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Italian Pages 341 [169] Year 2010
Emir Kusturica DOVE SONO IN QUESTA STORIA
Feltrinel li
Traduzione di: Alice Parmeggiani © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione nella collana “I Narratori” marzo 2011 ISBN edizione cartacea: 9788807018398
A Janko, Dunja, Stribor e Maja
L’uomo è incline all’oblio. Ma la tecnica usata per dimenticare, col tempo, diventa una fondamentale abilità umana? Se l’oblio, quel monarca, non sapesse mettere in ombra i pensieri dominati dalle passioni, e consegnarli alla memoria perché siano messi in ordine, il cervello diventerebbe un semplice container. E il giorno successivo potrebbe, in assoluto, iniziare senza l’oblio? Che cosa accadrebbe se dovessimo seguire la sofferenza come fosse una cronaca ininterrotta dal centro della nostra anima, e se l’oblio non eclissasse la storia difficile della nostra vita, così come una nube copre il sole? Non sopravviveremmo. Lo stesso accade con le cose che suscitano grande gioia. Se l’oblio non le anestetizzasse, impazziremmo dalla felicità. Solo la dimenticanza, col tempo, lenisce il dolore per un amore perduto. Quando il nostro rivale ci molla un ceffone durante la ricreazione, conquistandosi così le simpatie della bambina di cui siamo entrambi innamorati, è solo l’oblio, in seguito, a farci guarire dall’irreparabile perdita amorosa? La ferita si rimargina, così come, col tempo, una fotografia perde la patina lucida della carta fotografica. Come fa l’uomo a sopravvivere alle crisi storiche? Solo grazie al fatto che prima e dopo l’evento critico regna l’oblio. La capacità della massa di dimenticare le cause dei grandi rivolgimenti della storia, e di accettare la successiva presa di coscienza come verità, mi ha spinto a scindere l’oblio dal legame razionale di causa-effetto. Quando, dopo la guerra in Bosnia, ho visto i cleronazionalisti osannati come fossero i più grandi combattenti per una Bosnia multietnica, solo perché venissero realizzati gli obiettivi strategico-militari di una grande potenza, mentre le vittime di tutte le parti in causa erano meno importanti, tranne quelle che servivano allo scopo citato, ho accettato la verità che l’oblio è come una chiusa, alla quale giungono sia i pensieri sfuggiti dal passato sia quelli del futuro. Dopo le vittime e le sofferenze delle guerre balcaniche e alla fine del bombardamento della Serbia, anch’io cominciai a esercitarmi all’oblio, o almeno a ricacciare indietro i pensieri che producevano tensione. Ero appena riuscito a imparare le prime lezioni in questo senso, quando ospitai un agente cinematografico che negli anni novanta imperversava a Hollywood. Lui mi fece ricordare l’esistenza di quell’oblio che nasce dall’ignoranza della verità. Durante il Kustendorf film festival, Jonathan accese la televisione e guardando un programma russo in lingua inglese rimase alquanto interdetto. Era un film documentario trasmesso in occasione dell’anniversario della lotta contro il nazismo. Piuttosto sconvolto, venne a casa mia e disse: “Io pensavo fossimo stati noi americani a liberare l’Europa dal nazismo, ma da ciò che mostra la televisione russa, quella liberazione non sarebbe avvenuta senza i russi”. “Mah, i russi non hanno perso molto nella guerra contro il nazismo, solo venti milioni di persone, bazzecole” dissi, cercando di far accettare al mio amico questa verità storica e di risolvere scherzosamente la questione. Temevo che l’illustre ospite si offendesse e pensasse che io volessi mettere in rilievo quel buco nella sua cultura. Era tuttavia evidente che quel buco nella sua testa era stato prodotto dalla propaganda, e l’assuefazione derivata da quella fondamentale omissione era irrimediabile. Se avesse voluto uscire da quell’abisso, avrebbe iniziato a dubitare di tutto, forse perfino dell’attendibilità dei componenti della Coca-Cola. “Dimentica la verità che hai sentito, altrimenti se accetti quell’inconfutabile dato di fatto poi dovrai metterti a ricostruire conoscenze e pensieri, e questo può portarti a un turbamento mentale. Continua invece a vivere con i pensieri a cui sei abituato” gli dissi amichevolmente, mentre lui, che non mi aveva capito, si limitò a ridere. “È un bene che io scriva questo libro” pensai alla fine. “Che almeno resti un documento sulla mia vita. Se succede come con l’apporto russo alla lotta contro il nazismo, forse, nella storia, qualcuno mi citerà come panettiere o, Dio non voglia, come tornitore.” Il mio amico di Hollywood mi aiutò ad approfondire l’idea della qualità extratemporale
dell’oblio. Questo mi spinse a chiedermi come mai gli uomini non si siano ancora accorti che il formaggio kajmak ammuffito è una creazione storica, dato che è sicuro che la muffa esiste da più tempo del kajmak. Nella rivelazione di questo mistero era importante sapere perché, dopo le grandi crisi, arrivano le guerre, e gli uomini, proprio all’uscita da grandi perturbazioni storiche, scoprono cose fantastiche. Perché gli antibiotici non furono scoperti anche prima della Seconda guerra mondiale, se si celavano nella muffa? Perché la formula misteriosa si celava abilmente nell’oblio. La memoria, in quanto stanza di soggiorno dell’oblio, non aveva aperto la porta e aveva impedito all’elemento nascosto di passare per i corridoi del ricordo e di mettersi a disposizione della mente. La questione delle crisi e delle guerre è cambiata, e l’oblio, col tempo, è diventato una consolazione. Infatti, se non ci fosse l’oblio, come potrebbe l’uomo abituarsi alle idee perverse del mondo contemporaneo? Come avrebbe accettato, per esempio, la guerra umanitaria? Quando appartieni a un piccolo popolo che si rifiuta di seguire senza obiezioni le idee dei grandi, e che, al culmine di una ricomposizione del mondo, si chiede a ogni piè sospinto: “Dove siamo noi in questa storia?”, le grandi potenze ti colpiscono con bombe a cui hanno dato il nome di “angeli misericordiosi”. L’oblio, in seguito, gioca un ruolo decisivo nel processo di assuefazione. Infatti, prima dimentichi di averle prese sul muso e riformuli in fretta la domanda di cui sopra, trasformando il plurale in singolare, e chiedendo quindi “Dove sono io in questa storia?”, prima progredisci. Così è anche nella vita individuale. Prima dimentichi quel ceffone nel cortile della scuola, prima si crea la possibilità di un nuovo innamoramento. L’oblio è una dose di ricordo, il suo elemento fondamentale su cui anche nella storia si conta e con cui si gioca. Non solo nel caso di un muso rotto per cattiva condotta. Quand’ero ragazzo, nelle piazze principali di New York, Londra e Parigi i giovani aspettavano in fila i nuovi dischi dei Beatles, di Springsteen, di Dylan. Al posto di opere d’autore, i ragazzi oggi aspettano l’iPhone 4. Ancora una volta, l’oblio è di grande aiuto. Metti Dylan e gli altri nel dimenticatoio e vivi meglio con la verità che è l’oggetto al centro dell’attenzione, ignorando gli eroi preferiti che cantano di amore e di libertà e lottano contro l’ingiustizia. L’oblio è decisivo nell’accettazione delle leggi fondamentali della cultura scientifica che intende archiviare la cultura archetipa nelle cantine dei musei. Quelli che brevettano l’iPhone non hanno naturalmente creato il loro giocattolo per l’inclinazione umana all’oblio, ma è stato loro di aiuto il fatto che l’uomo dimentica e che nelle sale d’aspetto, dove regna l’oblio, c’è sempre uno spazio vuoto dove si trasferiscono gli eroi che il tempo ha schiacciato. Benché io sia fra quelli che credono che dimenticare sia una salvifica formula di sopravvivenza, voglio discostarmi dalla tendenza contemporanea all’oblio. Oggi la massa segue il modello gallinaceo e ricorda solo ciò che avviene fra una distribuzione di becchime e la successiva. Soprattutto perché l’oblio è stato messo in funzione dalla teoria della “fine della storia”, che si è diffusa nel mondo negli anni novanta del secolo scorso. I tamburini del capitalismo liberale ci hanno in tal modo suggerito di rinunciare alla fede nella cultura e nell’identità per abbandonarci al vortice della rivoluzione tecnologica che dovrebbe canalizzare tutte le correnti del nostro destino, così che il mercato divenga il regolatore dei principali processi della nostra vita. Questo atteggiamento prepotente ha risvegliato in me l’idea di regolare i conti con la memoria, ma anche di farli con l’oblio. Voglio scrivere un libro e spazzare meticolosamente le sale del mio cervello in cui vagano i ricordi, e poi, con l’aiuto di tutti gli angeli scrittori, dai quali ho imparato a pensare e a parlare, separare da quel mucchio ciò che altrimenti finirebbe nascosto, come il sole dietro alle nuvole. Non sarebbe bene se, dopo che io sarò partito per il viaggio eterno, i battiti della mia anima rimanessero per sempre inaccessibili, mentre qualcuno dei miei
curiosi discendenti cerca di stabilire un contatto telefonico con me, con l’intento di scoprire il mistero della sua origine. Intendo sfuggire agli equivoci e alla sorte dell’abbonato del telefono che gli amici e la famiglia chiamano invano, ignorando che costui non è più fra i vivi, per poi, dopo un’infinità di chiamate, sentire la voce della signorina del telefono che dice: “Il numero chiamato non è al momento raggiungibile...”.
TERRA E LACRIME Nel millenovecentosessantuno Jurij Gagarin volò nello spazio, e io andai a scuola. Il volo del primo uomo nello spazio ebbe una lunga preparazione: dietro a Gagarin c’era un nutrito team di esperti. La faccenda della scuola cadde tutta sulle spalle di mia madre. Mio padre era a Belgrado, in viaggio d’affari. Senka accese il fuoco sotto il calderone, scaldò l’acqua, mi buttò nella vasca. Mentre con il sapone da cucina mi strigliava la schiena, la sentivo piangere. “Perché piangi, Senka? Domani a scuola ci devi andare tu o io?” chiesi. Mia madre rispose asciugandosi le lacrime: “Non piango, mi dispiace figlio mio, ma da domani inizia una nuova vita!”. Non capii il pianto di mia madre, ma le cose relative alla vita nuova mi furono più chiare già la mattina dopo... Camminavo verso la scuola e guardavo la scalinata di pietra che sembrava scendere sott’acqua. La scena assomigliava a un intervallo della Televisione Sarajevo, con la regia di Jan Beran e la musica di Vojin Komadina. Io mi sentivo più come un sub che come uno scolaro al suo primo giorno di scuola. Sapevo di apparire ridicolo. Le lunghe maniche del grembiule di satin nero mi erano d’impiccio. Le arrotolavo per accorciarle, ma per la scivolosità della stoffa ritornavano sempre alla lunghezza originaria. Il tragitto durò un’eternità, anche se la scuola era distante trecento passi dal nostro appartamento di una stanza e mezzo. Pensavo che il viaggio nello spazio di Gagarin fosse stato più rapido del mio alla scuola elementare Hasan Kikić. Aspettammo la prima ora di lezione nel cortile della scuola. Sembrava che aspettassimo l’inizio di un’audizione per l’ammissione al giardino zoologico. Un testone dai capelli rossi, di una classe superiore, avvertiva i nuovi alunni della pericolosità dei bulli locali. A scuola costui era noto perché aveva ripetuto tre volte la terza. Durante la sua carriera scolastica era inciampato sull’interpretazione della parola differenza. Quando gli avevano chiesto quale fosse la differenza fra una gallina e una vacca, aveva risposto: “So cos’è una gallina, conosco la vacca, ma non so che cosa vuol dire differenza!”. L’intenzione di questo salame di difendere gli altri scolari mi trovava consenziente. Solo non capivo perché, in cambio, avremmo dovuto dargli la merenda! Il rosso allungò la mano, aspettando che gli dessi i soldi della merenda. “Tu, piccoletto, parlo con te, perché fai il finto tonto?” “Io?” dissi, facendo davvero il finto tonto. “Guarda che testa hai! A un bombo servirebbero le ferie per poterci fare un giro attorno!” Tutti gli altri scoppiarono a ridere, io spinsi il rosso nella calce che gli operai stavano preparando per riparare la facciata della scuola e corsi dentro. Mi guardi intorno temendo che il rosso si sarebbe materializzato da un secondo all’altro. Poi sentii una voce femminile che trasformò la paura in un dolce tormento. A un tratto, tutto sembrava una fiaba: “Mio papà è colonnello del servizio controinformativo dell’Esercito jugoslavo”. Da mio padre sapevo che cosa significava informativo, sapevo anche cos’era l’esercito, ma non mi entrava assolutamente in testa che cosa fosse il servizio controinformativo. Ero stupido come quel bullo di cui avrei potuto diventare vittima di lì a un secondo. “Mio papà badava al cane di Tito prima di essere trasferito a Sarajevo.” “Quanti cani ha Tito?” “Non lo so, mio papà non parla mai di lavoro. Stasera mi aspetterà davanti alla scuola.
Ho visto che cosa è successo. Tu sei in pericolo. Se vuoi, puoi tornare a casa con noi.” Quel sentimento nuovo, sconosciuto, mi colpì come la luce quando mia madre mi aveva svegliato quella mattina. Pur avendo ancora sonno, avevo trasformato il mio sguardo guercio in un sorriso. Capii presto quanto sia importante che uno si svegli come si deve. Cioè, come sia meglio svegliarsi che non svegliarsi. E questa Snježana assomigliava a quel risveglio. La sensazione che mi dava la sua vicinanza era più potente della paura che si palesasse il testone rosso. Stavo in coda per i chifel, mentre gli scolari dietro a me manifestavano il loro malcontento. Fischiavano a un ragazzino che sentiva il suo cuore battere forte, e vedeva solo due grandi occhi neri e lunghi capelli biondi. Snježana aveva ereditato i capelli d’oro dalla madre slovena che procedeva come un fulmine per le strade tortuose di Gorica. Al riguardo i ragazzi di strada più anziani avevano elaborato varie teorie amorose: “Tutte le donne che camminano veloci sono meglio a letto di quelle che camminano lente”. “È una pura sciocchezza, le donne che sono lente nella vita, a letto sono più veloci!” “Come se la velocità fosse importante! Fratello, è la qualità, la tecnica, amico mio, che conta!” diceva la terza corrente degli sfaccendati di Gorica. Queste discussioni si facevano incandescenti. Spesso le correnti contrapposte evitavano per un pelo una scazzottata intorno a questioni importanti legate al sesso. Io intanto capii che era difficile descrivere la differenza tra due teorie, per il fatto che non riuscivo a comprendere perché qualcuno dovesse essere veloce a letto e lento nel camminare. A me il tutto ricordava il procedere lento di una tigre, che prima con una zampata abbatte la vittima e poi la mangia. Solo che qui non si trattava di mangiare. In questo senso si potrebbe intendere che fossi dalla parte dei teorici della tecnica amorosa che sostenevano il movimento lento prima del letto. Ma non era così. Non ho mai saputo perché parteggiassi per il FK Sarajevo, e non per lo Želja. La parola sex suonava come keks (biscotto), si ricordava facilmente, ma il suo significato non mi era chiaro. Guardavano bramosamente la madre di Snježana, le fischiavano dietro, ma avevano anche paura di suo padre. Appena vedevano l’ufficiale tornare dal lavoro, quei ragazzotti si nascondevano nei vari portoni. Quando quel montenegrino alto due metri passava per via Jabučica Avdo, pareva uscito da un notiziario tv nel quale sfilava sulla pista di un aereoporto davanti ai soldati sull’attenti in attesa dell’apparizione del compagno Tito. Mentre lo osservavo scomparire dietro al bucato steso sul filo fra la nostra casa e l’acacia in fondo al cortile, mi sembrava che, se avesse starnutito, tutte le foglie rimaste sull’acacia sarebbero cadute e l’autunno sarebbe arrivato prima del tempo. Tale era la forza del papà di Snježana. I tragitti fino a scuola ora erano più veloci del viaggio di Gagarin nello spazio: correvo su per la salita come un proiettile, perché non vedevo l’ora di sentire la campanella che annunciava il momento in cui avrei visto Snježana. La faccenda della velocità appariva variabile: la velocità di Gagarin veniva usata nel tragitto fino a scuola, mentre il ritorno assomigliava a un film al rallentatore. Il papà di Snježana mi teneva per mano, aveva sopracciglia simili alle tettoie intrecciate di fili di ferro e latta sopra le case povere di Gorica. Per non far vedere quanto mi vergognassi, avevo cominciato a misurare con i piedi tutti i principali tratti stradali di Gorica. In tal modo non incrociavo lo sguardo del padre di Snježana. Quando alzavo la testa, mi pareva che mi parlasse dalla cima del grattacielo della JAT in via Vaso Miškin, tanto era alto! “Te, piccolo, nessuno ti deve toccare!” diceva, mentre gli sorridevo muto e desideravo che la strada fino a casa durasse più a lungo del viaggio di Gagarin nello spazio. Snježana frequentava la classe I D, al secondo piano, e così la vedevo solo durante la pausa mensa. A ricreazione la maestra non ci lasciava uscire in corridoio. Il fatto di non
vederla quanto avrei desiderato veniva compensato nelle fantasie notturne, quando non riuscivo a dormire e il solo pensiero di Snježana mi accelerava i battiti del cuore. Mia madre era preoccupata del mio scarso interesse per il programma scolastico, per cui andava regolarmente al ricevimento dei genitori. Per non metterla in imbarazzo davanti alle altre mamme, la maestra lasciava il colloquio con lei alla fine: “Non so che cosa dirle, compagna Senka” diceva Remac Slavica. “Se fosse stupido, non me la prenderei. Ma non è così, e dobbiamo far di tutto per risvegliare il suo interesse.” “Neanch’io, sorella, so cosa fare, da sola non riesco. E quanto a dirlo a suo padre, si è rovinato i nervi coi partigiani, è di carattere impetuoso. È meglio che non gli dica niente.” A mio padre succedeva di prolungare il viaggio d’affari e di arrivare a casa più tardi del previsto; poi seguiva un periodo di adattamento alle condizioni della vita di famiglia. Allora Senka gli parlava di molte cose importanti e anche di questa, che io non ero il migliore degli scolari. Lui diceva: “Migliorerà, ha la vita davanti”. E poi continuava a dormire per compensare le notti di veglia. Molte cose a scuola non mi erano chiare. Non avevo mai capito perché esistesse educazione tecnica finché la maestra un giorno disse: “Bambini, costruite quello che volete, sta a voi scegliere un tema libero”. Io allora decisi di costruire il transatlantico Titanic che avevo visto nell’omonimo film. Il film apparteneva al genere drammatico, è vero, ma io penso che quella sia stata un’autentica tragedia. Mentre mi sedevo sulla sedia scricchiolante del cinema della Casa della polizia, mia madre mi mostrava l’orologio e mi diceva con un sussurro che sarebbe venuta a prendermi cinque minuti prima della fine della proiezione. Nella sala principale programmavano film d’avventura, ma anche storici. Solo una volta proiettarono Il grande dittatore di Charlie Chaplin, e al posto del cinegiornale mostrarono una breve commedia in cui Charlie si trovava immischiato in una rivoluzione. Mentre io guardavo i film, Senka andava a fare le pulizie da suo padre e sua madre che abitavano in una grande casa in via Mustafa Golubić 2. Fra la Casa della polizia e la loro abitazione c’era un cortile pieno di ortiche e una fontana a zampillo da cui non usciva acqua. La madre di mia madre era malata di cancro al palato, si chiamava Hanifa, e al nonno Hakija non piaceva che sua figlia insistesse tanto sull’igiene. Accoglieva Senka dicendo: “Figlia mia, sarebbe meglio che nel tuo tempo libero guardassi i film, piuttosto che tormentarti qui! Non hai abbastanza lavoro a casa tua?!”. Mentre lei fregava il pavimento di legno della cucina, lui sbirciava nel catino d’acqua e diceva: “Gli altri si fottono, e tu Hakija lavati”. Nessuno capiva che cosa volesse dire, ma sapevamo che quella era l’introduzione per racconti di ogni genere. La madre di mia madre la chiamavamo tutti Mamma, e non nonna o nonnina come tutti gli altri. Mentre lavava e pettinava i capelli alla vecchietta malata, Senka persuadeva suo padre a raccontarci la storia del rapimento a Donji Vakuf. Il nonno, a quel tempo un giovanotto, con una pistola di marca Mauser e con l’aiuto dei suoi fratelli, aveva rapito la nostra Mamma dalla casa dei suoi genitori. Lui era povero, mentre il suo futuro suocero era un ricco commerciante che non voleva saperne di quel matrimonio. Perfino la Mamma malata rideva di gusto a quel racconto che la vedeva protagonista, nonostante ridere le provocasse forti dolori, perché i medici le avevano operato il palato. Il nonno era sfuggito alla morte per un pelo. Era un uomo alto e forte e io credevo che, una volta cresciuto, sarei somigliato a lui. La cosa che mi piaceva di più era la sua fotografia in uniforme di poliziotto
del Regno di Jugoslavia. Quando gli avevo chiesto che vestito fosse, lui mi aveva detto: “Nel quarantuno per questa uniforme avrei potuto perdere la testa. La notte prima di un rastrellamento, un ustascia, un ex compagno di scuola, mi disse: ‘Scappa Hakija, ho avuto l’ordine di liquidarti domani, in quanto poliziotto del Regno di Jugoslavia!’”. “E tu che hai fatto?” “Sono fuggito a Sarajevo e mi sono salvato la testa!” Per undici volte mia madre mi lasciò alla Casa della polizia a guardare Le fatiche di Ercole con Steve Reeves nel ruolo principale, e ogni volta che tornavo a casa rappresentavo la scena della distruzione dei templi greci. Con una corda legavo le gambe di legno di due poltrone, e tirando la corda causavo la caduta di padelle, pentole e altre stoviglie sistemate in cima alle poltrone. Questo avrebbe dovuto riprodurre la scena in cui Ercole, incatenato alle colonne dei templi, se ne andava simbolicamente verso la libertà. Tirava le catene e il tempio crollava. Una volta lo rappresentai in uno spettacolo in cortile. Per l’emozione e lo sforzo scoreggiai. Mi vergognai quando tutti risero, ma mio padre mi consolò dicendomi dal suo divano, di buonumore dopo il sonnellino pomeridiano: “Non ti preoccupare, in Inghilterra lo fanno in ogni occasione, solo che alla fine dicono ‘Sorry’”. Il film che più mi impressionò fu quello in cui affondava la nave più grande del mondo. Spaventato dalle immagini delle persone che morivano su quella nave, ma anche terrorizzato dalla fine del mondo, decisi di costruire il mio personale Titanic. Nel film mi avevano colpito soprattutto le scene della nave che si inabissa. L’acqua entrava nelle cabine, nelle cucine, nei corridoi, nelle sale ristorante. Dovunque si svolgesse la normale vita degli uomini. Pensavo che nel nostro appartamento una simile sciagura ci avrebbe sopraffatti in un batter d’occhio. Se il nostro appartamento da una stanza e mezzo in via Jabučica Avdo 16d fosse stato il Titanic, l’acqua sarebbe entrata dalla finestra della cucina dove dormivo io e attraverso il corridoio sarebbe penetrata in camera, dove dormivano mio padre e mia madre, e quella sarebbe stata la fine della storia. Come la maggior parte dei bambini, avevo paura di una catastrofe e del giorno del Giudizio. Questa era la “fine del mondo”, e io immaginavo me stesso mentre cercavo di salvarmi da una fine spaventosa. Pensavo che, se quell’acqua fosse entrata nelle nostre stanze, la cosa migliore sarebbe stata trasformarci in pesci. Quando lo dissi a mio padre, lui si mise a ridere: “Diventare pesci? Mmm. Intelligente. In tal caso non dovremmo parlare, staremmo ‘zitti come pesci’, così come i pesci tacciono; quelli stanno zitti perché hanno capito tutto!”. A lungo raccolsi il materiale per la mia nave. Da uno sgabello a tre gambe, che mio nonno aveva costruito a Travnik perché le donne si sedessero per bere il caffè, tolsi una gamba e ne feci l’albero. Poi la vicina Velinka si sedette sopra, per bere il caffè con mia madre, e cadde. Era imbarazzata di essersi fatta un livido sul sedere e disse: “Vedi cara Senka, quando a un treppiede bosniaco togli una gamba, tutto va a farsi fottere”. A Potekija comprai un pannello di compensato, e da una camicia di mio padre che aveva portato dall’Inghilterra nel millenovecentocinquantasette ritagliai le vele. Se avessi fatto una nave più grande, il nostro appartamento sarebbe stato vuoto come le stanze della Comunità locale di Gorica. La fatica più grande fu raccogliere le informazioni di base. Guardai un’immagine del Titanic nell’enciclopedia scolastica; non so perché, mi ero immaginato che il Titanic fosse a vela, il che non corrispondeva alla realtà. Decisi allora di costruire una nave che si ispirasse al vero Titanic. Mio padre era in viaggio d’affari e quindi non poteva aiutarmi. Lui si occupava di questioni importanti e andava soprattutto a Belgrado. Da scuola io correvo dritto a casa, per proseguire il mio modellino del Titanic, e avevo perfino smesso di giocare a calcio. Fu
allora che si verificò un cambiamento nella mia visione del tempo. Il tempo non lo misuravo più confrontando i miei movimenti con la velocità con la quale Gagarin aveva conquistato lo spazio. Il mio cuore batteva un numero maggiore di colpi quando ero vicino a Snježana Vidović e il tempo, in quei momenti, scorreva terribilmente veloce. Non appena ci incontravamo, dovevamo subito separarci. Sia che la ricreazione fosse finita, sia che fossimo arrivati a casa sua. L’unico tempo che non passava era quello che trascorrevo costruendo il Titanic. Una cosa proprio strana, pensavo. Come se fossi stato in un altro luogo, in un paese in cui avevano tolto le lancette agli orologi. Non appena iniziavo a lavorare al mio Titanic, mi trasferivo in un mondo che non aveva punti di contatto con lo stridio delle carrucole, non c’erano alberi che si piegavano al vento, non sentivo la fame, riuscivo a resistere più a lungo senza dormire. Probabilmente anche Gagarin si sentiva così nel cosmo. “Così vivono i pittori, se ne fottono di che ora è, se è mezzanotte o l’alba, se c’è qualcosa da mangiare. Gli artisti vivono la loro vita, si chiudono nel loro mondo e gli altri per loro non esistono!” Mio padre spiegava da esperto la vita degli artisti e l’arte. Il tempo in cui costruivo il Titanic lo amavo quasi quanto quello che trascorrevo con Snježana. Interrompevo il mio lavoro ogni sera esattamente alle sei e mezzo, e uscivo. In quel momento Snježana Vidović andava a casa. Nascosto dietro alla scala, gridavo: “Buuu!”. Lei si fermava e diceva: “Ah!”. Io senza parlare la baciavo e come un razzo fuggivo a casa. Andavo a baciarla ogni sera, così come gli adulti al mattino vanno al lavoro. L’assemblaggio della nave durò a lungo, e alla fine ebbi grossi problemi con la colla. Il compensato e le parti in legno le avevo incollate con la colla Oho, ma dato che era cara dovetti incollare il ponte di cartone con qualcos’altro. Usai colla di farina bollita nell’acqua. Alla fine, l’impresa superò ogni aspettativa. Non c’era chi non ammirasse il mio Titanic. La velocità del viaggio di Gagarin nello spazio mi tornava in mente solo mentre andavo a scuola. Portavo il mio Titanic e pensavo che presto avrei visto Snježana Vidović. Quando posammo i nostri lavori sul banco dissi emozionato alla maestra: “Se avessi avuto solo un altro giorno ancora, sarebbe un Titanic più bello”. Remac Slavica mi tirò dolcemente per l’orecchio e disse: “Vedi piccolo, si può fare tutto quando si vuole. Di’ a Senka che la cosa ha funzionato. L’interesse si è risvegliato”. A ricreazione Snježana venne nella mia aula. Guardò i lavori e mi incoraggiò: “Il tuo lavoro è meraviglioso. Al confronto gli altri sono bazzecole!”. Presi cinque, il voto più alto. Correvo per la ripida strada che scendeva dalla scuola verso casa mia. In realtà, non era una strada normale. Si chiamava Goruša, e nel tratto centrale c’era una scalinata. La zona in cui abitavo era molto caratteristica per Sarajevo, per lo più tratti scoscesi e letti di torrenti trasformati in stradine. Queste erano tutte secondarie e rotolavano giù verso la via Titova. Con orgoglio reggevo davanti a me il modellino costruito in scala. Il voto più alto e questo mio Titanic avevano prodotto in me ciò che dagli adulti avevo sentito definire “orgoglio umano”. Provavo un senso di solennità e per la prima volta nessuno doveva ammonirmi di tenere la testa alta e le spalle dritte, cosa che normalmente non mi riusciva di fare. A Sarajevo le persone camminavano con la schiena piegata, o perché era troppo caldo o perché era terribilmente freddo. Era come se la situazione meteorologica li umiliasse. Per il freddo io mi stringevo nelle spalle per farmi più piccolo e per soffrirlo di meno, e per il caldo sgusciavo per via Goruša e le altre strade come un topolino. Penso che sia per quella posizione della schiena, e per altre cose a me sconosciute, che a Sarajevo le persone si dicono spesso l’un l’altra: “Sorcio che non sei altro”.
Saltellavo per il viottolo che mi portava a casa, assolutamente convinto che Jurij Gagarin fosse un semplice dilettante per quanto riguardava il movimento rapido attraverso lo spazio. Innamorato di Snježana Vidović, orgoglioso del mio Titanic, volevo arrivare a casa al più presto e rendere felice mia madre. Mio padre era in viaggio d’affari. Di tanto in tanto mi fermavo e riprendevo fiato. Nelle mie mani il Titanic appariva più grande di me. Mezzo metro di larghezza, quasi altrettanto di altezza. Scorsi mia madre che, sul filo fra l’acacia e la finestra, stava stendendo le lenzuola. Toglieva dal filo i panni asciutti e stendeva quelli bagnati non appena tornava dal lavoro. Era contabile alla facoltà di Ingegneria edile. Quando qualcuno le chiedeva: “Come stai?”, lei diceva: “Bene, crepo di lavoro”. La salutai agitando la mano, ma non se ne accorse. Era nascosta dietro alle lenzuola agitate dal vento, come vele che conducessero l’invisibile imbarcazione su cui navigavamo. Deviai dalla scalinata e prendendo una scorciatoia, ancor più rapidamente, scesi per la china ripida. Non avevo calcolato che l’orgoglio e la testa alta non sono adatti a un terreno sconnesso. Inciampai su una pietra e cadendo atterrai sulla mano destra, mentre con la sinistra tenevo il Titanic. Lanciai un gemito per il dolore al polso destro. Attraverso le vele fatte con la camicia di mio padre si vedeva il cielo. Allora per la prima volta dissi: “Fanculo il cielo”. Quei cento metri di discesa rappresentarono la strada più lunga e difficile che dovetti mai affrontare. Piangevo, gemevo per il dolore e lo sforzo. Il Titanic era più pesante della nave vera perché il mare era più forte del mio braccio sinistro. In bocca sentivo il sapore dell’argilla bagnata dalle mie lacrime, mi sembrava di baciare la terra, e in realtà dicevo: “Fanculo la terra”. La vicina Velinka, che stava bevendo il caffè sul terrazzino al terzo piano, mi scorse e gridò a mia madre: “Tuo figlio piange, urla di dolore, si trascina e tiene un pezzo di legno in alto sopra la testa!”. Quando arrivò mia madre, mi misi a piangere ancora più forte. Lei mi pulì la mano gonfia, e io le chiesi: “Gli è successo qualcosa?”. “A chi?” “Al Titanic!” “No figlio mio, non preoccuparti, andrà tutto bene.” Mentre mi portavano in ospedale mia madre reggeva il Titanic proprio come me. In modo solenne, anche se era agitata e preoccupata per la mia mano. Perfino con il dottore, che constatò una frattura del polso, parlava tenendo saldamente il Titanic con le mani. Un infermiere mi ingessò il braccio e mia madre mi portò a casa. Il dolore non diminuiva, ma non mi dispiaceva: non ero costretto ad andare a scuola. La maestra mandò a dire che dovevo comunque fare tutti i compiti. Snježana li faceva con me, quei compiti, e io desiderai che la mia mano guarisse il più lentamente possibile, soprattutto perché lei talvolta infilava un ferro da calza sotto il gesso e grattava dove mi prudeva. Decidemmo che io avrei dettato il compito, e Snježana avrebbe scritto. La guardavo e mi chiedevo perché non mi ero rotto anche l’altro braccio, ed entrambe le gambe, così che Snježana potesse scrivere tutti i miei compiti. Mai, né prima né dopo, la mia grafia fu così bella. Mio padre ritornò dal suo viaggio d’affari. Era dispiaciuto per il mio braccio rotto. Mi sbaciucchiò e mi promise che mi avrebbe portato a Ilidža, a fare il bagno in piscina, quando sarebbe arrivato il momento. Sapeva di farmi felice, dato che per quella piscina, in passato,
avevo ricevuto un sacco di botte da lui. Prima del sonnellino pomeridiano, sul divano letto della cucina, osservò attentamente il modellino del Titanic. Scosse la testa dubbioso, scrutò dentro la nave e poi mi disse: “Complimenti, davvero. Però mi pare che questo tuo scafo sia troppo pesante. Se sposti il modellino, fai molta attenzione! Non so se la colla terrà. Mi sembra proprio una nostra costruzione socialista!”. Una volta, dopo che mi ero tolto il gesso e sentivo che la mia mano non aveva peso, mio padre tornò a casa, la sera tardi, di buonumore, con la vecchia abitudine di portare con sé, in quello stato, altri amici ubriachi. Chiusi gli occhi e finsi di dormire. Mio padre entrò in camera e svegliò mia madre: “Svegliati, Senka. Stasera Nasser ha mollato i russi per andare con gli americani!”. Mia madre si alzò e le parve che accanto a lei ci fosse una botticella di vino bianco, e non suo marito. Fu dura con lui. Non prendeva in considerazione le preoccupazioni del piccolo uomo verso la grande storia. Si sforzava di farmi rimanere fuori dal corso magistrale della storia: “Non gridare! Sveglierai il bambino, va a scuola presto, matto che non sei altro!”. Il suo amico con una barbetta caprina era seduto su uno sgabello, accanto alla mia nave, e con gli occhi socchiusi accompagnava ogni parola di mio padre con la domanda: “Be’, che cosa proponi?”. “Non capisci niente” gli diceva mio padre. Mia madre gli diceva: “Ma deve proprio essere tutto politica, non cascherà mica il mondo per questo?”. Mio padre disse: “Penso che l’equilibrio mondiale sia stato seriamente compromesso, dammi da bere”. “Uscite fuori tutti e due, sveglierete il bambino.” “Che cosa proponi?” chiedeva l’uomo con la barba a mio padre, che disse: “Propongo, visto che non possiamo cambiare il mondo, di cambiare osteria”. “Fuori!” sibilava mia madre, offesa perché mio padre aveva paragonato la nostra casa a un’osteria. Mio padre mi baciò, non sapeva che stavo fingendo di dormire, mentre il suo amico gli poneva incessantemente la stessa domanda: “Che cosa proponi, Murat?”. Mio padre non rispose, l’uomo si alzò dalla sedia e, reggendosi con difficoltà, si mise a danzare come Charlie Chaplin nel film La febbre dell’oro. Con equilibrio incerto, si muoveva, come su un dondolo, ora in avanti ora all’indietro, così per alcune volte, mentre dalla camera da letto giungevano le voci soffocate di mia madre e mio padre che litigavano a proposito del tradimento di Nasser. L’amico di mio padre, naturalmente, alla fine perse l’equilibrio e fece inclinare l’albero del Titanic. Io guardavo la scena socchiudendo entrambi gli occhi, pronto, come Muftić, portiere del FK Sarajevo, a buttarmi dietro al Titanic per impedire una catastrofe. La nave oscillò e stava per cadere quando lui la afferrò per lo scafo, poco prima che toccasse il pavimento. Mentre rimetteva la mia nave sopra la radio, disse: “Dio non voglia che il Titanic affondi un’altra volta”. Tirai un sospiro di sollievo dal bordo del divano e mi infilai sotto la coperta per non farmi vedere dall’uomo con la barbetta caprina. Proprio quando sembrava che non sarebbero sopraggiunte ulteriori complicazioni, l’uomo con la barbetta caprina mise fine alla storia del mio Titanic. Uscendo, sbatté la porta della cucina, e le vibrazioni, attraverso la sottile parete della costruzione socialista, si trasmisero alla radio, e dalla radio alla nave. Così il mio Titanic si schiantò a terra, nella caduta l’albero si spezzò e la colla di farina si rivelò
inadeguata a tenere insieme il ponte. Davanti ai miei occhi il mondo crollò. A lungo piansi quella notte e, alla fine, dissi: “Fanculo la costruzione socialista!”.
COME LA PRIMA VOLTA NON VIDI TITO Nel millenovecentosessantatré attraversai per la prima volta la frontiera della SFRJ, la Repubblica socialista federativa di Jugoslavia. Senka e io eravamo partiti per un lungo viaggio, in Polonia, dove viveva mia zia Biba Kusturica. Suo marito, Ljubomir Rajnvajn Bubo, era corrispondente della Tanjug da Varsavia, mentre lei lavorava presso l’Istituto operaio internazionale. Per mia zia quello era il secondo paese straniero, e Ljubomir il suo secondo marito. Dopo il divorzio da Slavko Komarica, che era stato console generale della FNRJ, la Repubblica popolare federativa di Jugoslavia, a Berna, si era risposata. Per questo avevo chiesto a mio padre: “Significa che zia Biba è caduta da un cavallo su un asino?”. A mio padre piaceva quando lo imitavo e traevo conclusioni logiche, ma il nuovo marito della zia non gli andava proprio a genio: “Tu, piccolo, fai troppe domande per la tua età!”. Non erano solo gli amici di mio padre a essere martiri e veneratori della madre Russia. Dato che a scuola studiavo il russo, gli alunni con cui quotidianamente frequentavo quell’insegnamento erano, in gran parte, figli di deportati a Goli Otok. “Mi piacerebbe lavorare nelle Poste e poter ogni giorno sbattere il timbro sulla testa di Tito” mi disse, in confidenza, Duško Radović, seduto nel banco davanti a me. Quello strano mestiere di impiegato delle Poste, che con un timbro annullava i francobolli con l’effigie di Tito, non l’aveva scelto perché fosse un cattivo scolaro. Era il più bravo della scuola in matematica, copiavamo tutti i compiti da lui. Con quel timbro voleva vendicarsi di Tito perché suo padre era stato deportato otto anni sull’isola di Goli. Mentre mi raccontava sottovoce la storia del timbro, colpiva il banco col pugno, dapprima piano, poi sempre più forte. Sembrava uno della società artistico-culturale albanese, i cui membri cadevano spesso in trance quando si lasciavano trasportare dalla danza. Invano cercavo di calmarlo ammonendolo che lo avrebbero buttato fuori. Io il compagno Tito lo accettavo come un segnale stradale della nostra via: era presente ovunque e dislocato dove occorreva. L’ingegnere elettronico Sulejman Pipić, un amico di mio padre, sosteneva si dovesse guardare a Tito come al destino. Dopo una grigliata, a casa di questo Sulejman, si accese una discussione su Tito. Mio padre diceva: “È un volgare avventuriero austroungarico”. L’ingegner Pipić sosteneva: “Tito è il nostro destino”. “Questo è un modo puramente islamico di considerare le cose. Per voi tutto è destino, quel Tito non sarà mica un santo o qualcosa del genere?” In quanto rappresentante dell’intelligencija tecnica, in Sudan questo Sulejman aveva goduto dei frutti della politica del non allineamento di Tito. Là aveva guadagnato un sacco di soldi e si era fatto una casa sopra Baščaršija. Con il denaro rimasto aveva finanziato l’acquisto della nostra Volkswagen 1300. “Te lo dico io, Pipić, quel cameriere costerà la testa a tutti noi” diceva mio padre, e mia madre si spaventava e lo tirava continuamente per la manica: “Murat, i muri hanno orecchie!”. “Che le abbiano” diceva lui. “Io sono un uomo libero! E lui è un semplice dittatore!” “Esageri, Murat” sussurrava l’ingegner Pipić. “Nel quarantotto lui a Stalin ha detto SÌ, noi pensavamo che fosse un NO. Il suo NO era un SÌ a Jalta, là era stato tutto concordato, e lui qui ci recitava la parte dell’eroe. Si tratta di puro mimetismo!” ribatteva con fermezza mio padre.
Non sapevo cosa significasse mimetismo, ma la parola dittatore mi era nota dal film di Charlie Chaplin. Volevo far bella figura con mio padre e gli dissi: “Papà, è come Charlie Chaplin?!”. Aspettavo la risposta con ansia, e mio padre disse: “È più ridicolo, figlio mio, e molto più triste!”. Mio padre non amava Tito perché la maggior parte dei suoi compagni ex partigiani, per un esagerato amore verso i russi e l’Unione sovietica, era finita a Goli Otok. Mio padre diceva alla mamma: “Tito ha mandato uomini innocenti a Goli Otok per purificare se stesso. Era stato lui a insegnar loro ad amare Stalin e la Russia. In quel lager sull’Adriatico Tito ha spedito i suoi avversari perché smettessero di amare Stalin. Sapeva che era il modo migliore per rieducarli, e lo aveva imparato proprio da Stalin: anche lui spediva i suoi avversari nei campi di concentramento”. Mio padre non era stato rovinato dall’informbiro, ma da Belgrado era stato rispedito a Sarajevo. Sembrava che fosse caduto in disgrazia per un altro motivo. In genere, a quei tempi per i funzionari statali la cacciata da Belgrado era una punizione. A me aveva detto che il motivo del suo ritorno era l’amicizia per il suo primo cognato, che aveva deviato anche lui dalla retta via quando Tito aveva smesso di amare Stalin. Il miglior giudizio su mio padre lo pronunciò la mamma: “Il mio Murat è un uomo così buono, che si dà ai vizi per riposarsi dalla sua bontà”. Mio padre era un funzionario statale e non era contento della sua vita. Era caposezione nel Segretariato dell’informazione della Repubblica socialista di Bosnia ed Erzegovina, poi divenne sottosegretario. Conosceva bene l’inglese, ma più di tutto amava le canzoni russe. Quella sera, dopo la discussione su Tito, mi addormentai in braccio a mia madre, mentre mio padre cantava Za Bajkalom. Assieme all’odore di unto della griglia, nel mio sogno arrivò Snježana Vidović. Anche in precedenza era venuta nei miei sogni, evocata dalle canzoni russe, ma questa volta, nel giardino dell’ingegner Pipić, apparve in modo del tutto nuovo. In abito da sposa, aveva portato con sé un piccolo bastone di legno di noce. Riconobbi la staffetta di Tito, che i pionieri, i rappresentanti delle associazioni giovanili, i contadini e gli operai consegnavano a Tito per il suo compleanno. “Questa è la staffetta di Tito,” mi disse, “e tu e io siamo stati scelti per consegnarla a Tito per il suo compleanno!” “Perché indossi un vestito da sposa?” “Perché tu e io diventeremo marito e moglie!” “Sono d’accordo sul matrimonio, ma quanto a dare la staffetta, neppure per sogno. Come prima cosa non sono un bravo scolaro, e come seconda, Tito non lo conosco di persona, l’ho visto solo nei ritratti.” “Significa che non vuoi sposarti con me?!” chiese Snježana, mentre io mi giustificavo: “Come ‘non voglio’? Sono disposto a fare di tutto per noi due!”. “Allora deciditi. Se vuoi la mia mano prendi la staffetta e seguimi, altrimenti io vado da sola, e tu trovati un’altra moglie!” Presi la staffetta in una mano, Snježana con l’altra, e corremmo giù per via Logavina. La folla emozionata scandiva: “Tito! Tito!”, proprio come nella realtà, e io, confuso, come Charlie Chaplin quando si ritrova in mezzo alla rivoluzione, mi guardavo in giro, reggevo quel pezzo di legno e, alla fine, mi lasciai contagiare dall’allegria della folla, dalla gioia che dalla vita si era trasferita nel mio sogno. Ci avviammo lungo il viale per lo stadio Koševo. Ma là non trovammo Tito. Il papà di Snježana, il colonnello Vidović, che aveva le sopracciglia a forma di tettoia di latta, uscì dalla folla e disse:
“Ragioni di sicurezza mi hanno costretto a cambiare il percorso di Tito, che non succeda come con Franz Ferdinand!”. Il colonnello mi sussurrò all’orecchio: “Il vecchio sta all’Hotel Zagreb a Marijin Dvor e vi aspetta là, bambini, sbrigatevi!”. Lo trovammo in una fumosa sala dell’albergo che fumava un grosso sigaro cubano e giocava a poker. Accanto a Tito era seduto un ometto con la testa avvolta in una tovaglia. Lì c’era anche un uomo in bianco, con un berrettino, come quello che portava il panettiere Kešić, e un arabo molto alto. Ci fermammo al tavolo di Tito, emozionati e affannati, e lui disse: “Dov’eri piccolo Kusturica? Sei cresciuto, eh?”. Quello con la tovaglia in testa e l’arabo ci davano il benvenuto: “Mashallah, mashallah,” e il terzo non diceva niente. Invece del dovuto discorso sull’amore, io, all’improvviso, con la staffetta di legno di noce colpii Tito sulla testa e gli urlai in faccia: “Non eravamo d’accordo che tu ci aspettassi al Koševo? Rispondi, dittatore che non sei altro!”. Lo colpii una volta, due, tre. Gridavo nel sogno: “Questo è per Šiba Krvavac, questo per Zulfo Bostandjić, per tutti gli amici di papà, brutto dittatore!”. Snježana Vidović all’improvviso sollevò il vestito da sposa e prese a dargli calci, mentre lui si difendeva. “Perché non ci hai aspettato, dittatore? Parla! Parla! Parla!” gridavo, e alla fine mi svegliai. “Che è successo, figlio mio?” mi chiedeva la mamma, e io le risposi: “Niente, ho sognato Charlie Chaplin!”. Sulla strada di casa mio padre guardava spesso il mio viso nello specchietto retrovisore. A un tratto ammiccò e disse: “Tu sei figlio di tuo padre!”. Quello fu per me un momento significativo. Non sapevo che cosa significasse quella parola, ma mi dispiaceva di non essere anch’io in pubertà, come i miei cugini Edo, Dunja, Sabina e Aida. Tutti vivevano nella grande casa di mio nonno in via Mustafa Golubić, al numero 2. Quella casa era stata comprata con i risparmi e la dote che nel matrimonio del nonno era arrivata molto dopo le nozze segrete. L’unica cosa che non capivo era con quali soldi lui mantenesse quell’edificio costruito da un qualche barone, come si poteva dedurre dalla fontana, ora piena di erbacce, e dalla vasta terrazza con il pavimento di marmo. La mamma mi diceva: “Con l’affitto, figliolo”. Non sapevo che cosa significasse, ma vedevo che ci vivevano due famiglie che avevano cognomi diversi. Erano i subinquilini. Gli uni vivevano al primo piano, accanto all’entrata nel grande corridoio e di cognome facevano Kotnik, gli altri al pianterreno e si chiamavano Begić. La facciata di quella casa andava lentamente in rovina, ma come tutto ciò che è bello, malgrado lo sfacelo, rimase la costruzione più affascinante della mia infanzia. Mio padre non aveva nulla in contrario che io trascorressi lì i fine settimana, ma diceva: “In tutto il mondo la gente si sposa e se ne va dalla casa paterna, comincia una vita propria, mentre la tua famiglia, Senka, vive nel Medioevo. Non riescono mai a staccarsi dalle gonne materne”. Era una delle poche cose su cui mia madre concordava con mio padre. “Non c’è vita nella convivenza” diceva, ed era orgogliosa del nostro appartamento di
una stanza e mezzo. Io, invece, proprio quella convivenza amavo, perché non avevo né un fratello né una sorella. Quando pernottavo da Edo, Dunja, Sabina e Aida, mi pareva che diventassero per me sorelle e fratello. Ogni volta che andavo a trovarla, la madre di Senka mi preparava la pita con farina integrale. Mai nessuna pita poteva misurarsi con quella della nostra Mamma. Senka diceva che era per il forno e il fornello di latta che andava a legna e a carbone. Mentre mangiavo, la nostra Mamma mi accarezzava i capelli, e io le chiedevo di raccontarmi cosa nascondeva nella cassa sotto il letto, che noi chiamavamo “la misteriosa cassa della nostra Mamma”. Toccavo la chiave che teneva appesa al collo, come il ciondolo di una collana, e la ascoltavo rispondere: “Tutti diamanti e zaffiri,” e rideva sottovoce, per quanto poteva, malgrado la malattia. “Quando mi trasferisco all’altro mondo, lascerò tutto ai figli.” Nessuno di noi voleva che la Mamma morisse, ma Edo, Dunja, Sabina, Aida e io, distesi a pancia in giù, tiravamo a indovinare che cosa ci fosse nella “misteriosa cassa della nostra Mamma”. Ancor di più, fantasticavamo su che cosa avremmo fatto con il tesoro ereditato. Edo diceva che avrebbe trasformato i diamanti in soldi e sarebbe andato al Louvre, a vedere i quadri dei più grandi pittori del mondo. Mi disse che valeva la pena di andare a Parigi solo per il sorriso di Monna Lisa! Io desideravo comprare la “Via dei sogni”. Così chiamavamo via Strossmeyer, che a ogni Capodanno assomigliava a un paradiso dei bambini. Invece Dunja voleva risparmiare per avere, da grande, abbastanza soldi per la sua famiglia. Aida sognava di diventare Elizabeth Taylor, dato che aveva gli occhi violetti, mentre sua sorella Sabina diceva: “I soldi non mi servono affatto, basta che papà smetta di bere”. Lo zio Ado, il papà di Aida e Sabina, era ufficiale d’aviazione e iniziava sempre le frasi in modo curioso. Prima di tutto diceva: “E malgrado la mia intelligenza,” e poi pronunciava il resto del suo pensiero. Quando gli chiesi: “Tu che cosa fai, zio Ado?”. “Io sono, malgrado tutta la mia intelligenza, un pilota, figlio mio.” “Ma non è necessaria l’intelligenza per diventare pilota?” “Oh, sicuro, ma, con un po’ più di fortuna, avrei potuto guidare una nave spaziale.” “Come Gagarin?” gli chiesi, e lui rispose: “Noi siamo un paese piccolo, non abbiamo soldi per le imprese cosmiche, quelli sono grandi investimenti”. Mio nonno non sopportava Ado Beganović, per cui mi confidò: “Macché pilota, lavora come economo alla caserma di Rajlovac”. Siccome portava l’uniforme blu, alla mia domanda se fosse un pilota lo zio Ado aveva risposto di sì per non deludermi, dato che io, come tutti i ragazzini, ero attratto dall’idea di volare. Sapeva come far piacere anche a mio cugino Edo e, almeno in minima parte, rimpiazzare suo padre Akif. Quando sulle bancarelle di Sarajevo apparivano le prime banane e le arance, lui comprava quella frutta meridionale, al ritorno dalla caserma di Rajlovac, e la metteva sul tavolo, nella stanza in cui abitavano Edo, Dunja e la loro madre Biba. Solo dopo faceva una gradita sorpresa ai propri figli. Al lavoro Ado andava con l’uniforme blu scrupolosamente stirata, e ritornava tutto macchiato di intonaco e terra. Quando decise di abbandonare l’alcol, mia zia Iza ne fu felice. Lui disse: “Io non berrò più, ma tu devi metterti a dieta!”. La zia, pur contenta che Ado volesse liberarsi dell’alcol, era preoccupata per il fatto di dover limitare il mangiare:
“Ma tu sai, Ado, che mangio solo simbolicamente!”. Lo zio fu inesorabile: “Non farlo neppure simbolicamente, guarda quanto sei grassa. Metti tutti i risparmi in banca e investili per due anni, finché non mi è passata la crisi!”. La zia fece come aveva detto lo zio, ma già la settimana dopo Aida e Sabina corsero nella stanza del nonno: “Ecco, il papà vuole picchiare la mamma, vuole che vada a ritirare i soldi dalla banca!”. Accoglievamo sempre con gioia il nonno davanti a casa, quando tornava dal lavoro. Ci portava prugne secche, fichi, piccoli regali, quel che poteva permettersi di donarci come impiegato di un avvocato. Non ero attaccato al nonno come Eduška e mi dispiaceva, ma il loro legame più stretto era logico, dato che abitavano sotto lo stesso tetto. La volta che fui più vicino al mio nonnino fu quando mi insegnò a fischiare. Sebbene tutti pensassero che la sua canzone preferita fosse Mujo ferra il cavallo sulla Luna, in realtà adorava When the Saints. Quando si accorse che fischiavo fino a tarda notte, disse: “Non fischiare in casa di notte, attirerai i diavoli”. Per restituire il buonumore alla Mamma malata, diceva: “Vecchia, mi sono fatto la barba, stanotte non ti graffierò”. Edo e io lo vedevamo disteso immobile sul terrazzo mentre fissava le foto di donne nude della rivista “Start”. Niente di strano se non che quelle foto strappate dal giornale erano appese al filo, assieme ai panni che si asciugavano al sole. Io gli chiesi: “Stai dormendo, nonno?”. Lui nascose in fretta e furia la rivista pornografica sotto il cuscino, prese le foto dal filo e disse: “Ragazzi, la morte è come una camicia, sta sempre attaccata all’uomo”. Non sapevo che cosa c’entrassero le donne nude con il fatto che la morte è come la camicia. Gli chiesi: “Cosa direbbe la canottiera, dato che è ancora più vicina al corpo umano?”. E lui rispose: “Piccolo, ragioni bene e, cosa più importante, deduci correttamente”. Ogni sera il nonno, alle dieci in punto, si faceva serio. Era l’ora in cui veniva a casa a dormire il fratello di mia madre, Akif. Mezz’ora prima del suo arrivo, il nonno entrava nella stanza dei bambini e dal vecchio grammofono, rimasto lì dai tempi del signor Fišer, l’ex proprietario della casa, toglieva i Beatles. “A fare pipì, e poi a dormire!” Io sostenevo di essere già andato a fare pipì, ma lui diceva: “Vai a pisciare di nuovo, non si paga”. La pace notturna del suo Akif, il padre di Edo e Dunja, era la legge più severa della casa e tutti guardavano con profonda deferenza il nonno mentre si accertava che nulla potesse turbare il rientro di suo figlio. Akif era il rappresentante della Philips per la Bosnia ed Erzegovina e conosceva personalmente la regina d’Olanda. Dopo la guerra era caduto da una jeep e gli era venuta l’epilessia. Questa era la versione ufficiale. Mio padre non ci credeva e affermava che non era da persone responsabili nascondere faccende tanto importanti ai membri più intimi della famiglia. “Anche Dostoevskij aveva l’epilessia, non c’è problema. Ma queste cose si devono sapere prima, altro che incidente d’auto e sciocchezze del genere, l’epilessia si eredita!” diceva arrabbiato mio padre, facendo intendere a mia madre che solo la volontà di Dio aveva fatto sì che Edo o Dunja non avessero ereditato quella grave malattia. Per il pericolo di un attacco epilettico, il letto del nonno stava accanto alla porta che metteva in comunicazione due stanze: la cucina, che di notte diventava la camera da letto del nonno e
della Mamma, e la camera del loro figliolo. Spesso osservavo lo zio Akif mentre passava in corridoio diretto alla sua stanza. Una volta, nascosto dietro alla porta della camera dove vivevano Edo, sua sorella Dunja e la loro madre, sbirciai dal buco della serratura. Non mi accorsi che la maniglia si era mossa e il cilindro della serratura era scivolato fuori dal suo alloggiamento; la porta si aprì e io caddi nel corridoio. Lo zio mi vide lungo disteso e alzando il cappello coronò quello strano incontro. Sembrava che salutasse una persona di riguardo. Mi accarezzò i capelli e chiese: “Come stai, Emir?”. Io mi strinsi nelle spalle, lui si rimise il cappello e andò in camera sua. Quando chiesi a Eduška perché sua madre e suo padre non si parlassero mai lui mi disse: “Papà aveva il dubbio che la mamma lo avesse ingannato, ma anche lei sosteneva di essere stata ingannata, e alla fine i fottuti siamo Dunja e io. Per te almeno si toglie il cappello, mentre me, non mi vede neanche quando passa!”. Così risolsi il mistero della frase del nonno “Gli altri si fottono, e io mi lavo!”. Il grammofono del signor Fišer stava in una piccola stanza dove Sabina e Aida trascorrevano la maggior parte del tempo. Lì ascoltavano i Beatles e non si perdevano un concerto di Djordje Marjanović. Mi portarono alla Casa della polizia per assistere a un suo spettacolo. Alla fine di 24 mila baci di Adriano Celentano andò, come Aida e Sabina definivano quello stato, in estasi. La folla urlava “Striptease, striptease”, al che Djordje prima si toglieva la giacca, poi la roteava sopra la testa e infine la lanciava sul pubblico. Quello era lo “striptease”. Dopo il concerto, a casa, Aida e Sabina si misero a ballare: giravano in tondo, masticando entrambe un chewing-gum e ballavano il twist. Ballando si chinavano in avanti, con i sederi che sporgevano all’indietro, e con la bocca si passavano la gomma da masticare e la stiravano. Aida alla fine disse: “Questi Beatles sono super, e la canzone Michelle è Tito!”. “Mio Dio, Aida, come puoi dire queste sciocchezze!” la sgridò Dunja. “Ma che sciocchezze, dico che la canzone mi piace, come Tito.” “Ma come puoi offendere Tito?” “Non lo offendo, dico solo che la canzone è super, proprio come Tito.” “Tito è tabù e non si discute” disse un certo Kotnik, subinquilino, anche lui in pubertà. Segretario del partito della seconda liceo, era innamorato di Dunja. Lo capivo dagli occhiali che si appannavano quando la guardava. A Eduška non piaceva. Quando in seguito chiesi a mia madre il motivo, lei ebbe la risposta pronta: “I fratelli non accettano mai che le loro sorelle guardino i giovanotti”. “Ma una sorella non si sposerà mica con suo fratello, non è quello l’obiettivo” osservai, e lei mi guardò confusa. Edo leggeva libri, per cui fu in grado di ribattere a quel Kotnik: “Nel socialismo non ci sono temi tabù! Quei temi appartengono alla religione, e non alle società progredite. Occorre distruggere i tabù!”. Kotnik tacque, anche se non era convinto. Dopo quella breve discussione, Edo andò in camera sua a dipingere dei ritratti. Questo incoraggiò Kotnik, e la sua posizione su Tito e il socialismo tornò al punto di partenza... Io ardevo dalla voglia di inserirmi nella discussione su Tito e il rock’n’roll. Non sapevo come fare colpo, finché non mi venne in mente di raccontare il mio sogno sulla staffetta di Tito. All’inizio Kotnik sbarrò talmente gli occhi che in fretta e furia cambiai la mia storia: il sogno l’aveva fatto un mio compagno di classe. Quando arrivai alla fine e dissi che l’amico inventato aveva colpito Tito con la staffetta, lui scosse la testa e respirando pesantemente disse:
“Questo non è niente, io ho sentito dire che nel nostro liceo c’è un montenegrino al cui padre piacerebbe lavorare in Posta per poter ogni giorno picchiare Tito sulla testa, quando annulla i francobolli con il timbro! Per persone del genere ci vogliono le maniere spicce, subito al muro e una pallottola in fronte!”. Io mi gelai dal terrore. Solo allora compresi quanto pericolosi fossero i miei sogni. Tutti erano d’accordo con Kotnik, solo Zlatko Begić, il subinquilino del primo piano, taceva. Suo padre era un gran musulmano e suo figlio non dichiarava apertamente la propria idea né su Tito né sui Beatles. Poi chiamai Snježana Vidović Tito, per sfuggire alle spiacevoli conseguenze del mio sogno e per non risaltare troppo nel mio ambiente. Non c’era nulla di originale. Nella mia strada, quando un ragazzo descriveva la bellezza di una ragazza, diceva: “Caro mio, è bella come Tito”. E quando qualcuno, alla partita di pallone, segnava un gol con un tiro a effetto, si diceva: “Il gol è stato come Tito!”. Come io fuggivo volentieri da casa mia, così Edo ogni due settimane veniva a passare la notte nel nostro appartamento di una stanza e mezzo. Era nato nel millenovecentoquarantotto e aveva scommesso con mio padre che mia madre avrebbe partorito un maschio. Mio padre pensava che io sarei stato femmina, finché non apparvi e mi misi a vagire quel ventiquattro novembre del millenovecentocinquantaquattro. Per la felicità di mio padre, la scommessa la vinse mio cugino. Quei cento dinari persi nella scommessa non gli dispiacquero. Mio padre di stipendio prendeva ottomila dinari, e una Seicento costava sessantamila dinari. Quando aveva solo tre anni mia madre portò Eduška a fare il bagno a Dariva, in una conca del fiume Miljacka, e lui per poco non annegò: rimase vivo perché era legato a mia madre dal destino. Lei era entrata in acqua e non si immaginava che il bambino di tre anni l’avrebbe seguita nel fiume. Senka si mise a nuotare, e Edo scivolò giù per la roccia e cominciò ad annaspare. Ormai quasi completamente affondato nella Miljacka torbida, come un cieco nel buio afferrò, Dio solo sa come, un piede di mia madre, e così si salvò. Edo Numankadić voleva diventare pittore, ma i parenti insistevano per l’elettrotecnica. Lui discorreva con mio padre di tutto, in particolare di politica, ma nelle loro discussioni non escludevano l’arte. La parola di Murat fu decisiva per la carriera scolastica di mio cugino: “Ma voi non siete normali, perché tormentate quel povero ragazzo? Un pittore che studia elettrotecnica!”. Poi Eduška si iscrisse a Lettere e si mise a dipingere quadri astratti. Era grato a mio padre, non solo perché parlava razionalmente, come tutti gli erzegovesi, ma anche perché Edo con suo padre non parlava mai. Litigavano sulla pittura. Mio padre pensava che i quadri moderni assomigliassero al linoleum di cucina, e Edo si difendeva: “Quella è spontaneità, espressione particolare della libertà. Così come il rock’n’roll è il destino, il movimento moderno dei giovani. Così i giovani contestano i vecchi”. “Zio, questa è la nostra originale sperimentazione,” spiegava Edo, ma mio padre era categorico: “Fottiti con la tua originalità sperimentale. Fra il Re Lear e la tua Cantatrice calva, io sceglierò sempre il Re Lear”. Mio padre aveva letto Shakespeare in originale e di questo eravamo tutti orgogliosi. Soprattutto mia madre, quando le vicine dicevano: “Beata te, il tuo Murat parla inglese quasi senza accento, mentre mio marito balbetta anche nel suo serbocroato”. Una volta che mio padre sentì quel discorso, non poté fare a meno di infilarci dentro anche Tito:
“Come può non balbettare, quando anche il suo presidente parla la lingua materna con quell’accento tremendo?”. Il più famoso quarantottino che veniva nel nostro appartamento di una stanza e mezzo era Hajrudin “Šiba” Krvavac, regista di film d’azione sulla nostra Lotta di liberazione. Aveva pagato caro il fatto di aver detto di un certo Jovo che era buono, mentre quel tale Jovo era già a Goli Otok. Dato che lo zio Šiba era un signore, non aveva potuto rimangiarsi ciò che aveva detto. Forse all’inizio non aveva creduto che il suo giudizio sulle qualità umane del compagno Jovo gli sarebbe costato la galera. “Non ci sono stati lavori forzati peggiori nella recente storia umana” diceva mio padre. Una volta a Zaostrog, sulla spiaggia, Senka e io faticammo a convincere mio padre a non scazzottarsi con un certo Braco montanaro. Quel Braco odiava i russi e aveva detto: “Tutti voi che amate i russi vi spedirei in campo di concentramento, e poi dritti in Russia! Marsch in culo a vostra madre!”. Šiba Krvavac e mio padre parlavano in cucina, e io, di nuovo, fingevo di dormire. Il divano letto della cucina era divenuto ben presto il luogo dove, a occhi chiusi, imparavo grandi lezioni di storia. Mia madre andava a dormire e non nascondeva la gioia di avere mio padre a casa, lo si sentiva nella sua voce: “Chiudi a chiave, controlla il fornello e non parlate a voce alta”. Mio padre aprì una bottiglia di Riesling e capii che sarebbe stata una lunga notte. “Un giorno tutto questo crollerà” disse. “Ovunque nel mondo i dottori e gli avvocati vivono nelle loro ville, e da noi è il contrario. Gli avvocati e i dottori languiscono nei grattacieli, e i primitivi si sono fatti le ville. Non i contadini o gli operai. Non durerà a lungo!” “Viva Belvedere” disse zio Šiba a mio padre, e bevvero, e per lo più fu mio padre a parlare. Lo zio Šiba taceva e cercava di spostare il tema dalla politica al cinema, ma senza successo. Mio padre non la smise di parlare neppure quando andò a pisciare. Gridò dal bagno, e la sua voce, a causa della risonanza del gabinetto, diventò più seria: “Che democrazia, che scemenze! Qui non c’è democrazia, e non può esserci!”. “C’è, Mutica, c’è, come no!” “Dove la cassa è vuota, non c’è democrazia, mio caro Belvedere!” Guardai lo zio Šiba che si alzò dalla sedia e indicò il lampadario, si mise un dito sulle labbra, fece dei cenni, e cercò da lontano di bloccare mio padre nella sua condanna del compagno Tito. Tornando, mio padre si abbottonò la patta e guardò lo zio Šiba che, con una pantomima, gli indicava il pericolo di ben nascoste cimici per le intercettazioni. “Sono tutti avventurieri, e Tito è il più grande criminale e avventuriero fra loro.” Mio padre non mi aveva mai proibito di portare i capelli lunghi, ma mia madre mi disse che ci si doveva tagliare i capelli per ragioni igieniche. Io ascoltavo i Beatles e gli Stones solo su Radio Luxembourg, e agitando la testa a occhi chiusi immaginavo di avere i capelli lunghi fino alle spalle. Solo in seguito mio padre comprò a rate un grammofono e degli sci da Fiume. Gli sci rimasero intatti a lungo, il grammofono lo rovinai subito. Si rovinò la puntina, perché non era di diamante. Io ascoltavo soprattutto gli Stones. Il loro sound brutale mi piaceva più di Michelle, la canzone che era Tito. Un giorno mi stufai di incontrare Snježana Vidović nel suo androne e di gridare: “Buuu” mentre lei faceva: “Ah!”. Avevo sentito da quelli più grandi che, nel frutteto di susini accanto al vecchio cimitero musulmano, gli uomini e le donne “si inculavano”. Decisi che era arrivato il momento di crescere. Mia madre era andata a trovare i genitori: “Tornerò presto, non uscire e non metterti a giocare”. Appena Senka sparì in fondo alle scale e poi dietro all’acacia, corsi da Snježana e dal
cortile la chiamai per fare gli esercizi con le frazioni. Lei venne nel nostro appartamento con il quaderno in mano. “Dove sono i tuoi genitori?” Quando si accorse che ero solo in casa voleva andarsene. Misi sul grammofono gli Stones, e Snježana non poté resistere alla voce di Mick Jagger che avevo battezzato Capo Grande Ceffo. Io mi misi a ballare il twist, mentre tossicchiando fumavo la mia prima sigaretta. Il tabacco acre mi soffocava, mi straziava la gola. Era una sigaretta della mamma, una Hercegovina senza filtro. Snježana stava davanti a me, mi guardava con gli occhi di un ipnotizzatore da circo. Io mi irrigidii, mentre lei prese a ballare con tale velocità che i miei occhi roteavano come il tamburo della lavatrice. Masticavo una gomma e ripresi a ballare, chinandomi verso Snježana come facevano le mie cugine Aida e Sabina. Lei scoppiò a ridere, stette al gioco e si accostò a me. Quando arrivammo allo scambio di chewinggum, io le chiesi: “A te piace farti inculare?” Si fermò di colpo e spense il grammofono. Compresi che stava succedendo qualcosa di imprevedibile e dissi: “I ragazzi grandi dicono che è semplice e bello. Mettiamoci culo contro culo e godiamocela”. Snježana mi appioppò un ceffone, prese il suo quaderno e corse via, sbattendo la porta. Il tempo passava e io Tito non l’avevo ancora visto. Solo in fotografia e in sogno. Finché in classe non si sparse la voce: domani arriva Tito a Sarajevo. Era un nebbioso giorno di novembre. Condussero noi scolari delle elementari Hasan Kikić ad accogliere Tito. Il nostro posto era a Marijin Dvor, vicino alla chiesa cattolica costruita in stile neoromanico. Nel nostro paese non c’erano classi sociali, le persone non si dividevano in ricchi e poveri. Da noi valevano solo divisioni del tutto originali e per questo mio padre era arrabbiato. Se in occasione dell’accoglienza al compagno Tito alla tua scuola toccava in sorte la strada del centro città che, naturalmente, portava il nome di Tito – e questo era il caso di tutte le città del nostro paese –, sapevi che stavi frequentando la scuola giusta. Se ti cacciavano in periferia, come avevano fatto con noi, sapevi che la tua era la scuola sbagliata. Con le mani intirizzite facevamo a spintoni con le bambine, tiravamo loro i capelli, ci picchiavamo fra noi come veri bulletti. Con lo sguardo cercavo Snježana, che era il mio Tito. Non mi vergognavo più. Ero pronto a discutere con lei dei problemi che erano sorti nel nostro rapporto. La maestra coordinatrice della nostra classe voleva diventare direttrice della scuola, per cui la nostra classe arrivò per prima al posto stabilito, e per primi ci allineammo. Io tirai per i capelli una certa Amra che portava le trecce come quelle del fornaio Kesić. Le dissi che sembrava proprio una figlia di fornaio, e lei rispose: “Mio papà è giornalista, ma non quello che vende i giornali, lui i giornali li scrive”. In quel momento accanto alla nostra classe passò la ID. Snježana Vidović mi vide mentre tiravo Amra per i capelli. Mi guardò con un sorriso e da lontano mi sembrò che avesse detto qualcosa. Sparì nella calca e io avrei scommesso che mi avesse detto ti amo, ma non ero sicuro al cento per cento. Il vento soffiava forte e potevo anche essermi sbagliato. Poi si mise a piovere, e la pioggia si trasformò in neve bagnata, e la neve nel solito nevischio sarajevese. La tensione per l’arrivo di Tito saliva. Poi, all’improvviso, davanti a noi rombò una colonna di Mercedes nere, che ci annaffiarono con l’acqua sporca dei buchi nell’asfalto. Io mi girai guardandomi intorno confuso, mentre tutti agitavano le mani e applaudivano. “Ma dov’è Tito?” chiesi alla coordinatrice, che mi assestò un colpo in testa e disse
piangendo: “Eccolo là, stupido, non lo vedi?”. La maestra era furiosa perché avevo fatto una domanda sciocca nel momento in cui la sua emozione era all’apice per la vicinanza fisica del maresciallo Josip Broz Tito. Mi alzai in punta di piedi, mentre l’automobile spariva verso Baščaršija, cercando senza successo di vedere Tito. Così la prima volta non lo vidi. Il colonnello Vidović, che aveva le sopracciglia come tettoie di latta, fu trasferito in Slovenia, e il mio primo amore Snježana Vidović si chiamò, nella lingua degli abitanti di Gorica, amore non realizzato. La visita a zia Biba e il viaggio in treno fino a Varsavia furono per me non solo il primo attraversamento della frontiera della SFRJ, ma anche una grande rappresentazione, dove l’immagine, visibile dal finestrino del nostro scompartimento, si riduceva a un’infinità di entrate e uscite dalle gallerie. Luce e tenebra, sonno e risveglio, vita e morte. Quando lo dissi a mia madre, lei mi rispose: “Tu pensi troppo per la tua età!”. Alla fine, esausto dal guardare la lotta ingaggiata dall’oscurità e dalla luce per primeggiare al finestrino dello scompartimento, mia madre mi mise al posto della valigia, perché mi sdraiassi e dormissi un po’. Così a Varsavia arrivai nella rete portabagagli sopra il sedile, mentre mia madre dormiva appoggiata alla valigia che si era messa in grembo. Zia Biba, la sorella di mio padre, era la persona che più aveva influito sulla sua vita. Non solo perché lui l’aveva seguita nei partigiani: anche dopo la guerra era rimasta la sua guida. Mio padre gozzovigliava per le osterie di Belgrado con il primo marito di Biba, Slavko Komarica, e non si riebbe mai dal dispiacere quando la zia si risposò con Ljubomir Rajnvajn. Da Slavko la zia aveva avuto la figlia Slavenka, ma dopo il ritorno da Berna, dove Slavko era stato nostro console, di comune accordo divorziarono e rimasero amici. Slavko era un uomo prestante, tanto che si narra che ben poche donne riuscissero a resistere a quel bohémien. Al suo ritorno dalla Svizzera Komarica fu implicato in uno scandalo finanziario. “Questo è solo perché non ha voluto rinnegare la madre Russia, ma tecnicamente non potevano spedirlo a Goli Otok” diceva mio padre, sostenendo che quello scandalo era una montatura. Ben presto Komarica fu cacciato dal partito. Se non fosse stato croato, probabilmente sarebbe finito in prigione. Zia Biba adorava ricevere e ospitare la sua famiglia, e anche ospiti sconosciuti. Come la maggioranza della gente delle nostre parti, amava, distribuendo i propri avanzi ad altri, dimostrare quanto fosse splendida. “Accogliere e ospitare qualcuno per mia sorella è un nutrimento psicologico” disse mio padre quando venne ad accompagnare mia madre e me prima del lungo viaggio in Polonia dove Ljubomir Rajnvajn, il nuovo marito della zia, faceva il corrispondente della Tanjug. La famiglia Rajnvajn era originaria dell’Austria. Lo zio Ljubomir si vantava che suo nonno era stato capo del protocollo alla corte del re montenegrino Nikola a Cetinje. “Questa è pura invenzione, lui a corte era cuoco, non capo del protocollo! Dio, quanto ama calcare la mano il mio Ljubomir!” diceva zia Biba, interpretando così quella menzognera rappresentazione della dinastia dei Rajnvajn. Quando mia madre e io ci sistemammo nel loro appartamento di Varsavia, zia Biba cinguettava di gioia, mentre Rajnvajn era sempre attento, quando lo guardavi e anche quando non lo guardavi, a dare un’impressione di raffinata signorilità. Il profumo della sua acqua di colonia è rimasto indelebile nella mia memoria. Aveva una risata forte e contagiosa. Anche quando a pranzo ruttava – a mo’ di complimento, come gli antichi romani, per i piatti gustosi di sua moglie – il profumo più forte era la sua acqua di colonia. Con i suoi baffi da bellimbusto, la pettinatura impeccabile e quel portamento sembrava lui
stesso un capo di protocollo di qualche corte reale. L’unica cosa che mi impressionava più di mio zio era un apparecchio che si chiamava teleprinter. Quella macchina prodigiosa riusciva addirittura a trasmettere lettere da Varsavia a Belgrado. Per ragioni legate alla sicurezza, lo zio Ljubomir non mi permetteva di assistere al momento della spedizione dei suoi testi con il teleprinter. Per questo io, come un cagnolino, davanti alla porta dello studio di Rajnvajn a Varsavia, aspettavo che lui spedisse quello che doveva a Belgrado, per potermi poi beare alla vista del teleprinter; dopo, lui mi avrebbe portato in un grande negozio di giocattoli. Ci volle molto tempo per trasmettere il testo a Belgrado, per cui mi addormentai sul pavimento fissando la luce sotto la porta dello studio di mio zio. Alla fine, lui dovette andare a una partita di tennis, decisa all’improvviso, con l’ambasciatore francese a Varsavia, e fu zia Biba che mi accompagnò al grande magazzino. Quando vidi quelle migliaia di bambole, trenini, aerei, sistemati sui quattro piani del più grande negozio di giocattoli di Varsavia, per poco non svenni. Zia Biba mi chiese: “Che cosa vuoi che ti compri, tesoro?”. E io, ammutolito, giravo su me stesso. Malgrado le mie migliori intenzioni di rimanere, secondo le istruzioni di mia madre, parco, risposi: “Tutto! Zia, voglio che mi compri tutto!”.
