Filosofia dell'osceno televisivo. Pratiche dell'odio contro la TV del nulla
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Il caffè dei filosofi n. 42 Collana diretta da Claudio Bonvecchio e Pierre Dalla Vigna

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COMITATO SCIENTIFICO

Paolo Bellini (Università dell’Insubria, Varese) Claudio Bonvecchio (Università dell’Insubria, Varese) Antimo Cesaro (Università degli Studi di Napoli Federico II) Pierre Dalla Vigna (Università dell’Insubria, Varese) Bernardo Nante (Universidad del Salvador, Buenos Aires, Argentina) Giuliana Parotto (Università degli Studi di Trieste) Jean-Jacques Wunenburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)

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CARMINE CASTORO

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FILOSOFIA DELL’OSCENO TELEVISIVO Pratiche dell’odio contro la tv del Nulla

MIMESIS Il caffè dei filosofi

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© 2013 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana, Il caffè dei filosofi n. 42 Isbn 9788857516899 www.mimesisedizioni. it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

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INDICE

I. LA SCENA E L’OSCENO Documento acquistato da () il 2023/04/04.

ANTROPOLOGIA DELLA DISSOLUZIONE

(FORME) L’osceno morale Il simbolico-Matrix La forma della luce L’osceno estetico

9 18 23 48 65

II. LA SCATOLA E IL FIAMMIFERO (AN)ESTETICA DELLA DISTANZA (MATERIALI) Le tre totalità La nuda verità Clochard dell’anima I tecnici dei gol I “tecnici” delle corna I tecnici dell’amore e del look I “tecnici” del bene e del male I tecnici del wedding

91 99 131 137 147 151 153 155 159

III. L’ASSOLUTO E L’ODIO FENOMENOLOGIA DEL DISSIDIO (OMBRE) Coraggio anti-barbarie

161 178

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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Oltre, io e te non andremo, poiché il mondo finisce col mondo. Pier Paolo Pasolini Ci si perde segregandosi nel particolare e diluendosi nell’universale. Aimé Césaire Sto collassando in nubi interstellari di gas. Ascoltami. Quello che le parole non riescono a comunicare. Percepiscimi. Non lasciare che il sole nel tuo cuore declini. The Muse

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I LA SCENA E L’OSCENO ANTROPOLOGIA DELLA DISSOLUZIONE (FORME)

Parafrasando l’inesorabile manifestarsi del comunismo per le strade d’Europa nel Manifesto marxiano, potremmo dire – con una profezia di segno contrario – che oggi un fantasma si aggira fra schermi, microchip e pulsanti della tv nazionale: la comunicazione. Tarlo di ogni processo di significazione ormai al tramonto, negazione di un linguaggio simbolico e aggregante, offesa sistematica agli ultimi brandelli di vita interiore e ai legami comunitari, la comunicazione è quell’impasto indistinto, indifferenziato, omeopatico, di informazione e intrattenimento, io e alterità, natura e artificio, pezzi slabbrati di verità e fantasmagorie della fiction, frammenti di realtà e fughe nel cielo astratto del sogno e delle facili compensazioni all’anonimato e alle angosce della quotidianità. Deleuze parlava di “viscosità”, di “sabbie mobili”, di “ridondanza” quando indagava le modalità operative dei poteri dittatoriali, più devastanti se vicini a un mantra ipnotico, alla propagazione di un’eco verso i punti di una socialità trasformata in una gigantesca ragnatela, che a sanguinarie repressioni e soppressioni esplicite di diritti umani. Guy Debord ne La società dello spettacolo parla chiaramente di “anestesia” indotta dai manutentori dell’ordine pubblico, di “autismo” in chi guarda passivamente, e fa riferimenti ad una sorta di clinica generalizzata quando mette sul banco degli imputati la macchina autoreferente delle immagini e delle fascinazioni catodiche. Bauman, in recenti appuntamenti convegnistici, ha parlato senza mezzi termini di “oceano di spazzatura” per stigmatizzare l’aspetto pluvionale e arrembante di dati e notizie che, soprattutto nelle interfacce informatiche, attecchiscono facilmente nelle menti, ma senza autorevolezza delle fonti e discriminanti oggettive di senso. Perniola, infine, anni fa in un icastico pamphlet dal titolo Contro la Comunicazione, non esitava a paragonare quest’ultima a una discarica, a un lavandino senza fondo dove, fra chi trasmette e chi riceve un messaggio, si parla la lingua dello psicotico, con percezioni disturbate e segni equipollenti presi dalla vita e dal delirio. “Il sentimento di scoramento e di impotenza che si prova nei confronti della comunicazione

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Filosofia dell’osceno televisivo

è lo stesso che lo psicanalista prova nei confronti dei discorsi degli psicotici; essi sono inaccessibili, inerti, stagnanti rispetto a una mobilizzazione dialettica e post-dialettica, perché il parlante ignora la struttura simbolica della lingua che parla. Come lo psicanalista di fronte ai suoi malati, si ha l’impressione di essere diventati la discarica, la fogna, il cesso di materiali privi di qualsiasi interesse e nello stesso tempo si può star certi che qualsiasi cosa detta venga risucchiata nel gorgo del linguaggio che parla da solo attraverso la voce dello psicotico o del comunicatore. Certo anche la poesia è un linguaggio autonomo; ma tra la poesia e la comunicazione c’è questa differenza: la prima crea un nuovo ordine simbolico, la seconda invece fin dall’inizio si è preclusa l’accesso a qualsiasi ordine simbolico. E se teniamo presente cosa vuol dire letteralmente la parola interesse, cioè l’essere tra, la mediazione, capiamo anche perché l’immediatezza comunicativa, così come quella psicotica, sia così uggiosa e molesta”1. È importante sin da subito chiarire, allora, il rapporto fra comunicazione e dimensione simbolica, laddove è proprio il carattere di istante/istinto, di abominio del relato e del condiviso (che avvengono entrambi attraverso la mediazione combinata di una apprensione del proprio destino antropologico, di una razionalità discorsiva e di un agire democratico), a porre le condizioni per un pot-pourri che colonizza le nostre capacità sensoriali, sormonta le nostre resistenze, sovrappone il “pieno” di un caos acustico e visivo ad ogni misura, distanza critica, contatto propositivo. Elementi, questi ultimi, che avevano sempre portato a una nitida definizione di “mondo comune” o lebenswelt, “mondo della vita”, e a quel senso di familiarità aggregante o di estraneità e conflittuale rimodulazione tipici delle forme 1

Mario Perniola, Contro la comunicazione, Einaudi, Torino 2004, pp. 35-36. Un caso assolutamente in linea con le affermazioni di Perniola è quello della versione senior di Uomini e Donne, noto programma pomeridiano condotto dalla De Filippi. Qui un maleodorante gorgo di schiamazzi, polemiche fine a se stesse, pettegolezzi, aggressioni verbali, smascheramenti reciproci, calunnie velate, segreti traditi e quant’altro diventa l’unico terreno di ore e ore mandate regolarmente in onda ogni giorno. Un’infame autoreferenzialità alle cui punte più acide e ai cui rimandi interni più criptici è difficile tenere testa se non si è spettatori convinti, accaniti e fedelissimi di tutte le puntate. Un Niente che si autogenera in un fetido tele-orinatoio di parolacce e gesti sovraesposti dove vige solo la più cruenta legge della “visibilità” e di una conduzione che tutto permette in nome dell’audience e degli sponsor. Un rito orgiastico di immagini e discussioni totalmente destituite di ogni significato e di qualsivoglia interesse pubblico su cui, purtroppo, a tutt’oggi, nessuna autorità si è interrogata mai. In una delle puntate di marzo ci si è letteralmente sbranati in 50 sulla questione se una delle partecipanti avesse fatto bene o male a indossare un abito sexy non molto in linea col tema previsto dalla sfilata. Per circa 1 ora e 15 di trasmissione…

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La scena e l’osceno, antropologia della dissoluzione

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letterarie che del mondo comune stesso rappresentavano valori, memorie, tratti. Afferma Gillo Dorfles: “Ma quello che contrassegna la nostra epoca sta nella precarietà di ogni carica simbolica, nella superficialità d’ogni costruzione metaforica, nella costante proliferazione di nuovi rituali, di nuovi mitologemi, la cui durata e il cui spessore si fanno ogni giorno più fragili. Molti valori simbolici e mitici, che in passato erano ormai istituzionalizzati e le cui valenze costituivano un patrimonio insostituibile per le società di allora, appaiono oggi decaduti o indecifrabili, appunto perché si è spenta la loro carica simbolica. Assistiamo, per contro, al proliferare di nuovi miti e nuovi riti, basati sopra l’ordirsi di inediti legami simbolici che, già al loro primo apparire, risultano come del tutto o parzialmente feticistici. La civiltà (o inciviltà) contemporanea – costantemente alla ricerca di linguaggi visivi e verbali intrisi di elementi metaforici o comunque traslati – non si rende conto di come l’assenza di un’autentica piattaforma ideologica, estetica, noetica conduca, il più delle volte, alla neoformazione di sempre nuovi elementi pseudosimbolici la cui feticizzazione appare inevitabile”2. I massmedia e la televisione in particolare, sembrano averci ormai condannati da tempo, col carattere orgiastico e invasivo dei loro talk, dei loro telegiornali pietrificati, del loro mercatino di gossip e scemenze miscelati senza soluzione di continuità a fatti realmente accaduti, ad un vero e proprio obitorio permanente delle cifre fenomenologicamente più essenziali del nostro convivere e stare al mondo. Alla “semiosi ermetica”3 (inutile e retorica tribolazione della parola dove ognuno “pensa di detenere il segreto dell’universo”4 e per questo sfugge ad ogni controllo potenziando la sua arroganza), secondo Perniola, non può sfuggire neanche l’idea di storicità che abbiamo e, conseguenzialmente, la possibilità di leggere e rappresentarci un evento storico. Dal secondo Dopoguerra ad oggi, l’intreccio perverso di economia consumistica, sviluppo smisurato degli apparati tecno-scientifici e superfetazione delle ragnatele spettacolari e comunicazionali, avrebbe portato a una 2

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Gillo Dorfles, Fatti e fattoidi, Castelvecchi, Roma 2009, pp. 29-30. Una piccola ma determinante esemplificazione di questa “assenza di piattaforma” è la domanda laconica e canonica che Maria De Filippi rivolge nelle pomeridiane pre-Serale di Amici del sabato ad una sorta di giuria popolare presente in studio. Si esibisce un cantante o un ballerino e lei chiede: “a chi è piaciuto?, a chi non è piaciuto?”. Poiché l’unico possibile risvolto di un dibattito artistico soggiace ormai solo al minimalismo del gusto personale che accende basse polemiche, pettegolezzi e accanimenti ad personam, senza un metodo, senza un perché, senza un obiettivo reale di dialogo o di semplice rispetto. Perniola, op. cit., p. 10. Perniola, op. cit., p. 11.

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Filosofia dell’osceno televisivo

mentalità “miracolistica” e “traumatica” dell’evento, svincolato da ogni piano di azione e comprensione allargata del reale, all’interno del quale le soggettività dinamiche e propulsive sarebbero state esse stesse “agite” in nome di un’astorica idea di sogno e “impossibilità” che diventa più reale della realtà, di sfondamento più che di costruzione, di meraviglia più che di valore e di interesse. Nell’immediatezza bruciante di lotte o sovversioni culturali che, con la fine del secondo millennio, sono sempre più teleriprese che pianificate a tavolino, sempre più frutto di una mobilitazione febbrile (Perniola parla di un’“addiction”, di una “tonalità tossica”) che di una strategia dell’attesa e della intellegibilità, è un’intera visione organica della vita e dei suoi fatti che crolla inesorabilmente. Quella che, dall’Ottocento agli anni ‘40 del Novecento, aveva collocato il fare e il conoscere nella “spiritualità” prima provvidenziale, poi razionale e progressista di una Storia che abbraccia in modo permanente e senza lacerazioni il singolo alla collettività. Adesso “ogni evento è senza conseguenze, perché senza premesse. La catastrofe del pensare si accompagna a quella del sentire e dell’agire” nel “trionfo del promiscuo e dell’osceno che va sotto il nome di trash”5: il particolarismo sottrae terreno all’universalismo, l’istante sostituisce la durata, “l’infinito, il permanente il valutativo”6, pur grandezze opposte alla beata/beota insipienza dei processi comunicativi, vengono da questi inseriti in un più ampio meccanismo di inglobamento e cannibalizzazione, la seduzione con la sua arte della moderazione e del desiderio mancato cede il passo a una “democratizzazione della pornografia” che parte a furor di popolo già due, tre decenni fa, la “verità effettuale della cosa” soccombe a una insostenibile tracimazione di dati, notizie, speculazioni orizzontali senza un perché e, dato ancor più riprovevole, senza un domani. “L’arroganza comunicativa e il dispotismo tecnologico provocano uno strano effetto: la scomparsa dell’opposto, del differente, dell’altro e la difficoltà di trovare strumenti concettuali (prima che politici) per opporsi a una situazione di oppressione nella quale siamo intrappolati e della quale ci sentiamo nello stesso tempo complici”7. Dietro tutto questo, una vera e propria balistica planetaria del capitalismo finanziario e tecno-spettacolare che trova la sua ratio capillare di controllo nello svellere la vita dalle sue radici organiche e comunitarie, nell’abbattimento dell’idea socialmente integrata di lavoro, nell’utopia

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Mario Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, Torino 2009, p. 103. Op. cit., p. 119. Op. cit., pp. 125-126.

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La scena e l’osceno, antropologia della dissoluzione

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tele-informatica delle “nuove libertà” e dei sogni identitari, nell’anabolizzazione del soddisfacimento un tempo etico-politico, disfacendo i saperi particolari e le competenze burocratico-intellettuali, i veri talenti artistici e gli spiriti anarchici, le dotazioni “intangibili” e i rapporti interpersonali, dietro la coltre di un vero terrore verso il nuovo, il diverso, il singolare, la metamorfosi radicale delle cose e dei rapporti, “annullando, in nome di una concezione aberrante della democrazia e dell’uguaglianza, la possibilità di ogni eccellenza, di ogni merito, di ogni qualità”8. In realtà la società cognitiva che si basa legittimamente, e al passo coi tempi, su conoscenze condivise, risorse umane, interazioni ubiquitarie e capitali simbolici, è cosa ben diversa del capitalismo cognitivo che ne è la cattiva coscienza, il chiodo ritorto, potremmo dire. E allora fa bene Perniola a dire che la new economy non è direttamente avvicinabile al totalitarismo del Grande Circo della comunicazione, a patto di cogliere che quest’ultimo si abbevera alla prima poiché, avendo comunque bisogno di canalizzazioni e suddivisioni legittimanti, prende dei circuiti della società cognitiva solo quelle più declassate e corrotte, più burocratizzate e incolte, più improvvisate e pletoriche, enfatizzandole nella loro presunta grandezza esemplare9, o ne volge a controsenso spettacolarizzato le radici sovversive e innovative, ovvero

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Op. cit., p. 120. In questa sorta di società del “doping intellettuale” è sicuramente al top Amici, la trasmissione ormai ultradecennale della De Filippi che sembra proprio incarnare il sogno del “tutto è possibile basta volerlo” o, che è peggio, “basta rientrare nel giro giusto” e tutto si realizza, sogno che ha creato negli anni un proselitismo di massa fra i più giovani aspiranti-divi d’Italia. L’idea vincente (da persuasione occulta, direbbe qualcuno) del programma non è stata solo quella di eliminare del tutto, azzerare, seppellire nel tempo le forme espressive che potevano essere più improntate alla riflessione, alla cultura vera e risultare magari più “lente” e meno pronte alla magia televisiva (da parecchie edizioni, ormai, è sparita come disciplina la recitazione, non si fanno più numeri corali di musical, nella giuria dei prof si succedono stabilmente rappresentanti del mercato discografico e delle etichette più famose come giudici diretti del talento dei ragazzi, grandi scrittori come Aldo Busi non fanno più lezione di “teoria”, giudicata troppo asimmetrica, evidentemente, rispetto all’immediatezza del diventare ricchi e popolari). Quanto quella di far tornare alcuni vincitori dello show come personaggi già capaci, a poco più di vent’anni, di insegnare agli altri ciò che forse, umilmente e con mille altre esperienze, di vita e di arte, dovrebbero ancora recepire essi stessi. Nel giro di due soli anni Stefano De Martino è tornato come ballerino “professionista” e nell’edizione di quest’anno Emma Marrone, vincitrice due anni fa, ha avuto un ruolo di “direttrice artistica” di una delle due squadre del Serale. Con esiti – in quello che diceva e che faceva, quasi da navigata star del palcoscenico – a dir poco grotteschi e ridicoli, più e più volte.

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Filosofia dell’osceno televisivo

quello meno omologate, più “artistiche”, che sarebbero foriere di senso e dissenso per la maggioranza. È appena il caso qui di sottolineare come uno dei filoni televisivi più seguiti (e letali) sia quello che appartiene ai format di Maria De Filippi dove si mette in scena la parodia di quelle funzioni esistenziali, sentimentali e intellettuali che dovrebbero portare a profonde rigenerazioni del nostro stare insieme familiare, interpersonale e sociale, e invece appaiono solo all’interno di un ruvido reticolare meccanismo di banalizzazione-invalidazione degli stessi. L’“amore” di chi va a Uomini e Donne è solo smania di visibilità, messa in gioco di fatti personali perché si specula su ogni dettaglio privato quando non si è nessuno e si vuole tutto e subito; presenza oleografica sotto mentite spoglie di vite “da rifarsi” e di “compagni per il resto dei giorni”, promozione di pseudo-geografie interiori in cambio di facili apparenze che sanciscono il paradosso delle crono-identità: tanti sé vermicolanti che esistono a tempo determinato, autoesclusi da ogni normale socialità ma che più stanno davanti a una telecamera drammatizzando inutili patemi, più si regalano un passaporto per lo specchio10. Stesso dicasi per il “talento” dei partecipanti ad Amici o ad Italia’s Got Talent, che diventa allora un fritto misto di amatorialità, televoto, simpatia degli spettatori da casa, pseudo-agonismo, discipline para-professionali, bizzarria suicida, ostentazione di handicap fisici e sociali, di spaventose fragilità caratteriali che fanno, però, tanta audience, soprattutto se uniti, a loro volta, al perfido narcisismo, letto come lacrimevole pietismo e aiuto solidale, delle commissioni che devono sentenziare, da caronti postmoderni, chi è dentro e chi è fuori da quello che potremmo chiamare il Sistema dei sì, la ruota dei salvati e dei reietti alla quale questa società del feudalesimo elettronico si è convertita. Un po’ atleta un po’ vacanziero, un po’ dilettante un po’ professionista, un po’ performante un po’ naif, il “talentuoso” è il mutante per eccellenza in un proscenio che vuole innanzitutto stupore

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Gilles Deleuze in Cinema, Mimesis, Milano 2010 battezza “cinecronia” l’immagine-movimento del cinema legata all’estensione del tempo che, a sua volta, si suddivide in “intervallo” e “immenso”, ovvero in parti che si compongono in una quantità totale, nelle sequenze di un molteplice che procede attraverso una sommatoria, in estensione. Da non confondere con l’immagine-luce che vede nel tempo potenza, intensità, distanza. Per l’identità, come per l’immagine cinematografica, può valere la stessa sintassi: o si procede per un molteplice che si totalizza (quanto vengo inquadrato, quante volte appaio, quanto vengo riconosciuto etc.) o per una sorta di sublime della soggettività che, a quel punto, non trova la sua “luce” nella macchina che lo riprende e nell’“orologeria” della presenza, ma nell’abisso da cui proviene.

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La scena e l’osceno, antropologia della dissoluzione

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e minimalismo, storie di vita e fenomeni da baraccone, triste poltiglia e miracoli in diretta11. Senza più gusto, autorità, competenza, didattica e, soprattutto, dignità nel proporsi, il “talento” diventa, allora, uno strano corredo tecnicogenetico incistato negli interstizi di una società malata di protagonismo, spoglia di vera cultura e soggiogata alla malafede (oscena), da un lato, di conduttori-guru che su dabbenaggine e disperazione altrui hanno costruito un personalissimo impero di danaro e popolarità, dall’altro, di giudici eticamente fiacchi che sanno solo rapportarsi alle leggi piallanti dello spettacolo e all’estemporaneo velleitarismo di uno scroscio di risate e di applausi che affoga ogni dissapore nell’inconscio slogan “la prossima volta sarai più fortunato”12. Ecco allora che il talento viene giudicato ora rispetto alla capacità di intrattenimento del più o meno improvvisato “artista”, ora alla scenografia di contorno, ora ad una eccezionalità psicofisica, ora alla bellezza di chi si esibisce, ora alla stranezza ai limiti del patologico dei suoi comportamenti, ora ad una sua reale capacità tecnica riconosciuta da pubblico ed esperti; e allora, non è più un caso che in tante trasmissioni di questo tipo, il bravo per antonomasia ceda il campo o venga sonoramente bocciato in ragione di categorie interpretative che non premiano più solo la vocazione e la fatica propedeutica al “numero” offerto agli spettatori. Ecco la sostituibilità assoluta delle persone, l’intercambiabilità, il loro zombismo fanatico, la loro desolazione imbellettata e gestita, ecco il bestiario banale di folle di migranti verso il fresco e dolce nitore dell’acquario televisivo. Alla fine la parodia porta al destino, all’equivalenza assoluta di un’exit con un’altra, di un successo con quello del vicino, in una spirale di facce e di lacrime, sorrisi e sconfitte, ingressi e uscite che poteva essere legger11

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Nell’ultima edizione di Italia’s Got Talent, si è classificato nella finalissima al terzo posto tal Roberto Carlisi, rappresentante porta a porta di aspirapolvere Folletto, candidatosi come ballerino molto abile su musiche-cult degli anni ’80 stile Heather Parisi, Raffaella Carrà, Lorella Cuccarini. Nell’edizione 2012 di Amici, nelle gare finali del Serale, ogni cantante o ballerino poteva essere affidato dal suo professore-tutor INDIFFERENTEMENTE, e su decisione stabilita là per là, a una giuria composta da esperti del settore, accademici, critici, leader di chiara fama, oppure ad un’altra composta da ospiti della trasmissione, quasi sempre attori, attrici, comici, calciatori, sportivi, star del gossip. In tanti casi si è arrivati ad eliminare o a far proseguire nelle sfide taluni ragazzi sulla base, solo ed esclusivamente, di opinioni passeggere o pregiudizi di simpatia di questi ultimi. E non a caso i vincitori delle categorie “ballo” e “canto” sono stati due ragazzi contestatissimi per la non completezza della loro preparazione, “salvati” dal pubblico col tele-voto per bellezza o per love-story che li riguardavano nella cornice-reality del programma.

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Filosofia dell’osceno televisivo

mente o massicciamente diversa da come è stata tele-rappresentata, poco sarebbe cambiato per l’effetto ipnotico e manovrabile che si prefiggevano gli autori del prodotto televisivo: ovvero, il magma posticcio che, in realtà, non porta a nulla, certamente non al Nulla che è dietro il reale e lo tallona per decostruirlo e modificarlo ricordandogli la sua limitatezza, ma al nulla che è tutto interno al reale e lo spolpa e desertifica mentre ne satura ogni via. “L’ultima soglia significante della trasmissione (Amici, ndr.) è proprio questa: non c’è un’effettiva ragione per la quale vinca l’uno invece di un altro, non è per bravura, non è per simpatia, non è per strategia, non è per conformismo. Oppure è per una di queste eventualità o per tutte insieme. Non conta. La vittoria si impone in quanto tale e, nell’imporsi, si giustifica, si legittima. Il cerchio si chiude: minato il principio d’autorità della stessa struttura conoscitiva della contemporaneità, democratizzata a tutti i livelli la possibilità d’espressione, rimane solo la forza della moltitudine a farsi valore. Ciò che è è ciò che sarebbe dovuto essere, ovviamente leggendolo a posteriori”13 . In questo relativismo senza coscienza, in questa babele dei “paria” della postmodernità assetati di successo come maschera della sicurezza, “che cosa accade, insomma, di arte e mito nelle fasi in cui il senso comune fa difetto e non è più capace di potenziarli, di accoglierli? Avremo, facilmente, un tendere di questi aspetti del pensiero umano verso l’ambiguità. Assisteremo al sorgere di una vaghezza semantica o d’una totale incomprensione e assurdità dell’arte come del resto è accaduto spesso nel caso dell’arte dei nostri giorni”14. Tutto il vociare mediatico che oramai ha preso possesso dei nostri modelli di comportamento, ha in pratica trasformato anche le soggettività più combattive e recalcitranti al conformismo in attori di un proscenio dove i poteri forti e le loro logiche di dominio agiscono indisturbate all’ombra. All’ombra del parossismo mediatico, per l’appunto, dove ogni enigma è spogliato, dove ogni verità è dilaniata e la morte è sottoposta a “futilizzazione organizzata”15, senza che questi consistano mai nella loro drammaticità, ma dove non per questo la “cupola” politica, affaristica, militare (e televisiva) è meno attiva. “Il pensiero debole trova almeno una sponda di ascolto, se non di influenza, nella politica. Questa si sente finalmente autorizzata ad essere ignorante, a mettere in soffitta la teoria, a dire e a disdire, a fare e a disfare senza tenere più in considera-

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Salvatore Patriarca, Il mistero di Maria. La filosofia, la De Filippi, la televisione, Mimesis, Milano 2012, p. 45. Dorfles, op. cit., p. 104. Perniola, op. cit., p. 135.

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La scena e l’osceno, antropologia della dissoluzione

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zione non dico la coerenza, ma nemmeno la logica, in altre parole a fare della “comunicazione””16. E, sempre Perniola, ancora più icastico sulle responsabilità di affossamento mentale e culturale messi in atto dalle attività pubbliche e private dell’ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e dal suo esercito di officianti e propagandisti dell’illogicità populistica: “Berlusconi rappresenta il culmine di un processo che ha tolto alla televisione ogni compito educativo e istruttivo, trasformandola interamente in un intrattenimento che istupidisce gli spettatori… non pretende da lui nessuno sforzo mentale e psichico e lo fa sentire in perfetta armonia col mondo… Più che di televisione “cattiva maestra”, bisognerebbe parlare di televisione “cattiva madre””17. La comunicazione è la centrifuga impazzita di fatti e opinioni, ideologie e referenti ordinari, affatica ogni comprensione, banalizza la tragedia dell’esistere, porta oblìo e crepuscolo nella progettazione di valori condivisi. Ma, soprattutto, arretra il limite fra oggetto d’uso e merce come nella pubblicità, fra passione e copione come nei reality, fra pubblica agorà e propaganda partitica come nei talk di politica, di qualsiasi estrazione siano, di destra come di sinistra. In un melting pot assordante e arrembante dove latita quel between, quel “tra”, – oscillazione sana ed euritmica fra distanza e vicinanza, sigilli della comprensione e della significazione –, “senza il quale l’Umanità rischia di precipitare nell’orrore di un “pieno” non più frammentabile e dominabile, e di divenire totalmente succube del “troppo pieno” e dell’eccessivo “rumore””18. Altre due sue “colonne infami” sono senz’altro l’abiura di ogni consapevolezza critica e di ogni forma di cultura, e la devoluzione delle singolarità, che retrocedono ad una sorta di materia post-umana che trova sempre domicilio sotto i riflettori di un set televisivo, basta accettare le logiche del sistema, non usare gli anticorpi dell’intelligenza e dis-intimizzare le proprie resistenze emotive. La comunicazione è l’apparato tentacolare, traslucido che ottiene due finalità importanti: delegittimare ogni forma di contestazione e trasformazione, trasferire la cittadinanza reale nella recita vantaggiosa sulla scena mediatica, creando “un’umanità speculare, un’umanità che riflette come un’apparecchiatura televisiva, che riproduce mimeticamente tutto quello che le viene propinato”, secondo il nuovo canone della “fittizietà delle immagini stesse cui l’umanità funge da specchio”19.

16 17 18 19

Mario Perniola, Berlusconi o il ’68 realizzato, Mimesis, Milano 2011, pp. 43-44. Op. cit., p. 16. Gillo Dorfles, Horror pleni, Castelvecchi, Roma 2008, p. 24. Dorfles 2009, op. cit., p. 70.

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Filosofia dell’osceno televisivo

Gli apparati comunicazionali trovano nelle nostre cellule cerebrali le loro telescriventi, le nostre sinapsi, i nostri bulbi oculari diventano i loro cavi, i loro schermi, i nostri desideri sono i loro alimentatori; l’umanità precipita in una vera e propria antropologia della dissoluzione all’interno della quale fini, progetti, gesti, carne, muscoli, respiri e libertà sono o-scenizzati da un regime della parola senza più colore e significato, senza più cogenza ma solo contingenza, gangli di una Macchina rutilante che ci predetermina silenziosamente e col nostro gratificato placet20. “Forse ci sono le cose “reali” e poi le loro immagini. Ma certamente non c’è la “realtà” e poi la sua riproduzione spettacolare. Perché la realtà stessa è intessuta dell’ideologia, della logica e della tecnica spettacolare; è la produzione ontologica stessa che viene allestita secondo i criteri della sua formattazione mediatica a flusso ininterrotto e totale. È come se la realtà venisse prodotta “retroflessivamente” dalla sua stessa riproduzione”21. La comunicazione, osceno della parola e della rappresentazione di noi stessi, comincia a collocarsi come una vera e propria patologia della percezione e del linguaggio. L’osceno morale In un’epoca del brutto e degli scarti, di inquinamento ambientale e manipolazioni sensoriali, la categoria dell’“osceno” ha assunto, con lo sviluppo accelerato delle tecnologie mediatiche e le sovraesposizioni del mondo dello spettacolo, varie declinazioni la basilare delle quali è forse quella che ne trova l’etimologia dal latino ob, particella che vuol dire “di”, “verso”, e coenum, che starebbe per fango, mota, acqua sporca (il greco koinòn che sta per “immondo”); dunque, l’osceno sarebbe la mostra di cose turpi, ripugnanti, maleodoranti. Ma l’osceno non è solo quello che ricorda una sorta di aspetto “scatologico” dell’esistenza, fatta di rifiuti, veleni, agenti patogeni, focolai di malattia. L’osceno diventa nel tempo, e sulle spalle di una robusta tradizione 20

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Ad una immagine del tutto simile arriva Mc Luhan in Gli strumenti del comunicare citato in Antonio Caronia, Virtuale, Mimesis, Milano 2010, p. 22 quando dice: “Una volta che abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi alle manipolazioni di coloro che cercano di trarre profitti prendendo in affitto i nostri occhi, le orecchie e i nervi, in realtà non abbiamo più diritti. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre”. Massimo Carboni, Di più di tutto. Figure dell’eccesso, Castelvecchi, Roma 2009, pp. 210-211.

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La scena e l’osceno, antropologia della dissoluzione

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platonica e poi giudaico-cristiana, l’emblema stesso del corpo inteso come “contenitore”, fondale e fonte di tutto quanto viene ritenuto peccaminoso, torbido, deviante in quanto appartenente alla natura vista nella sua improvvida animalità, buia essenza ctonia, tempestosa manifestazione di pulsioni, bisogni e desideri che spingono l’uomo a privarsi volontariamente del raziocinio per cedere al ricatto delle passioni e della carnalità. Ecco che allora “ci si è spesi, attraverso l’educazione e l’organizzazione puramente razionale dell’essere insieme, o ancora nell’utilitarismo proprio all’economia moderna, per espellere gli affetti, gli umori e i sentimenti fondamentali dell’animale umano. Tutto ciò prima sotto lo sguardo di un Dio onnipotente, è passato in seguito sotto quello di uno Stato non meno onnisciente. In entrambi i casi, la verticalità della Ragione sovrana era il fondamento della vita sociale”22. Qui il problema non è più sostenere una dicotomia fra ciò che favorisce la sopravvivenza e ciò che la danneggia o che la condanna a destabilizzazione o decomposizione all’interno di un comune discorso di habitat (dolori, afflizioni, attacchi esterni, morbi, imponderabilità di elementi atmosferici, sciagure, cataclismi e quant’altro); ma scindere, secondo un netto manicheismo e con un intento di separazione/dominazione, tutto quanto è dimensione sensibile, affettiva e sessuale da ciò che è e sarà sempre riconducibile alla purezza dell’anima, alle scintille del divino, alle possibilità di conversione verso il “dover essere” eterno della verità rivelata che, seppur latita nelle pieghe del materico, potrà sempre far ritorno alla sua sorgente primigenia e incontaminata: Dio e lo stato di grazia che garantisce. La sensazione dell’osceno è la dimostrazione dell’immane sacrificio dell’essere predetto e pianificato dagli approcci mistico-religiosi. Significa avvertire all’improvviso l’irrompere di qualcosa che avevamo sottoposto a oblìo, a repressione, qualcosa che ci disturba e ci turba, qualcosa che rimette in discussione le nostre certezze, che ci smarrisce strappandoci alla quiete dell’obbedienza e riconsegnandoci al caos e alla confusione. E non è diverso nelle temperie illuministiche dove determinismo e tecnocrazia (un “razionalismo morboso”23 e paranoico) vedono patologie, disturbi clinici, derive pericolose, macchie e corruzioni dell’animo, oggettivato ormai come “comportamento” e “psiche”, a ogni piè sospinto, istruendo una rete di sorveglianza e punizione della colpa che si fa ora degenerazione o infezione, del corpo individuale e collettivo. Un impero del rimosso e del 22 23

Michel Maffesoli, Matrimonium. Breve trattato di ecosofia, Bevivino, Milano/ Roma 2012, p. 26. Maffesoli, op. cit., p. 47.

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“perturbante”, un modello di tipo morale cala su quella naturale estetica diffusa che afferisce al fisiologico, all’erotismo, alla dissipatezza, all’ormonale, all’eccesso improduttivo, alle gioie dei piaceri fisici, e che arriva fino ai giorni nostri con una coltre pesantissima di guasti interiori. Sottolinea Onfray: “… la cerebralizzazione dell’amore, il suo diventare platonico rendono paradossalmente volgari le pratiche sessuali. La durezza dell’ascetismo platonico cristianizzato genera e fa nascere sofferenze, dolori, pene e frustrazioni in quantità. Potrebbero testimoniarlo terapeuti, medici e sessuologi: la miseria delle carni governa il mondo. L’esaltazione del corpo glorioso porta immancabilmente il corpo reale nelle stamberghe, nei bordelli o sul divano degli psicanalisti. Fallite le scelte edonistiche, ludiche, gioiose e voluttuose, i due millenni cristiani non hanno prodotto che odio della vita e indicizzazione dell’esistenza sulla rinuncia, riservatezza, moderazione, prudenza, economia di sé e sospetto generalizzato degli altri”24. Sarebbe l’Immagine spettacolarizzata dei media globali l’ultimo esangue schema di razionalismo che l’Occidente ha deciso, ancora una volta, di sovrapporre alla vita nel suo palpitare, sovrabbondare, “accomodare” l’uomo nel grembo della sua finitudine, ripercorrendo così un cammino, dagli effetti già fin troppo devastanti, battuto con la figura di Dio, dello Stato, del Progresso. L’Immagine come concrezione finale, cuspide metafisica, cristallo sfaccettato di quelle ideologie del disancoraggio e della scomposizione del reale che ci hanno condannato ad essere nei secoli proni adoratori di entità sovra-empiriche, di codici senza più radici umane, di leadership dal folle potere sulle masse, e oggi, di video-simulacri che, delle nostre passioni più vere, sanno offrire solo una dimensione astratta, fredda, commerciale e derisoria. Avremmo assistito (e subìto), dunque, prima a una teoria e a una pratica di vita fondate sull’abbandono a una volontà provvidenziale che tutto può decidere e disfare, e poi via via nei secoli, e fino alle grandi ortodossie del Novecento, al controllo calcolatorio di una scienza ordinatrice, alle sue architetture concettuali, fino al dissolversi stesso del materialismo nell’“idealismo” vaporoso e inafferrabile della merce e delle sue ellissi sognanti tele-pilotate. Che la Ragione, quindi, sia stata soggiogata alla fede o circuìta da una normatività più direttamente numerica e quantitativa, essa – “dal dito divino alla mano dell’uomo, dalla creazione alla costruzione”25 – non ha fatto altro che esacerbare il suo “pensiero dall’alto”, la sua veggenza, il parossismo della prevedibilità e del Grande Disegno, risultando sempre e soltan24 25

Michel Onfray, Teoria del corpo amoroso, Fazi, Roma 2006, p. 48. Maffesoli, op. cit., p. 45.

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to “proiettiva” (nel senso della antica ratio seminalis), lanciata in avanti, persecutoria, dicotomica. Con Prometeo scatenato o il Golem a farle da miti deteriori di un produttivismo senza freno e senza correttivi etici da un lato, e di uno sdoppiamento che prende vita e si vendica del suo officiatore dall’altro. Contro questa decadenza vestita di precisione e gerarchia, contro il disincanto radicale che ha portato a una “spoetizzazione” del mondo, a una generalizzata “de-magificazione”26, Maffesoli, propone una “geosociologia delle profondità”, ovvero una rivalutazione della “potenza societale”, dell’immediatezza, dell’istintuale, del singolare, degli ideali di bellezza dal basso, di una gioiosa tragicità che sa di indeterminatezza ma anche di colorata e relazionale compresenza degli uomini, nella loro pluralità e polifonicità di stili e abitudini, alle cose. Una piena ripresa, dunque, di quella matrice interiore, che ci abita e sovrasta: un “pensiero-ricordo non più preoccupato solamente dal Futuro”27 ma che mira a ricostruire un ”oikos”, una casa, una domesticità, una “ecologia dello spirito”, dove ciò che pulsa non è l’elettronica integrata di qualche strumentazione tecnologica, ma l’empatia fra individui, la condivisione, un rinnovato senso del comune che parte da lontano, dalla memoria stratificata di ciò che siamo, da quella fragilità antropologica che detta feeling, sentimenti, co-interessenze, contatti di pelle e di mente, e non l’assurdo esercizio di una violenza su ciò che ci circonda e ci “serve”. Un’“invaginazione del senso”, dice Maffesoli, ha fatto sì che l’estetica spontanea, selvaggia, febbrile, sincopata, metamorfica e quindi esaltante delle nostre esistenze si andasse ulteriormente a chiudere, a rincantucciare, ad addormentare, sepolta da stimolazioni passive, condotte massificate, significati reificati. Far esplodere questo sapore sostanziale ma contrastato significa concederci a finezza, grazia e soavità, senza regressioni o demonizzazioni del benessere e della ricchezza, ma in armonia con la nostra origine che, proprio a causa della sua miseria e fallibilità, contiene in sé i semi di una messe che porta al dialogo, al rispetto, alla creazione senza abominio: “Il pensiero meccanico ragiona. Quello organico risuona”28. Questa apertura di un nuovo orizzonte “ecosofico”, fatto di appartenenza, territorio, spazio vissuto, materia dolcemente plasmata, fatto di una sorta di epidermica artisticità, Maffesoli la ritrova in tante variegate esperienze della postmodernità, soprattutto affluenti al mondo giovanile.

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Op. cit., p. 48. Op. cit., p. 51. Op. cit., p. 76.

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E qui forse la sua idea “terrestre” accusa dei cedimenti, una sorta di ingenuità esclamativa in cui un pensiero come il suo rischia di cadere se non sufficientemente supportato da un’analisi del potere e del mercato. Maffesoli vede il nuovo e la ricerca di un “meglio-essere” un po’ ovunque, arrivando ad affermazioni tipo: “Nella creatività quotidiana, nell’estetica del vivere alla giornata, nelle forme d’arte diluite in piccole dosi all’interno dell’abitazione, nell’abbigliarsi, nella cura di sé, nelle diete e anche nel culto del corpo, avvengono delle fioriture spontanee”29. Oppure: “Così, con i loro piercing, i loro tatuaggi, le loro acconciature scolpite e multicolori, con il loro vestiario in cui l’etnico si scontra con il sofisticato, le giovani generazioni esprimono nel gioco delle apparenze una grazia naturale”30. Altrove il suo tendenziale panglossismo tocca vette che lasciano a dir poco imbarazzati e perplessi, come quando dice: “In effetti, essa (l’estetica postmoderna, ndr.) non ha alcuna finalità, non ha progetti precisi, ma si accontenta di vivere giorno per giorno, per il semplice piacere di condurre insieme agli altri un’esistenza “senza qualità””31. E ancora: “Al tempo vuoto e omogeneo del concetto storico, si sovrappone l’opportunità dell’evento, l’intensità della durata, la voglia, in qualche modo tragica, di vivere un istante eterno. Tutto questo è in atto nelle tribù contemporanee, che se ne infischiano del “dover essere” moderno e privilegiano, senza vergogna, il mondo così com’è, come si presenta, come si lascia vivere, con tutte le sue imperfezioni”32. Un candido sincretismo di mode, appeal, spot pubblicitari viventi, affreschi ipermediatizzati, significanti troppo spesso senza significato che, però, Maffesoli identifica come un mosaico di mirabilie non verbali, istantanee, armoniosamente superficiali, che non inserisce in alcun sistema allargato di condizionamenti ed eventuali forme di emancipazione che non siano la compattezza languidamente oppositiva del gruppo, senza indicare il benché minimo strascico di eterodirezione voluto (e ottenuto) in tutto ciò dal marketing, dal fashion-system, dall’emulazione televisiva, dall’edonismo plastificato dei riti tribali, urbani sì, ma tremendamente indotti e non sempre (quasi mai) frutto di una deliberata forza rigeneratrice delle coscienze e dei corpi. Basterebbe fare un paragone con la potenza degli scritti di Slavoj Žižek là dove il filosofo sloveno spiega il concetto lacaniano di vergogna come “rispetto per la castrazione”. “Si prova vergogna per le proprie origini etniche, per la specifica ‘torsione’ della propria identità particolare, per il fatto 29 30 31 32

Op. cit., p. 58. Op. cit., p. 59. Michel Maffesoli, La trasfigurazione del politico, Bevivino, Milano/Roma 2009, p. 231. Op. cit., pp. 245-246.

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di essere intrappolati nelle coordinate di un mondo in cui si è stati gettati, al quale si è fissati, nell’impossibilità di liberarsene”33. Da qui, “la ferita, la deformazione/distorsione inflitta al corpo quando il corpo è colonizzato dall’ordine simbolico”34. Per questo ci piace il Maffesoli che della “crisi” dice: “Il passaggio dal pieno istituzionale al vuoto della matrice, dalla sicurezza razionalista all’inquietudine che suscita domande. Il ritorno, al di là o accanto al massivo, di questo scintillio vivente che è la mancanza, il “nulla”. Il nulla fonte e origine di tutto”35. Senza dimenticare quel faticoso processo di disvelamento delle ideologie che fa dire con semplicità allo Žižek che riflette sugli abissi del neoliberismo: “Il richiamo al sacrificio della nostra vita per una Causa più elevata è la maschera di una manipolazione da parte di coloro che hanno bisogno della guerra per il loro potere e la loro ricchezza”36. Per questo, nell’orrore dell’imperialismo economicista, nel nichilismo devastante che è soprattutto accecamento del simbolico, dell’Altro, prima e ben oltre che soppressione di diritti civili e fantasmagoria del benessere, accade che “il Capitale parassiti e sfrutti la pura pulsione di Vita. La Pura Vita è una categoria del capitalismo”37. In realtà, nel Reale, la morte sta alla vita come la scintilla alla fiamma. E che questa condanni al suo rogo chi vuole accecare il nostro innocente sguardo sul mondo. Il simbolico-Matrix La rupture anti-fenomenologica, l’abbandono del campo esperienziale, l’intercettazione e assoggettamento del molteplice e dell’aspetto contraddittorio dell’esistente (humus del simbolico) ad una totalità di pervasività e “coibentazione” come quella dell’Immagine, porta quest’ultima ad un ruolo di straniamento e mobilitazione, di lontananza e incisività rispetto al reale, fino al punto da diventarne il suo dna più proprio, il suo focus fondativo, l’epicentro dei suoi segreti/secreti svelati e portati in superficie. Se c’è questo “segreto”, altrimenti sarà bastevole per lo sguardo e le coscienze il potere col quale il niente si propone e impone, e la “realtà” si sarà costituita lo stesso come “evento”. Che è poi quanto Debord, in maniera profetica e illuminata, aveva già detto in alcuni aforismi di folgorante lucidità: “tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”; 33 34 35 36 37

Slavoj Žižek, Politica della vergogna, Nottetempo, Roma 2009, p. 63. Op. cit., p. 69. Maffesoli 2012, op. cit., p. 90. Žižek, op. cit., p. 36. Op. cit., p. 109.

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“lo spettacolo in generale, come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente”; “lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini”; “lo spettacolo non è un supplemento del mondo reale, la sua decorazione sovrapposta. È il cuore dell’irrealismo della società reale”; “nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso”; “lo spettacolo si presenta come un’enorme positività indiscutibile e inaccessibile”; “lo spettacolo è la realizzazione tecnica dell’esilio dei poteri umani in un al di là; la scissione compiuta all’interno dell’uomo”; “lo spettacolo moderno esprime al contrario ciò che la società può fare, ma in questa espressione il permesso si oppone assolutamente al possibile. Lo spettacolo è la conservazione dell’incoscienza nel cambiamento pratico delle condizioni di esistenza. Esso è il proprio prodotto, ed è esso stesso che ha posto le sue regole; è insomma uno pseudo-sacro. Esso mostra ciò che è”38. All’inizio del film Truman Show una ragazza, che ha fatto da attrice nel set che intendeva portare dalla culla alla tomba lo sventurato Truman in pasto agli spettatori televisivi di mezza America, parla nel backstage dell’involontario attore come di “una vita esemplare, quasi sacra”, mentre un altro collega, difendendo la bontà dell’operato del regista e dei produttori dell’infinito reality diceva: “niente è finto, tutto vero, semplicemente controllato”. Dunque, lo spettacolo oscenizzato è una gigantesca macchina dell’inutile e della ipersignificazione, sganciata da ragioni sociali, capace di sfibrare accumulandola come merce l’interiorità delle persone, di essere lenitiva per la sofferenza e l’angoscia di tipo metafisico che l’uomo si porta dentro, di disattivare ogni prassi riformatrice, di porsi come una sorta di trastullo che risolve e compone le problematiche ambientali fra simili, lo spaesamento del loro stare al mondo, attraverso un eterno presente che gira su se stesso, all’interno del quale sono iscritti la cartografia del potere di chi governa le menti e i corpi e la liscia planimetria di un territorio immaginario, disincarnato, quella “coscienza senza pareti” che può “rendere antiquato il muro del linguaggio” al quale McLuhan si riferisce quando ci dice che i cervelli elettronici – guarda caso ancora con un sapore misticheggiante – “ci promettono attraverso la tecnologia una condizione pentecostale di unità e comprensione universali”39. È dunque il “controllo” nella sua meccanica operativa e combinatoria che dà sostrato alla realtà, la crea, la pone es-ponendola all’occhio di chi la guarda, ossificandola nella sua immanenza, legittimandola nella sua nascita, e rendendola quindi oggetto di adorazione o di semplice evidenza logica. 38 39

Guy Debord, La società dello spettacolo, SugarCo, Milano 1990, in successione gli aforismi 1-2-4-6-9-12-20-25, pp. 85-94. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, cit. in Caronia, op. cit., p. 35.

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Modulandosi al suo interno attraverso “valori” che si pongono solo come sottoclassi e sequenze di un processo logico-simulatorio che sutura i paradossi e le “ferite” dell’essere-al-mondo. Parafrasando Debord – o ampliando e aggiornando il senso di un suo classico aforisma succitato – potremmo dire che non è solo il vero un momento del falso, ma il vero insieme al falso sono, ambedue, momenti di un Neutro mutante, come certi virus, capace di generarsi, di mettersi in atto, e di bucare le difese di chi, a quel punto, abdica ad ogni capacità di osservazione, verifica, buon senso, e “crede”. In un mondo realmente sterminato, il vero e il falso sono ambedue momenti di un Neutro terapeutico e cangiante, che non fa sentire più nemmeno il dolore della trasformazione, ma solo il terrore della non-appartenenza. “Dunque è tutto immaginario, è una sorta di illusione che ci aiuta a sopravvivere in un’epoca come la nostra, in cui tutti temono di essere esclusi”40. L’“al di là” para-religioso cui allude Debord è, dunque, una totalità scissa, o meglio si definirebbe scissipara, poiché autoreferenziale, astratta e tautologica, dinamicamente protèsa alla propria conservazione attraverso enucleazioni e divisioni che l’uomo stabilisce dentro di sé e fra sé e il mondo esterno reificato come Immagine. Sicché si assiste a un doppio binario: l’uomo si lancia verso un “cielo” di illimitatezza che prescinde dal tempo della libertà, delle speranze e della storia, che non gioca più con le differenze fra reale e simulacro, che è invece solo la simulazione di un modello, l’“anticipazione del reale”41; e contemporaneamente questa “Sostanza Sociale”42 lo fonda, lo predetermina e lo segrega in un universo alienato, “antigravitazionale”43 dove l’umano è retrocesso ad anomalìa del sistema, a epifenomeno di un’Idea calcolatoria e iconica, quanto basta per mantenere quell’incrinatura metafisica, l’imperfezione animale, la dis-grazia dell’essere e rilanciare perpetuamente l’impianto della totalità stessa. Partizione e Insieme, inestricabilmente, l’uno diretto all’altro, l’uno verso l’altro, non più versus.

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Zygmunt Bauman, Communitas. Uguali e diversi nella società liquida, a cura di Carlo Bordoni, Aliberti, Reggio Emilia 2013, p. 34. Perfettamente in linea con questa chiave di lettura, l’ansiogeno diktat di Flavio Briatore, “boss” dell’ormai nota serie Sky The Apprentice, che impone un drastico “sei fuori!” a tutti gli aspiranti-manager letteralmente cacciati su due piedi se non corrispondono al suo modello di imprenditoria capace, per cinismo e inventiva, di sbaragliare senza compromessi ogni concorrenza. Jean Baudrillard, Cyberfilosofia, Mimesis, Milano 2010, p. 9. Slavoj Žižek, The Matrix, Mimesis, Milano 2010, pp. 13-14 dove la “Sostanza sociale” è definita come “tutto quanto fa sì che il soggetto non domini mai gli effetti dei propri atti, ovvero… ciò che fa sì che il risultato della propria attività sia sempre qualcosa di diverso rispetto a quanto si voleva fare o prevedere”. Baudrillard, op. cit., p. 13.

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Filosofia dell’osceno televisivo

“Viviamo tutti in una società frammentata, ma i frammenti al suo interno non sono irrimediabilmente divisi e definiti, bensì fluidi ed effimeri. I frammenti si modificano all’interno della società”44, ragion per cui “ora le società hanno un impatto più universale”45. La realtà deve opporre una resistenza, deve essere sempre lambita dal desiderio, deve essere coscienza infelice, mai armonia e stabilità se non nel suo ultimo stadio “edenico”, pena il fallimento del binomio agonia/ agonismo che il Sistema esercita sull’elemento cellulare, vitale, mentale sradicato e ipostatizzato nell’Iperuranio plastificato della finzione mediatica. L’umano distrofizzato corrisponde perfettamente alla genesi di una sorta di virtuale-mentale46. L’agente Smith in Matrix in un braccio di ferro molto cruento con Morpheus, appena legato e imbavagliato, così giustifica, digrignando davanti alla sua faccia, l’odio per il pianeta e per gli obblighi che ha come difensore dell’inganno della “matrice”: “Sapevi che la prima Matrix era stata progettata per essere un perfetto mondo umano? Dove nessuno avrebbe sofferto, dove tutti sarebbero stati felici, contenti? Fu un disastro. Nessuno si adattò a quel programma… Qualcuno pensò che a noi mancassero i linguaggi di programmazione per tracciare il vostro mondo perfetto. Ma io credo che, come specie, gli esseri umani definiscano la loro propria realtà attraverso la sofferenza e la miseria. Il mondo perfetto era un sogno dal quale il vostro primitivo cervello 44 45 46

Bauman, op. cit., pag, 39. Bauman, op. cit., p. 40. Non è un caso se negli ultimi anni si sia particolarmente diffuso un filone di spot televisivi che, promuovendo prodotti da banco, in maniera dettagliata e invereconda (senza, cioè, quella lontananza e quel ritegno che l’osceno “morale” ci dovrebbe suscitare), si soffermano su diarrea, stitichezza, meteorismo, verruche, micosi alle unghie, incontinenza senile, prurito vaginale, eiaculazione precoce. Non solo. Un altrettanto diffuso filone di format televisivi nati su satellite (soprattutto su Real Time), ma adottati a poco a poco anche alle nostre latitudini digitali, ha come protagonisti case, hotel, cucine definite “da incubo”, fra croste, muffe, scarafaggi e rischi per la salute di chi vi mangia o soggiorna. In entrambi i casi la dinamica culturale che si innesca non si ferma al riprovevole che abbatte il buon gusto, ma inneggia proprio a un tecno-razionalismo chimico-farmacologico nel primo caso, e igienico-ingegneristico nel secondo, che contende al “negativo” la sua natura di inemendabilità o di incontro reale, a prezzo di una cura che sa di ricetta o di design, di discount della funzionalità fisiologica o di pietistica solidarietà da parte di chi condivide il proprio sapere di esperto con gli sciagurati e i malcapitati del suburbio. Stesso dicasi per le “faccette” di una conduttrice oscena come la D’Urso, che può permettersi di trattare le più disturbanti nequizie della cronaca o le più insopportabili aberrazioni del nulla spettacolarizzato, a patto di fingere un familismo moralistico che le ridipinge, ricollegandole al mito della compostezza o al kitsch patriottardo del divertimento più sguaiato.

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cercava di liberarsi. Questo è il motivo per cui la Matrix è stata ri-progettata in questo modo: all’apice della vostra civiltà. Ho detto vostra civiltà di proposito perché appena noi cominciammo a pensare per voi divenne la nostra civiltà e questa è la ragione per cui adesso noi siamo qui. Evoluzione, Morpheus, evoluzione, come per i dinosauri. Guarda dalla finestra, avete fatto il vostro tempo: il futuro è il nostro mondo, Morpheus, il futuro è il nostro tempo”47. In questa stessa direzione Umberto Eco fu profetico, tantissimi anni prima di Matrix, negli anni ’60, nel delineare, come il vero fattore dirompente della modernità post-bellica, questo elemento tensivo fra l’ordinario della vita reale e lo straordinario lasciato intravedere dall’azione dei condizionamenti indotti nella mente di quell’uomo che egli stesso, senza troppi giri di parole, definiva come “circuìto dai mass media”, blandito dall’“evasione nel sogno” intesa come maximum dei “compensi narcotici” cui legittimamente ha diritto. Sarebbe dunque la forza di taluni “ideali”, altamente mediatici, a procurare al cittadino-spettatore una sorta di scissione, coatta e silenziosa, seppur ammaliante e stordente, fra la sua quotidianità fatta di mediocrità, miserie e problemi, e una dimensione-ultra dove “Kirk Douglas o Superman” rappresenterebbero il meglio di un firmamento verso cui l’umanità normale arranca. “Per togliergli ogni responsabilità si provvede però a far sì che questi ideali siano di fatto irraggiungibili, in modo che la tensione si risolva in una proiezione e non in una serie di operazioni volte a modificare lo stato delle cose”48. La scissione proiettiva sarebbe, dunque, finalizzata all’oblìo della propria condizione, alla sua fissità ad un’architettura politico-concettuale vissuta come immodificabile, ad un addormentamento del senso critico cui sarebbe bastevole lo sguardo sgranato verso un abisso di felicità lontana galassie, piuttosto che aprire nel tessuto delle proprie certezze più consolidate lo squarcio del dubbio e di una speranza reale e pugnace. Non accadrebbe nulla di dissimile nemmeno davanti alle grazie disinvolte e lascive di una spogliarellista da tabarin. Anche qui il Sistema si prende la sua torva vendetta sul singolo – con un doppio movimento di umiliazione, accettata e inferta – che costringe a impregnarsi di una Bellezza del tutto spettacolarizzata (eroticissima ma platonica, come una essenza “teologica”), riconsegnandolo come un’anima sempre insoddisfatta alla filigrana deteriorata del suo presente (dove deve prendere atto che “se la striptiseuse è la donna, sua moglie sia qualcos’altro”49) e congelandolo così 47 48 49

Žižek, op. cit., p. 34, ma il testo è stato corretto e integrato con il doppiaggio della versione italiana del film. Umberto Eco, Diario Minimo, Bompiani, Milano 2008, p. 29 (tutti i virgolettati) al capitolo Fenomenologia di Mike Bongiorno. Op. cit., p. 27.

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in una dolente schizofrenia, fra l’orrore delle impotenze e il gioco delle meraviglie e delle vanità. “Confortato sul fatto che le leve della vita associata non gli appartengono e che il modello delle sue esperienze è sancito da un regno delle idee che non può modificare, lo spettatore dello strip-tease può tornare tranquillo alle incombenze di ogni giorno, dopo il rito purificatore che lo ha confermato supporto stabile dell’ordine esistente”50. L’intrattenimento è dunque l’eterodirezione del cittadino e l’autodifesa del Sistema, in una perfetta silloge. Ascesi della fantasia. Censura introiettata. Culto dell’impossibile super-visibile. Intrattenersi significa trattenersi perennemente sulla soglia del proprio arbitrio, castigare preventivamente il proprio credito di storia. Con l’avvento della televisione, per Eco, la rete dei condizionamenti, tutto sommato non cambia, ma al superman come mito si sostituisce l’everyman51, l’“ognuno”, il vicino di casa, l’uomo del marciapiede, l’essere-medio, e dunque il processo di ortopedizzazione della libertà e del cambiamento subisce una ulteriore drastica torsione: ora non si resta più fermi, bloccati, quasi lobotomizzati perché preda di un’ambizione troppo grande da raggiungere (il divo hollywoodiano, i fantastici poteri di una creatura simile e aliena al tempo stesso), ma perché il mito stesso si è capovolto, e santifica chi sta già in poltrona, chi guarda il quiz della sera, chi vede sullo schermo non scenari superomistici o esempi di grandeur, ma forme di goffaggine, ignoranza, soggezione e simpatia piccolo-borghese in cui è facile identificarsi. Siamo agli albori del Primo Impero di Mike Bongiorno: “egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello. Nessuna religione è mai stata così indulgente coi suoi fedeli. In lui si annulla la tensione tra essere e dover essere. Egli dice ai suoi adoratori: voi siete Dio, restate immoti”52. Ma ciò che Eco non coglie – e del resto non poteva che essere così ben più di quattro decenni fa, quando le maglie della tv erano ancora larghe e soft – è che, pur se sono finalizzati a un non superamento/illuminazione dello stato di cose vigente e delle sue costrizioni più o meno manifeste – come giustamente mette in evidenza l’autore di Diario Minimo –, pur se intaccano la lucidità della responsabilità singola e collettiva che non è mero calcolo utilitaristico ma assunzione e realizzazione di un contropotere che rispetti maggiormente l’umanità di tutti, questi “ideali” che cloroformizzano il reale non sono affatto “irraggiungibili”, bensì definibili proprio a partire dal loro essere a portata di mano, perfettamente edificabili all’in50 51 52

Op. cit., p. 28. Op. cit., p. 29. Op. cit., p. 34.

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terno di un maquillage etico-estetico che ognuno è in grado di mettere in atto pur che ci si avvalga della scatola degli attrezzi che il Sistema mette a disposizione di una finta evoluzione dei soggetti. Insomma, ciò che irretisce le individualità e le avviluppa nelle pastoie di un’obbedienza di massa sempre più violenta, disumana e accentratrice non è più il Sogno iperuranico di un prototipo di vita e di status realmente concesso a pochi, ma il “sogno” isterico ed egotico che spinge tutti a una mobilitazione febbrile, a un dispendio di energie, a un autoerotismo del desiderio che faccia sembrare migliori, importanti, semidivini solo e soltanto perché riconosciuti per strada, celebrati nei programmi di maggior successo, clonati nella patina stellare che la tv sembra lasciar scivolare su sembianze del tutto scevre da qualsiasi ipotesi di straordinarietà. Ecco apparire allora quello che potremmo chiamare l’overman, l’uomo dell’“oltre” inteso non come stadio di ominizzazione, come ricerca interiore e filosofica, ma come infinita trascendenza di sé e solo di sé; l’uomo inappagato, che va in ansia, che vuole scavalcare a tutti i costi l’ordinario aggirando patti e vincoli sociali, dimenticando la Gemeinschaft, l’uomo che emula, fibrilla, che velocizza il suo sviluppo secondo standard decisi altrove, che non mantiene una posizione né sociale né mentale, che si adatta vorticosamente, sommerso e riemerso, apocalitticamente integrato, sempre fuori di sé. Qui non si è più “immoti” – in quella doppia ipostasi statica che opponeva, secondo Eco, il singolo col volo dell’immaginazione o con la glorificazione dedotta della sua miseria al vero essere del Mito –, ma accelerati sulle orbite mediatiche come particelle impazzite. L’ideale messo a regime, prodotto della siderurgia delle passioni, è già il reale di una liberazione multicentrica e alla deriva, terminali di un unico viaggio del corpo e del pensiero. Non c’è distanza, riserva, attesa, smorfia di sottomissione, riso amaro della solitudine imposta senza appelli, ma un unico grembo, un unico parto, consegna e assimilazione in un’unica elica. Il sogno è il Tutto di tutti. L’everyman retrocede a conduttore/domatore di un gioco perverso, diventa solo una cerniera, un agevolatore di flusso, a capo di un colosseo virtuale all’interno del quale viene presentato chi ce l’ha fatta e offerta la chance a tutti gli overmen di trasmutarsi, di compiere la trasvolata senza ritorno verso l’empireo dello Spettacolo che abbatte i vili compromessi dell’esistenza. Siamo nel Tardo Impero della De Filippi53. È il Sistema l’elemento davvero “immoto” adesso, signore assoluto di un “probabile” che non conosce minimamente i precipizi metafisici del “possibile”, anzi ne è la caricatura, la presenza speculare, il suo Totem di cera, leg53

Per approfondire questa tematica è utile il capitolo “L’età della realtà” (pp. 24-31) in Maurizio Gianotti, La Tv del Web 2.0, Armando, Roma 2012.

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giadro e terribile. Anche nell’interpretazione di Umberto Eco, ancora esente da grandifratelli televisivi e reality dilaganti, il Sistema mirava all’autoconservazione e al mantenimento immobilista di certe prerogative. Ma quello che un tempo era il tacito antagonismo di una vittima designata contro il suo Padrone che, di persuasione o di costrizione, la relegava in un angolino di impaurita stregata rassegnazione, ora è una divorante centrifuga di speranze e frustrazioni, aneliti e disfatte, astri e disastri, un colossale, sofisticatissimo regime che illude sulle sorti della storia stessa, personale e di gruppo. Poiché tutto avviene nel già dato come le combinazioni “sviluppano” una serie. Se prima le forze in campo erano polarizzate ma pronte al dissidio poiché recintate in un manicheismo sempre capace di esplodere, ora sono incatenate ma disperse, massive ma vettoriali e a-finalistiche. Dal congelamento alla congerie. L’opera incessante e capillare di assemblaggio e manutenzione delle nostre vite, dei nostri sentimenti, del nostro stesso modo di percepire ciò che ci circonda (“Matrix suggerisce che la carne è deliziosa”, dice uno dei protagonisti del pianeta Zion mentre ricorda i piaceri della cucina terrestre), messa in atto – per tornare al film dei fratelli Wachowski – dai manager-gestori che applicano la Matrice (intesa proprio come programma di codifica, allucinazione collettiva, plasma cerebrale, invisibile lente filtrante) ricorda quello che sostiene il filosofo Barcellona: “Il sistema capitalistico autocrate trova nell’incorporazione della tecnologia la massima espressione del proprio dominio globale, che modifica profondamente la società, imponendo nell’immaginario collettivo il desiderio continuo di beni come priorità assoluta, cancellando ogni rilevanza del valore d’uso e ogni possibilità di immaginare il desiderio. Così, gli individui vivono il rapporto con l’immaginario non più come propria autorappresentazione, ma come oggettività estraniata; un immaginario che coincide con il reale priva l’essere umano di ogni riferimento simbolico e conduce a una società alienata”54. Ma questo vale anche per il tessuto delle singole identità. L’Io-sono della modernità è stato sostituito da una caleidoscopica, indistinta, frammentaria congerie di Io-fui, Io-sarei, Io-nonsono. Ovvero un passato irreversibile, una condizione eterodiretta e una negazione di fatto. Primo scenario: avevo dei valori, avevo una ricchezza, avevo una reputazione, avevo una famiglia e ora non ce l’ho più. Secondo: potrei essere ricco se…, potrei lavorare se…, potrei avere un’identità se gli altri facessero questo o quest’altro, potrei ritrovare la calma e l’equilibrio se le cose si disponessero così, e tutto questo sfugge alla mia volontà. Terzo: non sono ricco, non sono felice, non sono capito, e questo non lo evito se non a costo di una rivoluzione assoluta 54

Pietro Barcellona, Passaggio d’epoca. L’Italia al tempo della crisi, Marietti, Genova/Milano 2011, pp. 54-55.

