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Italian Pages 608 [606] Year 2021
Carmelo Marcianò
Essere epicurei
Zeugma
Collana diretta da:
Massimo Adinolfi e Massimo Donà
Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.
Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 26 - Proposte
Carmelo Marcianò
Essere epicurei Divagazioni su Epicuro e noi
Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN
© 2021, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 26 - ottobre 2021 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-137-8 ISBN – Ebook: 978-88-5529-138-5 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Bench and Tree on a Flooding Alpine Lake with Mountain in Switzerland © Mats Silvan – stock.adobe.com
Alla memoria di Giuseppe Comerci e Mauro Panzera e di Armando Bauleo
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Avvertenza
Il testo di Epicuro e la traduzione italiana sono, salvo indicazione diversa, quelli a cura di G. Arrighetti: Epicuro, Opere, Einaudi, Torino 1973; con le abbreviazioni d’uso (LE = Lettera a Erodoto; LM = Lettera a Meneceo; GV= Gnomologio vaticano; MC = Massime capitali; D.L. sta per Diogene Laerzio); per i frammenti, si utilizza la doppia numerazione (Us. = Usener e A. = Arrighetti). Il testo e la traduzione di Lucrezio sono citati, salvo diversa indicazione, dall’edizione a cura di F. Giannotti: Lucrezio, La natura, Garzanti, Milano 20128. La sigla D. et é., seguita dal numero del volume e della pagina, rinvia a M. Foucault, Dits et écrits. 1954-1988, 4 voll., Gallimard, Paris 1994. Tutte le traduzioni in nota sono dell’autore.
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Introduzione
Questo libro vuol essere, insieme, ambizioso e umile. Sono aggettivi che possono sembrare fuori luogo, nell’introduzione a un lavoro di critica filosofica: chi si accinga a leggere della morale di Epicuro, e di un possibile rapporto fra Epicuro e certi problemi della cultura filosofica contemporanea, non ha che farsene delle “intenzioni” dell’autore – l’unica cosa che conta sono le analisi e le interpretazioni che verranno proposte alla sua attenzione, la loro eventuale pertinenza. Ma queste analisi e interpretazioni si troveranno qui disposte lungo un percorso insolitamente ampio, e altrettanto insolitamente strutturato; non sarà forse inutile avvertire, liminarmente, delle ragioni che ci hanno indotti a sceglierlo – è in rapporto a queste ragioni che quegli aggettivi possono avere un senso non del tutto retorico, o non puramente “soggettivo”. Non presentiamo qui una discussione o ricostruzione della filosofia morale di Epicuro che si esaurisca, per così dire, nel proprio oggetto: la lettura diretta dei testi di Epicuro (e di Lucrezio) occupa uno spazio ampio nell’economia del lavoro, ma si trova continuamente intrecciata o alternata con un’“altra” discussione, che verte su aspetti diversi di un problema molto più generale. Questo problema vorremmo poterlo definire, sem-
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plicemente, come il problema della morale, oggi; e “oggi” per noi, intanto, vuol dire: in un contesto culturale profondamente segnato da “filosofie del soggetto” a prima vista incompatibili con il modo in cui quel problema è stato tradizionalmente, o per lo più, pensato – e nel quadro di una opposizione, quella tra materialismo e idealismo, in cui queste filosofie rimangono inscritte (dal lato del materialismo), ma senza affrontarne esplicitamente (o “sistematicamente”) le conseguenze sul terreno della morale. La nostra, per dir così, “tesi generale” è che proprio la morale di Epicuro, nella ricostruzione che ne verremo proponendo, è in questo contesto (o in questo quadro) particolarmente attuale: perché l’opzione materialistica che la caratterizza le consente di reggere alla prova della “crisi del soggetto” (che investe direttamente il “soggetto morale”) mantenendo al problema della morale la sua (inevitabile) centralità – ciò appunto che quella “crisi”, quando non sia accuratamente verificata nei suoi limiti e nella sua portata, tende a oscurare. Il tentativo di illustrare nel modo più diretto questa tesi ha generato una forma di esposizione (o struttura) che non è certo abituale. In particolare, per la tendenza che ne deriva ad articolare nel modo più unitario possibile, fino al limite della fusione, due dimensioni o registri di discorso che restano per solito separati. Questo libro non è un “saggio” – un discorso “libero”, “personale”, in cui confluiscono temi e problemi già assimilati (o ridotti a formula), per sperimentarne la capacità di variazione, di applicazione originale, di produzione di suggestioni e stimoli, attraverso un continuo passaggio tra il “generale” e il “particolare”. Ma non è nemmeno (di qui l’assenza, come nei saggi, di bibliografia e note) uno “studio” – che tende a selezionare e tendenzialmente esaurire tutto ciò che è “pertinente”, rispetto a un ben circoscritto materiale testuale o problematico (a partire dalla letteratura critica esistente), guardando sempre all’unicità irripetibile, storico-filologica, del proprio oggetto. È questa una distinzione che poi certo risulta sempre, nella
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pratica, più o meno labile o porosa, ma indica comunque una reale diversità di approccio, e di coerenza discorsiva. Nel nostro caso, quella che potremmo chiamare una “problematica di sfondo”, la dimensione “aperta” delle implicazioni e dei confronti, l’orientamento verso un pensiero “vissuto”, “attuale”, non è in alcun modo “presupposto”, o condensato nei modi, per quanto pregnanti, dell’allusione o della variante espressiva; è invece esso stesso oggetto di analisi, sul supporto di specifiche ricognizioni testuali, attraverso la discussione di diverse possibili interpretazioni. E per converso, l’impegno più sistematico e continuo di lettura del testo epicureo sarà condotto in modo da restare costantemente in contatto con quella “attualità” – che le successive divagazioni si propongono di più diffusamente indagare. Questo termine, “divagazione”, lo abbiamo scelto non solo per modestia, ma anche per esprimere l’inevitabile differenza tra un percorso di analisi tutto immerso nella lettura e decifrazione, nella prospettiva dell’“autosufficienza” del testo, e un altro piano di discussione – quello in cui altri testi, altri filosofi, sono convocati, nella forma obbligata della sintesi e del sondaggio, in base a un preciso principio di selezione: ciò che in essi dev’essere compreso, discusso, perché possano “dialogare”, nei termini che si sono prima indicati, con Epicuro. Non, dunque: Epicuro alla luce delle filosofie morali di oggi (o viceversa; di queste filosofie “settoriali” si farà appena cenno); ma: come Epicuro (e “proprio lui”) può essere, oggi, l’ispiratore di un pensiero della morale consapevole, e reattivo, rispetto a quell’impresa di “decostruzione del soggetto” (per usare una facile etichetta) in cui è facile riconoscere una parte grande e influente della cultura filosofica contemporanea. L’interpretazione di Epicuro fa dunque tutt’uno, nelle nostre intenzioni, con la discussione circa il problema della possibilità di una morale filosofica per il nostro tempo; possibilità che a sua volta ha come condizione il confronto ravvicinato con i
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risultati più importanti prodotti dalla critica (dal rifiuto) materialista, sul terreno delle scienze dell’uomo, di quel razionalismo (o idealismo) a cui non solo le più influenti tradizioni della filosofia morale, ma anche il suo persistente “quadro di pensabilità” (in termini di “senso comune”, o di cultura diffusa) è in così tanta parte riconducibile. È in questa specifica “situazione” filosofica che si è cercato di riproporre o riscoprire l’importanza di quello che è rimasto nella storia della filosofia come il più ostinato e combattivo tentativo di elaborare una “linea di opposizione”: lo “scandalo” (che resiste alla ricorrente impresa di addomesticamento, di cui forma tradizionalmente oggetto) della morale materialistica di Epicuro. Per il lettore che volesse fin d’ora farsi un’idea più precisa del problema che nasce da questo confronto, del modo, cioè, in cui una riflessione sulla morale si trova necessariamente coinvolta nella forma moderna (sul terreno delle scienze dell’uomo) dell’opposizione tra materialismo e idealismo, si potrebbe forse aggiungere ancora questo: se una filosofia morale è un pensiero dell’universale (universalità del “bene”, del “fine”, del “valore” – nei termini della “condizione umana”, o del “fatto” umano) questo pensiero non può che precisarsi nella ricerca di un’origine, di un luogo, di una “esperienza della coscienza” (si pensi alla “scoperta” della legge morale in Kant) in cui questo rapporto (tra il criterio-valore e l’universale) sia effettivamente rivendicato o esibito, possa “avere un senso”; ed è da questo punto di vista che il ritorno a un’ispirazione epicurea, oggi, può apparire come il modo migliore di “tenere aperta” questa ricerca, di salvaguardarne il principio o la possibilità – quando non possa più ritrovarsi in una essenziale identificazione dell’uomo, in generale, come ente razionale. Ma sarebbe sbagliato chiedere a una introduzione di anticipare, in formule più o meno sbrigative, una configurazione di temi e problemi che solo nello sviluppo dell’analisi e dell’argomentazione può concretamente delinearsi. Più utile, forse, è fornire
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qualche ulteriore indicazione sulla struttura dell’esposizione – quando sia, come in questo caso, non lineare; perché il lettore sia meglio “preparato” alla diversità degli sviluppi particolari che vengono a interrompere la linea continua della lettura, “divagando” in ambiti tematici eterogenei, complessi e specifici – secondo l’angolazione che s’è detto. Anche di questo, ovviamente, solo il concreto procedere del discorso potrà fornire una compiuta giustificazione. Ma già da quanto si è finora illustrato, sul piano delle intenzioni, si comprende facilmente che il nostro progetto non poteva realizzarsi attraverso semplici “rinvii” – a temi di carattere generale provenienti da teorie, elaborazioni, del tutto estranee ai dati via via emergenti dall’analisi testuale (di Epicuro e Lucrezio). Se ci fossimo sempre mantenuti “all’interno” dei testi epicurei, il richiamo in forma incidentale a quei termini di confronto che sono per noi importanti, quanto all’attualità di quei testi, non avrebbe potuto che rimanere surrettizio – e, quel che più conta, arbitrario. Tanto più che il confronto in questione non avviene, per così dire, tra grandezze omogenee. Se si tratta di “convocare”, in questo confronto, Freud e Marx, non è certo perché Freud o Marx abbiano a loro volta elaborato una filosofia morale (“moderna”) che possa stare in un rapporto diretto di collegamento o di opposizione con quella di Epicuro. Non è sufficiente, allora, far riferimento a “idee generali”, su Freud o su Marx – come sarebbe tipico di una scrittura “saggistica”, in cui una presupposta complicità con il lettore consente di far passare “sulla parola” giudizi e valutazioni d’insieme. Il “contesto” in cui mettere a prova l’attualità della morale di Epicuro richiede al contrario di essere specificamente costruito, attraverso l’indagine sugli effetti che derivano, ai fini di questa riappropriazione, da “sistemi di pensiero” diversi e lontani; e ciò implica che la ricognizione su questi diversi sistemi sia condotta con una certa ampiezza – e, secondo l’angolo visuale prescelto, una tendenziale “sistematicità”.
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Di qui la scelta delle “divagazioni” – l’alternanza strutturale, nell’esposizione, di sequenze (capitoli) dedicate all’interpretazione di Epicuro (e Lucrezio), secondo una certa successione di temi e dottrine, con momenti di discussione che vertono su “luoghi” del pensiero contemporaneo, in rapporto ai quali la possibilità di accogliere o integrare i risultati di quell’interpretazione dev’essere “verificata”. Così, per esempio, la teoria del piacere (e del desiderio) in Epicuro si troverà confrontata con la nozione freudiana di “pulsione” – confronto che non sarebbe possibile senza produrre di questa nozione, attraverso l’opera di Freud, e nei termini propri della sua concettualizzazione, almeno l’abbozzo di una compiuta ricostruzione. L’enjeu, in questo caso, è la possibilità di articolare il progetto o il fine morale (della coscienza) con un “sapere” della costituzione fisico-naturale dell’individuo umano (nei suoi rapporti con la coscienza) – o di pensare il modo in cui l’individuo stesso, nel suo processo di costituzione in “soggetto morale”, può “rimanere in contatto” con le basi “biologiche”, “generiche”, della propria esistenza (“mettere il naso” dentro Freud, sulla scorta di questo problema, significherà poi anche dar conto del caratteristico “spostamento”, in lui, del problema del valore e del giudizio morale tutto “dal lato” della cultura – cioè dell’adesione cosciente al processo storico, moderno, della civilizzazione occidentale). Così, ancora, se si assume, come nel terzo capitolo si tenterà di dimostrare, che nella morale epicurea è contenuto, e ha un rilievo centrale, uno specifico punto di vista sull’articolazione dell’individuale con il “collettivo” o il “pubblico”, con il processo storico, con l’essere sociale, ciò impone in una prospettiva “militante” un preciso confronto con Marx e il marxismo; e la terza divagazione sarà dedicata a questo confronto. La “posta”, in questo caso, è la possibilità che una problematica della coscienza morale e del soggetto individuale sia per così dire “visibile” dall’interno del pensiero di Marx; e ciò impone di non considerare
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“isolatamente” l’incidenza di questo pensiero sul problema della morale (anche se singoli punti, in questo senso, possono assumere uno specifico rilievo: per esempio, la questione del rapporto tra “morale” e “ideologia” – o sovrastruttura), ma di far riferimento a interi, ampi “contesti problematici”, che si trovano in esso a livelli diversi di elaborazione, per se stessi e quanto alla loro articolazione (per esempio, il rapporto storia/ natura, o coscienza individuale/coscienza collettiva – “di classe”). Anche in questo caso (più ancora che per Freud: dove il tema centrale della “pulsione”, nel suo sviluppo e nelle sue implicazioni, incrocia “naturalmente” una teoria del piacere) la produttività del confronto, nella prospettiva di una morale materialistica, passa per una divagazione attraverso “tutto” Marx – perché è solo in rapporto all’insieme della sua opera (e anche alla luce della sua “ricezione”) che quei temi possono essere effettivamente posti, e declinati. Il riferimento all’opera di Freud e di Marx (indipendentemente dal modo in cui abbiamo tentato di praticarlo) apparirà certo, a chiunque accetti come ipotesi di lavoro la nostra impostazione, del tutto ovvio: se ci si muove nell’ambito di una concezione materialistica dell’uomo, e che integri nel “fatto” umano la società e la storia, questi due autori sono certamente oggi, ancora, imprescindibili; di più: se si ha presente la penetrazione di psicoanalisi e marxismo in tutti gli “strati” della nostra cultura, la loro capacità di generare a tutti i livelli veri e propri “riflessi culturali”, non si tratta qui solo di singoli autori per quanto importanti, ma di vere e proprie “istituzioni” del nostro pensiero. Non sembrerà meno “ovvio”, su questa stessa base, che il “bilancio” (e l’“attivo”) dell’eredità di una morale epicurea passi anche per un confronto con l’opera di Foucault. Foucault è il nome proprio, per così dire, di una posizione filosofica (anch’essa profondamente “ramificata”, nella nostra cultura) in cui si origina il più radicale e coerente interdetto opposto al principio stesso di una “filosofia morale” – come riflessione
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che assume le nozioni di “fine”, o di “bene”, e la loro pretesa di universalità. Questa posizione filosofica si presenta come saldamente radicata in un materialismo – nel rifiuto della nozione di “soggetto” (che è ovviamente la condizione di pensabilità della morale) in quanto tipica (e capitale) mistificazione idealistica (a rigore, una “morale materialistica” dovrebbe essere considerata da questo punto di vista come una contraddizione in termini). L’importanza che Foucault assume, per noi, va dunque ben al di là del suo specifico contributo allo studio (e al “bilancio”) delle morali ellenistiche e di età imperiale; anche se il suo impegno su questo terreno, che assorbe interamente l’ultimo periodo della sua attività di studioso, ha per noi un grande interesse – per le sue motivazioni, e per l’impasse in cui conduce (che si rivela pienamente, dal nostro punto di vista, dall’aver completamente mancato, o piuttosto deliberatamente ignorato, l’originalità, in quel contesto, di Epicuro – se non dell’“epicureismo”). È tutto il “foucaultismo” (se è lecito usare questo termine: l’influenza di Foucault non può certo essere paragonata a quella di Freud o di Marx, ma segna comunque in profondità quello che Habermas ha chiamato “il discorso filosofico della modernità”) che può ben essere considerato come l’ostacolo maggiore, il più “difficile” banco di prova, quanto alla possibilità di una morale materialistica che tragga ispirazione dalla tradizione filosofica (epicurea); e ciò implica che esso sia a sua volta specificamente indagato – che se ne ricostruisca per questo aspetto o funzione la coerenza interna, la genesi, le ragioni. Non sembrerà dunque strano che la divagazione su Foucault sia, nell’ordine, la prima; e che ad essa non si acceda, per così dire, da una particolare sezione tematica della lettura di Epicuro, ma dopo un capitolo, il primo, che ha un carattere introduttivo o generale – in cui si pone appunto, in rapporto a Epicuro e alla sua “ricezione”, la questione dell’effettiva praticabilità, in termini di filosofia morale, dell’opposizione materialismo-idealismo.
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Ciascuna delle tre divagazioni dedicate a un singolo autore ha dunque un’analoga funzione: si tratta, ogni volta, di mettere Epicuro “alla prova” di una “autorità” del pensiero contemporaneo – non nella forma dell’allusione o del richiamo “formulistico”, ma attraverso una specifica ricognizione dei nessi sistematici che producono, nei casi in esame, specifici effetti di “esclusione” o “inclusione”, quanto all’interpretazione della morale epicurea che parallelamente si viene argomentando. Diverso è il caso della quarta divagazione, che non reca un nome d’autore, e alla quale si è data invece la forma di un rapido excursus (ma anche qui non privo di un diretto confronto coi testi) attraverso una determinata “forma” della cultura estetica: quella (il cui luogo di nascita è il secondo Settecento, ma che, si tenterà di mostrare, può ben esprimere una “modernità”) nella quale più direttamente e intensamente la riflessione e l’esperienza dell’arte si trova collegata alla cultura filosofica, e specificamente morale (è un tema, questo collegamento, che ci sembra sostanzialmente estraneo al contesto culturale “antico”). Questa divagazione fa seguito a un capitolo (il quarto e ultimo) in cui si affronta un tema epicureo che è in tutta la tradizione “obbligato”, quello della morte e della liberazione dalla paura della morte; anche nella conoscenza più sommaria o indiretta di Epicuro “si sa” che un certo rapporto con l’idea o la rappresentazione della morte è parte integrante, essenziale, del suo “ideale del saggio” – del progetto e del fine della coscienza morale. Si crede poi anche di sapere, per lo più, in che cosa questo rapporto propriamente consista, o come si possa, di fatto, “instaurare”; e su questo la nostra analisi si sforzerà di introdurre qualche variante o complicazione (insieme, per l’intelligibilità “intrinseca” della questione e il suo specifico integrarsi nel complesso della morale epicurea). Alla luce, in particolare, di questo tema (della sua elaborazione), viene in evidenza un carattere molto “generale” di questa morale (che è poi una conseguenza del suo materialismo): il rapporto del
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soggetto morale con il “fine” (che è il piacere o la felicità) non è soltanto affare di “comprensione” (autocomprensione) e di scelta (razionale), ma si realizza in precise modalità di esperienza – in una forma di “ricettività” (rispetto al mondo esterno, nelle coordinate spazio-temporali dell’esistenza) che impegna un “lavoro” su (un progetto di evoluzione de) la sensibilità (non per caso, in questo rapporto attivo o circolare tra conoscenza e sensibilità sta insieme ciò che accomuna Epicuro alle “altre” morali antiche – la prospettiva ascetica, l’esercizio sul “sé” – e un punto capitale di opposizione, in particolare, allo stoicismo – l’azione sulla sensibilità non è “solo” l’effetto della persuasione razionale, non viene “dall’alto”, e soprattutto non mira a ridurre o contenere i diritti e le funzioni di questa stessa sensibilità – al contrario). Il lettore comprenderà, allora, perché, una volta usciti da questa discussione, ci si intrattenga a discorrere di arte e di estetica – secondo il nesso che si è detto: arte-conoscenza (autoconoscenza)-coscienza morale. Non si può ritrovare questo nesso nella “coscienza culturale” di Epicuro; ma non è certo indifferente, nella nostra prospettiva, che proprio la sua concezione della morale possa apparire come la più “congeniale”, quando si assuma come riferimento moderno il tema (nella nostra cultura imprescindibile) del rapporto tra l’etico e l’estetico. Se la riflessione sulla morale è oggi, molto più che nel mondo antico, attratta in uno spazio che comprende o comunica con la cultura estetica (senza di ciò, per esempio, non ci sarebbe la “stilistica dell’esistenza” di Foucault – ma poi basta pensare a Schopenhauer o a Nietzsche), la maggiore o minore fecondità o pertinenza di questo dialogo, rispetto alla morale che si “sceglie” o si pratica, diventa anch’essa un criterio di giudizio, una ragione di attualità. Non è invece una divagazione, anche se investe problemi ben distanti dall’interpretazione di Epicuro, il tema che prendiamo in esame in quella che abbiamo chiamato “conclusione seconda” (ma, anche qui, sempre a partire da questa interpretazio-
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ne: in particolare, attraverso il richiamo alla teoria epicurea del “diritto”, così come viene discussa nel capitolo terzo). Si tratta, in questo caso, del rapporto attuale tra morale e politica; e sarebbe certo pleonastico insistere, in sede di presentazione, sulle ragioni che ci fanno “concludere” in questo modo. Diciamo qui semplicemente che la riproposta di una cultura morale di ispirazione epicurea richiede il confronto con uno “stato delle cose”, nel rapporto tra l’individuo e la comunità, in cui proprio la crescente difficoltà di far posto a una “morale” quale che sia impone di riprendere in esame la questione del “fine”; è molto dubbio, al punto in cui oggi ci troviamo, che una cultura politica, una progettualità politica, possa (tornare a) far parte della coscienza individuale se le forme e i criteri di quello che si chiama “bene pubblico” perdono la relazione essenziale con l’autopercezione dell’individuo, in quanto soggetto morale – soggetto, cioè, che si costituisce in una rappresentazione del fine che implica e coinvolge, necessariamente, la dimensione comunitaria, la vita associata degli uomini. La brutale dissociazione fra questi due piani – ciò che è “bene” per l’individuo e ciò che è “bene” per la comunità – che oggi è plasticamente sotto gli occhi di tutti, mostra tutta l’asprezza di una “crisi”, insieme, politica e morale. Anche per questo (soprattutto per questo), la ricerca di una ispirazione morale che possa “reggere la sfida” della modernità, e perciò contribuisca a riconoscerne e contrastarne le derive (“controfinalistiche”, rispetto a una rappresentazione dell’umano che non può formarsi se non nella coscienza morale, individuale) appare come un compito attuale, urgente. Se il compito di una introduzione è quello di offrire al lettore uno schema semplificato del disegno o dell’architettura del lavoro che gli si propone di leggere, in modo da facilitargli l’intelligenza dei passaggi e dei collegamenti fra le sue parti, crediamo che i pochi cenni che precedono possano bastare; si
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troveranno poi, confidiamo, nel corso dell’esposizione più dettagliate indicazioni sui nessi interni che sostengono e motivano l’articolazione del testo. Ma vorremmo adesso concludere questa presentazione ritornando sui due aggettivi che abbiamo usato in apertura – “ambizioso” e “umile”. L’“umiltà” di cui il lettore “ideale” di questo testo, nelle nostre intenzioni, dovrebbe dotarsi è quella che abbiamo cercato di esprimere già nel titolo del lavoro. Essere epicurei è una cosa diversa che “spiegare” Epicuro, leggerlo, criticamente, per assegnargli il suo “posto” nella storia della filosofia (prima di tutto, ovviamente, greca o ellenistica). È diverso perché convoca, immediatamente, un riguardo “soggettivo”. Se ci siamo proposti, in quel che segue, di “comprendere” la dottrina morale di Epicuro, lo abbiamo fatto perché riteniamo che in essa si possano direttamente attingere i principi di una morale militante – cioè, prima di tutto, corrispondente al bisogno personale di risposte credibili e coerenti alla domanda sul “come bisogna vivere”, su come la vita possa essere, per ciascuno, “buona” e “saggia”; una domanda che ciascuno vorrà riconoscere come permanente, ineliminabile, nella “condizione umana”, per ogni singolo individuo (a partire, ovviamente, da un certo livello o grado di socializzazione). Questo progetto militante è “umile”, perché implica lo sforzo di non perdere mai contatto, nella fruizione della “dottrina”, con un contesto di “immediatezza” (quale che sia poi il livello di astrazione o mediazione concettuale che l’analisi dei testi impone). È l’immediatezza, appunto, dell’uso personale – ciò a cui del resto la filosofia morale epicurea (non certo, da questo punto di vista, una solitaria eccezione) è esplicitamente rivolta. La soggettività che è qui in questione non è solo, come in qualsiasi altro “discorso”, quella dell’interpretazione, dell’integrazione in un determinato complesso di interessi, orientamenti, gusti; è quella di un soggetto che si trova già impegnato nel tentativo di comprendere se stesso, le proprie possibilità
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e il proprio “bene”, secondo schemi di intelligibilità comuni ad ogni esperienza individuale di sé e del mondo (piacere/dolore, ragione/passioni, relazione a sé/relazione ad altro, ecc.). Di qui la dimensione pedagogica e persino didascalica (fino al “catechismo”) così caratteristica delle morali ellenistiche; ma che la “verità” si presenti in un rapporto di così immediata vicinanza all’esperienza personale e comune (“principio” di ogni pedagogia) è poi un tratto ben più generale nella nostra tradizione di filosofia morale – basti pensare, di nuovo, al capo opposto della storia, alla morali “psicologiche” di Schopenhauer o Nietzsche – per non dire, ovviamente, delle “morali cristiane”. Ogni individuo che si trovi “spontaneamente” a problematizzare se stesso è già potenzialmente in contatto, per così dire, con una filosofia morale. Per questo ci sembra perfettamente naturale, per esempio, quando rileggiamo I Buddenbrook, che un personaggio di romanzo, un “tipo” umano e sociale, possa convincersi a un certo punto di aver trovato in un libro di filosofia, Il mondo come volontà e rappresentazione, una diretta “illuminazione”, quasi una “ragion di vita”: la propria “giustificazione”, secondo un modo di vivere e di sentire, di giudicare, finalmente sottratto all’oscura variabilità degli impulsi, reso chiaro e coerente dal contatto con una “verità generale”, permanente, in cui possa inscriversi l’esperienza comune della “vita”. La pretesa del console Buddenbrook, per quanto poi si riveli velleitaria e effimera (per frettolosa e sprovveduta che sia la sua “lettura” di un giorno), e in sé pienamente legittima, va “presa sul serio”: essa corrisponde alla possibilità che in quel libro, in Schopenhauer, ci sia, e vi si possa attingere, una determinata “idea della vita” – da “far propria”, per orientarsi nei casi, nei dilemmi, nelle forme “obbligate” dell’esistenza. Quanto a Epicuro, è uno studioso specialista (e anche editore), un “accademico”, Marcel Conche, che ha pubblicato qualche anno fa un volume con il titolo Épicure en Corrèze (la Corrèze è la provincia del Sud-Ovest francese in cui l’autore è nato, e
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trascorre la sua vecchiaia). Un testo classico, letto e commentato per tanti anni, è diventato per lui “fonte di ispirazione” per i comportamenti e i giudizi, la pratica di un “ideale di saggezza”, nella vita (in un tempo e un luogo). È quello, per dirlo alla buona, che il “maestro di saggezza” Epicuro avrebbe voluto. E implica, allora, che la morale epicurea, morale “militante”, sia compresa e illustrata fin nelle più minute conseguenze che se ne possano trarre, in tutti quegli aspetti della vita in cui è attiva, operante, una nozione del “valore” – e senza aver paura, per così dire, di “scendere” fin nella trivialità (Conche, in un altro scritto, sostiene per esempio che un moderno epicureismo non è compatibile con il consumo di tabacco – che com’è noto è dannoso per la salute). A questo orientamento, per parte nostra, sottoscriviamo; e confidiamo che il lettore possa trovare, in quel che segue, precise indicazioni sugli “effetti esistenziali” della scelta di una morale epicurea (troverà anche, in conclusione, una valutazione del rapporto tra “vizio del fumo” e epicureismo). Ciò vuol dire, insomma, che quando si tratta in questo quadro della “saggezza” o dell’“amicizia”, del sentimento-rappresentazione della morte o delle “facili Veneri” di Orazio e Lucrezio, il lettore dovrebbe sempre avere la possibilità, oltre che di collocare questi temi in una specifica elaborazione filosofica, anche di “rifletterli”, immediatamente, nella propria esperienza di sé, della vita, del mondo; essi devono rimanere in contatto con un “senso comune” – non certo quello che si deposita nella semantica ordinaria del linguaggio “valutativo”, e che forma il terreno pressoché esclusivo di molte ricerche attuali in filosofia morale (qualcosa di altrettanto lontano da Epicuro che l’innatismo dell’idea del “bene”), ma quello che si forma, in ciascuno, direttamente, dai bisogni vitali, nel contesto della vita quotidiana. È bene dunque che il lettore sia preparato, in quel che segue, a uno “stile umile”, lontano dalla consuetudine accademica, che accetta (non dissimula) la “banalità” delle generalizzazioni;
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purché sia altrettanto preparato, al tempo stesso, a praticare e condividere un’ipotesi di lavoro che si può ben definire “ambiziosa”, in quanto si colloca in un orizzonte o quadro di discussione molto ampio: quello in cui l’impostazione del problema morale viene a incrociare, direttamente, gli a priori e le aporie, la “coerenza” filosofica, delle moderne scienze dell’uomo (nei loro “essenziali” elementi: individuo/comunità, natura/cultura, verità/discorso). Ciò implica che l’analisi si allarghi a temi e problemi che non hanno un collegamento immediato con il “come bisogna vivere”; convoca, per così dire, nella prospettiva unitaria della riflessione sulla morale (e sulla possibilità di una morale materialistica) una filosofia della cultura e una psicologia, un’estetica e una politica. Ne deriva una “complessità” (oltre a quella già richiamata, dell’analisi testuale: il testo di Epicuro è spesso “semplificato” dai suoi interpreti – e traduttori; ma non è affatto “semplice”) che si dovrà tentare di “tenere insieme” con quell’“immediatezza”. Se il lettore che voglia impegnarsi a seguire questo tentativo giudicherà, alla fine, che è in qualche misura riuscito, vorrà perdonarci il tempo e la fatica che la lettura gli sarà costata.
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Capitolo I
La saggezza di Epicuro
Parlare, oggi, di una “attualità” di Epicuro, proporsi di interpretarne il pensiero alla luce della nostra modernità, può sembrare insieme stravagante e pleonastico. Pleonastico e stravagante insieme, in fondo, per la stessa ragione: perché Epicuro è sempre stato “presente”, nella nostra tradizione – e perché questa presenza rimanda (a differenza di quanto accade per altri filosofi, la cui influenza è stata sempre legata a complesse, e contrastanti, re-interpretazioni) a un’immagine piuttosto “semplice”, “fissa” – un’immagine di cui si può sempre certo rivendicare l’attualità, ma piuttosto come la permanenza di motivi molto “generali”, che non hanno bisogno, per dir così, di essere “ripensati”, reinterpretati alla luce di nuovi “contesti”. Di “epicurei”, insomma, ce n’è sempre stati, dalle origini del mondo moderno. E non certo nel senso generico (di un carattere morale e psicologico) che già l’aggettivo aveva assunto nella lingua comune fin dall’antichità, e soprattutto dopo la damnatio memoriae a cui la tradizione cristiana aveva votato l’autore “empio” per eccellenza (e personalmente, per conseguenza, per eccellenza “immorale”). Dagli umanisti italiani del ’400 – che avevano appena ritrovato il De rerum natura – al libertinismo erudito, dalla poderosa opera di divulgazione-commento, e in
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qualche modo di propaganda, di Gassendi (con il suo “riassunto” in lingua francese, ad aumentarne la popolarità) all’illuminismo, fino al positivismo del secondo Ottocento (e passando per la tesi di laurea di Marx), il richiamo ad Epicuro è sempre stato un filone attivo nella nostra cultura; prendendo sempre più, via via che la filosofia moderna si separava e si contrapponeva all’ortodossia religiosa, il valore di una “parola d’ordine”, di un mot de ralliement per tutti i materialismi, per ogni forma di rigetto della morale cristiana. Quando il marchese de Sade, per dire, dal fondo della sua prigione vorrà scrivere un’ode a La vérité, comincerà così: «Content et glorieux de mon épicurisme, / j’entends expirer au sein de l’athéisme». Se il nome di Epicuro ha potuto svolgere questa funzione non è soltanto perché la tradizione cristiana, individuandolo come un “nemico” irriducibile, ve lo predisponeva – e sappiamo che i tentativi di “riconciliazione”, da questo punto di vista, non sono mancati. Oltre che un materialista, Epicuro è esplicitamente un “moralista” – cioè propone, a partire dal rifiuto di ogni provvidenzialismo e finalismo nella natura, una norma pratica del volere e dell’agire umani. Ed è un “saggio”, cioè si propone come “modello” di una vita, di un modo d’essere, di una qualità umana, direttamente ispirata dalla conoscenza della verità, esempio di un “vissuto” che tende a coincidere, fin sul piano della vita quotidiana, con la pratica della filosofia. Dichiarandosi “epicurei”, i pensatori che raccoglievano la sua eredità si proponevano a loro volta di seguire questo esempio: essere, ed insegnare ad essere, “come Epicuro”. Ma in che cosa consiste, propriamente, la saggezza di Epicuro? Parrebbe, in prima, che essa debba prender forma nei contenuti della sua filosofia morale. Ed è certamente difficile non indicare il “proprio” di questa filosofia morale (che è poi ciò che la definisce come “materialistica”) prima di tutto nella “dottrina del piacere” – in ciò che chiamiamo “edonismo”. Se Epicuro è, oltre che un materialista, un “moralista” ciò dipen-
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de appunto dal fatto che non si limita a considerare “l’uomo” come un essere essenzialmente “materiale” – ricercando nella sua costituzione corporea, negli istinti e passioni che ne derivano la determinazione del suo volere e agire, e corrispondentemente negandogli ogni “spiritualità”, il possesso innato di un criterio ideale di distinzione del bene e del male. Questo sarebbe, semmai, per esempio (molto “alla grossa”) Hobbes – e in Hobbes, come in molti materialismi, lo spazio per un pensiero della morale, propriamente, non c’è. Epicuro, invece, pone esplicitamente il piacere come fine da perseguire, attraverso una scelta consapevole – ne fa il principio di una norma, il criterio universale della vita “buona” e “felice”. Passa, potremmo dire, dal piano della descrizione a quello della prescrizione, e questo passaggio non è per niente facile. La percezione del piacere e del dolore, e la preferenza per il primo, sta certamente nella natura corporea dell’uomo, e anzi gli si impone come un fatto originario; ma assumere questa preferenza, il fine dell’accrescimento o della conservazione del piacere, come principio di un coerente progetto di vita, identificare in essa il “sommo bene”, è tutt’altro che trarre una conseguenza diretta, immediata – e richiede, come sappiamo, da parte dell’individuo che intraprenda questo cammino, un lungo e complesso lavoro, quasi un processo di trasformazione personale, un progresso e un “perfezionamento”, prima di tutto, psicologico. – l’aspetto per cui a giusto titolo Epicuro si assimila a quella concezione, tipicamente “ellenistica”, che vede la filosofia come un “esercizio”, una pratica essenzialmente volta a ottenere il “miglioramento” dell’individuo. Una “morale del piacere”, insomma, è cosa affatto diversa da una “analisi delle passioni”. Se riconosciamo che questa è la “sostanza” dell’insegnamento morale di Epicuro (che è tale appunto perché, come ogni morale, richiama l’individuo all’esercizio attivo di una libertà, e non semplicemente al riconoscimento di una natura), allora sembrerebbe naturale fondare su questa base l’ideale del saggio –
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che rappresenta la meta più “alta” di questo insegnamento. “Il saggio” dunque, ed Epicuro stesso, sarebbe colui che nel modo più coerente e armonioso, più “autentico”, interpreta una pratica di vita tutta orientata al fine che la morale prescrive – accrescimento/conservazione del piacere; sarebbe il più compiuto edonista. E tuttavia, l’immagine di Epicuro che la tradizione ci trasmette non è affatto questa. Qui, su questo tema dell’articolazione, della connessione tra “edonismo” e “saggezza”, nello spazio che separa, più che collegare, i due termini, la semplicità e la chiarezza di una dottrina che sembrava rimanere nel tempo, almeno nelle sue linee generali, come un sicuro punto di riferimento appare subito insidiata da molti possibili equivoci, ambiguità, contraddizioni; la presenza costante di questa filosofia nel nostro orizzonte culturale diventa un richiamo piuttosto confuso, indeterminato – e del tutto privo, allora, di ogni specifica “utilità”. Il termine “saggezza” ha, nella nostra tradizione filosofica, una grande importanza – anche quando non sia esplicitamente “valorizzato”, come accade tipicamente in tutta la filosofia antica (che è il luogo di nascita di questa tradizione; ma anche, si può dire, in quelle “orientali”). In un senso, non è eccessivo considerarlo come quello che esprime, o piuttosto riassume il tratto più profondamente (ma anche in qualche modo intuitivamente) distintivo del sapere “filosofico”, rispetto agli altri saperi, alle “scienze”: il fatto cioè che la filosofia, per usare una terminologia presa in prestito da un particolare indirizzo, si muova essenzialmente sul piano o nell’orizzonte del “comprendere”, e non “semplicemente” dello “spiegare”. Le questioni che consideriamo più tipicamente “filosofiche” sono quelle che non prendono a oggetto una particolare “porzione” della realtà, delimitata e definita da un preciso, e universalmente condiviso, “protocollo” di osservazione; perché nascono, potremmo dire, direttamente, immediatamente, dal semplice “fatto” della vita cosciente, dell’essere nel mondo (e la famosa “meraviglia” pla-
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tonico-aristotelica rimane la metafora più bella per dire questa spontaneità, e insieme necessità). C’è la filosofia, insomma, e non “solo” le scienze, perché ad ogni momento della nostra vita noi ci imbattiamo, possiamo imbatterci in un problema “di significato” – che per definizione non può essere “risolto” attraverso nessuna singola conoscenza, nessuna “descrizione vera” di “cose”, o “contenuti” (perché ciò che la “cosa”, ammesso che sia chiaramente identificabile, “significa” non può stare “in lei”, ma solo nel rapporto con “altre” cose, e tendenzialmente con “tutte” le altre – e con questo rapporto, che collega tutte le cose di cui in qualsiasi modo facciamo esperienza, che noi stessi, confusamente, siamo). Agisce potentemente, sullo sfondo della nostra coscienza culturale, una tendenziale identificazione di “filosofia” e “saggezza”. I filosofi sono (idealmente) “saggi” (e non gli scienziati), perché il loro lavoro di riflessione e di analisi sul “tutto” della propria esperienza (dell’esperienza “umana”) culmina (tendenzialmente) in un modello universalmente valido di vita cosciente – che può essere anche insegnato, trasmesso, per soddisfare il “bisogno di significato” che è proprio di ogni coscienza. Ma se seguiamo il filo di questa identificazione, per cui la conquista della saggezza è la “meta finale” (indefinitamente approssimata, ecc.) di ogni filosofare, appare immediatamente il carattere della pluralità, delle diverse possibilità. Quel “modello universalmente valido” non potrà essere definito che in strettissima relazione con i contenuti determinati di una filosofia. Il significato “vero” della vita, del mondo, sarà “scoperto” (o “inventato”) in un percorso di argomentazione, di analisi, di giudizi che pone ad ogni tappa, per ogni suo segmento, la questione della “verità” – di ogni singolo enunciato, e di ciò che nella serie di questi enunciati vale, volta a volta, come legame, conseguenza, “ordine” (e “scelta”). Se Epicuro è un filosofo originale (cioè un “grande” filosofo), allora la sua saggezza sarà necessariamente diversa da quella di qualsiasi altro. Il che non
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vuol dire, naturalmente, che il confronto non possa far emergere (qui come in tutti gli altri “saperi” della filosofia) “punti comuni”, convergenze. Ma anche questo sarà possibile solo se ogni elemento (e prima di tutto, ovviamente, lessicale) è interpretato alla luce di quello specifico (coerente) “insieme”. Quando si affronta il tema della saggezza, e trattandosi di Epicuro, questa avvertenza è particolarmente importante. Perché quella parola, “saggezza”, rischia forse più di qualsiasi altra, tra quelle che esprimono i problemi e i compiti della filosofia, di attrarre immediatamente, irresistibilmente chi ne fa uso in un ambito di riferimenti, di descrizioni, di esperienze che è proprio del linguaggio comune, del “senso comune” – nel senso che in questo linguaggio, in questo “senso”, appare già come compiutamente definita, pienamente “significante”. E certo sappiamo bene, e giova sempre ripeterlo, che il senso comune è per lo più l’erede di una certa elaborazione filosofica, che è passata, banalizzandosi, allo stato di “sedimentazione” culturale. Ma questo ci pone, come lettori di Epicuro, un problema specifico, assai grave: perché se cerchiamo, alla luce di questa consapevolezza, di ricondurre l’ideale del saggio epicureo nella prossimità dei significati correnti del termine “saggezza” ci troveremo “presi in mezzo” tra una retorica, soffocante, del linguaggio comune (una “stilizzazione”) e una “matrice” filosofica, una forma specifica di concettualizzazione (sedimentata nella tradizione) che è semplicemente incompatibile con la filosofia di Epicuro. Con un effetto, quanto all’insieme di questa filosofia, di totale neutralizzazione – o che la respinge in una irreparabile lontananza da noi. Se l’ipotesi da cui partiamo è che l’attualità di Epicuro passi per la possibilità di ritrovarvi qualcosa come una teoria (o più modestamente una versione) materialistica della saggezza (conformemente allo “spirito” della sua filosofia), dobbiamo prima di tutto liberarci da questo equivoco – che condiziona, vedremo subito, tutta la tradizione interpretativa, fino ad oggi.
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Permettiamoci, prima di proseguire, una piccola pausa in forma di digressione – una citazione che non serve alla discussione su Epicuro, ma che è rimasta nella mia memoria come un brillante esempio di quanto siano difficili, delicati i rapporti tra la filosofia e il senso comune (staremmo per dire “letterario”, ma di una cattiva letteratura) della “saggezza”. Una delle mie prime letture, agli inizi dei miei studi di filosofia, è stata la Terminologia filosofica di Adorno – il testo, tradotto per Einaudi l’anno stesso della sua pubblicazione postuma in Germania (1973), di un corso di lezioni tenuto a Francoforte, con questo titolo, nel 1962-’63. Una di queste lezioni è dedicata a Heidegger; ma Adorno, che pure vuol discutere un tema fondamentale di questo filosofo, il “fondamento”, non utilizza un testo canonico – anzi uno scritto “minimo”, che si può senz’altro considerare di nessuna o scarsissima importanza filosofica, ma che ha il pregio di essere, alla lettura, esilarante. Era stato scritto nel 1934, appena ripubblicato in volume, e reca il titolo Perché restiamo in provincia? Vi si tratta dell’ambiente e della compagnia in cui Heidegger trascorreva le vacanze, nella Foresta Nera, e ci sono frasi come queste: «Recentemente, sono stato chiamato per la seconda volta all’università di Berlino. In tale occasione, lascio la città e mi ritiro nella baita. Sento che cosa dicono le montagne e i boschi e i casolari. Vado dal mio vecchio amico, un contadino di settantacinque anni. Ha letto dell’avviso berlinese nel giornale». (Nonostante tutto!) – intercala Adorno per far ridere gli studenti – «Che cosa dirà? Sposta lentamente lo sguardo sicuro dei suoi occhi chiari nel mio, tiene la bocca rigidamente chiusa, mi posa sulla spalla la sua mano cauta e fedele e scuote quasi impercettibilmente il capo. Ciò significa: assolutamente no».1
1. Th.W. Adorno, Terminologia filosofica, tr. it. di A. Solmi, pref. di S. Petrucciani, Einaudi, Torino 2007, p. 147.
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Quando si guarda alla filosofia come “maestra di vita”, c’è sempre il rischio di veder spuntare da qualche parte, magari a titolo di ingombrante metafora, qualcosa come lo “sguardo sicuro” di un contadino della Foresta Nera. In questo scritto “a margine”, che senza dubbio merita tutte le beffe di Adorno, Heidegger si abbandona a una demagogia che non è senza un’intima convinzione: che la filosofia, prima e più che un discorso organizzato per argomenti e concetti, sia qualcosa come una “parola”, o un mormorio, o anche un silenzio («Fumiamo» – il filosofo e i contadini – «le nostre pipe in silenzio»2) che si trova “nella prossimità dell’essere” – lì dove si rifugia e oscuramente risplende il senso della “vita vera”. In questi silenziosi fumatori di pipa, a loro modo “custodi dell’essere”, il filosofo riconosce il “tipo umano” in cui culmina, idealmente, la sua propria filosofia, la meta “incarnata” della sua propria ricerca della saggezza – e perciò affida al loro muto messaggio l’ufficio più tipico di una “saggezza”, quello di ispirare la decisione pratica che coinvolge e impegna tutto un modo d’essere, un progetto di vita; e non importa se il “progetto”, la “decisione”, riguardano in questo caso l’accettazione o il rifiuto di un incarico universitario (a Berlino). Il contadino di Heidegger può “dire la sua”, nella materia, come se fosse l’albero descritto in un celeberrimo racconto di Tolstoj, che mostra agli uomini, essendo come loro un essere vivente, qual è il modo “giusto” di morire. Tornando a Epicuro, questa piccola digressione non sarà stata inutile se avrà contribuito a mostrare come “sullo sfondo” di una filosofia “totalizzante” agisca, assai spesso, quella che potremmo chiamare quasi una “convenzione” della saggezza – suscettibile certo di molti sviluppi e variazioni “letterarie”, ma che nel suo contenuto, e quindi nel suo eventuale legame con quella determinata filosofia, rimane vaga, generica, scontata. Agisce, vogliamo dire, come un dato “culturale” – che con2. Ivi, p. 146.
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diziona, prima di tutto, la sensibilità degli interpreti. Con un effetto, quando si affronti una filosofia che si proclama esplicitamente come una “via” per la saggezza, al tutto paradossale: che questa filosofia, proprio in ciò che considera come il suo contributo più originale e prezioso, finisce col risultare in pratica perfettamente “sovrapponibile”, e dissolversi quasi, come in trasparenza, nelle altre, in tutte quelle per cui vale, analogamente, lo stesso “fine”. Epicuro, come tutti sanno, può essere considerato quasi un “caso di scuola” di questa situazione. Il quadro storico in cui si è tramandato il suo insegnamento, nei primi secoli, è quello di una violenta contrapposizione, vissuta in spirito perfettamente “settario” – essenzialmente tra “il giardino” e “il portico”, epicureismo versus stoicismo. Oltre il piano della fisica e della cosmologia, sul terreno della morale, questa contrapposizione è a prima vista assai chiara, sta nella risposta a domande precise: che rapporto c’è tra “la saggezza” e “il piacere”? Il saggio ricerca il piacere, lo considera come in sé un bene, addirittura il “bene supremo”, oppure no? Questo dilemma non sembra ammettere che una risposta netta, la scelta di uno dei due termini dell’alternativa. Eppure (alla nostra distanza storica verrebbe da dire: quasi da subito) le risposte che troviamo nella tradizione hanno spesso un carattere ambiguo, sfumato, i termini dell’alternativa sembrano capaci di attrarsi reciprocamente in una sintesi superiore, “conciliatrice”. Non si tratta solo del famoso “sincretismo” romano, della disponibilità “eclettica” di un Seneca o (ma diversamente) di un Cicerone (meno che mai dell’altrettanto famosa “refrattarietà allo spirito di sistema” che caratterizzava, secondo i vecchi professori di liceo, la latinità). Questo “sincretismo” (cioè in concreto una sorta di comune gravitazione morale di epicureismo e stoicismo) si trasmette a (potremmo dire “contamina”) tutto ciò che viene dopo – ed ha una grande importanza storica, perché rappresenta l’unico sfondo possibile di quel tentativo di “cristianizza-
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zione” di Epicuro (almeno nella forma di una “compatibilità”) che orienterà la grande opera di divulgazione di Gassendi. Sono innumerevoli, nella tradizione, le testimonianze di una “lettura” che fa del saggio epicureo qualcosa di molto somigliante, o proprio quasi indistinguibile dal suo rivale stoico; molto al di là dei limiti storici in cui possa ancora valere il riferimento obbligato all’ortodossia cristiana. Il primo banco di prova, l’ostacolo maggiore per una reinterpretazione coerente in questa prospettiva era e rimane, ovviamente, la “dottrina del piacere” – la pietra dello scandalo e l’oggetto della più veemente condanna da parte dei fondatori della tradizione cristiana. Ma questo esercizio può sembrare che non presenti, alla prova dei testi, una particolare difficoltà. Già Gassendi, dopo Seneca, ne aveva fornito la chiave: mettere in onore (contro le testimonianze malevole e pettegole dell’antichità) tutti quei luoghi testuali in cui Epicuro allude a regole di comportamento, e al suo stesso modo di vita, improntati alla riduzione dei bisogni, alla ricerca del soddisfacimento personale in quello che verrebbe fatto di chiamare un “minimo vitale”. Ogni volta che parla del piacere (esemplificando; cioè quando parla dei piaceri) Epicuro raccomanda le cose semplici, povere, verrebbe da dire “innocenti”. E il luogo classico è naturalmente quello della dietetica – della frugalità. Quello che basta al saggio, che lo rende “felice”, che la saggezza riconosce come un bene è un pasto di pane e acqua, giusto un po’ di vino, un po’ di formaggio – il passo forse più celebre, epitomizzato già da Gassendi, e che un mio collega insegnante di filosofia, cattolico di sinistra, era solito citare con rapimento, è il frammento 182 Us., 40 A., che dice (Epicuro sta scrivendo a un amico): «Mandami un pentolino di cacio, perché possa, quando voglia, scialare». La voce Épicurisme dell’Encyclopédie riflette pienamente questa tradizione, come già il Dizionario di Bayle; tanto da indurre uno scrittore giansenista, Chaumeix, che si fa portavoce del punto di vista cristiano “intransigente”,
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a replicare stizzito che non basta per essere virtuosi praticare la temperanza – lo si può fare anche solo per motivi di salute. Ma già Saint-Évremond, che qui non si rinuncia a citare, aveva adoperato la sua arguzia contro i partisans di Epicuro (i partisans, si badi) scrivendo: Je pardonne à nos religieux la triste singularité de ne manger que des herbes, dans la vue qu’ils ont d’acquérir par là une éternelle félicité; mais qu’un philosophe, qui ne connaît d’autres biens que ceux de ce monde, […] se fasse un ordinaire de pain et d’eau, pour arriver au souverain bonheur de la vie, c’est ce que mon peu d’intelligence ne comprend point.3
Certo, in scrittori come Diderot (a cui si deve la voce dell’En cyclopédie) o Bayle l’elogio della temperanza è soprattutto rivolto allo scopo “tattico” di contrastare il pregiudizio cristiano. Ma non è certo per questo che Hegel, per esempio (e l’esempio non è certo marginale), dirà nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia (sul tono della semplice constatazione, e dopo aver a sua volta citato Seneca): «Il modo di condursi dello stoico, adunque, non è diverso dalla vita dell’epicureo che s’attenga alle prescrizioni del maestro»4. Questo “effetto di dissolvenza”, che sulla base dell’effettiva, personale condotta di vita (da assumersi come il “vero contenuto” dell’edonismo) fa trasparire il saggio stoico nell’epicureo, non dipende dalla volontà di salvare Epicuro dalle fiamme dell’inferno. Se riapriamo, poiché l’abbiamo sottomano, la Terminologia filosofica di Adorno vi 3. Ch. de Saint-Évremond, Sur la morale d’Épicure, in J. Prévot (a cura di), Libertins du XVIIe siècle, vol. II, Gallimard, Paris 2004, p. 754; «Perdono ai nostri religiosi la triste singolarità di mangiare solo erbe, nella mira che hanno di guadagnare così una felicità eterna; ma che un filosofo, che non conosce altri beni che quelli di questo mondo, […] si faccia una dieta di pane e acqua, per arrivare alla suprema felicità della vita, è quello che la mia poca intelligenza non arriva a comprendere». 4. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, tr. it. di E. Codignola e G. Sanna, La Nuova Italia, Firenze 1964 (19321), vol. II, p. 473.
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troveremo, la prima volta che il nome di Epicuro compare questa osservazione: «se consideriamo i cosiddetti edonisti come il vecchio Epicuro […], troveremo che la sua felicità è una cosa piuttosto modesta»5. Né le cose possono cambiare, ovviamente, quando il lettore di Epicuro non sia ex professo, come nei casi fin qui citati, un filosofo, ma sia piuttosto uno studioso, un critico “neutrale”, uno storico della filosofia. Rivolgiamoci per esempio ad uno dei maggiori specialisti italiani, Carlo Diano. In un suo scritto pubblicato inizialmente in una rivista francese, La philosophie du plaisir et la société des amis, poi raccolto (nel testo originale) nel volume Studi e saggi di filosofia antica, possiamo leggere: «Et puisque, pour pouvoir atteindre cette fin [il fine supremo: il piacere], il faut que l’homme se laisse guider par la sagesse, prenne l’habitude de la tempérance et pratique la justice, l’épicurien, tout compte fait, est obligé de vivre en stoïcien»6. E subito dopo l’autore si domanda, con una serie di interrogative dal ritmo incalzante, perché Epicuro si ostini a parlare del “piacere” e non, come per esempio Aristotele, del “bene” (per Adorno, abbiamo già visto, l’edonismo non può essere che “cosiddetto”). La risposta è interessante: perché mentre “il bene” può essere considerato come un’idea astratta, “disincarnata”, la parola “piacere” dice bene il radicamento di questo “fine” nel corpo dell’individuo; esprime la volontà epicurea di «montrer du doigt l’homme dans la pure et simple historicité de son être dans le monde»7. E curiosamente Diano aggiunge:
5. Th.W. Adorno, Terminologia filosofica, cit., p. 164. 6. C. Diano, Studi e saggi di filosofia antica, Antenore, Padova 1973, p. 359; «E poiché, per ottenere questo fine, bisogna che l’uomo si faccia guidare dalla saggezza, prenda l’abitudine della temperanza, e pratichi la giustizia, l’epi cureo, tutto considerato, è obbligato a vivere da stoico». 7. Ivi, p. 360; «additare l’uomo nella pura e semplice storicità del suo essere nel mondo».
39 si vous en cherchez la preuve [di questa impossibilità di concepire l’individuo se non nella chair – la “carne” –, da cui deriva l’opzione per il piacere come fine] entrez dans un hôpital; là seulement vous pouvez comprendre ce qu’est la “chair”, le plaisir, la souffrance. Car c’est seulement dans la chair qui souffre ou s’apaise que notre moi – notre âme – émerge et se révèle à lui-même et à autrui, jusqu’à se laisser, pour ainsi dire, voir et toucher.8
Dunque: “il piacere” è un altro nome per “il bene” – preferito da Epicuro, e preferibile, perché comprende il rinvio a quella dimensione della corporeità che ci si rivela essenzialmente nella sofferenza, e in cui soltanto, a partire da questa rivelazione, l’io individuale, cioè l’anima, può essere veramente compreso. Abbiamo detto che è curioso, questo passaggio attraverso l’hôpital, anche perché rassomiglia molto a uno sviluppo che si trova ancora in Terminologia filosofica, dove a un certo punto Adorno, parlando in generale del materialismo, si rivolge direttamente a quelli tra i suoi uditori che sono anche studenti di medicina, perché in quanto tali sono i più atti a comprendere che «nel materialismo il rapporto con il corpo è essenzialmente il rapporto con la morte, e precisamente con la morte intesa come realtà bassa, repellente e prigioniera della natura a cui tutti siamo stati assoggettati fino a oggi»9. Ed è così forte questo rapporto tra il materialismo ed una realtà corporea squallidamente votata alla sofferenza e alla morte, che Adorno lo associa, per aumentarne la suggestione, ad un suo ricordo infantile, di quando vide «passare un carro di cani morti destinati ad essere scotennati»10. 8. Ibidem; «se ne cercate la prova, entrate in un ospedale; solo là potete comprendere che cosa sia la “carne”, il piacere, la sofferenza. Perché solamente nella carne che soffre o si placa il nostro io – la nostra anima – emerge e si rivela a se stesso e agli altri, fino a farsi, per così dire, vedere e toccare». 9. Th.W. Adorno, Terminologia filosofica, cit., p. 377. 10. Ibidem.
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Si vede bene, qui, quanto sia problematica l’idea di una morale, e di un ideale della saggezza, che si costruisca “su basi” materialistiche. Se al materialismo si deve riconoscere, secondo Adorno, un grande merito, se assolve a un compito che può avere un valore “morale”, esso sta tutto nell’insistenza, l’ostinazione con cui ci mette sotto gli occhi (contro l’idealismo, che la nasconde) la flagrante (e penosa) materialità dell’uomo. In questo materialismo, il “posto” di ciò che comunemente va sotto il nome di “saggezza”, se non lo si riempia con contenuti “presi in prestito”, è destinato a rimanere vuoto. Siamo evidentemente lontanissimi da Epicuro – cioè dal filosofo, materialista, che si è orgogliosamente proclamato come il “liberatore” degli uomini, perché attraverso la sua filosofia li guida alla conquista della saggezza, e della felicità. Questa visione “ristretta” del materialismo che abbiamo intravisto in Adorno (e che in Adorno, naturalmente, nasce in tutt’altro contesto di discussione – prima di tutto la polemica con il “cosiddetto” materialismo dialettico, il diamat del marxismo di stato; il che non vuol dire che le conclusioni a cui porta circa il rapporto materialismo/morale non possano pretendere a una validità generale); questa visione concorre a determinare questa lontananza, aggiungendosi al flou di un senso comune (“sedimentato”) della saggezza, che rimane quasi come un “sostrato” della ricezione – quando si tratti appunto di una “filosofia della saggezza”. Permettiamoci un’osservazione che potrebbe sembrare “verbalistica”, pedantesca. Nella nostra prima citazione dall’articolo di Diano, il termine “saggezza” viene usato in serie con altri due (“temperanza” e “giustizia”), nella stessa accezione, diciamo così, puramente “intuitiva”. Che un uomo sia “saggio” (se laisse guider par la sagesse) è una cosa che si può “vedere” – come “si vede”, ovviamente, quando uno è “temperante”, oppure, in determinati contesti (per esempio di distribuzione, premio e punizione, scambio, ecc.) è “giusto”. Può darsi che il vocabolario autorizzi quest’uso – e in questo senso merite-
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remmo il rimprovero. Ma la saggezza non è, non può essere (come temperanza e giustizia) una virtù, un “carattere”. Ciò che essa esprime (in generale, prima ancora cioè che ci si ponga il problema di qualificarla: “quale” saggezza?) è la convergenza, l’unione (potremmo dire: l’implicazione reciproca) di tre grandi, distinte “nozioni”: quella del “bene”, della “verità”, e della “felicità”. Non potremmo mai definire qualcuno, o una condotta di vita, come “saggio/a” – diciamo proprio nel linguaggio ordinario – se non vi riconoscessimo, insieme, una “giusta interpretazione” delle cose, del mondo, e una scelta (meditata o istintiva) di ciò che è “meglio” per l’uomo (nel duplice senso di un universale “normativo” – il bene – e della singolarità di una esistenza, con tutto il complesso dei suoi bisogni, delle sue condizioni, ecc.). Per questo vi sono filosofie della morale (tipicamente Kant) che “non hanno niente a che fare” con la saggezza – perché la norma, la legge, vi si rivela in un “atto” di intellezione, e in una “deduzione”, che escludono programmaticamente ogni riferimento all’individuo empirico, e dunque al motivo eudaimonistico. Ma anche il rapporto di implicazione tra “il vero” e “il bene”, che nella filosofia antica è in generale quasi una tautologia, non è più per noi “scontato” (e in Kant, vale la pena di ricordare, la “via d’accesso” al bene non solo non coincide, ma resta totalmente separata da una conoscenza possibile del “mondo”, e di noi stessi come “cose-nel-mondo”); se per esempio, sartrianamente, l’uomo scopre la sua libertà nella gratuità del suo essere-per sé – questa, che è la sua verità, non è facile vedere come possa tradursi in, o collegarsi con, un criterio della volontà, una guida pratica per l’agire (ed è noto che Sartre semplicemente non riuscì a scrivere, o piuttosto rinunciò a pubblicare, quel volume sulla morale che aveva inizialmente previsto come “seguito” de L’essere e il nulla). Quando si parla di Epicuro come di un filosofo della saggezza, quando si parla della saggezza di Epicuro, bisognerebbe sforzarsi di rimanere su questo terreno: quello di un insegnamento
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morale che “si nutre” di una conoscenza vera dell’essere dell’uomo, del suo essere-nel-mondo – perché ritiene di poter derivare da questa conoscenza, dai suoi specifici “contenuti”, un progetto individuale di vita, un “metodo” per la ricerca della felicità, che valga come modello universale per l’azione e la condotta. Ma torniamo per un momento al contesto in cui nasce la filosofia di Epicuro, nel mondo greco. È il contesto “ellenistico” – cioè quello di una cultura in cui, diciamo tutti, il problema principale della filosofia diventa quello del suo “uso pratico”, dottrine e scuole filosofiche si applicano ad elaborare “nei dettagli” un modello di vita che appare come il complemento necessario, e insieme il fine ultimo, della ricerca “speculativa”. Molti però ammoniscono anche, a giusto titolo, a non perdere di vista l’elemento di continuità, in questo contesto, con una storia anteriore del pensiero greco – che si caratterizza “fin dall’inizio”, potremmo dire, per il ruolo “psicagogico” assegnato alla filosofia. Il filosofo è visto infatti ab origine come un “maestro di vita”, come colui che indica la via del perfezionamento morale, il portatore di un messaggio che mira a trasformare, a migliorare chi lo ascolta, nella sua “umanità”. Come un “saggio”. E l’esempio più ovvio, in questa storia più lunga, è naturalmente Socrate. Ma se ci domandiamo in che cosa consista, per Socrate, la pratica della saggezza, che cosa la renda possibile, quale può essere il “primo motore” di questa conversione dell’anima – allora tutti ricorreremo, probabilmente, per prima cosa, al gnôthi seauton, e anzi il motto delfico, nell’accezione che Socrate gli dà (per come la comprendiamo), ci apparirà come l’unico effettivo, esplicito viatico per la vita buona che ci è dato di ritrovare. Al di là del significato originario, religioso del motto – per cui il dio ammonisce gli uomini a restare nei propri limiti, per non incorrere nel supremo peccato, e suprema rovina, della hybris – la “torsione” socratica, come viene comunemente intesa, consiste nella scoperta che l’uomo, in quanto può conoscere se stesso, si ritrova in possesso di un cri-
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terio di giudizio, anzi è lui stesso il criterio del proprio bene e del proprio male, delle azioni da compiere e da non compiere (il che significa che non è, che può non essere, retto da impulsi confusi, a lui stesso oscuri, e perciò “irresponsabile”, ma può diventare, in quanto porta sul piano della chiarezza conoscitiva le sue ragioni e motivazioni, “causa” di se stesso). Il senso dell’ammonimento divino si rovescia non perché si passi da una umiltà, una sottomissione, a una qualche audacia o baldanza, ma perché il contenuto, l’oggetto dell’atto di conoscenza non è più un “vuoto”, un “non essere” (a rigore, l’oracolo voleva dire: non ti dimenticare di quello che non sei) – è invece un preciso “qualcosa”, e prima di tutto quel “potere”, quella capacità che nell’atto stesso del conoscer(si) si esprime. La via della saggezza, potremmo dire, è la generalizzazione a tutti gli “atti” della vita (a Socrate com’è noto “non interessa” la natura esterna, la “fisica”) di questa “procedura di controllo”, razionale, che definisce “il proprio” dell’uomo, in generale – ciò per cui l’uomo è, può essere, “soggetto” della propria volontà, e del proprio agire. Non vi saranno “errori”, nel dominio pratico, nella misura in cui questo dominio sarà sottoposto al vincolo di una coerenza che trova nella natura razionale dell’uomo il proprio principio. È quello che i manuali chiamano “intellettualismo etico”. E non vi sarà, ovviamente, per chi rimanga fedele a questo principio, alcun “rischio” di infelicità: perché l’uomo avrà scoperto, conoscendosi, che il suo bisogno più intimo, la fonte più profonda della propria soddisfazione sta nella possibilità di giudicare “conforme a ragione” (cioè conforme a se stesso) tutto il complesso dei propri atti, pensieri, impulsi. Il “nodo” che stringe insieme “il vero”, “il bene”, e la felicità umana è qui dunque strettissimo; sarà sufficiente (per dirla un po’ grossolanamente) aver scoperto che l’uomo è, per natura, un ente di ragione. Non è difficile riconoscere in questa sintesi, nella sua sommarietà, qualcosa che è come l’“atto di nascita”, il modello originario di un’idea della saggezza che penetra profondamente le
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accezioni e gli usi del termine, a tutti i livelli, nella nostra tradizione culturale. Il saggio è – è ora di cominciare a usare questa parola – colui che è capace di “autonomia”; che sa, che può, “dirigersi” da solo, che non prende da altri (da altro) la norma del proprio agire e pensare, ma la ritrova in se stesso – cioè, nella sua ragione. È con questa idea che bisogna “fare i conti”, se si vuole cercare nella filosofia di Epicuro la possibilità di una diversa impostazione del tema – che è, ripetiamo, la condizione indispensabile di una sua possibile, specifica “attualità”. Bisogna farli, necessariamente, già solo per questo: che è tuttora fortissimo il rischio, nella nostra lettura di Epicuro, di obliterare o nascondere, di rimuovere, vorremmo dire, la possibilità che su questo terreno emergano differenze significative – tanto quell’idea di saggezza, più o meno consapevolmente, appare come “scontata”, e condiziona, fin nella “lettera”, l’interpretazione dei testi. Prendiamo per esempio un termine che nel corpus epicureo compare tre volte, e che è evidentemente cruciale per la definizione del “saggio”: il termine autarkeia. La parola italiana corrispondente potrebbe essere un semplice calco, “autarchia” – o “autosufficienza”; ma non è questa la scelta costante dei traduttori. L’archê è il principio (e il comando, la supremazia; l’elemento primo, dominante) che il saggio trova in se stesso (se ipsum, autos), nel rapporto di sé a sé. Tutti i suoi “moti” e “atti” (interni e esterni), sono subordinati alla legge che emana da se stesso, e che non ha bisogno di altro per istituirsi che del suo proprio “esserci”, come sistema o meccanismo di autoregolazione. Epicuro non usa il termine “autonomia”, perché l’archê è qualcosa di più che il nomos – che rinvia immediatamente al dominio della legge positiva, del costume, della norma collettiva (e dei problemi che ne derivano: per esempio nell’opposizione classica di ciò che è nomôi – secondo la legge, e per convenzione – o invece physei – per natura; per esempio nella discussione sulla “legittimità” – nell’Antigone, dove l’aggettivo appare a quanto pare per la prima volta, il coro, che è probabilmente il
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più “conformista” di tutta la tragedia greca, accusa Antigone di essere autonomos (v. 821), che vuol dire di essersi “scelta” la sua legge, essersi data da sé una legge, diversa da quella di Creonte (che per il coro, poiché Creonte è il re – anax, ma anche, in frequenti perifrasi, detentore dell’archê, a cui “gli altri” devono obbedienza – non solo è più “forte”, ma evidentemente più “legittima”). Nell’autosufficienza (autarchia) del saggio, è indicata questa sua capacità di “funzionare”, come individuo, da sé, in riferimento a se stesso – non solo “senza obbedire” agli altri, ma nemmeno, possiamo dire, alle cose, a di là del limite che gli è prescritto dall’impulso essenziale dell’autoconservazione. Tutto questo è chiaro, nei contesti in cui la parola compare, e la traduzione deve ovviamente tenerne conto. Non dunque “autonomia” (anche se nell’uso italiano corrente il termine può avere un’accezione più larga, che comprende una condizione “fisica”) ma piuttosto “indipendenza”. Ma se ora guardiamo come le traduzioni di Bignone11 e di Arrighetti rendono il testo, troveremo, in un caso (fr. 135a Us., 58 A.) rispettivamente «la frugalità» e «il bastare a se stessi» – e ci può stare, anche la prima, che è certo meno letterale, perché si sta parlando del regime dietetico che soddisfa le pure e semplici necessità vitali –; negli altri due casi, invece (LM, 130, 5; e GV, 44, 2), compare la parola “indipendenza”, ma non da sola. Tanto per Bignone che per Arrighetti autarkeia vale qui «indipendenza dai desideri» (e il secondo, con sottigliezza forse eccessiva, cambia il complemento nella seconda occorrenza, e traduce «indipendenza dai bisogni»). Non sembra, in nessuno dei due casi, che l’integrazione-esplicazione sia necessaria a una maggiore perspicuità del testo. Se confrontiamo, per esempio, le traduzioni francesi di riferimento, troviamo che in GV autarkeia è resa “semplicemente” con «autosuffisance» (trad. della Pléiade); quanto al testo di 11. Epicuro, Opere, Frammenti, Testimonianze, a cura di E. Bignone, Laterza, Bari 1920.
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LM, Conche (che adotta per GV 44 «suffisance à soi-même») ritiene di dover “aggiungere” qualcosa – e segnala che si tratta di un’aggiunta, ricorrendo ai segni tipografici che si usano per le integrazioni testuali: «l’indépendance ». È evidente che qui sono in gioco scelte di interpretazione molto impegnative. Il concetto di una “fonte interiore” del soddisfacimento, dell’adeguazione di sé a sé, dell’“autoregolazione” del “soggetto”, si specifica in base alla definizione dell’“altro” che esclude, di una esplicita “selezione” dei contenuti, del “tipo d’essere”, per così dire, che lo “riempie”. Desideri e bisogni sono termini che rimangono “all’interno” della soggettività, ma ne designano una sfera o regione che si ritrova immediatamente esclusa dal vero “sé”, quello in cui il saggio attinge il principio della sua condotta, che gli consente, in ogni circostanza, l’autonomia, l’autosoddifacimento. Questa sfera “subordinata” della soggettività è quella in cui si esprime, tipicamente, il suo legame con “le cose”. Ma il saggio “ignora” questo legame, perché non considera questa “parte” di sé (che rimanda al corpo – cosa tra le cose) come una componente del suo ipsum esse. Per lui dunque, come dice Hegel, «la felicità va ricercata in una guisa che la renda libera e indipendente dalle accidentalità esteriori, dalle accidentalità della sensazione»12. Il saggio è colui che “scopre” dentro di sé il “principio”, perché quello che “trova” (che “sceglie”) è un peculiare “modo d’essere” – una particolare “natura”. E questa natura, che si definisce, potremmo dire, “per sottrazione”, non può essere che “la ragione”. Soltanto la libertà della ragione (cioè la sua “separatezza” – da cui dipende la possibilità stessa dell’opposizione autonomia-eteronomia) può “fondare” la libertà del saggio.
12. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, cit., vol. II, p. 472.
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Che questa interpretazione – tanto tenace da diventare quasi scontata, ovvia, se può addirittura condizionare “spontaneamente” la traduzione – sia tale da spezzare inesorabilmente ogni legame tra “materialismo” e “morale”, da rendere impossibile ogni interpretazione materialistica della saggezza di Epicuro, dovrebbe risultare evidente. Ma vorremmo ancora insistere sull’acutezza di questo contrasto, permettendoci una breve digressione attraverso una pagina di Leopardi – che può valere come espressione esemplare del rifiuto, su basi materialistiche, di una simile concezione della saggezza. Nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri (una delle Operette morali) Leopardi ci presenta il suo alter ego filosofico (cioè il personaggio di cui finge di raccogliere i “detti”) sullo sfondo di un confronto con la saggezza degli antichi. E gli fa pronunciare, proprio all’inizio, un giudizio su Epicuro – un giudizio sommario, “di maniera”, tutto incentrato (dopo un «si professava», l’Ottonieri, «epicureo») sulla differenza dei tempi, sull’“attualità”. Epicuro è, come nella tradizione ostile, il filosofo che ha derivato il «sommo bene degli uomini […] dall’ozio, dalla negligenza, dalle voluttà del corpo» – e all’Ottonieri, «quantunque [personalmente] temperantissimo», questo va benissimo, perché è del tutto corrispondente alla condizione presente dell’uomo (è una dottrina «proporzionatissima all’età moderna»); ricollocata nella sua epoca, invece (che è considerata genericamente come il mondo antico, classico), questa dottrina sarebbe da «condannare», perché allora vigevano ancora le illusioni eroiche, e quindi «molto maggior diletto si poteva trarre dagli studi della virtù e della gloria» – che si sarebbero dunque dovute, coerentemente, riconoscere come fonte principale di quello stesso sommo bene13.
13. Cfr. G. Leopardi, Operette morali, con un breve dizionario ideologico, a cura di S. Orlando, Rizzoli, Milano 19844, pp. 199-200.
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C’è già qui, se si vuole, un’indicazione filosofica non banale (perché il sommo bene vale in entrambi i casi, l’antichità e la modernità, come un che di derivato da precise condizioni “esterne”, di tipo essenzialmente storico-culturale). Ma in sostanza Leopardi si limita a sovrapporre due luoghi comuni – quello di Epicuro come filosofo del piacere (nell’accezione comune della parola), e quello dell’antichità come l’epoca in cui la felicità e il bene degli uomini consistevano nell’esercizio eroico delle virtù civili (che è certo più intrinseco al pensiero proprio di Leopardi, ma in sé non meno tradizionale). “Liquidato” così Epicuro, Leopardi passa a Socrate, e poi, dopo altri sviluppi in cui il pensiero dell’Ottonieri si esprime direttamente, senza la mediazione del giudizio su altre filosofie, viene di nuovo a parlare di un particolare atteggiamento filosofico, tradizionale, ma non attribuito direttamente a singoli filosofi. E qui bisogna citare più lungamente, almeno l’inizio e la fine del capoverso: Ridevasi spesse volte di quei filosofi che stimarono che l’uomo si possa sottrarre dalla potestà della fortuna, disprezzando e riputando come altrui tutti i beni e i mali che non è in sua propria mano il conseguire o evitare, il mantenere o liberarsene; e non riponendo la beatitudine e l’infelicità propria in altro, che in quel che dipende totalmente da esso lui. […] In fine, è grande stoltezza confessare che il nostro corpo è soggetto alle cose che non sono in facoltà nostra, e contuttociò negare che l’animo, il quale dipende dal corpo quasi in tutto, soggiaccia necessariamente a cosa alcuna fuori che a noi medesimi. E concludeva che l’uomo tutto intero, e sempre e irrepugnabilmente, è in potestà della fortuna.14
Diciamo subito che chi legga tutto il capoverso può avere in prima l’impressione che Leopardi ceda ad un sofisma: contro quei filosofi non sembra poter valere appieno l’argomentazione svolta nella parte qui omessa – e cioè, sostanzialmente, che 14. Ivi, pp. 205-206.
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il declinare del corpo e i suoi accidenti possono menomare la ragione al punto di paralizzare, inibire la funzione che le si vorrebbe attribuire (quand’anche fosse in sé possibile e salutare) di proteggere la felicità umana dalla minaccia delle cose, di diventare il luogo “chiuso”, “interno” in cui si può possedere una volta per tutte la vita beata. Per quei filosofi, ovviamente, la saggezza, come via d’accesso alla felicità, presuppone l’attività della ragione – di una ragione “normale”, verrebbe da dire, anzi rinvigorita dall’esercizio filosofico; se questa viene meno (e sia pure in conseguenza del necessario o probabile declino del corpo – ma i filosofi antichi non avevano la nostra rappresentazione “paurosa” della vecchiaia), allora ogni discussione su cosa possa o debba essere la vita umana, se e come il fine della felicità possa essere raggiunto, diventa vana – a rigore, o al limite, è “l’uomo stesso” che non c’è più. Ma questa obiezione, vedremo subito, non toglie nulla alla forza del problema che qui Leopardi pone. Domandiamoci però intanto: chi sono i filosofi con cui polemizza? La risposta sembra ovvia (e lo è): gli stoici, prima di tutto. Sennonché, sappiamo bene ormai che anche un certo Epicuro (non quello di Leopardi) potrebbe essere coinvolto. Per esempio, quello di Hegel – e si confrontino i riferimenti, nella nostra ultima citazione dalle Lezioni, alla «fortuna» e alle «sensazioni». Per esempio, e quest’altra citazione ci sembra particolarmente interessante, perché non è di un filosofo o di uno studioso di Epicuro, ma di un grande storico e critico della cultura, Auerbach, nell’introduzione al suo classico Dante come poeta del mondo terreno (1929): La razionalistica estraneità del destino domina tutta l’antichità, da Platone in poi, fino alla vittoria del cristianesimo e delle religioni dei misteri; il grande, necessario ordine del mondo degli stoici, con la sua parità di natura e ragione, ne è improntato al pari del concetto metafisico di libertà in Epicuro: ed entrambi culminano nell’ideale etico di una liberazione, di un
50 distacco dell’uomo dalla sua sorte; il saggio è l’imperturbabile, che vince il mondo esterno rifiutandogli la sua partecipazione e i suoi affetti.15
Questa questione tipicamente leopardiana, dunque, ci riguarda. Rispetto ad ogni morale o ideale della saggezza fondati sull’autonomia “naturale” della ragione, essa domanda non tanto di prendere in esame la caducità di questa ragione, in quanto “possibilità” sottoposta a un regime empirico di variazione; quanto, come il materialismo impone, il rapporto che la collega, nella sua “piena” operatività, al suo “altro”, a ciò che nella vita umana, nell’individuo, non è “ragione”. Solo nell’ambito di una possibile risposta a questa domanda si può affrontare il compito di delineare una figura del saggio (cioè, ricordiamo, “l’essenziale” della filosofia di Epicuro) che sia materialisticamente “verificabile”, che non entri in contrasto con premesse filosofiche incompatibili con (per usare il termine di Auerbach) la “metafisica”. Secondo un orientamento che intenda derivare da questa verifica qualcosa di più che un vincolo “riduzionistico” – per cui una morale “materialistica” debba prendere fatalmente la forma di una meccanica delle passioni; ma piuttosto aprire uno spazio in cui sia possibile pensare al di fuori di ogni “idealismo” il tema, che è implicito in ogni possibile “saggezza”, della libertà umana. Proprio Epicuro, “filosofo della saggezza” e “materialista”, può aiutarci, oggi, ad affrontare questo non facile compito. Se si prende “alla lettera” la sua filosofia, essa consiste appunto in questo: nel tentativo di “fondare” su un materialismo la possibilità della saggezza – e quindi, corrispondentemente, di dimostrare che “il saggio” può esser tale (pienamente: “libero”, “autonomo”) se e perché riconosce nella materialità del suo essere individuale la fonte e il criterio dei propri “fini”; e si tratte-
15. E. Auerbach, Studi su Dante, tr. it. di M.L. De Pieri Bonino e D. Della Terza, Feltrinelli, Milano 198312, p. 10.
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rà per noi, allora, di vedere se questo tentativo può “reggere”, può entrare nel contesto di temi e problemi filosofici “nuovi”, che corrispondono a una condizione storica e culturale lontanissima, ovviamente, da quella in cui ha preso forma. Ma per farlo è indispensabile “sgombrare il campo” da quell’equivoco, di cui ci pare di aver a sufficienza mostrato la tenacia, la pervasività, che consiste nell’assimilarlo a una generica, sostanzialmente indifferenziata “idea” della saggezza, in cui si voglia riconoscere il lascito univoco, e perenne, dell’antichità classica – e in cui il “segno” del materialismo non può che svanire. Non c’è, insomma, un modello “classico” della filosofia della saggezza, o della saggezza antica, in cui Epicuro possa essere collocato. In anni recenti, si deve a Pierre Hadot il tentativo più impegnato e influente di riproporre un simile modello, affermandone la persistente attualità. Tanto nelle sue ricerche particolari che in fortunati lavori di sintesi sul pensiero e sulla cultura greco-romana, questo studioso ha insistito su una visione unitaria della filosofia antica, tutta incentrata sul tema della trasformazione dell’individuo, del suo perfezionamento morale, di un ideale “pratico” della vita filosofica come conquista della saggezza. E questi lavori hanno trovato un’eco, che non è certo estranea alla loro influenza, nelle ultime ricerche di Michel Foucault – che proprio su questo aspetto delle filosofie antiche e tardo-antiche, come “fabbricazione” del soggetto morale, autonomo, indipendente, veniva concentrando il proprio interesse. Ma dopo la morte inattesa di Foucault, Hadot sentì il bisogno di intervenire sulle differenze profonde che li separavano, “desolidarizzando”, in qualche modo, la propria visione da conclusioni che gli sembravano insieme insostenibili sul piano storico-critico e fuorvianti, quanto all’insegnamento da trarne per una morale “militante”. Ci occuperemo presto di Foucault. Ma vorremmo intanto concludere dedicando qualche attenzione all’idea che della saggezza antica propone Hadot – idea che comprende, come da
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tradizione, la “variante” epicurea. La discussione, forzatamente unilaterale, con Foucault ci sembra offrirne una sintesi particolarmente chiara. Lo scritto con cui Hadot inizia questa discussione è del 1987 (Un dialogue interrompu avec Michel Foucault), e compare nella riedizione dello stesso anno del suo libro più noto, Exercices spirituels et philosophie antique16. Foucault aveva trovato negli scritti di Hadot lo “spunto” (e forse anche una qualche “garanzia”, non essendo lui stesso uno “specialista”) per sviluppare il tema centrale dei suoi ultimi lavori: la filosofia (e la cultura) (tardo)antica è il grande laboratorio in cui si sperimentano le “tecniche del sé” – quel complesso cioè di pratiche ed esercizi che servono a trasformare la coscienza individuale, liberandola dal dominio della contingenza, delle passioni, dell’adattamento meccanico agli impulsi esterni. Ma, secondo Hadot, tutto ciò non equivale, come Foucault vorrebbe, ad un processo di “invenzione” di sé stessi, ad un’“autonomia” intesa come valorizzazione dell’individuo, che conduce a una pratica “personale” della saggezza (o della virtù). Questo non sarebbe ancora, in fondo (Hadot usa polemicamente il termine), che un dandysmo. L’ideale della saggezza non corrisponde in nessun modo a quella “estetizzazione” dell’esistenza che Foucault, secondo Hadot, propone – e di cui la sua vita, come “morale vissuta”, testimonierebbe. C’è qualcosa che è “al di sopra” dell’individuo, qualcosa di “più grande” – il processo di ascesi in cui consiste la “vita filosofica” ha come meta proprio la capacità di “identificarsi” in questo “qualcosa”. È perseguendo questa meta che si superano i limiti empirici dell’esistenza individuale, che si diventa qualcosa di più e di diverso (Hadot riprende la suggestione platonica di una megalopsychia – secondo un’accezione del termine diversa da quella che ne fa, in Ari16. P. Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique, ed. rivista e aumentata, Albin Michel, Paris 2002 (tr. it. di A.M. Marietti e A. Taglia, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino 2005).
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stotele, il “giusto mezzo” tra “pusillanimità” e “superbia”); che si può raggiungere (ovviamente in un processo infinito di approssimazione, ecc.) l’approdo della vita “buona”, “felice”, “vera”. Che cos’è questo “qualcosa”, questo “di più”? Di tutte le formule che Hadot usa (un po’, è vero, au courant de la plume), la più chiara è forse questa (che si trova in un intervento, raccolto nello stesso volume, a un convegno su Foucault): si tratta di «découvr[ir] qu’il y a en [nous] une raison, partie de la Raison universelle, intérieure à tous les hommes, et au cosmos lui-même»17. La ragione che è in ciascuno, come parte (e specchio) della Ragione universale, quella che muove il mondo. È questo che il lavoro dell’ascesi filosofica ci mette in condizione di “scoprire” dentro di noi, e che il saggio “sceglie” come stella polare del suo cammino; «dépasser le soi», leggiamo subito dopo, equivale «à penser et à agir en accord avec la Raison universelle». A chi sta pensando, in particolare, Hadot? Non c’è bisogno di cercare, basta reintegrare il passo citato, che suonerà allora così: «Sénèque ne trouve pas sa joie dans ‘Sénèque’, mais en transcendant Sénèque, en découvrant qu’il y a en lui une raison, partie de la Raison universelle […]»18. Seneca dunque. E Marco Aurelio, onnipresente (al quale Hadot ha dedicato una importante monografia). Insomma, possiamo ben dire, gli stoici – se il nome individuale è qui quello di Seneca, è perché Hadot sta reagendo a quella che gli appare come una “forzatura” di Foucault, che “sorvolava”, citando proprio Seneca, sulla distinzione/opposizione stoica tra voluptas e 17. Ivi, p. 325; «scopr[ire] che c’è in [noi] una ragione, parte della Ragione universale, interiore in tutti gli uomini, e nel cosmo stesso». 18. Ibidem; «Seneca non trova la sua gioia in “Seneca”, ma trascendendo Seneca, scoprendo che c’è in lui una ragione, parte della Ragione universale […]».
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gaudium (hêdonê e eupathia), e soprattutto sulla separazione che in questo testo (Lettere a Lucilio, xxiii, 6) è esplicita tra ciò che in generale Seneca è, come individuo, e la “miglior parte” (di lui stesso), in cui appunto il filosofo trova, senza bisogno d’altro, il proprio gaudium. Nelle pagine di questo breve intervento (che porta il titolo Réflexions sur la notion de «culture de soi») Hadot spiega con grande chiarezza come l’ideale del saggio stoico coincida interamente con il modello della vita virtuosa, che il lume della Ragione, splendendo più vivo nell’animo “esercitato”, rischiara; e vede in questo una precisa anticipazione della morale di Kant. Ma – e Epicuro? Hadot si guarda bene dal tralasciarlo (e rimprovera anzi a Foucault di averlo fatto). Ma noi sappiamo ormai come vanno le cose con Epicuro, quando il punto di vista da cui si guarda alla sua filosofia morale si sia formato nella consuetudine con questo ideale di “saggezza antica”. Sempre per la riedizione del suo libro più fortunato. Hadot ha scritto una postfazione in cui leggiamo: «[L]es Anciens concevaient la philosophie comme un mode de vie, comme un effort concret de transformation de soi, quel que soit le contenu dogmatique [scil. dottrinale] de la philosophie choisie par le philosophe»19. Questo quel que soit è ammissibile, in questa frase, perché vuole sottolineare una sorta di orientamento generale, comune, l’inflessione psicologico-pratica che in qualche modo si accompagna, si aggiunge a contenuti anche diversi tra loro – così che questa diversità sia pensata (ma questo è già più di quanto la frase non dica) come quella di vie che convergono, da luoghi distanti, verso uno stesso punto. Ma se poi questo “punto” – la transformation de soi, il mode de vie filosofico – viene descritto secondo il vocabolario e gli schemi concettuali che abbiamo 19. Ivi, p. 316; «gli Antichi concepivano la filosofia come un modo di vita, come uno sforzo concreto di trasformazione di sé, quale che fosse il contenuto dogmatico della filosofia scelta dal filosofo».
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visto (Raison, ecc.), allora a questa “diversità delle vie” rimane davvero ben poco. Si potrebbe pensare che una philosophie choisie par le philosophe – quand’anche condivida con altre, diverse, lo scopo di rendere “migliore” la vita – debba comunque corrispondere un’idea diversa di “vita migliore”; ma questo è molto di più di quanto Hadot sia disposto a riconoscere, in particolare a Epicuro. In confronto alla morale della virtù degli stoici (e di Kant) la sua “differenza” è caratterizzata per esempio (in un libro-intervista, diviso in capitoli, che si intitola La philosophie comme manière de vivre20) così: «on peut – c’est trop évident – admettre d’autres modes de vie philosophiques, moins héroïques et plus détendus, comme l’épicurisme»21. E ancora: questo Epicuro più “modesto” (per richiamare Adorno) sa molto di concessione («c’est trop évident») obbligata. Il vero pensiero di Hadot si trova piuttosto nella postfazione già citata, quando scrive: Ce sentiment du sacré [che il saggio coltiva, sentendosi parte della Ragione universale, e tentando di elevarsi e trascendersi] se retrouve même dans l’épicurisme, qui avait pourtant démythifié et désacralisé l’univers. […] par le fait même qu’il considère l’existence comme un pur hasard, inexorablement unique, l’épicurien accueille la vie comme une sorte de miracle, comme quelque chose de divin, avec une immense gratitude.22
20. P. Hadot, La philosophie comme manière de vivre, interviste con J. Carlier e A.I. Davidson, Albin Michel, Paris 2001 (tr. it. di A.C. Peduzzi e L. Cremonesi, La filosofia come modo di vivere, Einaudi, Torino 2008). 21. Ivi, cap. 9: Inacceptable?, p. 245; «si possono – è troppo evidente – ammettere altri modi di vita filosofici, meno eroici e più rilassati, come l’epicureismo». 22. P. Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique, cit., p. 319; «Questo sentimento del sacro si ritrova anche nell’epicureismo, che pure aveva demistificato e desacralizzato l’universo. […] per il fatto stesso che considera l’esistenza come un puro caso, inesorabilmente unico, l’epicureo accoglie
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Così, anche in un universo “desacralizzato”, in cui l’esistenza umana è pensata come un “puro caso”, l’ideale della saggezza, della vita filosofica, prende forma in un sentimento di intima comunione, propriamente estatica, con il Tutto – quel Tutto in cui si ritrova, come nella parte migliore di noi, la Ragione universale. E va da sé che in questo contesto, quando si parta da quelle premesse, il gesto dell’“accogliere”, lo slancio verso il divino e il miracoloso risulta tanto poco “giustificato”, così “gratuito”, da far apparire in confronto qualsiasi “dandysmo” (non diciamo quello di Foucault) come una specie di necessità logica. In Hadot si può dire che giunga a coronamento (al di là di questa specifica inflessione misticheggiante, che gli proviene probabilmente dalla lunga consuetudine di studi neoplatonici) l’equivoco di fondo, che abbiamo fin qui cercato di illustrare: la tendenza a “riassorbire” la filosofia morale di Epicuro in un’interpretazione tipicamente idealistica del tema della saggezza. In un quadro, e ciò lo rende per noi particolarmente interessante, che non è solo quello dell’analisi storico-filologica, ma piuttosto di una filosofia “militante”: in cui il modello della saggezza antica, e perciò anche della saggezza di Epicuro, viene esplicitamente riproposto come una risposta possibile alla nostra, attuale ricerca, alle questioni che sorgono (anche se Hadot non le discute specificamente) dalla nostra “modernità”. In uno dei suoi interventi su Foucault (il già citato contributo a un convegno di studi) Hadot, per spiegare perché questi avrebbe mancato la sostanza di quella pratica filosofica che pure avrebbe voluto (come lui stesso ha fatto) «implicitement offrir à l’homme contemporain [comme] un modèle de vie», dice che ciò è dovuto alla sua diffidenza verso quelle nozioni generali che, sole, ne forniscono la chiave: «Or, selon une tendance à
la vita come una specie di miracolo, come qualcosa di divino, con una immensa gratitudine».
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peu près générale de la pensée moderne, tendance peut-être plus instinctive que réfléchie, les notions de ‘Raison universelle’ et de ‘nature universelle’ n’ont maintenant plus beaucoup de sens»23. Verrebbe da commentare: appunto. Il nostro problema non è quello di “superare” questa tendenza, che effettivamente impedisce alla pensée moderne (contemporanea) di appropriarsi la “morale antica”, secondo un’interpretazione idealistica di questa morale; ma di verificare, semmai, che il suo mantenimento non conduca, per quanto riguarda Epicuro, a un rifiuto e una lontananza che sarebbero insuperabili, se egli fosse ricondotto in una simile interpretazione. E proprio Foucault rappresenta un primo, ideale “banco di prova” a questo riguardo: se la sua opera è (non par dubbio) un esempio importante dell’anti-idealismo contemporaneo – e se in quest’opera (o addirittura al suo culmine) si ritrova un così impegnato e appassionato esame della filosofia morale “antica”, che però non conclude (a differenza di Hadot) con l’indicazione di una sua persistente attualità. Nella prospettiva della nostra ricerca non possiamo sottrarci a questa domanda: perché Foucault “non si è accorto” che una delle filosofie morali dell’antichità, quella di Epicuro, può compiutamente “integrarsi” in una visione che è la nostra (la sua) – nel rifiuto di una nozione idealistica (razionalistica) del “bene”, e della “natura umana”? O forse, nell’ambito di questa visione, “ogni” morale non può che apparire intrinsecamente pregiudicata da una simile nozione? Sarà questo il tema della nostra prima “divagazione”.
23. Ivi, pp. 325-326; «Ora, secondo una tendenza pressoché generale del pensiero moderno, tendenza forse più istintiva che meditata, le nozioni di “Ragione universale” e “natura universale” non hanno più oggi molto senso».
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Divagazione su Foucault
La critica che Hadot rivolge a Foucault vale, abbiamo visto, come un rilievo molto generale: riguarda, prima e più che uno specifico lavoro di analisi, di “lettura”, una tendance à peu près générale de la pensée moderne, in cui fatalmente l’eredità del pensiero antico (della saggezza antica) andrebbe perduta. Hadot sa, ovviamente, che, “rimproverando” a Foucault di non aver “visto” come in quell’eredità il modello della saggezza fosse fondato sull’identificazione con la Ragione universale, sfonda, per così dire, una porta aperta: Foucault “non poteva” vederlo, se la tendenza generale che condivide (anzi: ne è un rappresentante eminente) conduce a negare a quella espressione, e a quell’identificazione, ogni “senso”. Ma questo non vuol dire che la critica sia totalmente estrinseca. Foucault non è uno “storico della filosofia”; se studia con tanto impegno, per tanto tempo, “l’etica antica”, lo farà nella prospettiva dei suoi propri interessi teorici – in riferimento a quella diagnosi del presente che ha tante volte indicato come il “fine generale” della sua ricerca, e che comprende l’analisi delle diverse “stratificazioni” (in senso propriamente geologico) che formano il “suolo” della modernità. Anche nella sua prospettiva, Epicuro non rappresenta, all’interno di questo “campo” di studi, una differenza importante: semplicemente “confluisce”, per dir così, in un ambi-
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to di temi, preoccupazioni, testi che è sostanzialmente quello della tradizione stoica (variamente intrecciata con motivi platonici e neoplatonici). E, in quest’ambito, la conclusione, il “bilancio” di Hadot appare come difficilmente contestabile. La “saggezza” (già una prima “incongruenza”, notata da Hadot, è che Foucault sembri quasi ignorare questo termine) comprende una “via d’accesso” alla verità. Il saggio esercita la sua libertà, la sua “autonomia” di soggetto, e la impegna nella scelta e nel perseguimento di un “fine”, in quanto “scopre” nella riflessione su di sé e sul mondo un criterio-guida, una verità “universale”. Questa verità è un “ordine”, che potenzialmente “si rispecchia” nella sua ragione. L’“affiorare” di questa ragione (che è possibile attraverso complesse e precise “procedure”, tendenti essenzialmente a separarla da ciò che nell’individuo empirico “non è razionale”) porta a conferirle un ruolo “egemonico” (l’hêgemonikon, come sede della ragione, degli stoici) all’interno del “soggetto” – nel suo modo di “condursi”, nella vita. Che cosa può avere a che fare Foucault con tutto questo? Se rispondiamo, più o meno, “niente”, allora dobbiamo porci il problema di come quella certa tendenza generale del pensiero contemporaneo ha di fatto incontrato, in lui, il problema dell’etica, ha trovato in una certa “lettura” dell’etica antica la possibilità di “mettere a tema”, nell’orizzonte del presente, qualcosa come una “filosofia morale”. Questo ci riguarda. Se per leggere Epicuro abbiamo bisogno di staccarlo dal fondo pressoché indistinto di una “saggezza antica”, per verificarne l’effettiva, possibile permanenza nella nostra cultura filosofica abbiamo bisogno del confronto con ciò che in questa cultura (nelle sue espressioni più importanti) può opporvisi – o al contrario, giustificarla. Tutta l’ultima fase della ricerca di Foucault (a partire, grosso modo, dalla fine degli anni ’70) investe il tema del “ritorno a sé” (della cura di sé) come strumento per la costruzione di un
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soggetto che sia capace di dirigere se stesso e gli altri “secondo verità” – in quanto cioè questa costruzione si intreccia con un sapere della verità (è il tema della parrhêsia: il diritto/obbligo di “dire tutto”) di sé, degli altri, del “bene” comune. Al solito, secondo il suo metodo, questo tema sarà trattato come l’emergenza di una specifica formazione culturale – di cui bisogna “fare la storia”, ritrovare le origini, seguire il percorso (continuità, rotture, trasformazioni) nel lungo periodo. Questa ricerca, però, mostra almeno due particolarità rilevanti: la “formazione” in questione (a differenza, per esempio, dei “sistemi di sapere” studiati ne Le parole e le cose) si proietta su una vicenda lunghissima, che arriva fino a noi (si tratta niente meno che del nesso soggetto/libertà/verità nella “cultura occidentale”); e implica (pur rimanendo scandita su un determinato insieme di saperi e di pratiche, di relazioni di potere e di “idee”, di vita sociale e “psicologia”) quella che chiameremmo volentieri una “assunzione di responsabilità” specificamente filosofica. Certo, anche ne Le parole e le cose la forma generale dell’“episteme” che si era venuta configurando al passaggio tra Settecento e Ottocento (incentrata sull’emergenza di una nuova nozione di “uomo”) si nutriva di temi (principi, nozioni), di grande rilievo, in quella che propriamente chiamiamo “filosofia”. Ma il “taglio” storico adottato da Foucault (l’opposizione “età classica”/Ottocento) lo portava a “trattare” quella forma come “chiusa”, totalmente esaurita (nella sua “produttività scientifica”). Le nuove discipline-guida che caratterizzano il Novecento (la linguistica strutturale e la psicoanalisi) sarebbero bastate a consegnare questa nozione dell’“uomo” (insieme “contraccolpo filosofico” e “punto focale” in cui si riflette la forma unitaria di quel determinato “episteme”) al destino così suggestivamente evocato nell’immagine che chiude il libro – un disegno tracciato sulla sabbia, in riva al mare. Ne Le parole e le cose Foucault si muove sistematicamente, programmaticamente, sul confine certo poroso, “osmotico”,
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fra le scienze, i saperi che sono oggetto di analisi (linguistica, economia, scienze della natura e della vita) e la “filosofia”. Se, nelle numerose e importanti interviste successive all’uscita del libro, i bersagli polemici sono, direttamente, Hegel e Marx (e Sartre), i “grandi” filosofi (a parte l’appiattimento di Marx su Ricardo, motivato da ragioni tutte interne al “campo” dell’economia politica, e la calcolata provocazione che lo fa un certo punto definire come “un uomo dell’Ottocento”) non erano certo stati direttamente oggetto di studio; e questo gli fu rimproverato, provocando risposte “altere”, come quella che Bopp (l’“inventore” dell’indoeuropeo) non può certo essere considerato un “minore”. Del resto, quando qualche anno dopo pronuncerà il discorso inaugurale della sua cattedra al Collège de France, lo Hegel di cui parlerà, nelle belle pagine finali (succedeva a un grande hegelista, Hyppolite; ma non sono certo pagine “di circostanza”), assomiglia poco a quel “responsabile dell’umanismo contemporaneo” (certo, meno “insipido” di Teilhard de Chardin) che tante volte era comparso nelle interviste sul libro del ’66 – certamente calcolate per esaltarne l’impatto sulle “grandi questioni” che appassionano un pubblico più vasto. Le parole e le cose, quando uscì, fu immediatamente recepito come un “rovesciamento epocale” nel campo della cultura (filosofica) francese, ancora strutturato nella gerarchia dei maîtres à penser; alla generazione precedente (quella di Sartre, Merleau-Ponty, magari Camus) si sostituiva con modi “fracassanti” e sdegnosi una nuova “squadra”, gli strutturalisti – di cui Foucault (che ancora rivendicava la sua appartenenza al “gruppo”, e usava insistentemente il “noi”) poteva ben apparire (non fosse che per il tenore delle sue ricerche, più ampie e più collegate ai domini tradizionali della filosofia) come il leader filosofico. Il problema di una possibile “sporgenza” (se e come) della “filosofia dei filosofi” rispetto a un “sistema di pensiero” (Storia dei sistemi di pensiero è il titolo che Foucault volle dare alla sua
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cattedra del Collège) che è concepito come anonimo, pervasivo, “istituzionale”, è un problema che non si pone, in questo periodo – o è risolto solo “di fatto”, implicitamente. Per quanto “reboanti”, suggestive e enfatiche, siano le formule “filosofiche” che attraversano il “campo” dei nuovi maitres à penser (“morte dell’uomo”, “fine del soggetto”; Foucault certo non rimane indietro), esse valgono piuttosto come un semplice “corollario”, esprimono essenzialmente il rifiuto opposto a qualcosa che si trova irrimediabilmente “al di fuori” dei nuovi campi di ricerca (quelli in cui è possibile raggiungere “nuovi” risultati; un discorso un po’ diverso, per ovvie ragioni, andrebbe fatto per Lacan). Se i processi della significazione avvengono “dietro le nostre spalle”, se non possiamo “pensare” che dentro strutture discorsive che operano a priori la divisione tra il “vero” e il “falso”, tra il dicibile e l’indicibile (l’“a priori discorsivo”, che rimanda ogni volta al funzionamento d’assieme di una società e di una cultura), che senso ha porsi il problema di una critica “dall’esterno”, di un criterio “superiore” del giudizio, del rapporto “verticale” tra l’individuo e la verità? Quando Sartre intervenne nella discussione (in un’intervista pubblicata con il titolo Sartre risponde), fece osservare che il problema non è tanto quello di mostrare come il soggetto sia “decentrato”, ma come possa fare qualcosa di ciò che si è fatto di lui. Osservazione importante per noi (“soggetto”, “uomo”, “individuo” sono a questo livello perfettamente sovrapponibili); perché rimanda al problema di una “prassi” – e di una morale. Ma di nessun valore per il “campo opposto”. “Fare” qualcosa di sé, “farsi” – è un linguaggio che convoca un agente “reale”, “pensato” nel suo potenziale di autonomia, rispetto a ciò che è già (stato) “fatto” (eventualmente: “di lui”). Ma se “pensare” vuol dire integrarsi (essere già integrato) nel “pensabile” (che è l’unico “reale”, perché “decide” del significato), allora questo agente (“libero”, per definizione) semplicemente non c’è: niente può essere pensato (può avere un significato), “per sé”, al di fuori del sistema
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(dei sistemi) che lo (ri)producono – come “reale”. Il “senso” – per esempio di un atto “libero”, che valga in quanto “è deciso” dall’agente – è un «effetto di superficie, un tremolio luminoso, una schiuma», dice Foucault (D. et é., I, p. 514 – intervista con Madeleine Chapsal, 1966); e poco più avanti evoca un pensiero «“libero” che emerge e scintilla per un istante». Questo, come uno sparo nel buio, è tutto ciò che si può concedere alla libertà di un pensiero (e di un agente) che “si cerca” e “si vuole” – “oltre il limite” della struttura. Negli anni ’80, in tutti i testi (non solo, forse non tanto, i due libri pubblicati) che gravitano intorno al problema della “cura di sé”, dell’etica antica, è indubbio che il tema della soggettività, di quel nesso soggetto/libertà/verità, trovi accenti nuovi. Del resto, nell’introduzione al primo dei due libri concepiti e pubblicati assieme1 possiamo leggere che queste nuove ricerche sono nate dalla curiosità – l’unico tipo di curiosità che conta, «celle qui permet de se déprendre de soi-même»2. È vero, ed è importante, che questa stessa introduzione conclude («Telle est l’ironie de ces efforts qu’on fait pour changer sa façon de voir»3) nel senso di una continuità: l’insieme di queste ricerche, questa nuova “problematizzazione”, è presentata, dal punto di vista soggettivo, come l’approdo ultimo di un indirizzo di studi perfettamente unitario. Questo indirizzo ha di mira il progetto di una “storia della verità” – che passa per i diversi momenti o figure dell’identità/alterità (il “razionale” e il “folle”, il sano e il malato), dell’ordine del discorso, (nei suoi principi di coerenza e nelle sue “soglie” di rottura), 1. Cfr. M. Foucault, L’usage des plaisirs. Histoire de la sexualité II, Gallimard, Paris 1984 (tr. it. di L. Guarino, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, Feltrinelli, Milano 1984). 2. Ivi, p. 14; «quella che permette di liberarsi da se stessi». 3. Ivi, p. 19; «tale è l’ironia di questi sforzi che si fanno per cambiare il proprio modo di vedere»
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degli effetti pratici dei diversi saperi (nella “rete” delle relazioni di potere), e infine di una “sistematica” del rapporto di sé a sé come strumento/processo di costruzione del soggetto etico, morale. E tuttavia, in questa continuità, c’è qualcosa di essenziale che viene mutando – ed è, intanto, il rapporto tra la ricerca storica e la “coscienza filosofica” di chi la conduce. È Foucault stesso, dopo aver ribadito che i due libri licenziati sono «studi di “storia”», ad aggiungere che in essi si trova al tempo stesso un «exercice philosophique» – il cui «enjeu» è «de savoir dans quelle mesure le travail de penser sa propre histoire peut affranchir la pensée de ce qu’elle pense silencieusement et lui permettre de penser autrement»4. Il che è evidentemente in rapporto con la caratterizzazione che immediatamente precede della filosofia (di una “filosofia perenne”) in questi termini: «L’‘essai’ […] est le corps vivant de la philosophie, si du moins celle-ci est encore maintenant ce qu’elle était autrefois, c’està-dire une ‘ascèse’, un exercice de soi, dans la pensée»5. C’è dunque l’emergenza – non di una forma o funzione “culturale”, che è insieme il principio e il limite di ciò che può essere pensato, ma di un “sé” che si mette a prova nel pensiero – che “accede” al pensiero “pensandosi” e che agisce su se stesso in quanto “pensa”; e questo crea la possibilità di un “cambiamento” nel pensiero. Siamo lontani dalle formule usate al tempo di Le parole e le cose, nel quadro della dominante polemica (filosofica) antiumanistica. Allora si diceva: «qu’est qui pense?
4. Ivi, p. 15; «di sapere in quale misura il lavoro di pensare la propria storia può affrancare il pensiero da quello che pensa silenziosamente, e permettergli di pensare altrimenti». 5. Ibidem; «il “saggio” è il corpo vivente della filosofia, almeno se questa è ancora oggi quello che era un tempo, cioè una “ascesi”, un esercizio di sé nel pensiero».
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Le ‘je’ a explosé (voyez la littérature moderne) – c’est la découverte du ‘il y a’. Il y a un on»(D. et é., I, p. 515)6. O ancora: On pense à l’intérieur d’une pensée anonyme et contraignante qui est celle d’une époque et d’un langage. […] La tâche de la philosophie nouvelle et de toutes ces disciplines théoriques que je vous ai nommées [corsivo nostro; si tratta naturalmente della linguistica, dell’antropologia, della psicoanalisi lacaniana – di tutte le discipline in cui domina il metodo strutturale] c’est de mettre au jour cette pensée d’avant la pensée, ce système d’avant tout système… Il est le fond sur lequel notre pensée ‘libre’ émerge et scintille […]. (Ibidem)7
In questo contesto evidentemente non può esserci posto per espressioni come esercizio di sé nel pensiero, oppure esercizio filosofico (che tende a) liberare il pensiero da ciò che pensa silenziosamente e permettergli di pensare altrimenti. Quando Foucault commenterà i suoi ultimi lavori si troverà a insistere (per esempio in un’intervista pubblicata nel 1984 con il titolo L’éthique du souci de soi comme pratique de la liberté, in D. et é., IV) proprio sulla possibilità che l’insieme dei “giochi di verità” (espressione che adesso sostituisce, ma non certo sinonimicamente, quella di “sistema”) possa essere in qualche modo mutato o sovvertito “dall’interno” (non semplicemente “lasciare il posto” a un’altra “forma generale” di episteme). L’intervistatore gli pone il problema dell’“agente” di questi cambiamenti («Il y a toujours le problème du ‘qui’: c’est un groupe, un ensemble?»; D. et é., IV, p. 7258), e la risposta è: 6. «che cos’è che pensa? L’“io” è esploso (guardate la letteratura moderna) – è la scoperta del “c’è”. C’è un si». 7. «Si pensa all’interno di un pensiero anonimo e costringente che è quello di un’epoca e di un linguaggio. […] Il compito della nuova filosofia e di tutte quelle discipline teoriche che vi ho citato è di portare in luce questo pensiero di prima del pensiero, questo sistema di prima di qualsiasi sistema… È il fondo sul quale il nostro pensiero “libero” emerge e scintilla […]». 8. «C’è sempre il problema del “chi”: è un gruppo, un insieme?».
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«Cela peut être un groupe, un individu. […] Qui dit la vérité? Des individus qui sont libres, qui organisent un certain consensus et qui se trouvent insérés dans un certain réseau de pratiques de pouvoir et d’institutions contraignantes» (D. et é., IV, pp. 725-726)9. Quest’ultima frase è, vorremmo dire, estremamente “tipica”. Nella sua tripartizione, rispecchia quasi pedantescamente la lettura “continuista” che Foucault vuol dare del suo lavoro. Ma se l’organizzazione del consenso rimanda alla strutturazione di un sapere “dominante”, diffuso, “omogeneo”, e le pratiche del potere e istituzioni costringenti alla “rete” dei rapporti di forza, questi individui si trovano innanzitutto connotati come liberi – senza virgolette! Foucault si trova in qualche modo impegnato a “pensare” la libertà; e ricordiamo che la nostra penultima citazione, dall’intervista del ’66, non era che la risposta a questa domanda: «Sartre nous avez appris la liberté, vous nous apprenez qu’il n’y a pas de liberté réelle de penser?» (D. et é., I, p. 515)10. È chiaro che questa nuova inflessione del pensiero (del linguaggio) di Foucault si deve in primo luogo alla specificità del suo nuovo oggetto di studio. Il tipo di soggettività che emerge dalle pratiche del souci de soi è una soggettività morale, etica. Bisogna dunque “prendere sul serio” l’etica. Nell’intervista dell’84 che abbiamo citato da ultimo Foucault usa espressioni come questa: «qu’est-ce que l’éthique, sinon la pratique de la liberté, la pratique réfléchie de la liberté?» (D. et é., IV, p. 711)11. 9. «Può essere un gruppo, un individuo. […] Chi dice la verità? Degli individui che sono liberi, che organizzano un certo consenso e che si trovano inseriti in una certa rete di pratiche di potere e di istituzioni costringenti». 10. «Sartre ci aveva insegnato la libertà. Lei ci insegna che non c’è una reale libertà di pensare?». 11. «che cosa è l’etica, se non la pratica della libertà, la pratica riflessa della libertà?».
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E subito aggiunge: «La liberté est la condition ontologique de l’éthique. Mais l’éthique est la forme réfléchie que prend la liberté» (D. et é., IV, p. 712)12. E tuttavia, non ha torto di insistere sulla continuità della sua ricerca. Questa che abbiamo chiamato una nuova inflessione del suo pensiero non nasce certo da una improvvisa “conversione” – Foucault non abbandona quella veste di “intellettuale specifico”, che ha tante volte rivendicato, per “passare” ai problemi “generali”, “tradizionali” della filosofia.
“Fine del soggetto”, “morte dell’uomo” e attualità della rivoluzione Dopo Le parole e le cose, quella che lui stesso definisce come una “seconda tappa” del suo cammino (o terza, se si considera il “dittico” inaugurale, formato dalla Storia della follia e da Nascita della clinica) si era configurata come un percorso intorno al “nesso” sapere/potere – che ha il suo centro in quello che è forse il più bello tra i suoi libri, Sorvegliare e punire. È un percorso tutto inscritto (attivamente) nel “contesto” del dopo ’68. C’è come una “politicizzazione” della sua figura, che destò anche un certa sorpresa (per esempio nei suoi due grandi “mentori”, Dumézil e Canguilhem; ma una valenza politica “immediata”, vedremo meglio, aveva già largamente segnato la ricezione de Le parole e le cose – se per esempio in un film di Godard del ’67, Due o tre cose che so di lei, il libro viene utilizzato come la metonimia di un nuovo “mandarinato” intellettuale, che vuole decretare “la fine della rivoluzione”). Foucault
12. «La libertà è la condizione ontologica dell’etica. Ma l’etica è la forma riflessa che prende la libertà».
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diventa in questi anni una figura familiare delle lotte studentesche e operaie (come Sartre, e spesso accompagnandosi con lui). E il suo impegno militante culmina nella fondazione del GIP (gruppo di informazione sulle prigioni), che rimane uno dei più begli esempi di contributo attivo, specifico, di un “grande” intellettuale all’azione politica. Ma questa “vocazione” politica, che continuerà a manifestarsi attivamente fino alla fine della sua vita, non è certo assente prima del ’68. Foucault si è formato in un contesto, il dopoguerra, in cui la passione della politica è assolutamente centrale: in Francia, è quello che è stato chiamato “il secolo di Sartre” – dell’Indocina, dell’Algeria. L’iscrizione al PCF è del 1950. Ne uscirà assai presto, nel ’52 – prima dei “fatti d’Ungheria”, ma in relazione, pare (cfr. la cronologia in apertura di D. et é.), con il famoso “affare dei camici bianchi” (l’ultimo grande episodio di paranoia repressiva, con un marcato carattere antisemita, del “regno” di Stalin). Il problema dello stalinismo è un decisivo banco di prova per questa generazione di “intellettuali impegnati” (in Francia più che in Italia – essenzialmente per il diverso rapporto dei rispettivi partiti comunisti con “il mondo della cultura”); prima e dopo il XX Congresso, lo “stalinismo” appare come una tipica forma mentis del “partito di classe”. Althusser è in questi anni, per Foucault, un costante punto di riferimento politico-intellettuale. È in questo clima che matura un bisogno di revisione e chiarificazione filosofica all’interno della tradizione marxista – inevitabilmente caratterizzata in rapporto alla teoria e alla prassi dei “partiti rivoluzionari”. E questo bisogno, coerentemente, investe prima di tutto la questione della “soggettività rivoluzionaria” – poiché la teoria (o l’ideologia) del partito, del movimento “marxista”, appare come lo strumento essenziale per il costituirsi dell’agente effettivo della lotta rivoluzionaria, del proletariato come soggetto politico.
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Nel 1960 esce lo scritto di Althusser Sul giovane Marx13, che è, caratteristicamente, una recensione a una raccolta di studi sul soggetto eponimo provenienti tutti, tranne uno (che è di Togliatti) dal “campo socialista”. È il primo testo in cui Althusser enuncia la sua polemica “antiumanista” – che rimarrà un polo, un elemento strutturante di tutta la sua “lettura” di Marx (della sua proposta di “rifondazione teorica” del marxismo). Più avanti, nel 1973, questa stessa polemica sarà esplicitamente messa in relazione con il problema dello stalinismo (e della “destalinizzazione”): la Réponse à John Lewis uscirà in traduzione italiana con il titolo Umanesimo e stalinismo (e il sottotitolo: I fondamenti teorici della deviazione staliniana, De Donato, Bari 1973). La “deviazione” umanistica del marxismo (che corrisponde alla permanenza nel movimento e nella direzione politica dell’elemento piccolo-borghese, e tende a “riassorbire” Marx nella tradizione “idealistica” della borghesia “rivoluzionaria” – il Settecento e Hegel), si manifesta pienamente, due volte, in occasione dello “scandalo” stalinista: intanto perché ne dà una lettura, una critica, di destra (lo stalinismo è giudicato alla luce di categorie “astratte” – libertà, diritti – che rimandano al mito ideologico del “valore universale della persona”, e presuppongono l’intemporale “essenza umana”); ma poi, più sottilmente, perché lo stalinismo stesso non è, dice Althusser, che la rivincita di uno schema di pensiero tipico della Seconda Internazionale (del suo “revisionismo”), fondato sulla complementarità/giustapposizione di un “moralismo/volontarismo” (l’Uomo e i suoi “valori”) e di un “economicismo” (la necessità, il calcolo economico, nel mondo delle “cose”). Quando accadrà a Foucault di parlare dello stalinismo, lo farà nel quadro di una strumentazione analitica ben altrimenti penetrante – che nasce dalle sue ricerche degli anni ’70. Ma la 13. Poi in L. Althusser, Per Marx, tr. it. di F. Madonia, nota intr. di C. Luporini, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 33-67.
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polemica antiumanista (l’“orizzonte filosofico” di Le parole e le cose) rimane legata a questa matrice politica – in cui è questione essenzialmente dell’intelligibilità (e del senso-direzione) del processo storico come luogo di affermazione/espressione di una soggettività (eventualmente “rivoluzionaria”), e del fallimento “pratico” (attraverso lo stalinismo e le ambiguità della destalinizzazione) della guida “marxista” della lotta rivoluzionaria. In Althusser, com’è noto, questa polemica è del tutto complementare all’altra, altrettanto “strutturante”, contro lo “storicismo”. Esse anzi in realtà coincidono – se lo “storicismo” è per lui un pensiero “lineare” e “progressivo” della storia, a cui sarà da opporre il famoso “processo senza soggetto né fini”. Questa contrapposizione (la formula non lascia dubbi) non avrebbe senso se lo storicismo non contenesse in sé il rinvio a un soggetto “trans-storico”, sostanzialmente eguale a se stesso – l’“essenza umana”, appunto. Ma si può anche dire che le due polemiche si incrociano o si mediano nel rifiuto di una terza nozione (oltre a “uomo” = essenza umana e “storia” = divenire omogeneo di un unico principio unificatore): quella di “totalità” – nella sua versione, secondo Althusser, hegeliana, quella di un insieme coerente e esaustivo di relazioni che nascono dalla differenziazione e ricomposizione (alienazione e ricostituzione) di un unico “centro” (o unità semplice, o principio semplice); versione del tutto diversa da quella di Marx, altrimenti “complessa” (perché appunto non gravitante su un unico “centro”; Luporini, nella sua introduzione alla traduzione italiana del Per Marx, la definisce, spiegando Althusser, così: «l’organizzazione e l’articolazione di una complessità, cioè […] una unità di struttura. Non però […] di una struttura omogenea o simmetrica nelle sue parti»14). Foucault, quanto a lui, non ha ragione di imbarazzarsi di simili distinzioni. Anzi, il rifiuto investe in lui direttamente il tema (il pensiero) della “dialet14. L. Althusser, Per Marx, cit., p. XIX.
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tica” (a proposito della quale Althusser operava in modo del tutto parallelo, “mantenendola” nel campo teorico del marxismo a condizione di esplicitarne un’accezione rigorosamente non hegeliana). Per Foucault, le due nozioni sono perfettamente sovrapponibili – “dialettica”, come “totalità”, sono i due “nomi” dello stesso progetto di unificazione del “reale” (altra nozione “rifiutata”, proprio perché implica, o si costituisce in, questo particolare “trattamento”), una unificazione che tende al “semplice”, e perciò ha bisogno di “appoggiarsi” sul presupposto dell’“essenza umana”. Vale forse la pena di citare un po’ lungamente un’altra intervista del 1966, che reca il titolo L’uomo è morto?: la dialectique, elle, appelle nécessairement l’humanisme. Elle l’appelle pour plusieurs raisons: parce qu’elle est une philosophie de l’histoire, parce qu’elle est une philosophie de la pratique humaine, parce qu’elle est une philosophie de l’aliénation et de la réconciliation […]; parce qu’elle est toujours, au fond, une philosophie du retour à soi-même, la dialectique promet en quelque sorte à l’être humain qu’il deviendra un homme authentique et vrai. Elle promet l’homme à l’homme, et dans cette mesure n’est pas dissociable d’une morale humaniste. En ce sens, les grands responsables de l’humanisme contemporain, ce sont évidemment Hegel et Marx. (D. et é., I, p. 541)15
Dialettica, totalità e filosofia della storia “fondano” l’uomo, potremmo dire, in quanto gli permettono di “salvarsi”: lo ricon-
15. «la dialettica richiama necessariamente l’umanismo. Lo richiama per diverse ragioni: perché è una filosofia della storia, perché è una filosofia della pratica umana, perché è una filosofia dell’alienazione e della riconciliazione. […] poiché è sempre, in fondo, una filosofia del ritorno a sé, la dialettica promette in qualche modo all’essere umano che diventerà un uomo autentico e vero. Promette l’uomo all’uomo, e in questa misura non si può dissociare da una morale umanista. In questo senso, i grandi responsabili dell’umanismo contemporaneo sono evidentemente Hegel e Marx».
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ciliano con il “mondo”, in quanto “pensano” l’insieme delle differenze e delle relazioni come avente il suo “fondamento”, e la sua “origine”, in lui. È Foucault stesso che insiste – ancora nell’intervista con M. Chapsal – sullo “sfondo politico” di questo antiumanismo, nel momento stesso in cui si inscrive in un movimento collettivo, di lotta (la lotta di classe nella teoria, diceva Althusser). Notre tâche est de nous affranchir définitivement de l’humanisme, et c’est en ce sens que notre travail est un travail politique, dans la mesure où tous les régimes de l’Est ou de l’Ouest font passer leur mauvaise marchandise sous le pavillon de l’humanisme… Nous devons dénoncer toutes ces mystifications comme actuellement [1966], à l’intérieur du P.C., Althusser et ses compagnons courageux luttent contre le ‘chardino-marxisme’ [cioè un “miscuglio” tra il marxismo e il pensiero di un filosofo-antropologo cristiano allora in voga, che ci è già accaduto di menzionare, Teilhard de Chardin]. (D. et é., I, p. 516)16
È su questo “sfondo” che interviene l’altra grande “novità”: uno sviluppo delle scienze umane di ispirazione strutturalista così impetuoso, e ricco di risultati, da suggerire la generalizzazione del “metodo”, della consapevolezza metodologica, fino al limite di una “filosofia”. In questo “metodo” Foucault trova la possibilità di costruire “in positivo” l’oggetto della sua ricerca (che è infinitamente più “generale”, rispetto alle singole “scienze umane”). Si tratta di organizzare il “campo” della ricerca (la storia – come luogo di 16. «Il nostro compito è di liberarci definitivamente dall’umanismo, e in questo senso il nostro lavoro è un lavoro politico, nella misura in cui tutti i regimi dell’Est o dell’Ovest fanno passare la loro cattiva merce sotto la bandiera dell’umanismo… Dobbiamo denunciare tutta questa mistificazione come attualmente all’interno del P.C. Althusser e i suoi generosi compagni lottano contro lo “chardino-marxismo”».
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formazione delle identità, dei saperi, delle rappresentazioni) secondo regole, principi, “griglie” del tutto estranei al punto di vista “trascendente” di un soggetto pre-costituito. Diventa possibile “descrivere” questo “oggetto” (come avviene per i sistemi di linguaggio, per l’inconscio, per le società dette “primitive”, per i miti e le religioni) “liberandolo” da ogni relazione costitutiva con l’attività di un soggetto “libero”, da ogni relazione “espressiva” con la “coscienza” di questo soggetto. Senza dimenticare, sul duplice versante della creazione e della critica, dunque della costituzione dell’“oggetto” letterario-artistico, l’esempio dell’“avanguardia” (per dirla in breve) – a cui Foucault in questa fase si richiama assai spesso. Anche lì (dal nouveau roman alla musica di Boulez, ecc.) la costruzione della “forma” porta in luce un “processo senza soggetto” (senza “espressione”); ed è facile ovviamente “risalire” fino a Mallarmé (momento inaugurale di una “modernità” artistica), in cui la creazione poetica coincide con l’atto di sparizione (elocutoria) del soggetto (tra i marginalia di Foucault, in questi anni, si trova puntualmente una recensione al celebre libro di Richard – nouvelle critique – su Mallarmé). Di qui Foucault ricava una continua insistenza, nel suo costante processo di auto-esegesi, di “esplicitazione” metodologicofilosofica, sulla nozione di “formalismo”; in cui individua una continuità che risale (dal punto d’arrivo dello strutturalismo nelle scienze umane) fino al “formalismo logico” di Russel (e al primo Wittgenstein) – il che certo “suona falso”, a prima vista, ma può trovare una giustificazione, sul piano dell’analogia, in quella ricorrente tentazione del linguaggio “formalizzato” di cui può essere un eloquente esempio, per restare nell’ambito degli strutturalisti più “importanti”, il Sistema della moda (1967) di Barthes. Foucault descrive sistematicamente l’oggetto della propria ricerca nei termini di una “cartografia” – organizzata secondo linee di somiglianza e di differenza, principi di regolarità e di distribuzione, “faglie”, “soglie”, disseminazione di
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segni, indizi esattamente “classificabili”, rilievi e “stratigrafie”. Quando M. Chapsal, nell’intervista del ’66 già più volte citata, cercherà timidamente di prendere le parti dell’honnête homme, che può sentirsi dépassé da un simile “rigore” (come via d’accesso obbligata al “sapere”), Foucault risponderà che l’honnête homme è dépassé perché si è formato nell’ideologia umanistica che domina l’insegnamento; per questo è “tagliato fuori” du monde scientifique et technique qui, lui [non certo il “cuore umano”], est notre monde réel. […] l’effort […] de notre génération […] c’est précisément de montrer que notre pensée, notre vie, notre manière d’être, jusqu’à notre manière d’être la plus quotidienne, font partie de la même organisation systématique et donc relèvent des mêmes catégories que le monde scientifique et technique. (D. et é., I, p. 517)17
Questa è, possiamo dire, en gros, la “coscienza filosofica” che Foucault “si porta dietro”, quando abborda, alla svolta degli anni ’70, il “nuovo corso” della sua ricerca. Sul versante più specificamente “politico”, essa è tutta rivolta alla liquidazione di quella “filosofia della storia” in cui si fondava, nella tradizione marxista e comunista, la prospettiva della rivoluzione. Ma il nuovo oggetto della ricerca “sul campo” non è più, adesso, “la storia” (storia dell’“uomo” e dei saperi, delle forme di unificazione della conoscenza e di “distribuzione” delle identità); è piuttosto – determinatamente, ravvicinatamente, “integralmente” – “la società” – nella sua struttura immediatamente “politica”, nel senso che si tratta di descrivere al suo interno il modo di costituzione, il modo di operare, il modo di produrre effetti delle “relazioni di potere”. Contemporaneamente, qual-
17. «dal mondo scientifico e tecnico, che è il nostro mondo reale. […] lo sforzo […] della nostra generazione […] è precisamente di mostrare che il nostro pensiero, la nostra vita, il nostro modo d’essere, e fino al nostro modo d’essere più quotidiano fanno parte della stessa organizzazione sistematica, e rilevano delle stesse categorie del mondo scientifico e tecnico».
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cosa di essenziale viene cambiando nello “scenario” politico in cui questa ricerca si inscrive (ci torneremo subito). Definendo questo nuovo oggetto della ricerca nei termini che conosciamo (il nesso sapere/potere), Foucault ne sottolinea insieme i due aspetti, di continuità e cambiamento. Il piano su cui adesso “si sposta” non è quello della sistematicità interna (il vincolo epistemico che “organizza”, attraversando le discipline, una specifica configurazione storica, unitaria, del “sapere”); è quello degli “effetti pratici”, nella vita sociale – che sono possibili in quanto le diverse “ingiunzioni di verità”, che si producono in un sapere, producono e riproducono, altresì, posizioni e strategie di potere, che a loro volta ne alimentano e ne condizionano contenuti e forme, coerenze e sviluppi. I saperi si trovano ad essere totalmente “imbricati” nella “rete” dei poteri, fino al limite della funzionalità riproduttiva; e a loro volta producono nuove configurazioni, forme di organizzazione, procedure e obiettivi, di questi stessi poteri. In Sorvegliare e punire, il libro centrale di questo periodo, il “soggetto delinquente” non si costruisce come un “oggetto del sapere” (com’erano il parlante, il vivente, il produttore), ma direttamente come “punto di applicazione” di una pratica – che non è solo l’incarcerazione (una nuova “gestione” della pena), ma si collega a tutta una nuova “strategia di governo” (governo delle popolazioni, “inquadramento” della forza-lavoro, ecc.). Il cambiamento, al livello della pena, si intreccia con nuove possibilità, con nuove funzioni, con nuove “teorie” (metodi e “idee”) del “sorvegliare” e del “produrre”; per questo il libro si apre con una dettagliata descrizione dello spaventoso supplizio del “parricida” Damiens – “emblema” della vecchia concezione della legge, della colpa e della trasgressione, che sta per lasciare il posto a una nuova, diversa economia delle pene. Il risultato – che è insieme un presupposto – è una nuova distribuzione del potere – nelle cui pratiche “si incorporano” i diversi saperi; i protagonisti della storia che Sorvegliare e punire racconta sono, più ancora
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che i giuristi, gli economisti o i philosophes, i luogotenenti di polizia e i direttori delle prigioni (le loro “relazioni di servizio”, i loro metodi di gestione). Ma l’emergere di questo nuovo campo della ricerca, nel contesto “post-sessantottesco”, non può che riproporre il problema di una “visione d’assieme” – della politica, della storia moderna del potere; il che significa rimettere in discussione quella “coscienza filosofica” che in relazione ad altri “oggetti di studio”, e in un altro contesto storico-politico, si era formata. Se ritorniamo (sulla traccia di questa traiettoria “trasversale”, che è quella dell’impegno politico di Foucault) alla polemica “ideologica” (o anche “filosofica”) che aveva accompagnato Le parole e le cose, una cosa dovrebbe colpirci: la “linea d’attacco” contro Foucault non è, da parte marxista (cioè sul fronte più “caldo” della discussione, a parte Sartre), quella che potrebbe sembrare più “naturale” – un argomentato rifiuto di assimilare l’eventuale “umanismo” di Marx alla tradizione idealistica dell’“essenza umana”. Il che certo ci fa pensare, intanto, che la critica di un modo di concepire il processo rivoluzionario in relazione con una nozione “ideologica” dell’“uomo” era tutt’altro che infondata (forse solo in Italia, da parte di un “vero” teorico marxista, Luporini, fu fatto osservare – ma discutendo con Althusser, non con Foucault – che il rifiuto di una concezione “organicistica” e lineare del processo storico non comporta necessariamente la scomparsa di ogni problematica dell’“uomo” – che sarà quindi da ricostruire, o da “ritrovare” in Marx, fuori del condizionamento “idealistico”18). Ma ciò poté avvenire, anche, perché si riteneva di disporre di un altro, ben più “massiccio”, argomento. Quando nel film di Godard che abbiamo citato la studentessa lancia i pomodori contro la vetrina del libraio che espone Le parole e le cose non lo fa per protestare contro una 18. Cfr. l’intr. a L. Althusser, Per Marx, cit.
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critica rivolta ad un modo di concepire la rivoluzione che sarebbe ancora “compromesso” da residui idealistici; lo fa, più semplicemente, perché ritiene (nel contesto di quella polemica) che il libro abbia lo scopo di “chiudere l’orizzonte” della storia, di “immobilizzarla”, di rendere per sempre impossibile (illusoria) ogni pratica, ogni lotta, rivoluzionaria. Nella prospettiva del “dopo ’68” la storia è di nuovo (o appare) “in movimento”. Non certo come il luogo in cui si alternano e si trasformano, “sopra la testa” degli uomini, delle regolarità di sistema, ma come il campo di un conflitto aperto, tra una forza costrittiva e una pratica di liberazione, in cui si prepara e si realizza, coscientemente, il “sovvertimento” generale. Non si tratta solo di una nuova percezione dell’attualità della rivoluzione, ma di un cambiamento che investe direttamente il modo di concepirla e di praticarla: il problema della sua “guida” – non più un unico “centro”, garante dell’unità di teoria e prassi, “soggetto” (“il partito”) che incarna la coscienza di classe; quello dei suoi “luoghi” – i terreni di lotta sono, in principio e di fatto, tutti gli ambiti o le sfere della riproduzione sociale, le forze in movimento quelle che in ciascuna contestano l’esercizio del potere, senza “gerarchie” precostituite. Mettendo al centro dei suoi interessi teorici, e del suo lavoro di ricercatore, l’analisi del potere, Foucault interpreta in questo quadro il suo proprio ruolo di “intellettuale specifico” – che è “impegnato”, non perché aderisce alle “giuste cause”, ma perché si assume il compito di diagnosticare il presente, fabbricando, per i bisogni e le necessità di questo presente, una boîte à outils. Per ciò stesso, potremmo dire, “il potere” diventa oggetto dell’analisi, della descrizione, nella prospettiva della battaglia (è l’ultima parola di Sorvegliare e punire) contro il potere. Su questo terreno si pongono altri, nuovi problemi – e nuovi rischi di aporia, di impasse. Al solito, ciò emerge soprattutto se guardiamo a quel grande “paratesto” (interviste e conferenze, dibattiti e lezioni) in cui Foucault “si spiega” (vale a dire
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che esplicita e confronta, nella discussione, i criteri e le conseguenze delle sue analisi, in una prospettiva “generale” – o “filosofica”; un libro come Sorvegliare e punire, che è anch’esso uno “studio di storia”, “sta in piedi”, perfettamente, da sé). Uno dei temi più controversi da questo punto di vista è quello che potremmo chiamare della “valutazione” del potere – o della sua “forza”. L’analisi di Foucault, abbiamo visto, fa emergere come modalità essenziale dell’esercizio del potere il suo intreccio con il sapere – un sapere degli uomini in quanto sono o possono essere “oggetto” del potere, e che li porta a “pensarsi”, a “conoscersi”, proprio nei termini in cui il sapere/potere li “descrive”. Di qui potrebbe venire una rappresentazione del potere come di una “macchina” che funziona “irresistibilmente: se non può trovare nella coscienza degli individui su cui si “applica” – che “si sanno” appunto, prima di tutto, come “oggetti” di questa applicazione – il principio di una resistenza. La “risposta” di Foucault è duplice. Intanto, è l’insistenza (quasi un leitmotiv) con cui ripete che “non esiste” un potere con la P maiuscola. Non c’è un unico “centro”, un’articolazione compatta e unitaria che esprima qualcosa come una “volontà” (dell’istituzione statale, della “classe dominante”), e verifichi i suoi effetti nella conformità ad un’unica “prescrizione”. Di qui deriva la formula fortunata (scelta per esempio come titolo di una raccolta, in traduzione italiana nel 1977, di – è il sottotitolo – interventi politici) che presenta la descrizione e l’analisi del potere come una Microfisica del potere. C’è in ciò anche, se si vuole, un certo coraggio intellettuale – pensando alla rozzezza del discorso allora dominante, nell’area gauchiste, intorno a termini come “il potere” o “il sistema”. Ma questo non è sufficiente a respingere l’obiezione: “spostare l’accento” da una “coerenza logica” (riconoscibile a priori) che unirebbe tutte le “pratiche” del potere, riconducendole entro un unico “piano”, verso la descrizione e l’analisi degli effetti specifici che le singole relazioni di potere producono nei loro ambiti
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particolari, a partire da una strumentazione a sua volta specifica, che nasce da una determinata configurazione del “campo” e si innerva nelle nozioni e nei calcoli di uno specifico “sapere” – tutto ciò è certo estremamente “salutare”, in quanto costringe a un resoconto ben altrimenti “fine” di ciò che concretamente “accade”; e vale, sul piano di un immaginario del potere, a liquidare l fantasmi del grande Leviatano, di una piovra i cui tanti tentacoli non sono che il prolungamento di un’unica “testa” – che si può una volta per tutte “tagliare”. Ma, se si pone il problema della “lotta contro il potere”, il quadro che ne risulta non è certo incoraggiante. Che si tratti di una prigione o di una scuola, di una fabbrica o di un ospedale, il potere non sta soltanto nelle norme, nei regolamenti che stabilisce (e che applicano nei vari “casi” – il detenuto e lo studente, l’operaio e il malato – “la stessa” relazione – di comando e obbedienza); una microfisica del potere ci fa vedere il disegno stesso degli edifici – l’organizzazione e la distribuzione degli spazi, dei movimenti, ecc. – come “strumento di governo”, rispetto alle “utilità” proprie della “funzione” che a quella determinata popolazione si attribuisce (secondo un particolare “sapere” della devianza e dell’istruzione, della produzione e della malattia). L’individuo non si trova mai “di fronte” al potere; la sua identità di relazione è “costituita”, prima di tutto, dal “luogo” che si trova a occupare – in una “situazione” che le pratiche del potere sembrano non far altro che “rispecchiare”, perché ne producono, insieme, la genesi e le forme determinate di intelligibilità. Ma Foucault aggiunge, a questo primo elemento della sua risposta, un secondo leitmotiv: dovunque c’è potere, c’è resistenza al potere. Si resiste dunque al potere, necessariamente (altra cosa è poi ovviamente che “si vinca” o “si perda”). Perché? Sarebbe ingenuo aspettarsi da Foucault una risposta diretta – meglio, aspettarsi che possa “prender sul serio” questa domanda. E certo si potrebbe rispondere che la “resistenza al potere” – diffusa,
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multiforme, tenace – è nella storia un “fatto” – che può e deve emergere in tutte le analisi particolari. Andare oltre, “prender sul serio” quella domanda, ci porterebbe molto rapidamente a porre la questione di quel “si” – che è poi il corrispettivo, on, dell’il y a – metterci alla ricerca di un “chi”, agente della resistenza, per definirlo in un qualche modo, per qualche tratto o elemento che sia in sé estraneo (“preesistente”) alla relazione di potere in cui è implicato. Dovremmo dunque entrare in un campo “classicamente” filosofico – e Foucault ce lo impedisce. Resta, che si pone a questo punto il problema di uno “spazio”, in cui la relazione di potere si esplica, che non è interamente “modellato” (e rimodellato) da questa stessa relazione – poiché è difficile immaginare un potere “efficace” che non riproduca se stesso. Se c’è un “ostacolo”, se l’asimmetria costitutiva di ogni relazione di potere può essere praticamente contestata (anzi lo è “continuamente”, di fatto), si potrà pensare che agiscano in quello spazio “altre cose” – bisognerà integrare nella descrizione altri elementi, riguardo alla possibilità della resistenza. Per quanto ogni discussione sulle “condizioni di possibilità” sia per Foucault un residuo di cattiva filosofia (perché rimanda alla funzione costitutiva di un “trascendentale”), bisogna ammettere che i rilievi che possono essere mossi da questo punto di vista (non fosse che sul terreno più immediatamente pratico-politico) non sono facilmente destituibili di ogni pertinenza. La più celebre delle obiezioni rivolte a Foucault, su questo terreno, è quella di Habermas. È apparentemente semplice, ma in realtà carica di presupposti e di implicazioni, e perciò non facile da riassumere. Quello che Habermas oppone a Foucault, direttamente, è la necessità di pensare la “pratica” della lotta, e insieme la possibilità della sua “efficacia” (profilo non certo irrilevante, se come Foucault e Habermas si “fa il tifo” per la contestazione) in legame con un “universale”. “Universale” che sta sul piano del “valore di verità” della negazione e dell’affer-
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mazione di valore che vi è congiunta – nella misura in cui si rifiuta, e si vuol sovvertire, un certo “stato di cose” perché “non corrisponde” al bene, o al giusto, ecc. Questa questione è insieme quella della “giustificazione” e del “consenso”. Si agisce “contro” un certo potere perché si è “convinti” (chi agisca) che quel potere è “ingiusto”; e questa convinzione dev’essere “condivisibile”, per tutti gli individui, all’interno di una certa cultura – il che implica, nella nostra, che essa sia “razionalmente” verificabile. Questo “vincolo dell’universale”, in cui l’individuo che lotta si trova ab origine impegnato, non può che essere ricercato, esibito, in una “zona di trasparenza” della ragione – in cui “le ragioni” di ciascuno comunicano con quelle degli altri, e si “riuniscono” (o possono unirsi). In questa forma, l’obiezione non può che attirarsi una fin de non-recevoir da parte di Foucault (che non ha torto di vedervi una critica “ostile”, che tende a disperdere affatto la specificità della sua ricerca). Ma essa ricopre, sotto il tema del “valore intrinseco”, del “modo di produzione” (razionale), di una pratica, un altro problema, più “concreto”. Se accettiamo di chiamare “soggetto”, senza tanti giri di parole, l’agente, la questione della genesi e insieme dell’efficacia (comunicativa) di una “lotta” si può formulare, senza l’intervento diretto di uno “schema di universalizzazione”, press’a poco così: che cosa “accade”, di fatto, nel (in un) soggetto, quando “sceglie” di compiere un’azione che il complesso di norme, interdetti, discipline (e la loro “interiorizzazione”) in cui è “costituito” (nella relazione di potere) dovrebbe rendergli propriamente impossibile (e impensabile)? Come agisce, o come si forma, la coscienza di scopo che “accompagna” l’azione (necessariamente: se il rapporto azione/agente è “riflesso” nella coscienza)? Non si tratta, qui, di predisporre intorno a una certa pratica (e “anticiparla” nella coscienza) una “rete di universali”, prodotti nella (dalla) comune ragione; ma di integrare un elemento della descrizione, che appartiene al dominio dei “fatti”. In mancanza di que-
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sto elemento, le pratiche della resistenza rimanderanno per lo più (come avviene in questi anni, sotto la lente di Foucault) ad una irriducibilità del “disordine”: c’è (“corre” lungo la storia del potere) un potenziale inesauribile di ostilità, di conflitto, perché il quadrillage della società, prodotto nel “dispositivo” del sapere-potere, genera (non solo ai suoi margini, ma anche come una sorta di “buco nero”, al suo interno) zone di esclusione, di sofferenza, disadattamento – come un “doppio fondo” della coscienza sociale in cui si accumulano materiali esplosivi. E a venire in primo piano, nella descrizione storica, saranno i fenomeni “contestativi” della devianza, della delinquenza, ecc. Se si mette tra parentesi, per dir così, il tema della “coscienza di scopo”, è il passaggio dalla resistenza alla lotta che rischia di sparire dall’orizzonte dell’analisi; e con esso il tema di una politica del cambiamento, della trasformazione – che “l’attualità del presente” impone, nel momento stesso in cui proietta l’analisi militante dei meccanismi del potere al centro dei propri interessi e bisogni teorico/pratici. Che qui ci sia qualcosa di cui la ricerca di Foucault non può al tutto “disinteressarsi” lo conferma per esempio (e contrario: mostra un effettivo rischio di impasse) una discussione con Chomsky – di cui è interessante la data, 1971, cioè verso l’inizio di questa seconda (o terza) fase del suo lavoro (anche se sarà pubblicata solo nel 1974: D. et é., II, pp. 471-512). Il titolo, che sarà dovuto al “moderatore” del dibattito televisivo (anche curatore della pubblicazione) è fortemente “sbilanciato”: Della natura umana: giustizia contro potere. Quando la discussione affronta direttamente il tema della politica (della lotta politica) Foucault deve rispondere a Chomsky sul tema della giustizia, di una idea di giustizia (legata a quella di una “natura umana”), che questi ritiene sia implicita (e debba essere esplicitata) nella “motivazione” della lotta contro il potere. Entrambi concordano sul fatto che gli intellettuali debbano sostenere la lotta politica fornendo gli strumenti di una criti-
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ca (il più possibile “fine”) del potere, ma Chomsky pensa che questo compito sia secondo rispetto a un altro (da cui in qualche modo deriva): quello di (traduciamo direttamente) «creare una visione di una società futura giusta; […] creare una teoria sociale umanitaria fondata, se possibile, su un saldo concetto dell’essenza della natura umana» (D. et é., II, p. 497). E questo è quello, naturalmente, che Foucault non può concedere. La sua refutazione rimane, a questo livello di generalità, su un terreno specificamente “filosofico”. Foucault si riferisce a Nietzsche, per obiettare che un’idea generale di “giustizia” (come di “natura umana”) non può essere “staccata” dalla sua “genealogia” – o piuttosto, in questo caso, dal suo operare all’interno di una società organizzata nel dominio di classe. E si spinge fino a proporre (almeno nell’ambito della “storia” capitalistico-borghese) una vera e propria riduzione sociologica (“classista”) della genealogia: quando «il socialismo di un certo periodo […] sognava di una natura umana liberata», partendo dal principio che «era effettivamente alienata nel sistema capitalistico», «quale modello utilizzava […]? Era in realtà il modello borghese. Considerava che una società disalienata era una società che faceva posto, per esempio, a una sessualità di tipo borghese, a una famiglia di tipo borghese, a un’estetica di tipo borghese» (D. et é., II, p. 498). (Il seguito è interessante, perché Foucault segnala che «è successo proprio così in Unione Sovietica e nelle democrazie popolari […]. L’universalizzazione del modello borghese è stata l’utopia che ha ispirato la costituzione della società sovietica» – a dimostrazione, una volta di più, di come la reazione, il giudizio sulla realtà politica, sulla vicenda storica del socialismo, giochi un ruolo essenziale nella sua polemica contro l’ideologia “umanistica”). Quanto all’idea di giustizia, Foucault concede che essa sia di fatto messa in opera nella lotta delle classi, da ambo le parti (con finalità opposte); ma proporne una versione “universale”, direttamente collegata alla natura umana, per farne il fondamento e la giu-
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stificazione dell’azione, significa introdurre una inutile mistificazione ideologica (con effetti politici che possono essere – sono stati – disastrosi). Non c’è niente in tutto ciò, ovviamente, che possa stupirci. Un certo stupore però insorge, quando ci accorgiamo che, in questo caso, Foucault non si limita a rifiutare la possibilità di un legame fra la soggettività dell’azione e l’universalità (della ragione, della morale) in cui trarrebbe origine, e dispiegherebbe il suo “senso”. In ciò avrà forse contato il “genere” in cui si trova impegnato (il dialogo, il dibattito pubblico); ma è certo anche la spia di una necessità problematica. Sta di fatto che Foucault sembra riprendere a proprio conto la questione “motivazionale”, del “perché” dell’azione (azione che per Chomsky rimane, in tutto il confronto, quella sua propria – di intellettuale impegnato nella lotta); e risponde così: «il proletariato fa la guerra alla classe dirigente perché […] vuole prendere il potere» (D. et é., II, p. 503). È chiaro che con questa “risposta” Foucault in realtà “rovescia il tavolo”. Se il giudizio sulla, la coscienza della, azione “fa tutt’uno” con l’obiettivo dato (obiettivo “finale”), i termini della discussione cambiano – ci ritroviamo nell’ambito di una “strategia”; possiamo allora certamente dire (come Foucault subito aggiunge) che è giusto, per il proletariato, ciò che serve a prendere il potere. Il “perché” che Chomsky va cercando sta chiaramente su un altro piano – quello dell’individuo (eventualmente non-proletario, come lui stesso e Foucault) che decide di partecipare a, di intraprendere, una lotta. “Come” (perché) lo fa? La risposta di Chomsky è che “giudica” questa lotta “giusta” – in base a una sua idea di “natura umana”, che può essere “vera” (ciò implica che egli si trovi in un “luogo”, “inizialmente”, “fuori” della lotta). Foucault respinge questa risposta – e argomenta coerentemente. Ma quando si prova a proporne un’altra, sua, non può che “far finta”. In realtà, “non riconosce” il problema.
