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Italian Pages 344 Year 2006
A07 25
Marinella Bosetto Irene Lozzi
Elementi di biochimica agraria
Copyright © MMVI ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 A/B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN
88–548–0724–9
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: settembre 2006
Indice Capitolo I Introduzione allo studio della biochimica
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Capitolo II Gli amminoacidi
17
Capitolo III Le proteine
31
Capitolo IV Gli enzimi
47
Capitolo V Principi di bioenergetica
75
Capitolo VI I carboidrati
95
Capitolo VII Il processo respiratorio
117
Capitolo VIII Il ciclo dell’acido citrico
135
Capitolo IX La fosforilazione ossidativa
153
Capitolo X Gluconeogenesi e via dei pentosi fosfati
167
Capitolo XI La fotosintesi
179
5
6
Indice
Capitolo XII I lipidi
225
Capitolo XIII Metabolismo dei lipidi
245
Capitolo XIV Il metabolismo dell’azoto
267
Capitolo XV Nucleotidi ed acidi nucleici
289
Capitolo XVI La sintesi proteica
303
Capitolo XVII Composti fenolici delle piante
315
Capitolo XVIII Terpeni e terpenoidi
329
Capitolo XIX Gli alcaloidi
331
Bibliografia
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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA BIOCHIMICA La biochimica studia la costituzione chimica degli esseri viventi, le funzioni fisiologiche dei loro prodotti e le trasformazioni chimiche che avvengono a carico di questi e che sono alla base della vita. I sistemi viventi si differenziano dal mondo inanimato per certe peculiari proprietà: possono crescere, muoversi, costruire un metabolismo, rispondere a stimoli provenienti dall’ambiente e soprattutto sono in grado di replicare se stessi con eccezionale fedeltà. Gli organismi viventi sono composti da un gran numero di molecole organiche che di per sè stesse sarebbero inerti ma che, riunite in aggregati di un determinato peso molecolare e di idonea complessità, in particolari condizioni possono dare origine a quel complesso sistema di reazioni che prende il nome di “vita”. Nonostante le molteplici forme in cui si manifesta la vita, l’intrico delle strutture biologiche più diverse e la complessità dei meccanismi vitali, le funzioni della vita possono essere interpretate in termini chimici. I costituenti cellulari, o biomolecole, seguono i principi chimici e fisici che governano la materia inanimata. In questo primo capitolo verranno riportate in breve le caratteristiche degli esseri viventi, le principali classi di biomolecole, cioè delle molecole necessarie alla vita e verranno illustrati i fondamenti del metabolismo cellulare. Le singole vie metaboliche, la produzione ed il consumo di energia e le caratteristiche ed il funzionamento dei catalizzatori biologici, gli enzimi, verranno riportati per esteso nei prossimi capitoli. Esaminando attentamente le caratteristiche degli esseri viventi, che li distinguono da un complesso inanimato di molecole come per esempio una roccia, vediamo che: 1) sono formati da cellule, che ne sono le unità costitutive fondamentali. Tutti gli organismi viventi sono organizzati su base cellulare; 2) sono sistemi altamente organizzati ed ordinati, le cui strutture interne sono costituite da molti tipi di molecole diverse; 3) sono capaci di costruire strutture molecolari ordinate a partire da materiali più disordinati;
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Capitolo I
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4) possono estrarre energia dall’ambiente, di solito sotto forma di sostanze chimiche nutrienti, e in tal caso si dicono chemiotrofi, oppure utilizzando la luce solare (fototrofi), e sono in grado di utilizzarla trasformandola da una forma in un’altra; 5) si mantengono uguali anche al variare delle condizioni chimiche o ambientali; 6) reagiscono agli stimoli e a perturbazioni provenienti dall’ambiente o prodotte da essi stessi, e possono agire per ripristinare l’equilibrio alterato; 7) sono capaci di riprodursi, cioè di costruire copie di loro stessi che possono essere identiche o diverse; 8) sono capaci di evolversi: i processi di riproduzione, caratterizzati da ricombinazione del materiale genetico, possono dare origine a progenie diversa dai genitori. 9) hanno la capacità di adattarsi all’ambiente; 10) si accrescono e si sviluppano; 11) l’informazione per ogni loro caratteristica ed attività è contenuta all’interno della cellula. Metaboliti e macromolecole I precursori principali per la formazione di biomolecole sono: l’acqua (H2O), l’anidride carbonica (CO2) e tre composti inorganici dell’azoto, lo ione ammonio (NH4+), il nitrato (NO3-) e l’azoto molecolare (N2). I processi metabolici assimilano e trasformano questi precursori inorganici in livelli sempre più complessi di biomolecole. In un primo tempo, i precursori vengono trasformati in metaboliti, composti organici semplici che agiscono come intermedi nelle trasformazioni cellulari dell’energia e nella biosintesi di vari composti complessi come amminoacidi, zuccheri, nucleotidi, acidi grassi, glicerolo. Legando insieme questi composti complessi, che possono essere considerati come blocchi da costruzione, si ottengono le macromolecole: proteine, polisaccaridi, polinucleotidi (DNA, RNA) e lipidi. Interazioni fra queste macromolecole formano dei livelli superiori di organizzazioni strutturali, cioè complessi sopramolecolari, che svolgono importanti funzioni
Introduzione
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cellulari. Un esempio sono i complessi enzimatici, i ribosomi, i cromosomi. Questi complessi sopramolecolari sono tenuti insieme da interazioni non covalenti fra le macromolecole: legami a idrogeno, attrazioni ioniche, forze di Van der Waals e interazioni idrofobiche. Sebbene queste forze non covalenti siano deboli (meno di 40 KJ/mole), i legami sono tanti e quindi tutti insieme riescono a mantenere l’architettura essenziale del complesso sopramolecolare. Ovviamente tutto ciò deve accadere in condizioni di temperatura, pH e forza ionica compatibili con la vita. La cellula è l’unità della vita La cellula è la più piccola entità capace di svolgere le funzioni dell’essere vivente: la crescita, il metabolismo, la risposta agli stimoli e la replicazione. Gli organelli subcellulari sono entità di dimensioni considerevoli, che si trovano solo nelle cellule eucariotiche, cioè appartenenti agli organismi superiori: all’interno di essi si svolgono le reazioni metaboliche. Gli organelli subcellulari che, come dice il nome stesso, sono inclusi nella cellula e sono di solito delimitati da membrane comprendono: il nucleo, i mitocondri, i cloroplasti, i vacuoli ed altri organelli più piccoli, come i lisosomi, i perossisomi e i cromoplasti. Qui di seguito citeremo i più importanti. Il nucleo porta l’informazione genetica, contenuta nelle sequenze lineari di nucleotidi nel DNA dei cromosomi. Nei mitocondri avviene il catabolismo aerobico di carboidrati e lipidi, con rilascio di energia che viene conservata in forme utilizzabili metabolicamente come l’ATP. I cloroplasti sono gli agenti biologici che raccolgono l’energia luminosa e la trasformano in energia chimica utilizzabile nel metabolismo durante la fotosintesi. Le membrane cellulari delimitano i confini delle cellule e degli organelli subcellulari. Sono complessi di lipidi e proteine tenuti insieme da forze non covalenti, fra cui particolarmente importanti sono le interazioni idrofobiche. Queste interazioni riflettono la tendenza delle molecole non polari a riunirsi insieme separandosi dal solvente polare per
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Capitolo I
eccellenza, l’acqua. La riunione spontanea delle membrane in ambiente acquoso dove la vita è nata e viene mantenuta è il naturale risultato del loro carattere idrofobico. Le membrane di nuclei, organelli e cloroplasti sono diverse l’una dall’altra: ciascuna di esse ha una sua propria composizione in proteine e lipidi legata alle funzioni dell’organello. Inoltre la compartimentazione entro le cellule non è solo una conseguenza inevitabile della presenza delle membrane, ma anche una condizione essenziale per il buon funzionamento dell’organello. Proprietà delle biomolecole e loro adattamento alle condizioni della vita Le macromolecole delle cellule viventi sono costituite da unità (amminoacidi nelle proteine, carboidrati nei polisaccaridi) che hanno una polarità strutturale. Cioè le molecole non sono simmetriche e quindi possono essere pensate come composte di una “testa” e di una “coda”. La polimerizzazione che porta a collegare queste unità per formare macromolecole avviene tramite connessioni lineari testa-coda. A causa di ciò, anche i polimeri hanno una testa ed una coda e quindi la molecola ha un “senso” o una direzione nella sua struttura. Da ciò deriva che i blocchi che la compongono, quando vengono letti nella direzione della lunghezza della molecola possono fornire delle informazioni, come le lettere dell’alfabeto possono formare parole quando siano messe una accanto all’altra. Non tutte le macromolecole sono ricche di informazioni: i polisaccaridi sono spesso composti dallo stesso zucchero che si ripete molte volte, come nell’amido e nella cellulosa, che sono omopolimeri costituiti sempre dalla stessa molecola di D-glucosio. Proteine e polinucleotidi invece sono costituiti da blocchi che non costituiscono una struttura ripetitiva: le loro sequenze sono uniche, e nella loro unicità sta il loro significato. Infatti le proteine, sebbene siano costituite da sequenze lineari di amminoacidi legati covalentemente gli uni agli altri, possono torcersi, avvolgersi e disporsi in tre dimensioni costituendo una architettura specifica ed altamente ordinata che è caratteristica di ogni molecola proteica e la identifica fra le altre.
Introduzione
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Le forze che mantengono le strutture biologiche Nelle molecole gli atomi sono in genere tenuti insieme da legami covalenti e da legami ionici. Altre forze attrattive deboli sono i legami a idrogeno, le forze di van der Waals, e le interazioni idrofobiche. Nessuna di queste forze tuttavia riesce da legare stabilmente insieme due atomi. L’energia messa in gioco da queste forze per tenere insieme le molecole è solo di poco superiore alla tendenza che hanno le molecole ad allontanarsi per l’agitazione termica: quindi, nelle condizioni fisiologiche, i legami si potrebbero creare e rompere in continuazione. Tuttavia, se il numero di legami è molto grande, la struttura acquista stabilità per l’azione cumulativa di molte forze deboli che agiscono insieme. Esaminiamo ora queste forze: 1) Forze di attrazione di van der Waals Sono il risultato di interazioni elettrostatiche indotte fra atomi o molecole molto vicini fra loro. Sono dovute alla fluttuazione della nuvola elettronica carica negativamente che ruota intorno a ciascun nucleo. Si formano dei dipoli momentanei che, se di carica opposta, si attraggono. La forza di questi legami è inversamente proporzionale alla sesta potenza della distanza. 2) Legami a idrogeno Si formano fra un atomo di H legato covalentemente ad un atomo elettronegativo (come O o N) e un altro atomo elettronegativo che serve da accettore. Sono legami più forti di quelli di van der Waals e sono anche direzionali: cioè si formano legami lineari fra donatore, idrogeno ed accettore. Sono anche più specifici di quelli di van der Waals perchè richiedono la presenza di gruppi donatori ed accettori complementari. 3) Interazioni idrofobiche Sono dovute alla forte tendenza dell’acqua a escludere gruppi o molecole non polari. Le interazioni idrofobiche prendono origine non tanto da una affinità intrinseca delle sostanze non polari fra loro, ma dal fatto che le molecole d’acqua preferiscono interagire più fortemente fra loro, escludendo i gruppi non polari. Questa esclusione fa sì che
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Capitolo I
le sostanze non polari si aggreghino fra loro formando dei “cluster” in soluzione acquosa. Così, le zone non polari delle macromolecole biologiche stanno confinate all’interno della molecola per escludere il mezzo acquoso. Un esempio sono le goccioline d’olio che si formano e che tendono ad aggregarsi alla superficie dell’acqua. Caratteristiche delle principali classi di biomolecole Le biomolecole sono necessarie per generare, mantenere e perpetuare la vita. Alcune sono più complesse, altre meno, ma tutte ugualmente importanti. La maggior parte dei costituenti molecolari dei sistemi viventi è composta di atomi di carbonio legati con legami covalenti ad altri atomi di carbonio o ad atomi di idrogeno, di ossigeno e di azoto. La materia vivente è infatti composta per il 99% di questi quattro elementi. Idrogeno ed ossigeno sono abbondanti perché sono i costituenti dell’acqua, che è il composto più importante in assoluto in tutti gli organismi. Il restante 1% é formato da Ca, P, K, S, Cl, Na e Mg e meno dello 0.01% da elementi in tracce, che tuttavia assolvono a precise funzioni metaboliche. Le particolari proprietà di legame del carbonio, che è sempre tetravalente ma che può condividere fino a 6 elettroni con se stesso o con un altro atomo, consentono la formazione di un gran numero di molecole. I composti organici con massa molecolare relativamente bassa (inferiore a 500) servono come sub-unità monomeriche che sono costituenti delle macromolecole, composti organici che mantengono in vita le cellule e permettono loro di riprodursi. Le quattro classi principali di biomolecole sono: carboidrati, lipidi, proteine e acidi nucleici. I carboidrati ed i lipidi sono sostanze di riserva che forniscono l’energia necessaria per fare avvenire migliaia di reazioni chimiche e che svolgono anche altre funzioni di primaria importanza. I carboidrati ed i lipidi sono usati principalmente come fonti di energia e solo in casi particolari come materiali da costruzione (ad es. la cellulosa). Proteine ed acidi nucleici invece hanno compiti strutturali e funzionali. E’ questa una divisione di compiti molto importante su cui è bene richiamare l’attenzione. Fra i carboidrati il più importante è il glucosio, fonte di energia per tutti gli organismi. Possiamo quindi dire che il
Introduzione
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glucosio è il carburante per eccellenza della cellula vivente. Come sostanze di riserva costituita da molecole di glucosio troviamo l’amido nelle piante ed il glicogeno negli animali. Carboidrati e lipidi sono dunque riserve energetiche che permettono ai sistemi viventi di compiere trasformazioni che dipendono non solo da quanti materiali nutritivi introducono quotidianamente ma anche dalla capacità di immagazzinare e sfruttare in un secondo tempo quelli non utilizzati immediatamente. Le proteine sono i costituenti strutturali di tutti i sistemi viventi e formano le impalcature che danno ad ogni organismo una forma ed una funzione precisa. Le proteine sono anche i costituenti di una importantissima classe di composti, gli enzimi, che sono insostituibili catalizzatori biologici. Sono gli enzimi, migliaia per ogni cellula, che decidono, con la loro estrema selettività, quale biomolecola deve essere prodotta o eliminata in un certo momento della vita cellulare. Gli acidi nucleici sono le strutture nelle quali sono codificate le caratteristiche genetiche della specie e dell’individuo. In particolare il DNA (acido desossiribonucleico) costituisce i geni, il materiale fondamentale dell’ereditarietà, del processo cioè che trasferisce l’informazione contenuta nei geni da una cellula madre alla cellula figlia. Ognuna di queste classi di composti verrà trattata esaurientemente nel capitolo ad essa dedicato. Il metabolismo cellulare Le trasformazioni realizzate dai sistemi viventi costituiscono il metabolismo, parola greca che significa “cambiamento”. Il metabolismo è un insieme di processi attraverso il quale molecole grandi e complesse sono ridotte a molecole semplici (in tal caso si parla di catabolismo, o distruzione) che, a loro volta, possono essere nuovamente utilizzate per formare altre molecole (anabolismo, o costruzione), che sono alla base del funzionamento dell’intero ciclo vitale. Queste serie di reazioni vengono dette vie metaboliche. Queste vie possono essere lineari, che partono cioè da un composto per giungere ad un prodotto finale diverso da quello di partenza, o cicliche, in cui il
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Capitolo I
prodotto finale è lo stesso di quello iniziale. In ogni caso, a differenza di quanto avviene nelle reazioni organiche o inorganiche in laboratorio, il prodotto di una reazione diventa il reagente della successiva. Inoltre, tutte le parti di un organismo vivente devono operare alla stessa temperatura e alla stessa pressione. Le cellule sono isotermiche, cioè sono sistemi che funzionano a temperatura costante. Anche in questo tipo di reazioni esistono catalizzatori, composti organici di cui parleremo per esteso in seguito, che hanno caratteristiche particolarissime e sono detti enzimi. Produzione e consumo di energia metabolica Le cellule e gli organismi, per funzionare, hanno bisogno di un continuo apporto di energia, senza la quale tenderebbero a decadere verso stati energetici sempre più bassi e disordinati. Tutti i processi di sintesi richiedono energia, sia nel mondo inorganico che negli organismi viventi: in questi ultimi le cellule hanno sviluppato efficientissimi meccanismi per catturare l’energia della luce solare oppure per estrarla dai legami che tengono insieme gli atomi delle sostanze ossidabili. L’energia così ottenuta potrà essere utilizzata per far avvenire processi non spontanei, cioè che richiedono energia. I principi fondamentali che governano le trasformazioni e gli scambi di energia negli organismi viventi costituiscono la bioenergetica. I pilastri fondamentali delle bioenergetica (di cui parleremo in modo dettagliato più avanti, nel capitolo dedicato) sono: • Tutti gli organismi viventi creano e conservano le loro strutture complesse ed ordinate utilizzando l’energia estratta da composti chimici o dalla luce solare. • In ogni modificazione fisica o chimica la quantità totale di energia rimane costante anche se la forma di energia può cambiare. • Le cellule sono motori chimici che operano a temperatura costante. • Le richieste energetiche di quasi tutti gli organismi sono soddisfatte in modo diretto o indiretto dall’energia solare. • Il flusso di elettroni nelle reazioni di ossido-riduzione è alla base della formazione di energia cellulare.