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dei miei parametri di giudizio e delle coordinate materiali della mia esistenza. Nostalgia, insicurezza, frustrazione. “Così nel silenzio assordante delle televisioni e nell’opulenza che le loro immagini producono, si trova che tutto lo spazio sociale, che è anche lo spazio della vita, è in realtà colmo di paura… Alla solitudine nella quale le vite hanno finito presto o tardi per rintanarsi, la televisione offre come alternativa la celebrità, l’uscita spettacolare dall’anonimità, la fama effimera dei concorrenti alle trasmissioni a premi, l’occasione di mostrarsi. Per essere ammessi alle possibilità che questo mondo sembra offrire, si è disposti ad elemosinare. È come se la propria esistenza fosse resa reale unicamente dalla moltiplicazione della propria immagine nelle immagini trasmesse, ossia nei “passaggi” televisivi”55. L’Io della modernità è diventato l’Arlecchino di un presente-abisso senza più tempo, esperienza, socialità. Il capitalismo del sogno e delle paure è il paradigma economico-politico che ha reso le nostre anime cariate, avariate, deperibili, sospese e lacerate. Esso vuole la nostra permanente insignificazione e la nostra ricomposizione in chiave fiabesco-reificata: tele-mondi e oggetti-feticcio. Mentre un’intera casta di tele-sacerdoti del nulla si è candidata, con ottimi risultati, purtroppo, negli ultimi decenni a questo diuturno lavoro di destrutturazione delle personalità individuali, di esorcismo delle difficoltà della vita, e di ospitalità nei paradisi artificiali televisivi di massa56. Esso sarà abbattuto solo con una ripresa del sangue 55

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Gianluca Solla, L’Osceno. La Società immaginaria e la fine dell’esperienza in AA.VV. Filosofia di Berlusconi. L’essere e il nulla nell’Italia del Cavaliere, a cura di Carlo Chiurco, Ombre Corte, Verona 2011, pp. 138-139. Una interessante lettura di questo fenomeno della moltiplicazione delle immagini che sradica il codice della realtà e dell’identità, ci viene offerta dal film Gioco a due (1999). In una scena finale, il miliardario americano Thomas Crown, interpretato da Pierce Brosnan, ormai nel mirino della polizia che lo sospetta per il furto di un famoso quadro al Metropolitan Museum di New York, lascia intendere che lo farà riapparire al suo posto, dove era stato sottratto. L’Intelligence dispiega tutte le telecamere di sicurezza sull’ingresso e nelle sale, aspettando l’arrivo di Crown vestito elegantemente. Ma, per avere pieno agio di mettere a segno la parte finale del suo piano, Crown sguinzaglia decine di uomini identici a lui come portamento e altezza, tutti vestiti sullo stile “L’uomo con la bombetta” di Magritte, e così i detective, sorpresi da una quantità inverosimile di cloni di Crown, non sanno chi seguire e se fermare tutti o no. In questo modo Crown ha via facile e farà ciò che avevo deciso di fare. Difficile che la televisione stessa, nei suoi asfittici e ripetitivi palinsesti, faccia autocritica su questa funzione “clericale” della pseudo-informazione nella quale viviamo immersi. Ci pensano talvolta alcuni cartoni animati “eretici” come South Park a colmare questa lacuna. In un passo del saggio di Henry Jacoby Vedete, oggi ho imparato una cosa. Stan Marsch e l’etica della credenza in AA.VV. South Park e la filosofia, a cura di Robert Arp, Isbn, Milano 2013, pp. 68-69, si legge:

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e dell’odio57, ovvero con la neo-territorialità di esseri liberi e autopoietici. Oppure perirà da solo quando della nostra carne umana e delle nostre va-

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“Nell’episodio Il più grande buffone dell’universo, John Edward chiede a Stan: “Tutto quello che racconto alla gente dà loro speranza. È per questo che mi chiami buffone?”. La risposta di Stan è magnifica: “Le domande della vita sono toste: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Ma se si continua a credere a dei ciucciapalle come te non troveremo mai delle risposte a queste domande. Tu non dici solo bugie, tu rallenti il progresso dell’umanità, tu sei un buffone”. A questo fa seguito un discorso fantastico che questa volta Stan tiene davanti al pubblico composto da coloro che credono a Edward: “Vedete, oggi ho imparato una cosa. All’inizio pensavo che voi foste degli stupidi dato che davate retta a questo buffone. Ma ho capito che lo fate perché siete spaventati, vi fa paura la morte. Lui vi dà comprensione. Voi volete credergli perché vi è di aiuto. Trovate confortante che i vostri cari aleggino intorno a voi. Ma è questo quello che volete? Magari come anime essere costretti a parlare con questo coglione? La verità è che questi sono solamente dei trucchetti. E qualsiasi cosa accada nell’aldilà sarà sempre più sorprendente di questo buffone””. Che ci sia sempre una “sorpresa” oltre ogni discorso accomodante e truffaldino, tipico degli imbonitori di ogni risma, rende ragione proprio di quella idea di “pienezza” ed “evento” rispetto ai quali la televisione è solo una nebbia, una cortina fumogena che a volte basterebbe solo diradare per godere di gioie sincere e ridare significato alle parole. Non ci si immagina, né si auspica, naturalmente, una guerra civile o un ritorno all’homo homini lupus. Ma sicuramente una presa di profitto morale, se così si può dire, da una serie di casi di cui la cronaca, nazionale e internazionale, delle ultime settimane è già pregna. I rudimentali ordigni messi sulla linea del traguardo della maratona di Boston. Il soldato inglese decapitato col macete in una pubblica via a Londra. Il ragazzo africano che ha sprangato e ucciso per strada tre uomini a Milano. La sedicenne bruciata viva dopo una lite dal suo fidanzatino a Corigliano Calabro. Le decine di suicidi di imprenditori e di disoccupati. Le mamme che si buttano dal balcone con i figli piccoli perché senza speranza e senza aiuti. Sono altrettante tragedie che fanno capire come la violenza, contro sé e gli altri, come autodistruzione e come sfregio alla massa anonima e sorda ai propri bisogni, sia la naturale deflagrazione di una dimensione insatura e organica del nostro io e dei nostri rapporti, fuori da quei circuiti del vitreo, dell’individualismo ferino e del sogno reificato (oltre che di certo imperialismo economico) che portano ad una generale zombizzazione del vivente e ad una costante umiliazione delle necessità primarie e dei diritti etnici di migliaia e migliaia di persone, in un contesto che resta “sociale” solo nella sua escalation di indifferenza, corruzione e propaganda. (Molto bello al riguardo il video-cartoon del brano “Animals” dei Muse http:// muse.mu/music-video/video/345.htm dove in una macchina gigantesca che produce soldi, modello vitello d’oro, vengono prima gettati le braccia, le gambe e gli occhi di tanti poveracci, ma quando i profitti non crescono sono gli stessi capitalisti-uomini neri a buttarsi dentro vicendevolmente, accecati dalla cupidigia, finché la spirale dell’odio non li stermina tutti, e il popolo affamato e mutilato, con un semplice fiammifero, brucia per sempre tutta quella carta straccia cui i potenti avevano venduto anime e dignità).

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lenze spirituali nulla più potrà essere sfruttato-sfrattato. L’oggettivo e il siderale del Capitale contro l’iscrizione e il sagittale del Vivente. “L’espressione “Io”, con cui gli individui hanno designato se stessi nel rapporto con il mondo esterno, appare sempre più priva di sostegno reale, mera illusione in un deserto di stimoli e risposte, e di segni che producono altri segni”58. La prostituzione della domesticità è la più totale e devastante abiura del proprio mondo immediato, naturale, familiare, della propria intimità non aggredibile, in nome di un senso di calore, sicurezza e tranquillità supposto più ampio: ovvero, la custodia, la presa in carico del soggetto nell’atmosfera-placebo della televisione, l’adozione in un grembo funzionale e finzionale, la sostituzione del “testo” della propria irripetibile vita fatta di azzardi, minacce, rischi e soddisfazioni con l’“ipertesto” composto dagli autori e dai registi di un protocollo mediatico che ha le sue prevedibilità, e che proprio per questo dà garanzia ai concorrenti di una sorta di maternage, seppur deviato e artificioso. Meglio un nuovo battesimo come fantocci in un teatrino televisivo dove si viene comunque agiti, blanditi, seguiti e accontentati in tutto (seppur biecamente sfruttati come relè dell’audience), che tornare alle asprezze di una quotidianità che, tendenzialmente, regala solo sventure o scelte complesse. Nell’ultima edizione di Amici, la giovanissima Irene, seppur graziosa e volenterosa, ha mostrato tutta la sua fragilità, piangendo a dirotto nei camerini nel timor panico di venir eliminata e di non poter partecipare al Serale, parte della gara particolarmente ambìta perché in diretta tv in prime-time e perché foriera di successo, contratti, soldi. Le frasi sconcertanti e patetiche di Irene, prese testualmente dalle puntate mandate in onda su Canale 5 erano: “Io mi sento protetta qui dentro (nella scuola-reality di Amici, ndr.)…qui vivo il mio sogno…non voglio andare via da qua… io pure voglio andare al Serale, sono pronta per andarci…è brutto sentire che è come se ti stessero cacciando…io non voglio andare a casa…questa è la mia casa, qui voglio restare”. Televisione come cordone ombelicale,

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Pietro Barcellona, La speranza contro la paura, Marietti, Genova/Milano 2012, pp. 103-104. Ascoltiamo anche Zygmunt Bauman, Vite di corsa, Il Mulino, Bologna 2008 (pp. 63-64): “L’identità condivide oggi il destino di tutti gli altri obiettivi della vita: ha quindi subìto un processo di puntillizzazione. Mentre un tempo essa costituiva il progetto di una vita, cioè un progetto che durava tanto quanto durava la vita, essa si è trasformata adesso in un attributo del momento. Non viene più progettata una volta e costruita per durare sempre; viene invece assemblata e disassemblata in modo intermittente e sempre nuovo… È adesso un’attività simile a un pacchetto pay per view o a una carta telefonica ricaricabile… frammentata in una moltitudine di sforzi straordinariamente brevi”.

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crogiolo di emozioni a buon mercato, paese dei balocchi, giardino delle delizie. Irene è stata alla fine eliminata. Ma le sue piccole grandi tragedie di crescita adolescenziale ben zoomate e catturate per affrescare il più classico e lacrimevole dei “casi umani”. L’auto-costituirsi del tempo mediatico59, l’apriori del suo linguaggio rispetto alla fatica del cercare nessi fra noi e le cose e un tessuto assiologico che faciliti l’intersoggettività, è ben rappresentato da un altro episodio televisivo di inizio 2013: un falso assoluto, oltre quello appena descritto che è come una traslazione del vivente nel mondo incontaminato e smerigliato del sogno catodico. In una puntata di Misteri su Italia1, trasmissione che si occupa di apparizioni ufologiche e paranormali, viene presentata una scena che si dice essere tratta da un “vero” rito di esorcismo di cui alcuni presenti avrebbero trafugato e diffuso la documentazione filmica. Si vedono due preti che cercano, con la forza fisica e liturgie varie, di ammansire il corpo di una ragazza che giace su un letto, letteralmente squassato dalla possessione diabolica che agirebbe in lei. Si dice che i preti stessi, durante la registrazione, avevano chiesto di non far sentire le loro voci e le imprecazioni della vittima di Satana, e in effetti la parte audio non si sente. Il servizio pseudo-giornalistico finisce con il crescendo enfatico tipico di chi ha portato alla conoscenza del mondo un frammento di raro pregio. Trattasi invece della scena di un film, L’altra faccia del diavolo, del 2012, per la regia di William Brent Bell, un mockumentary, come vengono chiamate le opere cinematografiche che appartengono a quel genere che tratta il tema del male fingendo riprese “sporche”, fatte in tempo reale e senza filtri, per ottenere il massimo effetto realistico sullo spettatore. Dunque, nella proposta televisiva, un falso del falso, un falso esponenziale, un falso al quadrato: un genere che finge già di per sé il vero, il cui materiale viene in seconda battuta presentato in televisione sotto forma di una “verità” di inchiesta, che è invece solo il consolidarsi di un nulla studiato a tavolino. “È con questo capovolgimento che si esce dalla contraffazione per entrare 59

La materialità di un “tempo” che non se ne fa più nulla del senza-fondo immateriale dell’essere dove c’è creazione e progetto, ma si pone solo come estensione e colonizzazione-ottundimento delle nostre capacità reattive, sensoriali e cognitive, può avvicinarsi alla tossicomanìa e alla pura sopravvivenza di chi è preso nella spirale del “buco”, dello sballo e del down. In un bel reportage di marzo delle Iene, l’inviato Pablo Trincia intervista un pusher-drogato che in una stamberga russa sta preparando la fatale mistura che va sotto il nome di Krokodil, poiché come un coccodrillo corrode e spolpa dall’interno la carne degli arti fino a procurare vortici ulcerosi, cancrene e sicura morte dopo un’atroce dipendenza. Il drogato chiede all’inviato se lui si “fa” di cocaina o di eroina o di altre sostanze, ma Trincia risponde no. E lui: “Ma davvero non ti fai di niente? E come passi il tuo tempo?”.

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nella (ri)-produzione. Si esce dalla legge naturale e dai suoi giochi di forme per entrare nella legge mercantile del valore e dei suoi calcoli di forze”60. Come a dire: il falso oggettivato, che non ha più un prototipo o un modello di riferimento, un analogon di cui essere la dispersione di senso o la profanazione in re, semplicemente non è falso, ma un ente-simulacro cangiante, plasmante e infinitamente potente61.

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Baudrillard, op. cit., pp. 22-23. Baudrillard rincara la dose, per così dire, specificando (op. cit., p. 21): “Qualsiasi riproduzione implica quindi un maleficio, dal fatto di essere sedotti dalla propria immagine nell’acqua, come Narciso, fino all’assillo da parte del doppio, e, chissà, fino all’inversione mortale di questa vasta apparecchiatura tecnica prodotta oggi dall’uomo come propria immagine (il miraggio narcisistico della tecnica, McLuhan) e che poi gliela rinvia, bloccata e distorta – riproduzione senza fine di lui stesso e del suo potere fino ai confini del mondo. La riproduzione è diabolica nella sua essenza, essa fa vacillare qualcosa di fondamentale (corsivo mio). Ciò non è affatto cambiato per noi: la simulazione (che noi descriviamo qui come l’operazione del codice) è ancora e sempre il luogo d’una gigantesca impresa di manipolazione, di controllo e di morte, esattamente come l’oggetto simulacro (la statuetta o l’immagine o la foto) ha sempre avuto in primo luogo per obiettivo un’operazione di magia nera”. Questo avvicinamento del fattore riproduttivo a un qualcosa che è come se ci privasse di una base dell’esistenza, di un principio fondamentale sostituendolo con una sorta di chimica di morte, di alterazione insostenibile, con un portato di negativizzazione che spezza legami e identità, rende ragione di una terza etimologia del termine “osceno” (oltre quella morale del precedente capitolo e quella estetica del successivo) che lo fa derivare dal verso ob-scaevare (olandese scheef, tedesco schief = sinistro, ma letteralmente “storto”) che significa “portare un cattivo presagio”. L’oscenizzazione del reale è dunque un suo sbandamento interno, un girare a vuoto verso l’autodistruzione, un sottrarre energie positive, uno spegnere la luce del senso, della stabilità, del con-essere per trasformarlo nel feticcio di un terrore ingestibile e fuori-norma, un terrore irrealistico, che talvolta arriva alla coscienza proprio in quanto tale. Sorta di nemico invisibile di cui si “avverte” la presenza ma senza potergli opporsi. Talvolta, dunque, perché, come per i “riti del male”, solo “dopo”, alla fine di un processo che ha violentemente snaturato l’oggetto, ci si accorge delle forze che lo attraversavano, ma nel frattempo il sostrato della vita è già ridotto o cancellato del tutto. Roberto Saviano in Gomorra ha ben raccontato giornalisticamente, a livello di laboratori clandestini della microcriminalità organizzata campana, questa differenza filosofica fra “falso” e “simulacro”. Se qualcuno compra per pochi euro jeans e camicie di non pregevole qualità e vi applica sopra il logo imitato di una grossa casa di moda internazionale per farci un business illegale, si parla di contraffazione, ovviamente. Ma se è la stessa casa-madre famosa nel mondo, la “firma” per intenderci, che delega a filiere di cinesi, donne e ragazzini sottopagati la fattura di capi d’abbigliamento cui poi applica, essa stessa, il simbolo dell’atelier, a cosa siamo di fronte? A una nuova tipologia di falso ab origine, figlio della speculazio-

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Come ci avvince, in fin dei conti, l’Apparato di cattura dell’Immagine? Ci priva della realtà, ma ci priva anche di un modello di riferimento, di un parametro di giudizio. In mezzo ci lascia il deserto della finzione, che si mostra sempre in superficie con gli scintillii e le promesse facili e “piene” di una totalità contemplata e con-divisa. Una sorta di autopsia del sogno, anatomie sparse, pezzetti di morte da cui risalire a una vita potenziale, seppur in altre condizioni, con altre sorti. E così viviamo la nostra presente-presunta cadavericità nell’attesa di una spiegazione tele-biologica, non più teleologica di quello che siamo o che saremmo dovuti essere, o che saranno altri, se rispetteranno l’atlante cosmico-cosmetico basato su ordine delle connessioni e dietetica delle idee e delle emozioni. Con un’intera economia dello spettacolo a farla da padrona. A questa “distruzione del mondo concreto” si riferiscono Latouche e Harpagès nel loro progetto di “decrescita” quando affermano: “Il processo di trasformazione degli esseri e delle cose in atomi numerici è nello stesso tempo un immenso lavoro intellettuale di astrazione e una mostruosa impresa di alienazione dell’uomo e della natura”62. E ancora: “Il tempo diventa una grandezza omogenea che non ha più legame con il vissuto, a sua volta trasformato in una poltiglia inconsistente… Lavoro, tempo, denaro sono una sola e identica sostanza monetizzabile”63. In questa “poltiglia” che è uniformazione culturale, rarefazione dei tempi di vita, fiducia cieca e assoluta data ai nuovi organizzatori mentali della realtà – in una parola Osceno –, “a forza di veder fare si fa come si vede”, per dirla alla Francois Brune64. Dunque, in questa sorta di sanguinamento dei nostri occhi, cosa accade quando vediamo un giornalista che ci racconta le notizie in tv? Ci crediamo, ci fidiamo, le prendiamo per fatti veri che qualcuno ci porge con benevolenza e scientificità. Cosa accade quando vediamo, per esempio, una come Maria De Filippi? La prendiamo per una conduttrice-mamma, vera e giusta, che si batte per i diritti calpestati, che favorisce l’amore di potenziali fidanzati, che asciuga le lacrime di chi soffre, che risolve affetti feriti, che aiuta i giovani e il talento, più solidale, onesta, equa, disinteressata che legata ai suoi guadagni e alla sua reputazione65. E l’elenco potrebbe continuare. Privati della

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ne e della manipolazione, e quindi, per un paradosso simbolico innanzitutto, e poi commerciale, a un non-falso. Serge Latouche-Didier Harpagès, Il tempo della decrescita, Elèuthera, Milano 2011, p. 45. Op. cit., p. 46. Francois Brune, Le bonheur conforme, in op. cit., p. 39. Seppur con percentuali leggermente datate, Gianotti (in op. cit. p. 59) non può non notare che gli spettatori di Amici, ad esempio, sono prevalentemente donne,

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realtà, affogati in un mare di segni che si perpetuano e si rigenerano, proiettiamo sull’Immagine quell’insopprimibile bisogno di amore, verità, realtà, adeguamento ai fatti, utile sociale, valori rispettati da tutti che altrove non troviamo o per i quali non sappiamo più sufficientemente batterci66. Uno dei casi più eclatanti in questo senso è caratterizzato dal ripetersi ossessivo della parola Autenticità nelle gazzarre dei reality dove è tutto un rimproverarsi reciproco di “non essere veri”, di essere bugiardi, fasulli, di “star qui per la visibilità”, e viceversa, di essere “veri e autentici”, di non ingannare nessuno, di non avere cose da nascondere, di non prevaricare le regole del gioco. Qui la televisione si pone come il luogo della fondatezza o della ricerca di un Valore che rimane raggrinzito nella sua irrealtà, poiché allontanato dal suo luogo “naturale” di apparizione e costituzione, ovvero

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provengono dal Sud e dalle isole (quindi da zone più depresse di altre), hanno per la maggior parte la licenza media o liceale come titolo di studio, e appartengono ad aree socio-economiche basse e medio-basse. A questo proposito, una nota particolarmente stucchevole, prefabbricata e disorientante del Serale di Amici è che quando i ragazzi vengono divisi nelle due squadre finali vengono incentivati (e aizzati) dai loro nuovi leader con i “valori” dello stare insieme e del gruppo, fari della socialità senz’altro, ma declinati stavolta secondo una logica amico/nemico che è altamente diseducativa per i temi legati all’arte: compattezza, aiuto reciproco, solidarietà, il “farcela insieme” sono vissuti, da quel momento in poi, per abbattere la formazione avversaria, e gli stessi compagni/colleghi fino a due giorni prima, vengono ora vissuti come ostacoli a quella che è una vittoria dei “migliori” e degli “eletti”. In questa maniera si sovrappone all’arrivismo e all’individualismo più carrieristici e sfrenati della prima parte del programma, una pianificazione identitaria che si auto-pone, senza vere radici e veri stemmi da difendere se non il fittizio colore conferito a una fittizia compagine di perfetti estranei, così, per una semplice investitura che si estrinseca con una carica violenta abbastanza forte, nei modi e nelle parole. All’allucinazione dell’“io”, si aggiunge l’allucinazione del “noi”: la legge dello spettacolo perfettamente amministrata dallo staff defilippiano completa la sua perfida anaffettività “recludendo” i ragazzi in due casette dove ricordi, pianti, ansie, problemi familiari e strascichi più o meno drammatici nei rapporti coi genitori vengono scrutati, registrati, zoomati e mandati in onda come ulteriore contributo all’“umanità” realistica del programma. Non solo. A questa finta morale di gruppo subentrano all’improvviso autentici colpi di frusta che fanno perdere ogni bussola ai ragazzi, e li consegnano come tante pecorelle smarrite e spaurite al “macello” del format. In una delle strisce pomeridiane prima del Serale 2013, Ylenia è severamente rimproverata dal prof Rudy Zerbi perché elogia il canto di una compagna di squadra e non si crede “la più brava dei Blu”: così facendo, dimostrerebbe scarsa attitudine e personalità. Lei piange calde lacrime, difende la sua voglia di dire la verità, ma viene mortificata senza nemmeno esibirsi. Spirito di falange e delirante egocentrismo. +1 e -1: un’equazione dei valori pari a zero che frastorna e lascia, come è classico nei format defilippiani, tutto al punto di partenza.

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Filosofia dell’osceno televisivo

quello delle esperienze, della comprensione e del divenire. La televisione ne risulta, pertanto, la ricomposizione confortevole o la disperata pretesa, pur che sia, di un’“essenza” umana che, alimentata come frattura, porge ugualmente i suoi flebili bagliori. È una chiamata-in-scena del valore, che diventa mess-in-scena (oscena) totale dello stesso in quanto astratto e spezzato. È uno pseudo-valore. Una macchinazione del suo definirsi, del suo in-sorgere. Quanto basta per dichiararlo vivo nel come-se. E santi e indefessi coloro che, nell’agone mediatico, camuffano il loro posizionamento verso le masse con una battaglia morale “per il vero”, come corifei di un Nuovo Mondo. Di ciò che la realtà è piena in modo dozzinale, o non offre o ha ripudiato, la televisione diventa avida esattrice, facendoci dimenticare, però, l’aspetto-macchina dell’Immagine stessa, il suo essere Motore Immobile, codice di rappresentazione, organizzazione del consenso, vettore di pseudo-socialità a uso e consumo dei suoi promoter, un sole che illumina ciò che ci è già morto fra le braccia. Per questo l’Immagine è l’ultimo strascico di Identità – ferrea unione di parola e cosa – da cui dovremmo liberarci. Impone come Modello e Morale ciò che è solo nostalgia metafisica di un mondo “reale” e “vero” le cui convulsioni – una volta ridotto a mera prassi e febbrile storicità – ci disturbano e paralizzano; a lei ci appelliamo nello strazio di una perdita infinita, di un vuoto immenso di cui non vogliamo cogliere le potenzialità gigantesche di messa in gioco della nostra libertà. L’involgarimento della televisione (litigi, zuffe, parolacce, sconcezze gestuali, zoom su particolari morbosi) corrisponde proprio a quell’effettorealtà che si vuole offrire, opponendosi anche qui a ciò che sarebbe predeterminato e “non vero”. Il via libera a queste morbosità visive sembra quasi deresponsabilizzare i suoi autori che, quasi, dicono: la realtà è così, noi la inquadriamo solo67. Sì, ma fossilizzandola in uno scatto, rendendola 67

In questa direzione sembra già naufragare anche l’intento del Movimento 5 Stelle che ha proposto, inneggiando alla massima trasparenza anti-inciucio sui comportamenti di deputati e senatori, lo streaming in diretta di riunioni particolarmente delicate per le decisioni da prendere. Ma tutto quanto è tele-ripreso non potrà sottrarsi mai a un contenuto medio-alto di recita o di autocensura. Il segreto, ironicamente, beffardamente, sopravviverà, e non potrà mai essere soppresso del tutto, seppur i media globali abbiano messo in atto negli ultimi anni un’azione livellante di proporzioni immani. Oltre ogni “diretta” di politici intorno a un tavolo, ci sarà sempre un’altra stanza, un altro salotto, un luogo appartato dove il segreto si ricostituirà in tutta la sua spesso torbida gravità, a partire dal primo minuto in cui saranno spente le telecamere. Stesso discorso per format tipo 24 ore al Pronto soccorso all’interno del canale Sky real Time che ad una presunta dimensione “real” ha dedicato la quasi totalità del suo palinsesto. Un’esibizione di feriti, gente dolente, apparecchiature elettroniche attaccate ad arti e addomi, vecchi catete-

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La scena e l’osceno, antropologia della dissoluzione

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avvincente nella sua mostruosità, cercando il lato che stuzzica antichi tabù, surgelando le sue policentricità, e quindi, contemporaneamente, sottraendo l’oggetto a ciò che fenomenologicamente è: un continuo rapporto sol soggetto pensante chiamato a giudicarlo, criticarlo, superarlo, non a trovarselo solo di fronte come un’ecceità irriducibile, oltre la quale e insieme alla quale non c’è più nulla68. “L’integrale è il totale del parziale, il grandangolo del trattenuto e del rimosso”69. Magnitudo dell’immanenza. Hoc est. Così è. (Senza neppure il “se vi pare” di pirandelliana memoria). E invece, come ricorda Perniola, la vera essenza del simulacro è di essere voluttuosamente, profondamente, eticamente “l’immagine senza identità: esso non è identico ad alcun originale esterno e non ha una sua originalità autonoma… Esso segna il momento in cui la finzione cessa d’essere nichilistica senza restaurare la metafisica, in cui il conflitto cessa d’essere dissolvente senza ristabilire l’unità”70. E ancora: “Tra “l’indifferenza al pensiero” e “il pensiero dell’indifferenza” c’è un abisso: la prima è meramente decorativa, il secondo è effettivo. In tal modo l’oggetto dell’estetica non è più il piacere, ma un sentire neutro, distaccato e sospeso”71. Ovvero, l’im-

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rizzati, flebo, medici frenetici, corpi lesi in situazioni particolari che vanno dalla malattia organica, all’episodio di cronaca nera, all’incidente domestico ai limiti del ridicolo, il tutto frullato, spettacolarizzato e concentrato in un catino di stimoli sensoriali – e a volte perturbanti – per lo spettatore che si aspetta sempre di vedere cose truculente. Cosa sappiamo realmente di queste povere vittime? È realtà questa? Significa davvero arrivare al suo cuore? (per non tacere sul fatto – ma è una mia personale supposizione – che talvolta il posizionamento delle telecamere in campo/controcampo, le parole dette dai protagonisti di quelle che dovrebbero essere scene in diretta e senza filtri, e la story di un caso clinico, deporrebbero a favore di un antico dilemma: e se fossero molti di loro bravissimi attori di teatro? E se fosse tutto un set?) In alcuni reality giapponesi di ultimissima generazione, in accordo a un genere banzai particolarmente in voga, due concorrenti hanno un fondoschiena davanti. Il/la legittimo/a proprietario/a del suddetto è nascosto, ma scopre le natiche. Il gioco consiste nel vedere i concorrenti maschi che le baciano nella speranza che siano di donna – mentre solo un paio lo sono –, e nel cinismo verso la loro reazione di ripugnanza non appena si accorgono di aver dato attenzioni a un corpo dello stesso sesso. Cosa c’è oltre questo? Nulla, se non la radice etico-conoscitiva dei comportamenti che potrebbe tornare a spingerci a dire: cosa me ne faccio? Perché dedicare tempo a queste sciocchezze?, a queste viltà? Perché non risolvere altri problemi o battersi per una cultura diversa e più edificante? Il “gioco dei sederi”, potremmo dire con una battuta, “mette a sedere” ogni ulteriorità di senso. Carmine Castoro, Crash Tv. Filosofia dell’odio televisivo, Coniglio 2009, p. 173. Mario Perniola, La società dei simulacri, in Agalma 20-21, Mimesis, Milano 2010, p. 82. Op. cit., p. 102.

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Filosofia dell’osceno televisivo

magine che cloroformizza e evapora il pensiero e ogni distanza/differenza critica fra l’io e il mondo è qualcosa che disegna un paesaggio artificiale e assorbente; il secondo porta a giudicare secondo occasione, a stabilire rapporti, tracce, nessi, a vivere la vertigine delle apparenze, il vortice dei sensi possibili, con una densità etica e fenomenologica di sottofondo che significa disposizione, senso del limite, qualità, giudizio, ospitalità, seduzione, applicazione dei sensi, concretezza massima. Gioiosa linea del tragico. Quando invece l’Immagine si fa Mito, Origine, Potere, Identità, crea i mostri iperrealisti da cui siamo molciti e spaventati ogni giorno (“un’immagine che si spaccia per identica alla realtà, al contenuto, all’originale, ma che è altrettanto manipolata, predeterminata e precostituita quanto ogni altra, in altre parole un’immagine iperrealistica che riflette fedelmente una iperrealtà preimmaginata”72), fra i quali spiccano “i programmi televisivi che alternano e confondono personaggi reali con attori che li imitano”73. Un imbuto opprimente di economia e cultura, disegna le nostre esistenze quando al vuoto dell’indeterminato preferiamo la genesi di un nulla preconfezionato che si dà per “sapore” e “senso”. E allora, migriamo (o veniamo morbidamente deportati, che è lo stesso) verso un universo fittizio fatto di oggetti che dovrebbero riallinearci al Bello e al Buono di cui abbiamo perso la portata, il calibro, la possibilità. Oggetti-feticcio, oggetti-marca che ci ridanno un’idea intensa, vissuta, pregnante, avvolgente, seppure mediata e costruita di autenticità e somiglianza, di gusto e democraticità. Il dispositivo del disponibile. E allora merendine da famiglie felici, solidarietà terzomondista se si mangia un certo panino, feste per i bambini e balocchi colorati se si è vicini a certi prodotti e alla cassa per acquistarli, leggerezza del consumo se si è trattati da signori in ambienti che danno al merchandising un tono spaziale e romanzesco, parchi del divertimento che sciolgono timori e ansietà, città del futuro dove l’umanità non si ribella a niente se ha tutto nel frigo e nel giardino, non-luoghi della pace e del controllo, contegno e proprietà, sicurezza e serenità, dispendio eco-compatibile e estroflessione soft di pseudo-bisogni sagacemente gestiti da quelli che Eco definì i “funzionari del sogno”. “Disneyland era ancora spettacolo, folclore, produceva un effetto di distrazione e di distanza, mentre Disneyworld, e la sua estensione tentacolare hanno a che fare con una metastasi generalizzata, con una clonazione del mondo e del nostro universo mentale non nell’immaginario, ma nel virale e nel virtuale. Diveniamo sempre meno spettatori alienati e passivi, e sempre più figuranti interattivi, gentili manichini liofilizzati di questo immenso re72 73

Op. cit., p. 76. Op. cit., p. 76.

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ality-show. Non si tratta più della logica spettacolare dell’alienazione, ma di una logica spettrale di disincarnazione, non più di una logica fantastica di diversione, ma di una logica corpuscolare di trasfusione, di transustanziazione di ciascuna delle nostre cellule”74. Questa delirante patogenesi del lusso e del comfort come metrica di una vita senza più il torbido dello stare al mondo e l’affanno dei sentimenti e del patire, così ben illustrata da Baudrillard, trova una sua perfetta rappresentazione nel secondo episodio della prima trilogia Black Mirror curata con grande successo da Rupert Everett per la BBC nel 2011, dal titolo Quindici milioni di celebrità. Qui i famosi “quindici minuti di notorietà” profetizzati da Warhol trovano una dimensione video-farmaco-prestazionale in una società del domani dove tutti gli abitanti sono trasformati in atleti da cyclette, e di loro si sfruttano le energie muscolari per sostenere i circuiti del sistema, ma anche per offrire a loro stessi una sorta di “carta per il pane” da Quarto Millennio. Ovvero: più si pedala con la propria velocità e i propri traguardi tele-sondati come in un videogame perenne, più si possono acquistare servizi, gadget, cibo e soprattutto la possibilità di presentarsi al casting di Hot Shot, il talent-show che testa le capacità canore o coreografiche o di intrattenimento di colui o colei che, vincendo, potrebbe essere destinato a un livello di esistenza superiore dove non si pedala e si gode di una notorietà che i paria delle due ruote possono solo anelare fra ghigni e sudore. Qui tutto è controllo, con punte gerarchiche e marziali che non lasciano spazio a inerzialità, disappunto dei singoli o sommosse, ma la vera violenza è instillata nelle sinapsi degli stessi cittadini ridotti a ridicoli sportsmen75 perennemente in tuta e immersi in un ambiente dove domina il buio e il vetro dei touchscreen giganteschi che fanno da agorà performativo e delle interfacce domotiche. Si pedala fondamentalmente per comprare aggiornamenti delle webcam, nuove applicazioni per vedere come si diventa da lupi mannari, giochi elettronici sempre più realistici dove si 74 75

Jean Baudrillard, Design e Dasein, citato in Vanni Codeluppi, Il potere della marca, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 73. A ulteriore prova del fatto che nel simbolico-matrix l’elemento del “talento” e dell’“agonismo” è la prima cosa mutante che serve al Sistema per dileggiare la libertà e avvincere le masse, è curioso notare come questa grottesca figura di uomo-pedalatore, tratteggiata in Black Mirror, corrisponda perfettamente ad uno dei personaggi più miserevoli che ha tentato ai provini dell’edizione 2013 di Italia’s Got Talent di arrivare al prime time del programma. Per dare un’idea di inimitabile stravaganza, un uomo evidentemente sovrappeso si “esibiva” in cyclette, pedalando affannosamente, con la velleità, contemporaneamente allo sforzo fisico, di fare imitazioni e cantare brani famosi. Un vero mostro tele-clinico-circense auto-programmato per “farcela” a tutti i costi sulla vita e l’anonimato.

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Filosofia dell’osceno televisivo

riducono a poltiglia e pozze di sangue “nemici” senza un’identità, per fare shopping al proprio avatar e mettergli addosso un finto costume colorato o un berretto stravagante o per avere aggiornamenti sulle bollenti giornate di alcune hot-girl il cui ologramma, una volta spesi i punti, si impone senza possibilità di essere resettato. Le uniche cose naturali sono il sudore che gocciola su pantaloncini e t-shirt e una mela verde che può essere comprata a gettone tramite un grosso dispenser per gli spuntini. L’amore fra Bing e Abi non è previsto in questo universo ludico-erotico e meccanicistico, senza appello, senza ritegno, senza scarti fra il sé e le fosforescenze incessanti di led-wall che fanno da habitat, organi e fondo della coscienza, in una triste triangolazione onnivora e ossificata. Un Moloch tentacolare – iride di un eterno divertissement dove le ragioni e i perché sono sempre in un “altrove” che sfugge a ogni potere, a ogni interrogativo –, fa cominciare la giornata di ognuno con cromatismi artificiali alle pareti e un gallo ricostruito in laboratorio che fa il suo stridulo verso. Tutto sa di integralismo, con poveri picchi di libertà e piccole smanie presto ridotte a telemetrie e videodipendenze assolute. Ma quando l’amore prorompe fra i due ragazzi si apre un mondo ben diverso: mani che si stringono, gesti disinteressati, balbettii di timidezza, piccoli regali di cartapesta come pegno, fino al dono di tutti i punti raccolti da Bing per far candidare la bella Abi dalla voce incantevole allo show della Nazione Virtuale. I tre giudici convincono prontamente la sensuale ragazza a rinunciare al sogno dell’arte e ad entrare invece in un programma pornografico dove ogni giorno avrebbe vissuto provando piacere e offrendo amplessi sessuali al pubblico dei ciclisti paganti. Drogata da un tranquillante e scioccata dalla platea degli spettatori che la aizza, accetta. Bing si rimette a pedalare, raggiunge di nuovo i 15 milioni di score e si presenta di fronte ai giudici che hanno ucciso sul nascere il suo legame con Abi. Sotto la minaccia di una scheggia di vetro con la quale vorrebbe suicidarsi in diretta, li offende, li denigra, svela i loro squallidi teatrini autarchici, si scaglia luddisticamente contro le telecamere e i canali, specchio della loro infamia, grazie ai quali gli abitanti di questo assurdo pianeta di “scimmie” olimpiche vengono resi “apatici”, e la realtà gonfiata e impacchettata e annullata da mille filtri, fra “oggetti che ci danno solo l’illusione di vivere” – come aveva rivelato alla giovane Abi – e la sensazione di essere trasformati in “orribili giocattoli”. I giudici ascoltano, uno dei tre dice che c’è bisogno di autenticità in uno dei suoi programmi, e gli offre il ruolo da opinionista, due volte a settimana per trenta minuti, dove potrà liberamente ripetere questo suo peana ai valori della giustizia e dell’umanità. Egli vacilla, non sa che dire, ma poi accetta, abbandonando la sua vita di ciclista per un appartamento comodo e mono-

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colore dove spiccano un’aranciata su un tavolo bianchissimo e il panorama posticcio di un luogo incontaminato al posto di una vera terrazza, di fronte al quale è come se sbattesse e si frantumasse in mille pezzi la sua fantasia prona ma indomita. Cittadinanza ridotta a una gara con se stessi. La socialità a un torneo di feroce concorrenza. Il sesso a copione hardcore. Il sentimento a interiorità tremante e clandestina. L’opposizione a discorso mercenario. L’ambizione a immediata spettacolarizzazione. L’orrore a stupore rovesciato. Scatole cinesi di un illimite apparente che viene subito soffocato, inscatolato, represso doppiamente, come vita fisica e come desiderio76. Ciò che qui nel film colpisce è proprio, lacanianamente, la raffigurazione di un percorso Immaginazione-Simbolico-Reale che parte da un’anamorfosi dell’esperienza in base ad un’apprensione delle cose e dei rapporti altamente “soggettivizzata” perché già intrinsecamente incapsulata; poi un Simbolico come rete cortocircuitante di consuetudini e convenzioni che viene ricostruita a posteriori, come un percorso a ritroso nello “scandalo” della rabbia; fino ad arrivare al Reale come significante puro della morte e della rinascita sotto nuove forme individuali e sociali, subito sovrinvestito e surdeterminato dal Potere che quadra l’elemento fuggitivo e scheggiato. Iconofilia e claustrofilia. La psicosi del finto amore. Dove la fessura per uscire è il recupero di un nucleo fenomenologico primario, ovvero il Nulla 76

Anche Herman Melville nel 1855 aveva descritto perfettamente come una macchina – nella fattispecie una gigantesca catena di montaggio che produce carta mandata avanti dalla forza muscolare di sole donne – possa subornare i limiti e la dignità di un individuo in un regime di lavoro salariato basato sullo sfruttamento della manodopera e su condizioni subumane. Fino al punto da far diventare visi, pelle, fronti, braccia altrettante ruote, ingranaggi e pulegge del suo infernale porsi come un iron animal, un animale di ferro. Dice Melville in Il tartaro delle fanciulle in Il paradiso dei celibi e Il tartaro delle fanciulle, RCS, Milano 2012, p. 64 : “Non s’udiva sillaba. Nulla si udiva tranne il basso, ininterrotto soverchiante battito degli animali di ferro. La voce umana era bandita da quel luogo. Le macchine – magnificati schiavi dell’umanità – qui si facevano tirannicamente servire da esseri umani, che servivano muti e trepidi, come gli schiavi servono il sultano. Le ragazze non sembravano tanto rotelle accessorie del meccanismo generale, quanto semplici denti di quelle medesime rotelle (cogs to the wheels nel testo originale ndr.)”. E subito dopo (p. 84): “Ma ciò che rendeva quella macchina terrificante in modo speciale era la sua metallica necessità, l’inesorabile fatalità che la governava”. Anche qui l’auto-nomia totale della macchina diventa Sistema, non più solo strumento produttivo, Fato segregante e compulsivo, e le sue parti non più metalliche o architettoniche, ma direttamente umane e biologiche, come un Ciclo che si perpetua nella legge che la velocità stessa sembra far nascere.

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che c’è e sempre si aggiunge a ciò che ci costituisce, come una carica detonante, e che buca, unica arma, la bolla allucinatoria di un sistema equazionale di segni. Dice Žižek: “Non è forse lo stesso per quel che riguarda la progressiva computerizzazione della nostra vita quotidiana, nel corso della quale il soggetto risulta sempre più “mediatizzato”, impercettibilmente spogliato del suo potere, sotto l’aspetto menzognero della sua crescita? Quando il nostro corpo è mediatizzato (preso nella rete dei mezzi di comunicazione elettronici), è simultaneamente esposto alla minaccia di una radicale “proletarizzazione”: il soggetto è potenzialmente ridotto al puro segno $, dal momento che anche la mia stessa esperienza personale può essere rubata, manipolata, regolata dal macchinico Altro”77. Ancora più interessante da questo punto di vista l’episodio Orso bianco della seconda trilogia everettiana. Una donna si sveglia in una casa ma non sa chi è e cosa ci sta a fare lì. Cresce l’angoscia. Nella sua mente ogni tanto appaiono tracce mnestiche come flash di un vissuto confuso che non sa ricostruire. Comincia a scappare, a chiedere disperatamente notizie, ma si vede solo circondata da persone che la braccano con i loro i-phone in mano per immortalare ogni frame della sua fuga da un misterioso killer mascherato che inizia a inseguirla per ucciderla. Tutto questo finché non viene catturata e portata di fronte a un giurì che le fa capire chi realmente è: una delinquente che, in combutta col fidanzato poi ucciso, aveva rapito e seviziato fino alla morte una bambina. Ma quando tutto sembra deporre a favore di un sistema di vendetta e tortura a suo danno per gli indicibili reati commessi, ecco che si scopre che è tutto una sorta di reality-show – con comparse, guide, turni di regia e recitazione, location artistiche – che avviene in un “parco tematico” allestito in nome della Giustizia, dove scanzonati turisti, stimolati a divertirsi a debita distanza dalla “bestia” criminale sguinzagliata fra case e giardini, giocano ad una sorta di “caccia all’assassina” fino a che questa non viene ammanettata, imprigionata e giudicata. Il problema è che la “sequestratrice” viene riaccompagnata nel suo appartamento, da dove era partita la storia, e di nuovo lobotomizzata in attesa di un successivo risveglio che corrisponderà ad un nuovo flusso di visitatori da accontentare. La sua angoscia non si placa mai. È una creatura privata dei ricordi, iniettata di una vita-plot per il mero consumismo di chi paga un biglietto per girare in questa città del divertimento horror, terminale di un circuito che la annulla come persona, il cui universo sensoriale, sentimentale e neuronale fatto di terrore e scompensi reali, è perfettamente incistato nello 77

Žižek, op. cit., p. 39.

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spettacolo cui assolve involontariamente, mentre i turisti stessi la vedono al massimo come una brava attrice, probabilmente pure come un’inguaribile reietta lasciata circolare in uno zoo-umano come elefanti e giaguari in un safari, convincendosene giusto per non perdere quel senso del brivido e del rischio che giustifica la loro spesa. Ma la vicenda potrebbe nascondere risvolti ancor più vertiginosi. E se la donna non fosse vittima degli allestitori di questo teatrino, ma avesse deciso lei stessa di sottoporsi a un programma clinico-circense, per così dire, in attesa di guadagnare soldi con le sue prestazioni, per poi essere richiamata alla sua vera identità e cambiare mestiere? E se, invece, fosse davvero responsabile di quegli orribili misfatti, e la sua colpevolezza utilizzata per una sorta di finalità riabilitativa e sociale, per far capire, pur attraverso una dimensione ludico-scenica, a centinaia di persone che certe cose non vanno fatte e che ci si rimette personalmente se si infrange la legge? Con impercettibili distinzioni fra vero e falso, a livello di intenzioni e di scopi, “tutto può essere” nell’universo dell’Osceno, simulato e isolazionista, interfacciato agli specchi della comunicazione ma interdetto alle reali dinamiche dell’esistenza78. Attraverso questi validissimi esempi cinematografici, cominciamo a intravedere allora la totalità oscena intendendola come sistema concentrico di asintote/attualizzazione/accorpamento. Asintote come espansione verso un Altro che non è l’alterità, ma la macchina-Altro che ci detta le coordinate di bisogni e desideri, compensando senza risolvere la nostra rotta ontologia, la nostra naturalità incerta con la logica del Sogno e della devoluzione. Attualizzazione come estensioneesternazione di fatti, flussi e modi che si danno per quello che sono e vengono fatti essere, senza piani progettuali e fini delineabili: il mare aperto del detto. Accorpamento come massa dell’insieme, come congegno, come sincronismo e sincretismo che prevarica e uccide senza dare l’idea di un disegno di morte. Il problema allora non è più nascondere il “vero” con la falsità e la menzogna e non si tratta più solo di smascherare l’ordito dell’inganno, ma di liberare/librare il volo del giudizio e dell’infinito-porsi nel Reale attraverso la riassunzione del proprio destino, senza più infingimenti 78

Una simpatica traduzione di questa favola del presente che rende tutto ugualmente “credibile”, basta vederlo in tv, (e del fatto che oramai la pubblicità intercetta una convinzione tristemente alla portata di tutti) la offre uno degli ultimi spot della Red Bull, la nota bibita energetica. Due astronauti sbarcano sulla luna per piazzare la bandierina a stelle e strisce. Ma poco prima di mettere piede al suolo hanno bevuto qualche sorso in più, e quindi barcollano e”galleggiano” un po’ troppo. Preoccupati della figuraccia, comunicano con la base di Houston che li rassicura: tornate pure indietro e rifacciamo tutta la scena in uno studio qui…

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e costrizioni, disinteressi, ottusità e ripetizioni pilotate che sono ben peggiori di qualcosa che non è ciò che dovrebbe essere perché ne viene “sporcato” l’aspetto. Riferendosi al film Matrix Žižek dice: “Il film non sbaglia nell’insistere sul fatto che ESISTE il Reale oltre la simulazione della realtà virtuale…Tuttavia, il Reale non è la “vera realtà” dietro la simulazione, ma il vuoto che rende la realtà incompleta/inconsistente e la funzione di ogni simbolica Matrix è di nascondere questa inconsistenza – un modo per effettuare questo occultamento è precisamente affermare che, dietro quell’incompleta/inconsistente realtà che conosciamo, c’è un’altra realtà senza il punto morto costituito dall’impossibilità di strutturarla”79. Il vero “delitto perfetto” del Simbolico-Matrix non è dunque stendere un velo sul vero e sui fatti, quanto travisare le radici stesse del vero, oscenizzare il destino dell’uomo che è nel vuoto del tempo e della gettatezza, e non nel pieno caleidoscopico delle volontà di casta e delle obbedienze di massa, nell’impianto della techne (gestell) dentro l’operato e i comportamenti, i bisogni e le passioni degli uomini fatti percepire come veri. E viceversa, i “liberatori” dal Falso non devono farci intravedere l’opulenza incontrovertibile e lussureggiante del Vero, non devono farci immaginare una sorta di fortezza della sincerità e della definitiva conciliazione fra mondo e linguaggio, quanto gli abissi e le spirali contradditoriali di una ricerca di un vero minuscolo, minimale, sempre rivedibile, passibile, oltrepassabile (la vita stessa su Zion nel film Matrix, non a caso, in ogni oggetto, in ogni accessorio è metaforicamente rappresentata come priva di orpelli, non edulcorata, non “trattata”, mira all’essenziale, è rarefatta, nei cibi come nei vestiti, come nelle abitudini quasi monacali, tranne che per lo sfolgorìo delle tecnologie e delle armi di difesa usate, ma anche qui solo per scopi di mantenimento della specie e di monitoraggio di chi ne vuole disperdere il valore intrinseco. Tutto è sempre poco più di nulla. Tutto rimanda a un Nulla incipiente)80. Nella scena finale di Matrix, Neo, ormai consapevole 79 80

Žižek, op. cit., p. 16. Non dimentichiamoci che anche in Truman Show, quando Truman si vede cadere dal cielo un riflettore usato nei set cinematografici e comincia a dubitare di essere sotto l’occhio di qualcuno (mentre i comunicati ufficiali alla radio parlano di un incidente tecnico coi bagagli a bordo di un aereo che sorvolava l’isola), lo fa perché in un perfetto ritroso euristico preferisce vedere nel riflettore il significato che intersoggettivamente si è soliti dare al riflettore in quanto tale, adegua l’avvenimento alla cosa, ma soprattutto è preso da una vertigine che potremmo definire il fantasma dell’azione, ovvero si va verso la cosa accogliendola nel suo senso proprio, sospendendo la rigida regolarità dei concetti che per abitudine o potere si è costretti a utilizzare (quando l’osservazione è già osservanza) e, nel mondo cieco della possibilità assoluta che troviamo dentro noi stessi, si ristruttura il valo-

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di essere l’Eletto, prima del suo volo liberatore, uscendo dalla cabina e affrontando silenziosamente la folla, ripete dentro di sé un messaggio appena spedito: “So che avete paura di cambiare. Non conosco il futuro. Non sono venuto a dirvi come andrà a finire ma come tutto comincerà. Farò vedere a tutta questa gente quello che non volete che vedano. Mostrerò loro un mondo senza di voi (agenti della Matrix, ndr.), un mondo senza regole e controlli, senza frontiere e confini, un mondo in cui tutto è possibile. Quello che accadrà dopo dipenderà da voi e da loro”. Il mondo in cui “tutto è possibile” stavolta non è quello dei “comunicatori”, livellante e omogeneo, o onirico ma costruito, bensì quello dei singoli nella loro irripetibilità, nella loro moltitudine attiva, al quale si attinge finalmente per una visione interiore e non attraverso pulsanti da schiacciare. È l’Inizio, non più il Gorgo.

re e la definibilità di ciò che ci circonda secondo assunti migliori, maggiormente valutativi, più pratici, o soddisfacenti o più consoni all’evento. Abiurando ciò che il “dettato” imporrebbe. Dice Ludwig Wittgenstein in Della certezza, Einaudi, Torino 1999, aforisma 161, p. 29 : “Ho imparato un numero enorme di cose, e le ho accettate in forza dell’autorità di alcuni uomini, e poi ho trovato che alcune cose erano confermate, e che altre erano confutate dalla mia esperienza personale”. Cfr. anche il bellissimo aforisma 90 sul concetto di “tatsache”, “andare verso la cosa” (p. 17) e tutta la dinamica del “modo d’agire infondato” e la metafora della roccia e della sabbia alle pp. 19-21. Una gustosa esemplificazione di quanto detto, si trova in Piergiorgio Paterlini, Fisica quantistica della vita quotidiana, Einaudi, Milano 2013. L’autore, in “101 microromanzi” di vita quotidiana, esprime benissimo questa arbitrarietà della nominazione delle cose e delle situazioni che non può non aprirsi alle personalizzazioni del senso, alle implicazioni del contesto, svelando una sorta di astrazione sonora della parola, e dunque una sua estrema – e spesso beffarda – filettatura semantica che può trarre in inganno, può aprire corridoi inaspettati o voragini verticali sotto la ripetitività abitudinaria del “detto”. Eppure, solo in questo modo la parola si sbuccia, si priva delle costrizioni/costruzioni che la imbavagliano e libera il soffio delle sue potenzialità, il frutto del reale che è fatto di segni che stanno-per, ma anche di una emotività immersiva, di un incontro/scontro con gli elementi vitali, dell’infinita spiazzante bellezza dei punti di vista, delle angolazioni prospettiche, delle modalità d’uso con cui ciascuno adotta il reale, il suo reale. Il reale irride/irriga sempre la parola, e questa ne diventa la maschera cialtrona o il velo pudìco. Solo così il gioco non diventa giogo. Solo così si arriva a un umile consenso e non a una comunicazione negazionista. Sentiamo Paterlini in “La morte a Venezia”: “Non riusciva a cambiare canale. Dopo aver provato in tutti i modi, si avvicinò ai pulsanti per cambiare a mano. Ma nemmeno quelli funzionavano. Non c’era modo di cambiare canale. Il vaporetto era ormai totalmente fuori controllo”.

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La forma della luce Nonostante sia schiacciato su un ferreo dualismo soggettivo/oggettivo, apparenza/realtà, falso/vero, in alcuni passaggi linguistici e concettuali il mito della caverna di Platone può offrire utili spunti per intendere quel Grande Inglobante dell’Osceno tipico di una società ipermediatizzata di massa. La favola filosofica degli uomini incatenati di spalle a un sole che rovescia sulle pietre che hanno di fronte solo ombre e simulacri semoventi, parte dal presupposto che il mondo sensibile, la concreta empirìa è costellata di inganni e deviazioni da quel livello di intelligibilità che è nell’Idea e in un Iperuranio di perfezione conoscitiva a loro preclusa. In una interessante dialettica delle luci e delle tenebre, la Verità è sempre maiuscola e virginale, paga di sé e raggiante, una “fiamma ardente”, un “Bene…causa di tutto ciò che è giusto e bello” che “produce verità e intelligenza”81, altrove riferita indirettamente alle “Isole dei Beati”, alla “conoscenza massima”, al “mondo incontaminato”82. Per converso, la terrestrità delle sensazioni e degli sguardi semplici, dell’ignoranza e dell’imminente vizio spregiata come quella “direzione sbagliata”83 da cui l’anima deve assolutamente divergere pena il non riuscire a vedere “quel che dovrebbe”84 e il non ricongiungersi con la luminosità del sapere supremo e indefettibile delle idee. L’anima, in nome del dovere dell’agire etico, si muoverà in sinergia con l’occhio poiché “bisogna voltarlo via dal divenire, fino a renderlo capace della contemplazione dell’essere”85. La natura dell’uomo, intesa sempre nell’ottica di un’antropologia minore, composta solo di piaceri, errori, irrazionalità e passioni smodate, zavorrata dai “pesi di piombo della generazione”86 – sorta di maledizione dell’essere nati –, caricata quindi di significati deteriori e sinonimo di baratro, viene inquadrata da Platone, con metafore chirurgiche di notevole violenza, come oggetto di “asportazioni “ e “circoncisione” per poter evitare quelle mollezze che “trascinano verso il basso la vista dell’anima”87 e sottrarla, pertanto, a un destino di corruzione e perdizione. Il corpo, dunque, non è sacrificato del tutto, dannato e dimenticato, ma trasformato, at81 82 83 84 85 86 87

Platone, Il mito della caverna, a cura di Carlo Sini, AlboVersorio, Milano 2012, le tre citazioni alle pp. 11, 23 e 23. Op. cit., le tre citazioni alle pp. 31, 31 e 37. Op. cit., p. 29. Op. cit., p. 29. Op. cit., p. 27. Op. cit. p. 31. Op. cit., citazioni alle pp. 29 e 31.

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traverso i dettami di una ben precisa “arte della conversione”88, in una sorta di bolide carnale, di veicolo umilissimo che possa accompagnare l’anima in quel viaggio di anamnesi, di rammemoramento, di ascesi/ascesa verso l’infinito dell’eterno, dimenticando così la debolezza e i limiti dell’inferno sotterraneo della vita. Vita che, a sua volta, non è antitesi del Vero, ma sua opacizzazione, sbiaditezza dello splendore iniziale cui tutto torna, ruvida marcescenza di un’Essenza che ispira solo libertà, compostezza, bontà, scivolamento dell’Uno, non sua abiura totale. Ma pur in questo medium, il dualismo non si seda e non si sutura: solo nell’oblìo del reale così come siamo abituati a viverlo ordinariamente si crea spazio per la luce della verità, solo nello scarico di ciò che sentiamo riusciamo a iniziare – e poi completare – il cammino di rigenerazione. La dimensione esistenziale non è in alcun modo la sede delle relazioni e della creazione del vero, ma solo la bruta piattaforma per rintracciare un senso che non le appartiene ontologicamente. Ciò che ci interessa qui, però, del mito platonico e che a mio avviso lo rende attraente anche per situazioni e interpretazioni tipicamente postmoderne, è per esempio il modo in cui il filosofo greco ci fa vedere cosa accade sulla superficie della tana degli uomini. Egli ricorre a una immagine tipica del mondo dello spettacolo per farci capire come si creano le ombre che avvincono giù nello sprofondo i prigionieri a una falsa considerazione della realtà. Platone parla di “una strada in fondo alla quale è costruito un muretto, simile al paravento che i prestigiatori frappongono fra sé e il pubblico, al di là del quale mettono in scena i loro prodigi”89. Dietro questo muretto, alcuni portatori recano oggetti svariati, immagini, statuette, e queste a loro volta proiettano contorni fuorvianti giù nella spelonca degli schiavi. L’idea di una manipolazione-miracolizzazione del visibile attraverso tecniche, attraverso – diremmo con linguaggio attuale – una sorta di prestidigitazione applicata alle capacità di percezione, attraverso il facile stupore di una fantasmagoria data in pasto a una platea passiva e abbacinata, è estremamente utile per il discorso che si va facendo qui. Non solo. La fase che ritengo più sfruttabile del mito platonico è quella non tanto della “salita”, quanto della ridiscesa nei meandri della colpa e del labirinto intellettivo, là dove colui che ha accostato l’accecante bagliore dell’Essere, ancora ottenebrato dall’eccesso di pienezza, torna fra gli ex sodali poiché spinto dalla “pietà” di liberarli dai gioghi in cui ancora giacciono oppressi, trascurando la smisurata voglia di rimanere nella beatitudine quieta degli eletti. 88 89

Op. cit., p. 29. Op. cit., p. 11.

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Dice Platone: “Ognuno di voi, quindi, dovrà ridiscendere a turno nelle celle degli altri e abituarsi a guardare nelle tenebre; non appena vi sarete abituati, vedrete mille volte meglio di quelli di laggiù e conoscerete ogni immagine per quel che è e per quello che rappresenta, dato che avete già contemplato la verità del Bello, del Giusto e del Bene; così la città potrà essere amministrata da chi è sveglio, da noi e da voi, e non da un sogno. Invece, oggi, molte città sono governate da uomini che combattono per le ombre e che si fanno guerra a vicenda per il potere, come se fosse un gran bene”90. Ecco dunque una rupture di cui noi “postmoderni” possiamo impossessarci benevolmente, pur abdicando del tutto alla dimensione mimetica del pensiero platonico che oppone la copia a un Modello, un’invalidazione permanente del reale alla sua sussunzione riuscita, al suo completamento astrale/ astratto, alla sua cooptazione da parte di una Ragione assoluta. Il “sogno” di cui parla Platone sembra quasi essere una contraddizione nel suo sistema. Poiché qui si assiste ad una sua possibile fondazione estetico-politica e non meramente logico-conoscitiva; non basata cioè, su una scissione fra l’aspetto biologico-materiale della vita e quello cosmico-spirituale, ma su un accerchiamento del segno rispetto al reale, su una sua preformazione e implementazione che contrasta con il bene e la crescita della collettività. Come un potere di casta che forgia nel linguaggio e nel visuale le scaturigini della sua performativa stabilità, una repressione consensuale. Incisivo al riguardo, Paolo Gila: “Meccanismo del gioco compositivo sociale è l’eros con le sue variazioni che coinvolgono non più solo l’aspetto razionale ma anche e soprattutto quello fantastico della mente. È l’immaginazione che conquista il trono della politica, non la forza. Il politico allora diventa il maestro orologiaio dei sogni e delle aspettative degli individui e dei gruppi sociali. Il suo scopo è quello di creare, individuare e dirigere i desideri”91. Essere governati nel sogno significa, perciò, essere catturati da un Apparato, da una rete segnica (il debordiano Spettacolo che è “rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini”), è la distruttiva digressione verso i non-valori dell’accaparramento, della cupidigia, delle lotte di conquista, delle sopraffazioni fratricide, la debacle nel regime dei “pezzenti avidi di proprietà privata”92che, sporcando la “vera filosofia”, pensano solo il mondo in termini di egoismo, ricchezza economica e morte sociale93. 90 91 92 93

Op. cit., p. 35. Paolo Gila, Capitalesimo, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 31. Op. cit., p. 37. Il sogno come paradosso del segno, anzi come rete di segni, indistinguibile dalla realtà reale, sospeso fra lo scetticismo globale e il gioco linguistico che salva le nostre convinzioni della vita quotidiana, quelle che ci permettono di vivere e non

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Essere “svegli”, vigili, lucidi significa – per un trapasso fisiologico dall’estetico al politico, al comunitario – battersi e realizzare il “legame della città”94, prendersi cura degli altri, non fare il proprio interesse privato, non strumentalizzare l’educazione a fini belluini. Il sogno è, al contrario, la comoda ovattatura di chi difende/nasconde le proprie intenzioni oligarchiche e privilegiate, il prosciugamento delle possibilità della vita, la recisione delle radici dell’amore e dell’essere-solidali95. È la fascinazione messa in atto da chi vuole mantenere ad ogni costo il proprio status, l’utile personale, l’esercizio del comando. Dice Debord, con un linguaggio post-platonico: “Lo spettacolo è il cattivo sogno della società moderna incatenata, che non esprime in definitiva se non il suo desiderio di dormire. Lo spettacolo è il guardiano di questo sogno”96. Lo svegliarsi è, dunque, soprattutto immagine ricomposta, riconciliata con se stessa, che ritrova un suo abboccamento primigenio, senza adeguamenti a principi alieni, senza essere riflesso di una qualità insostituibile che alberga fra le nuvole, nelle vette di una sorta di santità gnoseologica, cicatrizzazione senza più emorragie di senso fra ciò “che è” e ciò “che rappresenta”. Colui che arriva a cospetto della luce dell’Idea – dice Platone – ritrova “lui stesso nella sua realtà, nella sua propria sede” (autòn kat’autòn), e dopo questa tappa di arrivo “potrebbe ragionarci sopra, e dedurne che lui stabilisce le stagioni e gli anni, governa tutte le realtà che sono nel luogo visibile e, in qualche modo,

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soccombere all’angoscia del nulla, ma che fanno sempre parte di un preciso orizzonte estetico-politico, sarà ben centrato dalle riflessioni di Cartesio in Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima (citato in Nicla Vassallo, Come fai a saperlo? in AA.VV. Stramaledettamente logico. Esercizi di filosofia su pellicola, a cura di Armando Massirenti, Mondolibri, Milano 2010, p. 56) quando dice: “Quante volte mi è accaduto di sognare, la notte, che io ero in questo luogo, che ero vestito, che ero presso il fuoco, benché stessi spogliato dentro il mio letto? È vero che ora mi sembra che non è con occhi addormentati che io guardo questa carta, che questa testa che io muovo non è punto assopita, che consapevolmente di deliberato proposito io stendo questa mano e la sento: ciò che accade nel sonno non sembra certo chiaro e distinto come tutto questo. Ma, pensandoci accuratamente, mi ricordo d’essere stato spesso ingannato, mentre dormivo, da simili illusioni. E arrestandomi su questo pensiero, vedo così manifestamente che non vi sono indizi concludenti, né segni abbastanza certi per cui sia possibile distinguere nettamente la veglia dal sonno, che ne sono tutto stupito; ed il mio stupore è tale da essere quasi capace di persuadermi che io dormo”. Op. cit., p. 33. Confr. Su questo tema dell’amore platonico Jean-Louis Chrétien, La ferita della bellezza, Marietti, Genova/Milano 2010 al capitolo La prova umana del bello secondo Platone. Debord, op. cit., p. 92, aforisma 21.

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è anche la causa di tutte quelle realtà che gli uomini della caverna prima vedevano”97. Ricomporre l’immagine senza più la differenza ontologica di fantasma e prototipo, parvenza e cifra; ritrovare se stesso nel luogo del suo naturale apparire, significa trovare finalmente da parte dell’uomo una piena signoria sui fenomeni, sul tempo, sulle concatenazioni fra le cose, e la propria responsabilità su tutto quanto prima dell’illuminazione non vedeva, gli era impedito di vedere, non voleva vedere, seguendo con convinzione la via di un’annunciazione che era lì, a pochi metri dal suo carcere mentale, se solo avesse trovato la forza e l’audacia di salire l’erta e fuoriuscire dalla mestizia di un domicilio ipogeo, lontano dai raggi del “sole”. Ma è possibile che l’uomo trovi se stesso pienamente e che l’immagine si richiuda nel suo quasi pudìco senso, senza più infingimenti e tradimenti, se entrambi trovano fuori di sé la ragione del loro consistere?, in una grandezza metafisica, in un ordine sovrasensibile, in una dimensione che domina il lunare, che batte ogni oscurità, in un ”indicibile” immutabile, sempre uguale a se stesso, senza vulnus, che non assembla istanti e percorsi spaziali, ma fa da ricovero ai vinti e da stella polare a chi cerca la rettitudine di una via sicura? Certo che no. L’immagine così resta alienata, dimidiata; rimembra, ritorna, ha una lanterna dentro di sé alla cui emanazione salvifica rimarrà sempre grata. Essa, invece, dovrebbe generarsi nel corso dei fatti, in concomitanza delle occasioni, nel rispetto delle singolarità, nell’affanno del dare senso, lontana da motori occulti, da categorie predittive, da entità ineffabili ed extra-empiriche. Questo dice Agamben quando si sofferma sulle evanescenze del tardo capitalismo, fra miti pubblicitari e condizionamenti soft-glamour: “Appropriarsi delle trasformazioni storiche della natura umana che il capitalismo vuole confinare nello spettacolo, compenetrare immagine e corpo in uno spazio in cui essi non possano essere più separati e ottenere così in esso forgiato quel corpo qualunque, la cui physis è la somiglianza, questo è il bene che l’umanità deve saper strappare alla merce al tramonto. La pubblicità e la pornografia, che l’accompagnano alla tomba come prefiche, sono le inconsapevoli levatrici di questo nuovo corpo dell’umanità”98. L’immagine salva il suo statuto di singolarità, evento, novità, discontinuità solo se non si pone come autenticità rispetto a una medesimezza, segno di una chiamata, profusione di un incanto, mostrarsi di un quid (lo schein, luce, splendore, dell’heideggeriana unione di essere e sembianza. Curiosamente, in tedesco, “schein” significa anche certificato, attestato, patente di guida, poiché, nonostante l’unione, si avverte in Heidegger sem97 98

Platone, op. cit., citazioni alla p. 19. Giorgio Agamben, La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 44.

