Fare quanto è giusto. Le fatiche dei «buoni» nel paese che declina 9788833576275, 8833576272

Le fatiche dei “buoni” nel paese che declina D’Alessandro è in relazione con gli attivisti del “sociale” perché con

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Fare quanto è giusto. Le fatiche dei «buoni» nel paese che declina
 9788833576275, 8833576272

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Giacomo D’Alessandro

Fare quanto è giusto Le fatiche dei “buoni” nel paese che declina Prefazione di Goffredo Fofi

UNA LUNGA STORIA...

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© Copyright 2023 by Edizioni e/o Via Camozzi, 1 – 00195 Roma [email protected] www.edizionieo.it Art direction: Emanuele Ragnisco instagram.com/emanueleragnisco Impaginazione di Martina Perseli ISBN 978-88-3357-627-5

arto da un libro recente, opera di un giovane storico che insegna a Firenze, Marco Grifo, dal titolo Le reti di Danilo Dolci (Franco Angeli editore), che mi è molto servito a ricostruire una storia che d’altronde ho conosciuto bene, e sono citato nel libro più volte perché di quelle reti ho fatto parte e ho conosciuto molte delle persone che ne facevano parte. Nel saggio di Grifo non si parla soltanto delle reti legate alle iniziative di Danilo Dolci in Sicilia, alle sue proteste e ai suoi digiuni, o alle occupazioni di terre o di strade, agli “scioperi a rovescio” per uno dei quali Dolci e tanti disoccupati e molti suoi collaboratori subirono un processo nel ’56 eccetera, ma allarga molto il discorso questo libro. Parla di reti che venivano chiamate anche “terza-forziste” – le “terze forze” erano i gruppi politici e culturali che si tenevano distanti sia dal modello sovietico che dal modello capitalistico americano, da quelli che Aldo Capitini chiamava sostenitori dell’“assoluto dello Stato” (i sovietici, i comunisti) e quelli dell’“assoluto del benessere” (gli americani, nel capitalismo e nei suoi ambiti “occidentali” di riferimento). 5

Queste “terze forze” erano molto variegate, da Nord a Sud, e benché minoritarie erano presenti un po’ ovunque, formate da insegnanti e vari professionisti, da giornalisti e scrittori, ma anche da coloro che non si chiamavano ancora “operatori sociali”. E in qualche caso si unirono a loro su temi e battaglie particolari anche i comunisti, anche i cattolici e i democristiani. Nel dopoguerra l’Italia rinasceva, dopo 20 anni di fascismo, 7 di una guerra davvero mondiale e 2 (nel Nord del nostro paese anche 3) di guerra civile. Il mondo cambiava, ma il peso di 60 milioni di morti non era facile dimenticarlo. Il confronto con la Prima guerra mondiale è impressionante, in essa erano morti “solo” 10 milioni di giovani soldati. Allora si moriva nelle trincee. Nella Seconda, grazie al progresso della tecnica, ad aeroplani e bombe atomiche, grazie alla macchina di sterminio dei lager nazisti, la guerra ha fatto 60 milioni di morti, per grandissima parte civili. Cade il fascismo e salgono al potere i fuoriusciti e i partigiani, coloro che hanno resistito al nazismo, una minoranza cui le circostanze storiche hanno dato in mano il destino del paese. Ed ecco la Repubblica, la Costituzione, il voto alle donne, la riforma agraria, e la scuola media unica qualche anno dopo... Una generazione straordinaria i cui poli furono i comunisti insieme ai socialisti, che erano allora il primo partito italiano per numero di iscritti, e insieme a loro i democristiani. I comunisti misero presto in secondo piano i socialisti perché erano più aggressivi e determinati, e

avevano alle spalle l’Urss, e perché Togliatti fu un capo più abile e astuto di Nenni. Cambiò dunque l’Italia con la vittoria della Repubblica, con la Costituzione e con la democrazia, pur con tutti i suoi limiti. Oggi si parla poco della Costituzione. Allora qualunque processo o causa si facesse c’era chi si appellava alla Costituzione, che garantiva diritti prima non protetti. E c’era il paradosso di una Costituzione estremamente avanzata, una delle migliori del mondo, mentre erano ancora in vigore tante leggi del fascismo, o leggi ancora più antiche... C’erano contraddizioni evidenti e che suscitarono tanti ricorsi alla Corte Costituzionale. Nel ’56 in Sicilia ebbi anch’io un foglio di via, secondo un sistema poliziesco diffuso durante il fascismo per la difesa delle città dall’invasione dei disoccupati, dei contadini. Una legge che la Corte Costituzionale finì per abolire ma negli anni Sessanta, al tempo del “miracolo economico”. Mi era stato dato perché “insegnavo senza percepire stipendio” (su “l’Unità”, Lucio Lombardo Radice scrisse un editoriale dal titolo Reato d’alfabeto). C’era nel paese uno scontro in atto tra la Dc e la sinistra, con la Dc molto tollerante nei confronti del grande capitale, e che fu certamente un asse della ricostruzione ma accessoriamente all’industria di Stato, all’Iri). Il “miracolo economico” era partito. Le “reti” erano molto vaste, dai cattolici ai laici più o meno centristi e alla sinistra di socialisti e comunisti. Questa tripartizione era già classica dopo l’Unità.

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C’erano state da subito persone, iniziative, gruppi che si preoccupavano di istruire o assistere le persone meno privilegiate, i marginali, i contadini, i disoccupati, i migranti, i malati, i disabili... Le loro associazioni erano rette dalla tensione a un’Italia nuova e diversa: era nuovo il paese, infine unito, e tra i suoi compiti c’era anche quello di pensare ai suoi membri meno fortunati. Le tre correnti del sociale in Italia allora erano già pienamente attive, e lo sono ancora oggi: – c’era un filone cattolico tradizionale, che ha avuto esempi altissimi, come i salesiani di don Bosco, che hanno avuto un’influenza enorme e l’hanno ancora oggi nella formazione del nostro proletariato soprattutto nelle zone industriali del paese. Accoglievano i ragazzi che arrivavano dalle campagne, in genere raccomandati dai loro parroci, e insegnavano loro un mestiere, li aiutavano a inserirsi nella società urbana. E accadeva anche che qualcuno di loro diventasse un sindacalista, della Cisl ma a volte anche aderendo al Pci, al Psi. E talvolta questo accadeva anche nel Sud. – c’erano i laici, che erano allora una forza molto importante perché si trattava spesso di imprenditori, di professionisti di qualità, retti da una tensione civile alta, che creavano, come a Milano, associazioni e iniziative tese alla formazione delle nuove generazioni, all’assistenza ai più poveri e ai malati, alle varie forme di intervento nel sociale a favore delle categorie meno privilegiate, all’interno delle “classi subalterne”, come le chiamava Gramsci. L’iniziativa più famosa forse è

l’Umanitaria di Milano, ancora attiva, fatta da banchieri e industriali; laica e con una componente ebraica. Che si poneva infine gli stessi scopi dei salesiani: formare un proletariato tecnicamente preparato, che potesse guadagnarsi il pane onestamente contribuendo in modo attivo all’evoluzione del paese, secondo una morale civile e nazionale, democratica e repubblicana. Spesso a capo di queste iniziative c’erano delle donne. – e c’era infine un filone socialista (anche comunista, qualche decennio dopo), che predicava ovviamente la giustizia sociale, dando vita a iniziative concrete e precise di autodifesa popolare, che erano le Case del Popolo, le Società di Mutuo Soccorso, le Scuole il cui modello era spesso quello del socialismo inglese: formazione professionale, tempo libero, reciproco aiuto... Delle campagne e dei contadini si sono occupati sia i socialisti e nel secondo dopoguerra soprattutto i democristiani. Ma erano sorte nel secondo Ottocento, avendo modelli cooperativistici, di socialisti come di cattolici, di “leghe” che il fascismo osteggiò e distrusse ma facendone proprie molte forme. Le Case del Popolo diventarono Case del Fascio, per esempio, e le associazioni costruite in Calabria da Zanotti Bianco e dall’Associazione per gli interessi del Mezzogiorno per l’assistenza alle madri e ai fanciulli cambiarono nome e diventarono Onmi (Opera nazionale maternità e infanzia), estese a livello nazionale. Le colonie di vacanza

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estiva per i bambini del popolo ideate in più paesi europei ebbero un grande sviluppo anche in Italia. Ci sono state dunque iniziative di tipo assistenziale ed educativo su questi tre fronti. Il libro di Marco Grifo parla del dopoguerra, ricorda tante iniziative diverse ed elenca nomi di persone di grande valore, dentro questa storia. Ci trovi Parri che fu presidente del Comitato di liberazione nazionale della Resistenza; ci trovi Calamandrei, ci trovi Lelio Basso e Aldo Moro, che scrissero insieme le voci più nuove della Costituzione, per una Repubblica “fondata sul lavoro”. Ci trovi da subito l’adesione attiva di poeti, di scrittori, ci trovi Sibilla Aleramo e un nascente femminismo, e più tardi l’Udi, Unione delle donne italiane di sinistra, ma anche spesso cattoliche, e ci trovi l’Azione cattolica. Ci trovi una nuova professione: quella degli assistenti sociali, con scuole di impostazione religiosa o laica come il Cepas, la più avanzata, fondata e assistita da Adriano Olivetti; ci trovi tante iniziative che recuperano in chiave democratica anche un certo lascito statalista del fascismo, ma in una chiave ora democratica, meno centralizzata, che dettero un grande spazio a una sorta di volontariato più preparato che in passato, perché a fondare questi gruppi erano persone venute dall’antifascismo. Ci trovi figure di professionisti pronti a sostenere nuovi modi di assistere e nuove leggi di tutela dei proletari e dei poveri, dei socialmente emarginati. Nuove leggi, nuovi modelli. E in questo periodo sembra trionfare come non mai il cosiddetto para-Stato,

ché lo Stato protegge e controlla con enti particolari, ci trovi iniziative assistenziali di vario grado, e ci trovi gruppi privati via via più numerosi. A volte essi godevano di una protezione decisamente clientelare. (Feci parte dell’Avis, l’associazione dei donatori di sangue, finché non mi arrivò dai suoi dirigenti l’invito a votare per Giulio Andreotti.) Sullo sfondo di tutto c’è a ben vedere sempre Keynes: il capitale privato combina guai ed è lo Stato che deve rimediare, deve farsi imprenditore e intervenire decisamente (dopo la grande crisi del ’29) nell’economia, per difendere gli interessi delle collettività, delle nazioni. Di fronte alla grande crisi del ’29 tutti i regimi, compresa l’America del New Deal, assegnano allo Stato un ruolo che non aveva mai avuto, o non aveva avuto altrettanto forte: un ruolo infine centrale. Grazie al lavoro svolto in Sicilia con Dolci ho potuto conoscere molte di queste persone, e sono stato coinvolto direttamente o indirettamente in più iniziative. Per esempio il Movimento di cooperazione educativa, fatto soprattutto di maestre e maestri elementari sostenitori della scuola attiva secondo le indicazioni del francese Freinet, a partire dalle elementari: maestri che si organizzano tra loro e fanno corsi per imparare in prima persona o per preparare colleghi più giovani o periferici. Per esempio il Movimento di collaborazione civica, animato soprattutto da un poeta di Parma, Cecrope Barilli, con l’aiuto di Augusto Frassineti, di Ebe Flamini, di tante persone di notevolissimo

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livello, che, tra l’altro, organizzarono nell’immediato dopoguerra delle colonie di vacanza “diurne” per i bambini poveri di Roma: la mattina radunavano nei parchi pubblici bambini dalle periferie e dalle borgate, a giocare e a stare insieme, a far merenda insieme. Chi se ne occupava erano giovani borghesi di buona famiglia e di buona volontà. Eccetera. Tutte queste iniziative erano private e riuscivano a sopravvivere grazie al sostegno dei privati, al volontariato e a volte a una qualche protezione dello Stato. Un grande protagonista di questa storia è stato Adriano Olivetti che chiamò a Ivrea attorno alla sua fabbrica educatori, sociologi, intellettuali che vi crearono una sorta di città ideale dal punto di vista dell’assistenza, delle biblioteche pubbliche, del tempo libero, e che cercò di esportare questo modello in tutta Italia con il Movimento di Comunità (il “partito della campana” lo chiamavano molti, perché la campana era il simbolo del movimento, della comunità). Puntando su un ideale federalista alla cui origine era il nostro Cattaneo ma anche i filosofi del personalismo cattolico francese (Maritain), senza dimenticare l’America del New Deal progressista, l’insegnamento di John Dewey. C’è stata anche nel secondo dopoguerra come dopo l’Unità un ruolo centrale di donne che erano state antifasciste e partigiane, e che si ritrovarono condizionate al solito ruolo sussidiario delle femmine rispetto ai maschi, nonostante la grande conquista del voto. Alcune di loro non vollero tornare alla vita privata e ai fornelli

e inventarono delle loro associazioni, prima fra tutte l’Udi, Unione donne italiane, legata al Pci ma inizialmente molto più libera e che aveva al suo centro personaggi straordinari come la vedova di Piero Gobetti, Ada, che fu capo partigiano durante la Resistenza, e fondatrice, dopo, del “Giornale dei Genitori”, una donna di forte vocazione pedagogica. O Anna Lorenzetto, una cattolica che fondò l’Unione per la lotta contro l’analfabetismo, in un Paese in cui fino agli anni Sessanta la maggioranza degli italiani adulti era di analfabeti, di contadini. Una grande “attivista” del tempo fu la comunista Dina Bertoni Jovine (vedova di un grande scrittore), che fondò e diresse con Lucio Lombardo Radice, anche lui comunista, figlio di un grande pedagogista e sposo di Adele figlia del grande giurista cattolico Arturo Carlo Jemolo, la rivista “Riforma della scuola”. A Roma molti “attivisti del sociale” erano stati allievi di Ernesto Buonaiuti, il grande prete e filosofo che Pio XII cacciò dalla Chiesa e Mussolini dalla scuola. A Firenze c’erano i Codignola con la rivista “Scuola e città” e con una scuola elementare da loro fondata nel quartiere di Santa Croce. A Rimini una grande insegnante svizzera, Margherita Zoebeli, che vi era venuta a guerra appena finita e con il sostegno dei sindacati svizzeri per fondare il Ceis, Centro educativo italo-svizzero, una scuola sperimentale da cui passarono decine di insegnanti imparandovi tecniche e confrontandovi ideali. E nel Mugello, sopra Firenze, agiva un grande prete ed educatore, don Lorenzo Milani. Mentre a Mi-

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lano c’erano perfino industriali dell’importanza dei Falk e dei Pirelli che si rifacevano esplicitamente alle lezioni dei Beccaria, dei Cattaneo, dei Manzoni, e finanziavano varie iniziative... Mentre a Vicenza Rienzo Colla teneva in vita le edizioni fondate da don Primo Mazzolari. E a Milano agivano, intorno alla libreria della Corsia dei Servi, due preti ex partigiani come David Maria Turoldo e Camillo De Piaz. E a Genova c’era il gruppo di “Il gallo”. E dovunque nel Nord era viva una certa tradizione partigiana vigile e solida. C’erano ancora altre riviste, e gruppi, e iniziative editoriali e non solo... C’era a Roma Ignazio Silone con l’Associazione per la libertà della cultura, e con la rivista – fondata e diretta insieme a Nicola Chiaromonte – “Tempo presente”. C’era a Firenze Piero Calamandrei con la rivista “Il ponte”, e c’erano La Pira e Bilenchi. C’erano a Napoli il gruppo attorno alla rivista “Nord e Sud” diretta da Francesco Compagna, e la rivista “Volontà” di idealità anarchiche ma apertissima a ogni nuovo e radicale e pedagogico, diretta da Cesare Zaccaria. E c’era a Perugia e a partire da Perugia il movimento non violento fondato da Aldo Capitini, organizzatore delle prime “marce della pace”. C’era un proliferare di iniziative in cui erano spesso al centro delle donne. Si era pronti ad affrontare il “miracolo economico”, se non ci si fosse lasciati travolgere, gli italiani, dall’euforia del denaro, da un benessere arrivato piuttosto all’improvviso, anche se non imprevedibilmente.

Molti, che avevano sperato in una ben diversa logica dello sviluppo, reagirono a quell’ondata, i Pasolini, i Bianciardi... che avevano sperato in una gradualità che preservasse gli antichi valori e modelli civili... con disillusione e perfino disperazione. Se si rivedono i film della “commedia all’italiana” di quegli anni, di Monicelli Risi Comencini Scola Age-e-Scarpelli ecc., si può capire benissimo cosa è stata l’Italia del boom: l’euforia di una ricchezza improvvisa di un popolo dopo anni di miseria, di migrazioni... La differenza tra ieri e oggi sta in questa rete trasversale di personaggi rilevanti nella società e cultura del paese, mentre oggi c’è un vuoto che avvertiamo con una certa angoscia: una rete che comprendeva intellettuali, politici, sindacalisti, educatori, una rete in cui si incrociavano e discutevano idee, ma a partire da esperienze concrete, informandosi e influenzandosi reciprocamente. Prima di andare in Sicilia Danilo Dolci era stato, come Peppino Ricca della Corsia dei Servi, un collaboratore di don Zeno Saltini a Nomadelfia, una delle iniziative più ardite e tipiche del dopoguerra. Don Zeno vi aveva raccolto tanti bambini abbandonati e ragazzi sperduti senza più famiglia. Don Zeno li mise insieme dividendoli in case-famiglia, dove uno o due adulti svolgevano un ruolo genitoriale per almeno 1020 bambini e ragazzi, in una specie di città di nuovo tipo, costruita sulla base di un vecchio lager. Un’utopia anche questa, ma l’utopia era una molla efficace. La professione di assistente sociale nacque nel 1947

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a Tolmezzo, in un convegno cui partecipò anche Emilio Sereni, ministro comunista del primo governo Parri. Il modello veniva dall’America del new deal. E Maria Comandini Calogero (moglie del filosofo Guido e membro della famiglia dei Comandini mazziniani di Cesena) fu la fondatrice insieme ad Angela Zucconi, vicina a monsignor De Luca, grazie a Olivetti che la finanziò, di una scuola laica per assistenti sociali da cui anche io provengo, il Cepas. Lanciò uno slogan tuttora importante e attuale: “aiutare gli altri perché si aiutino da soli”. Si trattava dunque di mettere gli altri in grado di gestire da soli la propria storia. Gli altri: le “classi subalterne” di Gramsci e tutti gli svantaggiati, ma non solo. Imparare e praticare la democrazia senza il paternalismo di stampo cattolico. Toccava agli assistenti sociali di agire sul caso singolo (case-work) e sul gruppo (group-work), e da stimolo per tutta una comunità (community work), e questo era già un lavoro sociale e politico... studiare e gestire insieme le risorse possibili, lottare contro i prepotenti, praticare la solidarietà non solo all’interno del ceto di appartenenza. Allora si attribuiva anche un’enorme importanza all’inchiesta. Perfino Mao Tse-Tung, guida della rivoluzione cinese, diceva che nel partito ha diritto di parola soltanto chi fa inchiesta! Non chiunque ha quattro idee personali che si è fatte sui libri e a partire da interessi privati e di gruppo. Per gli assistenti sociali si trattava dunque di capire le particolarità di ogni territorio e ambiente agendo contro ciò che fa da freno alla de-

mocrazia, studiando ogni comunità da dentro per aiutarla a trasformarsi in meglio, e se possibile, nessuno escluso. L’idea dell’inchiesta era alla base del lavoro di allora, perché l’Italia non la si conosceva, dopo vent’anni di fascismo: di silenzi e censure, di fogli di via. Il Sud e il Nord si ignoravano a vicenda. C’era una grande ignoranza della realtà del nostro paese, si conosceva più o meno bene solo il proprio territorio, la propria provincia o “marca”. Il “lavoro sociale”, come quello politico, era fatto da persone che si muovevano dunque a scoprire le periferie, le campagne, le “zone depresse”, allora riconosciute tali dallo Stato. Visitai il Trentino nel ’57 o la valle padana, e c’erano paesi di una povertà grande quanto quella di certi borghi lucani, siciliani... L’assistenza era affidata agli Eca (Enti comunali di assistenza) e alle “damine” della San Vincenzo che portavano periodicamente vestiti usati e viveri alle famiglie più povere, casa per casa. Era dunque necessario conoscere il Paese; e anche il cinema e la letteratura cercarono di farlo. Fu fondamentale la corrente detta neo-realista. In cinema La terra trema raccontò i contadini e i pescatori siciliani, Ladri di biciclette i disoccupati romani, Totò cerca casa la crisi degli alloggi, eccetera. Il neo-realismo influì anche sul giornalismo, in un bisogno di scoprire chi eravamo, che ebbe forse il suo apice nell’inchiesta di Guido Piovene, in un Viaggio in Italia che precede di poco quello cinematografico di Rossellini con Ingrid

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Bergman. E tutto questo andava insieme all’alfabetizzazione del Paese, con una scuola dove nelle elementari agivano gruppi di insegnanti bravissimi raccolti nel Movimento di cooperazione educativa, ma anche tramite la radio e con la tv di Bernabei. Che intendeva dare una lingua comune ancorché povera a un paese diviso in cui si parlavano cento dialetti. Anche la tv propose grandi inchieste, ospitando quelle di Comencini, di De Seta, di Pasolini, di Soldati... E nacque una nuova scienza, la sociologia, importata dagli Usa, dove aveva vissuto e viveva una grande stagione, e che da noi nacque al Nord con Alessandro Pizzorno (sociologia industriale) e con il gruppo olivettiano di “Comunità”, grazie anche al giovane Ferrarotti, mentre al Sud agì Manlio Rossi-Doria (sociologia rurale) ed ebbe il suo centro nell’università di agraria di Portici. Una nuova scienza osteggiata allora dai comunisti come dagli idealisti alla Croce... E ci furono dei giovani ricercatori straordinari come Danilo Montaldi in Lombardia, Rocco Scotellaro in Basilicata, Danilo Dolci in Sicilia, Franco Cagnetta tra i pastori e i banditi della Sardegna, Carlo Cassola e Luciano Bianciardi tra i minatori della Maremma, attenti a una conoscenza che preludesse all’intervento politico o amministrativo e li incitasse e chiarisse. Sempre Maria Calogero parlò della “piccola inchiesta non trasferibile” che gli operatori sociali dovevano praticare: conoscere le situazioni in cui si opera, chi vi conta di più e chi meno, cosa c’è dietro le apparenze e i comportamenti sociali

e di gruppo... chi sono i leader naturali e quelli imposti da chi vi manovra per scopi privati come per esempio lo strozzinaggio, le varie forme di prostituzione, gli interessi elettorali, la manipolazione delle coscienze... Neanche oggi sappiamo granché di tante zone e comunità, e ci sono temi che sembrano tabù, o quasi, nel giornalismo e nella politica: le massonerie, le mafie, i club, i movimenti di influenza... i modi in cui gli aspiranti e i manipolatori del potere, anche quello che viene dal centro, si organizzano all’interno di una società, che allora come oggi non sempre sembra avere il senso della collettività, dello Stato. E se non si individuano posto per posto i leader buoni e cattivi, e i rapporti tra le classi e interni a ogni classe – addirittura a ogni borgata, a ogni vicolo... – non si può operare efficacemente in un determinato ambiente, nel piccolo dell’intervento e nel grande del “lavoro di comunità”, e addirittura della regione. E la “questione meridionale”? Ricordiamoci di quel che ci disse Il Gattopardo: “tutto cambi, affinché nulla cambi” nella sostanza dei rapporti sociali. Davvero i piemontesi hanno portato la civiltà in Sicilia, una regione con una storia infinitamente più ricca e varia della loro? Garibaldi consegnò il Sud ai Savoia, ma i Borboni erano più avanti dei Savoia, e le prime riforme le fecero loro. La prima ferrovia viene costruita in Campania, dove si fanno le prime bonifiche, si costruiscono i primi acquedotti. Forse c’era molta più libertà in molte parti dell’Italia prima dell’Unità e non dopo.

