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Italian Pages 185 Year 2020
Manuali Laterza Luigina Mortari
Educazione ecologica
Editori Laterza
© 2020, Gius. Laterza & Figli
Edizione digitale: maggio 2020 www.laterza.it Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858142295 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata
Indice
Introduzione. Prendersi cura del mondo 1. Le interpretazioni della crisi ecologica 1.1. La questione tecnologica 1.2. La questione economica
2. Una nuova etica 2.1. Il rispetto per la vita 2.2. L’etica della terra 2.3. “Environmental ethics” 2.4. Il rispetto per la natura 2.5. I limiti dell’etica biocentrica 2.6. Estendere il principio di responsabilità 2.7. Una nuova sensibilità ecologica
3. La necessità di un umanesimo ecologico 3.1. Rimettere al centro la natura 3.2. Incontrare la natura 3.3. La relazione sensoriale 3.4. Conoscere a partire dall’esperienza 3.5. Leggere i fenomeni 3.6. Una metafisica ecologica 3.7. Per un’estetica della terra 3.8. Semi di educazione ecologica
4. Verso un nuovo paradigma 4.1. Nuovi sentieri epistemici 4.2. Modi ecologici del conoscere 4.3. Rinominare la natura 4.4. L’ecologia del pensare riflessivo
5. Mettersi in relazione 5.1. Un’idea dinamica della natura
5.2. Un’antropologia ecologica 5.3. La sintassi ontologica della relazionalità 5.4. Materia e pensiero 5.5. Una diversa postura
6. Come coltivare un’etica ecologica 6.1. Le principali implicazioni delle etiche ecologiche 6.2. L’etica dell’impegno 6.3. Educare a prendersi cura
7. Depotenziare la logica del consumo 7.1. Pensare la qualità della vita 7.2. Educare a conservare 7.3. Impegnarsi per un mondo nuovo
8. Verso una carta dell’educazione ecologica 8.1. Una ragione dialogica 8.2. Carta dell’educazione ecologica
Riferimenti bibliografici
Introduzione. Prendersi cura del mondo
Una crisi ecologica senza precedenti sta devastando il pianeta, mettendo a rischio la natura e con essa la qualità della vita umana. Effetto serra, assottigliamento dello strato dell’ozono, surriscaldamento del pianeta, distruzione delle foreste, impoverimento delle risorse idriche e progressiva desertificazione, aumento della salinità del suolo e conseguente abbassamento del tasso di fertilità del terreno, piogge acide, inquinamento dell’aria a causa dei gas di scarico, inquinamento del terreno per eccesso di pesticidi, presenza nell’ambiente di scorie nucleari e radioattive, eccessiva produzione di scarti non biodegradabili e scorretto smaltimento dei rifiuti, estinzione di numerose specie di vegetali e animali: sono i sintomi della crisi ambientale che attesta uno scorretto rapporto del mondo umano nei confronti della natura. A questi danni ambientali si aggiungono i problemi conseguenti a certe applicazioni della ricerca biotecnologica dai risultati inquietanti, senza contare le violenze perpetrate nei confronti degli animali per scopi di ricerca. Oltre a un impoverimento progressivo ed esponenziale delle risorse e a un indebolimento della capacità auto-organizzativa degli ecosistemi, si assiste a un continuo peggioramento dello stato di salute dell’essere umano costretto a confrontarsi con l’incremento delle patologie della pelle e delle vie respiratorie e con malattie dovute allo stress, non di rado conseguente all’inquinamento acustico; senza contare il più recente e meno indagato inquinamento elettromagnetico. Tutti quei fenomeni che mettono a rischio la qualità della vita vanno a configurare quella che viene definita “crisi ecologica”, che si qualifica come la conseguenza di un rapporto scorretto che il mondo umano ha stabilito con il resto della natura. Che il problema ecologico esista è un fatto sul quale non si può dubitare: prima che lo confermino gli studi scientifici, lo dicono i nostri
sensi. Si assiste a un aumento esponenziale del degrado ambientale, provocato dal ricorso a metodi di produzione e da logiche di consumo che in alcun modo, o ben poco, tengono conto del contesto biofisico in cui hanno luogo. Siamo responsabili di uno sfruttamento indiscriminato delle risorse ambientali, connesso a un intervento pesante della comunità umana sul paesaggio come mai nel corso della storia si era verificato. L’essere umano da sempre è intervenuto, anche pesantemente, sull’ambiente, al punto che il famoso coro dell’Antigone di Sofocle così dichiara: «molte potenze sono tremende ma nessuna lo è più dell’uomo» perché instancabile, di anno in anno, la terra rivolta con gli aratri e mai cessa di esercitare il suo potere sugli animali, e di affermare la sua forza sui fenomeni della natura; «ovunque si apre la strada, in nulla s’arresta. Così affronta il futuro. Oltre ogni speranza e ogni attesa, conosce, fabbrica, inventa, a volte volgendosi al male, altre al bene» (Sofocle, Antigone, primo stasimo). L’essere umano da sempre ha messo all’opera la sua ingegnosità per sfruttare la natura, tuttavia rispetto al passato oggi l’ambiente non viene solo modificato, ma stravolto da interventi pesanti e massici. Con le attuali possibilità della scienza e della tecnologia l’essere umano interviene nella processualità più intima della natura; mentre un tempo nell’usare gli elementi della terra non era ancora in grado di mutarne la natura, né di manipolare la loro potenza generativa, oggi i suoi interventi non sono più definibili “di superficie”, e quindi assorbibili dalle dinamiche esistenti, ma sono divenuti sostanziali. Si è passati da interventi che modificano la materia vivente solo in superfice, come l’innesto delle piante, ad azioni dal potere profondo, come la manipolazione del patrimonio genetico, senza che questo potere di intervento sia supportato dalla necessaria saggezza, poiché lo sviluppo di una tecnica non implica automaticamente la padronanza di una sapienza d’uso. Non si può negare l’esistenza di iniziative in favore di un superamento della crisi. L’interesse alle problematiche ecologiche negli ultimi decenni si è intensificato divenendo ormai un tema diffuso. Il problema della gestione corretta dell’ambiente da tempo ha trovato spazio nell’ambito della ricerca scientifica e tecnologica, nei programmi dei partiti politici e nell’attività legislativa dei governi, nei documenti religiosi, in molte programmazioni aziendali. Ancora prima che il disagio nei confronti del degrado del
territorio divenisse una situazione diffusa, le associazioni ambientaliste hanno giocato un ruolo di primo piano nell’informare e nel creare una sensibilità ecologica, cominciando a veicolare concetti nuovi quali quello di “ambiente come realtà viva” e quello della necessità di mettere in discussione il paradigma su cui si è strutturata la civiltà moderna, che ha contribuito a compromettere il rapporto fra ecosfera e sociosfera. Eppure, nonostante tutte le iniziative a scopo ecologico1 di questi ultimi anni, e l’impegno profuso in molte scuole per avviare progetti di educazione ecologica, il degrado ambientale va aggravandosi a ritmi sempre più elevati, mostrando come l’attenzione ai problemi dell’ambiente risulti spesso niente più che una moda, e in quanto tale debole sul versante di un possibile cambiamento reale. Ciò significa che, oltre a politiche serie e rigorose, affidate a governi che sanno agire per il bene e che si sottraggono alle logiche della finanza mondiale, c’è bisogno di avviare un movimento culturale capace di produrre cambiamenti più profondi, radicali, per orientare su nuove coordinate la relazione fra mondo umano e mondo naturale. C’è bisogno di una nuova saggezza, che consenta alla civiltà contemporanea di abitare con misura la terra. Se per “saggezza” s’intende quella giusta misura che consentirebbe all’essere umano di interpretare nel modo migliore possibile il progetto dell’esserci, la misura per mettere ordine nel rapporto col mondo naturale si esprime in modo specifico in quella che si può definire saggezza ecologica. Se la devastazione della natura è l’esito di precise azioni sull’ambiente, alle radici di queste azioni ci sono idee e desideri che legittimano i comportamenti antiecologici: Si decide di volersi sbarazzare dei sottoprodotti della vita umana e si decide che il lago Erie sarà un buon posto per scaricarveli; si dimentica però che il sistema eco-mentale chiamato lago Erie è una parte del nostro più ampio sistema eco-mentale e che se il lago Erie viene spinto alla follia, la sua follia viene incorporata nel più vasto sistema del nostro pensiero e della nostra esperienza (Bateson, 1976, p. 594).
Gli errori dell’agire si fondano su errori del pensare, su premesse antiecologiche del pensiero. Prima fra tutte l’idea che il mondo umano sia un sistema organizzativo distinto dal mondo naturale, quando invece noi esseri umani siamo dentro il tessuto della natura e la natura non è mera materia estesa, ma materia vivente permeata dal pensiero, quel pensiero di cui il pensare umano non è che un epifenomeno. Quando agiamo a partire
da premesse sbagliate introduciamo errori nel più vasto sistema di pensiero che attraversa la natura. È così che i delicati circuiti mentali della natura si guastano. Urgente dunque è attivare forme di impegno culturale per dare forma a un nuovo umanesimo ecologico, fondato su differenti premesse ontologiche ed epistemologiche, che facciano da fondamento a una nuova politica dell’esistenza, poiché un’essenziale azione per l’inversione del processo antiecologico consiste nella trasformazione degli atteggiamenti di pensiero (Bateson, 1976, p. 512). La sapienza nell’abitare la terra non può essere affidata solo a soluzioni tecnologiche, e non emerge in modo automatico come conseguenza di interventi legislativi per quanto corretti e giusti, ma necessita di una nuova formazione culturale che prepari l’essere umano a progettare l’abitare la terra secondo criteri differenti dal passato. Decisive dunque risultano essere le politiche formative. Se le decisioni politiche sono responsabilità di tutti, è necessario che i cittadini siano preparati ad assumersi tale compito; le questioni sulle quali deliberare sono di una complessità tale da richiedere una robusta alfabetizzazione culturale, che non si limita a una buona competenza scientifica, ma richiede anche una profondità di pensiero teoretico e critico, perché il sapere scientifico da solo non porta soluzioni adeguate alla complessità dei problemi. Se dovesse accadere che la scienza, con le sue applicazioni, si separasse dal pensiero meditante e critico, «allora diventeremmo schiavi senza speranza, non tanto delle macchine quanto della nostra competenza, creature prive di pensiero alla mercé di ogni dispositivo tecnicamente possibile» (Arendt, 1989, p. 3). La scienza e la tecnologia si devono accompagnare al pensiero critico. Di pensiero teoretico, etico e riflessivo la cultura ha un’assoluta necessità. È vero che più che mai in questo momento la realtà dipende dalle decisioni operate dai pochi nel mondo che gestiscono il potere economico e che l’economia può cambiare forma diventando più sostenibile nella misura in cui il potere economico lo decide; è vero che sono gli eventi che cambiano il mondo, ma alla radice degli eventi ci sono sempre idee e desideri2. Per tale ragione risulta necessaria una trasformazione culturale radicale, per fare sì che i molti che non hanno potere ispirino il loro agire a una coscienza ecologica che indica modi di essere non più corresponsabili dell’economia antiecologica. Se i pochi che detengono il potere possono tanto, i tanti che
non hanno potere possono far agire tutti insieme quel poco che possono, attivando un’energia radicalmente trasformatrice. Il potere, che per essere tale cerca di controllare il processo di produzione delle idee, sponsorizza quelle che sono funzionali alla logica di cui necessita per conservarsi. La formazione, e in specifico la scuola, ha la responsabilità di coltivare la libertà di pensiero, sottraendosi a ogni forma di omologazione per coltivare invece tutte quelle vie del pensare che possano orientare ad abitare con saggezza la terra (l’ecosistema naturale) e il mondo (la sfera degli artefatti umani). Per promuovere un nuovo umanesimo ecologico occorre non lasciarsi affascinare da miti che semplificano le questioni: non si può sperare che l’economia cambi da sé la sua impostazione sulla logica del consumo, né ha senso ipotizzare un centro di decisionalità ecologica a livello globale perché, anche ammesso che ciò fosse possibile in questo conflittuale paesaggio politico, tale ipotetica soluzione porterebbe più rischi che vantaggi. Senza che la politica rinunci ad azioni di sistema, è di primaria importanza lavorare sul pensiero: aprire nuovi mondi del pensare, e questo è il compito dell’educazione. Dalla scuola dunque si deve cominciare. Noi siamo quello che pensiamo, e poiché la scuola è il luogo dove si coltiva il pensare, grande è la sua responsabilità. Di interventi educativi a orientamento ecologico ce ne sono stati, ma i risultati in termini di apprendimento trasformativo non sono stati quelli attesi. Si è trattato di interventi sporadici e disgiunti da una complessiva filosofia della pratica educativa che sappia sviluppare proposte organiche e sistemiche. Manca una filosofia dell’educazione ecologica. Ha ormai acquisito i contorni di una necessità ineludibile il prendere in esame la questione di una fondazione rigorosa di quella che viene definita educazione ecologica3. Anche se a partire dagli anni Settanta del secolo scorso molti sono stati i documenti prodotti a livello internazionale, molti gli studi pubblicati e molte le iniziative educative messe in atto, troppo resta da fare, al punto che risulta necessario ricominciare a pensare daccapo la questione del come seminare una nuova cultura ecologicamente orientata. L’intensità e la dimensione della crisi ecologica aumentano mentre fatica a svilupparsi un’autentica e vitale cultura ecologica. Se si considera lo stato attuale delle varie offerte formative ci si trova di fronte alla mancanza di una “carta dell’educazione ecologica”, cui fa da
sfondo una presenza a macchie di leopardo di iniziative formative, e in molte di queste si ravvisa qualcosa di poco convincente, dovuto al prevalere di un’interpretazione tecnicistica, e spesso scientista, che riduce l’educazione ecologica a qualche lezione di ecologia o all’apprendimento di qualche comportamento virtuoso. Nei casi più interessanti vengono introdotte nel curricolo alcune esperienze di educazione all’aperto, in altri casi dove prevale l’attenzione alle nuove tecnologie sembra sufficiente mettere le scuole in rete e, attraverso il computer, scambiarsi dati sull’analisi dell’ambiente per garantire l’alfabetizzazione ecologica. Sicuramente anche queste esperienze possono essere incluse in un progetto di educazione ecologica, ma non è in quelle interpretazioni (tecnicistiche o scientiste) che consiste lo specifico di questa direzione educativa, che si presenta con un’identità molto più articolata. Data la relativa novità con cui si pone questo ambito educativo, è necessario disporre di un’articolata interpretazione del concetto di educazione ecologica come premessa necessaria per orientare la pratica formativa. Impegnarsi in questa analisi concettuale non è una semplice opzione, ma una necessità per arrivare a elaborare una teoria adeguata alla complessità dell’azione educativa da promuovere. A tale scopo risulta fondamentale andare alle radici della crisi ecologica per comprendere la matrice di pensiero da cui si sviluppa l’orientamento antiecologico e per cercare nella tradizione culturale quei semi di pensiero da coltivare per generare un nuovo umanesimo ecologico. La filosofia dell’educazione ecologica dovrebbe costituirsi come una forma di discorso che si sottrae a una qualificazione riduttivamente intesa in termini tecnico-operativi, per riscoprire e sviluppare tutta la sua necessaria dimensione teoretica. La teoria pedagogica non può limitarsi a formulare progettualità relative alla gestione dei contesti di apprendimento o all’organizzazione scolastica, ma dovrebbe costituirsi come discorso capace di una problematizzazione radicale delle questioni che generano la complessità della fenomenicità educativa, e a partire da questa analisi disegnare possibili sentieri dell’agire. Non si tratta di fornire indicazioni regolative, ma visioni da interpretare. I capitoli che seguono esaminano le tre principali questioni che sono al centro del dibattito ecologico: tecnologica, economica, etica. A questa terza è riservato uno spazio consistente per fedeltà all’ampiezza del dibattito
in atto. Si individueranno poi i sentieri di pensiero da seguire per coltivare un umanesimo ecologico che possa ispirare un rinnovato modo di abitare la terra. A partire dall’analisi della prima produzione ecologica qui definita protoecologista si procede a esaminare le indicazioni che vengono dalla epistemologia e dalla filosofia ecologica, per formulare un paradigma ecologico che costituisca l’orizzonte entro cui elaborare una teoria ecologica dell’educazione. Completa il testo una “carta dell’educazione ecologica”: si tratta di una proposta che non ha pretese di esaustività, poiché solo i docenti che si fanno ricercatori sul campo e insieme a loro tutti i cittadini che intendono coltivare un nuovo umanesimo possono completarla coniugando la riflessione teoretica con il sapere che viene dall’esperienza. Avvertenza Le traduzioni di citazioni provenienti da testi in lingua straniera, quando non ricavate dalle edizioni italiane menzionate in Bibliografia, sono da attribuirsi all’Autrice del presente volume. 1 Per una dettagliata analisi delle iniziative politiche che si sono susseguite, dal Rapporto al Club di Roma The Limits of Growth (1972) fino a 2030 Agenda for Sustainable development (2015), si veda lo studio di Enrico Giovannini (2018), che fornisce precise indicazioni sulle azioni da intraprendere per realizzare uno stile di vita sostenibile. 2 Nel momento in cui scrivo la foresta amazzonica è in fiamme e chi può intervenire non lo fa per motivi economici. Mentre la sensibilità ambientale invoca da anni la riduzione della plastica, chi detiene il potere della produzione inventa nuovi sistemi di imballaggio che rendono i materiali plastici sempre più invasivi. Se da una parte si investe nella cultura del riciclo e dello smaltimento corretto dei rifiuti, dall’altra le mafie hanno appreso a rendere questi processi un’ulteriore fonte di guadagno nel dispregio di ogni norma ambientale. L’avidità dissennata continua a distruggere aree verdi tramutandole in zone edificabili, con la conseguenza che in futuro l’umanità potrebbe non disporre di sufficienti risorse agricole per sopravvivere, senza tenere conto che le comunità più povere vengono confinate in contesti sempre più artificiali e con un insufficiente spazio vitale a disposizione. A governare questi processi di distruzione e inquinamento è l’avidità; una passione negativa che tende a radicarsi facilmente nell’anima umana, e che viene poi legittimata da certe teorie sponsorizzate da moderni cortigiani del potere che patinano di valore positivo il cercare di possedere oltre il necessario, sostenuto dall’insensibilità verso chi vive in condizioni non umane a causa degli squilibri economici che si creano. 3 Questo studio si occupa di educazione ecologica; nel dibattito pedagogico italiano si tende invece a parlare di educazione ambientale. Si rende dunque necessaria una precisazione. Il termine ambiente ha un referente semantico molto ampio. Deriva dal latino ambiens e indica ciò che è circostante, ciò che circonda. Per questo è usato, in senso generico, per indicare il complesso della realtà in cui si vive. La realtà può essere suddivisa in due regioni ontologiche: l’“ambiente naturale”, che indica l’insieme di quegli enti che esistono indipendentemente dall’azione umana, e l’“ambiente artificiale”, costituto dagli artefatti che sono il prodotto dell’azione costruttiva dell’essere umano. Caratteristica specifica di tutti i processi naturali è il fatto che si sviluppano autonomamente, per opera dell’azione
morfogenetica della natura. È questo il significato autentico della parola “natura”, sia che la facciamo derivare dal latino nasci o dal greco φύσιϛ, che viene da φύειν, scaturire, comparire da sé. Diversamente dalla cosa naturale, che non è separata dal processo attraverso il quale viene in essere, il prodotto dell’azione dell’uomo è il risultato di un processo di fabbricazione interamente distinto dalla cosa fabbricata (Arendt, 1989, p. 107). Se l’“educazione ambientale” può essere considerata quella forma educativa che si occupa del rapporto fra l’essere umano e l’ambiente considerato in senso ampio, per educazione ecologica s’intende un’azione mirata ad affrontare il problema della relazione che il mondo umano stabilisce con la materia vivente del mondo biofisico. Poiché oggetto di questo studio è il problema ecologico, le riflessioni qui sviluppate vanno a costituire un modo di interpretare la filosofia ecologica applicata al mondo dell’educazione.
1. Le interpretazioni della crisi ecologica
1.1. La questione tecnologica Nel vasto movimento dell’ambientalismo la linea di pensiero più diffusa è quella che viene definita corrente riformista che considera la crisi ecologica come un problema fondamentalmente scientifico e tecnologico e, conseguentemente, individua nell’incremento della ricerca tecnologica la via per cercare, se non una soluzione a tale crisi, comunque un suo sensibile ridimensionamento. Partendo dal presupposto che è utopistico pretendere di pervenire a una completa soluzione di tale problema, mentre è considerato realistico ipotizzare interventi che mirino a limitare, ridurre, le varie forme di criticità ecologica (Passmore, 1986, p. 58), viene individuata nell’incremento della ricerca scientifica e tecnologica la via necessaria e sufficiente per una soluzione. Nell’ambiente culturale che investe sull’approccio tecnologico si riconosce che gran parte dei fattori che concorrono a determinare la crisi ecologica sono riconducibili in larga misura proprio allo sviluppo tecnologico che ha reso disponibili nuove sostanze e nuovi metodi di produzione non compatibili con gli equilibri degli ecosistemi: l’introduzione di detergenti chimici, un uso sempre più massiccio di materiali plastici, la produzione di fertilizzanti inorganici, cui si aggiunge la tendenza a un incremento di sistemi di imballaggio non riutilizzabili, e con queste molte altre innovazioni. Tuttavia prevale la convinzione che, così come le nuove tecnologie sono all’origine dell’inquinamento ambientale, allo stesso modo le stesse possono essere ripensate per provocare un rinnovamento che metta a disposizione un sempre maggior numero di sostanze ecocompatibili e di dispostivi tecnici che consentano un uso sostenibile delle risorse energetiche. Per “tecnologia ecocompatibile”
s’intende quella che deve calzarsi al sistema ambientale come il guanto alla mano. Dev’essere pensata e usata in modo da garantire una presenza sostenibile all’interno del sistema biosferico, senza provocare rotture di equilibrio. Una tecnologia ecocompatibile si fonda sul principio di armonizzazione con la processualità dei sistemi viventi. Interpretare la crisi ecologica in termini tecnologici porta a postulare la non necessità di ristrutturazioni profonde del tessuto culturale, per investire invece in una serie di aggiustamenti progressivi nella politica di gestione delle risorse e nella messa a punto di un apparato tecnologico in grado di ridurre l’entità dei dissesti ecologici. Proprio per questo cauto riformismo e per la fiducia in certi casi incondizionata nella tecnica, questa posizione raccoglie largo e facile consenso nell’opinione pubblica. Un’analisi più attenta dei fenomeni culturali suggerisce invece di prendere le dovute distanze da questa fiducia nella tecnica, perché ciò significherebbe tendere verso una società sempre più tecnocratica, e di mettere in discussione l’ipotesi che tale eco-tecnocrazia abbia una base scientifica affidabile. Occorre guardarsi dal mitizzare lo sviluppo tecnologico, perché se è vero che ha consentito un miglioramento delle condizioni di vita riducendo per certi aspetti la sudditanza nei confronti delle condizioni ambientali, non per questo si deve ritenere che ciò si traduca in un aumento automatico di libertà dai vincoli naturali. L’essere umano è, infatti, per sua natura un essere condizionato, perché ogni cosa con cui entra in relazione assume immediatamente le caratteristiche di un fattore condizionante la sua esistenza (Arendt, 1989, p. 8); e a svolgere questa funzione condizionante non è solo la natura, ma anche le cose prodotte dalle attività umane, e dunque anche la scienza e la tecnica. Con queste riflessioni non s’intende negare il valore della tecnica, poiché questa è indispensabile per costruire un mondo umano. Nel Protagora di Platone si narra che un tempo gli esseri umani vagavano indifesi sulla terra, esposti alle forze incontrollabili della natura. Solo quando, per la benevolenza di Prometeo, essi ricevettero in dono le varie tecniche (il coltivare, l’allevare, l’edificare, il fare discorsi, ecc.) furono in grado di iniziare a costruire quel mondo di artefatti che rappresenta la condizione per condurre una vita propriamente umana. Questo mito tematizza l’idea che la tecnica è condizione per l’edificazione della civiltà;
per questa ragione al progresso tecnologico l’intelligenza umana ha dedicato gran parte delle sue energie. Nel tempo le tecniche hanno conosciuto una continua evoluzione fino al punto che oggi si parla di tecnosfera, per indicare che abitiamo un mondo in ogni sua parte tecnicamente organizzato, sia perché l’esistenza è condizionata dall’uso delle tecnologie, sia perché prevale una razionalità di tipo tecnico, secondo la quale ogni obiettivo di trasformazione culturale è pensabile possa essere raggiunto solo attraverso la mediazione della tecnica. Per attualizzare le sue potenzialità, l’essere umano necessita di un mondo di artefatti: materiali, noetici e relazionali; solo con essi è possibile affermare fino in fondo il proprio essere, e la costruzione di questi artefatti implica lo sviluppo di abilità tecniche. Proprio dell’essere umano è la messa in atto di azioni finalizzate a costruire una dimora che consenta la piena realizzazione della sua umanità; da qui prende forma la città, quel contesto che costituisce il luogo dell’abitare della sfera umana. L’essere umano si realizza nella misura in cui, attraverso le invenzioni tecnologiche, costruisce e conserva il mondo umano, ed è proprio per costruire un mondo in cui abitare che da sempre manipola e usa la natura. Perciò l’uso e la manipolazione della natura e la costruzione di civiltà vanno di pari passo. Pur consentendo l’emergenza di sempre migliori condizioni di vita, nello stesso tempo la continua evoluzione tecnica ha però sollevato una serie di problemi di una qualità tale che la ragione umana si trova impreparata ad affrontare. Non si può negare, infatti, che la disponibilità di certe tecnologie ha contribuito al verificarsi di una crisi ambientale che non ha precedenti nella storia umana. La nostra civiltà, che ha assunto come riferimento essenziale il paradigma del continuo incremento della produzione, ha fatto un uso scorretto delle risorse naturali, arrivando a sfruttare la biosfera ai limiti delle sue capacità. Gli ecosistemi hanno subìto uno sviluppo industriale e una politica di gestione del territorio che ha esercitato un impatto ambientale senza precedenti: distruzione delle foreste, esaurimento di molte fonti di acqua potabile, erosione del suolo, inquinamento dell’aria, riduzione dello strato di ozono, ecc. Inoltre occorre fare i conti con una globalizzazione dei mercati che incrementa l’esproprio delle risorse naturali e con uno sviluppo delle biotecnologie che, accompagnato da una svalorizzazione dei saperi tradizionali, provoca un progressivo impoverimento della ricchezza
biotica. Malgrado questo saccheggio della natura che potrebbe garantire un benessere diffuso, intere popolazioni lottano contro la povertà, costrette a una qualità della vita al di sotto dei limiti tollerabili, a causa in primo luogo della mancanza di cibo sufficiente e di acqua potabile, nonché della sottrazione di risorse che nel tempo hanno subito. In questo scenario, non meno problematico dell’appropriazione crescente e senza misura delle risorse naturali da parte di gruppi di potere, si profila lo sviluppo dell’ingegneria genetica che, occupata a manipolare i processi vitali, solleva questioni di una profonda drammaticità. È vero che dagli inizi della civiltà il patrimonio genetico di piante e animali è stato oggetto di una continua selezione, ma con i mezzi messi a disposizione dalle biotecnologie si sta verificando una forma di manipolazione dei processi morfogenetici che, se da una parte risponde al bisogno propriamente umano di conoscere, dall’altra può essere interpretata come il sintomo di un desiderio smisurato di dominio non solo sull’ambiente, ma anche sulla natura umana. In passato il sapere umano, malgrado i continui progressi, manteneva dimensioni e proprietà tali da non modificare la sostanza dei processi naturali, che non venivano intaccati nelle loro forze generatrici. Di conseguenza gli interventi umani sull’ambiente venivano facilmente riassorbiti dalle dinamiche eco-organizzatrici che regolano i processi vitali degli ecosistemi. A partire dall’età moderna la ricerca scientifica e tecnologica non si limita a osservare e spiegare i processi naturali, e a usare le risorse che la natura rende evidenti, ma comincia a imporre condizioni e a provocare processi imprevisti dall’ordine naturale delle cose. Con l’applicazione della logica sperimentale si realizza un’arte nuova, quella di “fare la natura” che consiste nel provocare processi inediti (Arendt, 1989, p. 170). Non solo non ci si limita a usare i materiali così come la natura li produce, poiché l’essere umano ha imparato a sintetizzarne di nuovi, ma si è giunti a trasferire i processi cosmici sulla terra, cosicché i cicli energetici vengono a essere forzati verso processi di organizzazione imprevisti che mettono a rischio il fondo stesso della vita. Certe direzioni prese dallo sviluppo scientifico e tecnologico rivelano il desiderio di esercitare la logica del controllo e del dominio non solo sull’evoluzione del mondo naturale, ma anche sulla vita umana, senza che venga messa a tema la problematicità delle implicazioni sulla qualità della
vita. Si può dire che non solo la natura, ma anche l’essere umano è ridotto a mera materia a disposizione della tecnica che egli continuamente reinventa e potenzia. Alla capacità di distruggere ciò che è prodotto da mani umane, gli esseri umani hanno aggiunto la capacità di distruggere anche ciò che prende forma indipendentemente dal fare umano, senza avvedersi del paradosso per cui, quel sapere scientifico cercato per acquisire una maggiore signoria sulla natura e dare maggiore stabilità alle cose umane ora comincia a distruggere lo stesso mondo costruito, perché distrugge le condizioni della vita. Il problema fondamentale sollevato dall’applicazione delle più recenti tecnologie è costituito dal forzare i limiti posti dalla natura, sia interna sia esterna all’essere umano, al punto da innescare processi di una tale portata da aprire spazi di problematicità non facilmente gestibili dalla ragione umana. Quando, infatti, l’agire tecnologico interviene sulla natura introducendo altre logiche nei processi morfogenetici, provocando nuove forme di energia o manipolando il codice genetico, allora la qualità dell’intervento umano si profila in termini veramente drammatici, poiché può accadere che i processi che sono stati provocati si evolvano secondo logiche del tutto non prevedibili, che possono sconvolgere, se non proprio distruggere, le condizioni della vita senza che si riesca a trovare correttivi, non essendo sempre possibile disfare ciò che è stato messo in atto. A incrementare il livello di complessità con cui si profila il rapporto da intrattenere con la tecnologia è la necessità di dover continuamente investire sullo sviluppo tecnologico in quanto indispensabile per affrontare la questione ecologica. La ricerca di un sempre più raffinato sviluppo tecnico va praticata, però, nella piena consapevolezza della deriva tecnocratica che rischia di profilarsi, nel senso che la tecnica, per mezzo della quale gli esseri umani hanno cercato di guadagnare padronanza dei fenomeni naturali, ha finito per dare forma a una tecnosfera che, contraddittoriamente funzionale sia alla logica dell’industrialismo sia a quella dell’ecologismo, ci imprigiona in un’illusione di efficacia che occulta i limiti stessi della razionalità tecnica spesso incapace di prospettare soluzioni definitive a quei problemi che essa stessa provoca. Non solo la tecnica non ha fatto conseguire quella indipendenza dagli ecosistemi naturali di cui siamo parte, che ha rappresentato il sogno della filosofia del progresso, ma ha asservito tutto alla sua logica, costringendo il mondo
umano entro un doppio vincolo di dipendenza (dalla natura e dalla tecnica) che complessifica l’organizzazione della vita sociale. Ora è la tecnica che predispone la qualità e la direzione del nostro agire, rendendo il mondo della vita sempre più dipendente dalle tecnologie. Se provoca la natura sulla base delle possibilità aperte dalla tecnica, e non secondo un progetto che sia indipendente dagli strumenti utilizzabili, allora l’essere umano da soggetto dell’agire diventa strumento delle possibilità della tecnica. A costituire oggi un problema considerevole per il pensiero è, quindi, la nuova qualità dell’agire umano conseguente alla nuova qualità dello sviluppo tecnologico e, con essa, il progressivo ridursi dell’essere umano a fondo a disposizione del progresso tecnico. La tecnica è un dispositivo che rende il mondo qualcosa di strumentalizzabile, poiché più la tecnica si potenzia più le cose della natura e del mondo diventano mere risorse. In questa visione strumentale del mondo si arriva al punto che non esiste più nemmeno l’oggetto, inteso come ciò che pone innanzi la sua presenza al soggetto che lo considera: restano solo cose da usare, cioè cose che sono pensate essere a disposizione solo per essere usate e consumate. In questa visione strumentale la qualità essenziale della risorsa non è la durata, cioè il persistere nel tempo, ma l’ordinabilità, cioè l’essere a disposizione per l’uso e per il consumo. Viviamo in una cultura che alla permanenza preferisce la sostituibilità, dove gli enti diventano un fondo a disposizione di un’economia dell’uso in cui l’idea di riparare per conservare risulta essere antieconomica. Nell’economia moderna non la distruzione, ma la conservazione appare come una rovina, perché la durata degli oggetti conservati è il maggior impedimento al processo di una continua produzione di oggetti, la cui crescente accelerazione, su cui si regge l’economia del consumo, è la sola costante che rimanga valida quando tale processo abbia luogo4. Come dice il poeta Rilke, noi siamo esseri non solo arrischiati, cioè senza protezione alcuna come sono anche le piante e gli altri animali, ma anche arrischianti, poiché, essendo chiamati a inventare il mondo umano, andiamo continuamente oltre il dato per cercare forme ulteriori del vivere. Se l’essere arrischianti è un destino non evitabile, d’altra parte l’arrischiare ha necessità di una misura. La tecnologia, che risponde al bisogno di trovare protezione alla nostra vulnerabilità, consente la costruzione di un mondo umano, ma essa sta diventando più arrischiante di quanto sia
maneggiabile dalla ragione umana. Siamo impreparati al potere assunto dalla tecnologia. Manca una saggezza; stiamo sconfinando in terreni che presentano una problematicità ontologica cui non siamo preparati. È come andare oltre le colonne d’Ercole, oltre il limite, dilagando nelle terre del sacro senza neppure avere più consapevolezza di esso. Dallo sviluppo tecnologico non si po’ prescindere, ma il rapporto con la tecnica richiede una riflessione critica. Sarebbe necessaria una filosofia della tecnologia, che mediti sulla performatività dei dispositivi tecnologici e sulle implicazioni che il loro uso ha sulla vita umana, per trovare modi di uso che siano congruenti con una buona politica dell’esistenza. Diventa essenziale accompagnare la ricerca scientifica e tecnologica con lo sguardo vigile del pensiero critico per interrogarsi sul senso del nostro agire, sulle direzioni che prende l’utilizzazione tecnica del mondo. Per orientare in senso ecologico la tecnologia è necessaria una nuova techne tou biou, cioè una nuova tecnica della vita. Pare, però, che la ricerca di una filosofia dell’esistenza non sia di casa nei nostri tempi, nei quali la tecnica è strumento di una politica che ha adottato la visione strumentale senza riflettere sulle conseguenze di certe applicazioni. Inoltre, a rendere difficile lo stabilirsi di un rapporto di sensatezza con la tecnica, è l’elevata formalizzazione cui è pervenuto il linguaggio scientifico, poiché le verità delle scienze, «benché dimostrabili in formule matematiche e messe alla prova nella tecnologia, non si prestano più all’opinione normale del discorso del pensiero» (Arendt, 1989, p. 3). La scienza ricorre a un linguaggio complesso incomprensibile ai più, rendendo quindi difficile una cittadinanza tecnologica. Densamente problematica è la sproporzione tra il potere di intervento sulla natura, reso possibile dall’evoluzione dei dispositivi tecnologici, e la saggezza necessaria per imprimere la giusta direzione all’utilizzazione della tecnica. È come se fra ambiente tecnologico e ambiente etico si fosse sviluppato uno scarto differenziale tale da obbligare la ragione umana – impegnata a cercare una saggezza all’altezza dei tempi – in una rincorsa adattiva potenzialmente infinita. La sproporzione fra il potere di manipolare i processi naturali, garantito dallo sviluppo tecnologico, e la capacità modestamente predittiva della scienza rispetto ai processi messi in atto dall’intervento umano pone di fronte a questioni sulle quali sarebbe possibile deliberare correttamente solo disponendo di una nuova saggezza.
Ciò che dà da pensare è il fatto che la saggezza, pensabile come costellazione di criteri di misura capaci di valutare il valore di un’azione rispetto alla visione di riferimento, dovrebbe essere elaborata da quell’essere umano che invece oggi pensa e comprende se stesso prevalentemente nell’orizzonte del criterio della utilizzabilità. Date queste premesse non si può non avvertire il rischio che il mondo vivente possa essere irrevocabilmente compromesso da un impianto culturale antiecologico; e altrettanto reale è il rischio che i contesti di vita, pensati al di fuori di una meditata politica dell’esistenza, renderanno sempre più ardua la possibilità di concretizzare una buona qualità della vita, dalla quale, se sempre più tecnologizzata, potrebbe scomparire il rapporto diretto col mondo biologico. La tecnosfera è, infatti, così invasivamente presente che neppure si è consapevoli degli effetti che essa esercita sul modo di vivere, primo fra tutti l’interruzione del contatto con la fenomenicità della natura conseguente al prevalere di contesti di vita altamente artificiali. Per interrompere questo trend non basta, anche se è necessario, investire sulla ricerca di tecnologie ecocompatibili, perché la crisi ecologica è una questione complessa che si profila innanzitutto nei termini di una crisi noologica, cioè una crisi degli strumenti di pensiero con cui una cultura costruisce il suo rapporto con il resto del mondo naturale. All’origine dell’inquinamento materiale c’è un’altra, seppur invisibile, ma non per questo meno problematica, forma di inquinamento, quella culturale. La manipolazione tecnica della natura e lo sfruttamento illimitato delle sue risorse sono stati possibili, e sono tuttora in atto nonostante le conseguenze drammatiche siano palesi, perché trovano piena legittimazione nel tessuto concettuale che è alle radici della cultura occidentale; un tessuto permeato dalla percezione della natura come magazzino di materiali a disposizione dei nostri progetti e, insieme, dall’illusione prometeica che induce a ritenere l’essere umano in grado di esercitare un controllo sui processi naturali tale da rendere la condizione umana svincolata dalle leggi che regolano il mondo biofisico. Sostenere la tesi di un inquinamento antiecologico del pensiero non equivale a esprimere un giudizio sull’intero pensiero occidentale – cosa del resto impraticabile data la complessa articolazione di versioni del mondo, di paradigmi di ricerca, di teorie etiche e politiche che lo strutturano –,
quanto piuttosto evidenzia che la postura antiecologica su cui la modernità si è edificata affonda le sue radici nei cromosomi della nostra cultura. Affrontare la crisi ecologica significa, allora, impegnarsi a promuovere un nuovo orientamento nello sviluppo culturale, e ciò richiede di trovare lo spazio per una nuova idea di educazione, mirata a promuovere un modo ecologico di concepire la relazione col mondo circostante. 1.2. La questione economica A caratterizzare le politiche attuali è il prevalere della logica del mercato, dominata da un potere finanziario che agisce sulla sola regola dell’incremento del profitto e che concepisce il valore di un ente solo in termini commerciali e non biologici, senza considerare le implicazioni sociali di certe scelte economiche. Ci sono culture marginalizzate e a rischio di estinzione, ma che sanno stabilire un rapporto non riduttivo con le cose del mondo perché non agiscono entro i limiti della prospettiva monologica dell’economia di mercato, che vede nelle cose solo ciò che produce l’energia richiesta dal mondo della produzione; è la cultura di quelle popolazioni che nell’albero sanno vedere qualcosa in più della biomassa disponibile a essere trasformata in carta. Oltre alla concezione occidentale dell’economia come accumulazione di capitale, esiste anche l’idea di economia come produzione per la sussistenza e la soddisfazione dei bisogni primari. Ma la colonizzazione operata dai poteri economici dominanti marginalizza queste culture. Lo stato di indigenza di molte popolazioni si spiega con il fenomeno, purtroppo incrementale, della colonizzazione culturale che maschera forti interessi economici e politici5. Per questo il pensiero ecologico più critico sottolinea l’intreccio fra problemi ecologici e problemi sociali e fa della crisi ecologica una questione innanzitutto di giustizia sociale6. Mentre l’implementazione di forme ecologiche di conoscenza e di tecnologie ecocompatibili richiede una buona politica, quello che si verifica oggi è il deterioramento della politica a favore della logica del mercato. Il problema forse più urgente da pensare sta nella subordinazione della politica all’economia, e in tempi recenti ai poteri finanziari, un’economia e una finanza che dimenticano che la questione primaria da affrontare è costruire condizioni che consentano una buona qualità della
vita al maggior numero di persone e assumono, invece, l’incremento del profitto come criterio di misura dell’efficacia delle politiche adottate. C’è dunque necessità innanzitutto di un’economia diversa, ecologicamente e socialmente sostenibile, in vista della quale ipotizzare una nuova teoria del comportamento del consumatore che sia compatibile con quelli che, dai risultati delle più recenti ricerche scientifiche, risultano i limiti della biosfera7. È inderogabile lo sviluppo di un’economia informata dalla sapienza etica, e tale è quella che non si limita a identificare i mezzi migliori per conseguire fini non sottoposti a discussione, ma si interroga criticamente su fini alternativi mettendo in questione opzioni di valore, del tipo: è meglio implementare politiche che tendono a realizzare una maggiore uguaglianza o una più rapida crescita economica che va a vantaggio di pochi? È accettabile un’economia che non tutela il benessere delle generazioni presenti e ancora meno quello delle generazioni future? Vogliamo che continui a prevalere un modello di vita consumistico o è più giusto un modello che punti a promuovere una buona qualità della vita? Si può continuare a lasciare che domini indisturbata un’economia che incrementa il capitale di pochi e impoverisce i molti e allo stesso tempo deteriora le condizioni di vita delle persone economicamente più fragili? È giusto continuare a lasciare alla finanza un potere deregolato? (Mazzucato, 2018). Oggi a dominare le logiche economiche non è il liberalismo, come molti ritengono, ma il liberismo, secondo cui la migliore politica economica è la politica migliore: lasciare fare alle logiche del mercato (Zamagni, 1995). Ma così accade che l’economia procede separata da una meditata politica dell’esistenza e da ogni riflessione etica. Facile che in questo gioco senza regole ad affermarsi siano pochi a scapito dei molti, con l’aggravarsi di forme di ingiustizia sociale. E dove manca la giustizia sociale in genere le condizioni ambientali sono critiche. Non ci sarà un’economia ecologica se non si metterà in discussione la visione dell’economia come campo di azione estraneo all’etica. Il valore primario da promuovere è quello della giustizia sociale. Non ci sarà alcuna possibilità di un umanesimo ecologico se l’economia non si modificherà per privilegiare scelte di salvaguardia delle risorse e insieme per favorire la giustizia sociale. In questa prospettiva si situa la teoria politica delle capacità, che concepisce politiche economiche finalizzate a
creare un sistema che consenta a tutte le persone di sviluppare tutte le loro potenzialità in modo da condurre una vita adeguatamente buona (Nussbaum, 2002, p. 41). Una volta individuate le condizioni necessarie affinché ciascuna persona possa avere accesso ai beni irrinunciabili e insieme possa sviluppare tutte le potenzialità che consentano a un essere umano di vivere una vita degna di essere vissuta, si tratta di strutturare l’economia in funzione della promozione di tali beni8. Ciò comporta ripensare eticamente l’accesso, la distribuzione e l’utilizzazione delle risorse. Il solo modello di economia sostenibile ed eticamente giustificabile è quello che promuove la ricerca di beni essenziali o irrinunciabili, altrimenti definiti “beni non esclusivi”, poiché il godimento di questi beni da parte di qualcuno non esclude che altri ne possano godere. Progetto non facile da conseguire, dal momento che la produzione postindustriale e il sistema di organizzazione della vita a esso subordinato veicolano la convinzione che siano massimamente desiderabili i “beni esclusivi” (ricchezza, potere, successo, prestigio), il cui godimento da parte di qualcuno esclude il contemporaneo godimento da parte di altri. Si tratta di correggere sensibilmente la visione delle cose di cui si alimenta l’economia della disuguaglianza e dello spreco, e questo obiettivo è possibile solo se viene promossa una rinnovata politica culturale, che coltivi criteri di misura della qualità della vita differenti da quelli ispirati a una spericolata logica del profitto. Ma la classe politica è disposta a innescare un’inversione di tendenza nella cultura del consumo col rischio di perdere i voti del proprio elettorato e il supporto dei poteri economici che governano le dinamiche politiche? E i poteri economici attuali, che controllano la politica economica globale, troveranno le motivazioni per modificare le logiche da cui dipende la loro ricchezza? O invece è necessaria una nuova cittadinanza, che non lasci la politica economica nelle mani di pochi, ma si impegni a chiedere, con ragionamenti rigorosi, una svolta ecologica e solidale delle decisioni politiche (come, ad esempio, che si interrompa la tendenza a promulgare legislazioni che favoriscono l’incremento dei profitti dei monopoli per incoraggiare, invece, il reinvestimento nella ricerca ecologica e la realizzazione di politiche di giustizia sociale)? (Mazzucato, 2018, p. XV). Per realizzare una nuova logica economica è necessario un movimento
culturale di base esteso, capace di esercitare la pressione dei grandi numeri. Ciò però presuppone cittadini competenti e politicamente impegnati, che sappiano mettere in atto nella vita quotidiana scelte economiche ispirate alla sostenibilità e siano capaci di orientare le scelte politiche. Dunque, di valore primario è la formazione culturale, quella che garantisce a tutti i cittadini attuali e a quelli futuri una solida cultura ecologica. E una nuova formazione culturale è possibile solo se si rintracciano le coordinate per rifondare il paradigma dell’educazione. 4
All’origine della distruzione senza misura delle risorse cui assistiamo oggi c’è l’economia dello spreco, cioè un’economia che necessita dell’incremento costante della produzione cui deve corrispondere un aumento incessante del consumo. L’elemento problematico della cultura industriale è la conservazione, non la distruzione. Quella che viene definita “educazione alla conservazione” e, più radicalmente, il processo educativo che intende sfidare la logica consumistica dominante incontra solide resistenze in un mondo piegato alle logiche dell’industrialismo, poiché il consumo sempre più accelerato di cose è condizione necessaria all’esercizio di quelle attività lavorative che chiedono di stare continuamente all’altezza dei tempi procurandosi strumenti sempre più all’avanguardia. 5 Vandana Shiva (1990, 2003) prende in esame la crisi idrica che minaccia sia la vita vegetale sia quella animale e, correlativamente, anche la vita di molte popolazioni, e spiega questa crisi come la conseguenza della logica della massimizzazione dei profitti, che tende a uno sfruttamento intensivo delle risorse e, intanto, le sottrae alla soddisfazione dei bisogni fondamentali delle persone. 6 L’impegno ecologico va quindi sottratto a quelle interpretazioni svalorizzanti che lo riducono a forme di romanticismo postmoderno promosso da persone che sarebbero preoccupate unicamente di ripristinare un rapporto arcadico con la natura. La cultura ecologica, nella sua versione più autentica e politicamente impegnata, oltre a fondarsi su una nuova concezione della scienza che consenta di ricostruire su nuove direzioni il rapporto fra mondo umano e mondo naturale, interpreta la questione ambientale in termini di giustizia sociale. 7 La teoria bioeconomica di Nicholas Georgescu-Roegen rappresenta un rigoroso tentativo di sviluppare una teoria economica che tenga conto delle scienze della vita. La teoria bioeconomica è impegnata a delineare i tratti di un’«economia giusta» e non si lascia affascinare dai «facili compromessi legati alle teorie dello sviluppo durevole o sostenibile» (Bonaiuti 2003, pp. 7-8), che invece hanno avuto facile presa nella nostra cultura, anche fra i cultori della ecological economics. 8 Partendo dal presupposto che sia possibile pervenire a una lista delle capacità in grado di raccogliere un ampio consenso transculturale, Nussbaum propone come beni irrinunciabili i seguenti: 1) avere la possibilità di vivere una vita umana di normale durata; 2) godere di buona salute fisica; 3) potersi muovere liberamente in un contesto che garantisca sicurezza; 4) poter sviluppare ed esercitare al meglio le capacità cognitive e liberamente cercare il significato dell’esistenza; 5) poter coltivare il proprio sviluppo emotivo; 6) essere in grado di formulare una concezione del bene e liberamente programmare sulla base di questa la propria esperienza; 7) avere una buona vita relazionale; 8) poter vivere in relazione con le altre specie viventi; 9) avere la possibilità di vivere esperienze ludiche e ricreative; 10) essere protagonista
nel contesto politico, ossia poter partecipare alle scelte di politica sociale, economica e culturale (Nussbaum, 2002, pp. 74-77).
2. Una nuova etica
Molti fra i teorici della “filosofia ambientale” sostengono che per provocare una torsione culturale nella direzione di una differente visione della vita occorre innanzitutto coltivare un nuovo modo di pensare, libero da certi “rottami cognitivi antiecologici”. Anche se è indubitabile che per affrontare la crisi ecologica è necessario ridefinire le politiche economiche, si ipotizza che la possibilità di implementare una politica capace di promuovere una migliore qualità della vita implichi una revisione degli stili di pensiero che governano il nostro agire. Un ruolo centrale viene assegnato a quella che viene definita “rivoluzione etica”. Kristin Shrader-Frechette (1993, p. 16) afferma che la crisi ecologica è essenzialmente una crisi etica, perché decidere se si debbono limitare i consumi o ridurre drasticamente gli elementi che provocano inquinamento implica questioni etiche. Il tempo presente si può dire caratterizzato da una diffusa attenzione alle questioni etiche, segno di un bisogno largamente sentito di una rinnovata riflessione assiologica. Nell’ambito della cultura ecologica si deve rilevare l’importanza assunta dalla environmental ethics, che auspica l’elaborazione di un’etica ecologica. La ragione a favore di una nuova etica viene addotta a partire dalla constatazione che quelle tradizionali si occupano solo del rapporto fra gli esseri umani, sono quindi etiche infraumane. In questa prospettiva antropocentrica il mondo extraumano rimane escluso da ogni considerazione etica, con la conseguenza di legittimare l’uso illimitato e la manipolazione incontrollata degli enti. Rispetto a una cultura che si fonda sull’etica human-centered si vanno profilando teorie eco-centered, altrimenti dette teorie bioetiche. Ci sarebbe bisogno di una nuova etica perché «le promesse della tecnica
dell’età moderna si sono trasformate in minaccia» (Jonas, 1990, p. XXVII). I problemi sollevati dall’applicazione della nuova potenza della tecnica rendono inadeguate le etiche tradizionali, non più in grado di fornire le indicazioni per discriminare ciò che è bene da ciò che è male. 2.1. Il rispetto per la vita Prima di prendere in esame il dibattito contemporaneo sull’etica ecologica è necessario soffermare l’attenzione su una teoria etica che, pur generalmente non collocata nell’ambito del pensiero ecologico, rappresenta una significativa anticipazione della sua essenza. Mi riferisco alla teoria messa a punto da Albert Schweitzer, che può essere considerata un’etica ecologica perché si fonda sul seguente principio: È bene mantenere e promuovere la vita; è male ostacolare e distruggere la vita. Noi siamo persone morali quando usciamo dal nostro attaccamento a noi stessi e superiamo l’estraneità nei confronti degli altri esseri viventi (Schweitzer, 1994, p. 27).
