETICA

opportuno non dimenticarlo per comprendere del tutto la carica polemica di Apocalypse Now, che non è solo un film genericamente antimilitarista, ma va contro una precisa cricca politica militare e affaristica. Il tono e il linguaggio carnevaleschi («pagliacci [...] circo [...] nababbi [...] merda [...] assassini») non escludono, anzi, accentuano la violenza e il fondamento storico-ideologico della denuncia di Coppola. Vorrei anche far notare che – sia pure in modo ipocrita e contraddittorio – sono proprio le parole del generale a palesare per prime i grandi temi del film e cioè Dio, quello che è giusto e quello che non lo è, cosa è morale e cosa follia: «In questa guerra, là fuori, le cose si confondono. Il potere, gli ideali, i vecchi codici morali [...]. Ma là fuori con quegli indigeni, essere un dio deve essere una tentazione. Perché in ogni cuore umano c’è un conflitto [...] tra bene e male, e a volte il lato oscuro ha la meglio su quelli che Lincoln chiamava “i migliori angeli della nostra natura”. Ogni uomo ha un suo punto di rottura. Lei e io abbiamo il nostro. Walter Kurtz ha raggiunto il suo ed è palesemente impazzito» (vedi anche E. Coppola 1979, pp. 237 e 34). La “picciola “ compagnia alla ricerca del (Santo?) Graal Willard parte per la sua missione e inizia con il conoscere i suoi quattro compagni di viaggio: il caposquadra nero, un ex cuoco bianco, un campione di surf bianco e un diciassettenne nero assurdamente razzista. Dunque sono quattro, quanti erano i compagni di Marlow in Cuore di tenebra. È da notare però che i quattro “soci” di Willard sono dei sosia comici dei loro augusti parenti conradiani. Se infatti gli amici di Marlow erano avvocati, bancari e liberi professionisti, i compagni di Willard vengono dal Bronx e dalla miseria perché, come sappiamo bene, i rampolli delle famiglie ricche – ne è esempio un recente e pur guerrafondaio Presidente degli Stati Uniti – riuscivano a evitare la cartolina di precetto o a ricevere incarichi di tutta sicurezza. La guerra in Vietnam è stata anche una guerra di poveri contro poveri e Coppola questo non lo vuole dimenticare e fa dire a Willard: «Mister Clean», questo il soprannome di uno dei quattro, «veniva da un qualche merdoso angolo del South Bronx, e credo che la luce e lo spazio del Vietnam lo avessero tirato fuori di senno»9.

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In coerenza con i versi di “The End”: «tutta la nuova generazione è folle».

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I miseri compagni di Willard, però, non sono solo una parodia dei borghesi di Conrad, ma anche dei “cavalieri erranti” dei romanzi medioevali e dunque la loro ricerca è all’insegna – logora e stracciata – di una sconfitta e di una frustrazione epocale10. Salpata senza gloria, la motovedetta di Willard, il cui «equipaggio era formato più che altro da ragazzi [...], rockettari con un piede nella fossa», approda al campo base di una squadriglia di elicotteri, la cosiddetta «Cavalleria dell’aria», comandata dal tenente colonnello Kilgore. Quest’ultimo ha in testa un incongruo cappello da cavalleria nordista, un’assurda corona regale che diventa simbolo di un regno folle, tragico e carnevalesco. Da qui, dall’estuario del fiume, gli elicotteri – sulle cui fiancate troviamo l’allegra scritta «Carte per la morte» o «La Morte viene dall’Alto» – dovrebbero sollevare la motovedetta oltre la foce, impraticabile per via dei banchi di sabbia che impediscono la navigazione, e portarla dove il fiume è più profondo e dunque navigabile. Uomini e donne nella follia della guerra All’interno del campo del tenente colonnello Kilgore – che è lo zombie del colonnello Custer e il doppio parodico del colonnello Kurtz – vengono inquadrati nel mezzo di un caotico marasma elicotteri, motovedette, soldati e anche una troupe televisiva con Vittorio Storaro dietro l’obiettivo e lo stesso Coppola alla regia, che fa cenno al protagonista di andare avanti facendo finta di combattere e gli ordina di non guardare in macchina. Questo piccolo cammeo ha per lo meno un triplice senso. In primo luogo vuole ricordarci che la guerra del Vietnam è stata la prima a essere servita “in diretta” dai telegiornali di tutto il mondo, anche se l’informazione così abbondantemente fornita era altrettanto abbondantemente truccata. Poi l’apparizione di Coppola in prima persona serve a non farci dimenticare la 10 Tacendo che la locuzione conradiana «cavalieri erranti» ha già etimologicamente in sé, oltre l’immagine del viaggio, quella dell’errore, è da ricordare che Indagine sul Santo Graal della Weston è tra le fonti, assieme a Conrad, delle poesie di Eliot che Kurtz recita e legge alla fine del film. Non stupisce così che tra i libri di Kurtz vi sia, oltre a La Bibbia, il libro From Ritual to Romance di Jessie L. Weston, incentrato appunto sulla leggenda del Graal, e Il ramo d’oro di James G. Frazer, libri che raccontano entrambi e insieme di morti e rinascite rituali e carnevalesche. Frazer è poi, a sua volta, oltre che un riferimento esplicito di Coppola, tra le fonti della teoria del Carnevale di Bachtin e della visione antropologica di Freud.

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presenza tendenziosa del regista. Infine, la scena nel suo insieme è un ringraziamento a Storaro che, specialmente nella scena finale con Marlon Brando, è stato grandissimo, intuendo e facendo intuire all’attore tutto il gioco di luci e ombre che attraversa il film e precipita nella scena finale. Lo approfondiremo, ma già questo accenno dimostra l’attenzione quasi filologica tributata da parte di Coppola e Storaro nei confronti del testo di Conrad in cui – fin dal titolo, Cuore di tenebra – il gioco luce/tenebre è un leitmotiv ossessivo e al tempo stesso indeterminato: cos’è davvero luce? Cosa davvero tenebre? E cosa bene e male? E cosa razionalità e cosa follia? E quale sarà il giudizio sulle nostre scelte nel giorno dell’Apocalisse? E l’Apocalisse, il Giorno del Giudizio, come ogni sapienza religiosa e laica sa, in realtà, non è domani, è adesso, ora, now. In questo bailamme, Willard si presenta a Kilgore con delle richieste razionali e precise. Questi – che è in realtà solo un tenente colonnello, uno che sta al posto dei “veri” colonnelli – dapprima rifiuta l’incarico, poi, avendo scorto tra i compagni di Willard il soldato Lance, noto campione di surf, lo sport preferito dal folle e palestrato tenente colonnello – altra parodia: mens insana, “folle”, in corpore sano – decide di sfidarlo sulle onde della foce del fiume. Il trasporto della motovedetta diviene così subito il pretesto sia per attaccare un villaggio vietnamita che per organizzare una simpatica scampagnata surfistica. Tutto in queste scene è grottesco e carnevalesco. Kilgore infatti, oltre che una parodia dell’attore John Wayne e dei suoi film, lo è anche del cliché del regista cinematografico con tanto di megafono, set e colonna sonora. In particolare, grottesco e carnevalesco è l’assurdo, ma teatralmente perfetto, monologo di Kilgore sul “profumo di vittoria” emanato dal napalm. Si tratta infatti di un’anticipazione parodica del ben più realistico e tragico “monologo della sconfitta e dell’orrore” che verrà recitato alla fine, con ben altra intensità epocale, da Kurtz. Fermo ciò, è vero anche che la scena degli elicotteri che all’alba scendono in picchiata sulle note della “psicomusica” di Richard Wagner è bellissima ed ha una sua solennità epico-parodica. Il brano musicale scelto da Coppola è nientemeno che “La cavalcata delle Valchirie”: «È la psicoguerra», gongola soddisfatto Kilgore, «I ragazzi si esaltano e i Charlie, i vietcong, si cagano sotto». Coppola qui trionfa come artista di cinema, ma il risultato è valido anche da un punto di vista contenutistico: la mescolanza carnevalesca di elementi tragici e comici proclama con efficacia l’ordine impazzito del mondo, l’inizio di un Carnevale tragico e di un tempo e di un 35

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mondo alla rovescia, il sopraggiungere dell’Apocalisse e l’inizio della fine, Apocalypse Now appunto11. Si deve ricordare infine che l’episodio, in sé follemente tragico, si chiude però con un tipico scherzo carnevalesco, un furto scoronante. Alla follia “comica”, tragica e omicida del colonnello Kilgore – che è speculare a quella di Kurtz ma, a differenza di quella, è funzionale al sistema – si risponde con una beffa destituente: quando la motovedetta viene finalmente calata nel fiume, Willard, prima di salirvi, ruba al tenente colonnello la sua tavola da surf preferita. Se Kilgore aveva detto «Charlie non fa il surf», intendendo con sarcasmo che si tratta di uno sport per una razza superiore, ora nemmeno il nostro superuomo, violentemente castrato e detronizzato, potrà più praticarlo. Il commento finale di Willard all’intera scena, mentre il suo intero equipaggio “si passa una canna” è: «Se era così che Kilgore faceva la guerra [...] cominciavo a domandarmi cosa avessero contro Kurtz. Non era solo una questione di follia e assassinio. Di quelli, ce n’era abbastanza per tutti». Voglio concludere con una rapida considerazione “filologica” sull’origine del nome di Kilgore. Al di là dell’assonanza con il verbo “kill”, ovvero “uccidere”, può essere utile citare in linea subordinata – dal momento che Kilgore è un assassino e un dio del male – un passo tratto dal romanzoreportage di Michael Herr, ufficialmente autore della “voce narrante” del film e quindi, semplificando, cosceneggiatore, in cui emerge l’immagine di un “soldato-belva”: «Era un mitragliere d’elicottero alto un metro e novanta con una testa enorme [...] e una fila di denti appuntiti [...]. Veniva da Kilgore, nel Texas» (cfr. Herr 1968-1977, p. 201). Il mango, la tigre e il nemico Sfuggita alla follia omicida di Kilgore, la motovedetta dei nostri è alla fonda, nascosta nell’ombra della giungla. Nel cielo sfrecciano gli elicotteri del tenente colonnello che lanciano minacce attraverso gli altoparlanti e chiedono la restituzione della tavola da surf. L’episodio, con la sua tragico11 Sulle fonti apocalittiche della intera scena – Kilgore è un Anticristo, un demone della guerra, uno dei Cavalieri dell’Apocalisse – torneremo nel quarto capitolo, ma intanto importante ricordare, con un lettore quale Umberto Eco, che «L’Apocalisse è un trattato sull’Anticristo e sui modi di riconoscerlo» (cfr. Eco 2007, p. 254).

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micità, ci ricorda che nella letteratura carnevalizzata italiana – e Coppola è italo-americano e conosce l’italiano (cfr. E. Coppola 1979, pp. 38, 52 e passim) – troviamo un archetipo universale di questa situazione comica, ovvero La secchia rapita. I nostri ridono del dolore e dei piagnucolii infantili del tenente colonnello che grida da un elicottero mentre sorvola inutilmente la giungla dove sono nascosti i nostri “eroi”: «Non ti farò del male, ma restituiscimi la tavola [...]. Era una buona tavola, e mi piaceva, sai come è difficile trovare una tavola che ti piace». Intanto, per ingannare il tempo in attesa della notte, quando sarà possibile proseguire il viaggio senza essere visti, i cinque decidono di scendere dalla barca per raccogliere un po’ di manghi per un sugo che il “cuoco di bordo” vuole preparare. Però, nel buio della giungla, i nostri eroi, secchio in una mano e mitra nell’altra – il comico e il parodico sono sempre in filigrana ed in agguato – vengono messi in fuga dallo spettro di un nemico a quattro zampe, il ruggito di una tigre. L’episodio è ovviamente carnevalesco e in esso si parodiano anche alcuni generi hollywoodiani: qui si irridono ad esempio i film di suspense e terrore e quelli di matrice salgariana, ma si ricorda anche che, tragicamente, la guerra in Vietnam fu combattuta prevalentemente nella giungla. Alla fine della precipitosa e ingloriosa fuga dei nostri “eroi”, la tensione causata dalla paura viene scaricata con un furioso mitragliamento della boscaglia circostante. Il nemico è ovunque – «Era vicino, era molto vicino», si dicono – ma in realtà non c’è. Di lì a poco la scena non tarderà a ripetersi in modo ancor più tragicomico, e l’animale in questione sarà un sosia parodico della ferocissima tigre, cioè un innocuo e tenerissimo cucciolo di cane. Anche il tema dello scendere o meno dalla barca ha una sua importanza nel film e, come tutti gli altri, verrà anch’esso duplicato e replicato. Se infatti Kurtz era sceso dalla barca – «Aveva mollato l’intero programma. Com’era accaduto? Cosa ha visto quaggiù per la prima volta?», si chiede Willard cercando di capire le sue ragioni – Chef, l’altro protagonista dell’episodio della tigre, sceglierà, metaforicamente e scelleratamente, di non scendere più dalla barca e lo ribadirà dicendo: «Mai scendere da questo cazzo di barca [...], me lo devo ricordare! Mai scendere dalla barca». «Maledettamente giusto [...]», commenterà Willard, «a meno che tu voglia andare fino in fondo». Coerentemente, la morte di Chef avviene, per contrappasso dantesco dei suoi scarsi intelligenza e coraggio, attraverso una simbolica decapitazione che ha luogo mentre lui “dalla barca” parla con un distante e disinteressato “Onnipotente”, che in realtà è il nome in codi37

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ce del Quartier Generale usato nelle comunicazioni che Willard e i suoi compagni fanno con la radio di bordo. Tornando ora all’episodio della tigre ora sommariamente ricostruito, è rilevante osservare che in Conrad non c’è una vicenda simile. All’inizio del primo capitolo, però, troviamo la frase «Gli uomini di mare [...] non abbandonano mai [...] la nave. [...] Marlow [...] non rappresentava affatto la sua categoria», in cui è adombrata la tempra dei Marlow/Willard e dei Kurtz del film e del romanzo, e la differenza tra chi sceglie di essere se stesso, e chi “non abbandona mai la barca”. Uomini e cani Il viaggio prosegue con l’incontro con un innocuo battello fluviale vietnamita. I pacifici contadini vengono scambiati per feroci guerriglieri e massacrati; in particolare Willard finisce una ragazza sparandole a freddo per non essere costretto a portarla in qualche ospedale e ritardare così la sua feroce missione. Che questo sia anche un gesto “alla Kurtz” lo capiremo più avanti. Intanto, come comprende lo stesso Willard, «D’ora in avanti i ragazzi della barca non mi avrebbero più guardato allo stesso modo, ma io sentivo di sapere una o due cose di Kurtz che non comparivano nei dossier del Quartier Generale». Questo lucido e «spietato» omicidio è cioè l’inizio del percorso di “kurtizzazione” di Willard, un tragico cammino iniziatico che si apre dunque con un cruento sacrificio femminile e che si chiuderà alla fine del film con un secondo feroce sacrificio, questa volta maschile. Pertanto, qui una donna, là un uomo, sono gli inevitabili tributi pagati alla nascita di un figlio e alla maturazione di un uomo. «Uomini dotati di moralità e, al tempo stesso, capaci di utilizzare i propri istinti primordiali per uccidere senza provare nulla, senza passione», sarà questo il commento – postremo e quasi postumo – che Kurtz pronuncerà appena prima del suo sacrificio finale. Anzi, Kurtz, nella lettera al figlio che è a tutti gli effetti il suo Vangelo e testamento, farà l’apologia dell’«azione spietata [...] che in molte circostanze potrebbe non essere altro che chiarezza di vedute», ossia coerenza assoluta tra mezzi e obiettivi. La stessa coerenza è presente, d’altronde, già nelle parole di Conrad: «Sapete che non sono particolarmente tenero. Ho dovuto colpire e difendermi, ho dovuto resistere e a volte attaccare [...] secondo le esigenze della vita in cui mi ero cacciato». Tanto che il Marlow di Conrad, l’analogo del Willard di Coppo38

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la, parla esplicitamente della propria «spietata tempestività», che è esattamente quella che ora Willard usa quasi inconsapevolmente e poi – dopo aver incontrato la Donna di Kurtz, Sibilla e Madre, che nel film diventa, come vedremo alla fine del capitolo, la “Vedova dell’Eroe” francese, e Kurtz stesso – eserciterà con piena consapevolezza uccidendo proprio Kurtz. L’assurdità della scena in cui si svolge il primo sacrificio è legata alla tenerezza e all’innocenza del cagnolino che la giovane donna corre maternamente a difendere. Il suo gesto, interpretato come una minaccia, fa esplodere la tragedia. Certo, il cane, lui sì, ora viene salvato e arruolato sulla barca, ma anche lui, nel corso del tempo, nella tragedia del tempo, si perderà. Lo scorrere del fiume è in effetti, secondo Eraclito, simbolo del divenire del tempo e della storia e questo concetto nel film verrà ricordato da una donna fantasma in una terra di brume12. Le ragazze coniglietto “Miss Playboy maggio/dicembre”, “Miss Playboy aprile” e “Miss Playboy dell’anno” atterrano assieme al loro agente-ruffiano per fare la loro sexy-esibizione dinanzi alle truppe osannanti. Sono gli esponenti illustri, i quattro evangelisti di quella che Conrad chiama ironicamente la «Congrega della virtù», ma che in inglese risulta forse ancora più ironico: «gang of virtue». Subito dopo lo spettacolo, però, i quattro sono costretti a scappare in elicottero, inseguiti dai soldati infoiati e assatanati e poi, a feroce contrappasso di tanta gloria, li ritroviamo nel fango di un campo militare dove le playmate sono costrette a prostituirsi per avere le due latte di benzina senza le quali non potrebbero più fuggire dalla follia del Vietnam. Ancora una volta il senso dell’episodio è che il re del Carnevale dura lo spazio di un mattino e poi arrivano le lacrime e il fango della destituzione. In coerenza a ciò si potrebbe osservare che il simbolo della ruota, con il

12 A proposito di animali dispersi nell’ironia livellatrice del tempo – proprio mentre Clean, il ragazzino nero, muore, Lance si chiederà incongruentemente: «Dov’è finito il cane? Dov’è il cane?» – in Conrad troviamo, due galline nere che sono causa di un violento conflitto di civiltà interetnico, con morti e feriti: «Due galline nere [...], non so che fine abbiano fatto le due galline [...]. Credo però se le sia prese la causa del progresso, e, comunque, grazie a questo fatto glorioso – dice Marlow – ottenni la nomina».

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suo continuo alternare alto e basso, è uno dei simboli più profondi del Carnevale, ma il grottesco qui è, in particolare, legato al personaggio del cuoco. “Chef”, supremo cultore di raffinatezze culinarie, non vuole infatti fare l’amore – il termine esatto sarebbe “scopare”, verbo che comunque implicherebbe una presenza, sia pur reificata, dell’altro – ma vuole possedere la donna di carta con cui si è fatto le “seghe” fin dal lontano dicembre dell’anno in cui la miss in questione è stata incoronata “playmate del mese”. Dunque Chef perde anche l’ultima occasione che gli rimane per incontrare non un onanistico sogno di carta, ma una persona. Nell’inferno della contemporaneità (vietnamita?) però non ci sono esseri umani, soltanto maschere e la cover-girl è uno dei tanti sogni di morte in un mondo composto di uomini e caricature di donne. È significativo però – e lo abbiamo trascurato proprio per dirlo qui – che la prima donna in azione nel film sia una “Charlie” che uccide e poi muore. Il famigerato “nemico” lo vediamo cioè da vicino una volta sola ed è una donna, ed è rilevante notare che nella lotta di resistenza del villaggio vietnamita all’assalto di Kilgore sono presenti, in modo paritario, sia donne che uomini. Freud potrebbe commentare di fronte all’azione della donna (vietnamita) che il rimosso si vendica e non è un caso allora che all’improvviso, a interrompere uno squallido amplesso tra Lance e una “coniglietta”, si apra una cassa da morto e appaia un cadavere, quasi uno zombie disperato alla ricerca di un senso che la vita e l’amore non hanno, in quel contesto, più. Venendo ora a una considerazione più complessiva, è rilevante dire che l’apparizione di una figura di donna così degradata quale quella delle playmate-prostitute ci porta a riflettere sul ruolo e sull’importanza delle donne in questo film – un’importanza spesso non avvertita perché non immediatamente in primo piano (e la mia dedica iniziale «alle donne di Apocalypse Now» è una precisa indicazione critica). In primo luogo vorrei dire semplicemente che questo non è affatto un film senza donne e giocato da soli uomini. Per confermare la mia tesi è opportuno, in primo luogo, stilare un breve elenco delle figure femminili presenti nel film a partire appunto dalle “conigliette”. Ci sono poi anche – e non sono figure minori perché hanno una precisa ragion d’essere – la maestra, la ragazzina che salva il bambino che come vedremo è una mise en abyme del ruolo fondamentale che la “Vedova dell’Eroe” riveste nei confronti di Willard, la guerrigliera, la donna con il figlioletto ferito, la giovane “mamma” del cagnolino, la moglie di Willard che compare solo in foto come d’altra parte quella di Kurtz, la 40

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mamma di Clean di cui sentiamo solo la voce ma che è duplicata in scena da Chef, esplicitamente omosessuale, l’amante vietnamita di Kurtz, la parca nera nascosta nell’ombra della stanza d’albergo di Willard a Saigon, le donne della affrancata tribù montagnard e quelle del villaggio vietnamita, in armi e non. La figura più inquietante e complessa, quella in cui in qualche modo precipitano tutte le caratteristiche femminili, è la “Vedova dell’Eroe” (francese), ma ne scopriremo il senso solo alla fine del capitolo. Qui mi preme contrastare ulteriormente la tesi che Apocalypse Now, specie nella versione del 2001, sia un “film senza donne” e questo anche in un senso più lato della loro mera presenza fisica ora esplicitata in forma di asciutto catalogo. Su questo punto vorrei essere chiaro. Apocalypse Now è in realtà un film che parla (anche e soprattutto) di un uomo con delle difficoltà relazionali con il femminile e con la parte femminile di sé, in crisi esistenziale dunque, e alla ricerca di una nuova definizione di sé e del proprio Io. La soluzione più semplice è degradare il femminile o ignorarlo, ad esempio attraverso la prostituzione e la guerra. Dunque è estremamente significativo che il gesto finale di Willard – quello che conclude il suo percorso iniziatico – sia, anche, un gesto materno ma soprattutto, semplicemente (sanamente) paterno: prendere per mano Lance, che simboleggia la sua parte bambina e rinata innocente, è un gesto che simboleggia, semplificando brutalmente, una nuova relazione tra Io (Willard), Es (Lance) e SuperIo (“Vedova dell’Eroe” e Kurtz). Siamo passati da «Quando tornai a casa non dissi a mia moglie neanche una parola», a un linguaggio e a una comunicazione emotivamente profondi. «Ero fuori dal loro esercito del cazzo» ha quindi una valenza meno banale di quello che sembra, significa fuori da una gestione “del cazzo”, fuori cioè dal loro esercito fallocentrico (vedi ancora la scena delle Playgirl con gli enormi missili fallici che sovrastano l’immagine) e dentro – finalmente – a una dimensione adulta. La versione del 1979, con i suoi tagli e le sue incertezze sul finale, non rendeva pienamente esplicita questa posizione che il Coppola maturo invece legittima pienamente. La risoluzione del conflitto edipico chiede – come è risaputo – un’identificazione con il genitore del proprio sesso e un suo superamento ed è la premessa a una relazione adulta con l’altro sesso. Se si crede però che mi stia allontanando dal dettato del film vorrei ricordare, in attesa di riprendere il ragionamento proprio nel capitolo conclusivo, una breve battuta di Coppola: «Quando è uscito Apocalypse Now tutti mi dicevano che era un gran film di guerra fatta eccezione per il momento esistenziale con Brando alla fine del film. Ora la gente ne parla come un gran film 41

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esistenziale e sulla guerra non dice quasi una parola» («Cahiers du cinéma», 628, novembre 2007). Naturalmente non è possibile illuminare qui l’intero percorso di Coppola dal 1979 al 2001 – che potrebbe essere compito di un altro lavoro – ma voglio dire che è questo il senso del rimando interno tra Apocalypse Now e Un’altra giovinezza e dell’aver collegato l’intera operazione con il titolo complessivo di “Trent’anni dopo”. Dunque il senso referenziale di Un’altra giovinezza è in realtà “Un’altra e nuova adultità”. Il nesso con Apocalypse Now (solo versione 2001?) mi pare dunque evidente e sinteticamente motivato sia da un punto di vista sincronico – specificità dei testi artistici in questione – che diacronico, ovvero di connessione tra le opere di Coppola. Chiudo questo paragrafo con un’ultima osservazione sui vestiti sexy indossati dalle playmate che, come d’altronde il cappello di Kilgore, rimandano alla “gloriosa” epopea americana del West, o forse – con dizione meno enfatica – alla “gloria” della mitica guerra di conquista della nazione indiana. La storia in Vietnam si ripete: fu ed è vera gloria? Il breve trionfo delle ragazze e il loro tragico retroscena forse insegnano, allegoricamente e in forma di parabola, qualcosa. Disneyland e le Colonne d’Ercole Il “folle volo” del nostro Ulisse parodico13 prosegue e si giunge così all’ultimo ponte, il «Ponte di Do Lung» che segna non solo il confine con la Cambogia, ma in modo simbolico il finis terrae: «Kurtz era sempre più vicino». Nella notte bagliori e raffiche esplodono come fuochi d’artificio. Lance, impasticcato, sempre più carico di acidi lisergici e sempre più perso nel suo regressivo percorso di – letterale – rimbambimento, esclama: «Disneyland, cazzo! Questo è meglio di Dysneyland». Il ponte appare davvero come una struttura surreale e fantasmagorica, in tutto e per tutto una passerella verso il 13 Un passo oltre Conrad, ma sulla sua stessa strada, troviamo l’Eliot di La terra desolata e il James Joyce dell’Ulisse, ovvero gli “uomini vuoti” e il bizzarro e carnevalesco Mister Bloom. Dunque la scelta di Coppola di far leggere a Kurtz proprio le poesie di Eliot è un’indicazione storico-letteraria davvero geniale e crea un cortocircuito critico-artistico davvero suggestivo. Anche perché la canzone “The End” di Jim Morrison, intrisa a sua volta di elementi eliottiani, ne è parte integrante: «puoi immaginarti come sarebbe / una libertà senza limiti / [...] / in una terra desolata / [...] / [...] aspettando la pioggia d’estate», canta infatti il vocalist dei Doors.

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nulla che viene distrutta ogni notte e ricostruita il giorno successivo, in una fatica di Sisifo che contiene in sé tutto il non senso della guerra, industria laboriosa che non dà frutto, ma solo lacrime. Dice/scrive Herr nei suoi Dispacci: «In Vietnam c’era una concentrazione così forte di energia americana [...] essenzialmente adolescenziale che, se avessero potuto canalizzare quell’energia in qualcosa che non fosse soltanto rumore, devastazione e dolore, avrebbero illuminato l’Indocina per mille anni» (Herr 1968-1977, p. 54). Apocalypse Now dunque è anche un repertorio parodico dei fasti e dei fallimenti della civiltà di massa americana. Qui c’è Disneyland, prima è stata la volta del Settimo Cavalleggeri, del Surf – nell’affermazione pazza e soddisfatta del tenente colonnello Kilgore «Noi facciamo molto surf alla sera» – poi di Playboy. Più avanti, nella colonia dei francesi, toccherà al mito della Famiglia e, alla fine, nella caverna di Kurtz, a quello di Dio accompagnato, in questa Apocalisse, dal crollo di altri due miti laici della civiltà occidentale: la libertà d’opinione e quella d’informazione, la stampa. Si deve ricordare in questo senso che nel 1979 l’America era reduce, oltre che dalla guerra del Vietnam – conclusasi con la fuga degli americani da Saigon il 1° maggio 1975 – dallo scandalo Watergate che nel 1974 aveva portato il guerrafondaio e mendace Presidente Richard Nixon alle dimissioni. Nixon, che sarà prontamente graziato dal suo successore e probabile complice, Gerald R. Ford, appare nella fotografia appesa alle spalle dei generali nel Quartier Generale di Apocalypse Now. È lui il mandante ultimo della missione di Willard che l’ufficiale della CIA ammonisce: «non esiste e non esiterà mai». Trent’anni dopo saranno resi pubblici i verbali delle riunioni nelle quali il presidente Nixon dava ordine di proseguire i bombardamenti e le attività di intelligence in Cambogia proprio dopo aver dichiarato pubblicamente alla stampa la loro cessazione. In connessione a tutto questo, ad emblema cioè della follia della guerra e della disorganizzazione militare, Willard, nella notte vanamente illuminata dalle fiamme degli spari e dai bengala, vaga di trincea in trincea chiedendo, qui come già nel precedente avamposto, ai dannati e agli spettri che incontra: «Chi comanda qui?», senza ovviamente ottenere risposte, ma solo lazzi e silenzi. «Chi comanda? Non lo so, amico. Io faccio il turno di notte. Faccio solo quello che mi dicono di fare. Sono solo una puttana», lo schernisce uno, dandogli immediatamente le spalle e allontanandosi nel fango e nella pioggia. Un altro soldato invece si volta con un sorriso ebete e, emettendo versi animaleschi, si incammina incespicando dietro il compagno. Dunque, Willard riparte senza aver ottenuto né risposte né riforni43

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menti, ma solo la posta e la notizia dell’omicidio di Sharon Tate e del «massacro di tutti i presenti nella villa in segno di protesta» da parte del clan di Charles Manson. Questa notizia – come vedremo tutt’altro che fortuita – ci permette di collocare l’azione del film certamente dopo il 9 agosto 1969, data della strage “apocalittica” organizzata da Manson, “Satana e neo Cristo”. In realtà, con tutta probabilità, ci troviamo durante il processo a suo carico che si svolge all’inizio del 1970 e, d’altra parte, le missioni dell’esercito americano in Cambogia, come quella di Willard, si svolsero “in segreto” fino all’invasione “ufficiale”, avvenuta il 1° maggio 1970 (cfr. Frey 2008, p. 199). È da notare infine che l’uccisione di Sharon Tate è un omicidio anch’esso “rituale”, come i due che compirà Willard nel film, quello della giovane donna vietnamita del sampan e quello di Kurtz. Il viaggio continua e si arriva al confine con la Cambogia. Qui WillardUlisse chiede ai suoi compagni di essere lasciato da solo, ma loro decidono invece di proseguire al suo fianco e dunque possiamo dire, prendendo in prestito i celebri versi danteschi: «Aprimmo le ali al folle volo». Il richiamo a Dante è effettivamente in filigrana all’atmosfera sempre più cupa, spettrale e demoniaca in cui – girone dopo girone, episodio dopo episodio – precipita il film. A conferma di questa presenza – a prescindere dal pure esplicito commento audio al film fatto dal regista nel 2006 e dove egli ricorda, in incerto italiano, il verso nove del III canto dell’Inferno dantesco – possiamo trovare almeno due tracce. La prima è, forse, celata nell’inutile tentativo fatto da alcuni disperati di salire sulla barca e nelle urla che rivolgono ai nostri eroi: «Maledetti [...], la pagherete», una citazione – non evidentissima, ma certo parodica – dell’analogo sforzo compiuto da Filippo Argenti per fermare la barca di Dante e Virgilio: «Mentre noi correvam la morta gora / dinanzi mi si fece un pien di fango [...] l’ombra sua qui furiosa». La seconda, più consistente e di certo molto più chiara a Coppola, è il termine “girone” usato dal Marlow di Conrad che afferma: «Mi parve di essere penetrato nel cupo girone di un qualche Inferno». Le conseguenze della scelta “sacrilega” comunque non si fanno attendere e Willard, come Ulisse, inizia a perdere uno dopo l’altro i suoi compagni. La voce del padre e quella delle madri Il primo a morire è il più giovane del gruppo, “Clean” e, per feroce ironia, lo fa mentre ascolta al registratore che gli è arrivato per posta la voce 44

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della madre che dice: «Fa’ la cosa giusta, tieniti alla larga dai proiettili e torna a casa in un sol pezzo [...] perché ti vogliamo tutti tanto bene. Con amore, mamma». Clean ha fatto in tempo, nei suoi brevi diciassette anni, a scoprire – usando le parole del suo compagno Lance – una verità complessiva: il Vietnam è sì Disneyland, ossia un circo, ma lo spettacolo, il Carnevale che vi viene celebrato, è un Carnevale tragico, colmo di lacrime e follia. Mentre il ragazzo perde la vita, Chief, il capobattello che raffigura la madre, «regge la mano di Clean e piange». Sarà lui il prossimo nero a morire. È utile ricordare, tra le denunce di Martin Luther King prima del suo assassinio, avvenuto nel 1968, quella sul carattere sempre più razziale dei decessi in Vietnam, dove andavano a morire sempre più neri e neri poveri. L’atmosfera del film si fa sempre più cupa e spettrale e la voce di donna che chiede di “fare la cosa giusta” non ottiene risposta14. Il registratore che contiene il nastro con la sua voce verrà interrato con il cadavere del figlio e riapparirà solo alla fine del film nelle mani di Kurtz il quale, a sua volta, inciderà queste parole icastiche, capaci ancora una volta di mettere concretamente alla berlina le contraddizioni della guerra come “palestra educativa”: «Addestriamo giovani a scaricare fiamme sulla gente, ma i comandanti non permettono loro di scrivere “vaffanculo” sugli aeroplani perché è un’oscenità». Dunque cos’è davvero osceno? Che cosa non può realmente essere rappresentato e messo in scena? Sarebbe importante, ma non è questa la sede, fare un’analisi più precisa del lessico e dello slang

14 È possibile qui fare cenno in modo apodittico ad alcuni significati meno evidenti ed espliciti e sul cui valore fondativo torneremo a lungo più avanti. La tigre segna l’inizio delle prove di Willard e compagni (prima Willard è solo “ospite” al traino di Kilgore), l’incipit cioè del suo viaggio iniziatico. La tigre ha quindi un ruolo analogo – se non è direttamente una criptocitazione – alle fiere dantesche al limitare dell’Inferno. Conclusione di questo viaggio, vertice dell’autocoscienza è l’incontro con la (Madre) Vedova del Colonialismo (Padre) Francese. Da lì, dalla Colonia dei Francesi, inizia la terza parte che si apre con la morte di un falso Capo (“Chief”) e prosegue con quella del suo sosia parodico “Chef” che lo ha sostituito alla guida della motovedetta. La morte di Clean è così solo la fine dell’innocenza, la perdita del candore da parte di Willard e l’occasione per sentire una voce di Madre che chiede di fare la cosa “giusta”. Se il Padre Kurtz si annuncia come una voce registrata, anche la madre (la Madre Vedova francese e il suo profondo messaggio volto a una esatta e “giusta” comprensione dell’animo umano e della sua ontologica ambiguità) si annuncia come una voce registrata. È seguendo queste voci e questi messaggi che Willard, come Kurtz, uscirà dall’anonimato dell’esercito e diverrà se stesso e responsabile delle sue azioni. In primo luogo verso la tribù afflitta dall’incubo di una Terra ormai Desolata, poi verso Lance, infine verso di noi.

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utilizzati da Coppola, e di quanto sia stata determinante nella costruzione linguistica del film la presenza di Herr, che era stato diretto cronista del conflitto vietnamita. Mi permetto un unico esempio, legato alla scena di Kilgore citata in precedenza: «Cristo Santo è una bombarola. Gliela farò pagare a quella troia gialla. Andiamo Johnny, ficcale il pattino destro – dell’elicottero – su per il culo». La colonia dei francesi: una storia di donne, fantasmi e zombie A conferma di questa insistita spettralità, dal nulla e dalle nebbie del passato appaiono, armati fino ai denti e grotteschi, alcuni francesi sopravvissuti alla sconfitta della loro epopea coloniale – avvenuta nel 1954 con la battaglia di Dien Bien Phu – e relegati in un’enclave separata dal mondo in cui si “vive” di rancori e ricordi. La cena offerta ai “cavalieri erranti” diviene così occasione per una ricostruzione storica della dominazione prima francese e poi americana dell’Indocina, o meglio, per una resa dei conti su antichi odi tra partiti e nazioni colonialiste. Dopo aver ricordato che anche Conrad aveva avuto modo di fare, attraverso Marlow, una storia del colonialismo europeo dall’impero romano a quello inglese, passando per quello belga e “di rapina”, va precisato che al centro della seconda parte dell’episodio intitolato da Coppola “La piantagione francese in rovina” si muove la “Vedova dell’Eroe”, figura femminile fondamentale per capire il senso del film e il modo in cui il regista ha “trattato” il romanzo di Conrad. Quanto al “dibattito coloniale”, è sintetizzato da una frase e da un gesto a effetto di Marais, uno dei patriarchi della colonia fantasma francese: «Non capite? I vietcong dicono “Andatevene” e per tutti i bianchi in Indocina è finita, che siano francesi o americani è lo stesso. Via! Vogliono dimenticarsi di voi [...]. Vede capitano, [...] la verità è questa» – parlando rompe un uovo che ha nel palmo della mano e il contenuto cola sul tavolo – «in un uovo il bianco va via, ma il giallo rimane». Si presti attenzione, però, anche al fatto che in questa parte del film compare un Padre che nasconde, nel torrente scomposto delle sue parole, una breve, vera e autentica perla esistenziale: «La vita, a volte», dice ai suoi figli, Willard incluso, «è molto crudele», ovvero, potremmo esplicitare, talvolta chiede – fuor di metafora e in coerenza con il senso profondo del film – di «uccidere i padri». È cioè quello che scriveva, dopo la conclusione della Resistenza italiana e nel clima degli anni bui della guerra fred46

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da, un grande poeta comunista italiano, Franco Fortini: «Forse il tempo del sangue ritornerà / Padri ci sono che debbono essere uccisi» (da L’Ospite ingrato, 1966-1985, p. 37). E di questa “crudele” urgenza esistenziale se ne possono ovviamente trovare echi anche nel Vangelo: «Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra. Non son venuto a portare la pace, ma la spada. Perché son venuto a dividere il figlio dal padre, la figlia dalla madre», e ancora, «Il padre contro il figlio e il figlio contro il padre» (Mt 10, 34-36; Lc 12, 52). Barbarie e civiltà: nuove e vecchie questioni di razza Ripreso il viaggio su un battello che è sempre più simile a una dantesca zattera affaticata, ora, dopo la morte di Clean – il cui soprannome potrebbe essere tradotto con “Candido”, ma perché, se è nero e razzista? oppure con “pulito”, ma perché se viene da un «posto di merda»? – è la volta di Chief, che letteralmente significa capo. Ma capo di che? Di cosa davvero? In questa guerra supertecnologica, in questa barbarie di violenza ultramoderna, Chief muore trafitto, per la legge del contrappasso, da una lancia rudimentale ed arcaica. Per reazione a questo tragico e carnevalesco scherzo del destino, Chief sceglie di cercare in extremis di vendicarsi dell’uomo bianco e prova ad infilzare Willard con la stessa arma che lo ha trapassato. Sforzo vano, carnevalescamente vano, che segna però la frattura tra neri e bianchi. I neri – quelli che Conrad chiama ironicamente i «cannibali» anche se sa bene, anche per esperienza biografica e personale, che i veri “mangiatori di uomini” su scala industriale sono gli schiavisti bianchi – sono così entrambi morti, mentre i bianchi possono proseguire verso nuove vittime e nuove oppressioni schiavistiche e imperialistiche. Naturalmente, anche in questa scena Coppola non “inventa” niente, ma esplicita solo il dettato del romanzo: «E quell’aggrottamento», scrive Conrad, «conferì alla sua nera maschera di morte un’espressione [...] carica di minaccia». Tracce ulteriori di questo conflitto razziale sono nella presenza, nel film come storicamente in Vietnam, di «soldati di colore [...] con i loro medaglioni con il pugno chiuso del Black Power» e nella risposta alla domanda rivolta da Willard a un soldato di colore: «Soldato sai chi è al comando qui?». «Sì», ammette, ma poi si volta e, senza aggiungere altro, se ne va.

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Nel regno di Kurtz: il buffone del re e le sue parole Lungo il fiume appaiono – finalmente! – spettrali e abissalmente silenziosi gli uomini di Kurtz e con loro vi è il suo ambasciatore e giullare, un delirante fotoreporter che Conrad, con sicuro intuito carnevalesco, aveva già definito un “Arlecchino”, figura principe, come sappiamo da Bachtin, del Carnevale e della Commedia dell’Arte, ma anche protagonista – protetto da un leggero travestimento – di romanzi capitali quali Don Chisciotte e L’idiota (cfr. Jachia 1992 e 2007). Il Buffone – ci insegna Massimo Cacciari – svolge ontologicamente un ruolo di mediazione fra Vecchio e Nuovo, tra «Inverno e Primavera», e questa sarà appunto la sua funzione: preparare l’incontro tra Willard/Marlow e Kurtz, ovvero tra il giovane Cavaliere e il vecchio Re, per poi eclissarsi dopo aver esaurito il suo compito (cfr. Cacciari 1983-2008, p. 108)15. Si deve ricordare, per inciso, che nei Tarocchi il compagno del Matto è un’altra figura inquietante e carnevalesca, l’Appeso, che anche qui è presente: la macchina da presa si sofferma infatti su un «cadavere che penzola» e che, dopo essere stato liberato, «precipita in acqua con grandi spruzzi». Tralasciando, per ora, l’Appeso e anche i tre sinistri crocifissi che in realtà si stagliano – appena percettibili tra la nebbia e le fiamme – su una collina alle porte del regno di Kurtz e tornando al fotoreporter, bisogna notare che è un personaggio che Coppola ricalca in buona sostanza da Cuore di tenebra di Conrad e chiama nello script del 1975, esattamente come lo scrittore, Arlecchino, annotando: «He looks something like a multicolored harlequin waving frantically to the P.B.R.». È importante poi precisare che il fotografo-clown-arlecchino del regista parafrasa in uno dei suoi interventi più significativi la poesia Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock (The Love Song of J. Alfred Prufrock) di un autore ultracarnevalizzato quale Eliot. I versi cripticamente ricordati che esplicitano il suo ruolo ancillare sono questi: «No, io non sono il Principe Amleto, né ero destinato ad esserlo; / Io sono un cortigiano, sono uno / Utile forse ad ingrossare un corteo, a dar l’avvio a una scena o due, / A consigliare il principe; uno strumento facile, di certo, / Deferente, felice di essere utile, / Prudente, cauto, meticoloso; / Pieno di nobili sentenze, ma 15 Si faccia attenzione che non c’è mai un dialogo a tre tra il fool, il Re e il Cavaliere, ma sempre un correre del buffone dall’uno all’altro per svolgere il suo ruolo gregario, ma ontologicamente essenziale, di mero “mediatore”.

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un po’ ottuso; / Talvolta, in verità, quasi ridicolo / Quasi a volte, il Buffone». Nel film le parole esatte pronunciate dal Fotografo e rivolte a Willard sono: «Lui, Kurtz, ha le idee chiare, ma la sua anima è malata. Oh sì. Sta morendo [...]. Legge poesie ad alta voce [...]. E ha in mente qualcosa [...] perché [...] cosa diranno di lui? [...] Sarò io che dirò loro come stavano le cose? Mi guardi! Figuriamoci! Lei invece...» (corsivi miei). Sono parole che svelano non solo la consapevolezza del proprio ruolo ancillare di “Buffone”, ma che annunciano anche al “cavaliere” Willard lo scopo della sua missione: uccidere il Re, ma farlo rispettando il suo onore di soldato: «Voleva semplicemente andarsene da soldato [...] in piedi. Non come un povero cencioso, distrutto rinnegato». Anche le parole di congedo del fotografo-clown-arlecchino sono coerenti al suo ruolo. Questa volta, però, egli cita e parafrasa Gli uomini vuoti di Eliot – che è proprio la poesia poi recitata da Kurtz – e in particolare proprio i versi conclusivi, quelli del mondo che finisce in un sospiro, non con un’esplosione. Le parole del buffone-fotografo – «È così che finisce questo mondo del cazzo. Guarda in che merda ci troviamo! Non con un bang, ma con un sospiro. E con un sospiro [...] io mi tolgo dai coglioni» – rimandano infatti al finale di The Hollow Men: «È questo il modo in cui finisce il mondo / È questo il modo in cui finisce il mondo / È questo il modo in cui finisce il mondo / Non già con uno schianto, ma con un piagnucolio». A loro volta i versi di Eliot rinviano, letteralmente e psicologicamente, alle parole dell’Arlecchino di Conrad: «È meglio che mi tolga di mezzo senza troppo rumore [...] non posso fare altro per Kurtz ora». Ricordiamo inoltre qui che l’epigrafe della poesia di Eliot citata, Gli uomini vuoti, è proprio una frase celeberrima di Cuore di tenebra di Conrad: «Mistah Kurtz – he dead», ovvero «Mistah Kurtz – lui morto», pronunciata dal boy di colore del Comandante nel suo inglese stentato. Insomma Coppola, nel delineare il regno di Kurtz e il suo fool, ovvero il personaggio del fotografo, interpretato da uno straordinario Dennis Hopper, ha presente tanto la fonte originaria, ossia Conrad – da cui cita ampiamente le parole dell’Arlecchino: «Io, io, io sono un uomo semplice. Non ho grandi pensieri io [...]. Come può paragonarmi a [...]. Ho fatto del mio meglio per tenerlo in vita, e basta [...]. Non ne ho le capacità [...]. È meglio che mi tolga di mezzo senza troppo rumore [...]. Ah avrebbe dovuto sentirlo recitare poesie, per giunta erano sue, mi ha detto» – quanto l’altra sua fonte, Eliot, che, ancora prima di Coppola, ha tratto ispirazione dal romanzo di Conrad. Il regista riesce a giocare con le sue due fonti, 49

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alternandole e compiendo un grosso ulteriore sforzo di attualizzazione, di “vietnamizzazione”16. Dato tutto ciò, va ancora aggiunto che, da un punto di vista miticoarchetipico, l’Arlecchino va visto nel contesto di una discesa agli Inferi, di un viaggio iniziatico, di una discesa – girone per girone, episodio dopo episodio – in un inferno carnevalizzato quale è quello di Coppola, ma anche quello di Dante17. Il fool – figura archetipica – contiene così in sé sia l’Alichino di Dante (Inferno XXI, v. 118 e XXII, v. 112), sia il diavolo della mitologia nordica chiamato Harlequin, Hellequin o Harlakene, che poi è stato “addomesticato” e depotenziato dei suoi lati maggiormente demoniaci e mortiferi dalla Commedia dell’Arte (cfr. Curreli 1984, p. 60). Di questa tradizione complessa, stratificata e multinazionale vi è una traccia precisa perfino nei vestiti e nel portamento del fotografo-clown-arlecchino, e questo tanto in Conrad quanto in Coppola. In Cuore di tenebra lo scrittore dice infatti che «l’uomo delle toppe», «pezze vivaci azzurre, rosse e gialle», è «vestito come un buffone, come se fosse fuggito da una compagnia di mimi [...]. Stracci multicolori, la sua povertà, la solitudine, la desolazione [...]. Una tasca rosso vivo, [...] l’altra blu scuro», insomma, «sembrava» a tutti gli effetti «un arlecchino». Coppola invece avvicina il suo fool anche allo stereotipo lisergico dell’hippie e non a caso sceglie per interpretarlo Dennis Hopper, il regista-sceneggiatore-protagonista del sessantottesco Easy Rider. Il suo ruolo però rimane, nel romanzo e nel film, identico. Il suo compito è cioè quello di farci avvicinare “in minore” a Kurtz e iniziare a delinearne, con surreale e indiretta esattezza, la gigantesca figura. In 16 Si può anche rilevare in questo senso che il poemetto di Eliot La terra desolata ha, come ulteriore premessa e antecedente, oltre naturalmente a Frazer e alla Weston, anche «la terra desolata» del Kurtz di Conrad. «Terra selvaggia [...] vuota e desolata» è infatti un collage legittimo di alcune frasi tratte dell’incipit del II capitolo di Cuore di tenebra del 1900. E questo vale anche se, naturalmente, la esatta locuzione «la terra desolata» appare per la prima volta nel 1920 nelle pagine della Weston (pp. 45-61, 114, 188, 194, 245, 249, 264-266, 314, 348, 351, ecc). Si vuole cioè dire che in realtà tutto questo côté – Weston e Eliot, da cui poi deriva Coppola – è in realtà elettivamente postconradiano e fortemente influenzato proprio da Cuore di tenebra. Proprio per questo l’epigrafe della Terra desolata di Eliot dovevano in realtà essere – è ormai risaputo – le ultime parole di Kurtz: «L’orrore, l’orrore», ma vi torneremo più avanti nel secondo capitolo e nella seconda parte. 17 Cade qui opportuno ricordare, in un contesto di iniziatiche discese agli Inferi, l’epigrafe dell’Interpretazione dei sogni di Freud: «Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo», ovvero i versi contenuti nel VII libro dell’Eneide (v. 312): «Se non potrò piegare gli Dei, smuoverò Acheronte» (cfr. Freud 1899-1900, p. 553).

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Conrad le parole esatte sono: «Lui [Kurtz] è lassù [...]. Con quell’uomo non si parla. Lo si ascolta», mentre queste sono quelle scelte da Coppola: «Ehi, amico, non si parla con il colonnello, lo si ascolta». Il suo tratto demoniaco intrinseco – Arlecchino: Helle = inferno + Kin = famiglia; Arlecchino dunque, secondo questa etimologia arrischiata e carnevalesca, fa parte “della famiglia infernale” – si riflette sul fatto che il regno di Kurtz è un inferno, un regno di morte e di morti: una “terra desolata”, appunto, e alla ricerca, come Willard, di redenzione. In rapporto a tutto questo va aggiunto che il fool/Arlecchino è ontologicamente una figura carnevalesca e duplice, folle e saggia, comica e tragica, ossimoro vivente, ombra e alter ego del Re-Kurtz, ma anche di Willard/Marlow, dunque allo stesso tempo alleato del vecchio e del nuovo Re. A commento delle sue parole – «Sarò io che dirò loro come stavano le cose? Guardami! Figuriamoci! Tu invece...» – e per comprendere il senso profondo della sua figura duplice e enigmatica, ci vengono in aiuto un passo di Carl Gustav Jung e uno di Marie-Louise von Franz: il fool «è un essere primordiale cosmico, di natura divino-animale, da un lato è superiore all’uomo per le sue qualità sovrumane, dall’altro è inferiore a lui per la sua incoscienza e insensatezza». È cioè «per metà diavolo, per metà salvatore», ovvero, sì vittima sacrificale e strumento di redenzione, però mai pienamente né l’uno né l’altro, ma sempre figura ancillare e di tramite (cfr. “Psicologia della figura del Briccone” in C.G. Jung, Gli archetipi e l’inconscio collettivo e M.L. von Franz, Le fiabe interpretate)18. Kurtz e l’orrore Poco dopo l’incontro con il fotografo, Willard viene trascinato al cospetto di Kurtz, magnificamente interpretato da Marlon Brando. Dice Bernardo Bertolucci in un’intervista rilasciata a «Diario» nel luglio del 2004, in occasione della morte dell’attore: «La sua grandezza sta anche nel fatto che dopo Ultimo tango, è stato attento ad accettare solo parodie o grandi 18 Per un approfondimento sulla figura del fool vedi anche Paul Radin, Carl Gustav Jung, Karol Kerenyi, Il briccone divino e anche Bachtin 1965. Da ricordare, infine, un passo tratto da Nostromo di Conrad: «Questa vita, la cui spaventosa superficialità è dissimulata dal luccichio di una frottola universale come le stupide buffonate di un Arlecchino dai lustrini di un costume variopinto».

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maschere come Kurtz. Secondo lui quel personaggio non doveva neppure apparire. Coppola però [...] lo convinse a mostrare qualcosa». A questo proposito c’è da chiedersi se sia stata una scelta positiva, o se sarebbe stato meglio rendere ancora più sfumata la figura “metafisica” di Kurtz. In realtà, la delusione per alcuni tratti di verbosità della figura di Kurtz viene compensata dalla straordinaria vis teatrale di Brando e dalla suggestiva fotografia chiaroscurale di Storaro. Meraviglia comunque, ancora una volta, l’intelligenza profonda di Brando, la sua capacità straordinaria di capire il senso dei film che gli venivano proposti e di tenere in piedi battute che – nel loro tentativo di essere nietzschiane – risultano invece, talvolta, pericolosamente vicine ad un grandioso kitsch dannunziano. Proprio perché consapevole di tutto ciò, Coppola faticò molto a “trovare un finale” per il suo film, come ci conferma la frase di sua moglie, «Francis si era impantanato nel finale» (cfr. E. Coppola 1979, p. 206 e passim). Di qui l’importanza e l’astuzia di affidarsi al gigantesco magistero di Brando e di lasciare il superomismo da romanzo d’appendice a John Milius, autore poi, in proprio, di Conan il barbaro, film con Arnold Schwarzenegger, epitome e sintesi di tutti gli stereotipi del cinema d’avventura e di quello che Umberto Eco, con una definizione geniale, chiama il «superuomo di massa» (cfr. Eco 1977 e Jachia 2007). È importante però qui, per ricostruire sia pur sinteticamente il retroterra filosofico-letterario della figura di Kurtz, citare ancora un passo di Bachtin in cui si afferma: «Il grande uomo rabelesiano si differenzia essenzialmente [...] dall’eroismo del romanzo cavalleresco e barocco, dall’eroismo di tipo romantico e byroniano, dal superuomo nietzschiano» (Bachtin 1975, p. 389), delineando una genealogia che è presente in Kurtz, senza però esaurirlo. In altri termini, la figura di Kurtz, «depurata dei suoi aspetti mitologici», che sono la firma geniale di Coppola, «ridotta a misura hollywoodiana standard», ovvero adattata all’«ideologia di Kurtz/Milius», diverrà «il Rambismo che ha dominato l’intrattenimento patriottico fin da allora» (Stefano Trucco, fonte Internet). Invece, è proprio in questo scarto, in questo salto qualitativo, che Coppola, insieme a Brando, “salva” il film. Scrive, con geniale semplicità e veridica forza testimoniale Eleanor Coppola nel “dietro le quinte” del film: «Marlon Brando avrebbe dovuto essere asciutto e duro come l’acciaio per recitare la parte di un ufficiale dei Berretti Verdi, ma quando è arrivato irrimediabilmente sovrappeso, Francis ha dovuto rinunciare ai suoi pregiudizi sul personaggio e venir fuori con una soluzione che spingeva il film molto più nella direzione del mito e che si è rivelata migliore del concetto 52

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originale» (E. Coppola 1979, p. 137). È difficile in effetti esprimere “l’indicibile”, l’orrore – ne era già cosciente il Conrad di Cuore di tenebra – ed è ancora più difficile addirittura mostrarlo, ma, fateci caso, ciò che rimane davvero impresso delle ultime scene è Brando, non le sue parole. Il trucco, e il cinema è anche questo, è dunque riuscito e il magico illusionista – la squadra composta da Brando, Coppola e Storaro – ha vinto la sua partita e ha strappato il suo applauso. Anche con i suoi limiti e i rischi strutturali, il finale del film, insomma, riesce a portare a compimento il suo messaggio: Kurtz è, a tutti gli effetti, l’alter ego tragicomico e carnevalesco del protagonista, in tutto e per tutto quello specchio e quel padre contro cui Willard ha iniziato a lottare fin dal primo fotogramma. Vi torneremo però più avanti, con l’ausilio di Freud. Ora invece, grazie a Bachtin possiamo definire più precisamente queste pagine e queste scene come «grottesco romantico» ed esistenzialista. È effettivamente questa la tradizione carnevalesca – incerta tra il culto delle tenebre e il disgusto per l’orrore – che agisce su Coppola a partire da Byron e forse da Paradise Lost di John Milton, la stessa tradizione in cui si collocano tanto Cuore di tenebra quanto Apocalypse Now19. Va anche notato che il faticoso dialogo tra Willard e Kurtz è a tutti gli effetti, per usare un’altra suggestiva categoria bachtiniana, «un dialogo sull’estrema soglia». Anche in Conrad troviamo – e prima cronologicamente rispetto a Coppola – «il bisbiglio di una voce che parla di là di una soglia di una tenebra eterna». È un dialogo al di fuori di ogni legge predefinita in cui si ricrea la libertà di parola propria del Carnevale e si affrontano con assoluta franchezza le dostoevskiane «questioni ultime», ossia il senso della vita e della morte, di ciò che è giusto e di quello che non lo è. Il “cuore delle tenebre” è così il punto in cui si deve scegliere, sulla scorta del dettato neotestamentario, la parte dalla quale stare: «Se sì, sì, se no, no

19 Anche il Caligola di Camus, per venire a un autore più vicino e contemporaneo, ha lasciato una traccia forte nella Weltanschauung artistica di Coppola e specie in grandi personaggi come, appunto, Kurtz o il padrino del film omonimo. Per il Paradise Lost di Milton si riascoltino le parole ispirate e sognanti di Kurtz/Brando: «Un giorno, da bambino, ho percorso quel fiume. C’è un posto [...] una piantagione di gardenie o di fiori [...], avresti pensato che il paradiso fosse caduto sulla terra sotto forma di gardenie». Nel film tutto ha un doppio, persino le cose e gli oggetti, e se due sono i registratori che incontriamo e due le voci registrate che ascoltiamo e due persino le mosche, non stupisce che il doppio di questo fiume paradisiaco sia il Flegetonte, il Mekong infernale della guerra vietnamita e cambogiana.