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Sapere, potere, soggetto È noto che Foucault ha dedicato un intero libro a esporre i caratteri metodici della sua ricerca – e ha scelto, fin nel titolo, la metafora dell’archeologia («Archeologia del sapere»: ci troviamo subito dopo Le parole e le cose, quasi una gigantesca postfazione, alle soglie dell’apertura di un nuovo campo di ricerca). Si potrebbe applicare questa stessa metafora a un altro aspetto di questa ricerca – non il modo di costruire e descrivere l’oggetto della ricerca, ma il regime interno, il principio dinamico della ricerca stessa, il passaggio e la scelta dei diversi, successivi, “oggetti”. È come se la coerenza interna, il nesso sistematico che emerge su un determinato “piano” portasse in luce elementi o “forme” che non possono essere adeguatamente compresi e descritti senza uno scavo ulteriore – che faccia emergere un altro “piano” (in qualche modo “sottostante”). Abbiamo visto che “il potere”, nella rete delle sue relazioni, in cui si producono e si distribuiscono (non senza una qualche coerenza d’insieme) i suoi effetti, è ben altrimenti “efficace” di quanto farebbe supporre una sua “localizzazione” in un unico “centro”, in un’unica “volontà”. Le relazioni di potere agiscono “molecolarmente”, invadono l’intero “corpo” della vita sociale – non sono “revocabili”, dal “centro”, perché aderiscono, o al limite costituiscono il campo o la sfera particolare in cui operano. Ma questa stessa “vita sociale” (o “la storia”) dev’essere anche descritta, “pensata”, come il luogo di un permanente conflitto – altrettanto “capillare” e diversificato. Questo si esprime nella coppia potere/ resistenza al potere; che opera all’interno di ogni singola relazione, ma che può anche diventare, nella sua generalizzazione (vedremo che Foucault, quando si troverà a ripensarla in un nuovo contesto problematico, se ne mostrerà in qualche modo consapevole), un primo “schema di intelligibilità” per un divenire storico – che non sia interamente “subito”. Siamo dunque confrontati con il limite, con l’autosufficienza, del campo di ricerca (analisi delle relazioni di sapere/potere)
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in cui la coppia ha fatto la sua apparizione. Essa (il suo secondo termine) appare come portatrice di un’“apertura” verso nuovi “oggetti” della ricerca: non più “soltanto” l’analisi della relazione (che rimane asimmetrica, nonostante la simmetria che la coppia suggerisce), ma la “messa a tema” dell’elemento specifico che all’interno della relazione definisce il polo dell’antagonismo. Si apre insomma (o riapre) il problema della soggettività di una “prassi” – un agire cosciente che “proietta” all’interno della relazione quell’elemento di “irriducibilità” per cui il soggetto, l’agente, non è interamente costituito “nella logica” di quella relazione. Il problema di uno “spazio di autonomia” in cui il soggetto si costruisce (almeno in parte) come antagonista, perviene a un effetto di padronanza (un punto di vista “proprio”) sulla relazione in cui si trova (sui suoi effetti – per lui). In che cosa consiste, “da dove viene”, questa autonomia? Appare chiaro che il problema non può essere risolto sul terreno stesso in cui dapprincipio si pone. Foucault, in questa fase, tende ad eluderlo – “ha paura”, per dir così, che ogni tentativo di “risolverlo” faccia riapparire i fantasmi dell’“essenza umana”, della sovranità (gnoseologica ed etica) del soggetto. Ma questo non vuol dire che esso non continui a “insistere” – a rischio di formare quasi una “macchia cieca” nel bel mezzo della sua ricerca. Tanto più in quanto questa ricerca, verso la metà degli anni ’70, si approfondisce proprio nel senso di una “costruzione” del soggetto (o dell’individuo, in generale) tutta interna alla rete di relazioni in cui è “catturato” – l’insieme delle norme, delle discipline, dei saperi istituzionali. Nasce la nozione di bio-pouvoir – la troviamo per la prima volta, nel “paratesto” foucaultiano (nella variante della bio-politique) in una conferenza tenuta a Rio de Janeiro nel ’74, e pubblicata con il titolo La naissance de la médecine sociale: «Le contrôle de la société sur les individus ne s’effectue plus seulement par la conscience ou par l’idéologie [i modi “classici”, potremmo dire, dell’inte-
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riorizzazione], mais aussi dans le corps et avec le corps. […] Le corps est une réalité bio-politique; la médecine est une stratégie bio-politique» (D. et é., III, p. 210)19. Portare il potere (il controllo) “al livello” del corpo significa, a prima vista, togliere all’individuo, al soggetto, l’ultima possibilità di un riferimento a se stesso in cui si possa trovare “qualcos’altro” – rispetto ai significati imposti, costruiti, normati dall’insieme delle pratiche sociali. Nel 1976 Foucault pubblica un volume che si presenta come il primo di una serie, annunciata con il titolo collettivo Storia della sessualità20; ed è qui, in particolare nell’ultimo capitolo, che compare il termine bio-potere. Nella prefazione alla traduzione italiana, datata settembre 1977, il «problema generale» di cui la storia della sessualità è un esempio si trova formulato in termini che riassumono perfettamente l’intero indirizzo di ricerca del decennio: «in che modo […] la produzione di discorsi a cui si è attribuito […] un valore di verità è legata ai vari meccanismi e istituzioni di potere?»21. Il “passaggio” attraverso la sessualità (o “il sesso”) consente appunto di descrivere questo legame al suo livello più “materiale” – il corpo stesso dell’individuo, in uno dei suoi caratteri o funzioni più “proprie”, diventa disponibile come “oggetto” (e ciò significa: per l’individuo stesso, in quanto è “suo”) attraverso la produzione e riproduzione di un sapere che “comanda” (e insieme ne è “comandato”) un insieme di pratiche, di norme, di classificazioni, di proibizioni e distinzioni – e questo sapere nel suo insieme è “incomprensibile”, non si può descrivere senza collocarlo nell’“incrocio” dei «due assi lungo i quali si è sviluppata tutta la
19. «Il controllo della società sugli individui non si effettua più solamente attraverso la coscienza e l’ideologia, ma anche nel corpo e con il corpo. […] Il corpo è una realtà bio-politica; la medicina è una strategia bio-politica». 20. Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, tr. it. di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano 1978. 21. Ivi, p. 8.
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tecnologia politica della vita, che sono le discipline del corpo e la regolazione delle popolazioni» (l’espressione tecnologia politica della vita, che indica una “strumentazione” del bio-potere, rimanda a sua volta allo sviluppo storico del capitalismo, che trova in essa una forma “essenziale” di «governamentalità»22; la pagina che contiene queste ultime citazioni andrebbe citata per intero, insieme con la seguente: estrarre singoli enunciati dai libri di Foucault, a differenza che dai suoi “commentari”, è impresa difficilissima, per la sottigliezza analitica che impregna lo stile dell’esposizione – tranne che nei due ultimi). Può accadere di pensare, leggendo queste pagine, a quello straordinario racconto di Kafka, Nella colonia penale, in cui è questione di una macchina di supplizio (meravigliosamente complicata) che giustizia i condannati trapassandone il corpo in modo da incidere sulla sua superficie un testo – quello del “comandamento” che hanno violato. È questa certo una situazione che richiama piuttosto il regno della Legge (che «si riferisce sempre alla spada», dice Foucault; a differenza della norma, che è un «meccanism[o] continu[o], regolator[e] e correttiv[o]» – e perciò è lo strumento proprio di un «potere che deve qualificare, misurare, apprezzare, gerarchizzare»23). Kafka lo sa benissimo – uno dei motivi del racconto è proprio il mutamento di regime che è intervenuto nella colonia con l’arrivo del nuovo comandante, che vota la macchina (e l’ufficiale addetto) a un catastrofico, tragico-grottesco “tramonto” (anche se quel “regno”, quando il racconto si conclude con la scoperta che il “turista” fa della tomba sotterranea del vecchio comandante, e della sua epigrafe, risulta ancora minacciosamente vicino). Ma niente (tranne l’esito letale dell’operazione), impedisce di pensare che il dispositivo che scrive e rende
22. Ivi, p. 129. 23. Ivi, p. 127.
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“leggibile” (come un testo “che ha un senso”) il corpo possa funzionare anche “al di qua” della messa a morte, “per la vita” (nel racconto, secondo l’ufficiale, il condannato, che non può leggere, sa quello che la macchina scrive – muore con il volto letteralmente “trasfigurato” dalla comprensione della verità). Il termine bio-potere serve, dice Foucault, «per designare quello che fa entrare la vita e i suoi meccanismi [il corpo e le sue funzioni] nel campo dei calcoli espliciti, e fa del poteresapere un agente di trasformazione della vita umana»24. E alla fine del libro, dopo aver sottolineato la torrenziale proliferazione dei discorsi sul sesso, l’“ossessione” di parlarne, discuterlo, comprenderlo (aspetto essenziale del “dispositivo”), conclude (citiamo integralmente, anche per dar conto dell’osservazione precedente sugli effetti incantatori, sul sottile intreccio di ridondanza e precisione, nella “prosa” di Foucault): dobbiamo pensare che un giorno, forse, in un’altra economia dei corpi e dei piaceri, non si capirà più bene come le istanze della sessualità, e del potere che ne sorregge il dispositivo, siano riuscite a sottometterci a quest’austera monarchia del sesso, al punto da destinarci al compito senza fine di forzare il suo segreto e di estorcere a quest’ombra le confessioni più vere. Ironia di questo dispositivo: ci fa credere che ne va della nostra “liberazione”.25
L’ironia, come si vede, non potrebbe essere più radicale: è l’identificazione con il discorso del potere (per dirla in breve) che “comanda” il nostro bisogno di liberazione. Ma il progetto della storia della sessualità, dopo la pubblicazione del primo volume, si interrompe. L’indice dei titoli annunciati (sei) non trova riscontro nel lavoro successivo (solo quello che avrebbe dovuto essere il secondo volume, Les aveux de la chair,
24. Ivi, p. 126. 25. Ivi, p. 142.
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trovò un principio di realizzazione). Dal 1976, per otto anni, nessun nuovo libro di Foucault uscirà. E finalmente, l’anno stesso della sua morte, il 1984, verranno fuori i due testi “ultimi”, L’usage des plaisirs e Le souci de soi. Che si presentano ancora, rispettivamente, come secondo e terzo volume di quella stessa storia della sessualità – ma, per così dire, “parlano d’altro”. L’introduzione al primo di questi volumi, che vale per entrambi, articola con chiarezza la continuità e la discontinuità del percorso di problematizzazione. Il m’a donc semblé que la question qui devait servir de fil conducteur était celle-ci: comment, pourquoi et sous quelle forme l’activité sexuelle a-t-elle été constitué comme domaine moral? Pourquoi ce souci éthique si insistant, quoique variable dans ses formes et dans son intensité? Pourquoi cette «problématisation»? Et après tout, c’est bien cela la tâche d’une histoire de la pensée, par opposition à l’histoire des comportements et des représentations: définir les conditions dans lesquelles l’être humain “problématise” ce qu’il est, ce qu’il fait et le monde dans lequel il vit.26
Verrebbe da dire che tutte le parole di questa spiegazione, soprattutto della frase che la conclude, dopo le interrogazioni che la aprono, sono importanti. Foucault dà un perfetto esempio di quello che abbiamo definito come il “principio archeologico” – come processo di spostamento successivo dei “piani” o strati della ricerca. Ci mette di fronte a qualcosa che potrebbe essere definito come lo studio delle successive “campagne di 26. M. Foucault, L’usage des plaisirs, cit., p. 16; «Mi è dunque sembrato che la domanda da utilizzare come filo conduttore era questa: come, perché e sotto quali forme l’attività sessuale è stata costituita come dominio morale? Perché questa preoccupazione etica così insistente, seppure variabile nelle sue forme e intensità? Perché questa “problematizzazione”? E dopo tutto, è ben questo il compito di una storia el pensiero, in quanto opposta a una storia dei comportamenti e delle rappresentazioni: definire le condizioni nelle quali l’essere umano “problematizza” ciò che è, ciò che fa, e il mondo in cui vive».
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costruzione” di un edificio – quando bisogna “portare in luce” gli stadi anteriori, perché lì c’è qualcosa che “comanda” (suggerisce, rende possibile, impone) i partiti architettonici che ad ogni diversa epoca, e nel suo contesto proprio, si adottano. Non si tratta soltanto di una diversa coordinazione spaziale degli stessi volumi, in relazione al “riadattamento” delle funzioni. “Risalendo” da una storia moderna e medioevale della sessualità fino a una sua “matrice” presupposta, nell’antichità greco-romana, Foucault non trova un diverso modo di “problematizzare il sesso”; “trova” qualcosa che non avevamo ancora “visto”, ai piani “sovrastanti”, e precisamente un essere umano (l’individuo) che problematizza se stesso – all’incrocio e nel punto di articolazione di tre diversi “campi” (che cosa sono, che cosa faccio, com’è il mondo in cui vivo). Questo può certo valere come un presupposto per comprendere come si sia “costruito”, per esempio, un sapere-potere della sessualità (è l’aspetto della continuità problematica); ma non certo in senso puramente “logico” (o secondo una “continuità” storica). A questo livello di “profondità” si impone un altro criterio della descrizione – guidato dall’emergenza di un nuovo “oggetto”: la “storia del pensiero” non sarà più scandita sul versante della “rappresentazione” (e del principio d’ordine che la organizza, “riflettendola” nei comportamenti). C’è (e bisognerà darne conto) in questo pensiero un “principio di attività”, una “sintesi soggettiva” – il rapporto individuale alla verità, come forma della problematizzazione di sé. Le conseguenze che ne derivano investono persino i “materiali” della ricerca: adesso, per la prima volta, il “lavoro d’archivio” di Foucault sarà rivolto in primo luogo a una tradizione testuale “canonicamente” filosofica. È a partire da qui, grazie a questo “passaggio di piano”, che termini come “libertà” e “etica” diventano disponibili (e necessari) nel discorso di Foucault (lo abbiamo visto all’inizio). Se facciamo, ancora una volta, un (piccolo) passo indietro, troveremo ancora all’inizio di questa storia della sessualità, ne
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La volontà di sapere, un indizio molto preciso di come questo “scarto” problematico sia “comandato” da difficoltà reali, che nascono sul terreno precedente della ricerca, quello del sapere-potere. Verso la fine di questo libro, Foucault si pone ancora una volta (sempre “tra le pieghe” del discorso) il problema della resistenza, di una «possibilità di resistenza» (in questo caso, contro il «dispositivo generale di sessualità» – che è “organizzato” dal sapere-potere); e osserva che il “punto di leva” non dovrà certo essere individuato in una sorta di “cambiamento di segno” nel “valore” dei modi d’espressione, delle pratiche del sesso – del genere: liberazione versus repressione; ciò significherebbe riprodurre (e restarci prigionieri) quella stessa “rappresentazione” in cui una «nozione del sesso» è stata costituita (lo si è ripetuto subito prima) come «elemento speculativo necessario al funzionamento» del dispositivo della sessualità. Bisognerà invece attivare, dice Foucault, «i corpi, i piaceri, i saperi» – che sono evidentemente parte (parti) del «meccanismo della sessualità», ma che, bisognerà intendere, possono in qualche modo “sottrarsi” a questa integrazione (è il «rovesciamento tattico dei vari meccanismi»), valere come istanze produttive (di “pratiche”, evidentemente) al di fuori di ciò che in esse si “inscrive” (è stato inscritto). «Il punto d’appoggio del contrattacco non dev’essere il sesso-desiderio, ma i corpi e i piaceri» (nella ripetizione, «i saperi» – non sarà del tutto casuale – è caduto)27. C’è qui, in apparenza (e su un terreno specifico) un elemento più concreto (addirittura “tattico”) di “risposta” – ma questa risposta non è in realtà meno verbalistica di quella data a Chomsky, all’inizio di questo “segmento” della ricerca. Nessun confronto (se si tratta di cambiare “il punto d’appoggio”) è possibile tra il sesso-desiderio, da una parte, e i corpi e i piaceri
27. Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, cit., p. 140.
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dall’altra. Il primo termine “dice”, immediatamente, un contenuto della coscienza, la soggettivazione (nella prospettiva di una “realizzazione” pratica) di un “essere” come si rispecchia (o si costruisce) nella rappresentazione; i corpi e i piaceri invece “sono lì” (se invece li consideriamo come problemi o nozioni, cioè elementi della rappresentazione, del “sapere”, sono già totalmente “inscritti”, come il sesso-desiderio, nel dispositivo). Bisognerà, per poter “cambiare”, che essi “passino” nella coscienza, vi “prendano il posto” del sesso (avremo allora, se sostituiamo “corpo” – o “piacere” – a “sesso”, non necessariamente un “desiderio”, come secondo termine del composto; potremo dire per esempio: corpo/piacere-affermazione, -sperimentazione, -esplorazione, ecc.). Se si tratta di attivare, di praticare “possibilità” dei corpi e dei piaceri “altre” da quelle prescritte e classificate nell’insieme delle norme e dei saperi che formano il dispositivo (e in cui corpi e piaceri hanno già un posto), ciò sarà possibile in relazione al “luogo” (la dimensione riflessiva della coscienza) in cui il “possibile” è in qualche modo “pensato” – e in qualche modo “scelto”, o preferito. Se Foucault ha evitato di ripetere integralmente in chiusura del paragrafo l’enumerazione dei “punti d’appoggio”, sarà stato perché ha avvertito che il terzo termine, i saperi, non può “fare illusione” come gli altri due (poiché non nomina una “cosa”, o una sensazione, la cui esistenza indipendente possa supportare una virtualità “senza soggetto”). È necessario che ci sia un “proprio” (e dunque una riflessività: un corpo proprio, un piacere proprio) perché questo corpo, questi piaceri siano sottratti al discorso già dato in cui essi, per tutti e per ciascuno, significano; è necessario, per poter fare un “diverso uso” dei saperi, che si dia un luogo, uno spazio in cui la loro “verità” (che è già garantita al livello del dispositivo, dai suoi effetti pratici, dal suo legame costituente con una prassi normata/normale) possa essere sempre di nuovo “verificata”. È il “salto” su un altro piano, la scoperta di un’altra figura del pensiero che consente a Foucault di affrontare questo pro-
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blema. Si tratterà di produrre un “sapere del soggetto” in cui quest’ultimo possa essere pensato (pensarsi) come “soggetto del sapere”. E lo si potrà fare mostrando come il sapere (nel e del mondo umano) si trovi ad essere coinvolto nel rapporto di sé a sé, valga come elemento di garanzia, o di verifica, del processo in cui il soggetto è impegnato ad assumere la “padronanza” (Foucault insisterà molto su questo termine) di sé. È in questo processo (il soggetto che si costruisce conoscendosi/ scegliendosi) che può darsi un “banco di prova” (che è insieme una forma di appropriazione) del sapere. Si tratta di accedere, in una parola, a una figura dell’autonomia del soggetto. Nell’unico modo che sia per Foucault ammissibile – descrivendone lo specifico modo di produzione, storicamente “situato”. Va da sé che questa autonomia non rimanderà in nessun modo a un “essere” che si trovi “nel” soggetto, e che questi dovrebbe “scoprire” (o che ne guiderebbe, “spontaneamente”, le forme di riflessione). Il soggetto «non è una sostanza […]. È una forma», ricorda Foucault nell’intervento dell’84 che abbiamo già citato (D. et é., IV, p. 718), e che è tra i più impegnati e completi nell’“autocommento filosofico” di questa fase; dopo aver respinto, esplicitamente, l’idea che il suo lavoro precedente fosse stato rivolto a impedire, secondo il termine usato dall’intervistatore, che di un “soggetto” si potesse comunque parlare. Ma, nella misura in cui questa forma si genera in un processo di soggettivizzazione (è il termine ricorrente di Foucault), e produce effetti pratici, “oggettivi”, l’autonomia che essa implica è tutt’affatto “reale”; “gioca un ruolo” nella costituzione del mondo umano – e quindi nella sua descrizione, nella “griglia di intelligibilità” che vi si applica. Ciò pone immediatamente, “nello stesso movimento”, la questione del rapporto tra “il soggetto” e la verità (e il sapere o i saperi). Su questo terreno, la descrizione del dispositivo sapere-potere (che aveva in parte sostituito quella delle “forme
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dell’episteme”) lascia il posto ad un’altra descrizione, in termini di giochi di verità. Questi “giochi” (le forme in cui si costituisce e circola, nella vita sociale, il “discorso vero” – che rimangono ovviamente “intrecciate” con le relazioni di potere) diventano adesso l’insieme (con un accento sulla molteplicità, e al limite eterogeneità) dei “vincoli”, delle configurazioni storicamente determinate in cui qualcosa può essere riconosciuto come un “sapere”. Ma rispetto a questo “limite” della verità molti “spostamenti”, molte “scelte” diventano possibili: esso è costantemente attraversato da quella pratica del processo di soggettivizzazione in cui la verità tende a integrarsi nel modo d’essere proprio di un soggetto – che “ha bisogno”, per costituirsi, non solo di rispecchiarla, ma di riconoscerla come “propria” (di “produrla”). Tutto si tiene. Una forma di autonomia del soggetto “emerge” sul terreno dei giochi di verità – e ne “complica”, rispetto al loro sistema “interno” di coerenza/variazione, le regole di trasformazione. Ancora nella stessa intervista dell’84 (L’éthique du souci de soi comme pratique de la liberté) Foucault indica nella (relativa) “apertura” che così si determina delle “regole del gioco” un tratto distintivo della cultura occidentale – il suo “privilegio”, rispetto alle possibilità del cambiamento. Ritorniamo su questo testo (che abbiamo in parte già citato): On peut observer, en ce qui concerne ces multiples jeux de vérité, que ce qui a toujours caractérisé notre société, depuis l’époque grecque, c’est le fait qu’on n’a pas une définition close et impérative des jeux de vérité qui seraient permis, à l’exclusion de tous les autres. Il y a toujours possibilité, dans un jeu de vérité donné, de découvrir quelque chose d’autre et de changer plus ou moins telle ou telle règle, et quelquefois même tout l’ensemble du jeu de vérité. C’est sans doute cela qui a donné à l’Occident, par rapport à d’autres sociétés, des possibilités de développement qu’on ne trouve pas ailleurs. Qui dit la vérité? Des individus qui sont libres [abbiamo già letto], qui organisent un certain consensus et qui se trouvent
97 insérés dans un certain réseau de pratiques de pouvoir et d’institutions contraignantes. (D. et é., IV, pp. 725-726)28
L’elemento “nuovo” in questa triplice qualificazione, il primo, non può non attrarre nel campo di riflessività che instaura gli altri due: il consenso (organizzato), i poteri e le istituzioni (autorità-norma), diventano nella dimensione soggettiva della libertà anch’essi problematici. L’individuo che si “elabora” come soggetto (che si “produce” come libero) non è più “solo” il punto di applicazione, il luogo in cui si inscrive e si riproduce il dispositivo di sapere-potere (né solo il ressort quasi meccanico di una resistenza); è diventato un soggetto morale.
Cultura del soggetto e filosofia morale Se questo è, molto esattamente, il percorso attraverso il quale Foucault arriva a mettere al centro della propria ricerca i temi della soggettività e dell’etica, bisognerà trarne alcune conclusioni (a partire da quella, ovvia ma determinante, che in questo percorso saranno da cercare le ragioni del modo in cui questi temi sono poi specificamente “costruiti”). La prima ci riporta a quella “discussione” con Hadot da cui questa divagazione ha preso le mosse. Ci sono, tra i due stu28. «Si può osservare, rispetto a questi molteplici giochi di verità, che quello che ha sempre caratterizzato la nostra società, dall’epoca greca, è il fatto di non avere una definizione chiusa e imperativa dei giochi di verità permessi, ad esclusione di tutti gli altri. C’è sempre possibilità, dato un gioco di verità, di scoprire qualcosa d’altro, e di cambiare più o meno questa o quella regola, e qualche volta anche tutto l’insieme del gioco di verità. È senza dubbio questo che ha dato all’Occidente, rispetto ad altre società, possibilità di sviluppo che non si trovano altrove. Chi dice la verità? Degli individui che sono liberi, che organizzano un certo consenso, e che si trovano inseriti in una certa rete di pratiche di potere e di istituzioni costringenti».
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diosi, due punti o aree di convergenza. Da una parte, entrambi individuano il proprio, l’elemento caratterizzante della “morale antica” (in particolare post-aristotelica) in un lavoro di elaborazione e trasformazione del sé, dell’individuo cosciente, che ha lo scopo di “rafforzarlo” e migliorarlo, e che si realizza attraverso pratiche codificate (nelle “scuole”) o tecniche estremamente precise, dettagliate (da ciò deriva, per entrambi, che la “visione d’insieme”, il quadro generale prevale nettamente sul rilievo delle differenze dottrinali – e insieme il privilegio attribuito alla tradizione testuale di ascendenza stoica, con i “grandi nomi” di Seneca, Epitteto, Marco Aurelio). Dall’altra, entrambi si pongono il problema della “validità”, dell’interesse che ha “per noi”, oggi, un “percorso di soggettivizzazione” così come venne allora elaborato (per entrambi, in quel modo di concepire e praticare il “lavoro su di sé” c’è una fonte permanentemente attiva della nostra cultura morale). Vedremo fra un attimo, più precisamente, qual è il “giudizio di valore”, l’“attualità” che Foucault è disposto a riconoscere a quel “modello”; ma abbiamo già visto fino a che punto Hadot abbia ragione di pensare che il suo interesse non è certo solamente “storiografico”. E tuttavia, se si tratta di giudicare, eventualmente accogliere il “messaggio” che in quell’antico laboratorio è stato elaborato, la posizione di Foucault non può essere compresa, e a sua volta giudicata, come un’interpretazione “filosofica” – eventualmente “errata”, perché la lettura dei testi non è adeguata, rispetto ai loro contenuti; Foucault, semplicemente, non si propone di analizzare questi contenuti per collocarli nel “sistema” unitario di una filosofia della morale in cui possiamo ancora riconoscerci, ritrovarci, oppure no. Andiamo a verificarlo nel luogo “deputato” – la lettura dei testi. Abbiamo visto per esempio come Hadot reintegri un testo senechiano citato da Foucault per mostrare come il “senso” della valorizzazione del sé che vi si può trovare dipenda interamente dalla presenza, in questo sé, di una “parte migliore” – solo
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in rapporto alla quale Seneca consiglia di “ritornare in sé”. Ma non è che Foucault, ovviamente, “non se ne sia accorto”. Non si possono assimilare a forzature o errori di interpretazione scelte che dipendono da un “taglio” operato sui testi, certo in funzione di una unità problematica presupposta, ma che può ben giustificarsi quando faccia emergere un sistema di ricorrenze e somiglianze. Un testo a cui Foucault si richiama assai spesso è l’Alcibiade primo di Platone, in cui vede un punto di partenza della problematica del souci de soi. A ragione, in via di principio, perché è il testo in cui compare, e viene problematizzata, l’espressione epimeleia heautou (la cura di sé). Ma il suo commento fa emergere ogni volta un vero e proprio “sistema di differenze”, nel modo di intendere e praticare la nozione, rispetto agli sviluppi successivi (che sono quelli per lui canonici: la cultura greco-romana – imperiale – e le sue sorgenti nell’ellenismo). In un’occasione, il rapporto tra questi sviluppi e Platone è anzi descritto in termini che sarebbero piuttosto di “rottura” (D. et é., IV, p. 407). Ma lì dove J.-P. Vernant, per esempio, conclude che lo heauton socratico-platonico non ha semplicemente niente a che fare con qualcosa come un «repli sur soi, travail sur soi»29, Foucault scrive, nel secondo capitolo di Le souci de soi30: Or, c’est ce thème du souci de soi, consacré par Socrate [nei primi dialoghi platonici], que la philosophie ultérieure a repris et qu’elle a fini par placer au cœur de cet «art de l’existence» qu’elle prétend être. C’est ce thème qui, débordant son cadre d’origine et se détachant de ses significations philosophiques premières, a acquis progressivement les dimensions et les formes d’une véritable «culture de soi».
29. J.-P. Vernant, La mort dans les yeux, in Id., Entre mythe et politique, Seuil, Paris 1996, p. 91. 30. M. Foucault, Le souci de soi. Histoire de la sexualité III, Gallimard, Paris 1984 (tr. it. di L. Guarino, La cura di sé, Feltrinelli, Milano 1985).
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E continua: le précepte qu’il faut s’occuper de soi-même est en tout cas un impératif qui circule parmi nombre de doctrines différentes; il a pris aussi la forme d’une attitude, d’une manière de se comporter, il a imprégné des façons de vivre; il s’est développé en procédures, en pratiques et en recettes qu’on réfléchissait, développait, perfectionnait et enseignait; il a constitué ainsi une pratique sociale, donnant lieu à des relations interindividuelles, à des échanges et communications et parfois même à des institutions; il a donné lieu enfin à un certain mode de connaissance et à l’élaboration d’un savoir.31
È questo, potremmo dire, il “principio di catalogazione” che Foucault applica all’“archivio”. La nozione di epimeleia heautou “gli serve”, perché contiene il riferimento a una “pratica” (o “tecnica”) che dev’essere “applicata” (si ricordino gli esempi del Socrate dell’Alcibiade, che Foucault richiama in qualche occasione: è il calzolaio che si prende cura delle scarpe, l’ortopedico, diremmo oggi, del piede). A partire da qui, in questa direzione, la nozione sarà sviluppata, approfondita – fino a “perdere contatto” con il suo originario “inquadramento” filosofico (che è, sostanzialmente, l’identificazione del sé con l’anima razionale); ma è pur sempre “corretto” riferirvisi come a
31. Ivi, p. 59; «Ora, è questo tema della cura di sé, consacrato da Socrate, che l filosofia ulteriore ha ripreso e che ha finito per mettere al cuore di questa “arte dell’esistenza” che pretende di essere. È un tema che, debordando dal suo quadro di origine, e staccandosi dai suoi significati filosofici iniziali, ha acquistato progressivamente le dimensioni e le forme di una vera e propria “cultura di sé”. […] il precetto che bisogna occuparsi di sé è in ogni caso un imperativo che circola fra un gran numero di dottrine differenti: ha preso anche la forma di un atteggiamento, di una maniera di comportarsi, ha impregnato modi di vivere; si è sviluppato in procedure, in pratiche e in ricette che si meditavano, sviluppavano, perfezionavano e insegnavano; ha costituito così una pratica sociale, dando luogo a relazioni individuali, a scambi e comunicazioni, e talvolta anche a istituzioni; ha dato luogo infine a un certo modo di conoscenza, e all’elaborazione di un sapere».
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un punto di partenza: i “successori” non hanno avuto bisogno di “inventarla” – essa era disponibile, come elemento di un altro “gioco di verità”; ritirandola da quello, “ricombinandola” con altri elementi, in provenienza da altri giochi (per esempio: un certo sapere medico) essa è potuta diventare l’elemento centrale di un gioco nuovo. Le uniche citazioni di Epicuro che compaiono ne Le souci de soi (ne L’usage des plaisirs non ce ne sono – il che non lascia a prima vista di apparir singolare) sono tratte da LM, 122 – è l’apertura della lettera, in cui si presenta l’esercizio della filosofia come necessario e utile in tutte le età della vita. Introducendo 1-3 («Né il giovane indugi a filosofare, né il vecchio di filosofare sia stanco. Non si è né troppo giovani né troppo vecchi per la salute dell’anima»), Foucault scrive: «pour les épicuriens la Lettre à Ménécée ouvrait sur le principe que la philosophie devait être considérée comme exercice permanent du soin de soi-même»32. E subito dopo passa a Seneca, il quale riprende «questo tema epicureo che bisogna prendersi cura di sé»33. Poco più avanti ritorna sulla sua citazione, prolungandola fino a 8 – linee nelle quali troviamo il paragone tra “dare un (solo) tempo” alla filosofia e “dare un (solo) tempo” alla felicità (è parimenti insensato), e poi una specifica indicazione dei “beni” che la filosofia apporta rispettivamente al vecchio (la cui vecchiaia potrà rimanere «giovane di beni») e al giovane (che avrà anche il vantaggio della vecchiaia, non aver paura del futuro)34. Seguono tre linee che Foucault non cita, in cui si dice che «bisogna meditare su ciò che procura la felicità», e si spiega perché: la felicità è tutto ciò a cui tendiamo. 32. Ivi, p. 60; «Per gli epicurei, la Lettera a Meneceo si apriva sul principio che la filosofia dev’essere considerata come esercizio permanente della cura di sé». 33. Ibidem. 34. Cfr. ivi, p. 63.
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Che cosa ci mostra questo “regime” della citazione? In Epicuro, il sostantivo epimeleia e il verbo epimeleomai non sono mai riferiti al “sé”. Quello che interessa Foucault è evidentemente l’aspetto temporale: “è sempre tempo di filosofare” corrisponde perfettamente a un tratto caratteristico del “prendersi cura”, che dovrà essere ininterrotto. Ed è chiaro che la filosofia, qui, è presentata come lo strumento utile e necessario al miglioramento dell’individuo, nella prospettiva della felicità (che può a sua volta considerarsi come implicita, in quest’epoca, in tutta la “cultura del sé”). Ma è sufficiente questo a farci senz’altro assimilare il filosofare di Epicuro a un “prendersi cura di sé”? In realtà, il “senso” del brano non si può pienamente intendere senza la frase che immediatamente segue, in cui Epicuro sintetizza e riformula quello che precede: «bisogna meditare su ciò che procura la felicità» (che la fa, che la costituisce – ta poiunta). Questa frase non si può leggere “in trasparenza” con un “bisogna occuparsi di sé”. In essa compare un altro termine – la felicità – che dev’essere definito – cioè contestualizzato, intanto, in rapporto ad altro (i suoi poiunta). Si può concedere al massimo questo: se la filosofia interviene all’interno di un dominio pratico, della condotta personale, ecc. (cioè se è una filosofia morale) non può essere “separata” da una qualche forma di azione di sé su sé, di conoscenza e di progettazione del sé; ma essa è, continua a chiamarsi, filosofia, perché assume compiti che le sono propri – costituisce come significati, nell’ordine del discorso, in generale, le nozioni e gli “oggetti” in rapporto a cui il sé è strutturato (o situato). Per essere utile allo scopo della felicità (e “predisporre” il sé a pensare e ad agire in modo “conforme”) la filosofia dovrà occuparsi per esempio di cose come la costituzione dei corpi, la natura degli dèi, la mortalità o immortalità dell’anima. Nella formula di Epicuro (“meditare sulle possibilità, le condizioni, i contenuti della felicità”) questo rimane chiaramente visibile. Nell’equivalenza prodotta da Foucault (filosofare = prendersi
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cura di sé), no. Non è visibile, possiamo dire, ciò che è propriamente “filosofico”. Non è che Foucault non lo veda (leggendo Epicuro). Non gli interessa. Se la regola dell’explication des textes è in Foucault così strettamente legata a un “paradigma indiziario” (il souci de soi “fluttua”, sulla superficie di questo testo di Epicuro, come un fantasma; il che non è certo in contraddizione con l’eccezionale puntiglio di lettore che caratterizza, per esempio, certe lezioni al Collège de France), non sarà facile rispondere alla domanda sul valore che questi testi possono avere per noi, per quello che sono – cioè in quanto elaborano una filosofia morale. Questa domanda è in realtà “disinnescata” in anticipo: l’insieme dell’archivio foucaultiano non disegna un campo filosofico – una rete di problemi i cui punti di incrocio, le cui diverse configurazioni, dipendano dal significato delle nozioni, dal lavoro dell’interpretazione, da un processo di argomentazione vincolato a una “logica dei concetti”; “non c’è bisogno”, per descriverlo, di assumere come “filo conduttore”, dalle premesse alle conclusioni, i temi e le nozioni, i problemi, che vi si trovano ridefiniti e riproposti. Nell’intervista del ’66 già più volte citata, che è come il manifesto dell’“antiumanismo” di Foucault, possiamo leggere: «l’humanisme feint de résoudre des problèmes qu’il ne peut pas se poser!»; e alla domanda: «Mais quels problèmes?», la risposta è: «Eh bien, les problèmes des rapports de l’homme et du monde, le problème de la réalité, le problème de la création artistique, le problème du bonheur» (D. et é., I, p. 516; corsivo nostro)35. Non c’è ragione di pensare (al contrario) che Foucault, su quest’ultimo punto, abbia nel frattempo cambiato idea. Ma se la felicità non è qualcosa 35. «L’umanismo finge di risolvere problemi che non può porsi! / Ma quali problemi? / Ebbene, i problemi dei i rapporti dell’uomo e del mondo, il problema della realtà, il problema della creazione artistica, il problema della felicità».
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che si possa pensare come un problema, nella prospettiva di una razionale “soluzione” – diventa difficile capire che cosa una morale “eudaimonistica”, per esempio quella di Epicuro, possa avere “da dirci”. Se anche Foucault, come Hadot, annette o dissolve Epicuro molto disinvoltamente nel “quadro generale” della cultura morale greco-romana, le ragioni saranno dunque al tutto diverse. Nel secondo caso, come abbiamo visto, è il fatto di indicare nel fine dell’identificazione dell’individuo con la Ragione che è in lui, e insieme immanente al cosmo, il “valore” e la permanente attualità di quella concezione (della morale e della filosofia) che costringe Epicuro a un ruolo di comparsa – se l’epicureismo “deve” integrarsi in questa concezione, il riferimento ai contenuti propri della dottrina non potrà essere che “sommario”. Quanto a Foucault, egli non “vede” (non mette a tema) la “differenza” di Epicuro perché è appunto una differenza dottrinale (filosofica); si situa “su un altro piano”, rispetto alla sua analisi. E in effetti, se spostiamo l’accento, per esempio, sulla vicenda storica della “scuola”, in cui si elaborano e si praticano gli strumenti, le norme e gli esercizi di una “tecnologia del sé” via via, ovviamente, più scolasticamente “standardizzata”, le “somiglianze” possono a buon diritto venire in primo piano. Tuttavia, quando Foucault si pone (o piuttosto gli viene posto) il problema di “quel che resta” di questa antica cultura del sé a cui ha dedicato anni di lavoro, non si sottrae al compito di un “bilancio”. E la risposta, com’è noto, sta in quella stilistica o estetica dell’esistenza che il mondo antico, una volta uscito dal quadro vincolante e autofondato di una morale civica, della polis, avrebbe tentato di sperimentare – esperimento che ha attraversato più o meno carsicamente la cultura occidentale, fino a noi, e che può, ancora per noi, “avere un senso”. Questa indicazione (che Hadot riassume nell’etichetta del dandysmo) può valere come “ripresa” – in un orizzonte totalmente “altro” rispetto a una qualsiasi “filosofia morale” – di quei motivi o ef-
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fetti “esistenziali” che la tradizione antica aveva a suo modo generato. Se proviamo a esplicitare, arrivati a questo punto, in che cosa consista propriamente lo “scarto” fra la nostra prospettiva, il nostro “orizzonte”, e quello in cui i problemi dell’esistenza e della pratica rimanevano collocati nell’ambito di una filosofia “generale”, appare chiaro che il discrimine passa attraverso la nozione (o piuttosto la forma) dell’universale – quale che sia il modo di “pensarla”. Una morale che si voglia “universale” (cioè che sia prodotta in un “discorso vero” intorno a nozioni “generali”) è esattamente il contrario di ciò che può ispirare una «ricerca contemporanea», intesa come «ricerca di stili di vita quanto possibile differenti gli uni dagli altri». «La recherche d’une forme de morale qui serait acceptable par tout le monde – en ce sens, que tout le monde devrait s’y soumettre – me paraît catastrophique»36 (D. et é., IV, p. 706; è un’altra intervista dell’84, pubblicata con il titolo Le retour de la morale – la stessa in cui Foucault, sollecitato a “prendere posizione” sulla morale antica, dice che i greci hanno fallito, anche se «on peut essayer d’en parler bien», perché hanno cercato di praticare, insieme, «cette recherche obstinée d’un certain style d’existence, et d’autre part, l’effort de le rendre commun à tous»; D.et é., IV, p. 69837). Del resto, quando vogliamo provare a “parlar bene” della morale antica, la prima cosa che viene in mente è che «non si rivolgeva che a un piccolo numero di individui, non chiedeva che tutti obbedissero allo stesso schema di comportamento» (ibidem). Il che certo appare, è, in flagrante contraddizione con quanto è stato detto subito prima – non fosse che lo “sforzo” della generalizzazione (universalizzazione) si situa sul terreno 36. «La ricerca di una forma di morale che sia accettabile da tutti – nel senso che tutti dovrebbero sottomettervisi – mi sembra catastrofica». 37. «si può provare a parlarne bene», «questa ricerca ostinata di un certo stile di esistenza e, d’altra parte, lo sforzo di renderlo comune a tutti».
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proprio della filosofia (lo “stile d’esistenza”, scelto o proposto, corrisponde a una “verità”); “nella pratica”, la stessa complessità e varietà delle “tecniche”, la molteplicità dei ruoli sociali (nella misura in cui se ne tenga conto) aprono la strada a una grande diversità. Era possibile dunque «all’epoca di Seneca e a più forte ragione di Marco Aurelio» “pensare” una morale che «doveva valere eventualmente per tutti senza che fosse mai questione di farne un obbligo per tutti»; così che rimanesse, di fatto, una libera «scelta per gli individui» (D. et é., IV, p. 699). Ma è proprio questa possibilità (valere per tutti) che viene negata, abbiamo visto, nell’impostazione “attuale” del problema (e già nel rilievo di una contraddittorietà – fallimento – rivolto alla morale “dei Greci”); a meno che non si intenda, senza ulteriori spiegazioni, che oggi, e non nel mondo antico, una morale accettabile per tutti sarebbe necessariamente lo stesso che una precettistica a cui tutti dovrebbero sottomettersi. Come che sia, la contrapposizione tra “stilistica dell’esistenza” e “morale” rimane per Foucault una “questione di principio”; e non può avere che questo significato “filosofico”: recidere il legame tra la morale e l’universale. Diciamo subito che l’aspetto “positivo” di questo bilancio (il punto d’arrivo, nel “passaggio”), non vale di per sé a “squalificare” (come vorrebbe Hadot) il lungo corpo a corpo di Foucault con la questione dell’etica. Il tema di una forma o pratica “estetica” dell’esistenza (e più in generale di un rapporto quanto si voglia “stretto” fra etica e estetica) non è affatto da considerarsi come di per sé estraneo al campo di riflessione di una filosofia morale (avremo occasione di tornarci). Se esso tuttavia appare, nel percorso di Foucault, quasi come una conclusione “obbligata”, ciò dipende dal rifiuto di “riaprire” in qualsiasi modo, una volta raggiunto il terreno dell’etica, la questione dell’universale; e questo rifiuto non è convincente, intanto per una ragione che si potrebbe definire storico-epistemologica: se si ammette che vi sia un “sapere” della morale, nella misura in cui il discorso (i
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discorsi) in cui si elabora partecipa di un gioco di verità, cioè di un “confronto” fra i diversi giochi di verità sotto la condizione della libertà, non pare che si possa evitare di sottoporre a verifica, di “testare”, la possibilità di una “via d’accesso” all’universale, di una problematica dell’universalizzazione, che rimanga in tutto il suo percorso libera da ogni ipoteca “razionalistica”, “idealistica”, “essenzialistica” (e in questo senso “umanistica”). Se nell’ambito di una tradizione materialistica della filosofia è stato prodotto qualcosa come una morale filosofica (cioè che contiene il riferimento all’universale, o ne produce la possibilità) orientata a una migliore soluzione e comprensione dei problemi “vitali”, per tutti gli individui umani – allora vale forse la pena di esaminarla nel suo contenuto, di “prenderla sul serio”. La seconda principale ragione per cui non pare che si possa riconoscere in una stilistica dell’esistenza “l’ultima parola” di una riflessione sulla morale si trova invece sul terreno stesso di questa “esistenza” – che comprende la “politica” come rapporto dell’individuo alla norma e al potere; nel “luogo”, cioè, in cui quella riflessione prende necessariamente (almeno in Foucault, ma non solo) radice. Abbiamo visto come in lui proprio l’intreccio di queste due dimensioni sia determinante, nel faticoso percorso che sfocia sul terreno dell’etica. Intervenendo in un convegno su Foucault philosophe nella discussione su una comunicazione che reca il titolo Esthétique de l’existence (di R. Rochlitz), J.A. Miller fa questa brillante osservazione: «Foucault aurait aimé que tout le monde soit des minorités, qu’il n’y ait que des minorités et pas de majorité»38 (tutto il breve resoconto è interessante: c’è un riferimento a Hadot, che «suppone sempre praticabile la saggezza», quando invece – dal momento 38. Michel Foucault philosophe. Rencontre internationale, Paris, 9, 10, 11 janvier 1988, Seuil, Paris 1988, p. 300; «A Foucault sarebbe piaciuto che tutti fossero delle minoranze, che non ci fossero che minoranze, senza maggioranza».
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che «la saggezza suppone una integrazione nel cosmo» – non è più possibile). Chi abbia una qualche familiarità con Foucault riconosce subito, in questa battuta, il riferimento a un suo tema importante, che si ritrova spesso negli interventi degli ultimi anni. È, per dirla in breve, la possibilità di riconoscere in certe “minoranze” (composte da individui che praticano consapevolmente e condividono un preciso stile di esistenza), un nuovo punto di leva, una fonte attiva di resistenza al potere (al dispositivo). Esse sono (sulla base della nuova armatura concettuale, che rende possibile di pensare il “lato soggettivo” della lotta) nuove figure di una “diversità” non più solamente “di posizione” (come ancora “il proletariato”, nella discussione con Chomsky), ma programmata, espansiva (che “si riflette” nella coscienza). Correlativamente, quando abbiamo letto che una morale “generale” tende a implicare una generale “sottomissione” (non può “sfuggire”, come la stilistica esistenziale, al dispositivo, semmai lo rafforza), è ancora il tema politico della società disciplinare come “forma ideale” del dominio (borghese) che rimane sullo sfondo. Su questo, possiamo dire, è “la storia stessa” che ha tranché. Se il lettore familiare di Foucault che abbiamo prima evocato non può fare a meno di rammaricarsi per la data della sua morte (1984), non è certo perché sia stata particolarmente “prematura”, ma perché gli ha impedito di seguire il corso storico che si è delineato chiaramente a partire dalla fine del decennio; abbiamo visto quale importanza abbia avuto, in tutto il suo percorso, l’“attualità” storica e politica. Agli inizi degli anni ’80 era forse ancora possibile “illudersi” sulla carica di innovazione (fino a possibili effetti sistemici) che la cultura e la pratica di minoranze impegnate in “stili di vita” alternativi poteva introdurre nella vita sociale. Tanto più che questa vita sociale, come l’aveva prodotta la storia certo tragica del “secolo breve”, appariva ancora segnata nel suo insieme (nell’Europa occidentale) dalla combinazione di una certa forma di dominio capitalistico con
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una pratica (e una cultura) della democrazia e del conflitto – il che vuol dire che si poteva percepire come instabile, attraversata e scossa da tensioni che potevano anche inscriversi in una dinamica “rivoluzionaria”. Fuori dell’Occidente, se pure si era esaurita nella delusione la spinta “terzomondista” e anticoloniale (e quella del “maoismo”), Foucault si vedeva intorno (si sa con quale attenzione e “impegno”) la rivoluzione iraniana e Solidarnosć – tutto il tema, così sensibile, della liberazione dalle dittature dell’Est si poneva ancora nel solco della “primavera di Praga”, sulla spinta, in Polonia, di una lotta di operai e intellettuali. Non c’è bisogno di indugiare sul cambiamento di scenario. Espressioni correnti, giornalistiche, come “fine della storia” o “pensiero unico”, esprimono a livello della percezione comune quello che Foucault avrebbe riconosciuto come un eccezionale rafforzamento del “dispositivo” (ancora nei suoi ultimi anni di vita propriamente inimmaginabile). L’impresa della norma e della disciplina, la dittatura del calcolo, la gestione dei dati personali, la proliferazione dei “saperi” nella rete capillare degli strumenti di controllo e di governo amministrativo, che inquadrano e riproducono il vivente umano negli imperativi dell’efficienza e della “razionalizzazione” – tutto ciò, nella già lunga storia (e “preistoria”) della società capitalistico-borghese, non è mai stato così “tangibile”, pervasivo, costitutivo della “vita quotidiana” (e ai margini o forse già al centro del “gioco” politico, le pulsioni “antisistema” riempiono “il fondo dell’aria”, per giocare sul titolo di un celebre film di Chris Marker, di un inconfondibile colore nero). Non possiamo fare a meno di domandarci, in questo tempo “nuovo” (e in attesa di una qualche futura “reincarnazione” del proletariato) se proprio un’etica, una morale che si fondi su una nozione “non mistificata” della “natura umana” non possa essere anche una risorsa politica, un principio di attivazione e di contestazione, una linea di resistenza. Anche su questo, in conclusione, torneremo.
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Questa rapida divagazione attraverso il pensiero di Foucault ci è sembrata utile, come direbbe lui, “per un certo numero di ragioni”. Innanzitutto, perché Foucault può avere ancora un valore “paradigmatico”, nella definizione della nostra modernità culturale e filosofica. Non v’è dubbio che qualcosa di essenziale nella sua formazione e nell’orientamento che ne deriva è ormai “alle nostre spalle”. Un certo “dogmatismo metodologico” nelle scienze umane di ispirazione strutturalista (che è stato insieme uno strumento utile a raggiungere risultati che restano fondamentali, e la condizione che ha consentito di trasferirne la produttività, in termini essenzialmente “negativi”, sul terreno della filosofia) non è più la cornice “obbligata” delle nostre ricerche. Quanto a quei “rifiuti” in cui la “coscienza filosofica” di Foucault più tipicamente si esprime, può darsi che essi non abbiano più, per noi, la stessa funzione “liberatoria”: il loro oggetto (razionalismo, idealismo, ecc.) può sembrarci meno a priori “temibile”, inibitorio. Ma non possiamo certo considerare che sia questa, oggi, una partita vinta – per ritiro dell’avversario. Basterà, nell’ambito di questo lavoro, richiamarsi al capitolo precedente per verificare come l’attaccamento ad un’idea essenzialmente razionalistica dell’“uomo” (magari addirittura “inconscio”) condizioni la ricerca e la teoria. C’è nell’“antiumanismo” di Foucault, da questo punto di vista, qualcosa che rimane; al di là dei toni da monaco guerriero che volentieri assume nella polemica – e che sono da attribuire, insieme, ad una strategia nel “campo” intellettuale (francese) e a un autentico sentimento di “urgenza” politico-ideologica. Per dirlo in una formula molto riassuntiva: se fosse vero che una qualsiasi idea di “saggezza” non ha senso fuori di un’esperienza o di un progetto di integrazione dell’uomo nel (la ragione che muove il) cosmo, allora alla domanda se essa sia in qualche modo “praticabile” per noi saremmo costretti a rispondere negativamente, come
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Miller e Foucault; (per ciò stesso, ogni lettura o rilettura di Epicuro perderebbe, se non nella “storia della filosofia”, qualsiasi importanza). La seconda ragione, è che questo “passaggio” ci ha fatto vedere come la “presa in conto” dell’etica si riveli comunque indispensabile, nella descrizione del “fatto” umano – quand’anche si sia partiti dalla “morte dell’uomo”, “fine del soggetto”, ecc. Nozioni come “libertà”, “soggettività”, “riflessività”, “scelta” devono rimanere (o tornare ad essere) “disponibili” – quando si vada oltre il piano di una fenomenologia dei comportamenti, che potrebbe accontentarsi di “effetti di individuazione”. E con esse riappare, necessariamente, una nozione di “verità” – non solo in quanto se ne possa/debba “fare la storia”, ma in quanto essa torna ad essere sempre di nuovo, per ogni individuo cosciente, un “criterio” e uno strumento del processo di soggettivizzazione. La verità, come la libertà, sono sul terreno dell’etica prima di tutto una esperienza. Nell’ultima intervista che abbiamo citato, quella sul “ritorno della morale”, l’intervistatore dice a Foucault, come una constatazione: «Dans ce que vous décrivez, vous avez trouvé un point de rencontre entre une expérience de la liberté et de la vérité» (D. et é., IV, pp. 702-703)39. Un campo della riflessione morale (“modellizzazione”, insieme, di una pratica e di un “vissuto”) non può costituirsi, organizzarsi, che intorno a questo punto d’incontro. La terza ragione, infine, è che il punto d’approdo di Foucault (quando si tratti di “riattualizzare” una eredità della “morale antica”) appare chiaramente segnato da una strategia di elusione – rispetto alle possibilità che l’indagine stessa (nella misura in cui “riabilita”, nel linguaggio stesso che serve da “griglia”, 39. «In quello che lei descrive, ha trovato un punto d’incontro tra l’esperienza della libertà e della verità».
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problemi e nozioni tipicamente “filosofici”) ha portato in luce. La stilistica o estetica dell’esistenza sono necessariamente, se le parole hanno un senso, una forma di “valorizzazione” dell’esistenza (è per questo che possono apparire come possibilità etiche). L’individuo “sceglie” in quanto elabora il suo “progetto” sulla base di un’esperienza della libertà (che è insieme rapporto con, soggettivazione della, verità). È “grazie” a questa scelta che perviene a “sfuggire” (parzialmente; e per usare i termini di Foucault) alle maglie strette del dispositivo di sapere-potere in cui si trova ad essere “oggettivato” e “assoggettato” – come “coscienza” e come “agente”. Ma non si può allora descrivere questo processo “solamente” come il modo di produzione di una forma di individuazione “altra” – rispetto a quella che si produce nel e dal dispositivo. Posso “scegliermi”, nelle condizioni date, come “minoranza” (e magari come “unico”); ma ciò non toglie (anzi implica) che questa scelta sia pensata (si produca) in modo da sostenere il confronto permanente con un “possibile” della verità – così come appare nel punto di vista della libertà. Posso scegliermi, eticamente, in quanto mi penso (mi pongo, funzionalmente) in un “luogo” che è “esterno” al dispositivo – il quale invece mi produce, e riproduce, come “semplice” differenza individuale. C’è, è “pensabile”, un simile luogo? Nella tradizione filosofica lo si è pensato per lo più come “la ragione”, o l’“idea del bene”, o l’“ordine immutabile del cosmo”, o l’“essenza umana”; e certo tutte queste “costruzioni” sono in qualche modo solidali tra loro. Ma il rifiuto di una simile concettualizzazione dell’universale non è sufficiente, sul terreno dell’etica, a chiudere il discorso; a meno che non si proceda ad una trivializzazione del problema, per cui una morale che “si pensi” nell’elemento dell’universale è assimilata tout court all’obbligo di “sottomettersi”, “tutti”, alle stesse regole – e si ritorna allora nell’impasse di una “morale per le minoranze”.
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Per rimanere ancora, un’ultima volta, nell’idioletto di Foucault, questo ci rimanda al modo di concepire, in rapporto all’etica, i “giochi di verità”. Come abbiamo visto questa espressione assume un valore “tematico” soltanto nell’ultima fase della sua ricerca – quando “la verità” non è più soltanto l’oggetto di una storia, o l’effetto di un “ordine del discorso”. Foucault la sceglie, ovviamente, pensando al “gioco” in generale – le regole del gioco, le diverse strategie, condotte, che la regola rende possibili, le somiglianze e le differenze tra i giochi, i cambiamenti nelle regole. Ma c’è, nell’esperienza comune, un gran numero di giochi che non si possono descrivere senza introdurre un altro elemento, che ha due caratteristiche: “è dato” prima che il gioco cominci, e rappresenta, per tutti i giocatori, il “fine”. Si tratta ovviamente della “posta”, di quel che “si mette” in gioco; e che può essere, nel gioco, perduto. Questi giochi hanno un fine – quello che ognuno, giocando, “mette sul tavolo”. Ma questo ancora non basta: se il “proprio” di ciascuno fosse qualcosa di essenzialmente “diverso”, che “ha valore” soltanto per lui, non ci sarebbe il gioco. Non ci si può sedere a un tavolo da gioco se non si porta qualcosa con sé – quella stessa “cosa” che sarà, per tutti i giocatori, il fine. Fuor di metafora, “mettersi in gioco” (quello che tutti facciamo nella vita, per cui una pratica assume un valore etico) significa “darsi un fine”; ma il fine non è comprensibile, riconoscibile (e quindi non può “orientare” una pratica) se non è pensato come la possibilità di un “essere” – un essere “anteriore”, un essere “comune”. Non si può “espungere” il fine dal terreno dell’etica. E il fine è un progetto di esistenza che incrocia, sotto la condizione della libertà, un discorso di verità. “Vale” “per tutti” – per ogni libertà umana che si trovi impegnata, per la riflessività della coscienza, nella propria “verifica”. Il “soggetto” si costituisce come tale appunto perché “porta” questo progetto, in connessione diretta con un’esperienza/conoscenza di sé che è per principio comunicabile, universalizzabile.
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È per questo che una morale, un’etica, può essere “pensata” filosoficamente. Il compito di una filosofia morale è quello di indicare, definire o scegliere il piano di articolazione con l’uni versale su cui il progetto della soggettività si trova a poggiare. Se questa filosofia rimane nel quadro di un materialismo, l’articolazione non potrà essere ritrovata in una ipostasi della ragione; ma questo non vuol dire che non sarà, altrimenti, “pensabile”. Un materialismo può essere “produttivo” di una (specifica) filosofia morale. Nella nostra tradizione ce n’è (almeno) un esempio – quello di Epicuro. La condizione, è che si pensi e si voglia come (anche) un “naturalismo” – il che significa: pensare una “natura umana”, non come “essenza dell’uomo”, ma come rapporto originario e “fondante” dell’uomo (di ogni individuo umano) con un essere (e con il suo essere) naturale. In un senso molto preciso di questa espressione: con ciò che in lui, e fuori di lui, non può essere pensato come (interamente) prodotto da un “ordine” sociale e culturale. Non c’è alcuna ragione di pensare (con buona pace di Adorno) che il materialismo, ogni materialismo, non possa “servire” che a metterci davanti agli occhi la realtà umana squallidamente votata alla morte (il “punto di vista del cadavere”, potremmo dire). L’uomo è un pezzo della natura, ha scritto una volta Klee (che è un artista indicato da Foucault, in più occasioni, come un “paradigma” della modernità – nel senso delle “avanguardie”). Non voleva certo dire che i corpi degli uomini sono soggetti alle “leggi della natura”, come tutti gli altri, o che v’è in essi, come in tutti gli altri animali, una “forza degli istinti”. Voleva dire (non stiamo a ricostruire il contesto) che in tutto quello che l’uomo fa o è, nel modo come si costruisce o si esprime, quella originaria coappartenenza all’essere della natura può (deve) rimanere visibile, può (deve) giocare un ruolo. Se Foucault non ha “preso in considerazione” questi temi, ciò non può dipendere, direttamente, dalla “pregiudiziale” anti-
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idealistica – che non è qui pertinente. Se si scorre la summa dei D. et é. alla ricerca delle occorrenze (certo non numerose) del termine “natura”, o “natura umana”, si arriva molto rapidamente a questa conclusione: questi termini “hanno un senso”, indicano qualcosa di preciso, in riferimento ogni volta a uno specifico quadro o sistema del sapere, che li produce, quando ciò accada, per i propri “fini”. Sarà quindi rigorosamente impensabile che qualcosa come un rapporto dell’uomo (dell’individuo) con il suo proprio essere naturale si ritrovi, sia attivo, sul piano del collegamento tra (auto)coscienza e “organismo” (psicofisico – che comprende lo “scambio”, organico, con “l’esterno”). Quando ci troveremo sul terreno dell’etica (in cui si riflette la libertà, che ne è il presupposto ontologico), rimarrà acquisito che “la coscienza dell’individuo” non ha accesso, per così dire, a nessun “contenuto” che non sia, molto precisamente, una costruzione culturale (in fondo, si può dire che anche per Foucault, come per Sartre, la libertà è vuota). Siamo molto al di là, come si vede, del limite di una sacrosanta “diffidenza” verso l’idea di una Ragione universale. Si manifesta qui piuttosto un altro aspetto della “coscienza filosofica” di Foucault, che si può forse esattamente definire come un “nominalismo” (e che è poi strettamente solidale, non certo in lui soltanto, con il “formalismo” che gli abbiamo visto rivendicare). A confronto, vorremmo citare un testo e un autore che sono stati sicuramente importanti per Foucault. Verso l’inizio di Le strutture elementari della parentela, Lévi-Strauss ha scritto: posons donc que tout ce qui est universel, chez l’homme, relève de l’ordre de la nature [che non è dunque un puro “nome”] […], que tout ce qui est astreint à une norme appartient à la culture, et présente les attributs du relatif et du particulier.40 40. C. Lévi-Strauss, Les structures élémentaires de la parenté (1947), Mouton de Gruyter, Berlin-New York 2002, p. 10; «Affermiamo dunque che tutto quello che è universale nell’uomo appartiene all’ordine della natura […]
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Lasciamo da parte per il momento la questione dei limiti e del senso della “norma” culturale. Rimane che se c’è per l’uomo, per il singolo uomo, una possibilità di pensarsi, o di essere, in rapporto all’universale, è nell’ordine della natura che bisogna cercarla. Vorremmo chiudere con un ricordo personale. Anni fa, nel corso di una lezione, è capitato a un importante filosofo francese, Alain Badiou, di uscirsene in questa frase (o qualcosa di simile): «Non so perché, quando si parla dei Greci, la gente dice: non possiamo sapere come pensava veramente un greco antico; a me non solo pare di poterlo sapere, ma anche, certe volte, di poter pensare esattamente come lui». Questa boutade trasmette in parti eguali un effetto di paradosso e un effetto di evidenza. Se ci si sofferma sul secondo, si troverà facilmente che la possibilità di un rapporto (fino al limite dell’identificazione) con un pensiero che viene da un altro tempo (da un altro “strato”, nella storia della nostra cultura) può darsi nella misura in cui si riconosca la permanenza (più che di specifiche “griglie” concettuali) di questo o quel “problema” – che sia stato allora “pensato”. La permanenza, per dir così, di un “suolo problematico” – trans-culturale. Che vuol dire due cose: che “ciò che viene pensato” non è (ogni volta, soltanto) un problema “culturale” (in riferimento a una “singola” cultura), e che il darsi di qualcosa come un problema (se il fatto che l’individuo problematizza se stesso, il suo essere e la sua pratica, è, come vuole Foucault, la base e la condizione di possibilità dell’etica, a partire da un certo momento storico) non “dipende” interamente dalla configurazione specifica di un “sapere” e dei suoi metodi. Può darsi, allora, che per esempio il problema della
tutto quello che è vincolato a una norma appartiene alla cultura, e presenta gli attributi del relativo e del particolare».
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felicità (individuale) “si ponga” oggi, per noi, in un modo non molto dissimile a quello in cui poteva “porsi” a un greco del IV-III secolo. È sul filo di questo problema che proveremo a vedere se ci è possibile “pensare” (più o meno “esattamente”) come un greco antico. Senza più imbarazzarci di censure o inibizioni che non sono più (esse sì) propriamente “attuali”.
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Capitolo II
Materialismo e teoria del piacere
La “lettera” e il “sistema” Quando si leggono i testi di Epicuro, si ha a che fare con un materiale molto particolare – e non solo per la lacunosità e la frammentarietà che segnano gran parte del lascito filosofico dell’antichità. Disponiamo di tre diversi tipi di testo. Nessuno può essere considerato come un’esposizione “autosufficiente” – nel senso di uno sviluppo completo, in cui gli enunciati, le tesi, le teorie siano presentati in modo organico, coerente, sistematico. Da una parte ci sono frammenti, lacerti più o meno ampi del Peri physeôs, citazioni trasmesse da altri autori; ma nemmeno gli altri testi, quelli che possiamo leggere “dall’inizio alla fine”, che hanno un carattere di integralità, ci permettono una lettura lineare – anch’essi sono a loro modo incompleti, perché il “genere” a cui appartengono, la forma dell’esposizione, obbedisce a preoccupazioni specifiche, che “filtrano” e in qualche modo deformano lo sviluppo dell’argomentazione, la chiarezza e la completezza dell’assunto. Ciò vale, ovviamente, per le due grandi raccolte di massime, o sentenze. La formulazione della dottrina in singole, lapidarie as-
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serzioni, da “imparare a memoria”, è certo un principio dell’insegnamento di Epicuro. Ma, appunto, riguarda l’insegnamento, la scuola. Si tratta di dare a questa dottrina la forma quasi di un “catechismo”, di renderla disponibile, di farla circolare facilmente, di attrezzare alla disputa, al proselitismo. È una sorta di “standard” – che si trascrive e prende forma nell’ambito della scuola; tanto che, nella seconda di queste raccolte (quella che chiamiamo vaticana), può anche darsi che non tutto sia da ascriversi all’“autorialità” di Epicuro. Ma un’analoga preoccupazione (e “deformazione”) riguarda anche l’ultimo tipo di testi – le tre grandi lettere che Diogene Laerzio ha “ricopiato” per noi. Epicuro stesso si è preso cura di spiegare lungamente, all’inizio della Lettera a Erodoto, quale funzione abbiano, e come debbano essere “usate”, all’interno di un percorso di apprendimento, di approfondimento, che ha diversi gradi e modi. Il punto fondamentale, da non dimenticare, è che in esse disponiamo di un “riassunto” o compendio che semplifica la dottrina, riducendola in (usiamo qui la traduzione di Bignone) «formule e massime elementari», nei suoi «lineamenti più generali», presentandone «in succinte massime» (o per sommi capi) i «sommi principi»; a beneficio soprattutto, dice Epicuro proprio all’inizio, di «coloro che non possono studiare intentamente ogni mio scritto […] o leggere con diligenza le opere maggiori che composi». Disponiamo di questo, appunto, e non di tutto ciò che invece il lettore a cui Epicuro si rivolge avrebbe potuto, se ne avesse sentito il bisogno o avuto la capacità, interrogare – per chiarire, approfondire, sviluppare, comprendere meglio, sapere di più. Abbiamo insomma il compendio di un sistema, senza avere il sistema – nella sua versione “completa”, che colloca ogni singola affermazione, precisandone il significato, in una trama continua di collegamenti, di conseguenze, di rimandi. E sappiamo che questa “trama”, questa coerenza puntigliosa, dettagliata, Epicuro l’aveva instancabilmente perseguita, tessuta, fino a di-
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ventare, ci dice Diogene Laerzio, il più “abbondante”, il più prolifico di tutti i filosofi (dobbiamo riconoscere che facciamo perfino fatica a capire come mai ciò che intendiamo per “epicureismo”, come filosofia morale, abbia avuto bisogno, per essere compiutamente formulato, di una mole di scritti rispetto a cui ciò che è rimasto, rappresenta una davvero minima frazione). C’è non solo una perdita, com’è ovvio, ma un vero contrasto, quasi una incommensurabilità tra quello che noi leggiamo e la costruzione sistematica di Epicuro, il suo modo di comporre e sviluppare il proprio pensiero. Basta rileggere quello che scrive Arrighetti, dopo tanti anni di lavoro accanito sui resti del Peri physeôs, nell’introduzione alla sua edizione: [Epicuro] non ebbe (o non volle avere) il dono della limpidezza di pensiero e della concisione nell’esprimerlo; le sue esposizioni sono lunghe, precise fino alla meticolosità […]; si ha come l’impressione […] che avesse sempre paura di non riuscire a esporre i suoi pensieri in forma compiuta, e quindi di lasciare inespresse e alla mercé dell’acutezza del lettore qualcuna delle implicazioni anche di importanza secondaria che essi pensieri comportavano. (pp. XXI-XXII)
Questo Epicuro che pensa “in diretta”, maniacalmente intento a fissare questo pensiero in tutte le sue sfumature, a seguirne e precisarne i più minuti sviluppi, sta come “sullo sfondo” di quello che noi leggiamo; è e rimane, per noi, congetturale. Da ciò deriva una precisa indicazione, per il lettore e l’interprete. Più che “leggere” Epicuro, siamo costretti in qualche modo allo sforzo di “pensare con lui”. Nelle lettere e nelle massime, nei frammenti e nelle citazioni (e in Lucrezio) è certo “il pensiero di Epicuro” che ritroviamo – ma, a parte Lucrezio, un pensiero che si presenta come una disseminazione di indizi, di tracce, la cui convergenza, ricomposizione unitaria rimane in qualche modo “al di fuori”, oltrepassa i limiti, i confini del testo. Tocca a noi di indicarne una possibile coerenza, integrando, collegando tra loro affermazioni che si presentano “staccate”,
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anche disperse – e rimangono perciò, nel loro significato letterale, “aperte”, ambigue. Se c’è (e sappiamo che c’è) un sistema di Epicuro, potremmo dire esagerando un po’ che “l’autore” di questo sistema è ogni volta, in buona misura (e nel capitolo precedente lo abbiamo intravisto), il lettore. Non si pensi che così si apre la strada alla licenza, all’arbitrio. Al contrario, quest’opera continua di integrazione, di “sistematizzazione” di elementi dottrinali che sono nel testo isolati o appena accennati è la prassi normale degli interpreti – solo che si presenta volentieri come una lettura “diretta”. Abbiamo sempre a che fare con un Epicuro “ricostruito”, filtrato; in pochi altri filosofi, per quanto la lontananza storica e la necessaria acribia filologica sembrino favorire l’oggettività, quella che chiameremmo la weltanschauung dell’interprete, la sua sensibilità culturale, si attiva “spontaneamente” nella lettura – proprio per questa necessità di sostituire gli “anelli mancanti”. Da dove verrebbero, al limite, queste necessarie “integrazioni”, se non dal pensiero e dall’esperienza, dalle convinzioni proprie dell’interprete? È anche per questo che il rapporto con la filosofia di Epicuro si impregna di cultura “militante”. Non c’è, potremmo dire, tema o scelta di “filosofia morale”, nel senso più ampio, che non intervenga a formare una lettura di Epicuro – colmando i vuoti, “sovradeterminando” le nozioni, sviluppando le “implicazioni”. Vorremmo fare due esempi, puntuali, che ci introducono al tema di questo capitolo – il piacere è non solo la nozione-cardine dell’etica di Epicuro, ex professo, ma anche tradizionalmente la più controversa, quella che “soffre” della più ampia gamma di varie, contrastanti interpretazioni. Li prendiamo entrambi dallo stesso autore, che è tra gli interpreti più autorevoli – e al quale abbiamo già fatto riferimento, in apertura, perché è tra quelli che nel rapporto con Epicuro hanno anche voluto ritrovare gli elementi fondamentali di una morale “militante”, attuale.
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Nel commento generale che fa da introduzione alla sua edizione e traduzione di Epicuro (limitatamente alle Lettres et maximes) Marcel Conche tratta brevemente del tema del suicidio1. C’è un modo “epicureo” di considerare il suicidio? Dovrebbe esserci, in linea di principio, perché il “sistema” di una morale che ha un così forte impatto esistenziale, che tende all’ideale della saggezza, che vuol fissare in qualche modo le “istruzioni per l’uso” della vita, non può non prendere posizione riguardo all’eventualità e al valore di questa scelta. Può esser “saggio”, e in quali condizioni, rinunciare alla vita, mettervi termine? In tutto il corpus, l’unico enunciato in cui il tema si affaccia è questo: Mikros pantapasin hoi pollai aitiai eulogoi eis exagôgên biou (GV, 38). È un testo che non pone alcun problema di traduzione – riproduciamo traducendo quella di Conche, che è conforme a tutte le altre: «È un uomo da nulla, completamente, colui per il quale sono molte le buone ragioni di lasciare la vita». Che cosa “dice” questa frase? Conche argomenta così: sappiamo (il rimando è al Cicerone del De finibus) che per il saggio la somma dei piaceri supera sempre quella dei dolori; dunque non è possibile che gli venga nemmeno in mente di suicidarsi. Restano i non-saggi, quelli che non possono nemmeno entrare, per ragioni culturali o “naturali”, nella via della saggezza (Diogene Laerzio e Clemente Alessandrino ci informano che per Epicuro ce ne sono). A loro, e solamente a loro, Epicuro “lascia la libertà” di pensare che ci possono essere “buone ragioni” per uscire dalla vita (il che è affermato chiaramente nel testo: non avrebbe alcun senso dire che non ce ne sono molte, di queste ragioni, se non si riconoscesse con ciò stesso che può essercene qualcuna – Conche ne è, ovviamente, tanto consapevole da aggiungere nella sua edizione del testo una nota ad loc., in cui ripete che deve 1. Cfr. M. Conche, Introduction, in Épicure, Lettres et maximes, a cura di M. Conche, PUF, Paris 1987, p. 50.
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necessariamente essere riferita, questa ammissione, alla situazione del non-saggio). Non è la “forzatura”, come tale, che ci interessa. Essa è talmente evidente, che si potrebbe a giusto titolo considerarla come “voluta”, nonostante l’assenza di qualsiasi cautela espositiva. Ed è facile mostrare che è del tutto insostenibile: se si legge così, allora per Epicuro ci sarebbero tre diversi modi di pensare al suicidio (e solo al suicidio) – quello dei mikroi, che considerano validi motivi le pene d’amore, i rovesci di fortuna, il tedium vitae, ecc. (questo è ciò che il testo dice), quello dei non-saggi, che possono pensarci in qualche rara occasione (e questa è una pura invenzione), e quello dei saggi, che, come tali, non ci pensano mai (e questa è “un’aggiunta” al testo). Ma, ripetiamo, non è questo che importa. Ciò che importa, è che alla domanda: nella morale di Epicuro, il suicidio è escluso oppure è ammesso? (che è non solo legittima, ma in qualche modo necessaria, inevitabile) non si può rispondere, semplicemente, leggendo un testo, quand’anche accompagnato da nota a piè di pagina; e che la risposta non potrà allora che venire da un’interpretazione d’insieme, da un “montaggio” di testi diversi, da ciò che si ritiene, rispetto a questo problema, di poter ricavare da altre nozioni. Insomma, se si vuole, dall’“implicito”. Per esempio, quanto alla “somma” dei piaceri e dei dolori, nel punto di vista del saggio, abbiamo visto che Conche sceglie la testimonianza di Cicerone (De fin., I, 19, 62; ma omette, parlando del suicidio, di citare, nello stesso “paragrafo”: non dubitat, questo stesso saggio, si ita melius sit, migrare de vita; non sembra proprio il testimone migliore); ma né in questo né in qualsiasi altro testo si istituisce un rapporto diretto tra questa questione e la decisione eventuale di sopprimersi (se possa esser “saggia”). Quello che è certo è che non si dice mai, nei testi di Epicuro, qualcosa come: la vita è, comunque, un bene. E non lo si dice perché nel pensiero di Epicuro un’affermazione del genere sarebbe semplicemente un non-senso (così come, e questo viene
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esplicitamente affermato, “non ha senso” pensare che la vita sia un male). Ma senza una esplicita considerazione della vita come “valore”, per cui il fatto stesso di (continuare a) vivere, in qualsiasi circostanza, possa valere come un “fine”, “incondizionato”, non si vede come potrebbe fondarsi il rifiuto pregiudiziale del suicidio. Il saggio, sappiamo, può fare molto perché la sua vita sia “nel complesso” piacevole; ma questo non vuol dire che non vi sia un limite a questa possibilità – che egli sia cioè completamente sottratto alla necessità; non solo nel senso di ciò che è necessario alla vita, che può evidentemente venirgli a mancare, ma anche riguardo al “saldo positivo”, che non è interamente in suo potere, del rapporto piacere/dolore. Epicuro dice esplicitamente, in più luoghi, che è perfettamente pensabile un dolore che ecceda la somma dei piaceri, che arrivi fino a sopprimere, a sovrapporsi, cancellandola, alla possibilità di sentire il piacere. “Solo” che questo dolore, estremo per intensità, quando vi sia non dura, non può durare a lungo. Il saggio, allora (è solamente al saggio, ovviamente, che Epicuro si rivolge – a chi voglia esserlo; non si danno condizioni “altre”, permanenti, tra saggezza e non) può far agire questa rappresentazione; il dolore diventa sopportabile, per lui, perché, e solo perché, sa che il momento della fine è vicino (è vicino perché la vita sta per cessare – o allora la “crisi” sarà superata). Non dunque un partito preso della volontà, ma un “fatto”, la generalizzazione di una esperienza, decide della “sopportabilità di principio” del dolore. Un fatto della natura – e, bisogna aggiungere (non stiamo forse discorrendo della possibilità di “far nostra” una morale epicurea, nelle condizioni della nostra vita?), lo stato della medicina. O Epicuro, dobbiamo ritenere, sarebbe “contrario” al “testamento biologico”? Oppure, prendiamo il caso della tortura – Diogene Laerzio ci riferisce che «anche nella tortura il sapiente [sophos] è felice» (118, 1-2). È difficile in questo caso intendere la parola greca, eudaimona, nel senso di “chi si trova in uno stato piacevole” – subito dopo
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ci viene detto che «quando è torturato [quello stesso “sapiente”] geme e si lamenta». Ma certo è possibile al saggio “sopportare” la tortura – perché, come nel caso del dolore “estremo” (ed è questo, come vedremo, un punto capitale di psicologia epicurea), la rappresentazione di un “bene” connesso (nel primo caso la fine, imminente, del dolore, e nell’esempio di Diogene Laerzio, il cui testo è qui lacunoso, si tratterà di qualcosa come “la salvezza di un amico”) lo conforta e sostiene. Immaginiamo però che il nostro saggio, nelle mani dei suoi aguzzini, decida di sopprimersi, per essere assolutamente certo che non tradirà l’amico. Da quale testo, e soprattutto da quale nozione, argomento, ecc., potremmo trarre la conclusione che Epicuro lo disapproverebbe? Ma poi, tutta questa discussione può addirittura apparire come oziosa, inutile; se proprio si vuole ignorare il testo di Cicerone, ci si ricorderà almeno che Lucrezio (III, 1039-1041) cita come exemplum di un giusto (saggio) atteggiamento di fronte alla morte… il suicidio di Democrito. Il vecchio Democrito va incontro volontariamente alla sua propria morte, quando si accorge che il processo di distruzione delle sue facoltà è incominciato; e non sono certo i dolori “artificialmente” provocati da una vita “senza saggezza” (quelli su cui Lucrezio più insiste in questo contesto, per denunciare l’assurdo “logico” dell’attaccamento a una vita che si identifica col dolore) che gli fanno scegliere di abbreviare una vecchiaia in cui l’esercizio stesso della saggezza, non che il godimento dei piaceri, sia reso “naturalmente” impossibile. Diventa allora quasi incomprensibile che uno studioso come Conche abbia potuto affermare una totale incompatibilità tra la saggezza epicurea e il suicidio; se non che, appunto, nel quasi-silenzio dei testi su tanti temi che ci appaiono, giustamente, come articolazioni necessarie di una filosofia morale, si tenta di percepire come un “rumore di fondo”, che diventa “discorso” sulla base di connessioni che appaiono come “necessarie” all’interprete (come qui, dal “riassunto” ciceroniano – in ogni momento il saggio può sentire più piacere che dolore – si fa derivare logi-
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camente che non sceglierà, quando ita melius sit, di migrare de vita); e si ignoreranno tutti gli “indizi” (o anche affermazioni) contrari, perché, la capacità del saggio, in generale, di “far prevalere” il piacere sul dolore sarà stata interpretata come implicante, per lui, un “attaccamento”, psicologico e valoriale, alla vita in quanto tale. Il secondo esempio è ancora più direttamente collegato al contenuto proprio di una dottrina del piacere – riguarda la questione del piacere estetico. Qual è la posizione epicurea riguardo all’arte, come fonte di piacere? È “desiderabile” l’arte? E se sì, in quale partizione dello schema generale dei desideri rientra? Il desiderio dell’arte è “naturale e necessario” o “naturale e non necessario”? O invece è un desiderio “falso”, che il saggio ha soppresso, perché non è né l’uno né l’altro? Noi sappiamo da Diogene Laerzio che il saggio epicureo saprà «più degli altri […] godere degli spettacoli» (120a-121b). E da Plutarco che ciò vale anche per la musica. E questo è tutto – ma è già qualcosa. Poi c’è Lucrezio; e giustamente Conche osserva che i versi in cui il poeta dichiara a Memmio di aver voluto «tibi suaviloquenti / carmine Pierio rationem exponere nostram / et quasi museo dulci contingere melle» – «esporti / la nostra dottrina col canto delle Pieridi che suona soave / e quasi cospargerla col dolce miele delle Muse» (I, 945-947) implicano una valutazione chiaramente positiva della poesia – come fonte di piacere. Ancora, nel libro V la descrizione dello “stato di natura”, fa largo spazio all’inclinazione degli uomini per questo tipo di piacere, li mostra spontaneamente rallegrati dalla musica e dalla danza (1379-1411). La questione è dunque giudicata: l’arte è un piacere, oggetto di un desiderio “naturale” (che sarà eventualmente “non necessario”, in base al significato di quest’ultima nozione). Ma a questo punto Conche si domanda: perché? E si dà questa risposta: «Les désirs relatifs aux plaisirs que donne la beauté, qui est une harmonie (Lucr. I, 945-6 etc.), sont donc en accord profond avec l’exigence, la
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visée de la nature, qui tend […] à la réalisation de l’équilibre et de l’accord»2. Questa interpretazione è, beninteso, legittima. Essa si fonda su due presupposti. Il primo è che i desideri naturali (conformi a natura) abbiano come oggetto proprio, essenziale, l’equilibrio, l’armonia (o «le rétablissement d’un équilibre, d’une harmonie»). Il che significa che ciò che lega, ab origine, l’uomo (la coscienza) al piacere è un carattere oggettivo (se si vuole: formale) di questo piacere; che nel piacere, cioè, si possa riconoscere il fine naturale dell’uomo in quanto lo si identifichi, concettualmente, con una specifica “proprietà” (l’armonia). Il secondo, è che l’arte (la bellezza) è armonia. Il primo di questi presupposti implica evidentemente un’interpretazione generale della teoria del piacere. Il secondo è, altrettanto evidentemente, una opinione dell’interprete. Non solo Lucrezio, quando illustra il piacere che gli uomini “naturali” traggono dall’arte, non fa il minimo cenno a questo aspetto. La cosa più singolare, è che il rinvio di Conche ai versi del libro I, quand’anche si prenda in conto l’etc., è completamente inutile. Il piacere che Memmio dovrebbe ricavare dalla forma poetica dell’espressione, e che può rendergli più facile e grato l’accesso alla dottrina, è lì caratterizzato esclusivamente in termini di sensazione (la soavità, il miele). Perché il magistero poetico di Lucrezio attragga il lettore (o perché i primi uomini si abbandonino al piacere dei primi rozzi strumenti musicali, dei primi goffi passi di danza) non c’è alcun bisogno di questa spiegazione – che essi siano “in realtà” attratti da una (immagine? stato? di) armonia. Non solo, ma se seguiamo (necessariamente) la logica del “paradigma indizia2. M. Conche, Introduction, cit., p. 67; «I desideri relativi ai piaceri che dà la bellezza, che è una armonia (Lucr. I, 945-6, ecc) sono dunque in accordo profondo con l’esigenza, la mira della natura, che tende […] alla realizzazione dell’equilibrio e dell’accordo.
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rio” dovremmo anche notare che il passo lucreziano del libro V contiene un confronto polemico (almeno implicito) tra l’arte “ingenua”, diciamo così, dei primitivi e quella raffinata, evoluta dei tempi “civilizzati” – proprio dal punto di vista della “quantità di piacere”, che non può essere maggiore (può invece essere, secondo Lucrezio, minore) quando si attinga a prodotti di più grande sapienza e complessità tecnica. E questo dovrebbe bastare a escludere (salvo non si consideri l’arte classica come meno “armoniosa” di quella “primitiva”) che il “valore” del piacere estetico secondo Epicuro dipenda da una definizione “essenziale” dell’arte, del bello – non come fonte di sensazione, ma come struttura interna, formale, che riproduce (o corrisponde a) ciò che l’uomo può “avvertire”, in sé, come uno stato di ideale equilibrio (conforme all’“ideale” della natura). Se l’interprete tiene tanto a forzare i testi, è perché ne assume “spontaneamente” un valore di indizio, cerca la loro coerenza ipotizzando gli “anelli mancanti” nella catena degli argomenti. Che in Epicuro, nei nostri testi, non ci sia, nemmeno al livello più superficiale e sommario, una “teoria dell’arte”, è pacifico. Ma che l’arte sia secondo i testi una fonte “naturale” di piacere deve pur significare qualcosa, quanto alla definizione di ciò che è piacere, del nesso tra piacere e natura, tra piacere e coscienza (sentimento). Di questa definizione, cioè della teoria generale di Epicuro, l’interprete si è formato un’idea – attraverso i suoi studi, “sullo sfondo” della sua cultura generale, filosofica e non. E di questa idea cerca una conferma, dovunque i testi gli offrano esempi di cosa, per “piacere”, si debba concretamente intendere – secondo Epicuro. Se, per esempio, il piacere dell’arte fosse messo esplicitamente in relazione con una «armonia», con il «ristabilimento di un’armonia», allora avremmo una ragione in più per interpretare il piacere, il piacere come fine, in un senso contrario ad ogni “sensualismo” (o “sensualità”). Ed è per questo, non certo per una semplice inavvertenza, che uno studioso come Conche può arrivare a convincersi (al
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punto di indicare un preciso testo) che in Lucrezio questa relazione, esplicitamente, si trovi (tanto più che uno dei termini di questa relazione, e cioè l’arte – o “il bello” – come armonia, può facilmente passare come una nozione “di senso comune”).
Questioni di vocabolario Attraverso questi esempi, e innumerevoli altri, non è dunque solo la questione del “come leggere” Epicuro che si presenta alla nostra attenzione. La morale di Epicuro è interamente fondata sulla dottrina del piacere. E questa dottrina non si limita ad introdurre una “variante” nel classico assunto per cui i principi e le regole di una morale si deducono dalla costruzione razionale di una idea del “bene”. Indica un cammino diverso, originale, “difficile” – perché impone ad ogni lettore, prima di tutto, di liberarsi completamente, anzi di contestare alla radice, i presupposti della nostra comune cultura cristiana e borghese. Non è certo, a prima vista, oggi, un’impresa difficile; ma non è poi nemmeno così facile, se ci si chiede di pensare ancora, comunque, nei termini di una morale – e infatti, proprio lo scetticismo e la diffidenza verso qualsiasi morale sono stati, storicamente, un tipico contrassegno della contestazione di quella cultura. Mettere “il piacere” al posto del “bene”, se si esclude che il primo termine possa valere come un quasi-sinonimo del secondo (che ne preservi la caratteristica essenziale, di essere ri-conoscibile direttamente, in quanto tale, dalla ragione umana), è ancora per noi, propriamente, un paradosso (e lo era già, in fondo, nel tempo non-cristiano e non-borghese di Epicuro). Le forzature, gli artifici, le suggestioni di lettura che proliferano fra le pieghe e nei vuoti della tradizione testuale esprimono, assai spesso questo più o meno consapevole bisogno: di attenuare, ridurre, neutralizzare lo scandalo (e l’apparente ossimoro) di una morale materialista.
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Non sembri, questo rilievo di un imbarazzo che Epicuro è ancora in grado di suscitare, un’invasione di campo nei territori e nei linguaggi dell’“ideologia”, che la buona educazione accademica ostenta per solito di ignorare. Si farebbe torto agli storici, ai critici, ai filosofi che fino a tutto il Settecento, come abbiamo visto, si affannavano intorno alla “cristianizzazione” di Epicuro se li si rimandasse troppo frettolosamente a un tempo storico che noi consideriamo (ma fino a un certo punto…) ancora “arretrato”, quanto ai metodi e alle regole (e gli scrupoli) di una buona filologia e di una buona critica. Essi cristianizzavano Epicuro, e lo “imborghesivano” (il termine non è nostro: «Épicure s’embourgeoise» è la formula che si trova in un classico di storia delle idee, L’idée de nature en France dans la seconde moitié du XVIIe siècle, di Jean Ehrard, per sintetizzare questo processo di reinterpretazione, alla metà del secolo; e si trova in apertura, in realtà una pre-sintesi, del capitolo dedicato a Nature et bonheur, subito dopo quest’altra: «plaisir vertueux, bonheur sérieux…»)3; cristianizzavano e imborghesivano (e “stoicizzavano”) Epicuro, dicevamo, non perché fossero tanto meno esigenti o attrezzati di noi, come lettori, ma perché, al fondo, quell’affermazione, incontestabile, di Epicuro, il piacere come fine della vita umana, della vita buona e saggia, sembrava imporre un’interpretazione non-letterale. Questo piacere doveva essere qualcosa di fondamentalmente diverso da ciò che con quella parola, comunemente, si intende. E questo vale ancora, in grande misura, per noi. Sarebbe vano cercare nei testi una esplicita definizione del piacere. Anche Lucrezio, non ha mai bisogno di dire qualcosa come “voluptas per me significa…”. E ciò dovrebbe essere già una prova che il termine viene usato nel suo significato corrente, lessicale. Ma sono molti i testi in cui si sviluppano intorno a questo termine distinzioni e connotazioni specifiche, 3. Cfr. J. Ehrard, L’idée de nature en France dans la première moitié du XVIIIe siècle, Albin Michel, Paris 1994 (19631), p. 544.
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complesse – e che sembrano dunque giustificare una discussione sul significato: quale “piacere”? Che “tipo” di piacere? Si possono a prima vista individuare quattro forme principali di “contestualizzazione” del piacere. Una consiste nell’uso del termine in due differenti “ambiti”, il “corpo” e l’“anima” (senza che mai venga spiegato come il significato, nei due casi, cambi – e ricordando ovviamente che “anima” vuol dire quella particolare materia atomica, entro i confini del corpo, in cui si producono i fenomeni della coscienza). Un’altra è la celebre distinzione tra piacere “catastematico” e “cinetico”. Ancora, ci sono i testi che rimandano alla nozione di un “calcolo” dei piaceri: per cui il piacere, diciamo, diventa veramente tale quando gli si possono attribuire caratteri “supplementari”, che emergono attraverso il vaglio della ragione – per esempio, la capacità di durare nel tempo, di non essere causa di successivi dolori, ecc. Infine, c’è una distinzione di tipo fenomenologico tra i piaceri, che si esprime talvolta con precisi esempi di esperienze o oggetti “piacevoli” («godersi fanciulli, donne, pesci»; sono «i piaceri dei dissoluti»; LM, 132, 1-3) che non rientrano della definizione del piacere come fine (e quindi, in qualche modo, esclusi o anzi opposti rispetto all’identificazione “del” piacere con il bene o la felicità). Sono tutte, come si vede, classificazioni e distinzioni almeno potenzialmente limitative, esclusive, che sembrano autorizzare sul terreno dell’epicureismo una ridefinizione del bene morale (e sia pure in senso eudaimonistico) assai lontana dalla coincidenza con il piacere. “Il saggio” (o l’uomo felice) non è colui che “prova piacere”, ma al contrario chi abbia la capacità di elevarsi al di sopra del piano della sensazione, per distinguere, secondo “superiori” ragioni, ciò che “veramente” è da perseguire (è veramente “piacere”). La parola stessa (piacere) può anche sparire. Archê kai megiston agathon («il principio e il massimo bene») non è il piacere ma, come pure leggiamo nello stesso testo, qualche linea dopo, «la prudenza [phronêsis]» (LM, 132, 7); cioè, il calcolo razionale che
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insegna, si direbbe, più a “diffidare” dei piaceri, che a ricercarli. Epicuro risulta alla fine lontanissimo da quella formula leopardiana che è invece perfettamente epicurea: la felicità «che considerandola bene è tutt’uno con il piacere» (Zibaldone, 165). Poi ci sono altri testi, che spesso fanno parte della stessa “trama” da cui abbiamo estratto le ultime citazioni. In LM, 128, 11 ss., Epicuro scrive (seguiamo qui la traduzione di Bignone): «Perciò dichiariamo il piacere principio e fine della felicità, perché questo abbiamo riconosciuto come bene [agathon – il termine “tecnico” del bene morale] primo e congenito [syngenikon – anche “connaturato”] e da esso iniziamo [katarchometha – “traiamo il principio di”) ogni scelta e ogni avversione, giudicando ogni bene [di nuovo: pan agathon] alla norma del piacere e del dolore [Conche: “secondo l’affezione – tôi pathei – come criterio”]». E più avanti: «Ogni piacere dunque, per sua propria natura, è bene». Poco oltre, si trova lo sviluppo sulla phronêsis, che culmina in una identificazione (o piuttosto implicazione reciproca) tra le virtù (che la phronêsis ci insegna) e «la vita felice [hêdeôs zên – “il vivere piacevolmente”]». Il “verso” di questa implicazione (se cioè in essa sia il piacere a trovarsi definito in quanto “compatibile” con le virtù, o l’inverso) non dovrebbe esser dubbio, se si pensa per esempio al fr. riportato da Ateneo, dal Peri telous (70 Us.; 22,4 A.), dove leggiamo: «Si onorino il bello e le virtù e le altre cose del genere se procurano piacere, se non lo procurano lasciamole andare in pace». Ancora: dallo stesso trattato, e sempre tramite Ateneo (67 Us.; 22,1 A.), possiamo leggere un testo (forse il meno citato, in tutta la letteratura su Epicuro) che riguarda proprio l’esemplificazione, la descrizione dei piaceri secondo il loro contenuto (e in rapporto al “bene” – agathon), e che dice così: «Almeno per me, non so pensare il bene se ne tolgo i piaceri del gusto, quelli dell’amore, quelli dell’udito, e i soavi moti che tramite la vista ricevo dalle forme» (Ateneo, introducendo la citazione, la presenta come la prova che «Epicuro e i suoi seguaci accoglievano il piacere in
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moto – cinetico [kata kinêsin hêdonên]»). Dove non si può fare a meno di osservare che Epicuro dichiara concettualmente inseparabili dal “bene” praticamente tutti i piaceri sensuali (manca solo il senso dell’odorato). Quanto ai «piaceri dei dissoluti [tôn asôtôn hedonai]», che LM, 131, 8-9 fermamente escludeva da ciò che può valere come esempio del piacere/fine, MC X dice: «Se ciò che procura i godimenti dei dissoluti [ta poietika tôn peri tous asôtous hêdonôn] li liberasse dai timori della loro mente riguardo alle cose celesti e alla morte e ai dolori, e se insegnasse loro qual è il limite dei desideri, non avremmo di che biasimarli, colmi come sarebbero di ogni piacere e senza avere di che soffrire nell’anima o nel corpo, ciò che appunto è il male [to kakon – l’opposto, “tecnicamente”, di agathon]». Che è un testo di grande interesse, ai fini di una ricostruzione della teoria del piacere (Cicerone ci insiste molto, traendone conclusioni opposte a quelle di molti interpreti successivi) – e dovremo tornarci. Ma intanto sembra chiaro che non ci sono ragioni intrinseche, legati a una “natura” o a un “tipo” di piaceri, che possano fornire il criterio di un’eccezione rispetto alla norma pratica, generale, del “piacere come fine”. È evidente che la teoria del piacere di Epicuro deve essere “riscritta” – ricostruita in uno schema unitario e continuo di argomentazioni che i testi di cui disponiamo presuppongono, più di quanto non illustrino direttamente. Questi testi devono essere, per quanto è possibile, “disambiguizzati” – c’è bisogno di ricondurli in una struttura d’insieme, in una coerente sequenza capace di reintegrare, “sistematicamente”, le loro diverse articolazioni e valenze. Senza aver troppo paura di “ripetere”: perché bisogna sempre di nuovo “ripassare” per gli stessi enunciati – per “ripartire” in un’altra direzione. Ciò che bisogna tentare, necessariamente, di distinguere è “già contenuto” nella stessa formula, per “condensazione” o “giustapposizione”.
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Il piacere o il dolore Vorremmo cominciare da una tesi, la cui formulazione migliore è probabilmente, ancora, quella che si trova in una pagina dello Zibaldone leopardiano (e che è da leggersi insieme con l’altra, cit. sopra): «Tra la felicità e l’infelicità non c’è condizione di mezzo» (Zib., 2563). Tutti i lettori di Epicuro non possono non sentire che c’è qui qualcosa di assai simile a un “principio” della sua dottrina – anche se mai o quasi mai le presentazioni di questa dottrina vi riconoscono un effettivo punto di partenza. Anzi, soprattutto nella recente letteratura anglosassone (che si compiace di dibattere della morale di Epicuro alla luce del “senso comune”, di una psicologia “empirica”), una tesi come questa suscita imbarazzo e perplessità. Tra felicità e infelicità (tra il piacere e il dolore) sembrerebbe di dover ammettere uno “spazio”, un “intervallo” di “neutralità”. Già nell’antichità la questione era discussa (quello appena menzionato è per esempio il punto di vista dei cirenaici – ma anche di Cicerone). C’è un luogo senechiano in cui si propone un’immagine che può rendere “intuitivamente” questa nozione di un’alternanza “diretta”, che non prevede stati intermedi: l’immagine del cielo (Lettere a Lucilio, clxvi), che può essere sereno oppure (più o meno) nuvoloso. Absolutum humanae naturae bonum, dice Seneca, è quella condizione in cui l’anima e il corpo non soffrono – se non ci sono nuvole in cielo, ci sarà il sereno (sincerissimus nitor); cosa potrebbe esserci “di più”? Tuttavia, se ci si lascia attrarre dal gioco dei significanti, dalle stratificazioni del senso comune, si può ancora avvertire un sapore di paradosso, in questa semplificazione. La coppia felicità/infelicità può “anche” essere pensata come un’opposizione fra due “contenuti” che vengono a riempire un “contenitore” – tra altri possibili, e con la possibilità che il contenitore rimanga “vuoto”. L’assenza dei contenuti “negativi” (delle nuvole in
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cielo) non basta. Se la felicità (o il piacere) “accade”, in questo spazio, sarà perché “qualcosa”, di fatto, accade – e non perché “non accade” qualcos’altro. È proprio qui, al livello della descrizione dei processi psico- fisici, che bisogna cercare l’implicazione strettissima in Epicuro tra “materialismo” e “morale” – e quindi la “base” della sua dottrina. L’identificazione di felicità e piacere (e del piacere con “l’assenza del dolore”) dipende da una “teoria” della costituzione materiale dell’individuo, da una spiegazione del processo della sensazione sulla base del movimento, dell’aggregazione, dell’alterazione di quel complesso di atomi che costituisce in unità (secondo un provvisorio, mobile, continuo intreccio) il “corpo” e l’“anima”. Se consideriamo il piacere/dolore come contenuto immediato della “sensibilità” (la “materia che sente”), è chiaro che i termini “sensazione” e “affetto” (pathos) sono perfettamente sovrapponibili (possono distinguersi solo in un contesto specificamente gnoseologico). Il movimento, l’aggregato mobile degli atomi di diverso tipo che ci costituisce è permanentemente in stato di interazione con gli stati e i flussi della materia fuori di noi (oltre ad essere in uno stato di permanente modificazione al suo interno). Questa interazione non soltanto rende possibile (e garantisce) la conoscenza (perché i “simulacri” che penetrano in noi ci trasmettono “l’impronta” del corpo da cui provengono), ma in essa si generano altresì gli affetti – perché la nostra costituzione interna viene modificata, oltre che per il suo proprio dinamismo, dall’urto, dal passaggio, dal contatto con ciò che proviene “da fuori”. Che cosa “accade” quando “sentiamo”? Lucrezio, nel contesto di una probabile polemica contro la tesi democritea che “gli atomi dell’anima” siano pari per numero a quelli del corpo, e che si trovino uniformemente distribuiti per tutto lo spazio dell’aggregato, spiega (III, 372-395) che, proprio perché ce
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ne sono molti di meno, possono esserci contatti con la materia esterna di cui non abbiamo sensazione – l’area interessata, quando per esempio una zanzara si posa su una mano, può non comprendere, per la sua piccolezza, nessuno di questi atomi; al contrario, se quest’area aumenta (per esempio perché la zanzara ci punge: e quindi una parte più grande di noi, per il volume, è concussa – scossa) gli animai semina “sentono”, perché «in his intervallis tuditantia poss[unt] / concursare coire et dissultare vicissim» (cioè, scegliamo in questo caso la traduzione in prosa di A. Fellin, «sospingendosi in questi intervalli, essi poss[ono] cozzare, unirsi e rimbalzare a vicenda»4). La sensazione, dunque, non si produce in uno stato di quiete – si dà solo quando gli atomi (semina) dell’anima ricevono un impulso dinamico, che ne sconvolge l’equilibrio modificandone l’aggregato (e ciò richiede che una più grande quantità di atomi del corpo sia stimolata – multa est in nobis ciendum – perché la scossa impressa al loro equilibrio si trasmetta a quelli più radi, ma più rotondi, veloci, ecc., dell’anima). Quando Epicuro spiega, in LE, 52-53, come funzionano l’udito e l’odorato, lo fa certo in funzione della sua gnoseologia sensistica, cioè del rapporto tra il senso e l’oggetto, ma il termine che usa per indicare la modificazione del soggetto senziente prodotta dal simulacro è pathos (anche se A. lo “perde”). L’affezione uditiva, come quella olfattiva, non sono, non possono essere “neutre”. La trattazione dei due sensi si conclude (53, 9-13) così (ritraduciamo, appena modificandola, la traduzione di Conche, che è più “letterale” di quelle italiane): «come nel caso dell’udito, l’odore non produrrebbe alcuna affezione [pathos] se non venissero trasportate lontano dall’oggetto certe particelle [onkoi tines] così conformate da muovere [kinein – altri traduce “scuo-
4. Tito Lucrezio Caro, La natura, tr. it. con testo a fronte, a cura di A. Fellin, UTET, Torino 2004, p. 223.
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tere”, “produrre impressione”, “colpire”] l’organo di senso, le une in modo da turbarlo e contrariarlo, le altre senza turbarlo e a proposito [atarachôs kai oikeiôs]» (oikeiôs dice la modalità dell’esser conveniente, adeguato, “proprio”; A. lo traduce: «in maniera da recare […] una sensazione piacevole»). «Le une… le altre [hoi men toioi… hoi de toioi]». Non c’è “via di mezzo”. Nella nota a questo testo della sua edizione, a proposito dell’odorato, Conche spiega bene che il piacevole e lo spiacevole, nella loro alternanza, governano la costituzione interna di un individuo “senziente”, in permanente “commercio” col mondo esterno: il contatto degli organi di senso con la materia non può essere che «agréable ou désagréable, selon que les ‘onkoi’ glissent facilement ou non dans les conduits ou pores olfactifs (cela en fonction de la forme des un et des autres)»5. Ma il caso in cui i testi (segnatamente Lucrezio) insistono di più sull’alternanza “diretta” di piacevole/spiacevole, e descrivono la fisiologia della sensazione come un “corpo a corpo” tra i nostri atomi e quelli esterni, che ha solo due varianti (l’armonia o il conflitto, l’accordo o il contrasto, una sensazione di piacere o di dolore), è probabilmente quello del gusto. In un lungo, puntiglioso sviluppo (III, 633-762) Lucrezio spiega a Memmio come il sapore dei cibi possa cambiare, tra le diverse specie e i diversi individui, o per lo stesso individuo in momenti diversi. Le cose, e i cibi, sono “miste”, cioè contengono atomi di diversa forma. Ma miste e soggette all’alterazione sono anche quelle altre “cose” con cui nella sensazione si incontrano. Il miele è amaro, quando l’aggregato atomico con cui si mescola è sconvolto da una febbre o qualche altra malattia, perché i canali, condotti, pori fanno passare aspera… hamataque, gli atomi «ruvidi e uncinati» – che ci sono, nel miele, ma sono 5. «gradevole o sgradevole, secondo che gli “onkoi” scivolino facilmente o no nei condotti o pori olfattivi (e ciò in funzione della forma degli uni e degli altri».
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invece quelli «lisci» (levia) che il senso trattiene e “incorpora” quando la sua costituzione atomica (la positura principiorum) è quella “normale”. Gli altri, in questo caso, non penetrano, o scivolano via (exitus… liber datum). Del resto, sappiamo che l’aggregato atomico che ci costituisce non è soltanto “mosso” dal flusso esterno della materia; è già di per sé in movimento – e questo movimento riproduce necessariamente stati alterni di diminuzione e accrescimento, bisogno e soddisfazione, mancanza e appagamento. Leggiamo ancora Lucrezio: Di questo, ugualmente, non ci si deve stupire, che il corpo / d’ogni vivente cerca il cibo per impulso. / E infatti ho insegnato che molti corpi fluiscono via e si staccano / dalle cose in molti modi, ma più numerosi se ne devono staccare / dagli animali. Poiché sono travagliati dal movimento, / e molti corpi vanno via col sudore, spremuti dal profondo / molti sono esalati per la bocca, quando essi infiacchiti anelano, / per tali motivi adunque si dirada il corpo e si strema / tutta la loro natura; e a ciò segue il dolore. / Perciò si prende il cibo, acciocché sorregga le membra / e distribuito ricrei le forze, e per membra / e per vene sazi l’avido desiderio di nutrimento. / Ugualmente l’umore si spande in tutte quelle parti / che richiedono umore; e i molti corpi di calore raccolti, / che nel nostro stomaco producono un incendio, / li dissipa al suo arrivo il liquido e li spegne come fuoco, / affinché l’arido calore non possa più ardere le membra. Così dunque, vedi, la sete anelante si deterge / dal nostro corpo, così si appaga l’affannata brama [Illud item non est mirandum, corporis ipsa / quod natura cibum quaerit cuisque animantis. / Quippe etenim fluere atque recedere corpora rebus / multa modis multis docui, sed plurima debent / ex animalibu’. quia sunt exercita motu, / multaque per sudorem ex alto pressa feruntur, / multa per os exhalantur, cum languida anhelant, / His igitur rebus rarescit corpus et omnis / subruitur natura; dolor quam consequitur rem. / Propterea capitur cibus, ut suffulciat artus / et recreet vires interdatus, atque patentem /
140 per membra ac venas ut amorem obturit edendi. / Umor item discedit in omnia quae loca cumque / poscunt umorem; glomerataque multa vaporis / corpora, quae stomacho praebent incendia nostro, / dissupat adveniens liquor ac restinguit ut ignem, / urere ne possit calor amplius aridus artus. / Sic igitur tibi anhela sitis de corpore nostro / abluitur, sic expletur ieiuna cupido]. (IV, 858-876)
La descrizione “fisiologica”, come si vede, è tutta costruita sull’alternanza-opposizione. Continuamente perdiamo qualcosa (rarescit corpus et omnis / subruitur natura) – e questo produce il dolore; continuamente il dolore viene eliminato – ogni perdita dev’essere compensata, la distribuzione delle forze dev’essere omogenea, costantemente “alimentata”, per tutti i “canali” del corpo, ed è allora un movimento contrario, un’azione positiva di ricostituzione e recupero, che provoca l’effetto opposto. Per questo i pathê sono solo due (e uno dei due c’è sempre): il piacere o il dolore. Il dolore che si produce kat’endeian – «in ragione della mancanza» – secondo la formula di Epicuro, non è dunque qualcosa che ci colpisca “dall’esterno”, uno specifico “evento”. Nella nostra costante situazione di cose-nel-mondo (e di cose composte da cose), l’interscambio permanente del “dentro” col “fuori” si aggiunge ad un permanente movimento/alterazione al nostro interno. È uno stato potenzialmente doloroso – e richiede, per “durare” (cioè perché l’aggregato non si disgreghi, e la vita finisca), una costante soppressione del dolore, la ricomposizione (attiva, dinamica) di uno stato di equilibrio, in cui tutto funziona “come deve”, si muove senza attrito, si scambia senza perdite – in cui il movimento della vita, potremmo dire, prevale sul movimento della morte. Questo vuol dire dunque, prima di tutto, aponia. L’assenza del dolore non è una condizione “negativa” – semmai è il dolore che può essere compreso come negazione, mancanza (“negazione della negazione”, allora, se si vuole). È il contenuto
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positivo di una sensazione piacevole – che “riflette” il buon funzionamento del processo o della “macchina” della vita, il costante soddisfacimento del bisogno. È il piacere. Il “senso comune”, qualsiasi cosa sia, non dovrebbe avere proprio nulla da obiettare. Non parliamo forse correntemente del piacere che proviamo nel soddisfare la fame e la sete, ma anche nel camminare, nel respirare liberamente, nell’abbandonarci al sonno…? E che cos’è “il piacere dei sensi”, prima di tutto, se non la sensazione che ci viene, direttamente, dai nostri organi di senso – quando non sia “dolorosa”? L’immagine di Seneca ha il merito di esprimere plasticamente questa assoluta coincidenza di significato tra le due forme verbali apparentemente opposte, la “negativa” e la “positiva”: così come la «serenitas coeli, in sincerissimum nitorem repurgata» non può avere «maiorem claritatem», nulla può “aggiungersi” («quid… accedere… potest?») alla «indolentiam» quando «dolore corpus caret […]. Haec bona non crescunt si plena sunt: quo enim crescet quod plenum est?»6. Il corpo, il corpo senziente, quando non “contenga” in sé il dolore non è “vuoto”, è “pieno”: “si sente” come piacere.
Il piacere e i piaceri Se c’è dunque una “teoria del piacere” in Epicuro, essa costruisce il suo “modello” nella fisiologia della sensazione. Ed è in questo contesto che va prima di tutto spiegato il termine “catastematico”.
6. «il corpo non abbia dolore […]. Questi beni non aumentano, se sono pieni: in che cosa potrebbe aumentare, quello che è pieno?».
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“Prima”, concettualmente, che in senso differenziale (cioè in coppia con “cinetico”) Epicuro usa questo termine per definire la qualità propria dell’aponia – cioè, abbiamo visto, l’espressione più piena del piacere del corpo. Katastêma, katastasis (kathistêmi), sono parole che appartengono al campo semantico dell’“esser costituito”, “disposto”, “stare assieme secondo un ordine”. Rimandano dunque ad una stabilità, non perché implichino l’esperienza effettiva di una durata, ma per il carattere di “riproducibilità” che è insito in un “sistema” autoregolato. Il piacere catastematico al livello del corpo corrisponde prima di tutto alla specifica “virtù” dell’aggregato corporeo – nel senso tipicamente greco per cui “virtù” è ciò che è proprio (oikeios) di un qualsiasi sistema, organo, funzione. La nozione di katastêma come (“buona”) disposizione del corpo si sovrappone perfettamente a quella di “salute” (hygieia) – ed è proprio questo il termine che Epicuro usa in LM, 128, 2: il fine in vista del quale «compiamo tutte le nostre azioni» (panta prattomen) è la sômatos hygieia, insieme con la psychês ataraxia (appunto i due “piaceri catastematici”, aponia e atarassia; e aggiunge, pleonasticamente: «per non soffrire né aver turbamento»). Un umanista italiano epicureo – Cosimo Raimondi, morto nel 1435 – si mostrava già perfettamente consapevole di questa sovrapposizione: Egli [Epicuro] pose il bene supremo nel piacere, avendo visto più a fondo la forza della natura, avendo compreso che siamo nati e siamo stati formati dalla natura in modo che nulla ci fosse più appropriato del mantenere sane ed integre tutte le membra del nostro corpo, conservandole nel loro stato, senza essere affetti da alcun male dell’animo o del corpo.7
Insistiamo su questo punto, perché un’interpretazione troppo “frettolosa” di quella classica distinzione (“piacere catastemati7. Cit. in E. Garin, L’umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento, Laterza, Bari 19643, p. 60.
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co” e “piacere cinetico”, nel corpo e nell’anima) ha certamente molto contribuito alla formazione di quel “punto di vista” per cui la tesi del piacere come fine diventa in sostanza poco più che una metafora, il cui senso starebbe tutto nella possibilità di produrre una “diversa idea” del piacere – diversa, rispetto a ciò che con questa parola comunemente si intende. Se il piacere catastematico, al livello del corpo, è “semplicemente” il massimo del piacere possibile, se questo è il risultato dell’analisi del meccanismo della sensazione, in cui il piacere si genera – allora questa nozione, e quella di “aponia”, non possono evidentemente avere alcun significato limitativo, restrittivo (o “sublimatorio”). Ma qual è allora il senso (la portata e i limiti) della distinzione? L’unico testo in cui Epicuro ne dà una formulazione “categorica” lo leggiamo in Diogene Laerzio – è una citazione dal trattato Peri haireseôn kai phygôn (Di ciò che si deve scegliere e fuggire): La mancanza di turbamento nell’anima [ataraxia] e di dolore nel corpo [aponia] sono piaceri stabili [katastêmatikai]; invece la gioia e la letizia si vede dalla loro attività che sono piaceri in moto [hê de chara kai hê euphrosynê kata kinêsin energeiai blepontai]». (2 Us.; 7 A.)
La prima cosa che salta agli occhi, in questo testo, è la forma, la costruzione: si vede subito che la simmetria è solo apparente. Epicuro dice che aponia e atarassia sono (eisin) piaceri catastematici; per gioia e letizia invece, dalla parte del “cinetico”, il verbo “essere” scompare (il secondo sono della traduzione italiana è un’aggiunta) – e troviamo un altro verbo, al passivo, blepontai («sono viste»). Questa differenza, da sola, dovrebbe dirci molto. Ma la simmetria è anche violata, clamorosamente, nella classificazione. Gioia e letizia valgono, a quanto pare, come esempi di piacere cinetico; ma “aponia” e “atarassia” non sono esempi – sono i due “nomi” del piacere catastematico, a seconda che sia “del corpo” o “dell’anima” (e infatti sono conia-
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ti come termini tecnici, e non “presi in prestito” dalla comune nomenclatura degli affetti). A nessun “singolo” affetto (nei due casi, sui due piani) potrebbe convenire l’attributo del “catastematico”. Viceversa, nomi come “gioia” e “letizia” non possono esprimere, riflettere un carattere “generale” che appartenga in proprio al “piacere cinetico” – in opposizione all’“altro”. “Pensare” il piacere cinetico significa pensare, immediatamente, in termini di pluralità delle sensazioni – di cui si possono dunque fornire esempi, ma non il nome unico che (per il corpo, e per l’anima) definisce la qualità comune. Abbiamo dunque, da una parte, “il” piacere catastematico (nelle sue due varianti o “localizzazioni”); dall’altra, possiamo dire, “tutti” i piaceri – così come sono comunemente designati, nel linguaggio ordinario. E uno dei due “esempi” utilizzati qui da Epicuro, quello della chara, ha poi una sua piccola storia all’interno del corpus – di cui non sarà inutile seguire alcuni passaggi. Cominciamo con il testo di GV, 81: Non libera dal turbamento dell’anima, né procura la vera gioia dello spirito, né l’esistenza dei più grandi beni né l’onore e la considerazione presso la moltitudine, né alcuna altra cosa che dipenda da principi causali che non hanno limiti ben determinati.
La prima cosa da osservare, è che questo testo enuncia una tesi (negativa) circa le condizioni necessarie al raggiungimento del “fine”. Questo significa che siamo passati “su un altro piano”: non la definizione concettuale della “nozione” (della distinzione), ma il suo operare, per dir così, nella posizione del fine – in rapporto al processo pratico del tendere verso il fine. Qui il fine è definito come ataraxia («libera[zione] dal turbamento») – dunque il piacere catastematico, il “catastema”, dell’anima.
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Epicuro però “aggiunge” il termine chara («la gioia») – e il traduttore italiano, aggiungendo a sua volta un «dello spirito», mostra di intenderlo come un “rafforzativo”, per dir così, del “piacere dell’anima”. Ma nell’uso esemplificatorio del termine che abbiamo appena visto, in coppia con euphrosynê, chi volesse mantenere la parvenza di simmetria che il testo offriva, la chara si dovrebbe piuttosto collocare sul versante del “corpo”, in corrispondenza di “aponia” – ammettendo una disposizione in chiasmo delle due coppie (atarassia/aponia e gioia/ letizia), per l’evidente impossibilità di riferire l’altro termine, euphrosynê, altro che all’“anima”. Abbiamo visto come questa simmetria fosse perfettamente illusoria; ma ciò non toglie che nel fornire due esempi di piacere cinetico Epicuro possa aver inteso di mantenere un qualche riferimento alla distinzione “di ambito” tra anima e corpo. In questo caso avremmo qui (GV, 81) un vistoso paradosso – un esempio “tipico” di piacere cinetico (del corpo?), la gioia, verrebbe a trovarsi in coppia con “il piacere dell’anima”, l’atarassia, per ricomporre il quadro completo della felicità a cui l’anima si aspira. Se anche si scelga, però, una lettura meno “azzardata”, e si intenda la menzione qui della chara come una sottolineatura “enfatica” di quanto precede, il paradosso sussiste. «Procura[rsi] la gioia» – che si intenda con ciò il complemento “sistematico”, a livello corporeo, dell’atarassia, oppure si evochi semplicemente, in termini diciamo così “descrittivi”, una connotazione del “vissuto” dell’anima – è in ogni caso una formula che esprime, definisce il “fine” che dev’essere raggiunto – con la stessa “pienezza” indicata dal primo membro della frase. Questo fine è “il massimo” del piacere – il piacere “catastematico”. È vero che questa integrazione della charà nella prospettiva del fine avviene per il tramite di un aggettivo, axiologos, che nel testo italiano è «vera», ma che letteralmente vale “che ha valore”, “a cui si dà valore” – altri traduce «degna di stima»,
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o «di considerazione», oppure (Conche): «di cui vale la pena di parlare [digne qu’on en parle]. Epicuro chiarisce che cosa intende con axiologos chara (o piuttosto che cosa non lo è) con due esempi, seguiti da una formula generale, riassuntiva. Non sarà «vera gioia», per stare al testo italiano, quella procurata dalla ricchezza, o dalla fama, o da una qualsiasi causa indeterminata (la lunga e inutile perifrasi della traduzione, «principi causali che non hanno limiti ben determinati», sta per un semplice adioristous aitias – cioè appunto cause indeterminate, o indefinite). La “qualità”, o piuttosto il “valore” della chara (che è ovviamente una sensazione) dipende dunque dalle “cause” che l’hanno “prodotta” (o “generata”: apogennaô); non ci sarà, potremmo dire, se queste cause non sono adeguate, “conformi” all’effetto che ci si attendeva. Resta che la sensazione della gioia, in quanto tale, può ben “meritarsi” quell’aggettivo – e in questo caso la speranza di ottenerla rientra a pieno titolo tra gli scopi che guidano la condotta di vita del saggio. In un altro testo, questa a prima vista sconcertante prossimità tra il concetto della “gioia” e quello del “piacere catastematico” è ancora più chiara, ancora più grande: «la salda condizione di benessere della carne [to eustathes sarkos katastêma] […] contiene [echei] […] la più alta e sicura gioia [tên akrotatên charan kai bebaiotatên]» (68 Us.; 22,3 A.; cit. di Plutarco dal Peri telous). Più che di prossimità, si deve parlare di un rapporto di implicazione: si dice esplicitamente che la più alta, estrema, intensa gioia è già contenuta nel katastêma sarkos (quando ci sia insieme una «fida speranza in proposito» – sono le prime parole che abbiamo omesso; cioè, intanto, quando non vi sia ragione di temere che la condizione di benessere della carne non sia eustathes – torneremo su questo testo). Ma, anche qui, Epicuro aggiunge una precisazione che il testo italiano sceglie di intercalare tra il verbo e il complemento oggetto (di qui il secondo omissis): «per chi sappia rendersene conto [tois
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epilogizesthai dynamenois]» (letteralmente: “per chi è capace di ragionarci sopra”). Non è difficile vedere che cosa queste due specificazioni, che hanno il compito di “qualificare” la sensazione di chara, hanno in comune – è un elemento lessicale, logos, tanto nell’aggettivo composto (axiologos) che nel verbo che dice l’azione richiesta perché la più alta gioia sia avvertita insieme con il katastêma sarkos (epilogizesthai). È dunque chiaro: ci sono sensazioni piacevoli (la gioia) che possono essere considerate come esempi di piacere cinetico, oppure “far parte” del piacere come fine, essere organicamente connesse con il piacere catastematico – secondo il ragionamento, la valutazione, con cui le accompagniamo. La distinzione epicurea tra piacere catastematico e piacere cinetico è una questione di “punto di vista”. Epicuro lo ha detto, chiaramente, nel testo stesso in cui ha formalmente enunciato la distinzione. Ha usato, per i piaceri cinetici, il passivo di blepô, “vedere”, e non il verbo “essere”. Ha scritto che «la gioia e la letizia», esempi di piacere cinetico, «sono viste [blepontai – “considerati”, “percepiti”] secondo il movimento in atto [kata kinêsin energeiai]». Si chiamano “cinetici” perché “appaiono” (in quanto appaiono) nell’atto in cui un certo movimento “avviene” – senza rapporto con il riprodursi regolare di quel movimento, con l’insieme (equilibrato e dinamico) di cui “fa parte”; non cambia niente, ovviamente, che nella traduzione si unisca energeiai (un dativo) a blepontai, piuttosto che a kata kinêsin: resta che il piacere cinetico è percepito «nell’atto» in cui “si dà”, e per questo «secondo il [come in] movimento» (o allora la distinzione di Epicuro non avrebbe senso, dovrebbe essere radicalmente riformulata – implicherebbe che il piacere catastematico, per parte sua, non sia in atto). Quello che conta è il verbo – blepontai, e non eisin. Ma “a chi” la sensazione del piacere può “apparire” come “cinetica” – cioè
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“realizzata” nel movimento che “accade”, e non conservata e riprodotta nell’insieme, nel “tutto”? O meglio: “chi”, poiché non può essere evidentemente lo stesso “soggetto senziente”, istituisce la differenza, in base alla presenza o assenza di quel rapporto (“sistematico”)? Abbiamo visto da che cosa bisogna partire (da che cosa Epicuro parte): da una descrizione, da una teoria della costituzione corporea dell’individuo (parte di una “fisiologia” generale), da ciò che il corpo umano (senziente) è per natura. E abbiamo trovato questo: che in ogni istante, in ogni stato dell’aggregato corporeo si ha una sensazione, che è necessariamente di piacere o di dolore. La prima “forma”, necessaria, dell’autoriferimento, il modo in cui “per natura” un individuo si percepisce è nell’affetto, piacevole o spiacevole. Non vi può essere qui alcuna distinzione, circa la “natura” di questa affezione: il piacere, o il dolore, la definiscono interamente. La distinzione riguarderà invece “l’origine” della sensazione, “l’interno” e “l’esterno”. L’analisi del corpo senziente ci ha mostrato che il piacere non è solo il “risultato” di un contatto con il mondo “di fuori”, per definizione “occasionale” – ma anche il “risvolto” soggettivo, l’attributo essenziale, nell’autoriferimento, di uno “stato di cose” interno, che è oggettivamente in grado di funzionare e di riprodursi. Il “segno”, se si vuole, di questo “buon funzionamento”. La nozione di “catastematico” serve ad esprimere questo legame tra la sensazione del piacere e lo “stato” (in linea di principio “duraturo”, perché capace di riprodursi) dell’aggregato corporeo (che comprende l’anima). E il piacere che “nasce” da questo “buon funzionamento” ha un valore anche “empiricamente” (e “epistemologicamente”) “privilegiato”, rispetto alle sensazioni che dipendono dal flusso degli oggetti esterni: queste sensazioni, sappiamo, saranno piacevoli o spiacevoli a seconda di come i simulacri si adattano, si mescolano con gli atomi del corpo – ma sotto la
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condizione che la costituzione degli “organi di senso”, legata al funzionamento “d’assieme” del corpo, non sia alterata (dalla febbre, dalla malattia: in questo caso ogni differenza nell’oggetto, la scelta di un cibo piuttosto che un altro, ecc., diventerebbe irrilevante). La distinzione tra il piacere catastematico e i piaceri cinetici emerge, dunque, quando la sensazione del piacere sia messa in rapporto con la sua “causa”, con la sua “origine” – e in nessun modo per una differenza di “qualità”, che possa essere direttamente “avvertita”. Il piacere, possiamo dire, è sempre “cinetico” – se lo consideriamo in atto, nel movimento che lo produce, senza guardare allo stato complessivo dell’aggregato; e questo “stato” è esso stesso, in permanenza, dinamico – la sensazione che ne “segnala” la condizione di equilibrio funzionale non può che prodursi, come tutte le sensazioni, nell’attualità di un movimento (che può, oppure no, costantemente “ripetersi”). Si potrebbe dire, a voler giocare un po’ sulla coppia aristotelica, che nel caso del piacere catastematico, della sua “causa”, il compiersi del movimento che riproduce lo stato di equilibrio nell’aggregato atomico (l’“atto”) coincide con l’“essere in potenza” di questo stesso aggregato, del corpo – se il codice che si assume come paradigmatico è quello della produzione/riproduzione della vita; e che il movimento che è qui in atto riguarda, come dice altrove Epicuro (MC IX), «tutto il nostro essere o le parti più importanti della nostra natura [peri holon to athroisma – termine “tecnico” di LE, reso indifferentemente con “aggregato”, “organismo”, o “complesso” – hupêrchen ê ta kuriôtata merê tês physeôs]»; con l’aggiunta che, se ogni sensazione di piacere potesse avere questa “base”, «i piaceri non differirebbero mai tra loro» – è un testo su cui torneremo. Se il tempo si «condensasse» (ibidem), nell’istante, e se l’intero complesso che ci costituisce (o i suoi kuriôtata merê) fosse “occupato” dalla sensazione del piacere, essa rappresenterebbe di per sé tutto il piacere, sarebbe l’“atto” in cui
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si realizza compiutamente il nostro essere (e nessuna “distinzione” sarebbe possibile. Sarà appena il caso di precisare, poiché abbiamo evocato un “essere in potenza”, che nel contesto di una fisiologia materialistica, che dunque esclude ogni “causa finale”, questa “coincidenza” di potenza è atto non può avere, ovviamente alcuna “garanzia” metafisica, non è un “principio” d’ordine). Quando si definisce un piacere, e un piacere del corpo, come “cinetico”, ciò non implica di per sé alcuna limitazione o esclusione, alcuna “estraneità”, di questo piacere rispetto al “fine”. E ciò intanto per la semplice e ovvia ragione che un “fine”, a questo livello, non c’è. La virtù propria di un meccanismo è quella di “funzionare”, sempre nello stesso modo. E se questo si realizza noi sentiamo il piacere. Le ragioni che rendono questo possibile, finché “accade”, stanno nel movimento, nella forma, negli impulsi reciprocamente trasmessi e subiti dalle parti che lo compongono. Sentiamo il piacere se questo meccanismo “funziona” e se, insieme, il contatto con la materia esterna non produce, invece, il dolore. E infatti, se consideriamo il semplice “impulso” verso l’azione (“prima”, cioè, di un’assunzione consapevole del fine – quando la “volontà” non è ancora che il riflesso immediato della sensazione) ogni distinzione scompare. È il famoso cradle’s argument, “l’argomento della culla” – che si trova in Diogene Laerzio, secondo il quale serve appunto a «dimostrare [apodexein] […] che il fine è il piacere»: «gli esseri viventi appena nati del piacere godono, il dolore invece fuggono per istinto naturale, irrazionalmente. Spontaneamente dunque fuggiamo il dolore» (137, 6-9); e cerchiamo il/i piacere/i.
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Il logos del fine È evidente che non possiamo ancora parlare di una morale, della scelta consapevole di un criterio per l’azione. L’importanza dell’argomento, potremmo dire, sta anzi proprio nel segnare una “tappa intermedia”: “alla base” del soggetto morale, che non s’è ancora costituito, sta non soltanto una “struttura” psico-fisica, che definisce insieme il modo d’essere dell’individuo e la prima forma (necessaria) del suo autoriferimento, ma anche un istinto pratico, un “programma” che trasferisce “immediatamente” nell’azione l’impulso che proviene dalla sensazione. Questa azione, questa scelta è chôris logou (questa è l’espressione che il testo italiano traduce «irrazionalmente» – e vale “senza ragionamento”, senza l’intervento o il concorso del logos). I “bambini nella culla” fuggono il dolore non diversamente da come i leoni, secondo la favola raccolta da Lucrezio, fanno quando vedono un gallo (perché i loro occhi sono fatti in modo da non sopportarne la vista). “Noi”, come i leoni (ma con occhi diversi), siamo venuti al mondo, generati, cresciuti, con questo criterio, che è la nostra natura (la locuzione avverbiale «per istinto naturale» del testo italiano traduce un semplice physikôs – “naturalmente”; “venire al mondo”, “esser generato”, “avere in sé dall’inizio un principio regolatore di crescita e di sviluppo” sono tutti significati di phyô). Non possiamo dunque “perdere” questa inclinazione senza “snaturarci” – è spontaneamente, dice Diogene Laerzio, che la seguiamo; ma l’avverbio italiano traduce un autopathôs, che esprime non tanto il principio attivo di una volontà, quanto una passività dell’affetto, della sensazione. È questa passività, potremmo dire, che ci vincola alla “scelta” della sensazione piacevole – e, di nuovo, nessuna ulteriore distinzione può qui aver luogo. Ma noi non siamo, come gli altri animali, choris logou. Il “piano” della coscienza morale, del “fine” consapevole, si trova a un livello “superiore” – che è quello su cui il discorso di Epi-
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curo si svolge da subito tutte le volte che il termine “piacere” viene usato al di fuori del contesto di un’analisi fisiologica della sensazione. In rapporto al cradle’s argument, è la “vita adulta” dell’individuo, come dirà Alessandro d’Afrodisia, osservando che per «gli Epicurei» questo comporta una «maggiore articolazione» dell’esperienza e della nozione del piacere8. Di questo “livello” non sappiamo ancora quasi niente – se non due cose: che è strettamente legato a quelli precedenti – l’analisi della costituzione corporea dell’individuo e la scoperta nell’alternanza degli affetti di un criterio “immediato” per l’azione; e che qui l’“autoriferimento” dev’essere mediato, “discusso”, verificato dal logos – il che è implicito in ogni filosofia morale, che postula un soggetto capace di decisione autonoma, “ragionata”, su “ciò che si deve scegliere e fuggire”. La ricostruzione di una dottrina del “piacere come fine” richiede dunque, a questo punto, che si affronti quest’ultimo “gradino” – senza dimenticare quanto abbiamo fin qui acquisito circa il “senso” della coppia piacere/ dolore e della distinzione fra il “catastematico” e il “cinetico”. L’individuo “totale” (corpus, anima, e, nella terminologia lucreziana, animus o mens) non può riferirsi a se stesso, aver coscienza della (o costruire la) propria unità, nell’immediatezza in atto della sensazione. Non fosse che perché si pone per lui un problema (diciamo così) estraneo a questa attualità, che è il problema del tempo, della durata “vissuta”, del rapporto passato/presente/futuro. Una “condotta” consapevole si inscrive necessariamente nel tempo. Ancora, le “conoscenze” di cui questo individuo dispone, che si formano nell’insieme della sua esperienza (del mondo, degli oggetti, degli altri, ecc.), saranno attive, “coinvolte” nell’autoriferimento. La sensazione, le sensazioni come contenuto primario, come “base” del rap-
8. Cit. in D. Wolfsdorf, Pleasure in Ancient Greek Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 2013, p. 177.
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porto di sé con sé si trovano dunque ad essere “contestualizzate” – in rapporto al tempo e a tutto il complesso dei legami sociali, possiamo dire, che formano il contenuto di quell’esperienza, nelle forme della politica, dell’economia, del costume, della religione, della cultura (della “psicologia”). Ricordiamo il “trattamento” che Epicuro ha fatto subire alla sensazione della chara, quando si è interrogato sulle condizioni che rendono un tipico piacere cinetico axiologos, e perciò “conforme” al piacere come fine. I due esempi “in negativo” (e già questo, ovviamente, è decisivo: non ci possono essere che esempi negativi, perché quello che ci si chiede non è “quando” una sensazione piacevole “faccia parte” del “fine” – basta che sia una sensazione piacevole – ma quando non ne fa parte) rimandano il primo all’“economico” (la ricchezza), e il secondo al “politico” al rapporto con l’“opinione pubblica” (l’onore, la timê di cui ci gratificano “i molti”). Soffermiamoci un momento sul primo. Non esiste, ovviamente, il piacere, la sensazione di “esser ricco”. Esistono tanti piaceri, che non monta esemplificare, che in quanto tali fanno parte di ciò che ricerchiamo autopathôs, e che il ricco può più facilmente “procurarsi”. Ma che cosa succede se consideriamo questi piaceri (ancora il “punto di vista” – ma nel movimento stesso che “porta” dall’autoriferimento alla deliberazione) non “in sé”, ma nel loro rapporto con una condizione che, in sé, “non c’entra niente” con il piacere e con il dolore; e perciò, assumendo questa condizione come “causa” del piacere, la “scegliamo” come fine della nostra condotta? Possiamo farlo, se ora ci muoviamo sul piano di una prassi “ragionata” – non certo autopathôs. Ebbene succederà, molto probabilmente, che saremo sommersi da una valanga di mali (dolori). Questa situazione di (possibile) “controfinalità” (dunque “autocontraddittoria”, sul piano della morale) è esattamente definita da Epicuro, in quello stesso testo. Non è axiologos, abbiamo letto, un piacere che dipenda (in quanto dipenda) da «cause indefinite». La ricchezza, come “causa”, ha indubbiamente
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questo carattere. Come me la sono procurata? quanto durerà? cosa devo fare per conservarla? sono abbastanza ricco? ecc.: tutte domande, e risposte, essenziali alla “determinazione” – che possono essere le più varie e che tutte rimandano alla possibilità di un “dolore”. Se “colloco” la gioia che il possesso di molti beni può procurarmi in questo contesto, allora non potrà essere che saltuaria, circondata e internamente “minata” dalla percezione del dolore. La prima conseguenza di questa nuova contestualizzazione del piacere, che è la condizione formale per il suo “ingresso” nel dominio morale del “fine”, è dunque la necessità di determinare il rapporto che collega la sensazione alla sua causa. Non può essere “fine” quel piacere che è “visto” dal soggetto dell’azione (e ripetiamo che questo “vedere” non è qui il punto di vista dell’analisi, ma la forma originaria dell’intenzione) come l’effetto necessario di una causa “esterna” – il che implica, se l’azione è in qualche modo guidata dal logos, che proprio il possesso di questa causa o condizione diventi il fine dell’azione. Non può, se la causa che dovrebbe “produrre” il piacere si rivela – “alla prova dei fatti”, che il vaglio critico della ragione è in grado di “anticipare” – ugualmente produttiva (tanto il suo rapporto con l’“effetto” del piacere non è univoco, ma incerto, ambiguo, contraddittorio) di ciò che non è piacere – che è dunque dolore. La “selezione” non avviene dunque, a questo livello, tra “i piaceri”, ma tra diversi modi di collegare la sensazione del piacere al “contesto” – e questa è, in rapporto al piacere, la funzione del logos. Per questo Epicuro può dire una volta (LM, 132, 7) che “il più importante” per il saggio, per il soggetto morale, è la phronêsis. C’è su questo piano una “distanza” dell’individuo rispetto alle (sue) sensazioni – distanza che è imposta dalla necessità di “prendere in considerazione” il contesto; e questa distanza apre lo spazio dell’interpretazione, del calcolo, in cui il logos “agisce”. Ma non è il logos che “istituisce” la distanza –
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non la produce, non la “misura” secondo un suo proprio “metro”. Come abbiamo visto, la “scelta” che il soggetto compie nello spazio che lo separa dall’immediatezza della sensazione, per cui “ha bisogno” del logos, consiste nel preservare il rapporto tra l’azione e il fine, nel “proteggersi” rispetto al prodursi – possibile, in quello spazio – di una controfinalità. Se per natura, chôris logou, cerchiamo il piacere, e non la ricchezza, e se il soggetto morale/razionale può “sbagliarsi” (torneremo subito su questo punto) “deviando” questa ricerca verso un obiettivo, un “oggetto” che può produrre (invece) dolore – allora la funzione del logos, e in particolare della phronêsis, è di correggere l’errore. Questo (che è molto), ma niente di più. La ragione non “determina” il fine, scegliendo da un punto di vista “superiore”, in base a un’“idea” da lei stessa prodotta (per esempio, “il bene”), quali piaceri siano “veri”, e quali no. Il “fine”, e dunque la moralità dell’agire, trova il suo contenuto, il suo “modello”, nell’essere naturale dell’individuo che agisce – e che esiste come un potenziale “soggetto”, nell’autoriferimento, “prima” che la ragione venga a dirgli “che cosa veramente è” – e che cosa è dunque “bene” per lui. Questa è la condizione ineludibile perché possa darsi qualcosa come una “morale materialistica”. L’ingresso nel “mondo della ragione” non modifica in niente questo rapporto: nella ragione l’uomo non trova il criterio, il principio, il fondamento del riferimento a sé, una identità “propria” che si ponga al di là dell’alternativa del piacere e del dolore (questo sarebbe esattamente il contrario della morale di Epicuro); trova lo strumento per poter “effettivamente”, sul terreno di una pratica consapevole, “scegliere il piacere e fuggire il dolore”. Niente può esserci di “proprio” se non una natura – materialmente costituita. Si comprende allora perché la distinzione tra piacere catastematico e piacere cinetico non valga di per sé, sul terreno pratico, operativo, della “scelta”, a escludere il secondo dalla posizione del fine. Epicuro scrive nello stesso contesto che «non
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tutti i piaceri» sono da eleggersi (LM, 129, 5), e che «tutti i piaceri […] per loro natura a noi congeniali [o piuttosto: “per il fatto di avere una natura appropriata” – a noi] sono bene [pasa oun hêdonê dia to physin echein oikeian agathon]» (LM, 129, 9-10). Il “bene”, il piacere che “diventa” fine, non può essere pensato senza il requisito essenziale dell’equilibrio catastematico – il “buon funzionamento”, permanente e completo, del meccanismo che ci costituisce; ma se questo equilibro non è altro che il costante, “sistematico” prevalere, ricostituirsi della sensazione del piacere, tutti i piaceri particolari mantengono, altrettanto essenzialmente, una “affinità di natura” (l’oikeiosis), e sono dunque potenzialmente compresi nella determinazione del fine (“naturale”). Dire che “questo o quel” piacere (o una somma, una copia di “piaceri”) è già in sé “il fine” significherebbe mancare completamente ciò che fa “del” piacere la condizione naturale, il proprio di un essere che percepisce se stesso nella costante alternativa del piacere e del dolore – e “sceglie”, costantemente, il piacere; cioè appunto ciò per cui il piacere è il fine. Significherebbe reintrodurre la possibilità di quel “vuoto”, “tra” i piaceri, che non è altro che dolore. È proprio perché pensiamo il fine naturale nei termini, o sul modello, dell’aponia (nell’immediatezza della sensazione corporea) che possiamo identificare il piacere e il fine. E l’unica conclusione possibile è allora questa: ogni piacere particolare, cinetico, sarà ricercato, sarà bene, in quanto si integri nel (o si aggiunga al) l’equilibrio catastematico – ciò che è sempre, in linea di principio, possibile; e non come se fosse esso stesso, come singola, particolare sensazione di piacere, il bene. O in altri termini: nessun “processo di realizzazione” del fine è pensabile senza perseguire l’equilibrio catastematico, nel corpo e nell’anima (questo secondo, l’atarassia, è come vedremo in un senso ancora “più importante”) – non certo senza questa o quella particolare sensazione di piacere; ma non c’è “in sé”, per definizione, nessuna particolare sensazione di piacere che non sia “compa-
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tibile” con quell’equilibrio – e in quanto tale non sia compresa nell’orientamento pratico verso il fine, secondo natura.
