Dispositivi e soggettivazioni 8857518566, 9788857518565

Che cos'è un dispositivo? In che modo esso forma le soggettivazioni? È la domanda che l'autrice si pone, a par

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Dispositivi e soggettivazioni
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N. 205 Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna

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COMITATO SCIENTIFICO

Pierandrea Amato (Università degli Studi di Messina) Antonio Caronia (Naba) Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi “Insubria” Varese) Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza) Maurizio Guerri (Università degli Studi di Milano) Salvo Vaccaro (Università degli Studi di Palermo) José Luis Villacañas Berlanga (Universidad Complutense de Madrid)

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LAURA BAZZICALUPO

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DISPOSITIVI E SOGGETTIVAZIONI

MIMESIS Eterotopie

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© 2013 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana Eterotopie, n. 205 Isbn 9788857518565 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

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INDICE

I. COSA È UN DISPOSITIVO? 1. Il dispositivo 2. Dispositivi disciplinari 3. Dispositivi biopolitici 4. L’interpretazione di Deleuze 5. E l’interpretazione di Agamben II. DISPOSITIVI DI CURA 1. Fitness. La salute come diritto e come ossessione 2. Sapere medicale 3. Biotecnologie e commercializzazione della vita 4. La cura: diseguaglianza oblativa 5. Servizio: il dispositivo dell’impresa sociale 6. Pratiche di cura tra biopolitica e trasformazione dell’economia

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III. DISPOSITIVI DI RAPPRESENTAZIONE: DISCORSI DI VERITÀ ED EFFETTI DI POTERE

1. 2. 3. 4. 5.

Il dispositivo rappresentativo della natura e della vita L’ambivalenza del corpo nei dispostivi biopolitici La gestione dell’erotismo La rappresentazione della vecchiaia La nascita tra evento e dispositivo

IV. DISPOSITIVI DI PRODUZIONE 1. Produttività dei dispositivi biopolitici: bioeconomia 2. Economia come logica di governo 3. Dispositivi bioeconomici: il controllo delle soggettività al lavoro 4. Il governo della vita delle donne nel dispositivo del lavoro

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5. Il mercato come forma di governo del sociale 6. Anche la crisi è un dispositivo? 7. La scarsità come dispositivo per governare l’ambiente

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V. SOGGETTIVAZIONI

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I. COSA È UN DISPOSITIVO?

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1. Il dispositivo «Il dispositivo, o l’apparato, ha essenzialmente una natura strategica, il che significa dare per scontato che si tratta di una certa forma di manipolazione di oggetti o forze raggiunta sviluppandole in particolari direzioni, arrestandole, stabilizzandole, utilizzandole ecc. L’apparato è perciò sempre iscritto in un gioco di potere, ma è anche sempre legato ad alcune coordinate di sapere che nascono da esse sebbene, in ugual misura, lo condizionano. Ecco allora in che cosa consiste l’apparato: in strategie di rapporti di forze che sostengono e sono sostenute da tipi di sapere [...]. Vorrei suggerire un altro modo per avanzare ulteriormente verso una nuova economia di potere [...] Esso consiste nel considerare come punto di partenza le forme di resistenza, opposte alle differenti forme di potere. Per usare un’altra metafora, esso consiste nell’utilizzare queste resistenze come un catalizzatore chimico che permetta di mettere in evidenza le relazioni di potere, di localizzare la loro posizione, di scoprire i loro punti di applicazione e i metodi utilizzati. Piuttosto che analizzare il potere dal punto di vista della sua razionalità interna, si tratta di analizzare le relazioni di potere e l’antagonismo delle strategie»1. Michel Foucault negli anni Settanta ha impresso una profonda rivoluzione agli studi filosofico-politici. Il paradigma teorico moderno, quello della sovranità giuridica e politica, con i suoi caratteri di reductio ad unum e di logica identitaria, non è in grado di interpretare le relazioni concrete di potere. È astratto, niente di più che un format cognitivo creato dalla scienza giuridica e politica per organizzare e interpretare un certo tipo di potere in una certa fase storica. La storia delle istituzioni concrete, a partire dallo Stato, mostra che il potere è stato esercitato in modi molto eterogenei 1

M. FOUCAULT, The Confession of the Flash, in N. GORDON (ed.), Power/Knowledge: Selected Interviews and Other Writings 1972-77, Harvester Press, Brighton 1980, p. 196 e p. 238.

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– compatibili nei fatti con la rappresentazione sovrana – ma retti da una logica diversa da quest’ultima. Questa molteplicità di tecnologie di potere è coordinata da una comune logica strategica e governamentale. Al suo centro sta il dispositivo. La teoria politica si libera così dell’ossessione della sovranità e del suo rimando incessante al soggetto giuridico o politico decisore e unitario (senza per questo negare la sua efficacia nella descrizione di certi fenomeni politici anche oggi) e si allarga alle pratiche di esercizio del potere stesso, individuando così una natura relazionale e transitiva del potere, quando quest’ultimo è governamentale. Anche il primato della Forma-Stato come oggetto privilegiato se non esclusivo dell’analisi politica, viene contestato a favore della messa a fuoco di una microfisica di pratiche in opera nella scuola, nella famiglia, nella fabbrica, negli ospedali e nelle prigioni, nelle quali sono coordinate ed organizzate dalla finalità strategica, codici morali, giuridici, opere materiali, per esempio architettoniche, istituzioni, misure amministrative, enunciati filantropici. Il primo esempio che Foucault adduce è quello della prigione in Sorvegliare e punire2. E da quello partiremo nella analisi di questo concetto che non può essere astratto dalle pratiche e dai discorsi concreti nei quali si realizza. La prigione funziona infatti, coordinando le condizioni di visibilità (il sistema di sorveglianza che crea una dissimmetria fondamentale tra vedere e essere visti) che ripartiscono architettonicamente all’interno del penitenziario gli spazi, con i discorsi di verità, sia quelli sul valore educativo della pena, che quelli sulla inclinazione al delinquere, sulle patologie del corpo, fino ai saperi che riguardano i metodi di disciplinamento e addestramento delle prestazioni del corpo. Questa galassia di elementi, sia discorsivi che non discorsivi, formano il dispositivo. La microfisica del potere foucaultiana è evidentemente correlata con la crisi della politica moderna e delle sue ideologie, con l’eclissi del primato dello Stato-nazione come spazio politico privilegiato se non esclusivo. La crisi dei concetti pilastro della teoria politica moderna è evidente e richiede un ripensamento radicale. Stato nazione, soggetto politico, cittadinanza non sono adeguati ad una realtà profondamente mutata e segnata da una costitutiva illimitatezza, laddove quei concetti si ancorano ad una territorializzazione concettuale oltre che spaziale. Sembra piuttosto che politica e tecnologie di potere passino attraverso le soggettività stesse. Appunto lo sguardo ai dispositivi di governo permette di 2

M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, tr. it. a cura di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 1998.

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Cosa è un dispositivo?

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cogliere questa dislocazione della politica dalle istituzioni e dalle categorie classiche, fin dentro la vita delle persone, le loro soggettività: i dispositivi infatti, nonostante si differenzino in disciplinari e biopolitici per la modalità di soggettivazione, sono in senso ampio bio-politici perché governano, gestiscono le forme di vita, attraversate, nella loro costituzione, dall’azione del potere. Quest’ultimo non può essere adeguatamente rappresentato dal comando, dalla legge e tanto meno dalla violenza. Esso piuttosto funziona attraverso la produzione di un soggetto. Il modello per iniziare a capire resta quello messo in atto dal pastorato cristiano, l’opera di guida pastorale delle anime e delle vite da parte di monaci, vescovi e confessori: l’istituto della confessione, per esempio, come Foucault evidenzia, è un insieme di procedure volte ad oggettivare la condotta di un soggetto tramite l’esame che il soggetto stesso compie su se stesso, perché poi questa verità ‘confessata’ orienti la correzione della condotta. La ‘libertà’ del soggetto e la sua assunzione di responsabilità di fronte a se stesso, dunque, sono elementi funzionali all’operatività di un dispositivo che richiede la collaborazione attiva e ‘libera’ del governato. Il cambiamento rispetto alle teorie classiche del potere è radicale: laddove quelle si incentrano sulla obbedienza quale conseguenza della leggecomando-forza (in ultima istanza la violenza), qui si evidenzia come le condizioni di esercizio effettivo del potere abbiano di mira la costituzione della libertà del soggetto. Fondamentale in questa rotazione della prospettiva il metodo genealogico che viene applicato. Questo significa l’attenzione agli effetti di potere. In una prospettiva pragmatica è questo che viene in rilievo: le relazioni di potere e i loro effetti piuttosto che i poli soggettivi che ne sono origine. Ne risulta una certa impersonalità del potere, che potrebbe suggerire una forma di potere sistemico, con la differenza basilare che il potere biopolitico è disarticolato e diffuso e non mira all’equilibrio omeostatico. La ‘positività’ del dispositivo, la sua immanenza e fatticità che lo rende efficace nella gestione delle vite dall’interno, è tutt’altro che un elemento secondario. L’etimologia del termine, d’altronde rinvia al latino dispono: porre separando, mettere in ordine ma anche regolare, fissare (dispositio indica tanto l’ordinamento, che la tattica in una strategia) e sottolinea la concretezza se non la materialità della tecnica di potere che si istalla su corpi viventi in vista di una gestione efficace. Il termine, traslato nell’ambito politico filosofico da un’area d’uso discorsivo diverso, trascina una traccia che nel nuovo ambito non può non essere significativa: l’uso tradizionale e forse più antico del sostantivo dispositivo è infatti giuridico-penale e poi amministrativo. Indica infatti ancora oggi la pronuncia di una senten-

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Dispositivi e soggettivazioni

za o l’esecuzione di un ordine redatto per iscritto. Nel plesso semantico del termine giuridico si specifica come dispositivo quella parte dell’atto giuridico che dispone la specifica attuazione della decisione, separandola dalle motivazioni e argomentazioni che la giustificano. Da tenere a mente questa esternità rispetto alla legittimazione morale e giuridica che sembra far volar basso il dispositivo, tecnico ed esecutivo come è proprio di una certa accezione di governo. Nel Novecento si afferma poi in modo sempre più deciso, il significato assolutamente tecnico che si riferisce direttamente a meccanismi ingegneristici e ad apparecchi dei quali indica la disposizione delle parti meccaniche. C’è uno spostamento metonimico dunque dalla disposizione dettagliata del giuridico per eseguire una sentenza al campo della tecnica come tale: apparecchi, meccanismi, strumenti complessi, dei quali indica la organizzazione delle diverse parti ai fini di un funzionamento che è l’obiettivo del meccanismo stesso. Il termine inoltre è usato, non a caso, in ambito militare per indicare l’insieme di misure organizzative, di mezzi, di ordini scritti, disposti in vista di un fine strategico. L’uso foucaultiano si appropria di tutte queste tracce di ordini discorsivi e le utilizza per esprimere la complessità dell’organizzazione quando mira ad un fine preciso, tecnico-strategico: in essa, come in una macchina, vi sono molteplici parti che funzionano in vista di un risultato. Va notato che la prospettiva del dispositivo non è quella di una scienza e una tecnica che orientano dall’esterno la politica verso finalità ad essa estranee, ma piuttosto il potere che si manifesta secondo una forma di razionalità scientifico-tecnica. Una macchina, dunque, una tecnologia fatta di pratiche, di materialità e di discorsi, che porta con sé inevitabilmente la impersonalità della macchina. In modo del tutto opposto alla soggettivazione e personalizzazione del potere nella prospettiva teorica tradizionale. Non c’è separazione ma compatibilità tra gli elementi eterogenei del dispositivo, che trovano unità a livello modale, nella logica economicostrategica che orienta le parti. È significativa innanzitutto la stretta connessione degli elementi discorsivi (discorsi giuridici, filosofici, accademici, morali, religiosi, scientifici; alle formulazioni linguistiche normative: leggi, regolamenti, decisioni giudiziarie) da quelli non discorsivi (strutture e arrangiamenti architettonici, apparati tecnici, apparecchi e macchine di vario tipo) che rinvia alla connessione di ascendenza nietzscheana di verità e potere. Pratiche mute e discorsi prolifici che spesso coprono una pratica di governo e contribuiscono ad avallarne le intenzioni, mentre le finalità trovano nelle pratiche magari contraddittorie o apparentemente irrilevanti, la loro veridicità. L’insieme crea un campo di razionalità politica orientato da una logica strategica-economica. Un dispositivo è tale se è strategico;

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o funziona oppure non esiste: strumento di un potere che governa per ‘far vivere’, dunque biopolitico, che «si esercita positivamente sulla vita, che incomincia a gestirla, a potenziarla, a moltiplicarla, ad esercitare su di essa controlli precisi e regolazioni d’insieme»3. Va sottolineato che se un dispositivo è una formazione strategica storicamente data, nasce per rispondere ad una urgenza. Urgenza significa tanto uno stato di necessità che richiede un intervento urgente, come giuridicamente lo stato d’emergenza, quanto l’apparire di una esigenza concreta qualitativamente differente e irriducibile ai precedenti. D’altronde il metodo genealogico si riferisce appunto a posizioni epistemologiche discontinuiste e descrive l’Entstehung nietzscheana (l’emergenza, appunto) come “l’entrata in scena delle forze”. In una temporalità binaria: il primo momento è quello appunto dell’emergenza e in esso prevale l’obiettivo strategico definito e concreto. Ma una volta costituitosi, un dispositivo dispiega una forza d’inerzia che attiene, da un lato, alla sua sovra-determinazione funzionale e, dall’altro, alla sua capacità strategica di colmare i vuoti, gli interstizi lasciati scoperti dal dispositivo. Una grande macchina produttiva, un apparecchio incredibilmente complesso che si istituzionalizza rispondendo a logiche e a razionalità che sembrano, una volta messe in campo, autonomizzarsi e produrre e riprodurre effetti, voluti o non voluti, positivi o negativi; effetti che circolano, si scontrano e interagiscono fra loro, segnando e perimetrando il campo del dispositivo in azione. 2. Dispositivi disciplinari Il modulo disciplinare segnala una morfologia del sistema di potere: fabbrica, prigione, scuola, ospizio, manicomio, esercito rappresentano apparati istituzionali diversi che emergono dall’esigenza di controllo della produttività da parte del capitalismo industriale e dello Stato4. Il soggetto che intendono forgiare queste pratiche di disciplinamento è un soggetto docile. Disponibile all’ordine e ai tempi del lavoro produttivo. Riducibile a condotte prevedibili e largamente abitudinarie. E questo obiettivo passa dagli individui ai gruppi di popolazioni, catalogate come tali proprio in base alla loro comune propensione al rischio o alla potenzialità produtti-

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M. FOUCAULT, La volontà di sapere, tr. it. Feltrinelli, Milano 2001, p. 121. Cfr. M. FOUCAULT, La società disciplinare, a cura di S. Vaccaro, Mimesis, Milano 2010 che raccoglie la traduzione di numerosi saggi foucaultiani centrati sulla prigione, ma anche su sesso e stregoneria.

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va, per produrre un adattamento interiorizzato profondo sia nei percorsi di apprendimento-addestramento che nei comportamenti sociali e lavorativi. Foucault sottolinea l’esistenza di “apparati corporali” dove il potere ha un “contatto sinaptico”5 con i corpi individuali: apparati di garanzia e di prova; apparati che hanno lo scopo di estorcere la verità, apparati che hanno il compito di «manifestare e marchiare la forza del potere» e apparati mirati a «correggere ed addestrare il corpo»6. Si tratta di un vero e proprio processo, temporale, di soggettivazione: «In primo luogo la loro azione è continua, in secondo luogo l’effetto progressivo che producono deve fare in modo di arrivare a renderli inutili, nel senso che, al limite, deve risultare possibile togliere lo strumento e continuare a ottenere risultati, visto che l’effetto conseguito grazie al suo impiego è ormai definitivamente iscritto nel corpo [...] meno si oppone resistenza, meno se ne avverte l’azione, mentre al contrario, più si tenta di sfuggirvi e più si è destinati a soffrirne»7. L’obiettivo è costruire corpi assoggettati. I dispositivi disciplinari sono dispositivi di normalizzazione: «normare, normalizzare è imporre un’esigenza a un’esistenza, a un dato la cui varietà e differenza si offrono, di fronte all’esigenza, come un indeterminato ostile più ancora che straniero»8. Si delinea una trasformazione dei saperi biologici, economici, statistici che fanno centro sulla grande divisione tra normale e patologico, mutuata dalle scienze naturali della vita, che immette una modalità medicale all’interno del pensiero giuridico: «per pensiero medico intendo una maniera di percepire le cose che si organizza intorno alla norma, vale a dire cerca di distinguere ciò che è normale da ciò che è anormale, il che non equivale esattamente al lecito e illecito [...] i mezzi di correzione non sono esattamente dei mezzi di punizione, ma dei mezzi di trasformazione dell’individuo»9. Un compito infra-giuridico e infra-penalistico: i dispositivi infatti «incasellano uno spazio che le leggi lasciano vuoto; qualificano e reprimono una serie di comportamenti che per il loro interesse relativamente scarso sfuggivano ai grandi sistemi di punizione»10. Un interventismo infragiuridico che

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M. FOUCAULT, Il potere psichiatrico. Corso al College de France 1973-1974, tr. it. Feltrinelli, Milano 2004, p. 49. Ivi, p. 106. Ivi, pp. 106-107. G. CANGUILHEM, Il normale e il patologico, tr. it. Einaudi, Torino 1998, p. 201; cfr. P. MACHEREY, Pour une histoire naturelle des normes, in ID., M. Foucault philosophe, Seuil, Paris 1989, pp. 203-222. M. FOUCAULT, Il potere una magnifica bestia, in ID., Biopolitica e liberalismo, tr. it. Medusa, Milano 2001, p. 83. M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire, cit., p. 195.

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usa le tecniche dell’esame, più clinico che giustiziale, fondamentale per la classificazione delle tipologie all’interno di un campo documentario, in cui ciascuno è descritto, analizzato: «annotazione, registrazione, costituzione di dossiers, messa in colonna e in quadro»11. In Sorvegliare e punire, che ho già citato come primo esempio dell’uso del dispositivo nell’analisi storica, sono le discipline – disseminate nei procedimenti, nelle istituzioni e nelle tecniche del potere volte alla gestione e all’ottimizzazione controllata dei soggetti – ad essere dispositivi. L’analisi abbandona le visioni teoriche e totalizzanti per chinarsi sulle tecniche reali, concrete del potere che si istalla sui corpi e sulle anime dei governati. Corpi disciplinati che le teorie astratte e idealistiche rendevano invisibili e irrilevanti. Le tecniche disciplinari basilari, mirate al disciplinamento del corpo che disciplina anche la psiche o l’anima, sono in qualche modo ‘generiche’: passano da un’istituzione ad un’altra, dall’esercito alla prigione alla scuola all’ospedale. Lavorano sui corpi per renderli docili, addomesticandoli a condotte e gesti misurati sulla produttività. Si produce così “la mutazione del regime punitivo”. Si tratta non di grandi leggi, ma di “piccole astuzie dotate di grande potere di diffusione, disposizioni sottili, d’apparenza innocente, ma profondamente insinuanti”, che rispondono ad “inconfessabili economie o perseguono coercizioni senza grandezza”. Il dispositivo disciplinare si concentra quasi esclusivamente su pratiche di controllo marcate dalla soggezione. Una soggezione che si presenta come strisciante, non sovrana né grandiosa: è una microfisica del potere che opera per mezzo di tattiche locali, minute, che non mostrano in modo conclamato la loro reale capacità di penetrazione dell’obbiettivo, ma che, nonostante questo – o proprio per questo – sono molto efficaci. A proposito dell’arte delle ripartizioni, esplicando la regola che egli chiama “delle ubicazioni funzionali” attraverso l’esempio di un ospedale marittimo, Foucault descrive di quest’ultimo la funzione: esso deve sì curare, «ma per ciò stesso deve essere un filtro, un dispositivo che registra e incasella; bisogna che assicuri un controllo su tutta questa mobilità e questo brulichio; scomponendo la confusione dell’illegalità e del male». La ripartizione spaziale, l’incasellamento, il quadrillage sono l’anima del dispositivo disciplinare: «ad ogni individuo il suo posto; ed in ogni posto il suo individuo. Evitare le distribuzioni a gruppi; scomporre le strutture collettive; analizzare le pluralità

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Ivi, p. 209.

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confuse, massive, sfuggenti»12: celle, posti, ranghi trasformano «moltitudini confuse, inutili, pericolose in molteplicità ordinate»13. Si manifestano con l’ospedale, ancor più che con la prigione, gli obiettivi di cura, mai discosti da quelli di controllo: le due cose vanno insieme e sono sostenute da saperi medici, di igiene e profilassi che – indirizzati a dire la verità sui corpi dei governati – li oggettivano come docili, curabili, migliorabili e perciò ancora di più recettivi e collaborativi. Ripartire gli spazi a fini organizzativi, di controllo e di classificazione, implica funzioni conoscitive e distributive. «La politica come tecnica della pace e dell’ordine interni, ha cercato di mettere in opera il dispositivo dell’esercito perfetto della massa disciplinata, della truppa docile e utile, del reggimento accampato e sull’attenti, in manovra e in esercitazione»14. Il ‘dispositivo sorveglianza’ utilizza saperi e ulteriori dispositivi nella prospettiva del controllo: «L’esercizio della disciplina presuppone un dispositivo che costringe facendo giocare il controllo e lo sguardo; un apparato in cui le tecniche che permettono di vedere inducono effetti di potere, e dove i mezzi di coercizione rendono chiaramente visibili coloro sui quali si applicano»15. In particolare il dispositivo panottico utilizzato nelle prigioni «non è semplicemente una cerniera, un ingranaggio tra un meccanismo di potere e una funzione; è un modo di far funzionare delle relazioni di potere entro una funzione, e una funzione per mezzo di queste relazioni di potere»16. È ancora in Sorvegliare e punire che, Foucault analizzando la dimensione medica della gestione politica della peste, evidenzia non solo l’utilizzo del sapere medico che piega le sue oggettivazioni in direzione della curabilità e del controllo biologico, ma anche la trascrizione spaziale della malattia stessa, essendo lo spazio, come abbiamo visto, più controllabile tramite la ripartizione: «Dietro i dispositivi disciplinari si legge l’ossessione dei “contagi”, della peste, delle rivolte, dei crimini, del vagabondaggio, delle diserzioni, delle persone che appaiono e scompaiono, vivono e muoiono nel disordine»17. Il potere disciplinare si presenta come un sistema «integrato», legato dall’interno all’economia ed ai fini del controllo e della sorveglianza, che verrà estesa alle fabbriche e alle scuole. I suoi dispositivi sono campi di forza, contenitori – delimitati dal fine strategico – al cui interno possano agire le relazioni di potere ma che contribuiscono a produrre modalità, più o 12 13 14 15 16 17

Ivi, p. 155. Ivi, p. 161. Ivi, p. 184. Ivi, p. 187. Ivi, p. 225. Ivi, p. 216.

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meno soft, di esercizio del potere, dell’influenza: «I dispositivi disciplinari hanno secreta una “penalità della regola” che è irriducibile nei principi e nel funzionamento alla penalità tradizionale della legge»18 e manifestano – come le istituzioni – una persistenza autonoma e duratura: la prigione, per esempio, può opporre, «conficcata com’è al centro di dispositivi e di strategie di potere»19, una grande forza d’inerzia a chi vorrebbe trasformarla. Deve essere chiaro che i dispositivi disciplinari, nonostante l’accentuazione del disciplinamento ortopedico dei corpi, non si possono interpretare a partire dai concetti di repressione, di esclusione e di emarginazione; questi infatti hanno il carattere sostanzialmente inclusivo nella governabilità di tutte le ‘posizioni’ e di tutte le vite che vengono piuttosto valutate e selezionate in gruppi in base al rischio e alla potenzialità. Né sanno esprimere la «formazione, nel cuore stesso della città carceraria, di insidiose dolcezze, di cattiverie poco confessabili, di piccole astuzie, di processi calcolati, di tecniche, di “scienze” in fin dei conti, che permettono la fabbricazione dell’individuo disciplinare»20. Foucault pone così, nel cuore stesso dei dispositivi, la questione fondamentale dell’assoggettamento. Ho sottolineato più volte il ruolo cruciale del sapere medico e della piega medicale, terapeutica e ortopedica della normalizzazione. Emerge dal disciplinamento un particolare approccio soggettivante: la produzione del soggetto a rischio, pericoloso e potenzialmente deviante la cui pericolosità emerge dalla individuazione di “una razionalità immanente al comportamento criminale”: «la ragion d’essere del crimine, il principio della sua comparsa, ripetizione, della sua imitazione da parte di altri, della sua maggiore frequenza»21. La naturalizzazione del crimine porta alla mostruosità comportamentale, come aberrazione morale e comportamentale22. Perversione e anormalità, derivanti da quella trascrizione nel registro del mostruoso, del mostro sociale, sono le categorie attorno a cui si produce la pericolosità di gruppi di popolazione o di individui. 3. Dispositivi biopolitici A Sorvegliare e punire segue il primo volume del progetto che Foucault aveva in mente su una storia della sessualità: La volontà di sapere. Ci 18 19 20 21 22

Ivi, p. 201. Ivi, p. 337. Ivi, p. 340. M. FOUCAULT, Gli anormali. Corso al Collège de France 1974-75, tr. it. Feltrinelli, Milano 2000, p. 85. Ivi, p. 73.

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Dispositivi e soggettivazioni

torneremo specificamente in un capitolo di questo nostro volume. La sessualità è infatti essa stessa un grande dispositivo ad un tempo disciplinare biopolitico, attraverso il quale si accede ad un controllo capillare dei comportamenti dei singoli, li si spinge alla normalizzazione e se ne governano il nucleo stesso della soggettività, cioè il desiderio, che viene a coincidere con la sessualità stessa. Tratti disciplinari permangono nella grande rivoluzione postfordista e neoliberale. Ma sempre minori. La soggettivazione assoggettata procede con altre tecnologie e, come vedremo, si rinnova profondamente producendo individui liberi che sono responsabili del loro stesso governo e del loro capitale produttivo biologico e culturale. Mentre il sistema di governo coordina e organizza senza farsi carico della cura diretta delle vite. Non diminuendo affatto il peso dell’eteronomia complessiva. La tecnologia del potere, e dunque i dispositivi biopolitici, non esclude quella disciplinare: «piuttosto la incorpora, la integra, la modifica parzialmente»23. «La disciplina tenta di regolare e governare la molteplicità degli uomini in quanto tale molteplicità può e deve risolversi in corpi individuali, da sorvegliare, da addestrare, da utilizzare ed eventualmente punire. Anche la nuova tecnologia che viene istaurata si rivolge alla molteplicità degli uomini, ma non in quanto la molteplicità si risolve in corpi, bensì in quanto costituisce al contrario, una massa globale, investita da processi di insieme che sono specifici della vita, come la nascita, la morte, la produzione, la malattia e così via»24. La biopolitica si istalla infatti su popolazioni. E più che alla docilità e all’estorsione diretta delle forze, è centrata “sul corpo specie” attraversato dalla meccanica del vivente. I dispositivi biopolitici si piegano al passaggio socio-politico ad una società democratizzata e fortemente socializzata. Il potere sulla vita si esercita come potere di stimolare la vita alla produttività di cui è capace. Il momento economico – legato alla forma del capitalismo dominante – si fa predominante insieme a quello biomedico. Sempre più i dispositivi si inseriscono in una forma di potere che Foucault definisce governamentale. In Sicurezza, territorio, popolazione, il dispositivo deve far fronte al governo di uomini che sono soggettivati come liberi. È in questa trasformazione che emerge l’importanza cui abbiamo già fatto cenno, del modello pastorale ricavato dal pastorato cristiano. Il 23 24

M. FOUCAULT, Bisogna difendere la società, tr. it. Feltrinelli, Milano 1998, p. 208. Ivi, p. 209.

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dispositivo è qui al ‘servizio’ del governato e per il suo ‘bene’. Mentre coloro che gestiscono il dispositivo stesso sono autorità esperte, mediatrici di una verità sul soggetto governato, assecondando la quale si ottiene il massimo vantaggio di quest’ultimo, se ne adempie la potenzialità umana e vivente. Le stesse scienze di polizia (statistica, demografia, e soprattutto economia politica) che furono esercitate dagli stati assoluti amministrativi hanno questa torsione del potere nel senso della protezione e dell’incremento delle forze dei governati. Il dispositivo poliziesco «è l’insieme dei mezzi che servono a far crescere le forze dello Stato, garantendo il buon ordine dello Stato stesso»25. La presa in carico della vita, la sua protezione e il suo incremento sono gli obiettivi strategici dei dispositivi. Dunque obiettivi di benessere, salute, prosperità che vanno perseguiti mantenendo la popolazione (parola diversa, biologica ed economica, rispetto al popolo che è invece termine politico giuridico) nella forma migliore possibile, orientandola verso la ottimizzazione delle forze. Emerge un diverso tipo di razionalità prescrittiva. Quest’ultima non si basa più su di una norma attorno a cui operare delle distribuzioni e, alla luce dello schema da essa fornito, selezionare il normale e l’anormale, ma su di una normalità che emerge dall’osservazione di fenomeni collettivi e che tende a ricondurre a sé quelli che da essa deviano in maniera eccessiva. È a partire dalla normalità che si deduce la norma. «Viene prima il normale», dice Foucault26. Con Nascita della biopolitica27, Foucault si misura col liberalismo e il dispositivo acquisisce nell’ambito della biopolitica una piega ulteriore, poiché si applica su uomini che tendenzialmente chiedono di essere meno governati, governati il meno possibile, e soprattutto non in modo estraneo alla loro presunta natura. Il sapere del sovrano circa la verità sul vantaggio dei governati, sapere attorno al quale si costruisce il dispositivo, cede il posto ai discorsi di verità dell’economia liberale, che presume un ordine naturale delle cose economiche, non diverso da quello che regola la vita tutta, il bios: «il meccanismo di sicurezza non va ad applicarsi sull’asse sovrano-sudditi che esige la sottomissione totale e passiva dei primi al secondo. Il meccanismo di sicurezza si applica, invece, su processi che i fisiocratici chiamavano fisici e si potrebbero definire naturali o, anche, semplicemente descrivere come elementi di realtà»28. Il regime di verità 25 26 27 28

M. FOUCAULT, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France 1977-78, tr. it. Feltrinelli, Milano 2004, p. 226. Ivi, p. 55. M. FOUCAULT, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-79, tr. it. Feltrinelli, Milano 2005. M. FOUCAULT, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 57.