Alla base di questa visione etica si rintraccia la messa in discussione dell’ontologia dell’estraneità fra l’essere umano e la natura a favore di un’ontologia della comunione, che implica una dilatazione delle responsabilità etiche. Ragionando in un’ottica aristotelica si può affermare che l’etica mira al bene, cioè a identificare quei modi di essere che meglio di altri dovrebbero consentire all’essere umano di perseguire una buona qualità dell’esistenza. Se in questa prospettiva collochiamo l’affermazione di Schweitzer secondo la quale «il bene più grande che ci viene concesso è quello di preservare la vita» (1994, p. 31), allora l’etica nella sua essenza non può non essere un’etica ecologica. Il problema fondamentale al quale Schweitzer dedicò i suoi studi consisteva nel trovare le basi di una cultura etica «più profonda e viva», capace di durare nel tempo (Schweitzer, 1994, p. 14); ed era convinto di aver individuato le basi di un rinnovato orientamento etico nel principio del «rispetto per la vita», per ogni singolo essere vivente, perché l’etica non può essere confinata solo a qualche porzione del mondo vivente, dal momento che ogni forma di vita è interconnessa con le altre: «finisce l’esistenza singola, e l’esistenza al di fuori di noi confluisce nel nostro essere. Noi viviamo nel mondo e il mondo vive in noi» (Schweitzer, 1994, p. 29).
Il «rispetto per la vita» è da considerare una prioritaria virtù etica, perché il mondo intero e la vita che in esso fiorisce hanno bisogno di affermazione, concetto che Schweitzer esprime parlando di «un Sì alla vita» (1994, p. 17), per dare voce a un appello esplicito a dilatare al resto del mondo il senso di responsabilità che la nostra cultura ha considerato da sempre riguardante solo il mondo umano. La società moderna, con la sua visione strumentale, ha separato l’etica dalla natura; Schweitzer suggerisce che per affrontare i problemi di fondo della cultura contemporanea occorra invertire questa direzione del pensiero, per estendere a tutto il mondo della vita il principio della responsabilità etica, perché un’etica che prenda in considerazione soltanto il nostro rapporto con altri esseri umani è un’etica incompiuta e parziale, e perciò non può possedere una piena energia. Soltanto l’etica del rispetto per la vita ha questa possibilità; essa non ci mette in contatto solo con i nostri simili, ma con tutte le creature che si affacciano al nostro orizzonte. [...] Con l’etica del rispetto per la vita entriamo in un rapporto spirituale con l’universo (Schweitzer, 1994, p. 17).
L’etica comincia nel momento in cui l’essere umano, attraverso la riflessione, diventa pienamente consapevole del fatto che a ogni forma di vita va riservata la stessa forma di riverenza che riserva a se stesso. Il principio etico del rispetto per ogni forma di vita, così com’è enunciato da Schweitzer, è alieno da ogni visione idilliaca della natura, che in molti dei suoi fenomeni si rivela minacciosa per la specie umana. Schweitzer disegna il mondo naturale come uno scenario complesso, dove il fiorire della vita si mescola a forme di violenza biologica mosse da quello che si può definire «egoismo di specie». Ma all’interno di questo scenario l’essere umano, in quanto soggetto dotato della capacità di “avere coscienza”, ha il dovere di coltivare una forma di compassione nei confronti di ogni altro essere vivente. Sarebbe questo sentimento etico a contraddistinguere la dimensione dell’umano. Non c’è possibilità di riverenza se non c’è capacità di compassione, ma la compassione costituisce un sentimento eticamente vitale se si nutre di conoscenza della vita. Conoscere la vita significa innanzitutto sviluppare la consapevolezza della primarietà della relazione, ossia che «la vita [...] è, nello stesso tempo, vivere-con-gli-altri, dove ogni singola esistenza percepisce l’urto dell’onda di tutto il creato» (Schweitzer, 1994, p. 29). La visione di Schweitzer anticipa, dunque, sia il paradigma ecologico, che nella sua essenza è pensiero della relazione, sia l’etica ecologica, che,
proprio sulla base dell’ontologia della relazionalità, argomenta la necessità di dilatare oltre l’umano il principio di responsabilità morale. Raramente, però, la teoria di Schweitzer viene inclusa fra le teorie etiche, sia per il suo linguaggio che, a tratti poetico e intriso di religiosità (egli riconosceva come sua fonte il pensiero di san Francesco d’Assisi), si mantiene estraneo alle stringenti argomentazioni dai più ritenute necessarie per dare fondamento a una teoria etica, sia perché non entra nel merito della definizione di regole da applicare per mettere in pratica il principio del rispetto. La caratteristica essenziale dell’etica di Schweitzer è di prestare attenzione ai sentimenti morali, evitando ogni preoccupazione di strutturazione sistematica delle argomentazioni secondo i canoni dell’etica classica di tipo geometrico. Schweitzer non si preoccupa di fornire un’organizzazione sistematica alla sua teoria, perché, considerando i giudizi sui conflitti etici una questione soggettiva, ritiene non fondato prescrivere tipologie di comportamenti morali: «Nessuno può decidere al posto di un altro dove si trovi, di volta in volta, l’estremo limite della possibilità di salvaguardare e promuovere la vita» (Schweitzer, 1994, p. 34). L’etica dunque non può tradursi in un sistema di regole, ma chiede di configurarsi nei termini di princìpi generali. Schweitzer non era interessato alla formulazione di regole anche perché la sua preoccupazione consisteva nell’individuare un atteggiamento etico di base necessario a coltivare una spiritualità autentica. Era consapevole che la semplice enunciazione di un principio etico, come quello del rispetto per ogni forma di vita, può risultare debole rispetto alla necessità di trasformare il modo di agire nel mondo, ma se interpretato in tutta la sua profondità avrebbe la forza di ispirare un modo di stare fra le cose capace di lasciare «una traccia profonda» nella cultura, perché chiede una «responsabilità incessante e senza limiti» (Schweitzer, 1994, pp. 23-24). Il suo modo di concepire l’etica era tanto distante dalla concezione kantiana quanto prossimo all’etica delle virtù di tipo aristotelico (Des Jardins, 1993, p. 150). Mentre l’etica delle regole si occupa di prescrivere ciò che si deve fare, l’etica delle virtù mette al centro lo sviluppo dei modi dell’esserci. Secondo Schweitzer l’etica della virtù del rispetto avrebbe la sua natura generativa nella capacità di compassione, termine che va inteso nel senso di cum-patire, cioè di sentire insieme. Riteneva che la possibilità di modificare il comportamento morale di una comunità sia correlata non
con la formulazione di codici, ma con lo sviluppo di un preciso atteggiamento nei confronti della vita, e il rispetto per la vita costituisce un atteggiamento etico di base perché capace di generare una forma di responsabilità nei confronti di ogni forma di vita. Attivare un atteggiamento di responsabilità etica costa fatica e molti sono gli argomenti, diffusi nella nostra cultura, volti a scoraggiare l’impegno etico. È facile rintracciare l’appello all’“indifferenza morale”, sostenuto dalla motivazione che l’azione del singolo ha così poca efficacia che conviene non spendere energie nel compito di promuovere la vita. A contrastare l’adesione al principio della compassione è la tentazione dell’insensibilità, che suggerisce di non invischiarsi in atteggiamenti di attenzione partecipe al vissuto dell’altro, perché il condividere aumenterebbe il tasso di sofferenza da sopportare, con la conseguenza che non si riuscirebbe più a vivere in modo spensierato, ma spiritualmente carichi di altro da sé. Per contrastare la tentazione dell’indifferenza Schweitzer ricorda che anche se quello che ciascuno di noi potrà fare «sarà sempre soltanto una goccia, mentre servirebbe un fiume», tuttavia anche la più piccola azione può essere efficace: «Il poco che puoi fare può essere molto se, in qualsiasi parte della terra, riuscirai a sollevare dalla sofferenza, dal dolore e dalla paura un essere vivente, sia che si tratti di un essere umano sia di qualunque altra creatura» (Schweitzer, 1994, p. 31). E se è vero che il sentimento della compassione ci rende permeabili alla sofferenza dell’altro, tuttavia è solo aprendoci all’altro e partecipando dei suoi vissuti che si può condividere anche la gioia. Cercare l’isolamento emotivo, ossia la non permeabilità all’esperienza dell’altro, significa rischiare l’impoverimento esistenziale: «Non dobbiamo diventare insensibili, mai!» (Schweitzer, 1994, p. 35), questo è l’imperativo formativo sotteso all’etica del rispetto per la vita. 2.2. L’etica della terra Nel contesto delle etiche ambientali è considerato pionieristico il contributo teorico elaborato da Aldo Leopold (1887-1948), pubblicato nel 1949 dopo la sua morte come finale di A Sand County Almanac (Leopold, 1970). La land ethics di Leopold è, infatti, la prima formulazione di un’etica
ambientale che, pur trovando espressione in un discorso denso di termini scientifici, rivela profonde analogie con quella di Schweitzer elaborata circa tre decenni prima. La land ethics, o “etica della terra”, sostiene la necessità di dilatare il campo della responsabilità etica dal mondo umano all’intero mondo della vita e fonda la sua tesi sul concetto di unità sistemica della vita mutuato dall’ecologia. Non esiste una comunità umana scissa dal resto della natura, esiste invece una comunità terrestre in cui i terreni, le acque, le piante e gli animali sono uniti in un’unica rete della vita, poiché tutti attingono a un’unica sorgente vitale. Se si accetta il presupposto secondo il quale l’etica si applica sempre a una comunità, e applicarla significa rispettare tutti i suoi membri, allora l’etica ecologica è quella che si applica a tutta la comunità dei viventi e, in virtù del principio sopra enunciato, implica che tutti i suoi membri richiedono rispetto: Ogni etica, fin qui, si è sviluppata a partire da una premessa: che l’individuo è un membro di una comunità di parti indipendenti. I suoi istinti lo spingono a competere per il suo posto nella comunità, ma la sua etica lo spinge a co-operare [...]. L’etica della terra semplicemente allarga i confini della comunità per includere i terreni, le acque, le piante e gli animali, o collettivamente la terra (Leopold, 1970, pp. 237-239).
Proprio perché dilata i confini dell’etica sulla base dell’assunzione secondo la quale ogni forma di vita è portatrice di diritti, l’etica della terra è considerata l’archetipo delle life-centered ethics. L’intenzione generativa dell’etica della terra è di pervenire a un superamento dell’antropocentrismo. A questo scopo Leopold valuta essenziale riconcettualizzare la posizione ontologica dell’essere umano, che – come nell’etica di Schweitzer – non viene più considerato estraneo al resto della natura, ma come uno dei tanti membri della comunità biotica: un’etica della terra cambia il ruolo dell’homo sapiens da conquistatore della comunità terrestre a semplice membro e cittadino di essa. Essa implica rispetto per i suoi membri e rispetto per la comunità (Leopold, 1970, p. 240).
Un’etica ecologica chiede di riposizionare l’essere umano nello schema generale delle cose, superando non solo l’ontologia dell’estraneità fra mondo umano e mondo naturale, ma anche l’ontologia della superiorità dell’uno sull’altro. La tensione etica emergente dallo scardinamento delle credenze antropocentriche trova espressione nel principio etico fondamentale del rispetto, e il rispetto richiede che s’introduca nell’agire il principio della prudenza, conseguente al non disporre di una scienza che conosca il funzionamento della comunità biotica in tutta la sua
complessità. Proprio perché manchiamo di una conoscenza scientifica adeguata è difficile stabilire regole di azione dotate di certezza; l’unico principio enunciato da Leopold è il seguente: «Una cosa è giusta quando tende a preservare l’integrità, la stabilità e la bellezza della comunità biotica. È sbagliata quando funziona diversamente» (1970, p. 262). L’etica della terra non impedisce l’uso delle risorse, ma indica la necessità di un uso etico che tenga conto del diritto degli altri esseri viventi a essere preservati in virtù del loro valore biotico. Leopold introduce il concetto di “valore biotico” sulla base delle teorie elaborate dalla scienza ecologica che, considerando ogni essere vivente un elemento fondamentale dell’ecosistema di cui è parte, invita a considerare ogni forma di vita portatrice di valore, appunto il valore biotico. Proprio per l’importanza che assume la scienza ecologica per la messa a punto della land ethics, Leopold assegna un elevato valore formativo in campo etico all’alfabetizzazione scientifica ecologicamente orientata, perché contribuisce a sviluppare la percezione del valore degli enti. Ma alla conoscenza scientifica assegna anche un’altra valenza etica: proprio perché l’indagine scientifica non solo produce conoscenze, ma disvela i vuoti di sapere, e dunque i limiti della ragione umana, essa impone il principio etico della prudenza nel momento della formulazione di valutazioni che informano i processi di deliberazione pratica. La vita biologica è qualcosa di complesso per la ragione umana, che mostra tutti i suoi limiti rispetto alla ricerca di una spiegazione completa dei fenomeni. A rendere significativa nel panorama della filosofia ecologica la land ethics è il ruolo fondamentale che assegna a quelli che vengono definiti “sentimenti morali”. Leopold sostiene, infatti, che «una relazione etica con la terra non può esistere senza i sentimenti dell’amore, del rispetto e dell’ammirazione» (1970, p. 261), perché l’evoluzione dell’etica non è una questione solo di intelletto, ma di sentimenti. Poiché lo sviluppo del presente discorso è motivato dall’intenzione di individuare modi di abitare la terra che generino trasformazioni culturali nella direzione dell’affermazione di un umanesimo ecologico, risulta fondamentale individuare modalità esperienziali che consentano di generare sentimenti morali di tipo ecologico. Indirettamente Leopold fornisce indicazioni, perché suggerisce non solo di sviluppare la coscienza del valore biotico attraverso l’incremento di conoscenza scientifica dei
sistemi biologici, ma anche di recuperare l’esperienza della relazione diretta con la natura. Noi non siamo solo mente ma anche corpo, e la possibilità di sviluppare un sentimento di rispetto e di ammirazione per le cose spesso passa attraverso l’esperienza sensoriale, che diventa esperienza incarnata del valore che le cose hanno. È qui evidente la presenza del pensiero dei protoecologisti, in particolare Thoreau ed Emerson, che sono nel DNA della cultura americana. 2.3. “Environmental ethics” Dalla pubblicazione dell’opera di Leopold nel 1949 trascorsero molti anni prima che si profilasse quella che oggi si può definire la questione dell’etica ecologica, che divenne un tema filosofico importante solo a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. È del 1971 la prima conferenza di environmental philosophy che si tenne all’Università della Georgia, USA, e nel 1973 Richard Sylvan pubblicò un articolo, che resta fondamentale, dal titolo Is There a Need for a New, an Environmental, Ethics?, questione alla quale il saggio risponde affermativamente. Da non dimenticare il saggio di Christopher D. Stone dal titolo Should Trees Have Standing? che diede avvio, nel 1972, alla riflessione sui diritti degli enti naturali non-umani. A partire da queste prime pubblicazioni nel tempo si è configurata quella che viene definita environmental ethics, che raccoglie ormai differenti posizioni9. Nella complessa articolazione di questa corrente di pensiero assume un rilievo fondamentale la ricerca di argomentazioni che consentano il superamento della visione strumentale della natura. La questione assunta come centrale è la seguente: il valore degli enti è qualcosa creato dagli esseri umani o è qualcosa già esistente nel mondo, che gli esseri umani riconoscono piuttosto che determinarlo? Da questa domanda si è sviluppata una disputa fra value subjectivists e value objectivists. I value subjectivists considerano il valore intrinseco un prodotto della ragione umana che la mente attribuisce alle cose del mondo; i value objectivists ritengono che il valore intrinseco o non-strumentale non è culturalmente costruito, bensì esiste prima di qualsiasi pensiero. La linea di distinzione si situa dunque fra il pensare il valore come qualcosa che la mente attribuisce alla realtà o qualcosa che la mente riconosce essere nella realtà. In un
momento culturale qual è quello presente, in cui gode di estesa credibilità l’ipotesi costruttivista, la teoria realista del valore intrinseco fatica a essere accettata. Una questione sollevata sia dai soggettivisti (costruttivisti) sia dagli oggettivisti (realisti) riguarda la location del valore intrinseco, ossia la determinazione di quegli aspetti del reale che attesterebbero la presenza di valore intrinseco. In altre parole, per decidere che un ente gode di valore intrinseco è necessario definire quale qualità deve possedere: avere coscienza del proprio essere, essere senziente, essere capace di operare scelte rispetto al proprio esserci, o semplicemente essere un vivente? Rispetto a tali questioni, molte e differenti sono le risposte. Secondo Callicott (1989) tutti i valori sono soggettivi, ossia humancreated o anthropogenic, ma questo non comporta necessariamente che l’etica sia human-centered o anthropocentric. Callicott ritiene che il valore intrinseco sia qualcosa che gli esseri umani decidono rispetto alle cose e quindi non avrebbe fondamenti il concetto di valore intrinseco. Per articolare la sua teoria, secondo la quale comunque alla natura va riconosciuto un valore, perché è solo riconoscendo un valore che fondiamo un’etica ambientale, assume il concetto di self-realization della deep-ecology. L’argomentazione che sviluppa è la seguente: (a1) se si assume il presupposto ecologico di una continuità ontologica fra sé e la natura e (a2) se il sé che mira alla propria realizzazione è qualcosa di valore, (x) allora anche la natura, che include il sé, è qualcosa di valore; e (b1) se noi tendiamo all’autorealizzazione e (b2) se il nostro sé è in connessione con la natura, (y) allora la nostra realizzazione è tutt’uno con quella della natura. 2.4. Il rispetto per la natura L’espressione forse più raffinata e sistematica delle etiche biocentriche che assumono come fondativo il concetto di “valore intrinseco degli enti naturali” è quella elaborata da Paul Taylor. Il postulato di fondo di tale teoria è che utilizziamo e manipoliamo gli enti senza avvertire la necessità di porre qualche limite al nostro agire, poiché non riconosciamo in essi alcun valore che non sia un valore strumentale definito dalla teoria economica. Gli enti sono concepiti come l’utilizzabile a disposizione degli esseri umani. Una teoria etica efficace, capace cioè di costituirsi come
orizzonte per un cambiamento del nostro modo strumentale di rapportarci al mondo, deve modificare la concettualizzazione ontologica di tipo strumentale per sottrarre gli enti alla visione svalorizzante cui sono sottoposti. Per sostenere la tesi del valore intrinseco Taylor argomenta che il valore delle forme di vita non umane non deriva loro da un’attuale o possibile utilità per gli umani o dal fatto che gli umani trovano piacevole osservare tali enti o interessante studiarli, perché «le cose viventi del mondo naturale hanno un valore che posseggono semplicemente in virtù del loro essere membri della Comunità Terrestre della Vita» (Taylor, 1989, p. 13). L’emergenza di una nuova cultura presuppone lo sviluppo della consapevolezza che nei confronti del mondo della vita noi non abbiamo solo diritti d’uso ma doveri morali, e la consapevolezza di questi doveri emergerebbe come conseguenza del pensare che gli enti posseggono un tipo di valore che non è deciso dalla logica del mercato, ma appartiene loro costitutivamente, ed è questo valore intrinseco che rende immorale quel modo strumentale di rapportarsi agli enti come se esistessero solo in funzione dei desideri umani. Ogni ente, per il valore che ha in quanto parte del mondo della vita, va trattato con rispetto (Taylor, 1989, p. 13). Proprio perché attribuisce un valore intrinseco a tutti gli enti e fonda su questa attribuzione di valore l’argomento che sostiene la necessità di una dilatazione di applicabilità dell’etica, il biocentrismo è definito life-centered ethics per distinguerlo dalle human-centered ethics. Rispetto all’etica di Leopold e a quella di Schweitzer, che si attengono al piano dell’affermazione di princìpi generali, quella di Taylor offre un supporto argomentativo raffinato, ma presenta un eccesso di intellettualismo nel momento in cui presume che l’adesione a una tesi ontologica abbia la forza di innescare un cambiamento di comportamento. Questo intellettualismo non solo non tiene conto del fatto che la teoria del valore intrinseco è un postulato, e come tale richiede un’adesione incondizionata, ma non valuta che quand’anche si realizzasse l’adesione a un concetto, ciò non comporta automaticamente una decisione del soggetto per cambiare la postura che informa la propria agency. La critica più ricorrente che viene rivolta a questa concezione dell’etica ecologica è di ridursi a un gioco astratto che non garantisce efficacia in termini di riorientamento dei criteri che fondano l’agire, poiché la
sostituzione della teoria del valore strumentale (instrumental value theory) con la teoria del valore intrinseco (intrinsic value theory) sarebbe incapace di indebolire la convinzione, propria della cultura moderna, secondo la quale ogni questione andrebbe risolta sulla base del principio di utilità e, insieme, di mettere in discussione quell’antropocentrismo che spinge a considerare il mondo naturale come un immenso tessuto da cui ritagliare a piacere ciò che ci pare. 2.5. I limiti dell’etica biocentrica Dal punto di vista costruttivistico è infondato parlare di valore “intrinseco”, poiché nessun valore si può considerare strutturale dello statuto ontologico delle cose, ma è l’esito di un processo di costruzione cognitiva dell’osservatore. Proprio in quanto esito di una costruzione, la teoria del valore intrinseco sarebbe scarsamente efficace sul piano performativo rispetto all’agire. Chi invece si muove in una prospettiva che si può definire “soft-costruttivista” argomenta che se è vero che l’osservatore conosce le cose sempre indossando precisi occhiali culturali, e che di conseguenza sempre attribuisce qualcosa di sé all’oggetto, ciò tuttavia non esclude che l’inevitabile ricorso a una laden theory impedisca l’accesso anche se parziale alla datità dell’oggetto. Per il soft-costruttivista, se è impossibile un accesso oggettivo alle cose, tuttavia il progresso nelle strategie conoscitive renderebbe comunque possibile una conoscenza sempre più fedele dell’oggetto. Che le conoscenze e i giudizi di valore siano prodotti della mente e, quindi, soggetti a continue revisioni non escluderebbe che la costruzione si basi su istruzioni che lo stesso oggetto fornisce alla mente. Se si suppone che le esperienze conoscitive rigorosamente condotte diano accesso a “rilevanti elementi di datità”, allora è possibile affermare che anche le value theories abbiano elementi di fondatezza nella realtà. Di fatto, però, le due ipotesi gnoseologiche (realismo e costruttivismo) rimangono indecidibili sul piano fattuale. Proprio in quanto qualunque posizione si assuma rispetto alle due differenti assunzioni gnoseologiche nessuna è empiricamente verificabile, Janna Thompson considera l’enunciato che dichiara gli esseri viventi come aventi tutti un valore intrinseco troppo soggettivo e come tale ininfluente sul piano morale,
perché una volta enunciata questa tesi rimarrebbe comunque senza risposta la seguente domanda: “Perché gli altri esseri viventi dovrebbero avere un valore intrinseco?”, e mancando tale risposta l’enunciato viene a perdere qualsiasi forza morale; a fondare un’etica del rispetto sarebbe solo il riconoscimento che gli altri enti stanno in una relazione di interdipendenza con noi (Thompson, 1983, p. 93). Questa critica risulta però debole, poiché non tiene conto che l’enunciato del valore intrinseco poggia sul principio che ciò che è vivente ha valore in sé e in quanto tale chiede rispetto. Shrader-Frechette non mette in dubbio la tesi secondo la quale il riconoscimento di un valore intrinseco a tutti gli enti naturali provocherebbe un cambiamento radicale nella cultura tale da rendere possibile l’emergenza di un atteggiamento etico ecologico, tuttavia ritiene che questa posizione non sarebbe senza costi per il mondo umano, poiché se si suppone che il resto della natura abbia gli stessi diritti del mondo umano, può accadere che non si verifichino le condizioni sufficienti per salvaguardare il benessere della specie umana. Se si assume, infatti, che gli alberi e gli esseri umani, in quanto dotati dello stesso valore intrinseco, hanno gli stessi diritti alla vita, può accadere che posti di fronte al dilemma di preservare una foresta o di salvaguardare la vita di una comunità che abita nelle sue prossimità si decida che abbia la priorità la foresta in quanto gli alberi che la costituiscono sarebbero esemplari di una specie in via di estinzione (Shrader-Frechette, 1993, p. 18). A questo tipo di obiezione i biocentristi rispondono che occorre distinguere fra il riconoscere a tutti gli enti un valore intrinseco e l’affermare che tale valore è lo stesso per tutti gli enti. Mentre seguendo la seconda tesi si può arrivare a stabilire che in nessun caso è legittimo decidere l’eliminazione anche di un solo essere vivente – sia esso un vegetale o un animale –, nel primo caso si stabilisce che in via di principio ogni forma di vita va protetta, ma qualora ci si trovasse di fronte a una scelta è legittimo introdurre ordini di priorità. Noi nasciamo per vivere ed è quindi naturale attivare forme di resistenza nei confronti di tutti quei fenomeni che minacciano la nostra sopravvivenza. Sarebbe dunque in ragione della nostra consistenza ontologica di enti chiamati alla responsabilità di dare forma al nostro proprio poter essere che diventa legittimo, in contesti marcati dalla messa in pericolo della possibilità di
continuare ad esistere, introdurre criteri di priorità che orientino i processi di deliberazione. Se si supera la visione antropocentrica e se si fa dialogare la riflessione ontologica interna alla filosofia con le implicazioni metafisiche che emergono dalle teorie fisiche più recenti (come la teoria quantica), si rende evidente la necessità di superare la distinzione fra valore strumentale e valore intrinseco, e di conseguenza l’opposizione fra antropocentrismo ed ecocentrismo, perché non si può non pervenire a riconoscere a ogni ente di essere portatore di un valore che gli è proprio in quanto parte della rete della vita e non per una decisione da parte di un soggetto che è esso stesso un nodo di tale rete. Secondo la teoria quantica ogni parte della realtà è strettamente connessa alle altre in una unicità di materia e di energia; di conseguenza non sono concepibili elementi dotati di valore e altri vuoti. Quando viene meno la distinzione fra soggetto osservatore e oggetto osservato viene meno la legittimità di assegnare all’osservatore la facoltà di decidere posizioni assiologiche. Gli errori ecologici dipendono dal non sapere riconoscere l’unicità del tessuto della vita, perché le relazioni che connettono ogni elemento agli altri dentro un unico flusso di energia fanno della realtà una unica cosa di valore. La ragione dell’essere umano, che pretende di stabilire il grado di valore degli enti, non è che una forma emergente di una mente estesa nella natura. Pur valutando essenziale il ruolo dell’etica per la costruzione di una cultura ecologica, c’è chi ritiene che (ad es. Shrader-Frechette, 1993; Attfield, 1983) non sia necessario modificare l’etica tradizionale. La necessità di superare la metafisica meccanicistica e la visione strumentale della natura non implicherebbe il superamento dell’intera tradizione occidentale, perché a un’analisi attenta risulterebbero in essa presenti semi di pensiero ecologico che semplicemente sono rimasti inattivi e che ora occorre coltivare. Secondo Passmore i teorici dell’environmental ethics sopravvalutano il potere dell’etica, poiché non avvertono che di fatto, a orientare il modo di comportarsi non solo verso l’ambiente ma anche nei confronti degli altri esseri umani, sono, oltre all’ignoranza su ciò che è bene fare, sentimenti come la paura, l’avidità, la vanità, la sete di potere e la mancanza di lungimiranza, sentimenti sui quali i princìpi morali avrebbero scarsa influenza (Passmore, 1986, pp. 12 e 197). Inoltre le critiche che i
sostenitori di una nuova etica muovono alle teorie human-centered non saprebbero riconoscere che il comportamento di dominio dell’essere umano sulla natura sarebbe una necessità per la costruzione della civiltà e che non necessariamente si traduce in forme di devastazione delle risorse naturali, come dimostra il fatto che l’agricoltura ha spesso prodotto paesaggi naturali che ispirano un senso di ammirazione (Passmore, 1986, p. 189). Sulla base di questi argomenti, Passmore sostiene che non abbiamo affatto bisogno di una nuova etica, ritenendo la tradizione etica occidentale sufficiente per impostare un rapporto corretto con la natura; ciò che mancherebbe è una coerenza sostanziale fra il proprio agire e le scelte di valore dichiarate che da sole, se messe in pratica, basterebbero per riorientare il nostro rapporto con la natura (1986, pp. 196-197). È vero che l’insegnamento morale tradizionale si occupa solo dei rapporti tra gli esseri umani, ma il principio fondamentale dell’etica cristiana, che chiede di agire in modo da non danneggiare il prossimo, ha una valenza ecologica, perché l’amare il prossimo implica il prenderci cura anche dell’ambiente. Non ci sarebbe alcun bisogno di introdurre nuovi princìpi etici, nuove forme di contratto o di amore per la natura, perché ai fini del superamento della crisi ecologica basterebbe maturare la consapevolezza che l’inquinamento del mare e dell’aria attraverso lo scarico delle sostanze di scarto, l’impoverimento degli ecosistemi, lo spreco delle risorse naturali, la distruzione delle ultime zone di natura selvaggia, costituendo un danno per l’ecosfera, sono allo stesso tempo un danno per l’umanità. Per questa argomentazione, che mette in primo piano gli interessi umani, Passmore viene accusato di “sciovinismo umano”. Egli, però, rifiuta questa accusa, sostenendo che è senza fondamenti considerare come soggetti di diritto gli enti che non appartengono al mondo umano, mentre ha più senso impiegare le energie in una maggiore osservanza dei princìpi etici che ci sono familiari, dal momento che i problemi nascono non per la mancanza di norme etiche adeguate ma per l’ipocrisia che governa il comportamento. Se è vero che esplicitamente la nostra società condanna l’avidità, è altrettanto vero che in pratica approva la massima di Orazio: «Cerca di arricchirti, se è possibile con mezzi giusti, altrimenti con qualsiasi mezzo», al punto che non è difficile percepire una certa ammirazione per i ladri più furbi (Passmore, 1986, p. 197). Se c’è un rottame culturale da rimuovere non è allora l’etica tradizionale così come
viene esplicitata, quanto certi criteri morali impliciti che legittimano comportamenti contrari ai valori condivisi. Se quest’ultimo argomento può essere condivisibile, occorre però riflettere sulla tesi secondo la quale non ha senso preoccuparsi di modificare le convinzioni di base (etiche o ontologiche che siano), perché determinante sarebbe modificare i comportamenti. Questa tesi non tiene conto del fatto che i comportamenti sono sempre connessi a sistemi di convinzioni che li legittimano; per questa ragione è infondato pensare che una cultura si possa modificare agendo direttamente sui comportamenti senza passare attraverso una modificazione del modo di pensare. Lo stesso Passmore riconobbe la debolezza della sua tesi e fu costretto ad ammettere che nuovi atteggiamenti nei confronti della natura necessitano di nuovi sistemi di idee, precisamente di una nuova metafisica non antropocentrica, perché il sorgere di nuovi atteggiamenti è strettamente connesso col prender forma di una nuova filosofia della natura (Passmore, 1986, pp. 212 e 215). 2.6. Estendere il principio di responsabilità Un contributo fondamentale per lo sviluppo di un’etica ecologica è costituito dalle riflessioni di Hans Jonas. Secondo Jonas, nessuna metafisica e nessuna etica tradizionali ci pongono nelle condizioni di far fronte ai problemi sollevati dall’attuale potenza scientifica e tecnologica (Jonas, 1990, p. XXVII), perché noi disponiamo di un’etica “della prossimità” ontologica (che tiene in considerazione la specie umana e in qualche caso quelle a lei più vicine), e della prossimità spaziale e temporale (che non contempla la possibilità che azioni presenti e limitate abbiano conseguenze lontane nello spazio e nel tempo). Tutte le massime dell’etica tradizionale hanno, infatti, come destinatario un soggetto altro che partecipa di uno spazio vitale prossimo e di un contesto temporale comune: «Ama il tuo prossimo come te stesso», «Fa agli altri quello che vorresti fosse fatto a te», «Indirizza tuo figlio sulla via della verità», «Aspira all’eccellenza sviluppando e realizzando le migliori possibilità del tuo essere in quanto uomo», «Subordina il tuo bene personale al bene comune», «Non trattare mai il prossimo come semplice mezzo, ma sempre come fine in se stesso». L’etica tradizionale indica come soggetti di considerazione etica solo coloro che
vivono nel presente e che stanno in una forma di rapporto evidente con il soggetto dell’agire, poiché «l’universo morale consiste di contemporanei e il suo orizzonte futuro è limitato alla durata probabile della loro vita» (Jonas, 1990, p. 8). Un’etica che non solo si limita a occuparsi delle circostanze umane, ma si preoccupa esclusivamente del presente lasciando al caso le conseguenze più remote dell’agire è incapace di fornire strumenti per far fronte alla crisi ecologica. A consentire la costruzione di un’etica ecologia è il pensare l’essere umano profondamente interconnesso col mondo biofisico: se l’essere umano è responsabile della sua vita e se la sua vita è strettamente interrelata con l’ecosistema, allora la sua responsabilità etica deve estendersi all’ecosistema di cui è parte. Detto altrimenti: se l’uomo è responsabile del suo agire e se il suo agire ha effetti anche sul mondo naturale, allora la sua responsabilità etica si allarga alle azioni sulla natura. È proprio la condizione di vulnerabilità della biosfera di fronte alla tecnica umana a rendere gli elementi naturali in grado di «avanzare una sorta di pretesa morale» (Jonas, 1990, p. 12). Della proposta formulata da Jonas è interessante non tanto la riformulazione in chiave ecologica degli imperativi kantiani, in modo da fondare una dilatazione al mondo extraumano della responsabilità etica, quanto la ragione elaborata a favore di un rinnovamento dell’etica. A rendere inadeguate le teorie etiche di cui attualmente disponiamo sarebbe il fatto che a seguito dello sviluppo tecnologico la qualità dell’agire umano è mutata e, dal momento che l’etica è in relazione con la qualità dell’agire, una trasformazione dell’etica diventa necessaria (Jonas,1991, p. 41). È dunque la natura qualitativamente nuova del nostro agire a rendere necessario un cambiamento culturale radicale. Prima della nostra epoca gli interventi sulla natura venivano facilmente riassorbiti all’interno degli equilibri ecosistemici esistenti. Ora, invece, con le nuove tecnologie, che hanno provocato il passaggio da un’ingegneria dei materiali inerti a un’ingegneria della vita, la natura è stata forzata a tal punto che in breve tempo gli equilibri vengono sconvolti. Non usiamo più i prodotti della natura così come li troviamo, ma introduciamo negli ecosistemi processi che non si verificherebbero senza il nostro intervento. Forzando i limiti della natura l’essere umano ha innescato processi di una tale portata da rischiare di non governarli. Con la capacità di provocare conseguenze negli equilibri biologici che per la ragione umana sono imprevedibili,
l’evoluzione della società umana ha raggiunto ormai un punto critico, perché esistono le stesse possibilità sia per un’autorealizzazione senza precedenti, sia per un annientamento totale della specie umana. Oggi non sono più le forze della natura a essere percepite come minacciose, ma anche l’agire umano che, col potere tecnologico sviluppato, costituisce una minaccia per l’ecosistema terrestre e dunque anche per la sua stessa specie. Come conseguenza degli sviluppi dell’ingegneria genetica è accaduto che lo stesso essere umano è diventato uno degli oggetti della tecnica. Quello che era «il più grande, il più profondo, il più sacro dei segreti della natura», cioè «ri-creare il miracolo della vita, azione che tutte le epoche prima della nostra consideravano una prerogativa esclusiva dell’azione divina» (Arendt, 1989, p. 199), è divenuto oggetto della manipolazione tecnica. Il controllo genetico viene giustificato con una visione ottimistica del progresso, secondo cui l’essere umano è destinato ad assumere il controllo della sua evoluzione, non solo per conservarla, ma per migliorarla (Jonas, 1990, p. 28). Ma non sempre l’evoluzione del sapere avviene in questa direzione. Il problema è che disponiamo di un sapere la cui capacità predittiva resta al di sotto delle potenzialità connesse all’applicazione delle tecniche. Proprio questo scarto tra sapere e potere rende necessario tenere presente al momento di ogni decisione la situazione di ignoranza in cui versiamo. Condizione questa che rende necessaria l’elaborazione di una nuova etica, che insieme al principio del rispetto per ogni forma vivente adotti anche il principio della prudenza, così da costituirsi come un’etica della responsabilità. 2.7. Una nuova sensibilità ecologica Da alcuni filosofi, critici nei confronti di un’interpretazione intellettualistica dell’etica, l’elemento determinante la possibilità di una rifondazione dell’etica viene individuato nello sviluppo di un nuovo modo di sentire nei confronti della natura. Convinto che le nostre scelte più che da astratti moralismi o da appelli al sacrifico siano fortemente influenzate dai nostri sentimenti, Naess (1984; 1994) assume come fondamentale nel processo di rifondazione etica della nostra cultura lo sviluppo di un sentimento di «compartecipazione empatica» nei confronti della natura, poiché avrebbe la forza di generare la
consapevolezza della necessità di un’etica della solidarietà estesa alla realtà extraumana. Questa teoria, che ipotizza sentimenti morali ecologici, implica uno spostamento radicale rispetto alla tradizione etica occidentale, che ha negato la possibilità di un sentimento morale nei confronti della natura. La netta cesura morale tra il mondo umano e il resto della natura viene affermata da Kant, il quale dopo aver stabilito che l’unico sentimento che può accompagnare l’azione morale è il rispetto, stabilisce che esso è dovuto sempre e soltanto all’essere umano, perché tra gli enti di natura sarebbe il solo da trattare sempre come fine e mai come mezzo: «Il rispetto – scrive Kant nella Critica della ragion pura – si riferisce sempre a persone mai a cose» (parte I, libro I, cap. III), e nella categoria “cose” è incluso tutto ciò che non è umano, quindi anche gli altri esseri viventi compresi gli animali, nei cui confronti è possibile sviluppare amore e paura, ma non rispetto. L’etica ecologica che ha le sue radici nel pensiero di Thoreau e di Leopold assume, invece, la natura come oggetto di considerazione morale e pone a fondamento della nuova etica lo sviluppo di sentimenti morali estesi alla realtà extraumana. I sentimenti ecologici avrebbero la loro matrice generativa in un’“ontologia ecologica del sé”, perché si suppone che lo sviluppo di un’idea dell’essere umano come uno dei nodi della rete della vita favorirebbe l’emergenza di quel senso di compartecipazione col resto della natura che sarebbe all’origine della disposizione a prendersi cura anche degli altri esseri viventi. Per il generarsi di una nuova etica ecologica avremmo bisogno, quindi, non di elaborare codici morali, ma di una nuova ontologia implicante una forza performativa che agisca nella direzione di una spinta al prendersi cura del mondo naturale al quale si sente di appartenere. Considerata da questo punto di vista la formulazione di un’etica ecologica nella forma di norme che impongono precisi divieti non servirebbe a sviluppare un nuovo orientamento morale. Non vedrebbero chiaramente il problema coloro che immaginano la fondazione di una cultura etica ecologicamente orientata alla maniera kantiana, come una questione da affrontare approntando contesti formativi finalizzati all’acquisizione di nuovi codici morali, perché riducendo la formazione etica a un apprendimento di regole continuano a situarsi nell’orizzonte di
quella razionalità tecnica che, invece, sarebbe necessario superare affinché possa generarsi un nuovo orientamento culturale. Dal momento che, prima di sapere ciò che dovremmo fare, è necessario pensare a ciò che siamo e al posto che occupiamo nell’“ordine generale delle cose”, allora, secondo la deep ecology, ciò di cui abbiamo bisogno innanzitutto per fondare un nuovo orientamento etico è una nuova ontologia. Se si accetta il presupposto che la condizione necessaria per l’emergenza di un comportamento eticamente orientato va rintracciata nella maturazione di un sentimento ecologico e che il suo sviluppo va visto strettamente connesso con la concettualizzazione di una nuova ontologia, allora la questione ontologica non può non diventare la questione fondamentale per l’educazione etica, nel senso che questa viene a essere interpretata come la messa a punto di contesti di apprendimento che facilitino la costruzione di presupposti ontologici ecologicamente densi. La teoria etica maturata dalla deep ecology sollecita a valutare la possibilità di assumere come prioritaria l’elaborazione di nuovi vocabolari ontologici, e in modo specifico la costruzione di un’«ontologia ecologica della natura» in stretta correlazione con un’«ontologia ecologia del sé» (Mathews, 1988, pp. 349-350 e 354). L’educazione alla responsabilità etica estesa al mondo extraumano, anziché configurarsi come l’apprendimento di princìpi morali formulati in termini normativi che danno voce a un dover essere imposto dall’esterno, richiede l’acquisizione di altri vocabolari ontologici che costituirebbero la matrice generativa di una disposizione emotiva positivamente orientata nei confronti della natura. Mentre per quell’indirizzo dell’etica ambientale che sviluppa i princìpi dell’etica della terra di Leopold il comportamento ecologico nei confronti della natura ha la sua matrice generativa nei sentimenti positivi, come il senso di apprezzamento del valore delle altre forme di vita, Jonas assegna un ruolo determinante al sentimento della paura. Proprio perché la capacità predittiva della scienza è sottodimensionata rispetto al potere trasformativo che consente di mettere in atto, l’«euristica della paura» fungerebbe da freno rispetto alla tendenza arrischiata dell’agire umano, costituendo il migliore surrogato della saggezza (Jonas, 1990, p. 31). Affidarsi a quella che viene ipotizzata la guida della paura, per prefigurare pericoli futuri rendendoli reali attraverso l’immaginazione, sarebbe il «primo dovere, per così dire propedeutico, della nostra etica» (Jonas, 1990,
p. 36). In una situazione di grande incertezza, conseguente all’impossibilità di effettuare un’attendibile valutazione dell’impatto dell’agire umano sull’ambiente, a funzionare sul piano dell’orientamento etico non sarebbe il concetto di bene o l’idea di un futuro migliore bensì la paura per gli esiti imprevedibili del nostro agire, che sarebbe in grado di porre dei limiti efficaci a tutte le azioni che si sa mancare del supporto di un sapere capace di un’adeguata capacità predittiva. Ma è davvero efficace sul piano morale coltivare il sentimento della paura? È da tenere presente che nel corso di un’intervista Jonas ha mostrato di riconsiderare criticamente questa sua posizione, mettendo in dubbio la valenza per così dire politica della paura, riconoscendo che questo sentimento non solo non agisce quando manca l’esperienza diretta del problema che la paura dovrebbe indurci a evitare, ma anche quando sembra efficace lo è nel breve periodo. Impone una riflessione critica l’assegnare un valore morale al sentimento della paura connesso alla pratica cognitiva del prefigurare drammatici scenari futuri e, quindi, il ritenere che l’educazione etica debba far leva sui nostri timori. La paura, anziché nutrire, può ammalare l’anima. A spingere l’essere umano a dare pieno compimento alla sua tensione all’eccellenza, costruendo quegli artefatti simbolici e materiali che vanno a costituire la dimora propria della specie umana, più che le “paure di” sono i “desideri per” e specificatamente il desiderio di realizzare una buona qualità della vita umana. Sono i desideri che catalizzano l’energia positiva, in particolare il desiderio di realizzare una vita buona. Il desiderio del bene, che è il desiderio primario, è sempre efficace. Ma poiché che cosa sia il bene è domanda difficile, eccedente la misura esplicativa della ragione umana, la pratica educativa dovrebbe porre al centro l’organizzazione di situazioni che promuovano la riflessione sull’idea di bene in generale, e in specifico sul piano ecologico, e, a partire da qui, sui desideri che direzionano l’agire, alimentando quelli utopici, che sappiano catalizzare il nucleo forte delle energie esistenziali di ciascuno. Ciò che, invece, della teoria di Jonas si mostra rilevante per una filosofia dell’educazione ecologica è l’appello all’etica della responsabilità, cioè la disposizione morale a sentirsi responsabili delle conseguenze del proprio agire. Rispetto all’etica dell’intenzione, che ha dominato la cultura occidentale, l’etica della responsabilità implica una svolta radicale. L’etica dell’intenzione si basa sul principio della coerenza fra l’atto e l’intenzione e
come tale non contempla le conseguenze effettive dell’agire nel campo della responsabilità morale. Oggi, che la tecnica rende disponibile un fare le cui conseguenze hanno effetti spesso irreversibili che modificano sostanzialmente l’ambiente e la vita stessa dell’uomo, non si può escludere dall’orizzonte etico la responsabilità di tutto quanto consegue all’intervento umano. Se per Max Weber agire secondo il principio dell’etica della responsabilità significa rispondere delle conseguenze prevedibili del proprio agire, Jonas dilata la responsabilità anche agli esiti non prevedibili, sia nello spazio che nel tempo, che sono implicati nel dispiegamento della potenza della tecnica contemporanea. La crisi ecologica ha evidenziato l’indeterminatezza degli esiti conseguenti all’applicazione di molte tecnologie. Tale impossibilità di anticipare le conseguenze di un’azione non esonera, però, dall’esserne comunque responsabili. L’etica della responsabilità si nutre, quindi, della consapevolezza dei limiti del sapere umano rispetto alla capacità di manipolazione raggiunta. Di conseguenza determinante sul piano etico risulta la virtù dell’umiltà, che avrebbe la sua matrice generativa nella consapevolezza della dismisura esistente fra il potere della tecnica e la capacità previsionale delle sue conseguenze. È su queste premesse che la virtù dell’umiltà può modificare il modo di agire nei confronti del mondo naturale, perché il “sapere di non sapere” le conseguenze imprevedibili del proprio fare, che viene dalla consapevolezza del limite della cognizione umana rispetto alla potenza dei mezzi tecnici disponibili, impone vincoli prudenziali all’agire. Proprio la sproporzione fra le disponibilità della tecnica e il sapere le conseguenze che derivano dalla sua applicabilità aumenta la percezione della fragilità della condizione umana, poiché non solo avvertiamo la nostra mancanza di sovranità sul presente, ma percepiamo l’essere consegnati a un futuro imprevedibile, che manca di punti di riferimento certi. La consapevolezza della fragilità di ogni criterio etico chiede una continua vigilanza critica, quella che sembra consumare ogni energia cognitiva ed emotiva, poiché ci si sente travolti dal meccanismo del progresso tecnico che, seguendo la logica aproblematica della fattibilità, travolge ogni principio faticosamente elaborato, sollevando continuamente problemi nuovi che obbligano a una riformulazione continua dell’orizzonte etico di riferimento. Sembra quasi che l’età della tecnica non lasci spazio al pensare
etico, che chiede i tempi lunghi della riflessione, quel “fermati e pensa” che pare incompatibile con un mondo travolto dal ritmo frenetico del rincorrere continui cambiamenti. Forse nessuna etica, tuttavia, per quanto ben argomentata, riuscirà da sola a moderare la spinta dell’uomo postmoderno all’uso e alla manipolazione sconsiderata della materia vivente. L’etica sembrerebbe scarsamente efficace rispetto all’obiettivo di regolare il comportamento umano, perché non sarebbe in grado di contrastare quella che sembra essere una tensione fondamentale dell’essere umano: la tensione a rendere quanto più possibile artificiale la vita e a recidere ogni possibile legame con la natura. Secondo Arendt (1989, p. 2) gli sforzi volti a creare una nuova vita in provetta sarebbero mossi dal desiderio di evadere dai vincoli della vita terrestre. Ci sarebbe nel profondo dell’animo umano come una sorta di ribellione contro l’esistenza umana così come è data. Cosa questa evidente nell’uso che noi facciamo della tecnica, che pretende di assumere non solo la vita dell’uomo, ma la vita della natura nella sua interezza, come materia disponibile a qualsiasi manipolazione tecnica. Se così fosse allora non ci sarebbe più né la vita umana né la natura, poiché la natura è ciò che ha in se stessa l’origine del movimento, e non l’ha in altro: Talvolta sembra che l’umanità corra all’impazzata verso questa meta: che l’uomo produca tecnicamente se stesso. Se ciò riuscirà l’uomo avrà fatto saltare in aria se stesso, cioè la sua essenza come soggettività, e l’avrà fatta saltare in quell’aria dove l’assoluta assenza di senso vale come unico , e dove il mantenimento di questo valore appare come il umano sul globo terrestre (Heidegger, 2002, p. 211).