L’opinione e l’errore Ma è tempo di considerare più da vicino, più specificamente, quella dimensione della coscienza, del pensiero, in cui ci troviamo “da subito”, quando parliamo del “fine” – la materia che in noi “pensa”, e non solo “sente”, e che Lucrezio chiama animus o mens, che si trova concentrata in certe regioni dell’anatomia umana (oggi diremmo il cervello). “Pensa”, questa materia – cioè intanto “conserva” l’impressione della sensazione, consentendole di “durare” nel tempo. C’è perciò una memoria. In questa memoria tutte le “informazioni” raccolte (dai sensi) possono essere “oggettivate” – messe a confronto tra loro. Si forma un linguaggio, che è la base del “calcolo”. Si ottiene l’accesso a (o piuttosto si costituisce) quello che oggi chiamiamo “il simbolico” – un ordine dei significati, che nasce dalla ricorrenza e dalla combinatoria dei segni. Si accumula un “sapere”. Che non è solo un “possesso” del singolo, ma si trasmette e si deposita nel linguaggio – il linguaggio degli altri. Ci si “abitua” a compiere, “spontaneamente”, tutte le operazioni prodotte da questa strumentazione – tramite le quali il “mondo degli oggetti” si allarga, nascono i legami sociali e le istituzioni; nella “coscienza” di ognuno, mentre provvede a confrontare, classificare, discernere i contenuti della propria esperienza, penetra lo sguardo (il sapere, la coscienza) dell’altro. Si apre qui lo spazio in cui opera la distinzione del “vero” e del “falso”, la spazio dell’interpretazione – e in questo spazio “noi” ci troviamo necessariamente, ab origine. Si forma il mondo dell’opinione. Il piacere, certo, non è un’opinione; ma “ragionarci sopra” – com’è inevitabile se devo “sceglierlo” consape-
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volmente, utilizzare la mia capacità, a partire dalla memoria, di farmene una “rappresentazione” e di confrontarla con il simile ed il dissimile, con le “cause”, “conseguenze”, ecc. – non può che espormi all’“errore”. Nel “contesto” in cui la sensazione, o piuttosto la sua rappresentazione, è collocata, finisco col mettere in discussione la sua “verità” – che consiste nell’essere “sentita” proprio come “quella” sensazione, e non un’altra (piacere o dolore). Al ricco non può capitare di “sbagliarsi” quando avverte il piacere dei vestiti comodi, del letto soffice, cos’altro, del bagno profumato; “si sbaglierà” invece quando forma quel nesso tra “piacere” e “ricchezza” che lo induce a “scegliere” la ricchezza come “rappresentante”, sul terreno della vita sociale, del fine che è “per natura” incline a perseguire. Il risultato sarà, potrà essere, una vita “dolorosa”. E non solo perché nell’arco della sua durata ci sarà più dolore che piacere (se la ricchezza “costa fatica”, “provoca ostilità”, ecc.), ma perché le sue stesse sensazioni di piacere potranno essere svuotate, annientate, sostituite dal loro contrario (per esempio nel letto non dormirà, ma “sentirà” la paura dei ladri, quando è nel bagno la decisione che deve prendere, e che può farlo più ricco o più povero, lo terrà “in ansia”). Il suo “piacere” sarà allora, con le parole dell’altro grande poeta epicureo, Orazio, una «multo corrupta dolore voluptas» (Satire, I, 2, 39). Tutto il tema del “calcolo dei piaceri” dev’essere collocato su questo sfondo. Quando Epicuro si difende dall’accusa di aver elevato al rango di un “fine” «i piaceri dei dissoluti», e scrive che non questi piaceri, ma un «sobrio calcolo [nêphôn logismos]» è quello che procura «la vita felice [ton hêdyn – piacevole – bion]» (LM, 132, 3), gli interpreti, che commentano questo testo come una prova che non il piacere, ma un altro “principio” governa la vita piacevole, omettono per lo più di osservare che viene subito specificato “su che cosa” il ragionamento (logismos) verta (nêphôn è ovviamente un mero “rinforzo” stilistico): sulle «cause di ogni atto di scelta e di rifiuto». Il
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piacere non determina “immediatamente” l’azione (la scelta o il rifiuto), perché l’“oggetto” dell’azione, ciò che si tratta di scegliere o rifiutare, è adesso la causa (aitia) del piacere. A questo livello, non è in questione la “verità” della sensazione (che non avrebbe senso), ma del complesso delle rappresentazioni – che condizionano la posizione del “soggetto”, il suo modo di rapportarsi a se stesso (e quindi anche alle sue sensazioni, poiché “confluiscono” in un’autorappresentazione). Non abbiamo a che fare con “le cose” – e con noi stessi, come rapporto sensibile alle cose; ma con i “significati” delle cose, e l’insieme dei rapporti (sociali) che contribuiscono a “costituirci”. Per dirla in modo se si vuole più semplice, una volta che si ponga la domanda su quali sono le cause, possibili, del bios hêdys, la risposta non può non essere soggetta all’alternativa del vero e del falso. Bisognerà insomma formarsi un’“opinione”, e una “retta” opinione, a riguardo. E infatti, nello stesso testo, Epicuro continua così: «che inda ga [il logismos] le cause di ogni atto di scelta o di rifiuto, che scacci le false opinioni dalle quali nasce quel grandissimo turbamento che prende le anime». Il «grandissimo turbamento che prende le anime» è un dolore, una sensazione di dolore. E Epicuro non ha bisogno di aggiungere nessun’altra definizione delle opinioni che devono essere “scacciate” (il «false» del testo italiano è un’aggiunta) se non appunto questa, che sono l’“origine”, la causa di un dolore. Se questo è il “risultato”, allora le opinioni che hanno condotto a questo erano “sbagliate”. La “prestazione” che chiediamo al nêphôn logismos consiste esattamente nell’“anticipare” questo giudizio. È su questa “linea di ragionamento” che Epicuro procede, subito dopo, a identificare la phronêsis con «il principio e il massimo bene» (132, 7). Phronêsis è una parola che ricopre un’area semantica assai ampia – e qui i valori prevalenti saranno quelli di «discernimento», «buon consiglio», ecc. Ma leggiamo tutto il seguito:
160 per questo anche più apprezzabile della filosofia è la prudenza [phronêsis], dalla quale provengono tutte le altre virtù, che insegna come non vi può essere vita felice [hêdeôs zên: un vivere piacevolmente] senza che essa sia saggia [aneu tou phronimôs: senza un vivere secondo la phronêsis] e bella e giusta, né saggia e bella e giusta senza che sia felice [hêdeôs]. Le virtù infatti sono connaturate [al vivere piacevolmente] e [il vivere piacevolmente] è inseparabile da esse. (8-12)
Se la phronêsis è “la prima” delle virtù (nell’ordine dell’enumerazione, e perché da essa «provengono [pephykasin – “sono state generate”, “sono nate”] tutte le altre [hai loipai]» è perché dispensa un insegnamento (didaskousa) circa il modo più efficace di ricercare la vita piacevole (ed è appunto questa sua funzione che le permette di “generarle” tutte, le altre virtù, secondo un rapporto di corrispondenza con questa stessa ricerca). Possiamo dire che il fine della condotta morale è il piacere “virtuoso”, se intendiamo che sarà “virtuosa” ogni ricerca del piacere “guidata” dalla phronêsis – cioè dalla capacità di distinguere le opinioni “false” da quelle “vere”. E solo così questo testo (come pure MC V, che lo ripete) si potrà “pensare insieme” agli altri in cui si pone “direttamente” (e cioè senza la mediazione della phronêsis) il tema del rapporto tra le virtù e il piacere; e si dice, per esempio: «Si onorino il bello e le virtù e le altre cose del genere se procurano piacere, se non lo procurano lasciamole andare in pace» (già cit.); oppure: «Io invece invito ad assidui piaceri, e non a virtù che comportino stolte e vuote e perturbatrici speranze di ricompensa» (116 Us., 42 A., cit. di Plutarco da una lettera a Anassarco: quando non siano integrate nel modo di operare della phronêsis, anche le virtù possono essere “false”); o ancora, in D.L., 138, 1-2: «è in vista del piacere che si ricercano le virtù, non di per se stesse» (dove, nel rapporto di implicazione che sarà ribadito qualche linea dopo – «la virtù è inseparabile dal piacere» –, è dichiaratamente acquisito il “verso” strumentale – e dunque la subordinazione riguardo al fine). La “teoria”, dunque, dice esattamente il
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contrario di quanto potrebbe apparire a una lettura frettolosa (e ideologicamente “compromessa”): non che i piaceri sono sottoposti alla condizione del “virtuoso” (essendo la phronêsis che ne guida in pratica la ricerca una, e la principale, delle “virtù”); ma che le virtù, invece, sono “false”, se non generate nel modo stesso di operare della phronêsis – che consiste nel garantire la ricerca del piacere dai rischi dell’“errore” (e cioè dall’insorgere “controfinalistico” del dolore). La complementarità o implicazione di piacere e virtù, insomma, si rivela nella comune mediazione della phronêsis; su entrambi i versanti la condotta della vita risulta “falsificata” se viene meno la capacità (che si chiama phronêsis) dell’orientamento coerente in direzione del fine – il piacere, l’assenza di dolore. I piaceri “virtuosi” sono quelli “scelti” dalla phronêsis (che è la virtù “pratica”); analogamente, le altre virtù non hanno un valore (un contenuto) morale, pratico, se non sono a loro volta “coerenti” con questo principio – la conformità al fine (del piacere), che la phronêsis “garantisce” sul piano della riflessione, del logismos. Il tema della “falsa opinione”, dell’errore, è ovviamente trattato da Epicuro non solo nell’ambito della morale (e quindi del giudizio che precede la scelta sulle cause del bios hêdys), ma anche nel più generale contesto della sua gnoseologia. Sappiamo che il primo “criterio” della conoscenza è la sensazione – sempre “vera”, perché l’“immagine” che imprime in noi “corrisponde” all’oggetto. Ciò che non può essere oggetto di sensazione – cioè la “struttura costitutiva” dell’essere, gli atomi e il vuoto – sarà “conosciuto” attraverso una costruzione teorica, che culmina in un giudizio di necessità (le cose non potrebbero “apparirci” come fanno se non fossero costituite in quel certo modo) e di coerenza (attraverso la teoria è possibile “spiegare” tutti i moti e gli aspetti delle cose – cioè niente di ciò che appare è in contraddizione con la teoria). Vi è dunque un doppio livello del processo della conoscenza – o se si preferisce una circolarità, dalla sensazione (punto di partenza, primo
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“dato”) alla sensazione (criterio della verifica, punto d’approdo), attraverso una costruzione “logica”. Il presupposto di questa costruzione, la sua condizione di possibilità, è ovviamente che il “dato” non “si dia” esclusivamente nell’“atto” della sensazione (l’“impressione”) ma rimanga “disponibile”, in noi, nel tempo, come una nozione. Attraverso la memoria, noi disponiamo di schemi, segni che possono essere “adattati”, secondo un principio di analogia, a tutte le sensazioni “future” – così, per esempio, la “prenozione” dell’aspetto di un uomo si “applica” a quell’immagine che ancora non ci ha “impresso” «la posizione e l’ordine degli atomi del corpo da cui proviene» (LE, 48, 4-5) – in mancanza di ripetute, ravvicinate, convergenti “osservazioni”; ma noi “sappiamo” che “quello” è un uomo. È la famosa prolessi. In questo spazio, tra il primo, incerto apparire di una “forma” e l’evidenza in atto dell’impressione sensibile, si colloca quella che Epicuro chiama epibolê – lo “sforzo” dell’attenzione, l’intenzione di esaminare, “sospendendo” il giudizio, la corrispondenza della nozione con l’oggetto. L’impressione conservata nella memoria costituisce lo schema intelligibile che si applica ai “contenuti” dell’esperienza; e questo schema, questa “nozione” è sottoposta a tutte le operazioni di confronto, classificazione, “interpretazione”, che formano una “sintassi” e una “semantica” – la struttura linguistica del logos. Nasce così, nel processo della conoscenza, la possibilità dell’errore. In un testo della LE ampiamente ricostituito, e forse anche per questo particolarmente arduo e contorto, Epicuro “spie ga” l’errore parlando di un «moto [kinêsis]» insieme connesso e distinto rispetto all’«atto apprensivo», dalla cui «conferma o smentita» si producono, rispettivamente, la verità e l’errore (51, 6-11). Questo moto (dunque esso stesso un atto) può essere interpretato come l’“assenso” per cui una certa apprensione viene accolta e fissata (è “vera”). Ma, evidentemente, non “coincide” con il fatto stesso dell’apprensione (sarebbe “pleonastico”). L’atto in questione consiste nell’“aggiungere qualco-
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sa”, to de pseudos kai to diêmartêmenon en tôi prosdoxazomenôi aei estin: «l’inganno e l’errore è sempre» nel prosdoxazomenôn, ossia in «quello che si aggiunge nel giudizio» (A.), «quello che si aggiunge per l’opinione» (Conche), «quello che si aggiunge pensando»; si aggiunge a «ciò che attende di essere confermato o non ricevere attestazione contraria» (50, 8-9). Cioè, par di capire, a una prolessi – alla pre-assegnazione di una identità (predicativa, relazionale) all’oggetto dell’apprensione. Se questo non avvenisse, se non avessimo cioè la possibilità di operare sui “dati” della sensazione, ma rimanessimo soggetti “passivi” dell’impressione, (e saremmo allora privi di qualsiasi possibilità di conoscenza, su ciò che “non si vede”, o non è ora qui) l’errore non ci sarebbe. E l’errore, quando c’è, non è poi tanto facile da “correggere” (di questo bisognerà ricordarsi). Il moto che lo istituisce non è solo «distinto», ma anche «connesso» con l’atto apprensivo (51, 7). E questa connessione forma una “unità”. È solo “dopo”, potremmo dire, che distinguiamo fra i due “atti”: quando il “pensamento aggiunto” si rivela “non conforme”. Questa rivelazione, questa “falsificazione” non potrà che essere affidata al ripetersi dell’apprensione – la possibilità di una “verifica” sta nel fatto che l’impressione dell’oggetto conserva, ad ogni successiva occorrenza, la sua “verità”. Ma conserva anche la sua “somiglianza” con tutte le precedenti (e i loro “moti connessi”). Per questo c’è sempre la possibilità che l’errore stesso si riproduca, si conservi, continuando ad apparire come «avente un fondamento di realtà». Fino a distruggere, in pratica, gli stessi «criteri che si basano sull’evidenza» – e cioè la possibilità di ritrovare nelle impressioni in atto (kata tas enargeias), nella sensazione, la verità. Se l’errore si istituisce nella somiglianza, l’atto apprensivo unito al pensamento “sbagliato” sarà simile a quello “giusto” (o unito a un pensamento “giusto”). La traduzione letterale di quello homoiôs bebaioumenon, riferito all’errore, che il testo italiano rende con «ugualmente considerato come avente un fondamento di realtà», è: «similmente stabi-
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le [o: stabilizzato]» – perché “garantito” in modo simile, sulla stessa “base” (l’atto apprensivo, kata tas enargeias). Il criterio dell’evidenza sensibile diventa, allora, inoperante – perché non univoco. In questo testo, si può dire, troviamo come l’“atto di nascita” dell’opinione nel sistema epicureo. Essa si forma nel “ricordo”, nel “nome”, nel “significato” – che sono gli strumenti del pensiero, insieme “naturali” (l’uomo è un animale “logico”, la materia di cui è fatto “pensa”) e necessari (senza di essi non avremmo la “scienza”). Il processo della conoscenza si svolge su due piani, che convergono (e questa convergenza è il criterio della “verità”) ma rimangono, nello spazio che separa la formazione della “nozione” dalla sua “verifica”, distinti, paralleli. Questa distanza “complica” la definizione del criterio – che infatti è duplice. Sul piano della riflessione, delle operazioni logiche sui “dati”, il collegamento con il mondo degli “atti apprensivi” dovrà certo rimanere costante, riattivando sempre di nuovo l’epibolê per «afferrare l’immagine [an labômen phantasian]» (Epicuro dice qui, LE, 50, 5, che l’atto del «guardare attentamente [epiblêtikôs]», impegna tanto gli «organi di senso [aisthêtêria]», che la dianoia – “mente”, “pensiero”); ma la “verità” dei miei pensieri non avrà lo stesso “fondamento” nell’“immagine” da cui «riceve una conferma» e in quella da cui «non riceve una attestazione contraria» (epimarturêthêsesthai o mê antimarturêthêsesthai). Il secondo di questi verbi esprime una condizione evidentemente più “debole” rispetto al primo. Da un lato, quando l’indagine si svolge sul piano della cause, del non-apparente, “ciò che si aggiunge” alla nozione comune, fondata sull’evidenza dell’atto apprensivo, dovrà rispettare il criterio della “non-sconferma”: che si tratti di ammettere diverse spiegazioni, ugualmente possibili rispetto a “ciò che appare” (è tipicamente il caso dei “fenomeni celesti”, di cui si occupa la Lettera a Pitocle: Epicuro ammette un “possibilismo” teorico – non abbiamo bisogno di “conoscere
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la verità” se non in quanto l’ignoranza o l’errore siano specifici ostacoli rispetto al “fine”); oppure si proceda al livello dei “principi” (la costituzione atomica della materia) secondo lo schema generale di una spiegazione dei fenomeni completa e non contraddittoria. Ma il prosdoxazomenon può anche operare, deformandola, sulla stessa nozione comune, per sé considerata: l’aggiunta è riconosciuta come falsa senza bisogno di passare sul piano dell’indagine generale, del non-apparente, perché semplicemente contrasta con ciò che è pur “dato” nella nozione, in quanto “trascrizione diretta” dell’atto apprensivo. Anche in questo caso, l’epibolê (o l’epiblepsis), “strumento” per la verifica del giudizio, può non “impegnare” un aisthêtêrion – rimane sul piano della dianoia. La questione dell’esistenza e della natura degli dèi è l’esempio tipico di una “critica dell’errore” (e di un errore “inammissibile”, per le sue conseguenze pratiche) condotta non sul “banco di prova” dell’evidenza sensibile, ma su quello della coerenza logica (dell’esame della nozione). I giudizi degli uomini sugli dèi, in prima istanza, non appartengono alla riflessione sulla “condotta di vita”, non sono “strumentali” alla determinazione e al perseguimento del fine. Ciò in cui si originano è “lo stesso” che tutte le altre nozioni comuni: l’“impressione” dell’oggetto esterno. Ciò è possibile, perché niente contraddice, al livello dei “principi”, della fisiologia generale, l’esistenza di un aggregato corporeo (gli dèi hanno naturalmente un corpo) “incorruttibile”, il cui equilibrio non è soggetto ai processi di disgregazione – e che, essendo dotato, come il corpo umano, di sensibilità, rimane immune dalla sensazione della “mancanza”, del dolore. Allora, se tutti gli uomini “pensano”, e hanno sempre pensato, che gli dèi “esistono”, non c’è ragione di negarlo – sarebbe l’unico caso di una nozione che si forma “non si sa da dove” o come, non potendosi “analizzare”, come per esempio quella dei centauri, in termini di casuale “assemblaggio” di simulacri provenienti da corpi diversi.
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«Gli dèi esistono», dice Epicuro; «evidente è infatti la loro conoscenza» (LM, 123, 7). Evidente traduce l’aggettivo enargês – che è come sappiamo il termine che esprime il fondamento della conoscenza nell’atto apprensivo, nel movimento che imprime in noi i caratteri dell’oggetto esterno. Che questo movimento non passi necessariamente attraverso gli organi di senso, ma “imprima” questi caratteri direttamente nella “mente” (dove si trovano gli atomi più “sottili”, ecc.) ha a che fare con la speciale natura, per la speciale origine, dei simulacri che ci “vengono incontro” – e non presenta particolari difficoltà. Di qui si origina, come suole, una prolêpsis, e una noêsis: noi conserviamo, “oggettivandola”, l’“impronta” di ciò che in noi è stato “inscritto” (la traduzione italiana, «secondo quanto suggerisce la comune nozione del divino», per hôs hê koinê tou theou noêsis hypergraphê [123, 4], indebolisce il valore di hypergraphô). Ma quali sono, in questo caso, i “caratteri” dell’oggetto? Essenzialmente due, indistruttibilità e beatitudine: «Considera [nomizôn] il dio come un vivente indistruttibile e beato [ton theon zôon aphtharton kai makarion]» (123, 3). Che proprio e solo questi caratteri siano quelli impressi nella nozione comune del dio è per Epicuro un fatto (in Lucrezio possiamo trovare maggiori spiegazioni: per esempio, noi “vediamo” gli dèi sempre eguali a loro stessi – il loro aspetto “manifesta” l’indistruttibilità – e dunque l’immortalità, il “fatto” di essere immuni da ogni alterazione nel tempo). Sennonché, questa primitiva impressione, trasformandosi in una “opinione”, si trova ad essere travisata, sfigurata. «Le opinioni del volgo [tas tôn pollôn doxas]» sugli dèi non sono prolêpseis, ma hypolêpseis (ricordiamo D.L., 34, 1-2: «chiamano [gli epicurei] l’opinione anche presunzione [hypolêpsin], e dicono che può essere vera o falsa»): la “nozione” perde il suo carattere di evidenza, il “contatto” con l’impressione in cui si origina e si verifica, e “diventa” falsa.
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Come ce ne accorgiamo? Guardando, evidentemente, a ciò che vi si trova “in aggiunta”. Qui non è menzionato, ma sappiamo di cosa si tratta: “i molti” concepiscono gli dèi non solo come essere beati e incorruttibili, ma come reggitori dell’universo, “padroni” della vita umana, che esigono da noi obbedienza, e che possono punirci o premiarci in ogni momento, irati o pietosi. L’“aggiunta”, insomma, è la religione. Perché si tratta di una “opinione falsa”? Epicuro, nel nostro testo, è formale: i due caratteri che formano la nozione comune, “impressa”, immortalità e felicità (beatitudine), non sono “compatibili” con “gli altri”. Due volte, in poche righe, Epicuro usa il verbo phylattô (“preservare”, “conservare”). Prima per dire al suo lettore che deve pensare (doxaze) degli dèi «tutto ciò che è capace di preservare la felicità con l’immortalità» (senza «attribuire» – alla nozione, “in aggiunta” – «niente che sia estraneo all’immortalità o discorde dalla beatitudine»); e più avanti quando dice che «non ci sono» gli dèi «come i più li intendono» – perché questi, “i più”, «non li preservano [phylattousin] in modo conforme alla nozione che [ne] hanno». L’opinione (falsa) è dunque un pensiero che impedisce di pensare (di continuare a pensare) quello che pure si pretende di pensare ancora (“per forza”, perché è il tratto “distintivo”, evidente, della nozione comune). C’è, formalmente, una contraddizione – si applicano allo stesso “soggetto” predicati fra loro incompatibili. L’unica volta che Epicuro accenna esplicitamente ad uno dei “contenuti” della “falsa opinione” (LE, 77, 1-2) lo dice ancor più chiaramente (e la contraddizione è denunciata con speciale riferimento alla “felicità” – come già facevano pensare alcuni indizi letterali del testo di LM): non si può attribuire agli dèi il ruolo di “ministri e ordinatori” dei moti dei corpi celesti – perché queste «occupazioni e preoccupazioni e ire e benevolenze [siamo sul piano di un sapere “astrologico”, che comprende l’influsso positivo
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o negativo degli astri sulle cose umane] sono inconciliabili [ou gar symphônousi – “non si accordano”, “non di possono dire insieme”] con la beatitudine». Da questa falsa opinione si origina la prima (almeno nell’ordine dell’enumerazione) delle grandi “malattie” dell’anima, la paura degli dèi. Toccherà soprattutto a Lucrezio, per quello che ne sappiamo, descriverne la genesi effettiva, nel suo grande excursus “antropologico” del libro V. Ma quello che ora ci interessa, è che anche lì il passaggio dall’origine immemoriale della nozione comune degli dèi alle credenze false e nocive della religione sarà spiegato in modo da far cadere l’accento non tanto su una condizione “psicologica”, quanto su una “deriva”, diciamo così, tutta interna alla riflessione, sulla frettolosa, superficiale ricerca di nessi e rapporti esplicativi. Posto che (V, 1171-1193) gli uomini abbiano “visto” («animo […] vigilante»: nell’animus, anche in stato di veglia, nei “primi tempi”, e non soltanto in sogno) le «egregias facies» degli dèi (con tutti i caratteri connessi, di forza e bellezza, su cui Lucrezio indugia, e che “danno l’impressione” di una somma felicità: sono, dice giustamente Conche, gli dèi di Omero senza le passioni – e ancor meglio aveva detto Marx: gli dèi plastici dell’arte greca); che cosa li ha spinti ad attribuir loro quella funzione di reggitori del mondo, causa diretta e volontaria di tutti i suoi moti, con le loro conseguenze per gli uomini, da cui deriverà la religione, «unde […] est mortalibus insitus horror»? La prima “causa”, dice Lucrezio, è che non disponendo di alcuna altra spiegazione, ignorando i principi della natura rerum, gli veniva “facile” (era per loro una via d’uscita: «perfugiam sibi habebant») «assegnare ogni cosa / agli dèi e supporre che al cenno di quelli ogni cosa obbedisse [omnia divis / tradere et illorum nutu facere omnia flecta]». Certo, si potrebbe aggiungere che il meccanismo che produce l’errore, in questo caso, non è poi così completamente interno
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al “ragionamento”. Che tra la felicità (tranquillità dell’anima, atarassia) e la necessità di “prendersi cura” del mondo vi sia un evidente rapporto di contraddizione dipende, in ultimo, da un “sapere immediato” di che cos’è “felicità” – radicato nell’affettività umana. Non a caso il tanto controverso, e in effetti assai problematico, scolio a MC I (testo che “riassume” il passaggio citato di LE) si conclude con l’aggettivo anthrôpoeideis, riferito alle immagini degli dèi («che sono antropomorfi») – il che trova un puntuale riscontro nelle descrizioni di Lucrezio. Quanto alla classica hypolêpsis che consiste nel formare una nozione del divino da “utilizzare” per le cause dei fenomeni naturali, la “comodità” della spiegazione così ottenuta non esprime soltanto l’“immaturità” e l’approssimazione nella condotta metodica del pensiero (l’assenza di epibolê, sul piano della dianoia), ma anche un preciso bisogno “sentimentale” – rispetto a quei tanti fenomeni che sono per l’uomo “paurosi”, gli dèi, se dipendono da loro, potrebbero, volendo, proteggerci. Queste osservazioni sono importanti – rimandano al tema generale dell’intreccio tra “ragione”, “psicologia” e “sensibilità”, che forma una trama continua del pensiero di Epicuro; “comprendere” questo pensiero vuol dire provare a descrivere questa trama. Ma quello che ora specificamente ci interessava è il riconoscimento della dimensione (se si vuole chiamarla così) “intellettualistica” della morale di Epicuro – di cui si tratta appunto di precisare, in quell’intreccio, la portata e i limiti. Che si tratti di combattere le false opinioni circa le “cause” del piacere (e del dolore), ritrovandone la genesi (la possibilità formale) nel meccanismo stesso che produce il “conoscere”, oppure si applichi ad un singolo (e capitale) “errore” l’analisi della nozione, il criterio della sua esatta definizione – la possibilità di scegliere consapevolmente un fine, e di dirigersi praticamente verso la sua realizzazione, implica una specifica funzione del “ragionamento”, del logos (della dianoia). La distanza di cui abbiamo parlato, rispetto all’evidenza sensibile, è lo spazio in cui si esercita una
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(relativamente) autonoma capacità di pensare. Ed è quanto mai importante che l’“oggetto” di questo pensiero sia esattamente definito come la correzione di (quello che al vaglio del pensiero appare come) un errore. C’è bisogno del pensiero, potremmo dire, per sanare le ferite che il pensiero stesso infligge (come la lancia di Achille, o di Peleo): quando trasforma l’evidenza in una “nozione”. Non per produrre, “autonomamente”, un’altra “forma” di evidenza – cioè quella di “oggetti” che sarebbero “prodotti” dalla sua propria attività.
Il desiderio Ma il passaggio dall’individuo naturale-sensibile al “soggetto morale” non è solamente scandito su due piani – non è solamente un passaggio dalla sensazione all’“opinione”, che si attua nella formazione della prolêpsis/ypolêpsis. Il mondo della rappresentazione, come si costituisce nel meccanismo dell’impressione/memoria/nozione, non è soltanto un mondo di oggetti, da “verificare” sul piano della conoscenza. Riguarda anche un “oggetto” del tutto particolare, noi stessi – in quanto “avvertiamo” in noi un impulso a muoverci versi l’esterno, verso l’altro “oggetto”, e consideriamo questo impulso come una “parte” di noi, il principio di una attività che contribuisce a definirci (di una “spontaneità”, se si vuole, ma non più come del bambino nella culla, perché riflessa in una individualità, differenziata). Dobbiamo “conoscere”, per restare in questo linguaggio, anche il “meccanismo che ci muove” verso l’oggetto – non solo in relazione all’opinione che dell’oggetto ci formiamo, ma all’impulso dinamico che ce lo “rivela” come meta o contenuto della nostra vita interiore, “nutrita” di affettività. Questa “parte di noi”, i greci l’hanno considerata per lo più come una suddivisione interna dell’anima; e Aristotele, sulla scorta di Platone, l’ha chiamata epithymêtikon (Eth. Nic., I, 13, 1102b 31; un
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traduttore italiano, Natoli, propone «la parte impetuosa»). In Epicuro, ovviamente, non ci sono “parti” dell’anima: il thymos non è una funzione autonoma, specifica, un principio di intelligibilità “autosufficiente” per un certo “tipo” di rapporti tra l’individuo e il mondo esterno. Ma resta che questi rapporti non possono esaurirsi nella passività della sensazione da un lato (essa stessa generatrice di “impulsi”), e in una “strategia razionale”, dall’altro, fondata sulla conoscenza dei nessi causali, del “contenuto” della nozione. Bisogna prendere in considerazione l’epithymia – il “desiderio”. La riflessione sul desiderio è essenziale, nella morale di Epicuro, perché l’adeguamento al fine non richiede soltanto che ci formiamo una “giusta opinione” dell’oggetto, in funzione del piacere, ma anche, per così dire (e secondo la stessa “funzione”) dell’impulso “desiderante” che verso di esso, in modi diversi, ci muove. Abbiamo già fatto allusione alla celebre tripartizione dei desideri. Essa è formulata nel modo “canonico” in MC XXIX: «alcuni sono naturali [questo ovviamente vuol dire, per Epicuro, “rivolti” al piacere] altri naturali ma non necessari, altri poi non naturali né necessari, ma nascono da vana opinione [para kenên doxan]». Siamo, apparentemente, nello stesso ordine di pensieri che abbiamo seguito fin qui. Che cos’è, che cosa vuol dire “un desiderio non naturale”, secondo questa definizione? Vuol dire, parrebbe, che desideriamo qualcosa per “l’opinione” che ne abbiamo, ma questa opinione è falsa (vuota, senza fondamento): corrisponde a un “falso giudizio” sulla cosa, che non ha il carattere che le abbiamo attribuito. Ma in questo caso, l’attributo, il “predicato” della “cosa”, che determina la verità o falsità del giudizio, sarebbe qualcosa come una “desiderabilità” – il che è evidentemente possibile solo per un grossolano equivoco lessicale. “Desiderare” non è un atto del pensiero, della conoscenza (che consisterebbe semmai nel “giudicare” se il possesso della cosa può “darmi piacere” – lasciandomi completamente “libero” di desiderarla, proprio quella, o no). Se
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“l’opinione”, il giudizio sulla “cosa”, può giocare un ruolo, nel determinare gli impulsi del desiderio, la comprensione/classificazione di questi impulsi, del loro modus operandi, non può certo esaurirsi nel “catalogo”, fissato una volta per tutte, delle cose (che si possono giudicare, oppure no) “piacevoli”. Siamo, necessariamente, in un’altra “logica”. Non sarà senza significato il fatto che Epicuro non usi, per qualificare l’opinione da cui “nasce” il desiderio non naturale, l’aggettivo pseudês (e non faccia alcun riferimento ad una ypolêpsis: non ci troviamo nel “dominio” vero/falso) – usa kenos, vuoto. E nell’altro testo che si occupa della classificazione dei desideri (LM, 127-128) usa ancora lo stesso aggettivo, ma senza nemmeno menzionare la doxa. Qui, Epicuro classifica i desideri “per divisione” – e comincia con quella tra «naturali» (physikai) e «vani» (o «vuoti», kenai). L’aggettivo dunque qualifica direttamente il desiderio – e vale come un sinonimo di “non naturale”. Cade ogni equivoco che possa far pensare all’opinione, come “giudizio” sull’oggetto. Un «desiderio non naturale» non “nasce” dalla falsa opinione della cosa; per capirlo, dobbiamo riferirci a qualcosa di intrinseco al desiderio stesso – che riguarda, potremmo dire, non il suo rapporto con la “cosa”, ma il suo modo di operare, di essere, “all’interno” del soggetto desiderante. Questo “qualcosa”, Epicuro lo definisce chiaramente nella MC XXX – dove ritorna il termine «opinione». È un testo sintatticamente difficile, al limite dell’anacoluto. Trascriviamolo integralmente, nel testo italiano e nell’originale: Fra quei desideri che se non vengono soddisfatti non comportano dolore corporeo quelli in cui intensa è la passione provengono da vuote opinioni, e non per la loro natura sono difficili a dissiparsi, ma per le stolte credenze degli uomini [En hais tôn physikôn epithymiôn mê ep’algoun de epaganousôn ean mê syntelesthôsin, yparchei hê spoudê syntonos, para kenên doxan hautai ginontai, kai ou para tên heautôn physin ou diacheontai, alla para tên tou anthrôpou kenodoxian].
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«Vuote opinioni», e poi «stolte credenze», dice la traduzione – ma il lessema è identico, nei due casi: prima kenên doxan, e poi, unendo l’aggettivo al sostantivo, kenodoxian. L’uso di questa espressione ci dice che siamo nell’ambito del desiderio non naturale; ma essa si applica, tutt’e due le volte, piuttosto a quelle che si direbbero particolari circostanze, connotazioni del desiderio “vissuto” – e che in quanto tali non sono state evocate in sede di classificazione. Nel primo caso, si parla dei desideri «in cui intensa è la passione», e nel secondo di quelli «difficili a dissiparsi» («non per loro natura sono difficili a dissiparsi, ma per…» traduce ou para tên heautôn physin ou diacheontai – “non si dissolvono” – alla para…). La stessa spiegazione, dunque, vale in entrambi i casi; ma mentre il secondo può essere considerato come uno “sviluppo” del primo, nella dimensione del tempo (vuoi sapere perché un desiderio che non si realizza, e la cui realizzazione non provoca dolore, ma che ha raggiunto una grande intensità, non si lascia facilmente dissolvere? la “colpa” è ancora delle vuote opinioni – dell’uomo, ci viene specificato, come se ce ne fosse bisogno; quasi a sottolineare che ci troviamo di fronte a una sorta di “struttura” antropologica) – formulando la prima condizione Epicuro ci ha praticamente detto “che cos’è” il desiderio non naturale, quello che può essere direttamente qualificato come vuoto: è quello che raggiunge un certo grado di intensità a prescindere dal fatto che la sua mancata realizzazione provochi, oppure no, dolore. Proviamo a ritradurre “letteralmente” il testo: «In quelli fra i desideri naturali [aggettivo stranamente caduto nella traduzione] non conducenti al dolore quando non siano realizzati, [quelli in cui] si presenta un’ardente intensità, questi nascono para kenên doxan, e non per la loro propria natura non si dissolvono, ma para tên tou anthrôpou kenodoxian». Dunque: gli uomini desiderano naturalmente, in quanto naturalmente “tendono” al piacere, all’assenza di dolore; ma il raggiungimento di questa meta non dipende, ogni volta, dal
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compimento di questo o quel desiderio. Se “mi accorgo” che “non ho bisogno” di questa specifica realizzazione, per non soffrire (perché di fatto “non soffro”, quando la realizzazione non c’è – e s’intende che questo può essere “anticipato” dal confronto delle esperienze reali o possibili, dal “calcolo”) allora il mio stesso desiderio mi diventerà “indifferente”, non sarà, diremmo noi, una “passione” (come A. traduce spoudê). C’è però il caso che proprio questo accada: perché, per dir così, mi sono “fissato” su quel mio desiderio – cioè sul niente, mi “rappresento” (o “sento”) la mia inutile “brama” come una parte essenziale di me. Questo mi farà soffrire – se stiamo parlando di un desiderio che non si realizza, forse irrealizzabile. Ma, a questo punto, esso non svanirà (c’è qui qualcosa di più forte, di più “tragico” se si vuole, che una semplice “difficoltà”). E ciò non perché il permanere oltre ogni calcolo della ragione, oltre ogni diretta, sensibile evidenza (che il calcolo serve appunto ad “anticipare”), sia “nella sua natura” (il che rimanderebbe a una “fatalità” della passione; ed equivarrebbe a “naturalizzare” il destino tragico); ma, potremmo dire, per una “fissazione” di secondo grado: “gli uomini” si abituano, si “affezionano” al niente, al vuoto del loro desiderio, della loro sofferenza. È difficile, come si vede, sopravvalutare l’importanza di questo testo. Due volte, in esso, Epicuro richiama il carattere “artificiale”, potremmo dire “perverso”, del desiderio che qualifica come vuoto – rispetto a ciò che esso è per natura: prefigurazione del piacere, movimento verso il piacere. Subito, in apertura, quando assegna alle vuote opinioni il compito di mantenere, come una “passione inutile”, un desiderio che non ha un rapporto “verificabile” con il piacere; e poi quando ribadisce alla fine che il desiderio ha la propria ragion d’essere in questo rapporto (nulla, nella sua natura, si opporrebbe a che “ce ne liberiamo”, quando il suo legame con il piacere non fosse “verificato”). Due volte, il criterio dell’accettazione/rifiuto del desiderio è formulato nel linguaggio degli “affetti”, rinvia allo “stato interiore” del
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soggetto desiderante: per il suo (di questo soggetto) effettivo “sperimentare” il piacere e il dolore, in rapporto al “contenuto” realizzato o no del desiderio; e per il suo “trovarsi”, o “mettersi” in uno stato di “mancanza”, di dolore (che altro senso può avere la spoudê syntonos del desiderio che non si realizza?), che non si dissolve per effetto dell’evidenza sensibile che il dolore (sappiamo che cos’è l’“assenza di dolore”), “al netto” del desiderio, non c’è. Qui, per “falsificare” l’opinione non abbiamo bisogno di prendere in considerazione la validità “oggettiva” di una conoscenza, di rifare “a mente fredda” il calcolo delle ragioni (di “causa” e “effetto”). Il piacere e il dolore tornano ad essere, direttamente (ma in un contesto radicalmente mutato, e quindi al di fuori di ogni “automatismo”) il criterio “di ciò che è da scegliere e da fuggire” – nel desiderio stesso. Il desiderio “vuoto” è allora, di fatto, quello irrealizzabile (non importa se necessariamente o contingentemente): quando questa irrealizzabilità sia “indifferente”, dal punto di vista del piacere e del dolore (il che è, come diremo meglio, praticamente sempre possibile), e quando questa indifferenza non ha più l’effetto “naturale” di, per usare questa parola, “disinvestirlo”. Sarà allora perfettamente giustificato definirlo come “desiderio non naturale”, “desiderio vuoto”: in esso, non si ritrova più il legame naturale con il piacere – con la possibilità di “sentire” (non “giudicare”) lo stato di cose a cui si tende come piacevole, o spiacevole. Ci sono versi stupendi di Lucrezio, che rappresentano “plasticamente” questo vuoto: Esce spesso fuori del grande palazzo colui / che lo stare in casa ha tediato, e subito , / giacché sente che fuori non si sta per niente meglio. / Corre alla villa, sferzando i puledri, precipitosamente / come se si affrettasse a recar soccorso alla casa in fiamme; / sbadiglia immediatamente appena ha toccato la soglia / della villa, o greve si sprofonda nel sonno e cerca l’oblio, / o anche parte in fretta e furia per la città
176 e torna a vederla. / Così ciascuno fugge se stesso, ma a quel suo “io” naturalmente / come accade, non potendo sfuggire, malvolentieri gli resta attaccato, / e lo odia, perché è malato e non comprende la causa del male [Exit saepe fora magnis ex aedibus ille / esse domi quem pertaesumst, subitoque / quippe foris nilo melius qui sentiat esse. / Currit agens mannos ad villam praecipitanter, / auxilium tectis quasi ferre ardentibus instans; / oscitat extemplo, tetigit cum limina villae, / aut abit in somnium gravis atque oblivia quaerit, / aut etiam properans urbem petit atque revisit. / Hoc se quisque modo fugit, at quem scilicet, ut fit, / effugere aut potis est, ingratis haeret et odit / propterea, morbis quia causam non tenet aeger]. (III, 1060-1070)
Questo ritratto della “insoddisfazione” non riguarda, ha detto Lucrezio introducendolo, un particolare “carattere”; si tratta di niente meno che de «gli uomini… come ora per lo più li vediamo» (v. 1058). E il contesto in cui Lucrezio lo colloca è quello della necessità (per gli uomini, appunto: per la loro vita) della conoscenza – della filosofia (epicurea). Ma “l’errore” o l’ignoranza in cui gli uomini, senza questa conoscenza, si trovano non è la causa “diretta” di questo loro “stato” (sentimentale; ne è, semmai, la pre-condizione). È nella sua affettività, nella “struttura” stessa del suo desiderare che il personaggio esemplare così potentemente rappresentato è vuoto. Apparentemente, la definizione epicurea del desiderio non naturale è rovesciata. Se l’impulso a muoversi, a cambiare il suo stato non “realizza” il piacere che il nostro personaggio (vagamente) si rappresenta, è perché in lui “in partenza”, per dir così, la percezione diretta del piacere e del dolore è come “inibita”. Ma questa percezione non è altro che un’“autopercezione” – quella appunto in cui il desiderio “naturalmente” si origina; com’è possibile che si trovi ad essere così “confusa”, inoperante, tanto che il desiderio che se ne alimenta “sprofonda”, per così dire, nel vuoto? «Ognuno non sa quel che si voglia» – leggiamo in quello stesso v. 1058. Il desiderio è senza fondamento (o contenuto: kenos), perché
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tra l’evidenza dei suoi possibili moventi e i moti della volontà si è frapposta (nella condizione di “ignoranza” in cui il soggetto si trova) una ingente mole di rappresentazioni, immagini, figure abbozzate di un variopinto e incostante essere-nel-mondo – che ha finito col sommergere, ricoprire completamente la sua “base” naturale. L’uomo «come ora per lo più l[o] vediamo» viene a trovarsi in una condizione di radicale separazione da se stesso – come ente naturale-sensibile, per il quale il piacere e il dolore sono il principio e il contenuto essenziale dell’autoriferimento, e della scelta. Sono questi i problemi specifici a cui abbiamo alluso, ricordando il “mutamento di contesto” in cui ci troviamo quando passiamo dal “corpo” all’“anima”, dall’una all’altra “modalità” della funzione di criterio della coppia piacere/dolore, dall’aponia all’atarassia. Il piacere catastematico dell’anima può essere “raggiunto” (o “mantenuto”) solo attraverso una costante attività di interpretazione – che si esercita insieme sul piano “logico”, del rigore discorsivo, del “calcolo” dei rapporti, e su quello “psicologico”, della costante attenzione (anch’essa una forma di epibolé) a tutte le forme della “vita interiore”, in cui i moti della volontà, la traccia delle abitudini, il deposito delle rappresentazioni possono sempre deformare e confondere l’impronta della “natura”, fino a perdere ogni collegamento con la “materialità” (diciamo pure) del piacere e del dolore. Dobbiamo “fare i conti” non solo con le molteplici possibilità di errore nel ragionamento, ma con una “infinita”, incontrollata fabbricazione e proliferazione di immagini, di “fantasmi” – che non corrispondono a “niente”. Epicuro sarebbe certamente d’accordo con la formula usata da Pietro Verri, nel suo Del piacere e del dolore: «[Il] dolore morale nasce dalla riunione dei fantasmi che occupano la mia mente»9. Il dolore dell’anima (che è 9. P. Verri, Del piacere e del dolore ed altri scritti di filosofia ed economia, a cura di R. De Felice, Feltrinelli, Milano 1964, p. 11.
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come quello del corpo una sensazione, prodotta nell’alterazione dello “stato” dell’aggregato atomico) dipende, come quello del corpo, da un meccanismo di azione/reazione: in cui però sono “impegnate” le particolari “funzioni” (memoriali, simboliche, associative) degli atomi della mente. Il desiderio non naturale è in Epicuro la forma-limite della produzione del fantasma. E il fantasma, per così dire nel suo “grado zero”, non è che una rappresentazione mentale (capace di suscitare un “affetto”, una passione) che “esiste” indipendentemente dalla sensazione, dall’attualità della sensazione – e che “agisce” necessariamente (psicologicamente) sulla sensibilità. Sarà forse questo il luogo di ricordare che questa “azione” non è per Epicuro sempre “negativa”. È vero che senza di essa (avremo modo di tornarci) l’assenza di dolore nel corpo sarebbe una condizione sufficiente per il piacere catastematico dell’anima (poiché l’anima è sempre, intanto, “coscienza di sé” come autoriflessione della sensibilità); e per questo abbiamo prima osservato che il compimento di questo o quel particolare desiderio è in linea di principio sempre “indifferente”: il desiderio non si produce nella “spontaneità” del movimento degli atomi, né per una specifica azione dei simulacri sul senso, ma come “autoaffezione” dell’anima – per dirla in un altro modo, il dolore dell’anima, in quanto distinto da quello del corpo, non ha “cause naturali”. E tuttavia l’atteggiamento del saggio nei confronti dei “fantasmi” non sarà di mero “rifiuto”. Ciò lo metterebbe in una situazione assai scomoda, possiamo dire – data l’impossibilità, per restare nella metafora spaziale di Pietro Verri, di “svuotare” la mente da ciò che (necessariamente) la occupa. Si tratterà invece, anche qui, di stabilire la giusta “distanza critica” rispetto al “fantasma” – di adottare una “regola d’uso”. Facciamo l’esempio più semplice, quello del “ricordo”: sono numerosi, in Epicuro, i luoghi in cui la felicità del saggio viene messa in relazione con la presenza di questo “patrimonio”, inalienabile, in cui si conserva la “traccia” del piacere
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passato – che è come il fantasma di una sensazione. Il più eloquente è nel celebre frammento epistolare in cui evoca le sofferenze della malattia che lo sta uccidendo – e parla del sollievo (ma è qualcosa di più: un principio attivo di contrasto al dolore del corpo, che consente di “ristabilire” l’equilibrio nell’anima) che gli procura «il ricordo dei nostri passati ragionamenti filosofici» («a tutte queste cose [i dolori della vescica e dei visceri] si opponeva la gioia [chairon] dell’anima»; 138 Us., 52 A.). È evidente che il saggio “usa” i ricordi – secondo il proprio fine, come uno strumento per realizzarlo. E ci troveremmo invece di fronte, tipicamente, a una controfinalità, se il fantasma del ricordo assumesse il valore “straziante” della nostalgia – non la gioia dell’anima, ma maggior sofferenza nascerebbe dalla memoria dei piaceri passati, se si associasse al pensiero (un’astrazione del tempo) che essi potrebbero essere, eppure non sono presenti. Ecco di nuovo allora il desiderio irrealizzabile (stare insieme agli amici a conversare, invece che in un letto di dolore) che svuota e distrugge un piacere possibile, “reale” (se ora, mentre soffro nel corpo, l’anima rimane in contatto con, si lascia “occupare” da, le immagini piacevoli, attive nella memoria, di una vita trascorsa nel filosofare tra amici). L’analisi sottile, nonostante l’estrema condensazione dell’espressione, della psicologia del desiderio è in Epicuro uno strumento essenziale del suo insegnamento – tutta svolta in funzione del compito pratico, del progetto della saggezza: “governare” il desiderio significa “addomesticare”, poter subordinare al proprio fine forze e poteri oscuri, minacciosi nella loro spettrale consistenza, che formano intorno e dentro l’anima un paesaggio d’ombre, e la attirano e la disperdono nelle ambigue regioni del senso. Ma dobbiamo ancora tornare ai testi sui desideri – perché, come sappiamo, la classificazione di Epicuro non consiste solo nella distinzione naturali/non naturali, che è quella che viene specificata nella sequenza MC XXIX-MC XXX, ma contiene anche, nella formulazione di LM come in MC XXIX, una par-
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tizione interna alla classe dei “naturali”, quella tra “necessari” e “non necessari”. Questa distinzione è particolarmente importante, nella storia dell’interpretazione: nella misura in cui venga intesa, ancora una volta, come una drastica riduzione delle “motivazioni” del saggio rispetto al piacere, una “estromissione”, dall’ambito della sua ricerca della felicità, di gran parte dei “naturali” oggetti di desiderio, essa finisce col portare molta acqua al mulino di un’interpretazione fondamentalmente anti-edonistica del “fine”. In pratica, una volta ammesso che il desiderio è un “tendere” della volontà verso un “bene” (piacere) il cui possesso o realizzazione è già vissuto nel “fantasma” dello stato affettivo corrispondente, la distinzione tra “necessario” e “non necessario” (più ancora di quella tra “naturale” e “non naturale”) verrebbe compresa come il criterio (per esclusione) di un “saggio” desiderare: “saggio”, cioè, è colui che desidera quei tali, singoli “beni” (a priori assai pochi – salvo poi stabilire, che non è facile, quali siano) che la ragione “giudica” come necessariamente connessi con “la felicità” (rettamente intesa); per gli altri, ancorché formino naturalmente oggetto del desiderio, restano esclusi dalla rappresentazione anticipata della felicità (del saggio). Il saggio, in quanto saggio, non li desidererà – sa che non sono “pertinenti” al suo fine. Per rendersi conto della forza di questa interpretazione, osserveremo che essa è già presente nello scolio che si è tramandato assieme al testo di MC XXIX. Lo scoliaste ha avvertito una insufficienza nella spiegazione, o nella definizione, epicurea dei tre “tipi” di desiderio. E ritiene di poterla chiarire con una classificazione che segue il criterio dell’oggetto, per ciascuno dei tre tipi, e che offre una adeguata esemplificazione. Così, i desideri naturali e necessari sono quelli che «ci liberano dal dolore del corpo, come bere quando si ha sete»; i naturali, ma non necessari, «quelli che […] solo variano il piacere, come i cibi opulenti»; e non sarà né naturale né necessario (ma pro-
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dotto dalla vana opinione), per esempio, «il desiderio di corone o di statue in proprio onore». Vale forse la pena di soffermarsi su questa spiegazione. Si osserverà intanto che il criterio “oggettivo” della distinzione conduce lo scoliaste a postulare, per il terzo tipo, un desiderio rivolto a cose che non sono, “materialmente”, un piacere (non sono riconducibili, come i primi due tipi, al piacere del corpo). Questa è la differenza tra (II) e (III) – mentre ciò che hanno in comune è molto più importante, dal punto di vista “pratico”, dell’insegnamento morale. Se i desideri del secondo tipo sono ancora “naturali”, infatti, è perché “il corpo” è attratto dalla variazione del piacere (sono i famosi “piaceri poichilematici”); ma noi sappiamo che questa abbondanza, questa varietà dei piaceri del corpo non è per Epicuro “il fine”, non forma il modello della felicità. Da questo punto di vista, dunque, (II) e (III) si ritrovano “dallo stesso lato”: sono, entrambi i tipi di desiderio, “sbagliati”, “falsificano” la condotta, attraggono fuori della via della saggezza. Se ammettiamo che in (II), e non in (III), siamo sempre nell’ambito della natura, resta inteso che questa non è la natura del saggio, quella da cui “si fa guidare” nella ricerca della felicità. Abbiamo qui a nostro avviso, come in nuce, lo schema fondamentale di quel vero e proprio rovesciamento della filosofia morale di Epicuro che spesso si nasconde, come in questo caso, sotto l’apparenza di un semplice “spostamento di accenti” (ed è per questo che la questione dell’atteggiamento di Epicuro verso “i” piaceri – e non solo il piacere – è per noi così importante). È il rapporto tra “natura” e “ragione” che si capovolge. Il saggio è tale non perché usa la ragione per ritrovare, restaurare, la pienezza di un paradigma naturale che nella concreta vicenda umana – immaginazioni e passioni, opinioni e interessi, società e cultura – rischia di disperdersi e sfigurarsi, ma perché in lui, ab origine, “ragione” e “natura” coincidono. Come la “natura universale” e la “Ragione universale” di Hadot (o degli
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stoici). Il che significa che non è la ragione a dover “regolare” se stessa, confrontandosi con un “altro da sé” in cui riconosce l’ultima necessità del proprio stesso esserci – l’“altro” che è attivo, operante nella sfera del sensibile, ma insieme bisognoso di decifrazione, di continua riscoperta attraverso lo spessore di successive, “artificiali” costruzioni; ma è la natura che si trova a dover “dall’inizio” giustificare se stessa di fronte al proprio “altro”, un “propriamente umano” (una saggezza) che seleziona e giudica secondo i suoi propri (“autonomi”) criteri. Il “taglio” che lo scoliaste opera all’interno della naturalità del desiderio non serve a ritrovare, nelle condizioni di “relatività” che sono proprie del mondo umano, il massimo di efficacia del paradigma naturale; serve ad escludere dalla natura (del saggio) tutto ciò che non appare come un “prodotto” della ragione – salvo “il fatto” di restare in vita. Che le “distinzioni” dello scolio (desiderio necessario: quello di piaceri che rimuovono il dolore; non necessario: quello di piaceri “aggiunti”; non naturale: quello di “cose” che non possono essere piaceri – del corpo) non traduca adeguatamente il pensiero di Epicuro, dovrebbe del resto risultare abbastanza evidente – a partire dall’ovvio rilievo che non si capisce perché Epicuro non l’abbia lui stesso formulato in questi termini. Da dove ha ricavato, lo scoliaste, intanto, che i desideri naturali siano rappresentazioni, prefigurazioni dei piaceri del corpo? E se poi fosse così, come potrebbe l’“anima” (che desidera) “sbagliarsi” (poiché sarebbe questa la vuota opinione) fino al punto di “vedere” (giudicare) come un piacere del corpo la statua e la corona – simboli di prestigio e potere, di fama, di timê? Noi sappiamo, perché Epicuro lo spiega nella Massima successiva, qual è il ruolo della vuota opinione nella genesi e nel mantenimento del desiderio (vuoto). Non solo non vi è il minimo cenno al fatto di “scambiare” per un piacere qualcosa che “manifestamente” non lo è (come se il desiderio “nascesse”, in questo strano caso, “fuori” da ciò che è “rappresentabi-
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le” come un piacere); ma il meccanismo che la vuota opinione innesca conduce ad una patologia del desiderio proprio perché lo sottrae a quel permanente confronto con il piacere, in atto, che ne definisce la natura (in cui nasce). L’analisi di Epicuro, abbiamo visto, ha il suo punto d’avvio nella “naturalità” di tutti i desideri Se il testo italiano ha “lasciato cadere” l’aggettivo, pensiamo, è proprio per la “stranezza” che consiste nel caratterizzare desideri che appartengono all’ambito del naturale con la stessa “marca” (nascono da vuota opinione) che è stata usata nella massima che precede per distinguere (da sola) fra i desideri naturali e quelli che non lo sono. Ma la difficoltà si risolve, se si ammette che le distinzioni di Epicuro non riguardano l’“oggetto” del desiderio, ma la sua “modalità”, il suo modo di operare nella soggettività. Se la vuota opinione agisce, come sappiamo, inibendo il confronto tra una condizione effettiva di piacere e lo “stato” anticipato nel desiderio (e se, come pure già sappiamo, quella condizione si definisce compiutamente come assenza di dolore: non c’è dunque alcuna possibilità di comprendervi «i cibi opulenti») è questa attività, e non il “tipo” di “oggetto”, che ci consente di distinguere. La partizione naturale/non naturale, nel suo specifico significato, “esaurisce” l’intero campo del desiderio: esprime la possibilità che le dinamiche del desiderio (intese proprio come processi psicologici) “allontanino” il “soggetto” da quel “suolo naturale” in cui si origina la sua tendenza al piacere – “trascrivendo” questa tendenza, e particolarizzandola nella sua “coscienza di scopo”, in un modo che può essere deformato, stravolto, e in conclusione contro-finalistico. Ma proprio questa possibilità, che si dà sempre quale che sia l’oggetto specifico (il particolare piacere) che il desiderio si rappresenta, implica (e si incrocia con) un’altra partizione, anch’essa, ma su un altro piano, “esaustiva”: perché c’è pure una modalità del desiderio che non può essere “falsificata”, a proposito della quale il problema della conformità al fine non si pone nemmeno – perché
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non è che il riflesso nella coscienza e nella volontà dell’aspirazione alla felicità, “al” (e non a questo o quel, singolo) piacere. Se questo “riflesso” non fosse in qualche modo sempre presente nella coscienza, la “situazione” del desiderio sarebbe in sé “tragica” – perché non troverebbe la sua “verità” se non nella singolare, casuale vicenda della sua formazione, e del suo ambiguo percorso di realizzazione/irrealizzazione; e un insegnamento della saggezza risulterebbe, propriamente, impossibile – o dovrebbe intendersi come una semplice soppressione del desiderio (che è poi quello che lo scoliaste vuole: quello di bere quando si ha sete non è un desiderio, ma un bisogno). Questo è a nostro avviso il senso (puramente “soggettivo”: che altro, se stiamo parlando del desiderio?) della partizione necessario/non necessario. E la scansione a tre termini di Epicuro si può ricostruire allora così: c’è nell’uomo un necessario desiderare, che si forma nella, esprime direttamente la, tendenza naturale alla felicità (piacere); differenziandosi in specifiche relazioni di oggetto, e nella propria interna misura, intensità, i desideri devono essere “discussi”, vagliati, “controllati” (il che li riporta ovviamente nel dominio del calcolo razionale, come “strumento” della scelta); i desideri però possono anche “sottrarsi” a questo controllo (specie quando “non lo passerebbero”) e “mantenersi” nell’uomo – e diventano allora cause di dolore, “spezzano” il suo legame con la natura, con quell’“essere naturale” che è l’unico criterio di ciò che è bene o male per lui. Non c’è dunque alcuna necessità di distinguere i “tre tipi” in base a specifiche assegnazioni di oggetto. In particolare per il terzo, non si tratta di “che cosa” si desidera, ma di desiderare fuori e contro un sapere della natura, una conformità alla natura; e questo forma tutta la differenza rispetto al “secondo” – che è dunque una differenza derivata, che si forma nella concreta vicenda psicologica del desiderio: i desideri “semplicemente” non necessari sono quelli in cui rimane operante, di fatto, il “confronto” costante con il fine naturale –
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e che se (solo se) un contrasto appare, in questo confronto, allora si dissolvono. Del resto, basterà ricordare il testo già citato dal Peri telous («Almeno per me, non so pensare il bene se ne tolgo i piaceri del gusto, quelli dell’amore, quelli dell’udito, e i soavi moti che tramite la vista ricevo dalle forme»), che ha il carattere di una personale testimonianza, per escludere senz’altro che i “desideri non necessari” (cioè appunto il desiderio di singoli piaceri, tanto più se caratterizzati, come fa lo scoliaste, in opposizione ai bisogni “primari”) possano essere considerati come di per sé estranei al desiderare del saggio. Nella rappresentazione soggettiva della felicità (del bene), che si esprime necessariamente come desiderio, tutti questi piaceri (cioè, possiamo dire, tutti i piaceri) possono essere compresi – se ciò che il saggio desidera, per sé, è di goderne. La sua indifferenza, di principio, ai cibi opulenti non può essere, come pensava Saint-Évremond, che una mistificazione. Ma il testo che dovrebbe consentirci di chiudere definitivamente la discussione è quello di LM, 127-128 – dove Epicuro “ripete” la tripartizione di MC XXIX; ma mentre lì ci dava una “spiegazione” dei “desideri non naturali” («nascono da vana opinione»), approfondendola nella massima successiva, qui sono quelli necessari a trovarsi in qualche modo definiti: «alcuni lo sono per la felicità, altri per il benessere del corpo, altri per la vita stessa». I desideri necessari sono dunque gli unici a cui Epicuro “assegna”, in apparenza, specifici “oggetti”. Ma è facile vedere, come abbiamo anticipato, che non sono “oggetti” – ma la “meta finale”, per dir così, che “ha in vista” chiunque desideri qualcosa. «Necessario per la felicità [pros eudaimonian eisin anankaiai]», non può essere che – la felicità stessa. Il pros, che si ripete nei tre membri della frase, esprime un nesso di relazione, più che strumentale: i tre sostantivi dicono, ogni volta, una
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“meta” che unifica o attrae a sé, immediatamente, il desiderio. Desidero necessariamente quando “ho in vista”, direttamente, questa meta (e non quando assumo un certo oggetto come specifica condizione per il suo raggiungimento: ciò evidentemente reintroduce tutte le possibili distinzioni, e deviazioni); e ciò è ancora più chiaro per il secondo termine, il benessere del corpo – che è aochlêsia, un perfetto sinonimo di aponia: non avrebbe senso, a questo fine, desiderare qualcosa in particolare. Aponia e atarassia, dunque (il termine “felicità” è qui un equivalente – dice il “complemento” necessario dell’aponia; quanto alla «vita stessa», sappiamo – LM, 126, 2-3 – che non è per Epicuro un bene in sé – se attrae a sua volta necessariamente il desiderio, è perché – in quanto – condizione, per dir così, degli altri due). E infatti Epicuro prosegue esplicitando immediatamente il riferimento alla sua definizione “obiettiva” della felicità, come criterio ultimo dell’autoriflessione del desiderio: «una sicura conoscenza [aplanês theôria] di essi [desideri] sa riferire ogni atto di scelta o di rifiuto [cioè la conseguenza pratica, “obiettiva”, del desiderio] alla salute del corpo [sômatos hygieian: abbiamo già visto che è lo stesso che aponia] e alla tranquillità dell’anima [all’atarassia: kai tên tês psychês ataraxian] perché questo è il termine entro cui la vita è beata [tou makariôs zên esti telos]». Tutti i desideri sono sottoposti, commisurati al “fine generale” della felicità; chiamiamo “necessari” quelli fra loro che assumono come oggetto, direttamente, questo fine (che si enuncia così: una vita senza dolore nel corpo e senza turbamento nell’anima). La distinzione all’interno dei desideri non è dunque il principio di una discriminazione tra diversi contenuti rappresentativi, ma riflette l’attitudine che è propria del saggio, di “vigilanza”, controllo critico e autocritico, interpretazione. Il saggio “sa” che lo spontaneo affluire dei moti dell’anima, nello “spazio” della coscienza, non è una manifestazione “diretta” della natura; e che “obbedire” ad essi, come ad impulsi naturali, espone costante-
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mente al rischio di “oltrepassare” il limite della natura, e di trovarsi in quel territorio incerto, conteso, in cui il piacere diventa dolore, il vuoto che nasce dal sentimento di una mancanza si trasforma nel fantasma che domina la volontà. Ma “sa” anche che questo rischioso desiderare si origina in un “fondamento”, una “necessità”, che non è attraversata da alcun limite, non è riferita ad alcun “contesto”, non è sottoposta ad alcuna “giustificazione”. Perché in essa si esprime appunto “direttamente” un essere naturale, la coerenza di un “fine” con un “principio”. È a questa necessità che il saggio “obbedisce”, senz’altro, come tutti gli altri uomini – in essa riconosce “il proprio” della comune natura umana. Si sarà compreso, a questo punto, che la distinzione tra desideri “necessari” e “non necessari” è semplicemente l’“interpretan te”, nella vita psichica, di quella tra piacere catastematico e cinetico. “Desiderare un piacere” (che è ciò per cui ogni desiderio è “naturale”) significa desiderare una sensazione (di piacere) che come sappiamo può essere considerata come casuale e occasionale, indipendentemente dal suo collegamento con l’“intero”, nella durata, dell’essere sensibile. Il desiderio “necessario” (che si dice in due modi, come due sono i “nomi” del piacere catastematico) “guarda” invece allo stato d’equilibrio in cui si origina il “massimo” del piacere, per il corpo e per l’anima. Ne deriva che tutti i desideri naturali (come tutti i piaceri cinetici: si ricordi quello che abbiamo visto a proposito della chara) possono essere integrati, “rappresentati” nella ricerca del fine – il piacere catastematico, che in quanto tale forma l’oggetto del desiderio necessario; ne deriva altresì che “non bisogna sbagliarsi”: essi devono essere “interpretati” alla luce di questo desiderio – che è l’unico in cui il fine sia direttamente rispecchiato, e quindi l’unico che possa orientare la volontà secondo il criterio “di ciò che è da scegliere e da fuggire”. “Sbagliarsi”, significa sostituire, nella rappresentazione del fine, i piaceri cinetici al catastematico – e “dimenticarsi” di questo;
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significa “investire” il proprio desiderio nella ricerca di piaceri che rimangono “aleatori”, che dipendono da un concorso casuale di circostanze – “puntare” sulla “somma” dei singoli piaceri, che è per definizione “indefinita”: se ne può sempre aggiungere “qualcun altro” – ed è probabile, allora, che il desiderio sarà particolarmente “infiammato” proprio da quelli che (sempre) mancano. Significa consegnarsi al dolore, “desiderare” il dolore.
L’esercizio della frugalità È su questo sfondo che dobbiamo collocare l’ultimo tema che ci resta da osservare più da vicino, prima di concludere – quello, duplice, della “frugalità” e dei piaceri poichilematici (cioè variopinti: il tema della “variazione” del piacere). Ancora una volta, niente ci autorizza a interpretare la saggezza di Epicuro come un rifiuto, o anche una indifferenza, o insomma un ritrarsi dal “godimento” di tutti i piaceri possibili. «Io invito ad assidui piaceri», dice il già cit. fr. 42 (116 Us.) – e l’uso del plurale non lascia dubbi: il vario, il molteplice, il multiforme del piacere è perfettamente integrato nella morale di Epicuro. Ma sarà forse utile ritornare sul testo di MC X, anch’esso già citato, in cui Epicuro riprende il tema dei “piaceri dei dissoluti” – che LM, 131-132 si preoccupava di escludere, contro malevole interpretazioni, dall’ambito di ciò che si intende con “il piacere come fine”. Non ci sarebbe «di che biasimarli», i dissoluti, dice qui Epicuro, se “il contenuto” dei loro piaceri (ciò che li procura, li forma: ta poiêtika) «li liberasse» da tutte le cause di sofferenza – infatti sarebbero allora «colmi […] di ogni piacere, e senza mai avere di che soffrire […], ciò che appunto [avere di che soffrire] è il male [to kakon]». Gli interpreti che hanno preso in considerazione questo testo lo hanno trattato per lo più come un “periodo ipotetico dell’ir-
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realtà” – quello che collega una certa conclusione ad una premessa o condizione manifestamente impossibile, assurda. È la via più semplice per poterlo “assimilare”, mantenendo la tesi dell’“inferiorità” di certi piaceri rispetto al “fine” – o piuttosto “del” piacere stesso, nella sua accezione comune, sensualistica. Ma l’assurdità (che è reale) della protasi non ha nessun rapporto con questa tesi: ha un valore molto più generale, ben al di là del “caso” in questione – di quei particolari “piaceri”. Se i poiêtika di cui è questione non possono certo liberare “il dissoluto” dalle cause di dolore, e “insegnargli” ciò che è necessario sapere («il limite dei desideri e dei dolori») – questo vale nello stesso modo per qualsiasi “altro” poiêtikon. Nessuno, e non certo soltanto “il dissoluto”, può “ottenere” l’atarassia come una conseguenza di singoli piaceri – o della loro somma; poiché è evidente che il non aver paura della morte e degli dèi, la capacità di “gestire” i desideri, la “forza” che è necessario acquisire rispetto alla possibilità incombente del dolore non hanno niente a che fare con la presenza “in atto” di questa o quella sensazione piacevole, per frequente e “variata” che sia. Ciò che è importante, in questo testo, non è l’irrealizzabilità dell’ipotesi – del tutto ovvia. È che il “biasimo” di cui i dissoluti restano meritevoli non si imputa ai piaceri che mostrano di desiderare, ma a ciò che fra questi continua a mancare – che è il più importante (il piacere più importante). La forma ipotetica (al di là di quel tanto di oscuro, ambiguo, incompleto, che la concentrazione “gnomica” induce) serve appunto a questo: segna una distinzione di piani, che non sono direttamente collegati, in nessuno dei due sensi. “Se” i dissoluti avessero ciò che serve alla felicità… – è impossibile, in quanto provenga dalla “copia” dei loro piaceri; ma questa “copia”, che non è ciò da cui la felicità deriva, non è nemmeno ciò che la impedisce. “Se” dunque, su un altro piano, per altre vie (come sappiamo che è necessario e possibile) questa condizione fosse realizzata – allora non c’è nessuna ragione di biasimare la dissolutezza,
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ci può essere una vita “piena” di singoli piaceri e insieme immune da paure, “padrona” dei propri desideri, “forte” rispetto al dolore. La condizione in cui il “dissoluto” si troverebbe, se fosse insieme colmo «di ogni piacere» e stabilmente “protetto” dalla sofferenza (dell’anima), sarebbe, potremmo dire in base a questo testo, perfettamente “invidiabile”. Non ci si può trovare, perché commette (in quanto commetta) l’“errore” di “pensare” che la prima di queste due condizioni “produca” la seconda (o semplicemente “non sa” in che cosa la seconda propriamente consista). Dunque: non perché è un dissoluto, ma perché non è un filosofo (epicureo). In ciò, come sappiamo, condivide la condizione dei più. Anche lui, come quelli che si dedicano alla politica o agli affari, “si aspetta” un “effetto” (la felicità) da una “causa” incommensurabile (perché “indefinita”: qui una casuale somma di singoli piaceri, come lì la ricchezza o il prestigio/potere). Ma rimane (questo testo lo conferma) che una vita “piena di piaceri” (come quelli che Epicuro ha sommariamente e con un certo comico fastidio enumerato nell’altro testo, “giustificazionista”, sui “dissoluti”: donne, fanciulli, pesci) non ha in sé proprio nulla di incompatibile con quella filosofia che “al” piacere (ed essa sola può farlo) sicuramente ci guida. Ma qual è allora il “valore” della “frugalità”? Perché, in che senso, essa rimane nei testi di Epicuro una condotta di vita degna di elogio, rispetto al “fine” del piacere? Se l’elogio della frugalità non è la “prova” che Epicuro si fa un’idea “modesta” del piacere, ma dev’essere interpretato all’interno di una strategia operativa tutta volta al piacere in quanto tale, al “massimo” del piacere, possiamo dire di aver già raccolto molti elementi per una risposta. Tutte le volte che Epicuro parla della “frugalità” – cioè di un modo di vita che si caratterizza per la “non abbondanza” dei beni “materiali” – lo fa sempre dal punto di vista di una soggettività “riflessiva”: che deve tradurre la naturale inclinazione al piacere sul duplice piano della “conoscenza” e del “progetto”. In nessun caso il “vivere di
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poco” è in sé “preferibile” all’abbondanza – questo Epicuro lo afferma chiaramente, più volte. Ma è impossibile “progettare” efficacemente la felicità se non si comprende che l’abbondanza non ne è una condizione – e che quindi la “modestia” delle risorse, e la limitazione dei desideri che deve corrispondervi (se non ci si vuole consegnare al dolore dell’irrealizzabile) non comporta alcuna “riduzione”, alcuna “rinuncia” rispetto al fine. Questa comprensione è essenziale, proprio perché abbiamo definito la felicità in strettissima implicazione con il piacere, abbiamo escluso ogni distinzione tra le due “nozioni”: la felicità, semplicemente, non sarebbe possibile se l’aspirazione al piacere si manifestasse come ricerca della massima (e pur sempre “insufficiente”) “somma” di singole sensazioni di piacere. In questa continua, indefinita ricerca la nozione stessa di piacere non potrebbe che svilirsi, svuotarsi – e ci ritroveremmo sempre di nuovo alle prese con il dolore. In quello che abbiamo chiamato per comodità un elogio della frugalità, del “poco”, c’è una evidente, dominante preoccupazione “pedagogica”. È una pedagogia “negativa”: il “saper accontentarsi di poco” è l’atteggiamento, l’“abito”, la condotta che esprime, plasticamente, quanto si sia lontani, quanto non si cada nell’“errore” che identifica il piacere con il “molto”, con l’abbondanza e la varietà – che è direttamente (per tutti i piaceri “difficili” da ottenere) o indirettamente (per la soppressione della “distanza critica” tra sensazione e riflessione, che “l’abitudine” induce) una causa di dolore. Il fondamento teorico di questa pedagogia è un caposaldo della dottrina: il piacere catastematico (come sappiamo) non può “aumentare” – perché è una sensazione di “assenza di dolore”, che corrisponde a uno stato in sé compiuto, “perfetto”; e non può “diminuire” – ma solo “lasciar posto” al dolore. Quando questa condizione si dia non c’è, dal punto di vista del soggetto, “bisogno d’altro”. Il “sapersi accontentare di poco”, rispetto al molteplice dei piaceri, non è dunque che un’immediata, per dir così, trascrizione
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della teoria nell’ambito della soggettività “appetitiva” o desiderante – e in quanto tale “appartiene” necessariamente al saggio. Ma la pedagogia della frugalità è legata anche ad altri aspetti della dottrina, che riguardano più da vicino le condizioni e le possibilità della soggettivizzazione – vale a dire, tutto ciò che rinvia al “calcolo” e alla formazione delle rappresentazioni, e dei “fantasmi”. Dei quattro obiettivi che formano il cosiddetto “quadrifarmaco” (i quattro effetti benefici che la filosofia opera nel “soggetto”, rendendo possibile il raggiungimento del fine) è soprattutto il terzo che ha a che fare con una particolare “disposizione” psicologica. I primi due e il quarto (“contro” la paura degli dèi e della morte; contro la paura del dolore) si enunciano sempre nello stesso modo – la loro “riuscita”, per dir così, non rimanda ad una condotta di vita, ma all’“esatta” determinazione dei rispettivi “oggetti”, nel loro rapporto con il soggetto (gli dèi mi ignorano, la morte “non mi riguarda”, il dolore sarà comunque “sopportabile”, o “breve”). Ma il terzo può essere formulato in modi diversi, a seconda che l’accento cada, anche qui, su una “conoscenza” (il piacere trova “subito” il limite della sua compiutezza, e questo limite, che è l’assenza di dolore, non ha in sé niente di “difficile” non richiede uno speciale concorso di circostanze – questo dice il testo canonico di LM, 133-134); oppure sul modo come questa conoscenza è “mediata”, per dir così, da un’esperienza interiore – cioè come “si sviluppa”, nell’individuo, la capacità di “orientarsi”, in ogni occasione, rispetto al piacere. Ritroviamo così, in stretto contatto con la pedagogia della frugalità, la problematica del desiderio. Di solito non si osserva, ma il testo di MC X (sui “dissoluti”) contiene, a proposito di ciò a cui i piaceri “poichilematici” dovrebbero “aggiungersi”, e che non possono “sostituire”, una vera e propria riformulazione del quadrifarmaco, seppure in termini più sommari (che vengono poi ripresi, da un altro punto di vista, nella massima successiva). Alla liberazione dalla pau-
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ra della morte, e da quella degli dèi (che viene qui richiamata con una sineddoche: «riguardo alle cose celesti»), si aggiunge infatti il “farmaco” che riguarda il dolore, e anche il terzo, che nel linguaggio di LM concerne il «limite dei beni» – e qui invece diventa, appunto, «il limite dei desideri». Quel “limite” che è la ragione per cui il piacere può essere pienamente “sentito” (presente) anche nella più grande “frugalità”, non deve solo essere “riconosciuto”, ma “vissuto”, per così dire – cioè integrato nel processo di formazione, nella “valorizzazione” del desiderio. È in base a questa “interiorizzazione” che il desiderio può cercare, e trovare, la propria misura: l’interiorizzazione del limite del piacere è la condizione vissuta che rende possibile il governo dei desideri (o che “rafforza”, potentemente, questa possibilità). Lo stesso valore discriminante che Epicuro assegna al criterio della realizzabilità, nell’autoriflessione del desiderio, non ci sarebbe se appunto in questa autoriflessione non fosse “compreso”, come il risultato di un’esperienza possibile, il “limite” del piacere. Amo venerem facilem, ha scritto Orazio nella stessa satira (I, 2, 119) in cui compare l’espressione multo corrupta dolore voluptas – e un esplicito richiamo all’epicureo Filodemo. Sappiamo che qui è in gioco molto di più che una “prudenza”, nell’accezione comune. Una venus difficilior, diciamo così, rimane in tutto e per tutto “desiderabile”; ma il saggio “sa”: a) che il piacere (in questo caso erotico) si realizza compiutamente, come sensazione che esclude il dolore (la “mancanza”), senza riguardo alla “difficoltà” della realizzazione; b) che questa difficoltà, in relazione all’“obiettivo”, comporta un elevato rischio di corruptio (e non c’è bisogno di esemplificare); e c) che nella misura in cui il desiderio si associa e si alimenta al rischio della sua “irrealizzazione” può trasformarsi in una fonte specifica di dolore, oscurare il criterio della “verifica” del piacere, “capovolgere”, alla fine, il senso stesso del “fine”: non l’obbedienza alla (propria) natura, ma una tensione verso “l’impossibile” che
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inchioda l’individuo alla necessità tragica della propria impotenza, alla rottura di ogni possibile accordo tra il suo “essere” (naturale) e la sua “volontà”. La “moderazione” (per usare un termine “di senso comune”) del proprio desiderio, nella consapevolezza vissuta del limite del piacere, permette di “ripristinare”, sul piano del soggetto morale (cioè l’individuo che “si dà” un fine, in vista dell’azione), quella stessa “autoreferenzialità” in cui l’essere individuale, naturale-sensibile, trova il principio della sua identità, della sua autoregolazione; ci permette, per ripetere una formula già utilizzata, di assumere come “fine” il “principio”. Quando Epicuro scrive che «con maggior dolcezza [hêdista] gode dell’abbondanza [poluteleias] chi meno di essa ha bisogno [hoi hêkista tautês deomenoi]» (LM, 130, 7-8), non solo ribadisce, inequivocabilmente, che la varietà (l’abbondanza) dei piaceri è in sé perfettamente “piacevole”; indica anche la strada (ed enuncia la condizione) per la sua massima “valorizzazione”, per il massimo godimento: il grado massimo (hêdista – con la massima dolcezza, nel modo più piacevole) di questa piacevolezza coincide con la più completa assenza (hekista, di nuovo un superlativo) di un sentimento di “bisogno” (cioè di una “mancanza”). Essa si dà, quando si dà, “in più” – è questo il suo valore proprio, “naturale”, che non ci sarebbe se la sentissimo, se la desiderassimo, come qualcosa di “necessario” (per noi). Se si può parlare di un “elogio della frugalità”, in Epicuro, è in relazione a questo specifico tipo di “esercizio” (c’è dunque anche nella sua morale, come siamo abituati a pensare per tutti gli “antichi”, un tratto “ascetico”: intanto, ma come vedremo non solo, questo). Non si tratta in alcun modo di scegliere uno “stile di vita” che sarebbe “proprio” al saggio (con il solito “sottinteso”: il saggio “concede il minimo” al piacere – del corpo – perché la sua “idea del bene” è “indifferente” al corpo); ma di una profilassi, per usare questo termine, del desiderio. “Verificare”, nella propria condotta di vita, come il raggiun-
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gimento del fine non dipenda dal possesso di molti e diversi beni “aiuta” l’individuo nel compito che abbiamo detto della vigilanza (auto)critica, del discernimento dei desideri, del “controllo” sulla loro formazione e intensità; e questo compito il saggio riconosce come necessario – per non soffrire. Possiamo dire, senza voler scandalizzare, che proprio nella parabilis et facilis venus di Orazio troviamo l’esempio migliore della frugalità epicurea. “Misurare” i desideri, dunque. E misurarli su quello che ne costituisce il “naturale” fondamento – il piacere. Se si può parlare di desideri “necessari” come un sottoinsieme di quelli semplicemente “naturali” (cioè, all’origine, tutti), è perché questo rapporto, tra il “fondante” e il “fondato”, non ha sempre, per l’individuo che desidera, la stessa “certezza”. «Non sono necessari», dice Epicuro in MC XXVI, quei desideri «che se non sono soddisfatti non conducono al dolore [hosai mê ep’algoun epanagousin ean mê symplêrôthôsin]». E in questo caso (ma) essi «sono [o piuttosto il loro stimolo, orexis, la “forza” del desiderio] facilmente dissipabili [all’eudiachyton tên orexin echousin]»; al contrario di quanto abbiamo letto in MC XXX, dove era appunto questione di desideri che «non si dissolvono [ou diacheontai]», anzi mantengono la loro forza anche quando “non c’è dolore” se non si compiono – e non per natura, non per ciò che in loro stessi, in principio, è naturale. “Per natura”, invece, liberarsene è (sarebbe) “facile”: se, continua Epicuro, «appaiono rivolte a cose difficili a ottenersi, o tali da provocare danno». Questo è il senso di GV, 71: «Per ognuno dei desideri va posta questa domanda: che cosa mi accadrà se si compie ciò che vuole il desiderio, e che cosa se non si compie?». Questo, ancora, il risultato del dialogo che Epicuro finge, in GV, 21, tra l’individuo e la (sua) natura: «Non bisogna far violenza alla natura, ma persuaderla; e la persuaderemo soddisfacendo i desideri necessari, quelli naturali se non recano danno, respingendo aspramente quelli dannosi».
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Si sarà notato che in quest’ultimo testo Epicuro formula in un modo ancora diverso la sua classificazione. Sostituisce al “non naturale” il “dannoso”. E ottiene così, di nuovo, una bipartizione: perché dal punto di vista “pratico” (morale) la differenza diventa quella tra “dannosi” e “no” – sono tutti, i secondi, desideri da soddisfare. La definizione implicita del desiderio necessario diventa allora: quello di cui non si può pensare che sia dannoso (e perciò non viene “esaminato”); per gli altri, quelli che non passano l’esame, non vanno “lasciati insoddisfatti” (questo “consiglio” non c’è), ma respinti, “denunciati” (il verbo che usa Epicuro ha anche un uso giuridico, di citazione-accusa: elenchô) – e quindi dissolti. Nel dialogo tra logos e “natura” che Epicuro finge, la “persuasione” (l’ufficio del logos – che comprende una coscienza del tempo, dei rapporti causali, della rappresentazione – rispetto a ciò che nasce chôris logou, nell’“immediatezza” dell’essere sensibile/appetitivo) consiste nel formare la rappresentazione del “dannoso”, della “conseguenza” dannosa (che si produce anche, soprattutto, nell’irrealizzabilità – quando il desiderio intrattiene un vissuto della mancanza, che è la forma più tipica, più “grave” del dolore); e “funzionerà” – otterrà cioè l’assenso della “natura”, escludendo ogni “violenza”, ogni repressione – nella misura in cui la volontà consapevole accoglie, obbedisce, a ciò che la natura necessariamente esige, o che “ha passato l’esame”. E quanto al “contenuto”, all’“oggetto” di questa necessità (che è del desiderio, non del “bisogno”), ripetiamo che sarebbe del tutto fuorviante specificarlo in singole “condizioni”: non può essere che il piacere, il “massimo” del piacere – non soffrire. Il “poco”, il “minimo” (come “contenuto” della frugalità) non hanno niente a che vedere con tutto ciò. «Niente basta a colui per il quale è poco ciò che basta»: questo è il testo di GV, 68 – davvero, una “sentenza”. Nel testo greco è fatta di sei parole: Ouden hikanon hôi oligon to hikanon. Il “soggetto” ci è familiare – lo abbiamo visto nella descrizione di Lucrezio:
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è l’“insoddisfatto”, colui che misura i beni che possiede sul metro dell’illimitato del suo desiderio, dell’infinito della sua mancanza. Ma lo hikanon, per il saggio, non ha la sua “misura”, una qualsiasi misura, in un determinato possesso – o in una determinata “somma” di piaceri. Il piacere è “illimitato”. «Il limite in grandezza [horos tou megethous – “il limite della grandezza”, ma anche la “definizione”, l’essere “pieno”] è la detrazione [hypexairesis] di ogni dolore. E dovunque è piacere [hopou d’an to hêdomenon enêi – “quando ci sia il piacevole”, “quando si senta piacere”] non c’è né dolore fisico né spirituale» (MC III). Il piacere non ha altro “limite” che il dolore. Per questo Epicuro ripete che possiamo considerare come “equivalenti” tutte le sensazioni di piacere (pasa hêdonê), se ciascuna “occupa” «tutto il nostro essere», “nell’istante” (è la già citata MC IX). La vita del saggio potrà anche non essere, o non apparire come, una vita “di piaceri”; sarà comunque, se vogliamo dirlo un po’ provocatoriamente (ma correttamente), una vita interamente “consacrata” al piacere.
Aponia e atarassia È in questo contesto che va compresa l’insistenza di Epicuro sulla “facilità” del raggiungimento del fine. Abbiamo visto che questa “facilità”, in rapporto all’oggetto del desiderio, è una delle principali preoccupazioni, “criteri”, del calcolo razionale; ma sbaglieremmo se le attribuissimo una funzione puramente “difensiva” – il “calcolo” di Epicuro non è un conto della spesa. In una morale materialistica è essenziale che il fine, il criterio dell’azione, il progetto identitario del “soggetto” non sia definito in termini di “dover essere” – che un essere, “anteriore” al soggetto, sia riconosciuto come il “limite” entro il quale si forma, entro il quale si svolge la nozione del “bene” (o più precisamente: entro il quale questa nozione può essere
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costantemente ricondotta). Questo “essere”, i Greci lo hanno chiamato physis, natura. Pensare il “soggetto morale”, la morale, materialisticamente, significa prima di tutto pensare questo legame con una “necessità” naturale; ma “necessità”, nella natura, vuol dire “meccanismo”, regolarità di azioni e reazioni, di movimenti e impulsi. L’esperienza umana – dell’uomo come parte integrante della natura, come essere naturale – riflette prima di tutto un meccanismo, una necessità; nessuna idea del fine potrà essere “vera” (fondata), se non sotto la condizione della coerenza con questa “origine” – se essa cioè a sua volta non si rispecchia, per usare un’immagine, nella natura. “Dietro” il soggetto morale c’è per Epicuro l’individuo che “sente”, che sperimenta la propria identità (come autopercezione) nell’alternativa costante del piacere e del dolore – e nella “regolare” prevalenza del piacere. «Grida la carne: non aver fame non aver sete non aver freddo; chi abbia queste cose e speri di averle, anche con Zeus può gareggiare in felicità» (GV, 33). Siamo qui sul piano dei “bisogni”, evidentemente; ed è questa “facile” felicità, conseguenza “meccanica”, potremmo dire, del soddisfacimento dei bisogni primari, che Epicuro definisce senz’altro “divina”. Nulla ci viene detto del piacere dell’anima, di quei “dolori spirituali” ([to] lypoumenon) evocati costantemente (abbiamo visto da ultimo MC III) insieme con quelli “fisici” (to algoun) per indicare il contrario della felicità; e sappiamo che cosa è necessario per liberarsene (tutta una filosofia). Ma allora: come può essere felice, “da gareggiare con Zeus”, chi semplicemente non abbia da patire la fame la sete il freddo? O Epicuro, cedendo al gusto enfatico di una sentenziosità oracolare, “si dimentica”? È proprio l’apparente stranezza di questo testo che ce ne segnala l’importanza (oltre a illustrare, una volta di più, come il lettore di Epicuro debba costantemente ricercare, oltre l’ingannevole autosufficienza che la forma gnomica o “compendiaria” conferisce ai singoli enunciati, le ragioni della loro effettiva
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connessione, la “logica” del “sistema”). La “felicità” che qui viene descritta, è quella che corrisponde perfettamente alla terza condizione del quadrifarmaco – che nella formulazione di LM, 133, 3-4 si enuncia così: «che il limite dei beni è facilmente raggiungibile e facile a procurarsi». Questa è a ben vedere l’unica delle quattro condizioni che possa essere direttamente “colta”, “afferrata” (il verbo che regge la proposizione oggettiva, nel testo italiano «aver chiara conoscenza», è: dialambanô) nell’attualità di una esperienza – anche se certo, nella logica del quadrifarmaco, dell’insegnamento, vale anch’essa come una cognizione, un “sapere”. La paura degli dèi, della morte, del dolore sono condizioni (negative) che presuppongono nel soggetto un’attività di rappresentazione; bisogna “liberarsene” – non ci sarebbero, se non si fossero formate le “false opinioni” sugli dèi (doxazô è il verbo corrispondente), o il “falso desiderio” dell’immortalità (il nesso è esplicitato in LM, 124, 10); o se più in generale (e specificamente, per il dolore) l’anima non vivesse nella costante anticipazione del futuro. La rimozione di questi dolori, di questi “turbamenti” non può che essere affidata al “lavoro” della coscienza – della filosofia. Ma il piacere-limite (dunque l’illimitato del piacere, che autorizza il paragone con gli dèi) è uno “stato” della sensibilità, un contenuto che “riempie” tutto l’essere sensibile, e corrisponde a uno “stato di cose”, il “buon funzionamento” dell’essere naturale (materiale-sensibile); è, al livello del corpo, la sensazione dell’aponia. Quando il saggio concepisce e tenta di realizzare il proprio fine non avanza, per dir così, “nel vuoto”. Ha “dietro di sé” questa comune esperienza umana – l’esperienza della felicità come “immediatezza”, condizione infinitamente “disponibile”, pienezza della sensazione, limite (facilmente) raggiunto. Il suo “lavoro”, il suo compito, consisterà nell’utilizzare questa “traccia” come un filo d’Arianna per orientarsi nel labirinto, distinguere e mettere in prospettiva tutte le formazioni psicologiche che riflettono nella coscienza un’esistenza “mondana” – un’esistenza
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“artificiale”. Poiché egli “sa” che l’esperienza del mondo, i calcoli della ragione, le rappresentazioni degli affetti e delle passioni si intrecciano a formare una “realtà” casuale, indefinita, in cui ogni carattere di immediatezza, ogni criterio di evidenza può essere smarrito. Epicuro, possiamo dire senz’altro, non è in questo molto lontano da Rousseau: anche per lui “l’uomo che pensa” è un animale, se non necessariamente “depravato”, certo assai facilmente “depravabile” – con l’“attenuazione” che deriva da quanto abbiamo sopra osservato, evocando “la lancia di Achille”. E con un’altra, importante, avvertenza: il lavoro, necessario, del saggio non sarà per lui “ingrato” (per Epicuro il criterio del piacere è sempre attivo, nella condotta, anche in presenza di una necessità), perché vi troverà una fonte specifica di diletto – il piacere della (pratica della) filosofia, il piacere della “verità”: «si accompagna [epi de philosophias syntrechei] al conoscere il piacere [têi gnôsei to terpnon]» (GV, 27). Ma tutto ciò non toglie che l’“ideale” della felicità, la “meta”, conservi la sua “somiglianza” con qualcosa che abbiamo già intravisto – quando seguivamo il percorso che conduce all’individuo “razionale”: la (possibile) felicità del bambino “nato da poco”, nella sua culla.
Essere natura e essere soggetto Possiamo adesso concludere. Abbiamo cercato di seguire, in questa ricostruzione, un “asse” preciso – che ci sembra quello “centrale” nella teoria del piacere di Epicuro, che ne sorregge, e ne attraversa, l’intera articolazione: quello del rapporto tra aponia e atarassia. Questo rapporto non è solamente di complementarità, nel senso che riflette nella teoria del piacere il “composto” corpo/anima. E non è nemmeno, solamente, di fondazione – nel senso che il legame “organico”, “costitutivo”, tra “idea del fine” e “natura umana” dipende da una fisiolo-
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gia della sensazione che istituisce l’alternativa piacere/dolore come designazione autosufficiente dell’essere individuale (autocosciente). È, di più, una perfetta identità di struttura. L’atarassia è pensata, non può che essere pensata, “sul modello” dell’aponia; il che è possibile se, e solo se, il “primato” della sensibilità è rigorosamente mantenuto “nell’intero” dell’essere individuale (che è poi la “marca”, riteniamo, di ogni “materialismo morale” – e si pensi, per esempio, alle formule leopardiane che abbiamo incidentalmente ricordato). Su questa base, a entrambi i “livelli” (il turbamento dell’anima è una sensazione di dolore), lo “spazio” della sensibilità può essere pensato come un sistema “chiuso” – che si riproduce secondo una regola, un principio dinamico capace di organizzarne l’intero funzionamento. Per questo il piacere dell’anima si definisce, esattamente come quello del corpo, non “in positivo”, come un “qualcosa”, ma nella condizione di una assenza (del turbamento, del dolore). Il “negativo”, il “male” non è una parte del mio essere, “dentro” il campo del suo costituirsi e svolgersi, secondo un principio genetico e formale che ne distribuisca le occorrenze in un processo “ontologico” di differenziazione (una contraddizione interna). È piuttosto un “vuoto d’essere” – “ricade” costantemente al di fuori di quel nesso di autoriferimento che costituisce l’essere in un esserci, al livello della coscienza; l’essere/esserci che io sono (è per questo, ma vedremo meglio più avanti, che la (mia) morte “non mi riguarda”). Ma, “al livello della coscienza”, il principio dell’autoriproduzione, la regola che ricostituisce dinamicamente l’equilibrio del sistema, per cui ci ritroviamo costantemente “sul limite di noi stessi” (nel “ritorno” del piacere; così che il limite ricade costantemente “fuori di noi”) non può essere affidato al meccanismo dell’aggregato atomico che forma il nostro essere naturale (finché funziona; e nell’impulso, altrettanto naturale, a fuggire il dolore “esterno”). Gli stati affettivi che “occupano” l’anima non si esauriscono nella percezione del piacere/dolore
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del corpo, perché sono in gran parte generati, prodotti, dalla sua propria attività (pensieri e rappresentazioni, memorie e previsioni, ragionamenti e “calcoli”). Il principio di selezione/ valutazione, il criterio di scelta, non può operare, qui, “spontaneamente”; il piacere catastematico dell’atarassia dipende dalla capacità dell’anima di agire su se stessa (di “guidare” la sua propria attività). È solo qui, lo abbiamo già osservato, che la nozione di un “fine morale” acquista senso. Essa sarebbe vuota, priva di contenuto, se l’anima dovesse “scegliere” il suo bene proprio senza comprendersi nel suo legame essenziale con il corpo, come parte integrante di un essere che “funziona” secondo natura; ma sarebbe, poi, priva di efficacia, di operatività, se questa comprensione non potesse stabilmente tradursi nell’acquisizione di un abito, di una “virtù”, per cui diventa capace di produrre “da sé”, attingendo alle sue proprie forze, nel “campo” in cui le sue proprie funzioni “agiscono”, la propria regola. Questa è certo, prima di tutto, una necessità, imposta dall’instaurazione di un regime di scambi “simbolici” (di sé con sé, e con il “mondo”) che integra le virtualità (oltre il limite dell’essere “naturale”) di rappresentazioni e pensieri; ma non è solo questo. Il fine morale (una “idea” della felicità), che esprime la comprensione di ciò che l’anima è e insieme la capacità di utilizzare e guidare in conformità a questo essere l’uso delle sue funzioni (attività), arriva a comprendere la possibilità di “emanciparsi” da quell’altra (“prima”, logicamente e “ontologicamente”) condizione della felicità, che è l’assenza del dolore corporeo. Uno stato “ideale” di atarassia è tale che l’evidenza sensibile, l’“attualità” del dolore del corpo non arriva necessariamente a “turbarlo”: perché il piacere catastematico dell’anima, il funzionamento “in atto” del suo principio regolatore, definisce “da solo”, per così dire, la pienezza dell’autoriferimento, l’illimitato del (suo) piacere. Abbiamo sopra ricordato come per Epicuro si dia uno specifico piacere del (nel) filosofare. Aggiungiamo
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che questo (come, per altri versi, vedremo, il piacere dell’amicizia) non può essere considerato propriamente come un piacere “cinetico” – rispetto al variare degli “stati” dell’anima. È “coessenziale”, potremmo dire, al suo “catastema”; esprime, con l’evidenza della sensazione in atto, il processo del costituirsi nell’autoriferimento di un’identità “stabile”, perché conforme a se stessa – al di là del tempo e dell’opinione, del dolore (fisico) e della “mortalità”. Il saggio epicureo non è “autonomo” perché “indipendente dai bisogni” – questa espressione, a prenderla sul serio, ci rimanderebbe immediatamente a quella “separatezza”, delle “due parti” dell’essere individuale, che è incompatibile con l’idea stessa di una morale materialistica. È “libero”, nella misura in cui l’esercizio e l’abitudine della saggezza arriva in lui fino a “superare” gli effetti contro-finalistici che la “passività” della coscienza, l’ombra portata delle rappresentazioni e dei pensieri, produce sulla certezza della sensazione, inibendo, ostacolando la “regola naturale” della ricostituzione del piacere. In lui, potremmo dire, è la coscienza della “condizione umana” tutta intera che si trova rifondata, come un (il) “valore”: perché l’alternanza del piacere e del dolore – che di quella condizione, in quanto immediata coscienza di sé, forma la più intima “sostanza” – può sottrarsi, in parte, al gioco casuale, al determinismo meccanico delle cause e degli effetti. È soltanto il saggio, il filosofo epicureo – non certo la felicità del bambino nella culla – che può incarnare l’immagine ideale dell’“uomo divino”. Questa “figura” enfatica (il sicut deus di Lucrezio) non è certo a caso ricorrente nei nostri testi – e non va certo “liquidata”, com’è tipico della tradizione ostile, come una “fanfaronata”. L’antropomorfismo che governa la formazione della nozione del divino trova certo un limite preciso, invalicabile, nel rilievo di una differenza “ontologica” – quanto alla natura degli atomi che formano il corpo divino; ma, nell’endiadi che interamente costituisce quella nozione (“beatitudine” e “incorruttibilità”),
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è ovviamente soltanto il primo termine che si trova ad essere utilizzato nel paragone. Se la condizione che esso designa è specificamente divina in quanto congiunta con l’altra, dell’immortalità (che comprende – incorruttibilità – la completa assenza di dolore fisico), ciò non esprime a ben vedere che una “mancanza” (e una “facilità”): gli dèi non possono “trovare un limite” alla propria beatitudine nel fatto di essere mortali – che vuol dire, evidentemente, nella coscienza che essi ne hanno (avrebbero). Vedremo più avanti, in modo più ravvicinato, come questa “coscienza di essere mortale” (che è dell’uomo, e che si chiama specificamente paura) rappresenti nell’epicureismo la figura più “comprensiva” (e, in un senso preciso, la prima “matrice”) di tutti i mali dell’anima; la paura della morte è, potremmo dire in linguaggio spinoziano, la “passione triste” par excellence. Il “superamento” di questa paura è l’effettivo banco di prova su cui misurare il “senso” (evidentemente “ideale”) della metafora dell’uomo divino; e implica una trasformazione profonda, vorremmo dire una “trasmutazione” (o “trasvalutazione”), di tutta la sensibilità umana (più precisamente, del rapporto tra ragione e sensibilità). È tutto l’umano (il “troppo umano”) che vi si trova, al limite, trasfigurato; potremmo dire che l’“uomo divino” (il lettore avrà compreso a quale altra, più storicamente vicina, figura del pensiero stiamo pensando) designa la “meta” del perfezionamento morale, di una “nuova” morale, in una zona di oltre-umanità (per la quale “il dio” – di Epicuro – può ben rappresentare un “modello”). A questi temi sarà specificamente dedicato l’ultimo capitolo di questo lavoro. Ma intanto, nei limiti di questa provvisoria conclusione, vorremmo richiamare l’attenzione sull’altro tema che abbiamo cercato di far emergere – che è quello dello spazio di interpretazione, in cui si esercita la libertà del saggio. Abbiamo visto come la pratica della saggezza dipenda essenzialmente, operativamente, da una capacità di “critica”, di oggettivazione e distacco, rispetto a quella che possiamo chiamare la “produ-
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zione spontanea”, nella “mente”, dei fantasmi: contenuti della rappresentazione, oggetti del desiderio, nessi causali in cui si trova già “organizzata” la nozione, la “previsione” della felicità – potremmo dire: di un “universo valoriale” (o “potenzialmente” valoriale), in quanto già esistente, “subito”. Ma questo implica la necessità sistematica, per la morale di Epicuro, di prendere in conto le condizioni empiriche, effettive, “mondane”, in cui l’individuo si trova “immerso”, e che riproducono in lui, nella sua propria ricerca della felicità (o rappresentazione del fine), la possibilità dell’errore. La “condizione umana”, dato che abbiamo usato questa espressione, è certo in gran parte un “costruito”, un fatto “culturale”, oltre che “naturale” – non può indagarsi, comprendersi, senza un riferimento preciso alle forme di civilizzazione, ai processi storici, ai rapporti sociali. Ne va, tra l’altro, della possibilità di rispondere al problema dell’“origine del male” (morale): che sarebbe altrimenti ricondotta nella “costituzione materiale”, istintuale, della “natura umana”, in uno schema di opposizione, tra questa “natura” e il “bene”, che non può non restringere quest’ultima nozione nel dominio ideale della ragione (o “rivelazione”) – e così riconsegnare la possibilità stessa di una morale materialistica al paradosso, a una “contraddizione in termini”. Ma non è solo, questa necessità di affrontare e valutare le condizioni del mondo umano in cui l’individuo sperimenta e fraintende il suo proprio “bene”, una esigenza sistematica, qualcosa che la morale di Epicuro (ma poi ogni morale materialistica) produce “dall’interno”. Essa trova, nei nostri testi, una puntuale (e piuttosto ampia) verifica. È un punto che resta per solito, con qualche eccezione, molto “ai margini”, nella letteratura critica. Cercheremo di approfondirlo nel capitolo seguente.
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Divagazione su Freud
Freud e la morale Una morale materialistica “pensa” l’autonomia del soggetto non come un originario modo di essere, una “qualità”, ma come una costruzione, un progetto; progetto e costruzione che hanno come “base” non l’“essere” del soggetto – che non c’è – ma l’individuo come “ente” materiale-sensibile. E l’individuo è una “unità”, in quanto il suo “esserci” è riflesso nella coscienza di sé. Ma questa coscienza (di sé) non è solo la forma (il luogo) dell’autoriferimento – è anche coscienza di rappresentazione, coscienza di oggetto, “unità” (problematica) di un intero sistema di rapporti – quello in cui si articola sempre di nuovo (per ripetizione e variazione) la trama di un’esistenza mondana, prende forma un “sapere” del mondo, si mette a prova, nel molteplice delle relazioni, il variabile e il multiforme dell’identità. La “coscienza” in Epicuro ha due “facce” – è coscienza di sé per il legame con la sensibilità, per l’attualità degli stati affettivi che la “riempiono”, ma è pure costantemente “occupata” dalla relazione all’altro, dal “mondano” dell’esperienza: che si costituisce nell’insieme delle rappresentazioni, e insieme per la mediazione del generale, dell’astratto – nella costante attività del giudicare, confrontare, calcolare, per cui gli oggetti e
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i contenuti “trovano” la loro stabilità/identità, un “coefficiente di realtà” che accompagna, ma non coincide con, il “sensibile” della relazione, e il suo immediato “valore affettivo”. Se qualcosa come un’unità del soggetto (che è un “postulato” della morale) è possibile, bisognerà pensarla in questo nesso – tra “sensibilità” e “ragione”. I criteri della scelta, le “strategie” della condotta, i “valori” dell’esperienza devono essere “verificati”, in una morale materialistica, sul terreno della psicologia individuale. Che vuol dire che sono le condizioni effettive di possibilità/impossibilità del piacere, secondo la costituzione psico-fisica degli uomini, e non la conoscenza razionale o il calcolo dell’“utile” (che è sempre “circostanziale”), a “garantire” la possibilità di un universale – a fornire il “banco di prova” di quella unità. Il progetto di una “saggezza” vale prima di tutto come (ri)conquista di un essere naturale, come lavoro di (ri)costruzione del sé secondo la prospettiva dell’originaria “natura”. Ma quella altrettanto originaria, sul piano della coscienza, “complessità”, eterogeneità delle relazioni (e dei modi della “riflessione”) ci costringe a pensare nello stesso tempo la possibilità opposta – quella di una “scissione” di questa unità, della contraddizione, della lacuna. È qui che ogni tentativo di “recupero”, nella nostra cultura, di una morale epicurea si trova direttamente confrontato con i risultati più impegnativi e irreversibili che questa cultura ha prodotto quanto alla comprensione del “meccanismo” della coscienza, degli schemi operativi e possibilità evolutive dell’“apparato psichico”; vogliamo dire, naturalmente, Freud, la psicoanalisi.
“Apparato psichico” e “soggetto” Il tema della soggettività si ritrova nella prospettiva della psicoanalisi (ma d’ora in poi si parlerà direttamente e solo dell’ope-
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ra di Freud) senza un collegamento diretto, almeno “a prima vista”, con quello della morale. Freud non è un “moralista” – non imposta la discussione su quello che “l’uomo” è o può essere dal punto di vista del “valore” o del “fine”. Ma il problema dell’autonomia dell’individuo, della sua possibilità di scelta, del condizionamento interno e esterno, si ritrova “naturalmente” al centro della sua riflessione. Del resto, il tema stesso della “malattia psichica”, quand’anche declinato in un contesto esclusivamente “clinico”, non avrebbe alcun senso senza il riferimento a un “modo di funzionare” di questa “psiche” che sia concepito secondo il criterio di una adeguatezza, della conformità a un fine. Castoriadis ha osservato una volta, e l’osservazione è sostanzialmente esatta, che Freud non ha mai scritto la parola “normale” tra virgolette. Se la sua opera ha una così grande portata “filosofica”, è appunto perché “ciò che avviene” nell’apparato psichico, in base alle sue strutture e funzioni, definisce il necessario e insieme il possibile di ogni coscienza individuale – nell’insieme dei suoi rapporti con “se stessa” e col mondo. Ed è tutto un sapere del mondo umano, com’è noto, che per Freud deve “svilupparsi” dall’analisi psicologica. La celebre affermazione secondo cui «a rigor di termini vi sono solo due scienze: la psicologia, pura e applicata [s’intende, nella “versione” della psicoanalisi], e la scienza naturale» (Introduzione alla psicoanalisi [1932], 11, p. 282), non è soltanto l’effetto di perduranti schemi culturali “positivistici”; esprime anche una specifica, e legittima, coscienza filosofica (anche se poi sono in gran parte quegli schemi, riteniamo, che lo hanno indotto ad abusare, nel tentativo di articolare l’individuale sul collettivo e sullo storico, della complementarità presa in prestito dalla biologia di “ontogenetico” e “filogenetico”). Ma il problema dell’individuo, la possibilità dell’“autocom prensione”, in una prospettiva finalistica, di una concreta vicenda pratico-esistenziale, è legato, per dirla con Foucault, al “processo di soggettivizzazione” – è il problema della morale.
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Tanto più che questo orizzonte o “condizione ideale” dell’autonomia, in cui il processo si inscrive, è esplicitamente indicato da Freud come il “luogo” dell’analisi, la “meta” a cui il “trattamento” è rivolto. Regolarmente, Freud descrive lo svolgimento dell’analisi come una procedura che “aiuta”, o che rende possibile, l’accesso dell’individuo a una sorta di “possesso di sé” – la capacità di interpretare come “propria” una vicenda psichica che potrà, sulla base di questa comprensione, essere in qualche modo “modificata”, “guidata” da una scelta consapevole e “ragionata” (non fosse che in termini di “adattamento”) dell’individuo stesso. Non bisogna aver paura di ritrovare in Freud, da questo punto di vista, qualcosa come la possibilità di una “saggezza” – se proprio questo può essere il senso di testi così impegnativi, e con un valore così generale, come per esempio questo, in L’Io e l’Es: «La psicoanalisi è uno strumento inteso a rendere possibile la conquista progressiva dell’Es da parte dell’Io» (9, p. 517). L’Es e l’Io (presupponiamo nel lettore una qualche conoscenza del “lessico di base” di Freud) sono le due prime “istanze” della seconda “topica”. Esse formano già un sistema in qualche modo “autosufficiente” di relazioni (il Super-Io, scrive Freud nello stesso contesto, «è pur sempre una parte dell’Io»; 9, p. 514). Vedremo subito come Freud ne teorizza la distinzione, la separazione. Ma non c’è dubbio che l’analisi è impegnata nella ricerca di una loro articolazione unitaria, secondo un preciso versus – che è quello in cui l’Io perviene ad “assimilarsi” l’Es, vale a dire permettergli di “rappresentarsi” presso di lui, e insieme “filtrare” questa rappresentazione secondo il proprio, specifico modo di operare (certo, questo è il lato della potenza dell’Io, che si accompagna con quello della sua debolezza – «d’altro canto noi vediamo questo stesso Io come una povera cosa», ma è appunto sul versante della “potenza” che l’analisi “lavora”; p. 515). La formula “definitiva”, che si trova al termine di tutta l’opera di Freud, è quella famosa: «Dove era l’Es,
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deve subentrare l’Io [Wo Es war, soll Ich werden]». Si trova alla fine della lez. 31 del secondo ciclo di Introduzione alla psicoanalisi (11, 1p. 90); ed è preceduta da uno sviluppo abbastanza “curioso”, in cui Freud avverte una volta di più che le “distinzioni” nella “psiche” (aree, strutture, funzioni) devono essere considerate essenzialmente come “flessibili” (tanto più nello stato “attuale” di una conoscenza che egli considera, quanto alle definizioni e ai nessi categoriali, ancora “iniziale”). La «suddivisione della personalità» nelle diverse istanze psichiche non ammette «confini netti» (il paragone, per rendere «la natura dello psichico», è quello con la pittura moderna, fatta di «aree cromatiche sfumanti l’una nell’altra»). Per questo: «Dopo aver distinto, dobbiamo lasciar confluire di nuovo assieme quanto è stato separato». E il modo in cui le distinzioni operano è sottoposto a grandi variazioni «in persone diverse». Vi sono pratiche, abitudini, attitudini individuali che possono anche «rovesciare i normali rapporti tra i diversi territori della psiche»; per esempio, «certe pratiche mistiche». Perfino il gioco della rimozione (vedremo subito la sua centralità nel rapporto “normale” tra l’Io e l’Es) può subire variazioni importanti – fino ad abilitare nella percezione (autopercezione) una “qualità di sguardo” che arriva fino a «eventi profondamente radicati», che sono di norma «inaccessibili». Freud sta parlando di quella «sapienza suprema», come «possesso» individuale, «da cui ci si aspetta la salvezza». Una sorta di “traslucidità” della coscienza (ricordiamo che l’Io rimane sempre essenzialmente definito come “sistema P-C” – percezione-coscienza). Ai familiari dell’epicureismo è facile vedere qui qualcosa di assai simile al sicut deus – la divinità del saggio, lo “stadio supremo” della saggezza. Com’è ovvio, Freud oppone subito un fondamentale scetticismo a questa “ipotesi” (la frase completa suona: «Che per questa via si possa giungere in possesso della saggezza suprema, da cui ci si aspetta la salvezza, è lecito dubitare»). Ma prosegue: «Tuttavia bisogna ammettere
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che gli sforzi terapeutici della psicoanalisi seguono una linea in parte analoga». E continua con una definizione del “senso d’assieme” di questi sforzi, della loro “linea”: «La loro intenzione è in definitiva di rafforzare l’Io, di renderlo più indipendente dal Super-io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell’Es». Segue la frase già citata, che affida all’Io il compito “morale” (sollen) di avvenire al posto dell’Es. E un’ultima osservazione, a prima vista del tutto estrinseca o esornativa, su cui varrà la pena di tornare più avanti. Possiamo dunque dire che il luogo in cui “si gioca” (eventualmente: con il contributo dell’analisi) la possibilità di un processo di soggettivizzazione è il rapporto tra l’Io e l’Es. A partire dalla distinzione “essenziale”, concettualmente irriducibile, fra le due “istanze”.
La natura (umana) “prima” dell’Io In Freud, come per Epicuro, si pone il problema dell’“origi nario” – ciò che è attivo “dall’inizio”, in ogni “vita” individuale. Per Epicuro questo “qualcosa” è la sensazione – immediatamente, univocamente carica di “affettività”. Il corpo dell’individuo è sensibile (per la “natura” di una parte degli atomi che lo compongono): e le sensazioni sono essenzialmente piacere o dolore. L’“esserci” di qualcosa come un individuo si “dà a vedere”, all’individuo stesso, come una qualità affettiva – e insieme come un impulso dinamico, “autonomo”: fuggire il dolore e cercare il piacere sono gli “atti” che definiscono in modo completo la sua spontaneità – che è insieme una necessità e il primo disegno, per così dire, di ogni “condotta”. Quello che Freud chiamerà “Io” risulta quindi qui già definito a partire dall’“unità” del corpo. Naturalmente, questo non vuol
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dire che la percezione del piacere e del dolore comprenda già in sé (o sia il principio unitario da cui si sviluppa) tutto l’insieme delle funzioni che nella terminologia di Freud saranno “assegnate” all’Io. C’è anche in Epicuro una distinzione, e in un senso una separazione, che si definisce immediatamente nella coppia corpo/anima (o piuttosto, lucrezianamente, animus): la memoria, le rappresentazioni, il confronto, il calcolo sono “funzioni” della coscienza indispensabili per l’organizzazione di un rapporto “stabile” con il mondo – e per una gestione consapevole, “strategica”, del fine naturale. Esse sono dotate di una reale “autonomia” rispetto al condizionamento sensoriale/affettivo (con i suoi caratteri di “immediatezza”): in quanto “associano” il piacere e il dolore all’oggettività delle rappresentazioni, intervengono attivamente nel rapporto di sé a sé – fino a un esito, abbiamo visto, che può anche essere quello della perdita della “base naturale” (materialmente costituita) di questo rapporto. Ma se è lecito parlare in questo caso di “separazione” (per la “specificità” della funzione), essa si manifesta all’interno di uno sviluppo unitario – le informazioni che provengono dal corpo rimangono per “l’Io” (in Epicuro semplicemente: l’individuo) il primo “contenuto” della coscienza di sé. In Freud al contrario, potremmo dire, l’Io non ha “contenuti” che provengano dal (suo proprio; ma non propriamente “suo”) corpo. La distinzione fra “sensazione” e “percezione” permette di collocare quest’ultima interamente “dalla parte della coscienza” – cioè di un “modo d’essere” (dell’Io) totalmente distinto da quello proprio del corpo. Freud concepisce esplicitamente l’Io come una “marca di frontiera” dell’apparato psichico (lo si ricava, secondo lui, anche dall’anatomia del cervello); quel lato che è essenzialmente rivolto all’esterno – alle relazioni di oggetto, potremmo dire, come differenziazione crescente, come “vincolo”, come stabilità “cumulativa”, delle percezioni e del giudizio. Per questo esso si trova ab origine come separato dall’“interno”: non c’è qualcosa
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come un “senso interno” che selezioni, stabilizzi, “decifri” i “segnali” che da lì provengono. Il sistema del “qualitativo” (parolachiave, che rimanda all’attività di differenziazione dell’Io) sta interamente nell’“esteriorità” della percezione. Nel testo che abbiamo citato da ultimo, è caratteristico che Freud insista su questo termine (percezione) sia quando delinea l’utopia di una coscienza a cui nulla di ciò che accade nelle “profondità” dello psichico sarebbe inaccessibile (magari attraverso la potenza di intuizione del “mistico”), sia quando definisce i compiti dell’analisi: «rafforzare l’Io», abbiamo letto, significa tra l’altro «ampliare il suo campo percettivo» – nella prospettiva di quella organizzazione “perfezionata” che gli renderà possibile di «annettersi nuove zone dell’Es». In un testo di molti anni prima, l’Interpretazione dei sogni, Freud aveva scritto: Il complesso degli eccitamenti affluisce all’organo di senso della C da due parti: dal sistema P, il cui eccitamento, determinato dalle qualità, subisce probabilmente una nuova elaborazione fino a diventare sensazione cosciente, e dall’interno dell’apparato stesso, i cui processi, di ordine quantitativo, sono sentiti, appena approdano a certe trasformazioni [cioè hanno “superato la soglia” della percezione], come serie qualitative di piacere e dispiacere. (3, p. 560)
Notiamo intento questo straordinario raccourci, per cui la coscienza ha (è) bisogno di senso. E sta in rapporto con gli “eccitamenti” (segnali, stimoli) “esterni” secondo un asse percettivo che è immediatamente “qualitativo”, orientato al senso. Rispetto all’“interno”, invece, il senso “comincia” con il piacere e il dispiacere (il materialismo di Freud è “spontaneamente” epicureo); ma questo, se è “l’inizio” del senso, non è l’inizio della vita individuale (per dir meglio: la prima “funzione” dell’apparato psichico – in quanto “comprensivo” della vita organica – non è quella di accogliere, riflettere questo “senso”). Anche quella che Freud chiama “coscienza di sensazione” (in opposizione a
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«sensazione inconscia»; cfr., per es., L’Io e l’Es: 9, p. 485) appartiene dunque allo sviluppo dell’Io, “avviene”, nell’organizzazione dell’apparato psichico, “dopo” («Rimane pertanto esatta la tesi che anche le sensazioni e i sentimenti diventano coscienti solo pervenendo al sistema P»; 3, 560). In ciò che accade “al di qua” di questa soglia è impossibile assegnare valori “qualitativi”, distinguere, “percepire”: è uno spazio occupato da tensioni, flussi, processi che si possono rappresentare soltanto come variazioni di una “quantità”. “Prima” dell’organizzazione e dello sviluppo dell’Io non c’è dunque, nell’apparato psichico, alcun “luogo” per il “senso”. Niente che possa essere riconosciuto come “proprio”, che possa avere un “valore”, «per il singolo individuo». È proprio questo che esprime la scelta terminologica di Freud – Es, il neutro del pronome, l’anonimo, l’impersonale. Qualcosa che riguarda “la vita della specie” (o “la vita animale”, in generale). L’individuo, propriamente, non c’è (ancora). “Prima” dell’Io, c’è quello che Freud chiama “la pulsione”. È questo, per esplicita, continua “ammissione” di Freud, l’aspetto più “ipotetico”, più “astratto” della psicoanalisi – Freud usa assai spesso, a questo proposito, l’aggettivo “speculativo”. La psicoanalisi “postula”, “sullo sfondo” della vita psichica dell’individuo, un modello dinamico di funzioni corporee, organiche, che non può essere compreso (ammesso che in qualche maniera possa esserlo) come una “fonte” diretta, univoca, dello “stato” in cui l’individuo “sente” di trovarsi – che non ha, per sé, propriamente “niente a che fare” col modo in cui l’individuo “si percepisce”. La vicenda di quello che nella psicoanalisi si definisce come una “teoria delle pulsioni” è contrastatissima: piena di variazioni, correzioni, successive “messe a punto” – e sempre mantenuta nel registro del congetturale (oltre che non certo “originaria”: è solo in una fase già avanzata del suo lavoro che Freud comincia
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a usare il termine). Dall’inizio, essa è segnata dalla volontà di individuare le “premesse”, di comporre la “tela di fondo”, dello psichico in una dimensione puramente quantitativa, “energetica”, dell’“impulso”. E sempre (vieppiù attraverso la doppia soglia di formazione di una vera e propria teoria psicoanalitica, l’Interpretazione dei sogni e i Tre saggi sulla sessualità) esposta con l’esplicita consapevolezza del carattere paradossale, e fin propriamente aporetico (“allo stato attuale della conoscenza”) di ogni “rinvio” dello psichico al biologico. Agli epistemologi che si compiacciono di far notare come il concetto di “energia”, applicato alla “pulsione”, non trovi alcun modello negli usi “propri” del termine (dunque in ambito fisico-chimico), si potrà sempre obiettare che Freud “lo sapeva benissimo”: basterà citare, “fra mille”, un testo propriamente testamentario, il Compendio di psicologia del 1938: «Possiamo ipotizzare […] che nella vita psichica sia operante una specie di energia; non abbiamo però alcun punto di riferimento per accostarci alla conoscenza di essa tramite analogie» (11, p. 590). Questo testo segue immediatamente a una domanda: «in cosa consiste la differenza tra i due [l’Io e l’Es]?». Alla quale Freud risponde, prima di formulare l’“ipotesi”: «di ciò non sappiamo nulla, e sullo sfondo oscuro di questa profonda ignoranza, le nostre scarse conoscenze non fanno certo una gran figura». Ma che una «energia […] in generale [debba] essere supposta nei processi psichici» (è il paragrafo aggiunto nel 1914, con il titolo Teoria della libido, ai Tre saggi, 4, p. 523) rimane per Freud un punto fermo. Molto prima di adottare il termine “pulsione” (cfr. l’Avvertenza editoriale a Metapsicologia, 9, pp. 4-5) la nozione di stimolo endogeno era definita come un impulso al soddisfacimento di bisogni che «hanno origine nelle cellule del corpo» – gli esempi sono fame, respirazione, sessualità. Rimane in Freud un’oscillazione costante tra l’affermazione di una autonomia della psicoanalisi da «concetti presi in prestito dalla biologia» (L’Io e l’Es, 9, p. 475) e la necessità di rico-
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noscere che «per la teoria delle pulsioni esso [il lavoro psicoanalitico] si trova costretto a cercare appoggio nella biologia» (Due voci di enciclopedia, 2. Teoria della libido, 9, p. 461). Uno dei testi più “chiari” è proprio in Metapsicologia (Pulsioni e loro destini): «Se ora ci volgiamo a considerare la vita psichica dal punto di vista biologico, la “pulsione” ci appare come un concetto-limite tra lo psichico e il somatico, come il rappresentante psichico di stimoli che traggono origine dall’interno del corpo» (9, p. 17). Il “somatico”, rispetto allo “psichico”, si definisce come “l’interno”, in quanto “localizzazione” dello stimolo: «Così, ad esempio, quando una luce esterna colpisce l’occhio, essa non è uno stimolo pulsionale, mentre è tale la sensazione provocata dall’inaridimento della membrana faringea [la sete] o dalla corrosione della mucosa gastrica [la fame]» (9, p. 14). Quando, retrospettivamente, in molte occasioni, l’“ipotesi” delle pulsioni sarà ricondotta ad una base “intuitiva”, la figura ricorrente è sempre l’endiadi “fame e amore” – rappresentazione comune, “popolare”, di ciò che nell’uomo è bisogno primario, organico. Ad essa Freud ricorre, per esempio, in Al di là del principio del piacere (9, p. 236), quando richiama “gli inizi” della teoria («nessuna conoscenza sarebbe stata importante come una visione approssimativa della comune natura e delle eventuali particolarità delle diverse pulsioni. Ma in nessun’altra regione della psicologia si brancolava nel buio come in questa»). In un testo di poco successivo (Due voci di enciclopedia, 2. Teoria della libido) il riferimento alla fame viene addirittura utilizzato come esempio diretto per uno specifico “tipo” di pulsioni (quelle di autoconservazione o dell’Io – vedremo); il che non può che rafforzarne il valore “paradigmatico”, quanto alla “definizione” di una pulsione e del suo meccanismo. Ma Freud “sa benissimo”, naturalmente, che la “rappresentanza psichica” della “fame” non ha proprio niente a che fare con quella dell’“amore”. L’idea di una “comune natura” delle pulsioni è a questo livello completamente inoperante – se il concetto
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di “pulsione” implica un’azione costante, un potenziale evolutivo, un rapporto di “valorizzazione”, mutevole, con gli “oggetti”. Il bisogno di nutrizione “rappresenta” una deficienza organica, una necessità del metabolismo – se non viene soddisfatto, in un tempo definito, l’organismo muore. Nessuna delle “operazioni” che segnano, nell’apparato psichico, il “destino delle pulsioni” – dall’investimento alla sublimazione, passando per l’inibizione, ecc. – potrebbe “applicarsi” alla fame. Quando, nel testo già citato dei Tre saggi (paragrafo aggiunto sulla Teoria della libido) Freud riconduce la pulsione sessuale al «fondamento chimico dell’eccitamento sessuale» rivendica il «presupposto che i processi sessuali dell’organismo si distinguano dai processi nutritivi per un particolare chimismo»; ma rimane assai dubbio che l’«ipotesi […] di un chimismo particolare della funzione sessuale» sia sufficiente allo scopo di «distinguer[la]», la libido, «dall’energia che in generale dev’essere presupposta nei processi psichici», conferendole «anche un carattere qualitativo» (4, p. 523; primo corsivo nostro). È tutto il tema del rapporto tra la “comune natura” delle pulsioni, da ricercare nelle profondità dell’organico e del biologico, e la specificità “qualitativa” della libido che rimane irrisolto. Questo tema, questo rapporto, è legato nell’opera di Freud a quello più generale tra “la coscienza” e “il corpo”. Se l’Es è “separato” dall’Io, “agisce” nei suoi confronti come una fonte di stimoli a cui quest’ultimo deve “obbedire” (o deve “resistere”) senza “comprenderli”, senza “riconoscerli” come “propri”, è per una radicale, originaria, differenza di “codici” tra la “vita dell’organismo” e quella dell’individuo (cosciente). Nel materialismo di Freud l’articolazione dello psichico sul somatico non avviene (come in Epicuro, ma poi forse in ogni altro materialismo) intorno al primato della sensazione (o di una “coscienza percettiva”: stiamo parlando ovviamente di coscienza come “sistema P-C” – non di quelle che Freud chiama “le funzioni superiori dell’Io”). L’individuo, potremmo dire, “ha coscienza”
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del proprio corpo soltanto “a un certo livello” delle trasformazioni provocate dai processi organici – come dell’emergenza di un “problema” le cui condizioni si sono accumulate al di fuori di ogni “comunicazione” (un po’ come in certe malattie, che si manifestano – sono “avvertite” – al termine di un lungo, impercettibile, processo di alterazioni cellulari). Le pulsioni, ma diciamo semplicemente: la libido, ha un “carattere qualitativo” in quanto entra in relazione con il “lavoro dell’Io”; ma quando la “incontriamo”, analizzando questo lavoro, ci imbattiamo in (o siamo indotti a presupporre) un certo “quantitativo” di energia, che dev’essersi accumulato “altrove”. Il corpo non è propriamente il “suolo” in cui l’affettività dell’Io affonda le sue radici; esso le rimane fondamentalmente estraneo – e non può essere rappresentato, nell’apparato psichico, che come “istanza” separata: appunto, l’Es. In tutto ciò (ed è poi questa la prima “matrice” della differenza con Epicuro) gioca un ruolo essenziale il modo di intendere la coppia piacere-dispiacere – che non definisce, per Freud, il terreno comune, la continuità tra il corpo materiale-sensibile e lo “stato affettivo” della coscienza. In un testo tipicamente “metapsicologico” dei Tre saggi, ragionando sullo “stimolo”, Freud affronta in termini generali questo problema, che indica come «uno dei punti più dolenti dell’odierna psicologia», sul quale sussistono «divergenze di opinioni». Il contesto è quello del piacere sessuale concretamente “sentito”, oltre la soglia della pubertà, nella differenza tra la stimolazione delle zone erogene («piacere preliminare») e l’«emissione delle materie sessuali» («l’atto sessuale» vero e proprio, quando la zona erogena è «la zona genitale stessa»). E Freud conclude, provvisoriamente, problematicamente, che deve pur esserci una qualche connessione tra “tensione di dispiacere” – «un sentimento di tensione comporta necessariamente il carattere del dispiacere. […] agisce come incentivo [a un mutamento di “stato”] il che è del tutto estraneo all’essenza del piacere provato» – e “sentimento di
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piacere” – «[…] tale eccitazione [sessuale] viene senza dubbio sentita come piacevole. Dovunque si ha la tensione prodotta dai processi sessuali, si ha anche il piacere» (4, pp. 516-517). Ma in che cosa consista questa connessione rimane appunto, allo stato, “indecidibile”: la chiarezza, l’univocità delle sensazioni di piacere/dispiacere non è di fatto “collegata” o collegabile con quello che sappiamo (non sappiamo) della pulsione, a livello chimico-organico – essa è essenzialmente, secondo questo criterio, ambigua. Quello che è certo, è che Freud non pensa i processi dinamici della materia corporea, vivente, come “vincolati” a uno stato di equilibrio – e il regolare riprodursi di questo equilibrio come contenuto “immediato” di una sensazione/ percezione di piacere. Il “bisogno” corporeo non è funzione di una mancanza, in rapporto a una possibilità di ricostituzione/ restituzione, ma stato di tensione, quantità di eccitamento (il cui “potenziale” rispetto alla sensazione è “semplicemente” – cfr. la penultima citazione – dolore). In una nota che si trova in apertura dei Tre saggi, Freud spiega perché ha preferito il termine latino (libido) al tedesco Lust: «L’unica parola adeguata della lingua tedesca, “Lust”, […] designa sia la sensazione del bisogno sia quella del soddisfacimento» (4, p. 451). È dunque essenziale che l’aspetto della “brama”, come specifica il curatore italiano, sia radicalmente distinto da quello del “piacere”; il che vuol dire che il “bisogno” (traduzione molto approssimativa di libido) è concettualmente indipendente dal suo “fine” – “opera”, nella vita “organica”, “senza riguardo” alla possibilità/necessità del soddisfacimento. Quando, con Al di là del principio del piacere, Freud avrà “scoperto” la pulsione di morte, possiamo dire (anche se forse in modo un po’ “barocco”) che sarà pervenuto a chiudere il cerchio dell’indirizzo “biologizzante” della sua psicologia: le pulsioni “fondamentali” saranno allora ricondotte per intero, rispettivamente, al processo di suddivisione/riproduzione cellulare (“pulsione di vita”) e a quello del “ritorno verso l’inorga-
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nico – che agiscono insieme, entrambi, nella “materia vivente”; e sarà allora del tutto chiaro che l’“attività” delle pulsioni non implica alcuna nozione di piacere/dispiacere, non è “accompagnata” da stati affettivi. Certo esse continueranno a fornire, in parte, il “materiale” di questi “stati”; ma lo faranno in quanto saranno “coinvolte” (Freud parla allora di “componenti pulsionali”: reinvestite, inibite, ecc.) nel lavoro dell’inconscio – lungo il processo di costituzione dell’Io. Ci si può chiedere (un po’ “astrattamente”, ma certo legittimamente) se il bisogno di Freud di mantenere, nel rapporto tra il biologico (o il corporeo) e lo psichico, il punto di vista dell’autonomia e della “separatezza” di “quello che viene prima” non dipenda in qualche misura dal vincolo culturale (e psicologico) di un “positivismo” – nel modo di concepire la malattia psichica: una “vera” malattia chiama in causa “funzioni organiche” – e dunque l’anonimo, l’impersonale della vita corporea. Ma non è certo “astratto”, in nessun senso, è anzi indispensabile, porre la questione del rapporto tra la “teoria delle pulsioni” e la pratica clinica di Freud (della psicoanalisi); cioè “ricordarsi” che il punto di vista di Freud sul “funzionamento” della coscienza non è e non vuol essere quello “filosofico” – di una “teoria generale” che procede per unificazioni concettuali “autosufficienti”, in termini di definizioni e connessioni. Ciò che Freud assume come “provato”, come un risultato “scientifico”, è sempre e solo la descrizione “operativamente” verificabile dei meccanismi della nevrosi – nel percorso “sperimentale” della diagnosi, dell’eziologia, della terapia e della guarigione, in ogni singolo “caso”. Freud “incontra”, possiamo dire, la “pulsione” lavorando sulle “alterazioni dell’Io” (che è un “altro nome” della nevrosi). È per questo che non considera come un problema il ricorso dichiarato, insistito, alla congettura – quando si tratti di delinearne la “teoria”: il modo di operare della pulsione, nell’Es, non può essere che “ipotizzato” – a partire dagli “effetti” che si
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osservano nell’Io (nevroticamente “alterato”). I “confini” dell’Io (che comprendono ovviamente “l’inconscio”) sono quelli stessi del “lavoro” analitico (Freud usa talvolta l’immagine di un bastione o muro di cinta, dal quale “ci sporgiamo” per guardare nell’oscuro abisso sottostante). Ma, entro questi confini, “si trova”, via via che il lavoro avanza, la traccia, il segno, di una “azione” che ha “avuto luogo” fin dall’inizio del processo di “strutturazione” di questo spazio, ben prima che esso fosse pienamente “organizzato” – un’azione che dobbiamo comprendere come una “reazione”, e che dunque chiama in causa qualcosa che “era già lì”. È una reazione tipica, univoca, che “ha uno scopo” (ma che lascia la traccia più evidente proprio quando non lo raggiunge). Ed è studiandone appunto il meccanismo (e le ragioni, e gli effetti) che arriviamo a rappresentarci qualcosa come un “punto d’incontro” tra l’Io e – la pulsione. Stiamo parlando, ovviamente, della “rimozione” – l’“azione” che sta all’inizio di ogni effettiva descrizione, di ogni eziologia della nevrosi. Freud non lascia dubbi sul fatto che è questa la “base” su cui l’intera teoria psicoanalitica è costruita. Citiamo un testo particolarmente “solenne”, che è in Per la storia del movimento psicoanalitico (1914): «La teoria della rimozione è dunque il pilastro su cui poggia tutto l’edificio della psicoanalisi. Essa costituisce l’elemento più essenziale della psicoanalisi […]» (7, p. 389). Una nevrosi comincia a diventare “leggibile” (e “guaribile”) quando è possibile “metterla in relazione” con un atto o un processo di rimozione. In un brevissimo scritto che si può considerare “di circostanza”, ma che è pure il tentativo di massima “essenzialità” divulgativa prodotto da Freud (Sulla psicoanalisi, 1911; risposta ad una richiesta di informazioni del Consiglio medico australiano), tutta la novità e l’originalità della psicoanalisi è riassunta in tre punti, il terzo dei quali è l’aver attribuito «l’origine della dissociazione psichica (la cui importanza era stata pure riconosciuta da Janet) non ad una mancanza di sintesi mentale dovuta a una incapacità congeni-
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ta, ma a un particolare processo psichico indicato come “rimozione”» (6, pp. 493-494). “Rimozione” (Verdrängung) è lo “sbarrare l’accesso” il “respingere fuori” qualcosa da un certo “luogo” – che è, in questo caso, la coscienza dell’Io. Quello che l’analisi “porta in luce”, è la presenza, nell’Io di “stati affettivi” e “impulsi” legati a bisogni, desideri, ecc. che l’Io non sa di “avere” – o di aver avuto. Non ne è cosciente, in quanto non accede alla, non si trova in lui la, “rappresentazione” degli oggetti e delle relazioni che potrebbero “soddisfare” quei bisogni o desideri – o vi si trova, ma come di oggetti e relazioni del tutto estranei a quel tipo di “richiesta”, che non possono avere per lui “un significato” in rapporto con essa. Ciò che la rimozione “censura”, sopprime, non è dunque “l’impulso”: se così fosse, non ce ne accorgeremmo, e l’Io non ne sarebbe per nulla “turbato”; l’analisi della nevrosi ci dice che un certo legame tra “impulso di soddisfacimento” e “rappresentazione di oggetto” – che aveva “fatto in tempo” a “saldarsi” nei primi stadi di sviluppo dell’Io (che è “fin dall’inizio” rappresentazione) – non è più stato “accettato”, “riconosciuto”, “accolto” (e rappresentato) nella coscienza (coscienza di rappresentazione, ma anche, indissolubilmente, coscienza del legame tra “rappresentazione” e “affetto”). Ma non basta “rifiutare” questo legame per “scioglierlo”, di fatto (questo comporterebbe una pura e semplice “scomparsa” dell’impulso: che non può agire, nell’Io, se non è “collegato” a una rappresentazione); questo nesso è “passato” nell’inconscio (ovviamente: dell’Io) – dove continua a operare, “costringendo” l’Io a cercare “nuove vie” per soddisfare un bisogno che non può più esserlo – perché è legato, fuori della coscienza, a un “oggetto” che per la coscienza, come oggetto di quel bisogno, “non c’è”. Da qui comincia la complessa vicenda a cui la rimozione dà avvio – che è sostanzialmente un “gioco” di scambi e di sostituzioni, in cui l’Io “si sforza” di trasferire il bisogno/desiderio su
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altri, diversi “oggetti”. Ma questa vicenda, di norma, può avere un esito “positivo” solo passando attraverso un “recupero” del rimosso, “superando” (rimuovendo) la rimozione. Si capisce facilmente perché: l’Io non può “soddisfare” l’impulso inconscio (persuadere la natura, direbbe Epicuro) finché esso, nella sua “qualità” di impulso “verso” qualcosa, rimane inconscio; è necessario “prenderne coscienza” per “modificarne” la direzione – ma questo implica che “io” me lo rappresenti, nell’unico modo possibile – “recuperando” il suo oggetto (“originario”). In parole “povere” (più vicine a un “senso comune” della psicoanalisi): se “non mi ricordo” (non “voglio” ricordarmi) che mia madre è (stata) un oggetto erotico per me allora qualsiasi altro oggetto che sia “atto” a soddisfare il mio desiderio erotico (inconsciamente legato a quella rappresentazione) mi si rivelerà (dolorosamente) come un grottesco, penoso travestimento (caricatura). “Ricordarsi” – per poter “giudicare” (e “cambiare”): è solo così che l’Io (mobilitando quelle che Freud chiama le sue “funzioni superiori”) può arrivare ad “annettersi” (nuove zone del) l’Es. Quanto al “che cosa” e al “come” della rimozione, la “dottrina” di Freud appare chiara (altra cosa è che sia più o meno “limpidamente” esposta: osserviamo una volta per tutte che l’esposizione di Freud è molto raramente, anche negli scritti più tematici, concentrata su una singola questione “generale”; essa è costantemente rivolta a una “descrizione completa” dei processi psichici, e quindi intreccia e rimodula variamente le nozioni “di base” in rapporto all’osservazione clinica, alla “tassonomia”, ecc.). Il testo di Metapsicologia consacrato alla Rimozione (1915) – in un tipico “contesto cumulativo” che chiama in causa in un unico movimento molte altre questioni (dalla differenza dei “modi di sostituzione” del rimosso secondo i diversi “tipi” di nevrosi al ruolo che per comprendere la rimozione dobbiamo attribuire alla “civiltà” – e si tratterà allora del “perché?” della rimozione) – contiene molti degli enunciati più precisi, riguardo al nesso tra “energia pulsionale” e “contenuto
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rappresentativo” su cui opera la rimozione; bisognerebbe citare integralmente, o quasi, 8, 42-47. Accontentiamoci di una citazione più “padroneggiabile” – che non esaurisce lo schema, ma ne dà una versione abbastanza concentrata – in rapporto all’“oggetto libidico” “primordiale” (Contributi alla psicologia della vita amorosa): In primo luogo l’oggetto definitivo [cioè “finale”: al termine del “processo di sviluppo” dell’Io] della pulsione sessuale, dal momento che la scelta oggettuale è avvenuta in due tempi ed è intervenuta la barriera contro l’incesto, non è mai più quello originario bensì soltanto un suo surrogato. La psicoanalisi ci ha però insegnato: quando l’oggetto originario di un moto di desiderio è andato perduto in seguito a rimozione, spesso esso viene sostituito da una serie interminabile di oggetti sostitutivi, nessuno dei quali tuttavia soddisfa pienamente. (6, p. 430)
Questa mancanza di soddisfacimento (che riguarda ovviamente l’Io) dipende dunque dal fatto che, «spesso», quando la pulsione «si è staccata dalla rappresentazione» non è del tutto “andata perduta” l’«energia pulsionale che ad essa [rappresentazione] era ancorata» (La rimozione, 8, 43); abbiamo dunque la “prova”, sul terreno della concreta analisi del meccanismo nevrotico, che “qualcosa” rimane attivo nell’Io (nell’inconscio) senza la percezione del suo significato affettivo – cioè di una “qualità”, che a sua volta rimanda a possibili o attuali relazioni di oggetto. Pura “energia”, appunto – quello che “era”, già “prima”. In questo modo, il passaggio dal biologico allo psichico produce “retrospettivamente”, potremmo dire, un’“idea” della pulsione: lo “psichismo dell’Io” (che è l’unico a cui possiamo avere “direttamente” accesso, attraverso il linguaggio, le azioni, ecc.) ci si dà a vedere (nel lavoro analitico sulla nevrosi) come un “campo” al centro del quale c’è un vuoto (qualcosa che resta “vuoto”, rispetto alle possibilità, ai “codici” del sistema P-C). Il “progetto dell’Io”, in quanto consista in un recupero, in una continuità/ sovranità rispetto all’Es, è intrinsecamente votato al fallimento:
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se la pulsione “ritorna”, dentro l’Io, come un “separato” (della quantità dalla qualità, dell’“impulso” dall’oggetto). È attraverso il fallimento della rimozione (cioè la nevrosi) che la rimozione stessa “si dà a vedere”; ma come una struttura “normale” della psicologia dell’Io – che è costretto ad affrontare con i suoi propri mezzi (cioè “agendo” sulla rappresentazione) un complesso (investimento libidico-oggetto) di cui solo una parte (la seconda) “gli appartiene”. Per questo, in questo, lo studio della nevrosi è “la chiave” per comprendere la “normalità”. Quando, nei Tre saggi sulla teoria sessuale, Freud conclude il paragrafo su Gli invertiti riconoscendo di «non essere in grado di chiarire […] la genesi dell’inversione», aggiunge subito che il risultato più importante dell’indagine sui «casi ritenuti anormali» è di ordine generale, e sta nella comprensione del fatto che la pulsione sessuale non è intimamente legata con l’oggetto sessuale, che fra i due c’è solo «una saldatura»: «Così siamo ammoniti ad allentare nei nostri pensieri il legame tra pulsione e oggetto. La pulsione sessuale probabilmente è in un primo tempo indipendente dal proprio oggetto, e forse non deve neppure la sua origine agli stimoli del medesimo» (4, pp. 461462). È questo “primo tempo” della pulsione (che è poi tutto l’enjeu di una specifica “teoria”) che l’analisi della rimozione, in quanto produce l’evidenza del “distacco” tra pulsione e oggetto, consente di congetturare come del tutto “anteriore” all’Io (e al suo “sistema” di rappresentazioni-affetti). Ma è tempo di porre l’altra domanda, che è implicita nell’analisi della rimozione: oltre al “che cosa” e al “come”, il “perché”. Per farlo, sarà forse più che mai necessario “far violenza” ai testi: ripetiamo che Freud non “esaurisce”, non “ordina” in una specifica sequenza testuale (“autosufficiente”) i singoli elementi della “teoria”; li riprende costantemente, li “rimescola”, li modifica, in un discorso apparentemente “senza regola” – perché sempre attratto dalla “plasticità”, dalla fluidità, del suo
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oggetto. Prendiamo un piccolo testo del 1911, I disturbi visivi psicogeni nell’interpretazione psicoanalitica, e citiamone integralmente un passaggio: Secondo le parole del poeta, possiamo classificare come “fa me” o come “amore” tutte le pulsioni organiche che agiscono nella nostra psiche. Abbiamo seguito la “pulsione sessuale” dalle sue prime manifestazioni nel bambino sino al raggiungimento della sua configurazione definitiva che abbiamo chiamato “normale”, e abbiamo scoperto che essa è composta di numerose “pulsioni parziali” legate all’eccitamento di alcune zone corporee; abbiamo compreso che queste singole pulsioni devono attraversare un’evoluzione complessa prima di potersi conformare in modo appropriato alle mete della riproduzione. Le delucidazioni psicologiche sull’evoluzione della nostra civiltà hanno dimostrato che essa sorge essenzialmente a spese delle pulsioni sessuali parziali, e che queste ultime devono essere represse, limitate, trasformate e dirette verso mete più elevate perché possano dar luogo alle costruzioni spirituali della nostra civiltà. Quale prezioso risultato di queste indagini siamo giunti a riconoscere un fatto […], vale a dire che le sofferenze degli uomini definite “nevrosi” devono essere ricondotte alle diverse modalità con cui quei processi che trasformano le pulsioni sessuali parziali possono fallire. L’“Io” si sente minacciato dalle pretese delle pulsioni sessuali, e se ne difende attraverso rimozioni che però non sempre ottengono il risultato desiderato e danno origine invece a minacciose formazioni sostitutive dell’elemento rimosso e a moleste formazioni reattive dell’Io. Queste due classi di fenomeni compongono ciò che chiamiamo i sintomi delle nevrosi. (6, p. 292)
Siamo, come si vede “al cuore” del nostro problema. Attraverso la rimozione, l’Io si difende da una minaccia – ricordiamo che Freud arrivò ad adottare il termine “rimozione” nel contesto di un’analisi rivolta a comprendere i “meccanismi di difesa dell’Io”. Ma non viene qui certo chiaramente spiegato “in che cosa” questa minaccia precisamente consista, perché l’Io l’avverta come tale, e debba difendersene. Se non disponessi-
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mo che di questo testo, saremmo ridotti a inferirne una doppia “identificazione” dell’Io: da una parte, con le finalità riproduttive (da cui la pulsione, nella sua logica propria, lo distoglierebbe); dall’altra, altrettanto direttamente, con “la civiltà” – poiché a quanto pare c’è, anche qui, una “incompatibilità”. È soltanto al prezzo di questa identificazione, evidentemente troppo alto, che potremmo comprendere la necessità di una “difesa” – della rimozione. Ma naturalmente, non disponiamo solo di questo testo. In innumerevoli altri, possiamo trovare una “spiegazione” ben altrimenti plausibile e “cogente”: l’Io cerca di difendersi, attraverso la rimozione, dal dolore, dalla sensazione di dispiacere che “la pretesa” della pulsione, immediatamente, gli causa. C’è dunque in lui, parrebbe, qualcosa come un bisogno, un’ingiunzione, di proteggere il suo piacere – non-dolore. Ma che rapporto ha, questo piacere, con la “natura” e la costituzione dell’Io? O in altri termini: in che modo, perché, qualcosa come un “principio del piacere” (e la discriminazione “immediata”, piacere/dispiacere, che ne deriva) può valere come “principio direttivo” dell’Io? L’espressione “principio del piacere” compare per la prima volta in un altro piccolo scritto del 1911, Precisazioni sui due principi dell’accadere psichico, a conclusione del quale leggiamo: «ho dovuto accennare ad opinioni che avrei preferito per il momento tacere, e la cui giustificazione richiederà certo non poca fatica» (6, p. 460). Il tema di questo scritto è così definito da Freud: le «conseguenze psichiche dell’adattamento al principio di realtà» (ibidem). Il “punto di partenza” è dunque questo: la questione del piacere (e dispiacere) dell’Io sta in relazione “essenziale” con ciò che propriamente “costituisce” l’Io, che ne rappresenta la “ragion d’essere”: il principio di realtà. Ma questo principio, che impone il confronto costante col mondo “esterno”, materiale e
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“sociale”, è a sua volta “fondato” sulla sensibilità: esso consiste prima di tutto nel proteggersi dalle sensazioni dolorose, che da lì provengono. Ciò presuppone, appunto, un adattamento; le pulsioni, per definizione “indifferenti” alla realtà, che chiedono un soddisfacimento immediato, ecc., “disturbano” l’Io nella realizzazione del suo “compito”, in ciò che gli è più “proprio”. Si può dire allora che è per questo che l’Io avverte la pulsione come “dispiacere”? Ebbene, no, non si può. “Piacere dell’Io” e “adattamento alla realtà” non possono identificarsi: se questo stesso “adattamento” nasce, come bisogno o funzione dell’Io, da un “esserci” anteriore – dell’Io come sensibilità, come “rifiuto” del dolore. Freud è troppo materialista, troppo “epicureo” per sostenere senz’altro che una “coscienza di sé”, (e un “progetto di vita”) possano generarsi e “giustificarsi” come semplice comprensione della necessità – senza un riferimento diretto, vincolante, al piacere. L’Io è dunque “doppio”. “Principio del piacere” e “principio di realtà” devono “coesistere” – e coesistono di fatto, in quella che possiamo chiamare la “genesi” dell’Io: un processo di apprendimento, potremmo dire – l’Io si costituisce “imparando” che il vissuto degli affetti “dipende” dalle relazioni esterne, col mondo, con gli altri, per quello che realmente (cioè indipendentemente dalle sue “richieste”) sono. Ma questo apprendimento ha uno sviluppo ineguale, perfino “aleatorio”: nel nostro testo, Freud osserva che c’è un «ritardo» dell’«educazione della pulsione sessuale» rispetto all’apprendimento della «realtà»; e che proprio in questo ritardo si deve ravvisare una «parte essenziale della disposizione psichica alla nevrosi» (6, p. 457). Questo processo di «educazione» (nel quale è possibile vedere una sorta di corrispettivo della rimozione – ma con la differenza essenziale che esso è interamente “guidato” dalle “funzioni superiori” dell’Io) appare dunque come la condizione richiesta perché il principio del piacere, nell’Io, possa “integrarsi” con il principio di realtà (“negoziando”, per così dire, la propria subordinazio-
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ne). Potremmo citare per esempio dallo stesso testo: i «premi d’amore da parte dell’educatore» corrispondono allo scopo di «offrire un ausilio al processo evolutivo che riguarda l’Io» – e che consiste sempre nel «superare il principio di piacere, e […] sostituirlo col principio di realtà» (6, p. 458); “bilanciamento” assai delicato, perché c’è il rischio che l’“educando” si convinca di poter “contare” a priori sull’amore dell’educatore – in questo caso, il suo “vissuto” del piacere sarebbe come emancipato dal vincolo, dalla “prova” della realtà. In linea di principio, per così dire, è sempre possibile che quella parte dell’Io, che “è mossa” dal piacere (Freud parla di un «Io-piacere», in contrapposizione a un «Io-realtà») “riconosca” la superiorità del principio di realtà: in fondo, nella genesi stessa del sistema P-C, l’“accertamento” di un mondo esterno, e i vincoli che ne derivano, rimangono strettamente funzionali, strumentali, all’esigenza di “fuggire il dolore”. È l’aspetto più chiaramente “epicureo” di Freud: questa “superiorità” del principio di realtà potrebbe perfino essere considerata come l’equivalente del ruolo direttivo che Epicuro assegna, da un punto di vista “pragmatico”, alla phronêsis. È il primato della funzione “cosciente”, raziocinante, comparativa, giudicante dell’Io che Freud rivendica quando menziona la «superiorità dell’Io-realtà»; e cita a sua volta una replica di Uomo e superuomo, di Shaw: «scegliere la linea del massimo vantaggio anziché seguire la direzione della minima resistenza [cioè la lusinga del piacere “immediato” o “apparente”, che poi “non regge la prova”]» (ibidem, nota). “Solo” che qui la scelta non è più, come in Epicuro, tutta “interna” al criterio del piacere: la phronêsis non ha il suo “banco di prova” nella “realtà di fatto” del piacere concretamente “sentito”. Ma in questo processo educativo/evolutivo c’è un ostacolo – l’originaria “refrattarietà” della pulsione sessuale. L’Io-piacere non è soltanto potenzialmente in conflitto (e idealmente alla ricerca di un “compromesso”) con “la realtà” del mondo esterno. È anche in conflitto – originario, costitutivo – con un “interno”.