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del liberalismo è dunque naturalistico. Inizia la prevalenza dei dispositivi sicuritari (che sempre c’erano stati) ma che assumono un ruolo cruciale quando con il liberalismo il governo di uomini liberi si impegna a suscitare più libertà di tutti e di ciascuno e dunque più rischi per tutti. Poiché i fenomeni collettivi si fanno sempre più complessi le nozioni di caso, rischio, pericolo e crisi diventano la chiave di gestione delle popolazioni. La libertà non è che “un rapporto attuale fra governanti e governati”, una relazione i cui poli sono entrambi liberi e attivi. La pratica di governo liberale, ci dice Foucault, «consuma libertà. È consumatrice di libertà nella misura in cui non può funzionare veramente se non là dove ci sono delle libertà»29. La nuova arte di governo ha bisogno di libertà, essa ne consuma per attivare la stessa razionalità normativa; e, se la pratica di governo liberale consuma libertà, essa «è obbligata anche a produrne, e se la produce è obbligata anche ad organizzarla»30. I suoi dispositivi di governo sono ambivalenti, produttivi di libertà e insieme liberticidi perché sicuritari: «la libertà del comportamento nel regime liberale, nell’arte liberale di governare, è suscitata e richiesta perché se ne ha bisogno, serve come elemento di regolazione, a condizione tuttavia di averla prodotta e organizzata. Dunque, nel regime del liberalismo la libertà non è un dato, un ambito già costituito che si tratterebbe semplicemente di rispettare [...]. La libertà è qualcosa che si fabbrica in ogni istante. Il liberalismo, pertanto, non è accettazione della libertà, ma ciò che si propone di fabbricare la libertà in ogni istante, suscitarla e produrla, con ovviamente tutto l’insieme di costrizioni, di problemi di costo che questa produzione comporta»31. La società liberale e poi neoliberale è società di rischio perché ad ogni potenzialità e potere corrisponde un rischio proprio e di tutti. Il criterio per calcolare il costo della produzione di libertà è “il rovescio e la condizione stessa del liberalismo”: la sicurezza32. Il problema della sicurezza è, cioè, il problema della gestione dei rischi che la libertà comporta, la protezione dell’interesse collettivo contro l’interesse individuale, la messa in campo di tutte quelle strategie che consentono di vigilare sulla libertà stessa. Aumentano dunque dispositivi che promuovono la imprenditorialità: per esempio si trasforma il modo di pensare il lavoro, come vedremo nei capitoli seguenti, ma anche quelli che controllano la sicurezza generale con monitoraggi continui, sorveglianza degli spostamenti, delle operazioni

29 30 31 32

M. FOUCAULT, Nascita della biopolitica, cit., p. 65. Ibidem. Ivi, p. 67. Ibidem.

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finanziarie, del web. Istituzioni chiave come il mercato (vedi in seguito) assumono l’aspetto di dispositivi complessi nei quali confluiscono ideologie, tecniche di operatività, forme di organizzazione, sistemi combinatori. Lo Stato perde la sua posizione ordinativa e si governamentalizza entrando come forza di coordinamento in dispositivi complessi a molti livelli che gestiscono emergenze e situazioni specifiche attraverso poteri eterogenei, all’insegna della compatibilità e dell’inclusività. Il che non significa che non c’è governo, ma più precisamente la inclusione generalizzata, effetto dell’apertura globale dello scenario economico e culturale, viene operata attraverso dispositivi di valutazione piuttosto che di giudizio. Dispositivi di valutazione che estendono la valutazione economica a tutta la realtà sociale e che operano producendo classificazioni e gerarchie non escludenti ma marginalizzanti. Nella scuola, nella salute, nella partecipazione agli organi di governo. I dispositivi biopolitici neoliberali che governano direttamente le vite in forma economica e includono l’intera esistenza dei soggetti, i loro affetti, le loro relazioni sociali, tutte messe al lavoro, non accentrano, ma decentrano i poteri, li deterritorializzano, li mescolano, in una illimitatezza che segna la vera differenza con i vecchi dispositivi disciplinari. 4. L’interpretazione di Deleuze Deleuze interviene sulla questione di cosa sia un dispositivo33, nel suo ultimo intervento pubblico, evidenziando l’importanza di questo strumento concettuale e utilizzandolo per confrontarsi globalmente con Foucault, il cui pensiero a suo parere è perfettamente sintetizzato dalla re-invenzione di quel termine. Discute dunque del dispositivo direttamente all’interno del plesso di significati che ad esso ha dato Foucault. La positività del dispositivo è la sua concretezza e complessità di eterogenei: «una matassa, un insieme multilineare, composto di linee di natura diversa»34. Linee molteplici, dunque che si intrecciano aggrovigliandosi in modo irregolare, variabile, eterogeneo e tutte queste linee sono a loro volta soggette a variazione: «Queste linee nel dispositivo non delimitano né circoscrivono sistemi di per sé omogenei – oggetto, soggetto, linguaggio ecc. – ma seguono direzioni, tracciano processi in perenne disequilibrio; talvolta si avvicinano, talvolta si allontanano le une dalle altre. Ogni linea è spezzata, soggetta a 33 34

G. DELEUZE, Che cos’è un dispositivo?, tr. it. Cronopio, Napoli 2007. Ivi, p. 11.

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variazioni di direzione, biforcante e biforcuta, soggetta a derivazione»35. Si manifesta così il carattere della governamentalità e dei suoi dispositivi e, nell’interpretazione di Deleuze, si sottolinea che la dinamica di influenza del dispositivo non passa attraverso la trasformazione profonda e dialettica, ma – e questo è vero soprattutto negli attuali dispositivi bioeconomici – per associazione, ripetizione, variazione e contagio imitativo. Modalità, tra parentesi, che si possono cogliere solo attraverso un approccio di empirismo radicale o di pragmatismo: certo non ontologiche. Si mostra la maggior evidenza delle relazioni rispetto ai poli soggettivi e dunque la spersonalizzazione del dispositivo stesso. Se le linee costituiscono gli elementi della matassa-dispositivo, quali punti esse attraversano, da quali si originano, e per mezzo di quali interventi esse passano da un punto all’altro? «Gli oggetti visibili, gli enunciati formulabili, le forze in esercizio, i soggetti in posizione sono come vettori o tensori» delle linee del dispositivo, che si rivela un campo instabile, mobile di elementi – come diceva Foucault, cose materiali, enunciati, discorsivi, vettori energetici, soggetti – al cui centro non c’è niente che non sia pronto ad ibridarsi, incrociarsi, mescolarsi con gli altri elementi: «Così le tre grandi istanze che Foucault distinguerà successivamente, Sapere, Potere e Soggettività, non hanno affatto contorni definiti una volta per tutte, ma sono catene di variabili che si strappano l’una all’altra»36. Deleuze legge Foucault deleuzianamente: dunque il dispositivo già definito matassa, rifugge ad ogni coerenza e ordine, si piega a contraddizioni che rimangono immanenti e non si risolvono. «Le due prime dimensioni di un dispositivo o, meglio, quelle che Foucault delinea per prime sono le curve di visibilità e le curve di enunciazione»37: il visibile che è materiale e il discorsivo che è immateriale. La macchina del dispositivo serve «per far vedere e far parlare»38. Dunque la piega che imprime al governato mette in visibilità, rende visibile, espone alla luce: «linee di luce che formano figure variabili»39 che, come è proprio delle pieghe di un mantello in un quadro barocco (Deleuze ha analizzato in modo magistrale Leibniz in uno studio sulla piega barocca40) è discontinua: chiaro e scuro, luci e ombre. «Ogni dispositivo ha il suo regime di luce, la maniera in cui essa cade, si smorza, si diffonde distribuendo il visibile e l’invisibile, facendo nascere o scomparire l’oggetto che non esiste senza di 35 36 37 38 39 40

Ibidem. Ivi, pp. 11-12. Ivi, p. 13. Ibidem. Ibidem. G. DELEUZE, La piega. Leibniz e il barocco, tr. it. Einaudi, Torino 2004.

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essa»41, che significa che la visibilità produce l’oggetto di governo, la soggettivazione, illuminandola o lasciandola essere nella sua oscurità. Come già esplicitamente in Foucault, i dispositivi di visibilità come di enunciazione, dunque di verità, nel loro intrecciarsi di cose e parole (come dice il titolo dell’opera foucaultiana) nascono da emergenze contingenti: e contingenti, sono dunque – non inseribili in un piano di senso – gli oggetti che il regime di visibilità porta alla luce. «Né soggetti né oggetti ma regimi, da definire, del visibile e dell’enunciabile, con le loro derivazioni, trasformazioni, mutazioni» che in ogni caso sono gravidi di potere e conflitto. «È la dimensione del potere e il potere è la terza dimensione dello spazio, interna al dispositivo e variabile con i dispositivi»42 È interessante che Deleuze abbia evidenziato, al termine del suo percorso analitico sul dispositivo foucaultiano, un genere di dispositivo anomalo, problematico, quello di fuga, che Foucault avrebbe messo a punto nei suoi ultimi scritti. Deleuze cioè inserisce le opere foucaultiane sulla cura di sé nel diagramma del dispositivo, poiché questi esercizi di ascesi e di stile puntano a loro modo al governo: all’autogoverno o governo di sé. La linea di fuga – così Deleuze chiama l’istanza di soggettivazione – è una linea che ha origine sempre da una crisi, anzi la soggettivazione stessa si pone come crisi, frattura e discontinuità rispetto ad un regime di eteronomia e di governo. Il dispositivo in questo caso è un processo di soggettivazione in quanto la soggettività, che potremmo individuare sotto il segno di una libertà pratica e testimoniale, non preesiste ma si costruisce attraverso il dispositivo di autogoverno: «Anche in questo caso una linea di soggettivazione è un processo, una produzione di soggettività all’interno di un dispositivo: esso deve farsi, nella misura in cui il dispositivo lo lascia o lo rende possibile». C’è in questo caso una tensione rispetto alla forza che entra in crisi, una tensione che la piega: «essa s’incurva, forma meandri [...], quando la forza, invece di entrare in un rapporto lineare con un’altra forza, ritorna su se stessa o produce affezione su se stessa». Quella piega interna al processo di autogoverno è l’effetto di soggettivazione del dispositivo: il sé un supplemento, un surplus di valore che si genera, «un processo di individuazione che si esercita su gruppi o su persone e si sottrae ai rapporti di forza stabiliti come pure ai valori costituiti»43. Deleuze non sa, se Foucault avesse potuto continuare il suo lavoro, se queste ricerche avrebbero condotto ad interrogarsi sulla marginalità e altre linee di fuga. Supponiamo 41 42 43

G. DELEUZE, Cos’è un dispositivo?, cit., p. 13. Ivi, p. 15. Ivi, p. 17.

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che le scelte deleuziane del ‘divenire minori, divenire animali, divenire donne’ intendano sottrarsi ai dispositivi maggioritari di governo e con questo optare per le vite escluse Per Deleuze occorre «sciogliere la matassa delle linee di un dispositivo [...] ogni volta tracciare una carta, cartografare, misurare terre sconosciute; [...] disporsi su quelle linee che non soltanto formano un dispositivo, ma l’attraversano e lo spostano da nord a sud, da est a ovest o in diagonale»44. Le resistenze e le linee di fuga che emergono da una cartografia dei dispositivi sono possibili se si iscrivono nella molteplicità contingente e se rifiutano degli universali per esempio quelli della rappresentazione-rappresentanza politica: «L’universale, infatti, non spiega niente, è esso che deve essere spiegato. Tutte le linee sono linee di variazione che non hanno nemmeno delle coordinate costanti. L’Uno, il Tutto, il Vero, l’oggetto non sono degli universali, ma dei processi singolari – di unificazione, di totalizzazione, di verificazione, di oggettivazione, di soggettivazione – immanenti ad un certo tipo di dispositivo. Ogni dispositivo è così una molteplicità nella quale operano tali processi in divenire, distinti da quelli che operano in un altro. È in questo senso che la filosofia di Foucault è un pragmatismo, un positivismo, un pluralismo»45, non facendo riferimento a strutture universali del pensiero, alla natura umana o a valori metastorici, non può che indagare le modalità del nostro essere nel momento in cui si pratica la filosofia: che si manifesta come ontologia dell’attualità, intendendo non ciò che siamo, ma «ciò che stiamo divenendo, cioè l’Altro, il nostro divenir-altro»46. «In ogni dispositivo, bisogna distinguere ciò che siamo (ciò che non siamo già più) e ciò che stiamo diventando: ciò che appartiene alla storia e ciò che appartiene all’attuale. La storia è l’archivio, il disegno che siamo e cessiamo di essere, mentre l’attuale è lo schizzo di ciò che diveniamo»47. 5. E l’interpretazione di Agamben Quali sono gli apporti teorici di Agamben alla definizione di dispositivo? In Che cos’è un dispositivo?48. Giorgio Agamben forza le analisi foucaultiane, spingendo i confini dei dispositivi verso le nuove forme di controllo che emergono in una società digitale. Dispositivi di controllo che, a suo 44 45 46 47 48

Ivi, p. 12. Ivi, p. 21. Ivi, p. 27. Ivi, pp. 27-28. G. AGAMBEN, Che cos’è un dispositivo?, Nottetempo, Roma 2006.

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avviso, possono modificare anche radicalmente le soggettività, dei quali Foucault non aveva potuto tenere in conto. Agamben ricostruisce la genealogia del termine dispositivo nel discorso teorico di Foucault, ipotizzando, significativamente, che si intrecci con una certa eredità hegeliana mediata dall’insegnamento di Jean Hyppolite. Hyppolite aveva evidenziato giustamente il ruolo del termine “positività” nel giovane Hegel, inteso come «un carico di regole, riti, e istituzioni che vengono imposti agli individui da un potere esterno, ma che vengono, per così dire, interiorizzati nei sistemi delle credenze e dei sentimenti»49. La complessità di elementi eterogenei si tiene dunque con la potenza del meccanismo di soggettivazione dell’individuo che garantisce l’efficacia del dispositivo: come in Foucault. La mossa agambeniana è, ed è superfluo dirlo, teologica: recupera, per una adeguata comprensione della positività efficace dei dispositivi, la versione teologico-patristica del termine greco oikonomia che si sgancia dalle definizioni aristoteliche. Oikonomia indica «un insieme di prassi, di saperi, di misure, di istituzioni il cui scopo è di gestire, governare controllare e orientare in un senso che si pretende utile i comportamenti, i gesti e i pensieri degli uomini»50. L’oikonomia, è una pratica piuttosto che una ontologia e si riferisce alla figura trinitaria (unità del molteplice) del Figlio cui è affidata la salvezza provvidenziale degli uomini: dunque una economia di salvezza, una pratica di salvazione delle vite che è il vero modello dei dispositivi di governo in occidente. La frattura tra l’essere e la prassi, tra l’ontologia e la politica tipica del pensiero occidentale, ha portato al misconoscimento di questa cruciale ‘disposizione’ salvifica, economica e incrementativa. L’oikonomia è, dunque, il piano molteplice e dispersivo dei dispositivi e della loro azione, priva di qualsiasi necessità di fondazione, che opera per fini escatologici, la cui mondanizzazione diventa lo sfondo delle analisi del governo. E «il termine dispositivo nomina ciò in cui e attraverso cui si realizza una pura attività di governo senza alcun fondamento nell’essere. Per questo i dispositivi devono sempre implicare un processo di soggettivazione, devono, cioè produrre il loro soggetto»51. Di conseguenza la partizione dall’ontologia è esplicita: «Vi propongo nulla di meno che una generale e massiccia ripartizione dell’esistente in due grandi gruppi o classi: da una parte gli esseri viventi (o le sostanze) e dall’altra i dispositivi in cui essi vengono incessantemente catturati. Da una parte, cioè, per riprendere la terminologia dei teologi, l’ontologia delle creature e 49 50 51

Ivi, p. 10. Ivi, p. 20. Ivi, p. 19.

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dall’altra l’oikonomia dei dispositivi che cercano di governarle e guidarle verso il bene»52: i dispositivi si estendono così all’intera cultura e a tutte le pratiche sociali e coprono tutta la storia, con l’effetto che se ne perde la specificità. «I dispositivi, intesi in quest’ampio senso, sono tutti quelli che hanno in qualche modo la capacità di catturare, orientare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi. Non soltanto, quindi, le prigioni, i manicomi, il Panopticon, le scuole [...] ecc., [...] ma anche la penna, la scrittura, la letteratura, la filosofia, l’agricoltura, la sigaretta, la navigazione, i computers, i telefoni cellulari e – perché no – il linguaggio stesso, che è forse il più antico dei dispositivi»53. Agamben sottolinea come, però, esista un contrappeso al dispositivo. La comprensione genealogica del dispositivo, infatti, rimanda all’origine sacra della sua formazione. Il sacro è il momento di separazione che stabilisce la soglia tra il divino e l’umano, tra ciò che appartiene al puro essere e la storicità delle pratiche. Ma perciò stesso, il sacro evoca la possibilità concreta del profano: la violazione del confine e l’espropriazione di quanto è stato riservato agli dei, sottraendolo agli uomini. La tensione della profanità con lo sfondo del sacro viene utilizzata per comprendere la tensione tra la libertà che il soggetto è in grado di esercitare nei confronti del potere – nelle società industriali e postindustriali – e i suoi dispositivi. Il tema del dispositivo è infatti la tensione irriducibile che vi si delinea tra soggettivazione e assoggettamento. Il soggetto è senza dubbio “assoggettato” alla normalizzazione del dispositivo che lo soggettivizza e dal quale emerge, ma nello stesso tempo può esercitare una certa resistenza, poiché, pur esistendo in virtù dei dispositivi che regolano e supportano le sue pratiche, è soggettivato come ‘libero’ e, quindi, relativamente autonomo e in grado di poter elaborare delle strategie di risposta alle prestazioni che gli si chiedono all’interno di un quadro di verità che fa suo e che condivide. In ogni caso va rimarcata la graduazione dell’assoggettamento che permette resistenza quando si danno giochi di potere, di influenza reciproca tra poli non troppo dissimmetrici54. L’ipotesi di Agamben, però, è che l’operatività dei dispositivi attuali funzioni in base a un regime differente, dal momento che la tecnologia di potere contemporanea mette in atto dinamiche di desoggettivazione piutto-

52 53 54

Ivi, p. 21. Ivi, p. 22. Cfr. A. AMENDOLA, L. BAZZICALUPO, F. CHICCHI, A. TUCCI (a cura di), Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, Quodlibet, Macerata 2008.

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sto che di produzione del soggetto. De-soggettivazioni che non permettono la ricomposizione di un nuovo soggetto se non «in forma larvata e, per così dire, spettrale»55. Non che il soggetto venga meno ma si dequalifica come polo di identificazione soggettiva e si moltiplica in modo seriale. Queste affermazioni che entrano in contrasto con le spinte alla autorealizzazione proprie delle teorie del capitale umano e del nuovo homo oeconomicus, appaiono plausibili soprattutto in relazione alle nuove tecnologie comunicative che, per Agamben, tendono a esonerare il soggetto dall’obbligo di ogni prestazione, a spogliarlo dell’agency. In questo modo, viene intaccata la possibilità della profanazione del dispositivo che agisce, perciò, anonimo e indisturbato. La società appare passiva, inerziale: «il corpo sociale più docile e imbelle che si sia mai dato nella storia dell’umanità»56, e si lascia docilmente governare per mezzo dei dispositivi cooperando al loro funzionamento. L’eteronomia del sistema si manifesta nella perdita di esperienza del telespettatore che frantuma compulsivamente qualsiasi filo conduttore e qualsiasi narrazione possibile attraverso lo zapping, l’esposizione totale delle nostre vite allo sguardo dei sistemi di videosorveglianza, la violazione continua della privacy da parte delle strategie di marketing virale. Segnali tutti dell’invadenza dei dispositivi di controllo nelle vite delle persone, ma anche di una capacità di essi di modificazione antropologica. Resta, a mio avviso, in ombra, in questa cupa diagnosi agambeniana, esattamente l’uso attivo anche se altrettanto compulsivo dei dispositivi elettronici che fanno del consumatore un prosumer, in quanto attraverso il gadget di consumo, produce, agisce, crea relazioni ed espressioni di vita. Tutti i dispositivi biopolitici attuali sono, a mio avviso segnati da una indecidibile ambivalenza. Ovviamente Agamben ha buon gioco nel sottolineare come l’economia del sapere biomedico, soprattutto nella fase attuale della genomica, operi sui caratteri stessi che definiscono la natura umana, nelle sue determinazioni biologiche e genetiche progettandone tecnicamente un diverso funzionamento. De-soggettivazione qui significa che alcune prerogative della soggettività vengono ascritte direttamente al dispositivo tecnico che assolve compiti sensoriali e organizza attraverso la rete informazionale del dispositivo stesso, la condotta. Il soggetto è ad un tempo potenziato bio-tecnologicamente, ma anche sterilizzato da un contatto diretto con l’esperienza: sgravato dal peso dell’elaborazione, ma anche privato della possibilità che essa offre. Quella che Agamben ci presenta è una tragica macchina che 55 56

Ivi, p. 31. Ivi, p. 33.

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gira a vuoto «immane parodia dell’oikonomia teologica [che] ha assunto su di sé l’eredità di un governo provvidenziale del mondo, che, invece di salvarlo, lo conduce – fedele, in questo, all’originaria vocazione escatologica della provvidenza – alla catastrofe»57, mentre si perde la ambivalenza soggettivante dei dispositivi.

57

Ivi, p. 34.

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II. DISPOSITIVI DI CURA

1. Fitness. La salute come diritto e come ossessione

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Benessere È un diritto star bene? Oppure – paradossalmente – è divenuto uno strisciante imperativo, introitato con zelo, fino a far parte del nostro modo di essere e, alla fine, una ossessione sostenuta e sollecitata dal business economico? Facile rispondere: tutte queste cose insieme. Conviene sciogliere questo strano nodo che trasforma una conquista, un diritto in un dispositivo di assoggettamento. Per essere noi più consapevoli. Questo tema – la vita, la salute, il benessere – così generico e pure così personalizzato nei corpi e nelle vite di ciascuno di noi – è un focus privilegiato per far luce sui dispositivi e sulla forma nuova, ambivalente e soft, del potere – che chiamiamo biopotere e biopolitica –: un potere che ci governa oggi piuttosto come viventi che come cittadini. Potere appunto soft, benevolente, che – con la nostra collaborazione e per il nostro bene – produce comportamenti che non hanno più il profilo di diritti attivi di cittadinanza, ma sono uno strano mix di autonomia ed eteronomia tutto interno al mercato. Un ibrido di soggetti assoggettati cui si è ridotta la nostra democrazia. Possiamo fare una breve, brevissima storia. Scegliamo una data significativa, il 1942, quando, proprio mentre richiede la massima collaborazione ai cittadini per la guerra, il governo inglese vara il piano Beveridge: un organico programma politico di protezione della vita e della salute di tutti che è diventato il modello del welfare state postbellico. È allora che la politica assume esplicitamente una piega sicuritaria e previdenziale e si prende il compito di salvaguardare e promuovere la salute dei cittadini. È un nuovo quadro di verità, un nuovo immaginario sociale – cioè qualcosa di più emotivo e coinvolgente rispetto a quella che un tempo si sarebbe chiamata ideologia. La vita – non la pura sopravvivenza: qualcosa di più, un più di vita, il potenziamento della vita di tutti e di ciascuno – diventa un dirit-

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to protetto dalla politica. Dice Foucault: «È la vita molto più che il diritto che è diventata la posta in gioco delle lotte politiche, anche se queste si formulano attraverso affermazioni di diritto. Il ‘diritto’ alla vita, al corpo, alla salute, alla felicità, alla soddisfazione dei bisogni, il ‘diritto’ a ritrovare quel che si è e tutto quel che si può essere, questo ‘diritto’ così incomprensibile per il sistema giuridico classico» – bene – questo diritto sostiene e contemporaneamente contrasta una forma nuova di potere, biopotere regolativo dei corpi. Emerge allora un paradigma assicurativo sociale, cioè né pubblico né privato, che manifesta questa ambiguità destinata ad accrescersi: il titolo di diritto sì, ma la gestione eteronoma. Si determinano – per il bene dei governati, è ovvio – classificazioni, nuove identificazioni, controlli amministrativi, verifiche intrusive, che non lasciano zone d’ombra, di privacy. Si formano statisticamente i gruppi a rischio, al cui interno ciascuno è monitorato già prima di nascere e poi educato all’igiene, istruito, controllato nella dieta, nei consumi, negli eccessi. Popolazione (non popolo) è il termine giusto, ad un tempo biologico e statistico-economico. Ritaglia un gruppo ‘naturale’, la cui naturalità è ‘penetrabile’: cioè non significativa in sé, ma trasformabile per effetto del potere che si esercita su di essa. Il diritto non applica più una legge generale e astratta, ma si scioglie in processi, negoziati, convenzioni, conciliazioni, arbitraggi. Sempre più si orienta verso sistemi di governance, con una incerta contrattazione, una continua revisione di regole, attori pubblici e privati variabili, mentre le decisioni politiche sono affidate a tecnici e comunicate al pubblico senza che possa discuterle. Pur essendo un diritto – e dunque esercitato al di fuori di elargizioni oblative – questo ben-essere, questa vita potenziata, raramente assurge al livello politico e deliberativo con il coinvolgimento attivo dei destinatari come decisori. Anche prima delle critiche neoliberali, sono evidenti gli effetti perversi: produce soggettività dipendenti e deresponsabilizzate, sottomesse a tutela. Si ha diritto ad un bene, ma nella posizione di chi lo riceve, di chi dipende, non di chi partecipa al processo di decisione. Come mai, allora, questo potere intrusivo è accettato? Ma è ovvio perché è giustificato. Da un lato dalle funzioni protettive e assicurative e dall’altro, dalle ‘verità’ scientifiche e tecniche. D’altra parte, però, il modus biopolitico, l’abbiamo detto, è ambivalente: – la corrente di potere che investe i corpi, non è solo passivizzante, sollecita la forza dei corpi che protegge, stimola energie e desideri ad avere di più, ad essere di più. E l’immaginario sociale cambia.