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e il resto è del demonio». Al centro del libro, come del film, vi è dunque «il mistero di luce e di tenebre in cui si dibatte l’uomo» (cfr. Ravasi 1996, p. 170, e cfr. ancora in Conrad: «ero sulla soglia di grandi cose»). Conrad e Coppola concordano – semplifico brutalmente, ma vi torneremo parlando di Freud – sul fatto che l’uomo sia un impasto inestricabile di luce e tenebra, di sentimenti positivi e negativi e che di volta in volta debba scegliere tra bene e male, senza la possibilità di prescindere idealisticamente da questa dimensione ontologica. «Potete condannarmi, ma non potete giudicarmi», dirà Brando-Kurtz, rivendicando il mistero sacrale dell’uomo. La “scelta del meglio”, e non del “meno peggio”, indica una tensione che deve essere riproposta continuamente. La scoperta di questo impasto, di questo ineliminabile dato creaturale dell’uomo, di certo implica “orrore” e richiede coraggio, e ne sapeva qualcosa Freud, altro intrepido esploratore di Inferni contemporaneo di Conrad. In realtà però, questa è una sapienza antica – prima religiosa e poi anche laica – che forse costituisce tutta la «saggezza» (il termine è di Conrad) che si può acquisire. Non esistono “i buoni” e “i cattivi” – il Settimo Cavalleggeri, l’arrivo dei “nostri”, il trionfo dei “buoni” hanno la loro tragica e definitiva parodia in Kilgore – mentre esistono invece donne e uomini che devono scegliere ogni volta tra bene e male, nell’alternarsi carnevalesco di luci ed ombre. Kurtz e la sua leggenda, non ci dicono né ci possono dire altro. Marlow e Willard, Conrad e Coppola, Brando e Storaro, sono venuti a raccontarci “solo” questo: in Kurtz «vidi l’inconcepibile mistero di un’anima che non conosceva ritegno, né fede, né paura, e che tuttavia lottava ciecamente contro se stessa [...]. Quell’uomo soffriva troppo». Se queste sono le parole di Conrad, queste di Coppola riflettono la stessa considerazione con in più una criptocitazione evangelica: «Non avevo mai visto un uomo più spezzato, più straziato di lui». Ed è coerente con questa immagine di un Kurtz maieutico, il suo primo durissimo intervento: «Ha mai preso in considerazione, Willard, le vere libertà? Libertà dalle opinioni altrui, addirittura dalle proprie?». I dialoghi che si svolgono tra Kurtz e Willard mostrano insomma, ancora una volta, una forte derivazione da Conrad, ma in essi viene messa in atto una singolare tecnica di “prelievo libero”. È – lo vedremo meglio più avanti – un risultato del citazionismo libero e critico di Eliot lo spostare, ad esempio paradigmatico, Kurtz e il suo Inferno nella Terra Desolata dell’Europa dei primi anni Venti, così come Coppola trasporta il “cuore di tenebra” di Conrad nell’America di Nixon e del Vietnam. Cerco di spiegarmi meglio. Coppola usa quasi totalmente parole e concetti che trovia54

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mo in Conrad. Sceglie le frasi coerenti con il suo ritratto di Kurtz e, se non vengono pronunciate esplicitamente dal colonnello ribelle, sono comunque sempre volte a precisarne la fisionomia. Un esempio: «Mi hanno detto», è Willard a parlare, «che lei era completamente impazzito. E che i suoi metodi erano malsani». Kurtz risponde: «E lo sono?», e a Willard non resta che ribattere: «Io non vedo alcun metodo signore». Questo dialogo per metà viene da questo, che si svolge tra il direttore e Marlow: «“Metodo sbagliato lei [direttore] lo definisce”. [...] “Indubbiamente” – esclamò [il direttore] con calore – “Lei no?”. [...] “Assenza totale di metodo”, mormorai dopo un po’». Per l’altra metà deriva, invece, da una conversazione tra Marlow e l’Arlecchino: «“Allora è pazzo” – dissi. Protestò indignato: “Mr. Kurtz non poteva essere pazzo. [...] Non si può giudicare Mr. Kurtz come se fosse un uomo qualunque”». Questo concetto in Conrad verrà di nuovo ripreso da Marlow che afferma tout court: «Non sarà dimenticato [...]. Non era un uomo comune». Il ritornello su pazzia e non pazzia di Kurtz e sulla sua genialità viene però ribadito in Coppola prima da Chef e dal fotoreporter e poi da questi e Willard: «Allora è impazzito!? Sbagliato! Sbagliato! Se l’avete sentito solo due giorni fa [...]. Ma non lo si giudica il colonnello. Non lo si giudica come un uomo normale». In realtà, come vedremo, anche questo passo deriva ampiamente da Conrad e nel romanzo l’affermazione «Era un genio universale», viene ripetuta due volte, una alla fine del primo capitolo, l’altra alla fine del terzo. Il punto più straordinario di questo lavoro di collage intessuto da Coppola a partire dalle parole di Conrad – vertice che ne è la sua chiave interpretativa – risiede però nel dialogo che ha luogo tra Marlow e Kurtz quando questi fugge dalla barca per tornare al suo regno e al suo comando. Di fronte al Re ferito e malato, ma ancora in grado di imporre la sua fortissima volontà, Marlow in prima battuta non sa cosa dire, ma poi pronuncia queste parole che costituiscono nel romanzo l’unico vero momento di dialogo tra i due: «“Lei si perderà”, dissi. “Si perderà irrimediabilmente”. A volte vengono lampi d’ispirazione [...] Avevo detto la cosa giusta, [...] gettate le basi della nostra intimità destinata a durare – a durare – fino alla fine – e oltre». Anche Willard dice a Kurtz la “cosa giusta”. Coppola traduce perfettamente il senso del dialogo sopra citato in questo scambio di battute. Alla domanda di Kurtz: «Mi aspettavo uno come lei. Lei cosa si aspettava? È un assassino?», Willard risponde semplicemente «Io sono un soldato». Che sia la “cosa giusta”, che Willard abbia fatto «la cosa giusta», come supplicava una voce di madre all’inizio dell’Inferno, lo veniamo a 55

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sapere prima dal fotoreporter – «Lo sa che lei è piaciuto a Kurtz? Gli è piaciuto. Gli è piaciuto sul serio. Ma ha in mente qualcosa per lei» – e poi ci viene confermato in modo definitivo dal diverso comportamento di Kurtz. Se prima il colonnello aveva negato a Willard il titolo di soldato dicendo: «Lei è soltanto un ragazzo di bottega mandato a riscuotere gli arretrati di una drogheria», dopo averne intuito il valore, lo libera per affidargli una missione da vero “soldato”, ucciderlo e essere testimone del suo lascito testamentario. «Avete il diritto di uccidermi [...], ma non il diritto di giudicarmi. [...] Temo che mio figlio possa non capire quello che ho cercato di essere. E se dovessi essere ucciso, Willard, vorrei che qualcuno andasse a casa mia e dicesse tutto a mio figlio [...]. E se lei mi capisce Willard, farà questo per me», gli dice Kurtz in una frase che contiene un’eco dell’evangelico e testamentario «Fate questo in memoria di me». Alla fine, Willard commenterà questo lascito omicida e figliale, usando proprio la parola che si sono scambiati, “soldato”: «Perfino la giungla lo voleva morto. [...] Tutti volevano che lo facessi. Lui più degli altri. Lo avvertivo lassù, in attesa che cancellassi il dolore. Voleva semplicemente andarsene da soldato, in piedi»20. Epilogo uno e trino Fermo tutto questo, e dunque il successo artistico del film – ottenuto fin dalle scene dominante da Kilgore e dalla sua apocalittica cavalcata – va tenuto presente che per Coppola, uomo di cinema e non di teatro, la parte più difficile era di certo “scrivere” la fine, e che pertanto il problema tecnico dell’epilogo, del congedo, restava comunque il punto cruciale. Dei tre subfinali che sono stati girati per chiudere definitivamente il film dopo la morte di Kurtz – in realtà le sue parole conradiane, «L’orrore. L’orrore», scandite da Brando, sono la vera fine, artistica, del film – credo che il più efficace sia proprio quello scelto da Coppola per Apocalypse Now Redux

20 La locuzione «cancellassi il dolore» è importante perché istituisce un nesso tra Kurtz e il marito della Vedova francese: «Un tempo preparavo la pipa per mio marito, era la morfina per il suo cuore ferito», dirà lei. Ma è, ormai lo sappiamo, la sua voce di Donna e di Sibilla, che, segretamente ma con sempre maggior sicurezza, Willard segue nel suo viaggio di morte e rinascita. “Attraversare il dolore” è dunque l’ulteriore e più segreto nesso tra Kurtz e Willard e la “Vedova dell’Eroe”.

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del 2001. Bisogna uccidere Kurtz e, dopo averlo fatto, si deve tornare, se non a casa – Willard dice di sapere che dopo Kurtz e il Vietnam non esiste più “casa”, come non vi sono più innocenza e tantomeno esercito – almeno “indietro”, per testimoniare e confessare il senso esistenziale della vicenda: «Non era un caso che toccasse proprio a me essere il custode della memoria del colonnello Walter E. Kurtz [...] e se la sua storia è in realtà una confessione, allora anche la mia lo è». In effetti, in questo “ultimo” e più perfetto finale, consacrato dalla versione 2001 del film, Kurtz-Brando è proprio questo che chiede: «Voglio che tu testimoni». Questa scelta evita il narcisismo della sostituzione edipica di Willard a Kurtz che avviene nel “secondo” finale, in cui Willard resta nel villaggio e diventa Re-PadreTotem al posto di Kurtz, e scarta anche la spettacolarità un po’ fine a se stessa del terzo finale che si chiude con il bombardamento del ex regno di Kurtz sulle note di “The End” di Morrison. In maniera assoluta, il “finale numero 1” è dunque il più vero, oltre che il più riuscito artisticamente, perché è il più conradiano21. Questa però resterebbe una valutazione esterna al film se non fosse che tutta l’opera di Coppola è, e vuole essere, una traduzione-interpretazione, innamorata e fedele, del romanzo di Conrad (su questo concetto Jachia 2000 e lo splendido Eco 2003 Dire quasi la stessa cosa). In questo senso la macchina da presa di Coppola incarna il narratore esterno ed ultimo che in Cuore di tenebra era Conrad che, disceso nell’Inferno coloniale del Congo del suo tempo – vi era realmente stato in qualità di ufficiale al comando di un battello nel 1890 – vuole denunciare e manifestare l’orrore e la follia che ha visto e conosciuto. In coerenza a ciò scrive Eleanor Coppola: «Barlow ha appena cercato “Apocalisse” sul dizionario; una delle definizioni era: “rivelazione di verità nascoste”» (E. Coppola 1979, p. 190). Dunque Marlow e Willard,

21 Nel prossimo capitolo metterò in atto la verifica testuale di quest’affermazione ma, voglio anticipare qui che nel testo di Conrad troviamo già tutte e tre le ipotesi. Sul finale giocano però tre tradizioni che diventano i tre diversi finali del film. Semplificando apoditticamente quanto approfondiremo più avanti i tre possibili finali sono: 1) “Modello apocalittico volgare” ovvero bombardamento e palingenesi; 2) “Modello Frazer”, ovvero sostituzione di Willard a Kurtz; 3) “Modello Freud” ovvero Willard “kurtizzato e adulto” che prende per mano la sua parte bambina (Lance) e torna genericamente “indietro” (non a casa, regressione infantile dalla quale si è definitivamente staccato). Coppola uomo e intellettuale oscilla pericolosamente tra le varie opzioni – e ne fanno fede anche le sue varie interviste – mentre Coppola artista punta sempre più decisamente, e giustamente, verso la terza soluzione.

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i protagonisti, devono tornare perché il loro racconto venga offerto al pubblico, rivelato, e il tutto possa divenire materia condivisa di riflessione e di emozione artistica. Ed ecco la ragione per la quale il “finale 2001” è il più profondo per valore etico e artistico e, a un tempo stesso, il più dialogicamente e bachtinianamente aperto. Non è senza motivo, dunque, il fatto che Willard – uscito con la spada, che in realtà è un machete, e il libro, che è il Vangelo/Anti-Vangelo di Kurtz, ovvero i simboli del primo storico e moderno impero coloniale, quello veneziano – lasci cadere la spada e trattenga il libro. La mano libera dalla spada gli servirà, simbolicamente, per portare in salvo la sua parte più primitiva, più semplice, autentica e bambina, ossia Lance. Un finale ottimistico dunque? Non credo, ma consono, ancora una volta, all’intelligenza e alla sapienza di Conrad che nelle ultime pagine del romanzo scrive questa frase, coerente a un mondo carnevalesco, dialettico e tragicomico e alla lettura che ne fa Coppola: «una grande illusione redentrice [...] nelle tenebre, nelle tenebre trionfanti». La Vedova (e la Madre) dell’Eroe Il film di Coppola sembra dunque finire, non certo sul piano ideologico ma almeno su quello della fabula, in modo molto diverso dal romanzo di Conrad. Non è però esattamente così, e sarà questa la nostra ultima osservazione per questo capitolo. Ricordiamo intanto brevemente che nelle ultime pagine del romanzo Marlow, tornato in patria, decide di andare a trovare la fidanzata (“Promessa Sposa” in eterno lutto, dunque Vedova) dell’eroe Kurtz e, di fronte alla sua domanda su quali fossero state le ultime parole del suo amato, sceglie di non dirle la verità, e cioè, «L’orrore! L’orrore!», che in effetti anche nel film risuonano, pronunciate da Brando, mentre la motovedetta salpa e lascia per sempre il regno di Kurtz per adempiere al suo autentico lascito testamentario. Le risponde invece, mentendo, che è morto pronunciando il suo nome. Il nome della “Promessa Sposa-Vedova” noi però non lo sappiamo e lei in effetti, in Conrad, resterà innominata. In Coppola, invece, conosciamo una precisa caratteristica ontologica della prima donna di Kurtz, quella di essere, oltre che Sposa, Madre, di avere cioè un figlio, nota che sembra essere completamente assente nel dettato di Conrad. Scopriremo che lo è solo a una lettura che non si discosti dal mero piano letterale e, se questo è vero, presto sarà palese anche chi sia – tanto per Conrad quanto per Coppola – il primogenito e 58

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figlio per antonomasia di Kurtz: «Siamo tutti figli suoi», afferma preliminarmente la bocca della verità, il fool-fotoreporter, ma aggiunge rivolto a Willard: «Lei gli è piaciuto, gli è piaciuto veramente, e ha in mente qualcosa per lei». Per comprendere tutto questo è opportuno sottolineare che l’episodio dell’incontro di Marlow con la “Vedova dell’Eroe” o, se vogliamo essere fedeli alle parole del romanzo, con la sua “Promessa Sposa”, che è l’ultimo narrato da Conrad, non è stato affatto tralasciato e eliminato da Coppola. In realtà, a una lettura più attenta, ci accorgiamo che è stato solo anticipato, camuffato e trascritto nell’episodio dell’incontro di Willard con la “Vedova dell’Eroe”, ambientato nella colonia fantasma dei francesi, dunque, un po’ come tutto il viaggio di Willard, tra sogno e realtà. Ma procediamo con ordine. In primo luogo va rilevato che la “Vedova dell’Eroe” di Coppola rende palese questo percorso di identificazione tra Kurtz e Willard (e tra Marlow e Kurtz) dicendo: «E io ho perso mio marito [...]. Un tempo preparavo la pipa per mio marito, era la morfina per il suo cuore ferito», e mentre racconta offre a Willard la pipa. Poi continua: «Sfuriava e piangeva il mio soldato perduto. [...] [Anche] lei», dice rivolta a Willard, «è stanco della guerra, glielo leggo in faccia. [...] [come] i nostri soldati perduti [...]. Se vuole possiamo bere un cognac [...]. Ci sono due uomini in te, non vedi? [...] uno che uccide e uno che ama» (corsivi miei). Va osservato inoltre che Coppola era perfettamente consapevole del fatto che Conrad riteneva la scena finale del romanzo – quella dell’incontro fra Marlow e la “Promessa Sposa-Vedova” di Kurtz – cruciale e fondamentale per la comprensione dell’intera opera e pertanto non ha affatto evitato il confronto con la parte conclusiva del testo, ma ha preferito darne un traduzioneinterpretazione allo stesso tempo audace e fedele, collocandola e, insieme, occultandola, nell’episodio erotico della colonia fantasma francese22. Insomma, Willard è Marlow, la “Vedova dell’Eroe” francese è la “Promessa Sposa-Vedova” del Kurtz di Conrad e l’episodio del loro incontro in Coppola è apparentemente “scivolato” prima di quello con Kurtz. Vedremo tra poco che le cose non sono così semplici e scopriremo che anche Marlow – come Willard – incontra la “Vedova dell’Eroe” prima di incontrare Kurtz, ma intanto osserviamo che l’alterazione più forte opera22 Sui motivi profondi – edipici? – del “taglio” di questa scena nell’edizione del 1979 e sul fatto di averla restaurata nell’edizione del 2001 non intervengo qui, ma ne parleremo ancora più avanti parlando dei rapporti tra Apocalypse Now e Freud.

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ta dal regista sembra essere non nel senso profondo della fabula, perché l’episodio narrato e quello filmato sono sostanzialmente analoghi e il prima e il dopo – come ci insegna Freud – nei sogni non esiste, ma nel tipo di donna che viene presentato, non tanto o non solo sul piano della libertà sessuale, quanto e piuttosto su quello della consapevolezza esistenziale. Un’ulteriore precisazione. In Coppola l’incontro con la “Vedova dell’Eroe” è esplicitamente erotico, invece in Conrad tale incontro ha una valenza erotica solo lieve e sfuggente. Se questa è la sostanza del racconto, va però precisato che la scena finale del romanzo non è così “candida” come appare e vi è in primo luogo sottilmente riflessa l’ambiguità del rapporto di Conrad/Marlow con «la mia cara zia», «una cara creatura» in «intimo colloquio» destinato (vanamente però) a «risollevare le mie forze». Questo personaggio, solo apparentemente minore, appare all’inizio del primo capitolo e ricompare alla fine del terzo: sono dunque due le donne che aspettano il ritorno di Marlow/Conrad – la “Promessa Sposa-Vedova” di Kurtz e la “zia” di Marlow – e le loro figure si richiamano e si confondono. Infatti, sul piano strettamente biografico, il personaggio della “zia” rimanda effettivamente all’amante/innamorata di Conrad a Bruxelles, Marguerite Poradowska, che nella realtà era una sua «matura» – il termine, come i precedenti, è in Conrad e non lo uso a caso – e sposata parente, dunque potenzialmente una Madre e nella realtà anche Vedova, tanto che Conrad la chiederà in sposa nel 1895, ma sarà rifiutato. Dunque la donna che Conrad incontra effettivamente al suo ritorno dal Congo non è la “vedova di Kurtz”, ma una sua parente (“zia”) vedova. Ma vista l’importanza di questo personaggio rileggiamo il passo del congedo: «Dopo di che ricevetti un abbraccio [scilicet della zia, pronta a fare qualsiasi cosa qualsiasi cosa per te] [...] e me ne andai. Per strada – non so perché – mi prese la curiosa sensazione di essere un impostore», cioè di essere al posto di qualcun altro. Questa «curiosa sensazione di essere al posto di qualcun altro» è raddoppiata all’inizio del capitolo dal «saltai fuori io a prendere il posto [...] del mio predecessore [il capitano]». Ma sarà il leitmotiv degli abbracci che ci renderà palese tra poco il perché della curiosa e reiterata sensazione di aver “preso il posto” di qualcun altro (o di averlo voluto in realtà prendere). In altri termini, sommando e semplificando tutto – esplicito e implicito, romanzo e biografia – la “Vedova dell’Eroe” che Willard nel film incontra anche sessualmente è in tutto e per tutto la vera donna di Kurtz, ovvero l’autentico alter ego nuziale tanto del Kurtz di Coppola quanto di 60

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quello di Conrad e, in ultima analisi, persino la donna effettivamente desiderata dal romanziere. Non solo, ma è attraverso le sue parole che Willard si misura per la prima volta con il colonnello Kurtz, o, meglio e più esattamente, con la sua immagine e la sua ideologia. Infatti, mentre in Conrad la “Promessa Sposa Bianca” di Kurtz sceglieva di vivere nella menzogna, piuttosto che nell’orrore, nel film di Coppola la “Vedova dell’Eroe”, vedova di un colonialista francese (ma potrebbe essere allo stesso modo quella di un militare americano) è una donna che ha saputo guardare fino in fondo l’orrore e che ha gli occhi ben aperti, e non bendati, sulla realtà profonda del cuore umano, diviso ontologicamente tra luce ed ombra. «Nel vostro cuore vi sono due voci, quella dell’uomo e quella della belva», dice la “Vedova dell’Eroe” a Willard, chiedendo cioè a se stessa e al suo interlocutore di scegliere da che parte stare. Il senso del film – ma anche quello del libro, che è duplice in ogni sua parte e ambiguo persino nel titolo perché “cuore” indica una luce positiva, ma la “tenebra” l’avvolge – è dunque tutto nel suo punto di vista e nelle sue parole che si contrappongono e si dialettizzano a quelle disperate, anche se coerenti, di Kurtz, e che si sostengono e si integrano, invece, con quelle del fool-fotoreporter. Queste ultime sono infatti ideologicamente analoghe a quelle della vera donna di Kurtz – ovvero la “Vedova dell’Eroe”, amata, ora possiamo dirlo, tanto da Kurtz quanto da Willard – ma sono spostate su un tono carnevalesco, un tono appropriato dunque alla verità dialettica del fool. Non ho usato a caso, naturalmente, la parola “dialettica”. Volevo ricordare, esplicitamente, il punto di vista del fotografoclown-arlecchino di Coppola il quale afferma: «Questa è dialettica, è semplice dialettica [...]. La logica dialettica è che c’è soltanto amore e odio. O si ama qualcuno o lo si odia». Se è vero che siamo impastati di amore e odio in un denso e quasi inestricabile groviglio – del resto “cuore di tenebra” è un ossimoro equivalente a luce-ombra e analogo a “fiori del male” – nondimeno bisogna scegliere tra questi due sentimenti. «Se sì, sì, se no, no e il resto è del demonio», ammonisce il Vangelo, e infatti è questo il concetto che il nostro fool trascrive e traduce nella sua lingua paradossale e carnevalesca: «Senza forse, senza supposizioni, senza frazioni [...]. Non puoi viaggiare nello spazio con le frazioni [...]. Su cosa atterri? Su un quarto? Su un tre ottavi?», per dire che le scelte degli uomini, in campo etico avvengono di fronte all’eterno e sono irrimediabili: una volta per sempre (per un approfondimento di questa locuzione e di questa Weltanschauung cfr. Jachia 2007). 61

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Oltre a quanto detto, vi è però da aggiungere ancora un fatto che conferma il legame di quest’episodio del film di Coppola – ovvero l’incontro erotico di Willard con la “Vedova dell’Eroe” – con il dettato profondo ed implicito del romanzo di Conrad. Come abbiamo anticipato, a una lettura attenta, anche il Marlow di Conrad ha già incontrato – almeno in effigie – la “Promessa Sposa” di Kurtz prima delle ultime pagine del romanzo e dunque prima di incontrare Kurtz stesso. D’altronde la “Vedova dell’Eroe” è anche una Sibilla e come tale, seguendo Virgilio, deve preparare l’eroe alla discesa agli Inferi. Provo a spiegarmi meglio. Come il Willard di Coppola, anche il Marlow di Conrad ha già incontrato – in maniera sotterranea e non sul piano effettivo del racconto, ma su quello dei rimandi interni e profondi dell’opera – una figura di donna legata a Kurtz prima di incontrare lui. L’incontro finale di Marlow con la “Promessa Sposa” è infatti sottilmente legato a una mise en abyme nella quale compare, in effigie, proprio la “fidanzata bianca” di Kurtz. Il seguente è il passo del romanzo dal quale dipende – ne sono convinto – l’anticipazione di Coppola: «Mi alzai», dice Marlow nel primo capitolo del romanzo, mentre è ancora trattenuto alla Stazione Centrale, «e poi notai su un pannello un piccolo bozzetto ad olio che rappresentava una donna bendata con indosso un drappo e in mano una fiaccola accesa. Lo sfondo era scuro, quasi nero. Il movimento della donna era solenne e l’effetto della fiamma sul suo viso sinistro. [...] Alla mia domanda rispose che l’aveva dipinta Kurtz». Se la fiaccola del dipinto rimanda naturalmente all’altra fiaccola, «scintilla del sacro», delle prime pagine del romanzo portata, non a caso, assieme a una spada, anche la donna del quadro dipinto da Kurtz in cui Marlow si imbatte prima di incontrare il colonnello di persona, è una figura estremamente complessa e duplice. Ci si potrebbe chiedere, per iniziare, a cosa serva la luce a una donna bendata e perché Marlow percepisca come “sinistra” la luce della fiaccola e di cosa sia segno il suo incedere «solenne». Senza voler dare risposte definitive possiamo cominciare a dire due cose. La donna bendata del quadro rimanda, per analogia, alla “Promessa Sposa-Vedova” del Kurtz di Conrad perché come lei ha gli “occhi bendati”, si ostina cioè nel suo non voler vedere la verità e continuare a vivere nella menzogna e nella violenza e, oltre alla benda, potrebbe poi forse avere in mano la spada – quella che Willard nell’ultima scena lascerà cadere? – e da qui proviene l’incedere «solenne» e marziale. Possiamo poi dire che rinvia, per contrasto, alla “vera sposa” del Kurtz di Conrad, ovvero alla sua “Amante Nera” con la quale condivide l’analogo incedere regale e 62

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«solenne». C’è cioè una precisazione, intuita perfettamente da Coppola, che non deve essere taciuta: la vera donna del Kurtz di Conrad è proprio l’appassionata “Donna Nera” e non l’algida e cieca “Donna Bianca” e quindi, la “Vedova dell’Eroe” francese di Coppola è un simulacro della vera donna di Kurtz, la “Donna Nera”. Ma questo, per la mentalità vittoriana presente nell’ideologia di Conrad, non può essere detto esplicitamente. Di certo, la donna vera di un uomo è quella con cui lui fa l’amore e Coppola ha, storicamente, la possibilità di dirlo e dunque può esplicitare quella verità implicita in Conrad, anche se poi la riocculta con un repentino cambio di personaggio23. Se questo è vero, è vero anche che in Conrad troviamo però queste parole: «La terra selvaggia [...] se l’era preso, l’aveva amato, abbracciato, gli era entrata nelle vene, aveva consumato la sua carne e sigillato la sua anima alla propria attraverso gli inimmaginabili cerimoniali di qualche iniziazione diabolica» (corsivo mio). Usando le parole di Freud sarebbe facile dire che qui Conrad racconta quello che il viennese chiama la scena primaria, l’iniziazione diabolica, la cui visione e la cui pratica è interdetta – inimmaginabile, invedibile – al bambino, ma non al postfreudiano Coppola. Ed è alla luce dell’Interpretazione dei sogni di Freud che sappiamo che la parola che si scambiano Padre e Figlio è una Donna duplice, Sposa e Madre. Non solo. È ancora Freud che ci ha insegnato a ricondurre a linearità triangolare il gioco complesso dei sogni e dell’arte. Dunque appare ancora più legittima, o almeno meno eterodossa, l’anticipazione di Coppola che nell’episodio della “Vedova dell’Eroe” occulta e richiama proprio le ultime pagine di Conrad e in realtà rivela, come direbbe Freud, il suo desiderio profondo e rimosso. È sempre qui che si esplicita poi il motivo per il quale il Kurtz di Conrad ha scelto di abbandonare la “Promessa Sposa Bianca” insieme all’ipocrisia menzognera del colonialismo europeo, in tutto simmetrico all’imperialismo guerrafondaio americano. Si deve notare però che il Kurtz di Coppola non compie fino in fondo la stessa scelta e scrive al Figlio, mentre in effetti parla a lei, alla Vedova e alla Madre, alla ricerca di un ultimo contatto, ancora veritiero. Ma, per tornare al romanzo di Conrad, è da osservare che i termini “abbraccio” e “braccia” già passano dalla “Donna Nera” a quella “Bianca”: in tutte e due le donne del Kurtz di Cuore di tenebra, le braccia sono

23 Nel capitolo dedicato a Freud e Apocalypse Now torneremo ulteriormente sulla logica profonda di questo cambio di personaggio, dal Padre Kurtz al desiderio del Figlio Willard.

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infatti “nude” e sollevate. Ricorderemo tra poco il passo della “Donna Bianca”, ma ora inseriamo invece, subito un breve lacerto per la “Nera” di Kurtz/Conrad: «Era selvaggia e superba, magnifica [...] c’era qualcosa di minaccioso e solenne nel suo incedere su quella terra addolorata, sull’immensità selvaggia [...], l’aspetto tragico e fiero del dolore selvaggio e della muta sofferenza [...] restò a fissarci immobile [...] come la terra selvaggia [...]. Improvvisamente aprì le braccia nude [...] in un abbraccio scuro», e già prima «la terra selvaggia... l’aveva... abbracciato». Ancora una volta Coppola si dimostra un lettore e un interprete di Conrad attentissimo e libero. Non solo. Proseguendo questo gioco di donne, possiamo notare che alla fine del film appare, in un brevissimo fotogramma, anche la sosia vietnamita dell’enigmatica amante nera (la vera sposa) del Kurtz di Conrad e che il suo è l’unico volto ad accompagnare, con amore e dolore sinceri, espliciti e carnali, Kurtz alla morte, e questo tanto in Conrad quanto in Coppola. Passando ora all’incontro tra Marlow e la fidanzata “bianca” del Kurtz di Conrad, che è vestita a lutto e dunque è vedova e sposa mancata, rileviamo che in realtà in esso vi è una sottile ma evidente attrazione erotica che lo scrittore lascia appena trasparire tra le righe: «la sua bellezza mi colpì [...]. Notai che non era molto giovane – ossia non era una ragazzina. Aveva [...] la capacità matura di essere fedele, di credere, di soffrire [...]. Quei capelli chiari, quel volto pallido, quella fronte pura, [...] lo sguardo era schietto, profondo, sicuro e fiducioso, [...] i capelli biondi sembravano raccogliere tutta la luce residua in un barlume d’oro [...]. Stese le braccia [...] le [...] braccia nude». Coppola invece esplicita questa attrazione, ma allo stesso tempo la attenua mediante una (apparente) sostituzione, non sul piano fisico perché l’attrice Aurore Clément, che impersona la “Vedova dell’Eroe”, è fisicamente, in tutto e per tutto, la donna descritta da Conrad e amata da Willard, ma sul piano dei personaggi (apparentemente la “Vedova dell’Eroe” non è la donna di Kurtz) e con un’anticipazione all’interno della fabula. Ancora una volta però, dobbiamo riconoscere che luci ed ombre, conscio e inconscio, volti e maschere sono uniti e contraddetti dialetticamente. La “Vedova dell’Eroe” è in profondo, come si è visto e come ha notato Coppola, la donna di Kurtz e dunque il desiderio di Willard è, a una lettura sostanziale, un desiderio incestuoso e il termine «matura» ne è il primo inequivocabile indizio. Questo d’altronde è esplicitato fin dall’inizio dalla canzone dei Doors che recita: «e arrivò ad una porta / e guardò dentro / Padre? / Sì, figlio? / Voglio ucciderti / Madre, 64

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voglio... [Mother, I want to fuck you!]». Che la strofa “incriminata” della canzone non sia presente nel film e che Coppola si fermi prima, per non “dire troppo” del triangolo edipico, non elimina due fatti: il primo è che il regista conosce bene, consciamente e inconsciamente, tutta la canzone, il secondo è che Coppola in realtà mette al posto della frase censurata tutto il racconto del film, in tutto analogo, nel profondo, al dettato della canzone e all’intenzione rimossa di Conrad. Vi è in realtà così, tanto nel romanzo quanto nel film, un triangolo raddoppiato che nasconde un più segreto e allusivo gioco edipico tra il giovane Cavaliere e il vecchio Re che Conrad lascia appena trasparire e che invece il postfreudiano Coppola esplicita, a sua volta, solo in parte. Opportuno allora ulteriormente esplicitare che per il romanzo “il doppio triangolo” è costituito, da un lato, da “Promessa Sposa Vedova Bianca” più “Zia Vedova Bianca” – Kurtz – Marlow, dall’altro da “Amante Nera” – Kurtz – Marlow; mentre per il film è costituito da un lato da “Vedova Francese” più “Vedova Americana” – Eroe – Willard e dall’altro da “Amante Vietnamita” – Kurtz – Willard. Insomma, desiderio e censura edipica – esattamente come legge e trasgressione, amore e odio – si alternano e si confondono nel Carnevale della vita e della storia e questa consapevolezza, come abbiamo visto, assieme alla doverosità della scelta, è il messaggio finale tanto del film quanto del romanzo. In nessun fotogramma dunque Coppola ha tradito Conrad, ma ha sempre riportato e trascritto, in modo coerente ed efficace, tutto il contenuto ideologico, artistico, profondo, conscio e inconscio del romanzo. Una ulteriore conferma di tutto questo gioco triangolare ed edipico è la letteratestamento che il Kurtz di Coppola scrive apparentemente al suo figlio legittimo e di cui diventa più destinatario che intermediario Willard, il vero figlio spirituale di Kurtz. Se infatti è già stato detto che «siamo tutti figli suoi», è anche vero che Willard è l’eletto. Le parole di Kurtz non lasciano appigli: «Caro figliolo, temo che sia tu che tua madre siate stati in pensiero non avendo avuto mie notizie nelle ultime settimane, ma la mia situazione qui è diventata particolarmente difficile [...]. Mi fido del tuo giudizio in merito a ciò che reputerai di riferire a tua madre [...]. Sono ormai al di là della loro timida, mendace, moralità e pertanto, al di là di qualsiasi preoccupazione. Hai tutta la mia fiducia. Il tuo affezionato padre». Dopo queste frasi, Kurtz affida a Willard la sua ultima “missione”, aggiungendo un più esplicito e finale: «Temo che mio figlio possa non capire quello che ho cercato di essere, e, se dovessi essere ucciso, Willard, vorrei che qualcuno andasse a casa mia e dicesse a mio figlio [...] tutto 65

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quello che ho fatto. Tutto ciò che lei ha visto. Perché non c’è nulla che detesti di più del fetore delle menzogne. E se lei mi capisce, Willard, lei farà questo per me». Ora, se riflettiamo con attenzione su queste parole, scopriamo che andare a casa della “Vedova dell’Eroe” («lei – Willard – per me – Kurtz»), significa in profondo occupare “il posto” del Padre Ucciso nella casa della Madre Vedova – e vedova, privata del proprio Uomo, è Giocasta come ci racconta Sofocle nell’Edipo Re e come ci rammenta poi Freud. E questo è proprio quello che ha fatto Marlow e ha promesso di fare – e ha in realtà già fatto – Willard. Alla luce di tutto questo complesso rinvio di segni e di epifanie, non vi sono più dubbi che il film di Coppola rappresenta tutto il romanzo di Conrad e specialmente tutte le sue intenzioni profonde, anche quelle rimosse, censurate o palesate indirettamente. Freud ci insegna infatti che nei sogni e – possiamo aggiungere, in coerenza al suo dettato scientifico – nelle opere artistiche gli elementi censurati si presentano trattati fondamentalmente attraverso due procedimenti, la condensazione e la sostituzione, gli stessi adottati da Coppola nei confronti del dettato di Conrad24. Sintetizzando ancora i risultati della nostra analisi, possiamo dire che fino a qui Conrad e l’Apocalisse sono i maggiori punti di riferimento di Coppola, ma poi vi sono, oltre a Freud e Marcuse, delle fonti culturali diverse, eppure fortemente connesse a tutto questo, tra cui Frazer, Weston, Eliot, ma anche Morrison, che complessivamente e singolarmente spingono Coppola a leggere l’incontro tra Marlow/Willard e Kurtz in termini di “conflitto generazionale”. Sono cioè queste plurime presenze culturali a portarlo a dare alla vicenda rappresentata la risonanza edipica che a livello conscio Conrad non aveva pienamente tratteggiato. Che questa valenza sia comunque presente nel romanzo, anche se in grado diverso, non è il dato fondamentale. Freud ha dato un nome, una legge convenzionale, a qualcosa che esiste a prescindere dalla sua spiegazione normativa e comunque sappiamo da uno dei principali studiosi conradiani che lo scrittore mostrava «un forte complesso edipico ed incolpava il padre di aver 24 Per la precisione, riguardo al lavoro onirico, Freud parla anche, oltre che di condensazione e sostituzione, di «raffigurazione visiva» e ordinamento. Cfr. Freud, Il sogno, 1900, pp. 5-49 e specialmente p. 32; Id., Introduzione alla psicoanalisi, Parte II, “Il sogno”, 19151917, pp. 342-353 e passim; Id., L’interpretazione dei sogni, 1899, pp. 258, 283, 287, 447 e passim; Silvia Vegetti Finzi 1995, pp. 108-117.

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fatto soffrire e morire prematuramente la madre» (cfr. Curreli 1984, p. 31 e passim), e per questo, forse, nel romanzo, a compensazione, “la madre” sopravvive al padre. Questa complessa ricostruzione è ulteriormente confermata dal fatto che Willard, fin dalle prime scene, vive un profondo e inesplicato senso di colpa. Tra le prime parole che pronuncia ci sono delle domande angosciate: «Che volete? Qual è l’accusa? Che cosa ho fatto?», e inoltre, nelle stesse scene iniziali, parla di «scontare i miei peccati» e di «confessione». Sappiamo, ancora da Freud, che il parricidio è «il delitto principale e primordiale sia dell’umanità che dell’individuo» e che è «la fonte principale del senso di colpa e deriva dal complesso edipico» (cfr. Musatti 1986, p. 376)25. Le manifestazioni di questo inconscio senso di colpa sono la malinconia e l’estraniazione esistenziale, esattamente i sentimenti più profondi che il viso e gli occhi di Willard – così spesso sgranati e in primo piano – rivelano. Silvia Masotti ha scritto con efficace icasticità: «Willard-Sheen ha solo due espressioni, con sigaretta e occhi socchiusi e con un’arma e occhi sbarrati, ma è perfetto così» (fonte internet), ma anche Eleanor Coppola descrive con queste parole Martin Sheen: «uno strano tipo che osserva la sua stessa vita, proprio come Willard» (cfr. E. Coppola 1979, p. 221)26. C’è ancora un’ultima osservazione da fare. Il villaggio vietnamita è caratterizzato da due figure femminili, la maestra e la guerrigliera, simboli 25 Riporto senza ulteriore commento, per adesso, che proprio la morte del padre – l’evento che Freud nell’Interpretazione dei sogni definisce come il «più importante» e il «più straziante nella vita di un uomo» – è il presupposto biografico tanto di La terra desolata quanto proprio dell’Interpretazione dei sogni del viennese (cfr. Musatti introduzione a Freud 18991900 e l’introduzione dello stesso Freud a tale opera). È da notare inoltre che nel caso di Eliot si aggiunge, oltre alla morte del padre, il fatto che il poeta e suo padre si erano scontrati e non più riconciliati proprio a causa delle nozze di Eliot, fortemente osteggiate dal padre. 26 Il fatto che Willard in qualche modo sia un killer di professione – e infatti parlando tra sé e sé dica: «Quante persone avevo già ucciso? Sei di cui ero sicuro» – non cambia il fatto che «stavolta si trattava di un americano e di un ufficiale», e che dunque stavolta era «diverso». D’altronde Freud e il suo discepolo Jones ci insegnano che l’edipico Amleto non ha difficoltà ad uccidere altre persone come Polonio, Laerte e gli amici traditori, ma solo lo zio che, uccidendogli il padre e amando al suo posto la madre, ha esaudito il suo desiderio profondo e inconscio. Che gli “zii” siano figure sostitutive di quelle genitoriali è pleonastico dirlo, e dunque ribadiamo che in tutta la sua opera Freud lega costantemente Edipo a Amleto (cfr. Jones 1910-1949, Starobinskij, Amleto e Freud 1975, p.138 e passim) ed è in queste pagine, tutt’altro che secondarie, ma invece fondamentali per la teoria psicoanalitica, che matura in Freud il concetto, determinante anche per la nostra analisi, di «Edipo mascherato».

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disgiunti, ma referenziali dell’ambiguità costitutiva dell’uomo diviso ontologicamente non tra “bene” e “male”, ma tra la scelta coerente di una cosa o dell’altra. È significativo il fatto che l’altra figura di donna che vedremo agire compiutamente riprenderà questa duplicità, non più in sincrono, ma su una scansione temporale. La “Vedova dell’Eroe” prima, con il marito, è stata “prevalentemente” guerriera, mentre ora è con Willard “prevalentemente” materna. Lo accoglie e chiede al capitano di fermarsi ora, perché la guerra ci sarà anche domani, per svelargli infine che il cuore dell’uomo è diviso in due, una parte che ama e una che combatte. Questo è il viatico della Sibilla per affrontare una discesa agli Inferi del cuore dell’uomo e per poter poi uscire verso la luce. La donna dunque – a una lettura attenta e non pregiudiziale – è l’alter ego dell’uomo, e questo è uno dei messaggi del film nella sua attuale, completa e più perfetta edizione. In conclusione, semplifichiamo e riepiloghiamo ulteriormente. Nel romanzo Marlow incontra due volte la “Donna Bianca” di Kurtz. La prima durante la sua risalita del fiume, in un quadro che la rappresenta bendata; la seconda dopo la morte di Kurtz e questa volta il loro incontro è sottilmente erotico ed edipico. Sulla figura della “Donna Bianca” agisce il riflesso, di matrice latamente autobiografica, di una zia ovviamente «matura» che Marlow incontra e “abbraccia” prima e dopo il viaggio. Il termine «matura» – che nel romanzo viene usato per definire prima, implicitamente, la zia di Marlow, poi esplicitamente la “Promessa sposa” di Kurtz – è il legame, non tanto segreto, tra le due donne che in realtà, a un livello profondo, sono una sola. Se nel Conrad romanziere è evidente almeno la loro consonanza ideologica, non è poi da escludere, da parte di Conrad uomo, una sovrapposizione biografica. Se in Conrad la tensione erotica verso queste due donne “bianche” è sfumata e percepibile solo a una lettura non ingenua, essa diventa invece (quasi) esplicita nei confronti della “Donna Nera” di Kurtz, e anche qui vi è un legame lessicale tra la “Donna Bianca” e la “Donna Nera”, e cioè le «braccia nude», proprio come quello tra la donna del quadro e la “Donna Nera” era la parola «solenne». Coppola ha nascosto, anticipato, esplicitato e concentrato nell’unico incontro di Willard con la “Vedova dell’Eroe” i quattro incontri di Marlow con le figure femminili del romanzo, tutti sottilmente erotici, edipici e interconnessi tra loro (il termine comune è sempre “braccia”). Le tre donne del romanzo – la zia matura, la fidanzata bianca “in effigie” e “dal vivo”, la donna nera – nel film si riuniscono sostanzialmente in una sola figura, la “Vedova dell’Eroe”, l’unica apparentemente – ma solo apparentemente, ormai lo sap68

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APOCALYPSE NOW: PRIME LINEE DI POETICA

piamo – non direttamente legata a Kurtz. Nel film infatti sono tre quelle che ora possiamo chiamare “le donne del colonnello Kurtz”, ossia la “Vedova dell’Eroe” che è il suo (segreto) alter ego elettivo, la “vera moglie del colonnello”, di cui vediamo soltanto una foto, e l’amante vietnamita di cui cogliamo solo un gesto di dolore alla morte di Kurtz. Voglio dire che anche le due figure “minori” tra le “donne del colonnello Kurtz” hanno lasciato una loro precisa eco nella “Vedova dell’Eroe”, che le rappresenta e le sintetizza. Ancora una volta, cioè, quella di Coppola è, a tutti gli effetti, una crasi e non un’alterazione autentica della trama e del valore ideologico e complessivo del romanzo. Torneremo su questo nodo di problemi nel capitolo dedicato a Apocalypse Now e Freud mentre sarà invece opportuno, nelle prossime pagine, dimostrare ulteriormente, e questa volta testualmente, la connessione profonda tra Coppola e Conrad, anche se già ora ci sembra di poter confermare la fedeltà ontologica del cineasta italo-americano all’opera del romanziere anglo-franco-polacco.

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DA CONRAD A COPPOLA: UNA RICOSTRUZIONE INTERTESTUALE

Scrive Coppola nell’Introduzione alla sceneggiatura di Apocalypse Now Redux del 2001: «Quando girai il film [...] invece di portarmi dietro il copione tenevo in tasca una piccola copia verde di Cuore di tenebra, piena di appunti e di segni. Cominciai istintivamente a fare riferimento a questa più che al copione, e passo dopo passo il film divenne più surreale, evocando sempre più il grande romanzo di Conrad [...]. Il mio lavoro sulla sceneggiatura aumentò i paralleli con Conrad». Ora credo sia opportuno esplicitare questi insistiti e continui “paralleli” interpretativi tra Conrad e Coppola. Il lungo viaggio tra i due testi – indubbiamente faticoso, ma la metafora della zattera fa parte dell’immaginario tanto del romanzo quanto del film – ci porterà, da un lato, a comprendere la sostanziale fedeltà di Coppola a Conrad, dall’altro, a capire che il film non è un’illustrazione del romanzo, ma una traduzione-riesposizione da una lingua a un’altra, da un sistema semiotico a un altro, da un contesto culturale a un altro, da un’epoca a un’altra. Vedremo dunque che, come in ogni grande traduzione-interpretazione e come in ogni grande amore, fedeltà e libertà non sono miti opposti, ma complementari. Fuor di metafora, capiremo che la legge generale del “trattamento” del romanzo di Conrad usata da Coppola consiste in una forte adesione al testo e alla Weltanschauung del romanziere, preservandosi però un’altrettanto grande libertà nella distribuzione delle frasi e dei concetti su vari personaggi e situazioni. Il punto limite di questo trattamento – e ne abbiamo già fatto cenno – è la scena della «Vedova dell’Eroe» della Colonia francese, un episodio che a prima vista sembra non essere nel dettato di Conrad, ed invece scaturisce proprio da una lettura profonda – quasi rabdomantica – del romanzo (dove però troviamo la esatta locuzione «accampamento militare perduto in questa regione selvaggia [...], freddo, nebbia [...], la morte appostata nell’aria, nell’acqua, nella boscaglia»). Ma questa è una delle grandi virtù di Coppola esplicitate in tutta la 71

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sua carriera: essere uno straordinario lettore, capace di sintesi e innovazioni critiche e storico-letterarie che se non vogliamo chiamare geniali, è doveroso almeno definire di grande, grandissimo fascino (altro vertice il successivo ed altrettanto mitico Dracula di Bram Stoker). Ma è ora di riprendere a ripercorrere la vicenda di Marlow e del suo emulo Willard alla ricerca, oltre che di se stessi, di quella contraddizione politico-filosofica dell’Occidente che è, per Conrad e per Coppola, Kurtz. Intersecheremo dunque i due racconti cercando di rispettare un ordine sostanzialmente cronologico e dividendolo dunque per tappe. 1. Marlow dopo vari imbarchi è in attesa di una “missione”, di un comando. Da Londra va a Bruxelles – la città sembra un «sepolcro imbiancato» – e giunge presso la Sede Centrale della Compagnia per la firma del contratto. Anche Willard dopo vari incarichi è in attesa di una “missione”. Parte da Saigon diretto al Quartier Generale dell’esercito d’invasione americano, che lui ironicamente definisce “L’azienda”, per ricevere gli ordini (Zagarrio parla giustamente «di sequenza dell’investitura»: cfr. Zagarrio 1995, p. 93). C’è ipocrisia e pazzia nei generali che gli parlano della follia di Kurtz e l’incontro si tramuta in un pranzo, in analogia al fatto che in Conrad troviamo questa frase: «mentre sedevamo davanti ai nostri vermouth [...] un impiegato [...] si mise a glorificare gli affari della Compagnia». 2. «Ottenni la nomina – naturalmente, e molto in fretta. Pare che la Compagnia avesse saputo che uno dei loro Capitani era stato ucciso in una zuffa con gli indigeni. Era l’occasione buona per me e mi rese ancora più ansioso di partire». A queste parole di Marlow corrispondono prima la notizia della morte (presunta) del capitano Colby – che in realtà si è unito a Kurtz – poi la scena iniziale del film, che lo script di Coppola del 2001 definisce un «accesso di follia», e che si svolge significativamente davanti ad uno specchio: «Ora sono qui [...] in attesa di una missione [...]. Mi sto lasciando andare [...]. Ogni minuto che passo in questa stanza divento sempre più debole [...] e Charlie [...] nella boscaglia [...] diventa sempre più forte [...]. Ogni volta che mi guardo intorno, [...] le pareti si fanno più vicine». In Conrad l’inizio della missione era raccontato così: «E fuori la terra selvaggia e silenziosa che circondava questa minuscola radura mi pareva grande e invincibile quanto il male o la verità, attendendo pazientemente la scomparsa di quell’invasione grottesca [...], alberi secolari che guardavano pazienti quel sudicio frammento di un altro mondo». C’è un possibile rimando a queste parole del romanzo in un commento di Willard 72

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che esplicita il contenuto metaforico di Conrad e enfatizza il coraggio e la pazienza della Resistenza vietnamita: «Charlie non godeva di questi spettacoli. Era troppo rintanato o si muoveva troppo in fretta. La sua idea di divertimento era un po’ di riso freddo e carne di ratto [...]. Aveva soltanto due modi di tornare a casa: la morte o la vittoria». Con questa frase Willard ribadisce il senso del discorso tenuto da Philippe, uno dei capi della colonia fantasma francese che, dopo aver rotto un «uovo nella mano», mentre «il contenuto cola sul tavolo», afferma: «In un uovo il bianco va via, ma il giallo rimane». In ultimo, per offrire un’ulteriore conferma che il brano di Conrad sopra citato fosse ben noto e caro a Coppola, vorrei far notare che è proprio con quelle parole che si apre Hearts of Darkness Diario dell’Apocalisse, il più forte e fededegno incunabolo del film. 3. Al Quartier Generale della Compagnia, Conrad fa incontrare a Marlow uno strano dottore che si spaccia per uno “psichiatra” ed è molto interessato ai «mutamenti mentali degli individui [...] che vanno laggiù [...] e poi ai cambiamenti [che] avvengono dentro», fino a chiedergli esplicitamente: «Nessun caso di pazzia in famiglia?». In Coppola, al Quartier Generale un alto ufficiale chiede a Willard se si sente in forma e gli confida: «Vede Willard, in questa guerra, là fuori, le cose si confondono. Il potere, gli ideali, i vecchi codici morali [...]. Ma là fuori con quegli indigeni, essere un dio deve essere una tentazione [...]. A volte il lato oscuro ha la meglio [...], ogni uomo ha un suo punto di rottura [...] e Walter Kurtz è palesemente impazzito». In queste parole dell’ufficiale c’è un rimando implicito anche a un altro passo di Conrad: «Ho visto il demone della violenza, e il demone della cupidigia e il demone della concupiscenza», che sono, evangelicamente, le tentazioni di Cristo, le stesse a cui si trovano di fronte ogni giorno gli uomini sulla Terra, ovvero il sesso, il potere, il denaro. Ma c’è anche un richiamo all’incipit dello scritto del Kurtz di Conrad, Soppressione dei costumi selvaggi: «Incominciava argomentando che noi bianchi [...], i selvaggi li avviciniamo con la potenza di una divinità». Ma in realtà, la dichiarazione che i selvaggi «adoravano» Kurtz in «certe danze notturne culminanti in riti innominabili» è presente non solo in questa pagina, ma anche in vari altri passi del romanzo. Infine, se per amor di precisione contiamo gli ufficiali che al Quartier Generale affidano a Willard la missione, scopriamo che sono tre, come tre o quattro sono le persone con le quali Marlow parla nel Quartier Generale della Compagnia a Bruxelles: il dottore-psichiatra specialista in pazzia, il proprietario, il segretario e un impiegato, che agiscono proprio come gli 73

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ufficiali al Quartier Generale di Na Trang, invitandolo a mantenere il riserbo sulla missione. «Credo di essermi impegnato tra le altre cose a non rivelare alcun segreto», dice Marlow di se stesso, mentre invece un colonnello ammonisce Willard: «Lei capisce, capitano Willard, che questa missione non esiste e non esiterà mai». 4. In questo contesto, lo stesso colonnello e un generale più anziano parlano a Willard dei «metodi malsani» di Kurtz, parole che rimandano esattamente al romanzo, nel quale si dice che Marlow e Kurtz facevano entrambi parte del «partito del “metodo sbagliato”», tema ricorrente nel terzo capitolo di Conrad. Questa osservazione ci permette una riflessione sull’articolazione delle opere e voglio ricordare, sia pur per inciso, che la triplice scansione del romanzo – diviso sostanzialmente in primo capitolo “di preparazione”, secondo capitolo in cui ascoltiamo le voci e le leggende su Kurtz e terzo capitolo in cui finalmente arriviamo al suo cospetto – è rispettata fedelmente da Coppola nel suo film. L’unica variante è la semplificazione del tema delle voci e delle notizie su Kurtz che, mentre in Conrad sono distribuite su più persone e momenti, in Coppola vengono riportate, oltre che nelle parole degli ufficiali del Comando, nel voluminoso dossier su Kurtz che Willard studia e consulta durante il suo viaggio. Infine, per entrambi i protagonisti è analoga l’ansia di incontrare Kurtz. Marlow infatti dice: «Per il momento quello era il pensiero dominante [...], parlare con Mr. Kurtz [...] quell’uomo si presentava come una voce», e Willard: «Una parte di me era terrorizzata [...], ma ciò che provavo più di ogni altra cosa, più della paura, era il desiderio di affrontarlo». Inoltre Coppola ha nel film l’idea geniale di far sentire, fin dall’inizio, attraverso delle registrazioni, proprio la voce di Kurtz, coerentemente alla frase di Conrad, «quell’uomo si presentava come una voce». 5. Marlow, il protagonista del romanzo, parte a bordo di uno yacht con quattro compagni: l’anonimo narratore degli avvenimenti, un assicuratore, un avvocato e un ragioniere. Willard, protagonista e voce narrante del film, si trova a viaggiare su una motovedetta con quattro militari, ma si tratta di dei “fuori casta”. Per inciso, in Conrad troviamo però anche un’altra “canoa” – che deve essere stata osservata con particolare attenzione anche da Eliot perché proprio in questo passo troviamo l’incipit logico-lessicale del suo poemetto – con a bordo cinque “sosia” scoronanti, di cui uno è proprio Kurtz. Dice Marlow: «Si trattò di una visione chiara: la piroga, i quattro selvaggi alle pagaie e quell’unico bianco che d’un colpo volta le spalle al Quartier Generale [...], all’idea di casa [...] e fissa il volto verso le 74

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profondità della terra selvaggia [...], vuota e desolata». A questa frase fanno eco anche le parole di Willard su Kurtz: «Più leggevo la sua storia nei dossier, più cominciavo a capire e più lo ammiravo [...]. Era tosto il figlio di puttana [...], avrebbe potuto diventare generale, ma aveva preferito divenire se stesso». Comunque, sul vaporetto di Marlow i bianchi sono complessivamente cinque e uno è “il direttore”, equivalente gerarchico del capomotovedetta di Coppola e come lui probabilmente omosessuale, dato che Conrad scrive: «il direttore [...] permetteva che il suo boy, un negretto della costa un po’ troppo ben nutrito, trattasse con provocatoria impertinenza i bianchi proprio sotto i suoi occhi». Coppola è più esplicito e fa dire a Chief che non gli interessa fare del sesso con le conigliette, ma che se ci fosse «qualche bel panterone nero...». Nella frase di Conrad sull’impertinente boy del direttore, inoltre, possiamo indicare anche la fonte di una scenetta a tre tra Willard, Chief e il “negretto” del gruppo, Clean. «Si sta specializzando nel rompermi i coglioni» – dice Willard. «È possibilissimo, capitano, che lui pensi la stessa cosa di lei», replica Chief, mentre Clean si allontana e alza il dito medio alle spalle di Willard, appunto «provocatoria impertinenza [...] proprio sotto i suoi occhi». 6. In Conrad, una nave da guerra bombarda la boscaglia per colpire un nemico inesistente, così come la motovedetta di Willard, dopo l’episodio della tigre, bersaglia nella giungla un illusorio nemico. L’episodio è duplicato con il mitragliamento dei contadini inermi, creduti nemici, e della loro povera barca che trasportava innocenti derrate alimentari. 7. La frase del capitano svedese che accompagna Marlow verso la stazione della costa – «L’altro giorno ne ho raccolto uno che si era impiccato per strada [...]. Chissà troppo sole o forse il paese» – trova riscontro in una analoga detta da Chief a Willard: «Operazioni speciali [...]. Circa sei mesi fa ho portato uno che doveva andare oltre il ponte Do Lung [...]. Ho sentito dire che si è sparato un colpo in testa». Allo stesso modo sono simili le parole che definiscono i fiumi del romanzo e del film. «Era diventato un luogo di tenebra: ma conteneva un fiume [...] grandissimo che appariva sulla carta come un immenso serpente [...]. Il fiume – affascinante – letale – come un serpente [...] mi aveva affascinato», scrive Conrad evitando di dire che il fiume di cui parla è il Congo. Coppola – in analogia – inventa un nome posticcio per il Mekong e lo chiama Nung, che suona quasi come Nam, Viet-Nam: «Stavo andando nel peggior posto del mondo [...], distava settimane e centinaia di chilometri lungo un fiume che serpeggiava attraverso la guerra come un cavo elettrico [...] direttamente collegato con 75

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Kurtz». Il Marlow di Conrad accenna poi sinteticamente anche alla distanza: «Ebbi l’impressione di partire [...] per il centro della terra» e, in simmetria, il tenente Carlson dice a Willard: «Siete nel buco del culo del mondo». Ma è soprattutto il leitmotiv dello scoprire se stessi a fornire molte analogie. In Conrad si legge: «Non mi piace il lavoro – a nessuno piace – ma mi piace quel che c’è nel lavoro – l’occasione di scoprire se stessi». E in Coppola: «È così che le piace capitano? Quando le cose si fanno difficili, rognose?». «Fanculo», replica Willard, «forse voi altri potete scoprire ciò che siete in una cazzo di fabbrica dell’Ohio». I punti di contatto si moltiplicano riguardo al colonnello Kurtz: «Era tosto il figlio di puttana [...] avrebbe potuto diventare generale, ma aveva preferito divenire se stesso», dice Willard, esplicitando un richiamo ulteriore a Conrad e alla falsa e ipocrita previsione del Ragioniere Capo della Stazione Centrale: «Oh, Kurtz farà strada, tanta strada [...], non ci vorrà molto prima che diventi qualcuno nell’Amministrazione. Quelli che stanno in alto [...] ci contano». A questo accenno alla brillante carriera del generale corrisponde un altro passo del dossier su Kurtz che Willard ha in mano: «Aveva avuto una carriera [...] perfetta. Lo stavano preparando per una delle più alte cariche dell’Azienda. Generale. Capo di Stato Maggiore e compagnia bella [...], ma aveva preferito diventare se stesso». 8. Alla Stazione Esterna Marlow incontra un “manichino”, un bellimbusto curato, vede nel “caos” che lo circonda «una follia rapace e spietata», e assiste alla morte dei neri sfruttati: «Li chiamavano criminali e la legge [...] era piombata su di loro come colpi di cannone». Parallelamente Willard, nel campo base dell’impomatato colonnello Kilgore trova l’identico caos, folle e spietato, e assiste alla morte dei vietcong che vengono bombardati. Dunque dal Congo colonialista al Vietnam imperialista, il panorama e il dispendio di uomini e cose restano identici. Conrad scrive: «Mi imbattei in una caldaia [...], altri pezzi di macchinari in rovina in una catasta di rotaie arrugginite [...] scempio gratuito [...] follia rapace e spietata [...] cupo girone di un qualche Inferno [...]. Un mucchio di tende, sedie da campo, scatole di latta, casse bianche, balle marroni [...], provviste e attrezzature [...], una confusione inestricabile di cose di per sé oneste, ma cui l’umana follia aveva dato l’aspetto delle spoglie di un saccheggio. Casse accatastate sfondate sfasciate». Ma anche in Coppola troviamo la stessa desolante immagine. «Lance, Chef e Clean sono seduti sul pontile circondati da un’enorme pila di indumenti, stivali e altra roba nuova apparentemente abbandonata [...]. Sono circondati da imbarcazioni sfondate, 76

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parti di jeep che sbucano dall’acqua, un elicottero distrutto [...], una vasta distesa di devastazione, capanne sfondate [...]. Il pontile è stipato di ogni tipo di merce [...] ghiacciaie, frigoriferi [...]: “Ehi amico guarda che moto! Yamaha! Suzuki!”». 9. Alla Stazione Centrale, lurida di «fango putrido [...] fango primordiale»1, Marlow discute per ottenere dei chiodi per riparare la barca e assiste all’arrivo dell’orrida «Spedizione Esploratrice Eldorado [...]. Sordidi pirati» di certo legati all’ironica e mendace «Congrega della virtù» e commenta sarcastico: «Chi pagasse le spese della nobile impresa non so». Allo stesso modo, nella caotica “stazione di mezzo” Willard discute con un sergente-furiere per ottenere la benzina per rifornire la sua motovedetta e assiste all’arrivo delle conigliette di Playboy e del loro viscido impresario, tenutario del lupanare. Infine l’eroe e i suoi scudieri fanno l’amore – più esattamente scopano – nel fango2. Il commento dell’episodio è di Carrie, una delle playmate: «Vorrei trovare almeno una volta una persona che condivida il mio punto di vista». Le sue parole disincantate rimandano a un altro leitmotiv del romanzo, quello dell’impossibilità di comprendere davvero gli altri. «È impossibile», dice Marlow, «comunicare la sensazione di vita di qualsiasi fase della propria esistenza – ciò che ne costituisce la verità, il significato». Perciò, dunque, «Si vive come si sogna. Soli». 10. Il discorso pronunciato dall’impresario prima dello spettacolo delle sue “conigliette” contiene una criptocitazione molto divertente. Si rivolge ai militari in attesa e dice: «Voglio portare i nostri saluti a voi tutti [...] paracadutisti, marines, marinai che vi state facendo un gran culo con l’operazione “Forza Bruta” [...]. Vogliamo che sappiate che siamo fieri di voi [...] e per provarlo vi offriremo un divertimento che certo gradirete». La presentazione rimanda a un suo strano discorso di Marlow che, secondo Conrad, in quel momento «pareva un Buddha che predicasse in abiti eu1 Nel passo mi sembra possa esservi anche un’eco del VI canto dell’Inferno, in cui Dante descriveva il girone dei golosi con questi versi: «de la piova / etterna, maladetta, fredda e greve / pute la terra che questo riceve». Qui inoltre Marlow incontra un viscido, gozzovigliante, indolente direttore, un «Mefistofele di cartapesta [...] un [...] nulla», un «uomo di paglia / un uomo vuoto», come dirà Eliot e come reciterà Kurtz nelle scene finali. 2 Se la scena potesse sembrare troppo osé o complessivamente, per gli altri tragici fatti, il capitano Willard troppo spietato, possiamo rileggere l’altrettanto esplicita confessione di Conrad-Marlow: «Sapete che non sono particolarmente tenero; ho dovuto colpire e difendermi [...], resistere e attaccare [...]. Ho visto il demone della violenza, e il demone della cupidigia e il demone della concupiscenza».