Introduzione
•
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Tutti gli organismi viventi dipendono gli uni dagli altri attraverso scambi di energia e materia mediati dall’ambiente.
Il punto centrale della bioenergetica è il modo in cui l’energia, liberata dalla combustione di sostanze nutrienti o dalla cattura della luce solare, viene utilizzata dalle reazioni che richiedono energia. Come per la materia inorganica, anche per i sistemi biologici sono valide le leggi della chimica e della fisica. Quindi sarà valido il I° Principio della termodinamica, che dice che, in ogni variazione chimica o fisica, la quantità totale di energia dell’universo resta costante, anche se la forma dell’energia può variare. La quantità di energia immediatamente disponibile per produrre lavoro si chiama energia libera e si indica con la lettera G. Questa energia non rappresenta tutta l’energia messa in gioco nelle trasformazioni dette sopra perché una parte di essa viene dissipata sotto forma di entropia, che aumenterà il disordine del sistema (2° principio della termodinamica) Le reazioni chimiche che avvengono in un sistema chiuso procedono spontaneamente finché non raggiungono l’equilibrio, stato in cui la velocità di formazione dei prodotti diventa uguale a quella in cui i prodotti si ritrasformano nei reagenti. La variazione di energia quando il sistema passa dallo stato iniziale a quello di equilibrio, a pressione e temperatura costanti, si chiama variazione di energia libera ∆G. Il valore di ∆G dipende dalla natura della reazione e da quanto prodotti e reagenti sono lontani dall’equilibrio. Nelle reazioni in cui i prodotti hanno meno energia libera dei reagenti, cioè hanno maggiore stabilità, si avrà un eccesso di energia libera che può essere utilizzata per compiere un lavoro. Tali reazioni si dicono esoergoniche o spontanee e il ∆G acquista valore negativo, ∆G 0. Gli organismi viventi hanno superato questo scoglio accoppiando reazioni endoergoniche, che quindi non potrebbero mai avvenire spontaneamente, con reazioni esoergoniche che le rendono possibili. L’accoppiamento di questi due tipi di reazioni è un aspetto essenziale degli scambi energetici delle cellule. La reazione esoergonica che fa-
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Capitolo I
vorisce la maggior parte dei processi endoergonici delle cellule è l’idrolisi di una molecola particolare, l’Adenosin Tri Fosfato (ATP), che è il principale trasportatore di energia nelle cellule ed è il punto di unione fra i processi endo- ed eso-ergonici. L’ATP si scinde in ADP (Adenosin Di Fosfato) e Pi, fosfato inorganico. Il gruppo fosforico terminale dell’ATP viene trasferito ad un gran numero di accettori che vengono così attivati e possono subire quindi una molteplicità di trasformazioni chimiche. Alla luce di queste considerazioni possiamo quindi enunciare altre regole fondamentali della bioenergetica: • • •
Le reazioni cellulari endoergoniche sono guidate dall’accoppiamento con processi chimici o fotochimici esoergonici attraverso la formazione di intermedi chimici; L’ATP è il trasportatore universale dell’energia metabolica ed accoppia il catabolismo con l’anabolismo; Le cellule sono motori chimici auto-regolati che procedono secondo il principio della massima economia.
GLI AMMINOACIDI Gli amminoacidi sono importanti costituenti delle cellule viventi, sono infatti le unità strutturali di base delle proteine. Sono paragonabili ai mattoni con cui viene costruita una casa: ne sono l’elemento più semplice e fondamentale e le conferiscono le caratteristiche più utili alle esigenze di chi la costruisce. Come si può dedurre dal nome, nella molecola di ogni amminoacido è presente almeno un gruppo amminico (–NH2) e un gruppo acido, in genere carbossilico (–COOH), legati allo stesso atomo di carbonio. Sono inoltre presenti un atomo di idrogeno e un gruppo funzionale di varia natura. L’esistenza di almeno due gruppi fortemente polari e la possibilità di formazione di legami a idrogeno spiega le caratteristiche fisiche degli amminoacidi, che sono tutti solidi cristallini con punto di fusione elevato. Anche la loro solubilità in acqua è elevata, anche se è legata alla natura della catena laterale. Nel corso dell’evoluzione gli esseri viventi hanno selezionato un ristretto gruppo di amminoacidi, costituito da venti elementi, che sono i costituenti delle proteine. Questi composti, definiti amminoacidi proteici, hanno alcune caratteristiche comuni: 1) sono α-amminoacidi, cioè hanno il gruppo amminico ed il gruppo carbossilico legati all’atomo di carbonio in posizione α, cioè sul primo C della catena dopo il gruppo carbossilico. Fa eccezione la prolina perché la catena laterale è legata oltre che al carbonio α anche all’atomo di azoto collegato a quest’ultimo. La prolina è in realtà un imminoacido (–NH–) e non un amminoacido (–NH2). 2) gli amminoacidi differiscono fra loro per la natura chimica del gruppo R, che è legato allo stesso atomo di carbonio α ed è detto catena laterale. Il gruppo R può essere costituito da una catena idrocarburica a cui può essere legato un altro gruppo carbossilico, un altro gruppo amminico, o un gruppo di altra natura. 3) tutti gli amminoacidi hanno quattro sostituenti diversi legati al carbonio α , che è quindi un carbonio asimmetrico o carbonio chirale.
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Capitolo II
La formula generale degli amminoacidi è riportata in sintesi in Figura 1 dove a pH 7,0 il gruppo amminico è protonato (–NH3+) e il gruppo carbossilico ha perso l’idrogeno (–COO-). La carica netta è ancora zero, ma la molecola è in realtà uno ione dipolare o zwitterione.
Figura 1. Struttura di un amminoacido generico.
4) tutti gli amminoacidi, tranne la glicina che ha due sostituenti uguali (due atomi di H), sono molecole chirali (Figura 2). Cioè possono presentarsi in forme speculari non sovrapponibili, come non lo sono la mano destra e la sinistra. Vengono detti anche isomeri ottici o enantiomeri.
Figura 2. Molecole chirali come immagini non sovrapponibili.
L’isomeria in chimica organica è il fenomeno per cui due o più composti presentano la stessa formula bruta, sono cioè costituiti dallo stesso tipo e numero di atomi, hanno uguali proprietà chimiche e fisiche, ma differiscono nelle formule di struttura, cioè nella disposizione spaziale degli atomi e dei relativi legami chimici. Gli isomeri ottici
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hanno inoltre la particolarità di ruotare in modo opposto il piano della luce polarizzata. Tutti i composti che ruotano il piano della luce polarizzata si definiscono otticamente attivi ed il senso di rotazione viene indicato con il segno più (+) o meno (–). Rispetto alla configurazione nello spazio dei vari gruppi intorno al carbonio α, gli amminoacidi sono classificati come D o L (Figura 3). Per convenzione (secondo Fischer) il gruppo più ossidato (–COO-) si scrive in alto con i legami verticali che si allontanano dall’osservatore ed i legami orizzontali che si avvicinano all’osservatore. Se il gruppo amminico si trova a sinistra l’amminoacido è L, se si trova a destra l’amminoacido è D. In realtà gli amminoacidi proteici appartengono sempre alla serie L e, con rare eccezioni, solo questi isomeri partecipano alle reazioni cellulari. Questa particolarità non è stata ancora spiegata in maniera soddisfacente. L’ipotesi più probabile è che la selezione degli isomeri L piuttosto che i D sia avvenuta casualmente all’inizio dell’evoluzione e sia stata mantenuta.
Figura 3. Isomeri D e L secondo la convenzione di Fisher.
Nelle tabelle 1-3 sono riportate le strutture dei 20 amminoacidi presenti nelle proteine, raggruppati secondo uno dei possibili criteri di classificazione, in base alle diverse proprietà che il gruppo funzionale R apporta alla molecola:
Capitolo II
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• • •
gruppi R idrofobici (Tabella 1) gruppi R idrofili non carichi (Tabella 2) gruppi R idrofili carichi, acidi e basici (Tabella 3).
Gli amminoacidi vengono spesso indicati con una abbreviazione a tre lettere o mediante il simbolo ad una lettera. Le abbreviazioni sono quasi sempre costituite dalle prime tre lettere del nome inglese (Cys per la cisteina, Ala per l’alanina, Arg per l’arginina e così via). Fanno eccezione l’asparagina (Asn), la glutammina (Gln), la isoeucina (Ile) ed il triptofano (Trp). I simboli ad una lettera derivano per molti amminoacidi dalla prima lettera del loro nome, ma poiché alcuni hanno la stessa iniziale si è ricorsi a convenzioni. Comunque le abbreviazioni a tre lettere sono generalmente da preferirsi perché sono più pratiche e generano meno confusione. Nelle rappresentazioni 3D riportate nelle tabelle con il colore violetto si indica l’atomo di azoto del gruppo amminico (–NH3+), con il colore rosso gli atomi di ossigeno del gruppo carbossilico (–CO2-) e con il giallo l’atomo di zolfo dei gruppi R della cisteina e della metionina. Con il grigio scuro e grigio chiaro si indicano rispettivamente gli atomi di carbonio e di idrogeno.
Amminoacidi e peptidi
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Tabella 1. Amminoacidi con gruppi R idrofobici.
Nome
Sigla
Glicina
Gly (G)
Alanina
Ala (A)
Valina
Val (V)
Leucina
Leu (L)
Isoleucina
Ile (I)
Metionina
Met (M)
Prolina
Pro (P)
Fenilalanina
Phe (F)
Triptofano
Trp (W)
Formula di struttura
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Tabella 2. Amminoacidi con gruppi R idrofili non carichi.
Nome
Sigla
Serina
Ser (S)
Treonina
Thr (T)
Asparagina
Asn (N)
Glutammina
Gln (Q)
Tirosina
Tyr (Y)
Cisteina
Cys (C)
Formula di struttura
3D
Amminoacidi e peptidi
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Tabella 3. Amminoacidi con gruppi R idrofili carichi (acidi e basici). Nome
Sigla
Lisina
Lys (K)
Arginina
Arg (R)
Istidina
His (H)
Ac. Aspartico/ Aspartato
Asp (D)
Ac. Glutammico/ Glutammato
Glu (E)
Formula di struttura
3D
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Capitolo II
Particolarità di alcuni amminoacidi Amminoacidi con gruppi R idrofobici. La glicina è l’amminoacido strutturalmente più semplice con il gruppo R costituito solamente da un atomo di idrogeno e avendo due sostituenti uguali (due atomi di H) legati al carbonio α, è il solo che non è chirale. Quattro amminoacidi (Ala, Val, Leu, Ile) hanno catene laterali costituite da idrocarburi saturi, cioè che non contengono doppi legami. Sono molecole poco reattive che rivestono un ruolo importante nel determinare e mantenere la struttura tridimensionale delle proteine. Il ripiegamento delle catene polipeptidiche in genere avviene in modo tale che gli amminoacidi idrofobici restino rivolti verso l'interno della molecola e che quelli idrofilici siano, invece, rivolti verso l'esterno, dove sono liberi di interagire con altri composti. L’alanina è l’amminoacido più abbondante nella maggior parte delle proteine. La metionina è uno dei due amminoacidi contenenti zolfo la cui catena laterale R contiene un gruppo metiltioetere: - R = – CH2CH2 – S – CH3 Come ricordato sopra solo la prolina non possiede un gruppo amminico ed uno carbossilico legati al carbonio in α, poiché il gruppo amminico è sostituito da un gruppo –NH imminico nella formula ciclica di questo composto. Spesso la sua presenza condiziona la geometria della proteina di cui fa parte, provocando bruschi cambiamenti di direzione del filamento polipeptidico o interruzioni della catena. La fenilalanina e il triptofano hanno catene laterali aromatiche altamente idrofobiche che spesso si posizionano nell’interno delle proteine globulari. Amminoacidi con gruppi R idrofili non carichi. La catena laterale della serina contiene un gruppo R ossidrilico (– OH) che possiamo ritrovare nei siti catalitici di alcuni enzimi dove si mostra particolarmente reattivo.
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Anche la treonina ha un ossidrile nella catena laterale, ma non è reattivo come quello della serina. Asparagina e glutammina sono le ammidi di altri due amminoacidi, rispettivamente l’acido aspartico e l’acido glutammico. In questi il gruppo carbossilico (–COO-) è sostituito da un gruppo ammidico terminale (–CO–NH2). La tirosina si forma dalla fenilalanina, per sostituzione di un H con un gruppo ossidrilico (–OH) in posizione para che trasforma la catena laterale R da idrofoba a idrofila.
Figura 4. Formazione di un legame disolfuro tra due molecole di Cys.
La cisteina è con la metionina il secondo amminoacido che contiene zolfo. Possiede un gruppo solfidrilico (–SH) chimicamente reattivo nella catena laterale. Il suo idrogeno può formare legami a H deboli con l’ossigeno e con l’azoto. Inoltre può anche formare con un’altra molecola di cisteina un legame covalente disolfuro –S–S– costituendo un nuovo amminoacido detto cistina, importante nella struttura primaria delle proteine perché in esse può indurre ripiegamenti o rotture nella catena di amminoacidi. Il legame o ponte disolfuro ha una grande importanza nella struttura delle proteine perché può mettere in connessione catene separate o formare legami crociati tra residui di cisteina della stessa catena (Figura 4).