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Dispositivi di cura

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Fitness: essere adeguati La grande svolta neoliberista ormai trentennale erode l’ideologia dei diritti e dell’assistenza da rivendicare ad uno Stato paternalistico. La centralità dei corpi resta assoluta, anzi si accresce. Ma il nuovo immaginario combatte la passività, l’eteronomia del welfare pastorale. Tutti noi – tutti e ciascuno – siamo liberi, padroni della nostra vita e tanto più del nostro corpo. Liberi di scegliere e responsabili delle nostre scelte. Allo stesso modo in cui siamo responsabili degli investimenti – cretini o geniali – dei nostri danari in qualche fondo finanziario. La logica capitalista intensifica l’importanza della salute e del più di vita. Che non è più tanto il diritto di una popolazione appena uscita dalle strettezze della guerra, impegnata nel problema della sopravvivenza; ma imperativo di una popolazione a rischio obesità, opulenta ed economicamente solida. La responsabilità è personale, non sociale. I cittadini sono invitati a coprodurre il loro benessere e la loro sicurezza e questo se da una parte allenta la presa del conformismo burocratico, dall’altra dissolve i bisogni comuni. L’individuo è più solo, plasmabile a fronte dell’influenza dei poteri forti come l’industria farmacologica, i media pop, le agenzie di ricerca, le banche che investono. Non si può – ripeto – parlare di un movimento a senso unico, né di pura manipolazione. Come ho detto, il potere che investe i corpi, ne sollecita la forza, il desiderio: prolifera anche la volontà di sapere, di conoscere e neutralizzare i rischi. Si oscilla: percepire il pericolo in campo igienico e mantenere, insieme, l’istanza di essere meno governati sono i vettori della cittadinanza nell’epoca della biopolitica. Di quest’asse oscillante, la libertà è il centro ambiguo, ambivalente. Tutti sono liberi di perseguire il proprio benessere biologico ed economico: che è come dire liberi di stare bene, di arricchirsi, di essere più potenti. Che poi sono le premesse per un accesso privilegiato al legame sociale. Il quale, peraltro, si identifica con il mercato stesso e la sua competitività. Ciascuno ha la responsabilità di perseguire questo benessere attraverso uno stile di vita appropriato, una dieta adeguata, cure idonee, una prevenzione adatta ai rischi: appropriato, adeguato, idoneo, adatto, questi sono i termini che traducono la parola fitness. Questa è fitness. Tutto il resto è poco più che carità oblativa: quelli che non sanno badare a se stessi, quelli che non hanno i soldi per pagare cure buone, quelli che sono marginali nella lotta per la competizione sociale, scivolano lentamente nelle sacche residuali della carità.

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Fitness per chi può e sa scegliere. Certo fitness è anche il centro benessere sotto casa, il pacchetto termale con annessi massaggi, la palestra, jogging, streching, coaching, training e via dicendo, la dieta... È tutto questo, fitness: ma la parola ha alle spalle un significato ben più importante, che è, comunque, radice del suo uso banale. Fitness infatti è il criterio, l’unità di misura della selezione darwiniana: esso misura l’adattamento, la capacità, l’idoneità, la adeguatezza di un individuo e/o di una specie alla sfida ambientale. È legato originariamente con la sopravvivenza con il sintagma del survival of the fittest, la sopravvivenza del più adatto, una sopravvivenza competitiva: durare di più, riprodursi di più, segnare così il cammino della specie. È ovviamente arbitrario trasferire i processi evolutivi che durano milioni di anni e per di più – come Gould sottolinea – segnati da salti indeducibili dall’adattamento della fitness. Ma il nostro senso comune, le coordinate tacite con cui ordiniamo ciò che è dicibile e ciò che è pensabile, è tutto fondato su analogie e metafore. D’altra parte la logica della fitness non può che trionfare: è la logica del buon funzionamento, della ottimizzazione economica, una logica in sintonia con l’utile, con l’efficiente, con il criterio della vita, della sopravvivenza, ma anche qualcosa di più, nel senso che alla pura sopravvivenza affianca il più dell’empowerment, che previene la sconfitta. La vita non è considerata dall’immaginario comune, qualcosa di statico, un destino, ma qualcosa su cui far valere la propria scelta: la vita è tecnica. Lascia il dominio del caso e della lotteria naturale per entrare “nella regione della scelta”. La fitness presuppone il valore della vita, rispetto al quale valore, produce una strategia utilitaristica ed economica di conservazione e potenziamento. È questo che è entrato nel senso comune. Chi non vorrebbe più vita, una vita più lunga, più salute, più giovinezza, più desiderio sessuale, una vita migliore per i propri figli? Nel nudo, stupido fatto di vivere, la fitness apre una forbice: secondo una logica che è sia biologica che economicocapitalistica. Tra il fatto e il suo potenziamento, la sua valorizzazione, si inserisce il biopotere: più vita, appunto, più salute, più benessere, più utile, più piacere. I termini economici sono: massimizzazione o ottimizzazione applicate alla vita. La vita è suscettibile di incremento di valore, la apprezziamo. Che significa che ha un prezzo, un costo di produzione, un eventuale convenienza di scambio. Si può comprare: entra di fatto e di diritto nel mercato. Più che nella politica la vita oggi entra nel mercato. E al mercato si è liberi di scegliere. Se la fitness è una tecnica del sé, un complesso di teorie e pratiche tipico del dispositivo, nel quale gli uomini si valutano e agiscono su di sé per

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migliorarsi, il diritto alla vita diventa diritto di scelta sulla vita da parte di individui, gruppi, associazioni che rivendicano la propria domanda e che considerano il corpo uno spazio privilegiato di esercizio della scelta sulla vita, aperto alla progettazione. Diritto di scelta sulla vita dunque: all’interno di un mercato. Quindi una scelta rispetto alla quale – come per tutte le scelte del consumatore sovrano – siamo oggetto dello studio psicologico del marketing, della psico-economia, che studia le nostre fragilità per sollecitare e orientare i nostri desideri. Una scelta? Certamente in nessun periodo come in questi ultimi trent’anni, l’enfasi sulla libertà intesa come scelta è stata il perno del soggetto. Il soggetto è un soggetto libero, che sceglie, non un titolare di diritti e di beni erogati, ma un soggetto imprenditore di se stesso, che sin da giovane deve accumulare benefit e salute: detentore di capitale umano, che non sono solo i soldi, ma la sua vita, la sua intelligenza e creatività, la sua forza fisica, il suo fascino, la sua emotività e capacità relazionale, la sua salute, la sua istruzione e via dicendo. E questo capitale lo deve investire, non dissipare e impoverire, ma ampliarlo, per arricchirlo, per potenziarlo, per esercitare la libertà, appunto ... Scegliere cosa? scegliere come? Non c’è che una cosa da fare – sia che si tratti di potenziare la salute o il portafoglio o i titoli per il curriculum per accedere al mercato e – tra parentesi, se poi è sul corpo che si investe, per rapidamente guadagnarci finché è bello e si vende bene, allora la fitness, la palestra, l’aceto di mele, ci stanno tutti, come ci sta anche l’utilizzatore di turno: in ogni caso, se si vuole scegliere bisogna rivolgersi agli esperti, alla expertise. Ecco il paradosso tipico del dispositivo: il soggetto nelle società liberali non può che essere autonomo e libero, ma, per essere tale, deve essere ‘assoggettato’ a saperi e tecniche esperte, oggi sottratte allo Stato e affidate a nuove autorità sociali – medici, scienziati, consulenti economici, managers – eterogenee e spesso conflittuali. Ad essi mi rivolgo quando il mio imperativo ad auto-realizzarmi si inceppa, non trova la via da solo, non sa come muoversi, mentre dentro mi morde l’ansia di non reggere la competizione, di essere stanco e di avere un corpo che non mi risponde come prima. Dunque, nel cuore del più esaltato autonomismo delle scelte, non viene meno il progetto pastorale, l’eteronomia, legata ad un sapere oggi sempre più tecnico e misterioso che – lui solo – conosce le vie per il nostro empowerment. Sapere tecnico che – a sua volta – è dipendente dall’economia, dagli investimenti e dalla commercializzazione. E siamo di nuovo al mercato, che collega tra loro commercialmente le vite – de-personalizzate, biologizzate, ma ciò nonostante cariche di aspettative e di speranze indotte da una comunicazione divulgativa e di marketing

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– e l’economia: i valori di borsa, le regole del profitto, le scelte di management. Anche qui – come in tutto il capitalismo postfordista – inquietante è l’ambivalenza del potenziamento, empowerment, dei soggetti, e la loro soggezione ad un sistema intrusivo non controllabile di autorità. Nessuno obbliga nessuno: il consenso informato è richiesto per garantire la forma della libertà di scelta. Nessuno è costretto e tutti cooperano, aderiscono alla sperimentazione sul proprio corpo, sulla propria vita, prestandola ai meccanismi biochimici che possano potenziarla. Il bio-potere dell’industria farmaceutica non è controllabile ed è di fatto legittimato dall’universale desiderio di salute. È senso comune credere che si manifesta un atteggiamento responsabile quando si adottano volontariamente pratiche che salvaguardano il bio-valore, il valore vita. Così la scena si affolla di cliniche private per la fertilità, anche se ho sessant’anni, ma anche di comitati bioetici che – al posto mio, (perché la prima delle competenze che si perde è quella etica, delegata a specialisti della morale) – valutano il grado di bene (o di male) che c’è dentro le mie opzioni; si affolla di professionisti con i loro codici deontologici, di lobbies finanziarie che sponsorizzano una tecnica o un farmaco, di associazioni di pazienti a rischio che vengono contattati per sottoporsi a test – nel loro interesse certo – ma anche in vista di futuri investimenti ... Che c’è di male dopo tutto? Come dice il sociologo Nikolas Rose: non si tratta della tanatologia nazista o razzista, alla Agamben; piuttosto di una via secondaria e incolpevole all’eugenetica. Perché non essere comprensivi verso i desideri ovvi, naturali, di vita migliore, di più salute, solo perché si incrociano con i progetti di profitto delle multinazionali farmaceutiche? L’utile e il piacere sono spinte naturali per noi animali umani, o no? Niente di male, dunque: piuttosto una grande danza immobile che si agita al ritmo dell’imperativo comune implicito in un dispositivo che ci governa: fitness. Cos’altro? Cos’altro dovremmo desiderare? Ma è così? Ciò che si vede e ciò che la gente cerca ossessivamente è la fitness, benessere, quello star bene che si iscrive nel registro dell’utile e del piacere (utile e piacere essendo le presunte coordinate della vita animale biologica): cos’altro dovrebbe volere la gente? Ma la scena che si vede – già quando ci chiediamo: cos’altro? Come se fosse ovvio che è tutto lì – rivela che ci sono fantasmi che la contraddicono. Siamo certi che desideriamo la fitness oppure lavoriamo segretamente contro noi stessi, contro il nostro utile e piacere, sconfessandoli e sconfessando in definitiva la vita?

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2. Sapere medicale

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Invenzione della follia Nella costruzione dei dispositivi abbiamo potuto notare più volte il ruolo cruciale che vi svolge il sapere medicale. Foucault d’altronde inizia i suoi studi rintracciando le forme di sapere moderno che hanno per oggetto l’uomo e che lo oggettivano nella prospettiva del suo governo, lo conoscono nella sua verità naturale, lo naturalizzano perché seguendo quel sapere possano orientare la loro condotta. La prospettiva strategica del dispositivo ci è nota: va ricordato che questa finalizzazione dei dispositivi di governo mira alla ottimizzazione delle forze. Dunque ad un atteggiamento di cura e di prevenzione delle degenerazioni e delle malattie che nuocerebbero alla produttività e alla vita dei governati. Da qui la nascita del sapere medicale. Inizialmente orientato alla psichiatria perché vi è più evidente la funzione sociale e selettiva, Foucault, ribaltando la prospettiva che ritiene la malattia mentale come il dato su cui si appunta il sapere psichiatrico, ricostruisce il modo in cui la scienza ha organizzato il suo oggetto, la malattia mentale. In Storia della follia nell’età classica1 rileva come la follia nel rinascimento fosse presente e non segregata, come anzi svolgesse un ruolo critico (il folle di corte, il buffone) e un monito per i potenti sulla fragilità della vita umana. Tragica, onirica, prossima alla animalità, la follia rinascimentale è “una delle forme della ragione”. Il dispositivo di medicalizzazione che matura in età classica (per Foucault la piena modernità) «ridurrà al silenzio»2 la voce del folle. I dispositivi psichiatrici organizzano spazialmente la reclusione e l’esclusione della follia, separando ‘scientificamente’ ragione e sragione. Nasce uno spazio amministrativo «ai margini della legge»3 dove la follia viene internata in una simbiosi che dura nel tempo con i poveri e con i malati ospedalizzati. Abbiamo già visto nel primo capitolo l’organizzazione dello spazio nel dispositivo disciplinare: l’internamento seziona gli spazi, isola, costringe categorie di emarginati avvertite come similmente pericolose per l’ordine sociale, per lo sviluppo borghese della città: i folli dunque, ma anche i libertini, i vagabondi, i delinquenti minori, le prostitute. Accomunano questi ‘governati-emarginati’ le condizioni di povertà, della quale la società sembra volersi far carico «la miseria non è più presa in una dialettica di umiliazione e gloria [...] 1 2 3

M. FOUCAULT, Storia della follia nell’età classica, tr. it. Rizzoli, Milano 1996. Ivi, p. 51. Ivi, p. 55.

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nel mondo della carità statalizzata diventerà compiacenza verso se stessi e colpa verso il buon funzionamento dello Stato. Essa scivola da una esperienza religiosa che la santifica a una concezione morale che la condanna. Al termine di questa evoluzione si incontrano le grandi case di internamento: laicizzazione della carità, indubbiamente, ma oscuramente, anche punizione morale della miseria»4. Vorrei sottolineare come la macchina che deve gestire l’emergenza del problema, che slitta dalla malattia mentale a tutte le forme di vita che non reggono l’insorgente corsa all’arricchimento capitalista, intrecci discorsi di tipo moralistico a intenzioni economiche, a esigenze di ordine pubblico, in un incrocio di codici e di linguaggi molto significativo. E tutto viene supportato dalla diagnosi medica. La malattia mentale diventa il modello dell’approccio scientifico: «l’esperienza morale della sragione che servirà di base alla nostra conoscenza scientifica della malattia mentale»5 […] «la follia è diventata qualcosa da osservare: non più mostro nel fondo di se stessi, ma animale dai meccanismi strani, bestialità in cui l’uomo è abolito»6. Nascita della clinica In Nascita della clinica7 l’attività clinica è la pratica intorno a cui si struttura una serie di istituzioni e di condizioni non discorsive ma tecniche a partire dalle quali è possibile parlare di discorso della medicina. Al suo centro il concetto, sviluppato da Canguilhem di normalità biologica, grazie al quale l’autorità medica assume un ruolo normativo nella gestione delle vite umane. Il corpo del malato coincide con la malattia e il sapere medico conferisce un ruolo cruciale alla anatomia8. Alla spazializzazione del corpo corrisponde la spazializzazione ospedaliera. Emerge una consapevolezza politica della malattia, legata soprattutto all’emergenza di epidemie, che sollecitavano dispositivi di prevenzione e di controllo dei processi epidemici. I dispositivi medici si organizzano attorno a mitologie: «il mito della professione medica nazionalizzata, organizzata sul modello del clero ed investita a livello della salute e del corpo, di poteri simili a quelli che esso esercita sulle anime; il mito di una totale scomparsa della malattia in una 4 5 6 7 8

Ivi, p. 64. Cfr. anche M. FOUCAULT, Malattia mentale e psicologia, tr. it. Cortina, Milano 1997. Ivi, p. 110. Ivi, p. 149. M. FOUCAULT, Nascita della clinica. Archeologia dello sguardo medico, tr. it. Einaudi, Torino 1998. Ivi, p. 15.

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società senza turbamenti senza passioni, restituita alla salute originaria»9. La scienza medica è dunque scienza del benessere, della profilassi, della cura e preservazione dello stato fisico ideale: di conseguenza si estende la medicalizzazione della società, in una forma di controllo cui difficilmente le persone si sottraggono. «La medicina non deve essere più solamente il corpus delle tecniche della guarigione e del sapere che richiedono; essa comprenderà anche una conoscenza sull’uomo in salute, cioè una esperienza dell’uomo non malato e una definizione dell’uomo modello insieme. Essa assume nella gestione dell’esistenza umana postura normativa, che non l’autorizza a distribuire semplicemente consigli di vita saggia, ma l’incarica di reggere i rapporti fisici e morali dell’individuo e della società in cui vive. Essa si situa nella zona marginale, ma per l’uomo moderno sovrana, in cui una certa felicità organica, levigata, senza passione e vigorosa, comunica di diritto con l’ordine della nazione, il vigore del suo esercito, la fecondità del suo popolo e il cammino paziente del suo lavoro»10. Sapere medico e scienza politica comunicano tra loro e sempre di più: il sapere medico fornisce a quello politico la logica e gli strumenti per riformare correttamente il sociale, proprio utilizzando la dicotomia tra normale e patologico, sano e malato. L’occhio clinico Osservazioni cruciali sono dedicate allo sguardo medico: la clinica si regge sulla visibilità del male, sul sintomo. E anche questa modalità dello sguardo rientra nel campo del dispositivo di cura. Il sottotitolo di Nascita della clinica è infatti Archeologia dello sguardo medico. Come gli studi psichiatrici fanno perno sulla ‘sragione’, cioè sulla patologia e la mancanza, così la medicina procede integrando nel sapere la morte, l’anatomia del vivente osservata attraverso il cadavere. Il primo approccio medico muove astraendo dal corpo malato, perché la malattia viene delineata in una tipologia autonoma, e solo raramente nel contesto della spazializzazione ospedaliera. Si verifica poi una svolta nella clinica che è strettamente dipendente dalla modalità governamentale che si vuole applicare. Si istituisce lo spazio ospedaliero che istituzionalizza la malattia e la inserisce in un programma di cura e di prevenzione di tipo politico e rivolto alla popolazione che occorre curare o preservare da rischi epidemiologici. L’internamento ospedaliero diviene obbligatorio, or9 10

Ivi, p. 44. Ivi, pp. 47-48.

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ganizzato in modo quasi poliziesco. Ne deriva una diversa esperienza della malattia che diventa oggetto, nello spazio clinico, di osservazione, per la rilevazione dei sintomi ‘visibili’. Il sintomo dichiara lo status del malato, il quale viene visitato, esplorato, indagato in tutta la superficie corporea. Nel momento stesso in cui inizia lo studio anatomo-patologico, lo sguardo clinico non si limita ad affondare nel profondo, ma assimila la patologia alla vita e rileva la ‘vita patologica’ che segna lo scarto dai processi biochimici della fisiologia e della normalità. Si cercano segni che permettano una tassonomia del vivente.

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3. Biotecnologie e commercializzazione della vita Le potenzialità della medicina, anzi delle biotecnologie: cosa ha accompagnato di più questo nostro tempo?11 Tutto ruota attorno alle fantasie suscitate dalla mappatura del genoma che ha concluso una intensa ricerca biomolecolare, non a caso fortemente voluta e sovvenzionata. Mappare il genoma, sequenziare l’intero Dna umano e dunque poter intervenire su di esso: il fantasma della manipolazione genetica, lo spettro di cloni umani è stato evocato per dare forma all’ansia che questo balzo in avanti ha generato nelle persone; ma contemporaneamente l’euforia di possibilità inedite e inarrestabili di combattere la malattia, l’invecchiamento, il deperimento delle capacità, condizionare positivamente le generazioni future, l’eugenetica ‘positiva’ ... La genomica offre alla tecnologia riproduttiva possibilità nuove come la diagnosi genetica preimpianto, ma fa rabbrividire l’ombra della pecora Dolly, essere senza filiazione, clonata e precocemente vecchia, tanto più quanto si ampliano le profezie circa la possibilità di pianificare in laboratorio la dotazione genetica dei nascituri. Per sedare queste ansie si è levata la protesta degli essenzialisti, quelli che muovono cioè da una definizione della natura umana come fondamento antropologico che sarebbe stato alterato. Essi hanno proceduto a moralizzare la natura umana, ribadendo la sua sacralità che obbliga rispetto a valori stabiliti da agenzie morali quali la Chiesa o l’ethos occidentale12. Battaglia che si estenderebbe anche all’alterazione della ‘vera natura umana’ a causa degli psicofarmaci

11 12

Cfr. J. RIFKIN, Il secolo biotech. Il commercio genetico e l’inizio di una nuova era, tr. it. a cura di L. Lupica, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2003. Cfr. J. HABERMAS, Il futuro della natura umana, tr. it. Einaudi, Torino 2002; L. KASS, Life, Liberty, and the Defense of Dignity: The Challenge for Bioethics, Encounter Books, San Francisco 2002.

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che come le droghe inducono passioni, emozioni, desideri (o li placano) assecondando la scelta dei consumatori di farmaci. Screening genetico, trapianti d’organi, modificazioni genetiche, medicina personalizzata sul genotipo del malato per garantirne l’efficacia e accesso agli psico-farmaci come ai farmaci ormonali, se da una parte demoliscono ogni presupposto antropologico essenzialista, dall’altra aprono la vita alla tecnica per farne un campo di potenziamento e di ottimizzazione. La politica ha installato i suoi discorsi e i suoi interventi su queste questioni, così fortemente conflittuali in termini morali e fortemente influenzate dai grandi investimenti economici, decidendo con notevole arbitrio regole e limitazioni della selezione genetica nella riproduzione umani. Il dibattito comunque che ha offerto argomentazioni al biopotere politico e discorsi di legittimazione ai dispositivi che agivano sulla riproduzione genetica, si è svolto su un livello filosofico-normativo di tipo morale, dunque bioetico. In questo senso si presenta appunto come uno spazio di legittimazione per le tecnologie di governo della vita. È necessario, invece, curvare il discorso in modo biopolitico-critico per evidenziare i vettori di potere che sono impliciti nelle pratiche della farmagenomica e nei dispositivi terapeutici che la utilizzano. L’economia capitalista ha infatti uno stretto rapporto con l’orizzonte scientifico e tecnologico entro cui si muove la biologia13. Il potere biotecnologico organizza i saperi: biologia, botanica, fisiologia, genetica e il loro rapporto con le scienze fisiche come la chimica, la fisica e le scienze della materia attorno a dispositivi tecnologici con la finalità di potenziamento che abbiano però una decisa e conveniente commerciabilità. Quelli biotecnologici sono dispositivi che manipolano elementi cellulari, subcellulari o molecolari negli esseri viventi per costruire prodotti genetici e per aprire prospettive nuove sulle basi genetiche e molecolari della vita alla modificazione di piante, animali e micro-organismi. Biotecnologie decisamente bio-politiche o meglio bio-economiche orientate al governo delle vite14, governo economico attraverso quel coacervo di elementi diversi che è un dispositivo che intreccia in modo flessibile elementi eterogenei: istituzioni politiche, agenzie morali, corpi sociali, autorità economiche, legali, tecniche e i desideri, i giudizi e le pretese di

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Cfr. K.S. RAJAN, Biocapital. The Constitution of Postgenomic Life, Duke University Press, Durham-Londra 2006; N. ROSE, La politica della vita, tr. it. Einaudi, Torino 2008. Cfr. L. BAZZICALUPO, Il governo delle vite. Biopolitica ed economia, Laterza, Roma-Bari 2006; R. ESPOSITO, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004.

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entità formalmente autonome come le imprese, i gruppi di pressione, le famiglie e gli individui. La materia su cui agisce l’apparato biotecnologico è lo stesso materiale genetico umano, misurato e tarato dalla conoscenza della composizione genetica e genomica del vivente. Questo materiale ha un prezzo e un valore commerciale. E su di esso si stipulano brevetti farmaceutici, chimici e agricoli che danno un prezzo ai singoli prodotti artificiali del Dna del vivente, ovviamente non solo umano. Questi apparati o dispositivi possono essere analizzati come forma di razionalità governamentale legittimati dall’immaginario dell’auto-stima, dell’empowerment, dell’auto-imprenditorialità, della fitness15 e sostenuti dalla piega sicuritaria delle società neo-liberali. Sin dal principio che potremmo far risalire alle tecnologie ricombinanti del Dna (RDT) nel 1973, i dispositivi biotecnologici hanno dato spazio al nesso tra le tecnologie genetiche e nuove forme delle strutture legali, amministrative ed economiche della governance. L’industria biotecnologica farmaceutica, le biotecnologie agricole, quelle strettamente genetiche si collegano alle politiche pubbliche nel campo sanitario e medico, poggiando contemporaneamente sull’immaginario del capitale umano e su un mercato globale di investitori interessati alla commercializzazione dei brevetti16. Il termine bioeconomia, del quale si può dare, come vedremo una interpretazione più ampia, si riferisce primariamente al rapporto tra la mappatura del genoma umano e le tecnologie finalizzate al governo della vita dei singoli e delle comunità. La caratteristica di questo nesso sta nella nuova dimensione non più umanistica, percepibile dell’immagine dell’umano che si molecolarizza, sottraendosi così all’impatto emotivo che un aspetto tradizionalmente anatomico offriva. La molecolarizzazione è la via della ri-combinazione attiva. L’autoresponsabilità e l’autogoverno che sono i pilastri ideologici della governamentalità neoliberale attivano la percezione del rischio e della necessità di pratiche sicuritarie e assicurative sulla propria salute e sulla progenie, che le autorità sanitarie sollecitano. La vita, il patrimonio genetico sono il capitale di ciascuno e il corredo genetico è al centro dell’interesse degli investitori come degli individui che hanno cura di sé: le pratiche di miglioramento si trovano all’incrocio tra queste due esigenze. 15 16

Cfr. B. CRUIKSHANK, Revolution within: self-government and self-esteem, in “Economy and Society”, 3, 1993, pp. 327-344. La Corte Suprema degli Stati Uniti concede la possibilità di investire nell’industria biotecnologica, e in questo senso si indirizzano le risorse pubbliche, dapprima destinate alla ricerca oncologica.

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Le multinazionali farmaceutiche – Big Pharma – operano in questo spazio sollecitando la ricerca e orientandola dove si prevedono profitti maggiori e maggiore commerciabilità. Premono sui governi per la prevenzione e assicurazione ma anche per la produzione (il lavoro sugli stock genetici di una popolazione permette di studiare l’efficacia di un farmaco, consolidare la produttività di un genotipo) e la ri-produzione (farmaco-genomiche, i trapianti, la fecondazione). Da una tradizionale biopolitica della salute basata sul tasso di natalità (decesso; malattie/epidemie; analisi della costituzione biologica di una popolazione) a quelle che Rose chiama, le politiche della vita. In esse il potere decisionale in una situazione di multilevel governance, è delegato alle commissioni bio-etiche o direttamente alle cliniche private che operano sulla fertilità, alle multinazionali farmacologiche che vendono prodotti ‘umani’ come test genetici o materiale genetico; le associazioni mediche valutate e certificate. L’istituzione Stato, ormai governamentalizzato, governa a distanza e coordina questi poteri sociali relativi alla vita umana. Vita che si dispiega al di là della personalizzazione e individualizzazione, come un flusso illimitato di elementi molecolari che possono essere capitalizzati dalla farmagenomica. Si modifica l’idea per cui il governo agisce mediante dispositivi per normalizzare e correggere la vita della popolazione. Politica e economia coproducono bio-scienze e bio-economia. Nikolas Rose parla di vita postgenomica che è un flusso composto da dati organici, codici informativi, linguaggi calcolabili statisticamente e valutabili economicamente. E Rajan introduce il concetto di ‘bio-valore’, intendendo la potenza in atto espressa dalla vita17, potenza virtuale che si attualizza per esempio nella produzione lavorativa ma la eccede ed è un valore prodotto di una cooperazione tra bioscienza e bioeconomia, tra corpo e saperi che si accumula costantemente nel momento in cui viene prodotto ed è illimitato, in qualche modo sfuggendo alla valorizzazione capitalista e alla commercializzazione. 4. La cura: diseguaglianza oblativa Lo strumento del dispositivo ci aiuta a pensare il pastorato – al cui modello Foucault fa risalire le tecniche e i dispositvi della moderna governamentalità delle vite – nella prospettiva evocata da Foucault stesso, dell’oblatività. Di pastorato si parla assai diffusamente negli studi foucaultiani, 17

Cfr. K.S. RAJAN, Biocapital, cit., pp. 182 ss.