LA MORTE È UNA VOCE INFONDATA Nel millenovecentosessantatrémossi i primi passi nel mondo del cinema scaricando mezza tonnellata di carbone nella cantina della Cineteca jugoslava. Per il riscaldamento del tempio dell’arte cinematografica erano pronte due tonnellate e mezzo di carbone, e l’intero lavoro lo facemmo Paša, Njego, Truman e io. Paša era il più forte ma anche il più lavativo, il che non gli impedì di tenere per sé la maggior parte del comune guadagno. Quando chiesi a mio padre come potesse accadere una cosa del genere, lui mi disse: “Legge di natura! Il pesce grande mangia il pesce piccolo. Questo, figliolo, è il darwinismo”. Dopo il pagamento, Paša, Truman e Njego andarono a giocare a poker, mentre io rimasi al cinema. Guardai L’Atalante di Jean Vigo da un posto laterale della prima fila, motivo per il quale, alla fine, andai a casa col collo storto. Mia madre mi chiese: “Che cos’hai?” mentre io pensavo a Michel Simon che, nel ventre della nave, mostrava alla protagonista la foto di una donna nuda. Lei gli aveva chiesto chi fosse, e lui aveva detto: “Questo sono io da piccolo!”. Lo stesso anno mio padre comprò a rate un televisore di marca Philips, un notevole progresso nella vita sociale degli inquilini della casa di via Jabuciča Avdo 16d. Per prima cosa al telegiornale vedemmo l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Mia madre disse: “Che peccato, un così bell’uomo!”. Mio padre guardava all’intera faccenda con diffidenza. “Sono tutti uguali, non c’è presidente americano che non abbia cominciato qualche guerra!” “Ma lui no!” lo difendeva mia madre. “Perché non ha fatto in tempo! Ripeto, cara mia, non c’è differenza fra loro!” insisteva mio padre. Il vicinato radunato attorno al televisore fissava lo schermo, in silenzio. Non era chiaro se l’emozione dei vicini fosse suscitata dal fatto che per la prima volta guardavano la televisione o dalla notizia dell’assassinio. “Mio Dio, Murat, esiste per te qualcosa che non c’entri con la politica?” si arrabbiò mia madre. “Per me sì, ma per loro no!” rispose secco. Mio padre non amava la televisione. “Va bene essere informato per tempo, ma non è giusto lasciar entrare ogni sera ospiti non invitati!” si lagnava. Si riferiva ai conduttori e ad altri tizi, che lui chiamava “testoni”. Mio padre era un uomo socievole, perciò era strano che non gli piacesse ricevere ospiti. Poi capii che le trasmissioni televisive erano una scusa per poter, improvvisamente seccato, uscire di casa e finire all’osteria. Gorica è un quartiere che sta in alto, sopra Sarajevo. Lì vivono per lo più zingari che in città sono ancora chiamati “indiani” o “negri”. Mentre guardavo Gorica dal monte Trebević, sembrava distesa ai miei piedi. Da via Titova non si vedeva affatto. Dalla stazione Normalna sembrava che volasse. In quella stazione Njego, Paša e io andavamo a fumare. Quando partiva un treno, noi, con un fascio di giornali, picchiavamo sulla testa i viaggiatori in lacrime che agitavano le mani dai finestrini e salutavano famigliari e amici. Ciò produceva un rumore comico, e loro cambiavano bruscamente umore. Le famiglie e gli amici non riuscivano a raggiungerci, perché eravamo veloci come pallottole. Mentre il treno accelerava, noi dall’altura lì vicino alzavamo il medio e ridevamo. Ancor più comico era
quando lo raccontavamo al resto della compagnia radunata davanti allo spaccio. A Gorica non mi mancava quasi nulla. Il primo anno mi dispiaceva solamente che non si potesse giocare accanto al ponte Princip. Là mettevo i piedi nelle orme segnate nel punto in cui Gavrilo aveva sparato all’imperatore austriaco. Quelle orme erano proprio dietro la nostra stanzetta di via Vojvode Stepe dove sono nato. Compensavo la mancanza delle orme di Princip andando in cima a Gorica su un’altura che si chiama Crni Vrh. Da lì si vedeva tutta la città, come se stesse sul palmo di una mano. Dalla lapide turca, che i vecchi chiamavano Tomba del Nonno, fino alla recinzione dell’Ospedale militare c’erano tremilatrenta passi dei miei. Dall’altra parte, davanti alle ville dei generali fino a via Djuro Djaković, dove passavano rombando gli autobus e le auto di lusso, avevo contato cinquemilacinquecentosessanta passi. Mi fermavo sempre sull’ultimo scalino di via Ključka e sapevo di stare sulla linea dove finisce la periferia e inizia la città. Assomigliavo alla statua di pietra davanti alla Banca nazionale, inclinata verso i risparmiatori. Guardavo con timore la città e non avevo il coraggio di passare dall’altra parte. E certo non perché pensassi alle parole di mia madre: “Non devi farlo per nulla al mondo, sarai investito da un’auto”. Io non avevo paura di morire. Anche perché non mi era del tutto chiaro cosa fosse la morte. C’era qualcosa che mi attirava a stare da questa parte della linea. Se qualcuno della città veniva a trovarci e diceva “zingari”, io non la consideravo un’offesa. Perché tutti in centro temevano gli zingari. Per lo più non capivano per quale motivo gli abitanti di Gorica facessero il tifo per il FK Sarajevo. In città li chiamavano “indiani” e tifavano per lo Želja. Le case di Gorica erano sparpagliate qua e là, come se fossero cadute da un graaande aereo. Dall’altura di Crni Vrh lo sguardo si posava sulla città scivolando giù per i tetti verso il centro. Gli abitanti erano in gran parte poveri di periferia e solo in una zona, quella dove si trovava il nostro edificio, abitavano ufficiali del JNA e impiegati. Quando correvo a casa, al crepuscolo, da dietro gli steccati si sentiva una musica assordante assieme a frasi improbabili tipo: “Mamma, prendimi le sigarette dal frigo”. Oppure: “Gettami l’accendino dallo scaldabagno”. In questo modo i vicini si facevano sapere a vicenda, al di là degli steccati, che il loro stile di vita era migliorato, a dispetto di una paga che chiamavano “miseria”. Facevano gli straordinari o coltivavano un terreno fuori città, che tutti chiamavano “ranch”. Con questo si procuravano da mangiare, e con la paga, quando riuscivano a metter via qualcosa, compravano i frigoriferi e gli scaldabagni. Ogni sera, preciso come un orologio svizzero, passava barcollando davanti al vecchio spaccio di Gorica Alija Pantofolaio, che Paša aveva soprannominato “il manichino dell’amore fallito”. Era noto in tutta Gorica perché lavava le mutande a sua moglie Samka, ma anche perché amava la grappa di vinaccia di 50 gradi. “Alija Pantofolaio lava le mutande a Samka!” gridava Paša, e all’ultimo istante schivava i colpi di quell’omaccione ubriaco. Dietro allo steccato cui è appesa la targhetta blu arrugginita del numero 54 di via Krajiška abita Alija Pantofolaio. Lavare le mutande alla propria moglie, per un uomo di Gorica, rappresentava una profonda vergogna. Nessuno a Gorica ne dubitava, soprattutto noi, i teppistelli locali. Alija sul berretto aveva il numero quattordici, e alla stazione Normalna portava le valigie e gli altri bagagli. Nel frattempo Samka riceveva gli amanti. Alija beveva e non ne sapeva niente, o quantomeno fingeva di non sapere. I vicini dicevano: “Ben gli sta, dato che beve grappa di 50 gradi”. Noi, i teppistelli di Gorica, gli correvamo dietro e gridavamo: “Alija Pantofolaio lava le mutande a Samka!”. Che piovesse a dirotto, che nevicasse, che splendesse il sole o tirasse vento, la
risposta era: “Alija si fotte vostra madre!”. Quell’omaccione saliva verso via Krajiška fino al numero 54, e noi lo sentivamo borbottare: “Alija dalla pioggia è bagnato, dal sole riscaldato, dal vento colpito, ma da nulla scalfito”. Tornava dalla stazione e portava valigie immaginarie, i bagagli della stazione, saliva la strada in una danza barcollante ed era sicuro che la grappa di 50 gradi e le variazioni meteorologiche non potessero fargli nulla. Con la schiena appoggiata allo steccato davanti al numero 54 di via Krajiška accoglievamo l’autunno. Non appena Alija andava alla stazione, noi correvamo a incollare l’occhio a un buco delle tavole dello steccato, attraverso il quale vedevamo Samka. Un giorno al di là dello steccato si sentì una canzone: “Stanotte mi piange il cuore, stanotte mi duole l’anima”. Ci spintonammo mentre Haro, il fratello di Paša, guardando Samka disse: “Così, sposina, che Dio ti conservi!”. Haro si teneva una mano in tasca e con il respiro affannoso disse: “Perché strilla come se si sposasse suo fratello?”. E poi: “Ancora, sposina, ancora”. Agitava la mano nella tasca e io lo vidi. Appoggiai un occhio al buco dello steccato e mi misi la mano in tasca. Guardavo Samka che faceva cose assolutamente normali, e intanto mi rigiravo la mano in tasca, per non fare la figura del fesso. Era seduta in una grande vasca in mezzo al cortile, piena d’acqua, e con i palmi delle mani si premeva i seni verso il basso. Rideva ed era orgogliosa dei suoi seni che, ogni volta che lei li spingeva giù, ritornavano eretti. Mi ricordai di una lezione di storia e di Copernico, al quale era occorso uno sforzo così grande per dimostrare l’esistenza della gravitazione. E quanti problemi aveva avuto con la Chiesa che sosteneva che un fenomeno simile non poteva esistere! Da Copernico i pensieri tornarono al cortile. Samka aveva preso un vaso in cui coltivava dei pomodori minuscoli. Ne prese uno, poi un altro e a turno li metteva fra i seni. Li spremeva uno alla volta, e dai pomodori fuoriusciva il succo. Sembrava nello stesso tempo un’artista di circo intenta a provare un numero e una normale casalinga. Quel gioco mandava il cliente in estasi. Non durò a lungo. Per tutta Gorica si propagò potente la voce del cliente, come un urlo di Tarzan nella giungla: “Aaaaaaahhh...!!!” gridò. Poi saltò nell’acqua della vasca sbreccata. Allora anche Samka cominciò a strillare dall’eccitazione, e io chiesi a Haro: “Questo è l’orgasmo?”. “È asma, cretino, non vedi? È asma, ah, ah!” Per noi il cortile di Alija era il migliore dei cinema. Verificammo che lui lavava davvero le mutande di Samka e nessuno di noi dubitava che un giorno Alija, dopo aver colto uno degli amanti sul fatto, avrebbe ammazzato sua moglie. Sarebbe stato come un omicidio dal vivo. Per questo aspettavamo pazientemente quel momento... Alija per lo più taceva. Non rideva neppure. Alcuni pensavano che fosse scemo, altri che fosse saggio. Noi eravamo sicuri che, oltre alla grappa di vinaccia, amasse anche la gatta Aida e Samka, che non lo amava. Alija coccolava la gatta e la guardava dritto negli occhi. La gatta se la godeva. Tutto sarebbe durato molto più a lungo se lui avesse saputo governare gli eccessi di sentimento. La gatta era sdraiata sulla schiena mentre lui la accarezzava con entrambe le mani. All’improvviso, la afferrò per il collo e la strozzò. Paša e io ci nascondemmo subito dietro lo steccato e ci scambiammo uno sguardo di orrore. Sentivamo la gatta che soffocava e gemeva. Paša si accigliò. Da dietro lo steccato si sentiva Alija che piangeva, poi al di sopra delle nostre teste volò la gatta strozzata. Mentre Aida volava morta al di là dei cortili di Gorica, Alija apparve sullo steccato sopra le nostre
teste, sputò in direzione della strozzata Aida e disse: “Alija si fotte tua madre”. Sentii la sua saliva. Era uguale a quella del cane lupo che mi aveva morso scappando dall’Ospedale militare. L’incredibile avvenimento dell’assassinio della gatta non ci impedì di correre, già il giorno seguente, su per via Krajiška, e di gridare dietro ad Alija: “Alija Pantofolaio lava le mutande a Samka”. Il pericolo di finire fra le grinfie di Alija ci terrorizzava e, con una forza equivalente, un invisibile magnetismo ci attirava verso quel pericolo. Come se fossimo disposti a cadere nelle sue mani e a fare la fine della gatta Aida. Nel millenovecentosessantatré l’inverno giunse a Sarajevo con un metro e mezzo di neve. Eravamo in vacanza e Paša mostrava a tutti il suo voto in matematica: molto buono. Stentavamo a crederci, ma sul libretto scolastico era scritto chiaro: Hadjiosmanović Fahrudin, matematica – molto buono. Dicevano che avesse colto in fallo l’insegnante. Costui era ospite di Samka, e quel giorno Paša teneva l’occhio incollato allo steccato. Quando vide l’insegnante Kurajica entrare nel cortile, per prima cosa non credette a quello che vedeva, dato che Kurajica aveva moglie ed era padre di tre figli. Attraverso la recinzione Paša vide il solito spettacolo di Samka. Quando tutta la faccenda fu conclusa, aspettò Kurajica all’uscita: “Adesso capisci perché in matematica io ho molto buono?”. Kurajica annuì. Paša lo seguì e disse: “Non provare a fregarmi, ho altri due testimoni maggiorenni, sei fottuto, chiaro?”. “Chiaro” disse Kurajica. A Samka questa impresa di Paša proprio non andò giù. “Finocchio che non sei altro, non toccarmi i clienti, fanculo a tua madre!” strillò mentre cercava di colpirlo con il tubo di una stufa arrugginito, la prima cosa che le era capitata in mano. Dopo il primo quadrimestre, quel Kurajica non insegnava più matematica nella scuola Hasan Kikić, era stato trasferito sul colle vicino. Insegnava matematica nella scuola Miljenko Cvitković. La linea invisibile fra la periferia e la città io la oltrepassai con Gli uccelli, di Alfred Hitchcock. Il film non era così spaventoso. Di tanto in tanto dalla sala si sentivano domande come: “Te la sei fatta sotto, fratellino?”, mentre da un’altra parte arrivava anche la risposta: “L’ho fatta sotto la finestra di tua nonna!”. Il disturbo dell’ordine nella sala del cinema Il Lavoratore fu troncato dal gestore Bimbo Štrcaljka. Si accesero le luci, il film fu interrotto, e, con un’azione ben rodata, le guardie del cinema agguantarono i trasgressori e li consegnarono alla polizia. Per prima cosa Bimbo spruzzò Šiljo con uno spray per gli insetti, e poi lo portarono fuori assieme ad altri tre “indiani”. Il pubblico si mise a fischiare ma, quando apparvero i poliziotti, tutti si azzittirono come pesci. Poi le luci si spensero e il pubblico applaudì. Non appena il film ricominciò, dalle ultime file qualcuno scoreggiò sonoramente. Dai posti davanti Ibro Zulić lanciò una battuta: “Dio ti conceda questa musica sulla tomba”. Ciò che non avevano ottenuto Bimbo Štrcaljka e la polizia riuscì a farlo il film. La calma prese il sopravvento in sala quando nel film una donna si fermò davanti a una scuola in un quartiere di una città americana. Stava passeggiando quando il suo sguardo si soffermò su una ringhiera. Vide prima un uccello, e poi molti altri. Gli uccelli continuavano ad arrivare in numero sempre maggiore, e quando si gettarono in picchiata sulla scuola, si fece silenzio. Alunni terrorizzati fuggivano, mentre gli uccelli li prendevano di mira seguendoli per strada.
Haro, il fratello mediano di Paša, estrasse tre colombi dalla giacca a vento, li lanciò sul pubblico, e gettò un urlo, come un Tarzan senza denti. Mentre il pubblico strillando, fuggiva a casa, accompagnato dal fracasso dei sedili di legno, Paša gridò: “Cosa avete, finocchi, vi si è stretto il culo, eh?”. L’inverno fu particolarmente rigido, e mia madre mi disse: “Questo, figliolo, si chiama freddo pungente!”. I lavoratori del cinema ordinarono un’ulteriore tonnellata di carbone per la cineteca. Paša non voleva più fare lavori sporchi, Njego faceva la guardia per i “fiammiferai” a Marijin Dvor. Con quella tonnellata di carbone che a tempo di record riuscì a scaricare nella cantina della cineteca, Alija Pantofolaio trovò l’amore a prima vista con il cinema internazionale. Guardò un film che aveva per protagonisti Claudette Colbert e Clark Gable. Il film era intitolato Accadde una notte, e l’amore fra Claudette e Clark gli scaldò il cuore. I testimoni dichiarano che sul suo viso apparve un sorriso. La sua anima ardeva per quell’amore realizzato, a dispetto di tutte le peripezie. La cosa che gli piacque di più fu quando Clark Gable rise e baciò Claudette. Lei non si oppose e Alija si ricordò di avere baciato sua moglie Samka solo due volte, la prima al matrimonio, la seconda quando era morta la madre di lei, Sejda. Uscì dal cinema con un turbinio nella mente. Sapeva che avrebbe dovuto lasciarsi crescere i baffi. Sottili e da damerino. Pensava soprattutto a come aveva sorriso Clark Gable. Lo guardavamo mentre, sorridente, saliva lungo la strada ghiacciata. Paša disse: “È preciso identico al babbuino della Valle dei pionieri, quando gli danno le noccioline”. Alla Cineteca jugoslava Alija andò altre due volte, i biglietti glieli aveva procurati quell’ulteriore tonnellata di carbone. Una volta guardò Clark Gable e Claudette, ma nell’altro film Clark si baciava con un’attrice diversa. Alija non poté rassegnarsi al fatto che Clark avesse tradito Claudette. Decise di non andare più al cinema. Quell’inverno grossi avvenimenti non smisero di giungere al grande cuore di Alija e al suo piccolo cervello. Per prima cosa Samka fuggì, con il rappresentante Mihajlo Djordjević, a Zagabria. Quella disgrazia e il freddo rigido spinsero Alija a bere più che mai. L’unica cosa che gli scaldava il cuore, a parte la grappa di vinaccia di 50 gradi, era il ricordo di Clark Gable: i suoi baffetti gli ricordavano l’happy ending del film Accadde una notte. Pensava alla sventura che lo accompagnava dalla nascita. Si chiedeva perché Dio non gli avesse concesso un suocero ricco e intelligente come quello del famoso film americano. Là il padre ricco aveva convinto la propria figlia a fuggire dal matrimonio e a sposare un vero uomo. Nella sua vita invece la moglie era fuggita senza un saluto. Alla stazione Normalna, Njego, Paša e io, schierati, facevamo la guardia ai “fiammiferai” Tomislav di Kovačići e Dedo del centro città. I viaggiatori stavano alla larga da Alija Pantofolaio. Lui non la smetteva di ridere, proprio come prima non smetteva mai di essere serio. Puzzava troppo di grappa di vinaccia di 50 gradi. Quando la sera tornava su per via Krajiška, gridavamo: “Clark Gable lava le mutande a Claudette!”. Lui rispondeva: “Dalla pioggia son bagnato, dal sole riscaldato, dal vento colpito, ma da nulla scalfito!”. Strisciavamo di nascosto dietro a lui e gridavamo: “Alija Pantofolaio lava le mutande a Samka!” e lui si girava e diceva: “Clark Gable si è fottuto vostra madre”. Quella notte cadde la neve. Poi la pioggia, e poi splendette il sole. L’ingannevole sole di marzo scomparve ben presto dietro a una grande nuvola, che riportò l’inverno. Nuovi film dal contenuto più leggero arrivavano al cinema Il Lavoratore, proprio come le difficoltà della vita raggiungevano Alija Pantofolaio. Di venerdì alle 23 arrivavano le bande
da Kovači, Marijin Dvor e Hrid. Dopo il film Ammazzali tutti e torna solo Paša e Kenan di Koševsko brdo si picchiarono. Il risultato della scazzottata fu pari, anche se tutti dichiarammo che Paša aveva conciato Kenan per le feste. Alija Pantofolaio trascorse l’estate nella Prigione centrale, per lesioni causate a un alfiere di prima classe in pensione. Tutto era accaduto al buffet Trebević, dove il condannato e la vittima bevevano grappa di vinaccia di 50 gradi. Tutto era andato bene finché l’alfiere non aveva sospettato che Alija stesse ridendo di lui, cosa che lui, in quanto militare, non poteva accettare. L’alfiere per prima cosa disse che non gli piaceva che dei froci gli ridessero in faccia. Inoltre offese Alija paragonandolo al babbuino che ride quando gli danno le noccioline. Alija scontò obbediente la pena e poi suo fratello Mrvica lo portò con sé a Visoko. Quel Mrvica era noto perché era caduto da un elicottero ed era rimasto vivo. Così si diceva. Mrvica portò suo fratello a Visoko a rimettersi. Alija là si rimise, ma ben presto ricominciò a ubriacarsi. In seguito tornò a Sarajevo e andò talmente alla deriva che lo osservavamo muti mentre saliva per via Krajiška a zigzag. A quel tempo i cinema di Sarajevo non davano film con Clark Gable. Con Rita Hayworth ancora meno. Con Clark Gable e Claudette insieme, mai più. Di Samka non si sentì più niente. Una sera tornavamo dal cinema Il Lavoratore dove avevano dato il film Il giorno più lungo. Il film durava tre ore e trenta minuti. Tutti parlavano del fatto che quello era il film più lungo della storia del cinema. Passammo davanti al cinema Sutjeska, in via Goruša. Rimasi indietro a misurare quella via che saliva fino al Crni Vrh. Contai trecentotrentasei passi dall’inizio della strada fino alla chiesa avventista. Un lampione illuminava scarsamente la scalinata di cemento. Su quella scala, con il viso in penombra, giaceva un uomo. Era immobile e mi spaventai, per cui corsi a chiamare Paša. Lui tornò indietro, appoggiò la testa al petto dell’uomo e disse: “Clark Gable si è assiderato”. Era inverno e lui rideva. Mentre lo portavamo verso via Krajiška, al numero 54, era leggero e freddo, ma il mio corpo era attraversato da una corrente di calore. Pensavo ad Alija che il sole scaldava, la pioggia bagnava, il vento colpiva, ma nulla lo scalfiva. Il soprabito sbrindellato puzzava di grappa di vinaccia di 50 gradi. Nella tasca di Alija trovai una fotografia di Clark Gable che sorrideva e guardava Claudette. La foto era in bianco e nero e tutta sgualcita. Solo quando arrivai a casa mi misi a piangere, senza riuscire a dire a mia madre il perché. Lei mi convinse a contare le pecore, pensando che così mi sarei addormentato. Ma il sonno non arrivava. Guardavo l’acacia che si incurvava nel vento, mentre le rotelline della carrucola che sosteneva il filo della biancheria stridevano monotone e aumentavano la paura della morte. Con il Bosna express, prima dell’alba, arrivò a Sarajevo mio padre, da Belgrado. Tirò fuori dalla valigia le sue cose e mise dei pantaloni sul divano letto, accanto a me. Mi baciò, ma io fingevo di dormire, anche se il cuore mi batteva come se corressi. Mio padre si sciolse la cravatta, si tolse la giacca e si diresse al frigo. Quando estrasse una teglia con il pranzo freddo, io gli dissi fra le lacrime: “Ho visto un uomo morto!”. Lui mise la teglia con gli involtini di verza sul fornello per riscaldarli, si sedette accanto a me, e mi calmò con un sussurro: “La morte è una voce infondata, figlio mio”. Interdetto, guardai mio padre. Lui si mise a ridere e aggiunse: “Nessuno di noi è stato morto, in modo da controllare com’è veramente questa faccenda della morte. In ogni caso, lascia stare. Zia Biba è tornata da Varsavia, ti saluta e ti manda i jeans Levi-Strauss!”.
Con gli occhi spalancati guardavo mio padre, tenevo in mano i miei primi bluejeans e alla velocità con cui Gagarin si muoveva nello spazio credetti alla storia della morte come voce infondata. “Come sta zia Biba?” chiesi a mio padre mentre lui mi asciugava le lacrime con uno straccio da cucina. “Come vuoi che stia?! Sono tornati da Varsavia e, pensa, nel loro appartamento di Terazije hanno trovato i Rajnvajn! Avrebbero dovuto custodirgli la casa mentre erano via e al loro ritorno sarebbero tornati subito nel loro appartamento. Invece sembra che gli sia piaciuto da pazzi abitare a Terazije, e Biba ha paura di non riuscire a farli sloggiare neppure con una scavatrice!” “Ma come non vogliono andare via, che cosa fa lo zio Bubo?” “Lui?! Se ne strafrega, ogni giorno gioca a tennis con dei generali a Dedinje, mentre mia sorella si mangia le mani. Poverina, abita all’Hotel Balkan, piange e aspetta che la banda dei Rajnvajn esca da casa sua.” “Ma che cosa dicono, danno qualche spiegazione?” “Cosa dicono? La più linguacciuta è la madre di lui: ‘Ma Ljubomir ha ottenuto il posto di corrispondente della Tanjug a Praga, noi gli custodiremo di nuovo la casa! Per loro passare un mese in albergo è più facile che per noi trasferirci a ogni piè sospinto’. A quel Ljubomir mi viene da spaccargli il naso, strappargli i baffi, scardinargli la mascella! Lui con mia sorella si è sposato per interesse!” “Ma comunque, per quale motivo gli uomini si sposano con le donne, se non per interesse?” chiesi a mio padre, fingendo di capire i problemi di quelli più grandi di me. “Ma per amore, cazzo.” “Ciò significa che lo zio Bubo non ama la zia?” “Lui, Ljubomir Rajnvajn? Quello ama solo il suo culo!” Non mi riusciva facile credere a tutto quello che mio padre diceva di Ljubomir Rajnvajn. Soprattutto perché nel mio ricordo era impresso il profumo dell’acqua di colonia dello zio, ma anche perché lui sapeva tacere magistralmente, dando così l’impressione di un uomo riflessivo, che pensa a qualcosa di importante. Non mi ero arrabbiato quando mi aveva lasciato dormire davanti alla sua porta, o perché non mi aveva portato nel grande magazzino di giocattoli, dato che comprendevo l’importanza di trasmettere le notizie da Varsavia a Belgrado. E, cosa fondamentale, lo zio sapeva come trasformare azioni non tanto importanti nelle cose più importanti del mondo. Quella mattina, grazie al successo di mio padre nel dissipare la paura della morte che mi aveva toccato da vicino, compresi che nella vita di un ragazzino il padre era una cosa importante. E questo anche se i ragazzi più forti di Gorica, pronunciando la formula “per mio padre morto”, guadagnavano in importanza. Erano in molti, nella gara per il prestigio in seno alla compagnia, a dire “per mio padre morto”, anche se i loro padri erano vivi.
QUELLO CHE È IN ALTO È ANCHE IN BASSO. QUELLO CHE È IN BASSO È ANCHE IN ALTO Nel millenovecentosessantasette, Jurij Gagarin morì in un incidente aereo. Un anno dopo il FK Sarajevo vinse il campionato jugoslavo. La hit musicale di quell’anno fu Delilah di Tom Jones. Quando un ragazzo voleva dire a una ragazza: “Tu sei fuori di testa, non sei normale” le diceva: “Tu, piccola, sei una delilah”. Le marche di scarpe preferite dai giovani erano le Madras e le Brooks. Mentre nelle altre parti del mondo le Brooks si portavano per essere alla moda, per ballare e conquistare le ragazze, da noi erano molto apprezzate per altri motivi. Se colpivi un avversario nello stinco con la punta di una Brooks avevi risolto la rissa al primo minuto. Dopo un colpo del genere all’altro non rimaneva che saltellare impotente sulla gamba sana e, girando su se stesso, gridare: “Basta, smettila, ti prego!”. Nella compagnia c’erano dei tipi all’antica, che eran rimasti fedeli alle “canadesi”. Njego era il più piccolo fra noi, ma con gli scarponi canadesi centrava infallibilmente lo stinco; l’avversario provava un dolore insopportabile e si arrendeva subito. “Ma che Brooks e Brooks! È tutta una posa, se ti do un bel calcio con una canadese gli occhi ti diventano una fontana!” Quell’anno, nella squadra dei pionieri di Sarajevo, partecipai al match preliminare della partita per la coppa europea fra il Sarajevo e l’Olimpiakos. Per due azioni fui premiato con un applauso dagli spettatori che gremivano lo stadio Koševo fino all’ultimo posto disponibile, come amava dire il commentatore sportivo Mirko Kamenjašević. La prima volta feci passare il pallone fra le gambe del terzino avversario, e la seconda col tacco giocai un passaggio doppio con Brko Ferhatović, nipote del famoso Asim Ferhatović. Alla fine della partita, l’allenatore Mladen Stipić mi invitò a presentarmi in primavera, quando sarei stato più forte. Ma in primavera non mi presentai, poiché sapevo che non era questione della mia forza. “Tu giochi bene, hai il senso del gioco, la zucca ti funziona, ma sei un ragazzo ‘da portone’, non uno ‘da cortile’. Per te il calcio è un divertimento, non è questione di vita o di morte, impegnati a scuola,” mi consigliò amichevolmente il vice allenatore Markušević Srboljub. Quell’anno gli studenti di tutto il mondo alzarono la voce contro l’ingiustizia. Anche a Sarajevo. Alla Facoltà di Economia, imitando i colleghi della Columbia University, protestarono cantando: “All we are saying, is give peace a chance” e dondolandosi avanti e indietro, su e giù. Solo che non conoscevano il testo di tutta la canzone, per cui continuavano cantando: “O Lola, Lola, sai che non sono milionario...”, canzone che nell’originale era interpretata da Vladimir Savčić Čobi e i Proarte. Armando Moreno era un uomo irascibile, ma simpatico. Aveva grandi occhi, un grande naso e una grande bocca, e pochi capelli su una testa a forma d’uovo. Lavorava all’ufficio della JAT ed era spesso ospite a casa nostra. Suonava canzoni napoletane con la chitarra e, cosa più importante, aveva un tatuaggio su entrambe le braccia. Per me era impensabile che uno che non fosse uno zingaro avesse un tatuaggio. Mia madre mi spiegò: “Sai, figlio mio, lui è un ebreo, superstite di Dachau”. Una domenica che Moreno era ospite da noi e cantava canzoni del repertorio di Adriano Celentano, io mi rifugiai di corsa in corridoio, cercando di sfuggire ai tre Sejdić che volevano picchiarmi. Avevo staccato il freno del loro triciclo per poi mollarlo giù per via Goruša ed ero stato a guardare mentre si sfracellava contro il muro dell’Ospedale militare.
Mi ero stufato che i membri della tribù dei Sejdić mi facessero pagare ogni volta il permesso di passare vicino allo spaccio. Armando mi prese per mano, mi portò sulle scale e sistemò tutto con la sua voce tonante. Mentre cacciava i Sejdić dalle scale, per la potenza della sua voce i bicchieri nella credenza tintinnavano, urtandosi l’uno con l’altro. Moreno mi portò poi in cucina e mi accarezzò i capelli. Anche se ero più alto di lui, mi prese sulle ginocchia e si mise a cantare. Battendo le mani tutti si misero a ritmare la canzone Ventiquattromila baci. Perfino mio padre e mia madre, abbracciati, oscillavano a destra e sinistra. Moreno aveva preso la chitarra e ogni tanto, quando cambiava i toni, si vedeva un numero tatuato su un avambraccio, mentre sull’altro erano tatuati due triangoli, incastrati uno nell’altro: “Che cosa stai guardando? Quella è la stella di David” disse notando con quanto interesse lo fissavo, e quando si rese conto che la cosa non mi diceva nulla, aggiunse: “David era un re ebreo”. Io gli chiesi che cosa significasse il fatto che i due triangoli fossero inseriti uno nell’altro e lui rispose: “Alzati che ti faccio vedere!”. Io mi alzai, lui mi indicò la patta dei pantaloni e disse: “Quello che è in basso...” io chinai la testa, poi vidi che tutti mi guardavano e arrossii. Moreno mi risollevò la testa e continuò: “...è anche in alto” indicando la mia testa. Guardai confuso la patta, poi lui, ed egli ripeté ancora una volta: “Quindi, quello che è in basso è anche in alto...”. Non aspettai che finisse. Rosso in viso, mi fiondai fuori di casa. Salii di corsa in cima a Gorica per la stessa strada per cui il combattente e intellettuale Mustafa Madjar era sceso nella città di Sarajevo. Là fu ucciso da anonime canaglie, e questa fu la miglior conferma dell’affermazione di Mustafa che il mondo è pieno di schifezze. Mi fermai sul Crni Vrh e ascoltai. Per tutto il mio corpo risuonavano il mio cuore e la saggezza ebraica: “Quello che è in basso è in alto. Quello che è in alto è in basso...”. Mi sedetti e guardai Sarajevo che, comunque, era in basso, mentre il cielo era in alto. Era quasi notte, e via via si accendevano le luci della città. Vicino a certe lapidi cadute cominciarono a incontrarsi gli innamorati di Gorica. Sembrava una visita turisticosentimentale alla Tomba del Nonno. Dopo escursioni del genere, nei pettegolezzi quelle donne venivano definite le “infelici”. Mi arrampicai proprio sulla cima, sopra la Tomba del Nonno. Si vedeva molto chiaramente cosa c’era in alto e cosa in basso. Furtivamente, anche se nelle vicinanze non c’era nessuno, piegai la testa all’ingiù. A quel punto Sarajevo era in alto e il cielo in basso. Tenni la testa così finché il collo non mi fece male. Quando mi raddrizzai, tutto tornò al suo posto. Sarajevo era in basso, il cielo in alto. Guardai verso la Tomba del Nonno e vidi un “infelice” e uno della compagnia dei più vecchi che se ne andavano. Corsi giù fino alla tomba e lì mi misi ritto sulla testa. Mi piaceva guardare la chiesa di Marijin dvor e i treni della stazione librarsi in alto sulla terra, e il cielo in basso e senza fondo. Per la prima volta pensai che la saggezza ebraica dalla stella di David era stata trasferita all’immagine della mia città. Mi chiesi perché quella frase mi fosse divenuta chiara solo dopo che mi ero capovolto. Ciò che era in basso era anche in alto e ciò che era in alto, era anche in basso. Era notte e il sangue mi aveva inondato il cervello. Appoggiati alla Tomba del Nonno, eravamo seduti Paša, Haris, Njego e io. Faceva caldo, e noi avevamo deciso di non essere più bambini. Davanti a noi c’era una brocca di vino rosso. Fumavamo Hercegovina senza filtro, e la brocca di vino passava di mano in fera interpretata da Vladimi Paša ci chiese se eravamo ubriachi e noi rispondemmo di no.
Paša si mise a ridere e disse: “Allora beviamo a piccoli sorsi, l’ha provato mio fratello. È il modo più semplice di ubriacarsi”. Sorseggiammo quel vino dozzinale e fummo ben presto colti da un riso irrefrenabile, poi da una vertigine. Ci muovevamo per la china erbosa come sonnambuli, a tentoni, ognuno per conto suo. Cademmo uno alla volta, vittime di quel vinaccio e del sole cocente. Sprofondammo nel sonno. Un sonno pesante e da grandi. Non volevamo più essere bambini. Ci svegliammo un anno dopo, quando a Sarajevo arrivarono le ragazzine di Banjaluka. Là il terremoto aveva distrutto le loro case e le loro scuole, così erano venute a completare l’anno scolastico nella nostra scuola. Mentre scendevano dai pullman e portavano le loro cose nella sede dell’Organizzazione giovanile delle vacanze, noi le osservavamo e sceglievamo a chi avremmo mostrato la Tomba del Nonno. Paša aveva già Mirsada e per lui lei era quel che per me era stata Snježana Vidović, solo che il suo si chiamava amore realizzato. Con molte circostanze aggravanti. Tutte quelle ragazze di Banjaluka appena arrivate erano potenziali “infelici”. A me piaceva Nevenka, a Haris Meliha. L’assistente sociale Vjekoslav Šeparević venne nell’ora di serbocroato e ci tenne una lezione sul fatto che, nei confronti degli ospiti di Banjaluka, dovevamo comportarci da persone civili: “Sono rimasti senza un tetto sopra la testa, le loro case sono state distrutte da un terremoto devastante. Il nostro Stato ha offerto loro un modesto sostituto dei loro alloggi, voi offrirete loro una mano amica”. Tentò di fare una battuta, anche se sapevamo che parlava seriamente: “Cercate di essere loro a portata di mano, se non volete trovarvi alla portata del mio piede”. A quella storia del piede potevamo credere. Uscendo, l’assistente sociale ci lasciò un messaggio forte: “Per piacere, niente palpeggiamenti fra maschi e femmine, non siete più bambini, un palpeggiamento fuori controllo può causarne uno più intenso, e questo a sua volta un’eiaculazione precoce, che potrebbe, Iddio non voglia, iniziare una nuova vita”. Un mese dopo venimmo a sapere che Vjekoslav era stato arrestato, dopo che aveva derubato la cassa del gruppo scout Savo Kovačević, di cui era capo. Comprendemmo che i palpeggiamenti erano ammessi, e perfino quell’eiaculazione, anche se non sapevamo il latino. Ciò che è in alto è anche in basso, ciò che è in basso è anche in alto! Ero seduto sulla Tomba del Nonno e aspettavo Nevenka, tutto concentrato. Riflettevo su che cosa si dicessero un uomo e una donna quando erano soli. Come iniziare la conversazione? Chiederle di suo fratello, se i suoi fossero vivi, quanti anni avesse? O cominciare dall’ultima domanda? Avevo paura di non averla vista bene; magari mi era sembrata più bella di quanto non fosse. Apparve all’improvviso. La fissavo con la bocca semiaperta e subito mi accorsi che non era bella come me l’ero immaginata. Non era neanche brutta. Aveva i seni più grandi di quando l’avevo vista a ricreazione, e le avevo rubato il chifel. Mi chiese quanti anni avessi, e io risposi: “Quattordici”. Lei si sorprese: “Sei molto alto per la tua età”. Io tacqui. Guardava verso la città e mi confuse per qualche momento prima di dirmi: “Hai begli occhi!”. La guardavo muto, come Belin, il difensore della Dinamo davanti al quale il centravanti del Sarajevo, Asim Ferhatović, era sgusciato via segnando un gol allo stadio Maksimir di
Zagabria, quando il Sarajevo aveva battuto la Dinamo 3 a 1. Non riuscivo a farle nessuna domanda. Dovevo ricambiare il complimento? Se avessi detto: “Anche i tuoi occhi sono belli,” avrebbe pensato che la prendevo in giro. Aveva il viso rivolto verso la città. In quel momento mi dispiacque di non essere in Groenlandia, piuttosto che accanto alla Tomba del Nonno. La prima frase che pronunciai suonava poco convincente. Avevo la gola secca, e dissi: “Oddio che sete, non so cosa mi succede!”. Lei si voltò solo per un attimo verso di me e mi disse: “Che strano, voi qui non avete un fiume, ma bevete l’acqua più buona del mondo! Noi a Banjaluka, pur avendo il Vrbas, beviamo un’acqua schifosa”. Poi Nevenka mi venne vicino, mi prese per una mano e mi guardò dritto negli occhi. I suoi occhi dicevano quanto fosse più matura di me. Mi allontanai un po’ adducendo di essere miope: “Ti vedo meglio quando non sono tanto vicino”. Lei continuava a tenermi per mano e sorrideva. Io mi appoggiai alla lapide della tomba e mi sentii meglio con quella pietra fredda lungo la schiena surriscaldata. Nevenka si avvicinò di nuovo e mi baciò all’angolo della bocca, e io con movimento allenato mi girai a testa in giù, appoggiato alla pietra. Lei stupita si mise a ridere. Mi chiese: “Dove vai adesso, pazzo che non sei altro?”. Stavo a testa in giù e guardavo la mia immagine preferita in cui tutto era al contrario. Sarajevo era in cielo, e il cielo al posto di Sarajevo. Era una notte stellata, e l’immagine era più bella che mai. Sia in basso sia in alto tutto scintillava. A un tratto provai un senso di sollievo e per la prima volta i muscoli non si fecero sentire, rendendomi le cose stranamente facili. A voce alta ripetevo, come gli indiani che danzano attorno al fuoco: “Ciò che è in basso è in alto, ciò che è in alto è in basso!”. Non cercavo affatto di comprendere la saggezza ebraica. Stavo a testa in giù e sentivo Nevenka che mi chiedeva: “Che cosa dici scemo? Vieni qui!”. L’immagine della città era completamente fusa con l’immagine stellata del cielo. Proprio come quei due triangoli si incastravano a formare la stella di David. Io avevo perso coscienza e nulla mi faceva male. Sentii il sangue che mi scorreva nel corpo. Da su verso il basso e da giù verso l’alto. Nelle mani tenevo dei seni femminili maturi. Il capezzolo somigliava alla marmellata che si trova al centro di certi biscotti rotondi. Guardavo a sinistra e a destra, come a una partita di ping pong, poi Nevenka abbassò la sua mano. Il mio sangue risalì vorticosamente. Guardai verso il basso e mi ricordai di Armando Moreno e della canzone Ventiquattromila baci. Un anno dopo lo svelamento del mistero della stella di David, il primo uomo passeggiò sulla Luna. A Gorica si diceva fosse un puro imbroglio hollywoodiano: delle telecamere erano state messe nel Sahara perché non era assolutamente possibile che Armstrong avesse camminato sulla Luna. Quella era l’opinione di chi, durante la Guerra fredda, stava dalla parte dei russi: “Come se Gagarin, una volta andato lassù, non avesse anche potuto metter piede sulla Luna, figurati”. Un nostro vicino, originario del territorio carsico montenegrino, commentava con disprezzo l’intera faccenda: “Come se, per poter frugare in una pietraia, avesse dovuto arrivare fin sulla Luna. Ce n’è di pietre da noi a Danilovgrad, non sanno che farsene!”. Io appartenevo alla minoranza di Gorica convinta che davvero l’uomo avesse passeggiato sulla Luna. Non perché fossi più intelligente. Non ero tanto per le soluzioni facili, quanto per quelle concilianti. In me, dopo l’infelice morte di Jurij Gagarin, l’interesse per il cosmo si era improvvisamente spento. Mi attirava, in quel periodo, ciò che era in basso piuttosto che ciò che era in alto.
“Mio caro Murat!” diceva mia madre, guardando alla televisione due uomini che passeggiavano sulla Luna. “L’uomo è arrivato alla Luna. Tu arriverai mai a un nuovo appartamento?” Mio padre faceva di tutto per far credere di dormire. Ciò stimolava ancor più mia madre a continuare con l’esposizione dei gravi disagi dell’abitazione di Gorica: “Tu non otterrai mai ciò che ti appartiene, te lo dico io! Ma dai, ti prego, il viceministro dell’Informazione che vive in un appartamento di una stanza e mezzo!”. In realtà mio padre non dormiva: disteso sul divano, con un occhio guardava in tv la passeggiata sulla Luna, mentre teneva l’altro chiuso. Cercava di sfuggire alle consuete filippiche di Senka. Sperava che mia madre l’avrebbe smessa se avesse visto che dormiva. “Per Dio, Murat, dovrò fino alla fine dei miei giorni scaldare l’acqua della tinozza per lavarci e accendere la stufa per scaldarci? C’è qualcuno che abbia pietà per la mia sorte?” si chiedeva Senka. “Ho diritto anch’io al riscaldamento centrale?” “Il diritto ce l’hai, lo devi solo concretizzare!” Mio padre non ce la fece più a tenere un occhio chiuso e a tacere. “Non ti basta tormentarmi, mi devi anche canzonare!?” “Non bestemmiare, Senka, bisogna essere soddisfatti di ciò che si ha. Immaginati solo che succeda come dicono gli ebrei, quando maledicono i nemici: Dio gli conceda di avere e poi di non avere! Così, invece, non abbiamo niente, ma non possiamo neppure perdere niente!” “Per te è facile parlare così, tu non hai pulito la stufa neppure una volta in undici anni.” Era difficile portare avanti questi discorsi con mio padre, per lui le grandi idee storiche erano più importanti di “inezie” come l’appartamento, il riscaldamento e simili “banalità”. Quando non ne poteva più, di solito andava coi pensieri e i discorsi lontano, ad altri continenti: “Tu, Senka, parli di quanto la nostra vita sia difficile, ma cosa dici di quello che sopportano quelli là in Africa, di come vivono Patrice Lumumba e i suoi poveri?”. “Tuo figlio va al liceo, come liceale avrà la sua stanza? Questo dimmi, e non come vive Lumumba!” Alla fine ci trasferimmo in via Kate Govorušić al 9a. Il passaggio dalla periferia alla città, da un appartamento di una stanza e mezzo a uno di due stanze e mezzo, avvenne solo quando Murat non riuscì più a sopportare le filippiche di Senka. Fece pressione sul suo ministro, Mirko Petrinić, che alla fine lo aiutò a ottenere un appartamento statale più grande. Nella decisione di mio padre di lottare per un nuovo appartamento giocò un ruolo anche un’altra cosa importante. Era un uomo ospitale e amava cucinare. Se la godeva un mondo quando arrivava un mucchio di amici e lui preparava una “pentola bosniaca”. Io all’epoca avevo la mia camera, che era quella mezza stanza che perseguitava la nostra famiglia. Non arrivammo mai a un appartamento dove non esistesse un annesso o una mezza stanza. Penso che quella formulazione provenisse dall’abilità degli economisti di Tito. Loro in realtà chiamavano le cose con il vero nome. Infatti suona molto meglio se dici appartamento di due stanze e mezzo invece che bilocale, ma a conti fatti, quanto a superficie non c’è differenza. L’unica cosa che non si riusciva a stabilire era in cosa consistesse quel mezzo. E, inoltre, in base a quali parametri un trilocale si differenziasse da un appartamento di due stanze e mezzo. Dubitavo che ci fosse qualche misura specifica, ma era certo che quel mezzo apparteneva a me. La mia camera era separata dal corridoio da una parete vetrata, come fosse una grande finestra. Senka aveva cucito delle tende ondeggianti – adatte più alle sale di un palazzo che a un appartamento di due stanze e mezzo – per schermare la vetrata, in modo da creare le premesse per l’intimità nella mia stanza, come aveva tenuto a precisare.
“Guarda le tende, non sono come un lampadario?” “Sì, proprio come un lampadario,” dissi, e non ero arrabbiato per la stanza e le tende, il cui aspetto, fra l’altro, non si addiceva per niente a quell’appartamentino. Quelle tende avrebbero richiesto una sala di corte. Ma mi dava fastidio la parola lampadario! Ma che lampadario, pensavo dentro di me, come possono delle tende essere come un lampadario? Quello pende dal soffitto e le tende dal muro, però, pensai, è meglio che stia zitto e non rovini a mia madre uno dei suoi rari momenti di felicità. La mia stanza nel nostro nuovo appartamento non mi piaceva granché. Appena potevo tornavo a Gorica, da Paša, Truman, Njego e Haris. Per lo più bighellonavamo presso il vecchio spaccio. Per fortuna via Kate Govorušić era vicina al mio vecchio quartiere: passi davanti al grattacielo, attraversi via Djuro Djaković, sali via Ključka ed eccoti, in un lampo, a Gorica. Poi, all’improvviso, l’intera compagnia si trasferì al Passeggio. La nuova base per i nostri incontri era stata scelta per diversi motivi. Quando Paša traslocò da Gorica a Svrakino selo, per lui era più semplice arrivare fino a via Djuro Djaković che salire fino a Gorica. Il Passeggio divenne la nostra stanza di soggiorno. Uno di noi ordinava un caffè, un altro un uovo sodo: quanto bastava per stare seduti nel locale l’intera giornata, senza che i camerieri protestassero perché non consumavamo altro. Facemmo subito amicizia con Zoran Bilan, Sladja, Zlatan Mulabdić e Noko. Dato che eravamo scesi da Gorica, potevano chiamarci “indiani”. Comunque, il Passeggio era una buona scelta perché quella discesa dalla periferia in città non significava oltrepassare la linea che separava il centro dal “quartiere zingaro” come lo chiamavano. Infatti quel locale era ai piedi di Gorica, là dove iniziava la città, e la vicinanza del Secondo liceo ci garantiva di non perdere di vista le allieve, pur fingendo che le loro occhiate non ci interessassero. Il nuovo appartamento divenne l’opera della vita di mia madre. Chiese un prestito, ricevette un po’ di denaro dalla cassa di mutuo soccorso della facoltà di Ingegneria e comprò i mobili: un divano a tre posti foderato di panno, con due poltrone, un cassettone per il televisore e un tavolo da pranzo, sul quale aveva messo il centrino fatto da lei all’uncinetto tanto tempo prima: tutto ciò rappresentava la realizzazione degli antichi desideri di Senka. “Pazientato, salvato” diceva, ora che i sogni di tanti anni si erano esauditi. Il tappeto cinese, il pezzo più costoso dell’arredamento, lo coprì con un grande telo di nylon, di modo che, come diceva, non si sciupasse. “Ci si siede, si mangia e si rovescia qualcosa, e perché mai dovrei pagare il lavasecco, quando il nylon protegge a meraviglia? Il mio Murat quando mangia si macchia tutto, e quando cucina è una vera catastrofe. Lui, mia cara, dalla cucina riesce a macchiare il terrazzino, tanto è pasticcione” diceva alle nuove vicine mentre bevevano il caffè. Quella nuova invenzione di Senka la chiamavo “Difesa degli oggetti cari da un rapido e facile deterioramento”. Quando ci trasferimmo trovammo un’altra sorpresa di Senka. Già da un anno aveva ricamato un grande arazzo, intuendo che i suoi sogni su una, come la chiamava lei, “abitazione umana”, si sarebbero realizzati. Il primo lavoro dopo il trasloco fu appendere il grande e pesante arazzo che mostrava una carrozza che si allontanava per un sentiero in mezzo a un bosco: “Vedi Emir, questa strada è la linea della vita, un sentiero che la indica in modo simbolico. Questi qui in carrozza siamo noi, viaggiamo e chissà dove ci condurrà il viaggio della vita. Puro simbolismo!” disse mio padre, e aggiunse: “Senka, complimenti, questa è proprio una cosa preziosa”. Anche se era patetico come l’opera di mia madre, mio padre parlando dell’arazzo metteva in rilievo il tratto romantico del suo carattere, che all’improvviso, per
quell’occasione, aveva tirato fuori da qualche cantina, come un oggetto dimenticato. Nel millenovecentosessantanove fu venduta la casa di mio nonno in via Mustafa Golubić al numero 2. Subito dopo fu anche demolita. Era necessario, per ampliare la Casa della polizia. Scomparve l’ormai diroccata villa baronale, il palazzo in cui erano iniziate le cose importanti della mia infanzia. Tutto ciò che era legato alla casa della famiglia Numankadić divenne parte dei ricordi di tutti noi, i cui animi erano stati accomunati dalla nobile natura degli abitanti della casa. Con la demolizione della casa di famiglia vennero messi nel dimenticatoio i primi eventi importanti della mia vita, ma ne stavano arrivando rapidamente di nuovi. Il guadagno della vendita della casa fu diviso in quattro parti uguali, assegnate alle due sorelle, al fratello, al nonno e alla Mamma. Con quel denaro furono acquistati degli appartamenti a Hrasno. Il nonno fu quello che visse il trasloco nel modo peggiore. Poco incline a muoversi, ora, nel nuovo appartamento, aveva completamente smesso di camminare. Oppresso dall’angoscia, diceva spesso a mio cugino Edo: “Edo, portami a Gornji Vakuf, voglio morire là dove sono nato!”. Edo, per metterlo di buonumore, la buttava sul ridere: “Non morire finché non mi sarò laureato. Mi devi prima mandare a Parigi, a vedere Monna Lisa, poi devi aspettare ancora una decina d’anni e solo allora ci potremo separare”. “Per Parigi io ho già messo via i soldi, vacci domani, e per quell’altra cosa dell’università cerca di sbrigarti un po’. Se continui così, dovrò spedire a quell’ingegnere lassù,” si riferiva a Dio, “una domanda per ottenere un’altra vita. Solo se me la concede potrò vedere la tua laurea.” Il nonno era felice che i soldi della vendita della casa fossero impiegati in modo valido. Lo stesso valeva per sua figlia. Senka aprì un conto in valuta estera alla Banca commerciale e lì teneva la sua parte di eredità dalla vendita della casa: “Chissà che cosa potrà servire, Emir cresce, e se Dio concede che metta la testa a posto e cominci a studiare sul serio, lo manderemo nelle scuole migliori!”.
UN TOPOLINO CORRE IL GIRO D’ONORE Nel millenovecentosettantadue Šiba Krvavac, regista di film d’azione, mi aprì le porte della cinematografia nazionale. Mi iscrissi nelle fila del cinema jugoslavo pronunciando le seguenti parole: “Siamo fortunati, solo una sentinella, distaccarli sarà uno scherzo!”. Quella fu la mia unica battuta nel film Walter difende Sarajevo che rese Krvavac celebre perfino nella popolosa Cina. Dopo quella battuta seguì la mia prima morte cinematografica. Correndo, mi imbattei in un gruppo di soldati tedeschi che mi falciarono con una raffica di trrrrrrrrrrrr...... mitragliatrice, mentre io, cadendo, dicevo ancora: “Aaaaaah...!!!”. Una talpa fra i nostri aveva informato i tedeschi dell’attentato che avevamo programmato per distruggere l’unità nemica. Quando giovedì quattro novembre millenovecentosettantuno, esattamente alle 6 e 15 minuti, Senka arrivò al Quinto liceo, non si immaginava che cosa l’aspettasse al ricevimento dei genitori. Dopo dieci anni di scuola, mia madre si ritrovò davanti la stessa storia della prima elementare. Il coordinatore voleva gradualmente condurre Senka fino alla verità e iniziare un nuovo capitolo nella mia carriera scolastica. Non sapeva se cominciare dai voti più bassi o dalle assenze. Optò per le assenze, perché per i genitori è più facile accettare il fatto che i loro figli sono irrequieti, piuttosto che stupidi: “Non c’è una materia che lo interessi, gioca tutto il giorno a basket al FIS. Lo vediamo dalle finestre dell’aula magna. Non esiste forza che riporti Emir in classe dopo la pausa pranzo”. Il coordinatore era l’insegnante di educazione fisica e non nascondeva la sua simpatia per me. Accompagnò Senka in corridoio e le disse in confidenza: “Senka, si procuri un certificato per la giustificazione: ha ben trentanove assenze ingiustificate in un solo semestre!”. Giocando a basket, volevo superare l’eroe di Sarajevo Davorin Popović Pimpek. A una velocità mai vista troncava le azioni degli avversari, faceva passare la palla fra le gambe dei giocatori, da due passi, da dietro la schiena. Riusciva a essere il migliore, anche se di statura pareva un bambino fra giganti. Giocava a basket quasi come quei neri di Harlem. Durante il time-out prendeva una sigaretta e fumava. Paša, il più forte della compagnia, e quindi anche il più intelligente, spiegò così quell’impresa di Pimpek: “Proprio così, fratello, fai un po’ di giro d’aria nei polmoni. Come quando in macchina acceleri e il fumo esce sotto pressione dal tubo di scappamento. Faccio anch’io così: aspiri il fumo profondamente fino alle palle, e poi lo butti fuori. Sai che sensazione?”. “Non so” dissi, ma lui capì che lo sfottevo, e cominciò a rincorrermi nell’area adiacente al FIS. Di solito, in queste situazioni, sembravamo giovani orsi che limano gli artigli e si azzuffano per diventare più forti. Per quanto forti fossero i colpi che ci davamo, ridevamo. Per festeggiare l’otto marzo, Pimpek cantava con il gruppo degli Indeks nella sala del , FIS io ero in piedi in prima fila e assieme a lui cantavo la mia canzone preferita “Se fossi qualcuno...”. Il testo corrispondeva in pieno ai miei desideri, perché volevo anch’io diventare qualcuno. Ammiravo quell’eroe di Sarajevo che proveniva dalla strada e lo invidiavo: giocava a basket, beveva, fumava bellamente durante il time-out, cantava in un gruppo che assomigliava ai Beatles. E, cosa più importante, non doveva andare a scuola! Per avvicinarmi il più possibile a quell’ideale di vita, cambiai il modo di parlare. Con voce roca imitavo l’idolo di Sarajevo. Di sera, quando nessuno mi vedeva, davanti allo specchio, tenevo in mano un microfono invisibile e cantavo: “Le mani tendo adesso a te...”.
Davanti al vecchio spaccio di Gorica, uno zingaro non fu soddisfatto né della mia voce, né dell’interpretazione: “Tu, ragazzo mio, cantando non ti sazierai mai di pane”. Disarmato da una simile verità, pensai di trovare qualche altra via d’uscita: avevo già capito che davanti a me non avevo una carriera canora. Tuttavia, l’osservazione di quello zingaro di Gorica influì in modo determinante sulla mia decisione di dedicarmi completamente al basket. La vittoria più importante della Giovane Bosnia, quell’anno, fu la Coppa di Jugoslavia contro la Stella Rossa. L’intero FIS scandiva il soprannome di Davor: “Pimpek, Pimpek, Pimpek...!”. Paša, Njego, Beli e io eravamo seduti sull’ultima gradinata della tribuna sotto i platani. Anche in quel frangente, il più intelligente di noi sentì il bisogno di sfoggiare il suo sapere durante lo spettacolo di quella sera: “Sai che significa Pimpek?”. “No!” “Una notte che Osmo dormiva nella stazione di Zagabria, arriva una puttana e chiede: vuoi che faccia fare un bel giro al tuo pimpek?” “Ma dai!” “Per mio padre morto, a Zagabria il cazzo lo chiamano pimpek!” “Ma non c’entra niente con Davorin. Al lobo dell’orecchio lui ha una piccola escrescenza, che si chiama pimpek, me l’ha detto il mio vecchio,” io difesi così l’eroe dell’asfalto di Sarajevo. A dire il vero, a Zagabria e a Sarajevo non valevano gli stessi slang. I croati avevano sempre mantenuto il proprio linguaggio. Pimpek a Zagabria – ćuna a Sarajevo. Il piccolo esercizio linguistico mi portò dalla pallacanestro alla pallamano. Mentre Davorin faceva girare i giocatori della Stella Rossa e faceva canestro, io pensavo alla pallamano, a causa della parola pimpek. Il più famoso giocatore di pallamano della nostra città era Memnun Idjaković. Per simpatia lo chiamavano Ćuna. Quindi, se fosse vissuto a Zagabria, lo avrebbero chiamato Pimpek. Non so come si fosse guadagnato quel soprannome, ma so che aveva un tiro micidiale. Andavo alle partite di pallamano soprattutto per la baldoria che faceva il pubblico. Con il suo gioco Idjaković ispirava i tifosi della Giovane Bosnia in modo duplice. O il pubblico scandiva: “Bravo Ćuna!” oppure semplicemente: “Ćuna!”. La parte pacifica della partita trascorreva al ritmo dello slogan “Bravo Ćuna”. Tuttavia, quando occorreva far perdere la testa al portiere degli avversari, si passava all’attivazione dell’arma segreta. “Centra quel frocio dritto sulla zucca!” urlava Paša dal pubblico. Io mi chiedevo come reagisse uno di fuori, a patto che sapesse il significato di “ćuna”, quando nel FIS ottocento persone scandivano all’unisono: “Ćuna, Ćuna!!!”. Penso che non esistano tanti posti al mondo dove in modo così aperto e rumoroso si tifi per l’organo maschile. In realtà, si trattava di un ben noto messaggio in codice, un accordo non scritto fra i tifosi e il giocatore. Quando sentiva il messaggio, Idjaković cominciava a mirare il portiere avversario dritto in testa. Se non centrava la prima volta, tentava di nuovo. Solo dopo che Idjaković aveva fatto centro, il pubblico si calmava e non insisteva sulla sua virilità. Allora scandivano di nuovo: “Bravo Ćuna!”. La carriera di giocatore di basket di Davorin Popović Pimpek finì presto: senza pianti d’addio né commiati in grande stile. Lui voleva solo una vita facile e smise di giocare a pallacanestro. Stava giocando a carte nel nuovo ristorante Kvarner, quando arrivò il suo compagno Hajro e disse: “Davorin, per amor del cielo, tu non sei normale! La partita è iniziata, e tu te ne stai qui
a giocare a ramino?!”. “Io sono normale! Vieni qui e bevi qualcosa!” “Non voglio bere, andiamo alla partita, eccoti l’equipaggiamento.” “Da stasera il cantante non gioca più a basket.” E davvero, da quel momento Davorin, invece che a pallacanestro, ogni sera fu al Kvarner a giocare a ramino. Quel nuovo ristorante di Sarajevo era nato dall’ex buffet Trebević, da dove, ubriaco, era andato alla morte Alija Pantofolaio, alias Clark Gable. Davorin, giocando a ramino al Kvarner, faceva quattro cose contemporaneamente: stava seduto, beveva spritzer, giocava a carte e aspettava l’acquisto del suo caffè. Era un conoscente di mio padre, si trovavano spesso alle ore piccole. Così fummo invitati all’inaugurazione del suo caffè. C’erano molte persone distinte. Il discorso d’apertura fu tenuto dal compagno Ljubo Kojo, sindaco di Sarajevo. Nel socialismo non si usava dare risonanza agli affari privati, ma Davorin fu un’eccezione: “Davor, la cosa importante è che questa tua impresa vada bene, indipendentemente da questo e quello. Che la fortuna ti aiuti, stai solo attento che qui non si radunino gli ustascia e altri nemici del nostro sistema e del compagno Tito”. Il compagno Kojo non nominò i cetnici, che, in tali circostanze, erano sempre tirati in ballo insieme agli ustascia come loro antitesi... Applauso! Quel Kojo era già diventato famoso, una figura mitica a Sarajevo. Aveva condotto lunghe trattative con una ditta austriaca per un grande progetto edilizio e una volta che era suonato il telefono, e non c’erano traduttori a portata di mano, dato che non parlava nessuna lingua straniera, gridò nella cornetta: “Parla Ljubo Kojo, Sarajevo, Gavrilo Princip, bum, bum, bum!!!”. Mio nonno diceva spesso: “Marzo si porta via lo scarto” e anche lui, alla fine, per quanto non fosse uno scarto, fu inghiottito da quel marzo. Accadde il 9 marzo 1972, all’improvviso, dicono sia stato un ictus. La morte lo raggiunse di notte e non provò alcun dolore, e quando si muore questa è la cosa più importante. Con la sua scomparsa il nonno sconvolse così le aspettative di morte della famiglia Numankadić. Sua moglie era malata già da tempo e noi tutti pensavamo che se ne sarebbe andata presto. E invece il nonno se ne andò prima di lei, così com’era scritto nel suo destino. La vita di Hakija Numankadić aveva perso senso ancor prima, quando, a causa della vendita della casa di famiglia in via Mustafa Golubić 2, i suoi itinerari erano stati sconvolti: casa-Baščaršija, e ritorno. Un tempo andava in centro scendendo giù per via Dalmatinska, e ritornava per il Grande parco, in salita, davanti alla “panchina hippy”, in modo da massaggiare il suo cuore camminando, come diceva. Anche quando noi, i suoi nipoti, diventammo grandi, continuò, in cima al Grande parco, a regalare a bambini sconosciuti prugne secche e qualche cioccolatino al rum. Donava varie leccornie che rendevano felici i suoi piccoli adoratori. Ultimamente, abitando a Hrasno, ricordava i giorni passati, quando si riuniva l’intera famiglia. Si preoccupava di tutti, tutti lo amavano e si rifugiavano volentieri nel suo abbraccio. E i suoi figli e nipoti si sentivano davvero protetti come orsi bianchi. Soprattutto il figlio maschio, Akif Numankadić, rappresentante della Philips per la Bosnia ed Erzegovina nonché amico personale della regina olandese. Il nonno diceva che gli era toccato in sorte di “fare le caccole”, a Hrasno, in una gabbia, come definiva il suo appartamentino in via Braća Ribar, al 45. La sua morte gettò nello sconforto soprattutto mia madre. Morì arrabbiato con Senka, che il giorno prima gli aveva buttato nella spazzatura le vecchie galosce. Lei lo aveva fatto perché non sopportava che suo padre andasse in giro,
nel tragitto Bjelave-Baščaršija, con delle calzature sformate, ridotte in quello stato pietoso. D’altronde, lui apprezzava le soprascarpe di gomma proprio per quello: erano talmente sformate che era molto facile infilarle sulle scarpe. Sconvolta per l’improvvisa scomparsa del padre, Senka stava in piedi in cucina, con delle galosce nuove in mano. Come se, tendendo le mani davanti a sé, verso l’altro mondo, volesse pacificarsi con il padre defunto. In realtà il nonno era morto molto prima. Il suo cuore era restato nella villa baronale di Bjelave, e quello rimasto nel suo petto non era abbastanza forte da battere colpi che potessero farlo sopravvivere e continuare ad aiutare la moglie malata. Dopo la morte del nonno mio padre dimostrò che un uomo dei Balcani sa essere giusto. Dissi a mia madre quanto mi aveva favorevolmente impressionato. “Tu non ti ricordi del padre di lui, di quanto si occupasse della sua signora, era una cosa risaputa. Se sua moglie avesse chiesto anche latte di uccello, lui glielo avrebbe trovato!” Mio padre non usciva ogni sera, ma agli spritzer bianchi non rinunciava. Gli amici venivano a casa nostra, mentre io avevo perso il diritto di andare al FIS, neppure il calcio mi era concesso. Mio padre aveva decretato: “Finché non rimedi ai tuoi uno, niente più uscite, e niente sport scelto liberamente”. Ordinò a mia madre di portarmi a fare atletica, perché, secondo lui, “solo la regina degli sport influisce sul regolare sviluppo della gioventù”. Così in un colpo solo mio padre risolse due problemi. La ferita di Senka per la perdita del padre si rimarginava più facilmente, dato che trascorrevamo insieme la maggior parte del tempo, mentre io, guardando i distinti ospiti che venivano a casa nostra, imparai un mucchio di cose. L’atletica non mi andava, ma a me nessuno chiedeva che cosa mi piacesse. Quella fu la parte più miserabile della mia carriera sportiva. Una casa in rovina accanto allo stadio Koševo era sia appartamento dell’allenatore, sia spogliatoio, sia direzione del Circolo atletico Bosna. Tutto in trenta metri quadri. Mentre mi cambiavo, guardavo il soffitto, storto e coperto di un intonaco sottile, che minacciava di caderci in testa. Alla personalità dell’allenatore del Circolo atletico Bosna si addiceva anche quella di armiere. Agli allenamenti insisteva con frenesia che alzassi le ginocchia in alto e gridava: “Alza le gambe, alza le gambe!”. Non pareva un omosessuale, ma troppo spesso sua moglie, mentre allattava il loro figlioletto, sbirciava dalla finestra per controllare a chi il marito chiedesse con tanta passione di alzare le gambe! Quando vide che ero io a correre, comprese che il suo matrimonio non era in pericolo. L’allenatore era convinto che avrei potuto essere bravo nei duecento metri a ostacoli, ecco perché insisteva tanto per farmi alzare le ginocchia. Mi allenavo con delle scarpette più grandi di due numeri. In realtà, quelle scarpe da corsa le condividevo con un ufficiale della JNA in pensione che, oltre a me e a due studentesse dell’ISEF, era l’unico membro di quel circolo atletico. Cambiavo i turni di allenamento a seconda degli orari scolastici ed ero fortunato se quelle scarpette erano solo ai miei piedi per tutta la durata dell’allenamento. Un giorno arrivai alla pista di atletica un po’ in anticipo, dato che l’ultima ora di lezione era stata annullata. Volevo risolvere il problema delle scarpe di atletica. “C’è una probabilità di avere delle nuove scarpette?” “Piccolo, sappi che non devi credere di poter avere favori da me. Se tuo padre è un aiutoministro e tu pensi di poter fare qui il bello e il cattivo tempo, non me ne fotte un cazzo.” Quell’uomo strano mi stupì: “Non ci siamo capiti, le scarpette non mi servono per mio padre, mi servono per
migliorare i miei tempi!”. “Sta’ a sentire, piccolo, o accetti il regime o raccogli i tuoi stracci e te ne vai dal centro sportivo: sparisci dalla mia vista!” L’orgoglio con cui disse “centro sportivo” mi aprì gli occhi. Non c’era più niente da discutere. Durante il riscaldamento sentii qualcosa di strano al piede, ma per evitare una nuova sfuriata dell’allenatore, tacqui. Mi avviai a lunghi passi verso gli ostacoli, ma lui mi fermò e urlò: “Alza quelle gambe! Vaffanculo, se cadi sull’ostacolo e ti fai male sarà colpa mia!”. Mentre la sua voce risuonava per lo stadio vuoto, sentii qualcosa, come se sul piede mi fosse cresciuto un mignolo. Alzai la gamba e vidi che nella scarpa qualcosa si muoveva. Era mai possibile? Era un topolino, un piccolissimo roditore che si era infilato nella scarpa dell’ufficiale. Non sapevo che cosa fare. Preso dal panico sbattei il piede contro la pista, ma il topolino si agitò ancor di più. Allora mi misi a correre sul posto, alzavo le gambe e battevo i piedi per terra come un matto. Speravo che il roditore morisse sotto il mio peso, e poi lo avrei cacciato da quelle scarpe sportive più grandi di due numeri. Mi fermai nuovamente, ma il topolino si era messo comodo nella punta della scarpa e non gli andava che stessi fermo. Come se se la godesse di aver messo qualcuno in difficoltà. Ogni volta che mi fermavo lui si agitava di nuovo. Come se si chiedesse: “Perché questo idiota si ferma, non vede che sto meglio quando prende velocità?”. Mi misi a correre e con un urlo soffocato feci il più veloce, ma anche l’ultimo giro d’onore intorno allo stadio, assieme al topolino nella scarpa sportiva. Quella fu la fine della mia breve carriera atletica. Grazie al nuovo principio “l’alcol in soggiorno, non all’osteria”, nella nostra famiglia le cose si sviluppavano in senso positivo. Così un giornalista del quotidiano di Sarajevo avrebbe descritto la situazione di casa nostra. Mio padre radunava i suoi migliori amici che giungevano attirati dal profumo della “pentola bosniaca”. Vedevo dottori, ingegneri, registi. Per di più non si trattava di sbirciare con un occhio solo, come ai tempi dell’appartamento di Gorica. Allora sul divano letto della cucina fingevo di dormire, solo per poter sentire che cosa raccontavano gli adulti. Ora invece ero seduto fra loro, ma non mi intromettevo nella conversazione. Talvolta mi pareva che parlassero di problemi che riguardavano anche me, ma seguivo i discorsi dei grandi limitandomi ad assentire. Ciò non significa che fossi d’accordo su tutto. Fu trovata anche una giustificazione per le mie assenze da scuola. Šiba Krvavac strappò a una sua fidanzata un documento che attestava che avevo seguito una terapia a un ginocchio per un mese e mezzo. Alla fine del semestre il mago del cinema combinò il mio passaggio dal Quinto al Secondo liceo. Serbo e filosofia erano la mia specialità. Scoprii lo scrittore Radoje Domanović che mi rallegrò la vita, mentre in filosofia, imparando i sillogismi, riconobbi i vantaggi delle mie radici erzegovesi. Alle conclusioni logiche noi erzegovesi giungevamo per sigle e abbreviazioni e per questo a Sarajevo dicevano di noi, quando volevano offenderci, “dentro di lui combattono l’erzegovese e l’uomo”. Imparai a trarre conclusioni logiche, cosa non trascurabile. Milanović Sreto, il professore di filosofia, mi era particolarmente simpatico. Era un tipo sbadato e distratto, ma quasi tutti gli volevamo bene. Una volta andò a casa portandosi via il registro di classe, e l’indomani ritornò riportandolo, ma questa volta in pantofole. Dato che era una calda primavera, non se ne era neppure accorto, e i colleghi in sala professori non glielo fecero notare. Le serate a casa nostra iniziavano così: prima di cena si guardava il telegiornale. Šiba Krvavac era il caporione. Tutti si sedevano in poltrona e la prima notizia era naturalmente: “Il compagno Tito ha oggi visitato... qualcosa!”.