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La Toscana, o Parma, o il Lombardo-veneto erano amministrati meglio del Piemonte (e di Napoli). I nuovi potenti non portano sempre nuova civiltà. Si sono insediati dentro un sistema vecchio rendendolo per molti aspetti peggiore, perché, per esempio, la guerra al banditismo è stata una guerra di stragi, una guerra razzista... C’è un libro di Giulio Marcon sul “ben fare”, che è un modo di dire che viene da Dante... Il calendario Olivetti che si trovava un tempo in tutte le strutture e gli ambienti degli operatori sociali, e non solo, conteneva immagini dal grande affresco senese del Lorenzetti sugli effetti del buon governo. Olivetti teneva molto al suo calendario... Si voleva un buon governo della società e per esso valeva la pena lottare. C’era una spinta molto diffusa, nonostante le differenze ideologiche e politiche tra gli operatori, e le reti nascevano da questo, incrociando cattolici, comunisti, socialisti, laici, una certa borghesia, una certa intellighenzia unita dall’idea di un “buongoverno” possibile, con la democrazia. Tutto questo anche in rapporto alle condizioni del sottosviluppo, a una società di analfabeti e di contadini che doveva crescere e migliorare. Fino ai primi anni Sessanta l’Italia era un paese con una maggioranza di analfabeti e di contadini, di disoccupati. Il “miracolo economico” è arrivato velocemente (ne fanno fede perfino i film, anno per anno, con/di Alberto Sordi) sul finire degli anni Cinquanta; una velocità nella trasformazione di tutto, che ha travolto e scon-

certato molti intellettuali, che non l’hanno accettata perché, diceva Pasolini, si trattava di “uno sviluppo senza progresso”. Anche se, ovviamente, tante riforme sono state fatte dal ’45 e vennero fatte fino agli anni Settanta: l’aborto, il divorzio, lo statuto dei lavoratori, novità volute e sponsorizzate da minoranze attive che tanto minoranze poi non erano. Con il riferimento alla carta costituzionale. Minoranze attive che agivano in mezzo a maggioranze un po’ ottuse e contro minoranze fameliche... Ma chi agiva nel sociale non si sentiva solo, in questo cambiamento. Per esempio: a lavorare da Dolci erano venuti dei ragazzi di Torino che furono più tardi gli artefici del gruppo-rivista “Quaderni rossi”, attivissimo nel risveglio delle lotte operaie alla Fiat del ’62, intorno a Raniero Panzieri, un socialista finito all’Einaudi ma che era stato dirigente del Psi in Sicilia e poi direttore di “Mondo operaio”. Il gruppo dei “Quaderni rossi” faceva i suoi seminari nella comunità valdese di Agape, sopra Torre Pellice, e i valdesi, attorno al pastore Vinay, erano attivi su molti fronti. A Roma io ebbi anche come punti di riferimento Silone, Chiaromonte e sua sorella Pina, una straordinaria assistente sociale. E sul fronte pedagogico c’erano i fiorentini di “Scuola e città” e della casa editrice La nuova Italia, c’era un sindaco come La Pira e un giornale come “Il nuovo corriere” diretto da Romano Bilenchi. E a Rimini c’era l’asilo svizzero di Margherita Zoebeli. E c’erano nell’università pedagogisti del valore di Lam-

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berto Borghi e Capitini e altri. E a Roma era attiva l’area degli allievi di Ernesto Buonaiuti, e c’erano i radicali. C’erano Flaiano e Soldati, Morante e Moravia, c’era una varietà di scambi che attraversava tutta l’Italia e comprendeva anche tanti comunisti, tanti cattolici... Se riprendo in mano un mio diario del ’60 che più tardi ho pubblicato da Donzelli col titolo di Strana gente vi si incrociano tanti rappresentanti di minoranze attive che avevano tra loro scambi continui, incontri, attività e lotte condivise. Tutto questo è finito lentamente, assorbito dalla politica, che sembrava poter raccogliere tutto e farci più forti. E poi, lentamente prima, in modo dirompente dopo, è arrivato il ’68. C’era stata prima la rivolta di Genova contro il tentativo di un governo della Dc con i fascisti nel ’60, i grandi scioperi della Fiat nel ’62 contro il dominio dei sindacati gialli e la prepotenza di un padrone peggio che avido... Era arrivata la coesistenza pacifica, e morto Stalin ecco Krusciov con il suo famoso rapporto, mentre in Vaticano muore Pio XII e arriva Giovanni XXIII, e Togliatti, come grandi democristiani quali Aldo Moro, “cavalcano la tigre” con molta intelligenza, e tra i due partiti più forti agiscono con una notevole influenza teorica i catto-comunisti... Quando arrivò il ’68, ci furono le reazioni spaventate di intellettuali che temevano che dal disordine potesse nascere un nuovo fascismo. Ma alcuni dei grandi vecchi ci sostennero – come Capitini, Ada Gobetti, Franco Antonicelli, che dissero chiaro e tondo che gli studenti raccoglievano

le bandiere lasciate cadere dalle forze della Resistenza, annacquata andando al potere e non più lievito di una nuova società. Arrivarono le nouvelles vagues, con i Godard e i Resnais, i Beckett, i Fellini e gli Antonioni, i Grotowski e i Peter Brook, i Peter Handke e i Fassbinder, gli Warhol e i Kubrick, i Pasolini e i Pagliarani, con un certo cinema un certo teatro una certa poesia. Rispetto alla Guerra Fredda che voleva schierarti di qua o di là, c’era la voglia di poter contare anche individualmente. Potevi infine rifiutare le quattro opzioni della Guerra Fredda, come l’Azione cattolica e la Federazione dei giovani comunisti. Cercavamo e trovammo una prospettiva diversa, riformista o rivoluzionaria, alla quale potevi contribuire individualmente, non dovevi più seguire le proposte di Mosca o di Washington o del Papa con il loro “Noi” obbligato, quando noi avevamo preso gusto a dire “io”. In quegli anni c’erano grandi lotte nel mondo: c’erano state la rivoluzione indiana non violenta e quella cinese violenta, le lotte della decolonizzazione vittoriose in Africa e in parte in America Latina, c’erano le guerriglie, c’erano eroi di tipo nuovo come Che Guevara e Lumumba, si svegliava anche il Sudafrica... Il mondo era in movimento. Ci sentivamo parte di questo movimento, anche quando il tuo modo di contribuire era nel sociale o nell’attivismo politico, nell’agitazione studentesca o manifestando con gli operai (“Operai e studenti uniti nella lotta” o “Nord e Sud

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uniti nella lotta”...). Il sociale era dentro il politico, e si era uniti dalla convinzione di poter cambiare la storia. E non tenevano abbastanza conto della forza del Capitale, della forza del Potere, dalla forza degli Stati e degli Eserciti... Che si sono riorganizzati rapidamente e hanno ammazzato tutto. E hanno ammazzato il violento Malcolm X come il non violento Martin Luther King, Gandhi come, di fatto, un Mao che si inventa per far sopravvivere le sue idee una “rivoluzione culturale” che poi si rivela un disastro. Cosa è rimasto? A metà degli anni Cinquanta Silone aveva scritto su “Tempo presente” che rimaneva, a ben vedere, “il Padre Nostro”: rivolgerci a un’entità superiore perché da soli non ce la si fa. Mentre Chiaromonte, più laico e borghese, gli replica che resta “il ricordo di quello che l’uomo è stato capace di fare” nei momenti migliori della sua storia. Lo sviluppo senza un reale progresso ha vanificato tutta una serie di esperienze, e si è trattato quasi di un dover ricominciare daccapo. La nostra storia recente è nata da quella sconfitta, portata dal miracolo economico e dal benessere, dentro le nostre coscienze e nelle abitudini, nei modi di essere degli italiani. Certi amici e maestri hanno reagito malissimo al miracolo economico, non sono riusciti a farci i conti. Dolci, anche; e Pasolini, che in qualche modo si è suicidato, Bianciardi che si è ucciso con l’alcol, Mastronardi che si è buttato nel Ticino... Non hanno capito e accettato i tempi

nuovi, ne sono stati sopraffatti. Perché noi invece siamo sopravvissuti meglio? Perché eravamo giovani, avevamo un’energia e una forza per affrontare il nuovo tempo. Riuscivamo a dialogare col nuovo, perfino con tanti nuovi consumi, cercavamo (e trovavamo a volte nella sociologia migliore, più americana che nostra) i modi per dialogare, per reagire a questo nuovo mondo, a una fase nuova che chiedeva modi nuovi e studi nuovi per essere affrontata. Il capitale ha tagliato le mani a tutti con i suoi eserciti e manganelli, con le sue banche e con il mito del benessere, col bastone e con la carota. (Una storia è finita, decisamente, con la morte criminale di Moro e con quella di Berlinguer.) Le nostre vecchie iniziative non servivano più, erano state facilmente riassorbite, e le nuove hanno fatto una gran fatica a nascere e crescere e oggi sopravvivono molto molto fiaccamente. E il servizio civile? Ci sono stati legami molto forti tra l’intervento sociale e il servizio civile. È una storia lineare, che parte dalla Prima guerra mondiale, dal pacifismo, da campi di lavoro internazionali per favorire l’incontro tra paesi e culture diversi, per evitare altri conflitti, altre guerre. Dopo la Seconda, l’obiezione di coscienza è ritornata in primo piano, con Gandhi e Martin Luther King, con Capitini, con certi movimenti non violenti francesi, inglesi, tedeschi, italiani. In Francia, un episodio di guerra ispirò il film Non uccidere di Claude Autant-Lara (1961), insieme a una

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bella canzone di Boris Vian. Il film parla di un giovane che non vuole uccidere nessuno e per questo affronta processo e galera, mettendo a confronto questa storia con quella di un giovane pastore protestante che aveva partecipato alla guerra come cappellano militare senza avere mai nessun dubbio sulla propria “missione”... Beppe Gozzini, il primo obiettore di coscienza cattolico in Italia, fornì l’occasione con il suo processo a una bellissima lettera di don Milani rivolta ai cappellani militari, che lo denunciarono e per la quale dovette subire un famoso processo: L’obbedienza non è più una virtù. Dalla storia degli obiettori di coscienza nasce il servizio civile. In Sicilia il giovane Lorenzo Barbera lavorava con il gruppo di Danilo Dolci nella zona del Belice. Quando ci fu il tremendo terremoto del 1968, un gruppo di giovani arrivò da lui con le cartoline-precetto del richiamo al servizio militare. Quei giovani gli dissero: «No, noi non partiremo; dobbiamo assistere i nostri vecchi, dobbiamo ricostruire le case, coltivare i campi, è indegno che lo Stato ci richiami per andare 18 mesi altrove con il solo scopo di imparare a sparare...». Barbera riuscì a organizzarli e andò con loro a Roma, dove furono ricevuti soltanto da Sandro Pertini, e da lì sembra nascere la storia del servizio civile, perché ci furono gruppi, associazioni e partiti che cominciarono a lavorare su questa esigenza. Il servizio civile è stato importante perché ha accostato una generazione di giovani a pratiche e ad ambienti che altrimenti non avrebbero mai conosciuto.

Contemporaneamente nacquero le case-famiglia per i bambini abbandonati e i “diversamente abili”, sul modello ancora una volta di Nomadelfia; nasce il Cnca (Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza). Nacque più tardi Banca Etica. La paura dell’atomica suscitò intanto molte manifestazioni significative in tanti paesi, dal Giappone all’Inghilterra all’Italia, con la marcia Perugia-Assisi ideata da Aldo Capitini. C’è questa storia di movimenti, di azioni, di interventi, che si allarga a tante attività educative e assistenziali, e culturali. L’Arci nasce in quel periodo ed è il grande momento dei Radicali, all’avanguardia in molte iniziative, che oltre ai NO propongono anche dei SÌ. Queste esperienze e questa carica sfociano nella politica con il ’68. Nel periodo successivo, con il terrorismo ma anche con l’abbandono di molte istanze positive del movimento, ci si è resi conto gradualmente che mentre moriva il ’68 laico e progressista, sopravviveva un ’68 dei cattolici e di altre confessioni cristiane (come i valdesi), di una moralità più radicale, legata a princìpi e concetti cristiani prima che marxisti. Nella nuova fase, accanto al servizio civile, resta in piedi solo il ’68 dei cattolici, come il Movimento di Capodarco, al quale mi sono legato negli anni Settanta e Ottanta, trovandovi facilmente una marginale collocazione perché venivo anche io dall’assistenza sociale e dalla pedagogia. Capodarco nasce dall’esperienza di giovani preti e

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giovani disabili che durante uno dei soliti pellegrinaggi a Lourdes decisero che non volevano l’assistenza, volevano la comunità, volevano una convivenza assistita ma corresponsabile. E la loro vita cambiò davvero in meglio, dopo molte lotte con leggi, riforme, strutture. Dico sempre che le due categorie per cui la vita è migliorata negli ultimi decenni sono quelle dei disabili e quelle degli omosessuali, e in parte la condizione delle donne grazie a un forte movimento femminista. Il servizio civile ha dato vita col tempo anche a quello che chiamiamo Terzo Settore, l’ingresso nell’economia di forze che si sono strutturate a partire dal volontariato. Il Movi è stata una grande organizzazione cattolica, come l’Arci, laica, e hanno accostato al sociale due o tre generazioni di giovani; tante attività del tempo libero si sono fondate inizialmente su una forte spinta sociale, collettiva. Fino all’ultimo, negativo mutamento. Come ha reagito il potere alle novità del ’68, dei movimenti giovanili, del pacifismo, delle lotte del Terzo Mondo, delle rivoluzioni arabe eccetera? Il potere si è fatto più astuto, grazie anche a tutti gli scienziati e agli esperti di comunicazione al suo servizio. Tramite la rivoluzione tecnologica il capitale ha saputo reagire con estrema intelligenza e decisione a quanto gli creava disturbo. Tramite la pubblicità (“il fascismo del nostro tempo”, come diceva Godard), all’idolatria del consumismo, all’idolatria dell’apparire

al posto dell’essere, e con la sconfitta dei movimenti e il ripiegamento dei militanti e di tutti o quasi tutti nel privato. Tutto questo ha generato la nuova cultura del narcisismo, come l’ha battezzata Christopher Lasch, il ripiegamento su di sé dell’individuo e del piccolo gruppo, di fronte a una immane sconfitta storica e sociale. E c’è stata una vera e propria rivoluzione finanziaria: contano le banche, conta il denaro, conta la finanza, ben più della produzione. E Internet ci illude di esistere in quanto possiamo “navigare” e “connetterci”, “comunicare” ed esibirci. Ma soprattutto ricevere gli input del potere, i modelli che il sistema ci offre e ci fa accettare allargando la nostra sfera di consumi culturali, e illudendoci di esserne parte attiva. Dici la tua, fai la tua canzone, produci eventi e riempi il tuo tempo... a maggior gloria di un presente nefasto, che spinge verso la fine, la fine di tutto. È stata questa la grande astuzia dei nuovi (e vecchi) poteri per imporsi in modi nuovi rispetto al passato, non più con la repressione, ma con la consolazione del consumo e dell’apparire, del narcisismo. Per la finanza è importante che il denaro circoli, e questo è particolarmente evidente sul piano culturale: alle case editrici viene chiesto dalle banche di fare circolare il denaro e di nutrire l’indotto, mentre la qualità del prodotto è secondaria. La cultura a questo punto rischia davvero di essere l’oppio del popolo, di servire a non far pensare invece che a pensare, a far accettare il mondo così com’è in-

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vece che a cercare di cambiarlo. E questo è il quadro in cui deve inserirsi in modi nuovi il volontariato, che negli ultimi trent’anni ha dato esperienze e personaggi significativi, più con i radicali e con i cattolici che con i marxisti. In qualcosa questo ha lasciato un segno, ma pur sempre dentro il quadro del narcisismo, che è cosa ben diversa dall’individualismo. Il pacifismo del tempo della guerra nell’ex-Jugoslavia, di don Tonino Bello, dei Beati costruttori di Pace, o nel sociale rispetto agli immigrati (con monsignor Di Liegro a Roma, per esempio...) hanno ancora molto da insegnare, anche se i tempi sono nuovi, e la sfiducia nel futuro, e il tirare a campare che ne è conseguenza, sono nemici immensi. Quelli che Silone chiamava gli effetti di un “nichilismo di massa”. E non ci sono i collegamenti, i legami che solo una prospettiva politica nuova potrebbe dare – la logica solidaristica, di emancipazione degli emarginati, di aiuto agli altri perché aiutino se stessi, perché siano responsabili della propria vicenda ma legandosi ad altri come loro, e ad altri capaci di accompagnare e di promuovere. L’altra grande trasformazione epocale è stata la fine dello Stato Sociale, sono state le privatizzazioni. Lo Stato ha dimissionato dal farsi carico dei più fragili e delle minoranze ed è ben contento che a farlo siano le associazioni, i gruppi del volontariato, i “buoni”. Che troppo spesso possono sembrare tanto buoni quanto sciocchi. In questo contesto, ciò che oggi si muove incide ra-

ramente sullo stato delle cose, sulla società. Il volontariato e il terzo settore fanno quello che lo Stato non fa più, mentre i ricchi sono sempre più ricchi e controllano i mercati e le istituzioni, e hanno a loro servizio magistrati e poliziotti, militari e intellettuali, educatori e sacerdoti... a loro disposizione. Si sono vanificate le riforme degli ultimi cinquant’anni e più, riportando a una grande precarietà tutto il sistema, a una più radicale emarginazione di chi non possiede ed è solo. Causa di tutto questo è ancora l’avidità del privato, che possiamo anche chiamare das Kapital. Un capitale nuovo e mellifluo, ma non meno aggressivo e spietato che in passato. Questo mi pare il quadro. Ascoltiamo dunque come Giacomo D’Alessandro ce lo racconta, cercando di derivarne un po’ di fiducia nel futuro, e nel nostro lavoro.

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Fare quanto è giusto

1 IL MONDO VISTO DA GENOVA

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ono nato a Genova, tra i monti e il mare. Credo sia l’unica tra le grandi città italiane a essere ancora oggi tagliata fuori dall’alta velocità. Chissà che non sia anche questo a salvarla da quel ritmo frenetico, dal pendolarismo selvaggio, da una gentrificazione spietata. Spostarsi da e per Genova rimane ancora un’impresa, devi avere un buon motivo per andarci. Abbiamo pure una densità di anziani che registra il primato europeo. Allo stesso tempo Genova continua a essere teatro di accadimenti con respiro nazionale e forse globale. È suo malgrado la città del G8 del 2001, dell’alluvione del 2011, dell’abbattimento della Torre Piloti nel 2013, del crollo del Ponte Morandi nel 2018... e senza andare troppo lontano persino dell’inchino della Costa Concordia all’Isola del Giglio nel 2012 (“torni a bordo, cazzo!”). In realtà si generano qui ben altri accadimenti, molto più interessanti: apparizioni inattese di talenti, di espressioni giovanili, sociali, culturali, un contaminarsi di personalità e gruppi significativi, poco visibili finché restano confinati al clima genovese. Chi avrebbe 35

detto ad esempio che la città dei cantautori si sarebbe distinta anni dopo come una delle capitali italiane del rap, dell’hip hop e della trap? C’è evidentemente un underground che si muove, si rimescola e si risignifica in un imprevedibile travaso col panorama nazionale, nonostante la città abbia “perso” in quarant’anni circa 185.000 under 35 con picchi feroci negli ultimi 15 anni. È solo un esempio per dire della peculiarità di questo luogo italiano che riveste il ruolo di una grande città, di un porto di mare, ma presenta al contempo dei tratti periferici e provinciali nel panorama nazionale. Genova è ancora il mio punto di partenza nell’osservazione della realtà, intervallato ormai da una quindicina d’anni con una serie di viaggi per l’Italia e per il mondo che mi hanno spinto a stringere insolite relazioni con altri luoghi a loro modo periferici. Primo fra tutti il quartiere Scampia della periferia nord di Napoli. Più di recente le missioni del Kivu, nell’est del Congo. Queste occasioni di relazione, di scambio, lentamente anche di progettualità hanno cambiato il mio modo di vivere, di pensare la realtà e anche di abitare la mia comunità di riferimento. Quando Goffredo Fofi mi ha chiesto di conversare con lui sul tema dei movimenti giovanili e del “che fare?” di fronte agli orrori strutturali della realtà, ho obiettato che io non ho competenze specifiche in alcun ambito. Mi occupo di comunicazione sociale in senso lato, ma oggi “comunicazione” vuol dire tutto e il con-

trario di tutto. Molto spesso diventa terreno da mercenari, gabbia mentale da nerd, ancella machiavelliana del business aziendale o del green washing dei potenti. Sono quindi un comunicatore pieno di dubbi, che non aspira a passare le giornate nel mondo virtuale e non intende credere al fatto che il “che fare?” del nostro tempo passi inevitabilmente e soltanto per algoritmi virtuali e azioni da remoto. Penso però che la comunicazione come “braccio armato” di un gruppo specifico possa avere strumenti per fare oggi quello che il giornalismo non riesce quasi più a fare, perché ha perduto le condizioni economiche ed editoriali per essere svolto in maniera seria, libera e dignitosa. Fare gli esploratori sociali oggi non è più il pane quotidiano del giornalismo. Bisogna poter scavare nella realtà in altri modi, meno strutturati e controllabili, a partire dal percorso che ciascuno fa nel luogo in cui vive e dagli incontri, dalle contaminazioni che riesce a sperimentare muovendosi per intuito e passaparola. A me è capitato questo, di trovarmi a viaggiare tanto, e di ricevere da buoni maestri quell’occhio particolare verso le realtà significative che si muovono in alcuni contesti, in alcune periferie, in città o fuori dai grandi centri. Quando dico realtà significative riprendo il concetto di minoranze attive: molto spesso quello che è significativo non si genera nelle grandi masse, nelle grandi maggioranze, nei grandi trend. Ma proprio nelle pieghe della realtà.