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pre un rinvio a un qualcosa di originario e prescritto, e dunque nomotetico, che è come se conferisse l’imprimatur, l’etichetta ufficiale a ciò che i sensi vedono nelle coordinate spazio-temporali). L’immagine deve essere un’infinita affabulazione del mondo, eterno ritorno di uno stesso dai mille cromatismi, dissoluzione delle certezze e dei punti fermi, deragliamento inarrestabile da ogni fissazione che la renda sostituto, rappresentazione, alterità calcolata, “fantasma morboso”99, “impura e precaria”100 perché si colloca al posto della realtà e perché ne altera il processo interno di ripensamento continuo. Essa è antropologicamente, e solo antropologicamente, immaginazione/sogno, sul binario che unisce percezione a riflessione, o non è. Il rischio è quella che Baudrillard chiama “l’Oniropausa, peggio della menopausa: la fine dell’ovulazione mentale”101. “L’immagine è uno stratagemma della coscienza per non immaginare più; è il momento di scoraggiamento durante il duro lavoro dell’immaginazione”102. Se ritrova, invece, la sua libertà immaginativa, il fuoco che la consuma, distrugge e libra, la sua espressività più densa e felice, allora “l’immagine non è più immagine di qualche cosa, interamente proiettata verso un’assenza che essa rimpiazza; è raccolta in se stessa e si dà come la pienezza di un esserci; essa non indica più qualcosa ma si rivolge a qualcuno”103. L’immagine, allora, esce dal recinto del sacro che

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Michel Foucault, Il sogno, Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 88. Op. cit., p. 86. Jean Baudrillard, Cool Memories. Diari 1980-1990, SugarCo, Milano 1991, p. 68. Op. cit., p. 87. Op. cit., p. 91. Confronta le belle pagine che Mario Perniola riserva in La società dei simulacri, op. cit., al capitolo L’essere-per-la-morte e il simulacro della morte, all’opposizione fra concezione della morte in Heidegger e nel pensiero gesuiticobarocco. Soprattutto là dove dice, a proposito del secondo: “Il corpo dell’uomo è in fondo un’immagine, un travestimento, una maschera della morte, ma dietro questa maschera non c’è una realtà della morte più sostanziale. La morte non è un ente, una semplice-presenza. Perciò essa ha tanti aspetti quanti sono i modi d’esistenza; accoglie tutte le possibilità, tutti i giochi, tutte le parti. La sua disponibilità è totale: purché si rimanga nell’ambito di ciò che appare, della storia. Se invece l’uomo abbandona il terreno della storia e va in cerca di fedi, d’identità metafisiche o teologiche, nulla potrà sottrarlo alla desolazione e al fallimento” (pp. 64-65). Altrove oppone il risveglio hedeggeriano al sogno di Calderòn “perché il prodotto onirico è ciò che assomiglia maggiormente alla società e alla storia” (p. 63). Fino a dire: “La disponibilità ad essere gettati in qualsiasi futuro non è la rassegnazione ad accettare qualsiasi futuro in cui si sia gettati, ma la premessa per scegliere e fare propria qualsiasi situazione in cui si sia gettati. La situazione diventa propria solo in seguito all’elezione: mentre in Heidegger, essa è decisa perché propria, autentica, in Loyola essa è propria solo a partire dal momento in cui è scelta” (p. 66). Icastico Pier Paolo

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la snatura occludendola come una quasi-realtà, e diventa messaggio simbolico, progetto politico, gioia irripetibile dell’aisthesis104. Ciò cui Giordano Bruno aveva già alluso nel suo De Vinculis in genere: “Il destinatario del vincolo, per essere vincolato, non richiede tanto vincoli reali, cioè quelli che sono così sostanzialmente, quanto apparenti, cioè vincoli di opinione: infatti l’immaginazione senza verità può vincolare veramente, imbrigliare davvero il destinatario del vincolo per via immaginaria. Posto anche che non esista l’inferno, la credenza immaginaria nell’inferno senza fondamento di verità produce veramente un vero inferno. L’immagine fantastica ha la sua verità e il tormento infernale vive della convinzione di fede”105. L’immaginazione che gira a vuoto, sottratta alla presenza nel mondo, alla “verità” intesa come verificabilità (rapporto percezione-riflessione foucaultiano), e compartecipazione, fatto e presa di distanza successiva, procura solo la più cruenta delle sottomissioni, disegna una semiotica del potere che non dà scampo. L’“immaginazione senza verità” è né più né meno che l’immagine-fossile che adesca e soggioga, sclerotizza ogni vissuto, blocca ogni smarcamento del senso, si immerge in una vasca piena di onde ma vuota di parole106. Dice un personaggio de Il pendolo di Foucault di Umberto Eco: Pasolini, La divina mimesis, Transeuropa, Massa 2011, p. 28: “Oltre, io e te non andremo, poiché il mondo finisce col mondo”. 104 Per questo possiamo ben dire che non è stato affatto “osceno” il reportage sulla guerra civile in Siria che ha mandato in onda Corrado Formigli nella puntata dell’8 aprile scorso a Piazza pulita (La7): immagini di macerie si alternavano a racconti di genitori che avevano perso i loro giovani figli sotto i loro occhi durante i bombardamenti, fino a strazianti flash di un pronto soccorso con gente ferita a morte e costretta a giacere a terra in sporche pozze di sangue e senza adeguate cure sanitarie, con un’exit che inquadrava carnefici della polizia politica di Assad che si avvicinano con la motosega imbracciata davanti agli inermi corpi di due dissidenti legati a un muro. Stesso dicasi per un reportage del tutto analogo, sempre dedicato alla Siria, proposto dalle Iene (Italia 1) nella puntata del 14 aprile scorso, a firma di Pablo Trincia, che finisce con l’inquadratura, criptata in volto, di un combattente col petto squarciato da una pallottola la cui salma, su una barella improvvisata, viene riportata a casa dai suoi familiari che si lanciano in grida e manifestazioni di dolore a dir poco strazianti. 105 Citaz. in Gila, op. cit., p. 32. 106 Il riferimento è al classico mito di Narciso che si specchia nella fonte e, rapito dalla sua stessa bellezza, vi si immerge e muore. Ma, almeno per come riporta la storia la versione romana, ci sono nel mito molti riferimenti al linguaggio che non va a segno, più che, come ci si aspetterebbe, al tema dell’immagine. La prima che si innamora di Narciso è Eco, a sua volta punita da Giunone perché l’aveva distratta con lunghi racconti, mentre le ninfe amanti di Giove si nascondevano. Eco viene condannata a ripetere le ultime parole di ciò che gli altri le dicevano, sancendo in questo modo la totale incomunicabilità del suo amore per il bellissi-

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“Non è che l’incredulo non debba credere a nulla. Non crede a tutto. Crede a una cosa per volta, e a una seconda solo se in qualche modo discende dalla prima. Procede in modo miope, metodico, non azzarda orizzonti. Di due cose che non stiano insieme, crederle tutte e due, e con l’idea che da qualche parte ve ne sia una terza, occulta, che le unisce, questa è la credulità”107. Ecco che allora, per tornare alla caverna platonica, sembra quasi che sia la catabasi dell’anima, la sua discesa fra gli individui ancora in catene, e non la sua anabasi, la salita verso l’Essere, ad offrire elementi per una sua mo Narciso. Eco allora si getta ad abbracciarlo, ma viene respinta in malo modo, e trascorre l’ultimo periodo della sua vita a gemere di solitudine finché di lei non resta solo che la voce. Monologo inascoltato, parola raddoppiata senza senso, lamenti, sentimenti non ricambiati, pura fonìa del dolore. Mai un logos dell’ascolto o della condivisione, finché l’immagine riflessa non ingoia tutto diventando l’ultima definitiva fortezza di morte, nel silenzio dello sprofondare fra i flutti. Un anti-mito di Narciso attribuito al poeta latino di origine spagnola Gaio Giulio Igino, viene illustrato da Heidegger in Essere e Tempo e da Hans Blumenberg, L’ansia si specchia sul fondo, Il Mulino, Bologna 2005. E riguarda la Cura (da intendersi come inquietudine) che, nelle acque di un fiume, si ferma a modellare della creta per farne una creatura. Giove e la Terra vorrebbero darle il loro nome, ma Saturno (il Tempo), chiamato come giudice, dispone: “Tu, Giove, che desti lo spirito, lo riceverai dopo la morte, tu Terra, che le desti il corpo, riprenderai il corpo. Ma poiché Cura la modellò per prima, possederà questa creatura finché vivrà”. E le venne dato il nome “homo” da “humus”, fango. Per Blumenberg, Cura si specchia sul fondo del ruscello non per vanità, come Narciso, ma per avere presenti i propri tratti e conferirli a colui che stava per nascere come una sorta di imprinting ontologico, all’insegna dell’ansia e della fragilità. Qui il logos è creatore, sentenzia e forgia, e l’immagine serve non come strumento di morte ma come stemma poietico di un fondamento dell’umanità: l’esserci nel tempo e nella libertà. Platone nel mito della caverna sembra quasi optare per una versione di mezzo delle immagini “riflesse nell’acqua” (phantàsmata) poiché a queste attribuisce la funzione mediana di abituare l’occhio di chi è sempre vissuto nel buio dell’ignoranza e delle ombre poco prima di contemplare il Bene e il Vero nella loro luminosità. Egli dice: “Dovrebbe abituarsi, invece, io penso, per potere guardare le cose che stanno al di sopra. E prima potrà vedere più facilmente le ombre, e solo in seguito gli idoli degli uomini e degli altri oggetti riflessi nelle acque e, infine, le cose stesse”. (Platone, op. cit., p. 17). Qui il Logos è maiuscolo, Verbo venerabile che sancisce il dover-essere degli uomini e cosa sono costretti a fare per salvarsi dai gioghi della caverna. Un linguaggio ereditato dal mito e divulgato dal saggio che non si fa – anche qui – dialettica fra le parti, opinione pubblica, potremmo dire, ma solo riverente obbedienza a un’episteme che sfugge allo spazio e al tempo. Solo lontano dal narcisismo e dalla parola latitante e, sull’altro versante, dalla parola come reverenza all’ineffabilità dell’Uno, il linguaggio-Cura ritrova l’elevata-pochezza, la forza plasmatrice della sua natura che si specchia in perfetto accordo col suo riflesso. 107 Citaz. in Gianfranco Marrone, Stupidità, Bompiani, Milano 2012, p. 160.

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attualizzazione acefala, ovvero per una filosofia dell’esistenza e dell’immagine che abbia rinunciato a un Pensiero onnisciente, onniavvolgente, dal quale provenga come una corrente elettrica la scossa vitale per cuori e cose. È molto più pregnante lo sguardo accecato di chi ha contemplato e deve riadattarsi ai limiti di chi non sa, perché qui, se rinunciamo ad ogni paradigma oltremondano di virtù e di certezza, non siamo più nel regime dell’ombra proiettata da una luce, ma in quello dell’ombra che ha una sua luce intrinseca, che guarda anche se non è in grado di osservare gli oggetti, che coltiva la sua visione, il suo punto di fuga che nel momento di massima concentrazione corrisponde ad una notte di cenere; un’ombra che è culmine di un’intensità che essa stessa contiene senza attingimenti ulteriori di sorta, e la cui “luce” non è irradiazione ma apertura focale, infinito spaesamento, “una specie di profondità del tempo”, “l’abisso del tempo che ha per segno lo zero”108. Il precipizio della luce qui non è il flettersi della perfezione, lo sgretolarsi di ciò che è granitica completezza, l’imbrunire di una somma trasparenza: essa è generazione di singolarità, costituirsi di una distanza, ipotesi dell’apparire, è la natura vibratile, cromatica, rischiarata di un’ombra che si fa nei gradi e nelle temperature della vita rispetto al suo immodificabile stato di assenza. “‘La luce cade’. Questo non vuol dire che essa si distrugga, la luce rimane in sé, ma il raggio di luce ne esce in qualche maniera: esso cade. E la luce risale. Questi gradi della luce possiamo chiamarli colori”109; “La luce cade sopra di noi, ed è questa l’intensità: essa non cessa di cadere. E ciascuno di noi chiederà pietà”110. Anche Deleuze parla di uno “scendere e risalire”, ma qui non si intende, platonicamente, come l’andare a cogliere il frutto sempre maturo dell’Originale per alimentarsene e ravvivare la conoscenza e i legami fra gli uomini. Qui “risalire” è assecondare il Nulla e “scendere” è la modulazione intensiva di questo stesso Nulla nell’avvento di qualcosa. Qui l’ombra non è il crepuscolo della luce, e il suo insediarsi non ne è l’eclissi totale. Al contrario, essa è la “macchia cieca”, il mare sconfinato che scavalca la coscienza sul cui senza-fondo, fosco e tormentoso, si staglia l’aurora di una presenza, della moltitudine delle presenze. È il deserto del Reale, non la camera di specchi del Sogno realizzato. La luce è la metafora dell’oggetto, la sua mèta fisica, non la sua sostanza metafisica. Risalire è la “rivulsione” dell’occhio batailliano che si rigira all’interno del suo inconscio, offrendo l’orbita bianca e inespressiva al mondo ester108 Deleuze, op. cit. in nota 10, p. 33. 109 Op. cit., p. 28. 110 Op. cit., p. 30.

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no. “Ho spesso pensato al giorno in cui sarebbe stata infine consacrata la nascita di un uomo che avesse molto sinceramente gli occhi volti in dentro. La sua vita sarebbe un lungo tunnel con rivestimenti fosforescenti ed egli non avrebbe che da distendersi per immergersi in tutto ciò che ha in comune con il resto del mondo e che ci è atrocemente incomunicabile”111. Un “tunnel” foderato di brillantezza, quel tanto che basta per solcare il cielo e le tenebre, ma che non ha nulla di claustrofobico poiché è lì, nello spazio infinito di ogni possibile apparire e creare, che si ritrova la matrice, stavolta comune e non “matrix”, che appartiene a tutti e che ci permette di dar voce all’“incomunicabile”, all’indeterminato, che nell’eccesso del nonpadroneggiabile, non nel luccicante di una visione mistica, ritrova la forza e la necessità per “incollare” quasi un reale sul suo buio. Ancora Bataille: “Nell’intelletto vi è una macchia cieca che ricorda la struttura dell’occhio. Ma nella misura in cui nell’intelletto si considera l’uomo stesso, voglio dire un’esplorazione del possibile dell’essere, la macchia assorbe l’attenzione: non è più la macchia a perdersi nella conoscenza, ma la conoscenza in essa. L’esistenza chiude in tal modo il cerchio, ma non ha potuto farlo senza includere la notte da cui esce solo per rientrarvi. Poiché procedeva dall’ignoto al noto, deve invertirsi al vertice e ritornare all’ignoto”112. “Includere la notte” e tornarvi come al vero albergo della vita, spossessata, dilapidata, estenuata ma mai sacrificata in nome di qualcosa che, sorpassando i suoi margini sempre slabbrati, tagliati, debordanti, pretenda di asservirla/assicurarla. La luce e l’ombra completano il loro cerchio e si ritrovano, senza più “oscenizzare” il vischioso e il fallace, ma includendoli come ispirazione e non imitazione, come invito all’ospitalità e non come intrigo da dipanare. Il soggetto giocherà col mondo, nella prossimità e nella sollecitudine, come nella fenomenologia dei corpi fanno due persone quando si amano, là dove “è la notte nella sua interezza a farsi faro, è lo spazio intero a farsi frusciante d’avvenire”113; là dove le carezze sostituiscono ogni istinto predace e ci si dispone a una comprensione che sa di velatura e spiazzamento, di intermittenze orlate e pazienti irraggiungibilità, in “una scintillazione che conserva sempre l’oscurità”114. Si spalanca, a questo punto, un orizzonte bifronte. Da un lato, è impossibile dimenticare o rinunciare oggigiorno alla Rete, al regno delle immagini e delle stimolazioni visive, alle fantasmagorie e ai moduli della 111 Georges Bataille, L’Esperienza interiore, citaz. in Giuliano Compagno, Bataille, Edizioni Tracce 1994, p. 55. 112 Bataille, op. cit., in Compagno, op. cit., p. 123. 113 Chrétien, op. cit. alla nota 87, p. 34. 114 Op. cit., p. 38.

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tv che trovano domicilio fra il nostro sentire e la realtà. Siamo di fronte ormai a un iper-media115, a un setaccio variabile di animato e inanimato, di emozioni e forme tecnologiche, di narrazioni e pure astrazioni dove la vita cede sempre più il passo – ma non del tutto – alla sua trasposizione iconografica e fiabesca. Di fronte a “un livello di indeterminazione contenutistica che non ha precedenti: il flusso di informazioni si sottrae a tutte le determinazioni spazio-temporali che hanno caratterizzato le connessioni configurate attraverso le relazioni discorsive degli esseri umani: scompare ogni connotazione del mittente dell’informazione e ogni riferimento alla destinazione della stessa, poiché, come un fiume, ha solo la funzione di fluire e rendersi disponibile a chiunque voglia attingere acqua, senza che questo cambi il suo corso o la qualità del suo specifico “divenire””116. Ma, dall’altro, chi pensa, però, che ci troviamo di fronte a un flusso indistinto di comunicazione da cui non è più giusto separare alcun elemento biologico, esistenziale, e sul quale non possiamo esercitare nessuna forma di libertà e critica, o semplice disappunto, probabilmente deve rivedersi meglio The Millionaire. L’intuizione vincente del gioiello cinematografico indiano pluripremiato agli Oscar (con tutte le suggestioni bollywoodiane che ne derivano) è che, dietro il cinico e scolastico pressapochismo dei quiz di un giochino televisivo che promette la vincita della svolta, resti ineluttabilmente sospeso tutto un coacervo di esperienze vissute, sventure personali, piaghe sociali, lutti familiari, soprassalti del cuore e della ragione. Un destino di invisibilità di cui lo Schermo si fa cavaliere oscuro ma che non nega – anzi esalta e concentra – il registro più squisitamente palpitante e portatore di verità della vita del concorrente, soprattutto quando la precisione con la quale risponde alle domande del conduttore crea una pericolosa deriva poliziesca all’interno del rassicurante bacino della “cultura generale” da cittadino medio. Se Jamal, il ragazzino di una bidonville asiatica ostenta tanto enciclopedico sapere, minimo deve avere in platea qualche compare che gli suggerisce cosa va “acceso”; invece tutto è già scritto sulla sua pelle e nelle sue lacrime di giovane emarginato. Fa bene Paolo Gila a sottolineare come “l’inganno brutale di questa messinscena, per metà indiana e per metà hollywoodiana, risiede nella constatazione che se fortunatamente si può salire in paradiso, coloro che rimangono all’inferno lo devono proprio alla mancata adesione al gioco 115 Confr. Vanni Codeluppi, La società pubblicitaria. Consumo, mass media, ipermodernità, Costa & Nolan, Genova 1996, alle pp. 29-45. 116 Barcellona, op. cit., pp. 77-78.

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delle opportunità”, e che l’adesione incondizionata (e alla fine di suprema felicità corale) al “mito della vincita istantanea” in realtà congela le contraddizioni sociali così stridenti e disumane, e si pone come “un sogno feroce, in grado di calamitare l’attenzione delle moltitudini povere e di decomporre ogni aspettativa di fiducia nei valori tradizionali dello studio e del lavoro”117. Ma forse l’antidoto alla Fiction Totale – sembra voler evidenziare il film – è il sottotraccia di una soggettività che si dà per strappi, imprevisti, “buchi neri”, per una sorta di carnalità collaterale sulla quale, però, dovremmo insistere di più per cercare una qualche forma di salvezza dall’impero dell’Indifferenza, dal fascino del Tele-inganno. Come quello che accade, ad esempio, in tutti gli spot che inneggiano ancora all’esotismo socializzante dei cocktail superalcolici dove la realtà vera è nella minuscola sovrimpressione che appare in fugaci fotogrammi e che avverte: “bere con responsabilità”. Che equivale a dire: la scena principale deve essere assorbita dall’incantesimo di una aggregazione fra giovani e belli garantita da bevande commerciali tendenzialmente pericolose, mentre nel rigo piccolissimo il warning, esplicito e niente affatto subliminale, richiama i canoni “nascosti” della volontà e del giudizio, diluendo così il senso di colpa di chi fa business sul bisogno di felicità della gente. E che dire, allora, del sottotraccia per antonomasia, ovvero il “fuorionda” che in pochi istanti fatali di disattenzione svela mondi inattesi, retropensieri indicibili, parole e intenti come lame che brillano nel buio di alleanze già fragili? Basta un microfono aperto, una telecamera che indugia un po’ troppo, una tempistica sbagliata nel corso di una diretta e la cortina del fasullo, del politichese, le strategie del buonismo e della temperanza di facciata colano come cera sciolta di una maschera, lasciando affiorare i miasmi di ciò che si pensa davvero del corpo di una collega, di un sodale di partito, di un finto nemico alle prossime elezioni, di un vicino di scranno che si vorrebbe pugnalare “amabilmente” se solo non si fosse costretti a tacere i peggiori segreti dell’uno o dell’altro come merce da piazzare alla bisogna. Il sistema neuro-mediatico ha un piccolo collasso, un attacco di bradicardia, rallenta i suoi battiti, lascia trasparire “qualcosa” dietro siparietti e ambiguità, si curva sulla realtà, la accoglie, non la stropiccia come sempre, come se la Videocrazia tornasse in pochi secondi al lampo al magnesio della Belle Epoque, con il gruppo folgorato in una posa oggettiva, senza scampo. Dimensione elettronica e naturale delle cose, infosfera e linguaggio comune, artificiale e viscerale devono poter interagire in un nuovo sistema di domande e risposte, sinaptico, relato, utile anche, perché no. 117 Gila, op. cit., p. 144.

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Un intero movimento si conosce su Facebook – il Popolo dei Viola – fra chat, mouse e tastiere, ma poi si vede in piazza per gridare diritti e opinioni alternative. Le nefandezze di due insegnanti di asilo vengono vivisezionate e inchiodate nell’alone cinereo di piccole spycam piazzate dalla Polizia, ma poi finiscono inchiodati alle loro responsabilità penali di fronte a un giudice. Gli inviati-cartoon di Striscia fanno ridere all’ora di cena, ma anche tintinnare le manette ai polsi dei truffatori dopo gustosi servizi ai limiti del comico. È vero che “la televisione estende il nostro sistema nervoso e crea un ambiente artificiale totale, un contenitore che richiede da parte dell’utente un coinvolgimento e una partecipazione ben più forti del cinema. Non c’è più distanza, né in un senso fisico né in senso simbolico, fra noi e il piccolo schermo: c’è un paesaggio che ci ingloba e ci trascina in un’“implosione concentrata”, in un flusso informativo che sembra incontrollato e ristruttura tutto il nostro modo di vivere”118. Ma la televisione come organismo che ricomprende le nostre capacità cognitive più profonde, piuttosto che sussumerle e deprivarle come bolla separata, è l’unica via di fuga. Viverla (e subirla) come universo parallelo o come uno tsunami che annienta ogni differenza è precipitare all’epoca del vitello d’oro ma con un parallelepipedo luminoso davanti agli occhi. Quarto Potere, il film del ’41 diretto e interpretato da un Orson Welles da Oscar, non è da meno su questo interessante versante della vita “accecata” dalla luce della magnificenza televisiva e mediatica. L’opera del regista del Wisconsin, dai tratti espressionisti, è uno di quei capolavori di cui un po’ tutti conoscono il soggetto e il significato metaforico, ma di cui la stragrande maggioranza degli spettatori ha dimenticato o mai apprezzato alcuni vividi passaggi della trama, alcune scene indimenticabili, di un bianco e nero angoscioso, che suonano di inaspettata utilità per approfondire le derive dell’informazione contemporanea, fra intercettazioni, pubblicazioni scandalistiche e ricattatorie, business tentacolari costruiti sull’immagine pianificata e il privato “oscenizzato”. La storia è presto detta: Charles Foster Kane, magnate americano dell’editoria, dopo una vita di eccentricità, lussi faraonici e spavalderie familiari e politiche muore “come tutti gli uomini”. Un giornalista si incarica di trovare il senso di un’intera esistenza costellata di gloria, giustificata solo fino a un certo punto della sua ascesa sociale, e ne ricostruisce, dall’infanzia all’immenso potere raggiunto, le vicissitudini personali più importanti, per farne una sorta di postuma memoria. Ecco, dunque, snodarsi il Kane bambino affidato prematuramente a un banchiere che, oltre alla sua istruzione, è 118 Caronia, op. cit., pp. 18-19.

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chiamato a gestire un’eredità profumatissima passatagli dalla madre; poi il Kane adulto che, piuttosto che moltiplicare i suoi capitali con la speculazione finanziaria, salva dal tracollo un piccolo quotidiano e ne fa un tempio del giornalismo d’assalto, a favore di operai e baraccati, anche quando questo significa – con grave disappunto del suo impettito “educatore” – criticare senza riserve le attività del suo stesso gruppo industriale. E qui già ci sarebbe di che impalmare Kane e le sue rotative “illuminate” rispetto ai tempi odierni di verità scottanti nascoste fino allo spasimo e di diritti della gente calpestati selvaggiamente. Ma il bello istruttivo dell’opera di Welles arriva quando Kane tenta di scalare le vette della presidenza degli Stati Uniti candidandosi a governatore. Il corrotto e vecchio Gettys, da lui osteggiato nella corsa alla Casa Bianca, svela alla moglie di Kane che questi lo ha tradito con una giovane cantante e minaccia entrambi di pubblicare su una testata concorrente le foto degli incontri galeotti se il “boss” della stampa nazionale non dovesse ritirarsi in buon ordine. E qui scatta il secondo “miracolo” contro-culturale rispetto al fetido verminaio di gossip, rivistine a luci rosa-rosse e paparazzibanditi in cui ci troviamo oggi, purtroppo, a sguazzare, ogni giorno più sporchi e de-moralizzati del giorno prima. Kane, sicuro dei propri sentimenti verso la ragazza, letteralmente schifato dalla subdola malversazione del suo avversario, accetta senza colpo ferire la pubblicazione degli scatti, fidando comunque nell’appoggio di quelle classi sociali che da lui erano sempre state appoggiate e difese. Ma così non accade, la pubblica reputazione come sempre arranca rispetto allo splendore delle idee e dell’umanità più piena, e Kane al voto soccombe senza appello. Ma risorge. Non solo. Poiché lo scoop su di lui recitava “Kane scoperto in dolce intimità con una cantante”, attribuendo al termine “cantante” un valore dispregiativo, da entreneuse di night, per tutta la sua vita coniugale (fino al volontario abbandono del palcoscenico di lei) farà di tutto per difendere l’onorabilità di artista della moglie, facendola studiare, curandone l’entrata nel jet-set, costruendole addirittura un teatro lirico per le sue esibizioni, accettando anche le stroncature sul suo stesso giornale da parte dell’esperto di filodrammatica, pur di vederla affermare. Coerenza, onestà, trasparenza, assolutamente inattuali, seppur, nella storia del personaggio, intaccati dall’arrivismo e dal narcisismo via via che si avvicina alla vecchiaia. Il saggio di George Simmel sul concetto di “segreto” è del 1906 e non è escluso che Welles lo abbia letto e fatto proprio. Non a caso – come sostiene il filosofo tedesco – la menzogna non è solo deprecabile per il nascondimento del fatto o della verità ma per il buio, il dubbio mantenuti “sull’intima opinione della persona che mente”. La necessità del falso

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permane fintanto che non c’è sequenza lineare fra pubblico e privato, domina la vergogna sul proprio vissuto, c’è un mandato pseudo-democratico, anche solo estetico su cui da soli si commette effrazione e tradimento, c’è una gestione irresponsabile delle finzioni d’apparenza e delle identità reali. Per questo – come raccontano giornalmente le cronache più avvertite – si pagano centinaia di migliaia di euro per ritirare servizi che fanno luce su tendenze sessuali, forme di opportunismo, malaffare e malcostume vari. Per sembrare figli del Buono e del Bello di copertina e occultare la vera personalità che “deve” soccombere agli infingimenti dei valori collettivi di riferimento. Che impongono sicurezza, virilità, irreprensibilità assoluta, fierezza, incrollabilità, o solo fiducia agli occhi dell’elettore. Come una bruciante attualizzazione del mito platonico della caverna, che prevede il rigoglio dei lustrini al ribollire reale delle persone e delle storie personali. “Si è affermato un nuovo concetto di individualità che impone l’essere imprenditori di se stessi e della propria vita, e quindi sempre vigili e attenti a comportarsi secondo le regole dell’imprenditorialità, cioè con spirito di iniziativa, di competitività e di autoaffermazione”119; “Celarsi dietro il mito della perfezione dell’autonomia diviene l’attività psichica e mondana prevalente che impegna ciascuno di noi in forme sempre più sofisticate di autoinganno e di inganno degli altri, facendo “finta di essere sani” e finendo con il renderci estranei a noi stessi e agli altri”120. In una società che esiste solo nel totalitarismo di un discorso comunemente accettato – quello dell’integrazione a costumi che hanno dimenticato il bene e la virtù, dell’assimilazione ai diktat della pubblicità e del consumo di massa, della spoliazione oscena del proprio sé fatto, invece, di paure, limiti e pudori, sempre più da obliterare per facilitare il consenso e l’approvazione – gli elementi di condivisione sociale reali sono sempre più rarefatti e gli individui frammentati o ricomposti intorno a finti bisogni e desideri eterodiretti, solo per fare da “motorini” alla velocità e conservazione del sistema. Ci si apparecchia e propone nelle reti della socialità solo in virtù di prestazioni, di indici di gradimento, di affiliazioni rapide e indolori, di piacevolezze estetiche che esorcizzano, offendendola, la vera natura del nostro stare al mondo. I parametri dell’officina e dello spettacolo sono stati perfettamente introiettati e metabolizzati. “A furia di smascheramenti si è finito con il rendere l’Io una filigrana trasparente. La vergogna, da emozione che si costruisce attraverso il giudizio dell’altro interiorizzato, 119 Gabriella Turnaturi, Vergogna. Metamorfosi di un’emozione, Feltrinelli, Milano 2012, p. 40. 120 Op. cit., p. 41.

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diventa un’emozione che nasce solo dinanzi all’altro visto come spettatore e pubblico. Ci si vergogna del giudizio dell’altro come pubblico del proprio spettacolo… La vergogna si disancora così dal suo statuto e dal suo significato morale e relazionale per attestarsi come emozione riferita solo a una socialità debole ed esteriore… Ecco, la vergogna e il perdere la faccia non mettono più in discussione l’interezza dell’individuo, ma pezzetti di quella soggettività, frammenti di identità che possono essere ignorati, disconnessi o riparati a seconda delle necessità”121. Un’“autenticità componibile”, come la chiama la Turnaturi, va di pari passo con l’occasionalismo del nostro intero sistema affettivo ed emotivo, suggellato dal mito della popolarità e dall’aura del denaro, sempre indaffarato a prevenire defaillance ed impasse, momenti di debolezza e strade senza uscita, che potrebbero incrinare la nostra immagine pubblica, sicché solo volta per volta, situazione per situazione, in base a una rigida contabilità di convenienze ed occorrenze, si può ambire a una continuità nella definizione del proprio io. Che, a quel punto, non sarà più precettato – e nemmeno lontanamente affrescato – da limiti morali, da tabù sociali e patti collettivi, sempre più latenti, sempre più sbiaditi e demotivati nella loro carica simbolica, ma da una bassa morale del “così fan tutti” e del “fare bella figura”. “Nell’espansione del proprio sé vengono travalicati limiti e confini e non esiste più separazione fra interno ed esterno perché l’esterno (ovvero gli altri) sono stati fagocitati, sommersi dallo tsunami dell’Io”122. Uno “tsunami” che è la potenza devastante e deregolata della propria smania autorealizzativa, del proprio self-building senza ombre del “noi” che non sia il super-io plastificato che riproduce e ripropone incessantemente i modelli alienati del televisivo, del cinematografico, del virtuale. Questo “individualismo autistico” cerca solo l’arte volgarmente consapevole del problem solving, del superamento di ostacoli e barriere sul percorso della propria autarchia; non accetta interdetti, freni, inibizioni, limitazioni etiche, tutto è finalizzato alla gestione iconica del proprio status sociale, ed è per questo che, in mancanza di un feeling di gruppo e di leggi condivise e realmente osservate, ci si vergogna solo se appariamo ciò che non vogliamo essere, che sta per “ciò che siamo per davvero”. L’onda lunga di un Io così onnivoro e pensile (non pensante)123 fa coppia 121 Op. cit. pp. 26-27. 122 Op. cit., p. 31. 123 All’opposto, così si esprime Hans Blumenberg, op. cit. alla nota 97, p. 35 : ”Il fatto che possiamo conoscere, che possiamo possedere qualcosa nella coscienza, significa né più né meno che possiamo avere qualcosa senza doverlo essere. La coscienza è l’organo per non divorare il mondo, senza negarsene il possesso e il godimento…

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con l’emofilia di un sistema che, nella variazione interna di stili e comportamenti, nella costruzione di sogni e desideri, lascia, dopo ogni effimero coagulo, defluire fiumi di astrazione su tutto quanto un tempo apparteneva ai codici della vita e ai rituali del collettivo. Simmel nel suo saggio sulla moda ha messo molto bene in evidenza questo ideale di bellezza traviata quando dice: “Proprio la casualità con la quale (la moda, ndr.) una volta impone l’utile, un’altra l’assurdo, una terza ciò che è del tutto indifferente dal punto di vista pratico e da quello estetico, dimostra la sua completa noncuranza delle norme oggettive della vita e rinvia ad altre motivazioni, cioè a quelle tipicamente sociali che sole rimangono”124. E le motivazioni sono sostanzialmente di due tipi: imbastire una struttura economica produttiva che incentivi e assicuri l’acquisto di determinati beni, sempre più deperibili, dunque sempre più facilmente obsoleti e da rifiutare dopo un certo lasso di tempo; e compensare le rotture interiori del singolo, le sue frustrazioni, le sue solitudini per colorare la sua natura di una “tinta unitaria” fatta di appartenenza, mancanza di discriminazioni, piena accettazione e considerazione. “In questo modo il mondo interiore dell’individuo viene sottomesso a una moda e ripete così la forma del gruppo dominato dalla moda. E ciò avviene proprio attraverso l’oggettiva mancanza di senso di queste mode individuali che dimostrano il prevalere del momento formale unificante sul momento oggettivamente razionale”125. Subordinare la propria volontà al dominio di gente a sua volta dominata da una forma astratta e devitalizzata pianificata a tavolino, “senza senso” ed esclusivamente fomentatrice di guadagni che, come moderno foraggio, alimentano una gigantesca Macchina della produzione, dello Spettacolo e della lobotomia generalizzata126. A causa del resto di insoddisfazione che tale distanza dalla “cosa” contiene e mantiene, non ci libereremo mai dalle seduzioni del realismo come soggiogamento e assorbimento totali. Il vogliamo tutto! Non cesserà mai di risuonare”. 124 Georg Simmel, La moda, Mondadori, Milano 2011, p. 18. 125 Op. cit., p. 53. 126 Come prova del limbo confusionario in cui sguazzano i cervelli di migliaia e migliaia di persone (soprattutto adolescenti) giustamente battezzate “analfabeti di ritorno”, lo Sconvolt Quiz proposto da alcune edizioni alle Iene: interviste di un inviato in giacca di paillettes direttamente dalle brume discotecare di “normali” notti di sballo che lasciano affiorare una poltiglia di teenager stordita da pasticche e superalcolici, incapace pure di ripetere le tabelline delle elementari e di dividere 150 per 15. Stesso dicasi per l’edizione 2013 di Mai dire provini su Canale 5. Una ragazza ripresa a un casting, alla domanda su chi avesse dipinto il quadro chiamato “Il grido”, risponde Hitchcock, ma quando le si chiede chi fosse Hitchcock, risponde: “uno scienziato”…

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Il mito della caverna di Platone si rovescia, ma non perde in violenza e brutalità. Le luci del belletto, dei riflettori di un set e delle console di comando di una fabbrica dei corpi e delle menti che non riposa mai sono il rogo di un Essere postmoderno che dice al novello schiavo del Terzo Millennio: alzati, sradicati dal tuo focolaio domestico, dai tuoi affetti, dal tuo studio, dal tuo lavoro, risali la china della fatica e dell’umiltà e diventa un acrobata del nulla, anche tu cometa impazzita nella galassia degli angeli di cartapesta e delle stelle perennemente a caccia di un firmamento dove brillare.

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L’osceno estetico In uno dei momenti più delicati di Skyfall, James Bond è in compagnia di Q nella sede operativa dell’Intelligence britannica e deve cercare di capire quale sia il piano del perfido Raoul Silva (interpretato dal bravissimo Javier Bardem) il quale, appena evaso da una cella supertecnologica, sta per attentare alla vita di M, capo dell’MI6. Su un gigantesco ledwall della sala di comando del controspionaggio appare una sorta di nuvola elettronica dalla figura spiraliforme e mobile, di cui non si capisce geometria e finalità, materiale scaricato direttamente dal computer di Silva che nel suo sito Omega – scoprono gli hacker – ha per l’appunto coperto le informazioni del suo piano da cyberterrorista con un “codice offuscato”. Ovvero, dicono gli esperti, un “sistema di protezione attraverso confusione”, come un cubo di Rubik che si sottrae ad ogni tentativo di accesso. Attraverso una chiave, il nome “Granborough”, che corrisponde ad una vecchia stazione metropolitana londinese in disuso, la cloud si dirada, si scioglie e si ricompone con un disegno dai contorni più chiari e definiti: quelli della mappa della subway della capitale inglese, ed è solo allora che l’agente 007 “con licenza di uccidere” si lancia in una disperata cattura del pericoloso criminale che sta per irrompere in un’aula parlamentare e vendicarsi sull’inerme M. Indistinzione, incomunicabilità pur nella piena visibilità di segni e giochi di luce, assenza di un codice interpretativo immediato che ne permetta lettura, comprensione e divulgazione, fino al casuale, altrettanto enigmatico disvelamento di una traccia, di un percorso, di un significato che rimaneva recondito, appannato, travisato. Fra le varie metafore cinematografiche che potevano essere affiancate al termine “osceno” per chiarirne l’etimologia, questa dell’ultimo film della saga di Ian Fleming sembra la più folgorante. Ecco quindi create le premesse per un’interpretazione estetica del termine in questione, dopo quella morale, e per l’esplicitazione del mio personale

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“teorema dell’osceno”, incipit di un capitolo che ne va proprio a spiegare arcaismi semantici e attualizzazioni nel mondo mediatico. L’Osceno è una Forma, ovvero l’unione di una Logica e di una Morale, perfettamente equidistanti dall’occultamento del Reale e dalla cooptazione della libertà. Si deve fondamentalmente a Jean Baudrillard l’aver insistito particolarmente sull’estrapolazione del termine “scena” dal concetto che sto analizzando; dunque, l’osceno sarebbe non soltanto ciò che strappa il velo del pudore, producendo sotto un’improvvisa accensione ciò che andrebbe tenuto nascosto per vergogna o intimità, o perché refrattario all’igienizzazione dell’animalità e delle condotte sociali (temi sessuali, tabù etc.), ma si configurerebbe come l’oltrepassamento della “scena”, la sua diffrazione, contemporaneamente la sua smisuratezza e il suo abbattimento, e dunque la fine dei ruoli, di un logos compartecipato, la “morte” degli attori, il “fuori” delle cose e dei sentimenti, o meglio, il loro “tutto” senza misteri e caratterizzazioni, gettati, dati in pasto, espropriati di un effetto, un fine, un desiderio, come avviene, al contrario, nell’ambientazione classica di una tragedia davanti a un pubblico127. Osceno deriverebbe, dunque, dal latino ob scaena (dal greco skenè), in una doppia accezione di “davanti alla scena” e “contro la scena” in senso oppositivo, non spaziale. Come dicevamo prima, e usando una banale allegoria, è come se facessimo anche della platea, dei palchi, dell’orchestra, del pubblico stesso, di ciò che le è anche tecnicamente di fronte e dietro, una nuova scena, un allargamento della scena, una invasione generalizzata del suo dirsi scena. E come se tutto questo, alla resa dei conti, portasse non a un potenziamento della scena, ma a una sua dismissione, a una volatilizzazione della sua offerta, a una sua sepoltura simbolica. Baudrillard in vari testi è esplicito al riguardo, e considera questo passaggio dalla scena alla o-scena un destino estetico irrimediabile della contemporaneità, un suo stigma docilmente infame. Dice in L’altro visto da sé: “Osceno è tutto ciò che mette fine a qualsiasi sguardo, a qualsiasi rappresentazione… Non è più l’oscenità di ciò che è nascosto, rimosso, oscuro, è quella del visibile, del troppo visibile, del più visibile del visibile, è l’oscenità di ciò che non ha più segreto, di ciò che è interamente solubile nell’informazione e nella comunicazione”128. E, quasi insistendo sull’ormai lontano ricordo di un sipario che si apre davanti a degli spettatori che

127 Confr. al riguardo il capitolo L’osceno, unto come olio in Carmine Castoro, Maria De Filippi ti odio. Per un’ecologia dell’immaginario televisivo, Caratteri Mobili, Bari 2012. 128 Jean Baudrillard, L’altro visto da sé, Costa & Nolan, Genova 1988, pp. 15-16

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si interrogano sul senso del loro stare al mondo, incalza: “La nostra stessa sfera privata non è più una scena in cui si recita una drammaturgia del soggetto alle prese con i suoi oggetti come con la sua immagine, noi non esistiamo più al suo interno come drammaturgo o come attore, ma come terminale di reti multiple”129. Per concludere: “L’oscenità comincia quando non c’è più spettacolo, non c’è più scena, non c’è più teatro, non c’è più illusione, quando tutto diventa di una trasparenza e di una visibilità immediata, quando tutto è sottoposto alla luce cruda e inesorabile dell’informazione e della comunicazione”130. Drammaturgia e teatro (luogo per antonomasia dove si rappresenta l’epica eterna dell’incompletezza umana) portano direttamente, per ellissi, al concetto di tragico così come splendidamente lo descrive Jaspers: “Il tragico nasce dalla non unità, le cui conseguenze si manifestano nel mondo sensibile. Questa però non è una deduzione, ma solo un’illuminazione del caso concreto. Nel suo non potersi ridurre a unità è fondata la rovina di ogni singola realtà fenomenica… il tragico non è una realtà assoluta, ma contingente. Il tragico non si trova nella trascendenza, nel cuore stesso dell’essere, ma solo nei fenomeni assoggettati al tenpo”131. Non ci sono, insomma, ortodossie, dottrine o sistemi che possano spiegare il tragico, o che possano anteporlo a ciò in cui ci imbattiamo nella vita ordinaria, passo dopo passo, scelta dopo scelta. Il tragico è questa eterna frattura fra il vero e il bene, fra i processi conoscitivi e le attribuzioni di dignità, non può essere banalmente associato a una sventura metafisica, al dolore, alla malattia, al nulla che ingoia tutto, né superato con smanie distruttive o con un senso sublime ma “cieco” dello smacco, della sconfitta che la mancanza di superiori principi legiferanti, di comode architetture cosmiche, esercita costantemente sull’individuo. Il tragico è una sorta di cammino erratico fatto di ciottoli e di dossi, di cadute e di voragini che ci caratterizzano come esseri limitati e inclini al dubbio, condannati alla fine ma anche capaci di un senso, di “un supremo richiamo all’ordine, al diritto, all’amore degli uomini, attraverso la fiducia, l’apertura spirituale, la ricerca per se stessa, senza la pretesa di una risposta”132. Questo spirito della “veracità”, della “commozione” e dello “stupore” ci offre un àncora per dirci umani e responsabili, fiduciosi e compassionevoli, ma sempre all’interno di uno spacco della dis-unione e della dis-topia, ovvero della nuda differenza sen-

129 130 131 132

Op. cit., p. 11. Op. cit., p. 15. Karl Jaspers, Del tragico, SE 2008, p. 82. Op. cit., p. 81.

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za concetto. Il senso cercato fra le “rovine” della contingenza e le schegge sparse di una ontologia della dis-aggregazione, fa dire a Jaspers che “la concezione tragica è un interrogare e un riflettere133 in immagini”134 e che “la coscienza tragica non è un assistere indifferente, soltanto intellettivo. È un prendere conoscenza, in cui io stesso mi trasformo, secondo il modo con il quale credo d’intendere, con il quale guardo e sento. Attraverso questo intendere avviene una trasformazione dell’uomo. Ed essa procede lungo la via della catarsi, cioè di un’esaltazione dell’essere nel superamento del tragico. Oppure cade nel puro estetismo di una contemplazione distaccata, che diverte lo spettatore, rendendolo vuoto e insensibile”135. Questo passaggio è fondamentale poiché l’irrimediabile, l’irredento della caducità umana deve essere in qualche modo “visto”, reso oggetto di sguardo e di riflessione, dunque epicentro di una ontofenomenologia della disperazione e della liberazione, attraverso immagini-simbolo, vissute, portatrici di pathos, suscitatrici di intenzione e cambiamento che rappresentano il cuore stesso dello stare al mondo per il singolo. Diversamente egli non guarda, non osserva, non penetra, non intuisce alcunché, non ragiona su fatti ed emozioni, non sente e non si sente più, ma assiste, contempla passivamente, registra come un apparecchio, riceve, senza alcun consapevole atto di accoglienza e nell’anestesia più totale, come una superficie piatta, ciò che la vita gli fa scivolare sopra o accanto. La divaricazione incolmabile fra immagine interiorizzata e spettacolo esteriorizzato è tutta qui: l’uomo non avverte più il pathos della frattura, dell’assurdo, ma si assolve nell’estasi di una impossibile unità136. E di “spettacolo” vero 133 Si dice sempre che la televisione “riflette” la società, quasi giustificando in questo modo ogni suo abominio. Nulla di più irreale in questa affermazione, a meno di considerare il termine “riflettere” (come a suo modo fa Jaspers) nella sua vera accezione che non porta affatto ad una sussiegosa omologia fra immagine e cosa. Uno specchio quando riflette distorce, inverte i lati, e dunque non ci offre la piena incontrovertibile raffigurazione dell’oggetto. Secondo significato: riflettere significa pensare, e quindi costruire, modificare, esercitare il pensiero, riflettere su, e anche qui l’oggetto ne subirebbe una variazione esplicita. Riflettere, infine, può anche portare a un ri-flettere, cioè flettere di nuovo, piegare per la seconda volta, e qui il riferimento sarebbe al fatto che i media, tv in testa a tutti, non fanno altro che prendere la dimensione “rotta” del divenire della vita, smontarla secondo propri criteri e finalità tecno-commerciali, e riassemblarla dandole una compiutezza e una “pienezza” autentica che giammai, in questo stato, avrà. Se così è, la televisione riflette la realtà… 134 Op. cit., p. 81. 135 Op. cit., p. 55. 136 Lucida e arguta metafora di questo decalage, la offre Italo Calvino, Il visconte dimezzato, Mondolibri, Milano 2010. Quando il visconte, spappolato in due da una

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e proprio parla Jaspers quando dice che arrivò un tempo in cui “l’opera del poeta e la partecipazione del pubblico si ridussero a mero spettacolo… Ma, una volta scivolati nel puro divertimento buono per tutti, ogni serietà si perde in un semplice gusto del sensazionale137. È una cosa d’importanza essenziale ch’io non mi limiti a contemplare, a ricrearmi “esteticamente”, ma che partecipi personalmente all’azione, che riferisca e porti a compimento in me stesso la sapienza che scaturisce dalla rappresentazione”138. Due vocabolari, due grammatiche, due impalcature etiche, del tutto opposti. L’immagine come apprensione “seria” del mondo e della sua gettatezza, intimo scavo, incontro con l’altrui sofferenza, sapere che si stratifica, spinta all’azione; sull’altro fronte l’inerzia più totale, il lasciarsi vivere, il “ricrearsi” non come oltrepassamento e creazione continua, ma come scanzonata dimenticanza, immemore riduzionismo alle proprie funzioni organiche, metamorfosi del sublime nel “clamore” di eventi parossistici e slegati fra loro, metonimia (“scivolati”) del linguaggio che diventa una vera e propria tecnica di sorvolo della miseria, un appagamento della sparizione del soggetto. Sembra che Jaspers, in un saggio di più di mezzo secolo fa, avesse già preconizzato l’era dei reality e delle masse rozze e plaudenti, brutalizzate dal delirio di onnipotenza del mezzo televisivo. E dunque, per una sorta di inesorabilità, l’oscenità “fredda e comunicazionale” succede a quella “calda e sessuale”139 che è quella delle nudità da pallottola sul campo di battaglia, e quasi rinato, prima come parte buona e poi con quella cattiva, finalmente viene ricucito e torna unico, lascia spaesati tutti perché il Bene e il Male non si armonizzano in una perfezione agognata dai concittadini. Tutt’altro. “Così passavano i giorni a Terralba, e i nostri sentimenti si facevano incolori e ottusi, poiché ci sentivamo come perduti tra malvagità e virtù ugualmente disumane” (p. 119). Il narratore affranto, rivela: “Forse ci s’aspettava che, tornato intero il visconte, s’aprisse un’epoca di felicità meravigliosa; ma è chiaro che non basta un visconte completo perché diventi completo tutto il mondo” (p. 132), finché, completamente deluso e angosciato, alla fine della storia dice: “… e io rimasi qui, in questo nostro mondo pieno di responsabilità e fuochi fatui” (p. 134). La totalità chirurgica della felicità, ottenuta con una giustapposizione degli opposti, con un sincretismo frutto di un espediente tecnico, non vissuta, scelta e costruita dallo sforzo di tutti, la pienezza servita quasi come un cataplasmo, porta le persone ad una pastosità concettuale ingestibile, ad un’“ottusità” che sul piano morale blocca nell’ignavia, come rintronate da squilli di trombe che non lasciano intravedere nessuna festa e nessun ritorno, ma solo l’avanzata di una notte con poche luci occasionali di conforto. 137 Confr. il concetto di “basse seduzioni” che riprende il “sensazionale” in Karl Jaspers, Genio e follia, Raffaello Cortina, Milano 2001. 138 Op. cit., p. 68. 139 Baudrillard 1988, op. cit., p. 17.

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sottrarre allo sguardo, delle fisicità “spiritualizzate”, e della passione di cui una sorta di termodinamica delle convenienze stempera i picchi più dissoluti. Ma qui siamo ancora nelle spirali del senso, nelle regole di un gioco, nelle antinomie di una dialettica, nelle concavità del Sistema. Nell’oscenità che ha rappreso la nostra lebenswelt, il nostro “mondo della vita”, che ha rattrappito le possibilità stesse dell’azione, che ha come frullato il patrimonio stesso delle nostre idee e delle nostre parole rispetto ai più canonici orizzonti di significazione, è come se una gigantesca “macchina mondiale del freddo”140 avesse centrifugato affettività, memorie, il senso della vita, congelando ogni narrazione del mondo, riducendo i suoi osservatori ad una condizione di perdita, di assenza di familiarità, di atarassia dello sguardo. Una nuova mancanza di profondità dovuta agli “abissi superficiali” del simulacro, ad una nuova palpabile “intensità” senza spessori né alterità, una completa demitizzazione dei grandiosi sogni della Storia (del cui determinismo si sente meno la mancanza, in verità), ma anche una destituzione della semplice temporalità personale, collettiva e progettuale, tutto un dirompente potenziale tecnologico che va ad incastonarsi perfettamente nell’apoteosi del Neutro del tardo capitalismo, sembrano aver spezzato i classici modelli della filosofia e dell’arte (interno/ esterno, autentico/inautentico) e costretto il soggetto ad un affliggente senso di impotenza, ad un’esperienza di sé non più monadica e centrata, nemmeno relata ed empatica, ma frattale e orbitale. 140 La suggestiva, e un po’ sinistra, metafora è di Aldo Giorgio Gargani, La macchina mondiale del freddo in AA.VV. Filosofia ’89, a cura di Gianni Vattimo, Laterza, Bari 1990, che dice: “La cultura stessa, nel suo insieme, è divenuta un immenso dispositivo di evasione; la cultura è divenuta evasione perché essa produce i suoi testi e i suoi discorsi nel presupposto di un mondo unitario della vita, di un mondo del racconto che non esiste più, e dunque nel presupposto di una favola del mondo. La cultura dei nostri giorni è per lo più una cultura d’evasione perché muove dalla premessa di una realtà dispiegata in una presenza che invece poi non esiste, di un mondo della vita che si è andato consumando e che si è dissolto” (p.139) e “Noi, oggi, immersi nel gelo, siamo la misura dell’inaudita sproporzione di noi rispetto a noi stessi” (p. 142). Nel brano Big Freeze (La Grande Gelata), contenuto nella compilation 2012 The 2nd Law, i Muse così scrivono con ottima arditezza metaforica che sottolinea il grido al sensibile (ascoltare, percepire), contro le nebulose del non-senso: We are on a hiding to nowhere. We still hope, but our dreams are not the same. And I, I lost before I started. I’m collapsing in stellar clouds of gas. Hear me. What words just can’t convey. Feel me. Don’t let the sun in your heart decay – Stiamo cercando riparo in un luogo inesistente. Speriamo ancora, ma i nostri sogni non sono più uguali. E io ho perso ancor prima di cominciare. Sto collassando in nubi interstellari di gas. Ascoltami. Quello che le parole non riescono a comunicare. Percepiscimi. Non lasciare che il sole nel tuo cuore declini.

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Dice Baudrillard: “Questa violenza adotta oggi la forma del virtuale, lavora cioè alla costruzione di un mondo affrancato da ogni ordine naturale, sia quello del corpo, del sesso o della nascita e della morte. Più che di violenza bisognerebbe parlare di virulenza. Questa violenza è virale, nel senso che non opera frontalmente ma per contiguità, per contagio, per reazione a catena, e nel senso che mira innanzitutto alla perdita di tutte le nostre immunità. È poi virale anche nel senso che, a differenza della violenza negativa, della violenza classica del negativo, questa opera per eccesso di positività, come le cellule cancerogene, per proliferazione infinita, escrescenze e metastasi. Tra virtualità e viralità c’è una complicità profonda”141. Irriconoscibilità del mondo, desensibilizzazione e destrutturazione del sociale nell’entropia delle immagini e dei rumors dei media, logica inerziale della tecnologia che, sovrapposta all’ideologia dei valori e dei consumi di massa, crea il ritorno leggendario di tutto quanto viene spacciato come discorso sulla realtà: è la logica dell’eccesso conoscitivo, di una tumefatta dicibilità che non produce chiaroscuri o attese tragiche, utopie felici o soglie di criticità, ma la dilatazione dell’obiettività, della visibilità, della trasparenza ispettiva, spogliatrice, mistificante nella sua pretesa di chiarire tutto con la semplice bulimia del segno142. Ecco lo “spettacolo della banalità, che è il vero porno di oggi, la vera oscenità – quella della piattezza, dell’insignifi141 Jean Baudrillard, L’agonia del potere, Mimesis, Milano 2008, p. 38. 142 Una lezione esemplare, opposta a questa triste parabola dei media, ci è venuta nei mesi scorsi dalla giornalista americana della CNN Candy Crowley che mediava uno degli incontri cruciali per la corsa alla Casa Bianca fra Obama e lo sfidante Romney. Questi accusava il presidente uscente (poi riconfermato) di non essere intervenuto tempestivamente, subito dopo l’attentato ai diplomatici statunitensi in Libia, nello stigmatizzare pubblicamente il vile e sanguinoso blitz dei fondamentalisti. Ma la Crowley, coraggiosamente, stoppa l’insinuazione e, carte alla mano, dimostra il contrario sbugiardando Romney e, come si suol dire, dando a Cesare quel che è di Cesare, ovvero i giusti meriti a Obama. Stesso non dicasi per i tanti talk politici nostrani, i vari Porta a Porta, L’ultima parola, Piazza pulita e altri (comprese molte puntate di Annozero e Ballarò) dove è tutta rissa, faziosità e disturbo reciproco, e dove né la saggezza dei partecipanti, né tanto meno l’autorità/ autorevolezza dei conduttori riescono a mettere mai un punto fermo su questioni sulle quali, verosimilmente, si dovrebbe convergere senza problemi come le cifre della crisi economica o l’iter parlamentare di una legge. A tal punto che, durante la campagna elettorale delle ultime Politiche, in molti talk è apparsa la figura del “fact checker”, ovvero del “verificatore dei fatti”: esperti e ricercatori che, a vario titolo, opponevano finalmente ragioni oggettive, storiche o statistiche, alla massa di informazioni più o meno pilotate dalle singole ideologie con le quali i leader di partito intendevano fare pressione sull’opinione pubblica. Una sorta di riequilibratore del principio di realtà, se così possiamo definirlo, offuscato dall’Osceno della comunicazione mediatica.

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canza e della nullità”143; ecco la televisione luogo di un “Crimine Perfetto” che è quello della sparizione/sequestro del Reale (lacanianamente inteso) nella schiacciante uniformità del volgare e del più comune del comune, “e la gente resta affascinata, terrorizzata e affascinata dall’indifferenza del Niente-da-vedere, del Niente-da-dire, dall’indifferenza dello Stesso, dalla propria stessa esistenza”144. Dissoluzione contro superamento. Sincope mediatica e sonnambulismo contro effusione e prassi. Carnevalizzazione e promiscuità contro distinzione e irripetibilità145. Sacralizzazione degli idoli del marketing e della ipno-politica146 contro prodigalità e sacrificio. 143 Op. cit., p. 40. 144 Op. cit., p. 41. Un esempio biblico, oserei dire, di Impero televisivo del Niente è la trasmissione Uomini e Donne di Maria De Filippi, un osceno, parossistico, inquinante susseguirsi di parolacce, litigi, pettegolezzi, mancanze di pudore, condivisioni di intimità, finanche di messaggi e telefonate fatte in privato fra le varie coppie, lacrime, sberleffi, volgarità finalizzati al Nulla più totale. 1 ora circa ogni giorno che diventano 2 ore, tolta la pubblicità, con la replica notturna su Canale 5, per 5 giorni a settimana, per almeno 9 mesi all’anno per 13 anni circa di edizioni: una Biblioteca d’Alessandria del Nulla, per non dire un’allarmante occupazione dell’etere. Dall’edizione di quest’anno, poi, sono state organizzate delle sfilate di moda fra i partecipanti in studio (dal titolo Miss e Mr) che, alternatamente, fanno da modelli/e e giudici della controparte. Ne viene fuori un incremento di chiaroscuri, recriminazioni, complicità sottobanco, voti “ingiusti”, analisi spacca-capello del perché quel qualcosa è andato in quella precisa maniera. Fondamentalmente provocato dal fatto che nessuno è realmente esperto di fashion, portamento e buon gusto, ma tutti sono autorizzati a parlare, giocare e esprimere opinioni. E l’unica vera “autorità”, una stylist di professione cui poter chiedere aiuto, è sbeffeggiata e sbugiardata come se gli altri potessero sempre saperne di più e meglio. Con la De Filippi che cavalca l’onda ad ogni piè sospinto, come se dirigesse una tavola rotonda. Un sinusoide senza punti archimedici, altamente vessatorio per occhi e orecchie. 145 Dice Regis Debray, Elogio delle frontiere, Add, Torino 2012, (p. 27): “…infilare il cuneo dell’insostituibile nella società dell’intercambiabile” e ancora: “Nella monotonia del monetizzabile – il denaro è sempre più o meno lo stesso – cresce l’aspirazione all’incommensurabile. All’incomparabile. Al refrattario. Al poter di nuovo distinguere tra vero e falso. Questo è, d’altronde, lo scudo degli umili contro l’ultrarapido, l’inafferrabile e l’onnipresente”. E contro quello che definisce, con preziose metafore, “il gran basculare ubiquitario” (p. 15), “il rullo compressore della convergenza” (p. 76), il “senzafrontierismo” (p. 68) di una “globalizzazione olio e aceto” (p. 66), Debray propone un regime delle divergenze, una “voglia di spaesarci”, riconoscendo l’altro e una nuova capacità di schiuderci all’esterno, a partire da demarcazioni e sfere personali non livellate ed equalizzate dall’economicismo imperante. 146 Quella che definisco “ipno-politica” trascina a valle anche i suoi stessi commentatori, travolti dalla stessa valanga di indistinzione eletta a categoria estetica generalizzata, un processo di “sub-cultura”, innanzitutto, dove tutto richiama tutto senza

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L’Osceno è la Logica del Neutro: inclusiva, concentrazionaria, rarefatta e spinata al tempo stesso, che non abdica a una Morale, non più quella del soggetto e delle classi, del diritto e dell’umano, ma quella dell’Oggetto originale che ha sostituito il Peccato. La precessione del Modello sarà sempre anticipatrice della processione verso di esso, ovvero del continuo, liturgico, compulsivo riallineamento del soggetto ad esso. Come paradigma di salvezza e felice auto-confisca della libertà. L’Osceno è il grande utero della Macchina Capitale. “L’informatica indica solo l’onnipotenza retrospettiva delle nostre tecnologie. Cioè una possibilità infinita di trattare i dati (ma attenzione, solo dei dati), ma assolutamente non una nuova visione. Entriamo con essa in un’era di esaustività, che è anche un’era di esaurimento. Di interattività generalizzata che abolisce la singola azione. Di interfaccia che abolisce la sfida, la passione, la rivalità dei popoli, delle idee, degli individui, che è sempre stata la fonte delle energie più belle”147. Ma cos’è allora questo Niente-da-vedere, questo Niente-da-dire, questo regime dello Stesso? Se, dunque, “la violenza dell’immagine (e, in generale, dell’informazione o del virtuale) consiste nel far sparire il Reale”148(scritto da Baudrillard lacanianamente, e legittimamente, con la R maiuscola), saremo di fronte a un Vuoto, a un Niente, opprimente ma rassicurante, capace di ossidare e togliere ampiezza al vuoto stesso del Reale all’interno del quale, e solo al cospetto del quale, riusciamo a ritrovare la forza di rinnovare le nostre categorie e le nostre coordinate esistenziali poiché direttamente intramato al Grande Simbolico della Morte e dell’eccesso pulsionale. Una sorta di titanomachia fra il Vuoto dell’immagine, da un lato, e il Reale dell’apertura ontologica che si offre come il tumultuoso flusso della vita e come impossibilità di una sua fissazione definitiva, dall’altro. Eppure – ci fa notare Baudrillard – questo Vuoto vince, schiaccia, ingabbia il Reale fino al punto da offrici un universo nemmeno più claustrofobico (o solo in

più cifre e punti di riferimento. Nella puntata di Piazza Pulita (La7) dell’8 aprile si parla delle possibilità di un governo a larghe intese. Formigli chiede a Feltri in collegamento esterno di scoprire di chi è una frase che pressappoco diceva: vorrei cambiare subito il Paese, ma vedo che c’è una sinistra che vuole cambiare le persone. Al quiz Feltri risponde che poteva averla detta o Berlusconi o Mussolini. Era di Renzi. Ovviamente, al ritorno in studio, questo che sarebbe dovuto essere il vero argomento di approfondimento, il dire equidistante da tutto, viene sommerso da altre chiacchiere di “politichese”. 147 Baudrillard 1991, op. cit., pp. 142-143. 148 Baudrillard 2008, op. cit., p. 39.

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Filosofia dell’osceno televisivo

rare illuminazioni) che si autogoverna e si pone come l’insuperabile linea gotica fra noi e il Possibile. Questo può avvenire, in pratica, come sostengo sin dall’inizio, perché il Vuoto, inteso come strumento di potere e di velamento, è fondamentalmente estetica della percezione e del segno, in una infaticabile deriva “patologica” rispetto al Reale, e come tale va ad incistarsi nelle nostre fibre e nelle nostre sinapsi, nelle nostre sequenze comportamentali, invalidando ogni alternativa. Lo scherno dello schermo. Parafrasando Lacan, qui avviene una coupure, forse, senza ritorno. Non è più il Reale che forclude il simbolico, rigettando la sua legge, la sua tradizione, il suo consenso (come avviene nel non-ritorno dello psicotico), ma al contrario, è il piccolo reale, smunto e declassato nei suoi significati come nei suoi valori di riferimento, che forclude il Reale all’interno di una meccanica di ottundimento/otturazione, intasandolo di un pieno gassoso che è il suo Vuoto mitico, triste crepuscolo di anime e di storia. Il Reale annientato è il reale glorificato. Ecco, allora, squadernata la quarta etimologia della parola “osceno” che è di affascinante pregnanza semantica. Osceno potrebbe derivare dal greco òs (scritto con l’omega, però) e kenòs che vuol dire vuoto, privo (nella sua variante kènos, con diversa accentazione, significa invece “vano”), mentre òs come particella congiuntiva significa “come”, come preposizione “verso”. Ma la risultante più affascinante è se consideriamo òs scritto senza omega ma così, con l’omicron. In questo caso corrisponde al sostantivo neutro che significa “veleno”, “ruggine”149. Dunque, si arriverebbe a una sorta di veleno del vuoto, ruggine del vano, che non solo è di bellissima fonte, ma offre un’immagine lirico-epistemica del concetto stesso di osce-

149 Per una sinossi completa degli etimi in questione, si può consultare la funzione “trova” al link http://www.grecoantico.com/dizionario-greco-antico.php, all’interno del Dizionario Greco Antico & Mitologia Greca edito da Olivetti Media Communication, il cui comitato scientifico, composto da eminenti classicisti, è presieduto dal dott. Enrico Nicoletti. Inoltre, proprio nella direzione di questi significati, la coscienza barocca della vita cui si oppone la sua oscenizzazione attraverso gli allettamenti/allattamenti della mondanità che sembra accogliere nel suo grembo ogni bruttura comportamentale, fra salotti e ipocrisie, è ben tratteggiata nel film di Paolo Sorrentino La grande bellezza, soprattutto nell’ultima scena, dove un parlato del personaggio principale, interpretato da Toni Servillo, ammonisce che “tutto è sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore”, l’“imbarazzo dello stare al mondo” è la controfaccia del “bla bla bla” delle feste e del loro surrealismo sgargiante e opaco che copre la forza dei sentimenti, delle emozioni, dei ricordi, ma anche le miserie e gli squallori. Sicché alla fine, in un’ipertrofia indecente della vita che inibisce qualsiasi classica forma-romanzo, il personaggio ammette laconicamente che “è tutto un trucco”.

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no a dir poco preziosissima. L’Osceno sarebbe dunque questa coltre tossica, questo involucro malato, questa copertura ossidante e degenerante che porta a uno spolpamento interno, a un’ablazione, a una devitalizzazione fumosa, a una apoteosi parassitaria e negazionista di ciò che permane in un voluto tramonto della parola e del senso. Del resto, il termine kenosis è largamente in uso nelle mistiche cristiane e sta per quel movimento di “svuotamento” che ogni fedele dovrebbe realizzare dentro di sé per far sì che l’elemento divino venga accolto senza ostacoli, e senza sentimenti di dubbio, paura, lontananza, privazione di libertà, bensì in toto, in una furia sostitutiva e coincidente fra Dio e il suo incarnato. L’etimo metaforico si completa con un terzo significato del termine “òs” per “giavellotto”, a spingere, in una direzione omicida e distruttiva, l’immagine di qualcosa che si conficca nella carne di ciò o di chi aspira a una definizione o a un sussulto, e si vede transitare, invece, dalle nebbie a un fiele, a un accidente corrosivo, a un’arma che trafigge. Il lemma “ruggine” dà ancor più l’idea di un deterioramento, di una decomposizione, di un passaggio di stato, come se non ci fosse l’inoculazione di una sostanza nociva dall’esterno (il veleno allude a questo), ma un processo che sviluppa dall’interno, per contatto, una fatalità ferrosa, la crosta di un minerale abbrutito, che porta nocumento e deturpa la bellezza dei contorni. Una metafora perfetta per l’anima e la patina di inutilità, vacuità, vaniloquio che comincia a circondarla e infettarla dal di dentro. Inoltre, “ruggine” adombra un elemento tensivo, antagonistico, una discrepanza che è quasi lotta (nel linguaggio comune si dice: “c’è ruggine fra quei due”), come un disaccordo fra un sovrastante che preme per chiudere o per decentrare, o confondere, o distrarre, e una sorgente che cerca una via di sfogo e di escogitazione. Esattamente il dissidio che andiamo indagando fra Reale tragico e reale oscenizzato. Il Vuoto si dà fondamentalmente come una logica, un linguaggio, un dominio formale, un modo di ordinare le idee – e le parole – rispetto alle cose. Gila è chiaro a proposito di Internet: “I significati e le finalità dell’esistenza vengono relativizzati all’interno di una tavolozza concettuale che ammette e miscela tutti i possibili colori. Nella rete nessuna idea è dominante, nessun valore può avere il dominio sugli altri: lo si vede nei blog, un’accozzaglia di note e commenti che si autoalimentano in un clima autoreferenziale, ma con il risultato di riuscire ad abbattere il consenso dei tradizionali quotidiani”150. L’intercettazione e gerarchizzazione scientificamente programmate dei nostri desideri e delle nostre passioni, Gila le

150 Gila, op. cit., p. 150.

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associa a un “organismo proteiforme e tentacolare”151, mentre la subcultura dell’indistinzione, di un ecumenismo meramente matematico, di un’equipollenza di tutto con tutto, a una “alta marea che avanza e che è in grado di avvolgere e assimilare tutto ciò che incontra: società, economie, pubblicità, Internet, televisioni e sistemi di telecomunicazioni”, fino a dire: “Non c’è più ortodossia ma commistione”152. Siamo nel Magma indifferenziato, intrappolati in una sorta di sostanza gelatinosa, collosa che prevede variazioni, mutazioni, aggiornamenti del suo catalogo di offerte, nuovi inventari di realtà, ma esautorandoli, depotenziandoli dentro la vacuità dell’equidistante e del divertissement. Come momenti interni di una traiettoria Iper-razionale inarrestabile, come epifenomeni di uno Spirito che “emana” sogni e oggetti in tutta la loro inutile, prefabbricata vividezza e pienezza. Sintetizza con puntualità Codeluppi: “Non vi è pertanto una rappresentazione simulacrale e illusoria del reale, che tradisce e cancella la realtà del referente sostituendola completamente, ma semmai l’indebolimento delle distinzioni esistenti tra la realtà e le sue forme di rappresentazione. Il risultato è un progressivo diffondersi di un’unica dimensione nella quale segni e oggetti non sono più facilmente distinguibili fra loro: quell’ambiente ipermediatico nel quale messaggio, medium, soggetto e realtà operano congiuntamente e dove conta soltanto la loro reciproca interazione”153. Ora, premesso che in molti aspetti del quotidiano la vita e le sue “verità” a portata di mano, per così dire, vengono letteralmente masticate, macerate, metabolizzate dalle silenti prescrizioni di una sorta di environment olografico che non prevede scarti o scremature rispetto alle emergenze del reale, ma una totale immersione/sommersione di quest’ultimo nelle sue fantasmagorie, una complanarità omofona dove non ci sono più appigli e prese154, è proprio il mondo del virtuale che ci 151 Op. cit., p. 169. 152 Op. cit., entrambe a p. 167. 153 Vanni Codeluppi, Ipermondo. Dieci chiavi per capire il presente, Laterza, Bari 2012, p. 130. 154 Interessante a questo proposito il confronto con Pasolini (op. cit. alla nota 95) quando questi oppone “la luce della vecchia verità, se vogliamo, quella davanti a cui non c’è più niente da dire” (p. 13), grandezze tipicamente fenomenologiche come “l’intenerimento, l’illanguidimento, la lacrima” (p. 15), e “il colore della purezza, soprattutto, dell’altezza morale, dell’onestà intellettuale – maledetti colori dipinti dall’illusione!” (p. 18). Toccante anche il passaggio del famoso giornalista-inviato britannico Christopher Hitchens, Mortalità, Piemme, Milano 2012, che nel suo diario clinico, prima di morire di cancro, così ammonisce: “È il caso di levare piccole voci ferme contro questo profluvio di chiacchiere e baccano, le voci della saggezza e della moderazione cui aneliamo” (p. 57).