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soprattutto dopo la pubblicazione dei corsi Sécurité, Territoire, Population e Naissance de la biopolitique. Il carattere interessante della modalità pastorale è quello di una oblatività, altruismo, sacrificalità della gestione delle vite, che genera una grande potenza obbligazionaria. Si rivela cioè nei dispositivi pastorali – dispositivi di cura e di assistenza – una diseguagglianza e un potere di assoggettamento, anche se si generano o possono generarsi effetti di empowerment. Che significa diseguaglianza oblativa, relazione di cura, assistenza, servizio? È una relazione tra posizioni dissimmetriche in cui chi è in posizione di poterlo fare esercita una prassi di aiuto a vantaggio dello svantaggiato. Il discorso che regge l’oblatività è un regime di verità – religioso, scientifico, tecnico – dal quale chi eroga assistenza ricava autorevolezza. L’aiuto è offerto senza scambio, senza utile apparente. La mancanza, la deficienza di colui che riceve viene colmata. Si tratta di una relazione di potere che si esercita in duplice modo: seleziona quanti saranno avvantaggiati rispetto a quanti saranno lasciati nelle condizioni di disagio e esercita, su quanti sono assunti sotto tutela, un’opera performativa attraverso la gestione dei loro bisogni. Questo rapporto di diseguaglianza oblativa è interessante e problematico per quattro motivi: 1) perché mette in crisi il lessico politico liberale moderno, 2) perché l’esercizio di potere oblativo a vantaggio del governato caratterizza il biopotere moderno, 3) perché ci rimanda al nodo soggettivazione/assoggettamento e ne evidenzia le contraddizioni, 4) perché la diseguaglianza oblativa si ripresenta oggi, quando declina l’assistenza welfarista con tratti nuovi. Nella relazione asimmetrica tra noi – che siamo stati bambini, che abbiamo avuto fame senza poterci procurare cibo, che abbiamo avuto bisogno di un tetto, che siamo stati malati, angosciati, confusi e che probabilmente lo saremo di nuovo, noi, che abbiamo perso il lavoro, e che saremo vecchi, dunque, tra noi viventi e qualcuno che ci aiuterà, ci curerà, per amore, scrupolo, interesse, volontà di potenza – tra noi e questo qualcuno – passa una corrente di potere. Un flusso di potere che nel soccorrerci ci manipola, ci orienta, ci individua in una soggettivazione che assumeremo in una con il cibo, la medicina, il calore, l’affetto. I foucaultiani conoscono questo flusso di potere. Cerchiamo ora di tenerne presente sia la sua strutturale necessità per la nostra sopravvivenza, sia il carattere affettivo con cui si veicola il nostro processo di soggettivazione, l’emotività di cui si carica; emotività assai ambigua che, da parte di chi dà, è facilmente sommersa dalla retorica

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del dono, della solidarietà, ma da parte di chi riceve è difficile da accettare, portata com’è da un’onda di indebolimanto della propria soggettività. C’è un dono che copre un conflitto sordo, un potere che si rivela indispensabile alla sopravvivenza e al nostro stesso costituirsi come soggetti, e che, prima o poi, tocca tutti noi: questo tema mi sembra adatto a costringerci a riflettere su qualunque ontologia disconosca la dipendenza e la relazionalità La teoria politica dovrebbe rendere leggibile l’esperienza della coesistenza e dunque anche la diffusa esperienza della dipendenza oblativa che emerge dalla debolezza e dalla diseguaglianza di condizioni. Ma il lessico giuridico-politico moderno liberale non rende leggibile il fenomeno. Il tema del bisogno di cura è relegato nell’ambito del privato e del caritatevole, e poi nell’ambito della sicurezza e ordine pubblico. Il discorso liberale, che ha orrore del debito, non riesce a pensarlo perché un discorso di diritti individuali e di autonomie che nasce proprio sulle ceneri della dipendenza e del debito. Nei concetti giuridici si sente la difficoltà ad accettare aiuto e la diffidenza verso il servaggio della gratitudine: è gravoso e violento pagare per saldare il peso del debito! L’ideologia liberale, che nel saldo del debito vede l’equilibrio del sistema ricalcato sul modello del sistema-mercato, si vede messa in mora dalle imbarazzanti esperienze di fasi della vita sempre più lunghe di dipendenza e eteronomia e, dall’esterno, è assediata dalla marea degli esclusi, dei poveri – come oggi si torna a dire con termine un po’ arcaico – che preme alle porte del benessere, testimoniando un debito che non si salda: uno scandalo per la coscienza universalistica e giuridica. Il diritto liberale si muove a fatica tra tutorato e minorità meritevole di tutela, mission e figure di reciprocità, sottooccupazione, compensazione, redistribuzione, generici diritti umani e natura essenzialmente egoista. E questi non sono strumenti adeguati per pensare una logica complessa che esorbita dallo schema riduttivo del soggetto autonomo, adulto consenziente, capace di scelte razionali con cui mercato e spazio pubblico si autorappresentano e che non si chiede come si sia diventati autonomi e per quanto tempo si possa esserlo. L’attività di cura dunque – materia e modalità della prassi oblativa – è una spina nel fianco delle teorie liberali. Si immagina accanto alla teoria dell’autonomia, un’altra morale, un’altra giustizia: una voce di donna, come recita il titolo del libro di Carol Gilligan, che si sottrae alla giustizia ugualitaria, astratta e neutrale in direzione del coinvolgimento personale e dell’etica della cura18. La giustapposizione di due morali, o anche la 18

C. GILLIGAN, Con voce di donna. Etica e formazione della personalità, tr. it. Feltrinelli, Milano 1984.

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moltiplicazione dei paradigmi, come fa Caillé, che accanto all’economicismo avanza il modello del dono19, o Laville, che affianca all’economia di mercato un’area di imprese solidali20, non risolve la sterilizzazione del tema del coinvolgimento oblativo. Queste teorie finiscono tutte col ribadire la rappresentazione razionale e utilitaristica del sistema-mercato – privandola, peraltro, di tutta la complessità psico-sociale che la innerva e che a mio avviso, la rende non così estranea come si pretende alle dinamiche della dipendenza oblativa – e relegando la cura in un’area semi-utopica. Con Foucault, invece la cura è un dis-positivo. Evidenzia cioè il carattere positivo del potere, nel senso letterale del porre e del produrre effetti di verità e soggettivazioni. «Un potere destinato – lo abbiamo visto – a produrre delle forze, a farle crescere e a ordinarle piuttosto che a bloccarle e a distruggerle»21. Un simile dispositivo produce miglioramenti, implica discorsi, responsabilità, spazi terapeutici, confessioni, flussi selettivi di scelta, regimi di verità circa il bene del beneficato e, soprattutto, soggettivazioni che stabiliscono lo status di diseguale, debole, malato, deviante, peccatore. Ma non si limitano a questa individuazione dello stato di debolezza: il dispositivo è tale perché la forma di potere cui si è assoggettati, costituisce il nostro stesso essere soggetti e il rapporto che l’uomo intrattiene con se stesso. Il potere determina le condizioni della nostra esistenza, perde la sua natura di esteriorità e acquisisce la dimensione vitale capace di strutturare i nostri tratti più identitari. I soggetti deboli (trasgressivi o semplicemente carenti rispetto a quello che il regime di verità considera il loro bene, la loro entelechia, la loro natura) sono effetto, prodotto delle stesse tecniche di cura e le stesse condotte di resistenza al disciplinamento, quelle contro-condotte che testimoniano la riottosità al progetto che vuole colmare il deficit, sono generate dal processo di soggettivazione messo in atto dal potere governamentale. C’è un’affinità profonda tra oblatività e governo. Economia governamentale è la prassi di governo – che funziona solo attraverso pratiche di soggettivazione – in vista di uno scopo esterno a chi governa e interno, conveniente, adempiente per ciascuno dei soggetti governati, secondo una intima verità circa le proprie carenze22. Lo spostamento, proprio di questo tipo di potere, in direzione del beneficato è la sua oblatività e risale 19 20 21 22

A. CAILLÉ, Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1998. J.L. LAVILLE, L’economia solidale, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1998. M. FOUCAULT, La volontà di sapere, cit., p. 120. M. FOUCAULT, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., in particolare pp. 74-81.

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al progetto pastorale di salvezza. Un potere che modifica il suo oggetto governandone la formazione e lo sviluppo, all’interno di un progetto che ne adempia il destino di salute materiale e spirituale. Gli agenti multipli che Foucault elenca come gestori di pratiche di governo sono figure oblative: il padre di famiglia, il superiore di convento, il pedagogo, il maestro. Governare significa anche «sostentare», fornire «le cure [...] in un’attività prescrittiva incessante, premurosa, sollecita, sempre benevola»23. Nella connessione propria del diritto canonico, di potestas et benevolentia, «il potere pastorale è fondamentalmente un potere che fa bene»24. Un potere che cura. Un potere oblativo e transitivo che è al servizio dei governati, uno per uno: il che implica tecniche personalizzate, molteplicità di iter gestionali, un incessante lavoro di scavo nelle biografie, nelle psicologie, nei corpi. Un governo della pluralità che però – ed è questo l’elemento paradossale della centralità del corpo oggetto di cura – quanto più è individualizzata la terapia, tanto più affonda nella genericità del biologico e diventa popolazione statistica25: perché? Nella Volontà di sapere, emerge che il potere dà forma alla traiettoria del desiderio. Dunque l’analisi dei dispositivi oblativi deve indagare il tipo di desiderio che viene, attraverso un gioco perverso di divieti, sollecitato, costituendo il soggetto stesso. Il dispositivo privilegia il desiderio orientato alla genericità degli istinti e dei bisogni che sia possibile governare e tornare a governare mantenendo uno stato di dipendenza e dunque lo squilibrio di potere. Se il potere oblativo gestisce corpi, la soggettivazione farà perno sulla genericità naturale e necessaria dei bisogni. Non è un caso, quindi, che una teoria dei bisogni diventerà centrale via via che l’oblatività passa dal pastorato alla socializzazione della politica e allo Stato sociale. C’è un potente che agisce per dovere, con sacrificio di sé26, con zelo e sollecitudine: anche questo tratto ci interessa. Oltre alla finalità benefica, il dispositivo oblativo esige una dipendenza integrale, un’obbedienza che paradossalmente nega la soggettivazione che va costruendo pretendendo che sia passiva, anche se un processo di soggettivazione adulto non può essere passivo. L’obbedienza e l’umiltà non solo di chi è governato ma di chi ha il potere di governo, sono considerati il pedaggio per poter governare gli altri in modo desoggettivato, non per sé e in nome di se stessi, ma in nome degli altri ai quali ci si sacrifica. Il ribaltamento della soggettività sovrana, la 23 24 25 26

IVI, p. 96. M. FOUCAULT, Sessualità e potere, cit., p. 122. R. SCHURMANN, Costruire se stesso come soggetto anarchico, in F. RICCIO, S. VACCARO (a cura di), “Soggetto” a variazione, BFS edizioni, Pisa 2000, pp. 67-87. M. FOUCAULT, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 103.

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paradossale impersonalità di questo processo di distruzione dell’orgoglio di sé mira ad una doppia servitù: a quella del governato, infatti, corrisponde il servizio del governante. E questa doppia servilità è paradossale perché nietzscheanamente morale e altruismo sono forme di volontà di potenza. C’è contrasto tra un obiettivo di controllo e di volontà di potenza, e un doppio potere che svuota e nega la soggettività sia del debole che del potente. Sono necessarie dunque delle precisazioni. Innanzitutto il momento di de-soggettivazione che svuota il soggetto da identificazioni false o fuorvianti rispetto alla verità del suo bene e della sua salvezza appare come un importante tassello del processo di soggettivazione indotto dalla cura. In secondo luogo, perché la cura possa essere efficace e il potere effettivo, lo svuotamento deve investire il pastore stesso, il potente dunque27. I vuoti simmetrici del soggetto che governa e di quello governato scavano le singolarità al solo scopo di renderle recettive verso il pieno di identità, di beni del discorso di verità. Il pastorato, la relazione diseguale e oblativa, è un momento decisivo e persistente della storia del biopotere occidentale, anche quando sarà totalmente secolarizzata la salvezza. Nella moderna socializzazione della politica, il governo ha infatti il dovere di essere servizio. La sua autorevolezza deriva proprio dal prendersi cura dei governati deboli per incrementarne il benessere. L’economicizzazione della politica comporta non solo che il governo assistenzialista del welfare sia una ri-proposta secolarizzata – in contraddizione con l’impianto giuridico, imperniato sui diritti sociali – della gestione oblativa del pastorato. Ma anche la crisi del welfare trasferisce su un mix di imprese sociali non profit e di opere di carità, l’assetto e le modalità di potere oblativo, senza mutarne la logica biopolitica. Ma anche l’attuale governamentalità bioeconomica, management delle vite di quanti lavorano e consumano, mantiene tratti di personalizzazione, saturazione dei bisogni, tipici del pastorato, in una appiccicosa atmosfera di cura personalizzata del cliente. Contrariamente all’ideologia della scienza economica imperniata sull’autonomia e la scelta razionale, la prassi rivela una gestione dei flussi di desiderio tramite soggetti costruiti in modo tale che non possano non tradurre nel linguaggio del mercato i propri desideri esistenziali. Il corporeo, i bisogni, i desideri non sono che una serie di processi, in sé opachi, penetrabili solo a condizione che le linee di gestione siano appropriate. Ecco la persistenza del quadro pastorale biopolitico, nello Stato 27

Cfr. M. FOUCAULT, Il combattimento per la castità, in Archivio Foucault 3, 19781985, tr. it. Feltrinelli, Milano 1998, pp. 172-184.

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welfarista e ancora oggi, nella babele degli scambi che l’econometria pretende di rappresentare con elegante rigore. Il governo delle vite deve essere tale da cogliere la norma interna, di ciascuno. Ma questa norma internalizzata è un sapere oggettivante: costruisce la genericità nei corpi singoli, stabilizza la omologazione dei bisogni che esistono nella misura in cui sono costruite, da un governo statale ma oggi più spesso sociale, le regolarità comportamentali, indirizzando, curando, selezionando. La modalità oblativa infatti mira all’effetto della saturazione dei bisogni, non all’ascolto della domanda. Nel caso del welfare, i problemi di una gestione dei bisogni, emergono dalla logica stessa della sua opera oblativa: il modus della solidarietà e dell’aiuto si banalizza, perdendo il momento politico di riconoscimento intersoggettivo che è possibile quando sono i soggetti stessi che usufruiscono dell’aiuto a formulare domande e proporre soluzioni autogestite. Crescono gli apparati burocratici che definiscono i bisogni e il consumo di beni e servizi in un regime di sapere esperto che esclude la discussione. Si erogano cose, oggetti, (farmaci, case, testi scolastici), secondo stereotipi quantificabili: e questo significa che le identità costruite dal potere oblativo sono riduttive, inchiodano gli individui in categorie rigide e li mantengono in una condizione di dipendenza non superabile. Non ha spazio, Voice, tutto quanto si riferisce alla singolarità eterogenea, che cerca disperatamente riconoscimento e che eccede le categorie generiche della vita – la sicurezza, la vecchiaia, la malattia, la riproduzione – che il welfare codifica per pianificarne la cura. Emerge il carattere deprivato di soggettivazioni costruite all’interno di un regime curativo-disciplinare che non ascolta la domanda differenziante, ma sollecita identificazioni che possano prevedersi e essere gestite. 5. Servizio: il dispositivo dell’impresa sociale La complessa struttura dell’impresa sociale è pluridimensionale. Qui ci interrogheremo sul senso e sui limiti politici e sulle contraddizioni di quello che può essere considerato un dispositivo di cura. La stessa dimensione politica dell’impresa sociale è articolata e complessa. Se assumiamo la definizione di impresa sociale proposta nel documento Social Enterprise: Strategy for Success, del 2002 dal governo britannico: «Un’impresa sociale è un’attività economica (business) avente, in modo preponderante, obiettivi sociali e tale che i surplus siano prevalentemente reinvestiti nell’attività o nella comunità, piuttosto che essere

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orientati dalla massimizzazione dei profitti di azionisti o proprietari»28 è evidente il rilievo che essa assume in relazione al governo dei bisogni che si struttura attorno al patto di solidarietà sociale del welfare che oggi, nella sua crisi, deve essere ri-negoziato. L’impresa sociale si presenta politicamente come un dispositivo di supporto o di compensazione di fronte alla sempre più marcata riduzione del ruolo dello Stato sociale: sostenuto sia dalla retorica neoliberale della mano invisibile che dalla retorica di una società civile generosa e comunitaria. Entrambi questi discorsi comunque, sostengono la potente spinta alla deregulation e al disimpegno dello Stato. Come si vede dall’emersione del terzo settore e della welfare society nei primi anni novanta. Il consolidarsi delle sperimentazioni, gli esiti spesso imprevisti e l’approfondimento critico spostano l’interrogativo sulla natura del dispositivo-agency29. Le imprese sociali evidenziano una linea della trasformazione in atto nel mondo economico particolarmente adeguata alla natura dei dispositivi: la prevalenza dei servizi sulla produzione materiale di beni. Il concetto di servizio è problematico se si pensa alle categorie politiche liberali classiche, quali libertà, autonomia, uguaglianza, dal momento che rimanda ad una diseguaglianza oblativa e a soggetti deboli, aiutati, promossi, incentivati da soggetti più forti e più competenti: una diseguaglianza oblativa che viene assunta all’interno di un modello, quello liberale, formalmente ugualitario e fondamentalmente utilitaristico. Naturalmente la piega dell’economia in direzione dei servizi potrebbe essere intesa all’interno degli scambi economici di puro mercato, “a saldo”, dove il servizio, non meno di un qualsiasi bene può essere prodotto, comprato e scambiato. Eppure il filosofo politico non può non sottolineare il peso che il termine servizio porta con sé per i rapporti personali, per l’affinità al concetto di cura che da sempre rientrava nell’alveo della vita privata/familiare, sottratta alla reciprocità e simmetria dell’azione pubblica. Di per sé questa piega verso il servizio collega il terzo settore (ma significativamente, anche l’intero sistema economico) alla grande tendenza della politica contemporanea verso la biopolitica. Si tratta cioè della ripresa di una funzione di governo, di presa in carico – da parte del potere poli28 29

DTI, 2002, Social Enterprise. A Strategy for Success, Department of Trade and Industry, London, www.dti.gov.uk/socialenterprise/strategy.htm, p. 13. Sotto questo profilo si veda almeno i recenti R.D. PUTNAM, Capitale sociale e individualismo. Crisi e rinascita della cultura civica in America, tr. it. Il Mulino, Bologna 2004; P. DONATI, I. COLOZZI, La cultura civile in Italia: tra Stato, mercato e privato sociale, Il Mulino, Bologna 2002; M. MAGATTI, Il potere istituente della società civile, Laterza, Roma-Bari 2005.

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tico come da parte dei poteri economici – delle vite delle persone col fine, indiscusso, del benessere, dall’incremento di ricchezza, dalla protezione sicuritaria della vita: fine perseguibile attraverso dispositivi di governo e di servizio. Tutto il percorso del Novecento, tra le due polarità degli Stati totalitari e dello Stato sociale postbellico, era già segnato da questo potente, anche se non sempre esplicito, riferimento al ruolo biopolitico di protezione, cura, incentivazione della vita (vita come bios) e dalla naturalizzazione e biologizzazione degli obiettivi politici. Riferimento alla vita che piega così gli obiettivi politici alla logica economica della soddisfazione dei bisogni. Nonostante infatti, la teoria moderna abbia come perno un soggetto giuridico-politico (ma anche economico) autonomo e responsabile di sé, delle proprie scelte di vita privata, di rappresentanza, nella realtà la modernità ha visto l’affermazione sempre più consapevole della dipendenza sia sociale, culturale, economica che psicobiologica di ciascun singolo e di gruppi. Si indebolisce il discorso giuridico che fa perno sulla coppia sovranità-soggetto e cresce un sistema di tecniche di dispositivi di carattere strategico ed economico volti a rendere efficace il potere politico stesso. Si tratta di discipline, di orientamenti e condizionamenti delle condotte il cui modello primo è stato il potere pastorale, che, curando e potenziando attraverso l’addestramento e l’istruzione in modo funzionale i corpi e i comportamenti, agevolandone e migliorandone la salute, l’igiene, hanno costituito l’altra faccia, indispensabile, di quel complesso di valori, idee e diritti che denominiamo liberalismo. L’uguaglianza universale e formale, la reciprocità dei diritti, la libertà di iniziativa garantita dalla legge poggiano sul disciplinamento gestito e organizzato dall’amministrazione pubblica, e dunque dipendono da quegli aggiustamenti concreti. «Essi devono essere considerati come delle tecniche che permettono di adeguare tra loro la molteplicità degli uomini e la moltiplicazione degli apparati di produzione (e con ciò bisogna intendere non solo la “produzione” propriamente detta, ma la produzione di sapere e di attitudini nella scuola, la produzione di salute negli ospedali…)»30. La coppia diritti-discipline non viene pensata in modo antinomico, ma piuttosto complementare sul piano della concretezza, per quanto abbiano logiche assolutamente diverse. «Bisogna piuttosto vedere nelle discipline una sorta di controdiritto: esse hanno il ruolo preciso di introdurre dissimmetrie insormontabili e di escludere la reciprocità. Prima di tutto perché la disciplina crea tra gli individui un legame privato, che è un rapporto di costrizione interamente differente dall’obbligazione contrattuale; l’accettazione di una disciplina può ben essere sottoscritta contrattual30

M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire, cit., p. 239.

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mente, ma la maniera in cui viene imposta, i meccanismi che fa giocare, la subordinazione non reversibile degli uni in rapporto agli altri, il più di potere che è sempre fisso dalla stessa parte, l’ineguaglianza delle posizioni dei diversi partners in rapporto al regolamento comune, oppongono il legame disciplinare al legame contrattuale e permettono di falsare sistematicamente quest’ultimo [… ] in più mentre i sistemi giuridici qualificano i soggetti di diritto secondo norme universali, le discipline caratterizzano, classificano, specializzano, distribuiscono lungo una scala, ripartiscono attorno ad una norma, gerarchizzano gli individui gli uni in rapporto agli altri, e, a limite, squalificano e invalidano»31. La democratizzazione della sovranità e lo spostamento del suo fondamento sul consenso sociale sono passati proprio attraverso questi meccanismi: il potere non viene subìto “come una potenza che dice no”, ma come ciò che attraversando i corpi, «produce delle cose, induce del piacere, forma del sapere, produce discorsi». Diventa cioè, «una rete produttiva che passa attraverso tutto il corpo sociale, molto più che come una istanza negativa che avrebbe per funzione di reprimere»32. Dunque la politica moderna e tardo moderna ha governato le differenze omologandole in termini di popolazioni, in direzione dell’incrementazione, del benessere, della tutela e incentivazione della vita che potesse costituire tanto il perno sistemico delle differenze stesse che la leva per il potenziamento del sistema e del controllo sociale. La biopolitica, emersa sul modello del potere pastorale e disciplinare si connota come relazione governamentale diseguale e gerarchica, garantita da competenza e finalizzata al bene del governato: in una parola servizio, a dispetto dell’universale affermazione di uguaglianza e libertà, autonomia e parità-delledifferenze. A dispetto ma in modo complementare, poiché la garanzia della libertà ha il suo rovescio e la sua condizione nella introiezione dei modelli disciplinari e delle dissimmetrie accettate in nome del vantaggio della cura. I grandi campi d’intervento del biopotere sono la gestione amministrativa e statistica e la politica di incremento e di regolazione di natalità, morbilità, abilità e ambiente: dunque di tutto quanto attiene alla vita e alle imprese sociali. Di qui l’assurgere della vita, della salute, del benessere materiale e morale di ciascuno e di tutti, omnes et singulatim, a riferimento centrale delle pratiche di potere della politica in genere, delle imprese sociali in particolare. Sono forme di governo degli uomini, che, mettendone in gioco la vita, ne determinano i comportamenti tanto come attori quanto come destinatari: ne plasmano l’esistenza nel lavoro, l’intera personalità, 31 32

Ivi, p. 242. M. FOUCAULT, Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977, p. 13.

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l’affettività e l’etica, la percezione del Sé. Il paradigma pastorale del biopotere ci permette di decifrare la razionalità politica del terzo settore: cura, mission di salvezza del singolo e dell’insieme. Dobbiamo ora sottolineare il discrimine tra imprese che replicano, in forme nuove e con attori privati, la dinamica gerarchica, assistenziale ed etronoma, che è tipica dei dispositivi biopolitici ripetendo la sostanziale diseguaglianza che ha reso un certo tipo di welfare incapacitante, e imprese che sperimentano la possibilità, sempre enunciata negli intenti ma assai raramente perseguita, di promuovere responsabilità e partecipazione sociale e politica, magari accettando logica e regole del mercato. C’è la necessità di approfondire le dinamiche dell’azione imprenditoriale sociale per individuare concettualmente e non solo empiricamente i nodi che determinano i fallimenti o i (più rari) esiti positivi. Questo comporta l’approfondimento dei processi di soggettivazione. Infatti il nodo della questione, che inclina in un verso o nell’altro la dimensione politica dell’impresa sociale, sta nella presa d’atto del carattere processuale e non presupposto del soggetto autonomo. La dinamica di condizionamento, disciplinamento, assoggettamento del soggetto spinge a riflettere sul processo del ‘divenire soggetti autonomi’ e su ciò che la ostacola o la agevola, per poi individuare lo spazio per possibili processi di capacitazione e di empowerment. Sulla qualità dei processi di soggettivazione e non sulla efficienza della saturazione di bisogni indotti e standardizzati si misura la dimensione di dispositivo eteronomo o di politica attiva dell’impresa sociale. Se osserviamo da una parte l’azione, l’intrapresa, e le sue motivazioni, dall’altra, i ruoli e la partecipazione dei destinatari emergono obiettivi non sempre espliciti nella relazione di servizio. Fortunatamente mi sembra che si intravveda la crisi, anche tra gli scienziati dell’economia, dei modelli econometrici e la rivalutazione delle riflessioni degli economisti più avveduti sulla complessità dei meccanismi di motivazione e di scelta e sulla loro interdipendenza e relazionalità psicologica. Ed è importante se si vuol parlare del dispositivo delle imprese sociali che, pur all’interno dell’obiettivo di servizio sociale e dunque di relazionalità da promuovere e da tutelare, si mantengano all’interno del sistema mercato. La assoluta prevalenza del linguaggio economico su tutti gli altri codici di accesso al sistema sociale va a sua volta decodificata per cogliere le passioni, i bisogni, le potenzialità esistenziali che, si traducono nel linguaggio del mercato. Probabilmente individueremmo nella relazionalità l’obiettivo dell’economia tutta, certo dell’impresa sociale.