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Il modo di operare dell’Io nelle due direzioni (l’esterno e “l’interno”) non è, abbiamo visto, simmetrico: se un “sapere” del mondo può essere “epistemologicamente” subordinato alle sue “esigenze” (fuggire il dolore), il rapporto con l’energia libidica sfugge per definizione ai criteri del senso e dell’affetto. l’Io “non sa” se “dall’interno” gli viene piacere o dispiacere: il moto pulsionale, l’intensità dell’eccitamento sono per lui essenzialmente qualcosa di estraneo, enigmatico, rispetto alla propria strategia del piacere – e ai compiti “tattici”, che ne derivano, nell’inevitabile confronto con la realtà. Il paradosso si può formulare così: l’Io non è solamente “-realtà” (subordinazione-adattamento alla realtà esterna) – c’è anche un Io che “obbedisce a se stesso”, che tende a realizzare un proprio “impulso” (e lo chiamiamo – come altrimenti? – “piacere”); ma, rispetto a questo “impulso”, tendenze, bisogni che si generano al più profondo del corpo in cui esso stesso si forma, che ne è l’ultima e unica ragion d’essere – non solo non hanno alcuna collocazione, anzi operano in modo ostile, sono un principio di contrasto, di negazione. L’Io-piacere, potremmo dire, è “attaccato” su due fronti. Non solo “piacere” contro “realtà”, ma anche un piacere che “può sopportare”, che è “disposto ad affrontare” il “test” della realtà contro un altro “piacere” (e dovremo pur chiamarlo così, se è in questione il soddisfacimento di un bisogno) che è caratterizzato essenzialmente dalla totale indifferenza alla realtà (che poi vuol dire: all’Io stesso). L’ambiguità, la contraddizione nella nozione stessa di “piacere” sono evidentemente al cuore della “teoria delle pulsioni” di Freud; e si comprende tutta l’importanza della scelta terminologica – la distinzione tra libido e Lust. L’espressione “principio del piacere” viene usata, talvolta, per indicare l’“irrazionalità” dei moti pulsionali: fino ad identificarvi – per esempio, in questo stesso testo – «il punto debole della nostra organizzazione psichica» (6, p. 457). «La rimozione resta onnipotente […]; essa riesce a inibire rappresentazioni in statu nascendi prima che possano essere avvertite dalla
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coscienza se il loro investimento può dar luogo allo sprigionarsi di dispiacere» (ibidem). Freud ha spiegato altrove che la rimozione può anche essere successiva ad una prima “presa di coscienza”, che di per sé comporterebbe, da parte dell’Io, “la fatica” di un consapevole impegno di “trasformazione” dell’impulso – «sotto il dominio del principio di piacere» (ibidem). Ma questo non significa, lo ripetiamo, che un Io “normale” si identifica “spontaneamente” con la razionalità. Esso è anche, “costituzionalmente”, Io-piacere – “esprime”, sul terreno “imposto” dal principio di realtà, un’esigenza autonoma. Se così non fosse, non ci sarebbe un conflitto interno all’Io (il che vuol dire, tra l’altro, che non avremmo alcuna “visibilità” di questo conflitto; e alcuna prospettiva terapeutica di guarigione, quando il conflitto abbia dato luogo al sintomo nevrotico – nessuno, ovviamente, può “operare” sull’Es); ma semmai tra un Io “compatto”, sotto il segno del “razionale”, e i “segnali di dispiacere” che provengono dalle energie insoddisfatte dei moti corporei (a cui l’Io, vien fatto di dire, non avrebbe che da “rassegnarsi”, come ad un limite “esterno”). Se c’è “sprigionamento” del dispiacere nell’Io, se l’Io se ne difende, “irrazionalmente”, “chiudendo gli occhi” – questo vuol dire che esso “tiene”, ab origine, al proprio piacere almeno quanto alla propria “razionalità”. Il problema di fronte a cui Freud si trova si potrebbe riassumere così: le pulsioni (la pulsione) agiscono, nell’organismo, “senza riguardo” alla costituzione dell’Io, ai problemi che nascono dal bisogno in cui l’Io si trova, “dall’inizio”, di adattarsi alla realtà; ma questo bisogno, a sua volta, si trova nell’Io sotto la condizione di un “impulso”, di una natura originaria, specifica, rispetto a cui la “realtà esterna” è, “per natura”, indifferente o ostile. In questo senso, appartiene anch’esso al “campo” delle pulsioni: se la differenza con la “pulsione sessuale” si può ravvisare nel principio di una “adattabilità”, esso opera tuttavia nei processi psichici dell’Io analogamente come un “assoluto” o irrelato. La formula del “principio del piacere” vale, sul terreno
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dell’Io, a indicare una “differenza assoluta” rispetto al principio di realtà; ma, più in profondità, oltre i “confini” dell’Io, essa “si allarga” a comprendere tutto ciò che “si oppone” a questo secondo principio – perché indica la tendenza al soddisfacimento “immediato”. E tuttavia, l’Io-piacere, che “vuole” il soddisfacimento, non “rappresenta” in ciò la tendenza propria dei “moti pulsionali” – al loro proprio soddisfacimento; questa tendenza, al contrario, è per esso immediatamente fonte di dispiacere – agisce in senso contrario ai suoi propri bisogni. Bisogna, perché questa configurazione possa “reggersi”, introdurre una distinzione “di contenuto” tra le due “tendenze” (quella dell’Io e quella dell’Es) che condividono l’opposizione (l’estraneità) al principio di realtà; una distinzione che dia conto insieme della differenza “di grado” (quanto alla possibilità del “compromesso”, o dell’“educazione”) ma anche della “autosufficienza” rispettiva sui due livelli – per cui anche l’Io ha, come l’Es, una sua “vita pulsionale”, e le due tendenze possono, nonché identificarsi, ostacolarsi a vicenda, generando il “secondo fronte” del conflitto. Per dirla in altri termini, l’Io deve avere un suo proprio impulso dinamico, “pulsionale” – il che implica una “equivocità” del concetto di pulsione, che designa anche un “modo d’essere” proprio dell’Io (e dunque toto coelo distinto dalla “chimica organica” della sessualità). Si pone la questione, insomma, di che cosa è, o può essere, una specifica “pulsione dell’Io.” Se torniamo sul nostro testo del 1911, troviamo questa espressione (al plurale: «pulsioni dell’Io») in un uso molto generico, in cui sembra perfettamente integrata nella linea di sviluppo propria dell’Io – che culmina nel “dominio” del principio di realtà (e Freud insiste sulla dimensione temporale di questo sviluppo, con l’“effetto ritardante” della sessualità): «Il dissolversi del principio di piacere mediante il principio di realtà […] non si effettua in realtà in una volta sola e contemporaneamente su tutta la linea. Infatti, mentre tale sviluppo si compie per le pul-
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sioni dell’Io, le pulsioni sessuali si staccano da queste in modo considerevole» (6, p. 457). Siamo, come si vede, ancora (non è un “ancora” temporale) nel contesto della “superiorità” del principio di realtà, come “vocazione” dell’Io. Ma rimane che l’Io si trova “dotato” di una dinamica pulsionale propria, che in quanto tale è autonoma rispetto al principio di realtà (dovrà essere “educata” in funzione di questo) e insieme essenzialmente “diversa” da quella che opera a un livello “più profondo”: «le pulsioni sessuali si staccano» dalle pulsioni dell’Io – questo implica una distinzione “originaria”. A questo stadio dell’elaborazione di Freud disponiamo già di un nome, di uno specifico contenuto, per queste “pulsioni dell’Io”. Nell’altro scritto già citato dello stesso anno (I disturbi visivi psicogeni nell’interpretazione psicoanalitica), leggiamo: «D’importanza del tutto particolare per il nostro tentativo di spiegazione è l’innegabile contrasto esistente tra le pulsioni che si pongono al servizio della sessualità […], e le altre che hanno per meta l’autoconservazione dell’individuo» (6, p. 291; corsivo nostro); e vale forse la pena di notare la caratteristica “sproporzione” tra l’oggetto clinico, diretto, dell’interesse di Freud in questo scritto e lo “sfondo” teorico, che chiama puntualmente in causa la strutturazione generale dello “psichico”). Il conflitto tra Io-piacere e Io-realtà è concepito come costantemente “accompagnato”, o attraversato, da un “altro” conflitto (contrasto) – che è infrapulsionale: tra pulsioni, o “gruppi di pulsioni”, esattamente definite. L’ambiguità grammaticale (tra il singolare e il plurale) non è un problema per Freud – si giustifica con il carattere “ipotetico”, “parziale”, di questi aspetti della teoria. In ogni caso, la pulsione di autoconservazione è un’emergenza specifica, sul terreno dell’Io, di un’attività pulsionale che possiamo anche considerare come più “varia” – e per altri aspetti “indefinita”. Freud tende però ad assumere la “meta” dell’autoconservazione come tendenzialmente “esaustiva”, rispetto a questa
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“attività”: sia che essa stessa comprenda, in linea di principio, tutto ciò che rientra nei “moti pulsionali” dell’Io (per esempio nel capitolo Pulsioni e loro destini della Metapsicologia: «ho proposto di distinguere due gruppi di tali pulsioni originarie, quello delle pulsioni dell’Io, o di autoconservazione, e quello delle pulsioni sessuali»; 8, p. 20); oppure che, al contrario, la varietà delle sue possibili manifestazioni rimandi a una “radice” comune (la pulsione), esattamente definita (per esempio, nella “lezione” su L’angoscia, del primo ciclo di Introduzione alla psicoanalisi: «l’angoscia reale» – a differenza di quella «nevrotica» – «può essere considerata un’espressione della pulsione di autoconservazione»; 8, p. 546). Quando Freud si proporrà di illustrare, retrospettivamente, «il lento sviluppo della [sua] teoria della libido», formulerà il criterio di questa oscillazione (dall’osservazione clinica all’ipotesi teorica, e viceversa): l’analisi delle nevrosi di traslazione ci aveva costretti a stabilire un contrasto fra le “pulsioni sessuali” […] e altre pulsioni che conoscevamo solo in misura molto insufficiente, e che definimmo provvisoriamente “pulsioni dell’Io”. Tra queste ultime, com’è ovvio, una posizione di primo piano fu attribuita alle pulsioni che servono alla conservazione dell’individuo». (Al di là del principio del piacere, 9, p. 236)
Diciamo subito che nemmeno a questo stadio (“prima” cioè che intervengano, vedremo subito, sostanziali modificazioni: in Al di là… Freud parla al passato) disponiamo di una coerente e completa “teoria della pulsione”. Il “risultato” principale che abbiamo raggiunto consiste nel proporre il quadro di una scissione dell’Io che non sia facilmente “riassorbibile” nel principio di realtà: l’Io-piacere non è così facilmente “educabile”, se, mentre affronta il faticoso compito dell’adattamento, si ritrova costantemente esposto a un dispiacere “più profondo” – perché generato nel conflitto fra le sue proprie pulsioni e una pretesa di soddisfacimento che viene dal suo “sostrato corporeo” ma che non può riconoscere come “propria” – perché è ab origine
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indipendente da ogni contenuto rappresentativo, e quindi incapace di fornirgli un “criterio di condotta”. Sono i due “gruppi di pulsioni”, opponendosi, che “impediscono” all’Io di trovare un equilibrio fra i due principi che lo “governano”: “subordinandosi” al principio di realtà esso non riesce a “salvare” il suo proprio piacere, perché gli diventa tanto più “percettibile” l’intensità, lo stato di eccitamento provocato dal moto pulsionale interno, insoddisfatto – percettibile, ovviamente, come dispiacere. È l’asimmetria delle due relazioni dell’Io (con “l’esterno” e con “l’interno”) che determina il conflitto come potenzialmente insolubile. Il conflitto “infrapulsionale” nasce insieme con l’Io, ma non “entra”, in entrambe le sue componenti, nel processo di sviluppo “normale” dell’Io. È come se l’Io (l’Io-piacere) si trovasse a “giocare la sua partita” con la realtà indipendentemente dall’altra, in cui pure è originariamente impegnato, con la libido; senza che le sue “mosse” possano avere, su entrambi i “tavoli” lo stesso significato (mentre da una parte si sforza di “salvare il salvabile” del suo piacere, “obbedendo” alla realtà, questo piacere “salvato” è poi su un altro piano, su un altro “fronte”, di nuovo perduto). Che questo “schema” di una teoria delle pulsioni non sia soddisfacente, stabile, lo dimostra l’evoluzione successiva, e quasi immediata, del pensiero di Freud. Ma vale la pena di osservare, prima di arrivarci, che già a questa data un “principio del piacere”, in quanto indipendente e distinto dalla pulsione sessuale, aveva trovato altre, a prima vista inconciliabili, definizioni. Già nei Tre saggi Freud aveva dato la “formula” di un conflitto infrapulsionale – solo che l’aveva fatto senza implicarvi la specifica costituzione dell’Io. Alludiamo ovviamente al “principio di costanza” – che è una “struttura” originaria, attiva come principio dinamico pulsionale, che ha la caratteristica di opporsi alla “spinta” che deriva dal “flusso” dell’energia libidica. È l’azione di una “forza”, che si esercita in senso contrario rispetto alla libido, perché tende a diminuire, al limite “azzerare”, il “di-
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spendio” energetico. Il contrasto tra la libido e il principio di costanza esprime perfettamente l’impossibilità di ritrovare un “modello” della nozione di piacere al livello del corpo, di una fisiologia organica – e quindi l’ambivalenza, la contraddittorietà della nozione; ci mette di fronte, per così dire, a una scelta “impossibile” tra l’“ideale” di una completa assenza di stimoli e quello opposto dell’“eccitazione” in vista del soddisfacimento. In quanto il conflitto riguarda tendenze che sono entrambe “assolute”, indifferenti al (principio del) “reale”, “esterno”, dobbiamo senz’altro considerarlo, appunto, come infrapulsionale; ma in nessun caso (neppure quando, vedremo, tornerà ad usare questa espressione) Freud considera il principio di costanza come “equivalente” alla pulsione (di autoconservazione) dell’Io. La differenza è evidente: nel primo termine non può essere compreso ciò che invece è essenziale per il secondo – l’evoluzione, a partire dall’iniziale “autonomia”, in funzione del processo di “interiorizzazione” della realtà. Ciò che distingue radicalmente (al livello della “teoria”) le due “coppie” (pulsione dell’Io/pulsione sessuale, e principio di costanza/libido) è appunto che nella prima, e non nella seconda, il primo termine è definito in modo essenziale anche dal rapporto (conflittuale) a un “altro” non pulsionale (Io-realtà) – che questo rapporto costituisce una “unità” di cui esso è parte. Insomma (semplicemente): il principio di costanza non può valere come “pulsione dell’Io” perché, come la pulsione sessuale, è anteriore all’Io (cioè alla “coppia” Io-piacere/Io-realtà). È negli scritti del 1911, da cui abbiamo preso le mosse, che Freud abbozza la “doppia articolazione” del conflitto in cui l’Io si costituisce; e questo primo abbozzo gli pone problemi, difficoltà, che lo portano rapidamente a modificare (o ad “arricchire”) il quadro teorico. Se ci è sembrato utile menzionare uno “schema” anteriore (che, com’è tipico della teoria delle pulsioni di Freud, non è affatto destinato a “scomparire” attraverso i successivi sviluppi), è per segnalare una volta di più
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come su questo terreno l’inquietudine, l’instabilità, diciamo pure l’incertezza segnino profondamente il processo di elaborazione della dottrina. Il principio del piacere dev’essere “accolto” nell’Io, per poter “pensare” la scissione, il conflitto interno all’Io; ma esso rimanda inevitabilmente a un’altra regione dell’apparato psichico, che “ignora” l’Io, e con la quale quest’ultimo non può trovarsi “in contatto” che nel sentimento del dispiacere. È la necessità di dar conto di questa situazione che spinge Freud a suggerire ipotesi concettuali diverse, senza però concepirle come fra loro, successivamente, alternative, sostitutive. Ciascuna mantiene un valore “relativo”, via via che si elaborano nuove “integrazioni”; conserva una sua, parziale, “utilità” – ma non può risolvere, da sola, il problema. Questa inquietudine riflette tutta la distanza, la “tensione”, fra la psicoanalisi come “scienza descrittiva” – illustrazione sperimentale dei meccanismi della nevrosi, classificazione, verifica di ipotesi eziologiche, risultati terapeutici – e la costruzione su questa base di uno stabile apparato categoriale capace di riflettere per intero la struttura e la dinamica della psiche umana. C’è qui sicuramente una delle ragioni (certo la più “nobile”, ma “il peggio non è mai sicuro”) dell’intolleranza, spesso arcigna e brutale, di cui Freud diede prova come “scolarca”: le successive “eresie” e “deviazioni” gli apparivano (è del resto esplicito, nella polemica pubblica) per lo più come una prevaricazione dell’elemento “teorico”, generalizzante, rispetto al processo per definizione “aperto” della pratica, della clinica (in cui soltanto si producono risultati “incontrovertibili”); con il rischio di assorbire, pregiudicare, il lavoro dell’analisi in schemi concettuali troppo “frettolosi”, “prematuri”, unilaterali – una “filosofia” (sempre troppo “semplice”) della psiche. Che una simile “filosofia”, per Freud, non possa essere “semplice” lo dimostra, al punto in cui ci troviamo, l’invenzione di un nuovo concetto – che irrompe nello scritto del 1914 Introduzione al narcisismo. Crediamo di aver a sufficienza illustra-
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to la difficoltà in cui la distinzione tra “pulsione dell’Io” (o di autoconservazione) e la libido conduce, dal punto di vista del rapporto con il principio di realtà e quindi con l’unità interna, scissa, conflittuale, dell’Io: se l’elemento pulsionale che ostacola, “resiste” allo sviluppo “normale” (“unitario”) dell’Io è individuato essenzialmente nella libido, e se l’Io dispone “per suo conto” di una “spinta” pulsionale (e quindi di una “meta” di soddisfacimento/piacere) diversa (il cui “contenuto” – eventualmente: autoconservazione – è per definizione “conciliabile” con il principio di realtà), allora diventa difficile comprendere come una parte dell’Io il “piacere” che si oppone alla “realtà”. Bisogna, perché il conflitto e la scissione dispieghino tutti i loro effetti (e si arrivi all’esito “banale” della nevrosi) che l’Io “assuma” come propria l’istanza pulsionale che per definizione non è “conciliabile” – cioè, appunto, la libido. È questo il “passo” che Freud compie introducendo il concetto di libido narcisistica (o investimento narcisistico della libido). “Sullo sfondo”, c’è quello che si può a buon diritto considerare come un acquisto dell’analisi: il “tempo” della formazione dell’Io non è unilineare – in esso coesistono diverse linee di sviluppo, che corrispondono alla molteplicità dei rapporti, dei “contenuti”, che in questa formazione “confluiscono”. In quello che dobbiamo considerare, unitariamente, come “lo sviluppo” dell’Io ci sono ritardi, latenze, anticipazioni, sovrapposizioni – di cui ogni “Io” conserva una traccia indelebile. Dal momento in cui, potremmo dire, un mondo delle rappresentazioni, degli oggetti, “si forma” per l’Io (cioè dal momento in cui un Io “comincia” a formarsi), queste rappresentazioni e oggetti “ricevono” una specifica “qualità affettiva”, di piacere/dispiacere – che non è soltanto il portato dello stimolo “esterno”: una prima “coscienza” del mondo esterno non può non “collocare” in esso (trasformandoli in rappresentazioni) gli oggetti che, “al di qua” di ogni coscienza, erano già “serviti” (e dunque si trovano già “qualificati”) come “punto d’appoggio” dell’energia
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libidica – che erano già “investiti”. Il “destino” di (molte di) queste rappresentazioni, “via via” che si estende nell’Io il dominio del principio di realtà, è la rimozione. Ma sappiamo che non può trattarsi di un “atto” definitivo: la “censura”, la “sparizione” dell’oggetto (rappresentazione) non possono “azzerare” una volta per tutte il capitale libidico, “energetico”, che vi era “già stato” investito – e che appunto per ciò si ritrova adesso, nell’Io, allo stato “libero”, fluttuante, privo di oggetto. In quanto “luogo” della rappresentazione, l’Io “è costretto” a rappresentarsi anche l’oggetto “mancante” – la funzione della rimozione consiste appunto nel “rendere mancante” questo oggetto. Non a caso Freud ha insistito sul fatto che possiamo anche considerarla come successiva alla formazione di una “coscienza” – in realtà lo è “sempre”, potremmo dire, perché bisogna che un mondo di oggetti (rappresentazioni) sia già quanto meno “in formazione” perché nasca il bisogno di “cancellare”, in esso, qualcosa. È per questa via, attraverso la “percezione” di una mancanza, che l’Io si ritrova in contatto con la pulsione. Ciò che è “anteriore”, rispetto al processo di formazione dell’Io, non è però per questo stesso Io un “passato”: perché i suoi propri oggetti, rappresentazioni, conservano e anzi rafforzano attraverso il processo di rimozione, che gli appartiene “in proprio”, il carattere “affettivo” (“qualitativo”) che deriva(va) dall’investimento libidico. La rappresentazione (divenuta) inconscia “crea”, nell’Io, il sentimento della mancanza. La pulsione “era già” (questo per la “storia” dell’Io vuol dire: aveva “fatto in tempo”) legata a un oggetto – e l’oggetto fa parte dell’“universo di rappresentazione” dell’Io. Se ora l’Io lo “rifiuta”, è in questo stesso universo (comunque, per l’Io, affettivamente connotato) che si apre un “vuoto”. Per questo, nella sua ricerca del piacere, l’Io si trova ad essere anche il “rappresentante” della pulsione. Dovrà, “che lo voglia o no”, legare a nuovi oggetti, “mete”, ecc., quelle “componenti
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pulsionali” a cui ha cominciato col negare ogni possibile “meta” oggettuale – ma di cui, potremmo dire, proprio attraverso questa negazione è diventato “responsabile”. Poiché l’oggetto “era già lì” – e rimane connotato, nella rappresentazione negata o “tenuta in sospeso” (“passata” nell’inconscio) dal “valore” (di soddisfacimento pulsionale) che lo aveva “investito”. «L’Io ha dovuto riempirsi di libido – scriverà Freud ne L’Io e l’Es – divenendo così esso stesso rappresentante dell’Eros [a questa data, la possibilità di sovrapporre libido e Eros è un approdo recente], e ora vuole vivere ed essere amato» (9, p. 518). La storia avventurosa e complessa che comincia adesso (quella degli scambi e delle sostituzioni di oggetto, abbiamo visto, a cui la rimozione dà luogo) è propriamente la “storia” dell’Iopiacere (ed è lungo questa storia che si possono “misurare” il contrasto e l’accordo con il principio di realtà). L’Io si dà necessariamente il compito di “reinvestire” la libido; ma, per farlo, bisogna intanto che l’abbia fatta propria, che se ne sia, come dice Freud, “riempito”. Per questo è necessario che il primo re-investimento, che Freud chiama “narcisistico”, la prima sostituzione di “oggetto” consista appunto nello stabilire un legame tra la libido e l’Io stesso. Non avrebbe senso, tra l’altro, concepire diversi, possibili oggetti della libido come “equivalenti”, se lo “scambio” reciproco non potesse essere “mediato” (come nella “forma di equivalente” delle merci, il denaro) da un unico oggetto (che “serva”, almeno “formalmente”, da unità di misura). “Attirando su di sé” tutto il “potenziale” libidico, “proponendosi” (alla libido) come la “forma generale” del “valore” (investimento), l’Io può “disporre” di se stesso come di un “capitale” (libidico), disponibile per ogni ulteriore “acquisizione”. A questa funzione di “rappresentante” del capitale pulsionale l’Io è del resto, potremmo dire, “predisposto”: sul suo terreno (cioè per l’Io stesso; in questo senso Freud non avrà torto di mantenere il concetto di “pulsione dell’Io”) esso è già un “valore” – c’è un
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“importo affettivo” (piacere dell’Io) immediatamente “esigibile”, nell’autoriferimento. Naturalmente la pulsione “originaria”, come Freud la concepisce, “non sa che farsene” di questo “valore”. Ma essa è a sua volta “costretta”, per “aggirare” la rimozione, a “servirsi” dell’Io – come “stazione di transito”. Poiché, beninteso, questa originaria (dal punto di vista dell’Io) fissazione della libido (sull’Io) non può essere concepita (se vogliamo continuare a filare la metafora del valore-capitale) come un “tesaurizzazione”: questa ipotesi, qui come in ogni descrizione di tipo “economico”, annullerebbe ogni dinamica del “sistema”. Una “gestione” della libido che si arresti al momento della “fissazione originaria” definisce ancora un “narcisismo” – ma stavolta in un senso completamente diverso, quello della “perversione” (che si può comprendere come “disfunzione” dell’investimento). L’evoluzione “normale” (cioè “al netto” della perversione) è quella che Freud definisce per esempio, in questo passo dei Tre saggi (ma nel paragrafo aggiunto del 1914, che ha il titolo Teoria della libido): «La libido narcisistica o libido dell’Io ci appare come il grande serbatoio dal quale vengono inviati gli investimenti oggettuali, e nel quale essi di nuovo vengono ritirati [per essere sostituiti]» (4, p. 524). Se proviamo a “fare il punto” su questo nuovo schema concettuale (“nuovo” senza dubbio: “libido dell’Io” e “pulsione dell’Io” – diversa da quella “sessuale” – non sono certo la stessa cosa), potremmo dire che Freud ottiene prima di tutto di poter pensare in modo più “intrinseco” (si vorrebbe dire: “dialettico”) il conflitto tra il principio del piacere e il principio di realtà. “Al prezzo”, potremmo aggiungere, di attenuare la portata dell’“altro” conflitto – quello propriamente infra-pulsionale. Abbiamo visto che una possibile aporia, nello “schema” precedente, riguardava proprio la non chiara articolazione dei due conflitti: l’Io-piacere rischiava di essere troppo “schiacciato” sull’Io-realtà, e insieme totalmente “disarmato” di fronte a esigenze pulsionali “estranee” non solo rispetto a quest’ulti-
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mo (perché “provenienti” dell’Es), ma anche alle sue proprie “virtualità” di piacere. Dal punto di vista della comprensione di una effettiva dinamica pulsionale, nella “vicenda” dell’Io, si potrebbe persino dire che il passaggio per una specifica “pulsione dell’Io” poteva anche apparire come perfettamente inutile: se il contrasto, il conflitto che segnano “essenzialmente” questa dinamica dipendono pur sempre dall’azione “diretta” dalla pulsione sessuale. Ma se l’Io “si riempie” di Eros, come abbiamo letto, diventa “responsabile”, per così dire, di ciò che ha inizialmente “accolto” (così come di fronte alla “realtà”, che parimenti lo “costituisce”). Ricordiamo che questo “inizialmente” (analogamente del resto a quanto avviene nel rapporto percettivo-cosciente con l’esterno) vale solo se facciamo riferimento a un Io “compiuto”; esso ha ovviamente una “preistoria” – in particolare l’eutoerotismo infantile, in cui il proprio corpo (prima ancora di essere “proprio”, cioè di “rappresentarsi” come tale) è già oggetto “immediato” di investimento libidico. Ma se possiamo concepire l’Io, fin dai primi “gradi” del suo sviluppo, come il primo oggetto “derivato” di questo investimento, allora gli riconosciamo un “ruolo attivo” rispetto alla libido: l’“economia del piacere” che esso si trova a rappresentare di fronte a un altro e concorrente “regime di calcolo” fa parte, allo stesso titolo di questo, del suo proprio “essere” – concorre nella stessa misura alla determinazione del “fine”. Abbiamo usato adesso un linguaggio che non è certo propriamente “freudiano”. Ma questo non ci porta lontano, ci pare, da ciò che per Freud è essenziale. In particolare, la “forza” del conflitto tra principio del piacere e principio di realtà (conflitto che rimane, non bisogna dimenticarlo, via la rimozione, lo sfondo “obbligato” di una “teoria delle pulsioni”) non risulta affatto diminuita (semmai accresciuta), da questa presentazione della “libido dell’Io”. Per il semplice motivo che essa non può comunque “rimuovere” il “fatto” della rimozione. “Quando” la libido “diventa” libido dell’Io essa mantiene il carattere (per al-
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cune delle sue “componenti”) dell’“inibizione nella meta”: che vuol dire non soltanto la “sparizione” (il passaggio nell’inconscio) della “rappresentazione di oggetto” corrispondente, ma anche l’impossibilità (il blocco) di quella “scarica energetica” (attraverso “l’azione”) che “era” la pretesa originaria del moto pulsionale. Una volta intervenuta la “censura”, l’Io, che ha assunto la rappresentanza della libido, dovrà “gestire” questa funzione in un contesto “strategico” – nella serie dei differimenti, adattamenti, differenziazioni, che il rapporto con la realtà impone. Esso è prima di tutto, lo abbiamo già detto, il “rappresentante” di un’assenza, di un vuoto. E questo vuoto segnerà, indelebilmente, tutta la sua “storia” successiva. Ma questa storia, “generata” dalla separazione interna all’Io, diventa forse più “comprensibile” – e soprattutto più “aperta”, meno vincolata a uno schema “fisso”, di ripetizione. La duplicità dei compiti “propri” dell’Io (in quanto rappresentante insieme della libido e della realtà), per quanto contraddittoria, non è “paralizzante”: l’Io-piacere, per così dire, non è destinato a priori alla bancarotta – c’è per lui una “reale” possibilità di manovra, in vista di quel “risarcimento” che è il “fine” (in via di principio: inconscio) dei successivi “investimenti”. Per dirla di nuovo in termini non “strettamente” freudiani, il criterio della ricerca del piacere non è reso una volta per tutte inoperante dallo “spostamento” originario: può “valere” come un effettivo criterio-guida, per l’Io, in quanto non è ineluttabilmente condannato a un destino di frustrazione. Addirittura, per Freud, questo vale anche per i rapporti dell’Io con il “rimosso” (al netto degli apporti terapeutici dell’analisi): «se siamo sani e desti ricorriamo ad accorgimenti particolari per accogliere di tanto in tanto il rimosso nel nostro Io, aggirando la resistenza e traendone piacere» (Psicologia delle masse e analisi dell’Io, 9, p. 318). Ogni parola di questa frase, si può dire, andrebbe commentata (a cominciare dal suo tipico modo, assolutamente a-sistematico e ai limiti dell’incoerenza, di inserirsi nel contesto). E subito
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dopo, Freud richiama una delle due risorse o strumenti (manovre, “accorgimenti”) che hanno per lui “strutturalmente” questa funzione (di procurarci piacere attraverso “l’accoglimento del rimosso” e “l’aggiramento della resistenza”): l’umorismo e l’arte. Il principio del piacere (ben lungi dal doversi, come pure abbiamo letto, “dissolvere”) mantiene un ruolo, nel funzionamento “normale” dell’Io. Se non ci fosse, in questo funzionamento, nessuna “possibilità di recupero” (ai fini del piacere, della “neutralizzazione” del dispiacere) tutto ciò che è in origine “pulsionale”, e con cui l’Io rimane in contatto attraverso la rimozione, non potrebbe che condannarlo al destino della nevrosi. Sarà il caso di osservare (abbiamo letto: «se siamo sani»…) che qui è in gioco un elemento essenziale di definizione della coppia salute/ malattia psichica – la polarità su cui la pratica analitica “lavora”. La malattia è molto esattamente il fallimento di questa strategia di “recupero” – per cui l’Io-piacere di trasforma completamente in un Io-dispiacere: il rapporto dell’Io con la libido perde ogni “plasticità”, e si irrigidisce in un vissuto della mancanza (che cerca e trova “appoggio” nel sintomo nevrotico). E ancora, che in questo modo quella “coppia” (per definizione “astratta”, “limite”) viene abbastanza naturalmente ad articolarsi su una condizione di “normalità” intrinsecamente definita dalla compresenza di alternative, da un’alternanza e variabilità “quantitative” («di tanto in tanto», abbiamo letto, o “più o meno”). Forzando appena, si può dire che è nell’umorismo e nell’arte (che sono risorse non certo per principio “incompatibili” con il principio di realtà) che siamo, tutti, “veramente” normali. Ci troviamo, qui, in un punto di grande vicinanza alla psicologia e alla morale di Epicuro. Non toglie nulla a questa vicinanza il rilievo, senza dubbio esatto, che le “motivazioni” dell’Io-piacere, nella sua “partita” con l’Io-realtà, non potranno comunque essere soddisfatte che in una misura, direbbe Adorno, “modesta”. Nel conflitto tra i due “principi” che guidano la “condotta” dell’Io non potrà esserci, al meglio, che un “armistizio”, per
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così dire – essenzialmente precario, e più o meno “duraturo”. Ma se ammettiamo che il “contenuto” del piacere dell’Io abbia un effettivo valore di soddisfacimento pulsionale, anche in riferimento alla libido, allora il “compito” di quella parte dell’Io che è rivolta al piacere non dovrà per definizione “arrestarsi” di fronte a quella “fonte” costante di dispiacere che è costituita dalla “preistoria” della pulsione – quando il processo normale dello sviluppo dell’Io le abbia una volta per tutte “sbarrato l’accesso”, immediato, alla “realtà”. E tuttavia, come sappiamo, questa non è “l’ultima parola” della teoria delle pulsioni in Freud. Dobbiamo, per concludere su questo punto, ancora occuparci dell’ultimo “schema di conflitto” elaborato per comprendere “le origini” della scissione dell’Io, quello proposto, tematizzato, in Al di là del principio del piacere. In questo scritto (1920) possiamo dire che nasce una nuova coppia di concetti, per descrivere la “dinamica” dei processi pulsionali – quella notissima di “pulsione di vita” vs. “pulsione di morte”. Essa si sovrappone (come al solito, più che sostituirsi) alle “due” precedenti: pulsione sessuale/pulsione dell’Io e libido/libido dell’Io. Dal semplice confronto dei termini emerge già una prima constatazione: nell’ultima coppia la menzione dell’Io è “scomparsa”. Nel corso della sua esposizione, come sempre “divagante”, Freud si interroga a un certo punto sulla possibilità di identificare uno dei due termini (sarebbe allora la pulsione di morte) come “pulsione dell’Io”; ma poi lascia cadere la questione. In ogni caso, l’Io non può qui “agire” né come “rappresentante” della pulsione, né “a nome e per conto” di una pulsione che gli sarebbe “propria” (legata cioè al suo specifico costituirsi). La sua condizione, da questo punto di vista, consiste piuttosto in un “ereditare”, “serbar memoria” di un contrasto che gli è in tutto e per tutto “anteriore”. Non può non colpire, a una prima lettura, lo sforzo di Freud per descrivere in termini puramente e rigorosamente biologici questo contrasto: è un “doppio mo-
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vimento” potremmo dire, innervato da una doppia e opposta tendenza, che opera nell’organico, nelle cellule del corpo – da una parte l’accrescimento, la suddivisione, l’integrazione progressiva e riproduttiva della “materia vivente”, dall’altra ciò che tende a “sopprimere” il processo vitale, perché è “programmato” per la morte. Facciamo qualche esempio: «il processo vitale dell’individuo per ragioni interne tende a livellare le tensioni chimiche e cioè tende alla morte, mentre l’unione con la sostanza vivente di un individuo diverso accresce queste tensioni, introducendo per così dire nuove differenze vitali che devono essere soppresse dalla morte» (9, p. 241); oppure, nel contesto di una rapida discussione con ricerche recenti: «L’evidente analogia [il termine andrebbe forse sottolineato] fra la distinzione di soma e plasma germinale stabilita da Weissmann e la nostra separazione tra pulsioni di morte e pulsioni di vita rimane valida e riacquista tutto il suo valore» (9, pp. 234-235). Nella posterità della psicoanalisi, com’è noto, il concetto di “pulsione di morte” non ha trovato molte “applicazioni” – diciamo che per lo più non sembra particolarmente “utile”, nella pratica; già Freud, introducendolo, aveva anticipato un possibile “disagio”, da questo punto di vista – pur indicando la possibilità di avvalersene nel quadro clinico di particolari patologie. Ma è curioso che proprio questa, tra le diverse “speculazioni” di Freud (il termine ritorna puntualmente in Al di là…), si sia formata in un rapporto molto ravvicinato con la clinica: dato che il “punto di partenza” è lo studio di una particolare sindrome del comportamento, che va sotto il nome di “coazione a ripetere” (Wiederholungszwang). La pulsione di morte ne rappresenta in qualche modo il “modello organico”. In quanto “tendenza dell’Io”, essa comporta il rischio di un ritiro “definitivo” dell’investimento libidico sugli oggetti (Freud parla di un comportamento «narcisistico», nel senso della “perversione”, delle «cellule germinali»; 9, p. 235); e può essere responsabile dell’eccezionale resistenza che il lavoro analitico incontra, in
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certi casi, nel “recupero” del rimosso. Inoltre, si può osservare che attraverso questa ipotesi Freud perviene per la prima volta a rendere “credibile” una possibilità eziologica che lo ha sempre interessato – quella di una predisposizione costituzionale alla malattia psichica: il trionfo della pulsione di morte, come tendenza alla “dissoluzione” dell’Io, corrisponderebbe al prevalere, nella vita biologica, dei «processi [che] tendono alla morte» (9, p. 234) su quelli opposti (le precedenti formulazioni del dualismo non sembrano atte a fondare questa possibilità). Ma il radicamento del nuovo concetto nell’evoluzione anteriore della teoria è soprattutto evidente in rapporto al “principio di costanza” (che ora Freud propone di ribattezzare: “principio del nirvana”). È da questo rapporto che deriva la suggestione cui abbiamo fatto cenno (Freud vi indugia a lungo, anche se poi la “lascia in sospeso”), di assimilare la pulsione di morte ad una “pulsione dell’Io”: l’Io avvertirebbe come dispiacere (ci torneremo fra un momento) l’impulso libidico perché il suo proprio “criterio” del piacere è la cessazione, l’assenza dello stimolo (anche il suo rapporto con “l’esterno” si può caratterizzare, nella sua motivazione “edonistica”, come una “fuga” o un “rifiuto”). Un “paradigma” del piacere assolutamente inconciliabile con quello dell’eccitazione/soddisfacimento. Ripetiamo che è essenziale, per Freud, che i processi di alterazione dell’Io non siano semplicemente “subiti” – come l’effetto di una causa esterna. All’origine di tutti i conflitti e di tutte le “soluzioni” bisogna ricercare (si pensi anche all’“opportunismo” della nevrosi) una dinamica “pulsionale” (cioè, con tutta l’ambiguità e la contraddittorietà della nozione: una richiesta di piacere). È il lato più manifestamente “epicureo” del suo pensiero: la “spontaneità” (motivazione “interna”) dell’Io – ma dovremmo dire, in questo caso, dell’individuo – si fonda sulla percezione immediata di piacere/dispiacere. Ciò vale anche di fronte all’esito “estremo” dell’autodistruzione: dev’essere “soddisfatta”, in questo caso, una “nostalgia” dell’inorganico,
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un’“anticipazione” del destino di morte – “programma” o fine a cui è “spontaneamente” rivolta, “dall’inizio”, almeno “una parte” del nostro essere. È solo passando attraverso la pulsione di morte che Freud può accettare di “rinominare” la libido come “pulsione di vita”. Può sembrare che egli così accolga una proposta di Jung – quella appunto di “liberalizzare” la nozione di libido comprendendovi, oltre alla pulsione sessuale, tutto l’insieme delle energie o impulsi vitali, “affermativi”, rivolti all’esterno. E Freud in effetti accetta un’interpretazione più “ampia”, invocando in vari luoghi (ne abbiamo visto un esempio) l’insieme dei significati di Eros. Ma il rifiuto della “deviazione” junghiana rimane fermo – e insiste in particolare (anche qui, in Al di là…) su due punti. Il primo è che non bisogna “perdere il contatto” con la rappresentazione “popolare” di “fame e amore” – più seriamente, con i risultati del lavoro analitico: che mostra all’origine, come matrice o motore, di tutta la vicenda della vita psichica non certo un generico “impulso vitale”, ma precisamente la sessualità (in particolare, si può aggiungere, quella che è forse la più veramente decisiva “scoperta” di Freud, la sessualità infantile); del resto, gli investimenti più “nobili” o “elevati” dell’“amore” sono del tutto coerenti con la definizione iniziale della libido – si possono “spiegare” coerentemente a partire da questa definizione. Il secondo, probabilmente ancora più importante, è che non è possibile unificare “sotto la stessa insegna” tutto ciò che nell’uomo è pulsionale – nel senso dell’impulso dinamico, del bisogno/richiesta di soddisfacimento; con ciò andrebbe perduto (o diventerebbe un che di derivato) il senso stesso del conflitto, delle opposizioni che lo costituiscono. Su questo Freud è nettissimo: possiamo certo vedere nella libido una potenza di vita, la forza di Eros, ma solo a patto di vedere, di metterle accanto, allo stesso “livello” e con lo stesso potere, anche la “forza” contrapposta, quella di Thanatos. La divisione, la separazione in logiche e principi opposti e inconciliabili è il tratto distintivo, originario, essenziale della psiche umana.
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L’“irrealtà” del piacere Abbiamo cercato si seguire il percorso di Freud all’interno di una “teoria della libido”, perché è qui che bisogna cercare prima di tutto qualcosa come un “modello generale” per il funzionamento dell’apparato psichico, per una descrizione della “struttura” dell’affettività che lega l’individuo al suo essere materiale (corporeo), e insieme lo proietta in una vicenda esistenziale che mette a prova e trasforma questo legame. Che l’ambizione di delineare un simile modello sia presente in Freud non par dubbio; ed è su questa base che è possibile (si impone) il confronto con altre “filosofie della soggettività” – che siano materialisticamente fondate. Per noi, specificamente, con Epicuro. L’opera di Freud contiene anche un “discorso sulla natura umana” – sulle possibilità e i limiti della coscienza, sul “progetto” dell’esistenza, sul significato di una possibile “autonomia” del soggetto. Ma la ricostruzione di questo “discorso” è un lavoro di “traduzione” – di “astrazione” e semplificazione: perché i temi che più direttamente rimandano a questo orizzonte “filosofico” (teoria delle pulsioni, definizione di un Io-piacere, ragioni e forme dei conflitti infra-psichici) si trovano costantemente intrecciati, emergono come in filigrana dentro lo spessore di un’analisi direttamente rivolta ad altri “oggetti”, del tutto estranei all’ambito tradizionale della filosofia morale – che si tratti della sessualità infantile o del meccanismo della rimozione, della traslazione o del transfert (e del quadro generale, a cui tutto è subordinato, di una nosografia delle nevrosi). Discutere e valutare da un punto di vista epicureo la “portata filosofica” delle teorie di Freud significa dunque riassumere e ri-costituire; e possiamo forse adesso provare a trarre un primo bilancio, in ordine al tema che abbiamo seguito fin qui, quello della pulsione e del piacere/dispiacere – ce n’è poi un secondo, che ci impegnerà, in conclusione, molto più brevemente. In Epicuro, abbiamo visto, è assolutamente centrale il tema della “gestione” dei (del) desideri(o). Il desiderio, come il “mo-
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to pulsionale”, è un “impulso” che l’individuo “si trova dentro”, e che lo “spinge” verso qualcosa; e che non può essere, in Epicuro come in Freud, semplicemente “accolto”, “seguito”. In GV, 21 Epicuro ha parlato del rapporto di “persuasione” che l’individuo (deve) instaura(re) con la sua propria “natura” (desiderante). È possibile non solo “selezionare” i desideri (avvalendosi, direbbe Freud, delle “funzioni superiori” dell’Io), ma farlo in accordo con la natura – perché i desideri riconosciuti come “vuoti” (o potenzialmente “dannosi”) producono direttamente quelle sensazioni di dolore da cui la natura “fugge”. Questo stesso tema (“governo” o controllo dei desideri/pulsioni) in Freud si esprime con una metafora estremamente precisa (p. es., 11, p. 518), “l’imbrigliamento” della pulsione: quella che viene in primo piano è l’immagine del “freno”, della forza coercitiva – non è possibile “discutere” con il cavallo, che “per natura” non sopporta la sella e il cavaliere. Sappiamo perché Epicuro ritiene sempre possibile, in via di principio, l’“accordo” tra l’Io e “la pulsione”: il suo modello organico (il “buon funzionamento” del corpo) è la costante riproduzione di uno stato di assenza-di-dolore/piacere (e in generale, il funzionamento del corpo, “all’interno” e “all’esterno”, produce l’alternanza “regolare”, costante, di piacere e dolore). L’individuo, in qualsiasi “grado” del suo sviluppo psichico, rimane legato, collegato alla “percezione” di questo stato – che forma per lui il contenuto “obbligato”, “originario”, “certo” (come in Leopardi) del suo “sentimento” di piacere. Ciò che “si agita” nella “profondità” del suo corpo, gli esiti successivi (sempre “vincolati” a quella alternanza) dei suoi diversi “moti”, rimane il primo “criterio” del desiderio. Ma per Freud, come abbiamo visto, il piacere non “consiste” nel soddisfacimento dell’impulso (pulsione). Il “chimismo” della sessualità (a differenza del “meccanismo” degli atomi, nell’organismo vivente) non è in alcun modo “vincolato” a uno stato di equilibrio (che si riflette nella sensazione; e che po-
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trebbe invece valere come “modello”, anche se Freud sembra ignorarlo, per la “fame”). Certo, questo riferimento all’equilibrio non è, per Epicuro, l’unica interpretazione della nozione di piacere (ne è solo la più “completa”); ma non si tratta certo di contrapporre un’accezione più “statica” a un’altra, “dinamica”. In Freud, abbiamo visto, già la separazione “terminologica” di libido da Lust (ricordiamo che “principio del piacere” è Lustprinzip) “rompe i ponti” tra l’affettività (che è rigorosamente circoscritta nell’ambito dell’Io; Freud lo ribadisce ancora in una nota aggiunta nel 1925 a Al di là…, definendolo come un «punto essenziale»; 9, p. 197) e le logiche, le pretese, gli “scopi” della pulsione, al livello “organico”. Da questo punto di vista, si può certo dire che è gravida di conseguenze la scelta di indicare come “base materiale” per la strutturazione dell’affettività (per la “rappresentanza psichica”) ciò che avviene, nel corpo, nella “sfera” della sessualità; solo che non è propriamente una “scelta” – se si considera il “punto di partenza” di Freud, il suo proprio, costante, “oggetto”. Quando Freud risale agli anni della sua formazione di medico, si diverte a riferire certe battute dei “luminari” della psichiatria dell’epoca (7, p. 387) da cui risulta chiaramente come il ruolo essenziale della sessualità nell’eziologia delle nevrosi fosse già allora un “segreto” (certo scandaloso, “vergognoso”) “di Pulcinella”. Del resto, se trasferiamo la problematica del piacere nell’ambito della relazione con l’esterno, secondo l’aspetto “cinetico”, ritroviamo un’analoga “inconfrontabilità”. Il criterio di questa relazione, nell’Io freudiano, è perfettamente “epicureo” – gli stimoli vengono “selezionati” in funzione dell’assenza di dolore; ma questa “assenza di dolore” corrisponde – come “situazione” ideale, “scopo” dell’Io – a un’“assenza di stimolo”. Il mondo esterno, l’ambiente, è dapprima, essenzialmente, per l’Io una minaccia – come fonte di stimoli “dolorosi”; se le due relazioni (“esterno” e “interno”) sono “asimmetriche”, è soltanto perché da questi ultimi (e non dallo stimolo “endogeno”) è
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possibile, in teoria, “fuggire”. In nessuna delle due direzioni, possiamo dire, l’Io “scopre” e “sceglie” i contenuti (prima di tutto: della sensazione) che corrispondono a, si integrano in, una “coerente” ricerca del piacere (il contrasto è formale: in Epicuro, sappiamo, il piacere della sensazione coincide con il semplice “esercizio”, quando non sia doloroso, degli organi di senso). Ma questa situazione è paradossale – l’Io deve tuttavia cercare, perseguire il piacere. L’“intrinsecità” del principio del piacere rispetto all’Io è tale che per esempio i curatori dell’edizione italiana di Freud si sentono in obbligo di far notare che “non si capisce”, in base ai testi, se vi sia una “anteriorità”, e in quale verso, tra Io-piacere e Io-realtà (8, p. 30, nota 1). E non si tratta, beninteso, di un “effetto di superficie”, di una “illusione” dell’Io – anzi, potremmo dire di qualcosa di “sostanziale”: il piacere dell’Io, il piacere per l’Io, dev’essere ben “reale” – e in via di principio definibile. Per questo – per non appiattire, per così dire, l’Io sul “principio di realtà – Freud non rinuncia a pensare in termini di “pulsione dell’Io”. Ma abbiamo visto che il tentativo più rigoroso di “definire” questa pulsione, conservandole il carattere essenziale dell’“autonomia” rispetto al principio di realtà, indipendentemente dalla “funzione di rappresentanza” della libido che l’Io si trova ad assumere via l’investimento narcisistico, rischia di produrre un “principio di costanza” – che poi si trasforma nel “principio del nirvana”: prefigurando un esito di distruzione dell’Io. Fino alla fine, possiamo dire, Freud si affatica intorno al problema che abbiamo considerato cruciale, per una “teoria delle pulsioni”: perché la pulsione “originaria”, la libido, agisce necessariamente sull’Io come causa di dispiacere. In Al di là… si trova ancora come l’abbozzo di una ulteriore ipotesi: lo stesso dualismo morte/vita, non che costituire il livello “ultimo” della
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dinamica pulsionale, andrebbe considerato come un che di derivato, a partire da una più grande, originaria, unità. Ci sarebbe cioè un “complesso” di pulsioni che «costitui[scono] insieme la grande unità dell’Io» (9, p. 196) – e il dispiacere, per questo Io “pulsionale”, nascerebbe dal “distacco” di una parte di queste, che operando separatamente diventano un ostacolo rispetto al “progetto” originario, all’integrazione dell’“insieme” (delle pulsioni). Per questo il contrasto con, la prevalenza/sopraffazione del principio di realtà, non è l’unica fonte del dispiacere («la sostituzione del principio del piacere con il principio di realtà può essere considerata responsabile solo di una piccola parte delle esperienze spiacevoli»; ibidem). In un piccolo testo dell’anno prima (una prefazione a Reik) c’è una formulazione un po’ più “chiara” di questa “teoria del distacco” (di “una parte” dall’“insieme” delle pulsioni – considerato come “contenuto” dell’Io-piacere): «ciò è accaduto perché questi moti pulsionali non sono riusciti a inserirsi nell’unità organica dell’individuo, oppure perché si sono ribellati alle sue finalità di incivilimento» (9, p. 124). Il secondo membro della subordinata ritorna alla contrapposizione con “la realtà”; ma lo fa, come quasi sempre in queste discussioni, con l’affiorare di un tema specifico, la finalità di incivilimento, che richiede per necessità di esposizione una trattazione separata – ci stiamo per arrivare. Ma è facile vedere come questo “insieme pulsionale”, in quanto «unità organica dell’individuo», finisca col rassomigliare, nei termini dell’opposizione vita/morte, a questo secondo termine, interpretato come costanza-nirvana. Il carattere comune, unitario, delle “pulsioni originarie” sarà sempre da individuare nella tendenza conservativa – quella volta a ridurre l’eccitamento, a ripristinare uno stato di cose “anteriore”, il cui paradigma clinico è proprio la coazione a ripetere, così strettamente collegata al principio di costanza e alla pulsione di morte (cfr. 9, p. 241). Il distacco delle «pulsioni parziali» dall’“insieme”, non può essere concepito che come un «dirigersi verso la morte» secon-
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do una via “particolare”, non assimilabile al semplice «ritorno all’inorganico» come «scopo della […] vita» – per un organismo vivente “in generale” (9, p. 225); ma Freud “scarta” questa possibilità – che rimane comunque (non meno di quella presa in considerazione subito dopo, che le «pulsioni sessuali» tendano ad «assicura[re] la durata della vita per un tempo relativamente lungo»; 9, p. 226) “inservibile”, se l’effetto di questa “rottura” (dell’«unità organica») dev’essere ancora pensato come “dispiacere” (e quindi messo in qualche modo in relazione con un “piacere dell’Io”). Alla fine, secondo questa “linea” di speculazione, “dispiacere” non è che la vita stessa; e a questo punto, tutti i percorsi specifici di analisi (eziologia) della nevrosi diventano perfettamente “indifferenti” (e la “guarigione”, inutile). Nei Tre saggi avevamo letto che la libido può «soltanto provocare sensazioni di dispiacere», «vista la direzione dello sviluppo individuale» (cfr. 4, p. 489); e qui il dispiacere rimane in relazione con il crescente dominio del principio di realtà, che è il senso di questo «sviluppo individuale» (Freud non parla ancora della «grande unità», pulsionale, «dell’Io»). Ma abbiamo anche letto che, a prescindere dalla direzione dello sviluppo, «l’eccitazione sessuale» ha «necessariamente il carattere del dispiacere» – e insieme «viene senza dubbio sentita come piacevole» (cfr. supra, pp. 219-220). Possiamo concludere, su questo punto, che il punto focale, o piuttosto il punto cieco, del “confronto” fra Freud e Epicuro sta proprio qui: nella ambiguità, contraddittorietà (ma sarebbe più giusto dire: umbratilità) della nozione freudiana di “piacere” (la cui ragione più “strettamente” teorica sta nella difficoltà di derivarla, come nell’accezione comune, su basi sensualistiche). L’Io-piacere, potremmo dire, c’è, ed è decisivo, “anche” per Freud; ma, in Freud, è “vuoto”. Questo però non vuol dire che una simile “incomunicabilità” si estenda anche sul terreno della “descrizione” psicologica, della ricostruzione ravvicinata dei “processi” affettivi (che è quello che “interessa di più” Freud; una situazione analoga ci
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si darà a vedere anche sul “secondo” terreno di confronto). In particolare, Freud “sa benissimo” che, per così dire, il piacere è “possibile”. Talvolta evoca la condizione “beata” del bambino che si addormenta al seno dopo la “scarica” simultanea delle “due” pulsioni fondamentali – è il suo “paradigma della culla”. E nel corso dell’infanzia, le vie del soddisfacimento sessuale rimangono ovviamente “aperte”. Ma siamo qui propriamente nell’ambito di una pre- o proto-storia dell’Io. Più volte Freud richiama quello specifico e importante “fattore patogeno” che consiste nella pratica, tipica della “civiltà” umana, di mantenere in una prolungata passività, rispetto alle cure che gli vengono prodigate, il bambino. Per lui, come per Epicuro, lo “sviluppo” individuale impone una “riorganizzazione” del rapporto al piacere; ma questo avviene “in ritardo” – un’esperienza già consolidata (della sessualità), estranea al “vaglio critico” della coscienza (e con la complicità del “periodo di latenza”), si dà a vedere “di colpo” come caduca, non più “sostenibile”. Ciò non può che rafforzare l’effetto traumatico della rimozione. Il lavoro di “rielaborazione” della libido, in cui consiste per un Io “sviluppato” la possibilità di salvaguardare il principio del piacere, comincia con il tutto/nulla dell’inibizione, della perdita. D’ora in poi, ogni “investimento di oggetto” dovrà confrontarsi non solo con il vaglio difficile, complesso, della “realtà”, ma anche con quella istanza di paragone, memoria della mancanza, che la rimozione ha istituito nell’inconscio. Tutta la vicenda delle successive “sostituzioni”, sublimazioni, ecc. non è soltanto problematica “dal lato dell’oggetto”, per così dire, ma nel suo “valore soggettivo” incerta, confusa, approssimativa. Ci viene incontro un personaggio che già conosciamo, “l’insoddisfatto” di Epicuro-Lucrezio – che una irrimediabile opacità separa dal “contenuto” del suo desiderio. E concludiamo, sul filo di questo avvicinamento, con un’ultima importante avvertenza. Sarebbe un grave errore ricondurre il lato dell’opposizione, nel rapporto tra Epicuro e Freud, a una
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questione di ottimismo/pessimismo – nel senso che il primo affronterebbe il tema della possibile felicità umana in termini meno problematici, più “fiduciosi”. Freud ha scritto, in Al di là…, che «un’egemonia del principio del piacere sul flusso dei processi psichici» non può essere empiricamente rilevata, se con ciò si intende che «la stragrande maggioranza dei nostri processi psichici [sia] accompagnata dal piacere, o port[i] al piacere, mentre l’universale esperienza si oppone energicamente a questa conclusione» (9, p. 195). Ebbene, questa frase può essere sottoscritta, alla lettera, da ogni “epicureo” – per ragioni che dovrebbero già esser chiare, ma che avremo modo di approfondire nel prossimo capitolo.
Un fine: la civiltà Veniamo al secondo tema, che potremmo anticipatamente riassumere così: l’impossibilità di definire un “modello” di vita felice sulla base della naturale inclinazione al piacere non viene solo, in Freud, “dal basso” – cioè, semplificando, dal “versante” dei rapporti dell’Io con l’Es; gioca un ruolo essenziale anche l’“altro” versante, il modo come Freud pensa i rapporti “esterni” dell’Io, relativamente al “mondo umano” in cui è “inserito”. Si sarà notato che non abbiamo, fin qui, nemmeno menzionato la terza istanza della seconda topica, il super-Io. Ma, al nostro livello di “generalità”, possiamo senz’altro identificare questa “istanza” dell’apparato psichico (Freud usa spesso come definizione almeno in parte equivalente “ideale dell’Io”) con l’insieme dei rapporti che l’Io intrattiene con il “mondo esterno” – per quel “sottoinsieme” di questo in cui si trovano, agiscono, le norme e i valori, e una gerarchia di “autorità”. Il super-Io, scrive Freud, «fa proprie, traendole dagli influssi dell’ambiente, le richieste che quest’ultimo pone all’Io»; «la
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scissione di questa istanza [cioè appunto il suo costituirsi in istanza specifica, separata] diventa palese rivelando tra l’altro la propria provenienza dagli influssi delle autorità» (Psicologia delle masse e analisi dell’Io, 9, p. 298). C’è sull’Io (nell’Io) la costante pressione del “mondo” come modello di organizzazione della vita pratica, gerarchia normativa e ideale; questa pressione si “inscrive” nell’apparato psichico, a partire dai rapporti di subordinazione-imitazione che strutturano il primo nucleo di “socializzazione”, la famiglia – incentrandosi nella figura del padre. Questa “mondanità” (in senso storico-sociale) dell’Io non è “sistematicamente” teorizzata da Freud (nel senso in cui qualcosa di simile si può dire, abbiamo visto, per il tema della “pulsione”); più che agli scritti in cui emergono elementi di trattazione specifica (in particolare quello da cui abbiamo tratto l’ultima citazione) bisogna volgersi, per vederla concretamente “emergere”, a quella particolare sezione dell’opera di Freud che consiste nel racconto e nell’elaborazione dei “casi clinici”. Ciò è del resto perfettamente “naturale” – la storia di una nevrosi non può essere ricostruita se non nel contesto della “vita intera” del paziente. È dunque qui, in queste singole “storie”, che ci troviamo più direttamente confrontati con la “realtà mondana” – con gli ambienti e i fini, i sistemi di regole e di istituzioni, le condizioni pratiche e i rapporti di potere che “indirizzano”, selezionano e “valorizzano” i processi psichici. Si tratta, appunto, della “civiltà” – l’“istanza” a cui, abbiamo visto, Freud continuamente rimanda, nelle sue complesse spiegazioni intorno alla “necessità” della rimozione (e al “dispiacere” che proviene dalla libido). Soffermiamoci per un momento su quello che è forse il più “bello” di questi casi (per chiarezza e vigore della presentazione; a parte la straordinaria qualità letteraria del delirio del presidente Schreber, che è del resto in tutto merito del paziente): quello del “piccolo Hans”. La storia narrata si può riassumere facilmente. Hans “ama” sua madre: è il primo oggetto di investimento libidico (“totale”, la
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“fonte” di tutto il suo piacere – nutritivo, tattile, meccanicomotorio; Freud insiste, in più luoghi, sul potenziale erogeno dei movimenti regolari del corpo, della loro “ritmica”). Vuole dunque che la mamma sia “continuamente” a sua disposizione – in particolare, vuole “dormire” con lei. Ma la norma vuole che non lui, bensì suo padre “dorma” con la mamma (traendone, è da credere, piacere). Verso i tre anni, come ogni bambino, Hans comincia ad essere molto curioso del suo apparato genitale (curiosità che si estende a quello degli “altri”, umani e animali – somiglianze, differenze, funzioni). La sua “esplorazione” della questione, ovviamente anche “tattile”, gli attira la solita “minaccia” di evirazione. Il confronto con il padre, rivale nella fruizione del corpo materno, genera sentimenti di frustrazione e di ostilità (sullo sfondo della punizione incombente). Intanto nasce una sorellina – Hans è ovviamente geloso. Poi ci sono i giochi con le bambine, nelle villeggiature di campagna, ecc. Gli elementi del racconto sono per noi, in tutto, quasi noiosamente “banali” – dobbiamo “fare uno sforzo” per apprezzare davvero l’impatto enorme che un simile “quadro” della normalità infantile doveva avere all’inizio del secolo scorso. Ma la cosa importante è che il bambino si ammala: sviluppa un preciso, grave sintomo nevrotico – una fobia, la fobia dei cavalli. Nel lavoro analitico, emerge tutta una serie di associazioni, di rapporti, al livello della “rappresentazione”, che selezionano proprio quel contenuto ideativo – “i cavalli fanno paura” – offrendolo allo “sfogo” nevrotico. Nella concreta, singolare vicenda del piccolo Hans si “salda” una catena associativa fatta di avvenimenti, cose viste, parole ascoltate, “segni” – sfruttando il “potenziale” che il codice sociale della lingua (e delle immagini) “deposita” nel significante. Hans “trasporta” lungo questa catena l’effetto doloroso, insopportabile, del suo complesso affettivo – ed elabora così uno scenario in cui sono le “cose”, agenti esterni, che producono, “spiegano”, il suo “turbamento”. Ma noi sappiamo di che cosa questo turbamento è fatto –
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che cosa il cavallo spaventoso “significa”: la colpa della propria interiore ribellione alla legge, la paura della punizione, l’odio e l’amore, in lotta fra loro, per il padre. La guarigione del piccolo Hans è, nel racconto di Freud, estremamente “semplice”. Per tutto il “trattamento”, è stato il padre, un ex-paziente di Freud, che ha “tenuto il posto” dell’analista (consultandosi con Freud). Perché Hans guarisca della sua fobia, “è sufficiente” che il padre-analista “dia un nome” al sentimento che il bambino nutre per lui: una parte di odio, di ostilità, non può non entrare in questo sentimento – Hans ne ha “tutte le ragioni”, anche se non è possibile cambiare lo “stato delle cose”. Parlandogliene, il padre “mostra” a Hans che per lui “non c’è niente di male” in questo – Hans “vede” che non sarà punito, che per il padre non è diventato un bambino “cattivo”, che l’amore e le cure paterne non gli saranno ritirate. Da questo momento, Hans non avrà più paura dei cavalli (bisogna pensare, ovviamente, a quello che può essere oggi una fobia delle automobili – il bambino non poteva più uscire di casa). E Freud insiste sul carattere “definitivo” di questa guarigione: gli capita di reincontrare Hans (lo aveva visto un paio di volte, durante la cura) anni dopo, giovanotto; nel frattempo, poco dopo i fatti narrati, i suoi genitori hanno divorziato, e si sono entrambi risposati. Ma Hans aveva attraversato la prova senza ricadere nella nevrosi – i fantasmi della colpa e dell’abbandono non lo avevano ripreso. Se ne inferisce, approssimativamente, che il processo di “razionalizzazione”, che ha giocato un ruolo decisivo nella terapia, ha rafforzato le “funzioni superiori” dell’Io di Hans, mettendole in grado di elaborare senza gravi danni anche gli eventi “traumatici” successivi. La storia del piccolo Hans, come negli altri “casi clinici”, si svolge tutta sul piano di quella che abbiamo chiamato “un’esistenza mondana” – in cui i fattori del conflitto, gli impulsi affettivi, ecc. sono tutti chiaramente riconducibili al ruolo e alla norma, alla pratica, “sociale”. Tutti tranne uno, ovviamente, l’impulso “ero-
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tico” del bambino verso la madre – che è al tutto “naturale”. Ma senza le regole, le abitudini, i principi di educazione, la distribuzione dei ruoli che sono propri dell’organizzazione famigliare (in questo caso: della famiglia alto-borghese, Vienna 1900) il conflitto sarebbe propriamente “indescrivibile”, incomprensibile (e irrisolvibile). Persino il “moto pulsionale” che Hans ricava dal suo proprio organismo non può considerarsi “significativo” nello sviluppo della nevrosi, facciamo notare, che in quanto impulso erotico rivolto verso la madre – cioè non (solo) una prima fonte “corporea” del soddisfacimento, ma (anche) un possesso del padre, un’istanza castratrice (in base a una funzione educativa), una possibile delatrice (presso il custode della “legge”) dei comportamenti “illeciti”, ecc. Tutta la malattia e la guarigione del piccolo Hans si possono perfettamente “raccontare” (e così è infatti) senza ricorrere in nessun momento ai contenuti specifici di una “teoria delle pulsioni”. L’“esame di realtà” a cui il padre-analista riesce a “indurre” il bambino (che contiene un esplicito “recupero” del rimosso) “funziona”, nella prospettiva della guarigione, perché offre al paziente un “vantaggio”: Hans riesce a educare, a “limitare” il suo desiderio (dissolverlo, direbbe Epicuro; quel desiderio che era costretto ad esprimersi nevroticamente, per sfuggire, interiorizzandola, alla punizione incombente) perché le sue richieste affettive “passano comunque la prova” della “perdita” che ha dovuto subire. Una normalità, senza virgolette, gli è pur “promessa”: se attraverso la perdita, la rinuncia, la possibilità del piacere rimane “aperta”. Certo, tutto questo il piccolo Hans non può ottenerlo “da solo”. Il recupero/superamento del rimosso (in questo caso i sentimenti di ostilità per il padre, che derivano dall’attaccamento “pulsionale” alla madre) implica un “confronto”, sul piano della coscienza, tra l’interno, il tutto/nulla del desiderio, e le condizioni “esterne” di effettiva possibilità del piacere (confronto che a sua volta “deve” poter concludersi in un “saldo” non necessariamente negativo – come appare, “per forza”, alla prima
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“percezione” del conflitto). Ma, come sappiamo, la rimozione interviene “prima” (nel caso del piccolo Hans è soltanto ovvio) che l’Io abbia compiuto il suo normale sviluppo. Una volta che il sintomo nevrotico si sia formato, a proteggere e a rivendicare insieme l’“inattualità” del contenuto del desiderio, l’Io cosciente “va a sbattere” contro una “resistenza” – che può essere insuperabile; e l’Io rimane “inconsciamente” attaccato, direbbe Epicuro, al nulla, al vuoto che occupa “il centro” del suo desiderio. C’è bisogno dell’intervento di una istanza esterna all’Io – c’è bisogno del transfert. Da una nevrosi, di norma, non si guarisce “da soli”. Ma dal nostro punto di vista, che non è quello “clinico” di Freud, la “contestualizzazione” dei processi psichici (e delle nevrosi) nel complesso delle relazioni tra l’Io e il mondo (sociale, storico) pone un problema più generale: quello del “posto” che bisogna assegnare a questo complesso in una “teoria generale”, per dir così, del piacere e del dolore. Non è possibile “mettere a prova” la sostenibilità di un edonismo come progetto di vita (filosofia morale), senza interrogarsi sul legame che “il soggetto” (del progetto, della scelta) intrattiene con le condizioni della sua esistenza mondana – con quella che Freud chiama “la civiltà”. Fra tutte le nevrosi “raccontate” da Freud ce n’è una che ha uno statuto del tutto particolare – perché è “inventata”. Ai lettori/uditori della conferenza XXII del primo ciclo di Introduzione alla psicoanalisi viene offerto un breve racconto, che Freud compone esplicitamente come illustrazione paradigmatica del processo di formazione di un certo tipo di nevrosi; una sorta di épure, formata da tratti assolutamente “tipici”, assolutamente “generali”. Vale la pena di leggerlo per intero – tanto più che è molto divertente. Per dimostrarvi l’influenza dello sviluppo dell’Io sulla formazione del conflitto e quindi sulla determinazione delle nevrosi, vorrei portarvi un esempio che, per la verità, è completamente
263 inventato pur essendo verosimile sotto ogni aspetto. Rifacendomi a una farsa di Nestroy gli darò il titolo Al pianterreno e al primo piano. Al pianterreno abita il custode, al primo piano il padrone di casa, un uomo ricco ed eminente. Entrambi hanno figli e noi supporremo che alla figlioletta del padrone di casa sia permesso giocare, incustodita, con la bambina proletaria. Può allora succedere molto facilmente che i giochi delle bambine assumano un carattere sconveniente, ossia sessuale, che giochino a “papà e mamma”, che stiano a guardarsi l’un l’altra nelle funzioni intime e si stimolino i genitali. La figlia del custode, che nonostante i suoi cinque o sei anni ha potuto fare più di un’osservazione sulla sessualità degli adulti, può assumere in tutto questo la parte della seduttrice. Anche se non si protraggono a lungo, queste esperienze bastano ad attivare in entrambe le bambine certi impulsi sessuali che, dopo la cessazione dei giochi in comune, possono manifestarsi per alcuni anni sotto forma di masturbazione. Fin qui ciò che le bimbe hanno in comune; il risultato finale sarà invece molto diverso. La figlia del custode continuerà la masturbazione pressappoco fino alla comparsa delle mestruazioni e vi rinuncerà poi senza difficoltà; alcuni anni più tardi si prenderà un amante, forse avrà anche un bambino, imboccherà una strada o l’altra nella vita, che forse la porterà a diventare un’attrice popolare che finisce col diventare un’aristocratica. È probabile che il suo destino sia meno brillante, ma in ogni caso porterà a termine la sua vita senza risentire dell’esercizio prematuro della sua sessualità, esente da nevrosi. Non così la figlioletta del padrone di casa. Quest’ultima avrà ben presto e ancora bambina il presentimento di aver fatto qualcosa che non andava fatto, rinuncerà di lì a breve, ma forse solo dopo una dura lotta, al soddisfacimento masturbatorio e ciò nonostante conserverà nella sua natura un che di oppresso. Quando, negli anni dell’adolescenza, avrà l’opportunità di apprendere qualche notizia sui rapporti sessuali umani, se ne ritrarrà con inesplicato orrore e preferirà perseverare nella sua ignoranza. Probabilmente soccomberà all’indomabile risorgente impulso a masturbarsi, del quale non oserà lamentarsi. Negli anni in cui, divenuta donna, dovrebbe piacere a un uomo, scoppierà in lei la nevrosi
264 che la defrauderà del matrimonio e di tutte le sue speranze. Se ora, mediante l’analisi, si riuscirà a entrare nel meccanismo di questa nevrosi, risulterà che questa giovanetta beneducata, intelligente e di elevate aspirazioni, ha completamente rimosso i suoi impulsi sessuali, ma che questi, senza che lei ne sia cosciente, sono rimasti ancorati alle misere esperienze con la compagna di giuochi della sua infanzia. La diversità di questi due destini, nonostante l’esperienza sia la stessa, dipende dal fatto che l’Io dell’una ha subito uno sviluppo che non ha avuto luogo nell’altra. Alla figlia del custode l’attività sessuale è apparsa più tardi altrettanto naturale e ovvia quanto nell’infanzia. La figlia del padrone di casa ha subito l’influsso dell’educazione accettandone le pretese. Il suo Io, persuaso dai suggerimenti istillatigli, si è formato un ideale di purezza e di astinenza con cui l’attività sessuale risulta incompatibile; la sua educazione intellettuale ha diminuito il suo interesse per il ruolo femminile al quale pure è destinata. A causa di questo superiore sviluppo morale e intellettuale del suo Io, è venuta a trovarsi in conflitto con le esigenze della sua sessualità. (8, pp. 508-510)
Ci siamo concessi il piacere di trascrivere questo testo, tanto più perché non pare che richieda particolari commenti. È un ottimo esempio, ci pare, dell’“idea” che Freud si fa della civiltà – «l’influenza dello sviluppo dell’Io», che Freud annuncia come “oggetto” della dimostrazione in forma di apologo, è chiaramente “l’influenza della civiltà”, dei modi di “civilizzazione” (socializzazione) dell’Io; cioè, in pratica, della società borghese, che è il termine attualmente raggiunto (per lui) del processo di incivilimento. È un’idea che “circola” in tutta la sua opera – ben oltre il libro “tematico” che alla civiltà (al suo disagio) si intitola. E riguarda, “condiziona” profondamente, tutto il tema del “piacere” e della felicità umana. Al termine della lettura, si vorrebbe pensare che il sarcasmo del finale (con la menzione del «superiore sviluppo intellettuale e morale» dell’Io della figlia del padrone di casa, preda
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della nevrosi) non sia del tutto involontario. E se ne ha certo tutto il diritto – Freud non è un “filisteo”, e, in particolare, il suo rapporto con gli ideali e le pratiche educative “borghesi” è spesso apertamente, aspramente critico. Ma non si può negare che quel superiore abbia per lui, anche, un significato letterale – è un aggettivo ricorrente, insieme con “alto”, “elevato”, ecc., quando parla della civiltà; senza che di norma si possa distinguere, nell’uso, un’accezione “valoriale” da un’altra, che sarebbe puramente descrittiva (quello che, “di fatto” vale, empiricamente, nello stato attuale della civiltà, come più “nobile” – come fine). A nostro avviso, c’è nel pensiero di Freud come un “impensato” della civiltà. Che la (ogni) civiltà non possa non avere un fondamento “repressivo”, rispetto alle “tendenze profonde” della “natura umana”, è certamente per lui un principio. E alla domanda su “che cosa”, precisamente, ci sia in queste “tendenze” che si oppone irrimediabilmente ad una ordinata convivenza, è data una risposta: è il carattere radicalmente “egoistico” delle pulsioni, e la presenza fra esse di un “impulso” di aggressività (questa nozione, “pulsione di aggressività”, non fa parte delle definizioni “essenziali” della teoria; è piuttosto un che di derivato – da queste definizioni e dall’intreccio dinamico a cui danno luogo). Ma se ci si tiene, com’è indispensabile, alla “civiltà attuale”, non è affatto facile “valutare” l’opposizione – nel suo “esito”: mostrare cioè, in atto, un “modello” di civiltà in cui quelle tendenze siano effettivamente “represse”. Freud non ignora, ovviamente, che il modo di funzionare e i “valori” dell’economia capitalistica riproducono, esaltano e incentivano l’egoismo degli individui – e meno ancora come l’aggressività “trionfi” nelle guerre dei popoli “civili”, nel fanatismo ideologico, nella violenza della lotta politica. Se “la civiltà” consiste essenzialmente nella capacità di contrastare, ridurre, “imbrigliare” questo tipo di “pulsioni”, il bilancio che se ne dovrebbe trarre, dopo millenni, apparirebbe a giusto titolo come sostanzialmente derisorio.
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Si pone dunque, se la forma di questa opposizione è così determinante per definire i limiti e le possibilità di una felicità umana (“secondo natura”), il problema del “giudizio” sulla civiltà – sulla sua “attualità” e sui suoi “possibili”. Si pone intrinsecamente, dal punto di vista stesso di Freud: poiché è questo rapporto – tra la spontaneità individuale e il contesto mondano in cui agisce – che si riflette direttamente nei “processi psichici”, che costituisce la “storia” dell’individuo – e della nevrosi. Se torniamo per un momento alla storia delle due bambine, è evidente che Freud “mostra”, raccontandola, come il rapporto della figlia del custode con il sesso sia essenzialmente “diverso” (e infinitamente meno “patogeno”) precisamente per il “contesto culturale” (il “costume” di vita) in cui si sviluppa – e che vale ovviamente come una “forma di organizzazione” dei rapporti intersoggettivi, a partire dal nucleo famigliare. La vita sessuale di questa ragazza (masturbazione, rapporti prima o fuori o in assenza del matrimonio) non sembra essere, per lei e per “gli altri”, un “problema”; ed è questo che crea la differenza qualitativa (che qui si presenta direttamente come un’alternativa salute/malattia) fra i due “destini”. Ma Freud non istituisce un confronto (e potenzialmente una “scelta”) tra due “modelli” di civiltà – in cui il “costume” proletario si rivelerebbe “superiore”, proprio per una radicale diversità (“quantitativa”) nella pretesa repressiva, nell’imposizione della “rinuncia pulsionale”. Quando osserva, alla fine, che la ragazza borghese «ha diminuito il suo interesse per il ruolo femminile al quale pure è destinata», è chiaro che non sta parlando di una generica “femminilità”, ma del matrimonio – del matrimonio borghese; la giovane donna è malata, «dal punto di vista della civiltà», perché la sua sessualità è rimasta attiva «nella rimozione» – e questo le ha impedito di accedere a quella “autoregolazione” dell’impulso sessuale (nei limiti e nei vincoli del matrimonio) che il suo destino sociale “prevede”. Questa è tutta l’ironia della storia: la figlia del portinaio è “maleducata”, ma, in quel dato “conte-
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sto valoriale” la sua vita sessuale si può considerare perfettamente “regolata”; è la sua ex-compagna di giochi, invece, che si ritrova ad essere letteralmente “sfrenata”, nel suo desiderio. Proprio alla fine del Caso clinico del piccolo Hans, Freud si occupa dei compiti dell’educazione. Comincia col denunciare il carattere ottusamente repressivo delle pratiche del suo tempo, e poi si sofferma sul “fine” – in vista del quale l’apporto della psicoanalisi si rivelerà molto utile. E lo formula, il fine, così: «rendere l’individuo atto alla civiltà e utile membro del consorzio umano senza chiedergli di sacrificare la propria attività [Selbsttätigkeit – “spontaneità”] più di quanto sia strettamente necessario» (5, p. 588). Molto più tardi, alla fine della sua vita, nella penultima lezione del secondo ciclo di Introduzione alla psicoanalisi, ritornerà più diffusamente sulla questione, sostanzialmente negli stessi termini – salvo concludere con una autodifesa rispetto all’accusa o al sospetto di una subordinazione della psicoanalisi alle esigenze più “conformistiche” della società. Ma, su quest’ultimo punto, possiamo dire che si limita a considerazioni “di senso comune”. La discussione, in effetti, non può che rimanere superficiale se si imposta in termini di conformismo/anticonformismo. E si può certamente dire che l’idea che Freud si fa (se ce n’è veramente una) dell’individuo utile al consorzio umano non coinciderà necessariamente con i criteri per una distribuzione di premi della Camera di Commercio. Ma se restiamo nella “formula” del Piccolo Hans, ciò che “fa problema” è la duplicità del fine-valore, nel “progetto” educativo: l’integrazione dell’individuo in una forma di vita sociale “sostenibile” e “produttiva”, che impone una certa misura di repressione e rinuncia, e la salvaguardia di una certa misura di spontaneità “naturale” in questo stesso individuo, sono cose essenzialmente diverse. La misura e il verso della loro reciproca limitazione non possono essere “trovate” (cioè non si può dire, nei termini di Freud “che cosa” è «strettamente necessario»), senza impegnarsi in un confronto (in un giudizio) “di valore”.
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Dal punto di vista di una filosofia morale, che “parte” dall’individuo, il problema si può formulare così: c’è, per l’individuo, la possibilità di “giudicare” la civiltà di cui fa parte? Su quali basi? “Fino a che punto”? Questa possibilità di giudizio può essere collegata a una ricerca di autonomia, a un progetto di “guarigione”? Oppure, più in aderenza agli schemi di Freud: è possibile che l’individuo “si costruisca” l’immagine di un “Io ideale” che non coincida con “l’ideale dell’Io” (interiorizzazione della norma sociale)? O ancora, con una domanda che può essergli rivolta direttamente: c’è, quale può essere, un “ideale” della civiltà? Il tema che quest’ultima domanda esprime ha attratto l’attenzione di Freud soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita (gli avvenimenti storici vi avranno certo potentemente contribuito). E, negli ultimi scritti, si può trovare almeno una risposta “diretta” – nella lettera a Einstein, datata settembre 1932, e pubblicata nel carteggio che reca il titolo Perché la guerra?: «L’ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione» (11, p. 301). A chi osservasse che questa formula sembra in contrasto con il “duplice fine” del Piccolo Hans, si può rispondere che essa va letta sullo sfondo di una versione più ampia, che si trova nello stesso volume poche pagine prima, nel capitolo finale (Una visione del mondo) di Introduzione alla psicoanalisi (1932): La nostra più viva speranza è che l’intelletto (lo spirito scientifico, la ragione) col tempo ottenga una preminenza dittatoriale sulla vita psichica dell’uomo. L’essenza stessa della ragione garantisce che in seguito essa non mancherà di concedere al lato emotivo dell’animo umana e a quanto ne discende il posto che gli spetta. Ma la coartazione collettiva imposta da un simile dominio della ragione si rivelerà come il più forte elemento di coesione tra gli uomini […]. (11, p. 275)
I verbi al futuro, in questo testo, corrispondono al carattere “ideale” del modello; ma se “la dittatura della ragione” è ovvia-
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mente ancora di là da venire, l’ideale si formula evidentemente a partire da un movimento in atto, il processo/progresso della civiltà, che in esso non fa che “culminare” (il contesto dell’esposizione è una polemica contro la “visione del mondo” religiosa, e l’elogio del “nuovo spirito scientifico”, di cui la psicoanalisi è una tipica e già “culminante” espressione). Più importante, per noi, è confrontare la professione di fede razionalistica di Freud con il suo materialismo: la ragione, come “codice” di (auto)regolazione, non è un che di “innato”, ma una possibilità che si produce nello sviluppo “storico” della specie – “la migliore” possibilità, quella che ha più “valore”. Per “utilizzarla” in modo da ricavarne il criterio della scelta, bisognerà dunque “contestualizzarla”: sarà “fonte” di valore nella misura in cui riesce effettivamente ad “affermarsi” – secondo le necessità e i fini della “vita”. Vediamo allora come questo rapporto tra “l’ideale” della ragione e il processo di sviluppo della vita umana (l’“incivilimento”) può concretamente articolarsi – in rapporto alla questione da cui siamo partiti, quella di Einstein, perché la guerra? Nell’ultimo paragrafo della sua lettera, Freud si diverte a scandalizzare Einstein (gli chiede di “non inorridire”) ponendogli questa domanda: ma perché poi, in fondo, noi ci indigniamo tanto contro la guerra? Perché la condanniamo, moralmente? E comincia ad elencare possibili argomenti, da cui ricavare questa condanna. Ma subito si ferma, e domanda: sono argomenti “razionali” (e chiaramente intende: inoppugnabili, sul piano di una logica “controversistica”)? No. Essi in realtà presuppongono, non “fondano”, il valore (del pacifismo). Ma in che cosa consiste, allora, questo “valore”? La risposta è molto precisa: è tutto il corso, il senso, la direzione di sviluppo della civiltà che ci porta a odiare la guerra. Orbene, poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo di incivilimento, dobbiamo necessariamente ribellarci contro
270 di essa: semplicemente non la sopportiamo più, non si tratta soltanto di un rifiuto intellettuale e affettivo, per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza costituzionale, di una idiosincrasia portata, per così dire, al massimo livello. E mi sembra in effetti che le degradazioni estetiche della guerra concorrano a determinare il nostro rifiuto in misura quasi pari alle sue atrocità. (11, p. 303)
Si arriva così a una situazione assolutamente paradossale: gli uomini più civili (costituzionalmente; i “pacifisti”), sono quelli che nella civiltà, a quanto pare, contano meno; oppure, se si preferisce: i capi di stato, gli uomini di governo, i generali, non appartengono “veramente” al processo di incivilimento – pur non essendo, a priori, assolutamente sprovvisti di sensibilità estetica. Che Freud (e sia pure in uno scritto “d’occasione”; ma incentrato direttamente sui “valori della civiltà”) affronti impavidamente questo paradosso (la pace, e non la guerra, è “la verità” della civiltà; ma “la civiltà” non lo sa), dimostra una volta di più come il pathos etico “investito” nella nozione di “civiltà” (e di “ragione”) sia, nel suo pensiero, tutt’altro che un “residuo sentimentale” – qualcosa che può influenzare soltanto “ai margini” una riflessione sostanzialmente estranea al “problema morale”, al “valore”. Abbiamo già osservato, all’inizio, come una simile estraneità sia incompatibile con il progetto stesso della psicoanalisi: il “giudizio di valore” è un compito fondamentale dell’Io nel suo processo di guarigione, nella sua ricerca della normalità – nessuna “sublimazione” può “funzionare” senza la collaborazione delle “funzioni superiori” dell’Io, da cui dipende appunto il “valore” assegnato ogni volta al nuovo “oggetto”, alla nuova “meta” (è su questo sfondo che andrà probabilmente intesa un’annotazione piuttosto enigmatica dei Tre saggi, tra le numerosissime che fondono piuttosto inopinatamente considerazioni di carattere antropologico-culturale con l’analisi delle strutture psicologiche, in cui Freud osserva che
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per «noi», a differenza degli «antichi», il valore/disvalore riconosciuto nell’oggetto di investimento libidico è «più incisivo», rispetto al significato di “affermazione vitale” dell’impulso; 4, 463 nota). Dal nostro punto di osservazione, diremmo piuttosto che è fortemente attiva, nella “coscienza filosofica” di Freud, una componente stoica. Non si ritrova certamente in lui la radicale, diremmo volentieri perfino “allegra”, spregiudicatezza di Epicuro rispetto alla storia, all’“ordine del mondo”, alle logiche e alle istituzioni del vivere sociale (avremo modo di insistervi, in particolare, nel prossimo capitolo). Per lui, come per gli stoici, l’ordine del mondo umano “esprime” una coesione interna, e una “necessità”; per restare nel lessico filosofico (e religioso) dei greci (in cui, come si sa, “quasi tutto” è stato “già pensato”) si può dire che esso “appartiene” non alla tychê, ma al daimon. “Destino” dell’uomo (“destinazione” e “missione”) è riconoscere, accettare, “valorizzare” (come “la parte migliore di sé”) questo ordine – anche se ormai privo di “corrispondenze” cosmologiche, e non ancora, del tutto, “governato” dalla Ragione: solo così l’uomo arriva ad essere “veramente uomo”. Certo, il “premio della virtù” sarà, se si tien conto delle suddette limitazioni, molto più “modesto”; ma per ottenerlo, come in ogni morale “eroica”, l’“esercizio” consiste essenzialmente nel tenere a freno la “parte peggiore”. Spesso (per esempio nel Piccolo Hans, 5, pp. pp. 586-587) Freud spiega che il compito dell’analisi non è di «annull[are]» la rimozione, ma di «sostitu[irla]» (permettere all’Io di sostituirla) con la «condanna»: “far avvenire” la consapevolezza del giudizio morale lì dove prima non c’era che una reazione di fuga, e la cieca ricerca di compensazione. Il criterio della saggezza non può ispirarsi a un “modello naturale”, già di per sé “attivo” nell’immediatezza dell’esserci individuale non solo perché la “logica” di questo modello sarebbe incoerente, ambigua, contraddittoria dal punto di vista del “sentimento” di piacere/dispiacere; ma anche perché la saggezza non può essere “egoistica” – cioè estra-
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nea, indipendente, e potenzialmente “refrattaria”, all’“ordine”. L’individuo “accede” al valore, alla possibilità della saggezza, (o semplicemente alla “ragione”) quando diventa cosciente di, quando “si sottomette” a, qualcosa che è “più grande”, più stabile, più “necessario” di lui. Il lettore ricorderà che, all’inizio di questa divagazione, avevamo lasciato in sospeso una citazione – omettendo di completare il “finale” della lez. 31 del secondo ciclo di Introduzione alla psicoanalisi, dopo il celebre wohin das Es war… Avevamo detto allora che la frase “aggiunta”, a connotare il senso di questo “supremo” compito dell’Io, potrebbe in prima sembrare del tutto marginale, “esornativa”; possiamo renderci conto adesso che non è affatto così. Essa suona: «È un’opera di civiltà [l’“avvenire” dell’Io in quel wohin], come ad esempio il prosciugamento dello Zuiderzee» (11, p. 190). Non è certamente un caso che il Freud “conferenziere” (qui, nella finzione), parlando a un vasto pubblico, utilizzi un riferimento “esterno” alla psicologia dell’individuo per sottolineare l’utilità e l’importanza, la necessità, del progetto di “guarigione”, di “normalità” individuale che la psicoanalisi incarna. Come “filosofo morale”, potremmo dire, egli si mette “d’istinto” nel “punto di vista” della civiltà: è dal lato del progresso civile (e tecnico), della necessità che si impone alla collettività umana, per trasformarla in una comunità di destino, che solo si può veramente pensare qualcosa come un “fine”. È questo, possiamo dire, il punto di massima “lontananza” di Freud da Epicuro. La situazione è qui come “rovesciata”, rispetto a quanto ci era apparso divagando su Foucault: lì, il “problema” dell’esistenza, dell’individuo, si profilava, al termine di una complessa evoluzione, nei termini “classici”, se si vuole, dell’autonomia, della libertà – ma su uno “sfondo” di filosofia della cultura che, inibendo a priori ogni possibile confronto con la “natura”, con le radici della vita individuale (della
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coscienza di sé) nella “costituzione” della specie, impediva di pensare queste nozioni se non nel progetto di una (“superiore”) cultura estetica. In Freud, al contrario, l’articolazione natura/ cultura appare come il paradigma decisivo nella ricerca intorno al tema della “saggezza” (felicità/normalità); ma i “margini di manovra” del soggetto morale (o se si preferisce la “norma” che se ne ricava, come criterio di una coscienza del fine) sono estremamente “ristretti” (questa norma ha per il soggetto la forma esclusiva del “vincolo”): perché, per dirla rozzamente, è la cultura stessa, come valore, che si trova ad essere “naturalizzata” – è “dalla sua parte” che si trova qualcosa come una “necessità vitale”, evolutiva, della specie, rispetto a cui l’immediatezza “naturale” dell’esserci individuale è essenzialmente un ostacolo, un “vicolo cieco”. Ma vorremmo concludere, in questo che, citando un luogo classico della clinica freudiana, potremmo chiamare “gioco del rocchetto”, del vicino/lontano, ancora con il rilievo di una “vicinanza”. Per Freud, come per Epicuro, l’“essere naturale” dell’individuo umano ha già in sé una sua “verità”; ed è a questa “verità” che deve prima di tutto “raccordarsi”, non che nasconderla o ignorarla, ogni progetto della ragione, compito dell’educazione, impresa di “trasformazione” del sé. Una coscienza “vera” di questo sé “originario”, prima di tutto “natura”, ha un ruolo essenziale nel proteggere l’individuo dal male che in lui stesso si forma.
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Capitolo III
Il male e la storia
Abbiamo tentato, nel capitolo precedente, di ricostruire criticamente, seguendone almeno alcune articolazioni, la tesi centrale della morale di Epicuro – che il “fine”, un progetto di vita praticamente orientato alla realizzazione del “bene”, si definisce in una relazione strettissima, “fondante”, con l’esperienza del piacere. Perché è questa esperienza, del piacere e del dolore, che costituisce l’individuo come un “esserci”, nel tempo e nello spazio – che rappresenta il primo “contenuto” di un autoriferimento, che forma insieme il sostrato e l’oggetto “primo” di quella coscienza di sé per cui qualcosa come un individuo umano, prima che un soggetto morale, di fatto, esiste. E perché questo “sostrato”, nel suo costituirsi e permanere, è tale da rimandare necessariamente a un essere “comune” – per cui la mia autocoscienza può valere in pari tempo come una “coscienza di genere” o di specie: se “il mio bene” non fosse pensato a partire da un naturale-umano, ma nella singolarità del “carattere” o della condizione, qualcosa come una morale, semplicemente, non ci sarebbe. E abbiamo visto come questa tesi, se la nostra ricostruzione è corretta, non ammetta tentativi di interpretazione “conciliatoria” – cioè tendente a proporre un’accezione che possiamo dire “metaforica” della formula: il piacere è il fine. L’insostenibilità
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di questa interpretazione è stata variamente avvertita, in una “gamma” che va dallo scandalo all’imbarazzo, in tutta la tradizione. E forse chi l’ha espressa nel modo più chiaro è proprio il Cicerone del De finibus; che critica Epicuro, per bocca di Torquato, mettendolo in contraddizione con se stesso, sulla base di una totale inammissibilità di qualsiasi “contatto” fra la sfera della morale (dell’honestum) e “il piacere”, comunque inteso. Proprio nella misura in cui Epicuro ammette che non si possa vivere «iucunde vivi nisi honeste» (e dunque tratti l’honestum e il piacevole come “distinti”), non è possibile che egli stesso «quidquam aliud honestum intellegat nisi quod sit rectum ipsumque per se, sua vi, sua sponte, sua natura laudabile» (II, 5051) 1. Il che porta necessariamente a “seguire il bene”, appunto, per sé, senza nessun riguardo ai suoi eventuali rapporti con il piacere – che è il contrario di quello che Epicuro insegna. Di una “sua propria natura”, quanto al bene morale, non c’è in Epicuro alcuna traccia. La morale resta per lui, in quanto “scienza di ciò che è da scegliere e da fuggire”, un sapere strumentale, subordinato; nello stesso senso, se si vuole, di quello che dirà più tardi Diderot – per esempio in questo passo delle “aggiunte” a Raynal: la morale è una scienza il cui oggetto è la salvaguardia e la comune felicità della specie umana. Le sue regole devono rapportarsi a questo duplice fine. Il loro principio fisico, costante ed eterno, è nell’uomo stesso, nella similarità di organizzazione di un uomo con un altro, similarità di organizzazione che origina quella degli stessi bisogni, degli stessi piaceri, delle stesse pene, della stessa forza e della stessa debolezza.2 1. «non può intendere che “morale” significhi nient’altro che ciò che è giusto, ciò che in sé e per sé, indipendentemente, intrinsecamente, per la sua propria natura, è lodevole». 2. D. Diderot, Ritorno alla natura, ed. it. a cura di A.A. Santucci, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 68.
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Ciò che è perfettamente epicureo, in questo testo, è l’idea di un “principio fisico” della morale. È caratteristico però che Diderot riferisca a questo principio non propriamente “la morale”, ma piuttosto «le regole» della morale. Ciò introduce, rispetto alla “morale del piacere” di Epicuro, una significativa torsione. “Le regole” sono qualcosa di fondamentalmente diverso dal “criterio”. E sono legate, invece, alla specifica definizione del fine che qui troviamo – che non è “il piacere”. È certo, ancora, «la felicità» – ma Diderot pensa al soggetto di questa felicità, direttamente, in termini di «specie umana». Lo ripetiamo: se non ci fosse questo passaggio (dall’individuo alla specie; e, materialisticamente, proprio nei termini in cui qui Diderot lo “fonda” – sulla «similarità di organizzazione di un uomo con un altro») non potrebbe esserci, propriamente, una morale. Resta però che mentre il criterio che guida la condotta dell’individuo morale (saggio) è sempre “uno”, “lo stesso” in tutte le circostanze (cercare il piacere e fuggire il dolore), se pensiamo in termini di “specie”, di “genere umano” ci troviamo immediatamente di fronte a un complesso di “pratiche”, che sono quelle che impegnano “tutti” gli uomini nella trama delle relazioni sociali che li uniscono; che questa trama si differenzia nel molteplice delle funzioni sociali, ciascuna dotata di un ambito e di una “logica” propri; che una “condotta morale”, in ciascuna di queste “formazioni” che collocano l’individuo in specifiche relazioni con “gli altri”, in specifiche “posizioni di scopo”, dovrà nutrirsi di una conoscenza diretta del funzionamento specifico di ogni singola “sfera”, e insieme del rapporto, necessariamente “mediato”, di ciascuna con quell’“intero” (il genere umano; e quindi intanto una collettività storico-sociale) che è il soggetto putativo della felicità (del fine); e infine, che le regole di volta in volta “diverse”, appunto, che ne deriveranno “valgono”, per ciascun individuo,
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come un “già dato” – nel senso che non saranno “scoperte” e “verificate”, ogni volta, da ciascuno, come un risultato univoco della sua propria esperienza, della sua “autocomprensione”, della vicenda lucidamente riflessa della sua propria sensibilità. Di tutto ciò, se ci fermiamo ai risultati dell’analisi fin qui condotta, si potrebbe a tutta prima concludere che in Epicuro non c’è traccia. E questo ci mette di fronte al problema non tanto di un possibile collegamento fra la sua morale e le conseguenze che se ne possano/debbano trarne in termini di “normatività” (è certamente possibile, ci torneremo, una morale che si pensi e si voglia “non normativa”); ma del rapporto con, o dello spazio che all’interno della sua impostazione si può ritrovare per, il tema dell’intersoggettività – che poi vuol dire, poiché la diderottiana «similarità di organizzazione» costituisce “l’esi stenza di fatto” di un “genere umano” in tutta la sua vicenda storica, sociale e culturale, per il tema di una “forma-soggetto” che integra il proprio rapporto con il “mondo umano”, con “gli altri”, in un progetto individuale di vita. Si può ritrovare, nella morale di Epicuro, un orientamento che guarda alla totalità del mondo umano (e non solo della vita individuale) secondo “criteri di valore”? Che collega la ricerca della felicità a un giudizio e a un “impegno” sulle condizioni di esistenza della collettività umana? Per cui il criterio (il principio dell’azione o della condotta) non vale solamente a dirmi come “devo” vivere, ma anche come dovrebbe “esser fatto” il mondo (farsi “storicamente”, nell’azione e nella condotta – e nel pensiero – degli (altri) uomini)?
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La morale “per tutti” Queste domande contengono a ben vedere, prima di tutto, il secondo grande motivo di imbarazzo o di diffidenza che costantemente affiora, quando si tratti di “far propria” una morale epicurea – e che si intreccia variamente, nella tradizione interpretativa, con il primo. In un “senso comune della morale” (come l’abbiamo prima definito) non si trova solo l’idea che la coscienza morale esprime la “presenza in noi” del (l’idea del) bene; forse ancor più “in profondità” agisce un altro “motivo”, per cui un “valore morale” si trova specificamente in quelle azioni o condotte che sarebbero “egoisticamente” inspiegabili, e che sembrano invece interamente motivate dalla volontà di “fare il bene” degli altri (il che è del resto perfettamente lessicalizzato nell’espressione “buona azione”). Da ciò una perplessità, il sentimento di una distanza – che va poi ben oltre Epicuro, tende a investire l’etica greca nel suo complesso, per quanto in essa è diffuso e tenace il nesso moralità-felicità (personale). Non a caso, tanto per fare un esempio, in un’abbastanza recente opera diciamo così di “alta divulgazione” (Le savoir grec, 1996), il capitolo sull’etica, affidato a Monique Canto-Sperber, ha un paragrafo su La felicità e la filosofia dell’azione che comincia così: «[…] più problematico ai nostri occhi, forse, è che [la] vita morale abbia come scopo la felicità». Dove il forse evoca un dubbio che viene poi risolto qualche riga dopo, chiarendo che l’eudaimonia rappresenta «piuttosto un modo di essere, determinato contemporaneamente dal buon ordine dell’anima e dall’agire bene»3 – definizione che, qualsiasi cosa voglia dire, si riferisce anche alla felicità di Epicuro.
3. M. Canto-Sperger, L’etica, in J. Brunschwig - G.E.R. Lloyd (a cura di), Il sapere greco. Dizionario critico, 2 voll., ed. it. a cura di M.L. Chiesara, Einaudi, Torino 2007, vol. I, p. 133.
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Questo imbarazzo, diffidenza, verso il fine della felicità come criterio della morale può prendere molte forme – “culmina”, se si vuole, nell’idea “cristiana” della “capacità di sacrificio” come specifico contrassegno della virtù; e a questo punto, certo, il discorso con Epicuro sarebbe definitivamente chiuso. Ma questo non vuol dire che si possa ignorare, semplicemente, il tema dell’intersoggettività, nella sua pertinenza rispetto ai “contenuti” di una morale. Il legame tra la ricerca del piacere, come “obiettivo” della condotta individuale, e la felicità di “tutti”, non può essere affidato al semplice rilievo, che pure dovrebbe già emergere dall’analisi fin qui condotta, di una possibile “coerenza” – anche se questo rimane molto importante. Resta, che se ciascuno è impegnato a verificare nella sua propria sensibilità le conseguenze della propria azione o condotta può sembrare che si escluda dal dominio della morale una considerazione “completa” di questa azione o condotta – cioè l’aspetto per cui essa “incide” necessariamente, nella condizione di “comunità”, sulla vita di tutti, sul “mondo”. Ciò che è in discussione, potremmo dire, è non tanto la possibilità di un soggetto morale, quanto la possibilità che questo soggetto – che si costruisce necessariamente nel rapporto con un “universale” della verità – sia altresì il “luogo” di un’esperienza, una riflessione, un giudizio, che assume come proprio oggetto l’esistenza determinata (storico-sociale) di un “mondo umano”. Ciò è indispensabile, se la morale è “razionale” (“comunicabile”): la “giustificazione” di una scelta di valore implica il costante confronto dell’esperienza di sé con l’esperienza dell’altro, fino al limite della possibile identificazione – sotto la condizione, materialistica, che questo confronto non sia affidato a (e quindi garantito ab origine da) un’ipostasi della ragione, perché il “sé” che è insieme punto di partenza e punto d’arrivo della soggettivizzazione rimane “ancorato”, costantemente riconducibile, al sostrato materiale-sensibile di un essere naturale.
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In altri termini: tutto ciò che possiamo definire come “bene” o “male” – e che non ci sarebbe se non lo “conoscessimo” (sperimentassimo) in noi – non può essere il principio della scelta (consapevole, “razionale”) se non “vale”, ai nostri occhi, anche come un “modo d’essere”, una possibilità, del mondo, della storia, della vita comune. Tutto ciò non ci allontana dalla tradizione epicurea. Basti pensare che una delle “limitazioni” più comunemente imputata alla sua morale (quando non è invece un elogio) sta proprio nel “disinteresse” o nell’indifferenza che vi si troverebbe per la dimensione sociale, politica, comunitaria del “progetto di vita” in cui si identifica “il saggio”. È corrente un rilievo di “aristocraticismo”: ciò che siamo abituati a considerare come la condizione storico-culturale “tipica” dell’ellenismo (il “ripiegamento” individualistico, la “rinuncia” a pensare il bene come qualcosa che “si realizza” nella città, attraverso la discussione sulle leggi e le istituzioni, il confronto e la scelta di un modello di comunità) spiegherebbe perché la ricerca della felicità sia concepita in termini che esaltano la capacità del saggio di vivere “per conto suo”, quasi astraendosi dal comune destino – e sia praticabile, grazie alla conoscenza della natura e al controllo di sé, quali che siano le condizioni di tempo e di luogo in cui “gli capita” di vivere. Il saggio non ha alcun bisogno, non che di “impegnarsi” nella storia, nemmeno di giudicarla – perché la costruzione di un giusto rapporto di sé a sé, in cui la saggezza consiste, non ha “niente a che fare” con le condizioni di vita della “moltitudine” (che possono essere solo “esteriormente” anche le sue). Questo schema è ancora potentemente operante. E non basta a contrastarlo il rilievo che la saggezza epicurea è pur sempre collegata a un progetto, a una volontà di insegnamento, di “formazione” – potremmo dire, per rafforzare polemicamente la continuità con il ruolo dell’“intellettuale” nella Grecia classica,
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di paideia. “Formare” gli uomini, “guidarli” sulla via della saggezza è qualcosa che può ancora convivere (almeno “astrattamente”) con un’idea tutta “privata” di questa saggezza – se lo spazio della vita “pubblica”, nel suo vario configurarsi, è considerato a priori come “indifferente”. Si pensi a come, per esempio, Lucrezio nel suo indirizzo proemiale a Memmio “allude” al doppio carattere dell’illustre destinatario: il suo ruolo nell’élite politico-militare di Roma potrebbe distoglierlo dallo studio della filosofia epicurea, a cui il poeta lo invita; ma, dicono questi versi (I, 41-43), solo nel caso in cui diventi troppo “assorbente” – come rischia purtroppo di essere, in tempi “agitati” per la comunità. È il dato puramente esterno, “casuale”, del prevalere della guerra o della pace, l’avere o no “il tempo” per potercisi dedicare, sotto la pressione delle circostanze, che decide dell’eventuale successo dell’opera di “indottrinamento” che il poeta intraprende; nulla viene detto circa la possibilità che un patrizio romano, un “politico”, all’occasione un capo di guerra, sia veramente in grado di assimilare e far proprio l’insegnamento (morale) di Epicuro – senza “contestare” o rimettere in discussione il modo tradizionale di intendere le sue funzioni, senza cioè che una “conversione” all’epicureismo incida sul modo di concepire la guerra e la pace, la communis salus, i rapporti e le gerarchie del potere. Se si tien fermo a questa “indifferenza”, persino questo riconoscimento di una condizione esterna, eccezionale, di crisi (storico-politica), come “impedimento” per la ricerca e la pratica della saggezza (con cui allora lo “stato del mondo” sarebbe capace di “interferire”) risulterebbe del tutto esteriore, “retorico”. È stato autorevolmente sostenuto (da E. Paratore, nella sua antologia commentata del poema) che Lucrezio in questi versi sta semplicemente cercando di prendere Memmio “per il suo verso”: «il poeta si rivolge ad un ambizioso uomo politico, e deve fare i conti con la necessità di non irritarlo mediante un troppo aperto disprezzo della sua attività»; quando (natural-
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mente attraverso le soluzioni “tradizionali” della politica romana, per la communis salus) si potrà rientrare nella quiete delle scuole, allora la sapienza epicurea «farà apparire [allo stesso Memmio] come ombre vane tutte le ambizioni di cui finora egli è stato lo schiavo». E infatti, appena il contenuto del primo libro avrà «instillato nella mente [di Memmio] i principi canonici della dottrina», Lucrezio potrà già, nel proemio del secondo, permettersi di «considerare con ironia la passione per le armi», perché «ritiene [adesso] di poter fargli toccare con mano più apertamente l’inanità delle sue antiche predilezioni»4. Ma ci si potrebbe domandare: se i patrizi romani, una volta trovato il tempo di farsi erudire nella dottrina di Epicuro, dovessero concludere unanimemente all’«aborrimento dei negotia», e perdere «il gusto per la vita civile che comprende in primo luogo l’esperienza del comando militare»5, che ne sarebbe della communis salus? Falso problema, secondo questa interpretazione. Se partiamo dal presupposto che l’indifferenza per la condizione comune degli uomini sia un traguardo della saggezza epicurea (perché solo alcuni, “i migliori”, possano per definizione raggiungere il fine della vita buona o felice: di qui l’“aristocraticismo”) l’interesse di Lucrezio sarà esclusivamente “concentrato” su Memmio (al quale evidentemente riconosce la “stoffa” del “migliore”). Basterà che gli affari pubblici gli diano un momento di tregua perché l’insegnamento di Lucrezio- Epicuro lo porti a riconoscere che occuparsi della communis salus non è “degno” del saggio – e “gli altri” potranno continuare ad arrabattarsi nei negotia, magari coi risultati più deludenti; la comunità degli “ottimi”, per parte sua, avrà comunque un proselito in più.
4. Lucreti De Rerum Natura, a cura di E. Paratore, in Aedibus Athenaei, Roma 1960, pp. 98-99. 5. Ivi, p. 99.
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La discussione su questi tre versi, com’è noto, non è che una parte di una delle più aspre controversie sul poema lucreziano, che riguarda tutto il proemio del libro I. Schematizzando, la struttura di questo proemio consta di tre parti, molto ineguali tra loro: l’invocazione a Venere e la descrizione della contesa/intesa (perché alla fine c’è la subordinazione del secondo, devictus vulnere amoris) tra Venere e Marte – che culmina nell’appello alla dea perché promuova la pace tra i romani; i tre versi in cui si evocano, a contrasto, i torbidi che minacciano nel patriai tempus iniquus, e che rischiano di distogliere Memmio dall’apprendimento della saggezza; e infine i sei versi forse in assoluto più “contesi” di tutto il poema (in questa loro collocazione; saranno ripetuti altrove), con antiche e ricorrenti proposte di espunzione – quelli in cui Lucrezio descrive la condizione di atarassia che è propria degli dèi (e che comprende, evidentemente, la lontananza e l’indifferenza rispetto agli affari umani). Non entriamo nella controversia (che in parte, a nostro avviso la meno interessante, si concentra sulla contraddizione tra la preghiera alla dea e la dichiarazione seguente che gli dèi non possono occuparsi delle «nostre cose»). Osserviamo però che la ricostruzione di Paratore (ma anche, diversamente, quelle di Bignone e di Giancotti) ci sembra – per quanto riguarda il nesso: speranza di pace/effetti negativi della “guerra” sul necessario ozio filosofico/felicità imperturbabile e costante, indifferente agli umani negotia, degli dèi – insostenibile. Essa è articolata6 intorno a un presupposto essenziale: che l’insegnamento epicureo, l’ideale del saggio, consista in una tendenziale identificazione con l’atarassia divina. Chi si metta su questa strada, fra gli uomini, deve lasciarsi dietro la, diventare completamente “incurante” della, condizione umana, così come si manifesta negli “altri”, nei “più”. È dunque l’esatto contrario della via in cui Memmio si trova “per nascita”, impegnato. Se 6. Cfr. ivi, p. 107.
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ci riesce di distogliernelo (ma per questo abbiamo bisogno di una situazione politica relativamente “calma”), l’imitazione degli dèi, e non certo una salus communis comunque intesa, diventerà sotto la nostra guida l’unica sua preoccupazione. Così, tra l’altro, Paratore sembra non avvedersi che l’esordio della sequenza proemiale, giustamente riassunto nella richiesta del poeta a Venere di diffondere «lo spirito che è la [sua] natura stessa, cioè la pace»7, risulta come dire, clamorosamente “sproporzionato”. Sarebbe sufficiente, e molto più coerente, che (poiché siamo nella finzione poetica dell’intervento di un nume) l’illuminazione “dall’alto” operasse direttamente sull’animo di Memmio. Non è “esagerato” chiedere che uno spirito di concordia, l’inclinazione alla pace prenda a imperare fra i «Romani» (v. 40 – ma si potrebbe dire fra gli uomini) perché uno di loro, quello “scelto” da noi, possa diventare “felice come un dio”? Se la communis salus non è, comunque, che un’illusione, a che pro supplicare che venga realizzata (non è, anzitutto, la pace?) perché poi Memmio possa “come un dio”, “disinteressarsene”? Ci sembra che Paratore, come molti altri interpreti, abbia sottovalutato un elemento testuale molto importante. I tre versi che formano la transizione, nello stato attuale del proemio, tra invocazione a Venere e descrizione della beatitudine divina dicono: «Nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo / possumus aequo animo nec Memmi clara propago / talibus in rebus communi de[e]sse saluti» (vv. 41-43). È evidente, ed enfatizzato dalla forma sintattica, che qui non si tratta solo di Memmio (neque… nec: Paratore se ne accorge, ma ne sminuisce il rilievo; il poeta si mostrerebbe anche lui preoccupato, e addirittura distolto dai suoi compiti, per rinforzare retoricamente il riconoscimento che Memmio deve, ecc. – pura captatio). Che il patriai tempus iniquus non permetta a Memmio di dedicar7. Ibidem.
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si agli studi filosofici (perché non può «mancare» al faticoso impegno della communis salus) non è che il secondo membro di una doppia negazione – che ha come primo oggetto il nos del poeta stesso, al quale la stessa iniquità del tempo toglie la possibilità di hoc agere (cioè, come tutti intendono, scrivere il poema). Il compito del poeta, nella crisi, non è certo quello di salvare Roma – e Lucrezio, a differenza di Memmio, si trova già, in quanto scolaro di Epicuro, in possesso delle “chiavi” per la saggezza. Ma questa saggezza si troverà inoperante, non troverà voce e ascolto, se tutto, intorno, minaccia o rende impossibile l’equus anumus che è, per tutti, una condizione necessaria per coltivarla. Perché Lucrezio dovrebbe trovarsi nell’impossibilità di scrivere il poema se, in quanto “saggio”, la sua “imperturbabilità” gli consente di “astrarsi” dalla sorte comune? Quand’anche volessimo forzare l’interpretazione, accentuando la differenza tra il privato cittadino, che teme per la sua personale sicurezza, e il leader politico che si impegna attivamente nella lotta (il testo accentua, invece, il loro trovarsi “dalla stessa parte”, entrambi ugualmente “costretti” dall’iniquità dei tempi), dovremmo comunque rilevare che l’interesse di Lucrezio, per una vita comune che non sia dominata dal rischio di guerra, disordine, violenza, non è minore, quale che sia il “grado” da lui raggiunto nell’apprendimento della saggezza, di quello putativamente attribuito all’auspicato discepolo. Il fatto è, appunto, che gli uomini non sono dèi. Per parte nostra, sosterremmo volentieri che è questo il nesso, lacuna o no, che collega a questi versi la sequenza formulare che segue, sulla beatitudine divina (specie se si considera che i raccordi “per giustapposizione” sono una forma normale di transizione, per tutto il poema). Se si interpreta, come sopra abbiamo visto, questa descrizione nel senso della “meta” indicata a Memmio come culmine della saggezza umana, di una possibile “elevazione” individuale in una regione superiore, letteralmente “fuori del mondo” – non solo si va cadere nelle incongruenze
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che abbiamo indicato, ma ci si trova in contrasto con quasi tutte le espressioni letterali che la compongono, che definiscono, inequivocabilmente, il quadro di una condizione inaccessibile, estranea ad ogni “mortale”. È la natura degli dèi per se, che consente loro di godere immortali aevo summa cum pace; essa è, infatti, privata dolore omni, privata periclis; non può essere concepita che come semota ab nostris rebus seiunctaque longe. L’immortalità, l’immunità naturale da dolori e pericoli, l’infinito distacco dalle nostre cose, la separatezza (“ontologica”: gli atomi che formano il corpo degli dèi sono diversi dai nostri – il che determina anche le prime due condizioni): è questo che definisce la felicità degli dèi come indipendente da, e quindi indifferente a, qualsiasi possibile “stato di cose” del mondo umano (in cui del resto non “abitano”). Con il corollario finale, che richiama, in piena coerenza, la polemica antireligiosa: «per nulla bisognosa di noi [la natura felice del dio] / né dalle benemerenze è avvinta, né è toccata dall’ira». L’interpretazione che ispira, e a nostro avviso pregiudica, la lettura di questo testo è, potremmo dire, “classica” per tutta una corrente di studi (che in Italia è rappresentata, tra l’altro, dall’Epicuro di M. Isnardi Parente). Ma vorremmo ancora citare qualche frase dall’introduzione di Paratore alla sua edizione lucreziana, perché ci pare che la esprimano nel modo più “plastico”, e radicale. Per esempio: «l’atteggiamento con cui il poeta considera l’esistenza (quella prova in cui l’umanità comune è destinata a fallire, e solo un’élite di saggi riesce a non naufragare, allenandosi ad una imitatio Dei che è assidua rinuncia, distillazione scrupolosa del piacere nella forma di una disinteressata e pacata contemplazione)»8; oppure: «l’interesse del σοφός epicureo per la vita politica è limitato solo a quel tanto che gli consente di barcamenarsi tra i tumulti dell’agorà
8. Ivi, p. 92.
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e del foro, di pilotare, con episodica, contingente prudenza la propria barchetta fra quei marosi per giungere al desiato porto della beatitudine atarassica»9; o ancora: «certamente siamo in presenza di uno di quei casi-limite [si tratta sempre dei versi 41-43] in cui anche il filosofo epicureo è costretto a prestare orecchio al tumulto dei negotia, nella speranza di trovare il modo per raggiungere la riva fuori dai marosi»10. La morale epicurea è individualistica e elitista, perché solo a pochi può esser dato di raggiungere l’atarassia – non essendo altro quest’ultima, e il cammino che vi conduce, che la conquista di una condizione di perfetta indifferenza (oltre che ai piaceri e ai dolori del corpo) rispetto alle condizioni della vita comune, che il filosofo prenderà in considerazione solo quando mettano immediatamente in pericolo la “base materiale”, per dir così, della sua vita di filosofo. Forse non è inutile – ma non è nemmeno decisivo, a un livello così “generale” – domandarsi come si integra in questo quadro un tema che Paratore considera a giusto titolo come assolutamente centrale, quello della polemica anti-religiosa. Si può rispondere, astrattamente, che “liberandosi” della religione il saggio non fa che esercitare la sua “non comune” capacità di individuo – in mezzo a una grandissima maggioranza di uomini che invece soccombono all’impulso psicologico dettato della paura degli dèi; ed è per questo che affidare il problema a singole, generali formule non ci fa uscire dal rischio del verbalismo. Osserviamo, piuttosto, che la religione non è soltanto il frutto della “fragilità psicologica” (oltre che dell’errore “teoretico”) degli uomini; è un insieme di pratiche e di discorsi, di istituzioni e di regole, che si è costituito storicamente, e “occupa” lo spazio della vita comune. Le credenze e i riflessi
9. Ivi, p. 94. 10. Ivi, p. 98.
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della coscienza individuale sono ovviamente condizionati, ab origine, da questo “fatto” socio-culturale; ed è contro questo “fatto” che Lucrezio esercita lungo tutto il poema la sua critica e la sua denuncia – e il suo sdegno. In quanto fatto storico, non può che essere collegato al divenire complessivo della società umana – in rapporto, per esempio, al suo utilizzo come instrumentum regni, e cioè all’intenzione del potere (che è anch’esso, come la filosofia, un affare di élites: sono i quadri attuali o potenziali del potere politico, i ceti socialmente dominanti, per quanto dediti ai negotia, che dispongono di norma dell’otium necessario per dedicarsi agli studi – e quindi i primi destinatari dell’insegnamento delle scuole) di servirsene per disciplinare o mobilitare “l’opinione pubblica”; oppure in rapporto al diffondersi, in quello che oggi chiameremmo il sistema dell’istruzione, di un sapere “scientifico” (è appunto un sapere della natura e del cosmo che un epicureo considera come la prima “arma” contro la religione). È allora naturale domandarsi: il saggio epicureo, che si trova impegnato in una propaganda attiva contro la religione, e biasima apertamente la sua istituzionalizzazione, non è forse “personalmente interessato” a un contesto sociale in cui il potere della religione sia minore – e minore la pressione che esercita sulla vita interiore di tutti gli uomini? Sembra difficile rispondere negativamente. Altrettanto difficile sarà allora escludere dal dominio di questa saggezza, e dal modo in cui si forma o si apprende, un giudizio e una “scelta di valore” circa il divenire e le prospettive dell’associazione umana. È su questa “esistenza di fatto” del genere umano, come l’abbiamo prima chiamata, e non solo dell’individuo, che una morale epicurea deve anche, insomma, essere “messa a prova”. Un’altra classica controversia lucreziana è a nostro avviso legata a questo problema, quella del famoso “pessimismo” che affiorerebbe nel poema – e che viene di solito rilevato soprattutto da chi vi trova il segno di un potenziale contrasto, o di
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una vera e propria contraddizione con l’“ortodossia” epicurea. Il rinvio, naturalmente, è a tutti quei passi in cui viene descritto, o piuttosto potentemente scolpito, il dolore del mondo; e diventa non di rado assai pedantesco, specie quando sembra ignorare che Lucrezio espone i contenuti dell’epicureismo mantenendosi sempre in stretto contatto con l’esperienza di un lettore “ingenuo”, con le prime sorgenti, per dir così, di un sentire “immediato” del mondo (che è appunto il suo modo geniale di risolvere il rapporto tra “filosofia” e “poesia”). Un buon esempio di questa pedanteria sta nel fatto che si sia voluto leggere in questa chiave (pessimistica, o piuttosto “doloristica”) persino l’espressione «me quaedam divina voluptas percipit atque horror», che sta a cavallo tra i vv. 28 e 29 del proemio del libro III, e dice la reazione soggettiva di fronte allo spettacolo (o piuttosto all’idea, plasticamente rappresentata) dell’infinito; non solo esaurendo frettolosamente l’area semantica di horror in un significato di “paura” o “angoscia”, ignorandone il riferimento (pienamente attestato nella lingua poetica e religiosa) a quella che oggi chiameremmo l’emozione del sublime (che la traduzione italiana giustamente rispecchia: «mi prende […] un certo divino piacere / e un brivido»), ma soprattutto non tenendo conto che Lucrezio sta “testimoniando” (in prima persona) di una situazione “sentimentale” che non può certo avere riscontro nei testi di Epicuro – quella di chi si trovi immediatamente di fronte allo spettacolo dell’infinito, così come le spiegazioni e i ragionamenti in cui quei testi consistono glielo ha reso immaginariamente “visibile”. È una situazione continuamente ricorrente. Quando si parla della “psicologia” umana, e dei mali che in essa si generano, Lucrezio non dirà, come Epicuro, che si tratta appunto di “mali” – ce li farà “vedere” (basti ricordare il passo più volte richiamato in cui trascrive il tema del “desiderio vuoto”). Quello che è interessante, per noi, è che si possa considerare l’“insistenza” con cui Lucrezio rappresenta il male, il dolore, come spia di
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un’incompatibilità di fondo con l’essenziale tesi epicurea per cui il dolore non è “necessariamente” prevalente, nella condizione umana. È evidente che si esprime qui un assunto di fatto convergente (quand’anche non vi si trovi associato, in chi lo sostiene) con quello che abbiamo appena discusso, della “cifra” aristocraticamente individualistica della morale epicurea. Se il saggio aspira, e può “avvicinarsi”, all’atarassia (condizione “divina”, per definizione accessibile solo a una ristrettissima élite) – allora l’atteggiamento che gli è proprio rispetto alla sofferenza fisica e morale “degli altri” è necessariamente, sostanzialmente, di “indifferenza”; dal suo punto di vista (che evidentemente Lucrezio non riesce del tutto a far proprio) questa sofferenza è “poco interessante”. Possono sembrare differenze di accenti, di “parole”. In realtà, se si guarda all’essenziale, la morale di Epicuro non può che essere “depotenziata” – e allontanata da noi – se il rapporto del saggio con la felicità è pensato a partire da una sua “separazione” (in virtù di misteriose qualità individuali) rispetto al “comune” dell’esperienza umana. È assai dubbio, del resto, che si possa sensatamente parlare di una “morale” quando il fine proposto è collocato “al di sopra” delle possibilità degli uomini, di tutti gli uomini. Persino in una morale come quella di Kant, in cui la conformità alla legge è pensata come rottura di ciò che lega l’individuo alla sfera della sensibilità (dunque il contrario della morale di Epicuro), il postulato dell’immortalità dell’anima serve a reintegrare, attraverso l’infinita “perfettibilità”, un modo d’essere del soggetto (dell’individuo) come possibilità “ontologica” dell’adeguamento al fine. Ma, restando a Epicuro, abbiamo visto come l’equivoco nasca da una interpretazione dell’atarassia nei termini “letterali” dell’imitatio dei – quali che siano le attenuazioni retoriche che vi si possano aggiungere. Lasciando del tutto in ombra: che la determinazione del fine si lega strettamente al rilievo della similarità di organizzazione fra tutti gli individui della specie – per natura
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diversi dagli dèi; che il “principio” di questo “fine” è inscritto in ogni autocoscienza individuale, perché radicato nella sensibilità; che ogni esperienza umana, in ogni momento, dispone di un criterio “sicuro” per avvertire come “controfinalistica” la propria “situazione” – nella percezione del dolore. Il problema che Epicuro ci pone, allora, è quello di provare a “pensare insieme” due aspetti fondamentali – della sua morale, e della sua teoria del piacere: da un lato quella che abbiamo chiamato (in aderenza ai testi) la “facilità”, il fatto che gli uomini abbiano per natura in se stessi tutto ciò che “serve” al raggiungimento del fine; dall’altro la difficoltà del cammino della saggezza, la forza degli ostacoli che incontra, la constatazione di quanto gli uomini, così come li vediamo esistere ed agire, ne sono lontani; ci ricolleghiamo così, direttamente, alla conclusione del capitolo precedente. Abbiamo visto che, nella “descrizione” di questo cammino, i due aspetti sembrano “stare assieme” senza apparenti tensioni. Il saggio, l’individuo che si mette sul cammino della saggezza, si trova ad essere insieme impegnato in un costante, difficile lavoro di critica e autocritica, e sostenuto dal contatto continuo, “intimo”, con la sua propria, “naturale”, sensibilità. Ma se vogliamo “saggiare” la possibilità effettiva di questa articolazione, rimetterla a prova, per nostro conto, riteniamo che sia necessario introdurre un tema che non si trova esplicitamente svolto nei testi di Epicuro (al solito), ma che rappresenta ciò su cui quell’articolazione può “reggersi”, in senso sistematico – qualcosa come un “principio metodico”, il terreno effettivo, “operativo”, della connessione: il tema del rapporto tra “natura” e “società” (o “cultura”). L’abbiamo già in qualche modo anticipato: si tratta di “far intervenire”, nel “progetto” della morale, la considerazione specifica (e la “valutazione”) di quel “processo di civilizzazione” in cui l’esistenza effettiva di qualcosa come un “genere umano” è ab origine impegnata.
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La malattia umana Il miglior “punto di partenza”, in questa direzione, ci sembra che sia proprio quella presentazione d’insieme della dottrina della saggezza, che ci è già accaduto di evocare, che tutta la tradizione ha ripreso nella formula del quadrifarmaco. L’apprendimento della saggezza è un processo di “risanamento”, di “guarigione”: consiste nella (o corrisponde alla) efficace somministrazione di un rimedio, di un farmaco (saranno poi quattro) che opera sul “paziente”, modificando profondamente il suo rapporto con alcuni essenziali oggetti o aspetti dell’esperienza umana: gli dèi, la morte, il piacere, il dolore. Ci si potrebbe domandare, intanto, perché questa formulazione “riassuntiva”, che troviamo una volta sola, nei frammenti di un trattato di Filodemo, sia stata accolta come un “luogo comune” da tutta la tradizione interpretativa. Il termine quadrifarmaco è usato da Filodemo (che è il gran maestro dell’epicureismo nella Roma tardo-repubblicana; dalla sua biblioteca provengono quelli che chiamiamo i “papiri di Ercolano”) per riassumere questa sequenza: «il dio non incute timore, né turbamento la morte, il bene è facilmente procacciabile, il male facilmente sopportabile» (fr. 196 A). È facile vedere come queste quattro “tesi” corrispondono al modulo ricorrente in Epicuro (per esempio le prime quattro MC) dei quattro “principi”, “scoperte”, “verità” che guidano il saggio nella sua condotta, e che devono essere insegnate. Ma non c’è, in Epicuro, il paragone di questo insegnamento con la somministrazione di un farmaco. Il successo della metafora medica di Filodemo (che dobbiamo considerare come di uso corrente, nella scuola), chiama in causa almeno due diversi contesti di interpretazione – uno senza dubbio più pertinente, perché rimanda alla continua presenza, nella filosofia morale dei greci (“da sempre”) di riferimenti anche linguistici, terminologici, ai saperi e alle pratiche della medicina; l’altro più estrinseco e superficiale,
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che corrisponde all’assimilazione, in generale, dell’“ignoranza” con la “malattia”. Il filosofo, che apporta il giusto metodo della conoscenza, l’uso corretto degli strumenti logici, ecc., “corregge” quei “difetti” (come dei sensi, o degli organi interni) che impedivano appunto all’intelletto di funzionare “normalmente”; il passaggio dall’ignoranza al sapere, dall’errore alla verità si lascia dunque “spontaneamente” descrivere come un passaggio dalla malattia alla salute. Questi due contesti, nel caso di Epicuro, vanno accuratamente distinti. Accettare, con tutta la tradizione, la terminologia di Filodemo, assimilare il processo di apprendimento della saggezza ad una “terapia”, significa porre “al principio” della filosofia, alla base della sua “necessità”, una precisa diagnosi. La malattia di cui gli uomini soffrono, per la cui guarigione hanno bisogno di tutto un sapere (di se stessi e del mondo), non può essere rappresentata in termini, diciamo così, “difettivi” – come una casuale “mancanza”, rispetto ad uno standard già fissato nel funzionamento “normale” dell’organismo (dell’intelletto). Ricordiamo che per Epicuro tutto il sapere, tutta la filosofia “serve” a questo scopo “pratico”, di liberazione, guarigione. Gli uomini “si accorgono di essere malati” perché soffrono. Non se ne accorgerebbero, se potessero (“l’ignorante” non soffre necessariamente della sua ignoranza, né colui che ha “lacune di ragionamento”) non soffrire. Non è possibile descrivere, comprendere questa sofferenza nei termini semplicemente di una “mancanza” – di conoscenza, di “correttezza” intellettuale. Se l’uso corretto dell’intelletto, la conoscenza “vera” possono aiutarli, è perché sono necessari a comprendere le “cause” della sofferenza a cui vogliono sfuggire – che cosa la produce, la forma, che cosa “accade” in loro (o è accaduto) che li “costringe” a soffrire. Certo, l’ignoranza, per sé, può produrre molti mali. Ma l’analogia non regge, tra il sofferente e il non-sofferente, da un lato, e l’ignorante e il “sapiente”. “Risanare” l’intelletto non è l’obiettivo. L’obiettivo è comprendere e superare (certo:
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pensando) specifiche cause di sofferenza (la malattia o le malattie, proprio quelle, di cui si soffre). A dover essere “guarito” non è l’intelletto (e perciò “guarigione” è molto più che una semplice metafora): è l’uomo stesso. Che il “paziente” sia davvero un “malato”, ce lo dicono i termini stessi della formula di Filodemo – per quanto “ultracondensata” e sommaria: bisogna guarire dalla paura e dal turbamento, dall’ansia di non potersi procacciare il bene (piacere), di non poter sopportare il male (dolore). La malattia non si manifesta come un “errore” – sul piano dell’enunciazione, dell’opinione o della credenza; si dà a vedere, “clinicamente”, nella sfera delle reazioni emotive, degli impulsi, dell’affettività – della “psicologia”. L’individuo in questione “reagisce” alla presenza degli dèi, alla coscienza di essere mortale, in un modo turbato e distorto – e ha un’immaginazione “allucinatoria”, che sconvolge la sensibilità, il “sentimento” del corpo, il “vissuto” del piacere e del dolore. La terapia non può che “partire” da una precisa diagnosi; ma una diagnosi non è una semplice constatazione dei sintomi: è legata, inscindibilmente, ad una eziologia. “Prendere sul serio” la metafora medica (com’è doveroso, se la si accetta) impone dunque di considerare il “processo” della malattia in relazione alle “cause”. Se non possiamo considerarla come una semplice “mancanza” (individuale), tanto meno potremo vedervi il “segno” di una deficienza, diciamo così, “creaturale” – l’effetto di un limite “naturale” (a cui solo “qualcuno” può sfuggire – come ci sono persone che “non invecchiano”, o dotate di vista o udito eccezionalmente acuti). La ricerca delle cause si esplica in una “anamnesi”, per usare un altro termine medico, dell’individuo – e in una ricognizione del contesto, dell’ambiente in cui vive. La prima “malattia”, nell’ordine dell’enumerazione, è la paura degli dèi. La “causa” non può essere identificata con l’“errore” – quella “falsa opinione” che ci fa giudicare come un pericolo,
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una minaccia, qualcosa che “in realtà” non lo è – come se qualcuno scambiasse, ci si perdoni la trivialità dell’esempio, un gatto con una tigre. Gli dèi “fanno parte” dell’essere del mondo; se la loro presenza è “paurosa”, vuol dire che la vita umana sarà governata in permanenza da un sentimento di impotenza, da una sovrastante “incombenza”, dall’ansiosa attesa riguardo alla volontà imperscrutabile di un superiore potere, e dal bisogno incessante di “conciliarsi” questo potere, sottoponendosi ai suoi ambigui comandi. Questo “stato sentimentale” dell’individuo non può spiegarsi se non è “incarnato” in una “credenza” collettiva – riprodotta, ogni volta, in una coscienza. C’è la paura degli dèi, negli uomini come ora li vediamo, nei pazienti da curare, perché c’è la religione. Lucrezio colloca la polemica anti-religiosa già all’inizio del poema, quando annuncia enfaticamente a Memmio la “liberazione” che la filosofia di Epicuro apporta. L’audacia del filosofo ha «infran[to] gli stretti serrami delle porte della natura» (I, 76), svelando il meccanismo che fissa ogni cosa nella sua natura propria, nel suo formarsi e dissolversi. La prima conseguenza, il primo effetto (quare) è che «la religione è a sua volta sottomessa e calpestata / mentre noi la vittoria eguaglia al cielo [religio pedibus subiecta vicissim / obteritur, nos exequat victoria caelo]» (I,78-79). I versi successivi narrano il sacrificio di Ifigenia, l’esempio “definitivo” dei mali che la paura degli dèi produce in tutta la comunità umana, quando diventa “religio”. Non è un singolo uomo, Agamennone, che uccide Ifigenia perché ha paura che Artemide, offesa, gli sia ostile (per propiziarsene il perdono): quando si arriva a questo (la pratica cultuale della vittima sacrificale), è necessario che l’intero gruppo umano (qui l’esercito danao, guidato da quelli che Lucrezio chiama prima virorum – «il fiore degli eroi», a sottolineare l’adesione unanime, nei “migliori”, a quel culto) sia “inquadrato” sotto il comando di un’autorità religiosa (Lucrezio menziona accanto al re i sacerdoti – ministres – che «cela[no) il ferro» agli occhi
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della principessa – sono loro che hanno prescritto il rimedio atto a rimuovere l’ostacolo della bonaccia, in cui sempre loro hanno visto il segno dell’ira di Artemide), e che la parte del divino nelle cose umane sia protetta e garantita da solide, tradizionali istituzioni (il motivo per cui Artemide poteva essere adirata, come ogni lettore sapeva, era che Agamennone aveva ucciso nella caccia una cerva a lei consacrata). La liberazione che la filosofia porta agli uomini (lucrezianamente) ha dunque come “oggetto”, direttamente, un modo d’essere collettivo; collettivo, potremmo dire, fin dalle origini (o “in sé”) – perché la nascita di qualcosa come la religione non può spiegarsi con una semplice “convergenza”, di reazioni psicologiche e associazioni logiche, nei singoli individui. E infatti, quando Lucrezio prende a narrare le origini della società umana, arriva a trattare della religione, geneticamente, in un contesto in cui ha già delineato, fino a uno stato che potremmo dire “avanzato”, il formarsi di questa società. Non solo c’è già il linguaggio, ma si sono sperimentate diverse forme di produzione/distribuzione della ricchezza, e della sovranità, e si è già costituito il diritto. Non sono “bestioni”, gli uomini che hanno “fondato” la, o le, religioni. Le loro “personali” motivazioni si esprimono, a questo punto, direttamente in un complesso sistema di credenze, nella norma sociale, nell’istituzione. In un sistema culturale. È per questo, poiché storicamente si è costituito questo sistema, che quelle motivazioni restano attuali “oggi”. I versi con cui Lucrezio apre questa “sezione” dell’excursus del libro V dicono: Ora, quale causa abbia diffuso per le grandi nazioni / la potenza degli dèi e abbia riempito le città di altari / e abbia fatto istituire solenni riti, quei riti / che oggi fioriscono in grandi occasioni e in grandi sedi / donde ancor oggi è piantato dentro i mortali l’orrore / che innalza nuovi templi di dèi su tutta la terra / e costringe a frequentarli nei giorni festivi [Nunc quae causa deum per magnas numina gentis / pervulgavit et ararum
298 compleverit urbis / suscipendiaque curarit sollemnia sacra, / quae nunc in magnis florent sacra rebu’ locisque / unde etiam nunc est mortalibus insitus horror / qui delubra deum nova toto suscitat orbi / terrarum, et festis cogit celebrare diebus]. (V, 1160-1168)
Quell’unde fa dell’horror di oggi la conseguenza diretta dell’“apparato” che le religioni hanno sviluppato, e il mantenimento, la continua “riattivazione” di questo horror porta, spinge (cogit) a riprodurre e ad estendere questo apparato, e la sua forza di persuasione e di costrizione. Insomma: se l’ideologia religiosa conferma, nel tempo, di corrispondere ad una propensione all’errore, ad una “impressionabilità” che è nella coscienza di ciascuno (e questo è il nesso esplicativo, logicamente “primo”, della sua origine), questa coscienza oggi è essa stessa costituita nel dominio di quella ideologia (che è, ovviamente, un “fatto” sociale). Il saggio epicureo sa, non può non sapere, che la “causa” di questa malattia dell’individuo (la paura degli dèi) sta per l’appunto in questo dominio; e non potrà combattere, guarire la malattia se non esercitando la propria critica contro l’istituzione (la religio) che la “incarna”. Abbiamo insistito su questo punto perché, se pure l’implicazione, quasi un’endiadi, tra paura degli dèi e religione appare ovvia, sfugge per lo più che essa rimanda a, o costituisce, l’incrocio di due dimensioni, o “sfere”: il privato e il pubblico, l’individuale e il collettivo, la psicologia (o la logica) e l’ideologia. Sottolineare, nel primo rimedio o “precetto” del quadrifarmaco, la carica anti-ideologica della polemica non è dunque senza importanza – se stiamo ponendo il problema delle “conseguenze” della morale epicurea in termini di etica pubblica (o, che è lo stesso, del rapporto tra questa morale e una critica dell’ideologia – della società). Ci si potrebbe però obiettare che una implicazione così stretta, trattandosi di religione, è affatto eccezionale: restando nei termini del quadrifarmaco, nessuno
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degli altri “obiettivi” della terapia (il rapporto con la morte, con il piacere, con il dolore) sembra contenere un qualsiasi riferimento alla sfera del pubblico, dell’ideologico, dello “storico”. Ciò appare addirittura ovvio nel caso della paura della morte. Qui la condizione di malattia sembra essere, nell’individuo che soffre, un “dato” originario, il frutto di un’autopercezione tutta “interna”, immediata. La morte, il pensiero della morte, si presenta ad ognuno come il limite, fatale, del proprio esserenel-tempo – nell’“astrazione” del tempo, che proietta la durata nell’indefinito; se questo pensiero genera “paura”, angoscia, non sembra che ciò “chiami in causa” nessun altro “rapporto” – con gli altri uomini, la storia, i contenuti determinati di una credenza collettiva. Questo è certamente vero – nel senso che il rapporto di un esserci individuale al tempo, il “vissuto” del tempo, può essere considerato (fino a un certo punto) come un’“invariante”, rispetto all’insieme delle pratiche e dei comportamenti, delle credenze e dei “valori” collettivi. E a questo dedicheremo specificamente il prossimo capitolo. Per quello che ora ci interessa, però, osserviamo che la diagnosi (e il “trattamento”) di questa particolare malattia (la paura della morte) non si presenta affatto, nei nostri testi, “senza rapporto” con un discorso molto più ampio – sull’intero contesto della vita umana, e l’“insieme” dei mali. E ciò, intanto, per una ragione perfettamente “sistematica”. Se il quadrifarmaco elenca i diversi obiettivi della terapia, questo non vuol dire che essi possano essere raggiunti “separatamente”: non possiamo pensare, nei termini dell’epicureismo, ad una guarigione “parziale” – per cui per esempio qualcuno “si liberi” dalla paura degli dèi, e rimanga in preda a un pensiero angoscioso della morte. Come già abbiamo avuto occasione di osservare, non c’è una stabile condizione intermedia tra “saggezza” e “non” – non si può essere saggi “a metà”.