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offre concretamente la rappresentazione di un adescamento/sviamento della nostra sensibilità, nell’ottica di quell’osceno estetico che andiamo descrivendo. Apri un giorno Facebook (o Gmail) e ti accorgi che, sotto le mentite spoglie di un’utility a favore del cliente, di un “aggiornamento” del sistema, di un new look che dovrebbe rendere il comunicare più agevole e colorato, sono cambiate le disposizioni di certe applicazioni: ora non scrivi più a destra ma a sinistra, non visualizzi più certi contenuti a sinistra ma a destra, le intestazioni di una lettera da scrivere variano, ciò che trovavi con agio adesso devi recuperare con un nuovo sincronismo degli occhi e delle mani, in una ginnastica mentale spesso fastidiosa e stressante, le foto sono orizzontali e non più verticali nella tua home, e così via; e tutto questo puoi condividerlo solo per un certo lasso di tempo – giusto l’indispensabile per adattarsi alle procedure che avrebbero “svecchiato”, chissà perché poi, quelle precedenti –, in quanto il margine di reale potere opzionale è ridotto al minimo, e dopo giorni o settimane al massimo, occorre necessariamente transitare verso la mappa percettiva e funzionale neo-imposta. Lo dice chiaramente Maria Emanuela Corlianò: “Tutto è preordinato, semplificato, regredito verso lo standard. Quello che vediamo quando apriamo Facebook è un format modellato su un particolare tipo di pensiero, che utilizza protocolli e applica ontologie predefinite”155. Se, dunque, tutto è omeopatia, flusso, tattica di circuizione e di desoggettivazione, se tutto risponde a una circolazione di segni in perenne fibrillazione dietro la quale non si fa fatica, però, a trovare caste, poteri, interessi specificamente orientati all’assoggettamento di ogni carica eversiva e desiderante, o anche solo esperienziale e raziocinante, come stupirsi che su Facebook, per esempio, nel momento in cui si cominciano ad “aggiungere” nuovi amici (che non rispondano all’orticello di conoscenze di vecchia data, parenti, colleghi ed ex commilitoni) si venga bruciati, bannati, “puniti” per aver sconfinato (ma rispetto a quali paletti?), per aver adottato “comportamenti molesti” (ma verso chi? Verso chi può sempre decidere di non accettare il mio invito?), “traghettati” in una sorta di purgatorio dell’attesa, da cui si esce dopo un massimo di 30 giorni, o mai, in base ad una “colpa” che non si riesce nemmeno a inquadrare e di fronte a interlocutori nemmeno visibili? Ma non era un social network?156 155 Citaz. di Maria Emanuela Corlianò, Vite mediate. Nuove tecnologie di connessione e culture di rete, in Codeluppi, op. cit., p. 135. 156 Gianfranco Marrone, op. cit., p. 69, accogliendo positivamente le teorie di due “eretici” del mondo virtuale come Lev Manovich e Nicholas Carr, e non esitando a parlare di una “rete di scemi” dice: “Sono i software a predisporre e imporre i modelli della comunicazione e dell’espressione artistica. Modelli a partire da cui, poi, ognuno di noi genera i contenuti che vuole, credendo d’essere originale”.

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Siamo assistiti con crudeltà, ammodernati con sollecitudine, blanditi con facili digressioni e ancor più facilmente banditi al primo esubero di orgoglio o di personalità. Tutti gli altri, si astengano, prego accomodarsi all’uscita. È l’eterogenesi dei fini della Società Immaginaria: per troppo melting pot di stili a bassa frequenza di referenti reali, per troppa anestesia da spettacolo, per sovrabbondanza di imposizioni del mercato trattate da “bisogni”, abitiamo una terra di nessuno che non ha più i connotati tradizionali della comunità, del “villaggio”, e l’incenso e l’oro della fama e della celebrità ci rifrangono contro, in mille schegge, la nostra solitudine acuita e dolente. Dice Pasolini: “Come la ripetizione di una parola nelle litanie… Ripetizione ch’è perdita di significato; e perdita di significato ch’è significato… Ripeti all’infinito la parola sesso: che senso avrà alla fine? Sesso, sesso, sesso, sesso, sesso, sesso, sesso, sesso, sesso, sesso, sesso, sesso, sesso, sesso, sesso…”157. La perdita di significato è già significato, ha ragione: dunque, un polemos (la “ruggine”) fra chi ci costringe allo stallo iniettandoci il non-pensiero come siero delle illusioni organizzate (il “veleno”), e Nell’aprile di quest’anno ha fatto discutere il black-out e la ripartenza immediata delle cosiddette “Quirinarie” sul sito del Movimento 5 stelle di Grillo, ovvero le preferenze che il popolo dei suoi iscritti esprimevano su chi eleggere presidente della Repubblica. Per un non meglio identificato “attacco di hacker”, un primo responso fu cancellato e le “urne virtuali” resettate. E fra Facebook e Twitter si scatenarono subito le polemiche sull’eventualità che la cancellazione dei risultati dipendesse da un esito “scomodo” da tenere nascosto. E se fosse stato davvero così? Un contenuto vero sarebbe stato bruciato, reso irreperibile per sempre. E se invece credessimo alla buona fede dello staff di Grillo, cosa sarebbe successo se, ad un sistema “fallato” da un virus, nessuno avesse avuto la moralità di spegnere tutto e ripartire? Sarebbe stato immesso nel grande oceano dell’informazione tele-giornalistica quotidiana qualcosa di falso e di deviato. In un caso o nell’altro, nessuno se ne sarebbe potuto accorgere. Come si vede, ormai, il contenuto è comunque, sempre, in secondo piano rispetto allo strapotere della forma che, con opportuni pilotaggi, “genera” contenuti, senza che questi abbiano più la capacità di liberarsi indipendentemente dal sistema all’interno del quale si rendono disponibili, leggibili, fruibili. E sui quali troppo spesso, oscenamente, viene steso un velo di disinformazione, se non di omertà. Quando si parla di “democrazia diretta” del web bisognerebbe subito, e innanzitutto, spostare l’attenzione su capacità etiche, valoriali, su procedure trasparenti e sagge gestioni: è lì il nocciolo della rivoluzione antropologica, da altri sbandierata solo all’interno di linguaggi che, nella loro presunta autoreferenzialità e non condizionabilità, farebbero da garanti oggettivi della libertà e della interdipendenza delle volontà. Ma basta un error informatico o un omissis politico e anche la tecnologia da Terzo Millennio rivela tutta la sua vecchia rudimentale strumentalità. 157 Pasolini, op. cit. alla nota 95, pp. 26-27.

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noi altri che disperatamente cerchiamo di mantenere una posizione, una sorta di guardiania, uno stato di sorveglianza sui problemi e le risorse del vivere insieme. Collettivo versus Connettivo158. “L’Osceno è innanzitutto O – buco vuoto, un buco e insieme un vuoto, che può inghiottire qualsivoglia materia, riempirsi di tutto, rimanendo perfettamente vuoto. Non si riempie così di nulla, nutrendosi e distruggendo contemporaneamente tutto: senso critico, istituzioni, forme e contenuti. Bulimico, incorpora tutto senza tenerne traccia. È inutile cercarvi delle profondità insondate, i suoi abissi non sono che superficialità distruttive”159. E allora vediamo una piccola aneddotica di questa parossistica gozzoviglia semantica, di questo pancione sovralimentato all’interno del quale allignano le stereotipie di massa, gli schemi ottici e noetici abitudinari, le “scalette” televisive e tutto quanto costituisce, ingrana e fodera il nostro linguaggio e le nostre convinzioni. Facendo una rapida ma esemplare ricognizione su spot, sovrapposizioni mediatiche cercate apposta per colpire l’immaginario e seppellire ogni opposizione sgradevole o “pensante” – o per smussare picchi che andrebbero in direzione opposta da quella che conviene ai committenti di un certo tipo di entertainment –, sospensioni di giudizio che iniziano come semplice gioco delle pupille, relax da salotto, crocevia-soft delle nostre sensazioni più spicciole, e diventano poi nessi di causa-effetto ineliminabili e condizionanti, familiarità ineludibili, piccoli sortilegi e bombe a grappolo della/nella nostra attività mentale. La pubblicità della Tim, dal 2012 ad oggi. Potrà anche far sorridere il Garibaldi che, dominando da un colle l’assetto militare delle sue “camicie rosse”, col semplice invio di un sms sui portatili di ciascun soldato, ne scompagina prima le linee, ridefinendole poi come una sorta di evoluzione da majorette ante litteram. Potrà essere “geniale”, dal punto di vista dell’advertising, anche solo immaginare che l’“eroe dei due mondi” abbia riunito l’Italia non per dare corpo e realtà agli ideali risorgimentali ma semplicemente perché, così facendo, la mamma potesse telefonare lungo tutto lo Stivale con tariffe agevolate. Così come sicuramente strappa più di una smorfia di ironica partecipazione l’idea che Cesare si sarebbe potuto salvare dalla premeditata crudeltà dei suoi congiuratori col morbido click sulla 158 Confr. Debray, op. cit. alla nota 134, p. 43. 159 Solla, op. cit. p. 135. Sull’Osceno come gommosità, morbidezza rotondeggiante, simmetricità di tutto con tutto pervicacemente cercata, quasi un quadro di Botero che incornicia per davvero la nostra vita, confr. Marrone, op. cit., pp. 38-42 alla fine delle quali l’autore dice, con raro dono della sintesi: “Ogni acutezza rimbalza tristemente nell’eccesso di una grassezza noncurante delle smagliature del mondo”.

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tastiera di un cellulare che lo avvertiva della cospirazione in atto. Siamo così abituati ad una sistematica profanazione di ogni parametro estetico, etico, culturale, all’inabissamento di ogni significato e di ogni aura, alla mercificazione di ricordi, memorie, biografie, dell’eccellenza delle gesta come dell’enigma dell’esistenza, che Garibaldi e Cesare (ma anche Gengis Khan, Casanova e Marco Polo negli spot più recenti) sono le ultime vittime di un polpettone indigesto che omologa e distrugge ogni differenza. Ma Cesare preferirei studiarlo ancora nel fragore dei pugnali e delle iracondie. E Garibaldi nell’audacia pre-elettronica di una pattuglia di valorosi disperati a caccia solo di libertà. Secondo quadro. Nel cuore di una notte 2012 su Canale 5, appare all’improvviso la scritta “Edizione straordinaria”, con la musichetta d’ingresso del tiggì della sera. Hai un leggero, vibrato soprassalto sul divano. Sono le tre passate. Temi una scossa di terremoto in qualche parte d’Italia, che annuncia magari già vittime e rovine, come già successo tristemente e in tempi recenti. Temi la morte improvvisa di qualche alta figura istituzionale. E invece assisti alla Cesara Buonamici che, impettita e professionale dietro il tavolo delle news, ingaggia un singolare, patetico sketch con uno yeti interpretato da Panariello come spot a un prossimo show del comico toscano. Col tempo ti abitui, perché questo promo serpeggia in altre versioni. E “ammiri” le gesta attoriali anche di Alessio Vinci in compagnia di un alieno verdognolo e rauco, e quelle dell’inviato Tony Capuozzo con il mostro di Lochness col cellulare bagnato sulla zampa. Giornalismo e spettacolo. Verità e boutade. Realtà e teatrino. In un fritto misto di generi, linguaggi e posture che domani, di fronte alle crisi incombenti, a carestie, aids e guerre, continueranno a farci ridere aspettando qualche gag che non arriverà. In un senso filosofico classico, la verità si misura con la libertà, si appartengono reciprocamente, producendo come fine naturale la giustizia. Ciò che è finto viene schiacciato, spiccano le responsabilità, grano e ortiche vengono separati una volta per tutte, disponendo il bene e il male nelle caselle che competono loro. La televisione fa il contrario. Dissolve gli opposti. Disinveste il negativo. Diluisce i dualismi. Anche Striscia la Notizia cade da un po’ in queste trappolette facili facili. Che mantengono alti lo share, l’attesa, il cialtronesco di certe immagini a cui abbeveriamo la nostra più vile brama di scivolare senza freno. Meglio una soap dilazionata che un giudizio ultimativo che evita la melassa delle opinioni. Terzo quadro. Capita di vedere un servizio, dello scorso anno, che ancora una volta va a rimestare nelle disgustose manie di protagonismo dell’avvocato Canzona, quello del finto scoop della donna che abortì dopo il naufragio della Costa. È stato avvistato a fare il benzinaio a Roma. Interrogato dall’inviato More-

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no Morello, il proprietario del distributore dice che è tutto vero. Canzona lo smentisce, dicendo che non trattasi di povertà da lavori umili ma dell’aiuto occasionale di una giornata. Morello incalza e propone un confronto fra i due, che possa dare soluzione all’“arcano”. Canzona non vuole. E il servizio finisce così. Senza un punto di sintesi chiaro e assertorio. Molto meglio di una Cassazione dell’immagine, di un pronunciamento definitivo e tombale, la vita ridotta a telenovela del “to be continued”. Quarto quadro. In un servizio del Tg3 regionale si parla di Circe, il vortice che porta pioggia e vento dal nord Europa e refrigerio alle assolatissime lande del sud, e subito le immagini chiamano in causa il personaggio della maga di odissea memoria, con tanto di riferimenti mitologici e attoriali relativi a chi ne interpretò il ruolo al pari di Ulisse e dei suoi naufraghi negli adattamenti televisivi dell’epoca. Stesso dicasi per il massacro nel cinema di Denver titolato come “La strage di Batman” perché messo a segno in concomitanza della prima dell’ultimo film della nota saga. La virtualizzazione dell’inconsulto, la spettacolarizzazione del tragico, la banalizzazione dell’umano troppo umano, finanche la garrula e autoreferenziale fumettizzazione del sanguinario e dell’omicidiario160, sono elementi ormai tristemente consustanziali a un linguaggio del conformismo e della disinformazione di massa che dell'antropologico in senso lato non sa proprio che farsene. Almeno fintanto che ci sarà una leggenda cui attingere, un passo fiabesco che disinneschi la realtà, o un supereroe deviato cui assimilare nell'immaginario collettivo un disgraziato folle di cui non si indagano minimamente gesti e vissuti. Ma le sintassi omologanti, le artificiose co-appartenenze diventano ancor più evidenti e fuorvianti nel pubblicitario commerciale, quello dei prodotti e dei servizi da piazzare all’ignaro consumatore. Qui il valore estetico, morale, civile, sentimentale, finanche storico o generazionale, non solo non si distacca dall’oggetto ma ne diventa una promanazione, una qualità intrinseca, la faccia geometricamente sempre tracciabile di un poligono unico, senza più né aure, né raggiri, né alcuna interferenza di trasmissione, 160 Nel numero di fine aprile di Giallo, il nuovo settimanale della Cairo, già normalmente dedicato a “storie, delitti, misteri”, come recita la sottotestata, è stata pubblicata una foto raccapricciante delle vittime dell’attentato di Boston, pochi istanti dopo l’esplosione delle bombe, con persone sanguinanti e deturpate dalle schegge, a terra, su un pavimento chiazzato di sangue fresco. Nel servizio d’apertura, dedicato alla inchiesta, ormai trita e ritrita, del caso Scazzi ad Avetrana, invece, una ricostruzione disegnata in quattro vignette rappresenta anche il momento in cui la cugina Sabrina, con un’espressione terribile, stringe il cappio mortale intorno al collo della povera ragazzina.

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Filosofia dell’osceno televisivo

se così possiamo dire, come per le ombre platoniche. Non è il valore che parla dell’oggetto e che ci permette di avvicinarlo per narrazioni allegoriche. È l’oggetto che esterna il suo mondo, esprimendo un titolo e una capacità totalizzanti e totalitari nell’enucleare, a sua immagine e somiglianza, il valore. La sua presenza materiale e la sua univoca codificazione del valore di riferimento sono tutt’uno. Anzi, il valore non esercita più alcun potere di rottura o contenimento rispetto all’oggetto: è una sua parte, è sua massa, gli delega ogni diritto. Ing Direct, la famosa banca della zucca arancione, propone lo slogan “Prendi parte al cambiamento!” per far pagare meno tasse ai suoi correntisti, facendo lanciare questo grido a un attore che sembra stare sul palco di Woodstock, ma è un montaggio del vero pubblico di quel famoso raduno, preso da reportage d’epoca, dove però, si inneggiava alla libertà, all’amore e, addirittura, alla lotta al capitalismo, e la parola “cambiamento” significava ben altro, non certo finanza creativa e convenienti saldi di bilancio. Nella pubblicità di Sky per promuovere una scontistica particolarmente favorevole sull’installazione di nuovi decoder, il protagonista va disperatamente alla ricerca di un “amico”, naturalmente non per conoscenza o legami affettivi, ma perché solo unendosi a qualcuno riesce a farsi recapitare una buona offerta 2x1; dunque “amico” sta per involontario complice di business. Fineco lancia come claim “Semplice come respirare”, riferendosi, anche qui, a particolari facilitazioni sui depositi e sui supporti di consulenza. Il respirare organico, quello fatto di fiato e di polmoni, viene affiancato sostanzialmente a pratiche economiche e di impresa, in un bassorilievo di immagini che inquadrano un sub che riemerge dai fondali e ha bisogno di ossigeno, un musicista che suona la tromba e gli si gonfiano le gote, un bambino che immette aria in un salvagente sulla riva. E rincara: “quando qualcosa funziona bene, viene naturale”, con un chiaro riferimento al fatto che la “natura” è semplicemente una giustapposizione di dinamiche da oliare bene, da mandare a traguardo, in un operativismo che porta frutto senza intoppi, deterministico e irreversibile. La pubblicità della catena di supermercati Essere Benessere ha come protagonista una donna dimessa e discinta che si aggira fra gli scaffali, coi capelli sporchi, appena lasciata dal fidanzato. Ogni merce che attira la sua attenzione non corrisponde a un’esigenza alimentare, fisica, salutista, ma è il traslato di sentimenti e stati d’animo che non si sa o non si vuole affrontare in altro modo, se non con compensazioni da banco, con un packaging fatto di succedanei e antidoti alle esperienze reali. Compra un gelato per “dimenticare”, una valeriana per “calmarsi” dalle tensioni del litigio, addirittura un rossetto

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“per conquistare il fratello dell’ex” e mettere a segno la vendetta di un amore infranto. Gli esempi fioccano, e vanno a toccare anche il mondo infantile, visto non come una tappa evolutiva, psicologica e anagrafica, ma come una sempre più precoce introiezione di stilemi, costumi, look, modi di fare e di dire del tutto eterodiretti e ripetuti come un ritornello acritico scolpito nella carne viva e nelle fantasie dei ragazzini. Ancora la Tim fa vedere bambini che giocano a pallone, ma ognuno dei quali, una volta segnato un gol, non si esprime liberamente in una personale manifestazione di giubilo coi compagni, ma imita letteralmente le “scenette” che usano i bomber della serie A, il “ciuccio” di Totti, il “violino” di Gilardino, la mano all’orecchio di Toni, gli atteggiamenti superomistici di Balotelli. Anche nello spot di Facile.it, assicurazioni, alcuni piccoli ripetono come un mantra magico il nome del portale (al posto di quello di un personaggio da cartoon, che sarebbe più giusto), come se portasse a un’immediata apertura dell’antro di Ali Babà161. Una pregiata sintesi di quanto descritto la offre Solla: “La comunicazione è l’ovvio che cancella l’evento del linguaggio. È l’investitura della vita per l’ovvio, la sua mobilitazione totale verso il vuoto dell’Osceno. Nella torsione imposta alle parole della lingua, per far dire loro cose che non significano o per poter cambiare costantemente la versione dei fatti, il linguaggio finisce per essere annullato, polverizzandosi in un agglomerato di 161 Sebbene non filosofo accademico, ma senz’altro giornalista di grande spessore intellettuale, Oliviero Beha, Il culo e lo stivale, Chiarelettere, Milano 2012, p. 81, mette bene in evidenza il puntum dolens della faccenda: “Siamo passati dalla pubblicità divenuta progressivamente indispensabile alla diffusione e alla vendita di un prodotto, alla merce che pare venir prodotta per farne una campagna pubblicitaria… Ci stiamo rovinando la vita ponendola all’incanto e nel frattempo la pubblicità sta avvitandosi in un circuito chiuso al suo interno in cui il prodotto perderà di valore o si estinguerà del tutto”. Ottime riflessioni al riguardo anche da parte del critico televisivo Mariano Sabatini, È la tv, bellezza!, Lupetti, Milano 2012, soprattutto quando si sofferma (pp. 165-167) sui personaggi che approfittano della loro celebrità in precisi campi televisivi per fare advertising su prodotti che, guarda caso, riguardano quegli stessi ambiti: Lucia Rizzi, istruttrice di Sos Tata (La7 e FoxLife) rispetto a una nota crema di cioccolata in barattolo, e Mario Tozzi, geologo, conduttore di Gaia – Il pianeta che vive (Rai3) rispetto a una marca di mastice per il consolidamento del terreno. (Sul tema della pubblicità che sembra quasi venire prima della merce stessa, è come chiedersi dopo tante e tante edizioni di Paperissima, la popolare trasmissione su Canale 5: ma esistono davvero prima tutti questi scivolamenti, imprevisti, cadute ridicole, incidenti domestici strapparisate, bambini e animali protagonisti “involontari” di esilaranti scenette? O viene prima il vettore televisivo che crea le condizioni stesse per cui qualcosa accada o la si faccia accadere, pronti lì a registrarla in un finto “tempo reale”?

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Filosofia dell’osceno televisivo

rumori, in cui tutto può essere detto, ma solo perché nella deriva autoritaria che lo travolge tutto diviene sostanzialmente indifferente”162. Non dimentichiamolo: si dà Osceno solo all’interno di una Forma autoprodotta, auto-regolata che illude attraverso una Logica (cornici, chance, parole, segni, mezzi) e una Morale (pseudo-finalità e pseudo-progettualità). Esso pertanto si pone come gestione dell’equivoco, management dell’oscuramento. L’Osceno in questo senso si mostra come equidistante fra due sistemi di volizione: una volontà che rimane segreta e agente, verosimilmente molto libera nel senso del potere decisionale e orientativo delle cose, fondata sullo scacco della libertà e dell’uguaglianza di tutti; l’altra che rimane derelitta, totalmente sepolta (non per forza “ingannata” nell’accezione classica del termine) o che, talvolta prova a fuoriuscire, a praticare un’effrazione sul rivestimento psico-sociale che la incamera come un suo apriori costante (come l’albatros – per usare un riferimento poetico – della famosa poesia di Baudelaire che sbatte le ali contro un tetto fradicio perché sente l’anelito della fuga, ma non riesce a soddisfarlo perché il suo corredo genetico di animale e il materiale di cui è composta la casa è come se parlassero due linguaggi senza punti intermedi). Entrambe perfettamente incapsulate in un perfetto gioco di scatole cinesi. L’Osceno è il Totum/Totem non dell’inesprimibile, ma dell’inespressivo basato, a sua volta, sull’osmosi fra contrari (o fra singolarità ridotte a un denominatore comune) che non accende mai la scintilla di un interrogativo, di una soluzione, di un sovvertimento: è il pantano di ogni dissenso163. È la “tolleranza repressiva” di Marcuse, la “neutralizzazione” o “integrazione degli opposti”, come egli dice, che fa da contrassegno all’assenza di rivolta e al laissez faire dell’uomo-cittadino nelle sabbie mobili di una obiettività (soprattutto giornalistica) sabotata alla fonte. “Il tollerare l’incretinimento sistematico dei bambini come degli adulti, prodotto dalla pubblicità e dalla propaganda, lo sfogo della distruttività realizzato nella 162 Solla, op. cit., p. 157. 163 Curiosa e utile al nostro discorso, da questo punto di vista, la pubblicità, uscita su molti quotidiani nazionali del marchio di abbigliamento Slowear. Che ritrae, in una ripresa dall’alto, un enorme salotto di una casa bellissima, fra tappeti meravigliosamente tessuti, oggetti di antiquariato, parquet, vetrate laterali, poltrone di lusso, abat-jour e quant’altro. Otto persone sono sedute o accovacciate, o sdraiate fra divani e poltrone, e tutti, uomini e donne, sono belli, giovani, agili, con toni esotici alcuni, alludono a vite professionali e di gran censo, sono vestiti alla moda, in modo elegante ed estroso, con golfini di cachemire, sorridono tutti, sembrano immortalati in un clima di grande serenità amicizia e distensione, fra il soft e il glamour. L’intestazione è: “REAL PEOPLE enjoy Slowear. Alla gente vera (reale) piace Slowear”. Ma sono davvero persone “reali”?

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guida aggressiva, il reclutamento e l’istruzione di truppe speciali, l’imponente e benevola tolleranza, l’imponente e benevola tolleranza verso l’inganno completo nel commercio, nello spreco e nell’inutilizzazione panificata, non sono distorsioni e aberrazioni, sono l’essenza di un sistema che coltiva la tolleranza come un mezzo per perpetuare la lotta per l’esistenza sopprimendone le alternative… è il tutto che determina la verità – non nel senso che il tutto è precedente o superiore alle sue parti, ma nel senso che la sua struttura e la sua funzione determinano ogni particolare condizione e relazione. Così, all’interno di una società repressiva, anche i movimenti progressivi minacciano di volgersi nel loro opposto nella misura in cui essi accettano le regole del gioco”164. L’humanitas diventa allora un’“eresia”, un retaggio polveroso del passato, materia di educazione centralista o di “desublimazione”165, che è ancora peggio, poiché nel miraggio di una libertà di scelta si perde ogni ancoraggio e si fluttua in un regno di pure reificazioni, dove le menti sono preformate da standard che accerchiano, e le emozioni ingottate e intubate in precisi canali di espressione. Ancora una volta l’estetica e il linguaggio si interfacciano in una diabolica circolarità che assomiglia a un amichevole campo di sterminio, a un non-luogo delle illusioni e dell’esilio dal quale è sempre più difficile risalire. “Il significato delle parole è rigidamente stabilito. La persuasione razionale, la persuasione del contrario è tutto fuor che preclusa. Sono chiuse le vie d’entrata a significati di parole e idee diversi da quelli stabiliti – stabiliti dalla pubblicità dei poteri costituiti e verificati nelle loro pratiche”166. Affermazione di stridente attualità, questa di Marcuse che ci fa immaginare il linguaggio e il regime di “amministrazione” della vita come una sorta di bacino di confluenza dagli argini alti e massicci come bastioni, all’interno del quale possiamo solo nuotare o ritrovarci fradici, ma senza che mai la diga si apra, senza che ci siano deflussi, se non minimi, senza che le valvole che misurano i livelli si aprano per creare un interscambio con l’esterno. Che è quello che dice anche Žižek quando parla di “supplementi superegoici osceni” e di “supplemento virtuale osceno”167. “Le credenze più intime sono tutte “là fuori”, incarnate in pratiche che arrivano sino alla materialità del mio corpo”168; “Tale inconscio istituzionale è una categoria chiave della critica dell’ideologia: designa il sottofondo osceno, 164 165 166 167

Herbert Marcuse, Critica della tolleranza, Mimesis, Milano 2011, pp. 7-8. Op. cit., p. 42. Op. cit., p. 21. Slavoj Žižek, Il segreto sessuale della Chiesa, Mimesis, Milano 2010, citazioni alle pp. 26 e 27. 168 Op. cit., p. 22.

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Filosofia dell’osceno televisivo

disconosciuto che – proprio in quanto disconosciuto – sostiene l’istituzione pubblica… Questa regione sotterranea oscena, il terreno inconscio delle consuetudini, è qualcosa di realmente difficile da cambiare”169. Žižek cita al proposito l’Acheronta movebo di freudiana memoria, proprio perché la parte strutturale della nostra vita quotidiana fluttua negli strati più bassi e tenebrosi, è lì che trova fluidità e continuità, negli inferi dell’inconsapevole, del sotteso, dell’extra-linguistico, là dove diamo per scontati gesti e abitudini, e non sottoponiamo più a giudizio e potere personale le emergenze del reale. Una zona d’ombra mai del tutto esplorata, che può essere sinonimo di legame pre-categoriale come di dispersione e contaminazione del senso, fondata sul nascondimento, inteso come ripetizione del già dato e studiata non-verità da parte dei detentori della discorsività pubblica che, dietro le oscene ostentazioni del bene comune e della specchiata virtuosità delle proprie azioni, celano un sistema tentacolare di raggiri e menzogne, reso ancor più devastante dal radiale integralismo dei media a loro disposizione: “… una morale appunto oscenizzata, resa tale da parole vuote, anonime, prive di responsabilità e testimonianza individuali. Piene di vuoto didascalico. L’oscenità interiore conta molto su tale vuoto e anonimato retorico e metafisico”170. Per tutto questo allora, in quanto travisamento delle basi stesse delle nostre modalità fenomenologiche, il Vuoto-pieno-di-Niente non potrà che essere la somma di una finzione epistemologica istituzionalizzata e di un esorcismo calcolato del corporeo – a partire da tutti gli aspetti grevi, spicci, chimici dell’esistenza, come già ampiamente spiegato –, tumulato in una “monumentalità” universalistica che conosce solo il biancore di una sorta di ingenuità della ragione. Baudrillard: “Osceno è ciò che annega la crudeltà del male nella sentimentalità dello sguardo. Oscena per eccellenza è la pietà, la condiscendenza impudica”171. Gli fa eco Milan Kundera quando parla di “dittatura del cuore” e fa dire al personaggio Sabina in L’insostenibile leggerezza dell’essere frasi al vetriolo contro il kitsch visto come

169 Op. cit., pp. 23-24. 170 Guido Zingari, Oscenità interiori. Verità ambigue e retoriche perverse, Costa & Nolan, Genova 1996, p. 58. Ancora entusiasmante Beha (op. cit. alla nota 149, p. 95) in una sua sintesi: “Un’epistemologia “traviata” o “truccata” dunque, un sapere sempre più stagno e autoreferenziale, la mancanza di un punto di vista forte nella circolarità ingannevole dei saperi plurali, spostati ormai quasi esclusivamente verso le comunicazioni di massa, principi cardine come quello di realtà e verità, al contrario offuscati e rimossi; il tutto per costruire l’alibi del “sistema complesso”, che giustifichi, in buona sostanza, l’impossibilità di conoscenza”. 171 Baudrillard 1991, op. cit., p. 78.

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quell’“accordo categorico con l’essere” che cerca a ogni costo “la negazione assoluta della merda”, e ancora: “il kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile”172. L’oscenizzazione del linguaggio (immagini e parole) diventa l’unico testo/tessuto del Bios-Reale (corpo, libertà, grande simbolico della Morte), il suo unico tèlos/tela a tal punto che questo viene sottoposto a un processo di narcòsi/nècrosi e disinnescato attraverso razionalizzazione della follia, denotazione della differenza, prassi assimilazioniste e integraliste, dirottamento/fissazione del desiderio agli oggetti di rapido commercio. E la sparizione oscena dell’umano in senso lato ci viene confermata, proprio, dalla casuale escalation di due pubblicità di automobili. Una berlina super accessoriata e corsara della Volvo viene presentata prima col claim “It’s who you want to be” (È chi tu vuoi essere), con l’uso del neutro oggettuale “it” che va a innescare un “voler essere” sempre a portata di mano: si è, basta volerlo. Oltre a sancire una mancanza primordiale che deve essere surrogata non dall’Altro, ma dall’oggetto di consumo: non si può essere stabili e permanenti, bisogna riempirsi di desideri e di soddisfazioni tele-pilotate. Ma la frase finale, più contratta, dice laconicamente: “It’s you”, ovvero letteralmente: Esso/a è te. Sorta di ingegneria antropologica, di innesto cromosomico uomo-merce, dove il consumatore combacia perfettamente nella sua anima, ormai metallica, con pistoni, carrozzerie e testate di motore. Non c’è più distacco, distanza, desiderio, c’è l’aggancio lunare-industriale. La pubblicità che può considerarsi una sorta di naturale evoluzione della prima è, invece, quella della Opel dove la presenza dell’uomo non esiste più; finanche il driver della macchina che viene presentata non si vede. Sul sedile posteriore un robottino che invidia l’intelligenza, la velocità e l’estetica della vettura a bordo della quale viaggia dice: “Da grande voglio essere come lei”. Qui il modello prestazionale, tipico dell’Osceno, è prevalente e guadagna l’intera scena, in una spirale deterministica e darwinistica parodia della biologia umana che nasce e cresce, in una fantasmizzazione completa del vivente che porta ad una sorta di incontrastato Regno del Microchip, senza più ombre, passioni, sogni, attriti fra mondi. Qui tutto avviene ormai in un autismo contemplativo di macchina vs macchina. I media ci fanno approdare, insomma, a un simbolico nientificato ma pietrificato, liofilizzato e militarizzato, psicotropo in modo subliminale, fatto di acquiescenza e caos disinformativo, di remissività ludica e aggressione neuronale, di edenici sufflè serviti all’anima e di colonizzazione di 172 Citaz. in Marrone, op. cit., pp. 39 e 153.

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Filosofia dell’osceno televisivo

tempi fisiologici, e pur tuttavia di un idiotismo paramessianico che ancora ci spinge a sgranare gli occhi e a chiedere salvezza ai gadget e aiuto per le nostre grame vite a un conduttore televisivo, magari, senza provare la benché minima puzza di varechina dinanzi alla sua profilattica opera di espropriazione dei nostri cervelli, del nostro presente affettivo. È quello che Claudia Bianchi chiama “insuccesso comunicativo” quando, sull’onda delle teorie di Paul Grice sul concetto di “implicatura” (derivare un contenuto implicito da una frase esplicitata), e nell’ambito di interessanti riflessioni su quello splendido elogio della betise che è il film Oltre il gardino, spiega173 che in un contesto comunicativo c’è la parte “psicologica” (“il parlante deve avere l’intenzione di comunicare un certo significato, o contenuto”) e, soprattutto, quella “normativa”: “chi parla deve mettere chi ascolta nelle condizioni di individuare l’interpretazione corretta ed eventualmente di riconoscere l’implicatura che intende veicolare. Il parlante deve cioè rendere manifeste le proprie intenzioni comunicative – deve renderle pubbliche e accessibili a chi gli sta di fronte con azioni e parole appropriate, in un contesto appropriato”174. Questo perché ci sia nel rapporto comunicativo e/o mediatico “correttezza”, dice la Bianchi. Ovvero, volgarizzando, i due aspetti della questione devono essere ben amalgamati fra di loro, pena il far volteggiare un po’ troppo altri elementi decisivi e “normativi”, ovvero vincolanti anch’essi il dialogo, che riguardano il contorno, lo sfondo della conversazione, in che ambiente avviene, con quali condizionamenti extralinguistici. È, insomma, l’elemento etico-soggettivo che evita derive di senso e garantisce il rispetto dell’interlocutore e un ragionevole scambio di parole o gesti. È così in tv? Assolutamente no. L’elemento realmente umano e duale latita, per non dire che naufraga del tutto; diversamente come scatterebbe l’iperuranio sognante, ingannevole, autolegittimante, stratosferico e protettivo che ha fatto assurgere personaggi come la De Filippi a insospettabili sempre e comunque, “sante marie” del verbo catodico, custodi della Verità e della Bontà, sacerdotesse del popolo mai dalla parte del torto, della speculazione e del calcolo personale? “Secondo un copione già redatto, si assegna così all’omertà il prestigio della più alta discrezione, alla delazione quello di un parere assennato, all’opportunismo quello di un’elegante riservatezza o all’ossequio servile quello di una lezione di civismo”175.

173 Claudia Bianchi, Che cosa vuoi dire? in AA.VV. Stramaledettamente logico, op. cit., alle pp. 96-99. 174 Op. cit., le due citazioni di metodo sono alle pp. 97 e 98. 175 Zingari, op. cit., p. 34.

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La scena e l’osceno, antropologia della dissoluzione

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E all’orrore dell’invasività, della perfidia e dello sfruttamento delle vite come immensi giacimenti minerari da graffiare e divorare con le ruspe di un’indomita industria estrattiva televisiva, l’onore della salvaguardia della dignità delle persone e del solidale soccorso a chi cerca un minimo di visibilità e qualche soldo come nano nel Gran Circo del Baccano176. La trasmutazione dei valori, tele-niccianamente parlando, è completa. Nello scacchiere della malafede, alla profondità della truffa morale di chi conduce frustando le bestie al pascolo dell’immagine plastificata, subentra del resto sempre la consegna disinteressatamente martirologica di chi non vede altre speranze nella sua vita che presentarsi a un casting o nello studio di un format delirante. Un ultimo esempio. Aquarius, senza la c, è un programma di punta di GXT, canale del bouquet Sky particolarmente incline a format adrenalinici e giovanilisti. Aquarius è come la parola detta: un immenso delfinario di angeli in gonnella che “nuotano”, si agitano, ballano flessuose, guardano ammiccanti, esibiscono con dovizia la loro bellezza, e tutto questo davanti alle telecamere piazzate ai bordi di un dancing un po’ retrò che spara musica a palla. E danzano feline e conturbanti, in un fuoco di fila di tacchi vertiginosi, minigonne mozzafiato, bretelline che scivolano galeotte, zoomate dal basso, inquadrature di ombelichi, piercing, laccetti sulle caviglie, reggiseni che scoppiano, labbrone sempre sorridenti e fianchi da capogiro. Un belvedere su cui chiedersi “perché?” è doveroso, anche per il telespettatore dotato di intelligenza al minimo salariale. Non ci sono parole, testi, conduttori, presentazioni, ospiti o giochini. È lo show del sesso telegenico. Pura radioestesia dei corpi. Ginecologia distillata in pixel. 176 Mai come nell’ultima edizione di Amici, i ragazzi sono stati inseriti in un contesto para-thriller (con tanto di colonne sonore del genere), fatto di ansie insufflate ad arte dai prof, esami continui, accuse, veti e divieti, cattiverie gratuite, accanimenti ad personam (Zerbi vs Ylenia) stress psicofisici vari, perché – come poi è avvenuto – si disperassero di più, creassero polemiche, piangessero, facessero esplodere, più livida e infantile che mai, la loro fragilità, perché minacciassero di andarsene etc., sviluppando da soli, insomma, il plot del programma. Stesso dicasi in Uomini e Donne dove bastano alla De Filippi pochi gesti e pochi input di regia per inquadrare subito chi sta per piangere o per attizzare fuochi e veleni, aprire crepe nel giudizio reciproco e strappi ancor più critici e violenti fra le persone in studio, mantenendo intatta la sua immagine di semplice “direttrice del traffico della vita” che avviene lì, sotto i suoi occhi di spettatrice uguale a tutti gli altri, apparentemente senza ruoli specifici. Dice Zingari (op. cit. p. 36): “Il sadismo particolare dell’oscenità interiore farà quindi balenare una promessa di piacere, di godimento, di gioia, che verrà però revocata, rimangiata, inaspettatamente, di colpo, procurando nell’altro il dolore, l’umiliazione, il compatimento e l’offesa più profonde”. Così si diventa “ladri di anime”.

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Filosofia dell’osceno televisivo

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Non c’è scrittura di alcunché nonostante il programma sia “firmato”. È la tv dell’oscena goduria, dove non c’è nulla da vedere per eccesso di gusto, stimoli erotici e invidie carnali. La tv dell’“eccomi qua, ci sono anche io”. Vitrea, trasparente, da mammifere senza pinne cui dare in pasto qualche plancton di notorietà. Una tv già dentro di noi, oltre ogni sguardo. Qualcuno prima o poi farà toc toc sullo schermo e noi apriremo l’ultimo varco. Magari a una di Aquarius.

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II LA SCATOLA E IL FIAMMIFERO (AN)ESTETICA DELLA DISTANZA (MATERIALI)

I corpi di due persone, un uomo e la moglie, vengono trovati nel garage di un’abitazione appesi, come misere carni da macello, a una rastrelliera orizzontale, una di quelle dove si infilano le gomme delle biciclette, dopo aver fatto, magari, una passeggiata al parco respirando a pieni polmoni aria pulita. Ma qui c’è odore di morte e di viaggi all’incontrario, viaggi di chi saluta e lascia, passa la mano, perché non ce la fa. Qualche ora dopo, il fratello della donna, folle di orrore e disperazione dopo il rinvenimento dei cadaveri, si lascia andare nelle acque del porto di Civitanova Marche, e affoga. Una tragedia inaudita, di esseri umani ridotti a carta da macero, a bestie bastonate e randagie. Una tragedia sporca di povertà e solitudine, di soldi che non si hanno per campare, di vita ridotta al cibo che nemmeno si ha, alle cure che non ci si riesce a procurare, ai bisogni fondamentali che non si soddisfano. Contemporaneamente, e sottolineo contemporaneamente, sui quotidiani del giorno dopo, 6 aprile 2013, tutti allineati al commento della vicenda, si legge dell’ennesimo can can di accuse incrociate fra le “olgettine” che si rinfacciano i gioielli o gli appartamenti che ognuna di loro avrebbe avuto in regalo da Berlusconi; del patteggiamento con qualche decina di migliaia di euro del figlio di Letizia Moratti in merito ad un super-loft per feste allegre che si sarebbe costruito in un capannone industriale (in barba a vincoli e tasse), riproducendo la “caverna” di Bat-man, con tanto di piscina coperta salata, idromassaggio, sauna, bagno turco, arredi di gran pregio, più un locale sotterraneo dotato di ring e poligono di tiro; e finanche un Conte, allenatore della Juventus, rilascia dichiarazioni in cui esplicitamente afferma che una stagione è salva se si rientra in quelle posizioni di classifica che garantiscono introiti, sponsor e partecipazione alle coppe, con De Coubertin che si rigira nella tomba. Contemporaneamente, la sera stessa, Maria De Filippi apre il suo Serale di Amici, citando il Papa e il suo invito ad aiutare i giovani ad emergere nel merito e nei valori, e lei, senza colpo ferire, come la cosa più naturale del mondo, si candida al mantenimento di questa

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Filosofia dell’osceno televisivo

ecclesiale promessa, dando l’avvio al programma, al cui primo gradino di scaletta mette un “pistolotto” di Matteo Renzi in giubbotto di pelle, stile Fonzie di Happy Days, che fuori dai palazzi ufficiali della politica – anche qui, chissà perché, come la cosa più naturale del mondo –, sembra risulti un emblema di pulizia, correttezza e insospettabilità, insomma una bandiera per i giovani. Contemporaneamente, il pomeriggio della domenica, a Domenica Live su Canale 5, una Barbara D’Urso, come sempre in gloria con le sue “faccette” da fumetto melodrammatico o in stile Napoli frufru sciorinate alla bisogna, intavola per una buona ventina di minuti, ma anche qualcosa in più, una salottiera conversazione con Ascanio e Katia, due protagonisti del Grande Fratello 4, altrimenti noti per nulla, invitati, in veste di semplici marito e moglie, a ridere e scherzare su alcune “candid” preparate in casa con i loro due figli piccoli…1 Analogo scenario per la serata di sabato 20 aprile. Mentre ancora non si spegne l’eco, fra piazze e Parlamento, della rielezione a presidente della Repubblica di Napolitano, con uno strascico di vibranti proteste e di pressoché generale risentimento popolare, con una crisi economica ormai devastante e un’incertezza politica che spaventa mercati e partner europei, al Serale di Amici si assiste ad un’atmosfera a dir poco lacrimevole, straziante, a tinte quasi gotiche: la squadra dei Bianchi ha perso tutte e due le gare e, quindi, lascia sul campo due ragazzi esclusi. Il clima è teso: la “direttrice artistica” Emma Marrone ha parole cupissime sulla situazione, straparla di “valori”, di “coerenza”, di “difficoltà del suo mestiere”, o giù di lì, sembra imminente il naufragio del Titanic, fino a quando Emanuele, uno dei due ragazzi che stanno per essere cacciati, chiamato dai prof a un’ultima esibizione per convincerli a tenerlo nel programma, non decide di non cantare. Apriti cielo. Piange Emma tradita nell’onore, Miguel Bosè viene inquadrato più volte a occhi sgranati come di fronte a un disastro planetario, piange il pubblico, e si arriva all’apoteosi finale: il ragazzo frastornato si commuove anch’egli, la De Filippi deve annunciare la conclusione della puntata, ma ha la voce rotta dai singhiozzi, e si va in pubblicità con la conduttrice che a calde lacrime si abbatte sulla spalla del concorrente dicendo: “Con lui ho dei problemi, perché è molto particolare”. Consigli per gli acquisti… Sentiamo Junger in un testo profetico del ’51: “Uno dei caratteri peculiari del nostro tempo è che le scene più significative sono legate ad 1

Sulla figura televisiva di Barbara D’Urso, confr. il capitolo Le “oscene” conduzioni in Carmine Castoro, Crash Tv, op. cit. alla nota 65 della prima sezione.

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La scatola e il fiammifero, (an)estetica della distanza

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attori insignificanti… L’aspetto irritante di questo spettacolo è il legame tra una statura così modesta e un potere funzionale così enorme”, e ancora: “In questo paesaggio di officine, dunque, il potere è messo all’incanto e se lo aggiudica colui che dà ali alla propria insignificanza con una forte volontà”2. L’insieme di aspetti terribilmente reali, di diritti compressi, di uomini che si avvicinano al mondo bruto degli animali per carenze strutturali di solidarietà e, contemporaneamente, di privilegi che sanno di sperpero, di gente che usa la legge come un optional personale e di una sorta di grandeur mediatica che va a manomettere la gravità di questi stessi episodi e, contemporaneamente, a proporre un’offerta di informazione di basso livello, dubbio gusto e scarsa utilità, gusci vuoti per surriscaldare le anime con le banalità più tronfie, per stordirle/stornarle verso l’Impero del Futile che scimmiotta la ricerca vera dei valori, il dolore vero, l’importanza vera e seria dei fattori storici, ecco, questo insieme decotto e prefabbricato, cruento e melenso al tempo stesso, antropologicamente pregno e virtualmente gassoso, questo è ciò che possiamo definire: l’occupazione dell’Osceno, l’intossicazione/espropriazione del “suolo” fenomenologico stesso su cui dovrebbero svilupparsi le nostre esistenze, una sorta di inquinamento stratificato delle falde del nostro spirito e della nostra reciprocità da parte di un Monopolio del linguaggio che nemmeno avvertiamo più in quanto tale. Dolce e struggente verso le nuove generazioni, ma per nulla punitivo o reazionario, Michel Serres quando dice: “Quale letteratura, quale storia sono in grado di comprendere, beati, senza avere nozione concreta di vita nei campi, di animali domestici, di mietiture estive, di una decina di guerre, di cimiteri, feriti, gente affamata, patria, bandiere insanguinate, monumenti ai caduti…, senza aver sperimentato, soffrendo, l’urgenza vitale di una morale?”3. Proviamo, allora, sfruttando le quattro radici dell’Osceno illustrate nella prima sezione, a farne una sorta di sintesi panottica. L’Osceno nasce su una sorta di schizofrenia basica: il vitale in senso lato viene prima disprezzato, poi rimosso e assoggettato a varie ipostasi di salvezza, l’ultima delle quali, nel mondo occidentale, l’Immagine (in primis quella televisiva e mediatica), comincia a porsi come il punto di fuga dei progetti e delle libertà: siderale e contemplata, ma anche con la potenza giusta per “tradurre” e ri-significare il Reale alla luce di un simbolico tentacolare che si avvale di tecnologie, mercati, reti e che invade tutti gli aspet2 3

Ernst Junger, Trattato del ribelle, Adelphi, Milano 2010, pp. 33-34. Michel Serres, Non è un mondo per vecchi, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 12.

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Filosofia dell’osceno televisivo

ti del quotidiano. La scena diventa una o-scena, un presente eterno, una omologia fra parole e cose, una visibilità estremizzata che nega l’assenza, il senso, il conflitto, le discontinuità, e soprattutto la loro vulcanica carica simbolica. Attraverso la comunicazione globalizzata e la frantumazione dei dati si assiste, pertanto, ad un divenire altro dell’uomo stesso rispetto alla assunzione del suo orizzonte fenomenologico fatto di cambiamenti, crisi, rotture, rispetto al cosiddetto Tragico. Il Sistema si cristallizza in una Morale che piange la sua miseria elevandosi al Sogno, e in una Logica che fa leggere gli accadimenti sempre in una maniera distorta e pilotata, o liquida, negletta e reificata dai cliché. Un finto “universale”, un vuoto pneumatico delle coscienze – ruggine e veleno dei rapporti e della conoscenza –, si sostituisce al Vuoto dell’indeterminato e dell’implementazione di senso cui tutti saremmo chiamati a partecipare. L’Osceno ci separa dalla nostra libertà più propria e da quell’infinito della originaria “mancanza” che farebbe da fuoco di ricerca, trasformazione e miglioramento degli stessi assetti sociali. L’Osceno in questo modo, in quanto “modo”, si mostra come un Apparato di cattura, radiale e senza controlli sufficienti poiché introiettato, fissato non nel Falso ma in un Neutro che varia i condizionamenti da esercitare nell’immutabilità della sua vitrea essenza, ripetendosi come l’operatività di una macchina standardizzata su un preciso rapporto sensazione/segno. Ad una analoga griglia di parole-chiave arriva Junger quando dice: “L’inevitabile assedio dell’essere è pronto da tempo, e a disporlo sono teorie che tendono a una spiegazione logica e completa del mondo, e avanzano di pari passo con il progredire della tecnica. L’accerchiamento del nemico è prima razionale, poi anche sociale, e infine, al momento opportuno, lui, il nemico, viene sterminato. Non vi è destino più disperato che essere catturati in questa spirale, dove il diritto è usato come arma”4. E ancora, cercando un principio di resistenza a tutto ciò: “Ribelle è dunque colui che ha un profondo, nativo rapporto con la libertà, il che si esprime oggi nell’intenzione di contrapporsi all’automatismo e nel rifiuto di trarne la conseguenza etica, che è il fatalismo”5. Logica e Morale, dunque, si rincorrono, nella tracotante avanzata di un Tele-Capitale mondiale delle cose e delle anime; automatismo e fatalismo sono le armi affilate di cui esso si dota per inchiodare le vite ad una Permanenza che è fatta, innanzitutto, di una spiegazione e di un setaccio della realtà a immagine e somiglianza dei poteri ufficiali – una dogmatica neanche tanto latente che attinge anche alla Scienza e all’Economia –, e poi, in secondo luogo, di un venefico sentimento di im4 5

Op. cit., pp. 36-37. Op. cit., p. 42.

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La scatola e il fiammifero, (an)estetica della distanza

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potenza e invalicabilità dello status quo esistente insufflato, per così dire, nell’uomo della strada. Logica e Morale combaciano in un’unica morsa, in una Forma che è l’Osceno come nuovo Dio, nuovo Essere dell’Occidente, custode e garante di una linearità di giudizio e di una positività affettiva cui tutti aderiscono “spontaneamente”. Franco Cassano parla di “una matrice strutturale ben precisa: è necessario intrattenere l’uomo, riempire tutti i pori del suo tempo”6, e questo avviene con “la grande chiacchiera”, “l’amor vacui”, “l’organizzazione capillare della distrazione”, “l’euforia d’ordinanza” che portano per esempio – sottolinea sempre Cassano – all’“osceno degli applausi ai funerali”. Dunque, il grande tema è proprio come risolvere la crasi del sistema che ci genera, come sgusciarlo, lasciarlo perire degli stessi assurdi vincoli che inventa, delle stesse sordità che incentiva, come far tornare a splendere quello spirito empatico, domestico, ecologico, comunitario, sorgivo, affratellante, interrogante che langue dentro di noi, nella pattumiera della vita come nelle risate televisive, nelle stridenti ingiustizie come negli sberleffi e nelle smorfie delle migliaia di persone che lavorano ogni giorno per “intrattenerci”, come dice Cassano, per snodare le nostre sinapsi, per discostarci da noi, per renderci più ascensionali e meno infernali, più scollati da quello sguardo anteriore che sembra non appartenerci più. E allora è pur vero, come sostiene a spada tratta Maffesoli, che oggigiorno “ci si mescola, ci si confonde, si dimenticano le differenze in un grande collage dove tutti i modi di essere, di vivere e di pensare trovano la loro espressione”7, “senza che le differenze di classe, le specificità locali e culturali apportino dei cambiamenti significativi”8, ma, davvero, come si fa a sostenere che “questa dissoluzione dell’io, questa immersione dell’individuo nella viscosità generale, lo eleva a una sorta di dimensione universale? Forse così si spiega la serenità che caratterizza la nostra epoca”9? Ci sarà pure una fervida armonia, una porosità entusiasmante, una stimolazione incrociata fra persone, merci, luoghi negli scenari della nostra postmodernità così culturalmente relativizzata e innervata di tecnologie, immagini e corpi, dunque quasi una sorta di paradisiaca “serenità” che rende tutto disponibile o acquistabile, ma quello che lo stesso filosofo francese identifica come “il fantasma del guasto” e “la perdita di un’evidenza”10, spie di un accasciamento, di un’implosione del Sistema stesso, di un suo 6 7 8 9 10

Franco Cassano, L’ora del silenzio, Repubblica del 16 settembre 2012. Michel Maffesoli, La trasfigurazione del politico, op. cit. alla nota 31, p. 233. Op. cit., pp. 232-233. Op. cit., p. 239. Op. cit., p. 82.

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Filosofia dell’osceno televisivo

ombelico sfatto nei cui vasi sanguigni le idee e il benessere delle persone non scorre più, ebbene proprio questi concetti dovrebbero essere oggetto di una attenta e rinnovata problematizzazione collettiva. E non basta una misteriosa e finalmente attinta agape multietnica a fare da supporto a un Rinascimento, poiché al contrario è proprio in questi fenomeni che si cela una fonte, non una soluzione, una modalità, non un superamento di una certa logica di dominio: nella festosità fine a se stessa, nel tribalismo della rabbia o del lassismo, nel posticcio emotivo, nell’abuso dei media e del mediato, nelle tattiche di aggiramento delle volontà perpetrate dal mercato. Dobbiamo, allora, senz’altro ritrovare un’effervescenza, una capacità oppositiva e aggregante, un nuovo gioco di apparenze dove spicchino le singolarità e si viva per quello che si è, ombre di noi stessi, ma smascherando congiuntamente, altresì, le pseudo-comunità e gli pseudo-conflitti che il Capitale ispira per farci sentire fintamente a casa nostra, protagonisti attivi dei nostri destini, mentre siamo sempre in esilio e sempre naufraghi in un mare di cui ci hanno sottratto le carte nautiche. Davanti alla vetrina di un negozio di lusso, davanti allo schermo di una chat, di fronte all’ennesima puntata dell’ennesimo reality imbecille, condividendo look, stili, viaggi, voglie e interessi di gruppo, insomma, senz’altro trovano un upgrade stratosferico le chance più vivide e cromatiche della nostra esistenza, ma con ogni probabilità esse celano una sovranità leggiadra che ci assimila e divora con lo stesso terrore del peccato o di un’incursione della polizia che si è provato storicamente in società dove il centralismo teologico-dittatoriale era più schietto e soffocante. Dover essere inclusi o aver paura di non esserlo, sono le due facce della stessa medaglia. E allora diventiamo enormi ventri che accettano dentro di sé tutto l’artificiale possibile spacciato come inno alla vita, mentre è solo la materia purulenta di quel “centro” del sistema che sa proporre ormai solo il “guasto”, pur ammantato di elementi che occhieggiano al vigore, al liberale, al sensoriale, alla vicinanza, al non-classista, al non-imposto, al free, al disegnare il proprio futuro come si vuole. Questa ambivalenza alquanto spaventevole porta, dunque, anche a diffidare di quelle stesse forze – come il viscerale, il tribale, l’einfuhlung –, che Maffesoli sembra considerare sempre immuni, impermeabili alle enclave del potere, sacche di resistenza, intercapedini di ossigeno da cui sempre ripartire per riattivare l’interpersonalità in senso lato. Mentre, per il livello di sofisticazione e intromissione che lo stesso potere ha attuato negli ultimi decenni verso le nostre difese, è proprio dal disvelamento di questa intima intossicazione comportamentale, percettiva e linguistica che dobbiamo ripartire per ridare tono e sostanza al nostro destino-comune.

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Illustra molto bene questa mia posizione Aldo Bonomi: “Le nostre città, le nostre metropoli, nel loro essere luoghi ipermoderni caratterizzati da un massimo di innovazione e da un massimo di mediocrità, sono la nostra Sarajevo quotidiana”11, per poi soffermarsi sul concetto di limite “che c’era nella società dei mezzi scarsi ma con fini certi” mentre scompare “nell’ipermoderna abbondanza dei mezzi e totale incertezza dei fini”12. È particolarmente forte ma vera l’idea che viviamo in una società che è per metà Sarajevo, ovvero un cumulo di macerie, una terra martoriata e bombardata nei muri e nei sentimenti, e per l’altra metà una Metropolis dove quasi galleggiamo, interagiamo, danziamo i riti e i sogni lisergici di una onnipotenza delle cause e di una aleatorietà irresponsabile degli effetti. E allora l’“evidenza” che dobbiamo riconquistare e che serve sempre quando vogliamo difendere una logica delle cose e compattarci intorno a scelte che toccano tutti, dovrà essere ri-fondativa, mettendo sul banco degli imputati anche quelle delizie sovrastrutturali che il Sistema ci elargisce con la fiction giornaliera di un’evoluzione chiavi in mano e di un’immortalità che legittimamente sacrifica il pensiero. “Se si rompe lo specchio della società dello spettacolo, che produce e riproduce infelicità desiderante, si rompe anche la cornice che loro chiamano mercato”13. Dobbiamo opporci alle garrule insensatezze del potere con “una nuova concezione della libertà, ben lontana dagli sbiaditi concetti che oggi vengono associati a questa parola”14. Dobbiamo tornare a fare ontologia dei sensi e della politica. E dunque il vero crinale è: come si pone oggi il negativo? Come viene intercettato? Letteratura e cronaca ci offrono una sponda. Nella primavera dello scorso anno morirono un pallavolista, poi un calciatore, e un nuotatore, i primi due italiani. Arresto cardiaco per tutti. Ma c’è una lettura d’insieme che avvicina parossisticamente la morte, oggi, oltre ogni casualità fisica e agonistica, a un blackout di sistema, a un coagulo improvviso, a una diga di flusso, a un irreversibile “off” che disattiva le funzioni organiche di un corpo come la percorribilità di un senso condiviso. All’improvviso, proprio come un ventricolo che smette di pompare sangue. Non è un caso, infatti, che Byung-Chul Han abbia usato esplicitamente la metafora sanitaria dell’“infarto dell’anima”15 per illuminare la nostra sparizione come 11 12 13 14 15

Aldo Bonomi - Eugenio Borgna, Elogio della depressione, Einaudi, Torino 2011, p. 9. Op. cit., p. 13. Op. cit., p. 17. Junger, op. cit., p. 39. Byung-Chul Han, La società della stanchezza, Nottetempo, Roma 2012, p. 66.

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soggetti di affetto e volontà, pur nell’ambito di una presenza che mai è stata più visibile, estroflessa, energetica. Secondo il docente cinese di Filosofia e Teoria dei media all’università di Karlsruhe, abbiamo definitivamente oltrepassato quello che – con una sorta di mitologia scientifica – poteva essere inquadrato come il “paradigma immunologico” della modernità. Ciò che fino a pochi decenni fa era ancora il proscenio conflittuale di un Proprio contro un Estraneo che possedeva i caratteri bellicosi o contaminanti o intrusivi di chi sferra un attacco a un territorio, oggi è sotto il segno disperante di un “terrorismo dell’immanenza”16, di un “totalitarismo dell’Eguale”17, sorta di iperestesia senza avversari, di tumefazione senza virus da sconfiggere, di regime di festa, accidentalità e circolarità, di segni, immagini, comportamenti, che da un lato scopre e mette a rischio la nostra nuda vita, dall’altro ci obbliga per esistere a diventare merce super-indicizzata, elettrone in orbita, spettro del vivente, particella in perenne fibrillazione. Siamo in presenza – avverte Byung-Chul Han – di una “stereotipizzazione del positivo”18, di una prestazionalità diffusa il cui rovescio è l’implosione, la depressione da entropia, il dover affrontare la crisi da crollo per non poter tener testa all’“impossibile” che quotidianamente ci viene chiesto. “La violenza della positività non presuppone alcuna ostilità. Si sviluppa proprio in una società permissiva e pacificata… non è privativa ma saturativa, non è esclusiva ma esaustiva. Per questo è inaccessibile alla percezione immediata”19. Bombardati da mille stimoli, vellicati da desideri indotti, gasati dall’efficientismo imperante figlio di spinte sempre più opprimenti del capitalismo globale verso la massimizzazione della produzione, sperimentiamo un vero e proprio autismo, un’autoreferenzialità delle logiche di consumo e partecipazione, senza valori limitanti e censure di ogni tipo. L’attivismo incondizionato che non è più sinonimo di attività razionale, ci porta allora a fastidiose interferenze nelle nostre difese, a una sensazione di rattrappimento del nostro essere, a vere e proprie trombosi dello spirito che provocano uno spegnimento ineluttabile e definitivo come quello di un male improvviso delle cellule, del cuore o del cervello. Dunque, se un tempo avevamo un nemico da abbattere, un invasore da accerchiare e distruggere, oggi è un’intera cultura che ci ritorna addosso come un boomerang sotto le spoglie dell’estraneità e della violenza. Non è più il singolo “bug” a preoccuparci, non è più la Guerra Fredda fra incompatibili ideologie,

16 17 18 19

Op. cit., p. 19. Op. cit., p. 14. Op. cit., p. 20. Op. cit., p. 19.

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ma un’intera macchina planetaria dell’assideramento emotivo, un Apparato tentacolare che sembra averci privato di un telos e di un più comune e ordinario concetto di “umano”. In pratica, un intero assoluto deve sostituirsi a quello dominante strozzato dal cerchio magico della moneta, della cibernetica, delle anime drogate. “L’arte del comando… si rivela altresì nella messa in scena, nella regia di cui detiene il monopolio. L’evento va presentato come un coro assordante che suscita insieme terrore e ammirazione”20. Ecco, ripartiamo da qua. Dallo strappare di dosso ai nostri carnefici-soft il vestito scintillante da prestigiatori. Attrezziamoci perché le nostre orecchie ritrovino il gusto dell’ascolto, senza il brusio molesto di chi ci vuole convincere. Le tre totalità Ha scritto Massimo Gramellini in relazione alla tragedia di Civitanova Marche: “Ah, come vorrei che l’ombra – solo l’ombra di quell’immagine venisse proiettata nelle stanze del potere, quasi un pendolo che detti il tempo a chi deve cambiare le leggi e non lo fa, a chi deve dare risposte ai deboli e non le dà, a chi deve trovare parole nuove e non ne ha, ma proprio per questo continua a usare solo quelle vecchie, intrise di caos”21. E allora vediamo questo caos, guardiamolo negli occhi come un Leviatano che impedisce la nostra rinascita, facciamo una diagnosi analitica e puntigliosa di queste “stanze” dove nemmeno “l’ombra dell’immagine” delle vite e delle morti Reali trapela, lascia uno spiffero di angoscia, un pallore inquietante sul volto di chi comanda, alla cui mefitica oppressione rimettiamo la densità di ciò che siamo fino a creare nelle nostre stesse menti quella che Junger definisce una “mancanza di immaginazione”, un deficit espressivo che si cronicizza e muore di asfissia nelle perverse scatole cinesi del potere. Un congegno infernale, una Triade, quella che intendo tracciare, di totalità perverse e intrecciate, di grandi convogliatori, di grandi collettori postsimbolici, che calmierizza le nostre esistenze, rendendole tendenzialmente piccine, secche, esili, tremolanti, superbe solo su quella oleosa superficie che mimetizza lo smembramento. 1)Totalità del rifugio e del riscatto (il Caleidoscopio e la Scatola) – Quando Nasten’ka decide di delucidare sulla propria vita il “sognatore” dostoevskijano de Le notti bianche, si profonde in un racconto, emozio20 21

Junger, op. cit., p. 13. Massimo Gramellini, La realtà schiaffeggia il potere, La Stampa, 6 aprile 2013.

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nato ma non troppo lungo, fatto di imbarazzi d’amore, tremanti attese di essere ricambiata dall’uomo di cui si era innamorata, tentativi di aggirare la sorveglianza severa della nonna, sotto la cui ala era andata alla morte dei genitori, progetti impossibili, palpitazioni, sudori freddi, crateri che si aprono nella sua vita affettiva di povera ragazza sola, inesperta, bisognosa di cure, senza particolari formazioni culturali alle spalle, se non la lettura di vecchi libri, incessante e per puro intrattenimento, fatta accanto alla sua attuale tutrice cieca. In una parola, vita. Voglia di veder scoppiare il proprio cuore di cose belle, di essere desiderata, di realizzare una sorta di tensione biologica e spirituale che sente crescere e gonfiarsi nelle sue membra fino al punto da calpestare l’orgoglio e affrontare coraggiosamente ogni paura. Vita, allo stato puro. La cui temporalità è scandita dall’ “…una volta!” detto dalla sua avìta parente in merito a ogni questione: una volta il cibo era così, una volta il latte era così, una volta l’opera lirica era così; il tempo della tradizione che quasi offende e derubrica ogni anelito di novità, ogni volo di fantasia delle nuove generazioni. Il tempo della rivolta – per una fanciulla fremente come Nasten’ka – che parte dalla sopportazione di un vecchio modo di pensare, ormai malandato e poco acconcio a capire la “modernità” di una San Pietroburgo di pieno Ottocento. Lo spazio di questa temporalità è tutto concentrato nella metafora della “spilla attaccata”, sistema usato dalla nonna per avvincere, fisicamente, al suo corpo, alla sue vesti, la ribelle nipotina, e impedirle di cadere nelle tentazioni della passione e nelle corti serrate degli inquilini del piano di sopra. Quando il “sognatore” racconta la sua di vita, invece, è solo un monologo vibrante e affastellato di sensazioni languide ed estenuate, vivide o crepuscolari ma catartiche, che l’uomo – di cui lo scrittore russo nemmeno ci offre generalità e descrizioni esteriori, ridotto solo a un inutile rimestìo di coscienza- inanella dalla mattina alla sera come indolore succedaneo alla sua incapacità di vivere, ad una sorta di zoppìa mentale nel quotidiano, che lo rende sempre impacciato e goffo con amici e conoscenti, a disagio pure fra gli arredi della sua abitazione, timoroso e recalcitrante con le donne di cui solo in lontananza avverte il sapore dei baci, il calore della pelle. La sua temporalità è quella dell’“… all’improvviso” (il lemma vdrug), scarica elettrica della immaginazione impastata alla sensazione, sorta di scatenamento di una divorante dimensione onirico-compensativa che lo distanzia sempre più da quel ricettacolo di folla e sentimenti controversi che è una metropoli, ma non tanto da impedirgli di usare persone e oggetti come mosaico di un personalissimo – e per molti versi incomunicabile – paesaggio di stati d’animo che nulla hanno a che spartire con la pericolante

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drammaticità delle relazioni22. Il suo spazio non è un essere-presente-lì o un con-essere, bensì un doppio fondo dell’attenzione, un’estasi indotta che subito lo fa trasalire, gli dà una spinta vitale, ma sempre quintessenziale, astratta, riverberata di memorie e di riflessi distorti – come un bastoncino immerso nell’acqua e guardato in controluce –, un soprassalto di simboli e di nessi segreti fra le cose che appartengono solo a lui, solo al suo linguaggio privato.