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Ho ascoltato Goffredo ripercorrere come lui sa fare tutta l’esperienza delle reti sociali in Italia, a partire dagli anni Cinquanta, reti che tenevano insieme imprenditori illuminati con una certa borghesia, intellettuali, giornalisti, scrittori, ma anche movimenti molto più “di popolo”, sempre minoranze ma forse un tempo meno minoranza di quello che si ritiene oggi. C’era la capacità di tenere collegati pezzi della realtà significativi, appunto, con un forte slancio per un cambiamento e per una società più giusta, in un contesto che veniva dal disastro delle guerre mondiali, quindi sicuramente molto diverso dal nostro. A partire da quelle esperienze mi sono sentito rivolgere la domanda su cosa – dal mio punto di vista – si muova oggi. Come si organizzano le forze e le energie esistenti in un mondo giovanile molto difficile da inquadrare, e in generale nel mondo del cosiddetto sociale? In sostanza, che fare? Chi fa? Chi dovrebbe e potrebbe fare?

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2 UNA RIVOLUZIONE DI COMUNITÀ E NOMADISMO

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e penso a esperienze, osservazioni e sommovimenti a partire dal mio osservatorio genovese, mi è capitato attraverso viaggi e incontri di stringere relazioni con realtà molto diverse. Una delle più recenti è appunto il Kivu, l’Est del Congo, dove nel 2021 è stato ucciso l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, una delle zone considerate più instabili al mondo ma anche (e le due cose sono ovviamente collegate) la miniera delle multinazionali per quanto riguarda oro, diamanti e materie prime necessarie all’alta tecnologia. In Italia abbiamo 80 milioni di smartphone, più degli abitanti, e gran parte delle terre rare che compongono questi congegni arriva dal Congo. Sono partito da così lontano per dire che la mia osservazione della realtà procede e prende forma nel tentativo di tenere insieme due dinamiche fondamentali per la mia vita: la prima è appunto quella di un certo nomadismo; la seconda è quella di costruire comunità, o comunque di essere a servizio, animare, ricevere nutrimento da una comunità; quando hai questa aspirazione devi essere legato a un luogo, non puoi fare quello che vuoi senza curarti dei movimenti relazionali 39

e territoriali che ti accadono intorno, usando il luogo che chiami casa come un dormitorio. A 20 anni, seguendo questo desiderio, ho avviato insieme ad altri una esperienza comunitaria in una vecchia chiesa del centro storico di Genova, il Centro Banchi. Vivere insieme ad altri giovani in questo posto ci ha consentito di tenere vivi due spazi come il salone e la chiesa, nel cuore della città vecchia, a due passi dal porto antico, spazi dove abbiamo organizzato o consentito ad altri di organizzare contaminazioni culturali, teatrali, musicali e attività di promozione umana. La gestione di questo spazio polivalente – ecclesiale ma anche laico – si è basata dal 2014 a oggi su una vita comunitaria in cui un gruppo di giovani, oltre a curare i propri studi, lavoretti, volontariato e vita personale, si sono interrogati anche su uno spazio a loro disposizione (cosa insolita per dei ventenni, specie a Genova) e su come farlo vivere, renderlo fecondo per altre realtà. In occasione dei consistenti sbarchi di migranti del 2015, ad esempio, era nato un vasto gruppo tra i 16 e i 20 anni che faceva lezioni di italiano a giovani di origine africana, un’esperienza non istituzionale con il valore aggiunto di favorire relazioni tra coetanei, meno vincolate nella dinamica operatore-utente. Da quello spazio di mescolanza tra giovani di culture diverse sono fiorite reali amicizie e opportunità che proseguono ancora oggi. Sempre al Centro Banchi era nata una lista civica progressista per le elezioni regionali, in

uno dei momenti bui di scivolamento a destra dell’elettorato. Ma tra le prime iniziative della comunità, allargata a un gruppo di amici, c’era stato un lungo cineforum sulla distopia ambientale e le disuguaglianze. Tutto questo e molto altro è accaduto nello spazio di una chiesa: una percezione spiazzante per molte persone provenienti da ben altri mondi; e parliamo di una chiesa centralissima a Genova, semplicemente vissuta senza rigido controllo né dinamiche clericali o interamente confessionali. Il tentativo che abbiamo fatto è stato quello di uscire dalla via obbligata per cui devi vivere in famiglia fino a 30 anni, in quanto a livello economico non puoi fare altrimenti; oppure ti trovi un appartamento con qualche coinquilino dove ricavi il tuo piccolo nido, ma la tua vita è fuori in strada o nei locali. Abbiamo cercato una dimensione diversa, l’abitare un luogo non nostro con spazi disponibili e vocati a fare accoglienza, incentivo a sporcarsi sempre le mani con quella che è la realtà della strada e della città, le esigenze e le proposte che ti interpellano, sapendo che gli spazi a tua disposizione possono decretare vita e morte di associazioni, gruppi, realtà sociali, iniziative culturali e così via. A partire dall’esperienza del Centro Banchi, ho cercato in questi anni di tenere viva una dimensione di comunità, il desiderio di costruire in un luogo una realtà che possa essere presidio fertile e anche testimonianza tangibile di un altro modo di stare al mondo.

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Questo senza togliere mai la dimensione del nomadismo, dell’importanza e voglia di guardarsi da fuori uscendo dal proprio spazio di comfort, di andare a vedere come si vive altrove. Che cosa si muove di positivo in altre realtà. E anche di cercare buoni maestri. Perché una delle cose che in questi anni ho riscontrato come problematica in tantissimi giovani di buona volontà è proprio l’assenza degli adulti: non sono molti gli adulti di riferimento che si possano definire tali; ci sono adulti per anagrafica, ma che a livello di interiorità, competenza e maturazione umana e culturale sono fermi all’adolescenza o poco dopo. E anche laddove sussiste una qualità e una bontà delle persone, troppi sono gli adulti fortemente compromessi dallo stile di vita del consumo, dove ci si adagia e ci si arrangia nello schema casa-lavoro-famiglia/tempo libero. Vivere gli anni del passaggio giovani-adulti in una realtà comunitaria – l’ho visto accadere in tante persone – mantiene invece più radicali e disponibili a rispondere a proposte collettive e a riorientare il proprio percorso secondo valori comuni. Tenere insieme queste due dimensioni, comunità e nomadismo, è una questione aperta, un equilibrio continuamente ricercato, e anche una fatica; richiede motivazione, inquietudine e una fiducia di fondo. Bisogna saper stare, ma anche saper continuamente andare. Bisogna muoversi tanto, andare a trovare (a volte stanare) le persone, aver voglia di conoscerle, annusarle per affinità intuite e poi andare di persona a vedere

come vivono, dove stanno, che clima si respira, cosa le motiva. Questo ho sempre teso a fare e ho ritrovato nello stile di Goffredo, che durante la sua attività ha costruito una rete umana e feconda un po’ in tutte le città italiane. Il nomadismo per me è stato anche l’incontro costante con i cammini, in un decennio che ha visto in particolare gli europei ricercare e riscoprire gli antichi pellegrinaggi. Le vie per la spiritualità possono essere sminuite e dismesse dalla modernità nelle loro vesti religiose, ma rimane una sete sincera dello spirito personale e anche comunitario che in qualche modo le persone hanno bisogno di continuare ad alimentare attraverso esperienze di purificazione dal mondano. Sembra che molti rifiutino fondamentalmente non il religioso in sé quanto il dualismo greco incancrenito nella cultura occidentale, per cui il corpo è tabù e l’anima è tutto, o viceversa. L’urgenza cui si fatica a dare nome è una più armoniosa integrazione tra corpo e mente, spirito e prassi, ambiente e giustizia. Ovvero un’ecologia integrale, secondo la vulgata di Papa Francesco. Il che spiega anche un notevole successo, nell’era del materialismo razionale, di tutte quelle discipline mutuate dall’Oriente vocate al benessere integrale della persona, senza obblighi comunitari né affermazioni soprannaturali, on demand e alla fin fine “a consumo”. I cammini, dunque, sono la dimensione dove mi è capitato di incontrare, conoscere e frequentare (se-

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guendo un ritmo estraneo a quello della competitività quotidiana) alcune delle persone più anti-sistemiche della mia esistenza, capaci di visione politica quanto di traduzione di quest’ultima in uno stile di vita politico. Ho fatto esperienza della messa in gioco del corpo nel condividere un messaggio o una ricerca, come elemento fondamentale per sbloccare l’autoreferenzialità da spettatori di conferenze. Nel camminare cambio io mentre perseguo il cambiamento di tutto, in relazione con altri. Questo avviene, questo apprendo, questo mi impongo, questo ricevo. Quella dei viaggi a piedi o con mezzi di fortuna l’ho vissuta e la vivo come scuola alternativa, da poter utilizzare come strumento per dare vita a contesti educativi per giovani e adulti, in cui le persone siano più disposte a ricevere e ridiscutere. L’associazione Percorsi di Vita, con le esperienze che propone durante l’anno (da Scampia alle valli contadine, dalle periferie siciliane alle aree interne della Calabria, dalla Siria alla Palestina al Congo), esprime ed estende per me oggi il filone nomade della mia esperienza esistenziale. Mi ritrovo quindi tra nomadismo e comunità, con un osservatorio che ha base a Genova e una serie di scambi continuativi con altri osservatori differenti e a volte opposti. Al centro, sempre ricorrente e scatenata dalla realtà, la grande domanda del “che fare” oggi. Con chi, soprattutto. Con che efficacia. Una inquietudine che non mi lascia e da cui non mi faccio lasciare, cui sono al contempo grato e vincolato, disarmato e

forse più conscio di chi ha avuto meno possibilità di me di attingere a persone che sanno inquietare. Condivido allora alcune osservazioni e alcune esperienze concrete che secondo me dicono qualcosa di quello che vivono oggi molti “pezzi” di gioventù nel nostro Paese, di quello che potrebbero fare o di quello che dovrebbero fare per generare processi di cambiamento. Ci tengo a rimarcare che in ciò che vado a condividere non intendo offrire risposte, ma ulteriori colori e sfumature, punti di partenza alla domanda: cosa fare oggi? Cosa vale la pena conoscere e ri-conoscere per tutte le persone che non accettano la realtà del mondo così com’è?

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a prima chiave di lettura da cui non si può prescindere è l’individualismo come regola di vita. Noi siamo generazioni impregnate di una logica individualista, che rispetto a generazioni precedenti non hanno perlopiù alcuna esperienza di qualcosa di diverso. Mi ha colpito nel racconto di Goffredo come all’epoca della Guerra Fredda ci fossero tre o quattro possibili opzioni per un giovane di appartenere a un “noi” del tutto imposto, del tutto prestabilito, e che lui come altri cercassero invece di svincolarsi per fare emergere la libertà di un “io” capace di creare nuovi “noi” un po’ diversi. Ecco, oggi io vedo un humus di matrice opposta: l’imposizione totale è proprio quella dell’io destinato a nessuno sbocco pratico se non quello di sopravvivere, “sistemarsi” e contribuire alla macchina economica e burocratica del sistema. Al piacere personale. Al narcisismo. Le sue forme espressive sono il consumo e l’intrattenimento, tanto che le preoccupazioni anche di molti ventenni e trentenni sono: organizzare il tempo libero, fare le cose che piacciono, e al più trovare un lavoro

non perché sia utile, ma per risolvere la questione economica e sentirsi legittimati nella società. Molto spesso emerge palesemente che i criteri di scelta di molti giovani sul “che fare” della propria vita non includono la realizzazione di una propria “vocazione”. Non vanno dietro a quello che li esprime meglio, a quello in cui sono bravi, a quello in cui possono essere più utili per una comunità e società migliore, ma cercano superficialmente la sistemazione che a livello lavorativo garantisca “il proprio orticello”, o all’opposto perseguono la realizzazione esponenziale del percorso di studi fine a se stessa, alla crescita illimitata, all’iper-qualificazione come valore. Non certo per cattiveria, ma per esorcizzare il dolore dello scarto e della nuova solitudine. Dopodiché si dedicano al tempo libero e alle relazioni personali. Scompare insomma dall’orizzonte quotidiano, o meglio non compare mai, una dimensione del bene comune, della partecipazione a una comunità. L’individualismo come regola fa il paio con un altro aspetto che ho capito meglio viaggiando fuori dall’Europa, in particolare tra Colombia, Ecuador e Perù in America Latina e tra Etiopia, Senegal e Congo in Africa. Ovvero la burocrazia come mostro. Quando vai in un Paese cosiddetto in via di sviluppo ti confronti con realtà e movimenti sociali che si pongono di fronte alle sfide della realtà cercando di fare qualcosa di utile, di umano. Tante volte ti rispecchi nello slancio, riconduci quel problema a quanto di analogo succede “al tuo

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L’INDIVIDUALISMO COME RELIGIONE

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paese”. Ti chiedi allora com’è che non scattino gli stessi movimenti, la stessa efficacia di mettersi insieme e organizzarsi e creare qualche cosa. Intuisci che in passato è successo, che oggi non succede più. E cosa sgonfia regolarmente l’iniziativa sociale? La burocrazia come mostro, appunto. Altrove si possono fare delle cose: se tu hai un problema di bambini di strada puoi metterti insieme e organizzare uno spazio, un centro diurno, un’accoglienza, un dopo-scuola. Con una burocrazia che – nel bene e nel male – è infinitamente minore se non inesistente rispetto a quella che in Occidente interferisce in modo autoritario ponendoti innumerevoli limiti nel momento esatto in cui anche solo pensi di fare lo stesso. Nel confronto tra generazioni, questo dice molto del nostro Paese, di ciò che si muoveva prima e che si muove oggi. Chi ancora oggi porta avanti realtà sociali di rilievo ha iniziato in anni in cui se occorreva aprire un dormitorio o un doposcuola, sistemare una sede abbandonata o far fare del volontariato, lo poteva fare senza morire di burocrazia e adempimenti. Abbiamo accresciuto o lasciato crescere senza opporci i vitelli d’oro di igiene e sicurezza. Per la tribù nel deserto, il vitello è un bene prezioso; mentre il vitello d’oro si disvela come un idolo che tradisce l’alleanza fondante. L’individualismo dunque viene praticato anche come rifugio, per mettere una distanza tra sé e un sistema dove non solo sei sconfitto, ma che se ti esponi ti aggredisce. Le persone di buona volontà sotto i 30-

40 anni, con istanze anche radicali, si trovano spesso a praticare un individualismo di rifugio, per non farsi rubare almeno quella cifra di diversità che sentono propria, che hanno ricevuto, che hanno sviluppato nei primi anni di coscienza. Oggi la maggior parte dei cosiddetti giovani si ferma molto prima della possibilità di mettersi insieme, di reagire, di fare. Questo tipo di castrazione è anche burocratica: rinuncia a mettere in piedi qualcosa, tanto ti massacriamo subito. In più sei giovane, per decenni ti tocca una gavetta di precarietà, è già tanto se impari a stare a galla da solo nella vita. La mia è un’esperienza piccola, ma questa dinamica la riguarda da vicino. Il centro culturale dove abbiamo fatto vita comunitaria, così come altri percorsi di gruppo che abbiamo intrapreso, si è puntualmente deciso di tenerli fuori da forme istituzionalizzate, pur rinunciando a possibili finanziamenti, partnership, benefici organizzativi. Troppo grande la paura che slanci spontanei e radicali venissero compromessi da una burocrazia necessaria. Il terrore di trovarsi – da volontari – schiavi di adempimenti che distraggono dal senso di un’associazione, di esaurire presto ogni propulsione ad agire nella società e a forzare normative inique. Ma questa è già una rinuncia a mettersi su un piano più incisivo, più politico. Se mi ci metto mi cannibalizzano, allora non mi ci metto, sperando di poter comunque incidere, ma sapendo di rinunciare a molti strumenti e a un terreno riconosciuto e riconoscibile. Nell’idolatria crescente di sicurezza e igiene (feticci

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culturali oramai anche tra “i buoni”, tanto quanto “memoria e legalità”, come aveva ben delineato Luca Rastello), abbiamo introdotto e lasciato introdurre normative allucinanti in qualunque ambito dell’azione personale e sociale, per cui prendere l’iniziativa di fare intervento sociale (ma anche solo rilanciare e far evolvere iniziative sorte in passato) oggi è un’impresa (parola non casuale). Ci resta qualcosa del già esistente, percorsi nati quando si poteva fare tutto più spontaneamente, e che nel frattempo hanno messo su una struttura adattiva per gestire la parte legale, amministrativa e di risorse umane man mano che la normativa ha reso la vita impossibile. Ci resta insomma un ostico lavoro di adattamento più o meno attrezzato, ma la generatività è disincentivata al massimo. In questo contesto osserviamo realtà più vecchie che a volte si incontrano con movimenti più recenti. Ne racconto alcune.

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4 LA PARABOLA DI UNA FRONTIERA

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el 2015, con la crisi libica e l’aumento degli sbarchi dall’Africa, aprono in tutta Italia i centri di accoglienza straordinaria (Cas) e un arcipelago di iniziative collegate all’accoglienza e inclusione dei migranti. In quel momento comincio a frequentare la frontiera di Ventimiglia che è a due ore di treno da Genova e che si caratterizza perché la civile Francia (liberté égalité fraternité) comincia a militarizzare il varco e a respingere anche con metodi illegali persino i minori, le famiglie, le donne incinte. Ventimiglia, una piccola cittadina, diventa in breve uno dei centri europei di transito, con picchi di 1.500 migranti al giorno. Lo Stato non organizza nulla. La prima persona che apre un campo di accoglienza improvvisato è un prete, ma non un prete italiano. Don Rito è un prete colombiano che a sua volta da bambino è stato un rifugiato a causa della guerriglia delle Farc, nella zona del Catatumbo dove si coltiva la coca; porta ancora sulla pelle cosa vuol dire essere un rifugiato; ha anche respirato da vicino le teologie indigene e della liberazione, un impegno maggiore del cristianesimo nella politica 51

come difesa degli oppressi. Questo fatto, che sia don Rito il primo a mettere su un movimento di reazione pragmatica, rileva un aspetto che ho riscontrato spesso nella mia vita: il mondo cattolico è una di quelle realtà “un po’ strane” dove trovi di tutto, anche una vitalità militante. Proprio perché è una realtà sfaccettata, plurale. Il prete di cui parliamo in quel momento aveva meno di 40 anni e ha mantenuto punte di inventiva e di audacia in qualche modo sopravvissute all’omologazione (e castrazione) imperante degli ultimi decenni. Don Rito quindi apre un campo di emergenza nella parrocchia delle Gianchette a Ventimiglia per circa 1.500 migranti, lo tiene in piedi una catena di solidarietà e volontariato impressionante, finché dopo due anni la prefettura impone di chiudere tutto. Nel frattempo lo Stato italiano riesce a organizzare un campo attrezzato della Croce Rossa che però parte male, perché è fuori mano, separato dalla città (per rimuovere i poveri dall’abitato), e soprattutto lavora per regolarizzare le persone in Italia avviando la procedura di richiesta di asilo; in un posto dove ovviamente le persone sono in transito dalla rotta africana e dalla rotta balcanica per il resto dell’Europa, altrimenti mai si sarebbero spinte fin qui. Succede così che al Campo Roya vanno solo alcuni dei migranti in transito, mentre la maggior parte continua a occupare il greto del fiume sotto il cavalcavia dell’autostrada. Ho passato con loro una notte di Natale a meno 5 gradi, e ricordo un bambino di 2 anni che dava i calci a un vecchio pallone

sgonfio prima di andare a dormire. Per terra. All’aperto. Ad attivarsi per l’emergenza di Ventimiglia sono stati in contemporanea a don Rito alcuni centri sociali delle principali città del nord come Torino, Milano e Genova, gruppi di persone già attive in altre lotte (tanto che sulla frontiera alpina Bardonecchia-Claviere ho incontrato i NO TAV a fare i turni di monitoraggio su strada e in dormitorio) e qualche movimento più spontaneo fatto di studenti internazionali, che hanno creato dei collettivi (20K e Kesha Niya i principali) che si sono assunti l’onere di distribuire pasti caldi serali, fare assistenza legale, monitorare le violazioni ordinarie di diritti e allestire punti di ristoro e assistenza per i respinti. 20K è composto perlopiù di studenti universitari italiani, Kesha Niya di francesi, tedeschi, spagnoli. Tra questi ci sono persone che tuttora dopo 6-7 anni trovi ancora sul territorio, che hanno fatto una scelta di vita prendendo casa in loco o consentendo la nascita di presìdi stabili per accogliere nuovi militanti. Altri hanno dedicato tutte le loro ferie, i loro fine settimana, a una presenza su Ventimiglia. Bisogna poi raccontare la storia di un bar, anzi di una barista, Delia, l’unica non professionista né volontaria di qualche organizzazione ad aver deciso trovandosi vicino alla stazione di non impedire l’accesso al suo locale ai migranti. Il Bar Hobbit ha perso tutta la sua clientela storica e in cambio è diventato per anni il punto di riferimento di tutte le realtà umanitarie che