La crisi d’uso della tecnica, generata da un desiderio di oltrepassare i vincoli terrestri della condizione umana, segnala una tensione smisurata alla trascendenza. La spinta alla trascendenza è connaturale alla condizione umana; quando però tale spinta è mossa dal desiderio non di una vita migliore, ma di una vita differente da quella che ci è data, è facile cadere nella dismisura. Lo smarrimento della ricerca della giusta misura del proprio agire può verificarsi con estrema facilità, perché ciascuno di noi prima o poi sente il desiderio di sperimentare una condizione non più sottoposta ai limiti della vita terrestre. Quando, così come si racconta nel libro V dell’Odissea, Calipso mette in atto strategie per trattenere Ulisse sulla sua isola, fa appello proprio al desiderio di trascendere i limiti della condizione umana. Gli prospetta, infatti, la possibilità di una vita divina, che non conosce mancanza alcuna,
né la finitezza propria della condizione terrestre. Ma Ulisse, incarnando la capacità di resistere a desideri che hanno come riferimento una vita non umana, rifiuta l’invito e dichiara di voler tornare alla sua terra per abbracciare la sua donna, seppure mortale e perciò destinata a invecchiare. Calipso, con la sua offerta di una vita diversa da quella umana, fa appello a un desiderio diffuso fra gli esseri umani, i quali, gravati da una vita fragile e incerta, vorrebbero modificare la loro condizione esistenziale. Alla base della ricerca scientifica e tecnologica ci sarebbe proprio questo desiderio. Quando la tecnologia entra nei segreti della vita vorrebbe raggiungere una sorta di potere divino, quello che consentirebbe all’essere umano di guadagnare piena sovranità sulla sua vita. Molti dunque sono i fattori che alimentano nell’essere umano il comportamento antiecologico: non solo il desiderio di possedere cose per consumare, non solo l’incapacità di accettare i limiti della condizione umana che richiede la capacità di obbedire al principio della «trascendenza immanente» (Nussabum, 1990) – che consiste nel cercare l’ulteriore attenendosi a quella giusta misura che ci trattiene nella zona dell’agire con prudenza, laddove avvertiamo che il nostro potere tecnico apre zone di rischio –, ma anche l’indifferenza verso la politica e verso la partecipazione diretta alla gestione dei problemi del nostro tempo. È questa indifferenza che consente all’economia di attivare la logica del consumo della natura senza che si pongano questioni di giustizia sociale, e al potere finanziario di decidere le condizioni di vita delle comunità; e che consente alla scienza di procedere lungo linee di interesse che non sempre rispondono alla giusta richiesta di incrementare il livello della qualità della vita per tutti, e alla politica di professione di trascurare la soluzione degli squilibri sociali. Se si accettano queste premesse, allora si deve ipotizzare che ai fini di un nuovo umanesimo ecologico a essere necessario è un radicale cambio di paradigma, perché solo una ridefinizione dei presupposti ontologici, epistemologici ed etici su cui si costruisce una cultura sarà capace di ispirare nuovi modi di pensare, di sentire e di agire. 9
Il dibattito sull’etica ambientale alle origini era strettamente connesso all’opposizione che veniva stabilita fra teorie antropocentriche e teorie non-antropocentriche. Alle radici della riflessione sull’etica ecologica si rintraccia l’opposizione che è stata stabilita fra “antropocentrismo”, la visione delle cose che considera l’uomo al centro del mondo e tutti gli esseri subordinati alla soddisfazione del suo desiderio, e “non-antropocentrismo”, che rifiuta concezioni assiologiche gerarchiche e concepisce la specie umana una parte del più vasto
ecosistema. Una anthropocentric value theory riconosce un valore intrinseco solo agli esseri umani, mentre considera gli altri enti – gli elementi biofisici e le altre forme di vita – come aventi un valore solo strumentale, cioè un valore dipendente dalla misura in cui si rivelano utili ai fini umani. Una non-anthropocentric value theory identifica un valore in tutto quanto esiste (Callicott, 1989, p. 299). Con il tempo si è configurata la distinzione fra un “antropocentrismo radicale”, secondo cui solo l’essere umano è dotato di valore, e un “antropocentrismo debole”, secondo cui anche gli altri enti hanno un valore seppure solo strumentale. A lungo nel dibattito ecologico ha prevalso la tesi che solo il superamento della visione antropocentrica a favore di una visione biocentrica possa consentire l’emergere di una cultura ecologica. Secondo Hargrove, invece, non è possibile ipotizzare questo scenario, poiché gli esseri umani non possono evitare di essere antropocentrici, dal momento che qualsiasi valutazione viene formulate sempre da un punto di vista umano, ossia antropocentrico; anche quando cerchiamo di assumere il punto di vista degli altri esseri «sempre guardiamo il mondo antropocentricamente» (1990, p. 186). Inoltre, secondo Hargrove, l’antropocentrismo non necessariamente poggia su una visione strumentale e per sostenere la sua tesi distingue fra: (i) non-anthropocentric instrumental value, (ii) anthropocentric instrumental value, (iii) non-anthropocentric intrinsic value e (iv) anthropocentric intrinsic value (1990, p. 177).
3. La necessità di un umanesimo ecologico
3.1. Rimettere al centro la natura Dall’analisi della filosofia ecologica prende forma l’ipotesi che possa essere significativo recuperare le riflessioni che costituiscono le radici della cultura ecologica contemporanea, poiché risalire alle fonti culturali primarie consente di costruire solide basi per una rigorosa filosofia dell’educazione ecologica. Le fonti prime sono costituite dalla letteratura definibile “protoecologista”, i cui testi hanno rappresentato la matrice generativa della cultura ambientale e che si suppone possano costituire tuttora una fonte di idee vitali a partire dalle quali tratteggiare lo sfondo per promuovere un nuovo orientamento culturale. Fonti di questa indagine archeologica sono le opere di Henry D. Thoreau, John Muir e Aldo Leopold. Ciò che ha fatto del pensiero di questi studiosi l’architrave della cultura ecologica non è solo l’aver posto al centro della loro attività speculativa la natura, ma soprattutto l’aver coltivato un’intensa passione scientifica, estetica e filosofica per il mondo naturale nell’orizzonte di un paradigma di pensiero dirompente rispetto a quello della modernità, e nello stesso tempo anticipatore di molte delle componenti che identificano la visione ecologica postmoderna. Certo non ci si deve attendere dall’esame dei testi dei primi ecologisti la formulazione di teorie pedagogiche sistematizzate, ma le intuizioni educative di cui sono intessute molte riflessioni consentono di identificare semi di pensiero generativi di un concetto di esperienza ecologica dal denso spessore pedagogico. Già prima dei pensatori sopra citati il filosofo Ralph Waldo Emerson aveva posto al centro della speculazione filosofica la natura e la sua opera più famosa, Nature, un testo fondamentale nella cultura americana
pubblicato per la prima volta nel 1836, ha influenzato tutta una generazione di pensatori compresi Thoreau e Muir. A Emerson va riconosciuto il merito di aver avviato una nuova forma di filosofia della natura, fondata sulla tesi secondo la quale per gli esseri umani è essenziale coltivare un rapporto intenso e pensoso col mondo circostante. Nell’introduzione a Nature Emerson solleva una questione essenziale per quella che viene definita “eco-filosofia”: quale dev’essere la fonte del pensare? Considerando criticamente un certo modo di fare filosofia e in genere di fare letteratura, egli si chiedeva come fosse possibile che mentre le generazioni passate avevano esercitato il pensiero mantenendo un rapporto diretto con il mondo circostante, il tempo presente fosse invece caratterizzato da un pensare mancante di un rapporto diretto con la realtà naturale: «Perché anche noi non dovremmo gioire di una relazione originale con l’universo? Perché non dovremmo avere una poesia e una filosofia di intuizione e non di tradizione?» (Emerson, 1998, p. 3). Nature è un invito appassionato a distogliere il pensare dal sapere cristallizzato e congelato nelle parole di altri per nutrirlo delle intuizioni vitali che solo il rapporto diretto col mondo circostante può generare. Evocando il concetto antico del filosofare, Emerson invitava a concepire la via del sapere come un «interrogare la grande apparizione che tranquillamente risplende attorno a noi» (1998, p. 4). Ma per potere interrogarsi sulla natura occorre saper vedere la natura, capacità che secondo Emerson si è andata perdendo col tempo in conseguenza del fatto che si preferisce mantenere la mente a contatto col sapere già elaborato. Quello che è andato smarrito è un modo non mediato di stare in contatto col mondo circostante, poiché si lascia prevalere la tendenza a «brancolare» fra i pensieri già pensati, dimenticando che «il sole brilla anche oggi» e che è il contatto con i boschi che ci fa riguadagnare la ragione profonda delle cose (Emerson, 1998, pp. 3-7). Emerson invita a prendere le distanze dal chiacchiericcio di certe filosofie lontane dalla vita nella sua materialità concreta, per imparare a «stringere amicizia con la materia» del mondo della natura e per superare il dispregio con cui parte consistente del pensiero occidentale ha considerato il mondo della materia, trascurando che, invece, la materia vivente è la vera dimora dell’anima, perché il contatto con gli enti e i fenomeni della natura è il primo ed essenziale nutrimento della vita cognitiva. La materia vivente
è per la mente quello che è l’acqua per l’organismo (Emerson, 1998, p. 39). Per nutrire la mente è essenziale recuperare l’esperienza sensoriale della natura: «Penetriamo con il corpo in quest’incredibile bellezza; affondiamo le nostre mani in questa variegata dimensione, mentre i nostri occhi si bagnano di queste luci e di queste forme» (Emerson, 1998, p. 41). La sapienza autentica delle cose del mondo prende forma laddove il pensare si nutre di uno sguardo libero da sistemi di interpretazione già dati, ma soprattutto di quella capacità di entrare in una relazione sintonica con le cose propria dell’età infantile. Quando si sta in presenza della natura, la mente proverebbe un piacere originario. È come se il rapporto diretto con le cose, che si concretizza «stando seduti sulla terra nuda», consenta al pensiero di trovare il suo luogo e la sua misura, riducendo i rischi di autoreferenzialità di una certa filosofia. La mente diventa allora un occhio trasparente; ci si scopre di essere niente, ma nello stesso tempo si vede tutto, poiché si entra in relazione con «la corrente dell’Essere universale» che fluisce attraverso ciascuno di noi (Emerson, 1998, pp. 7-8). La tesi secondo la quale lo stare in contatto con le cose del mondo della natura farebbe ritrovare la «ragione e la fede» avrebbe poi avuto largo seguito nella cultura americana. Certamente Emerson fornì un contributo considerevole al prendere forma della cultura ecologica nordamericana. Tuttavia va tenuto conto che i suoi discorsi sono incorniciati dall’approccio trascendentale che fa della natura un mero epifenomeno di una realtà altra che rimarrebbe nascosta. Il mondo organico, con i suoi spettacoli, i suoi suoni e i suoi profumi, è considerato niente più che mera apparenza: un promontorio visibile che oscura qualcosa di più reale. Il trascendentalismo di Emerson impedirebbe di scoprire nella natura quello che gli eco-filosofi definiscono “valore intrinseco”, e quindi di accostarsi a essa non per leggervi i segni dell’azione divina, ma per riscoprire la sua armonia come avente un suo intrinseco significato (Oelschlaeger, 1991, p. 135). Ma questo lato della sua filosofia è importante, poiché il suo pensiero ci avverte che anche quando annusiamo il profumo della corteccia di una quercia o ci incantiamo al passare delle nuvole nel cielo, la natura nella sua essenza non è mai perfettamente afferrabile dalla nostra mente, poiché «siamo accampati nella natura, ma non conviviamo con essa» (Emerson, 1998, p. 56). Il sottolineare la nostra estraneità dalla natura non va inteso come un residuo antiecologico, poiché
intende solo evidenziare che la nostra ragione è limitata perché sporge rispetto al tessuto delle cose, anche se dentro di noi scorre la stessa energia mentale che attraversa la natura intera (Emerson, 1998, p. 57). Ciò che fa di Thoreau, Muir e Leopold la fonte di un nuovo modo di pensare è l’avere sviluppato alcune delle suggestioni ecologiche più significative della filosofia emersoniana, svincolandosi però dal suo trascendentalismo, come è testimoniato dall’idea di natura presente nei loro scritti, che può essere considerata l’architrave concettuale del nuovo paradigma ecologico. Prima però di entrare nell’esame del pensiero dei protoecologisti è necessario precisare che la forza delle loro teorie, l’impatto che hanno avuto nell’evoluzione della cultura ecologica sono da ricondurre anche al fatto che proponevano visioni del mondo autenticamente vissute dagli autori, e in genere ciò accadeva congiuntamente con l’espressione di stili di vita originali, generalmente segnati da un forte impegno sociale. Infatti, i protoecologisti si sono distinti per l’impegno a favore dell’ambiente. A partire da una lettura attenta dei segni lasciati dall’uomo sul paesaggio, Muir aveva già colto gli indizi di quella che poi sarebbe stata definita crisi ambientale, e affermò l’urgenza di una «politica razionale permanente» (Muir, 1901). Gli risultava impossibile comprendere il motivo per il quale venivano tagliati alberi centenari, che a suo parere sarebbero dovuti essere venerati come monumenti viventi. Nessun interesse economico poteva giustificare la perdita di «opere della natura». Oltre a battersi per il rispetto della libertà individuale, in quanto pilastro di una cultura democratica, Thoreau si era impegnato nella denuncia del degrado ambientale del suo tempo e aveva aspramente criticato quell’economia selvaggia che in nome del profitto distrugge le risorse naturali. È vero che esaltava la vita lontana dai rumori della città, ma non per sottrarsi agli impegni civili, quanto piuttosto per ritrovare «ciò che è essenziale nella vita». Walden, la sua opera più famosa, poggia sul principio non solo enunciato, ma pienamente vissuto, della ricerca di una vita semplice ed essenziale. In anticipo sui tempi, metteva in discussione la tendenza a sovraccaricare gli spazi della vita di cose non necessarie. «Semplificate, semplificate!» era il suo motto (Thoreau, 1995, p. 94). Non si era ancora profilata all’orizzonte la civiltà dei consumi, o meglio la civiltà dei rifiuti, perciò il suo appello a ridurre il consumo di cose inessenziali
non era motivato dalla necessità di ridurre la quantità di rifiuti da riciclare, ma dall’urgenza di contrastare quello che può essere definito l’inquinamento dell’anima. L’andare per i boschi allora non va inteso come fuga dalla civiltà, ma come esperienza che, oltre a far guadagnare una conoscenza più profonda del tessuto vitale in cui siamo implicati, crea la condizione favorevole a quel pensare riflessivo impegnato a cercare la giusta misura del vivere. 3.2. Incontrare la natura In Walden Thoreau enuncia quello che si può definire un imperativo ecologico: «Contact! Contact!», cioè “entra in contatto con la natura”, poiché il contatto diretto con il mondo naturale sarebbe la condizione necessaria, anche se non sufficiente, per l’emergere di una visione della vita più attenta alla natura. Convinto che l’essere umano non possa autorealizzarsi compiutamente senza coltivare anche la dimensione naturale, oltre a quella sociale, della sua esistenza, Thoreau è stato un deciso sostenitore della necessità di recuperare un rapporto originario, di “prima mano”, con la natura attraverso la frequentazione assidua dei luoghi naturali. Le pagine dei suoi scritti rivelano l’intensità con cui ha vissuto questo principio: È una di quelle serate deliziose in cui tutto il corpo è un solo senso e inspira felicità attraverso ogni poro. Vado e vengo nella Natura con una strana libertà e sono parte di essa. Mentre cammino lungo la pietrosa riva del lago, in maniche di camicia, malgrado ci sia un vento fresco e il cielo sia coperto, e io non veda nulla di particolare che attragga la mia attenzione, tutti gli elementi mi sono stranamente congeniali. I ranocchi strombettano per annunciare la notte, e la nota del caprimulgo è portata sul sussurro del vento da sopra l’acqua. La comunione con lo stormire dell’ontano e con le foglie del pioppo quasi mi toglie il fiato (Thoreau, 1995, p. 127).
Come Thoreau, anche gli altri protoecologisti non solo hanno teorizzato, ma intensamente praticato il contatto diretto con la natura. A partire dai loro scritti, nella letteratura ecologica si è andata sempre più radicando la tesi secondo la quale la via da seguire per coltivare una consapevolezza ecologica va rintracciata nel vivere con regolarità esperienze di una certa consistenza temporale a diretto contatto con gli elementi del mondo naturale, secondo uno stile di vita improntato al principio della semplicità, e quindi anche dell’uso essenziale delle strumentazioni tecnologiche disponibili. Il contatto diretto con la natura concorrerebbe non solo a sviluppare la consapevolezza del valore degli
ambienti naturali, ma anche a generare il desiderio di sperimentare modi di esistenza più naturali. Secondo Thoreau, lo stare in contatto con la terra è facilitato dal prendersene cura materialmente attraverso l’orticoltura e il giardinaggio. In Walden racconta la sua esperienza di coltivazione di un orto e spiega che questa attività aveva provocato l’effetto di radicarlo nell’ambiente: «i fagioli mi attaccarono alla terra e da questa ricevevo forza» (Thoreau, 1995, p. 149)10. Non è, però, tanto il tipo di attività che s’intraprende a qualificare l’essenza ecologica di un’esperienza, quanto l’atteggiamento con cui è vissuta, che dovrebbe essere orientato dalla passione per la ricerca di una conoscenza profonda del mondo che ci circonda. Altrettanto essenziale, per entrare in contatto con il mondo circostante della vita, è il camminare nella natura. Un camminare, però, che non sia semplice esercizio fisico, non solo avventura dei piedi, ma avventura della mente, mossa alla ricerca non di una conoscenza oggettivata del mondo, ma di un sapere che si genera attraverso l’esercizio di una attenta riflessione sulle sensazioni, sulle intuizioni e sulle conoscenze che emergono quando si mantiene un’attenzione raccolta sull’esperienza nel mentre del suo accadere. Le escursioni nei boschi devono prendere la forma di «odissee contemplative», in cui si esercita la mente a tenere il pensiero presso le cose. «Mi allarmo quando, addentrandomi per un miglio in un bosco, mi accorgo di camminare col corpo senza essere ben presente con lo spirito [...] Vorrei nei miei vagabondaggi far ritorno a me stesso» (Thoreau, 1989, p. 18). L’incontro vivo con le forme di vita che popolano il mondo circostante verrebbe facilitato dalla capacità di assumere uno stato di rilassatezza interiore, con il pensiero svincolato da ogni intenzione utilitaristica; si tratta di «fare qualcosa giusto per farlo, di guardare qualcosa giusto per il piacere di guardare» (Muir, 1901, p. 102). Per Thoreau il rapporto con la natura va cercato non solo per apprendere un’etica del rispetto del mondo naturale, ma anche per coltivare la vita spirituale che impegna a confrontarsi con le questioni essenziali dell’esistenza umana. Se l’educazione del cittadino non si riduce all’istruzione, ma si attualizza nello sviluppo di un modo di pensare e di agire nel mondo, allora le esperienze a contatto con la natura possono
costituire l’occasione fondamentale per sviluppare un modo di pensare e di sentire che ci riconnette con la natura. Tutte le opere della maturità di Thoreau invitano a coltivare un modo riflessivo di stare fra le cose, che cerca la conoscenza del mondo circostante non a partire da sistemi di idee precostituite e da criteri di interpretazione già collaudati, ma tenendo il pensiero aderente all’esperienza, senza lasciarsi prendere dalla tendenza a elaborare il significato dell’incontro con le cose attraverso discorsi già consumati, per impegnarsi invece a cercare quelle parole che sappiano comunicare la singolarità di quella esperienza vissuta in quel preciso contesto. Questa ricerca della parola che sappia restituire densamente il senso dell’esperienza richiede che l’incontro con le cose sia prima vissuto intensamente e più tardi disaminato attraverso la riflessione, nel corso della quale i pensieri abbiano il tempo di radicarsi e di dispiegarsi (Thoreau, 1995, p. 130). 3.3. La relazione sensoriale Un contributo essenziale di Thoreau alla costruzione di una filosofia dell’educazione ecologica va rintracciato nella sua valorizzazione dell’esperienza sensoriale. In tutti i suoi scritti è ricorrente l’invito ad attivare il corpo come soggetto di percezione per cercare una relazione diretta col mondo circostante fino al punto da sentirsi «natura che scruta la natura». Nei resoconti delle sue escursioni Thoreau racconta di come andasse cercando il contatto con la natura attraverso l’attivazione di tutti i sensi: non solo osservare minuziosamente ogni fenomeno, ma ascoltare e odorare, toccare e assaggiare, così da entrare in relazione con la terra e con i suoi processi biologici. Condivisa dai protoecologisti era la convinzione che la cultura occidentale patisca uno sradicamento esperienziale rispetto al mondo naturale e che, quindi, una nuova cultura ecologica presupponga il fare esperienza di una relazione vitale con le cose della natura, che consenta di immergersi nelle realtà percepibile. Scrive a questo proposito Thoreau nel suo diario: Giri senza meta con un impermeabile, bagnato fino alle gambe, ti siedi sulle rocce coperte di muschio e sui ceppi ad ascoltare il verso delle rondini migratrici che volteggiano tra le querce [...] a casa nonostante tu sia all’aperto, comodo nonostante tu sia bagnato, affondando a ogni passo nella terra in disgelo (Journal, VI, pp. 478-479, cit. in Worster, 1994, p. 111).
Lontano dall’ambiente naturale il corpo e la mente rimangono privi di relazioni con quella che Thoreau definiva la «sorgente perenne della vita», col rischio di smarrire la consapevolezza della nostra appartenenza all’ordine naturale delle cose, cioè di essere uno dei tanti fili nella rete della vita (Thoreau, 1995, pp. 131 e 129). C’è oggi una corrente della cultura ambientalista americana che, a partire dalla fenomenologia materiale e corporea di Maurice MerleauPonty, rimarca l’importanza di trovare gli spazi per attivare un’esperienza sensoriale del mondo della natura che metta al centro il corpo. Perché se è vero che questo corpo è la mia vera presenza nel mondo, se è il corpo che solo mi consente di entrare in relazione con le altre presenze, «se senza questi occhi, questa voce e queste mani mi è impossibile vedere e toccare le cose, [...] allora il corpo deve costituire il vero soggetto di ogni esperienza» (Abram, 1996, p. 45). Attivando i sensi, la mente può intrattenere una conversazione silenziosa ma vitale col mondo circostante della vita, da cui scaturisce un fluire di informazioni che costituisce il nutrimento primo della vita cognitiva. Porre al centro l’esperienza corporea è una mossa culturale che ha forti conseguenze sul piano epistemologico, poiché mette in crisi il modo in cui il soggetto occidentale tende a concepire se stesso e la sua attività cognitiva, cioè come attività mentale incorporea, disincarnata. L’essere corpo, invece, non è altro dal pensare, come una certa tradizione cartesiana ha indotto a credere: il corpo è la possibilità stessa del pensiero; concetto questo che trova espressione nelle parole di Thoreau: «La mia testa sono le mani e i piedi». Quando viene a mancare il rapporto sensoriale con le cose non c’è niente di cui parlare e su cui riflettere; senza quella forma di esperienza che coinvolge il soggetto nella sua interezza non si realizza una conoscenza realmente trasformativa. Oltre alle implicazioni epistemologiche di questa versione incarnata della vita della mente (Mortari, 2018), a risultare rilevante è l’ipotesi secondo la quale la valorizzazione dell’esperienza sensoriale col mondo circostante consentirebbe di ridimensionare quel senso di separazione e di sradicamento nei confronti della realtà naturale che grava sulla cultura occidentale. Ciò che la filosofia ambientale presume essere alle radici della crisi ecologica è l’idea di una discontinuità ontologica fra mondo umano e mondo naturale. All’origine della nostra visione antiecologica della vita si
rintraccia l’idea secondo la quale il proprium dell’essere umano starebbe tutto condensato nella sua vita mentale, capacità questa che la tradizione prevalente del pensiero occidentale ci ha insegnato non appartenere alla natura. Questa visione ecologicamente distorta delle cose sarebbe aggravata dall’istituzione, operata già dalla cultura greca, di un’asimmetria assiologica tra i due ordini di realtà: la realtà mentale varrebbe più di quella materiale, che proprio in quanto è concepita senz’anima può essere manipolata e consumata senza alcun limite etico. A partire dall’assunzione che alla base della versione antiecologica in cui siamo impigliati va rintracciato il paradigma della separazione ontologica e della svalorizzazione del mondo sensibile rispetto a quello spirituale, prioritario diventa attivare quella mossa culturale capace di innescare il superamento dei presupposti antiecologici del pensare, per sostituire alla teoria della discontinuità ontologica quella della continuità e con essa una rivalutazione del mondo della natura. Seguendo le tracce della riflessione protoecologista, si può ipotizzare che il senso di connessione tra sé e il resto della natura possa essere guadagnato attraverso la valorizzazione del rapporto sensoriale con gli altri elementi del mondo naturale. Quando si sa tenere il pensiero concentrato sulla realtà naturale, la mente facilmente arriva a cogliere l’unità di ogni cosa, a capire che «stella, sabbia, acqua, albero, uomo: si tratta sempre di un solo materiale» (Emerson, 1998, p. 47). Cercare la conoscenza a partire dall’esperienza sensoriale consente di riscoprirsi corpo fra i corpi, corpo vivente che si nutre dell’energia che circola nel più vasto organismo di cui si è parte, perché il viversi come sé-corporeo svolgerebbe un ruolo determinante nel fare emergere la consapevolezza di essere parte della natura. Certo la coscienza dell’interconnessione può essere acquisita anche attraverso percorsi di approfondimento teorico della questione ontologica, ma proprio perché siamo esseri incarnati il guadagnarla attraverso l’esperienza sensoriale costituirebbe il tramite necessario per dare a essa la forza di generare un altro modo di abitare il mondo circostante. La nascita di una cultura ecologica comporta la transizione da un paradigma di pensiero a un altro: dal paradigma antiestetico che “ontologicamente” separa la realtà in ambiti distinti, “eticamente” svaluta la natura a realtà di second’ordine ed “epistemologicamente” mette in atto processi conoscitivi riduzionistici, a un paradigma estetico che
“ontologicamente” concepisce la realtà in modo relazionale, “eticamente” riconosce valore a ogni cosa, anche la più piccola, ed “epistemologicamente” valorizza processi di pensiero che tengano conto della complessità cognitivamente non comprimibile del mondo vivente. Da una visione eco-filosofica che rivaluta il contatto diretto con gli elementi e i fenomeni del mondo circostante della vita emerge l’ipotesi che la necessaria transizione verso un paradigma ecologico del vivere prenda forza soprattutto da quelle esperienze che riportano al centro la dimensione corporea, sensoriale, dell’esperienza. Laddove un’idea è costruita attraverso un’esperienza che coinvolge il soggetto nella sua interezza, è più facile che il pensiero acquisti una forza vitale trasformatrice dell’ordine simbolico esistente. È possibile distinguere le idee inerti da quelle vitali: le une sono destinate a essere meri ornamenti della mente, le altre sono capaci di provocare evoluzioni sensibili della matrice cognitiva. Mentre le idee acquisite solo attraverso un percorso intellettuale rischiano di rimanere inerti, quelle guadagnate attraverso esperienze dirette della realtà sono elementi vitali. La filosofia della primarietà dell’esperienza diretta della natura elaborata da Thoreau viene definita anticipatamente fenomenologica (Oelschlaeger, 1991, p. 140), perché invita a cercare una relazione con il mondo naturale che sia svincolata dalla presa cognitiva esercitata dalle categorie e dai codici di interpretazione cui nell’esperienza quotidiana ricorriamo in modo automatico. Le esperienze di natura acquistano un reale valore ecologico quando il soggetto riesce a incontrare le cose in una dimensione sorgiva, cioè mettendo tra parentesi le categorie che precodificano l’esperienza. L’approccio fenomenologico richiede di mettere in atto una profonda attenzione per i fenomeni e, insieme, la disciplina della loro descrizione. Si va nella natura in primo luogo per entrare in contatto con le cose, e non già con i pensieri con cui altri le hanno pensate. L’ecologia, prima di essere una disciplina, è un modo di esserci, che si attua innanzitutto nel tenere il pensiero aderente all’esperienza nel mentre del suo accadere, senza lasciarsi prendere dalla tendenza a dire il significato dell’incontro con le cose attraverso discorsi già detti, per impegnarsi invece a cercare la parola viva, che sappia dire il senso soggettivamente vissuto dell’esperienza, senza comprimerla dentro retoriche consumate. C’è un modo opaco, inerte di fare esperienza delle cose, in cui i processi di elaborazione del significato
sono cristallizzati in discorsi già ripetuti, e c’è un modo vitale che impegna il soggetto a farsi costruttore e non semplice consumatore di versioni del mondo. L’invito a stabilire una connessione originaria con le cose, mantenendo il pensiero svincolato dalle categorie concettuali proprie sia del senso comune sia della scienza, può essere identificato come l’essenza del pensiero di Thoreau, che cerca la conoscenza del mondo circostante non a partire da sistemi di idee precostituite e da criteri di interpretazione già collaudati, ma tenendo il pensiero aderente all’esperienza, senza lasciarsi prendere dalla tendenza a dire il significato dell’incontro con le cose attraverso discorsi già detti. Si può parlare di “pensiero ecologico” quando si sta alla ricerca di quelle parole che sappiano comunicare il proprio sentire relativamente a quel preciso contesto in cui viene maturando. La ricerca della parola che sa restituire densamente il senso dell’esperienza richiede che l’incontro con le cose sia prima vissuto intensamente e più tardi rielaborato attraverso la riflessione, nel corso della quale i pensieri abbiano il tempo di radicarsi e di dispiegarsi (Thoreau, 1995, p. 130). La disposizione della mente a mantenersi sotto la presa dei codici consente di vivere esperienze vitali, capaci di provocare spiazzamenti paradigmatici, e con essi la presa di coscienza dell’eccedenza della vita della natura rispetto alla potenzialità dei nostri apparati linguistici. Si può supporre che dalla filosofia di Emerson Thoreau abbia attinto e sviluppato il principio di coltivare un rapporto soggettivamente intenso con le cose, evitando che intervengano precocemente i vari linguaggi che prestrutturano l’esperienza senza lasciare il tempo di incontrare il reale. Si tratta di imparare a lasciarsi assorbire dalle cose dopo aver messo da parte la scatola delle nostre consuetudini mentali. Riscoprire la natura consente di fare esperienza del senso di mistero che resta intatto nonostante tutti i progressi scientifici, e questa consapevolezza produce spesso l’effetto di scoprire quanti dei nostri discorsi non siano che «solenni futilità» e come la conoscenza vera abbia necessità di un senso di sobrietà (Emerson, 1998, p. 38). Per cogliere il significato dell’esperienza diretta della natura così come è concepita da Thoreau è utile riprendere il concetto di disposizione allocentrica, che indica la capacità della mente di concentrarsi completamente sull’altro da sé. Ernest Schachtel spiega che quando noi ci
relazioniamo con il mondo circostante con una precisa intenzionalità scientifica non incontriamo gli oggetti nella loro presenza originaria, ma solamente dalla prospettiva resa possibile dai dispositivi concettuali che strutturano il paradigma a partire dal quale si esercita il pensare. Ogni linguaggio scientifico (chimica, fisica, botanica, biologia, geografia, ecc.) consente di cogliere solo certi aspetti dell’oggetto. Si parla a questo proposito di conoscenza operazionale, che tratta le cose come oggetti d’uso rispetto a particolari scopi (Schachtel, 1959, p. 171). Nella conoscenza operazionale il soggetto considera l’oggetto a partire da una ipotesi e secondo uno scopo di ricerca preciso; in tal modo “usa” l’oggetto, ma non lo incontra per quello che è, nella sua pienezza. Quando osserviamo gli oggetti a partire da una prospettiva data, non possono disvelarsi nella loro datità originaria, ma solo in quegli aspetti che la cornice di osservazione consente di cogliere. Ovviamente l’approccio conoscitivo di tipo operazionale, che è tipico della scienza, ha piena legittimazione e deve essere coltivato; la conoscenza scientifica nasce a partire da precisi tagli osservativi rispetto alla complessità con cui avvertiamo il reale. Tuttavia, non può essere considerato come l’unica via di accesso al mondo circostante, soprattutto per noi abitanti della cultura occidentale, che tendiamo a comprimere lo sguardo nel filtro di un paradigma metafisicamente ed epistemologicamente antiecologico qual è quello della razionalità classica, che privilegia un modo di guardare alle cose strutturato di relazioni logiche e matematiche che si vorrebbero svincolate da ogni sentimento e apprezzamento. Occorre fare posto a una relazione non meramente utilitaristica con gli oggetti, che consenta di avvicinarli per quello che sono (Dewey, 1990, pp. 108-109, 168)11. Riscoprire una diversa relazione col mondo circostante della natura sarebbe possibile adottando una disposizione allocentrica, in cui il soggetto vive una completa svolta verso l’oggetto che lo assorbe con tutti i suoi sensi e tutte le sue sensibilità. Nella percezione allocentrica il soggetto «è aperto verso l’oggetto» in modo tale da mostrare «un completo assorbimento e interesse in esso» e l’oggetto è percepito nella sua apparenza singolare «senza etichettature, nominazioni, classificazioni, riferimenti a similarità e a relazioni con altri oggetti» che impedirebbero di coglierlo nella sua unicità (Schachtel, 1959, p. 179). Questa forma di attenzione allocentrica sulle cose implica lo sviluppo
di una postura cognitiva di tipo fenomenologico, che si attualizza quando il pensare si rende ricettivo verso le qualità con cui l’oggetto si presenta allo sguardo, mantenendosi svincolato rispetto alla tendenza ad affidarsi a concettualizzazioni e dispositivi ermeneutici già dati. La postura allocentrica dello sguardo tematizza il principio fenomenologico della fedeltà al fenomeno perché, invece di cogliere delle cose circostanti solo quegli aspetti che si adattano a certe preconoscenze e aspettative, cerca un incontro non precodificato che consenta all’oggetto di rivelarsi per quello che è (Schachtel, 1959, p. 170); un atto cognitivo che intenzionalmente cerca un contatto non prefigurato con le cose rende possibile un’esperienza ricca di significato. Il pittore Paul Cézanne annota che per entrare in contatto col mondo della natura e lasciarsi assorbire dalla sua vita occorre che la mente si faccia silente e metta a tacere gli strumenti discorsivi con i quali incapsuliamo la realtà prima ancora di averla incontrata; non solo per il pittore che cerca una immagine fedele alle cose, ma per ciascuno è importante un incontro non prefigurato con la natura (Schachtel, 1959, p. 181). Un’educazione ecologica è, quindi, quella che, senza rinunciare allo sviluppo di una cognizione operazionale, promuove un approccio conoscitivo aperto e ricettivo, cioè allocentrico. Interpretando l’educazione ecologica nell’orizzonte della prospettiva fenomenologica, risulta importante trovare gli spazi per un’esperienza non anticipatamente codificata dai linguaggi scientifici e carica di contenuto soggettivo emozionale. Difficile, però, nell’ambito della nostra cultura, rendere accettabili discorsi tesi a valorizzare l’esperienza non precocemente codificata, perché prevale non solo una logica manageriale fondata sul principio del controllo, che tende a legittimare culturalmente solo quelle esperienze che siano anticipatamente strutturabili, ma anche una tensione tecnicistica ed efficientistica, che considera utili solo quelle attività formative che consentono l’acquisizione di conoscenze operazionali e quantificabili. Nella teoria e nella pratica educativa il modo fenomenologico di concepire l’esperienza fatica a trovare un’adeguata considerazione, perché il favorire un incontro immediato con il mondo circostante, senza che sia anticipato dentro un preciso linguaggio disciplinare, viene considerato un’esperienza inutile dal punto di vista formativo. Prima di intraprendere un’escursione in un luogo, ci si preoccupa di fornire agli studenti mappe
(linguistiche, botaniche, geografiche) particolareggiate, senza avvedersi che così facendo si rende possibile l’esperienza della mappa, ma non quella del territorio. Commentando la tendenza ad affidarsi a mappe precostituite, che rendono difficile l’emergenza di uno sguardo soggettivo sul mondo, lo scrittore Barry Lopez annota: forse avete già avuto a che fare con manuali di istruzioni particolareggiate, con cartine che riportano ogni pietra, ogni cespuglio, i meandri dei ruscelli in secca e mille altri elementi geografici, e dove le linee tratteggiate indicano i sentieri più sperduti. [...] La vostra fiducia in queste carte superefficienti è comprensibile perché a prima vista sembrano il non plus ultra della precisione umana, ma è una fiducia mal riposta. Buttatele via, non sono quelle giuste. Sono troppo minuziose. Un uomo che sa quel che fa non può affidarsi a mappe fatte così. I coyote, e anche i corvi, le guarderebbero con diffidenza (cit. in Least Heat-Moon, 1994, pp. 5-6).
Evitare mappe troppo minuziose, per rendere possibili esperienze che chiedono di pensare da sé, costituisce uno degli imperativi dell’ecologia della mente messa a punto da Thoreau, che insiste sull’importanza non solo di guardare coi propri occhi, ma anche di parlare con le proprie parole, evitando che il vissuto venga catturato da sofisticate costruzioni linguistiche svuotate di realtà vissuta. È vero che noi, in quanto soggetti culturali, abitiamo un mondo da sempre interpretato; ma la destinazione culturalmente situata del nostro pensare non esclude il valore della ricerca di esperienze sorgive, in cui ci impegniamo a pensare in modo originario quel preciso fenomeno di cui stiamo facendo esperienza. La nascita di una nuova cultura, oltre che dipendere da azioni concrete, da eventi, è una questione di invenzione di nuovi vocabolari. Dal punto di vista formativo questo obiettivo implica l’attivazione di percorsi linguisticamente attenti a educare un pensare generativo, che inventa inediti percorsi di interpretazione dell’esperienza, anziché semplicemente consumare quelli già dati: un pensare che sappia reinventare l’uso del linguaggio per rendere praticabile la dicibilità quanto più possibile intensa della propria esperienza. Come afferma Thoreau, si tratta di educare a trovare le parole che dicono l’erba quando cresce e l’acqua mentre scorre, parole cioè capaci di dare corpo alla parte vitale di ogni esperienza, parole cui le cose se potessero darebbero il loro consenso. Mettere in parola il senso delle esperienze non vuol dire scivolare nella retorica dei fatti né in un sapere soggettivistico, ma cercare le parole che sappiano dire con precisione quello di cui si fa esperienza. Le parole che usiamo non devono
essere un doppione di quelle di altri, né un mero doppione dei fatti; “semplicemente” debbono essere all’altezza dell’esperienza. Il cercare una relazione fenomenologica con le cose, dove la mente opera un taglio rispetto ai codici predati, non implica, però, un rifiuto della cultura, un liberarsi completamente di essa, come invece è spesso interpretato da un ambientalismo che evoca in modo acritico certi orientamenti new age. Thoreau riempiva le sue giornate con la lettura dei classici, Virgilio e Omero soprattutto: La mia abitazione era più favorevole di una università non solo al pensiero ma anche alla lettura seria; e sebbene fossi oltre il raggio di circolazione dell’ordinaria biblioteca circolante, sentivo ancor di più l’influenza di quei libri che circolano intorno al mondo. [...] Per tutta l’estate tenni sul mio tavolo l’Iliade di Omero (Thoreau, 1995, p. 101).
Salvaguardare la dimensione precategoriale non vuol dire allontanarsi dalla cultura, ma cercare percorsi esperienziali in cui il pensare sappia mantenersi sotto la presa delle categorie, cosa del resto possibile solo se queste categorie si possiedono. Il metodo fenomenologico non ha nulla di ingenuo, di preculturale, ma si profila come una pratica cognitiva molto raffinata. 3.4. Conoscere a partire dall’esperienza Il forte accento dato dai primi ecologisti alle esperienze di natura per cercare una relazione cognitivamente ed emotivamente densa col mondo circostante può fare ritenere che alle radici della cultura ecologica ci sia una tendenza all’evasione, alla ricerca di ritmi arcadici del vivere e di esperienze estetizzanti. In realtà il pensiero e la vita stessa di questi primi ambientalisti sono segnati da un forte impegno scientifico, oltre che politico (Thoreau e Muir) ed educativo (Leopold). Invitare a un tipo di esperienza che si mantenga sotto la presa dei codici non significa rifiutare l’alfabetizzazione scientifica, ma fondarla diversamente. La frequentazione assidua dei luoghi naturali, nutrita da una sincera curiosità epistemica, viene considerata la condizione necessaria per acquisire una conoscenza scientifica approfondita della vita della natura. Stare in contatto con le cose significa osservare attentamente e da lì costruire sapere scientifico. Scrive Donald Worster ricostruendo la biografia di Thoreau: In un vecchio cappello sdrucito, la sua “scatola per la botanica”, portava a casa campioni di
piante da studiare: sassifraga e muschio, mentuccia e andromeda nana, campanule a foglia sessile e acetosella gialla. [...] Percorrendo venti o trenta miglia al giorno a piedi, poteva soffermarsi sullo stesso fiore una mezza dozzina di volte in modo da sapere esattamente quando sarebbe sbocciato (Worster, 1994, p. 90).
Per Thoreau il vero esperto di scienza è quello che esercita tutti i sensi, perché così facendo accumula una profonda e fine esperienza delle cose. Il naturalista deve immergersi completamente negli odori e nelle trame della realtà percepibile. Deve diventare un occhio limpido che spunta fra la vegetazione e raccoglie ogni indizio. Alla base di questa teoria del fare scienza vi è il presupposto epistemico secondo il quale per comprendere la natura occorre stabilire uno stretto contatto con le piante e con gli animali, con l’acqua e con la terra, un contatto che si viene tessendo con il corpo e con la mente. Thoreau aveva sviluppato una precisa teoria della conoscenza. Scrive, infatti, nella sua opera Natural History: «Noi non apprendiamo per inferenza o deduzione o per l’applicazione della matematica alla filosofia, ma per diretto contatto e simpatia con le cose» (Thoreau, 1906, p. 131). Intensa fu la polemica di Thoreau contro il dilagare della fiducia indiscussa nel metodo scientifico moderno12. Egli era convinto che non possa essere l’apprendimento di un metodo già strutturato a fare di noi degli esperti in materia scientifica, quanto piuttosto l’esercizio di un pensiero che interroga le cose per costruire un metodo di indagine sulla base di una ricostruzione intelligente dell’esperienza. Più tardi anche Alfred N. Whitehead avrebbe criticato il sistema educativo tradizionale, perché costringe gli alunni a dare «il nome agli animali prima di averli visti». Fecondo invece sul piano cognitivo è offrire la possibilità di un’esperienza diretta delle cose, da cui possa scaturire l’«apprezzamento di un’infinita diversità dei valori viventi acquistati dall’organismo nel suo ambiente», perché «nulla sostituisce la percezione diretta del compimento concreto delle cose nella loro realtà. Ci occorre un fatto concreto, ma con una messa a punto di tutto ciò che costituisce il suo valore» (Whitehead, 1959, p. 228). Proprio attraverso la pratica dell’osservazione attenta e paziente, accompagnata da una riflessione costante, Thoreau ha elaborato la cosiddetta “teoria del seme”, considerata dagli studiosi un grande contributo all’agricoltura e all’ecologia. Per i contadini dello Stato del Massachusetts era da sempre un problema spiegare il perché nel tempo le
foreste di querce venivano sostituite spontaneamente da foreste di pini. Thoreau aveva cominciato a studiare il problema nel 1856, poi nel settembre del 1857, mentre osservava uno scoiattolo che nascondeva noci americane in un’abetaia, arrivò a elaborare la teoria che poteva fornire una spiegazione alla questione indagata: erano gli scoiattoli, e forse anche altri animali del bosco, che, nascondendo i semi a un’adeguata profondità e poi spesso dimenticandosene, piantavano nuove foreste. Questa teoria fa ormai parte del sapere ecologico, ma allora costituì un vero progresso nella conoscenza della vita della natura. Se dovessimo sintetizzare il metodo ecologico di apprendimento concepito da Thoreau si potrebbe dire che esso consiste nell’osservare attentamente per lasciare che le cose sollevino questioni, e una volta che il pensiero le abbia chiaramente formulate, ricominciare a osservare pazientemente per trovare una risposta. Seguire questo cammino costituisce un’esperienza privilegiata per lo sviluppo di una sapienza metodologica. Educati a concepire la scienza solo in termini sperimentali e, quindi, come un apprendimento che ha il suo luogo privilegiato nel laboratorio, dimentichiamo che l’osservazione, e precisamente quella non anticipatamente strutturata, è la matrice generativa di molto sapere. Non l’osservazione occasionale, però, bensì quella metodicamente costruita sulle cose, con la mente aperta a cogliere ogni segnale che la percezione rivela. L’esperienza della biologa, premio Nobel, Barbara McClintock conferma il ruolo rilevante che ha l’osservazione nella ricerca sul mondo vivente, un’osservazione non distaccata, ma capace di coltivare una relazione emotivamente densa con l’oggetto per entrare «in sintonia con l’organismo» (Fox Keller, 1987, p. 14). L’osservazione che consente di raccogliere i dati necessari alla comprensione del mondo circostante della vita chiede al soggetto di riorientare il suo sguardo in modo da rendersi parte di ciò che sta osservando (Fox Keller, 1987, p. 144). Per spiegare il metodo dell’osservazione emotivamente partecipe, McClintock racconta l’importanza di cominciare lo studio di una pianta quando è ancora piccola, perché «non ho la sensazione di conoscere la storia se non ho avuto modo di osservarla durante la sua crescita. Così conosco ogni pianta del campo. Le conosco intimamente, e ricavo un immenso piacere dalla loro conoscenza» (Fox Keller, 1987, p. 232). Da un punto di vista pedagogico è necessario mettere in discussione un
modo pretenziosamente neutro di concepire l’educazione scientifica, che esclude la possibilità di un rapporto empatico con le cose. L’epistemologia della scienza classica si fonda sulla logica della separazione fra il soggetto che conosce e il suo oggetto, che si pretende guadagnare attraverso l’istituzione di una posizionalità emotivamente neutra con le cose. Il pensiero ecologico di matrice batesoniana insegna, invece, che l’anaffettività come requisito del procedere scientifico è un pregiudizio epistemologico, e che la relazione empatica con gli altri organismi, con i granchi e con le farfalle, va cercata e coltivata poiché potenzia la conoscenza. Quando è alimentata dal senso di continuità col mondo circostante della vita, la disposizione empatica nei confronti della natura, lasciata agire nel corso di un processo d’indagine, alimenta un diverso modo di conoscere rispetto a quello previsto dall’epistemologia della scienza moderna, poiché l’empatia rende la mente capace di un’attenzione più aperta e sensibile a cogliere ogni indizio, con la conseguenza di provocare un arricchimento del processo di elaborazione cognitiva. L’educazione scientifica concepita sulla base del paradigma epistemico di stampo positivistico, che poggia su un concetto statico di oggettività scientifica (quello, cioè, che presume una netta separazione tra soggetto e oggetto, ma anche nel soggetto stesso fra la sua parte razionale e quella emotiva), fonda la conoscibilità del mondo esterno su un procedere che si vorrebbe emotivamente neutro e che si affida a sistemi di codificazione dell’esperienza predefiniti, con la conseguenza di non consentire di prestare attenzione a certi dettagli. Un orientamento della riflessione epistemologica di matrice femminile propone di pensare il processo conoscitivo a partire da un concetto dinamico dell’oggettività che, in luogo di una disgiunzione riduttiva fra soggetto ed oggetto, sia capace di attivare una relazione empatica col mondo, perché un approccio emotivamente denso con l’oggetto d’indagine anziché di ostacolo sarebbe una risorsa per la costruzione di una conoscenza larga e profonda del mondo (Fox Keller, 1987, pp. 139-143). Una cognizione empatica attiva una forma di apertura mentale verso l’oggetto che rende possibile cogliere quelle informazioni che, apparentemente insignificanti come potrebbero essere ritenute le cosiddette “qualità secondarie”, costituiscono invece dati essenziali per l’elaborazione di una comprensione del mondo naturale che sia il meno possibile riduttivistica e semplificatrice. Uno stile ecologico del conoscere è quello che sa affidarsi ai ritmi lenti
dell’osservazione attenta a cogliere anche i minimi dettagli nei fenomeni naturali e nella vita degli organismi. Questa postura cognitiva, che si attualizza nella forma discreta dell’ascolto del materiale naturale, facilita il generarsi del senso di affinità che ci lega al resto della natura e, insieme, il prendere forma della consapevolezza del valore di ogni elemento. Saper cogliere il valore delle cose costituisce il presupposto perché si generi una disposizione etica nei confronti degli altri esseri con cui condividiamo gli spazi dell’abitare. È, infatti, la pratica dell’ascoltare che consente di esperire la viva complessità della natura e, quindi, di misurare il fallimento e il non senso della logica del dominio e della manipolazione senza limiti del tessuto biologico della vita13. 3.5. Leggere i fenomeni L’importanza di un’osservazione svincolata da sistemi di codificazione già dati è al centro anche della teoria educativa di Aldo Leopold, il quale era profondamente convinto che l’educazione ecologica non può che praticarsi all’aperto esercitando il pensiero speculativo insieme alla ricerca scientifica. Apprendere l’ecologia, per Leopold, significa imparare a «leggere la terra», una competenza questa che si acquisisce solo studiando piante e animali nel loro ambiente. L’apprendimento, per essere significativo, non può che essere contestualizzato nella realtà viva delle cose. Leopold si lamentava del fatto che lo studio della natura ai suoi tempi (prima metà del XX secolo) era divenuto troppo libresco, con un’impostazione di tipo tassonomico, e veniva praticato soprattutto all’interno dei laboratori, con una completa trascuratezza del valore educativo degli studi sul campo, il solo metodo capace di favorire una reale «comprensione del mondo vivente» (Leopold, 1970, p. 207). L’approccio tassonomico è fondamentale per costruire conoscenza dell’ambiente, perché è un bisogno della mente trovare criteri per mettere ordine nella molteplicità delle cose e dei fenomeni di cui si fa esperienza. È importante imparare ad attribuire un nome a piante e animali, perché il nominare cose e fenomeni è il modo per l’essere umano, in quanto essere linguistico, di accomodarsi nel mondo, ossia per disalienare il mondo nel quale ciascuno di noi giunge «come nuovo venuto e come straniero» (Arendt, 1987, p.