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Capitolo II
Amminoacidi con gruppi R idrofili carichi. Gli amminoacidi che a pH fisiologico hanno cariche nette positive sono la lisina e l’arginina, che spesso partecipano alla formazione di interazioni elettrostatiche all’interno delle proteine. L’istidina può essere carica positivamente o essere priva di carica in funzione dell’ambiente circostante e per questa caratteristica si trova spesso nel sito attivo degli enzimi, dove gioca un ruolo importante nel catalizzare la formazione e la rottura di legami. La presenza nelle catene laterali di un gruppo imidazolico (Hys) di un gruppo guanidinico (Arg) e di un gruppo amminico (Lys), che sono sempre basi secondo Lewis hanno cioè doppietti elettronici condivisibili con altre molecole e possono essere protonati, fa sì che questi siano chiamati anche amminoacidi basici. Esistono infine due aminoacidi che possiedono catene laterali con un gruppo carbossilico acido, l’acido aspartico e l’acido glutammico, classificati anche come amminoacidi acidi. Questi vengono generalmente chiamati aspartato e glutammato per sottolineare che le loro catene laterali sono quasi sempre cariche negativamente a pH fisiologico. Molte proteine che contengono metalli per funzioni strutturali o funzionali hanno, per questi siti di legame, una o più catene laterali di aspartato e glutammato. Acidità e basicità degli amminoacidi A causa della presenza nella stessa molecola di due gruppi dal comportamento chimico antitetico, come il carbossile che tende alla dissociazione acida ed il gruppo amminico che tende alla protonazione, gli amminoacidi sono da considerarsi composti anfoteri e la loro forma ionica dipende dal pH a cui si trovano. In soluzione neutra (pH 7,0) gli amminoacidi sono presenti in prevalenza come molecole dipolari (dette anche zwitterioni) in cui sia il gruppo amminico (-NH3+) che il gruppo carbossilico (-COO ) legati al carbonio α sono ionizzati. A pH acido o basico tipo e grado di ionizzazione cambiano e varia la forma predominante.
Amminoacidi e peptidi
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Figura 5. Gli stati di ionizzazione dipendono dal pH.
Per gli amminoacidi che hanno gruppi ionizzabili nella catena laterale, vanno considerati anche gli equilibri di dissociazione di questi gruppi. Poiché le trasformazioni da catione ad anione e viceversa sono funzione dell’acidità o dell’alcalinità del mezzo, esiste chiaramente un valore di pH intermedio a cui l’amminoacido presenta carica netta complessivamente uguale a zero, avendo assunto la forma di ione bipolare. Tale pH, diverso a seconda delle diverse caratteristiche dei vari amminoacidi, prende il nome di punto isoelettrico.
I PEPTIDI Quando due amminoacidi si uniscono in una reazione analoga a quella con cui si formano le proteine, il gruppo amminico in α di un amminoacido reagisce con il gruppo carbossilico in α di un altro amminoacido, con eliminazione di una molecola di acqua. La nuova molecola è un peptide. A seconda che gli amminoacidi siano due, tre, pochi o molti si avranno composti denominati dipeptidi, tripeptidi, oligopeptidi o polipeptidi. Generalmente per catene con più di 100 amminoacidi, si parla di proteine. Il legame –CO-NH- che si forma fra gli amminoacidi in sequenza è un legame ammidico, che è caratteristico dei peptidi e delle proteine e perciò viene anche detto legame peptidico o legame proteico. I gruppi
Capitolo II
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R delle catene laterali, anche se sono a loro volta gruppi amminici o carbossilici, non entrano mai a far parte di questo legame (Figura 6).
Figura 6. Reazione di formazione di un legame peptidico
Il legame peptidico può avere due forme di risonanza fra due strutture limite, a causa della delocalizzazione della coppia di elettroni π fra il carbonio e l’ossigeno e del doppietto elettronico non condiviso sull’atomo di azoto. Quindi il legame C-N non ha carattere di legame semplice puro, ma ha un parziale carattere di doppio legame (Figura 7).
Figura 7. Forme di risonanza del legame peptidico
Ciò è stato dimostrato sperimentalmente da misure di lunghezza di legame: infatti mentre un legame C–N semplice misura 1,45 Å1 e quello doppio C=N 1,27 Å, la lunghezza di un legame peptidico trovata è di 1,32 Å, una misura intermedia (Figura 8).
1
L’Angstrom (Å) è un’unità di lunghezza equivalente a 10
–10
m.
Amminoacidi e peptidi
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Figura 8. Dimensioni standard del gruppo peptidico
Il legame peptidico, avendo carattere parziale di doppio legame è rigido e planare (piano ammidico). Poiché invece la rotazione dei legami C α–C e C α–N è libera, attorno al legame peptidico sono possibili le due configurazioni cis e trans rappresentate nella Figura 9. Il gruppo amminico –NH è quasi sempre in posizione trans rispetto al gruppo carbonilico –C=O perché esiste una repulsione sterica, o spaziale, che porta la conformazione trans ad essere più stabile della cis.
Figura 9. Configurazioni cis-trans del legame peptidico
Quando si forma un peptide, o una proteina, la quasi totalità dei gruppi amminici e carbossilici ionizzabili degli amminoacidi sono impegnati nei legami peptidici, per cui i gruppi ionizzabili disponibili e quindi responsabili della carica elettrica complessiva sono quelli pre-
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Capitolo II
senti nelle catene laterali R, oltre ai gruppi amminici e carbossilici liberi alle due estremità di ogni catena peptidica. L’unico gruppo amminico libero è detto terminale amminico e viene sempre considerato l’inizio della catena polipeptidica. L’ultimo amminoacido è il solo ad avere il gruppo carbossilico libero e viene chiamato terminale carbossilico . Gli amminoacidi legati a formare la catena peptidica prendono la desinenza –il se hanno impegnato il gruppo carbossilico: l’ultimo, che ha il gruppo carbossilico libero conserva il proprio nome invariato: Es. il glutatione, un tripeptide, è una glutammil- cisteinil-glicina. Una catena polipeptidica consiste di una parte che si ripete regolarmente, detta catena principale o scheletro covalente, e di una parte variabile che comprende le catene laterali caratteristiche di ciascun amminoacido. Ogni residuo contiene un gruppo C=O, buon accettore di legami a idrogeno, ad eccezione della prolina, e un gruppo –NH- , buon donatore di legami a idrogeno. Questi gruppi interagiscono fra loro e con i gruppi funzionali delle catene laterali per stabilizzare particolari strutture.
LE PROTEINE Le proteine costituiscono una classe di sostanze organiche di fondamentale importanza biologica. Sono le molecole funzionali per eccellenza della cellula che, attraverso esse, può svolgere tutte le funzioni alla base della vita. Il loro nome infatti deriva dal greco protos che significa il primo, il principale. Sono molecole di grandi dimensioni, con un peso molecolare che può variare da meno di 10.000 a più di 100.000 dalton1. Nonostante la loro complessità hanno una notevole uniformità nella struttura di base, che è formata dall’unione di un numero più o meno elevato di semplici unità elementari, gli amminoacidi, sempre gli stessi in tutte le proteine di tutti gli organismi conosciuti. Ogni proteina ha un proprio lavoro da svolgere in una cellula, nella matrice extracellulare e nei fluidi corporei degli organismi pluricellulari. Questo lavoro è integrato nella dinamica cellulare e regolato in base alle esigenze della cellula o dell’organismo. Le proteine hanno varie funzioni: a) sono catalizzatori biologici: quasi tutte le reazioni che avvengono a livello cellulare infatti devono essere accelerate e quindi necessitano di catalizzatori. Alla temperatura a cui vivono le cellule le reazioni anche se spontanee, quindi che non necessitano di energia dall’esterno, avverrebbero in modo spontaneo in tempi estremamente lunghi, a causa della loro elevata energia di attivazione. Occorre quindi aumentare in modo significativo la loro velocità. I catalizzatori proteici preposti a questa funzione sono detti enzimi (vedi capitolo Enzimi) ed hanno un ruolo di primaria importanza nella vita cellulare. Esempi: la pepsina, per la degradazione delle proteine, la ribonucleasi, per la degradazione dell’RNA (acido ribonucleico), la catalasi, per trasformare l’ acqua ossigenata in ossigeno ed acqua. b) sono trasmettitori di segnali chimici: gli organismi pluricellulari complessi devono poter regolare l’attività biochimica delle cellule vicine o che appartengono ad organi o tessuti diversi.
1
12
Il dalton è l’unità di massa corrispondente a 1/12 della massa di un atomo di C, praticamente uguale a quella di un atomo di idrogeno. 31
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Capitolo III
L’apparato endocrino è responsabile di questa coordinazione attraverso la produzione di ormoni, molti dei quali sono proteine. Altre proteine costituiscono i recettori, che riconoscono i segnali chimici portati dagli ormoni e da altre sostanze, come i trasmettitori di impulsi nervosi. Esempio: l’insulina, che regola l’utilizzo del glucosio da parte delle cellule. c) servono come protezione: costituiscono cioè sostanze che si oppongono alla penetrazione di agenti estranei per mantenere costante l’ambiente interno. Questa funzione è svolta dagli anticorpi, armi chimiche di natura proteica che servono al sistema immunitario per proteggere l’organismo da sostanze estranee, gli antigeni. Esempio: le immunoglobuline G, anticorpi del sangue, prodotti in seguito all’ingresso di sostanze estranee. d) possono essere contrattili, capaci cioè di allungarsi o contrarsi o di associarsi per poter scorrere le une sulle altre, permettendo quindi alle singole cellule di cambiare forma a seconda delle condizioni o addirittura di spostarsi. Anche a livello delle singole cellule, il movimento è affidato a singole proteine, diffuse nelle cellule eucariotiche, che partecipano alla costituzione di microtubuli, microfilamenti e flagelli, particolarmente abbondanti nel tessuto muscolare. e) hanno funzioni di trasporto: sono necessarie agli organismi pluricellulari per trasferire molecole e ioni da un organo all’altro quando questi devono essere utilizzati in altri compartimenti o dall’esterno all’interno delle cellule. Si tratta di proteine specifiche che si trovano nei liquidi circolanti o sulla membrana cellulare. Esempio: emoglobina e mioglobina, proteine trasportatrici di ossigeno rispettivamente nel sangue e nel muscolo. La stessa molecola porta via l’anidride carbonica di scarto. f) hanno funzioni di riserva: costituiscono materiale da utilizzare in caso di bisogno o necessarie all’embrione per il proprio sviluppo (proteine dell’uovo, dell’endosperma dei semi ecc.). Esempio: l’ovalbumina, nell’albume dell’uovo, per il nutrimento dell’embrione o la ferritina, una proteina che trattiene gli ioni ferrosi nel fegato, nella milza o nel midollo osseo e li rilascia quando siano necessari a specifiche sintesi. g) hanno funzione strutturale, servono cioè per il sostegno di strutture ed organi o per la protezione di superfici delicate, come le muco-
Le proteine
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se. Stanno spesso fuori delle cellule e in molti casi tengono insieme gruppi di cellule negli organi e nei tessuti. Le proteine strutturali sono molte e di vario tipo. Esempio: il collagene e l’elastina, proteine fibrose dei tessuti connettivi che danno resistenza ed elasticità a tendini, ossa e pelle. Cartilagini, capelli e unghie sono costituiti in gran parte da proteine. La funzione strutturale è spesso associata ad altre funzioni. h) hanno funzione di controllo: la trasmissione genetica da un organismo alla sua discendenza è sotto stretto controllo di numerose proteine. i) sono accettori, conduttori e trasformatori di energia: si tratta di attività complesse, molto diversificate, che hanno lo scopo fondamentale di rendere disponibile alle cellule l’energia sotto una forma che esse possano utilizzare. Ad es., quando la luce colpisce la retina dell’occhio è necessaria una proteina che, con la vitamina A ad essa associata, trasforma l’energia luminosa in un impulso elettrico che viene trasferito al cervello. l) possono funzionare come tamponi, possono cioè neutralizzare le basi e gli acidi presenti nell’ambiente biologico mediante i gruppi acidi e basici dei radicali R degli amminoacidi che le compongono. Questa caratteristica è molto importante per alcune proteine che devono tenere il sangue costantemente a pH= 7,35. Infatti una persona non può sopportare che variazioni minime di questo valore. Conformazione delle proteine Le proteine sono macromolecole costituite dall’unione di non più di 20 tipi diversi di amminoacidi, selezionati nel corso dell’evoluzione fra i tanti esistenti (vedi capitolo Amminoacidi). Le proteine sono catene lineari di amminoacidi ripiegate in modo da assumere una conformazione unica e caratteristica per ciascuna proteina. Per classificare una proteina si possono utilizzare vari schemi tra cui il più generale divide le proteine in semplici, cioè formate da soli amminoacidi e coniugate, legate a ioni metallici o a molecole organiche di natura non proteica.
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Un’altra classificazione tiene conto della conformazione delle proteine, dove per conformazione si intende la disposizione spaziale dei singoli gruppi funzionali presenti nella molecola, in seguito alla libera rotazione di questi intorno ai legami semplici. La conformazione dipende dalle interazioni reciproche di legami non covalenti (ionico, a idrogeno, dipolo-dipolo, idrofobico, di van der Waals) che conferiscono alla proteina una forma tridimensionale unica ed una funzionalità biologica specifica (Tabella 1). Tabella 1. I principali tipi di interazione presenti nelle proteine Nome
Tipo di interazione
Legame covalente
Condivisione di elettroni
Legame a idrogeno
Condivisione di un atomo di H
Legame ionico
Attrazione di cariche opposte
Distribuzione Forze di van asimmetrica di carica der Waals elettronica Interazione Esclusione del contatidrofobica to con l’acqua
Struttura
Le proteine
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La struttura delle proteine può essere suddivisa in quattro livelli di complessità differente schematizzati in Figura 1.
Figura 1. Schema dei livelli di organizzazione delle proteine
Il primo livello di organizzazione è dato dalla struttura primaria, che rappresenta l’ordine in cui gli amminoacidi si susseguono nella proteina, quindi la sequenza lineare di amminoacidi. La struttura primaria è costituita da legami covalenti, soprattutto legami peptidici e ponti disolfuro che uniscono i singoli amminoacidi in una struttura polipeptidica.
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In teoria si possono avere infinite proteine con la stessa composizione in amminoacidi ma con sequenza diversa (Figura 2).
Figura 2. Struttura primaria: sequenza lineare di residui amminoacidici
Molti laboratori biochimici si occupano di determinare le sequenze di amminoacidi di varie proteine e molte oggi sono le sequenze note. Le tecniche impiegate sono diverse e spesso assai sofisticate. Alterazioni anche minime delle sequenza di amminoacidi possono avere conseguenze gravi e essere all’origine di molte malattie, come l’anemia falciforme (o anemia mediterranea), che è caratterizzata dalla presenza nel sangue di globuli rossi a forma di mezzaluna (o di falce) che contengono una forma anomala di emoglobina. In una di queste forme di emoglobina un solo amminoacido, l’acido glutammico, è sostituito con la valina. La sostituzione quindi di un solo amminoacido su 146 basta a provocare una grave malattia. La struttura secondaria è un livello di organizzazione più complesso della struttura primaria e si riferisce a disposizioni particolarmente stabili dei residui di amminoacidi non troppo lontani fra loro, che danno origine ad organizzazioni ricorrenti. E’ costituita dalla formazione di legami a idrogeno fra un gruppo carbonilico (=CO) di un amminoacido della sequenza proteica ed il gruppo amminico (–NH2) di un amminoacido della stessa catena o di una catena vicina. Si possono avere due tipi di struttura: ad α-elica e a foglietto β ripiegato. La struttura ad α-elica è formata da una catena polipeptidica avvolta a spirale su se stessa in senso antiorario e conferisce alla struttura della proteina un’elevata flessibilità ed elasticità.