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ropei e senza fior di loto», e teorizzava la differenza tra il “sano” imperialismo inglese e quello degli altri, banali e rapaci conquistatori. «Badate [...]. Ci salva [a noi inglesi] l’efficienza – la devozione dell’efficienza [...] – e una fede disinteressata nell’idea [...]. Ma quella gente [...], non erano colonizzatori [...]. La loro amministrazione si limitava a spremere e nient’altro. Erano dei conquistatori e per quello basta la forza bruta [...], pura e semplice rapina a mano armata, omicidio aggravato su vasta scala» (corsivo mio). Al di là della battuta – che non è gratuita, dal momento che Apocalypse Now va visto come lo ha scritto Coppola, con in mano la propria copia di Cuore di tenebra piena di segni e rimandi – nel film questo genere di riflessioni darà poi origine al confronto tra il colonialismo francese e quello americano che viene esplicitato nella Colonia fantasma francese ed è sintetizzabile in questa frase: «Noi, francesi, abbiamo costruito qualcosa dal niente [...], mentre voi americani state combattendo per il più grande nulla della storia»3. 11. Nel romanzo, i tormentoni di Marlow legati ai sogni e agli incubi ricorrono in molte delle sue frasi: «Si vive come si sogna. Soli», «Scegliere di sognare il proprio incubo», «Fedele all’incubo che mi ero scelto», «L’atmosfera onirica [...] che pervadeva ogni mia giornata». In Coppola vengono condensati in una frase di Willard – «È sempre lo stesso sogno» – negli incubi dell’inizio e della fine del film e nel ricorrente svanire, all’interno del suo sguardo, della coscienza e della realtà. Ma – oltre alla spietata uccisione a freddo prima della giovane vietnamita ferita e poi dello stesso Kurtz disarmato – è proprio la solitudine, il «sognare da soli», a costituire un punto importante nel processo di “kurtizzazione” di Willard. Le parole di Chief lo rendono palese: «È rimasto solo capitano, vuole ancora prosegui-

3 Il parallelo tra le varie forme di imperialismo e in realtà la loro compresenza è già in Eliot: «Su per il colle e giù per la King William Street, / Fino a dove Saint Mary Woolnoth segnava le ore / Con morto suono sull’ultimo tocco delle nove. / Là vidi uno che conoscevo, e lo fermai, gridando: Stetson! / Tu che eri con me, sulle navi a Milazzo!». Ma prima ancora, come vedremo e come abbiamo già accennato, in una delle pagine iniziali di Cuore di tenebra. Da notare infine, a proposito di guerre imperialiste, che nella colonia francese si svolge un confronto tra il colonialismo francese e americano in analogia a quello britannico e olandese e con un richiamo a quello romano. In realtà questo richiamo è presente anche in «Stetson! / Tu che eri con me, sulle navi a Milazzo!» il cui arcano significato – stetson potrebbe essere il copricapo australiano, riconosciuto da un commilitone che lo usa per antonomasia e per sinedocche – è nella simmetria imperialista tra Roma e Londra e l’aver accettato questa collusione morale è l’inizio della Terra desolata.

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re? [...] Ci pensi, a chi importa?». Ma anche questo è già nel Kurtz di Conrad: «È solo laggiù?», chiede uno scagnozzo, parente e spia al direttore. «Sì, ha rispedito indietro il suo assistente con un biglietto [...] “Preferisco stare solo”». La solitudine costituisce anche il senso ultimo della lettera d’addio scritta dal capitano Colby, seguace del solitario Kurtz e alter ego di Willard, alla moglie – «Sell the house. Sell the car. Sell the kids. Find someone else. Forget it! I’m never coming back Forget it!!!»4 – come quello della frase di Willard di fronte alla prospettiva del viaggio con l’equipaggio della motovedetta: «Il problema è che non sarei stato solo». 12. «Cinquanta miglia [...] a valle della stazione [di Kurtz] scorgemmo una capanna di canne abbandonata», scrive Conrad. Nel film la capanna diventa invece «il ponte in rovina» di Do Lung. Da questo punto sono identiche la percezione («sentivo che Kurtz era vicino») e le tragiche, mortali conseguenze di questa prossimità, che non tardano a manifestarsi, tanto nel romanzo quanto nel film. 13. Se sulla nave di Marlow troviamo dei “cannibali” arruolati come equipaggio, in Coppola due membri dell’equipaggio di Willard sono neri. In particolare, il “selvaggio” che faceva da timoniere a Marlow, in Coppola diventa Chief, il nero alla guida della motovedetta. Nel film e nel romanzo – oltre alla diarchia polemica tra il Direttore imbarcato e Marlow, che si ripropone tra Chief e Willard – sono identici lo sguardo truce «carico di minaccia» del nero morente e il fatto che il cadavere venga abbandonato alla corrente. Scrive Conrad: «Lo abbracciavo disperatamente [...], lo scaricai in acqua [...] la corrente se lo inghiottì», che è esattamente quello che Coppola filma con i consueti cambi di personaggi. Infatti non è Willard il protagonista dell’azione analoga, ma il suo posto viene preso da Lance. Coppola inoltre raddoppia l’episodio facendo morire anche il soldatino

4 Nella versione italiana: «Vendi la casa! Vendi la macchina! Vendi i bambini! Trova qualcun altro! Dimentica! Non tornerò mai più Dimenticami». Vorrei per inciso ricordare che le lettere dei soldati dal fronte sono sempre uguali. Parlano dell’addio, dell’amore, dei figli, del domani divisi e cambiano solo nella diversità dei toni. Riporto qui l’ultima lettera alla fidanzata scritta dal soldato americano D.E. Gomez, morto a 21 anni in Iraq, il 18 luglio 2007: «Se stai leggendo questa lettera significa che mi è successo qualcosa di brutto. Ti avevo promesso che sarei tornato da te, ma era una promessa che non ho potuto mantenere. Non riesco a smettere di piangere mentre ti scrivo ma immagino di doverti salutare per l’ultima volta. Sii felice. Fatti una famiglia. Insegna ai tuoi figli ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Ti amo. Addio».

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nero, Clean, che nel romanzo è il boy del Direttore che annunciava «Mistah Kurtz – he dead» epigrafe, tra l’altro, di Gli uomini vuoti di Eliot. 14. Dice Conrad/Marlow: «Di quando in quando superavamo una stazione vicina alla riva e da un tugurio sfondato uscivano [...] dei bianchi molto strani che si sbracciavano in ampie dimostrazioni di gioia, di sorpresa, di benvenuto – sembravano tenuti prigionieri da una specie di incantesimo». Queste figure in Coppola trovano il loro spazio nella stazione dei francesi, imbesuiti dal dolore e dall’odio e allo stesso tempo incantati dall’oppio. Qui, durante la cena, uno dei commensali narra – prologo comico a un dibattito tragico sul confronto tra colonialismo francese e americano – una strana storiellina: «Mi perdoni capitano è solo una storiella. La gente è affamata durante la guerra. Sono tutti seduti a tavola e c’è silenzio [...]. “Sta passando un angelo”, dice qualcuno e un altro risponde: “Mangiamocelo”», e subito dopo inizia a ridere. La storiellina però non è completamente un’invenzione di Coppola e non è neanche così “bianca” ed innocua come potrebbe sembrare. Nel romanzo di Conrad i negri imbarcati sono tout court definiti “cannibali” e quando alcuni uomini stanno attaccando la barca, il commento del loro “capo” è esplicito: «“Prendili, dalli a noi!”. “E voi”, replica Marlow, “cosa fareste?”. “Mangiamo!”». Non solo. Dietro alla “storiellina” si nascondono anche i non meglio precisati «riti innominabili» di Kurtz, tra cui per il regista c’è, con tutta probabilità, anche il cannibalismo5. In Coppola, riguardo ai riti del colonnello Kurtz vale la definizione complessiva data da Chef, «idolatria pagana del cazzo» e questa è la coerente descrizione del suo regno: «La morte e i cadaveri sono ovunque [...], la scalinata di pietra del tempio, i gradini sono disseminati di teste appena mozzate e sanguinanti che decorano l’ingresso come orribili zucche». Mentre Willard guarda la scena, il fotoreporter lo ammonisce: «Lui può essere terribile, può essere malvagio, e può essere nel giusto [...]. È un grand’uomo, non lo si giudica come un uomo normale [...]. Le teste. Stai guardando le teste [...], a volte si spinge troppo in là ed è lui il primo ad ammetterlo [...]. È andato oltre». Ma le teste impalate, i «riti innominabili», il fatto che Kurtz sapesse essere terribile e non si potesse giudicare come un uomo 5 In Conrad troviamo però anche la traccia di una sorta di demoniaco “cannibalismo sessuale”: «La terra selvaggia [...] se l’era preso, l’aveva amato, abbracciato, gli era entrata nelle vene, aveva consumato la sua carne e sigillato la sua anima alla propria attraverso gli inimmaginabili cerimoniali di qualche iniziazione diabolica».

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qualunque, sono tutti elementi già tutti presenti nel Kurtz di Conrad. Di fronte a tutto questo orrore, Marlow si ritrae: «Non voglio saper niente delle cerimonie usate per avvicinare il signor Kurtz [...] Ebbi l’impressione che i dettagli sarebbero stati più insopportabili di quelle teste impalate [...] sotto le finestre del signor Kurtz [...]. Uno spettacolo barbaro in una regione di orrori sottili [...]. Credo che debba averne avuto coscienza – solo alla fine»6. È James G. Frazer però a aiutarci a capire, con molta eleganza e reticenza, il senso profondo e inquietante di quanto stanno dicendo, in maniera altrettanto allusiva, Conrad e Coppola rispetto ai i «riti innominabili» (cannibalismo rituale?): «tutto ciò dimostra come la Comunione cristiana abbia assimilato un sacramento assai più antico dello stesso cristianesimo», dice, aggiungendo poi che «la consuetudine di assumere pane sacramentale come corpo di un dio era praticata dagli Atzechi ben prima che gli spagnoli scoprissero e conquistassero il Messico» (Frazer 1922, p. 544 e p. 550). Ma è a Mircea Eliade – capace di spaziare, con uguale profondità, dalla storia delle religioni alla scrittura artistica e ben presente a Coppola fin dagli anni Settanta – che dobbiamo un ulteriore passaggio esplicativo: «Il cristianesimo è una delle tante religioni del mondo con gli annessi “mitologemi”, più comuni e usuali [...]. Azioni mitiche che si ripetono pressoché identiche in tutte le religioni storiche, cioè contadine [...]. Non c’è oggettivamente alcun salto di qualità tra i “mitologemi” del cristianesimo e quelli di ogni altra religione contadina. O meglio, ciò che differenzia il cristianesimo dalle altre religioni è l’accettazione della storia e della sua unilateralità. Insomma, ciò che il cristianesimo ha di originale è Cristo [...], le vecchie religioni contadine [...] hanno e hanno sempre avuto bisogno [invece] di un modello assiologico della fecondazione e della rinascita stagionale delle messi. La loro è [quindi] [...] la religione “dell’eterno ritorno”» (le parole con cui ho ricostruito il pensiero di Eliade – e di Coppola – sono di Pasolini 1979, p. 480). Ma torneremo ancora, quasi in conclusione del capitolo, e nelle ultime pagine di questa prima parte del libro su questa complessa posizione etnico-religiosa. 15. Abbiamo tralasciato, per riportarla ora, una pagina all’inizio di Cuore di tenebra in cui, in una sorta di mise en abyme, sono sapientemente delineati – attraverso le parole di Marlow che però, almeno apparentemente, non sta parlando di sé, ma dell’imperialismo romano – non solo i caratteri

6 Per «Uno spettacolo barbaro in una regione di orrori sottili» cfr. anche Eliot e i suoi versi di La terra desolata.

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del capitano/comandante Willard/Marlow e del demoniaco e idolatrato agente di prima classe/colonnello Kurtz, ma anche, in sintesi, la loro vicenda e dunque il plot tanto del romanzo quanto del film. Eccola: «Pensavo ai tempi antichi quando arrivarono qui [scilicet: in Inghilterra, a Londra, sulle rive del Tamigi] i romani, mille e novecento anni fa – l’altro giorno [...]. Ma qui ieri c’erano le tenebre. Pensate a come doveva sentirsi il comandante di una [...] di quelle barche [scilicet il nostro Marlow/Willard] che i legionari [...] costruivano [...]. Immaginatelo qui – proprio in capo al mondo [...], risal[ir]e il fiume portando provviste, o degli ordini, o quello che volete. Banchi di sabbia, paludi, foreste, selvaggi [...], qui e là un accampamento militare perduto in questa regione selvaggia [...], freddo, nebbia [...], la morte appostata nell’aria, nell’acqua, nella boscaglia. Dovevano morire come mosche da queste parti. Oh sì – lui ce la fece [...]. Erano abbastanza virili da affrontare le tenebre [...]. Oppure pensate a un giovane e decoroso cittadino in toga [scilicet Kurtz], [...] sbarca in una palude, marcia attraverso i boschi, e in qualche insediamento dell’interno sente che la natura selvaggia, la natura più selvaggia, gli si è chiusa intorno – tutta la vita misteriosa e selvatica che si agita nella foresta, nella giungla, nel cuore di uomini primitivi. Non c’è iniziazione a questi misteri. Deve vivere in mezzo all’incomprensibile, che è pure detestabile. E ha anche un fascino che a poco a poco agisce su di lui. Il fascino dell’abominio – sapete. Immaginate i rimpianti crescenti, il desiderio di fuggire, il disgusto impotente, la capitolazione, l’odio». A una lettura attenta, questa ulteriore duplicazione rafforza non solo gli echi interni di Cuore di tenebra, ma crea anche una profonda connessione e una giustificazione tra le due opere, romanzo e film. In realtà Cuore di tenebra è solo la trasposizione nell’Ottocento di una storia già avvenuta nell’età antica e che si replicherà in Vietnam. Ancora una volta Coppola non inventa niente, legge però a una profondità straordinaria, che potremmo definire «febbrile» e visionaria, il magmatico romanzo di Conrad: «Quando girai il film [...], invece di portarmi dietro il copione tenevo in tasca una piccola copia verde di Cuore di tenebra, piena di appunti e di segni. Cominciai istintivamente a fare riferimento a questa più che al copione [...] e così ogni notte riscrivevo febbrilmente le scene del giorno dopo» (corsivo mio). 16. Passando ora alla figura complessiva di Kurtz, al suo odio profondo per la menzogna, alla sua genialità, al suo essere Re, Guerriero e Padre ferito e moribondo, possiamo dire che queste caratteristiche costituiscono il legame più forte ed evidente tra Conrad e Coppola. Per tracciare un suo 82

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identikit il più preciso possibile, riporto uno dietro l’altro, alcuni riferimenti testuali che si trovano sparsi in Cuore di tenebra, e che sono la fonte dei molteplici rimandi di Apocalypse Now: «La verità [...], si deve affrontare la verità con la propria autentica sostanza, con la propria forza innata. Principi? Quelli non servono. Sono cose acquisite, vestiti, stracci ornamentali – stracci che se ne volano via alla prima scrollata vigorosa. No; quello che ci vuole è un credo deliberato»; «Vivere onestamente»; «I guerrieri della tribù [...] lo adoravano [...], strisciavano»; «Avrebbe dovuto sentirlo recitare poesie [...] sue [...]. Un genio»; «Poteva [...] uccidere chiunque gli fosse saltato in testa di ammazzare»; «Vidi l’inconcepibile mistero di un’anima che non conosceva ritegno, né fede, né paura, e che tuttavia lottava ciecamente contro se stessa [...]. La sua anima senza legge», e altri. Nel film queste parole diventano per esempio: «Non avevo mai visto un uomo più spezzato, più straziato di lui»; «Al di là della loro timida mendace moralità»; «Poeta guerriero in senso classico [...], un grand’uomo [...], un genio»; «qui siamo tutti figli suoi», «andarsene da soldato». È da notare però che la polemica contro la menzogna, vero tormentone del Kurtz di Coppola, nel romanzo appartiene più esplicitamente a Marlow, pur essendo presente, più in sordina, anche in Kurtz. Dice dunque Marlow: «Sapete quanto odi e detesti e non possa sopportare la menzogna [...], c’è un alito letale, un sapore di mortalità nelle menzogne – ed è esattamente ciò che odio e detesto al mondo». Nel film, oltre alle dichiarazioni già riportate, troviamo Kurtz che, contornato da bambini – “la bocca della verità” secondo un antico proverbio italiano, e Coppola è italo-americano – irride e controbatte concretamente le menzogne della stampa facendone una cernita precisa ed efficace e lanciando un’altra criptocitazione cristologica, sottintesa, ma pure esplicita: «Io sono la via, la verità e la vita. Lasciate che i bambini vengano a me». Non solo, ma il colonnello Kurtz che legge i giornali e ne stigmatizza la falsità, rimanda, o forse meglio, allude, al ricordo che ha Marlow di una delle ultime frasi di Kurtz morente: «Lo sentii mormorare: “Vivere onestamente”. Restai ad ascoltare. Non ci fu altro. Stava provando un discorso nel sonno, oppure era un frammento di frase da qualche articolo di giornale?». Del resto Marlow si era già interrogato sulla professione di Kurtz ammettendo: «L’avevo creduto [...] un giornalista». Il senso complessivo della scena è però ancora più profondo. Vuole smentire l’ipotesi che Kurtz sia pazzo e ribadire che ci si trova davanti a un libero guerriero ex lege che si batte contro la menzogna, ed è coerente con la sua scelta di «vivere 83

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onestamente» e con quello che potremmo chiamare – usando di nuovo le parole di Conrad – il suo «credo deliberato». Si deve ancora notare che il ritratto di Kurtz contenuto in una delle pagine finali del romanzo diventa l’incipit del film. Se infatti queste sono le parole finali di Marlow: «Non c’era nulla al di sopra o al di sotto di lui e io lo sapevo [...]. Anima! Se qualcuno ha mai lottato con un’anima [...], ma la sua anima era folle [...], eppure lucida [...], sola in quella terra selvaggia si era guardata dentro e, per Dio [...] dovevo – a causa dei miei peccati [...] – affrontare il compito di guardarle dentro a mia volta [...] e poi per poco non seppellirono anche me [...]. No. Sono rimasto a sognare il mio incubo fino alla fine e a dimostrare ancora una volta la mia lealtà a Kurtz. Destino. Il mio destino! [...] fui proprio io a prendermi cura della sua memoria [...], dell’uomo [Kurtz] a cui sono indissolubilmente legati i ricordi di quel periodo», gli fa eco Willard all’inizio della propria missione: «Ognuno ottiene ciò che vuole. Io volevo una missione [...] per scontare i miei peccati [...] Era una vera missione scelta. E una volta conclusa, non ne avrei mai più volute altre [...]. Non era un caso che toccasse proprio a me essere il custode della memoria del colonnello Walter E. Kurtz [...] non c’è modo di raccontare questa storia senza raccontare la mia. E se la sua storia è in realtà una confessione, anche la mia lo è» (corsivi miei) 7. 17. In qualche modo, risale a Conrad anche la polemica contro «la pubblica opinione». È proprio a causa sua, dice in Cuore di tenebra, che «muovete i vostri passi cauti tra il macellaio e il poliziotto [...]. Voi non potete capire i passi di un uomo libero da ostacoli». In Coppola questo

7 Per la parola confessione, si veda, oltre al tono complessivo del romanzo, la frase conradiana posta nelle prime pagine: «Mi dispiace dover confessare [...]», riferita a un episodio minore, ma che invece – tecnica tipica e ironica del romanziere – rivela una caratteristica capitale di Cuore di tenebra, di cui Coppola è sempre un attento, rapido ed “esplicitante” lettore. Per inciso ripeto quanto detto nell’Introduzione sul “genere della confessione” e ricordo che le dostoevskijane Memorie dal sottosuolo dovevano chiamarsi Confessione mentre l’ultimo lampeggiante romanzo di Fëdor Dostoevskij doveva intitolarsi Vita di un Grande Peccatore. Anche Bachtin insiste sulla centralità del genere testamentario della confessione nell’opera di Dostoevskij e i dialoghi di Kurtz con Willard sono a tutti gli effetti quelli che Bachtin chiama «dialoghi [...] rendiconto-confessione dell’uomo che sta sull’estrema soglia», dialoghi in cui cioè si discute con estrema e violenta sincerità delle «questioni ultime»: Dio, la libertà, la vita, la morte (cfr. Bachtin 1963, pp. 145, 204, 298, 346 e passim).

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accenno si tramuta nella frase: «Avete mai pensato alla vera libertà, libertà anche dalle vostre opinioni?» e, a essere precisi, la stessa locuzione “opinione pubblica” compare nell’incipit di uno degli articoli che Kurtz presenta e commenta a Willard con il fine di evidenziarne la mendacità. Insomma, sia nel film che nel romanzo, Kurtz è non è solo un’«anima senza legge», ma un uomo alla ricerca della verità. 18. Anche il tema dello scendere o non «scendere dalla barca», dell’«andare aldilà della sponda», insomma, dell’essere se stessi, è comune a Coppola e Conrad. Il Kurtz di Coppola – questa volta parliamo prima di lui ma, come vedremo, la simmetria sarà ancora una volta perfetta – è uno che sa «scendere dalla barca». Questo spinge Willard a chiedersi: «Kurtz era sceso dalla barca. Aveva mollato l’intero programma. Com’era accaduto? Cosa aveva visto quaggiù?», ed è il colonnello a replicare con precisione: «Sono ormai al di là della loro timida mendace moralità». Invece l’altro protagonista dell’episodio della tigre, Chef, sceglierà, metaforicamente e scelleratamente, di non scendere più dalla barca dicendosi: «Mai scendere da questa cazzo di barca [...], me lo devo ricordare! Mai scendere dalla barca». «Maledettamente giusto», commenta Willard, «a meno che tu voglia andare fino in fondo». E «andare fino in fondo» è quello che anche l’altro Kurtz, quello di Conrad, ha fatto e Marlow lo ha compreso pienamente: «Lui aveva fatto l’ultimo passo, aveva superato la sponda [...], per questo affermo che Kurtz era un uomo notevole. Aveva qualcosa da dire. Lo disse. Dato che ho sbirciato anch’io al di là della sponda [...] comprendo meglio il significato del suo sguardo». 19. Coppola descrive così il Quartier Generale di Kurtz, la sua reggiatempio: «Le dimensioni delle rovine sono enormi. Grandi enigmatici volti cambogiani scolpiti nella pietra migliaia di anni fa [...]. È come se il fiume si riversasse fra le grandi braccia di questa sorte di Sfinge». In Conrad non c’è questa precisa immagine, ma non è difficile scovare le parole che sono probabilmente all’origine dell’immagine sintetica di Coppola: «La casa [di Kurtz] diroccata sulla collina [...], come una maschera [...] guardava con quell’aria di sapienza segreta [...]. La vita è un enigma ancora più grande». Anche l’Edipo protagonista della tragedia di Sofocle deve sciogliere l’enigma posto della Sfinge che verte in apparenza sull’età dell’uomo, in realtà sul suo corretto modo di vivere e sul tempo che in ogni caso lo piega. Però, verso la fine del primo capitolo di Cuore di tenebra troviamo queste altre parole che, pur non essendo riferite a Kurtz, devono aver stimolato la fan85

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tasia di Coppola: «un tempio sul grande fiume»8. Men che meno sembrerebbe esserci in Conrad il “Tempio della scimmia” dove viene segregato Willard, prigioniero della forza di Kurtz, ma troviamo, pronunciata dall’alter ego di Willard, cioè Marlow, questa frase significativa: «una forza implacabile [...] io percepivo [...] osservare [...] i miei numeri da scimmia». 20. Nel romanzo, al momento dell’attracco, l’Arlecchino rivolge a Marlow prima un avvertimento – «Attenzione capitano... un tronco!» – e poi il commento sarcastico: «Parola mia questo casotto ha bisogno di una ripulita». Nella stessa identica situazione, nel film il folle fotoreporter gli urla: «Fate attenzione [...] laggiù ci sono delle mine», con un cambio, modernizzante, da tronchi a mine, a cui fa seguire l’ironico: «Lasciatevelo dire amici, questa barca è un casino». Questa battuta però in realtà viene anticipata e “regalata” a un soldato che incontra i nostri eroi: «Gran bella barca amico! Mai vista una così!». Non bisogna poi dimenticare che le parole dell’Arlecchino riferite a Kurtz – «Non vogliono che se ne vada» – e tutto il dramma della «terra addolorata» esplicitato nel terzo capitolo del romanzo sono la fonte complessiva del personaggio del fotoreporter e di frasi come: «Pensano che siate venuti per portarlo via». 21. Inoltre, tanto in Conrad quanto in Coppola troviamo molteplici tratti comuni. Un “Arlecchino” amante del tabacco che entrambi “i Kurtz”, quello del romanzo e quello del film, adorano e detestano a un tempo, fino ad arrivare a minacciare di ucciderlo. Un secondo capitano, dato per morto o disperso. Il fischio magico della sirena dell’imbarcazione che, suonato due volte, ha il potere di mettere in fuga “i selvaggi”. I cadaveri appesi e i teschi impalati. Un rapporto Per la soppressione dei costumi selvaggi e il consiglio di «sterminarli tutti». Non solo, ma in Conrad come in Coppola viene ripetuta per tre volte – a parodia trinitaria e secondo il modello dantesco – la parola «orrore», naturalmente pronunciata due volte, per non dimenticare che tutto nel film ha un suo doppio, persino le bestemmie, i registratori e le lettere testamentarie9! L’ossessione del Doppio è in effetti talmente forte da non abbandonare mai né il romanzo né il film. Diamone ancora qualche esempio. Se 8 Nella versione originale di Cuore di tenebra le parole sono esattamente «a temple over the great river». 9 Il perché lo approfondiremo alla luce di Freud senza dimenticare che il vero doppio è il diavolo e, forse, la morte.

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in Conrad sono due le donne – come «di guardia alle porte delle Tenebre» – a sorvegliare l’arrivo di Marlow negli uffici della Compagnia dove deve ottenere «il comando di un vapore da due soldi», in Coppola sono due i militari che accompagnano Willard al Quartier Generale; sono due i fiumi del romanzo, il Tamigi e il Congo, e due quelli del film, il Mekong e lo Ohio, e due – vedremo in seguito – i “criptomessaggi” di Kurtz lanciati alla barca dei nostri eroi. Ma se in Conrad sono due i ritratti della Promessa Sposa (Vedova) di Kurtz, sono direttamente due le donne del Kurtz di Coppola, una bianca (raddoppiata a sua volta dalla Vedova dell’Eroe della Colonia Francese) e una nera. 22. L’Arlecchino, i suoi discorsi, o le conversazioni fatte con lui, sono il più grosso “serbatoio” ed emporio di prelievi coppoliani. L’autopresentazione del fool e la presentazione “dei Kurtz” sono infatti molto vicine: i conradiani «Sono un uomo semplice [...], un uomo come quello [invece...]» si traducono nel film in «Sono un piccolo uomo [...], lui invece...». Ma elenchiamo ancora qualcuno di questi prelievi, iniziando dal più segreto e misterioso. Nella sceneggiatura di Coppola troviamo queste parole: «Migliaia di frecce cadono con clangore sul ponte [...]. Willard è sbalordito [...], l’istinto gli dice che si tratta di un altro messaggio di Kurtz» (corsivo mio). Un altro messaggio di Kurtz? È dunque la seconda volta? Che sia così, lo spettatore può solo intuirlo, mentre una comprensione piena viene solo appoggiandosi al romanzo di Conrad in cui troviamo questo scambio di battute. «“Perché ci hanno attaccato?”, [chiese Marlow, e l’Arlecchino] esitò, poi disse timidamente: “Non vogliono che se ne vada”. [...] [poi] mi informò [...] che era stato Kurtz a ordinare l’attacco al vapore [...], a volta odiava l’idea di essere portato via». Le parole pronunciate dall’Arlecchino e da Marlow, nel film diventano il grido di Chief: «Ci hanno attaccati». È sottinteso gli uomini di Kurtz e il fatto che li abbiano attaccati due volte: la prima con la morte di Clean, la seconda con quella di Chief. Sono questi il primo e il secondo (“l’altro”) messaggio del Kurtz di Coppola. Complessivamente i due “messaggi” di morte di Kurtz ci permettono di capire che, nel film, dietro le morti dei due compagni di Willard c’è proprio il colonnello mentre nel romanzo, invece, la morte del timoniere negro di Marlow è il solo e unico “messaggio” di morte riconducibile al Kurtz di Conrad. Se è così, non ci stupisce che il Kurtz di Coppola uccida con le sue mani il terzo degli scudieri di Willard, Chef, e risparmi solo lo svanito e cooptato Lance. D’altra parte Willard aveva già detto: «Al di là del ponte di Do Lung [...] c’era soltanto Kurtz», ammettendo dunque che tutto era in suo 87

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potere, e il suo amaro commento alla fine della scena non lascia dubbi: «Se ero ancora vivo, era perché lo voleva lui». 23. In Conrad non c’è il balzo di una tigre dall’ombra, che è un momento molto importante del film di Coppola in cui forse si allude, come vedremo nel secondo capitolo della seconda parte, a un mezzo verso di Eliot che parla di «Cristo la tigre». Ancora Eliot che, assieme a Conrad, lo ripetiamo, è una delle letture decisive e capitali di Coppola. Leggendo con attenzione, però, nel romanzo troviamo «un ippopotamo che aveva la pessima abitudine di saltar fuori la notte». La reazione è identica. In Conrad «i pellegrini [...] gli scaricavano addosso tutti i fucili», come in Coppola, dove tutti «sparano indiscriminatamente». Anche la conclusione è la stessa: «energia sprecata». 24. È ancora una frase di Conrad a permetterci di comprendere due delle apparizioni più incredibili del film di Coppola, una Messa, un sacrificio cristiano che viene celebrato tra le tombe, cui si accompagna un bue che viene sollevato in cielo. Leggiamo il passo della sceneggiatura: «Si vede una messa cattolica che si svolge in mezzo a un cimitero [...]. Willard [...] osserva la messa tenuta dal prete che usa una lapide come altare nel bel mezzo di un bombardamento». È forse un momento blasfemo? Quella del bue è un’assunzione in cielo? E a simbolo di che? Di un dio sacrificato? Per comprendere queste immagini bisogna collegarle all’epilogo del film, al sacrificio finale di Kurtz e del bue, in un contesto che Chef stigmatizza così: «Idolatria pagana del cazzo [...]. Non mi fanno paura quei cazzo di teschi e altari e stronzate varie [...]. Allora cosa vuole fare? Glielo uccido io lo stronzo [Kurtz]». Ora, mi sembra evidente, e lo abbiamo già accennato in precedenza, che Coppola istituisce un rapporto problematico tra i sacrifici del mondo pagano e quelli del mondo cattolico. Sembra una posizione originale, invece è solo una traduzione, fedele e esplicitante, di un passo più reticente, ma inequivocabile – specie alla luce dell’intero romanzo – di Conrad: «In una notte quieta il fremito di tamburi lontani calava, si faceva più forte, un fremito immenso, fievole, un suono misterioso, commovente, suggestivo e selvaggio – e forse carico di significato come lo scampanio in un paese cristiano»10. 10 Per un ulteriore approfondimento di questo punto rimando al quarto capitolo della prima parte in cui si vedrà che fonte comune a Conrad e Coppola è James G. Frazer il cui Il ramo d’oro, prima edizione 1890, antecedente a Cuore di tenebra, è perfettamente conosciuto da Conrad.

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DA CONRAD A COPPOLA: UNA RICOSTRUZIONE INTERTESTUALE

25. Se ormai abbiamo identificato la legge generale del “trattamento” del romanzo di Conrad da parte di Coppola – che consiste, lo ripetiamo, nella fedeltà al testo e alla Weltanschauung del romanziere preservandosi una libertà nella distribuzione delle frasi e dei concetti su vari personaggi – non ci stupisce ritrovare le parole e l’amore dell’Arlecchino di Conrad per il “suo” Kurtz non solo nel fool di Coppola, ma anche in Willard, durante la notte d’amore con la “Vedova dell’Eroe”. Entriamo nel dettaglio. Scrive Conrad, e a parlare è l’Arlecchino, ma potrebbe essere anche il Willard di Coppola nella notte fatidica o al Quartier Generale del colonnello Kurtz: «Dimenticai che esisteva il sonno. La notte sembrò durare meno di un’ora [...], abbiamo parlato di tutto [...] anche d’amore [...]. Mi ha fatto capire delle cose – delle cose! [...] splendidi monologhi sull’amore, la giustizia, la condotta di vita [...], oh, mi allargato la mente». Si esplicita così che le discussioni e i dialoghi tra il fool e il suo Re – ma anche tra Willard e la “Vedova dell’Eroe”, tra il capitano e il folle fotoreporter e tra il giovane guerriero e il colonnello Kurtz – riguardavano le dostoevskijane «questioni ultime», tipiche dei «dialoghi sull’estrema soglia». Coerentemente a questo Coppola ci racconta un analogo percorso iniziatico e di “illuminazione” di Willard e queste sono le parole maieutiche che il fool-fotoreporter rivolge al capitano: «Questa è dialettica [...] senza forse, senza supposizioni, senza frazioni [...] okay? La logica dialettica è che c’è soltanto amore e odio. O sia ama qualcuno o lo si odia». Ma non è la prima volta che incontriamo questi concetti di cui il principale promulgatore è Kurtz. Infatti, già la Sibilla, la “Vedova dell’Eroe”, gli aveva anticipato: «Ci sono due uomini in te, non vedi? Uno che uccide e uno che ama. [...] Siete entrambe le cose», facendogli capire che una scelta tra bene male, pur nella parzialità e provvisorietà della nostra conoscenza, è sempre necessaria. Infine voglio citare un’altra frase detta da Roxanne a Willard – «Lo sa perché non ci si può immergere due volte nello stesso fiume? È sempre in movimento» – che in Conrad era: «La corrente bruna [del fiume] scendeva rapidamente dal cuore di tenebra portandoci verso il mare [...] e anche la vita di Kurtz scorreva rapidamente rifluendo nel mare del tempo inesorabile». Insomma, il prelievo di frasi e concetti che Conrad attribuisce all’Arlecchino, discepolo di Kurtz, e che Coppola ricolloca anche nei dialoghi tra Roxanne e Willard, dimostra ancora una volta che la “Vedova dell’Eroe” è sostanzialmente la donna di Kurtz, il suo alter ego ideale, una persona nella quale si è specchiato e confrontato, e non è importante se sia uomo o 89

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donna. È questa la traccia che segue Willard in quella che sarà la sua ultima missione, quella che lo condurrà oltre la linea d’ombra, nella definitiva maturità, a essere adulto. 26. Venendo finalmente all’epilogo, è facile dire che tutti i “finali e subfinali” proposti e dibattuti da Coppola sono coerenti con il dettato di Conrad.11 Quello scelto nel 2001 – Willard uccide Kurtz, ma non lo sostituisce e decide di ritornare, se non a casa, perlomeno indietro, per testimoniare la sua avventura con Kurtz in quel cuore delle tenebre che è il cuore degli uomini – è però il più vicino al romanziere, mentre gli altri sono invece, in qualche modo, maggiormente riconducibili al dettato teorico dell’opera di Frazer secondo il quale Willard dovrebbe uccidere Kurtz e sostituirlo senza più tornare. Molte delle incertezze di Coppola nello scegliere il finale per il suo film provengono dal contrasto tra l’ipotesi frazeriana e quella conradiana, anche se tutte queste ipotesi e sfumature, pure diversamente bilanciate, erano tutte presenti in Conrad, che era stato un attento lettore di Frazer. La soluzione di Coppola è dunque un compromesso tra Conrad e Frazer – un Conrad più Frazer, o meglio, un Frazer dentro a un Conrad – che, pur senza rinnegare le intenzioni profonde del romanziere, ne amplifica alcune intenzioni recondite (non dimentichiamo però che su Coppola agisce anche – in modo articolato e complesso – anche la tradizione freudiana). Tutto questo avviene in realtà anche per ragioni spettacolari: la morte del Re Kurtz in una cuccetta buia, schernito da un ragazzino efebo e omosessuale, perfetta da un punto di vista carnevalesco e dunque opportuna nel romanzo, era invece impraticabile per un regista che ha sempre scelto per i suoi film delle soluzioni artisticamente efficaci e mai meramente intellettuali. Infatti, se in Cuore di tenebra Marlow scende a terra, parla con Kurtz e, portandolo via, pone fine al suo dominio, è anche vero che non lo uccide apertamente. Stando alle parole del romanzo, non bisogna però dimenticare che, durante la fuga di Kurtz, che avviene durante lo svolgimento di un rito pagano, Marlow ha l’esplicita volontà di ucciderlo e di prendere il suo posto. Marlow si era infatti lasciato tentare da questa opportunità: «Piombargli addosso e pigliarlo a botte [...], non sarei più tornato al vapore [...], vivere [...] nella foresta fino 11 Anche l’apparizione del fantasma di Kurtz – che ripete «L’orrore l’orrore» – non è un’invenzione di Coppola. Scrive Conrad: «Lo vidi [Kurtz] vivo davanti a me: più vivo che mai – un’ombra insaziabile [...] un’ombra più tenebrosa dell’ombra della notte [...], mi parve di udire il grido sussurrato: “The horror! The horror!”».

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DA CONRAD A COPPOLA: UNA RICOSTRUZIONE INTERTESTUALE

a tarda età», che è esattamente quello che fa Willard nella prima parte dell’epilogo per poi lasciare cadere l’arma, prendere per mano Lance e ripartire. Questo è infatti l’autentico lascito del Kurtz di Conrad e Coppola: farsi testimone dell’orrore del cuore di tenebra degli uomini. Ed è per questo che nell’ultimo fotogramma del film risuona ancora la voce di Kurtz e appare il suo volto. La scelta definitiva di Coppola in realtà dunque mette insieme e incastra uno dopo l’altro i due “finali”, quello di Frazer e quello di Conrad, privilegiando però ancora il romanziere12. Nell’edizione del 2001, Willard uccide Kurtz e gli si sostituisce per poi decidere – seguendo Conrad e non più Frazer – di tornare a dare testimonianza del dramma suo e di Kurtz. La faticosa scelta di Coppola è ancora una volta dunque una sintesi e un’interpretazione del dettato di Conrad e, con quest’ultima verifica, possiamo dare per concluso il capitolo.

12 Anche l’altra ipotesi minore di finale prospettata da Coppola – un bombardamento sons et lumieres – è presente in Conrad e Marlow descrive così quel momento: «Poi quella massa di imbecilli diede il via al divertimento [scilicet sparando con i Winchester] e io non vidi più niente per il fumo».

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CON MICHAIL BACHTIN: DAL CARNEVALE ALL’APOCALISSE

Il fool è il Re del Carnevale Michail Bachtin C’era un tocco d’insania in tutta la faccenda e qualcosa di lugubremente buffo nello spettacolo Cuore di tenebra La guerra era portata avanti da un gruppo di clowns a quattro stelle che avrebbero finito per dar via tutto il circo” Apocalypse Now Qualsiasi vera comprensione è di natura dialogica Michail Bachtin

Fino a qui abbiamo analizzato Apocalypse Now come un “macchina artistica”, ovvero fondamentalmente sul piano sincronico. È necessario ora allargare la nostra riflessione a una dimensione diacronica. Per capire la necessità di questa ulteriore impostazione basta pensare ad esempio alla scena finale del film che vede il massacro contemporaneo, durante una festa rituale, del “Re” Kurtz e del bue sacrificale, perpetrato da parte di Willard e dei sacerdoti del rito. Per comprenderla con esattezza non si può prescindere da un’osservazione di Bachtin che permette di collocare l’epilogo del film in una dimensione più vasta e articolata: «Nel celebre elenco dei duecentosedici nomi di giochi con cui si diverte Gargantua (libro I, cap. XXII) ce n’è uno che si chiama au boeuf viollé. In alcune città della Francia c’era un’usanza, che si è tramandata fino ai giorni nostri, secondo la quale durante i giorni di Carnevale [...] si conduceva un grosso bue per le strade e le piazze della città in una processione solenne al suono della viola; da qui il nome del gioco, boeuf viollé, e la testa del bue veniva ornata di nastri multicolori [...], poiché questo boeuf viollé era destinato al macello, era la vittima carnevalesca. Il bue era il re, il riproduttore [che incarnava la fertilità dell’anno] ma nello stesso tempo era la “carne sacrificata”» (Bachtin 1965, p. 221, corsivi miei). 93

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Tralasciamo per ora di indagare su come Coppola giunga a scrivere la scena finale, cioè come arrivi a intuire e a rappresentare l’identità simbolica tra il “Re” Kurtz e l’animale sacrificato, e cerchiamo invece di illuminare il senso di questa frase che mostra come dietro il film di Coppola agiscono – ne sia o meno pienamente consapevole il regista – potentissime tradizioni letterarie e ultraletterarie carnevalesche che Bachtin ha magistralmente illuminato e dalle quali, a mio avviso, la comprensione del film non può prescindere1. Per essere più espliciti, dopo aver indagato nei primi due capitoli il presente e il passato prossimo di Apocalypse Now, dobbiamo ora collocare il film di Coppola in quello che Bachtin chiama, con metafora suggestiva, il «Tempo grande», ovvero tra le tradizioni letterarie e ultraletterarie nelle quali tutte le grandi opere pongono le loro radici. Potrà sembrare che ci si allontani dall’oggetto della nostra analisi, ma si vedrà poi invece che questa esplorazione del “Continente Bachtin” è una premessa necessaria alla comprensione del “Carnevale Tragico” che Coppola mette in scena nella “terra desolata” del Vietnam della fine degli anni Sessanta. A conferma di quanto detto, ecco un’altra citazione nella quale Bachtin ci presenta (anche) il suo eroe, il suo maestro, l’oggetto di mezzo secolo di studi preziosissimi, cioè Dostoevskij con i suoi romanzi, che a noi è utile per cominciare a comprendere la scena iniziale del film di Coppola e contro chi Willard stia davvero combattendo in quella scena. «L’eroe di Dostoevskij è sempre di fronte allo specchio, cioè guarda a sé e al suo riflesso nella coscienza altrui [...]. L’espressione di ogni sentimento è sempre complicata dal rapporto con l’altro [...], rapporto estremamente teso con la propria immagine riflessa nello specchio della coscienza altrui, fino all’odio per questo specchio, fino al desiderio di romperlo [...]. [...], funzione del diavolo e dei doppi [...] questa dipendenza dall’altro [nel processo di autocoscienza e autosignificazione] è uno dei temi fondamentali in Dostoevskij» (Bachtin 1929-1961, p. 314 e Id. 1929-1962, p. 17). Senza insistere qui sulla genesi di una delle poche scene che non derivano direttamente da Conrad, ma che sono esclusivamente di Coppola – e non di Milius – possiamo ora chiederci chi fosse Michail Bachtin (Mosca 1895-1975) e cercare di precisare meglio la sua teoria del Carnevale anche 1 Preciso che il termine “ultraletterario” si riferisce a forme artistiche e culturali che, come il cinema, il teatro, la canzone – ma anche i “fumetti” – non usano solo ed esclusivamente il codice linguistico, ma che da esso non possono prescindere. Per un primo approfondimento cfr. Jachia, 2006 e 2007.

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perché il Doppio e il Diavolo (due delle letture possibili della complessa figura di Kurtz) sono grandi maschere carnevalesche. Bachtin in primo luogo era un filologo romanzo, uno studioso di letteratura mondiale – dall’antichità all’età contemporanea – e un semiotico che analizzava il segno e il testo ponendoli in relazione con il mondo e la storia. L’ampiezza e la profondità della sua ricerca sono straordinarie anche perché Bachtin muove da questa sua sicura padronanza del tempo e delle lingue per avviare una riflessione etica e filosofica sul destino dell’uomo e delle sue varie espressioni, sociali e artistiche, letterarie e scientifiche. Nella vastità delle sue ricerche – che spaziano dall’estetica alla teoria della letteratura, dalla semiotica alla psicologia delle arti e si allargano all’etica, all’antropologia e, infine, allo statuto complessivo delle scienze umane, ridefinite da lui «scienze dell’alterità dialogica» – è facile però notare che la sua metodologia rimane, pur nel variare dei temi affrontati, costante. Secondo Bachtin infatti, e questo è un suo reiterato leitmotiv, analisi sincronica e analisi diacronica devono compenetrarsi e affrontare lo stesso oggetto di studio da prospettive diverse. Allo stesso modo, a noi dunque non deve bastare aver descritto il meccanismo sincronico di Apocalypse Now, occorre precisarne gli echi diacronici di genere e di tradizione. Ne segue che Bachtin chiami «poetica storica» quella che noi oggi, per estensione terminologica, definiamo semiotica storico-letteraria e semiotica storica delle arti. Una ulteriore caratteristica del suo metodo scientifico è che Bachtin non tende a circoscrivere un fatto, un problema, un testo, un’opera d’arte, ma al contrario, per comprenderli, punta sempre ad allargare la sua indagine per cerchi concentrici, coerenti ma sempre più estesi. In ultima analisi, tutta la sua lunga attività intellettuale svolta dal 1919 al 1975 e travagliata da arresti e censure voluti dalla dittatura stalinista, è “solo” la comprensione scientifica e filosofica e di principio di un solo autore, il suo amatissimo Dostoevskij. Fermo tutto ciò, i temi che Bachtin ha affrontato con più vasto respiro storico e semiotico – e sono anche quelli che maggiormente ci permettono di comprendere genesi e caratteristiche di Apocalypse Now – sono stati il Carnevale, la letteratura carnevalizzata e la storia del romanzo, nozioni che risultano, come vedremo qui e nella seconda parte di questo lavoro, indispensabili per capire il film di Francis Ford Coppola tratto, come una traduzione-interpretazione libera e innamorata, dal bellissimo romanzo di Joseph Conrad, carnevalesco ed ambivalente fin dal titolo, Cuore di tenebra. Se il cuore è un simbolo positivo, la tenebra è invece negativo, ma vedremo che la compenetrazione dei contrari è proprio la logica profonda 95

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del Carnevale. A questo proposito anticipiamo ancora, sulla scorta del dettato bachtiniano, che la storia del genere romanzo, ovvero il centro della ricerca dello studioso russo, risulta imprescindibile per capire non solo genericamente un film, ma più precisamente per fondare una semiotica del cinema. Se ogni testo – lo sviluppo della semiotica ha portato da una semiotica del segno ad una del testo – è in realtà una storia e racconta in ultima analisi degli avvenimenti, come ha affermato autorevolmente, tra gli altri, Julien Greimas, questo vale ancor più per il cinema. Non solo, ma se il cinema eredita il suo statuto di testo artistico “sincretico” dal teatro e dal circo, è vero anche che ha desunto l’attenzione all’uso della parola e alla costruzione della vicenda dalla letteratura in genere e dal romanzo in particolare2. Tutto questo a prescindere – e non è il caso di Apocalypse Now che ha, come abbiamo visto, un rapporto genetico fortissimo con Cuore di tenebra – dal fatto che molti film derivino direttamente da romanzi e novelle precedenti, senza però ovviamente vincolare la narrativa, sia cinematografica che romanzesca, al mero realismo. Questo capitolo e questa nostra lettura semiotico-estetica avrà dunque un duplice obiettivo: da un lato ricostruire i principali concetti semiotico letterari e filosofici bachtiniani, dall’altro – e insieme – analizzare lo specifico artistico di Apocalypse Now collocando il film di Coppola, sia pure in maniera estremamente sintetica e persino apodittica, nella storia del carnevalesco, in correlazione dunque con la storia del genere letterario romanzo e del genere ultraletterario filmico. Scrive, credo in questo senso Zagarrio, che anche Coppola «mescola in maniera ibrida e provocatoria vari generi e tradizioni culturali disparate: operetta e melodramma, cabaret e marionette, documentario e finzione, generi classici e avanguardia, iconografia colta e popolare [...]» e «i vari generi hollywoodiani: il film del terrore, la commedia in costume, il musical, il travel film, la saga familiare, il film noir, il film sociologico, il film di guerra» (cfr. Zagarrio 1995, pp. 82-83). Posto tutto ciò, iniziamo con il precisare le due definizioni bachtiniane di Carnevale e di letteratura carnevalizzata. Il terzo concetto bachtiniano che affronteremo sarà quello di filosofia dialogica e dell’alterità. Per Bachtin il Carnevale, vero «mondo alla rovescia» e «vita all’incontrario», è la principale delle feste folcloristiche e la più antica espressione della cultura

2 Per la nozione di testo sincretico si veda Roman Jakobson e il suo prezioso Lo sviluppo della semiotica del 1974.

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popolare. Uno spettacolo senza ribalta e senza spettatori di cui tutti sono protagonisti e in cui ognuno vive senza rispettare leggi e ordinamenti gerarchici, in un’atmosfera di «libero contatto fra gli uomini». Il Carnevale infatti «avvicina, unisce, collega, combina sacro e profano, sublime ed infimo, grande e meschino, saggio e stolto e così via», dando così origine a un particolare «realismo grottesco», «non classico», che permette di profanare, principalmente attraverso il riso, tutto ciò che è considerato “sacro” e “alto” nella vita quotidiana ed “ufficiale”. A fondamento del Carnevale c’è il popolo e la sua cultura. Però quest’ultimo tratto non deve farci dimenticare che in effetti, al centro di tutta la visione carnevalesca del mondo e del suo sistema di immagini, ci sono il tempo e il divenire e perciò, anche l’opposizione tra la cultura dominante e quella comico-popolare va letta in termini dialettici. Il Carnevale infatti, secondo Bachtin, celebra «l’avvicendamento, il processo di sostituibilità. Esso non assolutizza mai nulla, anzi proclama la gaia relatività di tutto» perché «non conosce assoluta negazione, come non conosce assoluta affermazione». Il Carnevale è così la festa del tempo, che distrugge ogni cosa per rinnovarla, ed è, in ultima analisi, la festa della morte che dà vita. È proprio per tutto questo che Kurtz «come un re divino [...] sa che è giunto il suo momento e si lascia uccidere senza opporre resistenza» e che Willard, dopo un percorso rituale, «fa il proprio dovere» e uccide il vecchio sovrano. «È un destino che si compie: il giovane subentra al vecchio, il vigoroso all’affaticato, la vita può continuare e l’assassino è immediatamente riconosciuto e accolto dai selvaggi che con il sacrifico del bue, stanno [proprio] rinnovando l’usanza di uccidere un dio in forma di animale» e di Totem (cfr. Viti 1984, p. 96 e Frazer 1922, p. 489). Tutti i simboli carnevaleschi pertanto racchiudono in sé la propria negazione e la coscienza di questa relatività. Possiamo cogliere così nella trama di Apocalypse Now – e in particolare nel suo epilogo – il significato simbolico dell’incoronazione serio-comica del Re del Carnevale, e intuire che già nella “seria” cerimonia iniziale dell’incoronazione risuona e si intravede la sua necessaria, ineludibile successiva detronizzazione, rito attraverso il quale il re sconfitto diverrà motivo di scherno, mentre il Buffone, già oggetto di riso, verrà proclamato Re. Se pensiamo a Willard chiuso in gabbia nell’Isola delle Scimmie, e riflettiamo sul fatto che le scimmie sono il sosia parodico dell’uomo, capiamo dunque che il suo divenire scimmia e “uomo ridicolo” – un titolo dostoevskijano – è la premessa al suo ingresso nella Reggia. E alla fine, se il Buffone diventa 97

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Re, il Re perde la corona e viene macellato come vittima sacrificale. La ruota del Carnevale ha dunque fatto il suo giro. Nel quadro di questa logica carnevalesco-popolare persino la morte è già annuncio di una nuova vita, ma a sua volta ogni nascita è pregna di morte. Bachtin ritiene che una delle categorie fondamentali per una precisa valutazione del fenomeno del Carnevale – e dell’arte influenzata da esso – sia proprio il riconoscere che questa festa/evento o, in senso più ampio, questa concezione della vita e della storia non permette di assolutizzare nessuno dei due poli del divenire, ma li rovescia l’uno nell’altro. Tra le fonti di Bachtin, ovviamente c’è Frazer e il suo Il ramo d’oro, che in realtà è un punto di riferimento anche per Conrad, Freud, Eliot e Coppola. Il Carnevale è così una sorta di filo rosso, «una tradizione [...] ininterrotta» che collega la cultura popolare e d’opposizione attraverso l’età antica, la greco-latina, la medioevale e la rinascimentale e dà origine alle feste dionisiache, ai saturnali e ai vari carnevali antichi, medioevali e rinascimentali. È da notare però che dopo la sua splendida stagione rinascimentale, il Carnevale come festa subisce un’eclisse, mentre il suo influsso prosegue imperterrito fino ai nostri giorni, specialmente attraverso quella che Bachtin chiama la «letteratura carnevalizzata» (cfr. Bachtin 1963, pp. 159-172; Id. 1965, passim). Nel presentare queste teorie di Bachtin ho sempre avuto presente una dichiarazione di Coppola che dimostra che il regista non solo agiva artisticamente in maniera carnevalesca, ma ne era anche consapevole da un punto di vista teorico: «Apocalypse Now l’ho girato nel modo più volgare, divertente, eccitante, pieno di azione sensoriale [...], una scossa ogni cinque minuti [...]. Comprende tutto, sesso, violenza e umorismo» (1979-1991, in Hearts of Darkness - Diario dell’Apocalisse). Il fatto che lo “stile carnevalesco” sia proprio questa compresenza di temi e stili – anche discordanti – è confermato anche da quello che la moglie del regista scrive nel diario della loro avventura: «Francis mi ha spiegato che ogni sequenza del film si evolve in quella seguente e lo stile cambia, si trasforma di scena in scena, perciò è come se il pubblico procedesse nel viaggio mano a mano che accetta ogni nuova sequenza» (E. Coppola 1979, p. 205). Data l’ampia prospettiva sopra delineata – per una corretta comprensione della nascita e dello sviluppo del romanzo e, vorrei aggiungere, per il genere ultraletterario che è il film – Bachtin considera poi necessario indagare quelle che considera le tre radici fondamentali del genere romanzo: quella epica, la retorica e la carnevalesca (cfr. Bachtin 1963, p. 98

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142). In realtà queste tre radici danno origine a due distinte tradizioni romanzesche, una anticarnevalesca, che denomineremo epico-retorica per indicare quella che proviene dall’Iliade e dall’Eneide, e una carnevalesca. Questo duplice sviluppo caratterizza l’intera storia del romanzo fino all’Otto-Novecento, quando viene meno questa netta contrapposizione tra le due linee stilistiche e prevale la linea carnevalesco-dialogica, quella in cui la parola romanzesca svolge «tutte le sue possibilità stilistiche specifiche», ovvero si allarga a comprendere e rappresentare tutta la realtà senza alcuna inibizione di sorta (cfr. Bachtin 1975, pp. 220-221)3. Un punto capitale nello sviluppo ulteriore del romanzo è la distinzione tra carnevalesco e polifonico. Bachtin li distingue abbastanza nettamente, pur ponendo in luce la connessione genetica tra i due fenomeni: in realtà il secondo è lo sviluppo del primo, ma i due non sono la stessa cosa. Il polifonico è la iper-carnevalizzazione moderna e contemporanea (post-dostoevskijana), e solo attraverso di esso si giunge alla piena comprensione artistica dell’innata e insopprimibile dialogicità dell’esistenza e di tutto ciò che è legato all’essenza profonda dell’uomo, una scoperta – non a caso – che avvicina Dostoevskij ai contemporanei Nietzsche e Freud. È all’interno di queste riflessioni che Bachtin ha modo di precisare che la presenza della polifonia non elimina le altre forme di romanzo perché nessun nuovo genere artistico cancella e sostituisce i vecchi, e questo vale sia per il romanzo egemone nell’Ottocento, che per il cinema, dominatore del Novecento. Il romanzo polifonico, però «costituisce un enorme passo avanti [...] nello sviluppo del pensiero artistico dell’umanità». 3 Per un approfondimento, oltre a Jachia 2007, cfr. il capitolo “Teoria e storia del romanzo” in Jachia 1992. Si pensi poi alla rappresentazione a trecentosessanta gradi che Coppola fa del Vietnam, fino a dire icasticamente che Apocalypse Now, non era un film sul Vietnam, ma era il Vietnam. In un’intervista rilasciata a Cannes nel 1979 Coppola ha dichiarato: «Credevo di fare un film di guerra e a poco a poco il film si è fatto da sé, era la giungla a girarlo, era la nostra follia che a poco a poco ci prendeva tutti, era la paura. Agli inizi avevo pensato di fare un film sulla guerra del Vietnam come se non se ne fossero dovuti mai fare altri e avevo segnato ben duecento realtà diverse che poi sono riuscito a mettere nel film: i soldati drogati, i negri messi sempre in testa alle operazioni di guerra, la vita ricca degli ufficiali, i soldati di 16 anni, i massacri come quelli di Mai Lai, tutto. Poi, mentre lavoravamo, i riferimenti a Cuore di tenebra si sono fatti sempre più necessari, il viaggio fisico lungo il fiume è diventato un viaggio mentale, una ricerca sulle contraddizioni, sui concetti di moralità, di bene e di male, di verità e ipocrisia. E noi eravamo come un corpo di spedizione nella giungla. [...] Anch’io ero a pezzi» (intervista a Natalia Aspesi, «La Repubblica», 24 maggio 1979).