185). Un insegnamento ecologicamente orientato deve, però, andare oltre l’approccio tassonomico e ricostruire la rete di relazioni in cui ogni elemento vivente si trova implicato, e questo va fatto non sui libri ma sul campo. L’apprendimento dell’ecologia ha il suo luogo ideale all’aperto e il compito dell’insegnante è quello di stimolare gli studenti a osservare attentamente e poi a «speculare intelligentemente», cioè a sollevare domande. Non solo domande tassonomiche, ma anche di relazione, perché dal punto di vista ecologico è importante trovare risposte a questioni del tipo: che relazione c’è fra questo organismo e quest’altro? e tra essi e l’acqua e il suolo? e tra tutti questi e gli esseri umani? (Leopold, 1970, pp. 208-209). È andando in cerca delle relazioni che s’impara l’ecologia, essendo questa definibile come «la scienza della relazione». L’educazione ecologica non può che essere un’educazione che assume come libro la natura stessa e come strumento l’indagare che solleva questioni di relazioni a partire dall’osservazione del mondo vivente: «Chi possiede un vecchio involucro di quercia possiede più di un albero. Egli possiede una biblioteca storica e un posto riservato nel teatro dell’evoluzione» (Leopold, 1970, p. 220). Per valorizzare al meglio l’esperienza sul campo, Leopold riteneva che il docente non debba porre domande scontate, cioè domande per le quali i libri di testo offrono già soluzioni, ma domande aperte che spingono a formulare ed esplorare ipotesi inedite sui fenomeni indagati. Si tratta di privilegiare quelle che sono definite “domande legittime”, cioè domande per le quali non è disponibile una risposta precostituita14, invece di impegnare gli studenti ad apprendere concetti già sistematizzati nei testi. Con la sua stessa attività didattica, Leopold mise in pratica il principio pedagogico secondo il quale occorre ridurre lo spazio riservato a porre all’allievo domande per le quali sono già disponibili risposte predefinite, per dilatare invece quello mirato a sollevare questioni che mettano in moto il pensiero così da impegnarlo nell’elaborazione di speculazioni complesse. Sebbene manchi di una definita sistemazione teorica, si può dire che nella pratica educativa di Leopold trova spazio un concetto del contesto formativo come di un luogo dove si pratica un insegnamento al congiuntivo, che si costruisce su domande aperte, intese a sollecitare il contributo attivo dell’allievo; un contesto dove i materiali dell’educazione vengono
presentati non secondo un’esposizione piattamente fattuale, ma in modo da sollecitare speculazione e negoziazione, che rappresenta la condizione perché l’educazione diventi il luogo in cui avviene «costruzione di cultura» (Bruner, 1988, p. 156). Un obiettivo irrinunciabile dell’educazione ecologica è quello di potenziare la capacità della mente di sollevare questioni sempre più profonde e di assumere le risposte via via trovate non come punti di arrivo, ma come esiti cognitivi provvisori da cui riprendere l’interrogazione del mondo circostante. Per questo Leopold sosteneva che il docente deve invitare lo studente a «speculare intelligentemente». Le questioni scientifiche vanno poste in modo da stimolare l’immaginazione, intesa come produzione di ipotesi, perché essere alfabetizzati sul piano scientifico significa aver sviluppato un pensare che produce idee e genera teorie, e non solo meramente ricognitivo. Per dare corpo a uno sguardo inedito sulle cose non basta aver esperienza o disporre di un cumulo di informazioni, perché dalla semplice induzione non nasce una visione scientifica delle cose; occorre attivare l’immaginazione attraverso domande che spingano la mente a configurare nuove interpretazioni. Ripensare l’alfabetizzazione ecologica alla luce del pensiero di Thoreau e di Leopold implica una radicale ridefinizione della didattica praticata nella nostra scuola, non solo perché essa privilegia di solito come contesti di apprendimento gli spazi chiusi dell’aula e ritaglia spazi troppo esigui per la formazione “sul campo”, ma anche perché tende a promuovere un pensare ricognitivo e applicativo, molto meno a educare un pensiero generativo di sguardi originali sul mondo circostante. 3.6. Una metafisica ecologica Apprendere l’ecologia per Leopold significa non solo imparare a pensare per relazioni, ma soprattutto acquisire una nuova idea di natura e, da qui, sviluppare una nuova visione ontologica che consenta di superare l’approccio meccanicistico e riduttivistico in cui sono impigliati i nostri processi cognitivi. Molto del nostro pensare ha luogo nell’orizzonte performativo del paradigma cartesiano-baconiano, che aveva sostituito all’idea della natura come sostanza viva, presente nella cultura rinascimentale, una concezione
di tipo meccanicistico. Nella rete concettuale imposta dalla rivoluzione scientifica la natura è pensata nei termini di un’entità inerte e passiva, frammentabile in una pluralità di enti discreti e soggetta a leggi meccaniche di tipo deterministico. Il mondo naturale, dal quale il principio vitale scompare, è ridotto così a mera materia totalmente disponibile per essere manipolata da quell’unico ente che, pur facendo parte anch’esso del mondo naturale, ritiene di non condividere la natura necessitata che attribuisce alla realtà biofisica. Incorniciato dentro tali presupposti ontologici il rapporto col mondo naturale viene sottratto alla sfera della problematizzazione etica. Alla radice, quindi, della logica dello sfruttamento illimitato delle risorse naturali e della manipolazione di ogni cosa svincolata da qualsiasi preoccupazione etica c’è una natura confinata nella dimensione della semplice materialità priva di valore. La tesi pionieristica di Leopold assegna all’apprendimento degli strumenti concettuali e metodologici dell’ecologia la forza di mettere in crisi il paradigma riduzionistico su cui si fonda una gestione scorretta delle risorse ambientali, poiché ci invita a pensare alla natura nei termini di un flusso di energia che non conosce soluzioni di continuità: «La terra non è solo suolo, essa è una fontana di energia che fluisce attraverso il circuito dei terreni, delle piante e degli animali», e in questo flusso energetico, che «dipende dalla complessa struttura della comunità delle piante e degli animali», le catene alimentari sono metaforicamente pensate come «canali viventi» lungo i quali fluisce l’energia che attraversa tutta la piramide trofica (Leopold, 1970, p. 253)15. Questa metafora consente di pensare alla terra come a una realtà in cui tutto è interconnesso in un tessuto complesso di relazioni vitali, alla cui stabilità contribuisce ogni elemento, anche quello apparentemente più insignificante. Il frequentare idee meccanicistiche della natura che, supportate da un’epistemologia atomistica, non consentono di vedere che ogni elemento è essenziale nella logica della vita biologica, porta a legittimare interventi che destabilizzano gli equilibri. Una politica della conservazione della natura e, quindi, un’“educazione alla conservazione” richiede un cambiamento concettuale radicale. La tesi leopoldiana mantiene tutta la sua attualità, perché nonostante ci troviamo a pensare e ad agire in quella che viene definita l’epoca del postmoderno, alla cui affermazione hanno dato un contributo decisivo la nuova fisica e la nuova ecologia (Callicott, 1989),
tuttora è presente e largamente diffusa una visione meccanicistica delle cose, che funziona da sfondo legittimante l’economia dello sfruttamento e della manipolazione della natura. Già Thoreau invitava a pensare alla natura non più nei termini di una collezione di enti discreti, ma come materia vivente che evolve in una molteplicità di forme e rispetto alla quale non trova alcun fondamento percepire una forma di discontinuità ontologica. In Walden parla della natura come della «sorgente perenne della vita» nei confronti della quale non si può non avvertire «una infinita e inesplicabile condizione di amicizia» (Thoreau, 1995, pp. 131 e 129). Ma il sentirsi parte della natura, anche se trova espressione in una prosa emotivamente densa e appassionata, non ha in Thoreau nulla di arcadico, poiché, mentre esalta la bellezza di certi paesaggi, sa anche comunicare al lettore il senso della potenza incontrollabile e minacciosa delle forze naturali: «La natura si presentava come qualcosa di selvaggio e impressionante, anche se meraviglioso [...]. Era lì una materia vasta e terrificante, non quella madre terra di cui abbiamo sentito parlare» (Thoreau, 1987, pp. 93-95). Sviluppando la prospettiva evolutiva assimilata attraverso la sua frequentazione di comunità scientifiche impegnate ad approfondire il pensiero darwiniano, John Muir arrivò a concepire la natura come un processo continuo di invenzione di forme di vita, la cui creatività non conosce soluzioni di continuità; il mondo, anche se ha già una forma compiuta, egli scriveva, è tuttora in fase di costruzione, nel senso che saremmo ancora nel mattino della creazione (Muir, 1979, p. 67). Nella sua “metafisica evolutiva” l’essere umano non è concepito come un ente separato dalla realtà della natura, ma intimamente implicato in essa; un essere la cui sostanza porta i segni dell’evoluzione biologica nel corso del tempo e che di questa ha assorbito tutta la potenza vitale. Il suo concetto di natura era prossimo a quello greco di physis, intesa come il principio vivente di auto-organizzazione che presiede alla generazione della vita. Per Leopold apprendere una nuova idea di natura è essenziale non solo all’emergere di una nuova sensibilità ecologica, che consenta il recupero della percezione della continuità ontologica fra mondo umano e mondo naturale, ma soprattutto allo sviluppo di un nuovo orientamento etico, perché l’etica della terra si basa sull’alfabetizzazione ecologica. Si tratta di favorire l’apprendimento di quello che Leopold definisce il concetto base
dell’ecologia, cioè l’idea della natura come organismo di cui ogni elemento è componente essenziale. Se l’idea organicistica della natura cambia il ruolo dell’essere umano da «conquistatore della terra» a «semplice cittadino della comunità biotica», allora sviluppare le implicazioni etiche di questo concetto significa dedurre la necessità di dilatare la sua responsabilità morale oltre i confini del mondo umano, per prendersi cura dell’ecosistema di cui è parte, in modo da preservarne la stabilità e l’integrità. La scienza ecologica mostra che gli esseri umani, le piante, gli animali, i suoli e le acque sono tutti connessi in un’attiva comunità di cooperazioni e competizioni che strutturano l’unità biotica. Solo nel momento in cui l’essere umano si concepisce come membro, non solo della comunità sociale, ma anche di quella biotica, può sviluppare la consapevolezza della necessità di dilatare il campo della responsabilità morale all’intero ecosistema in cui il mondo umano è intimamente implicato e, quindi, di ispirare il suo agire alla massima morale generale dell’etica della terra: «Una cosa è giusta quando tende a preservare l’integrità, la stabilità e la bellezza della comunità biotica. È sbagliata quando tende in altra direzione» (Leopold, 1970, p. 262). Da questi presupposti Leopold deduce che lo sviluppo di una nuova cultura è possibile disseminando l’insegnamento dell’ecologia, perché quando il concetto base di questa scienza, cioè l’idea che gli esseri umani e il resto della natura fanno parte di una stessa comunità, sarà oggetto di apprendimento a tutti i livelli dell’educazione, allora l’etica della terra potrà affermarsi come una conseguenza culturale necessaria. L’insegnamento dell’ecologia viene, quindi, ad assumere una forte valenza culturale per la capacità di generare un altro modo di vedere e di stare fra le cose. L’educazione etica viene intesa da Leopold non come acquisizione di regole e di codici, ma piuttosto come ridefinizione dei presupposti ontologici del pensare a partire dallo sviluppo delle implicazioni metafisiche della scienza ecologica16. Questo orientamento – che considera la questione dell’interrogazione ontologica alla base dell’indagine etica – è stato sviluppato dalla deep ecology, che ritiene che il primo passo per ricostruire la nostra cultura in direzione ecologica consista nell’elaborare nuove cornici di presupposti metafisici. Da un punto di vista pedagogico il rischio implicato in questa teoria è quello di provocare un’interpretazione intellettualistica dell’educazione etica, intesa come acquisizione di formule
ontologiche, interpretazione dalla quale era, invece, ben lontano l’approccio di Leopold, il quale affermava che lo sviluppo di un’etica ecologica «è un processo sia intellettuale che emotivo» (1970, p. 263). Un nuovo orientamento etico presuppone, oltre a una differente metafisica della natura, una nuova sensibilità. A essere necessario è innanzitutto un nuovo sentimento nei confronti del mondo circostante, «una delicata disposizione nei confronti delle cose naturali» e con essa la consapevolezza del valore che ha ogni organismo nel suo ambiente. Occorre un nuovo modo di sentire nei confronti della natura, perché «è inconcepibile che una relazione etica nei confronti della terra possa esistere senza amore, rispetto e ammirazione per la terra, e un’elevata considerazione del suo valore» (Leopold, 1970, pp. 270-271). Dando voce a un’interpretazione realista dell’etica Leopold sostiene che tale valore non deriva dal presentarsi come possibilmente utile per gli interessi umani, o dal fatto di risultare interessante da un punto di vista cognitivo o piacevole da osservare, ma è un valore intrinseco che ciascun ente possiede in quanto tale. Più tardi Rachel Carson, una scienziata che ha dato un impulso determinante allo sviluppo del pensiero ecologico e che come Leopold ha riflettuto sul tema dell’educazione ecologica, rimarcherà l’importanza dell’educazione del sentire, perché se l’esperienza delle cose rappresenta i semi da cui si sviluppa la conoscenza, «le emozioni e le impressioni dei sensi sono il suolo fertile nel quale i semi hanno bisogno di crescere. E gli anni della prima infanzia sono quelli più adatti a preparare il terreno»» (Carson, 1998, p. 56). 3.7. Per un’estetica della terra Dall’esame del pensiero di Leopold emerge un paradigma della formazione ecologica piuttosto complesso. Egli era convinto che il prendere forma di un nuovo orientamento culturale necessiti non solo di una nuova etica, ma anche dello sviluppo di un rinnovato senso estetico, che trova espressione in una «raffinata sensibilità per gli oggetti naturali» (Leopold, 1970, p. 196), cioè nella disposizione a cogliere il valore di ogni elemento e di ogni fenomeno. Di fronte al prevalere arrogante della logica economica, che riduce la natura a una somma di elementi dal valore meramente strumentale, diventa inaggirabile il compito di educare le
nuove generazioni a una logica differente, che trova espressione innanzitutto in quella sensibilità estetica che consente di percepire il valore di ogni elemento della vita del mondo circostante indipendentemente dal suo valore d’uso commerciale. Da sviluppare è quella che Whitehead (1959, p. 229) definisce «l’abitudine alla percezione estetica». Congiuntamente all’etica della terra, Leopold auspicava pertanto che l’educazione si occupasse di sviluppare anche un’«estetica della terra» (land aesthetic). Essa si basa su un concetto del bello come «presenza della diversità», nel senso che sviluppare una raffinata sensibilità estetica per l’ambiente significa imparare ad apprezzare il valore della diversità biologica. Muovendo da questo presupposto, un ambiente è percepito tanto più bello quanto più conserva luoghi biologicamente differenti: zone umide, zone boscose, praterie originarie, ecc. L’estetica della terra è la capacità di apprezzare anche gli elementi meno visibili e meno appariscenti dei vari luoghi, e questa capacità si sviluppa sulla base della comprensione della funzione che i vari elementi svolgono nell’ecosistema. La maturazione di un’estetica ecologica è, quindi, intrinsecamente connessa a una forma di competenza scientifica capace di apprezzare il valore della diversità biologica, della complessità delle comunità biotiche e delle interazioni fra le specie. Il “bello ecologico” si lascia intuire sulla scorta di un sapere scientifico, in cui giocano un ruolo importante l’ecologia e la storia naturale. Mentre lo studio ecologico delle dinamiche ambientali porta a comprendere il valore di ogni forma di vita nell’economia complessa della natura, la storia naturale, attraverso la ricostruzione dei processi biologici, ci mostra come nella struttura di ogni singolo elemento vitale siano depositati millenni di evoluzione; Leopold parla a questo proposito di una «patente paleontologica di nobiltà» che rende prezioso ogni essere vivente. Maturare questa forma di consapevolezza ecologica è fondamentale ai fini della politica della conservazione, perché essa consente di capire che distruggere una specie significa depauperare il patrimonio biologico. Si può affermare che solo inserendo la freccia del tempo nella considerazione della realtà biologica si genera nei confronti della materia un senso estetico raffinato, perché capace di intuire il bello oltre ciò che può essere direttamente percepito. È solo coniugando la sensibilità temporalmente profonda, che può essere generata dalla biologia evolutiva, con
la sensibilità sistemicamente estesa dell’ecologia, che concepisce il singolo ente come nodo di un sistema di relazioni, che emerge una più complessa capacità di apprezzamento estetico. Lo studio diacronico e quello sincronico sono, quindi, coessenziali allo sviluppo di una percezione ecologica. Solo una mente educata a comprendere le complesse interrelazioni presenti in un ecosistema (ecologia) e a ricostruire la storia evolutiva dei sistemi naturali (scienze evolutive) è in grado di apprezzare la bellezza di certi ambienti. In questo senso si può parlare di declinazione estetica dell’educazione ecologica. L’estetica della terra è, quindi, differente da quella di matrice romantica che enfatizza i paesaggi maestosi (cime montane, vallate, cascate, ecc.). L’estetica naturale, precedente allo sviluppo di un approccio evolutivo nella considerazione dell’ambiente, è un’estetica del sublime e del pittoresco, che educa ad apprezzare i paesaggi percepiti come straordinari, ma non è orientata a sviluppare una sensibilità nei confronti della bellezza delle cose ordinarie, quella che evoca una forma di epicità del quotidiano. La land aesthetic spinge a sviluppare l’apprezzamento estetico anche nei confronti di quegli ambienti naturali ordinari che l’estetica dominante trascura. Bello non è solo l’ambiente che emoziona e cattura lo sguardo in virtù di aspetti stra-ordinari, ma bello è anche un luogo che conserva la sua diversità e la sua complessità biologica dove le forme, i colori e i rumori, se attentamente considerati, mostra una bellezza inedita. L’estetica della terra ci spinge a scovare le bellezze nascoste nell’ordinario essa nobilita anche i paesaggi comuni, quelli del vivere quotidiano, quei luoghi che lo sguardo affrettato tende a trascurare lasciando così che elementi di valore scivolino nell’ovvio. «Vi è una minima differenza tra un paesaggio e l’altro – scrive Emerson (1998, p. 43) – ma grande è la differenza tra un osservatore e l’altro». L’estetica della terra può svilupparsi in relazione ai luoghi comuni del quotidiano, senza aver bisogno di grandi scenari; per questo può avere un effetto dirompente nel generare la disposizione alla cura degli ambienti che abitiamo. L’educazione estetica naturale non solo non ha bisogno di grandi scenari, ma neppure di sofisticati dispositivi formativi, perché «il solo fatto di disporre il corpo umano e lo sguardo in modo da vedere bene un tramonto, è già una forma semplice di selezione artistica. L’abitudine artistica è l’abitudine di assaporare i valori viventi» (Whitehead, 1959, p.
229) e laddove c’è un organismo c’è la realizzazione di una forma definita di valore. Sviluppare una conoscenza che sia esteticamente densa, piena cioè della capacità di apprezzare la vita del mondo circostante, e insieme lavorare sui pensieri per decostruire ciò che ostacola il nascere di uno sguardo ecologico sulle cose, diventano, quindi, l’asse strutturale di un’idea dell’educazione ambientale che implica una forte curvatura etica. 3.8. Semi di educazione ecologica Dall’esame del pensiero dei protoecologisti emerge un’idea complessa di educazione ecologica, che implica un’alfabetizzazione scientifica fortemente interrelata con l’educazione etica e con quella estetica e che, inoltre, è attenta alla maturazione di una nuova sensibilità ambientale che si costituisca come matrice generativa di quei sentimenti ecologici considerati condizione imprescindibile per lo sviluppo di una nuova cultura. Centrale in questa filosofia dell’educazione ecologica è il principio del recupero di un rapporto diretto con la natura, da coltivare allo scopo di maturare la consapevolezza del legame indissolubile che lega l’essere umano alla matrice biologica della vita e, insieme, di attivare una cognizione incarnata come presupposto allo sviluppo di una postura epistemica ecologicamente orientata e di una riscoperta dei vissuti emotivi capaci di riconciliarci con i ritmi biologici. Quello che l’attuale teoria dell’educazione ecologica non dovrebbe dimenticare è che la motivazione che spingeva Thoreau e Muir ad attribuire tanta importanza a uno stile di vita in cui ha largo spazio il contatto con gli elementi naturali era la convinzione che, se si impara a coltivare il pensiero stando presso le cose, ci si trova a confrontarsi con le questioni essenziali dell’esistenza umana e, quindi, si sperimenta la condizione più favorevole alla coltivazione della vita spirituale. In Walden, Thoreau scriveva che il suo «andar per boschi» non era un mero girovagare, ma un andare alla ricerca di quanto è essenziale alla piena autorealizzazione dell’essere umano, perché è proprio lo stare in solitudine in un bosco o sul pendio di una collina che consente di stare in piena compagnia di se stessi e dei propri pensieri. Come annota Hans Gadamer (1994, p. 105), nella natura si può esperire «il potere spirituale della solitudine», che costituisce
la matrice generativa del pensare riflessivo. Il rapporto con gli elementi naturali e la solitudine che si sperimenta in certi tipi di esperienza facilita la condizione cognitiva del pensare pensoso, che ha l’effetto di portare a interrogare le questioni essenziali del vivere, quelle questioni che è proprio della ragione umana sollevare. È nel silenzio, non passivo ma riflessivamente coltivato, che le questioni essenziali si rendono presenti alla coscienza, perché è il silenzio che «ci domanda chi pensiamo di essere, che cosa pensiamo di stare facendo, dove pensiamo di stare andando» (Maly, 1992, p. 63). Il problema essenziale da affrontare è il considerare «quali siano il fine fondamentale dell’uomo e le vere necessità e i veri mezzi della vita» (Thoreau, 1995, p. 22), perché ciò che impedisce di vivere pienamente il tempo che ci è dato è la tendenza a farsi assorbire da cose non essenziali rispetto al bisogno di dare forma piena all’esistenza: «L’eterna, tesa ansietà di alcuni è quasi una forma di male incurabile. Noi abbiamo la tendenza a esagerare qualsiasi cosa facciamo» (Thoreau, 1995, p. 24). Alla radice di questa mancanza di misura dell’esistere ci sarebbe una forma di inaridimento della vita spirituale, di desertitudine dell’interiorità. La matrice generativa di uno stile ecologico del vivere non va, quindi, riduttivamente rintracciata solo nello stare a contatto con la natura e nel costruire di essa un sapere rigorosamente fondato, poiché essenziale è il prendersi cura della vita interiore, sgomberandola di tutte le cose inessenziali che assorbono inutilmente le energie mentali ed emotive. Si può dire che per Thoreau la preservazione della natura fa tutt’uno con la preservazione della vita umana, perché per realizzare compiutamente se stesso l’essere umano ha bisogno del contatto diretto con la natura in quanto essenziale non solo sul piano biologico, ma anche cognitivo ed emotivo. Lo stare nella natura viene allora ad assumere il significato dello stare presso di sé, come condizione per acquisire conoscenza di se stessi. Per questo il contrastare l’economia selvaggia, che già a quei tempi distruggeva alberi centenari, trova la sua ragione nel fatto che occorre preservare non solo gli ambienti naturali nella loro integrità, ma anche la possibilità di una vita pienamente umana, che del rapporto con la natura si alimenta. E una vita pienamente umana implica, tra le sue condizioni necessarie, anche il prendersi cura della vita della mente dedicando tempo al pensare.
Ma è proprio vero che per pensare e coltivare ecologicamente la vita spirituale è fondamentale riallacciare il contatto con la natura? Già Emerson, punto di riferimento iniziale del percorso culturale di Thoreau, aveva sottolineato che il pensare spesso si imbottisce di vuoti sistemi di pensiero, che si articolano in sontuose architetture concettuali, senza che queste siano in grado di restituire senso. E questo accadrebbe proprio quando il pensiero non si misura con le cose reali. Nessun filosofare autentico prende forma senza che il pensiero si confronti direttamente con le cose, mantenendosi radicato nell’esperienza, perché le cose sono il necessario nutrimento «per la nostra immaginazione e per la nostra anima» (Emerson, 1998, p. 39). A partire da Emerson, Thoreau invita a riallacciare i fili con le origini greche e latine della nostra tradizione culturale, dove era ben presente l’idea dell’importanza di coltivare il pensare a contatto con le cose della natura. Seneca scriveva che «bisogna passeggiare all’aria aperta affinché, con liberi orizzonti e molta respirazione, l’animo si accresca e si rinfranchi» (De tranquillitate animi, 17, 8). E a chi gli chiedeva per quale ragione si dovesse preferire l’essere nel mondo al non esserci, Anassagora rispondeva: «Per contemplare il cielo, gli astri che sono in esso, il sole e la luna come se le altre cose non valessero nulla» (cit. in Arendt, 1987, p. 222). George Santayana era convinto che il pensare riflessivo coltivato in stretta relazione con le cose concrete del mondo naturale sarebbe libero dai molti fronzoli inutili che appesantiscono il filosofare libresco e sradicato dai fatti essenziali della vita. A suo parere, se i filosofi avessero frequentato di più le montagne e avessero soggiornato tra i boschi, avremmo meno libri inutili con i quali i giovani sono costretti ad imbottirsi le menti (cit. in Fox, 1995, p. 18). Invece il nostro modo di pensare, quello che il filosofo John B. Callicott definisce il pensare del «filosofo da poltrona», manca spesso d’aria. È vero che la nostra essenza è il linguaggio e che con il linguaggio creiamo mondi di significato, ma la parola consumata stando in relazione solo con altre parole, senza il confronto con i fatti della vita, finisce per svuotarsi di senso; la parola vivente ha necessità di un impalpabile ma vitale rapporto con l’aria che respiriamo. La parola che dimentica la radice biologica della nostra vita, incapace di offrire riserve d’aria, soffoca il pensiero. La cultura ecologica, alle sue radici, insegna che quando la mente diventa troppo ingombra di teorie e di desideri, di
certezze e di opinioni, di discorsi saturi di verità troppo certe, il ritorno alle cose della natura s’impone alla mente nella forma di un imperativo esistenziale. La visione dell’educazione ecologica che emerge dalla lettura dei testi dei protoecologisti risulta, quindi, estremamente complessa, poiché viene a qualificarsi innanzitutto come una questione di orientamento esistenziale, che coinvolge ogni dimensione della persona. Non si pone solo nei termini di un problema di acquisizione di conoscenze scientifiche, anche se l’apprendimento dell’ecologia e di altre scienze naturali costituisce una componente essenziale della competenza ecologica, ma come ricerca di saggezza. Di conseguenza, un’autentica educazione ecologica chiede un ripensamento radicale degli attuali parametri educativi, impigliati dentro la visione tecnicistica tipica del pensare calcolante. Solo prendendo le distanze dalla razionalità tecnica, che riduce i processi formativi nei termini di organizzazione di processi di apprendimento efficaci, senza mettere in discussione le logiche dominanti, è possibile accedere a una forma di educazione capace di innescare nuovi processi di pensiero e modi di essere generatori di un nuovo orientamento culturale. 10
In Thoreau l’orientamento ecologico, che si concretizzava nella ricerca di una vita in armonia con la natura, era fortemente connesso all’impegno politico, che aveva come ideale una società costruita sui valori propri di quella che oggi definiamo cittadinanza attiva. Quando parla della coltivazione dei fagioli sembra utilizzarla come metafora per parlare di un altro tipo di coltivazione piuttosto trascurata dalla società del suo tempo, ma non solo: coltivare la nuova generazione seminando nell’anima «sementi quali la sincerità, la verità, la semplicità, la fede, l’innocenza e simili [...]. Dovremmo realmente sentirci nutriti e rallegrati se, quando incontriamo un uomo, fossimo sicuri di vedere che alcune delle qualità che io ho nominato e che tutti valutiamo più di quegli altri prodotti ma che, per la maggior parte, sono disseminate e fluttuanti nell’aria, hanno in lui preso radici e sono cresciute» (Thoreau, 1995, p. 157). 11 L’importanza dell’esperienza diretta delle cose diventa centrale nella filosofia dell’educazione di John Dewey, secondo il quale il pensiero vivo ha la sua radice in esperienze in cui il soggetto entra in contatto con le cose. È vero che non tutto può essere esperito direttamente e che inevitabilmente ci si trova ad apprendere teorie, ma le teorie capaci di alimentare la conoscenza sono quelle che consentano al soggetto di risalire all’esperienza vissuta del contenuto “oggettivo” da cui si sono sviluppate. L’esperienza va intesa «come punto di partenza e come punto terminale, come origine dei problemi e come banco di prova di possibili soluzioni (Dewey, 1993, pp. 20-21). 12 Polemizzando con la visione meccanicistica, allora dominante, che riduceva la natura a mera materia inanimata, nei suoi diari Thoreau affermava che la parte più importante di un animale è il suo spirito vitale. A questo proposito rilevava che «la maggior parte dei testi scientifici sugli animali omettono questo particolare e li descrivono come fenomeni di materia morta». Il linguaggio scientifico di stampo cartesiano-baconiano andava superato
perché non riusciva a trasmettere l’idea che la natura è un organismo. «Il mistero della vita delle piante è simile a quello della nostra vita e il fisiologo non deve pensare di spiegare la loro crescita in base a leggi meccanicistiche, come dovesse spiegare un macchinario di sua costruzione» (cit. in Worster, 1994, p. 127). 13 Apprendere a osservare la natura consente di acquisire conoscenze utili a migliorare la qualità della vita. La biomimetica è una nuova scienza che si fonda sul metodo dell’osservare la natura e ha come obiettivo lo studio dei fenomeni naturali per individuare gli esiti dell’evoluzione e inventare modi per applicare tali esiti all’esperienza umana, disegnando nuovi oggetti ed elaborando modelli organizzativi che, simili a quelli sviluppati dagli organismi viventi, aiutino a risolvere problemi nell’esperienza umana. Se ad esempio si osservano le piante si scopre che nella loro traiettoria evolutiva esse hanno sviluppato soluzioni di sopravvivenza altamente creative; la biomimetica cerca in queste soluzioni indizi per inventare nuovi strumenti utili al modo umano. La nostra cultura ci ha reso poco attenti al mondo naturale, producendo una sorta di anestesia percettiva; invece, osservata con attenzione, la natura rivela invenzioni che possono essere ripensate per il mondo umano (Bruni, 2015). 14 Heinz von Foerster (1991, p. 132) considera «domande legittime» quelle che si profilano nei termini di questioni aperte, che non prevedono risposte univoche, mentre definisce «domande illegittime» quelle per le quali è, invece, già disponibile una risposta. Mettere in atto un modello formativo che riserva un largo spazio alle domande illegittime significa assoggettare gli allievi a «un apparato di banalizzazione». Gli studenti per crescere hanno bisogno di misurarsi con altre domande, perché non sono «macchine banali» che funzionano secondo modalità prevedibili, ma agiscono in modo creativo sollevando domande imprevedibili e appassionandosi a quelle questioni che non hanno risposte certe, scontate. 15 La più recente visione batesoniana invita a pensare che, oltre all’energia per così dire materiale che fluisce attraverso tutte le cose, a costituire un forte legame connettivo fra gli enti è anche il flusso continuo di informazioni che attraversa la natura intesa come unità del mondo umano con il resto del reale. 16 Circa il presupposto secondo il quale una scienza dovrebbe costituire la base di un’etica si può dissentire; occorre invece prendere in seria considerazione il fatto che l’insegnamento della scienza non è qualcosa di neutro, qualcosa che non ha implicazioni morali. Come spiega un attento studioso di Leopold, il filosofo John B. Callicott (1989, pp. 101-114), ogni scienza si fonda su presupposti di tipo metafisico (la natura è vivente; l’uomo non è parte della natura; gli animali non sentono; ecc.) che hanno forti implicazioni etiche. Di conseguenza l’insegnamento delle scienze, e in questo specifico caso dell’ecologia e delle altre scienze a essa affini, va adeguatamente monitorato da parte dei docenti per valutare le implicazioni normative di certe cornici concettuali e, quindi, per fare di esse l’oggetto di una riflessione critica che consenta ai soggetti educativi di situarsi in modo consapevole rispetto alle reti di presupposti concettuali in cui si trovano a pensare. Non si tratta di governamentalizzare il processo educativo decidendo quali presupposti ontologici scegliere, ma di educare all’esame delle implicazioni performative delle idee di sfondo che assimiliamo dal contesto. La scienza si nutre non di certezze, ma di uno sguardo critico e profondo.
4. Verso un nuovo paradigma
Per identificare l’essenza della formazione ecologica non è sufficiente prendere in esame la cultura ecologica del passato, quantunque feconda di semi di pensiero pedagogico; sono da prendere in esame anche le riflessioni maturate nel presente nei vari contesti scientifici, poiché un discorso che si qualifica come teoria dell’educazione ecologica non può che costituire la forma emergente dalla riflessione critica sulle differenti forme di pensiero impegnate a elaborare una visione ecologica dell’abitare la terra. Solo da questo tipo di riflessione può prendere forma una teoria capace di indicare i sentieri per pensare le esperienze educative potenzialmente capaci di promuovere una nuova cultura ecologica. Per sviluppare le sue potenzialità teoretiche, il discorso pedagogico ha bisogno di dialogare con altre nicchie noologiche attivando una feconda circolazione di punti di vista. Una teoria dell’educazione che sta al suo tempo, che cioè si assume la responsabilità di individuare un’idea di educazione capace di promuovere nelle nuove generazioni la capacità di abitare con signoria ecologica il proprio luogo esistenziale, non può sottrarsi all’impegno di dialogare con quei campi del sapere che sanno prospettare ipotesi per la costruzione di un nuovo clima culturale. Di fatto da sempre la filosofia dell’educazione, in quanto scienza seconda o sapere architettonico, intrattiene rapporti conversazionali con altri campi disciplinari; tuttavia, dal momento in cui ha aspirato a costituirsi come scienza secondo una interpretazione riduttiva del paradigma positivistico, si è assistito a una contrazione della ragione dialogica con quelle scienze umane – quali la psicologia e la sociologia – reputate le sole garanti di metodologie di ricerca scientificamente fondate, con un conseguente indebolimento della riflessione propriamente pedagogica. È tempo di recuperare in tutta la sua intensità la ragione dialogica che sottende il
costituirsi di una rigorosa e sensata filosofia dell’educazione, aprendo la riflessione al confronto con quella scienza e quella filosofia che hanno provocato l’urgenza di una ridefinizione del paradigma culturale. Dall’esame delle varie correnti in cui trova espressione il pensiero ecologico emerge che buona parte di esso si è sviluppato a partire dal presupposto che noi stiamo dentro una costruzione sociale della realtà e che, quindi, la crisi ecologica non sarebbe che la conseguenza di una costruzione culturale antiecologica. L’inquinamento materiale avrebbe cioè le sue premesse in un inquinamento della noosfera, e più precisamente nei presupposti concettuali e in certi stili di pensiero che costituiscono l’impianto della cultura occidentale. Alla radice dei comportamenti ecologici ci sarebbero cioè «errori nelle nostre abitudini di pensiero a livelli profondi e in parte inconsci» (Bateson, 1976, pp. 507508). A essere necessari sarebbero dunque «un nuovo paradigma, una nuova visione della realtà, un mutamento fondamentale nei nostri pensieri, percezioni e valori» (Capra, 1990, p. 16). Disegnare un nuovo paradigma richiede di andare alla ricerca di altri differenti presupposti ontologici, epistemologici ed etici, tali da costituire la matrice generativa di una nuova conversazione sull’educazione a un modo nuovo di abitare la terra. 4.1. Nuovi sentieri epistemici Per promuovere l’emergenza di un nuovo orizzonte culturale e, quindi, dei sentieri educativi che contribuiscono a prepararlo, risulta prioritaria una rifondazione delle vie epistemiche attraverso le quali si va in cerca della conoscenza del mondo circostante. Tesi questa che, sul piano pedagogico, si traduce nella ricerca di un’educazione cognitiva ecologicamente orientata. Una rifondazione epistemica della cornice che fa da sfondo ai processi di costruzione della conoscenza sembra necessaria, poiché la crisi ecologica ha fra le sue cause anche una serie di procedure di costruzione della conoscenza che, se per un verso sono risultate efficaci rispetto al sogno moderno di mettere a punto dispositivi funzionali a un sempre più potente sfruttamento della natura, dall’altro hanno provocato la costruzione di un sapere riduttivo e semplificante rispetto alla complessità della vita biologica.
È largamente condivisa la tesi secondo la quale l’origine di quelli che sono definiti “ostacoli epistemologici” rispetto alla costruzione di un sapere all’altezza della complessità della vita naturale vada ricercata nel paradigma su cui si è edificata la scienza moderna, e con essa l’intera cultura della modernità. Le procedure epistemiche che identificano il paradigma cartesiano-galileiano orientano il processo cognitivo in direzione antiecologica, poiché privilegiano: a) un metodo d’indagine atomistico e disgiuntivo, che cerca la conoscenza praticando la logica del separare, cioè del dividere le unità viventi in elementi sempre più piccoli dopo averle disgiunte dal contesto in cui sono inserite, come se questo fosse un fondale accessorio; il metodo analitico di matrice cartesiana si basa sul presupposto che sia possibile elaborare conoscenza del mondo circostante attraverso la somma delle conoscenze delle sue singole parti; b) procedure d’indagine di tipo quantitativo, che si fondano sul presupposto che il calcolare, e quindi il comprimere la realtà indagata entro procedure algoritmiche, costituisca la via di accesso alla verità; c) una visione deterministica, che legittima la concezione della scienza come ricerca di leggi universali e necessarie; d) la ricerca di una postura epistemica oggettivante che, per la costruzione di un sapere scientificamente fondato, postula la necessità da parte del soggetto di sviluppare un atteggiamento distaccato e neutro. Nessuno pone in dubbio il ruolo giocato dal paradigma moderno nell’aver saputo promuovere quel progresso scientifico e tecnologico che, a partire dal XVII secolo, ha modificato sensibilmente la qualità della vita. Col tempo, però, esso si è rivelato non solo inadeguato, poiché è risultato produrre una conoscenza riduttiva e semplificata della vita naturale, ma anche antiecologico, poiché proprio questo tipo di conoscenza ha reso possibile un certo tipo di interventi devastanti sull’ambiente. La scienza ecologica, per molto tempo relegata ai margini del sapere scientifico poiché non condivide l’epistemologia di matrice cartesiana, ha mostrato che l’impianto epistemico moderno non funziona quando è usato per conoscere le unità viventi, la cui complessità sfugge a un’episteme disgiuntiva e attenta solo a quanto può essere quantificabile. Per sviluppare le forme costitutive di un orientamento epistemico adeguato alla complessità con cui si profila la conoscenza dell’ambiente in cui viviamo,
occorre una nuova ecologia di idee e un nuovo stile ecologico del conoscere, capaci insieme di configurare quello che si può definire il paradigma ecologico. Fra i tratti distintivi di tale paradigma va indicata l’attenzione alle qualità dei fenomeni che, senza rinunciare alla logica della quantità – poiché senza processi di quantificazione non si costruisce alcuna scienza –, assume le qualità delle unità viventi come dati essenziali per costruire una conoscenza della natura quanto più possibile adeguata. Si tratta di imparare ad andare alla ricerca di «contorni, forme e relazioni», attivando nel contempo un modo non statico, ma dinamico e relazionale, di guardare alle cose (Bateson, 1984, p. 23). Richiede, inoltre, un metodo d’indagine che in luogo del dispositivo euristico di tipo disgiuntivo adotti il principio di contestualizzazione e che faccia dialogare la logica della separazione con la logica della ricerca di relazioni, in modo da arrivare a configurare la struttura di relazioni dinamiche che connette ogni unità vivente nella rete complessa della comunità biotica di cui è parte e che contribuisce a costruire. L’idea di base del pensiero ecologico è che l’essenza di ogni unità vivente – che lo sguardo dell’osservatore tende a ritagliare dal contesto – sia comprensibile solo all’interno del tessuto di relazioni che la connettono agli altri elementi con cui interagisce nel sistema di cui è parte. A partire da quella «ontologia della relazionalità» secondo la quale le relazioni che intercorrono fra le unità viventi sono tanto reali quanto le unità stesse (Shepard, 1967, p. 3), diventa essenziale strutturare l’indagine dei fenomeni nella forma di un andare in cerca delle relazioni, ossia della colla che tiene insieme le cose. Cercare la struttura che connette significa prendere in considerazione l’unità vivente nella sua singolarità e cercare le connessioni fra le parti che la costituiscono (connessioni di primo grado); poi confrontare fra loro due unità viventi per scoprire relazioni simili fra le parti (connessioni di secondo grado) e, quindi, mettere a confronto le informazioni raccolte attraverso la ricerca di secondo grado per cercare relazioni fra le relazioni (connessioni di terzo grado). L’esito cui dovrebbe pervenire questo processo di ricerca è la costruzione di una meta-struttura, cioè una «struttura di struttura» (Bateson, 1984, pp. 24-25) che sola consente di percepire la complessità del mondo vivente. Determinante dell’approccio ecologico è concepire la struttura non come un’intelaiatura fissa, ma come una «danza di parti interagenti» (Bateson, 1984, p. 27), da studiare secondo
un approccio evolutivo che chiede attenzione anche agli elementi aleatori. Il mondo vivente è tale in quanto ha una vita, e ogni vita è evoluzione e, quindi, storia. Pensare in modo ecologico significa allora «pensare in termini di storie» (Bateson, 1984, p. 28), introducendo la freccia del tempo nello studio dei fenomeni naturali17. Rispetto alla scienza cartesiana, quella del XX secolo ha mostrato l’impossibilità di comprendere i fenomeni naturali per mezzo del solo procedimento analitico-disgiuntivo. Le proprietà delle parti di un’unità vivente non sono più concepibili come unità oggettivamente costituite e isolabili dal resto, tali cioè da poter essere indagate attraverso un metodo disgiuntivo che isola l’unità rispetto all’insieme, ma vanno considerate dipendenti dalla rete di relazioni in cui l’essere vivente è incluso, e come tali non possono essere comprese se non in relazione con il contesto di cui non solo sono parte ma che contribuiscono a strutturare. Il contesto poi non va considerato qualcosa di esterno, una sorta di contenitore che semplicemente ospita o racchiude enti dotati di una autonomia ontologica, ma come una serie di trame vitali ed eterogenee in relazione alle quali l’unità vivente co-costruisce la sua identità. L’approccio sistemico, proprio del paradigma ecologico, concepisce lo studio delle parti non scindibile dallo studio dell’unità organizzativa nel suo insieme. La metafora della rete facilita la visione della natura come trama di relazioni che strutturano la materia vivente. Pensare per reti significa rappresentarsi un ecosistema come un reticolo di nodi, ciascuno dei quali costituisce un organismo concepibile a sua volta come una rete. «A ogni scala di ingrandimento ed osservazione sempre più ravvicinate – spiega Fritjof Capra (1997, p. 47) –, i nodi della rete si rivelano come reti più piccole». L’educazione cognitiva ecologicamente orientata presuppone, quindi, una nuova epistemologia impegnata in un ripensamento dei concetti a partire dai quali descriviamo i sistemi viventi, un’epistemologia che assume come essenziale il problema della ricostruzione temporalmente situata della mappa di relazioni che definiscono lo spazio vitale dell’essere vivente. Da questo punto di vista studiare un’unità vivente significa comprendere le relazioni che costituiscono la matrice generativa entro la quale l’unità si profila costruendo l’ambiente18. Non basta, però, introdurre il concetto di rete per sviluppare un’epistemologia ecologica. Proprio a causa dei cromosomi della cultura
scientifica occidentale, è facile incorrere nel rischio di ordinare le nostre conoscenze per reti sulla base di uno schema gerarchico, che situa certi ecosistemi in una posizione superiore rispetto ad altri secondo una struttura piramidale. Sviluppare un metodo ecologico significa invece superare non solo il principio della primarietà della logica del separare, ma anche quello del costruire gerarchie, perché in natura non esistono: ci sono solo reti dentro altre reti in continuo movimento. Il paradigma ecologico chiede, inoltre, di considerare criticamente la concezione statica dell’oggettività, che vorrebbe il soggetto conoscente capace di agganciare una postazione d’indagine nettamente separata rispetto all’oggetto, per concepire una forma dinamica di oggettività, che non solo abbandona l’illusione di un approccio cognitivo neutrale per accettare la natura culturalmente situata del processo di costruzione della conoscenza, ma consente anche di legittimare lo studio dei fenomeni con una postura emotivamente densa quando si lascia giocare la capacità di sentirsi in relazione col mondo circostante. L’epistemologia postmoderna, che vede il contributo determinante del pensiero femminile, riconosce che la tonalità emotiva che caratterizza i processi cognitivi non pregiudica affatto il rigore epistemico della ricerca del sapere. Anzi, l’essere capaci di entrare in una relazione empatica col mondo circostante può dischiudere altre vie di accesso alla conoscenza, poiché rende possibile attivare un forma di attenzione più aperta e recettiva nel cogliere non solo le differenti sfumature con cui si presenta l’oggetto d’indagine ma anche gli elementi aleatori, con un conseguente potenziamento del processo di elaborazione del sapere, senza peraltro pregiudicarne la rigorosità. Proprio il sentirsi in sintonia con le cose renderebbe la mente capace di cogliere meglio la profonda complessità della natura di ogni organismo (Fox Keller, 1987, p. 123). La considerazione positiva, ai fini della costruzione del sapere, di un approccio epistemico che si nutre di una relazione empatica con l’oggetto d’indagine è spesso guardata con sospetto, anche se autorevoli scienziati si sono espressi a favore di una ricucitura dello strappo fra razionalità e affettività. A fronte di un pregiudizio anaffettivo delle attività cognitive, la sociologia della conoscenza ha messo in evidenza l’inscindibilità dei processi razionali dalla tonalità emotiva che la vita della mente assume.