Le proteine
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Una unità ripetitiva dell’elica è formata da 3,6 residui di amminoacidi che occupano, lungo l’asse principale, uno spazio di 0,54 nm (Figura 3). I residui R dei vari amminoacidi sporgono in fuori della struttura a spirale ed interagiscono fra loro a seconda delle caratteristiche chimiche. La conformazione ad α-elica è quella che ha meno energia, quindi è la più stabile e la più probabile. La stabilità dell’ αelica deriva dalla presenza di moltissimi legami a idrogeno fra l’atomo di idrogeno del gruppo amminico e l’ossigeno del carbonile di due amminoacidi vicini nella sequenza. I legami a idrogeno in sé sarebbero legami deboli, ma diventano forti a causa del loro numero elevato.
Figura 3 Struttura secondaria: α-elica e foglietto β
Le α-eliche possono aggregarsi fra loro anche per mezzo dei gruppi –SH delle molecole di cisteina formando ponti disolfuro, con formazione di legami covalenti –S–S– molto stabili. Fra le strutture ad αelica la più tipica è quella della cheratina, proteina fibrosa presente nei capelli e nella pelle. Il collagene è la proteina più abbondante nei vertebrati. E’ costituito da fibrille con grande resistenza alla tensione che formano la componente principale del tessuto connettivo e sono formate da tre catene polipeptidiche avvolte su se stesse in modo diverso a seconda della funzione biologica (vedi anche Figura 8). Una tale struttura a volte viene definita come superelica. La proteina elastina, il costituente principale dei tendini, è molto simile al collagene ma a differenza di questo è elastica. La struttura β a foglietto ripiegato è tipica di poche proteine, in particolare della fibroina della seta e della tela di ragno (Figura 3).
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E’ una struttura a soffietto, costituita da foglietti β disposti parallelamente all’asse della fibra con molti legami a idrogeno intermolecolari, cioè fra catene diverse, che coinvolgono sempre un gruppo amminico e un gruppo carbonilico vicini tra loro. Questi legami si instaurano fra catene parallele di amminoacidi, mentre i radicali R stanno sopra o sotto la struttura a foglietto, alla massima distanza l’uno dall’altro. Nelle proteine globulari spesso si trovano raggruppamenti di strutture secondarie che formano una cosiddetta struttura supersecondaria che è intermedia fra la struttura secondaria e quella terziaria e rappresenta un ulteriore livello di organizzazione della proteina. La forma più comune è l’unità βαβ in cui la connessione tra due catene parallele consecutive è costituita da un’α-elica (Figura 4)
Figura 4. Rappresentazione schematica di un'unità βαβ
Le proteine
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Altre strutture supersecondarie comuni sono quella detta a greca perché ricorda motivi geometrici delle decorazioni delle ceramiche greche e il meandro β che è costituito da cinque strutture a foglietto β tra loro collegate e stabilizzate da legami a idrogeno (Figura 5).
Figura 5. Strutture supersecondarie a greca e meandro β
La struttura terziaria definisce la disposizione di tutti i suoi atomi nello spazio tridimensionale: è presente in tutte le proteine ma ha maggior importanza in quelle globulari (Figura 6).
Figura 6. Rappresentazione schematica di struttura terziaria
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Capitolo III
In tutte le zone dove non è possibile la formazione dell’α-elica si instaurano legami non covalenti fra tutti i residui R che si trovano occasionalmente abbastanza vicini da formare un legame. Possono essere legami a idrogeno, ma anche legami ionici fra residui R con cariche opposte, legami dipolo-dipolo e legami idrofobici che coinvolgono una associazione fra catene idrocarburiche non polari. I residui R idrocarburici degli amminoacidi non polari tendono a respingere l’acqua da cui è circondata la maggior parte delle proteine globulari (eccetto quelle nelle membrane cellulari) e quindi formano aggregati associandosi fra loro. Queste regioni non polari all’interno delle proteine globulari determinano la struttura terziaria e spesso sono responsabili di specifiche attività biologiche. La struttura quaternaria si ha quando più proteine interagiscono fra loro riunendosi in aggregati proteici più complessi. Ognuna delle proteine diviene così una sub-unità di una struttura organizzata a livello superiore. Molte proteine che hanno un peso molecolare maggiore di 50000 daltons hanno struttura quaternaria, ma non tutte. Quando più proteine si aggregano insieme dando origine ad una struttura quaternaria, le interazioni fra le sub-unità modificano tutti i legami preesistenti e la molecola risultante acquista una nuova e caratteristica struttura. Proteine fibrose e proteine globulari Le proteine possono essere raggruppate in due categorie principali: le proteine fibrose e le proteine globulari. Nelle fibrose la struttura secondaria è prevalente rispetto alla terziaria, mentre nelle globulari il rapporto si inverte. Una proteina globulare ha nella sua struttura brevi tratti di α-elica e di foglietti β, mentre il resto della molecola è un groviglio della catena polipeptidica casuale che fa assumere alla catena stessa una forma rotondeggiante.
Le proteine
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Le proteine fibrose sono adatte a ruoli strutturali: la cheratina, il collagene, la fibroina della seta (Figura 7) sono esempi della relazione fra la conformazione di una proteina e la sua funzione biologica. L’unità strutturale è un semplice elemento di struttura secondaria ripetuto. L’α-cheratina è strutturata in modo da resistere alla tensione e si trova infatti in: capelli, lana, penne, unghie, artigli, corna, zoccoli e negli strati esterni della pelle. La struttura è un’α-elica destrorsa, superavvolta per aumentare la resistenza. Ponti disolfuro rendono la struttura ancora più stabile. La fibroina è prodotta da insetti e ragni. Le catene polipeptidiche sono quasi esclusivamente in forma di foglietto β ripiegato. La struttura è notevolmente compatta e ciò è dovuto al particolare tipo di amminoacidi presenti nella struttura (principalmente Ala e Gly) e alla molteplicità di legami a H tra i gruppi peptidici. L’assenza di legami covalenti fra i foglietti conferisce nello stesso tempo anche una notevole flessibilità.
Figura 7. Architettura tridimensionale della fibroina della seta
Il collagene è la proteina più abbondante nei vertebrati e si trova nel tessuto connettivo, come tendini, cartilagini, cornea dell’occhio e parte organica delle ossa. L’elica è una struttura secondaria unica, di-
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versa dall’α -elica infatti è sinistrorsa ed ha tre residui per giro (Figura 8). Fisicamente il collagene è una struttura primitiva formata da tre unità avvolte su se stesse (tropocollagene) in modo diverso a seconda della funzione biologica che deve svolgere. Questa struttura superelicoidale è destrorsa.
Figura 8. Modello di collagene a tripla elica
Nelle proteine globulari i segmenti diversi di una catena polipeptidica o di catene polipeptidiche diverse tendono ad avvolgersi gli uni sugli altri, generando una proteina compatta rispetto alla conformazione completamente estesa. Le proteine globulari comprendono gli enzimi, le proteine di trasporto, le proteine motrici, le proteine regolatrici, le immunoglobuline e altre proteine con diverse funzioni. Un esempio di proteina globulare è la mioglobina (Figura 9), proteina relativamente piccola (P.M. 16700) che lega l’ossigeno nelle cellule muscolari, per conservare e diffondere l’ossigeno quando il muscolo si contrae rapidamente. La mioglobina è costituita da una singola catena di 153 residui di amminoacidi, ormai completamente nota, che contiene un gruppo porfirinico, costituito da quattro nuclei pirrolici, detto gruppo eme, che ha al centro un atomo di Fe2+. Il gruppo eme, relativamente piatto, è situato in una infossatura o tasca della molecola della mioglobina. L’atomo di ferro ha quattro posizioni di coordinazione nel piano dell’eme con gli atomi di azoto dell’anello porfirinico e due posizioni di coordinazione perpendicolari ad esso.
Le proteine
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Figura 9. Struttura della mioglobina
Di queste una è legata ad un residuo di istidina (His F8) detta anche istidina prossimale e l’altra lega la molecola di ossigeno (Figura 10). Questa sesta posizione di coordinazione dello ione Fe2+ è vuota nella deossimioglobina, mentre è occupata dall’ossigeno nella ossimioglobina. E’ presente anche un’istidina E7, detta istidina distale che ha due funzioni molto importanti, una di prevenire l’ossidazione del Fe2+ a Fe3+ che non sarebbe più in grado di legare l’ossigeno e l’altra di diminuire l’affinità di legame del monossido di carbonio (CO) per il gruppo eme.
Figura 10. Modello a sfere e bacchette del gruppo eme
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Capitolo III
Il monossido di carbonio infatti a causa della presenza dell’istidina distale viene legato in modo obliquo sul ferro dell'eme, ma tenderebbe a formare un legame molto più forte con il ferro se potesse legarsi liberamente in modo perpendicolare ad esso. Questa istidina rappresenta quindi una difesa per la mioglobina che altrimenti sarebbe avvelenata anche da minime concentrazioni di monossido di carbonio. L'ossigeno invece si lega spontaneamente in modo obliquo sul ferro e il suo legame non viene ostacolato dall'istidina. Denaturazione delle proteine E’ opportuno anche accennare alla labilità delle proteine, che possono essere facilmente denaturate, cioè alterate da piccole modifiche nell’ambiente che le circonda, ad es. dal calore. L’alterazione riguarda principalmente le interazioni deboli, come i legami a idrogeno. Se il calore viene somministrato molto lentamente la conformazione della proteina non si modifica finché non si ha brusca perdita della struttura e della funzione, che avviene in un intervallo di temperatura molto ristretto. Le proteine possono essere denaturate anche da pH estremi, da miscele di solventi organici, da alcuni soluti, come l’urea, o da detergenti. La denaturazione in genere è irreversibile (si pensi all’albumina dell’uovo con la cottura) ma esistono anche casi di denaturazione reversibile, se la proteina viene riportata alle condizioni in cui la conformazione iniziale è stabile. Una proteina in conformazione stabile viene detta nativa. Un esempio di denaturazione reversibile è presentato dalla ribonucleasi purificata, che può essere denaturata completamente per interazione con l’urea e con un riducente, che rompe i 4 ponti disolfuro ripristinando quattro molecole di cisteina, mentre l’urea scinde le interazioni idrofobiche stabilizzanti. Il processo di ripristino della conformazione nativa viene detto rinaturazione. Proteine coniugate Una proteina che lega a sé una parte non costituita da amminoacidi viene detta proteina coniugata e il gruppo non proteico prende il nome
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di gruppo prostetico (dal greco pròsthesis, aggiunto). Nella mioglobina, come visto precedentemente, il gruppo prostetico è l’eme, grosso anello eterociclico contenente uno ione Fe2+. Molte proteine sono coniugate e il gruppo non proteico può essere una molecola abbastanza complessa, come nel caso dell’eme, o un semplice ione metallico come Cu2+, Zn2+, Mn2+, Mo2+, altrettanto importante per il buon funzionamento della proteina stessa. Sono proteine coniugate anche quelle legate ai lipidi (lipoproteine), ai glucidi (glicoproteine) e acidi nucleici DNA o RNA (ribonucleoproteine). In questi casi le proprietà delle singole parti si sommano, ampliando ancora le possibilità funzionali delle proteine. Le lipoproteine hanno la funzione di spostare i diversi tipi di lipidi, che sono molecole apolari (ad esempio il colesterolo), attraverso un liquido polare come il sangue. La parte proteica, idrofila, della lipoproteina si sistema verso la parte esterna dell’aggregato. La funzione della proteine è quella di far riconoscere ai recettori delle membrane cellulari il tipo di lipide che dovrà essere utilizzato. Le glicoproteine sono associazioni fra proteine e carboidrati semplici o modificati il cui contenuto può variare da meno dell’1% a più del 90% del loro peso. Sono presenti in tutte le forme di vita ed hanno numerose funzioni diverse, ma il gruppo più importante è certamente quello che fa parte delle membrane cellulari. Queste molecole funzionano da recettori virali, individuando le molecole estranee. Le cellule si servono di glicoproteine per riconoscersi tra loro: sono quindi marcatori dell’identità cellulare. In questo caso, all’unicità della proteina nella sua forma a tre dimensioni si aggiunge l’enorme possibilità di ramificazioni che anche pochi monosaccaridi possono formare fra loro, mediante il legame glicosidico. Si ha così in superficie una massa glicoproteica che per ogni tipo di cellula è unica e riconoscibile solo da cellule dello stesso organo o tessuto.
GLI ENZIMI Gli enzimi sono catalizzatori biologici, sono cioè molecole che accelerano il raggiungimento dell’equilibrio delle innumerevoli reazioni chimiche che si verificano fuori o dentro le cellule di un organismo, e possono anche mediare l’interconversione fra diverse forme di energia. Ogni cellula contiene alcune migliaia di enzimi diversi, tutti necessari per il suo buon funzionamento. Se viene a mancare anche un solo enzima (caso delle malattie genetiche), se l’enzima è in quantità eccessiva, se la sua attività è bloccata da un agente esterno (avvelenamento) o ancora se vengono introdotti enzimi estranei, un organismo può subire seri danni. L’azione di molti farmaci si basa sull’inibizione o sullo stimolo dell’attività di particolari enzimi. Inoltre, dosando gli enzimi nei flussi biologici si può risalire al buono o cattivo funzionamento di un sistema biologico. Con l’eccezione di piccoli gruppi di molecole di RNA catalitico, gli enzimi sono costituiti da proteine globulari con peso molecolare che varia da circa 10.000 ad 1.000.000 Dalton, formate da una sola catena polipeptidica o da più catene unite insieme da legami generalmente deboli. Molti enzimi sono proteine semplici, cioè non hanno bisogno per la loro attività che della loro catena di amminoacidi. Altri invece sono proteine coniugate, cioè necessitano di composti chimici addizionali detti cofattori. Il cofattore può essere costituito da uno o più ioni inorganici, come Fe2+, Mg2+, Mn2+, Zn2+, oppure da complesse molecole organiche chiamate coenzimi. Un coenzima o uno ione metallico legato alla proteina enzimatica con legami assai stabili, in genere covalenti, viene detto gruppo prostetico. Un enzima con tutti i suoi coenzimi o ioni metallici si dice oloenzima, mentre la sua parte proteica apoenzima o apoproteina. I coenzimi agiscono come trasportatori temporanei di gruppi funzionali e molte vitamine, sostanze organiche necessarie in piccole quantità nella dieta, sono loro precursori.
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Capitolo IV
Caratteristiche degli enzimi Le caratteristiche più importanti degli enzimi sono il potere catalitico e la specificità d’azione. Inoltre l’azione di alcuni enzimi è sottoposta a regolazione. Le proteine costituenti la maggior parte degli enzimi possono esplicare una funzione catalitica perché sono capaci di legare in modo specifico una grande varietà di molecole (dette substrati) con un orientamento ottimale, preludio alla formazione o alla rottura di legami chimici. Gli enzimi in sostanza catalizzano le reazioni biologiche perché tengono i substrati orientati in modo che avvenga il massimo numero possibile di urti efficaci con il reagente. In tal modo viene stabilizzato lo stato di transizione, in cui si forma la specie molecolare a più alta energia. Un enzima determina quale fra le innumerevoli reazioni possibili debba realmente avvenire. Può agire inoltre come interruttore molecolare, regolando l’attività catalitica e trasformando l’energia con la sua capacità di accoppiare l’azione di siti diversi di legame. Gli enzimi possono accelerare una reazione anche un milione di volte. Sono altamente specifici sia per la reazione catalizzata che per il tipo di reagenti. In genere un enzima catalizza una sola reazione chimica, generando un ambiente specifico in cui questa reazione è favorita: non ci sono reazioni collaterali o sottoprodotti inutili. Al massimo un enzima può catalizzare una serie di reazioni strettamente correlate. Una caratteristica delle reazioni catalizzate dagli enzimi è quella di avvenire all’interno di una tasca dell’enzima, cioè di una piccola parte della grande molecola proteica, chiamata sito attivo. Il sito attivo è la zona della superficie dell’enzima, in genere di dimensioni assai limitate rispetto a quelle dell’enzima stesso, a cui si legano specificamente la molecola o le molecole di substrato determinando sia la specificità (alta affinità per determinati composti) che la funzione catalitica della molecola proteica attiva. Il sito attivo contiene la catena laterale di almeno tre amminoacidi, in relazione stereochimica fra loro, come conseguenza del ripiegamento della catena polipeptidica. La forma e le capacità catalitiche del sito attivo sono determinate da legami deboli (struttura secondaria e terziaria) fra i resi-
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dui di amminoacidi che ne fanno parte e dalla struttura primaria, che come abbiamo visto già in precedenza è la sequenza degli amminoacidi della proteina. Il legame fra sito attivo e substrato può essere descritto come un modello chiave-serratura (Figura 1). In una serratura infatti può girare solo la sua specifica chiave, e parimenti solo una determinata molecola di substrato può avere una forma che le permetta di entrare nella fessura del sito attivo dell’enzima per fare avvenire la reazione. La formazione del complesso enzima-substrato è essenziale per la catalisi ed è il punto di partenza della cinetica di reazione.