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lavorano sulla frontiera. Delia si è lasciata trasformare dalla realtà a costo di rischiare il fallimento commerciale. Ha dato continuamente l’opportunità di ricaricare i telefoni, ha aperto una stanzina con un fasciatoio e con le sue amiche ha messo su persino un guardaroba di abiti pesanti per le famiglie appena arrivate dal lungo viaggio. Apparentemente l’unica normale cittadina che ha avuto una reazione umana totalizzante rispetto ai fatti di Ventimiglia. Io stesso ho portato da lei decine di volontari e ho visto decine di gruppi scout andare a prendere un caffè per ascoltare la sua esperienza. La testimonianza di una minuta barista sessantenne, scena surreale e per me sempre commovente. Infine un ruolo importante per continuità è giocato dalla Caritas locale, la cui sede adiacente alla stazione è diventata da subito – e permane – un punto continuativo di assistenza legale, sanitaria, distribuzione mattutina di pasti e indumenti. Diretta da Cristian, un laico preparato e solido, la sede Caritas ha canalizzato l’energia di volontarie e volontari di estrazioni molto diverse, pensionati locali, gruppi genovesi, e anche donne borghesi delle cittadine francesi appena oltre il confine, schifate dalla situazione. È giusto fare cenno anche all’esperienza nota alle cronache del contadino Cédric Herrou e della rete di solidali della val Roya, pochi chilometri a nord di Ventimiglia, sulla cartina già Francia. Cédric e altri contadini si sono trovati in mezzo al transito dei migranti che da Ventimiglia tentano nei modi più pericolosi di

passare la frontiera, camminando nelle gallerie dei treni o sulla montagna scoscesa nel buio della notte. Solidali, hanno sempre reagito accogliendo, dando assistenza, ospitalità, generi di prima necessità, e pagandone le conseguenze a processo (ma sempre assolti). Da quell’esperienza sono nati metodi di lavoro contadino mescolato tra locali e migranti col desiderio di fermarsi, come la realtà di Emmaüs Roya oggi attiva. Mi sono dilungato nel mappare le forze che ho incontrato a Ventimiglia, un contesto piuttosto accessibile vicino a una grande città come Genova, alla direttrice per Torino e alla Francia (Nizza, Marsiglia), per mettere in luce quali realtà si siano attivate in un contesto che è nato come “frontiera calda” improvvisamente e da zero. Chi ha reagito? Chi si è organizzato? Perlopiù fasce giovanili, ma non solo; minoranze precise e motivate; mentre il resto della città e dei cittadini non si sono sentiti coinvolti neanche dopo anni di situazione emergenziale. E questo dice qualcosa dell’individualismo come norma. Chi reagisce oggi alle realtà concrete sono sempre meno delle componenti sociali, perché sempre meno persone hanno strumenti pratici di attivazione. È più facile che accada qualcosa online: denunce, petizioni, discussioni, riunioni, tutte cose che restano confinate al simbolico. Ma c’è un secondo problema. Come ho potuto monitorare tornando periodicamente sul posto a visitare le persone e le realtà, neanche dopo cinque anni le isti-

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tuzioni locali o nazionali sono riuscite a mettere a sistema le buone pratiche che spontaneamente e con grande fatica sono nate per rispondere alle esigenze del nuovo contesto di rotta migratoria. Nemmeno quelle realtà che hanno cercato un dialogo costruttivo con le istituzioni, senza contrapposizione più o meno ideologica, hanno visto nascere prospettive utili nel confronto con le istituzioni pubbliche. Prendiamo Delia e il suo bar. Ha dovuto chiudere a fine 2021, fiaccata da anni di solitudine e di ricatto economico. Uno Stato intelligente si sarebbe reso conto almeno a fatti compiuti di aver mancato nel dare risposte a una situazione emergenziale, di non aver creato percorsi di accoglienza strutturati e trasparenti, cosa che sarebbe convenuta a tutta la cittadinanza anche in termini di sicurezza, trasparenza delle spese, impiego delle forze dell’ordine. E uno Stato intelligente, rendendosi conto di aver latitato quando era il momento, qualche anno dopo, di fronte alle forze civiche che spontaneamente avevano reagito, avrebbe valutato come riconoscerne le esperienze e metterle in condizione di continuare a fornire il loro servizio. Delia ha cercato a lungo e inutilmente una soluzione al peso di un affitto insostenibile: 2.000 euro al mese per un buco di bar dove di fatto rendeva un servizio pubblico per i migranti in transito dalla stazione, ben più e ben meglio di un inesistente infopoint istituzionale. Uno Stato intelligente avrebbe proposto a Delia, in riconoscimento della sua iniziativa spontanea, un lo-

cale alternativo magari ancora più vicino alla stazione, dove potesse rimanere se stessa senza subire ricatti commerciali (ancora più pesanti al tempo del Covid), e forse oggi l’esperienza del bar Hobbit – il bar dei migranti e degli operatori dell’accoglienza – continuerebbe e costituirebbe un esempio di maturazione civica anche per il resto della cittadinanza. La parabola di Ventimiglia ci racconta che chi si attiva positivamente non solo non viene sostenuto, ma tendenzialmente viene intimidito, dal pubblico e dal privato: fogli di via ai primi attivisti nei presìdi di assistenza, lo sfratto all’infopoint di 20K, il processo a Cédric Herrou, l’affitto fatale del bar di Delia. Quando le buone pratiche rette dal volontariato dopo anni non sono messe a sistema, il risultato è che si disperde per esaurimento di energie e per vessazione un patrimonio di alleanze e di iniziative. Se uno Stato non è in grado a un certo punto di premiarti e metterti nelle condizioni di fare bene e meglio il tuo lavoro, di valorizzare la tua scelta sociale, il tuo ruolo, è disastroso, perché non distingue valore alcuno tra il cittadino che si adopera per il bene comune e quello che rimane confinato al proprio privato. Prendere l’iniziativa quando è necessario si confermerà socialmente come una brutta abitudine, deprecabile. Ci saranno sempre persone che lo faranno per passione e lo faranno fino a rimetterci tutto, o individui che camperanno sul fare assistenzialismo, ma le persone “comuni” troveranno conferma nella normalità del farsi

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gli affari propri. Così si cronicizzano le emergenze. Gradualmente negli ultimi anni tutte le realtà nate a Ventimiglia per fare fronte dal basso a un’emergenza nazionale sono andate a esaurirsi o ad arenarsi, anche solo per stanchezza. Quelli che potevano diventare processi e percorsi rodati, efficienti, utili a una società più sicura e più benestante, sono stati abbandonati al logoramento. Lo stesso don Rito è stato trasferito dopo qualche anno dal vescovo, forse a causa di una eccessiva visibilità mediatica del “suo” parroco, e sostituito con un parroco che ha abolito qualunque iniziativa parrocchiale che avesse a che fare con i migranti. Ciliegina sulla torta: nel 2019 lo Stato ha deciso di chiudere il campo attrezzato della Croce Rossa senza rimpiazzo, come a decidere che da un momento all’altro Ventimiglia non era più un luogo di transito di migranti. E così cento persone al giorno dormono nascoste per strada o sulle colline: donne, bambini, famiglie; nonostante le azioni di advocacy portate avanti dalla società civile per chiedere la riapertura di un luogo ufficiale attrezzato. Se non si riconoscono mai le energie migliori, predomina la maggioranza indifferente e individualista – capace di indifferenza perché individualista –, che non prende iniziativa né si coinvolge in iniziative altrui, nemmeno quando ha un problema in casa propria e tutti gli strumenti per dare un contributo umano e renderlo sostenibile per tutta la comunità.

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5 SI TRAMANDA DA POCHI A POCHI

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a seconda chiave di lettura necessaria è il titolo di un vecchio libro di Goffredo, Da pochi a pochi. Ancora oggi, nonostante le possibilità di comunicazione e di interazione siano tante quante non ce ne sono mai state nella storia umana, si tramanda solo “da pochi a pochi” la capacità di organizzarsi e intervenire socialmente con un certo slancio, un certo sguardo critico sui sistemi dominanti e le strutture di potere, una certa efficacia pratica che non si nasconda dietro l’attivismo da tastiera. Questa capacità non è scomparsa, non è irraggiungibile, nelle pratiche si tramanda, ma non è diventata di massa, non si insegna nei corsi universitari, non entra nelle modalità educative di alcuna agenzia sociale. E la capacità di organizzarsi e intervenire presenta oggi più che mai due esiti possibili: si può arenare sull’incapacità di far crescere altri, e quindi sull’autoreferenzialità, oppure può essere una trasmissione feconda tra minoranze, che bene o male fa sopravvivere alcuni modi di intervenire e di stare nei territori in mezzo a stili di vita sempre più omologati. Sono rari i passaggi storici in cui l’incisività dei “pochi” informa le masse al punto di ottenere dei 59

cambiamenti a livello sistemico. E la restaurazione del potere si è attestata sempre dietro l’angolo della Storia. Il mondo di Libera, associazioni, nomi e numeri contro le mafie, con i campi estivi sui terreni confiscati alle mafie, è un esempio di quelle realtà che coinvolgono un grande numero di giovani. Ma per quanto sia un movimento in piedi ancora oggi con diverse punte di efficacia e di incisività, da vicino ci si accorge che vive perlopiù di rendita: le persone che lo animano, che imprimono le prassi di coinvolgimento nella vita pubblica e nella politica, sono spesso le stesse che lo hanno fondato, che lo hanno diretto e che ancora lo dirigono. Non sono i giovani che ne fanno esperienza, con le dovute eccezioni. Eppure, avendo creato degli ambienti di riferimento sul territorio (in particolare nel desertificato Mezzogiorno), il movimento ha permesso che vi trovassero spazio anche alcune realtà più giovani, che respirano e apprendono un certo modo di fare intervento sociale e di stare sul campo. Ad esempio c’è tutto un mondo di giovani del Nord che spesso hanno solo questo canale per fare una prima esperienza di vita nelle realtà del Sud (non da turisti) e che si aprono così a toccare con mano l’azienda agricola, il caseificio, il centro educativo nati sui beni confiscati, respirando per qualche settimana un certo coinvolgimento nella vita pubblica di un altro pezzo d’Italia, completamente diverso dal proprio. Questo produce ripercussioni sulle scelte di vita di al-

cune persone, che a partire da queste esperienze in quanto pratiche di contaminazione e non accademiche, possono trovare qualche buon maestro e iniziare a elaborare una scelta di vita più motivata e concreta del semplice inseguire un impiego. L’altro esempio simile nella mia esperienza è quello di Agesci e dello scautismo in Italia, altra galassia che si fonda su ottimi modelli pedagogici e culturali, dove oggi capita di trovare tutto e il contrario di tutto, e i cui membri ho però sempre incontrato sul campo nel corso dei miei viaggi tra frontiere e periferie. Tra i giovani, sono gli scout quelli che trovi a fare regolarmente esperienze di servizio in posti come Ventimiglia, Oulx, Lampedusa, Scampia o campi Rom. Sono gli scout che distingui numerosi in uniforme alle manifestazioni contro i decreti Salvini. Esiste una capacità propulsiva di contaminazione e passaparola all’interno della galassia Agesci, dove anche contesti esposti politicamente diventano una destinazione educativa plausibile per gruppi di ragazzi minorenni. Pur con tutti i suoi limiti e le sue omologazioni, lo scautismo rimane un movimento molto fertile nel trasmettere una propensione all’intervento sociale anche oltre i confini e le forme associative (limite tipico di tanti movimenti). Non è un caso che il mondo scout e, più in generale, quello del cattolicesimo sociale siano stati centrali nella nascita dell’esperienza di Banca Etica, così come dei Gruppi di Acquisto Solidale, e sappiamo bene quante poche siano le iniziative di alternativa al mer-

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cato dominante che si traducono in scelte politiche, economiche e istituzionali “non spot” alla portata della vita media delle famiglie borghesi. Qualcuno dirà che lo scautismo produce anche i Renzi della situazione, come negarlo? Ma qui è chiaro come ci interessi vedere dove si generano e da dove prendono le mosse ben altro tipo di iniziative giovanili e di movimenti sociali. Le pratiche d’azione emergono insomma in piccoli gruppi, anche quando afferenti a “galassie” più ampie. Abbiamo davvero pochissimi riscontri di movimenti massicci di azione pratica antisistema. Anche nelle realtà organizzate che propongono strategie e linee di intervento su grandi numeri, la traduzione in qualcosa di più di iniziative simboliche o retoriche è sempre cosa di pochi, forse anche perché il “sistema” dominante non tollererebbe una messa in discussione troppo diffusa.

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6 CHI SA ORGANIZZARE I POCHI

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ealtà nazionali come Libera, Agesci, ma anche l’Arci, l’Anpi e così via, presentano dunque una caratteristica: sono perlopiù trainate e in mano a ultracinquantenni. Per fortuna coinvolgono su valori seri e hanno un impatto sui ventenni. Però chi mantiene il traino di quel modello organizzativo e d’azione lo ha imparato praticandolo almeno 30 anni fa, in un altro mondo. Ciò che nasce oggi, come si organizza? Anzi: si organizza in qualche modo? L’esperienza più recente di sufficientemente ampio respiro che possiamo individuare è quella di Fridays For Future, una galassia giovane ed ecologista del nuovo millennio dietro il simbolo di Greta Thunberg e dei suoi scioperi per il clima. Ho un’amica che è stata per anni la referente locale del movimento, favorendone la nascita, e che a un certo punto ha risposto positivamente alla richiesta di entrare nel coordinamento nazionale. Un altro amico qualche anno fa aveva co-fondato il gruppo locale delle Sardine. Entrambi in brevissimo tempo si sono visti togliere il tappeto sotto i piedi da persone più adulte che hanno 63

annacquato lo slancio, approfittando dell’inesperienza dei più giovani, imponendo vecchi schemi dell’associazionismo organizzato e rovinando il clima di fiducia e di radicalità che ne faceva dei movimenti di giovani. Senza con questo intendere che i più giovani siano certamente capaci di organizzare un movimento dalla sfida così ampia. Al di là degli aneddoti personali, è risaputo che entrambe le realtà, nel momento in cui l’aspettativa collettiva era maggiore e premeva affinché si strutturassero e potenziassero il loro intervento, si sono arenate in maniera incomprensibile. Spesso a causa dell’ossessione del controllo da parte di un gruppo dirigente: come controlliamo che i gruppi locali non dicano cose che compromettono l’immagine del livello nazionale? Come controlliamo la comunicazione pubblica? Come certifichiamo chi è dei nostri e chi no? Le Sardine sono scomparse dall’orizzonte, mentre Fridays For Future, bruscamente interrotto dalla chiusura delle piazze per il Covid, sta faticosamente cercando formule più incisive per riconnettere e manifestarsi. E in alcune circostante ci riesce (l’arresto di Greta Thunberg in azione contro l’estrattivismo in Germania è segno di una evoluzione del movimento), grazie alla convergenza con altre realtà locali e mettendo al centro sempre collegate tra loro più giustizia climatica e sociale. Ma in generale sommovimenti significativi recenti pare non riescano a organizzarsi veramente. Realtà più

piccole riescono almeno a fare dei tentativi concreti. Poi ci sono realtà a cavallo tra il passato e il presente. Libera effettivamente permette ogni anno a centinaia di giovani di vivere esperienze di sostanza, concrete, che collegano pezzi di Italia e risvegliano le coscienze. Negli anni alla lunga ha continuato a offrire un terreno di concretezza e di contaminazione, instillando una cultura dell’intervento antimafia tramite pratiche sociali. In certi territori, queste iniziative sono autogestite e organizzate da gruppi di ragazzi, senza padrini e senza preti. In casi come questo, una realtà “contenitore” ha un impatto interessante, consentendo a piccoli gruppi che sanno abitarla con intelligenza e autonomia di realizzare interventi significativi sui territori. Caso diverso ma dall’esito simile: molte persone attive sul tema migranti sono state incoraggiate ad adottare una sana radicalità dall’esperienza di Mediterranea, la nave di salvataggio varata da Arci nel 2018 insieme a un’ampia rete di associazioni. Al di là della nave in sé, sono stati bravi gli equipaggi di terra a fare attività a tappeto su tutto il territorio per attivare giovani e professionisti nella lotta per l’accoglienza in mare e alle frontiere. Mettere a nudo la politica migratoria di tutta Europa andando a fare di persona delle missioni di salvataggio è stato uno degli atti più radicali che possiamo registrare negli ultimi anni a opera di una manciata di organizzazioni europee. Un vero e proprio

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sputtanamento del sistema che ha impattato sulla gestione politica e mediatica dei flussi migratori. Quando anche i tribunali devono dare ragione ad atti di disobbedienza civile così esposti, perché esiste un diritto del mare che prevale su norme disumane, è chiaro che l’attrattiva all’azione per giovani stanchi di una società impantanata si risveglia. E ho presente diversi giovani medici che in questi canali hanno trovato modo di attivarsi. Rimane ancora lontana la traduzione politica di queste esperienze. Spesso non si verifica neanche una traduzione in rete sociale, come quelle che potevano formarsi qualche decennio fa. C’è la sensazione diffusa che toccare la politica equivalga a compromettere la propria radicalità di idee e slanci, impelagarsi nella burocrazia e nella finzione e condannare il proprio percorso a una deludente conclusione. E il dramma è che questa sensazione è ampiamente fondata e spesso poi confermata dai fatti. Capita la formazione di liste civiche di buon livello, specialmente in occasione delle amministrative, capaci di rottura, coinvolgimento della società civile e visioni innovative, ma che partono depotenziate proprio dalla mancanza di strutture professionali, risorse economiche e legami di influenza col mondo imprenditoriale. A organizzarsi sono ancora, qualche volta, gruppi protagonisti di occupazioni: penso agli spazi liberati di Napoli, un fenomeno di occupazione e rilancio negli ultimi dieci anni di numerosi e grandi luoghi abban-

donati in centro città. Esperienze interessanti e non elitarie, che comunicano con i quartieri e i loro residenti, condotte da gruppi giovani ma spesso anche da volontari di ritorno. In entrambi i casi parliamo di nicchie di persone che ovviamente non rappresentano la società di massa, ma che hanno saputo coniugare e attualizzare le espressioni e le esigenze di più mondi. Il collettivo Vedo Terra a Genova è un esempio ancora più recente. Gruppi come questi fanno il gesto di rompere le retoriche e organizzarsi fisicamente attorno a spazi territoriali, da cui si cerca di generare nuove opportunità di partecipazione, confronto, contaminazione col territorio e con le reti virtuali, amplificazione di lotte esistenti. Osservo con curiosità l’emersione di alcuni movimenti come Extinction Rebellion e la sua costola oramai autonoma Ultima Generazione. Per averne ospitato una presentazione al nostro Centro Banchi, sono stato bersagliato per giorni dalla Digos come se dessimo asilo a dei terroristi. Questo mi ha fatto alzare le antenne. La disobbedienza civile applicata da questi gruppi come metodo cosciente e storicamente fondato, la lettura della crisi climatica in chiave drammatica gridando i milioni di morti che ci causerà, quindi la ricerca di giovani “disposti a tutto” per azioni di disobbedienza civile non violenta improntata a blocchi stradali ed economici, sono fatti positivi che non si vedevano da tempo nei movimenti giovanili trasversali. Nello scontro-confronto con le istituzioni Extinction

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Rebellion punta a ottenere la formalizzazione di “assemblee di cittadini”, sorteggiati e preparati, che possano affrontare le crisi “glocali” senza essere corrotti o influenzati dal sistema politico-finanziario strutturato. La radicalità mira dunque a un surplus di democrazia, che corregga gli attuali malfunzionamenti del sistema. Non per autoritarismo ma per allargamento di partecipazione. Questo è un fatto non scontato e opposto alle tendenze delle destre populiste. Va infine detto che molte cosiddette reti, movimenti d’opinione, istanze della società civile, oggi naufragano in partenza, dopo aver partorito un unico evento significativo che per un giorno penetra la coltre mediatica. Non sono raccolti e sostenuti da nessun altro contenitore sociale solido. Perdono slancio ed efficacia arrovellandosi attorno al bisogno di organizzarsi, di occuparsi di tutto, di accreditarsi a livello istituzionale partecipando a mille iniziative simboliche, salvo abbandonare la promozione di nuove azioni radicali. Molte realtà, a fronte della complessità di scegliere pochi obiettivi concreti e metodi efficaci per perseguirli, si accontentano di concentrare la loro voce e la loro presenza sugli strumenti digitali, riducendosi all’ennesima pagina Facebook sul tema. Non maturano, non si trasformano e non arrivano nemmeno a incanalare le energie raccolte in esperienze esistenti che possano portarle avanti sul piano pratico o politico.