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Dispositivi vs politicità Come si individua la politicità dell’azione? Nell’apogeo del welfare state, il carattere pubblico dell’azione sociale era garantito dalla coincidenza del pubblico con lo Stato e rimandava dunque al patto di cittadinanza e di solidarietà. Si realizza pienamente, nel periodo d’oro dello Stato sociale, la complementarietà della logica giuridica dei diritti, liberale, e la logica biopolitica della gestione delle diseguaglianze che rende effettiva la governamentalità liberale. L’istituzione Stato costituiva la cornice del criterio di politicità che teneva uniti i tratti dell’azione sociale: aveva come obiettivo beni comuni di rilevanza collettiva (scuola, sanità, previdenza non si riferivano al singolo bisognoso ma valevano pubblicamente come diritti della società alla sua riproduzione) ed era frutto di discussioni pubbliche e di conflitto politico la scelta di questi beni comuni. Coloro che usufruivano di servizi erano “cittadini”, non dunque designati dallo stigma del bisogno, ma caratterizzati da diritti, per natura universalistici: d’altra parte ciò che veniva fornito era funzionale alla crescita armonica del sistema produttivo e all’ordine sociale33. A questa rappresentazione del patto sociale ha corrisposto a lungo un modo di concepire la cosiddetta etica dell’economia in termini redistributivi di giustizia sociale. Si pensi a Rawls. La politicità e pubblicità dell’azione sociale era garantita dalla natura pubblica dei beni, dalla contrattazione sulle regole e dalla parziale sconnessione della domanda da una teoria dei bisogni in direzione di una teoria dei diritti. Veniva oscurata dunque la concretezza di soggetti dipendenti, bisognosi di cura, diseguali nelle concrete possibilità di formulare i propri progetti di vita: o meglio si presupponeva, nella ipotesi di un’accettazione delle regole da parte di tutti i consociati all’oscuro della loro posizione bio-sociale, che le scelte di vita fossero interne alla conservazione e al potenziamento del modello sociale ed economico liberale stesso. La definizione rawlsiana di società, d’altra parte, fa perno su regole di cooperazione in vista di un mutuo vantaggio e quindi su un presupposto di identità di interessi che possono sì confliggere ma che sono regolabili perché commensurabili e quindi rendono possibile «una ripartizione adeguata dei benefici e degli obblighi della cooperazione sociale»34. Già le osservazioni di Sen, solo parzialmente riconducibili al quadro rawlsiano, mettevano in crisi una concezione troppo formale dell’uguaglianza e delle soggettività. L’eterogeneità delle persone 33 34

Un riferimento chiave per lo stato sociale è F. EWALD, Histoire de l’Etat providence, Grasset, Paris 1996. J. RAWLS, Una teoria della giustizia, tr. it. Feltrinelli, Milano 1982, p. 22.

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e degli ambienti – eterogeneità che per Sen si manifesta attraverso differenze di età, di sesso, bisogni fisiologici, vulnerabilità, malattie, qualità di livello della vita etc. – impedisce di considerare che una eguale ripartizione di beni primari si traduca meccanicamente in un eguale livello di libertà. Così l’analisi slitta dai beni primari e dalle risorse, di cui gli individui dispongono, alle vite reali che gli individui possono scegliere di vivere, vite che «chiamano in causa la capacità di svolgere funzioni svariate»35. L’approccio al tema della diseguaglianza nella prospettiva delle capabilities, enunciata da Sen implica una importante conversione del quadro concettuale in direzione di una libertà positiva, che foucaultianamente si può trascrivere nel registro dei poteri e dispositivi: esercizi di potere diversi, dissimmetrici ma comunque produttivi. Quello che comunque in questo quadro teorico di giustizia distributiva resta carente è l’eterogeneità e la difficile compatibilità di un discorso giuridico che fa perno su autonomia e uguaglianza – discorso non rinunciabile rispetto al quale la dimensione politica può essere magari rivendicata in una più concreta dose di partecipazione diretta alla discussione sulla natura dei beni e sulla soluzione dei problemi – e una realtà di fragilità e di debolezze che richiedono pratiche di cura e di sostegno, differenziate, personalizzate e procedure duttili e coinvolgenti: pratiche di cura e di sostegno che, svolgendosi in posizioni di necessaria dissimmetria, tendono a perpetuarle smentendo le enunciazioni di uguaglianza di potere se non di diritto. L’intero blocco di categorie liberali, facendo perno sull’autonomia e la libera scelta, trova difficoltà a pensare la dinamica di erogazione di servizi e di cura in direzione di soggetti temporaneamente o definitivamente diseguali o deboli. Eppure questa prassi di servizio si evidenzia, nella tarda modernità, come il tratto preponderante della politica e dell’economia, inclinata a occuparsi di gestire desideri, bisogni, organizzazione del tempo, del piacere, della salute, della vita tout court. D’altra parte, è stato detto ormai infinite volte, che la fenomenologia e la storia dello Stato sociale ha ampiamente disatteso quella concettualizzazione liberale rawlsiana, imperniata su soggetti e diritti, rendendo passivi i destinatari dei servizi sociali e standardizzando le domande e i beni. Ha realizzato i diritti in modo paternalistico, pastorale, chiudendo gli spazi di dibattito e di conflittualità sulle domande e sulle risposte, favorendo quindi una piega privatistica della gestione. Diritti formali liberali e liberogeni e gestione effettiva delle diseguaglianze in modo biopolitico, pastorale, sono due facce della stessa medaglia, della piega biopolitica del governo delle vite. 35

A. SEN, Etica ed economia, tr. it. Laterza, Roma-Bari 2002, p. 76.

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Nella crisi dell’impegno pubblico, la separazione tra politico e statuale è, però, una delle conseguenze teoricamente più interessanti. La politicità (e dunque anche lo spazio pubblico) diviene propria di attori non statuali che concorrono a decidere su beni comuni e ne discutono pur non avendo crismi statuali e deleghe democraticamente conferite o mediate da organi politici come i partiti. Contemporaneamente la prevalenza del regime di verità di mercato orienta l’attività delle istituzioni, che continuano ad erogare gran parte dei servizi sociali, a sottoporsi ai criteri di economicità ed efficienza che sono stati a lungo propri del mercato e dell’impresa privata e di profitto, anche se si tratta di gestire, come sappiamo, beni di rilevanza pubblica e collettiva, quali la scuola, la sanità, la previdenza. Questo duplice movimento costituisce un vero terremoto nella classica separazione (ma anche connivenza) tra privato/mercato e pubblico/solidale, tra soggetti di diritti e assoggettamento ai bisogni. Si deve cominciare a ragionare sulla modalità di azione o di gestione che tanto nel caso delle sempre forti agenzie statuali che in quelle non statuali si possa definire pubblica e politica e se possibile valutare la qualità di questa dimensione politica e pubblica non temendo di sottoporla a critica. Non basta essere statuali per aversi una modalità pubblica e democratica di gestione dei servizi, come non basta essere attori privati perché l’azione o l’impresa non abbia rilevanza pubblica e politica. Si tratta piuttosto di logiche, non totalmente garantite dal tipo di agenzia che le pone in essere. Di logiche – cioè di modalità o razionalità dell’agire – bisogna parlare, se si vuole cogliere in questo fenomeno complesso di slittamento delle pratiche sociali, dal pubblico al privato e viceversa, se ci siano e dove siano le dimensioni politiche e veramente pubbliche. Se nel concetto di servizio c’è una densità di pratiche governamentali che non possono escludere la diseguaglianza, la autorità della expertise, la asimmetria delle posizioni, allora la nostra attenzione si deve affinare per cogliere la dinamica che spinge queste stesse pratiche in direzione di regimi di azione incapacitanti e privatistici o verso spazi recuperati al destinatario della pratica di servizio che permettano un ruolo attivo di scelte, progettualità, futura reciprocità. Innanzitutto va detto che, se si tratta di modalità (dunque di logiche) della prassi, allora il carattere politico e pubblico non sarà statico, non sarà una condizione o uno status dell’agenzia o dell’istituzione, ma emergerà in modo dinamico dalle processualità organizzative. Hannah Arendt ha qualificato il carattere pubblico e politico dello spazio attraverso il criterio della visibilità: in uno spazio pubblico la scelta, il punto di vista singolare (e originariamente privato) si misura con le altre

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prospettive aspirando a generalizzarsi, ad essere adottato da altri36. Mentre è problematico dedurre le posizioni dei singoli dalla universalità dei diritti, come pretende il lessico politico moderno, è plausibile invertire il processo verso la dimensione pubblica e arendtianamente politica dell’azione, individuando il processo di generalizzazione attraverso il confronto e la partecipazione di quanti vengono coinvolti in quella definizione privata del bene/servizio e delle regole per produrlo. In questa rappresentazione la generalizzazione appare innanzitutto un processo e non un dato. Inoltre questo movimento parte dal basso attraverso un confronto concreto e plurale di prospettive diverse, laddove nella teoria rawlsiana l’universalità è il presupposto qualificativo di diritti e di principi e da essa, in un movimento discendente, vanno dedotte regole e soluzioni concrete. Boltanski e Chiapello hanno evidenziato invece – in accordo con la qualificazione arendtiana della politica – la salita in generalità delle istanze idiosincratiche e private dei singoli37. Se è vero che una prassi di servizio non può prescindere da una logica di tipo singolarizzante e personalizzante, la dimensione politica può essere acquisita attraverso la forma organizzativa che attraverso il confronto delle esperienze singolari porta a generalizzare alcuni aspetti del problema e delle soluzioni. Questa dinamica, che prevede la visibilità di quanti sono coinvolti e la formazione dal basso della domanda tocca un punto assai delicato del discorso politico. In effetti in un dispositivo di gestione biopolitica e governamentale delle vite è proprio la visibilità dei singoli e la formulazione della domanda che vengono espropriate e gestite dall’alto. La domanda stessa viene formulata in modo tale che ne sia possibile la saturazione senza una abilitazione del destinatario del servizio stesso a definirsi come identità attiva nella relazione. Poiché l’intero processo di servizio sociale viene pensato – sia in sede di istituzioni statali assistenziali, che nelle isomorfiche istituzioni più o meno caritative – come un processo volto a colmare mancanze, a soddisfare esigenze, a saturare vuoti e bisogni (la chiave semantica del concetto di bisogno è totalmente dipendente dal concetto di incompletezza e di mancanza), il ruolo dell’attore o imprenditore sociale, statale o meno, si concentra nella saturazione di questa incompletezza o mancanza. Saturazione pericolosamente simile alla materna o 36 37

H. ARENDT, Vita activa. La condizione umana, tr. it. Bompiani, Milano 1994, pp. 18 ss. L. BOLTANSKI, E. CHIAPELLO, Le nouvel esprit du capitalisme, Seuil, Paris 1999; ma cfr. anche EID., Esclusione e sfruttamento: il ruolo della mobilità nella produzione delle diseguaglianze sociali, in V. BORGHI (a cura di), Vulnerabilità, inclusione sociale e lavoro, Franco Angeli, Milano 2002.

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paternalistica soddisfazione del bisogno nel circuito di godimento tra nutrice e neonato che condanna alla dipendenza e alla coazione a ripetere. Da questa prospettiva l’impresa sociale, quale che sia lo statuto dei suoi attori, assume il ruolo materno o paternalistico della saturazione delle mancanze anche se dichiara di agire sulla base di diritti. Di fatto considera i destinatari come non-pienamente-maturi, non ancora e completamente autosufficienti e dunque – sempre sulla base di un presupposto di responsabilità e solidarietà della collettività nei loro riguardi – offre cose, beni e servizi per colmare questa residualità. Il presupposto da cui occorre invece muovere, se vogliamo immaginare il processo di soggettivazione come non totalmente alienato all’assoggettamento e al condizionamento eteronomo, è nel riconoscimento che il punto chiave della impresa sociale non sta nel genere di servizi prodotti, ma – come dovrebbe essere in ogni relazione politica e come oggi è ravvisabile nelle relazioni economiche di mercato – nello spazio dato all’espressione alla domanda, nella esplicitazione del desiderio e del bisogno. È questa che deve essere sottoposta primariamente al processo di risalita in generalità, piuttosto che la decisione circa la possibile risposta alla domanda stessa. Si tratta di un riposizionamento di non poco conto. È la riconosciuta priorità della domanda ad aver rivoluzionato il modello fordista in direzione della crescente importanza dell’organizzazione, comunicazione e relazionalità rispetto al più controllabile e gestibile dall’alto momento produttivo. Anche se è vero che la domanda è condizionata da influenze, assistiamo ad un sempre maggiore ruolo attivo del consumatore che si fa partecipe della produzione stessa. È una svolta ancora settoriale. D’altra parte a questo riposizionamento del ruolo del consumatore corrisponde, come ho già accennato, la centralità dell’idea di impresa che, assumendo il ruolo centrale che precedentemente aveva il lavoro, si carica di una densità simbolica inedita, non estranea, sia pur in modo ambiguo, alla categoria di agency politica. I singoli possono essere capaci di attivare forme di intrapresa, iniziative che si istaurano su relazioni esistenti e che ne producono di nuove senza porsi in una condizione di alterità rispetto agli utenti ma li coinvolgono esattamente nella formulazione della domanda. Cosicché quest’ultima diventa luogo della identificazione esistenziale sociale e politica. Agli evidenti rischi di diseguaglianza e alienazione dell’intero soggetto alle leggi del mercato può corrispondere un processo di produzione di relazioni, una promessa di autogoverno, di disposizione di sé. Che ci sia spazio organizzativo per chi domanda può significare essere abilitati a chiedere e a organizzare le procedure e a valutare la fattibilità delle proprie richieste;

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può significare ancora farle filtrare in procedure di confronto e di conflitto diretto e realistico con le richieste e le domande di altri. Ma soprattutto creare uno spazio adeguato alla voce delle domande significa coglierne la istanza identitaria, di riconoscimento che struttura ogni desiderio e ogni relazione interpersonale, così come Hegel ha evidenziato nella sua Fenomenologia dello spirito, cogliendovi genialmente la chiave di volta della politica. La natura del desiderio è dipendente dalla relazionalità, e si tratta sempre, anche nel sistema sociale dell’economia, di desiderio di riconoscimento e di relazionalità. L’impresa sociale risponde ad una domanda di riconoscimento piuttosto che ad una muta richiesta di saturazione di bisogni. Non che questa non venga messa in gioco: ma in ogni richiesta di scuola di quartiere, di assistenza agli anziani, di servizi di comunicazione, c’è una richiesta di modalità di essere. Non cose, beni, ma esistenze, persone, vite che vogliono entrare in relazione, essere riconosciute, agire attivamente. Allora perché parlare di soggetti deboli e incapaci, bisognosi di governo e di sostegno? Perché la domanda di riconoscimento identitario viene proprio da soggetti deboli che non si ritrovano nei ruoli e nei modelli standard e se ne sentono esclusi (ma deboli, dipendenti – sempre o a tratti – nella nostra vita siamo tutti). E va anche accettato il dato che probabilmente la richiesta di riconoscimento sarà condizionata e assoggettata alle logiche pubblicitarie e alla manipolazione, o, talvolta, all’urgenza della sopravvivenza. Ciò nonostante riconoscimento e relazionalità sono i prodotti primari della domanda interpersonale di servizio. Ma non basta: andrebbero studiate in modo interdisciplinare le possibili modalità di formazione di un soggetto, i processi di apprendimento e adempimento della persona, che passino attraverso il confronto con le prospettive di altri al fine di rinforzarne la dimensione politica. Questi processi implicano una concezione positiva concreta della libertà/potere degli individui: libertà di accrescere progressivamente – se “non troppo governati”, secondo la felice espressione di Foucault – la propria capacità di autodeterminarsi e di autogovernarsi agendo sui fattori di conversione che trasformano “gli stati di essere e di fare” (i funzionamenti) e le “varie combinazioni di essere e di fare” (le capacità) in funzionamenti effettivi38. L’effettivo esercizio di libertà concrete si manifesta nella prassi che esercita scelte e predispone mezzi. 38

A. SEN, La diseguaglianza. Un riesame critico, tr. it. Il Mulino, Bologna 1994; cfr. anche V. BORGHI, F. CHICCHI, Genealogie dell’employability. Appunti per una sociologia economica del lavoro, in J.-L. LAVILLE, M. LA ROSA (a cura di), La sociologia economica europea. Un percorso italo-francese, Franco Angeli, Milano, 2007.

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Chiarire gli obiettivi dell’impresa sociale significa chiarire il tipo di dimensione politica che essa genera. Naturalmente anche un’impresa sociale che adotta schiette logiche biopolitiche facendo perno sulla dipendenza e sull’adempimento dei bisogni, sulla loro classificazione in termini di cose che mancano e servizi che soddisfano, ha una dimensione politica. Anzi, come ho detto, si accorda pienamente al modello biopolitico che una democrazia sempre più svuotata di senso e di partecipazione vede attuarsi. Dietro un’impresa sociale di questo tipo sta una logica dell’autorità scientifica o parascientifica che garantisce che la gestione delle vite non è fatta per l’interesse di chi eroga i servizi ma nell’interesse dei destinatari dell’azione sociale, “al servizio” dei governati con competenze tecniche, mediche ed economiche, tali da zittire qualunque ipotesi diversa. Si tratta di una logica congruente, appunto tecnica: non si vede come possano i singoli destinatari, per di più costitutivamente carenti in quanto soggetti deboli, discutere dell’opportunità di una scelta, per esempio economica, piuttosto che di un’altra. Se la logica organizzativa è biopolitica, l’eventuale opposizione a queste scelte è generica, gestita a sua volta da gruppi di interesse che danno voce allo scontento e comunque raramente capace di entrare nel vivo della discussione tecnica stessa. D’altra parte se la soluzione di queste richieste viene sottratta al mercato, l’apparente guadagno in termini politici, la possibilità di scelte cioè anche diseconomiche, viene pagato in termini di formazione di un’area residuale che fa da zavorra e che inevitabilmente offre spazio a opache negoziazioni di aiuti pubblici e politici. Stare dentro al mercato è complicato, ma è una sfida che, dal punto di vista della teoria politica, può mettere in scacco le logiche del potere istituzionale che gestisce consenso e voti. Ma non è anche questa della impresa-intrapresa e dei destinatari attivi, una nuova retorica? Soggetti attivi? In realtà l’emergere del terzo settore e la crisi della coincidenza tra politico e statuale è stata immediatamente legata a questo discorso sul cambiamento di ruolo dei destinatari dei servizi: come se dopo il welfare e la sua gestione biopolitica/eteronoma della domanda dovesse aversi con l’impresa sociale di iniziativa privata o cooperativa, un riposizionamento ispo facto del ruolo dei destinatari non più passivi, ma attori delle politiche e dei servizi che li riguardano. C’è tutta una retorica – anche qui – circa la personalizzazione dei servizi su misura dell’utente, la valorizzazione delle sue preferenze in un ventaglio

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di alternative offerte, la possibilità di stipulare contratti, di partecipare a tavoli deliberativi, comunque in genere a promuovere l’agency degli interessati. Questo processo di attivazione è implicato nella generale attenzione del mercato alla domanda e alla personalizzazione dei consumi, piuttosto che (o almeno contemporaneamente al) movimento di socializzazione e democratizzazione della politica. L’uso di termini quali cliente, utente, consumatore evidenziano come in questo senso il terzo settore non sia per l’appunto che una sezione del displacement dell’intera politica in direzione del mercato. Naturalmente si danno modalità e accentazioni diverse a seconda che l’agency del destinatario si dia in termini di libertà di scelta (e dunque sia da ricondursi alla libertà/sovranità del consumatore), oppure sia orientata alla partecipazione al tavolo delle decisioni in cui il destinatario è chiamato ad argomentare e giustificare a fronte di altre domande il senso (e la generalità) della propria39. Mentre, per esempio, nel voucher, la dimensione del contratto e la conseguente individualizzazione dell’offerta di intervento evidenzia certo un ruolo attivo ma pone comunque il destinatario nella posizione tradizionalmente passivo-recettiva del consumo, la variante contrattualistica offerta dal budget di cura permette un’influenza maggiore nella determinazione delle prestazioni e nella modalità di erogazione40. Si potrebbe parlare in questo caso di una posizione attiva nel mercato intermedia tra produzione e consumo. È interessante sottolineare la diversa dimensione politica, poiché la scelta pura e semplice tra diverse offerte di servizi rimanda ad un individuo, come è proprio della teoria liberale, presupposto come capace di scegliere in assoluto, le cui eventuali debolezze non sono rilevanti nel contratto. Invece nell’ipotesi di budget, che vede le istituzioni pubbliche che, anch’esse in posizione contrattuale, sorvegliano e garantiscono il cosa e il come dell’erogazione contrattata dai soggetti, per quanto interna al mercato, si delinea una messa in gioco dell’eventuale e probabile situazione di debolezza contrattuale da parte dei soggetti utenti dal momento che il dispositivo mira alla capacitazione e al sostegno della capacità di domandare. Si deve pensare che nella realtà concreta la forma contrattuale, da sempre simbolo di libertà e volontarietà delle parti private contraenti, non garantisce di per sé affatto la possibilità che la parte contraente debole, che richiede la cura o il ser39 40

L. BIFULCO, O. DE LEONARDIS, Sulle tracce dell’azione pubblica, in “Filosofia e questioni pubbliche”, 1, 2006; cfr. anche L. BIFULCO (a cura di), Le politiche sociali. Temi e prospettive emergenti, Carocci, Roma 2005. R. MONTELEONE, La contrattualizzazione delle politiche sociali: il caso dei voucher e dei badget di cura, in L. BIFULCO (a cura di), Le politiche sociali, cit.

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vizio, sia in grado con il semplice scegliere di esercitare un potere pari a chi offre, il quale, stante alla inevitabile logica biopolitica del servizio, ha dalla sua il sapere/potere della competenza e dell’autorità per imporre il contenuto contrattuale. La questione torna alla asimmetria costitutiva della relazione biopolitica di servizio e dunque rimanda ai dispositivi organizzativi che devono essere molto sorvegliati perché possano rinforzare il ruolo della domanda e della deliberazione sugli interventi e sulle scelte. La dimensione politica dell’impresa sociale si gioca dunque all’interno della consapevolezza della complessità della relazione di servizio e di cura e della dipendenza che generano. Sia che la dipendenza generi diseducazione – abitudini passive di assistenzialismo, autosvalutazione e vincoli che inchiodano le biografie dei soggetti aiutati, dunque una progressiva deprivazione delle capacità – sia che generi atteggiamenti da free rider e opportunismo, la relativa gestione ha i tratti biopolitici eteronomi della saturazione dei bisogni e della tacitazione delle identità e delle richieste di riconoscimento. È necessario invece immaginare che la responsabilità della cronicizzazione delle dipendenze e della svalutazione dei Sé vada ascritta a chi eroga servizi e consegue dalla modalità con cui viene organizzata, dal fatto che punta sul cosa e non sul come che, da un punto di vista politico, è il vero oggetto della richiesta stessa. È necessario pensare le condizioni di autoresponsabilizzazione e di autogoverno che – supportate dal lavoro comune dell’impresa – possono dar luogo all’abilitazione e all’esercizio di scelte. Con attenzione critica. Perché è noto, a partire da numerose esperienze, che la stessa famosa partecipazione della società civile, che dà risultati interessanti in progetti specifici quali la riqualificazione di un quartiere, e politiche locali dello spazio urbano con soggetti generalmente autonomi, è assai più problematica in caso di politiche assistenziali, di cura, con soggetti assoggettati al bisogno. In questi casi il soggetto è spesso isolato, ha difficoltà a confrontare le sue esigenze e le sue domande con quelle di altri e argomentare il processo di risalita in generalità, dunque difficoltà di pubblicizzazione e politicizzazione della sua domanda. Né d’altra parte – come sempre in democrazia – c’è garanzia alcuna che un trattamento partecipato e sociale delle questioni e degli interessi sia capace di risposte inclusive ed aperte: spesso i collettivi sociali danno luogo ad esclusione e a atteggiamenti immunitari verso l’estraneità e la debolezza altrui. Niente dunque risulta di facile soluzione.

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6. Pratiche di cura tra biopolitica e trasformazione dell’economia La costellazione del non-profit, ibrida, costituita da elementi diversi come il volontariato, l’impresa sociale, l’economia solidale, il terzo settore, rappresenta oggi, per la teoria politica, una sfida allo sclerotico linguaggio della politica, attestato sulla polarità Stato-mercato, sulla dicotomia rigida tra interessi e diritti, tra dipendenze e autonomia delle scelte, tra distribuzione e identità. Questa area, che è economica e, contemporaneamente, sociale, occupa spazi non più residuali nei nostri paesi occidentali ed è chiamata a supplire carenze, a fornire compensazioni sociali, ma forse, sorprendentemente, anche ad adempiere progetti di riappropriazione politica degli spazi pubblici. Quest’ultimo punto è tanto più sorprendente in quanto questa costellazione gravita nell’area economica dal crisma della spoliticizzazione. Non è senza significato se, dopo un lungo periodo di diffidenza, dovuta alla permanenza delle tracce assistenzialistiche-caritative e alla persistente mentalità welfaristica tradizionale, oggi perfino i gruppi tradizionalmente legati alla difesa egualitaria dei diritti, guardano con attenzione alla cooperazione non-profit, riconoscendovi, in una stagione di ripensamento radicale della politica, possibili tracce di cittadinanza attiva, di associazionismo socializzante e una potenziale valenza conflittuale e politica41. Si parla di sperimentazione di nuove forme di relazioni pubbliche, in polemica con quelle istituzionali, partitiche e sindacalizzate, tendendo fino a spezzare il filo che pure lega queste onp all’economia. E tutto questo, mentre si sviluppa, all’interno della teoria economica più avvertita, una riflessione di grande raffinatezza tecnica, per dar ragione del fatto dell’organizzazione non-profit e quindi giustificare l’esistenza di enti non-lucrativi nelle economie di mercato: dunque la teoria economica a sua volta raccoglie la sfida giostrandosi tra motivazioni di mission e figure della reciprocità, solidarietà e agevolazioni fiscali, sottooccupazione, competitività e fund raising. Teorie che non sembra che dispongano di strumenti per pensare una logica complessa che esorbita dallo schema riduttivo con cui il mercato si autorappresenta. Il nostro compito è aprire le esperienze di organizzazioni dei cittadini senza fine di lucro, per evidenziare le logiche che le reggono e i contrad41

Cfr. J. RIFKIN, La fine del lavoro, tr. it. Baldini e Castoldi, Milano 1995; M. REVELLI, La sinistra sociale. Oltre la civiltà del lavoro, Bollati Boringhieri, Torino 1997; P. DONATI, I. COLOZZI, La cultura civile in Italia: fra stato, mercato e privato sociale, Il Mulino, Bologna 2002; M. MAGATTI, Il potere istituente della società civile, Laterza, Roma-Bari 2005.