Figura 1. Rappresentazione schematica del modello chiave-serratura.
Esiste anche la possibilità di un adattamento indotto (Figura 2). In questo modello, il sito attivo può essere formato dopo che l’enzima si è legato al substrato. L’enzima si modifica, prendendo una forma adatta a far avvenire la reazione dopo il suo legame con il substrato. Questo modello è più vicino alla realtà rispetto al modello chiaveserratura, ma è ancora notevolmente approssimato.
Figura 2. Rappresentazione schematica dell'adattamento indotto
Gli enzimi, per essere efficaci devono possedere ben precise caratteristiche:
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• pur interagendo con i substrati che generano i prodotti di reazione, al termine della reazione devono ritrovare invariata la propria struttura, pronta per riprendere l’attività catalitica; • devono essere efficaci in piccola quantità, e non devono influenzare l’equilibrio di una reazione chimica reversibile; • devono mostrare specificità nella capacità di accelerare reazioni chimiche. Infatti, la funzione di un enzima, come di qualsiasi altro catalizzatore, è quella di rendere più veloce un processo che altrimenti potrebbe richiedere giorni, mesi o addirittura anni. Ad esempio, consideriamo una reazione tipo A+B=C+D La cui costante di equilibrio è: Keq = [C] [D] / [A] [B]. Supponiamo che, ad equilibrio raggiunto, le concentrazioni dei vari reagenti siano il 30% di A + B e il 70% di C + D. L’enzima renderà più breve il tempo necessario per raggiungere queste concentrazioni sia che si parta dal 100% di A + B sia che si parta dal 100% di C + D. Il rapporto delle concentrazioni di prodotti e reagenti (Keq), si raggiungerebbe comunque indipendentemente dal catalizzatore, ma in presenza di esso viene raggiunto in un tempo inferiore di parecchi ordini di grandezza rispetto al tempo necessario perché la reazione avvenga naturalmente. La maggior parte degli enzimi agisce su un numero assai limitato di composti chimicamente simili o su specifici tipi di reazione (specificità relativa), o su di un singolo substrato (specificità assoluta). La tripsina, ad esempio, catalizza l’idrolisi di un legame peptidico fra residui di lisina e di arginina. La trombina, enzima ancora più specifico, idrolizza il legame peptidico fra residui di arginina e glicina solo in determinate sequenze di peptidi. La specificità relativa di un enzima non è un difetto ma solo un modo fisiologico di fare economia di enzimi con specificità assoluta. Ad esempio, la lipasi idrolizza tutti i legami estere tra glicerolo ed a-
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cidi grassi, rendendo così disponibile un substrato comune per successive trasformazioni. Classificazione degli enzimi Conoscere il nome di un enzima è importante, perché spesso si può risalire da esso alla funzione svolta dall’enzima stesso. A causa del grandissimo numero di enzimi conosciuti, già da molti anni si era reso necessario un sistema di nomenclatura e classificazione che desse a ciascun enzima un nome ed una collocazione precisa. Inizialmente il nome dell’enzima veniva fatto terminare con la desinenza “-ina” (pepsina, tripsina, papaina), in cui tale desinenza indicava la sua natura di proteina. In tal modo però non si faceva cenno alla reazione catalizzata né al substrato su cui l’enzima agiva. In seguito, gli enzimi presero i nomi che derivavano dal loro substrato o da una parola che descriveva la loro attività, cui veniva aggiunto il suffissi “–asi” (lattasi, maltasi, saccarasi, lipasi, proteasi), per non parlare che di enzimi che catalizzavano reazioni di idrolisi. Però talvolta lo stesso enzima aveva due o più nomi oppure due enzimi diversi avevano lo stesso nome, e ciò poteva generare ambiguità, soprattutto per il fatto che il numero di enzimi identificati è andato sempre crescendo. Per ovviare a questi inconvenienti, la IUB (International Union of Biochemistry and molecular biology) ha adottato, per convenzione internazionale, un sistema di nomenclatura e di classificazione degli enzimi valido per tutti, basato sul tipo di reazione catalizzata e sul nome del substrato su cui agisce l’enzima. Gli enzimi sono divisi in sei classi principali, numerate da 1 a 6, in base al tipo di reazione catalizzata (Tabella 1). Ciascuna classe è suddivisa in sottoclassi, anch’esse distinte con un numero e suddivise ancora in sotto-sottoclassi, che a loro volta contengono un elenco dei singoli enzimi.
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Tabella 1. Classificazione degli enzimi.
CLASSI
AZIONE CATALITICA
1) Ossidoreduttasi
Ossidoriduzione
2) Transferasi
Trasferimento di gruppi atomici
3) Idrolasi
Rottura di legami per mezzo dell’acqua
4) Liasi
Addizione o sottrazione di gruppi con rottura o formazione di doppi legami
5) Isomerasi
Reazioni di isomerizzazione
6) Ligasi
Formazione di legami accoppiati all’idrolisi dell’ATP
Per ogni enzima quindi esiste un nome proposto, in genere breve ed appropriato per l’uso comune, un nome sistematico che individua la reazione catalizzata e un numero di classificazione. Ad esempio, la reazione che trasforma il D-glucosio in D-glucosio-6-fosfato per azione dell’ATP necessita di una fosfotransferasi, che trasforma contemporaneamente l’ATP in ADP. Il nome dell’enzima coinvolto in base alla reazione catalizzata è ATP-D-glucosio-6 fosfato transferasi. Il suo numero di classificazione IUB è 2.7.1.10, dove la cifra 2 rappresenta la classe (transferasi); la cifra 7 la sottoclasse (gruppi fosforici); la cifra 1 la sotto-sottoclasse (fosfotransferasi con gruppo alcolico come accettore); infine il numero 10 il numero progressivo assegnato all’ enzima. Quando tuttavia il nome di un enzima diventa troppo lungo o scomodo da usare se ne può adottare uno più corto: ad esempio, nei trasferimenti di gruppi fosforici che provengono dall’ATP o nell’addizione di gruppi fosforici all’ADP per formare ATP il nome dell’enzima diventa chinasi. Nel caso specifico esochinasi o ancora più specificamente D-glucosio-6-fosfato chinasi.
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Nel dettaglio le sei classi di enzimi sono le seguenti: 1. Ossidoreduttasi: è la classe più ampia, e interviene nelle reazioni di ossidoriduzione. A volte questi enzimi prendono il nome di ossidasi (o deidrogenasi) se favoriscono reazioni di ossidazione e reduttasi se la reazione catalizzata è una riduzione. Es. la glucossidasi; 2. Transferasi: catalizzano il trasferimento di un gruppo funzionale da una molecola ad un’altra. Es. la glucochinasi; 3. Idrolasi: catalizzano l’idrolisi di legami con intervento di una molecola d’acqua. Es. le lipasi; 4. Liasi: favoriscono le addizioni di gruppi ad un doppio legame o sottraggono gruppi per formare doppi legami. Es. enoil idratasi. 5. Isomerasi: catalizzano la conversione di un composto nel suo isomero con il trasferimento di gruppi all’interno della molecola. Es.fosfo-trioso-isomerasi; 6. Ligasi: intervengono per generare nuovi legami, creare le molecole strutturali utilizzando l’energia (ATP) proveniente da altre reazioni. Es. acetil-CoA-carbossilasi. Modalita’ d’azione degli enzimi Come detto sopra, gli enzimi sono catalizzatori biologici e come tali hanno caratteristiche in comune con i catalizzatori inorganici: come quelli infatti prendono parte alla reazione ma si ritrovano inalterati alla fine di essa. La catalisi enzimatica, come quella inorganica, aumenta drasticamente la velocità della reazione. Una reazione enzimatica semplice può essere schematizzata così: E+S
ES
EP
E+P
dove E, S e P rappresentano rispettivamente l’enzima, il substrato ed il prodotto. ES ed EP sono i complessi dell’enzima con il substrato e con il prodotto. Le frecce a due direzioni dell’equazione scritta sopra indicano che ogni enzima che catalizza la reazione da S a P, catalizza anche quella inversa da P a S. L’enzima non viene consumato durante questo pro-
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cesso e il punto di equilibrio resta inalterato. La reazione raggiunge però l’equilibrio molto prima quando è presente l’enzima, perché la velocità di reazione è molto superiore alla norma. La funzione di un catalizzatore, e quindi nel caso specifico dell’enzima, è quella di aumentare la velocità di reazione, senza però modificare gli equilibri della reazione stessa. Qualsiasi reazione può essere rappresentata mediante un diagramma che riporta in ascisse la coordinata di reazione e in ordinate l’energia libera G (si ricorda che l’energia libera è quella parte dell’energia totale di un sistema libera di compiere un lavoro). Quindi l’energia libera viene messa in relazione con il procedere della reazione. Nella sua forma normale stabile o stato basale una molecola contiene una determinata quantità di energia libera. Per descrivere la variazione di energia libera fra lo stato iniziale e lo stato finale sono state stabilite determinate condizioni standard per la cellula (temperatura di 298°K, corrispondente a 25°C; pressione parziale di ogni gas a 1 atmosfera o 101,3 K Pascal; concentrazione di ogni soluto 1 Molare). La variazione di energia libera in queste condizioni si indica con ∆G°, variazione di energia libera standard. Poiché nei sistemi biologici la concentrazione degli ioni H+ è molto lontana da 1M, i biochimici hanno stabilito la costante ∆G°’, cioè la variazione di energia libera standard a pH = 7. L’equilibrio tra S e P è funzione della differenza fra l’E libera dei due composti, cioè fra lo stato finale e lo stato iniziale della reazione, nei rispettivi stati basali. Se l’E libera dello stato basale dei prodotti P è minore di quella dei reagenti iniziali S la differenza fra le energie sarà negativa, quindi ∆G°’0. La reazione si dirà endoergonica o non spontanea. Questi equilibri non vengono modificati da un catalizzatore. Tuttavia, anche nel caso che un equilibrio sia favorevole non significa che la velocità di conversione da S a P sia elevata. Infatti la velocità della reazione dipende da un parametro completamente diverso. Tra i reagenti ed i prodotti esiste una barriera energetica da superare.
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Questa energia in più è necessaria per allineare i gruppi che devono reagire fra loro, per formare cariche transitorie instabili, per riorganizzare legami e per compiere altre trasformazioni in modo che la reazione possa procedere verso la formazione dei prodotti. Per far avvenire la reazione le molecole dei reagenti devono superare questa barriera e raggiungere un livello energetico più alto. Il punto più elevato della curva prende il nome di stato di transizione, che è un momento molecolare transitorio, da non confondersi con un intermedio della reazione. La differenza fra lo stato basale dei reagenti indisturbati e lo stato di transizione si dice energia di attivazione (Figura 3).
Figura 3. Grafico dell'andamento dell'energia libera durante una reazione.
Ovviamente, tanto maggiore sarà l’energia di attivazione, tanto minore sarà il numero di molecole che avranno la possibilità di raggiungere e superare quel punto (esattamente come, se pensiamo a un salto in alto, più elevata sarà l’altezza dell’asticella, tanto minore sarà il numero di persone che avranno la capacità di superarla). Quindi una elevata energia di attivazione corrisponde ad una bassa velocità di reazione.
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Fattori che influenzano le reazioni catalizzate dagli enzimi La struttura delle proteine, come si è visto nel capitolo a loro dedicato, può variare in dipendenza di fattori esterni come temperatura, pH, concentrazione salina, presenza di solventi organici ed altro, che possono modificare la loro struttura tridimensionale e causare anche una loro denaturazione irreversibile. Poiché gli enzimi sono proteine, la loro efficacia come catalizzatori può dipendere da questi parametri. 1) Effetto del pH Una variazione nella concentrazione idrogenionica può avere effetto sulla geometria del sito attivo e sulle cariche elettriche dei gruppi coinvolti nel legame con la molecola del substrato. Il pH influenza anche la dissociazione dei gruppi acidi e basici presenti sulle molecole del substrato, che devono avere una ben definita distribuzione di cariche elettriche per poter legare con l’enzima. In genere l’intervallo di pH è abbastanza ristretto. Il pH a cui l’enzima presenta la massima efficienza viene detto pH ottimale. Questo valore può variare anche molto da enzima ad enzima e può anche non essere identico al pH del distretto intracellulare in cui si trova l’enzima. 2) Effetto della temperatura La velocità di una reazione può essere aumentata aumentando la temperatura, e quindi l’energia cinetica delle molecole in modo che un maggior numero di esse possa produrre degli urti efficaci. Un aumento di temperatura troppo elevato però potrebbe portare alla denaturazione delle proteine che costituiscono gli enzimi, quindi deve essere evitato. Le proteine, e quindi anche gli enzimi, sono termolabili. La velocità di denaturazione termica dell’enzima è generalmente molto bassa a 0°C e raddoppia per ogni aumento di 10°C di temperatura. Riportando in diagramma la temperatura contro l’attività massima dell’enzima si ottiene una curva a campana: per temperature superiori a quella ideale si ha la denaturazione della proteina, per temperature inferiori la velocità di reazione diminuisce. A temperature basse tuttavia gli enzimi non vengono denaturati e possono riprendere la loro attività catalitica quando la temperatura venga di nuovo aumentata. 3) Effetto della concentrazione salina
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Come per il pH, anche un aumento della concentrazione salina può portare all’alterazione della geometria del sito attivo dell’enzima, salificando ad esempio i gruppi –COOH liberi, facendo variare la distribuzione delle cariche e alterando così i legami enzima-substrato. La catalisi enzimatica Per molti enzimi, la velocità di catalisi (V) varia con la concentrazione del substrato [S]. V è definita come il numero di moli di prodotto che si formano in un secondo. Supponiamo di avere una quantità definita di enzima e che le condizioni ambientali siano ideali per il suo funzionamento (adatta temperatura, adatta concentrazione della soluzione, pH ottimale ecc.). Aggiungendo ad una concentrazione fissa di enzima (E) una piccola quantità di substrato (S) la conversione di S in prodotto (P) avrà una velocità iniziale (V0). In poco tempo l’equilibrio si sposterà completamente a destra e tutto il substrato verrà convertito in prodotto. E+S
ES
E+P
Aggiungendo sempre più substrato la quantità di prodotto ottenuto sarà sempre maggiore, quindi la velocità di trasformazione sarà sempre crescente. In questa fase c’è quindi proporzionalità diretta tra quantità di substrato aggiunto e quantità di prodotto formato. Ad un certo punto però, aggiungendo sempre nuovo substrato, vediamo che la crescita lineare della quantità di prodotto formato si interrompe e la velocità di trasformazione si mantiene costante, per quanto substrato venga aggiunto. La velocità inoltre è la massima possibile (Vmax). La velocità massima viene raggiunta quando tutti i siti catalitici dell’enzima sono saturati dal substrato, cioè quando per ogni molecola di enzima c’è una molecola di substrato. La Vmax è chiamata anche velocità di saturazione.