Attenersi a una concezione anaffettiva dell’indagine epistemica ha l’effetto di restringere le possibilità cognitive. 4.2. Modi ecologici del conoscere Un cambio di paradigma implica, però, una trasformazione non solo delle procedure epistemiche, ma anche delle reti concettuali e metaforiche che organizzano il processo di nominazione della realtà. A supportare il paradigma moderno era un’immagine meccanicistica della natura, concepita come un orologio soggetto a leggi impresse dall’esterno all’inizio dei tempi. Lo sviluppo delle scienze evolutive e dell’ecologia ha mostrato, invece, che il mondo della natura non può essere interpretato sulla base della metafora della macchina, né è concepibile funzionante secondo leggi deterministiche e secondo una logica causale semplice di tipo unilineare. La caratteristica primaria della vita sulla terra è quella di essere soggetta a un’evoluzione creatrice di nuove forme, che segue ritmi stocastici, combinanti cioè la casualità con la selezione in un processo autopoietico non anticipatamente prevedibile. Si parla di “morfogenesi biologica” per indicare la capacità del mondo biofisico di inventare nuove caratteristiche e nuove forme di vita. La qualità di questo processo generativo rende evidente che le nuove strutture che appaiono vanno pensate come espressioni della capacità della natura di generare nuove forme di sviluppo della vita organica incorporando costruttivamente elementi aleatori imprevisti (Sheldrake, 1995, p. 19)19. La formazione di una cultura ecologica deve essere orientata a sviluppare la consapevolezza dei tempi lunghi dell’evoluzione naturale, così da smontare sia l’euristica dello stretto determinismo sia quella della causalità lineare, per scoprire come il mondo naturale è soggetto a un processo evolutivo imprevedibile, dove l’emergenza di nuove forme del vivente – diversamente spiegate dalle varie ontologie biologiche – può essere pensata come l’esito di un processo creativo immanente. Il paradigma ecologico implica una concezione della natura come luogo di autocostituzione del vivente, capace di contenere in sé la radice generativa di imprevedibili processi morfogenetici. Pensare al mondo naturale come a un macro-organismo significa concepirlo come agente in virtù di una forza vitale intrinseca, che presiede i processi di auto-
organizzazione del vivente. La più recente ricerca biologica concepisce la materia non più come sostanza inerte e passiva, ma come «processualità ritmica di attività, di energia vincolata e strutturata dentro campi vitali» (Sheldrake, 1994, p. 115). La caratteristica dei campi morfici è di costituire strutture di probabilità del vivente (Sheldrake, 1994, p. 119), dal momento che frequentemente accade che unità viventi (cellule, tessuti, organi, organismi) che risultano geneticamente identici e si sviluppano nelle stesse identiche condizioni non sono mai esattamente gli stessi20. Proprio in quanto rappresenta la natura come realtà viva, che si auto-organizza secondo un principio d’ordine immanente (Collinwood, 1964, p. 3), la moderna ecologia propone un’idea della natura che può configurarsi come la matrice di un nuovo stile epistemico e, insieme, di una differente etica della tecnologia. Un’educazione al conoscere che assume come cornice epistemologica il paradigma ecologico dovrebbe, quindi, confrontarsi con un’immagine della natura intesa come un complesso tessuto di fenomeni, dove ogni elemento è strettamente connesso agli altri (Capra, 1997, p. 41). A partire da questa immagine non è concepibile lo studio di un ente indipendentemente dal suo contesto, ma l’unità di analisi sarà sempre costituita dall’organismo con il suo ambiente. Solo ragionando senza separazioni si potrà capire come l’organismo che distrugge il suo ambiente finisce per distruggere se stesso (Bateson, 1976, p. 503). A partire da una immagine organicistica e sistemica dei processi naturali è possibile concepire la costruzione del sapere nei termini di una pratica euristica che va alla ricerca delle relazioni che connettono le varie unità viventi, adottando il principio di contestualizzazione, secondo il quale la conoscenza di un fenomeno non può avvenire se non concependolo situato nel contesto di cui è parte, poiché «è il contesto che fissa il significato» (Bateson, 1984, p. 31). C’è la tendenza, invece, ben visibile negli stili didattici praticati, a descrivere le cose secondo un approccio disgiuntivo, come se fosse possibile acquisire conoscenza delle qualità essenziali di un ente indipendentemente dal contesto di relazioni di cui è parte secondo una logica di co-costruzione. Il pensare ecologico è quello che procede per tessitura di relazioni. Il sapere da cercare è «la colla che tiene insieme le stelle e gli anemoni di mare, le foreste di sequoia e le commissioni e i consigli umani» (Bateson,
1984, p. 17), un sapere che sappia rimuovere quel confine che si ritiene definire il campo dell’esistenza umana distintamente da quello della natura. Insegnare a cercare la struttura che connette significa promuovere uno stile cognitivo di tipo sistemico mirato a disegnare la rete di relazioni che tiene insieme ogni unità vivente e a scoprire gli incastri che rendono interdipendenti i sistemi. Trovare la struttura che connette significa comprendere il delicato equilibrio che lega ogni essere vivente a tutti gli altri; da questa conoscenza discende la consapevolezza che infrangere tale struttura significa provocare squilibri e ferire la struttura della vita con conseguenze che in certi casi possono essere irreparabili. Altra competenza ecologica da promuovere è l’attenzione per le qualità, andando oltre l’epistemologia galileiana, secondo la quale le qualità sono aspetti della realtà che possono essere conosciuti solo attraverso formulazioni e descrizioni di relazioni in termini matematici e meccanici. Valorizzare le qualità come elementi di conoscenza implica un recupero dell’esperienza diretta delle cose e con essa uno stile di apprendimento che mette al centro la capacità di osservazione, senza pretendere stili relazionalmente neutri con le cose, perché il senso di un’intima partecipazione con il resto del mondo vivente facilita lo sviluppo della conoscenza ecologica. L’insegnamento scientifico ispirato al paradigma galileiano offre allo sguardo degli studenti un mondo senza vita, perché privo di odori, sapori, colori e sensazioni. E quando viene meno la percezione delle qualità risulta difficile maturare sia la sensibilità estetica sia quella etica (Capra, 1997, p. 249). Lo sviluppo di un orientamento estetico ed etico nell’indagine scientifica non è la conseguenza dell’introduzione di una serie di codici che regolamentano i dispositivi euristici, ma è un modo di porsi di fronte all’oggetto d’indagine fatto di discrezione e di senso del limite, che emerge in conseguenza del sapere percepire la complessità del mondo vivente, una complessità non comprimibile dentro le procedure epistemiche di cui dispone la mente umana. Il discorso ecologico più recente si è sviluppato in stretta relazione con la teoria della complessità, che svolge la funzione di farci pensare alla realtà, non solo a quella naturale ma anche a quella umana, come insuperabilmente destinata a contenere zone d’ombra che, eccedenti rispetto ai nostri dispositivi concettuali e procedurali, sono alla radice
dell’insuperabile incompiutezza di ogni teoria. La consapevolezza di tale complessità dovrebbe orientare a costruire contesti di apprendimento che sollecitino non a cercare risposte predefinite, ma a sollevare domande. Non è un compito facile, non solo perché quando studiamo una scienza respiriamo, per lo più inconsapevolmente, la sua aspirazione a trovare spiegazioni portatrici di certezze e quindi la sua tendenza a privilegiare le risposte alle domande (Prigogine, Stengers, 1989, p. 16), ma anche perché spesso l’adulto ha smarrito il piacere di costituirsi come soggetto interrogante, quando invece è proprio il tenere lo sguardo sulle cose per interrogarle a fondo a rivelare la complessità con cui si pone il progetto della costruzione di un sapere adeguato. Adottare la prospettiva della complessità significa maturare una precisa postura nei confronti dell’educazione al conoscere, che porta a organizzare esperienze di apprendimento strutturate in modo da potere coltivare l’attenzione ai nodi non risolti senza arrischiare soluzioni affrettate, e, insieme, la disponibilità a stare nell’incertezza, che orienta a procedere con cautela nella tessitura delle mosse esplicative, scartando l’illusione che sia possibile accedere a una risposta definitiva, a un codice di traduzione che risolva ogni zona oscura. Proprio lo studio dell’ecologia contribuisce a sviluppare la coscienza del limite del sapere umano rispetto alla complessità con cui si presenta il problema di pervenire a una conoscenza rigorosamente fondata della vita della natura, e specificamente lo studio dell’ecologia più recente, che si è sviluppata attraverso il confronto con la teoria del caos. Questa prospettiva d’indagine ha mostrato l’impossibilità di stabilire con precisione la condizione di un ecosistema in un dato momento, per le troppe variabili che interagiscono secondo logiche processuali non riducibili dentro i vocabolari scientifici attuali. La nuova ecologia del caos insegna che non è possibile fare previsioni a lungo termine sull’andamento di un ecosistema sottoposto a perturbazioni esterne, poiché, pur con tutti i modelli di calcolo probabilistico disponibili, non è possibile tenere conto degli elementi turbolenti di indeterminatezza che sempre intervengono nel mondo vivente (Worster, 1994, pp. 498-499). La nostra conoscenza scientifica può pervenire solo fino a dove la realtà può essere colta dai nostri dispositivi concettuali e metodologici, i quali sono destinati a essere sempre limitati rispetto alla complessità del reale. La realtà è destinata a rimanere eccedente rispetto a ogni sistema di
spiegazione. La scienza è un tentativo di dipanare tale oscurità; infatti, sapendo il limite degli strumenti euristici di cui dispone, lo scienziato, quando li applica cercando di estendere il loro potere esplicativo, allo stesso tempo controlla criticamente questa sorta di stiramento euristico nel modo più rigoroso possibile affinché il dipanare certe zone di oscurità sia reale e non illusorio. Una buona epistemologia non si limita a cercare validi princìpi di spiegazione, ma ricostruisce la scena dell’operatività euristica in modo che i princìpi usati si possano vedere e studiare (Bateson, 1997, p. 97). Avere coscienza del limite significa innanzitutto potere maturare la consapevolezza socratica di sapere di non sapere. Questo tipo di consapevolezza, che si può definire di etica epistemologica, è però una condizione necessaria ma non sufficiente allo sviluppo dell’etica del limite, la quale dovrebbe nutrirsi anche della coscienza di come sia facile non sapere di non sapere. Questo secondo tipo di consapevolezza si genera quando, attraverso l’esercizio della riflessione, si arriva a prendere coscienza della presenza insuperabile di zone oscure, che accompagnano ogni processo di costruzione della conoscenza. Solo un’educazione che sviluppa la disposizione metacognitiva a praticare un continuo monitoraggio critico delle conoscenze sia concettuali sia procedurali, mettendole a confronto con la complessità dei problemi ecologici, può generare quella forma di consapevolezza dei limiti della ragione umana che è essenziale a un’epistemologia eticamente ecologica. Educare al conoscere nell’orizzonte del paradigma ecologico implica, quindi, l’attivazione di un atteggiamento di umiltà che, presupponendo una presa di distanza dall’idea forte del soggetto epistemico propria della modernità, porta a frequentare i sentieri della conoscenza come avventure nel corso delle quali imparare a non prendersi troppo sul serio. L’umiltà va intesa in senso batesoniano come elemento costitutivo della ricerca scientifica e non come principio morale esterno al procedere dell’indagine. La necessità di sviluppare questa postura epistemologica ed etica diventa questione primaria da affrontare, dal momento che con la crisi ecologica è maturata la consapevolezza di come l’essere umano sia parte di un sistema, e che in quanto parte non può controllare il tutto (Bateson, 1976, p. 452). L’eco-competenza non si risolve solo nello sviluppo di modalità d’indagine coerenti col paradigma ecologico, ma implica la maturazione di una
postura etica che nella consapevolezza del senso del limite trova la sua direzione fondamentale. 4.3. Rinominare la natura Pur non mettendo in discussione la necessità di una rifondazione epistemologica e con essa la ricerca di una nuova via dell’educare a conoscere, una parte consistente della filosofia ecologica ritiene che la principale fonte di inquinamento noologico sia rappresentata dai presupposti metafisici e che, quindi, la costruzione di un nuovo orientamento culturale debba passare attraverso una riconfigurazione criticamente fondata di tali presupposti. Un’ipotesi, questa, che chiede all’educazione ecologica di impegnarsi su terreni inediti attraverso un approccio riflessivamente critico. Per presupposti metafisici s’intendono quelle idee che prendono forma in seguito alla ricerca di una risposta alle questioni, «in linea di principio, indecidibili» (von Foerster, 1990, p. 9) con le quali la ragione umana non può evitare di misurarsi: che cos’è l’essere umano? che cos’è la natura? quale posto occupa l’essere umano nel mondo naturale? che cosa è la materia? che cosa è la coscienza? ecc. Proprio di tali questioni, fondamentali per la costruzione di un orizzonte di senso, è il non offrire risposte univoche, certe, ma sempre e soltanto ipotesi provvisorie che fanno del pensare attorno a esse un lavoro mai concluso, simile alla tela di Penelope. Rispetto all’urgente necessità di identificare percorsi formativi che contribuiscano a promuovere un nuovo orientamento culturale, può sembrare privo di senso impegnare il processo educativo su questioni di natura teoretica destinate a rimanere aperte, come sono le questioni metafisiche, che sembrano non avere alcuna relazione essenziale col problema di trasformare concretamente la nostra cultura. Tale impegno teoretico trova, invece, le sue ragioni nell’ipotesi secondo la quale, proprio perché codificano le risposte che una cultura ha elaborato rispetto a questioni che la ragione umana non può evitare di pensare, le idee metafisiche esercitano un forte potere normativo sui processi di elaborazione del significato dell’esperienza e dunque del modo di abitare il reale. Quantunque, infatti, manchino di un fondamento certo di verità e
pur presentandosi alla coscienza non sotto forma di norme da osservare, ma di semplici proposizioni descrittive, le idee metafisiche esercitano un potere performativo sull’esserci, costituendosi come elementi essenziali del paradigma che orienta il modo di abitare la terra e il mondo. La funzione etica di fornire i criteri che orientano i processi decisionali è esercitata non solo da enunciati regolativi che esplicitamente definiscono ciò che “si deve” e ciò che “non si deve” fare, ma anche da enunciati descrittivi che, solo apparentemente irrilevanti sul piano della regolazione dei comportamenti, di fatto esercitano una significativa, seppur tacita, normatività etica. È un’illusione razionalistica pensare che i criteri che stanno alla base dei processi di deliberazione pratica debbano presentarsi sempre solo nella forma di una norma sistematicamente esplicitata; possono essere, invece, tacitamente implicati dentro mappe concettuali che strutturano le parti più profonde della vita della mente, cioè quel tessuto di presupposti che, proprio in quanto dati per scontati, condizionano in modo sensibile i processi di elaborazione del significato dell’esperienza. Ai fini della costruzione di una solida cultura ecologica, di fondamentale rilievo si profila dunque quella che viene definita la «metafisica della natura» (Callicott, 1989, p. 78), poiché l’idea di natura, che la nostra mente condivide con l’ambiente culturale di cui si alimenta, influenza le nostre scelte in merito ai comportamenti da tenere con l’ambiente naturale. Senza sottovalutare il forte condizionamento esercitato sul nostro stile di vita dal sistema economico e politico in cui viviamo, non si può sottostimare il ruolo giocato dal processo di nominazione cui sottoponiamo la natura, il quale contribuisce in modo significativo a orientare il tipo di rapporto che stabiliamo con essa, il modo in cui interveniamo sui processi naturali e usiamo le sue risorse, e il modo in cui ci relazioniamo con le altre specie. L’idea di natura non è mai neutra, in quanto disegna una precisa «agenda di possibilità di azioni» (McLaughlin, 1993, p. 9); è come una mappa che svolge la funzione di autorizzare certi percorsi sul territorio rendendone impraticabili altri. A essere problematico è il fatto che crescere dentro la costruzione della realtà elaborata dal pensiero occidentale significa respirare un’aria inquinata da una metafisica antiecologica, poiché nella nostra cultura la natura a lungo è stata descritta come una massa di enti privi di valore intrinseco e in quanto tali disponibili all’intervento umano svincolato da ogni
regolamentazione etica. La natura pensata come materia inerte e dunque calcolabile e manipolabile si trova ridotta a mero fondo a disposizione delle possibilità di manipolazione della tecnica. Oggi il mondo naturale costituisce niente più che un magazzino di cose utilizzabili per costruire il mondo umano: è stato ridotto a essere solo un insieme di risorse, cioè di «enti che si tengono pronti per essere consumati» (Heidegger, 1992, pp. 140-142); non ci sono più sostanze, non c’è più una materia vivente, ma solo riserve di materiale da processare. Di fronte a una natura concepita in modo strumentale, il mondo della produzione non trova alcun limite etico. Non ci sono più boschi dove trovare sistemi di viventi, ma solo depositi di legname; l’acqua non è più il bene primario, qualcosa che richiama il sacro, ma solo una riserva di potenzialità da sfruttare. La qualità ontologica della risorsa non è la stabilità, cioè qualcosa che persiste e su cui possiamo contare, ma «l’ordinabilità, la costante possibilità di essere ordinato e adoperato, cioè il permanente starea-disposizione. Nell’ordinabilità l’ente è posto come fondamentalmente ed esclusivamente disponibile, disponibile per il consumo nella pianificazione globale» (Heidegger, 1992, pp. 140-142). Smontare questa visione antiecologica della natura non è facile, perché ha radici profonde nella nostra cultura; la prima azione di decostruzione consiste nel capire le origini di questa concezione ontologica inquinante. Decisiva nella direzione della costruzione di un paradigma della svalorizzazione del mondo naturale è stata la teoria cartesiana, che trasforma la filosofia in pensiero sulla coscienza e rinuncia a occuparsi della natura considerata non ens. Da quel momento, alla natura deprezzata a materia priva di pensiero non è più riservata la dignità di essere oggetto del pensiero meditante e diventa oggetto solo del pensare calcolante, mentre il pensiero filosofico si concentra sulla mente considerata come qualcosa di separato dal corpo. La materia vivente perde valore e si dimentica che essa serve la vita. L’essere umano comincia a pensare che i fenomeni naturali possano essere ridotti a formule matematiche, senza avvedersi che a queste formule rimane estraneo qualcosa di irriducibile, quel qualcosa che fa fare esperienza alla mente dello stupore di fronte alla bellezza delle cose e del mistero che resta dietro ogni fenomeno. L’operazione cartesiana non solo ha elaborato una visione meccanicistica della natura, ma ha sancito un radicale dualismo ontologico
fra mondo umano e mondo naturale. È questo dualismo che legittima lo sfruttamento della natura al di là di ogni controindicazione etica. Nel paradigma della modernità, in cui tuttora siamo immersi nonostante ci consideriamo postmoderni, la natura è concepita come una megamacchina, costituita da materia inerte e passiva, separabile in tante unità semplici e discrete, che funzionerebbero sulla base di leggi deterministiche e potenzialmente trasparenti alla ragione umana che, rispetto a questa materia, sarebbe ontologicamente distinta e a essa superiore. La concettualizzazione cartesiano-newtoniana della realtà rappresenta la natura come materia opaca e silenziosa, che fluisce in una processualità «senza fine né ragione» (Whitehead, 1959, p. 76). Questa versione del mondo meccanicistico-deterministica ha forti implicazioni antiecologiche, perché riducendo la natura a materia mancante dell’inclinazione a individuarsi in una forma, e come tale soggetta a princìpi di organizzazione imposti dall’esterno, alimenta una percezione svalutativa del mondo naturale, considerato privo di alcuna autonomia generativa; tale concezione preclude la possibilità di pensare alla natura come a qualcosa degno di considerazione e di rispetto. Con la metafisica della natura di origine cartesiana trova perciò legittimazione ogni tipo di intervento sul mondo naturale che, privato di ogni capacità pensante e senziente, può essere utilizzato e manipolato senza alcun limite etico da quell’essere che si concepisce come il solo ad avere un’altra densità ontologica, che lo renderebbe estraneo alla natura necessitata della realtà biologica21. Quando il meccanicismo diventa il paradigma delle politiche ambientali rivela la sua portata antiecologica, poiché legittima quella visione riduzionista secondo la quale è possibile sostituire un elemento della natura con un altro senza conseguenze sull’ecosistema. Così come si sostituisce il pezzo di un meccanismo, altrettanto sarebbe possibile fare con le specie autoctone, che vengono sostituite con quelle esotiche senza nemmeno ipotizzare la possibilità di effetti perturbanti i delicati equilibri biologici. Né sembrano sollevare alcun problema le varie forme di manipolazione genetica che, al servizio delle multinazionali, stanno provocando un impoverimento della ricchezza biotica. Messi di fronte, però, al fatto che l’introduzione di un nuovo elemento nell’ecosistema causa spesso effetti tanto imprevedibili quanto indesiderati, abbiamo
imparato in modo drammatico che la natura non funziona come una macchina, ma come un organismo che rende necessaria una grande cautela nel programmare interventi sull’ambiente. Anche di fronte alla messa in discussione operata dal pensiero ecologico, la metafisica della modernità tuttora registra un’ostinata fedeltà da parte di molti saperi. Questa resistenza trova spiegazione non solo nel fatto che la rappresentazione meccanicistico-deterministica, con la sua epistemologia semplificante rispetto alla complessità con cui si profila il progetto di conoscenza della realtà, legittima l’illusione di un’esplicabilità completa dei fenomeni una volta individuate le leggi generali, ma anche perché tale metafisica ha radici antiche nella nostra cultura; essa, infatti, non fa che fornire una definitiva legittimazione a quella filosofia della svalutazione del mondo biologico che si era sviluppata nel pensiero greco. Alle radici del pensiero occidentale si rintraccia la concezione parmenidea della natura come un continuo venire dal niente e ritornare al niente, poiché l’ambito delle cose che divengono, in quanto oscillanti fra il non essere ancora e il non essere più, sono escluse dal regno dell’essere, che è ciò che sempre permane nella sua essenza. La mancanza di consistenza del mondo circostante della vita, opposto al mondo dell’essere come infinito durare, era pensata come l’essenza delle cose terrestri. Questa radicale svalutazione del mondo biologico, concepito solo come il luogo del mero apparire e, quindi, dell’inconsistenza, trova una compiuta nominazione nel pensiero platonico, secondo il quale ad aver valore è solo ciò che, non condividendo la natura corruttibile del mondo delle cose terrestri, rimane uguale nel tempo. Tali sono le forme archetipe, mentre il mondo della natura, e con esso la dimensione corporea del vivere, in quanto mera fenomenicità sottoposta alla legge del divenire, costituiscono una realtà inferiore. La svalutazione della natura – che tuttora respiriamo – a mero accumulo di apparenze inconsistenti, e con essa la designificazione della dimensione necessariamente corporea del vivere, hanno le loro radici in quella mossa simbolica decisa alle origini della tradizione occidentale, che non solo ha introdotto forme di discontinuità ontologica definendo ordini distinti di realtà (il “mondo delle idee” che sempre sono e il “mondo sensibile” luogo dell’ingannevole apparire), ma ha sottratto realtà e, quindi, valore al mondo sensibile. Il problema cruciale provocato da questa
operazione simbolica consiste nell’aver gravato questo dualismo ontologico fra mondo dell’essere e mondo della vita di un’asimmetria valoriale a tutto svantaggio del mondo della vita che, in quanto luogo delle cose molteplici soggette alla legge del divenire, patisce una decisiva svalutazione. Nel momento in cui le cose terrestri sono pensate come mancanti di realtà, in quanto caduche e transeunti, il mondo di cui facciamo ordinaria esperienza si riduce a un fondo di materia che, in quanto considerata priva di pensiero e dunque di minor valore, diventa assoggettabile a qualsiasi tipo di azione senza che si avverta la necessità di porre dei limiti. È a partire da questa operazione simbolica, che ha deciso la nientificazione del mondo sensibile, operazione in cui è rintracciabile la forma originaria della volontà di potenza, che la manipolazione e l’utilizzazione della realtà circostante non trova alcuna controindicazione etica. Su questa metafisica della svalutazione della natura si fonda un’epistemologia antiecologica, secondo la quale, risultando il mondo biologico una realtà di minor valore, il conoscere che mira alla ricerca della verità non può occuparsi di esso, ma solo di quelle cose che “sempre sono”, quelle che alla mente, concepita altra dalla realtà corporea, sarebbero congeneri. Quando il mondo sensibile viene reso estraneo alla ricerca della verità, allora accade che la formazione della mente prenda la forma di un’educazione a distogliere lo sguardo epistemico dal mondo esperibile dai sensi in quanto mutevole, per condurlo a occuparsi del mondo immateriale sottratto al consumo del tempo. Sulla base di tale metafisica prende consistenza un’etica antiecologica, che esclude dal campo della ricerca del bene il prendersi cura del mondo naturale. Infatti, nel momento in cui l’essere umano si concepisce come il solo a possedere la mente, ciò che solo ha valore, e tutto il mondo circostante ne risulta privo, allora questo risulta non avere diritto ad alcuna considerazione etica. Anche se certamente non si può imputare al pensiero antico alcuna intenzionalità antiecologica, tuttavia è necessario identificare quei concetti che definivano spazi di significato utilizzabili a sostegno di una visione non ecologica, quella che teorizzando la svalutazione della natura, funziona nella direzione della legittimazione di uno sfruttamento delle risorse naturali svincolato da ogni limite che non sia la disponibilità di strumentazioni tecnologiche adeguate. Tuttora nella cultura occidentale, dominata dalla persuasione che gli esseri umani siano padroni della realtà
che abitano, la natura non è considerata un capitale da conservare, ma una rendita da sfruttare. Questa radicale svalutazione della natura è alla radice della società dello spreco, di cui si nutre una politica economica non più sostenibile. Dati questi presupposti, e pur sapendo che la nominazione antiecologica della natura è difficile da smantellare, in quanto funzionale alla logica dell’industrialismo che può continuare a manipolare e a consumare le risorse biologiche proprio nella misura in cui la natura è percepita priva di valore, una filosofia dell’educazione ecologica che non affronti la questione di una riscrittura della metafisica della natura è destinata a mantenersi dentro i limiti di un pensiero inquinato, incapace di provocare una reale svolta ecologica nella cultura. L’educazione non potrà concorrere alla promozione di un orientamento ecologico fintantoché la teorizzazione pedagogica non prenderà le mosse da una disamina critica dei presupposti metafisici, intesa a individuare di ciascuno di essi ogni implicazione di tipo performativo rispetto all’agire, cui dovrebbe far seguito l’esplorazione di altri modi di nominare il mondo che abitiamo. Si tratta di portare la riflessione teoretica a meditare altre visioni ontologiche, capaci di frantumare ogni percezione semplificante e svalutativa, e di favorire la sapienza del valore delle cose della natura e, insieme, della sua complessità. L’educazione al pensare ecologico allestisce laboratori del pensare che promuovono l’esplorazione di altre visioni ontologiche e, senza prefigurare l’una o l’altra come pezzi di verità, sollecita a una analisi critica delle implicazioni etiche di ogni visione. In questa prospettiva diventa essenziale tornare alle radici del pensiero occidentale per ritrovare semi del pensare ecologico che con il tempo sono andati perduti. Agli inizi del pensiero greco la parola physis, con cui s’indicava la natura, designava un processo di crescita, «ciò che si schiude da se stesso» (Heidegger, 1968, p. 25). Più precisamente physis indicava sia il processo della produzione delle cose sia il prodotto, cioè gli enti della natura. Physis è al tempo stesso «la crescita che cresce e la crescita che ha finito di crescere» (Hadot, 2006, p. 16). Secondo Aristotele la physis (φύσις) «è il principio del movimento esistente nella cosa stessa» (Metafisica, Λ, 1070a, 7); è ciò che contiene in sé il principio del movimento della vita. Dai testi aristotelici si ricava l’idea che la physis è il «fondamento
fondante» (Heidegger, 2002, p. 199), la causa originaria di ogni forma di vita. Aristotele definisce la physis come àition (αἴτιον), cioè «quella cosa a causa della quale un ente è ciò che esso è», dove causa non va inteso secondo il modello della fisica moderna come causalità necessitata, ma come quell’elemento primordiale che consente al reale di essere. La physis è materia vivente e non mera res extensa, poiché ha in se stessa il principio generativo della propria fabbricazione (Aristotele, Fisica, Β, 192b). Di conseguenza si possono definire naturali quegli enti che hanno in sé la disposizione al cambiamento22. Secondo Heidegger (2002, p. 214) non è corretto tradurre physis con “natura”, perché questo termine si porta appresso altri significati; invece proprio per rinnovare il modo di pensare la natura è necessario ritornare al significato originario di physis, per guardare le cose alla luce di significati che abbiamo dimenticato. Poiché i modi in cui definiamo le cose condizionano il modo di agire nei loro confronti, se si comincia a pensare che la natura è la matrice originaria di ogni forma di vita, ossia ciò da cui ogni cosa si genera, e che noi non siamo che uno dei fili del tessuto della vita, può generarsi un cambiamento radicale nel modo di considerare la natura e quindi di agire su di essa. Vedere il mondo che abitiamo non come un magazzino di enti, ma come un fiorire continuo di forme di vita può nutrire un atteggiamento di maggior rispetto. La natura come physis designava in origine sia il cielo sia la terra, sia le pietre sia le piante, sia il mondo animale sia il mondo umano (Heidegger 1968, p. 26). La physis, cioè l’essente come tale nella sua totalità, comprendeva sia il divenire che l’essere, non conosceva la contrapposizione fra naturale e spirituale, poiché la natura era concepita come il tutto che è. Nel Rinascimento la natura viene pensata come l’arte che dà forma alle cose dall’interno, e in questa idea risuona la visione aristotelica che ci parla della natura come di un principio sapiente che governa il divenire delle cose. Secondo Aristotele la natura procede in maniera razionale, non spreca nulla (Generazione degli animali, II, 6, 744a, 35), trova l’equilibrio nel divenire e realizza le forme più complete di realtà (Parti degli animali, IV, 5, 681a, 12). Anche per gli stoici la natura è un’arte
che si sviluppa all’interno delle cose stesse. Così scriveva Plinio il Vecchio all’inizio della sua Storia naturale (II, 1, 2): Il mondo è sacro, eterno, immenso, tutt’intero in ogni cosa, o piuttosto è il Tutto, infinito che sembra finito, determinato in ogni cosa che sembra indeterminata, al di dentro, al di fuori, abbracciante tutto in lui, è al contempo l’opera della natura e la natura stessa.
Riprendere antichi paradigmi ontologici non significa cancellare il pensiero moderno, ma semplicemente imparare a guardare anche da altre ringhiere concettuali. Il pensare ecologico non chiede di sostituire un’idea a un’altra, perché la realtà è talmente complessa che solo la capacità di avere più lenti per guardare alle cose aiuta a costruire una visione più affidabile del reale. Il concetto antico della physis costituisce il riferimento delle più recenti riflessioni scientifiche, che scardinano definitivamente la rappresentazione meccanicistica per concepire il mondo naturale come un sistema di interazioni vitali che si auto-organizza e si auto-regola. La natura ha mostrato di non essere pensabile come un insieme di enti distinti l’uno dall’altro, i cui rapporti sarebbero governati da leggi necessarie e immutabili nel tempo. A uno sguardo non recintato dentro concettualizzazioni che performano anticipatamente il processo di analisi, la natura si presenta come una realtà complessa, dove ogni ente è strettamente connesso agli altri e dove i rapporti tra le specie si modificano continuamente secondo princìpi di auto-eco-organizzazione creativa, che mostrano con evidenza l’inadeguatezza dei criteri di spiegazione fondati sulla causalità lineare e prevedibile. A modificare la visione moderna della natura è stata la teoria della coevoluzione, di matrice neodarwiniana, che costituisce la base della nuova scienza geo-bio-chimica, poiché sostiene che i processi biologici e quelli geofisici interagiscono e che i gas, quali l’ossigeno e il metano, sono il risultato di processi biologici. Tuttavia secondo questa teoria l’ambiente fisico-chimico risulta cambiare solo in virtù di processi endogeni, mentre gli organismi si limiterebbero ad adattarsi ai cambiamenti avvenuti. Questa teoria è ancora ampiamente diffusa nei libri di scienze, che continuano a veicolare l’idea che il mondo biotico si adatta a un mondo abiotico inanimato, il quale funzionerebbe in base a leggi del tutto autonome rispetto a quelle che regolano i sistemi biotici (Lovelock, 1992). Rispetto all’ipotesi neodarwiniana, e in genere a tutte quelle teorie che hanno preso
forma in contesti scientifici dove le scienze della terra e quelle della vita continuano a operare separatamente, la riflessione scientifica più recente concepisce i due mondi, quello biotico e quello abiotico, in modo intimamente interconnesso. Come emerge da quelle ricerche (Lovelock, 1991; 1992) che si muovono al di fuori dell’organigramma meccanicistico e che operano alla ricerca della “struttura che connette”, le componenti geofisiche e il biota coevolvono sinergicamente in un processo di cocostruzione reciproca. In questo contesto sistemico dinamicamente interconnesso, gli organismi viventi non si limiterebbero ad adattarsi a un ambiente che si autoregola seguendo leggi proprie, ma si svilupperebbero in una relazione di codipendenza costruttiva con un mondo alla cui continua trasformazione parteciperebbero attivamente dando luogo a complessi fenomeni evolutivi, per la cui corretta investigazione appare necessario elaborare nuove categorie23. Recenti indirizzi di ricerca nell’ambito delle scienze della natura sostengono l’ipotesi della terra come “pianeta vivo”; vivo nel senso che ha condiviso e condivide tuttora con gli organismi viventi che lo abitano la proprietà dell’omeostasi, cioè la capacità di controllare la sua composizione chimica, che viene riequilibrata ogni volta che subentrano fenomeni perturbatori (Lovelock, 1988, p. 90). Da studi interdisciplinari risulta che le componenti della biosfera, cioè l’aria, gli oceani, le rocce, si sono trasformate profondamente anche per l’azione esercitata dagli organismi viventi. La biosfera, l’ordine di realtà nel quale noi viviamo, può essere definita come un sistema di interazioni reciproche tra ambiente abiotico e ambiente biotico che, influenzandosi reciprocamente nel corso di un processo di co-costruzione, danno luogo a un sistema auto-regolato e auto-organizzato, dove si manifestano incessantemente nuove forme di vita. Muovendo, quindi, da un luogo di osservazione che, anziché introdurre separazioni nette fra ordini di realtà supposti distinti, cerca invece le connessioni, la realtà ambientale risulta molto più complessa e interconnessa nelle sue parti, al punto che non pare più possibile spiegare i processi dell’ambiente abiotico indipendentemente dalle leggi che regolano i processi in atto in quello biotico, mentre risulta necessario mettere a punto procedure euristiche rigorosamente inter- e trans-disciplinari24. Studiando i fenomeni naturali a partire dalla prospettiva neoevoluzionistica, la natura non solo risulta un complesso organismo ove
tutto è interconnesso, ma la vita che in essa fiorisce non è più spiegabile ricorrendo al presupposto dell’esistenza di leggi deterministiche e lineari, apparendo piuttosto caratterizzata da una improbabilità evolutiva: Descrivere la rigogliosa vita del pianeta come qualcosa di improbabile può sembrare strano, ma immaginiamo che qualche chef cosmico prenda come ingredienti tutti gli atomi che costituiscono l’attuale Terra, li mescoli e poi li lasci riposare. La probabilità che questi atomi si combinino tra loro in modo da dare le molecole che costituiscono la nostra Terra vivente è zero (Lovelock, 1991, p. 39).
A complessificare ulteriormente il processo dell’indagine scientifica è la teoria di Gaia, secondo la quale sulla superficie dell’organismo terrestre non si può stabilire una netta distinzione tra la materia vivente e quella inanimata, perché l’ambiente materiale delle rocce e l’atmosfera delle cellule viventi costituiscono un solo sistema che ha capacità di regolare la vita (Lovelock, 1991, pp. 54-55). Gregory Bateson interpreta radicalmente il superamento dell’ontologia classica parlando della natura come di una “mente estesa” che è diffusa in ogni ente in cui l’energia della natura prende forma. Il concetto di natura che viene a costituire un elemento fondamentale del nuovo paradigma ecologico rappresenta, dunque, un decisivo superamento di quello cartesiano-newtoniano: la natura non risulta più essere una macchina inanimata, composta da elementi discreti, governati da leggi definite ab imis, ma è concepita come un organismo vivente la cui materia è impregnata di mente e ogni forma di vita intrattiene una relazione di codipendenza evolutiva col contesto, i cui processi organizzativi seguono un andamento stocastico dove si verifica l’improbabile. 4.4. L’ecologia del pensare riflessivo Molti sono i discorsi impegnati a indagare le cause dell’insuccesso delle attuali pratiche educative, e molte di queste diagnosi si fermano a una lettura parziale e superficiale, la quale dimentica che fra le ragioni che spiegano la scarsa efficacia dell’educazione in genere e in particolare dell’educazione ecologica va sicuramente individuata la tendenza della scuola, e in primis di una certa pedagogia scientista e ispirata da una sorta di sbrigatività razionalistica, a evitare di affrontare le questioni fondamentali, quelle che si sottraggono alle procedure esplicative della razionalità tecnica.
Forse perché le questioni fondamentali, come sono quelle ontologiche, patiscono il limite di non rendere accessibile alcuna risposta certa e definitiva, obbligando a stare nell’incertezza e ad assumersi il compito di una ridefinizione continua di quelle che sono le idee di sfondo del nostro esserci. E una scuola che è improntata sulla logica dell’efficienza e della produttività non può sopportare di perdere tempo attorno a questioni “irrispondibili”. Ogni teoria dell’educazione è sempre situata in una precisa versione del mondo, che stabilisce i criteri di pertinenza e di ammissibilità delle questioni da affrontare: quali domande porre e quali considerare insensate, verso quali direzioni orientare l’agire educativo e fin dove spingere la ricerca. In una cultura che, dominata dall’utilitarismo e da una visione mercantile del processo di istruzione, enfatizza l’acquisizione di competenze dotate di una fattuale evidenza di facile spendibilità, è valutato un inutile consumo del tempo formativo il fermarsi a pensare attorno alla natura delle cose, per esaminare quelle questioni che, mancando di risposte univocamente certe, obbligano a confrontarsi con i limiti della ragione umana. Bateson (1984, pp. 15-16) rilevava che «la scuola evita con cura tutti i problemi cruciali»; non solo «non insegna nulla riguardo alla natura di tutte le cose che si trovano sulle spiagge e nelle foreste di sequoie», né dedica tempo ad analizzare i concetti fondamentali su cui si fondano i saperi, «come entropia, sacramento, sintassi, numero, quantità, struttura», ma lascia da parte anche le questioni prime, le questioni ontologiche, ed evita con cura tutte le domande che non hanno risposte certe. Ma se la scuola intende realmente contribuire all’affermarsi di un nuovo clima culturale, deve rivedere la logica su cui si fonda: sottrarsi al pervadere di un certo sbrigativo razionalismo e della tendenza all’efficientismo, per ridare spazio a quelle pratiche di coltivazione della mente che, anche se non sono funzionali all’acquisizione di nozioni immediatamente operazionalizzabili, sono tuttavia essenziali al prendere forma dell’umanità di ciascuno come l’aria che respiriamo. Compito dell’educazione non è solo fornire un bagaglio di know-how immediatamente spendibile, ma anche, se non soprattutto, di facilitare l’apprendere a interrogarsi sulle cose, a interrogare la realtà nel modo più profondo e differenziato possibile, perché il suo scopo primario consiste
nell’offrire esperienze di apprendimento che coltivino la passione a pensare da sé, per arrivare a disegnare quelle costellazioni di senso necessarie al farsi carico della responsabilità di progettare l’esperienza e sviluppare quelle abilità cognitive che consentono di dare risposta alla nostra tensione interrogante. Se si accetta la tesi secondo la quale non è sufficiente imparare a conoscere la realtà circostante, ma è necessario apprendere anche a riflettere sui dispositivi cognitivi che usiamo, allora a qualificare il processo educativo risulta essere la pratica dell’auto-indagine cognitiva, che si attua come disamina analitica e critica delle reti di presupposti ontologici ed epistemologici che sono alla base del processo di elaborazione dei criteri che orientano il nostro modo di abitare la terra e il mondo. La disciplina riflessiva si qualifica nella forma di un’indagine che ha per oggetto non solo il come pensiamo, ma anche il cosa attraverso cui pensiamo, ossia la mappa di concetti che fa da sfondo all’attività cognitiva. Noi usiamo molti concetti (quello di essere umano, di natura, di verità, di bene, ecc.) senza avere coscienza del fatto che si tratta di risposte a domande aperte, suscettibili cioè di altre risposte. Un’educazione a pensare in modo nuovo esige che si torni a interpellare certe domande e, quindi, a usare concetti scaturiti da un esame del loro proprio spazio di dicibilità. Se l’alfabetizzazione ecologica, oltre a un’adeguata istruzione sulle questioni ecologiche, non contemplasse anche contesti di apprendimento che prendono la forma di laboratori del pensare, dove si pratica la disciplina dell’esaminare le questioni fondamentali, quelle indecidibili, allora l’umanità stessa sarebbe a rischio poiché la ragione perderebbe la funzione di elaborazione di orizzonti di senso; venendo meno il lavoro del pensare, che è essenziale allo sviluppo della capacità di giudizio, le attività cognitive patirebbero allora in modo passivo il potere performativo esercitato dai vari dispositivi tecnici usati. È una grave carenza formativa escludere dalla aule scolastiche il confronto con le questioni ontologiche ed epistemologiche. Una buona esperienza educativa certamente non chiede di apprendere idee ontologiche, epistemologiche ed etiche nella forma di oggetti di pensiero il cui valore sia dato per scontato, ma educa al pensare che radicalmente interroga le questioni rilevanti. È riduttiva quella filosofia dell’educazione che prevede di prendere in esame solo questioni sottoponibili a verifica
empirica, perché è proprio della ragione umana la necessità di misurarsi con interrogativi non inferenziali, metaempirici. Una teoria pedagogica che intende delineare i princìpi di un’educazione capace di fare fiorire l’esserci in tutte le sue possibili direzioni esistentive non può scansare quelle questioni che la ragione umana percepisce essenziali al costituirsi di un orizzonte di senso, le quali non vanno cancellate solo perché non possono essere risolte in termini di evidenze scientifiche. Se si accetta di considerare l’educazione, e in modo specifico quella ecologica, come quella pratica culturale capace di contribuire all’emergenza di nuovi stili di pensiero, e se si considerano questi codipendenti da una serie di presupposti di tipo ontologico, etico, politico, epistemologico, allora non si può non riconoscere la primarietà formativa della pratica della disamina critica dei presupposti sulla base dei quali pensiamo. L’idea guida di questo orientamento educativo non dev’essere, però, l’intenzione di sradicare le idee antiecologiche per sostituirle con altre ecologiche, perché la vita della mente non è mero fondo a disposizione di un’operatività che semplicisticamente pretende di manipolare quei presupposti che rappresentano il nucleo più profondo del pensiero. Nella nostra cultura tecnicistica è facile concepire l’educazione come applicazione di procedure che trattano la mente come materia passivamente assoggettabile a un progetto teso a manipolare i tessuti cognitivi. Non ci si avvede, però, che tenersi nel perimetro di questa rappresentazione tecnicistica significa provocare un’oggettivazione di quelli che dovrebbero essere i “soggetti” dell’evento educativo. L’educazione per essere tale impone la decostruzione di una certa logica didattica di tipo ingegneristico-gestionale in favore di una logica di cura della vita della mente, che evita di imporre certi vocabolari come i soli dotati di valore e invece coltiva il pensare analitico e critico. Siamo stati educati a pensare al linguaggio come a uno strumento neutrale che la mente userebbe come un oggetto; in realtà esso è tutt’uno con la vita della mente e, in quanto tale, a esso sono riconducibili i vincoli implicati nelle metafore e nelle strutture sintattiche che organizzano i processi cognitivi. Quando si affronta un problema di cambiamento concettuale – come quello necessario all’emergenza di un nuovo paradigma – non si tratta di eliminare certe idee dalla vita della mente, ma di disvelare la struttura di ovvietà in cui spesso sono avvolte. Fa parte del
processo auto-eco-costruttivo del mondo della vita della mente lo strutturarsi di una rete di idee che assumono la forma dell’ovvietà; compito del pensiero è individuare tali ovvietà problematizzando ogni prodotto della vita della mente che si sa avere una valenza regolativa sul modo di essere. La pratica dell’interrogazione critica dei presupposti cognitivi, che si configura come disciplina dell’auto-indagine riflessiva, non va assoggettata a una concezione manageriale dell’educazione cognitiva, inapplicabile alla sfera delle idee che sono alla base del processo di orientamento esistenziale della persona, ma come azione intesa a promuovere un guadagno di consapevolezza rispetto al paesaggio mentale a partire dal quale si pensa, considerandolo premessa per l’esplorazione di altre possibili ringhiere cognitive. Lo sviluppo di questa postura metacognitiva, impegnata a indagare il contesto simbolico entro il quale hanno luogo i processi di costruzione del sapere, dovrebbe provocare un ridimensionamento della forza normativa tacitamente esercitata da certe cornici di presupposti. Perché il fare dei tessuti mentali l’oggetto di una disamina riflessiva di tipo critico, che introduce dubbi e perplessità nelle idee il cui valore era dato per scontato, provoca un indebolimento del potere performativo a esse sotteso. Date queste premesse risulta fondamentale disegnare linee guida di un’educazione intesa a promuovere una sorta di passione per l’autoriflessività, tale da impegnare il soggetto educativo nella pratica dell’autopresenza mentale, intesa come lo stare in una relazione riflessiva con le idee in cui ci si riconosce. La pratica riflessiva può essere interpretata come monitoraggio della mappa di presupposti che, facendo da sfondo al processo di interpretazione dell’esperienza, si situa all’origine dell’elaborazione dei criteri che orientano la scelta del tipo di relazione da intrattenere con la terra e con il mondo. Nella vita quotidiana si tende a restare prigionieri degli automatismi del pensare; la pratica dell’autoindagine ha lo scopo di portare la mente in presenza della sua esperienza per interrogarla. Fare oggetto della riflessione critica la rete di credenze ingenuamente presenti nei tessuti cognitivi, che fanno da matrice opaca ai processi di costruzione del significato dell’esperienza, per valutare il peso che esercitano sul nostro sentire e sul nostro agire, è essenziale al costituirsi di una presenza consapevole, che rappresenta la condizione
necessaria per un agire pienamente responsabile. Sottesa a questa visione educativa si profila l’ipotesi di un contesto di apprendimento dove non solo si imparano pensieri, ma anche a pensare i pensieri. Questo principio educativo si configura nella forma di una pratica atopica e dirompente rispetto a un’istituzione formativa qual è la nostra scuola, che privilegia il processo di acquisizione delle informazioni e trascura di valorizzare la riflessione sui processi cognitivi. È facile concordare con Bateson quando afferma che nei curricoli formativi riscontriamo una forte tendenza alla «frammentazione delle conoscenze in pezzetti separati. Vediamo che viene attribuito un grande valore alle informazioni fattuali e che i progressi degli studenti sono misurati soprattutto attraverso la percentuale di domande fattuali slegate cui sono capaci di dare una risposta corretta» (Bateson, 1997, p. 53). La pratica dell’autoindagine cognitiva, intesa come attivazione di una postura riflessiva rispetto alla propria vita mentale, trova il suo significato educativo se non si esaurisce nel promuovere la disposizione all’analisi critica delle reti concettuali che definiscono il nostro spazio mentale, ma impegna la mente nell’esplorazione di altre descrizioni, capaci di prospettare differenti modi di relazionarsi con il mondo circostante. Si tratta di rompere la crosta delle convenzioni, smascherando il groviglio di presupposizioni tacite in cui esse hanno radice, per fare spazio all’esplorazione di altri paesaggi di pensiero che possano essere generativi di inediti scenari esperienziali, perché quando prendono forma nuovi processi di nominazione delle cose allora si disegnano anche nuove possibilità di abitare la terra. Esiste, infatti, una stretta relazione tra il piano del nominare le cose e il piano dell’agire, nel senso che il disporre di un differente gioco linguistico dischiude altre possibilità di esperienza. L’assumere come oggetto di attenzione di una filosofia dell’educazione i processi di nominazione dell’esperienza dipende dal fatto che noi non stiamo in una relazione diretta con le cose, ma simbolicamente mediata, nel senso che non abitiamo la terra e il mondo, ma le interpretazioni che nel tempo la nostra cultura ha elaborato; siamo assoggettati a una condizione gnoseologica situazionale che fa esperire una relazione con le cose e con gli altri culturalmente costruita. Si vorrebbe stare in una relazione di immediatezza con la realtà e, quindi, diventare l’occhio trasparente con cui la natura osserva se stessa, ma il formulare pensieri che
si adattano isomorficamente al reale non sta fra le possibilità della ragione umana, non disponendo essa di una percezione pura dei fenomeni, ma culturalmente situata. Proprio in quanto l’esperienza umana è essenzialmente linguistica, il cercare altri modi di abitare la natura significa per noi innanzitutto cercare altre descrizioni di essa. Agire sul piano simbolico per cercare altre descrizioni di sé e del mondo ha una valenza densamente politica, perché il prendere forma di altri modi di agire nei confronti della natura è in stretta relazione col decidersi per altri orizzonti di interpretazione. Educati sulla base di un’epistemologia realista, abbiamo imparato a pensare che alla mente sia accessibile un’idea della natura fornita di una consistenza oggettiva. Crescere nell’orizzonte del paradigma della modernità significa assimilare la convinzione secondo la quale alla scienza sarebbe possibile disvelare l’essenza della realtà circostante, poiché presuppone che l’imposizione dei dispositivi quantitativo-sperimentali propri del metodo scientifico provochi il disvelarsi di una verità dotata di consistenza oggettiva, che in quanto tale consentirebbe di prevedere e controllare il divenire delle cose. Proprio a causa del fatto che l’applicazione delle procedure scientifiche fornisce conoscenze che funzionano, si tende a dimenticare che anche sotto la più limpida esattezza può restare qualcosa che si sottrae all’evidenza. Nel momento in cui l’epistemologia costruttivistica ha disvelato la natura costruita della conoscenza, frantumando il mito dell’accessibilità a un sapere oggettivo, nel senso di una descrizione fedelmente adeguata al profilo delle cose, ha reso evidente come il realismo gnoseologico costituisca un ostacolo alla maturazione delle competenze epistemiche, poiché ingenera l’illusione che alla ragione umana sia possibile formulare una conoscenza isomorfa rispetto all’oggetto indagato, tale cioè da disvelare la sua essenza. Mantenere l’educazione dentro i confini di una visione gnoseologica di tipo realista significa ostacolare lo sviluppo di una postura cognitiva consapevole dei limiti della cognizione umana, alla quale è costitutivamente impossibile guadagnare quel punto archimedico che consentirebbe alla scienza di avvicinarsi asintoticamente a una rappresentazione oggettiva di ciò che la natura è in realtà, capace cioè di rispecchiare la sua essenza. La gnoseologia costruttivistica ha significative implicazioni sul piano
pedagogico, perché chiede di favorire l’emergenza della consapevolezza della natura costruita delle nostre idee e, quindi, della mancanza di fondamenti oggettivi del discorso. Si tratta di nutrire il senso del valore locale e provvisorio di ogni teoria, e quindi del fatto che ogni vocabolario non costituisce che una delle tante possibilità con cui mettere in parola la nostra esperienza. Dal punto di vista dell’educazione ecologica, l’opzione per una gnoseologia socio-costruttivistica (quella cioè che considera la conoscenza come qualcosa di socialmente costruito) non solo impegna a evitare l’adesività a quel presupposto illusorio secondo il quale sarebbe accessibile una conoscenza oggettiva dei sistemi viventi, ma anche invita a concepire i contesti di apprendimento come spazi conversazionali impegnati a esplorare una pluralità di orizzonti di pensiero e di metodi di costruzione della conoscenza, per apprendere la necessità di non vincolare il conoscere a un solo vocabolario e sperimentare invece differenti tessuti concettuali ed esperienze sintattiche. Se si condivide il presupposto che le questioni ontologiche ed epistemologiche sopportino solo risposte locali, relative, che implicano altre possibili interpretazioni, allora assumere queste come l’oggetto di una disamina critica rende necessaria una postura cognitiva di tipo costruttivista, che salvaguarda la consapevolezza della non definitiva rispondibilità di questo tipo di domande e pertanto mostra la necessità di mantenere aperta la riflessione, possibilmente in un contesto conversazionale paradigmaticamente differenziato. Risposte differenti alle questioni di significato costituiscono una ricchezza simbolica necessaria al delinearsi di una pluralità di versioni del mondo che dilatano le possibilità dell’abitare. Muovendo da tali presupposti, il discorso che s’intende sviluppare nel capitolo seguente, impegnato a configurare un’idea ecologica della natura, non va inteso come finalizzato alla ricerca di una nominazione “vera”, funzionale al definitivo superamento di quella moderna di matrice cartesiano-galileiana che tuttora fa da sfondo ai nostri processi cognitivi, ma volto a cercare un altro punto di osservazione, un altro vocabolario che non pretende per sé alcuna ultimità simbolica, e come tale s’inscrive in un concetto edificante dell’educazione come campo di esperienza di «maniere nuove di parlare» (Rorty, 1986, p. 276), di descrivere se stessi e il mondo. 17
Non sono solo la meccanica quantistica e la cosmologia a teorizzare la necessità di
rimettere al centro il tempo, e precisamente di superare il presupposto dell’irreversibilità temporale a partire da descrizioni fisiche fenomenologiche che implicano la freccia del tempo (Prigogine, Stengers, 1989, pp. 8-9), ma anche le scienze della natura che evidenziano come i fenomeni naturali possono essere compresi solo situando lo studio di un fenomeno in una evoluzione temporale. 18 Nell’educazione ecologica il concetto di “organizzazione” è chiamato ad assumere un ruolo centrale; si tratta di vedere gli ecosistemi come centri di organizzazione dei processi energetici e informazionali, dove cioè si attivano continui percorsi di disorganizzazione e di riorganizzazione della vita. Le unità viventi vanno, quindi, pensate come unità organizzazionali, dove i disordini e le distruzioni agiscono contemporaneamente ai fattori costruttivi e di complementarità (Morin, 1988, p. 31). L’educazione cognitiva dovrebbe trovare una teorizzazione capace di andare oltre certi riduzionismi epistemici, per promuovere l’acquisizione delle strategie necessarie a comprendere un fenomeno facendo dialogare concetti opposti. 19 A seconda delle differenti ontologie che fanno da sfondo alla ricerca scientifica, le spiegazioni fornite sono differenti: i «vitalisti» ascrivono la generatività morfogenetica ai «fattori vitali»; gli «organicisti» ai «campi morfogenetici» e i «meccanicisti» ai «programmi genetici» (Sheldrake, 1995, p. 21). 20 La fecondità dei campi morfogenetici di dare vita a nuove forme è evidente non solo a livello biologico ma anche chimico. Si pensi alle strutture di molti cristalli di neve: essi arrivano a mostrare forme molto differenti le une dalle altre, ma il modo in cui questo accade rimane oscuro. Le molecole, infatti, cristallizzano secondo modi del tutto imprevedibili dando luogo a una ricchezza di forme esteticamente affascinante (Sheldrake, 1994, pp. 129130). Un’altra difficoltà a capire come avviene la cristallizzazione nei fiocchi di neve è evidente quando si cerca di descrivere come si aggregano le molecole, poiché ogni tentativo di modellare matematicamente questo processo si colloca a un livello ancora troppo superficiale. 21 Va tuttavia precisato che individuare le pieghe antiecologiche del pensiero moderno non significa esprimere un giudizio negativo su di esso, perché la scienza che ha consentito di conoscere la natura ha reso possibile la liberazione dal senso di terrore che prendeva l’essere umano di fronte ai fenomeni naturali, un terrore che rendeva insostenibile il senso della propria vulnerabilità. È stato necessario il senso di estraneità che il mondo umano sentiva per il resto della natura per potere esercitare la conoscenza scientifica, e solo dopo avere guadagnato questa posizione di conoscenza è stato possibile concepire una ontologia ecologica che riallacciasse il senso di continuità con la natura. 22 L’archè (ἀρχή) degli artefatti è la techne (τέχνη). Noi come enti della natura veniamo a essere perché la natura ha in sé la forza di generare sempre altri enti, ma tra gli esseri umani e le cose della natura (φύσει ὄντα) c’è una differenza fondamentale. Nel venire a esserci noi non veniamo dotati del progetto che guida il divenire, come accade per il seme da cui crescerà la quercia, ma abbiamo necessità di una tecnica, cioè di un sapere. Techne è un concetto conoscitivo e significa «saper orientare» (Heidegger, 2002, p. 205); la tecnica della vita (τέχνη τοῦ βίου) è qualcosa che consente di orientare il movimento dell’esserci. Si capisce meglio la problematicità di acquisire tale tecnica facendo ancora riferimento alle cose della natura: in esse è già presente l’idea (εἶδος) verso cui il movimento del divenire tende, nel senso che il seme di quercia ha già l’idea di quercia in sé, l’essere umano invece non possiede un’idea, chiaramente definita già dall’inizio, del dove tendere con la sua vita. Sente dove tendere, sente di tendere al bene (come se nascendo si portasse dentro non l’idea compiuta ma la tensione, un ricordo del bene da cui viene) per realizzare una vita buona, ma in che cosa consista il
bene per la vita umana è cosa da cercare. L’essere umano è un animale che pensa proprio perché solo con il pensare può cercare l’èidos cui tendere. 23 Nel momento in cui si concepisce l’evoluzione del biota inseparabile dall’ambiente geofisico, il concetto di adattamento risulta inadeguato. Da introdurre nel nuovo paradigma ecologico è il concetto di ex-adaptation che, secondo Elisabeth Vrba e Stephen Gould, risulta più adatto a spiegare i complessi dinamismi attraverso i quali gli organismi viventi reagiscono al modificarsi delle condizioni ambientali, influendo sul costituirsi di nuove forme di vita sul pianeta (Bocchi, Ceruti, 1988, p. 29). 24 Fintantoché si rimane all’interno del paradigma cartesiano, che induce a pensare la realtà per ambiti distinti, la proposta avanzata dalla comunità scientifica di realizzare un approccio interdisciplinare può apparire come una questione epistemologica importante, ma non indispensabile al procedere della ricerca. Solo all’interno di una nuova visione organicisticoevolutiva l’auspicata riorganizzazione della ricerca scientifica in direzione interdisciplinare diventa una questione essenziale (Lovelock, 1988, pp. 59-81). Altrettanto essenziale diventa allora modificare l’organizzazione del curricolo e la teoria della didattica delle scienze per avviare i giovani allo sviluppo di metodi sistemici ed integrati di ricerca scientifica.