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7 IL COLPO DI CODA NEL MONDO CATTOLICO

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ome ho raccontato, nella mia personale storia di esplorazioni ho trovato stimoli importanti in quel che rimane dei “cattolici del dissenso”, quella fetta di cristianesimo impegnato prioritariamente nella giustizia sociale che ha sempre manifestato apertamente posizioni critiche rispetto alle rigidità e alle sovrastrutture dell’istituzione ecclesiastica romanocentrica. L’incontro con realtà di questo genere ha suscitato in me il desiderio di salvare quel Vangelo di strada, quel cristianesimo sociale e democratico che ha permesso a diverse comunità nella Storia di emanciparsi dalla logica del precetto religioso, della rivendicazione ideologica o del proselitismo; realtà e persone di animo libero e solidamente ancorato, capaci di aprire di volta in volta processi significativi, comunitari, di frontiera rispetto ai sistemi dominanti e alle appartenenze stereotipate. E in fondo anche di dare la vita, ben oltre il calcolo razionalistico dell’efficienza, del consenso, della vittoria o della sconfitta. Sempre meno persone lo ricordano e pochissime hanno modo di saperlo oggi, ma la Chiesa italiana ha 69

avuto nel secondo Novecento tutto un movimento di Comunità di Base e di realtà ecclesiali conciliari, a volte nate da parrocchie, a volte attorno a gruppi o personalità carismatiche, che ispirate dalle omologhe esperienze latinoamericane hanno animato la contestazione all’imperialismo culturale vaticano e al cattolicesimo clericale, hanno sdoganato le celebrazioni comunitarie e hanno sperimentato forme di parrocchia orizzontale, attiva politicamente sul territorio. Un contributo da ristudiare oggi nel bel mezzo del fallimento delle aggregazioni comunitarie convenzionali, dentro e fuori la Chiesa. Pur tenendo memoria di tutti i limiti che le Comunità di Base hanno avuto: una persistente fatica a trasmettere e rigenerare la propria esistenza, sicuramente anche a causa dell’azione repressiva della chiesa ufficiale; molte di esse si sono spesso auto-isolate o arenate sulla scomparsa dei fondatori carismatici; e tante realtà rimaste in seno alla Chiesa cattolica hanno annacquato nel tempo la loro capacità di contestazione e di rinnovamento. Se è difficile oggi attribuire iniziative di rilievo a molte di queste realtà, è facile però individuare singole personalità e progetti (anche interni alla Chiesa cattolica) che grazie a questo tipo di percorsi sono oggi in prima linea in tanti ambienti civili e sociali. Grazie a una sensibilità molto vicina da parte dei miei genitori e di vari loro amici, sono cresciuto leggendo notizie e racconti di questa chiesa di strada, tra comunità di base, preti da marciapiede, curiose alle-

anze valoriali e politiche capaci di aprire squarci su un cattolicesimo democratico e un socialismo cristiano. Quel mondo che si riconosceva minoritario mi ha affascinato al punto che me lo sono esplorato, letto, cercato, intervistato, vissuto sulla pelle e provato a replicare in certe forme. Di quel mondo rimane oggi una manciata di ottantenni che non ha avuto apparentemente ricambio, anche perché la secolarizzazione ha colpito in generale tutto il “religioso”. Già 15 anni fa Carlo Maria Martini diceva: preoccupiamoci che i giovani non criticano più la chiesa, vuol dire che siamo irrilevanti per loro. Che non ci tengono a una chiesa evangelica, di frontiera. Il suo Conversazioni notturne a Gerusalemme è stato fondamentale per me tanto nell’approccio ai dubbi della fede quanto nella critica dall’interno alla Chiesa, e per finire nella prospettiva di un dialogo fondamentale con i mondi religiosi del Medio Oriente e dell’Islam europeo. Quel mondo conciliare che si può tratteggiare come una vera e propria galassia ha lasciato strascichi e declinazioni interessanti, parlo di luoghi, comunità, gruppi, pratiche e approcci culturali, che non sono morti e anzi hanno seminato vitalità laddove la società tutta è andata inaridendosi e svuotandosi. Il tentativo odierno della chiesa di Papa Francesco nell’attivare un cammino sinodale trasformativo, che riparta dalla partecipazione dal basso, è interessante perché di fatto è un passaggio applicativo del Concilio Vaticano II che solo oggi trova modo di riprendere il cammino (e forse

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è già troppo tardi, ma forse non lo è mai, per entità così ampie e sfaccettate). Lo scautismo, come ho già osservato, conserva ancora personalità, gruppi, consuetudini di attivazione sociale e politica. Molti gruppi scout sanno fare concretezza e sanno fare pensiero critico. Sono loro che trovi sui beni confiscati, sono loro che trovi in val di Susa, sono loro che vanno a fare i campi sulle frontiere e a insegnare la vita all’aperto nelle nostre spopolate aree interne. Hanno voglia e abitudine a muoversi e a fare esperienze come metodo educativo, prima che a parole. Hanno mantenuto anche una certa autonomia dal clero e capillarità ecclesiale. Dallo scautismo prendono forma in modo diretto o indiretto piccole rivoluzioni civili, cooperative sociali di ogni genere, esperienze antimafia, civiche e politiche. Tutto il mondo missionario, maschile e femminile, ha anch’esso mantenuto vive e centrali le pratiche di frontiera, oltre a una sana distanza dalle derive formaliste e moraliste della Chiesa. È un mondo di persone abituate a collegare continenti, a vivere tra povertà e ingiustizia, a rischiare la pelle e a fare azione politica e sociale come priorità. Non teme troppo di prendere iniziativa e sfrondare le rigidità ecclesiastiche. Vive di persone serie, empatiche e radicali perché si basa su scelte di vita, quindi ha molti più anticorpi alle mode e agli stordimenti di turno. E potrei continuare a lungo con esempi sempre più parcellizzati e casistici. Il punto da inquadrare – e su

questo ci incontriamo con Goffredo – è che il mondo cattolico va tenuto in ampia considerazione perché continua a ospitare fortissime contraddizioni. Qui spesso è più evidente una certa lotta di classe tra una minoranza che cerca di capire e di intervenire nel mondo con più giustizia e una maggioranza che aggrappandosi a formalità e burocrazia del sacro di fatto difende sistemi di potere, sistemi che fanno di tutto per manipolare ancora questa maggioranza. Un movimento per inquietare “contro” uno per anestetizzare. Da oltre dieci anni mi muovo su e giù per l’Italia anche grazie ad appoggi e ospitalità in questo strano mondo ecclesiale, che mi permette di conoscere pezzi di Paese da un osservatorio sempre diverso rispetto a quello turistico o a quello delle professioni. Qualcuno mi ha chiesto come mai mi sia trovato bene da ventenne e poi trentenne a bazzicare queste realtà, che per i più sono l’immaginario del “vecchio” e del “fuori dal tempo”. Il fatto è che quasi solo lì ho trovato una serie di persone con uno stile di vita sganciato dal consumo e dall’accumulo, dall’individualismo familiare o dalla separazione ideologica tra vita lavorativa e vita privata. Quando una comunità vive tra le altre cose una dimensione spirituale sincera, è difficile che vi si possano annidare dei soli mestieranti e funzionari della vita; le persone che hanno fatto scelte di vita verso alcune cause non si lasciano rinchiudere mentalmente sul portare a casa lo stipendio, organizzarsi il tempo libero e l’intrattenimento, coltivare la propria famiglia in modo

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individualista. Quando incontro chi a partire da un rapporto spirituale con la vita ha scelto di vivere a Scampia, di lavorare nei campi rom, di proteggere un parco nazionale, di costruire scuole in Africa, sento che c’è dietro un intero modus vivendi “missionario”. Che trovo estremamente affascinante e motivante e che penso oggi non sia più vincolato a percorsi gioco-forza confessionali/ecclesiastici, ma invece a processi che sono alla portata di chiunque, ancora meglio se in piccoli gruppi, e se calati in contesti di emarginazione esistenziale. Il mio percorso deve molto alla forza rivoluzionaria e intima del Vangelo. Non posso negare né provare vergogna di aver tratto grande nutrimento interiore da un rapporto costante con questa Parola. Proprio a partire dal Vangelo ho sviluppato un forte anticlericalismo verso l’istituzione gerarchica e credo che le due cose siano inseparabili, come è inseparabile la messa a morte di Gesù per mano e per volere della casta sacerdotale con cui pure si era sempre voluto relazionare. Dunque per me valorizzare oggi quelle componenti significative del mondo cattolico non significa tacere su tutte le cose inaccettabili che ancora ci porta l’istituzione ecclesiastica (come le religioni in genere). D’altra parte, ignorare completamente questo mondo significa buttare a mare con superficialità e arroganza una galassia di persone e di comunità che di fatto “lotta insieme a noi” (in un tempo in cui ci sentiamo sempre meno e sempre più impotenti) e che ha molto da inse-

gnare su scelte di vita generosamente donata, e su una “ecologia integrale” dell’essere umano. Anche tra le scelte di vita propriamente religiosa – sempre più esigue – rimane un grande valore. Nel Congo, dove mi reco da qualche anno, entrare nelle suore francescane o saveriane o dorotee è una eccellente via di emancipazione femminile, in quanto consente di studiare, sottrarsi a un sistema patriarcale spietato e potenziarsi come operatrici sociali stabilendo pure dei contatti e degli scambi con altri paesi africani e altri continenti. Esser consci di questo non vuol dire che il percorso di fede sia fasullo o pretestuoso. Ci sono casi e casi. Ma ho incontrato persone che in un dato contesto esprimono tutta la forza della scelta religiosa come la capacità anche interiore di vivere un sistema combattendone le ingiustizie dominanti e sottraendosi alle sue dinamiche annichilenti. Il cattolicesimo maturato in Amazzonia, mescolato con le tribù indigene, è interessantissimo nella sua capacità di recuperare la saggezza millenaria sulla Madre Terra, che si fonde con la cifra rivoluzionaria di vivere il Vangelo anche politicamente. È un cattolicesimo di micro-comunità in aree vastissime, spesso guidate da donne, che si ritrova per lo più da solo ad arginare il neocolonialismo selvaggio. L’arrivo di Papa Bergoglio poteva essere una messa a sistema di una parte di chiesa a lungo ostracizzata e bollata come “poco ortodossa”, quando forse era la più evangelica e la meno clericale, ma scomoda per i

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poteri forti. In parte questa legittimazione è avvenuta (penso al ricchissimo confronto del Sinodo sull’Amazzonia, che si può ritrovare nel documento finale dei Vescovi). Ma è un arrivo tardivo, purtroppo per noi; oramai non ci sono neanche più le persone che possono prendere in eredità certe responsabilità. Una certa stagione militante della chiesa conciliare ha retto finché ha potuto ma è tramontata anche sotto i colpi di una restaurazione vaticana che ha innalzato muri e diffidenze su tutti i percorsi di riforma. Le persone giovani che avrebbero voluto o potuto raccogliere il testimone si sono nel frattempo allontanate perdendo spazio e familiarità con il mondo ecclesiale. La nuova stagione “francescana”, che avrebbe saputo coinvolgere molti fino a ieri in conflitto con l’autorità, arriva oggi in una Chiesa il cui svuotamento di energie, talenti, presenze è quasi completo. Quantomeno in Europa. È uno dei motivi per cui molti dei cosiddetti cattolici praticanti Papa Bergoglio non lo capiscono, e alcune frange hanno potuto soffiare sulla teoria complottista che sia un impostore. È comprensibile. Nessuno le ha mai sensibilizzate sull’evoluzione delle teologie latinoamericane, indigene, della liberazione, di una fede incarnata come impegno politico per gli oppressi, e la ri-concezione della Madre Terra come Creazione. Si trovano davanti un Papa che parla di movimenti popolari, casa terra lavoro, che fa interventi politici, che combatte la corruzione interna, che dà più

peso al discernimento che al precetto morale. Sono linguaggi che molti “cattolici” non capiscono, parole chiave che non hanno mai associato al cristianesimo. Anche per questo è fondamentale continuare a restare in relazione con ciò che da questo ampio contenitore si palesa di più significativo, non solo e non più tanto in Italia, ma osservando gli altri continenti e i flussi migratori, per stringere alleanze e resistenze nel mondo di oggi.

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erza chiave di lettura: tra le nuove generazioni si riscontra un diffuso slancio verso il sociale. E non solo in ambienti che lo favoriscono, ma spesso anche a partire da famiglie borghesi individualiste, dunque uno slancio sincero. Consci dei problemi strutturali, estranei a una mentalità assistenzialista, molti ragazzi sono desiderosi di formarsi su un intervento sociale serio, che diventi anche stile di vita. Al contempo i più non hanno gli strumenti critici per farsi un’idea del sociale, di cos’è stato e di cosa dovrebbe essere. Quindi è molto alto il rischio di manipolazione, di decisioni impulsive, di esperienze in cui si rimane scottati. Lo slancio iniziale si trova presto nel “pantano” di un sociale che raramente è ben organizzato e offre del lavoro dignitoso. Raramente propone un percorso di crescita e di maturazione, molto più spesso cerca bassa manovalanza per coprire progetti funzionali a prendere il malloppo di soldi del bando di turno, con parte dei quali ripianare i propri bilanci. L’esito di questo sociale-pantano è bruciare molti giovani nella manovalanza spicciola e nello spostamento frenetico da un servizio all’altro, come fosse la stessa cosa occu-

parsi di donne vittime di tratta o di persone senza dimora, di educazione o di disagio mentale. In queste condizioni non può compiersi una trasmissione di valori né una formazione graduale e mirata. Creare cose nuove è praticamente impossibile, domina uno stanco “bisognerebbe fare...”, e si corre. Perché il sociale è un pantano? Prima di tutto perché col declino dello Stato e del Welfare si trova davanti non situazioni da supportare ma enormi lacune strutturali dove sostituirsi alle istituzioni. Impresa titanica per la quale non è attrezzato. Poi per la burocrazia che lo ammorba; e terzo, perché è piuttosto degradato il sistema di selezione delle competenze, di retribuzione e di organizzazione del lavoro. Molte persone dopo qualche anno di esperienze si rassegnano a una amministrazione dell’ordinario, o cercano di riciclarsi in qualche realtà più strutturata, o abbandonano del tutto una scelta di campo e si buttano sul primo concorso nelle ferrovie o in comune con l’obiettivo almeno di sistemare l’emergenza lavorativa per poi costruirsi una vita oltre il lavoro. Oggi vediamo una percentuale altissima di ingressi di giovani nel mondo della scuola, spesso come ripiego da precedenti percorsi falliti in partenza. Dov’è lo spazio per una formazione dedicata alla scuola, alle differenze tra pedagogie, per evitare che queste persone assecondino in maniera acritica il sistema che si trovano davanti con le sue lacune gigantesche? È vero che alcuni giovani formatisi sul sociale possono essere ri-

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GIOVANI TRA DESIDERIO E PANTANO

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sorse preziose anche nella scuola, ma senza un percorso che li rimotivi rischiano di bruciarsi una seconda volta, schiacciati negli ingranaggi di un sistema che li prende alla sprovvista e li soffoca in un’altra fetta di burocrazia degenerata. Non si può tacere anche il fatto che il sociale sia diventato perlopiù privato e perlopiù aziendale. La riforma del terzo settore sta compiendo il traghettamento del no-profit a una logica comunque imprenditoriale, e ne vediamo già le conseguenze con piccole realtà condannate ad alzare le braccia per i troppi adempimenti, mentre grandi compagini fanno man bassa estendendo i loro servizi e i loro standard in altri settori o in altre città, perché favorite nel presentarsi a grossi bandi. Da alcuni anni vivo a stretto contatto con una casafamiglia, una vera casa-famiglia a conduzione familiare. Da qui si osserva bene come il panorama delle famiglie affidatarie e di questa forma di accoglienza dei minori in difficoltà sia in affanno, e come sia stato politicamente e culturalmente minato nel tempo, in poco tempo, lasciando dei vuoti enormi che ricadono alla fine sull’accoglienza di minori in forte stato di vulnerabilità e abbandono. Una forma del sociale che poteva essere una scelta di vita per molte persone, con un’alta qualità del servizio offerta a molti bambini, è stata svuotata a favore di strutture e istituti che ci riportano alla triste logica delle realtà-orfanotrofio. Anche queste sono minori opportunità di esistenza per giovani, in questo caso giovani famiglie e giovani educatori.

Tra i giovani che si attivano nel sociale, nell’educativo e nel sanitario, diversi provengono da una certa borghesia illuminata i cui esponenti hanno un passato da obiettori di coscienza, sono cresciuti nel cattolicesimo sociale o nella sinistra militante. Ma non solo. Ci sono anche figli del mondo consumista, delle famiglie spezzate, del benessere fine a se stesso, che per rigetto della realtà cercano un senso in altri stili di vita. Già prima del lavoro, questi giovani faticano a formarsi. L’università spesso teorica e anonima non soddisfa quasi nessuno e non propone concretezza né cambiamento. L’ossessione dello stage, del servizio civile o delle prime esperienze lavorative naufraga nella pura manovalanza, ben poco edificante. È raro l’accesso a percorsi lavorativi dignitosi, stabili ma anche di crescita. Il che va di pari passo con una generazione abituata alla volatilità delle cose, per cui nel disorientamento e nella solitudine si cambia tanto per cambiare. Un anno all’estero, un tirocinio qui, un viaggio, un lavoro qua, uno là. Cambi repentini, horror vacui, poca fiducia in sé e nella propria utilità, quindi poca iniziativa creativa e audace. Ho accennato ad amiche e amici medici che si sono attivati nel periodo dei salvataggi in mare da parte delle Ong. Parliamo di medici ancora in specializzazione, che si sono assunti delle responsabilità gigantesche e si sono ritrovati attaccati pubblicamente, con tutto lo strascico emotivo e psicologico che ne consegue. Ho trovato in loro una fortissima motivazione, e in seguito

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un grande disorientamento quando, proseguendo nel loro percorso, sono entrati in qualche ospedale, messi a fare la prima cosa che capitava nell’ottica della manovalanza o dell’adesione acritica a un sistema pachidermico. Tanto grande la motivazione e dedizione in occasioni di “frontiera”, quanto la delusione alle prese con il sistema ordinario. Questo mi fa dire un’altra cosa: il sociale in senso lato diventa “pantano” anche nel non saper fornire una forte motivazione di vita e di impegno alle nuove leve, seduto sui suoi processi ordinari e impolverati. Un sociale stanco e inerziale è pantano esistenziale allo stato puro. Frustrare il desiderio genera esodo interiore.

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9 PROFESSIONE CITTADINI DEL MONDO

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bbiamo frotte crescenti di validissimi “cittadini del mondo”, ricchi di esperienze interculturali e di versatilità, ma privi di reti di relazioni continuative, di una base territoriale e comunitaria dove costruire e mettere a frutto questa ricchezza. È un cane che si morde la coda: trovare gruppi di appartenenza attivi e affidabili è complicato, tutto cambia sempre velocemente, e ci si dedica (e abitua) presto al cambiamento continuo, senza riuscire più a legarsi a un ambiente. Per molte persone le reti digitali svolgono il ruolo di colmare questa mancanza di comunità di appartenenza, danno l’illusione di costruire qualcosa di grande, una storia di cambiamento e di relazioni, ma senza mai condurre a convertire il proprio stile di vita e senza un vero impatto su una realtà particolare del mondo. Un modo più sottile di vivere da spettatori, o di cambiare e agire solo da individui. Negli ultimi decenni è cresciuta la possibilità di andare all’estero e fare esperienze, sia a livello di mezzi che di disposizione d’animo. Abbiamo nuove generazioni che vivono con estrema facilità da cittadini euro83

pei e del mondo attraverso gli erasmus, le università, i placement, gli stage, corsi e master. Fare esperienza “fuori” dal proprio cortile esistenziale apre allo sconfinamento culturale e aumenta le contaminazioni e le possibilità, ma non dobbiamo abdicare a uno sguardo critico anche su quello che sembra un puro valore, e non mi riferisco alla cosiddetta “fuga dei cervelli” che pure esiste e aumenta l’impoverimento di fette enormi di territorio. Mi riferisco prima ancora al fatto che si enfatizza la “mia” esperienza, l’individualità e la personalizzazione esponenziale del percorso di crescita, dove l’incontro con realtà e persone diverse mi arricchisce, ma mi ritrovo adulto senza una comunità di riferimento o un progetto continuativo di società. Nonostante le potenzialità del digitale contro l’isolamento culturale e sociale, rimane vero che il territorio, la porzione di persone di cui ti prendi cura e con cui stai costruendo qualcosa di continuativo, ti rende capace di creazione, generatività e cambiamento collettivo radicale. Questo “nomadismo” slegato da una prospettiva comunitaria diventa un’arma a doppio taglio. Andare continuamente di esperienza in esperienza arricchisce, fa maturare molti giovani come persone nella loro potenzialità e apertura all’umanità. Però al contempo li rende rinunciatari a coltivare una comunità come punto di riferimento. E le comunità hanno bisogno di tempo per generarsi, diventare, maturare, per avere come esito anche un impatto sulla realtà (il sociale come desiderio, appunto). È vero che

abbiamo conosciuto la potenza di reti globali (pensiamo ad Avaaz, ad alcune campagne di boicottaggio commerciale o di pressione politica, a Fridays For Future), ma stiamo anche conoscendo la reale poca consistenza degli strumenti di pressione che hanno questo genere di movimenti “da remoto”. Possono certamente contribuire a fare opinione e cultura, ma non interventi. E restano comunque facilmente manipolabili dalla spaventosa concentrazione della proprietà editoriale e mediatica dei “big” del digitale. Va fatta un’eccezione per vere e proprie cellule di sabotaggio digitale come Anonymous, ma lì si sconfina nell’intervento illegale (e a suo modo violento) come metodo di base. La mia impressione è che il potere di organizzarsi sia ancora molto temuto. Forse per questo in nessuna agenzia educativa, in nessun contesto, neanche nel mondo del lavoro viene insegnato come auto-organizzarsi in maniera efficace. Io continuo ad assistere a reti sociali o politiche con persone di qualunque età che fanno riunioni infinite completamente senza metodo per poi partorire topolini dell’intervento sociale. Non si è capaci di attivare modalità di confronto non noioso, inclusivo e produttivo, che non faccia perdere tempo ai volenterosi e che riveli un esito pratico, radicale. Non si impara a unirsi e superare l’ipercriticismo che trasforma le alleanze in competizioni indebolendo le battaglie reali. L’avvitarsi su se stessi eletto a metodo dal mondo del sociale, del volontariato, dell’impegno

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civico non solo non ha prodotto risultati neanche minimi nell’arginare un sistema spaventosamente forte, ma ha continuamente portato al fallimento ogni nuovo movimento o movimentazione in partenza. Questo l’ho visto accadere qualunque fosse l’età, l’esperienza e la cultura di attivismo sociale delle persone in gioco. Tali lacune nella capacità di organizzarsi, cooperare in gruppo e tradurre in azione fanno nascere in me il sospetto che vi sia una precisa volontà soggiacente al nostro tipo di democrazia e di società economica: quella che le persone non possano divenire troppo autonome e troppo efficaci nel prendere iniziativa.

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10 IL LAVORO CHE NON TIENE

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costo di sembrare insensibile, elitario o di venire accusato di non aver mai sperimentato la durezza dei lavori cattivi né della disoccupazione disperante, vorrei poter partire dal fatto che oggi, molto spesso, il problema vero non è quello del lavoro, ma di “quale” lavoro. Non dell’occupazione ma del “senso” dell’occuparsi. Non della precarietà ma della possibilità di vivere e crescere. Non devo inventare nulla, specialmente alla luce di certi studi e certe inchieste post-pandemia. E non intendo neanche fare un’analisi del mondo lavorativo oggi. Vorrei sottolineare alcune questioni che ritengo significative, anche per esperienze personali e osservate in varie zone d’Italia. Solitamente si citano come dati preoccupanti l’aumento dei “neet”, giovani che non studiano né cercano lavoro, e la situazione di precarizzazione del lavoro in quel che resta dell’Italia industriale e aziendale, dalle vecchie fabbriche d’auto e acciaierie fino al moderno Amazon. È importante osservare come il fenomeno dei neet riguardi le generazioni che hanno avuto più possibilità, risorse e benessere nella storia umana. Può bastare la giustificazione che a questi giovani la società 87

offre molto meno di quanto offriva ai giovani degli anni Ottanta? Io penso di no. Incontro giovani fortemente attivi e adattivi perché hanno respirato forti motivazioni ideali nella loro crescita, e giovani spenti e autoreferenziali che sono rimasti intrisi dei luoghi comuni della cultura capitalista: devi trovarti un lavoro e una posizione sicura, mettere da parte i soldi, essere indipendente dagli altri, goderti la vita, farti una famiglia. Quando manca il coinvolgimento in una comunità d’appartenenza, quando manca un senso forte per il bene comune o per mettersi a servizio di una realtà che ti interpella profondamente, quando si misura la propria vita in successi, consensi, piaceri, basta davvero poco per trovarsi interiormente alla deriva. E persone che hanno avuto tutte le possibilità non sanno da che parte girarsi per dare senso alla propria vita e intraprendere un percorso scelto per passione. Eppure, sotto la coltre ci sono enormi energie sopite. Me ne sono accorto con l’alluvione del 2011 a Genova, quando ci siamo materializzati in strada in migliaia tra i 15 e i 25 anni, una gioventù variopinta e generosissima, quotidianamente invisibile nella città, men che mai a servizio spontaneo di una causa comune. Le emergenze disvelano ma dovrebbero anche attivare processi civici e politici conseguenti, per valorizzare energie ignorate. Chissà quanti di quei giovani sporchi di fango e con la pala in mano oggi hanno scelto di partire per l’estero.