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Ciò vuol dire che tra le diverse malattie c’è un rapporto – se si preferisce, che esse sono in realtà “sintomi” di un’unica malattia. Un rapporto “interno”, e, per dir così, circolare (o “sinergico”): gli aspetti, i “disturbi” propri di ognuna possono trovare nel “concorso” dell’altra un principio attivo di manifestazione – e a sua volta ciascuna “sviluppa” tendenze che appartengono, “sintomaticamente”, all’altra, ma non si esprimerebbero se non si alimentassero (anche) a questa fonte. Vediamo come questo “funziona” rispetto al nostro “secondo sintomo”. Tutto il III libro di Lucrezio, si può dire, è dedicato al tema della morte. La parte centrale (diciamo dal v. 417 fino al v. 829) contiene la dimostrazione della materialità dell’anima, della sua inseparabilità dal corpo, di cui necessariamente “condivide” l’arco vitale. Ed è a conclusione di questa parte, a dimostrazione conclusa, che leggiamo i vv. 830-831: «Nulla dunque la morte è per noi né ci riguarda punto / dal momento che la natura dell’animo è conosciuta mortale [Nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum / quandoquidem natura animi mortalis habetur]». Il rimedio più “immediato”, e in un senso “autosufficiente”, per guarire la paura della morte sta dunque in una conoscenza “vera”, potremmo dire, della condizione del “morto”. Poiché non c’è più “anima” dopo la morte (Lucrezio qui usa animus, ma in un senso che è evidentemente “comprensivo” della “natura senziente”) – allora “la morte” non può essere per nessuno, e la mia morte per me, una condizione “dolorosa”. Come si può aver paura di una assenza di sensazione – se il male, per l’uomo, non può essere che sensazione, di dolore? Ma gli uomini, i “malati” hanno finora “frainteso” questa condizione, hanno creduto (credono) in una immortalità (o sopravvivenza) dell’anima (personale). Perché? Qui non può trattarsi (solo) di ignoranza, né a propriamente parlare di un “personale” errore. Nulla si può trovare, su que-
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sto punto, che corrisponda alla spiegazione che altrove Lucrezio dà di quella “falsa conseguenza” che ha portato gli uomini (e magari un singolo uomo) ad attribuire agli dèi un potere ordinatore e perturbatore sul mondo e sulla vita. Se gli uomini si sono inventati un “al di là” minaccioso in cui possono dopo la morte soffrire, eternamente “esser puniti” – la prima spiegazione che viene in mente è che questo al di là si trovi nei racconti, nei riti, nelle prescrizioni della tradizione religiosa. Essere indifferenti al “tempo dopo la morte” significa, per esempio, non dare alcuna importanza al (proprio) cadavere. Secondo Diogene Laerzio «gli epicurei non credono che il saggio debba preoccuparsi della sepoltura» (118, 5-6). Ma Lucrezio associa a tal punto il terrore della morte al pensiero della vicenda ulteriore del corpo (senziente) da scrivere, poco dopo: «Ognuno infatti che da vivo si rappresenta / che dopo la morte uccelli e fiere sbraneranno il suo corpo / commisera se stesso […] / Per questo si duole di essere nato mortale [Vivus enim sibi cum proponit quisque futurum / corpus uti volucres lacerent in morte feraeque / ipse sui miseret […] / Hinc indignatur se mortalem esse creatum]» (vv. 879-884). La credenza nell’immortalità dell’anima, prima “causa” della paura della morte, deve essere combattuta con argomenti “scientifici”, razionali; ma essa si presenta, intanto, come un dread of anything after death, per dirla con Amleto, l’idea di un undiscovered country in cui l’individuo continua a vivere, a sentire. Non si tratta di stabilire, nell’“eziologia” del male, una univoca priorità logica – se è tutta la vita psichica dell’uomo (degli uomini) che sta dentro un coerente “racconto”, una rappresentazione del destino comune. Antigone “non sa nulla” dell’idea (filosofica) di una distinzione ontologica tra il corpo e l’anima, che implicherebbe l’immortalità di quest’ultima; ma c’è per lei un comandamento divino, una legge “superiore”, immodificabile, da tutti conosciuta perché inscritta nella tradizione e nel costume, che impone i riti della sepoltura, come
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indispensabile “passaggio” per rendere meno “dolorosa” la vita ulteriore del defunto – c’è dunque per lei una continuità della vita dopo la morte. Non vi è dubbio, lo vedremo subito, che le credenze religiose sull’oltretomba, che occupano tanta parte della polemica di Lucrezio, non sono l’unica spiegazione della paura – e Lucrezio ne adduce, o piuttosto ne evoca, altre. Segnaliamo però, en passant, quanto sia ingenuo il tentativo di sottovalutare questo aspetto, con l’argomento che nelle élites romane la fede nei miti dell’al di là, con le loro orrorifiche immagini, era tutt’altro che profondamente sentita – testi Cicerone, e poi Seneca. Questo argomento ha avuto una certa fortuna – soprattutto, è vero, prima che negli studi sulle religioni classiche l’indirizzo prevalente diventasse quello dell’antropologia storica, con la sua insistenza sulle “strutture” dell’immaginario come sistema di “credenze” affatto irriducibile alla logica della “dimostrazione”, della sequenza di “ragioni”. Ed è singolare che se ne trovi menzione anche lì dove si insiste sull’interpretazione “aristocratica” della pedagogia lucreziana: se fosse accolto, tanto più si dovrebbe concludere che quell’insegnamento non è per nulla specificamente rivolto a ristrette élites socio-culturali. E poi, c’è appena bisogno di osservare che Cicerone, in particolare, non è certo un “nemico” della religio: se si preoccupa di distinguerla dalle “superstizioni”, è prima di tutto per difenderne un’accezione più “nobile”, “elevata”, in tutto compatibile con la “ragione” – accezione che in Epicuro e in Lucrezio semplicemente non si dà, perché la religione, comunque fondata su un legame tra il divino e l’umano, è per loro interamente, possiamo dire, irrazionale, “superstizione”. Oppure che (come Paratore stesso osserva) tutto lo “scetticismo” o il “razionalismo” di queste élites non avrà certo impedito a un loro eminente rappresentante (“a metà” fra Cicerone e Seneca; nel contesto di “restaurazione ideologica” dell’età di Augusto) di rivendicare, pur cercando di attenuarne il “meraviglioso”, il valore di tutti i prodigi e mi-
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racoli tramandati nella storia di Roma, ab urbe condita, come segno e rivelazione del destino provvidenziale. Ciò che conta (anche senza scomodare Paul Veyne, o meglio ancora Vernant e la sua “scuola”) è che la funzione e l’efficacia della “credenza” collettiva, tradizionale, non può essere misurata sul metro dell’adesione individuale, convinta, “ragionata”. Nell’epicureismo, e in Lucrezio, la diagnosi del male integra il riferimento a un “immaginario” (collettivo) che opera nell’individuo a partire da ciò che oggi chiameremmo il suo “inconscio” – non oggi soltanto, se nel verso che precede l’ultima sequenza citata Lucrezio inserisce il termine inscius («sed facit sui quidquam super inscius esse» – «ma inconsciamente fa sopravvivere qualcosa di sé»), proprio in riferimento a chi «non […] dat quod promittit», quando «neget ipse / credere se quemquam sibi sensum in morte futurum» («asserisca di non credere che morto avrà qualche senso»). E questa situazione, che rimanda alla persistente influenza di una fede “popolare” sotto la vernice di una proferita, “colta” incredulità, era stata già ampiamente descritta subito dopo i versi che più strettamente “legano” l’angoscia della morte con la paura per il destino ultraterreno dell’anima (vv. 37-39: «che si debba scacciar via a precipizio quel timore dell’Acheronte, / che dal profondo sconvolge appieno la vita umana, / tutto inondando del nero della morte [et metus ille foras praeceps Acheruntis agendus, / funditus humanam qui vitam turbat ab imo, / omnia suffundens mortis nigrore]»); sono i vv. 41-58, che andrebbero integralmente citati: «spesso gli uomini […] dicono di sapere che la natura dell’animo è fatta di sangue / o anche di vento [saepe homines… ferunt… se scire animi naturam sanguinis esse / aut etiam venti]» (sono spiegazioni materialistiche “tradizionali”; in base alle quali si potrebbe anche «non avere affatto bisogno della nostra dottrina»); ma poi, questi stessi uomini, «negli acerbi frangenti con ansia / molto più acuta rivolgono gli animi alla religione [multo… in rebus acerbis / acrius advertunt animus ad religionem]» (i versi precedenti hanno plasticamente esemplificato queste
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“situazioni di crisi”, e le pratiche devozionali che in esse irresistibilmente riaffiorano). E Lucrezio conclude, con stupenda concentrazione espressiva, che negli animi gravemente turbati dalle circostanze «eripitur persona, manet res» – «viene strappata la maschera, rimane la realtà». La situazione, potremmo dire, è quella stessa a cui siamo abituati nel nostro mondo, in un contesto di ben più conflittuale convivenza tra l’immaginario religioso e l’agnosticismo o l’ateismo diffusi tra le “classi colte”: quella (ci si perdoni la banalità) del “libero pensatore” che sul letto di morte invoca i sacramenti e si rivolge ansiosamente a quei segni e pratiche del culto che potranno forse salvarlo da quelle pene eterne in cui tenacemente, al più profondo di sé, continua evidentemente a “credere”. C’è un rapporto “intimo” dunque (abbiamo detto “sinergico” o “circolare”) tra paura degli dèi e paura della morte. Ma quando Lucrezio descrive questa paura (sempre “nel vivo” degli atteggiamenti e delle azioni, senza distinguere astrattamente fra “cause” e “effetti”), vengono puntualmente evocati anche gli altri due “sintomi” della quadruplice malattia. Subito dopo questo brano, e fino al v. 86 (prima di riproporre nei vv. 8793 la sequenza formulare che ripete l’opposizione tra il puerile, insensato terrore – le tenebre – e la luce rischiaratrice e rasserenante della conoscenza), si trova un altro “quadro” che bisognerebbe per intero trascrivere, non fosse il timore della lunghezza: il quadro delle azioni “cattive”, malefiche, “dettate” dalla paura della morte – che descrive “in atto”, potremmo dire, questa stessa paura, associandola inscindibilmente a una sensibilità ossessionata, e a un calcolo “perverso”, riguardo alle cause del dolore – a un modo “malato” di sentire e fuggire il dolore. «Queste piaghe della vita / in gran parte è il timore della morte che le nutre [haec vulnera vitae / non minimam partem mortis formidine aluntur]»; e sono, i vulnera, per esempio l’avidità e la cieca brama di onori (avarities et honorum caeca cupido), socios… atque ministros di delitti. Ma l’avidità, la bra-
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ma di onori, «la somma potenza» a cui si aspira adoperandosi «notte e giorno con soverchiante fatica», il tentativo d’ingrossare le proprie sostanze e raddoppiare la ricchezza sanguine civili («col sangue dei cittadini») come possono essere alimentati dalla paura della morte se questa paura non diventa quasi il “passaggio al limite”, o un “nome collettivo”, di tutte le “altre” paure – di quei mali, di quei dolori, che sembrano mantenere la vita «quasi già […] davanti alle porte della morte [quasi iam leti portas… ante]»? E infatti «il vergognoso disprezzo», per esempio, o «l’amara povertà paiono [tanto] remoti da una vita dolce e stabile» che gli uomini vogliono «fuggire lontano da essi e lontano averli scacciati», “a qualsiasi prezzo”. Questo terrore, che li costringe, è «fallace [falsus]»: nel contemptus (che è l’esser lasciati in disparte, il non essere tenuti in conto – e genera per contrasto una «brama di statue e di rinomanza», e l’«invidia [del] potente [che] incede con splendido onore»), così come nella egestas (che si fugge accumulando con ogni mezzo ricchezza) c’è ancora vita, non morte: una vita che può essere perfettamente «dolce e stabile» – se illuminata dalla saggezza epicurea. Ma gli uomini “sentono” il “dolore” di questi “mali”, di ciò che sembra (videtur) un male, vivono queste “rappresentazioni” con la stessa urgenza esistenziale, potremmo dire, con cui avvertono l’alternativa tra la vita e la morte, un “pieno” e un “vuoto” d’essere. Siamo ben oltre un nesso determinante, specifico, tra un’azione criminale (per esempio, tradire «la patria e i cari genitori») e la volontà di «evitare le regioni acherontee» (formula che esprime, al solito, la paura della morte “fusa insieme” con quella del castigo ultraterreno); l’ombra della morte si proietta su tutte le figure del male (e del dolore) – e queste figure si “ingrandiscono”, nella coscienza, fino a valere come un compiuto rispecchiamento della morte. Così, tutti i mali “sociali”, quelli che si producono nell’agire reciproco tra gli uomini – violenza e invidia, avidità a ambizione – diventano l’espressione diretta di un incessante, ansioso (e “letterale”)
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struggle for life. E “all’origine” c’è un’esperienza o rappresentazione “falsificata” del dolore: la perdita di contatto con quella “attualità” della sensazione in cui esso “si mostra” facilmente sopportabile (oppure breve) – a cui l’ultima prescrizione del quadrifarmaco ci rimanda. Il quadro di Lucrezio, nella sua potente plasticità, non si lascia certo “scomporre” in singoli enunciati, univocamente collegati tra loro secondo un preciso schema argomentativo. È una descrizione d’insieme della “malattia” – rappresentata non solo come affezione dell’individuo, disfunzione “interna”, ma come dramma collettivo, come uno “stato delle cose”, nel vicendevole agire degli uomini in società. E in questa descrizione si ritrovano attivi e mescolati tra loro tutti i “sintomi” (ma anche: tutte le “cause”) di quelle che nell’“elenco” del quadrifarmaco potevano sembrare malattie diverse, specifiche, astrattamente indipendenti l’una dall’altra. Al contrario, mentre vediamo “agire” la paura della morte riconosciamo la forza delle superstizioni, l’ossessione di fuggire i mali si dà a vedere come un “rifiuto” della mortalità, credenze, paure, false rappresentazioni del dolore si uniscono, o piuttosto si fondono, in una pratica di vita che non può avere nessuna regola, nessun “criterio” – se non quello di riprodurre continuamente il male, per sé e per gli altri. Tutti i sintomi (o le cause), abbiamo detto. Se ci spostiamo alla fine di questo libro III, troviamo di nuovo una descrizione intensamente patetica di ciò che muove gli uomini “all’affanno”. La transizione, dopo che Lucrezio ha concluso (diciamo al v. 829) la rassegna degli argomenti contro la tesi dell’immortalità dell’anima, comincia con un lungo “arpeggio”, per dir così, sull’inanità della paura per il dolore che ci attenderebbe oltre il limite della vita corporea, e culmina con una prosopopea della Natura, che si rivolge direttamente agli uomini per ammonirli e rimproverarli. Qui, notano i commentatori, il tono della poesia cambia: da “didascalico” si fa appunto “patetico” – con
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una di quelle impennate, improvvise “accensioni”, così tipiche della poesia filosofica di Lucrezio. E il tono cambia, in effetti, Cambia, diremmo, perché non ci si rivolge più a un interlocutore che “ragiona”, come prima, su un problema “scientifico”, quello dei rapporti dell’anima e del corpo – problema che può essere “risolto” abbastanza facilmente, sul filo dell’argomentazione. L’“errore” che consiste nell’attribuire alle funzioni dell’anima un’attività indipendente dall’aggregato corporeo è stato dissipato, attraverso la logica e l’osservazione; ma ora Lucrezio ci mostra, ci fa vedere – fa vedere al suo interlocutore – come nel “vissuto” di quell’errore ci sia ben altro che una semplice debolezza o superficialità del ragionamento – in che cosa consista il “turbamento”, il “guasto” psicologico, esistenziale. Subito, non appena la natura prende la parola rivolgendosi a «qualcuno di noi [alicui nostri]», ed evoca il momento in cui dovremo lasciare la vita, ci mette davanti agli occhi un’alternativa netta, semplice: o avremo vissuto una vita grata, e siamo dunque consapevoli, insieme, dei beni goduti e del fatto che nessun male sia ora da temere, oppure quel che sentiamo è il rimpianto, la rabbia per quel che non ci è stato dato – e allora dovremmo “sapere” che, per quanto prolungassimo la vita, continueremmo ad esserne privi, e dunque la morte non è per noi che un bene, la cessazione di questo dolore. Se ci “ribelliamo” e angosciamo al pensiero della morte, in qualsiasi età e condizione del corpo, è perché continuiamo a volere e cercare l’impossibile – che è impossibile, se vivendo non l’abbiamo trovato. «Ma perché sempre aneli a ciò che è lontano e disprezzi quanto è presente, / incompiuta ti è scivolata via e senza profitto la vita, / e inaspettatamente la morte sta dritta accosto al tuo capo / prima che tu possa andartene sazio e contento di ogni cosa [sed quia semper aves quod abest, praesentia temnis, / imperfecta tibi elapsest ingrataque vita, / et nec opinanti mors ad caput adstitit ante / quam satur ac plenus possis discedere rerum]» (vv. 957-960). E subito,
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dopo un nuovo breve intermezzo “gnomico” («la vita a nessuno è data in proprietà, a tutti in usufrutto [vitaque mancipio nulli datur, omnibus usi]»; v. 971), in cui si ripetono le principali ragioni per “accettare serenamente” la morte (indispensabile all’ordine naturale delle cose, e da punto di vista individuale mero non-essere, esattamente come il tempo prima della nascita) Lucrezio intraprende una rassegna dei più comuni terrori, esemplificati e “riassunti” nei grandi personaggi mitici della pena infinita (infernale); e spiega che si tratta appunto di personificazioni di un destino tutto terreno, che si compie nella vita (non nell’oltretomba), in cui si assommano le esperienze più tipiche del dolore dell’anima. È questo uno dei luoghi più sollecitati dagli interpreti che vogliono insistere su uno specifico “pessimismo” lucreziano, come indizio di una problematica “ortodossia” epicurea. Lucrezio dice che gli uomini proiettano oltre il limite della propria vita (morte) le loro angosce – e così la morte stessa diventa una soglia d’accesso a una possibile eternità di pena (il racconto tradizionale di ciò che capita ai vari Tizio, Sisifo, ecc., nel “paese sconosciuto”, “aiuta” a raffigurarsela). Ma non dice soltanto questo. Nelle pene infernali sofferte per l’eternità dai grandi “mostri” della mitologia si riflette ogni volta, con la solita terribile forza di parole e di immagini, il “quadro” di una descrizione – il più vario e intenso soffrire terreno degli uomini. E la varietà di questi dolori non è solo descritta, contemplata. Per ciascuno, in corrispondenza con ogni singola “proiezione” del mito, Lucrezio ci presenta una precisa “diagnosi”, non dice solo l’intensità, il pathos, ma le “cause”, la genesi, il senso. Che cosa è Tantalo – che viene evocato per primo, in una versione del mito diversa da quella più nota, in cui l’elemento più terribile del supplizio è il masso eternamente sospeso sulla sua testa? È (esprime, corrisponde a) «il fallace timore degli dèi [che] opprime [gli uomini] / e temono il colpo che a ognuno
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può menare la sorte». A “nutrire” l’immagine di Tantalo (e a nutrirsene) è dunque “semplicemente” la paura degli dèi (fallace – inanis; se ne può “guarire”). Poi c’è Tizio, eternamente divorato dagli uccelli da preda; e qui Lucrezio non rinuncia a segnalare, diremmo, il ridicolo di una massa corporea che, «quanto si voglia immane», possa essere “divorata” per l’eternità. Ma il problema non è questo, perché anche Tizio, per “illogica” che sia la forma della sua pena, «siamo noi»: se gli «uccelli [lo] straziano [è perché] lo divora un’ansiosa angoscia, lo dilaniano affanni», «per qualsiasi… passione» (quavis… cuppedine: il termine latino è più “forte”, evoca l’avidità della “brama”); la prima “passione” che viene in mente è quella d’amore (Tizio è punito per aver desiderato, niente di meno, Latona, la madre di Apollo). Poi c’è Sisifo, e qui Lucrezio pospone la menzione della pena allo svelamento del suo significato allegorico, rendendo ancora più evidente e diretta la metafora: «Sisifo è nella vita nostra, alla vista di tutti: / è colui che aspira ad ottenere dal popolo i fasci / e le crudeli scuri, e sempre vinto e triste si ritira» – questo è Sisifo: «cercare un potere che è vano, né vien dato mai / e in quella ricerca sostenere sempre un duro travaglio/ questo è sospingere con grande sforzo su per l’erta di un monte / un masso», ecc. E come in un crescendo, Lucrezio procede con una pena che corrisponde, più che a un singolo “male”, a un modo di vivere il bene, i beni, che può trasformare qualsiasi “possesso” in dolore: le Danaidi, condannate a raccogliere «l’acqua in un vaso perforato / che tuttavia non si può in alcun modo riempire – questo è pascer sempre l’insaziabile natura dell’animo / e tuttavia non colmarla mai di beni, né mai saziarla / … senza che… noi siamo mai paghi della vita». Arriviamo così a un “gran finale”, Lucrezio intona il “tutti” della sua orchestra («Cerbero e le Furie, per soprappiù, e la mancanza di luce, / e il Tartaro eruttante dalle fauci vampe orribili / che non esistono in nessun luogo, né invero possono esistere!») all’espressione del senso di colpa, della paura del castigo, di tut-
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te quelle infinite paure terrene, di mali “materiali” (dal carcere in peggio) che sono «assilli [stimulos]» che «la mente […] infligge […] a se stessa [mens sibi… adhibet]», premetuens (lett.: “temendo prima”; tamen etsi absunt, «anche se son lontani»), perché è «conscia dei propri misfatti [conscia factis]». L’ultimo accordo, in fortissimo (o, se si preferisce, in pianissimo) è un unico verso: «Alfine è qui che la vita degli stolti diventa un inferno [Hic Acherusia fit stultorum denique vita]» (v. 1023). Non ci possono essere dubbi, come si vede, sulla piena coerenza dottrinale (e proprio in rapporto al paradigma che stiamo seguendo, quello del quadrifarmaco) della descrizione-diagnosi. “Inferno”, ovviamente, non è la vita, ma la vita degli stolti – che hanno paura della morte, in questo “parossismo” finale, perché, come abbiamo visto, si comportano da “criminali”, e sono di conseguenza ossessionati dal pensiero del castigo (questi comportamenti, sappiamo, sono a loro volta da collocare “sullo sfondo” dell’ansia, quasi isterica, di sfuggire al dolore); perché hanno paura (inanis) degli dèi; e perché – Tizio, Sisifo, le Danaidi – hanno un rapporto “distorto” con il piacere. “Scambiano”, in un vano desiderare, la sensazione attuale del piacere, in cui solo si dà l’“illimitato”, con l’indefinito di “cause”, “fonti”, nella cui affannosa ricerca si consuma e si svuota ogni piacere “vero”. L’immagine delle Danaidi, con i loro vasi bucati, esprime mirabilmente questo supplizio del piacere impossibile – perché “falso”, non “attualmente” sentito; che nei casi di Tizio e di Sisifo si esemplifica in due particolari forme di “insaziabilità” – della brama amorosa (a cui Lucrezio dedica una celebre descrizione nel libro IV), figura tipica di quella “irritabilità” del desiderio (la spoudê) che si nutre di fantasmi ed esaspera la “mancanza”, e dell’attrazione verso il miraggio altrettanto umbratile, evanescente, del potere. Nell’intrecciarsi dei fili che formano la “trama” della malattia è quello che il quadrifarmaco enumera al terzo posto – il rap-
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porto al piacere, che si declina come Epicuro ci ha mostrato nella “gestione” del desiderio – che viene così in rilievo. E infatti, dopo quella che possiamo senz’altro definire come una divagazione (in cui la serena accettazione della morte si rafforza con il pensiero che sono pur morti, “senza far tante storie”, gli uomini più illustri e migliori), è proprio qui, alla fine di questo terzo libro, che Lucrezio colloca il “pezzo” già citato nel capitolo precedente, quello straordinariamente concentrato e “sbalzato” ritratto dell’uomo “insoddisfatto” (di tutto; e che anela sempre a un cambiamento inutile, o a un piacere impossibile). Abbiamo già detto, non stiamo qui a ripetere la lettura del brano (vv. 1059-1070), che è un uomo radicalmente “alienato” rispetto al proprio desiderio (e che corrisponde, empiricamente, agli uomini «come ora per lo più li vediamo»); «fugge se stesso, ma a quel suo “io” […] non potendo sfuggire, malvolentieri gli resta attaccato / e lo odia» – perché «non sa quel che si voglia» (non può in realtà volere propriamente alcunché, perché non sa dove, in che cosa il suo piacere realmente consista). Dunque, «è malato, e non comprende la causa del male» (1070). La conclusione è che «se la scorgesse bene… / mirerebbe prima di tutto a conoscere la natura delle cose» – e, in uno, la sua propria natura.
Una malattia “sociale” Se si confronta la prescrizione/diagnosi del quadrifarmaco con questa fenomenologia del male, nella vita individuale e collettiva degli uomini, emerge chiaramente la confluenza, il reciproco rafforzarsi dei diversi aspetti della “malattia”. Le due grandi paure, degli dèi e della morte, che si fondono insieme nell’immaginario dell’oltretomba, non possono esser comprese (e meno ancora “guarite”) se non si vede come affondino
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le proprie radici in questa “incapacità” della coscienza (rappresentazione; e logos/calcolo) di rispecchiare, interpretare, “applicare” il “programma” in cui l’individuo naturale-sensibile si costituisce – in cui attinge il principio della sua volontà, come scelta tra il piacere e il dolore. Senza questo “sregolamento”, che colpisce, inibisce, “perverte” la percezione del piacere e del dolore, i turbamenti dell’anima, e il male che ne deriva, sarebbero propriamente incomprensibili. Nel testo di Epicuro che offre il più articolato “compendio” della dottrina circa la paura della morte (LM, 124,6-127,4) il legame è chiaramente enunciato: l’accettazione («gioiosa» – apolauston) della fine della vita dipende dalla capacità di «togliere [aphelomenê] il desiderio dell’immortalità [tês atanathias… pothon]», che è l’esempio estremo, potremmo dire, del desiderio vuoto; poiché «ogni bene e ogni male è nella sensazione [pan agathon kai kakon en aisthêsei]», né il sentire per un tempo indefinito (apeiron chronon) può essere in sé un bene (un piacere), né tanto meno un male (un dolore) il non sentire più. Il materialismo della morale di Epicuro non può comprendersi come una semplice “coerenza” della dottrina della saggezza con i presupposti generali, per dir così, di una fisiologia o cosmologia (materialistiche). Questa coerenza, anzi, sarebbe assai problematica se non si vedesse che è proprio il soggetto morale (l’“autonomia” della scelta) che viene concepito, costruito, intorno a questo “nucleo” – la materialità della sensazione come forma originaria dell’autoriferimento. Quando Epicuro, nel luogo appena citato, dice che tutto ciò che si può desiderare o temere è nella sensazione, non menziona “il piacere” e “il dolore”, ma, direttamente, “il bene” e “il male” – usa cioè i termini propri della coscienza morale. Basterebbe questo, a ben vedere, a mostrare che una “regola” di questa coscienza non può darsi se il “fine” che presuppone non è “inscritto” nella costituzione materiale dell’individuo – e, se questa costituzione è naturale, della specie.
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Ma come spiegare allora, “empiricamente”, questa condizione di “perdita” (la “malattia”) in cui gli uomini si vengono a trovare rispetto a ciò che li costituisce, ad una “realtà” dell’individuo definita nei termini dell’alternanza e della pienezza dei suoi fondamentali stati affettivi, del piacere e del dolore? Nel capitolo precedente abbiamo cercato di mostrare come la formazione (essa stessa, ovviamente, naturale) di quelle funzioni che possiamo definire “simboliche”, nell’animus/mens di Lucrezio, produca la possibilità di una “diversa” realtà – non più “naturale”, nella misura in cui accoglie, integra. “l’errore” e il “fantasma” nella rappresentazione stessa del piacere e del dolore. E, commentando Lucrezio, abbiamo visto come il “male” – non il dolore del corpo, ma il “turbamento” dell’anima, con tutte le conseguenze prodotte dall’agire che in questo turbamento si origina – si configuri in quella che oggi chiameremmo un’esistenza “alienata” – non-naturale, in quanto non “si comprende” nella attualità della sensazione. È un’esistenza totalmente inscritta in un ordine “mondano” – in cui le pratiche, le tradizioni, le relazioni sociali arrivano a costituire un “senso” della vita immaginario e instabile, funzione di una apparenza che si sostituisce, insieme, alla conoscenza “vera” della natura e dell’essere dell’uomo e all’immediatezza del sentire, al legame affettivo con questa (in noi e fuori di noi) natura. Tra questa “descrizione” e la diagnosi epicurea circa il rapporto “distorto”, “deviato” con il piacere e il dolore c’è un nesso, abbiamo detto, sistematico: guardare allo “stato del mondo” (umano), e non solo al rapporto dell’individuo con se stesso (se si preferisce: “tenere conto” del fatto elementare che in questo rapporto si trova “interiorizzato” uno stato del mondo), è, nel discorso di Epicuro, una necessità. Se la condizione alienata in cui gli uomini “si trovano” non può comprendersi che come un “distacco” dalla natura, questo distacco si dà a vedere come un riferimento “immaginario” della coscienza di sé e del mondo – in dipendenza da un particolare, “artificiale”, essere-nel-mondo.
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Nei nostri testi, Epicuro menziona, possiamo dire, tre “tipi” di condotta che rinviano a un “sovvertimento di valori”, rispetto alla natura (cioè al “valore” per definizione “unico”, che consiste nella conformità alla natura). Li abbiamo a nostra volta già menzionati, ma sarà il caso di tornarci – per notare intanto che essi non hanno tutti lo stesso rapporto con l’“essere sociale”. Certo, anche “il dissoluto” è, se si vuole, un tipo socialmente condizionato, nel senso che presuppone un certo “livello” nella capacità acquisitiva dei “beni di consumo” – ma questo non ha in sé proprio niente di “alienante”: abbiamo visto come i suoi piaceri (le donne, i fanciulli, e i pesci) siano per Epicuro perfettamente “naturali”, “autentici”; ed è forse questo il momento di osservare, poiché stiamo parlando dell’“incidenza sociale” della morale epicurea, che non è il caso di assimilare Epicuro (come talvolta si propone) a quello che oggi si chiama “il pensiero della decrescita” – ove esso implichi un qualsiasi giudizio morale, negativo, su una “società dell’abbondanza”. La critica più radicale del “consumismo”, se con questo termine si intende l’imperativo sociale dell’acquisizione “illimitata” dei beni, che l’individuo subisce, è certo perfettamente “epicurea”; ma non bisogna dimenticare che per un epicureo il “poco” non è “meglio” del “molto” – una vita improntata a una norma di “austerità” non è, per l’individuo come per la collettività, di per sé un “bene”. Diversissimo è il caso per gli altri due “esempi”. E intanto, perché essi non mettono in nessun modo in questione la “qualità” dei piaceri, ma, per così dire, un “giudizio” che sarebbe al tutto incomprensibile senza una determinata struttura sociale: ciò che guida la condotta, che orienta il desiderio, non è qui una rappresentazione del/dei piacere/i, ma il possesso di un “bene” che può apparire, in quella struttura, come “causa” o condizione della vita piacevole. Questi “beni” sono, nei due casi, come sappiamo: la ricchezza (ploutos… ho megistos – la più grande ricchezza) e «onore e considerazione presso la moltitudine» – il prestigio sociale, il potere.
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È chiaro che si trova qui, in germe, già tutta la “fenomenologia” lucreziana – per il “male” direttamente prodotto dalle azioni degli uomini. E non è certo un caso che Epicuro “collochi” i suoi due esempi nel contesto più generale delle «cause indefinite» (si ricordi il testo di GV, 81). La “struttura”, potremmo dire, del desiderio alienato è data dal fissarsi (nella rappresentazione, nel calcolo) di un rapporto “astratto” tra la causa del piacere e il piacere stesso – astratto perché non verificato (verificabile) nell’attualità della sensazione: se il piacere è, nella sensazione, assenza di dolore, collegarlo ad una causa che non è in tutto determinata in rapporto a questo “effetto”, (perché potenzialmente produttiva, come sappiamo, di una contraddittoria molteplicità di effetti) significa “derealizzarlo”, rendere “fantasmatica” la sua rappresentazione. L’indefinito della formula significa un rapporto puramente “aleatorio” tra causa e effetto, che impedisce di “acquietarsi” nel godimento dell’“oggetto”, perché in quest’oggetto (posseduto o no) saranno costantemente riscoperte “virtualità” di dolore. Quando Lucrezio “mette in guardia” dalla passione d’amore (in cui il possesso, sicuro, di un singolo “oggetto” si rappresenta al soggetto desiderante come la condizione esclusiva, l’unica possibilità del piacere) trova toni che rimandano irresistibilmente alla facilis venus di Orazio (che è, come sappiamo, un modello della saggia gestione del desiderio proprio per l’“esattezza” della proporzione tra “causa” e “effetto”): per curare le sofferenze d’amore la cosa migliore è affidarsi a una «Venere vagabonda» (IV, 1071); così «colui il quale evita l’amore» (nel primo senso) non sarà privo dei frutti di Venere (nec Venus fructu caret), ma «coglierà le gioie [dell’amore, del sesso] che sono senza pena» (IV, 1073-1074). Ma il “soggetto desiderante” non trova semplicemente “in se stesso”, nel rapporto con la (sua) natura, quel sapere “vero” del piacere e del dolore che si fa “norma” del desiderio; perché, questo ci dicono i due esempi di Epicuro, si trova preso dentro una rete di significati, di “valori”,
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che esistono fuori di lui, riprodotti come un dato in un certo modo d’essere del mondo, della società – e che con “la natura” del piacere e del dolore non hanno più niente a che fare. È qui, nel funzionamento di questo “mondo”, che c’è chi comanda e chi obbedisce, chi è “illustre” e chi “oscuro”; è qui che ciascuno si appropria una parte, che può essere piccolissima o grandissima, della ricchezza, dei beni materiali – e questa parte di ricchezza, quella parte di potere è oggetto di contesa, e in questa contesa si definisce il modo d’essere, d’esserci, di ciascun individuo. Indicare la ricchezza e il potere come gli esempi più tipici del desiderio “vuoto”, di ciò che “sposta” il desiderio naturale verso oggetti e scopi che non possono dare una axiologos chara, significa mettere “in stato d’accusa”, possiamo dire, l’intera vita sociale; indicare in questa vita sociale, nei suoi valori e abitudini, nelle sue “regole”, la causa principale dell’alienazione. Quando Epicuro scrive, in uno dei suoi frammenti più citati «fuggi, o felice… ogni genere di cultura» (163 Us.; 89 A.), questo “insieme” della cultura (paideian… pasan) è tutto il complesso delle forme e delle credenze in cui si organizza e si tramanda lo “stare insieme” degli uomini. E non potrebbe essere diversamente: se la malattia che la morale epicurea diagnostica e cura colpisce (complica, oscura) il legame degli individui con il proprio essere naturale, introduce false immagini e calcoli errati in un “programma di vita” originariamente dettato dalla costituzione materiale di tutti gli individui della specie, nessuna “causa” potrebbe spiegarla se non il processo di un’altra e diversa “costituzione” – ciò che nell’esperienza effettiva degli uomini in società può prendere il posto (poiché forma un sistema coerente e autoriproduttivo) di una “seconda” natura.
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La malattia nella storia Quando Lucrezio affronta nel quinto libro del poema il tema che potremmo dire di una “antropologia culturale”, il quadro delle istituzioni e delle pratiche in cui gli uomini sono diventati, nel tempo, come ora per lo più li vediamo, si muove in questa direzione. È questo forse il più ampio e coerente sviluppo tematico del poema. Ed è organizzato intorno a un duplice “asse”: da una parte, l’evoluzione delle pratiche e delle tecniche, in rapporto ai bisogni e alle esperienze accumulate; dall’altra (ma evidentemente in modi espressivi che anche qui “fondono” i diversi aspetti) la vicenda in cui prende forma, si articola, si riproduce una “possibilità del male” – perché è in questa vicenda che gli uomini vengono elaborando “valori”, acquisendo abitudini, istituendo regole che modificano la percezione di sé e del mondo, oscurando il “criterio regolativo” del rapporto al piacere e al dolore. Il “positivo” e il “negativo”, per dir così, sono strettamente intrecciati. Fin dal quadro iniziale dell’età “primitiva”: in cui si dà rilievo alla relativa facilità di provvedere ai bisogni vitali e di proteggersi dai pericoli (che sono maggiori, per la minaccia delle fiere e delle intemperie – e insieme minori, per l’assenza di quelli creati da tecniche “moderne”, come la navigazione e la guerra), e si menziona l’assoluta dipendenza da sempre possibili situazioni di penuria, la mancanza di cure per le ferite (v. 998), l’assenza di ogni nozione di “bene comune” (v. 956; l’incapacità di cooperare per non dipendere interamente dalla fortuna e da se stessi, vv. 960-961). Questa prima “sezione” si conclude con due distici (vv. 1007-1010) che mettono a confronto, “a specchio”, i due estremi temporali (lo stato semi-ferino e la, attuale, civiltà), concludendo ad una sostanziale “parità” quanto ai “mali” rispettivi: la penuria e l’abbondanza (insalubre) di cibo, l’ignoranza sugli effetti delle sostanze nocive (riguardo a se stessi) e il loro uso consapevole (riguardo agli altri). Ma i versi seguenti sottolineano i progressi dell’incivilimento, dal punto di vista
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dei rapporti tra gli uomini (a partire dalla stabilizzazione delle relazioni fra i sessi e le generazioni): è a questo punto che diventa possibile l’amicizia (v. 1019) e la cura reciproca; se non ci fosse stato questo “passaggio”, il genere umano non avrebbe potuto riprodursi fino ad ora – il v. 1024 segnala che un certo prevalere della concordia tra gli uomini, possibile solo a questo stadio, ne è la condizione necessaria. Siamo, fin qui, “prima” della nascita di un linguaggio verbale. “Sviluppo” ovviamente capitale, condizione della storia successiva, ma, come spiegano i vv. 1028-1030, affatto “naturale”, in se stesso: gli uomini hanno imparato a parlare, comprendendosi, come tutti gli animali (che pure comunicano tra di loro) avrebbero fatto, se dotati di un’analoga “potenzialità” fisiologica; “prima”, si servivano di gesti e suoni espressivi, come i bambini (l’età primitiva è, letteralmente, l’infanzia dell’umanità). A questo punto, il “ritmo” della civilizzazione si accelera, perché è possibile codificare e trasmettere le «nov[ae] re[s]» (v. 1106) che «cambiano la vita», da parte degli individui “più capaci” per «ingegno e cuore» (“animo”, “ardimento”; v. 1107 – non prima che una semplice, ripetuta esperienza, e osservazione, abbia reso disponibile il fuoco e i suoi molti usi). Ed è qui che fanno la loro comparsa (in modo estremamente “abrupto”) i reges – il cui potere sarà da mettere in relazione con quelle capacità “superiori” (praestabant) degli individui che fanno da guida agli altri, perché più abili a mettere a frutto le novità. E i re «comincia(no) a fondare città e costruire rocche / per trovarvi essi stessi difesa e rifugio» (vv. 1108-1109). L’apparizione di una specifica funzione di comando, di una preminenza, si associa dunque, da subito, al tema della sicurezza/stabilità, e della contesa; e insieme, a quello di una distribuzione selettiva del “patrimonio” comune («bestiame e campi», v. 1110) – i cui criteri sono inizialmente quelli per dir così già disponibili “in natura”, la bellezza e la forza. Ma dopo (posterius; v. 1113) è la ricchezza stessa che diventa il criterio della distribuzione – so-
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stituendosi completamente, nella vita sociale, alle qualità naturali (i vv. 1113-1116 meriterebbero di aggiungersi a quelli dal Faust e dal Timone d’Atene che Marx cita in un celebre luogo dei Manoscritti del ’44 per esprimere “plasticamente” l’idea che il denaro diventa la principale, se non l’unica, “qualità” degli uomini). E non appena ha evocato il sorgere di queste due essenziali funzioni dell’essere sociale (timê e ploutos, possiamo dire), Lucrezio interrompe il corso della narrazione per collocarsi in un punto di vista “intemporale”, quello che considera le “vere ragioni” della vita («Quod si quis vera vitam ratione gubernet»; v. 1117); e dedica una ventina di versi alla denuncia del desiderio “falso” (due volte: perché ricchezza e potere non assicurano la felicità e perché non possono avere «fondamento stabile» [v. 1121]) che muove gli uomini verso queste mete. E conclude con una formulazione straordinariamente pregnante del nucleo più profondo della dottrina: gli uomini che vogliono essere «illustri», «potenti» (v. 1120), «opulenti» (v. 1122), «petunt res ex auditis potius quam sensibus ipsis» (vv. 1133-1134 – «mirano alle cose / seguendo ciò che hanno udito dire piuttosto che i propri sensi»). Siamo, ormai, nel quadro di una vita sociale dominata dallo scontro violento, da impulsi distruttivi. Il passaggio è ancora brusco, retto da un semplice ergo (come se le considerazioni morali e psicologiche che precedono fossero di per sé la “ragione” di quello che segue): «uccisi i re… le cose erano ridotte a estrema confusione e turbamento / mentre ognuno cercava per sé il potere e la sovranità» (vv. 1136-1142; summatum, che è un hapax, sembra esprimere una concentrazione, un accumulo di tutte le “superiorità”). E di qui riparte quello che potremmo definire come un movimento a spirale, nella sequenza distruzione/ ricostruzione; ed è significativo che si introduca con un docuere: qualcuno ha insegnato agli uomini (ai quali «una vita di violenza» era diventata insopportabile; v. 1145) un rimedio – non più la tendenza “spontanea” alla concordia, all’amicizia, nata dal-
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lo stabilizzarsi dei legami affettivi, ma l’istituzione del diritto, delle «giuste leggi [legibus aequis]» (v. 1149) per moderare, contenere, potremmo dire, gli effetti degli impulsi aggressivi, la spirale della vendetta («ognuno, di fatti, nell’ira s’apprestava a vendetta / più crudele […]»; vv. 1148-1149). È dunque un rimedio necessario, ma “estrinseco”: gli uomini continuano ad essere «irretiti [circumretit... quemque]» da «violenza [e] ingiustizia» (v. 1152; iniura, il contrario di iura, cinque versi prima). Tra i mali della vita (se violenza e ingiustizia non “scompaiono” con l’istituzione del diritto) se ne trova ora un altro: la paura, l’ansia di sfuggire al castigo (che è impossibile – se il pensiero della possibilità del castigo, avendo commesso o potendo commettere un “delitto”, è già un castigo). Lo stadio successivo è quello della religio. “Successivo”, in senso stretto, solo nell’ordine dell’esposizione – se Lucrezio colloca il sorgere della falsa idea degli dèi, che la religione “organizza” e trasforma in una norma sociale, sullo sfondo di una condizione di vita, per così dire, ancora affatto “naturale”. Ma non sarà senza significato – lo abbiamo già osservato – che la trattazione di questo punto presupponga qui uno “sviluppo” della società, il riprodursi, nell’istituzione, di uno stretto legame fra gli uomini. Da un punto di vista “filogenetico”, per dir così, ciò che conta non è lo “stato sentimentale”, per quanto “tipico”, dell’individuo (ignorante), ma la possibilità di ricondurre questa tipicità in una concreta esperienza di socializzazione, che passa attraverso istituti e pratiche collettive, e che forma per ogni singolo individuo il quadro “già dato” in cui si sviluppa e di cui si alimenta la sua “psicologia”. Lucrezio è perfettamente coerente con il suo assunto quando apre questa “sezione” sulla religione riferendosi direttamente alla propagazione del culto, allo sviluppo delle pratiche, sulla scala delle «grandi nazioni» (è il v. 1161, già citato). Nel seguito, si trova una delle più potenti raffigurazioni di “stato d’animo” di tutto il poema – a conferma di quel principio di alternanza, per dir
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così, tra spiegazione e descrizione che ne governa la forma. È, se si vuole, una divagazione (vv. 1194-1240), interrompe il filo della narrazione, come già era avvenuto poco sopra, quando l’apparizione del potere e della ricchezza avevano dato luogo ad una riflessione sul significato che “in sé”, per gli uomini come ora li vediamo, questi schemi di azione e di valutazione, storicamente formati, hanno. Di nuovo Lucrezio “sposta” il punto di vista, e ci presenta come una “struttura” psicologica, un vissuto “immediato”, potenzialmente “di tutti” («a chi non […]»; v. 1219), l’associazione tra il pensiero degli dèi “terribili” e la paura che nasce di fronte al potere di distruzione della natura. Ma il brano comincia con un riferimento temporale (cum), a un evento “storico” – «quando» il «genere umano» ha «attribuito» agli dèi la funzione di produrre i fenomeni naturali, e alla loro collera contro gli uomini la rovina e il danno che questi fenomeni causano. C’è un rapporto causale diretto tra questo evento temporale e il corso successivo della storia (tum), le generazioni degli uomini “dopo di allora”: «Che gemiti allora a se stessi, che piaghe a noi / che lacrime cagionarono ai nostri discendenti [Quantos tum gemitus ipsi sibi, quantoque nobis / vulnera, quas lacrimas preperere minoribus nostris]»; vv. 1196-1197). Il riprodursi dell’errore, il rinnovarsi della paura si trova, nei versi successivi, già compreso in questo quadro: ciò che viene descritto appartiene (il turbamento, l’angoscia) a un mondo umano in cui “ci sono già” gli dèi, questi dèi, coi loro «altari», con i «sacrifici» e i «voti» (cfr. vv. 11981202) – e c’è “ancora” l’ignoranza («rationis egestas», v. 1211; nessuna delle due cose è evidentemente una necessità della natura umana). Poiché gli uomini rimangono in questa ignoranza (che contribuisce a impedirgli di «contemplare ogni cosa con mente tranquilla», come ha detto il v. 1203) (ri)nascerà sempre in loro il «dubbio» (è ancora il v. 1211) – che la religione sia “vera”, potremmo dire. Lucrezio può allora concludere: «che meraviglia se le stirpi mortali disprezzano se stesse [quid
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mirum, si se temnunt mortalia saecla]»? Solo una ricostruzione critica del processo di incivilimento, della formazione di una “seconda” natura, può farci comprendere che la possibilità dell’errore “intrinseca” all’uomo si sia trasformata in una sorta di necessità – fino all’esito paradossale, il più “estraneo” alla natura, il disprezzo di sé. D’ora in poi, Lucrezio prende a seguire le tappe dell’evoluzione tecnologica (la metallurgia, la tessitura, l’agricoltura). Ed esordisce con un quod superest («quanto al resto», v. 1241), quasi a indicare che questo aspetto dell’evoluzione sociale (l’“in frastruttura” tecnica) non ha un particolare significato morale e psicologico. È uno svolgimento “naturale”, un processo di accumulo di conoscenze, di formazione di competenze. Salvo il rilievo che può assumere, dal punto di vista della felicità umana, la lavorazione e l’uso dei metalli, nel contesto della discordia civile e della guerra. I vv. 1305-1307 («così la triste discordia produsse, l’una dopo l’altra / cose fatte per incutere orrore alle genti umane in armi / e di giorno in giorno fece crescere i terrori della guerra») stanno lì appunto a ribadire, con la loro insistenza su un divenire temporale, cumulativo (peperit, addidit augmen) la dialettica che struttura tutto il brano: le forme e i contenuti della vita sociale hanno in sé la contraddizione, perché possono essere insieme “funzionali” al fine naturale della felicità (su scala “comunitaria”), e specificamente produttive di infelicità, di “controfinalità” (producono, e in qualche modo “naturalizzano”, falsi fini). Questa dialettica, in un contesto meno drammatico, guida anche l’ultima sequenza della descrizione, che evoca la nascita dell’arte, dell’esperienza e del sentimento dell’arte. “Naturalissima” è qui la “scoperta” della musica e della danza – uno sviluppo “storico” interamente guidato dalla ricerca del piacere (su cui insiste tutto il lessico della descrizione); ma (c’è qui uno dei soliti bruschi trapassi) questo piacere provocato da un’invenzione “tecnica” perfettamente “funzionale” perde il suo
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“fondamento naturale”, per dir così, non appena la difficoltà e la complessità, la novità del “ritrovato”, diventano un fine in sé, attraggono su di sé, e non più semplicemente sulla sensazione del piacere, il desiderio. Il «dulcedini’ fructum» (v. 1410) che gli uomini coglievano dalle forme più rozze e semplici di musica e di danza non può diventare «maiorem», ovviamente, via via che strumenti e ritmi si perfezionano e si codificano; ma, e qui Lucrezio passa di colpo ad altri esempi, lontani dal piacere estetico, gli uomini “si dimenticano” di quella semplicità, e “diventano sensibili” solo all’ultimo raffinamento del lusso. L’esempio in realtà è uno soltanto: la «veste plebea» (v. 1429) è più che sufficiente a «proteggerci» («nudi, senza pelli, i figli della terra erano martoriati / dal freddo»; vv. 1426-1427); ora non avvertiamo più questo piacere, perché lo hanno sostituito «affannosi desideri» per «l’oro e la porpora» – che «tormentano […] la vita degli uomini e l’affaticano in guerra»; «e perciò [o “di ciò”] la colpa maggiore sta in noi [quo magis in nobis… culpa resedit]». Lucrezio riprende per l’ultima volta il punto di vista della “diagnosi”, del giudizio morale: siamo colpevoli di esserci abituati, di aver “interiorizzato” una rappresentazione del piacere che nasce interamente dall’artificio, che non ha più rapporti con l’evidenza della sensazione. Dunque il genere umano a vuoto e invano si travaglia / sempre e consuma affanni inutili la vita, certo perché non conosce quale sia il limite del possesso / e generalmente fino a qual punto cresca il vero piacere. / E questo a poco a poco ha sospinto la vita in alto mare / e ha suscitato dal profondo grandi tempeste di guerra [Ergo hominum genus incassum frustraque laborat / semper et curis consumit inanibus aevom / nimirum quia non cognovit quae sit habendi / finis et omnimo quoad crescat vera voluptas. / Idque minutatim vitam provexit in altum / et belli magnos commovit funditus aestus].
Ma non sono, questi versi, l’ultima parola di Lucrezio sul tema. La conclusione del brano (e del libro) presenta un quadro “ricapitolativo” dei risultati, degli “acquisti”, della civilizzazione
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in una chiave in cui di nuovo predomina (fa eccezione solo la menzione delle armi) un significato “progressivo” – nella misura in cui i ritrovati delle tecniche e delle arti corrispondono a una pratica e a uno «sperimentare della mente» che resta nell’ambito della conoscenza vera (della natura) e della ricerca del piacere (e produce «i doni e anche le delizie della vita» – e qui gli esempi sono unicamente artistici: «canti, pitture e statue»). Riproduciamo per intero questi ultimi versi: Navi e colture dei campi, mura, leggi / armi, vie, vesti le altre cose siffatte, / i doni e anche le delizie della vita, tutte quante, / canti, pitture e statue lavorate con arte, levigate, gradatamente / li insegnarono la pratica e insieme lo sperimentare / della mente alacre agli uomini avanzanti passo passo. / Così gradatamente il tempo rivela ogni cosa / e la ragione la innalza alle plaghe della luce. / Difatti con la mente vedevano chiarirsi una cosa con l’altra, / finché con le arti giunsero al culmine più alto [Navigia atque agri culturas, moenia, leges, /arma, vias, vestis cetera de genere horum / praemia, delicias quoque vitae funditus omnis, / carmina, picturas et daedala signa polita, / usus et impigra simul experientia mentis /paulatim docuit pedetemtim progredientis. / Sic unumquicquid paulatim protrahit aetas / in medium ratioque in luminis erigit oras. / Namque alid ex alio clarescere corde videbant, / artibus ad summum donec venere cacumen]. (vv. 1448-1457)
Il saggio come educatore Questa narrazione lucreziana del processo di civilizzazione conferma come nell’epicureismo la “diagnosi” non sia circoscritta nell’ambito della coscienza individuale – considerata, nella “malattia”, come di per sé incapace di comprendere quale sia il suo “bene”, e di assumerlo come il fine da realizzare. Essa si allarga, necessariamente, alla discussione di tutto un sistema di valori e di pratiche che “prende corpo” nell’organizzazione
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della vita sociale, nel “discorso” che la riflette e la giustifica – e in cui si formano, per tanta parte, le passioni che muovono la volontà. Tutto ciò rimane per il singolo individuo un “dato”, un “orizzonte”, ha la forma dell’oggettività. È questa, prima di tutto, la “cultura” – quella da cui il “felice”, per essere felice, deve fuggire; non nel senso, del tutto estraneo all’epicureismo, di un pregiudiziale “separarsi” dalla comunità degli uomini, ma in quello di mantenere la distanza critica, di non farsene assorbire, di saperla “valutare”, questa cultura, criticamente, nel confronto costante con la natura e con la conoscenza della natura (cioè prima di tutto con la fisiologia e la cosmologia di Epicuro). Il giudizio e l’analisi della condizione morale e psicologica degli uomini è del tutto inscindibile dal “divenire” culturale, dagli “effetti di sistema” che questo divenire produce, e in cui la coscienza individuale si dibatte. Ma Lucrezio ci mostra anche, chiaramente, qual è il senso complessivo dell’“evoluzione”: la vita sociale produce le forme specifiche dell’alienazione umana, ma è comunque in e per essa che gli uomini diventano ciò che sono (che possono essere) – che si forma, anche, una coscienza “razionale” del fine, la possibilità di una “prassi” liberamente “scelta”. Soltanto nel contesto di una “perdita” dell’immediatezza naturale (non certo per gli uomini primitivi, nel loro stato semi-ferino) la felicità e la saggezza possono diventare un’idea-guida per la condotta, il pensiero e l’azione – “innervandosi” in una critica determinata dell’esistente. Se il “criterio” è già per natura “disponibile”, il pensiero che è capace di (ri)scoprirlo e metterlo in opera si muove ab origine alla ricerca di un “rimedio” – è lo stato di malattia, sentito come tale nel dolore da una coscienza che non può separarsi del tutto dal fondamento naturale del proprio esserci, dal “principio” del suo autoriferimento, che genera il bisogno della conoscenza critica e di un progetto di vita “sano”. Si continua a discutere nella letteratura lucreziana (è quasi un luogo comune) di “ottimismo” e “pessimismo”, della presenza o
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assenza di una speranza, o fiducia, circa la “prognosi” – al livello del genere umano. Ma abbiamo visto che il punto di vista di Lucrezio è intrinsecamente, propriamente dialettico. Potremmo dire che riproduce sulla scala della collettività la situazione che abbiamo definito, nello sviluppo “ontogenetico”, della “lancia di Achille”. Nel corso dell’evoluzione (dell’individuo come della specie), l’esperienza dell’autoriferimento, che ha la sua “base materiale” nella sensibilità, non può che “complicarsi”; ma è in questa “complicazione” che diventano possibili, insieme con gli errori e i fantasmi, la consapevolezza ragionata del fine e l’esercizio della critica (e del calcolo). Se, come tanti osservano, Lucrezio non crede nell’età dell’oro, rimane immune da ogni nostalgia “primitivista”, è proprio perché la possibilità della felicità rimane affidata a quegli sviluppi – della logica e della conoscenza, delle pratiche e delle tecniche – che sono prima di tutto l’espressione delle facoltà umane. A questi sviluppi Lucrezio riconosce come abbiamo visto, per tutto il corso della narrazione, una fondamentale coerenza con la “logica” della natura (umana; in modo del tutto conforme al testo epicureo di LE, 75, 1-6); nel mentre avverte continuamente come in essi e per essi si sia venuta formando, anche, quella “seconda natura” su cui si esercita la critica dell’alienazione. L’avvento stesso di Epicuro, la rivelazione o “scoperta”, in questo stadio della civiltà, della via della saggezza, segna a tutti gli effetti un “momento” della storia umana. E in questo senso il più tenace assertore italiano del “progressismo” lucreziano, come naturale estensione sul piano storico-politico della morale epicurea, Giancotti, ha ragione di sostenere che il proemio del libro VI, con la rinnovata esaltazione del “liberatore” Epicuro, può essere considerato come la vera conclusione del “finale” del V. Salvo che già in quei versi che abbiamo riportato, negli ultimi, era chiaramente espresso il rapporto tra un progressivo perfezionamento – delle arti, delle tecniche, della conoscenza – e la possibilità di un “compimento”.
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Ma bisogna aggiungere: solo la possibilità. Non sarà del tutto estrinseco, e crediamo che comunque si imponga al lettore moderno, il confronto con un’altra “filosofia della storia”: quella di Marx. Il divenire “futuro” delle società umane ha lì, come tutti sanno, due possibilità: certo la rivoluzione, vista come il processo-compimento dell’emancipazione, della “disalienazione” del genere umano (possibile solo a un certo “stadio di sviluppo” delle forze produttive) – ma anche «la comune rovina delle classi in lotta». La contraddizione che Lucrezio mette al centro della sua ricostruzione storica non è, ovviamente, quella tra “forze produttive” e “rapporti di produzione”, o tra capitale e lavoro; è tra, possiamo dire, il “fine naturale” della felicità e le norme e i valori (o le forme) sociali. Non sarà dunque, in assenza della lotta di classe, dall’evoluzione di un rapporto di forza, che possiamo attenderci la decisione. Ma l’analogia sarà forse più penetrante se osserviamo che, per Marx, l’instaurarsi di un rapporto di forza favorevole al proletariato presuppone un’altra condizione, che ci riporta in un ambito più “vicino”: il costituirsi di una soggettività cosciente, il passaggio della classe operaia, l’agente del cambiamento, dall’“in sé” al “per sé”. Queste celebri espressioni («la classe in sé» e «la classe per sé» di Miseria della filosofia) indicano la necessità di un divenircosciente che instaura il “soggetto” come principio della trasformazione – a partire da un “esserci” che è, anche per Marx, prima di tutto una potenzialità naturale, quella che si realizza nel lavoro come “ricambio organico” tra uomo e natura (la classe operaia può diventare “classe generale” perché è in essa e per essa che si realizza la (ri)produzione materiale – o della base materiale – della società); e questa è appunto la condizione ineludibile di una prassi consapevole e coerente, nella prospettiva del fine della rivoluzione. Ancora, questo divenircosciente della classe, accedere alla coscienza di sé come agente della rivoluzione (processo di disalienazione del lavoro, e dunque dell’uomo), semplicemente non è possibile, per Marx,
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sulla base di una spontanea evoluzione, della vicenda empirica in cui i singoli individui, che “formano” la classe, si trovano; ciò produce al massimo impulsi di rivolta – perché la coscienza individuale “funziona”, empiricamente, “interiorizzando” l’essere sociale, i rapporti e i discorsi dominanti: è essa stessa “alienata”. La coscienza dev’essere “portata” alla classe “dall’esterno” – da chi ha una conoscenza “vera” della società, cioè è capace di “smascherare” la sua (auto)rappresentazione (il che implica che i suoi rapporti e le sue norme siano compresi come “astrazioni” o “apparenze” – la merce e il capitale, sono, com’è noto, “feticci” – cioè come non-naturali, come la creazione artificiale di una “seconda natura”). Il “partito” (marxista) non solo rappresenta ma “produce”, possiamo dire, la coscienza di classe. Quel partito che è anche, in senso “pieno”, una scuola. Non v’è dubbio che Epicuro sia, per Lucrezio, un filosofo “militante”. Che ha portato a tutti gli uomini, introdotto nel mondo umano, un messaggio di liberazione. E non v’è dubbio che questo messaggio, che chiama gli uomini a liberarsi dal dolore che essi stessi si creano, investe direttamente le forme della vita sociale che intrattengono, producono e riproducono una “condizione umana” dolorosa – e “falsa”. La liberazione “interiore” in cui la saggezza propriamente consiste implica – nell’atto stesso in cui discrimina, nel rapporto di sé a sé, il desiderio “naturale” e quello “vuoto”, una vera e una falsa “economia” del piacere e del dolore – un giudizio critico (e una presa di distanza psicologica) rispetto al mondo storico e alla “logica” della società. Se si comprende come l’essere sociale sia insieme collegato e “sovrapposto” all’essere naturale, e come dal punto di vista del giudizio morale sia essenziale l’operazione di distinzione (critica) che li separa, non si vede perché il tema della “prognosi” (vale a dire la possibilità che una felicità “secondo natura” possa essere “recuperata” nella storia umana) vada posto in una alternativa di ottimismo e pessimismo (alla quale i testi non possono essere piegati). Bisognerebbe piuttosto parlare, ci pare, di un
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“possibilismo”. Che la vicenda collettiva degli uomini, grazie ai “progressi della ragione” che culminano nella filosofia di Epicuro, possa svilupparsi fino ad accogliere come un suo proprio principio-guida la ricerca di una felicità rettamente intesa, è una questione che non può che rimanere aperta (il che però è sufficiente a motivare, in questo gli “ottimisti” hanno ragione, l’“impegno” dei filosofi). Una questione che dev’essere affrontata con la più grande “spregiudicatezza”.
Teoria del diritto e istituzione sociale C’è, nel nostro reliquato di Epicuro, un solo tema “politicosociale” che venga svolto direttamente, e con una certa articolazione: quello del diritto, delle leggi, a cui è dedicata l’ultima compatta sequenza di MC (XXXI-XXXVIII). E non sarà certo un caso che proprio su un aspetto (centrale) della vita “pubblica”, comunitaria, si concluda quello che possiamo ben considerare come il “manifesto” per eccellenza (quanto alla filosofia morale) dell’epicureismo. Uno studioso vi ha dedicato un intero libro, che è rimasto “classico”11. Dobbiamo ora a nostra volta prenderla in esame. Le prime tre di queste massime esprimono, soprattutto, una negazione: affermano che il diritto non può essere considerato come il riflesso, o la applicazione, di un criterio di distinzione – del “giusto” e dell’“ingiusto – già dato, già “operante” in natura – prima cioè che la società umana venga “istituita”, prima del costituirsi di quello che chiamiamo “diritto positivo”. Goldschmidt ha ragione di sostenere che la formula to tês physeôs dikaion (XXXI, 1) non può riferirsi a un “diritto naturale” (un diritto, cioè, “già presente” nella “natura”), ma invece alla na11. V. Goldschmidt, La doctrine d’Épicure et le droit, Vrin, Paris 1977.
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tura del diritto – che infatti vien definito (definita) subito dopo in termini che rinviano inequivocabilmente all’istituzione, a ciò che si realizza di fatto come “ordinamento” della società. In questa definizione (esti symbolon) il termine usato (symbolon) può valere tanto “simbolo” che “contratto”; ma questi significati “convivono” facilmente – perché si dia un “diritto” bisogna che qualcosa sia “stipulato” (assuma quindi la forma di un dispositivo fisso, di una stabile convenzione) per “significare” qualcos’altro. E infatti, in XXXIII, Epicuro chiarisce che la giustizia (dikaiosynê) «non […] esiste di per sé» (kath’heauto), ma solo lì dove ci sia una synthêkê tis («un – qualche – accordo»). Nel frattempo (XXXII), ha osservato che per quelli tôn zôôn (tra gli animali, o i viventi) o tôn ethnôn (tra i popoli) che non sono riusciti a «stringere patti [synthêkas poieisthai], non esiste né il giusto né l’ingiusto [outhen ên dikaion oude adikon]». La posizione di Epicuro è dunque nettamente, possiamo dire, anti-giusnaturalistica. Solo il diritto positivo c’è. Questo non rispecchia una naturale distinzione tra il giusto e l’ingiusto – si può parlare di una giustizia, propriamente, solo entro i termini del patto stipulato. Ma adesso bisogna tornare al symbolon della definizione – che sarà “simbolo” di qualcosa. E precisamente: tou sympherontos eis to mê blaptein allêlous mêde blaptesthai. Questo “significato” del simbolo va compreso nella massima aderenza letterale. La traduzione («utilità allo scopo che non sia fatto né ricevuto danno») è corretta, ma va forse “esplicitata”: utile allo scopo è qui per Epicuro l’insieme di tutti i mezzi, le pratiche, le condizioni (messe insieme) che aiutano, permettono (e riproducono) l’instaurarsi di uno stato di fatto, che “si dirigono verso” (eis) questo stato – che è quello in cui «non si fa danno gli uni con gli altri, né si riceve». La reciprocità, lo scambio di azioni fatte e subite, è l’orizzonte “fattuale”, potremmo dire, in vista del quale si predispongono strumenti e regole; e il diritto “simboleggia”, codifica, un insieme di scelte, di pra-
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tiche, di “mezzi” in virtù dei quali i comportamenti reciproci possono risultare, reciprocamente, non-dannosi. Epicuro stabilisce dunque qualcosa come un “fine”, a livello della società. E questo fine non è, non si può definire come, “l’utile”. O meglio: è utile (sympheron) non ciò che viene percepito direttamente, immediatamente come tale, ma (tutto) ciò che “praticamente”, nell’agire reciprocamente secondo certe regole, strumenti, limiti (che devono essere “codificati”), riesce a evitare (minimizzare, ridurre) il danno. La teoria del diritto di Epicuro non è “utilitaristica” per lo stesso motivo per cui non lo è la sua teoria del piacere – sulla quale direttamente si fonda. Il “fine” rimane, sui due livelli, “negativo” – se siamo riusciti a chiarire che cosa significa l’“assenza” (del dolore, del danno). È questa la condizione che permette l’universalizzazione (nella morale, come nell’etica pubblica): se gli uomini possono “mettersi d’accordo”, “stringere patti” circa il “bene” della comunità (che si esprime come “giustizia”), è perché possono “mettere in comune” la loro percezione (essa sì diretta, immediata – e ab origine comune) del danno – non certo di ciò che ciascuno può vedere come il suo proprio “utile”. Purché (vedremo subito) siano capaci di “calcolare”, di rappresentarsi anticipatamente (secondo il processo della scelta consapevole, del giudizio) i nessi causali che “producono” il danno – esattamente come ciascuno, quando delibera sulla propria condotta individuale secondo il fine, si rappresenta le cause del piacere e del dolore. Non è un caso, ovviamente, che Epicuro usi questo stesso verbo (blaptô) e l’aggettivo corrispondente (blaberos – dannoso) in un luogo cruciale della sua teoria del desiderio, che ci è già familiare. In MC la “sezione” sul desiderio precede immediatamente (XXVI-XXX) quella sul diritto; ma è in GV (una raccolta molto più “disordinata”) che appare il verbo, insieme con l’aggettivo – in una delle due o tre massime che “riprendono”
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quella teoria. Abbiamo già letto (GV, 21) che «persuaderemo [la natura] soddisfacendo i desideri necessari, quelli naturali se non recano danno [an mê blaptôsi], respingendo aspramente quelli dannosi [blaberas]». Evitare il danno, potremmo dire, è la formula riassuntiva di una soggettività pratica (deliberante) conforme a natura. D’entrée de jeu, nella formula di MC XXXI, Epicuro fissa i due capisaldi della dottrina: il fine (e la conformità al fine) dell’“istituzione”, del diritto, è esattamente definito negli stessi termini del fine morale “generale”, quello che ispira la saggezza dell’individuo – evitare il danno, cioè fuggire il dolore, “ridurre” il dolore; questo fine (“naturale”) non può ottenersi, sulla scala della vita sociale, senza uno “strumento” di regolazione dell’agire reciproco. “Posta” l’esistenza degli “altri” (che significa che l’azione di ciascun individuo “entra” nella vita di ciascun “altro”), è necessario condividere, mettere in comune il quadro in cui ciascun individuo agisce. Il passaggio tra i due livelli è tanto “immediato” (e perciò, in un senso, “naturale”) quanto (logicamente) indispensabile. Se sono legato agli altri, se la loro condotta può avere conseguenze dirette sulla mia felicità (e questo è appunto il vivere in società), allora il mio dolore, il mio danno non avrà come causa soltanto il “mondo esterno” (delle “cose”) o me stesso, ma anche le azioni degli altri; ma se sono costantemente esposto a questo danno, che proviene dagli altri, questo vuol dire che io stesso (“altro” fra gli altri) posso causare un danno. La reciprocità delle azioni non è “regolata” dalla natura, non c’è un “fine naturale” che la guidi; non c’è quindi una “giustizia” implicita, che si tratti “solo” di scoprire (nella “coscienza” di ciascuno). C’è però la possibilità di mettersi d’accordo (“di fatto”) su quelle condotte reciproche (o “regole” di condotta) che meglio possono consentire a ciascuno di perseguire, in mezzo agli altri, il proprio fine – confrontando il “risultato” di questo agire reciproco con quello che rimane, per ciascuno, il fine. L’accordo
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è indispensabile proprio perché questa norma dell’agire non è desumibile da un’idea innata di giustizia, non può “emergere” spontaneamente dalla conformità al fine come criterio permanente della volontà individuale (conformità che richiede, nell’individuo, l’“acquisizione” della saggezza). Il saggio “scopre” il criterio della propria condotta nel rapporto di sé a sé – e in una “rappresentazione” del mondo esterno che comprende, certo, anche “gli altri”. Ma la presenza degli altri, nella vita sociale, non è solo un “fatto” della rappresentazione – sono soggetti attivi, principi “autonomi” di azione. Bisogna allora che un “simbolo”, un accordo sia fissato “a monte” dell’azione – una convenzione pubblicamente garantita, perché l’azione degli altri (di tutti) opera “immediatamente”, non appena si dia convivenza, comunità: senza riguardo alla natura e alla “qualità” del processo di deliberazione in cui (per l’individuo, ogni volta) si origina. Insomma: il diritto è necessario non perché bisogni ridurre, “neutralizzare” l’eterogeneità dei fini individuali (che in natura non c’è); ma perché l’azione reciproca non si può misurare, “valutare” (solo) come conforme o non conforme al fine individuale. Ciò che dev’essere “preso in conto” è l’effetto che produce direttamente su “gli altri” – e questa valutazione non può essere che “collettiva” – e da questa valutazione “dipendono” il giusto e l’ingiusto. Se il saggio epicureo interviene con tanto impegno nella discussione sulla natura e sui fini del diritto (il che già in sé basta ad escludere ogni suo “disinteresse” per la vita sociale), è perché il suo rapporto con la comunità non può esaurirsi nel “dare l’esempio” di una condotta conforme al fine della natura – semplicemente augurandosi che venga seguito, o anche impegnandosi a “educare” gli altri (il che poi presuppone – l’insegnamento, la scuola – che un sistema organizzato di vita sociale ci sia, e dipende praticamente da questo sistema). “Prima” che (eventualmente) un saggio egli è nella società (ab origine) un altro fra gli altri. Lui per primo, potremmo dire, è vitalmente interessato a
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che le “azioni degli altri” (e quindi anche le sue) siano regolate in modo da “non produrre danno”. La saggezza consiste nel “decidere” dell’azione (della condotta) in conformità al fine; ma, nella vita sociale, ciascuno (e il saggio) si trova a dipendere da azioni che “non decide lui” – e che possono “decidere” della sua vita (e delle condizioni in cui può perseguire il suo fine; la preoccupazione personale di Lucrezio per il patriai tempus iniquus non ha proprio nulla di “retorico”). Ma soffermiamoci ancora un momento su questa tesi, che informa le prime tre massime (XXXI-XXXIII). Essa è, abbiamo detto, duplice: c’è una “genesi sociale” (attraverso il diritto) della “norma” dell’azione (reciproca: il giusto e l’ingiusto); il fine di questo processo di istituzione, di questa norma (il criterio del sympheron) è conforme al fine naturale di ognuno (che nell’ambito dell’azione reciproca, della reciprocità degli effetti, si dice: non fare e non subire danno). Da ciò si ricava una conseguenza: non ci sono “fini” (e dunque valori, principi, ecc.) che siano propri della società in quanto tale (che siano “diversi”, se non per i “mezzi” che richiedono, da ciò che è “fine” per l’individuo). Ciò potrebbe sembrare addirittura ovvio, in un contesto epicureo: se il fine di ogni condotta si definisce nella ricerca del piacere, dell’assenza di dolore, e in questo consiste “il bene” per l’uomo, non si può certo vedere nella società, che non può avere ovviamente esperienza del piacere e del dolore, un “luogo di fondazione” del “bene”. Ma è ovvio, verrebbe da dire, solo per l’epicureismo – ed è perciò capitale, consente di misurare lo scarto che lo separa da tante altre, più correnti, “filosofie morali”. Ci sono (e ci si perdoni lo “scolasticismo”) almeno due grandi tradizioni (nella storia della filosofia, e nel senso comune) in cui si definisce un “bene” della società che viene “prima” o che è comunque indipendente da quello degli individui: vuoi che si definisca una “natura” dell’uomo come (prendiamo in prestito Aristotele) “animale politico” – che in generale una
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qualche identificazione con “la città”, con una collettività, sia essenziale per l’idea del “bene”; vuoi che si consideri questa stessa natura umana, “animalità” dell’uomo, come intrinsecamente “deficitaria”, tendente piuttosto al “male” – e che perciò si attribuisca a “valori” che possono realizzarsi solo nell’organizzazione sociale (ordine, disciplina, gerarchia) il compito di “frenare” queste tendenze, rendendo possibile il (un qualche) “bene”. Si potrebbe poi certo riferirsi a una qualche fondazione direttamente divina della vita sociale, per cui “buona” è la società conforme al precetto per essa specificamente fissato (da Dio); o a quella curiosa “teoria” (a quanto pare la più diffusa e, stranamente, “attuale”) che identifica la società “buona” con quella in cui si produce la maggiore ricchezza – “buona”, s’intende, per tutti quelli che ne fanno parte, compresi i poveri. “Buona” è invece per Epicuro solo quella società che non osta cola, non aumenta le difficoltà che gli individui incontrano nel perseguire il proprio fine – non “aggiunge” a quelle che si formano in una patologia individuale (del corpo o dell’anima) quelle che possono prodursi nell’interconnessione di ogni individuale agire. A partire dal “fatto” che la società c’è (non potrebbe non esserci), e che c’è, per gli individui che la compongono, “prima” che essi intraprendano un proprio personale percorso di guarigione, di acquisizione di una “privata” saggezza. C’è però anche, in essa (poiché è formata da individui; che non è solo “ovvio”, ma anche metodologicamente molto impegnativo) quel “fine” che gli individui ritrovano nella propria natura (e che l’apprendimento della saggezza serve a riconoscere, precisare, articolare sul piano della condotta riflessiva e dei giudizi di valore): non c’è bisogno della saggezza, potremmo dire, per accorgersi che se ci troviamo in un legame di costante interdipendenza con gli altri bisogna prima di tutto evitare che questo legame risulti per sé e per gli altri, per tutti, “doloroso”. Il rapporto tra la condizione dell’individuo e l’ordinamento della società è duplice: la coscienza è
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già “sociale” – ogni determinato esserci della società tende a diventare per ciascun individuo il vincolo in cui si formano gli schemi della rappresentazione, i giudizi di valore, le mete della volontà (da ciò la necessità permanente della critica, il confronto con quell’“essere naturale” in cui si riconduce il fine del piacere, e la possibilità della felicità); ma insieme, il fatto che in una qualsiasi società le condotte individuali siano prese in una rete di reciprocità (che è il primo effetto del suo “esserci”) impone di ricercare già su questo terreno (il quadro generale, le regole e i limiti di ogni agire) una strumentazione efficace per diminuire, non aggravare la “somma” dei dolori. Da tutto ciò deriva un rapporto con la società, con la politica estremamente “laico”, “disponibile”, spregiudicato. Si ricorderà la critica del giovane Marx allo Hegel filosofo del diritto, di aver preteso di “dedurre”, “razionalmente”, perfino l’istituto della monarchia ereditaria. Ma (potremmo dire: dagli stoici fino a Kant) una “deduzione razionalistica” di un certo ordine sociopolitico (o anche della “società civile”), in una determinata articolazione delle sue norme, segna profondamente il versante “pubblico” per dir così, della filosofia morale. La vita in società degli uomini pone problemi (“morali”: legati a una definizione razionale del “bene”) essenzialmente diversi da quelli che ciascun individuo si pone, nella sua ricerca del bene “proprio”. Uno stato, o un codice di commercio “deve essere” in un certo modo – perché il commercio come lo stato hanno già in sé, potremmo dire, qualcosa come una “sostanza” morale (etica). Nelle massime che stiamo leggendo si esprime un punto di vista completamente diverso. E lo vediamo bene anche perché questo è probabilmente, fra tutti i luoghi di Epicuro, quello in cui la concentrazione, la compendiosità dell’assunto si trova meglio in equilibrio con una chiara articolazione, una sequenza “completa” di argomentazione. Lasciamo per un momento da parte le due massime che seguono alle prime tre, e fermiamoci sulle tre successive.
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Abbiamo visto che il diritto ha un fine (una natura) che non è quello di “applicare”, riflettere una distinzione “preesistente” tra il giusto e l’ingiusto (ouk ên ti kath’heauto dikaiosynê; XXXIII, 1). La “nozione” del giusto e dell’ingiusto è successiva all’istituzione del diritto – deriva da questa istituzione, in quanto sia operativa – in quanto cioè, conformemente alla sua natura, il diritto operi efficacemente, nelle circostanze in cui si “applica”, per realizzare il suo fine. Chiamiamo qualcosa “giusto” perché è conforme al diritto – ma questo implica una capacità di verificare, nell’applicazione del diritto, che si raggiunga effettivamente quel fine per cui il diritto (e di conseguenza il giusto e l’ingiusto) “c’è”. Il tema comune di queste tre massime (XXXVI-XXXVIII) è la coerenza, potremmo dire l’autoconsistenza del diritto (sistema generale) rispetto a questa nozione di giustizia che esso fonda – non però, potremmo dire, tautologicamente. Abbiamo visto che solo il diritto (positivo) può “qualificare” come giusta o ingiusta l’azione (che, in quanto, “tocca” gli altri). Ma il senso di questa “qualità” deriva dalla corrispondenza di quel determinato “sistema” giuridico con il fine del diritto in generale – perché senza questa condizione (che dice la “natura” del diritto) non ci troveremmo propriamente in un contesto di diritto. Il giusto e l’ingiusto sarebbero “nomi” – vuoti, arbitrari. È per questo che percepire o definire un’azione come “giusta” non è immediatamente “lo stesso” che constatarne la corrispondenza o l’estraneità rispetto alla norma stabilita. Rimangono operazioni concettualmente distinte – ma dipendono entrambe, potremmo dire, dalla “funzione” che a una norma sociale dell’azione si attribuisce, dalla necessità dell’istituzione (del diritto). Da un punto di vista “privato”, noi possiamo sempre giudicare una certa situazione, che nasce da un intreccio di azioni, come dannosa o non dannosa, dolorosa o non dolorosa (questo è “sufficiente”). Ma da un punto di vista “pubblico”, poiché abbiamo concordemente istituito la validità generale della norma,
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la giudichiamo “anche” come giusta o ingiusta (“il diritto” e “il giusto” sono la stessa parola: to dikaion). Questo secondo “giudizio”, che non ci sarebbe senza l’istituzione, rimane però, “attraverso” l’istituzione, in rapporto col primo: perché ciò che abbiamo istituito non è altro che la possibilità di estendere alla sfera “pubblica” (nell’ambito dell’azione reciproca, e per conseguenza nella forma di un accordo generale, stabile, codificato) quello stesso bisogno, interesse, fine in base a cui giudichiamo ogni singola “situazione” della vita. C’è dunque la possibilità, o piuttosto la necessità, di porre questa questione – che si può riassumere nella formula che abbiamo usato, della coerenza o autoconsistenza di un “sistema” del diritto rispetto alle sue singole “applicazioni” (che sono in via di principio “previste”, nella sua istituzione, come produttive di un preciso “effetto”). Si apre qui lo spazio della critica – che Epicuro declina precisamente, in queste tre massime, secondo tre diverse modalità: lo spazio, il tempo, e quello che potremmo dire il “concetto” – la pre-nozione. Il punto di partenza è che «il diritto è lo stesso [to dikaion to auto] per tutti [pasi]» (XXXVI, 1). Non potrebbe essere diversamente, perché “simboleggia” o “stipula” sympheron… ti (un qualche schema generale di conformità tra l’insieme delle azioni e lo scopo) en têi pros allêlous koinôniai («nello stare assieme gli uni con gli altri», «nei rapporti reciproci»). È questo il riguardo per cui vale la prima affermazione: kata men koinon (A. traduce «da un punto di vista generale»; Goldschmidt «secondo la nozione comune», dove, più che l’introduzione del termine “nozione”, che è piuttosto una forzatura, sarebbe da accogliere il “comune”, che insieme con il successivo communauté mutuelle – per pros allêlous koinônia – rispecchia il gioco linguistico del testo: kata koinon… en têi pros allêlous koinôniai). Ma (de) non se ne può dedurre (non si può dire assieme – ou… synepetai) che il diritto sia lo stesso per tutti (pasi… to auto dikaion einai) kata to idion chôras
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kai osôn dêpote aitiôn: secondo il particolare dei luoghi o di qualsiasi altra causa. Questa è la dimensione che abbiamo detto “spaziale” di una possibile tensione, o contrasto. A. traduce «dal punto di vista delle particolarità dei vari luoghi e della varietà dei principi causali da cui si origina»; e Goldschmidt «secondo le particolarità del paese e altre cause quali che siano». In questo secondo kata «non segue che [A.: “segue che non”] la medesima cosa è per tutti giusta [Goldschmidt rimane fedele alla ripetizione letterale che è nel testo: “che il diritto è lo stesso per tutti”]». Osserviamo che le (altre) cause (particolari) sono qui un’estensione della particolarità dello spazio (chôra): che si traduca con luogo o con paese, si tratta sempre di un ambito “locale” di applicazione; cause va dunque inteso nel senso di “condizioni”, specifiche, diverse, con un riferimento vincolante ai “dati” che in un caso particolare, “materialmente” distinto, motivano, richiedono l’applicazione della norma – per ottenere il fine. Che il diritto non sia, possa non dover essere “lo stesso” (non gli stessi “mezzi”, per ottenere lo scopo) ad Atene e a Sparta, non è che un caso particolare, in questa più ampia “varietà”; ciò che “è giusto”, mettiamo, nei rapporti tra autoctoni e stranieri sarà “diverso” a seconda che i secondi siano prigionieri di guerra, o mercanti, viaggiatori o “rifugiati” (o nell’ordinamento di una gerarchia, se si tratta di un esercito, di una scuola, di una “azienda”, ecc.). Proprio perché il “sistema” non si regge su principi o concetti generali, ma su una finalità pratica, dovrà essere confrontato con le differenze che questa stessa finalità – in quanto si origina, giusta la traduzione di A., in ambiti diversi, da una “materia” diversa – impone. La massima seguente, XXXVII, esordisce con un termine che ci è familiare, perché proviene dalla teoria della conoscenza: to epimartyroumenon («ciò che è comprovato», A.; «che riceve conferma», Goldschmidt). Entra così nella dottrina del diritto un’altra problematica, quella della verifica di una nozio-
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ne, di ciò che collega il suo costituirsi, anticipato, nella mente allo stato di cose “effettivo” (nella sensazione) che vi corrisponde (oppure no). Deve avere il posto del diritto (echein tou dikaiou chôran dei) ciò che si conferma (è confermato: epimartyroumenon) appartenere alle leggi giuste (che si sono stabilite come giuste, nel diritto) in quanto (hoti) sympherei en tais chreiais tês pros allêlous koinônias («è utile nei bisogni della communauté mutuelle», Goldschmidt; «nelle necessità dei rapporti reciproci», A.). «Sia che sia uguale per tutti, oppure no» – precisazione resa indispensabile dalla massima precedente: ciò vale sia se consideriamo il diritto nella sua “generalità”, sia se lo “adattiamo”, “aggiustiamo” alle situazioni particolari. Non si potrebbe essere più chiari, nel mostrare il “gioco” permanente tra il fine del diritto e la sua effettiva “operatività” – non più, stavolta, nella tensione tra generalità e particolarità, diversità, degli “ambiti”, ma al livello come abbiamo detto “concettuale”, della “nozione”, necessariamente “anticipata”, dello stato di cose che quel diritto, una volta applicato, produce. E infatti: ean de monon dêtai tis, mê apobainêi de kata to symferon tês pros allêlous koinônias, ouketi touto tên tou dikaiou physin echei. Questo testo è controverso, nel suo inizio. Ma che si intenda come A. («se viene sancita una legge») o come Goldschmidt («se qualcuno propone una legge» – meglio però allora Conche et al.: «se qualcuno stabilisce una legge»), secondo Epicuro può accadere che questa legge «non risulti conforme all’utile dei rapporti reciproci [e allora], non ha la natura del giustodiritto [mê apobainêi… kata to sympheron tês pros allêlous koinônias]». Subito dopo Epicuro introduce un’altra delle parole-chiave della sua teoria della conoscenza, che rimanda all’epimartyroumenon dell’inizio: poiché il diritto è stabilito in funzione di uno stato di fatto non-dannoso, che quindi si trova ad essere “anticipato” in una nozione, bisogna che questo stato di fatto,
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quando si verifichi, risulti effettivamente “conforme” a quella nozione. Sennò, sarà evidente che quel diritto, quella norma (l’azione che ne risulta, in quanto “giusta”) ouketi… tên tou dikaiou physin echei – non ha la natura del diritto, del “giusto”. La prolessi che può essere confermata o non confermata (secondo la “testimonianza” della “cosa”) non è quella del diritto, che non avrebbe senso, ma dell’utilità strumentale che si ottiene o non si ottiene, secondo il diritto (to kata to dikaion sympheron; XXXVII, 6-7). Questo vuol dire che la possibilità dell’“errore” (che la nozione non sia una prolêpsis, ma una ypolêpsis) è – conforme alla teoria generale della conoscenza, in quanto analisi della “preformazione” delle nozioni – “connaturata”, per dir così, ad ogni processo effettivo di istituzione del diritto. Per questo abbiamo parlato di una estrema spregiudicatezza, di una illimitata disponibilità critica nel rapporto dell’epicureismo con il diritto – cioè con l’istituzione, con la politica. Proprio perché il diritto non riflette principi immutabili, “naturali”, ma è “subordinato” a ciò che risulta, effettivamente, dannoso o non dannoso nella convivenza tra gli uomini, in esso, in qualsivoglia istituzione, c’è sempre la possibilità dell’errore. L’utilizzazione del lessico della conoscenza “intellettuale” sta lì appunto a ribadire che la questione della validità o non validità del diritto, e di questa o quella singola norma, non si pone come un confronto tra “positività” e “idealità” (che sarebbe indecidibile; e renderebbe “l’errore” affatto incomprensibile), ma si fonda “empiricamente”, potremmo dire, sulla irrecusabilità di una testimonianza “di fatto”, che è data da uno specifico “stato di cose” – le sue conseguenze “immediate”, e dunque in termini di piacere/dolore, per gli individui che lo “vivono”. Appunto perché questo singolo, specifico stato di cose è proprio ciò in vista del quale il diritto (secondo la sua “natura”) è stato istituito. Siamo come si vede “agli antipodi” degli stoici (ma anche di Kant o Hegel). Un intero sistema del diritto (dell’eticità) può anche essere “tutto”,
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semplicemente, “sbagliato”; così come accade, nella deliberazione sulla condotta individuale, quando si assume, a torto, una certa condizione fattuale (ricchezza/povertà, potere/“oscurità”) come “causa” di felicità/infelicità. Non abbiamo però ancora segnalato che il secondo dei due termini “tecnici”, che servono a ricondurre il “concetto” del diritto nell’ambito di una generale teoria della conoscenza, appare nella massima XXXVII in un contesto che già “anticipa” la massima seguente. Epicuro vuole sottolineare l’aspetto “sincronico” (sistematico) di questa corrispondenza tra la natura del diritto e la prenozione dell’utile-rispetto-allo-scopo, distinguendolo accuratamente dal caso in cui essa venga meno per effetto di un “cambiamento” (nelle condizioni fattuali secondo il tempo, non secondo una distinzione di ambiti – è questo il terzo aspetto dell’esame). E per questo insiste che il giudizio sull’auto-coerenza, in termini “concettuali”, non può essere “retrospettivo”. Se in un qualsiasi periodo di tempo (chronon… tina) la norma del diritto si accorda con la prenozione dell’utile, allora, in quel tempo, è giusta – anche se, poi, in un tempo successivo, questa utilità, così com’era “contenuta” nella prenozione, non è più realizzata (decade, traduce A.: «se anche anche viene a decadere ciò che era utile secondo il diritto, ma per un certo tempo aveva corrisposto alla prenozione […] durante quel tempo non era meno giusto [kan metapiptêi to kata to dikaion sumpheron chronon de tina eis tên prolêpsin enarmottêi, ouden êtton ekeinon ton chronon ên dikaion]. Che non sia un’affermazione “incidentale”, dovuta solo alla necessità di distinguere i diversi criteri dell’esame, ce lo indica l’enfasi con cui Epicuro l’accompagna: questo è chiaro per «chi non si turba per vane chiacchere, ma guarda ai fatti» (XXXVII, 9-10). Essa contiene una precisazione di grande importanza, ci avverte di come l’“artificialità” del diritto (il fatto
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che non ci sia un fondamento “naturale”, una distinzione “preesistente” tra il giusto e l’ingiusto) non debba farci concludere ad un generico “relativismo”. Quando si istituisce una norma, che derivi dalla volontà comune di “evitare il danno”, è sempre possibile, diciamo così, “indovinare”. Perché la prenozione dell’utile e del danno – se non è certo, come qualsiasi altra prenozione, al riparo dall’errore (è questo in fondo che separa la morale e la politica di Epicuro da ogni “utilitarismo”) – rimane una funzione essenziale dell’adattamento secondo il fine dell’uomo al suo ambiente, naturale o sociale – e “merita”, in quanto tale, una certa “fiducia”. Naturalmente, ciò implica che si tenga fermo alla genesi contrattuale del diritto – all’accordo, per definizione “libero”, tra gli individui. Ma se consideriamo il diritto nella sua propria “natura”, è ovvio che non può essere l’espressione di volontà o interessi “unilaterali” di singoli o gruppi. Che poi qualcosa che “rassomiglia” al diritto, perché “fissa” le possibilità e i limiti dell’agire sociale, possa anche instaurarsi in questo modo è ben presente a Epicuro: la massima XXXII ha spiegato che alcuni tra i popoli (tôn ethnôn) possono non avere la volontà (mê ebouleto – il che rimanda allo sviluppo di capacità intellettuali) o la possibilità (mê edynato – e in ciò sarà da vedersi piuttosto uno stato di costrizione) di synthêkas poiesthai («stringere patti»; «per non ricevere e non recare danno»). In questo caso, non ci sarà per loro né il giusto né l’ingiusto (XXXII, 4-5) – ma questo non vuol dire che non ci saranno “leggi”. Quando diciamo «diritto secondo natura» (ricordiamo che sono le prime parole di questa “sezione”) presupponiamo la synthêkê (XXXIII, 9) – che a sua volta implica la possibilità e la volontà per ciascuno (non solo tra i popoli, ma anche tôn zôôn – i viventi in generale) di “condividere” una prenozione del danno. Le “parti contraenti”, insomma, sono a priori accreditate di quella che Habermas chiamerebbe una razionalità dell’agire comunicativo – e che è piuttosto in termini epicurei il contatto permanente con una conoscenza “vera” del piacere
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e del dolore, del non-dannoso e del danno. Ma ciò che conta, soprattutto, è che Epicuro non crede a un “destino di fallimento” nella regolazione dello spazio pubblico – questo è un caso particolare, potremmo dire, della sua negazione generale, esplicita (LM, 133-134) che vi sia qualcosa come un “destino”. Lo stato, la storia, la comunità politico-giuridica non sono figure dell’infelicità umana, il risultato puramente “negativo” dell’allontanamento dalla natura; nella stessa misura in cui non sono la realizzazione di una specifica “vocazione” umana, che imponga agli individui di cercare e trovare, una volta per tutte, in una “essenza” propria del vivere in comune, un modello autofondato del “bene” – del giusto. La massima successiva (XXXVIII) è del tutto “simmetrica” alla precedente. Esplicita, scandendola in due distinti enunciati, la sequenza del secondo e del terzo criterio (“concettuale” e “temporale”) di una effettiva autoconsistenza del diritto. «[…] le cose sancite come giuste dalla legge [ta nomisthenta dikaia]» non erano giuste se “di fatto”, “nei fatti” (ep’autôn tôn ergôn) «non conformi alla prenozione [mê armottonta eis tên prolêpsiv]» – e ciò indipendentemente dai cambiamenti che possono essere intervenuti «nelle circostanze [tôn periestôtôn pragmatôn]». Quando invece si diano questi cambiamenti (si potrebbe tradurre: quando, essendo nato qualcosa di nuovo) queste stesse “leggi giuste” non sono più utili (ouketi synephere: hanno cessato di corrispondere alla [pre]nozione del sympheron) allora («dopo» – hysteron) (si dovrà dire che) non erano (sono) giuste – perché, in quanto, hanno cessato di essere utili (hote mê synepheren). È dunque chiarissimo: le leggi sono giuste (il diritto ha la natura del diritto) in rapporto al luogo (o al “caso”) in cui si applicano, in quanto sono giuste (“intrinsecamente”, in relazione al fine) e finché sono giuste. Sembra veramente difficile sostenere che l’atteggiamento del saggio epicureo verso la storia, il pro-
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cesso di permanente istituzione della società umana, è essenzialmente caratterizzato da indifferenza e disprezzo. Abbiamo detto che già solo la scelta di dedicare una parte importante del “catechismo morale” che vogliono essere le MC alla definizione del (la natura del) diritto (fondandola sulla stessa “scelta del fine” in cui l’intera morale si riassume) sarebbe in questo caso incomprensibile; ma ancor più lo sarebbero le conclusioni “prescrittive” che se ne traggono: il diritto, per essere tale, deve essere costantemente “adattato” alle situazioni particolari, “misurato” sulla costante verifica dei presupposti conoscitivi che ne motivano l’istituzione, e costantemente “cambiato” – se il mutamento, il divenire, è “consustanziale” ai pragmata, alla configurazione mutevole dei “fatti” che restano la base e il vincolo ineludibile di ogni “verifica”. Tra le massime XXXI-XXXIII, che formulano la connessione diritto-danno-giustizia, e quelle XXXVI-XXXVIII, che articolano il principio della verifica fattuale, Epicuro ha intercalato, per dir così, la XXXIV e la XXXV: possono sembrare quasi un inciso, nella sequenza argomentativa – ma in realtà sono perfettamente integrate nel suo sviluppo. Esse cominciano già a porre la questione dell’“efficacia” del diritto, del patto, ma lo fanno, potremmo dire, da un punto di vista “soggettivo” – quello del rapporto tra l’individuo, che rimane il soggetto dell’azione, e l’impegno che assume di regolare la propria azione “secondo il patto”. Questa prospettiva può a buon diritto “precedere” quella che verte sui “contenuti”, su “ciò che è fissato” nell’istituzione. Se c’è un patto, e in base ad esso l’azione individuale è “qualificata” come giusta o ingiusta, si pone subito il problema di come questa mediazione operi sul piano del rapporto tra l’individuo e l’azione – dal momento che la possibilità e il significato dell’azione “si originano”, nell’individuo, “per altre vie”, sono e restano “indipendenti” rispetto all’impegno preso (e alla “qualità”, al senso, che ne deriva).
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Che cosa significa, per l’individuo, “commettere” un’ingiustizia? «L’ingiustizia non è di per sé un male [Hê adikia ou kath’heautên kakon]» – sono le prime parole della massima XXXIV. Lo sappiamo già: non può essere un male perché, così come la giustizia, non è «qualcosa che esiste di per sé» (XXXIII, 1). Il male è il dolore, quello che fuggiamo “per natura” – esiste dunque “in sé”, “in natura”; ed esiste il danno – ma esiste, per ciò che “interessa” il diritto, nell’altro, è il dolore dell’altro in quanto “causato” da un altro. Solo il diritto “fa esistere” il giusto – perché l’azione giusta è quella che rimane nei termini del “codice” pattuito, per evitare il danno. “Ingiusto”, per me, significa dunque, intanto: l’azione che compio violando questo codice. Certo, sono vitalmente, “naturalmente” interessato a che il codice “ci sia” – da esso dipende che io non subisca il danno, a condizione che non lo subiscano “gli altri”; è questo che “impegna” ogni mia singola azione (“sociale”) nel rispetto del patto di reciproca garanzia. Ma questa “razionalità” del diritto (che è la sua “natura”, perché è il suo legame con il fine “naturale”, individuale) non può bastare a far apparire (ai miei occhi) la (mia) azione ingiusta come un (mio, evidentemente) male. Non posso fare “l’esperienza” del male, in relazione ad un agire finalisticamente orientato, se non “scopro” in questo agire stesso quella che abbiamo chiamato una “controfinalità”; il rapporto diretto, “verificabile”, tra l’azione e la sua conseguenza è la condizione che mi permette di “giudicare” la mia azione – nell’unico modo che sia moralmente rilevante, e cioè come conforme o non conforme al “fine naturale”. Se un’azione che mira alla ricchezza o al potere mi si può rivelare come “sbagliata”, è perché posso in ogni momento rappresentarmi (al netto dell’“errore”) lo stato effettivo di presenza/assenza del dolore che ne accompagna il compiersi – o l’effetto. Abbiamo visto nel capitolo precedente che l’individuo può “decidere” della conformità o non conformità al fine (dell’azione) in quanto è sempre, potenzialmente,
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“informato” (nella memoria, nella rappresentazione, “collegate” all’immediatezza della sensazione) del suo “significato” in termini di piacere/dolore. C’è qualcosa di equivalente nel “vissuto” soggettivo di un’azione (che il diritto e i patti sottostanti hanno reso) “ingiusta”? La massima XXXIV (la successiva non fa che apportarvi un’ulteriore precisazione) dà la risposta. L’ingiustizia non è un male in se stessa (non basta dunque “sapere” che l’azione è ingiusta per “fuggirla” come un male) ma «nella paura [en tôi… phobôi – c’è dunque “uno stato affettivo” che la “connota”] che non sfuggirà [o “non rimarrà nascosta” – ei mê lêsei] a coloro che sono stati come punitori preposti a queste cose [scil. le azioni ingiuste]»; A.: «per il timore che sorge dal sospetto di non poter sfuggire a coloro che sono preposti alla punizione di tali azioni». Si badi: Epicuro non sta parlando, semplicemente, dell’effetto di deterrenza della pena. Che ci si siano «i punitori» lo dà per scontato (si vede anche dalla forma della frase); a giusto titolo, se stiamo parlando del diritto “positivo”. Un patto che si fissa in un “codice” non sarebbe vincolante (e sarebbe dunque totalmente inutile) se non “va da sé” che le infrazioni a questo codice, una volta conosciute, saranno in un qualsiasi modo punite. Ciò che gli interessa, e che ci interessa, è stabilire che chi compie l’infrazione, “l’ingiusto”, è per ciò stesso immediatamente “colpito” da un male. Che è poi in questo caso il male “per eccellenza”, in buon epicureismo: la paura. La massima XXXV precisa che questa condizione dolorosa non ha niente di contingente in relazione al tempo, non può essere cioè attenuata o rimossa in base a considerazioni “statistiche”: se pure riesca migliaia di volte (myriakis) a rimanere nascosto (quello che si fa “di nascosto” ai patti stabiliti) non si può veramente confidare che rimanga sempre nascosto (non tradurrei come A., «fino alla morte» perché mi sembra che mechri katastrophês possa anche intendersi in rapporto al compimento, all’esito finale di quelle pratiche “fraudolente”, che hanno in vista un
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certo scopo – senza pregiudicare ovviamente della possibilità di una “scoperta” relativa al passato). In questa massima, che definisce come invariabile, permanente, la paura dell’ingiusto, non c’è più alcun riferimento alla pena – non è questo, che poi porrebbe il problema della “gravità”, “severità” della pena, il punto essenziale. Il “segreto”, l’“occulto” è coessenziale all’agi re “ingiusto” – il che consente a Epicuro un gioco linguistico molto serrato, che dà qualche filo da torcere ai traduttori, ma non oscura il senso: la paura dell’ingiusto è che non rimanga sempre nascosto ciò che è fatto nascostamente – rispetto «ai patti stipulati reciprocamente per non fare né ricevere danno». Le azioni ingiuste sono un male, per chi le compie, perché l’ingiusto vive nella paura che possano essere “pubblicate”. E basterà pensare all’“infamia” che necessariamente gliene deriva (e che può avere ovviamente una folla di conseguenze “pratiche”); oppure, ma è poi lo stesso, alla perdita (immediatamente “sentita”) della garanzia che il patto gli offriva – se la violazione è manifesta, l’individuo si trova “di fatto” al di fuori del patto. Non a caso queste due massime seguono immediatamente alla definizione del diritto/giustizia, e precedono il tema dell’“autocritica” del diritto. Esse articolano un passaggio essenziale della teoria, la coerenza, e vorremmo dire continuità, fra “sfera pubblica” e “sfera privata” dal punto di vista dell’individuo agente secondo il criterio morale. Per “scegliere” la sua condotta, in quanto rientri nell’ambito dell’“azione reciproca”, l’individuo non farà che seguire il criterio “interno” della (sua) natura: fuggire il kakon. Nel rapporto con il diritto è pienamente “rispecchiato” ciò che costituisce il soggetto morale – la capacità di agire conformemente al fine naturale. Così come il rifiuto di dedurre razionalmente o di collocare in un innatismo l’idea del bene non conduce all’arbitrio, nel giudizio morale, il rifiuto di rappresentare il diritto come un “riflesso”, nell’ambito della società costituita, di quella stessa idea (o di collegarlo a un “fine” che stia nella “natura” della società) non instaura
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il dominio della costrizione (dell’esteriorità, della contingenza), rispetto all’individuo naturale-sensibile. Il “giusto” non è diverso dal “saggio” perché il secondo dispone (nella sua capacità di “prestare attenzione” alla sensazione) di una testimonianza irrecusabile circa il “valore” della sua condotta (piacere/ dolore), mentre il primo deve affidarsi a un “ragionamento”, una comparazione (l’azione conforme al diritto è “preferibile” perché l’insieme del diritto è istituito perché…). Le massime XXXIV-XXXV ci dicono che “prima” di questo livello di astrazione la scelta della (o piuttosto l’orientamento verso una scelta di) conformità al diritto non ha niente di incerto casuale arbitrario: l’individuo sa che l’azione ingiusta è un male perché, come in ogni “momento” della sua condotta, può sentire il male, il dolore che immediatamente ne deriva – e questo è per lui (per la “saggezza”) l’essenziale. Insistiamo su questo aspetto, anche perché qui l’epicureismo appare molto diverso da altri materialismi (o morali materialistiche). Il problema del rapporto tra “ciò che è bene” (in rapporto al fine) per l’individuo e “ciò che è bene” (in rapporto al fine) per la società si trova spesso trattato in modo da accentuare, non certo ridurre, la separazione e il contrasto tra i due ambiti (per esempio, tipicamente, in Freud). In termini generali si potrebbe riassumere così questa posizione: se il fine che orienta la condotta è “inscritto” nella costituzione materialesensibile degli individui, allora la moralità (conformità al fine) di questa condotta non potrà mai essere “misurata” in base alle sue conseguenze, al suo significato per la vita sociale. Facciamo l’esempio di quello che è forse il più radicale fra i materialisti del Settecento, La Mettrie – riferendoci ad uno dei suoi scritti più “maledetti”, per accoglienza e vicenda editoriale: l’Anti-Seneca. Il criterio “naturale” della condotta è nella costituzione psico-fisica dell’individuo; soltanto un “caso fortunato”, in questa costituzione, può garantire che la sua condotta (che rimane in ogni caso pienamente “giustificata”) si inserisca “ar-
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moniosamente” nel funzionamento “normale” della società – dove “normale” vuol dire: conforme a bisogni e interessi, a un “utile”, che non è quello dell’“organismo” individuale, ma nasce dallo stare insieme, dall’obbligo di vivere in società. Questa “discontinuità” può essere colmata dall’educazione – che è concepita chiaramente come un dressage: “abituare” l’individuo a integrare nella sua condotta criteri e finalità che gli rimangono essenzialmente estranei, ma che “ha imparato” a rispettare – tanto da rendere impossibile, o almeno soggettivamente “costosa”, la loro violazione. Ma anche questo strumento – interamente “artificiale” – non ottiene necessariamente il suo scopo. L’educazione può fallire – la forza degli istinti “antisociali”, quando prevalga in una data costituzione, rimane soverchiante. Alla “società” non resta allora che “difendersi”, “liberandosi” in un qualche modo da chi rappresenti una minaccia o un pericolo. È uno “stato di necessità” che il saggio (il philosophe) riconosce – ma senza cadere ovviamente nel ridicolo di attribuirgli un fondamento “morale”, considerando il giudizio della società come la giusta punizione del “male”. Le differenze con Epicuro sono evidenti – e non è forse senza significato che in un’altra opera di La Mettrie – che avrà come titolo Il sistema di Epicuro, e nella quale l’Anti-Seneca doveva essere inizialmente integrato – non si trovi alcun cenno alla “dottrina del diritto”. Potremmo riassumerle in due punti. Intanto, l’esistenza della società e delle sue leggi rimane qui semplicemente un “fatto”: non rientra nell’impostazione del problema alcuna discussione sul “fine” – perché questo fine coincide in pratica con le esigenze specifiche della “vita in società”, che le leggi, bene o male, soddisfano. Il problema del rapporto tra il fine della regolazione sociale e una “logica interna” dell’agire individuale non si pone – l’individuo “accetta” un’esigenza di regolazione, non la produce o la “sceglie”. La Mettrie rifiuta, verrebbe da dire “istintivamente”, ogni implicazione “contrattualista”; a giusto titolo, dal punto di vista del suo
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materialismo “psicologico”, in quanto essa presupponga un “razionalismo” – la libera, razionale deliberazione degli individui intorno al “bene comune”. Ma abbiamo visto come in Epicuro la finzione epistemologica del “patto” non si regga su una qualche identificazione di “natura” e “ragione”, ma piuttosto su una “spontaneità”: nell’esperienza pratica dell’azione reciproca si riproduce un fine naturale dei singoli “agenti” – evitare il danno. Il secondo punto è connesso con questo, ma rimanda più “in profondità”, al “cuore” della teoria del piacere. Se l’individuo può perseguire il suo proprio fine in un contesto normativo che emana dalla società (al netto degli “errori”; e sotto la condizione di una “flessibilità”) è perché questo fine, il piacere, è esattamente definito come “assenza di dolore” (nella “positività” della sensazione). Si misura qui, ancora una volta, l’eccezionale “potenza” di quello che chiameremmo volentieri il “gesto filosofico” essenziale di Epicuro. La “varietà” dei piaceri, che vincola nel molteplice e nel contrasto delle “preferenze” l’inclinazione individuale, rimane estranea alla determinazione del fine (ferma restando la sua piena assimilabilità, nella costanza del piacere). È per questo che l’individuo, nella sua coscienza-di-sé-come-coscienza-del-fine, si trova “per natura” in una situazione di potenziale “convergenza” con gli altri – su cui può fondarsi la pratica dell’intersoggettività, indipendentemente dall’intervento della riflessione “astraente”. Ciò si ripercuote due volte, per dir così, nel rapporto individuale alla “legge”: l’individuo non vuole essere riconosciuto come “ingiusto”, come colui che viola (ha violato) il patto – perché sa “immediatamente” che il fine della sua condotta, nel quadro della reciprocità, “contiene” il rispetto del patto (non farsi danno); d’altra parte, se il segreto non può essere garantito, la paura che nasce insieme con la violazione distrugge per lui, in permanenza, la possibilità di agire, di vivere, conformemente al fine. Il calcolo del piacere/dolore non può farsi qui (come è implicito in La Mettrie) in termini di quantità (di intensità, di for-
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za): non è un calcolo “algebrico”, per cui il “meno” del dolore (per esempio la pena) può sempre produrre un “saldo attivo”, se si somma con un “più” di piacere (ciò ha come corollario la necessità, per i non- o i male-educati, di un terrorismo delle pene). Nei termini della teoria del piacere epicurea, l’individuo percepisce il dolore, un “qualsiasi” dolore, come assoluta contro-finalità (ha la possibilità di questa percezione, in quanto è costantemente “intrattenuta” dall’attualità della sensazione – della sofferenza). Ci sono dunque tutte le condizioni, in via di principio, perché l’individuo “trasporti” sul terreno della vita sociale (“patteggiando”, e rispettando i patti) la propria personale, naturale “inclinazione” al fine. È proprio questo collegamento stretto (e la possibilità di una “coerenza” che ne deriva) tra il sistema della regolazione sociale e la conformità al fine naturale, che ci sembra il “centro” della dottrina epicurea del diritto, che dà al saggio la sua specifica funzione, nell’ambito della vita collettiva. Non c’è bisogno di “aspettare” che “tutti” gli individui diventino saggi, per dir così, perché nella loro vita comune emerga il bisogno, l’impulso, la tendenza a “cercare” questa coerenza – nella misura in cui il fine naturale continua ad essere “percepito” nel riferimento immediato dell’individuo, preso nella “rete” dell’azione reciproca, a se stesso. Ciò consente (impone) di porre in ogni momento – e quindi “qui” e “ora” – la questione del giudizio sul modo, necessariamente “contingente”, in cui l’agire reciproco è “organizzato” – sull’istituzione. Ben lungi dal disinteressarsene, il saggio può (deve) richiamare costantemente l’insieme della società alla “natura”, alla logica (l’unica possibile, “fondata”) della distinzione (politica, sociale) fra il “giusto” e l’“ingiusto”. Lo farà nello stesso modo, sulla stessa base, che gli consente di insegnare ai singoli individui la saggezza. Questo rapporto – tra una saggezza conquistata, “in atto”, e il bisogno di saggezza che si trova inscritto nell’aspirazione naturale alla felicità – è del tutto “isomorfo”, potremmo dire, a quello che sostiene ogni
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processo di apprendimento, di educazione morale (e perciò di educazione, tout court): è una attivazione consapevole, nella “funzione” del saggio, del bisogno generalmente umano (e perciò anche “storico”) di filosofia. Quando abbiamo cercato di analizzare il testo di LM, 132, 7, in cui si afferma che «il principio e il massimo bene è la prudenza [phronêsis]», abbiamo visto come la concentrazione dell’espressione induca effetti di stratificazione concettuale che bisogna distintamente articolare, ricostruendo connessioni e sequenze dell’argomentazione. E abbiamo visto che phronêsis (la “faccia” pratica, rivolta verso l’azione della saggezza) è la dimensione della consapevolezza riflessa del fine, in cui si esprime la capacità critica rispetto alle condizioni fattuali e ai nessi causali della vita felice (buona), che si dispiega nel “calcolo”. In questo senso (e non per trasformazione/sostituzione rispetto al “piacere come fine”) si può dire che la phronêsis è «massimo bene». Questo vale anche sul piano della vita sociale. Se evochiamo, in questo contesto, il tema dell’educazione, vediamo che non si tratterà di un dressage, che induca nell’individuo una seconda natura, abituandolo a integrare nei riflessi spontanei della volontà norme e valori, ragioni e fini che gli rimangono “estranei” – com’è per esempio in La Mettrie; ma di un processo di disvelamento, attuazione e compimento, nell’esperienza pratico-sensibile dello stare assieme, del telos individuale.
L’amicizia del saggio La saggezza, la possibilità della saggezza, “ha a che fare” con la vita sociale. Non è mai esistita (sappiamo che non c’è stata un’“età dell’oro”), non esiste “ora”, una società di saggi. “Ora”, però, grazie all’insegnamento di Epicuro, al perfezionamento della filosofia, il “principio” della saggezza è attivo, si manifesta nell’individuo – in alcuni individui. Questi individui “stanno”
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nella società – non solo come educatori, ma nello svolgimento di tutta la propria azione/condotta, nei contesti di reciprocità in cui ciascuno si trova; e hanno perciò “naturalmente” il compito di giudicare la società, di consigliarla, di promuovere in essa (nella coscienza sociale) il massimo possibile di adeguatezza, di non-contraddittorietà rispetto al fine naturale (individuale). Ma ciascuno di essi è anche “impegnato”, nella sua vita personale, a “formare” la sua propria “rete” di rapporti con gli altri – ispirandosi direttamente all’“ideale” della saggezza. Le massime XXXI-XXXVIII della silloge non esauriscono il tema della vita sociale, della relazione interumana: vi è qualcosa che sta “al di sopra” del diritto, quella forma di reciprocità, di rapporto reciproco che il saggio tende ad attuare nella sua effettiva, personale, vita di relazione – in cui “si specchia”, per così dire, l’ideale della società umana. Questo è certamente il senso più “forte”, più “pieno”, in cui va inteso il tema epicureo dell’amicizia. Il nesso amicizia/saggezza non è sempre esplicitamente formulato, ma attraversa pressoché tutte le occorrenze del termine. In GV, 78, “amicizia” e “saggezza” formano una endiadi («l’uomo bennato si dedica all’amicizia e alla filosofia [sophia]»); e Diogene Laerzio, quando inserisce il tema nel suo “riassunto”, lo caratterizza in due modi, uno dei quali si formula così: «[una] comunanza di vita tra coloro che hanno raggiunto pienezza di felicità» (120b121a). L’amicizia non è per Epicuro un “sentimento” – il suo valore non sta nell’unilateralità dell’inclinazione; è una relazione, pratica, in cui la norma dello stare assieme si stabilisce “spontaneamente” in conformità al fine – perché la “comunione” degli individui consiste appunto nel “mettere in comune” la loro saggezza, il loro “sentimento”, necessariamente “concorde”, della felicità. Per questo Epicuro insiste sui vantaggi pratici che ciascuno trae da questo “modo” di stare assieme – da un agire reciproco che non è “casuale”, come nel semplice “fatto” del vivere in società, ma si fonda in ogni momento sulla
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“fiducia”, su una conoscenza piena dell’altro, in ciò che lo fa “simile”, e che è “l’essenziale”. Diogene Laerzio giustappone i due aspetti – e questa giustapposizione si riflette ancora nelle discussioni degli interpreti: nel passo che abbiamo citato, subito prima, leggiamo che l’amicizia si origina «in vista delle necessità [pratiche: dia tas chreias]». Qualcosa “stride”: da una parte un mero calcolo dell’utile, che sembra “degradare” l’amicizia a mero strumento; dall’altra la ripetuta affermazione – ne vedremo subito altre occorrenze – di un valore “intrinseco”, altissimo, dell’amicizia. Ma la difficoltà scompare, se riconosciamo che l’amicizia è prima di tutto la forma di vita sociale, di “condotta reciproca”, che è propria del saggio – che corrisponde alla sua “piena” comprensione del telos. Essa esprime il principio, la possibilità di una comunità che “non ha bisogno” del diritto e del potere – per diventare strumento, e non ostacolo, per la realizzazione del fine naturale; una “società degli amici” – cioè di saggi, che si trovano “naturalmente” tra loro in un rapporto di amicizia – si troverebbe in una condizione di permanente, “immediata” autoregolazione – un po’ come la società comunista di Marx. Gli interpreti concordano nel giudicare che proprio l’amicizia, anche se il termine non viene usato, sia il tema delle ultime due massime, XXXIX e XL, che chiudono la raccolta di MC. L’amicizia, come modalità dello stare assieme che garantisce, “da sé”, l’obiettivo della sicurezza – il non aver da temere degli altri. È proprio questo non temere, «aver fiducia [tharrein]» rispetto a «chi sta intorno», ai «vicini [tôn homorrountôn]» che la massima XL formula come condizione per «vive[re] […] vita dolcissima», met’allêlôn («gli uni con gli altri col massimo di piacere», traduce Conche); condizione in cui è compreso to bebaiotaton pistôma («la garanzia più salda», traduce ancora Conche – questa «fiducia» è la più stabile, la più duratura, destinata a rimanere nel tempo). Queste due massime scandiscono lo stesso tema che ha attraversato tutta la discussione
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sul diritto, la possibilità di non trovare, nel mondo degli “altri”, una causa di sofferenza, di non vivere nel pericolo che l’altro può rappresentare “per definizione”; ma lo fanno non più in rapporto al “patto” istituito a questo fine, bensì in un’ottica che potremmo definire “soggettiva”, come l’acquisto, l’abito che corrisponde a un certo tipo di relazione – che deriva da un “modo d’essere” di qualcuno (ho… houtos, in XXXIX; hosoi… houtoi, in XL), in rapporto agli altri. È qualcosa che “ci si può procurare” (paraskeuasasthai) “da sé”, cercando di ottenere, avendo la capacità di ottenere una relazione “speciale” con gli altri. E la scansione è chiara: in XXXIX, le diverse relazioni possibili sono classificate e “trascelte” secondo il grado di “assimilabilità” degli altri, della loro possibilità di entrare, “da sé”, in questa relazione di fiducia, di sicurezza. Stiamo parlando di colui che sa “disporsi nel modo migliore” rispetto al mê tharroun apo tôn exôthen (le traduzioni – A., Conche – rispettano il senso, ma lo “rafforzano” troppo: non si tratta necessariamente, per il mê tharroun, di inquietudine o élements de trouble, ma più in generale di ciò che non ispira fiducia, non è sicuro, «che viene da fuori»; «cause esterne», traduce A., ma un esterno, un estraneo, ovviamente “umano”). Costui si sarà innanzitutto procurato l’homophylia quando è possibile (ta men dunata homophyla kateskeuasato – l’homophylon è un «alleato» secondo Conche, in ogni caso qualcuno «della stessa specie», con cui ci sono relazioni naturali di affinità). Ma rispetto a ciò che non è possibile, quando cioè questa affinità non si trovi, egli non è necessariamente di fronte a un allophylon – qualcuno d’altra specie, “assolutamente” estraneo, ostile (ta de mê dunata ouk allophula ge); e questa possibilità di «non alienarsi» (Conche) l’estraneo, di non «considera[re] come assolutamente estraneo» il non-affine rimanderà, a questo punto, alla mediazione del diritto, alla regola condivisa che consentirà faute de mieux il rapporto “non rischioso” con un (qualunque) “al-
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tro” (questa possibilità possiamo collegarla alla convenzione del diritto per il luogo in cui viene enunciata, ma il riferimento non è strettamente necessario – si può pensare a una gestione “privata” dei rapporti di alterità/reciprocità in cui il saggio sa trovare una misura, diremmo, di “neutralità”, sfuggire, in pratica, all’alternativa tra l’“assolutamente simile” e “l’assolutamente dissimile” dell’altro). Vi è poi il caso in cui «neanche questo è possibile» – ed è chiaro che stiamo parlando del “concreto” della relazione, del “giudizio” e della “reazione soggettiva” del saggio. Allora, egli cercherà (i verbi sono al passato, perché stiamo descrivendo un modello di condotta, come già “attuata”) di “non averci niente a che fare”, avrà «allontanato da sé ciò che andava così trattato» (seguiamo per le ultime parole – exêreisato hosa tout’ elysitelei prattein – il testo e la traduzione di Conche). Sono dunque tre diversi atteggiamenti, “nel concreto” della vita di relazione – e il terzo, che corrisponde all’“appartarsi” del saggio, segnala il limite oltre il quale non è più possibile “giocare il gioco”, la possibilità sempre incombente di una troppo grande “distanza” dagli altri. In pratica, quale che sia il diritto vigente, sarà sempre meglio, in certe circostanze, vivere nell’isolamento quando “la società” che circonda il saggio sia troppo poco “affine”, tanto da minacciare costantemente la sua possibilità di “vita felice”. Questa vita felice, nell’orizzonte inevitabile della presenza degli altri, è ciò su cui si chiude, con la massima XL, la nostra silloge – la più compiuta “epitome” della morale epicurea. Ebiôsan met’allêlôn hêdista – è il bios hêdys “con” gli altri, che corrisponde al tipo di relazione a cui il saggio in quanto tale è rivolto, e implica il bebaiotaton pistôma che deriva dall’avere en partage, come Conche traduce il participio apolabontes, l’amicizia (oikeiotêta) nella sua pienezza (plêrestatên). Che il termine quasi-tecnico che indica il proprio, il familiare, l’essere-presso-
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di-sé sia qui da riferire all’amicizia non v’ha dubbio; è proprio un topos classico (nell’epicureismo) della relazione tra amici che viene evocato subito dopo, in chiusura, quando Epicuro scrive che avendo goduto di questa pienezza di rapporti “essi” (i coloro… costoro che fanno da soggetto in queste due massime) «non piangono», come degno di commiserazione (hôs pros eleon) «sulla morte di chi ha prima di loro concluso la sua vita [tên tou teleutêsantos prokatastrophên]» (anche qui preferiamo la traduzione di Conche). Siamo, lo si vede, nel mondo degli uomini, non delle “cose”. E «l’uomo bennato» di GV, 78, «che si dedica all’amicizia e alla sophia», sa che «quello è un bene mortale» (perché “si gode” entro i limiti della vita altrui; a differenza di «questo [,] immortale» – perché sta “dentro” di me, e la mia morte non può “lasciarmi privo” di nulla). Si comprende allora perché l’“utilità” dell’amicizia (in relazione alla sicurezza: come forma di relazione umana in cui si esprime una “fiducia stabile”) non ha nulla di “strumentale” (circostanziale), ma coincide con un modo di essere “insieme” in cui si realizza pienamente la “vocazione”, la “natura” del saggio. Essa è, potremmo dire, la messa in comune della phronêsis – che a sua volta rappresenta la “conseguenza pratica” della saggezza (in GV, 66, l’atteggiamento di chi partecipa a un “soffrire” dell’amico – sympathômen – è definito in opposizione a thrênountes – come quelli che prorompono in funebri lamenti – con un phrontizontes – come quelli che “mettono in comune” la phronêsis). Di qui l’endiadi che abbiamo visto in GV, 78. Di qui, ancora, la più solenne ed enfatica dichiarazione sul “valore” dell’amicizia – MC XXVII: fra tutto ciò che rende felice la vita, la vita tutt’intera – per la più grande felicità dell’intera vita (eis tên tou holou biou makariotêta), che la saggezza procura (sophia paraskeuazetai), di gran lunga la cosa più grande (poly megiston) è il possesso dell’amicizia. Il possesso (ktêsis) di ciò che rende massimamente felice la vita – l’amicizia; il “massimo bene” – la phronêsis. Sono, en-
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trambe, conseguenze dirette, espressioni “naturali” della saggezza, della filosofia. Con la differenza, certo, che è compresa in quella distinzione mortale/immortale – il darsi effettivo di un “altro” come homophylos; ma questa condizione è in pratica assai meno limitativa di quanto possa a prima vista sembrare: “è sufficiente”, per dirla nel modo più semplice, che un saggio incontri un altro saggio – lì c’è l’homophylia, e l’amicizia. Se parliamo adesso semplicemente della filosofia e dell’amicizia (come possiamo, giacché la phronêsis non è che una “conseguenza” della filosofia) esse sono dunque entrambe determinazioni essenziali, o mediazioni essenziali, del fine. Sono le condizioni imprescindibili in cui può svolgersi, per gli uomini così come sono (esposti alla “malattia”, immersi nella vita di relazione) la ricerca del fine, il processo di una vita tendente al fine (e la “mediazione” della filosofia è duplice, potremmo dire: perché interviene anche “a monte”, nella “riscoperta” del fine, è ciò che consente di assumerlo consapevolmente). Quando, nel capitolo precedente, abbiamo parlato del piacere della filosofia, abbiamo osservato che se vi si applicasse la distinzione “canonica” del catastematico e del cinetico non potrebbe classificarsi sotto questo secondo termine, perché si trova in una connessione non “accidentale”, ma “essenziale” al piacere come fine. Lo stesso vale per l’amicizia. Potremmo dire che esse fanno parte entrambe del “catastema” del piacere (dell’anima); sono, in questo senso, fini in sé. Nelle condizioni effettive degli uomini, che sono, per ricordare Alessandro d’Afrodisia, “più complicate” di quanto inizialmente disponga il loro essere naturale, devono necessariamente “cooperare” al fine, sono parte integrante del processo in cui qualcosa come una realizzazione del fine è possibile – o anche solo pensabile. La fenomenologia della vita felice (o, se si preferisce, la tipologia del saggio) si descrive in questo quadro, in questa “articolazione”: il piacere, la filosofia, l’amicizia. L’ideale (il progetto) che vi corrisponde non è semplicemente la realizzazione di una
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possibilità – o questa possibilità non consiste in una semplice scelta della volontà, di una volontà che sia “più di un’altra”, “spontaneamente”, inclinata a preferirla e a metterla in pratica. C’è, nel percorso che conduce alla saggezza, un continuo, vario confronto con la “realtà effettuale”, con la sua “resistenza”, con tutto ciò che in essa – nel concreto di una “situazione”, nella norma di una istituzione, nella genesi, fattuale, di una immagine o di un “valore” – contrasta, non si accorda con, contraddice, la possibilità del piacere. Questo tema della realtà effettuale, delle sue “ragioni”, dell’“effetto” che produce sulla soggettività del sentire, del rappresentare, del volere, l’“essere oggettivo” di un mondo di cose e di relazioni, non può essere, in una filosofia come quella di Epicuro (in una morale materialistica), tenuto ai margini, ignorato. Al contrario, la possibilità della saggezza è continuamente messa a prova nel contatto con la realtà; non una “stilizzazione” del saggio, ma il puntuale richiamo all’incidenza effettiva, alle “forze antagonistiche”, potremmo dire, che possono essere “mobilitate” al servizio del fine. Essere saggi vuol dire, prima di tutto, mettersi nella condizione di poter “sentire” come un contenuto “oggettivo” della propria esperienza del mondo ciò che “praticamente” siamo riusciti a “mettere” nel (nostro) mondo – “scegliendo” ciò che in esso può esserci “proprio”, “affine”. Non potrebbe essere diversamente, in un pensiero che fonda la realtà, la realtà umana, sull’attualità della sensazione. Il saggio epicureo non si “crea” un mondo “su misura”, non coltiva la “diversità” della propria natura, non “testimonia” una verità superiore che gli appartiene in proprio – frutto di una “conversione” interiore che trasforma lo sguardo, e muta perciò, una volta per tutte, il senso delle cose. Se la sua condotta gli permette di avvicinarsi al fine, e perché attraverso di essa, in ogni momento, al contrario, la “verità” del fine continua a misurarsi con le possibilità delle cose – e con ciò che in esse tende a produrre e riprodurre la negazione del fine, il dolore.
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Ogni morale “postula”, per dir così, un contrasto tra “il bene” e “il male”. E questo contrasto è in genere pensato, non fosse che per renderlo più evidente e certo, come un “inderivato” – qualcosa che la ragione è in grado di riconoscere, nei suoi due termini, come una determinazione essenziale dell’azione (che ha appunto un significato morale “in sé”, in quanto è già “prevista”, prevedibile, come buona o cattiva). Per questo la volontà che “sceglie” il bene (o il male) “esaurisce”, possiamo dire, la moralità. In un materialismo come quello di Epicuro, la verità del bene e del male non può essere invece che un “risultato” – dell’esperienza. È in questa esperienza (che è sempre esperienza del piacere e del dolore – e perciò comune a tutti gli individui della specie, per “similarità di organizzazione”) che si forma il rapporto del soggetto alla verità. Una volontà “buona” è quella che riflette questo rapporto – in cui la “verità” del male, il criterio della distinzione e del contrasto, non può che identificarsi con il dolore. È per questo che “il bene” non può essere compreso, “fissato” in una legge, in una istituzione, in una norma – in un dover essere. Non si è saggi (“buoni”) perché “si sceglie” il bene. La possibilità del bene coincide interamente con l’efficacia di una pratica che “di fatto” elimina, diminuisce il dolore.
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Divagazione su Marx e il marxismo
Nel capitolo precedente abbiamo inserito, in forma incidentale, un possibile riferimento alla “concezione della storia” di Marx (o del marxismo). Lo abbiamo fatto a proposito di un tema specifico: la descrizione lucreziana del processo di “incivilimento” – come sequenza di “epoche”, sommariamente caratterizzate in termini culturali, politici, economici. Ci è sembrato che emergesse, in questa descrizione, una precisa dialettica: di arricchimento delle “forze proprie” degli uomini (nel rapporto con la natura; comprese le capacità logiche, conoscitive, ecc.) che però è anche una “perdita” – nel senso che queste forze si trovano impiegate, e sviluppate, in un contesto (in un insieme di rapporti) che allontana l’uomo da suo essere naturale, dai suoi “veri” bisogni e fini, e dal loro rispecchiamento nella coscienza. In questo sviluppo diventa perciò per gli uomini “più difficile” (oltre che “più facile”), “scegliere” un modo di vita (individuale e collettivo) adeguato alla realizzazione del fine. Abbiamo aggiunto, nel contesto di questo possibile collegamento, che un aspetto centrale del lato “progressivo” in questo sviluppo è per Lucrezio la possibilità di conquistare una coscienza (conoscenza) critica, in grado di liberare gli uomini dall’asservimento a valori e norme che si sono nel frattempo,
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“spontaneamente” ma anche “artificialmente”, prodotti. Epicuro è lucrezianamente un “liberatore”, perché permette agli uomini di (ri)scoprire i loro bisogni più necessari, profondi, “autentici” – e di misurare sul metro di questi bisogni gli schemi, le abitudini, i comportamenti (e i loro effetti) in cui la loro vita, per come per lo più li vediamo, si svolge. E questo richiama facilmente alla mente la funzione della “teoria critica” marxista (che comprende nel proprio oggetto anche la genesi storica dei rapporti sociali), come strumento per la trasformazione del mondo e della vita – e fin un aspetto pratico e ravvicinato di essa, il compito “pedagogico” che nella tradizione che a Marx si richiama è tipico del partito di classe, dell’“intellettuale collettivo”, ecc. C’è dunque (prima facie, o in termini molto generali) una “superficie di contatto” tra la funzione e il programma di una morale materialistica (epicurea), e quelli del marxismo: se è vero, come crediamo di aver mostrato (o suggerito), che l’epicureismo “implica” (cioè genera, e insieme presuppone) un atteggiamento di distanza critico-polemica verso l’istituzione sociale, nella sua concretezza storico-materiale (distribuzione del potere e della ricchezza, guerra, religione), per noi, oggi, questa distanza e questa critica non possono certo non “incrociare”, almeno, le acquisizioni del marxismo. Ma dal nostro punto di vista (di una riappropriazione della morale epicurea nel contesto dei risultati che ci sembrano più imprescindibili del “materialismo” contemporaneo) il tema di un possibile confronto con il marxismo merita, ci pare, una riflessione più ampia, più approfondita – nella ricerca di una possibile “articolazione”, della base di una possibile coerenza tra queste due prospettive, insieme, entrambe, “critiche” e “emancipatrici”. È necessario però insistere, già in avvio, su questo termine di “coerenza”, come “orizzonte” della ricerca. Sarebbe vano in questo caso, come abbiamo fatto per Foucault e per Freud, tentare di far emergere, divagando in ambiti teorici che posso-
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no oggi condizionare la riflessione sulla morale, specifici punti di contatto e di contrapposizione, nella puntualità di singole tesi o al livello più generale dei presupposti “filosofici”. Per la semplice ragione che il “contesto teorico” marxista non “aderisce”, per così dire, al nostro problema – che è, secondo l’impostazione epicurea, quello dello sviluppo di un’individualità cosciente (“soggettivizzazione”) che elabora per via riflessiva una conoscenza di sé (nel rapporto tra “individuale” e “universale”) da cui ricavare la regola e il fine della condotta. Non c’è, nell’opera di Marx, tematicamente, il “problema dell’individuo” – nel suo rapporto con un “interno” e un “esterno”, con la possibilità di un sapere “autonomo” e di un “effetto di padronanza” (libertà) nella sua vita quotidiana. La morale epicurea non può essere direttamente confrontata (“confermata”, “smentita”, “adattata”, utilizzata come termine di paragone, in senso “correttivo”, nell’una o l’altra direzione) con “il marxismo”. Ma perché allora parlare (anche solo) di “coerenza”? Perché non accettare, semplicemente, l’ovvietà che Marx e Epicuro “parlano d’altro” – per cui basterebbe, chi oggi voglia essere insieme epicureo e marxista, che “non si contraddicano” (il che poi però, a ben vedere, richiederebbe comunque una effettiva ricognizione)? Ciò che vi si oppone, ci sembra, è per così dire la natura specifica dell’“oggetto” che Marx ricostruisce nella sua teoresi, di cui produce un “sapere” – o, che è lo stesso, del modo in cui questo sapere si costituisce. È un oggetto, quello che viene in questo modo costruito, “nuovo”, possiamo dire, rispetto alla tradizione filosofica: la società capitalistico-borghese, “compresa” a partire dall’individuazione in essa, come “differenza specifica”, di un determinato sistema dei rapporti di produzione, e delle sue dinamiche evolutive. L’intelligibilità e il senso-direzione del processo storico (che invece è un problema “vecchio” della filosofia) viene messo per la prima volta in rapporto con un sapere propriamente “scientifico” (nel senso dell’imminente
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consapevolezza metodologica delle “scienze umane”), che aveva già cominciato a costituirsi nell’economia politica “classica” (è appunto una critica interna di questa scienza che consente di stabilire il suddetto rapporto, sottraendo il problema della storia alle sue tradizionali forme di rappresentazione filosofica – “ripetizione” ciclica, disegno provvidenziale, progresso della ragione, automovimento dello spirito, ecc.). E osserviamo, per quanto suoni in prima paradossale, che la “scoperta” di questo oggetto consente (o impone) a Marx di “fuoruscire” dalla filosofia, più radicalmente di quanto accada (sub specie di “psicologia”) a Freud, con la “scoperta” dell’inconscio: se quest’ultima (è appunto questa la linea che abbiamo seguito, nella nostra precedente divagazione), articolando il rapporto inconscio-coscienza, non può che “sfociare” in un orizzonte problematico quanto mai classico, quello del rapporto tra “natura” e “ragione” nella costituzione dell’individuo, nel suo rapporto “pratico” (cioè morale) con se stesso. La “coerenza” tra Epicuro e Marx non potrà dunque essere cercata (così come, la vicinanza-lontananza con Foucault o Freud) in un confronto tra due “filosofie”. Il “nuovo oggetto” di Marx, quello che si costituisce nella critica dell’economia politica, designa un “livello di realtà” pienamente autosufficiente, conoscibile in modo “autonomo”, cioè interamente in base ai suoi nessi interni. È perciò l’oggetto di un sapere, o di una teoria, “scientifica” – che in quanto tale, per definizione, non può essere confrontata se non con teorie che “vertono” sullo stesso oggetto, descrivendone diversamente, in modo altrettanto “sistematico”, il funzionamento specifico. Ma nulla sarà più estraneo, alle considerazioni che seguono, che la distinzione metodologica tra “scienza” e “filosofia” – all’interno del pensiero di Marx o fra questo pensiero, considerato “in blocco” come una teoria scientifica, e il “campo” più generale, “esterno”, della riflessione filosofica (sebbene, in entrambe le forme, l’arrovellarsi su questa distinzione sia stato per decenni
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un esercizio quasi obbligato della letteratura marxista). L’analisi del modo di produzione capitalistico si colloca “immediatamente”, lo abbiamo già messo in rilievo, in rapporto con una problematica più ampia – che dovrà riflettersi nella costituzione stessa dell’oggetto, nella misura in cui questa si rivelerà “capace” di sostenerla. Questi rapporti (quello che abbiamo già indicato – analisi del capitalismo-“filosofia della storia” – non è l’unico, vedremo subito) sono in realtà essi stessi interni alla costruzione dell’oggetto: la cui “logica immanente” si dispiega, nella sua autonomia, “proiettandosi” oltre se stessa, per così dire. Creando specifiche condizioni di pensabilità per nuovi (rispetto al “modello scientifico”, autocongruente) complessi di problemi. La società capitalistica, “oggetto” della teoria, è quella particolare configurazione della società umana che ha la sua “base”, in senso sistematico, nei rapporti capitalistici di produzione. La filosofia, naturalmente, si è sempre occupata della società; ma lo ha fatto, essenzialmente, guardando all’intreccio e alla connessione tra gli istituti politico-giuridici e i comportamenti pratici, intersoggettivi (“etici”). Quando ha preso in considerazione, da Aristotele a Hegel (e abbiamo visto, anche Lucrezio), il “livello” dell’economia, non lo ha pensato come un sistema integrato, autoriproducentesi, e capace in questa sua “automatica” riproduzione di “determinare in ultima istanza” tutte le forme e i contenuti della vita sociale (che non possono esser comprese, come un “tutto”, senza questo “principio” del loro sviluppo); e non lo ha fatto anche perché, secondo Marx, questo nesso sistematico diventa veramente vincolante, unidirezionale, solo in quel determinato modo di produzione che è il capitalismo. Perché si potesse arrivare a questo pensiero, era necessario (insieme con il raggiungimento di un certo “grado” dello sviluppo capitalistico – ma è poi la stessa cosa) che l’insieme dei rapporti economici cominciasse a “staccarsi” – nel suo rispecchiamento categoriale, nei suoi nessi causali, ecc. – dal più vasto insieme
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dei rapporti “umani” o “sociali” (e relativa “rappresentazione” filosofica). E questo era cominciato ad avvenire, attraverso una preistoria e una storia già non brevi al tempo di Marx, con la costituzione di un nuovo “sapere” o “scienza” – l’economia politica. La critica di questo sapere, la scoperta di una nuova possibile connessione fra le sue categorie, l’emersione di fatti e presupposti che rimanevano in esso celati riducendone la portata conoscitiva (sistematica), parzialmente, nei limiti di una “astratta” generalizzazione dell’apparenza fenomenica – la critica dell’economia politica, insomma, è ciò che Marx ha sempre indicato, dai Manoscritti del ’44 al Capitale, come il suo contributo più specifico e compiuto, l’“oggetto” della propria elaborazione teorica. La consapevolezza di questa scientificità è ben presente nei classici – che ne hanno rivendicato la novità; e forse l’espressione più tipica di questa rivendicazione è quella che troviamo in un celebre “titolo” di Engels: L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza. Ma decisiva, in essa, è la conseguenza “pratica” che produce: la lotta rivoluzionaria del proletariato, l’azione e gli scopi del movimento operaio, non saranno più “fondati” sull’ideale di una società diversa, sul bisogno soggettivo di un mondo migliore, ma sull’analisi, tendenzialmente “completa”, delle possibilità concrete, reali, che l’“attuale società” produce, nel suo proprio “automovimento”, per la sua propria trasformazione.
Il socialismo “scientifico” e la storia La scienza della società, in Marx, si elabora in questo costante legame (non un collegamento a posteriori) con un’azione pratica di trasformazione del mondo (della società) in un determinata direzione, verso un determinato obiettivo. I “risultati” della scienza servono a mostrare come questo obiettivo si colleghi a tendenze e possibilità “oggettive” – presenti nell’og-
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getto dell’analisi. Ma non è da “economista” (in base a questi risultati, una volta prodotti) che Marx approda al socialismo (né, ovviamente, da operaio). Egli vi approda, proprio, da “filosofo” (e, politicamente, da democratico-radicale); ed è da “socialista”, in base ai problemi pratico-teorici del movimento socialista del suo tempo, che “scopre” (come già Engels, poco prima di lui) l’economia politica – e la necessità della sua critica1. Ecco un altro nodo di problemi che non può certo essere considerato come estrinseco, rispetto al costituirsi della “scienza”, e del suo oggetto. Questo “approdo”, di Marx, alla critica dell’economia politica attraversa, potremmo dire, una duplice mediazione: quella dalla preliminare “scelta di campo” per il socialismo, ma anche, quanto alla sua completa “produttività”, l’acquisizione di quello che Luporini definisce come uno specifico “orizzonte teorico” (in cui la “critica” si svolgerà): quello del materialismo storico, o concezione materialistica della storia (alla cui elaborazione l’opera non pubblicata del 1845, scritta con Engels, sarà, specie per il primo capitolo, specificamente dedicata; vorremmo far notare che il termine “orizzonte” sarà da comprendere, anche, in relazione a un differente “grado” di determinatezza o esaustività, nei rapporti tra l’oggetto – che in questo caso è “la storia” – e la teoria). L’analisi della «attuale società» (sono le prime parole del Capitale), del modo di produzione capitalistico, sarà realmente intrapresa e sistematicamente sviluppata (nel confronto critico con l’economia politica) dopo che Marx e Engels saranno arrivati a formulare un “criterio generale” per la comprensione della storia umana – con il risultato che l’oggetto di quella analisi si troverà “situato”, per così dire d’embleé, in un contesto temporale, evolutivo, in rapporto all’insieme del1. Tutto ciò è molto ben illustrato da C. Luporini, Introduzione, in K. Marx F. Engels, L’ideologia tedesca, tr. it. di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. IX-LXXXVIII.
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le trasformazioni storiche di lungo periodo (ed è noto il ruolo assolutamente cruciale che questa “storicizzazione dell’oggetto”, come parte integrante della sua ricostruzione scientifica, avrà nella critica degli economisti classici – per non dire di quelli “volgari”). Il “canone” del materialismo storico, come talvolta si dice, non si può certo definire come una “generalizzazione”, a tutte le diverse “epoche”, del rapporto struttura/sovrastruttura. Non si tratta di “pensare” un carattere formale, che rimarrebbe costante, ma proprio “la storia” (cioè, semmai, la connessione “di fatto” di queste “diverse epoche”, tra loro). L’antagonismo fra le classi, per esempio, che il Manifesto indica come l’elemento comune a «ogni società esistita fino a questo momento», viene immediatamente dopo precisato nel suo specifico, diverso, modo di operare: si passa da un’articolazione molteplice delle «posizioni sociali», nelle epoche “precapitalistiche”, a una tendenziale polarizzazione del conflitto, nella «nostra epoca», fra «due grandi classi direttamente contrapposte»; senza contare (è un passo che abbiamo già citato) che questo “passaggio d’epoca”, ogni volta, corrisponde o alla «trasformazione rivoluzionaria di tutta la società», o alla «comune rovina delle classi in lotta» – il che basta ad escludere che nella lotta di classe si possa trovare qualcosa come una “struttura di intelligibilità” dell’“insieme” della storia2. E si potrebbe anche chiedersi: quid della storia “futura”, quella che accade a Marx di chiamare la storia “vera”, che deve ancora cominciare, rispetto a una preistoria? O bisogna pensare che nella società senza classi “ci sarà ancora una storia” – pensiamo al sarcasmo di Marx: «c’è stata una storia, ma ora non c’è più» – ma sarà “un’altra cosa”?
2. Cfr. K. Marx - F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, tr. it. di E. Cantimori Mezzomonti, Einaudi, Torino 19706, pp. 100-101.
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Una concezione (eventualmente: materialistica) della storia (questa espressione è da subito usata come equivalente di “materialismo storico”) ha senso in quanto si indichi (si esibisca; si “scelga”) qualcosa come un soggetto o sostrato (non un mero “supporto”, che in quanto tale rimanga distinto dal processo di cambiamento) nel cui mutare sia concretamente “visibile” una continuità: se la storia è un “processo” di cui possa darsi una rappresentazione o comprensione unitaria, lo sarà appunto perché “qualcosa”, in essa, diviene, si sviluppa, si trasforma. Di un simile “soggetto” (che non ha evidentemente niente a che fare col “soggetto della storia” rifiutato da Althusser) c’è in Marx una precisa nozione – quella delle forze produttive (anche qui, se c’è bisogno di una “garanzia” nella letteratura marxista, possiamo riferirci a Luporini, il quale, nel saggio Marx secondo Marx, parla appunto di un continuum, storico, da riconoscersi nello sviluppo delle forze produttive, “al netto” del loro provvisorio regresso, o parziale distruzione, e conclude, accettando una definizione di Hobsbawm, che per Marx «il contenuto della storia è il progresso», evidentemente di queste stesse forze produttive – che è poi quello, vedremo, delle capacità umane)3. Il che tra l’altro permette di rispondere direttamente all’ultima delle nostre domande, su come si possa pensare – e materialisticamente – la storia in una futura società senza classi. Non possiamo certo qui approfondire questo tema. Osserviamo soltanto che esso implica il rilievo di una fondamentale dissimmetria, all’interno del concetto di “modo di produzione”, riguardo ai suoi due elementi costitutivi. La nozione di “rapporti di produzione” incarna, per così dire, il momento della discontinuità, della differenza, di una coerenza sistematica “autofondata” (il che non vuol dire che non si ponga per esse il problema di una “genesi”; ma in un senso affatto specifico, 3. Cfr. C. Luporini, Marx secondo Marx, in Id., Dialettica e materialismo, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 219-221.
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che è quello delle condizioni o pre-condizioni – “esterne” al sistema: non stadi di sviluppo o forme successive del sistema – necessarie perché esso possa appunto “funzionare” – sistematicamente). Proprio questa “dissimmetria”, forse, avrebbe potuto fornire una chiave per rendere meno complessa e “sofisticata” la discussione che si è accanita, nella letteratura marxista, sui rapporti fra “genesi” e “sistema”, o fra “logica” e “storia”. E annotiamo ancora, a mo’ di suggestione, che se questa articolazione interna al modo di produzione può servire, come crediamo, a una più precisa comprensione del nesso tra materialismo storico e critica dell’economia politica, potrebbe avere altresì una funzione anche sull’altro versante della “coordinazione interna” del pensiero di Marx – quella in cui si colloca la “teoria” del socialismo, o della rivoluzione. Ma per quello che più ci interessa, è importante segnalare che la considerazione delle forze produttive come “luogo materiale”, per così dire, della continuità storica, se è essenziale per dare un senso “pieno” al materialismo storico, investe un livello problematico, o concettuale, ancora più “radicale”, che è a sua volta essenzialmente coinvolto nella costituzione di questo “orizzonte”; essa rimanda – al di là dell’integrazione con i rapporti di produzione che definisce la specificità delle “formazioni sociali”, mantenendo in essa il lato della continuitàtrasversalità – ad una ulteriore “radice”, che si trova sul terreno della materialità-naturalità dell’uomo: quella del “lavoro umano” (proprio dell’uomo) come processo attivo, consapevole, di “ricambio organico”, finalisticamente orientato, con la natura.
Il significato “umano” dell’alienazione Nell’introduzione già citata a L’ideologia tedesca, Luporini osserva, contro Althusser (di cui pure condivide la netta separa-
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zione tra il Marx “giovane” e quello “maturo”), che il manoscritto del ’45 già contiene uno «sviluppo diretto di grandi gruppi problematici», fra i quali quello relativo al materialismo storico, e che per questo va considerato già come «un’opera della maturazione, e non semplicemente della “rottura”»; scrivendolo, «Marx e Engels hanno chiarito a se stessi questioni fondamentali», che sono rimaste «determinanti» (ancorché in parte «sottintese») nell’opera successiva, «ivi compreso Il capitale»4. Il primo capitolo del testo che noi leggiamo (con il titolo Feuerbach) contiene appunto un’esposizione d’insieme della concezione materialistica della storia (il sintagma “concezione della storia” vi ricorre assai spesso). E questa esposizione comincia, com’è noto, così: «Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di individui umani viventi» (e subito prima: «I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari […]: sono presupposti reali, dai quali si può astrarre solo con l’immaginazione»). «[Gli uomini] cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale»5. Segue un ampio sviluppo sulle «condizioni», esse stesse «materiali» (nel senso che sono riprodotte e “trovate”, ogni volta, come un “presupposto” del processo di produzione, alla stessa stregua di quelle naturali) in cui questa “produzione della vita materiale” avviene (è avvenuta). Queste condizioni, che negli sviluppi della divisione del lavoro si precisano in determinati rapporti di proprietà, finiscono col trovarsi in una relazione di «estraneità», di «contraddizione», con le “forze produttive”: perché esistono «indipendentemente dagli individui»6, che solo attraverso esse 4. Cfr. C. Luporini, Introduzione, cit., pp. LXXXVII-LXXXVIII. 5. K. Marx - F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., p. 8. 6. Ivi, p. 58.
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possono (ri)produrre la propria vita. Nel comunismo sarà «tradotto in esistenza» un sistema di relazioni (sociali), in quanto co-determina la «base reale» della produzione, che «rende impossibile» l’insorgere della contraddizione, perché «assoggetta» tutti «i presupposti» della produzione (come «creazione degli uomini finora esistiti»: forze produttive e «relazioni sociali» “ereditate”) «al potere degli individui uniti»7. La «concezione della storia» fondata sui «presupposti reali» è dunque “il contrario” di quella che «[finora] ha puramente e semplicemente ignorato questa base reale», di modo che «il rapporto dell’uomo con la natura [è stato] escluso dalla storia»8. In essa, invece, lo «sviluppo storico», che è lo sviluppo del modo in cui gli «individui determinati possono produrre la loro vita materiale e ciò che vi è connesso» (Marx e Engels parlano a questo proposito di «manifestazione personale»), superando di volta in volta «l’intralcio» che le relazioni tra loro istituite gli oppongono (oppongono, cioè, allo sviluppo individuale, in quanto possibilità che si realizza nella produzione della vita materiale) – questo sviluppo, dicevamo, può essere concepito come la «storia dello sviluppo delle forze degli individui stessi» (e per questo la storia “continuerà”, anche quando non ci saranno più intralci da superare – quando un sistema dato di relazioni sociali non potrà più “staccarsi” e “contrapporsi” rispetto alle possibilità e ai bisogni degli individui-produttori)9. Questo “orizzonte” può dunque considerarsi come già “conquistato”, con L’ideologia tedesca. Ma vorremmo osservare che già nella “tappa” precedente del lavoro di Marx, “prima” di questa conquista, e cioè nei Manoscritti economico-filosofici del ’44 (dove troviamo il primo abbozzo di una critica dell’eco
7. Ibidem. 8. Ivi, p. 31. 9. Cfr. ivi, p. 59.
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nomia politica) c’è almeno un’evidente “anticipazione” dello schema che abbiamo appena illustrato – e precisamente nello svolgimento del tema dell’“alienazione” (rimandiamo, anche su questo, alla ricostruzione di Luporini, dove questo svolgimento è considerato anch’esso come una conquista definitiva nel pensiero di Marx – anche se non, vedremo subito, in tutta l’ampiezza della sua articolazione)10. Si può parlare di “anticipazione”, riteniamo, perché il rapporto della proprietà privata (dei mezzi di produzione: sappiamo già che è, per così dire la forma nucleare di tutte le condizioni-relazioni del processo produttivo finora esperite, dopo il “comunismo primitivo”) istituisce l’estraneità, rispetto ai produttori, insieme del prodotto del loro lavoro e di questo stesso lavoro, in quanto esso diventa oggetto (proprietà) di un altro – e viene quindi utilizzato secondo un criterio (un fine) che non è quello della produzione della vita («e di quanto vi è connesso») del lavoratore. Qui, nei Manoscritti, Marx non parte, come nell’Ideologia, dal problema del continuum storico, da comprendere sulla base della produzione materiale della vita; parte dalla situazione attuale («Noi partiamo da un fatto economico, attuale»11); conformemente all’intenzione di muoversi “direttamente” sul piano dell’economia politica. Ma su questo piano, il «fatto» dell’alienazione come risultato “immediato” del rapporto di proprietà rimane occulto, dice Marx, finché l’analisi «non considera l’immediato rapporto fra l’operaio (il lavoro) e la produzione»12; nel suo duplice riguardo, “oggettivo” (rispetto al prodotto), e “soggettivo” (rispetto all’attività lavorativa). Siamo dunque, anche qui, in presenza di una “base reale” (o “presupposto non arbitrario”);
10. Cfr. C. Luporini, Introduzione, cit., pp. LXXII-LXXIII. 11. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Id., Opere filosofiche giovanili, tr. it. e note di G. della Volpe, Editori Riuniti, Roma 19744, p. 194. 12. Ivi, p. 196.
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che si dà a vedere, non nella continuità di un processo (svolgimento temporale), ma, per così dire, in una “sezione verticale” – che sarà poi quella del modo di produzione, in quanto l’insieme dei suoi rapporti “gravita”, quanto alla sua sistematica intelligibilità, intorno al rapporto di proprietà tra capitale e lavoro (“vivo”). Questa “base” sta nel fatto che il lavoro, l’attività produttiva, si trova, dice Marx, immediatamente in rapporto con il lavoratore: perché questi, lavorando, produce la propria vita, secondo le proprie facoltà. È la “sparizione”, nell’effettivo processo del lavoro, di questo rapporto con il soggetto, di questa funzione soggettiva della riproduzione (di ciò che il lavoratore è), che si chiama propriamente “alienazione”; ma questa “sparizione”, appunto, non è un presupposto – presupposto invece è il “fatto” del processo lavorativo, rivolto al soddisfacimento dei bisogni e regolato dalle capacità psico-fisiche (degli “uomini che lavorano”). “Ci sono”, dunque, uomini che lavorano; ma non sanno (non decidono) “come” e “perché” lavorano (sono altri, che non lavorano – producono – a saperlo al loro posto). La coscienza di questi uomini è immediatamente coinvolta in questa descrizione – non avrebbe senso altrimenti parlare di «immediato rapporto tra l’operaio e la produzione». E infatti Marx ritiene, a questo punto, di poter direttamente «trarre» una ulteriore conclusione – quella che chiama «una terza caratteristica del lavoro alienato»13; è questo il luogo in cui “irrompe”, nei Manoscritti, la terminologia che consideriamo “feuerbachiana” – in particolare, la nozione di “ente generico”. Luporini, nel suo commento, considera il ricorso a questa nozione come “la prova” del fatto che qui Marx è ancora alla ricerca di una “fondazione filosofica” del socialismo (posta in formale opposizione con la futura “fondazione scientifica”); 13. Ivi, p. 198.