In una serata di queste il dottor Lipa si girò verso Šiba e gli chiese sottovoce, strizzando l’occhio a Murat: “Ma quello porta la parrucca?”. “Ismet, non provocare!” lo zittì Šiba. “Come non provocare, quelli non sono i suoi capelli!” “Come no?” si intromise Senka. “Non avrei mai creduto che voi uomini foste così invidiosi, che Dio mi perdoni!” “Non è invidia, Senka. Ecco, guarda bene anche tu, quelli non sono i suoi capelli!” “Sì che sono i suoi capelli, li ha solo tinti.” “Perché dici stronzate?” intervenne Šiba additando il lampadario, e non si capiva se scherzasse o se volesse davvero indicare il pericolo di intercettazioni. Non era più il genere di panico delle conversazioni con mio padre dei tempi di Gorica. Allora Šiba faceva di tutto per impedire l’ascolto ed eventualmente la registrazione di ciò che mio padre diceva. Quando non poteva diversamente, interrompeva a metà la frase di mio padre cominciando a cantare, e non la smetteva finché questi non taceva. “Chi dice stronzate?” chiese zio Omerica. “Tu, Omerica!” “Non dico stronzate, credetemi. Come può un uomo alla sua età non avere neppure un capello bianco?” “Ci sono dei nuovi shampoo che, oltre a lavarti i capelli, ti coprono quelli bianchi!” disse Senka per difendere Tito. “Quello a cui alludi tu, Senka, si chiama henné.” “Madre di Dio, saprò bene cos’è l’henné, sono io che me lo metto sui capelli, non tu!” “Ecco vedi, come potrebbero essere suoi, quello non è l’aspetto dei suoi capelli!” insisteva il dottor Lipa. Mio padre taceva. Che non intervenisse in questa discussione su Tito era inconsueto. Poi piombò nella storia, in modo improvviso e micidiale: “Gente, ha ragione Omerica, quello che vedete non è il colore naturale dei capelli di Tito, se li è tinti col lucido da scarpe!”. “Con cosa? Non ho sentito bene” chiese Šiba. “Col lucido da scarpe?! Quel tuo marito, Senka, è semplicemente impazzito!” si arrabbiò Šiba. “Ma non sfottere, Murat, davvero col lucido da scarpe?” si associò Omerica, spalleggiando mio padre per provocare ulteriormente Šiba. “Sì, caro mio, il lucido da scarpe dà il risultato migliore: dato che i capelli umani sono costituiti da proteine, reagiscono solo a un forte prodotto chimico. Il lucido da scarpe non è dannoso per la salute, basta non esagerare!” Mio padre manteneva un’espressione seria, come Boro Todorović quando interpreta il teppista fuorilegge. “Per l’amor di Dio, Murat, come puoi essere così?” disse mia madre. “Come così?” le chiese lui. “Ma come puoi pensare che si tinga i capelli col lucido da scarpe, sei davvero sfacciato.” Šiba intervenne, in modo che lo sentissero i presenti, ma anche l’intercettatore: “Non è sfacciato, Senka, è matto. Una volta col lucido da scarpe si impiastricciavano il viso gli attori bianchi quando dovevano fare la parte di un nero, non di un presidente della repubblica!” disse il famoso regista di film d’azione, ricordandosi della sua galera trascorsa a Goli Otok per una cosa molto più insignificante di questa presa per il culo di Tito e dei suoi capelli tinti. “Dai, mettetevi a cantare qualcosa, si deve proprio parlare di politica, insomma?” disse
Senka. “Non è politica, Senka, non vedi che penetriamo nei misteri del mestiere di parrucchiere?” insisté mio padre come un attore sulla scena che al suo arco ha ancora qualche freccia con cui vuole continuare a divertire il suo pubblico. “Murat smettila, ti prego, per amor di Dio!” Ora mia madre era perentoria e gli indicò Šiba Krvavac tutto spaventato. Omerica si mise a cantare: “Fioriscono le rose nel mio roseto...”. Io colsi l’occasione e, dopo il piccolo scherzo di Tito e del lucido da scarpe, pregai lo zio Šiba di seguirmi in camera mia. Lui non vedeva l’ora di seguirmi, per dire: “Come sono invecchiati, Emir, sono logori, che Dio ce ne scampi!”. Lo sorpresi con una domanda che mi tormentava. Guardavo sempre i film, ma molte cose non le capivo. Mi piacevano i suoi film sull’amicizia in guerra, soprattutto Inchiodate l’armata sul ponte, nel quale un soldato portava un compagno sulle spalle. Dato che quest’ultimo era stato seriamente ferito a una gamba, diceva all’amico di lasciarlo e di salvarsi. Il compagno non accettava di abbandonarlo, e gli diceva solo: “Mai, pobro”. Pobro era un’abbreviazione di pobratim, fratello d’elezione, ma nel modo in cui Burduš lo pronunciava voleva suonare come una formula per creare emozione. Posi una domanda a Šiba, ma non perché fossi particolarmente interessato alla risposta. Volevo convincerlo che, malgrado quelle gravi insufficienze a scuola, non ero uno stupido. “Zio Šiba, complimenti per i film partigiani. Ma perché nel nostro paese nessuno fa un vero film d’amore?” “Perché si aspetta solo che tu finisca l’accademia cinematografica!” “Non mi prendere in giro, te lo chiedo seriamente.” “Perché ti dovrei prendere in giro?” “Ma come potrei io diventare un regista?” “Non è difficile, impari un po’ di tutto, non sei specialista di niente, sai tutto, ma non sai niente alla perfezione.” “Entrambe le cose contemporaneamente?” chiesi. “Proprio così. Solo devi imparare il mestiere!” Pensai: “Questa cosa assomiglia a me, non c’è posto dove non ficchi il naso e non c’è cosa che non mi interessi!”. “Il mestiere si impara a scuola?” “E nella pratica. Qui noi abbiamo imparato facendo gli assistenti.” Insistetti, come al solito, per cocciutaggine: “Come posso imparare a fare un film d’amore?”. “Ma non ti sarai mica innamorato, piccolo?” “No, sono stato innamorato una volta e mezzo!” In quel momento compresi che abitare in appartamenti con mezze stanze aveva avuto ripercussioni anche sulla mia vita amorosa. “Come è possibile essere stati innamorati una volta e mezzo?” “Si può. La prima volta sono stato innamorato di Snježana Vidović, e l’ho baciata alcune volte di sorpresa, e a Nevenka ho tenuto le tette!” “Che hai fatto?” “Le ho solo tenuto le tette e nient’altro.” “Nient’altro? Be’, adesso ti devi innamorare e tenere le tette, le devi impastare come fanno le donne quando allargano la sfoglia per la pita, e andare fino in fondo e fare quella cosa!” “Che cosa?” “Si deve unire tutto insieme, la prima cosa e la seconda e anche quella mezza, e
trasformarla in un intero!” Imbarazzatissimo, diventai paonazzo, dopo aver capito cosa dovevo fare. “Un film d’amore, una storia contemporanea, deve essere, in realtà, una storia classica. Per quanto riguarda costumi e scenografia deve svolgersi al giorno d’oggi, ma il tema d’amore deve esprimere l’eterno problema umano. Due si amano, e un terzo impedisce loro di realizzare quell’amore. Loro lottano, una grande forza si mette di mezzo, ma alla fine l’amore vince sempre. Come, per esempio, Romeo e Giulietta, Omer e Merima. Quelle leggi sono scritte nei libri, il racconto deve avere un inizio, un centro e una fine. Tutto questo si impara a scuola.” Ero infinitamente grato a Šiba, perché, in realtà, mi aveva detto che assomigliavo a un regista. Non era importante se non sapevo con chiarezza che cosa significasse fare il regista. Già mi sentivo la febbre al pensiero del futuro. Ogni tanto temevo che avrei fatto fiasco nel tentativo di diventare Qualcuno. Più tardi, mentre concludevano la serata bevendo vino, Šiba disse a mio padre: “Quel tuo ragazzo ha grandi occhi pieni di umanità, gli darò una particina nel mio Walter, ma adesso non dirgli niente, aspetta che finisca il semestre”. L’indomani mio padre non resistette e quando mi svegliò per andare a scuola, mi disse: “Se continui ad avere buoni voti, Šiba ti farà recitare nel film”. Sebbene la recitazione non mi attirasse, dissi a mio padre di essere felice della benevolenza di Šiba. In realtà, a me piaceva il sostantivo “regista”, indipendentemente dal fatto, lo ripeto, che non sapevo che cosa significasse. Dopo la scuola andai con Senka a Hrasno a far visita a sua madre. Per strada lei guardava le vetrine. Entravamo nei negozi, uscivamo, entravamo, e in una di quelle vetrine vidi una macchina fotografica. Pensai: “Questo è il primo passo verso la regia, il film è un insieme di immagini ordinate come serve!”. Era un apparecchio russo, un Zorki, stava da parte, vicino a quattro, cinque Praktika, della Germania orientale. “Quanto costa quello là?” chiese mia madre. “Deve parlare con Uherka, è lui il proprietario della macchina fotografica e abita in via Kalemova” rispose il commesso. Prendemmo il numero di telefono di Uherka e lo chiamammo. Quando mia madre sentì il prezzo, cominciò a lamentarsi: “Uhuhu, è carissimo, figlio mio, come un intero salvadanaio. Sai quante cose si possono comprare con quei soldi?”. “Se lei pensa sul serio di comprare, signora, può anche pagare successivamente.” Guardai supplichevole mia madre senza sapere di che cosa stesse parlando. “Adesso siamo al verde, soldi non ce ne sono. Aspetta il primo del mese, abbi pazienza, sai che tuo padre ti prenderà anche le stelle dal cielo se sarai bravo a scuola.” “E i soldi della casa del nonno?” Senka allibì. “Quelli sono soldi per un ‘Dio ce ne guardi’, qui non è questione di Dio ce ne guardi! Non fare lo sfacciato!” mi zittì mia madre. Quell’Uherka, assistente cameraman, che già collaborava con la troupe di Šiba, oltre alla Zorki di seconda mano offriva in vendita anche due lampade tonde da fotografo. Il nostro incontro fu combinato, naturalmente, da Šiba Krvavac. Per tutto il giorno a scuola fantasticai sulla storia, dato che da Šiba avevo sentito che non c’è film senza una buona storia. Quello che mi ero inventato durante le lezioni, ora lo dovevo comunicare a Uherka. La cosa più importante era convincere Uherka a girare il mio primo film amatoriale. Gli raccontai tutto d’un fiato. Mi guardava e, molto probabilmente, pensava di avere davanti a sé un ignorante, ma non mi interruppe fino al momento in cui cominciai a descrivergli il
protagonista del film che si allontanava in tram dal centro città e davanti alla pasticceria Oloman svoltava verso via Djuro Djaković. Lui prima spalancò gli occhi e poi mi chiese interdetto: “Va bene, ma come pensi che possiamo farlo?”. Coraggiosamente gli risposi: “Ma niente, davanti a Oloman questo tram esce dalle rotaie, va per la strada, passa davanti a via Vaso Miškin e quando ci arriva, il nostro personaggio va verso il Templ. Una voce interiore gli dice che la ballerina è dietro al sipario, e lui salta dal tram!”. “Stop un secondo, fermati, come pensi che il tram possa uscire dalle rotaie?!” mi chiese Uherka. “Ma semplice, che cazzo vuoi, è un film o no, se è un film, allora si può rappresentare l’impossibile!” “Quel tuo figliolo deve passare alla regia!” disse Šiba a mio padre. Era chiaro che Uherka gli aveva fatto rapporto sulla mia idea dell’impossibile in cinematografia! “È un avventuriero di razza, e questa è la cosa più importante. Ha chiesto all’operatore, pensa, di far uscire il tram dalle rotaie davanti alla pasticceria Oloman, e farlo continuare fino al Templ. Questo, Murat, è un buon segno, un ottimo segno!” Anche lui era definito un avventuriero del cinema, perché, sulla strada di un buon film, non risparmiava né se stesso né chi lavorava con lui. Šiba descrisse per filo e per segno il mio incontro con l’operatore e le osservazioni sull’impossibile. Già il giorno dopo Murat disse a Senka: “Prendi i soldi dalla cassa del mutuo soccorso, io li restituirò con la tredicesima, dobbiamo comprargli quella macchina fotografica e quelle lampade!”. Due giorni dopo, in camera mia, su dei cavalletti, c’erano due lampade tonde da fotografo. Quando la sera dopo le vide Jusuf Kamerić, direttore dell’Impresa comunale, disse a Murat: “Mutica, complimenti, tuo figlio sa quel che vuole”. Il che non era assolutamente vero, ma suonava molto bene. Non avevo la più pallida idea di cosa volessi e di dove sarei arrivato, ma quell’illuminazione e quella macchina fotografica, tutto l’insieme, mi davano una certa importanza e un certo prestigio. Un po’ come quel Titanic che avevo fatto in prima elementare. A scuola, non so come, vennero a sapere che avrei girato il primo film amatoriale al Kino klub Sarajevo. Mentre durante la ricreazione fumavamo nei gabinetti della scuola, un compagno mi disse: “Ecco che Kusta va a lavorare nel cinema, complimenti! Perdio, se vedi Neda Arnerić, dille che hai un amico che si offre gratis come controfigura con lei a letto, ah ah!”. Mi invidiavano e la cosa non mi dava fastidio, perché sapevo che la mia vita si era spostata da quel punto critico in cui potevo rimanere un signor Nessuno! Quando mi incontrai di nuovo con Uherka, lui mi chiese: “Di che cosa parla il film che vuoi girare?”. “Come genere, è un film d’amore. Un giovane si sveglia nel suo appartamento. In realtà non si tratta di un risveglio naturale. Viene risvegliato dalle campane della chiesa ortodossa e di quella cattolica, e alla fine dai secchi rintocchi della Sahat kula, la Torre dell’orologio ottomana nella parte antica di Sarajevo. Così scrive Andrić” risposi. “Fermati, dove pensi di girare questa scena?” “A casa mia?” “E abiti in centro?” “In via Kate Govorušić 9a.” “Ma non puoi girare là!” “Come non posso?”
“Semplice, là quelle campane non si sentono, devi trovare una location reale.” “A che mi serve la location. Faremo che si sveglia in camera mia, e, quando si alza dal letto, lo riprenderemo davanti alla finestra mentre guarda la chiesa, e quella finestra la metteremo su qualche terrazzo nelle vicinanze della cattedrale, ed eccoti la scena.” “Dov’è quella finestra, caro mio?” “La finestra la troveremo, fanculo la finestra, non sarà quella la difficoltà. Semplicemente, per il momento la inchioderemo con la parte inferiore alla ringhiera di un balcone!” Uherka non sopportava granché la mia natura ostinata: “Fermati, per amor del cielo, come pensi che io possa illuminarla?”. “Ehi, questo non lo so, non sono io il cameraman.” “Noi sentiamo una campana, ossia, il protagonista del film la sente, ma non occorre neppure che mostriamo due chiese. Ne mostriamo solo una, e l’altra campana la rendiamo solo come suono. Si può fare così?” “Mah, penso di sì. Bisogna vedere come riesce a realizzarlo il montatore. Conosci Vesko Kadić?” “Chi è?” “Un montatore, autore di film amatoriali, chiedi a lui come si fa!” Uherka si rassegnò al suo destino. Comprese che accanto a lui c’era un uomo che difendeva a spada tratta la propria idea. Indipendentemente dal fatto che fosse buona e realizzabile! Il film che avevo in mente non aveva una storia classica. Io volevo che quel film esprimesse la mia vita. “Un giovane si sveglia a Sarajevo circondato da diversi luoghi di culto, come scrive Andrić. Il ragazzo vive una vita senza speranze e senza obiettivi. Lo si capisce perché passa continuamente per la stessa strada. Monteremo quella parte così come fosse una canzone in cui si ripete lo stesso ritornello. In questo modo faremo capire agli spettatori che la vita del giovane è fatta di pura monotonia, e faremo vedere come è perso. Lui semplicemente non sa che cosa vuole.” “Come mostrerai questo?” Uherka si prendeva gioco di me. “Con la ripetizione della stessa storia. Rafforzeremo l’immagine di un uomo che percorre sempre quella strada senza uno scopo. Facciamo che sia via Strossmeyer con la cattedrale sullo sfondo. La sua vita cambierà quando capirà come realizzare quel cambiamento. Lo sconvolgimento, chiaro, sarà portato da una donna! Quella che lui ama, non la prostituta con cui ha già dormito. Dalla prostituta lui fugge. Quella che ama è una donna-idea. Non va al mercato, non litiga, non ha legami con la realtà, e tuttavia è una donna!” “Aspetta, allora significa che con quella donna non vuole andare a letto?” “Non significa questo!” “Che cosa allora? Tu dici che la ama e che questo non è come con la prostituta dalla quale fugge e con la quale è andato a letto?” “Non hai capito. Lei vive nascosta sul palcoscenico, dietro al sipario, è una ballerina!” “Vive sul palcoscenico. Come si può vivere sul palcoscenico? Come? Sul palcoscenico ha messo una tenda, ha portato un letto, e pure un cesso?” Ora quell’Uherka mi stava facendo arrabbiare. “Che asino” pensai, ma naturalmente non glielo dissi. “Nooo, ma tu non mi hai capito, cioè, non mi sono espresso bene. Noi non entreremo nella questione se lei vive sul palcoscenico.” “Va bene, non lo faremo, ma tu non hai letto Pudovkin. Ti devi un po’ educare in senso
cinematografico, questa è poetica della licenza!” “Che poetica?” “Licenza, luogo comune, nel cinema si devono evitare i luoghi comuni!” Come se Uherka avesse ficcato il naso nel mio cuore! “Io mi devo educare,” pensai, “è vero, ma perché me lo devi dire adesso?” Continuò a farmi a pezzi: “Gli spettatori verificano continuamente quanto i protagonisti del film sono reali e speciali!”. “Ma proprio questo voglio evitare in modo particolare, i luoghi comuni!” replicai veloce come un fulmine. “La ballerina noi la scopriremo sulla scena, come se quel giorno, prima della prova generale, fosse venuta a esercitarsi da sola. Metteremo la musica di Č ajkovskij alla fine, schiacceremo lo spettatore con l’espressione!” dissi usando le sue parole. “Così gli spettatori si godranno la fusione di immagine e suono e non avranno il tempo di chiedersi se lei è stata al gabinetto, che cosa ha mangiato, come ha dormito.” Parlavo e guardavo negli occhi il cameraman confuso e pensavo: “Tu Uherka non mi sfotterai più!”. Continuai: “Allora, il protagonista scopre la donna della sua vita su quel palcoscenico, nella situazione che abbiamo detto. In quel momento parte la musica di Č ajkovskij, il finale del Lago dei cigni, sai come fa, na na na na e così via”. “E va bene, se si sa realmente che è una prova, allora è possibile, non è male, anzi è perfetto, questa tua idea è davvero espressiva.” “Sì, forse non l’avevo raccontata nel modo migliore, ma vedo quelle immagini, so esattamente come devono essere, ma mi mancano le parole, cioè, le parole le ho, ma non so metterle nel giusto ordine per rendere l’idea, anche se so... oddio, mi sono incasinato...!” Ora ero sincero e Uherka non mi dava più fastidio. Quella era la prima verifica di ciò che avevo in mente di girare e non era una cosa negativa averla espressa a voce alta. Tutto quello che avevo detto suonava bene anche nella sceneggiatura. “Come si intitolerà?” “Parte della verità.” “Hmm. E perché?” “Ma perché quella è solo la mia verità. Voglio che nel film sia rappresentata proprio così. La mia, capisci. Solo la mia verità!” “Capisco che quella è la tua verità, ma perché allora il film non lo intitoli La mia verità? È vero che è meno espressivo, ma mi pare un po’ più esatto, no?” “A me non serve che sia esatto. Voglio dimostrare che la verità non è una sola.” Mi sentivo come se mi avesse fatto una doccia fredda con quel La mia verità, ma non mi arrendevo. Pensai: “Se mollo adesso, questo qui mi darà lezioni per tutto il tempo delle riprese”. Šiba mi aveva raccontato che era importante tenere insieme il gruppo come fa il pastore con le sue pecore. Dovevi essere giusto ma severo. Come il compagno Tito. La sera, Šiba esaminò il testo scritto. Mi disse: “È buono, molto espressivo”. Hmm, non mi aveva fatto proprio un complimento, ma era una buona cosa che il tutto gli sembrasse significativo. Il giudizio “espressivo” era usato dai frequentatori dei circoli artistici, e io vi avevo riconosciuto una somiglianza con il giudizio “interessante”. La cosa non mi andava, dato che quella parola l’aveva usata un pittore a una mostra di mio cugino. Si vedeva che i lavori di Edo non gli piacevano, e disse: “Posso dirti, Edo, che i tuoi quadri sono interessanti”. Edo lo fissava muto e lui aggiunse:
“Anzi, molto interessanti!”. Tradotto: non voleva offenderlo, e anche se i quadri non gli piacevano, non aveva mentito, ma non aveva neppure lodato il lavoro di Edo. Šiba mi osservava e notò la mia tremarella. Si avvicinava il primo giorno delle riprese del film Parte della verità. “Sai Emir, oggigiorno si girano i cosiddetti film ‘pisciacorri’. Il termine deriva dall’illusione che sia possibile correre e pisciare e rimanere al contempo non pisciato. È perché non sanno come sia difficile costruire la struttura di un film. Questo lo deve sapere il miglior rappresentante del pubblico presente alle riprese, che è il regista. Questi registi ‘pisciacorri’ girano un film in due mesi, e poi cosa? Niente. Il film non vale niente. Lui si stava appena infervorando e già deve finire il film. È come nell’amore, come se fosse sufficiente palpeggiarsi, sbaciucchiarsi e cose simili. Devi agire da uomo, condurre la faccenda fino alla fine e come un vero minatore. Solo allora l’altra parte, ossia la tua compagna, apprezzerà il tuo lavoro. Lo stesso succede con gli spettatori: se non li metti sottosopra, non li maltratti, non li scaraventi qua e là, non li sfinisci, non li fai ridere, quelli se ne tornano a casa come se nella sala di proiezione non fosse successo niente.” E continuò: “Se un’inquadratura ti piace durante le riprese, sarà otto volte meglio quando si ingrandisce sullo schermo. Se qualcosa non ti piace, e secondo il principio dei film ‘pisciacorri’ menti a te stesso e dici va bene, andiamo avanti, mentre non andava bene affatto, sullo schermo quel qualcosa sarà ingrandito otto volte, e quindi otto volte peggio che alle riprese! Tutto quello che tralasci alle riprese se ne è andato giù per il fiume per sempre. Quando si spengono le luci e inizia il film, o sei un santo o sei una nullità. Dopo che si sono spente le luci un film comincia, parte la prima scena, un grande aeromeeting in cui avresti dovuto avere mille comparse. Il pubblico non lo sa, ma sente che manca qualcosa. Ecco, a quel punto non puoi entrare nel cinema e dire: ‘Gente, qui ci dovevano essere mille persone, ma cosa volete, per qualche motivo non c’erano soldi’. ‘Chi se ne frega,’ diranno quei teppisti delle prime file dove i biglietti costano meno, ‘esci dal cinema, cretino, non disturbare la proiezione.’Se non inchiodi il pubblico alla poltrona, se gli lasci la possibilità di pensare, va tutto a farsi fottere. Devi fare in modo che provino emozioni, senza interruzioni. Come? Come meglio sai e puoi. Si può bloccare un albero mentre cresce? No, e così non si può fare neanche con un film”. “E che succede se si rompe la pellicola?” “Adesso non sfottere, ma guarda com’è sfrontato, cosa vuoi che succeda, si incolla la pellicola e si continua.” Mentre trasformavo il soggiorno in un set cinematografico, non potevo certo immaginare che la vita avrebbe impedito l’inizio delle riprese del mio primo film amatoriale. C’era appena stato un accordo con Mirza Tanović, il clown cittadino, per fargli interpretare il ruolo principale quando a casa nostra giunse una notizia dopo la quale non fu possibile portare a termine neppure impegni molto più facili delle riprese di un film. Il 17 giugno millenovecentosettantadue Hanifa Numan kadić iniziò la giornata come tutte le altre dei precedenti venticinque anni della sua vita. Dopo la consueta terapia mattutina andò a far visita alla sua Kona, come chiamava per affetto la sua più cara vicina. La nonna salì fino al settimo piano per bere il caffè a casa della signora Malović. Ne bevve una tazzina, si lamentò dei reumatismi, notò perfino il nuovo tappeto sul pavimento e ne ammirò i motivi. Poi andò in bagno e chiuse a chiave la porta. Data la salute cagionevole dell’anziana signora, ben presto la Malović si preoccupò perché la sua ospite non tornava dal bagno. “Che sia caduta?” si chiese. La chiamò, ma Hanifa non rispondeva. La signora Malović quindi bussò. Ancora niente, e così cominciò a battere forte sulla porta. Niente, ancora. Non c’era alternativa se non sfondare la porta. Il bagno era vuoto, e la Malović
inorridita cominciò a gemere. Si sporse dalla finestra e sull’asfalto vide uno spettacolo orrendo: davanti all’ingresso giaceva un fragile corpo spezzato, schiantato sull’asfalto. Mentre il vicino del pianterreno ricopriva la vecchietta martoriata con una coperta, la sua sciarpa portata via dal vento, come un vessillo della sua anima, cominciò a svolazzare fra i nuovi edifici del quartiere di Hrasno. Quella sciarpa di cachemire, ricevuta in dono dal figlio, aveva riscaldato la vecchietta malata per tanti anni ed era un’immagine della sua nobiltà d’animo. Rimase volteggiante nei nostri pensieri, a rammentarci per sempre la fragilità della natura umana che, in qualsiasi momento, può aprire una finestra sulla morte. Fra le molte storie legate alla defunta, si ricordava spesso un insegnamento ai suoi figli: “Ricordate bambini, il vicino è più importante della stessa mamma!”. A proposito di rapporti di vicinato, in Bosnia ho sentito storie di ogni genere, e tutte mettevano in rilievo l’importanza dei rapporti di buon vicinato. Probabilmente nei racconti dei più vecchi quell’elemento era esagerato, dato che in realtà non si raggiungevano dei risultati così positivi. Tanto più inaspettato apparve il gesto di quell’uomo del pianterreno che aveva steso una coperta sulla vittima, la nostra nonna morta. L’aveva fatto per togliere dalla vista dell’intero vicinato la defunta e l’immagine violenta della sua morte. Era opportuno coprire quella morte finché non fossero giunti i dottori o i necrofori per portare via quel corpo martoriato. Appena i suoi figli, di ritorno da scuola, furono passati davanti alla vecchietta coperta e furono entrati in casa senza essere toccati da quella vista traumatica, lui prese la coperta, la riportò in casa e... la gettò in lavatrice. Mia madre arrivò sul luogo della disgrazia, vide il corpo straziato della nonna e non si liberò mai più di quell’immagine. In quei momenti non ci sono parole di conforto, ma Senka sapeva che sua madre non era stata portata a quella morte dalla malattia contro la quale aveva combattuto strenuamente tanti anni. Suo marito non era più lì con lei e lei non trovava più alcuna ragione di rimanere viva da sola. Il film non poté essere girato subito. Si poté farlo solo dopo che nei sentimenti di tutti noi, i più vicini alla nobile anziana signora, cominciò a impallidire l’incredibile avvenimento del suo suicidio. Il film fu girato solo dopo che nei nostri pensieri si era attenuata la crudezza dell’evento, come quando, dopo un po’ di tempo, da una foto in bianco e nero sparisce la lucentezza. Allora la superficie opaca la sostituisce completamente e, come un fenomeno naturale, l’intera vicenda passa all’abbraccio dell’eternità.
LA MIA VITA Nel millenovecentosettantatré, al Festival del cinema amatoriale di Zenica, presentai il film Parte della verità. La giuria appiccicò la mia stella al cielo fuligginoso di Zenica: il film ottenne il primo premio. Quell’opera non rappresentava certo una conquista significativa per la cinematografia mondiale, e nessuno credeva che Parte della verità sarebbe diventato un classico. La frase pronunciata dall’amico di mio padre, Kamerić: “Beato te, Mutica, tuo figlio sa che cosa vuole”, acquistò un senso solo dopo che ebbi ricevuto il premio di Zenica. Mandai Parte della verità a Praga, all’Accademia di Belle Arti, come prima parte dell’esame di ammissione. Bastò l’espressività di quel film perché la commissione d’esame mi invitasse a Praga a sostenere l’orale. A Praga andammo Šiba Krvavac, mio padre, Omerica e io: gli stessi che avevano contribuito a rimettere in riga il liceale traviato. La strada per l’Accademia era stata spianata da zia Biba, che, dopo Varsavia e un happy ending con la famiglia Rajnvajn, uscita finalmente dal suo appartamento di Terazije, aveva vissuto quattro anni a Praga assieme allo zio Bubo. Lei aveva ripreso servizio all’Istituto operaio internazionale, mentre lo zio era corrispondente della Tanjug. Il teleprinter, nel frattempo, era stato sostituito dal telefax, per cui lo zio Ljubo Rajnvajn poteva dedicare più tempo al tennis. Così aveva conosciuto Václav Icho, segretario dell’Accademia di Belle Arti. Zia Biba, ottima padrona di casa, sapeva raccontare di me cose meravigliose. Anche se da un anno era tornata a vivere a Belgrado, la zia era rimasta in contatto con Icho e altre persone importanti di Praga. La incontrai nel suo appartamento di Terazije, dove mi accolse, come sempre, come un re e, come sempre, inorridita della famiglia del marito, disse: “Figurati che si sono portati via anche l’armonica di Slavenka, quelle merde tedesche!”. “Non sono tedeschi, zia, i Rajnvajn provengono dall’Austria!” “È la stessa cosa, caro il mio Emir! Con Ljubomir Rajnvajn e la sua famiglia devi stare sempre all’erta. Se dormi, devi farlo non solo con un occhio aperto, ma anche con un orecchio teso.” “Ma sono davvero così tremendi?” “I Rajnvajn? Tu non sai, mio caro Emir, con chi mi tocca vivere!” “Qualsiasi cosa ti occorra, tu chiamami. Sai che io sono il tuo soldato, pronto a tutto!” Volevo che sapesse che poteva contare su di me. Scoppiò a piangere e disse: “Tesoro della zia!”. Entrare all’Accademia non fu facile. Tutti quelli che sognano una carriera artistica temono che la commissione esaminatrice non li capisca e che la brutalità dell’esame d’ammissione impedisca loro di esprimersi nel modo migliore! La notte prima dell’esame rimasi solo all’Hotel Lucerna. Durante il giorno, ogni volta che avevo fatto una pausa dai miei studi ed ero entrato nell’appartamento dei membri della spedizione praghese, quelli cambiavano improvvisamente discorso. Omerica, che aveva ordinato in camera del prosciutto di Praga, aveva colto lo sguardo della giovane e scollata cameriera e aveva detto: “Ma hai visto, per piacere, come la piccola guarda Emir?”. Io ero rimasto confuso, perché se era vero che avevo guardato la cameriera, era altrettanto vero che lei non aveva guardato me. Compresi che in tal modo Omerica aveva cambiato argomento, accantonando l’elaborazione di un piano di caccia serale alle ragazze ceche. Murat si gettò in quel nuovo corso, dimenticando così che anch’io ero erzegovese, e quindi anch’io alle conclusioni logiche giungevo attraverso scorciatoie. “E perché non dovrebbe guardarlo? Alto, bello, e perdio anche intelligente com’è. Tutto
quello che non siamo noi tre.” Mi era perfettamente chiaro che tutto ciò era un diversivo per nascondere l’avventura della serata. Non ci furono sorprese, e prima dell’imbrunire uscirono a “passeggiare”. Le stanze d’albergo non sono tra i miei luoghi preferiti. Il frigobar ronzava, e il materasso sfondato testimoniava delle migliaia di persone che ci avevano dormito prima di me. Chissà chi aveva fatto acrobazie su quei letti! Crapuloni di ogni sorta, che nelle ragazze ceche vedevano l’unione ideale della brava massaia e della prostituta. La luce fluorescente dell’insegna dell’hotel di fronte ammiccava con regolarità, e il riflesso cadeva sulla parete sopra la mia testa. Quella luce mi era fastidiosa come un suono insopportabile. Assieme al tram che sferragliava per Václav námestí, nei miei pensieri fece irruzione l’idea che l’attitudine a sperimentare la luce come un suono era un vantaggio, se vuoi occuparti di regia. L’unica via d’uscita da quella camera sgradevole, per nulla accogliente con un candidato agli studi di regia cinematografica, era una fuga nella letteratura. La lettura suscitava in me lo stesso sentimento provato per la prima volta quando avevo iniziato a costruire il mio Titanic. Il tempo e lo spazio – circostanze aggravanti per un uomo – si annullavano. Avvertii netta questa sensazione quando Čechov mi condusse nel suo mondo. I suoi normali e al contempo fantastici racconti di piccoli uomini mi rammentavano la mia vita. Mio padre era un uomo uscito dai racconti di Čechov. Più esattamente, ritrovavo nei protagonisti di Čechov la sua volontà di partecipare alla Storia dal punto di vista del piccolo uomo. Girai la prima pagina del libro e mi imbattei in un personaggio che mi affascinò. Desiderai semplificare la mia vita come quel personaggio di Čechov, un insegnante di geografia, che costruiva la sua visione del mondo esterno basandosi solo su cose evidenti. Non si arrischiava a parlare di nulla che non fosse al cento per cento esatto e visibile: “Per un uomo la cosa migliore d’inverno, quando fa freddo, è rifugiarsi in una stanza calda, vicino alla stufa” diceva. Massimo fu il mio entusiasmo quando lessi: “Quando il sole è forte, per un uomo la cosa migliore è rifugiarsi all’ombra”. Il gruppo che era andato a “passeggiare” rimase fuori fino all’alba, mentre io, sempre all’alba, mi addormentai con il libro di Čechov sul petto e l’insegnante di geografia nella testa. I membri della commissione d’esame assomigliavano alla gente di cinema che avevo incontrato in precedenza: tipi facilmente riconoscibili dalle giacche di velluto con le toppe di cuoio sui gomiti. Uno le aveva addirittura sul golf di cachemire. Per quanto severi, non mi spaventarono. Quando un membro della commissione mi chiese se fosse necessaria una dose maggiore di realismo socialista nell’arte contemporanea, io, ritornato al volo dalle pagine di Čechov all’esame d’ammissione, risposi: “Naturale, il socrealismo è molto importante nelle società socialiste, nelle vite dei cittadini, dei contadini e degli operai”. I severi membri della commissione scoppiarono improvvisamente a ridere. Forse per il modo in cui avevo pronunciato quella frase. In realtà, non sapevo bene come definire il socrealismo, ma mi era noto che Madre Coraggio di Bertolt Brecht era un dramma socrealista. Anche Maksim Gor’kij, uno scrittore che mi piaceva, rappresentava lo stesso genere di arte. I membri della commissione ridevano come gli spettatori che, a teatro, reagiscono a una recitazione che, nel bel mezzo di una tragedia, provoca inaspettatamente una crisi di ilarità. Insieme alla svolta cinematografica, la mia vita ne subì un’altra, più significativa! Mi innamorai. In modo sconvolgente. Avevo incontrato per la prima volta Maja Mandić quando non sapevo ancora che fosse lei. Era successo sul monte Jahorina. Un po’ di tempo dopo, la seconda volta, fu
perfettamente chiaro che si trattava di lei. Ci incontrammo in via Titova, mentre lei portava a spasso un cagnolino. All’epoca Truman le aveva offerto un ruolo nel mio nuovo film amatoriale. Quel film dalla tematica amorosa socrealista fu girato con la mia regia, ma senza Maja. Lei rifiutò con disinvoltura quell’offerta. I film bisogna condividerli con coloro con cui non condividi la vita. Prima del nostro primo incontro, mia madre Senka e il padre di Maja, Mišo, si incontravano ogni mattina. Non sapevano di conoscersi, ma si conoscevano. Per vent’anni, Senka risalendo il Koševo, Mišo discendendo, erano andati al lavoro, Senka alla facoltà d’Ingegneria e Mišo al Tribunale distrettuale. Non si erano mai rivolti la parola, ma erano conoscenti di vecchia data. Anche se non recitò nel mio primo film, Maja ottenne poi il ruolo principale nella mia vita. Un pomeriggio la scorsi al Passeggio e non credetti ai miei occhi. Una sorte scolastica simile alla mia aveva condotto anche lei dal Quinto al Secondo liceo, e il Passeggio era a trenta metri da quella scuola che portava il nome dell’eroe nazionale Ognjen Prica. Maja era alle prese con le parole crociate in compagnia della sua amica Ljilja Brčić. Quando mi guardò, sembrò che si fossero spente le luci nel Passeggio e che fossero rimasti lì solo i suoi occhi luminosi. Io sapevo di avere via libera per avvicinarla. Agitai le mani in modo interrogativo, indicando le parole crociate e dissi: “Due verticale: animale domestico. Che cosa abbiamo già, ah, -cca, quindi vacca!”. Fu facile fissare un appuntamento. L’indomani sera al bar dell’Hotel Beograd. In quel bar ci fu uno sviluppo inaspettato. Non ero più il ragazzo chiacchierone del Passeggio che per essere affascinante aveva bisogno di un pubblico. Mòstrati, adesso, furbacchione, fatti vedere! Come se il terreno estraneo, la mancanza di sostegno del pubblico locale, ma anche la dolce paura ispirata dall’avversario, avessero confuso i calcoli del centrattacco del bar Passeggio. Eravamo seduti al bar dell’Hotel Beograd, come Adamo ed Eva sul ramo dell’albero carico di frutti. I nostri piedi non toccavano piastrelle di poco prezzo, ma penzolavano al di sopra di un abisso. Mi colse la paura che se mi fossi mosso cadendo da quell’albero saremmo piombati a capofitto nel vuoto. Non sapevo dove saremmo finiti, dato che, dai tempi di Adamo ed Eva, la faccenda del paradiso e dell’inferno era drammaticamente cambiata. Allora mi chiesi: “Dio pensava a New York quando cacciò Adamo ed Eva dal paradiso all’inferno?”. Il silenzio all’Hotel Beograd era la continuazione della conoscenza iniziata da Mišo e Senka sul viale di Koševo. Dell’amore a Maja non potevo dire nulla, anche se gli sguardi femminili mi scuotevano già alla grande. La paralisi al tavolo dell’Hotel Beograd fu interrotta dalla voce del cameriere sdentato: “Che coa beete?”. “Io sono al verde,” riuscii a dire, “tu hai un po’ di soldi?” Noi di Gorica non eravamo mai sinceri quando la discussione verteva sull’amore. Ci affrettavamo a etichettarlo come un divertimento per motivi di interesse. Infatti disprezzavamo il divertimento, e l’amore faceva pensare soprattutto a quello. Le questioni d’amore ci sembravano un’imitazione dei film americani. Là i personaggi compivano spesso queste due azioni: andavano regolarmente in un cesso pubblico e mentre pisciavano conducevano conversazioni importanti, e in seguito, in un’altra scena del film, almeno due o tre volte dicevano “I love you”. Né la prima né la seconda cosa ci piacevano. Infatti, quando devi pisciare, allora piscia, e quando ami qualcuno, perché devi anche farfugliare su quell’argomento? Per l’amore avevamo comprensione solo quando per causa sua si pativa e si piangeva. Così come Paša piangeva spesso per Mirsada. Il colmo dell’amore si realizzava quando da un bar uscivi sanguinante sull’asfalto di Gorica. Quando
si trattava di donne, solo la sofferenza era comprensibile, tutto il resto era pornografia. Tuttavia, era una buona cosa il fatto che sapessimo che i rapporti fra uomini e donne erano una faccenda estremamente delicata. Che cosa fosse l’amore, nessuno ce l’aveva detto. Così anch’io a questa domanda dovetti trovare risposte originali. Guardavo Maja in silenzio e pensavo che l’amore fosse qualcosa come quando un treno che corre verso di te con le ruote che strepitano è sempre più vicino, e tu sei legato alle rotaie, e pensi a quell’istante in cui il suo sguardo ti affoga in sensazioni che cancellano il rumore del treno che si avvicina e il dolore che sentiresti se ti investisse. E invece tu, a un tratto, grazie a quell’amore diventi insensibile. Non senti e non vedi nulla. Solo dopo si scopre che quel treno neppure esisteva, e che la questione dell’amore è un grande mistero. L’amore è sogno. Forse nulla di più del mistero della fisica che dice che due corpi nello spazio, di temperature diverse, tendono all’unione. Se qualcuno avesse azionato le sirene che avvertono della fine del mondo, non mi sarei mosso dalla sedia traballante del bar dell’Hotel Beograd. Quella sedia scricchiolante sostituiva, ora già sicuramente, il ramo dell’albero carico di frutti dal quale a ogni istante potevamo cadere dal paradiso all’inferno. A un tratto pensai che Dio aveva cacciato Adamo ed Eva a New York, e non all’inferno. I terremoti girano alla larga dai tavoli innamorati. Le pesti, le epidemie, anche. Quel tavolo non solo era senza parole, lì le labbra erano tutte informicolate, mentre l’apparato fonatorio non era in grado di proferire neppure una delle scemenze che pronuncia un uomo che sta crescendo. Probabilmente perché un uomo giovane, anche se stupido, sente che per l’amore è meglio l’armonia prodotta dal silenzio e dall’irradiamento emanato dal partner, piuttosto che il rischio insito nelle parole. È come nel cinema. I dialoghi migliori, la miglior scenografia, non sono sufficienti a far sì che il film sia grande. Così è anche nell’amore. E tutto ciò mi confortava. Anche l’amore, forse, si costruisce nelle pause mistiche fra le parole, fra i sogni. L’amore cresce assieme al sentimento che segue alle somme delle azioni compiute dall’uomo, senza mai scoprire il mistero finale di quale sia il componente più importante di un legame amoroso. Perché quando i misteri scompaiono, anche l’amore scompare, e le persone si separano e pensano solo a cose evidenti e spesso brutte. Indipendentemente dai miei nobili pensieri sull’amore, continuavo a tacere. “Non penserà che sono stupido?” mi preoccupai. Pensavo di dirle che avevo già una ragazza, ma perché mentirle, anche se avevo sentito che alle donne piace quando si dicono delle belle bugie? Ci eravamo appena incontrati. Davvero, che vita difficile avevano le belle ragazze, come questa Maja. La loro bellezza è di una categoria da campionato, irraggiungibile nella vita, come Cassius Clay lo è nella boxe. Fino al match con Frazier. La sublime bellezza muliebre è l’unica cosa che un maschio deve invidiare a una femmina. Senza conseguenze. La bellezza femminile è il punto più vicino fra il genere umano e l’eternità. Continuavamo a sedere immobili sul ramo dell’albero carico di frutti e io meditavo su come svignarmela senza dare nell’occhio, come scendere da quell’albero malsicuro. Se mi fossi diretto verso la chioma, a causa dei pensieri e del silenzio, il ramo dov’eravamo si sarebbe spezzato a metà. “Non posso sostenere questo sguardo, me ne vado” pensai. Mi alzo e mi avvio. Al primo passo verso la chioma vedo New York. Il destino aveva davvero stabilito che New York diventasse l’inferno? E i secoli di sofferenze fra il giardino dell’Eden e il tempo presente erano solo un istante? “Dove vai?” Sento la voce di Maja, mi fermo e mento: “Da nessuna parte!”.
Mi siedo e mi sento come il pensatore di Rodin, scolpito nella pietra. Eravamo seduti sulle dure sedie del bar dell’Hotel Beograd. Io sospiravo, mi dimenavo, non sapevo dove tenere le mani. Coi piedi era ancor peggio, li ingarbugliavo, mi sembrava di disporre di membra in eccesso. Come se avessi avuto i piedi del cestista Krešimir Ćosić. Mi dondolavo leggermente come quel cieco all’inizio del film C’era una volta il West. Maja guardava e temeva che sarei caduto trascinandola con me dal paradiso all’inferno, e mi disse con un sorriso: “Cadrai!”. L’ha detto come se non avesse nulla in contrario! Se solo sapessi come definire l’amore, per impressionarla! Devo raccontarle la storia di un ingegnere edile che da Gorica portò la propria moglie nuda, indicando l’infedele ai passanti, giù fino all’Ospedale militare? Percorsero così quattromila passi, ma nessuno dei casuali osservatori sghignazzò davanti a quella scena così triste. Erano tutti dispiaciuti, perché quei due vivevano insieme già da vent’anni. Perché anche l’amore che finisce male è amore. Le devo forse parlare di Gagarin? Di come il primo uomo volò nel cosmo? Mi guarderà, temo, annoiata. Sicuramente altri si sono già presentati a lei come intelligenti, sicuri che il sapere fosse sufficiente per ottenere la benevolenza femminile che, certamente, precede il grande amore. È comunque il caso che mi metta a spiegare le leggi che portano l’uomo in uno spazio in cui la gravitazione non ha il ruolo principale? Forse è meglio che tenti con Gagarin!? L’amore consuma energia come un velivolo, quando decolla verso il cielo. Proprio nello stesso modo in cui tutte le qualità degli innamorati servono a liberarsi da inezie e banalità come la gravitazione! A proposito di amore, una cosa è certa: quando il vento, oltre i tetti delle povere case, assieme allo scricchiolio della latta ti porta una voce che dice ti amo, è vero che ti ama, se tu senti così, perfino quando quella parola non è stata pronunciata. Perché l’amore non è per niente reale, pensavo. È come un numero che in sé contiene tutti gli altri numeri. Dato che i numeri in realtà non esistono, non esiste neppure quel numero dell’amore. Indipendentemente da tutto ciò, comunque, esiste. In quella notte muta nel bar dell’albergo, penso che fra noi sia accaduto tutto e che tutto ciò che è seguito si sia fermato a quella stessa notte. Come Mišo e Senka che così spesso, per decenni, si erano incontrati e in quegli incontri era come se avessero vissuto il tempo che si trasformò poi nel nostro amore. Guardavo Maja e poi distoglievo lo sguardo, dirigendolo verso il pavimento, e lì mi incontrai con le sue gambe. “Se si fosse appoggiato su gambe così, il Regno di Jugoslavia sarebbe durato molto di più!” aveva dichiarato una volta un bigliettaio a Maja mentre andava in città sull’autobus di Koševo. Quel bigliettaio monarchico aveva ragione. Ma era facile per lui, per quel bigliettaio, fare una battuta. Il problema è riuscire a scoprire come stabilire poi la comunicazione. Dici qualcosa di spiritoso, e poi che fai? Devi avere una storia da raccontare! Dai corridoi della memoria saltò fuori in primo piano una storia della rivista di astronautica “Galaksija”. Scriveva di come Gagarin fosse volato nel cosmo! Dovevo raccontarglielo? Tutto era ben spiegato. La forza ascensionale che mantiene il cosmonauta in aria nasce dal cambiamento di pressione. Sotto le ali del velivolo, a causa dell’elica che il motore fa girare, si crea una pressione maggiore che sopra le ali. Questo avrebbe interessato Maja? Oppure, raccontandole qualcosa del genere sarei stato simile agli altri che avevano già tentato di avvicinarsi a lei dalla parte del pilota? Forse avrei potuto cominciare così, per poi concludere che nello spazio due corpi di temperature diverse tendono a unirsi. “Riderà di me” pensai. Ma perché non avrebbe dovuto ridere? Il riso non
è forse il primo passo? Ma cosa sarebbe successo se mi avesse preso sul serio e si fosse messa a parlare lei? Se fosse venuto fuori che le cose della fisica le conosceva molto meglio di me? “Taci” dissi a me stesso, e mi sentii come il topolino che, partito per afferrare un meraviglioso pezzo di formaggio emmenthal, era inavvertitamente caduto in una trappola. Gemevo disteso a terra e vedevo già come le donne come Maja trasformassero i maschi in topolini domestici. E questo a donne così non bastava. Pretendevano che, oltrepassata la soglia di casa, al supermercato, i maschi indossassero la pelliccia di una tigre feroce. Non importa se dovevano litigare con la cassiera per la scarsa cortesia mostrata nei confronti della consorte, o battersi con tutto il mondo. E, mistero ancor più grande, solo quella combinazione animalesca funzionava. Essere solo un sorcio, o solo una tigre, non era sufficiente. “Che devo fare?” mi chiesi, e in fretta e furia, togliendomi quella del topolino, che per un attimo mi ero infilato, mi rimisi addosso la mia pelle. Adamo ed Eva sul ramo dal quale si piomba giù a causa di una mela. Ma non sul terreno del giardino dell’Eden. Se le sedie dell’Hotel Beograd sono solo un ramo dell’albero del paradiso, ormai non c’era dubbio che l’asfalto di New York era il terreno dell’inferno. Che maledizione pesa sull’uomo! Io ero assolutamente certo che Dio pensasse a New York quando aveva punito Adamo ed Eva. L’unica cosa che non sapevo era se il paradiso fosse un hotel balcanico di poco prezzo. Ma certo che era il paradiso. Perché non ci si può innamorare in questo modo fuori dalla recinzione del giardino dell’Eden. Uscimmo dal bar dell’albergo, la notte era mite e profumata e io commisi uno sbaglio. Dissi a Maja che avevo una ragazza. Non ho mai saputo se la mia fosse una tattica o la paura di abbandonarmi all’abbraccio di una donna così. In seguito molte donne, che nell’artista scapigliato videro la loro occasione, persero. Mentii dicendo che mi dispiaceva che la nostra storia finisse quella sera, anche se era sicuro che quella storia avrebbe avuto il suo seguito. Infatti, di certo, Mišo e Senka non avevano camminato tanto a lungo su e giù per il Koševo solo perché noi abbandonassimo così facilmente quella notte sarajevese alla corrente del fiume Miljacka. P.S. L’albero del paradiso che mi ero immaginato, mentre eravamo seduti all’Hotel Beograd, si ruppe. Il ramo si spezzò. Il peccato ci condusse realmente a New York! Solo che l’atterraggio fu morbido. Non ci fu nessuna caduta. In quella città di energia infernale giungemmo nel 1988 con un Boeing della JAT, nostra figlia Dunja, il figlio Stribor, Maja e io, perché avevo ottenuto un posto di professore al dipartimento di Cinematografia alla Columbia University. Mentre lasciavamo la Jugoslavia, la televisione aveva iniziato a trasmettere il dissolvimento del nostro paese. La “rivoluzione dello yogurt” aveva cancellato l’autonomia della Vojvodina.
LOMONOSOVOVOHOVNO! Nel millenovecentosettantaquattro me ne andai di casa. Nello stesso anno in Jugoslavia entrò in vigore una nuova Costituzione, conosciuta per il fatto che accordava alla Croazia un’autonomia maggiore che alla Serbia. Fu quello il primo passo verso l’indebolimento dello stato comune degli slavi meridionali, mentre mi era sempre più chiara l’idea di cosa significasse la parola “politica” nei Balcani. L’ideale della primavera croata del millenovecentosettantuno, condannato allora come elemento nemico, veniva ora inserito nella nuova Costituzione. Un giovane di diciannove anni partì dalla provincia per andare a studiare regia all’Accademia di Belle Arti di Praga. La partenza per la madre delle città, come i cechi chiamavano Praga, non era solo un viaggio verso l’Europa civilizzata. La fine della mia esistenza nella casa paterna fu vissuta da mia madre come un destino, e la sua idea che l’educazione conducesse al successo nella vita era più forte della tristezza. L’unica cosa che non sapeva era come affrontare il fatto che fossi tanto lontano da lei. Questo era qualcosa di più grande della preoccupazione per un figlio che tornava tardi e sanguinante per le zuffe o che frequentava tipi pericolosi. Quella battaglia lei l’aveva già vinta, dato che la maggior parte dei miei compagni era finita in case di correzione, mentre io non avevo mai passato la notte in una stazione di polizia. Già allora sapevo che, se non fosse stato per la cocciutaggine ereditata da Senka, non ne sarebbe stato nulla della mia arte. Senka aveva trovato il modo di dissuadere gli inquilini dal rubare le lampadine dalle scale e dall’ascensore. Alle lampadine appiccicava spine tolte alle rose. Così la casa di via Kate Govorušić 9a era l’unica di tutta la strada dove nell’ascensore c’era sempre la luce. Mia madre non rinunciava mai alle sue idee, senza badare a quanta fatica avrebbe investito. Per quel che mi riguardava la sua idea di successo non prevedeva premi internazionali e compagnia bella. Mio padre, invece, la pensava in tutt’altro modo. Diceva: “Non occorre che diventi un Fellini, ma sii almeno un De Sica”. Mia madre era più modesta. Era disposta a tutto, purché non diventassi un teppista e finissi l’università, dato che lei non ci era riuscita. E che poi andasse come Dio voleva. Mio padre si preoccupava di altre cose, più significative per l’umanità. Nella Repubblica socialista federativa di Jugoslavia ottenere il passaporto non era difficile, a conferma che eravamo migliori della Bulgaria, della Romania, della Cecoslovacchia. Ancor meno difficile se tuo padre era sottosegretario del ministro dell’Informazione. Quando, su raccomandazione di mio padre, allo sportello della questura presentai i documenti con la fotografia, apparve un tipo piccoletto, calvo e squadrato. Lo avevo spesso visto al Koševo quando giocava il Sarajevo. Allungò la testa oltre l’impiegata che controllava i documenti e mi strizzò l’occhio. Mi pregò sottovoce di raggiungerlo nel suo ufficio. Quando bussai e aprii la porta, lo squadrato mi offrì un caffè con un sorriso: “Se il giovanotto gradisce, si può avere anche qualcosa di più forte”. Insisté sul fatto che gli faceva un enorme piacere che, finalmente, Sarajevo avesse dei giovani che studiavano all’estero: “Grazie a Dio, basta anche con Belgrado, e con Zagabria”. Ma cambiò improvvisamente tono: “Ci sono canaglie di ogni genere che danneggiano la stabilità del nostro paese. Tito, ovunque vada, induce un grande rispetto, una stima eccezionale!”.
Spalancò gli occhi, fece una pausa. Si sporse sul tavolo e con un risonante sussurro aggiunse: “Tito lo odiano solo i cetnici e gli ustascia, i nostri fuoriusciti all’estero e i traditori in patria! Sarebbe bene che di tanto in tanto, quando sei libero e ritorni a Sarajevo, venissi a bere un caffè. Se per caso sentissi qualcosa, qualche macchinazione mostruosa contro il sistema, puoi farti vivo anche via cavo”. “Cosa intende per cavo?” “Bell ha inventato il telefono, giovanotto, per potere, fra l’altro, comunicare ai tuoi una notizia importante!” “Naturale” proferii e, senza aver bevuto il caffè, con il passaporto che nel frattempo era stato recapitato dallo sportello, andai da mio padre, al Consiglio esecutivo della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina. Furioso, gettai il passaporto sulla scrivania di mio padre e gli dissi: “Quei tuoi amici vogliono fare di me una spia. Io vado a studiare regia, non all’accademia di polizia”. “Chi? Che cosa? Adesso gli faccio un cazziatone” mi rispose mio padre senza esitare. La sua segretaria chiamò subito Jusuf Kamerić, ora a capo della questura di Sarajevo, e mio padre gli disse: “Io non mando mio figlio a Praga a studiare da spione, fanculo, ma da regista!” sottolineò con orgoglio la parola “regista”. “Non vi basta che se ne vada nel mondo senza una borsa di studio, e che io debba spendere l’eredità di Senka, volete anche farne un delatore! Mio figlio non ve lo darò!” “Calmati, Mutica, la situazione è composita.” “Ma che situazione composita, Jusa, non dire stupidaggini, la situazione non è un giornale che possa essere composto! Lasciate in pace mio figlio!” Colpito dal comportamento aggressivo degli organi della sicurezza interna, mio padre tornò a casa ben carburato. Con lui c’era anche quel Kamerić, e la sbornia fu giustificata davanti a mia madre. “Hai bevuto di nuovo?!” “Certo, ovvio, volevano fare di Emir un delatore!” “Non esagerare, Mutica, non è andata proprio così!” “Basta, a voi non credo più!” “Ecco, Senka, se Mutica non mi crede, lo farai tu! Finché sarò al mio posto, il piccolo nessuno potrà neppure guardarlo storto!” A me quel Kamerić era simpatico. Prima del servizio in polizia, come direttore dell’Impresa comunale era stato il “padrone di casa” in una piscina al coperto di Sarajevo. In realtà, si trattava di un vecchio impianto termale dei tempi dei turchi, poi trasformato in una piccola piscina. Quella sera mio padre accompagnò Jusuf Kamerić fino a via Titova, portandosi dietro il nostro cane Piksi per fargli fare una passeggiata. Lo faceva spesso, ma portare il cane a passeggio era per mio padre una scusa per ulteriori attività notturne. Di solito, dopo la passeggiata, riportava Piksi fino all’entrata, citofonava a Senka al settimo piano e gridava: “Senka, chiama l’ascensore, io vado a sgranchirmi ancora un po’ le gambe”. Così mia madre, con i bigodini in testa, apriva la porta e si trovava davanti il cane spaventato che guaiva nell’ascensore della ditta David Pajič. Questa volta Murat cambiò il programma. Arrivò col cane fino al ristorante Kvarner. Tentò di entrare in un negozio di prodotti elettrotecnici e ne scosse la maniglia, stupito che il Kvarner fosse chiuso. In realtà non aveva capito che aveva scambiato l’ingresso del famoso ristorante di Sarajevo con quello del negozio Elektrotehna, lì accanto. Per lungo tempo, quella notte, mio padre
rimase lì perplesso, chiedendosi perché il Kvarner fosse già chiuso, dato che erano appena le undici e mezzo. E pensare che si era tanto rallegrato al pensiero di “bersi ancora un goccetto”. Tornò a casa. Non andò in un altro bar. Non puzzava d’alcol, e quella fu una piccola festa per mia madre e per me. Quando doveva affrontare un problema importante mio padre smetteva di bere. Dato che mi era difficile crederci, mi inventai che, in realtà, fosse stato l’alcol a decidere di sfuggire a mio padre. Mia madre chiamava Murat “forno di latta” perché assomigliava a quelle stufe che si accendono con facilità, proprio come mio padre. Certo che si raffreddava anche con facilità. Neppure la perversa cocciutaggine del direttore della Televisione di Sarajevo riuscì a scoraggiarlo o a spingerlo a ubriacarsi. Quella volta conclusi che per disabituare mio padre all’alcol era necessario adottare un metodo nuovo. Occorreva disabituare l’alcol dall’abitudine di avvicinarsi a mio padre. Quello sarebbe stato un impegno ben gravoso che avremmo dovuto affrontare ogni volta che le lezioni negative della grande storia mondiale facevano presagire una tempesta emotiva paterna. Sarebbe stato un enorme contributo alla lotta per la sobrietà nel territorio della Repubblica socialista federativa di Jugoslavia. Mio padre non riusciva in alcun modo a ottenere una borsa di studio per me dalla Televisione di Sarajevo. Il direttore di allora, un certo Kojović, non sapeva come liberarsi del “forno di latta”. Murat cercava di convincerlo sia parlandogli, sia attraverso amici comuni. Diceva: “Quello è uno stupido. Se mio figlio ha superato l’esame di ammissione fra duecentocinquanta candidati provenienti da tutto il mondo, questo significherà pur qualcosa per Sarajevo e la Jugoslavia!”. In qualità di membro della Lega comunista della Jugoslavia, Murat sapeva come esprimere il suo altruismo: “Kojović, io lo dico per la tua televisione, non per me. Io, alla fin fine, le tasse scolastiche le pagherò con l’eredità di mia moglie”. Quel Kojović non era diverso dagli altri direttori delle televisioni jugoslave. A lui interessavano le annunciatrici e il telegiornale. Inoltre badava bene a non cadere in disgrazia presso qualcuno dei politici altolocati. Senza fedeltà verso l’alto, non avrebbe avuto nulla di ciò che stava in basso: la disobbedienza lo avrebbe allontanato dalle annunciatrici. Perciò non voleva rischiare assegnando una borsa di studio al figlio di Murat Kusturica, anche se la logica avrebbe voluto il contrario. Tutto perché Murat non godeva di buona fama presso Mikuli, il capo del Comitato centrale della Bosnia ed Erzegovina. Mio padre “abbaiava” troppo, anche se, a quanto pare, non lo consideravano un vero nemico del sistema. Per quanto aspro nei suoi giudizi sulla realtà politica, era anche innocuo. Molti, inoltre, lo trovavano simpatico e affascinante, un ornamento in ogni cerchia sociale. Le sue battute spiritose venivano ripetute in tutti i bar, da Ilidža a Baščaršija... Kojović non sapeva come liberarsi del “forno di latta”, ma ordì un piano per vendicarsi della battuta offensiva che Murat, in un corridoio del Comune, pronunciò quando si rese conto che della mia borsa di studio non si sarebbe fatto nulla. Una delle amanti del direttore Kojović non era certo del genere “velina” e lavorava nell’ufficio di mio padre, al Segretariato per l’informazione della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina. Per mezzo di quella donna Kojović fece girare una voce sul presunto nazionalismo musulmano di mio padre. In quel periodo era stata scoperta e denunciata l’attività di “nazionalisti musulmani estremisti”, e Kojović aveva compreso che un’etichetta simile poteva spegnere efficacemente il fuoco del “forno di latta”. Così non avrebbe dovuto fornire delicate spiegazioni sul perché non avesse concesso una borsa di studio al figlio del sottosegretario. Quando l’amante portò tutta la faccenda al Segretariato per gli Affari
Interni, e l’oggetto giunse sul tavolo di Jusuf Kamerić, questi invitò Murat a bere qualcosa all’Hotel Evropa. Là, dall’ufficio del direttore, chiamarono Kojović: “Kojović, cerca di darti una calmata! Con Murat io faccio l’alba a suon di grappa e di spuntini, e ti posso quindi dire, perché mi risulta personalmente, che non è affatto un nazionalista musulmano...!”. Il “forno” si era acceso alla grande e, fiammeggiando, strappò la cornetta all’amico: “Ti sei fottuto con le tue mani, cretino! Io sono un nazionalista serbo. Vieni qui all’Evropa, che ti insegno io come si fa il serbo, contadinaccio dei boschi di Trebinje che non sei altro! Che vada a fare in culo Todo Kurtović che ti ha messo lì, e vai a fare in culo anche tu!” disse mio padre, lottando con Kamerić che cercava di riprendergli la cornetta dalle mani. La borsa di studio non mi fu data. I soldi rimasti dalla vendita della casa di via Mustafa Golubić n. 2 furono usati per pagare le alte tasse scolastiche e la vita di uno studente nella grande città. Quando due giorni dopo partii per Praga mio padre pianse a modo suo. Talvolta si faceva accompagnare nelle sue notti brave da un mio compagno che chiamavamo Slunto e che era alto come me. Quando un po’ brilli entravano in un bar, in mezzo ad avventori sconosciuti, quei due in primo luogo stabilivano con loro rapporti amichevoli, poi mio padre pagava da bere a tutti e indicava il mio compagno. Diceva orgoglioso: “Questo giovane è della stessa altezza del mio Emir, guardatelo, pensate che figlio grande ho, un metro e ottantotto!”. Mio padre non aveva proprio un’altezza invidiabile, ma quello svantaggio era compensato dalla sua simpatia. Quando partii per l’Europa, alla stazione di Sarajevo si riunirono molti amici per un commiato prima di quel lungo e incerto viaggio. Paša, Zoran Bilan, Haris, Mirko, Njego, Beli. Vennero tutti per abbracciarmi e augurarmi buona fortuna. Dato che con Maja mi ero lasciato, lei non venne a salutarmi, aveva un altro ragazzo, e io facevo finta che la cosa non mi importasse. Nascondevo bene quanto soffrivo. Poi scoprii che l’abilità di nascondere i sentimenti non era importante solo nei film sui partigiani, quando i resistenti dovevano vedersela con i tedeschi. Anche nella vita è spesso indispensabile recitare bene. La borsa di plastica in cui Senka e io avevamo ficcato tutto ciò che serviva si ruppe proprio mentre salivo sul vagone, per cui la legammo in fretta e furia con uno spago. E così la stazione dove un tempo, da ragazzino, alla partenza dei treni colpivo a giornalate in testa i viaggiatori afflitti, ora era il luogo dove solo il dettaglio della borsa sfasciata impedì che l’emozione del distacco si facesse troppo grande. Non occorreva neppure che apparisse un ragazzino a punirmi per ciò che avevo fatto agli altri, nella mia infanzia. Stavo sui gradini del vagone. Il treno in partenza diede uno scossone, mia madre scoppiò a piangere. Io caddi sul sedere, afferrai la borsa da cui cominciarono a saltar fuori le cose perché lo spago, legato sommariamente, aveva ceduto. Alzai una mano per salutare gli amici, mentre con l’altra tenevo spasmodicamente strette mutande, calze e canottiere. Alla fine, con il viso schiacciato contro gli abiti appena raccolti, lasciai Sarajevo. Mentre il treno prendeva velocità, inginocchiato accanto alla borsa, riuscii a malapena ad agitare la mano ancora poche volte. Da quella posizione di svantaggio, con lo sguardo cercavo Maja, sperando ancora, come uno scemo, di vederla apparire alla stazione Normalna. Man mano che Sarajevo rimpiccioliva, la figura di Maja si faceva sempre più grande. L’incontro con Vilko Fila fu il primo, ma anche il più grande passo cinematografico da me compiuto dopo l’arrivo a Praga. Dopo aver preso alloggio alla Casa dello studente, Hradební kolej, la sera stessa conobbi Vilko. Non fu un avvenimento spettacolare, come nel film Lo spaventapasseri di Jerry Schatzberg, dato che in quel film la scena dell’incontro
avveniva all’esterno. Il nostro destino invece era di incontrarci nel corridoio tinteggiato di fresco della Casa dello studente. Era un edificio di quattro piani dove vivevano assieme studenti e allievi dei vari mestieri artistici. La cosa più interessante era che sotto lo stesso tetto erano alloggiati sia maschi sia femmine. La mia stanza era al secondo piano e la porta dava sulle scale che da lì salivano al terzo. Potevo vedere tutto, come al Passeggio, soprattutto le studentesse che salivano al terzo piano. Quando mi venivano a trovare due studenti di produzione, Bucko e Tucko, entrambi di Sarajevo, tenevano la porta spalancata e si esercitavano a fare domande come i bighelloni del Passeggio: “La signora vuole forse farci una visitina e bere qualcosa, un piccolo succo, o magari un aperitivo?”. Ma quella prima sera del mio arrivo alla Casa dello studente non c’era niente da ridere. Davanti ai miei occhi si stendevano i corridoi deserti, tinteggiati di bianco, con molte porte. Non c’era anima viva. Pensai che non avrei resistito a lungo e che già l’indomani sarei tornato a Sarajevo. Uscivo dalla camera in corridoio ogni volta che sentivo dei passi. Non per farmi vedere dalle ragazze: a causa della solitudine. Fu a quel punto che dal fondo del corridoio mi venne incontro Vilko Fila, indicando il sacchetto di tabacco. “Non ho un fiammifero” disse. Estrassi l’accendino di tasca, gli accesi la sigaretta e dissi: “È una cosa irreale, un incontro come in un film!”. Vilo si mise a ridere e aggiunse: “Come nello Spaventapasseri? Solo che non c’è la stessa Stimmung”. Si riferiva all’atmosfera fantastica della scena iniziale di quel film. Là una nube enorme minacciava pioggia, mentre dietro il sole creava una luce irripetibile. Così si erano incontrati Gene Hackman e Al Pacino, scambiandosi ciò che ciascuno aveva, sigarette e accendino. Per anni quella scena aveva rappresentato per gli studenti un oggetto d’interesse, e col tempo era diventata il giuramento degli amanti del cinema. “È così,” dissi, “tu sei Al Pacino e io Gene Hackman.” “Sono d’accordo, una buona distribuzione delle parti! Una rara storia di amicizia, puro esistenzialismo, un film poco tipico per l’America.” Più vecchio di me di due anni, Vilko aveva già girato alcuni film scolastici significativi. Era l’unico grande operatore che non si serviva della luce riflessa dallo styrofoam. Gli operatori tendevano a esagerare con quel gioco della luce che si indebolisce e si ammorbidisce nel viaggio dalla fonte al viso umano o a qualsiasi oggetto. Vilko creava una luce diretta, ma discreta. Quella era la sua idea di illuminazione. Nessun altro legava in modo così espressivo l’ombra all’intensità della luce diretta. Vilko esponeva in modo appassionato i volti umani, le scene. Guardando attraverso la camera glorificava la vita, e non l’arte, e così introduceva nell’immagine cinematografica la fondamentale forza umana. Odiava il trucco cinematografico, ma si innamorava facilmente delle truccatrici, era un naturalista autentico. Non temeva l’insuccesso del film. Diceva spesso: “Che cazzo mi frega. Se come operatore faccio fiasco, posso sempre fotografare matrimoni in giro per la Slovenia, e invece dei soldi che mi diano una salsiccia, una birra; per la passera mi arrangio”. Amava le donne e il vino, ma anche la marijuana. È difficile dire quale di questi amori fosse il più grande! Alla fine del primo anno di studi, Borivoj Zeman, uno dei professori di regia, dopo aver visto il mio primo film mi disse bevendo una birra: “Tu, sono sicuro, un giorno farai un film significativo! Ricordati, ogni stupido è in grado di fare un bambino, ma un grande film solo gli eletti”. La lode del professore, mi faceva piacere, ma mi dava fastidio quella sua visione
grossolana della riproduzione biologica. Speravo che avrei avuto anch’io, un giorno, dei bambini. Questo significava che anch’io sarei diventato uno stupido. Forse uno stupidino, se le cose fossero andate come diceva lui, se avessi avuto un bambino e girato un film. Comunque, accettai la storia degli stupidi e dei bambini, dato che fu detta nel momento in cui nella birreria arrivò sua figlia e lo guardò storto perché il professor Zeman era un ubriacone. Era un tipico rappresentante del popolo ceco. Non odiava i russi, ma nemmeno li amava. La sua piccola vendetta contro gli occupanti la esprimeva con l’ironia, grazie alla quale l’intera nazione si salvava dalla depressione (soprattutto la cinematografia). La birra era la medicina che i cechi usavano per salvarsi l’anima. Ottimo sostituto di un sedativo, quella bevanda alcolica era una delle migliori del mondo. La birra anestetizzava quotidianamente i cechi, quel tanto che bastava per sopportare l’occupazione sovietica. Che aspetto ha e che cosa dice l’uomo comune quando beve la birra? Nella risposta a questa domanda sta il segreto della piccola rivoluzione cinematografica europea, apportata da Forman, Menzel, Vracil. Guardando le loro opere sognavo che anch’io, forse, un giorno, avrei fatto in Jugoslavia un film sui piccoli uomini. Per questo trascorrevo molte ore seduto nelle birrerie ceche, tendendo l’orecchio a ciò che diceva la gente mentre beveva. Quei piccoli uomini che bevevano birra e raccontavano le loro storie li ascoltavo ogni sera dopo le lezioni. Dopo il settimo boccale, il professor Zeman prendeva l’aspetto di un uomo che avrebbe potuto essere sgradevole. Ma con il mio professore le cose stavano diversamente. Io allora pensavo che, sotto l’effetto dell’alcol, anche i rappresentanti degli altri popoli d’Europa si trasformassero regolarmente in selvaggi come i bevitori di birra del mio paese. In quei casi gli ubriachi dicono sciocchezze, e le persone in loro compagnia, dato che non hanno via d’uscita, li scusano e dicono: “Ma non è cattivo, è solo brillo”. Anche quando un ubriaco picchia qualcuno senza alcun motivo, si trova sempre chi giustifica l’intera faccenda con la frase fatta “la grappa gli ha bevuto il cervello”. Da noi c’erano anche ubriaconi tranquilli che si facevano del male in silenzio e con dedizione. Presso i cechi, invece, i turbolenti erano una rarità, soprattutto fra le persone più fini, come il mio professore. “Ehi, tu, Kusturica, sai in quale parola russa si ripete otto volte la lettera o?” mi chiese Zeman. Non so perché pensai subito alla parola hovno (“merda” in ceco). Probabilmente perché i cechi la usavano spesso. L’opinione più spesso citata del buon soldato Švejk era: “Č lovek je htel bit gigantem, a je hovno!” (“L’uomo voleva essere un gigante, ma è una merda!”). Nei primi tempi non accettavo le caratteristiche di questo piccolo popolo. Molta acqua della Moldava dovette passare sotto i ponti (mio padre avrebbe detto: ihi-hi!) prima che io mi abituassi al loro modo di vedere la vita. Questo proprio perché a Praga incontravo spesso intelligentoni che sciorinavano massime, e soprattutto battute, e ponevano domande paradossali. Io fin dai tempi di Sarajevo odiavo i proverbi di cui mia madre abusava. Lei sostituiva con gli adagi popolari la sua mancanza di cultura enciclopedica. Pronunciando quelle sentenze, mamma spesso intendeva confermare le sue previsioni. Le facevo notare che la cosa non funzionava, dato che il popolo inventava frasi del genere solo per procurarsi giustificazioni. Per esempio, quando vuoi dire che un certo lavoro otterrà risultati eccezionali perché è cominciato bene, dici “Il buon giorno si vede dal mattino”, ma se il lavoro non va, dici la stessa cosa, però al contrario: “I primi gattini si gettano in acqua”. “Dio, tu Emir pensi di essere il più intelligente del mondo. Vuoi forse dire che il popolo è
stupido?” “Quello che dicono le frasi fatte non è affatto saggezza! Volevo solo dire che il popolo è abbastanza navigato e sa come giustificare qualsiasi azione!” “Su, non essere sfacciato!” Mia madre finiva ogni discussione sempre allo stesso modo. Anche quando ormai ero diventato il primo della classe e quando ormai, come si sentiva, avevo corretto il mio vocabolario. Un saccentone praghese, sempre davanti a una birra, mi chiese: “Che differenza c’è fra un uomo e un’ape?”. Non avevo abbastanza fantasia per rispondere a quell’interessante domanda, e allora lui mi disse: “La differenza fra un uomo e un’ape è che dietro all’uomo rimane la merda, e dietro all’ape il miele!”. Che visione cosmica della realtà umana! Mi immaginai una goccia di miele che viaggia in eterno per lo spazio! È un po’ esagerato, penserà il volonteroso intellettuale che è in me, dato che l’uomo, nella storia della cultura, ha comunque costruito l’Acropoli. I cechi sapevano quale spregevole creatura fosse l’uomo. Temevano che all’uomo, il signore del pianeta, in un momento di decadenza e per qualche progetto di arte concettuale, potesse saltare in mente di creare un’installazione con il titolo provvisorio “Merda sopra l’Acropoli”! Dato che Bohumil Hrabal insisteva sul fatto che tutti i popoli europei, quindi anche i cechi, appartengono alla cultura ellenistica, riusciva difficile immaginare che un artista con un’idea così rivoluzionaria potesse provenire da quel paese. Per questo li amavo, e loro ci chiamavano Civiltà HH, dove HH sta per Heroji Hochstapler (“eroi lestofanti”). Infatti per gran parte della nostra storia noi ci siamo esauriti in imprese eroiche e dopo non abbiamo mai imparato a organizzarci la vita. Non abbiamo creato il mito di una giornata umana normale. Forse non solo per colpa nostra. Per questo ho imparato ad amare il popolo ceco. Loro dicevano: “Sperimenta solo quando non avrai niente di più serio da fare”. Al fine di tenere il più lontano possibile dall’Acropoli il puzzolente prodotto umano, al pari del popolo ellenico “i cechi” lo nominavano nella vita quotidiana come un fatto ineludibile. E questo non come da noi, dove la merda fa parte dell’offesa indirizzata al nemico. Tuttavia non minimizzavano la sua importanza e neppure il pericolo che ne derivava. Così io stavo dalla parte delle api e, naturalmente, del loro miele. Forse anche perché apprezzavo in modo acritico la capacità dei cechi di riconciliarsi in modo artistico con il fatto di essere un piccolo popolo, avendo constatato i vantaggi pratici del miele. In tal modo non sprofondavano nella merda come noi. Una gran seccatura era rappresentata dai nostri studenti che non tenevano in nessun conto i cechi. Il giudizio non includeva le donne ceche, l’unica parte del paesaggio nei confronti della quale i nostri ragazzi esprimessero un’aperta propensione. Non avevo mai creduto che un uomo potesse abbandonarsi perdutamente alle donne come i miei connazionali si abbandonavano alle ragazze ceche. La punizione per quei piaceri effimeri li raggiungeva in un secondo tempo. Le malattie dermatologiche e veneree costituivano la parte minore di tale punizione. Ben presto i loro sensi li tradirono e, così invalidati, fino alla fine della loro vita non si liberarono più della dipendenza ceca. Il professore di regia ubriaco agitò una mano davanti ai miei occhi e mi fece tornare al suo quiz imbevuto di birra: “Kusturica, ti chiedo se sai in quale parola russa abbiamo otto volte la lettera o?”. Gli dissi solo: “In questo indovinello c’entra in qualche modo la parola hovno”. Ridendo il professore confermò: “Naturale!”. E aggiunse: “Lomonosovovohovno! (Merda di Lomonosov)”. Solo per un attimo in me si svegliò l’iroso uomo balcanico:
“Questo è un imbroglio bello e buono, si tratta di due parole, non di una!”. Lui concluse in stile circense-cinematografico: “Sbagli giovanotto, era così finché io non ho pronunciato due parole insieme creandone così una nuova. Questo significa che il mondo culturale è stato oggi arricchito da una nuova parola composta. In particolare i russi, se comprenderanno quanto sia difficile costruire una parola con otto o!”. Sapevo che i russi non potevano essere entusiasti del fatto che il nome della loro maggiore università, che comprende sei o, fosse associato al sostantivo “merda”. Comunque, pensai, se fossi io l’occupante e il tiranno, come potrei desiderare dei sudditi più ragionevoli di questi cechi! Che cosa mai non gli salta in mente mentre bevono la birra?! Hanno imparato a mordere, e questo fa male, ma tu ridi sapendo che nel loro morso è compreso anche l’anestetico.