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Solo a esso infatti sono pienamente accessibili «la coscienza umana pensante e la sfera dialogica del suo essere», ovvero quel contraddittorio e inarrestabile flusso di coscienza che è la nostra vita psichica (cfr. Bachtin 1963, p. 353 con ovvio riferimento a Joyce). Posta questa premessa, ne segue la considerazione simmetrica e contraria per la quale non tutti gli autori carnevalizzati siano poi pienamente polifonici. Tra gli autori novecenteschi sicuramente polifonici Bachtin ricorda Thomas Mann, Franz Kafka e infine Jean-Paul Sartre e Albert Camus (cfr. Bachtin 1971, p. 135)4. Tutti questi autori sono naturalmente ben presenti a Coppola, ma per delineare la figura di Kurtz, il regista americano ha fatto certamente riferimento in particolare al Doctor Faustus di Mann e al Caligola di Camus. Come infatti testimonia Eleanor, la moglie del regista: «Francis [...] [e] Brando hanno trovato la soluzione [...]. Brando interpreterà un personaggio di dimensioni sovraumane, una figura mitica, un personaggio da teatro» (E. Coppola 1979, p. 112). Proprio il fatto che Sartre e Camus siamo autori “polifonici” – di questo termine però non bisogna mai, secondo Bachtin, dimenticare il valore metaforico e allusivo – che abbiano scritto entrambi anche per il teatro e siano familiari tanto al regista quanto a uno dei suo maestri, Michelangelo Antonioni, fa sorgere una questione di principio. Ci si chiede se Coppola sia, oltre che un autore carnevalizzato, un autore polifonico e, più in generale, se la polifonia sia possibile solo nel romanzo o sia rintracciabile anche in altre forme artistiche. Secondo Bachtin infatti, dopo Dostoevskij, il polifonico «irrompe imperiosamente in tutta la letteratura mondiale» (cfr. Bachtin 1979, p. 302). Ne deriva che, secondo me, il discrimine non sia sul teatro, o per estensione sul cinema, ma sul fatto di essere, più o meno, intimamente dostoevskijani e dunque che non vi sia, in linea di principio, discrimine sul cinema come genere artistico, ma sull’effettiva comprensione da parte del singolo artista, al di là del linguaggio scelto, del messaggio artistico-filosofico dostoevskijano, la “polifonia”. Ora è da notare che questa mia interpretazione del pensiero di Bachtin è almeno in parte in contrasto con una categorica affermazione bachtinia4 Thomas Mann perché «il Doctor Faustus è una conferma indiretta della mia concezione. [Cioè] L’influsso di Dostoevskij». Poi Franz Kafka, perché secondo Bachtin si può notare «una diretta dipendenza da Dostoevskij anche in Kafka», e infine Jean-Paul Sartre e Albert Camus perché «molto di Dostoevskij vi è anche in Sartre, benché Camus, secondo me, sia più profondo».

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na che alla domanda «Secondo lei le opere di Dostoevskij devono essere portate sullo schermo o sulla scena?», risponde: «Da un punto di vista divulgativo sì [...], ma rendere Dostoevskij a teatro o al cinema è estremamente difficile. Quanto alla polifonia come tale, in sostanza, renderla è impossibile [...]. La scena e lo schermo danno un mondo soltanto, e da un solo punto di vista» (Bachtin 1971, p. 139). Secondo me però anche questa recisa affermazione bachtiniana va dialogizzata e consegnata a una concreta verifica testuale. Credo infatti sia possibile, per esempio, sostenere la polifonicità di un film come Blow-up di Antonioni in cui la verità rimane assolutamente e “polifonicamente” indeterminata, e allo stesso modo affermare, in maniera altrettanto apodittica, che invece Apocalypse Now di Coppola sia sì un film fortemente carnevalizzato, ma non effettivamente polifonico. È cioè al massimo capace di descrivere, in modo certo artisticamente molto efficace, l’esistenziale e chiaroscurale ambiguità umana, ma non il flusso di coscienza interiore e il dialogo intrapsichico. Anche in questo, Coppola non va più avanti di Cuore di tenebra, il cui contenuto è sì ambiguo, ma non autenticamente polifonico. Non è questa la sede per una dimostrazione compiuta di questa affermazione, ma il motivo più evidente di questa non polifonicità di Apocalypse Now, del suo essere “solo” un testo fortemente carnevalizzato, è la presenza del “commento off” di Willard che è – esplicitamente – il punto di vista incerto/certo e “carnevalesco” di Coppola5. Tralasciando di approfondire ulteriormente queste difficili questioni a cui era necessario almeno accennare per collocare Apocalypse Now nella storia del carnevalesco e in quella del polifonico, è da notare che, sulla scorta del dettato bachtiniano, in questa succinta panoramica del suo pensiero abbiamo usato più volte il concetto di genere. Occorre ora precisare che per Bachtin i generi non hanno alcun valore normativo e non hanno neppure un significato strettamente letterario, ma sono piuttosto forme di coscienza, tipi di «atteggiamento verso il mondo». Sono cioè strutture etico-intellettuali che si radicano in determinate epoche storiche e subiscono evoluzioni e contaminazioni, plasmando tanto il pensiero artistico e letterario quanto il linguaggio comune. Proprio per questo 5 Per una prima parziale contestualizzazione, rimando al mio studio su Pirandello e la polifonia pirandelliana (Jachia 2007) Da rilevare, senza poter però qui approfondire ulteriormente, che Eco intuisce e istituisce con il concetto di «opera aperta», quella che potremmo definire la “polifonicità” di Antonioni.

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Bachtin ne estende il concetto, per esempio, anche ai cosiddetti «generi del parlato quotidiano». La dinamica dei generi si basa dunque sull’ulteriore nozione bachtiniana di «memoria» del genere. La «memoria» del genere è quel “qualcosa” che conserva gli elementi «arcaici» e la cui reale “presenza” permette l’effettiva trasformazione-evoluzione del genere, assicurando una continuità storico-linguistica sotterranea in quello che Bachtin chiama il «Tempo grande», ossia nella lunga durata. Alla luce di questo, la seguente affermazione bachtiniana assume maggiore comprensibilità: «Il genere letterario per sua natura riflette le tendenze più stabili ed “eterne” dello sviluppo della letteratura. Nel genere si conservano sempre gli elementi imperituri dell’età arcaica. È vero che [...] grazie al suo costante rinnovamento [...], il genere [...] è sempre nuovo e vecchio contemporaneamente [...]. Il genere vive nel presente, ma ricorda sempre il suo passato [...]. [...] è il rappresentante della memoria creativa nel processo dello sviluppo letterario» (cfr. Bachtin 1963, pp. 13958). Un autore potrebbe perciò non conoscere tutti i passaggi e tutti gli anelli della storia di un genere, ma esserne lo stesso fortemente influenzato tanto da sostanziarne la propria opera. Perciò Coppola potrebbe non conoscere François Rabelais e la pagina che abbiamo citato all’inizio del capitolo, ma aver letto Frazer, un attento studioso della storia dei Carnevali e della letteratura carnevalizzata, consapevole della loro logica profonda, nonché naturalmente delle “boufonie”, le uccisioni rituali del bue come simulacro del re e del dio (Frazer 1922, pp. 526529 e passim). Vedremo che questo è il caso di Conrad, e di riflesso di Coppola: il viaggio agli inferi di Apocalypse Now avviene anche sotto l’egida di autori fortemente carnevalizzati come Dante e Eliot e non si deve dimenticare che anche l’Apocalisse biblica fa parte di questa tradizione carnevalizzata6. A partire da questa rigorosa impostazione storica, Bachtin ritiene che il “canale” attraverso cui si attua questo processo storico di carnevalizzazione dell’arte e della letteratura sia fondamentalmente il linguaggio. Dunque, in conclusione, i generi carnevalizzati sono i generi artistici e quotidiani nei quali, in modo diretto o indiretto, vive e brilla un riflesso della

6 Su questo verterà il capitolo conclusivo di questa prima parte ma, per un punto di vista in parte simile a quello di Bachtin si veda la magistrale opera di Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale.

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CON MICHAIL BACHTIN: DAL CARNEVALE ALL’APOCALISSE

logica ambivalente e serio-comica del Carnevale, della sua lingua e del riso carnevalesco-popolare. Un dato importante per comprendere la carnevalizzazione di Apocalypse Now, il suo appartenere alla storia delle arti carnevalizzate, è perciò l’uso del linguaggio carnevalizzato “da caserma”. In questo senso si veda la già citata epigrafe: «La guerra era portata avanti da un gruppo di clown a quattro stelle che avrebbero finito per dar via tutto il circo», che richiama sia la figura centrale del Carnevale – il clown, il buffone, il fool – sia una tradizione fortemente carnevalizzata come quella del circo (sull’importanza del circo in Coppola, Zagarrio 1995, pp. 82, 98, 107, ecc.). Il pazzo fotoreporter è naturalmente un “clown triste” che appartiene a quel Carnevale tragico che è la “terra desolata” di Kurtz. Anche la battuta di Willard, «Accusare di omicidio qualcuno in Vietnam sarebbe come multare qualcuno per eccesso di velocità a Indianapolis [...]. In Vietnam c’è tanta di quella merda che per starne fuori ci vogliono le ali», è coerente con questa Weltanschauung, poiché il linguaggio scatologico è un linguaggio carnevalesco (Bachtin 1965, passim e Jachia 1991 cap. VI). Se pertanto la carnevalizzazione ha influenzato sempre la dinamica e lo sviluppo dei generi letterari ed ultraletterari – anche nelle epoche “classiche” e in quelle classicheggianti, quando i generi carnevalizzati erano stati ghettizzati e marginalizzati nella letteratura “popolare” e d’opposizione – è da rilevare che essa ha agito con maggior forza su alcuni specifici generi letterari e ultraletterari come il dialogo socratico, la satira menippea, il poema maccheronico, la Commedia dell’arte, la poesia burlesca, il teatro comico, il romanzo umoristico, quello storico, quello d’appendice, i “comics” e infine, anche il cinema che è fortemente impregnato di tutto questo universo, oltre che su tutte le forme del comico, del serio-comico e del burlesco in generale. Non solo, ma se per Bachtin i generi sono categorie fenomenologiche descrittive, è bene ricordare che per lui esistono, come già accennato, generi artistici e generi quotidiani. Bachtin non ha cioè una concezione dell’arte che la esclude dalla quotidianità e dalla realtà, perché sa che la connessione tra opera d’arte e società non è meccanica. È la realtà economica a determinare la cultura, certo, ma questo non avviene in maniera diretta e automatica, ma attraverso il segno e la parola, e dunque anche attraverso i generi quotidiani. Per essere più espliciti, riporto ora esempi concreti di gerghi quotidiani: come base di partenza del proprio agire artistico in Conrad troviamo il gergo marinaresco, mentre in Coppola quello militare “da caserma” e quello giornalistico. Per l’appunto, ricor103

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do che l’altro punto di riferimento della sceneggiatura di Coppola è stato appunto il volume Dispatches, opera del giornalista Michael Herr, ricordato nei titoli come “voce narrante” e autore di frasi-reportage come questa: «Merda. Le ultime tre volte che sono stato di pattuglia, avevamo quest’ordine del cazzo di non rispondere al fuoco perlustrando i villaggi, ecco perché ‘sta guerra è un casino totale. La mia ultima missione, noi ci siamo entrati e buonanotte, e giù a sfondare le siepi, a bruciare le capanne e a far saltare i pozzi e ammazzare tutte le galline, i maiali e le mucche e l’intero villaggio del cazzo. Cioè, insomma, se non possiamo sparare a questa gente del cazzo, che cazzo ci stiamo a fare qui?» (Herr 1977, p. 38). Inutile ripetere che questo raccontato da Coppola è appunto un “carnevale tragico”, ovvero un Carnevale in cui il legame genetico con le feste di morte e rinascita non viene completamente meno, ma prende una piega più cupa e tenebrosa. A dimostrazione, ecco due frasi di Chef: «È tipico. Cazzo! Una fottuta missione da Vietnam! Sto per andare in congedo e dobbiamo andare lassù per uccidere uno dei nostri? Fantastico! Cazzo! Proprio fantastico! Merda! È una follia, porca puttana!», e più avanti: «Non mi fanno paura tutti quei cazzo di teschi e altari e stronzate varie. Una volta pensavo che se fossi morto in un luogo malvagio, la mia anima non sarebbe andata in Paradiso. Ma adesso [...], fanculo. Non mi interessa dove finisce, basta che non resti qui. Allora, cosa vuole fare? Glielo uccido io, lo stronzo». Dunque i generi artistici, e in particolare quelli letterari e ultraletterari, sono in rapporto dialettico con i generi linguistici e semiotici quotidiani e, attraverso questi, con la realtà sociale e storica. La realtà artistica si muove dunque al centro di una realtà ben più vasta della mera storia dei generi artistici. Parafrasando Antonio Gramsci in Letteratura e vita nazionale possiamo dire che forma e contenuto hanno «oltre che un significato estetico [...], anche un significato storico» e che, se «forma storica significa un determinato linguaggio», contenuto indica anche «un determinato modo di pensare». Bachtin dunque sa che la parola artistica e il segno artistico – prima di diventare compiutamente se stessi – hanno vissuto e vivono nella società. Per il filosofo russo, in particolare, «la parola [in generale ogni segno] è un atto creativo interindividuale», cioè «la realtà della parola, come è vero per ogni segno, risiede tra gli individui». Più precisamente, Bachtin afferma che la parola e il segno sono realtà sociali «interindividuali e intersoggettive» (cfr. Bachtin / Volosinov 1929, pp. 62-66, e passim; Bachtin 1963, p. 116; Id. 1975, p. 396; Id. 1979, p. 312, e per un approfon104

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CON MICHAIL BACHTIN: DAL CARNEVALE ALL’APOCALISSE

dimento Jachia 1993 e 1999). È perciò evidente che tanto l’inizio del film, quanto il suo svolgimento e l’epilogo non possono essere compresi al di fuori di una logica artistica carnevalesca, di quel «sistema di simboli folclorici formatosi nel corso dei millenni», di quelle «forme carnevalesche e della loro enorme forza modellizzante» che agisce «per convergenza semantica [artistico semantica] e unità della tradizione» tanto su Conrad quanto, e più ancora, su Coppola7. Ora, se tutto ciò è esatto, è vero anche che i concetti di Carnevale, letteratura e arte carnevalizzata, storia del genere romanzo, parola e segno per Bachtin ruotano intorno alla figura e all’opera di Dostoevskij. Non solo, ma Bachtin prende in prestito dal romanziere russo altri due concetti per lui fondamentali – quelli di dialogicità e di alterità – e la complessiva visione antropologica e filosofica a essi connessa: «Il pensiero dell’uomo non è sistematico ma dialogico [...]. Dostoevskij [...], il creatore del romanzo polifonico, del romanzo a più voci organizzato come dialogo intenso e appassionato sui problemi ultimi [...], presenta il pensiero umano nel suo contraddittorio e incompiuto divenire» (Bachtin 1971, p. 131). Dunque, come per l’opera d’arte i protagonisti in relazione al testo sono due – l’autore e il fruitore – così la filosofia deve porsi come filosofia del mio ego e dell’alterità, di un ego altrui con pari diritti. Solo una corretta comprensione della mia realtà ontologica può portare a una corretta comprensione dell’altro. La scelta di analizzare Cuore di tenebra e Apocalypse Now con Bachtin è dunque, seppure lo studioso non avesse neppure letto il libro di Conrad, una scelta coerente con il suo pensiero, per prima cosa perché solo dalla consapevolezza della nostra costitutiva ambiguità morale – e questo, come vedremo in seguito, è il messaggio finale di Conrad e di Coppola – è possibile comprendere, con altrettanta libertà e profondità, le altrui ambiguità morali e poi perché solo dalla determinazione della nostra costitutiva ambiguità morale segue la doverosità della nostra scelta della “luce”, del rifiuto della “tenebra”, dell’affermazione delle ragioni della luce e del cuore sulle ragioni della tenebra. «Sono venuto a portare la luce, 7 Sul regista italo-americano però agisce anche quell’enorme repertorio del romanzo moderno che è il melodramma ottocentesco. Si veda in questo senso «il grandioso Atto finale del Padrino dove si mescolano in un grande puzzle, film di mafia e melodramma, gangster movie e letteratura alta» (Zagarrio 1995, p. 126) e, per una notazione privata, Coppola che affronta ascoltando “La Bohème” la tempesta che gli spazzerà via metà dei set (E. Coppola 1979, pp. 57-58).

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ma i padroni delle tenebre non lo hanno capito», è il principio religioso che diviene fondamento, anche, di un’etica laica. È questo, sintetizzando, il messaggio ultimo, la risposta di Apocalypse Now e di Francis Ford Coppola. Lo stesso messaggio interrogato e sostenuto artisticamente da Cuore di tenebra, I fiori del male, La terra desolata, così come, d’altro canto, da Freud, Nietzsche e Dostoevskij. Che sia nella scia di questi nomi che Coppola si muove è ormai evidente e credo anche di aver iniziato a dimostrare in maniera chiara che l’apporto di Bachtin è irrinunciabile.

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DA IL RAMO D’ORO DI JAMES G. FRAZER E DALL’INDAGINE SUL SANTO GRAAL DI JESSIE L. WESTON: MITO E ROMANZO

Marlon Brando avrebbe dovuto essere asciutto e duro come l’acciaio per recitare la parte di un ufficiale dei berretti verdi, ma quando è arrivato irrimediabilmente sovrappeso, Francis ha dovuto rinunciare ai suoi pregiudizi sul personaggio e venir fuori con una soluzione che spingeva il film molto più nella direzione del mito e che si è rivelata migliore del concetto originale Eleanor Coppola

Quattro sono i libri di Kurtz che Coppola ci mostra verso la fine del film con una lenta carrellata. Il primo è The Golden Bough (Il ramo d’oro) di James G. Frazer; il secondo From Ritual to Romance di Jessie L. Weston, tradotto in italiano come Indagine sul Santo Graal sulla scia di una sua opera precedente, The Quest of the Holy Grail, ovvero La ricerca del Santo Graal; il terzo è – probabilmente – il Faust di Goethe e il quarto La Sacra Bibbia. In questo capitolo analizzeremo in modo particolare i rapporti tra il film e i primi due libri, rimandando al prossimo per un approfondimento del Faust di Goethe e del tema della “variante Kurtz” del superuomo faustiano e nietzschiano, ma non solo loro, anche «di massa», come precisa spiritosamente Umberto Eco sulla scorta di Gramsci (di «uomo faustiano» parla giustamente Alonge 2001, p. 43). Invece, per quel che riguarda la Bibbia e la tradizione apocalittica rinvio all’ultimo capitolo di questa prima parte. Qui cercheremo dunque di mostrare come Coppola, dopo aver scoperto con l’aiuto di Frazer il mito che si nascondeva dietro Cuore di tenebra, sia poi arrivato a costruire un racconto e un film sotto l’influenza di queste due costellazioni: la prima costituita appunto da Conrad e dalle tradizioni romanzesche che vi derivano, la seconda da Frazer, dalla Weston e dai mitologemi che questi studiosi hanno illuminato. Il punto da cui partire per comprendere l’importanza di Frazer – e della Weston, sua discepola – per Apocalypse Now potrebbe essere questa dichiarazione di Coppola del 1979 che nel making-of del film, realizzato nel 2001, funge da commento mentre scorrono le immagini dello squarta107

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mento rituale e festivo del bue e di quello rituale e tragico di Kurtz. «È difficile parlare di queste cose senza sembrare ridicoli [...]. Se usi una parola come “auto-purgatorio”, la gente pensa che sei un fanatico religioso o un professore universitario stronzo. Ma quelle sono le parole che servono per questo processo, questo rinascimento, questa nuova nascita che è alla base della vita. C’è una sola regola dell’uomo, da quando ha iniziato a camminare, a guardare il sole, a cercare il cibo e un animale da uccidere. Era il concetto che aveva in testa sulla vita e sulla morte. Sul sole che tramontava e risorgeva, sul raccolto, quando impararono a seminare, che poi moriva. In inverno tutto moriva e il primo uomo deve avere pensato: “Oh mio Dio è la fine del mondo”. E all’improvviso arrivò la primavera e tutto tornò a vivere, tutto fu migliore. Dopo tutto guardate il Vietnam. Guardate il mio film. Vedrete di che cosa sto parlando» (F.F. Coppola, Hearts of Darkness - Diario dell’Apocalisse, 1991). Ma è ancora più illuminante questa sua frase del 1979: «È così chiaro! È un’illustrazione filmata del primo capitolo del Ramo d’oro di Frazer. La storia del re anziano che deve morire per mano del nuovo re giovane che ne prende il posto. Brando rappresenta una cultura che deve morire, ed è cosciente, sa che deve essere ucciso. E cita Eliot e Conrad perché sono legati. Weston ha scritto il libro sulla ricerca del Santo Graal avendo letto Frazer. Eliot ha scritto le sue poesie con Weston in mente, e ha dedicato The Hollow Men, che Brando cita, al libro di Conrad Cuore di tenebra che ho usato come supporto per la sceneggiatura». In realtà, queste parole – confermate anche nel commento audio al film fatto dal regista nel 2006 assieme al ruolo avuto da Dennis Jakob –sono la traduzione-interpretazione di Coppola di alcuni concetti centrali dei due studiosi inglesi Frazer e Weston. La Weston scriveva: «Nella mitologia dionisiaca [...] e nella mitologia orfica il dio deve morire alla sua prima esistenza, smembrato dalle potenze titaniche per poi risorgere a nuova vita, nel pieno fulgore della sua divinità», e ancora: «Le divinità greco-romane gioiscono nella perpetua calma e giovinezza dell’Olimpo, mentre le divinità orientali muoiono per tornare a vivere» (cfr. Pezzella 1996, p. 105 e Weston 1920, p. 222). Altre osservazioni e considerazioni sono poi legate alla figura, ricorrente sia in Frazer che nella Weston, di un vecchio sovrano che è costretto ad abbandonare il trono, il regno e la vita di fronte alla lama di un giovane guerriero, per assicurare la salvezza e la rinascita ad una terra che, come il suo re, è malata e sterile. «Arida e desolata» potrei dire, per usare un’immagine della Weston che è stata consacrata da Eliot in congruenza al verso tratto dagli antichi poemi e romanzi germanici di morte e resurrezione in108

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DA IL RAMO D’ORO E DALL’INDAGINE SUL SANTO GRAAL: MITO E ROMANZO

centrati sulla figura del Re Pescatore: «Terra dove solo il male cresce» (cfr. Weston 1920, pp. 58-59 e 320). Insomma, tanto in Frazer quanto nella Weston, il “plot” della vicenda mitica e del racconto che si connette ritualmente a esso è l’attesa di una “rigenerazione stagionale”. A questo mito di “rigenerazione stagionale” è infatti riconducibile la leggenda del Re Pescatore, il Re sofferente in attesa del Graal, la cui malattia e il cui dolore si riflettono sulla sua terra che produce al presente solo amari frutti di morte. Una evidente trasposizione di questo concetto si può trovare nella presenza, in Coppola, di cadaveri appesi agli alberi, e in Conrad di teste impalate su lance di legno secco. Nella leggenda, dunque, la terra sarà salvata da quella che sembrava la sua fine, un’inevitabile apocalisse, solo grazie a un giovane eroe che, giunto dal fiume o dal mare, comunque dall’acqua, elemento rigeneratore e principio di fecondità – infatti «il castello del Graal è sempre situato in prossimità dell’acqua» (cfr. Weston 1920, p. 96) – ucciderà o sanerà, è lo stesso, il vecchio Re e, prendendo il suo posto, permetterà alla terra di fiorire di nuovo. Il rito e il mito raccontati da Frazer e dalla Weston hanno un finale ottimistico: «Il re è morto! Viva il Re» oppure «Il Re non muore mai [...] potrebbe essere il motto [...] di questa fede» (Weston 1920, p. 39 e cfr. Frazer 1922, p. 784). Eliot però – ed è fondamentale per Coppola – sfumerà questo ottimismo finale rispetto al dettato dei due studiosi. Nelle note esplicative poste in calce a La terra desolata, Eliot rimanda infatti sì a Frazer e Weston scrivendo: «Non solo il titolo, ma anche il piano e una buona parte del simbolismo insito nel poema mi furono suggeriti dal Libro di Jessie L. Weston sulla leggenda del Graal [...] e lo raccomando [...] a chiunque ritenga che valga la pena di giungere a una simile delucidazione del poema», ma nella concezione del poemetto ne cambia di molto il segno complessivo, accentuando il lato apocalittico e non quello rigenerativo. Di questo, e dell’importanza di Eliot per Coppola, diremo meglio più avanti, anche se, in realtà, questa, segnata da una profonda incertezza esistenziale, è anche la posizione di Coppola in Apocalypse Now. A dispetto della solare dichiarazione sopra riportata, Coppola è indeciso in realtà su quale sia davvero il finale del film. Se cioè il Vietnam sia un’apocalisse senza ritorno – che era di certo un’idea maggiormente presente nell’edizione del 1979 – o se vi sia, e come, lo spazio per una ulteriore speranza. È una esitazione che si accentua comunque ulteriormente nel passaggio da Conrad a Eliot fino a Coppola e nell’allontanarsi dalle olimpiche sicurezze positivistiche di Frazer, o almeno della sua figura ufficiale. Al di là delle contraddizioni tra il Coppo109

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la esegeta del suo film e il dettato dello stesso Apocalypse Now, resta una consapevolezza che passa da Frazer a Conrad-Coppola: «Persino la giungla voleva morto Kurtz ed in realtà era da essa che prendeva ordini». Il senso di questa frase pronunciata da Willard-Coppola – di evidente matrice frazeriana o almeno coerente anche con il suo dettato – è proprio nel fatto che persino il Re deve riconoscere un potere sopra di lui, quello del tempo, della giungla e della «terra selvaggia». Anche in Conrad, Marlow doveva ammettere: «La terra selvaggia lo aveva sfiorato e – guarda – era appassito [...], gli era entrata nelle vene, aveva consumato la sua carne [...]. In realtà mi ero rivolto alla terra selvaggia, non a Mr. Kurtz che, ero pronto ad ammetterlo, era già bell’e sepolto». Già da queste prime brevi riflessioni sorge però la necessità di approfondire il mitologema costituito dall’insieme dei libri di Frazer e della Weston, anche se per Il ramo d’oro vi è un secondo altrettanto valido motivo che svolgeremo però del tutto solo nel capitolo successivo. Il libro di Frazer, infatti, non è fondamentale solo per Conrad, per Eliot, per Coppola, e persino per “The End” di Jim Morrison, ma prima ancora per un “lettore” quale Sigmund Freud il quale preciserà che il conflitto tra un giovane figlio guerriero e un vecchio re padre deve essere letto anche in chiave edipica, di conflitto edipico (scrive autorevolmente Zagarrio: «Coppola tenta di esorcizzare il suo Edipo mettendolo in scena» cfr. Zagarrio 1995, p. 78-79 e 83). Ora intanto fornisco qualche ulteriore indicazione generale su Frazer, sulla Weston e poi ancora sul rapporto di questo articolato mitologema con il romanzo di Conrad e il film di Coppola. Il ramo d’oro è un testo di antropologia sociale o etnologia – o almeno all’epoca era ritenuto tale per esempio da Freud – scritto da Sir James G. Frazer lungo un ampio arco di tempo e in plurime e stratificate edizioni. La prima risale al 1890, la seconda al 1900, la terza, in dodici volumi, è del 1915 e la quarta, in un solo volume sintetico, del 1922. Ha particolare rilevanza il fatto che probabilmente la copia del Kurtz di Coppola è la sintesi del 1922, mentre Conrad probabilmente aveva letto la prima edizione del 1890 (cfr. Dei 1998, passim). Nelle varie edizioni – definibili come una «ricchissima morfologia degli dei morenti e rinascenti della vegetazione» (cfr. Eliade 1969, p. 27) – oltre a un’impostazione complessivamente laica e positivista che si basa sulla ricerca e sulla fede nei “fatti”, sono costanti gli argomenti trattati che sono in sintesi: il folklore, la religione, i riti e i miti ancestrali. Più analiticamente, possiamo dire che il libro presenta diversi capitoli dedicati alle antiche concezioni magiche e religiose 110

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DA IL RAMO D’ORO E DALL’INDAGINE SUL SANTO GRAAL: MITO E ROMANZO

legate ai «Re-sacerdoti», a «Attis come dio della vegetazione», a «L’uccisione del re divino» e altri. Naturalmente, per quanto riguarda il Kurtz di Conrad e Coppola, il punto di maggior interesse per noi sono le pagine dedicate ai re divini morenti, ma per tornare al libro nel suo complesso va notato che Frazer passa in rassegna «costumi, tradizioni, feste [...] che portano più o meno apertamente i segni di antichissimi rituali di uccisione (e rigenerazione) del dio» (cfr. ancora Dei 1998) e che dunque in lui troviamo un concetto – quello del Re del Carnevale – che Bachtin avrà modo di sviluppare in modo geniale. Dice Frazer: «A Roma un mese prima della festa i soldati sceglievano, tirando a sorte, uno di loro, giovane e bello, che poi rivestivano con panni regali, a somiglianza di Saturno. Così paludato, e seguito da una moltitudine di soldati, il giovane si aggirava per le strade, dando libero sfogo alle sue passioni e alle sue voglie, anche le più basse e vergognose. Ma, se il suo regno era gioioso, era anche breve e finiva tragicamente allo scadere dei trenta giorni, quando iniziavano i saturnali, e il giovane si tagliava la gola sull’altare di quel dio che egli impersonava. È stata spesso sottolineata la somiglianza fra gli antichi saturnali romani e il moderno Carnevale; ma [...] ci si può chiedere se non si possa parlare di identità più che di somiglianza. Come già detto, in Italia, in Spagna e in Francia [...] una componente di rilievo del Carnevale è il personaggio burlesco che simboleggia il periodo festivo e che, dopo la sua breve carriera di gloria e sregolatezza, viene pubblicamente distrutto [...]. Se la nostra interpretazione è corretta, questo grottesco personaggio non è altro che il diretto successore dell’antico re dei saturnali» (Frazer 1922, pp. 649–651). L’evento centrale dell’opera di Frazer – da cui proviene il titolo – è però un altro rito di “rigenerazione” che si consumava, o meglio si sarebbe consumato secondo la mitologia, nel villaggio di Ariccia situato nei pressi di Roma. Un galeotto o un gladiatore veniva condannato a sorvegliare in armi per tutta la sua vita un albero al centro della foresta di Nemi impedendo a chiunque di strapparne il cosiddetto “Ramo d’oro”. Un prescelto, di solito un condannato a morte che così aveva provvisoriamente salva la vita, aveva diritto a sfidare il Re-Sacerdote e, nel caso lo avesse ucciso nel corso di un cruento duello, avrebbe potuto prendere il suo posto. Il destino di entrambi era dunque però, prima o poi, quello di essere ucciso dalla lama di un nuovo Re-Sacerdote guardiano che avrebbe sì sostituito il vecchio Re-Sacerdote, ma sarebbe poi stato costretto a vivere in angosciosa attesa di un altro ineluttabile rincalzo. «Nel recinto del santuario di Nemi cresceva un albero da cui non era lecito spezzare alcun ramo. Soltanto uno 111

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schiavo fuggitivo, se vi fosse riuscito, poteva spezzarne uno. In questo caso, egli aveva il diritto di battersi col sacerdote e, se l’uccideva, regnava in sua vece col titolo di re del bosco, rex nemorensis. Secondo l’opinione degli antichi, questo ramo fatale s’identificava con quel ramo d’oro che Enea colse per invito della Sibilla prima di accingersi al suo periglioso viaggio nel regno dei morti [...]. Questa regola di successione per mezzo della spada veniva ancora osservata nei tempi imperiali [...] e un viaggiatore greco che visitò l’Italia al tempo degli Antonini [Pausania] scrive che, anche ai suoi tempi, il sacerdozio era il premio della vittoria in duello» (cfr. Frazer 1922, p. 22). Partendo dall’osservazione che il luogo di comando del Kurtz di Coppola è definito come Tempio o Quartier Generale, si deve dunque ammettere che lo scontro tra Kurtz e Marlow-Willard è solo l’ennesima riproposizione di un antichissimo rito di morte e rinascita stagionale, in cui un re malato viene ucciso da parte di un “figlio-guerriero” che ne prenderà il posto. Per questo il fool-fotoreporter dice: «Qui siamo tutti figli suoi», per poi precisare: «Ad aiutare lui [a morire, sottinteso], perché lui muore [...], sarò io? Guardami! Figuriamoci! Tu invece», perché Kurtz «voleva semplicemente andarsene da soldato [...] in piedi. Non come un povero cencioso, distrutto, rinnegato». Se il nucleo mitico del sacrificio stagionale è, attraverso la mediazione di Frazer, al centro della “narrazione” di Conrad, di Eliot e poi di Coppola, bisogna precisare che l’organizzazione simbolica del romanzo, del poemetto e poi del film ruota intorno alla figura del Re ferito tanto che nello script del 1975 si parla esplicitamente di una grave ferita inflitta a Kurtz in una precedente battaglia. Una ferita e un dolore a cui Marlon Brando darà invece – con l’aiuto di Coppola e Storaro – una dimensione esistenziale e metafisica. Tutte queste teorie trovano una ulteriore riformulazione nell’opera della Weston, allieva e continuatrice dell’opera di Frazer, che approfondisce gli studi del maestro in una direzione inedita: trovare una triplice connessione tra la leggenda del Re-Sacerdote della foresta e del lago di Nemi, i racconti di morte e rinascita stagionale legati ai culti di Attis e Adonis e la simbologia cristiana del Graal – il Re ferito del ciclo arturiano e della leggenda del Santo Graal. L’intuizione geniale della Weston è questa: la leggenda del Graal, del Re morente e della terra desolata in attesa di rigenerazione, così come le nobili imprese del cavaliere puro e coraggioso che, ritrovando il Graal, “salverà” il Re e la sua terra – dunque tutti i romanzi cavallereschi che si collegano a questa leggenda – sono “solo” la “cristia112

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DA IL RAMO D’ORO E DALL’INDAGINE SUL SANTO GRAAL: MITO E ROMANZO

nizzazione” di antichi riti e miti di rinascita e rigenerazione stagionale e “vegetale”. Questa tesi è esplicita fin dal titolo della sua opera del 1920, Dal Rito al Romance/Romanzo, ovvero dai riti di rigenerazione stagionale ai romanzi cavallereschi che discendono proprio da questi riti e miti. Che Marlow e Willard siano cavalieri erranti giovani e coraggiosi, pronti a sfidare mostri e avventure, lo abbiamo detto fin dalle prime pagine del nostro lavoro, ora però, con Frazer e la Weston, possiamo precisare meglio il contesto dell’impresa che devono compiere, ovvero incontrare Kurtz e scegliere la propria identità che in realtà è il loro Graal. Se questo è il plurimo, stratificato, dettato di Frazer e della Weston, va subito riconosciuto che il colpo di genio prima di Conrad, poi di Eliot e ancora maggiormente di Coppola, è nell’intrecciare gli antichi riti e miti di rinascita e rigenerazione stagionale e “vegetale” con due o tre altre tradizioni narrative anch’esse connesse in maniera complessa a questi racconti mitici. La prima è – come già accennato – il racconto del romanzo medioevale di ricerca e di prove. Un giovane cavaliere riceve una missione da compiere, raccoglie dei saperi, infine affronta il mistero, il Graal, il nemico, il doppio, vince e ritorna dal suo re. Conrad non ha bisogno della Weston per conoscere gli antecedenti romanzeschi di questa tradizione. Anzi, la combinazione proposta in Cuore di tenebra – romanzo cavalleresco di ricerca del Graal, o di altro talismano, più tradizioni di “riti di rigenerazione stagionali” e “vegetali” – potrebbe essere l’antecedente artistico della ricerca “scientifica” della Weston, la molla seducente che le suggerisce un passaggio che non è in Frazer. Il fatto che tanto Conrad quanto la Weston avessero in comune un maestro quale Frazer è solo uno dei possibili punti di contatto e comunque l’assunto centrale della Weston è lucidissimo: «Il rituale [scilicet: di morte e di rigenerazione stagionale] sta [...] alla radice dei romanzi del Graal». Conrad, dal canto suo, è talmente consapevole di questa tradizione dei romanzi cavallereschi di ricerca del Graal da permettersi di palesarla e persino irriderla: «Per Giove! È finita. Siamo arrivati troppo tardi, lui è svanito – il dono è svanito [...] e il mio dolore si caricò di un’emozione [...] straordinaria [...], [come] se avessi mancato il destino della mia vita». E ancora: «l’avvicinamento a Kurtz [...] era cosparso di tali e tanti pericoli da far di lui una specie di bella addormentata in un castello di fiabe» (entrambe le citazioni dal III capitolo di Cuore di tenebra). La Weston, sviluppando le suggestioni presenti nel Ramo d’oro di Frazer, giunge a dire che le origini “misteriose” della leggenda del Graal – e, 113

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possiamo aggiungere, delle sue innumerevoli riletture fino a Conrad – sono da ricercarsi nei riti di rigenerazione della natura ben prima che nelle tradizioni cavalleresche, e questo anche se questi antichissimi riti sono progressivamente andati scomparendo con l’affermarsi del dogma cristiano. La leggenda del Graal è dunque una sopravvivenza cristianizzata di antichi riti pagani di rigenerazione stagionale della terra attraverso sacrifici rituali. Insomma: «Il testo della Weston ci offre una straordinaria lettura, in termini di continuità, tra mitologie pagane e cristiane, ipotizzando un filo diretto tra i riti di fecondazione e la leggenda del santo Graal» (Cometa 2007, p. 33). Sono «le analogie formali tra i riti di fertilità e gli elementi della leggenda del Graal che colpiscono, attraverso una lettura di Frazer, la Weston [...]. Gli elementi chiave in sintesi sono i seguenti. Un cavaliere [...] parte alla ricerca del Graal; questa ricerca è collegata in qualche modo con la restituzione della salute e del vigore fisico a un Re malato o ferito (il Re Pescatore nelle versioni più celebri); quest’infermità è collegata a una calamità che colpisce il suo regno, di solito una prolungata siccità che ha distrutto la vegetazione e reso la terra desolata; la ricerca dell’Eroe ha in qualche modo l’effetto di guarire il Re e di “liberare le acque”, restituendo alla terra la sua fertilità» (Dei 1998, p. 328). Se si pensa che ci stiamo allontanando da Coppola, può servire una breve citazione in parte già riportata, in cui è Willard a parlare di Kurtz: «Perfino la giungla lo voleva morto [...]. Tutti volevano che lo facessi. Lui più degli altri. Lo avvertivo lassù, in attesa che cancellassi il dolore. Voleva semplicemente andarsene da soldato, in piedi». Dunque Il ramo d’oro di Frazer ci offre «lo sfondo mitologico proprio per la figura di Kurtz. Il colonnello Kurtz è il “Re del Bosco”, il sacerdote/ assassino/mago [...] che [...] attende di essere ucciso da un giovane “assassino” che prenderà il suo ruolo e, acquisendone lo spirito, consentirà il ringiovanimento della terra. Fatale sarebbe stato infatti attendere la morte naturale del Re del Bosco perché secondo il pensiero primitivo la vecchiaia o la malattia del re avrebbero condizionato irreparabilmente il ciclo della vegetazione ed ucciso la terra» (Cometa 2007, p. 35). Non solo ma, prosegue Michele Cometa, «la descrizione davvero lirica che Frazer fa del vecchio Re [...] ricorda molto da vicino la scena finale del film». Frazer scrive: «Ecco veramente una cupa visione accompagnata da un malinconica musica; lo sfondo nero della foresta, che spicca contro il cupo e tempestoso cielo, lo spirare dei venti tra i rami, il fruscio delle foglie morte sotto i piedi, il lambire dell’acqua gelida contro la sponda e, in primo piano, una tenebrosa figura 114

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che si aggira a gran passi, su e giù, ora nell’ombra ora nella luce, con un lampeggiare d’acciaio sopra la spalla, quando la luna pallida, tra nube e nube, l’illumina, tra l’intrico dei rami» (Frazer 1922, p. 21)1. Torniamo però ora a collegare i riti di rinascita con il dettato del romanzo di Conrad e del film di Coppola. Si può osservare che il comportamento dei “sudditi” di entrambi i nostri Kurtz è per lo meno incongruo. Infatti – dopo un primo attacco che il fool giustifica dicendo: «Perché ci hanno attaccati? [...] loro non vogliono che se ne vada» – i sudditi (figli) del Kurtz di Conrad lo lasciano andare senza più opporsi, come d’altra parte faranno anche i Montagnard di Coppola che accetteranno subito Willard come nuovo re. In realtà, i sudditi di entrambi i regni sanno, con dolore autentico, che la sola presenza del “Re ferito e morente” è negativa per il suo popolo e per la sua terra. Le parole di Conrad non lasciano dubbi: «Poi dal fondo della foresta uscì un gemito lungo e tremulo di cupo terrore e assoluta disperazione come quello che immagino potrebbe segnare la fuga dell’ultima speranza dalla terra»; «nel paesaggio vuoto si alzò un grido acuto che trafisse l’aria immobile come una freccia aguzza diretta al cuore stesso della terra»; e ancora: «quella terra addolorata [...] dolore selvaggio e muta sofferenza». Dunque è corretta l’interpretazione eliottiana di una «terra desolata» – le parole di Conrad sono «selvaggia [...] vuota e desolata» – decisa però, pur con sofferenza, a abbandonare o uccidere il vecchio re per averne uno nuovo. È la stessa idea fantasiosa di Marlow che ho già tratto con tagli faziosi, ma non credo arbitrari, dalle pagine di Conrad: «pigliarlo a botte [...]. Pensavo che non sarei più tornato al vapore, e m’immaginavo di vivere nella foresta [...] fino a tarda età [...]. “Se tenta di gridare le spezzo la testa [...] la strozzo una volta per tutte”». Queste frasi ci confermano che – se per Conrad l’incontro tra Kurtz e Marlow non è sorretto da una volontà omicida – è però, in modo altrettanto certo, un conflitto per il potere e per la volontà di decidere. Il fatto che in Conrad e in Coppola sia diverso il modo di procedere alla nullificazione e all’annientamento del “comando” di Kurtz, non cambia la valutazione complessiva. Il Kurtz di Conrad vuole, in ultima analisi, sia pure contraddittoriamente e con estrema fatica e riluttanza, essere portato via per il bene del suo popolo e della sua terra perché è consapevole di essere al termine del

1 Cfr. Cometa (2007, p. 36) che commenta il passo affermando, giustamente, che «sembra la sceneggiatura delle ultime scene di Apocalypse Now».

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proprio ciclo vitale; quello di Coppola chiede più precisamente di essere ucciso “da soldato”, ma il risultato non cambia. È la morte di Kurtz a chiudere il cerchio del rito e aprire, ciclicamente, al nuovo. Concluso cosi, sommariamente, questo breve excursus sui legami tra i romanzi cavallereschi, Conrad, Weston, Eliot e Coppola – anche se non bisognerebbe mai dimenticare il Parsifal di Richard Wagner (1877-1882), un altro autore, come vedremo, ben noto a Coppola – ci rivolgiamo alla seconda tradizione narrativa che attraversa i nostri racconti, quella del “patto con il diavolo”. La magia diabolica è parte del romance, del suo mondo fantastico popolato di fate, streghe, presenze aliene, angeli e demoni. Il tema del diabolico attraversa anche tutto il romanzo di Conrad e, anche se nel film è posto più in ombra, si esplicita in entrambi i casi nel finale. Kurtz è infatti, sia nel romanzo che nel film, demoniaco e luciferino. Consapevole di tutto questo, Coppola nel 2001, presentando la nuova edizione del film, afferma: «Rivedrete Marlon Brando, il demoniaco colonnello Kurtz, anche in una sequenza con Martin Sheen, dal contenuto molto politico. Brando prima appariva quasi sempre nel buio. Nella nuova scena, mentre Sheen è chiuso in una gabbia e i bambini guardano tra le feritoie [la coscienza dei bambini osserva], Kurtz legge da un giornale al capitano Willard ciò che l’America pensa del conflitto [...]. Un momento importante, tra il buio e la luce [...]. Apocalypse Now 2001 è più drammatico e politico, ma anche più divertente, romantico, persino sensuale. Certo, più duro» (intervista rilasciata a Giovanna Grassi, 8 maggio 2001). A confermare questa “demonicità” intervengono prima la presenza, nel suo regno di morte, di un Arlecchino, un “sotto-diavolo” legato a tradizioni del mondo infernale, poi simboli di morte sparsi ovunque e tracce di riti cruenti: in Conrad si trattava tout court di «sabba» e di «riti innominabili», in Coppola vengono più pudicamente denominati come «metodi insani», una locuzione che deriva comunque dal romanzo. Alla luce di tutto questo, non è casuale che uno dei quattro libri di Kurtz sia proprio il Faust di Goethe che, nell’immaginario romanzesco post-romantico, è tout court l’emblema del patto con il Diavolo2. In questa sede vale la pena di riportare le

2 Coppola potrebbe aver letto anche il Doctor Faustus di Thomas Mann, il romanzo in cui si narra e si adombra il patto col demonio fatto dal protagonista, il compositore Adrian Leverkuhn, per ottenere la gloria artistica e quello – altrettanto diabolico – stipulato dal popolo tedesco con Hitler per avere il domino del mondo e dove dunque, a lungo e sottilmente, si parla di patti diabolici e di Apocalisse.

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parole di Nietzsche che definisce così il personaggio creato da Goethe dimostrando così quanto nella sua formazione filosofica avessero giocato anche fonti romanzesche: «Faust l’insaziabile, che trascorre inappagato attraverso tutte le discipline e per sete di sapere si getta nelle braccia della magia e del diavolo» (La nascita della tragedia, 1871, cap. XVIII). La terza linea di tradizioni romanzesche – che non è presente a livello di plot, di trama, ma interviene per dare spessore alle vicende narrate e per intrecciarsi con le due tradizioni romanzesche ora sommariamente presentate – è il romanzo di denuncia, il pamphlet, con il suo ontologico sconfinare nel trattato metafisico, ovvero in quelle che Dostoevskij chiama le «maledette questioni»: Dio, la salvezza dell’anima, il bene, il male. È rilevante in questo senso riportare – ancora una volta – questa dichiarazione di Coppola: «Agli inizi avevo pensato di fare un film sulla guerra del Vietnam [...] poi, mentre lavoravamo, i riferimenti a Cuore di tenebra si sono fatti sempre più necessari, il viaggio fisico lungo il fiume è diventato un viaggio mentale, una ricerca sulle contraddizioni, sui concetti di moralità, di bene e di male, di verità e ipocrisia» (intervista concessa a Aspesi, «La Repubblica», 24 maggio 1979). Inoltre, il tema del “patto con il diavolo”, del libero dialogo carnevalesco sull’«ultima soglia» e sulle dostoevskijane «questioni ultime» non a caso si incrocia, anche lessicalmente, con i temi del Superuomo – termine che troviamo nel Faust goethiano (cfr. libro I, v. 490) – e del Redivivo. Il “Conte di Montecristo”, ad esempio, persino etimologicamente, è l’uno e l’altro, tanto Superuomo in quanto Conte, che Redivivo (“Cristo”) da una discesa agli Inferi (cfr. Jachia 2007). Dunque non è casuale che il racconto di Marlow inizi dopo queste parole: «Poi per poco non seppellirono anche me». E non lo è neppure che all’inizio del film uno dei due militari dica all’altro, trascinando Willard sotto la doccia: «Dammi un mano! Abbiamo un morto», o che la motovedetta proveniente dal Regno di Kurtz si chiami “Lazzaro” e venga dunque dal Regno dei Morti, richiamando alla mente il verso di Eliot: «Io sono Lazzaro e vengo dal Regno dei Morti», tratto da Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock, poesia citata dal fool di Coppola. E non è fortuito neanche che la “Vedova dell’Eroe” (francese) sia una Sibilla il cui compito è aprire la strada al nostro eroe verso l’inferno di Kurtz. Se Enea aveva come viatico il ramo d’oro, l’equivalente ricevuto da Willard è la comprensione profonda della duplicità dell’uomo e del suo essere, irrimediabilmente, soggetto allo scorrere del tempo, ovvero, detto con le parole di Goethe: «Dentro il cuore, ah, mi vivono due anime» (Faust, I, v. 1112). 117

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Comunque in Conrad il ricordo di questo patto con il diavolo stretto da Kurtz attraverso «sabba» e «riti innominabili» è sì esplicito, ma anche irriso, carnevalizzato: «Io la vedo così, nessun idiota ha mai venduto l’anima al diavolo: l’idiota è troppo idiota, o il diavolo troppo diavolo – chi lo sa». Si tratta di un falso sillogismo che viene contraddetto nella stessa pagina – in tutto, in parte? – da un’altra frase: «Sto solo cercando di rendere conto a me stesso [...] dell’ombra di Mr. Kurtz [...], questo fantasma ritornato dal fondo del Nulla» (maiuscola di Conrad). Questa che ci troviamo davanti è forse la parafrasi rassicurante e prudente di una frase più sulfurea che potrebbe essere articolata così: «Sto solo cercando di rendere conto a me stesso [....] dell’ombra di Mr. Kurtz [...], questo Diavolo giunto dal fondo dell’Inferno». Conrad, con la sua consueta ironia, ci parla anche, del resto, di un «Mefistofele [...] di cartone», usando il nome del diavolo del patto di Faust, e questo è l’incipit scritto da Goethe del loro primo dialogo: «Vi chiamano Signore delle Mosche, Corruttore, Maestro di menzogna. Su, chi sei?». Questa triplice connotazione è importante: Kurtz è allo stesso tempo Faust che firma il patto con il diavolo, Belzebù che significa letteralmente “signore delle mosche” – e di mosche, quando il Kurtz di Conrad muore, se ne affollano parecchie intorno alla lampada come intorno a quello di Coppola che è capace, a differenza del Willard del prologo, di catturarle al volo – e anche Lucifero, che prima di diventare il demone delle tenebre era il portatore di luce (cfr. Curreli 1984, pp. 59– 60)3. Dunque Kurtz, rispetto a Willard che però è sulle sue tracce, è a un tempo luce ed ombra, un impasto inscindibile di esse, e questa è una connotazione che Coppola e Storaro comprendono benissimo. In conclusione, qual è la lezione di Frazer e Weston presente in Coppola? Che esiste una morfologia dell’uomo dietro il suo divenire e che c’è un “oltre” e un dentro “l’uomo civilizzato”: il suo passato preistorico e il suo inconscio. Non è casuale dunque che – contemporaneamente a Conrad e Frazer – Freud vada alla scoperta del continente chiamato inconscio per capire, con Einstein, che la relatività era legge tanto dell’universo quanto dell’animo dell’uomo, e che dunque questa era un’esplorazione senza con3 Nel suo scritto Curreli segnala anche che nel romanzo Kurtz «illumina» con il suo potere e la sua maieutica tanto l’Arlecchino quanto Marlow. Questa sua prerogativa è presente anche nel film, in cui Kurtz “illumina” il fool-fotoreporter e Willard e, che questa funzione sia poi svolta per Willard anche dalla “Vedova del’eroe”, lo abbiamo ormai a lungo argomentato.

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clusione, ma con obbligo di scelta. Occorre esserne consapevoli. Da una parte c’è uno schema progressivo che – con il positivismo di Frazer – scandisce magia, religione e scienza, dall’altra c’è un’antica canzone che dice che la vita dell’uomo è dentro un grande, eterno, ripetitivo e immodificabile ciclo: nascita crescita zenit morte e, forse, resurrezione. La lezione di Frazer è ambigua e contraddittoria? Sì certo, come la vita e la maturità, che è una tensione e non un assoluto. Dice Conrad in una delle pagine finali di Cuore di tenebra: «Se quella è la forma della suprema saggezza, allora la vita è un enigma ancora più grande di quanto alcuni di noi non credano [...], per questo affermo che Kurtz era un uomo notevole. Aveva qualcosa da dire. Lo disse [...], il suo grido [...] era un’affermazione, una vittoria morale». Ma non è solo questa la lezione di Frazer; c’è qualcos’altro che si avvicina al dettato di un autore carnevalizzato quale appunto Goethe che, non a caso si trova tra i quattro libri di Kurtz e vicino a quello di Frazer e compendia questa sua Weltanschauung carnevalesca in una famosa quartina: «Finché non comprendi / questo muori e rinasci / rimani soltanto un triste ospite / sull’oscura terra» (dalla poesia Sag es niemand, e cfr. Bachtin 1965, p. 273 e anche Jachia 1991 e 2007). Leggere in questo modo Frazer – e questa credo sia complessivamente e in ultima analisi la posizione di Coppola e in parte anche quella di Apocalypse Now – implica una riflessione sul finale, che credo sia ottimistica. Willard riparte e la tribù si è affrancata, o si è decisa a liberarsi del Re Malato. Il futuro, un futuro, può ricominciare da qui. Il destino che si apre, forse, non è pregiudicato. E Frazer, con il suo ottimismo positivista, non è estraneo a questa certezza di Coppola: domani il sole si alzerà ancora. È una verità, o forse una speranza primordiale – se vogliamo, per noi “europei dopo Auschwitz”, anche molto americana – ma non arresa. Mito e realtà: la biografia di Kurtz e le date del film Alla luce di quanto detto prima vi sono pochi dubbi sul fatto che il film di Coppola sia un “racconto mitico”. Tuttavia, molto del suo fascino risiede anche nella altissima e critica “quantità di realtà” che, come ci suggerisce lo stesso regista, il testo cinematografico presenta: «Agli inizi avevo pensato di fare un film sulla guerra del Vietnam come se non se ne fossero dovuti mai fare altri e avevo segnato ben duecento realtà diverse che poi sono riuscito a mettere nel film: i soldati drogati, i negri messi sempre in 119

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testa alle operazioni di guerra, la vita ricca degli ufficiali, i soldati di sedici anni, i massacri come quelli di Mai Lai, tutto». Partendo da questa attenzione alla realtà, iniziamo col ricostruire, con l’aiuto della moviola e dei vari script del film, la “vicenda biografica” del “mitico” colonnello Kurtz integrandola anche, almeno in parte, con i fatti storici che essa incrocia. Vedremo che questo non è un esercizio fine a se stesso, ma capace di precisare meglio il rapporto tra mito e realtà che innerva Apocalypse Now e che costituisce tanto del suo fascino e del suo valore artistico. Stando dunque alla fabula del film, nel 1946 Kurtz si laurea nella prestigiosa Università di West Point. È il secondo del suo corso. A Fort Gordon, in Georgia, completa il livello base e quello avanzato di fanteria e tra il 1947 e il 1948 viene assegnato al Comando del settore americano di Berlino Est e promosso tenente. Tra il 1949 e il 1950 consegue un master in storia all’Università di Harvard. Il titolo della sua tesi è L’insurrezione nelle Filippine. Politica estera americana nel Sud Est asiatico 1898-1905. Nel 1950 viene assegnato al Comando statunitense di stanza a Seoul, in Corea, dove rimane fino all’anno successivo. Inserito nella Divisione di valutazione, Kurtz comincia a viaggiare sempre più frequentemente per i territori in guerra ma dopo qualche mese, chiede di essere trasferito all’Intelligence. La sua richiesta viene accettata e Kurtz torna negli Stati Uniti per iniziare l’addestramento speciale prima a Fort Holabird e poi a Washington. Il 14 giugno 1951 sposa Janet Anderson, ma poco dopo viene richiamato al dovere e parte per Seoul dove gli viene affidato l’incarico di interrogare gli agenti americani di ritorno dalle missioni in Corea del Nord e valutare le informazioni ricevute. Viene promosso capitano4. Nel 1964 rientra da una missione in Vietnam e scrive un rapporto riservato allo Stato Maggiore e al Presidente Lyndon Johnson che «non era piaciuto molto. Nei mesi successivi [fa] richiesta di trasferimento al centro di addestramento aviotrasportati». La domanda viene respinta perché ha trentotto 4 Dallo script originale: «1946 Graduates West Point; second in Class; third-generation appointee. Completes Basic Training, Advanced Infantry Training, Fort Gordon, Georgia. 47-48 Assigned, West Berlin, U.S. Sector Command, G-1 (Plans) Promoted 1st Lt. 49-50 Masters Degree, Harvard University, History (Thesis: The Phillipines Insurrection: American Foreign Policy in Southeast Asia, 1898-1905. 50-51 Assigned General Staff, U.S. Command, Seoul, Korea. Tours combat zones, Division-Evaluation Team. Requests transfer to Intelligence, returned U.S. for special training, Ft. Holabird and Washington. Marries, Janet Anderson, 14 June 1951. Returns to active duty, C-2, Seoul; Debriefs and evaluates information from American agents returning from Northern missions. Promoted Captain».