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nonostante la scelta programmatica di misurarsi, e proprio su questo tema dell’alienazione, con la critica dell’economia politica (e in questo senso la contraddizione è interna al testo). “Filosofica” è evidentemente la presupposizione di un legame di universalità come “sostanza”, contenuto “già dato” – e “coinvolto” nei processi reali, così che il loro “senso” si trova ad essere determinato in funzione di esso. Ma nella descrizione di questa «terza caratteristica», “l’umanità” che subisce il processo di alienazione nel lavoratore non è qualcosa che “gli appartenga” – essa può riflettersi o riprodursi nella coscienza individuale solo attraverso una reale esperienza. «Nel modo dell’attività vitale si trova l’intero carattere di una specie, il suo carattere specifico», scrive Marx14. Il legame che viene istituito, per cui si (può) forma(re) la coscienza del genere nell’individuo (la sua coscienza di sé come ente generico), si trova quindi in questa stessa «attività vitale» – nel modo come è riflessa, o “vissuta”. Il «carattere specifico» di questa «attività vitale» umana sta nell’essere «libera attività consapevole», dice Marx: «L’uomo fa della sua attività vitale stessa l’oggetto del suo volere e della sua coscienza»; è per questo che si differenzia dal “vivente non umano” – la condizione del lavoro alienato si configura “letteralmente” come un regresso nell’animalità, caratterizzata dal fatto che in essa il vivente «fa immediatamente uno con la sua attività vitale, non si distingue da essa, è essa»15. Se il lavoratore, nella «terza caratteristica» dell’alienazione, si trova ad essere estraneato da se stesso «come uomo», è perché in lui l’attività vitale («il lavoro, l’attività vitale, la vita produttiva») non è (non «appare» come) la «vita stessa» (oggettivata; cosciente), ma soltanto «mezzo di vita» («mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservazione dell’esistenza fisica»)16. 14. Ivi, p. 199. 15. Ibidem. 16. Ibidem.
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Ma che vuol dire che l’attività vitale (il lavoro umano – degli uomini) è “in sé” libera e cosciente? Subito dopo aver introdotto la «terza caratteristica» (in un “paragrafo” numerato XXIV17) Marx dedica un intero capoverso a illustrare il rapporto “naturale” (cioè derivato, immediatamente, dall’“esserci” dell’uomo come «parte della natura») fra uomo e natura: «l’intera natura è […] il corpo inorganico dell’uomo […], rispetto a cui egli deve rimanere in continuo progresso, per non morire»18. La natura (esterna) non è per l’uomo un “ambiente locale”, in cui siano “dati”, in una certa misura, i suoi mezzi di sostentamento; essa è anche «strumento» – è per questo che i bisogni e i fini propri dell’uomo (che sono, in origine, quelli di qualsiasi altro vivente) “si staccano” da lei, non trovano in questo “esterno” il limite prefissato in cui possono realizzarsi (con cui devono “coincidere”); l’“intera” natura diventa “oggetto” per un’attività “soggettiva” – e questa situazione è immediatamente “determinata” dalla costituzione psico-fisica della specie. L’individuo che (ri)produce la sua vita materiale “praticando” questo rapporto (con la natura “esterna”) non fa che “ripetere” (o “adottare”) il “punto di vista” del genere (che a questo livello è presupposto: è solo all’interno della Gattungsleben – vita del genere – che la natura in generale può concretamente darsi, per così dire, come strumento)19. Ma il lavoro alienato “capovolge” (parola che resterà chiave, in tutte le successive “riprese” del tema dell’alienazione) questo rapporto: l’attività vitale del lavoratore è interamente determinata “dall’esterno” (come quella dell’animale, dalla natura circostante, così com’è), perché si svolge «al servizio, sotto il dominio, la costrizione e il giogo di un altro uomo»20. La tesi che l’alienazione “colpisce” 17. Cfr. ivi, p. 198. 18. Ibidem. 19. Cfr. ivi, p. 199. 20. Ivi, p. 202.
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(scioglie) il legame tra la coscienza individuale e l’universale (del genere) non deriva dal tentativo di riassorbire in una coscienza filosofica (preformata) l’analisi del “fatto economico” (anche se questa coscienza filosofica può incidere sul linguaggio in cui si formula): perché quel legame non è “pensato” (non è “attivo”) se non in quanto si genera praticamente (e materialmente) – nel processo di universalizzazione della natura (come oggetto e tramite di una “attività vitale”), prodotto dalle possibilità e modalità specifiche del lavoro umano. Per questo Marx considera la «terza caratteristica» come un “prodotto” delle altre due: c’è un tramite preciso in questo passaggio, che è la nozione di attività lavorativa non libera – quella che definiva, nei primi momenti dell’analisi, l’alienazione non solo rispetto al prodotto (non ci sarebbe una tematica dell’alienazione, nel marxismo, se fosse riferita “solo” a questo), ma rispetto al lavoro. Ricordiamo che l’“invisibilità della cosa”, nell’economia politica, dipende appunto dal fatto che essa ignora il rapporto immediato tra lavoro e lavoratore – cioè non considera il lavoro, anche, come espressione/realizzazione della vita del lavoratore. Ma per Marx non si può “comprendere” il lavoro umano se non si comprende che in esso, per esso, si “crea” un determinato rapporto tra l’individuo e il “tutto” della natura esterna (o di ciò che “vale” come tale) – e quindi con la sua propria natura umana. La nozione di “uomo in generale” (ente generico) nasce da qui – e in questo senso non è una nozione “feuerbachiana”; Marx la usa, perché nel rapporto dell’uomo al lavoro (cioè nel lavoro tout court) si costituisce la differenza specifica dell’uomo (genere o specie), rispetto al “resto” della natura. Ogni società continua ad essere, prima di tutto, quello che dev’essere ogni “raggruppamento” umano (in quanto nasca dai “bisogni naturali”): l’agenzia che organizza (inquadrando e “normando” l’attività vitale, lavorativa, produttiva) il progetto/processo di umanizzazione della natura (qualcosa – la libertà rispetto al dato esterno, “naturale”,
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così com’è – a cui “l’uomo naturale” è per così dire costretto). Quando, nei Manoscritti come nel Capitale, Marx insiste sui “danni umani” che il rapporto alienato al lavoro produce, non parla (solo) della sofferenza di specifici (grandi) “gruppi” di uomini; ma di una intera società (di tutti i suoi membri, poiché “ciascuno” ne dipende) che perde il proprio legame (fine), perché non è più (o ancora) fatta di individui che “partecipano” di una comune umanità (la quale quindi, propriamente, “socialmente”, non c’è).
Il lavoro “cosciente” “Libertà” (attività libera e non libera) e “coscienza” («L’uomo fa della sua attività vitale l’oggetto del suo volere e della sua coscienza»21) sono per Marx, e rimarranno, elementi costitutivi del processo di mediazione fra l’uomo e la natura (e per ogni individuo, del suo rapporto con la propria attività lavorativa, in quanto “umana”); essi non possono essere pensate “separatamente”, “al di fuori” del rapporto pratico, materiale, vitale con il lavoro (in un altro “spazio”) – e sono essenzialmente “coinvolte” nella “storia” delle forze produttive (che attraversa tutte le “formazioni sociali”). Questo “lato”, del rapporto dell’individuo a se stesso e alla sua attività “generica”, può apparire come accantonato quando Marx, insieme con Engels, passerà alla stesura di un nuovo manoscritto, quello dell’Ideologia tedesca: in cui sarà questione, in particolare, della nuova concezione materialistica della storia. E qui gli autori si impegneranno soprattutto a stabilire (con tutto il vigore polemico del caso, contro gli “ideologi tedeschi”) che – non essendo “la coscienza”, appunto, una regione separata rispetto alla vita materiale (sociale) 21. Ivi, p. 199.
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degli uomini – i suoi contenuti, specie quelli più “generali” e “normativi”, sono in realtà generati nello sviluppo storico (sulla “base” che sappiamo), e ne riflettono le diverse “fasi” (cioè i successivi sistemi di rapporti, al livello del “modo di produzione”, in cui si costituisce ogni volta una determinata “forma” di società). Si tratta di “demistificare”, in particolare, quello “stadio superiore” della coscienza in cui essa “si illude”, per così dire, di funzionare “da sé” – mostrando come esso “dipenda”, in realtà, da una precisa “forma” dei rapporti sociali (certo assai precoce; e che rimane nelle successive “formazioni”): quella della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, che corrisponde alla stabilizzazione riproduttiva della divisione del lavoro in generale (qualcosa che da principio avviene “spontaneamente”, sulla base della differenza dei sessi, ecc.; ma si precisa e si organizza “rigidamente”, in quella forma specifica, non appena, possiamo dire, la produttività del lavoro sociale si accresce e i bisogni aumentano – “sulla base” di un aumento della popolazione). «Da questo momento in poi – scrivono Marx e Engels – la coscienza può realmente figurarsi di essere qualche cosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente, concepire realmente qualche cosa senza concepire alcunché di reale: […] emanciparsi dal mondo […]»22. In questa pagina, prima di arrivare a questa conclusione, Marx e Engels hanno tentato una sorta di “schizzo” dell’evoluzione “precedente” della coscienza. Ma non vi si può cavar molto, tranne per una singola affermazione, che sta proprio all’inizio (ciò è dovuto, si può pensare, allo stato contemporaneo della “scienza” dell’antropologia; non solo Engels, ma anche Marx le dedicheranno poi, via via che si verrà formando, una grande e specifica attenzione). Prima di questa “soglia” (che corrisponde in pratica alla possibilità, per la coscienza, di diventare
22. K. Marx - F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., p. 21.
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“falsa”) c’è già, leggiamo, un «perfezionamento ulteriore in virtù» di quegli stessi processi materiali che hanno provocato la stabilizzazione della divisione del lavoro (così che si potrebbe parlare di un’evoluzione in tre tempi: il perfezionamento della coscienza apparirebbe, sulla base «dell’aumento della popolazione», ecc., come un passaggio necessario per arrivare alla separazione del lavoro manuale e intellettuale). Ma “ulteriore” rispetto a che cosa? “Prima”, sembrano dire Marx e Engels, non c’è che una «coscienza da gregge», o «da montone» – che dovrebbe corrispondere, in quanto “non ancora perfezionata”, all’“inizio” della vita sociale. Ma avevamo già letto: «Là dove un rapporto esiste, esso esiste per me; l’animale non “ha rapporti” con alcunché e non ha affatto rapporti». La situazione è talmente aggrovigliata che a un certo punto produce l’ossimoro «istinto cosciente» – per indicare ciò che “spinge” gli uomini a unirsi. Ma sappiamo (è la frase cui abbiamo fatto allusione) che «la coscienza è dunque fin dall’inizio un prodotto sociale»; e ancora, che c’è una «coscienza della necessità di stabilire dei contatti con gli individui circostanti». Sennonché, questa coscienza, “anteriore”, è posta sullo stesso piano di «una coscienza puramente animale della natura» – che corrisponde a un «comportamento puramente animale». Pure, quanto allo «stabilire contatti», una «coscienza della necessità» esclude formalmente ogni “regresso” nell’animalità23… Questa pagina è indubbiamente “immatura”. Ciò che conta, in essa, sono le due affermazioni per così dire liminari: che «la coscienza è un prodotto sociale», e che essa può, a un certo punto, anzi tende a, “staccarsi” dalla «prassi esistente». Quello che sta in mezzo, propriamente, non serve. Importante, invece, è la nota che Marx vi appone: «Gli uomini hanno una storia perché devono produrre la loro vita, e lo devono, pre-
23. Cfr. ibidem.
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cisamente, in una maniera determinata: ciò è dovuto alla loro “organizzazione fisica”; così come la loro coscienza»24. C’è un perché della storia umana, che sta nell’«organizzazione fisica» dell’animale uomo, il quale deve produrre la propria vita (il suo ricambio organico con la natura richiede, cioè, diversamente che per gli altri animali, il “distacco” e l’“oggettivazione” rispetto a essa); e a questa stessa organizzazione fisica, in quanto imponga il rapporto “produttivo” con la natura (con la vita), è dovuto il “fatto” della coscienza. C’è dunque “originariamente”, geneticamente, un rapporto di corrispondenza tra la coscienza e il processo materiale di produzione della vita – che è “umano” perché necessariamente determinato (in rapporto a una “tecnica”, ecc.: Marx scrive «precisamente», per sottolineare l’implicazione terminologica – degli animali, per esempio i ragni e le api, si potrà anche dire che “lavorano”, e allora in un modo molto più “determinato”, non certo che producono). È per questo che Marx e Engels potranno scrivere, alla fine della pagina, che «la coscienza può figurarsi di essere qualche cosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente» – quando si sia sviluppata la “separazione” del lavoro intellettuale; ciò implica evidentemente che il collegamento con la “prassi esistente”, a partire dalla sua materialità, rimanga presupposto. E più avanti, in uno svolgimento che ha anche valore riassuntivo, tornerà a porsi il problema dell’universale («la storia si trasforma completamente in storia universale»: ciò dipende dalla «ricchezza» delle relazioni dell’individuo, materiali e spirituali, con il mondo intero)25. Quando «la rivoluzione comunista […] e l’abolizione della proprietà privata che con essa si identifica» avrà “liberato” gli individui dalle condizioni sociali che li separano dall’autoproduzione della vita (la quale si svolge adesso in un ambito soltanto “particolare”, perché un singo24. Ivi, p. 20 nota (ultimo corsivo nostro). 25. Cfr. ivi, p. 28.
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lo determinato “altro” uomo la “comanda”, secondo il proprio interesse e potere) – allora gli individui potranno godere della «produzione universale di tutta la terra (creazioni degli uomini)», o saranno «posti in relazione pratica con la produzione (anche spirituale) di tutto il mondo»26. L’universale (l’identificazione con il “genere”) sarà davvero un “fatto” (o possesso) della coscienza individuale, a quella condizione, perché lo sviluppo della produzione (su tutti i piani, in relazione a tutti i bisogni) fa esistere, oggettivamente, un mondo potenzialmente “umanizzato” – come creazione storica del (nei due sensi) genere umano. Ed è illuminante, anche qui, la nota di Marx in fondo a questa pagina (alle parole: «verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo nella stessa misura in cui la storia si trasforma completamente in storia universale»27) – che è come la proposta di un “titolo” per il tema trattato: Sulla produzione della coscienza. È in questo senso appunto, in quanto ha una storia, che «la coscienza è […] un prodotto sociale». La possibilità dell’universalizzazione “esiste”, concretamente, in quanto si sviluppa, si approfondisce, si articola – eventualmente: si compie – in rapporto al “mondo oggettivo”, ai contenuti prodotti, collettivamente, nel processo di trasformazione/ umanizzazione della natura. “L’intero” del mondo umano (la storia) non è comprensibile, e nemmeno “concepibile”, senza integrare nella sua base, nella sua struttura, il “lato soggettivo”. Fermiamoci qui, per il momento, e tentiamo un primo bilancio delle osservazioni che siamo venuti svolgendo (a partire dall’ipotesi che si è venuta delineando, al nostro livello di “generalità”: la considerazione della “produzione” – delle forze produttive, con la loro soggettività – come possibile “chiave” per ricostruire l’articolazione del pensiero di Marx nei suoi tre
26. Ibidem. 27. Ibidem (corsivo nostro).
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diversi “oggetti” e rispettivi nessi – la società, la storia, il comunismo). Non c’è dubbio che Marx “parli d’altro”, rispetto alla nostra problematica – che è quella della possibile costruzione, nella coscienza dell’individuo, e su basi materialistiche, di un “processo di soggettivazione”. E non è dunque possibile, come per Foucault o Freud, stabilire (e sia pure “per effrazione”, rispetto al livello di autofondazione delle rispettive teorie) un confronto diretto. Ma il marxismo, il pensiero di Marx, “contiene”, al livello, potremmo dire, dei suoi “fondamenti”, uno specifico “punto di vista” sul “soggetto umano” – che non dà luogo a sviluppi particolari, sul piano della teoria, perché questa non assume tra i propri oggetti l’uomo-individuo, bensì le funzioni sociali che ne condizionano la “storia”, in permanente contatto con la sua “radice” naturale-sensibile (che è poi anche la radice del suo esser-cosciente). Per questo si pone, anche rispetto al marxismo, la questione dell’“attualità” di una morale epicurea: se si assume che una forma di autocoscienza “morale” sia una dimensione necessaria e permanente di questo esser-cosciente (se ne potrebbe dubitare: se “la morale” non è che una creazione della sovrastruttura; ma non crediamo che sia questa, veramente, la convinzione di Marx) allora è evidente che non tutte le “filosofie morali” possono essere “coerenti” con il marxismo (per lo più anzi, quelle che si possono definire come “idealistiche” o “razionalistiche”, saranno in contraddizione con esso). Non si tratta di “colmare i vuoti” del pensiero di Marx (non crediamo che propriamente ve ne siano, se non forse sul piano di una “filosofia politica”). Ma nemmeno di “partire” dal marxismo come da una base “scientifica” da cui derivare ulteriori “sviluppi” in direzione di questa problematica – che risulterebbe così in tutto dipendente, nella sua stessa impostazione, dalla coerenza interna della teoria marxista, o dall’“oggetto” che in essa si trova effettivamente “costruito”, conosciuto.
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L’umanesimo di Marx Il problema insomma, è quello che ancora Cesare Luporini, nelle ultime pagine di quella stessa Introduzione che ci è servita un po’ come filo conduttore attraverso il “giovane Marx”, ha posto nei termini della persistenza, attraverso Marx, di una problematica dell’“umanismo” – materialisticamente intesa come «problematica dell’animale uomo (e, se vogliamo, del suo destino)»28; che si declina immediatamente nella considerazione degli individui umani viventi, in quanto non sono riconducibili a mero tramite (“comportamentale”) del funzionamento della struttura sociale. Per Luporini (in polemica con la posizione “antiumanistica” di Althusser) questa nozione (questo “oggetto”: gli individui umani viventi) rimane centrale nel marxismo. Non fosse così, ne andrebbe dello stesso rapporto di fondazione tra materialismo storico e teoria della rivoluzione; che si incentra o si media, par di capire, in una problematica appunto della coscienza individuale – come luogo di incrocio (o articolazione) tra il condizionamento delle «forme sociali (ideologiche, ecc.)» e la possibilità di una soggettività “alternativa” (la «coscienza di classe del proletariato»; la cui formazione non si potrebbe pensare, «non avrebbe senso», senza una «problematica della interiorità»29). C’è dunque la necessità di aprire (riaprire), “da marxisti” (il che per Luporini vuol dire: “sulla base” del marxismo teorico), un discorso in cui si possa riconoscere qualcosa come un «“umanesimo” marxista (o comunista, o come si voglia chiamarlo»30); e non v’è dubbio che esso comprenda una specifica dimensione morale – basterebbero, se ce ne fosse bisogno, le parole-chiave su cui Luporini lo imposta: condizionamento, interiorizzazio-
28. C. Luporini, Introduzione, cit., pp. LXXXI. 29. Ivi, p. LXXXVI. 30. Ivi, p. LXXXI.
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ne, autodeterminazione. La conclusione è che questo “discorso” avrebbe «implicazioni socio-politiche ancora, o di nuovo, molto attuali»31. Queste indicazioni luporiniane riflettono in pari misura, ci sembra, i meriti di un certo marxismo teorico italiano degli anni ’60-’70 (la sua incontestabile “apertura” problematica), ma anche un limite – quello stesso che segna in prevalenza la storia del marxismo “ortodosso”: che potremmo sommariamente definire come una forma mentis “totalizzante”, che tende a ricondurre ogni possibile “sapere” del mondo umano nel paradigma “scientifico” che Marx ha compiutamente elaborato. Un “discorso sull’individuo” non può essere impostato “dall’interno” di quel paradigma (altra cosa è esibirne una possibile coerenza) perché comprende necessariamente, salvo amputarne gravemente la portata, dimensioni di analisi che non sono in esso comprese – per riassumerle sommariamente, quelle che hanno come oggetto il “vissuto immediato” della coscienza individuale, e i suoi processi di elaborazione, selezione, ecc. Da questo punto di vista, lo stesso punto di ancoraggio della problematica dell’individuo nel marxismo (la prospettiva della rivoluzione, o comunque di una “autonomia” della coscienza critica) risulta riduttiva (a partire dal fatto che esclude ogni indagine sui processi di soggettivizzazione nell’individuo borghese): non è possibile inquadrare la questione dell’interiorizzazione nella polarità tutta “sociale” del condizionamento “ideologico” e dell’autodeterminazione (intesa come formazione della coscienza di classe proletaria), perché essa rimanda necessariamente a tutto il complesso dei rapporti tra l’individuo e il mondo “esterno” – a partire da quelli con il suo proprio corpo, che certo nessuno vorrà considerare in questa prospettiva meno “fondamentali” (che poi
31. Ivi, p. LXXXVI.
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il corpo stesso sia in parte, grande, una costruzione sociale, non cambia niente: il modo di produzione sociale dell’immaginario, del simbolico, del sapere-potere, ecc. non può essere compreso nei limiti di una nozione specificamente marxista di “critica dell’ideologia” – “ristretta” a ciò che è direttamente “mediato”, nella coscienza degli individui, da un determinato essere sociale). Porre il problema degli individui umani viventi significa necessariamente mettere a prova, nell’analisi, una nozione di individuo in generale: che assume come proprio oggetto il processo di unificazione/differenziazione della coscienza, in rapporto all’insieme dei contenuti che vi si trovano necessariamente riflessi (o interiorizzati). Il marxismo non si trova (lo abbiamo in parte visto) “in contraddizione” con questa esigenza; ma non può “riassorbirla” in sé, perché essa presuppone una base di indagine “più ampia”, rispetto al piano di oggettività effettivamente “rispecchiato” nella teoria. Non pensiamo che abbia molto senso parlare di un umanesimo marxista (con relative, “marxiste”, implicazioni morali): proprio perché una morale, eventualmente “umanistica”, non può sorgere che su questa base “più ampia” – e avrà in ogni caso il valore di una scelta “filosofica”, più che di un “modello” scientifico. Quando Luporini evoca «altri fondamenti scientifici […] integrabili»32, al marxismo, per sostenere il progetto di un umanesimo non più filosofico (dunque “scientifico”; e pensa, in particolare, alla psicoanalisi), ci sembra trascuri, o piuttosto rifiuti, questo rilievo della “differenza di oggetto” (e di “valenza”). Il rapporto tra il marxismo e una morale materialistica sarà invece tanto più fecondo e pertinente se impostato come un rapporto tra “cose”, tra “discorsi”, diversi. Che possono, devono, “incrociarsi” – perché una simile morale, proprio in quanto interamente rivolta agli individui umani viventi, si
32. Ivi, p. LXXXI.
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confronterà direttamente (da epicurei lo sappiamo bene) con le condizioni della vita sociale (di cui Marx ha prodotto, quanto a “noi”, il modello di intelligibilità più rigoroso e completo); e perché il marxismo (di Marx) gravita, si può dire, in tutt’e tre le sue “declinazioni”, intorno a un centro “nascosto” (“nascosto”, s’intende, in quello che Foucault chiamerebbe il suo “regime discorsivo”), che è la vita reale, l’“esserci”, degli individui umani, in tutte le sue dimensioni: il naturale-sensibile, la coscienza, l’azione – e sotto la condizione di un “senso” (ovviamente, per questi stessi individui umani). Questo centro, come “luogo d’attrazione” della teoria, non è un’“invenzione” di Marx; è piuttosto un’eredità (possiamo dire: umanistica) – che il marxismo ci ri-trasmette. Luporini, in questo contesto, ricorda a un certo punto Gramsci: a proposito della formazione della coscienza di classe, «che è la formazione di tale coscienza in ogni singolo individuo, come ben sapeva Gramsci»33. Ci sembra che il modo migliore di concludere questo tentativo di messa a punto sia la trascrizione di una pagina gramsciana, che rappresenta, nella letteratura marxista, uno dei non molti tentativi di articolare, in termini generali, i tre complessi problematici dei “rapporti sociali”, della “trasformazione della realtà”, e del “processo di soggettivizzazione” dell’individuo. La citiamo perciò integralmente, nonostante la lunghezza, e il fatto che questa articolazione vi appaia ancora forse troppo “compressa”, troppo programmaticamente unitaria; ma questo non toglie, ci pare, che vi si delinei almeno l’embrione di una “cartografia del distinto”, nel molteplice delle diramazioni e delle “logiche” rispettive. La quistione è sempre la stessa: cos’è l’uomo? cos’è la natura umana? Se si definisce l’uomo come individuo, psicologicamente e speculativamente, questi problemi del progresso e
33. Ivi, p. LXXXVI.
390 del divenire sono insolubili o rimangono di mera parola. Ma se si concepisce l’uomo come l’insieme dei rapporti sociali, intanto appare che ogni paragone tra uomini nel tempo è impossibile, perché si tratta di cose diverse se non eterogenee. D’altronde, poiché l’uomo è anche l’insieme delle sue condizioni di vita, si può misurare quantitativamente la differenza tra il passato e il presente, poiché si può misurare la misura in cui l’uomo domina la natura e il caso. La possibilità non è la realtà, ma è anch’essa una realtà: che l’uomo possa fare una cosa o non possa farla, ha la sua importanza per valutare ciò che realmente si fa. Possibilità vuol dire «libertà». La misura delle libertà entra nel concetto d’uomo. Che ci siano le possibilità obbiettive di non morire di fame, e che si muoia di fame ha la sua importanza, a quanto pare. Ma l’esistenza delle condizioni obbiettive, o possibilità o libertà non è ancora sufficiente: occorre «conoscerle» e sapersene servire. Volersene servire. L’uomo, in questo senso, è volontà concreta, cioè applicazione effettuale dell’astratto volere o impulso vitale ai mezzi concreti che tale volontà realizzano. Si crea la propria personalità: 1) dando un indirizzo determinato e concreto («razionale») al proprio impulso vitale o volontà; 2) identificando i mezzi che rendono tale volontà concreta e determinata e non arbitraria; 3) contribuendo a modificare l’insieme delle condizioni concrete che realizzano questa volontà nella misura dei propri limiti di potenza e nella forma più fruttuosa. L’uomo è da concepire come un blocco storico di elementi puramente individuali e soggettivi e di elementi di massa e oggettivi o materiali coi quali l’individuo è in rapporto attivo. Trasformare il mondo esterno, i rapporti generali, significa potenziare se stesso, sviluppare se stesso. Che il «miglioramento» etico sia puramente individuale è illusione ed errore: la sintesi degli elementi costitutivi dell’individualità è «individuale», ma essa non si realizza e sviluppa senza un’attività verso l’esterno, modificatrice dei rapporti esterni, da quelli verso la natura a quelli verso gli altri uomini in vari gradi, nelle diverse cerchie sociali in cui si vive, fino al rapporto massimo, che abbraccia tutto il genere umano. Perciò si può dire che l’uomo è essenzialmente «politico», poiché l’attività per trasformare e dirige-
391 re coscientemente gli altri uomini realizza la sua «umanità», la sua «natura umana».34
Il lettore potrebbe anche pensare che, per quanto ci riguarda, si potrebbe finire qui. Ma forse non si rifiuterà di continuare ancora un po’ a divagare dentro Marx e il marxismo, per “arricchire” la situazione che abbiamo cercato di delineare, apportandovi qualche elemento di verifica testuale oltre quello che si è convenuto di chiamare “giovane Marx”.
Il comunismo come fine e lo “sviluppo” dell’individuo Che vi siano, nel discorso di Marx, inflessioni che possiamo definire “valutative” non sembra dubbio; lo stesso tema dell’arricchimento e sviluppo delle forze produttive, pur entro il rapporto di contraddizione con i rapporti di produzione, non ha un valore puramente “quantitativo” o strumentale, comprende un giudizio sulla qualità della vita umana, sociale, che in linea di principio ne deriva. Ma è ovvio che un “giudizio di valore” è soprattutto coinvolto, del tutto esplicitamente, quando si tratta della “meta” a cui è rivolta l’azione rivoluzionaria, l’obiettivo della lotta del movimento operaio, il socialismo (comunismo). Non c’è in Marx, secondo noi, una specifica “teoria della rivoluzione”: che il passaggio al socialismo non possa avvenire che attraverso la “rottura” dell’ordine politico esistente è sostanzialmente “dato per scontato” – in base al modello, riteniamo, delle passate rivoluzioni borghesi (solo nel 1895, introducendo un’edizione de Le lotte di classe in Francia, Engels “metterà in discussione” il concetto: proponendo una versione “difensiva” della violenza rivoluzionaria, di fronte al probabile rifiuto 34. A. Gramsci, Quaderni del carcere, 4 voll., ed. critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, vol. II, pp. 1337-1338.
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della borghesia di accettare quella “transizione pacifica” che un predominio parlamentare del partito operaio renderebbe teoricamente possibile). Ma non si può certo dire lo stesso, o negli stessi termini, per la nozione di socialismo (comunismo) – come modello, o si dica pure “ideale”, della “società nuova”. La rivoluzione proletaria non si potrà “fare” senza “saperlo” – senza sapere “perché”, in tutti i sensi della congiunzione (parafrasiamo ovviamente la formula ricorrente di Marx circa il “farsi” della storia – gli uomini non lo sanno ma lo fanno; che vale anche per i rivoluzionari borghesi, con la loro coscienza ideologicamente “travestita” o illusa). La classe operaia rivoluzionaria (gli individui che la compongono) dovrà essere cosciente del fine della propria azione (che si determina come tale appunto perché è “posto” nella coscienza, non certo “nella storia” – ma lo sapeva già Lucrezio); né le “ragioni” di questa azione potranno essere ricondotte in una “necessità oggettiva”, quella che deriva dalle contraddizioni del capitalismo – che possono anche “produrre”, da sé, “il contrario” della rivoluzione (esiti puramente distruttivi, o “paralizzanti”), come la nostra storia – e anche attualità – ci insegna ben al di là di quanto possiamo ricavare “direttamente” da Marx. E il fine dell’azione non sarà “astratto”, puramente “ideale” o “razionale” (sarà invece coscienza del bisogno, della possibilità e dei mezzi) se è “fondato” (materialisticamente) nell’autopercezione del soggetto che lo “sceglie”, a partire dalla sua costituzione naturale-sensibile, psico-fisica, come nozione di un “bene proprio” – comune a tutti gli individui della specie. Come definisce Marx il fine del comunismo? Nell’Ideologia tedesca si trova assai presto una celebre formula: «Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente»35; e, più avanti, abbiamo già letto che la rivoluzione comunista «si identifica» con «l’abolizione della proprietà 35. K. Marx - F. Engels, L’ideologia tedesca, cit., p. 25.
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privata»36. Si direbbe che ciò che conta è soprattutto il “negativo”, la soppressione dell’ostacolo (intralcio). Ma abbiamo già abbondantemente visto, nello stesso contesto, come a questa «abolizione» corrisponda, molto precisamente («nella stessa misura»), un contenuto “positivo”, la descrizione di un movimento che conduce a una “meta”: la creazione effettiva (o compimento) di una «storia universale», come processo in cui i singoli individui si trovano direttamente «in relazione […] con la produzione (anche spirituale) di tutto il mondo e messi in condizione di acquistare la capacità di godere di questa produzione universale di tutta la terra»37. È questa “logica” delle relazioni tra gli individui e l’insieme della produzione, l’insieme delle possibilità “create” al livello del “genere umano”, che sarà “sostituita” a quella della proprietà privata e dell’alienazione: a questo stadio la manifestazione personale coincide con la vita materiale, ciò che corrisponde allo sviluppo degli individui in individui completi e alla eliminazione di ogni residuo naturale [cioè “estraneo”, che viene puramente “subito”, ecc.]; e vi corrispondono poi la trasformazione del lavoro in manifestazione personale e la trasformazione delle relazioni fin qui condizionate [le condizioni sociali, imposte] nelle relazioni degli individui in quanto tali.38
Dalle “classi” agli “individui”, dunque. E nella pagina precedente Marx e Engels hanno ricordato: «Tutte le precedenti appropriazioni rivoluzionarie erano limitate» – finché permane la divisione del lavoro, come imposizione “esterna”, l’insieme della produzione e dei prodotti conserva per l’individuo il carattere della “potenza estranea”. «Nell’appropriazione da parte dei proletari [invece] una massa di strumenti di produzione deve venire sussunta sotto ciascun individuo, e la proprietà 36. Ivi, p. 28. 37. Ibidem. 38. Ivi, p. 65.
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sotto tutti. Le relazioni universali moderne [quelle che nascono dall’interdipendenza “mondiale” dei processi produttivi] non possono essere sussunte sotto gli individui altrimenti che con l’essere sussunte sotto tutti»39. Questa “descrizione” della società comunista è uno sviluppo della definizione che Marx aveva dato nei Manoscritti, chiarisce l’accezione che in essa aveva il termine “umanismo”: «Questo comunismo è, in quanto compiuto naturalismo [nel significato materialistico-pratico della “natura umana”], umanismo, e in quanto compiuto umanismo, naturalismo»; con quel che segue, e che certo risente nel linguaggio, soprattutto per l’ultima frase, dell’entusiasmo filosofico “giovanile” di Marx40. “Questo comunismo”, qui, rinvia alla polemica contro il comunismo “rozzo” – polemica in cui continueranno a precisarsi i “veri obiettivi” della lotta rivoluzionaria: per esempio rispetto all’“eguaglianza dei salari”, o alla “limitazione della proprietà” (l’ininterrotta “demolizione” di Proudhon); il rifiuto degli obiettivi “falsi” si motiva in una visione “organica” della funzione liberatrice del comunismo – per esempio, tipicamente, rispetto a Lassalle, non il rafforzamento dello stato, come istanza regolatrice della distribuzione, ma la sua progressiva estinzione, attraverso il riassorbimento delle sue funzioni nella “libera associazione” degli individui. È vero che, di qui in avanti, Marx indulgerà raramente nella “descrizione” della società futura. Vorremmo però citare ancora una formula particolarmente “solenne” – non fosse che per il luogo in cui appare. Nel Manifesto, giunti al termine del secondo capitolo (Proletari e comunisti), Marx e Engels presentano così il passaggio al comunismo: «Alla vecchia società borghese […] subentra un’associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti»41. 39. Ivi, p. 28. 40. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, cit., p. 226. 41. K. Marx - F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, cit., p. 158.
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Ci sono due punti che vorremmo sottolineare, in questa formula. Prima di tutto, il nesso che viene stabilito tra ciascuno e tutti – un nesso di fondazione («è condizione»), secondo un versus. Marx e Engels non scrivono che in una società comunista “tutti saranno liberi” (eventualmente: di svilupparsi), e meno ancora che essa sarà una “società libera”, o “liberata”; scrivono (lo avevano già fatto nell’Ideologia tedesca: sostituzione delle “condizioni sociali” con le «relazioni degli individui in quanto tali») che una volta abolite le classi (per l’azione rivoluzionaria del proletariato – paragrafo precedente) non ci saranno nella società che individui – e perciò ciascuno e tutti si troveranno per così dire “faccia a faccia”: non un rapporto “astratto” di eguaglianza, ma un principio attivo, generatore della prassi intersoggettiva – che non potrà fondarsi che sul “modo d’essere” degli individui. Il passaggio dal ciascuno al tutti rimane “sullo stesso piano” (è “libero”: non mediato da condizioni di estraneità-sottomissione): quando, se, il singolo individuo sperimenta, di fatto, per sé (ne è cosciente), una determinata forma di esistenza – che qui si chiama: il suo libero sviluppo. E proprio l’uso di questo sintagma, “il libero sviluppo dell’individuo” (tutt’altro che isolato nell’opera di Marx), ci sembra l’altro punto molto importante. Può capitare, talvolta, quando si cita a memoria la formula (almeno a chi scrive) di operare un’involontaria “crasi” – così da farla diventare: “la libertà di ciascuno come condizione della libertà di tutti”. Ma Marx e Engels non hanno scritto “la libertà”. E non si tratta (solo) di evitare l’equivoco “ideologico” – poiché l’eguale libertà “di ciascuno”, o “di tutti”, è la principale mistificazione della politica borghese; non è questo il più importante. Il comunismo non ha “inventato” la libertà (nemmeno la libertà “reale”). Meno ancora, ovviamente, ha inventato, o la società comunista “inventerà”, l’individuo. Se il fine che potrà realizzarsi attraverso l’associazione comunista è lo sviluppo (libero) dell’individuo, questo vuol dire che l’idea o nozione di uno sviluppo indivi-
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duale “c’è già” – ed è attiva nella coscienza; e non può essere attinta che in un determinato “esserci” dell’individuo – come, insieme, presupposto e risultato (in ogni “momento” parziale) della storia. Ciò che dovrà “realizzarsi” nel comunismo, sarà il compiersi effettivo (una effettiva funzione operativa, di “criterio”) di questa possibilità (del “libero sviluppo”; non più “intralciato” o represso); della quale non avremmo però alcuna idea, se l’individuo reale non la “possedesse” come un “proprio”, attraverso tutte le forme della sua esistenza storica (o, che è lo stesso, se essa non poggiasse su una “base” che non è tutta interna al dominio fattuale della storia). Possiamo dire, se vogliamo, che questa possibilità di sviluppo è il contenuto della libertà individuale (per questo abbiamo prima parlato di “crasi”). L’individuo ne prende coscienza (nella forma del fine; e in potenziale antagonismo con il suo determinato essere sociale) in quanto la sua coscienza rimane collegata a un essere che la contiene in sé – come principio dinamico di uno sviluppo “proprio”. Quando Marx pensa agli individui umani viventi, è sempre attivo il riferimento a una possibilità/necessità (a una “logica”) di sviluppo. Prendiamo per esempio due luoghi tra i più commentati del Capitale, che si trovano in libri diversi. Nel libro I leggiamo: In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge tra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico tra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze materiali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita. Operando tale moto sulla natura fuori di sé e cambiandola, egli cambia allo stesso tempo la natura sua propria. Sviluppa le facoltà che in essa sono assopite e assoggetta il gioco delle loro forze al proprio potere. […] Noi supponiamo il lavoro in una forma nella quale esso
397 appartenga esclusivamente all’uomo [segue il celeberrimo paragone tra l’ape e l’architetto, che definisce perfettamente la “differenza specifica” umana]. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente all’inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente […]; egli realizza nell’elemento naturale, allo stesso tempo il proprio scopo, da lui ben conosciuto, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà. […] è necessaria, per tutta la durata del lavoro, la volontà conforme allo scopo, che si estrinseca come attenzione: e tanto più è necessaria quanto meno il lavoro, per il suo contenuto e per il modo dell’esecuzione, attira a sé l’operaio, quindi quanto meno questi [ne] gode come gioco delle proprie forze fisiche e intellettuali.42
Il lettore avrà notato che in questo testo, se si parla di “sviluppo”, non si menzionano né “la libertà” né “l’individuo”; ma quest’ultimo termine è ovviamente perfettamente sovrapponibile a “uomo che lavora” (che è poi, possiamo dire, l’“uomo in generale”). Stiamo considerando – ha scritto subito prima Marx – «il processo lavorativo […] indipendentemente da ogni forma sociale determinata»43; questo lavoro umano “esiste” dunque, per così dire, in forma individuale: per la corporeità che mette in moto, per il bisogno vitale che soddisfa, per l’ideazione dell’obiettivo, per lo scopo che unifica la conoscenza e la volontà – e per l’attenzione che sostiene il processo. Ed “esiste” perché ciascun individuo si trova, ab origine, in un rapporto di ricambio organico con la natura – nel cui sviluppo si vengono formando le facoltà già potenzialmente “date” in lui e insieme il potere di utilizzare in modo coordinato le proprie forze. Così l’individuo diventa, possiamo dire, quello che prima di tutto è – un “uomo”, una parte della natura che 42. K. Marx, Il Capitale, libro I, tr. it. di D. Cantimori, intr. di M. Dobb, Editori Riuniti, Roma 19747, pp. 211-212. 43. Ivi, p. 211.
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si sviluppa contrapponendosi ad essa, rappresentando e perseguendo i propri fini in una prassi consapevole. Meno chiaro, in apparenza, è il “passaggio” alla questione della libertà. Prima di proseguire nel commento, aggiungiamo il nostro secondo testo, altrettanto celebre, dal libro III: Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mano che egli si sviluppa il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la diminuzione della giornata lavorativa.44
Questa pagina mostra, prima di tutto, come l’opposizione necessità-libertà non corrisponde alla sequenza delle “epoche” (i modi di produzione “classisti” vs. la libera associazione dei produttori). Essa si definisce invece, come in una “sezione ver44. K. Marx, Il Capitale, libro III/2, tr. it. di M.L. Boggeri, Editori Riuniti, Roma 19747, p. 933.
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ticale”, all’interno di ogni modo di produzione – perché il lavoro rimane in ciascuno “non libero”, intanto, nella misura in cui subisce la costrizione di un ambito “naturale” di per sé estraneo al fine del soddisfacimento dei bisogni. Ma sarà poi “non libero”, questo lavoro, anche in un altro senso: perché i bisogni che soddisfa sono prima di tutto “materiali” – “imposti”, essi stessi, dalla natura. A questi Marx contrappone, sul versante della libertà, uno «sviluppo delle capacità umane che è fine a se stesso»; se lo interpretassimo ancora in termini di “bisogno”, sarebbe qualcosa come il bisogno di “esprimersi” o di “realizzarsi” – il bisogno di un “godimento”, nei termini dell’Ideologia tedesca, della produzione spirituale, oppure, secondo l’espressione del primo testo del Capitale citato, del «gioco delle […] forze fisiche e intellettuali» (che Marx, lì, associava al processo lavorativo stesso, secondo una gradazione “quantitativa”: tanto più… quanto meno). L’opposizione fra necessità e libertà non è “semplice” – si articola, sul versante delle condizioni oggettive, in uno “sdoppiamento” interno, e su quello della soggettività in una “gamma” di variazioni continue. Gli individui, di fatto, non subiscono la necessità “direttamente” nella forma della contrapposizione/ subordinazione alla natura, ma prima di tutto (nella società divisa in classi) come dominio di una «forza cieca» – estranea alla natura e allo scopo individuale del processo lavorativo. L’“altra” necessità (quella “vera”, per così dire) è presentata in termini residuali («rimane sempre») – e non si oppone “soltanto” alla libertà, ma prima di tutto alla necessità “cieca”; al suo interno, anzi, Marx mantiene uno “spazio” della libertà – “circoscrivendolo”, abbiamo letto, nella possibilità di regolazione razionale (intanto; e si tratta evidentemente della più “eminente” capacità umana) del processo produttivo. Analogamente, sul versante soggettivo dei bisogni e delle capacità, l’opposizione si trasforma in una continuità di “stadi” dello sviluppo: il processo produttivo, in quanto tale, non corrisponde alla ri-
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produzione di uno standard di bisogni “materiali” (un primum vivere, nel senso della vita “biologica”) – al contrario, produce un’evoluzione tendenzialmente illimitata dei bisogni, e proprio questo “sviluppo” (dei “bisogni”) è la base, abbiamo letto, su cui un “regno della libertà” può essere anche solo pensato. Non c’è dunque, in alcun modo, un “salto” fra i due “regni”: è, a tutti i livelli, la stessa “aspirazione alla libertà” (padronanza; “godimento” di sé) che definisce la “posizione” della coscienza individuale rispetto al complesso delle condizioni in cui si trova impegnata (a partire dal processo lavorativo); la stessa possibilità di assumere il proprio “libero sviluppo”, attraverso l’oggettivazione/creazione di un mondo umano, come “criterio-fine”. La conclusione del testo («condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa») non ha niente di abrupto – si collega direttamente a quello che precede l’inizio della citazione. Il regno della libertà può essere “reale” solo nella misura in cui la produzione della vita materiale avvenga nelle «condizioni più adeguate alla natura umana, e più degne di essa». E ogni lettore del Capitale sa che la lotta per la riduzione della giornata di lavoro è l’espressione più “piena” dell’antagonismo del proletariato, quella in cui si esprime, sul terreno “immediato” della lotta di classe, l’obiettivo più “incompatibile” con la logica degli attuali rapporti di produzione. Ma soprattutto, lo abbiamo già intravisto, questo finale “rima” perfettamente con quello dell’altro testo, in cui era questione del “godimento”, da parte dell’operaio, del «gioco delle proprie forze fisiche e intellettuali». Cos’altro, se non appunto questo godimento, può essere indicato come contenuto del bisogno di estrinsecare le proprie «capacità»? C’è un limite, doppio: quello naturale, legato al carattere più o meno attraente del lavoro da compiere, e quello, molto più “flessibile” (ora molto più costrittivo) che deriva dalle condizioni sociali di questo lavoro (da cui dipende, per esempio, gran parte della fatica imposta – e lo sviluppo delle forze produttive, se è governato dai fini pro-
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pri della natura umana, deve comprendere tra i suoi obiettivi quello di “minimizzarla”). Marx e Engels, e la loro posterità, hanno talvolta usato l’espressione “regno della libertà” come sinonimo di uno “stadio” ulteriore dell’evoluzione sociale – il comunismo. Ma questi testi del Capitale, soprattutto se letti insieme, ce ne segnalano un’accezione più “interessante”, legata a un modo d’essere degli individui (o, si può dire, a un processo di soggettivizzazione) che si ritrova potenzialmente in tutte le società – e che è particolarmente “attuale” quando lo sviluppo delle capacità umane può avere come base, “materiale”, una ampia possibilità di soddisfazione dei bisogni. Il passaggio al comunismo, allora, si specifica come un “allargamento” di questo regno; fino al limite in cui i suoi confini non siano segnati che dalla necessità naturale, essa stessa progressivamente “ridotta”. La riduzione della giornata lavorativa è la prima condizione di questo allargamento, già “all’interno” del limite imposto dal rapporto di subordinazione del lavoro al capitale (e non solo perché tende – la lotta per attuarla, aumentarla, ecc. – a “spezzare” questo limite). Non è necessario qui menzionare l’abolizione della proprietà privata – siamo a un livello più “profondo”, se ci ricordiamo che quest’ultima presuppone un’altra “relazione sociale”, quella che si fissa e si riproduce come “divisione del lavoro” (e in particolare separazione tra lavoro manuale e intellettuale). È l’“abolizione” di questa relazione che è richiesta per diminuire la necessità del lavoro – per dare la maggiore ampiezza al regno della libertà. Tutti, chi abbia una qualche familiarità con il marxismo, ricordiamo la pagina dell’Ideologia tedesca in cui questo obiettivo è formulato nel modo più provocatoriamente icastico. Ma rivolgiamoci piuttosto a un altro “luogo classico”, quello in cui Engels, nel corso della sua spietata demolizione del povero Dühring, prende a bersaglio una tipica espressione di so-
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cialismo “dilettantesco” – quella che si può riassumere nella formula rivendicativa del salario eguale per tutti i lavori (che avrebbero, secondo Dühring, lo stesso “valore”). Engels comincia col ricordare: «Per il socialismo, che vuole liberare la forza-lavoro dalla sua posizione di merce, è di grande importanza il riconoscimento che il lavoro non ha, né può avere, un valore». Ma poi si diverte a ritorcere contro Dühring il suo esempio di “eguaglianza di valore” – tra il lavoro del carrettiere e quello dell’architetto. «Alla mentalità delle classi colte ereditata dal signor Dühring [anche qui rovescia il motivo polemico che questi aveva usato contro Marx] deve certamente apparire come una mostruosità che non ci debbano più essere carrettieri e architetti di professione». Ma non c’è proprio nessuna ragione per cui un individuo sia un carrettiere. Se spinge o conduce un carretto, questo non impedisce, in sé, che possa dedicare un tempo eguale o maggiore della sua vita a coltivare altri interessi e capacità – per esempio nel campo dell’architettura. E tanto più in quanto non c’è parimenti ragione che chi lavora per lo più in questo campo non si faccia anche personalmente carico, di tanto in tanto, della necessità di guidare o di spingere un carretto. La migliore «distribuzione dei mezzi di sussistenza» (migliore, precisa Engels, anche ai fini della produzione) sarà quella «che permette a tutti i membri della società di sviluppare, conservare ed esercitare le proprie capacità il più che sia possibile in tutte le direzioni» (e qui Engels riecheggia letteralmente, quanto al contenuto del regno della libertà, il nostro brano dal III libro del Capitale, che naturalmente non aveva ancora letto)45. La condizione essenziale per portare alla sua massima estensione questo “regno”, dunque per «tutti i membri della so-
45. F. Engels, Antidühring, ed. it. a cura di V. Gerratana, Editori Riuniti, Roma 19712, p. 213.
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cietà» (cioè per ciascuno), è che nessuno, in un certo modo di produzione, si trovi ad essere completamente determinato come individuo in un ruolo sociale privo di attrattiva, che gli impedisca il «godimento del gioco delle proprie forze fisiche e intellettuali» (e già di “riconoscerle”, in se stesso; la conclusione del passo engelsiano è: «Bel socialismo, che eterna la professione del carrettiere!»)46. Non si tratta di un fine che il filosofo o il moralista “assegni” allo sviluppo della società (o al “corso della storia”) sulla base di una sua personale “concezione dell’uomo”. Esso nasce da una dialettica dei bisogni e delle capacità (insieme con le “possibilità oggettive”) che si manifesta nell’analisi del modo di produzione e dei suoi “rapporti”: la divisione del lavoro, la proprietà privata, il capitale, la subordinazione dell’“elemento soggettivo” del lavoro (ciò per cui è lavoro umano) a fini e condizioni “esterne” (non naturali: “imposte” da altri uomini) – tutto ciò rappresenta per il lavoratore l’ostacolo allo sviluppo delle sue capacità, alla sua possibilità di essere fine a se stesso, non solo “uomo del bisogno”, ma soggetto della scelta, “misura” di una gerarchia di beni; e tanto più, evidentemente, quando i beni sono “moltiplicati”, e i bisogni “arricchiti”, da uno sviluppo multiforme nel processo materiale di umanizzazione della natura. L’analisi del modo di produzione capitalistico (che si rivela come il più “contraddittorio”), in quanto è svolta in costante riferimento alla dimensione “antropologica” del lavoro, si trova direttamente collegata al tema dello sviluppo degli individui, nella società, secondo la loro comune natura umana – che nel “fatto” della storia trova insieme, come in Lucrezio, la propria prima, “spontanea” manifestazione e, per le forme sociali a cui dà luogo, con tutta la loro “necessità storica”, il rischio permanente di uno sviluppo deviato, inibito, “malato”. Direttamente collegata, possiamo dire, alla reale esperienza dei concreti 46. Ibidem.
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individui umani (all’esperienza, possiamo ancora dire, del dolore e del piacere). Quando Marx tornerà, nella Critica al programma di Gotha (1875), a dare una definizione generale del senso-valore del comunismo, si esprimerà direttamente in questi termini (capacità/bisogni; come “misura” del libero sviluppo individuale). Questo criterio sarà, nel comunismo, “messo in pratica”, senza restrizioni “esterne” – entro un limite “naturale”, che qui è quello della diseguale costituzione degli individui (“non tutti sono capaci di tutto”, e i bisogni possono essere diversi per individui diversi); Marx “spiega” ai destinatari della sua critica che solo nel comunismo questa naturale diseguaglianza può essere “veramente” riconosciuta (si trova qui in abbozzo il tema del passaggio dal diritto, fondato sul “falso postulato” dell’eguaglianza, alla morale) e integrarsi “spontaneamente” nella regolazione della vita sociale. Ma è necessario per questo un progresso ulteriore – quello che tradizionalmente si formula come “passaggio” dal socialismo al comunismo, e che qui Marx descrive come un’avanzata dalla «prima fase della società comunista verso una fase più elevata» (il lettore osservi come nell’elenco che segue tutte le “condizioni” siano formulate in riferimento alla vita individuale): in questo “passaggio”, «sarà scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto tra lavoro intellettuale e fisico; il lavoro non [sarà] soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita» (qui Marx “cita” i Manoscritti del ’44); «con lo sviluppo onnilaterale degli individui, [saranno] cresciute anche le forze produttive, e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorr[eranno] in tutta la loro pienezza». Allora, e «solo allora» (non certo “all’indomani” della presa del potere da parte del proletariato e del suo partito: Marx sta “spietatamente” criticando le approssimazioni demagogiche, intrise di egualitarismo piccolo-borghese, di un documento congressuale di unificazione della socialdemocrazia tedesca)
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«la società potrà scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; ad ognuno secondo i suoi bisogni!»47. Il comunismo di Marx si può definire come la condizione dell’accesso “libero”, “illimitato”, di ogni individuo all’intero patrimonio dei beni e delle possibilità che si è formato, si forma, nella vita sociale, attraverso il lavoro umano; come una compiuta “individualizzazione” della ricchezza comune, ricondotta alla misura dei bisogni e delle capacità individuali (e in questo senso, la suggestione che talvolta affiora in letteratura di un Marx “libertario” può essere senz’altro accolta). La prospettiva dell’emancipazione umana (del lavoro umano; dell’uomo con le sue capacità e i suoi bisogni) non è, nel pensiero di Marx, qualcosa che si “aggiunga” alla critica dell’attuale sistema di rapporti socio-economici – così che quest’ultima sia da considerare in se stessa “autosufficiente”, come un qualsiasi modello scientifico di “rispecchiamento” della realtà (dell’“oggetto”). Al contrario, questa prospettiva (e ciò che la “fonda”: il rapporto tra l’autocoscienza dell’individuo e l’“essere” naturale-sensibile comune della specie) ha il valore di un “punto di vista” – che “guida” la critica verso i suoi decisivi traguardi: la “demistificazione” della falsa apparenza, che si costituisce nella rappresentazione (nella coscienza e nel sapere) dei fatti e dei rapporti come “razionalizzazione”, “naturalizzazione”, di leggi e logiche che diventano proprie di una “essenza” (di una “natura”) della società (e dell’economia). Ciò è chiaro, abbiamo visto, “dall’inizio”, fin dal primo “corpo a corpo” di Marx con l’economia politica: il fatto economico (decisivo) dell’alienazione non è visto (visibile) dalla “scienza”, perché essa «non considera l’immediato rapporto fra l’operaio […] e la produzione»; e consiste appunto nell’imporre a questo rapporto una
47. K. Marx, Critica al programma di Gotha, in K. Marx - F. Engels, Opere scelte, ed. it. a cura di L. Gruppi, Editori Riuniti, Roma 19743, pp. 961-962.
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“forma” specifica, ristretta, dominante, estranea al “fine” che lo costituisce (e che non è, esso, un semplice “punto di vista”: che il lavoratore produca attraverso il lavoro la sua vita materiale, soddisfi i propri bisogni, metta in azione le proprie capacità, vale, per dirla con L’ideologia tedesca, come un presupposto non arbitrario). C’è dunque una specifica funzione epistemologica della considerazione, lungo tutto lo sviluppo della “critica”, degli individui umani viventi, della loro possibilità di “appropriarsi” (o di essere “espropriati”) del processo di riproduzione e di sviluppo della loro vita; vediamone brevemente, prima di concludere, ancora qualche esempio nell’opera “matura”, scientifica, di Marx.
Capitalismo e falsa coscienza Partiamo (ma potremmo davvero dire: a caso) da un passo che si trova nel primo volume delle Teorie sul plusvalore (che com’è noto doveva essere il “quarto libro” del Capitale)48. Marx vi formula una spiegazione, particolarmente chiara e semplice, della sua teoria del feticismo (vexata quaestio della letteratura “marxologica”), che si articola in tre punti – e descrive un «rovesciamento di rapporti», che genera una «apparenza»: il «lavoro vivo […] è incorporato al capitale» (questo si verifica nella «forma generale della produzione capitalistica, che il modo di produzione capitalistico meno sviluppato ha in comune col più sviluppato»); perciò esso (il lavoro vivo) «appare come un’attività che appartiene» al capitale (appare, cioè, che il capitale “lavora”); e per questo, «tutte le forze produttive del lavoro sociale» (l’“insieme” dei mezzi di produzione più 48. K. Marx, Teorie sul plusvalore. Libro quarto del «Capitale», vol. I, tr. it. e pref. di G. Giorgetti, Editori Riuniti, Roma 1971.
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il lavoro “vivo”), «non appena ha inizio il processo lavorativo, si presentano come forze produttive del capitale» (una “forza propria” del capitale, che si è “integrato” la forza-lavoro). Al capitale viene dunque attribuita (feticisticamente) una “proprietà”: quella di essere “in se stesso” produttivo. E Marx sottolinea l’“analogia” – che è in realtà l’emersione “in superficie” di un nesso sistematico (ricordiamo che l’analisi del modo di produzione capitalistico comincia con “la merce”): «esattamente nello stesso modo in cui la forma generalmente sociale del lavoro [nel capitalismo: la forma di merce] appare nel denaro come qualità di una cosa». Il denaro è la “forma generale” del valore (di scambio): in esso “appare” che la cosa, una cosa, ha un valore, e un prezzo (la cosa, in quanto cosa, eventualmente “utile”, non ce l’ha). Feticismo della merce (del denaro), feticismo del capitale. Questo “gioco” di apparenza e realtà non ha proprio nulla di misterioso (o di “speculativo”: nemmeno al livello del “modo di esposizione”). Qui, nel nostro testo, Marx non inserisce direttamente il termine “feticismo”; avverte, prima, che questo presentarsi o apparire “esprime” una «forma» del processo produttivo («del capitale, del lavoro oggettivato, delle condizioni di lavoro») che è «divenuta indipendente nei confronti del lavoro vivo» – perché è «personificat[a] nel capitalista». Questa indipendenza/estraneità è dunque interamente prodotta in un determinato rapporto (capitalista/lavoratore, condizioni della produzione/lavoro vivo). Solo adesso Marx conclude, spiegando: «C’è qui di nuovo quel rovesciamento di rapporti, per esprimere il quale abbiamo già indicato, nel corso dell’analisi del denaro, il termine feticismo». Nella “credenza” feticistica, dunque, si esprime direttamente, spiegandola, un rapporto “reale”; che Marx descrive, subito dopo, in termini che possiamo senz’altro assimilare a quelli di una relazione di potere (certo, tra “uomini” e “cose”; che
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però in un determinato verso del loro rapporto con gli uomini diventano cose “personificate”). C’è un rapporto di “sussunzione” tra, da una parte, i mezzi di produzione e «le condizioni reali di lavoro», e dall’altra «l’operaio», che cambia verso, quando «l’operaio» è «sussunto sotto di essi». Marx scrive: «i mezzi di produzione, le condizioni reali di lavoro […] non appaiono sussunti sotto l’operaio, ma questi appare sussunto sotto di essi. Ed è perciò che essi sono capitale»49. È chiaro che entrambi i “versi” (possibili) sono perfettamente “reali”. E tuttavia Marx usa ancora, per entrambi, il verbo “apparire”. Non può trattarsi di un’apparenza “feticistica” – almeno per un lato, quello dell’operaio: a questi i rapporti appaiono, per così dire, come realmente sono. Il lavoratore dispone, oppure no, di ciò che gli consente di lavorare, di produrre e di (ri) prodursi – e i poli dell’alternativa sono, da questo punto di vista, “compresenti”: perché il processo del lavoro, in quanto è attività del lavoratore, presuppone pur sempre che i mezzi di produzione siano usati da lui. Ma non è lo stesso per il capitalista – per “il capitalismo”, e per l’economia politica. Da questo punto di vista, il costituirsi dei mezzi di produzione come capitale, a cui si incorpora il lavoro, è la condizione della produzione di un plusvalore – cosicché la produzione di questo plusvalore come profitto (del capitalista) “appare” come un “risultato” del capitale. Per questo Marx può scrivere che la nozione di feticismo esprime direttamente il rovesciamento dei rapporti (di sussunzione). Il feticismo del capitale (il capitale che produce ricchezza) ha un segreto – la connessione che instaura (capitale-profitto) rimane “inspiegabile”, se non si distingue l’apparenza dalla realtà: il capitale non è un “fattore della produzione”, ma un rapporto sociale – la forma di un determinato (capitalistico) modo di produzione.
49. Ivi, pp. 585-586 (secondo corsivo nostro).
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La dialettica dell’“essere” e dell’“apparire” risulta dunque fermamente ancorata a una distinzione di “livelli di realtà” (non si tratta, in prima istanza, di categorie logiche). La critica dell’economia politica di Marx ha una duplice “fondazione”: la storicizzazione delle categorie (economiche) “coincide” con una ricostruzione sistematica dell’insieme dei rapporti di produzione (“sulla base” del rapporto di proprietà) che postula e verifica una distinzione interna al processo produttivo – il quale rimane, nel suo effettivo svolgersi, doppiamente determinato: dalle condizioni “naturali” del lavoro (che comprendono la soddisfazione dei bisogni) e dalle condizioni sociali, storicamente costituite. La forma delle condizioni di lavoro estraniata dal lavoro, resa autonoma nei suoi confronti e così trasmutata, nella quale quindi i mezzi di produzione prodotti si trasformano in capitale e la terra in terra monopolizzata, in proprietà fondiaria, questa forma appartenente a un determinato periodo storico coincide perciò con l’esistenza e la funzione dei mezzi di produzione prodotti e della terra nel processo di produzione in generale.50
Se questo è il prôton pseudos dell’economia politica, la sua “decostruzione” dipende proprio da questa nozione, di “processo di produzione in generale” – in quanto definisce un livello di realtà che resta “fondamentale”, all’interno del “sistema”. Leggiamo anche ciò che precede: quando […] tutto il lavoro appare per sua natura come lavoro salariato (così si presenta a coloro che sono impigliati nei rapporti di produzione capitalistici) anche le determinate, specifiche forme sociali, che le condizioni materiali di lavoro […] assumono rispetto al lavoro salariato (che è a sua volta un presupposto di queste condizioni) coincidono senz’altro con l’esistenza materiale di queste condizioni di lavoro o con la forma che esse in generale hanno nell’effettivo processo lavorativo, indipendentemente da ogni forma sociale storicamente 50. K. Marx, Il Capitale, libro III/2, cit., pp. 937-938.
410 determinata di questo, anzi indipendentemente da ogni sua forma sociale.51
Si sarà notato che anche qui Marx utilizza una dialettica dell’“esistere” e del “presentarsi”, e che questa dialettica si fonda direttamente sulla distinzione tra «effettivo processo lavorativo» e «forme sociali storicamente determinate» di questo. Nella pagina precedente aveva scritto: «[parlare di] salario o prezzo del lavoro è soltanto un modo irrazionale di esprimere il valore o il prezzo della forza lavoro; e le condizioni sociali determinate in cui questa forza lavoro è venduta [cioè diventa, propriamente, forza lavoro: merce che il capitalista può comprare] non hanno nulla a che vedere con il lavoro in quanto agente generale della produzione»52. Se volessimo esprimerci nei termini, che consideriamo “datati”, del rapporto tra “storia” e “struttura”, potremmo dire che c’è in Marx un primato metodologico (o epistemologico) del “sincronico” sul “diacronico”; ma che la loro articolazione (tanto nel modello “esplicativo” che per le possibili “dinamiche” del sistema) dipende dall’individuazione nel sincronico di un livello o piano (di “realtà”) che sia permanente (o trasversale, diacronicamente). Per dirla in altri (e forse più perspicui) termini: l’effettivo processo lavorativo è una realtà, concretamente “esperibile”, all’interno di tutti i diversi modi di produzione (nel rapporto tra lavoro vivo e mezzo di produzione). Esattamente come, abbiamo letto nelle Teorie sul plusvalore, l’incorporazione del lavoro vivo al capitale è l’elemento comune a tutte le forme di produzione capitalistica, dalla meno alla più sviluppata, ci sono caratteristiche essenziali del processo produttivo che sono comuni, permanenti, in tutte le (ognuna delle) forme sociali storicamente diverse che il processo stesso assume.
51. Ivi, p. 937 (corsivi nostri, ad eccezione dell’ultimo). 52. Ivi, p. 936.
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Ci sono però, nello “sviluppo” della forma di produzione capitalistica (in senso sistematico), “effetti di realtà” di complessità crescente, in funzione delle condizioni in cui l’effettivo processo lavorativo si svolge; ivi compreso l’effetto di “occultamento” (o rimozione) della sua propria “base”. Un esempio particolarmente chiaro è quello del rapporto tra “sussunzione formale” e “reale” del lavoro al capitale (a cui infatti Marx si riferisce, in Teorie sul plusvalore, subito dopo il passo che abbiamo citato). L’opposizione tra i due termini non ricopre, a prima vista, alcuna distinzione del tipo apparenza/realtà: il primo rapporto (la prima “forma”) è quello in cui il “contenuto” della prestazione lavorativa rimane sostanzialmente immutato (così come, cioè, sarebbe stato “al di fuori” del rapporto); nella seconda invece – via via che il capitale “si incorpora”, nella gestione del lavoro vivo, sviluppi tecnologici, manageriali, ecc. – la concreta attività lavorativa “cambia” – l’individuo che lavora non produce più come (non solo quanto) farebbe, o potrebbe fare, “per conto suo”. A mano a mano che la sussunzione “formale” si trasforma in “reale” appare (è) che l’intero processo produttivo, non solo per la sua forma sociale, ma nella sua materialità (e anche soggettività), dipenda dall’esistenza del capitale – e così appunto, tra l’altro, il capitale diventa quello che non è. Per tutti coloro che sono “coinvolti” nella produzione (o per la coscienza “immediata” che ne hanno – e per il “sapere” che la società ha di se stessa) il capitale, e non il lavoro, è l’«agente generale della produzione» – come abbiamo visto sopra (“feticismo” del capitale): il capitale “produce”. Su questa questione, il “luogo classico”, quanto alla prima “forma”, è nel libro I del Capitale53; per la seconda, Marx lì rinvia a una trattazione ulteriore, che si viene poi svolgendo in ampie sezioni, in particolare la quarta, La produzione del plusvalore relativo, con i capitoli su manifattura e industria, macchinismo, ecc., per culminare nella quinta, 53. Cfr. K. Marx, Il Capitale, libro I, cit., p. 219.
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La produzione del plusvalore assoluto e del plusvalore relativo, da cui possiamo trarre questa citazione: «non basta affatto che il capitale s’impossessi del processo lavorativo nella sua figura storicamente tramandata ossia presente, e poi non faccia altro che prolungarne la durata. Il capitale non può fare a meno di mettere sotto sopra le condizioni tecniche e sociali del processo lavorativo, cioè lo stesso modo di produzione [qui vuol dire, specificamente, il “modo di produrre”], per aumentare la forza produttiva del lavoro»54 – con quel che segue. A partire dal rovesciamento dei rapporti, giusta l’espressione che conosciamo, nasce quello che Marx chiama un mondo stregato (due volte, a breve distanza, nel III libro: rispettivamente «mondo stregato e capovolto»55 e «mondo stregato, deformato e capovolto»56). Nella prima occorrenza dell’espressione Marx la specifica («il capitale diviene già una entità molto mistica») riferendola al fatto che «tutte le forze produttive sociali del lavoro appaiono come forze appartenenti a lui [al capitale] e non al lavoro come tale, nate dal suo grembo»; nella seconda, parla di una «diretta fusione dei rapporti di produzione materiali con le loro forme storico-sociali». Affiora costantemente in queste pagine l’idea di una “seconda natura”, che corrisponde alla «materializzazione dei rapporti sociali», e spiega la «mistificazione del modo di produzione capitalistico»57: i «mezzi di produzione sono in sé e per sé, per natura, capitale; […] e così la terra in sé e per sé, per natura, è la terra monopolizzata da un certo numero di proprietari fondiari. […] il capitale e la terra monopolizzata devono apparire parimenti come forma naturale delle condizioni di lavoro nei confronti 54. Ivi, p. 354. 55. K. Marx, Il Capitale, libro III/2, cit., p. 940. 56. Ivi, p. 943. 57. Ibidem.
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del lavoro in generale. Essere capitale appare dunque come forma naturale dei mezzi di lavoro»58. E il “confronto”, com’è chiaro, poggia sulla possibilità/necessità di assumere una materialità “sottostante”, nel processo di produzione: che non è quella dei rapporti sociali, ma della «funzione che la terra, i mezzi di produzione prodotti e il lavoro ricoprono nel processo lavorativo semplice», in quanto si svolge «tra l’uomo e la natura»59; poggia sul fatto che «il lavoro come tale, nella sua determinazione semplice di attività produttiva corrispondente a uno scopo, si mette in rapporto coi mezzi di produzione non nella loro forma sociale determinata, ma nella loro sostanza materiale, come materiale e mezzi di lavoro, che parimenti si distinguono tra loro soltanto materialmente, come valori d’uso, la terra come mezzo di lavoro non prodotto, gli altri come mezzi di lavoro prodotti»60. Questa seconda natura non potrebbe “istituirsi”, sostituirsi alla prima, se non «spezzando» e «seppellendo» (occultando), nel suo autonomo sviluppo, il nesso interno, il processo reale, sul terreno delle condizioni sociali, che dà vita ai «fantasmi di Monsieur le Capital e Madame la Terre»61 (facendo insieme del lavoro nient’altro che lavoro salariato). Quel nesso, il fondamento di questo sistematico sviluppo di “forme”, è il rapporto “rovesciato” tra il lavoro e i mezzi di produzione. Non è certo un caso che Marx inserisca, proprio in questo contesto, un riferimento diretto alla “coscienza”. «Se si considera il capitale anzitutto nel processo di produzione diretto, come pompa di pluslavoro [dunque, si precisa subito dopo, in «una sfera non mediata» (dalla sussunzione reale; quella) 58. Ivi, p. 938. 59. Ivi, p. 939. 60. Ivi, p. 938. 61. Ivi, p. 943.
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«del processo diretto tra lavoro e capitale»], questo rapporto [rovesciato: per cui le condizioni sociali della produzione si rendono indipendenti e dominanti rispetto al lavoro] è ancora molto semplice e il nesso effettivo si impone ai depositari di questo processo, ai capitalisti stessi, ed è ancora presente nella loro coscienza»62. Non è un accenno isolato (che pure sarebbe “sufficiente”). Poco dopo, verso la fine di questa settima sezione del terzo libro (sono i tre frammenti del manoscritto che Engels ha accorpato, estraendoli dalla sezione precedente e riunendoli sotto il titolo La formula trinitaria), Marx torna sulla questione del rapporto tra gli agenti individuali della produzione e l’oggettività della loro pratica (sulla «coscienza della prassi esistente»), sulla possibilità di interpretare e dirigere questa pratica: Nell’esporre l’oggettivazione dei rapporti di produzione e la loro autonomizzazione rispetto agli agenti di produzione, non indaghiamo [bisognerebbe per questo estendere il campo dell’analisi] il modo in cui le connessioni per mezzo del mercato mondiale, le sue congiunture, il movimento dei prezzi di mercato, i periodi del credito, i cicli dell’industria e del commercio, l’alternarsi di prosperità e crisi, appaiono a questi agenti come leggi naturali onnipotenti che li dominano riducendoli all’impotenza e che operano nei loro confronti come cieca necessità.63
«Cieca necessità»: lo stesso sintagma usato, in un contesto che già conosciamo, per esprimere la più completa esclusione dal “regno della libertà”, ben al di là di quanto è imposto dalle “necessità materiali”. C’è, in questa proiezione verso i livelli più mediati e complessi del “sistema” (che fanno pur sempre parte di ciò che viene “immediatamente” sperimentato come ambiente naturale-sociale), una sempre maggiore “perdita di 62. Ivi, p. 940 (corsivo nostro). 63. Ivi, p. 944.
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controllo” rispetto alla possibilità di perseguire il proprio fine, di realizzare una pratica coerente con i “dati soggettivi”. Non è solo la coscienza del lavoratore (che non è, immediatamente, coscienza di classe), ma quella stessa del capitalista (o del “borghese”) che si trova in un rapporto oscuro con il proprio “interesse” – in balia di meccanismi “esterni” che trasformano in controfinalità la razionalità delle “scelte”. In un mondo “strutturalmente” mistificato, la mistificazione non può che penetrare nelle (in tutte le) coscienze. Quelli stessi che ne traggono vantaggio, per il “posto” che si trovano ad occupare, possono scoprirsi (si scoprono) sempre di nuovo “esposti” alla precarietà, all’inconsistenza (autodistruttiva) del proprio progetto pratico.
Emancipazione umana e soggetto morale Confidiamo (in ogni caso, dobbiamo fermarci qui) che questo rapido e sommario percorso tra i testi più “maturi” della marxiana critica dell’economia politica aiuti a mostrare come la concreta esperienza degli individui umani viventi rimane centrale, nel marxismo, pur senza essere direttamente (cioè in tutta la sua estensione) messa a tema: si può dire che essa costituisce un “punto di leva”, per la critica della società-economia, in quanto è radicata in un “livello di realtà” che rimane fondamentale per tutte le società umane. In questo senso, il processo di soggettivazione (in quanto non può essere separato da questa esperienza, ma la riflette nella prospettiva della valutazione e della scelta) non è qualcosa che possa “irrompere” nel marxismo soltanto al livello di una prassi cosciente, antagonistica o rivoluzionaria (o addirittura qualcosa di cui si possa senz’altro “fare a meno”, affidando il processo di emancipazione/liberazione alle “contraddizioni oggettive” del capitalismo); esso non potrebbe mai aver luogo se l’individuo, in quanto “essere
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sociale”, non fosse costantemente “attratto” in una percezione di sé che comprende le possibilità e i bisogni della propria “natura” – che sono insieme un “dato” originario e permanente, rapporto con la “natura esterna”, e uno sviluppo storico, una formazione che integra il processo di umanizzazione di questa stessa natura esterna. Su questo terreno, dell’essere sociale, è la duplicità della funzione riproduttiva, attraverso il lavoro, che rappresenta il principale “vettore” dell’individuazione – il principio generatore delle sue diverse “forme”, in contraddizione tra loro; e la problematica della coscienza si configura, prima di tutto, nell’“attraversamento” dei molteplici spessori del condizionamento, con il loro effetto di mistificazione, falsificazione. Se il progetto dell’emancipazione consiste, per citare il bel titolo di una raccolta di interventi di Bruno Trentin, nel passaggio “da sfruttati a produttori” – è evidente che questi termini (e a fortiori il “passaggio”) non hanno senso se non in una (auto)coscienza: non si è “sfruttati” se non si sa di esserlo – cioè se “non si sa” di essere, intanto, “produttori”; altrimenti, in una società capitalistica, non potremmo essere, tutti, che carrettieri o architetti (salariati o capitalisti, disoccupati o falliti). Ma questa questione, della “falsa” e della “vera” coscienza, non può essere messa a tema senza investire l’intero della coscienza – in una considerazione “formale” (diciamo pure: filosofica) della costituzione e delle possibilità del soggetto, e della nozione di “fine”. È questo (non certo l’insufficienza delle sue analisi) che ci porta necessariamente “fuori” di Marx – restando però altrettanto necessariamente “in contatto” con lui: se è vero che la sua “critica” (la sua teoria) presuppone una problematica dell’individuo umano vivente, come ente naturale-sensibile-pratico(cosciente). E solo così, ci sembra, si potrà “restare fedeli” al programma germinalmente contenuto nella nostra lunga citazione gramsciana (sarebbe interessante domandarsi se esso non sia anche in relazione con quell’arricchimento della “teoria della rivoluzione”, che passa attraverso
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il concetto di “guerra di posizione”): quello di considerare l’individuo «come un blocco storico di elementi puramente individuali e soggettivi e di elementi di massa e oggettivi» con i quali è in rapporto attivo; mantenendo che «la sintesi degli elementi costitutivi dell’individualità è “individuale”»64. Nella letteratura marxista dopo Marx non si può dire, almeno tenuto conto della sua mole, che il tema dei rapporti tra “marxismo” e “morale” occupi un grande spazio; lo si circoscrive, di solito, nell’ambito del così detto “austromarxismo” (che non può qui interessarci, per il contesto filosofico essenzialmente neo-kantiano in cui si elabora). Una “spia” per noi più interessante della sua pertinenza può esserci fornita da un episodio certamente molto “minore”, che presenta però alcuni tratti di esemplarità: perché lo si deve a un autore (destinato a diventare, a nostro avviso, il filosofo marxista par excellence del Novecento) appena “convertito” al marxismo, avendo già prodotto risultati importanti nell’ambito di una filosofia “soggettivistica” della cultura; perché consiste in due piccoli scritti militanti – strettamente legati all’attualità della politica rivoluzionaria, nel “biennio rosso” europeo del primo dopoguerra; e perché in questi due scritti la parola “morale” compare fin dal titolo – e il concetto viene utilizzato, per così dire, nella sua accezione più “immediata” o comune. Stiamo parlando di Lukács, durante o subito dopo la sua esperienza di commissario del popolo nella repubblica ungherese dei consigli, e ci riferiamo a due scritti pubblicati in traduzione italiana nella raccolta Scritti politici giovanili. 1919-1928; i due titoli sono Il ruolo della morale nella produzione comunista e La missione morale del Partito comunista65.
64. Cfr. supra, pp. 389-391 e nota 34. 65. G. Lukács, Il ruolo della morale nella produzione comunista e La missione morale del Partito comunista, in Id., Scritti politici giovanili. 1919-
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In tutti e due questi articoli Lukács pone il problema dell’effettiva costruzione del socialismo – dopo la presa del potere. E discute (nel secondo, a proposito di una campagna del partito russo sui “sabati comunisti” – prestazioni volontarie di lavoro) della funzione indispensabile che assume a questo fine il comportamento libero, la scelta volontaria dei lavoratori, nella quotidianità della vita sociale (e rispetto alla produzione). Il fatto che i lavoratori, per esempio, si mobilitino spontaneamente per aumentare la produzione (avendo compreso, “interiorizzato”, che la ricchezza collettiva gli appartiene – talché il sacrificio dei loro interessi immediati, più tempo libero, più riposo, ecc., si presenta a ciascuno come la scelta più razionale, in rapporto al fine) – questo fatto esprime il cambiamento, la novità del comunismo: nella nuova società, nata dalla rivoluzione, non è più la costrizione politico-giuridica, ma il libero e concorde determinarsi degli individui che “tiene insieme” la comunità, che permette di raggiungere gli obiettivi comuni. «L’obiettivo finale del comunismo è l’edificazione di una società in cui la libertà della morale prenderà nella regolamentazione di tutte le attività il posto della funzione coercitiva del diritto»66. Ma ciò non potrà avvenire come un semplice “risultato” dell’evoluzione – una volta che sia materialmente rimossa, al livello dei rapporti economici, la separatezza “strutturale” fra l’individuo produttore e la ricchezza sociale. Quando non ci sono più le classi, ma “solo” gli individui (già nella fase della “transizione” al comunismo), è dall’orientamento pratico-ideale di questi individui che dipende, intanto, la possibilità per la «democrazia del proletariato» di «assorbire», progressivamente, l’elemento
1928, tr. it. di P. Manganaro e N. Merker, intr. di P. Manganaro, Laterza, Bari 1972, risp. pp. 65-72 e pp. 94-103. La nota editoriale ignora data ed estremi di pubblicazione del secondo, che però certamente non è successivo al 1920-’21; il primo è del ’19. 66. G. Lukács, Scritti politici giovanili, cit., p. 65.
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della «dittatura»67. Altrimenti: «Poiché il mutamento delle forme di governo non può contemporaneamente portare con sé anche il mutamento interiore degli individui, penetrano necessariamente nelle istituzioni sovietiche tutti i fenomeni deteriori della società capitalistica (burocrazia, corruzione ecc.); esiste il grave pericolo che queste istituzioni degenerino o si fossilizzino ancor prima che possano realmente costituirsi»68 (non è certo necessario insistere su quanto di lucidamente “profetico” è in questo giudizio). Non è il governo, l’istituzione, ma il partito (l’elemento soggettivo) che può “farsi carico” di questo «spirito» di una «nuova umanità» – da cui dipende che la società nuova non finisca con l’essere una «ripetizione in una nuova forma della vecchia società»69. E nell’articolo precedente, in altre parole: finché «il proletariato esercita […] la dittatura anche su se stesso», l’«ordinamento giuridico [che ne deriva] non potrà essere eliminato automaticamente»70, perché tenderà a riprodursi; ma questo momento è giustificato solo in quanto ancora «manchi [negli individui] l’esatta nozione e l’orientamento spontaneo verso gli interessi di classe»71 – che sono, nella società senza classi, gli interessi di tutti. Siamo, a prima vista, in una ripresa di temi che ci sono familiari dalla Critica del programma di Gotha – la definizione del comunismo come pratica intersoggettiva fondata su (e che rende possibile la) spontaneità individuale. Ma qui Lukács insiste sul lavoro di trasformazione e autotrasformazione degli individui (e l’attività pedagogica, sul terreno dell’autocoscienza, del partito) – e non solo “prima” che l’insieme delle condi-
67. Ivi, p. 68. 68. Ivi, p. 101. 69. Ibidem. 70. Ivi, pp. 70-71. 71. Ivi, p. 70.
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zioni sociali (compresa l’abbondanza della ricchezza prodotta) renda “effettivo” il comunismo (e come fattore indispensabile per il “passaggio” a questa fase) ma anche “prima” della rivoluzione, della presa del potere – e conseguente “abolizione delle classi”. Ciò e tanto chiaro che sente a un certo punto il bisogno (dopo aver scritto: «il passaggio dalla vecchia alla nuova società non significa un mutamento soltanto economico e istituzionale, bensì in pari tempo anche morale») di “mettere le mani avanti” (avendo, non foss’altro che per il suo passato, già tutte le ragioni di temere la diffidenza degli “ortodossi”): «Non […] si fraintenda: nulla ci è più estraneo dell’utopismo piccolo-borghese di coloro che riescono a concepire un cambiamento della società solo in conseguenza del cambiamento interiore degli uomini»72. E ha certo tutto il diritto e tutte le ragioni di distinguersi da una tipica mistificazione dell’ideologia borghese, “classica” giustificazione del quietismo politico (“gli uomini essendo quello che sono…”). Ma resta (le “mani avanti” di Lukács non saranno mai un cedimento sull’essenziale) che un vero «cambiamento della società» (che è non solo il fine, ma anche la necessità-giustificazione della rivoluzione) non si realizzerà senza questo «cambiamento interiore degli uomini»73. Nessuno potrà impedire a un “ortodosso” si sobbalzare, quando legge, sottolineato, che «la libertà non può essere solo un frutto o un risultato dell’evoluzione, ma è necessario che [almeno “a un certo punto”] […] rappresenti una delle forze propulsive»74. Ci è già capitato di osservare che il marxismo (o il comunismo) non hanno “inventato” la libertà. Chi legga questi due scritti osserverà certamente che in essi non si usa mai l’espressione 72. Ivi, p. 97. 73. Ivi, pp. 97-98. 74. Ivi, p. 98.
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“morale comunista” (si trova, una volta, «morale di classe»: è chiaro, vedremo subito, che solo i proletari, “prima” e “dopo” l’abolizione delle classi – in quanto “produttori” – sono i depositari “naturali” di una morale capace di regolare “spontaneamente”, senza costrizione, lo scambio tra ciascuno e tutti). Abbiamo già avvertito, introducendoli, che in essi il “contenuto” della morale è essenzialmente presupposto; c’è un solo passaggio in cui se ne può trovare un accenno di definizione: la coscienza morale è ciò «che permette a un individuo di subordinare ai suoi veri interessi le proprie inclinazioni, i moti dell’animo e gli umori momentanei»75 (il lettore non ci accuserà di diffidenza nei suoi confronti se avvertiamo che non si tratta qui di un principio “repressivo”, ma di un’organizzazione unitaria – e quindi anche “gerarchica” – di inclinazioni passioni umori alla luce dell’interesse – vero). Ripetiamo che è soltanto ovvio che questa coscienza (altre volte: «livello morale») sia per così dire “attribuita di diritto” (come possibilità effettiva, e forza storica) ai “proletari”: è in loro che l’interesse individuale “bene inteso” (il riferimento a questa “esatta valutazione”, potremmo dire un nêphôn logismos, è costante) si trova “strutturalmente” in accordo con quello “di tutti” (in altri, più familiari termini: solo la classe operaia, la classe dei produttori, è, potenzialmente, “classe generale”). Ci sono dunque entrambe le condizioni che possono sostenere, in generale, una “idea” di morale: il legame costitutivo con l’essere “vero” dell’individuo, e la possibilità dell’universalizzazione, di pensare o riflettere questo essere come un “comune”. Ma è quanto mai significativo che entrambi questi caratteri, e il loro nesso, siano perfettamente pensabili (appunto: in una idea della morale) anche al di fuori (prima) dell’effettivo costituirsi di una società senza classi (di individui-produttori). Non solo questo
75. Ivi, p. 65.
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“livello morale” dev’essere raggiunto dagli individui che compongono la classe già “prima” della rivoluzione (per farla; e per farla “bene”); se guardiamo agli “altri” individui, ai “borghesi”, troviamo che il problema morale non si pone in termini diversi – salvo (ciò naturalmente è in sé importantissimo) per la funzione sociale che può concretamente assumere. «La borghesia poteva riconoscere la morale […] solo come un principio che esulasse dalla divisione in classi e dall’esistenza di una classe [par di capire: dal suo proprio esistere come classe], insomma come morale individuale»76. “Individuale” qui non vuol dire, ovviamente, “che sta nell’individuo”; vuol dire che il borghese può “riconoscere la morale” solo in quanto considera se stesso come individuo – e non come agente sociale (“personificazione”, in vario modo, del capitale). “Agire” secondo l’esigenza morale (“sentire” il proprio interesse come intimamente legato al “comune”) non sarà per lui possibile, dice Lukács, che a «un livello di cultura umana»77 molto alto (che gli consentirebbe di percepirsi, come individuo, autonomamente e eventualmente in contrasto con il proprio essere-di-classe; fino a diventare, secondo una classica espressione, un “traditore della propria classe”). Resta dunque che la società divisa in classi impedisce alla morale di diventare il principio di una spontaneità regolatrice; ma resta anche (il riferimento alla cultura umana, al suo livello, non lascia dubbi) che questa morale, nella sua forma ideale, è già data (già elaborata, e potenzialmente conosciuta) per (tutti) gli individui. C’è qui, ci permettiamo di aggiungere, come il “germe” di un tema che rimarrà poi sempre centrale in Lukács, quello dell’“eredità culturale”: nel processo di emancipazione/liberazione del proletariato (del lavoro, dell’umanità: per «il passaggio dall’asservimento e dalla reificazione alla
76. Ivi, p. 68. 77. Ibidem.
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libertà e alla vera condizione umana»78) saranno realizzati, “inverati” i risultati “più alti” (tuttora inoperanti, come principio di regolazione sociale) di tutto il patrimonio culturale storicamente elaborato (e non solo l’eredità “diretta” della “borghesia progressiva”). Questi piccoli testi (che abbiamo scelto anche per la loro “maneggevolezza”) non sono certamente “eretici”, rispetto al marxismo. Essi però sembrano implicare una “correzione” – la cui portata “revisionistica” è, a nostro avviso, assai modesta: la morale non è, propriamente, una “sovrastruttura”. Quando Marx, in più occasioni, insiste sul “potere” della struttura economica, come base della riproduzione sociale, di determinare la coscienza degli uomini, si trova suo malgrado all’origine di quella che è stata, per tanto tempo, forse la più tipica espressione di un “marxismo volgare”. Da subito, si può dire (per esempio in celebri lettere del vecchio Engels), il pericolo è stato avvertito; ma esorcizzato, per lo più, con precisazioni (o “attenuazioni”) non del tutto esenti da verbalismo – dalla autonomia relativa delle diverse “sfere” della sovrastruttura, al carattere determinante solo in ultima istanza della struttura. Vorremmo osservare, intanto, che quando ci si riferisca specificamente ai pensieri e alle opere (la creatività filosofica, artistica, e anche scientifica), il problema che in realtà si pone, “in buon marxismo”, è quello del loro rapporto con l’ideologia (la critica dell’ideologia rimane un acquisto definitivo). Una dottrina filosofica, un’opera d’arte, possono sempre esser poste in relazione con un determinato, chiamiamolo, “abito culturale sociale”: con le idee dominanti, in quanto sono funzionali alla riproduzione dei rapporti sociali. Ma è poco dire che questo “lato” dell’indagine non ne “esaurisce” significato e valore (o che questo “valore”, specificamente filosofico o estetico, è proprio ciò 78. Ivi, p. 98.
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per cui “sfuggono” alla determinazione ideologica). La “soluzione” – perché l’“autonomia relativa” abbia, in quest’ambito, un senso preciso – sta in una specifica distinzione di funzioni: quella per cui si riflettono, nel pensiero e nell’arte, bisogni e possibilità che la coscienza (individuale) trae dall’insieme delle proprie esperienze, dal molteplice delle proprie pratiche (comprensione di sé, rapporto con gli altri, conoscenza del mondo circostante, della natura, ecc.), non coincide con la “trasmissione” di contenuti ideologici preesistenti, che ri-producono nella coscienza degli agenti sociali la “regola” dei rapporti vigenti. Nel luogo “canonico” in cui rimane consegnata, in particolare per il “marxismo volgare”, la distinzione di struttura e sovrastruttura (Per la critica dell’economia politica. Prefazione) Marx ha scritto: «L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale»79. Questa frase va analizzata, ovviamente, “alla lettera”. Il termine sovrastruttura è usato specificamente in rapporto a due “sfere”, giuridica e politica; per il resto, Marx non ricorre alla metafora architettonica, ma a un rapporto di corrispondenza – che vale per «forme determinate della coscienza sociale». Dunque, non: “la struttura economica determina la coscienza”; in una «coscienza sociale» si troveranno sempre «forme determinate» che corrispondono alla «struttura economica della società» (e che sono funzionali alla sua riproduzione). Poco dopo, Marx introduce le «forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche», sullo stesso piano, come una suddivisione (o nomenclatura) delle «forme ideologiche»; ma questo non può evidentemente togliere al “diritto” e alla “po-
79. K. Marx, Per la critica dell’economia politica. Prefazione, in K. Marx F. Engels, Opere scelte, cit., p. 747.
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litica” il ruolo assolutamente privilegiato, come “nomi” della sovrastruttura, che la formula iniziale assegna loro. Nella seconda occorrenza, in quanto forme ideologiche, esse sono “assimilate” a religione arte filosofia – perché, in quanto, agiscono nella coscienza individuale come strumenti o schemi per interpretare e giudicare la realtà sociale conformemente alle sue proprie esigenze di riproduzione/stabilizzazione (oppure, nelle epoche di crisi, di cambiamento). Il privilegio che compete, come “sovrastrutture”, al diritto e alla politica (quest’ultima, ovviamente, in quanto apparato del potere statale, territoriale-amministrativo; per quanto riguarda la “lotta politica”, siamo piuttosto nel campo dell’ideologia – e del suo eventuale “superamento”: così, per esempio, il primo formarsi di una “coscienza socialista” sarà ancora fortemente impregnato di ideologia – ovviamente “borghese”, o pre-borghese – laddove il “socialismo scientifico”, come guida del movimento, non è certo “tecnicamente” una ideologia); questo privilegio, dicevamo, è facilmente comprensibile: nella metafora architettonica non può esservi “base” se non in funzione di sostegno – di un determinato “edificio”. Il rapporto di necessità o di implicazione vale in realtà nei due sensi: se un dato sistema giuridico e politico è determinato da una certa “base” (economica), lo sarà appunto in quanto quest’ultima “funziona” anche, necessariamente, “producendolo” – e lo produce per poter “adeguatamente”, per se stessa, funzionare. È quanto mai significativo che Marx “assegni” la religione piuttosto al dominio ideologico che a quello esattamente definito come “sovrastruttura” – nonostante il ruolo storico che le varie credenze religiose hanno avuto (possono avere) nel mediare (anche sul piano normativo) il funzionamento della “base materiale”. È sufficiente, diremmo, il suo acutissimo senso storico per avvertirlo (anche “profeticamente”) che il capitalismo, o un capitalismo, può anche “fare a meno” (a differenza che del diritto e della politica) della religione (come determinato
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complesso di dottrine, e anche come “religiosità”, bisogno o soddisfazione “spirituale”). Essa dunque si trova, giustamente, nella sequenza del testo, “più vicino” all’arte e alla filosofia che al diritto e alla politica: una forma di coscienza che avrà una determinata funzione ideologica quando corrisponda al compito di riprodurre, rafforzare, disposizioni soggettive necessarie per il “buon funzionamento” della struttura (di creare una adeguata, corrispondente, «coscienza sociale»). Ma, come forma di coscienza che necessariamente si “particolarizza” nei singoli individui, non si potrà, nemmeno la religione, “esaurire” in questa funzione. Essa, per esempio, attinge certo una parte della sua efficacia nella coscienza individuale al “vissuto” della mortalità, alla prospettiva di un’esistenza ultraterrena, ecc. – e abbiamo visto nel capitolo precedente come tutto ciò si trovi in rapporto, anche, con un’esperienza della vita sociale che arriva a “investire” il significato stesso della morte, come evento o destino individuale; in questo senso, si può dire che il sentimento religioso esprime una «coscienza sociale» – quella che sostiene e utilizza (“funzionalizza”) riti, culti, dottrine. Ma (lo vedremo meglio nel prossimo capitolo) questo non vuol certo dire che le diverse figure della credenza e dell’incredulità si formino, nell’individuo (per esempio nel modo di “sentire” la propria mortalità) – e possano essere adeguatamente “comprese”, o discusse – come un “riflesso” del suo essere sociale. Del resto c’è, nei “classici”, almeno un esempio preciso di come una sommaria assimilazione delle “forme di coscienza” all’ideo logia, e dell’ideologia alla “sovrastruttura”, non possa dar conto di tutto ciò che secondo una lettura frettolosa del testo “canonico” potrebbe esservi compreso; e riguarda l’arte. Non ci riferiamo alla celebre “battuta” dell’Introduzione del ’57 sul permanente “valore” dell’arte greca (che pure sarebbe di grande interesse in questa prospettiva, “al netto” del condizionamento eurocentrico che pure vi traspare); ma all’altrettanto celebre (perfino troppo, per chi abbia una qualche familiari-
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tà con il tema “estetica e marxismo”) lettera a miss Harkness (1888)80, in cui Engels parla dei romanzi di Balzac (riecheggiando puntuali e ripetuti giudizi di Marx). Questo testo non lascia dubbi: i romanzi di Balzac “dicono la verità”, ci procurano un accesso diretto al “significato umano” del mondo rappresentato – quale che fosse l’ideologia del loro autore, e anche in formale contrasto con questa (e anche, come in questo caso, quando l’artista si spinga a dichiarare il proposito di “illustrare”, con la sua opera, questa ideologia). Engels “rafforza” la sua tesi – che è quella di una differenza “essenziale” tra arte e ideologia: c’è in Balzac, oltre che una “coscienza ideologica”, anche una “coscienza di romanziere” – ricorrendo a un paragone con Zola: artista meno “grande” (meno capace di “ricreare” nel romanzo la “verità” del mondo) nonostante che la sua propria ideologia (opposta a quella di Balzac: “progressista”) sia in sé, per così dire, meno “falsa”. L’arte dunque (per esempio il romanzo) ha in sé un compito (o una funzione), e può realizzarlo, al tutto distinto (opposto) rispetto all’ideologia. Anche se naturalmente nelle sue creazioni sarà sempre possibile scorgere il deposito delle “idee che una società si fa di se stessa” – con tutte le relative “funzioni” di (auto)mistificazione. Il fenomeno dell’arte, se lo consideriamo come una forma generale di oggettivazione, come “produzione artistica”, ha una costitutiva duplicità; comprende, per citare il più grande successo europeo dell’Ottocento nel genere del romanzo, anche Paul de Kock – che oggi possiamo leggere, appunto, solo come “documento” ideologico. Questa situazione può essere rappresentata, se si vuole, come una “sporgenza” delle forme di coscienza rispetto a ogni singola (ancorché massiccia, pervasiva, ecc.) “determinazione”;
80. In K. Marx - F. Engels, Scritti sull’arte, ed. it. a cura e con intr. di C. Salinari, Laterza, Roma-Bari 19745, pp. 159-163.
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come una maggiore “ampiezza” del processo in cui i contenuti della coscienza si formano, rispetto alla valenza che possiamo loro assegnare in quanto siano “adattati” alla realtà sociale. La morale, come (auto)determinazione della coscienza in funzione dell’azione e della valutazione, si riferisce sempre a un “insieme” – così come si “organizza”, nella coscienza individuale – di contenuti e di esperienze (un molteplice, un multiforme); e la “regola” di questa organizzazione non può essere unicamente ricavata nel filtro o nello schema (di “unificazione”) prodotto dall’essere sociale dell’individuo. Se così fosse, ogni individuo sarebbe, essenzialmente, una “tipizzazione” (è questa la conseguenza necessaria di un’accezione letterale della formula: l’essere sociale determina la coscienza); per quante “particolarità oggettive”, in quest’essere sociale, si sia disposti a riconoscere (che rimarrebbero comunque suddivisioni interne, sottosistemi, del “tipo” o classe). Possiamo e dobbiamo, certo, considerare (non: la morale, ma) le morali (a qualsiasi livello di elaborazione filosofica) in rapporto a “forme di valorizzazione” che riflettono (ciò vale anche per le “poetiche” artistiche) un determinato insieme di rapporti sociali, e che hanno un ruolo nella riproduzione e nell’adattamento del/al “sistema”. Ma dobbiamo, anche, “prendere sul serio” ciò che ne definisce intrinsecamente il progetto: costruire un’esperienza possibile della libertà del volere, l’esperienza di un rapporto autonomo tra “soggetto” e “verità”, utilizzando le possibilità di un conoscere “razionale” – il che significa in pari tempo costruire la possibilità della distanza critica, rispetto al condizionamento sociale. Non è possibile nemmeno impostare il tema di una discussione tra “marxismo” e “soggettività” se il processo di soggettivizzazione – percorso interno a una coscienza individuale, che produce il senso e la ragione di una “condotta” – viene completamente riassorbito nella dimensione dell’ideologia (salvo poi far apparire, un po’ magicamente, in funzione del progetto rivoluzionario, la “coscienza vera” e il “soggetto”). Ma nemme-
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no è possibile se questa, per così dire, “fuoruscita” dall’ideo logia rimane rigidamente vincolata, nella sua formazione, a una particolare esperienza dell’essere sociale – quella, nella società capitalistica, del lavoro produttivo e dello sfruttamento. Riferiamoci ancora, un’ultima volta, a Cesare Luporini, che si è provato a sviluppare questo tema nel contesto di una discussione con Sartre (che però poi in realtà non c’è). Il saggio Marxismo e soggettività parte da una preoccupazione espressa da quest’ultimo, intervenendo a un colloquio romano nel 1961: che rispetto alle «grandi leggi dialettiche che producono i sistemi» i soggetti umani, individuali, non finiscano con l’apparire come «poveri moscerini che fanno ciò che possono o ciò che vogliono», comunque «non granché», della propria soggettività, appunto81. Preoccupazione (o «obiezione») che va presa sul serio, ammonisce Luporini. Per farlo, intraprende un percorso all’interno del Capitale (e dei Grundrisse) seguendo il filo della posizione che occupa, all’interno del modo di produzione capitalistico, il lavoro produttivo – in cui (nel lavoratore), si trova posta, anche in relazione al consumo, la questione del bisogno e del fine; e lo conduce, questo filo, fino a un luogo che gli appare a questo riguardo conclusivo, gli ultimi capitoli del Capitale, e in particolare quello sulla formula trinitaria – visto sostanzialmente (lo abbiamo fatto anche noi) secondo l’angolo della contraddizione fra due diverse “finalità”: quella che permane negli agenti diretti della produzione (poiché è intrinseca all’“effettivo processo lavorativo”), e quella specifica che nasce dal “rovesciamento” del rapporto tra questi agenti e il loro lavoro, che istituisce il “comando” delle condizioni sociali del lavoro su questo stesso lavoro (il quale rimane pur sempre, per il lavoratore, strumento necessario di soddisfazione del bisogno e appropriazione del prodotto). Il problema della soggettività, 81. Cfr. C. Luporini, Marxismo e soggettività, in Id., Dialettica e materialismo, cit., p. 125.
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o soggettivizzazione, si pone allora direttamente nei termini del controllo sulla produzione (e sulla ricchezza prodotta) – la cui esigenza viene per così dire a radicarsi nella coscienza del lavoratore (egli arriva a pensarsi come “soggetto”, in rapporto al “fine” della produzione). E infatti Luporini conclude la sua analisi con una lunga citazione, apparentemente eccentrica (ma introdotta da un esplicito “passaggio di piano”: alle «potenzialità» – oggettive – «di una società diversa (comunistica)»; che non riproduciamo perché è troppo lunga, ma in cui Marx descrive, in una delle ultime pagine del Capitale, come, quando l’intero processo sarà controllato o comandato dal lavoro, il rapporto lavoro necessario-plusvalore-consumo-riproduzione sociale potrà trovare la propria misura e la propria regolazione nella soggettività dei bisogni (degli individui che compongono la collettività)82. Tutto questo è naturalmente, in quanto “lettura” di Marx, perfettamente “giusto”. Ma è evidente che non risponde affatto al problema (all’obiezione) di Sartre. Luporini “evacua”, del tutto consapevolmente, la dimensione della “generalità” – per cui il problema dell’autocoscienza si pone nello stesso modo per tutti gli individui che agiscono nella vita sociale (o che sono “coinvolti” nel processo storico). L’imputazione, per così dire, all’individuo “in generale” di una effettiva possibilità di soggettivizzazione è subordinata a una preliminare suddivisione in due grandi “campi” (del tutto coerentemente, se deve ricavarsi in un sapere specifico della società, quanto al sistema dei rapporti che ne formano la “base” produttiva-riproduttiva): i capitalisti (o “borghesi”) e gli operai. È vero che Luporini segnala come la «situazione» descritta (quella del «modo di produzione capitalistico») «condiziona ogni soggetto individuale»
82. Cfr. ivi, pp. 148-149.
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(nel «campo sociale»)83; ma i soggetti individuali rimangono irrimediabilmente “distinti”, proprio in ciò che dovrebbe costituirli come tali – cioè la possibilità di “resistere”, o “superare”, o interpretare “soggettivamente”, il condizionamento. Quando Luporini affronta il tema del capitalista come personificazione del capitale, si trova assai vicino alla situazione che abbiamo incontrato nella nostra ultima citazione dal Capitale (la “distanza” in cui il capitalista viene a trovarsi, rispetto alla sua coscienza “vera” di sfruttatore, quando verifica la propria personale impotenza – rispetto alle “complicazioni” del sistema). Ma da questa situazione egli trae deduzioni opposte a quelle che abbiamo creduto di poterne ricavare: non è la coscienza del capitalista (il capitalista come “persona”) che “entra in crisi”, quando, invece che “fronteggiare” l’operaio, per estorcergli il plusvalore, deve «fronteggia[re]»84 gli altri capitalisti, e quindi il mercato mondiale, il ciclo, la concorrenza (“entra in crisi”, vogliamo dire, perché passa dalla coscienza del comando e della finalità che imprime al processo produttivo a un’altra, della sottomissione alla «cieca necessità», perché il “reale” di quello stesso processo gli si manifesta come irrazionale – parola ricorrente in Marx – rispetto al suo “progetto” – il che, vorremmo aggiungere, non è certo privo di interessanti implicazioni socio-politiche); quello che conta, è che la sua stessa esistenza di “singolo” capitalista, con gli scarti e gli squilibri in cui è coinvolta, «appartiene necessariamente al funzionamento del sistema»85. Le “due” soggettività, del capitalista e dell’operaio, sono dunque in principio, al tutto eterogenee (e non resta posto per eventuali, e pur menzionati, “altri soggetti”): la prima è interamente costituita (compresa) nella “finalità immanente” della produzione (capitalistica) del plusvalore, mentre la 83. Ibidem. 84. C. Luporini, Marxismo e soggettività, cit., p. 141. 85. Ibidem.
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seconda, poiché rimane ancorata al bisogno, contiene o esprime una finalità “trascendente” (quel dato insieme di rapporti di produzione). E Luporini può senz’altro concludere che la «soggettività del capitalista, e quindi delle classi dominanti, ha praticamente scarsissima importanza – rispetto al meccanismo del sistema [poiché vi si identifica] – nonostante il peso (e quindi l’importanza) delle ideologie che quelle classi esprimono»86 (affermazione che poi ne contiene anche un’altra, che nella soggettività borghese, a differenza che in quella operaia, ogni eventuale “scarto” rispetto a questo meccanismo si trova già per definizione – non potendo “fondarsi” su una “autocoscienza vera” – assorbito nell’ideologia). Certo (lo abbiamo letto anche adesso: «rispetto al meccanismo del sistema») la logica di questo discorso è specificamente legata al punto di vista prescelto. Luporini (“rispondendo” a Sartre) non discute della “soggettività umana”, ma di una “forma-soggetto” che si possa ricondurre a (ed essere operante in) un meccanismo sociale (nella struttura economica della società capitalistica); e ottiene, in questo senso, risultati probanti. Ma se, in quanto marxisti, siamo interessati alla soggettività “solo” in quanto si produca “nei limiti”, per così dire, del meccanismo sociale, e interagisca specificamente con esso, allora ogni discussione con le “filosofie del soggetto” (e le filosofie morali) diventa impossibile o inutile (anche quando queste filosofie “accettino” di comprendere nella propria elaborazione il “fatto” della vita sociale, e di riferirsi, per l’analisi di questo “fatto”, prioritariamente al marxismo). Se invece pensiamo che gli individui come tali sono impegnati, nel complesso della loro vita (e dunque in un contesto “sociale”) in una relazione attiva al mondo che comprende la formazione di un giudizio morale, la verifica razionale dei fini personali, ecc. – allora non potremo
86. Ivi, p. 149.
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che cercare gli strumenti per darne conto, per riflettere le possibilità e le scelte che in questa relazione si formano, anche “al di fuori” della coerenza sistematica di quello specifico “oggetto” che Marx ha teoricamente costruito (in quanto determini una forma-soggetto); e dunque, in un senso, “fuori” del marxismo (come la trattazione di Luporini, e contrario, dimostra). La questione del punto di vista rimanda dunque, come assai spesso, a una questione di “oggetto”, di differenza di oggetto. L’oggetto proprio di una morale è la “sintesi” (o la “scelta”), nella coscienza individuale, di esperienze contenuti rapporti che li trasforma (attraverso una “gerarchizzazione”) in motivi della volontà, nell’orientamento consapevole (razionale) di una condotta. Oggi noi, per così dire, “la sappiamo molto più lunga” di Marx, quanto agli elementi di “eterodirezione” che intervengono a strutturare questo processo: dopo la linguistica, la psicoanalisi, Foucault (e “l’arte moderna”), dal significante all’“ordine del discorso”, passando per la “funzione simbolica” – sono tutti fattori di “assoggettamento” che operano nella coscienza (e sono tutti ovviamente, compreso il codice della lingua, sociali: si può senz’altro dire che rappresentano, come strumenti concettuali, un approfondimento o sviluppo di quella decisiva scoperta del marxismo che è la nozione (specificamente connotata in senso “critico”) di “ideologia” – avvertendo, però, che la “finezza” del loro modo di operare dipende anche dal fatto che descrivono processi e effetti non direttamente “corrispondenti” alla struttura economica, e che il loro punto di applicazione è l’“immediatezza” del vissuto individuale). Il problema della morale è appunto come poter realizzare, o anche solo “pensare”, lo spazio di autonomia che definisce, per la coscienza dell’individuo, una “reale” esperienza della soggettività. Ma ciò implica che si rivolga l’attenzione, prima di tutto, al “lato soggettivo” dell’esperienza: al modo come l’individuo interiorizza (come reagisce a) tutti i rapporti reali in cui è impegnato (a partire da quelli che ne attraversano il corpo). Su
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questa strada, tra l’altro, non può non emergere il tema della “nevrosi” umana (il tema lucreziano degli uomini come per lo più li vediamo), della “malattia” di Epicuro. La possibilità di un processo di “guarigione” (ovviamente: individuale) non si vede come possa non incidere sul problema della soggettività rivoluzionaria o antagonistica (salvo per quell’aspetto dell’antagonismo che è direttamente prodotto dal meccanismo sociale, ma anche, di norma, “riassorbito” in esso). Non a caso il giovane Lukács, in piena tormenta rivoluzionaria, “si accorgeva” del bisogno di un certo livello morale (o morale-psicologico) come condizione per una “vera” trasformazione della società (ma si potrebbe anche, ovviamente, riferirsi a Gramsci). E sarebbe interessante riflettere, su questa linea, sul perché nel marxismo teorico italiano del secondo Novecento (il cui maggior esponente è per noi, lo si sarà capito, Luporini; anche se è soprattutto quello che poi diventerà un suo “antagonista”, Della Volpe, che ha il merito di aver “preso sul serio” – lavorando per primo in Italia, almeno nell’ambito di un marxismo “ortodosso”, sulle “opere giovanili” di Marx – il tema del rapporto marxismo-morale) non si trovi una vera discussione con il “filone” francofortese – che prende certamente origine in una lettura di Marx, e i cui diversi e successivi avatars arrivano (per una filiazione o ispirazione da lui stesso dichiarata) fino a Foucault. Possiamo forse a questo punto introdurre un esempio particolare, di come la vicenda concreta dell’“individuo sociale” non si possa racchiudere in una teoria (marxista) della società. Prendiamo: la famiglia. Marx e Engels ne parlano, con una certa ampiezza, addirittura nel Manifesto. E il rapporto “privato”, sessuale, tra i coniugi. è direttamente coinvolto nella loro trattazione (come già lo era stato nel Kant della Metafisica dei costumi): il matrimonio come “prostituzione legale”. Questa trattazione è però, ovviamente, svolta nel quadro della funzione sociale della famiglia – per cui essa è un elemento “organico” della riproduzione della società: non nasce da, e non
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consiste nell’“amore” tra gli individui (per non parlare di una “forma naturale” della sessualità), ma “organizza” una certa forma di divisione del lavoro, una certa forma di trasmissione patrimoniale, la gerarchia sociale dei sessi, ecc. Noi sappiamo, anche, che nella famiglia si formano e si sviluppano “strutture” dell’affettività – in particolare, per il bambino. Questo vuol dire che si dà una concreta esperienza, un concreto “effetto”, dell’esserci della famiglia su un altro piano, rispetto all’“essere sociale” – quello appunto dell’affettività. Non è che il bambino “ignori” la funzione sociale della famiglia; essa semplicemente non c’è, rispetto a quel particolare “oggetto” che in essa (famiglia) e per essa si forma (si struttura) – il mondo affettivo del bambino, con le sue evoluzioni, crisi, ecc., e con la sua persistenza nell’età adulta. È del tutto evidente che se vogliamo pensare questo oggetto (ovviamente essenziale, per la costituzione di una “interiorità”) non potremo trovare in Marx nessuno strumento (e nessun particolare “punto di incastro”). Sarebbe soltanto sciocco, in rapporto all’istituto famigliare e alla sua evoluzione, provare a “correggere” Marx con Freud, o viceversa: magari sforzandosi di “tener conto”, quando stiamo parlando della famiglia come fatto sociale, della “triangolazione edipica”, e reciprocamente. Sarebbe sciocco, perché sono (certo: fino a un certo punto; “alla fine”, nel mondo degli uomini, tutto è “sociale”, e tutto è “psicologico”) cose diverse. Potremmo anche ulteriormente “particolarizzare” l’esempio. Prendiamo, nella famiglia, il “ruolo” del padre. Esso incarna, per il bambino, l’autorità; e l’autorità (che è ovviamente cosa diversa dalla breve funzione di supplenza e addestramento che l’animale adulto, in genere la madre, assolve rispetto alla prole) semplicemente non ci sarebbe, non è nemmeno pensabile, senza la vita sociale, collettiva (in cui le funzioni del comandare e dell’obbedire riflettono una stabile e “razionale” distribuzione dei ruoli). È proprio da questa vita sociale, “esterna”, che il padre “riproduce” il proprio ruolo di capofamiglia (e capita,
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per esempio, che sia tanto più “autoritario”, con moglie e figli, quanto meno dispone di autorità sociale). Ma, proprio perché il rapporto del bambino con il padre è “affettivo”, e la sua dipendenza protratta in fasi successive dello “sviluppo”, è nella famiglia che per lui “nasce” l’autorità – ed è concretamente esperita in quel dato, “originale”, complesso (cioè è immediatamente legata agli impulsi corporei, alle pulsioni sessuali, al “ruolo” della madre, all’enigmatico differimento dei bisogni, alla presenza/assenza di un corpo singolare, voce, gesti, ecc.). L’autorità, che nella vita adulta è prima di tutto una funzione sociale, “pratica”, nella famiglia (nello sviluppo psichico del bambino e dell’adolescente) è prima di tutto un fantasma. Se vi “entra” in provenienza da uno standard del funzionamento sociale, vi esce, quando il bambino diventa adulto, rifratta nel prisma di questo fantasma (il che poi non è privo di implicazioni socio-politiche interessanti: ribellismo, servilismo, ecc.; ma l’individuo che ne risulta in parte “costituito” rimane incomprensibile, senza una specifica concettualizzazione psicologica – che non sarà “integrabile”, in una “scienza dell’uomo sociale”, al modo in cui nella scienza della natura si possono “integrare”, poniamo, “modelli” fisici e chimici di analisi e descrizione). Ci si vorrà perdonare, speriamo, questa esemplificazione “a mano libera”. Abbiamo più volte ripetuto che porre la questione del rapporto tra marxismo e morale (o soggettività) non significa richiedere una “correzione” del marxismo (meno ancora, un “colmarne i vuoti”). A meno che non si intenda come una “correzione” qualcosa che non incide, direttamente, sulla sua coerenza interna, ma “complica”, per così dire, l’immagine della “totalità” che se ne può ricavare – quanto al modo in cui questa totalità (sociale), può concretamente diventare “oggetto di esperienza” per l’individuo. Vogliamo alludere a quello che ci sembra l’unico, o comunque il più importante, risultato di un “nuovo” sapere, da “associare” al marxismo,
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nella prospettiva di una efficace descrizione della società e insieme degli individui che in essa agiscono: che non proviene dalla linguistica, dalla psicoanalisi, o dall’antropologia (meno ancora dalla sociologia), ma, com’è in fondo più “logico”, dalla storia, dalla storiografia. Braudel, in particolare, ha elaborato un concetto-guida per la ricerca storiografica degli ultimi decenni: quello di una “struttura” del divenire storico che comprende una diversità (non corrispondenza) di piani temporali, delle diverse “durate” del tempo storico (cioè, in concreto, dei livelli di realtà che si integrano – e intanto si sovrappongono – nell’articolazione di un’“epoca”, di un “sistema”). Diversità dunque (décalage) nel “ritmo” di permanenza/cambiamento, delle (fra le) diverse “sfere” sociali. Non ne deriva, ci pare, alcun “rifiuto” rispetto alla scoperta fondamentale del marxismo: che la possibilità di riprodurre una determinata forma di società dipende dal fatto che in essa opera un determinato sistema di rapporti, come forma specifica della produzione/riproduzione materiale (con la sua straordinaria portata “liberatrice”: questi rapporti non si possono in alcun modo ricavare “logicamente” da una nozione di produzione in generale – non sono quindi, per definizione, permanenti). Una società è “unitaria”, possiamo dire, nella misura in cui le dinamiche e le differenze che la attraversano trovano un limite nella coerenza sistematica dei rapporti di produzione – da cui dipende la distribuzione dei ruoli economici tra le classi, e attraverso essa un determinato “regime” dei rapporti fra ciascuna di queste classi, e gli individui che le compongono, e il “tutto” sociale. Ma l’essere sociale (di classe) – che l’individuo necessariamente “assume” in quanto partecipa del processo di produzione/riproduzione, e che in quanto tale “media” il suo rapporto con la struttura economica – non è l’unica mediazione attiva tra l’individuo e questo “tutto” – perché esso (il “tutto”) si “particolarizza” (e quindi si riflette nell’esperienza dell’individuo) secondo sud-
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divisioni, funzioni, regole che non sono riconducibili “tutte insieme” (o nello stesso “momento”) a questo essere di classe (e alla struttura economica “sottostante”). Non possiamo certo qui soffermarci su questo tema. Chi avesse bisogno di un esempio, gli suggeriremmo di riflettere sulla politica (la “sfera” politica: stato, partiti, ecc.); su come per esempio oggi, rispetto allo spazio di decisione e di potere “occupato” dall’Unione Europea (o dall’“eurozona”) l’esperienza della lotta politica, per come si è storicamente costituita nella forma della democrazia (i partiti, le istituzioni rappresentative della “volontà generale”, la competizione e il conflitto di programmi e interessi/valori in cui si esprime la “soggettività sociale”) non corrisponde più alla formazione effettiva di un “governo”. Certo, sono i cambiamenti interni al sistema capitalistico, su scala “globale”, che hanno prodotto questa possibilità: che la forma della politica, in particolare al livello sovranazionale, si assimili alla funzione riproduttiva di una tecnostruttura, “neutralizzando” la logica della democrazia. Ma resta che per l’individuo (il “cittadino”) il “campo d’azione” della politica (scelte, programmi, “ideologie”) si trova inscritto in un regime “duale”, scisso (“irrazionale”): mentre si continua, al livello dello statonazione, a vivere e rappresentare la lotta politica nella forma del conflitto, dell’antagonismo, dei rapporti di forza, a un livello “superiore” (e realmente sovraordinato) il “governo della società” non è più lo strumento, democraticamente “contendibile”, per l’affermazione di fini diversi, nati dall’esperienza e dalla volontà che si forma nei diversi gruppi, classi, ecc., in rapporto alla propria condizione economica e sociale. Se, da una parte, il “governo mondiale dell’economia” sembra di nuovo rassomigliare, come tra Otto e Novecento, a un “comitato d’affari” della borghesia (Marx), l’esistenza empirica dei “non borghesi”, rimane tuttavia parte integrante della “volontà politica” che lo stato democratico (nazionale) esprime, in quanto fondato sul suffragio universale, la libertà di associa-
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zione, la libera formazione di una “maggioranza” (di individui, interessi, bisogni); ma questi individui “non borghesi”, che sono elettori, per lo più non votano (o votano “a caso”): i soggetti politici che in campo nazionale si sono storicamente costituiti come loro “rappresentanti” tendono a rinunciare a una differenza che sembra non potersi più realizzare o esprimere, nell’intreccio tra nazionale e sovranazionale, sul piano di una reale sovranità. C’è dunque una storia della politica, come sovrastruttura, che cambia su livelli e a ritmi diversi – la dittatura capitalistica, resa possibile al livello della struttura economica dalle nuove forme di “comando” del capitale finanziario, non si traduce, per “funzionare” sistematicamente, in una nuova forma di oppressione politica, nell’annullamento della democrazia. Ciò che storicamente è stato esperito – dalle “classi antagoniste”, dagli individui che le compongono o le rappresentano – come complicità dell’apparato politico-istituzionale (nazionale) con gli interessi economici dominanti, si rivela invece adesso come impotenza di quegli stessi apparati – che pure continuano, sulla base del processo storico che li ha parzialmente rifondati (democraticamente), a trarre la propria legittimità dal consenso “popolare”, e quindi a “rispecchiarne”, putativamente, differenze e contrasti, e a “promettere”, alla parte di volta in volta prevalente, il pieno esercizio della sovranità. Ne deriva, tra l’altro, che il fallimento (scontato, nel capitalismo) di una “politica” ridotta a strumento tecnico-amministrativo rispetto al compito di ridurre la sofferenza sociale non produce più, classicamente, la richiesta di una politica (governo) “diversa” (che altri “soggetti”, altri “rappresentanti”, prevalgano, nella lotta per il potere), ma il rifiuto della politica in quanto tale (dei “politici”). Del tutto logicamente: si può essere “al servizio”, di volta in volta, di interessi diversi e opposti – l’impotenza, invece, è la stessa per tutti.
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Non è più vero per noi, come leggiamo nei classici, che le sovrastrutture non hanno, propriamente, una loro “storia” (perché “riflettono”, nei loro cambiamenti, il cambiamento della struttura). Al capitalismo “globalizzato” non corrisponde, di fatto, né una compiuta neutralizzazione dell’agire politico nella gestione tecnico-amministrativa, né un potere dittatoriale (in Occidente), né la trasposizione al livello sovranazionale (“governo mondiale”, o europeo) della lotta politica nella forma “classica” della democrazia (sovranità parlamentare, partiti “transnazionali”, ecc.). E nell’ambito dello stato-nazione, in cui si forma e si esprime prioritariamente la coscienza politica, l’individuo rimane in preda a una “narrazione post-ideologica” (liquidazione dei modelli ideali e delle identità “di parte”) che lo costringe a oscillare in permanenza, nella sua “ricerca di senso”, tra gli schemi astratti dell’illusione tecnocratica e il rilievo empirico (il rigetto) dell’inettitudine e dell’opportunismo (della politica “come professione”). Ma questo non è che un “caso particolare” di come la “sfasatura”, oggettiva, tra i diversi luoghi della riproduzione sociale si rifletta nelle forme di vita (coscienza) individuale, e dunque nel “mondo interiore” dell’individuo – in quanto è “collegato” con l’oggettività sociale. Il “molteplice” e il “plurale” di questo mondo (e le vie e le forme della sua possibile, necessaria “unificazione”) non è solamente determinato, per questo lato, dalla posizione dell’individuo nel processo di produzione, e dai rapporti interni o direttamente riconducibili ad esso; ma, in concreto, da ciascuna delle forme o ciascuno dei luoghi o “pezzi” della società in cui l’individuo vive, “sente”, agisce. La sua specificità non sta dunque “solo” nel fatto che una parte essenziale dei rapporti che lo costituiscono (corporeità propria e altrui, mortalità, affettività, ecc.) non possono esaurirsi nell’essere sociale: su questo stesso piano (in cui rimane certo “determinante in ultima istanza”, il vecchio Engels ha ragione, la struttura economica) l’individuo non si trova semplicemente in rapporto
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con un “meccanismo” (si ricordi l’ultima citazione di Luporini): perché questo meccanismo non si “trasmette” fino a lui senza attraversare uno spazio variamente segnato da ritardi e anticipi, pratiche diverse, regole e norme effettivamente e diversamente “vigenti” (per esempio, nelle forme della “politica”). Dentro questo spazio ci sono “storie” diverse – e il “lavoro” dell’individuo, che “aspira” alla coscienza di sé come di un “essere-nel-mondo”, non può, non diciamo coincidere, ma nemmeno “ricondursi”, epistemologicamente, in un sapere (“scienza”) della struttura sociale (o della sovrastruttura che vi corrisponde). Non si tratta, ripetiamolo ancora, di “correggere” Marx. Crediamo, per dirlo un po’ alla buona, che egli avrebbe certamente potuto accettare un’idea più “complessa” della totalità sociale – in particolare, una sequenza meno omogenea (meno lineare) dei processi di cambiamento; né la sua critica dell’economia politica, né la concezione materialistica della storia hanno a soffrirne (diversamente, forse, la “teoria della rivoluzione”; ma questo è l’aspetto più intimamente legato al “corso empirico” della storia – e qui bisogna andare “per forza”, il marxismo teorico se n’è accorto troppo tardi, “oltre” Marx).
Il “fine” come criterio del “senso”: per una generalizzazione del concetto di “prassi” Arriviamo così alla conclusione di questa divagazione. Tra la morale materialistica di Epicuro e il marxismo c’è certo, prima di tutto, una differenza di oggetto (quello della prima non può essere né annullato, né assorbito, né compiutamente “ricostruito”, in quello del secondo). E altrettanto certamente, almeno un’affinità: anche per Marx, una filosofia che assuma come suo (nuovo) compito storico quello di trasformare il mondo (e la
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vita) ha il compito di liberare gli uomini dalla falsa coscienza, dalle false rappresentazioni della “necessità” sociale. Ma forse il terreno di una possibile solidarietà può essere cercato più “in profondità”, non circoscritto alla comune, dichiarata, valenza antiideologica (critica dei “valori culturali” dominanti). Abbiamo cercato di mettere in rilievo, “sorvolando” l’opera di Marx, tre elementi o “filoni” che nutrono questo terreno: il fatto che il processo materiale di socializzazione, fondato sull’attività lavorativa, mantenga un legame essenziale con la coscienza del lavoratore (essa può “oggettivarsi” nel lavoro, in quanto ne possiede il controllo, oppure alienarsi in esso); che il pensiero dell’emancipazione o liberazione del lavoro (emancipazione umana) sia a sua volta legato a una precisa nozione di “individuo” (bisogni, capacità, fini), come portatore di una esigenza di “padronanza” (appropriazione), e dunque “interprete” delle condizioni della propria vita in relazione a se stesso; che, infine, i rapporti interindividuali, “mediati” da quelli tra gli individui e le cose, definiscano la genesi e il primo livello di intelligibilità di quello che si può chiamare una “seconda natura” – qualcosa, e si ricordi Lucrezio, che appartiene al processo di umanizzazione, in quanto vi si formano le condizioni “oggettive” di una condotta consapevole rivolta al fine della felicità, e insieme costituisce in esso il principio e il rischio permanente della contro-finalità, rispetto al “libero sviluppo”, sul piano della socialità, delle potenzialità naturali-umane. Se si volesse collocare la possibilità di un confronto a un livello ancora più “profondo” (è chiaro che usiamo questo termine in senso “stratigrafico”), si potrebbe forse aggiungere ancora questo: è familiare, soprattutto agli italiani, una definizione del marxismo come “filosofia della prassi”, o praxis. Ma questo termine, com’è noto, non indica ogni tipo di “azione” – non indica, in particolare, quella che mette capo all’esistenza di un oggetto del tutto indipendente dall’agente (che è piuttosto una poiesis). Con “prassi” ci riferiamo invece a un’attività
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il cui risultato (o in quanto il suo risultato) non è “separabile” dall’agente – che in essa si definisce e si particolarizza. E in questa seconda e più specifica accezione il concetto di “prassi” è molto vicino a quelli di “condotta”, “comportamento”, “abito” – quelli a cui sono rivolte, molto più che semplicemente all’“azione”, tutte le morali antiche. Marx non ha certo bisogno di “dilatarlo”, questo concetto, fino a comprendervi, come in una morale, tutte le “scelte” o le azioni degli individui; ma è chiaro che vi comprende, insieme con l’attività continua, riproduttiva, di trasformazione della natura (in cui l’uomo, abbiamo letto, trasforma anche se stesso), anche l’agire reciproco degli uomini tra loro, da cui nascono e in cui si riproducono (ma secondo regole che non sono da loro “scelte”) ed eventualmente cambiano, i loro rapporti. In questo mondo delle pratiche sociali la coscienza individuale, sappiamo, non è affatto “ignorata” da Marx (è appunto l’individuo, gli individui, che sono in esse “trasformati”). E non è nemmeno necessario uscire, per ritrovarsi sul terreno della morale, dall’ambito (certamente, in un senso, “onnicomprensivo”) della vita sociale: basterà passare dal punto di vista “oggettivo” (quello che gli uomini “fanno”, senza saperlo) a quello “soggettivo” (che valore danno, in rapporto a se stessi, al proprio “fare”). Non è questo, sistematicamente, il terreno su cui Marx si muove; ma sapeva bene qual era il “punto di vista epicureo” in proposito: che la valutazione, il senso della prassi, del fare, in ogni particolare “relazione”, si misura, ha come criterio, una coscienza vera di sé, la coerenza con un “fine”, conforme a un essere naturale (che ha in sé un principio di selezione e di sviluppo). Possiamo dire che era anche il suo.
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Capitolo IV
La morte e il tempo
Pensiamo di saltare la morte a piè pari, alla maniera dei toreri, con ellenica destrezza di pensiero. Ma saltare la morte a piè pari non è facile come sembra, nemmeno con l’ausilio di Epicuro, perché in ogni salto vero e proprio la morte salta insieme a noi. E questo, nessuno lo sa meglio dei toreri. Antonio Machado L’uomo libero a nulla pensa meno che alla morte, e la sua saggezza è una meditazione della vita. Spinoza
Paura della morte e desiderio di immortalità La seconda medicina del quadrifarmaco è quella che somministra l’“antidoto” alla paura della morte. È, rispetto alle altre, quella che più e meglio appare integrabile in un modello tradizionale o generico di “saggezza” – una certa “impavidità”, la capacità di “non farsi turbare” dal pensiero della morte, rientra senz’altro fra i caratteri più comuni di una figura convenzionale, stilizzata, del saggio. E al solito questa “figura”, quando la si voglia ricavare dal sedimento culturale di una tradizione filosofica, apparirà fortemente “colorata” di stoicismo: è il “distacco” dalle vicende della vita personale (e corporea), la capacità di sentirsi parte dell’ordine razionale, necessario, “superiore”, che governa il mondo, e che si rispecchia nella “parte migliore” di
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noi stessi, che consente al saggio di vivere “senza paura” (aequo animo, dice Lucrezio) il dato naturale della propria mortalità. Raccomandare agli uomini di accettare “serenamente” questo “fatto”, che dovranno a un certo punto lasciare la vita (questa espressione, “uscire dalla vita”, si ritrova in Epicuro e in Lucrezio) non è certo, in sé, un messaggio che presupponga una visione epicurea della vita. È “sufficiente” che una qualsiasi morale presenti agli uomini la possibilità di un accordo tra la propria condotta, la propria soggettività, e un ordine della natura o del mondo perché in essa la “serenità” rispetto al morire, che è inscritto in questo “più ampio” essere, diventi possibile – e necessaria. Tutti sanno, però, che nell’epicureismo la possibilità/capacità di non aver paura della morte è presentata come la “conseguenza”, per così dire, di un “ragionamento”, della scoperta di una specifica “verità”, che riguarda proprio l’“esserci” della morte, e la sua rappresentazione nel pensiero. A questo proposito, la scrittura oracolare di Epicuro tocca senza dubbio uno dei suoi vertici: la (mia) morte non mi riguarda, perché è qualcosa di cui non posso mai “fare esperienza” – la morte «non c’è, né per i vivi» (che sono appunto vivi) «né per i morti» (che, appunto, non sono) (LM, 125, 5-9). Come posso “aver paura” (cioè anticipare una esperienza possibile) di qualcosa che non ci sarà, perché non può mai “esserci”? L’efficacia del secondo farmaco sembrerebbe “garantita” da questa, per così dire, inferenza. E questo sarebbe l’apporto originale dell’epicureismo a quella “strategia di persuasione” il cui obiettivo è comune a tutte le scuole di saggezza: convincere gli uomini che il fatto di (dover) morire non rende la loro vita incompiuta, dolorosa, “assurda” (altrimenti, di fronte a questo “fatto”, ogni saggezza sarebbe impossibile). Ma le cose, a ben vedere, non possono stare così. Nel contesto della filosofia epicurea, la riflessione intorno alla morte (al rapporto vita/morte) è ben altrimenti complessa, chiama in causa
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molti altri “elementi”, rispetto a ciò che è letteralmente enunciato nell’argomento “canonico”. C’è un modo specificamente epicureo di non aver paura della morte – che non è pensabile al di fuori di questa filosofia. O se si preferisce: l’apporto di questa filosofia sul tema della morte va molto oltre lo “schema di ragionamento” (in se stesso piuttosto elementare) che abbiamo appena illustrato – o questo stesso schema non prende tutto il suo senso se non “sullo sfondo” di una concezione più ampia: sullo sfondo della teoria epicurea del piacere come “fine naturale” della vita. Se abbiamo or ora parlato di “inferenza”, rispetto allo “schema” di LM, lo abbiamo fatto anche per sottolinearne la somiglianza apparente con il primo dei “ragionamenti” del quadrifarmaco – quello che permette di “guarire” dalla paura degli dèi. Che “non si possa” (per così dire “logicamente”) aver paura della morte, in quanto mero non-essere, è un’affermazione che presuppone una definizione “autosufficiente” della morte: essa non è che assenza (privazione – sterêsis) di sensazione. Il “ragionamento” si articolerà allora in questa forma: possiamo aver paura di (ciò che ci rappresentiamo come) un male (dolore); ma il male (dolore) è (nella) sensazione; la morte è “assenza di sensazione”; dunque… Il mero non-esser(ci) della morte si precisa come eterogeneità “radicale”, per così dire, o “incompossibilità” del pensiero della morte rispetto al pensiero (rappresentazione) del dolore (che è presupposto nell’affetto della paura). Si ha, per l’appunto, l’illusione di uno schema di inferenza – che ha, come nel caso della paura degli dèi, questa “caratteristica”: la conclusione (la selezione delle “note” di un concetto, in base alla coerenza logica della sua definizione) è immediatamente “operativa” sul piano degli affetti – dell’investimento affettivo nella rappresentazione corrispondente, che si trova ora ad essere completamente “deposta”, svuotata. Questo è esattamente quello che accadeva nel caso della paura degli dèi. L’esame attento della nozione del divino (ciò che
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la divinità è, essenzialmente) escludeva che vi si potesse comprendere (senza renderla incoerente, contraddittoria) una relazione con il mondo umano, con la vita degli uomini, comunque “attiva” – e che comportasse una qualche “passione”. Gli dèi “non possono” preoccuparsi delle cose umane, intervenire, con il premio o il castigo. Ma è proprio la rappresentazione di un dio ostile (in quanto mi accada di dispiacergli, o perché la sua potenza non sia esente da malignità) che “scatena” la mia paura. Se questa rappresentazione “cade” (necessariamente, in quanto la riconosco come “incompatibile” con quello che “so” del dio, che ne fa appunto “un dio”) l’affetto “si dissolverà” (verrà anzi sostituito, in questo caso, dal piacere che provo a “immaginarmi” la beatitudine divina, come modello ideale a cui io stesso aspiro – fino a instaurare un legame di “complicità”, benevolenza per “affinità”, LM, 124, 3-5). La ragione per cui questo schema non è “applicabile” alla paura della morte è semplice: se c’è una “rappresentazione” della morte, come “causa” della paura, che “cade”, in base all’esame razionale, non può essere che quella in cui “mi immagino” il permanere della sensibilità, “oltre la soglia” del morire (o “nell’atto” del morire, come compresenza, sia pure istantanea, di vita e morte). È questa rappresentazione che “dissolvo”, quando la “vera” fisiologia mi ha mostrato che non può esserci “vita dell’anima” (sensazione) “dopo” la vita del corpo (perché l’anima “fa parte” del corpo). Definire la morte “essenzialmente” come assenza di sensazione (al modo stesso in cui definiamo la divinità come “essenzialmente” beata) non è che un altro modo di affermare (o un corollario) che la vita individuale, senziente, “finisce” con la morte. E si potrebbe aggiungere che se proviamo a dissolvere la paura della morte in base all’equivalenza assenza di sensazione/assenza di dolore – è qualcosa che abbiamo in realtà già fatto, “provando” che non ci possono essere dèi punitori: poiché aver paura di “ciò che sentirò” dopo morto fa in pratica tutt’uno con il rappresentarmi un destino
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ultraterreno “esposto” al capriccio o allo sdegno di chi governi, oltre ogni umana possibilità, quelle sconosciute regioni (da cosa altrimenti potrebbe venire il dolore percepito da un’anima incorporea, e priva di cure “terrene”? È il paradosso di ogni inferno – e abbiamo già visto come in vaste zone dell’“immaginario” la paura di morire e quella di “finire all’inferno”, in qualsiasi modo, siano di fatto intimamente compenetrate). Non è sufficiente “sottrarsi” a questa rappresentazione della morte per non aver paura. Perché a provocare la paura è intanto, e prima di tutto, un pensiero della morte che non è affatto “svuotato” dalla vera fisiologia – così come lo è, da una vera teologia, quello del dio ostile o capriccioso. Un pensiero comune, per così dire, al materialista e allo spiritualista, che corrisponde a un fatto ben “reale”, che non può essere “dissolto” da nessuna analisi logica: il fatto che la morte è la fine della vita (“morire” significa “cessare di vivere”). Quando “si ragiona” sulla paura della morte, si cercano le “ragioni” per combatterla, superarla, è questo “fatto” che non può che venire in primo piano: non che la morte sia, in se stessa o per il “tempo successivo”, dolorosa, ma che essa “pone un termine” alla vita. Se gli uomini (comunemente, generalmente) “hanno paura” della morte non è perché “si inventano”, pensandola, qualcosa che “non c’è”, ma perché, semplicemente, non vogliono morire; è il loro “attaccamento alla vita” che rende il pensiero della morte “terribile”. E hanno ragione, se la morte è, appunto, ciò che impedisce di “continuare a vivere”. È per questo che tutta la grande letteratura parenetica, su questo punto, non mette in discussione ciò che la morte “realmente” è, ma esorta a formarsi un’“idea della vita” per cui possiamo rappresentarcene la fine “senza dolore”: nella misura in cui “il buono” della vita, ciò a cui siamo “attaccati”, non è “negato” dalla morte (anzi può essere in qualche modo “valorizzato” dal limite di durata che gli è imposto). E in molti casi, se non in generale, è un elogio della natura (o dell’“ordine” naturale) che forma “il ner-
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bo” dell’argomentazione: che la vita (individuale) finisca non è che “il segno” della nostra appartenenza alla natura – tanto più ne “godremo” (di questa appartenenza; o ne “saremo degni”) quanto più diventiamo capaci di “accettarla” in ciò che ne costituisce la più intima legge di sviluppo, ci sentiamo “in accordo” con questa legge, con una necessità che è “per la vita” nel suo insieme (in un bel saggio di Jankélévitch su Tolstoj si parla di compensazione panbiotica a proposito degli stoici, e in particolare di Marco Aurelio); è in nome di questa “necessità generale” della vita che possiamo “esser pronti”, “sentire” come naturale anche per noi come individui, in qualsiasi momento, morire. Il “ben morire” (nel senso di: senza paura) non potrà dunque dipendere, nemmeno per Epicuro, dalla “correzione” di ciò che per “morire”, comunemente, si intende (ciò che comunemente si intende “è vero”); sarà piuttosto anche per lui (è – vedremo subito) la stessa cosa che il “ben vivere”. Ma per lui, evidentemente, questo “ben vivere” non potrà “riassumersi” (o ridursi) in una convinta disponibilità a subire, come cosa della natura, le leggi della natura (quella a cui, nello splendido racconto di Tolstoj che si intitola Tre morti, il mujik è “spontaneamente” più vicino che “la signora”, e il grande albero abbattuto dalla scure, anche lui un “vivente”, più di tutti). Vivere “bene” significa, sappiamo, scegliere e interpretare il fine del piacere. Soltanto “il saggio”, che comprende e conduce la sua vita in base a questa scelta, che la “applica” coerentemente (a differenza che gli uomini come ora per lo più li vediamo), può davvero “non aver paura” della morte; il saggio epicureo. Tra i brevi passi del corpus in cui è direttamente questione della morte c’è, per esempio, questa frase: «uno solo è l’esercizio a ben vivere e ben morire [to tên autên einai meletên tou kalôs zên kai tou kalôs apothnêskein]» (LM, 126, 7-8). «Esercizio» è meletê – la “cura”, lo “studio pratico”: il “darsi pensiero” della morte è esattamente “lo stesso” – tên autên – che il darsi pensiero della vita – “dipende”, nei suoi modi e contenu-
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ti, da questo. Non solo, ma immediatamente prima troviamo che è «stolto» (euêthês) chi distingue nella sua esortazione o messaggio (parangellôn) tra un compito del «ben vivere» che sarebbe proprio del «giovane» e un altro, del «ben morire», in cui si eserciterebbe la saggezza del «vecchio»: non è possibile separare le due cose – anche in ragione del tês zôês aspaston («quel che di dolce c’è nella vita») a cui evidentemente i pensieri del saggio restano, finché vive, rivolti, per vecchio che sia. Ma la dichiarazione più “impegnativa” si trova ancora qualche linea sopra: «Niente c’è infatti di temibile nella vita per chi è veramente convinto [tôi kateilêphoti gnêsiôs] che niente c’è di temibile nel non vivere più» (LM, 125, 1-3); dove il “più” della traduzione italiana è certo un’aggiunta “esplicativa”, rispetto al semplice en tôi mê zên del testo; ma ci sembra in questo caso del tutto pertinente: il deinon (“temibile”, “terribile”) che si tratta di superare, dissolvere, “appartiene” alla vita fin quando non si sia compreso che la fine della vita non è in sé un male, non si sia imparato a “non temere” il fatto che la vita finisce, finirà – e non semplicemente la “condizione” del non-vivente. Epicuro presenta dunque il tema del “giusto rapporto” con (il pensiero de) la morte come una “componente interna”, per così dire, del “programma di vita” che caratterizza la saggezza. Ben oltre il rilievo della condizione per definizione “non dolorosa” del non-vivere, e anche della necessaria conclusione di ogni ciclo vitale, l’affermazione che un efficace “prendersi cura” del morire non sia nemmeno pensabile se non congiuntamente con (ma si potrebbe anche dire: come riflesso del) la comprensione e la scelta del modo migliore di vivere (e per questo non è “riservata” ai vecchi) sta ad indicare che il pensiero della morte “dipende” (sarà deinos o no) dal pensiero della vita: è “nella vita” (e per “non temere la vita”) che la finitezza, il limite di durata devono essere “accolti” – trovare un “senso”. Che un pensiero “vero” della morte faccia tutt’uno con il “pensare la vita” significa che in questo pensiero dovranno essere
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investiti tutti i risultati della “vera filosofia” circa la natura e il “programma” del vivente umano, approfondendoli o specificandoli in questa prospettiva. Non basterà certo il rilievo di un “ordine naturale”, in cui soltanto la vita può essere “pensata” – quand’anche si faccia, in quest’ordine, nei suoi limiti temporali, un grande spazio alla possibilità del piacere. Anzi, se ci si ferma a questo, si può persino obiettare che la morte rischia di apparire più “terribile” proprio a chi più degli altri si trovi impegnato, nella vita, a “massimizzare” il piacere – cioè appunto il saggio (epicureo). Un rapporto tra “la somma” dei beni e dei mali, nella vita, e il pensiero del suo (finale) azzeramento è implicito, per esempio, quando Epicuro scrive che «i più», rispetto alla morte, condividono uno di questi due atteggiamenti: o «la cercano, come cessazione dei mali della vita», oppure, «come il più grande dei mali, la fuggono» (LM, 125, 9-11). “Fuggire la morte” (cioè “temerla”) può sembrare tanto più “giustificato” quanto meno si percepisce, “si pensa” la vita come dominata dal male (dolore). Se il saggio è colui che sa “vivere bene”, fare dell’orientamento al piacere “il proprio” della (sua) vita, è lui che, per così dire, “ha più da perdere”, al pensiero che la vita “finisce”. Sennonché, noi sappiamo che questo “orientamento al piacere” a sua volta “dipende”, perché possa “realizzarsi”, dalla costante vigilanza (e dall’“abito”) di un pensiero critico – che il piacere non può essere “posseduto”, stabilmente, se la coscienza del saggio non “riflette” le sue effettive condizioni, non ne “scopre” e non ne accoglie il “senso” (limite, determinazione). “Vivere bene” significa “qualificare” il (proprio) piacere. È dunque in questo processo di “qualificazione” (valorizzazione), che andrà cercata e trovata l’identità tra il “ben vivere” e il “ben morire”. Del resto, tutto ciò dovrebbe valere ormai come un “presupposto” della lettura. Abbiamo visto come le “rappresentazioni” degli dèi e della morte, del piacere e del dolore, non possano in alcun modo trattarsi separatamente – sono “legate assieme”
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come i costituenti essenziali, reciprocamente “cause” e “effetti”, della “malattia” umana. Abbiamo anche visto come, se volessimo riassumere in un unico “nome di affetto” l’effetto di queste rappresentazioni, in ciò che hanno di “falso” (che genera dolore non necessario), questo nome dovrebbe essere: paura. E ancora, come la paura della morte possa rivendicare per sé una sorta di “primato”, nell’ordine delle “cause”: che la vita sia nelle mani di un dio nascosto, che il piacere sia sempre il miraggio di un altrove, che il dolore possa in ogni momento prendere stabilmente totale possesso della nostra sensibilità – sono tutti “fantasmi” che rimandano a un’unica matrice, al dominio di una rappresentazione, di una “esperienza” della fragilità e precarietà della vita, di cui la “presenza” della morte è ovviamente il primo, più persuasivo “segnale”. Nessuna saggezza potrebbe “funzionare” se non investisse, dissolvesse “prima di tutto” questa rappresentazione; ma, di nuovo, soltanto “il saggio” – colui che ha trovato il giusto rapporto con gli dèi, con il piacere, con il dolore – può riuscirci. Bisogna che il percorso che conduce alla saggezza, in tutti i suoi passaggi, produca “dal suo interno” l’effetto corrosivo, liberatorio – rispetto al “pensiero comune” della morte. Quando LM, 125, 2-5 dichiara «stolto» (mataios) chi, pur ammettendo che la morte, quando c’è (ci sarà: parôn), non porterà dolore (lupêsei), tuttavia soffre «nell’attenderla» (lupei mellôn), l’avverbio che usa per qualificare questo soffrire (nella traduzione italiana «stoltamente») è kenôs – a vuoto. E questo avverbio ci rimanda a un tema che ben conosciamo: è il “desiderio non naturale” che il saggio “denuncia” come “vuoto” – ed è da questo “vuoto” del desiderio che “lo stolto” ricava il suo dolore. Abbiamo visto come i “desideri vuoti” possano radicarsi nell’“opinione” (nel sentimento – e autorappresentazione) fino a diventare in-dissolubili, quando si sia perduta la capacità della “verifica” – “commisurare” il piacere, che il desiderio “promette”, a ciò che può essere, che è effettiva-
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mente sperimentato come piacere, e insieme al dolore che la “mancanza” di un singolo oggetto (del desiderio) effettivamente “produce”. C’è, nel pensiero, nella paura della morte, un corrispondente “punto cieco”? C’è un “errore” che riguarda il “vissuto” del piacere e del dolore – in quanto siano “anticipati” nella rappresentazione, nel prosdoxazomenon, in ciò che è pensato “in aggiunta” al contenuto irrefutabile dell’atto apprensivo? Se Epicuro può permettersi di definire come “vuoto” il pensiero (la paura) della morte, ciò è sufficiente a indirizzare l’indagine – ben oltre il paralogismo troppo evidente che denuncia la serie: morte = assenza di sensazione = assenza di dolore – su quel “desiderio impossibile” che il pensiero della morte “svela” negandolo – e che sussiste in noi, attraverso questa negazione, come il fantasma di una irrevocabile assenza. La sequenza tematica di LM si apre con una frase che riassume l’argomento “logico”: ogni bene e ogni male è nella sensazione – la morte è privazione (sterêsis) di sensazione. Non può dunque essere un male (per chi muore) – né, evidentemente, un bene. Questo lascia in realtà la porta aperta all’obiezione del “senso comune”: perché non dovrei considerare come un male, e dunque temere, proprio questa “privazione” – se essa significa che non ci sarà più, per me, il bene? Certo, la “forza logica” dell’argomento è ben reale: nella morte “non ci sarà”, per me, un’assenza del bene (non potrebbe essere altro che una “presenza” del male – che, appunto, non ci sarà). Ma tutto sta a intendersi, per così dire, su quel “più”. In questo “pensiero del futuro”, la mia assenza è confrontata con una presenza (attuale – del bene e del male per me); se il secondo termine (la “presenza”), la mescolanza o l’alternanza che lo costituisce, “mi appare” dal lato di uno dei suoi “componenti” (evidentemente: “il bene”) – allora ho ben diritto di considerare l’assenza, la privazione, come essenzialmente riferita proprio a questo. Non, insomma, “io perdo il bene” (che non ha senso, se non posso “acquisire”, in
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cambio, il male), ma “il mio bene (di “ora”) finisce”. Perché questo non dovrebbe “farmi paura”? Ma leggiamo subito prima: «Per cui la retta conoscenza che niente è per noi la morte rende gioiosa [apolauston poiei] la mortalità della vita; non aggiungendo infinito [o indefinito: apeiron] tempo, ma togliendo il desiderio dell’immortalità» (LM, 124, 6-125, 1). È qui che Epicuro formula il “fine” a cui il “giusto modo di pensare” la morte è rivolto: si tratta («toglie[re] il desiderio dell’immortalità») di un elemento “costitutivo” del “vivere bene” – se “vivere bene” significa «rende[r] gioiosa» la vita (mortale). È qualcosa di diverso, evidentemente, da una semplice “accettazione” della necessità naturale. E non è poco: è proprio perché ci troviamo in una morale del piacere, in coerenza con questa, che dobbiamo “preoccuparci” di “come pensare” la morte – se il saggio fosse indifferente al piacere, alla gioia, il “non aver paura” si ridurrebbe praticamente a una questione di decoro o di stile. E qui Epicuro “nomina” ciò che prima di tutto può “impedire” quella gioia: il desiderio “vuoto”, che bisogna “dissolvere” – perché rappresenta, “irrealizzabile”, il contenuto della mancanza, la “causa” del dolore in cui il pensiero della morte (della «mortalità della vita») può, in ogni momento, sprofondarci. Un rapporto così stretto tra “paura della morte” e “desiderio di immortalità” è già sufficiente a dirci che in quel pensiero (paura) ciò che è in gioco non è (solo) la rappresentazione della “non-vita”, ma proprio quella della “non-durata” (nell’apeiron del tempo) di ciò che invece vorremmo durasse: il piacere, che nel desiderio di immortalità si “anticipa”, appunto, come nonfinito, nel tempo. Il “contenuto rappresentativo” di quel desiderio si origina nella contraddizione tra un sentimento “gioioso” della vita (la possibilità di identificare, programmaticamente, la vita con il piacere, apolauston poiein) e la coscienza del limite
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temporale – per cui vorremmo, dice Epicuro, «aggiunge[re]» a questo sentimento «infinito tempo», cioè desideriamo l’immortalità. Possiamo senz’altro dire che la paura della morte “non ci sarebbe” se fossimo completamente “liberi” da questo desiderio; ed entrambi “non hanno senso” (non li capiremmo) se non sono riferiti al rapporto con il piacere – o al rapporto, come ce lo rappresentiamo, tra “il piacere” e “il tempo”. La rappresentazione “dominante”, per la paura della morte e per il desiderio di immortalità, è la stessa: quella della “fine del piacere”. Vivere nella paura della morte significa molto precisamente vivere – segnatamente, “vivere il piacere” – nel sentimento costante di una mancanza (nella durata) – qualcosa che può semplicemente distruggere, “svuotare”, tutto il senso della scelta, il progetto del saggio, la “qualità” e la possibilità del piacere. La “guarigione” dalla paura della morte è uno degli obiettivi essenziali dell’insegnamento morale di Epicuro – quelli che articolano, nell’enumerazione del quadrifarmaco, il “quadro” della saggezza. Ma ciò che è in discussione nel secondo “precetto” non è soltanto la possibilità di un orientamento al piacere (fine naturale) che non sia oscurato, ostacolato o distorto dai “fantasmi che si formano nella mente”. Se abbiamo insistito sulla necessità di trattare questo specifico “fantasma” in modo affatto diverso da quello “dissolto” dal primo farmaco (nonostante le apparenze, e senza toglier nulla al contesto “sinergico” che abbiamo cercato di illustrare nel capitolo precedente), è perché esso si forma, per così dire, (a differenza di quello degli dèi) “dall’interno” di quello che possiamo chiamare un “vissuto” del piacere; così che “la lotta” contro di esso dipende essenzialmente dalla capacità di esaminare criticamente, attraverso il logismos, le condizioni “di fatto” del piacere e del dolore – dal modo come si riflettono nella coscienza raziocinante le esperienze fondamentali che costituiscono l’essere sensibile dell’individuo. È questo che si rischia di non vedere, quando si riduca la riflessione epicurea sul modo di pensare la morte alla
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“scoperta” (alquanto derisoria) che la morte non è di per sé “dolorosa”. Se lo si facesse, tutto il nesso tra “ragione” e “vissuto” (“asse portante” della filosofia morale) sarebbe reso inoperante (con il rischio ulteriore di regredire verso una forma “banale” di saggezza: se il lavoro della ragione non consiste che nel far “riemergere” una evidenza inspiegabilmente dimenticata, allora la possibilità di acquisire l’“abito” psicologico che è qui richiesto finisce col rinviare a nient’altro che una necessità – quella di “adeguarsi” alle condizioni “esterne”, immodificabile, della vita). Nel caso della paura degli dèi “non c’è bisogno”, per così dire, di elaborare, mettere in discussione il rapporto al piacere – l’esame critico della nozione del divino produce direttamente la “liberazione”. Qui, invece, non può trattarsi (soltanto) di “ciò che la morte realmente è” – se “prima” di “essere” (quando viene “pensata”, dai vivi – quando non c’è, e non c’è mai) il pensiero che ne formiamo non pensa un “nulla” (un assurdo logico, come il dio che punisce e premia), ma pensa effettivamente “qualcosa”: il limite, la negazione opposta alla durata infinita, al tempo continuo, indefinitamente “presente”, in cui le nostre sensazioni attuali possano “prolungarsi”, o ritornare. Ma che cosa vuol dire, in questo contesto, “pensare il tempo”? Sappiamo che nell’epicureismo il tempo è un accidente di accidenti – lo percepiamo come un modo d’essere di certe qualità che a loro volta sono accidentali rispetto a ciò che la “cosa percepita”, in se stessa, è. Non “esiste” il tempo, così come non esiste, per esempio, “il rosso” – ma solo “cose rosse” (che sono per Epicuro “realmente” rosse – non però nel senso che “non ci sarebbero”, non sarebbero, cioè, quello che sono – forma, dimensione, peso –, se non “insieme” col loro colore). Ma, a differenza del rosso, la formula “canonica” della letteratura epicurea (che Sesto Empirico ci ha conservato) dice che il tempo non è una qualità (accidentale) della “cosa”, bensì dell’“esser rosso”, per esempio, della cosa. Nella trattazione tematica di Epicuro (che si riduce sostanzialmente per noi a LE, 72-73) il primo
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esempio è «i giorni e le notti e le loro parti» (si menzionano poi anche «le affezioni e le non affezioni», e «l’essere in moto o in quiete»): che sono, spiegherà Demetrio Lacone (in Sesto Empirico, Adv. Math., X, 224 – 294 Us.; 164 A.) «accidenti dell’aria» (“illuminata”, o no, dal sole; non dunque dell’aria “in sé”, come “aggregato” di atomi). È a questi accidenti che il tempo «è legato» (Conche), «si compenetra» (A.) – antiparektainetai; nel senso che noi li percepiamo (essi, non l’aria) necessariamente come “aventi un proprio tempo” (così che possiamo dirli – legetai – lunghi o brevi). In altre parole: “percepiamo” il tempo perché (in quanto) percepiamo l’in-permanenza delle cose – nel variare delle (di alcune) loro qualità (accidentali). È da questo variare che ricaviamo una misura del tempo (i giorni e le notti, e le ore, hanno qui evidentemente un ruolo “privilegiato”) che possiamo “applicare” a tutto ciò che “è” nel tempo (che “ha” un tempo) – nel senso che l’insieme delle sue qualità comprende accidenti “variabili” (accidenti di accidenti; questo variare, rispetto a ciò che varia, sarà poi da considerarsi piuttosto come una “proprietà”: in Sesto Empirico alla definizione del tempo come symptôma symptômatôn si sostituisce “spontaneamente”, poche linee sotto, per caratterizzare il rapporto fra il tempo e questi accidenti, il termine symbebêkotos; e A. traduce, giusta la distinzione tecnica epicurea fra i due lemmi, qualità essenziale, cioè permanente, percepita necessariamente insieme con l’“essere” dell’oggetto – che però in questo caso “è”, a sua volta, una qualità). Questo è in sostanza tutto ciò di cui disponiamo, per una “dottrina” epicurea del tempo. Quando la menzione del tempo interviene in relazione al piacere (o il nesso tra sensazionepiacere e tempo si trova coinvolto nella discussione sulla paura della morte e sul desiderio di immortalità) sarà da considerarsi presupposto; e in questo senso, ci può “aiutare” a comprendere il senso di questa discussione, e della relazione che vi si trova implicata. Ma Epicuro “non ha bisogno” di richiamarlo – per-
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ché in questo contesto la rappresentazione del tempo agisce, per così dire, come un “dato” psicologico: l’essere-nel-tempo della sensazione vale come un “virtuale” della misura, che dipende dalla rappresentazione/nozione di un “tempo-in-generale”, e che “si aggiunge” al contenuto determinato dell’atto apprensivo nell’immediatezza dell’autoriflessione.