GRAZIE A TE, FEDERICO Nel millenovecentosettantacinque morì Ivo Andrić, grande scrittore europeo e il più importante artista jugoslavo. Quell’anno giunse a Praga una copia del film Amarcord di Federico Fellini. Infelice per la morte di Andrić, accolsi con gioia la notizia della proiezione di Amarcord. Dopo aver visto i film di Fellini La strada, Lo sceicco bianco, 8½, avevo cominciato a guardare al mio passato come a un film. Nell’ambiente cinematografico prevaleva la convinzione che Amarcord fosse lo zenit creativo del grande regista, anche se sui giornali italiani si leggevano titoli che rivelavano una scarsa simpatia per il film. A Fellini veniva rimproverata la rinuncia all’intellettualismo di 8½, e non piaceva, come scrissero, l’eccessivo avvicinamento al pubblico. Penso che avrebbero dovuto mandargli Bergman. Lui sì che sapeva come schiaffeggiare i giornalisti. Il grande svedese faceva i conti in questo modo con i critici negativi. Pochi avrebbero creduto che quell’uomo, quell’essere nobile che aveva girato Il posto delle fragole, amasse risolvere a ceffoni i suoi problemi personali. In quei giorni a Praga ero in attesa di Amarcord come un tempo a Sarajevo, prima dell’alba, attendevo i chifel e le focacce mattutine davanti al forno di Jerlagić. La proiezione di Amarcord era in programma al Club dell’Accademia all’orario consueto, alle due del pomeriggio di venerdì. Ero un apprezzato studente del secondo anno di regia, a Sarajevo andavo raramente, Maja l’avevo quasi dimenticata. Sembrava come scomparsa dalla mia vita, e tuttavia, talvolta, la domenica pensavo a lei. Non so se a causa del fatto che le domeniche erano i momenti più difficili. In generale, a parte l’amore, il divertimento occupava un posto molto basso nella lista delle cose importanti. Sapevo che quella era una cicatrice dell’infanzia, un retaggio dell’impegno sociale di Gorica: il gruppo di ragazzi di strada al quale appartenevo guardava al divertimento con disprezzo. Ci infastidivano le grandi risate del pubblico ai film di Chaplin, ballare con le ragazze, tutti i fenomeni collettivi. Sembravamo un branco di lupi che non si abbandonava mai a forme palesi di rilassamento e che col suo comportamento voleva affermare di non appartenere al mondo comune. Eravamo tesi come guerrieri, come briganti. Fin dal giovedì venivo preso dalla frenesia del fine settimana in arrivo. Tutti si disperdevano tornando a casa, e il bar Slavija, che aveva sostituito il Passeggio, si vuotava. Nella Casa dello studente risuonava per tutto il santo giorno il violino di un allievo che preparava un esame: il martire suonava mille volte sempre la stessa scala. A Praga non giunse solo la copia di Amarcord. Apparve anche un certo Kera, un ladro di Sarajevo, noto per la sua abilità di svuotare i più lussuosi negozi di abbigliamento sotto gli occhi dei commessi. Si distingueva anche per il suo vocabolario inconsueto. Utilizzava un lessico non scritto nel quale primeggiavano i vari epiteti che dava ai contadini. Quando qualcuno diceva a Kera: “Come va, compaesano?” lui difendeva la propria presunta origine aristocratica dicendo: “Compaesano una fava”. “Zoccolo” era il nomignolo che a Sarajevo si appioppava a coloro che non erano cittadini. In realtà quelli che erano, per modo di dire, cittadini in gran parte rappresentavano povera gente di città che se la godeva ad avere sotto di sé qualcuno situato ancor più in basso nella scala sociale. Kera era un ladro originale. Lui chiamava i contadini e i suoi avversari “covoni”. Si riferiva ai covoni di fieno falciato, e in seguito mise in circolazione l’espressione “pannocchia”. Si riferiva alla pannocchia di mais. Quando qualcuno era ancor peggio di uno “zoccolo” lo chiamavano “pannocchia”. Il tagliaborse Kera era in viaggio per Berlino, e si fermò a Praga. Allo Slavija venne a
sapere l’indirizzo della Casa dello studente. “Vecchio mio, sono a Praga, sto andando a Berlino, ho notizie importanti per te,” mi telefonò dalla portineria della Casa dello studente. Era l’ultima persona dalla quale mi sarei aspettato informazioni su Maja, alla quale avevo pensato nel corso della settimana. Eppure, era così. “Lei, fratello, ti ama, tutti quei sorci attorno a lei non sono altro che covoni, non hanno speranze, amico, la più bella donna di Sarajevo dice che tu sei l’unico, quello giusto!” Io facevo il finto tonto: “Ma non c’è niente, non c’è storia, vecchio mio”. “Come non c’è, che cosa non c’è, ma non fare come quei covoni, non puoi lasciare una pietra preziosa a dei barboni.” “Dimentichi,” dissi, “che a quella storia ho messo un punto fermo.” Lo ringraziai per il pranzo e continuai: “Devo andare a scuola. Comincia la proiezione di Amarcord”. “Di cosa?” Mi precipitai fuori, tutto agitato, corsi alla Casa dello studente per mettere insieme un po’ di cose e invece di andare alla proiezione di Amarcord decisi di andare a Sarajevo per verificare la storia di Kera. Quanto poco mi era bastato. Affrettandomi verso la stazione Hlavní nádraží, pensavo che quel Kera, in realtà, poneva la tipica vecchia domanda di Sarajevo, nella cui risposta si possono trovare elementi della filosofia esistenziale: “Dove sono io in questa storia?” si chiedeva il borsaiolo Kera mentre nominava gli approfittatori che circondavano Maja. Partii per Sarajevo, intuendo che Amarcord l’avrei visto in seguito. Stanco morto per la mancanza di sonno e di sigarette, arrivai a Sarajevo dopo ventotto ore di viaggio. Al Passeggio ero il primo avventore, la cameriera Borka mi servì un uovo sodo mentre io, seduto sulla stufa elettrica, mi scaldavo il sedere. “A quanto pare il gran mondo non ti ha insegnato le buone maniere! Anche a Praga stai seduto sulla stufa? Scendi da lì, me la danneggerai!” “A Praga non ci sono stufe elettriche, contadina che non sei altro, là il riscaldamento va dappertutto a gas, quello che arriva dalla Siberia!” “Scendi, non vedi che è già rovinata!” Nella vecchia Jugoslavia i camerieri e le cameriere erano come la polizia, costituivano una parte privilegiata della popolazione: avevano una vita lavorativa più breve ed erano quasi tutti confidenti della polizia. Non solo le cameriere e le banconiere, per loro natura delatrici, sposavano spesso dei poliziotti, ma anche se non erano sul libro paga della Direzione per la Sicurezza dello Stato, trasmettevano le informazioni a livello amatoriale. “Invece devo dirti che Maja, questo lo devi sapere, esce con il figlio di quel chirurgo Vasiljević! Quel giovane non è proprio un granché, tu per me sei un tipo molto più simpatico!” “Quel Vasiljević è uno in gamba. Ricordo che mi ha sistemato lui la mano, quando l’ho rotta portando il mio Titanic, nel millenovecentosessantuno.” Facevo finta che quell’informazione non significasse nulla per me. “Non è un legame serio, non ti devi preoccupare” mi disse Amela Aganović, allora la miglior amica di Maja, che frequentava il Passeggio. “Quel piccolo Vasiljević Maja lo spedisce a Grbavica a comprare i dolci. Lei adora i boemi ripieni di crema pasticcera e cioccolato e le šamponjeze della pasticceria Jadranka. Lui non è pericoloso, non è all’altezza di Maja.” “Amela, basta con questa storia, lei a me non interessa più.” “Va bene, lo so, te lo dicevo per dire.”
Zlatan Mulabdić, il Bud Spencer del Passeggio, era quello che si alzava più di buon’ora e per primo arrivava nel nostro bar. Raramente faceva a botte, aveva un’anima tenera da bimba, ma quando si arrabbiava diventava pericoloso. Una volta conciò per le feste due tipi, poi aspettò l’autolettiga e aiutò gli infermieri a metterli nell’ambulanza, perché non si potevano più muovere. I testimoni sostengono che gli spuntò una lacrima quando l’auto, a sirene spiegate, partì per l’ospedale. Zlaja si sedette al nostro tavolo, mi abbracciò, mi baciò e disse: “Ieri ho visto la tua Maja,” al che io feci spallucce, della serie “che me ne importa”. “Ma perché insistete con ’sta Maja? Gente, smettetela, io sono venuto a vedere voi, e voi Maja qui, Maja là.” Zlaja indicò il marciapiede di fronte al Passeggio, davanti al negozio Casa nuova. “Ieri è passata di là, vecchio mio, e le sedie si voltavano a guardarla. E questo è niente, le donne si incantano a guardarla, fratello. Tanto è buona!” “Ma che mi importa. Acqua passata, amico.” Presi il numero di telefono di Amela e andai a casa a dormire per compensare la notte insonne. La sera andai a passeggiare per via Titova. Gironzolai anche per le altre vie di Sarajevo. Un autobus urbano mi portò, infine, a Grbavica, nella pasticceria Jadranka. Mi sedetti in un angolo e ordinai una limonata, sperando che Maja mandasse lì quel Vasiljević a comprare šamponjeze e boemi. Non dubitavo affatto del gusto di Maja. Mangiai sette šamponjeze e un boemo, e pensai che avrei vomitato. E così fu, alla fine. Uscii fuori e rigettai. E fuori era freddo e non volevo gelarmi, e il piccolo Vasiljević non arrivava. Rientrai nella pasticceria. Ordinai un’altra limonata. Vasiljević non si vedeva, neanche a cercarlo col lanternino. Per fortuna sua, e forse anche mia. Non arrivava, e i miei nervi avevano già ceduto. Dentro di me combattevano l’uomo e l’erzegovese. Il ragazzo non ha colpa, diceva l’uomo, mentre l’erzegovese scuoteva preoccupato la testa, “No, niente affatto, se non ti meriti che ti picchi, credimi, non ti picchierò”. Alla fine, non sono sicuro che sarei stato tenero nei suoi confronti. Gli avrei detto: “Chi me la fa, la sua vita non varrà!”. Non va bene, pensai. La sua risposta doveva condurre a quel “Cosa”, al quale seguiva lo storico, doppio, “Cosa, cosa?”. Ci doveva essere un modo per arrivare a quello. D’accordo, pensai, gli chiederò: “E va bene, a che cosa ti serviva?” Lui, ne sono sicuro, avrebbe risposto: “Cosa, cosa mi serviva?” e quando avrebbe detto: “Cosa, cosa?” io non avrei resistito e avrei dovuto dire: “Piccolo, fai attenzione che non ti spezzi come un gessetto!”. Non so se sarebbe riuscito a chiedermi quale gessetto, perché gli avrei mollato una sberla. Il proprietario arrivò in negozio e mi guardò con evidente curiosità. “Come ti chiami, ragazzo?” “Kusturica” dissi. “Ma siediti qui. Che dolci vuoi? Io con tuo padre ero ricoverato in terapia intensiva. Ci eravamo entrambi beccati un infarto! Che cara persona tuo padre, ha smesso di bere?” Io dissi: “Ma certo, solo qualche volta, qualche bicchiere!”. “Non deve più bere. Ecco, guarda me, faccio i dolci migliori di Sarajevo, ma non posso toccarli. Che cazzo di vita senza boemi e šamponjeze, ma la vita è sempre vita. È meglio essere vivo che morto, sei d’accordo? Di’ a tuo padre che un uomo deve tenersi da conto, alla nostra età.” Mi caricò di tanti dolci che una parte ne lasciai a casa, e una parte me li portai a Praga.
Prima della partenza dissi a mio padre: “Ti saluta Nikola”. E lui chiese: “Quale Nikola, il pasticcere?”. “Proprio lui!” Mio padre mi chiese: “Come sta Nikola, divora sempre tanti dolci?” e io dissi che non poteva a causa dell’infarto. “Perdio, non durerà a lungo se non sta attento e continua a mangiare cose dolci, specie quelle piene di colesterolo. Se lo rivedi, digli che un uomo deve tenersi da conto alla nostra età...” Il profumo dei dolci di Nikola arrivò con me a Praga. A Sarajevo non avevo portato a termine ciò che dovevo, ora mi era chiaro che a Maja non avrei pensato solo di domenica. Quando arrivai alla Casa dello studente, sulla finestrella della portineria era attaccato un avviso: “Proiezione di Amarcord alle dodici”. Avevo visto giusto, prima di partire. A Sarajevo il fine settimana era stato un fallimento, non ero riuscito a verificare se Kera il ladro avesse mentito, ma la settimana non era stata un fiasco, avrei visto Amarcord. Stanco del viaggio, dopo le prime lezioni avrei bevuto alcuni caffè, e poi di corsa al Club. La folla si muoveva lentamente verso le comode poltrone e io fui colto da una sensazione di solennità. Come se dovesse accadere qualcosa di grande, di emozionante. Non ero mai stato così ansioso prima dell’inizio di uno spettacolo. Il sipario davanti allo schermo si aprì, e subito la musica di Nino Rota infranse la barriera fra il film e la sala. Nella piccola località di mare italiana era arrivata la primavera. “Che esposizione meravigliosa” pensai. Al di là dei gattici primaverili sospesi davanti agli edifici di Rimini, il regista ci fa conoscere la città. Le inquadrature si susseguono, collegate fra loro dai gattici. Un barbone sdentato salta e li afferra, mormora qualcosa in italiano, io faccio in tempo a sentire solo “La primavera...” e... mi addormento! Mi sveglio, odo un applauso e sullo schermo vedo i titoli di coda! Ascolto la musica e, confuso, mi guardo attorno. Mi svegliai di botto e con un senso di colpa chiesi ai colleghi: “Un film tremendo, no?”. “Favoloso. Ma come hai potuto dormire, amico, davanti a un Fellini?” “Sono stanco, non riesco a capire, che figuraccia incredibile!” risposi. “Questo, amico, è un affronto, non una figuraccia” mi disse un polacco di belle speranze. Uscii in strada e, mentre mi stiracchiavo, mi sentii molto a disagio. Come era possibile addormentarsi proprio all’inizio di quel grande film? Passai l’intera settimana in preda al senso di colpa. Ascoltando storia dell’architettura – mi pentivo; storia dell’estetica – mi pentivo; storia della letteratura – mi pentivo. Non mi furono d’aiuto neppure le lezioni sul Nuovo Testamento, anche se amavo molto le interpretazioni dei misteri e dei messaggi nascosti. Come è possibile essere un tale asino, mi chiedevo, hai perso l’occasione di vedere una grande opera d’arte, e questo proprio nel momento in cui si forma il tuo gusto e quando è indispensabile essere illuminati da opere di valore. E quel che è peggio, non mi meravigliavo neanche dell’atteggiamento dei colleghi. Il loro sguardo sprezzante sembrava dicesse: non è così strano che un primitivo dei Balcani si addormenti a un film di Fellini. Mentre dormivo, qualcosa di quel film si era travasato in me. Come quando qualcuno fonde, una nell’altra, due immagini cinematografiche. Questo non potevo dirlo a nessuno. Mancava solo che ridessero di me, perché assomigliava a quella storia per cui ti metti sotto la testa, come un cuscino, Guerra e pace di Tolstoj, e così “ti passa” e non devi perdere tempo a leggerlo. In una pausa quasi da incubo fra due lezioni di storia dell’architettura, mi giunse una
notizia incoraggiante: la copia del film Amarcord sarebbe rimasta ancora una settimana, forse anche di più, visto il grande interesse dei professionisti del cinema cechi. Provai un enorme sollievo, il mio senso di colpa si dissolse, ma si presentò una nuova questione. Un nuovo dilemma. Se quel ladro di Kera e Amela avevano ragione, dovevo vedere Maja il fine settimana successivo. Se davvero mi amava, sarebbe stato un errore non farmi vedere. Avevo sentito che era in montagna sulla Jahorina, circondata da vari tipi loschi. Mi interessava che vedesse che non ero interessato a lei. Il figlio di Beba Selimović, la più famosa cantante di musica popolare, si esercitava a puntarla... E no, mio caro, così non va... Allora, salto la proiezione di venerdì, ma niente scherzi, mi prenoto sicuramente per quella di lunedì. Venerdì, esattamente alle due, partì da Praga il treno per Sarajevo. Salii al volo su una carrozza bulgara e decisi che con i soldi guadagnati rivendendo i dischi dei Weather Report avrei pagato una cuccetta fino a Belgrado. Era vero che il denaro era destinato a finanziare il mio film d’esame Guernica, ma l’importante era arrivare riposato a Sarajevo. Avrei fatto lo stesso al ritorno. Più esattamente, avrei fatto di tutto, al ritorno, per essere fresco e riuscire a vedere Amarcord di Federico Fellini. Disteso nella striminzita cuccetta del vagone bulgaro, nel quale si mescolavano odore di sugna per carri e profumi dozzinali, leggevo i testi delle lezioni di regia, il cui autore era il professor Otakar Vávra. Cullato dallo strepito monotono delle ruote sprofondai nel sonno. Una brusca frenata mi svegliò alcune ore dopo. Il treno era fermo in qualche luogo sperduto, e io mi alzai, con il cuore che mi batteva forte. Devo aver sognato qualcosa, pensai, mentre all’inguine avvertivo un improvviso forte prurito. Da quel momento non smisi più di grattarmi fino a Sarajevo. Mi prudeva in tutto il corpo. Non facevo che andare nella lurida toilette del vagone a spruzzarmi d’acqua, per farmi passare il nervoso di aver sperperato i soldi senza poter dormire, e di essermi, a quanto pareva, beccato la scabbia. Non ce la facevo più e denunciai il fatto a un bulgaro baffuto: “Baffone, detto fra noi, il tuo treno è rognoso, mi sono preso la scabbia, mi prude dappertutto”. Lui mi disse: “Fratellino, vedi che io il treno lo tengo pulito e igienico al cento per cento,” e vaporizzò uno spray che ancora una volta riempì l’aria di un profumo a buon mercato, sgradevolmente misto a odore di grasso. “E tu, chissà che puttane ti sei portato a letto, caro il mio fratellino, e ti sei beccato le piattole, ha, ha...” “Le piattole prudono solo in un posto!” Arrivato a casa constatai di avere ponfi su tutto il corpo. Li feci vedere a Senka, e lei mi disse: “Ti sei preso la rogna, caro il mio Emir, una classica rogna, non può essere altro!”. Si procurò subito una pomata gialla. Mi unsi tutto, da capo a piedi, e lei disse: “Passerà, ti devi solo ungere regolarmente, non è niente, ma è noioso”. Coperto fino al collo di pomata gialla, andai subito sulla Jahorina. Mio padre mi aveva dato la sua Volkswagen. Guidava Zoka Bilan, e con noi c’erano Haris, Paša e Zlaja Mulabdić. All’Hotel Jahorina Maja non c’era. Un po’ brilli andammo al Mladost dove, a quanto si diceva, erano seduti a bere Maja e il piccolo Selimović. Non c’erano neppure al Mladost. Ci ubriacammo da uomini e a un tratto mi fece piacere non averli incontrati. Infatti avremmo dovuto condurre colloqui da ubriachi. Già allora avevo perfezionato una tecnica di autoascolto. Poiché non ero molto sbronzo, mi era venuto in mente fino a che punto potessi essere fastidioso in quello stato e quante volte fossi in grado di ripetere sempre la
stessa cosa. E tuttavia questo non era in linea con i miei veri desideri, perché l’alcol aveva avuto il sopravvento, mentre la sobrietà mi consegnava al campo opposto, facendomi capire che, evidentemente, non c’era alcuna possibilità di un diverso esito di quella serata. Là dove non arrivò la sobrietà, riuscì a farlo la paura. Scivolai sulla discesa davanti al Mladost e nella caduta mi afferrai alla cravatta del cameriere che ci aveva servito ed era uscito nel cortile dell’albergo per accompagnarci e augurarci buon viaggio. Uno ti offre una mano per aiutarti e tu lo prendi per la cravatta. Chissà che cosa avrà pensato in quel momento. I miei mocassini slittavano sul ghiaccio. In un attimo mi ero trasformato in uno pneumatico che girava vorticosamente per fare presa sul terreno solido sfuggendo al tratto ghiacciato. Quel cameriere dimostrò un’incredibile presenza di spirito. Riuscì a sciogliersi la cravatta e io scivolai all’indietro giù per la discesa finendo nella neve. Quando mi raddrizzai, attorno a me non c’era nessuno, né si vedeva più l’hotel. Mi girai e subito caddi di nuovo, rotolai per la ripida china, ma ogni volta che mi rialzavo vedevo la neve che mi arrivava alla vita. Emanavo vapore per la grande differenza di temperatura. Non si vedeva niente e non si udivano suoni. La neve mi raffreddava la testa in fiamme e il sangue bollente per l’alcol, e mi sentivo bene. Scoppiai a ridere per il benessere creato da quel raffreddamento, ma ben presto desiderai di potermi riscaldare. Quella prospettiva piacevole e un po’ di paura mi portarono fino all’Hotel Jahorina. Là Njego mi disse: “Si è perso Zlaja Mulabdić!”. “Come, dove?” “Non lo so, vecchio mio, io badavo solo a salvarmi il culo da questo freddo. Madre mia, come vive quella gente in Siberia?” Era davvero quella la fine del weekend? Perdere un amico nel tentativo fallito di incontrare la donna a cui tenevo? Come se non bastasse, il tutto si sarebbe inserito bene in una storia contemporanea; era un vero intreccio paradossale, dal quale si sarebbe potuto sviluppare tutto ciò che costituisce un dramma moderno. Era un buon materiale. Una grande occasione per scoprire prodigi e stranezze di ogni genere, e destini umani. Zoran Bilan si era addormentato, e non so perché dissi: “Non raccontate niente a Zoran, loro due sono amici per la pelle. Andrà a cercarlo e magari per disgrazia si perderà anche lui!”. Man mano che la notte si avvicinava all’alba, ero sempre più sicuro di una tragica conclusione del fine settimana. L’alcol aveva cominciato a evaporare dal mio sangue e un vago senso di depressione mi rendeva pessimista. Poi all’improvviso i fatti presero un’altra piega. Alla reception dell’albergo si presentò Zlaja Mulabdić, venuto in compagnia di due operai della funivia. Batteva i denti e disse: “Ehi, gente, che volete che sia, l’importante è essere fuori di testa”. In realtà voleva dire l’opposto, ma il pensiero gli si era congelato. Felice che Zlaja fosse vivo, svegliai Zoran Bilan e gli dissi: “Zlaja è tornato!”. “Chi è tornato, dov’era?” “Dormi, va tutto bene!” aggiunsi, tutto contento. Il weekend non era finito tragicamente, ma era venuta a mancare la fine paradossale dei drammi contemporanei, dove le persone vivono una vita normale e le cose anormali succedono, per lo più, durante il fine settimana. Quando partimmo per Sarajevo pensai di nuovo a Maja. Mi dispiaceva non aver avuto l’occasione di dire al figlio di Beba Selimović: “Ehi, ciccione, bada che non ti trasformi in un barile da portar via!”. Ancora scabbioso, ma anche stordito dai postumi della sbornia, presi l’aereo mattutino per Belgrado. Il pomeriggio alle tre partiva il treno da Belgrado per Praga, via Zagabria e
Budapest. Appena salito sul treno, quello stesso baffone, il bulgaro, mi riconobbe: “Fratellino, ti do una cuccetta per tredici marchi?”. “Ti prenderai tredici marchi se solo non mi prendo più la rogna!” In verità, più che altro volevo risparmiare almeno un po’ di soldi per il film d’esame, perché non mi pareva logico che si potesse riprendere la scabbia sopra la scabbia precedente, e, sorprendentemente, viaggiando nello scompartimento vuoto di seconda classe, lessi. La pomata di Senka aveva bloccato il prurito e i vari ponfi si erano asciugati. Non mi dava fastidio il fatto di non poter dormire. Mi preparai per le lezioni di Vávra, scrissi una nuova versione della sceneggiatura per Guernica. Con uno stridore di freni il treno entrò a Hlavní nádraží. Corsi alla Casa dello studente, aspettando orgoglioso e impaziente la proiezione di Amarcord. Avevo perso le ore di estetica con il professor Ferbar. Alla lezione di storia della letteratura del dottor Ciganek il sonno cominciò a conquistarmi, ma intimai deciso a me stesso di non dormire. Uscii e passeggiando lungo la Moldava mi chiesi se Smetana avesse guardato il fiume mentre creava l’opera Má vlast. Ti fai di nuovo domande stupide. Certo che non avrà guardato tutto il tempo quell’acquaccia per creare una grande opera. Mi stava venendo di nuovo sonno, adesso che ero in piedi. Mi avviai in fretta alla proiezione. In sala la folla aspettava con ansia l’inizio del grande film. La luce si spense, partirono le inquadrature iniziali, vedemmo le immagini di Rimini. Era primavera e i gattici svolazzavano davanti all’obiettivo, che esposizione spettacolare costruisce Fellini, pensai, apparve il barbone, disse: “La primavera”, e io mi addormentai!... Dormii e quando partirono i titoli di coda mi svegliai. Che cosa mi succede, è mai possibile? pensai. Ho di nuovo dormito per tutto il film. Questa è una disfunzione, o un sortilegio. Di nuovo gli sguardi di disprezzo degli altri studenti. Che ci devo fare, sto diventando un caso psichiatrico. Mi confidai con un compagno, un ceco, e lui non capiva affatto perché ne facessi un dramma. “Non ci vedo niente di strano, è molto semplice, non puoi avere la botte piena e la moglie ubriaca, sei stanco del viaggio. La copia del film rimarrà qui ancora per un po’ di tempo” mi disse Jan Kubišta, un compagno di classe. Per quale motivo dovevo vivere tutto questo come una vergogna? Non avevo visto un grande film e allora? Ma il peggio fu quando mi raccontarono il film. Quando venni a sapere quali meraviglie avesse offerto Fellini, mi avvilii dicendo a me stesso: “Tu, asinaccio stupido che non sei altro, tu non meriti niente di meglio dell’essere guardato dagli altri studenti come l’ultima delle merde”. Tuttavia, ero sicuro che nel corso della proiezione, da qualche parte nei magazzini segreti del mio cervello, si fosse verificata una fusione. Qualcosa era avvenuto fra me e quel film. Così, desolato, il lunedì sera mi stavo struggendo nella birreria Da Supek, mescolando birra e rum, e il mattino dopo dovevo partecipare a uno stage. In base al regolamento scolastico ero stato designato per fare l’assistente di Ljuba Velecka, regista dell’ultimo anno, per il suo film di diploma. Quello è un incarico in cui si impara qualcosa. Comunque, assomiglia soprattutto a un addestramento. L’assistente in realtà è un apprendista che passa per tutti i gradi della servitù e se il testo tiene impara anche molte cose, e inoltre può contare sul fatto che un giorno anche lui avrà un assistente. Tutto sarebbe stato così profano se là, alle riprese, non avessi scorto Ágnes. E ciò mi fece di nuovo venire in mente qualcosa di sacrale. Ágnes era l’attrice principale, ma a parte questo era una studentessa di design di Bratislava, venuta a Praga a fare l’attrice. Quella ragazzina sembrava caduta giù dai quadri di Vermeer. Lo sguardo di gazzella di Ágnes fece sì che la conversazione con lei, in una pausa delle
riprese, fosse più di una conversazione. Le donne amano chiacchierare e penso che spesso, quando gli uomini si chiedono perché qualche rappresentante del genere maschile abbia successo, a parte gli elementi mistici che legano uomini e donne, penso, dicevo, che in quella battaglia l’elemento decisivo sia un buono eloquio. Più sei in grado di parlare di cose senza senso, facendo però in modo che sembrino estremamente importanti, più possibilità di riuscita hai. Ma non devi stancarti, devi solo chiacchierare e chiacchierare e far finta che ogni sciocchezza ti riguardi e aspettare che lei finisca di cuocersi. Il successo, alla fine, è inevitabile. Ágnes dormiva nella stessa Casa dello studente, a Hradební kolej n. 2, un piano sopra di me, in camera con Ljuba Velecka. La vidi passare mentre andava a dormire e mi augurò: “Dobrou noc”. Quella notte sprofondai nel sonno riscaldato da quella “Buona notte”. La mattina mi svegliai e sopra la mia testa, sul comò, mi aspettavano un chifel caldo e una bottiglietta di latte. Pareva che qualcuno avesse messo un altoforno per la fusione dell’acciaio nella fredda stanza studentesca. La temperatura della stanza aveva subìto una variazione drammatica. Le riprese si svolsero fra sguardi di gratitudine, ma anche di una strana tenerezza. La storia con Maja sparì nel dimenticatoio. Mi scaldava lo sguardo dell’ungherese Ágnes. Ogni mattina mi svegliavo con il chifel e il latte sopra la testa. Quel giovedì Ágnes doveva andare a Bratislava e io, malgrado l’innamoramento, pensai: finalmente vedrò Amarcord come Dio comanda. Venerdì alle due avrei finalmente avuto il mio incontro con il grande autore e il suo film. Ma a cena alla mensa studentesca, mercoledì sera, Ágnes mi guardò timidamente e, anche se fra noi due non era successo niente – baci zero, di dormire insieme non parliamo neanche –, sentii che voleva comunicarmi qualcosa di molto importante. “Sai,” mi disse, “tu mi piaci.” “E tu a me.” “Se vuoi, questo fine settimana possiamo andare da me in Slovacchia. Voglio mostrarti che aspetto ha un villaggio ungherese!” “Ma devo andare così lontano per poterti baciare?” e lei arrossì. “Io preferirei guardare Amarcord, mi è scappato già due volte.” “Se non vuoi, andremo un’altra volta.” “No, ho voglia, ma...” Pensai: anche questo weekend passa senza Fellini, ma poi mi ricordai che Amarcord sarebbe stato lì anche lunedì. Cambiai subito idea: “D’accordo. Sono contento di vedere un villaggio ungherese. Chissà quando mai avrò un’altra occasione, e il film non mi scapperà, non è un uccello!”. Salimmo in treno e tutto sembrava una sorprendente storia d’amore. Ero stato a lungo da solo, e quel chifel sopra la mia testa mi aveva sfinito. E un’altra cosa: non c’erano state chiacchiere, né alcuna necessità di dire stupidaggini. Solo una volta, mentre eravamo in viaggio, mi chiesi se il piccolo Vasiljević continuava a portare le paste quando a Maja veniva voglia di mangiare un dolce. A Bratislava Ágnes e io arrivammo abbracciati, e alla stazione ci aspettava suo fratello che lei mi presentò con orgoglio. “Miklós” disse lui, e subito comunicò qualcosa a sua sorella in modo molto adirato. Io ero a disagio, e le domandai: “Ho forse fatto qualcosa di male?”. “Niente, va tutto bene, mi ha solo raccontato che un poliziotto gli ha chiesto i documenti perché aveva parcheggiato in divieto, e poi gli ha detto che solo noi ungheresi facciamo delle porcate agli slovacchi, e che siamo peggio degli zingari.” Arrivammo in paese turbati dal diverbio fra Miklós e il poliziotto. Il padre di Ágnes,
Zoltán, apparve sulla porta rosso in viso, brillo, calmo come l’oceano; mi strinse la mano e disse: “Benvenuto in un’onesta casa ungherese!”. Lo ringraziai dell’ospitalità, in ceco, e lui perse subito l’entusiasmo iniziale. Mi disse: “Tu, non parli ungherese, no?”. “No” dissi. “Come mai?” Ágnes si intromise: “Dai, papà, ma come può parlare ungherese?”. “Non so perché, ma io pensavo che il tuo ragazzo dovesse parlare ungherese!” Ci sedemmo a tavola, e poi papà Zoltán recitò una poesia in ungherese, e Ágnes disse: “È proprio un peccato che tu non possa capire questa poesia, è davvero meravigliosa”. Poi Ágnes, Zoltán e Miklós si misero a cantare una canzone popolare ungherese. Non so perché, ma ero in imbarazzo, soprattutto perché negli occhi di Ágnes avevo riconosciuto lo stesso disagio. Zoltán concluse la canzone e iniziò un discorso serio. Ci sedemmo e lui pregò Ágnes di tradurre per me. “Tu sai che sei entrato in un’onesta casa ungherese e se vuoi sposare Ágnes...” “Ma papà, che matrimonio, di che cosa parli?” “Taci, io so tutto, vedo, non sono stupido!” Papà Zoltán aveva deciso fermamente di maritare sua figlia. “Ma papà, non ha senso,” lei scoppiò a piangere e corse in camera sua, e io feci per seguirla. Zoltán mi fermò e mi disse, in slovacco: “La donna piange, e allora?”. “Ma che dice?” chiesi, poiché dall’altra stanza si sentiva che fra le lacrime Ágnes stava anche dicendo qualcosa. “Lei chiede: papà, perché mi guasti l’affare?” Ágnes mi aveva proprio deluso! Come può una donna, a qualsiasi proposito, definire il rapporto con un uomo un “affare”, se non è una prostituta? Perfino se ha usato male la parola. Forse le era sfuggita? È difficile che una cosa del genere sfugga. Si trattava, senza dubbio, di una strategia, e questo si vide subito dopo dal comportamento del padre. “Invece, adesso noi due dobbiamo metterci d’accordo da uomini.” Io ero in difficoltà perché mi parlava in slovacco, sillabava le parole e beveva. Io annuivo a tutto ciò che diceva quella sera. C’erano mille motivi perché tutto fosse com’era, gli era morta la moglie, era solo coi figli... Trascorsi nella disperazione il resto della notte, perché quell’uomo non mi lasciò respirare un minuto. Un alcolizzato grave. Intanto Ágnes si angosciava in camera sua e sapeva che il nostro amore era fallito fin dall’inizio. All’alba mi accompagnò in silenzio fuori di casa. Non sembrava più quella nobile creatura che lasciava i chifel appena sfornati sul comò sopra la testa di uno studente solitario. Non era una differenza di aspetto, con o senza trucco. Dal suo viso era scomparsa la luce. Mi stringeva la mano del tutto consapevole della piega presa dalla notte appena trascorsa. “Sai, mio padre non è così male come sembra.” “Lo so” dissi, e andai in stazione. Quando arrivai a Praga non mi sentivo molto stanco. Ero più che altro deluso per la spiacevole esperienza nel villaggio ungherese, e mi dispiaceva per Ágnes. Perché avevo rinunciato così facilmente al suo dolce sguardo? Forse su quello sviluppo della storia d’amore con Ágnes aveva influito un motivo più forte? Era successo perché non avrei dovuto perdere l’occasione, ancora una volta, di vedere Amarcord? Arrivai un po’ in anticipo al Club dell’Accademia e attesi la proiezione. Si avvicinava,
finalmente, l’incontro con quel film. Sbadigliai alcune volte. Niente di terribile, pensai, tutti, quando sono stanchi, sbadigliano. La sala si riempiva, oltre agli studenti c’erano anche molti lavoratori del cinema, ansiosi di vedere il grande film. Quando doveva cominciare la proiezione di Amarcord, sulla scena apparve il nostro professore Antonín Brousil, l’uomo che era riuscito, attraverso la cortina di ferro, a far arrivare a Praga, all’Accademia, tutti i film famosi. Salutò i presenti e disse che a causa dell’enorme interesse suscitato, il capolavoro era rimasto a Praga tre settimane e che Fellini era lo Shakespeare del nostro tempo. A me si chiudevano le palpebre, ma mi riscossi. Mi addormentai durante il discorso del professore, ma alla fine, ecco, lui aveva detto ciò che doveva. Applauso, il sipario si aprì, lo schermo biancheggiò, la luce si andava spegnendo. Buio, iniziò il film. Che esposizione fantastica, pensai, Rimini attraverso l’obiettivo di Giuseppe Rotunno, i gattici primaverili collegavano le inquadrature, apparve quel barbone, saltò, afferrò i gattici e disse: “La primavera...”, e io mi addormentai... Dormii, mi svegliai, scomparvero i titoli di coda! Ma è mai possibile, mi chiesi, sarò normale? Non c’erano più quegli studenti che mi disprezzavano. In compenso c’era un lavoratore del cinema che dopo aver gentilmente scostato la mia gamba dalle sue ginocchia se n’era andato. Ormai era chiaro che il mio era un caso psichiatrico! La domenica trascorse nella depressione. Ero triste per il fallimento del fine settimana in Slovacchia e per l’ormai patologica ineluttabilità dell’addormentamento durante la proiezione di quel capolavoro. All’improvviso, dalla portineria della Casa dello studente mi avvertirono che mi cercava un certo Kera di Sarajevo. Stava tornando da Berlino, ben rifornito come da copione. Si era fatto vivo, e mi disse: “Vecchio mio, sono pieno di grana, torno dal viaggio, mai stato così ben equipaggiato, ti porto a cena, ma a una condizione”. “Quale?” “Devi scegliere il ristorante più caro!” Quando ci sedemmo da Dubone, il ristorante più lussuoso della zona, Kera esibì subito quel che aveva imparato nel gran mondo. Rimandava indietro i camerieri, come disse lui stesso, per insegnar loro l’ordine. Uno sbarbatello ci servì il cognac, e Kera disse: “Spiega a questo contadinotto che il cognac si serve riscaldato e che mi deve portare un chicco di caffè tostato”. Tradussi in ceco al cameriere le pretese di Kera, riflettendo che il narcisismo è veramente insopportabile, non importa se si tratta di un nazionalista ungherese che vuole sbarazzarsi della figlia, o di un ladro di Sarajevo. “Come mai così assorto, fratello? Dove sei, che ti succede?” “Niente, torno da Bratislava, ho deciso di sposarmi.” Non so perché gli dissi che mi sarei sposato, probabilmente con l’intento di interrompere la sua stupida lezione di bon ton e liberare i camerieri da quella tortura, portando l’attenzione di Kera su un argomento più interessante. Non è che amassi i camerieri in modo particolare, ma non sopportavo quell’esibizione. Mi venivano i sudori freddi a sentire uno di Vratnik che teneva banco sulle buone maniere a dei praghesi. Mi vergognavo! “Ti sposi? Congratulazioni! Con Maja? Ma che gli avversari crepino di rabbia!” “Ma quale Maja! Ho trovato un’ungherese, che mi frega!” “Non dirmi niente, lo so, le ungheresi sono le pollastre migliori.” Quella sera Kera prese una sbronza con tutti i crismi, lasciò mance di cento marchi l’una ai camerieri e fece la corte alle cameriere agitando un pacchetto di soldi sotto i loro nasi.
“Ottima la tua storia con l’ungherese, peccato però che quel gioiello cada in mano a qualche covone. Ma non importa. Quando torno a Sarajevo metterò in giro la notizia che ti sposi con un’ungherese, che gli avversari crepino di rabbia” disse alla fine, completamente sbronzo, Kera il ladro; e l’indomani andò a Sarajevo. Tre giorni dopo la partenza di Kera mi telefonò Amela Aganović e mi chiese: “Ma è vero quello che sento in giro?”. “Cosa hai sentito?” “Ma insomma, dicono che ti sposi!” “Sai Amela, prima o poi un uomo si deve sposare, e forse è meglio che faccende del genere le sbrighi al più presto!” “Tu mi stai prendendo per i fondelli, ma Maja a una cosa così non sopravviverà.” “Ma che c’entra Maja, sai quand’è l’ultima volta che ho visto quella donna?” Già l’indomani Amela mi richiamò e mi disse: “Sapessi, Maja ne fa una malattia, da non crederci. Piange a dirotto”. E intanto io mi davo arie citando una novella di Pirandello che stavo preparando per una drammatizzazione: “Una donna deve versare acqua, e la versa dagli occhi, passerà, non ha importanza”. Credevo che mi amasse ancora e nascondevo i miei sentimenti come Dirk Bogarde nel film Il servo: “Ecco, salutala, comunque noi due siamo legati da bei ricordi”. Quando alla fine dell’inverno andai a Berlino Ovest per affari, ossia a comprare dei dischi dietro commissione di ragazzi cechi che non potevano attraversare la frontiera, vidi nel metrò della zona Ovest un manifesto di Amarcord. Entrai in città e mi fermai davanti al piccolo cinema nel quale si dava quel grande film. Dovevo entrare o no? E se mi fossi addormentato di nuovo? Non andai a vedere Fellini. Per non fare un’altra brutta figura. Comprai i dischi, per lo più di jazz-rock. A Praga ci avrei guadagnato un po’ sopra e avrei così arrotondato il budget per girare il mio film studentesco. Viaggiando in treno da Berlino a Praga non facevo che chiedermi quando sarebbero arrivati tempi migliori e quando avrei, infine, guardato quel grande film. In primavera arrivò la fine dell’anno scolastico, passai a pieni voti, davanti a me avevo tutta l’estate. Le più belle vacanze estive le avevo trascorse durante gli studi superiori, e il culmine della gioia era per me rappresentato dal campeggio sull’Isola di Mljet. Là Zoran Bilan, Zlaja Mulabdić e io eravamo dei re. Arrivavamo sbronzi da Dubrovnik, come le giovani scimmie che si inebriano con il succo fermentato della noce di cocco. Nello stesso stato tornavamo a Sarajevo, poco prima della fine dell’estate. Mentre aprivamo la tenda nel campeggio, il poliziotto locale ricevette un nostro messaggio: “Vecchio mio,” gli dissi, “se qualcuno osa toccarti, diccelo liberamente, non avrai problemi”. Il poliziotto all’inizio pensò che lo prendessimo in giro. Poi prese sul serio il mio messaggio, e questo si vide da come guardava noi, che eravamo dei giovani giganti. Essendo l’unico sorvegliante dell’isola, capì ben presto che un’alleanza con noi era una cosa importante. Se ci fossero stati dei problemi, avrebbe rischiato di prenderle sul serio prima che arrivasse un rinforzo dalla polizia di Dubrovnik. Invece, godendo della nostra protezione, nessuno poteva neppure guardarlo storto, altrimenti avrebbe avuto a che fare con noi, e questo non era consigliabile, lo sapevano tutti! Appena mi svegliai, Zlaja mi diede una bella notizia: “La tua Maja è arrivata sull’isola”. Oh-oh, pensai, e dissi a voce alta: “E che mi importa?”.
“È caduta dalla bici e si è fatta proprio male, si è graffiata le sue belle gambe. Vai a cercare della piantaggine, è l’erba giusta per quelle ferite!” E io recitavo la parte del teppista insolente: “Credo che le metterò la piantaggine sul culetto”. Aspettai che Zlaja andasse in bagno, arrivai alla strada e quando vidi che lui non mi stava osservando mi precipitai con la velocità di uno scattista verso la piazza. Arrivai al lago grande e ordinai un caffè. Una barca attraccò all’imbarcadero improvvisato e scorsi Maja che scendeva a terra sorretta da un tizio. Era il figlio del padrone della casa in cui alloggiavano Maja e i suoi genitori... Si vedeva subito che quello era un babbeo dalmata e quindi mi sforzai di assumere l’aria di uomo maturo. Feci di tutto per non apparire emozionato. Non ci vedevamo da un anno e mezzo. Mi prese la paura che si ripetesse la serata muta del bar dell’Hotel Beograd. Poi mi venne un’idea brillante. Cominciai a parlare del futuro. Nella lotta fra l’uomo e l’erzegovese prevalse l’erzegovese. Questa volta un erzegovese con il cuore. “A te occorre un uomo serio, un intellettuale. La combinazione migliore è un intellettuale, ma sfacciato. Se trovi un uomo che può offrirti solo una cosa, e che è solo intelligente, durerà poco, ti stuferai subito, ma se quel tale è solo l’altra cosa, un primitivo sfacciato che ti offre sicurezza, ne avrai ben presto fin sopra i capelli della sua rozzezza. Scapperai.” “Cioè, a me serve uno come Dillinger che è laureato in filosofia?” “Non proprio quel calibro, ma ci sei vicina.” Ridemmo entrambi. E io capii che, a un tratto, anch’io chiacchieravo. E tuttavia pensai che un uomo quando matura parla in modo logico, probabilmente perché nel frattempo ha imparato qualcosa. Non è più un ragazzino nel quale i pensieri sciamano in disordine e non sa esporli; nell’adolescenza è meglio tacere e non rischiare, fingersi più intelligenti senza aprire bocca. Del resto non è detto che valga la pena dire solo cose intelligenti. Decisi di insistere con degli esempi presi dalla vita comune. “Non so se hai sentito come Paša ha chiesto in moglie la sua Cuna. Ha detto: ‘Meglio se sposi me piuttosto che uno studiato. Sposi lui e poi dopo tre mesi mi chiederai di essere il tuo amante. Invece in questo modo è più economico. Io posso farti sia da marito che da amante’.” Non sapevo neppure, mentre le raccontavo tutto questo, che in modo indiretto stavo suggerendo a Maja che ero proprio io l’uomo di cui si parlava, e che parole così una donna le può prendere come una domanda di matrimonio. Quell’autunno al cinema Romanija arrivò Amarcord. Era l’epoca d’oro dei grandi autori. Maja mi comunicò entusiasta: “Sai che arriva Amarcord di Fellini, l’hai visto?”. Che cosa dovevo dirle? La verità non potevo dirla, per nulla al mondo. Come poteva uno studente di regia confessare di aver dormito tre volte di fronte al grande film? Se però avessi detto che non l’avevo visto, sarebbe stato uno scandalo anche maggiore. È lo stesso di quando a uno studente di pittura chiedi: hai visto Michelangelo? e quello risponde: no. Me la cavai per un pelo: “È un film che si può vedere cento volte”. “E allora portami a vederlo!” Eravamo seduti nel più bel cinema di Sarajevo. Il sipario si apre. Partono le prime inquadrature, svolazzano i gattici, sfilano le immagini di Rimini; è incredibile come quel Fellini costruisca un’esposizione perfetta. Il vecchio lupo usa i gattici come collegamento fra le immagini di Rimini. Complimenti davvero! Appare quel barbone e dice: “La primavera”, e io... ma è un vero miracolo, non mi addormento! Poi una donna stende la
biancheria su un filo. Arriva l’avvocato che parla in macchina, i ragazzacci locali lanciano battute alla Gradisca, e la mia felicità non ha fine. Guardavo il film, tenevo Maja per mano come fossimo stati in aereo, ed ero perduto nell’ammirazione per il film, sinceramente. Amarcord è stato per i miei film ciò che per l’universo è stato il big bang. Le immagini e le idee di quel film sono divenuti il bacino che ha alimentato tutti i miei corsi d’acqua cinematografici. Dopo quel film tutto ciò che è avvenuto nella mia vita professionale è stato misurato su quel metro. Gli avvenimenti importanti della mia esistenza hanno avuto un rialzo evidente alla borsa della vita... mia madre, mio padre, la casa, gli amici, il ponte, l’albero, tutto quello che si era attaccato alla rinfusa alla mia anima. Filari di alberi, paesaggi collinari, culi femminili, biciclette, sommità di chiese, ponti, treni, autobus... tutto ciò che non amavo nella vita: cravatte, grattacieli, fornelli, scuole, istituzioni sanitarie, tutto ciò che sentivo avere un valore: nobiltà, coraggio, storia, musica, ora lo scoprii di nuovo. Il mio film di diploma si chiamava Guernica e non somigliava ad Amarcord, ma attraverso un ponte invisibile era collegato a quel film, così come la gente a passeggio va liberamente da una all’altra sponda del fiume. Attraverso quel ponte passavano le idee e annullavano la differenza nell’esperienza del mondo che agiva separatamente fra le montagne bosniache e sulle sponde del Mediterraneo... La mia Guernica copiava la regola di Amarcord, che l’uomo deve essere filmato nello spazio, che un viso non si deve separare dall’ambiente. Quello sguardo è nato dall’esperienza della visione di quel film per più di dieci volte. Quando mostrai il mio film di diploma al professor Otakar Vávra, lui disse: “Questo è un film serio. Per questo genere di lavori possiamo dire che vale la pena insegnare la regia agli studenti” e io pensai “Grazie, Federico!”.
IL DEFUNTO ERA UN GRANDE NEMICO DELL’ALCOL Nel millenovecentosettantotto nacque mio figlio Stribor. Lo stesso anno mi diplomai a Praga, e dall’ordine del giorno della mia vita scomparve il timore che sarei divenuto un tipico protagonista della letteratura sociale dell’inizio del ventesimo secolo. In quei romanzi i miei colleghi, i provinciali, cadevano bocconi nelle grandi città. Quel gradino, nel mio caso, fu saltato con successo. A dispetto dei commenti del professor Zeman su registi intelligenti e padri stupidi, film e bambini, per me era oltremodo importante aver avuto un erede. Un neonato, come nel film 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Un bambino come felicità cosmica, ma proveniente dal calore del ventre materno e senza l’idea del gelo che pervade l’universo di Kubrick. Il ritorno nella città natale non fu triste come la partenza da Sarajevo. Come organizzare le nozze? Non era facile rispondere a questa domanda, così come non era del tutto chiaro a quale classe sociale appartenessimo. Già allora, giovani coppie – certo un fenomeno raro, eppur interessante – si sposavano alla sola presenza dei testimoni e dopo la registrazione in Comune sostituivano il banchetto nuziale con un modesto pranzo. Quando parlammo ai genitori di un matrimonio così, cominciarono subito a protestare: “Visto che vi sposate, che Dio vi aiuti, almeno fate un matrimonio come si deve!”. Io mi immaginavo un matrimonio come un cortometraggio. Allegro, ma elegante, come nei film di Jean Renoir? Purtroppo, era un’idea irrealizzabile. Le nostre famiglie non avevano la mentalità rurale. A causa degli amici e della parentela, ma anche del clima generale, era difficile sfuggire alla cultura del cattivo gusto nella quale, alla fine, andavano tutti a cadere. Compravano sì i dischi dei Bijelo dugme, apprezzavano il rock’n’roll pastorale, ma in tasca e in borsa si portavano dietro cassette che costituivano la riserva della loro reale appartenenza culturologica. Preferivano di gran lunga ascoltare la musica primitiva nata nel turbine di influssi orientali, mediterranei e angloamericani. Si trattava di melodie e di testi che, alla fine, non erano né l’una, né l’altra, né la terza cosa. Quella cosiddetta musica turbofolk mi ricordava gli asciugamani degli hotel rumeni dell’epoca di Ceausescu, che si disintegravano al contatto col viso bagnato e che si potevano descrivere con una sola parola: porcheria! Lo stesso valeva per quella musica. Era ed è rimasta una porcheria che, purtroppo, aveva a che fare con i sentimenti della maggior parte degli abitanti della Repubblica socialista federativa di Jugoslavia! Il primo passo verso le nozze fu la conoscenza reciproca dei nostri genitori. Dovevano farsi visita a vicenda, come due piccole delegazioni statali. Murat propose immediatamente: “Che vengano da noi, preparerò io la cena, sarà indimenticabile!”. Naturalmente, a ragione, Mišo Mandić si stupì: “La regola vuole che i Kusturica facciano prima visita a noi. Chi è che chiede la mano?”. Quando arrivò in via Marcel Šnajder 8, Murat giocò la carta dell’originalità. Chiese subito di vedere quante stanze c’erano nell’appartamento! Lela Kušec, la madre di Maja, lo guardò allibita e solo un fatto impedì alla dottoressa di reagire con violenza a tale scorrettezza: rimase interdetta davanti a un uomo che mostrava un’assenza di tatto maggiore di quella che intendeva mostrare lei. Per questo guardò in silenzio sua figlia Maja che, obbediente, ma anche con simpatia, faceva vedere a Murat tutte le stanze dell’appartamento. Io volevo sprofondare. Mio padre mi guardò, e per l’ennesima volta mi chiese in un sussurro: “E allora, che cos’è che non va adesso, dove ho sbagliato?”.
Mio padre era convinto, con questo esperimento shock, di fare un complimento ai padroni di casa e desiderava dimostrare pubblicamente quanto fosse felice che suo figlio prendesse una sposa di buona famiglia. “Complimenti, veramente. Questo, Emir, è uno standard molto alto di abitazione, non solo per Sarajevo, ma per tutta la Bosnia ed Erzegovina” disse Murat, e Maja con un sorriso allentò la tensione. Senka e io eravamo imbarazzati, mentre Mišo guardava con simpatia all’attivismo dell’amico, che immaginava come un estemporaneo controllore della Società edilizia di Sarajevo. I genitori scoprirono presto di conoscersi già da prima. I vecchi conoscenti Mišo e Senka si scambiarono finalmente le prime parole. Fu subito notata la somiglianza fra Senka e suo fratello Akif, e Mišo chiese: “Allora, Senka, tuo fratello è quel misterioso signore che già da vent’anni mi saluta in Baščaršija togliendosi il cappello?”. “Sì” si intromise Murat, e mosse la mano come se girasse una lampadina, indicando in tal modo che il fratello di Senka era un po’ svitato. Poi aggiunse: “Come del resto anche sua sorella!”, al che Senka non fu da meno: “Per fortuna tu sei normale, come è ben noto a ogni cameriere di Sarajevo!”. Murat non nascose il suo entusiasmo per aver trovato nell’amico Mišo un simpatizzante delle sue idee. Lo rallegravano in particolare l’analogo giudizio su Tito e l’identica visione del nostro passato e del nostro futuro. L’acume di mio padre e la sua grande erudizione venivano regolarmente corrette da Mišo con le parole: “E non solo questo...” a cui seguivano lunghe e approfondite spiegazioni, sostenute dalla sua cultura enciclopedica, ma anche dalla sua solidità e responsabilità di giudice. I Kusturica se ne andarono dall’appartamento dei Mandić senza che l’argomento del matrimonio fosse neppure sfiorato. Mentre scendevano via Marcel Šnajder verso la fermata dell’autobus, mia madre e mio padre litigavano alla maniera solita. “Perché neanche stavolta, quando tuo figlio si sposa, si è potuto fare a meno di Tito?” chiedeva Senka. “Ma via, Senka, per amor del cielo, si può fare a meno delle tue critiche una volta nella vita?” chiedeva mio padre. “Senza le mie critiche si potrebbe stare, se solo si potesse, Murat, per amor di Dio, almeno nei momenti importanti, fare a meno della stupida politica!” e Senka scoppiò a piangere, mentre mio padre diceva affettuosamente: “Non sono stato io, Senka, credimi, è stato Mišo a cominciare la storia, ecco, se vuoi torniamo indietro, che ce lo confermi”. Senka continuava a piangere, e mio padre capì che mia madre si era resa conto solo in quel momento che suo figlio si sposava, e che era in procinto di trasferirsi per sempre in un’altra vita. Quando la settimana dopo la visita fu restituita, fin dalla porta Mišo attaccò con un nuovo tema: “Il marxismo raggiunge il suo significato se è governato dall’idea che la storia deve essere domata come il cocchiere dirige i cavalli e la carrozza...?”. Dato che era una questione meno importante della risposta a questo interrogativo, alle donne e ai figli fu lasciato il compito di decidere da soli il modo e il luogo del matrimonio. Non fu facile. Le nostre due famiglie non avevano nulla di tipicamente bosniaco. Mišo era figlio di un banchiere, suo nonno Miloš era stato il primo giornalista della Bosnia, e sua madre era figlia di un panettiere di Visoko. I Kušec e i Domicelj, nonni e nonne di Lela, sloveni e croati, erano venuti con la ferrovia austroungarica, così che Maja rappresentava il felice compendio del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Non è neppure strano che ancor oggi sia favorevole alla monarchia. Grazie a questa atipicità il matrimonio non poteva finire
come l’ennesimo banchetto balcanico con brutta musica, impianto sonoro guasto, invitati delusi che per colpa della sbronza vomitano e poi alla fine si accoltellano... Purtroppo, non fu possibile sfuggire all’originalità delle autorità di Sarajevo: ci toccò un matrimonio collettivo con altre cinque coppie. Durante la cerimonia io cercai di tradurre l’intera faccenda nel linguaggio della commedia. Il funzionario con il viso gonfio che sembrava dormisse nella stanza odorosa di muffa mi chiese con voce da canto corale: “E lei, Emir Kusturica, accetta di prendere in moglie Maja Mandić?”. Non risposi. Silenzio... Si udirono dei sospiri, un rimescolio... Mi girai con espressione interrogativa verso i miei testimoni, Zoran Bilan e Branka Pažin. Il mio sguardo chiedeva: “Compari, che devo fare?”. Loro risero e annuirono, ma io insistevo fingendo di non sapere bene che cosa avrei dovuto dire. La tensione nell’edificio Skenderija raggiunse il culmine e solo allora pronunciai lo storico “SÌ!”. Si udirono dei sospiri di sollievo, ma anche risate. Maja mi gettò uno sguardo di rimprovero, ma, dato che era commossa, non le venne in mente di litigare. Fissava l’abito nuziale macchiato della sposa incinta che era seduta accanto a noi e che teneva per mano lo sposo, che, a sua volta, era un detenuto fatto uscire di prigione per quel giorno. Lo guardavo con particolare comprensione. Dopo il matrimonio lui tornò per alcuni mesi in carcere a scontare la pena, e io partii per Praga per finire i miei studi. Il giorno delle nozze Senka rinunciò alla lotta contro il rapido e facile deterioramento degli oggetti cari e per l’occasione tolse il nylon dal tappeto cinese. Nell’appartamento di due stanze e mezzo si sistemarono un centinaio di persone. Un posto particolare occupava il figlio del bey Edo Hafizadić, venuto da Travnik, che nel lontano quarantuno non era andato a fare il partigiano perché quel giorno gli era venuto il mal di pancia. Murat lo presentò agli ospiti e poi lo portò subito in cucina. “Murat, io guardo Sarajevo e comprendo che voi comunisti avete distrutto tutto questo. Il contadino è stato portato in città, gli è stato detto che Dio non c’è, ed ecco il risultato!” Murat era d’accordo con l’amico. Dopo che gli era stato imposto di non ripetere la storia delle sue nozze con Senka, quando avevano dovuto portarlo fuori a metà matrimonio, mio padre aveva promesso che non avrebbe, come disse lui stesso, “dato neppure una leccatina all’alcol”. Tuttavia, queste conversazioni con Hafizadić erano l’occasione ideale per contravvenire e la cucina aveva sempre rappresentato una scena sociale più attraente del soggiorno. Lì si confidavano più facilmente i segreti, si stringevano accordi, si facevano grandi promesse: le svolte più drammatiche della vita si verificavano proprio in cucina. La maggior parte delle scelte epocali più felici e più tristi era stata fatta sopra l’acquaio con i piatti sporchi. Senka indicava in continuazione con gli occhi la cucina e io andavo a vedere. Mio padre, velocissimo, metteva il bicchiere davanti a quell’Hafizadić. Io sapevo che stava bevendo, ma mi limitai a sussurrargli: “Che non succeda come al tuo matrimonio!”. “Ma neanche per sogno, solo un bicchierino!” “Bada!” Lui capì che parlavo seriamente, per cui si avvilì e sussurrò: “Va bene, bevo solo questo con Edo e poi basta bere, giuro sulla tua testa!”. L’appartamento era affollato di uomini in camicia bianca con la cravatta annodata storta, a seconda della quantità di alcol ingerito. Le loro mogli, abbracciate, dondolandosi a destra e a sinistra, cantavano canzoni di Zdravko Čolič: Il treno per Podlugovi, Aprile a Belgrado. Quando misero su una cassetta con una danza kolo, l’allegria toccò il culmine. Le bosniache strillavano e saltellavano, la casa di via Kate Govorušič 9a si scuoteva. Stipo Bilan, padre del mio compare Zoran, allora presidente del Parlamento della Bosnia ed
Erzegovina, sfruttò la confusione e l’abbandono di Nada Lipa, donna piacente e prosperosa. La pizzicò più volte sul sedere, con tanta più soddisfazione quando sentì che era di Bijeljina. Le donne di quella città erano particolarmente care ai bosniaci perché, si diceva, finivano a letto con molta più facilità delle dure erzegovesi. Questo veniva spiegato col fatto che Bijeljina si trova in una fertile pianura, mentre l’Erzegovina in un aspro terreno carsico dove, a differenza della vallata di Bijeljina, la femminilità è l’unico reale tesoro. La Lipa saltellò fino alla cucina e riferì a suo marito, il dottor Lipa, che il presidente del Parlamento della Bosnia ed Erzegovina le aveva pizzicato il culo! “Ma lascia perdere, per lui è un guadagno, per te niente!” disse il dottore a sua moglie. Lipa curava il cuore di Murat, e mio padre, malgrado la sua solenne promessa, cercava di estorcergli un altro bicchiere: “Ma vaffanculo, dottore, lasciamene bere solo un altro, mio figlio si sposa solo una volta!”. Il dottore si comportava come un Makarenko sanitario: “Volesse Dio che fosse una volta sola, caro il mio Murat, l’uomo è incline alla bigamia, e invece tu lascia quella grappa, ti prego!”. “Allora lasciami bere. Che Dio non voglia che divorzi da Maja, guarda che bella nuora ho, come una bambola!” Nel millenovecentottanta morì Tito e un anno dopo, per il film Ti ricordi di Dolly Bell?, ottenni il Leone d’oro a Venezia. Stribor, che aveva tre anni, si spaventò per la sorte del nostro cane: “Ma come faremo con Piksi, il leone non se lo mangerà?”. I miei amici d’infanzia sentivano di essere parte di quel film; Paša, Haris, Beli e Truman erano felici di riconoscere sul grande schermo le immagini della nostra vita. Njego lavorava come elettricista sui transatlantici, e la vittoria di Dolly Bell lo colse in mezzo all’Oceano Indiano, dove sul suo transistor aveva preso Radio Roma, dato che amava ascoltare le canzoni italiane. All’improvviso sentì alcune volte, al giornale radio, il mio nome e cognome. Dato che la stazione radio non era stabile e il segnale si perdeva, lui scuoteva il transistor in aria, lo girava qua e là, cercando la posizione più adatta per rendere comprensibile la voce dello speaker. Non riusciva a immaginare perché si facesse il mio nome, e pensò: “Quel cretino, che stronzo, deve aver rapinato una banca! E forse, Dio non voglia, ha ammazzato qualcuno?”. Solo quando arrivò al primo porto e ai giornali provò un gran sollievo. Comprese che il suo amico aveva ottenuto un premio importante a Venezia. Il film Ti ricordi di Dolly Bell? fu girato dopo che avevo visto Amarcord, avevo conosciuto Sidran, ma anche perché i tempi avevano concesso quella possibilità. Tito era malato e lo vedevamo in televisione più spesso che mai. Hamza Bakšić, direttore della Televisione di Sarajevo, dormiva in ufficio, su un lettino da campo, per dimostrare quanto soffrisse per la malattia del Maresciallo. In quanto militante del partito di Tito, il progetto di Dolly Bell non gli era piaciuto. La Televisione di Sarajevo coproduceva il film, ma lui non poteva impedirne la realizzazione. Quando il film fu completato, cercò di bloccarne la visione. Mandò un telegramma in tal senso a Vesna Dugonjić, redattrice responsabile della Televisione di Sarajevo. In quel telegramma, secondo la buona vecchia abitudine dei seguaci di Tito, non vietava la proiezione al cinema Tesla, limitandosi a sconsigliarla. In personaggi come Bakšić il film nella sua poeticità trovava in realtà un difensore, ma anche un’autorità come Rato Dugonjić, importantissimo capo comunista bosniaco, per quanto in ombra, e padre di Vesna Dugonjić. Lei considerava il film Ti ricordi di Dolly Bell? come un suo personale successo, mentre l’autorità di suo padre la difendeva dall’anatema politico. Inoltre per Bakšić, così come per altri che volevano difendere Tito dai nuovi tempi, era ormai tardi. Lo humour di Dolly Bell disarmava anche i militanti più appassionati del partito
titino, anche quelli più altolocati di Bakšić. Perfino Muhamed Kreso, longa manus di Hasan Grančanović, segretario del Comitato centrale della Bosnia ed Erzegovina, il Goebbels bosniaco – nomignolo appioppato da mio padre a questo controllore di tutte le imprese artistiche in Bosnia –, aveva accolto bene il film. Ti ricordi di Dolly Bell? presentava la strada come l’unica autentica scena di Sarajevo. Mostrava, come sul palmo di una mano, il dramma intatto e fino ad allora sconosciuto della periferia urbana. Inoltre, per la prima volta, la popolazione sarajevese poteva identificarsi con ciò che vedeva sullo schermo, e gioire dell’immagine ingrandita della propria vita. La gente di Sarajevo era soprattutto felice di sapere che il suo dramma, i ritratti di genitori, sorelle e fratelli, e la situazione esistenziale diventavano comprensibili in tutto il mondo, grazie alla proiezione di quel film. Così, come dopo una tempesta il mare ributta sulla spiaggia oggetti noti, attraverso quel film ecco che il tempo, in virtù di qualche prodigio, esponeva in modo infallibile agli occhi dei cittadini avvenimenti e oggetti illuminati da una luce più penetrante e del tutto nuova. Abdulah Sidran entrò come uno sventurato nell’ambito della mia immagine esistenziale. Nel racconto Il padre è la casa che sta andando in rovina Sidran ha illustrato il suo dramma familiare, dove il protagonista era il padre, un martire di Goli Otok. A causa sua Sidran non era amato nei circoli politici sarajevesi. Ci incontrammo alla mensa aziendale della Radiotelevisione di Sarajevo, dove all’epoca lavoravo. A quel tempo, come molte volte nella sua vita, Sidran concatenava giorni e notti all’insegna dell’alcol e delle avventure notturne. Sidran si distingueva per il suo talento nella scena della mensa, affollata di lavoratori dell’azienda televisiva e impregnata dell’odore di olio fritto. Il talento poetico di Sidran e il suo linguaggio forbito lo facevano sembrare un piccolo aristocratico letterario. Parlava come se dettasse a una dattilografa dialoghi già bell’e fatti per un nuovo racconto. Non c’era mai una virgola in eccesso, figuriamoci parole di troppo. In seguito compresi che lui, in realtà, sembrava che parlasse, invece scriveva mentalmente. In quella lingua mi disse: “Io a scrivere sono migliore di altri, anche di Gordan Mihić, non dubitarne. Ho una sceneggiatura per te!”. Un mese dopo aveva scritto la versione breve della sceneggiatura in cui il protagonista Dino, un adolescente di Sarajevo, viene colto nel momento in cui la vita inizia con lui un gioco importante che metterà in moto i suoi processi spirituali. Sidran aveva abilmente incrociato il dramma familiare, che culmina con la morte del padre, e quello personale del giovane Dino, che si innamora di una giovane contadina, portata in città per essere avviata alla prostituzione a Milano. Erano grandiose le scene della morte di Maho, il padre di Dino, comunista ed esaltato, che se ne va all’altro mondo, mentre il figlio gli legge una notizia del settimanale “Politikin zabavnik” in cui si parla delle possibilità scientifiche della vita eterna. La persuasività autobiografica e la melodicità dei dialoghi di Sidran costituivano la grande forza di quella scena. Arrivai facilmente alla scelta dell’attore che avrebbe dovuto recitare il ruolo del padre: mi ricordai di Slobodan Aligrudić, un montenegrino spettacolare. Non gli ci volle molto per accettare quella parte nel mio primo film. Litigò con la produzione e Olja Vagarić sul compenso, e in seguito anche a proposito di sciocchezze. Fino alla fine delle riprese non volle firmare il contratto. Gli piaceva prendersi gioco delle persone a lui sgradite, soprattutto della produzione del film. Né prima né dopo incontrai mai un uomo tanto affascinante e tanto pronto all’autodistruzione. Fumava cinque pacchetti di Marlboro al giorno, pizzicava il sedere alle attrici durante le riprese, sognava di occuparsi di un lavoro più serio della recitazione, per esempio della coltivazione delle angurie; mentre giravamo punzecchiava l’operatore Vilko Fila con la siringa che fu poi usata nella scena della sua morte...! Aveva una risposta pronta per tutto, anche su difficili questioni esistenziali. Un giorno, mentre aspettavo che Maja e Stribor tornassero da Tripoli, dove
erano andati a trovare la madre di Maja, trasferitasi là per lavorare come medico, gli dissi: “Sento che mi si forma come un calore nella pancia quando penso a loro due. Che cos’è, Alija?”. Mi diede un colpo in testa e disse: “L’amore, stupido!”. Fra le mie sbronze, che erano in genere escursioni sociali e non un’abitudine o una copertura delle mie debolezze, c’erano lunghi periodi di pausa. Dopo la fine delle riprese, le serate con Aligrudić si trasformarono in nottate ebbre nelle quali si risvegliò tutto ciò che credevo di essermi lasciato alle spalle nella prima giovinezza e ai tempi degli studi praghesi: nella mia vita tornarono l’eccentricità, la poesia, l’aggressività intellettuale. Tutto fu nuovamente estratto dalla valigia in cui, dopo la maturità praghese, avevo riposto i miei peccati giovanili. Nelle follie che seguivano quelle sbronze, Alija e io facevamo a gara a chi avrebbe colpito con le zuccate più forti, abbattendole, le grondaie delle case cadenti di Baščaršija. La testa di Alija era dura, anche se a prima vista non si sarebbe detto. Per Aligrudić e me l’ispirazione letteraria erano il padre di Sidran e mio padre, che direttamente dalla vita iniettavano in Dolly Bell ciò che la letteratura non può fare. Murat arricchì la figura del padre di dettagli, come un modello vivente che dimentica il tetto che lascia passare la pioggia e non fa nulla per ripararlo, e invece parla dell’ingiustizia del mondo e crede che il comunismo dominerà ovunque già nell’anno duemila. La coincidenza dei destini dello sceneggiatore e del regista fu un elemento decisivo per la popolarità di questo film. Alla fine, il personaggio principale risultava il padre e non Dino, anche se Slavko Štiman recitò con precisione millimetrica il ruolo del teenager sarajevese. Come tutti i provinciali che dopo un grande successo si lasciano andare, esageravo con l’alcol. Ormai ci provavo gusto e ben presto la cosa divenne pericolosa. Non si trattava tanto di sbronze, quanto del grande desiderio di creare grandi scandali in luoghi pubblici. Mi piaceva in particolare ingiuriare e maledire Tito e lo Stato, in giro per i bar. Tito lo ingiuriavo sottovoce, ma le imprecazioni contro lo Stato le sentivano tutti quelli che si trovavano nei luoghi di questi piccoli incidenti. Una volta, dopo una notte in bianco, Maja telefonò a mio padre e con voce preoccupata lo informò che mancavo da casa dal giorno prima. Gli chiese di sottrarmi le chiavi dell’auto, con la scusa di dover portare Senka a Vrelo Bosne. Mio padre eseguì, ma decise di sacrificarsi anche più di quanto gli si chiedeva. Decise di bere al posto mio. Mi trovò al Passeggio e vide che “mi stavo rimettendo in sesto” con una birra dalla sbronza della notte. Placata la sete, passai all’amaro Vlahov, e invece di brindare mi alzavo in piedi e con il bicchiere levato maledicevo lo Stato, e solo dopo vuotavo il bicchiere. La cameriera Borka all’inizio si limitò a guardarmi torva e a minacciarmi con il dito, nello stile “è proibito parlare così”, lanciando sguardi d’intesa agli altri avventori che ascoltavano quelle parole sconce. Dato che continuavo a imprecare contro lo Stato, cominciò a coprirsi le orecchie con entrambe le mani, per non sentire e non dover poi comunicare le informazioni, là dove doveva, sul modo e il contenuto del disturbo dell’ordine pubblico. Ogni nuovo Vlahov produceva un’altra imprecazione: “Fottuto lo Stato!” dicevo, e mio padre si alzava e aggiungeva: “Del Lichtenstein!” e vuotava subito il bicchiere. Quando vide che mi sarei ubriacato di brutto, accettò volentieri un ulteriore sacrificio. Facendo finta di niente, rubava il mio bicchiere dal vassoio di Borka. Alla fine, mio padre si sbronzò talmente che fui io a caricare lui nell’auto, e non il contrario, come era stato progettato, e a portarlo nel nostro appartamento di Koševo a smaltire la sbornia. Dato che aveva promesso solennemente a Senka che non avrebbe più bevuto, non lo portai da lei ma da Maja. Quando arrivammo, lui non si accorse che la tinteggiatura dell’appartamento
era in fase finale, salutò Maja e corse in bagno. Là, accanto alla porta del gabinetto, era appoggiata al muro del corridoio un’altra porta appena dipinta. Mio padre vi si aggrappò, la porta gli crollò sulla testa, il colpo lo stordì, lui cadde a terra e la porta appena dipinta lo ricoprì. Tenendosi una mano sulla testa cercò Maja con lo sguardo e disse: “Stavo pensando una cosa, nuora mia, quale sarà il destino dell’acciaio ceco se si dissolve l’Unione Sovietica? Chi se lo prenderà tutto, sai qual è la quantità di quell’acciaio?!”. Nel millenovecentottantatré morì zio Akif, rappresentante della Philips per la Bosnia ed Erzegovina e amico personale della regina d’Olanda. Il misterioso signore, rex elegantiarum di Baščaršija, l’unico sarajevese che salutava perfino i bambini togliendosi il cappello, con un lieve inchino. Un sabato pomeriggio, solo una settimana prima della morte di suo padre, Dunja Vitlačil Numankadić passeggiava per via Vasa Miskin, dirigendosi verso Baščaršija e arrivando dal Fuoco perenne. Era con sua suocera Smilja, a cui voleva mostrare la parte antica della città. Anche se già da molto tempo desiderava avvicinarsi al padre, era destinata a non avere un vero incontro con lui. Spingeva nel passeggino il figlioletto Dejan e si mise a tremare quando davanti alla pasticceria Egipat riconobbe Akif. Mentre suo padre scendeva dal marciapiede diretto verso il suo ufficio, vicino alla moschea di Alibeg, Dunja si fermò e si sentì sicura che questa volta, come si addiceva a una persona normale, avrebbe fatto conoscere il nipote al nonno. Mio zio scorse la figlia e secondo il suo stile si tolse il cappello, con la testa fece un cenno di saluto, guardò con un sorriso sincero il nipotino, si rimise il cappello in testa e scomparve. A Dunja, confusa, non rimase altro che cercare di indovinare che cosa doveva essere successo nella vita dei suoi genitori per far sì che il padre passasse davanti ai suoi figli, e ora anche davanti al nipote, come un estraneo cortese. Sapeva che sua madre e suo padre, solo una volta, dopo vent’anni di vita separata nella stessa casa, si erano incontrati per strada, si erano fermati per alcuni secondi e si erano guardati senza batter ciglio. Nessuno dei due aveva detto una parola, e il peso di quegli sguardi era pari alle non pronunciate accuse sul tradimento reciproco. E poi non si erano visti mai più. Ciò che Akif tralasciava di fare per la sua famiglia lo riversava nella vita sociale di Baščaršija. In lui perfino i matti, compreso il più noto di tutti, Horo Kukuriku, riconoscevano un gran signore, e gli facevano l’inchino. Lui dava loro da mangiare, si curava di loro, distribuiva soldi. Quando il mistero della morte si prese quest’uomo, anche se la sua vita non era stata meno misteriosa, agli occhi della parentela e dei concittadini la sua fine si ammantò di uno splendore che rafforzò l’immagine sontuosa del carattere dello zio. Quando morì si iscrisse nel lungo elenco dei personaggi di Čechov che arricchivano la mia vita. Avendo saputo a un normale controllo medico di avere dei problemi ai reni, lo zio non si spaventò, ma quando il dottore disse che la situazione si poteva risolvere solo con un’operazione, lui sentì che la morte aveva bussato alla sua porta. Era sicuro che dall’ospedale non sarebbe tornato vivo e scrisse l’ultima, e impressionante, pagina della sua esistenza. Morì durante la complicata operazione, il suo cuore non resse, e la notizia della sua morte si diffuse subito per Baščaršija. Tutti i suoi amici, ma anche i parenti, si affrettarono ad andare in via Vrazova, nell’appartamento dello zio, per esprimere le loro condoglianze. Sua sorella Iza, che nel frattempo si era separata dal finto pilota Ado Beganovič e abitava con il fratello, non dovette fare molti sforzi per organizzare la cerimonia di cordoglio in casa del defunto. Suo fratello aveva già comprato tutti i viveri necessari per quella circostanza e li aveva sistemati sugli scaffali e nei cassetti della cucina. La zia accoglieva gli ospiti che giungevano man mano con le parole: “Il defunto era un grande nemico dell’alcol! Chiedo che il suo desiderio venga rispettato
e che non si beva in casa”. Poi la zia infilò la mano dietro il sifone dell’acquaio della cucina ed estrasse una bottiglia di grappa casalinga come a conferma dell’idea che in casa l’alcol era proibito. Versò da bere per sé e per gli ospiti e disse: “Tuttavia non possiamo accomiatarci dal defunto senza un ultimo saluto, ed è opportuno, come dicono i colleghi di religione cristiana, bere per l’indulgenza della sua anima”. Versò metà bicchiere, lo bevve e poi rimise la bottiglia sul ripiano sotto l’acquaio. Lei viveva già da tempo col fratello e talvolta beveva qualche bicchierino di grappa, come affermava, se le venivano un mal di pancia o un po’ di depressione. Naturalmente suo fratello non lo sapeva, perché era un “grande nemico dell’alcol”. Prima di andare in ospedale lo zio aveva voluto che tutto fosse a posto. Era andato in negozio, ma non si trattava dei soliti acquisti mensili. Quella fu la sua ultima spesa e grazie ad essa si sentì sicuro che, nella triste occasione della sua morte, tutto sarebbe avvenuto come si addiceva a un signore del suo rango. Oltre ad aver comprato tutti i viveri per il giorno del cordoglio, lo zio lasciò a sua sorella istruzioni dettagliate: “Due chili e mezzo di caffè saranno sufficienti perché tutti quelli che verranno a fare le condoglianze possano bere caffè per due giorni. Saranno circa duecentocinquanta persone per due chili di caffè, a seconda se lo preparerai più forte o più leggero. Nel complesso, il caffè basterà. Un chilo di zucchero è molto, ma non ha senso comprarne meno. In ogni caso in casa ce ne sono già altri due chili. Un chilo di datteri e di fichi secchi, ma anche due chili di lokum. I primi per i bambini, e il lokum naturalmente si deve servirlo agli adulti, con il caffè”. Nell’armadietto inferiore della credenza mise gli sciroppi per i succhi. Classificando le cose a puntino, separò l’estratto di succo di limone dallo sciroppo di visciole e su un bigliettino indicò con la sua calligrafia: “Non si deve esagerare con l’estratto di limone perché non è di origine naturale, ma in ogni caso è ottimo come rinfrescante! Mezzo cucchiaio da minestra in due decilitri d’acqua e poi mescolare. Lo sciroppo di visciole si deve allungare perché è troppo denso. Non per risparmiare, ma perché è troppo dolce e non va bene. Occorre sapere che il diabete è frequente per quelli della mia generazione e dato che, purtroppo, in occasione della mia morte ci saranno soprattutto, come è logico, persone della mia età, quanto detto sopra deve essere preso seriamente in considerazione...!”.