5. Mettersi in relazione
5.1. Un’idea dinamica della natura Se si accetta il presupposto secondo il quale per promuovere un rinnovamento culturale si profila centrale la questione del superamento dell’ontologia antiecologica, allora s’impone innanzitutto un lavoro di riconcettualizzazione dell’idea di natura. Per promuovere la costruzione di un nuovo vocabolario la teoria dell’educazione ecologica ha bisogno di dialogare con la riflessione scientifica più recente e con quella filosofia ecologica che a essa fa riferimento, proprio perché risultano impegnate a tratteggiare un’idea differente della natura, a partire da una messa in discussione radicale di ogni presupposto dualistico e meccanicistico, e insieme della visione deterministica che si è affermata con la scienza moderna. Riprendendo il vitalismo rinascimentale, l’ecologia e con essa le scienze evolutive sollecitano a pensare alla natura (vista come insieme di enti inanimati ed enti animati) nei termini di un organismo. In questo macroorganismo tutto è interrelato, al punto che secondo la moderna ecologia le relazioni che gli organismi intrattengono con gli altri organismi e con il contesto biofisico strutturano sia i loro processi metabolici, fisiologici e riproduttivi, sia le loro capacità mentali (Callicott, 1989, p. 110). Dal punto di vista della formazione del pensiero a un nuovo paradigma, è importante sottolineare che l’imparare a concepirsi come parte di un tessuto di relazioni che concorrono a strutturare la nostra forma di vita va svincolato da ogni interpretazione deterministica, che indurrebbe a pensare la relazionalità come un “dipendere da” un contesto che imprimerebbe la sua logica sul divenire delle singole unità viventi. Le riflessioni biologiche più recenti concepiscono l’ambiente nei termini di un campo
morfogenetico, in cui ogni essere vivente dà forma alla sua identità evolvendosi in una relazione co-costruttiva col contesto, nel senso che sia il singolo organismo che l’ambiente di cui è parte risultano essere la forma emergente di una serie di azioni reciprocamente strutturanti che contribuiscono all’organizzazione di una logica evolutiva contestuale, dove ogni vivente allo stesso tempo si adatta al contesto e lo adatta a sé. L’ontologia della relazionalità, che concepisce ogni ente interrelato con gli altri, viene concepita in stretta connessione con una visione coevolutiva, che pensa gli organismi e l’ambiente non come entità distinte e rette da leggi universali imposte dall’esterno, ma come unità co-produttive della logica auto-organizzativa del sistema, la quale evolve nel tempo. È sulla base della teoria della coevoluzione organismo-ambiente, secondo la quale la nicchia ecologica non solo condiziona i processi vitali di chi la abita, ma anche è costruita dai suoi abitanti, a loro volta codipendenti dalla nicchia in una relazione di reciproca specificazione e di «bricolage evolutivo» (Ceruti, 1998, p. 31), che va ripensata l’intera didattica delle scienze della natura, ancora vincolate a cornici concettuali pre-evolutive, che impediscono di percepire la complessità della vita. La teoria della co-evoluzione mostra come la nozione di adattamento, inteso come adeguazione dell’organismo alla nicchia abitativa, dev’essere soppiantata dal pensare all’unità organismo-ambiente come sistema coevolutivo, dove l’individuo condiziona il proprio campo vitale strutturando il contesto, il quale a sua volta retroagisce sull’evoluzione individuale secondo una circolarità ricorsiva che non lascia spazio all’epistemologia dualistica e lineare della razionalità classica, alla quale la pratica didattica risulta ancora vincolata. Oltre al principio della primarietà ontologica, e quindi anche logica, della relazionalità, l’educazione cognitiva non può non tenere conto del fatto che si va affermando un’idea dinamica della natura, che da accumulo di “materia estesa” viene ridefinita come luogo di emergenza di processi morfogenetici. Le indagini biologiche che si muovono secondo una visione sistemica fanno emergere un’idea della natura non più come aggregato di enti, da considerare singolarmente, ma come un tessuto di materia vivente capace della morfogenesi di nuove forme di vita, un concetto questo che richiama l’antico significato presocratico di physis. L’ecologia si profila, quindi, come matrice di una riconfigurazione radicale
dell’educazione cognitiva, chiamata a spostare i suoi riferimenti da un’epistemologia atomistica e disgiuntiva all’epistemologia delle relazioni, e da un modo deterministico di concepire il divenire dei processi biologici a uno che restituisce alla natura una capacità autopoietica, che si materializza nei processi morfogenetici in cui l’emergere di forme nuove seguirebbe una processualità di tipo stocastico. Lo sviluppo di uno stile cognitivo di tipo ecologico è possibile quando l’approccio relazionale e co-evolutivo viene a radicarsi su un’idea della natura non più materialistica. Tale idea prende forma nel momento in cui viene attribuita alla natura una dimensione mentale, nel senso che la capacità di pensiero si manifesterebbe non solo nei prodotti della ragione umana, ma anche nelle varie forme emergenti dall’evoluzione biologica: nelle foreste di sequoie come nei banchi coralliferi, ad esempio, in quanto presentano la necessaria struttura circuitale lungo la quale vengono trasmesse ed elaborate le informazioni che indicano la presenza di processi mentali (Bateson, 1976, p. 502). Pensare ecologicamente significa concepire la ragione umana partecipe di una cognizione immanente nell’intera struttura evolutiva. Un contesto ecologico di apprendimento è quindi quello che, messa tra parentesi la tendenza a cercare la conoscenza delle cose del mondo stabilendo nette cesure ontologiche, muove dal presupposto che i sistemi viventi siano sistemi cognitivi e che, quindi, ogni unità vivente debba essere concepita come “materia pensante” o “mente estesa”. Per lo sviluppo della visione del mentale come sostanza immateriale diffusa nel tessuto della materia vivente, importante è stato il pensiero di Gregory Bateson, che invita a concepire la mente umana come forma emergente di un’energia mentale che attraversa la natura intera. Prendendo ispirazione dalla metafisica di Plotino, che concepisce ogni ente come forma emergenziale di una stessa energia che pervade tutte le cose, Bateson propone di superare la visione materialistica pensando alla realtà come a una materia vivente impregnata in ogni sua forma di energia mentale (Bateson, 1984, p. 17). A partire da questa postazione ontologica, Bateson orienta a cercare la “colla” che lega l’essere umano alla natura non solo nella condivisione di una realtà materiale, ma anche nella comune partecipazione a una sostanza pensante che incolla in un unico grande sistema ogni forma di vita. Pensare ecologicamente significa quindi cercare
la colla che tiene insieme le stelle nel cielo e gli anemoni di mare, il ciclo della vita nel bosco con la qualità della vita di una comunità umana. Sulla base di questa ontologia della continuità fra i differenti fogli dell’essere, l’attività cognitiva di cui è capace l’essere umano, anziché risultare estranea alla vita della natura, si configura come una delle tante forme possibili in cui l’energia mentale, di cui sono impregnati gli ecosistemi, concretizza le sue potenzialità. Il pensiero che si muove in direzione ecologica sa tenere insieme mondi fino a questo momento disgiunti da una logica che procede per separazioni. Se si arriva a pensare che la realtà sia fondamentalmente una in tutte le sue manifestazioni, allora anche «la sua [dell’uomo] saggezza, la grazia del suo corpo, persino la sua abitudine di fare begli oggetti» (Bateson, 1984, p. 18) vanno considerati espressione di quella mente più estesa che attraversa la natura intera. La teoria batesoniana tiene conto dell’ipotesi secondo la quale il mondo vivente è tale perché capace di memoria, nel senso che la materia sarebbe capace di conservare le acquisizioni emerse nel corso dell’evoluzione (Sheldrake, 1994, p. 15). Se, messo tra parentesi il paradigma meccanicista, si presuppone la presenza di una memoria nella materia, allora ragionando nell’orizzonte del paradigma evolutivo è possibile pensare alla natura come a un macrocampo morfico, dove le acquisizioni passate si conservano e si rendono presenti attraverso il processo della risonanza informazionale. Concepire l’educazione scientifica nell’orizzonte del paradigma ecologicoevolutivo implica assumere come riferimento un’idea della natura che la descrive come costituita di materia impregnata di pensiero, capace di organizzarsi sulla base di princìpi d’ordine immanenti e contingenti, cioè leggi che prendono forma e si trasformano – secondo modalità non anticipatamente prevedibili – nel corso dell’evoluzione in relazione alle capacità auto-eco-poietiche dei sistemi viventi. Rispetto alla natura newtoniana, governata da leggi eterne e trascendenti, la natura delle scienze ecologiche che adottano il paradigma co-evolutivo prende la forma di un organismo intelligente che, proprio mantenendo memoria delle forme che si vengono generando, si auto-organizza sulla base di leggi che si producono nel corso del processo evolutivo e si modificano in relazione alle risorse di memoria che il sistema incorpora nel corso della sua evoluzione. Queste leggi evolutive immanenti provocano il prendere forma dei campi morfogenetici che, mentre condizionano lo strutturarsi
della forma degli organismi e il loro corso evolutivo, sono contemporaneamente da questi condizionati in un processo di cocostruzione ricorsiva (Sheldrake, 1994, p. 9). Questa ontologia che interpreta in termini antidualistici e coevolutivi la relazione fra l’organismo individuale e l’ambiente ha rilevanti implicazioni per l’educazione cognitiva, poiché sollecita a uscire dai limiti di una logica causale-lineare e atemporale per adottare una logica circolare-ricorsiva, che necessita di modalità esplicative circuitali e narrative. Pensare nell’orizzonte dell’ontologia ecologica ha forti implicazioni etiche, perché a partire da questa concettualizzazione evolutiva e generativa della vita terrestre, dove la materia fa fiorire forme che a loro volta modificano i processi di costituzione del vivente secondo dinamiche poietiche non prevedibili, trovano fondamento gli argomenti a favore dell’educazione alla conservazione di ogni forma di vita sia biologica (biodiversità) che mentale (noo-diversità). Se tutto è interconnesso senza alcuna soluzione di continuità, allora semplificare l’ecosistema terrestre attraverso una riduzione delle varie forme di vita non comporta solo un impoverimento quantitativo, ma anche un depotenziamento qualitativo della vita mentale diffusa nella natura di cui la comunità umana si nutre e che nutre a sua volta. Apprendere a pensare ecologicamente significa, quindi, riformulare la cornice dei presupposti ontologici (sostituire l’ontologia degli enti discreti con quella della primarietà dell’essere in relazione) ed epistemologici (transitare da un approccio di tipo deterministico a uno di tipo coevolutivo). Assumendo come riferimento la svolta paradigmatica sopra delineata, l’educazione cognitiva ha il compito di promuovere il superamento di quella visione svalorizzante con cui fino a questo momento è stato concepito il mondo vivente e che ha legittimato un’etica non ecologica. Nel momento in cui nei processi di formazione prende forma l’idea che non si possono tracciare confini netti tra il mondo umano e il mondo naturale, da cui si deduce che la conservazione delle varie forme di vita fa tutt’uno con la conservazione della vita umana, si pongono le premesse per lo sviluppo di una cultura ecologica fondata sul principio della “responsabilità estesa”. La consapevolezza di far parte di un unico sistema fornisce, infatti, la più semplice ragione per estendere a tutti i membri della comunità biotica un’attenzione eticamente orientata.
5.2. Un’antropologia ecologica Per essere efficace ai fini di una ricostruzione del paradigma culturale, la riconcettualizzazione della natura non può essere disgiunta da una riconcettualizzazione della posizione dell’essere umano nella natura e della qualità della relazione vitale che connette il mondo umano al mondo naturale. L’essere umano occidentale si è sempre posto non nel mondo, ma in cima al mondo, concependo l’esistenza degli altri esseri viventi e in generale di tutta la realtà funzionale alla sua signoria. Quando l’essere umano riflette sul suo posto nell’ordine delle cose, si trova posto in una situazione definibile dell’infra: si sente parte della natura poiché fatto della stessa materia, di terra e acqua, di aria e luce; ma, percependo allo stesso tempo anche la sua essenza spirituale, si sente parte anche di un altro ordine di realtà, una realtà immateriale. Questa visione è definibile come il nostro sentire originario. Ma anziché pensare l’esistenza come un progetto dell’essere nel mondo a partire dall’accettazione di questa condizione, l’essere umano occidentale ha costruito un suo ordine della realtà e a partire da lì ha dato forma al suo agire nel mondo. Ha suddiviso la realtà della materia vivente in differenti regioni ontologiche: la regione delle cose inanimate – differenziandola al suo interno fra la subregione delle cose senza movimento (sassi, terra e minerali) e la subregione di quelle in movimento (aria, acqua e luce) –, e la regione delle cose animate. Questa a sua volta è stata distinta nella subregione dei vegetali, che sintetizzano la vita mescolando la luce con la materia; la regione degli erbivori, che trasformano la materia vegetale in carne; la regione dei carnivori, che utilizzano il lavoro di trasformazione della materia prodotto dalle altre subregioni; poi l’essere umano inventa per sé una differente regione, perché essendo dotato di vita spirituale non può essere compreso per intero nelle altre regioni. Una volta ordinato il mondo naturale entro differenti regioni, compie un’operazione che si struttura in due mosse ontologiche: gerarchizzare e separare. Stabilisce una gerarchia in cui sistema le regioni ontologiche su una scala di valore, poi pone la regione dell’umano in cima alla piramide ontologica. La regione dell’umano non solo, però, è considerata come
quella più importante, ma anche come altra rispetto alla natura, poiché dell’essere umano viene considerata solo la parte immateriale della vita spirituale, come se fossimo pura palpitazione del pensiero, esseri immateriali avvolti solo nella propria anima. Stabilita questa sorta di regalità ontologica non esiste, però, un modo univoco di interpretare questa posizione. Nella storia del pensiero sono rintracciabili essenzialmente due interpretazioni: una posizione di servizio, che interpreta l’apicalità gerarchica come responsabilità; una posizione di dominio, che, a partire dalla considerazione delle altre regioni ontologiche come di minore valore, assegna alla natura un ruolo strumentale per la realizzazione del benessere umano. Mentre la prima è rimasta sulla carta, la cultura occidentale ha scelto la seconda interpretazione, che si è aggravata in direzione antiecologica con l’affermazione del pensiero cartesiano, il quale ha codificato la natura come semplice res extensa. Persa la sua sacralità, la natura diventa contenitore di cose a disposizione di un’economia del consumo. Fino a quando la natura era pensata come luogo del sacro, l’azione umana, pur qualificandosi inevitabilmente come indice di un ordine diverso da quello della natura, introduce un disordine comunque riassorbibile dall’economia naturale. Quando con l’ontologia che è parte del paradigma della scienza moderna la natura diventa materia inanimata, retta da leggi universali e necessarie, e il mondo umano viene qualificato come extranaturale, in quanto pensato come mondo dello spirito e della libertà, la natura si trova declassata a emporio di risorse a disposizione, senza limite alcuno, del progetto dello spirito libero dell’umano. Su questa ontologia la cultura industriale fonda il suo imperialismo economico antiecologico. Per esercitare il dominio finalizzato al più intenso sfruttamento possibile dell’emporio naturale la civiltà industriale e poi postindustriale spinge lo sviluppo verso l’incremento geometrico delle tecnologie. Ma esiste una terza possibilità di interpretare la nostra posizione nel cosmo, quella che concepisce l’essere umano come creatura tra le creature. Non solo all’essere umano non è data la posizione di dominus, ma neppure quella di pastore dell’essere, poiché anche la posizione del pastore implica una superiorità che fa sentire fuori dall’ordine naturale delle cose. L’antropologia creaturale, invece, ci tiene lì dove la realtà ci ha posti. Un
essere tra gli esseri, ma con la responsabilità, che ci troviamo in carico dalla nascita, di pensare la vita e avere a cuore la vita. Un nuovo umanesimo ecologico ha necessità che sappiamo accettare fino in fondo la nostra condizione creaturale, e dunque il nostro essere parte intima del tessuto della vita, e considerare la capacità di pensare non come una potenzialità che ci mette fuori dall’ordine della materia vivente – poiché tutta la materia è permeata di pensiero –, ma che ci qualifica come enti che possono non solo conoscere, ma anche inventare mondi possibili e inediti; enti che sanno interpretare questa potenzialità di inventare mondi non come qualcosa di altro rispetto alla natura, ma come una delle infinite potenzialità del reale. Il mondo umano non è altro dal mondo della natura, ma solo uno dei tanti fogli dell’essere, un foglio però dove l’energia del pensiero spinge all’ulteriore, venendo così a implicare un pensare responsabile, perché immanente nella mente diffusa nella natura ma con la tensione alla trascendenza. Fra il materialismo deterministico e l’idealismo disincarnato è possibile una terza visione antropologica, quella del materialismo spirituale, che ci pensa enti fra gli altri enti, ma fatti di una materia dove il pensiero ha condensato una potenza creativa che ha da tradursi immediatamente in responsabilità di ogni possibile idea. Arendt (1989) aveva rilevato già sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso una forma di ossessione di abbandonare la condizione umana, che porta a piegare la ricerca scientifica e tecnologica a inventare un modo di vivere sottratto ai limiti imposti dalla natura. Se per un verso è impossibile non cercare altro rispetto a ciò che la natura rende disponibile proprio per il nostro essere enti arrischianti, dall’altro è necessario sapere coltivare questa tensione all’ulteriore dentro una misura ecologica. Significa saper stare pienamente dentro l’economia naturale, nella sua circolarità, senza rinunciare all’economia spirituale che mi chiede di rispondere alla tensione alla trascendenza. La sfida consiste nel conciliare il nostro essere materia nella materia con la tensione a costruire un mondo dello spirito che non si trova già inscritto nell’ordine naturale delle cose, ma che di questo ordine sa rispettare il suo funzionamento; in altre parole si tratta di realizzare un mondo umano pienamente in armonia con quello naturale. Adottare l’ontologia della dipendenza significa sapersi dipendenti dalla
fonte originaria della vita e accettare di inventare il mondo umano dentro questa condizione naturale. Siamo dipendenti dalla natura in ogni aspetto della vita. Della natura ci nutriamo: biologicamente perché il corpo si alimenta della terra e dell’acqua; cognitivamente perché il rapporto con le cose consente di elaborare la scienza della vita; esteticamente perché la bellezza degli enti e dei fenomeni naturali nutre del bello le nostre menti; spiritualmente perché il contatto con l’acqua che dice il fluire della vita, la vista delle stelle che ci parlano dell’infinito, il riposare lo sguardo sull’erba e sui fiori, fanno sentire all’anima la forza originaria della vita. Un nuovo umanesimo ecologico chiede di trovare con gli elementi del mondo naturale una relazione secondo virtù, cioè – alla maniera aristotelica – secondo natura (katà physis). Per elaborare un umanesimo ecologico la deep ecology (Naess, 1994) propone una riconcettualizzazione del sé, ossia una ridefinizione dell’idea di essere umano. Approfondire tale ipotesi significa esplorare la possibilità di un’educazione della mente orientata a promuovere un ripensamento radicale dell’antropologia. Ancora intrisi del paradigma della modernità, che rappresenta la realtà come una collezione di enti discreti, noi tendiamo a interpretare il sé in termini atomistico-disgiuntivi, vale a dire come una realtà pensabile separatamente dal contesto e ontologicamente autosufficiente. La concettualizzazione moderna del sé ha rilevanti implicazioni antiecologiche, perché porta a concepire il processo di realizzazione del principio di umanità come attualizzazione di un percorso chiuso dentro i confini di uno spazio vitale individuale. Pensare al sé fingendosi non vincolati alla trama di relazioni biologiche e sociali in cui ciascuno si trova connesso, nascondendosi quindi la natura condizionata dell’esperienza umana, porta ad adottare politiche dell’esistenza inadeguate all’essenza propria della condizione umana, come quella che spinge a ritenere possibile realizzare una buona qualità della vita controllando e manipolando i processi naturali e i contesti sociali, non avvedendosi che così facendo non si interviene su un mondo altro da sé ma sul fondo stesso della vita al quale apparteniamo. È vero che la concettualizzazione atomistica e individualistica del sé è messa in discussione dalle varie tradizioni religiose e anche dall’etica, che concepiscono l’esistenza nei termini di un prendersi cura sia di sé sia degli
altri, ma questa dilatazione della responsabilità etica è comunque delimitata entro il mondo umano senza che arrivi a includere anche le altre forme viventi. Il pensiero ecologico, invece, argomenta la necessità di dilatare la responsabilità etica al resto della natura, perché dimostra che nessun ente è concepibile isolato dal resto: ogni forma vivente è sostanzialmente connessa alla rete vitale di cui è parte tanto da poter dire che la vita è fondamentalmente una. La visione ecologica chiede di pensare alla vita come a una trama dinamica di relazioni che si evolvono nel tempo: non c’è un’entità dai contorni definiti, ma una rete di fili in continuo movimento e dai confini imprecisati. Di conseguenza l’unità di sopravvivenza di cui siamo responsabili non è il nostro spazio vitale privato o la nostra comunità sociale, ma il più ampio sistema eco-bio-mentale di cui siamo parte. Se il paradigma disgiuntivo e atomistico ha insegnato a pensare all’essere umano come a un insieme di organi, sentimenti e pensieri, circondato dai confini di un corpo nettamente delimitato rispetto all’ambiente, la concezione ecologica, invece, invita a pensare al singolo individuo come a uno dei tanti nodi della rete dell’essere che ha la qualità di eco-auto-organizzazione, poiché per strutturarsi si alimenta del rapporto con l’ambiente ma allo stesso tempo lo modella. Il pensiero ecologico chiede di superare un modo di pensare che privilegia il principio della discontinuità ontologica in un mondo dove, invece, tutto è interconnesso secondo una dinamica vitale di co-dipendenza strutturale. Sulla base di un’ontologia relazionale, che concepisce l’essere umano nelle sue relazioni con l’ambiente naturale, risulta possibile orientare il pensiero in direzione ecologica. La svolta paradigmatica transita dalla visione cartesiana che riduce il soggetto alla sola coscienza, facendo dimenticare il fondo organico in cui essa è radicata, a un’idea che lo rappresenta nella sua unità di corpo e di spirito (Jonas, 1991, p. 48). Ripensare radicalmente l’ontologia dualistica è questione ineludibile per il pensiero contemporaneo, nella prospettiva di una filosofia dell’essere concretamente integrato nelle sue dimensioni materiali e immateriali. La consapevolezza della base corporea dell’esperienza, quella che evidenzia la nostra intima parentela col mondo vivente, non è facile da elaborare per la cultura occidentale, come dimostrano le riflessioni che Heidegger sviluppa nella Lettera sull’umanismo, dove scrive che «presumibilmente di tutto l’essente che è, l’essere-vivente è per noi il più
difficile da concepire, perché da un lato è in un certo modo a noi più vicino e affine, mentre d’altro lato è separato da un abisso dal nostro essere ex-sistente» (Heidegger, 1995, p. 49). Questo a ricordarci come difficile sia il compito di elaborare un’antropologia che renda conto della complessità della condizione umana, e che la necessità, per l’elaborazione di un nuovo paradigma, di disegnare un’idea dell’essere umano a partire dalla sua appartenenza al mondo fenomenicamente evidente della realtà fisicobiologica, non deve implicare un’operazione antropopoietica riduttiva che oscuri la considerazione dell’enigmaticità della qualità ontologica dell’essere umano, che combina la sua qualità di organismo materiale con la sua costitutiva tensione alla trascendenza. Solo dell’essere umano, infatti, si può parlare di ex-istenza, in quanto è destinato a pensare e a progettare il suo esserci. A essere necessaria per la fondazione di una cultura autenticamente ecologica sarebbe dunque una filosofia dell’essere umano come organismo pensante che vive in continuità con l’intelligenza materiale della natura (Mortari, 2018). Considerate le forti implicazioni performative dell’idea di essere umano che ciascuno coltiva nella mente, l’azione educativa è chiamata a sorvegliare criticamente il linguaggio antropologico usato in modo da evitare di veicolare non solo le idee non ecologiche, ma anche quelle ontologicamente riduttive. Due sembrano essere le possibilità di concettualizzazione verso cui tende a polarizzarsi il pensiero: quella che definisce l’essere umano a partire dalla considerazione del legame che lo unisce agli altri esseri viventi e quella che mette in rilievo la sua differenza, in quanto essere indeterminato che per realizzare la sua umanità non deve limitarsi a seguire le cosiddette “regole della natura”, ma deve progettare il suo percorso di autorealizzazione in quanto nascendo si trova vincolato alla responsabilità di dare una forma di senso al suo esistere. Sia una polarizzazione che l’altra risultano riduttive. Poiché da sempre la filosofia ha teso a concepire l’essere umano come sostanza spirituale, riducendolo a un soggetto disincarnato che sarebbe altro dalla natura, mentre la scienza più recente tende a insistere sulla dimensione biologica della vita umana, compito del discorso pedagogico è di aprire il dialogo con più punti di vista per evitare di rinchiudere l’orizzonte del pensiero dentro definizioni che semplificano la complessità della condizione umana. La consapevolezza della base organica della vita, e quindi della comunanza sostanziale che ci
lega agli altri esseri viventi, non deve farci trascurare, come accade in alcune elaborazioni del pensiero ecologico, che l’umanità della donna e dell’uomo non è una condizione naturale determinata, ma una destinazione che apre il problema del farsi responsabili della progettazione dell’esistenza, dal momento che nessun senso dell’esserci ci è fornito nella forma di un patrimonio genetico. Una teoria dell’educazione ecologica necessita di una filosofia che si qualifica come un materialismo spirituale, che orienta l’essere umano a interpretarsi come essere vivente chiamato a vivere la materialità biofisica della vita che lo connette al resto della natura, ma anche a pensarsi come essere spirituale, aperto a un campo non già definito di possibilità alle quali dare forma. È in questa mancanza sia di autosufficienza biologica sia di perfezione spirituale che sta la qualità ontologica della condizione umana, ed è a partire da questa sostanzialità densamente problematica che si dovrebbe progettare l’abitare la terra e il mondo. Una tale visione ontologica potrebbe costituire lo sfondo per pensare che il progetto dell’abitare la terra comporta la costruzione di un mondo umano dentro il mondo della natura. 5.3. La sintassi ontologica della relazionalità Nella costruzione di un’ontologia ecologica centrale è la categoria dell’essere in relazione; categoria che viene ad assumere un carattere sostanziale e non meramente aggiuntivo, nel senso che il tessuto di relazioni in cui l’ente è implicato è la dimensione costitutiva della sua identità, da concepire come risultante della rete di relazioni che quell’ente viene co-costruendo con l’ambiente. La matrice intimamente relazionale del costituirsi dell’identità del soggetto è ormai acquisita dalle scienze sociali. A partire dalla fenomenologia husserliana, che ha segnato un decisivo contributo al superamento del solipsismo attraverso la teoria dell’intenzionalità, e poi con l’esistenzialismo heideggeriano che vede l’essere umano tutto coinvolto nel tessuto di relazioni che strutturano la realtà mondana, è diventata centrale nella comprensione dell’esistenza la relazione intimamente coevolutiva fra soggetto e contesto. Quello che il pensiero occidentale fatica a pensare è che la struttura
relazionale del costituirsi del sé implica anche la relazione con l’ambiente. È sulla base della teoria della primarietà ontologica dell’essere in relazione con gli altri e con la terra che i deep ecologists considerano un modo inadeguato di mettere in parola la concezione ecologica della condizione umana quando si parla di enti “interconnessi” agli altri enti, poiché questa traduzione simbolica della struttura relazionale della realtà non consentirebbe di percepire il carattere sostanziale dell’essere in relazione, continuando invece a veicolare una rappresentazione disgiuntiva della realtà, in quanto costituita di esistenze pensabili come unità discrete rispetto alle quali la relazione con le altre unità semplicemente si aggiungerebbe alla loro primaria autonomia ontologica. Per nominare il sé in termini relazionali non è sufficiente riconoscere che ciascun essere vivente è legato all’ambiente da una rete di relazioni. Occorre concepire la trama di relazioni che andiamo tessendo con l’ambiente come strutturante il nostro campo vitale e, quindi, pensare che il processo d’indagine che ha per oggetto il nostro essere va sviluppato in stretta connessione con quello che ha per oggetto la rete di relazioni che strutturano lo spazio e il tempo del nostro divenire. La biologia evolutiva suggerisce di pensare al tessuto di relazioni che definiscono l’ambiente di vita come un campo morfogenetico, le cui forze e i cui campi energetici definiscono i modi di sviluppo del singolo essere, che però a sua volta contribuisce al modellarsi del campo (Sheldrake, 1994, pp. 99-102). Per John Seed (1988, p. 11) si tratta di pensare all’ambiente non come a un contenitore “là fuori”, ma come a una realtà rispetto alla quale non esiste soluzione di continuità e che, quindi, l’inquinamento dell’aria e dell’acqua è tutt’uno con l’inquinamento di noi stessi. Disegnare un concetto ecologico dell’esistenza umana significa elaborare quello che viene definito un “senso aperto del sé”, ossia un’idea dell’esistenza come percorso co-evolutivo intimamente connesso non solo col percorso esistenziale degli altri esseri umani, ma anche con le dinamiche vitali degli altri esseri viventi, con i quali siamo implicati in una fitta rete dinamica di relazioni biofisiche e mentali, entro la quale fluisce una energia vitale che tiene insieme ogni ente. Questo sfondo concettuale potrebbe costituire la matrice di una nuova filosofia ecologica della vita. Interpretare la condizione umana a partire dal principio ontologico della primarietà dell’essere-in-relazione-con-il mondo ha sensibili
implicazioni anche di tipo etico, poiché il pensarsi intimamente in relazione non solo con gli altri ma anche con il mondo circostante rende evidente la necessità di dilatare la responsabilità etica fino a comprendere ogni forma di vita. Il concepirsi inestricabilmente intessuti con il mondo biologico in una forma di “intimità sostanziale” può costituire lo sfondo generativo della consapevolezza della necessità di un’etica della solidarietà estesa, che si attualizza nel prendersi cura della rete di relazioni di cui si è parte, sia quelle umane sia quelle biologiche. Da un punto di vista pedagogico il problema che si profila è di capire come favorire questa riconcettualizzazione ontologica di tipo ecologico. Sembrerebbe comportare un’operazione intellettualistica, un gioco astratto da “filosofi da poltrona” che si divertono a giocare con le idee, e quindi di nessun interesse pedagogico. Dalla filosofia della deep ecology emerge, invece, che l’esercizio di quello che viene definito principio di identificazione con il resto della natura, che consiste nell’andare alla ricerca delle relazioni vitali che ci connettono al mondo circostante della vita, provoca una modificazione del modo di concepire il sé rispetto al resto della natura. Pensare nell’orizzonte dell’ontologia relazionale significa che, ad esempio, stare in presenza dell’acqua, in qualsiasi forma essa si presenta, da un punto di vista ecologico significa immaginare il ciclo dell’acqua includendo noi stessi in esso; arriveremmo così a pensare che l’acqua vive nel nostro corpo. Un’espressione ricorrente nel pensiero ecologico è quella che invita a pensare se stessi come una montagna, cioè pensare in termini di eco-auto-organizzazione biofisica. Ricostruire le relazioni che intercorrono con gli altri esseri viventi (piante e animali) e con il resto della natura (acqua, aria, suolo, ecc.) rappresenta il presupposto necessario al generarsi di un’autentica visione ecologica, che costituisce lo sfondo da cui poter sviluppare un’etica della responsabilità estesa rispetto all’ambiente di cui siamo parte. Questo modo di intendere il processo di costruzione di una visione ecologica ha il limite di essere praticabile solo in relazione con ciò che è esperibile direttamente nell’ambiente circostante; ma questo limite costituisce anche la valenza educativa di questa ipotesi, perché soprattutto nelle prime fasi del processo di formazione è importante che l’educazione coltivi un pensare non astratto ma radicato nell’esperienza, quindi un pensare incarnato, che si nutre del rapporto sensoriale con le cose.
È importante sottolineare che questa ontologia della continuità col mondo circostante riporta al centro del processo educativo il corpo, quel corpo che la tradizione cartesiana, di cui la nostra pedagogia a lungo si è nutrita, aveva dimenticato. Come certa filosofia e come le altre scienze umane di matrice moderna (psicologia, sociologia, psicanalisi e psichiatria), anche la pedagogia ha avuto come riferimento l’idea di una mente disincarnata che, libera dall’opacità della carne, sembrava più facile da educare. L’educazione ecologica chiede che il soggetto educativo sia considerato nella sua interezza di mente incarnata o corpo pensante (Mortari, 2018). Oltre a una didattica che valorizza l’esperienza corporea e, dunque, un pensare incarnato, per lo sviluppo della consapevolezza delle relazioni che ci connettono col mondo biologico, il pensiero ecologico suggerisce di utilizzare, a integrazione della scienza ecologica, tutta quella letteratura che apre vie di accesso per lo sviluppo di uno sguardo cognitivo di tipo ecologico. In particolare, indica il valore formativo di quella produzione poetica che dà voce a un apprezzamento nei confronti del mondo circostante della vita, poiché, riconoscendo il valore primario della vita biologica, rende possibile lo sviluppo di un atteggiamento di attenzione nei confronti della realtà naturale. Diventa dunque fondamentale organizzare esperienze educative che facilitino il confronto con quella produzione poetica e letteraria che dà voce a un atteggiamento ecologico nei confronti del resto del mondo naturale. 5.4. Materia e pensiero La valorizzazione nei contesti formativi del principio della ricerca di relazioni deve però evitare i rischi, connessi a certe formulazioni del pensiero ecologico, di cadere in forme di confusione ontologica che finirebbero per annullare la consapevolezza delle specificità della condizione umana. Riconoscere l’essere umano inestricabilmente connesso con l’ecosistema naturale e, quindi, stabilire una continuità vitale tra natura interna e natura esterna, non deve annullare la percezione di quella scissura che l’essere umano patisce rispetto alla natura. La concezione ontologica che annulla qualsiasi distinzione fra il mondo umano e il resto della natura è altrettanto pericolosa di quella fondata sul
dualismo. Riconoscere che l’essere umano, pur nella sua naturalità, non sta pienamente accomodato nel mondo naturale, è essenziale al costituirsi di una visione antropologica che si tiene al piano di realtà delle cose. Il pensiero ecologico, sia quello scientifico maturato nel dialogo con la teoria della complessità sia quello filosofico, chiede di mettere in atto discorsi che non semplifichino le questioni in gioco attraverso polarizzazioni logiche riduttive. Concettualizzare l’essere umano nella forma di un nodo nella trama della vita, che dovrebbe implicare il prendere forma della consapevolezza dell’appartenere a una stessa radice vitale sia in senso biologico sia mentale, non deve condurre a smarrire la percezione del tratto originale che distingue la vita umana dal resto della natura, perché l’essere umano è destinato oltre che a progettare il percorso di realizzazione del principio di umanità anche a essere responsabile del suo agire. La distanza che separa l’essere umano dal mondo animale, che nella natura è quella forma di vita percepita più vicina all’umano, trova espressione nel celebre aforisma di Wittgenstein: «Se un leone potesse parlare, noi non lo capiremmo». Il lavoro di costruzione di una filosofia dell’educazione impegnata a superare i limiti di una visione atomistica e riduttiva dell’esistenza, con lo scopo di coltivare un pensare orientato a transitare nell’orizzonte di un nuovo paradigma relazionale e co-evolutivo, va salvaguardato dal rischio di scivolare in una forma di olismo misticheggiante, peraltro presente in certe espressioni dell’ambientalismo – forse in misura maggiore nelle sue prime fasi – che smarrisce il senso dei confini che pur esistono fra i vari campi in cui si struttura la vita della natura. Diventa essenziale superare l’atomismo individualistico del paradigma riduzionistico del pensiero moderno senza cadere in una visione delle cose incapace di cogliere le differenze. L’andare in cerca di relazioni funziona quando si cercano non solo somiglianze, ma anche differenze. In questa prospettiva è costruttivo frequentare quella poesia che più di ogni altro discorso ci restituisce la percezione di enigmaticità della condizione umana. Si pensi al Rilke di Elegie duinesi, in particolare l’ottava, dove ci ricorda che «La creatura, qualsiano gli occhi suoi, vede / l’aperto. [...] / Noi non abbiamo mai dinnanzi a noi, neanche per un giorno / lo spazio puro dove sbocciano / i fiori a non finire. Sempre c’è mondo / e mai quel nessundove senza negazioni / puro, non sorvegliato, che si respira / si
sa infinito e non si brama...». Con la precisione di un linguaggio teoreticamente meditato Rilke descrive la condizione coscienziale dell’essere umano che, a differenza degli animali, non sta semplicemente fra gli altri enti, ma ex-iste, e in quanto tale si fa problema a se stesso sporgendosi dal tessuto della vita per rispondere alla tensione all’ulteriorità. L’essere umano non è qualcosa di già compiuto, come il seme di quercia che ha in sé la mappa del divenire albero, ma è un essere incompiuto che ha da progettarsi sporgendosi oltre il già dato. Nell’esserci c’è sempre qualcosa che manca, ed è questo mancare che lo porta a spingersi alla ricerca dell’ulteriore. Questa duplicità che coesiste nell’essere umano aveva trovato un’intensa espressione in Platone, quando dice che noi non siamo «piante celesti» (Platone, Timeo, 90d), ma piante che guardano il cielo stando radicate nella terra, quindi esseri viventi che, destinati a vivere in un frammezzo, siamo chiamati a trovare la giusta misura dell’esistere fra la remissione all’immanenza e la tensione sradicante della trascendenza. L’ontologia ecologica suggerita da queste visioni dell’esserci non postula il venir meno delle distinzioni, ma piuttosto la consapevolezza che gli esseri umani, pur nella loro costitutiva originalità rispetto al resto della natura, sono parte di una stessa realtà che si dispiega in continuità. Questo guadagno concettuale è la condizione per esperire un senso di comunanza con le altre forme di vita, che è necessario all’emergere di una nuova disposizione culturale. Pur fondamentale, tuttavia la costruzione di una nuova ontologia che recupera la connessione intima che lega l’essere umano al mondo della natura non costituisce un’operazione sufficiente per delineare un paradigma che faccia da punto di riferimento per ripensare i criteri dell’abitare la terra. Da ridefinire è anche il concetto dell’essere umano come homo faber, cioè come colui che trova senso del suo esistere nel produrre oggetti. Un’idea che non a caso si è affermata in epoca moderna, contemporaneamente con l’idea della natura come materia da manipolare e della scienza come strumento per il controllo delle forze naturali. Dal punto di vista ecologico l’affermarsi di questa idea come di quella che sola interpreta la condizione umana risulta problematico, perché l’atteggiamento dell’homo faber verso il mondo è di tipo strumentale, nel senso che rispetto al fine di produrre cose, la terra, e con essa tutte le forze
della natura, altro non è che materia d’uso, priva di qualsiasi valore intrinseco. Per l’homo faber, «il mondo, invece di essere qualcosa di cui egli non è che un’infinitesima parte, è un mondo d’uso ed egli lo vede esclusivamente dalla prospettiva di come sarà utile per i suoi scopi» (Schachtel, 1959, p. 169). L’approccio strumentale comporta una degradazione di tutte le cose, compresi gli elementi naturali, in semplici mezzi. Proprio l’azzeramento di ogni valore che non sia connesso alla reificazione inerente all’attività produttiva fa scivolare il rapporto che la comunità umana intrattiene con la natura su un fondo privo di sapienza etica. Di non secondario rilievo è il fatto che la fabbricazione di cose trova il suo criterio di legittimazione nel principio di utilità che, a partire dall’epoca moderna, è diventato il criterio decisivo per l’organizzazione del mondo. Quando il criterio che stabilisce il valore di una cosa diventa “l’essere utile” e la misura dell’utile diventa l’essere umano, allora si determinano le condizioni che legittimano il sottoporre la terra e il mondo intero a una strumentalizzazione senza limiti. Se si permette che l’utilitarismo presieda alla costituzione del mondo umano, allora l’homo faber si servirà di ogni cosa nei termini di un mero mezzo per sé (Arendt, 1989, p. 112). In questo senso si può dire che l’epoca moderna segna l’affermazione dell’utilitarismo antropocentrico. Accade così che nessuno avverta più che il vento è l’unico modo con cui una pianta può fare musica e venga considerato solo come una forza da controllare o un’energia da utilizzare in vista di un fine, e niente altro; ogni altro possibile significato del vento viene eliminato dalla vita umana. Della problematicità connessa all’esaltazione dell’utilitarismo antropocentrico dell’homo faber erano ben consapevoli gli antichi greci. Platone, infatti, dopo aver messo al centro della discussione del Protagora l’idea che «l’uomo è la misura di tutti gli oggetti d’uso», nelle Leggi (716d) scrive che non l’essere umano, ma «dio è la misura (anche) dei meri oggetti d’uso», perché l’uomo, a causa dei suoi bisogni e dei desideri finisce per privare le cose del loro valore intrinseco. Se, come affermano i deep ecologists, una nuova cultura ecologica presuppone una riconsiderazione delle cose naturali come enti dotati di valore intrinseco, allora, accettando la tesi che vede connessa la perdita del valore della natura con l’affermazione dell’idea dell’homo faber e della sua visione della vita, in
ordine alla costruzione dei fondamenti di una nuova cultura il problema fondamentale diventa quello di mettere in discussione l’antropocentrismo utilitaristico, per poi trovare la via che consenta di ripensare l’idea moderna di essere umano e la filosofia della vita a essa sottesa. È forse venuto il tempo di disegnare una visione delle cose dove il criterio dell’utile sia svincolato dalla visione mercantile e trovi posto dentro una filosofia dell’esistenza finalmente sottratta alla logica del consumismo, capace di slarghi esistenziali che consentano di dare compimento al senso dell’esserci; pur mantenendo un suo posto nell’ordine dei valori, quello dell’utile non dovrebbe più costituire il solo criterio di misura della qualità delle cose e delle azioni umane. Il problema cui ci si trova di fronte, e che è della massima importanza per l’intero discorso pedagogico e non solo per la teoria dell’educazione ecologica, è che il prevalere della logica strumentale comporta il verificarsi di una contrazione dell’immagine che l’essere umano ha di sé, tutta polarizzata sulla capacità di farsi artefice di processi produttivi e, attraverso lo sviluppo della tecnica, di conseguire potere sulle cose. Una contrazione dell’immagine di sé comporta anche una riduzione delle possibilità di esperienza. La visione strumentale è essenziale per stare con efficacia nel mondo, ma quando assume una valenza paradigmatica rischia di rendere invisibile la possibilità di altre relazioni con le cose che non siano semplicemente utilitaristiche. Quando ci rapportiamo al mondo utilizzando solo il criterio dell’utile accade che l’albero, non più percepibile come variazione di toni di verde o come metafora della vita, diventi pensabile solo come massa di legname destinato a un processo di lavorazione. In una cultura economicista qual è quella attuale, la visione utilitaristica rischia di essere l’unica lente per guardare il mondo, che così diventa niente altro che un contenitore di meri oggetti d’uso. A essere problematico è il fatto che questo modo di percepire è dato per scontato e non si avverte l’urgenza di mettere in questione se questa debba essere l’unica via di accesso alle cose. Adottare un’unica prospettiva dalla quale guardare le cose comporta il venire meno della possibilità di avere un’esperienza adeguata di esse, poiché si possono percepire solo quegli aspetti che si accordano col filtro di pre-concezioni adottato e, spesso, senza neppure essere consapevoli di tale riduzione percettiva.
Dell’imposizione di un’immagine dell’umano contratta sulla dimensione dell’utile a essere problematica non è solo la perdita della capacità di fare esperienze differenziate del mondo, perché in questa visione riduttiva della condizione umana ciò che si deve temere è che a fronte di una potenza del fabbricare permane una debolezza nell’individuare i criteri per dar senso al fabbricare stesso. Si avverte, cioè, il dischiudersi di un potere del fare cui manca un orizzonte etico tale da fornire la giusta misura del suo uso. Dal momento che l’immagine che l’essere umano occidentale ha di sé, quella potente autorappresentazione della modernità che ne fa l’artefice del mondo e la misura di ogni cosa, determina il suo essere reale non meno di quanto lo rifletta, allora è necessario che il discorso pedagogico, proprio per il suo mirare a una trasformazione culturale che renda possibile una nuova qualità della vita, si confronti con la possibilità di pervenire a un ridisegno dell’idea dell’umano fino a ricomprendere ciò che, dimenticato, ha prodotto un impoverimento dello stesso processo formativo. Se ciò che caratterizza il mondo moderno è la considerazione dell’homo faber come la più alta possibilità umana, e se la civiltà del tempo presente ha coltivato insieme a questa idea quella di un soggetto che definisce il suo valore in base alle capacità di possedere per consumare, il superamento della crisi nel rapporto col mondo naturale presuppone un ripensamento radicale del concetto di buona qualità della vita sottraendolo alla sua contrazione utilitaristica. Si tratta di ricomprendere nel concetto di autorealizzazione umana anche quelle sfere di attività, non solo apparentemente inutili per le necessità della vita, ma anche di natura differente da quelle che implicano il fabbricare e il procurarsi cose, come sono ad esempio le attività teoretiche, le esperienze artistiche e l’agire politico. Ciò che è certo è che la misura che dovrebbe orientare il processo di costruzione del senso dell’esistenza non può essere rintracciata nello strumentalismo utilitaristico che presiede la visione moderna delle cose. La filosofia dell’educazione ha, quindi, da accogliere l’appello al recupero della dimensione teoretica dell’umano, quel pensare meditante che, altro rispetto alla logica del dominio e della manipolazione dell’oggetto d’indagine, si esprime a partire da una disposizione della mente diversa da quella sottesa alla circospezione pratica. Coltivare la dimensione teoretica significa nutrire la capacità speculativa e,
controfattualmente, ipotetico-immaginativa che fa dell’essere umano un soggetto capace di dischiudere possibilità inedite di pensare il suo soggiornare sulla terra. Mentre la razionalità tecnica è rassicurante, poiché sembra capace di trovare soluzione a ogni problema secondo procedure ingegneristiche e gestionali che conferiscono l’illusione di poter maneggiare la realtà, la disposizione teoretica è una sorgente generativa di dubbi e di metafore che perturbano ogni ordine costituito; è il luogo di invenzione di ordini di possibilità da cui possono scaturire utopie. La dimensione teoretica ha la sua matrice generativa in una disposizione nei confronti del mondo differente da quella utilitaristica e mercantile, che afferra e assale le cose; essa si sviluppa a partire dalla disposizione alla «contemplazione excentrica», che è il guardare stupito di un soggetto che non pretende di imporsi sull’oggetto: è un «guardare che prescinde da un’intenzione, solo per amore dell’intendimento» (Löwith, 1967, p. 343). Il contemplare excentrico si nutre di una complessa modalità relazionale col mondo, che si attualizza in una sorta di «distanza partecipata», la quale rappresenta la condizione per fare esperienza di una sorta di stupore che genera l’interrogazione teoretica. Lo stupore nasce quando s’interrompe l’esserci indaffarato e si trova il modo e il tempo per stare «di fronte al fatto sorprendente del mondo visibile, alla rotazione regolare del sole, alle fasi della luna e al movimento delle stelle, dinnanzi a tutto il mondo celeste e a tutto quanto vive sulla terra, nel suo sorgere e perire» (Löwith, 1967 p. 347). Un’educazione impegnata a promuovere il fiorire di ogni possibilità dell’essere umano non può evitare di offrire esperienze intese a favorire l’emergere della disposizione contemplativa, perché tale condizione della mente è alla radice del pensare meditante, che sa tenere l’attenzione su quell’orizzonte di questioni che sono decisive per la costruzione del senso dell’esistere. Si tratta di educare a stare con libertà di fronte allo spettacolo delle cose e sapere porsi in ascolto dei propri pensieri, quei pensieri che nascono tra noi e il mondo, in quella zona di mezzo che si genera quando si dileguano i confini tra soggetto e oggetto. Non meno rilevante è coltivare la dimensione estetica, intesa come la capacità di apprezzare il mondo circostante; perché se l’essere umano occidentale fosse stato educato ad apprezzare la bellezza non avrebbe tollerato certi interventi sul territorio che hanno procurato solo desolazione (Passmore, 1986, p. 198). Il recupero della dimensione
teoretica e di quella estetica va integrato con il recupero della dimensione politica, cioè della capacità che l’essere umano ha di costruire civiltà con il discorso e con l’azione. Considerato che la visione dominante della modernità, con il suo interesse per le attività produttive capaci di fornire profitti, aveva deciso la marginalità di modi di essere quali quello teoretico ed estetico, ma anche quello politico quando è inteso come volto a edificare mondi di senso e non a essere semplicemente strumentale alla logica economica, il progetto di un nuovo umanesimo ecologico comporta una presa di distanza radicale nei confronti di tale visione, quella stessa che ha legittimato l’epistemologia antiecologica. A chiusura di queste riflessioni è importante ribadire che qualsiasi discorso sulla condizione umana è destinato a non trovare soluzioni alla sua enigmaticità. Proprio dell’essere umano, ma anche del resto della natura, è il suo negarsi a ogni definizione, il sottrarsi a una totale dicibilità. Sapere e accettare l’impossibilità di una totale dicibilità della condizione umana per salvaguardare la sensibilità teoretica al mistero non implica, però, la rinuncia a pensare a tale questione, cosa del resto impossibile, dal momento che la ricerca di una risposta a essa preme costitutivamente sulla ragione. Piuttosto l’inafferrabilità di una nominazione oggettivamente vera della condizione umana chiede di occuparsi di tale questione con la consapevolezza che essa eccede la possibilità per la ragione umana di trovare una risposta definitiva, e come tale impone di mantenere continuamente aperta la riflessione che si sa destinata a rimanere incompiuta. In una cultura che cerca risposte certe, capaci di produrre un’immediata efficacia nell’agire, è difficile accettare che il discorso pedagogico faccia spazio alle questioni indecidibili. Ma se l’essere umano è un animale errante alla continua ricerca di sé, una filosofia che intende delineare i tratti essenziali di un’educazione che risponde al principio di coltivare ogni dimensione dell’umano, compresa la sua passione per la ricerca di un orizzonte simbolico cui sentire di corrispondere pienamente, non può evitare di confrontarsi con certe questioni anche sapendo che le risposte saranno sempre incerte, parziali, fragili. Non meno essenziale è situare questa ricerca nell’orizzonte di un approccio costruttivistico-ermeneutico, che porta l’attenzione a considerare che la descrizione dell’umano, e l’elenco delle sue dimensioni
di attualizzazione, non dev’essere percepita come la descrizione referenziale di una realtà oggettivamente afferrabile o la nominazione di proprietà precostituite che il linguaggio semplicemente rispecchierebbe. Ogni descrizione è una costruzione ermeneutica, attraverso la quale disegniamo un orizzonte di senso che condiziona i modi dell’esser-ci dell’umano. Proprio perché il dire non descrive, ma costruisce mondi (Goodman, 1988), chiede una decisione per la responsabilità etica rispetto ai discorsi che si vanno costruendo. Il fatto che la visione della condizione umana sia il risultato di un’operazione costruttivo-ermeneutica impone di assumere un atteggiamento vigilante, inteso a evitare ogni riduttivismo che, privilegiando solo certe categorie, produrrebbe una contrazione dell’immagine che l’essere umano ha della propria realizzazione, per salvaguardare invece la tensione a una descrizione quanto più possibile in ascolto della complessità dell’esistenza. Contro i riduzionismi si tratta di riscoprire le figure soverchiate e le istanze ridotte al silenzio, per poi mettere in parola tutte le possibilità che, dischiudendosi, consentono di disegnare una visione larga e articolata dell’abitare la terra. 5.5. Una diversa postura Il problema da affrontare non sta solo nel rinominare la condizione umana, e quindi nel tipo di orizzonte ontologico entro il quale situiamo la comprensione del nostro esser-ci, ma anche nel coltivare una nuova postura nei confronti di tale condizione. Se il paradigma ecologico si sostiene sull’idea della stretta connessione fra mondo umano e resto della natura – e su questo presupposto è stata costruita la tesi della necessità di educare a coltivare una differente cornice ontologica –, va sottolineato che tale consapevolezza ha sempre fatto parte della nostra cultura. Da sempre gli esseri umani hanno avuto coscienza del fatto che l’appartenenza alla vita terrestre è la vera quintessenza della natura umana e che il mondo della natura è il solo che possa procurare loro un habitat in cui muoversi senza artifici. È vero che in virtù delle loro capacità poietiche gli esseri umani sono in grado di costruire un mondo di artefatti che costituisce una nicchia distinta da quella in cui vivono gli altri organismi, ma essi sono consapevoli del fatto che la vita rimane soggetta a
leggi estranee rispetto a quelle che governano il mondo artificiale. Da sempre si sa la qualità della condizione umana, vincolata entro i limiti della finitudine e indissolubilmente implicata entro una rete di connessioni biologiche e sociali che fanno del vivere sulla terra una condizione di estrema incertezza e fragilità. Eppure, pur sapendo la qualità della condizione umana, il progresso della tecnica sembra presupporre la messa tra parentesi di tale consapevolezza. È, infatti, dall’occultamento della stretta connessione che lega l’essere umano al tessuto morfogenetico della natura, e quindi del suo essere condizionato dalle relazioni biologiche che nutrono la vita, che prende forma e trova legittimazione il progetto di dominio e di sfruttamento della natura. Si deve allora ipotizzare che la vera natura del problema stia non nel nonsapere la qualità della condizione umana, ma nel non-saperla-accettare, nel senso che l’ontologia e l’epistemologia antiecologiche, su cui trova legittimazione la logica della manipolazione senza misura della natura, impegnate a raccontarci di un mondo umano separato da quello naturale, a rappresentarci le relazioni sociali come processi governabili e la vita interiore come assoggettabile a procedure di tipo gestionale che garantirebbero un persistente stato di serenità, vanno interpretate non come errori della cognizione umana, ma come la risposta al desiderio di essere altro da ciò che si è, e quindi di sfuggire ai limiti della condizione umana. L’essere indissolubilmente dipendenti da una realtà biofisica soggetta alle leggi inesorabili del divenire, che nessun dispositivo tecnologico può pretendere di governare, è stato da sempre percepito come un ostacolo da superare, sia biologicamente sia intellettualmente. A tematizzare questo desiderio di sottrarsi ai vincoli costitutivi della condizione umana è l’immagine antiecologica dell’essere umano che è alle radici della cultura occidentale, che mette in scena un essere estraneo al mondo biofisico, essendo la sua essenza individuata nella sostanza spirituale concepita come ontologicamente altra rispetto al corpo cui sarebbe rimasta imprigionata. Il vagheggiare un altro luogo rispetto alla condizione terrestre, una sfera extratemporale, extraspaziale ed extrasensoriale quale vero ambito del pensiero, che ha dominato la filosofia occidentale da Parmenide a Hegel, non indica la mancanza della consapevolezza della qualità della condizione umana, ma è il sintomo del desiderio di sottrarsi ai legami terrestri.