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dittori vettori di potere e di potenzialità che l’attraversano. E non è cosa da poco, trattandosi di un’area fortemente gravata da retoriche diverse, dove vengono a incrociarsi almeno due ordini di discorso, dunque due regimi di potere e due logiche che si scomunicano reciprocamente: quella biopolitica – nella doppia forma economicista e oblativa – e quella pubblicapartecipativa ed espressivista. Un rapido esame dell’esperienza del welfare ci permetterà di mettere a fuoco logica e dispositivi biopolitici che passano inalterati nelle forme oblative di onp. Su un versante parallelo, le attuali trasformazioni dell’economia, fanno emergere la complessificazione del quadro del mercato: sarà importante sottolineare la trasformazione della logica economica attraverso la nuova centralità dell’organizzazione e il mutamento del lavoro in direzione autonomista e, appunto, espressivista. A questo punto le onp sembrano esplicitare, attraverso una serie di nodi problematici – dalla volontarietà alla modalità organizzativa, dal servizio, all’economicità, dalla solidarietà, alla cura, all’espressività – l’aggiramento delle contrapposizioni da cui siamo partiti. Accanto ad una forte persistenza della dinamica governamentale, economicista e/o oblativa, esse presentano forme interessanti, anche se contrastate, di partecipazione civile, di appropriazione diffusa dello spazio decisionale. Ci chiederemo dunque se di fatto siano inadeguate le rigidità logiche e se ci troviamo di fronte a forme ibridative complesse che rendono plausibile parlare di ri-politicizzazione della biopolitica. Cura e servizio sono categorie spigolose e ambigue che evocano dissimmetrie di condizioni e posizioni di diseguaglianza dove il vettore del potere si carica di autorevolezza poiché si prende cura, nell’interesse del più debole, del governato. Non è un caso che nella parola servizio ci sia il servare, il conservare e salvare, il piegarsi dell’azione ad una finalità non autoreferenziale, così come nella cura c’è il gesto produttivo e positivo della compensazione della fragilità. Una corrente di potere complessa che suscita e manipola una relazione di fiducia e di credito e viene recepita come un beneficio da chi ne è investito – tanto più se donata, gratuita, tale da suscitare il peso del debito, l’impegno di reciprocità e, ove questo non sia fattibile, rancore e svalutazione del Sé. Un potere che plasma la soggettivazione articolando l’identità su quelle caratteristiche che l’intervento di governo, di cura, di servizio seleziona come significative. In una parola, potere biopolitico. Alla logica biopolitica si contrappone la logica espressivista di una cittadinanza che non sia puramente formale titolarità di diritti, ma esercizio non delegato del potere di autorappresentazione, cooperazione diretta al processo di inclusione delle differenze riconosciute

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come risorse42, capacità di sopportare conflitti e la conseguente perdita di efficienza, il diminuito controllo sugli esiti, la diseconomicità delle deliberazioni. La giustificazione del potere attraverso il fine dell’incremento della vita – che lega indissolubilmente biopolitica ed economia – implica, di contro, l’adozione di una logica strategica e dunque economica, nella scelta dei mezzi. Il come è orientato dall’efficienza nel raggiungimento del fine. E dunque la sfida di cui parlavamo, rappresentata dai comportamenti senza fini di lucro, tesi al governo e alla cura delle vite, e ambiguamente aperti a un esercizio diretto di autogoverno, rappresenta il tema non pensato, rimosso della teoria politica. La nostra domanda è dunque: quale legame socio-politico sottende l’agire economico del terzo settore, del volontariato? È destinato per sua natura ad essere comunque biopolitica, più o meno efficiente, forma eteronoma di governo delle vite? o nella cura c’è spazio per autonomia e abilitazione? È pensabile una rilettura radicale dei fenomeni altruistici, da sempre pensati come depauperativi della tematica dei diritti? o si tratta di una diversificazione oltremodo interessante delle prassi di politicizzazione e socializzazione? Ora, la prospettiva biopolitica permette di illuminare trasversalmente tanto l’aspetto del curare la sussistenza e incrementare potenzialità vitali quanto l’aspetto economico e gestionale di questo campo di azione. È proprio da questo aspetto, dalla modalità di governo, che ci aspettiamo che emerga il carattere politico e si evidenzino i vettori di potere che l’attraversano e la possibilità che il modus biopolitico si rovesci nel suo opposto dando spazio all’agire politico. Non è possibile riflettere se non a partire dell’indebolirsi del progetto biopolitico dello Stato sociale. Il welfare e il modus biopolitico La gestione welfaristica del sociale ha retto a lungo la complessità del sistema sintetizzando al livello politico le spinte centrifughe emergenti dall’economico. Il perno, direi filosofico-politico, di questo sistema sta nel concetto di lavoro, punto di equilibrio tra cittadinanza e servizi sociali. La

42

Sulla scia di H. ARENDT, Vita activa, cit. Su questo cfr. I.M. YOUNG, Le politiche della differenza, tr. it. Feltrinelli, Milano 1996; ma anche C. MOUFFE, Democratic politics today, in ID. (ed.), Dimensions of Radical Democracy: Pluralism, Citizenship, Community, Verso, London-New York 1992.

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nozione di cittadinanza viene legata a filo doppio con quella di lavoro e fornisce l’accesso giuridico e politico ai dispositivi di protezione sociale per i più deboli: sono infatti i diritti sociali a costituire lo strumento per governare i nodi biopolitici che emergono in una organizzazione sociale dove è l’economia di mercato, con la sua durezza autoreferenziale, a regolare le vite, a gestire le esigenze primarie e a disciplinare tanto gli individui che le loro relazioni43. Paure, aspettative, rancori, fragilità, miserie che condannano all’esclusione: tutto questo viene raccolto e portato a scioglimento in un modello di coesione sociale che fa perno sul doppio ruolo paradossale del lavoro salariato in cui si intersecano la titolarità dei diritti sociali e lo sfruttamento, diritti e dipendenza, diritti e oneri di solidarietà. Nello stato sociale, che con i suoi meriti e demeriti, rappresenta pienamente una tecnica biopolitica orientata a compensare le perversioni originate dal mercato, la politica è intesa come dispositivo, tecnica biopolitica, non come esercizio attivo e partecipativo. La sua logica è strumentale, il suo modello organizzativo è weberiano-taylorista burocratico, dunque razionale allo scopo: il fine, cioè, dell’incremento del benessere e, attraverso questo, del consenso. Questo piega le logiche d’intervento, le economicizza, cioè le orienta alla saturazione dei bisogni, attraverso il principio della redistribuzione (parola che viene a coincidere con il concetto di giustizia), completata dall’area dell’economia protettiva-assistenziale funzionale a sua volta alla produttività industriale. I problemi di una gestione governamentale biopolitica dei bisogni primari, emergono dalla logica stessa del sistema: se è vero che vengono smussate le asprezze del mercato, il modus della solidarietà redistributiva si banalizza e si standardizza, perdendo il momento politico di elaborazione e riconoscimento intersoggettivo delle domande e delle soluzioni. Crescono i dispositivi gestional-burocratici destinati a definire i bisogni e il consumo di beni e servizi in un regime di sapere “esperto” che esclude la discussione. La redistribuzione pensa il legame sociale, la cosiddetta solidarietà, nella sua oggettivazione monetaria e cosalizzata: si erogano cose, oggetti, come farmaci, case, testi scolastici, secondo stereotipi quantificabili. Non ha spazio, Voice, tutto quanto si riferisce alla singolarità eterogenea, che sfugge ai canoni codificati, che è spontanea e qualitativamente apprezzabile. Inevitabile la crisi di legittimazione che prima ancora 43

Cfr. P. FLORA, A. J. HEIDENHEIMER, Lo sviluppo del welfare state in Europa e in America, tr. it. Il Mulino, Bologna 1983; M. PACI, Pubblico e privato nei moderni sistemi di Welfare, Liguori, Napoli 1989; un importante contributo critico in N. FRASER, Talking about Needs: Interpretative Contests as Political Conflicts in C. SUSTEIN (ed.) Welfare-State Societies in Feminism and Political Theory, Chicago University Press, Chicago 1989.

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che all’assottigliamento delle risorse finanziarie e fiscali e alla crisi strutturale dell’occupazione, va attribuita – per la teoria politica – alla rivendicazione crescente delle differenze, alla domanda di qualità di vita; laddove nel welfare persistono le categorie generiche della vita: la sicurezza, la vecchiaia, la malattia, la riproduzione, codificate per pianificarne la cura. Si determina tanto un sovraccarico quanto una contraddizione nelle pratiche di gestione e nei regimi discorsivi che devono legittimarli. La profondità della crisi apre il confronto critico – doloroso per la tradizione socialista – con i tratti gerarchici e biopolitici dello Stato provvidenza: il suo codice è paternalistico o, che è lo stesso, perversamente materno, perché gestendo le vite senza consultarle, le inchioda allo status della loro debolezza e dipendenza e ha effetti di incapacitazione. È spoliticizzante perché eroga, finché può, le cose che i diritti assicurano, prescindendo da un esercizio attivo della cittadinanza, come se il compito della politica fosse già stato adempiuto e non restasse che l’implementazione amministrativa delle conquiste sociali ottenute. Questo modus biopolitico, gerarchico e incapacitante, dei dispositivi welfaristi si ripropone nelle onp, soprattutto quelle molto vaste che ripercorrono isomorficamente il modello dello stato sociale, pastorale e gerarchico prendendo in carico bisogni codificati, naturalizzati e oggettivati, con l’aggravante della perdita del quadro giuridico che comunque difendeva la dignità dei destinatari. È un modus di gestione, di organizzazione burocratica, di stampo weberiano e taylorista, legittimato dalla presunzione che atti e comandi gerarchici siano razionalmente orientati allo scopo e effettuali: è un modus non interessato a suscitare modi di vivere gratificanti per gli individui, anche quando ne allevia le sofferenze e ne adempie le necessità, inadeguato dunque a rispondere a vite che rivendicano sempre di più le loro singolarità differenziate e che non si riconoscono nelle classificazioni burocratiche. Cambiamenti dell’economia e logiche di governance Del quadro complessivo – che vede l’arretramento della competitività, la crescita della concorrenza internazionale – la trasformazione del lavoro è il tratto che ci interessa particolarmente. Abbiamo detto infatti che il lavoro era il perno teorico ideologico e pratico su cui avveniva la mediazione tra economia e politica. Si verificano da un lato la disoccupazione endemica, strutturale, dall’altro l’affermarsi della produzione di servizi in concomitanza ad una diminuita produzione di beni. La categoria della produzione (categoria centrale per il controllo del mercato a fronte di una imprevedibile anarchia del consumo) è ancora usata, ma in modo metaforico.

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Le imprese non si selezionano in funzione della utilizzazione produttiva ottimale delle tecnologie disponibili, ma piuttosto come strutture di governo (governance44) per stipulare contratti-relazioni convenienti sotto il profilo dei costi e dell’affidabilità. L’unità di analisi non è più dunque il bene prodotto, ma la transazione e le strutture di governo. La transazione relazionale riguarda soggetti (individui e gruppi) rispetto ai quali sono prioritarie categorie come fiducia e rete, strategie collaborative, passaggio di informazioni, socializzazione. Entra in gioco la percezione squisitamente soggettiva dell’equilibrio tra ciò che si dà e ciò che si riceve, in cui affiorano valori espressivi, identitari, oblativi e etici (ma anche passivi, di assuefazione), valori diversi da quelli meramente utilitaristici. Quando si parla di servizi, l’investimento è immateriale, il capitale è primariamente un capitale umano: risorse umane che hanno il compito di “formare” relazioni sociali produttive, a loro volta, di reti organizzative dell’azione; performances personali, creative, capaci di comunicazione e socializzazione. Il lavoro professionalizzato e dunque autonomo anche se dipendente, coinvolge il corpo vivo che lavora, l’intelligenza creativa, la disponibilità relazionale, le capacità di cooperazione nel gruppo e di padroneggiamento delle dinamiche psicologiche. Le qualità inerenti alla vita, all’intimità, all’immaginazione spontanea, alla apertura all’altro, vengono valorizzate economicamente per costruire forme gratificanti di socialità: direi dunque che la sfera dell’economia si carica di una complessità inedita e assume una densità relazionale, comunicativa e sociale che a lungo era esclusivamente politica45. Pur essendo comunque legato al bisogno e strumentale alla sussistenza, il lavoro in questa prospettiva creativa ed emotivamente ricca rivela una ambigua, sorprendente affinità con la libertà, la spontaneità – perché no? – la volontarietà di un agire gratificante, espressivo, che adempie il desiderio, un agire politico secondo il modello arendtiano. È fin troppo facile obiettare che l’enfasi del mercato che valorizza le capacità creative del lavoro, ne nasconde il soggiogamento al ricatto dell’occupazione, l’antica ma persistente alienazione marxiana, ma è innegabile che ne libera anche l’ambivalente potere di socializzazione e di comunicazione. Lo spostamento di focalità dalla produzione alla relazionalità implica una presa d’atto della contingenza dei comportamenti e delle motivazioni di 44 45

Sulla teoria delle imprese come strutture di governance e sulla teoria dei costi di transazione O.E. WILLIAMSON, Organizzazione economica. Imprese, mercati e controllo politico, tr. it. Il Mulino, Bologna 1991. Cfr. in senso critico P. VIRNO, Lavoro e linguaggio, in A. ZANINI, U. FADINI (a cura di), Lessico postfordista. Dizionario di idee della mutazione, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 181-185.

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quanti sono coinvolti nell’impresa economica. Emerge la compresenza di una pluralità di principi organizzativi spesso all’interno della stessa impresa. Alla canonica weberiana organizzazione razionale, strategica rispetto allo scopo, volta a garantire prestazioni costanti e regolari, si affianca un modello naturale, ma sarebbe meglio dire bioeconomico, che assume la logica duttile degli organismi viventi e suggerisce un sistema aperto con strategie di adattamento e di sopravvivenza flessibile alle esigenze e alle incertezze ambientali. La compresenza di queste differenti logiche di governo risulta sperimentalmente un vantaggio, anche se implica efficaci meccanismi di integrazione perché le varie componenti comunichino e collaborino. Ora: è evidente che tutte queste osservazioni sulle logiche di governo economiche sono doppiamente significative nelle onp. Non ci interessa solo la piega relazionale e dunque intersoggettiva dell’economia che sancisce la nuova centralità della modalità di governo, ma l’ammissione che all’interno di una stessa organizzazione possono coesistere – ed è un vantaggio che coesistano – più modelli organizzativi e quindi modi differenti di agire, di decidere, di ragionare. Il modus dell’interazione cioè l’atmosfera, il tono, l’accentazione delle relazioni interpersonali e il senso che i soggetti conferiscono alle proprie azioni sono caratteri assai più denotanti della struttura stessa. Questo ha nel nostro discorso sulla valenza politica delle onp, un’importanza straordinaria. Le imprese orientate ad un progetto, oblativo o meno, sono innanzitutto associazioni, coesistenza e cooperazione di soggetti. Abbiamo sostenuto che la prevalenza del fine, profit o oblativo (per es. la cura di bisogni primari), implica l’adozione di una logica economicobiopolitica, ovvero di un governo economico strategico delle vite dove il fine stesso è sottratto alla discussione (nel mercato il profitto è indiscusso; nell’assistenzialismo biopolitico nessuno discute la vita) e la modalità è subordinata alla ottimizzazione dei risultati perseguiti attraverso una standardizzazione e cosalizzazione dei beni erogati. Ma le ragioni dello scambio economico, non meno che le ragioni della relazione di solidarietà sono molto più complesse di quanto il dispositivo finalistico biopolitico o quello del mercato sembrano suggerire. Tanto nel mercato che nell’associazione senza scopo di lucro le ragioni dello scambio e dell’opera, come la teoria dell’organizzazione mette oggi in luce, sono complesse e dunque mettono in gioco modi diversificati e complessi che si riverberano sui fini. Infatti, non c’è un fine di pura zoè, di pura sopravvivenza, se non in casi rari e forse mai: la vita è sempre forma di vita, bios, cioè modo di vita. Dunque il fine della cura non è la vita semplicemente e l’erogazione delle cose, cibo, casa, farmaci, che permettono la sopravvivenza, ma modi, qualità di

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vita, forme di vita dove la forma può essere tanto una gestione eteronoma e passivizzante quanto un’abilitazione alla dignitosa responsabilità della propria vita, a scegliere e formare desideri e soluzioni. E il modus dunque non è solo il percorso per arrivare ad un fine indiscusso ma anche il fine stesso dell’impresa o intrapresa (come si vuol dire oggi per sottolinearne le potenzialità di avventura e iniziativa). Siamo al punto cruciale della nostra argomentazione. Se oggi la teoria dell’organizzazione mette in rilievo che in tutte le imprese, non solamente nelle onp, il fattore cruciale è il modello di relazionalità, di inter-personalità adottato, allora possiamo pensare che l’organizzazione, il coordinamento di soggetti dinamicamente connessi tra loro su un progetto, tanto più se di natura solidale, sia pensabile come avente per oggetto non tanto il bene da produrre o da somministrare, ma quel bene, quel servizio, quella forma di vita prodotti in un certo modo, in una attiva, partecipativa forma relazionale e sociale. Onp: incrocio di logiche A questo punto ciò che differenzia le organizzazioni (le onp o le cooperative economiche solidali) nella loro opera non sarà tanto la natura di soggetti privati o pubblici, il chi opera, ma il come, la modalità di organizzazione produttiva che diventa modo di vita empowered o protetta. Nel pubblico come nel privato si producono isomorfismi alla logica eteronoma e biopolitica di erogazione passivizzante (che sembra economicamente efficiente) dei servizi, ma anche possibili esperimenti di cooperazioni attive nella determinazione di domanda e di soluzione alle questioni vitali proposte: dunque esercizio non delegato di politica. Se vale, nelle imprese for profit, un’efficienza misurata sulla capacità di intensificare le relazioni sociali, le interazioni, tanto più in una onp il tratto denotativo sarà nella qualità di relazione interpersonale che viene a prodursi tra i cooperatori (tra i quali vanno assolutamente considerati gli utenti del servizio, da coinvolgere in modo attivo sviluppandone le capacità autorganizzative e autonormative) e che – ogni vita è forma di vita – diventa il fine stesso dell’impresa. L’esperienza di quelle onp che sono piccoli fragili laboratori di autogoverno, intanto può gettare un’imprevista luce di speranza sulle vie della politica, ingessate nell’impotenza, nella delega e nell’apatia, se e solo se riesce ad accostare in modo nuovo questa priorità organizzativa e potenzialmente politica alla natura economico produttiva della cooperazione. È come se, sorprendentemente, proprio dalla forma di scambio e di iniziativa che sono caratteri del mercato – da sempre considerato luogo di egoismo e

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alienazione – dovessimo oggi trarre una lezione di empowerment che serve per ripensare i ruoli attivi, l’iniziativa, l’autogoverno nel sociale, che le teorie politiche non sanno più progettare e pensare. Naturalmente questo è complicato e può sembrare contraddittorio. È possibile che soggetti deboli, verso cui si indirizza tradizionalmente una influenza benefica quanto oblativa siano in grado di autogestirsi e di autogovernare il mondo comune? È possibile, ad un livello concreto e non solo retorico, rovesciare l’eteronomia del governo biopolitico nell’autogoverno e nell’esercizio diretto di potere di scelta e di decisione? Nella economia del non-profit – del servizio volontario in funzione di una mission che conferisce senso (sensemaking) all’operare e valore al legame sociale/solidale che si mette in pratica – sono valorizzati esattamente socialità e comunicazione, autonomia creativa e doti affettive che il nuovo modello di lavoro esige. Si delinea dunque un’ambigua affinità tra mercato del lavoro terziarizzato e orientato ai servizi e alla comunicazione interpersonale e un’area socio-economica che si distanzia dalla riedizione privatistica eteronoma del welfare solo se, nel perseguimento del progetto di cura della vita, ricrea il legame sociale, attraverso forme di reciprocità attiva, di autopromozione e autoorganizzazione. Mentre un’ulteriore affinità emerge tra queste forme relazionali di lavoro – non o for profit – e le forme di partecipazione politica attiva, più o meno critiche o conflittuali rispetto alle istituzioni, che tentano di ricreare forme di agire orizzontale, tra lotta all’esclusione e espressività non utilitaristica delle singolarità. Si cammina su un filo di rasoio, ma sarebbe inopportuna una prospettiva riduttiva che appiattisse la spinta associazionistica del non profit dentro una lettura di smascheramento puro e semplice delle dinamiche di biopotere privatisticoeteronome. Nelle relazioni di reciprocità si danno comunque posizioni di potere o di vantaggio, ma lo scambio è reticolare e diffuso, tendenzialmente orizzontale e attivo-partecipativo, anche se attraversato da tensioni che trasformano rapidamente la reciprocità in asimmetria, generando gerarchie che espropriano i poteri immettendoli in un quadro di redistribuzione di ruoli, di beni, di identità assoggettate. La mission autentica delle onp non sta nella saturazione ripetitiva e standardizzata, ma incapacitante, delle deficienze di clienti o utenti, ma nel disporre attività di servizio, cioè semplicemente organizzazione, la quale non è semplice strumento ad altri scopi, ma espressione, forma di vita, testimonianza e messa in atto di processi di relazionalità in cui coloro che vengono coinvolti sono chiamati a dare forma alle domande e alle risposte, non ad attendere ciò che verrà erogato. Giusto il termine organizzazione: non ente, istituzione ma l’intrapresa, l’iniziativa di organizzare azioni cooperative che

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spontaneamente non riescono a promuoversi. In una dinamica di iniziativa democratica si ri-scrive la socialità e la cooperazione nel cuore stesso del processo economico, rivelandone una dimensione sociale e politica che il riduzionismo dell’autorappresentazione economica nasconde: può permettere lo sviluppo personale e la responsabilità, aprire spazi in cui le potenzialità possano esprimersi, stabilire un diritto di iniziativa e di creatività. Si tratta di organizzazioni economiche? Penso che si possa rispondere affermativamente perché l’economia si rivela assai più complessa di come usa raccontarsi. A mio avviso è nella stessa logica del mercato che una più avvertita indagine lascia emergere la finalità/modalità relazionale come complementare, se non prevalente sull’originario meccanismo di saturazione di bisogni e desideri. L’articolazione sociale degli scambi economici nel mondo di oggi è prioritaria, ma è anche assai complessa e ambivalente. Dentro ci sono le attività, senza scopo di lucro schiettamente sociali, ma non estranee alla produzione e erogazione di servizi. Forse la sfida consiste esattamente nel pensare fuori della dicotomia tra occupazione e volontariato, for profit e non profit. Forse si tratta di una economia plurale, come vorrebbe Jean-Louis Laville e quel gruppo di economisti francesi che rivaluta accanto al mercato e alle forme di servizio pubblico redistributivo – cui non si può rinunciare in quanto sono sottoponibili al controllo democratico – le forme di economia non monetaria46? Per Laville l’erogazione di beni e servizi in base al principio di reciprocità rinnova le pratiche cooperative dell’associazionismo ottocentesco, la libertà positiva, l’impegno volontario e un modello di azione, di iniziativa nell’economia disgiunta dal capitale e perciò non orientata al profitto47. Ci troveremmo cioè di fronte ad una possibile logica diversa dell’economia, che riconosce alle attività non obbligatorie del non profit il crisma dell’ utilità sociale, senza escludere il ruolo del lavoro salariato dell’economia di mercato al fine dell’accesso alla cittadinanza. In una società post lavoristica queste forme di agire creativo, volontario, non salariato, disinteressato, avrebbero una funzione potente di integrazione sociale e, negli interstizi delle logiche dominanti del funzionalismo, aprirebbero luoghi di senso, sensemaking, di reciprocità e di socializzazione. Ovviamente se queste prospettive avessero una pretesa prescrittiva, sarebbero insostenibili: molto più saggiamente questi socio-economisti 46

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J.-L. LAVILLE, L’economia solidale, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1998; in una prospettiva simile, sui servizi di prossimità, cfr. M. NYSSENS, F. PETRELLA, L’organisation des services de proximité a Charleroi: vers une économie plurielle?, in “Les cahiers de CERISIS”, 1, 1996. H. DESROCHE, Solidarités ouvrières. Sociétaires et compagnons dans les associations coopératives (1831-1990), Ed. Ouvrières, Paris 1981.

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muovono da fatti, da esperienze sperimentali, da molti fallimenti e da qualche successo. Ed è questo il modo corretto di approcciarsi al fenomeno. La sfida viene da esperienze concrete, da dati che aprono prospettive e dalla critica di quelle esperienze che invece deludono, perché, mosse dal momento esaltante della mission, ripropongono la perversa dinamica di gestione eteronoma, della biopolitica welfarista resa ancora meno controllabile dall’essere fuori dal contesto dei diritti. È evidente che i modelli proposti di economia solidale, valorizzano moltissimo capacità di autogoverno e relazioni di reciprocità, dotate di senso e perciò socializzanti. Attività in cui non ci si aspetta un rientro dall’investimento, ma dove si realizzano spazi pubblici di prossimità nei quali è possibile prendere la parola, discutere, elaborare scelte e decisioni comuni di natura economica. È chiaro lo sfondo politico, duramente polemico verso la gestione delle macroistituzioni deputate alla cura. È sostenibile il presupposto della capacità di autogestione? Ripensare il modus biopolitico, tra eteronomia e esercizio di autogoverno Va ripensato il modus di potere che si esercita nei dispositivi di cura (che è la presa in carico di situazioni di diseguaglianza), dunque la biopolitica. Si tratta di una relazione – non una traiettoria a senso unico, dal più forte al più debole – che, nell’opera di cura, costruisce delle soggettivazioni, delle identità. Questo processo di costruzione dell’identità – nella biopolitica oblativa: il soggetto malato, la ragazza madre, il niño de rua, il vecchio solo, ma anche il giovane disoccupato – entro il quale si erogano beni in forma di azioni, poggia su una corrente di “attaccamento”, di coinvolgimento che rende internalizzabile l’identità indotta e dunque produce una soggettivazione assoggettata alla normalizzazione biopolitica. Questo tratto di assoggettamento carico di ambivalente attaccamento all’autorità benefattrice, che rappresenta la vera minaccia ad una ripoliticizzazione delle organizzazioni non profit – c’è, ma è assai più complesso e problematico di quanto sembrerebbe nella dinamica descritta. In realtà si incrociano, durante il processo operativo, strategie di costituzione dei soggetti sia eteronome che autonome. C’è attaccamento e distanza. Fiducia e diffidenza. L’importante è non proporre un quadro riduttivo che lascia impensata la pluralità dei vettori di potere. L’autonomia non è qui pensabile come risorsa trascendentale interiore, ma come proveniente dall’esterno, dalle possibilità di libertà offerte dal contesto, dallo spazio concreto pubblico, inaugurato e lasciato aperto all’esperimento di autogoverno, di formulazione delle domande e di tentativi di risposte. L’autogoverno e l’autonomia non si costituiscono in nessun

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caso al di fuori del mondo o nella decontestualizzazione dell’interiorità, ma si diventa autonomi facendo proprie le possibilità (i poteri concreti) offerti nella ristretta e contingente sfera di libertà in cui concretamente si vive, se essa viene lasciata aperta e disponibile e nella misura in cui vi si praticano esperienze di autogoverno. L’influenza, la cura, non è totalizzante né obbligatoriamente mirata al ruolo passivo del beneficiato. In realtà la cura stessa può essere ripensata come un processo relazionale di abilitazione, coinvolgimento all’autocura, attraverso pratiche di autoorganizzazione che rendono la responsabilità e il peso amico della propria vita a chi ne ha interesse. Per la teoria politica la sfida è, ripeto, pensare il nodo del potere: il potere pensato dalla teoria liberale implica una libertà che nasce da se stessi, un soggetto che è naturalmente autonomo e, poi, condizionato, manipolato o influenzato dall’altro. Salvo poi doversi giostrare tra figure anomale o perverse come quelle del tutorato di minori, la inabilità, la interdizione, la manipolazione dei consensi e i cedimenti “irrazionali” delle preferenze. Il tema del potere sul vivente e la piega che esso mobilita, illumina invece forme concrete, situate di interdipendenza che soggettivizzano assoggettando ma che implicano la possibilità, il potere, anche dei deboli, dei governati, di crescere nell’esercizio, crescit in eundo. È il tema dell’empowerment, dell’influenza esterna (pur sempre un potere) che suscita e sollecita il nostro potere quando non è totale, quando lascia spazio alla nostra capacitazione. È il tema della dose di governo eteronomo che inevitabilmente ci riguarda, tutti, prima e dopo nella vita e che è però plurale, discontinuo, e soprattutto relazionale, e può essere “organizzato” in modo da dar luogo, spazio – spazio pubblico – al nostro esercizio di autogoverno. Dal momento che solo per un brevissimo periodo siamo forse soggetti indipendenti, il governo delle vite, il servizio, la cura ci riguardano tutti: appartengono alla vita. Ma il codice del potere sulla vita, biopolitico, si snoda lungo una scala ai cui estremi si pongono il modus, assolutamente eteronomo, paternalistico o materno e dunque volto a saturare le esigenze, adempiere il desiderio colmando la mancanza e impedendo una soggettivazione originale, una rielaborazione indipendente delle dipendenze oppure, all’estremo opposto, un codice mobile e aperto di organizzazione che sa lasciare spazio alla crescita personale, dove le scelte sono direttamente elaborate in un interscambio orizzontale e non gerarchico. Ed è noto che, hegelianamente, solo la pratica della libertà rende maturi all’esercizio della stessa. Nulla di più difficile, nulla di, apparentemente, meno efficiente, ma anche nulla da confondere. La libertà (e dunque la dignità) si acquisisce attraverso la pluralità delle eteronomie e lo spazio concreto e aperto all’agire generativo e non esecutivo.