NON PUOI AVERE UN FILM SENZA BUIO Nel millenovecentottantacinque il film Papà... è in viaggio d’affari vinse al Festival di Cannes. Era la prima volta che un film jugoslavo otteneva la Palma d’oro. Io ero tornato a Sarajevo tre giorni prima della fine del festival e il premio, al posto mio, fu ritirato da Mirza Pašić, direttore della Forum Film di Sarajevo. La sua foto con la Palma e le mani alzate fece il giro del mondo. Lui ricevette il premio da Stewart Granger e disse: “Merci beaucoup”. Quando a Sarajevo mi chiesero perché a Cannes non avevo ritirato io la Palma d’oro, la mia risposta fu: “Stavo posando il parquet nell’appartamento dell’amico Mladen Materić!”. Il premio al Festival di Venezia non era stato sufficiente perché le autorità cittadine mi assegnassero un alloggio statale. Maja, Stribor e io coabitavamo con i genitori di mia moglie. Due elementi erano decisivi in questa situazione paradossale, che mi vedeva vincitore del premio Sei aprile, ma non titolare del diritto all’alloggio: io non ero mai diventato membro della Lega dei comunisti, e Murat non era una figura molto amata nelle cerchie politiche sarajevesi. Come spiegare in altro modo il fatto che il proprietario di un Leone d’oro fosse ancora un subinquilino? Era difficile interpretare questo fenomeno, sapendo che il Leone veneziano e il trionfo della Bosna nel basket erano le uniche vittorie che portavano Sarajevo sulla ribalta europea. Ecco che ritornavano quell’idea di mio padre e la sua battuta, pronunciata dal divano letto, quando si difendeva da mia madre rispondendo alla domanda sul perché il sottosegretario vivesse in un appartamento di una stanza e mezzo. Il diritto all’alloggio esisteva, occorreva solo realizzarlo! Ma la faccenda non era complicata solo per quanto riguardava l’abitazione e gli agi portati dalla fama cinematografica. Il progetto Papà... è in viaggio d’affari, il mio film successivo, era inaspettatamente andato ad arenarsi nelle limacciose secche della politica. La sceneggiatura, nata nell’intervallo di sette giorni fra due sbronze di Sidran, ma anche dalla grande ispirazione seguita al successo di Dolly Bell, divenne l’articolo preferito nel menu degli eredi di Tito. Sidran, Stribor e io ci eravamo accampati all’Hotel Imperijal di Dubrovnik con un’unica idea in testa, cioè finire al più presto la sceneggiatura sul periodo critico del millenovecentoquarantotto. Una continuazione della storia della famiglia Zolj, ma anche uno sguardo all’indietro sulla Storia e sulle radici del quarantotto. Su come, in quanto vittima di un intrigo amoroso, fosse caduto politicamente in disgrazia il padre, Maho Zolj, e su come la sua sorte di detenuto politico avesse influito sullo sviluppo di suo figlio Malik. Contavo sul fatto che, se non potevo ottenere un alloggio né godere di nessuna comodità derivante dalla fama veneziana, a un nuovo film sarei facilmente arrivato. Invece ben presto fu evidente che non era così. Non avevo tenuto conto del fatto che i soldati di Tito continuavano a governare, sforzandosi di fare in modo che tutto rimanesse, per quanto possibile, come se Tito non fosse morto, e che nessun tema catartico venisse toccato, soprattutto non quello doloroso del millenovecentoquarantotto. Il mio film sviluppava una storia impopolare fra gli eredi di Tito, perché proprio loro avevano fondato la propria gloria politica sulla mitologica separazione fra Tito e i russi. La storia del mio film da una parte vedeva poeticamente, con gli occhi di un ragazzino, gli epocali cambiamenti storici, dall’altra parlava anche del sacrificio e dell’innocenza di un prigioniero di Goli Otok! Allora non ero consapevole di quanto fossi un soggetto competente per raccontare la storia di un detenuto dell’Isola nuda, dopo che tanti amici di mio padre, ubriachi e infelici, erano sfilati nel nostro appartamento di Gorica, ma anche in quello di via Kate Govorušić 9a. Tutti loro
erano stati parti integranti nelle sequenze fondamentali della mia crescita. Fra loro anche Hairudin Krvavac, che era membro del Commissione artistica della Sutjeska film, ma che, in quanto terrorizzato reduce di Goli Otok, non poteva dare una mano per risolvere positivamente il dramma relativo all’inizio delle riprese del mio secondo film. Come mantenere la palla a centrocampo, in che modo raffreddare i bollenti spiriti dell’artista e nello stesso tempo dissuaderlo dal girare il film Papà... è in viaggio d’affari?, si chiedevano i membri della Commissione artistica della Sutjeska film. Era compito della commissione accordare il permesso per girare, ma era necessaria un’abilità da palleggiatori simile a quella del calciatore Mehmed Baždarević. Su questa necessità di “mantenere la palla a centrocampo” meglio di tutto parlano i verbali di come quei calciatori intellettuali considerassero l’intera faccenda.
Dalla seduta della Commissione artistica dell’Organizzazione di lavoro Sutjeska film, tenuta in data 1.2.1983 nei locali della Sutjeska film a Jaromir. Punto 2. Papà... è in viaggio d’affari ĆEDO KISIĆ – Si sa di quale epoca parla la sceneggiatura, ma penso che a quell’aspetto sia stata data poca attenzione. Nel testo non si vede e non si sente lo spirito della nostra lotta contro l’informbiro. C’è più che altro la rappresentazione di alcuni destini personali, ma non c’è niente degli avvenimenti generali e della situazione sociale. Quando ci si accosta a un dramma del genere è indispensabile anche una caratterizzazione dell’epoca, perché così si pone la questione del perché sia avvenuto tutto ciò che succede nel film. Devo fare anche alcune osservazioni su singoli punti della sceneggiatura, come, per esempio, il colloquio della madre con il sindaco. Lui è troppo brutale e penso che questo punto si debba cambiare. Quando si segue il destino di un uomo, il pensiero dello scopo drammaturgico va all’interrogativo su dove si vada a parare, quale sia il fine del film. In alcuni punti della sceneggiatura ci sono anche provincialismi e primitivismi, e occorrerebbe emendarli. Mi sembra poi che l’immagine psicologica del bambino sia alquanto forzata. Non sono sicuro che questo film sia caratterizzato da un vero impegno. NIKOLA NIKIĆ – Fra poco sarà pronto il copione. Dato che in questo testo il regista ha già apportato cambiamenti importanti, propongo di non discutere di questa prima versione della sceneggiatura, ma di analizzare quella definitiva nella prossima seduta della Commissione artistica. Dalla dodicesima seduta della Commissione artistica dell’Organizzazione di lavoro Sutjeska film, tenuta in data 28.2.1983 nei locali della Sutjeska film a Jaromir. Punto 2. Papà... è in viaggio d’affari – sceneggiatura di Emir Kusturica. NEDJO PAREŽANIN – Leggendo la prima sceneggiatura vi ho cercato l’anno 1948 e gli avvenimenti del nostro paese sotto gli occhi del mondo. Che cosa significa quell’anno per il mondo, per il movimento operaio internazionale? Molto, perché nel movimento operaio internazionale quello è l’inizio di una nuova era. Non c’è forza progressista al mondo che non si appoggi al “no” di Tito. Anche se questo film non ha la pretesa di dare una visione globale, tuttavia impegna la riflessione. Per questo penso che nel film si dovrebbe sentire di più lo spirito di quel tempo e degli avvenimenti di allora. Ho anche diverse singole osservazioni: – l’off in cui Malik dice che suo padre ha denunciato la sua nascita un mese prima che lui nascesse per ricevere gli assegni familiari non può essere lasciato così, perché a quel tempo non c’erano assegni familiari, ma razioni. – Il segretario del Partito comunista jugoslavo va bene, ma le sue espressioni sono troppo forti e lui sembra una caricatura. Quella seduta del Partito dovrebbe essere seria, e il segretario deve essere un uomo reale, senza esagerazioni o denigrazioni. – Non so se sarà possibile fare la scena della sepoltura, perché nessun pope ortodosso
accetterà di seppellire una bara vuota. La menzogna va contro la loro dottrina. Il marinaio e Nataša sono i personaggi più luminosi del film e lo rendono ottimistico e vivo. La famiglia Pavlović porta il lutto perché il padre è stato imprigionato come informbiroista. Ma a quel tempo un gesto simile sarebbe stato interpretato come una protesta e sicuramente non l’avrebbero passata liscia. Quell’opposizione in quegli anni era impensabile. Il poema di Makarenko allora era di moda e non ho niente in contrario che venga letto, solo che in tutto questo non deve esserci ironia. C’erano pochi casi di informbiroisti andati in prigione, mentre le loro famiglie potevano rimanere nei loro alloggi se si comportavano bene. Per questo quel sindaco mi pare poco credibile, perché lui salva la famiglia dalla cacciata di casa. Penso che si dovrebbe buttarli fuori dall’appartamento, tanto più che tutti si trasferiscono a Zvornik, mentre il nonno rimane. La verità è pur sempre verità. –Malik non dovrebbe scrivere due volte una lettera al padre. – Il tatuaggio di donne sul braccio di Franjo appare tre o quattro volte come punto comico. Penso che sia troppo. – Il problema maggiore è il personaggio di Ankica. Non è abbastanza motivata dall’amore per essere così corrotta. Morale o no, e comunque piuttosto immorale, appare come una combattente contro l’informbiro. L’immoralità dalla nostra parte! – Il film perderebbe molto se si cambiasse il nome di Zvornik e di Banja Koviljača? Infatti là si curano le donne sterili e qui potrebbero apparire associazioni negative. – A me danno fastidio il dottor Ljahov e Maša perché sono russi. Il simbolismo è forte: pianti, lacrime, separazione dalla Russia. Il dottore appartiene alla Guardia bianca e nel 1948 noi ne abbiamo ricacciati abbastanza in Russia. L’amore fra Maša e Malik non si realizza, finisce, e il pianto per questo si può interpretare come pianto per la separazione dalla Russia, ma noi per questo non piangiamo. Quell’amore infantile, il libro dei ricordi e tutto ciò che lo accompagna possono funzionare anche se sostituiamo i russi con gente nostra. – Il cognato, funzionario dell’Udba (Direzione per la sicurezza dello Stato), sia nel copione sia nella sceneggiatura è un poliziotto privato. Mai, da nessuna parte, si vede qualcuno dietro a lui, lui decide da solo su tutto, sull’arresto, sulla detenzione. Non si deve prendere poco sul serio un funzionario dell’Udba, perché, quale che fosse la situazione di allora, quei funzionari e Goli Otok hanno avuto un ruolo molto importante nella lotta contro lo stalinismo. Penso che non verrà mai un tempo in cui giudicheremo quel periodo come negativo, indipendentemente dagli errori commessi. – Petrović e la sua morte non rientrano nell’ambito del racconto di Malik, perché lui alla sua età non può assorbire in tal modo il caso di Petrović. – Alla fine farei le nozze di Nataša e del Marinaio. Non critico il fatto che Faruk appaia come un alcolizzato, ma la grappa lo ha completamente devastato. Lui è un tipo troppo losco, è il personaggio più negativo del film e appartiene al fronte della lotta contro gli informbiroisti, per cui si ha l’impressione che a lottare contro l’informbiro fossero le persone peggiori del paese – come per esempio Faruk e Ankica. Per queso ritengo che si debba vedere più approfonditamente che cosa fare di loro e come spiegare perché sono così equivoci. Forse si potrebbe pensare anche a una soluzione per cui quei due sono maturi per diventare delle spie, altrimenti non si possono lasciare dei personaggi così negativi. – L’uomo contemporaneo vuole vedere come la Jugoslavia abbia vinto Stalin, e se non facciamo questo allora siamo contro la storia contemporanea. Si deve mostrare al mondo come è stato difficile realizzare quel grande “no” di Tito.
– Rimango dell’idea espressa sulla seconda versione della sceneggiatura di questo film, e anche se nel copione ci sono dei cambiamenti, sono più che altro di natura dichiarativa. Il difetto fondamentale della sceneggiatura e del copione è il colore dell’epoca. Si deve esprimere quel dramma. Quando si viene a contatto con quest’opera, quell’epoca non si vede, non si percepisce. Quegli anni, che cosa significava tutto ciò che avveniva allora, gli avvenimenti più controversi del mondo. Qui non c’è niente di tutto questo, ma c’è la canzone Tutto il paese, che può suonare ironicamente. La scena della consegna della staffetta nella quale Cekić dice a Meša “andiamocene da questo caos” non dovrebbe rimanere così. Un uomo che difende il sistema non si comporta in questo modo. Dall’insieme a momenti si ha l’impressione che sia un film sullo stalinismo, e non sull’antistalinismo. Questo si sente in alcuni punti; questo paese dovrebbe avere un film dal carattere fortemente antistalinista. Nel copione si insiste anche molto sulle imprecazioni. Non aggiungono niente, e penso che si debba ridurle. Alla fine penso che non si possa ancora fare un film come quello presentato da questo copione e dalla sceneggiatura. Si deve ancora lavorare. EMIR KUSTURICA – Questo racconto non ha relazione con l’anno 1948, ma si collega agli anni cinquanta e tratta di un dissidio politico. Può essere situato anche nel periodo attuale o in qualsiasi altra epoca. Questo film vuole occuparsi di un avvenimento possibile ed estremo e desidererei che la discussione avvenisse sul testo, e non sulle possibili ripercussioni che il film solleverà. Mi pare che il problema consista nel fatto che il testo si collega a un tempo che io non sento. Qualsiasi insistenza perché io colleghi strettamente questo racconto all’informbiro, rende impossibile la realizzazione di questo film. Questo è un racconto su cui possiamo essere d’accordo o in disaccordo, ma senza informbiro. Io ho soluzioni per i dilemmi da voi esposti. Il complesso di cui parlate si può esprimere attraverso due personaggi, dei quali uno è realmente un membro dell’informbiro, mentre l’altro arriva a Goli Otok per errore. Questa è la misura che accontenta la verità ed è la proiezione che si può inserire in questo testo. Alcuni punti problematici che avete qui citato sono pensati in modo tale da non riferirsi ad alcuna epoca, ma sono solo situazioni psicologiche. La sceneggiatura non è stata scritta allo scopo di spiegare un periodo storico. ĆEDO KISIĆ – Temo che questo tipo di impegno non sarebbe ben accolto, perché le persone riconoscendo le situazioni porrebbero mille domande. Mi pare che sarebbe bene fare attenzione alle parti iniziali del film, perché il periodo è caratterizzato in modo scialbo. Si deve spostare l’accento sul dramma di un’epoca. La sceneggiatura inoltre ha ancora debolezze nei dialoghi. Ce ne sono di simpatici ma anche molti inutili. EMIR KUSTURICA – Il dialogo nasce dalla struttura della lingua. Non si devono identificare i personaggi e le loro azioni attraverso ciò che dicono, perché le persone si identificano in base a ciò che fanno. La volgarità e i dialoghi degli adulti sono autentici. Per ciò che riguarda l’antistalinismo, io in questo film lo sento profondamente, perché l’intero film rappresenta una rivolta contro lo stalinismo in quanto ingiustizia umana in generale. NEDJO ŠIPOVAC – Il tema fondamentale del film, le sofferenze di un uomo innocente e le conseguenze di tutto questo, è un tema universale, qui reso con tono fiabesco. Ma la sceneggiatura non è riuscita a sfuggire all’informbiro: per quanti sforzi abbia fatto il regista, il libro trae linfa continuamente dall’informbiro. Questo testo, con il suo insistere sulla negatività, crea l’impressione che l’informbiro fosse una forma di tortura nei confronti di un uomo innocente. Esaminando per la prima volta la sceneggiatura io avevo già detto che era necessario dare il colore del tempo. Il tempo dell’informbiro è stato un periodo spietato. Se il tono fiabesco del racconto ĆEDO KISIĆ
fosse riuscito a coprire quella spietatezza con una luce infantile sarebbe stata una buona cosa. Così com’è, rimane una serietà di approccio di segno negativo che getta una brutta luce su tutto quanto. Le verità storiche definitive sottintendono tragiche sofferenze dei singoli, ma nel complesso sono verità, e nel testo sono assenti. NIKOLA NIKIĆ – Tenuto conto di tutto ciò che è stato detto, penso che occorrerebbe suggerire a Emir di lavorare ancora sulla sceneggiatura, in modo che nel film sia evidente lo spirito dell’epoca in cui avviene la vicenda. HAJRUDIN KRVAVAC – Sarei d’accordo con le osservazioni fin qui espresse, e ritengo che possano servire a costruire un buon testo base per il film. Il regista le deve considerare con attenzione e, attraverso il suo prisma, inserirle nella sceneggiatura. Indipendentemente dal fatto che si tratti di un testo dal carattere di novella, ritengo che in esso si possano inserire molti elementi, in modo da far sentire lo spirito del tempo in cui questo racconto è ambientato. Il materiale è abbastanza sparso e il conflitto di base (13 pagine) non è abbastanza sviluppato, sarebbe necessario chiarirlo con un certo numero di scene: – Ciò che Ankica dice dovrebbe poi ripeterlo in un altro contesto, e non solo a Faruk, ma anche in presenza di un altro membro dell’Udba. – Propongo che la scena 42, la riunione di Partito dedicata a critiche e autocritiche, sia eliminata, perché avviene un bel po’ dopo la circoncisione ed è un peso inutile, e sia sostituita con la scena 55, tanto più che dell’abbandono del marito si parla anche nelle due scene successive. – Eliminerei anche il velo nero e la tumulazione di Vlado Petrović, a meno che il regista non decida di fare di questo personaggio un pendant di Meša, mentre il fratello di Petrović muore come soldato di confine. – Nel testo manca una situazione di conflitto. – Si dovrebbe inserire la scena della madre del sindaco subito dopo l’arrivo dei criminali. – Ljahov è il personaggio più problematico e rappresenta il maggior difetto di quest’opera e penso che sarebbe necessario sostituirlo subito con uno jugoslavo con le stesse caratteristiche personali. – Eliminerei anche la scena 54, nella quale la madre rimprovera il fratello. – Alla fine direi che tutte le critiche esaurienti espresse in questa occasione debbano trovare posto in una sceneggiatura riveduta e corretta perché questo è il presupposto per un buon film. CONCLUSIONE: Si deve rinunciare a molti elementi che tendono verso la negatività, perché il testo sia in sintonia con quell’epoca, riflettendola. La valutazione unanime della Commissione artistica è di dare a Emir il tempo di inserire tutte queste osservazioni e suggerimenti nel testo in modo tale che poi la Commissione stessa si riunisca per esaminare la nuova versione. Si decide quindi di continuare il lavoro sulla sceneggiatura integrata dai suggerimenti suddetti, dopo di che il risultato verrà di nuovo preso in considerazione. Si decide anche di far leggere la sceneggiatura a un’altra personalità esterna alla Commissione artistica, un eminente uomo di cultura della nostra Repubblica. Nei momenti più difficili della lotta per Papà... è in viaggio d’affari, a Sarajevo mi aiutava la consapevolezza che esistesse Belgrado. In seguito con quel centro dei Balcani ho avuto spesso dissidi. Soprattutto mi irritavano il provincialismo e l’eccessivo belletto della sua élite. Tuttavia Belgrado costituiva una matrice, rappresentava nello stesso tempo l’ultima fermata e la speranza che le cose potessero essere migliori. Per quei tipi che decidevano del destino di Papà... è in viaggio d’affari la città rappresentava una Sodoma e Gomorra
politica, ma per me era una finestra dalla quale dovevi passare se volevi arrivare alla libertà. La Sarajevo politica guardava a Belgrado come a una fonte di anarcoliberalismo (l’idea di Tito di un eccessivo orientamento verso l’Occidente), di anticomunismo (leggi nazionalismo e idee cetniche), di un possibile collegamento fra Serbia e Russia – questa in realtà era un’idea degli inglesi –, nonché di chissà quante altre sfide di libertà intellettuale. Così anch’io, sentendomi prossimo all’esaurimento delle forze, pensai che il mio posto fosse nella città in cui si stampava il settimanale “NIN”, dove abitavano Aleksandar Petrović, Živojin Pavlović e gli altri esponenti dell’“onda nera”, dove c’erano i filosofi di Praxis e dove si incontravano Matija Bečković e Milovan Djilas, dove viveva lo scrittore del romanzo Quando fiorivano le zucche,Dragoslav Mihajlović, e dove si pubblicava la rivista “Student”. Gli abitanti di quella città si svegliavano al mattino salutati alla radio dal grande Duško Radović. Nella mia idea di futuro non rientrava l’attesa passiva dell’autorizzazione a girare Papà... è in viaggio d’affari, simile a un arrangiamento di Beckett. Da qualche parte dovevo andare. O a Belgrado o in Occidente. Ma come andare in Occidente senza finire il film? Oppresso da tali pensieri, all’aeroporto di Sarajevo incontrai l’attrice serba Mira Stupica. Non ci eravamo ancora incontrati, ma ci conoscevamo di fama. La sua parola era stata determinante nella decisione presa nel settembre millenovecentottantuno da suo marito Cvijetin Mijatović, presidente della Jugoslavia e comandante in capo delle forze armate della Repubblica socialista federativa di Jugoslavia, sulla mia partenza per Venezia per andare a ricevere il Leone d’oro. Quella volta avevo viaggiato come un soldatino per ritirare il premio internazionale. Il collegamento con Mira l’aveva realizzato Vuk Babić, un mio amico regista, che con lei aveva fatto la serie televisiva Kika Bibić. Capii che Mira stava tornando dal mare, da Trpanj, dove Cvijetin possedeva una casa di vacanza. Immediatamente ci mettemmo a chiacchierare lamentandoci di quanto fosse difficile la vita di un artista. Io le dissi che ne avevo abbastanza di Sarajevo e che non sapevo se sarei sopravvissuto alla stupidità del blocco politico di Papà... è in viaggio d’affari. Mira mi raccontò del desiderio di diventare una buona matrigna per le figlie di Cvijetin e mi pregò di aiutarla a iscrivere la bella Maja Mijatović all’Accademia di Arti drammatiche di Sarajevo. Le dissi che avrei fatto il possibile, e lei mi invitò ad andare a trovarli in autunno a Trpanj, per raccontare a Cvijetin le mie disgrazie. Quando, a metà settembre del millenovecentottantatré, arrivai in taxi a casa di Cvijetin Mijatović, non mi aspettavo di trovare il presidente della Jugoslavia intento a prendere il sole in costume da bagno, ma con pesanti calzerotti di lana ai piedi. L’attempato politico era disteso con le sue calze di lana da montanaro davanti a una casa che non sembrava affatto la casa del presidente della Repubblica – si trattava di un modesto prefabbricato della ditta Krivaja di Zavidovići. Avendo notato il mio sguardo, fisso sui suoi piedi, mi disse: “Cattiva circolazione periferica, caro il mio Emir. Un tempo questi piedi erano il terrore dei portieri delle squadre di calcio della vecchia e nuova Jugoslavia, adesso non sono piedi, sono una sofferenza: in un attimo si trasformano in ghiaccioli, non appena il sole adriatico è coperto da una nuvola”. Andammo a pranzo a Dubrovnik. Là Mira Stupica giocò un ruolo decisivo. Ogni volta che secondo lei andavo troppo pesante con i politici bosniaci fedeli a Tito, parlava con amore delle figlie di Cvijetin. Metteva soprattutto in luce la mia autorità, potenzialmente decisiva per l’iscrizione di Maja Mijatović all’Accademia di Sarajevo. Io scolai alcuni bicchieri di vino e, indipendentemente dal fatto che la visione politica di Mijatović e la mia non coincidevano, sentii che, man mano che il tempo passava, dal punto di vista umano ottenevo dei crediti e che lui mi avrebbe perdonato qualsiasi cosa. Per questo continuavo a rigirare il coltello nella piaga:
“L’unico generatore del dramma dei Balcani è la politica, e le disgrazie che la politica provoca nelle vite dei protagonisti dei nostri film, dei nostri drammi teatrali e dei nostri libri costituiscono l’unico autentico materiale drammatico. Più esattamente, da noi non c’è dramma senza politica!”. “Tu la pensi così? Forse che nella vita normale non ci sono motivi per un dramma?” “Ce ne sono, ma solo per i francesi e i belgi!” “E gli spagnoli?” ora Cvijetin scherzava. “Lei non ci crederà, ma neppure loro si sono affannati a creare drammi esistenziali. Del resto le vette maggiori della pittura spagnola hanno un forte contesto politico. Per esempio Goya! Anche gli spagnoli hanno parlato a lungo attraverso il mirino, e allo stesso modo Andrić ha spiegato perché in Serbia non si sia sviluppato il genere letterario drammatico.” Avendo ottenuto la benevolenza di Cvijetin, non la smettevo di accennare al mio trasferimento a Belgrado. Parlavo della tradizione libertaria di quella città, nonché della mia convinzione che puntare su Belgrado equivaleva a puntare sulla carta della libertà. “Tu sai quanti problemi abbiamo con i nazionalisti serbi a Belgrado. Quel Mihiz e i suoi simili danneggiano gravemente l’esistenza del nostro stato jugoslavo.” “Del danno non so niente, ma i nazionalisti colti sono dei piacevoli interlocutori, con loro si possono condurre conversazioni civili. Sono stufo, Cvijetin, dei cialtroni, con loro devi fingere di non saper parlare perché non sembri che, quando pronunci delle parole straniere, tu ti stia dando arie. E quelle poche persone colte, quando le incontri, ti opprimono con la loro frustrazione e la loro claustrofobia. A Sarajevo è così. Belgrado è una grande città, un grande centro, un luogo di scambio di merci e di idee, a differenza di Sarajevo che non ha avuto un suo capitano Koča, il primo milionario, e neppure decine di scienziati, di pensatori, di spiriti illuminati.” Credo che da quel momento Mijatović cominciò a pensare a una strategia per fare in modo che anch’io non prendessi la strada di Meša Selimović e dei numerosi transfughi che da Sarajevo si erano trasferiti a Belgrado. Sembrava che avesse capito di dover fare di tutto per ottenere che Papà... è in viaggio d’affari fosse girato a Sarajevo, se non altro per dimostrare a quelli come Mihiz che anche Sarajevo poteva produrre un film su un tema proibito. Ero convinto che Mijatović avrebbe vissuto come un fallimento personale un mio trasferimento a Belgrado, senza aver girato il film. Così sembrava, almeno. Durante il tragitto da Dubrovnik a Trpanj, Mijatović per la prima volta dimostrò la sua simpatia verso una visione sincera della realtà: “Tu esageri, ma non importa, sei giovane, pensi con la tua testa. Del resto la democrazia è quando gli uomini la pensano diversamente, senza per questo tirar fuori i coltelli gli uni contro gli altri. Ma dimmi, di che cosa tratta quel tuo nuovo film?”. “È la continuazione di Dolly Bell, solo a ritroso. Un ragazzino che cresce con sua madre e suo fratello mentre il padre, dopo un’avventura sentimentale, senza alcuna colpa, viene arrestato e mandato a Goli Otok. Il film non si occupa di Goli Otok come il romanzo di Antonije Isaković, Tren 2. A me Goli Otok non interessa dal punto di vista fattuale, per me è importante analizzare, con questo film, le conseguenze sulla psiche del ragazzino Malik. Si tratta di un melodramma che illustra la vita di quelli che vivono sullo sfondo... Sarebbe, Cvijetin, un film assolutamente fuori dal comune...!” Due anni dopo quell’incontro con Cvijetin Mijatović Papà... è in viaggio d’affari fu girato e anche premiato con la Palma d’oro a Cannes; sua figlia Maja si era nel frattempo iscritta alla nostra Accademia, e io mi ero fatto un altro amico. Il presidente della giuria a Cannes era Milos Forman, uno dei miei riferimenti cinematografici e uno di quei tipi la cui vicinanza provocava una grande emozione. Lui mi offrì subito di diventare professore ospite alla Columbia University di New York, cosa che accettai senza esitare. Papà... è in viaggio
d’affari divenne famoso ovunque nel mondo. La posa del parquet in casa di Mladen, come
scusa della mia assenza alla cerimonia della Palma d’oro, era un tentativo di evitare con una battuta di spirito la descrizione dei miei cattivi rapporti con le autorità bosniache. Quando, tre giorni prima della fine del festival, tutti i portieri dei lussuosi hotel di Cannes sapevano che Papà... è in viaggio d’affari avrebbe vinto, io ritornai a casa e nessuno tentò di trattenermi. Alla serata di gala di Sarajevo ci fu un evento importante tanto quanto la vittoria. Il giorno della prima, mentre Papà... è in viaggio d’affari veniva proiettato al pubblico contemporaneamente in tre cinema di Sarajevo, io vissi una dolorosa catarsi nei rapporti con il mio figlio di sette anni. Dopo l’inchino al pubblico nel cinema Dubrovnik, venne il turno del cinema Romanija. Anche lì l’entusiasmo e l’emozione prodotti dal film raggiunsero il culmine. Ma mio figlio Stribor andò un passo oltre. Mentre mi inchinavo al pubblico che mi accoglieva alzandosi in piedi, Stribor lanciò uno strillo che indicava una sensazione di doloroso legame con suo padre, allargò le braccia e scoppiò a piangere. Man mano che gli applausi si facevano più scroscianti, lui piangeva più forte. E quando lo portarono sotto il palco, davanti allo schermo, io lo presi in braccio e lui mi abbracciò forte come se non volesse sciogliersi mai più da quella stretta.
SOGNI D’ORO Nel millenovecentottantasei ci fu assegnato un appartamento statale in via Šenoa, una delle strade più corte di Sarajevo, che collega la Titova con la Obala. Dopo il trionfo a Cannes di Papà... è in viaggio d’affari, la decana dell’Accademia di Arti drammatiche di Sarajevo, Razija Lagumdžija, fece sì che la Circoscrizione centro assegnasse un appartamento alla mia famiglia. In precedenza, al quotidiano “Oslobodjenje”, aveva dichiarato: “Ma non è possibile che la Palma continui ad abitare dai suoi suoceri, gente, non ha senso!”. In vista del nostro trasloco in quel cadente appartamento austroungarico dagli alti soffitti, ma privo di bagno, fu sfrattata una studentessa della quale la vicina Fevza sosteneva con forza che fosse una prostituta. I soffitti vennero dotati di controsoffitti e le pareti di contropareti, il pavimento fu sostituito, e contemporaneamente iniziò un’altra battaglia: la Palma doveva avere il telefono. Quell’apparecchio, usato già in modo massiccio per la comunicazione, a Sarajevo non veniva proprio assegnato con liberalità. Occorse un altro anno di guerra di trincea per ottenere un numero telefonico. Infine, dopo varie lagnanze sui giornali perché gli stranieri non riuscivano a contattarmi, si verificò una svolta spettacolare. Davanti all’edificio di via Šenoa 14 apparvero inaspettatamente degli operai delle PTT. Si arrampicarono su un palo del cortile e srotolarono dei cavi. Alla domanda della vicina Fevza: “Che cosa fate? Avete il permesso di fare sconquassi in cortile?” risposero: “Allacciamo il telefono alla Palma”. Il tizio che fino ad allora non aveva voluto portarmi la linea telefonica aveva finalmente capito che quello era un ottimo modo per intercettare le mie conversazioni. E così si erano realizzati i sogni di quel tipo squadrato dello sportello che prima della mia partenza per Praga, con il mio primo passaporto, mi aveva offerto senza successo di diventare un informatore dell’Udba. Quando arrivai in Posta a firmare il contratto, un montenegrino che amava la mia lingua affilata aprì un librone, più grande perfino dei registri scolastici, e disse: “Congratulazioni per quella tua dichiarazione su ‘NIN’, per come hai sistemato quei due, Mikulić e sua figlia, congratulazioni davvero! Mia figlia studia orientalistica e mi dice, quel tuo Kusturica significa in arabo ‘lametta’, ma affilata, quella piccola che si mette nello scalpello e serve per piallare i tronchi! Io dico, lui non è un Kusturino, lui, figlia mia, è un Kusturaccio. Ecco fratello, scegliti il numero che ti pare”. Ero stupefatto, ma mi divertivo molto in quella situazione, assolutamente inconsueta. Dovevo scegliere sei cifre per il nostro telefono. Guardavo quelle migliaia di combinazioni e alla fine socchiusi gli occhi: “212-262” dissi all’improvviso, e il montenegrino concluse: “Bravo, da questo momento è il tuo numero di telefono, però ti prego, firma qui!”. In realtà, quel montenegrino aveva lodato il coraggio rappresentato dalla pubblica esternazione di tutto ciò che mio padre, nelle sue varie gozzoviglie, tra alcol e musica era andato dicendo negli ultimi venti anni. Mio padre, da quando avevo trionfato a Venezia, non si portava più dietro nella sua vita notturna un tipo alto come me per mostrare alla gente quanto fosse alto suo figlio. A quel tempo mio padre si era dato una regolata con l’alcol a causa dell’infarto, e faceva il giro dei bar di Sarajevo per lo più di giorno, citando le dichiarazioni che suo figlio faceva a destra e a manca. Soprattutto sulla politica. Mio padre chiedeva con orgoglio agli interlocutori:
“Hai visto il ‘NIN’ di oggi, come gliele ha cantate mio figlio, eh?”. In realtà, io realizzavo tutti i sogni libertari paterni. Mio padre adorava il fatto che non risparmiassi nessuno e pareva sempre più un uomo realizzato e appagato. Quando per esempio, mangiando agnello arrosto e bevendo spritzer, si attaccava il discorso complicato della lotta per l’esistenza e la conversazione finiva in un vicolo cieco, perché più nessuno aveva un’idea su come eliminare gli ostacoli a una vita migliore, mio padre diceva: “Ecco, fratelli, leggete l’intervista di Emir su ‘NIN’, là è detto tutto”. Come se in tal modo sostenesse sinceramente due cose: l’autenticità dei miei pensieri, ma anche l’idea che fosse lui a pronunciarsi attraverso i miei interventi pubblici. Cosa ancor più importante, questa era l’ammissione che le tensioni fra padre e figlio erano cose del passato; ma soprattutto, aveva raggiunto la libertà di dire senza timore ai suoi colleghi, compreso il presidente del Comitato centrale della Bosnia ed Erzegovina: “Ma chi ti caga!”. Era la prova che lui era giunto all’Olimpo della sua vita sociale! A quel tempo quasi tutte le funzioni di capofamiglia erano già state trasferite da Murat a me. Quando si ubriacava in città si nascondeva alla vista dei miei amici, ma quando di notte si imbatteva in Sidran in uno dei bar di Sarajevo, tornava a casa all’alba assieme a lui. Dato che Sidran abitava proprio accanto ai miei genitori, quando ognuno entrava in casa sua, mio padre gli diceva: “Bada che il diavolo non ti faccia dire a Emir che stanotte abbiamo bevuto!”. Un problema particolare era rappresentato dalla facilità con cui ingrassava. Seguiva una dieta che dava scarsi risultati. Solo saltuariamente diminuiva la quantità di cibo, e ogni volta che per la première di Papà... è in viaggio d’affari io andavo all’estero, lui si lasciava andare, acquistando quattrocinque chili. Quando gli veniva in mente che sarei tornato presto, chiamava Maja, per esempio il venerdì, e chiedeva: “Maja, quando viene quello scellerato?”. Maja gli rispondeva: “Giovedì prossimo”. “Oddio, allora lunedì devo cominciare la dieta.” Non voleva perdere il fine settimana a nessun costo. Perfino a rischio che quello scellerato, cioè io, lo redarguisse per il peso eccessivo che da un momento all’altro rischiava di mettergli ko il cuore. “Seguirò la dieta da lunedì a giovedì. Tu non sai, nuora mia, che amore siano l’agnello e gli spritzer bianchi, con l’acqua di seltz del sifone originale.” Nei caldi mesi estivi mio padre rimaneva a Sarajevo e si godeva la solitudine, mentre Senka si abbronzava e faceva il bagno sulla riviera di Makarska. Nella seconda metà di luglio e all’inizio di agosto Sarajevo si svuota e diventa una città più bella. Mio padre aveva preso l’abitudine di fare il sonnellino pomeridiano nel nostro appartamento, approfittando del fatto che nelle case costruite dall’Austria-Ungheria non era necessaria l’aria condizionata, ma si accorse ben presto di un difetto di organizzazione: dormiva saporitamente, ma si svegliava affamato. Dovevo prima mangiare, e poi fare la pennichella, pensò un giorno mio padre, mentre, seduto alla scrivania dell’ufficio, guardava dalla finestra i tram di fabbricazione ceca che lucidavano le rotaie davanti all’edificio del Consiglio esecutivo e pregustava ciò che sarebbe accaduto. L’indomani dopo il lavoro, prima di mangiarsi una bella scaloppa, avrebbe passeggiato per Marindvor all’ombra del palazzo del Consiglio esecutivo, fino al Kvarner. Là lo attendeva il parco assolato, senza edifici, fra il Kvarner e la vecchia sede del Consiglio esecutivo, ma che importa, un uomo, quando è di buonumore e alla fine della passeggiata lo aspetta un premio, può sopportare tutto, anche il sole cocente di Sarajevo.
Per questo decise che la mattina seguente si sarebbe alzato presto, avrebbe preparato la fettina di carne e l’avrebbe portata in via Šenoa 14, e solo dopo sarebbe andato al lavoro. Pensava con soddisfazione alla giornata, perché si sarebbero avverate due delle sue cose preferite: un bel sonnellino pomeridiano, preceduto da un piccolo banchetto, una gustosa scaloppa impanata, con la soddisfazione aggiuntiva della consapevolezza di mangiare un cibo dietetico. Mišo Mandić lavorava al Tribunale distrettuale, distante solo un centinaio di metri da via Šenoa 14. In quanto esperto di dispute civili, si era preso l’impegno di sbrigare ogni mese trenta pratiche. Di solito finiva tutto nei primi sette giorni, e così gli rimaneva un sacco di tempo libero. In genere andava a trovare sua figlia, ma gli piaceva anche parlare con me e, come si direbbe a Sarajevo, “chiarire le mie idee sulla storia”. Quando arrivava l’estate, continuava a venire nel nostro appartamento, anche se fin dall’inizio di giugno noi andavamo a Visoko, nella nostra casa di vacanze. Mišo aveva una strana abitudine: la prima cosa che faceva, dopo aver salutato i padroni di casa, era andare ad aprire il frigo. Talvolta lo faceva per pura curiosità e spesso portava delle leccornie che comprava nelle località della provincia bosniaca dove andava a ispezionare i tribunali locali. O forse apriva il frigo come un ex deportato che teme che non ci sia abbastanza da mangiare? Quel mattino, non appena si alzò, Murat Kusturica fece tutto secondo il piano concepito in precedenza. Preparò la fettina impanata, in una ciotola più grande tagliò dell’insalata, ricoprì entrambi i recipienti con la pellicola e si avviò verso via Šenoa 14. Il sole era appena sorto, lui entrò nel nostro appartamento e mise nel frigo la carne e l’insalata. Quando arrivò in ufficio, era chiaro che sarebbe stata una di quelle giornate di luglio in cui nel Segretariato per l’informazione della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina non c’è molto lavoro. La maggior parte dei suoi collaboratori era già in ferie. Murat Kusturica durante l’orario di lavoro pensava spesso a quella scaloppa impanata che si sarebbe mangiato di gusto, per poi, nel fresco dell’appartamento con gli alti soffitti di fabbricazione austroungarica, farsi una dormita imperiale di un’ora, forse due. Mišo Mandić non era ancora andato in ferie. Anche lui era rimasto solo nella città deserta. Veniva ogni giorno nel nostro appartamento che sua figlia, prima di partire, aveva pulito e ordinato, vuotando naturalmente anche il frigo. Un uomo affamato non è mai abbandonato dalla speranza o dal desiderio di mettere qualcosa sotto i denti. Ma dato che il frigo era ostinatamente vuoto, a Mandić non rimaneva altro che, dopo aver constatato il fatto, richiuderlo, farsi una dormitina e riposare l’anima dalle faticose cause civili. Alle tre e mezzo circa Murat lasciò l’edificio del Consiglio esecutivo. Si avviò verso via Šenoa 14. “Pare che sia ora di mettere qualcosa sotto i denti” concluse con un sorriso il viceministro delle Informazioni della Bosnia e Erzegovina. Si mise perfino a fischiettare la sua canzone preferita Perché sono un vagabondo... nessun luogo mi trattiene. Come una vera tigre, avvicinandosi alla meta rallentò l’andatura: “Eh, scaloppa mia, non ti è rimasto ancora molto tempo, per te è giunto il giorno del giudizio. Come ti divorerò, cara la mia scaloppa, se solo tu lo sapessi!” diceva fra sé. Fece una puntatina in via Gradina per comprare il pane e il condimento per l’insalata. Passando salutò cortesemente Riza, una leggenda sarajevese, un omosessuale: “Come va, Riza, ci sono ragazzini?” chiese mio padre, mentre Riza dava tiri alla sua sigaretta, sempre accesa. Si diceva che anche quando dormiva gli penzolasse dall’angolo della bocca, in tal caso però spenta. “Tu, Murat, mi prendi per i fondelli, lo sentirà qualcuno e poi penserà davvero che io sono, non lo voglia Iddio, un...” e si mise a ridere, e Murat aggiunse: “Ma come ti salta in mente una cosa simile, figurati, tutti sanno che sei normale!”.
Murat prese il pane e si diresse a via Šenoa. Aprì allegramente con la chiave la porta del nostro appartamento, entrò in cucina e pensò: “Complimenti, che bel fresco, i soffitti alti, non per niente quegli austriaci dominavano il mondo intero e diffondevano la loro civiltà e la loro architettura!”. Si prese un piatto dallo scaffale, lo mise sul tavolo, aggiunse le posate e canticchiando si avvicinò al frigo. Lo aprì e... non riuscì a credere ai suoi occhi. Era mai possibile? Si poteva sopravvivere a questo senza conseguenze? Qualcuno aveva mangiato la sua scaloppa! Mentre masticava pane senza companatico, concluse con rassegnazione: “Dio, come è ingiusto questo mondo”. Fece il numero di telefono di Visoko e si lagnò con Maja: “Lui mi costringe a fare la dieta e a lasciar perdere l’alcol, e quando lo faccio, viene e mi mangia la fettina, e l’avevo tanto pregustata, nuora mia, ma ecco, la cosa è fallita completamente. Non è vero che è stato lui a mangiarmi la fettina impanata?!”. Mio padre pensava a suo figlio, senza sapere che la fettina era finita come bottino di Miloš Mandić che se n’era molto rallegrato. Il giudice Mandić era stato finalmente premiato per la sua quotidiana apertura del frigo di via Šenoa: il tentativo non era stato inutile, dentro ci aveva trovato la fettina impanata di Murat. L’appartamento di via Šenoa 14 era una calamita per tutta una serie di personaggi di Sarajevo. Il vecchio e malridotto appartamento del periodo austroungarico era in una buona posizione. La breve via Šenoa sboccava sulla Titova, la strada principale, e tutti i nostri conoscenti, che abitassero su a Višnjik o a Koševo, dicevano: “Andiamo a fare una capatina dai Kusta, tanto è vicino”. Infatti quando venivano in centro passavano sempre per la Titova, per cui gli sembrava che i Kusta abitassero vicino a loro. Tutti passavano da quell’appartamento, e i nostri genitori almeno una volta al giorno. Era raro che non avessimo ospite qualche conoscente. Tutte quelle visite mi ricordavano la stanzetta di via Vojvoda Stepa 2, dove ero nato, quando Senka protestava continuamente e diceva a Murat: “Questo non è un appartamento, è un puttanaio!”. La storia si ripeteva, solo che adesso si trattava di una compagnia molto più rilassata di quei poveri disperati degli anni cinquanta. Eravamo stati colti dal progresso mondiale, LéviStrauss, Coca-Cola e rock’n’roll. La vita fra i due film Ti ricordi di Dolly Bell? e Papà... è in viaggio d’affari si svolgeva all’insegna delle Grandi speranze. Nell’epoca precedente la morte del compagno Tito, ma anche in seguito, i rocker cantavano canzoni impegnate, e fra loro il segno più profondo lo lasciarono Bora Č orba e gli Azra di Johnny Štulić. Comunque i giovani amavano soprattutto il rock “pastorale” di Goran Bregović, che era riuscito a tradurre in lingua “pastorale” la musica dei Led Zeppelin. Dopo Hajdučka česma e il concerto che vide arrivare centomila persone, la zia di Vesna Bajčetić interpretò a modo suo il successo di Bregović: “Se sua madre fosse viva lui non avrebbe fatto niente di tutto questo!”. Quando gli Zeppelin scomparvero dalla scena lui aveva già alle spalle un disco della nuova ondata. E poiché desiderava vivere cent’anni fece una canzone in cui esprimeva l’orrore verso i centenari. L’apparizione dei Zabranjeno pušenje, Elvis J. Kurtović e Top lista nadrealista fu un’autentica rivoluzione. Quest’arte popolare permise agli eredi della Cronaca di Travnik e del Ponte sulla Drina di riconoscersi nelle loro canzoni, ma anche nelle parodie televisive. Tassisti, macellai, venditori di cevapcici guardavano i Nadrealisti e ridevano dei propri stereotipi nelle gag che riprendevano gli schemi dei Monty Python. Non si trattava di una semplice scopiazzatura dei famosi comici inglesi, ma di un gioco con gli stereotipi già sbeffeggiati con successo da Terry Jones e Terry Gilliam. Faceva lo stesso anche Rainer
Werner Fassbinder, il grande regista tedesco. Aveva riconosciuto come stereotipo il gigante hollywoodiano Douglas Sirk e i suoi magnifici melodrammi. Su quella base realizzò opere cinematografiche moderne che resero famoso il cinema tedesco degli anni ottanta, fra le quali il suo film più famoso, Il matrimonio di Maria Braun. Fu uno dei rari artisti che, sempre servendosi di stereotipi, incollò milioni di spettatori ai loro schermi televisivi e li costrinse a guardare un tipo di arte non frivola. Si trattava della serie Berlin Alexanderplatz. E quelli erano tempi in cui la televisione creava vere opere d’arte. Ci radunavamo in via Šenoa 14, assieme all’attore e cantante Karajlić “Dottor Karajlić”, e guardavamo l’opera artistica di Fassbinder, riconoscendo le analogie tra i procedimenti che usavamo nel cinema e quelli che si usavano nel rock’n’roll. Capimmo che gli anni ottanta nel cinema e nella musica erano significativi per il fatto che l’originalità dell’artista si misurava in base a quanto e come si discostava dagli stereotipi esistenti, ma anche con il rispetto della base melodrammatica, dalla quale – che si tratti di Euripide, Shakespeare o del destino di Babo Atif investito da un treno – nasce una potente esperienza emotiva. Un’esperienza sempre accettata dall’artista contemporaneo che, comprendendo tutto ciò, reagiva in armonia con i tempi e in modo personale. Il fenomeno che apprezzammo di più fu l’esordio dei Clash, soprattutto quell’eroe di Strummer, uno che non aveva neppure da mangiare, e mentre noi ascoltavamo senza posa il suo album London Calling, lui se n’era andato in Nicaragua a combattere dalla parte dei sandinisti. Noi non ci avevamo neppure provato, e per questo Joe Strummer divenne un ideale irraggiungibile. Il movimento punk, per quanto fosse il prodotto di un intervento di design del manager londinese McLaren, aveva i suoi lati positivi. Aveva infranto gli ormai scialbi ideali di giustizia coltivati dai figli dei fiori fin dal millenovecentosessantotto e finché non si erano venduti a Wall Street. L’apparizione del Dottor Karajlić fu da me interpretata come la continuazione logica dei divertimenti europei introdotti dagli austroungarici nella nostra società primitiva, con le prime orchestre di ottoni e i maestri di cappella, ma anche con gli acrobati del circo. Lì finiva anche la necessità di indagare più a fondo sulla sua origine. Come tutti gli artisti, pure lui veniva da qualche parte, da qualche trapezio, ma qualsiasi fosse l’origine, questa era meno importante dell’ardire artistico da lui manifestato. Era il miglior modello dell’idea punk della diversità. Portava un golf fatto da sua madre e disprezzava il “trucco”. Alle teorie calcistiche applicava schemi filosofici, ravvivando in tal modo questa seria ginnastica spirituale e traducendola nella lingua del populismo; leggeva libri, andava regolarmente nelle sale di scommesse e puntava in modo irrazionale sulle vittorie del Železničar, anche quando era evidente che la sua squadra preferita non aveva la minima probabilità di trionfare. Nel millenovecentottantasei, al concerto del gruppo Zabranjeno pušenje, a Fiume, il Dottor Karajlić disse: “il Maresciallo è crepato”. Tutti rimasero interdetti. Alcuni sostenevano che lui intendesse l’amplificatore di marca Maresciallo, mentre altri non dubitavano che pensasse al compagno Tito. In seguito si dimostrò che per i nostri concittadini il problema maggiore era l’idea di chiamare Tito in quel modo, e il fatto che qualcuno lo prendesse per il culo. La cosa più grave era che non accettavano il fatto che Tito in ogni caso era morto. La provocazione di Karajlić al concerto di Fiume e l’affermazione che il Maresciallo era crepato furono archiviate nel ricordo degli jugoslavi di sentimenti libertari come un coraggioso prendersi gioco della funzione totemica del compagno Tito. Ma si dimostrò ben presto che prendersi gioco degli stereotipi alla televisione, o di quelli sulla vita e la morte, non era la stessa cosa. Quando da via JNA svoltò in via Šenoa, parlando di questioni artistiche e politiche correnti, Karajlić non sapeva che, in quel momento, la passeggiata per la città rappresentava una prova della gravità della sua trasgressione politica. A quell’incidente non fu dato molto spazio sui giornali e alla televisione, ma in compenso la
contesa fu trasferita alla strada, per dare modo al popolo bosniaco di pronunciare la sentenza contro il trasgressore. Il Dottor Karajlić corse in casa mia e mi mostrò un taglio e un bernoccolo sopra l’occhio destro. Gli aggressori gli erano saltati addosso e con una serie di colpi avevano cercato di metterlo a terra. Mentre lo picchiavano, uno di loro diceva: “Se non ti piace Tito, raccogli i tuoi stracci e vai a Belgrado, in culo a tua madre”. Non riuscirono a buttarlo a terra, perché si erano ingarbugliati per paura di essere visti da chi passava per via Titova. Infuriato e con le sole calze ai piedi corsi fuori in strada, a cercare gli aggressori. Quelli naturalmente erano spariti, e a noi non rimase altro che tirare a indovinare se l’avessero fatto spontaneamente, oppure se si fosse trattato di un gruppo organizzato dai servizi segreti, cosa che in Bosnia era un classico. Quando critichi la politica di solito sei sistemato da qualche “pacchetto organizzato di strada”, oppure in un senso unico vieni inseguito da un camion che ha l’intenzione di investirti. Al poeta Rajko Petrov Nogo era successo proprio così. E che cosa ti puoi aspettare dai tuoi concittadini se entri in conflitto con la grande politica? Quando lo scrittore Meša Selimović – autore di Il derviscio e la morte e la fortezza – criticò Branko Mikulić, pochi si arrischiavano a salutarlo per strada. Solo la dottoressa Lagumdžija camminava coraggiosamente sottobraccio con lui per le vie di Sarajevo. I migliori amici di Selimović giravano la testa dall’altra parte o attraversavano la strada. All’Hotel Evropa si nascondevano dietro ai giornali aperti, alcuni addirittura prendevano il cappotto e sparivano nelle strade vicine. Stribor era venuto al mondo mentre mi portavo ancora dietro il bagaglio costituito dal mio passato di Gorica, dove avevo trascorso l’infanzia in un ambiente povero ma attraente, alla ricerca di risposte alle domande esistenziali fondamentali, in seguito tradotte nel linguaggio dell’arte. Quei tempi difficili erano stati premiati con grandi riconoscimenti a festival cinematografici internazionali. E, miracolo, le prime osservazioni e le prime frasi comiche di Stribor nascevano da una base esistenziale. Da qui la sua preoccupazione per il nostro cane Piksi, e la paura che fosse divorato da un Leone d’oro, dopo la vittoria a Venezia di Dolly Bell. Sua sorella, Dunja Kusturica, nacque al suono della musica dei Clash e nel fumo di sigarette del nostro appartamento di via Šenoa 14. A quel tempo accoglievamo l’alba in eccentriche discussioni tipicamente slave e in cene oziose: la notte trascorreva per esempio discutendo se l’accendino Ronson fosse meglio del Dupont, dato che era piazzato meglio sul mercato, oppure si aspettava il giorno decifrando con successo la rappresentazione di Wilson, Einstein on the Beach. Erano tempi in cui nella nostra mente si fondevano assieme due esperienze di vita, la miseria politica sarajevese, seguita dal crollo del titoismo e dalle speranze di un futuro necessariamente migliore. Quell’idea era sottolineata dalla forza della musica dei Clash e dalla stravagante ma anche popolare cultura punk degli anni ottanta, che appariva come uno scudo contro l’incombente mostro di Mtv e della sua canalizzazione, che a quell’epoca cominciava a riversarsi dagli schermi televisivi e minacciava di seppellirci sotto i suoi escrementi musicali. L’interrogativo formulato per la prima volta da Joe Strummer – che aveva così formato il pensiero di milioni di persone – nella canzone Should I stay or should I go?, fu risolto con la nostra partenza da Sarajevo per gli Usa. Quella decisione non aveva un fondo politico: la mia città natale non si adattava più agli abiti che a quel tempo amavo portare, e inoltre Sarajevo non sembrava più una Borsa favorevole alle quotazioni dei miei futuri lavori artistici. Accettai l’offerta di Forman di sostituirlo alla Columbia University e per la seconda volta nella mia vita, ma ora per sempre, me ne andai da Sarajevo. Era il millenovecentottantotto, quando lasciammo via Šenoa 14. Per tutto il tempo, mentre noi facevamo i bagagli e i nostri amici e genitori esprimevano la loro tristezza, la televisione trasmetteva in diretta la “Rivoluzione dello yogurt”, ossia i momenti in cui la Vojvodina
perdeva la sua autonomia e ovunque in Jugoslavia si stava preparando il vergognoso schifo futuro.
ARRIVEDERCI, PAESE AMATO Tutte le strade che da Sarajevo conducevano al grande mondo, ma anche i ritorni nella città natale, passavano attraverso Belgrado e l’appartamento della zia Biba. Così fu anche quando Dunja, Stribor, Maja e io ci trasferimmo in America. Il viaggio per New York passava per Terazije n. 6. Quella per me era una piccola vacanza: soprattutto mi rallegrava il pensiero della zia, che con il suo buonumore e il suo buonsenso iniettava decisione e forza nella mia vita, come un vento carico di ossigeno ravviva all’improvviso il fuoco pigro di un campeggio e lo fa ardere con più forza e convinzione. Dopo essere stata la guida ideale di mio padre, mia zia era stata uno dei pilastri della mia crescita. Purtroppo, quando partii per New York per insegnare alla Columbia, lo sguardo di mia zia aveva già cominciato a spegnersi, e la serenità che lei diffondeva sempre attorno a sé, ovunque fosse, era passata alla storia e all’oblio. La malinconia tipica del diventar vecchi in mia zia era nata soprattutto a causa di un’altra delusione, il conflitto finale con il marito Ljubomir Rajnvajn. Lui aveva trovato una pittrice di trent’anni più giovane, una certa Gavrankapetanović, e cercava solo di strappare qualche dinaro dalla vita comune con Biba in modo da trasferirsi poi a Herceg Novi. L’unico modo in cui quel professore di giornalismo di nuovo conio poteva arrivare a fare un po’ di soldi era la vendita dell’appartamento di Terazije. Mia zia si opponeva, insistendo sul fatto che lei non poteva immaginarsi una vita priva degli eventi e delle istituzioni culturali a cui era abituata e che si trovavano, come affermava, lì a un passo. “Mio caro Emir, basta che faccia un passo fuori dal mio portone e trovo subito il Dušanov Grad, il miglior ristorante di Belgrado, cento metri più in là ci sono il Teatro e il Museo nazionale, sono solo a dieci minuti di passeggiata dalla terrazza panoramica del Vincitore al Kalemengdan, e a un quarto d’ora dalla sala Kolarac...” Era sufficiente che uno di loro non fosse d’accordo sulla vendita per mandare tutto all’aria, per cui la posizione di Ljubomir Rajnvajn era ancor più difficile. Doveva mantenersi tranquillo e non far capire quanto odiava mia zia, ma la guardava come se volesse stritolarla, e se solo avesse potuto l’avrebbe sicuramente fatto. Era convinto che con il nostro aiuto, ossia con l’aiuto dei membri ragionevoli della famiglia, sarebbe riuscito a strappare un bel gruzzolo per una vita migliore nell’Adriatico meridionale. Mia zia, dalla zona dell’appartamento in cui si era barricata, tendendo l’orecchio ai passi del suo ex marito, cominciava con molta soddisfazione la giornata urlando: “Anche l’armonica di Slavenka vi siete portati via, maledetti che non siete altro! Sai Ljubomir quando potrai approfittare di me?! Mai! Ti prenderai solo una parte della casa!...” diceva la zia alzando il dito medio e si scuoteva di rabbia perché Ljubomir non poteva vedere quel gesto. Quando, un anno dopo che ci eravamo visti per l’ultima volta, tornai da New York a Belgrado per ricevere il premio intitolato all’AVNOJ (Consiglio antifascista di liberazione popolare della Jugoslavia, supremo organo politico e militare durante la Resistenza), il massimo riconoscimento della Repubblica socialista federativa di Jugoslavia, la zia sembrava un combattente stremato e una donna stanca. Il sorriso e l’abbraccio di Biba erano ancora pieni di energia, ma questo confermava l’idea che lei ormai vivesse solo dei miei successi, un elemento terapeutico che alleviava almeno un po’ le sofferenze inflitte da quella resa dei conti finale. Prima di uscire per la cerimonia di premiazione dovetti sedermi in cucina con Ljubomir Rajnvajn, dietro sua insistenza. Lui cercava di convincermi che era necessario farla finita con l’orrore della loro vita comune, prima di una catastrofe più grave. Mia zia apriva la porta ogni momento e diceva: “Vuole cacciarmi fuori di casa mia! È la solita vecchia idea della famiglia Rajnvajn, sono
già venticinque anni che ci provano! Emir, figlio mio, non credergli, è un ladro come le sue sorelle, quelle puttane tedesche!”. “Adesso, grande Emir, lo vedi da te dove mi tocca vivere.” Un attimo dopo essere scomparsa dietro la porta, la zia faceva capolino di nuovo, di sbieco, da dietro lo stipite, come Chaplin: “Come, dove ti tocca vivere? Ljubomir, non osare avvelenare il mio bambino con le tue bugie! Mi ha sposato, Emir, solo per fare carriera nel giornalismo grazie alla mia medaglia. Se non ci fossi stata io, farebbe il reporter dal mercato per il quotidiano ‘Pobjeda’ di Titograd e non farebbe passeggiare il suo culo per le metropoli internazionali!”. Lo zio insisteva che era necessario essere ragionevoli e mi pregava di fare qualcosa per la divisione dell’appartamento, in modo che lui potesse vendere la sua parte; anche perché la zia, fra l’altro, da dietro le barricate, gli mandava a dire che lo avrebbe “ammazzato nel sonno”. In realtà, Biba era stanca della vita ed era stata già alcune volte in cura, la prima per una malattia polmonare, e poi per una forma di depressione. Prendeva sedativi molto forti e la sua sofferenza psicologica non faceva che aumentare la paura dei tempi che stavano per arrivare. Si rallegrò molto quando le dissi che alla consegna del premio avrebbe avuto un posto d’onore. Dopo la mia spiacevole conversazione con Rajnvajn si preparò con cura per andare al Consiglio esecutivo federale, dove si sarebbe tenuta la premiazione. Continuava a ripetere, mentre si truccava: “Non sia mai che un Ljubomir Rajnvajn, un delinquente austriaco, con le sue sorelle puttane tedesche, scacci di casa Biba Kusturica, partigiana della prima ora e decorata!”. Neppure allora mia zia, pur stanca e malata, aveva perso il gusto di andare in posti importanti, ben vestita, e di conoscere gente altolocata. Come se in tal modo cercasse di far rivivere i tempi passati, quando prestava servizio nelle metropoli europee, organizzava ricevimenti ufficiali da Berna a Praga, mentre a Belgrado in quel suo appartamento ospitava Vinaver e Vjekoslav Afrić e fior di scienziati come il famoso biologo Siniša Stanković. L’atrio del Consiglio esecutivo federale era affollato di personaggi noti venuti a rendere ancor più solenne la consegna del premio AVNOJ. Fra gli invitati c’era anche la grande poetessa Desanka Maksimović, che pur essendo avanti con gli anni guardava ancora con occhi di donna, e non di persona anziana, come mi sarei aspettato. Conobbi anche altri ospiti della cerimonia; fra gli altri colsi lo sguardo di Stipe Šuvar che saltò fuori da una porta, per scomparire subito dietro un’altra. Alle persone attorno a sé Desanka diceva: “Che giovane meraviglioso, come un Dioniso, proprio un bell’uomo!”. La zia Biba si avvicinò alla poetessa e con un largo sorriso disse: “Io sono la zia di Emir!”. Desanka si girò verso Biba e le chiese stupita: “Emir chi?”. Quella sera lessi il testo del discorso di ringraziamento che avevo scritto in casa della zia, nelle rare pause fra gli attacchi verbali eruttati da zia Biba contro Ljubomir Rajnvajn. Ecco il testo:
Quando sono stato informato che avrei dovuto ringraziare a nome dei vincitori del premio dell’AVNOJ ho accettato senza riflettere troppo, anche se so che oggi le parole si svalutano più velocemente del dinaro. (Avevo capito che quella era un’occasione per dire,
pubblicamente e da un luogo da dove si sentiva bene, quello che pensavo del paese di cui ero cittadino.)
Lo faccio con particolare piacere, poiché non appartengo a nessun partito politico, e per questo posso parlare a nome di una generazione sacrificata dall’ideologia della Lega
dei comunisti della Jugoslavia e dei suoi capi, che per lunghi anni, in modo pianificato e razionale, hanno compiuto devastazioni di ogni genere. E questo, come dicono i dati, è riuscito loro perfettamente. L’unica cosa che non sono riusciti a fare è stato distruggere il nostro spirito, che, come tutte le altre cose clandestine, è rimasto la sola arma nella lotta per una società migliore, cui la mia generazione, e penso tutte le altre, continuano a credere, considerandola l’ultimo valore rimasto. Nella confusione emotiva di questi giorni in cui, per la prima volta nella mia vita privata e in quella pubblica, si verificano avvenimenti storici di portata straordinaria, rotture e sconvolgimenti, io, guardando tutto ciò da grande distanza, da New York, l’ho vissuto in modo molto intenso, e particolarmente doloroso, specie per quel che riguarda il crollo della Jugoslavia. Per questo mi sono anche chiesto che senso abbia oggi ricevere il premio dell’AVNOJ. Che senso abbia ricevere il più alto riconoscimento in un paese che esiste come una comunità di popoli in lotta, di tribù coinvolte in una guerra generale, un paese con un sistema di valori infranto, un paese di cittadini ingannati dal potere, di “mezzi cittadini” ancora rintanati, per la maggior parte, dietro a facciate non intonacate, in realtà dietro a fondali con cui è stata offuscata la loro coscienza politica e qualunque capacità di pensare politicamente. Come accettare il premio in un paese che si è trovato all’improvviso in coda alla storia, dietro a quasi tutti i paesi dell’Europa orientale (escluse Albania e Romania), dove, grazie a rivolte politiche di massa, si è sviluppata l’essenza bolscevico monarchica del socialismo jugoslavo. E allora perché sono venuto qui e ho accettato di ricevere il premio dell’AVNOJ? Perché non voglio rimanere completamente privo di fede. Non avere fede, almeno così dicono i Vangeli, significherebbe non esistere. Quindi, con il desiderio di credere e, malgrado tutto, di sperare, rendo un piccolo servigio a me stesso. Credo che un appello trasmesso da questo luogo, dove si sono riuniti coloro la cui opera ha meritato il maggior riconoscimento di questo paese, possa essere una voce autorevole in grado di darci, quindi, la possibilità di annotare nelle nostre agende speranze e fede nella verità. Sono uno di quelli il cui cuore ha palpitato di felicità quando l’anno scorso a Žuta Greda il popolo montenegrino, per anni bastonato dalla propria classe politica che avrebbe voluto abbassarne gli standard di vita equiparandoli a quelli del Congo, con la completa connivenza dei vertici dell’esecutivo, è riuscito a restituire quelle bastonate e ad abbattere il potere costituito. Il mio cuore ha palpitato di felicità, ma ben presto sono stato anche colto dall’angosciata consapevolezza di come tutto sia poi finito alle frontiere della nazione, della Repubblica. Lì la causa principale non è forse stata quel “mezzo cittadino” rannicchiato dietro a fondali, costruiti spartendo sì denaro altrui, non guadagnato, quello che le masse popolari si sono divise con le autorità, che costruendo per sé delle ville, e per il popolo casette di vacanze, si erano assicurate un così lungo dominio? Non ha forse, quel “mezzo cittadino”, posto sullo smembrato mercato jugoslavo anche una lacera ipoteca civile che ha gravato a lungo, impedendo quelle sommosse politiche e sociali delle quali siamo testimoni ovunque nel mondo? Se l’insurrezione montenegrina, che all’inizio era una rivolta sociale e politica, è rimasta senza alcun dubbio nazionale, e se dietro a noi abbiamo già gli avvenimenti di Repubblica ceca, Polonia e Germania, l’interrogativo per la storia è come mai anche in seguito il popolo si sia fermato e, supponendo che qualcun altro non sia loro simpatico, da dove abbia tratto la capacità di sopportazione e come mai sia rimasto dietro ai propri
problematici capi, tacendo o escludendosi dal gioco di trasformazione del mondo. Poiché il mondo sta cambiando, non c’è alcun dubbio, nelle strade, e questo ce lo dicono le esperienze di Praga, ma anche di Berlino, dove è stato abbattuto non solo il Muro, ma anche il tiranno, la cui piscina, come prova della sua corruzione, è stata mostrata alla televisione americana per quindici giorni di seguito! Che cosa succederebbe da un giorno all’altro alle centinaia di nostri Honecker, se solo i campioni di un sistema legale la smettessero di strepitare come belve ferite e permettessero alla polizia di arrestare, in modo stalinista o democratico, tutti coloro che, costruendo per sé le ville, hanno devastato ciò che è nostro? O tutte queste aree rimaste escluse dai cambiamenti sostanziali finiranno come quel personaggio di Andrić, quell’Alihodža che accolse il nuovo potere inchiodato per un orecchio al ponte sulla Drina, vittima di quelli che la pensavano allo stesso modo, oppure l’immiserimento e il rilassamento del livello di civiltà cresceranno ancora, finché quel “mezzo cittadino”, sulla cui corruzione si conta, non inizierà, al posto del pane e del latte, ad arraffare muri e calce per i suoi pasti. È sicuro che tutti noi desideriamo andare in Europa. Ma sul treno che porta in Europa non si può salire assieme ai politici che hanno costruito le loro carriere allo stesso modo di Honecker, Ceausescu, Hoxha, Živković... Non si può salire con quelli che oggi governano come eredi di quella politica. Non si può andare là con loro, perché in Europa non si va senza aver saldato i conti. Sono incline a pensarla come quel personaggio di Havel, per il quale solo gli anticomunisti sono più odiosi dei comunisti. Non è questione se qualcuno di noi odi o ami l’ideologia comunista. La cosa importante è che quel concetto politico si è sviluppato sulla tirannia monarchica di un sistema fondato su un unico partito, assolutamente provinciale, claustrofobico, nutrito di rabbia e non di reali necessità umane, e che per di più non ha superato l’esame del tempo. Tuttavia, per come stanno le cose, quel concetto e quell’ideologia aspetteranno che scorra del sangue prima che al loro posto appaia ciò che non si chiama ideologia, ma che è qualitativamente superiore. L’uomo primitivo si è liberato dal caos introducendo l’ordine, classificando i concetti, dando loro un nome, creando i libri, come un medium per l’intesa reciproca. L’uomo moderno ha trovato nella politica un medium per l’intesa reciproca, perché il libro religioso è diventato un magazzino di concetti metafisici, un libro per l’apprendimento. Io vedo la Lega dei comunisti della Jugoslavia e la sua ideologia come medium contestabile, come il centro del caos jugoslavo, come ciò che blocca e rende impossibile la comunicazione nel territorio jugoslavo. Noi riceviamo il premio dell’AVNOJ alla cui fondazione ha contribuito in modo sostanziale la Lega dei comunisti, ma penso che abbiamo il diritto di pretendere che la nostra patria si salvi senza il ruolo predominante della Lega dei comunisti della Jugoslavia, perché la nostra esperienza la esclude da quel gioco. Con la frase: “Compagne e compagni, la situazione è complessa” – io ho iniziato il mio primo film, parafrasando la frase amletica dell’ideologo comunista, che siede torvo accanto alla bottiglia di acqua minerale e dirige le nostre infanzie, le nostre giovinezze, le nostre vite... Per quel politico tutto ciò che è necessità quotidiana, piccola vita umana, il suo vuoto spirituale, ha meno valore del suo sguardo fisso all’eternità e ai grandi progetti. E la sua ideologia ha spinto lo spirito jugoslavo degli anni quaranta più o meno nella clandestinità. Solo gli artisti di corte, abili servi di questi regimi, sono riusciti a truccare l’ideologia necessaria a questo nostro corrucciato politico megalomane, che va verso la
mummificazione e inorridisce di fronte a tutto ciò che è piccolo e umano. Penso che tutti quelli seduti qui e che sono stati premiati appartengano allo spirito clandestino, quello che è riuscito a preservarsi, a conservare la sua essenza malgrado tutto. Così sapranno salvare la faccia del proprio cortile davanti al mondo, mondo che in quel cortile sta arrivando con la forza della tecnologia e dell’angoscia che lo coglie. Noi ci siamo mantenuti malgrado l’ideologia. Malgrado la tirannia di un sistema monopartitico, uno spostamento in senso sociale è comunque avvenuto. L’ideologia dominante ha spalancato le porte al cataclisma jugoslavo, trascinandoci ancor di più nell’abisso. Se i sostenitori di questo progetto, del tutto fallito, non si ritirano, non arretrano di un passo e non lasciano il posto ai patrioti dando un segnale qualsiasi, ma umano e promettente, noi già domani ci chiederemo che premio abbiamo in realtà ricevuto.