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La negazione del reale, l’incorporeità di un io che si vive solo nella rinuncia alle cose e nella paura di una compromissione col vivente, depone a favore delle tesi “anti-psichiatriche” sugli stati schizoidi di Ronald Laing, L’io diviso, Einaudi, Torino 2001, quando lo studioso scozzese dice: “Così l’io si ritira dall’“elemento oggettivo” per quanto riguarda sia la percezione che l’azione… Finché non si consegna all’elemento oggettivo l’io è libero di sognare e immaginare qualunque cosa… Ma la libertà e il potere sono esercitati nel vuoto, e la creatività è solo una capacità di produrre fantasmi” (p. 86). A costo di un’ansietà molto intensa (che è quella che il sognatore manifesta quando affastella emozioni e citazioni di difficile accessibilità “parlandosi addosso”), è sempre possibile per l’anima scissa ritornare nell’agone sociale e relazionale, a meno di non retrocedere nel “pozzo secco” della sua identità rimpicciolita e come ottenebrata dal rischio di una definitiva implosione, dalla quale si riemerge proprio – e solo – attraverso colpi di frusta, turbamenti, forme pseudo-magiche. Laing: “Un altro modo per provare sentimenti reali può consistere nel sottoporsi a un dolore o a un terrore intenso… Lo schizoide può cercare di fare cose eccitanti, andare a caccia del brivido, mettersi in pericoli estremi, tutto allo scopo, come disse una volta un mio paziente, di “cercare un po’ di vita nello spavento”” (pp. 150-151). Anche Francesca Morale, la protagonista dell’adrenalinico racconto Ti sogno, con terrore di Niccolò Ammaniti, Fango, Mondadori, Milano 1999 sembra che all’inizio sogni la piacevolezza carnale, seppur sadica e cruenta, del suo fidanzato dal quale si è appena separata. L’andamento della storia svela, invece, che attraverso il sogno Francesca si era creata una sorta di identità di appoggio, un io di scarico della “sua” violenza verso gli altri che l’aveva spinta a diventare una pluriomicida. Qui la relazione “oggettiva” si trasforma in una relazione “oggettuale” con uno smottamento psicotico dell’unità dell’io negli io-parziali di una interiorità distrutta e non più cosciente dei propri atti. La cui stereotipia domestica (all’ispettore che la trova nel lago di sangue della sua ultima vittima, cerca di offrire un tè appena riscaldato) è oramai solo un esangue ingannevole riflesso di una vera presenza al mondo. Se nel sognatore resiste ancora un’impronta di moralità e di tenera gratitudine verso la donna che ha risvegliato i suoi sensi, pur nella scissione dal mondo che incombe e lo ringoia, nel personaggio di Francesca la “non-entità caotica” (Laing, op. cit. p. 167) della sua identità diventa dissociazione irreversibile, circolo vizioso dell’irrealtà, e il sogno di un carnefice, forse, l’ultimo tentativo di salvataggio della coscienza attraverso la vittimizzazione, o il suo affogamento definitivo nello stagno della paranoia. Per approfondire le tesi di Laing e Binswanger sulla schizofrenia applicata al mondo mediatico, confr. i capitoli Schizofrenia soft e Tele-frenia contenuti in Carmine Castoro, op. cit. pp. 90-92 e 103-107.

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Si definisce egli stesso: “Un sognatore non è una persona, ma, sapete, un essere di genere neutro. Si stabilisce il più delle volte in qualche angolo inaccessibile, come se ci si nascondesse perfino dalla luce del giorno, e quando poi si rifugia a casa, allora si radica al suo angolo come una lumaca, o, almeno, è molto simile in questo atteggiamento a quell’interessante animale che è animale e casa insieme, che si chiama tartaruga”23. “Essere neutro” dice di sé il sognatore, (torna il Neutro come categoria già affrontata) una nonpersona, una via di mezzo fra un essere che striscia e cerca solo un rifugio alla sua precarietà, e un essere che si porta un tetto appresso, un universocorazza, potremmo dire, che non solo lo difende da attacchi esterni, ma gli dà, sempre e comunque, le condizioni che servono alla sua stabilità e al suo mantenimento. Ma già il riferimento all’“animale” piuttosto che all’individuo umano la dice lunga sulla scelta che esegue il sognatore su di sé: meglio una perfetta struttura semovente di coordinate sensomotorie, mezzi di locomozione e di riparo, che l’apertura completa e indefinita al reale nella sua insondabile problematicità. E ancora a due richiami zoologici ricorre il sognatore quando riassume il senso del suo vagare, del suo elucubrare: egli è un ragno che avviluppa le mosche-cose nella sua tela filiforme e inestricabile24, e la realtà si presenta come smarginata, tagliuzzata, scontornata dall’allungarsi delle ombre dell’Ideale, come una cartina geografica perfettamente orlata al suo interno, e dimidiata, fra cose fisiche e bizzarrie estetizzanti. È alla “dea della fantasia”, dunque, che egli porta doni e obbedienza, a colei che “lo ha trasportato con la mano capricciosa al settimo cielo cristallino dal magnifico marciapiede di granito su cui se ne va a casa”25. La realtà non si lascia declinare secondo le sue più proprie modalità, non si oppone come l’in-sé sartriano, non ha derive pratico-inerti, ma si lascia plasmare secondo le morbose eccitazioni, le cerebrali soavità che vi proietta sopra quell’io romantico-decadente che “non guarda, ma contempla pressoché inconsciamente, come stanco o occupato al tempo stesso da qualche altro pensiero più interessante, cosicché forse solo di sfuggita, quasi involontariamente, può dedicare un po’ di tempo a tutto ciò che lo circonda”26. Il “sogno” che Nasten’ka lascia balenare per la prima volta nell’animo del sognatore, con l’effetto salvifico e rivitalizzante che ciò comporta, è il sogno dell’amore e del legame, delle carezze e della voluttà finalmente sfiorata e agognata, del tempo-futuro coniugato in due e non dell’eterno-presente

23 24 25 26

Fedor Dostoevskij, Le notti bianche, Newton Compton, Roma 2013, pp. 55-56. Op. cit. p. 62. Op. cit., p. 62. Op. cit., pp. 60-61.

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della coscienza solipsistica, un tempo annoiato e bruciato che porta all’angoscia della desolazione e della ripetizione, alle fughe dell’evanescenza o all’orrore dell’incolore27. Il sogno così abbrutito, schiacciato sul clichet del letterario che, fra ricordi di principesse castelli e terre lontane, fagocita le sinuosità come le vampe del reale, è, mutatis mutandis, il Codice, l’Indice, la Simulazione calcolatoria e rappresa della macchina tecno-spettacolare che, come il “ragno” dostoevskijano fatto uomo, strangola e imbavaglia il reale, fino a farlo diventare elemento/alimento della sua incoercibile forza riproduttiva. Profetizzava Virilio: “Come l’illusionismo, cui deve molto, lo sviluppo tecnoscientifico è diventato un’ARTE DEL FALSO al servizio di un’ARTE DELLA MENZOGNA: una serie di manipolazioni delle apparenze , di inganni e, in alcuni casi, una trama di assurdità”28, sicché “giunti a questo stadio di non-senso del mondo visibile, le fabbriche dei sogni (americane, asiatiche o altre…) si sono affrettate a licenziare un gran numero di autori e di scenografi originali giudicati improduttivi”29. Il Sogno è transitato nel Reale, e quest’ultimo è stato come scuoiato e risuolato con le fantasmagorie super-attraenti di un mondo a misura di menti bambine e di luna park. Diventando una Scatola che contiene una “variatio” interna (il Caleidoscopio) fatta di forme di vita, canali comunicazionali, scienze locali che lascia, però, sempre intatta la tonalità anti-fenomenologica del contenitore stesso. Questo messaggio, dai risvolti traumatici e devastanti, è stato ben messo in evidenza in Reality, l’ultimo film di Matteo Garrone, in cui Luciano, il pescivendolo protagonista, a tal punto entra nell’ossessione dei casting del Grande Fratello e della grande chance che verrebbe concessa a lui e alla sua famiglia se gli autori accettassero di farlo entrare nella “casa” del format televisivo rendendolo popolare, da cominciare a distorcere la percezione della realtà stessa, e da pensare che ogni cosa che vive in prima persona – gli incontri casuali per strada, certe frasi di certe vecchiette, certi clienti nuovi che si affacciano alla sua bancarella – siano in realtà altrettante “prove” cui lo staff del programma intende sottoporlo per saggiarne le attitudini in vista del suo inserimento come concorrente. Una logica simbiotica fra individuo e simulacro che hanno tragicamente messo in evidenza, in tempi recentissimi, le due quindicenni presunte colpevoli dell’assassinio di un anziano signore vicino Pordenone (il caso Sacher), quando hanno riferito ai giudici che dopo il delitto, e durante una matta fuga in macchina senza 27 28 29

Confr. il capitolo finale dell’op. cit. dal titolo Mattino. Paul Virilio, L’incidente del futuro, Raffaello Cortina, Milano 2002, p. 73. Op. cit., p. 74.

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patente, “ci siamo sentite come in GTA, il videogame30. Ci siamo sentite come l’eroe del gioco”. Nel brano must del loro lp 2012 The 2nd Law dal titolo Supremacy, i Muse usano un’immagine folgorante e attualissima: “Ti svegli e scopri che la tua vera emancipazione è una fantasia. Tutti i mari si sono sollevati e hanno sopraffatto il prode. La grandezza muore, ignorata e perduta, invisibile alla storia. Spie ben inserite che fanno il lavaggio del cervello ai nostri figli affinché siano meschini. Non hai molto tempo. Ti capisco appieno. Il tempo, è giunto a distruggere… La tua supremazia” (Wake to see – your true emancipation is a fantasy. All the seas have risen up and overcome the brave. Greatness dies, unsung and lost, invisible to history. Embedded spies brainwashing our children to be mean. You don’t have long. I am on to you. The time, it has come to destroy… Your supremacy). Un intero mondo della vita e dei valori diventa traslucido, delirante, a-sintattico e va ad incastonarsi in un Logos aberrante, entropizzato, massificato che ci svelle dai limiti oggettivi della nostra natura con la mostruosità della sua stessa oscena ospitalità che Gila chiama “vita superlativa” o “super-vita”, ovvero “quel mondo iperuranio della felicità e delle delizie che interiormente sogna ogni individuo. Non c’è più escatologia e attesa del paradiso: il futuro è nelle mani di noi stessi… la quotidianità è male, dolore, ombra della vera vita, quella superlativa dell’eros che sprigiona liberamente le sue forze, alla quale accede solo chi osa perseguire i suoi desideri… Nel Capitalesimo l’Altro Mondo non è oltre la morte, ma si trova solo a un livello superiore dell’esistenza. Come un videogame, la vita può scorrere per salti di livelli e per acquisizione di punti”31. Il riferimento dell’autore è a tutta quell’industria dell’intrattenimento e della dimenticanza collettiva fatta di escamotage postmoderni alla depressione e alla paura di esistere: villaggi turistici, manifestazioni sportive di grosso richiamo, crociere, oggetti “prodigiosi”, pubblicità convincenti, finanche il doping e le droghe sintetiche, che ci garantiscono, tutti singolarmente e nel loro insieme, una provvida immersione in ciò che, negando la distanza critica da noi stessi e dalle cose, ci può procurare solo piacere per l’occhio e l’anima, in un regime di emulazione e di acquisto perenne, 30

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Dice Wikipedia: “Grand Theft Auto (spesso abbreviato in GTA) è una serie di videogiochi multipiattaforma dove si interpreta un criminale. L’espressione Grand Theft Auto è diffusa negli Stati Uniti per indicare il furto di veicoli, crimine molto comune nella serie. Per guadagnare soldi e farsi una reputazione all’interno della città in cui si svolge il gioco, il giocatore dovrà scontrarsi con i criminali e le gang rivali, portando a compimento le missioni che gli saranno assegnate dagli amici, dagli alleati, dai boss o dalla gang di appartenenza”. Gila, Capitalesimo, op. cit. alla nota 83, p. 37.

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di qualcuno, di qualcosa. Bandiera di questo stile sempre confortevole e appagante è il canale satellitare Fashion tv dove è tutto un pullulare di party nei Palais Club più esclusivi del mondo, scorci invidiati dal jet set, nightlife da capogiro, rigogliosa di ormoni e di orgasmi dalle discoteche e dalle baie illuminate delle migliori località vacanziere internazionali, sfilate di moda coi top brand dell’abbigliamento e dell’intimo, volti e gesta di divi hollywoodiani, settori dedicati ai consumi super luxury, bevande esotiche, sky line edenici e incontaminati dove avere il miraggio di un relax senza ritorno alle cinghie del lavoro, il tutto costellato da bellezze mozzafiato, mannequin curatissime e scolpite nelle forme da diete e fitness, pin up di una sensualità quasi fumettistica, pronte per avventure on the beach che non fanno minimamente sentire il “peso” di legami e responsabilità, ma solo la schiuma saponosa di un rito orgiastico di massa. Un po’ come quello che si vede nella parte centrale del Trittico del Giardino delle Delizie dipinto da Hieronymus Bosch intorno al 1490 e conservato al Museo del Prado di Madrid. Ciò che nel pannello di sinistra è Paradiso – e quindi Dio che si avvicina ad Adamo ed Eva, e simboli di candore, innocenza, levità, castità, intinti in colori brillanti e smaltati –, in quello di destra è Inferno – ovvero, sfumature livide e luci al vetriolo per segnare le tentazioni, la dannazione, il fuoco che mangia le anime dei peccatori, e mostri surreali che puniscono e braccano il vizio. Ma la curiosità è proprio legata alla zona centrale dell’opera monumentale, poiché rappresenta una sorta di non-luogo silvestre dove tutto è permesso, senza tabù, inibizioni di sorta, leggi e giudizi, in un lussureggiare di intrecci carnali, splendori del sesso, comportamenti pravi e corrotti, in una totale liberazione di nudità, morfologie eccentriche e fuori norma, fra fontane consacrate all’adulterio e alla giovinezza, atmosfere festose, tinte sgargianti, costruzioni da favola, animali e personaggi mitologici, e soprattutto, in un rovesciamento degli ordini prospettici e delle geometrie e delle sembianze tipicamente umane e florofaunistiche. In questo parco delle meraviglie, dove tutto è esaltazione e disastro delle misure, sembra quasi assistere a una tumescente allegoria della Totalità pseudo-logica, parossistica e incalzante sui nostri sensi che il mondo della Comunicazione e dei Media globali sembra aver fatto attecchire dentro le nostre difese. Seppur nell’affresco di Bosch si avverta ancora una residuale importanza data alle tipizzazioni, alle singolarizzazioni, alle “delizie” appunto, veicolate – sembra voler dire questa parte del Trittico – dal contributo mai sgradito e celestiale contenuto in ognuno in quanto tale, in quanto semplicemente esistente, in quanto semplicemente venuto al mondo della carne e della gioia, è invece con la degradazione in termini di deliquio di

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tutto questo che dobbiamo imparare a confrontarci oggi. Con un orizzonte, cioè, che al perturbante della molteplicità affianca una sorta di svenimento, di mancamento, di sfinimento del Sistema stesso, proprio là dove il suo simbolico è più forte, granitico, inattaccabile. Qui le mollezze promesse, la “sfericità” delle esistenze, mai grame, mai mediocri, la facilità di ogni veicolazione, sono intrinsecamente legate ad una traslazione dei bisogni e del nocciolo primordiale del nostro stare al mondo, ad una offerta di riscatto pret-a-porter, e dunque “mescolanza” e “mascheramento” diventano le due bocche di fuoco di un Media-Logos, di un Capitale Planetario del Sogno che impedisce vere comprensioni/perversioni32 ma concede infinite compressioni/diversioni33. Secondo la direzione che ho intrapreso per spiegare in tutta la sua multiprospetticità la parola “osceno”, non si può far altro che vedere nei mass media di oggi un’attenzione sempre più spasmodica e delirante verso le proprietà potenti del “mezzo”, piuttosto che verso la veridicità, condivi-

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Dice Pierre Klossowski, La moneta vivente, Mimesis, Milano 2008 (p. 68): “Il fenomeno industriale sarebbe dunque una perversione alla rovescia instaurata dall’istinto di conservazione e di propagazione della specie; il godimento sterile dell’emozione vi avrebbe trovato il suo equivalente più menzognero ed efficace”. E ancora (p. 65): “Il movente della ripetizione è la costrizione. La ripetizione perversa si effettua per mezzo del fantasma di una funzione vitale costrittiva perché inintelligibile, in quanto isolata dal suo insieme organico intelligibile”. È appena il caso di far notare che lo spot dell’edizione del Serale 2012 di Amici diceva che il programma “realizza il sogno di fare un disco e di entrare in una famosa compagnia di ballo”. Nessuna minima allusione alla possibilità/necessità di imparare un’arte o di inserirsi in una cultura della fatica, dello studio e dell’apprendimento. Anche lo spot dell’edizione 2013 sviluppava l’idea di un pubblico di persone letteralmente basite, con occhi sgranati, assolutamente magnetizzate dallo schermo che avrebbe, di lì a poco, mandato in onda le immagini di cotanta esemplarità talentuosa. Dunque, fantasia e meraviglia vs sacrificio e semplice attenzione critica. Per non parlare dell’“effetto sogno” delle cosiddette “sorprese” che, sempre ad Amici, vengono fatte ai ragazzi che si avvicinano alla finalissima. Come se fossero stati deportati per anni, ricevono e rivedono parenti e familiari in scenari magici e strappalacrime, fra album e armadi dei ricordi, oggetti cari, letterine commoventi, scenografie virtuali che ricostruiscono pezzi della loro vita, fino agli abbracci caldi e intensi con nonni e genitori. In questa chiave critica, è risultata particolarmente gustosa e di travolgente umorismo l’imitazione di Flavio Briatore fatta da Maurizio Crozza nell’edizione di quest’anno del suo programma Crozza nel Paese delle meraviglie (La7). In una canzoncina satirica, la parola “sogno” viene messa in rima con “bisogno” e quelli che chiedono al ras del Billionaire di realizzarlo vengono definiti “disperati e ipnotizzati”, e disposti a tutto senza la minima ribellione pur di raggiungere l’obiettivo top della loro vita.

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sibilità e fruibilità del “contenuto”. I mass media sono sempre più, allora, mash media e mask media, ovvero, da un lato, frullatori globali che, come in un caleidoscopio, assemblano le tessere del mosaico sociale e mentale secondo dispositivi ed effettualità che si accomodano sulle esigenze del potere e, contemporaneamente, sullo snaturamento iperrealista dell’umano. Dall’altro, in una sorta di danza rituale che ha le sue cerimonie, le sue “maschere” appunto, i suoi nascondimenti, i suoi ciclici ritorni, si fanno copertura del vero, inteso come apertura delle possibilità ed evento che modifica o sconvolge le certezze acquisite. Il risultato è una elettrificazione dei comportamenti, simbolizzati solo all’interno di protocolli mercificati, e fortemente attutiti nella loro inventiva e metamorficità. Augé è molto chiaro al riguardo: “L’attività rituale ha come scopo sia di prevenire l’avvenimento, di fare in modo che quanto deve accadere avvenga in tempi e luoghi stabiliti, senza anticipo né ritardo… sia di spiegarlo, cioè di ridurne la portata e l’eccezionalità, di trovare il bandolo della matassa delle diverse cause fino a quando, chiarito nella sua interezza, e fatto rientrare nell’ordine normale delle cose, esso perda il proprio carattere straordinario. In sintesi, l’attività rituale cerca di eliminare l’avvenimento”34. Non si può non tornare a McLuhan e al suo The Medium is the Massage, il medium è il massaggio. Si, proprio così, “massaggio”, non messaggio. Come quello che ci si fa fare dopo un periodo stressante di lavoro da un chiroterapeuta bravo, che ci snoda le giunture, ci tonifica i muscoli, e ci riconsegna ad una diffusa sensazione di sollievo e benessere corporale. Quando il grande sociologo della comunicazione Marshall McLuhan si trovò di fronte la stesura definitiva di questo suo brillante pamphlet del ’67 composto assieme alle ammiccanti immagini di Quentin Fiore, incappò – secondo quanto racconta la preziosa testimonianza del figlio Eric – in un beffardo quanto sontuoso refuso tipografico: una “a” al posto di una “e” poteva mandare a monte l’intero progetto editoriale, ma egli la lasciò nel titolo poiché, per suprema ironia, quel “pesce”, come viene chiamato in gergo giornalistico, potenziava il concetto, anzi lo attualizzava, gli conferiva un più completo registro interpretativo. La tesi di fondo, quella cui il docente canadese, autentico pensatore-cult, dedicò tutta una vita di studi era già di per sé eversiva, e non a caso si conficcò nel cotè sessantottino, anti-istituzionale, libertario e “libidico”. I media, grazie ai quali dialoghiamo e ci informiamo, come tutte le tecnologie, sono estensioni delle nostre normali funzioni somatiche e psichiche, vanno a surrogare le nostre debolezze biologiche, come la ruota 34

Marc Augé, Diario di guerra, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 12-13.

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rispetto alle capacità di movimento, gli utensili rispetto alle braccia, gli abiti rispetto alla pelle. Ma proprio per questo acquisiscono, nel tempo, una tale funzionalità, una tale pervasività e fruibilità da plasmare essi stessi gli apparati sensoriali, le modalità del pensiero e delle organizzazioni sociali. In pratica, la forma non fa più da “prolungamento”, da corteccia antropologica, da mero sistema operativo, ma il “come” dell’azione comincia a regolare a monte i valori, le strutture, i contenuti, i messaggi, appunto. Ecco che, allora, secondo McLuhan, la storia, il progresso, l’evoluzione sono più figli delle tecniche usate per esprimersi e comunicare, per tessere relazioni e progettare sistemi istituzionali, che di saperi astratti e convincimenti che vanno oltre ogni logica. La forma, insomma, si fa “mondo”, apparato, cosmo ordinato e condizionante, e non a caso McLuhan utilizza metafore spaziali molto forti come galassia, costellazione, “villaggio globale”, per dare l’idea di come lo strumento eserciti un suo pre-potere sul linguaggio, le emozioni, finanche i sogni. Una deriva deterministica che può lasciare ampi margini di critica, ma che senz’altro ben si attaglia all’epoca di simultaneità virtuali e di ipnagogìe mediatiche nella quale viviamo immersi. Nella fase primitiva – sostiene il filosofo di riferimento della scuola di Toronto – si tramandavano leggi e tradizioni, miti e paure ancestrali attraverso l’oralità dei cantori, degli aedi, attraverso l’autorità dei capi-tribù e la parola era auratica e sacrale perché vissuta come un flusso divino, sapienza degli anziani, culto da ascoltare che impregna l’anima. Nella fase legata all’invenzione della stampa, invece, si innescano i profondi processi trasformativi dell’alfabetico fonetico: il senso più sviluppato è la vista, bisogna leggere i caratteri mobili che si dispongono sul foglio, le parole, le frasi, i capitoli di un discorso, e questo secondo combinazioni e uniformazioni, particelle e sequenze. Cosa ne deriva? Le prime produzioni di massa, la catena di montaggio, la “linea” come geometria-guida di un intero ambiente mentale e sociale che si arrocca sulla separazione, l’automatizzazione, e quindi sull’intervento centralista e poliziesco da esercitare sul singolo. “All’uomo fu dato un occhio per un orecchio”; “La mano che scrisse sulla pagina di pergamena costruì la città”; “Come la pittura da cavalletto, il libro a stampa aggiunse molto al nuovo culto dell’individualismo. Il punto di vista privato e fisso divenne possibile, e l’alfabetizzazione conferì il potere del distacco, del non-coinvolgimento”35. La tipografia, in pratica, miniaturizza le grandi architetture della burocrazia e della civiltà industriale, è l’effige di rapporti interpersonali che 35

Marshall McLuhan - Quentin Fiore, Il medium è il massaggio, Corraini, Mantova 2011, le tre citazioni alle pagg, 44, 48 e 50.

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ambiscono a svolte democratiche, ma che spesso soggiacciono a severe manipolazioni razionaliste. Ciò che accade con la “rivoluzione audiovisiva” che è quella del telegrafo, della radio, del telefono e della televisione, è una svolta epocale, ma anche una sofisticata regressione a un passato che si credeva superato per sempre. Le dimensioni della “casa umana” si rimpiccioliscono, le interconnessioni si stringono, l’effetto espansionistico dei fenomeni di urbanizzazione implode rispetto alla sensazione, vibrante e incessante, di una vicinanza, di una solidarietà vera o imposta che sia, di un contatto senza vuoti fra genti, merci, situazioni, stimoli. Al dato semplice subentra lo schema, al salotto, la cabina elettorale, al pubblico, l’“uditorio di massa”; ai sistemi educativi repressivi e distratti dalla realtà, un apprendimento facile, soft, finanche umoristico e spettacolarizzato; alle due figure genitoriali che incarnavano lo scibile, una generalizzata influenza da parte di più fonti che si intrecciano e sovrappongono fra loro. In questo la figura e le speculazioni di McLuhan risultano, e risulteranno ancora per molti decenni, una scala inevitabile di osservazioni e riflessioni su come è mutata la natura stessa del nostro sistema nervoso, delle nostre percezioni, della nostra temporalità rispetto alla velocità e alla magia dei media globali di oggi. Sembriamo spettatori, con le pupille stregate dalla pubblicità, dalla propaganda politica, sintonizzati sull’incanto delle immagini ma – ci dice l’indimenticabile massmediologo d’oltreoceano – sono di nuovo i nostri padiglioni auricolari a raccogliere retaggi e seduzioni, carezze e costrizioni, attraverso le sirene dello Schermo, i finti inni alla gioia, la suadenza dei diktat, la morbidezza degli slogan, l’effimera musicalità con cui ci propongono soavemente, giorno per giorno, di mutare le nostre vite in superfici di design, in composit di consumi. Oggi la violenza è “suono”, e lo spazio è di nuovo acustico, buio, tenebroso, mitico e poco rischiarato, come nelle grotte di un tempo, e si galleggia in atmosfere volatili, in estetiche e rituali iper-condivisi come secoli fa si implorava lo stesso dio o si evitavano gli stessi terrori collettivi. C’è più mistica e suggestione dietro la scelta di un reality show – ci lascia come eredità morale McLuhan – che in una adunata di preghiera con la quale ci si ingraziava l’entità soprannaturale di turno. “La televisione richiede partecipazione e coinvolgimento in profondità dell’intero essere. Non può funzionare come sottofondo. Ti coinvolge. Forse è per questo che molti hanno l’impressione che la loro identità venga minacciata… In televisione le immagini sono proiettate su di te. Le immagini ti si avvolgono attorno. Tu sei il punto di fuga”36.

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McLuhan - Quentin Fiore, op. cit., pag 125.

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In una delle vignette di Quentin Fiore, due gambe femminili accavallate e con le calze a rete segnalano lo “strofinarsi” dell’informazione su altra informazione. Il massaggio-sexy della verità è l’imprinting di questa era. 2) Totalità di risulta e di ripresa (il Microscopio e il Fiammifero) – Da un Porta a Porta. Si parla di tagli e tasse. Scorrono i parametri dell’Imu, riportati – dice Vespa – dal Sole 24Ore, e sono dolori per quanto dovrebbero pagare gli italiani su case e immobili d’impresa. Ma l’esperto in collegamento li smentisce senza tema, riportandoli, da inquietanti che erano, a una scala lillipuziana, e sottolineando che il panico creato è ingiustificato, o forse giustificato solo per le aziende piccole e medie. Renzi, il sindaco di Firenze, in un altro scampolo di dibattito, dice che il capo della Polizia gode di un mega-stipendio, circa 500mila euro l’anno. Vespa insorge: ne guadagna solo 308mila. Sempre Renzi attacca il presidente della regione Piemonte, il leghista Cota, dicendogli che in tanti anni di governo non sono stati in grado di realizzare l’agognato federalismo. Cota lo smentisce: il federalismo è stato approvato ed era pronto a partire, ma Monti lo ha bloccato. Non va meglio sui debiti che lo Stato avrebbe nei riguardi delle industrie del paese. Volano cifre e almanacchi di contabilità. Ci si trova più o meno d’accordo sui 30-35 miliardi, ma sembra che possano essere 18, alcuni giornali – si dice – riportano l’allarmante conto di 100, l’esperto da fuori studio sintetizza in circa 20 ma al netto delle detrazioni fiscali. Sulla spesa sanitaria è guerra fra elettrocateteri e defibrillatori. La tabella sullo schermo gigante riporta escursioni di prezzi fra varie regioni. Il Piemonte risulterebbe più spendaccione. Ma Cota all’arrembaggio corregge: quelli forse sono dati del 2009-2010, ora sono diversi… Secondo quadro. Recensione, dalle pagine culturali del quotidiano Il Messaggero del 13 aprile 2013. “Per chi ama Roma, ma soprattutto per chi non conosce le storie, le leggende, le curiosità della città Eterna, ecco un manuale divertente e prezioso che recita nel sottotitolo “Tutto quello che devi assolutamente sapere”, 450 domande e altrettante risposte in merito alla Capitale. Volete sapere quanti sono i ponti di Roma sul Tevere? 39. E qual è quello più antico? Ponte Sublicio, ora scomparso, costruito dal quarto re di Roma, Anco Marzio. E se vi chiedessero dove si trova la tomba di Raffaello Sanzio? Potete fare sfoggio della vostra cultura rispondendo: “Al Pantheon, a sinistra dell’entrata”. E avreste mai detto che Cinecittà fu costruita in 15 mesi?”. Alternativa a questo secondo quadro, una delle rubriche che campeggia sul Corriere dello Sport dopo le gare del campionato di calcio di serie A che viviseziona il match, per ogni squadra, in: Possesso palla/tiri verso la porta/tiri nello specchio/palle giocate/passaggi non riusciti/palle recuperate/passaggi riusciti/tiri.

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Terzo quadro. Dalla scaletta di un’edizione serale del tg di Italia 1, Studio Aperto: Berlusconi a Bari/Bersani contro Renzi/Lega/situazione economica del Paese/un impiccato a Frosinone/reporter italiani rapiti in Siria liberati/il “giallo” di Udine/il delitto di Avetrana, con Michele Misseri che si fa riprendere nei luoghi della violenza su Sarah/uccisione di una nonna/ aereo finito in mare a Bali/festa di primavera dei collegiali americani fra sesso, alcol e avventure in spiaggia/ sole e picnic nei parchi di Milano/previsioni del tempo favorevoli/intervista a Barbara Berlusconi sui bilanci in pareggio del Milan/alcuni delfini salvati/l’ultimo tormentone musicale del cantante di Gangnam Style. Dati imponderabili, fluttuanti, non ascrivibili a nessun referente preciso. Dati inutili, troppo settoriali, assolutamente voluttuari, che, pur tuttavia, vengono proposti come necessari per “ben figurare” in società, o dati pulviscolari che spaccano in segmenti super-sottili un evento o una notizia. Dati sommati, ammassati, “mosaicizzati” che danno agli accadimenti la quadratura di un palinsesto, ovvero di una mistura di tragico e frivolo che si annullano a zero. Siamo come all’interno di un gigantesco microscopio che dilata e dà vita agli organismi più impercettibili, dandogli anche la dignità di forme evolute o visibili o consistenti, spacciando la parte per il tutto; come “fiammiferi” che si accendono, si consumano e si spengono come labili intermittenze, senza passato e senza domani. La frantumazione della conoscenza, la sua atomizzazione effimera, il processo di de-realizzazione che la sovrintende, la sua gestione in quanto bacino mediatico di corpuscoli che fremono l’un l’altro, che si scontrano, si sovrappongono, senza una rete di significati che li collochi stabilmente e li renda quantomeno storicamente determinati, è il più grande antidoto alla crescita della cultura e alla presa di coscienza dei fenomeni e dei conflitti che contraddistinguono il nostro mondo globalizzato. Il dato come fumus, come traccia che si perde, sentiero sempre interrotto, sentore di qualcosa i cui contorni non si illuminano mai (scenario 1)37. Il dato come sperpero di attenzione, come moltiplicazione particellare di nozioni, curiosità, eventualità, slacciate e non corrispondenti a nessuna 37

Una testimonianza assolutamente tragicomica di questo primo scenario l’ha offerta l’inviato Militello nella sua rubrica del lunedì Riedicola all’interno di Striscia la notizia del 15 aprile. Tre locandine con le prime pagine in bella vista di altrettanti grossi quotidiani della riviera adriatica, sulla prima delle quali, in un titolone, si dice che “5 persone sono rimaste intossicate in un ascensore”. In quello a fianco, stesso titolo, ma le persone sono 6. Nell’ultimo diventano 7. E parliamo di un ascensore… Nello stesso giorno, all’attentato a Boston, fonti americane attribuiscono subito 12 morti. Tutta la stampa italiana si allinea sui 2-3.

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sequenza razionale che non sia il loro semplice pullulare e il loro premeditato diluirsi, nella mente di chi li vede o di chi li legge, come messaggi in fin dei conti senza senso, senza un perché, senza una progettualità, una finalità utile o istruttiva (scenario 2). Il dato, infine, come categorizzazione dell’esistente attraverso, invece, stavolta, una rete che, però, fa solo da cintura, da catino, da discarica, da packaging e ci abitua a un senso delle cose composto da fattori riempitivi all’interno di un medium che giganteggia, e non da emergenze forti e vere, che ci toccano nel profondo, poiché si incastrano perfettamente fra di loro grandezze di provenienza e atmosfera completamente diverse, se non opposte, e questo sfavorisce qualsiasi deposito emotivo (scenario 3). Come faccio a sapere chi ha realmente ragione sulle cifre della crisi, l’andamento di una legge, le applicazioni di un decreto, se chi me ne parla è mosso solo da ideologia e particolarismi? Cosa porta alla mia crescita di uomo e cittadino ingolfarmi la testa di quanti tiri, palleggi, dribbling, colpi di tacco e di coscia ha fatto un centravanti nel corso di una partita, fino al punto da interessarmi solo a questo? Quanto mi colpiranno il sangue di un morto ammazzato, un assassinio brutale, le vittime di una catastrofe naturale, una guerra che si trascina penosa e terribile da anni se, subito dopo queste lacrimevoli circostanze, il tele-montaggio della vita prevede interviste a fuoriusciti da un reality, gossip sulla “velina” di turno, previsioni del tempo e fiere dei gatti? Queste tre dinamiche infette del giornalismo e della televisione di oggi creano la sclèrosi della conoscenza, una sorta di strana osteoporosi del pensiero che tende a franare per entrambe le motivazioni: eccesso di fragilità del messaggio ed eccesso di densità, declinati solo e soltanto in senso algoritmico e tele-guidato, cioè logico, senza prorompere in soprassalti, crisi e rotture dei nostri abiti cognitivi. Come dice Augé a proposito del crollo delle Torri Gemelle per mano di Al Qaeda: “Ma quando l’avvenimento assume dimensioni smisurate, impressionanti per l’ampiezza materiale o la portata simbolica, la spiegazione a monte in termini di cause, non basta più a ridurlo: è necessario scendere a valle e non vedervi più un esito, un risultato, una conseguenza, ma un inizio, una origine. Diventa a sua volta una causa… Manhattan e il World Trade Center, come Dunkerque o Pearl Harbor, devono inaugurare un nuovo periodo, devono essere considerati come origine e non come fine per restare pensabili. Quando l’effetto diventa causa, l’avvenimento cambia di natura. Da oggetto di spiegazione diventa esso stesso fonte di senso”38.

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Augé, op. cit., pp. 15-16.

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Questa metalepsi della causa con l’effetto è quello che avviene, giornalmente, nell’informazione di massa: si azzera la storia, si resettano le responsabilità, non si va alla ricerca più di nulla, grappoli di “news” che al massimo creano grappoli di “nuovi inizi” che sono, a loro volta, emissari inquinati del grande Lago Comunicazionale, perché fanno volteggiare solo chiacchiere e considerazioni di poco conto, in una piena di parole senza sapore e senza bersaglio che scivola a mare, mentre la scogliera dei perché, e delle valutazioni più serie e pregne, resta perennemente imbiancata di nuvole, troppo alta da scalare, troppo poco popolare la sua asprezza per farcene davvero carico. I “nuovi inizi” non sono mai davvero nuovi solchi, nuove stelle polari, nuovi agganciamenti della storia, ma al massimo l’identificazione di “nuovi” nemici cui opporre la ripresa del vecchio retaggio, la conservazione dello status quo, il permanere di certe griglie concettuali, il non essere intaccato da parte di un nocciolo etico su cui si è fondato un intero sistema. Meglio la perfusione e la confusione che la trasfusione di un plasma vitale, di una linfa rigenerante direttamente dalla fonte al ricevente, senza filtri e senza garze. “L’effetto perverso dei media consiste nel fatto che essi ci insegnano a riconoscere, cioè a credere di conoscere, e non a conoscere o imparare. Il riconoscimento (la balbuzie del presente) ha preso il posto della conoscenza (l’esplorazione del passato e del futuro). Detto altrimenti, la “cosmotecnologia”, esattamente come le altre cosmologie, aliena chi la prende alla lettera”39. Prendiamo allora lo scenario 3, quello che tocca in pratica un po’ tutti i tg dei network nazionali, bandiera in più, bandiera in meno. Lì ancora si mostra, in tutta la sua specificità urticante, un vulnus che affonda le sue origini speculative nei decenni scorsi, quando la filosofia senz’altro si occupava di più delle carenze e delle conseguenze perverse del mondo dei media, e questi stessi, pur tuttavia, come all’epoca degli studi dei “francofortesi”, non erano ancora arrivati al livello di pervasività che ci troviamo a subire oggi. Tre autori. Marcuse, Critica della tolleranza, 1967. Laplantine, Identità e meticciato, 1999. Augé, Per strada e fuori rotta, 2010. Le stesse riflessioni. Marcuse: “Se uno strillone riferisce la tortura e l’assassinio di lavoratori provvisti di diritti civili nello stesso tono privo d’emozione che usa per descrivere l’andamento delle azioni di borsa o il tempo che fa, o colla stessa grande emozione che mette nel dire gli annunci pubblicitari, allora una simile obiettività è illegittima – peggio, va contro l’umanità e la verità perché si sta calmi quando ci si dovrebbe infuriare, perché ci si trattiene dal 39

Marc Augé, Per strada e fuori rotta. Diario settembre 2008 - giugno 2009, Bollati Boringhieri, Torino 2012, p. 70.

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lanciare accuse quando l’accusa è nei fatti stessi. La tolleranza espressa in una imparzialità di questo genere serve a minimizzare o anche ad assolvere l’intolleranza e la repressione predominanti. Se l’obiettività non ha nulla a che fare con la verità, e se la verità è qualcosa di più d’una materia della logica e della scienza, allora questo tipo di obiettività è falso, questa ingannevole imparzialità dovrebbe essere abbandonata”40. Laplantine: “I nuovi linguaggi della rappresentazione – quelli dell’informazione in diretta, dell’attualità, cioè del flash e del primo piano (un attentato terroristico + un’inondazione + uno stupro + una mostra di pittura, tutto fa brodo), quelli della pubblicità, ovvero del culto della novità (ciò che è immediatamente identificabile), e quelli della performance sportiva o commerciale (o al contrario dello smacco) – fanno troppo rumore e vendono troppa paccottiglia per essere considerati “realtà”. Perché la “realtà” esibita e messa sotto la luce dei riflettori, fornita di un’etichetta che ne indica il prezzo, addobbata in confezioni scintillanti quasi per dimostrarvi meglio (ma soprattutto per farvi accettare) che ciò che avete sotto gli occhi esiste totalmente, senza fallo, senza ombra, ebbene tale “realtà” non è affatto la realtà”41. Augé: “I media sono potenzialmente patologici o, meglio, che possono generare patologia mentale facendo saltare i compartimenti stagni tra i diversi aspetti dell’attualità. Una mattina ascolto France Info e sento l’uno dopo l’altro, “senza interruzioni”, come dicono, tre inchieste: i combattimenti di Gaza, la regata Vendée Globe, nella quale un navigatore è in difficoltà, e il rally Dakar, che quest’anno si svolge in Argentina ma non cambia nome. Dimenticavo il freddo che imperversa sulla Francia (comunque non siamo in Siberia) e i saldi invernali, che non sappiamo se rilanceranno i consumi. Questo volgare guazzabuglio ha chiaramente qualcosa di osceno, ma è la prassi… A proposito del freddo: una sera alla radio sento accennare a due nuovi morti tra i senzatetto vittime del freddo. Ormai c’è qualcosa di banale, come per i suicidi nelle carceri… Morti, feriti, macerie? L’immagine senza finalità, l’immagine tautologica, è poca cosa e, se accompagnata da un commento, è innanzitutto uno strumento di manipolazione”42. Ora, che si tratti di un’obiettività malata e posticcia, figlia della tirannide non sempre esplicita del potere ufficiale, e di una verità avvinta a “logica e scienza” (Marcuse). O che si tratti di una “confezione scintillante” su cui apporre l’etichetta, il cartellino di merce non deperibile ad un reale supervisibile (Laplantine). O che siamo di fronte (anzi, dentro) un “guazzabuglio osceno” che, nella totale mancanza di rispetto delle sue aritmetiche 40 41 42

Marcuse, Critica della tolleranza, op. cit. alla nota 154, p. 24. Francois Laplantine, Identità e meticciato, Elèuthera, Milano 2004, p. 114. Augé, op. cit., pp. 61-62.

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conte dei morti, si mostra come banale “prassi” dell’informazione (Augé), una cosa lega tutti e tre questi filosofi: la consapevolezza che parliamo di una “forma”, di un assetto che è a monte, e pur dentro le pieghe e le istanze più intime e arcaiche della vita, la quale viene come demotivata, soppressa, o soltanto esacerbata, dai tentacoli di questa Matrix, nelle sue possibilità di rilancio e rifondazione. È la potenza tossica del “normale corso degli eventi”43, come dice Marcuse, che organizza e legalizza ogni dispotismo, spiana le antitesi, crea connivenze con gli antagonisti, devia le tensioni verso i saperi specialistici e i ruoli sociali, le ammorba/ammorbidisce, mescola le carte disarcionando dal suo piedistallo la Vita stessa. Dice Agamben: “L’intellettualità, il pensiero non sono una forma di vita accanto alle altre in sui si articolano la vita e la produzione sociale, ma sono la potenza unitaria che costituisce in forma-di-vita le molteplici forme di vita. Di fronte alla sovranità statuale, che può affermarsi solo separando in ogni ambito la nuda vita dalla sua forma, essi sono la potenza che incessantemente riunisce la vita alla sua forma o impedisce che se ne dissoci… Il pensiero è forma-di-vita, vita insegregabile dalla sua forma, e dovunque si mostra l’intimità di questa vita inseparabile, nella materialità dei processi corporei e dei modi di vita abituali non meno che nella teoria, là e soltanto là vi è pensiero”44. Le forme-di-vita che non ritrovano più la forma primaria e fenomenologica della Vita sono altrettante tecniche di controllo di profondità dell’io, parodie45 delle sue modalità esistentive più 43 44 45

Marcuse, op. cit., p. 23. Giorgio Agamben, Forma-di-vita in AA.VV. Comunità e politica, a cura di Maurizio Zanardi, Cronopio, Napoli 2011, p. 94 Tutto l’universo televisivo è una reticolare “parodia” del valore, poiché lo struttura con le architetture del falso e i totem della merce. La parodia della partecipazione democratica, per esempio, è la possibilità, da tempi recentissimi, di inviare proverbi relativi al clima e alle stagioni della zona in cui si vive da vedere trasmessi durante le strisce di “meteo” giornaliero su Mediaset; la parodia della socialità è garantita dalle pubblicità di una marca di macchinette fotografiche digitali, all’interno delle quali un ragazzo preferisce fare scatti da inserire su Facebook e da rivedere a casa in tranquillità, seppur circondato durante una festa da belle ragazze che non avvicina minimamente; la parodia della domesticità è garantita da trasmissioni che entrano nelle abitudini di singole famiglie ridotte a puro bon ton come Cortesie per gli ospiti o in altre come La prova del cuoco (e decine di similari) che parlano di ricette, di sapori della nonna, di fai-da-te fra i fornelli (il “cattivissimo” Masterchef abbassa ancor di più tutto ciò alla nevrosi para-olimpica del fare a tutti i costi, nel minor tempo possibile, un piatto esattamente così come lo hanno concepito e insegnato i “re” della culinaria); la parodia della storia come processo che ha ostacoli da superare e un fine da raggiungere è garantita dall’abuso della parola “percorso” in tanti format, come quelli defilippiani, che parlano di coppie e sentimento, ma anche in quelli, tipo Ballando con le stelle, dove autentici dilettanti-vip devono

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proprie, e dunque unità-logiche distribuite che condensano l’agire fuori dall’intellettualità e dal pensiero, fuori cioè dalle sole possibilità di tradurre la Vita stessa in una ricchezza-comune, e non in una ricchezza-per i controllori. Il valore ingrana e cresce, allora, su una scena mediatica satura da un punto di vista visivo all’interno della quale uno Stesso permane, e questo condizionamento molare, senza interstizi o “scuciture”, fa sì che per inferenza ne ricaviamo un dettato comportamentale46. Prendendo in considerazione i format Mediaset (da lei prodotti e condotti) della De Filippi – che non considero un fenomeno passeggero nell’ultimo ventennio di storia televisiva nazionale, bensì l’emblema massimo del suo collasso e della “scempiaggine rumorosa”, per citare Debray, che lo caratterizza –, proviamo a contare almeno 13 “logiche” così cristallizzate, ottundenti, tambureggianti, 13 macabri rintocchi della stupidità di massa, da sospingere il singolo spettatore, quantomeno, a tentativi di emulazione o identificazione senza ritorno, se non a costo di una presa d’atto fortissima da un punto di vista intellettuale, che non è certo l’humus in cui oggi sviluppano il loro agire i protagonisti della tele-democrazia. 1) Logica del bello: tranne rare eccezioni, gran parte dei concorrenti (anche molti degli stessi ragazzini di Amici) corrispondono ad un’estetica di massa dell’uomo e della donna-pupazzo, muscolosi, in canottiera, sili-

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imparare coreografie da esibire in puntata; la parodia del buon gusto è garantita da una pletora di programmi come Guardaroba perfetto o Ma come ti vesti?! dove giudici super fiscali e al di sopra di ogni sospetto rigirano come un calzino lo stile di normalissime persone, “colpevoli” di non accostare bene i colori o non “azzeccare” il look giusto in base alle occasioni; infine, la parodia dello status sociale (un tempo concesso a stimati professionisti, luminari della scienza e del sapere, rappresentanti delle istituzioni, persone di chiara fama) è offerta da tutta quella pletora di personaggini vanesi e ignoranti che la televisione sforna quotidianamente e che, non appena sommano una manciata di comparsate in qualche programma molto seguito, attivano un profilo su Facebook (naturalmente, con immediato seguito) battezzato “Fan Page” o “Personaggio Pubblico”, come se fossero entrati in un mondo “sacro” fatto di un supplemento di fama, di rispetto e di luminosità sociale. Per qualche inquadratura e qualche congiuntivo sbagliato… Wittgenstein, Della certezza, op. cit. alla nota 72, aforisma 94 (p. 19): “Ma la mia immagine del mondo non ce l’ho perché ho convinto me stesso della sua correttezza, e neanche perché sono convinto della sua correttezza. È lo sfondo che mi è stato tramandato, sul quale distinguo tra vero e falso”; aforisma 298 (p. 47): “Che noi siamo perfettamente sicuri di questa cosa non vuol dire soltanto che ciascun individuo è sicuro di quella cosa, ma che apparteniamo a una comunità che è tenuta insieme dalla scienza e dall’educazione”; aforisma 330 (p. 50): “Dunque, qui la proposizione “Io so” esprime la disposizione a credere certe cose”; aforisma 357 (p. 57): “Si potrebbe dire: “Io so” esprime la sicurezza tranquilla, non quella che ancora lotta”.

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conate, botuliniche, palestrati, alla moda, desiderabili al primo sguardo. Assomigliare a loro significa far parte della classe top dell’umanità, quella che può diventare famosa e con tanti soldi in tasca, quella che viene riconosciuta per strada e ha “svoltato”. 2) Logica del nulla: ore e ore di messe in scena televisiva dove si discute del vuoto pneumatico e del sesso degli angeli, con serietà e pervicacia come se si stessero affrontando massimi sistemi. Dunque, è giusto trasformare l’etere in un immondezzaio e preferire i pollai all’agorà democratica. 3) Logica del buon vicinato: si parla o ci si esibisce, fingendo l’onestà delle menti e delle parole, la pienezza dei valori e delle intenzioni, in totale malafede rispetto alla presenza del mezzo tecnico televisivo, come se fossimo davvero a una riunione di condominio o al bar sotto casa, nascondendo l’effetto-macchinazione che è costante e scatenante. Abitudine al falso e al mistificato. 4) Logica della “libera consegna”: alienarsi alla macchina televisiva è cosa buona e da cercare con sussiego e senza scrupoli. Offrire parti, sequenze, racconti interi della propria intimità, mercificarsi, mistificare il vero, fuori e dentro di sé, è una procedura fra le tante che può anche contraddistinguere, senza problemi, il nostro essere. 5) Logica della tele-simpatia: non serve essere bravi realmente, talentuosi, onesti, leali, aver studiato e coltivare sinceramente un’arte, l’importante è risultare belli e simpatici e invidiati “da casa”, dove la gente vota il proprio gradimento alla mia persona intesa come gioco di apparenze e non come sostanza e qualità. 6) Logica dell’incultura: se in una scorsa edizione di Amici lo studio della Divina Commedia in alcuni suoi passi più aspri, è stato utilizzato come “punizione” per l’indisciplina di una ragazza, di che arte e di che cultura parliamo nei cosiddetti “talent show”? Solo prestazioni a gettone, estroflessioni e agonismi da scena mediatica e pochissimo altro. Dunque, perché studiare, sacrificarsi e laurearsi? 7) Logica dell’opinione: esistono solo soggetti nella loro sfrenata illatenza. Nella più totale democratizzazione populista dei valori e delle idee, tutti possono aprire bocca, esprimere pareri, giudizi, accuse, senza rispetto, autorità, magistero, vergogna per la propria insulsaggine, usata invece come dardo infuocato e vincente contro il “nemico” della poltrona accanto. Io valgo come tutti, con quelle poche cose che so. Invito alla non-evoluzione di sé. 8) Logica del posticcio: tatuaggi, barbette, look “maledetti”, finto-trasandati, occhiali da intellettuale, nella disperata ricerca di un’identità, e della più falsa e gradevole delle identità, che naturalmente è lontana anni

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luce da ciò che sono per davvero, ma così mi applaudono e il mio riconoscimento sociale cresce. 9) Logica della triangolazione: ma perché le storie più tragiche, intime, sentimentali, familiari devono avere come sistema di accensione o di sblocco la televisione? Come se fosse il collante, l’aggregatore, il catalizzatore di situazioni vissute che devono per forza essere avvalorate, vagliate, lasciate affiorare solo sotto le luci di un set. Dunque, prima di andare da uno psicologo, un consulente, un avvocato, o anche solo un amico o un prete a confessare ambasce ed eventuali “peccati”, scriverò una lettera alla redazione di Maria. 10) Logica dell’omogeneo: come antidoto all’Eterogeneo che ha sempre voluto dire fascino, carisma, maturità, singolarità, forza residuale e simbolica, oggi invece rarefatta e segata in due dal ricatto del televisivo come luogo dell’apparire. È “arte” quella di un anonimo attore di Molfetta, conosciuto solo da parenti e amici di zona, che nell’edizione 2012 di Italia’s Got Talent, dopo aver farfugliato parole senza senso sul fatto che non dobbiamo dire le bugie e dobbiamo essere più rispettosi, si toglie le mutande davanti alle telecamere, rimanendo completamente nudo davanti a una giuria fintamente scandalizzata (gli autori della trasmissione, pur essendo registrata, hanno lasciato il pezzo “incriminato”, ampiamente pubblicizzato prima che andasse in onda su internet)? Ovviamente no. Provocazione fine a se stessa – e pure mal costruita – che diventa “arte” nel giudizio decisivo osceno di Maria che non elimina l’uomo ma, anzi, conferisce una patente di dignità e aulicità alla sua pecoreccia esternazione. I vecchietti di 60, 70 e 80 anni e passa, che si scannano letteralmente a Uomini e Donne over per pretesti banali o gare di ballo, o pettegolezzi da gabbia di polli, sono un’altra triste dimostrazione dell’Omogeneo. In una puntata, due quasi ottuagenarie si affrontano nell’agone dello studio televisivo a suon di epiteti grevi. Una dice all’altra “scrofa”. L’altra dice alla prima “schifosa”. E ognuna delle due, mentre le dentiere sgattaiolano e le guance infeltriscono sotto l’occhio impietoso delle telecamere, ripete all’altra la sua ossessiva maledizione, senza accennare minimamente ad un segnale di dialettica, di riconciliazione. E tutto avviene sotto lo sguardo divertito, compiaciuto, sardonico della suprema orchestratrice, Maria De Filippi, assisa sul gradino come una dea dell’amore e della discordia a comando. Insomma, meglio omogeneizzati nella pappa indigesta della tv che diversi e “non contaminati”. 11) Logica della felice menomazione: chiunque abbia anche solo tic, frustrazioni, deliri di grandezza, bruttezze fisiche, microtalenti da quartiere o da circo equestre, può fare il salto dell’“arte”, quella della mera visibilità, of course; basta andare a Italia’s Got Talent. Why not?

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12) Logica dell’accoglienza: storie drammatiche, casi umani, forme di bisogno, di emarginazione, soglie psicologiche di grande fragilità sono approcciate con un’opera di ospitalità/gestione/rimozione della complessità e dell’interferenza eversiva sull’immaginario collettivo del proprio sé e delle proprie derive. De-simbolizzate, riso-lte (con ironia compassionevole ed ex cathedra) e perpetuate con finto umanitarismo. Nell’edizione 2012 di Italia’s Got Talent, la Maria nazionale fece rimanere sul palco per tanto tempo un giovane disoccupato e affranto, che obiettivamente non sapeva fare nulla nel campo dello spettacolo (ma che, guarda caso, era stato selezionato dagli autori per sottolineare la bontà e lo spirito solidale dei giudici), semplicemente perché raccontò una vicenda personale strappalacrime, e lo fece passare anche alle semifinali della gara. Stesso quadretto patetico nell’edizione 2013. Un disoccupato che strimpella un tormentone sull”essere single” e viene fatto passare al turno successivo perché col “gusto della battuta”. Subito dopo di lui, una concorrente: ugualmente amatoriale nell’esibirsi in un tango, socialmente “corretta” anch’ella, poiché volontaria in un’associazione per donne incinte, ma Maria e gli altri due giudici non la fanno passare. Perché l’accoglienza nel Paese dei disperati ha sempre i suoi caronti che decidono, come in una Schindler’s list postmoderna, chi è sommerso e chi è “salvato”. 13) Logica della visibilità: esistiamo quante più volte un cameraman gira quel “cannone” con le lenti sulla nostra faccia, e tante persone ci vedono da casa. Nella chiarezza abbagliante della presenza mediatizzata, nell’oscenità di una vita e del suo significato che si “riprendono” sempre allo stesso modo, nell’inafferrabilità e nella scomposizione di ciò che originariamente ci appartiene come individui, nel vuoto del calcolo statistico, della settorializzazione e dell’arte combinatoria di immagini e parole ridotti a infiniti addentellati di un’unica lama, o a pagliuzze minuscole di ferro calamitate da un grande magnete, è un intero orizzonte destinale dell’uomo che si mostra in perenne revoca di sé. Con la “totalità di risulta e ripresa” si arriva a una deduzione di tipo morale, di sponda, “risultante” appunto, ad un secondo grado, successivo a quello di una percezione distorta, impiantata dalla rappresentazione del reale stesso, della serie: la realtà è fatta così, e non posso conoscerla diversamente da così, mentre nella totalità del sogno l’apprensione moraleggiante era immediata: brama di felicità, dissuasione dalle lacerazioni della vita, rutilante farmacopea che promette l’abbattimento di angosce e cattivi ricordi. Qui la totalità è fatta di frammenti e di fratture, di feritoie, finestre e monocellule che si ricompattano e suturano come un valore mate-

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matico, addizionale, della vita stessa, come pezzi di un’anatomia sul tavolo settorio, brani di una grammatica che esegue le sue congiunzioni senza la scintilla di una personalizzazione. La “morale” è nel non oltrepassamento di un confine estetico ed epistemologico che è tutto nel suo dirsi spezzato e ricucito. Qui l’Osceno sistemico, l’osmosi perversa è fra una parte che aspira a una totalità, raggiungendola talvolta in una sorta di fondamentalismo autoreferenziale, e una totalità che è sempre di parte o collezione di parti, ma che si offre come l’Alfabeto per antonomasia di ciò che guardiamo e intendiamo47. In mezzo naufraga il Comune48, ovvero quella totalità di retrovia che è il venire al mondo delle nostre esistenze, nella loro pluralità, tragicità, illimitatezza. Questa “totalità” ha i caratteri dell’infinito e dell’incomunicabile e teme ogni deriva otturativa del suo senso nei funzionalismi pubblici del potere. Sottolinea Nancy: “Il comunismo è una proposta ontologica, non è un’opzione politica… Il comunismo è un’opzione politica nella misura in cui l’“essere” stesso (l’essere dell’esistenza) deve essere impegnato, deciso e scelto… L’essere-in-comune non è un “dato”. Ciò che è dato con lui è ciò che precede ed eccede qualsiasi “dato”… Così l’ontologia di cui si tratta non è l’ontologia dell’“Essere”, o di “ciò che è”: ma dell’essere in quanto non è niente di ciò che è”49. Per questo il riduzionismo dell’essere-che-si-apre nella libertà alla sommatoria di dati, alla giustapposizione di supporti conoscitivi “tascabili”, alla dimensione elettronica e flogistica di fatti che fiammeggiano e si inceneriscono senza una concrezione reale e condivisa, non è altro che un’eresia, una finzione e un’opera dilagante di intrusione e sconvolgimento dall’interno del modo fondamentale dell’apparire dell’umano, che si dà senza appartenere ai “dati”. Il Capitale scommette e investe su quel campo di sterminio ontologico che è l’an-estetica iper-mediatizzata delle distruzioni e delle dissipazioni, applicate alla sensazione come al senso. Icastico Virilio: “Non liberazione, bensì controllo globale dell’umanità da parte 47 48

49

Debray (in Elogio delle frontiere, op. cit. alla nota 137, p. 80) cita la bellissima frase del poeta della Martinica Aimé Césaire secondo cui si soccombe: “segregandosi nel particolare e diluendosi nell’universale”. Un’interessante interpretazione del “comune” che aggiorna allo sviluppo della Rete e delle tecnologie 2.0 i commons dei pastori del passato che usavano le stesse terre per far passare mandrie diverse di bestiame, la offre Dmytri Kleiner, Manifesto telecomunista, Ombre Corte, Verona 2011: “I commons moderni, tuttavia, non si trovano in un unico spazio, ma si estendono sull’intero pianeta, offrendo alla nostra società la speranza di uscire dalla stratificazione sociale del capitalismo, minando alla base la sua logica di controllo e di estrazione del plusvalore” (p. 48). Jean-Luc Nancy, La comparizione in AA.VV. op. cit., p. 26.

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di potenze multimediatiche totalitarie, che applicano, in modo intensivo, quell’antichissima strategia che consiste nel portare la divisione dappertutto: tra popoli, regioni, città, paesi, razze, religioni, sessi, generazioni, fino in seno alla famiglia”50. Il no al “comunismo” come scelta dell’essere-in-comune porta, pertanto, per intrinseca necessità, ad una deflagrazione della paura, del terrore e dell’annientamento reciproco, poiché non se ne condividono gli strumenti di emancipazione, e ci si chiude in una logica delle essenze e delle universalità, senza disturbo, senza messe in discussione, logica che appartiene al linguaggio, ai segni, come alle identità e alle etnìe. L’irriducibilità estremizzata, l’estraneo inseguito, sorvegliato e/o eliminato come attentato vivente alla propria inattingibile purezza, porta, in un regime/recinto delle divisioni a un’accumulazione capitalistica delle differenze, ad una loro gestione coabitativa come soluzione terroristico/virtuale, igienico/sociale (seppur dagli effetti spesso positivi e pacifici) che ri-stabilisce territori e confini e disattiva le cariche detonanti, non solo di ogni singola cultura verso quelle limitrofe, ma di tutte insieme contro il Potere se scoprissero quella zona di confine dove tutte sono e hanno molto da mettere-in-comune. Siamo nell’“apologia del pluralismo terapeutico… una reazione – che sorge nelle società più inclini all’uniformazione – dovuta alla paura, all’angoscia, alla diffidenza e a una presa di distanza dall’alterità. Gli ‘altri’ sono rinviati ai loro rispettivi sostrati biologici, oppure alle loro culture di origine (i neri con i neri, le donne con le donne, gli indiani con gli indiani e i pinguini con i pinguini), fissati, rinchiusi in riserve, quartieri, chiese o scuole, insomma in categorie separate, in forme sociali maggiori del ghetto”51, rinunciando, per converso, in nome di un multiculturalismo assoggettato, a quell’identità culturale “che è il risultato di miscele e di incroci fatti di memorie ma soprattutto di oblii”52, di polimorfismi e non di mutilazioni. Žižek, come al solito, è illuminante su questi temi: “Ecco cos’è il politico in senso proprio: il momento in cui una rivendicazione specifica non è semplicemente

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Virilio, op. cit., p. 32. Laplantine, op. cit., p. 44. Op. cit., pp. 45-46. Debray parla al riguardo di identità-relazione opposte a identità-radice, laddove solo le prime portano a una reale “condivisione del mondo” e allo scoraggiamento dell’“epidemia dei muri” poiché provviste di “passaporto” – dice Debray – che permette di andare e tornare, di viaggiare e spaesarsi, senza chiudersi in sé con sistemi di ferrea autodifesa, o di affogare nel troppo della comunicazione dove tutto “svapora”. Ma usando saggiamente il gioco delle frontiere e delle distanze. Solo le identità provviste di valvole, di soglie, di porte girevoli avranno diritto al futuro (confr. Debray, op. cit. alle pp. 79-82).

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una parte di negoziato su specifici interessi, ma mira a qualcosa di più e comincia a fungere da condensazione metaforica della ristrutturazione globale dell’intero spazio sociale. È evidente il contrasto fra questa soggettivazione e l’odierno proliferare di “politiche identitarie” postmoderne, che hanno come obiettivo l’esatto contrario, cioè proprio l’affermazione di una particolare identità del posto giusto di ciascuno all’interno della struttura sociale”53. Dunque, o la ripartizione dei compiti, dei modi e dei territori (che più o meno possono sviluppare conflitti e integralismi) all’interno di un liberalismo onnivoro e iperrazionalizzante che non fomenta più lotte di conquista o di emancipazione ma “telai” urbanistici e convivenze poliziesche; o un “ritorno alla sostanza”, per dirla alla Badiou, che davvero deterritorializzi, non per rendere tutto più mobile e precario, ma per far ottenere una identità di più alto tipo, “l’istanza rivoluzionaria di egaliberté54 che, all’interno dell’ordine esistente, resta un eccesso senza condizioni e rappresenta una rivolta permanente contro quest’ordine, e quindi non può mai essere ridotta a uno stato di ragionevolezza e perbenismo”55. Se alla semplice identità facciamo subentrare anche le sue schegge, le sue “tessere” interne, ovvero la profilatura dei comportamenti e delle consuetudini della mente e degli ideali pratici, così come si battono per ottenerla la televisione, la pubblicità, la moda, il virtuale, allora ci troveremo di fronte a un puzzle infinito, e a un misto di terrore e piacere che bloccherà il sistema rendendolo incoercibile, incrollabile: un “regime del Non-evento”56 contro cui solo una “parte” che non si ritenga rotella del meccanismo, carta del gioco, pietra angolare, ma breccia, gradino sconnesso, orlatura disarmonica, potrà richiamare quell’“universale concreto” che è l’essere-con tutti, l’essere-tra tutti. Parte che non è più contro-parte di un insieme che cerca il suo equilibrio a ogni costo, l’incastro perfetto, ma parte in dis-parte, una parte che cova e osserva, si ribella e annuncia, si separa e si riconosce altrove. L’“identificazione della non-parte con il Tutto”57, l’assunzione della parzialità come singolarità, come eco di un’Alterità da cui ripartire insieme, per ridare tono politico e verità ad ogni nostro gesto, nella fattualità del sentire e del progettare, potrà salvarci da quelle astrattezze locali che, invece, la retorica istituzionale e mediatica rende im53 54 55 56 57

Slavoj Žižek, Difesa dell’intolleranza, Città aperta, Enna 1998, pp. 51-52. Concetto riconducibile a Balibar che indica l’uguaglianza e la libertà di principio, valide per tutti. Op. cit., pp. 57-58. Op. cit., p. 52. Op. cit., p. 24.

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mediatamente corpo, pulsazione, parola, dentro di noi, e relazioni e leggi, fuori di noi, dall’odore ormai inavvicinabile di formalina. 3) Totalità del rigetto e del ricambio (il Monoscopio e lo Stagno) – “Si tratta di bracciali leggeri formati da piccoli anelli di argento venduti a prezzo medio (quanto setto o otto lezioni private, credo). Al braccialetto si possono fissare dei piccoli oggetti di oro, oro rosa o oro bianco. Tali appendini sono semplici e costano quanto quattro lezioni private di latino oppure sono decorati con piccolissimi brillanti, due (panda e zebra) addirittura con diamantini bianchi e neri, e allora il prezzo sale fino a uno stipendio mensile da impiegato semplice. Il valore materiale tuttavia è modesto, e non si tratta di lavori di gioielleria di alto livello. Sono semplici oggetti preziosi prodotti industrialmente. I prezzi sono quindi decisamente alti in confronto al valore puro (materiale più lavoro)”58. Suona strano vedere paragonati monili, o prodotti da passeggiata su un boulevard, al tempo e alla fatica che impiega un insegnante per far capire il latino o la matematica a uno studente. O, addirittura, percepirli come dei corpi estranei, sottratti a ogni logica d’uso e di scambio, di strumentalità e di mercato, un valore “altro”, che sfugge equanimemente alle scale monetarie come all’ordinaria utilità nella vita quotidiana. E allora cos’è questo “Dodo”, questo accessorio che scavalca la bellezza, la finalità pratica, il prestigio artigianale e ogni possibile casella commerciale e va direttamente a collocarsi nell’eden dei desideri, fra i simulacri più appetiti, nel cielo di una valutazione disancorata da ogni codice, cifra, contabilità? È un gadget di massa, il tipico esempio di quel consumismo fatato, di quella “modernità foderata”59 di oggetti ed etichette, di segni di distinzione che portano solo a una omologazione e a un gioco di inganni incrociati di più alto livello, che il filosofo tedesco Achim Seiffarth ben tratteggia nel suo Meditazioni sullo shopping. Siamo nell’ombelico degli acquisti selvaggi, compulsivi, compensativi, tipici delle donne, in particolar modo, ma anche degli uomini della contemporaneità. Mode, trend, un magma sognante, luminescenze da vetrina, fosforescenze plastificate che si impadroniscono delle nostre menti, del nostro modo di stare insieme e che dimostrano come l’estetica dominante, mai come oggi, sia caratterizzata da forme di familiarità fluttuanti, da comunità di utenti senza un “noi”, da clientele nomadi e apolidi che sembrano ritrovarsi solo nel finto calore di un marchio, nell’agonismo da “saldi”, nel branco da discount. È un chiaro allarme che, pur con soave ironia, Seiffarth lancia: “Sono tornate la magia, l’adorazione cieca, la venerazione del vitel58 59

Achim Seiffarth, Meditazioni sullo shopping, Mimesis, Milano 2011, p. 22. Op. cit., p. 68.