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anni e, solo quando minaccia di dare le dimissioni, gli viene accordato il trasferimento. «Aviazione. Ha trentotto anni. Perché?», si chiede esterrefatto Willard5, nella consapevolezza che questa scelta gli avrebbe pregiudicato la carriera6. Nel 1966 si unisce alla forze speciali e torna in Vietnam e nell’ottobre 1967 parte per una missione speciale: «L’avevano promosso colonnello». In precedenza era stato promosso prima maggiore e poi tenente colonnello, nel palese tentativo di dargli un “contentino” dal momento che la sua richiesta di entrare nei “berretti verdi” era stata rifiutata. Nel 1968 viene nominato comandante del «5° Special Forces Group», ma

5 Ancora dallo script originale da cui ho desunto qui e più avanti i dati principali sulla vita di Kurtz: «In 1964 he returned from a tour of advisory command in Vietnam and things started to slip. The report to the Joint Chiefs of Staff and Lyndon Johnson was restricted. Seems they didn’t dig what he had to tell them. During the next few months he made three requests for transfer to airborne training in Fort Benning, Georgia. And he was finally accepted. (“Airborne? He was 38 years old. Why the fuck would he do that?”)». 6 In filigrana alla vicenda biografica di Kurtz potremmo anche intravedere, e questo ne conferma la verosimiglianza, la storia di John Paul Vann, eroe americano dell’“epopea vietnamita”, una vicenda certamente conosciuta da Herr che è il “consulente per il Vietnam” di Coppola. J.P. Vann, nato nel 1924, nel 1943 si arruolò come soldato semplice e nel 1945 venne promosso sottotenente. Nello stesso anno si sposò e sua moglie diede alla luce la loro prima figlia mentre nel 1950 nacque il loro secondogenito. Dopo il 25 giugno 1950, venne inviato in Corea con il grado di capitano in seguito all’invasione del Sud del paese da parte dei nordcoreani. Vi rimase fino alla fine delle ostilità, nel luglio del 1953 e poi venne mandato in Germania. Nel 1958 si diplomò al “college di comando”, nello stesso anno fu promosso maggiore e nel 1961 tenente colonnello. Nel marzo 1962 venne inviato in Vietnam. Da quel momento, oltre a combattere coraggiosamente e con sprezzo del pericolo, cominciò a scrivere vari memorandum critici sullo svolgimento della missione vietnamita fino al luglio del 1963, quando diede le sue dimissioni dall’esercito che, però, non gli impedirono di tornare in Vietman nel marzo del 1965 con un ibrido incarico di “ufficiale comandante”. In pratica l’esercito non lo reintegrò mai ufficialmente pur assegnandoli di fatto le funzioni di generale e Vann proseguì la sua “guerra al comunismo” sempre in maniera critica rispetto alla linea delle gerarchie militari, fino alla morte, avvenuta in combattimento il 9 giugno del 1972. «Le sue dimissioni non fecero che aumentare la nostra ammirazione per il suo coraggio», scrive nella splendida biografia di Vann il reporter Neil Scheehan parlando non solo a nome suo ma anche dei più attenti inviati americani in Vietnam. «L’eroismo di Vann diventò infatti l’anima della sua leggenda [...]. [David] Halbestram, il cui lavoro fu premiato con il Pulitzer [...], nel dicembre del 1963 [...] diede vita al mito di Vann [raccontando] l’epopea del colonnello Jonh Paul Vann promettente ufficiale che aveva rinunciato alla stelle di generale per dire alla nazione la verità sul Vietnam [...], il Davide che aveva sfidato il Golia delle menzogne e della corruzione istituzionalizzata e tale versione fu citata in altri articoli fino a ricevere il premio dell’Associazione stampa estera» (cfr. Scheehan 1988, Vietnam. Una sporca bugia, p. 305 e passim).

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rifiuta la carica. Tra la fine dell’estate e l’autunno del 1968, «Kurtz [va] sugli altopiani [...]. [Nel] Novembre Kurtz ordina l’assassinio di tre uomini e una donna vietnamiti» sospettati di essere dei doppiogiochisti. Il racconto continua con Willard che dice: «in seguito – i generali americani e la CIA – l’avevano perso di vista» e mostra una foto con la sagoma (presunta) di Kurtz datata 11 novembre 1968. Questa è dunque la cronologia legata a Kurtz presente nel film, cui sarebbero da “aggiungere” altre due date: quella di un omicidio compiuto da Willard e “avvenuto” precedentemente, su ordine della CIA, il 18 giugno 1968, e quella di una presunta registrazione della voce di Kurtz del 30 dicembre dello stesso anno. Altra data successiva – implicita ma evidente – è il riferimento all’omicidio di Sharon Tate e del «massacro di tutti i presenti nella villa in segno di protesta» da parte del clan di Charles Manson. Quindi il plot si svolge certamente dopo il 9 agosto 1969, data della strage, ma in realtà ci troviamo sicuramente dopo l’arresto di Manson, avvenuto nel settembre dello stesso anno e, per una serie di riferimenti incrociati che ora riprenderemo, possiamo affermare che nel frattempo si sta svolgendo il processo a suo carico, cominciato all’inizio del 1970. È infatti nel gennaio 1969 che Nixon, il presidente americano citato da Kurtz e presente in foto nel Quartier Generale statunitense, entra alla Casa Bianca ed è dal febbraio dello stesso anno che iniziano i bombardamenti in Cambogia, ma è solo il 1° maggio 1970 che le truppe americane entrano ufficialmente nel territorio cambogiano. La CIA era però già attiva nel paese nei mesi precedenti e dunque qui si inserisce questo dialogo tra Chief e Willard che permette di collocare la missione dopo “l’omicidio Tate” dell’agosto 1969 e prima del 1° maggio 1970, data dell’invasione ufficiale della Cambogia: «“Risaliremo il fiume per 75 chilometri dopo il ponte di Do Long”. “Quella è Cambogia, capitano”. “È un’informazione riservata. In teoria non dovremmo entrare in Cambogia, ma è esattamente lì che sto andando”»7. Tutto questo ci porta a evidenziare che Milius e Coppola – per il personaggio del dirigente della CIA che organizza la missione di 7 Può essere qui utile una precisazione: Nixon fin dal febbraio 1969 ordinò il bombardamento delle zone della Cambogia in cui i nordvietnamiti potevano ritirarsi. «Per oltre 14 mesi i B-52 lanciarono 100.000 tonnellate di bombe su di un territorio, la Cambogia, in teoria neutrale e estraneo alla guerra. Inoltre, squadre di uomini particolarmente addestrati s’infiltrarono nella zona di confine. Tanto le infiltrazioni di terra quanto l’offensiva dell’aviazione vennero tenute nascoste all’opinione pubblica» (cfr. Frey 2008, p. 193 e passim)

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Willard e per la figura di Kurtz – si sono parzialmente ispirati alle figure reali di Anthony “Tony Poe” Poshepny, storico agente della CIA, e a quella del «colonnello Robert B. Rheault, berretto verde espulso dalle forze armate per aver ucciso un pari grado sospettato di fare il doppio gioco» (cfr. Nino Gianni D’Attis, fonte Internet, e Karnow, Storia della guerra in Vietnam p. 412). In effetti Tony Poe, morto nel 2003, era il responsabile, all’interno della CIA, di quelle operazioni tra Cambogia e Vietnam di cui il Congresso non aveva, almeno ufficialmente, notizia perché in quella zona «la guerra non c’era» e quindi non avrebbero dovuto esserci soldati americani, che però, in realtà, erano presenti e spesso in collegamento con tribù Montagnard. Proprio per questi motivi «questa missione non è mai esistita», dice l’uomo della CIA a Willard, che poi lo ribadisce a Chief con un laconico «missione segreta», quando questi gli fa notare lo sconfinamento in Cambogia. Da tutti questi dati e considerazioni ne deriva che la vicenda del film si svolge nei primi mesi del 1970, ossia mentre Manson era in prima pagina, che la data di “nascita” di Kurtz sia il 1926, ovvero due anni dopo l’effettivo anno di nascita di Brando, e che egli abbia dunque quarantaquattro anni – non certo trentotto come talvolta è stato detto – e che infine la data di “nascita” del figlio di Kurtz/Brando sia il 1952, mentre il matrimonio è del 1951. Dunque nel 1970, data presunta del plot, il ragazzo potrebbe stare per arruolarsi, e questo non è un dato irrilevante per il senso del film e giustifica, almeno in parte, credo, il nostro affanno nel mettere in ordine “le date del film”. Certo, le foto mostrate nel film raffigurano il figlio come un bambino, ma le parole della lettera che gli “scrive” Kurtz sembrano dirette a un adulto e “le date del film” confermano l’opportunità di questo dialogo tra adulti dietro cui però si adombra, ormai lo sappiamo bene, quello tra Kurtz e Willard. Un altro dato storico presente in Apocalypse Now è la presenza dei Montagnard: «Le ultime notizie lo danno a capo di un’enclave di marine e guerriglieri locali “Montagnard” che lo adorano e gli ubbidiscono fanaticamente», ovvero, per usare le parole di Conrad, «come un dio eseguono i suoi ordini, anche i più assurdi». Il fatto, se non è vero, ha comunque, come abbiamo già visto, un fondamento storico, perché queste popolazioni ancora in parte primitive hanno infatti in qualche modo collaborato alle operazioni della CIA organizzate dall’allora agente “Tony Poe” Poshepny. Guadagnata una verosimiglianza complessiva, possiamo passare a altri, più piccoli, particolari storici. I più feroci, lo ripetiamo, riguardano l’esistenza 123

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dei “bambini soldato” e il fatto che il numero delle morti dei neri in Vietnam siano state di molto superiori a quelle dei bianchi – e tra i primi a denunciarlo ci fu proprio Martin Luther King e proprio nei giorni che precedettero il suo omicidio. Un ulteriore esempio è la frase di Kilgore: «Bomb them to stoneage, son», che in realtà è stata pronunciata dal generale dell’Air Force Curtis LeMay8. Ancora, per la frase scritta sul muro della scalinata del tempio della Sfinge di Kurtz: «Our motto: Apocalypse Now», possiamo rivolgerci a Michel Herr – prima che cosceneggiatore di Coppola, corrispondente dal fronte in Vietnam – il quale ci dice che «talvolta le storie erano così recenti che il narratore era ancora sotto shock, talvolta erano lunghe e complesse, talvolta tutto era condensato su un elmetto o un muro» (Herr 1977, p. 39). Ma è ancora Herr a cogliere il complesso e sfumato confine tra mito e realtà esistente nelle terre più ancestrali del Vietnam, quelle in mano ai Montagnard, dove Kurtz ha/avrebbe il suo tempio-covo segreto, al centro dunque di una «terra desolata» in eterna decomposizione e rinascita: «I Montagnard in tutte le loro componenti tribali costituiscono la porzione più primitiva e misteriosa della popolazione vietnamita, una popolazione che ha sempre sconcertato gli americani [...], in senso stretto i Montagnard non sono affatto vietnamiti, certamente non sud-vietnamiti, ma una sorta di aborigeni annamiti di rango superiore, semi-illuminati, che spesso vivono nudi e meditano in silenzio nei loro villaggi [...]. [...] molti sono arruolati come mercenari nelle forze speciali americane [...]. La loro nudità, i corpi dipinti, l’atteggiamento scostante, la silenziosa compostezza di fronte agli estranei, la bonaria selvatichezza [...] si combinavano per far sentire [...] a disagio la maggior parte degli americani che erano costretti alla loro compagnia. Sembrava giusto, voluto da Dio, che dovessero vivere negli altopiani, fra triplici volte di giungla, dove improvvise avverse nebbie offrivano uno schermo sinistro, dove il caldo quotidiano e il freddo notturno ti spingevano perennemente e sempre più sull’orlo della crisi di nervi, dove i silenzi erano interrotti solamente dai lamenti del bestiame [...]. La credenza dei puritani che Satana dimorasse nella natura potrebbe essere nata qui, dove persino sulle cime più fredde, più fresche, potevi fiutare l’odore della giungla e di quella tensione

8 Letteralmente può essere tradotto come «rispedire a suon di bombe all’età della pietra» (cfr. Frey 2008, p. 113) Cfr. anche Sheehan 1988, p. 302 che riporta la stessa notizia con la precisazione che Curtis LeMay era il capo dell’aeronautica in Vietnam.

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DA IL RAMO D’ORO E DALL’INDAGINE SUL SANTO GRAAL: MITO E ROMANZO

tra la decomposizione e la genesi che emanano tutte le giungle. È una terra da storie di spettri e per gli americani era stata la scena di alcune delle più orrende sorprese di guerra» (Herr 1977, pp. 109-110). Meglio non si poteva descrivere il set di Apocalypse Now e il suo retroterra a un tempo mitico e reale e dunque sufficiente a chiudere questo capitolo e a aprire il prossimo, dedicato ad approfondire, appunto, il rapporto tra mito e realtà con particolare attenzione a Nietzsche e a Goethe.

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DA JOHANN WOLFGANG GOETHE E DA FRIEDRICH NIETZSCHE, TRA MITO E REALTÀ

Sono ormai al di là della loro timida mendace moralità Kurtz, Apocalypse Now Il cinema di Coppola parla di una cosa molto antica: il deserto del mondo abbandonato dagli dei Renzo Trotta, Francis Ford Coppola Spesso si è parlato di Nietzsche in raffronto con Conrad Andrea Zanzotto, Introduzione a Joseph Conrad, Il compagno segreto

Ricordiamo ancora una volta che tra i libri di Kurtz vi è il Faust di Goethe, un libro che racconta un patto con il diavolo, e che nella sceneggiatura del 1975 viene citato Nietzsche con questa frase: «quotes of Nietzsche “Nothing is true, everything is permitted”», ovvero con un rimando a «Nulla è vero, tutto è permesso», contenuto in Così parlò Zarathustra (IV, “L’ombra”), ma anche in Genealogia della Morale (§ 24). Il riferimento a Nietzsche contenuto nello script del 1975 è importante per due ordini di considerazioni. La prima è che la riflessione su Nietzsche segnerà la distanza tra il progetto di Milius, primo autore dello script che diventerà poi Apocalypse Now, e la realizzazione di Coppola. La seconda ci aiuta a precisare il vero profilo di Kurtz, ossia il suo essere in realtà un interrogativo su quale sia la vera essenza dell’uomo, e non un banale e stereotipato “Superuomo”, come talvolta è stata interpretato. Cominciamo dunque da qua, dal profilo di Kurtz, per arrivare poi alla genesi del film. La citazione nietzschiana ci rende esplicito il fatto che Kurtz è andato al di là del bene e del male, ha lasciato l’ipocrita morale “occidentale” per fondare e incarnare una sua personale etica. Questo avrebbe fatto di lui una divinità, un termine questo che è già in Conrad, ma per esplicitare l’importanza del tema di Dio nel film, basta ricordare la frase pronunciata dal generale che affida a Willard la sua missione con “licenza di uccidere”: «Può capitare che, in determinate circostanze, un uomo finisca col credersi Dio». Che il generale creda di parlare di Kurtz e invece parli di se stesso è soltanto uno dei tanti trabocchetti di cui è pieno il film, o meglio – seguendo il Freud 127

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della teoria dei lapsus – l’inconscio e la lingua degli uomini. In Conrad però troviamo anche – tradotto in modi diversi – il fatto che Kurtz fosse un uomo «superiore», «notevole», «speciale». Kurtz in realtà non è un pazzo – «Sbagliato! Sbagliato», replica gridando a questa ipotesi il fotoreporter – né un mostro. È solo una persona che ha visto troppo – «Ho visto cose che ha visto anche lei, Willard», ammette – e che ha reagito all’insostenibile esperienza dell’orrore creando un suo codice morale personale e cercando di vivere, pericolosamente, sulla sottilissima linea che separa il bene e il male. Kurtz è dunque andato al di là del bene e del male “convenzionali” compiendo una scelta da persona adulta per non restare, come un bambino, «al di qua del bene e del male» (Zanzotto 1975). Il viaggio verso il cuore di tenebra è il viaggio verso una vera libertà adulta e Kurtz ha compreso che la natura umana non può prescindere dalle tenebre, dalla consapevolezza della loro esistenza, e che gli uomini sono fatti di luce e ombre. «Voi siete due. Siete tutt’e due», questa la verità – il ramo d’oro – che la Sibilla, Madre e Sposa, dispensa a Willard per iniziare il viaggio agli inferi e salvarsi. Le due facce dell’anima di Kurtz sono rappresentate dal gioco di luci ed ombre con il quale Brando viene portato in scena da Coppola e Storaro, ma anche Willard alla fine non è diverso da lui e, se il colonnello uccide gli uomini del rivale e decapita Chef, Willard massacrerà in prima persona lo stesso Kurtz. Etica faustiana e del superuomo dunque? No, etica dell’oltreuomo, in opposizione a quelle che sono definite «menzogne istituzionali», e dunque coerenza tra mezzi e fini versus falsa, ipocrita e mendace incoerenza. Con la sua scelta però Willard riporta nella cosiddetta società civile la consapevolezza della necessità di una rifondazione etica. In coerenza a ciò Lance – tornato bambino, “rinato” e preso per mano da Willard dopo l’uccisione rituale di Kurtz – è il primo “altro” di questa nuova etica solidaristica e altruistica, capace di integrare il dettato cristiano («Ama il prossimo come te stesso») con il più alto portato dell’etica laica kantiana: «Non usare mai l’uomo come mezzo, ma sempre come fine», anche – direbbe lucidamente Kurtz in accordo con una corretta interpretazione del magnanimo Machiavelli – quando lo uccidi. Il Superuomo, l’Oltreuomo e la Morte di Dio Alla luce di tutto questo possiamo ancora scoprire qualcosa della figura di Kurtz, in particolare del suo cosiddetto superomismo. Intanto 128

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precisiamo che l’esplicito rimando a Nietzsche lo troviamo solo nello script del 1975 ed è esattamente lo slogan «Nulla è vero, tutto è permesso», in cui si sente lo zampino del Milius autore di Conan il barbaro e che invece Coppola lascerà – a mio avviso giustamente – cadere. Certamente, bisogna nondimeno ammettere che questa suggestione è presente anche nel Kurtz di Coppola, ma direi che il discorso va legato, più che al solo Nietzsche, a una tradizione di genere in cui un ruolo molto importante e fondativo ha anche Goethe (il termine superuomo è presente anche in Goethe: Faust I, v. 490)1, che del resto è tra gli autori dei libri posseduti da Kurtz e filmati da Coppola. Ancora una volta però – allo scopo di tratteggiare una “sintetica storia del superuomo letterario” cui meglio ricollegare e illuminare il Kurtz di Coppola – è utile rivolgerci in primo luogo a Bachtin e a una sua ellittica ma suggestiva notazione: «Il grande uomo rabelesiano si differenzia essenzialmente [...] dall’eroismo del romanzo cavalleresco e barocco, dall’eroismo di tipo romantico e bayroniano, dal superuomo nietzschiano” (Bachtin 1975, p. 389). Ma non è tutto e ancora, sempre sulla scorta di Bachtin e per tornare a Goethe, possiamo dire non solo che il Faust è un’opera profondamente carnevalizzata, ma che tout court Faust è un “Re del Carnevale”, un sovrano il cui regno è destinato a capovolgersi in un rapido corso di tempo2. A derubricare lo statuto di Kurtz come “superuomo filosofico” e legare la sua figura alla tradizione degli eroi cavallereschi, romantici e byroniani interviene cioè tutta la tradizione che Umberto Eco chiama del «superuomo di massa» e che Antonio Gramsci segnala come di chiara derivazione letteraria: «Mi pare che si possa affermare che molta sedicente “superumanità” niciana ha solo come origine e modello dottrinale non Zarathustra, ma il Conte di Montecristo di Alexandre Dumas» (cfr. Gramsci, Origine popolaresca del superuomo, 1975, pp. 154-157 e Eco 1964 e 1977). 1 Teniamo presente che Fortini, traduttore del Faust di Goethe, precisa nella nota al verso 490 che «il termine è già usato nel Cinque e nel Seicento dalla polemica cattolica antiluterana». Per inciso ricordo che il Faust è citato più volte in un’intervista riguardo a Un’altra giovinezza («Cahiers du cinéma», 6, 28 novembre 2007). 2 Per la carnevalizzazione dell’opera in generale si ricordi in particolare la scena della “mascherata” nella II parte del Faust (cfr. Bachtin 1965, pp. 58 e 115 e passim), e che le immagini di personaggi romanzeschi come «Gargantua [...], Don Chisciotte, Faust, Simplizissimus ed altri si formano nell’atmosfera delle leggende carnevalesche» (Bachtin 1963, p. 173; Id. 1975, p. 331 e Id. 1979, pp. 224-225).

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Prescindendo con questa precisazione dall’aspetto forse più equivoco e anche caduco del pensiero di Nietzsche, resta invece in filigrana al film l’altro grande tema dostoevskiano e nietzschiano della “Morte di Dio” (grande e ambigua metafora) e dunque della possibilità di un’etica dopo di essa. Però, se non è questa la sede per avviarne una trattazione esaustiva, è invece necessario fare almeno un cenno al concetto di “oltreuomo” – ontologicamente connesso a questa metafora della “Morte di Dio” – e al fatto che questa parola-concetto sia la corretta traduzione del pensiero di Nietzsche, soluzione per la quale personalmente propendo sulla scorta di Vattimo e del suo straordinario pluridecennale lavoro. Nell’affrontare questo tema fondamentale riguardo ad Apocalypse Now, vorrei cominciare con una riflessione, apparentemente non congruente, sull’insistenza nel film della parola “casa” che ritorna per lo più nella locuzione «tornare a casa». Ora l’adulto – a differenza del bambino o del gregario – non ha casa e non ha genitori. La sua dimora è il mondo, non dipende da Padri Onnipotenti, fa il proprio dovere. È significativo il fatto che l’unico vero incontro al femminile di Willard – che avviene con una figura ambigua, donna e allo stesso tempo vertice materno di un triangolo edipico – abbia come presupposto questa domanda: «Tornerà a casa?», cioè da papà e mamma? E questa la risposta adulta di Willard: «Non tornerò a casa», in cui riecheggia la frase e il concetto del Vangelo: «Lascerà suo padre e sua madre e i due saranno una carne sola» (Mc 10, 7). Willard non risponderà più a Dio Padre Onnipotente che continua a chiamarlo via radio, compirà da solo e da adulto le proprie scelte e rimarcherà la propria autonomia dicendo: «Sono fuori dal loro cazzo di esercito». Molti degli equivoci sulla teoria del Superuomo nietzschiano, ai quali si è cercato di ovviare con la traduzione-correzione di “Oltreuomo”, possono essere risolti con una più semplice ridefinizione di adultità. Credo che ora possiamo avere un quadro di riferimento più definito nel quale collocare l’aspetto demoniaco e luciferino di Kurtz3 per il quale il senso profondo della locuzione metaforica nietzschiana di “Morte di Dio” e della sua ontologica connessione con la teoria dell’Oltreuomo è la consa3 Il tema del demoniaco è più esplicito in Conrad, il quale in Cuore di tenebra arriva fino a elencare le tentazioni sataniche – quelle inflitte a Cristo nel deserto – nelle loro tre forme canoniche e rituali: il demone del potere, del denaro e della lussuria. In Coppola le tentazioni si incarnano in Kilgore, nelle conigliette e nella notte senza Dio in cui riecheggia l’inutile interrogativo: «Chi è l’ufficiale al Comando qui?».

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pevolezza di non poter delegare nessuna scelta a nessun Dio. Da Nietzsche e dalla sua “Morte di Dio” – sulla scia di Machiavelli e della sua teoria dei fini coerenti ai mezzi, senza menzogne – deriva quindi che “tutto sia permesso” e che pertanto tutto sia sempre e solo doveroso. «Non possiamo sparargli e poi offrire un cerotto», è questa la tragica verità di Apocalypse Now, confermata da quanto dirà ancora Kurtz: «Se avessi avuto dieci divisioni di uomini [...] dotati di moralità». Dunque tutte queste parole rimandano con evidenza – o almeno alludono o, ancora, meglio, vanno lette in rapporto – al proclama della “Morte di Dio” che attraversa l’Europa almeno dalla fine dell’Ottocento. È alla luce di questo annuncio che infatti troviamo nei romanzi di Dostoevskij, come leitmotiv ricorrente, la seguente domanda: «Se Dio è morto, tutto è permesso?». Scrive ancora Dostoevskij nei Fratelli Karamazov: «Ma allora, domando, che sarà dell’uomo? Senza Dio e senza vita futura? Tutto è permesso, dunque tutto è lecito?», cioè dobbiamo chiederci se sia teoricamente ed eticamente legittimo il fatto che la società contemporanea, di fronte al rinnovarsi – perpetuo ma sempre più abissale – del Male, debba necessariamente proclamare la fine di ogni tensione etica e consegnarsi quindi a un nichilismo assoluto di stampo postnietzschiano e, a leggere bene Nietzsche, antinietzschiano. È già a partire da questi brutali riassunti di dibattiti secolari, che tutta la attuale crisi – della società nel suo complesso e in particolare delle scienze umane, etiche e sociali rappresentata in ogni fotogramma di Apocalypse Now e in ogni parola di Cuore di tenebra – ruota non tanto intorno al proclama nietzschiano della “Morte di Dio”, ma, più ancora, intorno alla domanda se questo “fatto” sia la fine di ogni morale o solo la fine di una morale che non sia radicale, e nella sua responsabile radicalità, corporale e autenticamente solidaristica, per dirlo come il grande e magnanimo Leopardi della Ginestra. Il “Nietzsche delle bancarelle” e la genesi di Apocalypse now La riflessione su Nietzsche non ci ha portato però solo a comprendere meglio quali siano le radici autentiche del Kurtz di Coppola (e di Conrad) ma anche a iniziare a illuminare l’effettiva genesi del film, genesi che risulterà ulteriormente approfondita da questa citazione di Stefano Trucco: «Proviamo a spaziare un po’ [...]. Detto brutalmente: Francis Ford è (era?) un grandissimo artista, ma non necessariamente un pensatore. Un pensa131

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tore per concetti ed analisi, intendo dire. Le sue opinioni esplicite sulla guerra in Vietnam non sarebbero probabilmente state più interessanti di quelle del “New York Times” o del “Village Voice”. Ma naturalmente è riuscito a rendere l’esperienza della guerra vietnamita come pochissimi altri. In compenso John Milius era un pensatore (mediocre) ed un altrettanto mediocre artista. Non pessimo: solo mediocre. Come tanti altri ad Hollywood. Ma uno portato a pensare a se stesso come un intellettuale. A chiedergli come la pensava sul Vietnam probabilmente avrebbe parlato tutta la notte. John Milius scrive la sceneggiatura di Apocalypse Now, riadattando il romanzo di Conrad Cuore di tenebra; Coppola cerca di girarla e, a un certo punto, scopre che è inutilizzabile. In particolare, il finale. Dal diario di Eleanor Coppola, 2 agosto 1976: “Francis non poteva andare avanti a realizzare la sceneggiatura originale di John Milius perché non esprimeva veramente le sue idee, e non poteva smettere perché ormai erano stati spesi troppi soldi”. Coppola si ritrova in mezzo al guado, senza un finale praticabile [...]. Coppola rifiuta la soluzione Milius, ma non è davvero in grado di proporre una alternativa coerente, avrebbe dovuto rifare tutto il film. Risultato: stallo e confusione. Nella nuova versione (2001) c’è un miglioramento evidente: il personaggio di Kurtz acquista maggiore spessore, insomma si avvicina a valerne la pena. Ma il dilemma non può venire del tutto sciolto. Torniamo a Conrad e a cosa ne aveva fatto Milius. Un’organizzazione, impegnata in attività disdicevoli in una regione povera e selvaggia, invia un uomo lungo un fiume alla ricerca di un suo dipendente sfuggito al controllo che si è macchiato, dicono, di crimini orribili. L’Africa di Conrad è un posto insidioso e tutt’altro che benigno: il suo Kurtz ha ceduto al suo fascino ed è regredito, ha perso il suo carattere morale civilizzato. Ma non c’è dubbio che i bianchi sono un gruppo di criminali impegnati in un genocidio ignobile. Non c’è equivalenza fra bianchi e neri. Nel Vietnam di Milius, per motivi non spiegati (si presume che tutti li conoscano) c’è una guerra in corso e gli americani stanno perdendo contro un avversario durissimo. Gli americani non sanno fare la guerra: bombardano, uccidono, ma senza risultato. Kurtz ha capito come si deve fare la guerra, ma è ostacolato dai suoi superiori. Si ribella e loro vogliono ucciderlo. Il Kurtz di Conrad è un vuoto mostruoso: quando Marlow lo raggiunge parla a lungo ma, per decenza, Marlow ci risparmia i suoi discorsi vaneggianti tranne poche frasi impressionanti. Il Kurtz di Milius invece parla, argomenta, legge Eliot: ci viene presentato come un eroe, non solo militare, ma anche umano e di pensiero. L’eroe, è vero, sta cedendo alla 132

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pressione: perciò Willard deve prenderne il posto. Un nemico mostruoso deve essere combattuto con le sue stesse armi: crudeltà senza limiti. Il soldato deve essere un combattente morale: per far questo deve respingere il giudizio. Cioè, deve essere un puro uccisore, meno che umano, più che umano. La moralità del guerriero sta nell’uccidere senza chiedersi il perché: la malvagità del nemico è sufficiente giustificazione. Gli americani non lo capiscono, sono troppo civilizzati. Si tirano fuori teorie di fine ‘800 sulla vera regalità, sui miti e riti della vegetazione, sulla morte del re, sui miti arturiani, sul ramo d’oro dei sacerdoti di Nemi, sulla perdita di virilità prodotta dall’eccesso di civilizzazione, sulla necessità della guerra. Nel complesso, roba buona per costruirci attorno un poema o un romanzo: ma nel complesso una bella serie di pseudoconcetti. Forniscono un’armatura su cui Eliot può organizzare la poesia della Waste Land: se va bene, una metafora. Eliot stesso lascia perdere abbastanza presto e si rifugia nel razionalismo cristiano. Sono temi che Conrad conosce bene e trasfigura e tratta per quello che valgono nel suo Cuore di tenebra. Milius, mediocremente, li prende sul serio, alla lettera, come altri mediocri prima di lui: una resurrezione violenta del mito, che esige la partecipazione ad una comunità definita da pseudo-valori arcaici: la razza, il sangue, il capo. Il fascismo è l’arcaismo tecnicamente equipaggiato. Il surrogato decomposto del mito che esso presenta è ripreso nel contesto spettacolare dei mezzi di condizionamento e d’illusione più moderni [...]. Depurata dei suoi aspetti mitologici, ridotta a misura hollywoodiana standard, l’ideologia di Kurtz/Milius diventerà il Rambismo che ha dominato l’intrattenimento patriottico fin da allora [...]. Coppola intuisce il pericolo, ma è troppo tardi. Le contraddizioni non si risolvono. Il più grande regista del decennio, l’uomo da cui si attende il film sul Vietnam, schiacciato dalla responsabilità fino all’orlo della pazzia e della catastrofe, non farà un film fascista. A questo punto si inserisce il più sostanzioso inserto nella nuova versione di Apocalypse Now: la scena dei francesi. È vero: sembra un altro film. È vero: stilisticamente rallenta ed appesantisce la parte finale del film, già più lenta e pesante del resto. Ma sembra suggerire una terza via dall’impasse e sarei curioso di sapere chi l’ha scritta e come Coppola l’ha poi realizzata. Quando vediamo i francesi, sono in perfetta uniforme ed ordine militare; rendono gli onori militari al soldato americano caduto. Sono oltre l’ultimo avamposto americano; sono isolati da tutto ed in lotta contro tutti. Hanno respinto attacchi vietcong e americani e (forse) degli uomini di Kurtz. Non vediamo alcun orrore, alcun cadavere impalato o mucchi di teste. Solo decor 133

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Merchants-Ivory, discussioni interminabili e disgregazione familiare: ma l’ordine militare è mantenuto. Sì, certo, simbolo del colonialismo europeo, ma anche terza via di fronte all’alternativa posta da Milius fra la guerra falsa degli americani e la guerra vera di Kurtz. Per terminare, back to the real world. Se il rambismo di Kurtz è l’immagine dominante dell’immaginario militare hollywoodiano, la realtà è l’esatto opposto. Gli uomini che vogliono far fuori Kurtz hanno capito la lezione del Vietnam (a parte quella del controllo delle notizie): mai esporre inutilmente al pericolo quella creatura fragile e nervosa, il soldato americano. Bombardare, bombardare dal più alto possibile contro avversari non in grado di replicare. Poi, al massimo, mandare dei soldati a ripulire il terreno. È così che si vincono le guerre, non dando retta a pseudo-intellettuali che prendono troppo sul serio Eliot». A confermare questa lettura – libera, geniale, informale e davvero gustosa – fondata sull’effettiva diarchia intellettuale tra Coppola e Milius, interviene una notizia recente: «Electronic Arts ha [...] annunciato che la sceneggiatura del prossimo Medal of Honor: European Assault sarà scritta da John Milius, il famoso regista e sceneggiatore americano il cui successo è associato a film come Dillinger (1973), Conan il Barbaro (1982), Alba Rossa (1984), ma soprattutto al capolavoro Apocalypse Now (1979). Milius ha accettato con grande entusiasmo l’incarico affidatogli da Electronic Arts: “I videogiochi sono un ottimo mezzo di comunicazione per un narratore come me, specialmente un titolo come il nuovo Medal of Honor, ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale. Sono sempre stato considerato una sorta di cowboy creativo e adesso mi sto godendo appieno la collaborazione con il talento creativo del team di sviluppo di E.A. Los Angeles per creare la storia di Medal of Honor European Assault. Questa esperienza mi riporta ai miei inizi nell’industria dell’intrattenimento, ai miei giorni da studente presso la scuola di cinema USC, quando condividevo le mie idee con giovani artisti visionari quali Steven Spielberg e George Lucas» («La Repubblica», 30 giugno 2005). Ma la conferma arriva ancora di più da una bellissima intervista a Milius contenuta nel reportage sul “dietro le quinte” di Apocalypse Now in cui lo sceneggiatore racconta di essere stato mandato dai finanziatori a redimere Coppola dalla sua follia e di essere uscito dall’incontro con Coppola assolutamente conquistato e soggiogato e addomesticato dal suo, di Coppola, geniale delirio. Delineato questo profilo di Milius – sia detto per inciso un uomo simpaticissimo – torniamo al film e alla nostra interpretazione di esso, dando la parola a Coppola: «Quando girai il film [...], invece di portarmi dietro il 134

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copione tenevo in tasca una piccola copia verde di Cuore di tenebra, piena di appunti e di segni [...], [ma] molte delle grandi scene, della scene memorabili, provengono testualmente dal copione originale di John Milius: la struttura della motovedetta e il suo equipaggio; lo straordinario attacco degli elicotteri con Wagner diffuso dagli altoparlanti; la tigre; le conigliette di playboy; il misterioso ponte di Do Long. [Però] il mio lavoro sulla sceneggiatura aumentò i paralleli con Conrad e sviluppò molte scene, fra cui quella della Piantagione francese e quasi tutto il terzo atto del film» (F.F. Coppola 2001: con piccole modifiche e corsivi miei). Ecco come è nata un’opera d’arte ed ecco perché l’edizione del 2001 è il vero capolavoro. Coppola sceglie cioè di allontanarsi sempre di più dal Nietzsche di Milius, «dal Nietzsche della bancarelle»4, ed entra così nel grande dibattito che si era aperto quando Nietzsche “scoprendo” Dostoevskij aveva scritto: «A parte Stendhal, nessuno mi ha procurato un piacere e una sorpresa maggiori: [Dostoevskij], ecco uno psicologo con cui io m’intendo». E ancora, con impliciti riferimenti all’Idiota dostoevskiano aveva annotato: «Gesù. Dostoevskij [...] egli ha indovinato Cristo». Il romanziere russo insieme a Nietzsche rappresenta dunque per la filosofia un punto di rottura e un nuovo inizio, e se – per essere espliciti e ultimativi – l’ideologia superomistica di Milius, «il Nietzsche della bancarelle», era ottima per disegnare Kilgore, non poteva e non doveva essere quella di Kurtz, di Conrad, di Coppola. Mi sembra che il concetto sia chiaro: la “Morte di Dio” è la premessa etica a un uomo nuovo, responsabile e autonomo, che possiamo chiamare Oltreuomo. Ulteriori notazioni verranno più avanti, ora invece dobbiamo rileggere la nostra storia e le sue domande alla luce del pensiero freudiano e postfreudiano. Il pensiero di Freud, la sua rivoluzione epistemologica, infatti nasce – e non poteva che essere così – sulla spinta della grande lezione nietzschiana, ma anche su quella di un autore quale Dostoevskij che il viennese definiva come uno scrittore il cui «posto viene poco dopo Shakespeare [...], uno dei vertici della letteratura universale» (Freud 1927). 4 Questa definizione la prendo in prestito da Giovanni Grazzini che l’ha usata in una recensione di Conan il barbaro, film di John Milius con Arnold Schwarzenegger («Corriere della Sera», 1° aprile 1982) e che però ha un suo antecedente in Gramsci e da qui in Eco (1977), ovvero nel concetto di “superuomo di massa”: «Mi pare che si possa affermare che molta sedicente “superumanità” niciana ha solo come origine e modello dottrinale non Zarathustra, ma il Conte di Montecristo di Alexandre Dumas (cfr. Gramsci, Origine popolaresca del superuomo, 1975, pp. 154-157).

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APOCALYPSE NOW: UNA LETTURA FREUDIANA E POSTFREUDIANA

Le piace lavorare con figure archetipiche come quella del Doppio? Sì Intervista in «Cahiers du cinéma», 628, novembre 2007

I temi da affrontare con un riferimento alla letteratura freudiana1 e postfreudiana sono almeno tre. Il primo, lo abbiamo già identificato, è lo spostamento e il camuffamento del triangolo edipico. Nel film, che esplicita quello che era implicito nel romanzo, infatti la tensione erotica viene trasferita dalla promessa sposa del Kurtz di Conrad alla “Vedova dell’Eroe” di Coppola. Partendo da qui, si deve aggiungere – ed è il secondo tema mentre il terzo riguarda il rapporto tra Coppola e un’opera di Freud in particolare, Totem e tabù – che in qualche modo l’incesto, in Coppola, è la premessa all’uccisione del Padre, e pertanto la “Vedova dell’Eroe” è sì, sottilmente, una figura materna, ma è anche, ed esplicitamente, una Sibilla Cumana, custode dell’accesso all’Averno2. È lei infatti a replicare alle do1 Importante, per quel che riguarda il rapporto con Freud, riportare qui una dichiarazione di Coppola: «Uno dei miei primi desideri fu scrivere per il teatro e di ispirarmi al grande Tennessee Williams o a Arthur Miller [...]. L’idea per La conversazione del 1974 nacque da due elementi. Da un lato lo sfacciato desiderio di imitare o rifarsi a uno dei grandi dell’epoca e di tutti i tempi, Michelangelo Antonioni che aveva girato Blow-up – un film bello e intrigante perché combinava il senso che Antonioni aveva delle atmosfere e del tessuto personale e anche una regia non verbale con un soggetto molto curioso che conoscete tutti. E io pensai che era quello che volevo fare – partire da un tema, da un’idea o da un terreno che può sembrare innovativo – proprio come quei pittori che al volgere del secolo guardavano la pittura da una prospettiva multipla o che cominciavano a introdurre il pensiero di Freud in pittura» (commento di Coppola alla riedizione del 2000 di La conversazione). Da ricordare infine che il triangolo edipico è il tema portante e strutturale di Segreti di famiglia (sic!), il film di Coppola del 2008-2009. 2 Prendendo ancora una volta in prestito termini mitologici, Milius afferma che il film era una «combinazione di Cuore di tenebra e Odissea e che, ad esempio, Kilgore era come i Ciclopi, era qualcosa che doveva essere superato, esorcizzato e poi le Conigliette erano come le Sirene» (cfr. Milius in Hearts of Darkness - Diario dell’Apocalisse). Per inciso noto che una Sibilla – sia pure quella carnevalizzata del Satyricon di Petronio e non quella epica e classica del VI canto dell’Eneide di Virgilio, ma con l’identica funzione di guida al percorso iniziatico – compare nell’epigrafe di La terra desolata. (cfr. Serpieri 1982, pp. 94-98). Inoltre noto che all’inizio dell’episodio della prostituzione i compagni di Willard si rotolano nel fango come maiali, ovvero comportandosi come gli animali nei quali erano stati trasformati i compagni di Ulisse dalla maga Circe, antico e classico emblema, appunto, di lussuria e mercimonio.

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mande inespresse che Willard si porta dentro: «Non ero / né vivo né morto, e non sapevo nulla, / guardando dentro il cuore della luce, il silenzio», così scrive Eliot citando con evidenza Conrad e dipingendo lo sguardo e l’io profondo di Willard3. Ed è sempre lei – Sibilla e Madre – a prepararlo a quelli che saranno gli enigmi della Sfinge a cui l’Eroe (Edipo/Willard) dovrà poi trovare soluzione. E sono due le risposte a cui Willard arriverà grazie al suo primo vero incontro con una donna e con un messaggero di conversione, mentre fino a quel momento aveva solo le sue attonite certezze. La prima è che la vita è un divenire ineluttabile, il fiume scorre imperterrito e «non ci si può mai bagnare due volte nella stessa acqua». La seconda è che, nonostante l’uomo sia un impasto inscindibile di luce e ombra, amore e morte, Eros e Thantos – come gli ricorda la Sibilla, «siete entrambe le cose» – una scelta è obbligatoria e al tempo stesso irrimediabile, deve cioè, nella sua ontologica parzialità, essere riaffermata eternamente. Kurtz è dunque a un tempo il Padre e la Sfinge. «Lei è un assassino?» chiede a Willard, ma la prima vera domanda che gli pone è: «Ha mai preso in considerazione la vera libertà? Libertà dalle opinioni altrui e anche dalle proprie?». Ovvero, in sintesi, qual è quell’animale capace fino in fondo di odio e di amore consapevole e di non agire in conformità al volere di Re e Padri? La risposta di Edipo e di Willard è naturalmente la stessa: l’uomo, e a questo punto, che il quesito della Sfinge, nella tragedia di Edipo, non sia “esattamente” questo è naturalmente, con l’aiuto di Freud, irrilevante. L’ammonimento di Kurtz è categorico: «Scegli, non essere un uomo vuoto», mentre il fool esplica ulteriormente: «Non capisci? Questa è dialettica, è semplice dialettica [...], la logica dialettica è che c’è soltanto amore e odio. O si ama qualcuno o lo si odia». Incrociando le parole della Sibilla e quelle del fool si ottiene: «Siete entrambe le cose, ma o si ama o si odia: scegli».

3 Dal diario di Eleanor Coppola, 16 aprile 1976: «Ieri sera Francis ha visionato il montaggio preliminare della prima settimana di riprese. Erano le scene con Harvey Keitel che fa la parte di Willard. Poi si è seduto sul divano con i montatori Gray e Fred, i produttori. Ha chiesto: “Be’ che ve ne pare?”. Sono salita a dare la buonanotte ai bambini e quando sono scesa di nuovo, dopo un quarto d’ora, erano già al telefono per prenotare dei posti sul volo per Los Angeles. Il giorno dopo Francis ha deciso di sostituire l’attore protagonista. Gray gli ha detto: “Gesù, Francis, ma come fai ad avere il coraggio di fare una cosa del genere”». Era evidentemente lo sguardo di Martin Sheen che Coppola voleva, non i muscoli di Harvey Keitel.

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La relazione che lega Willard a Kurtz deve essere letta così ancora una volta alla luce della letteratura freudiana e post-freudiana (Rank e poi Marcuse). Da Freud sappiamo che le figure regali, come quelle divine, sono figure paterne e di Kurtz si dice che – come Dio Padre – è nei Cieli: «Lui sta in alto, lui è lassù». Queste figure però suscitano sentimenti ambivalenti, amore e ammirazione, ma anche odio e furia omicida. Amleto, l’edipico Amleto, dice Freud, si mostra a lungo titubante di fronte alla scelta di uccidere l’usurpatore uccisore del padre e tarda a legittimare il suo desiderio. Effettivamente, la rivelazione dello spettro avviene nel primo atto dell’Amleto, mentre per l’uccisione vendicativa dobbiamo aspettare il quinto atto e un paio di omicidi “di rinvio” (cfr. Freud, L’interpretazione dei sogni, 1900, pp. 242-247). Anche Willard giustificherà la propria scelta omicida e parricida con un lungo percorso di incertezze. Allo stesso modo di Amleto, fin dall’inizio Willard sa che Kurtz è un padre che deve essere ucciso e confessa: «Lo ammiravo [...] sapevo qualcosa che nei dossier non c’era»4. Lo trattiene però, anche, la consapevolezza che Kurtz è un suo specchio, un suo doppio, un suo alter ego. Uccidere il proprio doppio, per Willard vuol dire tornare a essere uno, ma il prezzo è altissimo. Perderà ogni innocenza rispetto alla consapevolezza dell’ambiguità esistenziale dell’uomo e della necessità, non procrastinabile, della scelta. Attraversare lo specchio, frantumarlo, significa spezzare una propria immagine narcisistica e superare un limite, assumersi una responsabilità, una adultità individuale. «Mi avrebbero fatto Maggiore [...], e io non ero più neanche nel loro cazzo di esercito», dice Willard, scegliendo di affermare una propria faticosa individualità rispetto a un avanzamento gregario, quello di “maggiore”, ma non adulto. Il vero modo di uccidere il doppio è superarlo dialetticamente e infatti di dialettica parla, in maniera carnevalesca, paradossale e perfetta, il fool/fotoreporter. Il lisergico Dennis Hopper è bravissimo ad esporre tutto questo ed è importantissimo vedere anche il

4 Conrad nel romanzo scrive che i sudditi adoravano Kurtz come «una divinità», tributandogli «riti innominabili», «sabba in suo onore», «inimmaginabili cerimoniali di qualche iniziazione diabolica». Spiega ancora Freud che nei sogni il dio – e il re – è il simbolo del Padre. A questo proposito sarebbe però da osservare, utilizzando ancora categorie di derivazione freudiana e a commento della frase della moglie di Coppola che definisce il «viaggio di Willard», un viaggio «dentro l’Io», che Kurtz non è solo “Super-Io”, ma anche “Es” come d’altronde l’altra figura genitoriale, la “Vedova dell’Eroe”. Resta comunque che l’Io di Willard deve attraversarle entrambe per ridefinire la propria identità.

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“making-of” del film in cui queste scene, fondamentali per un’interpretazione complessiva del film, assumono ancora maggior rilievo fino a diventare quasi un film nel film. Il terzo tema si ricollega – come già accennato – a un’opera specifica di Freud, Totem e tabù, in cui, da un lato, si riafferma l’importanza del tema edipico, dall’altro, sulla scia di Frazer, si ipotizza che il fondamento della civiltà umana sia l’omicidio rituale del padre-padrone, ovvero del capo maschio che esercitava potere di vita e di morte sull’Orda primitiva, ovvero sulla prima, arcaica e mitica aggregazione umana. In altri termini, Freud in Totem e tabù esplicita in termini di “complesso edipico” quello che in Frazer e nella Weston era solo un rito di fecondità o di sostituzione del nuovo al vecchio. Questo mitico e ancestrale Padre-padrone dell’Orda e della Tribù cui sarebbe spettato – secondo la concezione di Darwin cui rimanda Freud – potere assoluto sui figli e su tutte le donne, sarebbe poi, secondo lo studioso, stato ucciso dai propri figli e sarebbe così diventato Totem, simbolo sacro del patto stipulato tra i figli di non avere più nessun Padrepadrone. A questo patto di “non belligeranza” sarebbe seguita la necessità delle nozze esogamiche, ovvero fuori dall’Orda, e di conseguenza il tabù dell’incesto, delle “nozze” con donne consanguinee. Alla luce di questo passaggio, il Totem della tribù di Kurtz è, insieme a Kurtz stesso, il caribù – il bue, il toro – e la morte dell’uno e dell’altro sono un simmetrico sacrificio cosmico di rigenerazione e di riconferma del patto tra i figli (cfr. Weston 1920, pp. 228-256). Infatti, del Kurtz di Coppola viene detto: «Siamo tutti figli suoi», frase che non è in Conrad anche se nel romanzo c’è lo stesso rapporto di Re-Padre con i sudditi-figli. Il sacrificio del Vecchio Re e del Vecchio Caribù – entrambi Totem simboleggianti la tribù – permette il rinnovarsi della vita per i componenti della tribù e per la terra che li ospita che prima, come il suo vecchio Re, era arida e devastata, ammalata e morente5. Ora, se tiriamo le fila di quanto detto, potremmo sinteticamente aggiungere che il plot di Apocalypse Now – ma anche di Cuore di tenebra, perché lo scrittore mostrava «un forte complesso edipico ed incolpava il padre di aver fatto soffrire e morire prematuramente la madre» (cfr. Curreli 1984, p. 31 e passim) – è costituito da Frazer più Edipo, ovvero dalla sintesi esposta da Freud in Totem e tabù. Ma ora una domanda. Coppola

5 L’archetipo della “Terra desolata” è significativamente nell’Edipo Re di Sofocle «terra [...] deserta [...] senza fine la città perisce».

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aveva letto quest’opera di Freud? E se sì, perché non è tra i libri di Kurtz? La risposta è che, a mio avviso, il libro non si trova tra quelli di Kurtz perché probabilmente Coppola non lo aveva letto. Una conferma la troviamo nella sua dichiarazione del 1979 che abbiamo riportato all’inizio del capitolo su Frazer e la Weston: «È così chiaro! È un’illustrazione filmata del primo capitolo del Ramo d’oro di Frazer. La storia del re anziano che deve morire per mano del nuovo re giovane che ne prende il posto. Brando rappresenta una cultura che deve morire, ed è cosciente, sa che deve essere ucciso. E cita Eliot e Conrad perché sono legati. Weston ha scritto il libro sulla ricerca del Santo Graal avendo letto Frazer. Eliot ha scritto le sue poesie con Weston in mente, e ha dedicato The Hollow Men, che Brando cita, al libro di Conrad Cuore di tenebra che ho usato come supporto per la sceneggiatura». Coppola elenca diligentemente tutti i suoi debiti o, è lo stesso, sfoggia tutti i suoi gioielli (Frazer, Conrad, Eliot, Weston), ed è artista troppo onesto, troppo sfrontato e esibizionista, per omettere un nome “pesante” come quello di Freud. Ma se le cose stanno così, come mai nel finale e in Apocalypse Now Redux, ovvero nelle parti più coppoliane del film, sono presenti in maniera quasi didascalica i temi principali di Totem e tabù? La risposta è complessa e mi scuso della tortuosità di alcuni passaggi ma, come si vedrà, è uno dei punti capitali della nostra interpretazione. In primo luogo, un riassunto di Totem e tabù e dei suoi concetti si trova in Eros e civiltà di Herbert Marcuse, che era un best-seller nell’America della fine degli anni Sessanta e che certamente Coppola aveva letto (e sarebbero bastate le prime facili pagine)6, ma poi, evidentemente, dimenticato. Il riemergere di questo ricordo – risolutivo per la costruzione dell’epilogo del film, alla cui scrittura

6 Scrive Herbert Marcuse nella “Prefazione politica 1966”: «L’inferno è concentrato tutto in certi luoghi molto lontani [...] in Vietnam, in Congo [...], ad Harlem. Questi inferni gettano un fascio di luce sul mondo intero [...], in Eros e civiltà [...] questa immagine dell’uomo era la deliberata negazione del superuomo nietzschiano». E ancora si parla, tra l’altro, di «orda primitiva», del «dominio del padre primordiale», del «Re-padre», di «Eros e Thanatos», di «Es, Io, Super-Io», del rapporto tra «complesso edipico» e la malinconia: «il desiderio edipico è l’eterna protesta infantile». Infine, a conferma certo minore ma significativa di quanto asserito, l’unica notazione biografia dell’Arlecchino di Conrad: «russo [...] figlio di un arciprete [...], fuggito da scuola, [...] fuggito di nuovo [...] ora si era riconciliato con l’arciprete, ci tenne a precisarlo». Ma Conrad probabilmente non si era “riconciliato” con il suo di padre: lo scrittore mostrava infatti «un forte complesso edipico e incolpava il padre di aver fatto soffrire e morire prematuramente la madre» (cfr. Curreli 1984m p. 31 e passim).

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Coppola si è affannato per un anno – è quasi inconsapevole e pure limpidissimo. Ammette Coppola: «Il finale [la connessione ontologica tra le due scene, la morte del Totem sostitutivo del padre – ovvero il Vecchio Caribù – e quella del Re-Padre Kurtz] mi fu suggerito – casualmente – da una ripresa di mia moglie di un sacrificio rituale compiuto dalla tribù Ifugao presente sul set del film». Ne troviamo una conferma in Eleanor Coppola: «Gli Ifugao – ovvero la tribù filippina che nel film interpreta la tribù Montagnard – sono venuti a vivere sul set per prendere parte al film. Sabato scorso hanno fatto una festa [...], il capo mi ha detto che per la festa avrebbero ucciso anche un bufalo carabao, e allora ho deciso di tornare a casa per vedere se anche Francis voleva venire. Quando sono arrivata Francis era nella sua stanza che tentava di scrivere [il finale]. [...] ormai è un anno che ci si tormenta sopra e ha abbozzato diverse stesure del finale cercando di imbroccare quella giusta [...]. Il condizionatore era al massimo e si sentiva il ronzio della macchina da scrivere elettrica, ma lui era sul divano, immobile e avvilito. È venuto con me sul set [...]. Il carabao era legato [...] lì vicino. Due sacerdoti [...] sono rimasti in piedi a cantare [...], poi all’improvviso [...] dietro di me [...] quattro uomini armati di machete [...] hanno cominciato a menare colpi al carabao. Era una bestia grossa ma [...] è stata squartata [...]. La gente mangiava con gioia, forse equivaleva alla nostra Festa del Ringraziamento [...]. Quando Francis ha visto [...] la danza rituale dei guerrieri Ifugao intorno al carabao [...], ha avuto un lampo di intuizione [...]. Era come se i danzatori fuori dal tempio stessero raccontando quello che Willard stava facendo dentro al tempio: i guerrieri Ifugao uccidono il caribao e Willard uccide Kurtz [...], è come se l’uccisione del carabao sia una specie di fondale per l’assassinio di Kurtz» (E. Coppola 1979, pp. 114, 115, 119, 147, 244). La conferma del fatto che non sia stato solo un «lampo d’intuizione», ma la conseguenza di un più lungo processo di consapevolezza e memoria si trova in una serie di considerazioni. In primo luogo va ricordato che il tema dell’uccisione rituale del toro è presente, ovviamente, in quei grandi repertori di miti e sacrifici che sono Il ramo d’oro di Frazer e il libro della Weston (cfr. Frazer 1922, pp. 444-447, 516-519, 525-529; Weston 1920, p. 228 e p. 256). Poi, e più in generale, va detto che Apocalypse Now, come il romanzo di Conrad, è una grande tragedia edipica, ovvero e più precisamente, un testo fortemente connotato da un «immaginario edipico» (la definizione può essere rintracciata in S. Vegetti Finzi, Storia della psicologia). Ci sono poi alcune frasi di Eleanor Coppola tratte ancora una volta 142

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dal suo Diario dell’Apocalisse che ribadiscono l’esistenza intorno a Coppola di un ambiente comunque attento alle tematiche psicoanalitiche. Ne cito alcune: «Il film che Francis sta facendo è la metafora di un viaggio nell’Io»; «Francis adesso si sta confrontando coi temi del viaggio di Willard dentro l’Io e con le verità di Kurtz, che in un certo senso sono problemi irrisolti anche per lui, sul piano personale, perciò sta vivendo un enorme conflitto: la soluzione di questa sceneggiatura sarà la sua soluzione, cioè la comprensione di sé»; «[Francis] si sta confrontando esattamente con i temi chiave della propria esistenza: i soldi, il potere, la famiglia» e «Mi è venuto in mente quell’analista che una volta mi ha detto che [...] non mi amavo» (E. Coppola 1979, pp. 34, 80, 159). Dunque, l’omicidio/parricidio di Kurtz doveva avere anche una risonanza e una prospettiva mitica, un valore rituale, e pertanto andava affiancata all’azione edipica una scena rituale, mitica. Il finale cioè doveva essere la duplice ripetizione di un mito edipico e tribale. In questa direzione spingeva anche la canzone “The End” dei Doors che, pur tagliata nel “punto critico”, è lo stesso esplicita. Infatti, anche se la “strofa edipica” della canzone non è cantata nel film, il suo senso è ben presente nell’immaginario di Coppola e vale a definire la sua poetica. La canzone – una vera e propria mise en abyme – infatti richiama prima Edipo, poi con la parola «wilderness» ci riporta a Conrad e infine, parlando di una «desperate land» in attesa di un sacrificio e di una pioggia vivificatrice, mette in campo Eliot, Frazer e la Weston. In più in essa c’è una forte tensione apocalittica: «Questa è la fine, la fine / Puoi immaginarti come sarà [...] una libertà senza limiti / [...] in una terra disperata [desolata] / e in una romana regione di dolore / fino al lago, il lago millenario7 / Tutta la nuova generazione è folle e attende i temporali estivi / [...] E arrivò ad una porta / e guardò dentro / “Padre?” / “Sì, figlio?” / “Voglio ucciderti” / “Mother, I want to fuck you!». Proprio per questo la lunga gestazione del finale non mette mai comunque in discussione – nelle sue molteplici varianti – l’uccisione di Kurtz, che può essere letta in diverse chiavi, certamente rituali e religiose, e dunque in termini di “sacrificio”, ma comunque rimane interpretabile anche in chiave edipica. L’uccisione di Kurtz da parte di Willard è, insomma, l’uccisione di un Padre, e la conquista del suo regno è la riconquista della Terra Madre da fecondare. Ancora una volta però la lettura di Kurtz 7

Il lago millenario è, naturalmente, il lago di Nemi della leggenda raccontata da Frazer.