Nel mondo del lavoro operaio e bracciante ancora si creano delle forze propulsive in difesa dei diritti o contro le peggiori porcate finanziarie di delocalizzazione e sfruttamento. Dalle situazioni di invisibilità e dignità violata, che vanno dai braccianti agricoli del Sud, ai rider, ai lavoratori dell’e-commerce, si arriva alle prese di posizione politiche dei portuali contro le navi cariche di armi che transitano dai nostri porti, destinate ai peggiori teatri di guerra del mondo. A Genova ho avuto esperienza diretta della lotta dei portuali del Calp per chiedere il rispetto della legge 185 del 1990, che imporrebbe all’Autorità portuale di disporre dell’elenco di carico delle navi che attraccano, e di rifiutare lo scalo a chi trasporta armamenti destinati a paesi in conflitto. Legge che a Genova come in altri porti italiani viene regolarmente violata con il passaggio in particolare delle navi saudite. Una battaglia di sabotaggi e azioni simboliche che ha coinvolto anche altri porti e che persino Papa Francesco ha più volte elogiato come esempio di etica e organizzazione dei lavoratori, costretti a sentirsi complici di commerci disumani. Non ho particolari esperienze dirette di quanto si muove nei mondi del lavoro aziendale, ma ci tengo a riportare quanto dice sugli “Asini” Giovanni Peduto raccontando il volume Le imprese recuperate in Italia di Calcagno-Mazzone, una sorta di guida informativaesperienziale per il recupero cooperativistico da parte di gruppi di lavoratrici e lavoratori.

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“È a partire dai resti, dagli scarti del capitalismo contemporaneo che si costruisce il fenomeno delle imprese recuperate. Lavoratori più o meno politicamente attivi, che si trovano dinanzi alla necessità brutale di dover portare ‘il pane a tavola’, dopo che, di punto in bianco, le catene del valore si sono spostate altrove, chiudendo il sito di produzione dove essi lavorano: è questo il perenne punto di partenza. Decidono dunque di mettersi insieme e prendere in gestione l’impresa appena fallita, condividendo speranze, sogni e, talora, profondi percorsi umani. Tuttavia, non è solo la stringente necessità a spingere i lavoratori a recuperare le imprese, ma anche un forte senso identitario e un positivo giudizio di valore circa la propria attività lavorativa”. Serve dire che esperienze di riappropriazione del lavoro, di conversione etica di quest’ultimo, di ritrovato mutualismo tra lavoratori, esistono e vanno conosciute nella loro pluralità. Da quelle limitate a un fattore di necessità e sopravvivenza di famiglie, a quelle che recuperano una profondità politica e collettiva facendone nuova bandiera. L’esempio del collettivo di fabbrica Gkn di Firenze dove i lavoratori hanno controproposto un piano industriale alternativo è molto interessante, per la dinamica ancor più che per il suo sviluppo. Perché come dicono i lavoratori “forse, anzi quasi sicuramente, falliremo. Ma anche sotterrati, saremo semi”. La pandemia ha messo in luce per molte persone

che la qualità della vita deve essere legata alla qualità del lavoro, per quanto stabile e qualificato sia; ovvero che lo smart-working, possibile da diversi anni ma solo oggi – e non dappertutto – sdoganato, non è la soluzione perfetta e universale, ma può essere una modalità per molte persone di restare o tornare a vivere in territori cosiddetti “minori”, in particolare nel Mezzogiorno (il movimento giovanile South Working in Sicilia), potendo così nutrire delle comunità che si davano per morte, utilizzando a loro beneficio le competenze di cui nel frattempo si sono arricchite. Se migliaia di persone concepiscono l’opzione di vivere in piccoli nuclei e connettersi con reti di scambio e di lavoro attraverso tutto il Paese, abbiamo la concreta possibilità di veder rinascere comunità locali a misura d’uomo, che si erano sfracellate nell’urbanizzazione selvaggia e anonima delle metropoli “che non dormono mai” e del pendolarismo obbligato. I pro e i contro possono creare discussioni infinite, ma occorre secondo me lavorare sulla possibilità e sulle esperienze in corso. Il mondo del lavoro non può continuare a non considerare la vita e la crescita delle persone, la dimensione sociale e politica dell’impatto aziendale, l’impronta e la cultura ecologica dei suoi processi. In troppi casi ci si imbatte in realtà lavorative che hanno innovato gli strumenti e i macchinari ma mantengono una cultura della catena di montaggio senza occuparsi della crescita umana e sociale delle persone. Esistono movimenti differenti, esperienze differenti, ma occorre

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che chi ne ha la forza contrattuale faccia la sua parte per indurre un’evoluzione in troppe realtà che ancora misurano il mondo con parametri senza prospettiva. Rifiutare certe condizioni e certi processi, porne come condizioni sine qua non degli altri alternativi, per chi ne ha la forza diventa oggi un imperativo.

11 LA DISOBBEDIENZA SI RIMETTE DI TRAVERSO

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o seguito con interesse l’avvio della campagna Ultima Generazione, una serie di azioni di crescente intensità principalmente rivolte al Governo nazionale, costituite da giovani che in maniera non violenta bloccano strade strategiche, fanno scioperi della fame per essere ricevuti da alte cariche dello Stato, o conquistano la visibilità mediatica degli appelli per il clima irrompendo in musei di rilevanza mondiale. Inizialmente all’interno del movimento Extinction Rebellion, il movimento che in Gran Bretagna ha guadagnato le prime pagine bloccando per un giorno tutti i ponti di Londra contro il climate change e l’inerzia dei governi, Ultima Generazione rivendica al centro delle proprie azioni la disobbedienza civile. E trovo molto interessante che gruppi esigui di giovani, spesso sotto i 25 anni, motivati, nel presentarsi in giro per l’Italia si rifacciano esplicitamente ai metodi di protesta adottati dai neri negli Stati Uniti contro la segregazione e in altre battaglie di inizio Novecento. Pongono come chiave di lettura della lotta odierna un ragionamento molto semplice: la crisi climatica è su di noi; non abbiamo più tempo per le iniziative di sensi-

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bilizzazione; non abbiamo più tempo per la “spinta gentile”; scientificamente sappiamo che nei prossimi anni avremo milioni di morti e devastazione in tutti i paesi del mondo; a questo punto, tutti coloro che sono disponibili a fare qualunque cosa di non violento – sicuramente una minoranza, ma motivatissima – vengano con noi a fare gesti plateali e di disturbo crescente, finché le istituzioni non inizieranno ad attuare gli impegni già presi (e a ora mai rispettati) negli accordi sul clima e nei trattati ufficiali. Questo movimento emerge appena dopo la grande frenata di Fridays For Future, che sembrava dovesse essere il movimento del secolo ma è stato presto rallentato in parte dal Covid, che gli ha tolto le piazze, in parte secondo me anche dalla difficoltà di passare subito a sistemi di azione più radicale e organizzata. Perché nelle realtà “di massa” c’è tanta paura di fare azioni radicali, e di scontentare i propri cari. Lo strapotere del consumo compra praticamente tutto. Gli stili di vita, il modo di lavorare, perfino i bandi per il sociale e il modo in cui si riqualificano pezzi di territorio oggi dipendono dai grandi patrimoni e dai grandi trend del capitale. Vedremo probabilmente succedere la stessa cosa con i fondi del Pnrr. A Genova l’esperienza di questi anni è che ogni volta che si deve riqualificare qualcosa si fa un centro commerciale, attorno al quale si aggiungono i giardinetti per i bambini, la ciclabile e qualche aiuola verde. È il modello di tutti i progetti di riqualificazione: basarsi sul

consumo e su opere megalitiche per spartire molto più denaro del necessario; stringere alleanze mortali con i colossi privati per avere successo laddove il budget pubblico non potrebbe arrivare. Dobbiamo accettare come dato di fatto che il potere del consumo è la religione del nostro tempo. È il Matrix da cui non possiamo fare uscire molte persone, spesso neanche noi stessi, perché è continuamente e sottilmente vincolato e vincolante alla necessità di vivere, operare, collaborare, costruire, relazionarsi; persino morire oggi prevede preventivi di spesa e acquisti di mercato. In un contesto del genere, con l’apparato mediatico saldamente accentrato in grandi multinazionali, è impensabile poter condurre a cambiamenti radicali un ampio numero di persone. Per questo le pratiche del movimento Ultima Generazione (e altri affini) devono suscitare un interesse e credo un’adesione da parte di chi ne ha la forza e la coscienza. Perché ricorrono alla disobbedienza civile e non violenta per inceppare e far inciampare il flusso quotidiano delle masse. Colpiscono lo scorrere lavorativo routinario di chi si muove nelle grandi città per denunciare la crisi e l’impatto che essa ha e avrà sulle vite di tutti. Rendono reale, tangibile, che quello di cui non ci stiamo seriamente occupando va a inceppare la nostra vita quotidiana. E non c’è più la possibilità di infischiarsene. Credo realmente che questa oggi sia l’unica via per scuotere coscienze ampiamente addestrate e comprate, pur con le migliori

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intenzioni e giustificazioni. E credo che questo agire scomoderà e irriterà molti sedicenti progressisti indottrinati dal politicamente corretto e allergici ad approcci conflittuali (pur non violenti). Anche questo è un atteggiamento da inceppare e costringere su un piano di coerenza e onestà. Cosa oggi è più ingiustificabile? L’inazione politica che colpirà milioni di vite o l’azione non violenta di disturbo e boicottaggio di pochi giovani a volto scoperto?

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12 TRACCIARE INEDITE MAPPE E ALLEANZE

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oltando lo sguardo alle nostre aree rurali, ci sono piccoli gruppi di persone che cercano di cambiare per sottrazione. Se non lo puoi cambiare per contestazione perché è troppo forte, talvolta un sistema lo puoi affrontare sottraendoti alle sue influenze e dipendenze. Credo con convinzione che questo sia il senso e l’esito di quei micro-gruppi di persone che da qualche anno tornano alle campagne, a fare i nuovi contadini, a tentare di inventare piccole comunità o progetti di auto-sussistenza, dove il centro appunto diventa il mutualismo, la comunità, la vita rurale, magari tenendo insieme delle reti più ampie. Non è una forma di eremitaggio, anche se comporta delle rinunce drastiche alle possibilità della vita urbana. Forse non risponde neanche a quell’urgenza di mettersi insieme per cambiare le cose, che dovrebbe essere prioritaria. Però credo vada letta come una via di cambiamento: rispetto a un sistema così forte, così affermato, quelli che si sottraggono e ricavano nuovi luoghi franchi dove ricominciare con altri stili di vita diventano dei punti di riferimento per altri che vo97

gliono fare la stessa cosa. Chi frequenta i gruppi social dedicati a ecovillaggi e forme di cohousing ha la percezione di queste migliaia di persone che si informano, si raccontano, cercano opportunità e informano altri che vogliono uscire dalla città, intorno all’esperienza variopinta di comunità sganciate dai grossi sistemi economici e sociali ritenuti “la normalità”. Proprio perché c’è questa frammentazione, di fatto le mappature e le narrazioni sono più difficili. Un esempio interessante è il lavoro che ha fatto in questi anni il portale “Italia che Cambia”, esperienza nata da un gruppo di giovani che anni fa si sono detti: come si fa a raccontare un cambiamento che non è fatto da movimenti come in passato, ma da piccoli gruppi e a volte da singole scelte? Ne è nata una piccola redazione che ha cercato di inventare un modo di narrare e di mappare questa Italia che già realizza cambiamento, intercettando e dando voce all’interno di una visione questo tipo di esperienze che tengono insieme slanci sociali, politici, ambientali, umani e rurali. Mappe che aiutano anche proprio a visualizzare quelle che oggi sono alleanze insolite che si creano tra realtà che magari un tempo non si parlavano e di per sé non si concepiscono come contigue. Un buon antefatto a questo genere di mappatura è il docufilm Unlearning girato e prodotto nel 2015 da una famiglia di Genova, particolarmente incentrato su modelli educativi alternativi al sistema dominante. Un racconto che non offre giudizi ma apre

visuali e mette a confronto modelli possibili, invisibili ai più. Nella liquidità di questi mondi, nelle galassie delle città dove si trova tutto e il contrario di tutto, bisogna essere oggi più capaci di stringere alleanze con quei “pezzi” simili a te non per matrice, ma in quanto vanno nella stessa direzione. Al Centro Banchi, nel famigerato 2020, ci siamo trovati a essere fra i primi in Italia a riaprire l’università in presenza, perché abbiamo stretto rapporto con un’antropologa che voleva tenere due seminari di antropologia e antropologia medica, per aiutare studenti ma anche altri docenti e cittadini a rileggere quello che stavamo vivendo. Per tre mesi una trentina di persone si trovavano due pomeriggi a settimana, nel salone di una vecchia chiesa, per delle vere e proprie lezioni universitarie. Quando ci siamo confrontati sull’avvio di questo esperimento, la professoressa ha sottolineato come non si sarebbe mai aspettata di stringere una simile alleanza. “Questo è un periodo storico in cui a fronte di situazioni emergenziali e imprevedibili si creano alleanze assolutamente inedite, ed è proprio questa la potenzialità da cogliere”; le realtà da cui ti aspetti le prese di posizione magari tacciono, mentre il cambiamento può passare per altre vie inattese. Bisogna essere pronti allora a guardarsi attorno e trovarsi con chi ha gli stessi slanci, le stesse reazioni a un accadimento storico, e non aver paura di stringere alleanze insolite perché spesso sono la cosa più innovativa che

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ci possa capitare. Nei movimenti contadini c’è in realtà un grande ritorno della politica e ci sono delle realtà che si stanno ponendo la questione di cosa chiedere alla politica, a partire dalle proprie esperienze pratiche concrete (ad esempio organizzare un mercato o gestire un emporio o una cooperativa). Si pensi al lavoro della Rete per la sovranità alimentare dell’Emilia-Romagna. C’è il rischio che a fronte di un sistema troppo forte da cambiare i movimenti giovanili esprimano “opzioni di retroguardia”? È una domanda importante che Goffredo mi ha posto più di una volta. Ovvero il sospetto che alcuni modi di “sottrarsi al sistema”, come per esempio un certo ritorno alla terra di comunità di giovani, non siano delle vere e proprie attivazioni politiche ma piuttosto delle “opzioni di retroguardia”, dove ci si dà per sconfitti sul terreno politico e quindi ci si trincera in una piccola realtà intimistica dove ricostruire un ambiente favorevole. Questo in parte forse sta accadendo. Anche se non lo leggerei come sconfitta bensì come maturazione della coscienza: si è visto nel corso dell’ultimo secolo che alcuni cambiamenti strutturali del vivere occidentale non si possono perseguire sui grandi numeri, ma solo sulle piccole comunità. Qualche anno fa ho recensito per “Gli Asini” il libro Colonia Cecilia di Afonso Schmidt, che racconta come alla fine dell’Ottocento un gruppo di anarchici italiani fondò una comune nello Stato del Paraná (Bra-

sile), una vicenda con cui hanno dovuto confrontarsi generazioni di utopisti, fino al ’68 e oltre. Dalla lettura di un’esperienza cent’anni più vecchia di me, ho capito che già da molto tempo chi coltiva certi ideali sociopolitici di cambiamento arriva al punto di mettere in pratica “nel piccolo”, perché solo così può ambire a ricostruire un contesto sociale alternativo da sperimentare sulla propria pelle. Il fascino della concretezza è oggi più forte che mai su certe persone, figlie di un percorso di consapevolezza. Se un tempo si prendeva in giro l’umanista definendolo “braccia rubate all’agricoltura”, oggi sono spesso proprio i pensatori più lucidi e competenti a raggiungere la consapevolezza che “ci si salva” tornando a zappare la terra, a veder nascere e crescere una pianta, a nutrirsi con l’uovo della gallina. Ci sono cose che restituiscono un senso tangibile del vero e del concreto, a fronte di un mondo artificioso e artificiale dal quale siamo resi dipendenti. E chi fa la scelta radicale di cambiare stile di vita, spesso è colui che fino al giorno prima passava dieci ore al giorno davanti a uno schermo.

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utto il mondo transfemminista e dei movimenti LGBTQ+ è da citare quando si parla di movimenti giovanili, una galassia particolarmente ravvivata negli ultimi dieci anni, che ha preso in carico il tema dei diritti civili e dell’identità di genere. Ne ho avuto solo alcune esperienze dirette, e ho notato quante persone anche giovanissime si siano attivate, soprattutto ragazze, attraverso i vari collettivi, movimenti e singole manifestazioni; penso alle espressioni del movimento Non Una Di Meno, o dei vari coordinamenti arcobaleno in molte città. C’è una partecipazione anche molto radicale che punta a una liberazione culturale e formale. È vero che da decenni sono in ballo processi politico-normativi per l’affermazione di alcuni diritti, però la parte più pura di questi movimenti (quello femminista per un verso e quello LGBTQ+ per un altro) rivendica una rivoluzione culturale, spinta dall’urgenza di affermare una normalità che riscriva linguaggi, atteggiamenti, pensieri, giudizi, espressioni artistiche e organizzative, fino ad arrivare alle riforme e alle tutele di legge. È sicuramente uno dei mondi oggi da esplorare, senza timore di attraversarlo anche con occhio critico.

Consente a molte persone di aprirsi all’attivismo, rompere dei tabù sociali e familiari, riversando energie e creatività su temi validi e urgenti. Mi domando se in alcuni casi questo attivismo vada insieme a un senso di sconfitta su tutto il resto dell’impegno sociopolitico. Cioè: parto dando per scontato che un cambiamento strutturale della società non è possibile, e che l’unico attivismo che conta è quello per i diritti civili. Laddove si creasse questo cortocircuito, potrebbe esserci il rischio di non riuscire a vedere altre battaglie prioritarie se non quelle afferenti a parità e identità di genere, sempre e comunque, mentre una società che non evolve anche sotto altri aspetti non sarà certamente terreno fertile per i diritti in generale. Oggi ci stiamo rendendo conto purtroppo che anche i diritti possono essere reversibili, e che un ripiegamento politico verso l’estrema destra apre prospettive di retromarcia prima impensabili. Nonostante quanti ancora pensano in cuor loro che le espressioni popolari legate ai diritti civili siano spesso “esagerate” nelle forme e nei contenuti, bisogna essere grati a questo ampio processo di protagonismo – femminile da un lato, LGBTQ+ dall’altro – perché ha saputo in relativamente pochi anni scardinare tabù profondi ed entrare nella dialettica delle famiglie, delle generazioni, delle scuole e dei media, producendo in diverse fasce della popolazione una reale apertura culturale e una coscienza prepolitica. Ecco, credo che persone e personalità esponenti di questi mondi più sono in grado di coniugare radicalità, costruzione di una

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IL MONDO VITALE DEI DIRITTI CIVILI

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rete trasversale e intersezionalità delle lotte politiche e culturali, più renderanno un servizio alla società odierna e alle nuove generazioni.

14 L’UNIVERSITÀ, UN PROBLEMA CRONICO

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a poco di moda tra le generazioni più giovani, ma la stessa domanda del “che fare?” di fronte a quanto succede oggi nel mondo e nel nostro paese non può esimersi da una critica serrata dell’università. Non lo si dice mai, ma enormi responsabilità per un panorama giovanile spesso acritico, apolitico, incapace di auto-organizzarsi e criticare ferocemente il sistema si deve a una università che ha sbiadito la sua essenza. Per le fasce più abbienti delle nuove generazioni laurearsi è ormai da tempo uno step scontato perché “lo fanno tutti”, un passaggio obbligato della crescita più che una scelta motivata. Per le fasce più deboli è qualcosa di inavvicinabile ed evitabile in virtù di una immediata necessità di lavorare, senza alcuna proposta per aumentare in altro modo il proprio capitale culturale. Il clima che si respira in molti atenei è quello di un’azienda che produce voti e diplomi di laurea preconfezionati. La relazione diretta con il professore sparisce quasi ovunque sui grandi numeri, ci si imbatte in docenti che per anni ripropongono le loro quattro slide a prescindere da chi hanno davanti, senza mai

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personalizzare un minimo la didattica o dare spazio a processi creativi interattivi. Tanto è vero che in tutti i contesti di crisi che vive la società raramente emerge la voce dell’università. Capita di sentire qualche singolo docente, ma una mobilitazione sociale condotta dalla tale università non si sente mai, eppure dovrebbe essere l’ambiente in contatto con le persone più capaci di analizzare la realtà, di leggere i processi, di formare criticamente e aprire dibattito, facendo le pulci al sistema sociale. In questo panorama si trovano comunque ancora mobilitazioni studentesche interessanti. A Genova nel 2021 è nato un nuovo collettivo di universitari, sorto attorno all’occupazione del Dipartimento di Scienze della Formazione, credo l’unica occupazione in Italia a livello universitario in quel difficile anno. Un piccolo movimento pragmatico che ha rotto il silenzio dicendo basta alla “pagliacciata” della didattica a distanza, perché l’università deve vivere di presenza ed era in ogni caso l’unica realtà con gli spazi adatti a organizzare il distanziamento. Invece, chi ha iniziato l’università nel 2020 (i ventenni di oggi) non ha mai visto per due anni un compagno di corso, non ha potuto sviluppare quelle relazioni di corridoio e di cortile che vanno al di là della mera didattica formale, ma fanno spesso la crescita sostanziale di una coscienza. Il collettivo Vedo Terra fin da subito attraverso gli eventi nella facoltà occupata ha proposto di “unificare le lotte”, creando convergenze con i precari del mondo del lavoro, con i

portuali che boicottano le navi armate, con alcuni docenti che hanno mantenuto un ruolo di veri educatori e promotori sociali. Da quella esperienza sono nate anche alcune denunce molto concrete a un modello di università sempre più orientato alle aziende e alle lobby private. È il caso a Genova di Strategos, corso di laurea in ingegneria strategica basato su partnership importanti come quella con Leonardo, la prima azienda europea in classifica per ricavi da vendita di armi, come riporta “Nigrizia”. Importanti anche le decine di piazze studentesche sorte tra gennaio e marzo 2022, in occasione delle tragiche morti di Lorenzo Parelli e Giuseppe Lenoci avvenute durante l’alternanza scuola-lavoro. L’esplosione di rabbia ha permesso di fare arrivare istanze tutt’altro che generiche alla politica nazionale. Contro il continuo indebolimento del sistema di istruzione, l’aziendalizzazione delle scuole, l’utilizzo improprio delle restrizioni antipandemia, con esiti disastrosi sulla didattica, e l’assenza generale di una visione dialogata sul futuro dell’istruzione italiana. Una cosa però è certa: l’università di oggi non produce classe dirigente ma in buona parte servi di sistema. Discepoli dei professori secondo il sistema obbligato delle carriere. Servi dei dogmi del capitalismo, nei requisiti di collocamento e competitività delle aziende. Mentre una classe dirigente di nuovi cittadini ha bisogno di sperimentarsi in pratiche sociali e politiche.