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lo d’oro. Sono tornati il sacrificio e la sottomissione. Tutto ciò in modo colorato, come una grande festa. Il mondo moderno lo immaginavamo come libero e leggero, razionale ed elegante. Non è nulla di tutto ciò. È pesante e rumoroso, volgare e faticoso”60. È la logica dell’immagine, dilagante come un’emorragia, su corpi e intenzioni; è il “riconoscere” che soppianta il conoscere attraverso la mutevole specularità di boutique scintillanti, griffe internazionali, fibbie e placche dalle quali pretendiamo che ci dicano chi siamo, soprattutto agli occhi invidiosi degli altri. E allora l’originale insegue la copia, il doc va a braccetto col tarocco, perché è l’universalità del consenso indiretto, dell’adesione giocosa e ingiustificata che vincono. I negozi come “caverne magiche” dove la convenienza, la semplicità, la naturalezza della vendita e dell’acquisto – oltre che la durata nel tempo di quest’ultimo – sono solo il pallido, sbiadito ricordo di una storia lontana in cui il mobilio, il lampadario, la camera da letto, le scarpe di vernice per la prima comunione o un raduno di parenti avevano ancora il loro perché. “L’idea di mettersi un’opera d’arte ai piedi annienta l’ideale della comodità e della naturalezza che hanno pervaso ogni angolo della vita quotidiana”61. L’“atto di sottomissione” all’iridescente capitalismo dei viali al neon e degli outlet è solo un gigantesco oblio del nostro essere e, anche qui, la vita oscenizzata, la “forma”, prendono il sopravvento. Non c’è soddisfazione reale di bisogni reali, ma solo una fluidificazione incessante, un’anestetica della distanza dettata dal sogno, potremmo dire, che sospinge l’individuo verso quella che – sulla scorta di un alfabeto romantico – Seiffarth definisce come la “sehnsucht” della postmodernità: un’ansia di rifugio, una fuga infinita, una febbre pestifera che l’accaparramento, la stiva e il macero di oggetti su oggetti nelle nostre case solo superficialmente allevia. L’io oggi è tutto “visibile”, ci dice Seiffarth, estroflesso nelle sue apparenze, chimera di pelle e vestiario, anima e bigiotteria, e solo un’aristocratica “riserva mentale” può guarire da quella maledizione che suona così: “In breve, non c’è l’essere. Non come qualcosa di opposto all’apparire”62. In questo “reame di possibilità”63 che sono le vetrine e il loro incanto abbagliante, basta dimenticarsi un po’ di più di ciò che si è biologicamente. Oltre i già stressanti orari di lavoro. E il gioco è fatto.

60 61 62 63

Op. cit., p. 72. Op. cit., p. 70. Op. cit., p. 32. Op. cit., p. 37.

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Ma c’è un elemento metafisico in più che Seiffarth, con uno stile giocoso e un argomento che si presta a varie ironie sulle differenze fra sessi, punta così: “Case, macchine, mobili richiedono denaro, cura. Costantemente i pensieri sono ingabbiati in un mondo di oggetti impegnativi”64. Il Sistema degli oggetti si pone, dunque, come il trascendentale dell’Osceno, il sepolcro del singolare nel finto-plurale delle offerte plastificate, in quello che si suppone essere il fantasma risolutore delle angosce esistenziali, ciò che dissipa la ricerca e la paura, l’avvento del nuovo e l’assunzione di indeterminatezza da parte dell’uomo, ovvero: la cosa comprata, il ricarico di felicità, la ridondanza rispetto alla limitatezza e alla penuria, l’eden self service, l’aura di incanto e di completezza che è l’Industria fatta Mito al posto del Reale. Da qui nasce quella che Recalcati definisce come “l’astuzia del discorso capitalista”: “Esso lo sfrutta abilmente spostando la promessa da un oggetto all’altro, promettendo, per il tramite del nuovo oggetto, una salvezza che dovrà invece rivelarsi come mancata, deludente, per poter alimentare di nuova energia la corsa folle del desiderio. Il discorso del capitalista fa finta di voler guarire la mancanza che affligge l’umano solo per sfruttare il più possibile l’esistenza di questa mancanza”65. La finta dialettica del potere ufficiale, è comunque, pur sempre, una dialettica, fatta di posizioni che vengono contraddette, rigettate, di piaceri battuti da altri più coinvolgenti, di “strutture” o procedure che sembra che cadano sotto il peso delle libere volontà, ma tutto questo non per un superamento oggettivo del reale, ma per uno di tipo s-oggettivo/oggettuale, che conferma sempre il sostrato di una Ratio mercantile della produzione e dell’inganno, miccia di un Olocausto silenzioso all’interno del quale viviamo feticisticamente contenti e fatti-a-pezzi66. La “vera dialettica” – in 64 65 66

Op. cit., p. 66. Massimo Recalcati, Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina, Milano 2012, p. 80. Il tema porta anche a riflettere sulla corporeità sbandierata e venduta come modello dominante a livello massmediale, più vicina al significato di Korper che non a quello di Leib, le due parole che in tedesco significano, appunto, “corpo”. Korper è il corpo biologico, anatomico, da tavolo settorio o da somma efficiente ed efficace di funzioni; sono gli organi, le masse, le parti esposte e fisiologiche che ci garantiscono lo stare al mondo. Leib è il corpo della vita, delle relazioni, del progettare con gli altri, del sentire più allargato (Liebe vuol dire amore). Soprattutto sui canali satellitari impazza, in precisi format di ultimo tipo, il corpo come kit, come oggetto nelle mani salvifiche della techne per sanare dislivelli, disarmonie, inestetismi, per riequilibrare e contemporaneamente dopare l’organismo in vista di un delirio di onnipotenza salutista e di una consacrazione sociale senza appelli. Sul genere “pazienti in corsia”, ad esempio, sono storici programmi come Chirurgia plastica: prima e dopo o Dr 90210 dove è tutta una sarabanda di

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realtà, un destino o una dinamica – non è quella del “cattivo infinito” dei congegni di significazione e costrizione, intrattenimento e canalizzazione del Reale e dell’umano, che il Capitale, – meglio sarebbe dire il Tele-Capitale – innesca come Stagno della comunicazione fra individui, ma quella di una vaghezza onnidirezionale delle pulsioni, di una jouissance che non ha referenti ed esiti definitivi, ma sperimenta la sua inconsistenza nella creazione sempre diversificata di mondi sempre possibili. “L’economia del godimento è un’economia antagonista a quella dell’Io e della ragione. Questa economia si fonda sull’eccesso, sulla distruzione, sulla perdita senza ritorno, sul bisogno, come scrive Bataille, di una perdita smisurata, liposuzioni, pezzi di grasso sanguinolenti, bisturi che affondano in pannicoli di adipe dai volumi inguardabili, risucchi di materie organiche, protesi di silicone, impianti di sacche gelatinose per ingrandire il seno, e tutto davanti all’obbiettivo della telecamera e nel pieno trionfalismo di chi accetta questo tipo di “cure” non solo per supportare l’oggettiva bruttezza di certe malformazioni, ma anche per risultare più attraente, seppur in modo ingannevole, agli occhi degli altri. Si piazza bene per il suo voyeurismo ginecologico anche 24 ore in Sala parto. Real Time ha fatto di queste produzioni una colonna portante del suo palinsesto. Malattie Imbarazzanti e Chirurgia XXL (e tutta una serie iper-clonata di programmi che riguardano le diete, i disturbi alimentari, la fatica a vivere e mangiare di meno di ciccioni oversize) sono gli ultimi ritrovati ai limiti del tollerabile per lo spettacolo che offrono, con dottori e dottoresse molto glamour e sicuri di sé, belli come in passerella, perennemente alle prese con mammelle asimmetriche, peli incarniti, vene varicose, incontinenze urinarie, escrescenze purulente, disfunzioni al pene e quant’altro il rimosso carnale possa farci immaginare che alberghi fra pieghe e viscere del nostro corpo. Tutto zoomato e con aloni di distanza dal resto della persona. Di Malattie Imbarazzanti c’è anche una versione teenager dove l’accanimento maggiore è su malattie veneree, funghi, batteri, pidocchi legati al non lavarsi e ad altre incurie tipiche dei giovani. La guarigione? Sempre certa, tempestiva, sorridente da maternage clinico. Il pezzo e il totale. Il fisico e la metafisica. Corpi-miniera, aree di parcheggio e di infiltrazione di un male invisibile sottoforma di virus, patologie, metastasi, liquidi di scarto; corpi-maniera forgiati dal fitness totale, che la televisione si incarica di baciare e benedire sotto la doccia del Grande Fratello o nei grotteschi scoop sul topless “newlook” di un’aspirante soubrettina. Body Drama, insomma, il dramma del corpo, secondo l’azzeccatissimo titolo di un simpatico, ironico e colorato manuale per donne scritto da un’ex miss Bikini, Nancy Amanda Redd, su consulenza scientifica della dottoressa Angela Diaz. Anche qui più di 250 pagine con primi piani e scorci “imperdibili” di cerette, follicoli impazziti, vagine impertinenti, capezzoli vaganti, smagliature, ascelle, brufoli e duroni come nuova trincea dello spavento esistenziale. E tutto diviso per schede super-pragmatiche che aiutano a individuare il problema e debellarlo, con l’ultima domanda in ogni capitoletto dedicata al tema: “e se gli altri se ne accorgono?”. (Nancy Amanda Redd, Body Drama, Giunti 2010; confr. anche il capitolo L’Ipermercato delle facce in Carmine Castoro, Crash Tv, op. cit. alla nota 65 della prima sezione).

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di un “sinistro annullamento””67. A questa sensazione muta, cieca, eppur striata, che ci pervade, ed è capace di annichilire ogni paesaggio vitale con la forza del molteplice, in una spinta fenomenologico-materialista al cambiamento, subentra la “semplice impostura”68 del Capitale che inocula una nocività maledetta69, un danno di ottusità e stabilità, cercando in tutti i modi di estirpare, offuscare la spinta suddetta, realizzando qui ed ora, nel comodo di una gestualità domestico/commerciale, il sogno di liberazione cui la miseria ontologica ambisce. In questo processo di sostituzione/copertura, il mondo del televisivo e del virtuale hanno un ruolo di assoluto protagonismo. Preciso Gila: “L’ingegneria sociale si occupa dei condizionamenti mentali, studia la psicologia del profondo, induce convinzioni e atteggiamenti pianificati, per guidare sia le scelte delle popolazioni, sia le decisioni dei governi. Elabora progetti e introduce idee nei mass media che producono miti e questi generano a loro volta strutture mentali che possono essere paragonate a religioni laiche”70. Il senso del Capitale è proprio questo: una griglia di accorgimenti e pratiche di vita, di regolazioni e campi di possibilità, che non portano solo al mantenimento dello status quo, delle istituzioni correnti e dei privilegi della casta che controlla, non rispondono solo a requisiti di prevedibilità e raggiungimento di obiettivi, ma ad una allucinazione consumistico-fideistica, che è lo stato di Grazia del benessere, come regno dell’Insuperabile che batte l’Insperabile. “Non è quindi un caso se, insieme alla sofisticazione della percezione tecnica, assistiamo a un declino delle finalità utilitaristiche dei materiali high-tech, a un loro recente cambiamento d’uso verso fini religiosi, parafilosofici, transpolitici, sincretici… L’immediatezza, l’ubiquità, l’onniscienza dei monitor e dei terminali dei computer domestici s’incaricano, infine, di ripristinare i metodi equivoci che ciascuno utilizza per affermare la propria dipendenza da ciò che lo fa uscire da se stesso – ciò che, per qualche breve istante, sembra rendere i corpi inconsistenti: sogno, trance, ipnosi, orgasmo, alcol, eccitanti…”71. Ecco, dunque, l’odissea dolente del desiderio, il suo vano appendersi/ apprendersi, la sua gaia putrefazione: esso è come sbattuto qua e là, fra 67 68 69 70 71

Op. cit., p. 106. Op. cit., p. 115. Di “forma fuorviata di immaginario” e di “energia nociva” a proposito delle immagini globalizzate, si parla in Marc Augé, La guerra dei sogni, Elèuthera, Milano 2005, p. 109. Gila, op. cit., pp. 28-29. Virilio, op. cit., pp. 44-45.

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scogli rocciosi e lande desolate del Capitale, nel furibondo merchandising delle soddisfazioni di cartapesta, che siano merci o chance televisive, o nelle autolesionistiche dipendenze che schiacciano la sua creativa vastità offrendo in cambio solo l’universo solitario, mortifero, deterministico di una droga psicofisica, di un tour de force mentale, di una prigione virtuale. Per Lacan e Recalcati va messa “in luce una possibilità segreta interna a questa stessa delusione. Da questo segreto ciò che scaturisce non è più il desiderio come rinvio infinito e infelice da un oggetto all’altro, il desiderio come inseguimento disperato di un Oggetto del soddisfacimento che non esiste, ma il desiderio come apertura verso l’Altrove, come trascendenza, come invocazione di un’altra possibilità rispetto a quella offerta dalla semplice presenza dell’esistente”72; sicché “il desiderio non si appoggia sull’esistenza dell’Oggetto ma su una decisione soggettiva. Cosa ne farò del mio desiderio? Come potrò renderlo fecondo e non dissipativo?”73. L’Oggetto è l’aldilà di ogni saturazione, è il semplice, perturbante porsi dell’essere come esistere, il supremo Vuoto, la Vita (come dice Žižek, la Cosa), il fatto incommensurabile che c’è qualcosa intorno a noi; per questo nessun “oggetto”, nella sua piccolezza, seppur duttile e scintillante, può riassumere il senso di un intero destino, nessuna “cosa utile” sarà alla sua altezza vertiginosa, toccherà l’ampiezza dei suoi cieli senza rotte. E il soggettivo non potrà più essere l’incordatura emotiva di un Apparato che precondiziona ogni apparire e ogni consistere, uno dei nodi della sua rete74, ma l’impronta etica di una presa in carico audace, non rimessa, dell’Oggettonon-compensato nella sua sconcertante e tenebrosa dimensione. Diversamente, il desiderio sarà energia dissipata nelle spirali del nulla elargito a piene mani dalla techne dominante e sussiegosa delle cifre e degli schermi, o si fisserà, ancor più drammaticamente – perché con stigmi visibili –, a ossessioni che cercano vanamente l’Incontro a partire dal Deviante, ma trovando solo quest’ultimo. Ecco allora, come sottolinea Recalcati, il “corpo senza desiderio” dell’ipermodernità attraversato da bulimie, anoressie, tossicomanie, psicopatologie più o meno striscianti, ma anche da una ludicità malata che mette solo a repentaglio salute e incolumità (basti pensare alla esponenziale diffusione negli ultimi anni di poker elettronici e videogiochi a sfondo bellico), o da un’integrazione totale ai diktat del Sistema stesso, che offre un senso facile alle cose, ma imbarbarito e acritico, perché

72 73 74

Recalcati, op. cit., p. 118. Op. cit., p. 119. Confr. al riguardo la bella metafora lacaniana della “bisaccia” e della “nassa” in Recalcati, op. cit., pp. 178-179.

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già preconfezionato e tele-mediato. Il Capitale, insomma, apparecchia la sconfitta sistematica dell’individuo attraverso l’ipersignificazione dei suoi atti “liberi” e la monopolizzazione/colonizzazione dell’esistere nelle sue sfaccettature, ma anche attraverso l’insignificazione dell’esistenza stessa come abbandono, scorrimento, liquefazione, godimento autoreferenziale, sinonimo di un suicidio differito là dove non si trova un trasporto amoroso o la lotta per un valore che abbia la controluce del Comune, ma solo il farsi persecutorio di un’espropriazione-adattativa. Il desiderio, al contrario, non ripete e non può entrare nel meccanismo rigetto/assuefazione, ma può veicolare quelle forze, quelle tensioni che devono servire a collocare la soggettività con/contro gli altri in nome sempre di un Oggetto/Altrove da temperare, esprimere, trasformare in storia, e senza mai schiacciarlo nelle planimetrie del potere vigente o nei cardini della scienza, pena la trasformazione della felicità in avvitamento tormentoso, in “incubo totalitario”75. Oggetto e “oggetto” sono facce della stessa medaglia, tagli prospettici di una stessa presenza al mondo che non rinnega regole e patti, ma deve sempre sottoporli al vaglio del possibile, e non può dare al possibile l’effige di qualcosa di finalmente raggiunto se non entrando in quelle teofanie forzose e demoniache che il Capitale annuncia e descrive volta per volta per trattarci da meri utenti, mere macchine (o devoti agli “universali” che fanno da placebo dell’anima: le “religioni laiche” di Gila, i “fini religiosi” di Virilio) e farci abdicare all’umano. Perfetto Žižek: “La differentia specifica che definisce un essere umano non è la differenza fra uomo e animale (o qualsiasi altra specie reale o immaginaria, come gli dei) ma una differenza INERENTE, la differenza tra l’umano e l’eccesso inumano che è inerente all’essere umano”76. Per questo non c’è un oggetto che può colmare il desiderio, trasformandosi in Oggetto, proprio perché quest’ultimo, con la ‘o’ maiuscola, può solo sfuggire e rifrangersi in un’eterna mancan75

76

Op. cit., p. 157. Sottolinea Franco La Cecla, Il punto G dell’uomo, Nottetempo, Roma 2011 (pp. 29-30): “Abbiamo costruito una società scettica sulla sostanza ontologica del desiderio, una società in cui il desiderio viene considerato leisure, sport, tempo libero e fantasia. Siamo convinti di poter relegare la sua inconsistenza all’impalpabilità, di poter relegare il desiderio a un rango sottoposto al piacere, nei tempi e nei modi corretti… Il piacere, una definizione comoda per farci credere che si tratti una volta di più di riuscire nella vita”. La proposta dell’antropologo è la rivalutazione di quel “gioco a mosca cieca” che è il desiderio nella sua natura più intima e inafferrabile: “la pelle, l’aria, le emanazioni, la coda dell’occhio, il credere, il sospettare, l’accenno, l’allusione, tutte pratiche quasi magiche e assolutamente screditate nella vita normale, ma non nella vita del desiderio”. Slavoj Žižek, Politica della vergogna, op. cit. alla nota 33 della prima sezione, p. 69.

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za, incolmabile, aprirsi a questa, spaccarsi in questa, essere quell’Altro al quale dobbiamo dare senso etico ed estetico, quelli che le rappresentazioni automatiche/paradigmatiche della realtà ci offrono sempre in maniera offesa, oltraggiata, sfregiata. L’Oggetto deve essere una abluzione della libertà, una sorta di bagno purificatore delle semplificazioni e delle perimetralità che la recingono, – salvezza come abisso, non come altare cui genuflettersi –, altrimenti la libertà stessa sarà un’ablazione di sé, una scomparsa, una sua decurtazione, un essere trafitta o dissipata. L’Oggetto/Altro chiama in causa l’illimitatezza e il riparo. Le disattivazioni/dequalificazioni più feroci di questi due principi sono vaghezza, disimpegno e inedia del giudizio, per il primo; il “cerchio magico” che il Sistema fa insistere intorno al soggetto, per il secondo, ovvero le sue morali uniformanti, il tacito supplizio dei suoi codici. Conseguentemente, le loro parodie più funzionali, oscene e premeditate a livello di immagini, saranno la doppia illusione del reale e del sogno, per il primo, e la teleospedalizzazione dei bisogni e dell’intero tracciato del pathos comunitario, per il secondo: un “sentirsi a casa” solo nella piscina sulfurea e olografica del televisivo, là dove il pattern diventa placenta. Per questo la televisione dell’Osceno non è semplice spazzatura, volgarotta e rancida, a meno che non diamo più importanza al bidone che la contiene e a come verrà stoccata e ripulita e fatta sparire alla visuale di chi ne ha provato orrore, per produrre subito dopo altri scarichi maleodoranti, e così via all’infinito. Il senso dell’Osceno è tutto qui: competizione, superstizione, cooptazione, castrazione come “poetica” della morte e della derelizione quotidiana. L’immagine-bagliore (glow) sta all’immagine-flusso (flow)77; l’immagine che ci acceca, ci consola e ci deruba di noi sta all’immagine che ci riconsegna all’incompleta sinistra bellezza del nostro stare al mondo, come l’“oggetto” sta all’Oggetto che, al di là delle banalità risarcitorie e dello spazio-tempo da discount, rimescola le carte della Vita e ci proietta verso la condivisione di un destino. L’alternativa è secca, per questo l’Osceno ormai è incombente/inibente e non si ferma all’ossario cui ha ridotto l’immaginario: esso prorompe e dilaga in tutti gli alvei della vita, omologando senza nemmeno una strettoia di dissenso, pacificando senza più un soprassalto di coscienza, schiavizzando senza un anelito di aristocrazia e di pensiero, affastellando segni, suoni, gesti, corpi, sogni, mezzi e fini, confini e mari aperti, senza flessioni,

77

Confr, Carmine Castoro, Maria De Filippi ti odio, op. cit. nella nota 2 della seconda sezione, alle pp. 152-155.

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sfumature, geometrie: una melassa che è l’opposto del melange. La società sceneggiata è per forza di cose oscenizzata. Debray ce ne offre un affresco vignettistico e drammatico: “Voi che nei treni rimpiangete i vagoni fumatori e non fumatori, e non provate nessun bisogno, in metro, di conoscere nei minimi particolari la vita sessuale della vostra vicina che, con il telefonino incollato all’orecchio, spiega in lungo e in largo alla sua amica davanti a tutti che Paulo, il quale già non era un buon amante, è per di più uno stronzo, eccetera; voi cui piacerebbe che vi si indicasse chiaramente dove comincia e dove finisce l’area acquisti, per non confondere centro città e centro commerciale, logica di mercato e servizio pubblico, cupidigia e devozione; voi laici che non volete che il Padreterno forzi tutte le porte qui sulla terra; voi, ostaggi del rumore, che sognate oasi di silenzio, zone riservate al sorriso, così come esistono zone pedonali; voi, stanchi di oscenità, che sognate sorgano bacini creatori di cultura ai margini delle arene da macello, così come un tempo esistevano bacini che creavano occupazione, posti di lavoro; chiedete, dunque, ai vostri ministri, deputati e senatori, guardie di frontiera piuttosto negligenti, ma ben prolissi sui diritti umani, di aggiungere al loro catalogo il diritto alla frontiera, per far fronte agli scivoloni mortali del va bene tutto, tutto si equivale, dunque nulla ha valore. Un diritto? No, il dovere della frontiera – un’urgenza”78. In un mondo senza frontiere e senza reali libertà, sprofondiamo, lentamente ma inesorabilmente, nelle sabbie mobili dello Stagno, o ci addormentiamo davanti al Monoscopio di un network. Fine dei programmi. La nuda verità Le tante recentissime inchieste di tipo economico-giudiziario (vedi caso Ilva di Taranto) hanno svelato il cuore malato del cosiddetto “capitalismo cognitivo”, cerniera perfetta e macabro sigillo fra la nuda vita e la vita nuda. Esso cioè, da un lato assume come risorsa da sfruttare non più soltanto i muscoli, le braccia, le reazioni fisiche, la disciplina dei tempi e dei movimenti a una catena di montaggio, ma anche i desideri, le tensioni, i consumi, i saperi pratici, le inclinazioni del sentire, le competenze intellettuali, tutto quanto può essere inquadrato come la “nudità” psicofisica dell’individuo, i suoi tratti primari e più intimi. Dall’altro, inserendo l’insieme di questo patrimonio organico e comportamentale nelle cinghie, spesso supplizianti, di un funzionalismo logico-industriale globale, ci astrae dalla vita 78

Debray, op. cit., pp. 84-85.

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vera, fatta di passioni, progetti e complessità, per riconsegnarcela “nuda” storicamente e socialmente, ovvero abusata, offesa, deturpata, depotenziata, tarlata di disoccupazione, disperazione, isolamento, guasti ambientali e cieli rattrappiti. Esattamente quanto succede in tutte le cosiddette “periferie” del mondo della miseria diffusa e del lavoro che non c’è, fra fabbriche che producono morte e un’esistenza che, senza individuazione all’interno della collettività e del tessuto economico, sa di tremore e di vuoto. Pietro Barcellona: “L’epoca in cui viviamo si caratterizza per la trasformazione del processo riproduttivo sociale in fattore produttivo economico, che assume la creazione della vita a elemento del ciclo dell’accumulazione capitalistica”79; “Ciò che sta accadendo è una messa a profitto dell’intera vita degli uomini e delle donne, che annulla ogni tradizionale distinzione fra tempo di lavoro e tempo di vita, fra autonomia della società e produzione di valori monetari”80. Barcellona individua nello stigma dell’“utilizzabile e del traducibile” la cifra di un’estetica di massa incistata in un assetto economico basato sul neoliberismo più feroce, sorretto da una ipertrofia dei linguaggi scientifici predittivi e costrittivi, che riducono la vastità e bellezza dell’agire umano in asettiche curvature evoluzionistiche, in sistemi chiusi e deterministici all’interno dei quali ogni oncia di libertà, ogni finalità autopoietica, ogni ombra del Mistero e del Tragico viene convertita in eliche del dna o formule matematiche. Un patto scellerato fra Denaro e Scienza, con la complicità della Comunicazione che ci offre istanti slacciati e parole senza senso. Ecco dunque rimpicciolirsi e impoverirsi quello spazio della relazione, dell’affettività, della territorialità, del riconoscimento reciproco e dell’apertura al futuro; e un divenire, invece, pervasivi e tentacolari da parte di quei dispositivi che ci condannano alla “paura”, appunto, di non farcela, di non comprare sufficientemente, di non rinnovare costantemente la nostra vita secondo i diktat del marketing e delle speculazioni finanziarie, pronti a spolpare la nostra interiorità in nome di una finta sicurezza, di una nuova formula di cittadinanza, parossistica e conveniente solo per i poteri forti. Senza effettività e coscienza, coltiviamo – secondo Barcellona – “la vacua fluidità del piacere”, un naufragio perenne dell’io, una rottura col simbolico. Chi sono tutte quelle persone che coltivano il riposto desiderio di ottenere la grande svolta nella vita, di diventare “personaggio” dello spettacolo, di vedere apprezzate doti canore inesistenti, che, visto lo smottamento qualitativo che travolge i palinsesti televisivi da anni, riten79 80

Pietro Barcellona, La speranza contro la paura, op. cit. alla nota 55 della prima sezione, p. 62. Op. cit., p. 63.

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gono di potersi ritagliare un loro orticello di notorietà con qualche smorfia, due barzellette e una canzoncina a cappella, affollando a decine di migliaia i casting dei reality più imbecilli e delle trasmissioni di maggior impatto sulle masse? Sono tutte persone sottilmente disperate, spiazzate dai magri bilanci, violentate dall’anonimato, disprezzate dal Sistema, che scelgono il circo, l’avvenenza, l’arte del camuffamento e dell’improvvisazione più sbilenca per dare un senso a esistenze altrimenti soffocate dai ritmi stanchi della periferia, o ingrigite da un applauso, da una gratificazione che stenta ad arrivare, nelle cinghie salariali come nelle relazioni interpersonali. Una sorta di depressione felice e connivente – potremmo definirla – che sposta le lancette dei nostri orologi biologici81. Ma se la sottraiamo alle striminzite interpretazioni cliniche e farmacologiche, la depressione può essere rappresentata come una cresta, una linea d’ombra che tratteggia la vicinanza, e frequentemente la sovrapposizio81

Un fenomeno dilagante su Internet negli ultimi anni è caratterizzato dalla massiccia diffusione di portali di shooting fotografici all’interno dei quali improvvisate “modelline” di provincia si candidano per servizi di glamour, fashion o nudo senza la minima competenza nel settore, tantissime volte senza nemmeno la minima predisposizione fisica a questo tipo di professione. A fianco di tante altre che, invece, hanno tutte le qualità in regola per esercitarla (Fotoportale.it da questo punto di vista offre una fauna umana molto diversificata). Sicché si assiste a grotteschi cataloghi di presentazione dove, obiettivamente, spiccano più i difetti fisici e l’improvvisazione che altro. Spesso l’autocandidatura delle ragazze prelude, sotto le mentite spoglie di una prestazione artistica, a un giocarsi tutte le carte possibili col proprio corpo, pur di guadagnare presto e bene, o di soddisfare un narcisismo altrimenti spiaggiato nelle vicende ordinarie della vita. Non va meglio nella trasmissione Uomini e Donne che, ormai, ha da tempo sancito l’inizio dell’era dei casting permanenti. Alla fine di ogni puntata una redattrice fa un mini-spot sui titoli di coda per chiamare a raccolta un po’ tutti, semplicemente sulla spinta a partecipare: non sono previsti titoli, doti preliminari, nulla. Basta chiamare e presentarsi per essere giudicati dagli autori. Il grido dell’epoca odierna è: balliamo, cantiamo, esibiamoci tutti, diventiamo star, comunque proviamoci! La transumanza verso il televisivo, come pecore verso l’ovile, con i pastori a fianco che ne seguono numero e cammino. Fenomeno di massa di cui non posso non sottolineare un corrispettivo ancor più temibile e spaventevole che corrisponde alla presenza massiccia di minori, di bambini, che in tenerissima età (e portati con mistica speranza di successo dagli stessi genitori) vengono ormai messi su un palco, sotto la luce dei riflettori a esibirsi con un microfono in mano, in trasmissioni come quelle della Clerici o di Gerry Scotti, per citarne due. Abituati in fasce al culto dell’apparire e della fama ad ogni costo, come minuscole proiezioni della grandeur mai raggiunta dagli adulti tutori. Dice Julian Marias, Persona. Mappa del mondo umano, Marietti, Genova-Milano 2011 (p. 57): “A volte , la paura porta persino a “cancellarsi”, a “non essere nulla”, a rifugiarsi nel gregge meramente presente, rinunciando alla biografia personale”.

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ne, fra due aree emozionali e comportamentali ben precise. Da un lato, l’infondatezza del nostro essere, la tragicità della condizione umana, la malinconia che sa di un infinito irraggiungibile, la fragilità di ogni nostro apparire e dire. Dall’altro, un sentimento di esclusione, di precarietà che sa di lotta per la sopravvivenza, uno stress psicologico incombente dettato da bisogni insoddisfatti e frustrazioni. La prima mappa, se così possiamo definirla, insiste sul lato oscuro ma incoercibile della nostra ontologia profonda. Fattore altamente “depressivo” per via dell’assenza di garanzie, di paradigmi di salvezza, di certezze sul chi siamo e dove andiamo. La seconda è frutto di meccanismi sociali cooptanti, di dispositivi relazionali, politici e produttivi innescati da un certo modello di sviluppo che da tempo, ormai, sfida e sfibra l’individuo a vantaggio di classi più abbienti e di sistemi di controllo pervasivi e annichilenti. È alla giunzione di queste due dimensioni che Aldo Bonomi intravede quella “terra di mezzo tra l’Io e il Noi”82 che sa di sconfitta, avvilimento ma anche di insicurezza creativa e di riaccensione dei legami affettivi e comunicazionali così offuscati da un capitalismo onnivoro e alienante. In Elogio della depressione il sociologo intrattiene un dialogo con lo psichiatra di impronta fenomenologica Eugenio Borgna, e il libro, scritto a quattro mani, è proprio il tentativo di vedere nella depressione non solo uno stigma della nostra epoca caratterizzata dalle “passioni tristi”, dalla inermità, dall’oblìo dei grandi valori, ma anche un’oscurità che apre alla luminosità dell’essere, una dignità della sofferenza che contiene i germi della bontà, della gentilezza, della non violenza, e pur tuttavia la “sfrenatezza” – come dice Romano Guardini – che fa traboccare a fiotti la vita dalle anime apparentemente più disagiate e pensose. La “terra di mezzo”, quella sospesa come un lembo di speranza fra le pene dell’identità e lo squassamento delle contraddizioni sociali, urla insomma la necessità di una “comunità”, di una narrazione collettiva, di una trasversalità della conoscenza e del sentire che nel pozzo nero dell’esistenza, nella notte della nostra origine, colga un elemento di condivisione, di pathos, di slancio di libertà e vicinanza. Come a dire che, proprio in un momento storico in cui la fame, la disoccupazione, la crisi delle ragioni del cuore, il collasso delle istituzioni, la perdita dell’apprensione dell’altro, allargano e ulcerano le nostre ferite quotidiane, consegnandoci all’infelicità di un ingovernabile desolante scoramento, proprio allora, proprio lì, va cercata una cerniera più analitica, più sommersa e sorprendente con il dolore generale, 82

Aldo Bonomi - Eugenio Borgna, op. cit., alle pp. 5-52. Il virgolettato è il titolo dell’intero saggio di Bonomi.

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pre-categoriale dello stare al mondo in quanto tale. È la dialettica della “nuda vita” e della “vita nuda”, secondo Bonomi, ed è proprio negli attuali ferocissimi risvolti della net-economy che lo spiazzamento, l’angoscia, il rattrappimento delle menti, la mancanza di un affaccio al futuro, diventano nutrimento palpitante, drammatico, ineludibile per un ripensamento globale della propria immagine e del vivere in mezzo agli altri. Il sangue che deve portare al senso. La depressione come turbamento e malattia che riporta a quello “spaesamento” primario, a quella “comune terrestrità”83 dove è già data l’inconsistenza, la vertigine, per tutti, e dove l’unico codice non può che essere la mutualità, la fratellanza, la luce buona di un patire che va trasceso. Dice Bonomi: “Un esercito della società dei servizi che lavora mettendo al lavoro la propria nuda vita, cioè il pensare, il sentire, il ricordare, il comunicare. Dentro questo chi non ce la fa a reggere è out, è depresso. O, se non ce la fai, ti devi impasticcare per reggere il livello di stress… Dall’altra parte, anche nelle nostre città, viene sempre più avanti la vita nuda, il mangiare, dormire, coprirsi, le cose elementari del corpo e quindi le vere differenze sono fra chi mette al lavoro la propria nuda vita e chi ha solo la propria vita nuda… differenze che spaccano in due il corpo, scindono la mente dal corpo e così spaccano il corpo sociale”84. Bonomi e Borgna, dall’alto delle loro esperienze professionali, uno sul territorio e nei microcosmi locali, l’altro a contatto con la follia, le psicopatologie, le morse d’acciaio dei deliri e delle diagnosi mercificate delle mura ospedaliere, è come se ci mettessero in guardia, ma ci offrissero un’opportunità irrinunciabile. Finite le ideologie del ‘900, scoperchiate le comode dimore del concetto di classe o di nazione, evitare il pauperismo spirituale e la disgregazione dei rapporti interpersonali diventa un imperativo, per risolvere il quale bisogna recuperare quella che, proprio Borgna, con il solito amorevole e raffinato acume di “basagliano”, definisce “comunità di destino”: l’ultima chance di ricomposizione delle schegge della nostra anima e di reintegro di un rispetto verso la solidarietà, la reciprocità, l’immedesimazione negli abissi e nelle debolezze di chi ci accompagna nell’aspro cammino della vita. La storia si ricongiunge alla metafisica del soggetto attraverso il bagliore di una metafora dell’empatia che finalmente sbaraglia l’entropia. Dice Borgna: “La fragilità, la depressione, si fanno così fonti di aggregazione sociale e di rivolta morale, e testimoniano della presenza di persone che sono 83 84

Op. cit., p. 125. Op. cit., pp. 125-126.

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incapaci di aggressività, e di violenza, e che, chiedendo di essere aiutate, conoscono immediatamente quelli che sono i bisogni di aiuto degli altri. Questa comunione di anime ferite dalla vita, questa comunità di destini, formano come lo sfondo silenzioso di una vita dominata, e divorata, da ben altri orizzonti: quelli delle ribalte sempre accese, del successo ricercato in ogni campo con febbrile ostinazione, delle ricchezze ostentate e segrete, della indifferenza alle ragioni del cuore e della insensibilità al dolore, al sacrificio”85. “Ripartire dai sussurri e non dalle urla”86 significa allora per i due autori abiurare il potere della biopolitica, il management delle emozioni e dei desideri, e riabbracciare il vocabolario della “cura” all’interno del quale la logica del gestire e dell’accumulare cede il passo al professare la verità di sé. Come diceva Foucault: “Fonda te stesso in libertà, attraverso la padronanza di te”. Pier Aldo Rovatti, avversario di quella che definisce come una dilagante “cultura terapeutica” che ci ha reso tutti pazienti, tremanti, ansiosi, qualunquisticamente disagiati psichici, bisognosi di interventi lenitivi e di “consigli” su come condurre le nostre esistenze, propone la bellezza di un “produrre affanno”87 e di una “respirazione contro”88 come argine a quelle che, a uno sguardo più approfondito, non possono che apparire “ortopedie per sedare i conflitti”89. La consulenza generalizzata, il cosiddetto counseling, non ha più nulla del sapere filosofico che impone, al contrario, aporia, paradosso, senso del superamento dei limiti e incessante messa in gioco del soggetto nelle predicazioni scientifiche sugli oggetti e le sue passioni. Si è passati, insomma, dalla sorveglianza disciplinare di foucaultiana memoria, ad un regime di “autosorveglianza”: introiezione, con sempre meno varchi e ritorni, di quei discorsi del potere ufficiale che deve addomesticare e normalizzare ogni simbolicità del dolore e della contingenza (Bonomi parla in modo folgorante al riguardo di “psicocrazia” contro la “somatocrazia” delle fabbriche e dei manicomi). La macchina del sapere-potere ha come suo rovescio della medaglia l’eclissi della libertà, della nudità dell’uomo che solo nella “parola ritardata”90, nell’arretramento dal potere, in quel ritmo dissociato che spezza la perfetta musicalità della soggezione alla lettera del dominio, può ritrovare la sua più netta sostanza filosofica, là dove il rischio si armonizza col benessere e dove la cifra della ribellione, 85 86 87 88 89 90

Op. cit., p. 124. Op. cit., p. 118. Pier Aldo Rovatti, La filosofia può curare?, Raffaello Cortina, Milano 2006, p. 47. Op. cit., p. 49. Op. cit., p. 33. Op. cit., p. 76.

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questa sì, è già salute. “Noi non smettiamo, a ogni momento, di costruire un soggetto padroneggiabile e dunque padroneggiato, però possiamo andare contemporaneamente nella direzione opposta, introdurre delle deviazioni, decostruire e dunque allentare il soggetto che ogni volta siamo… Uno sdoppiamento virtuoso, una lotta tra noi e noi stessi per uscire dalla bolla in cui siamo tenuti e ci tratteniamo”91. Nell’“abitare la distanza”92, capiamo che un’estraneità, un’alterità incolmabile presiede al nostro equilibrio, ed è ancora una volta in quella che Rovatti chiama “decompressione”93, e che fa davvero rima con il concetto di “depressione” di Bonomi e Borgna, che possiamo ritrovare una scena, un luogo di tutti con tutti dove la terapia da somministrare è omeopatica alla nostra splendida flebile incompletezza. Clochard dell’anima Probabilmente ha ragione Marc Augé: la parola più ricorrente e che meglio potrebbe rappresentare la nostra attualità è “intrigo”. Siamo pieni di intrighi. La cronaca ne gronda ogni giorno. Ci sono intrighi di palazzo. Intrighi nel mondo degli affari. Intrighi polizieschi. Intrighi nella politica internazionale. Intrighi militari. Intrighi d’amore. E come in tutti gli intrighi che si rispettino, per l’appunto, la “messa in intrigo”94, come sostiene il grande etnologo francese, è la capacità di cui si dota una società per fingere, in un certo senso, che il mistero la metta realmente in discussione, ne destabilizzi le fondamenta. L’insondabile, infatti, non è mai legato a una funzione conoscitiva o evolutiva, ma a una sorta di “soluzione” da romanzo giallo, a uno smascheramento più o meno veloce, a un’operazione di cattura del malvagio o di affioramento di un segreto. In pratica, è come se nell’intrigo assistessimo a una mobilitazione incessante e mirata di tutti i dispositivi più acuti, a livello di potere e relazione, finalizzati al ristabilimento dell’ordine e dell’equilibrio risaputi. Un ritorno alle convenzioni pacifiche. L’arresto del colpevole. Il giudizio dell’infedele. L’ossessione del passato. Il ripristino della tradizione. E non è cosa da poco. Se vogliamo davvero – ci suggerisce Augé – renderci conto di quanto abbiamo sottosviluppato il nostro potenziale di effettiva comprensione delle contraddizioni del sistema globale in cui viviamo, e offrire a noi stessi una lettura più

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Op. cit., p. 80. Op. cit., p. 75. Op. cit., p. 69. Marc Augé, Futuro, Bollati Boringhieri, Torino 2012, p. 19.

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accorta, proiettiva, antagonista si direbbe con una etichetta sessantottina, dobbiamo ripartire da questa capsula dell’“intrigo”, da questa bolla cosmica del “curioso” attraverso cui la conservazione disattiva la carica detonante del nuovo. Il rito in effetti, non è fatto solo di giri intorno a un asse, di finti cominciamenti, di circolarità chiuse, ma anche – dice Augé – di “inaugurazioni”, di incontri e scontri veri, di forme di lotta e libertà, di linee di fuga attraverso le quali, e lungo le quali, ci attrezziamo per migliorare lo stato di cose in cui viviamo. Dimenticando le arcane cifre e rilanciando la vita in dimensioni etiche collettive più integranti, e meno integraliste. “Bisogna poter pensare il tempo come messa in intrigo ma anche, in modo complementare, come inaugurazione... Perché la nostra società, quella della trasparenza e dell’eterno presente, è caratterizzata da un deficit rituale”95. Ritrovare il significato vero, pregnante, intersoggettivo delle parole, contro tutti gli artifizi dei padroni del mercato, contro le “concezioni totalizzanti” dei media e dell’innovazione che ci hanno prostituito, innanzitutto, nel linguaggio, questo è l’esercizio che dovrebbe accompagnare la nostra più ferrea volontà di costruire una felicità futura. Ovvero: “reintrodurre lo sguardo critico in quei territori che ci paiono tanto più naturali quanto più ci troviamo a farne parte senza sapere come sia potuto succedere, riutilizzare le armi dell’analisi per mettere in dubbio l’indiscutibile e l’indiscusso… per salvare l’idea di progresso risollevando il problema dei fini”96. In un libro che sotto l’asciuttezza e il rigore nasconde inquietudini e turbolenze del sentire, Augé ci spiana la strada verso una dichiarata opposizione a quelle “logiche del senso e della fede” che hanno riguardato, le prime, l’esperienza mitica del pensiero, le seconde, quella fideista e in special modo monoteista, entrambe portavoci di una strategia della rinuncia alla soggettività, di implosione della storia e di interruzione della progettualità, intesa quest’ultima da Augé sotto il paradigma classico dell’umiltà del lavoro scientifico e della rivalutazione della figura dell’intellettuale, così bistrattata e marginalizzata negli ultimi anni di trionfo della comunicazione mediatica. Sartrianamente allora, bisognerebbe tornare all’intellettuale non “specialista della ricerca” o uomo-medio, uomo dei mezzi, ma “tecnico dell’universale”, colui che “si immischia in ciò che non lo riguarda” e che fa della prassi del vero, della saggezza educativa e delle utopie pragmatiche e progressive il suo personale contendere. In nome di quell’“umanità

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Op. cit., p. 41. Op. cit., p. 80.

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generica”97 che è il destino di tutti nel volto, nelle debolezze, nei bisogni di ciascuno. A questa dinamica del particolare e del generale nella filosofica apprensione del reale e delle sue possibili trasformazioni, Augè si era appellato nel suo Diario di un senza fissa dimora. Un ispettore del Fisco a riposo si guarda allo specchio e si ritrova povero all’improvviso. I duemila euro scarsi di pensione che percepisce mensilmente vengono quasi per la metà assorbiti da un esoso assegno di mantenimento versato alla prima moglie. La seconda l’ha appena mollato lasciandogli l’affitto di casa che da solo basterebbe a rovinarlo. Deve stringere la cinghia. Niente cellulare, tv, elettronica. Bisogna subito abbandonare l’appartamento. Recuperare la cauzione del contratto. Avvertire la portinaia. Ridare le chiavi. Svendere a prezzi spartani il mobilio a un rigattiere astuto e senza pietà. Cominciare a fare le prove per quello che sarà il nuovo tetto, da ora in poi: l’automobile. Comincia così, con una scena neanche tanto surreale, il libro. Un esercizio di etnofiction, come lo stesso autore precisa nell’introduzione. Ovvero, contrariamente alle classica formulazione di un “fatto sociale totale”, per dirla alla Mauss o alla Levi-Strauss, che parte da architetture generali per poi, in qualche modo, dedurre le imprese e i punti di vista soggettivi, l’etnofiction parte dal particolare dell’uomo, dalla sua psicologia, dalle sue circostanze materiali, da “quell’insieme di carne viva, emozioni, incertezza o angoscia che si cela nei temi scelti”98 per inquadrare da questi eventi le configurazioni più ampie che lo avvolgono, o stritolano. Non è più “eroe”, dunque, ma testimone e simbolo, coscienza vissuta e lacerata che “guarda dentro di sé e scopre la follia del mondo”99. E la follia, nella metodologia e nella filosofia di Augé, non è genericamente la recessione economica, le sacche di disoccupazione, l’implosione dei sistemi istituzionali, quanto il rattrappimento dell’individualità, l’ondeggiare del sé, il suo disancoraggio e naufragio in uno sfibrato tessuto di connessioni, prima ancora che di relazioni, che ne atomizzano le scelte e ne neutralizzano gli sforzi comunicativi ed affettivi. È ancora una volta il “nonluogo”, baricentro da decenni delle speculazioni di Augé, a spezzare le trame espressive del protagonista, ad assorbirlo nelle sue luci intermittenti, a trasformarlo in un termostato dove socialità, valori condivisi, finanche le più elementari forme di progettualità, sono accesi e spenti alla bisogna,

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Op. cit., p. 123. Marc Augé, Diario di un senza fissa dimora, Raffaello Cortina, Milano 2011, p. 10. Op. cit., p. 11.

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e come perennemente estradati, involontariamente sceneggiati, dimidiati fra ruolo e anima, funzione e partecipazione. L’uomo diventa pellegrino, profugo, utente dell’esistenza, anche se mancano caselli e ticket da pagare. La spaziotemporalità, trascendentale e categoriale in Kant, diventa on the road in Augé, trama di rapporti, scena vivente, paesaggio di incroci, non di fuggevoli transiti. È cosmo, modulazione dell’io nel mondo, presenza chez soi, presso di sé, attraverso il “noi”, tessitura di pelle e urbanità. Identità, relazione, storia. Ovvero: riconoscimento reciproco attraverso il fare e la memoria, processo di simbolizzazione profonda. Esattamente ciò che manca nel nonluogo dove c’è solo “solitudine e similitudine”100, codice d’accesso, indifferenza senza integrazione, gratificazione senza passione. Una dinamica a dir poco tettonica: “Il luogo e il nonluogo sono piuttosto delle polarità sfuggenti: il primo non è mai completamente cancellato, e il secondo non si compie mai totalmente”101; “Il ritorno al luogo è il rimedio cui ricorre il frequentatore di nonluoghi”102. Esattamente ciò che accade al protagonista di questo tagliente e attualissimo Diario. La vera condanna al nonluogo per un neo-clochard come lui non è tanto dimenticare salotti e stanze da letto e vagare per cavalcavia, parcheggi, stazioni di servizio e snodi ferroviari abbandonati e divorati dalle ortiche, quanto l’avvertire una vertigine di estraneazione dal consorzio umano anche in un bar “caldo” di avventori e servizi rilassanti, nella locanda dove ritrova il dolce contatto fisico con una donna che forse ama, nella villa dell’amico dove il giardino, l’ospitalità, il buon vino e un nostalgico tramonto non lo convincono ugualmente ad accettare un trasloco e un’accoglienza. Mentre, per converso, il ciglio rovinoso di un dirupo dove una disaccorta frenata lo fa uscire fuori di carreggiata, diventa uno stupendo pensatoio, fra i sospiri del bosco, al riparo dai rumori della modernità, per riflettere sulla sua felicità mista a disperazione. Ecco che allora il nonluogo si rivela in tutta la sua tragicità. Esso non è solo il recinto anonimo e spersonalizzante di autostrade, ipermercati, alberghi e bistrot. Non sopprime solo nel consumo e nella folla le diversità e le radici di ciascuno preso nella sua irripetibilità. Esso è lo smarrimento sempre incipiente, l’“assenza” incolmabile che geograficamente traluce, lo scarto che incombe fra un senso possibile e quell’arido imitare la “parte” dell’ex funzionario, sempre benestante e in carriera, che sorride amabilmente a un barista ma non vede l’ora di imboccare a tutta velocità la via che porta verso la Senna. Per spa100 Marc Augé, Nonluoghi, Elèuthera, Milano 1993, p. 95. 101 Op. cit., p. 74. 102 Op. cit., p. 97.

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rire a tutto e a tutti, verso il vero “luogo” che, alla fine di un lungo percorso di vita, rende forse equivalente il fantasma di un suicidio alla prossima baracca in cui adagiarsi. Il nonluogo, allora, come scarto fra una finta familiarità del consumo e una comunanza del destino che si apre come una crepa, una slabbratura nei meccanicismi e nelle oscenizzazioni del sentire, sicché un giorno, proprio attraverso l’esercizio di una solitudine-aggregante che si fa largo fra ticket aerei e menù di ristoranti, potremmo paradossalmente scoprire che “l’insieme dello spazio terrestre diventerà un luogo”103 e che solidarietà e prossimità, sature di oggetti, possono ritornare alla loro luce primordiale se soltanto le sganciamo dagli airbag con cui il Capitale ne ammorbidisce gli urti, ovvero da quei dispositivi di sicurezza passiva che ne leniscono, affievoliscono la forza dirompente e desiderante. Il nonluogo allora come un precipizio dell’anima, volta celeste e deserto da mettere a frutto, reticolo sanguigno della nostra nullità, “quell’essenza, per cui l’immagine diviene paradossalmente il limite e il luogo dell’illimitato, cioè la misura dell’incommensurabile, il visibile dell’invisibile, il noto dell’ignoto”104. Cos’erano infatti gli “agalmata”, le effigi sacre dell’antichità greca classica e non solo, se non simboli, figurati o scritti, di tutto quanto non veniva colto nella sua immediatezza: cicli della natura, costellazioni, movimenti di astri, passaggi di stagioni, ma anche quel generico “divino” fatto di morte, amore, guerra, follia, fertilità, abisso, nascita e discendenza, prima che si trasformassero in gerarchie olimpiche e nell’incorporeità di idee fluttuanti e di entità trascendenti? La luminosità e incorruttibilità del “fuoco etereo” si manifestava attraverso una rete antropomorfizzata di evocazioni incarnate, ma poi a poco a poco, con la progressiva cristianizzazione dello spirito, il simbolo traslocherà verso la virtù stessa, l’astinenza da ogni compromissione sensibile – come sottolineerà Porfirio –, il puro silenzio, e ogni rappresentazione fisica sarà retrocessa a idolo insignificante. In questa maniera sembra compiersi una perversa parabola dell’immagine fino ai giorni nostri: da un lato riproduzioni visive senza senso e senza coinvolgimento affettivo, dall’altro un salto del mondo empirico verso il sogno, le seduzioni, le fedi, le versioni fittizie dello stare insieme. Un presente a forma di spirale. Un passato statico che divora tutto. Contro entrambi Augé ci mette in guardia. E il futuro? Serve l’immaginazione, che per Porfirio era sensazione temperata da talune attività 103 Op. cit., p. 110. 104 Mino Gabriele, Simboli e simulacri, introduzione a Porfirio, Sui simulacri, Adelphi, Milano 2012, p. 27.

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dell’intelletto, e per Filostrato forza “impavida” e imperturbabile che si fa da sola un’idea della realtà. Un coraggio che prima o poi dovremo ritrovare. Perché la Tecno-politica e lo Spettacolo-Impresa ci costituiscono come frame, come addensante; soprattutto adesso che al canonico rapporto Stato/stasi105 subentra quella “sofisticazione” che ci costringe a una lotta che sembra non avere più l’odore delle barricate e della polvere da sparo, ma proprio la risolutezza di una “disintossicazione eroica che ci purgherebbe dei sonniferi distribuiti da tanti dispensatori di torpore”106. L’ineludibile dimensione della tecnica e del sapere applicato al potere va, dunque, squadernata, come scuoiata, aperta come un baccello e ricondotta – soprattutto in un’epoca che le informazioni le ha esternalizzate in mega-contenitori e banche dati che interagiscono con le nostre memorie cerebrali – ad una “intuizione innovatrice e vivace”107 che non abdichi all’ordine e alla ragione ma conferisca loro una tonalità e una curvatura non asettici, non captanti, intercettando quell’“enorme domanda politica”108 che incalza da più parti. Dice Serres: “Mi converto a questo vuoto, a quest’aria impalpabile, a quest’anima, espressioni che traducono questo vento… invento se arrivo a questo vuoto. Non mi riconoscete più dalla testa, né da ciò che vi è stipato dentro, né dal suo profilo cognitivo singolare, ma dalla sua assenza immateriale, dalla luce trasparente che emana dalla decapitazione. Da questo niente”109. È il niente del nuovo, il vero atto fondante, l’intarsio delle singolarità che creano e delle loro irripetibilità, il codice del “vivente singolare”110che incrocia il generale e l’individuale, l’indecifrabile e il cifrabile, l’apparire nell’unicità. A patto che rifranga questa sua forza verso la capsula dello Stesso e gli apriori del sociale determinato e delle astrazioni centralizzate che si attivano come satellite/sonda rispetto al soggetto, ovvero orbitano intorno a lui e lo auscultano, per condizionarlo nello sguardo e nell’intimità. A patto che lasci addivenire un universo non conformista ma screziato, multifacciale, polimorfo, “tigrato” dice Serres. Diversamente, l’eterogeneo dell’uomo unico, viandante in compagnia di altri uomini unici, si lascerà permeare dal siero “magico” delle chance, dallo sfavillìo degli strumenti a disposizione, dalla dispettosa arroganza di chi crede di sapere oltre ogni insegnamento sol perché le sue fonti informative si sono moltiplicate, dal 105 106 107 108 109 110

Confr. Serres, op. cit., pp. 74-75. Serres, op. cit., p. 62. Op. cit., p. 24. Op. cit., p. 54. Op. cit., p. 30. Op. cit., p. 71.

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brusìo che sarà solo chiacchiericcio e non preparazione a un avvento. La singolarità dovrà essere sempre un “ex” che va verso l’“extra”, una provenienza che si coagula e spazia nell’esistenza, ma proponendosi come ingovernabile, inimitabile e in prima linea nella battaglia per un oltre. Altrimenti è un fantoccio abbigliato, iperdotato e imbellettato dal Sistema. Serres parla della “comune lallazione” del “noi soffriamo”, “rumore di fondo”111 e voce dell’umano. Dunque, l’elaborazione mentale e culturale più dolorosa sarà quella di imparare a vederci come illusioni spazializzate, come nulla che-però sente. Un che-però che è l’atto giuntivo fondamentale, l’experimentum continuo e ineludibile del con-essere, assunzione titanica della sua cifra ospitale/ostativa, non assuefazione tetanica a dittature, teologie, tele-visioni che squarciano le nostre anime col potere irrealistico delle “loro” illusioni, con la misura colma e calma di un “detto” nel quale ci accomodiamo come servi assonnati112. Quando c’è un sapere che occhieggia all’unione virtuosa di necessità e libertà, sistematicità e contingenza, viene in mente la bellissima metafora del filosofo Jean-Luc Nancy che avvicina proprio la cascata dei silenzi e delle significazioni, delle tracce e dei punti di riferimento di un corpo umano vissuto, al Corpus Iuris del diritto romano, composto di materiale normativo e giurisprudenziale, “un catalogo invece di un logos, l’enumerazione di un logos empirico, privo di ragione trascendentale, una lista raccolta qua e là, aleatoria nel suo ordine e nella sua completezza, una recitazione di parti e di pezzi, partes extra partes, una giustapposizione senza articolazione, una varietà, una mescolanza, né esplosa né implosa, dall’ordine vago, sempre estendibile”113. Dunque, un corpus che unisce linee di continuità e deroghe, assetti ed eccezioni, architravi e varchi laterali, misure contenitive e procedure di fatto. Questa “giuridicità” del corpus che Nancy intravede nel corpo come presenza, amorevolezza, abisso, singolarità, follia e che dice dell’apertura infinita dell’essere, non è dei modelli chiusi, tipo reality e talent-show televisivi, più simili a sistemi idraulici (dove chiuse, valvole e rubinetti regolano i flussi ma senza cambiamenti sostanziali e nuove incidenze, pena il crollo e l’emergenza) che non a itine111 Op. cit, citazioni alle pp. 51-52. 112 Dice David Cooper, La morte della famiglia, Einaudi, Torino 1991 (p. 94): “La vera fenomenologia dell’io è basata sulla realizzazione della sua non-apparenza affiorante in esperienze critiche di assenza. Per dirla in altro modo, l’io è sempre il luogo dal quale siamo venuti e verso il quale andiamo, ma l’apparire della nostra venuta è lo scomparire di quel luogo, che rimane sempre senza esistenza sia nel passato che nel futuro e, con maggiore evidenza, nel presente”. 113 Jean-Luc Nancy, Corpus, Cronopio, Napoli 1995, p. 45.

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rari incerti, clinamen comportamentali, aree di svincolo delle prevedibilità e delle sensibilità. Nel corpus-corpo c’è l’idea della libera ecceità, della moltiplicazione dei casi e della loro bellezza esemplare, l’irripetibilità che si fa lezione e nuovo corso. Nei sistemi chiusi, la variatio interna è solo una modulazione di qualcosa che prima o poi si abbatte in modo inappellabile, eseguendo un ordine, un interesse centralizzato, una finalità senza contrappunti, simulando la ricchezza delle risorse, ma spaziando la Legge. Una fiction di supporto. Nella ratio dello spettacolo può esserci solo una discontinuità sempre irretita dal codice segreto, dalle “password” autorali, dagli ingranaggi della macchina televisiva. Un testo costipato, già-scritto, che allarga e restringe le sue maglie, senza che i sensi che sgocciolano ai lati possano creare nuove correnti e nuovi alvei. L’illusione del capitalismo applicata all’immaginario e alle irregolarità accidentali è tutta qui: nella menzogna di una libertà o di un eccesso che è solo la riconferma più triste del dedalo che li opprime114. Ma possiamo dire di più. La microfisica degli pseudosaperi razionalizzanti/repressivi che hanno come unico portato euristico la liquidità dei propri presupposti concettuali e la forza estetico-pubblicitaria con la quale impongono il loro messaggio a una cittadinanza ormai inerte, si trasforma, a livello televisivo, in una ragnatela di programmi che, guarda caso, stanno riscuotendo un notevole successo. Un intero palinsesto riproduce la necessità del Sistema di annichilire, inaridire, disarcionare, menomare, slogare alla base tutto quanto è evento, soggettività o situazionalità che aprirebbe pericolosi scenari di critica interna. Il canale Sky Real Time ha fasce giornaliere coperte solo da questo tipo di offerta115, là dove emergono figure, 114 Dice Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza, Bari 2012 (p. 24): “Invece di riconoscere il reale e immaginare un altro mondo da realizzare al posto del primo, pone il reale come favola e assume che questa sia l’unica liberazione possibile: sicché non c’è niente da realizzare, e dopotutto non c’è nemmeno niente da immaginare; si tratta, al contrario, di credere che la realtà sia come un sogno che non può far male e che appaga”. Seppur all’interno di una riduttiva lettura del postmoderno (ingrata, ritengo, verso la lettera degli insegnamenti di Lyotard in La condizione postmoderna), è interessante vedere come Ferraris chiami questa sorta di mansuetudine dell’immaginario “realitysmo” (termine rintracciabile anche in altri autori) attribuendole i caratteri di un “utopismo violento e rovesciato”, perfettamente in linea con il mio concetto di Osceno. (Nello spot televisivo della Schweppes, per esempio, un giornalista intervista la testimonial Uma Thurman la cui perturbante femminilità lascia intendere all’interlocutore che desideri del “sesso”. Come coerenza di comunicazione naturale detterebbe. Ma l’attrice lo smonta convinta. Come a dire: non immaginare alcuna notte d’amore con me, ma solo quello per cui la mia sensualità è pagata, ovvero l’acquisto di una bevanda). 115 Ma casi del tutto analoghi ci sono su altri canali Sky tipo Lei, Cielo, FoxLife.

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professionalità, ruoli intra-istituzionali così disseminati e parcellizzati da far schizzare verso l’alto la soglia dell’intrattenimento (notoriamente aduso a curiosità e morbosità), e verso il basso i propositi di lettura d’insieme del sociale così mistificato, corretto e canalizzato in chiave anti-olistica. L’aspetto soft di singoli giochi linguistici, dunque, liofilizza o spappola del tutto il gioco linguistico interdisciplinare della società in toto, che diventa, a quel punto, come un territorio attraversato da tanti canali irrigui e geometrizzato da tante proprietà private, ma senza un’appartenenza o una seppur lontana idea di convivio. Ecco allora gli esperti di “accumulo compulsivo” e di “disordine cronico” agire in Sepolti in casa; gli esperti di “malattie imbarazzanti” (vedi nota 65) nell’omonima striscia; gli esperti di educazione e crescita dei figli in Jo Frost: SOS genitori; gli esperti del mercato immobiliare in Vendo casa; gli esperti di buon gusto, bon ton, look in Shopping night e Ma come ti vesti?!; gli esperti di gastronomia in Fuori menu; gli esperti del risparmio in Pazzi per la spesa; gli esperti di “design delle torte” in Provaci ancora Angelo; gli esperti di nail art in Nail lab; gli esperti di make-up in Make-up time. E poi esperti di problemi di coppia come in Sex Therapy, esperti di giochi, di cerimonie, di detecting, di diete dimagranti; gli esempi potrebbero aumentare, in una sorta di sapere/potereombrello che spiega tutto, insegna tutto, motiva su tutto, distoglie su e da tutto, grazie alla codifica di condotte, a “galatei” di ogni umana decisione, in un isomorfismo immobile fra ciò che accade e ciò che “deve” accadere, fra la parola che la singolarità “si prende” e quella che “le viene data” dalla formula patteggiata corrispettiva. Come dice Agamben, la forma-divita della nuda vita cede il passo alle “molteplici forme di vita astrattamente ricodificate in identità giuridico-sociali (l’elettore, il lavoratore dipendente, il giornalista, lo studente, m anche il sieropositivo, il travestito, la porno-star, l’anziano, il genitore, la donna), che riposano tutte su quella”116. Auspica Nancy: “Liberazione dei corpi, invece, – riapertura dello spazio che il capitale concentra e reinveste in un tempo sempre serrato, acuto, stridente. Corpo made in time. La creazione è, lei sì, eterna: l’eternità 116 Giorgio Agamben, Forma-di-vita, op. cit. alla nota 44 della seconda sezione, p. 91. In questa direzione di oscenizzazione delle singolarità, possiamo ben dire che la macchina della politica offre esempi terribili e diseducativi. Come giudicare altrimenti i “governi di conciliazione” (secondo la definizione di comodo che Berlusconi si è subito affrettato a dare al neonato governo-Letta) che uccidono letteralmente le provenienze ideologiche, i rapporti con la base, la coerenza con l’elettorato che ha espresso un preciso voto, in nome di emergenze che diventano “inciucio”, di coalizioni transitorie che diventano occupazione del potere, di agende istituzionali che diventano un modo personalistico di risolvere “grane” giudiziarie e di ricompattare vecchi corporativismi di natura burocratico-speculativa?

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è l’estensione, il mare che si confonde col sole, lo spaziamento come la resistenza e la rivolta dei corpi creati”117. L’errore di sistema, il blackout della rete, l’interruzione di energia, il default monetario118, sono impasse che rispondono a matrici di senso, configurazioni e lettere la cui dicibilità è sempre parziale, ma il cui potere di controllo è totale. Anche il distacco indotto di alcune sinapsi cognitive nel pubblico di un format televisivo attraverso la finzione di una forma di rispetto (la posticcia autorevolezza ed equidistanza della De Filippi nei suoi programmi, per esempio), è solo il più tronfio e geometrico rispetto della forma. L’aurora di un immaginario televisivo ecologico, fatta di corpi sensi e qualità, è tutta un’altra cosa. “L’uguaglianza è la condizione dei corpi. Che c’è di più comune dei corpi? “Comunità” vuol dire innanzitutto l’esposizione nuda di un’uguale, banale, evidenza che soffre, che gode, che trema. Ed è proprio ciò che l’alba sottrae a tutti i sacrifici e a tutti i fantasmi, per offrirlo al mondo dei corpi”119. Ed è proprio a questa luce baluginante che dobbiamo guardare per muovere le prue del nostro pensiero e del nostro futuro. Siamo tutti clochard dell’anima, dunque, che condividono la miseria e la bellezza. E se l’universo della tecnica è insopprimibile, i “tecnici” professionisti dovranno saper 117 Op. cit., p. 90. 118 L’apparente libera volontà applicata ai circuiti del denaro è particolarmente (e, in un certo senso, spietatamente) messa in evidenza da un altro fenomeno alquanto invasivo, in un momento di forte crisi economica generalizzata: l’iscrizione di singole persone, inesperte nei linguaggi di Borsa, a piattaforme di trading on line, dove, con un capitale iniziale e un account, si entra a qualsiasi ora nelle valutazioni monetarie, nei mercati azionari, nelle più assolute derive di flusso. Sembra tutto a portata di mano, ma nella volatilità più esaltante e umiliante, a seconda di come va e di quanto si punta, e le vite possono davvero cambiare, in un senso o nell’altro, talvolta in pochi minuti. Anche i più esperti non riescono ad applicare i normali saperi finanziari poiché l’imprevedibilità di alcuni fenomeni è fuori da ogni controllo (speculazioni nascoste, lobbies, stati che attuano politiche deflazioniste, vendite di oro su vasta scala che si ignorano etc.), e anche il normale senso comune, la logica pragmatica più semplice naufragano. L’idea portante (e vincente, per chi si è inventato queste “giostre” del quattrino facile) è che con una semplice tastiera di laptop si può scorrazzare dallo yen al dollaro, all’euro, alla sterlina, a famosi titoli tecnologici, accumulando guadagni immediati. Ma non è così. Affatto. Crisi verticali e dirompenti spiazzano e rendono ancor più virtuale il proprio capitale, ora che sparisce in un attimo, non meno di prima che nemmeno lo visualizzavamo davanti ai nostri occhi, se non su un display elettronico. La volontà si confronta con l’aspetto più spettrale e out of balance del Capitalismo, e da leva della libertà, decade a misero tassello di una Matrice fatta di forze oscure e sprofondi improvvisi che ci spingono nelle fauci di un Drago verso cui non abbiamo nemmeno il modo e il tempo di sfoderare una spada… 119 Op. cit., p. 42.