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come un Re-Padre non è altro che un’interpretazione, legittima, di un’ombra presente nel testo di Conrad in cui si parlava infatti di «ultimo discepolo», riferito in prima battuta, nel terzo capitolo, al fool, ma estendibile, alla luce di quanto detto nel primo capitolo del romanzo, anche a Marlow che si autodefinisce «apostolo minore», e quindi anche a Willard. Coppola esplicita quest’ombra attraverso le parole pronunciate dal fool-fotoreporter, «Siamo tutti figli suoi», ma già gli studi di Frazer e, in maniera più velata, le suggestioni di Eliot agivano potentemente in questo senso, cioè nel leggere la vicenda narrata come un conflitto generazionale e edipico. Dietro la crisi narrata nella Terra desolata vi è anche infatti, con un peso sottile ma percepibile, la morte del padre di Eliot, avvenuta nel 1919 senza che padre e figlio si fossero riconciliati dopo la lite causata dalle nozze non autorizzate del figlio. Vi è un’eco di questa tragedia nel verso 191 del poemetto in cui dice: «Meditando [...] / sulla morte del Re mio padre» (corsivo mio), ma soprattutto nel lutto profondo e nel senso di colpa e d’angoscia che attraversa l’intero componimento8. A questo proposito, Freud afferma che la morte del padre è «il trauma più forte», «l’avvenimento più importante», «la perdita più straziante» che un figlio debba affrontare (cfr. Freud “Dostoevskij e il parricidio”, 1927,”; Jones, Amleto e Edipo, 1949, p. 82). Ma non solo. C’è anche la figura stessa di Tiresia9 – il cui sguardo tanto somiglia a quello di Willard e la cui presenza è centrale nella Terra desolata – che mostra la connessione profonda tra il poemetto e il mito di Edipo, in quanto Tiresia è proprio tra i protagonisti di Edipo Re, tragedia di Sofocle, mito che si colloca, come sappiamo, all’inizio della riflessione freudiana. Ma fermiamoci ancora un’istante su questo nesso di pensieri. L’aver determinato e precisato questa chiave interpretativa freudiana e edipica comporta infatti una serie di vantaggi anche strutturali come la comprensione dell’apparizione della Moglie e “Vedova dell’Eroe”, ma ancora di più ci offre una spiegazione della fascinazione profonda, e contraddittoria, provata da Willard nei confronti del “suo” Kurtz che lo porta

8 A osservare bene, il «Re Pescatore ferito» di La terra desolata di Eliot (vedi la nota dell’autore al verso 46 del poemetto) potrebbe contenere un’allusione alla perdita di virilità e quindi alla castrazione che è, sempre secondo Freud, la minaccia che il figlio bambino immagina di poter subire da parte del padre. Sarebbe da rileggere in questo senso tutto il libro della Weston o almeno p. 59. 9 Tiresia – secondo le parole del poeta anglo-americano – è il fulcro del poemetto in quanto il suo sguardo «unifica tutti gli altri».

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a ammettere: «Lo ammiravo [...] sapevo qualcosa che nei dossier non c’era». Attrazione profonda ma – come quella nei confronti della figura paterna – ambivalente, tanto è vero che sarà parte delle motivazioni dell’omicidio rituale10. Ritorniamo invece un attimo sull’Edipo Re di Sofocle e sulla genesi della conseguente teoria freudiana così importante per leggere Cuore di tenebra e Apocalypse Now11. Nietzsche – nume tutelare di Freud, ma ben conosciuto anche da Coppola, attento studente di teatro12 prima che di cinema – enumera così le caratteristiche dell’Edipo del mito: «Edipo l’assassino di suo padre, il marito di sua madre, Edipo che ha sciolto l’enigma della Sfinge» (Nietzsche, La nascita della tragedia, cap. IX). Dunque il mito di Edipo implica tre azioni: uccidere il padre, sposare la madre, rispondere ai quesiti della Sfinge. Non credo stupisca allora che il tempio di Kurtz sia descritto così: «Le dimensioni delle rovine sono enormi. Grandi enigmatici volti cambogiani scolpiti nella pietra migliaia di anni fa [...], è come se il fiume si riversasse fra le grandi braccia di questa sorta di Sfinge». Dunque è potentissimo su Coppola, se non il richiamo consapevole a Freud, quello al mito archetipo di Edipo. Il triangolo edipico esiste in effetti prima di Freud ed è in esso che lo studioso viennese vede la chiave per leggere il fascino profondo della tragedia greca di Sofocle intitolata Edipo Re. Scrive Freud: «e realmente [...] la storia del Re Edipo [...] ci commuove [...] perché [...] il suo destino avrebbe potuto essere il nostro»; «i poeti e filosofi hanno scoperto l’inconscio prima di me; quel che ho scoperto io è 10 Questa fascinazione e questo tono di ammirazione sono presenti già in Conrad in cui Kurtz viene descritto come «un uomo notevole», «un genio universale». Tanta dell’importanza della scoperta freudiana risiede però proprio nell’aver determinato l’ambivalenza dei sentimenti e specialmente di quelli più profondi. 11 Per inciso vorrei fare qui ancora due considerazioni. La prima è che la pubblicazione di Cuore di tenebra di Conrad avviene nel 1900 e coincide temporalmente con L’interpretazione dei sogni di Freud – anch’essa dello stesso anno. Si tratta di suggestive e contemporanee discese agli Inferi e esplorazioni delle radici della civiltà e della personalità umana. La seconda cosa è che il film immediatamente precedente di Coppola era, basti il titolo, Il Padrino, il cui valore ancora più risalta nell’originale angloamericano The Godfather che potrebbe essere tradotto letteralmente come “Il Dio Padre”. E il regista ha sempre elaborato in profondo i propri film, anche se spessissimo non ne è l’unico autore, ma si è avvalso di romanzieri, sceneggiatori, voci altre e narratori. 12 Prima di iscriversi alla facoltà di cinema all’UCLA, a Los Angeles, Coppola ha frequentato il corso di drammaturgia a Hofstra e il teatro era il fulcro dei suoi interessi. Da non dimenticare in questo senso che Paradise Now era il titolo di uno spettacolo che il Living Theatre metteva in scena alla fine degli anni Sessanta.

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il metodo scientifico che consente lo studio dell’inconscio» (Freud, “Discorso in occasione del suo 70° compleanno”; Id., L’interpretazione dei sogni, 1900, pp. 242-247). Concludendo, Coppola non ha letto Totem e Tabù ma in questo saggio convergono, semplificando brutalmente, Frazer e Edipo e dunque Coppola lo “conosce”, o lo intuisce profondamente perché ha letto Marcuse e perché in questa direzione giocano esplicitamente i Doors con “The End” ma anche – a livello più sottile – la trama sotterranea di Conrad e tutta una tradizione che muove dall’Edipo Re di Sofocle e arriva fino a Eliot passando attraverso un autore che è dietro Freud e che Coppola ha certamente letto, Nietzsche e La nascita della tragedia. Ecco come, usando un termine improprio, “magicamente”, o, per parafrasare la moglie del regista, grazie a «un lampo di intuizione», si collocano al loro posto tutte le tessere del puzzle. Il termine corretto è, naturalmente, grazie a “una serie di spinte coerenti, conscie e inconscie, culturali ma anche di logica artistica, ultraculturali e persino istintive”, nella loro somma dunque “enciclopediche”, per usare un termine di Eco. È così che Coppola intuisce la necessità della simmetria del finale in cui il piano “tribale” e quello edipico si affiancano e si sovrappongono in perfetta coerenza con il dettato freudiano. «Ieri sera io e Francis siamo saliti in camera da letto, faceva un freddo autunnale, abbiamo acceso il caminetto [...]. Francis ha cominciato a parlare del finale [...], non è ancora definito con chiarezza ma ogni volta che lo guarda, sembra che diventi un poco più nitido» (E. Coppola 1979, p. 244). Se è doppio dunque il finale nella sua complessa genesi fino a qui descritta, sciolta nella fiamma di un camino davanti a un talamo nuziale, resta ora da affrontare, sempre in chiave freudiana, direttamente il tema del doppio. Il doppio da Freud a Kurtz Se si presta attenzione, nel film c’è una continua duplicazione. Pur non volendo elencarle tutte poiché si tratta di un gioco quasi inesauribile, potrei partire da un mise en abyme davvero sottile. Nel villaggio vietnamita si aspetta l’arrivo del terribile Kilgore. Gli alunni della scuola fuggono guidati da una giovane maestra. Un bambino spaurito si attarda. È già Willard. La maestra, una ragazzina, una sorella, una piccola madre torna sui suoi passi e rischia la vita per salvarlo. Lo prende per mano e lo trascina via, come farà poi Willard 146

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con Lance. La maestrina che accudisce e salva il bambino è il anche doppio della “Vedova del Eroe” – la Sibilla che salverà Willard. Il gioco dei doppi non finisce qui e si snoda lungo tutto il film. Il capitano Colby è il doppio di Willard. Le mosse “d’arte marziale” provate da Willard davanti allo specchio all’inizio del film vengono ripetute da Colby nel tempio, ma le scimmiotterà anche l’“io bambino” di Willard, ovvero l’incantato e regredito Lance che è la parte primitiva e istintuale di Willard, il suo es primordiale. Allo stesso modo, il “tenente colonnello” Kilgore è il doppio del “colonnello” Kurtz e il suo monologo sul profumo di vittoria che si sprigiona dal napalm è raddoppiato dai monologhi di Kurtz sull’orrore e sulla morte. Per quanto riguarda la lettera testamento scritta da Colby alla moglie in cui parla dei figli, questa è il doppio della lettera che Kurtz invia idealmente a suo figlio e in cui fa cenno alla moglie. E ancora, sono proprio due gli scritti di Kurtz che vediamo: la sua tesi di dottorato e il dattiloscritto che Willard sfoglia dopo averlo ucciso. Anche i dettagli sono importanti. La donna vietcong che semina morte a tradimento con una bomba è duplicata dalla fanciulla vietnamita che viene uccisa a sangue freddo da Willard. Il bue sollevato dall’elicottero riappare alla fine del film in quello immolato dalla tribù Montagnard e il sacrificio iniziale della messa viene ripreso così dalla cerimonia pagana. Inoltre – ulteriore rimando al limite della blasfemia – subito dopo la Santa Messa c’è la barbarica «festa sulla spiaggia» di Kilgore e dei suoi uomini, un vero pasto totemico durante il quale la “belva” Kilgore vuole che gli sia servita carne «al sangue e non fredda». Nello stesso campo di Kilgore, poi, gli elicotteri «danzano come libellule» al suono della terribile “Cavalcata della Valchirie” esattamente come “i selvaggi” si muovono al ritmo tribale. Se tre poi sono le puttane, ovvero le conigliette, tre sono anche i generali e per chi non avesse capito il nesso, c’è un soldato a esplicitarlo; all’interrogativo «Chi comanda?», risponde infatti: «Non lo so amico io faccio il turno di notte. Faccio solo quello che mi dicono di fare. Sono solo una puttana». Per i tre generali c’è però un’ulteriore duplicazione: nel Quartier Generale “nero” di Kurtz, Willard parla con tre uomini bianchi: il fotoreporter, Kurtz e Colby. Gli animali impagliati del Quartier Generale “bianco” sono duplicati nella tana di Kurtz con una variante (blasfema?): qui, quelle che vediamo impalate, sono teste umane. Dunque il Quartier Generale lindo, pulito e falso è il doppio parodico del Tempio sacro, caotico e vero di Kurtz. Per non sbagliare, la scena dei militari che trascinano Willard prima sotto la doccia e poi al Quartier Generale “bianco” dove gli verrà co147

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municata la sua missione, è duplicata da quella in cui i soldati di Kurtz lo conducono al loro Quartier Generale “nero”, al cospetto del loro capo che gli conferma il senso della sua vera missione. Persino la morte di Kurtz è anticipata e duplicata dall’uscita di scena del fool e naturalmente, al posto delle sue risonanti parole – «L’orrore, l’orrore» – il suo doppio parodico dice: «Ecco come finisce il mondo, non un botto, ma con un pigolio». Possiamo continuare con altri esempi. All’inizio del film una mosca irrita Willard rendendo tangibile la forza dell’incubo che già impregna la stanza dell’albergo di Saigon, e verso la fine una mosca si avvicina a Kurtz nel suo antro. Ma se Willard tenta di afferrarla e non vi riesce, KurtzBelzebù la prende al volo. Non ci stupisce – conferma di una legge generale così insistita – che la “Vedova dell’Eroe” (francese) sia duplicata dalla vedova americana di Kurtz, di cui vediamo però solo una fotografia che la ritrae da giovane, come lo è ora la “Vedova dell’Eroe”. E ancora, l’apparizione del regista della troupe televisiva che grida di muoversi è replicata da quella del fotoreporter che intima di stare fermi. Però nel campo di Kilgore c’è anche una fotografa che cerca di immortalare vivi e morti e un medico che cura i bambini vietnamiti che sarà a sua volta duplicato dal racconto dell’orrore di Kurtz sulla vaccinazione e le braccia mozzate dei bambini. Se adesso allarghiamo lo sguardo alla «terra desolata» di Kurtz – un vero «girone d’Inferno» per dirlo invece con le parole di Conrad – vediamo che essa si appaia al «paradiso [...] caduto in terra» citato da Kurtz, rimando complesso al Paradise Lost di John Milton e a “Paradise now”, slogan hippie di cui Apocalypse Now è forse un’ulteriore parodia. Se ciò non bastasse, più complessivamente il film ci ripete più volte che il colonialismo francese, ma lo abbiamo già detto, è lo zombie di quello americano. E per venire al nostro protagonista, se già in Conrad c’erano due capitani, uno morto e uno vivo, che risalivano il fiume Congo, così in Apocalypse Now ci sono due capitani, uno fantasmatico e uno vivo, che percorrono il Mekong: si tratta di Colby e Willard. Nella colonia “fantasma” francese poi, ci sono due tavoli e la poesia dell’Albatros è raddoppiata da quella di Eliot o forse dalla storiella dell’angelo macellato e divorato perché, come vedremo, l’Albatros della poesia di Charles Baudelaire è anche un angelo (un “Re”) che non appartiene a questa terra. Tornando al cannibalismo rituale, se abbiamo due sacrifici, uno cattolico e uno di “idolatria pagana”, abbiamo anche due buoi macellati: il primo viene mangiato cotto in una “civile” festa country sulla spiaggia e l’altro squartato, e forse divorato crudo, in una “selvaggia” festa pagana. Peccato che i cosiddetti 148

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APOCALYPSE NOW: UNA LETTURA FREUDIANA E POSTFREUDIANA

“civilizzatori” americani siano dei macellai senza dio, mentre i cosiddetti “selvaggi” stiano invece compiendo un rito sacro. Ci sono anche due dialoghi tra figli e padri: quello che si svolge nella colonia francese anticipa quello tra Willard e Kurtz. Nella colonia Willard ascolta per la prima volta l’esortazione di un Padre a una giusta crudeltà: «La vita, a volte, è crudele», gli dice De Marais. E sempre lì, per la seconda volta viene ripreso il tema degli angeli. La prima volta ne aveva parlato all’inizio del film un generale citando, male, la loro funzione di essere custodi degli uomini, mentre – paradossalmente – sarebbe stata una cosa buona in questa guerra, farne un altro uso: mangiarli. Passando a un altro e più importante livello, sono due i gesti di Kurtz verso Willard a essere replicati. La prima volta il colonnello gli rovescia “in grembo” la testa – “vuota” e vana, da “uomo vuoto” – di Chef, la seconda gli articoli vuoti e menzogneri della stampa americana. Ma qui ci troviamo ormai al culmine del percorso iniziatico di Willard e alla fine del regno di Kurtz e il discorso si deve allargare. Questa infinita duplicazione dei dettagli minori anticipa, sottintende e prepara infatti quella, maggiore e imperfetta, tra Willard e Kurtz. Perché maggiore e imperfetta? Il valore del primo aggettivo è ovvio, e di questo raporto tra Willard e il suo Doppio (Kurtz) si parla fin dalle scene iniziali dello specchio, mentre il secondo richiede una precisazione. Willard infatti non è Kurtz e non lo diventa. Quello che è diventato uguale a Kurtz e, in quanto sua copia gli è subordinato, è un altro capitano, Kolby, di cui sappiamo ben poco dalle scarse ma significative righe inviate alla moglie: «Dimenticami, vendi la casa, fotti [vendi] i figli». Willard invece – che prende per mano Lance – non diventa né Colby né Kurtz, ma un altro uomo, non predefinito, ma responsabile. Probabilmente, e faticosamente, se stesso. Che il tema del doppio sia uno dei temi centrali del film – e implicitamente di Cuore di tenebra – lo sappiamo fin dall’inizio: già la lotta di Willard allo specchio è una lotta contro il doppio, contro un’immagine che ci appartiene ma non del tutto, nella quale ci riconosciamo e non ci riconosciamo. Il doppio, la riflessione su di sé come doppio, dice Freud, è una riflessione perturbante, sul perturbante. Non solo. Anche sul demoniaco. Perché, come ci ricorda Bachtin, il doppio è una faccia del demonio, del satanico. «L’eroe di Dostoevskij è sempre di fronte allo specchio, cioè guarda a sé e al suo riflesso nella coscienza altrui [...]. L’espressione di ogni sentimento è sempre complicata dal rapporto con l’altro [...], rapporto estremamente teso con la propria immagine riflessa nello specchio della co149

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scienza altrui, fino all’odio per questo specchio, fino al desiderio di romperlo [...]. Funzione del diavolo e dei doppi [...], questa dipendenza dall’altro (nel processo di autocoscienza e autosignificazione) è uno dei temi fondamentali in Dostoevskij» (Bachtin 1929-1961, p. 314 e Id. 1929–1962, p. 17). Tralasciando i complessi rapporti tra Conrad e Dostoevskij e evitando di ridiscutere del demoniaco e del luciferino dei nostri due Kurtz , resta da precisare qual è la verità di Kurtz, che è quello che Freud chiama, con ironico eufemismo, «il disagio della civiltà» (e il termine ritorna, con forte enfasi, in Marcuse). La civiltà nasce dalla violenza e dall’orrore e al tempo stesso li esorcizza. Conrad scrive di aver visto i «demoni della lussuria, del denaro, del potere», e implicitamente afferma di non avervi acconsentito, “fino ad ora”, “now”. L’orrore, la consapevolezza dell’orrore sono cioè il percorso della civiltà. Il campo di sterminio del Congo anticipa Auschwitz, ma non è il primo genocidio della storia, come, tragicamente, Auschwitz non sarà l’ultimo. Qualche interrogativo Chiuso questo lungo percorso, vorrei aggiungere qui, in forma dubitativa, questa domanda. Si celano ragioni commerciali e il tentativo di dare maggior velocità al film dietro il folle taglio della costosissima scena della colonia francese fantasma? Solo ragioni di ordine estetico? Coppola effettivamente non era contento dell’interpretazione dei suoi attori, lo dice esplicitamente sua moglie nel diario. Ma allora perché restaurarla? Di nuovo ragioni economiche o solo estetiche? Forse dietro vi si nascondono ragioni di ordine politico. Una frase come «Voi americani state combattendo [avete combattuto] per il più grande niente della storia», nel 1979 poteva provocare reazioni troppo forti. Forse però la ragione del taglio della scena della “Vedova dell’Eroe” risiedeva – anche – nel non voler rendere pienamente manifesta quella sotterranea corrente edipica la cui esplicitazione poteva sembrare la più notevole forzatura-interpretazione, peraltro invece legittima, del dettato di Conrad. Ho scritto “peraltro legittima” perché, per prima cosa, c’è una zia a Bruxelles che aspetta Conrad al ritorno dalla missione in Congo e poi Cuore di tenebra mette in scena l’uccisione di un padre e il ritorno a una madre della cui morte Conrad da bambino incolpava proprio suo padre. La scrittura permette, come del resto i sogni, di immaginare che le cose siano andate diversamente dalla realtà. Addirittura ro150

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vesciate. Cosa sognava Coppola nella scena dei Francesi? E nel tagliarla? E nel riproporla integra a distanza di più di vent’anni? Jean Starobinski, in un brillante saggio intitolato “Amleto e Freud” segnala che lo studioso austriaco costruisce la sua interpretazione edipica della tragedia di Amleto sull’ipotesi che il padre di Shakespeare fosse morto nel 1601 e che il poeta avesse riversato questo lutto nella scrittura della tragedia. Analogamente – secondo Starobinski – Freud avrebbe elaborato il lutto per la morte del proprio padre, avvenuta proprio a ridosso della scrittura dell’Interpretazione dei sogni, appunto nel denso lavoro di ricerca e scrittura che avrebbe portato al suo fondamentale libro del 1900. Alla luce di queste considerazioni si potrebbe sostenere, date alla mano, «una sorta di gemellarità» tra la genesi dell’Amleto – e della sua interpretazione freudiana – e la nascita della teoria psicoanalitica, e mi permetto di aggiungere, di una semiotica e psicologia delle arti. A distanza di quasi quarant’anni, però, ancora in quella tormentata pagina dell’Interpretazione dei sogni – aggiunge Starobinski – Freud cancella questa ipotesi: «ed ecco che questa gemellarità è negata». La scrittura dell’Amleto non ha dietro la morte del padre di Shakespeare. Che Freud desiderasse – aggiunge Starobinski – «in tal modo cancellare le tracce dei suoi inizi non sembra credibile. Non resta che avanzare l’ipotesi [...] che Freud in età così avanzata sentiva con minore intensità la situazione del figlio e che egli era entrato definitivamente nel ruolo del padre, di Mosè», ovvero del patriarca. E che questo oggi sia il ruolo di Coppola credo lo confermi anche la scelta di presentare integralmente il suo lavoro del 1979, ma con la precisazione del fatto che si tratti del reduce (Redux) di quella discesa edipica agli Inferi. Che questa fosse anche l’esperienza di Freud lo conferma l’epigrafe posta in esergo al suo L’interpretazione dei sogni, un passo tratto proprio dalle parole di Enea in cammino verso Acheronte con in mano il “Ramo d’oro” donatogli dalla Sibilla: «Flectere si nequeo Superos Acheronta movebo», cioè «Se non potrò piegare gli Dei, smuoverò tutti i diavoli dell’Inferno». In queste sentiamo riecheggiare le parole di Conrad quando descrive la dialettica – interna e indeterminata a priori – dell’inconscio: «La questione era stabilire a chi appartenesse lui, quante potenze delle tenebre ne rivendicassero il possesso. Era questa la questione che dava i brividi per tutto il corpo [...], aveva occupato un soglio eccelso tra i demoni di questa terra [...], lottava anche contro se stesso. Lo vidi – lo udii. Vidi l’inconcepibile mistero di un’anima che non conosceva ritegno, né fede, né paura, e che tuttavia lottava ciecamente contro se stessa». 151

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UN ALTRO FILO ROSSO: LA BIBBIA, I VANGELI E L’APOCALISSE

Barlow aveva appena cercato “apocalisse” nel dizionario. Una delle definizioni era “rivelazione di una conoscenza nascosta” Eleanor Coppola

Vi è un secondo filo rosso – oltre a Conrad – che attraversa tutto il film, il tema dell’Apocalisse con i riferimenti biblici ed evangelici connessi e non è certo casuale il fatto che Coppola abbia scartato come titolo Cuore di tenebra per scegliere Apocalypse Now1. Infatti, già le prime scene – gli incubi di Willard accompagnati da fiamme gialle e rosse, le immagini di guerra e di distruzione nella giungla sulle note di “The End” dei Doors e poi l’apparizione tragica dei “cavalieri della morte” della Bestia/Satana/Anticristo, ovvero Kilgore e i suoi terribili elicotteri – sono fortemente, e strutturalmente, apocalittiche e non possono essere comprese al di fuori di questo riferimento. Non solo, ma forniscono la prospettiva nella quale leggere l’intera opera di Coppola, a tutti gli effetti una grande metafora del finale “Giorno del Giudizio”. Sarà dunque questa prima parte del film che analizzeremo come fondamentale campo di verifica dell’assunto di questo capitolo dal momento che Apocalypse Now, nomen omen, appartiene al genere apocalittico e neoapocalittico e non può essere compreso al di fuori di questo fondante riferimento. Per prima cosa, quindi, mi soffermerei proprio sulla scena di Kilgore. La “Cavalcata delle Valchirie” degli elicotteri del tenente colonnello simboleggia e annuncia, in realtà, come già accennato, l’apparizione dei “Cavalieri dell’Apocalisse” con tanto degli squilli di tromba – equivalenti appunto a quelli dell’Apocalisse – annunciati dal tronfio Kilgore: «D’accordo figliolo, diamo fiato alle trombe». È rilevante in questo senso sia che Kilgore distribuisca sui cadaveri le “carte della Morte”2, richiamando alla 1 Ma su questo “scambio” di titoli ha certamente giocato una caratteristica strutturale dell’Apocalisse, ben illustrata da Eco: «Tutta l’Apocalisse ha questo elemento onirico [...] oggi diremmo che la visione si manifesta come evento cinematografico» (Eco 2007, p. 243). 2 È lo stesso Kilgore a chiamarle così: «Carte della morte. Servono a far capire a Charlie, ai vietcong, chi è stato», dice mentre avanza fra i cadaveri, scegliendo una carta e gettandola su un corpo o incastrandola dietro un orecchio.

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mente i versi «Ed ecco mi apparve un cavallo nero e [...] colui che lo cavalcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l’Inferno» (Apocalisse, 6, 5-8), quanto che il suo atteggiamento sia diabolicamente luciferino. Egli esercita un potere immenso per uno scopo ridicolo, ovvero dimostrare la propria superiorità razziale. La sua crudeltà lo spinge a irridere il nemico dicendo: «Charlie» – il vietcong – «non fa surf», cioè non può praticare il gioco elegante degli uomini bianchi. Willard a fronte di questa bestemmia razzista di Kilgore, più avanti commenterà: «Charlie non godeva di questi spettacoli, era troppo rintanato o si muoveva troppo in fretta. La sua idea di divertimento era un po’ di riso freddo e carne di ratto [...], aveva soltanto due modi di tornare a casa: la morte o la vittoria» e, alla luce di quello che sarebbe stato l’esito della guerra del Vietnam – la sconfitta del Golia statunitense da parte del Davide vietnamita – appare ancora più stridente la stupida alterigia dell’ufficiale americano di cui è evidente l’ascendenza nazista e razzista (Kilgore è anche lo zombie delle guerre e dei genocidi americani contro le tribù e le nazioni indiane). Inoltre, poiché Kilgore è tout court la Morte – nomen omen: to kill, uccidere – o, almeno si trova, altrettanto ontologicamente, sotto la protezione della Morte, intorno a lui c’è un’«aura particolare», «una strana luce» e lui in realtà non teme la morte. Gli esplodono tutt’intorno colpi devastanti, ma lui li trascura sprezzante, tanto da spingere Willard a commentare: «Sapeva che quaggiù non si sarebbe fatto nemmeno un graffio». Appunto, quaggiù, nel terrestre Regno del Male. Ma è altrettanto importante che Kilgore parli di vittoria, del «profumo di vittoria» quando in realtà incarna ontologicamente la figura del perdente. L’Apocalisse infatti si chiude (si chiuderà) con la sconfitta dell’Anticristo. È proprio questo nel film il senso della beffa detronizzante compiuta da Willard e Lance che rubano la tavola da surf a Kilgore e lo privano del suo emblema, della sua corona posticcia. Dunque il trionfo di Kilgore non è affatto eterno e si conclude anzi, con un pigolio, un lamento infantile: «Non ti farò del male, ma restituiscimi la tavola, Lance. Era una buona tavola, e mi piaceva. Sai com’è difficile trovare una tavola che ti piace». La comprensione di questa frase è possibile solo collegandola a un altro passo fondamentale del film e alle parole di un’altra delle figure chiave di Apocalypse Now, il fool-fotoreporter che, seppure non direttamente presente alla scena in questione, ne rende chiaro il senso e ne spiega il valore. Se Kilgore/lo “sterminatore” a cavallo – nell’Apocalisse 154

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il cavallo è simbolo di potenza e chi lo monta è padrone del mondo – è dunque, a tutti gli effetti, il Re delle Carte della Morte, il fool è sempre e comunque l’alter ego del sovrano, la sua coscienza segreta. Si comprende così quanto le parole del fotoreporter, diavolo di complemento – è un Arlecchino, lo sappiamo – siano, sia pur in una sequenza successiva, il degno commento all’ingloriosa frase di commiato di Kilgore. Al suo lamento per la tavola da surf sottratta, il fool risponde ironico con un rimando agli ultimi versi di The Hollow Men di Eliot: «Così finisce questo mondo del cazzo! Guarda in che merda ci troviamo! Non con un bang, ma con un gemito. E con un gemito mi tolgo dalle palle!». Dunque, il Belzebù Kilgore supplica, invano, che gli venga restituito lo scettro e il potere piagnucolando un: «Non ti farò del male, ma restituiscimi la tavola», ma Lance-Lancillotto e gli altri cavalieri della “Banda di strada” – questo il nome in codice di Willard e compagni – sono ormai sordi a queste lusinghe e non temono alcun Male: «I frutti che ti piacevano tanto / tutto quel lusso e quello splendore / sono perduti per te / e mai più potranno trovarli [...] / in un’ora sola è andata dispersa una così grande ricchezza» (Apocalisse, 18). Ancora, tra i passi dell’Apocalisse che si possono ricordare per comprendere il senso e il valore di questo primo, importantissimo episodio, in particolare vanno citati quelli dedicati – oltre che al «cavallo nero» e a quello «verdastro» – al cavallo «rosso fuoco» perché «a colui che lo cavalcava fu dato il potere di togliere la pace dalla terra». Coerentemente, prima dell’arrivo della “cavalleria” di Kilgore vediamo un piccolo villaggio vietnamita in pace di cui, poi, non resta, biblicamente, pietra su pietra. Se tutto questo non bastasse per capire perché la colonna sonora di questa scena è “La cavalcata delle Valchirie” di Richard Wagner, il biblista e arcivescovo Gianfranco Ravasi ci ricorda che il capitolo 6 dell’Apocalisse, quello in cui si parla dei Quattro Cavalli dell’Apocalisse, ovvero di Kilgore e dei suoi demoniaci elicotteri, è tout court «una cavalcata delle valchirie, cioè una avanzata violenta, terribile, implacabile con scoppi, con tuoni» (Ravasi 2006, p. 649). Ma torniamo alle trombe e in particolare alla quinta delle sette citate nell’Apocalisse, che sembra proprio descrivere l’arrivo della Cavalleria dell’aria: «una tromba [...] un trono nel cielo [...] dal trono uscivano lampi, voci e tuoni [...], un fumo come il fumo di una grande fornace, che oscurò il sole e il cielo [...], cavalli pronti per la guerra [...] avevano il ventre simile a corazze di ferro e il rombo delle loro ali come rombo di carri trainati [...] lanciati all’assalto [...]. 155

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Avevano corazze di fuoco, di giacinto, di zolfo [...] e dalla loro bocca usciva fuoco, fumo e zolfo [...]. Il loro Re era l’angelo dell’Abisso, che [...] in greco si chiama Sterminatore» (Apocalisse, 9, 1-11). Sinteticamente, alla luce di quanto detto e anche di quest’ultimo passo, possiamo dire che Kilgore è tout court l’Anticristo, «uno di quelli circondati da una strana luce», ovvero da una luce diabolica che l’ancora ingenuo Willard non percepisce subito in tutta la sua carica negativa e demoniaca. Kilgore, in realtà, nella sua essenza profonda, è una belva apocalittica e non è casuale che si nutra, come vedremo durante il festino che organizza sulla spiaggia, di carne calda e al sangue, e che non tema la morte dal momento che è uno dei Signori della Morte. La cavalcata di Kilgore è così tout court quella dei Cavalieri dell’Apocalisse e il titolo del film acquista così una fortissima pregnanza. Dopo questa valutazione complessiva, dobbiamo fare un’altra osservazione: il fatto che in questo contesto si celebri «una Messa cattolica» non è incongruo, anche se il simbolo non è univoco. In effetti non è neanche un episodio meramente surrealista, come è stato a volte definito, ma si tratta di un particolare – costituito da una serie di brevi fotogrammi non dialogati ma loquacissimi – che si inserisce nella logica apocalittica che governa l’episodio in questione e il film nel suo complesso. In primo luogo va rilevato che questa Messa viene celebrata usando una lapide come altare e si svolge tra le tombe, dunque tra morti, tra cadaveri in attesa della Resurrezione, o forse siamo esattamente nel campo di battaglia descritto dall’Apocalisse, «Armageddon», dove si scontreranno per l’ultima volta le forze del Bene e quelle del Male. Diventa rilevante allora, in questa rappresentazione dell’Ultimo Giorno, che uno tra i primi incontri di Willard in Vietnam sia quello con una barca di redivivi, la “Lazzaro” e che l’Apocalisse sia un registro di morti, resurrezioni e giudizi universali: «Vidi poi un grande trono bianco e Colui che sedeva su di esso [...], poi vidi i morti, grandi e piccoli, ritti davanti al trono. Furono aperti i libri [...], i morti vennero giudicati in base a ciò che era scritto in quei libri, ciascuno secondo le sue opere. Il mare restituì i morti che esso custodiva e la morte e gli Inferi resero i morti da loro custoditi» (Apocalisse, 20). Ma vi è di più. Infatti, se la Messa del film da un lato rimanda a un simbolo centrale nell’Apocalisse, ovvero l’“Agnello immolato”, essa ci ricorda sì il sacrificio di Cristo, ma anche – con un rimando ulteriore e evidente che però a alcuni può sembrare blasfemo – il sacrificio di Kurtz e 156

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quello contemporaneo del bufalo3. In realtà le due cerimonie, quella “cattolica” e quella “pagana” – una in apertura, l’altra simmetricamente in chiusura del film, perché «Io sono l’Alfa e l’Omega», ovvero l’inizio si rovescia nella fine e viceversa – sono equivalenti, muta “solo” il contesto culturale. Dato ciò è anche chiara la posizione di equidistanza di Coppola, che si basa sulle tesi “laiche” di Frazer e della Weston. Rafforza quest’interpretazione la considerazione che, se la messa cattolica è celebrata in un cimitero usando, per citare le parole dello script del 2001, «una lapide come altare, nel bel mezzo del bombardamento», queste sono le simmetriche parole di Chef verso la fine del film, poco prima che Willard sacrifichi e uccida Kurtz: «Non mi fanno paura tutti quei cazzo di teschi e altari e stronzate varie. [...] Allora, cosa vuole fare? Glielo uccido io, lo stronzo». Inoltre, per quel che riguarda il duplice sacrificio, quello cattolico che apre il film e quello pagano che lo chiude – ovvero il ricordo del sacrificio di Cristo da una parte, e l’uccisione del bufalo e del Re-Totem-Padre Kurtz dall’altra – è da notare che una corrispondenza tra le due liturgie è legittimata dal dettato di Conrad: «In una notte quieta il fremito di tamburi lontani calava, si faceva più forte, un fremito immenso, fievole, un suono misterioso, commovente, suggestivo e selvaggio – e forse carico di significato come lo scampanio in un paese cristiano». Tamburi e campane devono dunque essere considerate preghiere analoghe? E allora, ci si chieda quale sia il vero volto di Dio. Forse la risposta è nei versi apocalittici di un grande poeta cattolico, Mario Luzi: «e Lui forse è là / fermo nel nocciolo dei tempi / là nel suo esercito di poveri [...] uno e incalcolabile / come il numero delle cellule. / Delle cellule e delle rondini».4 3 Sempre a conclusione della scena di Kilgore e prima della Messa compare ancora un bovino sollevato da un elicottero. Voglio sottolineare che questa apparizione è una “rima interna” e una precognizione del bue che sarà sacrificato ritualmente alla fine del film. Ancora una volta la fine (“The End”) – coerentemente a una precisa tensione dell’Apocalisse che ci ripete «Io sono l’Alfa e l’Omega» – si rovescia nel principio e viceversa. Quanto a “rime interne”, se la scena iniziale si svolge in un cimitero e dunque tra i cadaveri – eccone un’altra, presente già in Conrad, in cui sono i cadaveri a ornare la reggia di Kurtz, facendo eco al verso apocalittico: «I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città» (Apocalisse 11,8). 4 Rilevante anche l’incipit di questa poesia contenuta nella raccolta Al fuoco della controversia del 1978: «A che pagina della storia a che limite della sofferenza / mi chiedo bruscamente, mi chiedo / di quel suo “ancora un poco / e di nuovo mi vedrete” detto mite, detto terribilmente // e Lui forse è là / fermo nel nocciolo dei tempi / là nel suo esercito di poveri [...] uno e incalcolabile / come il numero delle cellule / Delle cellule e delle rondini».

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Se ormai è evidente che Kilgore è il Signore del Male, dobbiamo concludere che la festa sulla spiaggia organizzata da lui e dai suoi soldati sia un consesso di esseri infernali, un «sabba» direbbe Conrad, in cui si programmano morte e distruzione. È inutile dunque, anche se carico di valore, l’esorcismo che fa da contraltare all’apparizione di Satana e dei suoi diabolici accoliti, ossia la recita dell’intero “Padre Nostro”, per di più con un richiamo al sacrificio della Santa Messa: «Obbedienti alla parola del Salvatore e formati al suo divino insegnamento, osiamo dire: Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo, così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non c’indurre in tentazione, ma liberaci dal male». Il Male, e con esso la guerra, il massacro, lo spreco, la follia però cominciano già da lì, in quell’istante, e mentre le parole della preghiera, pure nettamente distinguibili, si spengono, comincia il sabba e l’azione, diabolica e apocalittica, di Kilgore: «Allora apparve un altro segno dal cielo: un enorme drago rosso [...] la sua coda trascinava giù un terzo delle stelle» (Apocalisse, 12). Questa realtà ulteriore è però camuffata sotto le innocue spoglie di un beach party con tanto di chitarre e canzoni country, ma al di là della maschera indossata, Kilgore è e resta il Male, l’Anticristo e, se osserviamo bene, il suo personaggio è sempre sinistro e inquietante e le ombre della notte lo rendono davvero sulfureo. È, lo ripeto, una belva assetata di sangue che sì non teme la morte, ma che del diavolo beffato ha anche un’altra caratteristica, la stizza. Forse però la coincidenza più significativa e rivelatrice è che la più strenua oppositrice di Kilgore sia una donna vietcong. Come nell’Apocalisse biblica l’opposizione più recisa era consegnata a una Donna che si opponeva al Drago, in Apocalypse Now la donna vietnamita è l’unica che riesce a colpire davvero il tenente colonnello e i suoi scherani facendo esplodere uno dei suoi elicotteri. Del femminile in Apocalypse Now abbiamo già fatto cenno, e ora invece, voglio fornire alcune rapidissime indicazioni su altri passi, personaggi e temi del film che si inseriscono e trovano senso, come l’episodio ora analizzato, solo in connessione con la tradizione apocalittica. In primo luogo, il prologo è la vera mise en abyme del film: la lotta di Willard con lo specchio non è solo la lotta contro il suo doppio, ma richiama anche, per radicalità ontologica, lo scontro decisivo tra le forze del Bene e del Male nell’Armageddon. Ma è apocalittica anche la colonna sonora dei Doors che richiama – fin dal titolo – proprio la fine dei tempi. Inoltre, che il film si apra e si chiuda con la stessa canzone – seguendo uno 158

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schema a anello – potrebbe essere un richiamo alla circolarità del tempo biblico: «Io sono l’Alfa e l’Omega / il Primo e l’Ultimo / il Principio e la Fine» (cfr. Apocalisse, 21, 6 e 22, 12). In questa tensione apocalittica si inserisce inoltre perfettamente la polemica contro Babilonia, la grande prostituta, una vera costante che va oltre gli episodi di esplicita prostituzione come quello delle playmate che è, nondimeno, un misto di mercimonio e idolatria. Se ieri la Babilonia dell’Apocalisse era certamente Roma, oggi è l’America. Questo è un punto decisivo per comprendere perché il titolo del film non è Cuore di tenebra ma Apocalypse Now. La polemica non è cioè contro gli imperialismi di ieri, quello inglese, francese o belga, ma contro gli Imperi di sempre, Roma l’Eterna e gli Stati Uniti. È un punto fondamentale ed è da qui che parte la polemica contro la Città del Male, contro Babilonia, contro la Capitale rappresentata, nel film, da Saigon che è emblema a un tempo di Roma, di Washington e dell’ipocrisia della Casa Bianca («sepolcri imbiancati»). Analizziamo la prima battuta del film: «Saigon. Merda». Ci troviamo davanti a un riferimento scatologico che diviene escatologico, apocalittico. Babilonia nell’Apocalisse è un escremento e la sua fine è segnata: «Guai, guai, immensa città / Babilonia possente città / in un’ora sola è giunta la tua condanna» (Apocalisse, 18, 9). E mentre nell’Apocalisse alla falsa Capitale si contrappone la Città di Dio, «la città Santa, la nuova Gerusalemme» (Apocalisse, 21, 2), ancora all’inizio del film c’è un secondo sottile rinvio all’ipocrisia del “Falso Bene”. Una voce alla radio trasmette infatti una comunicazione del sindaco di Saigon e mostra quanto sia abietto e marcio, falso e ipocrita, il Male: «He’d like you to hang your laundry indoors, instead of on the windows. The mayor wants you to keep Saigon beautiful»5. Più in generale, partendo dall’assunto che la guerra in Vietnam è stata una vera ed intera Apocalisse – in cui hanno trovato spazio tutti gli apocalittici «sette flagelli [...], folgori, clamori, tuoni [...], morte, lutto, fame [...], un fuoco scese dal cielo e li divorò» (cfr. Apocalisse, 15, 16, 18, 20), tutti presenti nel film in forma esplicita o metaforica – tralascio di riepilogare ogni episodio e passo direttamente a parlare del punto più alto del film, ovvero dell’entrata in scena del doppio del tenente colonnello Kilgore, il colonnello Kurtz. In primo luogo non va dimenticato che Apocalypse

5 Nella versione italiana l’annuncio suona così: «il sindaco desidera che teniate il bucato in casa, invece che sul davanzale. Il sindaco vuole che teniate bella Saigon».

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Now è (anche) una discesa agli Inferi e che – come ci insegna Dante – al centro dell’Inferno si trova Satana. È significativo dunque in questo senso che tra i libri di Kurtz vi sia, come abbiamo già rilevato, proprio il Faust di Goethe che racconta esattamente di un patto con il Diavolo: è infatti la scelta lucida del Male il vero rito innominabile paventato in Cuore di tenebra, non certo, come ha detto molta critica conradiana, strane pratiche sessuali o alimentari. Però Kurtz non è solo anus diaboli, non è solo il «buco del culo del mondo», come ricorda a Willard e compagni, arrivati in prossimità di Kurtz, il tenente Carlson dando loro il benvenuto: «Siete nel buco del culo del mondo, capitano!». Kurtz non è solo – anche lui – Satana e l’Anticristo, è anche, in qualche modo e anche contraddittoriamente, una figura cristica e in questo senso ha ragione Alonge a ricordarci che «nella sequenza dell’attacco di frecce, sullo schienale dietro la mitragliera di Lance si legge la scritta gods country, ed è quasi una didascalia che ci annuncia l’entrata nel regno del Dio-Padre Kurtz» (Alonge 2001, p. 70). Certo, un lampo di questo genere in realtà c’è anche in Kilgore e dimostra che le cose hanno sempre un aspetto paradossale e carnevalesco: in ultima analisi infatti i suoi “ragazzi” del Settimo Cavalleggeri Aviotrasportati sarebbero “i buoni”, i Paladini dell’Occidente, gli “Angeli di Dio” e in effetti Lucifero era appunto il primo degli angeli di Dio, ma torniamo a Kurtz. C’è un fotogramma in particolare che illumina il suo aspetto cristico. È l’unica scena in cui Kurtz è in campo aperto, alla luce, ed è circondato da un gruppo di bambini felici che ridono. Già in un altro passo era stato detto «Sono tutti suoi figliuoli», ma qui il punto rilevante è che Kurtz irride e controbatte concretamente le menzogne della stampa, facendone una cernita precisa e efficace e lanciando un’altra criptocitazione cristologica, sottintesa, ma pure esplicita: «Io sono la via, la verità e la vita. Lasciate che i bambini vengano a me». Non solo, ma il colonnello Kurtz che legge i giornali e ne stigmatizza la falsità, in realtà predica la Verità che viene tradotta così dal suo fool: «Questa è dialettica [...] senza forse, senza supposizioni, senza frazioni [...] okay? La logica dialettica è che c’è soltanto amore e odio. O sia ama qualcuno o lo si odia». Ovvero, con le parole del Vangelo: «Se sì, sì e se no, no, e il resto è del Demonio». Nondimeno, la scena più significativa del film è certamente quella del sacrificio di Kurtz, che avviene contemporaneamente a quello del bue. Ma mentre l’animale – ovviamente – tace, nelle parole pronunciate da Kurtz, «Avete il diritto di uccidermi, ma non il diritto di giudicarmi», si avverte l’eco di quelle di Gesù: «Il mio regno non è di questa terra» (Giovanni 18,36), 160

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come della sua immagine complessiva durante la Passione. «Non avevo mai visto un uomo più spezzato, più straziato di lui», queste sono le parole (blasfeme?) del fool riferite a Kurtz. Nonostante tutto questo – e sarebbero ancora da citare, con un sorriso e sbrigativamente, «Operazione Arcangelo» e «Onnipotente è in ascolto», che sono, rispettivamente, il nome in codice di una delle feroci operazioni belliche americane e la parola d’ordine per le comunicazioni col Quartier Generale, e gli altri simboli biblici cioè la tigre, le orde di cavalieri, le distruzioni dei templi, ecc. – all’Apocalisse di Coppola manca qualcosa di decisivo: l’effettivo ritorno di Cristo, l’Agnello trionfante, e la Gerusalemme celeste. Eppure, Apocalypse Now non è un film senza speranza. Forse è senza redenzione, ma non senza speranza. Willard è arrivato in Vietnam per adempiere a una missione. «Per i miei peccati loro mi hanno dato una missione», dice all’inizio del film e alla fine lascia il tempio pagano e ritorna di nuovo verso la cosiddetta “civiltà” per portarvi il senso della sua Odissea e del Vangelo contraddittorio di Kurtz. In coerenza a questo gesto finale di Willard, Coppola dunque ci porta il suo film che è una rivelazione, una nuova Apocalisse, la speranza di una rinascita. Speranza minima, certo, ma indistruttibile perché legata alla responsabilità individuale che il regista esercita e suggerisce allo spettatore partecipe. Non bisogna cioè mai dimenticare – come dice Cometa in uno dei più begli interventi scritti su Apocalypse Now – che «la scrittura apocalittica è sempre scrittura eversiva per eccellenza. Qui e ora». La scrittura apocalittica – e il film di Coppola ne fa parte, ormai è evidente – porta sempre con sé scandalo e richiesta di coinvolgimento sociale e individuale. In questo senso – ed è ancora Cometa a ricordarcelo – il teologo Hans Urs von Balthasar ha potuto scrivere che «la storia è l’apocalisse (cioè l’apertura) della decisione pro o contro dio» e, mi permetto di aggiungere, pro o contro l’uomo. E questo avviene, precisa ancora Cometa, non alla fine dei tempi, ma in ogni tempo, in ogni momento. Ovvero, come è scritto sul muro sbrecciato che ci apre le porte del regno di Kurtz: «Our motto: Apocalypse now!». Se un tratto dell’Apocalisse è, come dice Ravasi, «l’aspetto metafisico di polemica con il presente», il testo di Giovanni è, conseguentemente, anche «un libro dell’impegno concreto [...], dell’impegno per la lotta [...], anche politica» (Ravasi 2006, pp. 592 e 672). È qui la nota di attualità, morale e politica, di Apocalypse Now e la ragione di ripresentarlo oggi, dopo l’attacco alle Torri Gemelle e la guerra contro l’Iraq.

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Ancora su Frazer, Mircea Eliade e la teoria del sacro Dato tutto questo, non credo sia una scelta banale quella per cui Coppola accosta il backstage di Apocalypse Now (1979) a quello di Un’altra giovinezza (2007), il film tratto dal romanzo omonimo di Mircea Eliade. Il titolo complessivo che sceglie è Trent’anni dopo, per dire che c’è una continuità tra le due riflessioni, anche se non tra i due film, e forse vi è anche un richiamo a Alexandre Dumas e al suo romanzo Vent’anni dopo (ed in effetti Coppola è un grande autore di “cineromanzi”, e l’apice lo ha raggiunto con Dracula di Bram Stoker del 1992). Quale legame dunque? Una nota di Pier Paolo Pasolini forse può servirci da indicazione. Scrive Pasolini che Mircea Eliade, sulla scorta di Frazer, «non presenta con il dovuto coraggio e la dovuta chiarezza il cristianesimo come una delle tante religioni del mondo con gli annessi “mitologemi”, i più comuni e usuali: il Dio Primo [...] che incarica un “messaggero” (o “figlio”) dei rapporti con il mondo; la fecondazione di una vergine; il sacrificio espiatorio; la discesa agli inferi e la resurrezione [...]. Azioni mitiche che si ripetono pressoché identiche in tutte le religioni storiche, cioè contadine (che peraltro conservano sempre in sé alcuni nuclei centrali, o “mitologemi” primi, delle religioni preistoriche, quelle dei Raccoglitori o dei primi rozzi Seminatori, i Seminatori di tuberi). Non c’è oggettivamente alcun salto di qualità tra i “mitologemi” del cristianesimo e quelli di ogni altra religione contadina. O meglio, ciò che differenzia il cristianesimo dalle altre religioni è l’accettazione della storia e della sua unilateralità. Insomma ciò che il cristianesimo ha di originale è Cristo [...]; le vecchie religioni contadine [...] hanno e hanno sempre avuto bisogno [invece] di un modello assiologico della fecondazione e della rinascita stagionale delle messi. La loro è [invece] [...] la religione “dell’eterno ritorno”» (su queste posizioni di Pasolini cfr. Pozzetto 2007) e il commento audio fatto al film nel 2006 dal regista stesso). Il problema della continuità (identità?) tra “religioni contadine”, “riti di rigenerazione” e cristianesimo se lo era posto – come afferma giustamente Pasolini – anche Frazer e, sulla sua scia, anche Coppola che, proseguendo questo percorso di ragionamenti, incontra il grande storico delle religioni e romanziere Eliade, ed è in questa prospettiva di riflessione sul sacro e sul religioso, sulle tradizioni del sacro e del religioso (questa la linea di continuità in Coppola) che dobbiamo fare un’ultima considerazione. Abbiamo già segnalato il collegamento tra la Messa, Kilgore, il sacrificio del Caribù e quello di Kurtz; ma vi è un altro rimando, un rinvio, o una “rima” tra un gesto di Kurtz e uno di Willard che si riconnette a questi 162

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temi che, per semplificazione, chiamiamo “religiosi” e al problema dei legami tra tradizioni religiose. Dinanzi a Willard, Kurtz/Marlon Brando si bagna il capo e, dopo essere riemerso dal suo arcaico e blasfemo battesimo, chiede al suo interlocutore: «Ha mai preso in considerazione le vere libertà? Libertà dalle opinioni altrui. Addirittura dalle proprie?», ma anche Willard deve riemergere dalle acque, cioè rinascere, prima di far rifiorire, con il sacrificio consapevole di Kurtz, la «terra desolata». Se quanto asserito può sembrare azzardato6, anche qua ci viene in soccorso Frazer. Nel capitolo sui giardini di Adone, infatti, l’antropologo inglese ci ricorda che era praticata l’usanza di bagnarsi per rimettere i propri peccati e che «sotto l’impero romano» era diffusa anche «la teoria di una rinascita e una assoluzione delle colpe attraverso lo spargimento del sangue». Ancora una volta ogni cosa – persino l’acqua e il sangue – ha in Apocalypse Now il suo doppio, ma resta aperto il problema di cosa sia sacro e cosa blasfemo. Scrive ancora Frazer – ed è una delle molle più profonde e inquietanti della sua opera che credo Coppola abbia ben colto: «La Chiesa cattolica ha sempre portato davanti ai suoi fedeli [...] la morte e resurrezione del Redentore [...]. Pensando a quanto spesso la Chiesa sia abilmente riuscita a innestare il seme della nuova fede nel ceppo del paganesimo, possiamo supporre che il rito pasquale di morte e resurrezione di Cristo fosse innestato sull’analoga morte e resurrezione di Adone» (cfr. Frazer 1922, p. 393, maiuscole di Frazer; cfr. anche per un approfondimento Jung 1912). Vorrei infine riportare qui – a incerto baluardo, precario e incompleto tentativo di distinzione, di comprensione e anche di catalogazione storica e scientifica di cosa sia sacro e cosa non lo sia, di cosa sia giusto e cosa non, ovvero, in ultima analisi, il tema dell’Apocalisse e di ogni Sacra Scrittura, ma anche di quel breviario laico che sappiamo essere Apocalypse Now – l’aforisma di Tzvetan Todorov già citato nell’introduzione: «Il sacrificio è un delitto religioso, lo sterminio e il genocidio sono ateismo»7.

6 Leggendo con attenzione questo ingresso in un villaggio descritto da Conrad, si può però notare che anche lo scrittore è capace di giocare con il fuoco cioè, fuor di metafora, con le immagini sacre della tradizione cristiana: «non arrivarono [...] chiodi [...], arrivò un asino con sopra un bianco vestito di nuovo [...] che si inchinava a desta a manca davanti ai pellegrini meravigliati». 7 Per l’esattezza questa è una rielaborazione di un aforisma di Todorov contenuto in La conquista dell’America, Il problema dell’“altro” che recita esattamente: «Se il sacrificio è un delitto religioso, il massacro è un delitto ateo» (Todorov, 1982, p. 176).

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ALTRE TRACCE PER APOCALYPSE NOW: CITAZIONI E RIFERIMENTI CULTURALI

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THOMAS S. ELIOT E LA CITAZIONE CRITICA COME TECNICA COMPOSITIVA E FORMALE

Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine. Thomas S. Eliot, La terra desolata

Scrive Thomas S. Eliot: «La mia prima intenzione fu di indicare tutti i riferimenti per le mie citazioni, con l’intento di spuntare le armi dei critici delle mie poesie precedenti che mi avevano accusato di plagio [...] così mi misi ad ampliare le note [...], me ne pento poiché le mie note hanno stimolato il tipo sbagliato di interesse di ricercatori di fonti. Era giusto, senza dubbio che pagassi il mio tributo all’opera di Jessie Weston; ma mi rammarico di aver spedito tanti ricercatori a una vana caccia dietro carte di tarocchi e il Santo Graal». La sapienza ironica di Eliot ci permette di dire subito che l’intento di questa seconda parte non è quello di completare l’elenco dei punti di riferimento di Coppola, ma di cercare di capirne la ragione di principio e il senso complessivo. Di certo l’elenco che presenteremo ha l’ambizione, se non di essere esaustivo, almeno di segnalare alcune ulteriori e importanti referenze letterarie e ultraletterarie del film. Inoltre, data la vastità degli argomenti trattati, le schede non hanno alcuna pretesa critica, ma di mero regesto. Dunque, quello che segue è un elenco di schede funzionali all’analisi di Apocalypse Now e a una sua comprensione artistica. Fermo ciò, intanto possiamo ribadire che la principale differenza stilistica tra Conrad e Coppola – il contenuto è analogo ed è costituito in sintesi da Frazer più Edipo – è proprio nella presenza, in Coppola, di quello che possiamo chiamare il “citazionismo critico” di Eliot, ovvero la tecnica del grande poeta anglo-americano di inserire nella vicenda narrata nella Terra desolata insistiti riferimenti, appunto, a Frazer, ai riti di rigenerazione stagionale, al Graal e a una cinquantina di altri topos letterari e culturali. Ma quelli usati da Eliot non sono soltanto riferimenti “alti”, legati in qualche modo alla cultura “ufficiale”, alcuni provengono anche dalla cosiddetta cultura di massa o popolare1. Sono sistematici, prima in Eliot e

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L’uso di questi termini è meramente descrittivo. Per un uso critico cfr. Jachia 2007.