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La relazione matematica che lega la velocità iniziale della reazione con la concentrazione S del substrato è:
V0 = Vmax
[S] [S] +KM
conosciuta come equazione di Michaelis - Menten, dove V è la velocità della reazione, Vmax la velocità massima e KM una costante, detta costante di Michaelis - Menten.
Figura 4. Cinetica di Michaelis-Menten.
Questa equazione verifica i dati cinetici mostrati in Figura 4 ossia a concentrazioni di substrato molto basse, quando la concentrazione del substrato è molto minore di KM, ([S] KM) il valore di KM diviene trascurabile rispetto a S e la velocità della reazione diventa uguale alla velocità massima (V0 =
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Vmax), cioè la velocità è indipendente dalla concentrazione del substrato. Quando [S] = KM, allora V0 = 1/2 Vmax . Perciò KM corrisponde alla concentrazione di substrato per cui la velocità della reazione è metà della velocità massima. Ma determinare la Vmax non è semplice sperimentalmente, mentre è molto più facile determinare la concentrazione di substrato che corrisponde ad 1/2 della Vmax. Il valore di KM è un parametro molto importante per la caratterizzazione di un enzima, poiché è la misura dell’affinità o dell’attrazione dell’enzima per il substrato. Più alta è la KM, minore è l’affinità dell’enzima per il substrato. Infatti, se è necessaria un’alta concentrazione di substrato per saturare metà delle molecole di enzima in ogni istante, si può dire che l’enzima ed il substrato hanno fra loro una bassa affinità. Se viceversa una bassa concentrazione di substrato è sufficiente per saturare metà delle molecole di enzima in ogni istante si può dire che l’enzima ed il substrato hanno fra loro una elevata affinità. Vmax e KM possono essere misurate variando la concentrazione del substrato. Per questo è conveniente trasformare l’equazione di Michaelis Menten in una nuova equazione che determini una linea retta. Ciò è possibile facendo i reciproci di entrambe le parti dell’equazione:
1 1 KM 1 + [ ] + = Vmax Vmax S V Il grafico di 1/V in funzione di 1/ [S] determina una linea retta con un intercetta pari a 1/Vmax e una pendenza pari a KM / Vmax . Questo viene detto grafico dei doppi reciproci o anche di Lineweaver-Burk. Il valore di KM degli enzimi è piuttosto variabile (da 10-1 a 10-7 ) e dipende dal tipo di substrato e dalle condizioni ambientali (pH, temperatura, forza ionica). La KM corrisponde alla concentrazione di substrato per cui metà dei siti sono occupati (Figura 5).
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Figura 5. Grafico dei doppi reciproci o di Lineweaver-Burk.
Occorre in questa sede anche far cenno al numero di turnover di un enzima, parametro importante per la valutazione della sua efficacia. Esso rappresenta il numero di molecole di substrato che vengono convertite in prodotto da una molecola di enzima nell’unità di tempo, quando l’enzima è completamente saturato dal substrato. Inibizione dell’attivita’enzimatica Gli enzimi possono essere inattivati o inibiti da alcune sostanze. Si parla di inattivazione se il processo è irreversibile, di inibizione se le sostanze si possono rimuovere. L’inibizione si dice competitiva quando il substrato è spostato dalle sostanze inibenti, cioè se la sostanza che inibisce compete col substrato. Se aumenta la quantità di substrato, questo può competere per il sito attivo e rimuovere la sostanza inibente; si ha inibizione non competitiva quando il substrato si lega nel suo sito e le sostanze inibitorie si fissano altrove. Gli inibitori enzimatici sono molecole che interferiscono con la catalisi, rallentando o bloccando le reazioni catalizzate da enzimi. Poiché la quasi totalità dei processi cellulari dipende da enzimi, non sorprende che gli inibitori enzimatici siano tra i più importanti agenti in farmacologia. Ad esempio l’aspirina (acido acetilsalicilico) inibisce l’enzima cicloossigenasi (COX), fondamentale per la produzione delle prostaglandine coinvolte nei meccanismi dell'infiammazione e del dolore.
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L’inibizione reversibile può essere competitiva, non competitiva o mista. Un inibitore competitivo, come dice il nome stesso, compete con il substrato per il legame al sito attivo di un enzima. Quando l’inibitore (I) occupa il sito attivo dell’enzima impedisce il legame col substrato. Gli inibitori competitivi sono spesso composti che hanno struttura simile al substrato e si combinano con l’enzima formando un complesso enzima–substrato (EI) che non subisce la catalisi. Per quanto questi complessi siano di breve durata e abbastanza deboli, tuttavia possono diminuire l’efficacia catalitica dell’enzima. Si può ovviare a questa interferenza semplicemente aggiungendo altro substrato: infatti la geometria molecolare di substrato ed inibitore è molto simile e quindi aumentando la concentrazione del substrato “buono” si riduce la probabilità che il competitore vada a legarsi con l’enzima. Un inibitore non competitivo, a differenza del competitivo, si lega all’enzima in un sito diverso da quello del substrato. Un inibitore misto si lega ad un sito diverso da quello del substrato, ma si può legare sia all’enzima E che al complesso enzima-substrato ES. Inibizione irreversibile. Gli inibitori reversibili si legano all’enzima bersaglio ma possono dissociarsi ripristinando l’attività dell’enzima. Gli inibitori irreversibili invece si combinano o distruggono un gruppo funzionale dell’enzima essenziale per la sua attività catalitica. Si può formare un legame covalente fra un inibitore irreversibile ed un enzima. Gli inibitori irreversibili sono molto utili per lo studio delle reazioni enzimatiche. Gli inattivatori o inibitori suicidi sono composti poco reattivi finché non raggiungono il sito attivo di uno specifico enzima. Un inibitore suicida può subire le prime tappe della reazione enzimatica ma si combina poi in modo irreversibile con l’enzima. Questi composti vengono anche detti inattivatori basati sul meccanismo, perché utilizzano il meccanismo normale della reazione enzimatica per inattivare l’enzima. Enzimi regolatori Una categoria importante di enzimi alla quale occorre far cenno è quella degli enzimi regolatori. Sono enzimi che determinano la veloci-
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tà complessiva della sequenza in quanto catalizzano le reazioni più lente o quelle che limitano la velocità. Gli enzimi regolatori variano la loro attività catalitica in risposta a certi segnali. Mediante l’azione di enzimi regolatori la velocità di ogni sequenza metabolica si adegua costantemente alla domanda cellulare di energia e di biomolecole. Esistono due classi di enzimi regolatori: gli enzimi allosterici, che agiscono mediante il legame non covalente e reversibile con composti regolatori, detti modulatori allosterici, che in genere sono metaboliti o piccoli cofattori, e gli enzimi regolati mediante modificazioni covalenti irreversibili. Tutte e due le classi hanno più subunità e in alcuni casi i siti regolatori e i siti attivi si trovano su subunità diverse. In alcuni sistemi multienzimatici l’enzima regolatore viene inibito in modo specifico dal prodotto finale della via, quando questo composto si accumula oltre il normale fabbisogno della cellula. La velocità della produzione del prodotto finale della via metabolica è quindi bilanciata dalle necessità della cellula. Questo tipo di regolazione si dice inibizione a feedback, o inibizione retroattiva. L’accumulo del prodotto finale di una via metabolica inibisce il primo enzima della stessa via. I coenzimi Prima di chiudere il capitolo dedicato agli enzimi, sarà utile accennare alla struttura e alle funzioni dei principali coenzimi, molecole che operano come trasportatori temporanei di specifici gruppi funzionali. Come già ricordato sopra, se il coenzima è legato covalentemente alla proteina viene detto gruppo prostetico. I coenzimi principali che troveremo in molte vie metaboliche sono: 1. 2.
Coenzimi delle reazioni di ossido-riduzione. NAD+, FAD, acido lipoico; Coenzimi trasportatori di gruppi. Piridossalfosfato, PLP, per i gruppi amminici; Tetraidrofolato per gruppi contenenti un solo carbonio; Tiamina pirofosfato (TPP) per aldeidi e cheto-
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ni “attivati”; Biotina per il gruppo CO2; Coenzima A (coenzima acilante) per il trasporto di gruppi acilici, Adenosin Tri fosfato (ATP) per i gruppi fosfato; 5’ Deossi adenosil cobalammina (Coenzima B12) per atomi di idrogeno e gruppi alchilici. Vedremo di esaminare la struttura e le funzioni dei principali fra questi coenzimi. 1. Coenzimi delle reazioni di ossido-riduzione. La maggior parte delle cellule possiede enzimi che catalizzano l’ossidazione o la riduzione di centinaia di composti diversi. Questi enzimi trasferiscono elettroni dai loro substrati su pochi tipi di trasportatori universali e ioni H+. La loro riduzione durante i processi catabolici consente di conservare l’energia libera rilasciata dall’ossidazione dei substrati. I nucleotidi NAD+ e NADP+ e FMN e FAD sono cofattori solubili in acqua che possono andare incontro ad ossidazioni e riduzioni reversibili in molte reazioni del metabolismo. Mentre i primi si spostano rapidamente da un enzima all’altro, FMN e FAD sono legati saldamente agli enzimi ed agiscono da gruppi prostetici. NAD+ e NADP+ sono le sigle che indicano la forma ossidata di due coenzimi, il primo è la Nicotinammide Adenin Dinucleotide e il secondo la Nicotinammide Adenin Dinucleotide Fosfato. Si tratta di due nucleotidi costituiti da un anello nicotinamidico (A), legato ad una molecola di ribosio (B) e ad un gruppo fosfato (C), a sua volta legato con legame fosfoanidridico ad un altro gruppo fosfato, cui è unita un’altra molecola di ribosio (D) ed un’altra base azotata, l’adenina (E) (Figura 6).
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Figura 6. Struttura del NAD+
La parte reattiva del NAD+ è il suo anello nicotinamidico (A) che accetta uno ione idrogeno (H+) e due elettroni, equivalenti ad uno ione idruro dal substrato trasformandosi nella forma ridotta NADH. La struttura del NADP+ è uguale, tranne che per un gruppo fosforico che esterifica l’OH sul C2 del ribosio (D) legato all’adenina. I particolari delle due forme ridotte sono illustrate in Figura 7.
Figura 7. Particolari della struttura del NADH e del NADPH.
Entrambi i coenzimi possono subire una riduzione reversibile sull’anello nicotinammidico. Quando una molecola di substrato subisce una ossidazione perde due atomi di idrogeno (infatti una reazione
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di ossidazione viene detta anche deidrogenazione). La forma ossidata del coenzima accetta uno ione idruro (H-) costituito da un protone e da due elettroni e si trasforma nella forma ridotta. Il secondo idrogeno, sotto forma di H+ viene rimosso dal substrato e rilasciato nell’ambiente acquoso. La semi-reazione per ogni nucleotide è quindi: NAD+ + 2 e- + 2 H+ = NADH + H+ NADP+ + 2 e- + 2 H+ = NADPH + H+ In ambedue le molecole il segno + non indica che ci sono cariche positive nette, ma che l’anello nicotinammidico è nella sua forma ossidata, con una carica positiva sull’azoto. Il NAD+ in genere si trova nelle reazioni cataboliche, mentre il NADPH è di solito il cofattore delle reazioni anaboliche. Pochissimi enzimi possono usare entrambi i coenzimi e quasi sempre hanno una netta preferenza per uno di essi. Ciò consente alla cellula di mantenere due trasportatori di elettroni nello stesso compartimento cellulare. I gruppi prostetici FMN e FAD rappresentano la forma ossidata rispettivamente del Flavin Mono Nucleotide e del Flavin Adenin Dinucleotide (Figura 8).
Figura 8. Strutture di FMN e FAD.
Le forme ridotte sono FMH2 e FADH2. Gli enzimi che utilizzano questi cofattori sono le flavoproteine, che derivano dalla vitamina ri-
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boflavina e catalizzano le reazioni di ossido riduzione. Nelle flavoproteine, la struttura ad anello legata al ribosio (o più esattamente all’alcol ribitolo) detta anello isoallossazinico, subisce riduzioni reversibili accettando uno o due equivalenti riducenti sotto forma di atomi di idrogeno (elettrone + protone) da un substrato riducente. Quando un nucleotide flavinico accetta un solo atomo di idrogeno si genera la forma semichinonica dell’ anello isoallossazinico FADH* e FMNH* con un elettrone spaiato. Nella maggior parte delle flavoproteine i nucleotidi flavinici sono legati saldamente all’enzima e nel caso della succinato deidrogenasi sono veri e propri gruppi prostetici, legati cioè in modo covalente. Le flavoproteine possono trattenere equivalenti riducenti, mentre ne catalizzano il trasferimento da un substrato donatore ad uno accettore. Sono spesso molto complesse, e alcune hanno saldamente legati anche ioni inorganici come Fe e Mo, in grado di partecipare al trasferimento degli elettroni. Il lipoato ha due gruppi tiolici, entrambi essenziali per la sua funzione di cofattore. Allo stato ridotto gli atomi di zolfo sono sotto forma di gruppi –SH, mentre l’ossidazione produce un ponte disolfuro – S-S- simile a quello che si forma tra due residui di cisteina in una proteina. Il lipoato può servire sia come trasportatore di elettroni che come trasportatore di acili.
Figura 9. Struttura del lipoato.
Nel complesso della piruvato deidrogenasi il lipoato agisce da gruppo prostetico: il legame covalente è un legame ammidico fra l’acido lipoico e la catena laterale di un residuo di lisina.
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2. Coenzimi trasportatori di gruppi (coenzimi delle transferasi). 2.1 Piridossalfosfato, PLP, trasportatore di gruppi amminici. Il distacco del gruppo α-amminico, la prima tappa del catabolismo della maggior parte degli amminoacidi è promosso da enzimi detti amminotransferasi o transaminasi che contengono tutte come gruppo prostetico il PLP, che deriva dalla piridossina (vitamina B6) (Figura 10). Nelle reazioni di transaminazione il gruppo amminico α di un amminoacido viene trasferito all’atomo di carbonio α di un chetoacido, generando contemporaneamente l’α-chetoacido corrispondente all’amminoacido. Tutte le amminotransferasi hanno lo stesso gruppo prostetico ed identico meccanismo di reazione. Il piridossalfosfato agisce come trasportatore transitorio di gruppi amminici a livello del sito attivo delle amminotransferasi. Questo cofattore va incontro a trasformazioni reversibili tra la sua forma aldeidica, il piridossalfosfato, che può accettarre un gruppo amminico da un amminoacido e la sua forma amminata, la piridossammina fosfato (PMP) , che dona il suo gruppo amminico ad un α-chetoacido.
Figura 10. Struttura del piridossalfosfato (PLP).