Mentre leggevo il mio discorso, si poteva notare che stavo pronunciando qualcosa di molto diverso da ciò che i presenti al Consiglio esecutivo federale si aspettavano. Dopo la distribuzione dei premi, alla serata al Club degli scrittori, zia Biba raccontò a Maja un fatto importante della storia della nostra famiglia. Mi guardava senza batter ciglio mentre, all’altro capo del tavolo, seguivo un duello verbale fra Momo Kapor e Duško Kovačević. Duško aveva attratto la mia attenzione con le folli messe in scena dei suoi drammi, mentre Momo era il mio idolo della pop art. In quella conversazione, Momo esprimeva la sua disapprovazione per l’immoralità dimostrata da alcuni membri dell’Accademia serba di Scienze e arti che tradivano le proprie mogli e finanziavano le amanti, ma che “non avevano il coraggio di divorziare ufficialmente”. Biba non nascondeva la sua soddisfazione perché suo nipote era riuscito nella vita e perché gli effetti del mio lavoro avevano orientato i riflettori sul cognome Kusturica, dando notorietà, fra gli altri, anche a lei. La cosa che più faceva piacere a zia Biba era la consapevolezza di essere riuscita, in una fase della vita, a mantenere unita la nostra famiglia: “Anche se non sono riuscita a conservare la mia, perché non avrei dovuto aiutare a mantenere unita la famiglia di mio fratello?” disse a Maja, e le raccontò una storia dei primi anni settanta, quando mio padre si era innamorato di una bionda di Zagabria: “Avevo abbastanza potere per riuscire a evitare una catastrofe familiare. Non doveva succedere che il mio Emir crescesse senza padre! Mio fratello era innamorato pazzo di quella zagabrese. Senka non sapeva chi fosse, ma trovava nelle valigie e fra i vestiti di lui oggetti vari che quella donnaccia lasciava in giro per raggiungere i suoi scopi e separare i due coniugi. Senka mi aveva fatto capire che nella vita di Murat avvenivano cose drammatiche. Io mi preparo ben bene, e hop, sul treno per Sarajevo! Capito nel loro appartamentino e trovo la povera Senka in piena depressione, che fissa il linoleum della cucina. Emir è in giro per Gorica a divertirsi e lei continua a ripetere: ‘Chi lo salverà, mia cara Biba, e lo riporterà sulla retta via? Metà dei suoi amici sono già in riformatorio e in prigione. Lui mi ama, mi adora, ma non mi obbedisce per niente, che Dio mi aiuti!’. Io riparto ed eccomi al Segretariato federale, toc-toc sulla porta, da un compagno partigiano. Gli faccio: ‘Compagno, aiuto! Mio fratello si è innamorato di una zagabrese, per quella puttana vuole lasciare la moglie e il figlio e partire con l’altra nel servizio diplomatico’. Quel compagno conosceva Murat e va a verificare di che donna si tratti. Torna subito: ‘Non è una donna qualunque, è una doppia spia, lavora per noi e per i tedeschi. Se a lei non possiamo fare niente, la famiglia di Murat la possiamo aiutare. Tu, Biba, non preoccuparti di niente!’. Il piano di Murat di sfruttare le sue conoscenze nella diplomazia è fallito, non è diventato console a Bonn, quella zagabrese ha trovato subito un altro e si è sposata, e la nostra famiglia si è salvata dalla rovina”.
Biba non aveva mai raccontato quella storia a mia madre. Mentre entravamo nell’appartamento di Terazije, la zia toglieva alcuni catenacci dalla porta e ripeteva il ritornello sui suoi conflitti con Ljubomir Rajnvajn. Sempre sperando che lui sentisse: “Anche l’armonica di Slavenka vi siete portati via, delinquenti tedeschi, questa non ve la perdonerò mai, niente è sacro per voi!”. Si vedeva che la zia sentiva la mancanza di una qualsiasi risposta da parte del suo ex marito. Con un umore del tutto diverso sussurrava a me e a Maja: “Ragazzi, non è bene che usciamo di sera, chissà che cosa è in grado di farci quel delinquente tedesco!”. “Zia, i Rajnvajn sono austriaci, non tedeschi” dicevo io cercando di smorzare i toni. “È la stessa cosa, mio caro Emir, tu non li conosci!” Ben presto però fummo colti dalla stessa illogicità dimostrata da mia zia. Alla televisione quella sera mostrarono in diretta l’abbattimento di Ceausescu in Romania. Quell’uomo non aveva mai goduto delle mie simpatie, naturalmente, mi faceva orrore. Sia lui che sua moglie. Eppure, quando i “rivoluzionari” li spinsero al muro e li fucilarono, Maja e io ne fummo sconvolti. Dormimmo in soggiorno, su un divano letto. Con un materasso vecchio più di trent’anni, un residuato della vita della zia con Slavko Komarica, ai tempi del consolato in Svizzera. Ogni movimento di quella notte l’ho scolpito nella memoria come un dolore psicologico causato dalla triste situazione di mia zia, ma anche come il dolore fisico causato dalle molle del vetusto materasso.
DOVE SONO IN QUESTA STORIA Nel millenovecentonovantadue morì mio padre. Lo stesso anno la Jugoslavia scomparve e, dopo il distacco della Croazia, il telegiornale del primo canale della televisione francese iniziò con la notizia: “La Jugoslavie n’existe plus”. Maja, Dunja, Stribor e io, dopo due anni di vita in America, tornammo in Europa, con l’idea di vivere in Jugoslavia e in Francia. La Francia era il paese dove, dopo la Prima guerra mondiale, a Versailles, era stata creata la prima Jugoslavia. A maggior ragione ci addolorò il fatto che la giornalista francese avesse annunciato quella triste notizia con evidente entusiasmo; inoltre, ci rendemmo conto che la scelta di vivere in entrambi i paesi era irrealizzabile. Dato che la Jugoslavia non c’era più, non ci restava altro che stabilirci in Francia, che ora collaborava a distruggere del tutto la Jugoslavia. Si trattò veramente di un’azione concordata fra Vaticano, Germania e infine Usa? Anche questo un giorno verrà alla luce. Solo che, a quel punto, non avrà più importanza. Alla vigilia della dissoluzione finale della Repubblica socialista federativa di Jugoslavia, nel febbraio millenovecentonovantadue, Johnny Depp e io eravamo a Sarajevo. Volevo fare un festival cinematografico sulla Jahorina, qualcosa di simile al Fest di Belgrado. “Ma che festival ti salta in mente, scappa via di qua il più lontano possibile!” diceva mia madre. Mi pareva che l’inverno, la neve e Johnny Depp fossero i miei argomenti a favore di quel festival. Nel freddo ufficio del ministero della Cultura della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina aspettammo il ministro tanto a lungo che a Johnny venne la febbre. Il ministro della Cultura, un certo Hasić, alla fine arrivò e ci porse la sua mano moscia. Guardò Johnny con espressione interrogativa, pensando che si trattasse di uno dei miei zingari. “Ma la Jahorina, caro mio, non è un posto adatto per un festival, vai piuttosto sulla Bjelašnica. Sulla Jahorina alla gente non piace fare il bagno!” Il ministro voleva dire che sulla Bjelašnica vivono musulmani. Naturalmente, del festival non se ne fece niente. Due mesi dopo cominciò la guerra in Bosnia, e il ministro se la diede a gambe fino in Svezia. La mia amicizia con Johnny nasceva sul grande crepaccio creato dalla scomparsa della Jugoslavia. Le riprese del film Arizona Dream erano iniziate sulle battute introduttive di quel dramma. La Stella rossa era diventata campione d’Europa del calcio, e a Sarajevo Sead Sušić, fratello del leggendario Safet, litigava con i negozianti di Baščaršija che non nascondevano il loro odio per la Stella e per tutto ciò che questa ricordava. “Fanculo alla loro madre cetnika!” borbottavano i commercianti del centro di Sarajevo. Nei villaggi, a quel tempo, gli invitati ai matrimoni serbi, partendo per la cerimonia, si esercitavano, en passant, a disegnare croci sulle moschee. All’inizio delle riprese di Arizona Dream, secondo le vecchie abitudini ero caduto in depressione. Fu per merito di Johnny che mi tirai fuori da quello stato angoscioso. Come i ragazzi di periferia più coraggiosi, quando si trattò di oltrepassare la linea lo fece senza pensarci due volte. Con la stessa velocità gli zingari di Gorica, soprattutto durante l’adolescenza, facevano di tutto per aiutarsi a vicenda nei momenti difficili. Aiutando me, Johnny rischiava molto più dei miei indiani. Gli zingari di Gorica non avevano niente da perdere. Proprio allora, Depp era sulla strada giusta per diventare la stella più pagata di Hollywood. Per garantirmi una pausa, finse un improvviso problema gastrico, assicurandomi sette giorni di riposo. Quell’intervallo, ne sono sicuro, salvò la felice conclusione del film Arizona Dream. Ma le mie inquietudini non erano finite. La lavorazione del film veniva spesso interrotta, e alla fine fuggii dal set. Divenni oggetto di un
inseguimento, forse il più grande nella storia del cinema. Compagnie di assicurazione, produttori cinematografici, psichiatri, tutti arrivavano e lanciavano ipotesi, fino a Sarajevo e in Montenegro. Per tutto il tempo Johnny rimase ad aspettare gli sviluppi, rifiutando le offerte di altre produzioni. Il suo convincimento era chiaro: si doveva aspettare che l’autore del Tempo dei gitani superasse la crisi psicologica. Alla fine, il film fu completato, e perfino premiato a Berlino con l’Orso d’argento per la regia. In Francia e in Italia ebbe una buona accoglienza. In seguito, quando Johnny fece una grande carriera, ne fui felice. Non è frequente che il re di Hollywood si comporti come un indiano di Gorica, piuttosto che come un americano del Kentucky. A Sarajevo la fine di febbraio era sempre il periodo più freddo. Era proprio quel freddo gelido sarajevese di cui parlava mia madre. Njego, Truman, i due Zimić Avdo e Beli, Zoran Bilan, Č uka, Sladjo, Raka Jevtić e Zlaja Mulabdić accesero la griglia nel giardino del ristorante Passeggio. C’era anche il Dottor Karajlić. Aveva portato gli altoparlanti e l’amplificatore, per far sì che si sentisse meglio la voce libertaria della resistenza contro l’ingiustizia. Paša si unì a loro più tardi, a causa della consueta passeggiata domenicale con sua moglie Cuna. Per le passeggiate in città, lui le ordinava di indossare i pantaloni più attillati che possedeva, per mettere in massimo risalto le sue rotondità. Poi si incamminavano, da Svrakino selo verso Marijin Dvor, dove avevano un negozio di bigiotteria. Non si trattava della solita passeggiata sarajevese in cui i partner, stretti l’uno all’altro, a braccetto, camminano senza una meta precisa. Cuna camminava davanti a Paša, e lui lanciava occhiate fulminee a destra e a sinistra, come un cane pronto a mordere a ogni passo. Bastava che qualcuno indirizzasse una battutaccia a Cuna. In quel caso, Paša reagiva con prontezza. Metteva ko l’aggressore. Ma succedeva anche che, alla fine, Paša e Cuna, marito e moglie, pestassero assieme il cittadino voglioso che si era acceso per quel culo scultoreo. Il Passeggio era il primo, ma anche l’ultimo porto nel quale, come fossero anche loro delle barche, erano ormeggiati i miei amici. Ondeggiavano, ora, in preda a venti di tempesta nuovi e sconosciuti. Furono sballottati per tutto il tempo in cui lo scioglimento della Jugoslavia, iniziato molto prima che divenisse evidente, continuò a produrre correnti e ondate devastanti. I miei amici avevano in gran parte alle spalle scuole non portate a termine, sogni falliti, matrimoni naufragati, e tuttavia non erano scontenti. Alcuni di loro si erano già disintossicati dall’alcol, uno era morto di eroina, avevano avuto figli, fra loro c’erano dei divorziati, pochi avevano raggiunto lo standard dei loro genitori, combattenti con Tito. Trascorrevano assieme la maggior parte del tempo al Passeggio, che ora qualcuno voleva portargli via! Alle prime elezioni democratiche, musulmani, serbi e croati schiacciarono noi cittadini che credevamo che nei Balcani fosse possibile essere solo cittadini. Fummo sconfitti. In Bosnia il popolo scelse i partiti politici etnici. Fu quella la scorciatoia per arrivare nel modo più rapido e sicuro alla guerra. Alla fine delle elezioni i riformisti di Marković, che noi figli di partigiani sostenevamo, furono annientati, mentre tutti i nomi noti, quelli che erano chiamati “gente di città” giuravano di aver votato proprio per Marković. In realtà avevano paura di rivelare apertamente da che parte li avesse condotti il cuore, paura della Sicurezza statale, ma anche di quelle nuove autorità nazionalistiche che rappresentavano il futuro politico della Bosnia ed Erzegovina. Solo un impresario edile di Pale, al Passeggio, tra un bicchiere e l’altro fu infinitamente onesto. Gli chiesi: “Per chi hai votato tu, Vukota?”. Lui mi disse: “Fratello, mi hanno chiuso in quella cabina, la mia mano si è diretta per fare un segno sui riformisti, Kecmanović e Sidran, ma poi il cuore ha dato l’ordine alla matita di andare
dalla parte opposta. Ho fatto un segno su Karadžić”. La vita nella democrazia aprì nuove ferite, mentre le vecchie non erano ancora rimarginate. I sentimenti nazionali divamparono. La tensione divenne il quotidiano sia di coloro che avevano votato, sia di coloro che non avevano operato nessuna scelta politica. Ma gli uomini sono uomini. Si adattano a tutto e inghiottono qualsiasi cosa. I serbi a nessun costo volevano staccarsi dalla Jugoslavia. I musulmani, in quanto etnia maggioritaria in Bosnia ed Erzegovina, avevano inteso che lo Stato appartenesse a loro. Con loro dispiacere, in quello Stato non volevano entrare non solo i serbi, ma neppure i croati, ai quali ricordava la Jugoslavia da cui erano pronti ad andarsene. Situazione ideale. Apparve uno da fuori e risolse tutti i loro dilemmi. La guerra impazzava già in Croazia. La maggior parte degli abitanti di Sarajevo era convinta che “Ma figurati, qui la guerra non ci sarà, neanche per idea!”. Io non sapevo in che modo le guerre potessero arrivarti sulla soglia di casa. Ma già nel millenovecentonovanta avevo vissuto un incontro come un preavviso dell’imprenditoria bellica. Un certo Omerović, del quartiere di Visoko, mi avvicinò un giorno che stavo comprando una focaccia al mercato. “Sei l’amico di Vampo?” Si riferiva a un avventuriero che aveva un bar nel centro di Visoko e assomigliava a un vampiro, perché si era ustionato in un incidente stradale. “Sì” dissi, e lui allora mi parlò con tono da cospiratore: “Vampo mi ha detto che ti interessano certi giocattoli che colleziono anch’io”. Lo guardai confuso, e lui mi sussurrò: “Dei kalashnikov, amico, mi cascano in mano come pere mature”. Quell’Omerović mi portò a casa sua; scendemmo in cantina, dove, ricoperte da un telo militare, giacevano decine di casse di legno piene zeppe di fucili automatici. Quell’uomo dall’aspetto repellente non scherzava. “Gli fotteremo la madre loro, quando verrà il momento. Tutti li stermineremo, quei cetnici e quegli ustascia.” “Ti farò sapere tramite Vampo quando avrò raccolto i soldi” dissi, cercando di svignarmela al più presto da quell’umido magazzino bosniaco. “Fratello, sei dei nostri, e io ti faccio centocinquanta marchi al pezzo. Sul mercato si vende a trecento, fai un po’ tu” disse Omerović mentre uscivo dal cortile di casa sua, e aggiunse: “Non troverai da nessuna parte merce così, fratello. Ma non farne parola a nessuno! Non è importante di che fede siamo, l’importante è che siamo musulmani, ah, ah, ah!”. “Mi vedrò con Vampo e ti farò sapere appena mi pagano certi soldi del film, e poi faremo affari” dissi, senza la benché minima intenzione di tornare in quel cortile, e sconvolto corsi a casa. L’unico posto di Sarajevo dove le storie di guerra perdevano peso e diventavano meno pericolose era proprio il Passeggio. Nei confronti del fenomeno guerra gli avventori abituali si comportavano proprio come un pessimo studente che riconosce di fronte a se stesso la possibilità di non superare l’esame. Non ha dedicato al libro neppure un minuto, ma, malgrado ciò, ha deciso che l’indomani guarderà il professore dritto negli occhi. Anche se non sa niente, spera di non fallire! Al Passeggio la guerra non arrivava mai all’ordine del giorno e non era seriamente presa in considerazione. L’avventore più ubriaco della generazione più vecchia della nostra diceva: “Perché ve la siete fatta sotto? Da che mondo è mondo la gente si azzuffa e si fotte, io non posso fare né l’una né l’altra cosa ma mi piacerebbe almeno guardare, per farmi passare la voglia!”.
“Guardare che cosa, la prima o la seconda?” “Fa lo stesso, non c’è differenza, stai seduto e guardi la guerra, mezzo litro davanti a te, ordini del salame e formaggio di Travnik e te la godi!” Il Passeggio era di proprietà della fallita azienda alberghiera Balkan, e già i cecchini della cerchia dei ricchi bottegai vedevano questo locale come un loro possesso. Non la pensavano così i miei amici d’infanzia. Nessuno di loro aveva abbastanza soldi per comprare il Passeggio, ma non intendevano permettere che un grossista di frutta e verdura, l’ex poliziotto Delimustafić, usurpasse il loro salotto. Dal carbone di legna della povera griglia saliva un misero filo di fumo, la bassa pressione faceva la sua parte. Solo gli spiedini friggevano orgogliosamente nel loro olio. I miei compagni tenevano alti degli striscioni: “NON CEDIAMO IL NOSTRO BAR! ABBASSO I CAPITALISTI! LADRI FUORI DAL NOSTRO LOCALE!”. Tutto ciò commosse Johnny Depp, ma anche le telecamere della televisione di Sarajevo. “What a proud people,” esclamò il sensibile Johnny, “they fight for their bar, I had never seen that in my life.” Eravamo come gli esiliati di un dramma di Čechov, nel quale la minima possibilità di un cambiamento provoca paura e paralisi. Quella paura incatena come un sogno tormentoso e non permette di entrare in una nuova vita e di svegliarsi in un tempo nuovo, differente, e, forse ancora meglio, in uno spazio diverso. Questo sciopero inconsueto era stato preceduto da un colloquio degli avventori in rivolta con il sindaco di Sarajevo, il signor Muhamed Kreševljaković. L’incontro era stato mediato da un politico, sostenitore dei diritti umani, il diplomatico Srdjan Dizdarević. La riunione cominciò con le parole del più vecchio avventore del Passeggio, il signor Jozo Franjčević, che non menò il can per l’aia: “Signor sindaco, intendiamoci subito, io non sono un ubriacone, sono solo un frequentatore di bar, e per questo dichiaro responsabilmente che noi, clienti abituali del Passeggio, non rinunceremo mai ai nostri diritti sul nostro bar!”. Il sindaco non riusciva a capire di quali diritti parlasse il signor Franjčević. Lui vedeva questa faccenda, come molte altre che a Sarajevo erano irrisolvibili, ma non si sforzava di capirla. È probabile che, nella storia dell’umanità, non sia citato mai e in nessun luogo un diritto al bar che gli avventori acquisirebbero stando lì seduti a perdere tempo. Kreševljaković voleva fare il buon padrone di casa e chiese agli ospiti, i rivoltosi del bar: “Che cosa bevete, signori?” e Jozo Franjčević disse: “Una grappa doppia, se è possibile, così la fanciulla non deve tornare due volte”. La comunicazione con i passanti era la specialità dei miei amici del bar. Accompagnavano con applausi i passaggi delle belle ragazze davanti ai tavoli all’aperto, e quelli più vecchi le tampinavano: “La vicina vuole forse farci visita per un caffettino, un piccolo succo, o forse un alcolico delicato, un liquorino, per esempio?”. Stimolati dalla presenza dell’illustre ospite Depp, facevano a gara per superare in follia e umorismo i vertici raggiunti fino allora nelle battute. Mentre un uomo passava veloce su un motorino, tutto avvolto in sciarpe, un ventriloquo, penso fosse Č uka, prima imitò con la bocca una frenata, e poi gridò: “Compaesano!”, al che l’infelice motociclista si voltò, facendo girare il manubrio, e volò in un cespuglio, mentre il motorino andava a fracassarsi contro un albero. Risate e allegria a non finire. Un cevapcic era già nelle mani di Depp che rideva a crepapelle, mentre il mio compare Zoran Bilan, un uomo grande in tutti i sensi, gli stava versando una grappa e brindando: “Su, americano, beviamocene una, io e te!”.
All’assiderato Johnny diedi la mia giacca a vento. Dopo la grigliata al Passeggio andammo a pranzo in via Kate Govorušić 9a. Mio padre ci servì la sua “pentola bosniaca” e durante il pasto parlò in inglese. Per l’illustre ospite fu un sollievo, perché aveva appena trascorso ore intere come un attore di un film muto. Secondo la mia vecchia abitudine non gli chiesi, dopo il pranzo, se volesse riposare e rimanere in casa dei miei genitori. Lo portai a un appuntamento con un parchettista in via Petar Preradović 1. È una cosa poco elegante portare un ospite illustre in un appartamento non ancora finito? Forse sì, ma neppure la mia Senka era riuscita a impedirmi di soddisfare la mia tremenda necessità di condividere le cose belle con le persone che amo. E in seguito mi accorsi che anche Dunja e Stribor, quando vedono un bel film, una scena fantastica, non possono fare a meno di condividere quell’esperienza con le persone amate. Durante il pranzo Senka mi aveva chiesto: “Ma perché tormenti Johnny? Lascia che si faccia un sonnellino, che si riposi tranquillamente!”. Mentre Johnny fissava confuso il tappeto cinese avvolto nel nylon sotto il tavolo e poi mi guardava con aria interrogativa, io mi misi a ridere e spiegai: “Così mia madre lotta contro il rapido e facile deterioramento degli oggetti cari”. Johnny disse: “Wow”. E andammo nel mio nuovo appartamento. Soffiavamo sulle mani intirizzite, e Johnny faceva il giro delle grandi stanze dicendo: “Great man, really great,” mentre io discutevo con un ometto sulla posa del parquet. Raggiungemmo un accordo, accompagnai fuori il parchettista e osservai la scena che mi piaceva tanto. Le immagini più felici dei miei traslochi, e ce ne sono stati tanti nella mia vita, erano quelle del disordine creato dai mucchi di cose, sparse ovunque nello spazio vuoto. Dalle scatole di cartone, dai sacchetti e dagli armadi un po’ inclinati gli oggetti spuntano e guardano un uomo dritto negli occhi. Finché non li tocchi, ti sembra di vederli per la prima volta. Lo stesso accade con le fotografie accumulate nelle scatole da scarpe, e dato che la vita dura già da tempo, ce ne sono molte più di quanto non occorra. Allunghi la mano per prenderne una o due, e quelle iniziano a scivolarti via dalle dita e a cadere da tutte le parti, fuggono via come gli avvenimenti che scompaiono o si nascondono già al tuo sguardo nei meandri dell’oblio. L’incontro con quel disordine voluto è molto emozionante e tutto andrebbe per il meglio, se l’uomo non fosse maledetto. Quando decide che non guarderà più alcune di quelle cose, ecco che quelle cose ritornano, come portate da una forza sconosciuta. Gli oggetti indesiderati ti cadono regolarmente sotto gli occhi. E allora uno si dispiace di non averli gettati via in tempo. La pagina iniziale della rivista “Vox”, su di essa una caricatura di Ivo Andrić impalato su una penna stilografica. Johnny si chinò su quell’immagine e disse: “It looks like a commercial ad for horror movie”. Non gli risposi, ma ricordo che, quando fu pubblicata, vidi quell’immagine come una conferma reale dell’episodio comico con la vicina Velinka. Ma ora non si trattava più della minuscola farsa nella quale la vicina dal grande culo cade per terra e, per distogliere l’attenzione dall’avvenimento, dice: “...quando da un treppiede bosniaco togli una gamba, tutto va a farsi fottere”. Adesso era colpire con una mazza le fondamenta comuni, un picconare la comune costruzione bosniaca. “This guy is our Nobel Prize writer.” Johnny chiese perché qualcuno volesse impalare un Nobel su una penna. “Why did they treat him like this?”
Per quanto all’apparenza fosse difficile organizzare i miei pensieri, sparsi come le cose nel mio appartamento, quella era proprio la situazione che mi si addiceva di più. Quando i pensieri erano svegli e sparpagliati nei cassetti del mio cervello, li gestivo con maggior facilità. Non mi fu difficile spiegare chi fosse quel premio Nobel e perché fosse impalato su una penna: “Questa immagine riprende una scena brutale nella quale un protagonista del romanzo Il ponte sulla Drina, Radisav, viene impalato perché distrugge di notte ciò che i muratori costruiscono durante il giorno. La costruzione del ponte non progredisce, e alla fine colgono Radisav sul fatto e lo impalano. Tutto avviene al tempo del dominio ottomano sui Balcani e la costruzione del ponte è finanziata da Mehmed-pascià Sokolović, in origine un serbo, ora un influente suddito turco, un ricco condottiero. Il ponte è una sua fondazione benemerita. Le descrizioni della tortura di Radisav rappresentano nella nostra letteratura le più terribili pagine di naturalismo. Andrić è il mio eroe. Croato di nascita, serbo per vocazione. Era passato dalla parte del maggior perdente nei Balcani. È uno scrittore bravo come Thomas Mann, e quando un piccolo popolo ha un autore di tale grandezza, è un segno che, almeno in qualcosa, sta alla pari con i più grandi fratelli europei. La sua movimentata biografia dice che Andrić era membro dell’organizzazione Giovane Bosnia, che a Sarajevo aveva organizzato l’attentato all’erede al trono. Lui non era direttamente implicato in quella faccenda. Aveva conseguito il dottorato a Vienna, e quel fatto costituisce una delle fonti dell’odio a cui si abbeverano i musulmani bosniaci. Nella sua tesi è scritto, fra l’altro, che durante l’occupazione turca la vita spirituale in Bosnia si sviluppava unicamente nei monasteri ortodossi. Andrić era stato ambasciatore del Regno di Jugoslavia. Tito non lo amava ma non lo toccò, gli lasciò il suo posto nella letteratura jugoslava. Nessuno ha mai conosciuto così bene la gente di qui e nessuno raggiunse il livello di Andrić nel demistificare l’uomo balcanico. Fu l’unico che comprese fino in fondo quel triangolo drammatico: l’islam, il cattolicesimo, l’ortodossia, i cui amori sono, come scrisse, così lontani, e gli odi così vicini. I musulmani guardavano a Istanbul, i serbi a Mosca, e i croati al Vaticano. I loro amori erano là, mentre gli odi, quelli erano qui, fra loro. In una parola, un genio”. “And this magazine, where does it come from?” “Dalla democrazia. Si è lavorato assiduamente per domare tutti quelli che per nome e cognome appartenevano al gruppo etnico dei musulmani. Hanno perseguitato le pecorelle smarrite. Hanno continuato ad attaccare Sidran, lo scrittore delle sceneggiature dei miei primi due film. L’impalamento del premio Nobel è un avvertimento per Sidran: finirai così se non la smetti di mangiare carne di maiale. Con me hanno fatto lo stesso. Sidran alla fine l’hanno fatto tacere, nel mio caso non ci sono riusciti, per la mia congenita debolezza di carattere, ma anche perché io non vivevo più qui. Ancor prima delle elezioni ‘Vox’ dichiarava che i serbi sarebbero vissuti nella Musulmania come cittadini di seconda categoria. Lo humour di questi giovanotti ha fatto nascere un sorriso sul volto del presidente della Bosnia, Alija Izetbegović.” “You cannot call it funny!” “Neppure io credevo che si potesse definire spiritoso scrivere che qualcuno, di un’altra fede e di un’altra etnia, nel nuovo stato diventerà cittadino di seconda categoria.” “It’s scary, man!” “Il presidente Izetbegović si è fatto fotografare a scopo propagandistico con la rivista ‘Vox’ e con Andrić impalato sulla penna; teneva questo numero del giornale in mano e diceva sorridendo: ‘Scherzano in modo simpatico questi giovani...!’.” Io mi chiedevo in che modo questi gesti simpatici rallegrassero, per esempio, i capitani, i colonnelli, i generali dell’esercito jugoslavo. Perché se un mercante d’armi, un Omerović,
rivendeva i kalashnikov e li coccolava come fossero bebè, puoi solo immaginarti con quanta tenerezza i generali e i soldati serbi parlassero ai cannoni, ai tank e alle bombe. O, ancora peggio, con quanta tenerezza avrebbero parlato alle armi in loro possesso. Ce n’erano a iosa, dato che la Repubblica socialista federativa di Jugoslavia era il quarto produttore di armi al mondo. “I did not know you have such a big production of weapons!” “Me neither. I was just told this a few weeks ago!” Feci il caffè continuando a esaminare i vari oggetti, e la luce dell’improvviso sole invernale riempì il soggiorno. Johnny guardava le centinaia di fotografie che gli scivolavano via dalle mani, le raccoglieva, incuriosito, e di tanto in tanto mi chiedeva: “Who is this person in the picture?”. La luce, assieme a Johnny, rafforzava il fascino e l’ariosità dell’appartamento. La sua bellezza maggiore era data dalle finestre che si aprivano a sud e a est. Dal lato meridionale il monte Trebević scendeva ripido sul fiume Miljacka, mentre dall’altra parte si apriva l’enorme spazio del parco, dietro il quale si distinguevano la chiesa ortodossa e, alla sua sinistra, la cattedrale cattolica. La Torre dell’orologio non si vedeva, ma si sentiva bene. Davanti a noi si stendeva l’unica piazza che faceva sì che Sarajevo, almeno in un punto, assomigliasse alle città rinascimentali europee. Era proprio la bellezza di quell’appartamento e dei suoi dintorni a spingerci a ricominciare una nuova vita nella città natale, a dispetto degli amici che ci dicevano che era da irresponsabili ritornare dall’America in una zona che per la Cia era seriamente minacciata dalla guerra. Dato che la vita è breve, forse si preferisce allontanare l’idea della guerra in nome di sentimenti effimeri ma più gradevoli. Infatti, se così non fosse, l’intero pianeta si dovrebbe trasferire in America, dato che là la guerra non c’è mai. Oppure, l’intero pianeta dovrebbe diventare America. E questo per sfuggire alla guerra, oppure anche perché tutti noi vorremmo essere uguali agli americani? Ma la gente comunque preferisce l’avventura. “Se devo dirti la verità, preferisco vivere dove devo sfuggire a una granata, che a Mamaroneck, dove mi ammazza la solitudine” mi disse Maja. Lei era a favore di un ritorno in patria piuttosto che di una vita nella contea di Westchester, stato di New York. Non mi era estranea l’idea di Maja, secondo la quale le solitudini americane, come quelle assurde dei racconti di Carver, erano un’avventura psicologica più ardua di una vita piena di imprevisti, compresa la possibilità che qualcuno bussasse alla tua porta e ti sparasse in testa. Dalla finestra di quell’appartamento guardavo passare personaggi di Andrić, come in una parata. Solo che su quella spianata non emergeva il tratto commovente della vita in comune e dell’amicizia. Non c’era spiritualità e neppure quell’umanità che c’era al Passeggio, in grado di riscaldare interi sobborghi di Sarajevo. Proprio sotto la finestra, per la vicinanza con la casa editrice Svjetlost, passavano pomposi i rappresentanti dell’élite bosniaca, a cui, citando Andrić, avevo dato il nome di tutumrak, cioè persone ambigue con scopi oscuri. Tutte e tre le etnie avevano i loro tutumrak, che dovevano dimostrare che Andrić aveva torto a dire che gli amori delle tre confessioni erano tanto lontani, mentre gli odi erano lì sotto il naso. Ora i tutumrak stavano crocifissi fra il passato da cui erano arrivati e i tempi nuovi che avevano imposto la democrazia, ma anche il nazionalismo. L’azione dei tutumrak nella nuova democrazia etnocentrica doveva essere la formula salvifica contro la guerra. Poeti, recensori, redattori, accademici, conduttori televisivi, cantanti, compositori di musica leggera, a Sarajevo non avevano mai avuto un’influenza e un’importanza pari a quella di rozzi bottegai, capi religiosi musulmani, pope e macellai. Mai le loro associazioni e accademie, per potenza e influenza, avevano raggiunto la forza di irradiamento delle
funzioni religiose nelle moschee o nelle chiese, dove agivano efficacemente pope e hodža. Guardavo i tutumrak che gironzolavano fra i busti di bronzo nel parco davanti a via Petar Preradović 1. Fumavano, stavano seduti, misuravano con l’occhio i busti di Andrić, Selimović, Kulenović, Ćopić e si chiedevano: “Dove sono io in questa storia?”. Si immaginavano i propri busti, che per le misure dei tempi nuovi – e i tempi nuovi stavano inesorabilmente arrivando – potevano decorosamente sostituire quei grandi, ormai “logori”, personaggi. Avevano già portato a termine la maggior parte del lavoro. Da molti anni faticavano per avanzare. Avevano già armato le fondamenta dei loro piedistalli. Rimaneva solo da versare il cemento. La cassaforma era andata sul conto dell’ormai dissolta Jugoslavia di Tito, mentre il cemento l’avrebbero fatto pagare ai nazionalisti. Con un po’ di fortuna, qualcuno avrebbe ordinato per loro anche i busti, così avrebbero guardato gli abitanti di Sarajevo, da scrittori famosi, con i loro occhi di bronzo. Il salto di qualità era stato compiuto nel momento in cui dai consigli e dalle commissioni delle case editrici e da chissà quali organismi e “mostri” sociali, erano arrivati a fare omaggio al nuovo sistema delle loro professionalità. L’unica cosa che gli mancava era un’opera. Per lo più scribacchini, vivevano quel tempo torbido come un’opportunità di raggiungere un certo status e sfamare a ogni costo la loro debole e vulnerabile animuccia. Anche a costo della guerra. Non importava in quale ruolo. Non importava se dovevano recitare la parte delle vittime o quella dei criminali. L’importante era agire secondo un protocollo che soddisfacesse “la giustizia e gli obiettivi di civiltà”. In tutto ciò il ruolo maggiore l’aveva la loro “bontà”, per cui chiamavano Ivo Andrić “uno stronzo di uomo”! (che Andrić mi perdoni questa citazione). E intanto gli concedevano, bontà loro, di essere un grande artista. Poiché, nello sfacelo di tutti i valori, in guerra, in strada, è meglio essere un buon uomo che un buon artista. E questo è infatti il modo migliore per arrivare, attraverso la disumanizzazione di un grande artista, allo scopo voluto. Per poter poi dire liberamente: “Neppure la sua letteratura, quando ci si pensa meglio, è chissà cosa”. Senza reali conquiste nella vita e nella letteratura, senza un reale successo foriero di cambiamenti, dilemmi, drammi e rivolgimenti, erano rimasti impigliati nella rete della propria immoralità che, solo loro sapevano come, chiamavano morale. Delle loro opere si rallegravano solo i roditori, sorci e pantegane, abituati ai cumuli di materiale scritto che, in assenza di vendite, arrivava ben presto nelle cantine delle case editrici. Quegli uomini che facevano piacere solo ai roditori definivano apertamente canaglia un premio Nobel! E tutto finiva di nuovo all’interrogativo del tagliaborse Kera: “Dove sono io in questa storia?”. Nel caso dei tutumrak la risposta era: “Da nessuna parte!”. Il narcisismo malevolo di questa gente bloccava qualsiasi idea intelligente per una vita in comune, e la loro azione sociale uccideva qualsiasi speranza e fede nel futuro. Mentre Johnny e io lasciavamo l’appartamento di via Petar Preradović 1, vidi in uno scatolone la serie completa delle opere di Andrić. Speravo che ci fossero La cronaca di Travnik e Il ponte sulla Drina, per regalarli a Johnny. Trovai solo la traduzione in inglese della Signorina e gli dissi: “This is not the best that he has done, but anyway,” e mi offrii di leggergliene un brano. “Ecco quello che il mio idolo letterario e filosofico ha scritto sulla gentaglia di Sarajevo prima dell’inizio della Prima guerra mondiale. I am afraid this could happen again” gli dissi prima di cominciare a leggere. “[...] Bisogna che giungano giorni come questo per poter vedere esattamente tutto ciò che vive in questa città sparpagliata [...]. Come ogni città orientale, Sarajevo ha la sua
marmaglia, [...] formata da uomini diversi per fedi, abitudini e modi di vestire, ma simili per una innata e subdola rozzezza, per la primitiva bassezza degli impulsi. I fedeli delle tre religioni [...] nascono, crescono e muoiono nell’odio, nella ripugnanza per il vicino di fede differente, e spesso trascorrono tutta la vita senza che si presenti l’occasione di manifestare quell’odio in tutta la sua terribile violenza; ma ogni volta che, in seguito a qualche drammatico evento, l’ordine stabilito inizia a vacillare e la ragione e la legge vengono messe a tacere, [...] tutti gli odi a lungo trattenuti [...] erompono in superficie e, come una fiamma che a lungo ha cercato, e infine trovato, alimento si impossessano delle strade, e sputano, mordono, infrangono, finché una forza, più potente di loro, non li spezza, oppure finché non si consumano bruciando e non si spengono a causa della loro rabbia.” “Amazing, if this represents the worst, what could be the best?” “This,” gli mostrai la versione originale in serbo della Cronaca di Travnik, del Ponte sulla Drina e della Corte del diavolo e aggiunsi, indicando Segni lungo il cammino: “But this, if there is another world up there, I would send them to study. This is the best example of painful history of human kind”. Mentre uscivamo nel crepuscolo sarajevese, l’ora in cui lo smog aggredisce le narici, mi risuonavano in mente le parole della Signorina di Andrić, e a un tratto mi venne la paura che quella marmaglia del romanzo e un potere distruttivo potessero impadronirsi della Bosnia. Mentre leggevo a Johnny quelle righe della Signorina non mi aspettavo che lui capisse. Non so perché. Probabilmente mi basavo sul radicato, provinciale convincimento che gli stranieri non comprendano i nostri problemi. E invece gli stranieri, come si vede nel caso di Johnny, comprendono, eccome, il genio di un grande artista. Per gli stranieri si tratta solo di stabilire se noi siamo sul loro ordine del giorno e che cosa gli convenga capire. Nella Signorina Andrić aveva descritto quella mano che molto tempo dopo la sua morte fisica si sarebbe attivata per distruggere il suo busto... Ben presto, dopo l’impalamento sulla penna in “Vox”, il premio Nobel ebbe la peggio anche a Višegrad. Là, fra il ponte e il liceo cittadino, fu abbattuto il suo monumento. Il responsabile fu un certo Murat Šabanović. Si trattava di un tipo appartenente alla marmaglia descritta nella Signorina, lo stesso tipo che appare in tutti i grandi rivolgimenti della storia bosniaca – cambia solo il costume di scena. Ora era venuto anche il mio turno di porre la domanda del tagliaborse: “Dove sono io in questa storia?”. Ad Andrić avevano distrutto il busto, e che cosa mai avrebbero fatto a me vivente, se non avessi uniformato questa mia zucca con le teste e le idee dei tutumrak musulmani? Succedesse quello che voleva, io al prosciutto dalmata, asciugato ai venti della Krajina, non avrei rinunciato mai. Non mi saltava neppure in mente di dimenticare di aver ricevuto le dosi fondamentali di amminoacidi, nella mia infanzia, da fette di pane spalmate di strutto e cosparse di paprika in polvere. Dato che Andrić nella sua letteratura non era arrivato a prevedere proprio tutte le reazioni dei suoi protagonisti, rimaneva ancora poco tempo. Mi chiesi se il mondo sarebbe stato migliore se Šabanović avesse letto Il ponte sulla Drina; avrebbe deciso lo stesso di abbattere quel busto? Avrebbe provato rabbia per il contenuto o per lo stile, e avrebbe scelto la distruzione del monumento per esprimere il suo personale disaccordo con lo scrittore premio Nobel? Neppure per idea. Se fosse riuscito a dedicare alcuni giorni alla lettura del romanzo, dopo quell’esperimento il busto lo avrebbe lucidato. Visto che non aveva letto niente dell’opera di Andrić, mi chiedo se sarebbe sopravvissuto a una misura correzionale rieducativa, a una terapia basata sulla lettura obbligatoria delle opere complete di Andrić! Che cosa gli sarebbe successo? Forse già dopo alcune pagine avrebbe avuto un collasso nervoso. Avrebbe ceduto come un ponte che vacilla sotto un
grande peso quando il cemento difettoso si asciuga. Il secondo giorno di lettura avrebbe condotto quel Šabanović al momento fatale: “Preferisco che mi uccidiate, altrimenti mi ucciderò da solo, a questa tortura non si può sopravvivere” sarebbe stato il suo gemito. Io però, trattandosi di Andrić, sarei stato irremovibile e non avrei dato tregua al paziente finché non avesse finito di studiare l’opera omnia! Nelle case di Sarajevo, proprio come nel nostro appartamento di via Kate Govorušić 9a, le relazioni amichevoli producevano nella vita sociale bosniaca un risultato visibile. Fratelli partigiani, notabili di Sarajevo, arrivavano e portavano sotto il nostro tetto il loro humour e la loro originalità. Sopravvivevano al potere di Tito con l’ironia. A Praga io avevo disciplinato quell’ironia ed ero tornato a Sarajevo. Attraverso i dialoghi di Sidran che riproducevano in modo così preciso la vita reale, avevo creato una mitologia di Sarajevo. In quella mitologia non rientravano coloro la cui stupidità aveva istigato colui che non aveva letto Il ponte sulla Drina ad abbattere il monumento del premio Nobel. Probabilmente, intorno a Izetbegović erano sciamati i tutumrak in attesa dei loro cinque minuti. Proprio come Nele, Sidran e io rimaneggiavamo i drammi dei nostri padri e li traducevamo nella nostra lingua, e facevamo poesie, romanzi, film. Una volta, per punizione, perché non studiavo, ero stato costretto a guardare in soggiorno come scherzassero i vecchi, e ora mi immaginavo che aspetto avessero i circoli in cui ci si contagia con l’idea di abbattere il monumento di uno dei pilastri della letteratura mondiale. I Kreševljaković vengono da Alija Izetbegović per un ricevimento a base di succhi di frutta. Dopo aver bevuto una fresca bevanda analcolica, i figli del sindaco di Sarajevo cominciano a scambiarsi scherzi e battute. Alija si congratula: “Per Dio, Muhamed, Senad e Sead sono proprio cresciuti!”. “Non parlarmene, non spargere sale sulla ferita!” risponde Muhamed. “Ma che dici, di che ti lamenti, sono bravi ragazzi, guardali, bravi e belli. E tu, ragazzino, come va a scuola, eh?” I Kreševljaković junior chinano la testa davanti all’autorità di zio Alija. “Ma sì che sono a posto, va tutto bene, solo che sono dei diavoletti, Dio mi aiuti, sono vivaci! E quando si mettono a scherzare, non si riesce a fermarli. Com’è che dici al tuo vicino Kovačević quando litighi con lui?” “Voglia Iddio che tua madre ti riconosca nel pasticcio di carne!” dice il primo Kreševljaković junior, e il secondo Kreševljaković aggiunge: “Dagli occhi, naturalmente!”. “Ecco vedi, se quel Dottor Karajlić è in grado di far ridere tutta la Juga, perché questi due tuoi figli non potrebbero fare lo stesso nella nostra Bosnia?” propone zio Alija. “Ma non vorrai mica che vadano in televisione?” “E va bene, non occorre la tv, ci sono anche altri media. Finiranno la scuola e poi tu lasciali giocare, non permetterai che certi Janković continuino a fare il verso ai musulmani in giro per la Bosnia e a fare battute alle nostre spalle!” Non occorse molto al Kreševljaković per acconsentire a buttare i figli nella mischia. “Mi sa che abbiamo uno hit,” pensò il presidente Izetbegović, come quando McLaren sentì la prima canzone dei Pistols. I giovani Kreševljaković trovarono il redattore Zornija e obbedirono a zio Alija. Fecero la rivista “Vox”: pagine e pagine su cui una settimana dopo l’altra sbattevano a palate immagini brutali e porcherie, cercando di distruggere il tessuto della Bosnia. Con le loro allusioni volgari volevano far scendere dal trono il re dello humour sarajevese, il Dottor Karajlić, in modo tale da sostituire le sue beffe con gli stereotipi e la sua abilità di attore, paragonabile a quella di un artista trapezista, con il loro nuovo tipo di comicità. Quella nuova estetica, creata in seno alla tutumrak intelligencija, faceva già
presagire la tempesta, anche se non si serviva dei media di prima linea, dato che i tutumrak non si erano ancora impadroniti del tutto della televisione e dei quotidiani. Volevo che Johnny conoscesse la bellezza nascosta della vita di Sarajevo e lo portai in visita dal mio amico Mladen Materić. Quando Mladen mise sul grammofono Dualov un disco di Lou Reed, Johnny lesse nei miei occhi un entusiasmo che, ne sono sicuro, non poteva mettere in relazione con il cantante. Riteneva che l’ascolto di Take a walk on the wild side fosse una cosa del tutto normale. Io ripetevo in continuazione: “Did you see it?”. Lui non mi capiva. “What did you mean?” “My friends, they like Lou Reed.” “Perché mai dovrebbe essere strano?” si chiedeva Johnny, così si limitava a dire: “Yes, man, great people”. Non poteva immaginare che gli istanti a casa di Mladen fossero l’immagine più bella di Sarajevo. Quella tanto desiderata fusione di occidentale e di orientale, quell’affascinante mescolanza di elementi, giunti da entrambe le parti del mondo, che cancella il confine fra la ragione rinascimentale e le malinconiche spiritualità dell’Oriente. Quel ritmo di ballata delle canzoni di Zaim Imamović si era riversato come un’ondata sulle rappresentazioni teatrali di Mladen e sui miei film, ma anche sulle nostre idee. Un tempo l’inclinazione di Mladen a trascorrere ore intere a sorbire tazzine su tazzine di caffè turco presentava il reale pericolo che lui arrivasse a settant’anni in quell’attraente posa orientale, su un divano, nel piccolo caffè da Avdo. Con lo spinello arrotolato da Mladen, Sarajevo diventava una vera delizia. Perfino via Skerlićeva diventava sopportabile. Ripida, e d’inverno pericolosamente sdrucciolevole, buia, chiusa tra palazzoni. Quando cadeva la prima neve, sull’asfalto si formava il ghiaccio, le auto slittavano e regolarmente si scontravano. Un solco di torrente trasformato in strada, come dice Andrić. Quella sera ci facemmo una canna, come un tempo i partigiani facevano marce forzate per sconfiggere i tedeschi di Hitler. Si vedeva che Johnny aveva una ricca esperienza di canne. A me, a un tratto, apparvero davanti agli occhi le automobili che precipitavano giù per la strada scoscesa coperta di ghiaccio. Io, come sul tavolo da montaggio, riavvolgevo quelle scene un’infinità di volte e riguardavo le carambole dall’inizio. Mentre godevamo nella nebbia dalla marijuana, la plumbea immagine della nostra città svaniva. I cassonetti allineati davanti alle finestre della casa di Mladen emanavano il fumo delle immondizie che bruciavano. A dispetto dell’odore sgradevole, quella vista dava un inspiegabile sollievo. Attraverso la nebbia arrivavano balene, delfini e altre immagini, visioni diverse create dalla marijuana. Mladen tirò fuori una storia di “balene che balenano”, a me venne in mente che “i bruscolini sono semi che derivano da Bruce Lee”. Johnny rideva, rideva anche Veša. Per me era infinitamente comico non poter spiegare a Johnny lo stato delle cose nella mia città natale. Lì le parole non erano d’aiuto. Erano solo tentativi, interrotti dal riso, di spiegare che cosa ci aspettasse l’indomani. Una risata prima leggera, che poi diventava reazione isterica alla realtà, che lì era più un presagio che un elemento concreto della vita. Ogni tentativo di superare il riso e di dar voce alla ragione si trasformava in paralisi. Dopo lunghe e irrefrenabili sghignazzate, solo un’immagine mi rimase incisa nella memoria. Non mi dispiaceva di non aver potuto far capire a Johnny dove fosse capitato e quanto fosse fuori del comune quell’appartamento di Sarajevo in cui si ascoltava Lou Reed e Bob Wilson era il dio della casa. Mentre scendevamo giù per la Skelićeva, l’allegria provocata dalla marijuana scemava.
Ora era solo una sostanza presente nel sangue e, invece di stimolare il riso, iniettava moderate dosi di paranoia nel cervello. Mostrai a Johnny una finestra e dissi: “La calura estiva a Sarajevo è spesso insopportabile, e le strade come questa rimangono deserte. Immaginati, allora, in pieno giorno, questa via ripida senza un’anima in giro. Quest’estate, un giorno che la calura di luglio preannunciava un acquazzone, qualcuno posò sul davanzale di una finestra un grammofono e gli altoparlanti. E a un tratto si sentì una musica che nessuno si aspettava. Era Il flauto magico di Mozart, e quel suono si diffondeva ovunque, nella strada deserta e spettrale. Questa gente ascolta Mozart raramente, per lo più ai funerali non religiosi. Se qualcuno fa suonare Mozart per strada desidera liberarsi da una grande tensione; non si tratta di godimento della sublime armonia dell’ordine cosmico che Mozart ci ha donato”. Sono sicuro che l’illustre ospite rimase meravigliato dalla mia rappresentazione della guerra imminente, ma già l’indomani Johnny aveva la febbre alta e non poté alzarsi dal letto. Non so se fu per via del freddo preso al ministero della Cultura della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, o di Mozart che con la sua bellezza lo aveva colpito da una finestra in una deserta via sarajevese, preannunciando la guerra. Forse il gelo era penetrato nelle ossa del mio illustre ospite, minando le sue difese immunitarie, mentre lui solidarizzava con i miei amici che avevano organizzato la dimostrazione nel timore che i capitalisti li depredassero per sempre del bar. Senka riuscì a fargli calare la febbre con la sua rodata terapia. Impacchi di grappa e infuso di rosa canina fecero miracoli, e in seguito Johnny mi disse più volte: “Your mother Senka saved my life, great woman”. Johnny quel giorno rimase a letto e io, per l’ennesima volta, grazie all’intermediazione di Mirsad Purivatra la cui moglie era imparentata con Izetbegović, fui invitato a un incontro con il presidente della Bosnia ed Erzegovina. Izetbegović era un uomo dall’aspetto tranquillizzante. Quell’impressione era rafforzata dalla nuora in stato interessante e da suo figlio Bakir, rosso di capelli, che conoscevo fin dai tempi della scuola. Quando Alija era stato in prigione per aver scritto Dichiarazione islamica, con l’aiuto di Dobrica Ćosić avevo organizzato delle petizioni per la sua scarcerazione. Quell’iniziativa aveva agito positivamente sul morale del prigioniero. “Sai, Emir, che in passato noi Izetbegović ci dichiaravamo serbi? Per noi, Belgrado è più vicina di Zagabria” mi disse Alija, mentre la nuora ci serviva il caffè con il rahat lokum. “Non lo sapevo, interessante” dissi, e aggiunsi: “Tutti ridevamo alle gag del comico Č kalja, adoravamo il suo humour. Di Nela Eržišnik mia madre diceva, per non offenderla: ‘Però non è male!’”. “Solo che, adesso, quando guardi come i serbi si comportano con gli albanesi, mi è del tutto chiaro come ce la passeremmo noi musulmani in uno Stato comune!” Quella era la sua reazione a un accordo fra musulmani e serbi, già firmata da Milošević, che anche Zulfikarpašić, capo del partito più moderato e più europeo, voleva firmare. “Sì, ma mettiti nei loro panni, il territorio è importante, i monasteri, l’eredità del principe Lazar, è una cosa seria...” dissi, più come avvocato della Jugoslavia che come difensore dei serbi. “Ma non c’entra, Emir, quella è solo propaganda serba. Non è vero che gli albanesi li stiano cacciando, è solo l’esplosione demografica, credimi, nessuno ha il progetto di cacciare qualcun altro.” Anche il figlio di Izetbegović cercava di persuadermi, di far tentennare le mie salde convinzioni. Ricordavo Bakir Izetbegović dal liceo. A ricreazione toglieva schifato il würstel dal sandwich, e con relativa smorfia portava quella “porcheria” attraverso tutta la mensa, e la gettava, con un gesto teatrale e un immancabile “pfui”, nel secchio della spazzatura.
Quando, a causa della sua capigliatura rosso-biondastra, lo chiamavano “Ehi, Giallo” lui cercava di essere spiritoso: “Io non sono giallo, sono verde!” diceva alludendo così al suo forte orientamento islamico. “Va bene, ma come insegneremo agli albanesi del Kosovo a pagare l’elettricità? E c’è qualcuno che riscuote le tasse di quelle grandi transazioni fondiarie?” chiesi. “Per quanto ne so, là le compagnie di assicurazione e le più importanti istituzioni statali non funzionano fin dai tempi di Tito. Non è solo un’invenzione di Milošević.” Izetbegović mi guardò dall’alto e mi spiegò una cosa importante: “Io penso che, non fraintendermi, tu faccia troppa filosofia. Adesso non è il momento adatto, dobbiamo riflettere su cose capitali” continuò il presidente, e come un vero attore fece una pausa, quel tanto che era necessario perché la frase seguente avesse il suo peso: “Sai, Emir, i serbi non avranno più tanti generali in Bosnia. Si dovranno abituare a questo”. Parlava a me, supponendo che tutto sarebbe stato riferito a Dobrica Ćosić. Pensava di avere un’influenza decisiva su Milošević. Quel calcolo si rivelò ben presto sbagliato. Io gli dissi scherzando: “Va bene, se la Bosnia ed Erzegovina è uno Stato civile, allora è logico che i generali siano militari professionisti”. Izetbegović non dimostrò lo stesso senso dell’umorismo sfoggiato nel caso dei simpatici collaboratori di “Vox”: “Certo che è logico. Sarà ancora più logico quando saranno anche musulmani!”. Se avessi continuato questa conversazione in modo sincero, lo scontro sarebbe stato inevitabile. “Ma non è il caso che un ospite in casa altrui faccia delle porcherie” così pensai, però continuai anche a insistere sul timore della guerra. Izetbegović disse: “Vedremo, noi prima proveremo tutte le strade pacifiche. Ma se dovremo combattere, combatteremo. Sai, io preferirei accordarmi con i serbi. Sarei d’accordo nel trasferire i nostri dalle regioni dove siamo minoritari e i serbi maggioritari portandoli nei nostri territori di maggioranza. Lo stesso varrebbe per i serbi. Che i nostri vivano con i nostri, e i loro con i loro, e pace in Bosnia!”. Come poteva solo immaginarsi di trasferire intere popolazioni, quando il più comune scuolabus non era in grado di partire per una gita scolastica senza che ci fossero scandalose falle nell’organizzazione? Per Izetbegović la Turchia era di grande ispirazione. Credo che l’idea dei trasferimenti gliel’avesse suggerita qualche storico, sull’esempio di quel notissimo episodio della storia turca, gli spostamenti di popolazioni del 1922. I turchi delle isole greche orientali erano stati trasferiti a Smirne, mentre i greci ne venivano spostati. Così in due giorni fu completata quella grande trasmigrazione, mentre a noi arrivava la musica underground greca, la rebetiko, nata in quelle tristi circostanze. Non credo che Izetbegović sapesse che nel 1922, in soli due giorni, erano morti trecentomila greci. Gli chiesi se temeva la guerra. Lui rispose: “Io temo solo Allah, ma credo che esista anche una soluzione pacifica per il mio e per gli altri popoli”. Non so se fosse la condizione di fedele a infondere sicurezza in Izetbegović, mentre la sua storia di galeotto martire aveva creato il suo carisma, grazie al quale alla fine prese il timone della politica bosniaca dalle mani degli smidollati comunisti del compagno Tito. Da molti anni ormai i figli del comunismo assomigliavano a maître di sala di alberghi falliti, e non certo a persone in grado di guidare un popolo. L’unico di loro ad avere la possibilità di diventare una guida politica per i tempi burrascosi che si avvicinavano era Fikret Abdić.
Artefice del miracolo economico della Krajina bosniaca, poi vittima dei comunisti bosniaci, punito a causa dei suoi significativi successi, nei vari rivolgimenti politici era passato all’SDA – il Partito di azione democratica, nazionalista bosgnacco –, diventando membro del partito di Izetbegović senza sapere che cosa lo aspettasse. All’inizio, probabilmente, sognava un rinnovamento dell’Agrokomerc, e con quell’obiettivo aveva partecipato alle elezioni per la presidenza della Bosnia ed Erzegovina, convinto che, comunque andassero le cose, avrebbe fatto rivivere la vita economica della sua Krajina. Alle prime elezioni presidenziali democratiche, a capo dell’SDA c’erano due candidati, Izetbegović e Abdić. E, miracolo, Abdić vinse alla grande, con molte decine di migliaia di voti in più di Izetbegović. Così i musulmani bosniaci avevano dato la preferenza all’uomo che rappresentava il loro collegamento vivente con il benessere e l’emancipazione di cui avevano goduto nella Jugoslavia di Tito. Non avevano sostenuto nella stessa misura Izetbegović, rappresentante della Bosnia clericale. Di fatto Fikret Abdić sarebbe potuto diventare presidente della Bosnia ed Erzegovina, ma questo non avvenne. Dopo la vittoria elettorale, alla riunione dell’SDA a Tešan, Abdić dovette, in nome della disciplina di partito, accettare il fatto che presidente della Bosnia ed Erzegovina non sarebbe stato lui, ma Alija Izetbegović. Questo gli fu comunicato dal leggendario Čenga, segretario dell’SDA, mentre in sala sedevano, oltre ai capi di partito, un gran numero di giovanotti armati vestiti di nero, con gli occhiali scuri, arrivati per quella occasione dal Sangiaccato. Ai bosniaci non rimase che credere che ad Abdić la carica presidenziale non interessasse affatto. Quanto questo fosse falso, lo si vide durante la guerra in Bosnia, quando Abdić creò un suo esercito ed entrò in conflitto armato con Izetbegović, diventandone il nemico più accanito. Non era l’unico che volesse evitare a ogni costo una guerra con i serbi. Adil Zulfikarpašić, politico della corrente musulmana più moderata, aveva firmato con Milošević un accordo di non belligeranza fra musulmani e serbi, ma quel documento fu cestinato da Izetbegović. Il mio colloquio con il presidente soffriva il peso di lunghe pause, motivo per il quale i padroni di casa vollero far ritornare il buonumore. Forse mi hanno chiamato qui per ammansirmi e portarmi dalla loro parte, non per spaventarmi, cercavo così di spiegarmi il cambiamento dell’umore dei due Izetbegović, padre e figlio. Mentre Alija, Bakir e la nuora incinta raccontavano episodi legati a Hasan Čengić, segretario dell’SDA, di cui il Dottor Karajlić faceva una surreale imitazione, i miei pensieri volarono temporaneamente via dall’appartamento del figlio di Izetbegović. Dentro di me cercavo di svelare un mistero, di rispondere a un interrogativo, ossia se la strategia del presidente non fosse altro, in realtà, che una rozza ricetta politica balcanica vecchia di duecento anni. In quella strategia un Piccolo fratello dei Balcani otteneva garanzie da un Grande fratello, proveniente dal grande mondo, in genere dall’Occidente, e poteva chiamarlo in aiuto “se qualcuno l’avesse toccato”. Ecco lo sviluppo di quella strategia in un’ipotetica drammaturgia da rissa da osteria. In una bettola balcanica, due tavolate di litigiosi danno inizio a una guerra quando, a un tavolo dove è seduto un gruppo di baldi giovanotti, arriva al-l’improvviso un ragazzino biondo. Questi prende un bicchiere d’acqua dal tavolo e annaffia il viso di uno dei giovani pronti alla rissa. Il giovane annaffiato, senza pensarci su, molla un ceffone al piccolo, e si avvicina al tavolo da dove è venuto quest’ultimo. Il piccolo corre fuori e intanto l’annaffiato e la sua compagnia le danno di santa ragione ai giovani seduti al tavolo del provocatore. Proprio quando pensiamo che la storia sia arrivata alla fine, nell’osteria rientra il piccolo provocatore portando con sé dei tizi alti due metri. Quelli finiscono a bastonate il gruppo che pareva vincitore in questa guerra da osteria... Mirsad Purivatra era il figlio di un designer bosniaco di etnia musulmana. Fan dei Sex Pistols, ottenne un posto all’Accademia di Arti teatrali, dopo che alla rappresentazione di
Mladen Materić, Il ballo degli ottanta, aveva portato venti metri di cavo coassiale. Il teatro Obala era nato dalla necessità degli abitanti di Sarajevo di avere anche nella nostra città un luogo in cui far nascere generi di arte alternativa e un teatro vitale che si distinguesse dal letargo di quello borghese. Fra quei borghesi c’era anche Purivatra. La sua passione per la musica punk, il suo affettato look europeo e gli abiti neri, furono decisivi nella scelta di Mladen di accogliere questo punker fra le nostre file. L’ingaggio di Mirsad suonava bene, anche se lui non fosse stato un organizzatore in gamba. Man mano che la guerra si avvicinava Mirsad esprimeva sempre meno la sua appartenenza al movimento punk e perdeva sempre più il suo carattere ribelle. Mladen Materić gli aveva insegnato ad apprezzare Beuys in pittura e Wilson nel teatro, mentre in diverse tournée della rappresentazione del Teatro tatuato Vesna Bajčetić aveva trasmesso a Mirsad le sue delicate osservazioni prese dall’arte e dalla vita. Dopo aver scoperto, proprio prima della guerra, che gli abitanti del Sangiaccato non erano proprio vicini a Beuys e Wilson, Mirsad dimenticò in tutta fretta i grandi della scena alternativa. Lo stesso avvenne con la pittura. Nei primi giorni di guerra organizzò gruppi di pittori e mostre, ma quando vide che i film erano una merce più redditizia, si trasformò in direttore di un festival cinematografico. Già da prima della guerra aveva cominciato ad apprezzare sempre più l’opera di designer di suo padre. Mladen Materić e Purivatra, in varie tournée del gruppo teatrale Obala dell’Accademia, avevano intrattenuto relazioni amichevoli, parlando anche della guerra. Mladjo faceva spesso notare che i serbi sono un popolo che lotta per l’autonomia e al quale, per questo, non rimane altro che battersi: “Quello è l’unico piccolo popolo che per la sua sopravvivenza ha pagato con milioni di teste maschili. Sono in guerra dal tempo della liberazione dai turchi, senza chiedersene il costo, per difendere gli interessi nazionali. I serbi non accettano padroni di nessun genere”. Al grande raduno di Foča organizzato dall’SDA e dove c’erano, come scrissero i giornali, più di centomila persone, parte della folla aveva cominciato a proferire minacce agitando sciabole. Molti partecipanti, che indossavano uniformi della divisione Handžar, in ricordo di quando i musulmani bosniaci avevano aiutato le SS nel fallito attacco contro Mosca, ora agitavano le sciabole e minacciavano vendetta contro i serbi, per i musulmani che i cetnici avevano massacrato nella Seconda guerra mondiale. Dicevano di essere pronti a contraccambiare i massacri. “Non dovete provocare tanto i serbi, finirete fottuti, Miro!” disse Mladen Materić a Mirsad Purivatra. “Se le prenderemo dai serbi, c’è un rimedio anche per questo” disse l’altro, e gli raccontò quella mia storia dell’osteria! Nella distribuzione dei ruoli fatta da Purivatra, nella puntata successiva per i serbi era prevista una buona dose di bastonate da parte degli americani. Così anch’io alla fine capii come mai il presidente della Bosnia ed Erzegovina, Alija Izetbegović, sembrava non preoccuparsi affatto della massa di armamenti in possesso dell’esercito jugoslavo. Tutti facevano già tintinnare le armi, ma il presidente non sembrava un uomo spaventato dalla guerra. Quell’Omerović incrementava le sue riserve in cantina, e la domanda di armi nei Balcani era cresciuta ovunque. Tutti noi sapevamo che cosa si conservava nei depositi dell’esercito jugoslavo. Alla fine del mio colloquio dissi a Izetbegović che quella paura e quell’odio erano stati descritti magnificamente da Andrić nel racconto Lettera del 1920. Non gli fece piacere sentirlo, e il nome di Andrić provocò sul suo viso un cambiamento impercettibile. Mentre taceva, assomigliava a Darinka, un’impulsiva vicina di Visoko. Quando doveva pronunciare il nome di mio padre Murat, Darinka diceva a Maja: “Maja, quando verrà il nostro amico?, non mi piace dire il suo nome”.