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he fare, tenendo conto di tutte le masse di persone che vivono con altri criteri, che vanno in altre direzioni da quelle che noi desideriamo? Che cultura passa e come farne passare Altra? Più drastico ancora: cosa fare con queste persone che più o meno consciamente finiscono per nutrire i sistemi di disuguaglianza, ingiustizia, indifferenza sociale? Sottrarsi da certi sistemi è un conto, però abdicare al bisogno e alla possibilità di interagire con il resto della società, anche per provare a “fare cultura”, è qualcosa che non si può affrontare con leggerezza. Non perché diamo per scontato di avere qualcosa da insegnare alle folle, ma perché ci sono molte persone che non hanno avuto l’opportunità di prendere coscienza dei sistemi in cui sono immerse e delle alternative che potrebbero desiderare, che è una cosa ben diversa. E ci sono persone che anche di fronte all’evidenza della realtà non prendono coscienza, per cui ancora oggi la storia si ripete. Un esempio su tutti: le dinamiche che subivamo noi migranti italiani in America, ben fotografate dai sociologi della Scuola di Chicago, sono ancora le stesse che negli ultimi vent’anni

hanno orientato le politiche sulla sicurezza in Italia. Se la balla dell’“invasione” viene sbandierata ancora oggi in campagna elettorale (ma durante il Covid e l’emergenza rifugiati ucraini è stranamente scomparsa dal discorso politico) significa che ha ancora un pubblico. Neppure nell’epoca della massima comunicazione, della massima scolarizzazione, del massimo accesso a strumenti di informazione e interazione, riusciamo a imparare dalla storia dell’altro ieri. Quindi dove vogliamo andare? Intravvedo una potenzialità forse ancora difficile da “abitare” che è quella dei nuovi canali culturali. Un esempio molto semplice: nel mondo delle serie Netflix e affini che ora è il pane quotidiano di tantissime persone, puntualmente escono serie e docufilm che fanno cultura su alcuni aspetti etici globali con una efficacia di format e di contenuto impensabile sui media tradizionali, perché la narrazione funziona meglio anche a livello emotivo. Cowspiracy e Seaspiracy sono documentari che hanno permesso a migliaia di persone di aprire gli occhi sul disastro ambientale e sociale dell’alimentazione a base di carne e pesce nel globo. Oppure Orange Is the New Black rispetto alla situazione delle donne nelle carceri degli Stati Uniti. SanPa in Italia ha risvegliato discussioni sepolte (o mai conosciute) in fasce d’età diversissime sull’approccio alle tossicodipendenze. Forse bisogna riuscire ad abitare questi strumenti spingendoci dentro contenuti che facciano cultura in

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ACCETTARE L’ANALFABETISMO DILAGANTE

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maniera un po’ più intelligente del normale intrattenimento, perché chi si muove oggi su queste piattaforme ha un’attitudine maggiore a lasciarsi interpellare e incuriosire da narrazioni che svelano dinamiche collettive e contesti sociali poco noti, duri, anche feroci e complessi. Ovviamente non basta, però sono spazi potenzialmente alternativi e complementari a un sistema educativo faticosamente da ripensare. Faticosamente da ripensare, già: spesso mi chiedo come sia possibile che generazioni di adulti che hanno potuto studiare, molti fino all’università, siano così manipolabili su certi temi. Pensa se non avessimo avuto la scuola. Come fare fronte a questo grande problema delle classi dirigenti e delle democrazie incompiute? Riprendo ancora la mobilitazione di Extinction Rebellion (XR) a livello europeo: una delle principali richieste di questo movimento ai governi è l’istituzione di assemblee di cittadini (già sperimentate in alcuni Paesi), che loro declinano in maniera molto concret. La democrazia rappresentativa così com’è ha vistose lacune di partecipazione, non solo nella selezione di classe dirigente, ma rispetto al fatto che le classi dirigenti nel tempo si incancreniscono e creano influenze malsane, corruzioni, dipendenze. Allora in ogni città e anche a livello nazionale servono – dicono loro – delle assemblee dei cittadini che siano sorteggiati in maniera assolutamente equilibrata per rappresentare tutte le tipologie di popolazione, di età, genere, ceto, prove-

nienza, e che poi abbiano una minima formazione iniziale su come confrontarsi e prendere decisioni su tutta una serie di questioni contingenti. Un modo teorizzato di far alternare “gente comune” non collusa nelle istituzioni. Ovviamente parliamo di strumenti che possono essere tutto e il contrario di tutto, a doppio taglio, con diverse derive. Però la cosa che ho trovato promettente è che invece di rispondere alle crisi del momento come fanno altri movimenti o altre personalità, cioè con la ricerca di un uomo forte, un ente più forte, una legge più forte, XR sta portando avanti come risposta un tentativo concreto di allargamento della partecipazione democratica di base, per colmare rappresentatività e responsabilizzazione.

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e seconde generazioni – ovvero i figli dei migranti – sono un grande interessantissimo punto di domanda e insieme una realtà che il nostro Paese ha la fortuna di avere in sé. La percezione che ne abbiamo – mi pare – è ancora molto superficiale, da “fragili spavaldi” come dice Ongini su un numero degli “Asini” di qualche anno fa: “c’è un paese, l’Italia, cioè la sua classe dirigente, che non crede e non investe nell’integrazione dei figli degli immigrati perché ne ha un’idea superficiale, burocratica, difensiva, ‘sociale’ quando va bene. Una classe dirigente e una burocrazia ottusa che non sa e non studia (penso più a questo che non alla furbizia di ‘gli immigrati non portano voti’) e che è peggiore di quella di vent’anni fa. Non sa del potenziale innovativo del plurilinguismo degli immigrati, dei vantaggi per tutti derivanti dal confronto con altre idee di scuola, dalla maggiore spinta verso l’istruzione e fiducia nel futuro da parte di alcuni gruppi di immigrati”. Ma cosa possiamo dire dal punto di vista dei movimenti giovanili e della militanza? Come si muovono e si organizzano, se lo fanno, le seconde generazioni, e

come questo ci dà degli spunti sulla militanza da cercare e promuovere oggi nei nostri ambienti di riferimento? Ci sono alcune premesse da porre: evitare il pregiudizio italiani forti/immigrati deboli, innanzitutto. Per esperienze vissute, adattamento, interculturalità e motivazione, spesso le seconde generazioni hanno più forza e più determinazione. D’altra parte, anche “tutti gli immigrati sono buoni” è un pregiudizio, e dico “buoni” ovviamente non in senso morale ma in senso “dalla nostra parte” a livello di militanza sociopolitica. Un Paese che politicamente e culturalmente non ha investito sull’inclusione, quindi sulla formazione anche culturale dei nuovi cittadini, sbatterà la testa sulle conseguenze di una componente sociale che ha avuto meno possibilità di studiare, formarsi una coscienza civica, essere protagonista della vita associativa e politica. La ghettizzazione si paga, la costrizione a vivere in condizioni di grande precarietà e impoverimento si paga, così come la spinta unilaterale alla professionalizzazione non accompagnata da una crescita culturale. Lo vediamo quando, per fare un esempio, troviamo persone immigrate o di seconda generazione che diventano promoter della Lega, del Salvini di turno o dell’ultima guerra tra poveri. Non ho esperienze dirette da poter condividere – ho più a che fare con richiedenti asilo e migranti di prima generazione – ma un’osservazione generica e qualche incontro, come può essere esperienza di tanti.

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L’INCOGNITA DELLE SECONDE GENERAZIONI

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Ho seguito con interesse ad esempio alcune espressioni dei movimenti sindacali dei braccianti, li trovo iconici di quella che dovrebbe essere considerata oggi la “sinistra”. Non una sfilata di alti borghesi che campano di politica da generazioni e dicono di portare “valori di sinistra”, ma il nuovo sottoproletariato che parte dagli ultimi della catena, gli invisibili, e che oggi è fatto di categorie costrette a vivere nella semilegalità, men che mai accolte nella cittadinanza politica. L’altra faccia della medaglia dei braccianti sono gli studenti di seconda generazione che manifestano per lo ius soli nella Rete G2 (la campagna “L’Italia sono anch’io”). Lotte importanti ma forse non ancora abbastanza forti, nonostante aumenti sempre più la visibilità di giovani sportivi, artisti, musicisti che rilanciano questi messaggi. Il tempo dirà se certe questioni razziali e xenofobe saranno riassorbite dai fatti – come a volte sembra quando si ha a che fare con le nuovissime generazioni. Il calciatore nella nazionale, il musicista sul palco di Sanremo, la giovane atleta alle olimpiadi ci stanno abituando a definire e guardare come italiani i nuovi cittadini, nonostante ancora qualche leader politico tenti (con sempre maggiori imbarazzi pubblici) di creare polemica arringando un elettorato retrogrado e nostalgico di una presunta “identità pura” (mai esistita, per fortuna). Sono però convinto che molto di ciò che si muove in questo mondo sia difficilmente individuabile e in-

quadrabile da chi guarda al tessuto sociale con le categorie dei decenni passati. Un’occhiata alla pagina Facebook #italianisenzacittadinanza mi conferma questa idea. Siamo in un’epoca completamente differente, dove la società multiculturale si mescola alle dinamiche delle relazioni, delle piazze digitali e delle pratiche di consumo, e dove la vita delle seconde generazioni si porta dietro una mescolanza di input e di influenze sociali che impattano in modi ancora più difficili da prevedere nella loro curiosa contaminazione. Ricordo un amico impegnato nell’underground culturale genovese che si era unito a una delle piazze di Black Lives Matter versione italiana. Era stupito di come si fossero materializzati in quelle piazze frotte di giovanissimi di seconda generazione, che evidentemente si erano organizzati e comunicavano in un modo tutto loro, tanto da non preoccuparsi che nemmeno la stampa locale venisse a coprire l’iniziativa. Quello che a me sembrerebbe l’ABC di una protesta, forse a loro non interessa neppure.

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17 COMUNITÀ DIGITALI, DISTOPIE REALIZZATE?

a cura di narrazioni digitali attraverso piattaforme social è parte del mio lavoro quotidiano, ma proprio per questo vorrei mantenere sempre la capacità di affrontare gli scenari della virtualità con occhio critico, valutando seriamente nel tempo anche l’opportunità di una sottrazione totale e drastica da questo mondo in rapida espansione. La parabola di Internet, per usare una semplificazione, sembra passata nei suoi pochi anni di vita dall’idea della massima libertà all’idea della massima concentrazione proprietaria. Il digitale ha aperto a collegamenti e opportunità mai resi possibili nella storia umana, subito in poco tempo cavalcati dal capitalismo fino a produrre le realtà economiche private più potenti e influenti della stessa storia umana (il geopolio Gafam: Google – Amazon – Facebook – Apple – Microsoft). Del vecchio web “intelligenza collettiva” l’espressione più famosa rimasta coerente è forse Wikipedia. Il fantasma del “paradigma tecnocratico” ben rappresentato da Papa Francesco nella Laudato si’ è in mezzo a noi e ha tutte le risorse per stabilirsi solidamente come una governance parallela (se non superiore agli stati nazione) del

mondo. Il sistema di “gentile” confisca di dati personali a miliardi di persone è ben illustrato nel Capitalismo della sorveglianza di Zuboff, e sull’antropologia di “consumatori” ha impiantato quella di “utenti”, che in cambio di servizi web sempre più comodi ed efficienti sono pronti a rinunciare a tutto. Chi ha la possibilità di entrare più a fondo in questo tema ha oggi il dovere morale di capire cosa si muova in controtendenza, quale processo valga la pena sostenere, e tentare di rendere più coscienti le proprie comunità di riferimento. “Non si può competere con le aziende che praticano il Capitalismo della sorveglianza senza fare come loro” sostiene Davide Lamanna sugli “Asini” (“I pifferai magici del Cloud Computing e la PA italiana”). “Viceversa, la conoscenza è una strategia più faticosa, ma qualche chance di successo forse ce l’ha. Non è impossibile conoscere a fondo, ognuno un pezzo, le tecnologie; contribuire, in comune, alla loro integrazione e manutenzione. Anche semplicemente per sottrarsi al rischio di venire manipolati senza neppure comprendere come; per difendersi dagli attacchi che puntualmente arrivano quando si comincia a dare seriamente fastidio”. Le pratiche hacklab o hackspace generano ambienti collettivi e collaborativi formati da esperti del settore, spesso imperniati proprio su una critica di fondo delle logiche dominanti nel digitale, e finalizzati allo sviluppo di alternative open source e free software. In Italia vi sono diversi hacklab fin dagli inizi di Internet, e

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annualmente si tiene un hackmeeting tra attivisti delle libertà digitali. Per fare un esempio banale, chi conosce il mondo dell’open source sa che è possibile rivitalizzare computer considerati vecchi e obsoleti grazie a un’ampia gamma di sistemi operativi gratuiti programmati apposta a questo scopo: funzionare in modo dinamico e leggero su macchine datate per contrastare l’obsolescenza programmata e il forsennato ricambio dei modelli. Con questo sistema nel mio piccolo ho recuperato computer a fini didattici in Etiopia e in Congo nel corso dei miei viaggi, testandone l’enorme potenzialità rispetto a tutte le macchine che in Occidente buttiamo via come fossero inutilizzabili. Ma restiamo sul “che fare oggi” declinato sulle comunità digitali e sulle relazioni giovanili nate e ibridate completamente dalla dimensione digitale. È il caso di chiedersi, alla luce dei primi 10-15 anni di social network, quali siano gli esiti di questi strumenti e della loro evoluzione. Se hanno rafforzato o indebolito movimenti antisistema. Se ne hanno generati di nuovi e diversi. Se il cyber-attivismo è una prospettiva obbligata e necessaria o una mera illusione che riguarda la percezione della realtà e non la realtà stessa. Le reti digitali sono strumenti di potenziamento anche per le forze critiche e per i movimenti sociali? O sono una valvola di sfogo illusoria che disabitua le persone all’intervento organizzato e localizzato? Diverse scuole di pensiero spesso ritenute all’avan-

guardia della comunicazione e del community organizing sostengono che gli algoritmi dei social network adeguatamente pagati e configurati siano l’unico modo oggi per selezionare, intercettare e attivare gruppi numerosi di persone disponibili a mobilitarsi per una certa causa. A oggi abbiamo sicuramente vissuto l’ebbrezza (a volte la sbornia) di una certa attivazione collettiva online in occasione di petizioni, mail bombing verso le autorità, viralizzazione di notizie e documentiverità, e così via. Da Avaaz a livello mondiale a Riparte il Futuro in Italia, dalle petizioni su Change.org a certe community semichiuse come gruppi Facebook e canali Telegram, all’esperienza del blog di Beppe Grillo poi evoluta in Rousseau, abbiamo visto crescere i tentativi di organizzare delle comunità di interesse per mobilitarne le forze a partire da contributi digitali, economici, d’opinione e solo raramente da tradurre in manifestazioni/azioni di piazza. Qui non è in dubbio la potenza comunicativa di queste esperienze e di questi strumenti. Credo valga la pena chiedersi se questa potenza comunicativa si traduce in cambiamento delle persone e delle comunità. Se impatta non solo sull’opinione, ma sulle pratiche, sulle prospettive, sulle azioni per cambiare la realtà. O se si arena sulla contestazione, sulla visibilità, sul sollievo di aver fatto il proprio clic a seguito dell’appello di qualcuno. Al massimo di essere sceso in piazza a un evento. L’attivismo digitale sta restituendo quell’impatto

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quantitativo e qualitativo sperato? Lo sta facendo per i movimenti spontanei dal basso o soltanto per quelli che nascono con una forza economica alle spalle? Ho la sensazione che, se sul versante delle comunicazioni interpersonali e della diffusione di notizie e messaggi ci siano benefici innegabili, sul fronte organizzativo e attuativo stia peggiorando rapidamente la forza dei movimenti, composti da persone comunque sempre più abituate alle pratiche tecniche delle piattaforme digitali (alcune cose sono facili da fare, altre sono difficili, alcune cose sono premiate dall’algoritmo, altre disincentivate). L’individualismo e la manipolazione mi sembrano di fatto aumentare, sotto una patina di apparente comunità interconnessa e di apparente libertà creativa. Giovani generazioni caratterizzate da tassi crescenti di connessione quotidiana: quanto hanno tempo energie e familiarità pratica nel mettersi insieme per modificare la realtà di un luogo, di un contesto sociale? Sarà banale, ma la questione rimane quella atavica: le opportunità e i mondi digitali sono vissuti come strumento o finalità? Potenziano l’azione nel reale o la sostituiscono? Raccontano esperienze di movimentazione e attivismo o le ricostruiscono su piattaforme commerciali sottoponendole a regole tecniche e censurabilità preconfezionate? Guardandosi intorno si trova naturalmente di tutto un po’, ma chi si muove per contesti sociali e di attivismo ha più familiarità nel rendersi conto di quali esperienze nascono per inci-

dere sulla realtà, venendo raccontate e potenziate digitalmente, e quali invece nascono digitalmente con una tensione a incarnarsi prima o poi nella realtà (cosa che avviene con enorme fatica e molto di rado). Una cosa a parte, che potrebbe sintetizzare il discorso iniziale (hacklab) e quello finale (comunità digitali) è il ruolo di Anonymous e di realtà analoghe. Un’iniziativa collettiva esplicita di contestazione dei sistemi dominanti e di loro iniziative politico-economiche, combattuti con le loro stesse armi, ovvero con il boicottaggio informatico dei sistemi di controllo e dei servizi che mettono a disposizione. Chi non ha pensato almeno una volta ad Anonymous o Wikileaks come a degli eroi del nostro tempo, partigiani 2.0? Come sempre il tema è delicato: boicottare significa anche colpire i diritti di persone comuni che usufruiscono necessariamente di sistemi istituzionali. E spesso suscitare un ulteriore investimento in sicurezza e in repressione. Ma è comunque un segnale prezioso: fa rendere conto alle persone – quelle comuni e quelle coinvolte in ruoli apicali – che i grandi benefici della concentrazione del potere tecnocratico sono a doppio taglio, possono subire attacchi e boicottaggi per motivazioni etiche. E che le stesse motivazioni etiche devono rimanere superiori al solo esercizio tecnico-funzionale dell’autorità. Nessuno può sentirsi libero e impunito di violare diritti umani, secondo Anonymous: la contestazione al potere può arrivare a qualunque livello sia necessario, proprio boicottando i suoi “biglietti da visita” digitali e met-

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tendone in luce la vulnerabilità. Prove tecniche di una resistenza disperata a sistemi di controllo che si fanno sempre più potenti e pervasivi, e che non sempre potrebbero in futuro essere controllati e controllabili da organi democratici e sistemi di valori inalienabili. Infine, quando mi muovo in altre zone del mondo dove la connessione sta arrivando in questi ultimi anni, mi chiedo quale impatto avranno i social network e i canali privati di comunicazione interpersonale che arrivano improvvisamente in contesti molto complessi. Abbiamo già purtroppo svariati precedenti di paesi in cui sotto elezioni Internet viene oscurato per impedire la circolazione di informazioni o contro-informazioni, e la mobilitazione collettiva. Abbiamo anche esempi di società in cui alcune libertà personali sono fortemente represse, ma al contempo osservate e introiettate dalle persone tramite i social network entranti. E abbiamo infine esempio quotidiano del problema irrisolto delle fake news che hanno la possibilità di acquisire una rilevanza inedita. In contesti cosiddetti “in via di sviluppo” è ancora più evidente il problema della concentrazione della proprietà privata delle piattaforme, che le rende soggette a negoziati privati tra aziende e governi, e a policy aziendali in merito a ciò che diventa censurato o censurabile in un dato paese e in un dato frangente. Un social può spegnere la voce di un capo di Stato a discrezione della contingente interpretazione intra-aziendale sulle policy violate.

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18 COMUNITÀ DI VITA, UNA VIA FERTILE?