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I servizi sono sociali quando generano socialità, quando la logica organizzativa e governamentale rigenera socialità e comunicazione, moltiplicando le possibilità di mettere in forma la vita: quando producono non zoè, ma bios, non nuda vita, oggetto di sussistenza, ma capacità di bios, di dare forma alla propria vita. Ora è evidente che la socializzazione attiva non è spontanea, né si può supporre che il tempo libero del volontario o quello liberato dall’obbligo salariale sia ipso facto un tempo virtuoso di attivazione sociale. Questa è la vera sfida teorica e politica: pensare modi di cooperazione che praticando la partecipazione attiva, concreta ad un progetto, offrano spazio pubblico, reale e dunque politico ad una realtà, quella della cura, fortemente opaca e privatistica. Se è vero che la questione sociale non è riducibile alla ridistribuzione, in quanto la già precaria saturazione del bisogno non si trasforma in una integrazione sociale attiva ma al contrario perpetua la diseguaglianza incapacitante, l’esperienza testimonia che lo svolgimento di attività professionali crea identità e dignità sociale e mobilita legami sociali. Dunque occorre rinunciare a definire – a priori, dall’alto dell’autorità di expertise – la vita, quel sensibile e incerto scopo dell’agire costituito dai bisogni e dai desideri: la sua definizione concreta va lasciata volta per volta alle singole intraprese sociali ed economiche, mentre ciò che può essere curato e messo in forma deve essere l’organizzazione, o l’autoorganizzazione attiva di quanti, cointeressati, vi si impegnano. Paradossalmente, se la cura, o la vita tout court, la zoè, prevale come indiscusso scopo delle onp, allora la logica finalistica e efficientistica razionalizzerà la produzione di servizi secondo il modello dell’economia burocratica o di mercato, con il deludente risultato di ottimizzare (se tutto va bene) il prodotto e perdere di vista il fatto che la natura del prodotto stesso, la vita, è sempre comunque forma di vita e dunque modus, espressione di potenza di libertà, oppure riflusso nella dipendenza, nell’eteronomia, nella passività rancorosa. Il vettore di accesso ad una modalità espressivista che rende ai soggetti la propria potenza di gestione della vita, non può che passare attraverso l’associazione spontanea e volontaria, l’esercizio concreto di poteri, non delegato e, soprattutto non totalizzante e sistemico. In questi casi, viene rivisitata un’idea attiva e espressiva dell’agire sociale, in luogo di una concezione poietica strumentalistica in cui il fine – biopolitico – prevalendo, determina la logica di efficienza e produttività. Non che questi parametri funzionali non entrino in gioco, ma diventa centrale, in una pluralità di logiche compresenti, la modalità espressiva del funzionare. In gioco è la difficile ma possibile ri-politicizzazione e ri-pubblicizzazione della biopolitica e della bioeconomia.

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III. DISPOSITIVI DI RAPPRESENTAZIONE: DISCORSI DI VERITÀ ED EFFETTI DI POTERE

1. Il dispositivo rappresentativo della natura e della vita

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Il rilancio del naturalismo Assistiamo oggi ad una decisa ripresa del naturalismo dopo anni di decostruzionismo ad oltranza. Cooperano a questa apertura vettori diversi che, pur essendo spesso in polemica tra loro, rafforzano quest’orientamento. Innanzitutto porrei in evidenza l’affermazione decisa del paradigma biopolitico di governo delle vite (ma anche delle società) che muove dalla immanenza della loro autoregolazione. Si iscrivono in questo orientamento, fortemente sostenuto dall’indiscusso predominio del liberalismo avanzato, le forme di neo istituzionalismo che in modo più o meno esplicito si riferiscono al grande modello del mercato di scambi come forma spontanea e ‘naturale’ – in ogni caso oggi indiscussa e naturalizzata – di relazione politico-sociale. La prevalenza dell’idea di governo e di governance non gerarchica, flessibile alle varie e differenti esigenze del contesto, su quella del dirigismo verticale e formale della politica sovrana e della legge universale e astratta, si innesta a sua volta in un generale e diffuso predominio del bios, della vita come legittimazione della politica stessa. Una decisa naturalizzazione dei fini sociali e politici della convivenza umana, inclinata nel senso decisamente biologico: più vita, più benessere, più ricchezza, più salute. La secolarizzazione moderna giunge, dopo il tramonto delle ideologie, ad una radicalità mai riscontrata prima. I diversi programmi politici, almeno nell’area occidentale ormai espansa all’intero pianeta, si misurano competitivamente all’interno del destino naturalistico delle vite adempiuto da un più-di-godimento, da un più di soddisfazione, innescando peraltro fiammate reattive nei fondamentalismi religiosi e la compensazione – tanto insistita quanto svuotata e retorica – di un ancoraggio a valori naturali e umanistici nelle dichiarazioni dei diritti fondamentali. Fondamentalismi e retorica dei diritti che entrambe rivelano pesanti forclusioni in questo immaginario generalizzato di vita da godere.

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Dispositivi e soggettivazioni

Ovviamente le coordinate che hanno cooperato ad un così omogeneo senso comune non possono che essere i regimi di verità che oggi reggono i dispositivi di governo delle vite stesse: l’economia cui già abbiamo accennato e la scienza, scienza che trova il suo settore di punta nella biologia molecolare: legate l’una all’altra dal nesso della tecno-scienza. Lo sfondo teorico – sempre meno discusso e discutibile di quest’ultima – sono le versioni attuali del darwinismo: non dimentichiamo che la definizione di un regime di verità è proprio nel senso di ciò che è pensabile e dicibile come vero in un determinato momento storico. Il quadro di verità pensabile e dicibile determina effetti di potere ed è possibile risalire genealogicamente a questo nesso politico e storico: questa è stata la tesi decostruzionista a lungo dominante. Oggi la normatività di questo quadro di verità tende a sganciarsi programmaticamente da una prospettiva che ne valutava l’efficacia in termini di potere e si accredita come “naturale”, veridica in sé, con la conseguenza di estendersi dalla definizione descrittiva dell’essere al dover essere. Il quadro delle verità scientifiche, la cui validità sembra prescindere dai condizionamenti umani e artificiali, viene proposto infatti come fonte normativa dell’agire. È questo il punto chiave del discorso su ciò che è ‘naturale’: la sua trascrizione normativa, il riflesso sul modo di pensare la norma. Nella norma si intrecciano le funzioni dei due poli della dicotomia, in sé sfuggente e reversibile all’infinito: natura è ciò che viene sottratto alla disponibilità e trasformabilità della politica e artificio ciò che ha origine dalla convenzione, più o meno relativamente arbitraria e dunque alla decisione politica, fermo restando che qualunque artificio (o cultura) può (o può non) riferirsi a norme presunte naturali e dunque divenire non una contrapposizione ma un prolungamento della stessa indisponibilità naturale. Se da una parte non si può non riconoscere che è impossibile prescindere dalle datità che emergono come condizioni naturali (e in questo senso c’è un livello di normatività della natura a partire dal quale muovono le decisioni umane e culturali), la funzione però di principio normativo che esse vengono ad assumere lascia perplessi e solleva sospetti di essere una forma di rafforzamento dell’area di indisponibilità non politica. In questa potente spinta naturalizzante sottilmente normativa si inserisce anche la pesante ipoteca del cognitivismo neurobiologico, che rappresenta una potente istanza riduzionista dei fenomeni complessi psichici intra e intersoggettivi nel quadro della determinazione naturale, fisio-patologica. Con argomenti spesso sottratti al linguaggio quotidiano e affidati all’expertise, dunque difficilmente contestabili e ancora una volta sottratti alla discutibilità politica. Con molti distinguo ovviamente, che non è possibile qui affrontare.

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Ma il naturalismo non si limita a rinviare all’ossimoro di una scienza che è sempre già tecnica e dunque sempre artificio. Una potente corrente di naturalismo viene anche dalla sconfessione neospinozista e deleuziana del regime rappresentativo e normativo-trascendentale. La vita – la natura come vita – si manifesta in un piano di immanenza, vivo e incessantemente mutevole secondo regole proprie che si possono ricavare solo a posteriori dal vissuto. Una vita che si auto-norma, oscillante incessantemente tra virtualità ed attualizzazione e che si sottrae all’opera selettiva del giudizio. Quest’ultima corrente si lega in modo ambiguo alla prospettiva foucaultiana sulla biopolitica come governo la quale è, in origine, decisamente antinaturalistica e orientata a illuminare gli effetti di potere delle veridizioni, ma che rileva già una trasformazione antigiuridica e istituzionalista del concetto di norma. Si tratta di importanti mutamenti nella concezione del diritto, della norma e della regolarità autonormativa che hanno rilievo nella indagine sulla politica. Vorrei seguire brevemente questa trasformazione assai significativa in un epoca di crisi profonda della legge generale ed astratta. La sua fortuna è legata alla convergenza con la dissoluzione di alcune categorie del giuridico e del politico moderno: mentre, dal punto di vista dell’ontologia sociale, converge paradossalmente con la spinta alla molecolarizzazione delle libertà singolari e alla esaltazione della macchina desiderante che l’immaginario del mercato-godimento-capitale umano induce nell’attuale fase bioeconomica. L’incidenza è stata ed è perciò sicuramente significativa. Ma è un effetto segnato da profonda e rischiosa ambivalenza: da una parte apre importanti scenari sulla trasformazione del concetto di legge/norma, ma dall’altra sottrae punti di appiglio ad ogni forma di soggettivazione politica. Dopo un brevissimo excursus sulla funzione della dicotomia natura/ artificio nella modernità, vorrei soffermarmi sull’incidenza della naturalizzazione biopolitica sul concetto di norma e sulle forme normative neonaturaliste. Una coppia normativa: natura e artificio La natura è pensata sempre in correlazione oppositiva all’artificio. Questa coppia, natura e artificio, può fare sorridere per la patina di desueto che la caratterizza, accentuata soprattutto da quel secondo termine, ‘artificio’, che suona arcaico e ricercato. Vengono in mente le architetture dei giardini barocchi, tra mostri di pietra e verde artificiosamente ‘naturale’ e selvaggio. Eppure quella dicotomia, con molte altre similari – dalla capostipite natura-cultura a quella anima-corpo, fisico-mentale, vitale-sociale, organi-

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co-culturale – ha avuto e forse conserva ancora una notevole potenzialità euristica. In verità tutto il pensiero occidentale moderno è stato caratterizzato dalla formulazione di antitesi complementari, cioè la contrapposizione di opposti che si escludono a vicenda. Opposizioni che, come quella che esaminiamo, devono essere reciprocamente escludentesi (qualcosa è o naturale o artificiale) e devono valere universalmente, nel senso che aspirano ad essere universali. Tutto infatti, nel regime moderno di verità, può essere qualificato come naturale o artificiale: dall’ambiente, alla gestione della nascita, dalle organizzazioni sociali e politiche, alle regole di comportamento, alle mutazioni del vivente. Mettere a fuoco però questa dicotomia – così efficace nella modernità che sottolinea tanto la naturalità delle leggi fisiche ed economiche che la artificialità delle opere dell’homo faber – complica le cose. L’ambiente è naturale o artificiale? Le istituzioni sono naturali o artificiali? La fecondazione è naturale o artificiale? Quanto naturale e quanto artificiale? Mutazioni indotte, ambiente contaminato e gestito, condotte del vivente disciplinate fino al nodo segreto dei desideri. Evidentemente la linea di demarcazione, da sùbito, già nelle definizioni dei grandi costruttivisti moderni quali Hobbes e Locke, passa attraverso la natura stessa: non tutto ciò che si colloca nella natura è naturale dal momento che l’intervento umano trasforma la natura e le toglie la sua naturalità. Di questo peraltro erano consapevoli già i greci se, secondo la celebre sentenza di Aristotele, il bios è praxis e non poiesis, che significa che la tecnica è natura e che c’è una continuità essenziale tra la dimensione dell’organo cosiddetto naturale e quella dello strumento cosiddetto artificiale. Se dunque i greci avevano consapevolezza di questa continuità assoluta e la rimarcavano sia pure con mitologie complesse, che senso ha allora la disposizione dicotomica e oppositiva dei due concetti? Il fatto è che essa non è greca, ma moderna. Ed è funzionale al mutamento storico del concetto di natura (e natura umana) e di ordine naturale. Mutamento denso di spessore assiologico e valoriale. Ciò che caratterizza la moderna argomentazione politica è la produttività dei concetti politici, più intensa che in altri periodi storici. Le parole natura e artificio (processi che si rivelano profondamente intrecciati) vengono costruite e impiegate anche per ‘rappresentare’ l’agire politico, per fornire un senso (un orientamento, dunque) all’azione politica. La dicotomia naturale-artificiale ha infatti avuto nel moderno una funzione essenziale nel prefigurare e perseguire un ordine politico; nel segnalare collegamento o frattura tra un tale ordine e quello pre-esistente, continuità o cesure tra passato e futuro; per delineare l’area di interferenza tra istituzione e azione innovativa. Questa così densa funzionalità va attribuita alla dimensione simbolica dei due termini.

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Per concludere queste rapide osservazioni introduttive, va sottolineato che proprio questi termini simbolici mettono in luce un tratto tipico dell’auto-rappresentazione moderna della politica: la tensione tra la tendenza a reificare e quella ad astrarre, tra la spersonalizzazione del potere e la sua continua personificazione, tra la vocazione quasi ossessiva ad edificare ‘finzioni’ e la ricerca altrettanto inquieta e assillante di mostrare ciò che nella politica è vitale: la tensione tra l’anima formalistica del costruttivismo politico e la gestione pragmatica duttile e economica del potere sulle vite. Basti pensare all’esempio di Hobbes dove la artificialità insistita e dichiarata di quella machina machinarum che è il Leviatano, è in continua tensione con la natura animale dei bisogni, la matrice di paura della morte che è la molla del processo artificialistico del patto. Mentre nel discorso lockiano nel recinto della natura vengono addensate quelle specificità che devono servire da limite invalicabile all’artificio: è in ogni caso la natura della norma – la sua naturalità o convenzionalità ‘politica’ – ad essere in questione. La crisi della dicotomia nei dispositivi biopolitici: una norma immanente Se ‘naturale’ mira a definire ciò che nella politica è indisponibile, allora distinguere tra bisogni naturali e artificiali o tra comportamenti naturali e artificiali, si rivela problematico e continuamente sottoposto a rovesciamento. Cosa altro è la critica di Marx al soggetto liberale se non una denaturalizzazione dei diritti ricondotti alla loro storicità e ai potere che vi sono inclusi? Ma anche abbandonando il livello dei ‘diritti di natura’ anche troppo evidentemente funzionali alla lotta politica, nell’uomo vivente stesso la scienza rinviene elementi naturali e artificiali difficilmente distinguibili: in modo sempre più marcato si determina la consapevolezza che il genere umano – la cui definizione viene costruita scientificamente e oggettivata come prodotto genetico dell’evoluzione naturale – perde la naturalità per azione della cultura che lui stesso ‘naturalmente’ sviluppa: dunque per un uso retroattivo dei suoi stessi prodotti. Perdere la natura, è la condizione naturale dell’uomo. Ma questa affermazione è ovviamente rovesciabile: la tecnica non è che la natura umana che della naturalità biologica conserva la modalità, la legge interna. Ci avviciniamo al punto che ci interessa. Quanto più si accresce il sapere biologico e la oggettivazione scientifica della derivazione naturale dell’uomo, della sua dimensione animale all’interno del quadro del vivente – e decisiva è ovviamente la teoria evoluzionistica darwiniana – tanto più la naturalizzazione delle aree della politica,

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della morale, della società diventa una spinta irreversibile. Naturalizzazione che comporta, come si è detto, una regolazione immanente – iuxta propria principia – delle vite; che è come dire che il nomos, l’artificio, trova la sua regola nel modus naturale. Parlare di biopolitica per questa deriva naturalizzante può servire tanto ad illuminare l’esercizio di potere presente in quei dispositivi morali e giuridici che organizzano l’azione normativa sulla vita – discorsi di legittimazione biogiuridica e bioetica che fanno perno sulla natura umana – quanto decostruire i vettori di potere che li innervano1. Il termine biopolitica infatti nasce come leva ermeneutica per problemi e terreni di scontro intraducibili nel lessico tradizionale della politica e della scienza giuridica. Segnala il displacement del luogo di presa del potere, che diventa l’uomo nella sua genericità biologica di vivente. Ora ci interessa sottolineare che esso annuncia una più complessa modalità del potere, sempre meno giuridico, astratto, sempre meno riconducibile al dispositivo artificiale della sovranità. Non si può parlare di sostituzione del modus del governo a quello sovrano della legge, perché le due facce coesistono. Ma la dinamica del controllo governamentale rende prevalenti – in concomitanza con la democratizzazione e socializzazione della politica – le tecnologie ‘positive’ di potere, i dispositivi che operano attraverso la soggettivazione/assoggettamento della popolazione. Le norme di condotta si riformulano in termini di norma condivisa, immanente alla “natura” del vivente stesso, regolata sulla prassi effettiva. Non è il vecchio istituzionalismo il cui perno era la irriflessività delle gerarchie e dell’organizzazione cetuale premoderna. La naturalizzazione biopolitica ridefinisce il quadro di verità ‘naturale’ e lo gestisce attivamente. La ‘definizione dell’umano’ diventa la posta in gioco del conflitto politico e non soltanto struttura il dispositivo di governo, autorizzando le pratiche di potere e disegnando le gerarchie di expertise neo pastorali, ma anche letteralmente produce il modus vivendi e la sua ‘regola’. Si intende che per Foucault, quello che in questi discorsi viene definito come vita o come natura umana è sempre ‘un discorso’ sulla vita e sulla ‘natura’, su cui la biopolitica opera aprendo il «fatto» natura per sottoporlo non ad un artificio che la violenta, ma ad una norma di potenziamento, un nomos che è bios. La dicotomia collassa. Il corporeo, i bisogni, i desideri, la creatività, la natura umana non sono che una serie di processi, con una loro opacità penetrabile e gestibile solo a condizione che le linee di intervento siano ponderate, appropriate, flessibili come l’oggetto cui si riferiscono. Siano, appunto, tali da cogliere la loro “natura”, la “norma inter1

L. BAZZICALUPO, Biopolitica. Una mappa concettuale, Carocci, Roma 2010, p. 23 ss.

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na” del loro esplicarsi e non si calino dall’alto attraverso l’istanza politica classica, sintetica e trascendente, dello Stato e del diritto, pena un circolo degenerativo e inefficace2. La norma immanente, gestionale fa risaltare la struttura finalistica, la salvezza e la sua secolarizzazione: il benessere. Il binomio economico riuscita/fallimento si sostituisce così surrettiziamente a quello legittimo/illegittimo. Tanto nel welfare che, in modo diverso, nell’attuale liberismo, abbiamo testimonianza di questa procedura che intreccia l’intervento umano alla naturalità – presunta o costruita – del bios. Il fatto naturale/spontaneo è frutto di una doppia costruzione veridica: i dati sono costruiti in modo da coincidere con le categorie burocratiche degli Stati moderni o oggi con il marketing degli organismi di gestione e di controllo (banche, organismi internazionali, reti di cura); ma è anche frutto del principio su cui viene fondata la costruzione, un principio di scambio rappresentato come naturale, vero, oggettivo. Cosa c’entra la natura? La natura definisce l’umano sottolineando o oscurando alcuni dati empirici piuttosto che altri. Il concetto di natura utilizzato non è dunque mai descrittivo e ontologico ma normativo, performativo, selettivo: implica – anche tacitamente – il come si deve essere. Il tema normativo appare dunque doppiamente: quando definisce la natura umana in direzione incrementativa delle sue potenzialità e quando si concentra sulla norma interna che regola il processo di potenziamento. Quale norma? Il criterio/norma della fitness (o meglio il modello complesso di inclusive fitness) funge da perno della relazione tra biologia evoluzionistica e scienze pratiche. Subordinata alla sopravvivenza (dell’individuo o della popolazione, o della forma di vita: per es. nel capitalismo di Sombart), la fitness diventa obiettivo della ingegneria sociale, ma anche criterio guida della attuale bioeconomia. L’adattamento all’ambiente e reciprocamente la gestione dell’ambiente a scopi adattivi all’umano, comporta – come norma e come criterio – la preminenza del concetto di organizzazione su quello di ordine e una concezione sistemica, piuttosto che evolutivo-teleologica, della vita. Emerge infatti, rispetto all’antropologia filosofica – pensiero precursore di questa naturalizzazione – una istanza tecnico-politica di previsione e condizionamento del comportamento: gli agenti o consociati sono sempre meno connotati come soggetti giuridici e sempre più come viventi prevedibili e disciplinabili.

2

P. NAPOLI, Le arti del vero. Storia, diritto e politica in M. Foucault, Città del Sole, Napoli 2002; sulla norma foucaultiana, P. MACHEREY, Pour une histoire naturelle des normes, cit., pp. 201-221.

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La norma biopolitica e il tentativo di Deleuze di forzare i dispositivi Da un punto di vista filosofico, il tratto più significativo di questa norma che naturalizza tanto il bios che il nomos, è l’immanenza: è proprio la forza immanente della vita, la sua potenza ontologica che si manifesta nella norma3. In che modo? Nel quadro biopolitico, la norma emerge dal comportamento globale di una popolazione. La gestione della norma sociale è diversa a seconda se appartiene ad un contesto disciplinare o sicuritario. Nel primo, normale è ciò che è capace di conformarsi ad una norma adeguata a certi fini laddove l’anormale non ne è capace. «La disciplina concentra, fissa, rinchiude […] regola tutto, non tralascia nulla [...] (vuole) determinare esattamente ciò che è vietato e ciò che è permesso, o piuttosto, obbligatorio […] stabilisce le sequenze e le coordinate ottimali […] fissa i procedimenti di addestramento progressivo»4. Evidente la prescrizione di un ‘modello ottimale’: la norma viene prima del normale: si ha dunque una «normazione piuttosto che una normalizzazione»5. Il dispositivo sicuritario è invece, indefinito, tende ad integrare sempre nuovi elementi eterogenei: psicologici, morali, economici, commerciali e produttivi, che hanno origine esterna rispetto alla azione biopolitica di governo, la quale piuttosto li coordina, li finalizza, ne recupera la effettività: senza giudicare, operando sotto il segno del realismo. La norma qui “è un gioco all’interno di normalità differenziali”, che mette in relazione differenti distribuzioni di normalità. Ciò che è normale precede la norma stessa: «la norma è dedotta, si fissa e diviene operativa in seguito a questo studio della normalità»6. Il meccanismo disciplinare si rovescia evidenziando forme di autonormatività del sociale. Foucault fa propria la tesi della continuità tra normale e anormale del Canguilhem della prima parte de Il normale e il patologico, per il quale «i fenomeni patologici non sono negli organismi viventi niente più che delle variazioni quantitative, secondo il più o il meno, dei fenomeni fisiologici corrispondenti»7. Così il dispositivo 3

4 5 6 7

Nelle pagine dedicate alla biologia in Le parole e le cose (tr. it. Rizzoli, Milano 1967) la Vita è definita da Foucault un «quasi trascendentale» per i moderni, la cultura europea si inventa «delle grandi forze nascoste» (p. 272): «la Vita, in quanto forma fondamentale del sapere, ha fatto apparire oggetti nuovi [...] e nuovi metodi» (p. 273). M. FOUCAULT, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 45-50. Ivi, p. 51. Ivi, pp. 55-56. G. CANGUILHEM, Il normale e il patologico, cit., p. 18.

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sicuritario per il trattamento del vaiolo, cancella la divisione tra normale e anormale e assume l’insieme della popolazione, malati e non malati, senza discontinuità, in quanto esposti al rischio e perciò alla profilassi. Il profilo significativo non è quello individuale, ma dei gruppi a rischio, devianti dalla media generale, che il dispositivo deve far rientrare nei margini di una normalità statistica. È importante sottolineare che si tratta di un ripensamento radicale del concetto di norma. Non l’esteriorità, la trascendenza della forma che si cala sul fenomeno per misurarlo: la norma è immanente alla vita stessa. La forma stessa della indagine foucaultiana non può portare che a questo, sia pure, talvolta, in modo aporetico. «Per normativo – dice Canghuilhem – si intende in filosofia ogni giudizio che consideri o qualifichi un fatto in relazione ad una norma, ma questo tipo di giudizio è in fondo subordinato a quello che istituisce le norme. È normativo in senso stretto, ciò che istituisce delle norme. Ed è in questo senso che noi proponiamo di parlare di una normatività biologica»8. Il vivente – e la vita si dà sempre come individuata – è dunque auto-normativo. Diventa così possibile immaginare una biopolitica che aggiri la normatività trascendentale della sociobiologia spenceriana: non si assumono le verità della biologia per applicarle al sociale. Norma è il modus in cui si organizza il vivente: modus di autogoverno delle forze vive sociali e modus del quale un efficace governo dei viventi tiene conto, che si evince a posteriori dal vivere stesso. Si offre così una prospettiva teorica diversa, solo parzialmente utilizzata da Foucault, e ripresa da alcuni settori della biopolitica post-foucaultiana. A partire da una ferma istanza di rifiuto di qualsiasi giudizio rappresentativo. Il vivente come tale, nella sua immanenza, è irrappresentabile, e non giudicabile. Ma ne va preservata la condizione di limite della rappresentazione, proprio perché la rappresentazione biologica lo oggettiverebbe tradendo la sua immanenza. Tematica spinosa: se da una parte la norma vitale è la chiave d’accesso al governo delle vite, al potere che forma la soggettività, dall’altro rivela forse, ma non rappresenta mai, una potenza creativa nel vivente stesso. Foucault comunque pensa la vita in modo che sia irriducibile ad un modello di natura umana9 (che è il senso della socio-biologia): pensa che essa, nel divenire, esprima la propria normatività adattandosi – attraverso errori, deviazioni, creazioni – al contesto. La vita è sempre norma8 9

Ivi, p. 96, corsivo mio. M. FOUCAULT, Della natura umana, in N. CHOMSKY, M. FOUCAULT, Della natura umana. Invariante biologica e potere politico, DeriveApprodi, Roma 2005.