Il piacere e il tempo In MC XX il desiderio di immortalità e la paura della morte “coinvolgono” il tempo secondo la distinzione del peras e dell’apeiron; introducono, per così dire, nell’attualità della sensazione l’indeterminatezza della durata, la considerazione di una possibilità “secondo il tempo” (quanto durerà? fino a quando?). Ciò è possibile perché (conformemente alla dottrina) “è data” una rappresentazione generale del tempo come misura di ogni variare; ma anche perché la sensazione (il piacere) si “dà a conoscere”, dapprima, nel corpo, “senza” riflessione (senza una riflessione in cui agisca il “filtro” della distinzione, del confronto, del “calcolo”, che è l’apporto della dianoia). Il testo non è facile: «La carne pone i limiti del piacere illimitati, e illimitato è il tempo che glielo procura [Hê men sarx apelabe ta perata tês hêdonês apeira kai apeiros autên chronos pareskeuasen]». È certamente possibile discutere questa traduzione (i verbi, nel testo, sono al passato); ma intanto, Epicuro dice che l’apeiros chronos, il tempo illimitato, ha a che fare con il peras (e l’apeiros) «del piacere». Questo “porre” (apolambanô), come “atto” della carne, non può certo essere inteso come un “pensare”, “considerare”, “concepire”; è piuttosto un “prendere”, “ricevere”, e perciò “aver accolto” (apelabe), “avere” (sentire) il piacere senza riguardo al suo peras (al plurale, perata, perché stiamo parlando della pluralità delle sensazioni, del “di nuovo” del piacere). Il peras, a questo “livello”, non c’è – c’è
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invece l’apeiron, le sensazioni di piacere sono prive di determinazione, apeira. (Questi termini, usati assolutamente o in rapporto a un qualsiasi “oggetto”, li traduciamo sempre come finito/infinito, definito/indefinito, determinato/indeterminato; ma non è forse inutile ricordare che in greco apeiros si può riferire anche alla posizione di un soggetto cosciente – e vale allora “ignaro”, “inesperto”). È così che si introduce l’apeiros chronos – il tempo senza fine, senza limite in cui il piacere, un piacere, indefinitamente “ritorna” (una hêdonê tis, potremmo dire: l’indeterminato del piacere). Ma (de), continua Epicuro, c’è «l’anima [he dianoia]»: «L’anima, prendendo coscienza del bene della carne e del suo giusto limite […] ordina la vita in maniera che essa sia perfetta, e non ha più bisogno oltre quella del tempo infinito [hê de dianoia tou tês sarkos telous kai peratos labousa ton epilogismon […] ton pantelêi bion pareskeuase, kai outhen eti tou apeirou chronou prosedeêthê]». Proviamo a tradurre “letteralmente”: «ma l’anima [o: “la mente”], essendo in possesso del ragionamento sopra il fine e il limite [la giusta definizione] della carne […] ordina la vita in modo che sia in se stessa pienamente compiuta [o anche: “procura alla vita la sua compiutezza”, la rende completa], e non ha per niente bisogno del tempo infinito in più». Il pensiero dell’indefinita durata non “presenta”, all’anima, un oggetto di desiderio: poiché l’anima sa, lo abbiamo visto, che la ricerca del piacere, su cui naturalmente si fonda ogni desiderio, non può rivolgersi senza fallire alle «cause indefinite» (appunto le adioristo[i] aitia[i] di GV, 81). Esattamente come la ricchezza o la “fama” (che possono sempre “aumentare”, ecc.), un prolungamento senza limite della durata non può “rispecchiarsi” nel pensiero come causa-condizione del piacere; “non ha rapporto” col piacere – se non equivoco, poiché coinvolge, “anche”, il suo contrario. Tutto ciò presuppone, ovviamente, la considerazione, la riflessione sul fine, la definizione di ciò che è il fine. Telos kai peras
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(sarkos) è qui quasi un’endiadi: indica l’“esattezza” del fine, ciò che è proprio della carne in quanto è il suo fine – ciò che definisce il piacere come il fine della carne; e questo impegna le distinzioni, i “ragionamenti” della dianoia. Ritroviamo qui, in un testo capitale intorno alla paura e alla non-paura della morte, una distinzione “fra” i piaceri (del corpo). Abbiamo visto che questa distinzione è, per Epicuro, una questione di “punto di vista”. “Tutti” i piaceri del corpo sono cinetici: generati nel movimento degli atomi, essi “si succedono” (alternandosi col dolore), e “attraggono” il corpo sempre di nuovo (perché sempre di nuovo il corpo “fugge” il dolore); ma solo il piacere catastematico è il fine – il piacere, cioè, considerato come “realizzazione” della natura propria del corpo vivente (a cui non “manca” niente per essere quello che è, mancanza che invece è il dolore)1. Quando il piacere è “pensato come fine” (il che vuol dire che “si riflette” non solo in una “coscienza di sensazione”, ma anche nella dianoia), gli appartiene essenzialmente il carattere della stabilità: non sarebbe “pieno” (sarebbe apeiros) se fosse “vissuto” in relazione al tempo – cioè alla possibilità, virtualità del cambiamento. “Ci sarebbe” allora sempre e solo, per l’anima, un piacere cinetico; la nostra “attenzione” (vedremo meglio) non sarebbe rivolta “al” piacere – ma al “passare”, ed eventualmente “ritornare”, come carattere proprio (“qualità essenziale”) di ogni, singolo, piacere. In MC IX Epicuro “tematizza” in un modo ancora diverso questo rapporto tra il piacere e il tempo: non collegandolo alla questione del peras e dell’apeiron (per cui il desiderio di immortalità “riproduce”, proiettandola nel tempo-durata, una percezione “indistinta”, non riflessa, del piacere) ma all’ipotesi di una “densità” o “pienezza” della sensazione del piacere che sia in grado di “assorbire”, per così dire, la dimensione del tempo. È anche
1. Cfr. supra, cap. II, pp. 140 ss.
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questo un testo “difficile” – più del precedente, perché c’è anche un problema di emendamento, variamente risolto. La soluzione migliore a nostro avviso, dal punto di vista del significato, è quella accolta da Conche et al., che legge tôi chronôi al posto di to(pôi) kai chronôi (che è la lezione proposta da Diano, e accolta da A.). Ne deriva, quanto alla traduzione, l’espunzione di due parole («estensione e»), così che possiamo leggere: «Se ogni piacere si condensasse in durata, e riguardasse tutto il nostro essere [holon to athroisma, il termine tecnico che designa l’insieme dell’aggregato atomico – forse meglio, con Conche, in questo caso, “organismo”] o le parti più importanti della nostra natura, i piaceri non differirebbero mai tra loro». Il verbo giustamente tradotto con «si condensasse» è katakypnoô (al passivo: “esser riempito, “pieno”); il secondo verbo, che regge esclusivamente il complemento “di luogo” (peri; questa è una ragione per diffidare del topôi kai chronôi), è hyparchô – “riguardare”, ma piuttosto “essere presente” (Conche), “verificarsi”. Epicuro formula la sua ipotesi (che “ogni” piacere possa essere “lo stesso” piacere) secondo un duplice riguardo: allo spazio (“esserci” in tutta l’estensione di un corpo senziente, o almeno nei suoi kyriôtata merê, «le parti più importanti») e al tempo (si tratterà, analogamente, di un tempo “condensato” nel senso che la sensazione del piacere lo occupa “tutto”: la “coscienza del tempo”, potremmo dire, “fa tutt’uno” con la coscienza del piacere – non c’è, per la coscienza, “un altro tempo” rispetto al piacere attualmente sentito). Nella sua edizione, Conche spiega questo testo, in una lunga nota, come se i “diversi piaceri” di cui Epicuro vuole indicare una possibile “coincidenza” (è da credere intanto che questa possibilità sia “importante” dal punto di vista morale – perché altrimenti evocarla?) siano posti inizialmente come rispettivamente “dell’anima” e “del corpo”. E c’è, nella sua argomentazione, un passaggio che merita di essere ritenuto: «l’âme seule, par l’attention et la mémoire, peut condenser les plaisir. Si tous
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les plaisirs, même ceux du corps (grâce à l’âme) se condensaient et duraient»2 – allora, con la seconda condizione che riguarda l’yparchein peri holon athroisma, non ci sarebbe differenza tra loro (cioè appunto, secondo lui, quelli del corpo e quelli dell’anima – che è qui ovviamente dianoia, animus-mens). C’è in questa argomentazione anche, ci pare, un vistoso punto debole, che riguarda la spiegazione dei kyriotata merê come «atomi della sensibilità». Non si vede perché Epicuro avrebbe “spazializzato” l’ambito della sensazione (di piacere) una prima volta, impropriamente, con il riferimento alla “totalità degli atomi” (che compongono l’athroisma), e una seconda, tautologicamente, limitandolo agli “atomi che sentono” – definiti come “i più importanti”. Ma bisogna soprattutto chiedersi: perché in che cosa, la condizione evocata da Epicuro è “desiderabile”? In questo piacere “unico”, e perciò sempre uguale, non è forse da vedersi proprio il piacere-fine – la possibilità di questo piacere, che rende a sua volta “possibile” il progetto edonista? Sappiamo bene che “scegliere” il fine del piacere significa non già “cercare”, sempre di nuovo, singoli, particolari piaceri, ma considerare “il” piacere come la realizzazione compiuta della propria “natura” – e dunque “pensare” il piacere come stabile, permanente, in relazione a questa natura. E sappiamo che per questa stabilità del piacere – che è insieme la differenza con un altro “tipo” di piacere, in quanto diversamente considerato – Epicuro ha un nome – catastematico. Tutti i piaceri sono cinetici, in quanto “avvengono” qui ed ora – che vuol anche dire in un certo particolare “luogo” all’interno del tutto corporeo o in un singolo, momentaneo “stato di coscienza”. Ma nel “punto di vista” del piacere catastematico il “qui” e l’“ora”, propriamente, si annullano (o, che è lo stesso, si dilatano): se il 2. «solo l’anima attraverso l’attenzione e la memoria, può condensare il piacere. Se tutti i piaceri, anche quelli del corpo (grazie all’anima), si condensassero e durassero».
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piacere “occupa” stabilmente tutto il mio essere non può essere “delimitato” in rapporto a “parti” del tempo e dello spazio che “non ci sono” – perché sarebbero “fuori” di questo mio essere. Se si integrano questi riferimenti nella lettura della massima, la tesi di Epicuro si può formulare in questo modo: tutti i piaceri sarebbero “uguali” – sarebbero cioè, “ogni volta”, “il” piacere (catastematico) – se “ogni volta” il piacere fosse “sentito” come stabile, “completo”. Immediatamente (cioè come “coscienza di sensazione”), ciò implica una condizione relativa all’“estensione”, al livello del corpo (come aggregato atomico che “contiene” la sensibilità): che il piacere “occupi”, in atto, tutto l’essere sensibile (ma questo “tutto” non comprende, necessariamente, “tutti” gli atomi senzienti: l’interpretazione di ta kyriôtata merê tês physeôs non richiede forzature – basterà intendere qualcosa come “le funzioni principali dell’organismo”: se physis è “il proprio” del nostro essere corporeo, nel suo regolato e costante riprodursi, possiamo distinguere la percezione di questo “funzionamento d’insieme” dai singoli, minimi “accidenti” della sensibilità). Ma questa condizione non è sufficiente, perché l’insieme dell’aggregato contiene anche gli “atomi della mente” – che sono dotati della “facoltà” rappresentativa, noetica. Ci sarà allora una “rappresentazione” del tempo – a cui la sensazione si trova ad essere “commisurata”. Ma nessun piacere può “essere” catastematico (il piacere catastematico è impossibile) se non è “sentito” come stabile; cioè, possiamo dire adesso, se la rappresentazione del tempo (che partecipa, “si aggiunge” all’“atto apprensivo”) rimane “vuota” rispetto al “contenuto” della sensazione. Il piacere “rimane” allora essenzialmente provvisorio, episodico – che vuol dire che la sua “revocabilità”, nel tempo, può essere percepita, “sentita” come una sua “qualità”. La “condensazione” che qui Epicuro evoca è appunto, invece, un “fondersi assieme” del contenuto della sensazione e della rappresentazione del tempo: il tempo (la sua rappresentazione) è tutto “riempito” dal piacere – non una
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“durata” percepita come tale, “esterna” al piacere, ma il piacere stesso che dura, che è duraturo. “Realizzando” il piacere rendo compiuta, “attuo” la mia natura: non penso che, “dopo”, di nuovo, la perderò. Tutto questo naturalmente “ha senso” solo in relazione con, in dipendenza da, una “attività”, una disposizione, una capacità dell’“anima”. Se torniamo a MC XX, per completarne la lettura, troviamo che essa conclude la descrizione della dianoia come labousa ton epilogismon tou… (che ha “compreso la verità”, potremmo dire, circa il peras e il telos sarkos) fermandosi sull’atteggiamento che essa assume, di conseguenza, “di fronte” alla morte. È qui che la morte è definita come una exagôgê ek tou zên: l’individuo (“l’anima”, è la traduzione più comoda in questo caso per dianoia) è confrontato alla sua «uscita dal vivere», come se fosse un suo proprio “atto” – qualcosa che “lo riguarda”, al cui proposito deve “prendere posizione”. Non “gli basta” certo il rilievo dell’assoluta estraneità tra “il morto” e “il vivo” (“chi” esce dalla vita? Alcune traduzioni, tra cui A. e Conche, “aggravano la situazione”, preferendo al più neutro “uscire” un «lasciare la vita» – che riflette ancora di più il “senso comune” della morte). Epicuro, in queste linee, definisce il modo in cui il saggio muore. E lo fa in stretta connessione con la “giusta comprensione” di cui sopra: avendo effettivamente perseguito, potremmo dire, “il fine” (nel suo peras), l’anima muore senza “sentire” alcuna “mancanza”: non c’è per lei “niente”, in quel momento (hênika), che “sia rimasto indietro”, niente che sia mancato alla “vita migliore”. Epicuro scrive: oud’hênika tên exagôgên ek tou zên ta pragmata pareskeuazen, hôs elleipousa ti tou aristou biou katestrepsen – che traduciamo: «né, quando le circostanze hanno disposto l’uscita dalla vita, muore come se le mancasse qualcosa [o: “come se avesse perduto qualcosa”, “lasciato indietro qualcosa”] della vita migliore». È, tipicamente, la sensazione di una mancanza che rende doloroso il morire (e pauroso il pensiero della morte); ma il saggio, al momento di
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morire, non “pensa” (soggetto è sempre la dianoia) che “non c’è più tempo” per vivere (provare ancora a vivere) un aristos bios – alcunché (ti) di quanto lo forma essenzialmente non è “rimasto indietro”, fuori, così che lo si potrebbe, “se solo ci fosse ancora tempo”, recuperare; muore sapendo che la vita vissuta è stata, è, la vita migliore. “Prospettivamente”, potremmo dire, il saggio avrà già “scoperto” che un immaginario prolungarsi della vita oltre ogni limite di durata non aggiungerebbe nulla alla sua “qualità”; perché avrà scoperto (e insieme “deciso”: sarà riuscito a “sentire” la sua vita in base all’orientamento che le avrà dato) che il fine dell’aristos bios può essere realizzato “quale che sia” questa durata (che non è – essa – qualcosa che si possa “sentire” come piacere). Allora “sento” la finitezza del (mio) tempo, la sua “differenza” rispetto all’in(de)finito della durata (io “morirò”, mentre invece il tempo “continua”), e la sento come dolore, se mi rappresento il piacere come sempre e solo cinetico – se lo “sento” come instabile. Ma se questa fosse “l’unica possibilità”, allora nell’infinito del tempo non avrei altro che l’infinita ripetizione di questa stessa instabilità. La morte diventa “l’assoluto” del dolore, se in essa vedo il passaggio al limite (o se si preferisce “l’indice” ontologico) dell’instabilità del piacere – e allora il piacere è “corrotto”, come dice Orazio, nel suo stesso esserci, sempre. Ma il piacere può essere “sentito” come in sé compiuto, come pienezza d’essere: se è, in atto, il compimento e il fine di una natura (individuale) – il “tutto” che in essa è potenzialmente dato. Se “rompo” questo legame, mi perdo nei miei fantasmi, “falsifico” le mie sensazioni, allora la mia vita diventa apeiros (e “ignara”) – come l’in(de)finito dell’indifferente durata. Ma c’è ancora, nel testo di questa massima, un passaggio che non abbiamo commentato, una condizione che Epicuro “aggiunge” perché si possa effettivamente “produrre” un pensiero della morte non più connotato dal carattere della perdita, della mancanza. La dianoia dev’essere non solo labousa ton
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epilogismon circa il telos e il peras (della vita, nella sua radice fisico-corporea – sarkos); ma anche tous hyper tou aiônos phobous eklysasa (deve «aver dissolto i timori circa l’aiôn»). La traduzione comunemente adottata, per aiôn, è eternità («tolti i timori relativi all’eternità»); e certo è legittima – “eternità” è uno dei due sensi fondamentali di aiôn, e le altre due occorrenze nel corpus hanno senza dubbio questo valore. Ma non pare che essa dia, qui, molto senso. Bisognerebbe intendere che Epicuro voglia ancora richiamarci al tema della vita dopo la morte, di cui si potrebbe ancora “aver paura” (dunque: gli dèi), se non si fosse già chiarito che la “vita eterna” non c’è. Sarebbe, ci pare, una precisazione inutile: Epicuro metterebbe “sullo stesso piano”, usando un doppio participio, l’impegno dell’anima a “cogliere” il peras e il telos della vita, con quello di “non dimenticarsi” che la vita, con la morte, finisce. Una simile pedanteria non è certo “nello stile” delle massime – e poi non si vede perché, se avesse voluto rievocare il timore degli dèi (il cui potere di arbitrio sui destini ultraterreni è l’unica giustificazione di un “timore dell’eternità”) Epicuro non lo avrebbe fatto esplicitamente. Ma soprattutto, se si tien fermo all’“asse principale” del ragionamento (l’esatta definizione del piacere come fine della vita ci consente di sfuggire al fantasma dell’illimitato nel tempo, e quindi al desiderio di immortalità/ paura della morte), questa “aggiunta” ci metterebbe fuori strada – fuori contesto. Epicuro sta parlando di una “percezione” della vita in relazione a se stessa, per così dire; nella posizione di un soggetto cosciente che assume direttamente i contenuti e le forme del proprio essere sensibile come la sua propria natura (“bene”), per scegliere un progetto di vita rivolto ad attuare i bisogni e le possibilità di questa natura. I timori relativi all’aiôn dovranno essere collocati in questo stesso “spazio” di riflessione, definito da una esperienza “diretta” della vita: non astrattamente proiettata nell’ipotesi di una possibile “continuazione” oltre la morte, ma che rimane “segnata” dal limite della mortalità – di una “durata della vita”, così come la conosciamo.
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Il primo significato di aiôn (originario, omerico; e ben vivo ancora nel greco “ellenistico”) è: l’intero tempo (arco) della vita. In un passo del De Caelo di Aristotele si illustra proprio questo “passaggio”, o duplicità : l’uso di aiôn come «eternità», parlando dei corpi celesti («trascorrono essi tutta l’eternità [aiôn] in una vita che di tutte è la migliore e la più bastante a se medesima»), è messo in relazione con il significato attribuito alla parola dagli «antichi», e ancora attuale («si dice infatti aiôn di ciascuno l’ultimo termine che circoscrive il tempo di ogni singola vita»)3. Perché non prendere in considerazione questa possibilità – che i timori da cui liberarsi abbiano proprio questo oggetto, siano relativi al pensiero della (propria) vita come un “tutto”, dall’ini zio alla fine (dalla nascita alla morte)? In GV, 75, leggiamo: «Ingrata verso i beni passati è quella voce che dice: guarda al termine di lunga vita». Questa “voce” la conosciamo bene, ci è tramandata in moltissimi luoghi delle lettere greche (e poi latine, e moderne), è un’espressione autorevole della “saggezza”, una voce “antica”: appartiene, secondo Erodoto, a Solone. I poeti tragici, in particolare, l’hanno fatta risuonare spesso, declinando in vari modi la gnômê, il “detto”, che qui Epicuro enuncia in quattro parole: telos hora makrou biou. Citiamo uno di questi luoghi, l’inizio delle Trachinie di Sofocle. Deianira menziona (v. 1) il logos archaios dandogli questa forma: «non si può conoscere la vita / di un uomo prima che costui sia morto / se gli è stata propizia o sfavorevole»4. “La vita di un uomo” (il testo dice: “dei mortali”) è aiôn – all’accusativo: aiôna brotôn. Ma qui Deianira (succede anche in altri luoghi tragici), subito dopo averla citata, “prende le distanze” dall’antica proverbiale sentenza, adducendo una sua propria, personale esperienza (usiamo 3. Cfr. Aristotele, De Caelo, 279a 18 ss. (tr. it. di O. Longo, Sansoni, Firenze 1961). 4. Sofocle, La morte di Eracle (Trachinie), ed. it. a cura di A. Rodighiero, Marsilio, Venezia 2004, vv. 2-3, p. 55.
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stavolta la traduzione di Lombardo Radice, anch’essa in versi): «[…] Ed io la mia / anche prima di scendere nell’Ade / pure già so che m’è sventura e peso»5. Vuol dire che “non ha bisogno” di aspettare la fine, completare il suo aiôn, per “sapere”, per poter dire che la sua vita è – quello che è: per quanto tempo ancora vivrà, per tutto ciò che ancora potrà vivere, l’esperienza del dolore, del male già vissuto ha fatto di questa vita una “sventura”; è stata così “pienamente”, potremmo dire, “sventurata” che nessuna futura “buona ventura” potrà farle sentire diversamente il fatto stesso di vivere. Una traduzione letterale del testo sarebbe: so che l’ho avuta (la mia vita) sventurata e pesante – dove “la mia vita” è semplicemente ton emon, riferito all’aiôn che precede. Deianira, insomma, può parlare della sua vita come se fosse già compiuta – giudicarla in toto, a partire dall’“abito” (exis: ton emon… exoid’ekousa) che in lei s’è formato (per come ha “interiorizzato” il dolore vissuto). Si è “abituata” a pensare la sua vita, a sentirla, come un male – e il tempo (futuro), per passare da Sofocle a Brassens, ne fait rien à l’affaire. Se consideriamo “il tempo della vita” (nella prospettiva del suo compiersi, futuro) come una possibile traduzione dell’aiôn di MC XX, possiamo dare un senso coerente con il contesto alla “paura” che lì Epicuro denuncia. È l’esatto inverso, potremmo dire, di Deianira (e per lei, infatti, la considerazione di ciò che ancora manca al compimento della vita, del makros bios a venire, dovrebbe valere, secondo le fanciulle di Trachis, come “speranza”; “paura” e “speranza”, «due dei più grandi nemici dell’uomo», dirà Goethe nel secondo Faust). Chi abbia fatto della ricerca del piacere, nel suo peras, il proprio “abito”, non potrebbe ancora essere insidiato dal pensiero di un “tempo a venire” – in cui il variare delle circostanze gli “tolga” ciò che adesso gli appare come stabile possesso (o “virtù”) di una na5. Sofocle, Le Trachinie, tr. it. di G. Lombardo Radice, in Il teatro greco. Tutte le tragedie, a cura di C. Diano, Sansoni, Firenze 1970, vv. 5-7, p. 249.
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tura conforme a se stessa? È appunto questo l’ammonimento dell’antica sapienza. Epicuro lo rifiuta, in GV, 75, per ragioni uguali a quelle di Deianira – ma da un punto di vista rovesciato: è l’“accumulo” dei “beni” (e non dei “mali”) passati, che “forma” per l’individuo, nel rapporto di sé a sé, il “senso” della (propria) vita – qualcosa che non sarà “rimesso in discussione” da quanti mali (o beni, per Deianira) questa vita può ancora riservargli. La voce che invita a “lasciare in sospeso” il giudizio sul senso/ valore della vita, e così mette al centro del rapporto di sé a sé un’emozione inquieta (l’alternativa “vuota”, sempre “aperta”, di paura/speranza), è definita «ingrata [acharistos]» – rispetto ai «beni passati»; e l’aggettivo ci rimanda ai versi più impegnati di Lucrezio sul tema della morte, quel finale del libro III in cui si trova la prosopopea della Natura che parla agli uomini “terrorizzati”. In quel discorso nel giro di otto versi (935-942) il termine ricorre tre volte – ed è sempre giustamente tradotto, nel nostro testo italiano di riferimento, in un modo diverso. La Natura chiede agli uomini, in particolare allo “stolto”, perché l’animo sia così profondamente turbato dal pensiero della morte; e prospetta, lo abbiamo già visto, questa alternativa: da una parte, «si grata fuit tibi vitam anteacta priorque» («se ti è stata gradita la vita che hai trascorsa prima» – rispetto al “momento” della morte, non importa ovviamente se “reale” o immaginato). Questo primo grata si specifica e approfondisce, nei due versi seguenti, “in negativo”: se, cioè, i «beni [commoda]» passati non li puoi dire «ingrata interiere» (non puoi dire che «si sono dileguati senza che ne godessi»). Allora, in questo caso, puoi lasciare la vita «aequo animo, ut plenus… conviva» («come un convitato sazio»). Ma se, invece, «i godimenti che ti sono stati offerti sono stati dissipati / e perduti» – allora, possiamo dire, sei stolto due volte, quando «amplius addere qaeris» (si noti: “aggiungere”, “di più” – temere la morte è uguale a “desiderare altro tempo”): perché allora desideri un amplius (ciò che si aggiungerà) che di nuovo (rursum) «pereat male et ingratum
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occidat omne» («andrà malamente perduto e tutto svanirà / senza profitto»). E poco più avanti, nel contesto immediatamente successivo sui castighi infernali, il supplizio delle Danaidi è “spiegato”, con una quarta occorrenza del termine, come compiuta metafora di un «animi ingratam naturam pascere semper» («pascere sempre l’insaziabile natura dell’animo»; v. 1003). L’opposizione grata/ingrata-ingratum-ingratam si rivela dunque semanticamente assai ricca (in greco, ricordiamo, acharistos dice l’assenza di charis – sostantivo a cui corrisponde, come a chara, il verbo chairo – “compiacersi”, “esser felice di”, “provar piacere”). Il grata del v. 935 è «gradita» – e le successive negazioni dicono tutte che dei beni della vita non abbiamo realmente goduto; fino a denunciare, con l’immagine delle Danaidi, una «natura dell’animo» (dello stolto) «incapace di godere»: non c’è spiegazione, per il “mancato godimento” (di un “bene” – di un’assenza di dolore), che non sia “soggettiva” – e la Natura ha ragione, allora, di far notare che proprio “non c’è ragione” di immaginare (aspettarsi) un godimento futuro (quali sarebbero, questi beni “nuovi”?), quando si sia vissuta una vita “ingrata”. L’opposizione lessicale mette in gioco molto di più (e di assai meno “insipido”) che un “obbligo di riconoscenza”. Conche rimanda giustamente, nella sua nota a GV, 75, al testo di una massima precedente, la 55; soprattutto, aggiungiamo, alla prima parte di questa massima, che dice: Therapeuteon tas sumphoras têi tôn apollumenôn chariti. Si tratta qui di una “terapia del dolore”, del “giusto metodo” per affrontare “i mali” («curare le disgrazie»); ed Epicuro raccomanda, a questo proposito, una charis tôn apollumenôn – vi andrà visto non semplicemente la riconoscenza per «ciò che va [è stato] perduto», ma un “sentimento” che rimane pur nell’“esser perduto” (passato) di ciò che lo suscitava (si noti che è sufficiente il participio sostantivato, “ciò che è perduto”, senza specificare che si tratta di “beni”, “piaceri” – dato che l’affetto in questione è la charis). Il gioco temporale, implicito nell’uso del verbo auto-
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rizza certamente, nella traduzione di têi chariti, a introdurre il termine “ricordo”; ma è molto meglio allora tradurre, come A., «con il grato ricordo», piuttosto che (Conche, Pléiade) «ricordo riconoscente» (è vero che non c’è in francese un preciso equivalente di “grato”, ma forse un souvenir joyeux, per esempio, sarebbe migliore). Non basta “ricordare”: il ricordo deve servire a “render presente” a riattivare la “traccia” (“impressione”) del bene vissuto – che è tanto più possibile quanto più questa traccia sia stata “profonda”, intrattenuta e coltivata dall’“abito” della charis. Nel frammento epistolare 138 Us., 52 A., che già conosciamo, Epicuro ci dà un esempio “personale” dell’applicazione della terapia: ai «dolori della vescica e dei visceri si opponeva la gioia dell’anima [to kata psychên chairon] per il ricordo [epi têi… mnêmêi] dei nostri passati ragionamenti [o: “conversazioni”] filosofici». Il ricordo è terapeutico in quanto “rinnova” il piacere, è, in atto, “causa” del piacere. Avevamo, si ricorderà, brevemente commentato questo luogo – nel contesto della teoria del desiderio. E avevamo allora soprattutto insistito sul “buon uso” del ricordo – che ci rimette in contatto, per una “concentrazione” della volontà, con ciò che è “conservato” nella memoria. Il ruolo della dianoia consiste, in questo caso, nel selezionare questi contenuti, ri-presentandoci, facendoci “rivivere” “la scena” del piacere. Questo “contatto” è possibile, “riattivabile”, perché l’apprensione di un “contenuto” (in questo caso “l’immagine”, custodita nella memoria) non impegna soltanto la passività della sensazione (che qui “non c’è”: quel contenuto non è “dato” ai sensi); la funzione attiva della dianoia è per Epicuro “strutturalmente” coinvolta nel processo di formazione della rappresentazione – nel rapporto “immediato”, possiamo dire, tra “coscienza” e “oggetto”. Troviamo nel corpus, vi abbiamo già fatto cenno, una formula ricorrente (due volte: in D.L., 31, 5; e in MC XXIV) per esprimere il rapporto tra “l’anima” (dianoia) e “l’immagine”: phantistikai epibolai tês dianoias. In D.L. essa precede uno sviluppo
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sulla sensazione, che è di per sé alogos (A.: «irrazionale») e «non partecipe della memoria» (trad. della Pléiade: «n’est susceptible d’aucune mémoire»). Ma l’epibolê tês dianoias (che corrisponde all’iniectus animi di Lucrezio, II, 740: la mente che «si slancia verso» l’oggetto per coglierne, oltre la testimonianza dei sensi, l’esatta definizione) rende «percepibile» (e “rispecchia” in una immagine) il contenuto di una nozione/ rappresentazione che non si trova, in atto, impressa nella sensibilità. Questa operazione è essenziale per “trascrivere” il dato sensibile nella memoria – renderlo “disponibile” nel ricordo. E viene, per così dire, “ripetuta” quando l’anima – sulla base di un’abitudine che si sia in essa formata – ritrova (ricerca) dentro di sé la «sensazione passata» (per esempio di piacere; “associata” ad un contenuto rappresentativo), per farsene di nuovo o ancora «impressionare». Epicuro “anticipa”, potremmo dire, e completa, una “teoria del ricordo” che sarà propria di Bergson: l’attività della memoria che contribuisce a determinare il valore affettivo delle percezioni presenti/future; “aggiungendovi” il rilievo, essenziale, della funzione della dianioia nella genesi dell’impressione – nella formazione del contenuto rappresentativo che vi è connesso). Quando Conche traduce la formula epicurea con appréhension immédiate de la pensée ha ragione, in un senso, di sottolineare l’immediatezza del “fatto apprensivo”; ma collocare nel pensiero questa immediatezza implica un rapporto di “collaborazione attiva” (che può anche valere come “sostituzione”) tra dianoia e aisthêtêria – quello stesso che si trova “dichiarato” in LE, 50, 4-5 dove leggiamo che «l’immagine [phantasia]» può essere colta (il verbo è: lambanô) epiblêtikôs têi dianoiai ê tois aisthêtêriois (che A. giustanente traduce: «sia per un atto di apprensione – l’avverbio, epiblêtikôs – della mente che dei sensi»). Epibolê è “lo stesso” che epiblepsis (che si potrebbe tradurre letteralmente: “guardare con attenzione, concentrazione”); siamo, se si vuole, nel solco di una tesi aristotelica: «infatti le immagini
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sono come le sensazioni, tranne che sono prive di materia [ta gar phantasmata hôsper aisthêmata esti, plên aneu hylês]»6. È questo rapporto di “intimità” tra pensiero (o intelletto) e immagine, percezione, che viene sottolineato per esempio nelle traduzioni di Bignone e della Pléiade di phantastikai epibolai tês dianoias (rispettivamente, «intuizioni percettive dell’intelletto» e «percezioni immaginative del pensiero»); e A., per parte sua, può ben tradurre le due occorrenze dell’espressione con «atto di attenzione della mente» (la seconda) e «nozioni che derivano da atto volontario della mente» – dove il termine “nozione” è accettabile nel senso di “contenuto rappresentativo”, “immagine mentale”; poco dopo, in D.L. 32, 9 ss., troviamo che «tutte le nozioni [epinoiai pasai] provengono dalle sensazioni», kata (in base a, per, secondo) «incidenza, analogia, somiglianza, unione, intervenendovi anche in parte il ragionamento [ti… tou logismou – qualcosa che ha a che fare col ragionamento]». Le “operazioni” della dianoia (confronto, collegamento, unificazione, i primi “schemi di ragionamento”, sullo sfondo di una memoria) concorrono a determinare il contenuto della rappresentazione – che “prende origine”, sempre, dalla sensazione, ma poi è di fatto costituito, come “causa” dell’affetto, nel “legame” tra i due livelli (sensazione e rappresentazione). È per questo che, quando il contenuto “soggettivo” dell’atto apprensivo (o l’affetto che vi corrisponde) sia la sensazione del piacere, la funzione della dianoia (determinazione del peras, comprensione del telos) non solo può qualificare, “immediatamente”, questo contenuto/affetto, ma trasformarlo (nello stesso movimento, e attraverso l’abito che nasce dalla ripetizione) in un “possesso perenne”, che può essere «sempre confermato», nell’attività della memoria. Ed è proprio questo sempre che “eguaglia” (o “neutralizza”) il tempo, in relazione al piacere. Il “vero” argomento di Epicuro per “falsificare” la rappresen6. Aristotele, De Anima, 432a 9 (tr. it. di G. Movia, Bompiani, Milano 2001).
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tazione angosciosa della morte, o piuttosto la tesi che lo contiene, è in MC XIX: «L’infinito tempo e il finito hanno uguale quantità di piacere, ove si misurino i limiti di esso con la ragione [tôi logismôi]». In alcuni dei lavori migliori sull’etica di Epicuro è stata sottolineata l’importanza di questa concezione del rapporto tra “il piacere” e “il tempo”, in relazione al tema (alla paura) della morte. Per esempio nel volume di Jean Salem, Tel un dieu parmi les hommes; dove, in un capitolo che porta il titolo Le temps du plaisir, si cita uno studioso italiano, Romano Amerio, che aveva usato il termine «ucronia» per caratterizzare il tema epicureo di una esistenza umana pensata «come se non fosse tutta entro il tempo», ma piuttosto in «una sorta di presenza eterna», che vale come «liberazione rispetto alla temporalità».7. Per parte nostra, vorremmo insistere sul fatto che il “messaggio” epicureo implica un alto grado di “fusione”, per così dire, tra l’apporto della ragione (interpretazione e “scelta” – e “attenzione”) e l’immediatezza della sensibilità (da ciò dipende, in ultimo, la praticabilità e l’efficacia dell’“esercizio” filosofico, come produzione di un “abito” psicologico). Nella massima appena citata (che dev’essere considerata, ripetiamo, come il “passaggio” decisivo) non si può comprendere diversamente la funzione del logismos («ragionamento») che misura (abbiamo appena letto) i limiti (cioè determina il valore, il “significato”) del piacere: che nel tempo finito (peperasmenos) ci sia un piacere uguale (isên echei tên hêdonên) che nell’apeiros, dipende da una “qualità” della sensazione che “non ci sarebbe” se il piacere stesso (la sensazione) non fosse «misurato» nel suo peras, nella (dalla, secondo la) ragione (in positivo: ean tis autês ta perata katametrêsêi tôi logismôi). Non certo (solo) un “ragiona7. J. Salem, Tel un dieu parmi les hommes. L’éthique d’Épicure, Vrin, Paris 20093, pp. 55-56; che rinvia a R. Amerio, L’epicureismo e la morte, in «Filosofia», III, 1952, pp. 541-576.
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mento” per cui “so” (astrattamente) “che cos’è” il piacere; ma l’effetto concreto di un “modo di sentire” che sia intimamente connesso con il “modo di considerare” (rappresentarsi) il “contenuto” (che è anche la “qualità”) della sensazione. Il meccanismo del ricordo non è che un’illustrazione di questa possibilità: se l’attualità di una sensazione può essere “richiamata” a partire dalla rappresentazione o “immagine” (legata all’oggetto, alla “scena”) che se ne è formata nella memoria – evidentemente grazie a un “lavoro” di selezione, confronto, “valorizzazione”. Si comprende allora che la liberazione dalla paura della morte “faccia tutt’uno”, come abbiamo visto, con la “dissoluzione” del desiderio di immortalità. Che la paura sia così intimamente collegata, quasi “l’altra faccia”, del desiderio, dice appunto che il “vissuto” del piacere (che comprende l’“attività” della rappresentazione, e dunque anche la possibilità di una proiezione nel tempo) è direttamente “investito” da un processo di “qualificazione” – che impegna le risorse, e detta i fini, della dianoia, in quanto “collabori” con la sensibilità. Se questa “proiezione” nell’apeiros della durata può apparire come un desiderio “necessario”, dell’individuo, la definizione del piacere nella pienezza della sensazione attuale ce la fa riconoscere al contrario come un prosdoxazomenon – l’effetto di un “moto connesso” all’atto apprensivo. Possiamo dunque considerarla, in base a quella definizione, come un “errore”. Ma abbiamo visto, studiando la fenomenologia del desiderio, che il rapporto dell’individuo al piacere, e alla “causa” del piacere, si trova ad essere determinato anche dalla rappresentazione che se ne fa – che “incide” direttamente sulla “qualità” della sensazione. Se i desideri “vuoti”, nella tassonomia, possono essere compresi anch’essi fra i “naturali”, è in fondo per questo: la natura “è attratta”, cerca il piacere (fugge il dolore) – ma nell’individuo “cosciente” ciò vuol dire: tutto ciò che può essere “rappresentato” come piacere (ed eventualmente come “aumento” o “variazione” del piacere). Il lavoro della phronêsis è necessario per proteggere la sensazione
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del piacere da ciò che “vi si aggiunge” nella rappresentazione (in quanto può avere effetti “controfinalistici”). Ma questo lavoro “non servirebbe a nulla” se non potessimo contare sull’evidenza, sull’energeia, se non potessimo “concentrarci” sulla realtà in atto del piacere (e di qui trasferirla, conservarla nel “fantasma”). Per dissolvere il desiderio “vuoto” dell’immortalità abbiamo bisogno di una critica della rappresentazione (in questo caso, del rapporto piacere-tempo del piacere); ma abbiamo anche bisogno (in stretta connessione con questa “critica”, con il “controllo” della rappresentazione) di un “esercizio” della sensibilità che sviluppi, che “rafforzi”, per così dire, la sua “ricettività” – rispetto al piacere in atto, nella sua “vera” qualità. Il lato “ascetico” che abbiamo indicato come “chiave” dell’elogio della frugalità (come esperienza “ideale”, interiorizzata, della sussistenza del piacere, rispetto ai contenuti aleatori del desiderio), si dà a vedere qui come “elogio” della mortalità (che dev’essere, abbiamo letto, «gioiosa [apolauston]»). Come la frugalità, evidentemente, anche la mortalità non può certo essere in sé “un piacere” (un bene); ma così come il sentimento del piacere può essere “intero” solo quando non sia collegato alla realizzazione di questo o quel particolare desiderio (di ciò che “manca”), allora “sentiamo” veramente il piacere quando la sensazione è così “piena” da reggere la prova del limite temporale: quando il piacere realmente sentito non è diminuito (“corrotto”) dalla rappresentazione (ipotesi, possibilità) del suo prossimo, imminente svanire.
Vivere in poesia: il presente come orizzonte e come ripetizione Per rendere più concreto, “visibile” questo intreccio (tra liberazione dalla paura e “valorizzazione” della sensazione di piacere), può forse essere utile rifarsi a certi luoghi del patrimonio letterario in cui il rapporto tra un vissuto del piacere (o in ge-
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nerale dell’affetto) e la rappresentazione del tempo è plasticamente “sbalzato” – in cui il pensiero della morte, della fine, si trova più direttamente collegato con l’esperienza effettiva di ciò che forma il “proprio” della vita. Fra mille, ne scegliamo due – e il primo lo ricaviamo da quel romanzo che già ci ha fornito, liminarmente, un esempio (e anche un contro-esempio) del bisogno di formarsi un’“idea della vita” in rapporto a una verità “generale” – della speranza di trovare nella (in una) filosofia l’“illuminazione” circa il “come bisogna vivere”. Un altro protagonista di quel romanzo, il figlio del console Thomas, è il piccolo Hanno, l’ultimo erede dei Buddenbrook. E una delle parti più belle del romanzo è quella che racconta la sua villeggiatura estiva nella località balneare di Travemünde (villeggiatura di famiglia che era già stata il quadro di un altro episodio particolarmente memorabile, l’idillio socialmente impossibile di sua zia, Tony Buddenbrook, con il giovane Schwarzkopf). Questa villeggiatura, che si ripete ogni estate, è per il piccolo Hanno il periodo più bello dell’anno. Non va volentieri a scuola, e la vita in città, la vita domestica, gli è vagamente penosa. Travemünde, la vita in riva al mare, libera da ogni pressione, ha per lui tutto il gusto della libertà – e insieme dell’avventura, della scoperta. Tutto è più divertente e interessante – soprattutto, Hanno può esser lì totalmente “spettatore”, disporre interamente del suo tempo, esplorare la natura e l’ambiente. Ma questo periodo di sospensione di ogni regola e obbligo, consacrato interamente al piacere, ha ovviamente una sua durata: un mese, il tempo delle “grandi vacanze”. Hanno lo sa: parte, ma ritornerà, le vacanze finiscono, la scuola ricomincerà. Tutta la descrizione dei pensieri e delle emozioni, il “tempo” di Hanno al mare, la serie delle sue giornate, è nel romanzo esattamente divisa in due, a metà: per i primi quindici giorni, non c’è altro che la gioia. Quando parte, e per le prime due settimane, Hanno “non pensa” al ritorno, alla fine delle vacanze. Ma a un certo punto, e precisamente al quindicesimo giorno, quando
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mancano non più quattro ma “solo” due settimane, la gioia del bambino svanisce – si converte nel suo contrario. Perché da ora in poi, ogni giorno, quello a cui Hanno “pensa”, continuamente, è che “manca sempre di meno” alla fine. Tutte le sue emozioni, le sue percezioni, sono “attraversate” da questo pensiero – che le colora di angoscia. E questo succede ogni anno. Il piacere di Hanno, a Travemünde, dura quindici giorni, e non un mese. La prima metà… L’incisività di questa “stilizzazione”, ovviamente, sta nel carattere quasi meccanico del mutamento di umore – che ne sottolinea la fatalità ma insieme lo “strania”, ironicamente, conferendo un carattere corposo, concreto, all’“astrazione” del tempo. I “segni” del calendario prendono possesso della vita di Hanno, in villeggiatura, come se la qualità specifica di ogni singola emozione non fosse che un loro riflesso. Non c’è più lo spazio, le cose, ma solo il tempo – che misura porzioni fatalmente decrescenti della durata. E questo diventa la “sostanza” dell’emozione. Il “problema” di Hanno non è, da questo punto di vista, la ripugnanza per l’ambiente scolastico, la vita cittadina, in cui “sarà costretto” a tornare. Non c’è dubbio che la sua gioia si nutre della differenza fra i due “regimi” di vita. Ma questa differenza non potrebbe operare, se non si incarnasse ai suoi occhi nelle occasioni di piacere che la vita a Travemünde, d’estate, gli offre. Sono queste “occasioni” che Hanno da un giorno all’altro (non appena si formula chiaramente in lui “il pensiero della fine”: quando quel che resta del tempo diventa “meno” di quello che è già passato) perde. Tutto è rimasto uguale (lo sarà fino all’ultimo giorno). Ma “prima” era piacere – adesso, da adesso, dolore. Se il piccolo Hanno fosse un saggio epicureo, allora sarebbe riuscito a “convincersi”, e a “sentire”, che il piacere, poniamo, di respirare l’aria del mare c’è quando, effettivamente, si respira l’aria del mare; e che non cambia in base alla distanza, astratta-
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mente misurabile, di questo “ora” da quello, ipotetico, in cui si salirà sul treno, per tornare in città. Se potesse cambiare, non sarebbe mai un piacere – perderebbe la sua “concretezza” (non avrebbe un peras – non sarebbe, propriamente, nulla). Ma questo, che ora è scritto come un pensiero, “corrisponde” alla sensazione che provo, quando sto in riva al mare (se la provo). Se riesco a “concentrarmi” in essa. Che poi non vorrà dire “costringermi” (ridicolmente) a “non pensare” al treno. Ma allora starò appunto “pensando” – e nulla, a priori, mi vieterà di “dirigere” il mio pensiero – in modo da “proteggere” questa sensazione. Penserò, per esempio, al piacere che proverò ritornando, l’anno prossimo, o al ricordo di questo piacevole odore, che mi seguirà in città; oppure, anche, che forse non prenderò il treno, perché morirò qui, fra dieci minuti – e allora sarà l’immagine di “tutta la mia vita” che susciterà il mio “affetto”; piacevole, “grato”, se la mia vita è stata essenzialmente questo (che ora mi appare, perché già tante altre volte mi è apparso, come “l’essenziale”): il piacere di starmene in riva al mare. Quest’ultima “variazione” ci introduce al secondo dei nostri “luoghi poetici” (tra mille, ovviamente). L’ultima grande fioritura del genio lirico di Goethe la indichiamo comunemente nella cosiddetta Trilogia della passione – l’opera ispirata dal suo innamoramento “senile” per la diciassettenne incontrata a Marienbad e chiesta in moglie (Goethe aveva quasi ottant’anni – era altrettanto attratto, epicureanamente, dal ben vivere – “per quel che di dolce c’è nella vita” – che dal ben morire). Ma solo il componimento centrale, Elegie, riflette direttamente l’episodio. Poco dopo, Goethe vi aggiunse quella che è ora la poesia iniziale, An Werther: l’intensità delle emozioni provate, che lo avevano anche esposto al ridicolo, lo inducono, per così dire, a rivolgere uno “sguardo d’assieme” sulla propria vita, come “esperienza della passione”; e sorge, in questa memoria, la figura della sua prima, epocale creazione romanzesca – quel giovane Werther in cui, secondo una convenzione interpreta-
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tiva che qui il poeta assume in proprio, aveva allora “rappresentato” un momento della sua vita, che avrebbe potuto anche essere “conclusivo”. A questo alter ego giovanile, “morto” cinquantatré anni prima, il vecchio Goethe dedica retrospettivamente la sua meditazione. Quello che ci interessa, in questa poesia, sono gli ultimi due versi della prima stanza, che dicono: «io a restare, tu a partire chiamato / mi precedesti – non hai perduto molto [Zum bleiben ich, zu scheiden du erkoren / Gingst du voran – und hast nicht viel verloren]»8). L’apostrofe del poeta al suo personaggio vale evidentemente come rivolta a se stesso – il “se stesso” di allora. Più avanti, nell’ultima strofa, Goethe scrive che Werther, morendo, lo ha «lasciato indietro [du liessest uns… zurück]», a ripercorrere ancora di nuovo «la via incerta / delle passioni»; di nuovo innamorarsi, di nuovo “staccarsi” e “morire”. Se l’alter ego Werther, morto a venticinque anni, non ha «perduto molto», è perché aveva “già vissuto” tutto quello che ancora, per altri cinquant’anni, il suo autore, a cui “è toccato” di restare, soffrirà. E il “soffrire” non è qui, evidentemente, “il male”; è il sentire intensamente, la “passione” della vita. La poesia si conclude sull’“essere permanente” del poeta – ciò che il suo “genio” “aggiunge” al “contenuto” della vita-passione, che viene ripreso quasi testualmente in epigrafe alla successiva Elegie: «a me un dio ha concesso di dire che cosa io soffro [Gab mir ein Gott zu sagen was ich leide]». Ma noi e Goethe sappiamo che anche Werther è stato un poeta. Anche se “non ha fatto in tempo” a scrivere il Faust, a venire in Italia – magari a incontrare Napoleone – tutto ciò che è il “proprio” della vita (appunto il “soffrire” – ricordiamo che l’area semantica che 8. J.W. Goethe, Tutte le poesie, tr. it. con testo a fronte, ed. dir. da R. Fertonani, vol. I/2, Mondadori, Milano 1989, p. 923 (tr. liev. mod.).
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Leidenschaft ricopre è quella stessa dell’italiano “passione”, anche in espressioni come “con passione”, “appassionatamente”, ecc.) lo ha vissuto: l’amicizia e l’amore, il rapporto con la natura, la poesia. Non ha «perduto molto», non perché l’altro poeta, che gli è sopravvissuto, adesso “sa” che “non c’era molto da perdere” – il punto di vista di Goethe, in questa poesia, non ha niente a che fare con la sapienza dell’Ecclesiaste. Non ha perduto molto, dice il verso stupendo – propriamente, non ha perduto “nulla” (la sua vita è ouk elleipousa, direbbe Epicuro), perché ha “compiuto” interamente la vita (ha vissuto ton pantelê bion). L’“ora” del morire, il “distacco” (Scheiden ist der Tod, v. 46), non trasforma il “possibile” (i possibili) in una “mancanza” (definitiva) – è già contenuta in ogni esperienza del tempo, quanto si voglia “lungo” o “breve”, perché si ripete nella contingenza indefinitamente ripetuta del patire. Che Werther sia uscito dalla vita “in anticipo”, rispetto all’“istante” in cui anche Goethe morirà, non cambia nulla, nel rispettivo rapporto con la vita. Quando il piccolo Hanno si ammala, verso la fine de I Buddenbrook, è appena entrato nell’adolescenza. Ha fatto in tempo ad andare a teatro, a scoprire la musica, ad “essere” musicista. Ha un amico, il contino Kai Molln, appassionato di letteratura inglese. Ha “verificato” il suo profondo disinteresse per la continuità famigliare, che, gli toccherebbe, da adulto, di incarnare. Allora, scrive Mann, “la vita” si presenta al suo capezzale di malato, e gli chiede di guarire. E Hanno “si gira dall’altra parte”. Ne ha “tutto il diritto”, “tutte le ragioni” – soprattutto, tutti gli elementi. Hanno “sa già” che cosa è la vita – che tutto il tempo a venire sarà, per le passioni o gli affetti che lo riempiranno, una “ripetizione”. Per questo la morte, anche la morte dei bambini, non è, “metafisicamente”, uno “scandalo” (scandalosa è semmai, come dice Dostoevskij, la sofferenza, la sofferenza fisica, dei bambini – anche perché, potremmo aggiungere da epicurei, non può esserci in loro alcuno “scambio” tra aponia
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e ataraxia). La morte “non è nulla”, non può “toccare” la vita – perché la vita “non cambia” in relazione alla morte. Questi esempi possono forse aiutarci a comprendere il rapporto tra un “pensiero della fine” e l’essere in sé già compiuto, nella concreta vicenda della sensibilità, di un processo vitale che realizza il proprio fine nella costante alternativa (nella “scelta”) di piacere/dolore. L’estraneità, l’indifferenza della morte (come evento e come “pensiero”) rispetto al “senso” della vita, così come il saggio lo riconosce e lo “sceglie”, dipende dal fatto che niente può aggiungersi (o togliersi) al “vissuto”, in relazione al variare della durata: la possibilità e la qualità del piacere (fine della vita) non si possono “misurare” secondo il tempo – la vita, rispetto a ciò che le è più proprio, non è in alcun modo “limitata” dal suo finire; in questo senso non è, propriamente, “nel tempo”. Questa radicale estrinsecità, o assoluta contingenza, della morte, della fine della vita, rispetto all’essere-per-sé della coscienza, può richiamare un dibattito celebre, nella moderna tradizione delle “filosofie dell’esistenza”: le pagine che Sartre dedica, ne L’essere e il nulla, a una polemica demolitrice (a nostro avviso “vittoriosa”) contro il Sein-zum-Tode heideggeriano. Naturalmente, la prospettiva filosofica è in quel libro molto lontana da Epicuro – essendo fondata sulla separazione “ontologica” del per sé rispetto all’in sé. La morte è per Sartre completamente “priva di senso”, al contrario che in Essere e tempo, perché è semplicemente, come la nascita, un “dato” della “fattità” umana – un dato “inerte”, che la libertà del per-sé non può (non ha da) “integrare”, “interpretare” (non “incontra”). Per il per-sé la morte non sarà mai “propria”, uno dei suoi possibili (meno che mai il più “autenticamente” suo), perché è il limite “esterno” di tutti i possibili; quand’anche sia “scelta”, come nel suicidio, non farà che mettere fine alla “possibilità di scelta” che caratterizza ontologicamente il per-sé. Ma non c’è bisogno di aderire interamente a questo contesto filosofico per accoglie-
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re molti passaggi dell’argomentazione/descrizione di Sartre – e verificare la loro possibile integrazione in una prospettiva “epicurea”. Prendiamo per esempio il modo come Sartre utilizza una singola vicenda biografica, quella di Balzac (che vale evidentemente per tutti gli “artisti”): se Balzac fosse morto prima del 1829 – prima di aver pubblicato firmandolo col suo nome il primo romanzo che sarà accolto nella Comédie humaine – non sarebbe stato “Balzac” a morire. Questo vuol dire che la morte non può “decidere” del senso/valore della vita (di Balzac). Non ha senso dire che il suo rapporto con se stesso, prima di quella data, doveva “comprendere” (comprendeva) la possibilità del morire: se questo rapporto era tutto incentrato sul “progetto” di essere un grande romanziere – che semplicemente, morendo, sarebbe “rimasto in sospeso”. Se il senso del progetto è “trascendente”, rispetto ai mediocri romanzi che Balzac aveva fino allora scritto (l’essere-scrittore di Balzac, che è il suo “esserci”, a ventinove anni), questa trascendenza non può essere in alcun modo “modificata” dal dato (che è poi una “data”) della morte (come Balzac poteva, in qualsiasi momento, “aspettarsela”). Da un punto di vista epicureo, però, si può andare ancora “oltre”, perché il “senso” dell’esistenza (l’“interrogazione”, heideggerianamente, che il Dasein “è”) si preciserebbe nell’accezione del “fine”: è rispetto al “fine”, e non solo al “senso”, che la morte è “contingente”. Balzac, prima dei trent’anni, “vuole” certamente diventare un grande scrittore; ma non “vuole” soltanto questo. Coltiva progetti “industriali” (per i quali a un certo punto è anche disposto a lasciare la letteratura), è convinto di poter diventare un “politico”, un uomo di stato, vuole la ricchezza (circondarsi di cose belle), l’amore delle principesse, la stima dei circoli intellettuali… Non è nel ’29, scrivendo Les chouans, che “si accorge” di essere un genio – semmai nel ’34, quando lavorando al Père Goriot gli viene l’idea dei personaggi réapparaissants, e lo scrive alla sorella. E anche dopo il ’34, c’è almeno una persona (sua madre) per la quale il ge-
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nio di Honoré non ha strettamente alcun “valore”. Quanto alla Straniera, i balzaciens sanno bene quanto contasse, nel lungo e tenace progetto matrimoniale, il “calcolo” di ottenere “finalmente” la ricchezza e il rango da cui il più grande romanziere di tutti i tempi era rimasto lontanissimo, e quanto per la contessa Hanska (latifondista polacco-ucraina “russificata”) diventare l’amante (a distanza) e poi la moglie di Balzac coinvolgesse motivazioni e condizioni complesse (vanità di bas bleu, resistenza alla mésalliance, esigenze di ortodossia politica, ecc.). Tutti gli “affetti” di Balzac, gli “effetti”, sensibili e ideali, del suo esserenel-mondo, per lui, formano una trama in sé “conclusa” – in nessuno dei suoi “punti” è dato (a noi come a lui) di scorgere la possibilità/necessità del morire come fonte, o inflessione, di una specifica “interpretazione” del fine (o “autenticità”). Non è dunque soltanto il progetto di vita che Balzac ha scelto (tra gli altri; e con gli altri), ma proprio la “vita di Balzac” (inteso come Honoré) tutta intera, in ogni momento, che non “guadagna” e non “perde” nulla, a spostare in avanti o indietro il suo termine. La vita, come per Werther/Goethe, in quanto esperienza degli affetti (dei pathê), “stato” del patire. La morte è “assurda”, insignificante, irrilevante, non (solo) rispetto all’ekstasi del soggetto, che “si fa essere” “non essendo” quello che è – ma perché è indifferente al fine del piacere, all’“esserci” come fine. È su questo “sfondo” che è possibile recuperare tutto il senso della formula “canonica” di Epicuro. La (mia) morte non mi riguarda, e il pensiero della mortalità non è dunque “pauroso” per me, perché il mio “attaccamento alla vita” (quello che alimenta l’angoscia, nella prospettiva della “perdita”) non è (e non può essere, se “ci rifletto su”) che un attaccamento al presente. La vita non è “fine”, se non in quanto mi si presenta, in ogni momento, come una scelta praticabile tra il piacere e il dolore – in cui la coerenza, che posso in ogni momento “veri-
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ficare”, con il fine del piacere vale come principio unificatore, “dà senso” (l’unico senso possibile) alla (mia) durata (che sarebbe altrimenti “vuota”, pura virtualità – e dunque propriamente non “mia”). Ma se la mia durata riceve il proprio senso (diventa “mia”) da quella coerenza, dalla sua costante verifica, dalla possibilità della scelta – allora essa non può “rappresentarsi” che come la realizzazione compiuta (in ogni momento) di ciò che è “dato” in me (che “scelgo”), come il “proprio” che io sono. È questo il senso del mio “esserci” – rispetto all’“io non ci sono” (più) della morte: non ci sono io, “quando c’è la morte”, perché quella alternativa di piacere e dolore, in cui tutta la vita (e la vita di tutti) “consiste”, è possibile solo al presente – in un presente in cui c’è, quando “serva”, una “riattualizzazione” del passato, ma che “non conosce” il futuro se non come progetto (una determinata continuità, la mia durata). Posso “sentire”, “rappresentarmi”, qualcosa come “la (mia) vita” solo in quanto essa è “compiuta” (con tutti i suoi possibili) in questo presente. È necessario che il piacere (catastematico) “si sperimenti”, di fatto, come estraneo alla rappresentazione del tempo – secondo quella dialettica del limite e dell’illimitato che abbiamo cercato di illustrare nel nostro secondo capitolo; ma le condizioni stesse di questa esperienza sono, nel complesso della “condizione umana”, in gran parte da costruire (o ricostruire). L’idea centrale nella morale di Epicuro di una “patologia” – e della morale come “lotta” contro la patologia – esprime appunto questa differenza essenziale tra il possibile dell’esperienza (che rimane inscritto nel “reale”: si dà, per “tutti”, un “esser riempiti” dal piacere, un piacere a cui “non manca nulla”) e il processo effettivo in cui questo possibile “si sceglie”, si riproduce, si “protegge” – contro la minaccia costante del fraintendimento e dell’inibizione. Conquistare l’“abito” dell’indifferenza al tempo (rispetto al piacere) è cosa diversa da un semplice “sapere” che il piacere – l’assenza del dolore, della “mancanza” – realizza in
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ogni momento il fine “completo” della vita – e perciò la vita è in esso “compiuta”, quale che sia la sua (astratta) durata; perché la coscienza di esistere, negli uomini, non si lascia compiutamente “riempire” (senza il “lavoro” della filosofia) da questa alternativa, tra assenza di dolore e dolore, in cui pure consiste il principio ultimo (universale e necessario) della sua (auto)intelligibilità. Per questo è necessario che il “punto di vista” della filosofia sia costantemente confrontato con tutti i modi “concreti” di vivere il rapporto tra la vita e la morte, tra l’alternativa in atto del piacere/dolore e il “passare” (il “virtuale”) del tempo – con la Deianira di Sofocle e il Balzac di Sartre, con il piccolo Hanno e il giovane Werther. Il saggio, come “tutti”, deve imparare, cioè “mettere a prova”, queste verità “difficili”: che la morte, il “limite” del tempo-della-vita, non “appartiene” alla vita; che il tempo, nell’esperienza “vera” del piacere/dolore, è sempre il presente; e che questa esperienza, come esperienza del piacere, non ha “limiti”. Da tutto ciò possono derivare alcune considerazioni di ordine molto generale, che in conclusione brevemente elenchiamo. C’è, nella “filosofia della vita” di Epicuro, una forte istanza di “de-psicologizzazione”. C’è una critica, al limite un rifiuto, della nozione di “identità personale” – come costruzione nel tempo, sottoposta a condizioni, del valore o “qualità” della “persona”. Il “valore” di questa identità personale – principio di unificazione dell’esperienza, “effetto” di auto-identificazione – non è che il permanente, stabile “riflesso”, nella coscienza, del fine naturale, della conformità alla natura come scelta e progetto. Non c’è una “storia” dell’individuo (quello che ci capita, quello che siamo per gli altri, che facciamo o non facciamo) che possa “assegnarci un posto” (ai nostri occhi), fare di noi quello che “realmente” siamo (diventiamo). La polemica di Epicuro contro la nozione di destino non esprime semplicemente l’opzione per un “meccanicismo non-deterministico” (è il tema, nel confronto con Democrito, della dissertazione di
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laurea di Marx), sul piano dell’“essere”, della natura. Il luogo del corpus in cui rimane per noi consegnata è in LM, essenzialmente 134, 1-3; ed è l’unico luogo, possiamo dire (a parte quelli della polemica “personale”, che intravvediamo in certi lacerti), in cui il tono si fa sprezzante, sdegnato: «Era meglio infatti credere ai miti sugli dèi piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici». Questo «destino» (heimarmenê) è, dal punto di vista morale, ciò che “si rivela” all’uomo come una decisione del passato sul presente (che si proietta nel futuro) – quando il presente appare come l’“effetto” del passato (il passato come “causa”). E così che per esempio Deianira nelle Trachinie, dato che l’abbiamo menzionata, si rappresenta la propria vita; e abbiamo visto che il punto di vista epicureo è esattamente opposto: è il piacere “scelto”, non il dolore “subito” (le cui ragioni “mondane” sono per definizione “contingenti” rispetto alla natura), che il saggio considera come la “rivelazione” della propria, “permanente”, identità. È qualcosa, nella continuità del suo “arco vitale”, perché “si sceglie”, costantemente, in funzione del piacere. Deianira, che fa il contrario, può rappresentare, mutatis mutandis, l’esempio di un divenire psicologico che riproduce la “fissazione” del trauma: di quelle vite “segnate”, “per sempre”, da un’esperienza del dolore a cui è stato ritirato il carattere della contingenza – e che perciò ci consegna una volta per tutte a “quello che veramente siamo”. È questo, se si vuole, un punto di contatto tra una morale epicurea e l’“analisi esistenziale” à la Sartre: “mi scelgo” vittima del trauma (o del rimorso, o del fallimento, ecc.), fra tutti i miei possibili, perché lo “scandalo” del dolore sofferto mi rivela a me stesso – la possibilità di soffrire (in quel modo) diventa il mio bene proprio, ciò che mi “singolarizza” nel mondo, eredità e destino. Al contrario, il saggio epicureo scommette sulla “plasticità” – “assolutezza”, nel concreto della sensazione, di ogni presente. Egli può, se ci permettiamo un gioco di parole, “scegliere la scelta”, perché dispone di un criterio di
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valutazione (“paradigma” naturale) per tutte le circostanze, i “casi della vita”. “Diventa se stesso” (potremmo dire, ancora nel linguaggio di Sartre) in quanto “non lo è”: in quanto si riscopre, ogni volta, come originariamente libero da quello che gli altri (società, storia, l’insieme delle “relazioni umane”) hanno fatto di lui – cioè proprio dal suo esser-divenuto, dal suo essere “storico”, nei modi e nelle forme dell’essere-per-altro. Il che implica che l’unica “autenticità” (per usare ancora la parola heideggeriana) sia, rimanga, quella del piacere. La proposta della saggezza epicurea, per cui abbiamo usato il termine “de-psicologizzazione”, consiste dunque da questo punto di vista nel rifiutare il modulo dell’“interiorizzazione” – per cui il rapporto dell’individuo a se stesso non “prende forma”, ogni volta, che nei contenuti e nelle esperienze di un’esistenza mondana; per contrapporvi una capacità di aderire, di “tener fermo”, al criterio unico di ogni scelta: il piacere catastematico come “stato” che corrisponde allo spontaneo “fuggire il dolore” della natura (a questa scelta o criterio ogni successiva “interiorizzazione” dovrà essere confrontata). La “norma” della morale sta in un “modo d’essere” (non semplicemente una “volontà”) dell’anima, che dev’essere prima di tutto “preservato” dalla possibilità di un divenire “estraneo” (perché generato nel flusso dei significanti “simbolici”) alla sfera del sensibile, al riflettersi nella coscienza della sensazione in atto. Il lavoro che l’anima deve compiere su se stessa a questo fine è una scoperta (riscoperta) della verità: verità “universale”, perché ha come oggetto “la natura” – e l’indagine (filosofica) in cui “si scopre” è essa stessa, come sappiamo, un piacere. È il fatto che l’anima possa “mettersi” in questa condizione che spiega, tra l’altro, l’occorrenza a prima vista paradossale di termini come “fiducia” o “speranza”, in relazione al “vissuto” del piacere catastematico. In un frammento già citato dal Peri telous, Epicuro, parlando della «salda condizione di benessere [katastêma] della carne» “aggiunge”, come condizione della «più alta e sicura
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gioia», un peri tautês (intorno a questo katastêma sarkos) piston elpisma; e non può trattarsi, evidentemente, di un “sapere” (un “credere”) relativo al “durare” della hygieia. In questo senso, il bisogno di una «fida speranza» (nella continuità di questa hygeia – per il “catastema” dell’anima) riproporrebbe proprio quel legame, tra la sensazione attuale (di piacere) e la rappresentazione del tempo, che dev’essere invece “disciolto” (perché la condizione di aponia, che è “stabile” in quanto si identifica con il “buon funzionamento” dell’organismo, possa “riflettersi” in una ataraxia). Ma a dover essere dissolto, propriamente, è il pensiero del cambiamento (“in peggio”) – che è sempre possibile, in un futuro quanto si voglia prossimo. È rispetto a questo (solo rispetto a questo) che la «fiduciosa speranza» ha un senso: l’anima “non ha ragione” di sentire come provvisorio, caduco, il proprio “esser riempita” dal piacere (del corpo) – in quanto “riconosca” in questa sua disposizione (a “farsi riempire”) un “abito” acquisito, che corrisponde al suo “proprio”. Ciò che è indicato con quelle parole non è la dipendenza del “benessere” dell’anima da una (impossibile) “previsione”, riguardo al corpo; ma il modo come l’anima, per così dire, “gode” della “stabilità” del corpo – come riesce a “non esser altro” che la coscienza (piacevole) di questo equilibrio organico, in atto. La seconda annotazione può essere molto più rapida, perché è quasi ovvia (il “quasi” dipende dal pressoché generale silenzio, in proposito, della letteratura). Essa riguarda il “valore filosofico” – cioè la pertinenza nel contesto della riflessione epicurea, in ciò che vi si può trovare di più “denso” e “impegnato” – di una formula di grande celebrità, coniata dall’altro grande poeta epicureo di Roma: il carpe diem di Orazio. Il valore di questa “massima” è certo estenuato dalla sua proverbiale fortuna; a questo effetto di “banalizzazione”, e all’indipendenza da Epicuro della più antica tradizione poetica a cui si ricollega, si dovrà in parte la generale ritrosia degli interpreti a riconoscervi un elemento specifico, importante, anzi qualificante,
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della morale epicurea. Ma che l’esortazione oraziana, con tutta la sua posterità, non goda di molto prestigio, come “interpretazione autentica” di questa morale, sarà poi soprattutto dovuto alla preoccupazione che ben conosciamo: “proteggerla”, questa morale, dal “rischio” dell’edonismo. Ebbene, la liberazione dalla paura della morte e dal desiderio dell’immortalità, l’“ucronia” del sentimento della vita, la possibilità/necessità dell’attaccamento al presente come abito psicologico che corrisponde al fine del piacere (e dunque al “valore” della vita), non solo “implicano”, ma si può dire che “culminano”, dal punto di vista della “saggezza pratica”, di una “condotta saggia”, nella formula sintetica di Orazio (che è consegnata in Carm., I, 11). Non si può essere epicurei senza “aderirvi”; senza vedervi l’affermazione di un valore – e di un valore “esemplare”. Infine, un’annotazione meno ovvia – anzi, in gran parte legata all’implicito, a quella ricostruzione di “nessi sistematici” che abbiamo già visto come non possa che rimanere, per lo stato dei testi, largamente “indiziaria”. Vogliamo parlare del “valore morale”, per così dire, della “sensibilità” in quanto tale – secondo l’uso comune della lingua: non solamente il processo “materiale” della sensazione, ma ciò che si avvicina di più al “sentimento” – l’emozione. In tutto il corpus, non disponiamo a questo proposito che di un testo di Plutarco (a non voler “stiracchiare” troppo l’accenno contenuto in GV, 62); che riassume, sulla base di una lettura dell’epistolario di Epicuro (di cui Plutarco disponeva), la posizione della scuola sul tema dell’“emotività” del saggio (o “compatibile” con la saggezza). Vi si dice (120 Us.; 46 A.) che “è giusto” che il saggio si commuova, soffra, pianga (per esempio «per la morte degli amici»), o sia «tener[o] e amorevol[e]». Ma non ci dovrebbe esser bisogno di questo testo, per concludere che la traduzione (corrente) di ataraxia con “imperturbabilità” (invece che: assenza di turbamento; con il relativo, irresistibile “slittamento” semantico nell’ambito della nozione stoica del fine, l’apatheia – impassi-
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bilità) è un grave errore. Plutarco aggiunge (citando a memoria) che la «mancanza di dolore», nel senso dell’«insensibile» (to apathes), non può venire per Epicuro che dalla «crudeltà». La saggezza epicurea non può che comprendere (non che escludere) la condizione del “sentire intensamente”, del “patire” – in tutti i sensi. Il saggio è quanto mai “attento” a ciò che la vita “può essere” – come potenziale di piacere e di dolore. Si potrebbe perfino dire che è, “in origine”, più degli altri capace di soffrire. L’orientamento al piacere è valorizzazione della sensazione, della “soggettività” del sentire – è su questa base che la dianoia e la phronêsis ne interpretano, ne “criticano” le cause e le condizioni, per liberarla dal dolore non necessario, non “naturale”. Quando il saggio epicureo pensa all’amico morto i suoi occhi si inumidiscono, dice Plutarco. Ma la vita (la sua e quella dell’amico) non diventa per questo “assurda”, priva di “scopo” – il piacere continua ad attrarlo, la sua possibilità non “scompare”. Il dolore “inutile”, da cui vuole e sa di potersi “liberare”, lo indigna: in lui stesso, negli altri, nel mondo e nei tempi in cui vive, lo “coinvolge”, lo emoziona. Non sarà allora, come Lucrezio, meno epicureo (meno saggio). Non l’“indifferenza al dolore”, ma la fiducia nel piacere, la coerenza possibile di un orientamento al piacere come “fedeltà” alla natura, sono il proprio della saggezza epicurea. “Valorizzare” il piacere è, ovviamente, il contrario dell’impassibilità. E concludiamo con una osservazione più largamente condivisa, che ci riporta al tema su cui già abbiamo concluso il nostro secondo capitolo. È qui, quando si metta a prova la reale capacità di “ignorare” la morte, che la metafora del sicut deus trova la sua ultima “giustificazione” – il suo senso pieno. Su di essa si chiude LM: «Poiché non è in niente simile a un mortale uomo che viva fra beni immortali» (135, 8-9; in un frammento epistolare, Alla madre, si legge: «queste cose […] rendono la nostra natura [disposizione: diathesin] simile agli dèi [isotheon], e mostrano che nemmeno per la mortalità siamo inferiori alla
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beata e immortale natura» (72 A.). Sono questi “beni immortali” (uno, lo abbiamo visto – GV, 78 – è la filosofia), che non possono “cambiare” col tempo (semmai “accrescersi”), che permettono all’uomo di sentirsi “fuori del tempo” – di vivere quella che in riferimento a Spinoza potremmo chiamare un’esperienza dell’eternità. E sono “beni” (agathoi), in quanto danno piacere (per la filosofia, GV, 27). Non c’è bisogno di interpretare l’edonismo epicureo in un senso “non-letterale” per accorgersi che non è, in nessun senso, “modesto”.
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Divagazione in forma di excursus sul rapporto tra etica e estetica
Nella meditazione sulla morte il pensiero di Epicuro raggiunge forse il punto più alto di una “linea” che lo attraversa, alla quale abbiamo più volte accennato, e che potremmo adesso formulare così: il saggio, il soggetto morale, ha la possibilità non solo di darsi “regole di vita” (piuttosto: “abiti”) che consentono di realizzare il “fine naturale” nelle condizioni “date”, esterne, ma di “crearsi un mondo” – che vuol dire “organizzare” la propria esperienza del mondo secondo schemi o forme “diverse” da quelle di una coscienza comune, quando queste ultime (gli) appaiano come un ostacolo (rispetto al fine). Questo vale tipicamente per tutte le “convenzioni sociali”, a cui l’individuo è sottoposto come a vere e proprie strutture normative del proprio rappresentare, desiderare, volere; ma quando il processo dell’emancipazione arriva fino a coinvolgere un “vissuto” della temporalità, ciò esprime ancor più plasticamente la libertà della coscienza morale (che non abbia bisogno, per “oggettivarsi”, di postulare un mondo della pura intelligibilità). È lo stesso dato empirico, possiamo dire, che viene “immediatamente” messo in rapporto con il soggetto e i suoi fini (o interpretato in questa prospettiva; ma in modo che questa interpretazione “coincida” con una spontaneità
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del sentire). Il valore non puramente metaforico dell’“essere come dio” consiste, abbiamo visto, appunto in questo – il saggio può arrivare fino a “sentirsi”, in ogni momento della sua vita, immortale. Potrebbe sembrare che si riapra qui una questione su cui abbiamo già preso posizione: quella della “lontananza” di un simile percorso della saggezza dalle possibilità dei “più” – così che appunto, di nuovo, ci troveremmo di fronte a una morale “per pochi”. Ma non crediamo di dover riprendere la discussione. Salvo forse aggiungere che se un presunto limite “aristocratico” fosse misurabile sulla base della “difficoltà” dell’ideale del saggio (o del bene) che viene proposto, rispetto al complesso delle motivazioni e delle esperienze comunemente osservabili, esso riguarderebbe praticamente tutte le “filosofie morali” (eccetto, forse, quelle che si presentano come analisi semantica del discorso valutativo, in un contesto puramente descrittivo). Quel metro di giudizio non è pertinente, per una ragione molto semplice: la scoperta e la messa in pratica dei criteri di una condotta morale poggia comunque su possibilità e risorse “proprie” della natura umana – che si cerchino nella costituzione psico-fisica o nell’anima razionale degli individui che lo compongono. Nel caso di Epicuro, l’universale del fine è interamente fondato sulla “struttura” della sensibilità umana – e in essa (non certo in speciali “qualità” individuali) sarà da ricercare anche la concreta possibilità del sicut deus (che a questa sensibilità, per esempio, non sia inaccessibile, per definizione, un “sentimento di eternità”). È questa una situazione non dissimile, se si vuole, da quella su cui si era soffermato Aristotele alla fine dell’Etica nicomachea: quando l’esortazione alla vita contemplativa, come quella che produce il più alto genere (e “grado”) di felicità, è mantenuta in contrasto con «quelli che consigliano che, essendo uomini, si attenda a cose umane, e essendo mortali, a cose mortali»: la parte “divina”, in ogni uomo, è il nous – e perciò bisogna proprio “attendere” a «farsi
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immortali»1. Del resto, facciamo osservare che l’impressione quasi “di sfida” che la formula enfatica di Epicuro può suscitare, quasi indicasse un cammino “al di là dell’umano”, sarebbe poi molto attenuata quando si pensi che altri “compiti”, il cui enunciato è forse meno suggestivo, non sono poi affatto meno incompatibili con l’esperienza “normale” della vita e del mondo – per tutti, quello di «fuggire ogni forma di cultura». Quello che conta, qui, è che il “modo d’essere” che si tratta di “costrui re” (ogni processo di soggettivazione, Foucault lo ha ben visto, implica una trasformazione “molecolare” del sé) sia sostenuto da tutta la forza che si sprigiona, per così dire, da una “scoperta”: quella di essere prima di tutto “natura”, e di possedere in questo essere naturale il principio di una coerente “destinazione” (scoperta che può ben essere comunicata, insegnata, se viene dal “corretto ragionamento” sui dati più intimi e generali della sensibilità). È questa la forza eversiva dell’epicureismo, rispetto a ciò che appare come inevitabile dal punto di vista della coscienza “assoggettata” – all’ordine sociale, al significante della rappresentazione, agli automatismi dell’interiorizzazione. Abbiamo visto su che cosa “poggia” la possibilità di acquisire un abito di indifferenza rispetto al passare del tempo, al continuo avvicinarsi della fine della vita: su una capacità di “concentrare” l’affetto nel contenuto attuale (“positivo”) della sensazione, e insieme di “proteggere” (il “risultato” di questa concentrazione) mobilitando tutte le risorse di un sapere insieme teorico (la “natura” del tempo, quella del piacere) e pratico (il “buon uso” dell’immaginazione, del ricordo, e perfino – si ricordi il piston elpisma – dell’anticipazione del futuro). Lo scopo di questa divagazione (che sarà più breve delle precedenti, perché altrimenti dovrebbe essere molto più lunga) è quello di “allargare”, a questo proposito, il campo della rifles-
1. Cfr. Eth. Nic., X, 7, 1077b-1181b (tr. it. di A. Plebe, Laterza, Bari 1957).
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sione – sulle “risorse”, appunto, di cui la coscienza “normale” dispone, per la realizzazione di un progetto morale inteso come “miglioramento” dell’uomo, nella costante attivazione di quel potenziale di felicità/saggezza che è dato nel fondamento naturale del suo esserci. Proponiamo, a questo scopo, di prendere in considerazione l’apporto che può venire dall’esperienza estetica; per misurare, ancora una volta, la possibilità di “rivivere” la morale di Epicuro in un contesto culturale che gli è estraneo (in questo caso il rapporto tra etica e estetica), e che può essere considerato a sua volta come tipico della nostra modernità. L’argomento di quest’ultima divagazione non è dunque omogeneo, rispetto alle precedenti. Non si tratta di assumere come termine del confronto un “paradigma teorico” (il sistema di sapere/potere, l’inconscio, la formazione economica della società) di per sé estraneo agli interessi propri di una filosofia morale – e che però necessariamente condiziona, oggi, per noi, la possibilità e il “senso” di questa filosofia. Quando abbiamo preso in considerazione questi “oggetti”, volevamo mostrare come essi (la problematica che se ne ricava) non destituiscano (come potrebbe sembrare, e come la loro elaborazione, nei primi due casi, implica) questi “interessi” – così come prendono forma nella filosofia di Epicuro. Ma se ora prendiamo in esame, dal punto di vista di questa filosofia, il rapporto tra l’etico e l’estetico, ci troviamo di fronte piuttosto a una struttura permanente: entrambi i campi di riflessione (o di esperienza) possono, oppure no, essere messi “in rapporto” con l’altro – secondo una scelta che è sempre ugualmente possibile. Certo, possiamo assumere che “l’estetica”, come “campo” filosofico, è un’invenzione moderna (e la storia delle parole, che è sempre decisiva, ce ne fornirebbe già il primo argomento); ma nella sua storia (moderna), il legame tra l’esperienza dell’arte (creazione e fruizione) e il fatto umano “globale” (che “comprende” quindi, la dimensione etica) sarà da considerarsi non solo come una costante (ne vedremo alcuni esempi), ma come un dato addirittu-
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ra “banale”. La tesi che intendiamo dimostrare (o suggerire), è che proprio l’impostazione della morale epicurea è quella che consente di mettere “più facilmente” in relazione i due “campi”; ma ne deriva che “l’implicito” che si tratterà di esplicitare non si trova, in questo caso, dalla parte dei “moderni” (non è cioè, come per gli altri casi, l’effetto di un’elaborazione – o, nel caso di Marx, successiva “vulgata” – che tende a evitare il confronto con la filosofia morale – e quindi con l’originalità, in essa, di Epicuro): nella riflessione estetica dei moderni questo confronto è appunto “banale”, ma non può investire direttamente la morale epicurea – per la semplice ragione che in questa ogni riferimento all’estetica, all’esperienza dell’arte, appare prima facie come non pertinente, “inutile”. La situazione, insomma, si presenta press’a poco così: mentre nei casi precedenti il confronto “serviva” a noi (per mostrare, diciamo così, che si può essere foucaultiani e freudiani – in parte – e marxisti, e insieme epicurei), in questo caso si direbbe, paradossalmente, che “serva” a Epicuro: per mostrare che nella sua filosofia morale si può “integrare” anche un certo modo di concepire l’esperienza estetica – possibilità di cui in generale “noi”, e non lui, possiamo essere consapevoli. Ma non c’è, allora, il rischio di una “estrinsecità” – l’Epicuro che guardiamo attraverso il prisma della nostra cultura non è troppo, e inutilmente, distante da quello “reale”? O in altri termini: non dovremmo prima di tutto spiegare perché, se questa possibilità è effettivamente data nella sua filosofia, e questo contribuisce a illustrarne il valore “permanente”, Epicuro “non se n’è accorto”? Se riconosciamo questa valenza della morale di Epicuro circa il rapporto tra l’etico e l’estetico, e la affidiamo, necessariamente, all’“implicito” (o al “profetico), ci troviamo confrontati a un limite (storico-culturale) della sua coscienza filosofica. E proprio questo può apparirci paradossale, se pensiamo che il rapporto non è qui con una “sociologia” o con la psicoanalisi, ma con
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l’esperienza estetica – e dunque con l’arte. Epicuro è, come ogni greco del periodo ellenistico, l’erede diretto di un’epoca dell’arte che, si può anche dire, “non avrà paragoni”, nella storia futura dell’umanità. Come si spiega che non vi faccia mai riferimento – che non la consideri come uno strumento “utile”, nella sua prospettiva filosofica, all’autoconoscenza dell’uomo, come una via d’accesso, un laboratorio dell’autonomia del soggetto? Che non colleghi, per esempio, la possibilità di sperimentare un “sentimento dell’eternità” con le caratteristiche peculiari del piacere estetico, con l’“emozione” dell’arte? Ma abbiamo forse troppo ceduto alle lusinghe di una “drammatizzazione” retorica. La risposta, invero, non è per niente difficile – anche se il proposito di adeguatamente argomentarla non avrebbe alcun senso nei limiti di questo lavoro. Per un greco, almeno fino a Plotino (e ancora…), e per quanto il piacere e il “gusto” dell’arte fossero nel suo mondo forse più diffusi che mai dopo, l’arte, semplicemente, non è una cosa “abbastanza seria” per questo. Quando ci siamo sopra riferiti alla costanza e alla “banalità” del rapporto fra estetica e etica, nella riflessione dei “moderni”, intendevamo soprattutto richiamare (è questo che qui ci interessa) il valore che assume l’“educazione estetica” (come uno di questi moderni, in particolare, dirà) rispetto al processo di “perfezionamento” morale dell’uomo (non sarà certo un caso, per esempio, che la concezione foucaultiana dell’etica antica, in quanto fondata sull’esercizio metodico dell’autotrasformazione, assuma “spontaneamente” connotazioni estetizzanti). L’esperienza estetica partecipa del processo di formazione di un’autocoscienza che si proietta nei suoi possibili in quanto “si appropria” del mondo sensibile, “ricreandolo” nella prospettiva della soggettività. Se la “costruzione” del soggetto “va insieme” con la costruzione di un mondo (perché l’autointerpretazione “informa” la pratica, la relazione ad altro, ecc.), la relazione estetica (in cui si elabora, e si trasmette, una “forma
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ideale” del sensibile), è il luogo di espressione di un “regno”, o “dominio”, della libertà – le forme dell’esteriorità esprimono, nel loro costituirsi, un essere-presso-di-sé del soggetto, la relazione “immediata” col mondo delle cose assume il valore di una “oggettivazione”. L’autonomia, segno distintivo del soggetto morale, diventa connotazione intrinseca del rapporto col mondo: se l’esserci stesso del mondo (in quanto rappresentato) “corrisponde” a un essere-di-valore (che a sua volta non sarà puramente “soggettivo”, se è – diventa – la “forma adeguata” di un mondo – di una “oggettività”). È tutto questo – se si accetta di riconoscervi la “tela di fondo” di un possibile significato “morale”, e quindi ancor prima “filosofico”, dell’arte, come vedremo subito che di fatto accade, nei “tempi moderni” – che non può essere propriamente “pensato”, nei termini della cultura greca. L’arte non è, in quel contesto (sul quale, dal nostro punto di vista, osservazioni ancora utili sono per esempio in un famoso saggio di Hannah Arendt, La crisi della cultura), l’espressione di una relazione col mondo (e con sé) sui generis – in quanto definita, per la mediazione della forma, in modo diverso rispetto al “dominio” dell’affettività, così come a quello della conoscenza intellettuale. Non è, per dirlo con altre parole, espressione (o “realizzazione”) della soggettività – una soggettività “distinta” da quella che “riflette”, nelle passioni, il naturale-sensibile, o che può accedere sotto la guida della ragione ai “compiti” della conoscenza e della pratica; diversa, e insieme altrettanto “vera”, o necessaria. Limitiamoci a un paio di indicazioni. Il modo come la paideia greca integra, ed “esalta”, il patrimonio letterario (che poi vuol dire sostanzialmente: Omero) dipende interamente dai contenuti “sapienzali” – filosofici, morali, religiosi, politici – che vi si trasmettono (la forma poetica, che è certo studiata e apprezzata dal punto di vista “tecnico”, e come fonte di “piacere”, non ha alcun rilievo rispetto al “contenuto”). Se la famosa polemica di Platone sarebbe, modernamente, “inconcepibile” (essa ri-
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tornerà, ovviamente, nei secoli; ma come un tipico segno di “rozzezza” estetica) è appunto perché si fonda sulla separazione dei due “lati” che nell’opera poetica, semplicemente, si giustapporrebbero: da una parte le “idee false” (sugli dèi, ecc.; il poeta “non conosce” la vera filosofia), e dall’altra le lusinghe che eccitano la sensibilità (un voyeurismo, potremmo dire), creando nel fruitore una disposizione favorevole ad accogliere “le bugie” (una “credulità”). Per Platone, i poeti sono dei “concorrenti” – e questo potrebbe anche corrispondere a una sensibilità “moderna”; ma sono, per definizione, concorrenti sleali: perché la “differenza specifica” del loro modo di “presentare” la verità (sul piano del sensibile, attraverso la mimesi) è doppiamente incompatibile con la verità (che non solo impone di “allontanarsi” dal sensibile, ma per esser tale dev’essere riconosciuta senza la “partecipazione” dei sensi – che sono “attratti” dall’errore; si potrebbero paragonare a medici ciarlatani, non solo incapaci di diagnosi – perché non “vedono” che i sintomi – ma abili a rendere le “medicine” che somministrano piacevoli al gusto). La virtù della mimesi (che è “il proprio” dell’arte) non solo non aggiunge e non toglie niente al contenuto “ideale” (o si dica nozionistico, “astratto”); se questo contenuto fosse “vero”, per assurdo, chi volesse “esprimerlo” attraverso l’imitazione del sensibile per ciò stesso lo “falsificherebbe”. Certo: sappiamo che Aristotele, per parte sua, ha riscattato la mimesi da questo giudizio. Ma non bisogna farsi troppo commuovere dalla celebre classificazione della Poetica, che attribuisce all’arte una maggior “vicinanza”, rispetto a quella della “storia”, con la filosofia. L’“universale” di cui parla a questo proposito Aristotele (di contro al puramente “evenemenziale” della narrazione storica – è questa differenza che determina la “gerarchia”) è chiaramente da intendersi nel senso del “tipico”: gli “elementi” con cui il poeta (a differenza dello storico) compone il suo racconto devono avere a priori il carattere della verosimiglianza e della necessità (nella loro “combinazione”) – altrimenti
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non potrebbe prodursi, per esempio, l’effetto della tragedia. Sarebbe vano cercare in Aristotele (o altrove) l’idea che una forma artistica, in generale, può in quanto tale “avvicinare” il ricettore all’intuizione di una verità – di sé e del mondo; “manca”, per questo, il concetto stesso di “forma”, come noi lo intendiamo (l’arte, in greco, non è un “dar forma”, ma un “fare”, un “produrre” secondo una regola – poiesis, technê). Quando Aristotele enumera gli “ingredienti” della tragedia, non solo dichiara esplicitamente che alcuni (musica, rappresentazione scenica) sono del tutto inessenziali (Poet., 50b 18-19), ma definisce il linguaggio (cioè la “forma materiale” del testo – che sarà appunto invece “l’essenziale”) come un’“imprestito” dagli “usi comuni” della lingua (in cui “ci sono” tutte le parole e tutti i pensieri, ivi, 4-15; un commentatore, D. Lanza, osserva in una nota ad loc. che «la continuità tra poetica e retorica, per quanto riguarda il pensiero, permette ad Aristotele di non trattare questo elemento della tragedia»; corsivo nostro). Quando i personaggi o il coro esprimono un “pensiero” (Aristotele usa il termine dianoia per questo specifico “elemento”), esso varrà “per quello che è”, come in una qualsiasi altra occorrenza – ed è lo stesso per qualsiasi altra “parte” del linguaggio, se ogni lexis, «espressione che si realizza con l’uso della parola [dia tês onomasias hermêneian] […] ha le stesse potenzialità nel verso e nella prosa [epi tôn logôn]»2. È il racconto, correttamente o abilmente articolato (la systasis pragmatôn di 50a 33), che di per sé determina l’effetto tragico (l’elemento che non abbiamo citato, “i caratteri” – ethoi – è dichiaratamente del tutto “assorbito” nell’azione). Quanto ai tratti comuni e distintivi di questi racconti tragici (a parte “verosimiglianza” e “necessità”, che presuppongono nozioni generali, generalizzazioni) essi sono “classificati” da Aristotele, com’è ovvio,
2. Poet., 50b 13-15 (tr. it. di D. Lanza, con testo a fronte, BUR, Milano 1987).
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in base al “materiale” che ha a disposizione – cioè al patrimonio mitico a cui la tragedia attinge. Non c’è, nella Poetica, una tesi esplicita circa le ragioni per cui proprio e solo questo tipo di mythos sia “adatto” alla tragedia (una volta, anzi, sembra si ammetta che il racconto possa essere completamente “inventato”, ma è un’affermazione che resta senza conseguenze). Ma nella tradizione greca troviamo almeno una (e si pensi, per contrasto, all’esuberanza interpretativa, su questo punto, dei moderni) di queste “ragioni”: il famosissimo racconto di Erodoto (non c’è praticamente sintesi divulgativa sulla tragedia greca che non lo citi) sulle reazioni del pubblico alla “tragedia contemporanea” di Frinico (reazioni che avrebbero condannato l’esperimento a rimanere “unico” – e il poeta a pagare una forte multa). La “pietà” e il “terrore” provocati dal rivivere, nello spazio del teatro, una recente sciagura nazionale, la presa di Mileto da parte dei persiani, si erano rivelati in quel caso semplicemente insostenibili: il poeta, per il fatto stesso di scegliere quel racconto (come che ne avesse poi “combinato” gli elementi), non aveva fatto altro che costringere gli spettatori ad assistere, “prender parte” di nuovo, “come nella vita”, a un evento straziante. Il racconto erodoteo è perfettamente coerente con le analisi di Aristotele, un secolo dopo. Non solo perché mostra come l’effetto tragico (che sarà poi la possibilità di una “purificazione delle passioni”, attraverso l’oggettivazione) ha bisogno di una “distanza” (nel tempo o nello spazio, mitica o “etnica”: proprio I Persiani, tragedia “contemporanea”, ne danno una dimostrazione “perfetta” – se le guerre mediche possono fornire il materiale di un racconto tragico, che richiede ovviamente di assumere il “punto di vista” degli sconfitti, la condizione è che questo punto di vista non sia, “nella vita”, il nostro, che il loro “posto” non sia quello in cui “noi”, di fatto, ci troviamo – che “gli sconfitti” non siamo noi); ma perché, che è quello che qui ci interessa, conferma a suo modo come le condizioni che producono l’effetto rimangono tutte interne alla “scelta” del con-
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tenuto (e delle sue “parti”). Il compito di portare un (qualsiasi) contenuto dell’esperienza “sul piano della verità” – oltre la percezione immediata di una coscienza “comune”, attraverso la creazione di una forma peculiare, nell’ambito dell’intuizione sensibile – non è quello che i greci affidavano all’arte; questo “potere” appartiene soltanto al discorso filosofico, al suo procedere per generalizzazioni e connessioni logiche (quand’anche sia ancora formulato nel linguaggio poetico, “arcaico”, dei primi “maestri di verità”). Ma è proprio questo potere che dev’essere presupposto nell’arte, se l’esperienza estetica è in qualche modo “integrabile” nel processo di costruzione della soggettività morale. Sostenere – è il tema di questa divagazione – che proprio la concezione epicurea di questo processo ci consente di attuare nel modo più “naturale”, pertinente e “utile” questa integrazione, presuppone appunto che se ne dia, “in sé”, la possibilità; ma questo “in sé” non diventa un “per noi”, moderni epicurei, che attraverso la moderna riflessione sull’arte. In particolare, secondo una linea di svolgimento che inizia, ma in un senso anche culmina, nel secondo Settecento. È tempo ormai di vederne un po’ da vicino, molto rapidamente, alcuni momenti. In Diderot, la proposizione centrale dell’“estetica” è quella che definisce «il bello» come «intelligenza dei rapporti». D’emblée, la definizione istituisce una “convergenza” (o anche “coincidenza”; non però una corrispondenza) tra l’aspetto sensibile (che è implicito) e quello intellettuale. Il bello “si attua”, per così dire, nella coscienza del fruitore, come riflessione del sentire e capacità di giudizio: nell’“immagine” della cosa è immediatamente “visibile” una molteplicità di possibili rapporti, “all’interno” della cosa, ma anche come sistema di relazioni a cui la cosa appartiene, e rispetto alla soggettività del ricettore – i legami, le connessioni, ecc. che essa “suscita”. Il soggetto si trova nella condizione di “comprendere” la cosa (di “metterla in relazione”: che presuppone un “mondo” di idee, conoscenze,
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esperienze, ecc.) nel momento stesso in cui la “percepisce” (e dunque “reagisce” sul piano degli affetti, delle emozioni) – e questo appunto è il bello. Nel luogo “canonico” in cui questa definizione si trova, e trova un principio di svolgimento (l’articolo Bello dell’Enciclopedia), essa si pone in aperta polemica con una tradizione che viene fatta risalire a sant’Agostino (sulla base di una conoscenza di seconda mano); e che tende a “esaurire” la nozione di bellezza nel rilievo “oggettivo” di una misura quantitativa (ordine, simmetria, rapporto matematico di proporzione tra le parti – è una concezione “classica”, “antica” del bello artistico). Al contrario, tutta la riflessione estetica di Diderot (di cui è parte preponderante la critica d’arte) è attraversata dell’idea che il bello (l’“opera”) “irradia”, per così dire, sul “soggetto”, “impegnando” il complesso delle sue idee e dei suoi affetti (possibili; selezionandoli) nella direzione di un approfondimento, di una coerenza, di una “verità” insieme intellettuale e psicologica (di queste idee e affetti). Ciò che “guida”, di fatto, la pratica dell’arte è l’intenzione di produrre l’opera come “unità sintetica” – non delle sue “parti”, ma dell’“esperienza del mondo” dell’artista; attingendo alla molteplicità dei rapporti (consci e inconsci) che strutturano questa esperienza («tutto è sperimentale», dice Diderot), in modo tale che questa unità possa essere “sperimentata”, a sua volta, dal fruitore – in accordo con la sua propria esperienza. Seguire il pensiero estetico di Diderot, perdersi nei meandri della sua scrittura costantemente inventiva e volubile, è un’esperienza intellettuale impagabile – ma non è certo qui alla nostra portata. Ci permettiamo solo un’osservazione “di dettaglio”. Certe sue “antipatie” artistiche (tipicamente, quella per Boucher) possono certo oggi infastidirci, in quanto riflettano l’immagine paradossale di un Diderot “moralista”, nell’accezione più bigotta del termine; gliele “perdoniamo”, di solito, ricollegandole alla carica ideologica “borghese”, antiaristocratica – quella stessa che si esprime, per esempio, in un modo
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non certo privo di complessità e acutezza problematica, nella riflessione sulla sua propria pratica di drammaturgo “militante” (o negli stessi anni, e forse in modo più schematico, in Lessing). Ma sarebbe un errore ignorare il significato propriamente estetico, in rapporto alla “teoria”, del giudizio negativo sulla sensualità della pittura rococo – farne una questione puramente ideologica, o di bienséance (capita a Diderot di rilevare, per esempio, la polissonnerie di un Ganimede di Rembrandt, visto a Dresda – «il est polisson: l’aigle qui l’enlève par la jaquette met son derrière à nu» – e di concludere che «ce petit tableau éteint tout ce qui l’environne»3). Se le voluttuose nudità di Boucher respingono Diderot è perché, secondo lui, sono dipinte in modo da “condizionare” lo spettatore, rivolgendosi a un solo aspetto della sua ricettività, il che finisce per inibire l’azione in risposta, per così dire, di tutte le “facoltà dell’anima”. «Il me semble que j’ai assez vu de tétons et de fesses; ces objets séduisants contrarient l’émotion de l’âme, par le trouble qu’ils jettent dans les sens»4. Il contrasto fra l’eccitazione sensuale (Diderot pensa chiaramente, lo dice esplicitamente in un contesto vicino, a un effetto “pornografico”) e l’émotion de l’âme non è (solo) tra “l’inferiore” e il “superiore”; è soprattutto quello tra un effetto puramente “meccanico” (per produrre il quale l’“oggetto seducente” non ha che da essere in qualsiasi modo “mostrato” – si noti il vocabolario “anatomico” in funzione di ecfrasi) e un altro tipo di effetto, che impegna tutto il “potenziale” dell’anima – e che si viene a trovare, per la “costrizione” esercitata dal primo, come in partenza blocca-
3. D. Diderot, Pensées détachées sur la peinture, in Id., Œuvres esthétiques, a cura di P. Vernière, Garnier Frères, Paris 1959, p. 804; «è senza pudore: l’aquila che lo trascina su per la giacchetta gli scopre il didietro» – «questo quadretto spegne tutto ciò che gli sta intorno». 4. Ivi, p. 767; «Mi sembra di aver già visto abbastanza tette e chiappe; questi oggetti seducenti contrariano l’emozione dell’anima, turbando i sensi».
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to. È questo secondo, ovviamente, l’effetto estetico: di fronte al quadro (non certo di fronte all’objet séduisant, nella vita) il ricettore deve poter “misurare”, nell’intensità e varietà delle idee-emozioni, se stesso. Al livello estremamente generale in cui di necessità ci troviamo, ci sarà consentito di citare le parole di uno studioso (P. Hoffmann) che riassumono bene l’orientamento d’insieme del pensiero di Diderot, nella prospettiva che ci interessa: «Toute perception esthétique est une forme donnée au réel, déterminée certes par une physiologie, par des organes sensoriels, par un tempérament, par une nature; mais accordée à un projet de l’esprit cherchant à lire dans la réalité des réponses à son questionnement essentiel»5. Il “moralismo estetico” di Diderot deriva da questo presupposto: che una presa di posizione “morale” nei confronti del mondo sia già “attiva” nella creazione della forma – e nelle “idee connesse” che ne connotano la ricezione. L’arte ha il compito di “adattare” la percezione del mondo a un libero rappresentare e rappresentarsi dell’“anima”, guidato dai suoi propri “bisogni”; di dilatare i confini dell’esperienza, reinventandone, oltre i meccanismi e le abitudini del vissuto quotidiano, il “senso”. Il pensiero di una possibile “unità” di questi due “lati” (il soggettivo e l’oggettivo, “l’interno” e “l’esterno”) può ben essere considerato come l’apporto più cospicuo dell’estetica del Settecento. Quando Diderot scrive, in un’altra pensée détachée, che in «toute composition digne d’éloge» si deve constatare un «accordo con la natura», indipendentemente da ogni effettiva anteriore “conoscenza” dell’oggetto rappresentato («il faut que je puisse dire:
5. P. Hoffman, La beauté des femmes selon Diderot, in «Dix-Huitième Siècle», n. 9, 1977, pp. 273-289: p. 284; «Ogni percezione estetica è una forma data al reale, determinata certo da una fisiologia, da organi di senso, da un temperamento, da una natura; ma accordata a un progetto dello spirito, che cerca di leggere nella realtà qualche risposta alla sua essenziale interrogazione».
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je n’ai pas vu ce phénomène, mais il est»6), ci troviamo chiaramente nello stesso contesto di quest’altra frase, per esempio, di Klopstock: «L’essenza della poesia consiste nel fatto che essa, con l’aiuto del linguaggio, mostra un certo numero di oggetti che noi conosciamo o di cui sospettiamo l’esistenza da un lato che impegna le forze migliori della nostra anima in così alto grado che l’una agisce sull’altra e mette così in movimento l’anima intera»7. Ciò che conta, e in cui può emergere qualcosa come una “verità”, non è più “l’oggetto”, come “normalmente” lo percepiamo, ma la relazione, “attuata” attraverso la forma artistica, tra l’oggetto e il movimento dell’anima. È in questa stessa linea di riflessione che si colloca il tentativo di maggior “impegno” filosofico-sistematico, per così dire, dell’estetica del Settecento – che è ovviamente la prima parte della Critica del giudizio. Non possiamo, qui, che evocarne alcuni lineamenti, per noi essenziali – seguendo il “filo” dei rapporti tra arte e natura. «Vedemmo che […] l’arte […] non può essere chiamata bella [cioè “essere” arte] se non quando noi, pur essendo coscienti che essa sia arte, la riguardiamo come natura»8; e poco più sotto Kant scrive: «l’arte bella deve presentarsi come natura, sebbene si sappia che è arte». La definizione, contestuale, del genio («le arti belle devono essere necessariamente considerate come arti del genio»9) poggia interamente su questa base – e si articola sostanzialmente in tre punti:
6. D. Diderot, Pensées détachées sur la peinture, cit., p. 773; «Bisogna che io possa dire: non ho visto questo fenomeno, ma esso è». 7. Cit. in G. Lukács, Estetica, vol. I, tr. it. di A. Marietti Solmi, Einaudi, Torino 1970, p. 493, dove si osserva giustamente che, nonostante la menzione specifica della poesia e del linguaggio, questa essenza è da riferire all’arte in generale. 8. I. Kant, Critica del giudizio, tr. it. di A. Gargiulo, Laterza, Bari 1970, § 45, p. 165. 9. Ivi, p. 166.
510 1) Il genio è il talento di produrre ciò di cui non si può dare una regola determinata […]; per conseguenza, l’originalità è la sua prima proprietà. 2) […] i suoi prodotti debbono essere insieme modelli, cioè esemplari; […] 3) […] l’autore di un prodotto, che egli deve al proprio genio, non sa esso stesso come le idee se ne trovino in lui, né ha la facoltà di trovarne a suo piacere o metodicamente.10
Tutto ciò è “riassunto” anticipatamente nella formula che immediatamente precede: «bisogna che la natura dia la regola all’arte nel soggetto» (dunque, che il soggetto la “ritrovi” in sé, come “proveniente” dalla natura). Il piacere estetico (che si riflette nel giudizio, con la caratteristica essenziale della “comunicabilità” – Mittelbarkeit) consiste in «questo sentimento della libertà nel gioco delle nostre facoltà conoscitive, che dev’essere al tempo stesso finalistico»11. Che la libertà di questo “gioco” sia “rivolta a un fine” è implicito nel carattere “produttivo” dell’arte (come della natura); ma il processo di attuazione del fine presuppone (e, possiamo dire, “esibisce”, nel prodotto) l’accordo delle facoltà rappresentative12: l’immaginazione, che è quella propria dell’intuizione e della «comprensione del molteplice» che vi si trova, e l’intelletto, che “unifica” nel concetto (della “cosa”) questa comprensione. Se il gioco delle facoltà è “libero”, questo vuol dire che l’oggetto non è “prodotto” in base al proprio “concetto” – cioè ri-prodotto, secondo la sua “rappresentazione” nella conoscenza intellettuale (fenomenica); ma “formato”, per così dire, per una necessità interna –quella stessa della natura, come totalità “organica”, autoregolata (della quale naturalmente non abbiamo alcun concetto). E ciò è possibile (è possibile cioè che questo “appaia”) perché “tramite” di questa produzione-formazione (e insieme “luogo” in cui la for10. Ivi, pp. 166-167. 11. Ivi, p. 165. 12. Cfr. ivi, l’intero § 35.
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ma, come “risultato”, viene finalisticamente “compresa”) siamo noi. «[L]a finalità della sua forma [del prodotto dell’arte] deve apparire libera da ogni costrizione di regole volontarie, come se fosse un prodotto semplicemente della natura»13. Solo qualcosa come un’“azione” della natura in noi può “spiegare” che il nostro prodotto ci appaia come un «prodotto… della natura». Il rapporto di “scambio”, su cui Kant tanto insiste, fra “arte” e “natura” è dunque “figura”, potremmo dire, di un altro rapporto, quello tra il soggettivo e l’oggettivo (produzione/comprensione e “prodotto” dell’arte). L’esperienza estetica si dà quando l’“oggetto” non appare (non è “conosciuto”) come determinato dalla necessità del (suo) concetto (secondo il modello della conoscenza fenomenica), ma in modo tale che la sua interna costituzione (l’insieme dei suoi “rapporti”) “rifletta” il libero gioco (direbbe Klopstock) delle “facoltà dell’anima”. Al “giudizio” (facoltà di un soggetto in generale, che comprende una “spontaneità”) viene attribuita in questo caso una “oggettività” conoscitiva: il prodotto dell’arte non è semplicemente un “fenomeno”, pur essendo un “dato”, perché la sua intelligibilità “comprende” l’intero processo del suo costituirsi – il suo “posto”, o la sua “necessità”, in relazione a un “tutto”. Il “mondo interiore” – che è ciò in cui si può dare l’accordo tra l’immaginazione “libera” (cioè “non vincolata” al concetto, all’esser determinato dell’oggetto) e la legalità dell’intelletto (con le sue forme “obbligate” di unificazione del molteplice; è di nuovo il § 35) – non è “separato” dall’esteriorità. Noi “non sappiamo niente” di una “natura”, come processo autoregolato di “formazione” delle cose (di una natura naturans; possiamo averne solamente “l’idea”); ma in noi, nella “genialità” dell’arte, “opera”, appunto, la regola di questa natura (di questa idea).
13. Ivi, pp. 164-165.
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È dunque, in Kant, qualcosa come un “farsi natura”, la possibilità/capacità di mettere in relazione “l’oggetto” con una “idea generale” della natura, che fonda l’universalità (soggettiva) del giudizio estetico. «L’uomo colto [esteticamente] si rende amica la natura». Questa frase si trova nella quarta delle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo di Schiller14, pubblicato per la prima volta in rivista («Die Horen») nel 1795 (la stesura risale al 1793-’94). Ma l’ispirazione kantiana non sta solamente “dietro” questo saggio (Schiller se ne richiama esplicitamente); investe tutta la riflessione sull’arte di quello che chiamiamo “classicismo weimariano” (e Kant a sua volta aveva meditato su Diderot – se per esempio sappiamo che ne consigliò lo studio, per l’estetica, al discepolo Hamann). Se apriamo l’aureo libretto delle Massime e riflessioni di Goethe, possiamo imbatterci in frasi come questa: «Tutto ciò che nell’opera d’arte sembra all’ignorante natura non è più natura (esteriore), ma è l’uomo (natura interiorizzata)»15; oppure (in termini che Kant non avrebbe usato): «Non conosciamo altro mondo se non in rapporto all’uomo, non vogliamo altra arte se non quella che è il calco (ein Abdruck) di questo rapporto»16; o ancora (e qui Goethe si esprime “sovranamente” ben oltre le distinzioni sistematiche di Kant): «[l’arte] ha da essere un’espressione etica dell’elemento naturale»17. Ma il saggio di Schiller è quello che meglio “rappresenta”, per il suo carattere organico, questa “linea di pensiero”; e su di esso è forse il caso di ancora brevemente indugiare. Intanto, Schiller si preoccupa di dare una formulazione chiara del problema che potremmo dire della “collocazione” di una 14. In F. Schiller, Saggi estetici, tr. it. di C. Baseggio, UTET, Torino 1968, p. 214. 15. J.W. von Goethe, Massime e riflessioni, tr. it. di B. Allason, De Silva, Torino 1943, n. 1076 [Hecker], p. 201. 16. Ivi, n. 1077, p. 201. 17. Ivi, n. 59, p. 9.
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relazione estetica col mondo in rapporto alle “altre due”, quella propriamente conoscitiva e quella morale: l’animo, nello stato estetico, agisce bensì libero, e al massimo grado libero da ogni costrizione, ma in nessun modo libero da leggi; e […] questa libertà estetica si distingue dalla necessità logica nel pensare e dalla necessità morale nel volere solo per questo, che le leggi secondo cui l’animo procede in questo stato non vengono rappresentate [questo è il primo riguardo] e perché non trovano opposizione, non appaiono come costrizioni [questo è il secondo; entrambe le necessità, teorica e pratica, sono naturalmente intese in senso kantiano].18
Questa funzione dello stato estetico, che possiamo definire come “mediatrice” tra le altre due “funzioni” della soggettività, è in un certo senso il tema unico del saggio, lo attraversa interamente. Ma si presenta in modo articolato, perché è messa in relazione con un’altra distinzione, quella fra sensibilità e ragione. Nella nota citata, il riguardo della sensibilità si introduce “in terzo”, rispetto alle funzioni, conoscitiva e pratica, della ragione (anche se rimane il termine di una polarità, che comprende, al polo opposto, entrambe): Tutte le cose che possono presentarsi nel fenomeno sono concepibili sotto quattro rapporti diversi. Una cosa può riferirsi immediatamente al nostro stato sensibile (la nostra esistenza e il nostro benessere): questa è la sua natura fisica. O può riferirsi all’intelletto e procurare una conoscenza: questa è la sua natura logica. O può riferirsi alla nostra volontà ed essere considerata un oggetto di elezione, per un essere razionale: questa è la sua natura morale. O infine, può riferirsi a tutto l’insieme delle nostre facoltà, senza essere oggetto determinato per una di esse: questa è la sua natura estetica. […] In quest’ultima qualità noi lo giudichiamo [Schiller ha parlato nel frattempo di un uomo, come esempio della cosa] esteticamente.19 18. F. Schiller, Saggi estetici, cit., p. 282 nota. 19. Ibidem.
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E si può dire allora che l’educazione estetica «ha per scopo di sviluppare tutto l’insieme delle nostre facoltà, sensibili e spirituali [dunque, nel secondo termine: conoscitive e morali] nella maggiore armonia possibile»20. L’estetico dunque dev’esser riguardato come il luogo della composizione-integrazione (in un libero “gioco”) del sensibile e dello spirituale (che vale qui stricto sensu “razionale”). A queste due “sfere” corrispondono per Schiller nell’individuo/soggetto due istinti (che hanno ciascuno uguale diritto, dal punto di vista “antropologico”); che si specificano altresì come rivolti l’uno all’empirico, al materiale, a ciò che muta, e l’altro al permanente o ideale – cioè l’“identità”, Schiller dice kantianamente la personalità, meta-empirica, non contingente, del soggetto. Ma l’esperienza estetica mostra appunto che questi due istinti non sono “condannati” alla separazione – che sarebbe di necessità una opposizione: in essa opera un “terzo” istinto, che Schiller definisce con un’immagine molto felice istinto del gioco: «La ragione, per motivi trascendentali, pone questa esigenza: che si stabilisca una connessione fra istinto formale e istinto materiale [altra formulazione del “dualismo”], cioè che vi sia un istinto del gioco, perché solo l’unità della realtà con la forma, della contingenza con la necessità, della passività con la libertà rende compiuto il concetto [o “l’idea”; è questo appunto il motivo “trascendentale”] dell’umanità»21. Questa esigenza è, nell’arte, compiutamente realizzata: l’unilateralità delle determinazioni viene “tolta”, nel soggetto (cioè la relazione fra i due “poli” non è più di opposizione), e questo rende possibile una relazione con l’oggetto all’insegna, non della determinazione, ma della determinabilità.
20. Ibidem. 21. Ivi, pp. 258-259.
515 L’animo passa dunque dalla sensazione al pensiero attraverso uno stato intermedio, nel quale sensibilità e ragione sono attivi contemporaneamente, ma appunto perciò annullano reciprocamente la loro forza determinante […] Questo stato intermedio, nel quale l’animo non è costretto né fisicamente né moralmente, eppure è attivo nell’uno e nell’altro modo, merita per eccellenza di chiamarsi libero, e se lo stato di determinazione sensibile si chiama fisico, e lo stato di determinazione razionale si chiama logico e morale, questo stato di determinabilità reale e attiva deve chiamarsi estetico.22
Lo stato di determinabilità si realizza nell’esperienza estetica per il “libero confluire”, a cui è rivolto l’istinto del gioco, degli opposti modi di determinazione: «L’istinto sensibile vuole essere determinato, vuole ricevere il suo oggetto, l’istinto formale vuole egli stesso determinare, vuole produrre il suo oggetto: l’istinto del gioco si sforzerà dunque di ricevere così come egli stesso [in quanto rimane “collegato” con lo spirito-forma] avrebbe prodotto, e di produrre così come il senso aspira a ricevere»23. E questo è la bellezza: L’oggetto dell’istinto sensibile espresso in un concetto generale si chiama vita nel suo significato più ampio; concetto che significa tutto l’essere materiale e tutto quanto è immediatamente presente ai sensi. L’oggetto dell’istinto formale […] si chiama forma […]; oggetto che comprende sotto di sé tutte le qualità formali delle cose e tutti i rapporti di esse con le forze del pensiero. L’oggetto dell’istinto del gioco, presentato in uno schema generale, potrà dunque chiamarsi forma vivente; concetto che serve a designare tutte le qualità estetiche dei fenomeni e in una parola quello che si chiama, nel più largo significato, bellezza.24
22. Ivi, p. 256. 23. Ibidem. 24. Ivi, p. 258.
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In questo, di nuovo, “libero gioco” delle facoltà, “sperimentato” nell’arte e nel giudizio estetico, si dà per l’uomo l’accesso ad una “verità” di se stesso – che è quella della possibile integrazione, unitaria e dinamica, di tutte le sue possibilità, di un divenir-soggetto che non sacrifica o comprime nessuno dei suoi originari e necessari “modi d’essere”. Il tema di una “totalità” dell’uomo in divenire, “fondata” in natura e ragione, ha nello Schiller dell’Educazione estetica non solo un’importanza centrale, ma un accento, potremmo dire, di “urgenza”. E ciò non solo per la ragione, luogo comune della “storia delle idee”, che egli è qui uno dei primi e anche più lucidi critici degli effetti mutilanti, disgregatori della “divisione del lavoro” – nella crescente parcellizzazione di funzioni, ambiti pratico-economici, amministrativi, “tecnici” della nascente società borghese (di cui pure riconosce l’utilità, in termini di “accumulo delle risorse”). Le prime pagine del saggio (si ricordino le date) sviluppano un tema di stringente attualità politica: la necessità di un rinnovamento profondo della società, che la Rivoluzione ha portato in luce e in un senso “imposto”, rischia di finire in un vicolo cieco, nel fallimento, se la “ragione legislatrice” pretende di mutare d’imperio la “costituzione empirica” degli uomini così come sono – “passando sopra” al loro essere “naturale”, a ciò che li lega al mondo “immediato” delle sensazioni, bisogni, affetti. È qui anticipato in gran parte il contenuto di quella celebre immagine, il mondo “poggiato sulla testa”, che Hegel userà nella Fenomenologia per caratterizzare il “momento giacobino” della Rivoluzione. Se non si compone lo iato, se non si salda la frattura fra l’uomo razionale e quello dei sensi, dell’“utile”, dell’adattamento “istintivo” all’ambiente, all’insegna del primum vivere, non sarà possibile alla ragione (alla politica) di educare al superamento degli egoismi – che può esser “reale” solo se consentito, “spontaneo”; e le questioni del potere saranno ancora, e ancor più, regolate unicamente dalla forza. Il bisogno di un uomo “intero”, interiormente “conciliato”, è posto
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dunque drammaticamente “all’ordine del giorno della storia”; ma “l’uomo intero” come soggetto storico non è possibile senza “l’uomo naturale”. Una ragione che «annulla lo stato di natura, come deve necessariamente fare [se vuole] sostituirlo col suo», mette a rischio l’uomo: prima che abbia «avuto il tempo di tener saldo con la sua volontà alla legge, essa gli avrebbe tolto di sotto i piedi la scala della natura»25. Che “l’uomo intero” sia «in armonia con se stesso»26 è la condizione necessaria perché possa “elevarsi” nelle più alte regioni dello “spirito”; e ciò implica, in lui, una costante «pienezza delle sensazioni» («fonte gloriosa»27 di umanità; al contrario dell’«ottusità delle sensazioni, che merita sempre soltanto disprezzo»28), «la sensibilità stessa deve affermare con forza vittoriosa i propri diritti e resistere alla violenza che volentieri le farebbe lo spirito con la sua volontà usurpatrice»29 (questo ci richiama, e contrario, la formula freudiana della dittatura della ragione). Possiamo parlare a questo proposito di un “diritto della natura”: solo se questo diritto è pienamente riconosciuto l’“elemento razionale” perde la propria unilateralità, e può essere a sua volta “efficace”: un “fine” che fosse “separato” dalla natura, perché proprio “esclusivamente” della ragione, andrebbe considerato come “falso”. Se all’uomo che sente solamente, la sua persona ovvero la sua esistenza assoluta […] rimane un mistero, […] fin tanto che pensa solamente gli rimane un mistero la sua esistenza nel tempo ovvero il suo stato [naturale-sensibile]. Ma se ci fossero casi in cui egli facesse contemporaneamente questa duplice esperienza
25. Ivi, p. 210. 26. Ivi, p. 214. 27. Ibidem. 28. Ivi, p. 213. 29. Ivi, p. 254.
518 […] egli avrebbe una completa intuizione della sua umanità e l’oggetto che gli procurerebbe questa intuizione gli varrebbe come simbolo della sua destinazione attuata.30
Il significato “morale” (già implicito nell’uso del termine “destinazione” – ma poi specificato nell’accezione più ristretta, “kantiana”, di una morale del dovere) di questa peculiare intuizione è per Schiller quanto mai “diretto”, non meno che impegnativo: il risultato della «cultura estetica» per l’uomo è che «da parte della natura gli è reso ormai possibile fare di se stesso ciò che vuole – gli è completamente restituita la libertà di essere ciò che deve» (se si trattasse di acquisire, invece, singoli contenuti o abilità, tanto riguardo alla «conoscenza» che al «sentimento» (è Schiller che sottolinea), avrebbero ragione quelli che lamentano “l’inutilità” del bello)31. Tutto ciò conduce ad una “valutazione” dell’arte talmente “al ta”, che vi si potrebbe vedere (come nella “vita contemplativa” di Aristotele) quasi una via per la “divinizzazione” dell’uomo. La formula sintetica che Schiller adotta, subito dopo il testo che abbiamo or ora citato, per descrivere questo risultato è: «Ma appunto per questo si è raggiunto qualcosa di infinito»32 (e non è certo l’unica occorrenza di questa parola, nel saggio). Non ci interessano qui le implicazioni, o matrici, “speculative” (in una nota, per esempio, è espressamente citata l’appena uscita Dottrina della scienza di Fichte, a proposito del rapporto limitato-illimitato33). Se l’educazione estetica può apparire come un progetto di “divinizzazione” dell’uomo, è perché attraverso di essa si sperimenta la possibilità di un accordo tra (il pensiero di) una natura e (il pensiero di) una libertà, tra una 30. Ivi, p. 255. 31. Ivi, pp. 283-284. 32. Ivi, p. 284. 33. Cfr. ivi, p. 249 nota.
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finalità “esterna” (“oggettivata”) e una “interna”, tra coscienza del mondo (o relazione di oggetto) e autocoscienza. In essa, e solo in essa, il “produrre” e il “ricevere” possono saldarsi nel “circolo infinito”, continuo, di un divenir-altro che è sempre di nuovo un essere-presso-di-sé. Non sembrerà strano, allora, se suggeriamo che proprio un’esperienza dell’arte, così concepita, costituisca, nella prospettiva del progetto epicureo di saggezza/felicità, una specifica, e “preziosa”, risorsa. Che Epicuro sia del tutto estraneo ai presupposti filosofici generali, kantiani, in cui Schiller si mantiene (anche se piuttosto come in una “cornice”, esteriore al “quadro”) è soltanto ovvio: la costruzione unitaria del soggetto, in vista dell’uso autonomo e “armonioso” delle facoltà, non ha in lui il compito di superare alcun dualismo – se la ragione non è un “principio separato”, ab origine costitutivo, in opposizione alla sensibilità, dell’esserci dell’uomo. L’“accordo” è qui, si può dire, tutto interno alla ragione: tra la sua “funzione primaria”, di conoscere o rispecchiare, “riflettere”, il fine, e il suo modo d’operare specifico, possiamo dire “tecnico”, che rimanda al confronto e alla critica del “contenuto rappresentativo” (e introduce, nell’immediatezza sensibile della relazione di oggetto, il “riguardo” dell’astrazione); per questo non ha bisogno (“sistematicamente”; come invece di una “filosofia della cultura”) della mediazione estetica – e si esprime direttamente nell’ambito dell’etica, della “realizzazione pratica” del fine. Ma questo non impedisce, al contrario, di parlare di un accordo tra sensibilità e ragione (o intelletto). Il terreno dell’incontro fra l’etico e l’estetico, in entrambe le prospettive, si può definire così: ricercare la possibilità, per il “soggetto”, di un ordine della rappresentazione in cui la “verità” dell’oggetto “coincide” con l’autorappresentazione – che sia “dato”, cioè, non solo per gli “usi conoscitivi” (rivolti all’oggetto), ma insieme in un modo che “soddisfa” il bisogno di autocomprensione, e quindi la possibilità della scelta. È questo soggetto (possiamo ben definirlo
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etico/estetico) che sarà “capace”, per esempio, di sentirsi, rappresentarsi, “scegliersi”, “nel tempo” o “fuori del tempo”. Schiller scrive: «noi non siamo più nel tempo, ma il tempo è in noi, con tutta la sua successione infinita»34; oppure: «Qui soltanto [nell’estetico] ci sentiamo come strappati fuori del tempo»35; o ancora: «l’istinto del gioco dunque sarebbe diretto ad abolire il tempo nel tempo»36. Ma a questo punto, si sarà forse fatta strada nella mente del lettore un’obiezione, o una perplessità: se l’assunto di queste divagazioni è quello di mettere Epicuro (o l’interpretazione che se ne è venuta proponendo) “alla prova” della modernità (o piuttosto: di “una” modernità), perché ci siamo rivolti ad un contesto culturale di fine Settecento? Non sarebbe stato necessario, per i nostri fini, scegliere riferimenti più storicamente “vicini” a noi? Questa obiezione è lecita (non possiamo lasciarla del tutto senza risposta); ma più per quello che in essa può agire da presupposto (nella “periodizzazione” di una modernità estetica) che per il rilievo di una specifica lontananza da noi degli esempi che abbiamo scelto – in quanto storicamente “datati”. Quegli “esempi”, li abbiamo citati e commentati guardando a una “funzione” molto generale dell’arte, potremmo quasi dire “antropologica”: se un’intera biblioteca sarebbe necessaria, per misurare la permanenza della problematica che vi si delinea nella lunga storia successiva della teoria estetica, si potrà certamente concedere che quella problematica ha segnato la riflessione sull’arte in termini che non saranno più “dimenticati”, nei suoi successivi sviluppi – ogni volta che essa si ponga nella stessa prospettiva “generale”. Il momento “inaugurale” su cui
34. Ivi, p. 248. 35. Ivi, pp. 285-286. 36. Ivi, pp. 255-256.
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ci siamo soffermati (propriamente: di una “filosofia dell’arte”) orienta tutta la riflessione successiva – almeno in questo senso, che nel pensiero “moderno” (da Schelling a Kierkegaard, da Hegel a Heidegger, da Schopenhauer e Nietzsche e Croce fino a Dewey o Adorno, fino a Merleau-Ponty; per non parlare dei “poeti filosofi” da Novalis a Rilke o Hoffmannstahl, da Leopardi e Hölderlin e Shelley fino a Char o Celan) il problema del “significato” dell’arte diventa una sorta di “tema obbligato” della filosofia, necessariamente integrato in ogni “antropologia filosofica” (o filosofia dello spirito o dell’esistenza, del linguaggio o della cultura). La “scoperta”, per così dire, che l’esperienza dell’arte produce una specifica forma di conoscenza dell’uomo e del mondo, che in essa si dà accesso ad una “verità soggettiva” di portata universale, è acquisita “definitivamente”. Ed è poi per questo che nella “modernità filosofica” il rapporto con l’arte si esprime anche in un diretto esercizio della critica (Diderot ne è appunto il primo grande esempio – faremmo fatica a immaginarci Cartesio o Leibniz “critici d’arte”); dalla letteratura alle arti visive, dalla musica al cinema (si pensi anche solo a Deleuze) – fino a rendere talora “indistinguibili” (Benjamin, per esempio, o il giovane Lukács) la figura del “filosofo” e quella del “critico”. Del resto, la “proiezione” storica, ben oltre il contesto settecentesco, della linea di riflessione che abbiamo evocato è del tutto ovvia, nella “storia delle idee”: basti pensare a come studiosi autorevoli di Diderot e di Kant abbiano potuto senz’altro collocare la loro opera estetica nell’ambito di un “preromanticismo” (rispettivamente, per esempio, Belaval e Pareyson). Ma se poi proprio si domanda un preciso riferimento a quello che è ancora per noi “il presente” (il secondo Novecento), in cui si dia a vedere questa diretta continuità problematica, basterà fare il nome di Lukács, rinviando a quella sua grande “sistemazione” dell’Estetica che abbiamo già incidentalmente citato (che andrà considerata “moderna”, evidentemente, già solo per questo, che vuol essere una estetica “marxista”). Lì, chi volesse “ricavarne” qualcosa come una “definizione genera-
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le” dell’arte, non troverebbe meglio che la formula goethiana: l’arte (o la mimesi artistica) è antropomorfizzazione del mondo (o della rappresentazione del mondo; per parte nostra, nel nostro rapido excursus, non abbiamo fatto che ripeterlo). Da questo deriva, staremmo per dire “immediatamente”, il tema della “vicinanza” tra estetico e etico. Tanto che Lukács, in un contesto esplicitamente goethiano, è indotto a citare una poesia di Rilke, in cui una statua antica (che raffigura un torso umano) rivolge allo spettatore, formulando in parole il “senso” della sua muta contemplazione, questo appello: «Tu devi mutare la tua vita»37; e ci ritorna, poco oltre, osservando giustamente che un simile effetto di “catarsi” (in un senso più ampio e esigente di quello aristotelico) è quello stesso a cui è rivolto (con tutta la differenza dei “mezzi” poetici) il teatro di Brecht. Ma il fatto che abbiamo adesso menzionato Rilke (e Brecht) ci dà una buona opportunità di passare al secondo aspetto dell’obiezione – quello che, considerato come implicito, potrebbe apparire in realtà più “temibile”. Il lettore di Lukács, che sia in qualche misura familiare dei suoi scritti precedenti (nel periodo marxista) sull’arte, potrebbe in prima stupirsi di questo “apprezzamento” – se Rilke era stato, in altri casi, citato al contrario come tipico esponente di un’arte e di una letteratura che avrebbero perduto, nell’epoca della decadenza borghese, il contatto con quella “missione”, possiamo dire, di cui proprio Goethe può rappresentare (in quanto insieme “teorico” e “pratico”) il più alto esempio. Non ci interessa, qui, valutare le ragioni della polemica lukácsiana (e del giudizio di valore che ne deriva: esse sono tutte interne a un tema specifico, che è quello del rapporto tra arte – teoria e pratica – e storia, o coscienza storica). Ma quella polemica (per quello che riguarda “l’arte moderna” nel senso storicamente più ristretto)
37. G. Lukács, Estetica, cit., p. 778.
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non fa in realtà che rispecchiare, invertendone il segno, un luogo comune della cultura estetica forse più “tipicamente” novecentesca: quello che considera il passaggio alla modernità essenzialmente all’insegna della “rottura” rispetto a una precedente (e “secolare”) continuità. “Rottura” – è poi questo il punto essenziale – che passerebbe dagli “schemi convenzionali” (specificamente linguistici) del “fare” artistico direttamente sul piano del significato o del fine; e quindi muterebbe “in profondità” i modi e la possibilità stessa della “connessione” tra un’esperienza estetica e l’esperienza umana, per così dire, “globale”. Stiamo dicendo che se il valore “disalienante” dell’arte (che è praticamente un corollario di quanto siamo venuti fin qui osservando – se un’“autonomia” e una “verità” del rapporto di sé a sé è essenzialmente impegnata nel “fine” dell’arte) dipende dalla capacità di creare una rappresentazione antropomorfica del mondo (tale cioè che in essa la realtà esterna appaia come data e insieme “espressiva” – o “rivelatrice” – di una interiorità) – allora, chi ritenesse che la modernità dell’arte consiste essenzialmente nell’elaborazione di un linguaggio volutamente e quanto più possibile lontano da un’esperienza “comune” del mondo (del “dire” e del “riconoscere” il mondo), avrebbe una seria ragione di respingere la tesi che un’esperienza estetica sia “coinvolta” nel processo di costruzione del soggetto morale (e tanto più nella sua accezione epicurea). Per noi questa esperienza sarebbe pur sempre specificata nei termini in cui l’arte, ormai, ci appare (l’arte “di oggi”, ma anche, a partire dal nostro inevitabile rapporto con essa, l’“idea generale” che dell’arte ci facciamo – e con un puntuale, allora, rovesciamento del giudizio di valore, rispetto a Lukács; tipicamente, nel rapporto tra Otto e Novecento). Riteniamo che sarebbe, ormai, gran tempo di liberarsi da questa visione così ingenua della modernità (essa sì irrimediabilmente “datata”; e di liberarsene proprio nella cultura più vulgata, dalla presentazione delle mostre ai programmi dei
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concerti). Basterebbe prestare semplicemente orecchio alla letteratura (e memorialistica) prodotta dagli artisti “di avanguardia”, dai protagonisti di questa “seconda fase” della modernità, per discernervi innumerevoli espressioni di una coscienza artistica (“moderna”) dominata dal bisogno di emancipazione, di liberazione della “visione”, intesa come “recupero” di capacità soggettive – prima di tutto nel senso dell’autocomprensione, della ricerca di un’autonoma sorgente di valore, da cui “far dipendere” il significato del mondo (del mondo reale, “comune”). La situazione delle avanguardie storiche, rispetto al tema della rottura o del rifiuto (“stilistico”) in cui ancora si vorrebbe riassumerla, è più complessa: quel tema esprime, prima di tutto, la ribellione contro un gusto stereotipato, che “costringe” la produzione e la fruizione dell’arte nella ripetizione di schemi formali “insignificanti” – poiché in essi, proprio perché “scontati”, non sussiste più, come significato dell’opera, se non la semplice “somiglianza” dell’oggetto – così come si darebbe a vedere nella percezione ordinaria, nella vita quotidiana. In questo senso essa è del tutto “omogenea” alla tesi dell’originalità come carattere essenziale del produrre artistico, che abbiamo trovato in Kant – e “ripete” (basta sostituire, come motivazione del gusto, alla presunta “somiglianza dell’oggetto” la presentazione altrettanto stereotipata di un qualsiasi “bello ideale”) le ragioni del primo grande episodio moderno di “rottura” stilistica, quello romantico. Ma insieme, nel contesto storico del primo Novecento (e non senza ovvie “ascendenze”, appunto, romantiche), essa permette di forgiare il concetto di un’“arte borghese”, che il “vincolo” della somiglianza designa come erede, per quanto immeschinita, di “tutta” la tradizione – essa stessa “fondata”, nelle arti visive, sul principio dell’immediata riconoscibilità dell’oggetto; e perciò di rivendicare il valore “intrinseco” di una innovazione formale “eversiva” a livello linguistico – così che “l’arte nuova” diventa a priori “inconfrontabile” con quella del passato, molto più immediatamente e “totalmente” di quanto,
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Delacroix poniamo, non lo sia rispetto a Velasquez (o un dramma di Victor Hugo con la tragédie classique:poiché il paradigma che opera in pittura sembra trovare corrispondenze nelle altre arti, attraverso concetti certo molto meno “specificabili”, in questa funzione unificatrice, come la “verosimiglianza”, la coerenza logico-psicologica, in letteratura o il “sistema tonale” nella musica). Non dovrebbe essere difficile, per noi, vedere come questo sia l’aspetto più caduco (ancorché le poetiche dell’avanguardia vi abbiano attinto una parte della loro efficacia storico-culturale) – e, intanto, come non corrisponda affatto alla reale vicenda dell’arte moderna. Pure sembra ancora si presupponga, correntemente, che proprio lo “scarto”, il rifiuto o la negazione-rovesciamento di questa o quella “tradizione” (ma non è ormai “tradizione”, per noi, il moderno?) possa indicarsi come “senso”, “valore” delle opere in cui si esprime – e valere come contenuto determinato dell’esperienza del fruitore. Ma se consideriamo questa esperienza come propriamente “estetica”, ciò non ha evidentemente alcun senso: la qualità di una pittura “astratta” non può essere “compresa”, “vissuta”, “giudicata” senza “verificare” (per ogni singolo artista, e proprio, al di là del problema specifico della “serie”, per ogni singolo quadro) uno specifico “effetto” emozionale-intellettuale (non certo in base al “programma” della sua esecuzione, che appartiene piuttosto al “piano” della cultura e dell’ideologia – e da cui non si vede quale “effetto” dovrebbe obbligatoriamente prodursi, nell’“anima” del fruitore). Quando entriamo in relazione con il più piccolo quadro di Klee (o con Kandinskij o Mondrian, Pollock o Rothko) ci troviamo di fronte a una forma in cui cerchiamo l’espressione di un mondo interiore – e di una “idea di mondo”, con tutta la ricchezza di determinazioni che questo comporta; non certo al “partito preso” di assumere come segno o sostrato dell’espressione pittorica gli elementi “semplici” della visione (linea, colore, volume, piano, “fondo”), affidando la loro capacità di “fare immagine” (il quadro) a una
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(banale) ricodificazione (convenzione “di secondo grado”) rispetto al sistema della percezione visiva comune (nello spazio “reale”, illusoriamente ricostituito) a cui “originariamente” appartengono. Se la relazione estetica consiste nel “comprendere” la forma come il modo di apparire di un “mondo”, esterno e interno, essa funziona “nello stesso modo” quando questo mondo sia composto di “segni astratti”, o quando nel quadro (di Picasso o di Braque, Matisse o Giacometti, Léger o Ernst o Bacon – che a nessuno verrebbe in mente di escludere da un “canone” della modernità) “appare” qualcosa che “rassomiglia” a un oggetto “reale”. Proprio Klee (ma si potrebbe citare de Staël, o de Kooning, ecc.), in cui pure qualcuno cerca ancora di “separare” il “figurativo” dall’“astratto”, è l’esempio più chiaro di come un’alternativa fra questi due termini sia in sé affatto priva di uno specifico valore, rispetto al “significato espressivo”; e un altro esempio (a caso…) potrebbe essere quel vero e proprio luogo comune della storia dell’arte moderna che individua nel Monet delle ninfee (insieme con l’ultimo Turner) la radice immediata dell’espressionismo (qualcuno ha detto: impressionismo) astratto americano. Nel processo di sperimentazione formale, che è ovviamente costante e essenziale in tutta l’arte, non si danno “soglie linguistiche” che delimitino, come in mondi separati, le possibilità di significato delle opere; non è la conoscenza preliminare dei “codici”, come “precondizione” del significato, che può definire, nella relazione estetica, la “posizione” del fruitore. Poiché ci siamo trovati fin qui a parlare soprattutto di pittura, ci sarà ancora lecito osservare (scusandoci per l’ovvietà) che chi volesse “risalirne” la storia moderna, alla ricerca di un “inizio”, non potrebbe certo fermarsi prima di Goya – l’esatto (quasi) contemporaneo di Goethe. Rompere questa continuità del “moderno” significa introdurre, per destituire la pertinenza o la trasversalità della tradizione filosofica che la accompagna, un approccio essenzialmente linguistico (o metalinguistico) all’arte
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(questo approccio è – o era, fino a “ieri”? – particolarmente usitato nella teoria musicale: quando si indica nella dodecafonia e poi nella serialità, e poi magari nella manipolazione elettronica del suono, qualcosa come un’“essenza” – il “significato” – della musica moderna). Ma così, necessariamente, non si ottiene che una relegazione autoreferenziale del significato dell’arte: la “qualità” della relazione con l’opera “si esaurisce” nel riconoscimento di una inventiva o di un rigore – nella “combinatoria” dei segni, secondo le possibilità del “codice”. Se il significato dell’opera (che è ciò che è “dato” all’intuizione) non è “prodotto” che in questa autoriflessione, allora l’esperienza estetica del fruitore si separa, si “stacca” dal contesto immediato, emozionale e intellettuale, del suo essere-nel-mondo (perché il codice, a differenza dell’opera, non è una “cosa del mondo”). L’arte si trova così anticipatamente “protetta” dal rischio di semplicemente “riflettere” questo contesto, e magari rafforzarne la banalità-convenzionalità attraverso un effetto superficialmente sublimatorio – e questo è certamente un assillo della modernità; ma a prezzo, per così dire, di rinunciare alla sua funzione antropologica, alla capacità di provocare una trasformazione della coscienza di sé e del mondo impegnando la sensibilità del “soggetto” nel senso di una intensificazione e di una selezione che sia “in accordo” con le funzioni dell’intelletto. Se il soggetto di un’esperienza estetica è quello che “riconosce” una forma come essenziale o necessaria, perché in essa gli si dà a vedere, come oggetto dell’intuizione, qualcosa che è essenziale o necessario in lui – questo vuol dire che la forma non è “compresa” (solo) come variabile combinatoria, in riferimento (“scarto” o declinazione) a una “regola” linguistica. Quando Picasso, a decenni di distanza, si trovò ad evocare l’impressione che aveva fatto su di lui la scoperta di quello che si chiamava art nègre, non parlò della “grammatica” dei volumi, e meno ancora della violazione di un qualche tabou (“occidentale”, tradizionale) della rappresentazione, ma disse di aver com-
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preso che la pittura è «une forme de magie qui s’interpose entre l’univers hostile et nous, une façon de saisir le pouvoir, en imposant une forme à nos terreurs comme à nos désirs»38. Il termine “magia”, ovviamente, è legato all’oggetto specifico («ces masques, tous ces objets que les hommes avaient exécutés dans un dessein sacré, magique, qu’ils servent d’intermédiaires entre eux et les forces hostiles qui les entouraient, tâchant ainsi de surmonter leurs frayeurs en leur donnant couleur et forme»39). Ma queste frasi esprimono benissimo il “valore” della forma artistica – riflesso e strumento di un potere umano sul mondo come comprensione-oggettivazione del “senso” del mondo in rapporto all’insieme delle facoltà e dei bisogni soggettivi che lo “investe” (eventualmente: agonisticamente). Dar forma, e fare esperienza della forma, significa prendere coscienza di sé – e affermare questa coscienza, come un fatto “oggettivo”, in una visione diretta, rivolta all’esterno. Non c’è differenza, da questo punto di vista, fra l’impegno esistenziale, per così dire, del progetto artistico e il suo specificarsi in rapporto a determinati contesti storici, sociali o politici: quando capita a Picasso di esprimere, in diverse occasioni, il suo “punto di vista d’autore” su Guernica, sono ancora le “forze ostili” che “circondano” gli uomini di oggi, non diversamente da quelli “primitivi”, a venire in primo piano – stavolta nella forma storica dei fascismi; e contro di esse la pittura, l’arte, prende posizione. Questa coscienza polemica, antagonistica, “impegnata”, caratterizza in profondità la cultura artistica più “programmaticamente” moderna – e 38. Cit. in F. Gilot - C. Lake, Vivre avec Picasso, Calmann-Lévy, Paris 1964, pp. 248-249; «una forma di magia che si interpone tra l’universo ostile e noi, un modo di prendere il potere, imponendo una forma ai nostri terrori come ai nostri desideri». 39. Ivi, p. 248; «queste maschere, tutti questi oggetti che gli uomini avevano realizzato nel disegno sacro, magico, di farli servire da intermediari tre loro stessi e le forze ostili che li circondavano, cercando così di dominare la propria ansia dandole colore e forma».