Nel contesto della ricerca scientifica questa tensione a oltrepassare i limiti ha trovato espressione nella ricerca di quel punto archimedico che garantirebbe non solo la costruzione di una teoria onnicomprensiva del reale, ma anche la conquista degli strumenti necessari a esercitare un controllo completo sui processi naturali. La biotecnologia, l’ingegneria genetica e anche gli investimenti nella ricerca spaziale sono un sintomo del desiderio di spingersi oltre i limiti della condizione umana, quasi a voler sciogliere ogni legame che connette l’essere umano alla natura (Arendt, 1989, p. 2). I vari tentativi di regolamentare quella ricerca scientifica che si spinge su terreni oscuri sono destinati a essere inefficaci, perché risultano norme imposte dall’esterno rispetto a una cultura epistemica che trova la sua legittimazione nelle pieghe più intime dell’animo umano, cioè nel suo desiderio di spostare i limiti che definiscono la condizione umana. Sintomo dell’incapacità di accettare la condizione umana sono i molti investimenti in quei progetti di ricerca che hanno come obiettivo di rendere la vita quanto più artificiale possibile. Nelle ricerche di ingegneria genetica, mirate a manipolare il codice della vita per soddisfare desideri condizionati da precise ideologie, ma anche nell’uso di sostanze chimiche mirate a ottimizzare le prestazioni atletiche, la tecnologia è posta al servizio di un progetto di vita fuori dall’ordine, smisurato cioè rispetto ai limiti della vita terrestre. La smania ingegneristica che ci vorrebbe soggetti capaci di esercitare il pieno controllo sui processi naturali, sulle dinamiche sociali, nonché sulla vita interiore, ha all’origine l’incapacità di accettare la qualità fragile e incerta della condizione umana. Non si vorrebbe cioè che il processo di autodeterminazione incontrasse limiti fisici e temporali, e neppure che fosse così poco autosufficiente rispetto al contesto biologico e a quello sociale. Si vorrebbe guadagnare una condizione di assoluta sovranità sull’esistenza, che consisterebbe nel poter controllare le reti di relazioni eco-socio-mentali in cui ci si trova implicati. Da qui la messa in atto di dispositivi ingegneristici applicati alla vita. Ma nell’andare alla ricerca di una condizione di sovranità che consenta di dominare i processi della vita non può essere un desiderio smisurato a guidare il processo di attualizzazione del mondo umano, perché quando ci si lascia guidare da desideri illimitati la vita precipita nel disordine. Come pensavano gli antichi, tutto ciò che è illimitato, in greco l’àpeiron, è negativo, poiché l’essere umano per natura ha necessità di limiti entro cui
interpretare l’esserci. È l’incapacità di accettare certi limiti che si situa alla radice di un modo smisurato di abitare la terra e il mondo, cioè un modo che manca della giusta misura dell’esistere, quella che andrebbe cercata a partire da uno statuto di fedeltà, per quanto sofferto, alla realtà fragile e incerta della condizione umana. È vero che la tensione a superare i limiti è propria dell’essere umano e che senza questa tensione alla trascendenza non sarebbe fiorita alcuna civiltà. Tuttavia va meditata la possibilità di continuare a fare agire questa tensione a partire dall’accettazione di certi limiti, nel senso che la ricerca di una buona qualità della vita, che si concretizza nella costruzione di mondi entro i quali poter attualizzare l’eccellenza che da sempre l’essere umano va cercando, va concepita a partire dal desiderio di divenire perfettamente quello che si può essere stando però dentro i vincoli che costitutivamente strutturano la condizione umana. Il presupposto cognitivo per lo sviluppo di questa postura è la riconcettualizzazione del vincolo, da intendere non semplicemente come qualcosa che limita, ma anche come apertura di possibilità. Da un’idea del trascendere come un oltrepassare ogni limite, mossi da una misura non umana dell’esistere, si tratta di transitare a un’idea di trascendenza come ricerca dei modi di attualizzare le possibilità di realizzazione esistenziale, che non presumono un andare oltre la condizione in cui siamo posti per inseguire un altrove che non appartiene alla condizione terrestre. Si può parlare di «trascendenza immanente o interna» (Nussbaum, 1990, p. 379), per indicare quella ricerca della migliore forma di vita possibile che si esprime nel coniugare la disposizione a sorvegliare la tentazione a forzare ogni limite con l’impegno a non lasciare impraticata alcuna via che conduca alla completa realizzazione di sé. Si può dunque affermare che la prima e fondamentale virtù ecologica consiste nel sapere accettare i vincoli della condizione umana. Accettare la qualità propria della condizione umana non significa rinunciare alla progettualità, a quella progettazione secondo la categoria del possibile che è costitutiva dell’essere umano, quanto cercare di dare compimento al possibile secondo quel principio di equilibrio che consente di prendere le distanze sia dalle azioni che mirano a oltrepassare i limiti, per cercare una vita del tutto differente da quella che ci è data, sia da ogni atteggiamento accomodato all’esistente, per coltivare invece quelle azioni
che mirano a potenziare le possibilità esistenziali date. Lasciarsi guidare dal principio del sapere accettare, cioè del trovare il giusto equilibrio fra adesione all’immanenza e tensione alla trascendenza, significa cercare una buona qualità della vita non aspirando ad annullare i nostri limiti, ma sfruttando al meglio ogni possibilità; non pretendendo di controllare e gestire il mistero della vita biologica, ma piuttosto custodendo tali processi affinché l’autopoiesi della physis si compia secondo il suo proprio principio d’ordine; non cercando una forma di autosufficienza rispetto al contesto sociale, ma avendo cura delle relazioni in cui siamo implicati. Una buona qualità della vita si persegue non inseguendo progetti che mirano a una differente qualità della condizione umana, che si esprime nel perseguire il completo controllo della natura esterna e di quella interna nonché dei processi relazionali di cui ogni vita è tessuta, ma cercando la migliore vita possibile che questa condizione fragile e arrischiata offre; è in questi termini che si esprime il principio della trascendenza interna, cioè nel portare a compimento il possibile che la vita dischiude, sapendo accettare quello statuto di fragilità che ci fa essere dipendenti dalla rete di relazioni biologiche e sociali in cui siamo implicati. Divenire il proprio poter essere significa realizzare le proprie potenzialità senza soccombere ai vincoli che strutturano l’esistenza, ma anche senza impantanarsi in derealizzanti fughe dalla finitezza umana. In questo senso la questione chiave dell’educare sta nel promuovere la ricerca di una misura umana del progetto esistenziale. Una ricerca questa che non può non situarsi nell’orizzonte della trascendenza interna, poiché orienta il processo del dar forma alla propria umanità secondo il principio del restare fedeli alle proprie radici terrestri senza per questo rimanere assenti di cielo. Un progetto dell’abitare la terra che trova la sua misura in questa visione dell’esserci concepisce la ricerca tecnologica non nella prospettiva di guadagnare un illimitato potere sulla natura così da manipolare il mistero della vita a piacere, quanto piuttosto per trovare i modi di costruzione del mondo umano dentro il tessuto della vita affinché ogni essere vivente realizzi pienamente le sue naturali potenzialità. A partire da questa prospettiva una buona qualità dell’esistenza va cercata non attraverso l’imposizione di un raffinato potere tecnologico sui processi biologici, ma nel perseguire una scienza che sappia accordarsi a essi. La tensione costitutiva dell’essere umano ad attualizzare una forma eccellente
dell’esserci non va declinata come tensione a oltrepassare ogni limite, quanto piuttosto a dare compimento perfetto al possibile stando alla qualità propria della condizione terrestre. Quello che il tempo presente chiede all’educazione è di contribuire innanzitutto a mettere in movimento un riorientamento radicale della postura esistenziale, capace di capovolgere il sentimento di rifiuto nella disposizione ad accettare la condizione umana, che la Arendt definisce come «la gioia di abitare insieme con gli altri un mondo» (1989, p. 180). Una forma di sentire positivamente orientato è la condizione necessaria per nutrire una nuova disposizione etica, perché, solo accettando di essere come si è, si può essere liberati dall’ossessione di cercare ciò che non si può essere, cioè soggetti capaci di sovranità sulla vita sociale e naturale. Si tratta di educare a quel sentimento di realtà che, senza rinunciare a coltivare la tensione alla trascendenza, si esprime innanzitutto nella capacità di accettare la qualità della vita terrestre, con tutti i suoi vincoli, così da cercare la miglior forma di vita possibile senza mirare a oltrepassare quei limiti che la saggezza non saprebbe governare. L’educazione ecologica è autentica quando, mentre mira a problematizzare il centro dei nostri pensieri, insieme coltiva la disposizione a nutrire il flusso del pensare di quel senso di realtà che viene dal saper accettare la condizione umana nella sua fragilità. Non è mero romanticismo dire che c’è bisogno di un’educazione del sentire, perché continuare a stare dentro una visione razionalistica dell’educazione significa precludersi la possibilità di comprendere la logica che presiede al processo di costituzione dei significati nel mondo umano. Non esiste una postura cognitiva neutra, ma sempre emotivamente densa, perché il razionale è sempre mescolato all’emotivo. A presiedere l’affermarsi di una precisa versione del mondo, con tutti i suoi presupposti ontologici, epistemologici ed etici, si vorrebbe fossero dei criteri di decisione governati da princìpi puramente razionali; invece, ogni versione che si va scegliendo si sostiene e dà voce a una precisa disposizione nei confronti dell’esistenza, ed è questo sfondo di desideri e di sentimenti che informa la qualità del potere performativo delle descrizioni che usiamo per mettere ordine nell’esperienza. Di conseguenza il nuovo ordine simbolico di cui il tempo presente ha bisogno non va riduttivamente cercato solo in una nuova epistemologia, né solo in una nuova ontologia, poiché qualsiasi strumento concettuale di per sé non è in grado di innescare un nuovo
atteggiamento culturale. Per provocare cambiamenti significativi rispetto all’attuale politica dell’abitare la terra è necessario che il nuovo ordine simbolico abbia come matrice generativa una differente postura esistenziale capace di alimentare un sentire che riconcilia l’essere umano con la condizione terrestre. L’educazione ecologica è, quindi, quella che si nutre di una logica che sa integrare l’idea intellettualistica dell’essere umano (penso dunque sono) con l’idea che tiene conto della dimensione emotiva (sento dunque sono), e che proprio su queste basi concepisce la formazione come un processo che intreccia insieme «la matematica, la storia naturale, l’estetica e anche la gioia di vivere e di amare» (Bateson, 1989, pp. 272-273). L’educazione in generale, e non solo quella ecologica, ha il compito di guidare il soggetto educativo a un’indagine della sua geografia emozionale, perché possa comprendere i sentimenti e i desideri che sono alla radice della sua postura esistenziale, ma anche per esplorare la possibilità di altre geografie e delle implicazioni politiche che esse comportano.
6. Come coltivare un’etica ecologica
Rispetto alla questione fondamentale da un punto di vista formativo, che consiste nell’individuare le condizioni che motivino positivamente l’impegno a favore della costruzione di una “buona qualità della vita” e, quindi, della conservazione degli equilibri ecologici, va considerata essenziale la messa in atto di un’educazione etica ecologicamente orientata. La ragione sta nel fatto che il problema del rapporto tra il mondo umano e il resto della natura si presenta all’attenzione di chi vive il tempo presente «non più nella pace illusoria di una teoria contemplativa» (Jonas, 1991, p. 44), ma come una questione dai complessi risvolti etici. È questione essenziale imprimere una direzione etica all’educazione ecologica. Tuttavia, nella maggior parte dei casi ci si limita a proclami retorici senza che si affrontino le questioni chiave: (a) cosa s’intende per “etica ecologica”? e (b) se e come promuovere questo nuovo orientamento etico? Per valutare l’opportunità e i modi di attuazione di un progetto di educazione all’etica ecologica è necessario esaminare criticamente tali questioni. Ciò risulta possibile a partire da una lettura pedagogica delle riflessioni maturate da quella filosofia che si occupa di etica ecologica, per poi valutare le implicazioni educative delle varie teorie. Il tutto nella piena consapevolezza dei limiti che ha una riflessione sull’etica in un momento in cui sono entrate in crisi molte delle convinzioni che hanno costituito nel passato i punti di riferimento per il pensare e l’agire una “vita propriamente umana”. 6.1. Le principali implicazioni delle etiche ecologiche Rispetto alle diverse interpretazioni della questione etica, compito di una teoria dell’educazione è di valutare le implicazioni positive e negative
di ciascuna di esse come condizione necessaria al delineare un percorso formativo pedagogicamente fondato. Dal punto di vista pedagogico sembra condivisibile la messa in discussione dell’educazione etica come acquisizione di norme25, per declinarla, invece, come riflessione rigorosa sulle questioni ecologiche. È rischioso pensare, come invece suggeriscono alcuni esponenti della deep ecology, che la formazione etica possa prescindere da un’indagine razionalmente condotta delle questioni che presentano una rilevanza morale per arrivare a individuare princìpi etici formulati sulla base di condivise argomentazioni. Se è vero che un riorientamento morale non è possibile solo a partire dall’acquisizione di una serie di princìpi normativi codificati, è però anche difficile pensare che l’educazione etica possa prescindere dall’impegnare la mente dei soggetti educativi in un lavoro di delucidazione razionale delle questioni etiche, poiché la disposizione etica che spinge a prendersi cura del mondo circostante, pur avendo il suo necessario fondamento in una cornice ecologica di presupposti ontologici, non fluisce, però, da questa spontaneamente come una «conseguenza psicologica» (Fox, 1995, p. 246). Se si accetta la tesi, che ha la sua radice nel pensiero di Leopold, secondo la quale ciò di cui innanzitutto avremmo bisogno è una diversa disposizione affettiva nei confronti del mondo, la quale avrebbe la sua matrice generativa nelle implicazioni performative di differenti cornici ontologiche, occorre però riflettere sul fatto che riconoscere la forza performativa dei presupposti ontologici non significa rinunciare a un esame critico di essi, né è possibile sottrarsi all’impegno di cercare una giustificazione razionale alle deliberazioni che si elaborano. Nel momento in cui una teoria dell’educazione ecologica si orienta a sviluppare un metodo non intellettualistico dell’educazione etica, deve però porre le condizioni perché venga evitato ogni rischio connesso alla rinuncia di una fondazione razionalmente critica dell’etica, come invece viene ipotizzato dalle tesi per certi versi a-razionali della deep ecology. Inoltre va preso in esame quello che può essere definito “egoismo tacito” ipotizzato dalla deep ecology, laddove sostiene che la responsabilità morale nei confronti della natura fluirebbe a partire dall’elaborazione di un “senso espanso del sé”. L’etica biocentrica presuppone che il pensare al resto della natura come parte del proprio spazio vitale farebbe percepire le varie forme di violazione delle condizioni di vita esercitate nei confronti
degli altri esseri viventi come una violazione a sé; da questa percezione di continuità col mondo scaturirebbe spontaneamente l’impegno etico nella salvaguardia dell’ambiente, poiché la protezione della natura verrebbe percepita come protezione di se stessi. In questo caso, però, l’agire etico è interpretato come circoscritto a ciò che si sente appartenere alla sfera del sé, seppur dilatata. Risulta legittimo avanzare dubbi sul ritenere che possa avere un valore etico restringere l’agire morale a ciò che si sente parte di sé, poiché costituirebbe una legittimazione di una visione autocentrata, anche se non ristretta entro i confini della propria pelle. L’educazione di una postura etica ecologicamente orientata impone che il problema vada posto in altri termini: non si tratta di far discendere il comportamento etico da un’ontologia che teorizza un’estensione dei confini del sé, quanto piuttosto di motivare a prendersi cura anche di quanto è percepito altro rispetto al mondo umano. Il sapersi parte inscindibile della comunità biotica non deve annullare la consapevolezza dell’alterità della natura. Pur facendo parte di una stessa matrice vitale, la natura extraumana rimane a noi estranea, non solo perché evolve secondo un suo principio d’ordine e non sulla base dei progetti umani, ma anche perché è tanto complessa da escludere la possibilità che l’essere umano, a partire dalla postazione insuperabilmente locale da cui osserva e interpreta la realtà, possa trovare una spiegazione certa e definitiva della logica in base alla quale funzionano i processi naturali. Riconoscere l’estraneità della natura rispetto alla progettualità umana e, quindi, accettare l’esistenza di una distanza fra il mondo umano e il resto della natura non costituisce un ostacolo al generarsi di un orientamento etico ecologicamente orientato, perché identificare qualcosa come differente non equivale a escluderlo dall’ambito della responsabilità, ma porta a concepire l’agire etico non limitato a ciò che si sente parte di sé. Per coltivare una postura ecologicamente etica non si tratta di oscurare l’estraneità fra mondo umano e resto della natura, quanto di costruire una mappatura ontologica che, superate sia le varie forme di radicale discontinuità ontologica sia la tensione ad annullare ogni differenza, restituisca insieme alla percezione dell’alterità della natura anche la consapevolezza della struttura relazionale della realtà, dove ogni destino risulta accomunato. Fare spazio alla riflessione ontologica come condizione necessaria allo
sviluppo dell’educazione etica non deve significare optare per la metafisica del sé esteso o per quella dell’estraneità fra mondo umano e naturale; piuttosto, facendo ricorso alla dialogica dei contrari, si tratta di riconcettualizzare la relazione che intercorre tra mondo umano e mondo naturale nei termini di una interconnessione vitale nel rispetto, però, delle specifiche differenze. Solo da una percezione complessa della condizione umana, e non riduttivamente interpretata sulla base di una polarizzazione categoriale (estraneità/identificazione), può scaturire un più fondato orientamento etico, che ha la sua matrice generativa in una forma di sentire dove il senso di partecipazione con le altre forme di vita dialoga col senso di un’estraneità insuperabile. Dal punto di vista pedagogico è necessario dialogare con la filosofia ecologica anche per problematizzare concetti presenti nel dibattito ambientalista e che in certi casi entrano senza la dovuta riflessione nel bagaglio dei concetti educativi. La Circolare Ministeriale 4 febbraio 1989, n. 49, ad esempio, che riconosce come «fondamentale il ruolo della scuola nella promozione di attività relative alla sensibilizzazione e all’educazione ecologica», introduceva il concetto di biocentrismo nella prospettiva di un agire educativo mirato alla costruzione di una nuova cultura non antropocentrica. La necessità di andare oltre una visione antropocentrica è un tema ampiamente discusso dalla filosofia ecologica. Per antropocentrismo s’intende l’idea che gli esseri umani siano collocati al centro dell’universo o che costituiscano l’apice dell’evoluzione, occupando così quel posto privilegiato nello “schema generale delle cose” che consentirebbe loro di utilizzare le altre forme viventi e ogni elemento naturale come risorsa per soddisfare i desideri umani senza alcun limite di natura etica. Se nel pensiero ecologico trova larghi consensi la tesi circa la necessità di un superamento dell’antropocentrismo, non risulta invece largamente condiviso l’appello a sviluppare un approccio biocentrico, poiché molte sono le difficoltà implicate nelle diverse interpretazioni cui è soggetto il concetto di biocentrismo, che vanno adeguatamente prese in esame. A partire dal presupposto secondo il quale ogni ente è dotato di valore, un valore che gli appartiene costitutivamente in quanto essente, il biocentrismo teorizza che tutto quanto è parte della natura ha diritto a una considerazione morale. Muovendo da questa prospettiva viene
delegittimato ogni approccio meramente utilitaristico alla conservazione della natura, poiché è per il loro valore che gli enti della natura vanno salvaguardati e protetti. Così concepito il biocentrismo assume la forma di una teoria “centrata sulla vita”, perché mira a promuovere forme di rispetto e di tutela nei confronti di ogni comunità naturale. Oltre a questa definizione del biocentrismo, si è sviluppata anche un’interpretazione radicale, secondo la quale a tutti i membri della comunità biotica, essendo parti di un unico sistema vitale col quale stanno in una relazione di reciproca necessità, va riconosciuto un uguale valore. Dato questo presupposto assiologico, fra il mondo umano e il resto della natura non sussisterebbe alcuna differenza di dignità morale, per il fatto che tutti gli organismi sono ugualmente dipendenti dal contesto in cui vivono, secondo una rete di interdipendenze reciproche che annullerebbero qualsiasi ipotesi di superiorità di una specie sull’altra. Questo «biocentrismo egualitario» (Naess, 1988, p. 26) solleva una difficile questione etica: se tutti gli enti, indipendentemente dalla specie cui appartengono, hanno uno stesso valore, sulla base di quali criteri ci si può orientare per risolvere gli inevitabili conflitti che insorgono nella gestione del rapporto esistente fra mondo umano e mondo naturale? La teoria del biocentrismo radicale non rischia di fare smarrire la ricerca di una misura propriamente umana del vivere e, quindi, di scivolare in una forma di antiumanesimo? Una rigorosa teoria dell’educazione ecologica non può sottrarsi al compito di analizzare criticamente questo tipo di problemi, allo scopo di elaborare mediazioni critiche che consentano agli educatori di orientarsi secondo ragione nell’intricata rete di questioni sollevate dalla crisi ecologica e dei discorsi che attorno a essa si vanno tessendo. Solleva difficoltà non minori la teoria dell’ecocentrismo, vale a dire la tesi secondo la quale, essendo l’essere umano parte della natura, deve perseguire la ricerca del bene dell’intero ecosistema. Giusto teorizzare la necessità di andare alla ricerca di un equilibrio ecosostenibile fra il mondo umano e il resto della natura; va, però, mantenuta una chiara visione dell’impossibilità da parte della specie umana di perseguire il bene di tutta la comunità biotica, poiché tale obiettivo risulta fuori dalla portata del pensare e dell’agire umano. Cercare il bene dell’ecosistema implica, infatti, il sapere non solo in cosa consista il bene per l’essere umano, ma anche quale sia quello della natura.
Assumere come matrice concettuale dell’educazione all’etica ecologica la teoria ecocentrica equivale a mantenere la pratica formativa dentro i limiti della visione moderna delle cose, la quale si alimenta dell’illusione di poter agganciare uno sguardo universalmente valido. Se l’epistemologia classica, che il paradigma ecologico intende superare, mirava a guadagnare una postazione cognitiva svincolata dai limiti imposti dall’appartenere alla condizione terrestre e per questo capace di attingere un sapere oggettivo e atemporale, nell’ecocentrismo questa aspirazione, anziché venir meno a seguito delle più recenti riflessioni epistemologiche che sottolineano la qualità insuperabilmente situata del pensare umano, viene tacitamente riproposta sotto altre vesti: il punto di vista universalmente valido viene ora cercato dentro la realtà biofisica cui apparteniamo. Per essere ecologica l’etica non può condividere quel delirio di onnipotenza che vorrebbe gli esseri umani capaci di perseguire anche il bene del mondo extraumano, e quindi dell’intera ecosfera, ma deve costruirsi a partire dalla consapevolezza e dall’accettazione dei limiti cognitivi dell’essere umano. Dati questi elementi problematici, risulta evidente la necessità che la teoria dell’educazione all’etica in una prospettiva ecologica assuma il compito di interrogare criticamente le teorie etiche emergenti, se intende disegnare percorsi formativi finalmente estranei a quel paradigma della modernità che è alla radice di filosofie dell’educazione non ecologiche. Una cosa è pensare a un’educazione impegnata a ridiscutere l’idea che nutriamo dell’essere umano e della posizione che occupa nell’ordine delle cose, altra cosa, invece, e difficilmente sostenibile, è il concepire l’educazione etica a partire dal postulato secondo il quale l’essere umano potrebbe non solo comprendere, ma anche perseguire il bene dell’intera comunità biotica. Sotto la finzione di un’etica ecologica si nasconde una nuova forma di arroganza, che pretende di dare forma a uno sguardo pansofico capace di vedere ciò che gli enti extraumani desiderano che noi esseri umani facciamo. Una teoria dell’educazione ecologica che non analizzi criticamente certi postulati che fanno da sfondo alle teorie non solo etiche, ma anche epistemologiche, inavvertitamente può scivolare in contraddizioni che minano alla radice ogni progetto educativo: è difficile perseguire l’obiettivo di costruire una nuova cultura coltivando inconsapevolmente abitudini cognitive antiecologiche. Una filosofia dell’educazione non può dunque
sottrarsi al compito di esaminare criticamente il pensiero ecologico per evidenziare i limiti e le implicazioni di certe teorie. In questo senso un buon pensiero pedagogico è inevitabilmente critico. In un dialogo critico con le etiche ambientali, il pensiero che mira alla costruzione di una teoria dell’educazione etica ecologicamente orientata non può non tenere conto delle obiezioni che vengono mosse all’opportunità di impegnare l’educazione in un simile compito. C’è anche chi mette in discussione l’opportunità di insistere sulla questione etica, dal momento che questa avrebbe perso senso nell’età della tecnica. In un contesto culturale dove a prevalere è la logica del “fare ciò che si può”, la tecnica solleva senza tregua l’emergenza di nuovi problemi, obbligando l’etica a rincorrere continuamente la problematicità imprevedibile delle applicazioni tecnologiche, senza che si dia il tempo di costruire criteri di misura sufficientemente stabili e generali. Si parla a questo proposito di «impotenza dell’etica», dal momento che si troverebbe a regolamentare l’azione di un essere umano non più autore della propria prassi, ma semplice funzionario della logica di autorealizzazione della tecnica (Galimberti, 1999, p. 460). Non ci sarebbe più un dovere che prescrive il fare, ma un dovere che rincorre il fare, costretto a fare i conti con gli effetti che la tecnica mette in atto. Subordinato non più alla natura, ma al potere tecnico conseguito per dominarla, oggi l’essere umano non avrebbe gli strumenti necessari per regolamentare l’uso del potere acquisito, perché l’etica elaborata dalla tradizione filosofica non sarebbe in grado di fornire gli orientamenti necessari a gestire con saggezza il potere della tecnica. L’etica tradizionale risulta impotente non solo perché deve fare i conti con la nuova natura dell’agire umano, che in conseguenza del potere acquisito dalla tecnica interviene pesantemente sulla capacità di autoconservazione degli equilibri biologici mettendo a repentaglio gli equilibri più intimi del tessuto vitale, ma soprattutto perché deve affrontare questioni conseguenti non tanto alle decisioni umane, ma ai risultati di procedure tecnologiche che si sviluppano sulla base di una logica di autoimposizione della tecnica. Sarebbe questo a privare di senso il discorso etico, perché un’etica che rincorre la tecnica mostra tutta la sua debolezza. Rispetto a queste posizioni teoriche si può obiettare che a essere in crisi non è l’etica, bensì la concezione moderna dell’etica, che le assegna una funzione di controllo dei meccanismi che regolano le azioni umane e del
potere tecnologico mirato a dominare la natura, e interpreta l’agire etico come osservanza di codici e norme che si presume garantirebbero tale controllo. Di fronte alla crisi dell’etica tradizionale, un contributo interessante alla costruzione di una teoria etica ecologica viene dal pensiero femminile, specificatamente dall’ecofemminismo. Con la filosofia ecologica il pensiero femminile condivide l’appello alla ricerca di una nuova etica, ma nello stesso tempo mette in dubbio la capacità delle teorie etiche emergenti di innescare un reale cambiamento morale, perché come tutta la filosofia morale occidentale anche quella ecologica rimarrebbe vincolata a un’interpretazione normativa, secondo la quale l’etica si struttura in una serie di princìpi di regolazione del comportamento definiti secondo procedure logiche che ne garantirebbero il valore universale e, quindi, il transitare verso un differente orientamento etico implicherebbe nient’altro che la messa a punto di nuovi codici. Questa visione dell’agire morale è rintracciabile nelle declinazioni più formalistiche dell’etica ecologica, che vedrebbero risolta la questione dell’emergenza di una differente forma di eticità estesa agli enti extraumani semplicemente integrando il “contratto sociale” con un “contratto naturale”, che prenda la forma di un codice ecologico capace di fornire dispositivi efficaci ai fini del controllo del comportamento umano. Noi abitiamo una cultura che si è costruita sulla logica contrattuale, dove il rapporto di scambio fra acquirente e venditore è stato assunto come modello su cui regolare le varie attività umane. Fra i filosofi contemporanei c’è chi è convinto che anche la riflessione etica dovrebbe assumere come fondante la logica contrattuale. Pensare che l’educazione etica si risolva nell’acquisizione di codici significa presupporre che esista una teoria morale sufficientemente completa rispetto alla fenomenologia dei problemi morali. È, invece, impensabile una teoria definitiva, perché la fenomenologia dei problemi etici impone un aggiustamento continuo della teoria alla luce dell’esperienza. Promuovere l’educazione etica nell’orizzonte del paradigma postmoderno, critico nei confronti di ogni discorso che pretenda per sé una valenza universale, significa promuovere nei soggetti educativi la disposizione a elaborare misure dell’agire a partire da una riflessione costante sull’esperienza, così che il comportamento, anziché ridursi a un sottostare automatico a codici dati, si configuri come l’esito meditato di un
processo di deliberazione etica conquistato attraverso l’esercizio della disciplina dell’analisi critica. Significa anche promuovere la consapevolezza della necessità di trovare una coerenza fra l’agire e i princìpi riconosciuti validi, e poi di impegnarsi a valutare criticamente le conseguenze del proprio agire. Decisivo risulta prevedere esperienze educative finalizzate a sviluppare il pensiero critico e, con esso, la disposizione a mettere in discussione ogni punto di vista che tenda a congelarsi nella forma di una teoria che vanti la pretesa di possedere un valore atemporale e generale, poiché non esiste alcuna teoria definitiva, ma ipotesi che vanno continuamente ripensate. 6.2. L’etica dell’impegno Rispetto a un’etica intesa come acquisizione e osservazione di norme aventi un valore universale, è possibile un’altra etica costruita sul principio del prendersi cura. Per trovare la legittimazione a parlare di etica della cura in ambito ecologico è necessaria una premessa. L’etica della cura è fondamentalmente un’etica che si applica alle relazioni umane. È evidente il carattere infraumano dell’etica della cura quando questa viene definita come una pratica che aiuta l’altro a crescere e ad attualizzare pienamente se stesso. La pratica della cura si esprime nella facilitazione della piena attualizzazione dell’altro. Implica pertanto una dislocazione dell’interesse dalla mia realtà a quella dell’altro e il sentire forte la tensione a promuovere ciò che è bene per lui/lei. L’aver cura presume la capacità di vedere la realtà dell’altro come una serie di possibilità che attendono di essere realizzate e il considerare tale realizzazione anche come una nostra responsabilità; è quando ci troviamo in questo tipo di relazione con l’altro, quando cioè la sua realtà diventa una reale possibilità anche per me, che ci situiamo in una relazione di cura. Così definita l’etica della cura fa risultare una forzatura applicarla alla relazione con il mondo della natura. Per rendere applicabile l’etica della cura anche al mondo non umano è utile rifarsi alla distinzione che Heidegger stabilisce fra l’aver cura e il prendersi cura: l’aver cura riguarda gli altri esseri umani, mentre il prendersi cura riguarda il mondo che Heidegger definisce dell’«utilizzabile intramondano» (1976, p. 154) e che in una ottica ecologica può essere definito come il mondo extaumano. Mentre «l’altro esserci» in quanto
«con-esserci» è incontrato nel modo dell’aver cura, con gli altri enti non umani, in quanto semplici presenze, l’essere umano si relaziona nella forma del prendersi cura (Heidegger, 1976, pp. 156-157). Distinguere l’aver cura dal prendersi cura non implica una gerarchia di impegno etico, piuttosto indica che l’impegno del prendersi cura è rivolto a enti rispetto ai quali esiste una distanza rispetto alla commonalità che ci unisce agli altri esseri umani. Un comportamento si può definire di cura quando è guidato dall’intenzione di creare le condizioni necessarie a preservare, riparare, promuovere la vita verso la sua piena realizzazione. La cura è il modo di essere proprio della condizione umana, poiché l’essere che noi siamo è chiamato a procurare cose per conservare la vita, per farla fiorire e per riparare le ferite che si producono nel corso del tempo. Nella tradizione occidentale la sfera etica è concepita applicabile al mondo umano, ma non nei confronti della natura da sempre considerata come la sfera non-umana. Ma se reinterpretiamo la condizione umana alla luce di una visione ecologica, allora si viene a modificare il paradigma di pensiero a partire dal quale si decide l’ambito di pertinenza dell’etica. Se l’essere umano è parte della natura, anche se patisce una scissura che non lo fa sentire completamente assorbito nel mondo naturale poiché la sua essenza si esprime anche nella dimensione spirituale, allora avere cura del mondo umano significa anche prendersi cura del mondo naturale entro il quale il mondo umano è costruito. Se si assume come valido l’esito delle ricerche a suo tempo condotte sulle pratiche di cura (Mortari, 2015), è fondamentale considerare che la pratica di cura è etica nella sua essenza, poiché si realizza nella messa in atto di modi di essere che prendono il nome di virtù: temperanza, rispetto, giustizia, coraggio, pazienza, e soprattutto generosità. Per definire l’essenza del prendersi cura del mondo si dovrebbe stabilire quali sono le virtù propriamente ecologiche. Rispetto e giustizia sono virtù essenziali per un’etica ecologica. Avere rispetto significa trattare ogni ente con riguardo. Agire con giustizia significa sorvegliare l’uso delle risorse in modo che a tutti sia garantito un uguale accesso alle cose del mondo che abitiamo. In questo momento storico il principio di giustizia chiede di agire per ridurre ogni forma di sfruttamento delle risorse che sono allocate nei paesi più poveri del mondo,
che da tempo subiscono una ruberia economica che ha prodotto gravissime forme di impoverimento Essenziale per uno stile di vita ecologico è la virtù della sobrietà. Sul tempio di Delfi si trovavano alcune famose iscrizioni fra cui la seguente: «non troppo» (meden agan), che invita a cercare la giusta misura in ogni cosa. Quando una comunità adotta il principio etico della sobrietà prende forma un modo di essere nei confronti del mondo circostante che è radicalmente differente dal modo del consumo, poiché il principio della misura riporta l’esserci alla ricerca dell’essenziale. Le applicazioni spesso poco meditate della ricerca scientificotecnologica impongono il recupero della virtù della prudenza, intesa come il saper prendere il giusto tempo per valutare cosa è bene e giusto fare prima di deliberare la direzione del proprio agire. Secondo la prospettiva aristotelica la prudenza è una virtù dianoetica o intellettuale. Non ci può essere cultura della sostenibilità se non c’è prudenza sui processi decisionali che hanno da valutare azioni il cui impatto ecologico risulta sensibile. Di fronte a un sistema di informazione sui problemi ambientali non sempre corretta e a fronte di comportamenti lesivi dell’ambiente e dei diritti delle persone a vivere in ambienti salubri e piacevoli, rappresenta un’importante virtù ecologica il coraggio di dire come stanno le cose: denunciare ciò che è sbagliato, ciò che danneggia la qualità della vita, che provoca inutilmente situazione di disagio e sofferenza. Il coraggio di pronunciare parole di verità è una virtù che nell’antichità veniva nominata con il termine parresìa; etimologicamente parresìa significa “dire quanto è necessario”, è la franchezza che fa esporre a dire quel che si ritiene necessario. “Parlare liberamente” mette la persona in una situazione di rischio, poiché l’altro cui ci si rivolge non sempre accetta di prestare ascolto alla verità, specialmente quando in gioco c’è una fonte di profitto, ricchezza e potere. L’inversione di paradigma necessaria al prendere forma di una cultura ecologica richiede il coraggio di adottare stili di vita che non obbediscono alla logica dominante e che in questa prospettiva assumono come princìpi del pensare e dell’agire la sobrietà, la semplicità, il sottrarsi alla logica del consumo. Un’altra virtù considerata fondamentale dall’etica aristotelica è la benevolenza, che si esprime nella ricerca di ciò che è buono per la vita dell’altro. Cercare ciò che fa bene rappresenta il principale principio etico
che, se adottato in una visione ecologica, rende evidente la necessità di agire per conservare la vita biofisica, perché solo conservando e proteggendo il mondo che abitiamo è possibile garantire una qualità dell’esperienza tale da rendere la vita umana degna di essere vissuta. Praticare la virtù della benevolenza nella prospettiva ecologica significa agire in modo che a tutte le persone sia garantita la possibilità di vivere una buona qualità della vita in contatto con un ambiente quanto più possibile integro e dunque ristorativo. Adottare l’etica delle virtù significa porre in primo piano nella formazione etica la domanda: “cosa è bene essere?”, domanda che non sostituisce la kantiana “cosa è giusto fare?”, ma la ricomprende. Porre al centro del processo formativo tale questione implica riservare tempo al lavoro di riflessione finalizzato a dare forma al proprio esserci. 6.3. Educare a prendersi cura All’educazione alla cura va riconosciuta una primarietà sul piano pedagogico in quanto l’essere umano è educabile, cioè in grado di realizzare la sua forma propria, attraverso l’apporto determinante di azioni di cura. La cura è la qualità esistenziale fondamentale dell’essere umano, in quanto prendersi cura di ed essere preso in cura sono esperienze essenziali dell’esserci. Paradossalmente, rispetto a questa primarietà della cura, i processi di formazione, che hanno lo scopo di preparare a coltivare la vita, sono scarsamente attenti. Probabilmente proprio al trascurare l’etica della cura va ricondotto lo stato di crisi in cui versano i sistemi formativi. È proprio del processo di istruzione favorire l’apprendimento dei saperi disciplinari, ma l’acquisizione di conoscenze non esaurisce il senso del processo formativo, che ha la sua ragione istitutiva nella necessità di offrire esperienze che promuovano la capacità e la passione di dare forma etica ed estetica all’esistenza. Prestare un’attenzione esclusiva all’acquisizione dei saperi implica quel riduzionismo delle politiche formative che è all’origine della debolezza del sistema di istruzione. Considerata l’importanza di sviluppare un’educazione alla cura, si pone il problema di come facilitare l’apprendimento di tale disposizione etica. Può essere utile riprendere la distinzione che Deane Curtin (1991, pp. 67-
68) introduce fra caring for e caring about. Il caring about è quella pratica etica che ha come riferimento soggetti che non stanno nel proprio campo esperienziale; invece la disposizione al caring for prende forma nel contesto di una relazione diretta. Riprendendo la distinzione fra aver cura e prendersi cura, si può distinguere fra una pratica diretta del prendersi cura, che impegna il soggetto in azioni concrete nello spazio di vita vissuto, e una pratica indiretta che si esprime in azioni a supporto di iniziative sociali e politiche ecologicamente impostate. La cura è una pratica e in quanto tale si acquisisce attraverso situazioni di apprendimento esperienziali, dove si impara a prendersi cura attraverso l’impegno in progetti di responsabilità. Decisivo è dunque allestire contesti educativi dove il prendersi cura non è solo enunciato, ma incarnato nelle pratiche. Ne consegue che ispirare le politiche formative al principio dell’etica della cura significa imporre una torsione radicale rispetto al modello prevalente, quello che fa coincidere la formazione con l’apprendimento di concetti e metodi senza che si promuovano contesti esperienziali di messa alla prova di quanto si apprende. Noddings propone di organizzare il curricolo attorno a quelli che definisce «centri di cura», nei quali si fa l’esperienza di avere cura di sé, di quelli con i quali siamo legati attraverso forti relazioni, ma anche di quelli che non stanno nella prossimità della nostra esperienza diretta, e poi di prendersi cura degli animali, delle piante e del mondo geofisico, del mondo degli artefatti umani e del mondo delle idee (Noddings, 1992, p. XIII). Non di apprendimenti verbali ha bisogno l’educazione etica, ma di allestire ambienti educativi ad alto tasso esperienziale. 25
Scelgo di parlare di educazione etica e non di educazione morale, assumendo il concetto di etica così com’è definito da Ricœur (2007) che, al di là della comune origine etimologica dei due termini, assegna a ciascuno uno spazio semantico differente: l’etica si occupa di comprendere “ciò che è valutato buono da fare”, mentre la moralità si occupa di “ciò che è giusto fare”. Ciò significa che la questione centrale per l’etica è di comprendere in che cosa consista una vita buona, mentre per la morale si tratta di definire regole e codici di condotta. L’etica si situerebbe dunque nella tradizione aristotelica, mentre la morale in quella kantiana. Se la morale è la regione delle norme già definite mentre l’etica è lo spazio dell’interrogazione delle questioni, allora l’agire educativo deve assumere come centrale l’educazione etica intesa come educazione a cercare la verità dell’agire.
7. Depotenziare la logica del consumo
7.1. Pensare la qualità della vita La radical ecology (McLaughlin, 1993) considera prioritaria una forma di educazione mirata innanzitutto alla riscoperta di una qualità della vita sottratta alla logica del consumo assunta come misura del ben-essere. Ciò che distrugge il pianeta è la logica del mercato, che si fonda sul consumo sregolato della natura funzionale a un’economia svincolata da ogni responsabilità etica. Per una società dello spreco, qual è quella consumistica, non la distruzione, bensì la conservazione costituisce un problema, perché la continuità della produzione richiede che gli artefatti umani perdano il carattere della durevolezza per divenire meri oggetti da consumare. Ad accrescere la problematicità del prevalere della logica del consumo è che questa, insieme alla natura, consuma anche l’esistenza umana, poiché porta a ridurre la ricerca di significato dell’esserci nella tensione a metabolizzare quanti più beni possibili. Nella società dei consumi il deterioramento delle risorse e il deterioramento della qualità dell’esistenza procedono di pari passo, e ciò in conseguenza del fatto che il sistema sociale assegna una maggiore priorità al profitto che al ben-essere. Difficile, però, mettere in crisi la logica del consumo, che continua a sopravvivere perché dispone nel nostro sistema culturale di varie nicchie di legittimazione. Innanzitutto tale logica si fonda su quei presupposti che strutturano l’impianto concettuale della cultura occidentale; trova, infatti, legittimazione nell’ontologia della svalutazione della natura. La spoliazione di valore della natura è addirittura teorizzata dalla scienza economica. «Le ricchezze naturali – scrive Jean-Baptiste Say – sono inesauribili, perché altrimenti non le otterremmo gratuitamente. Non potendo essere né
moltiplicate, né esaurite, esse non costituiscono l’oggetto della scienza economica» (cit. in Latouche, 1998, pp. 96-97). Adottando il modello della meccanica newtoniana, l’economia classica ignora l’entropia, cioè l’irreversibilità delle trasformazioni dell’energia e della materia, da cui consegue uno spreco delle risorse non rinnovabili e un sotto utilizzo di quelle rinnovabili (per es.: l’energia solare, quella eolica, delle maree, ecc.). Nella prospettiva di una rifondazione ecologica della nostra cultura diventa, quindi, essenziale convertire questa ontologia della svalutazione della natura nella consapevolezza che i beni naturali costituiscono un capitale verde da tutelare. A partire dall’assenza della percezione di valore della natura, trova legittimazione un sistema di produzione che utilizza con insensata leggerezza le scoperte biotecnologiche. Basti pensare alle sementi transgeniche, che una volta immesse nel mercato innescano meccanismi che provocano la scomparsa delle sementi naturali. Su queste sementi si fonda, invece, l’economia di molte popolazioni dei paesi più poveri, che così vedono venir meno le fonti della loro sopravvivenza e si trovano costrette ad adeguarsi a una logica di mercato che provoca un progressivo impoverimento, costringendo le comunità locali a passare da un’economia di sussistenza a un’economia di povertà. Oltre a innescare processi di impoverimento di intere popolazioni, l’imposizione di sementi frutto dell’ingegneria biotecnologica a opera delle multinazionali distrugge la biodiversità. L’altro fattore difficile da contrastare è il dominio esercitato dalla logica mercantile, per la quale la produttività che garantisce il profitto e l’efficienza dei processi di produzione costituisce il solo valore riconosciuto (Latouche, 1995, p. 35). Non meno determinante è la definizione del benessere, cui l’essere umano costitutivamente aspira, secondo la logica del possedere e del consumare. È evidente la necessità di una decostruzione dell’imperativo del consumo affinché sia possibile disegnare altre politiche dell’esistenza sapientemente ecologiche. Questo aspetto del processo educativo è delicato. Non si tratta di sponsorizzare modelli di esistenza già formulati, con la presunzione da parte di chi ha la responsabilità del processo formativo di sapere dove sta la giusta misura dell’esistere. Piuttosto occorre trovare lo spazio necessario per educare a pensare criticamente, dove il
pensare è inteso nella forma dell’interrogare che non dà mai nulla per scontato, e indaga il fondale concettuale che incornicia il nostro pensare vincolando il processo di significazione dell’esperienza. Un pensare che oltre a profilarsi come smascheramento dei paradigmi antiecologici, si impegna nell’analisi delle contraddizioni economiche e politiche del nostro tempo26. Prima di essere uno scienziato o un produttore l’essere umano è un soggetto responsabile del suo essere; non è solo un essere che produce cose per costruire un mondo umano, ma è un soggetto politico che trova il modo di autenticare la sua vita impegnandosi politicamente nel mondo. L’educazione a un pensare impegnato sul piano politico per la costruzione di un nuovo clima culturale non può non prevedere percorsi di riflessione che abbiano come oggetto le questioni fondamentali che fanno da sfondo alla progettualità esistenziale cui ogni essere umano è chiamato. Scrive a questo proposito Virginia Held: Se si possono cambiare le aspirazioni della gente riguardo al tipo di vita che vuole condurre e se si può modificare la percezione di se stessi e della propria vita come qualcosa di soddisfacente, allora si può modificare anche il modo in cui il potere, economico, politico e di altro tipo, viene usato per perseguire gli scopi delle persone e dei gruppi (Held, 1997, p. 10).