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poi in Coppola, la giustapposizione e l’accostamento di elementi culturali “alti” e “bassi”, di vicende “storiche” e vicende “quotidiane”. Per esempio – ma si tratta di un elenco assolutamente incompleto – nel poemetto di Eliot troviamo Ovidio, Petronio, Dante, William Shakespeare, Sant’Agostino, Richard Wagner e Charles Baudelaire, ma anche le canzonette oscene, lo slang popolare, i tarocchi e gli oggetti e le situazioni di uso quotidiano. Questo è un procedimento che possiamo chiamare, con le parole di Bachtin, «carnevalizzazione» o compresenza stilistica plurima. Dunque a Coppola arriva da Eliot non solo La terra desolata come metafora complessiva per descrivere sinteticamente il Regno di Kurtz, ma soprattutto la tecnica compositiva “ad assorbimento” del poeta, di cui il poemetto è esempio e vertice stilistico. Eliot è dunque un punto di riferimento imprescindibile per Coppola. Ma, vista la rilevanza di quanto detto, vorrei ribadire che il punto da cui partire per comprendere il citazionismo coppoliano è che il regista legge Conrad, e anche Frazer, alla luce di Eliot e dunque mettendo in evidenza il tono apocalittico complessivo proprio della Terra desolata e questa è un’ulteriore giustificazione della scelta di Apocalypse Now come titolo rispetto a Cuore di tenebra, che pure sarebbe stato legittimo a livello contenutistico2. Sintetizzando ancora in una formula: se Conrad è il contenuto, Eliot è la forma (culturale) del film di Coppola. A questo punto, è però importante ricordare che quella di Eliot non è stata un’invenzione solitaria, ma il portato delle grandi avanguardie storiche primonovecentesche. È significativo dunque che Eliot arrivi a discutere della tecnica artistica usata nella Terra desolata e negli Uomini vuoti – le poesie citate nel film – proprio parlando di uno dei vertici dell’arte carnevalesca del Novecento, l’Ulisse di James Joyce: «Usando il mito, instaurando un continuo parallelo tra il mondo contemporaneo e il mondo antico, Joyce sta seguendo un metodo che altri dovranno seguire dopo di lui. Ed essi non saranno imitatori, bensì null’altro che scienziati intenti ad utilizzare le scoperte di Einstein per seguitare in autonomia le loro future ricerche. Si tratta semplicemente di un modo di controllare, ordinare, dare forma e significato all’immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea. È un metodo già

2 È noto che nella prima versione di The Waste Land, che contava circa il doppio dei versi, era espressamente citata l’Apocalisse di Giovanni nel verso: «Io, Giovanni, ho visto queste cose, e le ho udite».

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adombrato da Yeats, e della cui necessità credo che Yeats sia stato il primo contemporaneo a rendersi conto. E, lo credo, seriamente, un passo verso la possibile resa del mondo moderno in termini artistici. [...] La psicologia, [...] l’etnologia e Il ramo d’oro di Frazer hanno concorso a rendere possibile ciò che alcuni anni fa non lo era [...]. Invece del metodo narrativo, noi possiamo ora usare il metodo mitico». Tralasciando di approfondire, dal momento che lo abbiamo fatto per l’intera prima parte del libro, quanto sia stato importante per Coppola il mix “psicologia”, Frazer e Eliot, è ora fondamentale sottolineare che il massimo esempio primonovecentesco in prosa di questo “citazionismo critico” – locuzione che preferisco a quella più ambigua coniata da Eliot, «metodo mitico» – è appunto l’Ulisse di James Joyce, in cui le vicende narrate hanno un complesso legame non solo parodico, ma più esattamente carnevalesco ovvero serio-comico, con l’Odissea di Omero. Allo stesso modo, nell’ambito del secondo Novecento, lo è Apocalypse Now di Coppola, il cui plot ha delle connessioni genetiche con Cuore di tenebra di Conrad e anche, strutturalmente – e lo stiamo approfondendo – con Eliot e La terra desolata. L’essenza di questa tecnica, il “citazionismo critico”, consiste nel fatto che il lettore/spettatore avverta sempre nel testo che sta affrontando la presenza di un “doppio registro”, cioè di continui echi e rimandi a altre opere e altri contesti3. Spostando la tecnica di Eliot in ambito cinematografico – e specialmente in Apocalypse Now, ma non solo – acquista ulteriore importanza la tecnica del montaggio. Gli episodi hanno una loro forte autonomia, ma non vengono solo giustapposti, ma connessi al senso della vicenda complessiva che però non è immediatamente evidente in tutta la sua portata, ma può essere compreso solo a una lettura critica che illumini, appunto, connessioni e passaggi. Questo dunque è il modo in cui Coppola ordina le sequenze di Apocalypse Now, secondo la testimonianza della moglie del regista: «Francis mi ha spiegato che ogni sequenza del film si evolve in quella seguente e lo stile cambia, si trasforma di scena in scena, perciò è come se il pubblico procedesse nel viaggio mano a mano che accetta ogni nuova sequenza» (E. Coppola 1979, p. 205). Il suo metodo, che possiamo definire citazionistico e carnevalesco, è stato confermato anche dal regista che in un’intervista ha dichiarato: «L’ho girato nel più

3 In coerenza a questa impostazione, Dispacci di Michael Herr è la migliore storia della guerra del Vietnam, ma non è stata scritta in chiave realistica o documentaristica.

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volgare, divertente, eccitante, pieno di azione sensoriale [...], una scossa ogni cinque minuti [...]. Comprende tutto, sesso, violenza e umorismo emozionante» (F.F. Coppola, Hearts of Darkness - Diario dell’Apocalisse, 1991). Non solo, ma caratteristica strutturale e formale, prima ancora che meramente contenutistica, del film è la compresenza di tempi e luoghi storici diversi: Kilgore non è solo Kilgore, è anche il generale Custer; la coniglietta travestita da squaw è anche un’indiana prostituita e violentata da Custer; la Messa all’inizio del film è anche il sacrifico di Kurtz e del Caribù, e via dicendo. Coppola ha imparato questo “trucco” proprio leggendo Eliot e le grandi avanguardie artistiche del primo Novecento. Facciamo un esempio che si rivelerà non casuale se consideriamo la guerra del Vietnam un conflitto imperialista, e partiamo dall’assunto che, come dice Galvano Della Volpe proprio parlando della Terra desolata, «tutte le guerre imperialistiche sono una sola medesima guerra» (Della Volpe 1968, p. 37). Scrive Eliot: «Nella fosca nebbia di un’alba invernale / una folla fluiva sul London Bridge, / così numerosa / ch’io non avrei mai pensato che morte tanti ne avesse disfatti. / Sospiri brevi e rari erano esalati / e ognuno fissava gli occhi a terra davanti a sé. / [...] Là vidi uno che conoscevo, e lo fermai chiamandolo: Stetson! / tu che fosti con me sulle navi a Milazzo! / quel cadavere che piantasti l’anno scorso nel giardino ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno?». Stetson dunque è un guerriero del mondo antico che attraversa i millenni – la battaglia di Milazzo del 260 a. C. concluse sostanzialmente la Prima Guerra Punica sancendo la vittoria di Roma su Cartagine e dando inizio all’Impero Romano – ed è, al tempo stesso, un reduce dell’appena conclusa Prima Guerra Mondiale. Quindi è un soldato della prima guerra imperialista romana e dell’ultimo – a quei tempi – confitto imperialistico. Alla luce di quanto detto, vorrei sottolineare che Kilgore è un doppio del generale Custer con indosso un cappello da cowboy, uno stetson nero. Kilgore quindi richiama non solo Custer, ma forse anche lo Stetson di Eliot che nella Terra desolata gioca sull’ambiguità tra un cognome molto diffuso e un particolare tipo di copricapo. Eliot comunque e sostanzialmente ci dce che tutte le guerre sono in realtà una sola, uno scenario intercambiabile e non dimentica di citare, anche in questo passo, l’Inferno di Dante (canti III e IV). Prontamente Coppola replica che la guerra in Vietnam è anche la guerra contro gli indiani, che Kilgore è (anche) Custer, i vietcong sono (anche) gli indiani d’America e, in un gioco complesso ma eviden170

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tissimo di scambi, le prostitute bianche sono vestite da squaw indiane, ovvero da vietnamite. L’incrocio di luoghi e culture infrange anche la distinzione tra la cosiddetta cultura “alta” e quella “bassa”. E così, prima di tornare a quella propriamente “alta” vediamo – davvero alla rinfusa – un po’ di “citazioni” presenti nel film e estrapolate dai miti della cultura “popolare” o di massa. All’inizio del film c’è una spy story con tanto di pistola automatica sulle lenzuola, mentre Kilgore e le playmate ricordano John Ford e l’epopea del West e poi ci sono la festa sulla spiaggia e i Beach Boys, mentre la caccia alla tigre rimanda ai romanzi alla Kipling e il Quartier Generale statunitense rinvia ai film di guerra e ai topos di Fort Apache. E così, la cena nella Colonia dei Francesi richiama Il Gattopardo e Ritratto di famiglia in un interno di Luchino Visconti, mentre il massacro del sampan ricalca la strage di My Lai. Poi ci sono la Messa e il rito tribale, John Wayne e i Berretti Verdi, Dennis Hopper e Easy Rider, la presenza nel nostro film dello stesso Coppola e di Storaro che ci fanno pensare al mito della Famiglia (italiana) e a Il Padrino. Insomma, come ho già detto, nel plot confluiscono i fasti e i fallimenti della civiltà di massa americana: Disneyland (vs The Waste Land), il Settimo Cavalleggeri, il Surf, «Playboy», il mito di Dio e i due miti laici della civiltà occidentale, la libertà d’opinione e quella d’informazione, la stampa. Non solo, ma le diverse “stazioni” di Apocalypse Now, l’incipit, la Cavalleria dell’aria, la festa sulla spiaggia, la tigre, le playmate, il ponte, la Colonia dei francesi, il Quartier Generale di Kurtz, oltre a avere una propria compiutezza artistica, rimandano anche ai «vari generi hollywoodiani: il film del terrore, la commedia di costume, il musical, il travel film, la saga familiare, il film noir, il film sociologico, il film di guerra, ecc.» (Zagarrio 1995, p. 83). La carnevalizzazione, la compresenza stilistica estrema, è la conseguenza di questa tecnica artistica che ha la duplice caratteristica di essere sì “citazionistica” e annessiva, come abbiamo appena visto, ma anche “critica”, di non rinunciare cioè mai a una propria e precisa logica generale costruttiva4. 4 È singolare che un libro (l’unico? uno dei pochi? o solo uno dei primi?) in cui si ritrovino Freud, Frazer, Jung, Eliot, Nietsche, le Upanishad, Aristotele, Eraclito, Maugham, Enea e Ulisse, Lancillotto e Perceval, Amleto e Edipo, Tristano e Isotta, Faust e Mefistofele, ovvero, semplificando, l’intero reticolo intertestuale di Apocalypse Now, sia un libro nel 1958, L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell nel quale, se mancano Conrad e Dostoevskij, c’è invece Joyce. Per questo, non stupisce che un discepolo di Campbell, Chris Vogler, l’autore di Il viaggio dell’Eroe, uno dei più diffusi manuali di scrittura e analisi cinematogra-

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Dato per acquisito questo passaggio, c’è un ultimo punto in cui si potrebbe ipotizzare l’influsso di Eliot e per questo propongo un confronto tra il Willard di Coppola e il Tiresia della Terra desolata di Eliot. I due hanno in realtà lo stesso ruolo, sono personaggi “a specchio”, tendono cioè a guardare, a osservare le azioni degli altri, a rifletterle senza un vero e proprio giudizio personale. Inoltre, pur essendo i protagonisti della vicenda e/o il punto di vista unificante, non agiscono quasi in prima persona. Insomma Tiresia-Willard, «anche se è un semplice spettatore e non un vero e proprio “personaggio”, è però la figura più importante del poema, che unifica tutti gli altri [...], ciò che Tiresia vede, in effetti, è la sostanza del poema»5 (Eliot 1922). Willard e Tiresia hanno quindi lo stesso ruolo: commentare silenziosamente e unificare tutto il “racconto” – perché in entrambi i casi comunque si tratta di racconto, anche se disconnesso e giustapposto – da un punto di vista che è, in ultima analisi, quello sottile, fica americana – un libro molto coerente con una certa immagine dell’America – affermi: «Alla lunga uno dei libri di maggiore influenza del XX secolo potrebbe rivelarsi L’eroe dai mille volti di Joseph Campbell [...]. Gli scrittori stanno diventando più consapevoli di quei modelli senza età che Campbell identificò [...], inevitabilmente Hollywood ha compreso l’utilità dell’opera di Campbell e produttori cinematografici come George Lucas [un amico e collaboratore di Coppola] e George Miller riconoscono il loro debito a Campbell e la sua influenza si può vedere nei film di Steven Spielberg, John Boorman, Francis Ford Coppola e altri (Vogler 1995, p. 11). Non è questa la sede per una discussione di merito, quanto l’occasione per rimandare all’origine di questa riflessione, cioè a La libido, simboli e trasformazioni, ovvero al libro di Jung del 1912, l’opera che certificò la rottura dello svizzero con Freud, e per dire che questa nota sarà l’unico riferimento critico alla pure affascinante teoria degli “archetipi” di Jung, il cui rischio è sempre quello di una eccessiva semplificazione. Fuori dai denti, nessuno nega che il viaggio di Marlow e di Willard sia un “Viaggio dell’Eroe”, ma è la qualità artistica di questa narrazione che si vuole indagare, il salto qualitativo di cui è traccia, evidentissima, il titolo e il riferimento biblico-apocalittico. Se dovessi poi dire un altro nome non direttamente presente in Apocalypse Now, ma certo nell’immaginario che concorre nella realizzazione di questo film nella mente di Coppola, direi allora Robert Zimmermann, in arte Bob Dylan, e, in particolare, la sua eliotiana e biblico-apocalittica “Desolation Row”, una canzone senza la quale non sarebbe mai esistita “The End” dei Doors e, forse, la nuova canzone d’arte internazionale (cfr. Jachia 1998 e 2007). 5 In La terra desolata si legge, ai versi 218-220: «Io Tiresia, benché cieco [...] posso vedere». A proposito delle sue capacità di chiaroveggenza, si deve anche ricordare che Tiresia è tradizionalmente il più grande dei profeti del mondo classico: in particolare ne parla Ovidio nelle Metamorfosi (il passo è ricordato da Eliot nelle sue note al poemetto), è presente anche nel mito di Edipo, nella discesa agli Inferi dell’Odissea (cfr. XI, vv. 92-149) ed è ricordato da Dante nel XX canto dell’Inferno. Da notare infine, e lo ha fatto anche Coppola, che nel poemetto si trovano versi di Dante, Baudelaire, ma anche di Richard Wagner, in un mix di chiaro sapore carnevalesco.

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THOMAS S. ELIOT E LA CITAZIONE CRITICA COME TECNICA COMPOSITIVA E FORMALE

sbigottito ma riconoscibile dell’autore. In Coppola questo punto di vista è persino rafforzato dal “commento off”. Se Tiresia è lo spettatore che lega tra loro gli “avvenimenti” di La terra desolata, analogamente in Apocalypse Now c’è sempre lo sguardo stupito e attonito di Willard a proiettare il proprio sconcerto sull’atroce e assurdo spettacolo della guerra e a far trasparire per noi sul suo volto il riflesso di quello spettacolo. Nella conversazione tra il giornalista Michael Ondaatje e Walter Murch, uno dei montatori di Apocalypse Now, Ondaatje osserva: «Il personaggio centrale, Willard, che viene mandato in missione segreta per uccidere un colonnello americano che sembra essere impazzito, si limita a reagire agli avvenimenti in cui s’imbatte [...]. Non è una figura apertamente drammatica!». Murch ribatte: «È vero! Willard/Martin Sheen è quasi completamente passivo finché non uccide Kurtz/Marlon Brando, alla fine del film. L’unica iniziativa che prende è quella di uccidere una donna ferita dopo un massacro. Altrimenti presta solo gli occhi e le orecchie attraverso i quali lo spettatore vede e sente la guerra. Tra l’altro, credo che la passività di Willard sia una delle ragioni per cui Francis, dopo aver scelto Harvey Keitel, lo sostituì con Martin Sheen dopo un mese di lavorazione» (M. Ondaatje 2003). Si presti attenzione: occorre che vengano uccisi una donna e un uomo perché finalmente – dopo questo duplice battesimo di sangue – Willard diventi adulto e agisca da uomo responsabile. Con queste due azioni omicide, una istintiva e l’altra pienamente consapevole, Willard esce dal “ruolo di Tiresia” e diventa il “vero Willard”. Questa in realtà è la vera differenza tra Coppola e l’Eliot della Terra desolata. Eliot resta completamente irrisolto e Tiresia è tout court l’alter ego del poeta, mentre Coppola è il “primo Willard (Tiresia)” e il “secondo Willard”, adulto e “kurtizzato”.

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GLI UOMINI VUOTI DI ELIOT E «CRISTO LA TIGRE»

Abbiamo ormai ampiamente dimostrato, anche sulla scorta della critica più attenta, che Apocalypse Now per la sua struttura complessiva rimanda non solo a The Waste Land di Thomas S. Eliot (1922), ma anche a quelli che sono i suoi presupposti generali ovvero Il ramo d’oro di James G. Frazer e Dal rito al romanzo di Jessie L. Weston, ma anche alla tecnica “citazionistica critica” delle avanguardie primo e secondo Novecento, da Eliot e Joyce a Bob Dylan e i Doors. Vogliamo però introdurre alcune considerazioni ulteriori. Nella parte finale di Apocalypse Now Kurtz legge proprio il poemetto di Eliot, The Hollow Men: «Siamo gli uomini vuoti / Siamo gli uomini impagliati / Che appoggiano l’un l’altro / La testa piena di paglia. Ahimè! / [...] / Figura senza forma, ombra senza colore, / Forza paralizzata, gesto privo di moto»1. Inoltre troviamo un’altra citazione di Eliot nel discorso del fool/fotoreporter, volta a caratterizzare ulteriormente il suo personaggio: «Avrei dovuto essere soltanto un paio di ruvide chele in fuga attraverso distese di mari silenziosi»2. A queste due “citazioni di sconfitta” si contrappone «Cristo la tigre», ancora di Eliot, contenuta nella famosa quartina di Gerontion che recita: «Fasciata di tenebra. Nell’adolescenza dell’anno / Venne Cristo la tigre», in cui la luce di Cristo si contrappone alle tenebre. In analogia, o forse in dipendenza, anche nel film di Coppola troviamo un balzo di tigre non semplice da decodificare. In primo luogo, è da notare che questo balzo della tigre3, non è presente nel romanzo di Conrad in cui al massimo 1 Da ricordare che la celebre epigrafe della poesia è tratta direttamente da Cuore di tenebra, e si tratta della frase lapidaria con cui Conrad congeda il suo personaggio: «Mistah Kurtz he dead», ovvero «Signor Kurtz lui morto». 2 Questa citazione è tratta da The Love Song of J. Alfred Prufrock, in cui si trovano anche questi altri importantissimi versi “apocalittici”: «Io sono Lazzaro, vengo dal regno dei morti / Torno per dirvi tutto, vi dirò tutto». 3 Il balzo di tigre del film di Coppola è forse nobilitato anche da un rimando a un verso di William Blake: «Tigre! Tigre! Divampante fulgore / Nelle foreste della notte, / Quale fu

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troviamo un banale «ippopotamo che aveva la pessima abitudine di saltar fuori la notte» a cui i “pellegrini” di Conrad, spaventati, sparano inutilmente, come d’altra parte fanno i compagni di Willard e Chef al loro ritorno sulla motovedetta dopo la fuga. Un primo significato potrebbe essere che, come Dante all’inizio del suo viaggio alle porte dell’Inferno, anche Willard incontra delle belve al confine di una terra in cui le consuete leggi della morale e della ragione non sono più in vigore, dove inizia il regno di Kurtz la tigre, di Kurtz il selvaggio ex lege. Eppure il discorso non si conclude qui né per Conrad, né per Eliot, né per Coppola e ancora una volta vedremo che il regista si serve di Eliot per esplicitare il dettato implicito di Conrad, ma senza però poi seguirlo fino in fondo. Partiamo dunque da Eliot. Da questo balzo della Tigre-Cristo – semplifico e emblematizzo, naturalmente – avrà inizio la conversione del poeta4, ma io credo che Coppola si limiti a registrarne il valore perturbante, l’emergere di una paura inconscia o, meglio, di un’alternativa di cui inconsciamente sappiamo l’esistenza. L’apparizione della tigre è dunque una parabola di cui Willard, pur non facendovi riferimento, esplicita chiaramente il senso parlando tra sé e sé, mentre invece Chef continua a blaterare in maniera sconnessa della tigre: «Kurtz era sceso dalla barca. Aveva mollato l’intero programma del cazzo. Com’era accaduto? Cosa aveva visto laggiù la prima volta?». Non ho usato la parola “parabola” per caso. Il rimando è al noto passo dei Vangeli che sintetizza la conversione dei primi Apostoli con la frase: «Ed essi, lasciato tutto, lo seguirono», ma anche all’altro passo evangelico in cui si racconta che «un ricco incontrò Cristo. Cristo gli disse seguimi. Ma lui non lo seguì, era molto ricco» (cfr. Marco 10,17-22). Fuor di metafora, Coppola, come Conrad, non segue le orme di Cristo la Tigre, ma quelle di Kurtz la Tigre. Però, può darsi che i loro passi, l’immortale mano o l’occhio / Ch’ebbe la forza di formare / La tua agghiacciante simmetria?». 4 Abbiamo più volte detto che il balzo della tigre non è presente nel romanzo di Conrad in cui al massimo troviamo un banale «ippopotamo che aveva la pessima abitudine di saltar fuori la notte»; però tra le “liriche” di Eliot troviamo una curiosa poesia, intessuta di riferimenti religiosi, in cui si dice: «L’ippopotamo non può mai raggiungere / il frutto del mango sul mango». Il mango è nel film il frutto per il quale Willard e Chef rischiano di essere divorati dalla Tigre. Vale allora forse la pena di leggere alcuni altri versi di questa poesia, lasciando aperta, naturalmente, ogni suggestione e interpretazione a quelli che Eliot chiama ironicamente i «cacciatori di fonti»: «Il giorno dell’ippopotamo trascorre / nel sonno; la notte va a caccia [...] sarà lavato dal sangue dell’Agnello / e sarà cinto da braccia celesti [...] mentre la vera chiesa resterà qui in basso / avvolta nei miasmi dell’antica nebbia».

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GLI UOMINI VUOTI DI ELIOT E

«CRISTO LA TIGRE»

che si allontanano dalla consunta e ipocrita “barca” della cosiddetta civiltà, portino a un inedito sentiero comune. Diceva Dostoevskij: «tra Cristo e la verità» – intendendo la verità della cosiddetta civiltà, quella dell’ipocrisia e della consuetudine – «io scelgo Cristo». E Willard dirà ancora di Kurtz: «Più leggevo [nei dossier la sua storia], più cominciavo a capire e più lo ammiravo [...]. Era tosto il figlio di puttana [...], avrebbe potuto diventare generale, ma aveva preferito divenire se stesso». Vi è però un’ulteriore alternativa – anche se pessima e falsa – al sentiero e alla libertà di Cristo la Tigre e di Kurtz la Tigre, ed è quella degli uomini vuoti, degli uomini di paglia di cui parlano Eliot e Kurtz. Nel tempio di Kurtz vi è una “Gabbia delle tigri” ed è qui che Willard riceve il primo terribile dono del colonnello: la testa mozzata di Chef, un uomo “restato sulla barca” di cui queste sono le ultime, coerenti, parole pronunciate tra sé e sé: «Quasi otto ore. Sto dormendo. Sto dormendo e sognando di essere su questa merda di barca. Cazzo. Sono passate davvero otto ore?». Chef, con la sua vita vissuta in un sonnambulismo senza scopo – e il suo vero nome è appunto Jay Hicks, “mister Ics”, mister niente – non è un personaggio minore. Per comprenderlo è fondamentale anche il dialogo che intrattiene con la playgirl prostituta. Le confessa: «Sai, non ci posso credere [...]. Io, Jay Hicks, non ci riesco a credere di essere davvero qui, capisci? [...] Pensa se non fosse stato per la guerra in Vietnam non ti avrei mai conosciuta, Miss Dicembre», ma la ragazza è “Miss Maggio” e ancora una volta Mister X, Mister Niente, dimostra di non sapere nulla. Entrambi dunque, sia Chef che Willard, hanno incontrato la Tigre, che si tratti di Cristo o di Kurtz, ma hanno dato risposte diverse. Uno ha deciso di rimanere nella “civiltà” e nella consuetudine fino a una morte ignobile. Non ha cervello né testa, non ha capito niente, e per la legge del contrappasso muore perdendo la testa. L’altro sceglie di seguire i suoi sogni e suoi incubi – Conrad lo chiama «scegliere di sognare il proprio incubo» – e di incontrare di nuovo, questa volta a occhi aperti, la Tigre.

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DANTE TRA INFERNO E CARNEVALE: «IO NON ENEA, NON PAULO SONO»

Apocalypse now era una combinazione di Cuore di tenebra e Odissea [...], ad esempio, Kilgore era come i Ciclopi, era qualcosa che doveva essere superato, esorcizzato e poi le Conigliette erano come le Sirene John Milius, Herts of Darkness

In Apocalypse Now non vi sono vere e proprie citazioni dantesche, salvo forse una che potrebbe però essere, anche se non lo credo – una mera coincidenza1. Allo stesso modo in Conrad apparentemente, troviamo solo una volta la locuzione generica «girone dell’Inferno». Eppure il richiamo a Dante, come a Ulisse e a Enea, è sotterraneo, insistito e estremamente importante, forse più per Coppola che per Conrad (da notare che quest’ipotesi viene confermata dal regista che, nel commento audio al film del 2006, cita in italiano proprio dei versi di Dante). In primo luogo, citando Dante si richiamano alla mente le grandi discese agli Inferi della classicità pagana e cristiana, ovvero Omero (libro XI dell’Odissea) e Virgilio (il ramo d’oro della Sibilla e il libro VI dell’Eneide), ma anche Paolo di Tarso e la letteratura cristiana apocalittica, apocrifa e ufficiale. Il secondo apporto dantesco a Apocalypse Now è strutturale, avviene cioè sul piano dell’organizzazione per gironi e stazioni, e scandisce le tappe del processo di maturazione di Willard, in cui ogni step, come dice Milius nell’epigrafe sopra riportata, simboleggia «qualcosa che doveva essere superato, esorcizzato». Infine La Divina Commedia, e in particolare l’Inferno, è un grande esempio di carnevalizzazione, di compresenza stilistica e di libertà espressiva. Nell’Inferno di Dante infatti, «la vita è tolta dal suo binario ordinario, è distrutta la rete delle convenzioni, sono spazzati via tutti i confini ufficiali e gerarchici, si crea un’atmosfera specifica che dà il diritto [...] alla libertà e alla schiettezza» (cfr. Bachtin 1965, p. 299). Di 1 Faccio riferimento, come già detto, all’inutile tentativo fatto da alcuni disperati di salire sulla barca di Willard – «Maledetti [...] la pagherete» – in cui si può trovare una citazione, forse non esplicita ma certo parodica, del tentativo di Filippo Argenti di fermare la barca di Dante e Virgilio: «Mentre noi correvam la morta gora / dinanzi mi si fece un pien di fango».

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conseguenza nel poema è possibile un confronto libero e spietato sulle «grandi questioni ultime» – come che cos’è la libertà, cosa è giusto, cosa bene e cosa male – che è tipico di quelli che Bachtin chiama «dialoghi sull’estrema soglia». La presenza di Dante si coglie poi – oltre che nell’aura complessiva del film, che è scandito da un susseguirsi di gironi infernali “a tema” come per esempio la guerra e i violenti, il sesso e i lussuriosi, l’assenza di Dio e i bestemmiatori, il paese dei balocchi e la fatica inutile – nelle altrettanto “infernali” citazioni implicite ed esplicite, di tono serio e parodiche. Ne abbiamo già segnalate molte e ne potrebbero essere aggiunte altre, ma preferisco ripetere che l’Arlecchino – la figura carnevalesco-infernale del fool – è un vero e proprio diavolo di Malebolge (Dante, Inferno XXI, v. 118 e XXII, v. 112). Vi è poi un’altra analogia. Il viaggio di Willard nel “cuore delle tenebre” è in qualche modo un viaggio dantesco verso la salvezza, un tragitto attraverso l’inferno delle tenebre alla riscoperta della luce e della sua verità. A differenza dell’eroe cristiano però, il risultato finale ottenuto da Willard – e cioè una maggior consapevolezza dell’uomo ontologicamente sospeso tra luce ed ombra e del destino immodificabile, anche se non irrimediabile, delle sue scelte – è molto più indeterminato. È rilevante anche il fatto che, secondo Bachtin, per Dante si possa parlare di «formale polifonia», ossia di compresenza di voci discordi, sia pur non ancora interagenti, come lo saranno poi in Dostoevskij. Il mondo di Dante è «estremamente complesso: il suo eccezionale valore artistico si manifesta nell’enorme tensione in direzioni opposte di cui sono piene tutte le immagini del suo universo». Infatti «alla potente tensione verticale» delle immagini collegate al mondo gerarchico medioevale – dall’infimo grado di bassezza costituito dalle fauci di Satana, alla vette «superne» in cui si trova la dimora di Dio e dei beati – si contrappongono le grandi figure di Farinata degli Uberti, del Conte Ugolino e dell’arcivescovo Ruggieri, di Paolo e Francesca, tutti protagonisti di «racconti novellisticamente compiuti», nei quali questi potevano esprimere pienamente se stessi e la loro voce (cfr. Bachtin 1963, pp. 44-45; Id. 1965, pp. 442-444; Id. 1975, pp. 403-405). Venendo a noi, questo vuol dire che in Apocalypse Now i personaggi incontrati non sono mere didascalie morali. Se ci attenessimo alle etichette rozze ma efficaci suggerite da Milius, identificheremmo Kilgore con la violenza, le conigliette e i loro clienti con la lussuria e i disperati persi nella notte, senza comando e senza luce con l’ateismo. Invece ognuno di loro ha un intrinseco straordinario valore artistico perché è carico di 180

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DANTE TRA INFERNO E CARNEVALE:

«IO NON ENEA, NON PAULO SONO»

precisi rimandi storici e ideologici. Ci troviamo di fronte a personaggi fortemente realistici che agiscono con assoluta efficacia artistica e espressiva. Derivano – semplifico brutalmente – dal realismo carnevalesco, che è una delle grandi lezioni dantesche raccolta da Shakespeare, da cui si è poi introdotta nel mondo anglo-americano, e specialmente, lo abbiamo visto, in Eliot. Ma non dobbiamo dimenticarci, infine, che Coppola conosce direttamente la lingua italiana. Dato tutto questo, l’ultimo punto di contatto – attuando un’altra violentissima semplificazione – è l’aspetto apocalittico. «Dante è il massimo tra tutti i poeti apocalittici», non solo da un punto di vista ideologico, ma anche per il richiamo diretto di alcuni passi del suo poema all’Apocalisse di Giovanni di cui coglie «il risvolto più inquietante», ovvero la sua «struttura anti-cristica» in cui cioè «le potenze del negativo imitano parodisticamente le forze del positivo» (cfr. Stefani 2007, pp. 101-102). In questo contesto, il demoniaco è visto come parodia blasfema del divino, come suo “doppio” e tanto del fascino di Kurtz risiede proprio nella sua duplicità, nel riflesso presente – in lui ma anche nell’uomo in generale – di tutto questo ambiguo gioco chiaroscurale tra divino e demoniaco.

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I DISPACCI DI MICHAEL HERR E LA VERITÀ DELLA GUERRA IN VIETNAM

Erano degli assassini. Certo che lo erano; cos’altro avrebbero dovuto essere? La cosa li assorbiva. Li abitava, li rendeva forti come sono forti le vittime, li riempiva della duplice ossessione della morte e della pace Michael Herr Io, Michael Herr e Francis il 18 ottobre del 1978 eravamo a Napa seduti al tavolino della colazione ed esaminavamo la posta del mattino. Francis ha detto: “Vorrei che le riviste pubblicassero dei pezzi quando hanno veramente qualcosa da dire”. Michael ha detto: “Se Newsweek si facesse un esame di coscienza, probabilmente uscirebbe due volte all’anno” Eleanor Coppola

Michael Herr, nato nel 1940 e corrispondente dal Vietnam nel biennio 1967-1968 per «Esquire Magazine», è ricordato nei credits del film non come sceneggiatore, ma come autore del racconto di Willard1. Nel 1977 pubblica Dispacci, un volume in gestazione fin dal 1968 e scritto in forma di reportage sulla guerra del Vietnam, in cui si tenta di dare un senso all’assurdità di questo conflitto. John Hellmann dice del suo particolare stile di scrittura: «La forma narrativa di Herr – all’apparenza un insieme caotico di episodi e di scene – rappresenta in realtà una spaventosa desolazione mentale attraverso la quale un narratore eroico viaggia verso il Graal della conoscenza di sé» (cfr. Coupe 1999, p. 41). Prima di tutto è importante notare il fatto che il primo capitolo di Dispacci s’intitoli Inspirare e l’ultimo Espirare, e che questo sia l’unico effettivo tentativo compiuto dallo scrittore di ordinare un testo che scaglia contro il lettore, in modo anche confuso, una materia narrativa davvero incan1 Quella di indicare, nei titoli di testa, Herr non come cosceneggiatore, ma solo come narratore del racconto di Willard è una formula davvero sibillina e probabilmente un furbo escamotage economico.

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descente. Un testo pensato dunque come un respiro, affannoso e affannato. La paura, il terrore della morte e la sua presenza incombente sono i tratti dominanti, accompagnati dalla consapevolezza del fatto che il nemico, spesso invisibile, sia sempre presente, irriducibile e, in ultima analisi, militarmente invincibile. E all’interno di questo scenario complessivo, tratteggiato con pennellate rapide e ricostruzioni essenziali – di cui può essere un esempio illuminante la descrizione delle stanze del Pentagono, «dove sei anni di fallimenti avevano reso l’aria irrespirabile [...] [perché] non c’è nulla di più imbarazzante di quando le cose vanno male in una guerra»2 – c’è una grande capacità di dare spazio alle voci e alle vicende, anche minime o epiche, dei soldati americani. L’atmosfera è quella di un terribile incubo: «Il Vietnam era una stanza buia piena di oggetti letali, i vietcong erano ovunque contemporaneamente come un cancro ramificato [...] Il più terribile dei nostri incubi sul pericolo giallo si realizzò: li vedevamo ormai morire a migliaia in tutto il paese, eppure non sembravano privi di forze, meno che mai stremati, come sostenevano a Washington [...]. Riprendemmo terreno velocemente, con costi altissimi, nel panico più totale e quasi al massimo dell’efferatezza»3 (Herr 1977, pp. 60, 84 e 123). Dispacci dunque non si propone come un’analisi documentata delle dinamiche complessive della guerra, ma è un testo che, dopo aver delineato un preciso quadro d’insieme, inizia a concedere largo spazio al come i singoli individui hanno vissuto l’esperienza della guerra. Quella di Herr è una scrittura fortemente realistica e visiva dunque, fortemente legata ai riflessi quotidiani di una guerra impossibile, in ultima istanza impensabile, ma spesso giocata nello spazio di un respiro: «Una volta ero su un elicottero che fu colpito e precipitò per un centinaio di metri finché, a furia di pompare sui pedali, il pilota riuscì a portarlo in rotazione automatica, restituendoci all’aria e alla vita». “Inspirare e espirare”, appunto, c’è appena il tempo di un sospiro per accorgersi se si è ancora vivi. Quello che “migra” in maniera più intensa dal libro di Herr e dalla sua narrazione al film di Coppola è il colore complessivo della guerra in Vietnam, la violenza della realtà bellica e l’effetto di allucinazione che spinge a chiedersi 2

Vedi Herr 1977, pp. 123-124; 60 e passim. Per un’attenta e lucida ricostruzione storica cfr. Frey 2008, p. 135, il quale afferma: «con l’eccezione della zona smilitarizzata, non c’era un fronte e l’avversario poteva essere in agguato ovunque quindi i soldati americani considerarono l’intero paese come territorio nemico». 3

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«Chi è matto?», «Cosa significa folle?», insomma, vi convergono quelle che sono state le caratteristiche principali di una guerra, almeno da parte americana, fortemente “lisergica”4. Soldato psichedelico o lisergico, avrebbe potuto infatti essere uno dei possibili titoli di un film come Apocalypse Now in cui, come già nel libro di Herr, l’uso di droghe – sotto forma di spinelli, acidi e alcool – è continuo. Lo è altrettanto il leitmotiv della pazzia, presente nel film quanto in Dispacci: «Ogni soldato di ogni squadra ti raccontava di quant’erano matti tutti gli altri della squadra, ognuno conosceva dei soldati che erano impazziti nel bel mezzo di uno scontro a fuoco, impazziti mentre erano di pattuglia, impazziti di ritorno al campo, impazziti in licenza, impazziti durante il primo mese di ritorno in patria [...]; impazzire era intrinseco al turno di servizio [...], al di sotto di questo tutto era normale, normale come la prolungata fissità e gli sguardi vacui [...]. Moltissimi sapevano che il paese non avrebbe mai potuto essere conquistato, ma soltanto distrutto e si fissavano su questo con una concentrazione mozzafiato, senza quartiere». Coerentemente, Willard presenta ai superstiti della motonave la motivazione ufficiale del suo viaggio in questo modo: «La mia missione è penetrare in Cambogia. Lassù c’è un colonnello dei Berretti verdi impazzito, e io ho l’incarico di ucciderlo», e Chef, in un perfetto gergo da Dispacci commenta: «È tipico. Cazzo! Una fottuta missione da Vietnam! Sto per andare in congedo e dobbiamo andare lassù per uccidere uno dei nostri? Fantastico! Cazzo! Proprio fantastico! Merda! È una follia, porca puttana!». Voglio però far notare che da Herr a Coppola non passa solo questo fortissimo e caratterizzante “sapore di Vietnam”, ma anche alcuni passi specifici. Nell’effettivo svolgimento narrativo di Apocalypse Now ci sono infatti almeno tre episodi che dipendono fortemente da Dispacci 5. Il pri-

4 Scrive ancora l’attento storico che è Frey: «Il consumo delle droghe aumentò ulteriormente [tanto che] la diffusione delle droghe pesanti – a rifornire il mercato partecipavano anche generali sudvietnamiti – divenne un problema serio. Secondo alcune valutazioni, nel 1970 fra i militari statunitensi in Vietnam c’erano circa 40.000 tossicodipendenti [...] gli incidenti razziali e il rifiuto degli ordini assunsero proporzioni allarmanti» (cfr. Frey 2008, pp. 202-203). Apocalypse Now è anche un fedele documento di tutto questo (vedi l’episodio narrato da Clean o tutto il personaggio “lisergico” di Lance), come, d’altra parte e con anticipo cronologico, lo sono anche gli splendidi Dispacci di Herr. 5 La ricostruzione e l’analisi più attente sono quelle di Giaime Alonge. Nel suo saggio infatti ricorda che Milius, fin dalle prime stesure della sceneggiatura, aveva comunque presenti gli articoli scritti da Herr, i quali, in buona parte, prima di essere ricomposti in volume, uscirono sull’«Esquire Magazine» (cfr. Alonge 2001, pp. 4-9 e passim).

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mo è la scena del combattimento notturno del soldato Roch al ponte di Do Lung e, come fa notare Alonge, «l’episodio del soldato nero che uccide il Vietcong ferito con il lanciagranate è ricavato alla lettera da Dispacci» (Alonge 2001, pp. 4-5). Per quanto riguarda poi la seconda scena, quella in cui vediamo Willard ubriaco e “fatto” a Saigon, con il “sottofondo” musicale dei Doors, il debito è più complesso, anche per il valore che ha questa scena nel film. È opportuno cominciare in minore, ovvero iniziare parlando in generale delle citazioni “musicali”. Scrive Herr: «Se era troppo assorto per parlare, si metteva davanti a uno specchio a figura intera e ballava sulla musica dei Doors per un’ora di fila, completamente perso» (Herr 1977, p. 266). Ma, a parte questa possibile connessione, ci sono anche molti altri passi di Dispacci che stabiliscono un nesso tra la guerra e la musica rock: «In strada non riuscivo a distinguere i veterani del Vietnam dai veterani del rock and roll [...], ogni volta che uno di noi tornava dalla licenza portava dei dischi, quella musica era preziosa come l’acqua: Jimi Hendrix, i Jefferson Airplane, Frank Zappa [...] i Doors, con il loro sound algido, distante» (Herr 1977, pp. 260, 286, 203, 156-157 e passim). Anche in Apocalypse Now Willard parla dell’equipaggio della sua barca come di «rockettari con un piede nella fossa», usando una definizione che vale anche per i sessantamila giovanissimi americani morti durante il conflitto, e per tutto il film ascoltiamo appunto, oltre ai Doors, Jimi Hendrix, “(I Can’t Get No) Satisfaction” – la popolare hit dei Rolling Stones datata 1965 – e molta altra musica rock6. Passando dalla colonna sonora all’azione della scena iniziale del film di Coppola, in cui Willard pronuncia la frase scatologica: «Saigon. Merda», bisogna notare che essa rende allo spettatore la sensazione di sporcizia, schifo, miseria che la città vietnamita dava ai soldati americani e 6 C’è un altro episodio minore di Apocalypse Now che potrebbe avere una connessione, o essere solo un riflesso, di un comune dato storico: «Annunciatore [radiofonico]: “Ed ora un altro botto dal passato dedicato a Big Sam, che si trova tutto solo là fuori con il 1° battaglione del 35° fanteria, da parte della squadra dei vigili del fuoco e del loro fantastico comandante. The Rolling Stone, ‘Satisfaction’”. Parte la musica. Clean comincia a ballare». A questa scena corrisponde in Herr, a p. 156: «Annunciatore: “Benissimo allora adesso continuiamo con la nostra favolosa musica anni Sessanta [...] per tutti voi ragazzi [...] classe 1944 [...] delle Forze armate in Vietnam, e specialmente per i fratelli neri della Fureria [...] una canzone alla Squadra di fuoco e al nostro fantastico ufficiale in comando”. [...] “Ehi alza stronzo [...] dai amico è una musica divina”».

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che è descritta perfettamente da Herr: «Saigon [...] una città desolata [...], una città straniera maleodorante, corrotta e stancante da morire [...]: rifiuti, cartacce sospinte dal vento [...]. Saigon era già abbastanza deprimente, ma durante l’offensiva divenne talmente cadaverica [...], con tutta quella sporcizia che si accumulava e dilagava per le strade e per i vicoli [...]. Saudade di Saigon, cafard, malinconia, un tormento e non puoi farci niente tranne fumarti uno spino e stenderti un po’ [...] oppure stare lì sdraiato a seguire le rotazioni del ventilatore sul soffitto [...]. Cara Mamma, di nuovo strafatto». A questo punto non tralascerei di notare che tra i motivi dinamici della prima scena del film c’è proprio l’associazione e la somma inconscia tra le due parole – “mamma” e “strafatto” – e la canzone “The End” dei Doors, di cui queste sono una rapida, apocalittica, sintesi. Se tutto questo è vero, sia pure in forma di ricostruzione ipotetica e non assertiva, l’ultimo grande debito di Coppola riguarda invece la matrice di un personaggio quale il fool-fotoreporter. È interessante notare come Herr descriva in una pagina di Dispacci un suo amico fotoreporter come uno «venuto via da un qualche gravoso viaggio nel cuore delle tenebre» (Herr 1977, p.11), illuminando cioè quanto scrive Coppola: «Dennis Hopper era stato originariamente preso per interpretare Colby, l’altro ufficiale inviato a assassinare Kurtz e che invece poi era diventato uno dei suoi adoratori. Ma quando vidi Dennis il primo giorno, gli feci indossare una camicia da guerrigliero montagnard [...], facendo così nascere il fotografo impazzito, basato sia su ciò che si diceva allora di Sean Flynn, sia sulle pagine di Conrad dalle quali rubai il personaggio del [l’Arlecchino] russo che si trovava presso Kurtz» (F.F. Coppola 2001, p. 9). Resta solo da aggiungere perché tutto sia chiaro che Herr, nella frase sopra citata, probabilmente allude proprio a Sean Flynn, che non è solo uno dei personaggi di Dispacci, ma è un reale personaggio storico, fotografo in Vietnam e figlio del grande attore hollywoodiano Errol. Alla luce di tutto questo, credo che Dispacci sia una lettura fondamentale almeno per due motivi. Il primo, di ordine complessivo, è ormai evidente: il testo di Herr, che è quasi un romanzo storico e realistico, anche se a impianto “lisergico”, è il miglior racconto da leggere per comprendere, per cercare di capire, la guerra del Vietnam: come ha rilevato Vittorio Zucconi, Dispacci infatti «non è fiction, anche se a rileggerlo si fatica a credere che la massima democrazia planetaria possa aver attraversato per quasi 187

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quindici anni una valle di menzogne e di follia politica così buia» (Zucconi, «la Repubblica», 11 giugno 2005). Il secondo motivo è che ci permette di entrare nella complessa genesi del film di Coppola. Diamo la parola prima allo stesso regista, poi a un commentatore che enfatizza il ruolo di Herr nella genesi del film. Scrive dunque Coppola nella sua introduzione del 2001 alla sceneggiatura: «Quando girai il film [...], invece di portarmi dietro il copione tenevo in tasca una piccola copia verde di Cuore di tenebra, piena di appunti e di segni [...], [ma] molte delle grandi scene, delle scene memorabili, provengono testualmente dal copione originale di John Milius: la struttura della motovedetta e il suo equipaggio; lo straordinario attacco degli elicotteri con Wagner diffuso dagli altoparlanti; la tigre; le conigliette di playboy; il misterioso ponte di Do Long. Il mio lavoro sulla sceneggiatura aumentò i paralleli con Conrad e sviluppò molte scene, fra cui quella della Piantagione francese e quasi tutto il terzo atto del film [...], furono perciò in molti a collaborare alla sceneggiatura che state per leggere soprattutto John Milus, che ne è stato il primo autore, Michael Herr, che ha scritto la narrazione, e tutti gli attori che con le loro improvvisazioni mi hanno fornito le basi per molte delle scene che avrei poi scritto a notte fonda». Meno asettica e certo più partigiana la ricostruzione di Frederick Exley, un fan di Herr che ha delineato così un ritratto del suo beniamino: «Anche se Herr parlava con affetto di Francis Ford Coppola confermò i miei peggiori sospetti [...]. Herr afferma che all’epoca in cui venne coinvolto nel progetto [...], Coppola [...] in mano non aveva altro che chilometri di girato assolutamente straordinario. Herr scrisse allora i “fuoricampo” di Martin Scheen che risale il fiume attraverso la Cambogia per andare ad eliminare il colonnello ribelle Kurtz-Brando, quella voce fuori campo senza la quale il film sarebbe risultato praticamente incomprensibile» (Exley 1984, p. 301). Queste ultime considerazioni ci pongono il problema su chi sia in definitiva il vero autore di Apocalypse Now. Partiamo dall’assunto che nel 1968, al suo ritorno dal Vietnam, Herr – ancora secondo Exley – aveva già scritto due terzi del libro, che prima di iniziare a collaborare con Coppola lo aveva di certo già tutto in mente e che, addirittura, alcuni sui articoli “vietnamiti” furono letti da Milius già alla fine degli anni Sessanta. Dunque, da questi fatti, Herr sembra ben presente sia nella genesi che nella costruzione del film, però credo che complessivamente, ma non apoditticamente, l’autore del risultato finale – soprattutto di quello della versione 2001 – sia a tutti gli effetti Coppola, perché è riuscito a 188

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I DISPACCI DI MICHAEL HERR E LA VERITÀ DELLA GUERRA IN VIETNAM

dare una forma personale a una serie di contributi e contenuti elaborati anche da altri7. A Michael Herr comunque va riconosciuto di aver conferito al film di Coppola il sapore del Vietnam – cosi forte, realistico e storico nella sua assoluta irrealtà lisergica. La sua eredità è il sapore di una sconfitta epocale e di una fortissima angoscia esistenziale. Al suo ritorno dal Vietnam, infatti, si aprirono per Herr cinque anni di cupa depressione psicologica che si risolsero poi grazie a diversi eventi concatenati: la fine della guerra, la pubblicazione di Dispacci, la collaborazione prima con Coppola per Apocalypse Now e poi con Stanley Kubrick per Full Metal Jacket8.

7 Coppola interviene nel plot raccontato dal film almeno tre volte e le sue sono tre scelte vincenti, le vere zampate del leone. La prima nell’ouverture di Willard con i Doors. La seconda con “La cavalcata delle valchirie” di Wagner che contrappunta l’arrivo degli elicotteri di Duval e il suo terzo intervento è l’intera figura di Kurtz interpretata da Brando con l’aiuto della fotografia di Storaro. Oltre naturalmente la figura della “Vedova dell’Eroe” (francese) e l’episodio ad essa legato. 8 La scelta di Kubrick di volere Herr tra gli sceneggiatori del suo film conferma il valore altamente cinematografico della scrittura e della narrazione “vietnamita” di Herr, ma anche la splendida intuizione di Coppola di volerlo nella sua squadra.

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“THE END” DI JIM MORRISON E DEI DOORS

“The End”, versione rock del mito di Edipo che sfocia nella celeberrima e iper-censurata strofa «Mother, I want to fuck you!», è un Raga lisergico dal fascino ipnotico e diventerà il tema principale della colonna sonora di Apocalypse Now. Questa la traduzione dei versi della canzone: «Questa è la fine / splendida amica / questa è la fine / la mia unica amica, la fine / dei nostri piani elaborati, la fine / di ogni cosa stabilita, la fine / né sicurezza né sorpresa, la fine / non guarderò mai più dentro i tuoi occhi / puoi immaginarti come sarebbe / una libertà senza limiti / la ricerca disperata di una mano straniera / in una terra desolata / perduto in una romana regione di dolore / E tutta la nuova generazione è folle / tutta la nuova generazione è folle / aspettando la pioggia d’estate / C’è pericolo ai confini della città / schizza sull’autostrada del Re, baby / scene assurde nella miniera d’oro / prendi l’autostrada verso l’ovest, baby / cavalca il serpente, cavalca il serpente / verso il lago, l’antico lago, baby / Il serpente è lungo / sette miglia / cavalca il serpente / è vecchio e la sua pelle è fredda / l’occidente è il meglio / l’occidente è il meglio / Vieni qui e noi faremo il resto / l’autobus blu / ci sta chiamando / l’autobus blu / ci sta chiamando / Autista, dove diavolo ci stai portando? / L’assassino si svegliò prima dell’alba / S’infilò gli stivali / prese una maschera dall’antica galleria / e si diresse verso l’ingresso / arrivò alla stanza dove viveva sua sorella / poi fece visita a suo fratello / e poi si diresse verso l’ingresso / e arrivò ad una porta / e guardò dentro / “Padre?” / “Sì, figlio?” / “Voglio ucciderti” / “Madre, voglio...” / Vieni baby, rischia con noi / Mi trovi in fondo all’autobus blu / Bus blu, bus blu, sali, yeah! faccio un rock triste, su un bus blu / Questa è la fine, splendida amica / questa è la fine, la mia unica amica, la fine / è difficile lasciarti libera / ma tu non mi seguiresti mai / la fine delle risate e delle bugie leggere / la fine delle notti in cui cercammo di morire / questa è la fine»1.

1 Questo il testo originale della canzone di Jim Morrison: «This is the end, beautiful friend / This is the end, my only friend / The end of our elaborate plans / The end of

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Tralasciamo ora di segnalare puntualmente – come in parte abbiamo già fatto – le criptocitazioni contenute nella canzone. Ricordiamo soltanto velocemente che «il lago millenario» viene da quello di Nemi citato da Frazer; la «terra desolata» e l’attesa dei «temporali estivi» da Eliot e dalla Weston; «il serpente» da Conrad; «the End» dall’Apocalisse; «tutta la nuova generazione è folle» dalle cronache sul Vietnam; «una libertà senza limiti» da Nietzsche e infine la scena edipica da Freud e dai neofreudiani (più che da Sofocle). Potrebbe bastare, ma soffermiamoci invece sul fatto che Jim Morrison frequentò l’UCLA più o meno nello stesso periodo di Francis Ford Coppola e tra i suoi amici più cari in quel periodo c’era proprio Dennis Jakob che avrebbe poi lavorato come consulente creativo per Coppola proprio in Apocalypse Now. Jakob, come Jim, era un appassionato lettore e un cultore di Nietzsche, Freud, Eliade e di autori come Aldous Huxley, William Blake, Louis-Ferdinand Céline e gli altri amatissimi “poeti maledetti”, Baudelaire in testa, una koiné che è in filigrana sia a “The End” che a Apocalypse Now. La colonna sonora che ascoltiamo a commento delle immagini dunque – oltre a essere una dichiarazione di poetica – è un atto di complicità culturale e in questo senso è significativo che le prime vere parole pronunciate da Kurtz, «Ha mai preso in considerazione le vere libertà? Libertà dalle opinioni altrui [...] addirittura dalle proprie?», oltre a rimandare in qualche modo a Nietzsche, assomiglino al verso della canzone dei Doors, «puoi immaginarti come sarebbe una libertà senza limiti». In sintesi Frazer, Freud, everything that stands / The end / No safety or surprise / The end / I’ll never look into your eyes again / Can you picture what will be / So limitless and free / Desperately in need of some stranger’s hand / In a desperate land / Lost in a Roman wilderness of pain / And all the children are insane / All the children are insane / Waiting for the summer rain / There’s danger on the edge of town / Ride the King’s highway / Weird scenes inside the gold mine / Ride the highway West, baby / Ride the snake / Ride the snake / To the lake / To the lake / The ancient lake, baby / The snake is long / Seven miles / Ride the snake / He’s old / And his skin is cold / The West is the best / The West is the best / Get here and we’ll do the rest / The blue bus is calling us / The blue bus is calling us / Driver, where are you taking us? / The killer awoke before dawn / He put his boots on / He took a face from the ancient gallery / And he walked on down the hall / He went into the room where his sister lived / And then he paid a visit to his broche / And then he walked on down the hall / And he came to a door / And he looked inside / Father / Yes son? / I want to kill you / Mother, I want to... / C’mon baby, take a chance with us / C’mon baby, take a chance with us / C’mon baby, take a chance with us / And meet me at the back of the blue bus / This is the end, beautiful friend / This is the end, my only friend / The end / It hurts to set you free / But you’ll never follow me / The end of laughter and soft lies / The end of nights we tried to die / This is the end».

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“THE END” DI JIM MORRISON E DEI DOORS

Eliot, Weston e Morrison precisano e allargano le armoniche di Conrad – e Morrison in particolare sulla tonalità edipica – senza mai contraddirle. Anzi, è proprio Jim Morrison a mostrare a Coppola un esempio di «citazionismo critico» post-eliottiano estremamente vicino a lui, fornendogli in qualche modo, una prova generale della libera strategia artistica che troverà la sua attuazione in Apocalypse Now2.

2 Un punto fondamentale, tanto nella formazione di Morrison quanto di Coppola, è – lo ripeto – Bob Dylan e se dovessi segnalare una canzone in particolare, emblema di questo rock biblico-apocalittico, sceglierei, l’ho già detto, “Desolation Row”, eliottiana fin dal titolo e citazione esplicita dell’intero reticolo culturale che abbiamo ricordato in questo libro. Scrive autorevolmente Peppino Ortoleva: «Canzoni programmaticamente superiori non solo ai cinque, ma ai dieci minuti come “Going Home” dei Rolling Stones e “Desolation Row” di Bob Dylan assumevano il sapore di un manifesto: superati i confini linguistici tra parolieri e poeti, rotto il muro che inibiva alla musica di consumo l’uso di strumenti e stilemi classici, lo scioglimento del vincolo della durata, il più apparentemente casuale e arbitrario, sembrava ovvio, già fatto». Cfr. P. Ortoleva in P. Jachia e F. Paracchini, Nonostante Sanremo, Coniglio, Roma, 2009.

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RICHARD WAGNER: DA “LA CAVALCATA DELLE VALCHIRIE” ALL’OPERA D’ARTE TOTALE

Nella famosa sequenza dell’attacco al villaggio vietnamita perpetrato da parte della cavalleria dell’aria capitanata da Kilgore – che si svolge sulle note di “La cavalcata delle Valchirie” di Richard Wagner – il mezzo cinematografico sembra portare a compimento l’intuizione wagneriana di un’“opera d’arte totale” capace di combinare, ad altissimo livello, esigenze artistiche e spettacolari. Quello che ci troviamo davanti è un «gigantesco spettacolo audiovisivo» in cui, come ha sottolineato Alonge, «Coppola ha preferito utilizzare le parti strumentali di “La cavalcata delle Valchirie” [...] per rendere l’idea della potenza dell’armata di Kilgore» (Alonge 2001, pp. 87–88)1. In questa scena però non c’è solo questo, in essa si realizza anche, come mi pare suggerisca ancora Alonge, l’incontro tra due artisti, Wagner e Coppola, che hanno diversi punti in comune, e in particolare – semplificando brutalmente – la capacità di realizzare un progetto artistico attraverso un’organizzazione industriale, paleoindustriale o neoindustriale che essa sia. In un’intervista, Joachim Fest, storico della musica tedesco, parla di Wagner come dell’origine artistica della modernità e della cosiddetta postmodernità, ovvero di quello che potremmo chiamare, più semplicemente, contemporaneità. Artista profondamente attuale nella sua contraddittorietà irrisolta, Wagner sfugge alle tante definizioni a lui imposte – da rivoluzionario a reazionario, da progressista a fatalista – ed è un coacervo di contraddizioni. «Il suo pessimismo, per cui la storia sarebbe perpetua degenerazione, porta la sua musica ad inabissarsi nei meandri di un mondo arcaico. È questo atavismo mitologico, con l’ideologia annessa dell’arcana origine, che risuona in ogni dramma di Wagner [...]. Nietzsche lo ha chiamato – è una formula felice – il Cagliostro della modernità [perché]

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Per un’analisi più attenta, vedi Alonge 2001.