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si ritrova anche in quei movimenti che sono spesso considerati, a torto, unicamente nella chiave della sovversione linguistica, della rottura e détournement dei codici, come per esempio Dada. Si può ben parlare di una ideologia politicamente rivoluzionaria che si ritrova al centro della pratica, della visione, della funzione dell’arte moderna (compreso l’“astrattismo” americano del secondo dopoguerra). E la necessità metodologica, essenziale, della distinzione tra arte e ideologia non può certo far dimenticare che la soggettività dell’esperienza estetica, sul piano della creazione come su quello della ricezione, non può che accogliere l’intero contenuto ideale e sentimentale di un determinato essere-nel-mondo. Separare la sperimentazione delle forme dal legame con questo contenuto (e dunque assai spesso, per l’arte “d’avanguardia”, dal vissuto profondo di una contestazione radicale dell’“ordine del mondo” capitalisticoborghese), come se rilevasse soltanto da una evoluzione di linguaggio e di stile tutta “interna” all’arte e al pensiero dell’arte (ma non c’è un pensiero dell’arte che non sia anche un pensiero di qualcos’altro) è riduttivo e ingenuo. La più influente teorizzazione dell’“impegno”, come collegamento della prassi artistica con i problemi e i compiti etico-politici, si deve com’è noto a Sartre, in particolare nel saggio del 1947 che ha per titolo Che cos’è la letteratura?. C’è, in questo testo, una concezione “generale” dell’arte a cui avremmo potuto direttamente riferirci, per mostrare la permanenza dei temi che abbiamo preferito attingere “alle fonti”; per esempio, in frasi come queste: «lo scrittore [ma qui è propriamente “l’artista”] sceglie di appellarsi alla libertà degli altri uomini affinché questi attraverso le implicazioni reciproche delle loro esigenze restituiscano la totalità dell’essere all’uomo e richiudano l’umanità sull’universo»40; poiché «l’atto creatore ha di mira una 40. J.-P. Sartre, Che cos’è la letteratura?, tr. it. di D. Tarizzo et al., il Saggiatore, Milano 1960, p. 147 (corsivo nostro).
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ripresa totale del mondo», «ogni quadro, ogni libro è un recupero della totalità dell’essere», che “si presenta” «alla libertà dello spettatore»; «scopo finale dell’arte» è appunto che «questo mondo» sia presentato «alla vista così com’è, ma come se avesse la sua fonte nella libertà umana»41. Pure, il tema specifico del saggio, l’engagement, non è direttamente “saldato” a, non deriva direttamente da, questa concezione: al contrario, e già dal titolo, Sartre ha bisogno di operare un “taglio” all’interno dell’arte, che isola la letteratura (e poi anche all’interno della letteratura: la narrativa e il teatro) come un “dominio riservato”. A questo sono appunto dedicate le prime pagine, sul filo di una contrapposizione tra “prosa” e “poesia”, fondata in una diversità radicale dei “modi di significare” (sarà “poetico”, a fortiori, quello delle arti che non usano le parole). L’esempio più eloquente è quello della pittura: «Lo scrittore può guidarvi, e, se vi descrive un tugurio, può farvi vedere il simbolo delle ingiustizie sociali, provocare la vostra indignazione. Il pittore è muto: vi presenta un tugurio, ecco tutto; […] Questa soffitta non sarà mai il simbolo della miseria; occorrerebbe che fosse segno, mentre invece è cosa»42. Questa distinzione (e si pensi, per contrasto, all’“effetto morale”, e politico, nella critica d’arte di Diderot), mostra come per Sartre il rilievo dell’antropomorfizzazione del mondo, e il connesso appello alla libertà, che rimangono centrali nella “definizione” dell’arte, non siano sufficienti, per così dire, a integrare l’esperienza estetica nel percorso dell’etica – se l’engagement dev’esser considerato, com’è ovvio, nella prospettiva della formazione di una coscienza etico-politica (e si ricordi come in Schiller proprio all’educazione estetica, in quanto tale, fosse riconosciuto anche un valore o una funzione direttamente politica). Sartre
41. Ibidem. 42. Ivi, pp. 119-120.
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nega, in pratica, che un rapporto tra l’estetico e l’etico si possa ritrovare nei termini stessi in cui egli stesso descrive l’esperienza dell’arte. La «libertà umana», che abbiamo visto “rispecchiarsi” in tutta l’arte (come «fonte» dell’«atto creatore», e del mondo rappresentato), può esprimersi, praticamente (diventare engagement), quando un particolare aspetto del mondo (esterno) sia “esplicitamente” giudicato (il che presuppone le arti della parola – con l’esclusione della poesia, in quanto “rivolta” all’interiorità); altrimenti essa rimane, come ci è già accaduto di osservare, “vuota”, indeterminata (le parole omesse nell’ultima citazione, a proposito dell’effetto sullo spettatore della pittura di un tugurio, sono: «liberi voi di vederci ciò che vorrete»). Il richiamo di Foucault al “luogo comune” che vede nella libertà «la condizione ontologica dell’etica»43 è certamente valido anche per Sartre; ma da questa condizione l’etica, come libertà riflessa, non trae (anche per lui) che il principio della propria possibilità – perché in essa non si esprime l’autonomia rispetto al fine di un essere naturale, ma la trascendenza “negativa” del pro-getto (che è ovviamente, quanto ai “contenuti”, indifferente). Quando Sartre chiede all’artista “impegnato” di “metterci davanti agli occhi” non semplicemente l’“umanità” del mondo (attraverso la forma), ma ciò che specificamente lo designa come sbagliato o ingiusto, non fa che perpetuare una concezione “di senso comune” della morale – quella deontologica. Se “il passaggio” nella sfera della morale implica l’emergenza di un imperativo (parola ricorrente in Sartre, in questo contesto), l’arte vi contribuirà nella misura in cui “il contenuto” della rappresentazione si trova direttamente in rapporto con ciò che è già riconosciuto come “valore” – perché non può essere “compreso” che come dis-valore; il che naturalmente implica che già nella forma, nel linguaggio, sia presente l’elemento “astratto” – del
43. Cfr. supra, p. 68.
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confronto, del giudizio, del generale (la parola come «segno», appunto: in cui il significato è potenzialmente già dato). Allora l’opera d’arte (il romanzo, il dramma) si presenterà come un appello all’azione; in essa si trova già istituito il rapporto fra l’essere e il dover essere – lo “scarto”, moralmente inaccettabile, tra una realtà “data” e ciò che in essa dovrebbe “valere” come norma (ideale; rispetto a cui questa realtà dovrebbe, determinatamente, “cambiare”). Nel momento stesso in cui impegna l’arte nel processo di elaborazione dei fini della libertà, nella formazione di una coscienza liberamente orientata al mondo, Sartre rimane prigioniero, per così dire, di un riflesso “tradizionale”: la libertà umana non può “diventare” coscienza morale senza attingere il criterio dell’azione e del giudizio a una “struttura ideale” (del “valore”) – che pure le rimane fatalmente, senza il “supporto” di un razionalismo, estranea. Ma c’è un’altra concezione della morale, quella di Epicuro e di Spinoza – che non si elabora in funzione di un dovere, ma di un essere. In questa prospettiva, il rapporto tra l’estetico e l’etico non riguarderà il “contenuto” di un giudizio o di una decisione (morale, politica) che l’opera d’arte contribuisca a “imporre” come vero o come giusta (si ricordi ancora Schiller: l’esperienza estetica non produce singoli “oggetti”, per la conoscenza, la volontà o il sentimento). Consisterà, quel rapporto, nel fatto che la rappresentazione artistica del mondo è intrinsecamente valutativa – perché in essa il soggetto scopre che il suo rapporto con “l’esterno” è interamente formato nel processo stesso che lo costituisce come interiorità (libertà), si sceglie come soggetto “in mezzo” al mondo., verifica la propria coscienza di sé come forma possibile di una oggettività, come evidenza sensibile di ciò che è dato per lui (e che non è, evidentemente, il mero “esserci” della “cosa”). È stato proprio uno degli artisti più grandi, Goethe, a insistere sul fatto che la conoscenza di sé, da cui dovrebbe “derivare” la moralità, non può essere separata dalla conoscenza del mondo, che
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l’individuo può trovare in se stesso il criterio e il valore solo in quanto percepisca se stesso come originariamente, praticamente, materialmente “interno” al mondo – e il suo permanente, pratico-sensibile “incontro” con il mondo come luogo di produzione della sua propria interiorità. E lo ha fatto – per esempio in questo brano, con il quale chiudiamo il nostro excursus – nei termini di una visione tipicamente, inconfondibilmente epicurea: Si è sempre detto e ripetuto che si deve fare il possibile per conoscere se stessi. Questa è una pretesa assai strana e finora nessuno ci è riuscito e nessuno ci riuscirà mai del tutto. L’uomo è in tutti i suoi sensi e in tutto il suo operare rivolto verso l’esterno, verso il mondo intorno a lui, e ha il suo da fare a conoscere questo mondo per renderlo utile a sé quel tanto che è necessario ai suoi propri scopi. Di se stesso sa soltanto quando gode e soffre, e parimenti dal godere e dal soffrire gli viene insegnato quello che deve cercare o evitare.44
44. J.P. Eckermann, Colloqui con il Goethe, 2 voll., tr. it. a cura di G.V. Amoretti, UTET, Torino 1957, vol. II, 10 aprile 1829, p. 638.
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Conclusione prima
… le devoir doit-il se transformer et se confondre de plus en plus avec le développement normal et régulier du moi. Jean-Marie Guyau, Esquisse d’une morale sans obligation ni sanction (1885)
Il lettore che abbia avuto la pazienza di seguirci fin qui ricorderà forse la figura, il personaggio, la situazione che avevamo evocato in limine – quel lettore occasionale di un libro di filosofia che si immaginava di potervi trovare le “ragioni” del proprio sentimento vitale, i principi di un “sapere” del mondo e dell’uomo in accordo con il proprio, personale “vissuto”. Ci era servita, quella variazione letteraria, per dire come nel rapporto con una filosofia morale il momento della comprensione e della discussione si misuri poi sempre, necessariamente, con un bisogno di appropriazione, la riflessione sul “generale” incroci una domanda su quello che si è e si vuol essere, su come la propria vita può esprimere o riflettere, nella varietà dei casi e degli ambienti, qualcosa di diverso dal calcolo delle utilità e dall’adattamento alle circostanze, qualcosa che assomigli all’unità di un soggetto. Avevamo però poi subito anche avvertito che una ricerca sui principi e le forme della coscienza morale non può diventare parte integrante della cultura filosofica (e della cultura tout court) di un’epoca se è guidata unicamente dalla percezione, piò o meno confusa, di un “bisogno” esistenziale. Se essa prende appoggio, com’è giusto e inevitabile che sia, su pensieri già pensati, su opere e autori della tradizione,
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non potrà certo produrre i risultati che Thomas Buddenbrook, “immediatamente”, se ne attendeva senza assolvere a specifici obblighi, di lettura, di rilettura, e di confronto. Se tutti, più o meno confusamente, intuiamo che c’è un rapporto tra “la filosofia dei filosofi” e “la vita” (o che “dovrebbe” esserci), è chiaro che non potremo trarne alcun vero acquisto se non esercitando, a proposito della prima, una lunga pazienza. Se il terreno o l’occasione della ricerca è la filosofia morale epicurea (qualcosa in cui la nostra tradizione culturale ha “da sempre” riconosciuto una delle sue fondamentali possibilità di scelta, uno degli schemi in cui si può configurare il rapporto tra verità filosofica e condotta di vita, autocomprensione della vita), questi obblighi o compiti (di lettura e confronto) si precisano nel tentativo di rispondere a una questione essenziale (o due), che è poi quella per cui ci siamo serviti, nell’impostarlo, del “paradigma” di Hadot: da una parte, se l’epicureismo partecipa di una più ampia pratica della filosofia, che tende a identificare la riflessione sul bene morale con l’esercizio o l’abito di una saggezza, qual è il suo proprio modo di definire questa “saggezza”, di concepirne la possibilità e i contenuti in base a un’analisi o comprensione del fatto umano, della posizione dell’uomo nel mondo e nella natura; dall’altra, come questo “ideale” della saggezza, se può essere effettivamente delineato in una interpretazione di Epicuro come specifico e originale, possa proiettarsi o trasmettersi in un contesto culturale (filosofico) “moderno” – che appare già “a prima vista”, per così dire, segnato dal rifiuto o dal sospetto riguardo ai “poteri” della soggettività, allo spazio di autonomia, autodeterminazione, ecc., di cui il “soggetto” ha bisogno, per potersi conoscere o costruire “nella prospettiva” della saggezza. Questa prospettiva, come che se ne descrivano contenuti e percorsi, è in ogni caso associata alla possibilità di un “uso autonomo” della ragione. Ma questa possibilità può essere pensata, è stata pensata, come corrispondente a ciò che la ragione, in se
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stessa, è: per cui la sua “presenza” nell’uomo (l’uomo “è dotato” di ragione) gli consente di trovarsi direttamente “in contatto” con l’universale – cioè con una verità necessaria, che trascende ogni particolare ambito di esperienza, perché corrisponde all’essere intelligibile di “ciò che è”, o del “tutto”. Fare uso della (sua) ragione significa allora per l’uomo (quando vi riesca) sottrarsi al proprio legame con le condizioni particolari di un divenire o di un essere individuale, al loro potere di determinazione, alla materialità e alla contingenza delle cause immediate – essere, appunto, “autonomo”. È una visione certamente tipica di ciò che chiamiamo “razionalismo”. Ma, perché se ne possa derivare una filosofia morale, non è necessario che nella ragione innata si rispecchi “l’essere” o “il tutto” – che in quanto enti razionali ci troviamo potenzialmente già in possesso della “forma intelligibile” del reale. L’esempio massimo, a questo proposito, è ovviamente Kant: che è certamente un critico del razionalismo (e del “sostanzialismo” che lo sottenda), proprio perché esclude l’accesso diretto all’universale, o lo circoscrive nell’ambito della necessità “soggettiva” delle forme della conoscenza – rinunciando, per così dire, alla possibilità di interpretare la loro propria universalità come riflesso o espressione di una intrinseca intelligibilità dell’essere in quanto tale, di un Assoluto o Incondizionato. Sennonché, l’“essere” che è in questione nella filosofia morale è appunto la determinazione soggettiva, una potenza di causazione che “pone” l’oggetto in quanto lo “conosce” – un rapporto interno alla volontà. La separazione che Kant istituisce tra “ragion pura” e “pratica” serve appunto a reintrodurre nella ragione che è in ogni uomo la capacità di riflettere un Assoluto o Incondizionato – non come fondamento dell’essere delle cose, in quanto indipendente da noi, ma come fondamento, invece, di un “altro” essere, l’ente morale che noi stessi, in quanto dotati di ragione, siamo. Quando questo essere si particolarizza (cioè negli atti della volizione,
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in quanto siano “confrontabili” con una norma razionale – universale) la nostra conoscenza del bene e del male ne rispecchia “totalmente” l’in sé; la pretesa della ragione di determinare l’essere-in-sé “in conformità” a se stessa trova qui, e solo qui, giustificazione e compimento. Si può dire che Kant porta al massimo grado di tensione la ricerca di un fondamento razionalistico per la morale. “Deve” farlo, non fosse che per il livello di radicalità a cui ha portato, sul piano onto-gnoseologico, la critica della metafisica. Ma questa difficile convivenza, nell’unità del suo “sistema”, è in principio resa possibile, per così dire da un gesto filosofico abbastanza “semplice” – che è appunto la summenzionata separazione fra i diversi usi della ragione, in corrispondenza con la diversità dei suoi oggetti. In quanto principio di determinazione per ciò che è moralmente “rilevante” (dunque: in quanto si identifica con la legge morale) essa, la ragione, non è limitata da nessuna delle condizioni “esterne” che ne circoscrivono la portata specificamente gnoseologica nell’ambito del fenomeno, precludendole l’accesso alla “cosa in sé”. Si dà dunque su questo piano la possibilità di una conoscenza “superiore” – quella stessa che nella metafisica tradizionale era garantita dalla nozione di un essere intelligibile, sovrasensibile, come “fondamento” del reale. In una limpidissima presentazione d’insieme (La Critica della ragion pratica di Kant. Introduzione alla lettura), Sergio Landucci ha opportunamente riportato un giudizio di Fichte, dalla Seconda Introduzione alla Dottrina della scienza (1797), che vale la pena di citare: «nella terminologia kantiana ogni intuizione si rivolge ad un essere» e dunque «un’intuizione intellettuale sarebbe la coscienza immediata di un essere non sensibile, la coscienza immediata della cosa in sé, e invero per mezzo del semplice pensare, dunque un creare la cosa in sé per mezzo del concetto». Ma «[n]on si è, secondo Kant, pienamente consapevoli dell’imperativo categorico? Ora, che coscienza è mai questa? […] Quella coscienza è senza dubbio una co-
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scienza immediata, ma non sensibile; dunque esattamente ciò che io chiamo intuizione intellettuale»1. Quando Hadot, come abbiamo visto, mostra di considerare le “morali antiche” quasi come una prefigurazione di Kant, non si può dire che abbia tutti i torti – nonostante che esse, e non quella di Kant, si presentino come morali della saggezza, e che la sua “formula” esplicativa (“coincidenza” di natura universale e Ragione universale) sia a prima vista difficilmente traducibile in linguaggio kantiano. Landucci, nella sua sintesi, insiste a più riprese su un platonismo di Kant, ritrovandolo per esempio in un passo della Critica della ragion pura, così riassunto: «L’“idea” […] è sorta, nella mente di Platone, per garantire uno statuto adeguato al dover essere, sottraendolo una volta per sempre all’empirismo» (cioè a una qualsiasi “origine” extra-razionale); l’errore di Platone sta ovviamente (citiamo sempre la parafrasi di Landucci) nell’«estendere poi tale nozione [di “idea”] fino a coprire tutto quanto il campo della conoscenza, come se all’uomo fossero accessibili le cose in sé»2. Del resto, nota ancora subito dopo Landucci, in Kant la legge morale, come conoscenza del bene e del male, può essere considerata a tutti gli effetti come un’idea della ragione; della quale – a differenza che delle altre, partitamente discusse nella Critica della ragion pura – non abbiamo solo la “nozione”, ma anche l’uso “conoscitivo” – essa è cioè capace di “costituire” il suo oggetto. L’autonomia del soggetto morale risulta dunque in Kant, come in tutta la tradizione “idealistica”, garantita da un a priori della ragione – la cui funzione “normativa” non ha niente a che fare con la strumentalità rispetto a un fine, ma è, per così dire, espressione di se stessa. Il soggetto è autonomo (si dà da sé la “norma”) perché è razionale, da questo suo essere deriva im1. In S. Landucci, La Critica della ragion pratica di Kant. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 1993, p. 162 nota. 2. Ivi, p. 161.
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mediatamente, in tutte le circostanze pratiche, il criterio del volere e dell’agire (e del giudicare). Naturalmente, in Kant come nelle morali “difese” da Hadot, la situazione empirica dell’“agente” (volente, ecc.) è in principio molto distante da questo modello – ideale o archetipo: il passaggio dall’eteronomia all’autonomia richiede uno “sforzo” – la cui meta o traguardo potrà sempre essere descritto come l’identificazione o subordinazione dell’individuo a ciò che è in lui, e in tutti, la “parte migliore”. Una simile configurazione dell’ideale dell’autonomia morale non può reggere alla prova di ciò che ci hanno insegnato, dalla metà dell’Ottocento in poi, i “maestri del sospetto”. Che si tratti dell’influenza di Freud o di quella di Marx (o, ovviamente, di Nietzsche), nella cultura contemporanea la figura del soggetto (o della coscienza) non si delinea più su uno sfondo di “trasparenza” rispetto alla Ragione universale. Il materialismo contemporaneo non è solamente una “opzione” in termini onto-gnoseologici: investe, attraverso le “scienze umane”, quella che potremmo chiamare la storia empirica della ragione – “funzione”, certo, della coscienza umana, ma che si costituisce e si struttura in costante rapporto con, in dipendenza da, la “situazione” dell’individuo umano nella natura organica, nella società, nella “cultura”; forme o strutture di “oggettività”, presupposti “materiali”, che ne condizionano la genesi, ne determinano il senso e i limiti. Per Freud, l’uomo “viene al mondo” a partire dall’Es, dal dinamismo spontaneo, ingovernabile, delle sue pulsioni. Per Marx, la possibilità e la necessità di un “progetto” umano è tutta inscritta nella determinatezza di un processo storico-sociale in cui il soggetto riceve, insieme, le forme dell’identità e quelle dell’alienazione, nella costante partecipazione a una pratica collettiva la cui norma è “empirica”, non razionale. I discorsi filosofici che hanno cercato di generalizzare, al livello appunto del soggetto umano e della sua “ragione”, le pratiche di indagine e i risultati dello strutturalismo
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(e di cui Foucault ci sembra l’esempio in tutti i sensi più “alto”) hanno insistito su un rapporto dell’uomo alla “verità” che sta tutto dentro le condizioni di una “discorsività” capace di segnare i limiti del “pensabile” – e che rimanda necessariamente a uno “stato di cose”, nella continuità e discontinuità della storia (della “cultura”), a sua volta “segnato” da specifici rapporti di potere. Non è esagerato dire (anche se certo non ne esaurisce la portata e il valore) che tutta l’arte moderna (contemporanea) riflette (o porta “al limite”) l’esperienza del “decentramento” del soggetto – un soggetto che “scopre”, guardando dentro o “nel profondo” di sé, l’alterità che lo minaccia, lo diluisce, lo scompone nelle figure parziali di un essere-per-altro, o nell’Altro, che non si lascia ricondurre a una interna, “razionale”, costante misura. Non può non derivarne, e diciamo proprio al livello anche più superficiale della “coscienza culturale”, il rischio di una “crisi” della morale. Una crisi che non investe specifici contenuti, “definizioni” del bene, “scelte” del fine, ma proprio, possiamo dire, l’idea generale di un “progetto” umano che possa riflettere un essere dell’uomo – una forma di “autogiustificazione” (autocomprensione) dell’uomo (dell’individuo umano) in cui poter attingere ragioni stabili dell’azione e della condotta, del giudizio valutativo, della scelta. Tutti possiamo facilmente verificare intorno a noi (o in noi), in qualsiasi sfera della comune esperienza, dalla politica al sesso, come la condotta, la scelta, il giudizio non siano facilmente riconducibili in una “visione d’insieme”, obbediscano all’immediata ingiunzione delle circostanze, si comprendano attraverso “modi d’essere” irriducibilmente “parziali”, riflesso provvisorio e confuso di un gioco infinito di differenze, caratteri, influssi. Ma tutti, altrettanto facilmente, possiamo poi fare anche un’altra, opposta, verifica: nessuno, quando si interroghi sul proprio “vissuto”, sarà disposto a concedere di “non avere alcuna idea” di che cosa sia una vita “buona”, “sensata”, “degna”, come dice Marx, dell’uomo; e di non
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essere personalmente impegnato a vivere, per quanto è possibile, proprio questo “genere” di vita – e a giudicare su questa base la vita degli altri. Nessuno potrà sinceramente dichiarare che il problema di Thomas Buddenbrook (“farsi un’idea” della propria vita, e della vita in generale, “conforme” a un bisogno di autenticità e di autonomia) non sia “intimamente” suo proprio (anche se è lecito pensare che questa contraddizione – in un tempo come il nostro, singolarmente refrattario al senso del tragico – venga poi “empiricamente” risolta, per lo più, secondo l’imperativo di un certo comfort, intellettuale e psicologico). Questa “inevitabilità” della morale, della ricerca di una libertà umana che sia fondata su una “verità”, l’abbiamo vista affiorare, e anzi direttamente riproporsi, negli autori “moderni” che abbiamo cercato di mettere in relazione con Epicuro. Abbiamo visto come Foucault, che è stato certo un teorico della “sparizione” del soggetto, arrivi alla fine del suo percorso a rifiutare questa “etichetta”; e non si osserva abbastanza, ci pare, come il procedere della sua ricerca, oltre la “tappa” di Le parole e le cose, abbia prodotto tra l’altro un vero e proprio capovolgimento riguardo a un punto essenziale – il rilievo paradigmatico che assumeva in quel libro, insieme con la linguistica strutturale, la psicoanalisi, come sapere che “libera” la rappresentazione dell’uomo dall’ingiunzione dell’“intero” e del “permanente”, e dalla mistificazione idealistica che vuol racchiudere in questa rappresentazione il senso globale e unitario della storia (divenire umano che ha in sé la propria regola e la propria meta). Nelle fasi successive (e nel contesto politico che abbiamo cercato di richiamare) il giudizio sulla psicoanalisi (come pratica terapeutica, e come “forma discorsiva” sociale) cambia completamente: essa appare pienamente integrata – ne costituisce anzi un “agente” particolarmente efficace – nel dispositivo di controllo che si riassume nella nozione di bio-potere – in quanto “fabbrica” un sapere (una nozione) della sessualità nella trasparenza di un meccanismo (una eziologia) interamente ricomponibile
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sull’asse normalità/devianza, di cui il soggetto sessuato appare come semplice luogo di inscrizione, o registrazione. Foucault si accorge, potremmo dire, che gli effetti disciplinari, di “assoggettamento”, dell’“ordine del discorso” non derivano solo o tanto dall’“ingiunzione di senso” che si produce in una “forma generale” del sapere, vincolata a grandi “idee filosofiche”; ma che al contrario è proprio una rappresentazione “in esteriorità” del soggetto, corrispondente alle finalità generali della “governamentalità” amministrativa, statistica, quantitativa, la più adeguata al compito di inscrivere efficacemente, normativamente, nella vita e nei corpi degli individui, gli a priori della riproduzione sociale, e gli effetti di coscienza e di ruolo che li “incarnano”. Ed è su questa base – più “ravvicinata”, nel concreto dell’esperienza individuale – che la sua ricerca si volge alle morali (tardo) antiche, per ritrovare la matrice culturale (il “suolo” archeologico) di un progetto (alternativo) di soggettivizzazione; che riscopre, come abbiamo letto, il “presupposto ontologico” della libertà, e lo assume riflessivamente, nella forma di una morale, come emergenza specifica di un possibile “gioco di verità”. Nel caso di Freud, abbiamo visto che il bisogno di “padronanza”, la capacità/necessità da parte dell’Io di identificazione nel “fine” (universale), che implica la scoperta di una sua “verità”, un suo proprio “essere”, si declini addirittura in due modalità distinte (e tra loro eterogenee). Da una parte c’è l’adesione “incondizionata” al valore della cultura (il processo di incivilimento come “risultato” della ragione umana) – ed è questo certo l’aspetto più estrinseco, o “ingenuo” (ideologico): l’adesione “valoriale” alla ragione-civiltà rimane, per così dire, un “partito preso”. Ma abbiamo anche visto che il progetto di riappropriazione/trasformazione, nelle “funzioni superiori dell’Io”, di ciò che nell’individuo costituisce il vincolo originario con la natura rimane pur sempre il centro, il senso, dell’analisi – e che quest’appropriazione, anche al di fuori del setting analitico, include l’attivazione di un principio del piacere che l’Io “spe-
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rimenta” come proprio (per quanto tormentata e controversa rimanga la definizione teorica di questo principio); la coppia aggiramento della censura/recupero del rimosso, che caratterizza esperienze cruciali come l’umorismo e l’arte, esemplifica l’azione del fine edonistico come principio dinamico di uno sviluppo proprio, “unitario” dell’Io. Quanto a Marx, è sufficiente che uno dei suoi interpreti (con tanti altri, ma certo tra i più rigorosi e autorevoli) abbia potuto parlare di un “umanesimo marxista” per mostrare come il suo apporto non rappresenti affatto (se non negli effetti più superficiali e meccanici di una vulgata) il definitivo oltrepassamento di un pensiero della morale, come riflessione sui fini “autentici” e “propri” dell’individuo. Al centro della sua teoria critica (della società, come formazione storica, e della sua possibile e consapevole trasformazione) rimane il tema di un “destino comune” (“autoproduzione” del genere umano, nel processo materiale-cosciente di umanizzazione della natura) la cui radice, la cui “pensabilità” (e la cui effettiva “realizzazione”) non può trovarsi che nell’autoriflessione della coscienza individuale; in cui il “fine”, per ciascuno, si definisce secondo i bisogni e le capacità di un essere naturale sensibile in costante rapporto materiale, corporeo, con il “mondo”. Non si può dire che il materialismo moderno, che investe i saperi dell’uomo collocando la formazione della coscienza e della cultura nelle condizioni pratico-materiali del mondo “esterno”, arrivi a “sopprimere” il problema della morale. Ma non può certo accoglierne l’impostazione idealistico-razionalistica, fondata su un innatismo – sulla possibilità di riconoscere alla ragione umana una funzione legislatrice “incondizionata”, perché espressione di una necessità dell’essere (è secondario, ripetiamo, che l’essere in questione sia “oggettivo” o “soggettivo”, definito come “mondo intelligibile” – o “cosmo” – o come essenza razionale dell’uomo; tanto più che anche nel secondo caso – quando si tratti di morale, e non di conoscenza “scienti-
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fica” – questa necessità/universalità implicherà, lo si vede bene nei “postulati” di Kant, un legame con l’intelligibilità o idealità del “mondo”). Ma è anche incompatibile, questo materialismo, con una “soluzione” che ha corso in particolare nell’ambito della filosofia morale anglosassone, anche secondo declinazioni che si definiscono come “neoaristoteliche”: in cui la ragione umana non si considera più come “rappresentante” di un “assoluto” della verità/valore, ma ricava in cambio da una conoscenza scientifica (biologizzante) del “posto dell’uomo nella natura” le proprie “certezze”, quanto ai criteri a ai fini di una condotta consapevole. La sobrietà che si vorrebbe così rivendicare (rispetto all’idea metafisica del Bene, o alla “legge morale in noi”) non vale, in realtà, che come un artificio retorico: se si presume di ricomporre un orizzonte valoriale trasformando in finalità razionale, per l’individuo, la conformità a una norma riproduttiva (dell’“ordine” della natura) che niente, se non appunto una metafisica (un’onto-teologia) distingue a priori dal dominio della pura fatticità. Non solo si viola così il celebre non sequitur humeano (per cui, a dirla rozzamente, non è possibile riconoscere in un “fatto” il “rappresentante” di un valore – dover essere); ma il criterio della valutazione morale non si distingue che in apparenza dalla capacità “innata” nella ragione di riconoscere o stabilire una “gerarchia” fra diversi livelli o piani del “reale”: il fine che “si impone” all’individuo (al vivente umano) si risolve interamente nella sua coscienza di essere, in quanto soggettività “pratica”, il tramite attivo attraverso cui un ordine “superiore” (quello della natura, di cui fa parte) deve riprodursi. Gli esempi tipici della condotta morale (o piuttosto dei suoi interdetti: anche in questo indirizzo la morale è come “schiacciata” sulla norma) definiscono, al posto dell’homo oeconomicus di Kant (la proprietà e il contratto come forma naturale eterna di una prassi di reciprocità “razionale”), una sorta di homo oecologicus (o “salutista”): banco di prova della moralità diventa, invece che il rispetto del bene altrui lasciato in deposito, quello dell’ambiente naturale, della vita biologica, e della
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propria salute (attraverso la “prevenzione”). Chi fosse tentato di giudicare alquanto caricaturale questo resoconto può riferirsi, per esempio, a un testo che ha valore di “sintesi”, come Ph. Foot, Natural Goodness (Clarendon Press, Oxford 2001). Un “naturalismo morale” così declinato non ha evidentemente nulla di materialistico – al contrario, non può che dipendere che dalla fiducia “arcaica” in un ente di ragione, come “il fine della natura”. Esso non fa che ripetere il gesto tradizionale di tutte le morali idealistiche, la separazione radicale tra ciò che nell’individuo è razionale, via d’accesso al profondo e al sostanziale di un essere “eterno”, e ciò che invece rileva dall’immediato e dall’intero del suo proprio esserci naturalesensibile (finito). Ma in questa separazione, si pone il problema del passaggio, del “collegamento”, fra le due “parti” dell’individuo. Si è posto, al livello più alto dell’elaborazione filosofica, anche per Kant: che nei suoi corsi universitari di etica datati intorno al 1780, e conservatici nella trascrizione di un uditore, “deve” affrontare il tema (tradizionale) del “sentimento morale”, come motivo o condizione dell’auto-determinarsi della volontà, fonte di un “impulso” all’azione. A questo proposito, gli accade di “valorizzare” un tema non meno tradizionale, quello dell’“addestramento” (in particolare: nell’infanzia) capace di istituire tra legge razionale e individuo agente il legame “affettivo” dell’abitudine. E tuttavia tien fermo, in tutto il suo rigore, all’opposizione radicale (eterogeneità) tra conoscenza razionale e impulso affettivo (per quanto quest’ultimo sia “richiesto”, nella determinazione della volontà, non è possibile un’armoniosa “collaborazione” dei due principi: a meno di subordinare, come Epicuro, «il nostro intelletto al fine di trovare i mezzi per appagare la nostra richiesta di piacere»3),
3. I. Kant, Lezioni di etica, tr. it. di A. Guerra, Laterza, Roma-Bari 1984 (19711), pp. 44.
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Non si tratta semplicemente di “capovolgere” la gerarchia; ma di lasciare sostanzialmente “in bianco”, “vuoto” (fuori da ogni “idea” di moralità), il tema del rapporto della volontà con tutto ciò che la determini “dal basso”, dalla zona “pre-razionale” degli impulsi-affetti: «L’intelletto, certo, può giudicare, ma conferire a tale giudizio dell’intelletto una forza, farne un impulso per spingere il volere a compiere un’azione, questa è la pietra filosofale»4. E queste parole sanzionano la riduzione all’assurdo di una celebre “formula” goethiana: «Il dovere: quando si ama ciò che si comanda a noi stessi»5. Ma perché sarebbe così difficile “amare” la legge? La risposta, se la legge “appartiene” alla ragione, è facile, e Kant ha ragione di darla per scontata: non è la ragione che “ama” – il contenuto di una evidenza razionale è in quanto tale “indifferente” al sentimento. Il legame tra ragione e sentimento, l’“impossibile” che qui Kant sembra rimpiangere, è proprio quello che coinvolgerebbe “tutto” l’essere individuale in una spontanea attrazione verso la moralità; e ciò implica che si riconosca nel “contenuto prescrittivo” non una necessità razionale, ma una possibilità di realizzazione del proprio bene. “Aderire”, sentimentalmente, a un principio di moralità è realmente “impossibile” se questo principio non è posto in relazione essenziale con il “bene” (proprio); e nella morale di Kant ciò che l’individuo può “percepire” come suo proprio bene non solo “non è coinvolto”, ma si oppone per principio alla conformità (della volontà) alla legge – che è tale appunto quando prescinda dalle condizioni “empiriche” di ogni percezione. E tuttavia è proprio questo – una percezione, nel contesto di una sensibilità – che si dovrebbe “richiedere”, per comprendere come il soggetto morale possa “amare se stesso”.
4. Ivi, p. 51. 5. J.W. von Goethe, Massime e riflessioni, cit., n. 829, p. 165.
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Quando Kant riconosce come “ideale” (irrealizzabile) la capacità dell’individuo di portare “tutto se stesso” (sentimento e ragione) nell’adesione alla legge, quel che vagheggia è proprio la restituzione o il recupero di una unità – una morale capace di “convincere” e attrarre “tutto” l’uomo, e non solo la sua “parte razionale”. Di una siffatta “unità” ogni morale “ha bisogno” (in questo senso, è un postulato): nessun fine può essere universale, per dirla semplicemente, se non è intanto unitario – “eguale a se stesso”, nelle più diverse configurazioni di oggetto, “posizioni” di scopo. La soluzione di Kant (il fine è la “volontà buona”: che riflette nel suo determinarsi, nella varietà empirica delle “situazioni”, ciò che “vuole” la legge) pone il principio dell’unità in un “trascendente”, rispetto all’esperienza; poiché è impossibile che la soggettività “pratica” (coscienza di scopo; “atto” del volere) si costituisca come riflesso, “sintesi”, di questa stessa esperienza. Per contro, è proprio la fiducia, per così dire, in questa possibilità che si esprime nell’impronta eudaimonistica delle morali antiche, almeno a partire da Aristotele. Il “proprio” di Epicuro, sappiamo, sta nella declinazione materialistica di questo eudaimonismo, che consiste essenzialmente nell’identificazione (quella stessa che sarà poi di Leopardi) della felicità con il piacere. Ma ogni eudaimonismo (quand’anche mantenga, come per lo più tra i Greci, la separazione e la superiorità del “razionale” sul “sensibile” o l’“appetitivo”) non può che collegare intrinsecamente la scelta morale, la condotta che se ne ispira, a uno “stato” direttamente, immediatamente “percepito” dalla coscienza (autocoscienza) – che “si accorge” della felicità. Il raggiungimento e mantenimento di questo “stato” non è un che di accessorio, rispetto alla “persuasione” morale, ma piuttosto l’orizzonte già dato, “naturale”, in cui quella persuasione opera, dispiega la sua efficacia – ed è perciò “accolta”, come principio di unità, nelle condizioni empiriche dell’esistenza. La crisi o il disagio dei moderni (da Kant in poi) rispetto a questo “valore” (eudaimonistico) della verità morale esprime, prima di tutto, un discredito o sfiducia che colpisce l’idea stessa della felicità.
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Non sarà un caso che Hegel, che certo non teneva in grande considerazione la filosofia morale di Kant, ne abbia elogiato con un calore che confina con l’entusiasmo proprio questo aspetto: aver definitivamente messo “fuori gioco” la tradizione eudaimonistica, ogni pretesa di definire il bene morale in un qualsiasi rapporto con quella condizione “empirica” (empiricamente rilevabile) della felicità6. Nel seguito, questa “rottura” è stata sostanzialmente mantenuta, quasi diventata “senso comune” (ci è già accaduto di farvi cenno). E certo per un lato essa riproduce un punto di vista “antico”, per cui sarà sufficiente rimandare al brano del De finibus che abbiamo citato all’inizio del nostro terzo capitolo: il bene è “autosufficiente”, dev’essere riconosciuto “in sé” – cioè come un “dato” della ragione. Ma, per gli antichi “razionalisti”, l’esercizio filosofico che rafforza e sviluppa la “parte migliore” dell’anima ha il potere di confermare e stabilizzare un abito complessivo, di “tutta” l’anima – che accoglie la guida della ragione in quanto ritrova, nella gerarchia e articolazione delle sue parti, la propria unità, stabilità, ecc. È per questo che praticamente tutte le etiche antiche condividono con quella di Epicuro la nozione di un “progresso” morale come risultato cumulativo, “miglioramento” acquisito nel tempo, abitudine (non una interiorizzazione della norma, ma una pedagogia della saggezza). Confinare, per così dire, l’esperienza morale nell’unico ambito della conoscenza razionale, che impone la scelta senza produrre praticamente effetti sulle “altre parti” dell’anima, significa rinunciare non solo all’eudaimonismo, ma ad ogni legame tra la formazione del soggetto morale e il “miglioramento” dell’individuo – la cui “giustificazione”, in ogni momento, non è altro che l’obbligo al quale non può sottrarsi, senza entrare in contrasto con la (propria) ragione. Questa “mancanza di legame” nell’individuo (la sua interna scissione)
6. Cfr. in particolare G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, cit., vol. III/2, p. 290.
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rimarrà poi sempre (“empiricamente”, nello stesso modo) possibile, quale che sia la chiarezza, la certezza dell’“imperativo” razionale; l’imperativo “non ha bisogno”, per dispiegare la propria efficacia, di una “capacità di persuasione” – giusta l’espressione usata da Epicuro a proposito dell’economia del desiderio – verso ciò che in noi è “altro” dalla ragione – “impulso” naturale. L’uomo morale, possiamo certamente dire, potrà continuare a “desiderare il male” – non gli si chiede (egli non chiede a se stesso) che di “non ascoltare” questo desiderio, quando si determina all’azione; poiché sul piano dell’“appetizione” (questa “parte inferiore” dell’anima) tutti i moventi empirici sono e restano compresenti, nella loro successione e alternanza (il desiderio è per definizione inquieto, mutevole, “insaziabile”). Non si tratta, quando la ragione determina per sé sola la volontà, di modificare, “stabilizzare”, orientare il desiderio: esso non può comunque “manifestarsi”, nell’azione o nella condotta, senza annullarne per ciò stesso il valore morale. La formula che abbiamo usato (che l’uomo morale possa “continuare a desiderare il male”) è anzi ancora troppo “moderata”: la totale estraneità del processo di determinazione della volontà buona rispetto alle dinamiche del desiderio implica, in queste ultime, il carattere essenziale di una “opposizione” al bene (non si desidera, propriamente, che il male; il che aprirebbe forse un interessante terreno di confronto tra Kant e un suo quasi altrettanto illustre contemporaneo, il marchese de Sade). Quando, nella Critica del giudizio, Kant ragiona su un “riflesso” della coscienza morale nella sensibilità estetica (l’Osservazione generale che segue al § 29), e lo circoscrive rigorosamente nel sentimento del sublime (che dev’essere compreso in opposizione al bello, proprio in quanto accolga questo riflesso) ne specifica insistentemente il carattere «negativo», «contrario all’interesse dei sensi», di «privazione»: «quando il bene morale è giudicato esteticamente, dovrebbe essere rappresentato piuttosto come sublime che come bello, in modo da suscitare più
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il sentimento della stima (la quale disdegna le attrattive) che un sentimento d’amore e intima inclinazione; poiché la natura umana non si concilia da sé con quel bene, ma soltanto per via dell’impero che la ragione esercita sulla sensibilità»7. Questo impero può “riflettersi”, appunto, in una «rappresentazione» (e così dar luogo a una emozione “estetica”); ma in questo caso «[i]l piacere pel sublime nella natura è perciò soltanto negativo (mentre quello pel bello è positivo), vale a dire è il sentimento dell’immaginazione che si priva da sé della propria libertà, in quanto si determina conformemente a un’altra legge, che non è quella del suo uso empirico» – è invece quella di «un potere che afferma la nostra indipendenza contro gli influssi naturali, abbassa ed impicciolisce ciò che è grande secondo natura, e pone l’assoluta grandezza solo nella propria destinazione (vale a dire in quella del soggetto [ovviamente, morale])». In una parola: il regno del sublime è quello in cui l’immaginazione «si subordina alla libertà»8. Abbiamo voluto richiamare questo aspetto, di una peculiare declinazione del rapporto tra l’etico e l’estetico in Kant, perché ci sembra che mostri bene quanto sia radicale, in una filosofia morale rigorosamente costruita sulla contrapposizione tra il razionale e il sensibile, la rottura tra il “regno della libertà” e quello che Kant chiama il patologico nell’uomo (cioè l’insieme dei suoi affetti). L’antropomorfizzazione della natura, del mondo “esterno”, che l’estetica di Kant ha potentemente contribuito a riconoscere come funzione essenziale dell’arte, ci è apparsa nella nostra ultima divagazione come l’ambito o il presupposto di una possibile integrazione dell’esperienza estetica nello sviluppo della coscienza morale; ma una simile prospettiva implica – oltre che appunto una nozione di questa coscien-
7. I. Kant, Critica del giudizio, cit., p. 125. 8. Ivi, pp. 122-123.
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za come costruzione progressiva, approfondimento, ecc. – il suo legame essenziale con una percezione e un’esperienza del mondo esterno – con una sensibilità. Ne deriva che l’ipotesi di una funzione del sentimento del bello, o della forma, nella formazione della coscienza morale (che rimanda alla modernità, al valore di conoscenza e autoconoscenza che in essa l’arte assume) appartiene in proprio a una filosofia della morale che si voglia, come quella di Epicuro, “naturalistica”. Per Kant il “regno dei fini” è interamente una costruzione della libertà (della ragione): la “finalità senza scopo”, il “come se”, che definiscono l’esperienza soggettiva del bello possono “dirci qualcosa” sulla natura della soggettività umana, ma niente affatto del soggetto morale. Perché si stabilisca quella che potremmo chiamare una “continuità psicologica” tra coscienza morale e “sentimento” (ma non certo, come abbiamo letto, «amore e intima inclinazione») Kant “ha bisogno” del sublime – che è rigorosamente il contrario del bello, perché è piuttosto una figura dell’antiphysis: ciò in cui arriva a rappresentarsi, abbiamo visto, l’impotenza o inferiorità dell’“uso empirico” dell’immaginazione, la necessita della “negazione”, l’annientamento di ogni possibile accordo con una spontaneità (che per l’uomo razionale è nonlibertà) della natura. Il rifiuto radicale dell’eudaimonismo, al più alto livello di coerenza filosofica, impone un prezzo altissimo: la più completa esclusione dal campo di pertinenza di una filosofia morale dell’intero dominio, in noi e fuori di noi, della natura, del rapporto con la natura. Ma questo prezzo non lo si paga “solo” per ottenere, in cambio, l’“incondizionato” della morale. O, per dir meglio, ciò che lo giustifica non sta solo in un giudizio sull’affettività (e l’appetizione), considerata essenzialmente come “marchio” della dipendenza umana (il linguaggio che si utilizza a questo proposito ha sempre, e in Kant, un colorito hobbesiano) – e perciò in essenziale opposizione con quella autonomia del soggetto che la morale pretende di incarnare. Abbiamo visto come il legame
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tra la morale e “l’universale” non possa essere soppresso: non può esservi “valore” (verità) della condotta, della scelta, ecc., se non in rapporto a un essenziale-comune. Da questo punto di vista, il rifiuto della felicità come fine (foss’anche, la vita buona o felice, accuratamente distinta da ogni edonismo) non rimanda soltanto alla volontà di escludere dal “campo” della morale l’“interesse” della parte inferiore dell’anima; esso rispecchia altresì (e in una più profonda “sedimentazione” del senso comune – successiva, però, al Settecento) la convinzione che non possa darsi qualcosa come una “misura” o definizione della felicità – che l’“idea” relativa non possa che rimanere “indistinta”, e, nell’uso comune, riferirsi approssimativamente a un che di casuale, contrastante, episodico, o all’idiotismo delle passioni. Questa “sfiducia” nella nozione della felicità individuale non è soltanto il proprio di un idealismo moderno, di una morale del sacrificio (della natura, della sensibilità); è anche, potremmo dire, “l’altra faccia” della crisi della morale, così come si manifesta sul versante materialistico della modernità. Se si rifiuta l’idealismo che sta alla base del privilegio accordato alla ragione come manifestazione autosufficiente di una essenza umana, un “universale morale” non potrà che essere “ricollocato” nell’esperienza della coscienza; “scommettendo” sulla possibilità che un “bene proprio”, per tutti gli individui, si dia a vedere nella conoscenza (percezione) di sé. Emergono, necessariamente, due condizioni, che a ben vedere non ne fanno che una: che questo “bene” possa essere “definito” (in modo da reggere alla prova dell’universale), e che questa definizione comprenda il carattere essenziale di una diretta, immediata autopercezione. Sono, appunto, le condizioni che dovrebbero essere soddisfatte dalla nozione di felicità. Abbiamo visto come nell’ambito del materialismo moderno questa nozione possa “entrare in crisi” – in parallelo, potremmo dire, con il suo rifiuto da parte “idealistica” (il montaggio foucaultiano del testo iniziale di LM, che abbiamo a suo luo-
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go commentato, ne è già un quanto mai significativo indizio): per il rilievo decisivo che assume in esso la condizione alienata della coscienza individuale, nel senso preciso della sua costitutiva dipendenza da processi “esterni”, oggettivo-materiali, che determinano il contenuto e la forma del rapporto di sé a sé. È la “crisi”, possiamo di nuovo dire, dell’idea di una unità di esperienza: gli “oggetti possibili” di questa esperienza non si trovano “unificati”, nella coscienza, secondo lo stesso “rapporto” (con “il soggetto”), perché l’“interpretazione” che di volta in volta si impone (ne determina il “senso”) è elaborata al di fuori di questo rapporto – vi “entra” come già codificata in strutture e processi il cui “effetto di realtà”, di coerenza, è autonomo, indipendente, anteriore (e di cui il “soggetto” ignora, di norma, genesi e funzione). Ma abbiamo anche visto come questo non “risolva” il problema della morale, dell’autonomia del soggetto – come si riproponga, di fatto, l’esercizio di una libertà (Foucault), un progetto di costruzione dell’Io (Freud), la possibilità di una coscienza “vera” che ritrovi nello sviluppo dell’essere individuale e “generico”, naturale-sensibile, il criterio dell’azione e del giudizio. E in particolare in quest’ultimo caso (che è quello di Marx), l’“ancoraggio” di questo sviluppo e di questo criterio sul terreno dei bisogni (tutt’affatto diverso da quello delle “pulsioni”) consente di procedere oltre – di ritrovare nel rapporto tra questo materialismo (“sociale”, “psicologico”) e la morale il suolo comune di una specifica tradizione eudaimonistica, quella epicurea. La morale di Epicuro consente di qualificare il fine della felicità in modo da “mantenerlo” in un contesto segnato dalla “scoperta” dei condizionamenti sociali, ideologici, infra-psichici della coscienza (senza cercare rifugio, “nonostante tutto”, in un’autoevidenza razionale del fine o della norma); in questo, oltre che nell’ispirazione materialistica, non-idealistica della concezione dell’individuo che la sostiene, sta appunto la sua modernità (attualità). Richiamiamo le due scelte fondamentali che
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la costituiscono. Prima di tutto, l’identificazione della felicità con il piacere (interpretazione edonistica dell’eudaimonismo): che fonda la percezione del “bene proprio” nella sensazione, sulla base dell’alternativa che struttura in ogni momento, totalmente, l’essere sensibile – piacere o dolore. È questo che consente di ricondurre la nozione di una unità dell’esperienza sul piano dell’esperienza stessa (in una, se si vuole, immanenza): non solo perché l’esperienza del piacere e del dolore è già (sul piano più immediato, o iniziale, o come altro si voglia dire, dell’autoriferimento, di una coscienza individuale come autoriflessione della sensibilità) “compiuta”, autosufficiente; ma perché la continuità di questa esperienza, oltre il limite della sensazione, “prende appoggio” sulla costante riproduzione di quelle “marche percettive” (il piacere e il dolore) – esse continuano a segnare, insieme con le diverse “rappresentazioni”, l’esperienza soggettiva di qualsiasi contenuto o oggetto (e fin ai più “alti” – si pensi al piacere del filosofare – livelli di astrazione; non sono, per così dire, “cancellabili”). La seconda, non meno importante, “scelta” (ci è già accaduto di definirla come il gesto filosofico più potente o produttivo), è l’identificazione del piacere con l’assenza di dolore; che è certo una conseguenza o implicazione “logica” della prima, ma è poi essenziale, per così dire, dal punto di vista “operativo”, della “realizzabilità” del fine: perché permette di “neutralizzare”, rispetto ad esso, la misura, il grado, la differenza (e potenziale contrasto) dei piaceri (e dei desideri); perché permette di pensare il bene dell’anima non solo “in continuità”, ma esattamente “sul modello” di quello del corpo (l’aponia non è un avvenimento, ma uno stato); perché consegna alla phronêsis (“strumento” dell’anima) un criterio univoco, sempre egualmente applicabile, che “non ammette errori”: il piacere non si “sperimenta” nella durata, nell’intensità, nei “contenuti” particolari (nel dubbio, nell’attesa) perché in esso ciò che viene avvertito è “semplicemente” un essere – il dolore non c’è. Entrambe le condizioni di cui
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abbiamo parlato sono così soddisfatte: lo “stato” in cui consiste il bene (felicità) dell’individuo, lungi dall’essere qualcosa di fantasmatico o aleatorio, è l’unico stato possibile, se non c’è il dolore; e che ci sia oppure no (non si danno altre condizioni) l’individuo, ovviamente “lo sa” (o può sempre, attraverso tutte le sue eterodirette “costruzioni”, saperlo). Ma c’è anche un’altra “condizione”, che possiamo considerare anch’essa come un’esigenza della modernità, che questo eudaimonismo edonista (morale materialistica) soddisfa. Tra le ragioni della “reticenza” moderna verso l’ideale della vita buona o felice (qualcosa che per i Greci “andava da sé”) c’è sicuramente l’idea (essa stessa kantiana, ma in sé non dipendente dalla sua impostazione “formalistica”) che la morale sia essenzialmente una produzione o una fonte di norme; in un’accezione del termine che possiamo definire giuridico-religiosa (legge, comando, obbligazione; non il principio o la regola del funzionamento di qualcosa, come in “normalità”). La norma, e quindi la morale, “comanda”: subordina l’azione a un imperativo o imposizione (ciò corrisponde alla necessità di combattere, contenere o imbrigliare “l’inclinazione spontanea” al male). Ma che cosa garantisce, o comunque motiva il rispetto della norma (quando non si ricorra all’autorità, umana o divina)? Da che cosa deriva la convinzione, nell’individuo, che “è giusto” o “è bene” obbedire a quella norma? Se non si accoglie la soluzione kantiana (la “forma” razionale/universale della legge), bisognerà riferirsi al contenuto della norma, a ciò che essa effettivamente prescrive; è questo contenuto che deve apparire come giusto o “vero” – le azioni particolari degli individui che possono avere una “giustificazione” morale sono tutte e solo quelle che corrispondono a ciò che è espressamente ordinato (proibito) in un “catalogo” prefissato di virtù o valori. In una guerra il dovere (obbligo) di tutti i giovani adulti sarà di combattere per la patria – oppure disertare, essere “obiettori di coscienza”, perché la guerra è male.
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Abbiamo ora ceduto all’impulso (a quanto pare irresistibile, quando si discute di morale; anche se riteniamo che bisognerebbe il più possibile tenerlo a freno) di “fare un esempio”. Ma è forse in questo caso il modo più sbrigativo di richiamare un luogo classico del pensiero contemporaneo – almeno da quando Max Weber ha coniato la celebre formula del “politeismo dei valori”. Il rinvio all’“oggettività” del valore (valori; che la morale, come fondamento della norma, “rispecchia”) è dal punto di vista “contenutistico” tanto inevitabile quanto impossibile: nei nostri “saperi” (dell’uomo, della società) la nozione di “valore” (valori) non può essere separata dalla sua genesi e funzione nella specificità (storicità) delle diverse culture. E “cultura”, qui, non significa ovviamente solo il complesso delle credenze (“mentalità”) che governa la vita di un’intera comunità, ma tutto ciò che all’interno di un processo evolutivo (e quanto più la comunità in questione diventa “complessa”) caratterizza e distingue i diversi modi di vita, esperienze, condizioni. Nel nostro caso, della guerra, la “convinzione” patriottica che corrisponde al dovere di servire la patria in armi sarà per esempio tanto più “debole” (“giustamente”; e debole, in conseguenza, l’autorità della norma) quanto meno gli individui, per la loro condizione sociale (“vissuta”), si troveranno (sentiranno) integrati nella vita della nazione; e il “conflitto dei valori” corrisponderà allora a una potenziale scissione interna della stessa comunità – tra diverse e opposte “culture di classe”; e verrà quindi ulteriormente a “complicarsi”, perché a un “patriottismo” come valore supremo si opporranno non solo un “pacifismo”, ma anche un “internazionalismo proletario”, o comunque un “dovere” della ribellione verso un potere (lo stato-nazione) che non solo esclude e opprime, ma chiede poi agli oppressi e agli esclusi di proteggerlo e perpetuarlo uccidendo e facendosi uccidere. Tutti possibili esempi, nella stessa “scelta”, del dovere morale. Tutto ciò non può che mettere in crisi la concezione normativa (che pure rimane “di senso comune”) della morale. Ma la mo-
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rale di Epicuro è invece essenzialmente non-normativa. In essa (è un altro modo di dire la stessa cosa) l’unico “valore” è la vita buona o felice (non il “fatto” di vivere, o restare in vita) – cioè qualcosa che non è riconducibile in una costruzione storico-culturale se lo si concepisce in stretto rapporto con la costituzione naturale-sensibile dell’essere umano. Il saggio epicureo non ha, per esempio, (non “avverte”) nessun “obbligo” di essere “buono” (di agire secondo la “norma” della bontà): per lui, semplicemente, non vi sarà alcuna ragione di “esser cattivo” (il che è, naturalmente, “praticamente”, molto di più). Il contrasto tra altruismo e egoismo (in cui si manifesta nel modo più diretto lo schema tradizionale: la morale come freno alle spontanee tendenze “sopraffattrici”) non può qui aver luogo: la “concorrenza”, la competitività e l’appropriazione competitiva (che nella visione socio-economica di nuovo oggi dominante si presentano come “valori morali”) non hanno proprio niente a che fare con la vita buona o felice. Questa vita, il saggio la riconosce (assume) come fine morale desiderandola – in quanto acquisisca o abbia acquisito il “potere” di orientare, misurare tutti i propri desideri (particolari) in coerenza con essa. Egli realizza così l’esigenza (“ideale” eppure impossibile secondo Kant – ma non secon do Goethe) di un’adesione non solo razionale, ma anche “sentimentale” (affettiva) al principio-guida della propria volontà e della propria condotta. È soggetto morale (autonomo), non perché subordinato alla legge, o alla “parte migliore” di sé, ma perché concepisce “ciò che è migliore” come al tempo stesso ciò che è più “profondo”, originario, univoco (non contraddittorio) nell’intero (unità) della propria natura – con cui, per così dire, “rimane in contatto”. La disposizione morale (“ideale”) della volontà non ha la forma di un comando, ma quella (preservata, ritrovata, interpretata – nel confronto con l’eterogeneo e l’artificiale, alla luce dell’evidenza sensibile) di una spontaneità. Ma indugiamo ancora un momento su questo aspetto (capitale; ma anche, a quanto pare, “difficile”) della “non-normativi-
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tà” della morale di Epicuro. Da essa si potrebbe desumere una “norma” solo in questi termini: definizione di ciò che è meglio per gli uomini (non “bene in sé”); e sarebbe, forse, possibile chiamarla “norma”, questa definizione, nel senso che “vale”, pretende di valere, per tutti gli uomini. Il “contenuto” lo conosciamo: bene (“meglio” per gli uomini; fine) è non soffrire. Compito di una morale filosofica sarà allora quello di comprendere, prima di tutto, quali sono le ragioni di una sofferenza non necessaria; e saranno poi tutte, queste ragioni, riconducibili in un’unica “matrice” – il distacco da quella percezione, che si produce nella struttura comune, generale, della sensibilità, per cui l’assenza di sofferenza (nel corpo) è avvertita come un sentimento pieno, intero, di piacere. C’è negli uomini (“come li conosciamo”) la tendenza, il rischio di “perdere di vista” la facilità del piacere, per guardare invece, oltre la sensazione attuale, alla vicenda aleatoria del proprio essere-nel-tempo, a venire. Non solo la morte futura e il dolore incombente, ma gli dèi (di cui si teme, cioè si attende, il castigo), ma (forse soprattutto) il piacere “pensato”, “possibile”, “maggiore”, che adesso non c’è, ma “potrebbe”, domani – tutte le quattro grandi (o la quadruplice) malattie(a) che la morale di Epicuro prima di tutto diagnostica nascono da questa “rottura” con il principio di una sensibilità che è nell’uomo anche autocoscienza – e che rappresenta, rispetto a questa coscienza di sé che tutti siamo, il primo, originario, “inevitabile” contenuto. Non “fare” (o “non fare”) questo o quello, ma proprio il carpe diem (un imperativo!) può (solo) valere, ben oltre l’icastica paradossale suggestione del poeta, come “dimensione normativa” di questa morale; una capacità di “identificazione” con lo “stato presente” che ne valorizza (“massimizzandola”) l’attualità di piacere. Non basta certo, per esser “saggi”, “non attaccarsi” alla ricchezza, al potere, a questa o quella “copia” di piaceri – questo non è ancora, propriamente, niente; “ciò che è richiesto”, al saggio, è di acquisire una capacità di “governo” della propria vita interio-
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re – del “flusso” di desideri, pensieri, immagini in cui consiste, che può, “deve”, essere costantemente confrontato, commisurato con la facilità del piacere, con il criterio della sensazione in atto (qualcosa che è pur sempre “dato”, in quella stessa vita interiore). La morale di Epicuro non è (come in fondo è tipico per le morali “idealiste”) una morale per i “grandi momenti”. Il saggio è costantemente “libero”, lo abbiamo detto, perché è prima di tutto un interprete; di se stesso (ciò che non può “non essere”, come ente materiale-sensibile) e di quell’“esser altro” che necessariamente l’attività (intersoggettiva) della coscienza riproduce (nell’indefinito, l’illimitato), e che altrettanto necessariamente (sta qui tutta l’“inevitabilità” della riflessione morale) dovrà integrarsi in una unità – del “soggetto” che giudica, e sceglie. La vita buona o felice è l’unico valore: una morale non normativa non si presenta come una scelta “tra” i valori. Si ricorderà che Foucault, nelle sue conclusioni circa il valore o l’attualità delle morali antiche, tendeva a giudicarle come “inservibili” (ma non senza qualche contraddizione) per ciò che (o in quanto) hanno preteso appunto di essere delle “morali” (invece che, per così dire, “modelli di stile” – dell’esistenza – offerti all’interpretazione “libera”, di ciascuno). E in realtà, il weberiano “politeismo dei valori” non è soltanto, o necessariamente, una condizione negativa, rispetto al persistente bisogno di una risposta univoca al “che cosa devo fare?”, o “come devo giudicare?”; non sono soltanto le differenze culturali (“subite”) che ci costringono ad ammettere la possibilità/necessità di “fare a meno” di quelle risposte. Di là da esse (ma anche attraverso esse: il “valore” della differenza è ovviamente esso stesso, anche, un “prodotto culturale”), può aprirsi uno spazio di invenzione, istituirsi un “diritto di trasgressione” – che ammetta l’irriducibilità di ogni singola esperienza, induca a ricercare i criteri della condotta in una sintesi individuale più “ampia” e “comprensiva”, i cui elementi (e l’interpretazione che se ne dà)
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non siano appunto preliminarmente “ridotti”, quanto alla loro virtualità. Ma se Foucault avesse voluto interessarsi “più da vicino” ai contenuti dottrinali dei suoi materiali di studio (che sono, è vero, solo in minima parte epicurei), e in questo caso alla differenza di Epicuro, avrebbe potuto facilmente accorgersi che una morale epicurea non può che essere il contrario di una “morale da caserma”, non può, in nessun modo, tradursi in un complesso di norme (contenuti) “valide per tutti”. Tutti i desideri, sappiamo, sono naturali per Epicuro; il che vuol dire, se si ricerca il criterio della condotta in una conformità alla natura, che nessuno – in quanto si esprima, per così dire, in un particolare “stile” o genere di vita – è classificabile a priori secondo la distinzione del bene e del male (e meno che mai, ovviamente dalla parte del “male”, il fatto stesso di “desiderare”). Abbiamo visto come non ci sia alcuna differenza di “valore morale” tra “il poco” e “il molto” – e tutte le altre “variazioni”, riguardo all’“oggetto”, possono in fondo rientrare in questa coppia. La gestione (riflessione) critica-autocritica del desiderio (qualcosa di “inevitabile”, dato il “fatto” della coscienza-autocoscienza) non riguarderà in nessun caso il singolo contenuto, ma la possibilità effettiva, sperimentale (e quindi anche circostanziale) di integrarli, tutti (e le percezioni che ne derivano), in una stabile assenza di dolore, nel piacere catastematico. Questa possibilità ha certamente, per così dire, delle condizioni “generali” – ma sono tutte negative, quelle indicate appunto nel quadrifarmaco, da cui non è possibile ricavare, derivare, nessuna prescrizione, per i diversi “casi della vita”. È possibile (piuttosto: inevitabile) “classificare” le esperienze (e quindi “anticiparne” gli effetti); ma questa classificazione (memoria, confronto) è essa stessa empirica (probabilistica). La vita buona o felice, per l’individuo, non può consistere nell’esser ricco (e questo il ricco, se riflette “con attenzione” la propria esperienza, lo sa); ma è fuor di dubbio che il saggio, che vuole una vita buona o felice, può esser ricco – non deve per esempio, per realizzare il fine, “spogliarsi dei propri beni”.
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Se si ritiene che la morale di Epicuro possa “servire” agli uomini di oggi per riflettere sulla propria vita e condursi in essa (abbiamo citato, a questo proposito, il caso di uno specialista autorevole come Marcel Conche), bisognerà soprattutto richiedere che non si vada a cercare in essa niente che rassomigli a un “foglio di istruzioni”. Non è vero, come scrive Conche (certo, in un intervento “giornalistico” – quello stesso in cui si fa derivare da una saggezza epicurea il consiglio – norma – di non fumare) che il saggio epicureo, oggi, “preferirà” vivere in campagna, piuttosto che in (una grande) città (così come, da epicureo, non preferirà di sposarsi oppure no, aver figli o non averne; e nemmeno “astenersi dal tabacco”: l’inclinazione naturale a fuggire il dolore non può tradursi nella norma “morale” di una igiene salutista, in una scelta “coerente” di riduzione del rischio – poiché questa “riduzione” è ovviamente una variabile quantitativa, e dunque appartiene per definizione all’indefinito). Se ne potrebbe ricavare, tra l’altro, che una morale epicurea è quella in cui si riconosce il più grande “spazio” a ciò che gli stoici hanno chiamato adiaphoron (ciò a cui il giudizio morale “non si applica”, perché è, rispetto alla distinzione tra il bene e il male, indifferente). Ma ciò è vero solo nel senso che abbiamo or ora illustrato – e allora in modo “radicale”: in una morale che ignora il concetto del “dovere”, in cui nessun “comando” è giustificato a priori per il suo contenuto, non ci sono “classi” di azioni o scelte preliminarmente assegnabili, rispetto a quella distinzione. Sarebbe un errore, però, ricavarne il giudizio (si ricordi, tra Adorno e Hadot, la “modestia” dell’ideale epicureo) di una minore “esigenza”, rispetto alla definizione del fine (del bene). Abbiamo più volte insistito, nel corso di questo lavoro, sulle “difficoltà” del percorso della saggezza epicurea (che non hanno niente a che fare con una selezione di “qualità naturali” che sarebbero preliminarmente “richieste”, con l’esclusione di principio del “maggior numero” dal suo accesso). Esse, l’impegno che domandano, si possono riassumere in questa formula:
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se l’unico valore (unico “esempio” del bene) è la vita buona o felice, allora è tutta la vita che viene, moralmente, “giudicata” – una “saggezza” non può avere come proprio “oggetto” che l’insieme della vita. Non c’è un “campo” definito (ristretto) di alternative in cui si sia chiamati a “dimostrarla”, questa saggezza – al contrario tutto è “banco di prova” per il saggio (e per chi non lo è). Ogni contatto con ogni cosa (per così dire), dentro e fuori di noi, è l’occasione di una interpretazione, di una valutazione, non indifferente rispetto al modello di umanità, all’accordo con un essere naturale, al progetto di vita (è questa, poi, la ragione di fondo per cui una morale epicurea può meglio accogliere l’esperienza estetica, nella formazione del “soggetto”). È quasi un luogo comune riconoscere nella morale stoica, e proprio in ciò che più direttamente la contrappone a quella epicurea (il distacco dall’affettività), il modello di una morale “eroica”; ma non si riflette abbastanza, ci pare, sul fatto che – chi volesse confrontare i modelli filosofici con le morali “vissute”, dagli uomini come per lo più li vediamo – tutti siamo in realtà, nella spontaneità artificiale della nostra seconda natura, molto più “stoici” che “epicurei” (gli usi linguistici comuni lo testimoniano abbondantemente). La sottomissione al “destino”, l’adozione di un regime di autocostrizione e di rinuncia (eventualmente accompagnato da una compensazione sublimatoria, la soddisfazione per la propria capacità di resistenza/ sopportazione) – tutto questo è in realtà semplicemente “imposto” dalle condizioni normali della vita sociale (basta pensare a come si configura, per lo più, l’esperienza del lavoro). Ed è poi assai facilmente “interiorizzabile”: non sono poi molti, gli individui che “osino” rivendicare il piacere, l’assenza di dolore, come guida e criterio della propria vita, come progetto e scelta. Come abbiamo letto in Freud, è difficile attribuire un particolare “valore” al piacere-felicità – quando poi “se ne trova” così poco; e il saper rinunciare, “accettare” il dolore, riconoscersi e scegliersi in questa particolare capacità di soffrire, non sarà
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allora così “difficile” – è anzi l’immediata trasformazione, potremmo dire, in “valore morale” del corso ordinario delle cose del mondo. Epicuro invece – possiamo adesso riprodurre tal quale una formula della tradizione – è colui che insegna a godere, a sapere e voler godere; e questo implica, abbiamo cercato di mostrarlo, un “punto di vista” sul mondo umano molto più “anticonformista”, molto più critico – molto più esigente. La morale edonista di Epicuro è, molto di più che quella stoica, una morale “attiva” – una morale dell’engagement. La vita buona o felice è l’unico valore – questo vuol dire che non c’è nessun “altro dio”, dentro una singola cultura o fuori di essa, che possa contrapporglisi. E l’adesione a questo “valore”, in cui si esprime un’intima connessione tra ragione e sensibilità (affettività), può allora (deve) essere quanto mai “appassionata”. Una simile “scelta” può (deve) trovarsi a base di tutti i giudizi di valore – quelli che impegnano l’individuo di fronte a se stesso, gli altri, il mondo. Su questo adesso, definitivamente, concluderemo il nostro lavoro.
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Conclusione seconda, in forma di divagazione politica
Quindi il bene che chiunque ricerca la virtù appetisce per sé lo desidererà anche per gli altri uomini. Spinoza Épicure n’est pas du parti des exploiteurs. Nizan, Les chiens de garde
La raccolta delle Massime capitali, come abbiamo visto alla fine del terzo capitolo di questo lavoro, si conclude con i lineamenti essenziali di una “dottrina” del diritto – della legge, della politica, dello “stato”. Epicuro affronta il tema dello stare assieme degli uomini in riferimento alla “regola”, al complesso delle decisioni obblighi e vincoli che devono essere “scelti” (e adattati, cambiati, ecc.) perché le forme della vita sociale, in quanto derivino dall’istituzione, possano corrispondere alla natura del giusto – a quel fine naturale che non può essere perseguito, nella prassi intersoggettiva, senza la nozione (che il fatto sociale genera, e impone) del giusto. Su questo specifico terreno il “fine” (ciò rispetto a cui il diritto per la sua natura dev’essere “utile”, adeguato) è la limitazione, il contenimento del danno. Nozione, quest’ultima, che non ha bisogno di essere ulteriormente definita – esprime un’evidenza “di senso comune”, quella stessa che permette a Epicuro di usare il sostantivo-aggettivo per qualificare l’effetto doloroso del desiderio che si mantie-
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ne e si esaspera nella mancanza. “Subire il danno”, possiamo senz’altro dire, è lo stesso che soffrire (il dolore). C’è dunque, nell’epicureismo, un vero e proprio nesso sistematico tra “morale” (il criterio pratico-valutativo di un perseguimento razionale del fine individuale) e “politica” (l’organizzazione pratico-giuridica della vita degli individui nella comunità); e su questo nesso Lucrezio fonderà la sua ricostruzione dell’esperienza storica collettiva, della vicenda della civiltà umana. È un nesso profondamente originale, rispetto ai modi più correnti in cui la nostra tradizione ha pensato il rapporto fra le due “sfere”; e non solo per la negazione radicale, di principio, di una qualsiasi finalità “intrinseca”, diversa da quella inscritta nella coscienza individuale, che sia propria della politica (dello “stato”, “comunità”, ecc.). Che il diritto, il giusto sia giudicato come conforme, oppure no, alla sua propria natura significa per Epicuro, lo abbiamo visto, che se ne verifica la conformità allo scopo per cui è istituito: proteggere gli individui che sono “esposti” alla reciprocità dell’agire dagli effetti “controfinalistici” delle loro azioni – in quanto prodotti, prima che da una cattiva economia del desiderio o dai fantasmi dell’(auto)rappresentazione (essi stessi per lo più generati, sappiamo, nella vita sociale), dall’azione “dell’altro”; e avvertendo, ovviamente, che il termine di “controfinalità” non indica qui una contraddizione interna alla posizione del fine (individuale), ma la presenza di un ostacolo, di una contrarietà: se ciascuno persegue il proprio fine senza il “controllo” della saggezza, e ignorando gli effetti dell’agire sul piano dell’intersoggettività, il “fine comune”, e di ciascuno, può essere di fatto “impraticabile”, annullato. Ma, dicevamo, non c’è solo questo. L’impostazione epicurea non si oppone soltanto all’idea di una eticità propria della sfera politico-statale (che è un punto di vista certo influente, ma appartiene piuttosto, o è appartenuto, alla cultura delle élites dirigenti); si oppone, anche, al principio di una distinzione net-
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ta tra i due “ambiti” – i quali, è questo il modo forse più comune di intenderla, si dispongano poi “gerarchicamente”, in base ad una “superiorità” del primo (morale) sul secondo (politica). Quest’ultimo dovrà, allora, “organizzarsi” (essere organizzato) in modo da non violare, non contraddire, principi e valori che sono già dati (e evidenti, nella loro funzione prescrittiva) nel primo. E ciò discende immediatamente, potremmo dire, dalla visione per cui la (una) morale è ciò che costituisce, fissa, permette di riconoscere i valori, “ritrovandoli” in una essenza umana che è per definizione “anteriore” all’istituzione. Quando gli uomini vivono in società, sotto un potere che editta e garantisce le norme, si tratta di confrontare queste norme con quei valori; il che sarà poi, almeno apparentemente, molto più “facile” sotto il riguardo della negazione – contrasto tra legge positiva e valore – che dell’affermazione – come cioè la legge “traduce in pratica” la funzione normativa del valore. Ma la morale di Epicuro, sappiamo, non è una morale dei valori – e delle norme che immediatamente ne derivino. Se l’unico criterio della saggezza è la vita buona o felice, ci sarà un’unica possibile definizione della società “saggia” (giusta: in cui il diritto vigente è conforme al suo scopo-natura): quella in cui tutti gli individui possano perseguire il proprio fine senza gli ostacoli che si creano nel rapporto pratico con “gli altri” – che non è ab origine regolato da una saggezza (o ragione) condivisa. Il “problema”, allora, non sarà quello di un complesso giuridicopolitico che “rispecchi” (o accetti come limite “esterno”) regole anteriori (“innate”); sarà, possiamo dire, che questo complesso non sia (non risulti) disfunzionale – rispetto alla possibilità, per ciascun individuo, di perseguire il proprio fine. Per questo, lo abbiamo già osservato, il “passaggio” dalla morale alla politica (dall’individuo alla società, dall’indipendenza “naturale” al vincolo di reciprocità) è del tutto estraneo in Epicuro alla mediazione di un qualsiasi “giusnaturalismo”. I due “piani” sono tra loro molto più “saldati”, il passaggio è molto più “immediato” –
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non dipende da una ricerca preliminare dei criteri che, in ciò che l’uomo “è” per natura, già lo predispongano a un determinato orientamento pratico verso gli altri; e che non possono poi esser tanto “generali”, se vincolano l’istituzione, eppure devono esserlo, se il rapporto, poniamo, tra “libertà”, o “eguaglianza”, e un qualsiasi concreto ordinamento ammette infinite varianti e approssimazioni (o “complicazioni”). Ma questa connessione così “stretta” (in qualsiasi forma o contesto del vivere umano, il bene è la felicità individuale) è poi anche quanto si voglia “flessibile” o “spregiudicata” (abbiamo già usato questo aggettivo): perché la funzione protettiva che è il proprio dell’istituzione (e ne esaurisce il compito) non è pensata in relazione diretta alla felicità (piacere; non ha senso un potere politico che “realizzi” la felicità, per gli individui), bensì al danno (dolore). La società non è, per definizione, formata da “saggi” – le rappresentazioni di scopo che governano immediatamente l’agire reciproco non sono “già vagliate” alla luce della saggezza (e perciò commisurate al fine comune della felicità). Se il danno rinvia, comunque si generi, a una condizione di sofferenza, il “patto” che gli uomini stringono tra loro allo scopo di prevenirlo non può fondarsi su un sapere già acquisito, condiviso, circa la “vera natura” del piacere e del dolore – una società in cui “tutti” ne fossero già in possesso (ma chi si metta sul cammino della saggezza si trova già ad essere un membro della società) non ne avrebbe bisogno, si regolerebbe “spontaneamente”. Questi richiami sono necessari anche a prevenire una possibile (anche se certo molto “superficiale”) obiezione: poiché sappiamo che la saggezza (il “cammino” della felicità) impegna l’individuo soprattutto in un “lavoro su se stesso” (“al netto” delle condizioni “esterne” della sua vita, su cui non ha intera padronanza), potrebbe sembrare che le forme e le regole della vita sociale siano “moralmente” irrilevanti (non incidono direttamente – ma abbiamo visto quanto se ne possa discutere – sulle “prescrizioni” del quadrifarmaco). A questa obiezione abbiamo
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già risposto, in particolare nel terzo capitolo di questo lavoro; e ripetiamo soltanto adesso che se così fosse davvero non si capirebbe perché nel “catechismo morale” epicureo abbia un tale rilievo la nozione del danno ingiusto (aggettivo che evidentemente non può applicarsi a quello prodotto dagli “errori” o erranze del desiderio). La distinzione concettuale, su questo piano, tra “danno” e “felicità-infelicità” è importante perché introduce, per così dire, una considerazione più ampia di “ciò che si oppone al fine”: per gli uomini che vivono in società la protezione dal male (dolore) non dipende soltanto da una “giusta interpretazione” di che cosa è (il) bene, ma proprio, intanto, dall’effettiva “riduzione” di ciò che può essere immediatamente riconosciuto come causa di sofferenza. Il patto che istituisce la regola (lo abbiamo già osservato a suo luogo) non presuppone che un “senso comune” del danno: gli individui che lo contraggono si trovano già accreditati di una “retta intenzione” quanto alla distinzione del bene e del male – che non è però ancora sviluppata, elaborata, come una coscienza del fine; è piuttosto quella stessa, se si vuole, di cui dà prova, ben “prima” del saggio epicureo, il bambino nella culla. Ciò che è “danno”, insomma, nell’ambito del vivere associato e della sua regolazione, non deve, non può, misurarsi secondo il criterio di “ciò che serve al saggio per essere felice”. Prima che l’esercizio di una saggezza consenta all’individuo di interpretare e gestire nel modo migliore il proprio programma di vita (ma anche perché ciascuno possa, per se stesso, accedere a questa possibilità) è necessario che si introduca nello sviluppo spontaneo di una attività che “produce effetti” sugli altri il principio del limite, della protezione degli altri (di tutti) – che non si trova “in natura”, quanto alle motivazioni dell’agente, ma che il fine naturale “impone”, quando l’agente considera se stesso sotto il riguardo della passività, della dipendenza dall’altro. Il criterio di questa regola, della sua istituzione e della sua permanente verifica, non potrà essere che radicalmente em-
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pirico (e richiederà una conoscenza empirica – “previsione”: delle possibilità fattuali, delle serie causali, delle mediazioni che producono l’effetto): le azioni “sociali” non sono vincolate a una tavola dei valori, ma unicamente all’effetto che producono, nella sensibilità (piacere-dolore) dell’“altro”. Esse non sono, di conseguenza, “classificabili” a priori; saranno giuste o ingiuste, ogni volta (conformi o difformi rispetto all’istituzione della giustizia), secondo che i partecipanti al patto accettino o rifiutino le conseguenze che ne derivano – sulla base di una percezione/rappresentazione del danno che non può non fondarsi, in ultimo, che in una reale esperienza del piacere e del dolore. Epicuro tiene assieme, pensando il rapporto tra morale e politica, un massimo di spregiudicatezza (nella determinazione del danno) e un massimo di esigenza (nella coerenza della “forma” giuridico-politica con il fine naturale della felicità). Se vogliamo illustrare con un esempio, o piuttosto trarre una conseguenza “pratica” da questa impostazione, potremmo rivolgerci a uno degli aspetti più generali (forse il più generale) della pratica sociale: quello che riguarda la produzione/appropriazione e la distribuzione della ricchezza. Se immaginiamo una società in cui “sia giusto”, secondo l’istituzione, che certi individui acquisiscano o detengano una ricchezza maggiore di altri, l’accettazione o il rifiuto di questa “giustizia” non dipenderà dal valore morale dell’eguaglianza, da un “diritto naturale” che sarebbe così violato, ma dal fatto che tutti, in questa società, abbiano oppure no accesso (nessuno ne rimanga privo, per effetto della concentrazione in mani altrui) a una misura adeguata di beni e risorse – adeguata, naturalmente, rispetto a bisogni che non possono essere misurati che in rapporto a ciò che è effettivamente disponibile, nella disponibilità degli altri (di tutti). Che il saggio, quanto a lui, possa idealmente “imparare a essere felice” anche nella situazione materiale più sfavorevole (sappiamo che perfino l’assenza di aponia non elimina del tutto questa possibilità) non può certo togliere nulla all’eviden-
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za del danno che subisce, poniamo, chi perda lavoro e reddito perché gli azionisti dell’impresa per cui lavora vogliono distribuirsi dividendi maggiori – sulla base del diritto e della prassi sociale vigenti. Ma se questo accade (se accade anche per uno solo dei contraenti del patto – che per ciò stesso ha perduto la sua funzione protettiva, rispetto al danno), allora per il saggio la conclusione, il giudizio è immediato, certo: quel diritto non ha (più) la natura del giusto, non è (più) conforme allo scopo. E la comunità umana deve sempre di nuovo ricominciare, “ricalcolare” ciò che è symphoron, riflettere, riadattando le sue istituzioni, l’esperienza del dolore e dell’assenza di dolore che gli individui che la compongono, attraverso e per effetto delle sue “regole”, realmente fanno. Se questi sono, come riteniamo, gli sviluppi coerenti di una visione epicurea della politica, del rapporto tra politica e morale, possiamo forse dedicare ancora alcune brevi, molto sommarie riflessioni, in conclusione del nostro percorso, a quanto questa visione possa “avere da dirci” sulla nostra condizione storica (politica), a quanto la sua ispirazione possa oggi valere per contrastare una razionalità dominante che appare nel confronto, prima facie, lontanissima (opposta). A porre, da questo punto di vista, queste domande: c’è (ancora) un ruolo che sia proprio del soggetto morale, nel giudicare il potere, la politica, la società? Queste forme della vita umana sono (ancora) “responsabili” verso qualcosa come una verità morale, una nozione del “bene” umano? Nel discorso di Sain-Just davanti alla Convenzione del 3 marzo 1794 (sui decreti di Ventoso), c’è una frase che è rimasta celebre: «la felicità è un’idea nuova in Europa». “Nuova”, naturalmente, alla fine del Settecento, non era l’idea di felicità, ma quella, potremmo dire, di una felicità pubblica, collettiva – l’idea cioè che il vincolo di comunità dovesse “giustificarsi”, prender forma, organizzarsi in funzione della felicità (umana, individuale). Ed era anche (ancora o di nuovo), almeno come
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arma polemica, la rivendicazione di una felicità “terrena” – il rifiuto di racchiudere in una vicenda tutta interiore, culminante nella prospettiva della vita eterna, l’aspirazione individuale alla felicità. Ma era già tutto il Settecento che aveva orientato la riflessione sul legame sociale e sulle sue forme istituzionali intorno al primato, o se si vuole all’“anteriorità”, di una “oggettività di valore” da ricercare nell’ambito della vita individuale – nella concreta vicenda e sviluppo di un essere naturale-sensibile concepito come nucleo originario dell’identità personale (è per questo, in fondo, che Epicuro era tornato in qualche modo in onore). “Oltre” il giusnaturalismo seicentesco – volto a ritrovare in una essenza umana il modello di una pratica razionale della o delle virtù, e politicamente impegnato contro ogni “legittimazione” del potere che riconoscesse nell’autorità storicamente costituita e nell’utilità conservativa del “corpo sociale” l’unica fonte del diritto – si era venuta formando una concezione più complessa (più “dettagliata”) dei rapporti fra individuo e società – in cui si andava riconoscendo la trama originaria, la “base materiale” su cui verificare e discutere le forme di governo e i contenuti della legislazione. Al problema della legittimità, possiamo dire, si veniva sostituendo, in parallelo con lo sviluppo delle scienze umano-sociali, quello degli effetti concreti dell’istituzione politico-statuale sulla “vita reale” della società, degli individui che la compongono: funzione e distribuzione della ricchezza, conflitto ed equilibrio degli interessi, evoluzione del “costume”, ecc. Ed era, certo, uno sviluppo direttamente collegato alla formazione di un nuovo “tipo” di società, la società “borghese”. Non abbiamo qui bisogno di insistere sulla profondità e capillarità di questo mutamento – del dinamismo dei bisogni e degli interessi, della complessità amministrativa, della “gestione delle risorse”, della sensibilità “riformista”, del “distacco” dai quadri tendenzialmente immobili di una cultura tradizionale della comunità, nella continuità del vecchio mondo cristiano-medioevale.
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È, possiamo dire nei termini generalissimi che qui si impongono, la società borghese stessa che mette al centro del proprio rispecchiamento ideologico il tema dell’individuo: non l’individuo “razionale”, che porta in sé ab origine le nozioni universali di giustizia, libertà o eguaglianza, ma l’individuo “concreto”, un determinato complesso di bisogni e capacità intimamente condizionato dal rapporto con la natura, esterna e interna, e con l’ambiente “artificiale” in cui vive – che è a sua volta un determinato complesso di beni e di regole. La nozione di felicità non è piu pensabile, per così dire, se non in relazione al soddisfacimento di questi bisogni e all’espressione di queste capacità; e l’immaginazione sociale, il progetto politico, si concentra nella realizzazione (per definizione provvisoria, evolutiva) del miglior equilibrio possibile, in questa ricerca della felicità, fra “ciascuno” e “tutti” – che diventa l’unico banco di prova della “validità” di un ordinamento, di un “diritto”. Naturalmente tutto ciò non destituisce, anzi rafforza la funzione del “paradigma naturale” nel giudizio di valore sulla società e sulla politica. Quando la borghesia avrà conquistato il potere politico inscriverà in testa alle sue “tavole della legge”, le moderne costituzioni, i diritti naturali (innati, imprescrittibili) dell’uomo: libertà, eguaglianza, e, secondo l’alterno prevalere delle sue diverse “frazioni”, proprietà. Ma non sono questi, propriamente, “valori”: quando la Costituzione americana vi “antepone” un diritto alla felicità, non fa che esplicitarne la nuova, “strumentale” funzione. Più che mai, nella ricerca della “garanzia morale” per i principi della legislazione, ci si riferisce direttamente alla condizione dell’individuo, in quanto sia da lui stesso immediatamente “percepita” (possiamo ben dire: come piacere-dolore). “Libertà”, “eguaglianza” (ed eventualmente “proprietà”) hanno un valore morale (condizionante, sul terreno dell’ordinamento politico-giuridico) in quanto “strumenti” indispensabili, nella regolazione della reciprocità, per la realizzazione di un “altro” valore – la cui definizione non presuppone
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la relazione sociale. Ritroviamo così il significato del brano di Diderot che abbiamo citato all’inizio del nostro terzo capitolo: la morale (considerata in tutta l’“articolazione” dei suoi contenuti) come “scienza strumentale” La borghesia rivoluzionaria si trova così a “incarnare” l’universalità della morale, nel momento stesso in cui ne inaugura la versione “moderna”, quanto al rapporto con la politica. La moralità di quest’ultima (razionalità: conformità al “fine”) non è più fondata nei “valori” di fede speranza e carità (nella prospettiva della vita ultraterrena), né nel mito laico della “ragion di stato”, né nella corrispondenza con una essenza umana che contiene già in se stessa la norma razionale dei rapporti intersoggettivi; ma in ciò che concretamente “accade” agli individui che vivono in società, che favorisca o ostacoli il progetto che è inscritto nella loro natura di viventi umani – la ricerca (il “diritto”) di una vita senza dolore. Ed è certo essenziale, dal punto di vista dell’efficacia storica, che questa visione sia appunto “incarnata”, in una classe (colta), in un soggetto collettivo che ha bisogno di prendere il potere (politico), di sovvertire l’ordine esistente, perché ne sperimenta direttamente l’irrazionalità rispetto al proprio progetto di vita – al godimento delle possibilità, all’espressione delle capacità, al bisogno di sicurezza, alla rimozione degli ostacoli “non naturali”, ma prodotti dal potere degli “altri” (di un’altra classe). Quando la borghesia sarà pervenuta a imporre, sulle rovine dell’ancien régime, una regola del gioco socio-politico che corrisponde esclusivamente ai propri interessi di classe, non esprimerà più questa funzione storica di “classe generale”. E il “testimone”, la funzione di rappresentare il “ciascuno e tutti” della vita sociale, sulla base del bisogno insoddisfatto, del danno subito, passerà a un’altra “classe”, un altro soggetto collettivo, il proletariato o la classe operaia: a sua volta “soggetto”, classe “colta” (con i suoi intellettuali “organici”), perché capace come la borghesia del Settecento di cultura morale, di proiettare la propria coscienza di sé in una nozio-
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ne dell’universale, del comune, del “naturalmente” umano (la coscienza di classe, nella borghesia come nel proletariato, non può farsi progetto di egemonia, “principio” del patto/istituzione, che a questa condizione). Ma la storicità di questo percorso, che implica la cultura e l’azione di grandi soggetti collettivi, non ne esaurisce la portata (nel senso che i risultati raggiunti attraverso di esso non perdono la loro “ragion d’essere”, quando vengano “separati” da quella cultura e da quella azione). Se accettiamo di riconoscervi un senso specifico, e specificamente “moderno”, del rapporto tra morale e politica, o dell’istituzione “valoriale” di quest’ultima, non possiamo non concludere che esso si trova “depositato”, prima di tutto, in un processo di sperimentazione specificamente formale dell’agire politico, che possiamo definire come il progetto della democrazia. Non sono i rapporti fra le classi, o l’unità progettuale di una coscienza di classe, che lo definiscono, ma la possibilità di una effettiva “messa a prova” del potere nel concreto della vita sociale – in cui gli individui (che non ricevono solo dalla comunità politica la loro condizione di cives – come dice la locuzione “società civile”) appaiono (prima di tutto a se stessi) come già in possesso di capacità/funzioni deliberative, di un potenziale di “conoscenza” che permette a ciascuno di essere “libero contraente” del patto o della regola comune. Se questo progetto è storicamente “passato” dalla borghesia al proletariato, e rimane nella nostra cultura politica come criterio, “forma”, del rapporto stato-società, è perché in esso si trova direttamente impegnata l’autonomia degli individui – una capacità di riflettere (e elaborare) l’universale-comune che è il presupposto, e non il risultato, della “cittadinanza” politica; il processo di critica, di verifica, a cui dev’essere costantemente sottoposta, “da tutti”, la legge vigente (quale altra “definizione d’insieme” più adeguata, per la democrazia?), non può avere come criterio che un “fine” (un “bene”) direttamente “percepito”, nella coscienza individuale.
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Ne deriva che, rispetto all’attuale sempre più diffusamente constatato “stato di crisi” della democrazia, non è possibile accontentarsi di una spiegazione esclusivamente “sociologica”. Questa non può che riguardare uno solo, per così dire, dei lati del problema – senza incidere su quello che abbiamo cercato di mettere in luce: come il progetto democratico sia intrinsecamente collegato al valore della felicità individuale, come “presupponga” un individuo che diventa potenziale soggetto dell’attività di regolazione sociale, del “patto” che istituisce la giustizia, in quanto riflette la propria concreta esperienza sociale nella prospettiva di un “bene” idealmente comune a tutti – la felicità personale. Storicamente, quello che potremmo chiamare il processo di formazione di una soggettività politica moderna è avvenuto in stretto rapporto con la cultura e l’azione dei grandi soggetti collettivi – possiamo ben dire: delle grandi “classi” in cui la società, nella sua “base” o struttura economica, è divisa. Tra il potere politico e “gli individui che vivono in società” – e per dare a questi individui un “orizzonte d’azione” che investa direttamente la forma dello stato – ha potentemente agito la “coscienza di classe”. È sulla base di una immediata solidarietà di interessi e bisogni, capace di trasformarsi in forza collettiva, che gli individui (le classi da essi formate) hanno “preteso” di subordinare la logica e l’azione del potere alla propria diretta percezione del bene (piuttosto: del male) – proiettandola su un universale del valore, su un modello di umanità “emancipata” dal dolore non necessario. Questa “pretesa” – il progetto della democrazia – è pervenuta a segnare profondamente il nostro “senso comune” della politica e dello stato – indipendentemente da una effettiva “presa del potere”, da parte di una “classe”; basti pensare, per la “classe operaia”, a come i temi dei diritti e della dignità del lavoro dipendente, della giustizia sociale, di un “equo” accesso alla ricchezza socialmente prodotta, ecc. sono penetrati nelle “leggi fondamentali” degli stati borghesi (capitalistici). Ma l’analisi
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“sociologica” che abbiamo or ora evocato si concentra, appunto, sui cambiamenti avvenuti a questo livello (struttura di classe) nell’evoluzione più recente della società (dell’economia). Essi colpiscono, colpirebbero, proprio queste grandi “unità di coscienza” (esperienza-progetto): in particolare, in una fase che si definisce volentieri come “post-industriale”, quella, la “classe operaia”, che nella società industriale capitalistica si era trovata a rappresentare per così dire “naturalmente” le istanze del cambiamento, il bisogno di ripensare le regole dell’azione sociale per renderle “più adatte” al fine della felicità (schema o fondamento razionale, tipicamente moderno, del rapporto tra politica e morale). La fortunata e facile formula giornalistica della “fine della storia” (che per avere un qualche senso, intanto, dovrà riferirsi a una “forma di intelligibilità” del processo storico – e per esempio, allora, proporrà una ridefinizione della nozione di “progresso”, una delle “chiavi” tradizionali di questa intelligibilità, in termini esclusivamente tecnico-quantitativi) è certamente legata, nel suo sorgere e nel suo impatto, alla fine traumatica dei regimi del “socialismo reale”: il cui crollo avrebbe dimostrato che la forma democratica degli stati “occidentali”, in quanto strumento di permanente re-istituzione del patto sociale, ha trovato il suo limite “definitivo” nella riproduzione di un sistema socio-economico (quello appunto “occidentale”: capitalistico) a cui non esistono (non sono più “pensabili”) “alternative”. Ma l’accettazione di questo paradosso (una società che si “autoregola”, attraverso l’uso di un potere politico che deriva dalla libera volontà dei suoi membri, ma non può farlo che riproducendo una “regola” anteriore a questa volontà, che il potere politico deve rispecchiare) non può dipendere solo dalla “dimostrazione” che un qualsiasi “socialismo” è impossibile (poiché quello che si è “realizzato”, in altre società, in altre “storie”, è fallito). Essa non è comprensibile se non si ammette altresì (ciò è del resto ampiamente “riconosciuto”) che la società post-industriale (“frammentata” o “atomizzata”)
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produce l’impossibilità di un progetto di cambiamento capace di diventare volontà generale, o comunque di condizionarne la formazione – perché “non si trova più”, al suo interno, quel soggetto collettivo che (solo) potrebbe “incarnarlo”. Non basta, per “spiegare” la limitazione o autolimitazione del progetto democratico (in cui è certamente contenuto un processo di crisi, di svuotamento), riconoscere che la società in cui viviamo (vivremmo) non è (più) composta che da “individui” – il che è poi ovviamente, per qualunque società, sempre “vero”. Bisogna che il rapporto tra questi individui e l’azione politica, la regolazione sociale, sia profondamente “cambiato”: essi – una volta venuto meno, ai loro propri occhi, il legame che unisce la propria esperienza al “sentire comune” di molti, e che forma l’irriducibilità di un bisogno collettivo, e lo eleva a principio di una possibile universalità – non possono più trovare che nell’ordine esistente gli “spazi” (già in esso previsti, “compatibili”, ecc.) per il soddisfacimento (o il differimento, o la negazione) dei propri bisogni e fini – bisogni e fini che sono “per definizione” particolari, eterogenei, frantumati, dispersi. Ciò che viene a mancare, allora, non è più (solo) una funzione della “lotta di classe” come “motore della storia”; che ci se ne desoli o compiaccia (più o meno “ipocritamente”: la forma democratica rimane un “valore” insuperabile, perché consente di verificare, misurare, rispetto al potere esistente, un “consenso” comunque formato e quanto si voglia effimero – ma le “cose serie” stanno altrove), si approda così a un esito profondamente paradossale, quanto al rapporto tra la politica e la “vita reale” degli individui (quel “fondamento” del valore morale della politica che si esprime nella democrazia). Poiché è evidente, in astratto, che se questa “vita reale” (l’esperienza che si riflette nella coscienza individuale, “alla luce” del fine naturale) appare “più di prima” virtualmente “isolabile”, “autosufficiente”, perché “meno di prima” si rispecchia e si rafforza (le istanze che ne derivano) nella vita e esperienza degli “altri”, dei “simi-
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li” – tanto più, allora, la funzione di un potere di regolazione che si consideri come nato dal patto liberamente consentito tra gli individui, allo scopo di proteggere il fine della felicità (unica sua possibile “razionalità”), dovrebbe essere “esigente”, incondizionata, costantemente, e nel modo più “spregiudicato”, messa a prova. Se il progetto della democrazia, insomma, ha un valore (esprime la possibilità/necessità di un rapporto tra politica e morale), è proprio in quanto coinvolge e mobilita gli individui in quanto tali – quale che sia storicamente l’efficacia della loro mediazione/identificazione, come “individui sociali”, in un collettivo di interessi e bisogni. Che il progetto democratico nasca dalla lotta della borghesia contro l’aristocrazia, e sia difeso e “approfondito”, quando la borghesia vittoriosa viene meno all’universalismo che è in esso implicito, dalla lotta del proletariato – questo non può “esaurirne” il valore (significato): se solo in esso la politica può per noi essere “morale” (razionale), se solo attraverso di esso il patto politico può mantenere la natura del giusto (la conformità allo scopo) – riflettere e idealmente soddisfare il bisogno sociale che nasce dal fine naturale della felicità individuale. In esso, “gli individui in quanto tali” sono i soggetti – liberi contraenti – di questo patto; e lo sono perché “naturalmente” impegnati in un processo di soggettivizzazione – soggetti morali: capaci di valutazione, “consapevoli” del danno sociale come ostacolo al fine naturale – il che fa di questo “danno”, in principio, l’oggetto di una strategia di rimozione (riduzione) potenzialmente (universalmente) condivisa. La diagnosi di uno “stato di crisi” della democrazia deve dunque comprendere un’analisi delle ragioni (nella formazione di quella che possiamo chiamare una “coscienza civile”) della “crisi morale”. La moralità della politica dipende da un “soggetto” che possa “portare” in essa un’esperienza del mondo umano-sociale orientata a criteri di valore – l’unico valore che in questa esperienza soggettivamente/universalmente “si im-
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ponga”; e sappiamo bene, da epicurei, che cosa contrasta o inibisce (“oggettivamente”) la formazione di un simile soggetto. Per dirla con Foucault, un processo di soggettivizzazione non può aver luogo, in una determinata “cultura”, se non all’interno, attraverso, “contro” ciò che in essa produce, invece, processi di assoggettamento – che regola e stipula i diversi “giochi di verità” nelle forme della ripetizione, dell’autoriproduzione, dell’“automatismo”, inibendo appunto la formazione di una soggettività “autonoma”, di un’esperienza non (del tutto) pregiudicata. Questi processi sono ogni volta, secondo la particolare configurazione del sapere-potere, specifici. Vorremmo dedicare le nostre ultime considerazioni a quelli che ci sembrano, oggi, i più potenti o efficaci – quelli contro i quali dovrebbe essere più “appassionatamente” impegnata la nostra cultura morale, la nostra “saggezza”. Abbiamo già segnalato come nella storia politica moderna, in quanto storia della democrazia, lo strumento o la forma che vincola il patto di regolazione a un’esperienza valoriale sia stato individuato prima di tutto nel riconoscimento del (dei) diritto(i) degli individui. Secondo il nostro “schema di interpretazione” questi diritti (libertà, eguaglianza) devono essere concepiti (sono stati concepiti) come “salvaguardia” di un altro, più “fondamentale”, diritto, il diritto universale (di tutti gli individui) alla felicità. È soltanto quando si raggiunga questo “livello di fondazione” che il diritto individuale può realmente essere pensato (nel materialismo, o “empirismo”, moderno) come innato; il che non vuol dire certo che la nozione in cui si esprime (l’“idea nuova” di Saint-Just) non sia, rimanga, “interpretabile” – ma vuol dire intanto che essa “prende radice” nel concreto dell’esistenza umana, nell’uomo come ente naturale-sensibile. Non può perdere contatto con il multiforme, il puntuale di questa esistenza – ma può valere come “criterio” (universale), nella misura in cui questo “concreto” sia riconducibile a un principio di coerenza o di unità che è attivo nell’autoriflessione della co-
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scienza, nel rapporto di sé a sé. Il “diritto”, però, non può avere una “efficacia” sociale, essere “messo in pratica”, che nell’articolazione complessiva di una “forma giuridica”: è questa forma che consente esiti di effettiva “esigibilità” – che implicano la “sanzionabilità”, la punizione della “violazione”. La norma giuridica non è allora più, “immediatamente”, espressione del “criterio” da cui deriva (da cui deriva piuttosto, in principio, il complesso di cui fa parte). Essa “vale” come autosufficiente, come se avesse in sé le ragioni della sua prescrittività, come se potesse effettivamente definire il singolo fatto o caso secondo parametri di giusto/ingiusto (lecito/illecito) già dati, che “non hanno bisogno” di essere ogni volta compresi in rapporto a quella “soggettività di valore” che il diritto, l’istituzione del diritto (il “patto” democratico) presuppone. Stiamo dicendo che nella positività del diritto (senza la quale un “diritto” non vi sarebbe) è insito il principio di una deriva “formalistica”; deriva, appunto, perché porta l’“applicazione” del diritto (ciò che conta, per una determinata regolazione della prassi sociale) “lontano” da quei processi di valutazione, selezione, confronto che ne costituiscono, rispetto al fine della felicità individuale (di tutti), l’unica ragion d’essere. Poiché ci muoviamo adesso su un terreno essenzialmente “descrittivo”, sarà forse il caso di proporre un esempio che possa illustrare questa cultura “astratta” del diritto; e lo scegliamo di proposito piuttosto “sofisticato”, perché gli effetti di questa cultura o “mentalità” sono tanto più penetranti e pervasivi quanto più si producono in modo trasversale, “obliquo”, nella più grande eterogeneità dei “casi”. Anni fa, il pubblico del teatro ha potuto assistere a una messa in scena di Casa di bambola particolarmente prestigiosa, perché realizzata da uno dei più acclamati registi europei, Östermeier. La caratteristica più vistosa di questa “rilettura”, per usare il termine ormai inevitabile, era il cambiamento del finale della pièce: Nora – quando ha compreso che tutta la sua vita di
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giovane donna, moglie e madre, è stata “plasmata” dagli uomini da cui dipendeva, padre e marito, in modo da mantenerla, conforme al costume sociale, in una condizione di “minorità” (femminile), quando la sua precedente accettazione (grata) di questo ruolo si trasforma in intima indignazione, dolore, protesta e rifiuto – non sceglie di abbandonare la sua casa, marito e figli, per affrontare il compito di affermare la sua indipendenza, il suo diritto all’eguaglianza, che la “regola” del matrimonio borghese le nega; fa un’altra cosa, spara al marito e lo uccide. Non è facile, a prima vista, comprendere che cosa questo cambiamento del finale “aggiunga”, in che cosa approfondisca o “riveli” il “senso vero” della pièce – o piuttosto, secondo una pretesa tanto ormai generale quanto in se stessa inquestionabile, del tutto opaca, lo “attualizzi”. Se la scelta di Nora è stata sempre immediatamente avvertita, da tutti i pubblici, come “rivoluzionaria”, è perché la contestazione dell’ordine borghese le si rivela, nello svolgimento drammatico, attraverso un’esperienza “cruciale”, traumatica, come un bisogno vitale: è la comprensione del danno subito, in relazione a un progetto di esistenza che si scopre adesso (si sceglie) come “connaturato”, nel rapporto di sé a sé; e che richiede, per essere praticamente perseguito, nel “concreto” della vita sociale, un cambiamento generale delle regole, degli istituti, del costume – e intanto, per lei, una prova “vissuta”, la volontà e la capacità di vivere “diversamente” (per esempio, “da sola”). Ma apparentemente non è questa la “chiave di lettura” che Östermeier propone al suo pubblico, per “interessarlo”. Il cambiamento del finale (se può trovare una spiegazione che vada oltre la surrogatoria presunzione autoriale dell’interprete) dovrà comprendersi come una “sostituzione” tematica: dal “problema” (complesso, “aperto”) del destino di Nora (della moglie borghese) si passa a quello infinitamente più “facile” della “colpa” di Torvald Helmer (che viene “giustamente” punita). Poiché il pubblico di oggi, in Europa, “dà per scontata” (si sarà più o meno ragio-
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nato) la “parità” (il diritto alla parità) fra uomini e donne, ciò che accade nella pièce verrà percepito come una “violazione” di questo diritto, che “qualcuno” ha commesso; e poiché “accade” nell’Ottocento (e dunque vagamente “si sa” che quella violazione non può essere punita dai tribunali, che Nora non potrebbe denunciare il marito per “crudeltà mentale”, avviare una procedura giudiziaria per l’affidamento dei bambini e l’assegno di mantenimento, ecc.), allora, nella pienezza utopica del senso che è propria della rappresentazione artistica, il personaggio di Nora “raggiunge la sua verità” come giustiziera, vindice. Il povero Helmer sarà punito per aver “negato” un diritto (la “dignità civile” della moglie non sta per lui sullo stesso piano della propria) di cui né lui né la “vittima” (la Nora “di prima”) avevano la minima nozione. E questo “diritto”, per Nora, non sarà una difficile scoperta, un percorso soggettivo di maturazione nell’esperienza degli affetti, il fondamento di un nuovo progetto di vita – ma qualcosa di “già dato”, esigibile, e sanzionabile. Nell’“attualizzazione” del repertorio, uno dei criteri più comuni è quello che chiamiamo “politicamente corretto” (con esiti spesso ancora, se possibile, più grossolani – Carmen che “si ribella al femminicidio” uccidendo don José, Romeo e Giulietta entrambi ragazzi o ragazze, ecc.). Questa espressione non è solo una vuota formula – “dice” qualcosa di importante, a partire dall’attribuzione all’agire politico, al giudizio politico, di una qualità che non rimanda (come “giusto”, “saggio”, “efficace”) alla scelta dei fini, ma all’“applicazione”, alla corrispondenza del “caso” con la “norma” (correttezza). Una cultura dei diritti che tende a identificarsi con la “legalità” interpreta la funzione protettiva del diritto come gestione di una casistica – la concretezza del “caso” è completamente assorbita nel “segno”, secondo il rapporto di corrispondenza (con il “significato”) fissato nel “codice”. Così, per esempio, può essere “scorretto” (lo è) remunerare un lavoro “in nero”, violando regole fiscali-previdenziali
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(è infatti un “reato”) – ma non può certo esserlo (non ha niente a che fare con la “correttezza”) che il salario effettivamente corrisposto sia eventualmente un salario di fame. Prendiamo il caso del “razzismo”, o del “negazionismo” (dei grandi crimini di massa e di stato commessi nel XX secolo): sempre più il rifiuto questi fenomeni è affidato all’applicazione di testi normativi – e dunque a una rigida, stabile, univoca definizione di “fattispecie”. La reazione “normale”, poniamo, di fronte a un professore di storia che “giustifichi” il nazismo (e cos’altro? e in che termini?) non è, come in altri tempi, quella di organizzare un lancio di pomodori, o disertare le aule in cui parla (il che implica, naturalmente, presa di coscienza, responsabilità, impegno – e “rischio”); è quella di denunciarlo all’autorità giudiziaria, “censurarlo”, applicargli una sanzione. Così, mentre un qualsiasi uso di “stereotipi razziali” nelle barzellette diventa moralmente (e giuridicamente) inammissibile, è invece moralmente (e politicamente) ammissibile che un evidente concentrato di tutti i tipi possibili di “scorrettezza” diventi presidente degli Stati Uniti – i cui governi, del resto, avevano già recentemente, nel quadro della lotta al terrorismo internazionale, reintrodotto l’uso di pratiche di tortura sui prigionieri (ma, è vero, in una base militare extra-territoriale). La politica “vera” (rapporto tra governanti e governati) sta “su un altro piano”, rispetto ai vincoli discorsivi, semantici, che codificano e rendono possibile la “correttezza”; e la recente, impetuosa ascesa nel consenso politico di uomini e formazioni altamente “sospette”, da questo punto di vista, può apparire come l’esatto “rovescio della medaglia” di un discorso ufficiale, prescrittivo, che non è mai stato così preoccupato della sua “buona coscienza”. La “decisione” sul valore è sottratta al “vissuto”, alla coscienza degli individui, nel momento stesso in cui è affidata all’automatismo della codificazione: se qualcuno può legalmente presentarsi alle elezioni, allora posso sempre votarlo – che poi sia razzista, o omofobo, ecc. lo giudicheranno semmai i tribunali.
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Questa caratteristica opacità della politica “reale” rispetto all’os sessiva, “translucida” pervasività della norma giuridica corrisponde perfettamente alla sua riduzione in una logica puramente amministrativa – che a sua volta la “deresponsabilizza” rispetto alla discussione sui fini, alla scelta tra alternative, alla coscienza dell’universale. I “problemi” e le “esigenze” della società sono definiti in funzione degli strumenti operativi già disponibili, del loro proprio “modo di funzionare” – per definizione “conforme”, e “ideologicamente” (moralmente) neutro. La “razionalizzazione” che ne deriva (in termini di “efficacia”: immediatamente verificabile) è tipicamente “fantasmatica”: il rapporto con il “reale”, il concreto dell’esperienza, non può esprimersi che in una “preformazione” – la coscienza non può che rifletterlo nella “griglia” di un sapere tecnico-amministrativo, un generale-astratto, e nella “manipolabilità” (immediata) che esso rende possibile. Gli effetti di impoverimento, e propriamente repressione, insiti nella “semplificazione”, sono completamente occultati dal primato “epistemologico” di questo sapere – “efficace”, perché l’effetto che produce corrisponde esattamente alla “previsione”, è già compreso nella “norma” che ne deriva. Così, per dire, quando sia in discussione l’“efficienza” del lavoro degli impiegati pubblici, la decisione che si impone (autoevidente, conforme, autosufficiente – e per definizione “indiscutibile”) sarà quella di abolire la pausacaffè, istituire controlli sistematici per le entrate e le uscite, ecc. – mentre i temi dell’effettiva organizzazione del processo lavorativo, dei suoi obiettivi, dell’interazione con il pubblico, della formazione e della qualità “soggettiva” del lavoro saranno – nell’“opinione pubblica”, nella coscienza comune, e degli impiegati e degli utenti, nonché nei programmi “politici” di “riforma della pubblica amministrazione” – del tutto evanescenti, o scomparsi. E simili criteri quantitativi, di “immediata verificabilità”, diventeranno sempre più centrali, o esclusivi, perfino per la “riforma della scuola”, nei discorsi e nelle misu-
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re per “migliorare l’efficacia” (rispetto a che cosa?) del lavoro degli insegnanti. Via via che aumentano, senza limiti, gli strumenti e le risorse del “controllo” tecnico-amministrativo, l’“azione” sulla realtà (sociale), la logica della volontà “efficace”, tende a coincidere con il loro esercizio – e degli apparati che se ne incaricano. Un esempio particolarmente eloquente può esser quello di un “problema” (sociale) che nasce interamente nel “privato”, nel “vissuto” degli individui – lo scioglimento di un’unità famigliare, e la regolazione del rapporto tra gli ex-coniugi, e tra questi e i figli minori. È diventato ormai affatto “normale” che la “soluzione” sia demandata, nei dettagli, all’apparato giudiziario, a una tecnica procedurale che, “combinando” due “norme” (quella legale e quella psicologica, l’expertise), si “prende carico” di questo vissuto – il “bene” dei bambini, la “funzione genitoriale”, ecc. Se si confronta la formazione (ovviamente standardizzata) di questa decisione (dei giudici, dei tribunali) con l’obiettivo da raggiungere, l’“efficacia” della soluzione non potrà che apparire, in ogni singolo “caso”, come propriamente derisoria, anzi grottesca. E certo ciò non toglie che in mancanza di dialogo, accordo, assunzione comune di responsabilità, l’esteriorità e meccanicità della coercizione possa apparire come un “male minore”, come “ragionevole”. Ma quando il ricorso alla procedura “neutra”, alla “garanzia” tecnico-giuridica del “bene”, abbia perduto nella coscienza comune il carattere dell’eccezionalità (il che significa, intanto, sapere che quello che così può essere realizzato non sarà in nessun caso “il bene”), l’effetto più “sicuro” che produce riguarda proprio il rapporto tra “gli individui” (coniugi, genitori) e “la realtà”. Questi individui – che “consegnano” il processo e l’esito della decisione a una combinatoria “ottimale”, automatica, di elementi tecnico-giuridici, e ne diventano il “punto di applicazione” – non sono, se ci passa l’enfasi dell’espressione, protagonisti della propria vita. Essa si trova completamente “costituita”, nel
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suo significato, in quella combinatoria, non è più compresa attraverso l’attività del “soggetto” – il confronto “rischioso” con l’altro, la ricerca di un equilibrio tra ragioni, bisogni, affetti, il cambiamento “interiore”; non è più, per questo “soggetto”, un suo problema. Ogni “realtà” (umana) che sia pensata (vissuta) in quanto “aderisca” alla griglia prestabilita di un sapere tecnico-amministrativo, si “determini” in essa, non può che trasformarsi per ciò stesso in pura virtualità: la realtà di tutti – e di nessuno. L’“ordine del discorso” (usiamo di proposito questo sintagma foucaultiano: stiamo parlando del danno morale generato dalla “società disciplinare”) costruisce la realtà, il “senso” della realtà, nella finzione del suo normale, automatico “riprodursi” – di una “necessità” propria del suo “modo di funzionamento”, che ne determina e ne esaurisce i possibili. E la sfera di esperienza che più di tutte appare come impenetrabile alla soggettività del giudizio e del valore è naturalmente quella dell’“economico”. Il nomos di quello che dovrebbe essere l’oikeios, il “possesso proprio” di una soggettività regolatrice e progettuale (la “comunità umana”), non è più “istituzione”; si determina, come regola e come sistema, nella causalità e legalità di un meccanismo “esterno”, “indifferente” ad ogni decisione o verifica. Ogni apologetica del sistema economico esistente (in particolare, nella storia del capitalismo) produce il mito delle “leggi naturali” dell’economia; ma nella “giustificazione” dell’attuale ordine economico è completamente scomparso ogni elemento, o mistificazione, “valoriale” (per esempio, nel capitalismo, il “guadagno” del capitale come premio della virtù del capitalista). Per giustificare la diseguaglianza economica, ai suoi livelli più alti, non si parla più dei “meriti” individuali – sono sufficienti “le leggi del mercato” (e sarebbe certo troppo difficile, per esempio, “spiegare” che il grande manager industriale guadagna non più dieci, ma cento volte più dell’operaio della sua impresa perché è, rispetto a quelli di qualche decennio fa,
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ancora più bravo). Si potrebbe mutuare, a questo proposito, la formula dell’“apologetica indiretta”, che Lukács usava, spesso a torto, per caratterizzare una certa rappresentazione letteraria (“decadente”) del “male”, in cui alle ragioni storico-sociali si sostituisce la “fatalità” della “condizione umana” (e non aveva poi certo torto, Lukács, nel considerarla in se stessa, quanto agli effetti sterilizzanti rispetto alla “critica” e al bisogno di lotta e di emancipazione, assai più “efficace” dell’altra). È oggi un assioma del “politicamente corretto” il rifiuto di principio di ogni “dittatura” politica, di ogni “totalitarismo” (gli effetti di questo rifiuto, quanto all’effettivo processo di formazione del “consenso”, sono come abbiamo già segnalato irrisori). Ma c’è da chiedersi che cosa, se non una mistica fede nella necessità (mentre la forma dello stato rimarrebbe “sottomessa” alla libertà), impedisca di vedere quello che nella nostra vita sociale dovrebbe essere a tutti palese: che non vi è esproprio più radicale della libertà umana, degli uomini che vivono in società, che quello imposto dalla dittatura dell’economico (o della “finanza”) – dall’impossibilità “di principio” di contrastare la posizione dominante del capitale privato (unico “vincolo di coerenza” del sistema) nell’accumulazione e distribuzione delle risorse, nella produzione della ricchezza (valore d’uso). Quando i borghesi “rivoluzionari” (o illuministi), per esempio Adam Smith, parlavano della “razionalità del mercato”, come strumento per “aumentare la ricchezza” (sottraendo l’allocazione delle risorse al predominio della rendita) avevano in mente (cos’altro?) una conformità al fine: questo “aumento della ricchezza” doveva coincidere con il miglioramento della sua distribuzione, la circolazione attraverso tutto il “corpo sociale”, il soddisfacimento dei bisogni collettivi, la riduzione degli ostacoli opposti al libero sviluppo degli individui (prima “risorsa”, e prima “fonte”, di ogni “progresso”). Questa razionalità implica la “prova”, una costante verifica. Ma una volta che il mercato capitalistico ha instaurato il suo dominio (riproducendo, com’è
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inevitabile, il “privilegio” della rendita), la “prova”, la verifica non può che essere affidata alla concreta esperienza degli individui e dei gruppi che subiscono gli effetti del sistema nelle loro condizioni materiali di vita. Se la politica (“regolazione” della vita sociale) dipende da questa verifica, essa non può “giustificarsi” quando non sia capace di riflettere la differenza che in una situazione strutturale di diseguaglianza economica separa e contrappone i diversi “mondi vitali”, all’interno della società. Niente, per usare una frase fatta, sottrae linfa vitale alla democrazia più di quello che è ormai diventato quasi un ovvio schema di intelligibilità del “complesso” sociale: la stupefacente trasposizione sulla scala della società tutta intera di quell’antica e grossolana mistificazione per cui tutti quelli che “lavorano” in un’impresa, operai e padroni, hanno “lo stesso interesse”, al “bene” dell’impresa (trasposizione che è poi del resto un “presupposto logico” della riduzione della politica nello schema gestionale-amministrativo); per dirla con sana brutalità, poiché un’impresa capitalistica non può “funzionare” se non produce profitto per il padrone (o azionista), se ne ricava che nella società (nella politica), come nell’impresa, “non c’è posto” che per una sola volontà, per un solo “partito” – quello del padrone. La democrazia cessa allora di essere quello che (storicamente e concettualmente) è (stata): la “forma” in cui trova rappresentanza politica la differenza – e l’opposizione – sociale. A proposito di “totalitarismo”, a quanti si compiacciono oggi di registrare o promuovere l’evanescenza dell’opposizione moderna fra “destra” e “sinistra” (che è inseparabile dal conflitto di interessi tra detentori e non-detentori del capitale) sarebbe forse il caso di ricordare quanto essa fosse caratteristica nella formazione delle ideologie fasciste (Mussolini, nel ’21-’22, vi si richiamava costantemente; e non era, in fondo, che una variante, secondo termini già familiari alla tradizione politica liberal-democratica, dell’espressione “identitaria” dello Stato-Nazione, a cui gli individui “appartengono” senza
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“distinzioni” – in particolare, ma non solo, di classe). Se la sparizione dallo spazio pubblico delle differenze (di bisogni, interessi, culture, progetti) è appunto ciò che definisce il regime totalitario, non sembra che le cose cambino di molto quando si sostituisca alla “comunità di destino” dello Stato-Nazione la “fatalità” di un meccanismo economico che tutti, quale che sia la loro posizione in esso, devono “riconoscere” e “accettare”, “così com’è”, come insuperabile orizzonte di senso della propria vita (sociale). Abbiamo visto in che modo il legame moderno tra politica e morale possa rimandare all’insegnamento epicureo: la politica (democrazia) ha un fondamento valoriale (un diritto, una ragione) in quanto strumento per riflettere nella regolazione sociale (dell’azione reciproca) l’esperienza degli individui “in carne e ossa” – che è un’esperienza morale, un’esperienza del valore, poiché si genera, organizza, seleziona nel vissuto immediato del piacere e del dolore (del bene e del male). Oppure, per dirla in termini “rovesciati”: in tanto una morale può (deve) valere come criterio per la politica, per la decisione politica, in quanto è concepita e praticata come uno strumento (un’“arma”, direbbe Picasso) per cambiare (costruire, “verificare”) continuamente (in conformità alla propria natura-identità) se stessi, e quindi (se il “se stesso” in questione non è che una costante interazione pratico-sensibile con “l’esterno”) il “proprio” mondo, e quindi il mondo. Non è, come spesso si dice, l’eccesso di “individualismo” che minaccia oggi di sciogliere, spezzare questo legame; è esattamente il contrario, ciò che riduce l’individuo a variabile statistica di un calcolo “automatico”, ciò che lo disindividualizza, inibendo la formazione e lo sviluppo di una coscienza di sé che possa valere in pari tempo come principio della valutazione – del valore. L’attuale ipertrofia del giuridico, dell’amministrativo, dell’economico – schemi di intelligibilità/operatività che tendono a
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esaurire il senso della vita collettiva (e individuale), risolvendo in base alla loro interna, autofondata “coerenza” tutte le distinzioni tra il possibile e l’impossibile, il ragionevole e l’irragionevole, il necessario e il contingente – non può che rendere sempre più “asfittico”, per così dire, il processo di formazione della coscienza morale, del giudizio di valore; determinando una clamorosa restrizione dello “spazio” in cui l’individuo può far valere la sua propria, autonoma “competenza” circa il bene, e il bene comune, e le ragioni di una “naturale” solidarietà. La crisi che ne deriva non è solo alla radice dell’impoverimento (etico, e intellettuale) della politica (crisi della democrazia); si dà a vedere anche, direttamente, come crisi morale – quasi un luogo comune, ormai, ma ancora troppo spesso riferita, molto vagamente, agli effetti negativi, “dissolventi”, di tutto il processo evolutivo della civiltà moderna su una qualche nozione condivisa del “bene”, o del “dovere”, che sarebbe stata “spontaneamente” attiva in un qualche tempo passato. Chiediamoci per esempio: com’è possibile che si arrivi a inscrivere nella legislazione di paesi “civili” (la Francia, l’Italia) come “figura di reato” il soccorso prestato da un individuo ad altri individui che si trovano in condizioni di estremo bisogno, perché una certa autorità statale, a cui hanno chiesto rifugio dalla guerra, dalla fame o dalla persecuzione, si rifiuta di proteggerli? Com’è possibile che chi ostenta un normale orrore per la persecuzione degli ebrei d’Europa (che è, come ogni atto di discriminazione razziale, prima di tutto il rifiuto di riconoscere come “soggetto di diritti” – “eguale” – l’individuo che si può dichiarare “diverso”) accetti che una diversità di status giuridico (straniero “regolare” o “irregolare”) possa mettere in discussione il “diritto a una vita umana” (quello che hanno, in principio, i detenuti nelle carceri)? Com’è possibile che un solo uomo che muore in mare, perché all’imbarcazione di fortuna cui ha affidato la propria speranza di sfuggire all’intollerabile è stato rifiutato il soccorso, non faccia dei responsabili di questa decisione, agli
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occhi di tutti, dei volgari criminali? Che possa circolare, a livello di senso comune, una mostruosità come quella che “bisogna rendere dura la vita dei clandestini, per scoraggiare altri a raggiungerli”? Che sia stato praticamente sradicato dalla coscienza comune uno dei principi morali più antichi, immemoriali, sacri delle civiltà umane – la benevolenza verso lo straniero che chiede rifugio, l’accoglienza, l’ospitalità? Se si vuol parlare di “crisi morale”, oggi, in termini di vita collettiva, non c’è dubbio che la questione dei “migranti”, la “gestione” di un fatto umano tra i più caratteristici e storicamente inevitabili del nostro tempo, ne rappresenti una sorta di concentrato, di precipitazione. Ma non si può certo rispondere a quelle domande con la “constatazione” che “gli uomini”, oggi, sono “più feroci”. Sarebbe forse più utile interrogarsi sul perché questo “fatto” sia registrato automaticamente come un “problema” (o anzi, si dice pure, un’“emergenza”). Se si considera l’esperienza “reale” che gli autoctoni, per così dire, fanno degli stranieri che non sono “turisti”, chiunque può verificare quanta parte abbia in essa, per esempio, l’apporto che questi danno (con permesso di soggiorno o senza) alla soluzione di un problema realmente “drammatico” per molti, l’assistenza domiciliare agli anziani (così come il rapporto personale, si può dire di gratitudine, che su questa base si instaura). Quanto ai termini generali del “problema”, è a tutti disponibile l’informazione circa il “bisogno” (materiale, economico) di immigrazione, per una società che si trova in una curva demografica discendente. L’implicazione “logica” tra la presenza di migranti “irregolari” e un aumento della delinquenza è da una parte falsa (quanto ai “fatti”), dall’altra corrisponde molto esattamente (“logicamente”) a una necessità di integrazione (e intanto “regolarizzazione”): causa (possibile) di quell’effetto (possibile) sarà certo prima di tutto l’impossibilità di guadagnarsi “legalmente” da vivere – e il comportamento “delinquente” diventa allora un’ovvia necessità. Del resto, la conclamata impossibi-
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lità di massicce e “risolutive” espulsioni è di per sé sufficiente a fondare “logicamente” questa stessa necessità di integrazione. Ma tutti questi (ovvi) “argomenti”, poi, dovrebbero essere perfettamente superflui (se li abbiamo richiamati, è per sottolineare come la razionalità “neutra”, nello schema problemasoluzione, non sia che una volgare mistificazione): di fronte all’evidenza della sofferenza, della mancanza inflitta a uomini, bambini, ecc. che si lasciano volontariamente senza protezione (senza diritti). E allora: com’è possibile? “Giudicare” di uno stato della società, di ciò che in esso è necessario e utile, significa prima di tutto “sapere” che questo stato è sempre (nella storia fino a ora) “problematico” – e che i “problemi” non possono essere affrontati senza una chiara nozione del fine; non hanno, cioè, soluzioni “tecniche”, che presuppongono uno standard di “normalità”. L’“integrazione” (poiché abbiamo usato questo termine) dei “migranti” è certamente “difficile” – “complicata”, perché richiede come qualsiasi altro bisogno sociale un impiego selettivo, evolutivo, di risorse materiali e organizzative. Questo è appunto il “compito” dello stato – non certo una semplice funzione “riproduttiva”; e implica la possibilità/ necessità di assumere e rispecchiare nella regolazione sociale una dinamica dei bisogni, e una “libertà” (valore) delle scelte. Nello schema della semplificazione amministrativa non si possono risolvere che i “problemi” immediatamente percepiti come violazione di una norma esistente; il che produce immediatamente una “risposta” sanzionatoria, unica protezione “efficace” (immaginaria) – non rispetto ai bisogni e alle possibilità di scelta, ma appunto dell’“esistente”. Ma l’“esistente” sociale, come complesso di pratiche e di regole auto-coerente, non ha alcun valore – non “esiste” propriamente, non è che una provvisoria finzione, un “fantasma”. Non a caso la forma più ossessiva di questo delirio (la logica coercitiva e automatica della sanzione come eliminazione permanente dei fattori di “perturbamento”) si ritrova nei discorsi sulla
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“sicurezza”. Tutti sanno (potrebbero/dovrebbero sapere) che nessuna società occidentale del passato è stata “più sicura” della nostra, quanto all’incidenza effettiva, nella vita quotidiana, degli attentati all’incolumità e alla proprietà personale. E sanno anche che si produce sempre più, nella nostra società, rispetto al più recente passato, una nuova, drammatica “insicurezza”: per esempio, quella che riguarda l’età post-lavorativa, la garanzia (sociale) di poter vivere dignitosamente “dopo” il lavoro. Si ripete continuamente che le nuove generazioni saranno in gran parte escluse da quei “diritti” – di sicurezza materiale (economica) nella vecchiaia – che derivano dalla continuità e dalla durata della prestazione lavorativa. Come mai è “più facile” accettare questo, che non “l’altro tipo” di insicurezza? Non sarà per una familiarità “atavica” con la presenza dei poveri nella società – che non è certo minore per la presenza dei violenti e dei ladri, e che in più contraddice in parte l’esperienza più recente, quella ancora disponibile nella memoria diretta. Ma mettere in discussione questa evoluzione regressiva dei redditi e della protezione sociale significa ammettere la possibilità di intervenire, in senso “correttivo”, su un meccanismo dell’economia capitalistica che ha perso (probabilmente in via definitiva) il carattere “espansivo” dei decenni post-bellici – che è entrato in una fase “malthusiana”, intrinsecamente segnata dalla riduzione e dalla precarizzazione del lavoro. Se la presenza di tanti “pensionati poveri”, e il fatto che siano “destinati” ad aumentare, indigna, a quanto pare, molto meno che la cronaca nera (e sta ormai diventando molto più frequente, in una nostra città, in un inverno, morire di freddo perché si dorme in strada che sotto i colpi di un ladro-assassino) è perché sono “disponibili”, per contrastare l’uno e non l’altro tipo di insicurezza, strumenti “semplici”, automatici, a priori “efficaci” (“videosorveglianza”, più polizia – o l’esercito – pene più “severe”, misure sempre indefinitamente “aumentabili” di controllo e “prevenzione”; sarebbe interessante – o piuttosto “urgente” –
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confrontare con quanto sta accadendo nell’ambito del saperepotere medico: con tutto quello che “si sa”, per controllare e preservare la salute, non si dovrebbe più morire – o almeno, quando si muoia prima di un’estrema vecchiezza, è tutta colpa del morto). Basta considerare, “in negativo”, le reazioni che suscita chi esprima una qualche dissidenza circa la “deriva securitaria” (“non vede”, “nega” il problema, si allontana dalla “percezione comune” – cioè la realtà) e chi, magari un premio Nobel per l’economia, esorti a “cambiare qualcosa” nelle regole attuali (vorrebbe “andar contro” l’economia – come l’economia, oggi, “funziona”, cioè la realtà). “Problema”, “percezione”, “realtà”, diventano termini completamente separati, staccati, da tutti quelli che indicano un “lato soggettivo” delle cose: esperienza vissuta, pensiero del possibile, scelta, valore. Su questa base, che si vuole “pragmatica”, le ideologie più irrazionali, i “miti”, trovano nuovo alimento e forza. È soltanto ovvio, per esempio, che il razzismo si nutra della “minaccia” rappresentata dai “migranti” – se “disturbano”, se incarnano un “problema” che dev’essere in tutti i modi, “alla svelta”, risolto (soppresso); così come che l’“ideale” di uno stato autoritario, poliziesco, repressivo (fascista) corrisponda al modo più “sicuro” di eliminare la devianza, “rendere impossibile” la violazione della norma (il luogo più “sicuro” è – fino a un certo punto… – il carcere). La feticizzazione di un “esistente” identificato con una normalità a-problematica produce il fantasma di una semplificazione intollerante: una gerarchia dei “beni” in cui il “superiore” (quello che è “evidente”, nella misura in cui “si sa” come ottenerlo) non può essere “limitato” dall’“inferiore” (che cosa conta la libertà individuale – che tanto dev’essere sempre “interpretata” – rispetto alla “certezza” che “nessuno”, “mai”, possa “mettere una bomba”?). Il rifiuto delle ideologie, come “visioni generali” in contrasto tra loro (il che presuppone che non siano un mero riflesso dell’esistente, ma “giudichino” questo esistente nella prospettiva
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del fine) si è affermato negli ultimi decenni come un altro assioma del “politicamente corretto”; ma non può che favorire quel particolare “tipo” di ideologie (le ideologie reazionarie) in cui il “generale”, come criterio del legame sociale, tende a identificarsi con un “diritto del potere” – riflesso, nella coerenza autofondata di “mezzi” e “scopi”, di un (fantasmatico) “sostanziale” (identità nazionale, legge, ordine, “sicurezza”). E non è questa che la stessa “ovvietà” (ma su un terreno più “profondo”, sottostante) che qualcuno ancora ricorda, in un linguaggio più specificamente politico: che non c’è criterio più sicuro, per riconoscere qualcuno come “di destra”, che l’impegno che mette nel dichiarare caduta, esaurita, l’opposizione (“ideologica”) fra destra e sinistra. L’appiattimento della politica sulla gestione, sull’amministrazione, non determina soltanto un drammatico impoverimento intellettuale (nei “politici” prima di tutto; ma poi nella formazione del consenso e del dissenso, nella coscienza politica dei cittadini); determina anche un suo progressivo allontanamento dalla “coscienza morale” – dai modi e dalle forme (individuali) in cui può darsi l’accesso a una nozione di “valore” e di “fine”. Del resto, nel “privato” come nel “pubblico”, una morale che si voglia interamente “realistica” o “pragmatica” non può essere che una grossolana contraddizione in termini. Abbiamo cercato di evocare, in modi molto sommari e corsivi, alcuni tratti del processo di atrofia, asfissia, della funzione di questa coscienza morale come esigenza di un significato razionale, di una natura “conforme al giusto”, delle pratiche di autoregolazione della vita sociale; e abbiamo cercato di farlo in una prospettiva epicurea. “Collegare” la politica alla morale significa riflettere in questo legame l’autonomia della coscienza individuale nella determinazione del fine, a partire da un rapporto di sé a sé che possa valere come esperienza dell’universale, della comune natura umana – un’esperienza sensibile e insieme razionale, perché impegna le funzioni conoscitive della dianoia e
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quelle “pratiche” della phronêsis. “Scegliere”, in base a questa esperienza, la felicità come valore (e “comprendere” che l’unico valore è la felicità) rimane per l’individuo l’unico criterio razionale per “giudicare” la politica – e per intervenire in essa, come membro della comunità. Altrimenti, è il “progetto moderno” in quanto tale che viene colpito: la possibilità per l’“intelletto umano” di accedere alla propria “maggiore età” come principio di un esercizio efficace della democrazia. Questo progetto è certamente, lo abbiamo detto, “difficile” (“difficile”, sapeva bene Epicuro, è la morale stessa). E non a caso, via via che questa difficoltà sembra “aumentare” (sulla scala di una “società di massa”, strutturalmente segnata dalla diseguaglianza), scrittori, filosofi e pubblicisti sempre più apertamente ne revocano in dubbio la possibilità – ne destituiscono il valore, respingendolo nel dominio della presuntuosa utopia. Circolano proposte di “recupero”, di “ricostruzione” morale, che vorrebbero valere come un richiamo all’umiltà: riscoprire, sostanzialmente, la necessità e le virtù di quei “legami comunitari” che appartengono al “tipo ideale” della società tradizionale – grazie ai quali l’individuo attinge le ragioni e il senso della propria identità nel “sentimento di appartenenza” a qualcosa di “più grande”, di “stabile”, che limita e contiene la sua libertà “integrandola” (sublimandola) in una qualche mitologia delle origini e del destino. Non è certo qui il luogo di discutere o criticare queste più o meno edificanti illusioni. Osserviamo soltanto, per concludere, che è la nozione stessa di “progetto”, in quanto implica una “autonomia”, ad essere così respinta o svuotata; e con essa un qualsiasi “impulso” verso una politica razionale – al servizio di fini generali, comuni, che solo una concreta esperienza umana, degli individui umani, può realmente “percepire”, e verificare. Il progetto della modernità è certamente (molto) difficile. Ma bisogna almeno sapere, aver chiaro, che non ce n’è un altro.
Indice
Avvertenza
p. 9
Introduzione
p. 11
Capitolo I La saggezza di Epicuro
p. 27
Divagazione su Foucault “Fine del soggetto”, “morte dell’uomo” e attualità della rivoluzione Sapere, potere, soggetto Cultura del soggetto e filosofia morale Capitolo II Materialismo e teoria del piacere La “lettera” e il “sistema” Questioni di vocabolario Il piacere o il dolore Il piacere e i piaceri Il logos del fine L’opinione e l’errore Il desiderio L’esercizio della frugalità
p. 59 p. 68 p. 86 p. 97 p. 119 p. 119 p. 130 p. 135 p. 141 p. 151 p. 157 p. 170 p. 188
Aponia e atarassia Essere natura e essere soggetto
p. 197 p. 200
Divagazione su Freud Freud e la morale “Apparato psichico” e “soggetto” La natura (umana) “prima” dell’Io L’“irrealtà” del piacere Un fine: la civiltà
p. 207 p. 207 p. 208 p. 212 p. 250 p. 257
Capitolo III Il male e la storia La morale “per tutti” La malattia umana Una malattia “sociale” La malattia nella storia Il saggio come educatore Teoria del diritto e istituzione sociale L’amicizia del saggio
p. 275 p. 279 p. 293 p. 311 p. 317 p. 324 p. 329 p. 353
Divagazione su Marx e il marxismo Il socialismo “scientifico” e la storia Il significato “umano” dell’alienazione Il lavoro “cosciente” L’umanesimo di Marx Il comunismo come fine e lo “sviluppo” dell’individuo Capitalismo e falsa coscienza Emancipazione umana e soggetto morale
p. 363 p. 368 p. 372 p. 380 p. 386 p. 391 p. 406 p. 415
Il “fine” come criterio del “senso”: per una generalizzazione del concetto di “prassi” Capitolo IV La morte e il tempo Paura della morte e desiderio di immortalità Il piacere e il tempo Vivere in poesia: il presente come orizzonte e come ripetizione
p. 441 p. 445 p. 445 p. 459 p. 477
Divagazione in forma di excursus sul rapporto tra etica e estetica
p. 495
Conclusione prima
p. 535
Conclusione seconda, in forma di divagazione politica
p. 565
Zeugma
Lineamenti di Filosofia italiana | Proposte Diretta da: Massimo ADINOLFI e Massimo DONÀ
1. Francesco Valagussa, La scienza incerta. Vico nel Novecento. 2. Alfredo Gatto, René Descartes e il teatro della modernità. 3. Fabio Vander, Ortologia della contraddizione. Critica di Heidegger interprete di Aristotele. 4. Ernesto Forcellino (a cura di), Verità dell’Europa. 5. Lucilla Guidi, Il rovescio del performativo. Studio sulla fenomenologia di Heidegger. 6. Armando d’Ippolito, Arte e metafisica delle forme. Creazione. Crisi. Destino. 7. Guido Bianchini, L’inquietudine dell’Altro. Ebraismo e cristianesimo. 8. Pedro Manuel Bortoluzzi, Carlo Michelstaedter e la testimonianza della verità dell’essere. 9. Antonio Branca (a cura di), Possibilità. Dell’uomo e delle cose. 10. Federico Croci, Deus Terribilis. Quattro studi su onnipotenza e me-ontologia nel Medioevo.
11. Federica Buongiorno, La linea del tempo. Coscienza, percezione, memoria tra Bergson e Husserl. 12. Giuseppe Pintus (a cura di), Figure dell’alterità. 13. Marco Martino, Il sistema dei bisogni di Hegel. Un possibile itinerario. 14. Maria Teresa Pansera, La specificità dell’umano. Percorsi di antropologia filosofica. 15. Massimo Donà - Francesco Valagussa (a cura di), Alterità e negazione. 16. Giuseppe Pintus (a cura di), Relazione e alterità. 17. Maurizio Maria Malimpensa, La scienza inquieta. Sistema e nichilismo nella Wissenschaftslehre di Fichte. 18. Marco Bruni, La natura divisa. Hans Jonas e la questione del dualismo. 19. Nazareno Pastorino, Destino ed eternità di tutti gli enti. L’opera di Emanuele Severino. 20. Massimo Adinolfi, Qui, accanto. Movimenti del pensiero. 21. Giuseppe Gris, L’escatologia del destino. L’apocalisse del linguaggio nell’opera di Emanuele Severino. 22. Michele Ricciotti, Provare l’Io. Julius Evola e la filosofia. 23. Valentina Gaudiano, La filosofia dell’amore in Dietrich von Hildebrand. Spunti per una ontologia dell’amore. 24. Silvia Dadà, Il paradosso della giustizia. Levinas e Derrida. 25. Giulio Goria, La filosofia e l’immagine del metodo. 26. Carmelo Marcianò, Essere epicurei. Divagazioni su Epicuro e noi.
Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 26 - Proposte
Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà
Nei mesi dell’epidemia del coronavirus siamo stati sommersi da ammonimenti e profezie sul “cambiamento della vita”. Ha trovato sfogo, sotto l’impressione della “catastrofe”, tutta la cattiva coscienza per un modo di vita “occidentale” sempre più percepito come insostenibile e “disumano”. Si è invocata una conversione (o un ritorno) alla “saggezza”. C’è stato nell’antica Grecia un filosofo, Epicuro, che la cercato di elaborare una morale materialistica non fondata sull’ideale o sull’“utile”, ma su una caratteristica essenziale della natura umana: l’aspirazione a non soffrire, a una naturale felicità. Non una morale per i tempi di catastrofe, ma per il normale tempo degli uomini. L’unica che possa reggere alla crisi del soggetto “razionale”. Essere, nel nostro tempo di catastrofe, attuale.
Comitato scientifico:
Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.
Carmelo Marcianò è nato a Reggio Calabria nel 1955. Dopo un periodo giovanile di impegno politico si è trasferito a Firenze, dove ancora risiede, per studiare filosofia. Ha poi insegnato nei licei. Lasciato l’insegnamento, si è dedicato a coltivare i propri studi, non solo filosofici. Sta adesso lavorando su argomenti di filosofia politica, e di storia del teatro.
ISBN ebook 9788855291385 € 16,00