Se è vero, come afferma Aristotele, che tutte le cose le scegliamo in vista della possibilità di condurre una vita buona, essendo il fine cui mira ogni essere umano (Etica nicomachea, X, 1176b, 30-31), allora anche il rapporto con l’ambiente viene deciso in base all’idea di vita buona cui aspiriamo. Di conseguenza, interrogarsi sul concetto di “buona qualità della vita” è uno snodo essenziale dell’educazione ecologica. «Riflettere su ciò che è umanamente desiderabile e su ciò che dovrebbe determinare la scelta – afferma Jonas (1991, p. 139) – diventa un imperativo più urgente di tutti gli altri finora imposti all’intelligenza dell’uomo mortale». Sembra ci sia un diffuso accordo nel ritenere che a essere a rischio è la possibilità di condurre una buona vita, ma è riscontrabile un altrettanto diffuso disaccordo sul modo di interpretare tale concetto. Senza auspicare pericolose filosofie scientiste dell’esistenza, ingegneristicamente tese a definire concetti dal valore generale e atemporale rispetto a questioni destinate invece a rimanere costitutivamente aperte, diventa di fondamentale importanza in ambito educativo riportare l’attenzione su questioni del tipo: “In che cosa consiste una buona qualità della vita?” e “In quale ambiente abitare per attualizzare tale possibilità?”. La pratica
dell’investigare questo tipo di questioni, all’apparenza meramente oziose, è necessaria perché esse hanno significative implicazioni ecologiche, nel senso che i criteri in base ai quali prendiamo decisioni circa il rapporto da intrattenere con l’ambiente dipendono dalle risposte che a tali questioni sono state elaborate; di conseguenza fare di esse l’oggetto di un pensare criticamente e costruttivamente orientato assume il valore di una componente essenziale del processo educativo. Partendo dal presupposto aristotelico secondo il quale una buona qualità della vita è quella alla quale non manchi nulla di ciò che consente la piena autorealizzazione dell’essere umano, si tratta di impegnare il pensare sulle seguenti questioni: “Quali circostanze procurano buone condizioni per vivere? Che cosa rende la vita buona, tale cioè da consentire il massimo di autorealizzazione possibile dell’umanità di ciascuno?”27. Per trovare una risposta, seppur sempre provvisoria, a queste domande è possibile partire da differenti cornici di presupposti, i quali condizionano le risposte che verranno formulate. Ragionare a partire da un’ontologia che considera l’essere umano solo nella sua sostanza mentale e non anche come corpo porta a escludere dal concetto di buona qualità della vita il rapporto con le cose della natura e, quindi, a non cogliere la necessità di prendersi cura dell’ambiente in quanto corpo esteso che include il nostro stesso corpo. Se, invece, si va in cerca delle componenti che configurano una buona qualità della vita a partire da un’ontologia ecologica, quella dell’esserci incarnato, allora non si può non cogliere l’importanza di salvaguardare e coltivare la dimensione naturale della vita, essendo costitutiva dell’essere umano. Se una buona qualità della vita deve includere ogni valore la cui mancanza rende incompleta l’esperienza umana, allora nel concetto di vita buona va inclusa come condizione anche la possibilità di coltivare un rapporto diretto e sensorialmente intenso col resto della natura. Dato, quindi, il valore performativo che i presupposti ontologici esercitano sul processo della ricerca di una risposta alle questioni fondamentali, deve esistere una robusta saldatura fra l’educazione a prendere in esame il concetto di “buona qualità della vita” e quella intesa a ridefinire la mappa dei presupposti ontologici. Il lavorare attorno all’idea di buona qualità della vita avrà un impatto ecologico solo se contemporaneamente si mette in atto un processo di rielaborazione
ecologicamente orientata da quei presupposti che strutturano il framework a partire dal quale si costruiscono le versioni del mondo. Quando ci si occupa dell’educazione a pensare è importante evitare di assumere rappresentazioni causali-lineari dei processi cognitivi: è vero che la risposta a questioni dal forte spessore politico, come il concetto di “buona qualità della vita”, è condizionata dai presupposti ontologici a partire da cui si pensa, ma è altrettanto vero che il tipo di presupposti da cui si parte è frutto di una scelta sulla quale pesano i desideri che stanno al fondo di ogni scelta. Solo se la mente umana fosse in grado di agganciare concetti oggettivamente fondati, tali cioè da garantire una rappresentazione isomorfa della realtà, i presupposti cognitivi costringerebbero a essere adottati senza possibilità di scelta, poiché la verità così intesa ha una natura coercitiva. Invece, ogni attività umana è soggettivamente densa e non oggettivamente fondata, nel senso che è sempre mossa da un’intenzione, e questa intenzione funziona da bussola che orienta il processo di ricerca. Come afferma Kristin Shrader-Frechette (1995, p. 621), già nello scopo cui si mira sono decisi i criteri che orientano la ricerca di altri presupposti. Si istituisce, quindi, tra i presupposti del pensare e le versioni del mondo che si vanno elaborando, una dialogica circolare che, considerata dal punto di vista dell’educazione al pensare, impone di adottare un approccio didattico binoculare, che impegni l’attività cognitiva sul piano della decostruzione e riconfigurazione sia delle cornici di presupposti che delle versioni del mondo che alimentano i nostri desideri. La nostra abitudine a pensare in termini lineari e gerarchici potrebbe spingerci a ritenere che la riflessione sui presupposti paradigmatici sia una questione fondativa, nel senso che costituirebbe la base su cui poggiano in successione altre operazioni culturali, le quali insieme andrebbero a strutturare quel sapere che tendiamo a rappresentarci sulla base della metafora dell’edificio. L’ecologia mostra la necessità di uscire da questa rappresentazione statica e gerarchica della vita della mente, come fosse costituita da “fondamenta fondamentali”, a partire dalle quali si svilupperebbero piani di sapere via via meno fondamentali, per concepirla secondo un approccio sistemico di tipo dinamico, dove ogni nicchia noologica svolge una funzione essenziale nel processo di autoorganizzazione del sapere secondo una processualità coevolutiva. Se pensiamo alla vita della mente nei termini di un ecosistema, dove ogni
parte è strettamente interconnessa con le altre secondo una dialogica complessa di codipendenza evolutiva che si nutre di retroazioni continue, allora non si può non complessificare l’atto educativo chiedendo che esso si configuri come un processo che, tenuto conto delle relazioni circolari esistenti fra i vari nuclei noologici all’interno dei quali non ha senso individuare punti d’origine fondativi, promuove il pensare riflessivo lungo più direzioni contemporaneamente. È importante portare l’attenzione di chi è coinvolto nel processo formativo non solo sulla questione che si sta sollevando, ma anche sul punto di vista a partire dal quale tale questione è posta, e quindi sui presupposti che costituiscono il punto di osservazione; inoltre, sulla base di questo approccio metacognitivo, il pensiero va guidato a prendere in esame tutte le possibili forme che può assumere l’idea di “buona qualità della vita” in relazione al cambiare della cornice di presupposti e, viceversa, come differenti concetti della “vita buona”, siano più o meno conciliabili con certi presupposti. Il dare vita a processi educativi che intendono promuovere la riflessione sulle idee rilevanti sul piano esistenziale, come l’idea di “buona qualità della vita”, si profila come una pratica densamente problematica, che richiede ai docenti di maturare una postura eticamente orientata al principio del rispetto dell’altro, che consiste nel prendere le distanze da ogni tentazione ideologica di affermazione di teorie predate per, invece, creare e salvaguardare tutti gli spazi possibili di libertà del pensare. Si tratta di promuovere la capacità di pensare in profondità «senza voler prescrivere che cosa si debba pensare né quali verità debbano essere possedute» (Arendt, 1999, p. 37)28. Nel campo dell’educazione scientifica il compito dell’educatore è quello di individuare eventuali concezioni errate per poi promuovere forme di evoluzione concettuale che consentano allo studente di costruire mappe cognitive scientificamente fondate. Nell’ambito delle questioni di significato non esistono, invece, ben definite misconceptions da smantellare, né verità oggettivamente fondate da sponsorizzare; di conseguenza tutti coloro che ai vari livelli sono coinvolti in un processo educativo hanno la responsabilità di impegnarsi a evitare ogni forma di ideologizzazione, approntando contesti formativi dove ogni studente impari a pensare in modo rigoroso e critico per andare alla ricerca di costellazioni di criteri di
misura dell’esserci costruiti in modo meditato e nel confronto dialogicamente costruttivo e critico con gli altri. L’attività cognitiva dovrebbe prendere la forma di un’esplorazione mentale di possibilità esistenziali, senza che chi conduce il processo di riflessione fornisca giudizi di valore che possono bloccare l’azione d’indagine criticamente orientata. Il compito dell’educatore non è di promuovere l’assimilazione di un preciso punto di vista, ma di educare gli studenti a riflettere sulle proprie opinioni, metterle in discussione, valutarne le implicazioni pratiche e intraprendere un dialogo criticamente orientato col punto di vista degli altri. Si apre così la possibilità che ciascuno, guadagnata consapevolezza della ringhiera cognitiva a partire dalla quale pensa, sviluppi la disposizione a sottrarsi alla facile tendenza a lasciare che le proprie idee si cristallizzino per consentire, invece, a esse di evolvere nello spazio generativo di un pensare riflessivamente critico. 7.2. Educare a conservare Ciò che è più importante dal punto di vista della radical ecology è che la riflessione sul concetto di “buona qualità della vita” si sviluppi in modo strettamente correlato con la messa in discussione del concetto consumistico del ben-essere, come presupposto necessario a un’educazione alla conservazione. Nell’attuale cultura dello spreco ogni cosa diventa un bene di consumo la cui durata deve essere la più breve possibile, per consentire di essere rimpiazzata quanto prima da altri beni in un processo interminabile. La logica su cui si fonda l’industrialismo trasforma ogni prodotto dell’attività lavorativa in un oggetto da consumare, perché la continuità della produzione è garantita dalla possibilità di un consumo incessante, e quindi dal fatto che i prodotti perdano il più velocemente possibile il loro carattere d’uso per acquistare quello di oggetti di consumo. L’industrialismo ha un incessante bisogno di una sempre più rapida sostituzione delle cose del mondo; stare al passo con i tempi significa non avere più tempo per usare le cose e conservarle nella loro naturale durevolezza, per consumarle o meglio divorarle quanto prima. Il mondo umano, per costituirsi come dimora dell’esistere di ciascuno, ha invece bisogno di oggetti che durino nel tempo, quindi di continuità, e
non di una metabolizzazione continua, che sembra forzare i confini che proteggevano il mondo, consegnandolo a una processualità priva di senso. Il prevalere della logica del consumo, mentre impoverisce e distrugge la natura impedisce anche la costruzione di un mondo propriamente umano, poiché la vita rischia di scivolare nell’insensatezza del trovarsi compressa fra il tempo dedicato al lavoro, necessario ad acquisire i beni di consumo, e il tempo libero, dedicato al consumo di ciò che è stato acquisito. L’industrialismo, per garantire la sua sopravvivenza, deve invadere il tempo libero in modo da mantenere intatta la capacità di consumo. Si può parlare per questo dello «spettro di una società di mero consumo» (Arendt, 1989, p. 94) che, per sussistere, deve annichilire la percezione non solo di altri modi dell’esserci, ma anche che di questa futilità del vivere vi sia consapevolezza. La proliferazione di «non-luoghi» (Augé, 1993) è possibile in una società dove tutto concorre ad anestetizzare la consapevolezza della mancanza di senso di quei tempi che sono spesi a navigare con lo sguardo fra prodotti di consumo spesso uguali, senza che nell’intorno si possano rintracciare stimoli a modi di vita alternativi. Il fatto che certi bisogni costruiti dalla civiltà industriale divengano più raffinati, come accade nelle società più ricche, dove il consumo non è più limitato alle cose necessarie ma riguarda anche quelle superflue, implica il grave pericolo che nessun oggetto del mondo sia protetto dalla logica del consumo e dalla perdita di senso che tale logica comporta. Se la terra costituisce la condizione necessaria alla vita, il mondo e le cose del mondo costruiscono la condizione per la realizzazione di una vita propriamente umana. Ma questo mondo, per consentire all’essere umano di dare piena forma alla sua esistenza, deve avere permanenza. La dimora propria dell’essere umano, che è costituita da un mondo fatto con materiali che la natura mette a disposizione, non consiste solo di oggetti da consumare ma anche di oggetti da usare, e per questa ragione ha necessità di essere conservata. Invece, la logica del consumo ha come effetto non solo di distruggere la natura, ma anche il mondo umano, poiché l’economia dello spreco, in cui le cose devono essere consumate ed eliminate con rapidità, priva gli esseri umani di uno sfondo durevole. È tempo di chiedersi se il consumo porti veramente alla realizzazione dell’eccellenza umana, o se invece l’idea di bene che fa da sfondo alla politica dell’industrialismo non prefiguri scenari esistenziali impoveriti, dal
momento che nel dare forma a una qualità della vita funzionale all’economia dello spreco lo spazio vitale è stato deprivato di importanti possibilità esperienziali: aria e acqua pulita, spazi naturali, la quiete della notte, con la sua oscurità e i suoi silenzi. È indiscutibile la primarietà dell’educazione al conservare, dal momento che la cultura dello spreco è la causa prima dell’impoverimento ambientale, perché implica una metabolizzazione senza limiti delle risorse naturali. Ma la logica del consumo va contrastata perché provoca non solo un depauperamento per molti aspetti irreversibile del tessuto materiale del vivere, ma anche un impoverimento del percorso esistenziale, impoverito dentro la sola logica acquisitiva. Stare dentro la logica del consumo significa accettare uno stile di vita che mette in crisi l’equilibrio non solo della natura esterna, ma anche di quella interna, quando viene a essere divorata da una smisurata smania di appropriazione delle cose. In questo senso, come già affermò Thoreau, l’educazione ecologica si profila innanzitutto come educazione spirituale, intesa come ricerca di una forma di saggezza. In questa prospettiva, fondamentale non è solo imparare a identificare i “bisogni essenziali” alla sopravvivenza e i “bisogni valorizzanti”, quei bisogni dell’anima che sono in relazione con la ricerca di una dimensione pienamente umana del percorso esistenziale, ma anche il saper discriminare questo tipo di bisogni da quelli inutili, pur sponsorizzati come essenziali dalla logica del mercato (Shrader-Frechette, 1993, p. 173). È fondamentale imparare a stare all’essenziale, cioè a cercare la giusta misura nel soddisfare i vari tipi di bisogni. Il perseguire un impatto misurato sul mondo circostante è un principio ecologico fondamentale, perché la possibilità di realizzare un nuovo ordine economico ecosostenibile dipende anche dall’impegno che ciascuno metterà nel praticare uno stile di vita costruito sulla logica della riduzione del livello dei consumi. Si può ipotizzare il valore esistenziale e politico di quella che si può definire la virtù ecologica della frugalità. La frugalità non va confusa con la povertà, che è privazione di quanto è essenziale alla vita, ma capacità di sottrarsi alla tendenza spesso indotta dalla società del consumo a riempire il tempo di cose e attività incapaci di restituire senso. Il pieno di senso non è riempimento ossessivo di cose e attività, ma capacità di stare all’essenziale mettendo al primo posto ciò che è irrinunciabile.
Un’autentica educazione ecologica non può trascurare di considerare e valutare criticamente l’appello promosso dalla radical ecology a modificare lo stile di vita secondo il paradigma della semplicità. Vivere secondo il principio della “semplicità essenziale” significa imparare a spendere le proprie energie alla ricerca di qualcosa solo se consente di promuovere la propria autorealizzazione vista in stretta connessione con quella degli altri secondo una misura ecologica; si parla per questo di auto-socio-ecorealizzazione. Il limite in cui incorrono certe proposte di educazione ecologica orientate a promuovere la consapevolezza della necessità di una riduzione dei consumi è quello di puntare su discorsi moralistici, tutti mirati a convincere della necessità di ridurre drasticamente la sfera dei bisogni; in questo modo si veicola un’immagine “privativa” del vivere ecologico in quanto risulterebbe fondato sulla logica del sottrarre. Compito dell’educazione ecologica è, invece, impegnare a concepire in termini positivi il progetto di vivere secondo il principio della ricerca dell’essenziale. Si tratta di promuovere la consapevolezza che una semplificazione della sfera dei “bisogni aggiunti” e una ridefinizione in termini di essenzialità della soddisfazione dei “bisogni fondamentali”, anziché ridurre, dilata lo spazio di realizzazione esistenziale lungo una pluralità di percorsi che contemplano anche quelli che la logica del consumo ha posto in secondo piano: l’occuparsi della vita interiore, la valorizzazione delle esperienze estetiche, il prendersi cura delle relazioni sociali e la partecipazione alla vita politica. Secondo la logica virtuosamente ricorsiva con cui funzionano i sistemi viventi, è proprio il coltivare la dimensione spirituale che fa trovare il principio d’ordine per discriminare l’essenziale e consentire la costruzione di quegli orizzonti di senso che poi alla vita interiore danno spessore. Non ci sarà un nuovo umanesimo ecologico se non si affermeranno nuove politiche dell’esistenza, nutrite da una profonda spiritualità. Una politica generativa di nuovi mondi della vita ha il suo terreno di coltura non nei regolamenti e nei codici, ma in un nuovo modo di pensare che viene da una robusta educazione dei cittadini: una educazione al pensare analitico, critico e di immaginazione. Proprio dell’educazione ecologica è il provocare la volontà di cambiamento rispetto al presente, un cambiamento che chiede di farsi guidare da versioni del mondo differenti
rispetto a quelle imposte dalla logica mercantile dominante. A tale scopo i soggetti educativi devono essere posti nelle condizioni di poter indagare criticamente la visione dominante e di poter esplorare visioni alternative, che abbiano però la forma non di mere fantasticherie, ma di utopie realizzabili. Se pensiamo ai goals della Agenda 2030, risulta evidente l’imprescindibilità di un’educazione della mente che promuova il pensare critico e quella immaginazione politica capace di prefigurare altri mondi della vita, con l’energia cognitiva ed etica necessaria per identificare i modi di tradurre il possibile in reale. Non si può pensare di sconfiggere la povertà e la fame (goals 1 e 2) se i cittadini non sono posti nelle condizioni di vedere le dinamiche che favoriscono l’accumulazione del potere economico nelle mani di una piccola percentuale di persone; non si arriverà a una società dove a tutti sia garantito un lavoro dignitoso (goal 8), dove tutti siano trattati con rispetto indipendentemente dal genere (goal 5) e dove si possa vivere con giustizia e in pace (goal 16), se ai cittadini non viene garantita una qualità dell’istruzione (goal 4) che consenta di sviluppare le competenze e la passione per decostruire criticamente le politiche dei privilegi come condizione per progettare nuove politiche della condivisione che consentano a tutti di vivere una vita pienamente umana; non ci saranno comunità sostenibili (goal 11) e un modello di consumo e di produzione responsabile (goal 12) se la vita pubblica non sarà attraversata da pensieri controegemonici che sappiano mettere in discussione la logica economica e finanziaria che sta distruggendo il tessuto della vita; non ci sarà più acqua per tutti (goal 6) se non si porrà urgentemente a tema un modo differente di pensare alla cose della natura come a un bene da conservare e proteggere. 7.3. Impegnarsi per un mondo nuovo La messa in discussione della logica del consumo non va però limitata a una considerazione delle implicazioni che essa ha nella sfera personale dell’esistere quotidiano, ma dev’essere orientata anche a disvelare le implicazioni economiche, sociali e politiche. Se si approfondisce la questione, si può vedere come la logica economica che è alla base dell’impoverimento e del degrado dell’ambiente
in cui viviamo sia anche all’origine del processo di impoverimento e di degrado della qualità della vita di tutti quei popoli che sono estromessi dalla gestione del potere economico che sta consumando la natura. Infatti, la stessa logica economica che, in nome del principio del massimo profitto, legittima uno sfruttamento della natura libero da ogni vincolo etico, legittima anche lo sfruttamento delle risorse nei paesi cosiddetti “in via di sviluppo” e, addirittura, l’esportazione in quei paesi delle sostanze inquinanti prodotte dalle industrie dei paesi ricchi (Latouche, 1998, pp. 108-109). La distruzione degli ecosistemi a opera dello sfruttamento industriale e il processo di disintegrazione sociale e di progressiva povertà cui sono sottoposte molte comunità sono fenomeni strettamente connessi, che fanno della questione ecologica un problema inscindibile da quello del rispetto dei diritti umani. Determinante nel provocare processi di degrado, non solo ambientale ma anche sociale, è l’estensione dei diritti di proprietà delle risorse genetiche garantito alle multinazionali attraverso accordi internazionali che sottraggono alle popolazioni locali il diritto di gestire il patrimonio biologico che nel tempo hanno contribuito a sviluppare attraverso un’agricoltura ecosostenibile. All’interno delle comunità rurali tradizionali non esisteva alcun brevetto sulle scoperte biotecniche che consentivano di perfezionare i metodi di coltivazione; il sapere acquisito era a disposizione di tutti. Invece, la possibilità per le multinazionali di ottenere la protezione brevettuale anche sulle risorse genetiche sottrae i diritti di uso delle risorse alle popolazioni locali, costringendole a utilizzare tipi di coltivazioni che, poiché brevettate, vanno acquistate, con la conseguenza di provocare un impoverimento dell’economia locale. Da questo punto di vista la conservazione della biodiversità non appare più l’obiettivo discutibile dei preservazionisti, percepiti spesso come la frangia fondamentalista dell’ecologismo, ma una questione eco-politica che va affrontata innanzitutto attraverso la costruzione di un nuovo ordine economico, ma anche attraverso un’educazione che miri a formare coscienze politicamente consapevoli e disposte ad agire per il cambiamento in vista del bene comune. Data la stretta connessione fra sfruttamento dell’ambiente e questioni sociali, l’educazione ecologica non può non declinarsi nella forma di un’educazione politica che miri a promuovere la consapevolezza
delle implicazioni non solo ecologiche, ma anche sociali della logica economica dominante29. La teoria pedagogica deve tener conto anche del fatto che l’economia della spoliazione della natura non trova ostacoli anche a causa del fenomeno di depoliticizzazione della comunità sociale, che tende sempre più a ridursi ad aggregati di individui chiusi dentro logiche individualistiche, dove i cittadini diventano semplici utenti di disegni cui non contribuiscono. Si assiste ormai da tempo alla crisi della vita politica, intesa come cittadinanza partecipata e responsabile, che si manifesta nell’emorragia di sovranità rispetto al progetto della propria esistenza da parte dei cittadini a tutto vantaggio della crescita iperbolica di una gestione tecnocratica e burocratica della cosa pubblica. Esiste una logica circolare che non conosce soluzioni di continuità fra il fondale concettuale antiecologico, che vincola il pensare a una disattenzione svalorizzante nei confronti del mondo naturale, e lo sguardo a-politico sul mondo, che segna il nostro tempo: l’uno si alimenta dell’altro nutrendolo a sua volta. Si impone, perciò, la necessità di indebolire questa logica di distruzione della capacità di cittadinanza responsabile di cui si alimenta il sistema economico dominante. L’indirizzo sociale del pensiero ecologico suggerisce che l’educazione debba occuparsi di coltivare quei valori necessari alla costruzione di una differente qualità della vita sociale e politica. Un’educazione ecologica è quella che mira a mettere in crisi i valori su cui poggia la società mercantile: la competizione, la ricerca del massimo profitto e l’esaltazione dell’interesse privato a scapito di quello pubblico, per promuovere, invece, lo sviluppo di valori quali la solidarietà, il senso del limite, un profondo sentimento comunitario e il rispetto per le differenze. Questi valori vengono definiti ecologici, perché assumerli come paradigma dell’organizzazione della vita sociale implica una sensibile modificazione della logica economica dominante, tale da consentire la tessitura di un rapporto differente nei confronti del mondo naturale, che va nella direzione di una riduzione dello sfruttamento delle risorse non rinnovabili. I goals dell’Agenda 2030 rendono indifferibile un’educazione alla politica capace di nutrire un forte sentimento partecipativo, eticamente orientato alla costruzione di un ambiente di vita che consenta a ciascuno di trovare le vie necessarie per una piena autorealizzazione nel rispetto delle differenze
delle varie comunità locali. Rispetto a certe interpretazioni tecnicistiche e meramente istruttive dell’educazione, presa dentro le maglie di una cultura bancaria, è essenziale recuperare l’invito a concepirla innanzitutto nella forma di un’educazione all’impegno civile per l’edificazione di un mondo umano ecosostenibile capace di offrire a tutti le possibilità per vivere una vita degna di essere vissuta. In questa prospettiva è necessario innervare l’educazione politica di un modo di pensare distopico rispetto alla logica che domina il presente, che anziché ipostatizzare l’esistente (dove prevalgono l’etica contabile, che governa la vita a tutti i livelli, il culto per il progresso tecnologico e una visione della vita fortemente individualistica), si impegni, invece, ad alimentare un’immaginazione proiettata nel possibile che, nutrita da pratiche di riflessione sul concetto di buona qualità della vita così come sono state sopra delineate, sia capace di inventare utopie ecologiche, dove l’etica della cura diventa il principio che informa ogni aspetto dell’agire umano, compreso lo sviluppo tecnologico, così che a esso venga impressa una svolta ecocompatibile. La formazione ecologica sarà in grado di contribuire al prendere forma di modi nuovi di organizzazione della vita quando saprà nutrirsi di una logica differente rispetto alla tendenza culturale dominante; quella tendenza che porta a bandire ogni discorso utopico, perché provoca spiazzamenti e disordini insostenibili per le logiche del potere che governano il mondo. In un’epoca caratterizzata da una forte spinta all’omogeneizzazione culturale, è quanto mai necessario educare il pensiero a immaginare mondi nuovi. Quel che interessa non è tanto la produzione di progetti utopici sistematicamente strutturati, che potrebbero irrigidire il pensiero, ma alimentare il dialogare utopico come pratica politica. L’educazione al pensiero distopico, intesa come promozione della capacità non solo di concepire un mondo altro e migliore del presente, ma anche di prefigurare le azioni necessarie a renderlo attuale, coltiva un pensare capace di dischiudere possibilità inedite nel presente. Va precisato che qui la possibilità è intesa non come qualcosa che consentirebbe una riorganizzazione del reale stando comunque dentro il sistema di regole e di opzioni rese possibili dall’ordine presente, ma come apertura al nuovo che frantuma l’ordine dato e introduce scenari imprevisti. Proprio perché il presente è dominato dalla razionalità tecnica e
mercantile, occorre pensare a processi di formazione capaci di preparare i giovani ad affrontare criticamente la tendenza scientista e tecnicistica della cultura contemporanea. Il mito tecnocratico spinge a pensare che fra le competenze dei tecnici vada inclusa anche la responsabilità di pianificare il processo di soluzione della crisi ecologica. Un clima culturale permeato dalla legittimazione della delega tecnocratica, mentre contribuisce a portare la società verso forme di gestione sempre meno partecipative e responsabili, è allo stesso tempo funzionale al rafforzarsi della logica dell’industrialismo, e quindi della logica del profitto, che indirizza lo sviluppo tecnico verso forme non sempre in armonia col principio del miglioramento della qualità della vita per tutti. Le decisioni circa l’uso della tecnologia ai fini della promozione della qualità della vita devono essere materia di giudizio sociale, e ciò presuppone una cittadinanza educata a intrattenere un rapporto scientificamente fondato e politicamente critico nei confronti della tecnica. L’educazione al riciclaggio dei rifiuti, che sta registrando un certo consenso nel mondo della formazione, non solo ha senso nella misura in cui è supportata da un’educazione alla riduzione dei consumi, perché diversamente confinerebbe il processo educativo a occuparsi solo dei sintomi della crisi ecologica e, quindi, a essere inefficace rispetto all’obiettivo di promuovere un nuovo orientamento culturale; ma può essere pericolosa se alla base permane una fiducia acritica nelle soluzioni tecnologiche, poiché il pensare che sia possibile trovare una soluzione definitiva di tipo tecnico al rischio di fare del pianeta una “discarica globale” può impedire lo sviluppo di politiche culturali che mirino ad affrontare in modo più strutturale la crisi ecologica. L’educazione allo sviluppo di un pensare critico nei confronti della tecnica non va intesa in uno spirito antitecnologico. Sarebbe un atteggiamento non giustificabile, dal momento che un mondo senza tecnica non è pensabile. Noi abitiamo un mondo di cui la tecnosfera è una componente essenziale, al punto che la dimensione tecnica non è più oggetto di scelta, ma struttura costitutivamente il nostro ambiente di vita, come dimostra il fatto che ogni artefatto umano, sia materiale sia noetico, ha bisogno della tecnica per prendere forma. In questo senso si può dire che la tecnica costituisce l’orizzonte insuperabile entro il quale vanno strutturandosi tutti i campi dell’esperienza umana. Ciò che di questo
humus tecnologico va contrastato non è dunque la presenza della tecnica, ma la tendenza a subordinare la progettualità esistenziale alla razionalità tecnica, che regola ogni decisione in termini di funzionalità ed efficienza, da cui restano emarginate quelle domande di senso frequentando le quali da sempre l’essere umano costruisce il suo orizzonte di significati. A essere problematico non è la progressiva tecnicizzazione dell’ambiente umano, ma il fatto che questo processo non sia oggetto di una riflessione criticamente orientata, che si interroga sul senso dell’accadere presente. Da sempre la costruzione del mondo umano è stata condizionata dalla disponibilità di strumentazioni tecniche; ciò che oggi è inquietante è il potere di manipolazione acquisito dalla tecnologia, che ha trasformato non solo la natura ma il mondo umano in un campo di sperimentazione. Una sperimentazione che non conosce limiti se non la disponibilità di strumenti. È questa dismisura del potere della tecnica, che si accompagna alla mancanza del sapere la “giusta misura” del suo uso, che impone all’essere umano l’impegno a pensare per la costruzione di una nuova etica, un’etica del prendersi cura della vita. Coltivare un pensare eticamente impegnato diventa pertanto un imperativo non solo dell’educazione ecologica, ma di tutto il processo educativo, chiamato a emanciparsi dalla subordinazione alla razionalità tecnica, che costringe a emarginare tutte quelle domande di significato esistenziale che sono invece coessenziali al processo educativo. L’educazione al pensare non va intesa come esercizio intellettualistico, ma fortemente situata nelle contraddizioni della vita contemporanea, perché il pensare che sa indagare criticamente le questioni è condizione essenziale per l’esercizio della cittadinanza partecipata e responsabile. Per questo va promosso l’amore per la politica, inteso come passione per l’impegno civile. Un impegno che si traduca non solo nell’intraprendere azioni, ma anche nel fare discorsi capaci di esplorare altri modi di abitare la terra e il mondo. Il pensare che si nutre del desiderio di cittadinanza è quello che trova espressione: nell’impegno a informarsi sulle questioni della vita pubblica attorno alle quali si organizza la vita della città; nello smontare gli ingranaggi burocratici in cui siamo impigliati; nel soppesare gli argomenti; nello smontare le retoriche a partire dall’acquisizione di corrette informazioni sulle questioni, così da saper deliberare prudentemente per
decidere. Si tratta di imparare a praticare una disamina attenta delle logiche all’opera nel determinare la crisi ecologica, delle tendenze e delle contraddizioni in atto. Se la questione ecologica ha forti implicazioni sul piano sociale, allora essere ecologicamente educati significa essere anche politicamente attenti a indagare le origini economiche e sociali della crisi ecologica. 26
Approfondire le logiche che regolano la vita della nostra società porta a scoprire il disimpegno etico, l’intensa a-moralità che trova espressione nel principio formulato dal fisico inglese Denis Gabor: «se si può fare si deve fare» (cit. in Latouche, 1995, p. 64). Il criterio che sta alla base di molte scelte non è quello della ricerca del bene comune, ma quello della semplice fattibilità di una cosa. È l’imperare pervasivo della logica della fattibilità che è all’origine dei molti risvolti drammatici della ricerca scientifica e tecnologica. Da qui l’emergere di discorsi che auspicano l’introduzione di un principio etico nella ricerca scientifica e tecnologica. La maggior parte dei tentativi di regolamentazione della ricerca è, però, fallita e questo fallimento si spiega col fatto che l’introduzione di un principio etico viene spesso interpretato nei termini di un’imposizione di regole. Queste barriere etiche mostrano tutta la loro debolezza, poiché non sono in grado di contrastare la regola non scritta della “fattibilità di tutto ciò che è possibile”, espressione di un’idea della ricerca svincolata da ogni principio etico. 27 Perché l’interrogarsi sulle questione della buona qualità della vita acquisti un reale spessore formativo, occorre che l’educatore non solo prenda conoscenza dei dibattiti attuali, ma sappia anche frequentare la tradizione del pensiero che si è posta il problema del vivere con saggezza. Secondo Thoreau il frequentare questa letteratura porta ad aver cura di altri aspetti che non siano quelli contemplati dall’etica del consumo. Quando l’educazione ha come riferimento un’idea riduttiva di ciò che può essere una buona qualità della vita umana, rischia di provocare contesti di apprendimento segnati da un impoverimento dello scambio simbolico, che ha non irrilevanti ripercussioni sul processo di costituzione del senso di sé e delle possibilità di autorealizzazione. 28 L’esperienza di ricerca nei contesti di formazione (Mortari, Mazzoni, 2012) ha evidenziato il valore degli ambienti di apprendimento che prendono la forma di laboratori del pensare, guidati dall’intenzione di coltivare la passione e la capacità di esaminare in profondità e in larghezza le questioni che eccedono la capacità esplicativa della ragione umana. L’importante è radicare il processo di riflessione nell’esperienza e attivare un approccio didattico di tipo socratico, che solleva domande intese ad aprire continui livelli prossimali di problematizzazione, evitando di ricondurre le dinamiche di costruzione del significato entro scenari ideologici predefiniti. Questo tipo di esperienza trova il suo senso educativo quando, evitando qualsiasi polarizzazione concettuale, favorisce l’apprendimento della disposizione a portare all’evidenza della coscienza i propri pensieri, quelli assimilati nelle transazioni culturali quotidiane, per valutarne le implicazioni performative. Si tratta di imparare ad attivare la pratica dell’autocomprensione, che mette gli studenti nella condizione di “giovani epistemologici” e quindi nella condizione di sapere i propri i pensieri. 29 Poiché un elevato livello dei consumi nella nostra società è strettamente connesso allo sfruttamento dei paesi cosiddetti in via di sviluppo, l’educazione alla riduzione dei consumi, implicata nell’educazione alla conservazione e a uno stile di vita improntato al criterio dell’essenziale, trova una connessione con quella che viene definita “educazione al rispetto dei diritti umani”, che si colloca nell’orizzonte di una differente concezione della politica
economica, volta a tutelare il livello di vita di quelle popolazioni che sono sempre più minacciate dalla logica del massimo profitto.
8. Verso una carta dell’educazione ecologica
8.1. Una ragione dialogica La complessità con cui si pone il problema di dare forma a una nuova cultura impone al discorso pedagogico di alimentarsi del pensiero ecologico nelle sue varie configurazioni (scientifiche, filosofiche, etiche, politiche, ecc.), rompendo la tendenza alla compartimentazione disciplinare, che in nome della specializzazione fa inaridire i sentieri della ricerca e anche quelli della didattica. Il miglior modo per rendere metaforicamente questa riflessione può essere la lettura di alcune considerazioni di Leopold: Ci sono uomini incaricati del compito di esaminare la costruzione delle piante, degli animali e dei suoli che sono gli strumenti dell’orchestra più grande. Questi uomini sono chiamati professori. Ciascuno seleziona uno strumento e spende la sua vita nell’occuparsi di questo indipendentemente dal resto, nel descrivere le sue corde (come quelle del violino) e i suoi suoni. Questo processo di disaggregazione è chiamato ricerca. Il luogo destinato a questo tipo di frantumazione è chiamato università. Un professore può pizzicare le corde del suo strumento, ma mai quelle degli altri, e se ascolta la musica non deve mai ammettere di fare questo con i suoi colleghi e con i suoi studenti. Tutti sono costretti dentro il tabù che li porta a credere che la costruzione di uno strumento sia il luogo della scienza, mentre la scoperta dell’armonia il luogo della poesia (Leopold, 1970, p. 228).
La critica mossa da Leopold a uno stile del fare ricerca dove prevale la logica della compartimentazione disciplinare è funzionale a sottolineare che così come la costruzione di una nuova cultura richiede un metodo integrato e collaborativo, che assuma come parametro di azione il principio del dialogo, lo stesso processo va attivato in campo pedagogico. Una teoria dell’educazione ecologica che intenda essere all’altezza della fenomenologia educativa densamente problematica che è chiamata ad affrontare non può sottrarsi al dialogo con le altre nicchie del sistema culturale, che sono impegnate a sviluppare una comprensione quanto più possibile profonda della crisi ecologica e a prospettare soluzioni. È in questa prospettiva che si situa il discorso qui sviluppato, che dalla conversazione col pensiero
ecologico raccoglie diverse e significative sollecitazioni per ripensare l’educazione ecologica entro un quadro tematico articolato. Alla luce delle indicazioni raccolte, si può dire che un buon curricolo di educazione ecologica richiede che si strutturi con un’architettura articolata nelle seguenti direzioni: educazione a conoscere, a pensare, affettiva, etica, politica. È emersa l’opportunità di strutturare l’educazione al conoscere non riduttivamente concepita come acquisizione di conoscenze sull’ambiente, ma nei termini della formazione di una nuova pratica epistemica secondo i criteri che definiscono il paradigma ecologico. Fondamentale è imparare a pensare in modo relazionale e sistemico, che ha la sua premessa in una concezione ontologica del sé non come unità isolata e disgiunta dal resto, ma come parte integrante di una più estesa unità di sopravvivenza, costituita non solo dal più ampio sistema sociale ma anche dall’ecosistema biologico. Non che sia facile apprendere nuove abitudini euristiche, quali sono quelle che definiscono il paradigma ecologico, poiché certe procedure epistemiche, pur errate dal punto di vista ecologico, funzionano, e per questo tendono a rimanere appiccicate alla mente come il miele alle mani. Dal punto di vista dell’educatore è importante avere la consapevolezza della difficoltà che si incontra quando si pensa l’educazione nei termini dell’apprendere a pensare in modo nuovo, perché costringe a una vigilanza critica continua, che evita facili illusioni e pericolose semplificazioni didattiche. Considerata l’opzione costruttivistica, risulta importante evitare ogni deriva realistica che ci faccia pensare di aver individuato il metodo vero, quello che ci farebbe attingere all’essenza delle cose. La ragione umana è destinata ad abitare epistemologie provvisorie e incerte; decisivo è renderle esplicite. Insieme all’idea di promuovere un’educazione al conoscere secondo la logica del paradigma estetico, ha preso forma l’idea di un’educazione al pensare articolata su più livelli; primo fra tutti lo sviluppo di un atteggiamento metacognitivo, che si configura come pratica dell’autocomprensione rispetto alla trama concettuale a partire dalla quale, spesso inconsapevolmente, si vanno tessendo i processi di costruzione del significato dell’esperienza. È un risalire alle fonti del pensare per individuare tutte quelle costruzioni simboliche già decise che ci fanno stare
non nella posizione del soggetto ma di complemento di pensieri di altri; attraverso la disciplina dell’autocomprensione ci si scopre, infatti, abitati da pensieri e mossi da desideri di cui non si coglie il punto d’origine, occupati da teorie penetrate nei tessuti cognitivi. Farsi conoscitori attenti dello spazio mentale in cui pensiamo è una condizione necessaria per praticare il principio del pensare a partire da sé, che consiste nel decidersi per una precisa mossa simbolica dopo aver indagato dove io mi trovo rispetto alla materia che ho da pensare. Ma l’educazione della mente implica anche l’esplorazione di altre possibili mappe concettuali, di altri codici interpretativi, sulla base dei quali articolare altre possibilità esperienziali. Il processo di apprendimento può dirsi significativo quando è morfogenetico, quando cioè prevede, oltre alla decostruzione di scenari simbolici che fanno solo ingombro, anche la costruzione di altri tessuti concettuali e sintattici. La pratica dell’autocomprensione non va pensata nella forma di un’esperienza confinata nei territori dell’interiorità e della privatezza, ma va concepita come una pratica socialmente situata, che si realizza attraverso scambi di pensiero con altri e con altre. Si può per questo parlare di autosocio-comprensione. Intersoggettiva, cioè condivisa, non deve essere solo la pratica dell’azione riflessiva, ma anche lo spazio mentale su cui interviene il movimento riflessivo, perché non esiste un tessuto di idee privato, definito dai confini della nostra pelle, ma esso è condiviso da tutti quei soggetti che agiscono situati in un preciso contesto. La strada del partire da sé, quindi, non è quella del crogiolarsi nell’interiorità, bensì quella di cercare una conoscenza della propria situazione attraverso il dialogo e il confronto con altri punti di vista presenti nel tessuto di relazioni in cui ci troviamo. Se la pratica dell’autocomprensione cognitiva chiede all’educatore di sapere mettere in atto strategie che facilitino il venire alla luce di quelle assunzioni tacite che quotidianamente usiamo senza avvertirne la presenza, poiché i presupposti paradigmatici più che oggetti del pensare sono gli strumenti attraverso i quali il pensiero pensa, la pratica dell’esplorare altri scenari concettuali chiede di approfondire la conoscenza del mondo delle idee, sia sul piano temporale (percorrendo i sentieri della nostra tradizione, compresi quelli apparentemente più lontani e quelli in disuso), sia spaziale (cioè dialogando con altre culture), alla ricerca di semi di pensiero ecologico. L’urgenza di praticare altre vie del pensare ci fa scoprire
l’importanza di situarci in una situazione di ascolto nei confronti di quei saperi che giungono a noi sia dal passato sia da altri luoghi, perché possono essere fecondi non solo di altre mappe concettuali e sintattiche, ma anche di altre forme di saggezza. È tempo di disinquinarci dall’arroganza temporale e geografica che ci fa ritenere che le teorie più recenti e quelle maturate nell’ambiente che ha visto la nascita della scienza moderna siano tanto evolute da superare tutto quanto è stato prodotto prima e altrove, per cominciare a pensare l’opportunità di riannodare il dialogo con nicchie noologiche lontane nel tempo e nello spazio. Nutrire il pensare di prospettive differenti arricchisce i processi noologici e apre la mente alla percezione di una pluralità di alternative. Sviluppare uno sguardo sufficientemente ampio della nostra geografia culturale è per l’educatore condizione essenziale al prefigurare contesti di apprendimento che, attraverso il confronto con altri universi simbolici, mettano in crisi lo stato di omeostasi cognitiva in cui si tende a stare per una costitutiva tendenza all’economia del pensiero. L’educazione al pensare come pratica di autoriflessività non può, però, non intrecciarsi con un’educazione che miri a coltivare un pensare politicamente impegnato a disvelare le contraddizioni del presente, ricostruendo le reti di relazioni che intercorrono tra le scelte di politica economica e l’attuale stile di vita, allo scopo di trovare altre misure del vivere che prendano forma su un’idea criticamente meditata di quella che può essere una buona qualità della vita umana. C’è bisogno di educare contemporaneamente un pensare decostruttivo, che mini alle radici le logiche su cui la cultura presente si tiene, e un pensare costruttivo che prefigura altre versioni del mondo declinate sulla base di logiche ecologiche. Se nella letteratura protoecologista aveva assunto un ruolo centrale l’educazione a un differente sentire nei confronti della natura, i termini nei quali si è sviluppato l’attuale dibattito ecologico sollecita a configurare l’idea che una matura filosofia dell’educazione ecologica non possa non occuparsi dell’educazione del sentire, la quale non può sottrarsi al compito di mettere in discussione il sentimento col quale la cultura occidentale vive la condizione umana, per esplorare altre possibili posture affettive. Fare spazio all’educazione del sentire costituisce forse il nodo più difficile da accettare, perché la declinazione tecnicistica e intellettualistica cui è stata sottoposta la pratica educativa fa ritenere che il sentire sia una zona estranea
all’educabile. La tendenza a riservare all’educazione le zone razionalizzabili poggia su una logica disgiuntiva, che interpreta il mettere ordine nel reale nella forma dell’introdurre separazioni; è questa logica disgiuntiva che si situa alla radice dell’inefficacia di molte pratiche formative, perché di fatto l’esperienza umana non è ordinabile per regioni ontologiche distinte (razionalità/affettività; mente/corpo) e, quindi, non esiste la possibilità di educare una ragione senza emozioni. La ragione che presiede i processi di costruzione del significato dell’esperienza è una ragione densa di emozioni, spesso assimilate passivamente attraverso il processo di socializzazione. Compito dell’educazione è allora quello di coltivare la passione per la pratica dell’autocomprensione non solo rispetto alle trame concettuali, ma anche rispetto alla postura affettiva con cui guardiamo al mondo. L’educazione di un sentire ecologicamente denso non può ignorare l’importanza di offrire contesti esperienziali in cui sia possibile vivere il sentimento della comunione con le altre forme di vita, perché questo fa da sfondo a una possibile differenza nella postura etica. Pensare in questi termini l’educazione eco-etica non significa rinunciare a educare al rispetto delle regole, ma piuttosto a radicare l’educazione alla legalità sullo sfondo dell’etica della cura, che sola sembra essere capace di produrre cambiamenti significativi nel nostro modo di rapportarci al mondo. L’educazione al principio di responsabilità prende senso non sulla base di un astratto dover essere, che assuma come riferimento imperativi categorici di varia natura, ma da una postura etica che si nutre di sentimenti moralmente densi. Sono questi, e non le procedure logiche o le teorie morali geometricamente definite, a decidere la direzione del nostro orientamento esistenziale. L’educazione ecologica, concepita come promozione sinergica delle direzioni formative sopra analizzate, si qualifica, quindi, come un processo edificante secondo la prospettiva rortyana, nel senso che, presa coscienza delle anomalie presenti nei vecchi discorsi e della necessità di rompere con la crosta delle convenzioni, si trova impegnata nella costruzione di altri vocabolari: altre descrizioni (discorsi ontologici), altre vie del conoscere (teorie epistemologiche), altri scenari dell’abitare (narrazioni politiche), capaci di configurare inediti orizzonti di senso. La possibilità che possa prendere forma una tale visione dell’educazione ecologica è codipendente dalla messa in discussione della logica manageriale che porta a concepire l’educazione come un progetto mirato a
intervenire radicalmente sulle idee che uno possiede. L’educazione, per dirsi tale, impone la decostruzione della logica dell’imposizione in favore di una logica più discreta, che concepisce l’educare come coltivazione di terreni esperienziali che facilitino il processo morfogenetico attraverso il quale il soggetto educativo dà forma alla propria identità culturale. L’insegnamento viene, quindi, a configurarsi come guida all’esplorazione di differenti orizzonti simbolici, dove si incoraggia la prudenza nell’assumere una idea, la valutazione critica di ogni teoria e la presa di posizione solo sulla base di una valutazione rigorosa. L’emergenza di un nuovo orientamento culturale è condizionata allo sviluppo di un pensare, di un sentire e di un agire generativi di mondi nuovi; per questo c’è bisogno di un’educazione che alla “logica del mettere in forma” le menti, secondo un dover essere preformulato, preferisce la “logica del favorire l’emergenza di forme” secondo il principio dell’educare a pensare a partire da sé. Cioè quel pensare che impegna il soggetto educativo a cercare un proprio luogo simbolico, a partire dal quale decidere i termini del rapporto col mondo, evitando che lo spazio cognitivo si riduca a mero contenitore dei pensieri di altri che, cadendoci addosso preformulati, annichiliscono le forze generative della mente. L’educazione ecologica che assume come fondativo il principio del partire da sé si riconosce a vista per il suo essere aperta all’imprevedibile. Il rischio in cui incorrono molti progetti di educazione ecologica che prendono come unico riferimento la retorica di certi documenti e una certa letteratura didatticistica – vincolata alle logiche programmatorie di stampo razionalistico – è di costringere l’esperienza educativa entro una serie predefinita di percorsi didattici che non tengono conto delle differenze in gioco nei soggetti educativi. Educare deriva dal latino educare che significa “allevare”, “coltivare”, “avere cura”; l’azione dell’allevare e del coltivare richiede che al destinatario dell’agire venga procurato il nutrimento di cui ha bisogno secondo il suo essere, evitando qualsiasi processo di messa in forma. Non si può parlare di educazione se l’agire non è mosso dal principio di favorire un processo che è tale se è orientato all’autogenerazione di forme, mettendo in movimento la passione per la ricerca continua della propria nascita simbolica entro uno spazio di relazioni cognitive e affettive che si percepisce essere generatrici di senso. Una simile idea dell’educare presuppone una torsione radicale dalla
logica del controllo dei processi formativi, sulla base di programmazioni più o meno stringenti, alla logica dell’aver cura che custodisce e coltiva le differenze di pensiero e di sentire dei soggetti educativi, con uno sguardo attento ai contesti esperienziali e svincolato da interpretazioni manageriali che concepiscono la pratica educativa secondo progettualità precostituite. L’agire educativo che si attiene al principio di cura non va tuttavia inteso come una rinuncia alla progettualità e secondo una adesività a ciò che è dato senza sguardo aperto sull’ulteriore, ma si manifesta in una pratica della gestualità relazionale che predispone le condizioni affinché il progetto educativo apra lo sguardo su altro, evitando qualsiasi imposizione. Offrire tutto quanto è valutato in grado di coltivare l’esserci dell’altro evitando ogni tecnicismo; saper garantire dei vuoti che lascino respirare l’alterità di ognuno. 8.2. Carta dell’educazione ecologica L’educazione ecologica concorre allo sviluppo di ogni direzione di possibilità della persona: sensoriale, motoria, cognitiva, affettiva, sociale, politica, etica, estetica, spirituale nella prospettiva della promozione della capacità di prendersi cura del mondo. A partire da questo concetto-cornice si identificano alcune linee di azione educativa. 1. Educare a pensare le questioni prime (che cosa è la natura? qual è il posto dell’essere umano nell’ordine naturale? qual è il modo di conoscere gli elementi del mondo?). 2. Sviluppare la capacità di esplorazione rigorosa dei fenomeni naturali e sociali unitamente all’immaginazione creatrice di scenari. 3. Organizzare contesti che facilitino l’apprendimento del sapere ecologico inteso non solo come insieme di conoscenze sulla vita naturale, ma anche come metodo di indagine della realtà. 4. Potenziare l’esperienza sensoriale e corporea a contatto con gli elementi del mondo naturale, sia perché la vita sensoriale fornisce le informazioni di base del processo conoscitivo, sia perché il contatto con la natura è essenziale per maturare uno sguardo ecologico sul mondo. 5. Sviluppare la capacità di attenzione ai fenomeni come precondizione per effettuare descrizioni analitiche rigorose. 6. Promuovere la consapevolezza dell’importanza non solo di trovare
risposte, ma anche di generare domande. 7. Sviluppare la capacità di classificare i fenomeni e sviluppare l’abilità cognitiva dell’abduzione, che è il procedimento con cui da fenomeni appartenenti a campi diversi si estrae ciò che hanno in comune. 8. Orientare a considerare le conoscenze acquisite come non mai definitive, ma sempre come punti provvisori, perché la coscienza del limite del sapere è ingrediente essenziale alle decisioni ponderate. 9. Facilitare l’esperienza del piacere estetico e del sentire spirituale che viene dallo stare in un contatto contemplativo con le cose della natura: seguire il colorarsi delle foglie in autunno, osservare come la tortora costruisce con sapienza il nido, ammirare le onde del mare sul finire della tempesta. 10. Promuovere la disposizione alla ricerca di un’etica ecologica, quella che ci fa sentire la primarietà di avere cura del benessere di ogni essere vivente: dall’amico che gioca con noi al bambino che abita in ambienti lontani; dal giardino di casa alla foresta di sequoie. 11. Guidare ad apprezzare il valore delle cose: dall’opera d’arte il cui valore è indiscusso al lichene che cresce nelle fessure dei muri. 12. Promuovere la consapevolezza del valore dell’impegno a prendersi cura della natura anche facilitando situazioni di impegno civico. 13. Promuovere la capacità riflessiva per apprendere a capire le implicazioni del nostro pensare, del nostro sentire e del nostro agire. 14. Educare a immaginare modi di abitare la terra ispirati dal principio di cura per ogni ente e di giustizia per tutti i popoli. Il principio didattico generale a cui si ispirano le linee sopra elencate è quello di organizzare le attività educative in un contatto diretto con la realtà per evitare di rendere insipido ogni processo di apprendimento e rendere invece accessibili non solo problemi e domande vere, ma anche contesti dove fare esperienza diretta di quello che pensiamo e sentiamo, nonché di quello che possiamo fare.
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