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NH2 H2 C O
HO H3C
N
CH
O P O O
Figura 11. Struttura della piridossammina fosfato (PMP)
Le amminotransferasi sono esempi di enzimi che catalizzano reazioni bimolecolari a ping-pong. La reazione generale catalizzata dalle transaminasi è la seguente: Amminoacido (1) + α-Chetoacido (1) = α-Chetoacido (2) + Amminoacido (2) Questa reazione totale può essere descritta attraverso una serie di passaggi intermedi. Il primo amminoacido si lega al sito attivo, dona il suo gruppo amminico al PLP, che si trasforma in piridossammina fosfato (Figura 11), e si allontana sotto forma di α-chetoacido. Amminoacido (1) + Enzima-PLP = α-Chetoacido (1) + Enzima-PMP Il primo substrato (amminoacido 1) deve lasciare il sito attivo perché il secondo substrato (amminoacido 2) possa legarsi a sua volta. Si lega poi al sito attivo il secondo substrato, l’α-chetoacido (2), che accetta il gruppo amminico della piridossammina fosfato ed esce sotto forma di amminoacido (2), lasciando di nuovo il piridossal fosfato. α-Chetoacido (2) + Enzima-PMP = Amminoacido (2) + Enzima-PLP
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Le transaminasi più note sono: l’aspartato aminotransferasi (AST o glutammato-ossalacetato transaminasi, GOT) e l’alanina aminotransferasi (ALT o glutammato-piruvato transaminasi, GPT). La AST catalizza la seguente reazione: Aspartato + α-Chetoglutarato = Ossalacetato + Glutammato La ALT catalizza quest’altra reazione: Alanina + α-Chetoglutarato = Piruvato + Glutammato Questi enzimi sono ubiquitari nell’organismo e sono usate in medicina soprattutto al fine di evidenziare la presenza o meno di un danno epatico. 2.2
Tetraidrofolato trasportatore altamente versatile di unità monocarboniose attivate. Il tetraidrofolato è costituito da tre gruppi: una pteridina sostituita, il p-amminobenzoato (PABA) e una catena di uno o più residui di glutammato (Figura 12). Il tetraidrofolato interviene in reazioni di trasferimento di unità monocarboniose a diversi livelli di ossidazione e funge da trasportatore intermedio. Le unità monocarboniose possono essere: • gruppo metilico (-CH3); • gruppo metilenico (-CH2-); • gruppo formilico (-CHO); • gruppo formiminico (-CHNH). Il gruppo monocarbonioso si può legare all'azoto N5 della 6metilpterina o a quello N10 del PABA (talvolta ad entrambi).
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Figura 12. Struttura del tetraidrofolato.
2.3 Tiamina pirofosfato (TPP) trasportatore di aldeidi e chetoni “attivati”. E’ un derivato della vitamina B1. La TPP si trova legata saldamente (è un gruppo prostetico) a tre importanti enzimi: le transchetolasi, il complesso della piruvato deidrogenasi o la piruvato decarbossilasi della fermentazione alcolica. In ogni caso un gruppo aldeidico o chetonico attivato viene trasferito ad un accettore e in alcuni casi successivamente decarbossilato. In entrambi i casi il sito di addizione del substrato chetonico è l’anello tiazolico del gruppo prostetico. L’atomo di C in posizione 2 della TPP legata, essendo posto fra gli atomi di N ed S si ionizza facilmente per formare un carbanione. L’atomo di C carico negativamente di questo intermedio reattivo può addizionare un gruppo carbonilico. L’atomo di N carico positivamente dell’anello tiazolico funziona da trappola per gli elettroni favorendo la formazione della carica negativa sull’intermedio attivato (Figura 13).
Figura 13. Struttura della tiaminapirofosfato (TPP).
Gli enzimi
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2.4 Coenzima A (CoA) trasportatore di gruppi acilici. Il nome Coenzima A sta per Coenzima Acilante, cioè trasportatore di acili (unità bicarboniose). I gruppi acilici sono importanti costituenti dell’ossidazione degli acidi grassi sia della sintesi dei lipidi di membrana. E’ composto di tre parti: una unità di β-mercaptoetilammina, una unità di pantotenato e una adenina legata ad un ribosio fosforilato e a due unità fosfatiche (Figura 14). Il sito reattivo della molecola è il gruppo solfidrilico terminale. Si può rappresentare con la sigla CoA-SH. I gruppi acile si legano al Coenzima A formando un gruppo tioestere e il composto che ne deriva si chiama Acil-CoA, R-CO-S-CoA. Data la loro energia libera di idrolisi, i tioesteri hanno un alto potere di trasferimento del gruppo acilico che può essere ceduto ad una varietà di molecole accettrici. L’idrolisi di un legame tioestere è termodinamicamente più favorevole di quella di un legame estere per il carattere di doppio legame del legame C-O rispetto al C-S. Il gruppo acilico legato al Coenzima A può quindi essere considerato una forma attivata. Il Coenzima A trasporta gruppi acilici attivati, come l’ATP trasporta gruppi fosforici attivati.
Figura 14. Struttura del Coenzima A (CoA).
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Il gruppo che più spesso si trova legato al Coenzima A è il gruppo acetile, si forma così l’Acetil-CoA. Il ∆G per l’idrolisi di questa molecola è molto negativo, -7,5 Kcal/mole, di conseguenza l’acetil-CoA ha un alto potenziale di trasferimento del gruppo acetile in quanto reazione esoergonica. 2.5 Biotina, trasportatore mobile di CO2 attivata. E’ un gruppo prostetico che ha la funzione di trasportare CO2 attivata (Figura 15). La biotina è una vitamina idrosolubile, vitamina H, coinvolta nel metabolismo di acidi grassi e carboidrati. E’ presente nelle reazioni di carbossilazione, come coenzima ad esempio della piruvato carbossilasi, in cui il gruppo carbossilico terminale della biotina (B) è legato da una catena lunga e flessibile al gruppo amminico e di uno specifico residuo di lisina dell’enzima. La carbossilazione del piruvato avviene in tre fasi:
Il gruppo carbossilico nell’intermedio enzima-carbossibiotina (CO2-Enzima-B) è legato all’atomo di azoto N1 dell’anello della biotina risultando così attivato. Il gruppo carbossilico attivato viene poi trasferito alla carbossibiotina al piruvato per formare ossalacetato.
Figura 15. Struttura della biotina.
Gli enzimi
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2.6 Adenosin Trifosfato (ATP) trasportatore di gruppi fosfato. L’ATP è un nucleotide costituito da una adenina, un ribosio e una unità trifosfato (Figura 16). La forma attiva dell’ATP è un complesso con ioni Mg2+ o Mn2+ mediante interazioni con gli atomi di ossigeno dei gruppi fosforici.
Figura 16. Struttura dell'ATP.
L’ATP è una molecola ricca di energia poiché il suo gruppo trifosforico contiene due legami fosfoanidridici. La facilità di idrolisi dell’ATP è dovuta al fatto che l’ATP a pH 7 contiene 4 cariche negative che tendono a respingersi piuttosto fortemente perché sono abbastanza vicine. La repulsione elettrostatica si riduce quando l’ATP viene idrolizzato. Inoltre i prodotti dell’idrolisi dell’ATP, ADP e Pi, hanno una maggiore stabilità per risonanza rispetto alla molecola intera. Nelle condizioni cellulari tipiche il valore di ∆G delle idrolisi è circa – 12 kcal mol-1. L’energia libera rilasciata nell’idrolisi dell’ATP viene utilizzata per favorire le reazioni che richiedono un rifornimento di energia. A sua volta l’ATP si forma a partire da ADP e Pi durante l’ossidazione di sostanze nutrienti o per trasformazione dell’energia solare. Il ciclo ATP-ADP è il sistema fondamentale per lo scambio di energia nei sistemi biologici. E’ importante notare che il potenziale di trasferimento del gruppo fosforico dell’ATP ha un valore intermedio rispetto a quelli delle molecole fosforilate presenti nei sistemi biologici. Questa posizione intermedia consente all’ATP di funzionare in modo efficace come trasportatore di gruppi fosforici.
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Nei sistemi biologici vi sono altri composti che hanno un elevato potenziale di trasferimento del gruppo fosforico, come il fosfoenolpiruvato, l’acetil fosfato e la fosfocreatina. Ciò significa che il fosfoenolpiruvato può trasferire il suo gruppo fosforico all’ADP e formare ATP.
PRINCIPI DI BIOENERGETICA La bioenergetica è lo studio quantitativo di come i sistemi biologici producono ed usano l'energia. La bioenergetica è un branca della termodinamica ed è essenziale per: • Comprendere come si produce energia a partire dai processi metabolici; • Comprendere la struttura delle macromolecole; • Comprendere come avviene il trasporto nelle membrane. In breve, per la comprensione di tutti i processi fondamentali che definiscono la biochimica. I sistemi biologici e le leggi della termodinamica La prima considerazione da fare quando si parla dell’energia di un sistema biologico è che le cellule non possono sottrarsi alle leggi della chimica e della fisica. Le leggi che governano la conversione dell’energia da una forma in un’altra valgono per una cellula come per una macchina a vapore. Tuttavia, mentre i processi che vediamo nel mondo che ci circonda sono apparentemente irreversibili e portano in definitiva ad un aumento del disordine (pensiamo ad una foresta che brucia, a un palazzo che crolla, a un vegetale che si degrada in putrefazione) sembra invece che gli organismi viventi possano creare ordine dal disordine. Per conservare il suo stato dinamico nel rapporto con le cellule vicine anche la cellula più semplice deve attivare dei processi che ripristinano l’ordine che tende inesorabilmente a decadere verso il disordine. Per comprendere come questo sia possibile occorre studiare da dove viene e come si organizza l’energia necessaria per i processi vitali e come questa energia viene presa dall’ambiente e trasformata durante l’esistenza degli organismi viventi. La bioenergetica è lo studio quantitativo delle conversioni di energia che avvengono nelle cellule e della natura e delle funzioni dei processi chimici che sono alla base di esse.
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Per interpretare e comprendere bene il meccanismo che regola le reazioni chimiche e le trasformazioni energetiche nell’organismo vivente, bisogna avere presenti i concetti fondamentali della termodinamica di equilibrio, cioè dell’insieme di leggi e principi che governano il flusso e lo scambio di energia , calore e materia nei sistemi da studiare. I principi della termodinamica possono essere espressi così in sintesi riconducendoli a tre osservazioni sperimentali fondamentali. Ciascuno di essi porta infatti a definire una funzione di stato fondamentale, nell'ordine: Temperatura (T), Energia Interna (U), Entropia (S). • Principio numero 0: "Se due corpi, A e B, sono entrambi in equilibrio termico con un terzo corpo, C, essi sono in equilibrio termico anche fra loro." Questo enunciato sta alla base del concetto di temperatura e della sua misurazione mediante il termometro. • I Principio: "L'energia dell'universo è costante." È una delle possibili formulazioni del primo principio della termodinamica. Non è altro che l'espressione del concetto di conservazione dell'energia. Si introduce con esso la funzione energia interna di un sistema. Consente di stabilire quali trasformazioni siano possibili. • II Principio: "È impossibile invertire completamente un qualsiasi processo naturale." Questa è una delle possibili formulazioni del secondo principio. Esso pone delle limitazioni alle trasformazioni di calore in lavoro e introduce la funzione entropia. Consente di stabilire quali delle trasformazioni possibili siano spontanee. Col termine di sistema termodinamico s'intende una determinata porzione di spazio delimitata da una superficie, reale o apparente, che racchiude una o più sostanze chimicamente definite che possono costituire l’insieme dei reagenti, dei prodotti, del solvente e dell’atmosfera vicina, tutto ciò in definitiva, che può essere confinato in uno spazio. Il resto della materia che non si identifica con il sistema si chiama ambiente. L'unione di ambiente e sistema viene chiamato universo, ed è ad esso che fa riferimento l'enunciato del primo principio della termodinamica. Un sistema che non ha alcuna comunicazione con l'esterno, che non scambia con l'ambiente né energia, né materia, né informazione, viene detto "sistema chiuso". Un sistema chiuso è dunque
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del tutto tagliato fuori dal suo ambiente, non ha né ingressi né uscite. Di converso "aperto" è un sistema che è in relazione con il resto dell'universo. Viene modificato dal suo ambiente e lo modifica. Mentre un sistema isolato può scambiare energia, ma non materia, con l’ambiente. Per quanto riguarda gli scambi energetici si distinguono fondamentalmente due casi: quando l'interazione è attribuibile ad una forza, di varia natura, che sposta nel tempo il suo punto d'applicazione, la quantità di energia meccanica scambiata prende il nome di lavoro termodinamico, mentre si chiama calore la quantità di energia termica trasferita in seguito allo sviluppo di una differenza di temperatura tra sistema ed ambiente. Le cellule e gli organismi viventi sono tipici sistemi aperti, cioè scambiano energia (ad esempio tramite il metabolismo) e materia (nutrienti e materiale di scarto)con il loro ambiente esterno. I sistemi viventi non sono mai in equilibrio con l’ambiente che li circonda e i continui scambi fra sistema e ambiente spiegano come gli organismi possano creare ordine al loro interno pur essendo sfavoriti dal punto di vista energetico. Anche gli aspetti più complicati della termodinamica in fondo si basano su tre principi semplici e lineari che sembrano difficili da capire, ma che una volta ben compresi ed assimilati diventano potenti strumenti per risolvere complicati problemi sia chimici che biochimici. I° Principio della termodinamica Il I° Principio della termodinamica può essere definito il principio della conservazione dell’energia è un assunto fondamentale da cui si diparte gran parte della teoria della termodinamica. Esso non si occupa di considerazioni qualitative, ma affronta i problemi di scambio energetico in un'ottica di bilancio e il postulato di conservazione infatti afferma che l'energia non può essere creata o distrutta, ma può solo essere convertita in un'altra forma. Il primo principio è uno dei concetti fisici che meglio sono entrati nell'immaginario popolare con espressioni come "non ho più energia", "pieno di energie" indicano che questa è una delle idee fisiche meglio comprese dall'uomo della strada. Infatti, in qualsiasi processo o modificazione chimica e fisica la quantità totale di energia del sistema isolato (ovvero dell’Universo) è costante. Durante il processo l’energia può passare da una forma ad
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stante. Durante il processo l’energia può passare da una forma ad un’altra o essere trasferita da una zona ad un’altra, ma non può venire né creata né distrutta. Le forme dell’energia sono: la luce, il calore, l’energia elettrica, chimica e meccanica, l’energia elastica ecc. Gli studiosi di termodinamica hanno formulato una funzione matematica per indicare i trasferimenti di energia e la dissipazione di energia per compiere un lavoro chiamandola energia interna, comunemente espressa con la lettera E o U. L’energia interna dipende solo dallo stato presente di un sistema ed è quindi una funzione di stato, ed è indipendente dal percorso seguito dalla reazione. Un esempio: se si brucia uno zucchero semplice, ad esempio una pastiglia di glucosio, come si sa si ottiene CO2 ed acqua, e si ha contemporaneamente liberazione di energia sotto forma di calore. Anche il glucosio demolito nelle cellule finisce col formare CO2 ed acqua, ma per un’altra via, che comprende molte trasformazioni e molti composti intermedi. Tuttavia, molecola iniziale e prodotti finali sono gli stessi e la stessa è anche l’energia che viene liberata in questo secondo processo.L’energia interna di un sistema chiuso può cambiare solo se l’energia entra o esce dal sistema sotto forma di calore o di lavoro. Per un processo che converte uno stato (stato 1) in un altro (stato 2) la variazione di energia interna sarà: ∆U = U2 - U1 = Q – L
(1)
in cui U1 è l’energia del sistema all’inizio del processo, U2 è l’energia alla fine del processo, Q il calore scambiato (positivo se assorbito e negativo se ceduto) e L il lavoro compiuto (positivo se compiuto dal sistema sull'ambiente, negativo se subito). La scelta dei segni dell'espressione precedente deriva da considerazioni di carattere pratico, infatti la termodinamica si è inizialmente sviluppata attorno alle macchine termiche. Queste rappresentavano il sistema, ad esse veniva fornito calore, tramite una combustione, ed in cambio dovevano fornire lavoro. In un sistema isolato, che non può scambiare né lavoro, né calore con l'ambiente, la ∆U è inevitabilmente zero. Pertanto, un'implicazione del
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primo principio è la seguente: "L'energia interna di un sistema isolato è costante". Si tenga presente che l'Universo è il più grande dei sistemi isolati. L'equivalenza di calore e lavoro, oggi data per scontata, fu a lungo dibattuta all'alba della scienza. Si può dimostrare tuttavia molto banalmente sfregando le mani e sentendone il riscaldamento (lavoro/calore), o osservando il coperchio di una pentola di acqua bollente che viene sollevato dalla pressione del vapore (calore/lavoro). Il primo principio della termodinamica stabilisce quindi: • • •
il principio di conservazione dell’energia; l’esistenza di una funzione di stato detta energia interna; l’equivalenza tra calore e lavoro.