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come Cagliostro che pretendeva di creare l’oro, anche Wagner, il più grande coniatore di miti di tutti i tempi, ha qualcosa dell’arrogante, dilettante cialtrone. Ogni volta che lo ascoltiamo subodoriamo il volgare imbroglio, ma non possiamo rinunciare alla malia delle sue melodie. Tutto qui il trucco [...], un trucco scoperto da Thomas Mann per cui Wagner è “il più problematico, criticabile, incredibile fatto europeo”. [...] Ha ragione [però anche] Nietzsche nel sentire in Wagner tendenze antieuropee, che di fatto ribollono nel magma arcaico e mitologico della sua musica. In questo senso Wagner non cesserà mai di essere attuale e di procurarci disagio. È la vittoria dell’ambivalenza» (J. Fest, «l’Espresso», 16 ottobre 2003, p. 169). Coppola sa di stare proseguendo anche questo magistero e dunque la citazione wagneriana – come quella tributata a Ejzenštejn nel montaggio combinato della scena finale (cfr. Alonge 2001, p. 97) – è anche il saldo di un debito, e non solo a questo livello. Wagner infatti non ha soltanto ispirato alcuni precisi momenti della letteratura contemporanea, ma ha anche anticipato per tanti aspetti le teorie di Sigmund Freud. Il Sigfrido protagonista del dramma omonimo ha infatti una relazione incestuosa (cfr. Jung 1912, pp. 312 e 315) e nelle opere del musicista tedesco – specialmente in Tristano e Isotta e nel Crepuscolo degli dei – ritroviamo tutti i temi più cari alla psicoanalisi, dal complesso di Edipo al conflitto tra Eros e Thanatos. Al di là di questo, più precisamente, le idee cardine di Wagner – un mix tra filosofia di Arthur Schopenhauer, cristianesimo, e suggestioni buddiste – che risuonano in Coppola sono sostanzialmente due: quella di una “caduta originale” e quella di una ricerca, a tratti anche disperata, della redenzione. Il male entra nel mondo per via di una colpa, un “peccato” – parola con cui si apre Apocalypse Now – e fatalmente allarga il proprio influsso malefico fino a dominare tutti gli esseri viventi e persino gli stessi dei. La perdita dello stato di innocenza e la coscienza della colpa spingono i personaggi wagneriani al bisogno di un riscatto, ed ecco allora profilarsi la figura dell’eroe redentore, l’uomo puro tra i puri, l’eroe degno di riportare l’umanità all’innocenza, perdonando e obliando la “caduta”. Parsifal dunque, da ragazzo sciocco, diventa Re del Graal2. All’inizio, Parsifal è in ef2 Parliamo in particolare del protagonista del Parsifal di Wagner composto tra il 1877 e il 1882. Apocalypse Now è in qualche modo – è stato notato da Stefano Selleri in un suo articolo su internet – anche una rilettura del mito dei Nibelunghi, di cui viene sottolineato l’aspetto “oscuro”. In una terra primordiale, la ricerca delle origini dell’uomo approda al Nulla, al fuoco che purifica distruggendo, sulle rive di un fiume maledetto. È il crepuscolo degli Dei, e, più ancora, degli idoli.

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RICHARD WAGNER: DA

“LA CAVALCATA DELLE VALCHIRIE” ALL’OPERA D’ARTE TOTALE

fetti un dumb, uno stupido, molto simile all’Idiota dostoevskijano. Attraverso l’esperienza del peccato e dopo un lungo travaglio interiore, arriverà poi alla Redenzione e alla Pietà. Dopo aver superato ogni egoismo e passione, potrà diventare messaggero di salvezza e, restituendo splendore al Graal, si presenterà come l’eroe destinato a redimere l’umanità, a salvare cioè la Terra Desolata e il Re ferito. Qualcosa di lui e della sua storia passa nel “cavalier capitano” Willard e nella sua travagliata vicenda (finto)vietnamita e neonibelungica. Se non altro, lo schema dei romanzi cavallereschi: un cavaliere riceve dal Re il mandato di svolgere una missione e, dopo un lungo pellegrinaggio, matura ed è in grado di affrontare il drago, il mostro, cioè, se vogliamo, Kurtz3.

3 Un’ulteriore precisazione: «Con Wagner la musica e il dramma si rivestivano anche di filosofia, di religione, di morale. La nuova opera di Wagner [...] era mito e rito [...] mito perché rappresentava vicende e personaggi antichi e esemplari [...], e rito perché agli occhi degli spettatori proponeva i massimi sistemi della vita e della morte, del bene e del male, della salvezza e della dannazione» (Pietro Mioli, Storia dell’opera lirica, Newton Compton, Roma, 1994).

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LE UPANISHAD, IL FILO DEL RASOIO DI W. SOMERSET MAUGHAM E IF DI RUDYARD KIPLING

Come un geniale e ingegnoso trovarobe, Coppola costruisce un insieme davvero molto variopinto e sperimenta accostamenti peregrini che trovano un punto comune nell’essere spesso l’esito, contraddittorio, dell’incontro tra la civiltà europea e quella orientale e indiana, o almeno dei loro simulacri e stereotipi. Iniziamo da una frase: «Questo è il mio sogno, questo è il mio incubo. Strisciare, scivolare, lungo il filo di un rasoio, e sopravvivere». In Apocalypse Now la voce di Kurtz compare per la prima volta su un nastro registrato e quello che dice contribuisce notevolmente all’impronta onirica e iniziatica data da Coppola al viaggio di Willard e alla figura del Colonnello e questo grazie anche alle suggestioni che gli vengono da Eliade. Ma da dove vengono queste strane parole? Dalle Upanishad – che troviamo tra le fonti anche di Eliot, al solito nume tutelare delle scoperte di Coppola, e che in sintesi estrema sono le scritture sacre della religione induista – e come fonte più probabile, dal romanzo Il filo del rasoio (The Razor’s Edge) di William Somerset Maugham, scritto proprio sotto la suggestione di quei saperi orientali1. Possiamo ag1 Lo ripetiamo: anche il Kurtz di Conrad compare come una voce nel primo capitolo del romanzo, mentre il secondo capitolo si aprirà con una sua visione fantasmatica e solo il terzo avrà finalmente la sua presenza, il tutto in uno studiatissimo climax ascendente. L’idea di Coppola di tradurre il dettato di Cuore di tenebra: «quell’uomo si presentava come una voce», in una registrazione, è davvero geniale come lo è il tradurre le voci e le visioni su Kurtz con il trucco del dossier. Quanto alla frase in questione: «Questo è il mio sogno, questo è il mio incubo. Strisciare, scivolare, lungo il filo di un rasoio, e sopravvivere», in essa – precisamente nella prima metà, quella che avrebbe potuto far scattare il cortocircuito mnemonico di Coppola verso il romanzo di W. Somerset Maugham – risuona certo anche un’eco della frase di Conrad contenuta nel terzo capitolo: «Sono rimasto a sognare il mio incubo fino alla fine e a dimostrare la mia lealtà a Kutz» (corsivo mio). La frase di Kurtz è comunque spiritualmente vicina a un’altra, più completa, traduzione dello stesso passo delle Upanishad che ha ispirato Somerset Maugham: «Alzatevi! Svegliatevi! Cercate la guida di un maestro illuminato e realizzate il vostro Sé reale. Affilato come un rasoio è il Cammino, difficile il passo sul filo tagliente di un rasoio. I saggi dicono: difficile da attraversare, ardua la via della salvezza». È da notare ancora che il romanzo Il filo del rasoio, un bestseller alla

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giungere che lo scrittore, nato nel 1874 e morto nel 1965, pubblica nel 1944 il romanzo in parte autobiografico Il filo del rasoio. In questo narra di un giovane americano traumatizzato dagli orrori della Grande Guerra che parte per l’India alla ricerca dell’Illuminazione e al ritorno s’impegnerà in un strano percorso di santificazione. La storia viene narrata dal punto di vista cinico e disincantato dello stesso Maugham. In questo romanzo noioso, prolisso e sgangherato, troviamo però due punti bizzarri e interessanti per la nostra ipotesi: in una conversazione tra il protagonista e un commissario di polizia, vengono ricordati Baudelaire, Eliot e La terra desolata (un mix molto noto a Coppola, come abbiamo visto e vedremo meglio), mentre l’epigrafe del libro è costituita da queste esatte parole tratte dalle Upanischad: «Difficile è il passo sul filo tagliente di un rasoio: così i saggi dicono che ardua è la via della salvezza» (cfr. Alonge 2001, pp. 77-78 e Eliade 1956, pp. 114-116). Chiusa questa prima considerazione, il nostro percorso di “cacciatori di fonti” – l’ironia di Eliot non ci abbandona – ci porta a notare che in Apocalypse Now c’è un monologo del nostro fool altrettanto criptico e sbalorditivo: «Hey amico, non si parla col colonnello. Lo si ascolta. Quell’uomo mi ha allargato la mente. È un poeta-soldato, nel senso classico. Capisci, a volte lui, uh, tu lo saluti, ok? E lui ti cammina accanto senza notarti. E improvvisamente ti afferra e ti getta in un angolo e ti dice, “Lo sai che la parola ‘se’ è il centro di essere? Se riesci a non perdere la testa quando tutti gli altri attorno a te perdono la loro, se credi in te stesso quando tutti dubitano di te” [...]. Capisci? io no, non posso, sono un ometto, sono un ometto, lui, lui è un grand’uomo. Avrei dovuto essere soltanto un paio di ruvide chele in fuga attraverso distese di mari silenziosi». Tralasciando la chiusa, di cui abbiamo già parlato chiarendo che si tratta di una citazione di Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock di Eliot, la fonte centrale di questo

sua uscita nel 1944, aveva avuto una trasposizione cinematografica nel 1946 con un cast di rilievo – Tyron Power, Gene Tierney, Anne Baxter e John Payne diretti da Edmund Goulding – che ebbe un grande successo al botteghino. Dunque una fonte meno lontana e peregrina di quanto potrebbe sembrare, ne è la prova una seconda riduzione cinematografica del romanzo datata 1984 e realizzata da John Byrum. Infine voglio riportare in modo più esteso una frase del romanzo di Maugham che potrebbe aver incuriosito Coppola: «Nella sua camera abbiamo trovato vari libri [...] e due o tre libri di poesia [...] un Baudelaire, un Rimbaud, e [...] La terra desolata». Se dunque Apocalypse Now si apre con una citazione delle Upanishad, questa anche la fonte dell’ultimo verso di La terra desolata: «Shantih shantih shantih» (ovvero «pace che sorpassa l’intelligenza», e saranno anche le prime parole della protagonista di Un’altra giovinezza nella sua nuova incarnazione).

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LE UPANISHAD, IL FILO DEL RASOIO DI W. SOMERSET MAUGHAM E IF DI RUDYARD KIPLING

confuso periodo è certamente If, poesia di Rudyard Kipling. Lo scrittore britannico (1865-1936) fu realmente «poeta-soldato, nel senso classico» e la sua posizione è in un certo modo avvicinabile all’illusione – che in parte fu anche di Conrad – di «un colonialismo dal volto umano», animato cioè da sani principi di solidarietà. Portavoce di una fede incrollabile nella missione imperialistica dell’Inghilterra, Kipling cita più volte «il fardello dell’Uomo bianco», che consiste nel portare – attraverso una forma illuminata di colonialismo – la civiltà alle popolazioni altrimenti condannate a rimanere nella barbarie. Kipling credeva che l’Inghilterra fosse capace di amare e rispettare le nazioni e i popoli a lei sottomessi, e inoltre, nei suoi scritti esplora e addomestica la Natura selvaggia, la wilderness, proiettandovi all’interno le leggi e le regole sociali della cultura vittoriana. Così nei suoi romanzi gli animali e i “selvaggi”, con i loro difetti e le loro virtù, diventano campioni di Umanità. Scrive Ugo Bottalla sullo scrittore inglese: «La sua arte è sintetica, coglie l’uomo nelle sue azioni e reazioni immediate, non è fatta quindi per le sottigliezze psicologiche; i pensieri e i sentimenti sono rivelati implicitamente dalle azioni. Usa la tecnica della fotografia istantanea, rappresenta cioè la vita in movimento, riprendendone i momenti culminanti o caratteristici» (Bottalla 1966, p. 7). Anche la poesia citata dal fool è coerente con questa visione “eroica” del mondo e della vita e vale la pena di riportarla integralmente perché in qualche modo fa parte della Weltanshauung di Kurtz ed è comunque ben presente anche allo stesso Coppola perso anch’egli nella giungla del suo film: «Se riesci a non perdere la testa, quando tutti intorno / La perdono, e se la prendono con te; / Se riesci a non dubitare di te stesso, quando tutti ne dubitano, / Ma anche a cogliere in modo costruttivo i loro dubbi; / Se sai attendere, e non ti stanchi di attendere; / Se sai non ricambiare menzogna con menzogna, / Odio con odio, e tuttavia riesci a non sembrare troppo buono, / E a evitare di far discorsi troppo saggi; / Se sai sognare – ma dai sogni sai non farti dominare; / Se sai pensare – ma dei pensieri sai non farne il fine; / Se sai trattare nello stesso modo due impostori / – Trionfo e Disastro – quando ti capitano innanzi; / Se sai resistere a udire la verità che hai detto / Dai farabutti travisata per ingannar gli sciocchi; / Se sai piegarti a ricostruire, con gli utensili ormai tutti consumati, / Le cose a cui hai dato la vita, ormai infrante; / / Se di tutto ciò che hai vinto sai fare un solo mucchio / E te lo giochi, all’azzardo, un’altra volta, / E se perdi, sai ricominciare / Senza dire una parola di sconfitta; / Se sai forzare cuore, nervi e tendini / Dritti allo scopo, ben oltre la stanchezza, / A tener duro, quando in te nient’altro 201

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/ Esiste, tranne il comando della Volontà; / / Se sai parlare alle folle senza sentirti re, / O intrattenere i re parlando francamente, / Se né amici né nemici riescono a ferirti, / Pur tutti contando per te, ma troppo mai / nessuno; / Se riesci ad occupare il tempo inesorabile / Dando valore a ogni istante della vita, / Il mondo è tuo, con tutto ciò che ha dentro, / E, ancor di più, ragazzo mio, sei Uomo!».

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L’ALBATROS, CHARLES BAUDELAIRE E THOMAS S. ELIOT, FËDOR DOSTOEVSKIJ E HERMANN HESSE: UNA DIFFICILE POESIA

Cosa ti sei sposata a fare se non vuoi bambini? Thomas S. Eliot, La terra desolata

Nella Colonia fantasma dei francesi alcuni bambini – interpretati in realtà dai figli di Coppola – recitano una «difficile poesia», L’albatros. Il capofamiglia, il padre, commenta facendoci conoscere, se non la voce diretta di Coppola, di certo il suo pensiero: «Era Baudelaire. Una poesia molto crudele per i bambini, ma ne hanno bisogno, perché a volte la vita è molto crudele». Rileggiamone il testo nella traduzione di Antonio Prete: Spesso, per divertirsi, gli uomini d’equipaggio catturano degli albatri, grandi uccelli dei mari, che seguono, indolenti compagni di viaggio, il solco della nave sopra gli abissi amari. E li hanno appena posti sopra i legni del ponte che, inetti e vergognosi, questi re dell’azzurro penosamente calano le grandi ali bianche, come dei remi inerti, accanto ai loro fianchi. Com’è goffo e maldestro, l’alato viaggiatore! Lui, prima così bello, com’è comico e brutto! Qualcuno, con la pipa, gli solletica il becco, e c’è un altro che mima lo storpio che non vola più! Il Poeta assomiglia al principe dei nembi: abita la tempesta e ride dell’arciere; esule sulla terra, al centro degli scherni, con le sue ali di gigante nel cammino s’impiglia.

Per prima cosa vorrei introdurre un’osservazione stilistica e un breve profilo di Baudelaire rispetto a Eliot e Coppola. Baudelaire è un grande autore carnevalizzato (cfr. Bachtin 1975, p. 348) ed è proprio lui a rendere 203

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la carnevalizzazione egemone nella poesia, lasciandosi dietro ogni ipotesi di mero classicismo. Non a caso dunque Baudelaire per Eliot è un vero maestro. Poi, sul piano contenutistico, dice Franco Rella: «L’Albatro di Baudelaire ha qui un doppio senso. Da un lato contrassegna la figura di Kurtz, costretto alla miseria e all’orrore nel mondo in cui è stato precipitato. Ma l’Albatro che si muove vergognoso e goffo sulla tolda della nave è anche il poeta, l’artista, colui che avrebbe potuto testimoniare dall’alto del mondo, e che si trova a zampettare nell’impossibilità di volare e dire». Dunque si tratta di un richiamo sì a Kurtz, ma anche a Coppola come artista. Presupponendo l’esattezza dell’osservazione di Rella, su cui torneremo, credo sia opportuno ricordare subito che Baudelaire – insieme a Conrad di cui possiamo ricordare un esplicito «città mostruosa [...] che mi fa sempre pensare a un sepolcro imbiancato» – è la fonte per Eliot, e poi per Coppola, di un certo modo di vedere e pensare la città-civiltà, che Willard sintetizzerà brutalmente in «Saigon. Merda». Questa battuta naturalmente non colpisce soltanto la capitale vietnamita, ma tutte quelle mondiali, da Washington alla Roma imperiale. Prendiamo dunque il passo di Eliot che segue maggiormente Baudelaire: «Città irreale, / Sotto la nebbia d’un alba d’inverno, / la gente si riversava su London Bridge, tanta, / Ch’io non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta. / Sospiri, corti e rari, ne esalavano, / E ognuno fissava gli occhi davanti ai suoi piedi» (corsivo mio). Il primo verso in particolare è tout court una citazione da Baudelaire1 con cui il poeta, come Coppola, condivide una forte polemica contro l’alienazione metropolitana contemporanea. Ora passiamo al contesto nel quale si svolge la scena del film che stiamo analizzando che è ambientata nella mitica e magica Colonia Francese, tra nebbie e cortocircuiti temporali. Non credo sia azzardato dire che l’interrelazione tra padri e figli è il tema, profondo, ma certamente non esclusivo, di questo episodio e, più in generale, di tutto Apocalypse Now e biso1 Eliot rimanda esattamente a Les Sept Viellards contenuta in I fiori del male: «Città formicolante, città piena di sogni / dove lo spettro in pieno giorno s’attacca al passante», versi «rivelatori dell’atteggiamento di Baudelaire e dello stesso Eliot verso la moderna megalopoli alienante», un «moderno inferno di alienazione e peccato» (cfr., anche per la traduzione, Melchionda 1976, p. 98 e Serpieri 2006, p. 105). Da notare che anche la fine della prima parte del poemetto riprende circolarmente il verso finale del famoso incipit di Baudelaire, «Tu, hypocrite lecteur! – mon semblable – mon frère!» e che l’intera poesia proemiale è un manifesto di questa polemica contro l’Inferno-città che sarà poi di Eliot e che ha uno dei suoi modelli archetipici nell’Apocalisse.

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L’ALBATROS: UNA DIFFICILE POESIA

gna prestare attenzione al fatto che la poesia non è declamata per intero, ma a partire dal verso in cui si parla del «Re dell’azzurro». È un’ulteriore conferma dell’ipotesi di Rella: l’Albatros è Kurtz perché è un Re, ma anche un Clown perché la poesia narra – come dice esattamente Antonio Prete – la fine di un Re, massacrato e ridotto a zimbello. In particolare, la parola francese brûle-gueule usata per indicare una pipa è un’espressione popolare, triviale e ci indica il fatto che il Re – come Cristo – è alla mercé della soldataglia2. Lasciamo però per un istante Kurtz e il suo martirio, accantoniamo il Kurtz Re, “Poeta Soldato in senso classico” e Clown a cui qui viene profetizzato il tragico sacrificio, per una considerazione sull’altro protagonista di questa scena fondamentale: Willard. Si presti attenzione, Willard non ha figli e non è adulto. È un carattere, un personaggio – per usare e combinare, in modo non credo scorretto, al di là dei loro pur motivati contrasti, la terminologia di Marcuse e di Fromm3 – «incestuoso», o semplificando, “adolescenziale”. Pertanto, il viaggio lungo e rituale che Willard compie è una conquista dell’adultità, di una capacità consapevole e responsabile di dare vita e morte, di essere un “soldato”, o meglio, un uomo. Ce lo conferma la frase che gli rivolge Kurtz: «Lei è solo un ragazzotto mandato a riscuotere i conti», in cui c’è una sfumatura che implica anche un riferimento al “cavaliere errante”, un giovane non ancora adulto, un cavaliere che non ha conquistato un regno uccidendo – ed è un esempio necessario per Apocalypse Now – un Re vecchio e malato, di cui, ricordiamo, è simbolo la «terra desolata» in cui, di conseguenza, gli alberi hanno come frutti dei cadaveri, dei “fiori del male” con esplicita derivazione logica da Baudelaire a Eliot, fino a Coppola. Lo ripeto ancora una volta: non è un caso che nel film il Re-Padre Kurtz reciti Eliot, mentre un Figlio declami una poesia di Baudelaire, accompagnato – ed è in realtà un pesante rimprovero – da queste parole:

2 Ancora una volta è opportuno rileggere Conrad che usa queste parole per descrivere la morte tragica e ingloriosa di Kurtz, che avviene nello squallore di una segreta tra il disprezzo del Direttore e lo scherno del suo boy: «Eccomi qui disteso al buio che aspetto la morte [...] una disperazione intensa e irreparabile [...], una pioggia continua di moscerini si abbatteva sulle mani e sui volti [...]. Improvvisamente il Boy del Direttore cacciò l’insolente testa nera nell’arco della porta e disse in tono di feroce disprezzo “Mistah Kurtz – lui morto”», nella versione originale: «Mistah Kurtz – he dead». 3 Su questo difficile passaggio, oltre naturalmente alle pagine fondamentali di Freud, rimando per semplificazione a Marcuse 1966, pp. 275-276 e passim; Zima 1976, pp. 165-166 e passim; Vegetti Finzi 1990, capp. XII-XV e passim.

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«Era Baudelaire. Una poesia molto crudele per i bambini, ma ne hanno bisogno, poiché a volte la vita è molto crudele». È il commento, questo, di un padre che si sta rivolgendo a tutti i bambini presenti – Willard incluso, anzi principale e effettivo destinatario – per dire loro: «Hai bisogno di studiare ancora» prima di diventare un uomo, prima di imparare a parlare e a essere adulto – che è il concetto che duplicherà Kurtz nel suo primo incontro con Willard. Ma rimaniamo alla Colonia Francese, così carica di celati significati, psicologici ed edipici. Da rimarcare inoltre – nulla è a caso in questo film – che in scena ci sono i due figli maschi del regista, Roman e Giancarlo, che in quel momento stavano assistendo a una delle situazioni più crudeli per dei bambini: una guerra di coppia violentissima, che sarebbe potuta sfociare in una separazione e di cui c’è traccia anche nel diario di Eleanor Coppola che parla, con asciutta ma sofferta eleganza, di «un’altra donna». A conferma di quanto detto – Apocalypse Now è un percorso di “adultizzazione” come lo è, in profondo, Cuore di tenebra – si presti attenzione al duplice gesto compiuto da Willard dopo aver ucciso Kurtz. Prima però si osservi che ora il capitano agisce, per la prima volta, in maniera totalmente autonoma e responsabile, mentre il killer precedente – il primo Willard – si limitava a ubbidire a degli ordini, non sceglieva personalmente di uccidere, ma si limitava a “riscuotere i conti” per decisione altrui. Al contrario ora Willard prima lascia la spada e poi prende per mano il “figlio”, Lance, un surfista, uno che già per definizione gioca con il surf e le onde e che è regredito all’infanzia, non parla più, come d’altronde non parlano l’ex capitano Colby e l’intera tribù Montagnard. Willard dunque decide responsabilmente di lasciare la spada e sceglie di riportare Lance “a casa”, e questo è il suo primo compito e dovere da adulto, da padre, e Lance e la tribù dei Montagnard sono così – sul piano di una logica profonda – i suoi primi figli. Se ripensiamo alla profezia della Sibilla4 che Willard ha incontrato prima di scendere all’Inferno –

4 Si presti attenzione al fatto che nella “Vedova dell’eroe” potrebbero riconoscersi anche altri elementi appartenenti al mito della Sibilla: la droga, la prostituzione sacra, le cortine di fumo che mostrano e nascondono e “i versi strani” che rimandano alla Sibilla dantesca. In merito a queste ultime affermazioni preferisco nondimeno mantenere una formula dubitativa. Si deve però ricordare che nella epigrafe a La terra desolata di Eliot non compare direttamente la Sibilla virgiliana, ma una sua versione parodica e serio-comica, ovvero quella ricordata da Trimalcione, personaggio carnevalesco del Satyricon di Petronio.

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L’ALBATROS: UNA DIFFICILE POESIA

«Ci sono in te due anime, una che ama una che uccide» – è chiaro che alludesse al fatto che alla legge sterile dei padri e degli uomini, che il “Willard killer” già conosceva, si dovesse aggiungere quella fertile delle madri e delle donne. Solo così, per dirla con le parole di Goethe, in quest’eterno «muori e rinasci» acquisterà un senso lo scorrere ineluttabile del tempo anch’esso profetizzato dalla Sibilla che – con un sotteraneo rimando a Eraclito, filosofo molto amato da Nietzsche – parlava della ineludibile deposizione di ogni sovrano. Ed è questo in realtà il tema – a chiudere il cerchio – della poesia L’albatros. Complessivamente dunque, il punto vero è uscire dall’infanzia – ossia accettare in ultima analisi il carosello e il carnevale della vita, la ruota della nascita e della morte – e di conseguenza assumersi responsabilità e prendere la parola perché l’adulto, colui che ha la parola, è un “ex infans”. Ci sono naturalmente degli adulti che regrediscono all’infanzia e smettono di parlare – per esempio il “primo Willard” che ammette «quando tornai casa da mia moglie non dissi una parola» o lo stesso Lance – mentre la tribù dei montagnard che simboleggia, secondo le teorie di Frazer e Freud l’inconscio arcaico e infantile tout court, non parla, ma agisce simbolicamente. Infans. Per una conferma, abbandoniamo la scena che stiamo analizzando e ricordiamo le parole di un altro padre-capo, Chief: «Per lei non c’è altro che la sua missione», grida a Willard, pieno di dolore rituale, esplicitando che la missione del capitano è quella di uccidere padri e madri per diventare adulto, per ottenere la parola. Cristo – l’uomo adulto – non conosce d’altronde madre e padre: «La mia missione è la mia famiglia. Non sono venuto a portare la pace, ma la spada» (Cfr. Vangelo: Mt. 12, 4650; Mc. 3, 31-35; Lc. 8, 19-11; 11, 27-28). L’uccisione della vietnamita ha dunque un valore simbolico, non si tratta di un gesto gratuito, ma è l’adempimento di un dovere, spietato ma necessario. C’è qui però un’evidente stratificazione dei significati. La missione di Willard deve passare sul cadavere del Re-Padre-Capo e su quello della Madre-Sibilla perché diventare adulti è un tributo di sangue. Il Re è Kurtz, ma anche Chief, perché, come tutto il resto, in Apocalypse Now anche l’uccisione del padre deve essere duplicata: e la prima volta a essere ucciso è il nero, la seconda il bianco. La prima Madre invece è la ragazza vietnamita, la seconda è la “Vedova dell’Eroe” che viene abbandonata e superata. Ancora una volta bianco e nero. Ed è anche significativo che qui “il doppio” sia ulteriormente raddoppiato: maschile e femminile, nero e bianco. Chief e Kurtz, la vietnamita e la Sibilla. 207

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Seguendo quest’ordine di pensieri arriviamo a una soglia ulteriore, ovvero a cercare una ulteriore spiegazione di principio del “doppio”. Abbiamo già notato che il tema del doppio attraversa ossessivamente tutto il film; ora dobbiamo arrischiare una spiegazione che sia coerente con il dettato complessivo. Ogni cosa al mondo è doppia perché è ontologicamente duplice, ha in sé cioè vita e morte. «La vita talvolta è molto crudele» perché nasconde in sé la morte. Ogni principio ha la sua fine, ogni regno il suo tempo e arriva il momento in cui l’Albatros-Re deve diventare Clown e prigioniero. I riti orfici e quelli presieduti dalla Sibilla nascondevano questa verità che comunque viene recepita dal cristianesimo: solo se il seme muore – recitano i Vangeli – darà il frutto5. Ora il passo conseguente. Se il viaggio di Willard è diretto agli Inferi, se il viaggio di Willard è cioè un viaggio di morte e resurrezione, un viaggio nel regno infernale di Ade, va notato che anche il signore invisibile (Aidoneus) è doppio, ha in realtà due nomi. Oltre a Ade, infatti, il signore degli Inferi è Plutone, un dio che attraverso la morte dà ricchezza perché la spiga nasce dal buio della terra profonda, che è la stessa in cui si nasconde, cieco di luce, l’oro. Lo scettro di Ade/Plutone, quindi, ovviamente e conseguentemente, è un “bidente”, una forca a due lame. Stiamo cercando di dare una spiegazione d’ordine mitico e psicologico e, secondo Thomas Mann, «l’essenza del mito è di ripetersi, di non essere legato al tempo, di essere eternamente presente», ma è anche quella di essere una “spiegazione” di principio della realtà. Spiegazione ovviamente non razionale, ma non lontana dal dettato di Conrad che in un passo di Cuore di tenebra cita il mito delle tre Erinni e di Ecate piegandolo curiosamente alla sua logica duale: «Venni assalito da una sensazione arcana. La donna pareva misteriosa e fatale. Spesso laggiù pensai a quelle due, di guardia alla Porte delle Tenebre [the Door of Darkness] [...] Ave! Vecchia sferruzzatrice di lana nera. Morituri te salutant». Delle due donne di guardia del romanzo resta una traccia in Coppola nella donna nera che stanzia sul pianerottolo dell’albergo di Saigon dove è alloggiato Willard. Ed è proprio a partire dalla Morte e dagli Inferi – raccontati in modo suggestivo da Conrad e dunque ben presenti a Eliot e Coppola – che Eliot sviluppa la sua teoria in base alla 5 Non dimentichiamo che Coppola oltre a Frazer, Eliot, la Weston e i miti e i riti di fecondità, conosce già fin dalla metà degli anni Settanta anche Mircea Eliade, il romanziere e storico delle religioni di cui nel 2007 ha portato in scena un romanzo denso di significati misteriosofici ed iniziatici, Un’altra giovinezza.

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quale la «terra desolata» è una Terra Apocalittica, una terra in cui l’Apocalisse è imminente, sta avvenendo o è avvenuta, in un passato prossimo o in un futuro immediato. In questo senso, nel senso di una dialettica profonda di morte e rinascita, è opportuna la lettura di alcuni versi di Eliot in cui c’è di nuovo un rimando a Baudelaire e alle sue città apocalittiche: «Cos’è quel suono alto nell’aria / Quel mormorio di lamento materno / Chi sono quelle orde incappucciate che sciamano / Su pianure infinite, inciampando nella terra screpolata / Accerchiata soltanto dal piatto orizzonte / Qual è quella città sulle montagne / Che si spacca e si riforma e scoppia nell’aria violetta / Torri che crollano / Gerusalemme Atene Alessandria / Vienna Londra». È poi interessante anche la nota esplicativa a questi versi scritta da Eliot: «Già mezza Europa, già mezza Europa Orientale, è avviata verso il caos, cammina lungo il ciglio dell’abisso ebbra di sacre illusioni, e in quel mentre canta ebbra e inneggia, come cantava Dimitri Karamazov. Di quei canti ride il borghese oltraggiato, ma il santo e il veggente li odono e piangono». Dato per scontato il contesto apocalittico, dove il concetto batte tragicamente più sull’aspetto di morte che su quello, pure conesso, di rinascita, vorrei segnalare che in Eliot troviamo qui tracce nascoste, oltre che a Conrad e Baudelaire, a Fëdor Dostoevskij e a Hermann Hesse. Di quest’ultimo – poiché di Dostoevskij abbiamo già parlato – ricordiamo solo una citazione coerente con quanto detto: «Questi uomini hanno tutti in sé due anime, due essenze: il divino e il diabolico, il sangue materno e il sangue paterno, il dono della felicità e il genio della sofferenza coabitano» (H. Hesse, Il lupo della steppa; ma dopo Freud anche Jung che afferma che «l’uomo è un essere duplice, culturale e animale» Jung 1912, p. 211). Non ho richiamato alla mente per caso questo romanzo ma perché sarà proprio questo libro di Hesse a ispirare a Coppola La conversazione del 1974, realizzato appena prima di iniziare Apocalypse Now e in realtà assolutamente contemporaneo allla sua lunga gestazione, partita già alla fine degli anni Sessanta e unico film, insieme a Non torno a casa stasera e a Segreti di famiglia, che il regista abbia ideato e scritto da solo6. 6 Mi pare sia da sottolineare l’importanza di Il lupo della steppa (1927) non solo per La conversazione del 1974 – il nome del protagonista del film di Coppola, a mero esempio, è lo stesso di quello del romanzo di Hesse – ma anche per il successivo Apocalypse Now. Nel Lupo della steppa troviamo, ad esempio e detto con la massima sintesi, la “coppia fatale” Nietzsche e Dostoevskij, “i poemi dell’India” (i Veda), Dante, Faust e Baudelaire, la Bibbia, “il tramonto dell’Occidente”, il patto con il diavolo («il mio maledetto gemello») e lo spec-

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Questa scarsa antropologia – «Ci sono due uomini in te» ci ripete la Sibilla – non è certo una conclusione entusiasmante, ma è pur vero che Apocalypse Now è una macchina mitica, un testo artistico in cui convivono miti e riti profondissimi, cristiani e precristiani, e non un compiuto risultato filosofico e antropologico È dunque un testo che trova il suo valore nel porre domande e nel cercare verità esistenziali e di principio – le dostoevskijane questioni ultime – le stesse esposte nei Fratelli Karamazov, il romanzo ricordato da Eliot e dove troviamo queste parole: «quello che preme a noi [...] prima di ogni altra cosa, risolvere i problemi eterni [...], i massimi problemi [...]: esiste Dio, c’è l’immortalità [...], tutto è permesso?», dove naturalmente “risolvere” – per una filosofia del dialogo quale è quella di Dostoevskij (cfr. Bachtin 1963, Jachia 1991) e di Coppola – sta per “porre”. La risposta di WillardCoppola è una scelta mitica, forse compatibile con un retto cristianesimo, ma non si tratta di una risposta cristiana. Baudelaire, Conrad, Eliot e Coppola, ovvero I fiori del male, Cuore di tenebra, La terra desolata e Apocalypse Now ci parlano della necessità di rispondere in prima persona e di scegliere in piena responsabilità luce e ombra, bene e male, ma non ci dicono, né vogliono dirci, di più.

chio infranto («non era ormai tutto in frantumi e senza significato?»), il tema del riso e del “Carnevale tragico”. Più di tutto però, anche qui c’è “il viaggio attraverso l’inferno” e l’attenzione, attraverso “la psicologia”, a «un mondo buio di istinti selvaggi». Insomma un reticolo intertestuale che conosciamo bene e che sorregge anche Apocalypse Now.

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BIOGRAFIE

Biografia di Joseph Conrad Józef Teodor NaÓÄcz Konrad Korzeniowski (1857-1924) nacque a Berdyczów, una piccola cittadina russa dell’Ucraina, unico figlio di una famiglia della piccola nobiltà terriera polacca. Suo padre Apollo, convinto patriota, divideva la sua vita tra la passione per la letteratura e quella per l’attività politica. La famiglia si trasferì prima a ¦itomir poi a Varsavia dove, nel 1862 Apollo venne condannato alla deportazione nella Russia settentrionale. Sua moglie Evelina, che lo aveva seguito con il bambino, si ammalò gravemente e le fu consentito di trasferirsi a Cernigov, ma presto morì. Apollo invece morì nel 1869 a Cracovia. Il piccolo Konrad, accudito dallo zio, frequentò regolarmente le scuole sino al 1874, quando, forse anche per sfuggire all’imminente obbligo di leva previsto in Russia, partì col consenso e l’aiuto finanziario dello zio per Marsiglia dove salì su una nave diretta in Martinica. Gli anni seguenti furono segnati da intense avventure giovanili legate alla vita di mare. Nel 1878 ebbe il suo primo imbarco su una nave inglese e al suo ritorno scese nel porto di Lowestoft, in Gran Bretagna dove trovò lavoro prima su una nave che faceva la spola tra la cittadina del Suffolk e Newcastle, poi su una diretta a Sidney, e quindi su un piroscafo che viaggiava nel Mediterraneo. Ottenuta nel 1880 la patente marittima di primo grado, si imbarcò con il grado di terzo ufficiale su una nave per Sidney e negli anni successivi fece molti altri viaggi, soprattutto in Oriente. Nel 1886 divenne cittadino inglese e ottenne il diploma di capitano di lungo corso. Nello stesso anno spedì, per la prima volta, un racconto a una rivista per partecipare a un concorso letterario. Imbarcatosi su un veliero in rotta da Amsterdam per Giava, dovette però essere ricoverato all’ospedale di Singapore in seguito a un incidente. Nell’agosto 1887, dopo aver recuperato le forze, accettò un incarico di cinque mesi su un piccolo piroscafo che navigava tra le isole della Malesia. Nel gennaio 1888 gli venne affidato il comando di un brigantino 211

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BIOGRAFIE

il cui capitano era deceduto e su di esso, per quindici mesi, Konrad viaggiò tra Singapore, l’Australia e l’isola Mauritius. Nel 1890, dopo una visita in Polonia, riuscì a realizzare il suo sogno di vedere l’Africa. Ottenne infatti da una compagnia belga il comando di un battello a vapore che risaliva il fiume Congo. In quest’occasione tenne l’unico diario della sua vita ma, considerando l’esperienza fallimentare ritornò a Londra, dove, a causa del trauma psicologico per le atrocità di cui era stato testimone e di una malattia cronica contratta in Africa, fu ricoverato per un mese all’ospedale. Una volta dimesso, trascorse un periodo di convalescenza in Svizzera. Compì quindi due viaggi in Australia, trascorse due mesi in Ucraina e nell’estate del 1894, all’età di 36 anni, decise di abbandonare la vita di mare e inviò a un editore il manoscritto di Almayer’s Folly (La follia di Almayer). Il romanzo venne pubblicato l’anno successivo sotto lo pseudonimo di Joseph Conrad e diede il via alla sua carriera di scrittore in lingua inglese. Nel 1896 uscì Un reietto delle isole e nello stesso anno Conrad sposò Jessie George, figlia ventiduenne di un libraio londinese. La coppia trascorse qualche mese in Bretagna per poi stabilirsi nel Kent dove Conrad cominciò a frequentare salotti letterari. Iniziò per lui un periodo di intensa produzione letteraria da cui vennero alla luce Il negro del “Narcissus” (1897), Cuore di tenebra (1898-1899), Lord Jim (1899-1900) e Nostromo (1903-1904), ma lo scrittore non riuscì a raggiungere né il successo di pubblico né l’agiatezza economica. In quegli anni compì due viaggi a Capri, dove soggiornò quattro mesi con la famiglia. Al ritorno in Gran Bretagna gli venne assegnato un piccolo sussidio governativo di 100 sterline annue, iniziò a interessarsi di anarchia e terrorismo politico e scrisse L’agente segreto (1906), Il compagno segreto (1909) e Sotto gli occhi dell’Occidente (1911). Dovette aspettare però il 1913, quando la pubblicazione americana di Chance gli procurò fama e tranquillità economica. Nel 1914 Conrad, la moglie e i loro due figli, Borys e John, partirono per Cracovia. Dovettero però lasciare la Polonia in gran fretta e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale li sorprese in Austria. Riuscirono a rientrare in Gran Bretagna passando per l’Italia, grazie all’aiuto dell’ambasciatore americano. Il conflitto mondiale rappresentò per Conrad il crollo di un universo di valori e nel 1917 dedicò il suo nuovo romanzo, intitolato La linea d’ombra, al figlio e ai suoi compagni al fronte. Nel 1919 i Conrad si trasferirono a Oswalds, loro residenza definitiva da cui si spostarono solo nel 1921 quando compirono un viaggio in Corsica. Nel 1923 Conrad si recò negli 212

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BIOGRAFIE

Stati Uniti, ma l’anno successivo morì a causa di un arresto cardiaco. Le sue spoglie furono sepolte nel cimitero di Canterbury, nel Kent. Biografia di Francis Ford Coppola Francis Ford Coppola nasce il 7 aprile 1939 a Detroit, nel Michigan, da una famiglia italo-americana, ma cresce nei sobborghi di New York, prima a Long Island, poi a Bayside e infine a Great Neck. Suo padre Carmine suona per anni il flauto nell’orchestra di Toscanini ed è primo flauto dell’Orchestra Sinfonica della NBC, ma gli rimane qualche frustrazione per non aver mai fatto il compositore. Le sue musiche sfonderanno nei film di suo figlio. La madre, Italia Pennino, è invece un’attrice, e lo diventerà anche la sorella di Francis, con lo pseudonimo di Talia Shire. La famiglia ha un ruolo fondamentale nella formazione e nell’ispirazione creativa di Coppola. Da bambino, il piccolo Francis si ammala gravemente di poliomielite e proprio durante la malattia si appassiona alla scrittura e al cinema, si diverte a sincronizzare brani di musica sulle immagini dei filmini di famiglia e decide di diventare regista. A diciotto anni comincia ad interessarsi a Sergej M. Ejzenštejn, che elegge a modello di stile e di vita, diventa assiduo frequentatore del Museum of Modern Art di New York e decide di frequentare la scuola teatrale di Hofstra dove farà pratica su molte commedie musicali e imparerà l’arte dell’allestimento scenico. Già verso la fine del corso però, il cinema irrompe nella sua vita come esigenza e nel 1960 si iscrive al Cinema Department della UCLA di Los Angeles dove lavora soprattutto con l’insegnante di regia Dorothy Arzner. Francis si trova abbastanza isolato dall’ostracismo dei giovani compagni che sognano tutti un cinema anticommerciale, sono ossessivamente legati a Godard e guardano con sospetto la sua disponibilità verso il sistema produttivo tradizionale. In realtà sin da allora, Francis avverte fortemente il desiderio di stare dentro al sistema per realizzare prodotti che si collochino fuori dai consueti schemi hollywoodiani. Coppola segue, in particolare, la scuola di Roger Corman che lo chiama sui suoi set quando ha bisogno di manovalanza a basso costo, e lo utilizza come assistente alla regia, tecnico del suono, direttore dei dialoghi, sceneggiatore e come regista della seconda unità. Francis non disdegna neppure il cinema commerciale per antonomasia, il porno, e nel 1961 realizza Questa notte di sicuro. In Irlanda, dove si trova per un film di Corman, I diavoli del 213

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BIOGRAFIE

Gran Prix, Coppola conosce Eleanor, che diventerà sua moglie nel febbraio del 1963 e da cui avrà quattro figli, Giancarlo, Sofia, Mary e Roman. L’anno successivo, grazie al suo bagaglio tecnico ed esistenziale, l’appena ventiduenne regista strappa un finanziamento a Corman e realizza il suo primo lungometraggio, Terrore alla tredicesima ora (1963). Gli Studios cominciano a cercarlo e viene assunto come sceneggiatore alla “Seven Arts” per la quale scrive, tra l’altro, gli script di Questa ragazza è di tutti, Parigi brucia? e Patton generale d’acciaio per cui vince l’Oscar per la migliore sceneggiatura. Benché abbia vinto anche il Premio “Samuel Goldwyn” con la sceneggiatura mai prodotta Pilma, Pilma, Coppola viene licenziato, in seguito al fallimento della sceneggiatura di Parigi brucia?, alla quale lavorava con due francesi. Deluso fugge in Danimarca con una sceneggiatura scritta a Parigi che la Seven Arts deciderà di realizzare con i dovuti ricatti. Dopo il buon risultato di Buttati Bernardo (1966), finanziato con i guadagni della sceneggiatura sulla vita del generale Patton, rientra nelle grazie della Warner Bros. che, mentre Francis sta iniziando a scrivere la sceneggiatura di quello che diventerà La conversazione, gli propone la regia di Sulle ali dell’arcobaleno, che realizza nel 1968. Questo film permette a Coppola di esprimere e far notare, contemporaneamente, la propria competenza teatrale e quella musicale. Il film non va molto bene al botteghino e Coppola investe tutto ciò che ne guadagna nell’attrezzatura completa per una troupe mobile con la quale gira l’anno successivo Non torno a casa stasera, film rappresentativo di un’ideologia profondamente anti-hollywoodiana (ispirata al magistero artistico di Michelangelo Antonioni) ma che è un grande insuccesso commerciale. A questo punto della sua carriera, Francis rifiuta Hollywood e si sposta a San Francisco dove, assieme a George Lucas e con il contributo della Warner, fonda, sempre nel 1969, la casa di produzione “American Zoetrope” che ha tra i suoi fini quello di valorizzare i giovani talenti. Per Francis è un momento di riflessione sul mondo dei media e inizia a dedicarsi alle pubblicità televisive, ai film didattici e educativi e si avvicina alle nuove tecnologie elettroniche che utilizzerà nelle sue più grandi opere. Nel 1971, in una situazione ormai precaria, Coppola torna al sud per dirigere, per la Paramount, Il Padrino, tratto dal romanzo omonimo di Mario Puzo. Il film, che si avvale di un cast stellare che comprende Marlon Brando, Al Pacino, James Caan, Robert Duvall e Diane Keaton, si rivela un successo critico e commerciale senza precedenti e si aggiudica tre premi Oscar: miglior film, migliore sceneggiatura non originale e miglior attore (Marlon Brando). Coppola diviene una star perché incarna la figura del 214

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BIOGRAFIE

producer-director, firma un contratto con la Paramount per il seguito e partecipa alla fondazione di una nuova casa di produzione la “The Directors Company”, che però realizzerà soltanto due film. Il 1974 è un anno per lui denso di impegni. Dopo aver scritto l’adattamento per Il grande Gatsby, che viene diretto da Jack Clayton, infatti, sull’onda del successo, gira Il Padrino parte II che vince sei Oscar tra cui quelli per il miglior film e la migliore sceneggiatura non originale. Nello stesso anno gira anche La conversazione, ideato girato e scritto interamente da lui, che si aggiudica la Palma d’oro al Festival di Cannes. Nei successivi cinque anni, durante i quali si dedica anche all’attività di produttore, realizza il suo progetto di rifondazione del cinema americano, Apocalypse Now del 1979, film dell’eccesso e ragione di vita. Il film, tratto dal romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad, gli costa trenta milioni di dollari e gli causa innumerevoli problemi, ma gli procura due Oscar (per la migliore fotografia e per il sonoro), di nuovo la Palma d’oro a Cannes e il David di Donatello come miglior film straniero. Negli anni successivi continua la sua carriera di produttore e nel 1982 acquista i General Studios di Hollywood e, dirige, usando le tecnologie digitali e avvalendosi della consulenza di Gene Kelly per le sequenze musicali, Un sogno lungo un giorno. Il film, costato un’enormità, spinge al fallimento l’“American Zoetrope” e Coppola riesce a salvare soltanto un pullman con delle strumentazioni videomagnetiche. Nonostante l’insuccesso, Francis si riprende e l’anno successivo dirige quasi contemporaneamente I ragazzi della 56a strada e Rusty il selvaggio, che inaugurano un nuovo filone cinematografico, incentrato sulla violenza all’interno delle bande giovanili, e che contribuiscono a lanciare una nuova generazione di attori: Matt Dillon, Tom Cruise, Mickey Rourke, Nicholas Cage (suo nipote, figlio di suo fratello August), Patrick Swayze, Rob Lowe e Emilio Estevez (figlio di Martin Sheen). Nel 1984 Coppola dirige l’ambizioso musical Cotton Club, ricostruendo, senza badare a spese, l’atmosfera degli anni Venti. Il film, però, si rivela un clamoroso insuccesso al botteghino e il regista è costretto a venire a patti e mettersi al servizio delle Majors. Nel 1986 dirige il grande successo Peggy Sue si è sposata e l’anno successivo Giardini di pietra, che però si rivela un insuccesso. Sul set di quest’ultimo film, suo figlio ventitreenne, Giancarlo, detto Gio, perde la vita tragicamente in un incidente nautico, proprio mentre sta per diventare padre. Nel 1988, dopo l’ennesimo insuccesso di Tucker – Un uomo e il suo sogno, la sua società di produzione deve dichiarare la bancarotta e Coppola, in cerca di una rivincita, accetta di girare il terzo e ultimo capitolo 215

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BIOGRAFIE

della saga del Padrino, ma nonostante una nomination all’Oscar, Il Padrino Parte terza (1990) non si rivela all’altezza dei film precedenti. Nel 1991 gli viene conferito un premio Onorario alla Mostra di Berlino e, l’anno successivo, un Leone d’oro alla carriera a Venezia. Lo stesso anno conquista un nuovo grande successo grazie all’adattamento cinematografico del Dracula di Bram Stoker, poi dirige L’uomo della pioggia (1998), tratto dal romanzo omonimo di John Grisham, che ha anch’esso un discreto successo di critica e pubblico. Nel 2001 presenta al Festival di Cannes Apocalypse Now Redux, una nuova versione del suo capolavoro del 1979, con 53’ in più. Nel 2007 riduce per lo schermo il romanzo Un’altra giovinezza di Mircea Eliade realizzando un film low budget che auto-finanzia con i proventi dei suoi vigneti. Infatti, dal 1978, Francis Ford Coppola produce a Rutheford, nella Napa Valley californiana, il vino ‘Rubicone’, molto apprezzato dagli appassionati, la cui rendita gli permette di rifiutare le sceneggiature che non lo convincono e di lavorare invece alla stesura di più ambiziosi e non ancora terminanti progetti. Nel 2009 Coppola realizza I Knew It Was You, un documentario-omaggio all’attore John Cazale, morto nel 1978 a soli quarantotto anni e dopo aver partecipato appena a cinque film, tra cui La conversazione e i primi due capitoli di Il Padrino. L’ultimo suo film, di cui firma sceneggiatura, regia e produzione, è Segreti di Famiglia, fortemente edipico, fin dal titolo, ed autobiografico. Scheda tecnica di “Apocalypse Now” Regia: Francis Ford Coppola; sceneggiatura: John Milius, F.F. Coppola, (voce narrante Michael Herr); fotografia: Vittorio Storaro; musica: Carmine Coppola, F.F. Coppola; musiche da: “The End” dei Doors e “La cavalcata delle Valchirie” di Richard Wagner; interpreti e personaggi: Martin Sheen (capitano Willard, l’eroe in missione), Marlon Brando (colonnello Kurtz), Dennis Hopper (fotoreporter–giullare alla “corte” di Kurtz), G.D. Spradlin, Harrison Ford (il generale e il colonnello che ordinano la missione); Robert Duvall (tenente colonnello Kilgore, comandante della squadriglia di elicotteri), Albert Hall (“Chief” Phillips, il comandante della motovedetta), Frederic Forrest (Jay “Chef” Hicks, il cuoco), Laurence Fischburne (Tyrone “Clean” Miller, il ragazzo nero), Sam Bottoms (Lance B. Johnson, il campione di surf), Cynthia Wood, Colleen Camp, Linda Carpenter (le playmate), Aurore Clément (la Vedova dell’Eroe francese); produzione: Stati Uniti, 1979; durata: 153’/139’ e 202’ (Redux, 2001). 216

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cinema/studio collana diretta da Orio Caldiron

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Roberto Campari, Il discorso amoroso. Melodramma e commedia nella Hollywood degli anni d’oro (esaurito). Effetto Greene. Graham Greene e il cinema, a cura dí Paolo Bertinetti, Gianni Volpi. Sergio Raffaelli, Il cinema nella lingua di Pirandello. Maurizio Del Ministro, Il testo come sopravvivenza. La storia al cinema. Ricostruzione del passato/interpretazione del presente, a cura di Gianfranco Miro Gori. Vittorio Giacci, François Truffaut. Le corrispondenze segrete, le affinità dichiarate. Schermi di guerra. Cinema italiano 1939-1945, a cura di Mino Argentieri. Jean Renoir, Il passato che vive, a cura di Claude Gauteur. Ernesto G. Laura, Quando Los Angeles si chiamava Hollywood. Cinema americano tra le due guerre. La musica del cinema, a cura di Enzo Kermol, Mariselda Tessarolo. Ciro Ascione, La grande bottega degli orrori. Le ossessioni commerciabili di Stephen King. Anna Lo Giudice, L’automatica del vero. Saggi di letteratura e cinema. Jacques Aumont, Michel Marie, L’analisi dei film. Roberto De Gaetano, Il cinema secondo Gilles Deleuze. Alberto Negri, Ludici disincanti. Forme e strategie del cinema postmoderno. Roberto De Gaetano, Passaggi. Figure del tempo nel cinema contemporaneo. Valentina Ruffin, Patrizia D’Agostino, Dialoghi di regime. La lingua del cinema degli anni trenta. Anita Trivelli, L’altra metà dello sguardo. Bruno Torri, Il sentimento della forma. La visione e il concetto. Scritti in omaggio a Maurizio Grande, a cura di Roberto De Gaetano. Lorenzo Pellizzari, Critica alla critica. Contributi a una storia della critica cinematografica italiana. Sara Marcucci, Lolita, analisi di un’ossessione. Fabio Rossi, Le parole dello schermo. Analisi del parlato di cinque film dal 1948 al 1957. Mauro Di Donato, Tim Burton. Visioni di confine. Francesca Colais, Il cinema nero africano dalla parola all’immagine. Orio Caldiron, Il paradosso dell’autore.

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Maurizio De Benedictis, Più luce! Immagini di registi, dive e rivoluzioni. Valerio Zurlini, Gli anni delle immagini perdute (in preparazione). Roberto De Gaetano, Il corpo e la maschera. Il grottesco nel cinema italiano. Tullio Kezich, Primavera a Cinecittà. Il cinema italiano alla svolta della «Dolce vita». Alberto Farassino, Fuori di set. Viaggi, esplorazioni, emigrazioni, nomadismi. Virgilio Tosi, Breve storia tecnologica del cinema. Shakespeare al cinema, a cura di Isabella Imperiali. Cinematecnica. Percorsi critici nella fabbrica dell’immaginario, a cura di Fabrizio Borin e Roberto Ellero. Gian Piero Brunetta, Avventure nei mari del cinema. Renzo Renzi, La bella stagione. Scontri e incontri negli anni d’oro del cinema italiano. Cesare Zavattini, Uomo, vieni fuori! Corrado Alvaro, Aria di cinema (in preparazione). Mino Argentieri, L’occhio del regime. Grazia Paganelli, Erich von Stroheim. Lo sguardo e l’iperbole. Edgar Reitz, La notte dei registi. Il cinema tedesco in venticinque interviste, a cura di Alessandro Tinterri e Veronika Wiethaler. Maria Adelaide Frabotta, Il governo filma l’Italia. Alberto Cattini, Strutture e poetiche nel cinema italiano. Flavio De Bernardinis, Campi di visione. Virgilio Tosi, Joris Ivens. Cinema e utopia. Bruno Di Marino, Interferenze dello sguardo. La sperimentazione audiovisiva tra analogico e digitale. Valerio Caprara, Sentieri selvaggi. Cinema americano 1979-1999 – I. 1979-1984. Valerio Caprara, Sentieri selvaggi. Cinema americano 1979-1999 – II. 19851989. Valerio Caprara, Sentieri selvaggi. Cinema americano 1979-1999 – III. 19901994. Valerio Caprara, Sentieri selvaggi. Cinema americano 1979-1999 – IV. 19951999. Carlotta Iacobacci, Faccia a faccia. Woody Allen sulle tracce di Ingmar Bergman. Orio Caldiron, Pietro Germi, la frontiera e la legge. Giuliana Muscio, Piccole Italie, grandi schermi. Scambi cinematografici tra Italia e Stati Uniti 1895-1945. Le fortune del melodramma, a cura di Orio Caldiron. Vittorio Renzi, La forma del vuoto. Il cinema di Joel e Ethan Coen. Ivelise Perniola, Oltre il neorealismo. Documentari d’autore e realtà italiana del dopoguerra. Leonardo De Franceschi, Hudud! Un viaggio nel cinema maghrebino.

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Matilde Hochkofler, Anna Magnani. Lo spettacolo della vita. Ennio Bispuri, Ettore Scola, un umanista nel cinema italiano. David Bruni, Il cinema trascritto. Strumenti per l’analisi del film. Elio Petri, Scritti di cinema e di vita, a cura di Jean A. Gili. Sebastiano Lucci, Val Lewton. Ho camminato con le ombre. Sabrina Perucca, Il cinema d’animazione italiano oggi. Vito Zagarrio, L’immagine del fascismo. La re-visione del cinema e dei media nel regime. Alle origini del Neorealismo. Giuseppe De Santis a colloquio con Jean A. Gili, a cura di Jean A. Gili e Marco Grossi. Toni D’Angela, Raoul Walsh o dell’avventura singolare. Luca Roveri, Il cinema contro di Michael Moore. Fabio Andreazza, Identificazione di un’arte. Scrittori e cinema nel primo Novecento italiano. Christian Uva, Impronte digitali. Il cinema e le sue immagini tra regime fotografico e tecnologia numerica. Gianni Olla, Alla ricerca del cinema proustiano. Film, sceneggiature, linguaggi, autori. Paolo Jachia, Francis Ford Coppola: Apocalips Now. Un’analisi semiotica. Michele Guerra, Gli ultimi fuochi. Cinema italiano e mondo contadino dal fascismo agli anni Settanta (in preparazione). Sergio Miceli, Musica e cinema nella cultura del Novecento (in preparazione). Roberto Campari, Il discorso amoroso. Melodramma e commedia nella Hollywood degli anni d’oro.

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Finito di stampare nel mese di febbraio 2010 da IRIPRINT Coordinamento tecnico CENTRO STAMPA di Meucci Roberto CITTÀ DI CASTELLO (PG)

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