Quando pronunciai quello di Andrić il presidente Izetbegović aveva la stessa espressione di Darinka, solo che non disse niente. Tutto uguale, ma diverso. Penso che in quell’Izetbegović, dietro a una maschera pacata, ci fosse, abilmente mimetizzata, una natura vendicativa. Solo nell’ingresso, mentre uscivamo dall’appartamento di suo figlio, mettendosi le scarpe, non poté più nascondere i suoi sentimenti: “È vero che, per Dio, vuoi girare Il ponte sulla Drina?”. Io gli faccio: “Ci avevo pensato, ma costa troppo, è una produzione gigantesca”. E lui: “Ma cosa fai, sei matto? La letteratura di Andrić è piena di odio, lui non era altro che il figlio bastardo di un bidello”. Io allora uscii dalla casa di suo figlio sapendo che Izetbegović non poteva essere il mio presidente. Non perché, in ogni caso, nessuno ha mai preso un Nobel grazie all’odio. Ma perché chi insulta i miei eroi non poteva essere il mio presidente. Da Parigi venne l’ordine di andare a Visoko. Dovevo andare a controllare la nostra casa estiva. Ero felice di mostrare a Johnny il nostro orgoglio di famiglia. Pensa, Johnny Depp a Visoko, che gag inaspettata, quasi come un atto di arte concettuale... Quella casa, come la maggior parte dei miei progetti in patria, esprimeva la lontananza dall’ambiente in cui vivevamo, qualcosa di simile all’effetto che ottieni con un binocolo quando lo giri al contrario, e guardi cose che sono a portata di mano, ma le vedi lontanissime. Attraverso quel binocolo girato al contrario si dovevano guardare la scrittura che caratterizzava i miei film e la bellezza della nostra casetta. Né una cosa né l’altra erano cresciute come un frutto che si sviluppa sull’albero nutrito dalla terra che calpesti. Da quel terreno arrivavano i temi. L’aspetto stesso di quella casa assomigliava alla fuga da un ambiente che non si era mai battuto per avere degli standard di bellezza. I successi dei miei film non avevano influito in modo contagioso sugli artisti del nostro ambiente. Né ne era nata una qualche corrente cinematografica. Non c’era stato abbastanza tempo. Non appena ottenevano qualche risultato, i bosniaci più validi fuggivano dalla terra d’origine, soprattutto per motivi politici. Così la Bosnia era rimasta un paese senza stile, proprio come le squadre di calcio di bassa categoria dalle quali gli elementi più dotati se ne vanno sistematicamente. Non solo per le poco favorevoli condizioni economiche: soprattutto per il provincialismo e la ristretta visione della vita imposti da una politica canagliesca della peggior specie. La necessità di bellezza era qui cacciata in esilio, per direttissima. Era un effetto della miseria, un fenomeno sociale consueto nel mio paese d’origine. La miseria dava dei risultati in poesia, soprattutto nelle ballate. D’altro canto, la classe media, in quanto acquirente, fruitrice e creatrice di estetica, non esisteva come valore sociale corrente. Tutto questo conveniva solo ai tutumrak, che in Bosnia erano un fenomeno secolare e micidiale. A causa delle idee predominanti nelle teste dei poveri, avevano avuto la peggio le rose e la vite della famiglia Domicelj, i nonni di Maja. Queste persone erano state portate dalla Slovenia dagli austriaci, con la prima ferrovia. Erano stati portati a Visoko perché la popolazione locale non ispirava fiducia alle autorità di Vienna: temevano che i turchi avessero lasciato una controproducente visione del tempo e che gli slavi avessero un modo inaccettabile di misurarlo. Dato che allora lo scorrere del tempo, in un giorno solo, era stato pianificato in modo diverso, e dato che era stata costruita anche una ferrovia, le abitudini orientali rappresentavano un problema per le nuove regole che l’Austria aveva introdotto in Bosnia. Il tempo e la sua misurazione richiedevano un cambiamento radicale. Gli affari non si siglavano più con la formula conclusiva “ci metteremo d’accordo in settimana”. Il segno più visibile di quel cambiamento era la ferrovia, e il treno non arrivava
“in settimana”, ma esattamente alle otto, e partiva dalla stazione in direzione di... alle otto e quindici. Per questo compito dei tempi nuovi, apparentemente facile, le funzioni dei dirigenti del servizio in Bosnia erano espletate da stranieri. Il buon padrone di casa e nostro vicino Mitar non era l’unico che, alla maniera rurale, organizzava appuntamenti e concludeva affari “in settimana”. La maggior parte della popolazione non aveva mai abbandonato “la vecchia ora slava” e la misurazione del tempo che si effettua con un’occhiata al cielo, e non all’orologio. Il vicino Mitar aveva comprato una delle tre case dei Domicelj. Questo era avvenuto alla morte dei più anziani della famiglia. Mitar si era trasferito nella casa più vicina alla nostra e aveva subito tagliato alle radici le rose e la vite, eliminando il giardino fiorito coltivato da decine di anni. Aveva detto: “La mia vecchia Darinka non riesce a vedere la strada, non ha nessuna vista,” e aveva aggiunto: “Pensa solo a quante patate si potevano piantare al posto delle rose”. Quando durante i fine settimana il padre di Maja sarchiava le aiuole davanti a casa nostra, Mitar, dopo la fatica del lavoro, beveva il caffè là dove aveva una buona vista e lanciava battute a Mišo al di là della recinzione: “Se solo al posto delle rose tu piantassi qualcosa di più intelligente, con cui si può sopravvivere, saresti un vero giudice!”. Quando arrivammo a Visoko, Johnny, appena guarito dall’influenza, andò a letto, stanco per il tumulto di avvenimenti. Io salii sulla collinetta sopra casa nostra e raccolsi una mela da un albero. C’erano pochi luoghi al mondo dove la terra e il cielo davano risultati così succosi. Mordevo quella mela, guardavo la casetta sotto di me e all’improvviso scoppiai a piangere. Non so se per la vita trascorsa o per le cose che all’indomani avrei dovuto affrontare, ma piangevo. Le lacrime cominciarono a scendermi lungo il viso: dapprima poche, poi a fiumi. Si mescolavano al sapore della più meravigliosa mela dolceamara del mondo e facevano rivivere i ricordi dell’infanzia. Le mie lacrime si mescolavano anche alla terra. Ma quella tempesta della mia anima, quel turbamento, solo in minima parte si trasformavano in gocce che correvano giù per le guance. Ben presto compresi che quel pianto tanto a lungo rimandato era solo un presagio di maggiori e più sconvolgenti avvenimenti. Io stavo piangendo allora la mia casa. Johnny, il mio ospite illustre, sarebbe stato l’ultimo che ci dormiva. Quella casa era già bruciata nei sogni della vecchia Darinka, moglie del buon vicino Mitar che aveva tagliato le rose e la vite. La casa era bruciata nel sogno di Davor Dujmović, l’attore protagonista del Tempo dei gitani. Stribor sognava spesso la nostra casetta in fiamme. Se era già bruciata tanto nei sogni, che cosa aspettava la nostra bella casa, visti i tempi in arrivo? Il suono della parola Sandžak (Sangiaccato) si era inciso nella mente di Johnny, e mentre il taxi, alcuni giorni dopo, ci portava dall’aeroporto di Parigi in città, davanti alla cappella di Saint-Jacques mi chiese: “Is it connected to people from Sandžak?”. Ci accomiatammo da amici. Johnny andò a girare Buon compleanno Mr. Grape, e io due mesi dopo, da Parigi, dove vivevamo, volai a New York, dove ancora per un semestre avrei insegnato regia agli studenti della Columbia University. Come sempre, avevo cominciato tre cose allo stesso tempo. Come Sofocle, che nei suoi drammi intrecciava più azioni contemporaneamente, montavo Arizona Dream a Parigi, insegnavo regia a New York e avevo iniziato a preparare Underground. Quando l’aereo decollò da Parigi per l’aeroporto newyorkese J.F. Kennedy, sugli schermi televisivi vidi che a Sarajevo erano iniziati gli scontri. Dopo il referendum sull’indipendenza della Bosnia ed Erzegovina, al quale non parteciparono i serbi e che si concluse positivamente per coloro che in quell’indipendenza
credevano, i serbi suddivisero la città con barricate. Per me quello fu un avvertimento abbastanza forte per far trasferire Senka a Herceg Novi. Appena arrivato a New York, chiamai i miei genitori e fui sollevato di sentire che erano assieme a Herceg Novi. A causa delle mie idee Senka non se la sarebbe passata bene a Sarajevo. Ma avevano iniziato a susseguirsi avvenimenti più grandi. Da New York chiamai Herceg Novi. Senka alzò la cornetta e mi disse: “È morto Šiba Krvavac”. “Come, di che cosa?” mi informai: le sciocchezze che si dicono in quei casi. “Di cuore” rispose Senka. “Come ha reagito Murat?” “Malissimo, non smette di piangere, te lo passo.” Mio padre singhiozzava come un bambino e non riusciva a fermarsi. Riusciva a malapena a formare frasi smozzicate: “Tu sai che non ho avuto un fratello... lui per me è stato anche più di un fratello...!”. Cercai di calmare mio padre, per quanto era possibile farlo da lontano, per telefono. Dopo le lezioni che tenevo agli studenti della Columbia, passeggiavo spesso per Broadway. Mi dirigevo verso il centro della città, dato che in direzione opposta c’era Harlem, dove i bianchi, a ragione, non erano graditi. Se andavo verso sud, fino a Columbus Circle, iniziavano i grattacieli, ma per me veniva meno la necessità di alzare la testa verso il drammatico cielo newyorkese. È sufficiente un solo tentativo fallito di contare i piani per far sì che la volta seguente non alzi più la testa per aria. Ti passa la voglia di vedere quanto la vista sia bloccata. Šiba Krvavac aveva significato la formula salvifica della mia adolescenza, era stato lui a contagiarmi con il cinema. Ora la sua morte aveva inondato il paesaggio di New York. Mentre passeggiavo, il senso di perdita della speranza si rafforzava ogni volta che guardavo i colossali edifici. Tutte le grandi città dell’America assomigliano più a una mostra di materiali per l’edilizia che all’idea europea di città. A un certo punto mi parve che le sofferenze legate alla guerra sarebbero presto finite. Quando fu annunciato che il politico portoghese Cutileiro aveva preparato un piano, non sapevo come esprimere la mia gioia. Mi venne l’impulso di uscire su Broadway e abbracciare e baciare tutti i passanti. Sembrava che la guerra sarebbe stata evitata. Ma la felicità durò poco. Izetbegović dapprima firmò il piano europeo per la Bosnia ed Erzegovina, il cosiddetto Accordo di Lisbona, ma ben presto, al termine di un incontro con l’ambasciatore americano a Belgrado, il signor Zimmerman, il presidente della Bosnia ritirò la firma. Il piano fu respinto e subito dopo, il 7 aprile 1992, da parte degli Usa arrivò il riconoscimento dell’indipendenza della Bosnia ed Erzegovina, e quello fu il vero inizio della guerra. I miei sentimenti somigliavano sempre più a incubi sulla distruzione del pianeta. Quei sogni li aveva evocati mio cugino Edo, quando nella prima infanzia mi aveva raccontato la storia della fine del mondo. La mia natura sognatrice mi aveva portato a immaginare quel cataclisma. Imparai allora che la cosa più importante è vedere la famiglia come un’ancora di salvezza. Ma ora quell’ancora era stata strappata dal fondo, portata via da un’ondata. La formula della sopravvivenza durante la veglia si esprimeva come l’importanza di rimanere uniti. E poi succeda quello che deve succedere. La terra si spacca sotto di noi, il cielo si è squarciato, ma fino all’ultimo istante c’è speranza. La salvezza può sempre arrivare se agisci secondo le regole conservate nella cassaforte dei sogni. E, naturalmente, se non smetti di sperare. La guerra non è la fine del mondo. È l’impresa più redditizia inventata dall’uomo nella sua lunga storia. Ci sono modi per vincere anche quella. Non in scontri diretti. Perché se non difendi la tua famiglia da un pericolo diretto, la guerra è un’ispirazione per gli avventurieri che hanno deciso di arricchirsi, ma anche per gli artisti. I
sogni di una vita comunitaria furono interrotti dalla realtà, che ben presto portò nella mia vita la perdita più grande che avessi mai subìto. Nel millenovecentonovantadue, il 29 settembre, a Herceg Novi, morì mio padre. Venni a saperlo in modo strano. Miroslav Ćiro Mandić, un regista che aveva vissuto per un certo tempo da noi a Parigi, stava parlando con Maja. Lei mi aveva chiamato a New York per darmi la triste notizia, e prima di dire “Pronto” non sapeva che ero già in linea. In quel momento Maja si stava consultando con Ćiro per decidere se dirmi subito che Murat era morto, o se farlo quando sarei arrivato a Parigi. Vissi quella notizia in silenzio. Fumai, fino al mattino, il mio ultimo pacchetto di sigarette. A un certo punto dopo mezzanotte si era unito a me Momčilo Mrdaković. Un cineasta nevrotico che sognava di realizzare, malgrado l’età avanzata, il suo primo film. Era il tipo ideale da avere a portata di mano nel momento del lutto. Aveva portato una bottiglia di grappa alle prugne e versò un bicchiere per ciascuno. Poi ne versammo uno in terra e bevemmo a nome di mio padre defunto. La lezione del giorno dopo fu rimandata, in bacheca era scritto: “No class today, Emir’s father passed away”. Quando Stribor e io ci avvicinammo a via Norveška 8, alla casa dove ora viveva solo mia madre, sulla porta a vetri che portava alla scala c’era l’annuncio di morte sormontato dalla stella rossa a cinque punte, con il nome e il cognome di Murat Kusturica. Quell’immagine era solo la battuta introduttiva alla consapevolezza totale della morte di mio padre. Quando muore una persona a te vicina, il tempo non scorre con i ritmi normali. E tu, nel momento in cui senti quella notizia, muori un poco. Senti di meno, parli più piano, diventi quel lampione stradale dal quale non sei sicuro che emani davvero luce. Poi, viaggi fino al luogo del funerale, e quando arrivi dove devi, per il desiderio di non essere morto neppure un poco, riprendi a vivere. Stribor guardò la foto del nonno e chiese: “Ci sarà mai una fine per tutto questo?”. Si riferiva alle disgrazie che ci raggiungevano una dopo l’altra, e io gli risposi: “Anche se sembra di no, stai sicuro che non può continuare così all’infinito”. Pensai a quanto fosse difficile per Stribor. Volevo consolarlo, ma anche rendergli un po’ di serenità. Così come mio padre aveva consolato me ogni volta che era stato necessario. L’occasione più evidente era stata quando per la prima volta avevo visto un morto. Il modo in cui mio padre aveva dissolto la paura della morte davanti ai miei occhi, assomigliava alla facilità con cui il vento forte del Nord spazza via le nuvole dal cielo. In seguito, ogni volta che ce n’era stato bisogno, il ricordo di quell’avvenimento aveva reso più forte la mia natura vulnerabile. Se della morte si dice che è “una voce infondata”, con la più sottile delle anestesie si annienta l’effetto della terrificante fine della vita umana. Il fatto che mio padre avesse declassato la morte e l’avesse ridotta a livello di notizia di tabloid, mi raggiungeva, ogni volta e da capo, assieme al suo humour e alla sua arguta natura erzegovese, e mi restituiva coraggio. Non era importante quanto dolorosamente un evento fosse piombato sulla tua anima. L’importante era che non eri solo a portare quel peso sulle spalle. È necessario un padre che ti faccia scoprire con quale tecnica ci si accolla il peso della sventura che ti ha colpito. A quale fonte mio padre, ora defunto, si era abbeverato di calore e di tenerezza, da quale radice si era sviluppato il suo fascino contagioso, per il quale era tanto benvoluto dai suoi amici di Sarajevo? In che modo era diventato il pilastro che sosteneva la staticità della mia architettura esistenziale? I suoi genitori li ricordavo a malapena. Ma la loro storia era la traccia che per una scorciatoia conduceva alla fonte e alla chiusa fino a cui voleva penetrare la mia curiosità. Il padre di Murat, Husein Kusturica, era un rispettabile funzionario del tribunale di
Travnik, un uomo che, con la matita ben temperata e le mezze maniche di stoffa nera, ogni mattina alle sette in punto andava in tribunale. Esattamente alle otto e mezzo, per la durata della pausa in ufficio, tornava a casa a preparare la colazione e il caffè alla sua signora. Per Travnik, ma anche per Vienna, si trattava di uno standard piuttosto alto di emancipazione maschile. Vivevano di uno stipendio, ma non mancava nulla, grazie al diligente funzionario Husein. Infine, dal tribunale di Travnik, andò in pensione. Lavorava con cura il piccolo orto sotto casa nel quartiere Potur mahala di Travnik, facendo così diminuire sostanzialmente le spese vive. Fu una delle poche famiglie di Travnik i cui membri più giovani andarono a fare i partigiani, mentre la zia Biba già prima della guerra aveva aderito allo SKOJ, l’Unione della gioventù comunista jugoslava. Mio padre fuggì con sua sorella in montagna proprio all’inizio della Seconda guerra mondiale e si unì al Movimento di liberazione nazionale. Se non l’avesse fatto, sarebbe stato vittima delle Camicie nere che avevano fatto fuggire anche sua sorella. Aveva accompagnato zia Biba al treno e pensava che l’avrebbe presto seguita, nei boschi. Unitosi ai partigiani divenne soldato della Prima brigata di Liberazione nazionale della Krajina. In quella provincia bosniaca mio padre e sua sorella furono messi alla prova dalla storia. Erano pochi coloro che stavano dalla parte di “quei pazzi di serbi che, di nuovo, volevano battersi contro i tedeschi”. Così perfino l’altra sorella di mio padre, Lala, guardava con scetticismo alla loro attività politica. Ma fece di tutto affinché ciò che lei sapeva, ossia la loro attività rivoluzionaria prebellica, non venisse a conoscenza di altri. La maggioranza del popolino in Bosnia non aveva né la tradizione né l’inclinazione per le idee rivoluzionarie, e tanto meno socialiste. Murat e Biba, mettendosi dalla parte degli oppressi, avevano manifestato la loro appartenenza all’idea di sinistra e rinnovato la storia della loro origine serba. Per questo, alla fine della Seconda guerra mondiale, festeggiarono entrambi la vittoria sul nazifascismo in quanto parte dell’esercito vittorioso, e non come la maggioranza che solo verso la fine della guerra si era accodata ai vincitori. Loro da quella parte erano stati sempre. Murat aveva avuto un’educazione superiore come studente del Liceo dei gesuiti di Travnik. Là la grande mole di conoscenze gli aveva aperto la mente, ma lo aveva anche allontanato dall’ideologia clericale che considerava l’occupazione degli ustascia un destino storico. Spesso Murat, quando faceva bollire le uova, recitava in latino – Pater noster qui es in cœlis – stabilendo così, per mezzo della versione più lunga o di quella più breve del Padrenostro, la cottura dell’uovo: sodo o alla coque. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, zia Biba si stabilì a Biograd, come i suoi genitori chiamavano Belgrado, la capitale della Repubblica popolare federativa di Jugoslavia. Si sposò con Slavko Komarica che diventò presto console generale jugoslavo in Svizzera. La zia era entusiasta di preparare ricevimenti indimenticabili. La giovane di Travnik era felice che nel suo appartamento si riunissero persone così importanti e di essere divenuta anche lei, accanto a suo marito, parte di una società tanto prestigiosa. Quando partì per Berna come moglie di un console, la sua gioia non ebbe limiti. Dallo Stato aveva ricevuto una lussuosa pelliccia e una borsetta piena di soldi. Non era tanto il fatto che avesse ricevuto molto denaro, quanto che amasse parlarne così spesso: “Il nostro Stato è intelligente, fa tutto perché nel mondo si abbia una buona impressione di noi, e perché nessuno ci possa corrompere!”. Quando si risposò e si sistemò con Ljubomir Rajnvajn, la zia cominciò ad attendere con impazienza e con amore che i suoi genitori venissero a trovarla a Belgrado, per accoglierli nel suo appartamento di Terazije n. 6. Organizzò quella prima visita più volte, senza successo immediato. Qualcosa non funzionava, anche se, già da tempo, la distinta belgradese, impiegata presso l’Istituto operaio internazionale, aveva spedito i biglietti a suo padre e sua madre. Aveva comprato i biglietti con lo sconto consentitole dalla sua
medaglia. Ma la sua signora madre non vedeva se stessa passeggiare per Belgrado in un vecchio cappotto! Di risolvere questo problema, come molti altri nella vita della moglie, si preoccupò il funzionario Husein. Lui continuava a provare comprensione per questi atteggiamenti di sua moglie. Da certi risparmi che lui aveva messo via per acquistare la tomba e di cui non aveva parlato a sua moglie, fu comprata la stoffa per quel cappotto. Mancava il denaro per il sarto e lui si dedicò completamente a risolvere anche questo problema. Mio padre venne a sapere della questione da una lettera arrivata al suo indirizzo di Sarajevo, assieme al pacchetto che ogni mese i genitori gli spedivano da Travnik. Nella lettera il padre si scusava se non avevano potuto mandargli più di una bottiglia di olio, due chili di formaggio di Travnik e due chili di prugne secche. Non si scoprirà mai la verità su come fu cucito quel cappotto e come i Kusturica visitarono infine Belgrado. Dicono che la signora Kusturica fece il giro di tutti gli appartamenti della casa di Terazije n. 6, di porta in porta, bevve il caffè con tutte le signore e conquistò fulmineamente i loro cuori. “Che regina era mia madre!” mi disse una volta mio padre. Quando finì la guerra, il fronte antifascista femminile intraprese un programma per far togliere il velo alle donne e, cercando un caposaldo tra le famiglie di Travnik, contattò Biba per trovare una persona adatta per portare avanti quell’azione di propaganda. La scelta cadde sulla madre dei partigiani Murat e Biba Kusturica. Alle donne riunite, mia nonna comunicò in modo persuasivo tutti i motivi per cui si doveva far piazza pulita dell’oscuro passato. La cosa non fu difficile, perché la sua famiglia d’origine erano gli Avdić che, come i Kusturica, erano erzegovesi, e anche dentro di loro quindi l’erzegovese era in lotta con l’uomo. Dopo la convincente lezione sull’eliminazione del velo, la signora ricevette dai progressisti di Travnik, ma soprattutto dal figlio e dalla figlia, grandissime lodi. “Dovremmo eleggere te, signora Kusturica, come sindaco di Travnik, non ci sarebbe nulla di male!” Tuttavia, già l’indomani la faccenda della nonna prese una piega diversa. Andò al mercato con il viso coperto! Quando la figlia venne a sapere di quello sviluppo inaspettato, tutta agitata mandò da Belgrado un telegramma al fratello. “Che cosa hai fatto, mamma?” chiese mio padre che si era subito precipitato a Travnik. Lei rispose: “Non so, ma per qualche motivo mi sembra più bello quando di una donna si vedono solo gli occhi”. “Ma non puoi fare una cosa simile, signora, tu hai ricevuto un compito dal Partito” le diceva mio padre. “O insomma, per amor di Dio, un gesto così non si può fare tutto in un colpo! Un po’ lo porti, un po’ no. Si fa così!” In realtà, la nonna stava conducendo un’altra battaglia. Nel suo immediato vicinato, nella casata nobiliare del bey Vehbija Šahinpašić, una sua coetanea si opponeva all’eliminazione del velo; dato che entrambe lottavano per il prestigio nel borgo, mia nonna temeva che a causa di quel velo avrebbe perso per sempre la sua influenza sulle donne della strada. E che quando le vicine si sarebbero riunite a bere il caffè, non avrebbe potuto continuare a tener banco. Da qui la sua scelta di compromesso “un po’ lo porti, un po’ no”. La notte prima della sua morte all’ospedale di Koševo, chiese a mio padre il mio cuscino, per poter morire appoggiata lì sopra. Mio padre morì assieme al suo amato paese. Se ne andò in tempo per non vedere come si stava dissolvendo la casa in cui aveva messo anche lui qualche mattone e la parte maggiore della sua vita. Le fondamenta di quella casa erano state già da tempo distrutte dai servizi d’informazione stranieri, dai conti storici non pareggiati fra serbi e croati, ma anche dai tutumrak. Questi ultimi avevano lasciato le posizioni elitarie del popolo a cui
appartenevano consegnandole agli specialisti per la distruzione di fondamenta, mentre loro stessi tornavano sempre all’interrogativo che poi è il titolo di questo capitolo. Sei mesi prima della morte di mio padre, in viaggio di studio a Parigi c’era Adulah Sidran. Parlava dell’insopportabile situazione in Bosnia e della pace che, nel territorio della Bosnia ed Erzegovina, poteva essere mantenuta, secondo lui, solo dalle Nazioni Unite. Adirato, il partigiano della Prima brigata di Liberazione nazionale della Krajina gli disse: “Nella Seconda guerra mondiale io mi sono battuto nei boschi per scacciare lo stivale straniero dal mio paese, e tu mi porti in Bosnia le Nazioni Unite?”. Sidran gli espose allora delle teorie in cui il suo interlocutore non credeva, per cui gli rispose: “Il primo marzo con il referendum per l’indipendenza della Bosnia ed Erzegovina sono in pratica iniziate le azioni di guerra. Se avete un terzo della popolazione che ignora il referendum e non vuole uscire dalla Jugoslavia, in Bosnia ci sarà guerra”. Al che Sidran gli disse: “Al referendum è stata comunque espressa la volontà della maggioranza dei cittadini della Bosnia,” ma Murat batté il pugno sul tavolo e concluse così il discorso sulla Bosnia e sulla Jugoslavia: “Nel sangue è stata creata, nel sangue la Jugoslavia si dissolverà, ricordati delle mie parole!”. Ora dovevo afferrare qualcosa da quel bacino in cui vivevano i miei ricordi e le mie memorie per rincuorare Stribor, alleggerendo almeno un po’ il peso della morte del nonno. Come spesso succede nella vita, avvenne il contrario. Fu il quattordicenne Stribor a cercare di consolare me. Mentre ci precipitavamo su per le scale di via Norveška n. 8, mi abbracciò e mi disse: “Tutto è come una mela. Prima fiorisce, poi appare il frutto che cresce, trae succhi dalla terra, diventa una mela che, da piccolo frutto verde, acquista volume e colore. Il sole la inonda, la pioggia l’accarezza, sta appesa al picciolo bagnata di rugiada. Poi l’estate passa, e la mela continua a stare attaccata all’albero, per il picciolo. Viene l’autunno, il frutto si gela dal freddo, la mela rimpicciolisce sempre più e a un certo punto, alle soglie dell’inverno, di colpo il picciolo si indebolisce, il frutto raggrinzito cade a terra, e la mela non c’è più”. Stribor voleva dirmi che la morte è una cosa naturale. Solo quando entrai nell’appartamentino erzegovese e abbracciai Senka, capii che mai più avrei visto mio padre. La morte di una persona cara si trasforma in grande angoscia solo quando sei vicino al testimone più intimo del defunto. A colui che diventa il legame più forte, ormai simbolico, fra te e il defunto. Mentre moriva, mio padre gridava: “Senka, Emir, me ne vado da voi!” e noi eravamo angosciati perché non sarebbe tornato mai più! Stribor scoppiò in pianto quando vide quanto Senka e io piangessimo Murat, ma trovai un modo per consolare mio figlio: “Tuo nonno non è morto, la vita lo ha mandato all’altro mondo a far riposare la sua bontà” gli dissi, e continuai a piangere.
IL GOMITO DEL TENNISTA Giù per la ripida discesa di Gorica, dove erano rimasti i miei compagni d’infanzia, rotolavano e si accavallavano avvenimenti drammatici. Cominciò una guerra del tutto nuova. Nella mia Sarajevo, nella mia Gorica che conoscevo palmo a palmo. La mia angoscia rimase appesa là, ai pali, come la luce fioca che si diffondeva in modo irregolare dalla sconquassata illuminazione stradale. Sul Crni Vrh come farfalle notturne svolazzavano i miei sospiri, e dalle scalinate scoscese, dove io esercitavo la velocità del cosmonauta e la lentezza del ragazzino innamorato, i palloni non smettevano di rotolare. Né io smettevo di rincorrerli. La passeggiata dei tempi di pace, che Paša praticava con sua moglie da Svrakino Selo al centro città, ora, in tempo di guerra, la dovette dimenticare. Gli pesava il fatto di non poter più regolare i conti con i “maniaci sessuali” che fissavano bramosi il sedere di sua moglie, ma si arrischiava comunque a scendere in città, correndo da un muro all’altro, a zigzag, per sfuggire ai proiettili dei cecchini. Si addentrava dalla periferia verso Gorica per far piacere all’amico Njego Aćimović. Il caos regnava nelle strade di Sarajevo, e i profughi della Bosnia orientale, i musulmani scacciati da Rogatica e Višegrad, cercavano un nuovo tetto sopra la testa, soprattutto appartamenti di persone fuggite a loro volta. Ma per lo più irrompevano nelle abitazioni dei serbi che non erano riusciti a uscire dalla città. Il pericolo di essere cacciati in strada era una dura realtà, solo la morte era peggio. La via più rapida per la morte, per i serbi di Sarajevo, era un incontro fortuito con il fisarmonicista Caco. Questo musico ammazzava i serbi senza usare le note. Per vendicarsi della morte dei musulmani uccisi lungo la Drina, quell’assassino portò al patibolo di Kazani centinaia, qualche testimone sostiene anche migliaia, di serbi. Quella brutta notizia giunse anche a Parigi, e io mi chiesi come potesse succedere che i combattenti per una Bosnia multietnica non sapessero che cosa facevano i loro musicanti quando non suonavano. Njego Aćimović trascorse i primi giorni di guerra nel terrore, barricato nel suo appartamento di Gorica, in via Kalemova n. 2. Aveva paura di ogni voce che proveniva dalla scala. Minacce e offese per telefono, come il notturno battere sulla porta, erano diventati la consueta esercitazione di coloro che volevano trasferirsi nel suo appartamento. Sapeva che non gli sarebbero stati di aiuto né il fatto di non aver mai festeggiato le ricorrenze tradizionali ortodosse, né di non essersi mai preoccupato della propria origine. Gli fu di aiuto, alla fine, solo una sincera amicizia. Dopo essersi fatto strada sotto il fuoco dei cecchini, Paša arrivava dal suo amico e gli portava da mangiare. Njego era il più gracile della compagnia e Paša il più forte. La loro amicizia ora doveva raccontare un genere di storia taciuto da tutte le stazioni televisive internazionali, che, da quando era cominciata la guerra, non facevano più vedere o sentire storie commoventi di amicizia fra serbi e musulmani. Paša arrivò a Gorica, portò a sua sorella Azemina un po’ di cibo e poi si affrettò lungo la discesa, in via Kalemova n. 2. Arrivato davanti a casa di Njego, per prima cosa cacciò via i giocatori d’azzardo. Si avvicinò al più grande di loro, gli diede un ceffone, e solo dopo gli disse: “Se non vuoi che ti molli un’altra sberla, sparisci!”. Mentre quel tanghero raccoglieva terrorizzato i soldi e fuggiva, Paša gli gridava dietro: “Se batti ancora solo una volta sulla porta dove è scritto Aćimović, ti strappo la pelle, hai sentito?”. A Njego occorse molto tempo per aprire la porta di casa sua, perché temeva che quella che sentiva fosse un’imitazione della voce di Paša. Quando, finalmente, dallo spioncino vide l’amico e aprì la porta, si sentì al sicuro, protetto dalla vicinanza fisica del suo forte
compagno. Quella sensazione era più intensa della fame che lo tormentava da due giorni. “Che succede, cetnico, te la sei fatta sotto, aaa, il culo lavora, eh?!” scherzava Paša, e poi i due amici di guerra andarono allo spaccio a comprare il pane. Passarono accanto alla coda di cittadini che aspettavano pazientemente i viveri. Quando Paša si accorse che un uomo che non conosceva lo guardava di sottecchi e borbottava piano, subito appioppò uno schiaffone anche a lui: “Ehi, stronzo, vuoi che ti faccia girare gli occhi come in un flipper? Perché hai battuto sulla porta di Njego?!” e se lo lavorò ben bene. Quello era il modo di Paša per far sapere a tutti che cosa li aspettava se facevano irruzione nell’appartamento e nella vita del suo amico. E non poteva essere altrimenti, perché i due amici erano legati da un passato comune. Erano carichi di ricordi. Non potevano dimenticare come la loro amicizia si fosse temprata sull’asfalto, né il modo in cui avevano imparato le regole del comportamento e dell’etica della strada. E sapevano come gestire, ecco, quel carico di ricordi anche in tempo di guerra. E se Gorica fosse stata in territorio serbo, Njego avrebbe fatto la stessa cosa per Paša? Sì, perché erano legati da azioni indimenticabili e folli, come quando tutti insieme scassinavamo i tabaccai di Zaostrog e poi vendevamo le Gillette e le gomme da masticare rubate sulle spiagge di Makarska, in modo da poter rimanere a nostre spese per settimane al mare, fonte di vita. Perché nella loro memoria erano custoditi per sempre i ricordi delle zuffe per il primato sulle spiagge e nelle balere intorno a Tučepi, e a ogni vittoria era legata la dolce sensazione della supremazia e del trionfo, indispensabile a un uomo che sta crescendo. In ogni caso, mentre si picchiavano o le prendevano, non dimenticavano mai che non si doveva lasciare un compagno in asso, qualunque fosse il prezzo. Al di sopra di tutte le leggi stavano il sacrificio e il divieto di essere “una femminuccia senza carattere”! Restare a Parigi e finire Arizona Dream, continuare il montaggio di quel film girato con tanta fatica, o tornare a Sarajevo? Sconvolto, telefonavo giorno e notte. Quando cominciarono i disordini davanti al Parlamento della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina, mi chiamarono per chiedermi che cosa ne pensassi. La mia idea era che i cittadini non dovessero in nessun caso mettersi a combattere contro l’esercito jugoslavo, erano molto meno armati e sarebbero stati uccisi tutti. Affermavo inoltre che non si doveva “giocare a partigiani contro tedeschi”, e che era assurdo immaginare che questa volta, nella distribuzione dei ruoli, ai serbi toccasse la parte dei tedeschi e ai musulmani e agli altri quella dei partigiani! La maggior parte della gente prese quella mia dichiarazione come un’offesa, anche se sono convinto che, allora, molti la pensassero come me, ma erano stati messi a tacere dalla terribile realtà e dalla paura diffusa nella città chiusa da ogni parte. Un cantante di musica leggera reagì alla mia idea pacifista. Lo fece nel modo in cui, in quella circostanza, l’azione pubblica era ammessa: si doveva spronare la gente alla difesa di Sarajevo, o, più esattamente, alla guerra contro i serbi, e non alla pace a ogni costo, che, invece, era la mia idea. “Emir, ci serve il tuo urlo, non il tuo sussurro” disse il cantante, diventando subito l’eroe della città, mentre l’autore di Dolly Bell e di Papà... è in viaggio d’affari si trovò sulla buona strada per diventare un traditore della patria. Decisi allora di prendere parte attiva al dramma della mia città natale. Comprai un biglietto aereo per Sarajevo, ma fui bloccato da Zoran Bilan che mi telefonò a Parigi: “Compare, non venire a nessun costo”, mi fa, “tu qui sei l’uomo che si deve uccidere”. “Chi mi deve uccidere?” chiedo io. “I patrioti!” “Perché ho scritto su ‘Le Monde’ che Alija è un generale senza esercito?”
“Io non so perché, ma tu non venire!” “Ma compare, io nella mia dichiarazione non ho risparmiato neppure quelli che bombardano la città!” “La tua storia non attacca, compare, non hai capito niente, tutto è cambiato. Qui non funziona più il discorso che non vanno bene né i primi, né i secondi, né i terzi. Sono solo i primi che non vanno bene, e quelli sono i serbi. Come in un film di cowboy, capisci? È vero che il nostro compagno Noka dice: ‘Non so chi è peggio, se quelli che mi attaccano o quelli che mi difendono!’.” “Ma Alija ha davvero un esercito?” chiedo al mio compare. “Lascia perdere la storia di chi ha un esercito e di chi non ce l’ha, in ogni caso tu non venire. Se cambia qualcosa, te lo farò sapere!” E il distruttore del busto di Andrić a Višegrad ebbe un suo ruolo proprio all’inizio della guerra. Non era un ruolo importante come lui aveva immaginato in precedenza, ma era sufficiente per raccomandarlo e inserirlo nella lista dei potenziali decorati. Per quanto non amasse i serbi e i partigiani, si vedeva comunque nel ruolo di un partigiano della prima ora. Un decorato. Se per un caso si fosse fatto l’esperimento della lettura forzata delle opere complete di Andrić, credo che Šabanović avrebbe considerato in modo diverso il compito che gli avevano assegnato i tutumrak. A un certo punto minacciò di far saltare in aria la diga della centrale idroelettrica di Višegrad! Al giornalista Radoje Andrić del giornale “Večernje novosti” dichiarò: “Lo farei per allagare la Serbia fino a Dedinje e alla casa di Milošević”. In quella conversazione intervenne anche il generale Kukanjac, comandante della Regione militare di Sarajevo. Usava un linguaggio popolaresco con l’agitato Šabanović, che diceva di voler far saltare la diga per vendicare i crimini dei gardisti di Arkan nella regione di Zvornik. Alla fine intervenne anche Alija Izetbegović, e il colloquio fu ripreso dal telegiornale. Il presidente parlava a Šabanović con tono toccante, come a un figlio. Quello insisteva che avrebbe distrutto tutto, e il presidente gli diceva: “Aspetta un poco, Šaban, ti prego, non toccare la diga, per ora almeno non fare niente...!”. Noi, spettatori televisivi, comprendevamo che, se non subito, all’allagamento si sarebbe arrivati al più tardi la notte stessa. Era come il sottotitolo di un film muto, come le parti scritte che in quei film annunciano gli avvenimenti che stanno per succedere. Malgrado l’insistenza del presidente “...non per ora almeno...”, Šabanović fece uscire una parte dell’acqua dalla diga. Dato che la sua casa si trovava a Nezuci, un villaggio poco distante da Višegrad, tutto preso dall’idea di allagare la Serbia fino a Dedinje e alla villa di Milošević, facendo defluire parte dell’acqua non fece altro che sommergere la propria casa! La costruzione fu divelta dalla corrente che la portò via con sé, ma la struttura in gran parte rimase intera. Šabanović guardava con enorme angoscia la sua casa trascinata in Serbia dalla corrente. Ricordava con malinconia le promesse elettorali fatte a Foča dall’SDA, quando i seguaci di Izetbegović avevano urlato che, se ci fosse stata la guerra, si sarebbero vendicati dei serbi per ogni musulmano ucciso sulla Drina nella Seconda guerra mondiale. Quelli che lo avevano promesso a Šabanović erano scappati a Sarajevo, per paura dell’esercito serbo. Così questo Šabanović era rimasto solo, a fissare la corrente del fiume. Desiderava ardentemente un miracolo e lo invocava prosternandosi ad Allah. Pregava che qualche forza facesse tornare indietro il corso del fiume. Se non lo poteva fare Allah, forse lo potevano fare gli americani. In ogni caso anche lui, alla fine, se la diede a gambe fino a Sarajevo, e là continuò a invocare il miracolo. Pregava che la Drina si mettesse a scorrere all’incontrario, in modo che la sua casa tornasse indietro, dalla Serbia a Nezuci.
Io aspettavo la chiamata del mio compare Bilan da Sarajevo. Che sia cambiato qualcosa? mi chiedevo. Ci sono notizie incoraggianti? Non è possibile che sia stato cancellato così rapidamente dall’elenco dei sarajevesi! Ben presto tutte le speranze furono spazzate via. Le comunicazioni telefoniche con Sarajevo furono interrotte, e a quel punto dovetti per forza rinunciare al mio viaggio nella città natale. Bilan non si faceva sentire, e non solo per l’interruzione dei colle gamenti. L’evento più tragico di tutta la dolorosa vicenda fu che la madre di Bilan, Kaja, fu sgozzata sulla soglia di casa a Jajce. Era stata partigiana, combattente della prima ora, e fu ammazzata, come dichiarò sua sorella che viveva ancora a Belgrado, da membri delle Aquile bianche. Da tempo sapevo che condividevano ben poco con quegli orgogliosi uccelli associati alla tradizione eroica della lotta del popolo serbo per la libertà. Colui che aveva sgozzato la zia Kaja sulla soglia di casa era solo un sorcio bianco. Il ritorno nella città natale appariva sempre più complicato. Non per paura. Era piuttosto una complicata situazione psicologica. Se fossi andato a Sarajevo avrei dovuto sottostare a un cambiamento cui non ero preparato. Invece di partire per Sarajevo, mi immaginavo che cosa sarebbe successo se ci fossi arrivato all’improvviso. Avrebbero dovuto appiccicarmi sulle spalle una nuova testa e togliermi quella vecchia, avvolgerla in un giornale e buttarla nella Miljacka. Da quella nuova testa avrei dovuto sputare su tutto ciò che fino allora avevo pensato e detto, e in cui avevo creduto! Su tutto ciò che mio padre mi aveva lasciato in pegno! Per quanto riuscita l’operazione chirurgica, quella testa non si sarebbe mai adattata. Le due teste non avrebbero accettato di andare d’accordo, ed ecco la tragedia. La vecchia, dura com’è, avrebbe preteso dalla nuova testa, sua sorella, di non accettare le interpretazioni imposte dalla guerra, in quanto non sufficienti per comprendere tutto il complesso delle cose. E questo è forse lo scopo, ossia credere a ciò che hai compreso. Perché, se credi solo ai sensi, non può funzionare. Il problema era che la vecchia testa era cocciuta. Avrebbe ordinato a sua sorella di non dimenticare mai le cause che avevano portato alla guerra, indipendentemente dalle atrocità. Allora la nuova testa si sarebbe messa ad abbaiare, dicendo che in tempi difficili non si doveva parlare, e avrebbe dovuto soccombere. Una testa era finita male perché aveva dovuto essere cambiata, e la seconda perché era sotto l’influsso di sua sorella. Per questa, ma anche per altre, indicibili cose, non andai a Sarajevo. Come avevo rappresentato il passato nei film, così facevo anche nella vita. Nemmeno quella Comunità internazionale con il suo umanesimo poco reale mi piaceva. Dei tangheri del mio paese non parliamo. Di loro parla nel modo migliore il verbale che Senka ricevette da mia cugina Dunja Numankadić. Quel documento dice che un alto papavero della polizia militare della Bosnia ed Erzegovina, un certo Edo Lučarević, assieme ad alcuni poliziotti aveva fatto irruzione nell’appartamento di Murat Kusturica, in via Kate Govorušić 9a. Nella canna fumaria del camino era stata trovata una bomba nascosta dal “terrorista”, come lo definisce il documento, Murat Kusturica. Il verbale fu firmato dalla vicina Rodić, come testimone: “Che cosa le avranno mai fatto, poverina, per obbligarla a firmare una bugia così enorme!”. In realtà, i combattenti per l’indipendenza della Bosnia ed Erzegovina, oltre a difendere la città, praticavano anche qualcos’altro. “Razza di furfanti, nella canna fumaria del camino tenevo i duemilacinquecento dollari che mi avevi dato da portare a casa, quando siamo ritornati indietro dall’America,” mi disse Senka. Quando da Herceg Novi portai Senka a Parigi, installammo un’antenna satellitare. Ascoltavamo notizie di ogni genere: ci erano più necessarie del pane. Guardando i
programmi e le televisioni più diverse e osservando le differenti interpretazioni degli stessi fatti, compresi che a Hitler, per il successo completo della sua politica criminale, era mancata solo la televisione. Nessuno lo avrebbe distrutto se avesse avuto un programma tv! Con il denaro guadagnato con Arizona Dream ci comprammo una casa in Normandia. Non c’erano più dilemmi: la vita in America era il nostro passato, e da Sarajevo ci eravamo accomiatati per sempre. Penso che saremmo giunti a questo anche se non ci fosse stata la guerra. Grandi impegni lavorativi impongono un cambiamento nel modo di vivere, le abitudini mutano, e una volta che hai provato il cibo giapponese e quando le fonti di sostentamento sono lontane dalla tua città, il profumo dei cevapcici non ti può più far tornare indietro. La nostra grande casa in Normandia era una replica della casetta di Visoko, solo che rispetto all’altra quella normanna era una vera costruzione. Se Murat fosse stato vivo, sicuramente avrebbe mostrato in giro ai pensionati di Herceg Novi, con orgoglio, le foto che dovevano confermare la grandezza e il numero delle stanze di proprietà della famiglia di suo figlio. In questa casa Maja portò alla perfezione il suo senso per la sistemazione degli spazi abitativi. Eliminando completamente gli stili, creò uno stile tutto suo. Quando Johnny Depp entrò in quella casa, disse: “Si sta bene, pare di essere a Visoko”. La nostra casa normanna, alla fine, diventò così piacevole che quando te ne stavi seduto per un po’ a guardare dalla finestra, non avevi la necessità di parlare. Eri completamente preso da sentimenti sublimi. Johnny Depp lo sentì meglio di tutti. Da quel silenzio avrebbe creato la sua prima bambina. Infatti, mentre noi eravamo in Montenegro, in quella casa fu concepita Lily Rose, la figlia di Johnny e Vanessa, di cui in seguito divenni padrino. In quella casa gli oggetti erano disposti con una sicurezza incredibile. Le cose stavano una accanto all’altra come la miglior serie di immagini montate in una sequenza cinematografica. Come quando le inquadrature si pongono una dietro l’altra e nulla le può spostare da quella progressione. Sistemati dalla mano di Maja gli oggetti di casa rispondevano per colore, forma e ordine proprio allo stile che si andava creando davanti ai nostri occhi, evitando gli schemi e gli stereotipi delle fredde e alienanti, e spesso squallide, stanze d’albergo... nelle quali io, fra l’altro, ho trascorso la maggior parte della mia vita. A quel tempo a Belgrado una stanza d’albergo era l’ideale per quel che riguardava la sistemazione degli spazi vitali. Tutto perché potessero dire: “Splendido, splendido, splendido”, cosa che mi dava particolarmente sui nervi. Il segreto dello stile di Maja consisteva nel fatto che nella cornice già esistente del quadro, in questo caso dell’edificio, venivano posti oggetti dimenticati, ma non necessariamente i più costosi, spesso anzi del tutto dozzinali. Lei poi sapeva abbellire il tutto con un dettaglio che costava una fortuna. Maja cambiava il nostro rapporto con lo spazio. Si comportava in modo analogo quando si vestiva. Spesso, nel più semplice grande magazzino, comprava un abito a buon prezzo che le stava addosso come dipinto. Naturalmente, ai piedi aveva le scarpe più care e al braccio una borsetta supercostosa. E quella era la cosa che le piaceva di più. Proprio come suo padre. Mišo Mandić era un eminente giudice di Sarajevo. Si diceva fosse il maggior esperto di diritto civile. Lavorava al Tribunale distrettuale per uno stipendio non alto, ma lui risparmiava per comprare i più costosi apparecchi fotografici. Dichiarava un grande rispetto nei confronti della raffinata tecnologia tedesca. Pur sopravvissuto a campi di concentramento ustascia e nazisti, non parlava mai male dei tedeschi. Evitava di nominare gli ustascia. Quando ero ritornato dai miei studi di Praga e cercavo di far conoscere lo scrittore Bohumil Hrabal, non riuscivo ad accettare che nessuno comprendesse il mio eroe letterario
quando diceva: “I cieli non sono umani, l’uomo che pensa neppure lui è umano. Non perché non desidera essere umano, ma perché ciò è in opposizione a un modo di pensare corretto”. Mišo tolse un obiettivo Zeiss dal corpo della sua Leica M2 e disse: “Ecco, le cose stanno così, come dice quel tuo Hrabal; proprio come quando dai tedeschi ti arrivavano le cose peggiori e quelle migliori, e adesso è lo stesso con gli americani. Un tempo un ufficiale tedesco arrivava in un territorio appena occupato, in piedi su una Mercedes decappottabile, con la sua Leica appesa al collo. Per quanto i popoli sottomessi li odiassero, erano impressionati: riconoscevano la loro superiorità tecnica. Della Mercedes non si poteva dire niente di male, la maggior parte della gente sogna di guidarla. E più uno sogna e più gli è chiaro che non la guiderà, tanto più disprezza non il tedesco, ma il proprio vicino, quello che con lui vive, lavora e muore. La maggior parte della gente, quando si immagina alla guida di una Mercedes, desidera cadere schiavo dei tedeschi per l’eternità!”. Oggi gli americani hanno creato la merce cosmica. Non si sa come salvarsi dalla quantità dei prodotti che costituiscono una provocazione. La gente potrebbe vivere senza la maggior parte di quegli oggetti, ma non sa resistere. Come un tempo andavano a pregare Dio, a guardare cieli stellati e iconostasi, oggi come pecore vanno a fare shopping. Gli uomini sono una specie particolare. Sempre meno li interessa il peso degli elementi, come direbbe Milka Babović, commentatrice di pattinaggio artistico. Alla gente di oggi interessa solo l’impressione artistica. Le persone vivono nella convinzione di non poter fare a meno di solarium, grammofoni, videocamere, telefoni, aerei, navi. Gli americani hanno inventato anche quel brevetto. Prima li rendono dipendenti dalla televisione, poi gli servono tutti quegli oggetti nella realtà, e questo, bisogna ammetterlo, rende la gente soddisfatta. L’Unione Sovietica ha fallito l’esame. Hanno gareggiato con successo con gli americani negli armamenti e nell’industria pesante, ma hanno perso la partita in ciò che la gente ama di più: non hanno saputo creare un mercato, né avevano idea di come riempirlo di merce variopinta. Il problema con gli americani è che queste cose ce le vendono a buon mercato, ma quando ci bombardano allora tutto rincara in modo tale che il prezzo basso precedente ti si rivolta contro. Le bombe cadono da un’altezza di dieci chilometri. Non possiamo fargli nulla – loro ci vedono, noi non li vediamo. Questo succede quando qualcosa non gli va a genio, quando vogliono aggiustare la storia. Non è male quando ci regalano le cose suddette. Quando ci godiamo Hitchcock, quando sappiamo che John Lennon è nostro fratello e quando passeggiano per la Luna. Non va bene quando ti bombardano e chiamano le bombe angeli. La cosa peggiore è quando comprendi che non puoi avere le cose suddette senza le relative conseguenze. Le une e le altre sono prodotte dalla stessa persona. È quell’eroe di Hrabal che non può essere umano, e si scusa, e si appella al cielo “che non è umano neppure lui”, perché, dice, ciò è in opposizione a un modo di pensare corretto. Per giungere a quegli oggetti meravigliosi e a quelle vette sublimi della scienza e della cultura, l’uomo sale verso il cielo e il paradiso per gradini costituiti da martiri morti e ammazzati, vittime dell’economia di guerra. I danni collaterali della storia! E va ancora bene, se sa sognare che tutto può anche essere diverso! La questione è se ciò che sta in cima alla scala, dove si arriva attraverso i martiri, valga tanta sofferenza. Mišo traduceva a Stribor in serbo tutti i libri di testo, perché il giovane Kusturica aveva appena cominciato a frequentare le scuole in francese. Stribor, come tutti i figli viziati, perdeva i quaderni tradotti, e il nonno si comportava come tutti i nonni, e traduceva di nuovo ciò che serviva. Stribor era appena stato colpito dalla pubertà. Un giorno tornò da scuola tutto agitato. Non volle dirci subito che cosa fosse successo, e a me ricordava tanto i miei primi passi della crescita reale. Aveva picchiato un ragazzo francese, un bullo della
scuola, perché costui malmenava i ragazzini algerini. L’estate dello stesso anno fece sputare i denti a un ragazzone di Budva, il figlio di un benzinaio del centro. In seguito Mišo, quando tornò in Francia, gli disse: “Lo sai, Stribor, che si tratta di un grave danno fisico, di un reato penale?”. Stribor si impressionò molto e si agitò ancora di più quando Mišo aggiunse: “Ti possono dare anche due anni di prigione!”. Mio figlio rimase esterrefatto e dopo quel monito non si azzuffò per almeno due mesi. Una volta chiesi a Mišo: “Che cosa devo fare, come posso domarlo?”. La risposta fu tranquillizzante: “Tu non puoi farci niente. Affannati quanto ti pare, ma quando in lui comincia ad agire uno dei nonni, succederà come è successo al nonno, e ogni sforzo sarà vano”. Quando si rese conto di aver appena suggerito che Stribor assomigliava a lui, aggiunse subito: “Per quel che riguarda i geni, possono anche saltare delle generazioni, e il ragazzo potrebbe assomigliare a un bisnonno”. Nonno Mišo non amava essere il tema centrale di alcuna conversazione. Non era incline a regolamenti di conti come Stribor e me, anche se, quando guardava le partite di boxe alla televisione, agitava i pugni come se si trovasse in mezzo al ring. Quando i pugili cominciavano a menare colpi in serie e acceleravano il lavoro di gambe, anche Mišo faceva lo stesso. Una volta si mise a lavorare di gambe in modo tanto rapido che a causa delle vibrazioni i soprammobili cominciarono a cadere dagli scaffali, e quelli di vetro andarono in frantumi. Dato che questi, sparpagliati per la stanza, non si vedevano, andando in cucina Mišo si tagliò. Non gli andava molto meglio neppure quando, nel suo salotto di Koševo, guardava le partite di calcio alla tv. Le sue gambe volavano come se anche lui fosse lì sul tappeto erboso. Calciava ogni pallone, e non solo quello che un giocatore sul terreno indirizzava verso la porta avversaria. Ogni calcio che lui riteneva dovesse essere indirizzato a quella porta, lo eseguiva anche lui nella stanza, agitando prima la gamba e calciando poi con tutta la sua forza. Un giorno sua figlia Maja, allora al liceo, stava facendo i compiti in camera e sentì il padre che urlava. Prima sentì un ininterrotto “GOOOOOL!”, dopo di che seguì una pausa e un grido di dolore: “Sono cadutooo, mi sono rotto una gamba! Aiuto!”. Con la sua indole troppo sensibile Mišo mal sopportava qualsiasi complicazione nei rapporti con gli altri. Proprio come Stribor. Non poteva neppure immaginare se stesso in una complicazione del genere. Così era avvenuto anche quando aveva sostenuto l’esame per la patente di guida. Nel momento in cui il peso dell’esame divenne insopportabile, lasciò andare il manubrio della moto. Caddero sia lui sia la moto. Per questo motivo cercava di trascorrere l’esistenza in pace con gli amici più intimi e devoti. Non amava gli spazi sconosciuti, e soprattutto le sfide che gli venivano poste da persone a lui sconosciute. In compenso, aveva una moglie che adorava viaggiare, conoscere paesi nuovi e stringere nuove conoscenze. Lui non si opponeva a quei viaggi, ma diceva: “Lela, vai dove vuoi, rimani quanto vuoi, ma quando torni non mostrarmi le fotografie e non raccontarmi niente di tutto quello che hai visto”. Lela piantò in Normandia gli stessi ortaggi che coltivava a Visoko. I miei preferiti erano i ravanelli. Ogni volta che tornavo da New York, per prima cosa andavo nell’orto a raccogliere quelle radici rosse che contenevano tanto ferro. Quei ravanelli appena raccolti, e non ancora lavati, pieni di terra, li mangiavo come se arrivassi dall’Etiopia e non dall’America. Per il dominio sul territorio normanno i francesi e gli inglesi avevano
combattuto trecento anni, ma per i miei gusti quella terra era piena di sabbia. Non era argillosa e grassa come la terra del mio paese. Quel sapore mi tornava spesso in mente assieme alle immagini del passato e alle lacrime che avevano accompagnato la mia infanzia. Nel millenovecentonovantaquattro morì mia zia Biba. Nello strano modo tipico solo della vita, si incrociarono la sua morte e la lettera del suo ex marito Ljubomir Rajnvajn, spedita al mio indirizzo parigino. Lo zio aveva tenuto il passo con lo sviluppo tecnologico e la lettera non arrivò per posta, ma fu spedita per fax. Dato che non sapeva che la sua ex moglie era deceduta, è incredibile fino a che punto la morte della zia coincidesse con la sua visione del futuro: “...Caro e grande Emir! L’assurdità della mia vita con tua zia Biba ha raggiunto l’apice! In passato, dato che non potevamo più vivere assieme in armonia, ho tentato di risolvere da gentleman la questione della nostra separazione. Purtroppo, con tua zia non è stato possibile. L’odio e tutto ciò che accompagna la sua reazione al nostro divorzio esplodono ogni giorno e minacciano di trasformarsi in qualcosa di molto peggio. La cosa più grave sono le minacce di uccidermi nel sonno, e se non vivessimo in un appartamento comune la cosa sarebbe del tutto diversa. Tu sai, caro Emir, che ti ho sempre espresso tutta la mia simpatia fin dai tempi del mio servizio nei paesi dell’Est dove ci venivate a trovare, tua madre, tuo padre e tu con loro, e dove desideravo che vi sentiste come a casa vostra. Là avevo continuato a giocare a tennis, perché, come sai anche tu, i Rajnvajn vengono dall’Austria e a Cettigne, che era una sede diplomatica, c’erano dei campi da tennis. Su uno di quei campi, mio nonno, capo del protocollo alla corte di re Nikola, fu fra i primi nei Balcani a rendere popolare quello sport! Fin da piccolo imparai a giocare anch’io, facevo spesso delle partite e sono diventato un appassionato. E ora invece di giocare a tennis sul litorale montenegrino, devo ascoltare delle ingiurie. Non sarà mica normale che una donna dopo vent’anni di vita con un uomo dica: ‘Con un Rajnvajn non ti puoi mai rilassare. Quando dormi, un occhio deve rimanere aperto e un orecchio teso’. Caro Emir, io non sono una merda, un figlio di puttana, sono solo un uomo normale con una brillante carriera da giornalista, un uomo che vuole vivere e giocare in pace a tennis. Perché devo sopportare tutto questo? Ti prego di aiutarmi a risolvere il mio problema, e questo si può realizzare con il riscatto della mia parte di alloggio. Con quei soldi mi comprerei un appartamentino a Herceg Novi e, cosa più importante, là mi curerei il gomito che davvero mi tortura e minaccia di trasformarmi in un invalido. Forse non capirai subito il mio problema, e quando dico gomito, pur sapendo che sono un tennista appassionato, potresti pensare che in questi tempi difficili io faccia l’incontentabile. Non è così, caro Emir. Il tennis è la mia vita, e non un divertimento”. La morte di Biba Kusturica mise per sempre fine alla tensione insostenibile che regnava nella casa di Terazije 6, e Ljubomir Rajnvajn vendette facilmente l’appartamento nel centro di Belgrado. Slavenka Komarica, la figlia del primo matrimonio di Biba, non si oppose a quella vendita, e delle cose nell’appartamento non le importava. Come poteva reagire diversamente? avrebbe detto la sua defunta madre, come dopo il primo assalto fatto dai Rajnvajn a quella casa: “Perfino l’armonica di Slavenka si sono portati via, quelle canaglie!”. Dato che ormai non c’era più l’armonica, Slavenka disse al patrigno: “A me le cose non interessano. Prenda tutto quello che pensa sia suo...”. Allora fu portato via tutto, perfino le mollette dai fili sui quali mia zia stendeva il bucato. Il nuovo inquilino poté traslocare, lo zio realizzò il suo sogno sull’Adriatico meridionale, ma
mia zia continuò a vivere nella mia mente. I miei ricordi facevano spesso rivivere le immagini del passato in quell’appartamento, immagini che per il nuovo inquilino erano invisibili ma non per questo erano inesistenti. Erano reali. La vita che anche dopo la morte Biba iniettava in quello spazio era un’ulteriore conferma dell’affermazione di mio padre: la morte è una voce infondata.
MEMORIE DALL’UNDERGROUND Nel millenovecentonovantaquattro morì Federico Fellini. Quell’anno nella capitale degli Usa fu firmato il Trattato sulla Federazione musulmano-croata. Quando venni a sapere che anche la Costituzione era stata firmata a Washington mi chiesi se le leggi fondamentali di tutti gli Stati, in futuro, sarebbero state scritte nella capitale americana. In quell’occasione il presidente Clinton citò lo scrittore croato Fra Ivan Jukić. Voleva condire la firma del trattato sulla Federazione bosniaca dei musulmani e dei croati a suon di letteratura, citando un autore che aveva scritto sull’amore in Bosnia. Forse era una delle tante spie dei problemi che gli americani hanno con la loro formazione di base. O forse è per cinismo che commettono errori. In Bosnia c’è solo un “Fra”, e anche il suo nome è Ivo, ma non Jukić, bensì Andrić, e quando si indicano i Balcani come territorio di tragedie, addirittura nel caso della firma di un trattato, se non guardi in un libro di Andrić, allora non hai capito niente. Federico Fellini, il mio padre cinematografico, se n’era andato. Per me quell’avvenimento fu molto più importante della caduta del Muro di Berlino per la civiltà occidentale. Non perché l’unificazione della Germania avesse significato la dissoluzione della Jugoslavia. Alla fine del ventesimo secolo la morte di Fellini rese orfani noi, seguaci della sua estetica. La nostra estetica, ereditata da lui, fu esposta a sconquassi di ogni sorta. Come abituarsi a vivere tempi in cui il Bello, il Buono e il Sublime erano diventati una categoria da eliminare, un valore antiquato? Fu questo il risultato della civiltà di mercato e della cultura scientifica: il processo di distruzione degli archetipi. Senka si abituava alla vita nella comunità normanna. Aveva sempre sottolineato il suo contributo alla fondazione di un focolare domestico e il fatto che, dal giorno del suo matrimonio, non aveva mai vissuto in comune con le sorelle, i cognati, la madre e il padre, nella casa di famiglia. Quanto orgogliosi fossero di essere padroni a casa propria e di vivere nella propria casa, si poteva sentire, oltre che da Senka, anche da Mišo e Lela: “Avere una casetta propria significa avere indipendenza!”. Difatti la casa non è una semplice costruzione, come potrebbe sembrare. Non si tratta solo di metri quadrati, come intende l’architettura moderna. L’uomo è legato alla casa da catene invisibili. Forse la casa non è qualcosa di cresciuto assieme a lui come nel caso della chiocciola o del mollusco, ma di sicuro per l’uomo la casa è una base. Perfino quando non ha una casa e va in rovina, quella sua rovina si misura con la casa che non ha. È una costruzione interiore, che anche gli uccelli hanno nei loro nidi. Anche quando sul ramo o sotto un tetto il nido non c’è, l’uccello ce l’ha in testa. Porta quell’immagine perché conosce l’architettura del nido. Non gli serve vedere come si costruisce. Lo stesso è per gli uomini, per i fortunati che hanno un tetto sulla testa, ma anche per quelli che non ce l’hanno. Le scene più grandi della loro vita sono le case, all’inizio le caverne, ora i grattacieli, o le magioni circondate da terreni. Lì si creano i miti, i drammi di famiglia. Il fatto che questo avvenga anche nei pensieri di chi non ha casa conferma la serietà di quel legame. Le catene con cui Senka, Mišo e Lela erano legati alle loro case erano state spezzate per sempre. Non potevano farsi forza con i sentimenti consueti dei profughi, perché la possibilità di tornare a Sarajevo non esisteva. Che cosa pensavano, di quali tempeste erano preda? Quando a Parigi qualcuno si trasferisce da una strada all’altra dice di aver affrontato un grande stress. Mišo se ne andò di casa con una stecca di sigarette Drina, Lela si portò solo la camicia da notte in un sacchetto di nylon. Ma, a differenza dei nostri altri genitori, alla dottoressa Kušec non si poteva rimproverare di essere conformista. Spesso, nelle sue manifestazioni assomigliava a una punk dei tardi anni sessanta. Quando i giornalisti di un canale televisivo le chiesero se, dopo la devastazione del suo
appartamento a Koševo, se la sarebbe sentita di ritornare a vivere a Sarajevo, rispose: “Che si prendano tutto, che vada pure a vivere con loro chi non li conosce”. Un certo Alija che aveva fatto irruzione nel loro appartamento di Koševo scorse sulla scrivania di Mišo una bandiera della Norvegia e disse: “Qui viveva il cetnico Miloš Mandić, bisogna distruggere tutto!”. In questo senso, grazie al suo appartamento di Herceg Novi, Senka stava meglio, ma a differenza di Lela era rimasta senza marito. Senka non si rassegnava al fatto che non avrebbe rivisto mai più suo marito. Rassettava la casa tutto il giorno, spazzava il cortile e si lamentava di essere “assalita dall’inquietudine”. Un giorno, per caso, mentre si faceva la doccia, toccandosi il petto si accorse di un piccolo nodulo. La dottoressa in pensione Lela Kušec scosse dubbiosa la testa. Due giorni dopo un famoso oncologo francese le diagnosticò un tumore al seno. Sperimentai nella mia vita ciò che si trova nei grandi romanzi. Lo sfondo della guerra per me era definitivamente più grave e più doloroso che se fossi stato a Sarajevo, sotto le bombe e le granate. Senka fu operata e, ancora una volta, la sua forza si dimostrò la sua qualità maggiore. Solo che non si trattava più di giochetti con le spine, come nel caso delle lampadine dell’ascensore. Ora si trattava di un doloroso cammino su quelle spine, e non di un gioco fatto di luce e spine nella corona di Cristo. Nelle sale d’aspetto dell’ospedale si ripetevano le scene dei miei film. Quante volte avevo filmato visite ai malati, quanto tempo avevo trascorso nei corridoi di ospedale per i miei film! Ora in ospedale non venivo più a girare scene. Subito dopo l’operazione Senka scese dal primo piano dell’ospedale al pianterreno. Ammiravo il suo coraggio. Ma lei chiese subito a Maja: “Mia bella nuora, hai una sigaretta?”. Maja solidarizzò subito con la suocera appena operata. Accese due sigarette e ne diede una a Senka. Nel divieto di fumare Maja vedeva l’ennesima ipocrisia della Comunità internazionale. “Ma dai, ti prego, ci avvelenano con milioni di automobili, con altoforni, gettano bombe, ci propinano cibo spazzatura e poi gli dà fastidio il fumo di tabacco. Ma quale civiltà, sono solo menzogne!” Il fatto che Senka avesse voglia di fumare, indipendentemente dal danno che le sigarette provocano, era un buon segno. In seguito, quando fu sottoposta alla radioterapia e alla chemioterapia, chiese che le salvassero i capelli. Non voleva essere calva. A ogni seduta le mettevano ghiaccio sulla testa, e così, alla fine, la capigliatura rimase intatta. Quando finì la chemioterapia, cominciò a frequentare i negozi della periferia di Parigi, ricordandomi i tempi in cui abitavamo in via Kate Govorušić 9a. Alla fine dell’orario di lavoro nel suo ufficio dell’università, dopo i lavori di casa, era in grado di arrivare a piedi fino a Ilidža. Quanto spesso dal centro andasse in periferia si vedeva dal fatto che i negozianti dei supermercati e degli altri negozi della lontana Ilidža chiedevano a Senka: “Come sta oggi, vicina?”. Da dove abitavamo noi Ilidža dista undici chilometri. L’energia di mia madre, dopo la morte di mio padre, non proveniva che in minima parte dalla sua costituzione fisica. Benché non lo dicesse mai ad alta voce, lei ora accettava, in gran parte, la sua appartenenza e l’amore per il marito come una propria visione delle cose. Adeguandosi alla perspicacia che il marito aveva espresso in vita, alla sua morte lei aveva compreso che quella vita, così come l’idea politica, aveva rappresentato il mezzo della loro comune emancipazione. Anche se litigava con lui, convinta che Murat esagerasse nel collegare quasi ogni fenomeno alla politica, aveva constatato spesso
l’infallibilità delle valutazioni e previsioni del marito. Unico in tutta la famiglia, lui aveva previsto con sicurezza lo sviluppo degli avvenimenti dopo la morte di Tito e la guerra in Jugoslavia. A parte l’abitudine di svegliarla nel cuore della notte quando nel mondo avveniva qualcosa di importante, come quando Nasser era passato dalla parte russa a quella americana, mio padre risvegliava l’acume anche in Senka. Per questo durante la dissoluzione della Jugoslavia lei non aveva dimenticato che proprio quello Stato, ormai messo nel dimenticatoio, era stato la fonte della nostra emancipazione familiare, e anche della solida carriera di suo padre. Era cresciuta in una famiglia in cui, dopo il drammatico salvataggio di suo padre, poliziotto a Vakuf del Regno di Jugoslavia, le idee politiche di solito venivano taciute. Murat era stato il primo partigiano che aveva conosciuto in vita sua, e con quel partigiano si era anche sposata. Una cosa del genere non poteva dimenticarla. Così Senka, dopo la fine della guerra, interruppe la sua ultima conversazione con una donna di Sarajevo, perché questa non ammetteva che la responsabilità politica della guerra bosniaca fosse suddivisa fra tre parti. Quando riuscì a collegarsi telefonicamente con Hanumica Pipić, nel giardino della quale trascorrevamo le notti estive a Sarajevo, le disse: “Che cosa ci hanno fatto?”. Hanumica rispose: “Per Dio, non sono tutti uguali!”. “Come non lo sono, tutti e tre! Neanche uno va bene.” Senka si riferiva a Izetbegović, Karadžić e Tudjman. Quella sua amica aveva amnistiato Izetbegović, mentre di Tudjman non le importava affatto. Mia madre la prese come un’offesa, anche se mi diceva spesso: “Per Dio, Emir, i musulmani l’hanno fatta grossa, proprio come diceva Murat!”. Si ricordava di quando, prima delle prime elezioni, mio padre aveva accusato il pericolo proveniente dai raduni in cui i seguaci della politica di Izetbegović minacciavano vendetta per tutte le sventure patite dai musulmani nelle varie tappe del Regno e della Seconda guerra mondiale. Per non mettersi in agitazione o litigare, decise di non farsi viva neppure con sua sorella. A quella sorella non era particolarmente legata, ma aveva seguito la sua sorte non proprio felice. Quando le dissi che non aveva senso non telefonare a zia Iza, lei mi rispose: “Caro il mio Emir, sono successe cose grosse, questa guerra non è scoppiata per caso, e ora tutto è stato separato dal sangue. Che Dio conceda che i tuoi nipoti vivano fino alla rappacificazione. Del resto, io non condivido i motivi della loro sofferenza, e non posso dire che non abbiano sofferto!”. “Non tutti hanno sofferto sulla propria pelle, qualcuno l’ha fatto anche sul culo” dissi per metterla di buonumore, e lei si mise a ridere. Sua sorella Iza, dopo la morte del fratello, si era trasferita dalla figlia Sabina. La guerra la colse in quell’appartamento di Bjelave. Continuava ancora a lottare con il peso, anche se sosteneva di mangiare solo simbolicamente, anche in guerra, così come in tempo di pace. Senka si ricordava con un sorriso delle volte che, in via Kate Govorušić 9a, il grande peso di sua sorella Iza era stato così utile. Senka lavava regolarmente quel tappeto cinese che trascorreva la sua esistenza sotto il tavolo del soggiorno, come parte della ben nota azione di salvataggio degli oggetti cari da un rapido e facile deterioramento. Senka chiamava allora in aiuto sua sorella. Riempiva d’acqua la vasca, vi deponeva il tappeto e la zia Iza ci camminava sopra con tutto il suo peso, finché l’acqua non diventava completamente torbida per la polvere e la sporcizia. Come in tempo di pace il peso della zia era stato d’aiuto per la sua famiglia, in guerra le salvò la testa. In uno dei pesanti bombardamenti di Sarajevo una scheggia di granata capitò per caso nella remota strada di Bjelave, dove la
zia dormiva. Per fortuna la granata mancò tutto, tranne il sedere della zia... Quando lo raccontai a Senka, lei si stupì: “Vuoi dire che mia sorella si è salvata la testa grazie al culo? Vergognati, che cosa ti salta in mente!”. “Me l’ha raccontato Edo.” Senka si fece una bella risata, ma poi si rattristò, quando il racconto paradossale del culo come salvifico strumento di sopravvivenza in guerra impallidì davanti all’amara constatazione che da così tanto tempo non vedeva sua sorella. Durante la guerra facevo di tutto per mantenere i ricordi del passato e l’idea della mia origine. Per questo avevo iniziato a scrivere racconti e memorie, che alleviavano le sofferenze legate alla mia identità. Zia Iza aveva da ridire su alcuni fatti del mio racconto Terra e lacrime, pubblicato sulla rivista “NIN” di Belgrado, con cui inizia questo libro. Mi mandò una lettera, e io credo che valga la pena leggerla per la sua sorprendente abilità di scrittura e il contenuto commovente. Ma anche come conferma che il culo le aveva salvato la testa. A mia madre questa lettera non la mostrai mai: “Cari Senka e Emir, colgo l’occasione di mandare questa lettera per mezzo di Dunja. A Senka avevo scritto durante la guerra, ma non ho mai ricevuto risposta. Ho sentito della prima operazione di Senka e ora purtroppo anche della seconda. Mi preme molto sapere come sta Senka di salute. La sogno spesso e penso continuamente a lei. Tu, Emir, come stai e come stanno i tuoi? Noi stiamo così cosà. La guerra ha lasciato traumi in tutti noi. Un milione di granate sono cadute su Sarajevo. Diecimila sarajevesi hanno perso la vita, di cui duemila bambini. Anch’io sono stata colpita da un proiettile, nel 1993, alle due del mattino. È volato dalla finestra, per fortuna ero distesa su un fianco, altrimenti sarei morta. Proprio ieri ho letto un necrologio, e ho visto che è morto Hidajet Ćalkić, come Vlado Branković. Hidajet e io siamo venuti in ospedale a trovare Senka e te, Emir, quando sei nato nel 1954. Sul quotidiano di Sarajevo ‘Dani’ ho visto il tuo racconto Il Titanic affonda di nuovo. L’ho subito letto perché mi interessava, come tutti gli articoli su di te. Non mi è piaciuta la tua versione del matrimonio del Nonno, cioè, non è la verità. Per prima cosa, il Nonno non aveva nessun fratello ma due sorelle, Zejfa e Iza. La mia omonima Iza è morta giovane, mentre Zejfa è morta molto vecchia. Il nonno mi ha raccontato varie volte che ai Numankadić nasceva sempre solo un figlio maschio. Suo nonno era figlio unico, suo padre era anche unico, il nonno pure, Akif era unico, e il nostro Edo è l’ultimo figlio unico. Questa, Emir, è la pura verità, poiché io conosco bene la storia della nostra famiglia, dato che dopo il matrimonio ho vissuto con loro più di dieci anni. Spesso la Mamma mi raccontava del suo matrimonio, e ci veniva a trovare anche Hatidža Hadžiahmetović, la donna che aveva partecipato al rapimento. La Mamma amoreggiava con il Nonno dalla finestra e aveva parecchi pretendenti, perché era molto bella, di una casata di aga. Prima del matrimonio il Nonno le disse: ‘Hanifa, io so che tu hai altri pretendenti, ma sono in gran parte commercianti e il commercio non è sicuro, può fallire da un momento all’altro. Io sono un funzionario statale e lo stipendio è sempre sicuro, e anche se muoio prima di te, avrai la pensione’. Infatti, quando il Nonno morì e la Mamma prese la sua pensione, mi raccontò tutto. E adesso alcune cose su Donji Vakuf, che allora era una piccola località. I due quartieri principali erano Donja mahala e Gornja mahala, oltre ad altre strade. Il nonno era di Donja mahala e i suoi avevano due case. Io me le ricordo ancora. Inoltre, era un funzionario, per cui la miseria non esisteva. La Mamma abitava a Gornja mahala e ci si arrivava salendo il brig, il colle, cioè in
salita. (A Vakuf e in quella parte di Bosnia si parla in dialetto ikavo, per cui invece che brijeg si usa dire brig.) I genitori della Mamma avevano una casa, un cortile e un orto che coltivavano. Avevano anche una cucina estiva, il cosiddetto mutvak. Sulla strada per Travnik avevano una grande proprietà dove tenevano meli, susini, peri e altri alberi da frutto. Adesso passo al matrimonio della Mamma. Lei concordò con il Nonno la notte in cui sarebbe venuto a prenderla, poiché sapeva quando i suoi sarebbero andati alla veglia, e lei sarebbe rimasta sola con sua sorella. Preparò le sue cose in un’altra stanza per fuggire più facilmente. Nel frattempo il nonno aspettava in carrozza con Hatidža, sotto il colle. Sua sorella si mise a pregare e la Mamma colse l’occasione. Quando la sorella finì le sue preghiere, vide che la nostra Mamma non c’era e scoppiò a piangere: ‘Hanno rapito mia sorella Hanifa’. Quindi, Emir, non c’è nessun fratello, e neppure la pistola di cui parli. In casa il Nonno non teneva nemmeno una fionda da bambini. Questo dimostra che non era incline alle armi e che non minacciò con la pistola né la sorella né la vecchia madre di sua moglie. A Vakuf nacque Akif nel 1920 e io nel 1924. Come impiegato statale il Nonno fu trasferito a Bugojno, dove nacque Senka. Là abitammo fino al 1939, quando il nonno ebbe il trasferimento a Prozor. Mio fratello Akif frequentò le scuole a Banja Luka, finì l’accademia commerciale e, quando nel 1941 ebbe il lavoro a Sarajevo, ci trasferimmo tutti lì perché eravamo più sicuri. Il resto lo sai. Caro Emir! Non Ti scriverei tutto questo se Tu non avessi cominciato questo tema. Se Senka non sta bene straccia questa lettera, perché non si agiti troppo, vorrei solo che la leggessi Tu, perché, alla fin fine, si tratta di tuo Nonno e tua Nonna. Vi saluta tanto e vi ama Iza”. L’amore di mia zia verso i genitori, espresso anche visivamente scrivendo Mamma e Nonno con le iniziali maiuscole, è commovente, così come la sua fedeltà nei confronti di quel lontano avvenimento. Il limite difficilmente visibile fra ciò che è realmente avvenuto e ciò che non lo è, crea prodigi. Infatti il racconto del “rapimento” della nostra Mamma non è nato dalla mia immaginazione. Era una storia che da bambino avevo sentito da mio nonno mentre la Mamma malata mi riscaldava la pita. Se lui la raccontasse per rallegrare me e la moglie malata, questo non lo so. Anche lei ascoltava la storia del nonno in cui erano introdotti motivi da film, come la pistola e altri dettagli. In quelle circostanze il nonno faceva divertire sia me sia lei. L’unica cosa che mi rimane, dopo la lettera di mia zia, è credere che nel misterioso sorriso della Mamma, negli sguardi che lanciava al marito, si esprimeva ciò che scrive la zia, ma anche gioia perché quella versione del loro matrimonio rallegrava suo nipote. Dopo la morte del loro fratello Akif, le sorelle Iza e Senka cominciarono a parlare spesso di morti e funerali. La zia Iza non voleva che la sua morte cogliesse di sorpresa le figlie Aida e Sabina e andasse a gravare sul loro magro reddito. Lo zio Akif era stato seppellito a Bare, e Iza insisteva che fosse esumato per costruire in quel luogo una tomba di famiglia. Così avrebbe risparmiato alle figlie le spese della tumulazione, dividendola fra i diversi membri della famiglia. Dunja Numankadić si oppose subito: “Nessuno si accanirà su mio padre o lo tirerà fuori dalla tomba, non ci penso nemmeno”. Così tutto ciò che prima o dopo dovrà accadere, e un giorno la morte avrebbe preso anche a zia Iza ciò che le apparteneva, contribuiva ad aumentare le paure della zia. Per aiutare la sorella e sollevarla almeno in parte dalle sue preoccupazioni economiche, prima della guerra Senka lasciò a Iza la propria buonuscita. Pur essendole grata per quel gesto, Iza non poté far a meno di commentare:
“Il tuo Emir può anche comprarti una bara d’oro, ma quelle mie due povere figlie che cosa faranno?”. “Ma per amor di Dio, Iza, ci seppelliranno come potranno, non abbiamo niente di più intelligente da discutere?” “Oh Senka, di notte sono presa dal panico, non riesco a dormire per la paura dei vermi!” “Che vermi, sorella mia?” “Mi seppelliranno secondo l’uso musulmano, perché costa meno! A me non disturba, che sia pure così, ma la notte, Senka, io non riesco ad addormentarmi quando penso che mi avvolgeranno in un semplice sudario e che i vermi mi mangeranno.” Nel millenovecentonovantasei, alla fine della guerra, successe che zia Iza morì e che la seppellirono così come da viva non avrebbe voluto. Le sue figlie non lo fecero per farle del male. Era parte della loro fede islamica, nata durante la guerra. A differenza della maggior parte dei membri della mia famiglia, troppo statici, motivo per il quale le schegge li raggiungevano perfino nel letto, io non potevo essere colpito da nessun proiettile. Viaggiavo fra New York e Parigi, tenevo l’ultimo semestre di lezione agli studenti della Columbia University, e con Duško Kovačević preparavo Underground. In quel periodo difficile Maja si comportò come una piccola lupa. Superò perfino l’esame di guida, anche se in precedenza nulla avrebbe fatto supporre che sarebbe diventata un’autista. Superò così anche la frustrazione di suo padre e il terrore dei momenti ufficiali che avevano fatto cadere Mišo dalla moto. Allevava i figli, portava Dunja e Stribor a scuola e Senka alla terapia. Io comprendevo che l’unico modo di oppormi alla guerra era continuare la mia battaglia personale. E quella battaglia, nel mio caso, consisteva nel girare film. E per l’ennesima volta mi venne in mente Ivo Andrić. Nemmeno lui aveva partecipato alla guerra. Le sue opere fondamentali le aveva scritte durante la Seconda guerra mondiale. Dopo lo scandalo di Arizona Dream, per le compagnie di assicurazione e di finanziamento ero diventato una personalità problematica, e senza di loro non si potevano realizzare progetti cinematografici. Occorreva trovare un ricco produttore, uno che non chiedesse prestiti bancari per un film. A quel tempo la gran parte degli addetti ai lavori era convinta che fossi arrivato alla fine della mia carriera, per l’abitudine di abbandonare le riprese e gli enormi sforamenti del budget. Ma anche allora, come molte altre volte nella mia vita, ebbi un colpo di fortuna, o, come dicono oggi, feci “Bingo!”. Apparve il magnate francese delle costruzioni BTP, Bouygues. Già in precedenza, quando vivevamo a New York, quell’uomo facoltoso aveva mandato Pierre Edelman, appartenente al jet set parigino, per farmi sapere che l’uomo più ricco di Francia voleva finanziare un mio film. A quanto pare, aveva visto con sua moglie Il tempo dei gitani e aveva pianto. “Quando mi ricordo quanto sia stato difficile girare quel film, adesso anch’io mi metterei a piangere” dissi al vecchio Bouygues nella sua casa di Parigi adiacente al palazzo presidenziale. Da parte sua, Edelman aveva ripetuto diverse volte una frase inconsueta per il nostro tempo: “Hai visto e sentito tutti, vecchio mio, non scherzare, gira quello che vuoi e quanto vuoi. È ricco da scoppiare, ma gli mancano la Palma e la gloria di una vittoria a Cannes”. Quando, sei anni dopo, Bouygues morì, alla televisione non parlarono della sua ricchezza. Nessuno accennò neppure a quanto denaro avesse. La cosa mi piacque. Dissero: “È venuto a mancare l’uomo che ha costruito, fra l’altro, un reattore nucleare in Iran e che custodiva in una vetrina di casa la Palma d’oro”. Insieme a Underground fui afferrato dal turbine della guerra. La sua eco mi raggiungeva ogni giorno. Dopo essersi aperto un varco nella mia anima, il virus di quella
sventura si annidò nel mio cuore. In quella guerra il ruolo principale toccò a programmi tv. Si trattava di menzogne propinate come verità. In modo irrefrenabile dilagava ovunque la sproporzione fra realtà e fiction, verità e menzogna! Tutti mentivano! Gli americani, gli inglesi, i tedeschi, i serbi, i musulmani! Cinque giorni dopo l’inizio della guerra, più veloci di un proiettile di kalashnikov, le stazioni televisive diffusero la storia di duecentocinquantamila morti. Probabilmente qualcuno sparò quella cifra e fece di tutto per raggiungerla. Risultati simili non li aveva ottenuti neppure la Germania di Hitler. Fu un periodo in cui fiorì la propaganda. La ricca esperienza sotto Tito, e in particolare il periodo dopo la sua morte, richiedeva un film tutto per sé. Del resto, anche Ivo Andrić aveva creato le sue opere più importanti durante la guerra, pensavo senza alcuna modestia, non solo per la guerra che impazzava davanti agli occhi e infrangeva tutte le illusioni. Quel film si chiamava Underground e non era una biografia di Tito, l’immagine più forte del nostro tragico destino. Il film trattava la tragedia di coloro che credono alla televisione, quindi era sulla propaganda. Quando qualcuno avanzava dubbi su Tito e si chiedeva chi fosse quell’uomo, se si trattasse di una persona reale, un falso zar, di un millantatore come il montenegrino Šćepan Mali, non sognava neppure di porsi tragici interrogativi legati al nostro popolo. È davvero strano che un uomo che nemmeno parlava bene la lingua di coloro che governava non solo fosse glorificato, ma addirittura assurto al rango di divinità. Lì finiva la storia a proposito di Tito, perché si trattava in realtà di una storia su di noi. Non era importante chi fosse e di dove fosse lui, ma chi fossimo noi. A differenza di mio padre, per me Tito non rappresentava un problema psicologico. L’unico legame formale fra me e Tito, l’Organizzazione dei pionieri, era stato sciolto da tempo. Dato che non ero più un pioniere e avevo evitato felicemente la Lega dei comunisti della Jugoslavia, a lui mi rapportavo come appartenessi al popolo ceco. In soggiorno il nostro televisore era coperto di sputi dovuti all’insofferenza personale di mio padre nei confronti del monarca bolscevico, il compagno Tito. Qualsiasi cosa dicesse mio padre di lui, non si potevano trascurare i cinquant’anni di pace ininterrotta. Nei Balcani quella non era una conquista da poco. Tutte le sue concessioni al popolo serbo, e i compromessi fatti, non erano stati realizzati, come fossero crimini, senza la nostra assistenza. Compresi Goli Otok e il Kosovo. I critici dicevano che i suoi successi facevano parte del progresso mondiale e dello stato naturale delle cose e che la sua abilità non aveva avuto alcun ruolo. Io non ero d’accordo con questa affermazione, soprattutto per l’idea di Tito che il successo economico non si può raggiungere senza una risposta alla domanda: “Dove sono in questa storia?” quando si tratta del profitto proveniente dall’economia di guerra. Gli era stato permesso di produrre e vendere armamenti a paesi in guerra, che poi erano i non allineati, dei quali lui era uno dei leader! Il periodo del suo regno fu l’unico nella storia del nostro Stato in cui i profitti della nostra economia statale ammontavano a qualche miliardo di dollari all’anno. Da quei profitti si creava una classe media che viveva una vita parallela a quella dell’Europa, con gli stessi standard culturali, sportivi e scientifici dei paesi a occidente delle Alpi. Con tutti questi riconoscimenti, la vita del compagno Tito era, purtroppo, una conferma che non solo i costruttori sono inclini a costruire senza permessi. La vita del maresciallo Josip Broz era una costruzione illegale. Nella Prima guerra mondiale era giunto sul territorio dei Balcani come soldato nemico. Non importa che fosse nato a Kumrovec o al di là dei Carpazi, oppure da qualche parte che non sappiamo neppure dov’è. Come caporale austriaco sparava sui nostri patrioti, in una guerra in cui sopportammo il maggior numero di vittime e dove perdemmo due milioni di uomini. Ex soldato di un esercito austroungarico sconfitto
nella Prima guerra, Tito apparve nella Seconda dalla parte dei vincitori, come in una di quelle interminabili serie televisive. Giunse sul nostro territorio dalla Russia, per preparare la resistenza contro i tedeschi. L’ex caporale austriaco sapeva come costruire un bilancino da farmacista fra i russi e gli angloamericani. Durante la guerra i tedeschi diedero la caccia a lui ma anche a Draža Mihailović. In seguito Tito strappò la foto di Draža da quel libro di storia, in cui rimase solo lui a opporre resistenza ai tedeschi. Non fu mai spiegato come i cetnici avessero potuto collaborare con i tedeschi. Quando mai un traditore della patria se ne sta nascosto in un bosco, piuttosto che nei saloni a bere il tè con l’occupante? Nella corsa per la benevolenza di Churchill il compagno Tito superò Draža Mihailović, perché nella sua biografia gli inglesi avevano trovato una macchia. Credeva nel panslavismo, i russi gli erano cari, ed era membro di una organizzazione panslavista della Bulgaria. Gli inglesi non glielo perdonarono. Dopo la guerra Tito divenne lo studente più brillante della Guerra fredda. Subito dopo la liberazione uccise Draža Mihailović, un patriota che aveva combattuto contro di lui nella Prima guerra mondiale e nella Seconda aveva fatto parte dell’esercito monarchico venduto dagli inglesi. Oltre a tutto il resto, Tito era la conferma del potere angloamericano nei Balcani e della loro paura di un’influenza russa in Europa. Gli fu sufficiente capirlo e comprendere che razza di leccapiedi fossimo noi, e l’intera faccenda fu, già allora, risolta a metà. Per quanto riguarda la propaganda usata da Tito in Jugoslavia, era simile proprio a quella tratteggiata nel film Underground. Quanto la visione della vita di Tito come di una costruzione illegale fosse corretta fu dimostrato anche dalla sua morte: fu sepolto in un giardino altrui. Nella recente storia europea non è mai successo che la sepoltura di un presidente della Repubblica sia avvenuta come un atto di edificazione senza permesso. I suoi resti furono tumulati nella proprietà del signor Acović, architetto e membro del Consiglio della corona. La scomparsa di Tito non è stata un viaggio nella storia. È stato deposto in un giardino altrui, perché anche la sua vita l’ha trascorsa su una proprietà altrui. In tal modo non ha fatto altro che confermare di essere uno degli episodi infelici della nostra storia, un episodio che abbiamo amato, un uomo che ha fatto molto, non possiamo dimenticarlo, per l’economia del nostro paese perduto. Se un intero popolo credeva a un uomo simile e lo seguiva come un capo a dispetto della cadenza del suo eloquio, che rivelava l’indefinita distanza da cui era giunto, perché gli spettatori non avrebbero dovuto credere alla storia di Underground? In quel film il destino gioca con un gruppo di persone rinchiuse in una cantina. Per poterle usare non viene detto loro che la Seconda guerra mondiale è finita. Viene messa in funzione una macchina di propaganda che in quello spazio chiuso è perfettamente efficace. I reclusi credono che là fuori il potere sia nelle mani dei nazifascisti e che un giorno arriverà la libertà. E questa, se si considerano i metodi con cui si governa, non è neppure una grande menzogna. Solo che gli spazi per un’azione del genere non sono altrettanto definiti. Il nazifascismo regna giù nella cantina dove sono rinchiusi quegli uomini che credono che la Seconda guerra mondiale non sia ancora finita, oppure in superficie? L’uomo non potrebbe accettare menzogne così grandi se la menzogna non avesse i suoi anticorpi. Sia nel caso di Tito, sia nella storia di Underground. Gli uomini mentono da quando dicono la verità e difficilmente saprebbero che cos’è la verità se non mentissero. Il problema è che oggi il concetto di verità non è un fatto così emozionante in un mondo in cui gli istinti riproduttivi, secondo Freud, e gli istinti di sopravvivenza, secondo Jung, sono sostituiti dal denaro e dalle merci: oggi sono queste scintille che mettono in moto la macchina umana. È un po’ noiosa quella verità, non si addice alla maggioranza degli abitanti del nostro pianeta, non è un grande tema nelle nostre vite. E nella storia ancor
meno. Com’è possibile, comunque, una storia così incredibile come la nostra? Per il film Underground e il suo intreccio mi occupai di un altro vecchio tema. Mi interessava la questione della morale! Soprattutto perché il motore principale del dramma di Underground era la storia della reclusione di alcune persone in una cantina e del meccanismo che faceva nascere e sopravvivere la convinzione che la Seconda guerra mondiale non fosse mai finita: in questo io vedevo, prima di tutto, un crimine morale. Nella nostra storia quali sono stati i sarti che hanno dato le misure della morale e delle sue applicazioni pratiche? Un tempo erano gli interpreti del Vecchio Testamento, Marko Miljanov, Njegoš. In seguito, alcuni nostri contemporanei hanno sottolineato che da sempre siano stati i grandi protagonisti dei libri a prendere seriamente le questioni morali. Al di fuori della letteratura e del cinema emerge un discorso ben diverso. Dalla morale di una squadra di calcio al governo di uno Stato prevale il principio diffuso nelle riviste popolari per costruttori dilettanti, ovvero “il maestro sono io”. Così andava anche con la nostra morale. Tutto si decideva caso per caso, perché la Chiesa e le premesse teoriche sulla morale erano al di fuori dello schema in cui si muoveva, cresceva e si educava la maggior parte della popolazione. Alla fine, l’idea di moralità rimase un privilegio delle persone distinte. L’imperativo morale scomparve assieme all’idealismo. Quando l’idealismo divenne un difetto dell’uomo contemporaneo scomparve anche la morale. Io sono cresciuto in un quartiere dove, accanto al complesso di abitazioni destinate agli impiegati statali e ai militari, vivevano zingari poveri. In quelle condizioni di vita, la menzogna non aveva la gravità di una trasgressione morale, ma poi ho studiato in un centro della cultura centroeuropea: là, a proposito della verità e della menzogna non c’erano le stesse idee. Dopo gli studi superiori, per tutta la vita non ho fatto altro che mettere a confronto quei due mondi. I balcanici vivono con un piede sull’asfalto, mentre ancora lottano per estrarre l’altro dal fango rurale. Quando imprecano contro qualcuno chiamando in causa sua “madre contadina”, lo fanno stando su un piede solo, quello cittadino naturalmente. Ma questo significa che l’imprecazione non è andata lontano, anzi è diretta contro la propria madre. Perché l’altro piede, affondato nel fango, dimostra nel modo migliore quanto superficialmente il suo fratello cittadino consideri la morale, soprattutto la sua origine, e come non comprenda che ciò che arriva dal fratello nel fango diventerà un capitale storico. In un villaggio vicino a Užice, alla domanda che cosa sia la morale, i contadini dapprima appaiono interdetti. Aspettano che qualcuno gli sussurri la risposta. È il trauma ricevuto dalla scuola in cui sono stati trascinati a forza. Dato che nessuno suggerisce, tacciono ancora una cinquantina di secondi, e poi uno di loro risponde di colpo: “La morale è quello che si deve!”. E quando gli si pone la domanda che cosa significa immorale, deducono logicamente: “Immorale è quello che non si deve”. Anche se qui la logica non ha un grande ruolo. Neppure in sogno uno riuscirebbe a centrare così esattamente la questione. Perfino il più intelligente di noi difficilmente arriverebbe a una definizione così splendida della morale. E soprattutto, la sua logica è sostenuta dalla più forte economia del mondo. Chi avrebbe detto che nelle vicinanze di Užice si potesse sentire la miglior definizione di una cosa così complicata come la morale? Quella visione pagana della morale ha risparmiato fatiche e grandi sforzi al contadino serbo. Si è dimostrato che l’idea di morale non trae origine dai libri, dalle discussioni veterotestamentarie o filosofiche sui principi morali, bensì dalla prassi pagana. Il contadino della zona di Užice non ha avuto un Kant, o uno Hegel, né una storia dalla quale giungessero soluzioni giuridiche legate alla morale, non ha elaborato una sua visione
formale di tale questione. Chiedendosi timidamente: “Dove sono io in questa storia?” è rimasto sospeso fra le grandi interpretazioni e Dio, che considera con sospetto, per cui un po’ gli crede, un po’ no, mantenendo però la necessità di rispettarlo a suon di feste tradizionali e candele. È una pratica che risale ai tempi precedenti la definizione di un Dio unico, quando di dèi ce n’erano a volontà. In America hanno tentato già molto tempo fa di uccidere il loro Dio, e quando non ci sono riusciti gli hanno trovato un ruolo, per mano della prassi, ma anche del progresso scientifico. La necessità di eliminare Dio è cresciuta con le conquiste della scienza, malgrado il fatto che i maggiori scienziati fossero anche uomini di fede. Per i nuovi concetti Dio era una complicazione. Non appena si divise dal Dio cattolico, prese il largo dalla costa europea dell’Atlantico, arrivò in America e si stabilì sulla costa orientale. Là, a causa di una storia burrascosa, il genocidio degli indiani, lo sviluppo selvaggio del capitalismo e la Guerra civile, Dio fu oggetto di vari attentati. Alla fine fuggì a Hollywood, dove ancor oggi vive. Al Dio americano è stato solennemente attribuito il ruolo di attore principale, ossia della star più famosa. Sta in cima alla piramide dove, come le altre stelle e gli altri santi, serve la nuova civiltà. Si è rassegnato al fatto che la nuova epoca scientifica abbia creato un uomo nuovo, un pagano hi tech, che difficilmente può credere a un Dio classico. Così il Signore si è reso conto di essere una celebrità e non ha fatto questioni. Gli andava bene così e non si è ribellato. Non solo in America, ma in gran parte del mondo contemporaneo. Dove è rimasto quel contadino del villaggio nei pressi di Užice? Come ha risposto alla domanda: “Dove sono io in questa storia?”. È rimasto accoccolato là dove si trovava e si è comportato in armonia con la sua logica. Non conosce il tormentoso, spinoso tragitto del Dio americano, sfuggito all’Inquisizione salvando la scienza dai roghi e dalla tortura. Nel frattempo, il grande interprete della morale di Užice non ha smesso di celebrare le sue feste tradizionali, mentre rigirava la storia di Dio a seconda delle necessità. Nella sua visione, Dio ora c’era, ora no. Quando gli americani hanno ritirato Dio, il collega moralista di Užice non ha dovuto cambiare nulla nelle sue abitudini. Da lui tutto è rimasto uguale, per secoli. Senza immaginarsi che sarebbe stato così, è diventato il collegamento fra il passato e il presente americano. Quella fantastica svolta nella visione della morale, la verità ritrovata del moralista dei pressi di Užice, ma anche una nuova etica, oggi si vedono ovunque. Nei momenti in cui gli americani preparano un bombardamento, la più grande rappresentazione teatrale odierna, quando l’intero pianeta aspetta con ansia una grande azione, alla base di tutto questo mettono la morale. Per difendere in Iraq il comfort del Signore hollywoodiano, per prima cosa gli americani presentano le loro azioni di guerra alla televisione, in modo molto simile a quello del contadino dei pressi di Užice. Quel bombardamento semplicemente “si deve”. Subito dopo, l’operazione militare viene proclamata morale. Cioè, ciò che si deve è morale. Da tutte le maggiori stazioni televisive le distruzioni e i bombardamenti vengono rappresentati come un atto di difesa della morale e della civiltà. Siamo arrivati alla famosa risposta alla domanda che cosa sia la morale, quando l’interdetto contadino nei pressi di Užice ha risposto, confuso, che la morale è ciò che si deve: oggi i marine americani mettono in pratica la sua tesi, attraverso la difesa delle norme etiche del loro Stato. Se scuotessi ben bene questa mia testa che ho sulle spalle, come i contadini scuotono le prugne giù dall’albero prima di farci la grappa, sperando che dalla testa non caschi fuori tutto, difficilmente la mia memoria farebbe cadere sul tavolo qualche insegnamento morale specifico, a conferma del film Underground e della risposta alla domanda su cosa spinga l’uomo a vivere nella menzogna. Mia madre non mi ha mai fatto quel tipo di lodi tanto comuni nel nostro vicinato. Quando qualche vicina voleva lodare il proprio figlio ed
esprimere un aperto entusiasmo per il modo in cui si era comportato nei confronti del mondo, usava dire: “Quel mio Samir, il mio piccolo ladro, com’è bravo”. Così la vita regolava la questione morale, in un mondo da sempre oppresso dalla povertà e da una storia difficile, ma dove esisteva anche un rapporto superficiale con Dio. In quel mondo una madre per coccolare il figlio lo chiamava “il mio piccolo ladro”, e tutti la sostenevano. Il ladruncolo di mamma era ben accetto in quella società non tanto colta, quanto rispettabile e laboriosa. Per questi motivi pensai che l’aneddoto su un gruppo di persone che ritenevano che la Seconda guerra mondiale non fosse mai finita fosse in realtà uno scherzo ben piccolo rispetto alla menzogna in cui vive il mondo contemporaneo. Quel film fu costruito al rovescio, dalla fine verso l’inizio. Per prima cosa seppi come sarebbe andato a finire, e poi come sarebbe cominciato. Pensai di girare un matrimonio su un’isola fluviale. Quel festeggiamento sarebbe stato una sequenza fondamentale, come la fine del film Cenere e diamanti di Andrzej Wajda. Sarebbe stato l’epilogo del dramma di Underground. I personaggi sopravvissuti avrebbero fatto festa, io avrei usato nuovamente un mio stereotipo e poi lo avrei distrutto in un modo tutto nuovo. Avrei fatto in modo che la terra si spaccasse, che si aprisse una fessura proprio accanto alla tavolata delle nozze, che la corrente trascinasse lungo il fiume l’isoletta di terra con tutti gli invitati, all’oscuro di ciò che stava avvenendo. Li avrei lasciati saltare sui tavoli, ballare, mangiare. Una compagnia balcanica dionisiaca che va alla deriva. Proprio perché allora mi sembrava che la terra mi si spaccasse sotto i piedi, filmai così la fine di quel film. Se dovessi girare il seguito di Underground, ecco che di nuovo ne saprei la fine. Ora la terra non si aprirebbe più. Sarebbe il cielo a squarciarsi, alla fine. Questi pensieri mi hanno portato a un abisso davanti al quale difficilmente un uomo immerso nella sventura, per tutte le perdite sofferte, riesce a fermarsi prima della rovina. Per non diventare patetico, farei in modo che lo squarcio celeste fosse osservato da quel topolino della scarpa sportiva da me ereditata dall’ufficiale all’inizio, ma anche alla fine, della mia carriera atletica. Quel topolino non sarebbe costretto a percorrere il giro d’onore nello stadio di Koševo. Avrebbe lo stesso ruolo di commentatore dei cori dell’antico dramma greco. Nella storia sulla fine del pianeta Terra, nel sequel del film Underground, il topolino porrebbe a voce alta una domanda: “Dove sono in questa storia?” e chiederebbe ancora, deluso: “Che cosa è saltato in mente agli uomini di sprecare in modo così miserabile la loro grande occasione? Va bene che hanno agito a proprio danno, ma dovevano proprio fottere anche noialtri?”.