Il sistema non fa distinzione fra le due forme di energia, lavoro e calore. Una stessa variazione dell'energia interna si può ottenere trasferendo o solo lavoro o solo calore. Si può dare infatti una definizione meccanica della quantità di calore in termini di lavoro necessario per produrre la stessa variazione dell'energia interna, il cosiddetto equivalente meccanico della caloria (1 caloria = 4.184 Joule) In conclusione, il sistema, nelle varie trasformazioni, oltre al calore può scambiare con l'ambiente anche lavoro meccanico. Comunemente si intende per lavoro meccanico il lavoro compiuto da masse solide in movimento. In questo caso entrano in gioco solo due forme di energia: a) quella potenziale, derivante dalla posizione in un campo gravitazionale, e b) quella cinetica, derivante dal moto vero e proprio della massa. In senso termodinamico ad esempio, se una persona prova ad alzare qualcosa di pesante ma non ce la fa e l’oggetto non si sposta, non viene compiuto alcun lavoro. L'energia di tipo potenziale costringe ad esempio le masse a muoversi lungo una discesa, più o meno rapidamente a seconda della forza d'attrito e della pendenza. L'energia di tipo cinetico consente alle masse in moto di proseguire il movimento anche quando cessa la forza agente, se l'attrito lo consente. Poiché il lavoro è una forma di energia, si usa anche dire energia meccanica anziché lavoro meccanico: in questo modo si distingue
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questa forma di energia dalle altre, come la termica (calore), l'elettrica, l'idraulica, ecc. In un sistema chimico, se si escludono le celle galvaniche, l'unico modo di produrre lavoro è quello dovuto a variazioni di volume, cioè del tipo P·∆V, dalla relazione precedente (1) sostituendo L otteniamo: ∆U = Q - P·∆V
(2)
Se la reazione avviene senza variazione di volume, ∆V = 0 allora ∆U rappresenta solo il calore scambiato Q. Quindi ∆U = Q, e questa è una grandezza molto utile per i processi che avvengono a volume costante. Tuttavia i processi biologici avvengono per la maggior parte a pressione costante, quella atmosferica, dove il ∆U non è necessariamente uguale al calore trasferito Q. Per questa ragione i biochimici hanno definito un’altra grandezza, utile soprattutto per i processi a pressione costante, l’entalpia H, definita come: H = U + PV
(3)
Quindi: ∆H = ∆U + P∆V = Q + L + P ∆V = Q - P ∆V + P ∆V = Q (4) Il ∆H è il calore trasferito nei processi a P costante. Spesso, poiché le reazioni biologiche di solito avvengono in sistemi liquidi o solidi le variazioni di volume sono piccole e quindi trascurabili perché con un ∆V che tende a 0. In biologia infatti la prima parte dell’equazione (4) può essere semplificata nel seguente modo ∆H = ∆U (5) dove entalpia H ed energia interna U sono in pratica equivalenti. L'aver introdotto la funzione di stato entalpia, porta alla conclusione che: "In un sistema chiuso, la variazione di entalpia è pari alla quantità di calore scambiato, poste due restrizioni: l'unica forma di lavoro possibile è il lavoro di espansione e P = costante."
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In base alla direzione del flusso di calore (il segno di ∆H), le reazioni chimiche si suddividono in: • •
Esotermiche se il sistema libera calore (∆H < 0); Endotermiche se il sistema assorbe calore (∆H > 0).
Il I° Principio ci dice soltanto che l’energia totale di un sistema e del suo ambiente è costante, ma non ci dà informazioni sulla possibilità che una reazione possa avvenire spontaneamente o che sia impossibile da realizzare. L'esperienza ci insegna che i processi naturali evolvono spontaneamente (nel tempo) in una determinata direzione. Un gas si espande spontaneamente fino ad occupare tutto il volume a disposizione. Un oggetto caldo si raffredda spontaneamente fino a raggiungere l'equilibrio termico con l'ambiente circostante. Le trasformazioni di questo tipo non possono mai essere invertite completamente e per questo motivo, i processi naturali sono definiti termodinamicamente irreversibili. Dietro al concetto di irreversibilità vi è di fatto "l'impossibilità di riportare un sistema, che ha subìto una trasformazione spontanea, dallo stato finale a quello iniziale, senza provocare mutamenti in qualche parte dell'universo." Questo punto è di fondamentale importanza e fa la differenza fra trasformazione reversibile e irreversibile. A questo punto occorre dare risposta a due quesiti importanti: "Cos'è che determina la direzione di un processo spontaneo?" e inoltre "In che modo si può prevedere se un processo è spontaneo?" La risposta va cercata in una "nuova" funzione di stato, l'entropia (S) trattata all’interno del II principio della termodinamica. Per chiarire meglio il concetto di entropia (di non troppo facile comprensione) facciamo prima un esempio pratico. Noi sappiamo che il vapore prodotto dall’acqua in ebollizione può produrre lavoro (ad es. pensiamo alle prime locomotive). Supponiamo ora di avere un bollitore pieno d’acqua riscaldato a 100°C (il sistema) in una cucina (l’ambiente circostante). Spegniamo il fuoco sotto il bollitore e lasciamolo raffreddare. Durante il raffreddamento non può essere generato un lavoro e il calore passa dal bollitore all’ambiente (la cucina), aumentandone la temperatura finché non viene raggiunto l’equilibrio.
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A questo punto tutte le parti del bricco e della cucina sono alla stessa temperatura. L’energia libera G (che, come si vedrà più avanti, è la quantità di energia effettivamente disponibile per compiere un lavoro), che una volta era concentrata nel bricco di acqua a 100°C e potenzialmente poteva compiere lavoro è invece stata dispersa nell’ambiente. Una quantità equivalente di energia (termica) è ancora presente nel “bricco + la cucina” (sistema + ambiente) ma ha una distribuzione assolutamente casuale. Questa energia non è più disponibile per compiere un lavoro in quanto non c’è più differenza termica fra il sistema e l’ambiente. Dalla nostra esperienza sappiamo che il calore non tornerà più dalla cucina al bricco per scaldarlo a 100°C. Il disordine e la casualità sono i modi più indicati per rappresentare l’entropia. Per comprendere quindi come avvengono le trasformazioni biologiche bisogna ricorrere all’entropia ed è un modo di esprimere, come vedremo, il disordine del sistema. Uno stato organizzato o ordinato è a bassa entropia, mentre uno stato disordinato è ad alta entropia. A parità di condizioni, le reazioni che portano a grandi e positivi cambiamenti di “disordine” o entropia (∆S) hanno maggior probabilità di avvenire che non le reazioni con variazioni di entropia piccole o addirittura negative ossia che portano ad un maggior ordine. II° Principio della termodinamica Il II° Principio della termodinamica dice in sostanza che l’universo tende ad essere sempre più disordinato e quindi che, in tutti i processi naturali, l’entropia tende ad aumentare. Questo principio può essere espresso in modi diversi: 1) I sistemi tendono a procedere da uno stato ordinato (bassa entropia o bassa probabilità) ad uno stato di disordine (alta entropia o alta probabilità); 2) L’entropia del sistema più ambiente non viene alterata dai processi reversibili, mentre l’entropia del sistema più ambiente aumenta per i processi irreversibili; 3) Tutti i processi che avvengono in natura procedono verso l’equilibrio, che è lo stato a minima energia potenziale.
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In pratica, un processo può avvenire spontaneamente solo se la somma delle variazioni di entropia del sistema e dell’ambiente aumentano ∆S sistema + ∆S ambiente > 0. Tuttavia, la cellula è ben lontana dalla situazione ideale in cui tra il sistema e l’universo si scambia solo energia. In realtà come detto sopra le cellule e gli organismi viventi sono dei sistemi aperti, cioè scambiano energia e materia con l’esterno e lo scambio è un flusso continuo perché essi non sono mai in equilibrio con l’ambiente che li circonda. La misura dell’entropia quindi è un problema complesso sia dal punto di vista tecnico che concettuale. Per superare questo scoglio, il chimico Gibbs introdusse una funzione, detta energia libera di Gibbs (G) ricavata dalla prima e dalla seconda legge della termodinamica. Questa funzione viene calcolata come variazione (∆G) ed è molto utile perché tiene conto di vari parametri all’interno del sistema ed esclude l’ambiente. Questi parametri sono: la variazione di energia interna (∆E), di entropia (∆S) e di volume (∆V). Quindi l’energia libera G è la quantità di energia effettivamente spendibile dal sistema, durante una reazione a pressione e temperatura costanti, in grado di produrre un lavoro, cioè che può essere fornita a sistemi vicini perché a loro volta possano utilizzarla per fare avvenire nuove reazioni. ∆G sistema = ∆H sistema – T ∆S sistema (6) Ma, come abbiamo riportato sopra (5), poiché nei sistemi biologici la variazione di volume è praticamente uguale a 0 (∆V=0) e quindi ∆H = ∆U l’equazione (6) può essere scritta come: ∆G sistema = ∆U sistema – T ∆S sistema dove T è la temperatura assoluta espressa in gradi Kelvin (°K). L’energia libera descrive in modo conveniente l’incremento di disordine di un sistema. La differenza di energia libera fra lo stato iniziale e lo stato finale di una reazione ne determina la spontaneità o la non spontaneità. Infatti, quando in una reazione si ha rilascio di energia
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libera, significa che il sistema si modifica verso uno stato ad energia minore, cioè verso uno stato più stabile. La variazione dell'energia libera (energia dei prodotti - energia dei reagenti) sarà negativa: avremo quindi ∆G0 e la reazione verrà detta endoergonica o non spontanea, che richiederà energia per avvenire. Se il valore di ∆G = 0 il sistema è in equilibrio termodinamico e non avviene niente. Il valore di ∆G di un sistema che reagisce spontaneamente è sempre negativo. Riprendiamo in esame la combustione del glucosio. La reazione è: C6 H12 O6 + 6 O2 = 6 CO2 + 6 H2O + ENERGIA Con un ∆G°’ = - 686 cal/mole. Si deduce quindi che: 1) la reazione è spontanea perché ∆G è negativo; 2) la reazione avviene: quindi bruciando il glucosio si originano CO2 ed acqua e si libera energia; 3) la reazione avviene indipendentemente dalla via seguita per arrivare dai reagenti ai prodotti, perché nell’equazione non si indica il percorso; 4) il ∆G non ci dice nulla sulla velocità con cui avviene la reazione; 5) il valore di ∆G é espresso come ∆G°’ (energia libera standard per i sistemi biologici) dove l’apice specifica che il valore di ∆G è quello standard, cioè riportato in condizioni di riferimento; Riguardo a quest’ultimo punto occorre precisare che, per paragonare i parametri termodinamici di reazioni diverse bisogna definire lo stato standard. Per soluti in soluzione, lo stato standard è di solito una concentrazione 1M. I parametri termodinamici dati finora se espressi allo stato standard, verranno scritti col segno “ ° “ (∆H°, ∆U° ecc.). Per i sistemi biologici i parametri che identificano lo stato standard sono la concentrazione dei reagenti 1M, la temperatura a 37°C e il
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pH=7. L’entalpia, come definito sopra, è il contenuto termico del sistema che sta reagendo e riflette il numero e il tipo di legami chimici dei reagenti e dei prodotti. Quando nelle reazioni chimiche si ha rottura di alcuni legami e se ne formano altri, la differenza fra l’energia fornita dall’ambiente per rompere i legami e quella guadagnata dall’ambiente durante la formazione dei legami viene detta variazione di entalpia (∆H) della reazione. Quando durante una reazione chimica viene rilasciato calore all’ambiente la reazione viene detta esotermica, e la differenza di entalpia fra prodotti e reagenti ha per definizione valore negativo (∆H0). ∆G e ∆H sono espressi in joule/mole o calorie/mole ( 1 caloria = 4,18 joule) mentre ∆S si esprime in joule/mole gradi Kelvin (K). III° Principio della termodinamica Il III° Principio della termodinamica stabilisce che l’entropia di una sostanza cristallina, perfettamente ordinata tende a zero quando la temperatura assoluta, espressa in gradi Kelvin (°K) si avvicina allo zero assoluto (-273,15 °C ) e che a T=0 l’entropia è esattamente zero. Basandosi su questo principio è possibile stabilire una scala quantitativa assoluta delle entropie per ogni sostanza. Per i processi biologici tuttavia le variazioni di entropia sono molto più utili della conoscenza dei suoi valori assoluti. Le variazioni di entropia possono essere calcolate se sono note le variazioni di entalpia e di energia libera La variazione di energia libera standard è correlata direttamente con la costante di equilibrio. Consideriamo la seguente reazione chimica spontanea (spontanea come tutti i processi naturali): aA + bB = cC + dD
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dove a,b,c,d rappresentano il numero di molecole dei composti A,B,C,D che partecipano alla reazione. La composizione del sistema che sta reagendo tende a cambiare continuamente finché non si raggiunge l’equilibrio. All’equilibrio, la velocità della reazione che procede da destra a sinistra eguaglia la velocità di quella che procede da sinistra a destra e non vi sono ulteriori cambiamenti del sistema. Le concentrazioni di reagenti e prodotti all’equilibrio definiscono la costante di equilibrio Keq Keq = [C]c . [D]d / [A]a . [B]b dove [A], [B], [C] e [D], sono le concentrazioni molari dei componenti della reazione all’equilibrio. Quando un sistema non è all’equilibrio, la tendenza a spostarsi verso l’equilibrio diventa una forza trainante espressa dalla variazione di energia libera ∆G della reazione. In condizioni standard (298°K, cioè 25°C) quando reagenti e prodotti hanno una concentrazione iniziale 1M la variazione di energia libera si dice ∆G°. Da questa definizione si deduce che lo stato standard quando sono presenti ioni H+ è [H+] = 1M cioè pH=0. La maggior parte delle reazioni biochimiche avviene in ambiente acquoso tamponato a pH circa 7, quindi il pH e la concentrazione dell’acqua 55,5M possono definirsi costanti. I biochimici per facilitare i calcoli hanno definito lo stato standard considerando [H+] = 10-7 M cioè pH=7 e la concentrazione dell’acqua 55,5 M. Quindi quando acqua e [H+] sono reagenti o prodotti le loro concentrazioni sono incorporate nelle costanti ∆G°’ e Keq’. Esiste una relazione semplice fra ∆G°’ e Keq’ ∆G°’= -RT .ln Keq’ dove R è la costante dei gas (8,315 J/mole.°K, T è la temperatura assoluta 298°K (25°C). La variazione di energia libera standard di una reazione chimica è semplicemente un modo matematico alternativo di esprimere la sua costante di equilibrio. La costante di equilibrio è direttamente proporzionale alla variazione complessiva di energia libera
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standard. Un valore di ∆G°’