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impugnare bene il timone della nave, altrimenti saranno solo traghettatori osceni verso l’inferno dell’incoscienza, senza passare per il purgatorio della cura120. Junger: “Il mondo storico in cui ci troviamo ricorda una nave che si muove velocemente mostrando ora il lato del comfort, ora quello del terrore. Di volta in volta essa è Titanic o Leviatano. E poiché il movimento tiene avvinto a sé lo sguardo, la maggior parte dei passeggeri ignora di trovarsi al tempo stesso in un regno in cui domina la quiete perfetta”121. L’inferno degli ignobili nostromi ai quali, giorno per giorno, affidiamo il nostro tempo, è sinonimo di flutti perigliosi, o di scogli dove ci infrangiamo, o di secche dove ci areniamo. L’inferno del Tele-Capitalismo è la perfetta equazione fra godimento immaturo e violenza silenziosa. I tecnici dei gol L’attaccante di una importante squadra di calcio di serie A si accascia a terra senza un evidente contrasto con qualche avversario, e subito l’occhio lungo del telecronista lo spinge a porsi interrogativi dai contorni clinici a dir poco circostanziati: strappo inguinale?, stiramento al flessore della coscia?, problema agli adduttori? Supportato, tra l’altro, dall’opinionista che gli sta a fianco, intavola una discussione che di sportivo non ha più nulla se non la prosopopea di chi – stia tranquillo il telespettatore –, nel giro di pochi minuti, saprà dare contezza dell’accadimento: effetti, cause, conseguenze sulla panchina, decisioni del mister, diagnosi, prognosi, interviste a caldo a fine partita, per verificare fino all’ultima nota, fino all’ultima ombra di dubbio quale muscolo, quale fibra, quale ossicino è stato interessato dal “grave” incidente. E mai sia che un dottore della società, un vice, un massaggiatore, o lo stesso giocatore si sottraggano al gioco perverso di una trasparenza totale su quello che è successo a centrocampo sotto gli occhi di milioni di tifosi. Un classico caso, in telecronaca diretta, di come il calcio sia diventato nell’ultimo decennio un sapere articolato che traduce l’evento agonistico in una trigonometria di dati, statistiche, calcoli di probabilità, classifiche, 120 Nei prossimi materiali di riflessione metterò fra virgolette i “tecnici” capaci di aprire faglie di dissenso con il loro stesso agire mediatico, fino al punto da mettere in discussione limiti e argini tradizionali del loro stesso mestiere. I tecnici semplici sono insabbiatori, gestori e rapinatori della parola pubblica. 121 Junger, op. cit., p. 53.

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parallelismi con altri campionati, con altre epoche, aritmetiche di record, piazzamenti, addirittura termini di incidenza nel tempo di un arbitro su una certa squadra, flussi di continuità di prestazioni del tale bomber, medie di gol e di punti se si gioca in casa o fuori, tabelle precisissime sugli infortuni e sui loro dettagli anatomo-patologici. Un serbatoio sempre zeppo di astruserie, combinazioni, somme e sottrazioni da Almanacco permanente del Pallone. E non è cosa da poco. Un sapere così strutturato potrebbe essere tranquillamente definito una pseudo-scienza o una religione mancata. Della scienza, classicamente intesa, ha il rigore concettuale, il linguaggio della categorialità, la professionalità sacerdotale di chi sa e insegna a chi non sa. Ma di essa non ha la consapevolezza della ricerca, l’espansione conoscitiva, l’utilità etico-pratica, finanche la messa in discussione dei suoi stessi principi di partenza. Una scienza, dunque, che è una mistica del particolare, basti vedere addirittura la virtualizzazione che Sky Sport ha fatto in un derby Milan-Inter di qualche tempo fa, riproducendolo in una sorta di videogame a mezz’ora dall’inizio del match vero, con calciatori olografici che giocavano un incontro fittizio programmato con le vere tattiche e le vere formazioni in campo per vedere “come andava” virtualmente. Dunque, una pletora di informazioni in cui converge un alto tasso di opinione e di partecipazione dal basso. E qui si innesta la strisciante “religiosità” del verbosissimo apparato costruito intorno al calcio. Al primo aspetto esasperatamente tecnico e cumulativo corrisponde, infatti, una dimensione effusiva, emotiva, emulativa. Il tifoso si organizza in gruppi, ricade in dualità amico-nemico, prepara l’agone domenicale con striscioni, cori, viaggi e ritorni, adora i suoi miti, è pronto a battersi per loro, anche a scendere a un corpo a corpo fisico e pericoloso per la sua incolumità, in pratica si identifica in un meccanismo marziale e vocazionale tipico di una “religione urbana” che simula quella del dio e delle istituzioni terrene. Il Calcio è un Logos, con derive che, non a caso, appaiono spesso rudimentali, pre-razionali, grottesche negli esiti. Oggi i servizi sportivi tele-trasmessi non hanno più il carattere dell’occasionalità dell’evento – o quello della marginalità di un settore giornalistico che, tutto sommato, potrebbe e dovrebbe essere fortemente ridimensionato rispetto ad altri più delicati percorsi della cronaca. Anzi. Sky ha sentito l’esigenza di aprire il canale 200 che, 24 ore su 24, rappresenta soprattutto la grande Favola del calcio, la sua seriale leggenda, con presidenti e campioni braccati dalla mattina alla notte, dagli allenamenti al pre-gara, dalle conferenze stampa alle baruffe da spogliatoio, dalle azioni di gioco al dopo-

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gara, con uno scatenamento di telecamere, taccuini, microfoni, prese dirette, gossip, spy-story, notizie di mercato, investigazioni, appostamenti e quant’altro per rischiarare, in modo costante e capillare, tutto quanto può creare sensibilità intorno al tema “pallone”. E perché, d’altro canto? Perché sull’altra sponda c’è un popolo di cittadini defraudati delle più normali prassi della quotidianità democratica, spogliati di diritti, sogni, aspirazioni, avviliti dal potere presente e dall’insicurezza dei progetti futuri, violentemente de-simbolizzati in ogni atto vitale che, dunque, ritrovano spazi di “lotta”, di interesse, di aggregazione, di verbalità e presa di posizione solo ed esclusivamente nei cerebralismi vaniloquianti come quelli della Scienza Calcistica. E che tutto questo sia solo un clamoroso shaker di nullità poco importa alle masse che trovano una via maestra da battere, un ideale per cui combattere, lontani dalla politica ufficiale, ria e funesta. L’aneddotica è ricchissima, asfissiante negli effetti per chi non si abbevera a questa insopportabile logica di full immersion. Domenica 17 febbraio, dopo la partita Napoli-Sampdoria, finita a reti inviolate, Mazzarri, allenatore della squadra di casa, non va di fronte ai microfoni Sky. Apriti cielo. L’ufficio stampa, risentitissimo, deve intervenire, confermando che il “mister” ha effettivamente la febbre a 38 e che “ormai la privacy non esiste più”. Lunedì 18 febbraio, posticipo di serie A, Siena-Lazio, 3-0. Esce dal campo il bomber di colore dei bianconeri, Emegara, e i telecronisti notano che ha due scarpini di colore diverso, uno bianco, uno rosso. Strano. Poteva rimanere un mistero? Una nota curiosa e insondabile? Ma no. Vanessa Leonardi, inviata a bordocampo, ci mette pochi minuti a scoprire che al calciatore, per un pestone in allenamento, gli si era allargata una scarpa e non ce n’era in magazzino una uguale. Ora sì che siamo più tranquilli. Al ritorno sulla panchina, per una lunga squalifica dovuta a inchieste federali, a Conte, allenatore della Juventus, Sky ha posizionato per tutto una giorno, praticamente addosso, la Conte-cam, una telecamera che, istante per istante, sguardo per sguardo, movimento per movimento, lo inquadrava per scrutare anche la minima espressione in una giornata così “storica”, in cui evidentemente nulla poteva essere lasciato in ombra per le future generazioni.. In Barcellona-Milan di Champions League, edizione 2012-2013, match clou che avviene in concomitanza della elezione del nuovo papa, qualcuno, sempre a Sky, si prende la briga di notare – e di dire con urgenza in diretta – che negli ultimi 3 conclavi il Barcellona in Europa ha sempre vinto 4-0, stesso risultato appena inflitto agli uomini di Allegri…

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Rai2, diretta di Fiorentina-Roma, partita dei quarti di finale di Coppa Italia 2012-2013; Failla, uno dei telecronisti, non si esime dal comunicare che, mentre si svolge la partita, Giuseppe Rossi, neoacquisto dei Viola ma lontano dal campo, su Twitter ha appena digitato l’indimenticabile frase: “Dai, ragazzi, dai!”… Domenica 28 aprile, Sky si fa un vanto di un’“esclusiva”: le prime dichiarazioni di Xavier Zanetti, difensore dell’Inter che aveva subìto la lesione del tendine di Achille, subito all’uscita dell’ospedale dove aveva fatto la risonanza magnetica, con tanto di stampelle… Una jungla di fatterelli di patetica insignificanza, eletti a “notizione” da prima pagina, a obblighi informativi di cui lettori e spettatori sembra non possano farne proprio a meno. Fino al punto da vedere il loro cervello completamente zuppo, fradicio di micro-eventi irrilevanti che mettono in netta inferiorità altre fonti – diciamolo pure, più serie – di conoscenza e acculturamento. A tutto vantaggio di una neo-casta rispettatissima, stimatissima e pagatissima di dottori in “calciologia” che dalla storia alle classifiche, alle tecnologie applicate, al mercato, alle vicende dei singoli personaggi, conoscono tutto, ma proprio tutto, apparendo come menti, scienziati, studiosi di rango, giornalisti di pregio. Non era proprio così nell’epoca dello storico Novantesimo Minuto di Paolo Valenti dove furoreggiava un folkloristico, ma non meno professionale, Tonino Carino, commentatore da Ascoli, morto recentemente. A Carino, come a tanti altri inviati dal cuore stracittadino, erano tollerati svarioni grammaticali, imbarazzi in diretta, cognomi di giocatori stranieri masticati in un tramestìo di sillabe e suoni che oggi i robotici cronisti dei grandi network sportivi imparano a pronunciare sin dalla culla. Era l’epoca delle figurine Panini, dei goleador di cui si ignorava il privato, dell’agonismo teso, ma saporito e sorridente, dietro il quale nessuno osava intravedere teoremi e deliri collettivi. L’approccio dei giornalisti di calcio oggi, invece, è sempre e solo collegato a mercato, prestazioni sportive, compravendite, contabilità matematiche dove ogni episodio di una gara è tagliato in duemila parti e ipotesi per esacerbare conflitti, polemiche, opinioni in libertà. Viene sistematicamente ignorata tutta una dimensione che riguarda il business e la “vera” vita personale dei singoli calciatori e dei plutocrati che li finanziano, tranne i casi in cui vengono offerte curiosità morbose e aneddotiche su amori, amorazzi et similia. Il cosa c’è dietro non fa notizia. E se da un lato abbiamo il classico linguaggio del dopo-partita o del pre-partita dove tutti, ma proprio tutti, dicono sempre le stesse cose, usano sempre le stesse espressioni, da decenni, sotto lo sguardo attento di chi ancora punta un microfono o una

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telecamera su volti di atleti robotizzati dalle quattro chiacchiere stereotipate, date in pasto al pubblico e pianificate rigidamente dagli uffici stampa; dall’altro, è cresciuta e si è stabilizzata nel tempo una intera schiatta di giornalisti, esperti, commentatori, telecronisti che sembrano affetti da una perenne “sindrome di Peter Pan”, bamboccioni con l’album Panini eternamente davanti, beoti e beoni al tempo stesso, che conoscono a menadito la storia di attaccanti, difensori, manager, allenatori e dei loro cugini, mogli, parenti, prozii, che vivono di statistiche e record, di cifrari e tabellari, sempre pronti ad ammannirceli nel corso di un’azione di gioco, con un fastidioso e cacofonico rumore di sottofondo, con una voluttà enciclopedica che, se poco poco fosse applicata alla filosofia e alla letteratura, saremmo veramente una “repubblica delle lettere”, e loro i novelli divin poeti. Fabio Caressa di Sky è l’eccezionale testimonial di questa generazione di “ripetitori” e parolai che, invece, dovrebbe farci capire il mondo del calcio in tutte le sue sfaccettature. Difficile trovare altro compartimento della vita sociale dove più proditorio e insormontabile è il muro delle omertà, delle omissioni, e di un ridicolo quanto inaccettabile compiacimento nel dedicarsi solo a numeri e dettagli tecnici. Potevano mai accorgersi i nostri prodi telegiornalisti sportivi delle varie locomotive dell’illecito che sono sfrecciate nel campionato di serie A negli ultimi anni? E no, in quel caso, come si suol dire, l’ambulanza dell’informazione critica arriva sistematicamente in ritardo. E allora teniamoci il fermo-immagine – apparso sul Corriere dello Sport – dello sputo di Pogba, giocatore della Juventus, ai danni di Aronica, giocatore del Palermo, nella partita che ha consacrato i bianconeri vincitori del campionato 2012-2013: un’“opera d’arte” da fotografo d’assalto, o da montatore di film d’azione attento al minimo frame, con tanto di materia bianca perfettamente immortalata a mezz’aria mentre lascia la bocca del giocatore di colore. E per non farci mancare proprio niente, e cogliere, diciamo così, la fragranza dell’evento, sportmediaset.it così si esprime: “Nel bellissimo pomeriggio dello scudetto della Juventus c’è una macchia. Una macchia grande come lo sputo di Pogba ad Aronica”. Ci meritiamo questo. La felice carcerazione nell’universo osceno, striminzito e infeltrito, come un maglione liso e pieno di buchi, dei pallonari di professione. I “tecnici delle corna” Un famoso violinista che convive con un’artista di pari fama comincia a essere disattento, scontroso, assente dal menage della coppia. La donna si insospettisce per tutta una serie di appuntamenti del partner che sembrano

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fatti apposta per schivare i suoi obblighi verso la compagna. Finché non decide di affidarsi ad un team di investigatori che cominciano a seguire l’uomo ovunque. Quelli che erano improcrastinabili impegni di lavoro e di carriera musicale cominciano a rivelarsi incontri galanti con una splendida bionda dell’Europa dell’est con la quale va a cene romantiche, si immerge nelle acque rilassanti di saune vip, partecipa a concerti e prime teatrali. Altro che prove, firme di contratti e breafing col manager. Siamo nel pieno di una vera e propria tresca, di una vita parallela perfettamente travestita da integrità professionale. Quando i detective riportano la scottante verità alla donna tradita, scatta l’operazione finale dell’abbordaggio al fedifrago che viene smascherato in flagrante sotto un fuoco di fila di obbiettivi fotografici e troupe d’assalto, con la convivente che chiede spiegazioni fra rabbia e disperazione. Quello che sembra a tutta prima un classico caso di infedeltà coniugale da tenere al riparo da pettegolezzi e indiscrezioni, è invece il set naturale di Cheaters, un format visibile su Sky che negli Stati Uniti è un’autentica garanzia anti-corna, una sorta di Striscia dei cuori infranti passati al setaccio di zoom a infrarossi, pedinamenti e apparecchiature di intercettazione. E tutto questo, con malizia da 007, viene registrato nelle settimane precedenti, prima dell’exploit finale, dove l’occasionale portatore di corna ha la possibilità, in diretta tv, di dare libero sfogo, o quasi, al livore represso o alle lacrime più sconsolate di fronte al marito, alla moglie, alla fidanzata che ha cercato altri “lidi” per divertirsi, a braccetto con l’amante. Ma la cosa che colpisce di un format scaccia crisi come questo non è tanto il dispendio tecnologico e le indagini su commissione che riportano alla luce ciò che covava nell’ombra del dissapore matrimoniale e delle paranoie personali, quanto la lucida fermezza con la quale il conduttore Joey Greco capeggia il blitz decisivo per inchiodare alle sue oggettive responsabilità colui o colei che ha umiliato il patto d’amore. Quando Greco, espressione impenetrabile e imperturbabile, abito nero, leggermente a lutto, da guru della perfidia umana svelata, fronteggia il “cheater” (che in inglese significa più che altro “imbroglione”, chi usa trucchi per alterare le regole del gioco), va dritto alla morale ferita senza giri di parole: perché hai tradito tizio? Perché non glielo hai mai detto? Perché non sei stato sincero? Che ci fai qui con questa? Da quanto tempo va avanti la vostra storia? Lo sai che quello che hai fatto è una cosa vergognosa? Lo sai che lei (o lui a seconda dei casi) ti voleva bene davvero e ti ha sempre rispettato? Hai mai pensato alla sorte dei vostri figli? E così via, senza quel vortice di camuffamenti, infingimenti, torsioni linguistiche e protagonismi cinici e beffardi da reality sub-popolare che scambiano lo spettatore di un programma televisivo per una discarica di elementi, visivi e comportamentali, inquinati alla fonte,

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pilotati per colpire l’attenzione, aggrovigliati in logiche che spesso ci sfuggono. No, qui si assiste ad una gradevole riconciliazione col principio di realtà, ad una morale che diventa, una volta tanto, evidenza fattuale, messaggio ordinario, solidarietà istantanea col malcapitato. Ci saranno pure manifestazioni di dolore e tribolazione, scenette trash e violente contro il legittimo consorte o i cameramen che riprendono impietosamente, si assisterà senz’altro agli scatti d’ira di chi si vede all’improvviso imputato sotto i riflettori, in una tranquilla “seratina” di menzogne e piaceri, ci sarà pure un gusto voyeuristico per le disgrazie altrui, per i sogni sporcati, le sicurezze familiari violate, ma la traccia che lasciano le “missioni” dello staff di Greco è penetrante, non scivola, ti resta dentro perché si fonda sul valore negato e riconquistato in pochi attimi televisivi, anche se lo sfascio di un sentimento è irrecuperabile. E allora tutto è come se ritrovasse un senso: le inquadrature più sfacciate, la richiesta di aiuto di chi teme il danno, l’operatività da servizi segreti, l’accensione finale delle luci dello spettacolo “socializzato” su qualcosa che non si doveva fare, su una vittima innocente che non doveva soffrire. Punto. Fatto e detto. Nessun calcolo, disinformazione, promozione commerciale, comunicazione politica, pròtesi di felicità: le nècrosi tipiche del nostro normale tele-Impero che della confusione e del sovvertimento razionale fa le sue armi assassine. Solo una verità che tutti, intersoggettivamente, percepiamo come tale. I tecnici dell’amore e del look Povero Thomas, acciaccato da una separazione forzata con la ex che ha pure cornificato per primo, look da accampato con barbona brizzolata incolta, jeans scoloriti e un umore e un’anima che sanno di candeggina. Ma per fortuna gli viene affiancato un vero e proprio team dei “casi disperati” che non attingono alle tradizionali discipline della psicanalisi o della morale, ma a una vellutata filosofia del savoir-fare e della sopravvivenza urbana che, chissà per quale miracolo della parola e del gesto, dovrebbero estrarre da un cuore la carie della solitudine e di un amore tradito. Ecco allora la nuovissima figura del “love trainer” che lo costringe ad un duro eremitaggio fra vacche da mungere e strame da spalare in una fattoria senza comfort, per rifarsi un io e una ripassata di valori umani; ecco la sessuologa che, con un fascio di rose rosse in braccio, lo spinge alla loro “simbolicissima” offerta a belle passanti a mò di scusa a nome dei maschi cinici e crudeli; ecco l’hair-stylist che gli rade totalmente il viso e gli acconcia i capelli in una maniera più sbarazzina versione Happy Days, fino al fuoco di fila della “rinascita” definitiva a nuova vita in una limousine a

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Filosofia dell’osceno televisivo

bere champagne con una possibile nuova partner trovata da qualche agente degli speed-date, la certezza che la precedente fidanzata ancora lo pensa e la voglia di incamminarsi su un futuro radioso di solide consapevolezze, brindisi e sale da ballo. Una palingenesi non c’è che dire, veloce e indolore, proposta davanti alle complici telecamere di Mi ha lasciato… cambio vita!, format di Sky in onda per numerose stagioni con la sua task-force di “interior designer” e “life coach” e un armamentario di ortopedie comportamentiste, striscianti “orientalismi” e lifting della mente che lascia notevoli perplessità, e non solo. In una sola parola: semplificazione. Il diktat della televisione postmoderna e della sua cornice concettuale che propone in maniera più o meno subliminale. Semplificazione dei vissuti, delle storie personali e collettive, delle diaspore emotive, delle dinamiche materiali. In nome di un grottesco tecnologismo e di comiche professionalità in grado di farci sfuggire all’oscuro e all’imponderabile con il management di una libertà prestazionale, individualistica e ipercodificata. Carla Gozzi ed Enzo Miccio, insider del buon gusto per la trasmissione Ma come ti vesti?! su Real Time, strappano invece alla loro grigia quotidianità casalinghe attempatelle e ragazze timidine, maschi sfatterelli e un po’ delavé, e tutta quella progenie, figlia dello stress e del traffico urbano, che certo non ha sempre tempo e voglia di investire in coordinati perfetti, ton sur ton, e malìe del fashion system. In una delle puntate, Francesca, abituata a cuffie di lana, biancheria intima da nonna a riposo, cappottoni e maglioni dolce vita, viene letteralmente strappata al suo mondo fumo di Londra, senza un centimetro di pelle mai in vista, e trasformata passo dopo passo in una wonder-girl che usa jeans stretchati, blazer sagomati, sandali a spillo e bracciali esotici d’osso lavorato. Non solo. Con trucco più accentuato, acconciatura nuova di zecca con sfumature ramate e accessori di grande femminilità, la “vecchia” trentenne, anonima e inibita, recupera un fascino da donna manager da far drizzare le antenne ai vitelloni della riviera romagnola. Tutto molto falso, ovviamente. La brutta anatroccola che spaperella sui tacchi 15 e che difende a spada tratta il suo armadio kombat da giovane marine, sembra solo una versione opportunamente sgraziata della vera ragazza che appare alla fine di fronte allo specchio delle principesse rinverdite. E che, miracolosamente, sa camminare sui trampoli, guarda come lady Godiva, sfoggia decolleté da capogiro e ha riacquistato una sicurezza totale sepolta dalla fragilità. Il clima dell’intero format è scattante, arrembante, con la sottile perfidia dei due trainer dell’appeal pronti a scaraventare in un bidone tutto quello che sacrifica la fisicità e il good look del partecipante, e a consigliare il loro shopping in negozi di alta moda e non solo. Quando i colori degli abiti

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La scatola e il fiammifero, (an)estetica della distanza

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si riconciliano con quelli della vita, Francesca ritrova come una donna di cuori i suoi amici (e la madre, addirittura) stupefatti da una metamorfosi così rigenerante, e tutti bevono e ridono in un lounge bar. Il messaggio, in fin dei conti, del programma è proprio questo. L’aspetto prima di tutto, come grande collante dei rapporti umani. L’estetica come surrogato di una socialità che non viene indagata altrove. La superficie del corpo come cantiere permanente di una capillare opera di ingegneria che, una volta deposti i valori e i contenuti “impegnativi” della persona, serve a sostituire la zolla delle relazioni e del linguaggio con la pietra filosofale del belletto e del make-up. Via libera agli stilisti del capello e del portamento, ai maghi dello shock visivo, ai guru del glamour, agli artisti dell’eye-liner. L’anima, ancora una volta, può aspettare. I “tecnici” del bene e del male Con semplicità. Con un ritrovato potere della parola che non si perde in orpelli, frasi fatte e stucchi politici. Con arguzia, anzi “meta-arguzia” come la definisce il filosofo Mario Perniola, quell’ironia che si mescola alla naturale, quasi involontaria, constatazione dei fatti, e a una rivolta interiore, anche questa tracimante, prepotente, che fa il grandangolo all’anima e fa galleggiare il senso di un valore, almeno questo, ogni tanto. Così lavorano Le Iene. Così si impongono all’attenzione del grande pubblico. Sono un punto di riferimento per la conoscenza dei fenomeni sociali più controversi, quando ci sono. Mancano davvero nel panorama televisivo, quando finiscono la stagione. Rappresentano la sana voglia di tutti, di ogni cittadino, di rivendicare un diritto, farsi ascoltare dalle istituzioni, segnalare un disastro esistenziale che possa essere di monito per tutti, o semplicemente vedere ridimensionata la grandezza posticcia di un onorevole, un barone, un affarista, un truffatore. Con un sorriso si può sorvolare, sublimare un accadimento, quasi imbellettarlo e impacchettarlo nei vuoti a rendere, come fa tanta comicità di quart’ordine. Oppure si può all’improvviso corrugarlo, concentrarlo, spremerlo come un frutto acerbo, farlo sgocciolare di significati amari, di visioni che non sono sempre merce e ottundimento, ma possibilità nuove, possibilità di disprezzare certe situazioni, di allontanarcene, di non imitarle, di denunciarne di simili, di sentire irrompere dentro di noi una sensazione di pulizia del tipo: no, io non sono così, e mi fa schifo un Paese che funziona su queste logiche distorte. Le Iene hanno senz’altro riacceso una macchina informativa che è nei manuali di giornalismo, sempre in panne nei luoghi ufficiali della notizia,

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però, tg in testa a tutti. Ma hanno anche inventato un bestiario di smorfie, occhiate, accanimenti, inseguimenti, discese satiriche e goffe teatralità che sono l’ipertesto vincente dei loro blitz. Una sorta di “zoo-politica” dove non vincono i cristalli dell’ipocrisia, le note di regime, i ritornelli ideologici, le cantilene dei benpensanti, ma il gioco delle vibrazioni, dei sussulti e quasi delle tensioni muscolari che una cosa mostrata, smontata e compresa grazie a loro suscita nel corpo di chi guarda, prima che nelle sue memorie di tipo intellettuale. È come se il piccolo schermo si squarciasse e non ci fosse più nessun confine luccicante, virtuale fra la strada dove gli inviati in giacca e cravatta nera agiscono e il divano del nostro tinello. Si rimettono in circolo le endorfine del nostro spirito critico, si attiva l’ormone della crescita civile. Lo spettacolo riconciliato con la fisiologia. La chiacchiera col linguaggio. La tele-visione con la condi-visione. Come non identificarci nello sguardo sbilenco e attonito di Enrico Lucci quando sprofonda nell’imbarazzo più totale un tronfio – e magari corrotto – mister X che spadroneggia in Parlamento, o quando sbertuccia il nulla mentale di vip, aristocratici e presenzialisti dei banchetti? O nel romanaccio d’assalto di Paolo Calabresi che sa di filosofia popolare, lucida severa incisiva, contro i grandi “patacca” della storia? O nel surrealismo color verde pisello di Angelo Duro che, nel bel mezzo di seriosi convegni e presentazioni di libri, va sul palco vicino ai politici e comincia a cantare un tormentone degli anni ’40 nello stupore generale? La verità è intrisa di fisicità. Solo questo passaggio di scosse elettriche nell’interiorità spezza l’incantesimo che separa la realtà e la sua rappresentazione, e non perpetua quel meccanismo di addormentamento e di muta rassegnazione che un qualsiasi telegiornale, per esempio, pur con la più sconcertante contabilità di eccidi, catastrofi e morti ammazzati, invece innesca. E per ottenere questo effetto serve che anche chi impugna il microfono per un’intervista o un’inchiesta ispiri libertà, partecipazione attiva, complicità di intenzioni con chi guarda, abbia insomma sembianze di intelligenza collettiva vera, non truccate o messe in posa. Un patto silenzioso che raddrizza la democrazia in pochi minuti, un piccolo prodigio che unisce il reportage al grottesco. E la verità torna a spandere il suo odore. Tornare sui luoghi dove si è segnalato un misfatto e adoperarsi per la sua pronta soluzione (che poi arriva), arrabbiarsi in diretta, come faremmo noi stessi o un nostro parente, perché qualcuno fa il furbo, la fa franca, approfitta delle maglie larghe nei controlli, addentrarsi in labirinti sociali e urbani, assicurare alla giustizia cento di una categoria di malfattori di cui, per le tradizionali testate giornalistiche, esistono due o tre casi soli, significa fare un’incessante opera di ripasso della deontologia professionale, della

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convivenza civica e dei dettami della carta costituzionale. Stesso dicasi per Striscia la Notizia, col suo travolgente caravanserraglio di pupazzi rossi, supereroi con lo sturalavandino in testa, cagnolini giallo limone, insider dello scoop in bicicletta, con giacche foderate di euro, o con sederoni giganti. Pattuglie intere di un fumettone Pulitzer che passa al setaccio, in modo irriverente ma estremamente pragmatico e ficcante, disservizi, privilegi, imbrogli. Mentre politica e informazione arrancano in un universo manipolatorio e sussultorio dove non c’è tregua né verità, la televisione sta amplificando come una gigantesca grancassa il collasso dei saperi cosiddetti “forti”, i criteri dell’oggettività, del riconoscimento collettivo, dei valori condivisi. Che si tratti della cornice di un evento, dell’applicazione di una norma, del rispetto di una prassi, della potenza della parola giornalistica, sembra che ovunque alligni il germe del dubbio, della faziosità, che ogni processo di significazione, ogni anelito di coerenza, tecnica o morale che sia, vacilli di fronte alla protervia dei singoli e agli interessi di una categoria. Per questo è curioso notare come siano i saperi “periferici”, laterali, le forme artistiche, i codici spontanei della vita e del pensiero a riconciliarci con una profondità e una autenticità di lettura del reale. L’umorismo, appunto. Zelig, con la sua schiera di comici, mattatori, improvvisatori, con il ghigno e la verve di tanti funamboli della creatività, ci fa molto più da specchio delle contraddizioni sociali di quanto non facciano un talkshow della sera, un programma di inchiesta, il discorso di un’alta carica di Stato. Una rivincita dell’esprit de traverse su quella falsità da tele-regime che vuole ingoiarci negli assurdi teatrini della politica malata e del diritto “crocerossino”, mentre siamo corpi, desideri, progetti, bisogni, ed è su questo terreno che va creato un nuovo livello di scontro, riappropriazione, metamorfosi dello stare insieme. Devono emergere nella loro ferocia il modello, l’estetica dominante che spappola le masse, i rituali della soggezione e delle liberazioni deviate, la quotidiana dissipazione delle energie positive. L’epoca del reato da punire e della querelle parlamentare è in piena falcidie senza il gesso di un vero rinascimento delle idee. Lo hanno capito bene e con la giusta originalità a Gli Sgommati, una striscia satirica molto carina che SkyUno ha battezzato. Politici e personaggi del jet set caricaturizzati e imitati da voci fuori campo in un surreale testa a testa. E si ride tanto quando si capisce che non è giusto morire pupazzi. Una cosa è certa: solo quando il Male viene presentato nella sua vividezza, nel suo aspetto più immediato, senza gestirlo o edulcorarlo col finto rigore di chi lo soffoca nel vuoto parolame che non lascia tracce morali in noi, solo allora qualcosa ci resta appiccicata allo sguardo e alle più intime

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convinzioni, e corre il rischio di darci una lezione di vita. Paradossalmente i media aumentano il loro effetto catartico solo quando non abdicano a un principio di realtà che coinvolge le manifestazioni più esteriori e terrorizzanti del Male, come le vie di lotta e di sacrificio che il Bene – per usare due categorie di facile approdo – utilizza per combatterlo. Se l’immagine è un acceleratore di particelle, che riunisce scena e significato del Male, e non una calotta che lo imprigiona, incarta e svilisce, allora serve, eccome. Il Male riesce a sfuggire ai riflettori, quasi inosservato anche sotto le luci delle troupe d’assalto, approfittando di quegli stessi codici esausti della comunicazione che vorrebbe irretirlo, e come un camaleonte, cambia colore, diventa simpatico e gioviale, secerne ironia, si avvita su se stesso come una beffa e si dilegua. Fabio e Mingo di Striscia smascherano in Puglia l’ennesimo odontotecnico che fa terapia, mette le mani in bocca ai pazienti, firma ricette come un dentista che non è, irrompono nel suo studio farlocco e lui che fa?, parla di un “accordo” con Ricci per fare il pezzo in un altro modo, accusa gli inviati di non rispettare quello che il capo degli autori aveva stabilito per il servizio e, pur scappando e sottraendosi alle telecamere, ribadisce questa versione dei fatti: c’era una promessa che non è stata mantenuta per simulare tutto, ma con un altro copione. In pratica, confonde le acque, svolge a controsenso il fatto, approfittando di quella mescolanza globale, spesso senza referenti oggettivi, che è il mondo delle immagini oggi. Il Male si aggiorna, curvando a proprio vantaggio le logiche dominanti. Se il registro della vergogna, della fuga, dell’imbarazzo, della reazione balbuziente sancisce la colpa, non porta risultato negare o vestire i panni dell’imbroglione; meglio diventare un pezzo di spettacolo che tutto assorbe, esorcizza e dimentica. Stesso giro pochi giorni dopo. Max Laudadio, travestito da cicala acchiappa-ladroni, punta dito e microfoni contro l’ennesimo produttore fantasma che ha rubato soldi senza pagare maestranze e collaboratori. Ti aspetti affanni e rossori. E invece questo ride, si fa mostrare in volto, prega l’inviato di mandare in onda tutte le riprese, si offre in pasto come un Fregoli della furbata, sotterra per sempre nella percezione delle persone da casa le sue orrende speculazioni sotto un cumulo di chiacchiere e risatine che, dopo svariati minuti, lo fanno solo apparire come uno sghembo Pulcinella, e nulla più. Nelle falle della mediaticità planetaria il Male naufraga, affonda, muta come un virus. E se oggi il grande inganno fosse proprio nella parola e nelle immagini tele-comandate, allineate in sequenza, che diventano subito pattern che nessuno più si prende la briga di scardinare, stupidi tam-tam che tutti battono come all’epoca delle caverne? E se questo nuovo “Male” viralizzato e imbecillizzato, ma non meno perfido e devastante di prima, si stesse insinuando anche nelle pieghe di quei

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La scatola e il fiammifero, (an)estetica della distanza

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pochissimi format che alle leggi dello spettacolo hanno sempre abdicato per dare sfogo e spago al malcontento dell’uomo della strada? Ai posteri del piccolo schermo l’ardua sentenza, ai critici scongiurare quella che si annuncerebbe come una fine senza ritorno.

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I tecnici del wedding Daria ha uno sguardo da merluzzo bollito, un viso asimmetrico, due centimetri di gengive ben visibili e un fisico da stuzzicadente rinforzato. Marco sembra la perfetta via di mezzo fra un rampollo viziatello, precisino e troppo arguto in ogni considerazione, e un belloccio mancato col pizzetto curatissimo, l’occhialino “figo” e una corporatura che vorrebbe assomigliasse a quella di un principe azzurro super sexy. Nonostante le gravi carenze nella femminilità della prima, e le stravaganze comportamentali un po’ acidelle del secondo, ai limiti del fastidio epidermico, Daria e Marco hanno deciso di sposarsi. Nulla di male, del resto, Dio li fa e poi li accoppia. Ci si aspetterebbe cascate di fiori di arancio e profumo di bergamotto, squilli di tromba, sguardi da balcone di Giulietta e sentieri cosparsi di petali di rosa. E invece no. In vista del coronamento del loro sogno d’amore davanti a un altare che è come il traguardo di un centometrista, Daria e Marco, ai blocchi di partenza tre mesi prima, hanno messo le cose bene in chiaro. Si sono presentati agli autori Sky di Cambio vita… mi sposo e hanno aperto, per così dire, i cantieri televisivi di due desideri che covavano da tempo. L’anoressica bruttarella vuole eliminare ogni gibbosità da un naso che sembra la Salerno-Reggio Calabria, prendere peso, avere labbra più turgide, cambiare look: praticamente realizzare il sogno tipico dell’antignocca. Lui, molto più modestamente e in chiara ottemperanza ai precetti della chiesa cattolica che sta per unirli “nella buona e nella cattiva sorte”, vuole raggiungere la “perfezione fisica” modello Big Jim e, come optional, sbiancare ulteriormente i denti che già sembrano, a favore di telecamera, “ultrabright”, come recitava il carosello di trent’anni fa. Fra loro e il prete officiante non può che esserci questo “percorso”, lo chiamano così. L’avvicinamento spirituale all’evento trasformato in una ricetta salutista. La fede cementata dalla performance ginnica. L’unione sentimentale surrogata da una pienezza psicofisica avvertita come ineludibile per condividere il talamo. L’amore che diventa quasi una colpa se non c’è lo splendore del corpo che, alla fine della puntata, suggella il misticismo del ricongiungimento dei due partner – allontanati dalle rispettive operazioni cliniche – alla vigilia delle nozze. Sembra quasi di avvertire l’eco del

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Filosofia dell’osceno televisivo

Michel Foucault di Sorvegliare e Punire che ci insegna come l’uomo sia diventato una sorta di anello di congiunzione fra l’ideologia del potere – sempre più “anonimo e funzionale” – e le tecnologie disciplinari che ne mettono a regime molteplicità, derive, sconfinamenti della libertà. La cerimonia non è più ritualizzata ma osservata, vagliata, individualizzata secondo una scala normativa di scarti, posizioni, incasellamenti, bisogni regolati, spostamenti millimetrati, confronti con modelli, inferiorità calmierate, là dove è il corpo a diventare trappola dell’anima, e non più il contrario come nelle epoche regali dei supplizi e delle sovranità spettacolari. La televisione, regno dell’immagine e del suo immenso deserto dove tutto è concesso e tutto è commesso, non fa altro oggi che avallare l’apoteosi di quella trasparenza interiore (che abbiamo chiamato nei secoli spirito, io, coscienza e, più recentemente, desiderio) infinitamente manipolabile e sganciabile dalla nostra dimensione spazio-temporale. Più riduciamo il nostro essere a ingegneria estetica e metamorfosi incessante di volumi e apparenze, più coltiviamo l’illusione della nostra bellezza reificata e super controllata, più, in realtà, è la nostra volontà ad essere eterodiretta, è la nostra identità a divenire volatile, il nostro cuore a scoppiare di rabbie onnipotenti. Al posto di parroci, assistenti sociali, consulenti familiari, pediatri che sanno quasi di ortodossia illuminista oramai, Daria e Marco, con le loro aspirazioni, le loro velleità, sono messi al centro delle lenti di ingrandimento di un team di esperti composto da chirurghi plastici, biologi nutrizionisti, personal trainer, wedding designer, flower designer, esperti di gioielli, odontoiatri. A stento si guardano in faccia lungo tutta la storia che li accompagna, si scrutano, si osservano a distanza, sembrano nemici, impuri, bisognosi di un lavacro purificatore al santuario profano del Piacere plastificato, altrimenti non ce la fanno da soli, né a sopravvivere, né a completarsi. E la luce che li inonda alla fine del programma li consacra “completi”, fra bicipiti d’acciaio e sculture facciali perfette. Che il bacio romantico sappia di acido ialuronico è solo una passeggera controindicazione di un perfetto Panopticon postmoderno.

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L’ASSOLUTO E L’ODIO FENOMENOLOGIA DEL DISSIDIO (OMBRE)

Cosa è un drago sotto il letto? O meglio: è possibile convivere e condividere spazi con un mostro dalle mille spire piazzato proprio lì, nella parte più intima e autentica del nostro privato? Possiamo redimerlo? Trasformarlo in un docile cagnolino che obbedisce ai nostri ordini? La leggendaria – e gradevolmente fumettistica – metafora è usata da Francois Ansermet e Pierre Magistretti (psicanalista e docente di Pedopsichiatria a Ginevra, il primo, medico e neurobiologo a Losanna, il secondo) nel loro Gli enigmi del piacere, interessante testo che fa seguito al precedente A ciascuno il suo cervello, e nel quale viene espressa l’affascinante tesi secondo la quale la base organica e meccanicistica del piacere può allinearsi, sovrapporsi con quella più profonda che tende a inquadrare il tema dell’essere e della libertà fuori dai confini della macchina-animale, per così dire. Il “drago” sarebbe insomma quell’aleatorietà del nostro agire che parte da una classica dicotomia piacere-dispiacere, ma che va via via rimescolando le carte del nostro vivere e porci nel mondo, grazie a fantasmi personali, digressioni, mascheramenti, individuazioni, dislocazioni impreviste del nostro sentire. Che scavalcano ampiamente la semplice omeostasi che spinge il nostro organismo ad ordinare l’aggressione, per così dire, dell’ambiente esterno, secondo una traiettoria che non sia distruttiva ma vivente. Ma il fantasma – sottolineano – può essere “soluzione e trappola”1 al contempo. Appare allora nella sua ombrosità la “coazione a ripetere” o “coazione del destino” o “del medesimo” che Freud considerava una potenza più forte dello stesso “principio di piacere”, un suo al di là, non in senso trascendente ma complementare e opponente, una sorta di “dirimpettaio” che potrebbe anche spingerci verso forme autodistruttive e violente verso l’esterno, verso appagamenti perversi, se vogliamo, fatti di infelicità ricorrenti e frustrazioni gestite, o come avviene nel caso delle droghe, di paradisi artificiali e 1

Francois Ansermet - Pierre Magistretti, Gli enigmi del piacere, Bollati Boringhieri, Torino 2012, p. 58.

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Filosofia dell’osceno televisivo

dipendenze chimiche. Quella che Lacan avrebbe più specificamente definito “jouissance”, il “godimento”, una sostanza vitale acefala e neutra, un Grande Simbolico che suscita i conflitti del dolore e della perdita, ma anche quelli della resistenza e dell’inventiva. È come se i due autori ci dicessero: il corpo è solo una soglia attraverso la quale ci affidiamo/affacciamo alle esperienze, sviluppiamo degli “stati somatici” e da questi delle rappresentazioni che ci danno ordine e intelligibilità rispetto a quell’afflusso indiscriminato di stimoli che chiamiamo “eccesso pulsionale”, ovvero un fondo oscuro, un abisso, che ha il carattere della non predittività e della molteplicità invasiva e sul quale siamo costretti a costruire un recinto razionale di convinzioni, abitudini, linguaggi, memorie, forme del convivere. Ma non tutto va per il verso giusto, e quello che sembrerebbe un naturale sfogo verso la soddisfazione si scompone e ricompone in dimensioni della soggettività che sono proprie di ognuno e che possono arricchire o diluire/annientare la nostra identità. Affermano: “La riassociazione delle tracce apre all’inatteso e alla libertà, condizioni che fanno emergere il soggetto. Il soggetto procede dalla discontinuità piuttosto che provenire da un sistema di tracce”2. È il nostro magma inconscio che acquista tutto un altro sembiante rispetto a quello cognitivo e a quello del rimosso cui Freud ha concesso ampio spazio nelle sue opere. Qui siamo di fronte a un “terzo inconscio”, da cui, legittimamente, molti postfreudiani sono partiti, perché più carico di incognite e di valenze metafisiche. “L’inconscio non sarebbe solo un sistema di memoria ma anche un sistema dinamico di tracce che, riassociandosi, producono una discontinuità tra l’esperienza iniziale e le nuove tracce emerse dal processo di riassociazione… bipartizione proposta da Lacan per il quale esiste un inconscio automaton, un sistema di tracce inscritte provenienti dal passato, e un inconscio tuché, non realizzato, girato verso l’avvenire, una sorta di funzione disgiunta che è il risultato della discontinuità”3. Dunque, il materiale sensoriale non basta. L’iscrizione del sensibile nella coscienza non la costituisce come semplice contenitore di dati, come una plasticità determinista, una carta assorbente che si impregna della dimensione “estera” dell’esistenza e della percezione, perché a quest’ultima attribuisce una motricità fondante, come applicazione di sé alle cose, sintesi continua sincronica e diacronica, soggettivazione irripetibile di quello che siamo stati finora e stiamo per diventare. Marias è preciso al riguardo: “È essenziale che la presenza della persona, sia dell’altrui come della propria 2 3

Op. cit., p. 137. Op. cit., p. 141.

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L’assoluto e l’odio, fenomenologia del dissidio

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– di quella che sono io – avvenga corporalmente, ma non consista nella percezione del corpo; si manifesta in esso, ma sta “al di là”. La persona è una realtà progettuale, futuribile, che sfugge al presente e lo trascende. Ma il suo carattere di “incarnazione” significa l’inserzione nel mondo, il vincolo al reale e corporeo; questo fa sì che la persona sfugga alla “irrealtà” che in un certo senso le appartiene inevitabilmente”4. E ancora: “Io non “ho” un corpo, né “sono” un corpo, col quale mi incontro come col resto della realtà: io sono corporeo, se si preferisce, un chi corporale. Qualcuno, in nessun modo qualcosa. La persona vive, si progetta, immagina, dubita, interroga, teme, a partire dal suo corpo inseparabile, ed ovviamente nel mondo, che è dove sta, precisamente per la sua corporeità”5. La problematizzazione del rapporto io-mondo declinata secondo la presenza nello spazio e gli atti vitali. La relativizzazione delle esperienze sensoriali secondo cornici di apprendimento e comportamento che dipendono da come il soggetto personalizza, immagazzina, sedimenta dentro di sé le relazioni. La trascendenza della presenza stessa, che non si “realizza” mai, ma si lancia sempre oltre, con l’immaginazione e il pensiero razionale. Sono questi gli elementi che legittimano una sorta di ontologia dello scacco e del progetto, aperta alla precarietà del senza-fondo, ma con soglie, varchi, incroci, oscillazioni, compenetrazioni infiniti che ne sanciscono la massima lontananza da ogni tentativo sostanzialistico che congelerebbe l’identità in una natura dai connotati apriori, e in un funzionalismo che la farebbe scivolare nella rete delle pratiche collettive e dell’ingegneria istituzionale. Qui si avverte in maniera stringente la dicotomia fra uomo e animale nel vivere all’interno del proprio habitat. Mentre per quest’ultimo, infatti, la “corazza” organica, le forme di riproduzione sessuale, alimentazione, orientamento motorio, e la percezione dell’eventuale “nemico”, sono perfettamente integrate tra loro in un tutt’uno che necessita dall’interno l’agire stesso dell’animale, per l’uomo è la fragilità psicofisica, la mancanza di adeguati strumenti di difesa, l’infinita variazione sensibile del mondo in cui è immerso, a suscitare una continua insicurezza, l’orizzonte di una temporalità, per così dire, scheggiata. Un vero e proprio “primitivismo” dove tutto può arrecare danno, sviluppare angosce, sottrarre il futuro a ogni determinazione6. “Presso gli insetti solo l’insieme può risolvere dei problemi originali, mentre, nella specie umana, gli individui sono spesso più inventivi di gruppi come masse

4 5 6

Marias, Persona, op. cit. alla nota 79 della seconda sezione, pp. 54-55. Op. cit., p. 136. Su questo tema, confr. Danilo Zolo, Sulla paura. Fragilità, aggressività, potere, Feltrinelli, Milano 2011.

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Filosofia dell’osceno televisivo

o burocrazie rigide… il funzionamento del formicaio è rigido… ogni essere umano è unico”7. Il teatro della vita umana è la drammatizzazione del tempo e della libertà, ma anche l’attingimento di questi nella presa gioiosa di un innominabile enigma che li avvolge, li bracca ma gli dà fiato. Quello che Blanchot chiama l’“aorgico”, eterna veglia del nulla, insensatezza ed elevazione, spavento e luce disperata, forra dell’essere e increspatura dell’apparire, miseria della lacerazione e virtù affermativa della vita, là dove “la verità dell’esistenza nel suo insieme, divenuta la pura affermazione poetica, sacrifica le condizioni normali della possibilità, continua a risuonare dal fondo dell’impossibile come pura parola, la più vicina all’indeterminato e tuttavia la più alta, parola non fondata, fondata sull’abisso – il che si annunci con questo fatto: il mondo è distrutto”8. Ecco che comincia ad apparire una sorta di “fissità” che è divenire, un conato cosmico, potremmo definirlo, che si sforza di consistere, di sfuggire alla morte, di sacralizzare lo smarrimento prendendone vigore, l’infinita potenza del possibile, la folle fuga da ogni costrizione. La rovina dell’umano è la sua salvezza. L’abisso espropria e rende degni. E la parola è, dunque, veicolo di questo formarsi, di questa partenogenesi dal vuoto al reale. È questo che si “ripete” allora? Che Cosa si ripete? Si ripete questa “coseità” amorfa, afona, balbettante, sincopata, gli embrioni, le molecole e poi i gruppi, gli insiemi, le sostanze, i movimenti, frutto del Nulla, esposti dalla notte, senza un fine e un perché. Fondamentalmente si ripete l’incertezza, il mal di vivere, il grido inespresso di un’origine macchiata. Cosa non dovrebbe ripetersi invece? Il tampone di un male per un altro male più grande, di un dispiacere che copre un’incapacità più sottile a dirimere i fenomeni (come si ravvede in alcune patologie infantili e non solo), o un piacere che si estrinseca nel danno proprio e altrui. Se dunque il fisico si allaccia, si argomenta con le tracce psichiche che ognuno di noi autonomamente registra, sviluppa e riproduce secondo sequenze dalle quali dipende la singolarità, qui sta tutta la suggestione che spinge a una gioia più aperta all’autoaffermazione e alla libera determinazione, riscoprendo l’ampio spettro di un “inconscio larvale”, per dirla alla Lacan, che non è solo “rimozione” ma istante, divergenza, rizoma, “errore” positivo, parola produttiva di senso. Storia. Linguaggio. Il Linguaggio è Storia, e la Storia non può che essere Linguaggio, sforzo del dire, pathos della poiesi, verminazione, affaccio, 7 8

Pierre Levy, Il virtuale, Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 103. Maurice Blanchot, La follia per eccellenza, in Karl Jaspers, Genio e Follia, Raffaello Cortina, Milano 2001, p. 203.

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luccichìo, a partire da quel significante puro che io chiamo signific-ante, (ma che è anche un gioco di signific-anti, poiché non esiste che nella lotta e nelle molteplicità, e nel perenne ripristino, all’interno delle condizioni storiche, di un’eguaglianza che accomuna tutti come comune co-appartenenza) e che – abbiamo visto – in tanti chiamano in modi diversi, ma sempre alludendo a un qualcosa che è semivivo, divinato, abbozzato, incipiente. Un “ante” che riguarda un “prima” che ci sormonta e ci spiazza in ogni manifestazione della nostra libertà. Un ante che è sempre incarnato in qualcosa, in qualcuno di divenuto. Al “segno della percezione” Lacan attribuiva il valore del significante perché è nel contatto corporeo con ciò che ci circonda che l’essere è secreto, fiotta, fiammeggia, schiuma. Mostrandosi il linguaggio, non come un “mediatore neutro”, ma un “operatore”9 che ritrova il suono primigenio, la “comune lallazione” (come abbiamo visto in Serres) che è proprio un sillabare disarticolato ma tenace, tipico dei bambini che vanno-verso le cose, le appropriano, suggellandole/sigillandole quasi con un ritorno di note che diventano ricordo, e poi circuito, e poi senso e logos. È sempre Lacan, nel Seminario VII, riprendendo Freud, a sottolineare la valenza dell’angoscia “come il fondo in cui si produce il suo segnale, ovvero l’Hilflosigkeit, l’impotenza, in cui l’uomo, nel rapporto con se stesso che è la propria morte… non può attendere l’aiuto di nessuno”10. Fatica della solitudine, tremore dell’inspiegabile, sfida a ciò che sopraviene e sopra-vive, rimando alla vastità che Spinoza leggeva come “letizia” perché incrementa le forze, aggrega, distribuisce e non irretisce nell’inerzia o nella sepoltura dell’umano, ma invita all’espressione, al convivere, all’incontro, alla fantasia che si mescola al reale, e lo accende e intona dal di dentro. È la parola vivific-ante, che è sempre uno stato conoscitivo intimo ed ebbro di sé nel mondo, prima di essere denominazione, denotazione, definizione. Produrre inconscio, dunque, far fiorire concetti e contenuti ancora non-realizzati, piuttosto che “traghettare” ciò che è o non inclina al dettato accettato da tutti, dalla sponda della libertà a quella della “normalità” psichiatrizzata, per esempio11. L’“irrealtà” di Marias. L’uomo proviene – e vi si deve sempre rigettare – dal fuoco algido di questa forma vuota cava, da questo buco nero della sua coscienza, da questo “straniamento” che slabbra i contorni del suo povero io, ma ne salva il fulgore e l’estroflessione mondana.

9 10 11

Ansermet - Magistretti, op. cit., p. 27. Citaz. in op. cit., p. 101. Confr. Rocco Ronchi, Come fare. Per una resistenza filosofica, Feltrinelli, Milano 2012, p. 179.

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La parola è una anti-scienza del segno muto, o non è. Dice Cacciari: “Nel silenzio la parola si fa cosciente che essa non è nell’inizio. All’inizio la parola non è che in potenza. Prima sta il silenzio-ascolto, presupposto e condizione dell’atto del pensare”12. Ecco che allora “insieme, nel rammemorare il suo “primo” silenzio, la parola scopre l’abisso che la sua forma in sé custodisce”, quell’“inesprimibilità del senso della vita”, “l’irripetibile singolarità di ogni cosa… che eccede in quanto tale la rete di connessioni, che costituisce il discorso”13. Un assoluto, dunque, pura energheia, che deve dimenticare ogni soggezione ad un principio eterno, incoercibile, sovraempirico, comprese le forme della razionalità (la psicanalisi, ad esempio) verso cui la vita sembra essere solo segno, traccia, sintomo, e che deve, altresì, evitare qualsiasi rispecchiamento originario fra Io e Mondo. L’assoluto è il pre-ontologico, il “mostruoso” della coscienza sartriana, quello che, come abbiamo detto, Lacan chiamerà l’“inconscio larvale”, ovvero il dischiudersi dell’essere nella sua vastità e indeterminatezza, psicotica e creatrice al tempo stesso, la morfogenesi, l’infinita, antepredicativa ramificazione e incessante rigenerazione delle cose, dei fatti, degli insiemi. Senza memoria, senza cammini a ritroso, senza verità certificate e date per sempre, ma solo con il “virtuale” esposto alla prova del reale. Lacan usò la “larva”14 perché, con questo rimando biologico-religioso, veniva richiamata tutta un’area semantica che porta al sogno, al fantasma, all’ombra, alla forma adulta in potenza, alla maschera, figurazioni di un non-ancora e di un forse-mai che inchiodano l’apparire alla sua natura inumana, opaca, irriducibile, inoggettivabile se non con le forzature delle teofanie e dei determinismi. L’assoluto è un processo non trascendente, differenziazione, “pura fame d’essere, pura fame di determinazione”, dice Ronchi. Questo informe che è come un gorgo, una notte che cerca luce, un appetito cosmico, lacanianamente è il “Grande Fuori” che preme sul simbolico, sul dettato linguistico e istituzionale che fa da tessuto securitario dei rapporti sociali e interpersonali, dunque una radice pre-parlata, un germe della sovversione sempre schiuso che fa della jouissance, del godimento puro, lo slancio verso qualcosa di mai definitivamente assimilabile. Il linguaggio è lo spartiacque di questa vita dis-organicamente vissuta, e che si apre a nuovi orizzonti di soggettività e di politica.

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Massimo Cacciari, Se il valore dell’ascolto è quello di sentire le pause, in Repubblica del 16 settembre 2012. Cacciari, op. cit. Ronchi, op. cit., pp. 101-104.

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Bisogna, allora, andare a rintracciare proprio dietro la dimensione “modulare”15 del linguaggio ridotto a cliché, a detonatore di risposte automatiche, ad amministrazione dei corpi e del consenso, a mero consenso pubblicitario e disinformato, quel “perturbante” che ci scatena l’orrore verso le condotte totalitarie e macchiniche, e che promuove l’“esitazione” come cifra di libertà, problematizzazione, non allineamento ai dettami del potere vigente, esistenza di una “comunità tragica di uomini liberi e uguali”16. Un comunità del genere è esattamente l’opposto del linguaggio di massa che ordina le nostre rappresentazioni mentali giorno per giorno, burocratizzato e banalizzato, i cui segni, ridotti a micce, a dispositivi di innesco, fanno deflagrare dentro di noi, come esplosivo, i comportamenti e le logiche che i detentori del potere si aspettano. Ne I principi della Neolingua, appendice a 1984, dice Orwell: “Per le finalità della vita quotidiana era indubbiamente necessario, o almeno lo era talvolta, riflettere prima di parlare, ma un membro del Partito, quando viene sollecitato ad emettere un giudizio etico o politico, doveva essere in grado di sputar fuori le opinioni corrette con lo stesso automatismo con cui una mitragliatrice spara i suoi proiettili”17. Cosa siamo allora rispetto ai Media-Partito in chiave orwelliana? Armi efficienti, strumenti ben tarati, ingranaggi ben oliati? Cosa sono le nostre parole private di sentimenti e autocontrollo, di voglia di cambiare e di affrescare, così com’è per davvero, il nostro mondo? Cartucce con cui centrare un bersaglio, palle di cannone, traiettorie già perfettamente sagomate. È come se ci trovassimo in un vero e proprio poligono di tiro di tipo poliziesco dove spariamo senza responsabilità a lenzuoli di cartone. Ma se allora il munus (dono) cui si richiama un’etimologia della parola “comunicazione” non è il sentirci a casa nostra in una tradizione linguistica che ci viene data e sulla quale interveniamo fattivamente e costruttivamente ogni giorno, da cittadini e intellettuali, ma il Lego-system18 fatto di mattoncini indistruttibili, sequenze a incastro, piani montabili e smontabili secondo un preciso libretto delle istruzioni, allora solo un “materialismo radicale e non riconciliato”19, come lo definisce Ronchi, figlio dell’eterogeneo e di “stati di eccezione”, senza agganci salvifici e soggezioni totalitarie, potrà evitarci quella dimensione prefabbricata, coartata, che ci offre solo l’illusione della parola e del posizionarci nelle cose della politica, intesa come 15 16 17 18 19

Op. cit., pp. 34-38. Op. cit., p. 76. Citaz. in Ronchi, op. cit., p. 32. Op. cit., p. 37. Op. cit., p. 86.

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polis. Ma allora il verbo sarà “evento” solo se non avvicinabile al sacro e al sacrificio, solo se declinato secondo un’ontofenomenologia acefala del dissidio – e come altrimenti-, solo se storia e utopia, nulla e lotta, parola e dissenso, sono, nell’infinitezza delle scissioni e riappropriazioni, l’uno guscio e polpa dell’altro. È l’elogio del virtuale come rigetto del dominio, della parola come presagio, abbrivio, foglio bianco su cui l’individuo pensante inizia a far scorrere le linee d’inchiostro, è l’etereo, ipertesto, soffio che disperde e crea mucchio, il pulviscolare che si coagula e si fa sangue e pelle, il limine che marca ciò che scompare anche quando accade. “Il virtuale, a sua volta, non si oppone al reale ma all’attuale. Contrariamente al possibile, statico e già costituito, il virtuale è come il complesso problematico, il nodo di tendenze e di forze che accompagna una situazione, un evento, un oggetto o un’entità qualsiasi, e che richiede un processo di trasformazione: l’attualizzazione”20. L’attuale si aggrappa, si aggancia, è una cognizione aperta, fuori da ogni erudizione ed evoluzione, da ogni codifica permanente e stato di efficienza. È l’eccentrico che si manifesta, si dirige, si profonde, si annoda collettivamente, spargendosi, defluendo, seguendo solchi di rigore e arborescenze spontanee. È l’essere interrogante. È il chiamarsi vicendevole, non la chiamata di un Sé supremo. “Il reale assomiglia al possibile; l’attuale, invece, non è affatto simile al virtuale: gli risponde”21. Fra i primi due c’è un rapporto di “insistenza”, fra i secondi, di “esistenza”; dunque, il virtuale si incarna come illimite della virtù intesa come posizionamento sempre cangiante di un mondo comune. Il virtuale è il vincolo metafisico che diventa vettore di sapere condiviso. In questo scatenamento dinamico, in questo farsi-legge/fuori-legge, in questa configurazione sempre congetturale, trasversale e de-proferita, beckettianamente, c’è solo rischio, intelligenza dell’indeterminato, assunzione di responsabilità, moltitudine interattiva, gettatezza compassionevole. Una morale nomade deterritorializzata che inventa giorno per giorno i processi della macchina-vivente. Esattamente il contrario dell’Osceno che parte dal fattore-macchina per neutralizzare il potenziale infinito del virtuale e spostare il nihil, il nulla, nelle passioni stesse dello stare al mondo, miniaturizzandole, sterilizzandole, sussumendole come merce, inibendole e asservendole a logiche eterodirette (introdotte da governi, caste, lobbies, sistemi di immagini, valvole comunicazionali, personaggi “mitici”). “La virtualizzazione, in generale, è una lotta contro la fragilità, il dolore, il logoramento. Alla ricerca di sicu20 21

Levy, op. cit., p. 6. Op. cit., p. 7.

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rezza e di controllo, inseguiamo il virtuale perché ci conduce verso regioni ontologiche non più minacciate dai pericoli comuni”22; “la virtualizzazione si muove nel tempo dei tempi. La virtualizzazione esce dal tempo per arricchire l’eternità”23. Il virtuale è vitale immediatamente, perché pro-viene e pro-duce, ovvero è l’“avanti” di una nuda pro-prietà che il soggetto esercita su se stesso e in relazione alla stessa degli altri. È il turbinio artistico-conoscitivo dell’essere-dilaniati. Altrimenti, è il grande Rimosso della storia e dell’estetica di massa, l’orribile sostantivazione dell’essere da parte dell’Osceno, la sua museificazione. “La virtualità non ha assolutamente niente a che fare con quel che se ne sente dire alla televisione. Non è affatto vero che si tratta di un mondo falso o immaginario. Anzi, la virtualizzazione è la dinamica stessa del mondo comune, è ciò in virtù del quale noi condividiamo una realtà. Lungi dal circoscrivere la dimensione del falso, il virtuale è precisamente la forma di esistenza da cui nascono sia la verità sia la finzione”24. Completando il concetto: il virtuale è il grembo di ogni possibile, pur nella loro opposizione irriducibile e antinomicità; il potere fa dei termini di questo rapporto verità/finzione un compromesso/ compromissione, dunque una cerniera dell’irrazionalità e della repressione, un nichilismo su vasta scala, una oscenizzazione mutante del vivente, che non ha più nulla a che fare col movimento e le trasformazioni dello psichismo globale. Il potere rende l’immaginazione non più una spaziosa/ spaziata piattaforma per l’avvenire, ma l’arsenico con cui corrodere le basi stesse del reale e della vita, un principio avulso e utile, una pura leva di casualità soporifere, di festose soggezioni. “Basta che la virtualizzazione si blocchi perché s’instauri alienazione, perché i fini non possano più reistituirsi né possa compiersi l’eterogenesi: macchinazioni viventi, aperte, in divenire, si trasformano improvvisamente in meccanismi morti”25. 22 23 24 25

Op. cit., p. 71. Op. cit., p. 132. Op. cit., p. 140. Op. cit., p. 132. Nella direzione di un virtuale “morto” o altamente reificato, è utile prendere in considerazione un fenomeno su Internet in larga espansione: quello delle videochat, i cui marchi più importanti sono, in questo momento, chatroulette.com e omegle.com. La specificità di questi giochi interattivi su scala mondiale è la possibilità di nextare, ovvero di passare con un click allo “straniero” successivo che ci appare dalla sua stanza, se quello di prima non soddisfaceva le nostre richieste. Le possibilità sembrano infinite: parlare, condividere immagini, magari conoscersi di persona. Ma così non è. L’imperativo categorico sembra essere il sesso. Il 90% dei maschi collegati mette in bella vista muscoli, addominali super scolpiti, o indumenti intimi, dà l’impressione di essere sempre in procinto di spogliarsi se solo qualcuno all’altro capo dello schermo lo chiede,

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Il trascendentale del vivente non consiste, allora, in fedi o provvidenze o discendenze razionali, ma in una dialettica del visibile e dell’invisibile che può spalancare meraviglie etico-estetiche o rattrappirsi nel volto sfigurato e derisorio dei poteri costituiti. E che Sartre ben riassume in Difesa dell’ino cede immediatamente a pratiche autoerotiche per un gusto esibizionistico che incontra, del tutto non raramente, il piacere di un pubblico femminile che vuole esattamente questo. In una ipotetica classifica, seguono quelli che strimpellano musiche, chi indossa maschere, travestimenti, chi è nel pieno di una festa insieme ad amici, chi da latitudini lontanissime e poco civilizzate, usa il computer per affacciarsi a un mondo di relazioni altrimenti precluso. La cosa che rende “oscene” queste tecniche di presunta conoscenza reciproca è proprio il fatto che oltre un certo sfogo “idraulico”, diciamo così, non vanno, e la “morte virtuale” che si può infliggere allo sconosciuto di turno rende ragione di un’immediatezza puntiforme e istintiva di accettazione/emarginazione dell’altro da sé, senza sconti e senza responsabilità. Dice Enea Bianchi, L’intimità di Internet in Agalma 25, aprile 2013: “La seduzione d’altra parte crolla alle fondamenta, perché non si tratta più di sedurre ma di “mostrare”, proprio il contrario di quello che propone la seduzione! A cosa serve velare nel mistero delle figure, delle parole e dei corpi rituali erotici quando si fa molto prima a inquadrare in primo piano il proprio membro e semplicemente aspettare il prossimo utente disponibile?”. Non solo. La collocazione dei server del sistema in paesi con legislazioni particolarmente tolleranti, e la pressoché totale irrintracciabilità degli utenti a causa di unità temporali di apparizione dei loro gesti quasi infinitesimali a volte, fa sì che la libertà messa in gioco, oltre che disincarnata, sia anche depenalizzata, aprendosi a un universo di totale deregulation che lascia adito a derive allarmanti, vista la presenza anche di minori di anni 13-14. Ma l’erotismo dilagante, seppur spiccio e masturbatorio, si oscenizza all’istante, poiché sono gli stessi master a disattivarne la carica libertaria ed eversiva. Come? Con monitoraggio e controlli algoritmici che portano l’utente troppo disinvolto a essere “bannato”, cioè espulso, e il suo ip messo in blacklist per eventuali rientri. In pratica, la policy interna restaura la logica del peccato e della clandestinità, del senso di colpa e del rischio personale, pur all’interno di una “giostra” che dovrebbe esaltare le voglie di ciascuno e basta, senza troppe remore, anzi battezzando una libera scelta fra adulti consenzienti, senza interferenze da parte di “autorità” altre. Se però si vuole fare ciò che ci pare senza la paura di essere registrati, dicono su Omegle, si può andare in una chat parallela, e lì tutto è possibile. E guarda caso, vanno solo i maschi, perché le donne, temendo di essere ritenute troppo spregiudicate, evitano. Prima di essere bannati, un’apposita schermata avverte che un “flusso inappropriato” è stato scoperto dal detecting. E ci si può salvare se si accetta l’invito dei master che spingono verso siti a pagamento con webcam girl che si esibiscono in cambio di crediti virtuali. E non basta ancora. Su Chatroulette, se si viene bannati, si può rientrare in gioco se si risponde positivamente a dei quiz altamente stressanti fatti apposta per misurare il grado di “moralità” del giocatore-traditore, ovvero se questi è in grado di discernere ciò che è pornografico da ciò che non lo è in mini-quadri che vengono presentati come a un test paramilitare. “Pornografico” ovviamente nell’accezione dei “padroni” del sito, e senza considerare i picchi e le diversità culturali delle rispettive personalità.