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ell’apparentemente monolitica religione del consumo individualista, questi decenni hanno comunque visto il sorgere silenzioso (raramente l’insorgere) di forme di vita comunitaria alternative al sistema, quale più radicale quale meno. Un indicatore concreto che differenzia queste realtà, anche quando si trovano a vivere nelle città al fianco di tutti gli altri “condomìni”, è la pratica della cassa comune, o della condivisione di iniziative sociali. È l’esperienza che abbiamo visto fare a diverse comunità di famiglie come quelle afferenti a Mondo di comunità e famiglia tra Lombardia, Emilia e Toscana. Interessanti i meccanismi che raccontano i loro aderenti. Di questa trentina di comunità sparse per l’Italia, in quelle che adottano la cassa comune ogni nucleo a inizio mese scrive su un assegno in bianco di quanto ha bisogno, lo consegna al tesoriere della comunità e ritira il necessario. Ci vuole una fiducia radicale perché un modello del genere non imploda in breve tempo, ma contemporaneamente garantisca una stabilità a chi rinuncia all’accumulo personale. Per giunta, a fine 123

anno il surplus del conto comune viene donato a progetti sociali, e si esorcizza così la crescita di un capitale. Tra queste ci sono comunità più dedite all’educazione, agli affidi familiari, alla cura di un ambiente o di un quartiere, alla cura di gruppi tematici. Ma ho sempre registrato due meriti in particolare: non sono comunità eremitiche o isolazioniste, dimostrano che è possibile un abitare differente all’interno della società convenzionale; e risultano realtà molto più attente alla transizione ecologica degli stili di vita, come se doversi curare maggiormente dell’armonia tra le persone ricada di fatto anche sul desiderio di migliorare insieme il proprio impatto socio-ambientale ed etico. Movimento ancora diverso è quello degli ecovillaggi e delle realtà che nascono attorno a progetti agricoli di ritorno rurale oltre che comunitario. È affascinante esplorare gli ecovillaggi perché rappresentano in certi casi una nuova capacità in svariate forme di sottrarsi a dinamiche di sistema, senza dover sfruttare la copertura di movimenti di potere alternativi. Il tema di un ritrovato rapporto con l’ambiente mette in gioco a ricaduta la totale messa in discussione delle convenzioni sociali e amministrative, delle relazioni familiari, della crescita dei figli, ma sempre con una concretezza molto presente perché insita nel progetto stesso, che evita l’avvitamento sulle sole teorie astratte. Ci sono tentativi di fare rete in questo arcipelago, anche se l’impressione è che la sottrazione al sistema dominante prevalga co-

munque sulla volontà di militanza per cambiare la società istituzionale. Il mondo dei “nuovi contadini di ritorno” offre anche realtà molto più semplici, meno radicalmente isolate, che sviluppano delle dimensioni comunitarie e di coscienza politica. L’esperienza di Semi di Comunità poco fuori Roma è interessante, si definisce un’azienda agricola collettiva – Csa (comunità che supporta l’agricoltura). A segnalarmi la sua esistenza è stata un’amica che vive in centro città, per dire quanto l’impatto di questo progetto sia “verso” la comunità urbana e non nella separazione da essa. In sostanza, un gruppo di persone e famiglie contribuisce a inizio anno alle spese che serviranno per coprire il lavoro agricolo di un contadino per un anno intero. E settimana dopo settimana, andranno a ritirare (o riceveranno a casa) la loro cassetta di frutta e verdura di stagione. Ma non si esaurisce qui. Il campo agricolo in estate diventa cineforum, mensa collettiva nei fine settimana, parco giochi per i bambini, punto distribuzione del gruppo di acquisto solidale, gruppo di attivismo su questioni territoriali, e offre sempre a tutti la possibilità non solo di ricevere i prodotti ma di partecipare ai lavori di coltivazione e raccolto. Le esperienze di vita comunitaria si trovano in numerosissime forme ed espressioni, penso ai social housing fatti con certi criteri da alcuni comuni; non starò qui a farne un trattato. Il punto è che sono più di

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quante si pensi, e meno di quante potrebbero essere se ne esistesse una narrazione di massa. Non parliamo poi di incentivi istituzionali e normativi. La frammentazione di queste esperienze va raccontata e mappata, perché sono convinto che nel tempo avrà delle ricadute anche sulle nuove lotte; è un puzzle cha racconta un movimento. La domanda lecita è se queste esperienze siano “prepolitiche” o invece un altro modo di ripiegamento nel privato. Però non c’è dubbio che siano vite che cambiano, spesso radicalmente, e coagulano subculture alternative, che si parlano, si cercano, si caratterizzano. Si rendono meno manipolabili dagli input della macchina dei consumi indotti. Durano nel tempo, perché sono sostanza che nasce già con una visione comunitaria. Nascono perlopiù da persone cresciute in città, nella rete del digitale, che hanno a cuore le connessioni. Sono certamente piene di limiti e sfaccettature, di ingredienti vecchi insieme a quelli nuovi, molte finiscono prima di cominciare o mutano frequentemente. Però è “un mondo” alternativo e vivace che attrae sempre più persone, e per questo va esplorato per interagirvi.

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19 LA LENTEZZA, UNICO FILO CHE RICUCE

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a quando ho dovuto scegliere come muovermi nel mondo ho optato per la lentezza, privandomi della possibilità ordinaria di andare veloce. La lentezza è una chiave importante per il “che fare” oggi. Chi va veloce non ha tempo. Chi va lento per forza di cose deve dedicare tempo. Chi ha del tempo può pensare e inventare, stare di più con le persone, muoversi meno per cose facete e di più per cose importanti come le relazioni e le reti. Chi va lento ha bisogno di essere ospitato, di stare ai tempi delle persone e dei luoghi cui fa visita. Chi va lento osserva diversamente la gente, le città, i quartieri, i servizi e la quotidianità delle aree urbane. Ma anche delle aree interne e rurali. La dimensione del nomadismo deve coniugarsi con una dimensione di lentezza. Altrimenti è soltanto un’altra versione del frullatore, del consumo iperattivo di esperienze. Dal 2011 grazie al movimento Repubblica Nomade, animato tra gli altri da Antonio Moresco, ho imparato che la lentezza è l’arma sottile e vincente per fare una cosa oggi difficilissima: ricucire. Ricucire territori, persone, reti, relazioni, battaglie, atteggiamenti, 127

mentalità. Solo lentamente, muovendosi lenti, spendendo tempo, andando verso, si ha modo di contribuire a piccole ricuciture di una realtà apparentemente interconnessa ma di fatto sfilacciata e centrifuga. Scegliendo appositamente le linee lente spezzate da un certo sviluppo del territorio, dalle infrastrutture, dall’urbanizzazione, si ricuciono percorsi anche di senso, antico o ideale. La lentezza ha un impatto nel quotidiano stanziale come nell’esperienza itinerante straordinaria. Ciò che si può progettare in lentezza è ben diverso e impensabile rispetto alla progettazione competitiva che trova sede nelle metropoli. E la lentezza ricuce perché non è in grado di “saltare” dei pezzi di realtà, di territorio, di persone. Coglie tutto, attraversa tutto, incontra tutto. In piccole quantità, ma in maggiore qualità. Ma con lentezza non mi riferisco solo al movimento in viaggio: parlo di come le persone possono riconcepire il territorio e le comunità riconcepire le proprie interazioni. Come dice uno dei maggiori riferimenti in fatto di lentezza e progettazione, Paolo Pileri, “non si è capito che il progetto di lentezza non si fa per fare un piacere a pellegrini e ciclisti, ad associazioni o tour operator, ma è per impostare un progetto di territorio che, prendendo spunto dalla buona realizzazione di linee lente come ciclabili o cammini, ripensa i propri obiettivi, ridisegna la scala di pianificazione (quella della linea e non più solo quella comunale), fa spazio alla sostenibilità, diventa un grande progetto culturale,

ripianifica le attività imprenditoriali e lavora a un’idea di turismo nuova che non ha nulla a che fare con il turismo di massa che ha corroso le coste e le Alpi o che ha promo-commercializzato le città d’arte al punto da soffocarle o, fenomeno più recente, che usa le bellezze naturali o artistiche per far fare selfie e attirare gente pagante. La lentezza che proponiamo non può diventare un nuovo campo pratico per nuove forme di speculazione e consumo, bensì può essere l’energia per una visione più audace, più duratura, più inclusiva e soprattutto più rigenerativa del territorio e dei suoi abitanti”. Vivere e progettare per linee (mentali e geografiche) invece che per centri (con conseguenti periferie) è la chiave per vivere ricucendo, per progettare ricucendo, per essere parte di qualcosa di unitario ma di più ampio, che o si concepisce comunitario o perde ogni valore, interrompe l’intero flusso possibile. Sembra un discorso astratto ma è fortemente connesso al “che fare” delle nostre aree interne, delle nostre rotte minori, delle nostre zone periferiche o spopolate o in crisi di identità. Ci aiuterebbe anche a riconcepire – come alcuni tentano di fare – il Mediterraneo come una comunità naturale e non come un terreno di scontro sulla pelle dei migranti. Solo la lentezza – come abbiamo sperimentato in pandemia – riporta lo sguardo su chi abbiamo vicino, su cosa possiamo veramente cambiare e realizzare per una piccola-media comunità, restando connessi globalmente.

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olti dicono che sarebbe finita l’epoca della militanza novecentesca, cioè l’individuo dentro un’organizzazione più grande di lui, che svolge alcuni compiti. E sarebbe invece l’epoca dell’attivismo: le persone si attivano individualmente su temi di interesse, e solo in quel frangente si mettono insieme. Il movimento “di massa” è ancora possibile, ma è promosso e organizzato dalle pratiche di consumo, e l’unica voce che possa raggiungere una società frammentata e liquefatta è quella delle multinazionali e dei loro testimonial volontari o involontari. D’altronde darsi per inutili e ritrarsi nel privato o nei gruppuscoli elitari, nelle sole esperienze separate, significa lasciare il campo alle peggiori derive. Chiunque tenti con sincerità di fare la sua parte e di salvare esperienze collettive militanti sperimenta sulla propria pelle quanto ce ne sia ancora bisogno, e quanti piccoli frutti diano comunque nel tempo a livello di relazioni e contaminazioni feconde. Chi si sporca le mani nelle pieghe oscure della società sa bene quanto questo offra (prima di tutto a se stessi) di mantenere il “polso” della realtà con un atteggiamento umano, che sa farsi pros-

simo e indignarsi per le ingiustizie. Altrimenti lo scivolamento nell’indifferenza e nell’apatia è dietro l’angolo. Oggi penso che abbiamo l’occasione di cambiare anche radicalmente la nostra vita, aggregandoci in dimensioni comunitarie differenti, integrate e inclusive ma radicalmente “diverse”; e penso che attraverso queste dimensioni comunitarie possiamo mantenere uno sguardo attivo e reattivo anche sui movimenti più ampi, pronti ad aggregarci quando emergono battaglie possibili. La capacità di dare fiducia con intelligenza resta la chiave per tenere i piedi in queste due scarpe, una locale e una globale. Chi non sa di volta in volta dare fiducia ai movimenti che emergono, alle persone che si rendono disponibili al cambiamento, alle opportunità per cambiare il proprio stesso stile di vita, è condannato a dividere il campo e indebolirlo, a perdere tempo ed energie in lotte intestine tra singole componenti sempre più irrilevanti, mentre il mondo è preda di interessi giganteschi e algoritmi al loro servizio ben sopra la nostra testa, in un crescente metaverso. Che fare? Fare delle comunità di vita e di consapevolezza. Culle di nuove militanze. Che fare? Esplorare ed entrare in relazione con chi di significativo si muove e si muoverà, si aggrega e si aggregherà per resistere, per lottare, per cambiare, per crescere come umanità. Che fare? Diventare più radicali e più concreti, senza perdere umanità e umiltà.

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E QUINDI, CHE FARE OGGI?

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Che fare? Cercare gli invisibili, gli ultimi, ma anche i creativi, i narratori e i poeti, perché a volte non abbiamo più niente da dire né la capacità di dirlo, ma possiamo sostenere chi ce l’ha, e aiutarlo a prendere iniziativa. Che fare? Riconoscere il tempo e le condizioni per aggregare le persone su obiettivi possibili e incisivi, e riversare lì tutte le energie, le intuizioni, le reti trasversali in cui siamo coinvolti. Che fare? Educarsi ed educare alla disobbedienza civile, alla contro-narrazione, al lobbying positivo. Che fare? Informarsi meno (via i tg prima di tutto) e informarsi meglio, da fonti scelte, su meno tematiche a noi più affini, e dalle quali possiamo effettivamente trarre nutrimento per ciò che agiamo nella vita. Informazione da attori, non da spettatori. Viene un tempo in cui perderemo molte cose. Lo sappiamo, eppure non riusciamo a fermare questa discesa. Il “problema degli stupidi”, ingigantito ad arte negli ultimi decenni, sembra inaffrontabile, né si può risolvere in breve tempo. Vediamo i segnali da anni, e adesso che gli effetti collaterali accelerano, con esplosioni improvvise, le conseguenze diventano non più solo possibili ma purtroppo probabili. Avremo meno pace ancora, e più guerra e più armi. Avremo meno sanità ancora, e più profitti e più esclusi. Avremo meno distribuzione della ricchezza, e più patrimoni incommensurabili.

Avremo un pianeta impazzito, e politiche ancora più ottuse che preferiranno opere ipertecnologiche di profitto e stabilità di breve termine alla rivoluzione verde e circolare. Avremo muri e frontiere sempre più feroci a fronte di un’umanità costretta (da noi) sempre più a muoversi per cercare zone vivibili. Noi stessi potremmo doverlo vivere sulla nostra pelle tra pochissimi anni. Non diamoci però per vinti sul piano politico. Il movimento del G8 di Genova deve in qualche modo rigenerarsi sotto nuove forme, proprio perché è stato violentemente disperso: faceva paura nella sua radicalità non violenta, nella sua trasversalità determinata, nell’aver chiari dei NO da dire a un certo presunto sviluppo. La soluzione del capitale è stata quindi delegittimarlo come violento e caotico. Ci sarà sempre una maggioranza disposta a cedere libertà personale in cambio di presunta sicurezza e tranquillità. A volte basta ventilare ad arte la minaccia per raggiungere il risultato di reprimere impunemente le alternative possibili. Occorre anche continuare a far eleggere “buoni approdi” nei comuni, nelle regioni e nei parlamenti, persone di fiducia e competenza, radicali, capaci di monitorare, denunciare, controproporre, emendare ovunque possibile. Di portare dal basso interpellanze e proposte di riforma che, alla lunga, potrebbero trovare brecce. Entriamo in un tempo di crescenti emergenze e sviluppi imprevedibili del contesto climatico, per cui è pensabile che periodicamente si apriranno

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margini di attuazione di piccoli cambiamenti che ordinariamente sarebbero visti come troppo radicali e ideologicamente respinti. Bisogna che in quel momento ci sia e sia pronto chi di quei cambiamenti si è mantenuto un referente e un portatore preparato in sede istituzionale. Proprio nello scenario diverso in cui oggi si coagulano alleanze in base alla battaglia contingente, dobbiamo sfruttare quegli strumenti di opinione pubblica come l’Ice – Iniziativa dei Cittadini Europei (una è stata lanciata a inizio 2022 dal Coordinamento europeo per la Palestina, per vietare il commercio con gli insediamenti israeliani) che a fronte di un milione di firme raggiunte sul suolo europeo obbliga il Parlamento a discutere la proposta. La guerra in Ucraina ripropone più che mai l’urgenza di sottrarci alle dinamiche dei due blocchi e alle loro narrazioni manipolatorie. Oggi l’esistenza dell’Unione Europea ci offre una casa alternativa: un’Europa che sia baluardo di transizione ecologica e transizione pacifista nella geopolitica mondiale. Che si distingua dalla politica della Nato e assuma il proprio ruolo nella mediazione e nella costruzione di rapporti con i paesi ex sovietici e la Cina. È soprattutto a livello europeo che si possono fare normative efficaci per le conversioni ecologiche e sociali di molti Paesi, andando a influenzare parte dei mercati. Noi dobbiamo escogitare leggi per sbloccare energie civiche e comunità autosufficienti dal punto di vista delle risorse. Tutto questo necessita di persone valide all’interno

dei maggiori partiti per fare pressioni e interventi mirati ovunque ce ne sia lo spazio, e indurre le forze politiche che si dicono progressiste a portare avanti istanze precise e progettuali. Sapendo che molte cose si possono fare e vanno fatte al di fuori del mondo politico istituzionale, dobbiamo puntare seriamente alla nascita di una forza radicale progressista principale, in relazione continua con le comunità civiche territoriali, che non sia contaminata da servi dei poteri forti del capitale, dalla tiepidezza dei burocrati, dall’incapacità di comunicare istanze chiare e fondate. Di fronte a tutte le grandi sfide che ora, dopo decenni di segnali, arrivano come nodi al pettine, rischiamo di fare tutte le mosse sbagliate. E di perdere quel poco tempo fondamentale per limitare le sofferenze che la maggior parte di noi dovrà patire, impoverendo la qualità della nostra o della altrui esistenza. Tutto questo fa una tale rabbia da non poter più guardare in faccia le persone attorno a noi. Ma non si vive di rabbia. Non si cresce sul rancore. Forse occorre metterci prima di tutto nell’animo di accettare questo tempo che viviamo. Le sue cadute indicibili, tra le quali possiamo comunque sempre trovare dei voli meravigliosi. Accettare che non sia ancora bastato: decenni di “pace”, di istruzione, di benessere non hanno maturato una società occidentale capace di riparare i disastri causati agli altri due terzi del mondo per secoli.

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Abbiamo tutte le possibilità, le risorse e le tecnologie per cambiare le cose. Ma la verità è che non vogliamo. Chi sta in alto non lo vuole perché non ne ha convenienza. La malattia del potere continua a corrompere le menti. E molti di coloro che stanno in basso non vogliono perché comodi nelle loro routine, immaturi culturalmente, o manipolati dalle narrazioni mediatiche e culturali che può plasmare chi sta in alto. Nel frattempo abbiamo perso capacità popolare di fare educazione, contestazione, pressione per strapparceli, certi cambiamenti. Tutto torna. Se però riusciamo ad accettare di abitare questo tempo, di lavorare come possiamo, smuovendoci e smuovendo altri, ma con una serenità di fondo che non ha bisogno di nutrirsi di consensi, vittorie, risultati, né di affossarsi nelle sconfitte, otteniamo una grande libertà: quella di continuare a seminare, a denunciare, a costruire, a ostacolare, a fecondare ed essere fecondati, al di là di tutto ciò che può accadere, in qualunque situazione ci troveremo improvvisamente catapultati. La chiave è spezzare l’anonimato delle metropoli e l’individualismo delle esistenze costituendo nuove piccole comunità di vita, meglio se a contatto con la terra, e se direttamente impegnate nell’intervento sociale. È l’anticorpo alle solitudini, alle impotenze, all’intellettualismo, al quieto vivere dei consumi e degli intrattenimenti. È dirsi continuamente l’un l’altro, in cerchi concentrici sempre più ampi: salvami; salviamoci. 136

NOTA SULL’AUTORE Camminatore e comunicatore, classe 1990, Giacomo D’Alessandro vive a Genova tra le comunità di Forte Tenaglie e Centro Banchi. Dal 2007 cura articoli, libri e produzioni musicali, e fa esperienze in diverse zone del mondo come la Repubblica Democratica delCongo. Dal 2009 pratica la comunicazione sociale a servizio di associazioni, reti sociali ed ecclesiali. Dal 2015 organizza esperienze itineranti di formazione con Percorsi di Vita. Nel 2019 ha fondato Il Cammino dei Ribelli sull’appennino tra Liguria e Piemonte. Il suo sito è https://ilramingo.it.

Indice

UNA LUNGA STORIA... di Goffredo Fofi - 5 1. IL MONDO VISTO DA GENOVA - 33 2. UNA RIVOLUZIONE DI COMUNITÀ E NOMADISMO - 37 3. L’INDIVIDUALISMO COME RELIGIONE - 44 4. LA PARABOLA DI UNA FRONTIERA - 49 5. SI TRAMANDA DA POCHI A POCHI - 58 6. CHI SA ORGANIZZARE I POCHI - 62 7. IL COLPO DI CODA NEL MONDO CATTOLICO - 68 8. GIOVANI TRA DESIDERIO E PANTANO - 77 9. PROFESSIONE CITTADINI DEL MONDO - 82 10. IL LAVORO CHE NON TIENE - 86 11. LA DISOBBEDIENZA SI RIMETTE DI TRAVERSO - 92 12. TRACCIARE INEDITE MAPPE E ALLEANZE - 96 13. IL MONDO VITALE DEI DIRITTI CIVILI - 101 14. L’UNIVERSITÀ, UN PROBLEMA CRONICO - 104 15. ACCETTARE L’ANALFABETISMO DILAGANTE - 107 16. L’INCOGNITA DELLE SECONDE GENERAZIONI - 111 17. COMUNITÀ DIGITALI, DISTOPIE REALIZZATE? - 115 18. COMUNITÀ DI VITA, UNA VIA FERTILE? - 122 19. LA LENTEZZA, UNICO FILO CHE RICUCE - 126 20. E QUINDI, CHE FARE OGGI? - 129 NOTA SULL’AUTORE - 137

PICCOLA BIBLIOTECA MORALE L’Italia di oggi

La Piccola Biblioteca Morale, “collana di pensiero radicale”, si occuperà assiduamente del presente del nostro paese, dei suoi poteri, delle sue istituzioni, delle sue contraddizioni e delle sue potenzialità e speranze. Non basta ricordare chi, ieri o qui o altrove, ha affrontato e affronta una critica del presente nella convinzione che azioni nuove e positive possano venire anche da esempi e riflessioni del passato, occorre insistere sul “qui” e “ora”, sulla difficile epoca che il mondo affronta, e che il nostro paese è pur costretto ad affrontare nonostante la povertà presente della sua cultura e, più ancora, della sua classe dirigente. Anche quella che si dice ancora di sinistra, ma che ha accettato tutte le proposte della destra, nella paura di tornare minoranza. Ci sembra importante partire di nuovo dall’analisi delle questioni più delicate, dalla denuncia dei mali e delle carenze di una società, dal suo malgoverno e però anche dalle pratiche di quelle minoranze che cercano ancora di collegare il pensiero e l’azione, l’analisi e l’organizzazione dei possibili modi di reagire, di agire. Ci sembra che sia oggi indispensabile affrontare le questioni più difficili che si presentano a chi vuol te-

nere ancora testa al potere nelle sue tante forme, anche le più nascoste e insidiose come per esempio quelle della comunicazione, denunciare responsabilità e complicità nel malgoverno, e insomma raccontare in modo attivo e partecipe il presente del paese; e le idee e le attività di chi reagisce al torpore e a una complicità perlopiù passiva cercando i giusti modi della presenza, dell’apertura al poco che si muove di affermativo e di aperto negli ambiti centrali della società, ma anche in quelli più marginali dove tuttavia qualcosa si muove, e ci convince. Goffredo Fofi

Nella stessa collana

1. Simone de Beauvoir, Sulla liberazione della donna 2. Ernesto Buonaiuti, Gesù il Cristo 3. AA.VV., L’Italia secondo Fellini 4. Antonin Artaud, Il teatro e la crudeltà 5. Giuseppe De Rita, Come cambia l’Italia. Discontinuità e continuismo 6. George Orwell, Sparando all’elefante e altri scritti 7. Sören Kierkegaard, Breviario 8. Fabrizia Ramondino, L’isola dei bambini 9. Goffredo Fofi, Le cento città 10. Luis Buñuel, Sempre ateo, grazie a dio 11. Lev Tolstoj, Per una scuola viva, per una scuola vera 12. Ernesto de Martino, Oltre Eboli. Tre saggi 13. AA.VV., I giorni della Comune. Parigi 1871 14. Lelio Basso (a cura di), Socialismo o barbarie. La vita e le idee di Rosa Luxemburg 15. Franco Antonicelli, Le letture tendenziose 16. Roszak, Cohn-Bendit, Viale e altri, La delinquenza accademica 17. Camilla Cederna, Cronache scomode. L’Italia da cui veniamo 18. Léon Bloy, Anatomia del borghese 19. Victor Serge, Terremoti (San Juan Parangaricútiro) 20. Bianca Guidetti Serra, Storie di giustizia, ingiustizia e galera 21. Giuseppe Garibaldi, Fare l’Italia. Lettere e Proclami 22. Gianfranco Bettin, I tempi stanno cambiando 23. Giacomo Matteotti, Questo è il fascismo 24. Antonio Machado, Juan de Mairena. Sentenze e arguzie, appunti e ricordi di un professore apocrifo 25. David Graeber, Le origini della rovina attuale 26. Alexander Langer, La scelta della convivenza. Nuova edizione 27. Charles Darwin, Chi siamo, da dove veniamo 28. Antonio Marchesi, Amnesty International in Italia 29. Nelson Mandela, La lotta è la mia vita

Finito di stampare il xxxxxxx 2023 presso Arti Grafiche La Moderna – Roma