IL FIGLIO DEL PADRE DI DIONISO Nel millenovecentonovantacinque a Parigi fu siglato l’Accordo di Dayton, e quella fu la fine della guerra in Bosnia. Lo firmarono Milošević, Tudjman e Izetbegović. Gli stessi personaggi che ci avevano portati nella democrazia, e subito dopo in guerra, ci condussero alla pace. Capii che la guerra appena finita confermava la vecchia tesi di Andrić secondo la quale i nostri conflitti non risolvono mai i nostri problemi, ma ne creano solo di nuovi, che dovremo risolvere di nuovo e con nuove guerre. Quello stesso anno Underground vinse a Cannes e io ottenni la mia seconda Palma d’oro. Questa volta il mio film non ricevette la Palma in un contesto ideologico occidentale simile a quello del millenovecentottantacinque, quando Papà... è in viaggio d’affari aveva completato l’immagine della distruzione dei regimi del comunismo est-europeo. Se avessi saputo che mi avrebbero spacciato come valuta anticomunista, un film così io non l’avrei mai girato. Probabilmente, oggi la pensano così anche quelli che nel millenovecentottantacinque mi assegnarono il premio. Quando vedono in quale strumento politico mi sono trasformato, sono convinto che vorrebbero che restituissi la Palma. Underground faceva parte di una mitologia diversa. L’estetica cinematografica fece brillare la mia fortunata stella festivaliera. Era lo stesso gadget luminoso che, all’inizio, era stato appiccicato al fuligginoso cielo di Zenica, e ora si era semplicemente trasferito da Venezia a Cannes, a Berlino e altrove. Credo che i membri della giuria di Cannes mi furono favorevoli soprattutto per la grande emozione creata dalla proiezione di Underground al Grand Palais, la sala principale. Un critico cinematografico dichiarò che ero un diretto discendente del dio Dioniso. Naturalmente esagerava, ma chissà cosa mai potrebbero oggi dimostrare i medici forensi. Volevo ringraziare per quei complimenti e dimostrare di essere modesto. Purtroppo ero stupido, ma non mi mancò la forza di ammetterlo. Dissi in francese: “Io sono, in realtà, figlio del padre di Dioniso”. Lui mi guardò confuso e chiese: “Se lei non è Dioniso, allora è suo fratello?”. “No,” insistetti incaponito sulla mia visione delle cose, “io sono figlio del padre di Dioniso.” Il critico mi guardò curiosamente, poi, comunque, si mise a ridere e disse: “È senza senso ma suona bene, sia come vuole lei! E adesso, spero che abbia capito!”. In seguito rimuginai a lungo su questo punto, senza peraltro risolverlo. Per forza: ingurgitavo assieme sedativi e birra. Queste due cose fanno in modo che il cervello aspiri a sdoppiarsi, ma su quella strada la ragione sparisce. Per me era l’unico modo per superare l’inferno del festival. Alla fine smisi di ritornare su quella sciocchezza e mi dissi d’accordo con il critico francese. Suonava bene. La decisione di attribuire il premio proprio a me, d’altro canto, era nata da una profonda malinconia dei membri della giuria di Cannes. Erano tristi perché non c’erano più Buñuel, Fellini, Bertolucci, e io, alla fine del ventesimo secolo, facevo pensare al passato. Adesso mi è del tutto chiaro che due elementi esterni hanno influito sul mio destino. Non mi addentro nell’analisi dei motivi interiori. Finirei da qualche parte nei pressi di Dostoevskij, e questo non è fancy. Il problema è che quei motivi, dei quali Dostoevskij era un esperto, nessuno vuole ascoltarli. La profondità dell’anima umana, tema legato sostanzialmente all’esistenza: a chi può mai interessare oggi? Il genio di Dostoevskij neppure in Russia è popolare come sarebbe auspicabile. Là si entusiasmano di più per Tolstoj e Puškin, come i critici del “Time magazine”, che hanno messo Tolstoj al primo posto, mentre Dostoevskij
non figura neppure fra i cento maggiori scrittori del mondo. Non è la prima volta che il “Time magazine” e i russi commettono lo stesso errore. Nel mio caso era evidente che avevo realizzato l’immodesto desiderio di mio padre: “Non occorre che diventi un Fellini, ma sii almeno un De Sica”. Andò così, anche se il mio vero obiettivo era di non vergognarmi di quel che facevo. Niente di più di questo. Probabilmente era stato decisivo per il mio successo cinematografico. Nella vita e nel cinema mi sostenevano la cocciutaggine ereditata da Senka e la sua determinazione a impedire ai vicini il furto delle lampadine del nostro ascensore in via Kate Govorušić 9a. Era come se anch’io partecipassi a quel passato, quando mia madre portava alla perfezione l’arte di incollare le spine sulle lampadine. Sul “Time magazine” apparve la mia foto, ma l’articolo del critico Richard Corliss non parlava della vittoria di Underground. La reazione del giornalista del “Time” fu simile a quella prodotta da Ti ricordi di Dolly Bell?, quattordici anni prima a Venezia. Nel settembre del millenovecentottantuno, in una corrispondenza dal festival, sulla stessa rivista era scritto: “Ha vinto un film che arriva da Nessun Luogo e che è stato diretto da Nessuno...”. Sul film non si spendevano molte parole. Uno scherzo coloniale, privo di cattive intenzioni. A parte il fatto che era coloniale. Quella era la lingua della cultura cool dell’Occidente. Le cose nel frattempo erano cambiate. Questa volta a Cannes, nel 1995, il film lo aveva diretto Qualcuno. Così si poteva dedurre dai critici, anche se alcuni negavano quel fatto. Fra loro c’ero anch’io. Per fortuna non molto spesso, ero dubbioso quando qualcuno affermava che nel frattempo ero diventato Qualcuno. Dopo la vittoria di Underground non si scrisse molto sul film, dato che la rissa collettiva sulla spiaggia davanti all’Hotel Martinez divenne un tema più interessante. Un regista festeggiava il trionfo partecipando a una megarissa! Sottolineavano il mio “carattere selvaggio”. Infatti, come dice un vecchio detto indiano, quando picchi a pugni nudi, allora è giusto che ti chiamino selvaggio e barbaro. Quando invece fai cadere tonnellate di bombe, atomiche comprese, sei un civilizzatore che esegue il suo compito. Quella sera del 1995 io avevo un compito dionisiaco. Dallo schermo e dalla sala dove gli era stata assegnata la Palma d’oro, Underground aveva trasferito il suo carattere alla spiaggia sabbiosa del Martinez. Al Grand Palais brillava il mio collega greco Theo Anghelopulos. Era convinto che quella notte sarebbe stato fra i vincitori del festival. Era troppo preso da sé. Lo guardavo sul video mentre saliva sul tappeto rosso. Lui e i suoi attori, assieme ai membri dell’équipe, si tenevano per mano e come un gruppo folkloristico camminavano solennemente verso la Palma d’oro. Patetico. Così, il fatto di aver ottenuto solo il Grand Prix del festival fu un duro colpo per Anghelopulos: “Avevo preparato il discorso per la Palma d’oro, non per un premio speciale, e così non ho niente da dirvi...” disse poi alla cerimonia. Quel misantropo, due giorni prima, si chiedeva sull’“Herald Tribune”: “Perché qui, a Cannes, amano tanto quel Kusturica? Nei suoi film le persone non fanno altro che mangiare, bere e ballare, che razza di cinematografia è? Dove è fuggito il pensiero, che ne è della riflessione?”. Con i suoi film, il greco cercava di essere cool. Si comportava come se fosse nato a Heidelberg, e non in un sobborgo di Atene. Girava i suoi film più per il desiderio di asserire il suo amore verso la filosofia tedesca classica, che per l’aspirazione di riscaldare il genere umano con la sua opera. Come se non sapesse che già da tempo, a Hollywood, avevano affermato che il cinema era superiore alla vita. Inaspettatamente, durante i festeggiamenti, Dunja Kusturica maturò. Dopo la conferenza stampa, prima delle foto di rito, mi sussurrò
discretamente: “Emir, stai attento a quello laggiù!” e indicò Anghelopulos. “Se trova l’occasione, quello ti ruberà la Palma! Ho visto come la guardava quando era sul tavolo.” Strinsi con forza la Palma d’oro e, spinto dall’avvertimento di mia figlia, abbracciai il regista greco tirandolo da parte. Lui si inquietò, e io gli dissi placido: “Theo, ti presterò la Palma perché tu possa fare un paio di giri intorno al Grand Palais, ma poi mi devi restituire subito il mio giocattolo”. Lui mi guardò con occhi che esprimevano un odio evidente, ma anche il rammarico di non potermi dare un pugno sul naso: il che era, in fondo, del tutto comprensibile. Tutti i partecipanti alla festa dionisiaca avevano in sé le caratteristiche dei personaggi del film Underground. Tutto ciò che Anghelopulos odiava, mentre sperava che a Cannes avrebbe vinto lui. Carole Bouquet si distingueva per il suo vestito rosso plissettato, come se sulla spiaggia dell’Hotel Martinez fosse arrivata da tempo, proveniente da qualche palazzo reale. Dovunque uno guardasse, alla festa del Figlio del Padre di Dioniso, vedeva il viso di Carole Bouquet. Era un viso innocente che cercava un paladino e che per quella caratteristica aveva avuto la sua occasione nel film di Buñuel Quell’oscuro oggetto del desiderio. Prima camminò sulla spiaggia dell’hotel con un bicchiere di champagne in mano. Poi, la stessa notte, ballò, trascinata dai toni orientali dell’orchestra di ottoni Salijević. Ben presto si ubriacò, avvicinandosi sempre più all’ideale dionisiaco: una donna che di notte, trasportata dalla danza e dall’alcol, si lascia andare agli esperimenti e all’eros. In sua compagnia c’era Pierre Edelman, il messaggero del ricco costruttore che mi aveva portato a New York la notizia che per Underground c’erano i finanziamenti. Anche Edelman era un vincitore, quella sera. Ora aveva un compito difficile. Come godersi la vittoria, ma anche come proteggere quella bella donna, in cui l’erotismo non era un tratto volgare ed evidente del carattere. Erano la sua indole fragile e i ruoli che non aveva recitato a provocare in lei la necessità di ubriacarsi, mentre l’eros emergeva in trasparenza. Pierre ballò con scioltezza, finché quella danza consisteva di semplici mosse avvolgenti. Quando Carole si coricò sulla sabbia, lui cercò di seguire i suoi movimenti, e si distese anche lui, ridacchiando. Il ballo decadente sarebbe durato all’infinito se lì nei pressi, in quella scena che ricordava irresistibilmente La notte di Michelangelo Antonioni, non si fosse trovato un personaggio inevitabile in occasioni del genere. Quel rozzo montanaro commentò con aggressività: “Non c’è niente da aspettare, fratello, prendila subito per la passera! Conosco i tipi come lei, si passa subito all’azione, ossia a quella cosa...” disse Pedja D Boy, un tempo stella del rock’n’roll jugoslavo. Non si sa come si fosse imbucato alla festa del Figlio del Padre di Dioniso. Non sono sicuro che Carole si fosse accorta dell’apparizione di quel prepotente, ma io disprezzavo l’arroganza di quei tipi dinarici sempre a caccia di donne somiglianti alle loro madri. Dimenandosi nella sabbia, Carole giustificava sempre più la sua scelta di fare la testimonial di una nota industria di profumi. Non era arrivata all’acme della carriera recitando quella prima volta nel film di Buñuel, che aveva rappresentato anche il suo miglior risultato artistico. L’apice lo raggiunse quando il suo volto fu associato al profumo Chanel n. 5. Iniziava il periodo in cui sempre più raramente la fama di attori e attrici si otteneva grazie a grandi parti. Alain Delon girò poi centinaia di film senza valore, ma era stato Rocco in Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti. Quei tempi erano un passato lontano. Proprio perché non aveva mai recitato in ruoli memorabili, il viso candido di Carole era rimasto intatto. Bella, ma sofisticata, e sicuramente attraente. Pedja D Boy aveva una diversa concezione della libertà. Vedeva se stesso rotolarsi nella sabbia con una donna ubriaca. Dopo che lui la ebbe per l’ennesima volta pizzicata, lei si accorse della
sua presenza e alla sua espressione si spaventò. Allora Pierre afferrò un bicchiere di champagne e lo rovesciò sul viso di Pedja. Con quello champagne annaffiò anche altre persone, ma le guardie del corpo di Johnny balzarono in aiuto dell’illustre ospite Carole. La rissa cominciò quando Stribor e Djordje si misero in testa che ogni uomo delle nostre montagne, perfino quel violento di Pedja D Boy, quella sera doveva essere difeso, anche se le guardie del corpo di Johnny volevano solo proteggere cavallerescamente Carole Bouquet da Pedja D Boy. Dopo i colpi iniziali, la scena sulla spiaggia si trasformò da una festa in un calembour. Mi vennero subito in mente i quadri del pittore ceco Josef Lada che rappresentava le risse di osteria in modo poetico: volavano tavoli, sedie, bottiglie. Occorreva davvero che succedesse? Certo che no, ma successe. Come succede anche la guerra. Solo che qui non c’erano i profitti dell’economia bellica. È ancora più inutile chiedersi se era proprio necessario che Stribor e Djordje saltassero addosso a quelli che proteggevano cavallerescamente Carole Bouquet, che nessuno di noi avrebbe sfiorato. Infatti ci conoscevamo da molto tempo e, se qualcuno l’avesse aggredita, sarebbero stati proprio Stribor e Djordje a difenderla come una sorella. Il caso diresse in modo frammentario la festa del Figlio del Padre di Dioniso. Non c’erano molti elementi del dramma classico. Il destro dell’attore Lazar Ristovski atterrò un tale, e io avevo già visto quella scena. L’aveva fatto uguale in Underground. Il compare di Stribor, Miki Hršum, era appena arrivato dai campi di battaglia bosniaci e si batteva dando esclusivamente testate. Chiunque gli si avvicinasse, lui gli tirava una capocciata sulla fronte e diceva: “Va’ a fare in culo a tua madre ustascia!”. Quando per calmarlo gli si avvicinò il figlio di una mia conoscente di Parigi, Miki lo colpì come tutti gli altri, con la testa, dicendo: “Va’ a fare in culo a tua madre ustascia!”, anche se la madre dell’altro era francese e i francesi non avevano niente a che fare con gli ustascia. Stribor si picchiava con tre tizi che erano apparsi lì, chissà come. Il giovane Kusturica li massacrava secondo tutte le regole e quando quelli fuggirono in ogni direzione, le guardie del corpo di prima si avventarono di nuovo su di lui. A differenza di me, Maja vide la scena. Una madre sa che cosa succede ai figli anche quando non li guarda. All’inizio io ero confuso e ottenebrato dal già citato cocktail, tranquillanti più birra. Rincorrendo quei tipi che trascinavano Stribor verso il mare, mamma Maja afferrò una sedia e, picchiando gli aggressori di Stribor sulla schiena, gridava: “Quello è mio figlio, lasciatelo in pace! Mi sentite, idioti?”. In quella, sulla scalinata apparvero i gendarmi e le donne, naturalmente, credettero che sarebbero intervenuti per mettere fine alla rissa sulla spiaggia. Questo non avvenne, e mentre i gendarmi se ne andavano Maja gli gridò dietro: “Proprio in questo modo, nel trentaquattro a Marsiglia, avete permesso che gli ustascia ammazzassero il nostro re Alessandro!”. Io mi godevo quel complimento. Quando tua moglie nel bel mezzo di un terribile tafferuglio ti paragona a un re, non è da poco. Ecco, vedi, il critico del “Time” questo non lo sapeva, né poteva scriverlo nel suo articolo. Se non ci fosse stata la rissa, sono sicuro che Maja non mi avrebbe mai chiamato “re”. Lei, in realtà, era molto avara di complimenti nei miei confronti e questa, in effetti, era la parte positiva del nostro rapporto. Io non sopportavo facilmente le lodi sperticate. La cosa peggiore per me era decidere che cosa fare con le mani quando qualcuno mi elogiava troppo. Preferisco le lodi modeste, soprattutto quelle espresse di passaggio. In quel paragone con il re, la realtà fu più favorevole a me che al nostro monarca. A differenza di lui, io potevo difendermi. Jim Jarmusch fissava la Palma d’oro e si chiedeva:
“Come si può festeggiare in questo modo il trionfo a Cannes?”. La sua riflessione fu interrotta da Miki Manojlović. Jim vide Miki che afferrava la Palma e se la portava via dalla spiaggia sotto lo smoking. Lo fece perché temeva che qualcuno rubasse quell’oggetto d’oro. Nella confusione io avevo perso di vista Johnny. Ma sapevo come lui vedesse le cose intorno a sé. Non dubitavo che fosse confuso, ma lui è un tipo spiritoso. Deve aver riso non poco. Vilko Filač, l’uomo che teneva l’occhio sui miei film, il mio operatore insomma, si stancò della mia natura dionisiaca. “Quest’uomo produce un eccesso di avvenimenti” pensò mentre con Franja, la donna della sua vita, abbandonava la spiaggia dell’Hotel Martinez. Capii che non vedeva più un nostro futuro comune. I film che abbiamo girato assieme non sarebbero ciò che sono, senza il suo occhio fisso sulla pellicola cinematografica. Ma per il suo gusto e i suoi obiettivi di vita quella rissa scandalosa era eccessiva. Durante le riprese di Underground, mentre dava il meglio di sé nei risultati, nello stesso tempo mi segnalava che stava arrivando la fine della nostra collaborazione. Non potevo rimproverargli nulla, né dire di lui qualcosa che potesse distruggere la nostra enorme amicizia, e la nostra visione comune dell’arte. Mentre guardavo Vilko che, abbracciato a Franja, lasciava la spiaggia dell’Hotel Martinez, capii che se ne stava andando anche dalla mia vita. Dunja si mise a piangere dalla paura, vedendo Maja che picchiava con una sedia le guardie del corpo, cercando così di toglierli dalla schiena di Stribor! Io corsi ad aiutarli. La faccenda si concluse e ora il Figlio del Padre di Dioniso doveva anche mettere fine alla festa. La fine giunse, come nelle commedie classiche, quando si esaurirono le energie delle parti in conflitto, o meglio, quando mancarono le forze di tutti, dato che non esistevano gruppi in conflitto chiaramente definiti. Girarono voci sulla presenza di provocatori infiltrati: servizi stranieri e cose del genere. Ma io credo che quella notte vittoriosa non sarebbe stata fortunata se la catarsi contagiosa di Underground non fosse filtrata nella vita reale. Sostengo questa tesi perché cercavano di convincermi, come ho già scritto, che ero il fratello di Dioniso, ma io non ero d’accordo. A me piaceva di più essere Figlio del Padre di Dioniso. La fine del secondo tempo della festa del Figlio del Padre di Dioniso arrivò quando un ragazzo scese di corsa la scalinata che portava alla Croisette. Quel ragazzo sembrava quei kamikaze che, imbottiti di esplosivo, corrono verso il sacrificio. Ma anche se avesse avuto delle bombe non sarebbe riuscito ad attivarle. Mi misi di lato e, mentre mi passava accanto di corsa, lo colpii freddamente al mento. Quella fu la fine della rissa, perché ci prendemmo tutti una bella paura, temendo che il giovane fosse morto battendo la testa sul cemento. Per l’ennesima volta nella mia vita pensai a Dostoevskij e mi chiesi: “Davvero è possibile che stasera, dopo il delitto, io sia raggiunto subito anche dal castigo? Finirò in prigione?”. Misi il ragazzo svenuto su un tavolo. Lo spruzzammo d’acqua. Per fortuna, aprì subito gli occhi, mi guardò spaventato e fuggì via... Era uno dei tre che avevano aggredito Stribor, prima che Maja si accorgesse che le picchiavano il figlio. Cinque giorni dopo il trionfo di Cannes mia madre cadde svenuta nel suo appartamento di Herceg Novi. Si era completamente rimessa, o, come dicono i dottori, era guarita dal cancro al seno, ma ora le era venuto un tumore al cervello. Maja e io scendemmo dall’aereo a Risan e vedemmo Senka seduta che fumava. Si mise a piangere e mi chiese: “Perché mi capita tutto questo, Emir?”. Cercai di consolarla: “Di qualsiasi cosa si tratta, Senka, non morirai di quello!”. Continuava a piangere, ma da come mi abbracciava sentii che mi aveva creduto. Fu portata al centro clinico di Belgrado. Là Senka fu operata dal dottor Joksimović. Non si trattava di un tumore maligno, e lei si rimise in fretta. Quando il Dottor Nele Karajlić andò a
trovarla, fu entusiasta di vederla ridere, e quando lei gli chiese: “Hai un fiammifero, Nele?” fu felice di poterle accendere una sigaretta e commentare: “A te, Senka, neppure una mannaia può fare qualcosa!”. Quando arrivò la fine della guerra, il boia che aveva abbattuto il busto di Andrić a mazzate si lamentò con i giornalisti che il conflitto gli aveva solo complicato ancor più la vita. Non solo non aveva ottenuto una medaglia, ma non era stato neppure proclamato combattente della prima ora. I tutumrak lo avevano sconfessato come impostore. L’aiuto non era arrivato da Allah, ma neanche dagli americani. La sua casa sulla strada per Bajna Bašta era stata portata via dalla corrente, e il suo grande desiderio di inondare Dedinje non si era avverato. Non poteva tornare a Nezuci perché le autorità della Repubblica Serba lo avevano condannato a cinque anni di galera per aver distrutto il busto di Ivo Andrić. Šabanović disse che gli dispiaceva di averlo fatto e di essere stato sobillato dai tutumrak. Affermava che per quell’azione Behmen e Ganić gli avevano promesso un negozio in Baščaršija, ma anche se da parte sua lui aveva eseguito gli ordini, il compenso non lo aveva ottenuto. La cosa più significativa di tutta la faccenda era che ora dichiarava che Andrić era un bosniaco più grande dei tutumrak che lo avevano spinto a quell’azione distruttiva. “Io ho partecipato a quell’azione perché mi era stato detto che ci avrebbe portato in Europa” disse Šabanović, e si trasferì in America. Mi ricordai della misura correzionale che avevo escogitato, e che consisteva nel costringere l’ormai scornato Šabanović a leggere le opere complete di Ivo Andrić. Continuo a pensare che occorrerebbe usare misure di quel genere con tutti i violenti. Forse con loro avrebbe effetto, anche se non l’aveva avuto su Izetbegović, così scatenato contro il nostro premio Nobel. Il presidente, nel frattempo, preparava per i bosniaci una nuova vita, e io mi chiedevo, dato che aveva ingaggiato gli americani per finire la guerra e per farsi scrivere la Costituzione dello Stato di cui è presidente, se non potesse, dopo tante vittime, chiedere che gli combinassero qualcosa di meglio di un protettorato! Stavo male all’idea di non poter più tornare nella mia città natale. Non per un senso di colpa, né per un eccesso d’amore nei confronti di quel calderone in cui è situata la città di Sarajevo. In tutta la faccenda, alla fine, dopo le innumerevoli porcherie della guerra, aveva cominciato a darmi fastidio qualcosa di molto personale. In quel fastidio il ruolo principale l’aveva il caffè. Infatti la mia città natale era diventata per me l’unico luogo al mondo dove mancavano le condizioni per compiere un rituale importante. L’atto sociale fondamentale della mia vita era legato a un vizio orientale. La mia unica seria dipendenza si chiamava “caffè con il consenso”! Un caffè che si beve con chi la pensa allo stesso modo, o almeno con persone che comprendono l’importanza di Start me up dei Rolling Stones. Una conversazione che conduce al risveglio, in cui gli interlocutori non insistono sulle differenze di opinione. Quel caffè non si potrebbe chiamare “caffè democratico”. È proprio per questo che amo il “caffè con il consenso”! Una giornata iniziata senza un caffè del genere, non aveva possibilità di svilupparsi in senso positivo. Senza quel rituale, la giornata era rovinata. Pura superstizione, chiaro. Ascoltando questa mia storia, una persona benintenzionata potrebbe pensare che si tratti solo di un paravento dietro a cui si nasconde un forte desiderio di tornare nella mia città natale. Mi chiederebbe: “Sogni Sarajevo?”. “Solo una volta ho visitato Sarajevo in sogno. Era un incubo in cui, chinato in avanti dal sedile posteriore di un’automobile anonima, venivo condotto per strade ben note, ma in cui passeggiavano persone sconosciute. Il sogno mi ha molto scosso.” Se, per qualche miracolo, mi ritrovassi a Sarajevo, berrei un caffè al Passeggio, con
molta curiosità. Per quel caffè, naturalmente, sarebbe necessario il consenso di cui ho parlato. Occorrerebbe che la persona che beve con me e io non ci mettessimo a questionare proprio su tutto. Le parole potrebbero essere tenute sotto controllo mentre conduciamo una conversazione da uomo a uomo. Della serie “amo tutti i popoli, non odio nessuno, non c’è rosa senza spine ecc.”. Ma se prendessi coraggio e cercassi di condurre la conversazione sulla reciprocità delle vittime, cadrebbe il consenso e fallirebbe anche il caffè. Nei confronti dei serbi non esiste possibilità di amnistia. Noi serbi abbiamo inventato questa e tutte le altre guerre. Se bevessi un altro caffè all’Hotel Evropa, quel consenso dovrebbe sottintendere il fatto che occorre “cacciare tutti i serbi in Russia”. In via Voivode Stepe, sarebbe del tutto chiaro che Gavrilo Princip è un terrorista. Su questo non sono d’accordo. Perché Gavrilo non ha ucciso il principe ereditario a Vienna, ma qui lungo la Miliacka, dove quel principe aveva occupato la sua terra. E il caffè non si può bere senza consenso. Quando raccontai tutto questo a un mio amico d’infanzia, si stupì: “Ma vaffanculo, devi proprio toccare temi scottanti? Bevi il tuo caffè, taci, e così ci sarà pace in Bosnia. Poi fai gli affari tuoi dove ti pare!”. Quell’amico non capiva che io quando sto seduto e taccio, in realtà parlo. Non faccio parte dell’eredità linguistica di Vuk Karadžić, che ha come legge “scrivi come parli”. Io sono un sostenitore dell’idea “scrivi come pensi”. Un pensatore e scrittore orientale ha detto a questo proposito: “Rassegnato alla morte, parla dal cuore”. Porto a Senka una zuppa al Centro clinico di Belgrado, dove si sta rimettendo dall’operazione. Le dico come mi renda triste l’idea che non tornerò più a Sarajevo. Non capisce da dove salti fuori quest’affermazione. Mi guarda con aria interrogativa, si meraviglia. Come se si chiedesse: “Come mai, tutto a un tratto, questa storia?”. Sa che sono fermo e coerente. Come mia madre. Soffia sul cucchiaio, per raffreddare la minestra. Un po’ sorseggia, poi vuole rincuorarmi: “Quelli là, caro mio, non ti meritano, ma io ci vado, appena esco dall’ospedale! Neanche morta gli lascio quell’appartamento!”. Tace di nuovo e poi mi misura, vuole penetrare nella mia tristezza. “Ma perché adesso, all’improvviso, tutto ti sembra così triste?” chiede Senka. In realtà, una madre è sempre una madre: si preoccupa, non vuole che io vada in depressione. “Mah, ho pensato come sarebbe stato bere un caffè al Passeggio. Con Zoran Bilan, Paša, e poi capisco che là per il mio caffè non c’è più consenso.” Quando sente la parola consenso Senka smette di sorbire la minestra: “Non sarà di nuovo qualcosa di politico?”. “In un certo senso!” “Dio, Emir, qualche volta mi dai proprio sui nervi. Ma c’è qualcosa per te che non sia politica?” dice Senka, e io mi accingo a rispondere, e poi mando giù il groppo alla gola, nascondo una lacrima. “Lo so” dico a mia madre. “Vuoi dire che sono uguale a mio padre.” “No, sei peggio di lui” dice Senka e mi abbraccia, e io mi metto a ridere continuando a nascondere le lacrime. Per non rattristare Senka.
FIGLIO MIO, A CHI APPARTIENI? A Herceg Novi, davanti al mare, lungo un sentiero dove un tempo passava una ferrovia a scartamento ridotto, ci sono un’infinità di panchine rotte. Su di esse hanno esercitato la loro forza giovanotti arrivati di recente o soldati ubriachi. Su una di quelle panchine, vicino a una galleria, è seduta mia madre. Per prima cosa si accende una sigaretta, poi fissa lo sguardo lontano, al di là del mare. La mia Senka chiude gli occhi, sogna. Quando i conoscenti, gente del luogo o profughi, vanno a passeggiare lungo il mare e vedono Senka che sonnecchia sulla panchina, chiedono: “Che cosa fai, ti serve qualcosa?”. Lei apre gli occhi: “Niente. Mi sono seduta a riposare e mi è venuto sonno”. I conoscenti riprendono a camminare; i locali si dirigono verso casa propria, i profughi verso una casa altrui. Mia madre chiude gli occhi e si rimette a sognare; forse qualcosa di segreto? Ogni volta che vengo a Herceg Novi mi pare di arrivare in una piccola Sarajevo. Dappertutto solo profughi, per lo più vecchi scoloriti, perché di giovani ce ne sono pochi, sono fuggiti in gran parte in Canada. “Stai attento” mi dice un vecchio amico. “Senka va a sedersi spesso su quella panchina vicino allo squero, e dorme. Dio non voglia che si ammali di polmoni e che poi la faccenda si complichi, è già di salute cagionevole.” Mi fa sempre piacere tornare alla nostra base di Herceg Novi. Forse sono felice perché tutto assomiglia alla casa di Gorica. Solo che mancano quella mezza stanza e, naturalmente, mio padre. Le pareti hanno raccolto i suoni della vita in comune, dalla finestra arrivano voci di bambini che danno calci a un pallone, in padella saltellano allegramente le frittelle e tu dormi spensierato. Si sentono solo sussurri e, in lontananza, il tonfo soffocato dell’ascensore marca David Pajić. Sulla porta Senka manda via le vicine. “Dorme, è arrivato da Parigi ieri sera tardi.” “Posso portare il mio nipotino per fargli una foto con Emir?” “Sì che puoi, ma più tardi, per amor di Dio, lascia dormire il mio figliolo!” “Figlio mio, a chi appartieni?” mi chiede. “Sono tuo, Senka, di chi vuoi che sia?” Lei sorride. Mi lancia uno sguardo penetrante. Come se volesse strapparmi una confessione. Allo stesso modo, ricordo bene, Senka mi interrogava per sapere chi mi avesse convinto a oltrepassare la famosa linea e ad andare senza permesso a fare il bagno a Ilidža. È stato tanto tempo fa. In realtà mia madre sa bene come chiedere, e introduce abilmente la domanda. Anche se so che Senka ama gli uomini forti e coerenti, non riesco a capire perché inizia il suo discorso così. Mi dice: “Quello che mi piace di più è Vlado Dapčević, un personaggio della vita reale che corrisponde al personaggio letterario e cinematografico di Vlado Petrović. Nella vita una volta disse che amava Stalin e per questo si fece una dozzina di anni di galera”. Mia madre non lo ama per via di Stalin. Lei rimpiange ancora Tito. Lei stima Vlado Dapčević perché è, come dice, “un vero uomo, pieno di principi”. Quando uscì di prigione, un giornalista di “Pobjeda”, il quotidiano di Titograd, gli chiese che opinione avesse adesso, e lui disse: “Amo Stalin”. Chissà se quell’uomo la pensava davvero così. Ma il principio è principio. Quello che aveva affermato una volta non l’avrebbe mai negato. “Un vero uomo, pieno di princìpi” dice mia madre. “Allora a chi appartieni? Su, dimmelo” insiste, e io rido e dico: “Sono tuo, te l’ho già detto, e se non lo fossi tu certo lo sapresti meglio di me”.
Senka si mette a ridere e dice: “Tu sai bene perché te lo chiedo, non fare il finto tonto!”. “Non lo so!” scherzo io. Senka mi bacia e dice: “Sul tavolo hai burro e marmellata, là sono le frittelle, io vado a pagare l’elettricità e poi vado a fare una passeggiata”. Era proprio come quando andavo a scuola. Solo che le istruzioni su dove si trovassero le varie cose erano scritte su dei biglietti, perché, due ore prima che io mi avviassi, mia madre già affrontava la salita del viale di Koševo, verso il suo ufficio. Ormai sveglio guardo mia madre che si allontana a passo lento verso il mare, per il viale dove un tempo passava la ferrovia a scartamento ridotto. A Herceg Novi la persona più cara di tutti è per me il dottor Radmilo Jovanović, uno psichiatra di Sarajevo. Anche lui, come Senka, trascorre ogni giorno il suo tempo passeggiando lungo la riva. Entrambi lo fanno come tutte le persone di montagna quando arrivano nei pressi del mare. È stato quel dottor Jovanović a salvarmi undici anni fa, quando fui per la prima volta colto dalla depressione. Avevo interrotto le riprese di Papà... è in viaggio d’affari ed ero andato dal dottore a Jaromir. Gli dico: “Dottore, non ne posso più”, e lui mi fa: “Per prima cosa si sieda”, e poi mi chiede: “Che cosa fa di così difficile che non ne può più?”. Io gli dico: “Un film su una famiglia rovinata nel millenovecentoquarantotto”, e il dottore scoppia a piangere. Un vero pianto. Un pianto dirotto. Sono a disagio, cerco con lo sguardo qualcun altro. Per un attimo penso che forse si tratta di un rituale psichiatrico. Salto su dalla sedia, mi giro, vedo che l’infermiera non è lì, e quell’uomo piange, non smette. Mi sento come se a un tratto la depressione mi fosse passata. Mi avvicino al dottore e chiedo: “Che cosa le succede?” e lui, asciugandosi le lacrime, risponde: “Là, a Goli Otok, ci hanno piegato la schiena in due. Sa, all’umanità sono occorsi milioni di anni per camminare eretta, e là il fratello rompeva la schiena al fratello. Strisciavamo come lucertole dalmate”. Quando finii Papà... è in viaggio d’affari il dottor Radmilo Jovanović era presente alla prima proiezione. E pianse di nuovo. Ma questa volta di felicità. In quegli anni, dopo la morte di Tito, agli ex deportati di Goli Otok era stata, fino a un certo punto, restituita la dignità. Tuttavia, quel crimine non era stato mai tema o motivo di una riflessione umanistica. Non veniva preso in considerazione. Tutta la drammatica vicenda era rimasta nell’ambito del complicato rapporto fra russi, serbi ortodossi e montenegrini. La sofferenza di Goli Otok non era entrata in un inventario di dimensioni mitiche. Infatti mi pare che ci siano dei drammi storici in cui la ruota del modo di pensare umanistico è affondata nel fango. Negli ultimi tempi vengono messi in luce e rielaborati solo i crimini che sono in rapporto diretto con il progresso. Dato che nell’intero dramma era implicato anche Stalin, sulla questione di Goli Otok non era stata fatta chiarezza, a discapito dell’umanesimo. Oggi sono orgoglioso della mia amicizia con il dottore perché, con il suo pianto, ha curato la mia depressione. Passeggiamo per la riva il dottor Jovanović, mia madre e io. Camminiamo lentamente, e il dottore dice: “Tuo padre era un uomo acuto e intelligente, ma non sapeva separare ciò che è importante da ciò che non lo è, e prendere le distanze dal complesso dei fenomeni. Nella vita occorre imparare almeno una certa quantità di dribbling e usarli. Non per divertire la gente, ma per non prendere con tutto il loro peso i tipi e le situazioni che hai dribblato”. A mia madre, man mano che invecchia, cresce il senso dell’humour nero. “Ecco, vedi, te l’avevo detto che non c’è utilità nella politica, non è uno sport per deboli di nervi.”
Il dottore va al suo ambulatorio, mentre mia madre e io ci avviamo verso Savina, alla tomba di Murat. Senka si lamenta con me perché trova sempre fiori freschi sulla tomba di mio padre. Quel che è peggio, ogni volta che lei prepara dei fiori per portarli sulla tomba del marito, qualcuno la precede. Senka e io cerchiamo di nascondere i nostri occhi pieni di lacrime, per non rattristarci ancor più a vicenda. Ci addolora che mio padre non sia con noi. Del resto, io ho sempre pensato che gli occhi di Senka siano così grandi perché ha tanto pianto. Mi consolo pensando che anche i miei occhi un giorno saranno così grandi. Dio, penso, quanti ettolitri di lacrime noi Kusturica abbiamo versato finora. Spesso anche quando non ce n’era motivo. Una volta, per esempio, che nella disciplina del salto con gli sci uno sciatore sloveno ottenne una medaglia a Garmisch-Partenkirchen, mio padre e io saltammo talmente tanto sul divano, urlando di felicità e piangendo, che i nostri vicini protestarono per il baccano, e mia madre disse: “Fanculo gli sloveni, mi avete fracassato le molle del divano”. In quell’occasione, nel corso della serata, dopo che una bottiglia di vino era stata versata sul tappeto da lei ricoperto dal foglio protettivo di nylon, mia madre constatò quanta fatica si era fosse risparmiata per aver anticipato quel disastro con la sua previdenza. “Vedi, Emir?, e tu mi sfotti perché tengo da conto le cose. Su, dimmi che cosa sarebbe successo se il vino rosso si fosse versato sul tappeto cinese.” “ Niente!” risposi, e mia madre si arrabbiò: “Sei proprio sfacciato, come niente, lo sai che io lavoro un anno per guadagnare quei soldi?”. “Lo so, e tu conosci quel tale che ha una tabaccheria ma non ha le gambe? Quella sì che è una vera tragedia, questa tua assomiglia a un melodramma!” “Su smettila, via di qua, vergognati, sei uguale a tuo padre!” Piangemmo anche quando ascoltammo il nostro inno dopo la vittoria nella pallamano ai Giochi olimpici di Monaco. Fra tutti questi pianti ce n’è uno che si distingue. Fu sulla soglia del nostro appartamento in via Kate Govorušić 9a. La tv di Sarajevo trasmise in Eurovisione la notizia che Papà... è in viaggio d’affari aveva vinto il Festival di Cannes. Le vittorie e le sconfitte qui sono accolte dalle stesse lacrime e nessuno le distingue. Così era successo anche quando morì Tito. Dallo stadio Koševo, dopo l’interruzione della partita Sarajevo-Osijek, tutti corremmo subito a casa, per essere a disposizione di coloro che in quel momento avevano bisogno di noi. Dopo la notizia che Papà... è in viaggio d’affari aveva avuto la Palma d’oro, mio cugino Edo Numankadić arrivò subito a casa nostra. Abbracciò Senka e lei si mise a piangere. Se Jim Jarmusch avesse visto questa scena, avrebbe pensato che si trattava di due parenti che piangevano un morto. “Edo mio, che cosa ci è capitato?” “Mia cara Senka, è una grande cosa” disse Edo, e scoppiò in un pianto ancora più dirotto. Come in ogni altro sentimento nei Balcani, non esiste solo gioia o solo tristezza. Per questo nell’arte drammatica non ci sono stati generi puri, tutto era contaminato, e le persone qui hanno imparato che le grandi cose portano anche grandi preoccupazioni. Così di solito si preferisce evitarle. Tutto ciò che è grande ci annebbia la vista e ci pone in una situazione inquietante. Ma poiché le grandi cose arrivano, spesso indesiderate, e stravolgono la vita fin dalle fondamenta, nella storia di solito vanno a finire male le persone coerenti. La coerenza nei Balcani si mantiene con difficoltà, perché qui gli esempi di comportamento, come pure il sistema delle note, sono stati importati da luoghi lontani. Da Occidente e da Oriente. Così quando arrivano cambiamenti non annunciati, nessuno ci avvisa, motivo per il quale nella storia o facciamo la figura degli stupidi, o facciamo delle
grandi porcate. Da un giorno all’altro abbandoniamo i vecchi ideali, in nome di altri più alti e nuovi, e le mogli rinnegano i mariti perché, a un tratto, Tito ha detto che Stalin non è buono, mentre prima ci aveva insegnato ad amarlo. E moriamo con il nome di Stalin sulle labbra. Per questo mia madre sa che cosa significa quando dice: “Quel Dapčević è coerente, un vero uomo”. Indipendentemente dal fatto che lei non ama Stalin, lei rispetta Tito. A Savina non c’è fango come nei cimiteri bosniaci. Là puoi sederti e guardare il mare e respirare il profumo dei pini, e non devi toglierti la palta dalle scarpe quando vai a casa. Andando al cimitero ci riposiamo sulla terrazza del Belvedere, Senka e io, e guardiamo verso il mare. Senka fuma una Jugoslavija e io un sigaro cubano. Rimaniamo in silenzio, poi Senka si mette a ridere: “Su, adesso dimmi, ma sinceramente, a chi appartieni? È vero quello che si racconta nel vicinato?”. “Volevo tanto essere di qualcuno. Ero perfino pronto a morire per qualcuno, come quel tuo Dapčević per Stalin.” “Non è mio, è solo un uomo degno di rispetto.” “Proprio a questo penso. Dopo la morte, qualcuno potrebbe dire anche di me: un vero uomo.” “Ma perché non dovrebbe essere così?, non sei mica uno stupido.” “Mia cara Senka, non ci sono più personaggi veri. Volevo farmi tatuare qualcuno addosso, come ha fatto Maradona con Fidel Castro.” “Adesso non raccontarmi storie e dimmi a chi appartieni. Le vicine dicono ‘Il tuo Emir è certamente un uomo di Milošević’. È vero?” “Vuoi che sia sincero?” “Certo che lo voglio!” “Come mi piacerebbe, cara la mia Senka, rallegrare te, ma anche me, e dirti: ‘Sì! Quando è andato al potere io mi sono girato dalla parte sbagliata del mondo’.” “Come?” chiede mia madre. “Mi sono fottuto da solo, ingarbugliandomi in una questione di giustizia: si trattava del fatto che allora l’Occidente aveva iniziato a espandersi a est, cosa che comunque non era certo una novità, dato che l’Est non si è mai allargato a occidente.” “Ma perché non sei stato zitto? Bastava solo tacere.” “Perché sono stato un idiota, ecco perché,” e Senka ride e dice: “Politico?” e io rispondo: “Proprio così!”. “Dio, Emir, ho sempre pensato che tu fossi intelligente.” “Solo che non me lo sono tatuato su una spalla come Maradona. Poi è apparsa sua moglie e molti hanno aperto gli occhi. E lui è tornato da Dayton recitando la parte dell’uomo normale. Ha scoperto la marca Timberland, e, dice, ha deciso di comprare a suo figlio delle vere scarpe.” Quando arriviamo accanto alla tomba di mio padre, sulla lapide sono posati dei gladioli freschi. “Dev’essere una donnaccia! Se solo la scoprissi, le torcerei il collo” dice mia madre. Depone i fiori accanto alla foto di mio padre, va dondolandosi fino alla fontana, riempie il vaso d’acqua e torna. Poi entrambi puliamo la tomba di Murat. Strofiniamo la pietra con una spazzola. Io, non so perché, mi ricordo di quella volta che Senka mi ha strofinato la schiena con il sapone per i piatti. Il mio primo giorno di scuola, ma anche tutte le volte che, da ragazzo, tornavo dal campo di calcio. Ripuliamo ben bene il granito della lapide di mio padre. Poi Senka va a prendere le sigarette, e inizia il rituale. Senka accende una sigaretta,
la dà a me, e io la metto sopra la tomba, perché anche Murat fumi assieme a noi. La sigaretta brucia, noi rimaniamo in silenzio e solo quando la cenere della sigaretta di mio padre arriva al filtro, ci avviamo verso l’uscita, fuori dalle mura del cimitero di Savina, e io penso di nuovo ai vantaggi del Mediterraneo. Onore al Mediterraneo. Non occorre pulirsi le scarpe, perché non c’è fango. Arriviamo in piazza. Lì, sulla scalinata sotto l’orologio, Senka e io ci separiamo. Lei dice: “Io vado a casa a piedi lungo il mare, e se ritardi, eccoti la chiave di casa perché magari sto dormendo”. Lascio che si avvii giù per la scalinata verso il mare, e poi lentamente, passando davanti alla posta di Herzeg Novi, vado in un luogo dove Senka non mi può vedere, dalla sua panchina vicino alla galleria. Su una panchina rotta, dove una volta passava la ferrovia a scartamento ridotto, si sedevano un tempo mio padre e mia madre. Lei fumava una Jugoslavija con filtro, mio padre guardava lontano, entrambi si tormentavano a causa della guerra. Non erano stati risparmiati neppure da altri tormenti, ma questo della guerra era il più grande. Ora su quella panchina è seduta mia madre. Socchiude gli occhi e sogna qualcosa di misterioso. Che cosa sogna mia madre? mi chiedo mentre guardo la scena da lontano. Lei non sa che sono lì, che la osservo. Senka lì non dorme, come mi dice il vecchio amico. Lei fuma e chiude gli occhi. Anzi, li socchiude, ma non dorme. Come se portasse avanti un discorso segreto con qualcuno. Come se parlasse con qualcuno. Che sia impazzita? mi chiedo, e la vedo muovere le labbra e socchiudere gli occhi. Che non sia entrata in qualche setta... mi vengono in mente i pensieri più strani. Che Dio mi aiuti. Mia madre finisce tranquillamente il discorso, si alza, si rassetta e si avvia verso casa. Mia madre e io guardiamo il telegiornale della sera mentre io divoro le frittelle. Alla televisione niente di nuovo. Da noi, rapporti bilaterali, sanzioni, razionamento della corrente elettrica, allagamenti in Montenegro. Dall’estero, la necessità di ridurre gli armamenti nucleari. Senka è più che decisa a mettere in chiaro la questione della mia appartenenza. Solo che lo fa con delicatezza: “Su, adesso ammettilo tranquillamente, sai come dicono i vecchi, ‘confessa, e metà ti sarà perdonato’. A chi appartieni? Può essere come dice una vicina, una vera gallina, quella dell’undicesimo piano, che tu fai gli affari di Milošević in Occidente?”. Rido di gusto a quella fantasia, ma non voglio che finisca male questa conversazione dal titolo provvisorio “Figlio mio, a chi appartieni”. “Senka, io amo le persone coerenti e forti come te, te l’ho già detto?” “Non dire stronzate, sei sicuro che lui sia forte? Forte è il presidente dell’America, della Russia, della Cina, ma non quello della Jugoslavia.” “L’ho conosciuto al telefono nel 1988. Doveva esserci la prima del film Il tempo dei gitani. È stato più che altro per il mio egoismo. Lo sai, sono così quando si tratta di un film, non c’è dubbio. Il direttore della Beograd film Munir Lasić non permetteva che la prima si tenesse al Sava Centar, e tutte le sale cinematografiche di Belgrado erano già impegnate. Lui cavalcava l’idea di tenere la prima al cinema Kozara. Olja Varagić, direttrice di Il tempo dei gitani, sapeva che solo il nuovo capo del Comitato centrale della Serbia poteva opporsi a quel Lasić e risolvere il problema. Una mattina suonò il telefono e una voce squillante disse ‘ho sentito che vi occorre aiuto’. Mi aveva beccato a New York. Confuso, appena sveglio, spiegai che il Sava Centar era l’unico luogo dove quel film poteva avere una vera prima. E quella prima alla fine si tenne al Sava Centar.” “Va bene, ma perché per una prima cinematografica deve intervenire il Primo uomo?” chiede ingenuamente Senka. “Perché al Secondo uomo non vogliono obbedire! Qui si obbedisce solo alla parola del Primo.”
Senka ride, e io mi ricordo Papà... è in viaggio d’affari. Se non ci fosse stata Mira Stupica a convincere suo marito, l’allora presidente Cvijetin Mijatović, che sarebbe stato inammissibile non girare quel film, Papà... è in viaggio d’affari non sarebbe mai stato girato. “Ma dimmi a chi appartieni, non cambiare argomento!” “Quando è apparso Milošević, gli sloveni per primi hanno cominciato a gridare che nei Balcani era apparso Hitler!” “Esatto” dice Senka. “A me, Senka, non è mai entrato in testa come mai proprio gli sloveni chiamino Milošević Hitler, intendendo qualcosa di brutto. Infatti sappiamo dai cinegiornali che Hitler è entrato a Maribor accolto come un grande condottiero. Lo hanno accolto come poi hanno accolto Tito, che proprio loro hanno buttato sotto i piedi calpestandolo quando dovevano entrare in Europa. Per intraprendere quella strada occorreva liberarsi a forza dalla Belgrado bizantina. E insanguinarla un po’, quella strada. Una decina di vacche bruciate per la Cnn, e tre, quattro automobili incendiate. Quella volta, in me ha cominciato a crescere l’idiota.” “Intendi dire politico?” scherza Senka, e io non ho nulla da obiettare. “Proprio così. Papà mi diceva: ‘se non ci fosse lui, a noi partigiani ci piscerebbero addosso per strada’.” “A me piaceva che lui fosse jugoslavo” dice Senka. “Proprio per questo stavo dalla parte di Milošević.” “Dimmelo francamente, gli devi qualcosa?” “Gli devo la cittadinanza, e non è poco!” “Ma su, ti prego, quante persone ti amano a Belgrado, come se fosse stato lui a darti il passaporto!” “Impossibile che lui non lo sapesse.” “Non c’è paese che non ti darebbe il passaporto. Del resto, glielo puoi anche restituire.” “Sì Senka, ma non voglio. Voglio anch’io essere almeno un poco come quel tuo Vlado.” “Per prima cosa, non è il mio Vlado, e per seconda, tu, piccolo, non dire stronzate!” “In tutto questo, Senka, uno stronzo c’è.” “Solo uno?” scherza lei. “Solo col tempo si è dimostrato che tutto era differente da come sembrava all’inizio. Pareva un uomo dotato di una visione, e invece era solo un pedante.” “È un po’ come tuo zio Ljubo Rajnvajn, il marito di Biba, solo che Milošević non porta i baffi.” “Qualcosa del genere. Poi ho capito che quell’uomo non aveva una visione, ma in me era nato nel frattempo quel Vlado. Un uomo pieno di princìpi. Non sputerei mai su ciò che ho detto una volta, per tutto l’oro del mondo.” “E che cos’è che hai detto?” “Che era buono.” “E lo era?” “Un giorno buono, l’indomani cattivo, e tu ti leghi a ciò che hai detto, non importa quale sia la verità. Né c’entrano i cambiamenti. Senza i quali non ci sono né i politici né la politica. Non è più lui quello importante, importante sei tu. La stessa cosa c’è anche in Andrić. Anche lui si legò a quella parte. Quella orientale. È la parte che va sempre in rovina quando un uomo sceglie dove andare: è logico che vada con chi sta peggio. In quella situazione, Senka, lui era solo, non aveva il sostegno di nessuno, e quella è la cosa che mi piaceva di più. Del resto, Milošević non c’era nel 1914, e c’è stato il disastro, non c’era nel 1941, ed è stato peggio che mai!” “Quello che dici, Emir, non è politica, è l’idea di un idiota politico!”
La mia Senka cerca di consolarmi, e io continuo: “A casa pettinava timidamente i capelli di sua moglie, quando lei glielo permetteva, e in ufficio prendeva a parolacce gli ambasciatori stranieri, come se tenesse in tasca due bombe atomiche”. “E a te piaceva?” “Sì, Senka.” “E questo significa, caro mio, che non potresti mai essere un politico!” Dopo Underground e la vittoria di Cannes mi portarono dal presidente, nel suo ufficio privato. Era già brillo e agitava in aria il libro di sua moglie Mirjana Marković, Giorni e notti. Citava in inglese i pensieri di lei: “All these guys are nationalists”. Si riferiva a Karadžić e agli altri serbi che abitano al di là della Drina. Mentre leggeva brani del libro, il telefono non smetteva di suonare. Lui non rispondeva e io ti facevo cenni in direzione dell’apparecchio. Il presidente agitava noncurante la mano. Citava i pensieri della moglie e beveva whisky da un grande bicchiere. Alla fine era completamente ubriaco. E continuava a non rispondere al telefono. A ogni nome che facevo quella sera lui diceva: “Ma quello è una semplice puttana!”. A me non faceva una buona impressione che il presidente imprecasse in quel modo. Tanto più che tutti erano diventati puttane tranne sua moglie, che continuava a telefonare quella sera, prima della prima belgradese di Underground. Penso che non avesse il coraggio di rispondere perché per Mirjana Marković e suo figlio Marko io ero una cattiva compagnia. Senka e io passeggiamo, è una giornata pesante, andiamo verso la panchina vicino alla galleria. Il sole di ottobre scotta come quello di agosto. È l’effetto del riscaldamento globale, dei buchi nell’ozono. Senka ora è sicura che la risposta alla domanda a chi io appartenga sia chiara come il sole. Chiede sollevata: “Di chi sei? Dillo a tua madre” dice Senka con un sorriso, e io rispondo: “Di nessuno!”. Senka si ferma interdetta: “Come di nessuno, non sei mio?” e io non voglio interrompere lo scherzo. “Ma non ero di Milošević?” Lei si ferma: “Sei davvero un asino, mio Dio, cominciavamo già ad andare d’accordo, e tu ricominci di nuovo con le tue stramberie. Ma per te c’è qualcosa al di fuori della politica?”. “Non c’era per Murat, e non c’è neppure per me” e mia madre si ferma, piange un po’, poi si mette a ridere e mi bacia. Dopodiché ci lasciamo, vengono a prendermi per portarmi in aeroporto. Senka mi saluta con la mano e si avvia verso la panchina rotta su cui lei e Murat trascorrevano i loro giorni di profughi. Lei fumava una Jugoslavija e lui guardava lontano, preoccupato, e temeva il terzo infarto che per lui avrebbe significato la fine. Purtroppo successe proprio così. Morì per il terzo infarto, all’inizio della guerra bosniaca, e Senka, per non tradire le loro abitudini, continuò a venire alla stessa panchina. Si siede e subito socchiude gli occhi. Davanti a lei si presenta mio padre: “Fino a quando quello Eltsin continuerà a fare a pezzi la più grande forza militare del mondo? Ma quell’uomo ha una morale, è davvero normale?”. “Che Dio ti aiuti, Murat, come posso saperlo?” “Non c’è niente da sapere, Senka, si vede a occhio nudo!” “Ho cose ben più importanti da fare che stare a vedere fino a quando Eltsin farà a pezzi la Russia.”
“Tu, Senka, non capisci niente, se una forza del genere va in malora, qui andrà tutto a puttane! Guai se i russi vanno in malora!” “Ma che ne so, se continuerà a comandarli un ubriacone come quello non avranno altra scelta che andare in malora.” “Scusa, ma perché insisti tanto sull’ubriachezza, è forse un’allusione? Non cominciamo a offendere!” “Chi offende?” “Tu! Perché tiri in ballo l’alcol?” “Se non fosse stato per l’alcol, Murat, ora saresti seduto qui con me.” “Vedo, Senka, che tu di politica non capirai mai niente!” “Per fortuna.” “Dov’è Emir?” chiede mio padre conciliante, e Senka dice: “È andato a suonare da qualche parte con Stribor”. “Ma è una cosa seria? Non è più un adolescente, non ha più l’età per strimpellare la chitarra.” “Senti, seria o non seria, intanto tiene d’occhio Stribor, sai come sono oggi i giovani, e Stribor ti assomiglia, non sta mai fermo.” “Viene anche Maja?” “È venuta per Capodanno. Si dedica tutta ai figli, tiene Dunja come una principessa.” “Ha detto bene Mišo di Dunja: grazie a Dio, in famiglia è nata una vera signora! Le signore non imprecano e non portano gli scarponi, e naturalmente non bevono birra. È così?” “Anche meglio, parla il francese come il serbo! Dice Emir che Dunja scrive racconti come fosse uno scrittore.” “Grazie a Dio. Come sta Mišo?” “Bene, eccolo là, pesca tutto il santo giorno sul Danubio, e Lela è sicuramente in viaggio da qualche parte, ha un bel coraggio, cammina e cammina!” Mio padre tace all’improvviso e Senka si agita e chiede: “Sei qui, Murat?”. “Sono qui, mia cara Senka! Questa prigione mi ha stufato.” “Murat, ascolta questa storia. Stanotte mi sono addormentata presto e tu mi sei apparso e mi hai chiamata.” “E tu, che cosa hai detto?” “Non sono ancora pronta a venire da te, ma quando capiterà, per Dio, non ti libererai mai di me! Mio caro, devi avere pazienza, un giorno finirà anche questo!” “Succederà davvero?” “Ma certo, la prigione non dura in eterno.” “Ma la morte dura, cara la mia Senka!” “Niente è più eterno della morte, ma tu devi avere pazienza.” Dopo aver detto a mio padre queste parole di consolazione, mia madre raccoglie dalla panchina sigarette e accendino, li mette in borsa e si avvia verso la galleria, lungo il sentiero dove un tempo serpeggiava una ferrovia a scartamento ridotto. Il sole che ho visto dall’aereo, sulla rotta Belgrado-Parigi, brillava attraverso l’oblò del Boeing della JAT. Il calore avvertito nell’aereo riscaldava la galleria dove, sulla strada per il suo appartamento in via Norveška 8, ora camminava Senka. La sua ombra si allungava e poi scompariva nell’oscurità, e la vecchietta si avvicinava all’uscita dall’altra parte della galleria, mentre alcuni bambini, in mezzo a una confusione allegra, sollevavano la polvere rincorrendo un pallone. Io, volando a un’altezza di diecimila metri, sentivo il calore del sole e pensavo quanto fosse vera la frase di mio padre:
“Figlio mio, la morte è una voce infondata!”.
INDICE Terra e lacrime Come la prima volta non vidi Tito La morte è una voce infondata Quello che è in alto è anche in basso. Quello che è in basso è anche in alto Un topolino corre il giro d’onore La mia vita Lomonosovovohovno! Grazie a te, Federico Il defunto era un grande nemico dell’alcol Non puoi avere un film senza buio Sogni d’oro Arrivederci, paese amato Dove sono in questa storia Il gomito del tennista Memorie dall’Underground Il Figlio del Padre di Dioniso Figlio mio, a chi appartieni?