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tellettuale: “L’impegno dello scrittore mira a comunicare l’incomunicabile (l’essere-nel-mondo vissuto) sfruttando la parte di disinformazione contenuta nella lingua comune… l’obbligo di rimanere sul piano del vissuto suggerendo l’universalizzazione come affermazione della vita all’orizzonte. In tal senso egli non è intellettuale per caso… ma per essenza… l’essere in un mondo che ci schiaccia e, dall’altro, affermazione vissuta della vita come valore assoluto ed esigenza di una libertà che si rivolge a tutti gli altri”26. Si comunica a partire da un’apertura smisurata bisognosa-di-senso che è il mondo della vita e delle co-interessenze fra io, mondo e simili, di cui l’intellettuale si fa carico per essenza, non per ruolo o funzione/finzione, ma perché tramite di un portato che, soprattutto in quanto uomo, lo lega a tutti quelli come lui che aspirano semplicemente alla libertà e alla libera affermazione della vita, contro i dispositivi cooptanti e schiavizzanti di chi al Nulla incomunicabile della creazione aggregante ha sostituito il pieno di un Sistema tecno-scientifico che ha nullificato la vicenda umana nella sua pacifica varietà. Altrove, sempre Sartre, è ancora più evocativo: “Il linguaggio è un’attività umana di rivelazione. La parola porta, per me e per gli altri, un oggetto fuori dall’ombra e lo integra alla nostra attività generale”27; “La cosa a cui abbiamo così dato un nome perde la propria innocenza. In un certo senso, il linguaggio priva dell’innocenza; toglie l’immediatezza e

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Dunque, l’oscenità è totale, e il suo elemento di cattura/distorsione del desiderio individuale alquanto invasivo e catechizzante. Come in tutte le forme mediatiche di Osceno, anche qui la libertà è giudicata moralisticamente, o psichiatrizzata e canalizzata verso la “sacca” di chi si mette volutamente in posizione off rispetto allo staff, o commercializzata come vendita di pacchetti di divertimento sessuale con “professioniste” in collegamento. Inoltre, per scongiurare lo spamming o il disturbo da parte di macchine non-umane (si viene sospettati di questo soprattutto se si è molto veloci nel digitare), periodicamente si viene sottoposti a un “captcha”, che può essere audio, o la trascrizione di una striglia alfanumerica complessa che solo, per l’appunto, un “umano” è in grado di copiare. Questo codice da inserire è chiamato in gergo submit, che guarda caso vuol dire in inglese “piegarsi”, “sottomettersi”, “ubbidire”. Dunque cerchi che stringono, vincoli che affaticano, regolamenti che impoveriscono e giudicano; il tutto per promuovere una macina di corpi, sguardi, brandelli di biografie personali che o si “uccidono” vicendevolmente, o vengono “divorati” dal sistema che li usa come carburante della macchina stessa e, ci si può credere, in un futuro vicinissimo, come è stato già per Facebook, come occhi utilissimi per guardare a fianco di mutande e reggiseni, pubblicità di questa o quella azienda che vuole arrivare a un target giovane e scanzonato. Citaz. in Marco G. Ciaurro, Introduzione, in Maurice Blanchot, La questione degli intellettuali, Mimesis, Milano 2011, p. 30. Jean-Paul Sartre, La responsabilità dello scrittore, Archinto-RCS, Milano 2012, p. 15.

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nello stesso tempo pone la persona davanti alle proprie responsabilità”28. L’operatore delle parole e delle immagini, dunque, se così possiamo definire l’“intellettuale” anche ai sensi di un notevole sviluppo delle tecnologie occorso negli ultimi decenni, sottrae il reale all’ombra, che vuol dire: nell’istante della creazione produce qualcosa di nuovo, di inusitato, mai visto, portandolo alla luce, e soprattutto, evita che le “ombre” del potere affoghino l’evento reale e la ricerca della libertà con le lusinghe della propaganda, l’esercizio del mediato, l’acquiescenza verso il già-detto. Lo scrittore non vuole atti contemplativi o preghiere, o inchini: realizza la libertà sua e degli altri nel momento stesso in cui parlando, scrivendo, dipingendo, partecipa alla cosa pubblica. C’è un’osmosi piena e totale fra la creazione e il valore umano: chi crea attua la libertà, e dunque espone l’ontologia della libertà che è vita che cerca vita, vita che abbraccia vita, che si oppone a tutto quanto non riconosce l’uguaglianza di principio degli uomini fra loro, e anzi, li brutalizza, li schiavizza, li uccide fisicamente e mentalmente, costringendoli a un’economia della perdita e del malessere. “Nessuno si propone un’azione immediata allo scopo di preservare una libertà assoluta, eterna, incolore… lo scrittore fa appello a un’indignazione concreta legata a un evento preciso e alla volontà di cambiare una precisa istituzione”29. La libertà è indissolubilmente mettersi a rischio, fare battaglie sociali, prendere posizione, salvaguardare un’idea armoniosa e affrancata di bene, come dice Blanchot: “scoprendosi responsabile di qualcuno che, apparentemente, non è niente per lui”30, ma rappresenta quel niente che è già valore, poiché è l’Altro, il niente dell’infondatezza e della paura, il niente del destino comune che ha in disdoro la favola delle divinità e delle gerarchie naturali. “Sempre la giustizia di classe. Dal che si può concludere che ci vogliono forse degli intellettuali per ritornare all’idea semplice di giustizia, una giustizia astratta e formale quanto può esserlo l’idea di uomo in generale”31. 28 29 30 31

Op. cit., p. 17. Op. cit., pp. 29-31. Blanchot, op. cit., p. 50. Op. cit., p. 48. In una direzione felicemente post-sartriana che egli stesso battezza “nullismo”, così si esprime Roberto Bertoldo, Chimica dell’insurrezione, Mimesis, Milano 2011, (p. 35): “L’onestà non è la morale, dovrebbe essere la struttura della morale… l’onestà, che è una necessità fondante del linguaggio. La morale è la condizione dell’assoggettamento: le sue ripercussioni psicofisiche sulle scelte, le angosce e le somatizzazioni che ne derivano sono un limite al coraggio. C’è di più: la morale ostacola l’onestà, ne pregiudica il percorso… La morale rinuncia alla relazione sincera tra il dire e il fare su cui si basa l’onestà”. In altre parole, secondo Lyotard, l’unione di “desiderio di ignoto e desiderio di giustizia”.

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Ecco allora il signific-ante e il gioco dei signific-anti, come li abbiamo visti apparire prima. Il prima è già atto e ogni atto è un porsi, un proporsi, un opporsi. Pena la caduta terribile e straziante in quello che chiamo il significando, ovvero l’imperativo progressivo, che ci svelle dall’orizzonte sterminato e arioso dell’essere, e ci imprigiona nelle militarizzazioni del pensiero e nell’eterno ritorno limitato del potere che si auto-promuove e che “canta” così: cioè che è deve essere e dovrà essere, per un’investitura non sottoponibile a dubbio e smarcamento. Dice Zanardi: “Ma poiché lo sfondo enorme è, in quanto enorme, assolutamente indeterminato, e come tale enormemente pericoloso, bisogna mettere in campo una difesa adeguata, sproporzionata, in cui quell’enorme sia evocato – non può essere taciuto – ma nello stesso tempo assuma una determinazione, sia ricondotto, attraverso l’enorme forza, appunto alla forza. Si faccia predicato della forza piuttosto che sfondo impredicabile della predicazione… La guerra è una sfida all’enorme. Una indisponibilità ad obbedirgli. Una volontà di aggiogarlo. La sfida è metafisica”32. Tutto questo io lo chiamo Osceno, geometrica potenza del nascondimento, assunzione dell’“enorme” nella ripetizione e nella reificazione, cancellazione delle pratiche di liberazione a meno che non travestano la libertà come democrazia armata, desiderio di merci, baratro dello sproloquio tele-patetico. Lo spettro del Capitalismo è questo “fantasma fondamentale”, per dirla alla Žižek che crea una sorta di universale ingessato, non singolarizzato, ma di inaudita forza vessatoria e predace. “Il soggetto – lungi dal confrontarsi con l’abisso della sua libertà, cioè di caricarsi sulle spalle il peso della responsabilità che non può più essere alleviato dalla mano soccorrevole della tradizione o della natura – è preso forse oggi più di ieri, in un’inesorabile costrizione che determina concretamente la sua vita”33. L’assoluto che si dà a vedere, al contrario, volendo usare un termine preso dalla fisica, è il cut off dell’apparire, quella soglia al di sopra e al di sotto della quale non è percepibile o non si dà altro. Non c’è una particolarizzazione che sia “sotto” l’atto vitale, non ce n’è un’altra che sia “sopra”, che superi per ampiezza di possibilità l’assoluto stesso. Non c’è una sub-esistenza, non c’è un Dio. Non c’è un reale dato per sempre che eviti la processualità, non c’è una corteccia pensante che scavalchi il gioco dei signific-anti. Solo un “particolare elemento che è strutturalmente spo32 33

Maurizio Zanardi, Per una critica del realismo politico, in AA.VV., Comunità e politica, op. cit. alla nota 43 della seconda sezione, p. 162. Žižek, Difesa dell’intolleranza, op. cit. alla nota 52 della seconda sezione, p. 87.

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stato, “fuori dai cardini”… cui è impedito di attualizzare la propria specifica e completa identità che si pone come la sua dimensione universale”34. L’assoluto è l’anti-logica degli “scarti” umani che dimostrano nella loro individualità sconfitta o marginalizzata, nel loro sentire deliberatamente degradato, il disastro metafisico metto in atto dal Capitale e dalla sua scena-Oscena, fatta di parole e immagini che rimandano solo all’Inganno. E invece i custodi del potere che ancora credono (e fanno credere) ad una metafisica del rappresentazionale e dell’identitario, questo temono, “di ritrovarsi orfani della trascendenza. Ciò che fa loro orrore è il tempo, il linguaggio, il carattere contraddittorio della realtà dell’esistenza, che provoca in loro una tale contrarietà che si danno un gran da fare per neutralizzare l’angoscia che scatena. Comprendono assai bene che i nemici sono il linguaggio e la storia, fantasmi che conviene non frequentare troppo”35. Il linguaggio e il sociale diventano, allora, due perfetti emisferi, superfici che pattinano una sull’altra senza attriti, senza sfasature, lubrificate e centripete; il linguaggio rispecchia, riproduce, registra il reale, e questo si fa adescare nella sua stabile certezza. La temporalità, l’orizzonte della finitudine e dell’incompletezza, la flessibilità degli indici e dei convincimenti vengono dimenticati, e come ingabbiati in un universo semiotico fatto di segni stanchi e fatti avvizziti, di un ordine ortodosso e restaurativo e di una realtà che “brilla” di facilità, di effimera maneggevolezza, senza scarti, distanze, differenze, sussulti. Idee e realtà sono in un rapporto fiduciario perenne, concertano la loro immutevolezza, sono come catatonici, fradici, coincidenti, gemellari, attutiti, integrati senza scampo in una sintassi univoca e omogenea. Disegnano l’orbita di un “pensiero docile”36 sotto l’effetto psicotropico di un “calmante ontologico”37. Sono come fotoimpressi, accalcati. La parola non rivela la cosa, non la descrive nei suoi contrasti, 34

35 36 37

Op. cit., p. 80. Rimarca Junger (Trattato del ribelle, op. cit. alla nota 2 della seconda sezione, pp. 114-115) laddove dice che bisogna andare “verso quello strato sul quale poggia l’intera vita sociale e che sin dalle origini è sotteso a ogni comunità. E verso quell’essere umano che costituisce il fondamento di ogni elemento individuale e da cui si irradiano le individuazioni. In questa zona non ritroviamo soltanto la comunanza, qui c’è l’identità. È questo che si profila nel simbolo dell’abbraccio. L’io si riconosce nell’altro – secondo la formula antichissima: “Tu sei quello!”. L’altro può essere la persona amata, e anche il fratello, il dolente, lo sprovveduto. L’io che gli porge aiuto s’innalza all’imperituro. Qui si consolida la struttura che è a fondamento del mondo”. Laplantine, Identità e meticciato, op. cit. alla nota 40 della seconda sezione, p. 126. Op. cit., p. 96. Op. cit., p. 84.

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non la costeggia umilmente né la assalta per graffiarla, semplicemente la deduce. “L’impostura propria di un senso stabilizzato e totalmente esplicitato, di cui si finge di credere che potrà avere ancora un senso, insieme al ripudio di un reale che è singolarità, instabilità, rischio, estraneità, destino, rendono legittimo un diritto, o meglio un dovere di disobbedienza e di resistenza. Qui non si tratta di preconizzare un fronte di riconquista del reale alla maniera del vecchio incubo religioso o totalitario… Si tratta piuttosto di contribuire a rianimare la realtà che oggi si trova sotto flebo, e di dare un po’ di fiato alla nostra epoca. La realtà presuppone uno slancio, o quanto meno una vibrazione che ci mantenga in vita”38. La politica sta tutta qui: ritrovare un universale singolare che sappia, nella sofferenza e nelle caratteristiche specifiche di ognuno, ricostruire la forza dei principi e la messa in fuga dalla distruzione, una grana comune e la sollevazione in nome del Nulla che ci fonda ma non ci fonde e confonde come il “nulla” fatto scivolare dentro di noi. Ovvero, non un umanesimo di conforto, alato e accademico, ma una connessione attivo-sovversiva fra soggetti che ritrovano nella cittadinanza la loro infondatezza e il bisogno di parola, e dunque una sorta di programma di azione basato, più che su speculazioni dottrinarie, su punti di rottura, divaricazioni, fuochi, sulle “più ampie relazioni di punti di non accettazione”39. Per spiegare il versante opposto di questa auspicabile, non-utopistica e non-oscenizzata posizione, Zanardi usa un’immagine ben precisa che ci dà la cifra della bassezza cui le nostre governance, i nostri congegni sociali e immaginari si sono ridotti, quella della premura, che lo porta a dire che le opere di quest’ultima sono “operazioni di sutura dello spazio e di sottomissione: una risposta alla finitezza, all’infinita esposizione del finito”40, e che “il realismo è un pensiero triste”41. La premura non ha in questa accezione nulla di solidale e di soccorrevole, non è sollecitudine, prontezza nell’aiutare il vicino, non è valore aggiunto della prossimità. Per Zanardi è “pressione” sui fenomeni, un premere, un comprimere, uno stare-presso di loro per imbrigliarli, non farli sfociare, impedirne la contagiosa fluidità, strutturarli senza passaggi di luce. È uno sbrigarsi per spingerli a tacere. Essa è, dunque, la forza abnorme, la violenza estetica e marziale cui il Sistema ricorre non tanto per imporre una legge o punire un colpevole (ché queste sono fasi supplementari) quanto per prevenire l’allargamento del senso dei fatti stessi, irrigidire 38 39 40 41

Op. cit., p. 131. Michel Foucault, Lezione del 30 gennaio 1980 in AA.VV., Il governo di sé. Il governo degli altri, Duepunti, Palermo 2011, p. 37. Zanardi, op. cit., p. 158. Op. cit., p. 159.

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la loro dicibilità, cloroformizzare gli istinti di ribellione e di riappropriazione, proteggersi dalla “sovranità” con cui l’uomo che ha abiurato la paura dentro di sé vuole tornare a “mettere sotto controllo il tempo”42. In questo modo, con l’agilità sopraffattoria delle sue pratiche operative, il potere scardina il gioco linguistico che, dopo il collasso delle grandi Narrazioni collettive (l’Aufklarung illuminista e il suo dispositivo scientista che legittima il patto conoscenza-etica nell’autonomia razionale dei dialoganti; e la Bildung tedesca del diciannovesimo secolo, intesa come “formazione filosofica” e pedagogia che discende da una Vita divina fin nelle maglie dello Stato e in quelle della coscienza singola43), si ritrova a essere l’unica possibile architettura per ricondurre a un logos elastico i saperi pullulanti della postmodernità, ridando vita a una sorta di democrazia metodologica dal basso, se così possiamo definirla, all’interno della quale il “gioco” è accettato e condiviso, wittgensteiniamente, non per obbedienza alla emanazione di un’Idea o di un Apriori, ma solo se questo è sorretto da valide argomentazioni, o se una nuova capacità euristica scalza queste e ne ramifica altre. Le regole, insomma, si accettano e si arricchiscono, o si rovesciano e dimostrano. Tradotto in termini pratici: la parola è libera di scorrere ma con una sua pregnanza semantica ed esistenziale, pena la stupidità, il delirio, la prevaricazione illiberale o persuasiva, tipiche armi affilatissime del sistema Media-Mercato, colloide venefico in cui siamo immersi da una miseria indotta. “L’orizzonte di tale procedura è il seguente: essendo la “realtà” ciò che fornisce le prove per l’argomentazione scientifica ed i risultati per le prescrizioni e le promesse d’ordine giuridico, etico e politico, ci si impadronisce delle une e degli altri impadronendosi della “realtà”, ciò che è consentito dalle tecniche. Rinforzando queste ultime, si “rinforza” la realtà, dunque le probabilità di essere giusti e di aver ragione. Inversamente, è tanto più agevole rinforzare le tecniche quanto più si dispone del sapere scientifico e dell’autorità decisionale. Prende così forma la legittimazione attraverso potenza”44. L’Osceno come positivismo efficientista, organizzazione pianificata delle identità e dei comportamenti, loro schematizzazione etico-politica, fascismo/fatalismo delle attribuzioni collettive, spezza ogni felicità empirica, disancora il dissenso e l’innovazione, ingiuria l’avanguardismo, e la “catastrofe” non è più foriera di rivoluzione dei parametri guida e di ossigenazione mentale,

42 43 44

Junger, op. cit., p. 62. Jean-Francois Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 2010, alle pp. 58-76. Op. cit., pp. 85-86.

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ma è la tragedia del non-senso che subito il potere rimbocca e recupera nel Senso normativo condiviso e a-storico. “L’unico interesse del regime industriale è che il produttore e il consumatore manifestino spontaneamente un aspetto di se stessi modulando sulla forma della fabbricazione o del consumo il modello della loro sussistenza e del loro modo di esistere in quanto “unità individuali””45. Il significante del dolore primordiale stavolta diventa, per me, significanza, ovvero beanza del significante, ovvero ancora: merce che entra nei gangli della vita, nelle sue membrane, che inchioda l’essere, vellicandolo stavolta nella sua chimica interna, vezzeggiando la dimensione valoriale, creando puri choc visivi, associazioni libere, negando ogni transfert, ridicolizzando l’auto-riflessione nel disincanto della estroflessione schermata e condivisa sui network sociali, rendendo traslucido ogni riscontro sensoriale, intrattenendo il nostro permanente dispiacere con l’infantilismo di colori e suoni televisivi spesso giustapposti senza un perché. Merce e immagine diventano un dèmone che ci possiede con l’odoroso sussiego di un angelo custode. “Il mondo dei consumi punta su questo dispiacere, con i suoi gadget, i suoi oggetti commerciali che sono una promessa di piacere basato su una constatazione di dispiacere. Questa è la legge del mercato che va verso la produzione di innumerevoli strumenti illusori di soddisfazione”46. E allora, oltre a barattoli, pannolini, vacanze esotiche e merendine, via libera alla pubblicità della Vodafone dove, non si capisce perché, un pinguino che canta (maciullando la lingua italiana) su un palco davanti a migliaia di fans (su musica e voce di Elio e le Storie Tese) o un orso che pattina e va per saune (doppiato da Diego Abatantuono) invitano all’“illimitatamente” del traffico telefonico; o alla pubblicità delle Vivident Blast dove la “freschezza” delle mentine, non si capisce perché, si annuncia con lo stupore di una balena gigante che plana su un signore seduto all’ultimo piano di un grattacielo mentre promuove il magico stick; o a certi fenomeni paradossali tipici della Rete dove, recentemente, si è assistito alla viralizzazione del “baguetting”, persone che, in preda a non si capisce quale delirio anarco-artistico senza conseguenze reali, postavano foto e video dove il famoso pane parigino baguette, lungo e croccante, era usato in sostituzione di normali strumenti di tipo domestico: il phon, la spazzola, il coltello, il rasoio, il bicchiere. Stesso dicasi per il “batmaning”: filmarsi a testa in giù come pipistrelli appesi su cancelli

45 46

Pierre Klossowski, La moneta vivente, op. cit. alla nota 32 della seconda sezione, p. 71. Ansermet - Magistretti, op. cit., p. 26.

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e balconate, e per il “planting”: filmarsi a pancia in giù su varie superfici, panchine, marciapiedi etc. Avverte Bertoldo: “La comunicazione richiede necessariamente trasparenza, ossia chiarezza non solo linguistica ma anche logica. Il principio di non contraddizione non è un principio ontologico ma è comunque un principio intersoggettivo necessario alla comunicazione, è una convenzione senza la quale non può esistere dialogo costruttivo”47. Dunque, precipitiamo in un eterno crogiolo ludico-spottistico, o ritroviamo il coraggio di chiedere a imbonitori, conduttori, informatori, ingegneri del nostro cervello, pettinatori delle nostre anime: scusi, ma che vuol-dire?, scusi, ma col suo lavoro dove vuol-farmi-arrivare? Coraggio anti-barbarie Vita come libertà, ricerca di verità, come stare-insieme, limpidezza dell’ego, valori condivisi, in vista di una progressiva espansione della persona umana sempre più, invece, frammentata, declassata, cooptata da meccanismi di potere e malìe del consumo, ridotta a mera “entità fisiobiologica”48, a “materia prima della tecnica”49, a inerte superficie di calcoli statistici e fisiche sociali, trasformata in una macchina desiderante il cui moto perpetuo è rivolto solo a oggetti e interessi personali. Senza più un futuro collettivo verso cui orientarsi, senza più la consapevolezza di quella notte dell’essere da cui si proviene e che va infaticabilmente riempita di significati. Ecco dunque lo squarcio storico-metafisico così attuale, così febbrile, foriero di accenti salvifici: il presente non può continuare ad avvilupparsi su se stesso, sul godimento effimero, sull’uniformità gestita dei comportamenti, sulla mortificazione del soggetto a fantasma, merce, spettacolo, ma deve riconnettersi a quella dimensione inquietante dell’ontologia dell’umano dove ci ritroviamo infinitamente creativi e potenti nel riscrivere il testo delle nostre emozioni e azioni più autentiche. Solo così ci liberiamo dalla retorica di un agire prefabbricato dalle multinazionali del mercato, dalla noia delle ingegnerie istituzionali, dalle performance di Borsa e da una precarizzazione delle relazioni affettive che, insieme, delineano un universo fatto di passività, sacrificio degli ideali, sonnambu-

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Bertoldo, op. cit., p. 42. Pietro Barcellona, Passaggio d’epoca. L’Italia al tempo della crisi, op. cit. alla nota 52 della prima sezione, p. 60. Op. cit., p. 65.

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lismo della ragione e della responsabilità. È la “clinica dell’anti-amore”50, come la chiama Barcellona, ovvero il sigillo del dominio di un capitalismo cognitivo che viaggia su informazioni, virtualità, immagini, sfibrante e riduzionista, sfrenatamente liberista ma non libertario, dove il logos della scienza e della finanza ha sostituito l’ethos della cooperazione e della fratellanza, la serenità del dialogo è soppressa dalle urla faziose dei talk, e la posta in palio non è più semplicemente evitare la debacle di una classe al potere, ma una “catastrofe dell’anima”51 che chiede, per guarire, una rivoluzione culturale, un sommovimento spirituale. Barcellona è chiaro e veemente: “Oggi l’egemonia esercitata nel senso comune dai discorsi tecnoscientifici tenta di cancellare ogni spazio per l’interrogazione sul senso della vita… Il mondo si è desostanzializzato e derealizzato… La Modernità nasce per esaltare la vita e la libertà individuale e finisce in un tragico rovesciamento: la vita come mezzo per produrre ricchezza”52. Il problema incombente, allora, per l’Occidente più evoluto, non è solo il riappropriarsi della parola politica, la riconquista degli spazi pubblici, la ricostituzione del tessuto sociale, ma la ricerca di un ubi consistam di tutte le coordinate sfilacciate del nostro essere al mondo, un’opera di ri-fondazione delle norme e delle gioie della collettività, dove il bisogno venga sempre prima della “produzione di risposte” e dove i circuiti dell’artificio e del commercio non siano mai slegati da un “progetto vivente” non più votato al martirio dei più deboli, alle violenze di regime, agli incantesimi di massa. “Per uscire dalla crisi bisogna avere il coraggio di intervenire affettivamente sulla “condizione umana””53, altro che manovre fiscali, populismo in doppio petto e barzellette a go go per cancellare l’infamia dell’impotenza e del narcisismo. E qui il dispositivo di liberazione non può non spingersi verso quell’immaginario impoverito, schiacciato dai media nazionali, sempre prodighi di narrazioni anoressiche e circensi sul vero andamento delle cose e dei sentimenti. “Si può rappresentare la situazione della società attuale come un sistema di manipolazione permanente delle menti giovanili, per impedire che attraverso una maturazione del rapporto con se stessi, acquisiscano la consapevolezza di sé, il bisogno di una vera autonomia e la capacità di sviluppare riflessioni e pensiero critico. Siamo immersi in una grande fiction”54. Gli fa eco Bertoldo: “L’istupidimento delle masse, ottenuto con lo sfruttamento della morale e del contentino (lotterie, sport, 50 51 52 53 54

Op. cit., p. 29. Op. cit., p. 72. Op. cit., pp. 42-43. Op. cit., p. 50. Op. cit., pp. 29-30.

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salari ecc.), della bassa cultura e dell’“istinto di sottomissione” è un risultato raggiunto senza tanti sforzi dalla classe al potere, facilitata in ciò dal suo reale istupidimento culturale – la vera barbarie non è tanto nella violenza fisica quanto nella mediocrità intellettuale che la rende operante. La difficoltà della lotta richiede il ripristino delle proprie doti intellettuali”55. Ma è sempre la nuda libertà della soggettività a ripresentarsi sulla scena, a brillare in penombra, a tentare di scartare, scardinare peso e resistenze delle enunciazioni ufficiali del potere, dei suoi crinali epistemici grazie ai quali la realtà e il sentire sono come imprigionati in gabbie linguistiche e pseudo-morali, dove ogni punto di fuga è scrutato, controllato, sprezzato, punito. L’invito di Foucault è a un’anarchia della conoscenza, alla disobbedienza e alla sottrazione come ripartenza per scrollarsi di dosso tutto quello che il potere spaccia per “vero” ed è solo un accidente di maschere ridenti e falsità occultate. “Nessun potere è fondato sul diritto, né sulla necessità; dal momento che ogni potere non riposa altro che sulle contingenze e sulla fragilità di una storia; nel momento in cui il contratto sociale è un bluff e la società civile una fiaba per bambini; dal momento che non esiste nessun diritto universale, immediato ed evidente che possa, ovunque e sempre, sostenere qualsiasi rapporto di potere”56. Che quest’ultimo non sia “inevitabile” e “non accettabile con pieno diritto”, questa la lezione che ci arriva da Foucault, molto più irruente del dire che è sempre pernicioso e da abbattere in ogni sua manifestazione. E il potere non può che essere messo in discussione con tutto il suo portato di malafede e solitudine se non facendo rifiorire quel “bisogno d’amore” e quel “piacere di donare” che Barcellona propone come il sostrato fenomenologico più carnale e spontaneo per colmare l’abisso che ci separa. E di cui certa programmazione televisiva è solo la più sconsolante e favolistica delle compensazioni. Una umile aritmetica delle singolarità, dunque, in cui sguardi, sudore, dolore, contatto e tutte le allegre, rischiose sintassi della comunicazione interpersonale, rivivificate dalla vicinanza, possano schiantare quel senso ipnotico di irreversibile in cui, superbamente, ondeggiano tutti i tiranni. Che sono sempre nani e truccati. A livello di umanità. E talvolta anche nelle sembianze. E se parliamo di un’estetica, tutta fisica, del buono e del bello, l’Iliade è chiara al riguardo. I Greci della fase mitologica non erano certo parsimoniosi a livello di manicheismi e facili disprezzi. Se si era effeminati, si indulgeva in mollezze, si veniva tentati dall’eros e dai vizi della carne, automaticamente il proprio valore guerriero, la stima militare scemava fino 55 56

Bertoldo, op. cit., p. 36. Foucault, op. cit., pp. 34-35.

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a sparire del tutto. Perché l’aretè non era certo simmetrica al gioco delle passioni o al ratto delle concubine. A quel punto un dio interveniva e surrogava, con pudica benevolenza, e se voleva, qualità e tecniche scarsamente dotate dell’uomo. Come nel caso del troiano Paride, deriso dai suoi avversari d’armi, la cui freccia assassina centrò l’obiettivo solo grazie all’intervento illuminato e celeste di Apollo. L’alke dei poemi omerici, l’essere intrepidi in battaglia, è un primo livello di analisi del libro Coraggio di Diego Fusaro che ne svela le successive declinazioni nella storia del pensiero occidentale. Fino ai giorni nostri consumati, al contrario, da un’inerzia depressiva e magniloquente, immemore di ogni prassi combattiva e di ogni senso pugnace dell’affermazione del sé e del gruppo nella vita ordinaria e politica. Il coraggio, secondo Fusaro, supera il suo stadio più squisitamente marziale e dardeggiante, fatto di eroi corazze e onore, con la figura di Odisseo, l’Ulisse naufrago e tenace, vagabondo ma sempre perfettamente autocentrato in ogni decisione, col quale albeggia una sorta di temperata arditezza, che non si perde in inutili forme di audacia, in fisiche scorribande dove la vigorìa muscolare e l’aspetto più sanguigno dell’aggressività si accaniscono su un nemico da abbattere, ma si combina alla riflessione, alla pazienza, a un senso di attesa, alla tlemosune (dalla radice “tollo” che porta al verbo tollerare) come concentrazione – pur attraverso menzogne ed escamotage tattici – in vista di un obiettivo. La prima importante coupure avviene proprio qui: il coraggio si costituisce in uno spazio di interiorizzazione, di assorbimento delle tensioni, e non si fa più soldatescamente estroflesso e impavido. Il “cuor di leone” – quello che tanti e tanti secoli dopo, del don Abbondio manzoniano si dirà che ne era completamente sprovvisto – cede il passo al “cuore di ferro” che sopporta, aspetta, assapora e medita quasi la sua rivincita sulle vicissitudini più aspre del suo cammino e le tempeste e i rovesci di una natura spesso ria. Il terzo livello è quello dello hupomone, del persistere, ed è definito “oplitico” perché è il comportamento epico sposato alla fede reciproca, tipici dei componenti delle falangi che solo facendo massa contro l’avanzata dell’esercito nemico, mantenendo la propria posizione, non abbandonando il campo, non cercando vie di fughe e atti singoli, riuscivano a imporre la propria vittoria. Il coraggio diventa comunitario, sociale, e apre le porte ufficialmente a quella dimensione socratica che lega indissolubilmente il cittadino, il suo intelletto, il dominio degli elementi irrazionali e antinormativi all’andamento collettivo della polis e delle sue istituzioni eticamente condivise. Ecco allora l’armonia fra essere e apparire, fra il proprio vivere e il dire pubblico (che Socrate paragona alla “splendida armonia” di un “musico”), ecco lo spazio aperto e fortemente intensificato della parre-

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sia, dove il potere viene improvvisamente snodato, scardinato, smembrato dal movimento volontaristico del filosofo che, nel totale rispetto del suo “posto” all’interno del contesto sociale, si sente nel diritto e nel dovere di allargare gli orizzonti del sentire collettivo sottoponendo il potere stesso, senza paura dei propri rischi e della morte, a una critica priva di scrupoli e di compromessi. La nudità della libertà contro l’omogeneità del reale e il perdurare asettico del dominio. Se le cose fossero rimaste così – sembra dirci fra le righe Fusaro, in un anelito largamente condiviso – ci sarebbe stato forse un seguito ben più felice per il nostro tartassato Occidente. Il coraggio orientato dal senno viene usato come strumento di indipendenza del pensiero e smascheramento delle tartuferie autolegittimanti del grande occhio che detta i comportamenti. Con l’ottimo supporto del pragmatismo aristotelico che rende alchemica l’andreia con la phronesis, la saggezza pratica, e tutto ragionevolmente si affronta con la metrica del “giusto mezzo”. E invece no. Prevale un sistema figlio del platonismo che al coraggio comincia ad attribuire una mutazione in termini di appetito “irascibile” (il “cavallo bianco” nel mito della biga alata) cui si allea la parte razionale dell’anima (l’auriga che infonde controllo e saggezza) per vincere quella concupiscente (il “cavallo nero”). Questa ratio che comincia a diventare troppo onnipresente, troppo onnivora rispetto alle energie vitali, ai desideri e al turbinio dell’esistenza reale, sarà protagonista della seconda grande rottura: l’unità psicofisica dell’uomo comincia a scindersi rendendo ipertrofico l’aspetto disincarnato, sovraempirico dell’essere, la razionalità si trasforma in fede, progressivamente e irreversibilmente, e la fortezza passa da strumento di adattamento al mondo e sua plasmazione (dentro e fuori il bellum) a riconoscimento di una virtù alienata il cui oggetto è Cristo, la Passione, la verità maiuscola fondata sull’oblìo del mondo, la solitudine della preghiera e una perenne contrizione. Il coraggio è riconoscimento del nulla antropologico ed elevazione all’impossibile, o non è. Fusaro mette molto bene in evidenza questa dicotomia che sa di slacciamento e schizofrenia. Il fine ora è il bene assoluto, il monaco e il martire sostituiscono il filosofo parresiaste, il coraggio si fa prudente e “retto”: Aristotele, dunque, viene “battezzato”. La trigonometria Dio-Logos-Mercato ci porta fin nei recessi di uno scientismo annoiato e pavido – quello di Cartesio che cerca un fondamento inconcusso della conoscenza preferendo la “roccia” dell’Io Cogitans alla “sabbia” delle sensazioni sparse –, a un Illuminismo doppio e ipocrita, seppur partito dalla Bastiglia, che coltiva la rivoluzione solo da talpa della clandestinità, da custode degli imperativi categorici kantiani, senza mai prorompere contro le barriere delle nuove signorìe, infine a un universo

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cosificato e feticistico di oggetti prodotti, di simboli opachi e socialmente ri-prodotti, tipici di un Capitalismo buio e febbrile dove ogni soggettività frontale, ribelle, avanguardista e incoercibile sembra aver preferito solo il belletto del comfort e la fatalità di un mondo presunto buono, giusto e insuperabile. Insomma, la duplicità del piano della vita perfettamente contrapposto a quello ideale, religioso o logico-matematico, ha creato nei secoli un rispecchiamento, una metafisica “corrispondentista” – come la chiama Fusaro – fra soggetto e oggetto che ha fatto quasi guardare in cagnesco mondi che si sarebbero dovuti invece contaminare, coinvolgere, co-interessare in maniera maggiore e più determinata. L’adorazione di un dio, la collocazione trascendentale di un fatto, l’accomodamento narcisistico-compensativo nell’orbita della techne e dello shopping hanno reso il coraggio un’arma spuntata, una forza devitalizzata, una tensione smollata (Dio-Io-Mio, potremo dire con un’allitterazione). Ma, precisa con ardore il giovane filosofo Fusaro: “‘Essere contro’ significa avere il coraggio dell’indocilità ragionata, in primo luogo della propria dissonanza inconciliata rispetto all’esistente, ma poi anche della volontà di ridelineare diversamente la morfologia del reale in opposizione diretta con le logiche conservative del potere e con il comune pathos adattivo che accetta il mondo non perché sia buono o giusto in sé, ma perché, per inerzia, si assume che non possa essere altro da quello che è”57. Insistere, resistere, dire con franchezza la verità, non soggiacere alle lusinghe dei manipolatori, non intridersi dell’incenso dei mediatori dell’occulto, non involvere come consumatori, spettatori, rabbiosi e paranoici, ma tanto fragili e bisognosi, non sentirsi mai definitivamente impastati e appestati dal reale, non sacrificare mai il proprio senso comune rispetto agli automatismi della lingua e del cuore che telepredicatori e leve di regime vogliono inculcarci, cercare incessantemente un mondo migliore di quello che ci sommerge: questo, forse, il vocabolario del “valoroso” del terzo millennio che ritrova pienamente la sua “coscienza infelice” ma anche il gusto di una creatività e di una gioia dilemmatica che in eterno spodesteranno i falsi, gli infami, i vili. Su qualsiasi alta poltrona siano assisi. Questa è la Libertà contro il Sistema. Questo è l’Odio contro l’Osceno. La cultura deve diventare, allora, più pedagogica ma meno scolastica? Più aggressiva, agguerrita, illuminista e meno demagogica anche nei suoi esiti apparentemente più “ribelli”? Certamente deve sviluppare mappe di dissenso vero, cartografie di nuove interiorità, manovre di dis-assoggettamento, campi di idee affascinanti ma non abbaglianti, fortemente responsabilizzanti, eticamente pregne, dislivelli e vie di fuga da ciò che i domìni 57

Diego Fusaro, Coraggio, Raffaello Cortina, Milano 2012, pp. 148-149.

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consolidati ci spacciano per vero e per umano. Altrimenti la “menzogna” si perpetua, e la comunicazione si trasforma in una scomunica dell’agire e del capire, in una comunicazione della/sulla comunicazione che è un ermetismo alla rovescia, una piccola grande oscenità dialettica (e quindi dispotica) che non porta a nulla. Insomma, volgere a controsenso la diaspora delle opinioni, degli scintillii catodici, delle volontà di potenza slacciate e lasciate alla loro fragile ferocia, significa proprio questo: asciugare, coagulare, far rapprendere il senso, accendere la luce anche su fatti insignificanti – magari di “intrattenimento” televisivo –, legarli a un filo rosso, riconsegnarli a un orizzonte di valore, svelare, far crollare le maschere, svuotare filtri, lacerare membrane. Pochi oggi in effetti fanno questo, fra opinionisti, convegnisti, professori e “saggi” da magazine o da studio tv. Al contrario, anzi, si dà massimo spazio, con spiegamento di forze, e vere e proprie occupazioni dell’etere a paleo-scemenze cosmiche come il matrimonio di Valeria Marini (Domenica In gli ha dedicato una lunga diretta, con le telecamere posizionate sulla scala di Trinità dei Monti a Roma, fra la gente accorsa, e in fila come alle Poste, per vedere l’abito della “diva” e buttarle il pugnetto di riso…), o ai festeggiamenti nel centro di Torino per la vittoria dello scudetto da parte della Juventus, con migliaia di persone che inneggiavano, senza accorgersene a una vittoria che non era la loro, a una fortuna economica che non li prevedeva ma li scavalcava, a una popolarità che non potranno mai nemmeno sfiorare. Se in Maria De Filippi ti odio, parlavo di una Auschwitz pubblicitaria, è arrivata l’epoca di una vera e propria carestia estetica, all’interno della quale la circonvenzione dello spettacolo passivo e di un “bello” artefatto e incartapecorito, straccione e macilento come un essere smagrito che muore di fame, mentre altri affogano nell’opulenza, va a nozze col bisogno di nuovi nuclei fondativi da parte della gente comune, sempre più immiserita e tradita, coccolata e pugnalata. Una spirale concepita a uso e consumo del potere e del profitto di chi illude e manipola. Bisogna saper allora individuare una via, i nemici, metodi e contenuti, per una sorta di odio critico, potremmo definirlo, che non è discriminante, sopraffattorio e separatista come quello figlio della violenza e del pregiudizio. Ma una forma di dissociazione orientata, una tattica di aggiramento o di soppressione anche solo mentale dell’ostacolo, una vera e propria forma di ecologia del pensiero che possa battere la subcultura dell’equidistanza e dell’equipollenza dei segni, vero cancro della comunicazione oggi, della tolleranza e della soggezione a tutto ciò che ci viene propalato, nell’impossibilità più totale e paralizzante di discernere il “proprio” futuro, il “proprio” stato di cose. L’odio può esistere come contropotere popolare, come

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stop al raggiro sistematico dei mezzi di comunicazione di massa, come grimaldello critico verso gli standard comportamentali e l’obbedienza soft che questi ci inculcano in maniera sempre più sottile, diffusa, docile, acquiescente. Questo odio esiste e, attraverso una serie di importanti contributi filosofici, ha liberato nel tempo una vasta area semantica che riconduce questa parola così controversa al valore di un riformismo radicale, se non di un rovesciamento totale e salutare. Marcuse parlava di “intolleranza”, Žižek pure, Gramsci di “intransigenza”, Hassel di “indignazione”, Byung-Chul Han di “collera”, Solla di “rabbia e imbarazzo”, Laplantine di “disintossicazione”, Junger di “ribellione”, Bertoldo di una “violenza razionalizzata” e di un “insorgere con intelligenza e sensibilità”58, Sartre di “violenza che viene usata contro la violenza”59, Nancy è quasi pedagogico al riguardo, senza usare termini ed espressioni meno vigorose: “La collera è il sentimento politico per eccellenza. In essa è in questione un che di inammissibile, di intollerabile, un rifiuto, una resistenza che si slancia di colpo al di là di tutto ciò che essa può ragionevolmente compiere – per aprire le possibili vie di qualche nuovo negoziato su ciò che è ragionevole, ma anche per una vigilanza irriducibile. Senza collera, la politica è accomodamento e corruzione, e scriverne senza collera vuol dire trafficare con le seduzioni della scrittura. Insieme con i marxismi e i comunismi sono scomparse anche le collere politiche, e non resta che un grande no man’s land “democratico””60. L’odio come una metafisica della conoscenza che si rivela in quell’eccesso/accesso che è il nostro corpo e nell’ansia di vita che ci contraddistingue. L’odio è illuminazione del dolore, squarcio della/nella violenza che subiamo, apertura improvvisa a quel niente-che-ci accomuna e che, invece, nel dato reale sistematizzato dal potere, muta nella marxiana “ingiustizia pura e semplice”, nel “torto assoluto” del Capitale (Lyotard), immane divaricazione fra essere e apparire, fra chi amministra i mezzi e chi li elemosina, fra chi gode di tutto e chi striscia per una minima soddisfazione, fra chi gestisce il sogno collettivo e chi se ne accontenta senza sperare altro. Là dove il potere crea sostanze e “nature” più proprie di altre, luci di appartenenze e tenebre della dimenticanza, omologazioni brutali e individualità sottomesse, là l’odio si annuncia come bisogno di compostezza, ripresa di dignità, specchio comune, non distorto, dei

58 59 60

Bertoldo, op. cit., p. 67. Sartre, op. cit., p. 49. Nancy, op. cit. in AA.VV. Comunità e politica, op. cit. alla nota 44 della seconda sezione, p. 22.

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possibili: là esso approssima-nella-protesta61. “E tuttavia, un corpo che muore di fame, un corpo torturato, una volontà spezzata, uno sguardo vuoto, una fossa comune di guerra, una condizione calpestata, respinta, ed anche uno squallore di periferia, un’erranza di emigrante, e persino uno smarrimento di gioventù o di vecchiaia, un’insidiosa privazione d’essere, una goffaggine e un farfugliare di stupido, tutto ciò esiste. Esiste in quanto negazione dell’esistenza. E non c’è nulla al di là dell’esistere; e l’esistenza cui si nega condivisione è essa stessa esistenza negata. Questa negazione, ovunque avvenga, intacca tutta l’esistenza, poiché tocca l’in dell’in-comune. Ed è così che ci fa comparire e rispondere di sé, vale a dire di noi stessi”62. Per Nancy, dunque, negano l’esistenza anche la “goffaggine” e il “farfugliare da stupido”, forme di balbuzie della mente, di sincope dei comportamenti, tipiche di società ipermediatizzate, non solo la demolizione fisica o l’eccidio, o l’affamare il simile. E siccome “non c’è nulla al di là dell’esistenza”, solo l’uomo di disciplina e di apertura come Ulisse saprà adattarsi a questo “nulla” e renderlo materia viva, comunione, infinita rete di seduzione, non rincorsa del potere e nemmeno subalternità a una Giustizia universale o a qualsivoglia legge autoreferente. Egli è polùtropos, come lo definiva Omero, “non nel senso di ingannatore, bensì nell’accezione di versatile e vario. Il seduttore non occupa un solo luogo, non ha un’identità, ma è differente, disposto ad occupare molti luoghi. Egli in fondo è Nessuno”63. L’uomo-nessuno è signore del kairos, ovvero del gioco delle occasioni, della casualità delle situazioni e dei rischi in cui cercherà una misura e uno stupore, un rispetto e un principio di azione, una seduzione, appunto, che non è attrarre a sé con complotto (suiduco) ma la forza affascinante, meticciata, disgregata di parti che si avvicinano e si contaminano nelle unità che li contraddistinguono, la continua evocazione di un nuovo possibile: l’arabesco dell’esistenza (sed-duco). Nel vuoto, allora, il Niente e il Nessuno inaugurano un “pieno” fatto di densità, intensità, sollecitazioni, un ultra-sentire. Per questo avverte 61

62 63

Marcuse (in op. cit. alla nota 154 della prima sezione, pp. 14-15) fa una bellissima allitterazione fra questa dimensione comune, doverosa e giusta (ought), e la sua scoperta che, non essendo subito evidente, va conquistata con il “taglio da parte a parte” (cutting through), col “fare a pezzi” il materiale dato (discussione da dis-cutio latina), “separando il giusto dall’ingiusto, il buono dal cattivo, il corretto dallo scorretto”. Nancy, op. cit., p. 49. Mario Perniola, La società dei simulacri, op. cit. alla nota 66 della prima sezione, p. 109.

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Perniola: “L’ideologia politica è completamente priva di seduzione: essa è troppo sovraeccitata e troppo mistificatoria per poter lasciar posto, far spazio, consentire al kairos di manifestarsi; non può cogliere l’occasione, perché prevarica anticipatamente su di essa investendola emotivamente e coprendola di significati. Ignora le premesse della seduzione, cioè il silenzio e l’attesa, il suo processo fatto di indifferenza e di trasparenza, il suo successo che è condizionato dall’obbedienza al dato nell’operazione simulatrice e dalla dissoluzione del modello”64. E allora perché non battersi, anche all’interno di un secolo disincantato ed esibito come il nostro, per questa armonia sottesa che non nega il conflitto, ma gli ridà sapore di ricerca e di affermazione? Perché non ritrovare la radice di un odio su tutto quanto è barbarie e scadimento, limitazione e occultamento, in nome di una bellezza orizzontale, laica, a portata di mano, anti-convenzionale, striata di ordinarie meraviglie? È giusto che sia così e che questo sentimento cominci ad avere manifestazioni sempre più esplicite e virulente. Più o meno gridate, più o meno sovversive, più o meno sommesse. Già qualche anno fa, sempre dall’Inghilterra, questo no collettivo si era levato contro il Grande Fratello. E così, il famoso reality show che altrove – il nostro allegro paese in testa alla classifica dei suoi più gaudenti fruitori – è un rosario di nullità spalmato a tutte le ore, con dinastie incrollabili e faraoniche di edizioni basate su personaggi improbabili, storie pilotate e volgarità a ruota libera, semplicemente fu cancellato dai palinsesti. Con una logica molto semplice e a bersaglio fisso. Il pubblico da casa cominciò a non vederlo più, gli sponsor non lo hanno più considerato un’impresa redditizia e i broadcaster lo hanno cassato, sepolto, dimenticato, per passare a produzioni meglio consacrate in termini di indici di ascolto. Pure nel 2012, nel caso del domenicale di Murdoch News of the world, si è creata nell’opinione pubblica londinese – e un po’ più in là – una tale onda lunga di recriminazioni, riprovazione, stigmatizzazioni della farlocca deontologia professionale di un esercito di reporter-cannibali pronti a scavalcare senza il minimo scrupolo i territori inviolabili della privacy in nome del dio danaro e del successo di vendite, da costringere il guru australiano di Sky a sacrificare, sull’altare di un colossale pentimento, l’intera baracca, preferendo mandare in discarica un organo di stampa “tossico”, becero e senza più il becco di un quattrino, piuttosto che fingere un grottesco gioco delle parti, altrove sport preferito di politici e finanzieri. Serrata. Si chiude per vergogna e colpa grave. Tutti a casa a reimparare le regole basiche di un nobile mestiere. 64

Op. cit., p. 114.

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Per l’odio non serve l’urlo bestiale, cruente avanzate di cittadini col forcone e sollevazioni di folle inferocite. Sebbene, per taluni fenomeni distorti della postmodernità, questo spettacolo potrebbe essere non poi tanto inauspicato e riprovevole. Serve difendere l’ultimo baccello di libertà e responsabilità che ancora ci racchiude. E in nome di questo, disattivare il nostro consenso, alzarsi dalle gradinate e abbandonare l’arena prima che odori di fiele, rivolgere lo sguardo ad altro, rifondare un’estetica della visione e della condi-visione, non affogare sotto un’alluvione di segni impazziti e disarticolati che fanno solo la ricchezza e il potere di tanti sacerdoti (e sacerdotesse) di vanità, e il nostro rapido scivolare verso demenza e ignoranza sempre più riottose. Il compito è difficile, eroico quasi. Perché oggi l’“identificazione” ha ceduto il passo alla “introiezione”. Se prima ci si comprava la merendina di latte burro e uova per simulare a noi stessi di far parte di una famiglia felice; se la macchina era uno status symbol di proprietà privata; se il gioiello era il sigillo dell’amore “per sempre”, e la vacanza esotica una dimostrazione di relax fuori quota, oggi, come dice la pubblicità, “il lusso è un diritto”. Senza registri, rituali di consumo, segni e simboli, manca lo scarto fra noi e la merce del sogno, quella distanza che, appunto, ci portava a “identificarci” con le virtù salvifiche o compensative del prodotto da mangiare o ostentare, e a orientare il nostro immaginario e le nostre risorse per poterlo possedere. Oggi siamo noi la pagina bianca di un copione scritto altrove, lo scrigno di desideri che ci scavalcano ma di cui siamo l’involucro predestinato, l’asintote di un valore che si dà per mutazioni incessanti e velocissime, e che non ha fissità, epifanie, parametri. Non dobbiamo nemmeno fare la fatica di imitare e avvicinarci a un modello. È già in noi. La fama, il successo, il facile guadagno hanno il provino di massa, il luccichìo del piccolo schermo, l’abiura del principio di realtà come loro stigma. La logica della causa e dell’effetto, l’antitesi del bene e del male, la legittima discordia della verità rispetto al falso, sono già state uccise dalla tipologia dei talk televisivi e dei dibattiti politici dove tutto si interscambia con tutto, non c’è storia “sicura” nemmeno quando si parla dell’ovvio, e l’uomo della strada vede moltiplicare la sua angoscia e la sua insicurezza senza la pietà di un ideale possibile. A questo serve l’odio del dire “no, basta”. A pulire la feccia. A dotarci di una misura. A distinguere, finalmente. A dirci umani, ancora. E invece ci troviamo come dei “dannati” all’interno di un impero della parola affidato tristemente alla categoria degli illusionisti come “imbottitori di crani”, secondo l’inquietante definizione del Gramsci degli scritti del

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1917-191865, che usò anche quella, ancor più profetica, degli “strateghi di salotto e di redazione”. Null’altro che demagoghi, cioè “quelli che si servono di sgambetti logici per apparire nel vero, che falsano scientemente i fatti per apparire i trionfatori, che per ubriacarsi della vittoria di un istante sono insinceri o affrettati”66. È il dominio dell’indifferenza. Che è proprio un’assenza di differenza, di scena, di tonalità emotiva fra me che ascolto e un vissuto che mi si dispiega davanti, un’espressione che annullo nella sua irripetibile entità, nella sua singolarità storica e dialettica. Siamo indifferenti quando non percepiamo una distanza critica, una soglia di comprensione fra noi e gli altri, e vediamo in questi ultimi il prolungamento, peggio, l’emanazione del nostro ego ipertrofico, della nostra irraggiungibilità bastevole a se stessa. Il cielo si chiude su di noi e la diversità naufraga, e con essa ogni minimo refolo di apertura, espansione, intensificazione. Non capiamo gli interlocutori vicini, per superficialità e disamore, e con essi perdiamo di vista lo scenario che ci avvolge tutti, e le possibilità di trasformazione e di condivisione della vita e dei beni sociali. Ma siamo nell’indifferenza anche quando non adottiamo un linguaggio potente, realmente destabilizzante, visionario, che si getta e ci getta verso l’impensato, l’infinito delle nostre chance esistenziali. E allora il verbo si accartoccia, implode, si accumula grossolanamente e non fluisce, vive di folgori e di scatti, di choc e di stasi intermittenti, ma non brulica, non fermenta, non disegna rotte. L’indifferenza in questa vasta accezione semantica Gramsci la paragonava, in quegli scritti di inizio Novecento, a una “materia inerte”, a una “non vita”, al “peso morto della storia”, ad abulìa, parassitismo, “vigliaccheria”67, ad un culto della fatalità e dell’astrazione che oggi, prima di accecare noi come spettatori e fruitori di un accadimento mediatico, avvinghia già il trasmettitore del messaggio, che mente a se stesso per puro stupore, per quel marketing delle emozioni su cui si fondano business, carriere, e l’ancoraggio del più maleodorante buonsenso in chiave tecno-spettacolare. Come se avesse assistito ai palinsesti televisivi di oggi, Gramsci definisce tutto questo anti-movimento come “palude”, proponendo come antidoto l’“intransigenza” che “è il predicato necessario del carattere. Essa è l’unica prova che una determinata collettività esiste come organismo sociale vivo, ha cioè un fine, una volontà unica, una maturità di pensiero… Vuole cioè che si abbiano dei principi generali, chiari e distinti, e che tutto ciò che 65 66 67

Antonio Gramsci, Odio gli indifferenti, Chiarelettere, Milano 2011, p. 26. Op. cit., p. 11. Op. cit., p. 3 (tutti i virgolettati).

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si fa necessariamente dipenda da essi… e che il fine sia secondo ragione, sia un fine vero, e non un fine illusorio”68. Ecco che allora, la demagogia si potrebbe sposare con quella che Perniola, sull’onda della tradizione stoica, definisce “stoltezza”. Lo stolto, dice il filosofo, “non è uno sciocco, uno stupido, un ottuso, ma l’essere umano che è in preda a un continuo turbamento, cambia opinione da un momento all’altro: incapace di stare fermo, corre a precipizio con impeto irrefrenabile verso il primo obiettivo che incontra e si pente con facilità di tutto quello che ha fatto; incapace di ascolto, parla e agisce in modo inconcludente; inetto a elaborare valutazioni stabili e a compiere scelte irreversibili, salta ora qua ora là, pretendendo di avere e di prendere tutto. La stoltezza non nasce da una mancanza, ma da una deviazione, da una distorsione, da un pervertimento della facoltà razionale”69. Nessuno scemo del villaggio, seppur globale, dunque, ma precisi sabotatori della coerenza, della ritualità, della energia emozionale profonda, della qualità della vita e del pensiero, della padronanza delle passioni che fanno chiedere a Perniola: “Possiamo indignarci se noi stessi non abbiamo dignità?”. E come la si trova o salva la dignità, se anche il gioco sa di delirio e non di posta e prestigio, se tutto è confuso, se il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, il merito e il tele-voto, l’artista capace e i pupazzetti appena quindicenni col frangettone laccato lanciati come star della musica senza un briciolo di esperienza, non sono più grandezze opponibili, antitesi vive, ma ingredienti della stessa minestra dove l’indistinto e l’omogeneo governano il sentire? L’immagine è cristallo fosforescente o, al contrario, allarme, invito all’azione, spallata al conformismo, rappresentazione inaggirabile del nostro essere, forma profonda di resistenza. Come quella armata e partigiana del grande Stephane Hessel che nell’Appello alle giovani generazioni dell’8 marzo 2004, parla di “una vera e propria insurrezione pacifica contro i massmedia, che ai nostri giovani come unico orizzonte propongono il consumismo di massa, il disprezzo dei più deboli e della cultura, l’amnesia generalizzata e la competizione a oltranza di tutti contro tutti”70. Solo così si completa il mosaico dell’“insediamento di una vera e propria democrazia economica e sociale”, vincitrice su quella superficie delittuosa di violenze, torture, repressioni, fame e poteri privati, che tocca i corpi e i

68 69 70

Op. cit., p. 27. Mario Perniola, Berlusconi o il ’68 realizzato, op. cit. alla nota 16 della prima sezione, p. 55. Stéphane Hessel, Indignatevi!, Add, Torino 2011, p. 30.

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bisogni materiali non meno di quelli dell’anima e della conoscenza, sempre più scheletriche e senza cure. Una sintesi perfetta di quanto detto finora, la ritrovo nei versi della poetessa “folle” e dolcissima Alda Merini, scomparsa pochi anni fa. Così dice in Scena71: “Apriti o scena, senza panico/nel bosco assetato della mia fede./E bestemmiando per gli alacri fuochi/metti la pantomima in un canto e sciogli il burattino./Poi col filo delle tue spezie/incatenalo a un altare di sogni./E mandalo a svernare infelice/nella terra amorosa degli uomini”. L’idea che la parola “oscena” possa, al contrario, contenere nel suo ventre un’esclamazione alla scena (o scena), quasi un lamento per farla aprire, tornare, spalancare, partorire il bello, è di enorme suggestione. Mettere la “pantomima in un canto” significa abiurare la finzione, e “sciogliere il burattino” porta a una liberazione di tutto ciò che è amorfo, mosso da altri, teso e asciugato nella sua morfologia di legno. La ripresa piena del Tragico, quello delle “spezie” e dei sensi, del vero “sogno” di una terra costellata di amore, dove l’infelicità è un dato ontologico, ma non corrivo e onnivoro, è ulteriormente confermata da una piccola sequenza di versi intitolata con una dedica Per Alberto Casiraghi72, uno dei tanti amici che, negli ultimi periodi della sua vita, la aiutava a riportare sul foglio idee e folgorazioni liriche. Dice: “Grazie Alberto,/che dopo una notte di fantasmi/ mi fai scrivere le chiare rime./Io riesco a superare l’inganno del delirio/ solo quando tu cuci le mie parole/”. E sì, la comunicazione è l’ago e filo paziente che cuce lacrime e pupille, sguardi e sorrisi, la pelle e l’altrove, là dove l’insieme cerca un insieme, là dove le ombre proiettano i corpi.

71 72

Alda Merini, Clinica dell’abbandono, Einaudi, Milano 2010, p. 113. Op.cit., p. 90.

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Bibliografia essenziale

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Mino Gabriele, Simboli e simulacri, introduzione a Porfirio, Sui simulacri, Adelphi, Milano 2012 Aldo Giorgio Gargani, La macchina mondiale del freddo in AA.VV. Filosofia ’89, a cura di Gianni Vattimo, Laterza, Bari 1990 Maurizio Gianotti, La Tv al tempo del Web 2.0, Armando, Roma 2012. Paolo Gila, Capitalesimo, Bollati Boringhieri, Torino 2013 Massimo Gramellini, La realtà schiaffeggia il potere, La Stampa, 6 aprile 2013 Antonio Gramsci, Odio gli indifferenti, Chiarelettere, Milano 2011 Stéphane Hessel, Indignatevi!, Add, Torino 2011 Christopher Hitchens, Mortalità, Piemme, Milano 2012 Henry Jacoby, Vedete, oggi ho imparato una cosa. Stan Marsch e l’etica della credenza in AA.VV. South Park e la filosofia, a cura di Robert Arp, Isbn, Milano 2013 Karl Jaspers, Genio e follia, Raffaello Cortina, Milano 2001 Karl Jaspers, Del tragico, SE 2008 Ernst Junger, Trattato del ribelle, Adelphi, Milano 2010 Dmytri Kleiner, Manifesto telecomunista, Ombre Corte, Verona 2011 Pierre Klossowski, La moneta vivente, Mimesis, Milano 2008 Franco La Cecla, Il punto G dell’uomo, Nottetempo, Roma 2011 Francois Laplantine, Identità e meticciato, Elèuthera, Milano 2004 Serge Latouche-Didier Harpagès, Il tempo della decrescita, Elèuthera, Milano 2011 Ronald Laing, L’io diviso, Einaudi, Torino 2001 Pierre Levy, Il virtuale, Raffaello Cortina, Milano 1997 Jean-Francois Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 2010 Michel Maffesoli, La trasfigurazione del politico, Bevivino, Milano/Roma 2009 Michel Maffesoli, Matrimonium. Breve trattato di ecosofia, Bevivino, Milano/Roma 2012 Herbert Marcuse, Critica della tolleranza, Mimesis, Milano 2011 Julian Marias, Persona. Mappa del mondo umano, Marietti, Genova-Milano 2011 Gianfranco Marrone, Stupidità, Bompiani, Milano 2012 Marshall McLuhan - Quentin Fiore, Il medium è il massaggio, Corraini, Mantova 2011 Herman Melville, Il paradiso dei celibi e Il tartaro delle fanciulle, RCS, Milano 2012 Alda Merini, Clinica dell’abbandono, Einaudi, Milano 2010

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Filosofia dell’osceno televisivo

Jean-Luc Nancy, Corpus, Cronopio, Napoli 1995 Jean-Luc Nancy, La comparizione in AA.VV. Comunità e politica, a cura di Maurizio Zanardi, Cronopio, Napoli 2011 Michel Onfray, Teoria del corpo amoroso, Fazi, Roma 2006 Massimiliano Panarari, L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip, Einaudi, Torino 2010 Pier Paolo Pasolini, La divina mimesis, Transeuropa, Massa 2011 Piergiorgio Paterlini, Fisica quantistica della vita quotidiana, Einaudi, Milano 2013 Salvatore Patriarca, Il mistero di Maria. La filosofia, la De Filippi, la televisione, Mimesis, Milano 2012 Mario Perniola, Contro la comunicazione, Einaudi, Torino 2004 Mario Perniola, Miracoli e traumi della comunicazione, Einaudi, Torino 2009 Mario Perniola, La società dei simulacri, in Agalma 20-21, Mimesis, Milano 2010 Mario Perniola, Berlusconi o il ’68 realizzato, Mimesis, Milano 2011 Platone, Il mito della caverna, a cura di Carlo Sini, AlboVersorio, Milano 2012 Massimo Recalcati, Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina, Milano 2012 Nancy Amanda Redd, Body Drama, Giunti 2010 Rocco Ronchi, Come fare. Per una resistenza filosofica, Feltrinelli, Milano 2012 Pier Aldo Rovatti, La filosofia può curare?, Raffaello Cortina, Milano 2006 Mariano Sabatini, E’ la tv, bellezza!, Lupetti, Milano 2012 Jean-Paul Sartre, La responsabilità dello scrittore, Archinto-RCS, Milano 2012 Achim Seiffarth, Meditazioni sullo shopping, Mimesis, Milano 2011 Michel Serres, Non è un mondo per vecchi, Bollati Boringhieri, Torino 2013 Georg Simmel, La moda, Mondadori, Milano 2011 Gianluca Solla, L’Osceno. La Società immaginaria e la fine dell’esperienza in AA.VV. Filosofia di Berlusconi. L’essere e il nulla nell’Italia del Cavaliere, a cura di Carlo Chiurco, Ombre Corte, Verona 2011 Gabriella Turnaturi, Vergogna. Metamorfosi di un’emozione, Feltrinelli, Milano 2012 Nicla Vassallo, Come fai a saperlo? in AA.VV. Stramaledettamente logico. Esercizi di filosofia su pellicola, a cura di Armando Massirenti, Mondolibri, Milano 2010 Paul Virilio, L’incidente del futuro, Raffaello Cortina, Milano 2002

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Bibliografia essenziale

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Ludwig Wittgenstein, Della certezza, Einaudi, Torino 1999 Maurizio Zanardi, Per una critica del realismo politico in AA.VV. Comunità e politica, a cura di Maurizio Zanardi, Cronopio, Napoli 2011 Guido Zingari, Oscenità interiori. Verità ambigue e retoriche perverse, Costa & Nolan, Genova 1996 Slavoj Žižek, Difesa dell’intolleranza, Città aperta, Enna 1998 Slavoj Žižek, Politica della vergogna, Nottetempo, Roma 2009 Slavoj Žižek, The Matrix, Mimesis, Milano 2010 Slavoj Žižek, Il segreto sessuale della Chiesa, Mimesis, Milano 2010 Danilo Zolo, Sulla paura. Fragilità, aggressività, potere, Feltrinelli, Milano 2011

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RINGRAZIAMENTI

Parallelamente alle mie dirette e personali esperienze, ringrazio il prof. Luigi Cappetta per i suoi preziosi consigli nel campo delle borse e del trading on line, e Fabio Carcani, esperto di sicurezza informatica, nel campo delle videochat.

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IL CAFFÈ DEI FILOSOFI Collana diretta da Claudio Bonvecchio e Pierre Dalla Vigna

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Claudio Bonvecchio (a cura di), La filosofia del Signore degli Anelli Claudio Bonvecchio, I viaggi dei filosofi. Percorsi iniziatici del sapere tra spazio e tempo Sandro Nannini, La nottola di Minerva. Storie e dialoghi fantastici sulla filosofia della mente Eleonora De Conciliis, Pensami, stupido! Maurizio Elettrico, L’Infante Demiurgo. Manifesto estetico dell’artificiale biologico Roberto Manzocco, Twin Peaks, David Lynch e la filosofia Giulio M. Facchetti, Erika Notti (a cura di), Atlantide. Luogo geografico, luogo dello spirito Roberto Manzocco, Pensare Lost. L’enigma della vita e i segreti dell’isola Marcello Ghilardi, Filosofia nei manga. Estetica e immaginario nel Giappone contemporaneo Claudio Bonvecchio, L’eclissi della sovranità Claudio Bonvecchio, La magia e il sacro Frances A. Yates, L’illuminismo dei Rosa Croce Carmelo Muscato, L’enigma della scelta. Un approccio cognitivo e filosoficopolitico Fabio Chiusi, Nessun segreto. Guida minima a WikiLeaks, l’organizzazione che ha cambiato per sempre il rapporto tra internet, informazione e potere Emma Palese, Da Icaro a Iron Man. Il Corpo nell’era del Post-Umano Carlo Magnani, Filosofia del tennis. Profilo ideologico del tennis moderno Marco Teti, Generazione Goldrake. L’animazione giapponese e le culture giovanili degli anni Ottanta Achim Seiffarth, Meditazioni sullo shopping Laura Anna Macor, Filosofando con Harry Potter. Corpo a corpo con la morte Roberto Manzocco, Dylan Dog. Esistenza, orrore, filosofia Claudio Bonvecchio (a cura di), La filosofia di Indiana Jones Vittorio Mathieu, Sciagure parallele. Risorgimento italiano e rivoluzione francese Marcello Barison (a cura di), Borges. Labirinti immaginari Salvatore Patriarca, Il mistero di Maria. La filosofia, la De Filippi e la televisione

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25. Alessandro Alfieri-Paolo Talanca, Vasco, il male. Il trionfo della logica dell’identico 26. Otto Weininger, Sesso e carattere, Introduzione di Franco Rella 27. Iris Gavazzi, Il vampiresco. Percorsi nel brutto 28. Claudio Bonvecchio (a cura di), Il mito dell’Università 29. Arnaldo Colasanti, Febbrili transiti. Frammenti di etica 30. Jorge Luis Borges, Cartografia di un destino. Interviste, a cura di Tommaso Menegazzi 31. Antoine Buéno, Il libro nero dei puffi. La società dei puffi tra stalinismo e nazismo 32. Nicoletta Cusano, Essenza e fondamento dell’amore 33. Paolo Bellini, L’immaginario politico del salvatore 34. Alessandro Grilli, Storie di Venere e Adone. Bellezza, genere, desiderio 35. Santiago Ramón y Cajal, Psicologia del Don Quijote e il quijotismo 36. Pierpaolo Antonello, Dimenticare Pasolini. Intellettuali e impegno nell’Italia contemporanea 37. Enrico Cantino, Da Goldrake a Supercar Gattiger. Dal semplice al complesso: tipologie di robottoni dell’animazione giapponese 38. Enrico Cantino, Da Kenshiro a Sasuke. Gli anime guerrieri e il codice d’onore degli antichi samurai 39. Davide Pessach, Semiotica del calcio in TV. I segni dello sport nello spettacolo postmoderno 40. Claudio Bonvecchio, Gian Luigi Cecchini, Marco Grusovin, Simone Paliaga, Adriano Segatori, Mitteleuropa ed Euroregione, Un destino, una vocazione, un carattere 41. Pietro Piro, Francisco Franco. Appunti per una fenomenologia della potenza e del potere

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