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ta – in questo senso la vita è sempre un discorso sulla vita con effetti di potere – ma è anche potere auto-normante. Un movimento ricorsivo piegato dall’interazione con l’ambiente. La vita non funge, per Foucault, da fondamento ma da limite ontologico, che dissolve incessantemente le forme organizzate. Non c’è nessuna antropologia vitalistica, ma piuttosto una continua problematizzazione della verità normativa che ‘determina’ la soggettivazione. Si tratta di un importante ripensamento della norma che sconfessa la tradizione moderna del pensiero giuridico: la vita produce norme e trasforma quelle vigenti nel suo adattarsi. È interessante osservare come l’area della trasformazione si situi in una zona grigia intermedia tra i dispositivi biopolitici che strutturano la soggettività: in cui «una cultura, scostandosi insensibilmente dagli ordini empirici che i suoi codici fondamentali prescrivono [...] li priva della loro trasparenza originaria, cessa di lasciarsi da essi passivamente traversare, si distacca dai loro poteri immediati e invisibili, si libera sufficientemente per constatare che tali ordini non sono forse i soli possibili o i migliori [...] esistono cose ordinabili a loro volta, pertinenti ad un certo ordine muto […] l’essere grezzo dell’ordine. È nel nome di tale ordine che i codici del linguaggio della percezione, della pratica vengono criticati e resi parzialmente invalidi»10. Per trasformarsi, la realtà si mette in contatto con il suo ordine/norma muto: istituzionalisticamente, l’ordine è un fatto costante della realtà che si modifica nello spazio opaco delle prassi. La critica e la resistenza sono sempre interne e determinano un piegamento che complessivamente rafforza la relazione di potere. Il potere – e l’influenza normalizzante subìta – attiva il governato che piega il potere che lo governa. Pratiche non soggettive governano le istituzioni in un modo ‘acefalo’, irriducibile al soggetto di diritto, autonomo e volontario. È lo spazio muto dell’istituzionalismo, la rete biopolitica sulla quale diventa difficile imporre le classiche ‘questioni di giustizia’. A reggere questa rete, c’è la ratio utilitaristica, economica, dominata dal concetto di valore. Valore che – e torniamo al sapere biologico – è sotteso alla fitness, al continuo adattamento della vita stessa, che presuppone il valore della sopravvivenza, dell’incremento della potenza vitale. Deleuze e Guattari esplicitano quanto in Foucault era ancora implicito: la determinazione (rappresentazione, soggettivazione, valore) è sempre correlata in ‘sintesi disgiuntiva’ con la sua dissoluzione, affermativa in se

10

M. FOUCAULT, Le parole e le cose, cit., pp. 10-11.

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stessa di nuove forme11. E sulla loro scia Negri e Hardt affermano «il paradosso di una forma di potere che, mentre unifica e ingloba ogni elemento del sociale [...] nello stesso momento svela un nuovo contesto, un nuovo ambiente, costituito dalla massima pluralità e da una incontenibile singolarizzazione – il piano dell’evento»12. L’approdo della logica immanentista non può che essere la coincidenza dell’evento con la sua stessa norma. L’evento è il luogo dove l’essere si dà non piegato ad alcuna categoria, ad alcuna disposizione fissa, ad alcuna classificazione o ripartizione normativa ‘esterna’. Nell’evento che è ‘negli interstizi’ delle identificazioni e soggettivazioni, nel divenire che ripete la differenziazione incessantemente, che incessantemente trascorre al di là di identità e differenza, dissolvendo ogni disgiunzione e sciogliendo ogni congiunzione, sta la ‘norma’ immanente all’evento stesso, la norma che, nell’ontologia deleuziana, rifiuta il giudizio13. Deleuze è il pensatore della differenza, del molteplice, dell’immanenza affermativa che dà una risposta alla domanda sul bios, aggirata consapevolmente da Foucault: una risposta neo naturalista – nel senso che apre un varco nel circuito di eterno rimando del contesto – che «rinnova il pensiero materialista e lo àncora solidamente nella questione della produzione dell’essere sociale»14. La sostanza-natura è dunque anti-sostanzialistica, non è che un modo di vivere, modus della singolarità vivente di essere affetta o rendere affette le altre singolarità: la norma è immanente alla vita. Tutto diviene nel piano di immanenza, reso mobile dal conatus, che dissolve i giudizi, le identificazioni nell’anonimo e impersonale: «non ci sono più assolutamente forme o sviluppi di forme né soggetti e formazioni di soggetti [...] ci sono soltanto ecceità, affetti, individuazioni senza soggetto, che costituiscono concatenamenti collettivi lo chiamiamo piano della Natura, anche se la natura non ha nulla a che vedere con esso, poiché questo piano non fa alcuna differenza tra il naturale e l’artificiale»15. Questa coesistenza “caosmica” è la condizione immanente nella quale le vite esperiscono la vita. La vita è produzione di differenze indeterminate, fluide. Qui si 11 12 13 14 15

G. DELEUZE, F. GUATTARI, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, tr. it. Castelvecchi, Roma 2006. M. HARDT, A. NEGRI, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, tr. it. Rizzoli, Milano 2002, p. 41. R. SCHERER, (Beauté de Foucault, in R. CHARTIER, D. ERIBON (eds.), Foucault aujourd’hui, l’Harmattan, Paris 2006) ricorda una battuta di Deleuze: meglio essere spazzini che giudici. M. HARDT, A. NEGRI, Impero, cit., p. 43. G. DELEUZE, F. GUATTARI, Millepiani, cit., p. 375.

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dà convergenza, paradossale, con le metafisiche genetiche-evolutive del neo-darwinismo.

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Dubbi La radicalizzazione deleuziana è distante dall’analisi sui dispositivi storici e positivi: piuttosto muove dalla percezione di una trappola, di un tutto chiuso che la decostruzione dei dispositivi e della norma tra assoggettamento-soggettivazione suggerisce. Ma solo apparentemente viene incontro alla esigenza di uscire dalla claustrofobia dei dispositivi. Esigenza che si indovina oggi, dopo lunghi anni di culturalismo, nel rilancio del concetto biologico e neurobiologico di natura-vita, e che offre un insperato punto archimedeo su cui far leva per ri-orientare il normativo: tanto nel campo tradizionalista che in quello scientista e cognitivo. Una natura auto-normativa – ascritta ad uno Spinoza de-metafisicizzato – è assai diversa in quanto emerge proprio dal rifiuto di qualsiasi definizione categoriale che funga da modello e da criterio di giudizio. Eppure in entrambi i casi, la vita-natura è qualcosa di univoco, un valore non valutabile: la politicità del ‘discorso sulla vita’ legato a vettori di interesse e di potere, si annulla in una autoaffermazione. L’antinaturalismo di Foucault e di tutto il decostruzionismo sembra trovare oggi, dunque, una battuta d’arresto. Sosteneva che la soggettività moderna è prodotto del biopotere, che non si dà esperienza della natura umana se non all’interno di una interpretazione storicamente situata. La natura umana non era che il correlato ipotetico di scienze umane interpretabili come “effetti” del potere biopolitico e disciplinare, dunque nient’altro che un dispositivo concettuale per il controllo e la selezione. Misurandosi su questo tema e tentando di forzarne l’impasse, la biopolitica “affermativa” sposta il luogo della norma, rovesciando così la presa sulla vita. Sarebbe facile obiettare che ci troviamo di fronte a discorsi di verità foucaultianamente compromessi col potere, vettori di forza nello scontro delle idee, verità mai innocenti. La tentazione della naturalizzazione resta grande, anzi cresce col crescere dell’attenzione alla corporeità, alla fisicità, chiave di volta manipolabile del successo e del potere. I dubbi restano: questa vita, nella sua potenza autonormativa è esposta a letture rischiose. Innanzitutto rifluisce, soprattutto nella sua vulgata, nel livello del pre-razionale, pre-consapevole e può essere risucchiata dal vitalismo romantico, con il fondamento di autenticità. Il termine vitalismo – abbiamo visto – va però avanzato con cautela: la vita, tanto per Deleuze, che ancor più per Spinoza, non è un principio o una sostanza, né va letta

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in senso biologico. Anche qui per capire dobbiamo tornare al concetto di norma. Nel caso di Deleuze la vita non si riferisce al soggetto individuato (dunque ascrivibile alla nietzscheana volontà di potenza) ma all’immanenza dell’impersonale, vivente di molte voci e pensabile solo nella dimensione di singolarità che esclude la genericità del principio vitalistico ancor sempre normativo-selettivo. Questa vita impersonale marca la distanza sia dalla prospettiva dei dispositivi biopolitici – del bios come un impersonale astratto che produce gerarchie interne tra vita umana e mera esistenza – sia da qualsiasi riproposizione dell’umanesimo. Mutuando dal bergsonismo la ‘regola’ del movimento di individuazione come passaggio dal virtuale all’attuale e dall’embriologia il trasferimento sempre nuovo e sempre differente della generalità della vita che «passa verso l’individuo e le singolarità preindividuali, non verso l’impersonale astratto»16, Deleuze perviene ad un pensiero della vita neutro, impersonale, ma non in senso astratto normativo. Anche se resta valida l’obiezione di Badiou: l’univocità della vita in Deleuze fa sì che «ogni cosa è, in modo oscuro, come il segno di se stessa; non di se stessa in quanto se stessa, ma di se stessa in quanto simulacro provvisorio o modalità precaria della potenza del Tutto [...] diventa indifferente dire: Tutto è vita e dire Tutto è segno»17. Che nel nostro discorso è trascrivibile in questi termini: se tutto è norma di se stesso, tutta la vita è – in modo univoco – necessità e norma del Tutto. Non c’è posto per il caso, né per la possibilità, né per la politica. L’enfasi affermativa si rovescia in una nientificazione: decostruite le forme simboliche come effetto del biopotere, si afferma l’affermatività, la positività del reale stesso, la positivizzazione di singolarità molteplici e molecolari e la moltitudine come soggetto politico. Deleuze stesso avverte la strettoia tra tentazione vitalista e accorta lettura di testi solo apparentemente gaudiosi come quello di Spinoza o sfuggenti alla presa metafisica come Hume. Non ci sono moltitudini di soggetti liberi e autonormati dietro l’angolo. È necessaria una ascesi riduttiva delle pulsioni identitarie e personalistiche per seguire ‘affermativamente’ la norma. Si è costretti a cercare – nella sottrazione ascetica – un punto di affermatività che non sia legato al destino umano del simbolico, della rappresentazione, dell’interdetto e, quindi, del potere. Alla ricerca di una vita che non offra sporgenze alla presa governamentale. Una formidabile possibilità filosofica. Formidabile, ma politicamente problematica. Se è vero che, su questa strada, si evita la riproposizione del soggetto di potere, c’è anche il rischio 16 17

G. DELEUZE, Differenza e ripetizione, tr. it. Cortina, Milano 1997, p. 320 ss. A. BADIOU, Ontologia transitoria, tr. it. Mimesis, Milano 2007, p. 53.

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di afasia, soprattutto di afasia politica: rischio, non piccolo, che si cancelli, si disabiliti la organizzazione sociale che si vorrebbe aprire alla vita, alle concrete non-persone che il diritto oscura. 2. L’ambivalenza del corpo nei dispositivi biopolitici

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I corpi sono ‘segnati’ Interrogarsi sull’ambiguità di cui sono carichi i segni che si iscrivono sui corpi è un compito sterminato, poiché il corpo è sempre stato ‘iscritto’, non è mai stato ‘nuda vita’. Queste riflessioni attengono alla dimensione sociopolitica del problema. E la biopolitica è il loro campo di indagine. Quella che chiamiamo biopolitica è l’analisi dell’attenzione del potere moderno ai corpi viventi, la centralità del corpo vivente nel suo presentarsi e rappresentarsi. Ma non è solo questo. Biopolitica è il fatto che a questa presentazione/rappresentazione, alla verità che viene rappresentata, seguono effetti politici, perché ciò che si mostra e che si rappresenta viene valutato e attraverso la gerarchizzazione prodotta dalla valutazione stessa, politicamente governato, in una forma di governo che viene ad istallarsi direttamente sul vivente. Sembra necessario allora fare un passo indietro e chiederci: perché si scrivono sul corpo le classificazioni? Una prima risposta è che la visibilità, la riconoscibilità è un elemento chiave del posizionamento sulla scena politica e sociale: e il corpo – i segni impressi sul corpo, magari accentuati se sono distintivi di una posizione di forza o nascosti, se indice di debolezza sociale – ‘presenta’ e ‘rappresenta’ una riconoscibilità e un ‘accomunamento’. Questa è certo la risposta più vicina alla nostra esperienza in società multietniche, segnate da profonde diseguaglianze, ma anche straniere, prive di memoria comune. Perciò bisognose di ‘segni’ rapidamente riconoscibili di orientamento al fine di misurare la distanza di sicurezza o mettere in atto pratiche di avvicinamento e di alleanza. C’è però un’altra risposta, che va più a fondo al problema: la segnatura dei corpi dipende dal fatto che il corpo è di per sé differenziazione. La differenza, la singolarità sono percepibili, senza essere cancellate e trascese nel concetto e/o nella norma, solo se si rimane sul piano della aisthesis, della dimensione sensibile relativa ai corpi, alla loro fisicità che li rende l’uno diverso dall’altro: non sovrapponibili, sempre differenti. La logica che presiede a questa singolarità plurale non è, non può essere quella della

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norma, della legge generale e astratta con la quale gli uomini in Occidente hanno organizzato la convivenza e operato la reductio ad unum del molteplice all’unità del sovrano. I corpi sarebbero dunque destinati a rimanere nella loro mutevole molteplicità irriducibile, la cui logica è «la piega, umbratile, il chiaroscuro e l’inflessione che non è né basso né alto, né destra né sinistra, né regressione né progressione […] segno ambiguo […] puro Avvenimento»18. Ingovernabili dunque: perciò su questa differenziazione e singolarità evenemenziale si innesta il governo delle vite che chiamiamo biopolitica, operando la ‘normalizzazione’ e la classificazione che neutralizza e ‘governa’ l’anarchia di quelle differenze singolari e il disordine delle loro passioni, emozioni, desideri. Paradossalmente il processo di assoggettamento al governo passa proprio attraverso la biologizzazione dell’umano, la riduzione dell’umano al vivente – dunque al corpo – che le scienze biologiche oggettivano, definiscono, subordinandolo a normalità e regolarità, fisiologia e patologia, classificandone le potenzialità e le deviazioni. La naturalizzazione delle differenze, la biologizzazione dell’unità psicofisica è il principio classificatorio della biopolitica. E questa classificazione agisce in un’ottica duplice: escludente, discriminatoria e tanatologica oppure inclusiva governamentale. Come diversificati ovviamente sono i regimi di gestione. Anche se, va ricordato per inciso, e ci torneremo più avanti, l’una opzione non esclude l’altra essendo la tecnica biopolitica di governo, di per sé, eterogenea e ‘compatibile’ con altri discorsi. Per precisare, occorre segnalare che se da un certo punto di vista appare evidente che sulle classificazioni liberali e umanistiche – centrate sullo ‘spirito dell’Uomo’, microcosmo teso tra dio e la bestia – prevalgono oggi identificazioni legate alla fisicità e al vivente e dunque una riduzione darwiniana e positivistica al biologico che segna le identificazioni in modo visibile e stigmatizzante, ‘oggettivante’, la decostruzione dello stesso concetto liberal-umanista di persona, mostra come questa opera di stigmatizzazione venga portata avanti anche nella Main Tradition umanistica selezionando appunto ciò che è umano nel senso pieno della parola dalle vite sub-umane o meno che umane respinte nel vivente animale19. Nel processo di naturalizzazione dell’umano – centrato sui corpi – il principio di differenziazione delinea aggregati del vivente, le popolazioni, che sono direttamente segnati dallo stigma che le accomuna. Le popolazioni biologiche ed economiche statisticamente aggregate possono essere 18 19

G. DELEUZE, La piega, cit., pp. 22-23. R. ESPOSITO, Terza persona, Einaudi, Torino 2007.

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governate solo in modo differenziale secondo una logica economica individualizzata che contrasta profondamente con la classica logica del diritto che tende alla generalità della legge astratta e formale. Si eludono dunque i diritti che su quella tradizione e logica giuridica si innestano. A fronte di soggetti politici giuridici come i cittadini e il popolo, in regime biopolitico si parla di popolazioni che possono essere a rischio, devianti, da proteggere o da isolare oppure da potenziare: diverse e differentemente segnate che vengono subordinate perciò a differenti regimi di gestione.

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Il corpo e i suoi sensi L’appello alla centralità del corpo è inevitabilmente venato di polemica. Lo è in Nietzsche che parla di una grande ragione del corpo: contro la razionalità astratta, formale c’è una ragione (non una irrazionalità, dunque, ma una diversa ragione dotata di una sua propria norma) che inerisce al vivente. E aggiunge: «il corpo è […] una pluralità con un solo senso, una guerra e una pace, una gregge e un pastore»20. Tutto passa per il corpo, per il corpo vivente. Cronenberg, il regista che sa cogliere l’oscura macchia dell’esistenza nell’ordine del simbolico e dell’immaginario, dice: il corpo è il primo fatto dell’esistenza. Il corpo è ciò che è in comune, ma anche ciò che separa: ciò che è sempre differente. È ciò che è singolare, che sente i suoi affetti, che ricorda i suoi ricordi, ha fame, ha sonno, ha desiderio in modo singolarissimo e differenziale. Il corpo è il grido delle differenze. Quelle differenze che il regime della Legge e della rappresentazione disciplinano, normalizzano, riconducendole al Medesimo. E che l’immaginario biopolitico valuta, illumina, corregge, stimola. Se biopolitica, per riprendere un noto passaggio foucaultiano, è disciplina del corpo e amministrazione della vita, probabilmente mai come ora questo neologismo diventa tremendamente concreto, applicazione direttamente pratica. Sesso e potere, vita e morte, diventano problemi dell’agenda politica, oggetto di interrogativi vecchi (Agamben riscontra il carattere biopolitico/tanatopolitico del dominio in tutta la storia occidentale, fondata sul discrimine del bando, dell’eccezione della nuda vita uccidibile21) e di questioni nuovissime, originate dalle biotecnologie, ma anche dalla 20 21

F. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI, tomo II, Adelphi, Milano 1996, p. 34, corsivo mio. G. AGAMBEN, Homo sacer, Einaudi, Torino 2005.

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dimensione spettacolare della politica stessa che getta in primo piano la vita corporea con le sue diseguaglianze, i suoi eccessi, i suoi dolori. La differenziazione tra i corpi, differenziazione che non è mai neutrale, talvolta gioiosa, spesso crudele, passa allora nella distinzione tra visibilità e invisibilità. In alcuni casi questi corpi – quelli degli immigrati, delle prostitute – diventano mera carne da sfruttare sul mercato, o emarginare, nascondere: i loro corpi recano i segni della precaria posizione nel mondo, lo sguardo tradisce la insicurezza dei propri diritti. Lo schermo televisivo ci restituisce il loro anonimo aggregarsi con altri simili – fisicamente simili – come si fa con le bestie di un gregge, mandato al macello o segregato in un recinto. In altri casi il corpo è strumento di ostentazione del potere, ostentazione di inclusione nella ‘popolazione’ dei sani, dei belli cui la promessa di vita e di potere è maggiore. Dicotomia e selezione da cui genericamente non si sfugge, a meno che quei corpi invisibili non decidano di emergere e ribellarsi, di occupare le piazze, di usare la voce e gridare, assumendo così una visibilità rischiosa per il potere. Probabilmente in pochi sapevano dell’esistenza degli immigrati di Rosarno, prima della rivolta. In entrambi i casi, degli esclusi e degli inclusi, la verità è che il corpo è il luogo dove si applica il potere: attraverso l’immaginario e la rappresentazione simbolica che lo piegano, lo orientano, danno forma (bios) alla nuda vita (zoè). A partire dalla modernità questa forma di gestione biopolitica assume la forma ambivalente che oggi si radicalizza. Il potere è cosa che passa per i corpi animati, si istalla in essi, li modella, li gestisce, ma anche li stimola, li fa crescere. Questa è la biopolitica: quella deriva del moderno che non può essere intesa compiutamente attraverso la logica del diritto – che continuamente anzi mette in scacco il diritto – mette in scacco la logica del soggetto astratto ed universale. Questo ‘stile del potere’ giunge oggi a compimento, attraverso la convergenza dei grandi regimi di verità sapere/potere che organizzano il nostro mondo e che lo governano attraverso dispositivi: l’economia e la scienza biomedica. Siamo all’estrema socializzazione della biopolitica: la bioeconomia, l’economia che fa presa sui corpi, sulle vite, nella forma della gestione mercantile, commerciale, inducendo e raccogliendo una domanda di potenziamento, di trasformazione, di cura per soddisfare la quale basta pagare. Bioeconomia significa innanzitutto che non ci sono mediazioni diverse dal nomos economico, immanente alla vita. È l’ultimo displacement del potere che fa perno sul corpo e sulla sua energia desiderante: la subordina al progetto di sempre ulteriore incremento o la libera come agente attivo del proprio godimento.

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È il corpo stesso, il corpo vivente che è soggetto e oggetto nel mercato. Perdendo la sua silenziosa irriflessività, il suo essere organo inconscio del nostro rapporto col mondo, la sua muta, pulsante funzionalità (che rivela la propria innocente potenza nel gioco solitario di un bambino o nell’abbandono del sonno), il corpo si apre alla trasformazione – l’immaginario gli offre la gamma di potenziamenti da desiderare – si offre alla manipolazione, al potenziamento di sé e dei propri piaceri, tendendo un filo tra omologazione, genericità dei consumi e personalizzazione dei desideri, inseguiti, indovinati, interpretati fin nei reconditi spazi delle nostre fantasie e dei nostri sensi. Il corpo, inteso come luogo di sentire e di potere aperto alla modificabilità, è la vera frontiera materiale del nostro tempo. Si è aperto ad un divenire, ad una trasformabilità che – giungendo fino al cyborg22 – investe le sue percezioni (sente e vede, in luoghi diversi da quello in cui si trova; gode di cibi o di odori inediti che ci stordiscono con la loro novità), le sue emozioni (si può essere artificialmente euforici o estremamente lucidi, o non sentire la paura, l’ansia, il dolore, la tristezza che la vita – così com’è – ci impone), le sue passioni (si può amare di più di quanto si ama, ci si può stupire, distrarsi, spaventarsi, essere coinvolti in luoghi, spettacoli, storie che moltiplicano la nostra storia), le sue capacità fisiche (si può correre velocissimi o si può somigliare, per gli abiti o per i capelli, a qualcuno che ci piace) e naturalmente – e qui medicina e economia si intrecciano più che mai – si può cercare di vivere molto più a lungo, di avere un corpo giovanile anche in età avanzata, si può fingere di non essere malati. L’aprirsi del corpo e della naturalità destinale al progetto di miglioramento biopolitico, ha inaugurato un immenso campo di consumi, di influenze e di esigenze da soddisfare. Durata, resistenza del corpo, benessere dell’anima, bellezza, giovinezza, fascino: tutto si compra. Il corpo, la vita sono al centro della questione politica. La radicale riduzione del soggetto al suo corpo: tanto il soggetto di potere che si offre nei suoi desideri, nelle sue smanie, nelle paure e nelle debolezze nella sua sessualità senza né timore né tremore. Ma anche il soggetto assoggettato: la riduzione dei migranti a corpi da gestire, da concentrare, corpi e nient’altro, nuda vita, corpi che il mare seppellisce senza un nome, una identificazione: meglio così non ingombrano, non tolgono spazio... fora de bal. Ma anche i soggetti che appartengono allo spazio privilegiato: nel cuore dell’immaginario neoliberale, il mito dell’autorealizzazione, del capitale umano. Corpi giovani che sfruttano (investono su) la loro bellezza e 22

D. HARAWAY, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, tr. it. Feltrinelli, Milano 1995.

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giovinezza, si vendono e sono comprati: palestre, creme, diete, per essere competitivi sul mercato mentre il desiderio di vita si riduce al desiderio di prolungamento della potenza sessuale, della longevità. È il paradosso della libertà oggi: quel mix ibrido di autonomia e eteronomia comunque entrambe subordinate alla logica del mercato. Sempre meno cittadinanza attiva, partecipazione alle decisioni, e sempre più libertà di scegliere, anzi imperativo a scegliere senza averne le coordinate politiche. Un immaginario che mette al centro il corpo e la differenza, trasforma profondamente la Legge: sii te stesso, realizzati, assumi la tua differenza! E poiché le differenze si manifestano come desiderio, la legge diventa quella del desiderio agìto, attuato, colmato: Godi! Ovviamente questa trasformazione inquietante non ha origine da filosofi e psicoanalisti o artisti … Ciò che si trasforma in modo camaleontico ed inquietante è il capitalismo. Inteso qui come sistema integrato e integrante, planetario, di produzione e consumo, ma anche come linguaggio universale di accesso alla realtà23. Sarebbe sbagliato parlare di manipolazione: soggettivazioni ambivalenti piuttosto. Il tema del corpo ci permette di sondare la straordinaria ambiguità del potere oggi. Finito il tempo metafisico in cui valori non discussi permettevano di decretare quale fosse la parte del potere, designata come dominio e oppressione, e fronteggiarla con la parte ‘positiva’ della libertà, la nuova forma di potere che passa attraverso i corpi è un potere soft, potere benevolente, potere che si piega. Potere che dà forma e produce la forza e la libertà dei soggetti/corpi stessi che investe. La segnatura sui corpi diventa produttiva di possibilità o, come dice Sen, di capacitazioni. E i soggetti non sono quelli astratti, giuridici, autonomi e indipendenti, ma soggettivazioni che emergono da un processo di assoggettamento. Che però è interpretabile anche come processo di building, di formazione all’interno di un contesto culturale (purtroppo quello della verità del mercato e della logica economica), un processo che pervade le vite (i corpi animati) mettendosi in contatto – per essere efficace – con la norma interna che lo regola, sollecitando le energie interne dello stesso corpo, incrementando potenzialità innate. Un fuori che si fa dentro, per tornare ad essere un fuori: piega vivente che prende il posto della logica dialettica, senza sintesi, senza rigida concettualità. L’enigma dell’autorità che si fa libertà nel soggetto che si piega ma anche, attraverso quella, trova la forza di resisterle, di piegarla a sua volta. Questo è il punto: il corpo non si presenta come oggetto 23

L. BAZZICALUPO, Legame sociale, godimento, mercato, in A. PAGLIARDINI (a cura di), Il reale del capitalismo, Edizioni et al., Milano 2012.

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docile, ma come soggetto opaco, ostinata resistenza. Subisce il potere ma lo piega a sua volta, essendo il potere una relazione. L’accanirsi sul corpo, segnandolo – accanimento trasversale che incrocia le questioni di genere, la politica spettacolarizzata, la medicalizzazione totale, il razzismo – insomma, tutto ciò che ci suggerisce una biopolitica, denuncia un attrito dei corpi stessi, la loro ostinata riluttanza a, come dice Foucault «essere eccessivamente governati, non troppo, non così». Affiora un antagonismo, una negazione costitutiva, scomoda per la gestione liscia del potere e per l’esercizio garantito e continuo del comando. Antagonismo sordo, che rivela un concentrato di ambiguità nei corpi messi a profitto, appigli sicuri in cui individuare meccanismi possibili di sfruttamento, ma al tempo stesso centri resistenti di potenza produttiva. Il potere dei corpi Questa è la ambivalenza che, dopo Foucault, trova espressione – semplificata e perciò discutibile – nella tensione tra biopotere e biopotenza, ancora una volta tra immaginario di biopotenza contro rappresentazione di biopotere. Ambivalenza tra la spinta alla autogestione delle potenzialità (Negri, Haraway, Braidotti24) ed eteronomia di un governo dei corpi demandato ai ‘pastori del soma’. Tra una biopolitica dal carattere selettivo e tanatologico: la gestione sulla vita da parte del potere, e una versione biopolitica affermativa, la potenza della vita, la politica della vita. In un immaginario affermativo della biopolitica, i corpi sono dotati tanto del carattere produttivo del potere, che della sua autonormazione. Canguilhem aveva parlato di norma del vivente individuato e di autoregolazione. E Foucault da questo aveva mosso il suo studio sulla sessualità. Se risaliamo a Volontà di sapere, l’analisi della sessualità, dispositivo chiave del potere biopolitico che insedia la disciplina e la regolazione delle condotte nel doppio livello dei corpi individuali e della popolazione, ci accorgiamo che esso rivela una raffinata costruzione-rappresentazione della soggettività, nella quale il corpo sessuato diventa la ‘cifra dell’individualità’ e la via d’accesso al suo governo. Foucault, pur negando decisamente l’ipotesi repressiva tradizionale sulla sessualità (ripresa da Reich o alla Marcuse), nota che la rappresentazione naturalistica del dispositivo della sessualità ha dato grande forza alle lotte antidisciplinari degli anni ses24

Sulla biopolitica ‘affermativa’ di A. Negri, R. Braidotti e D. Haraway, cfr. L. BAZZICALUPO, Biopolitica. Una mappa concettuale, cit., pp. 91-105.

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santa, settanta. La rappresentazione naturalizzata dell’uomo come corpo desiderante individua un sostrato ‘buono, ricco’, «al di sotto dell’interdetto sessuale, la freschezza del desiderio»25, e offre così alla resistenza un terreno, bios che – pur essendo quello su cui agisce il biopotere per governare le soggettivazioni – si svincola dalle costrizioni e identificazioni assoggettate per accedere a produzioni creative del sé. Così avviene nelle lotte femministe e nella naturalizzazione identitaria delle lotte sociali. «Contro questo potere ancora nuovo nel XIX secolo, le forze che resistono si sono appoggiate proprio su quello che esso investe – cioè sulla vita e sull’uomo in quanto essere vivente. È dalla piena modernità che quel che si rivendica e serve da obiettivo è la vita, intesa come bisogni fondamentali, essenza concreta dell’uomo, realizzazione della sua virtualità, pienezza del possibile. Poco importa se si tratti o no di utopie; abbiamo a che fare qui con un processo reale di lotta: la vita come oggetto politico è stata in un certo qual modo presa alla lettera e capovolta contro il sistema che cominciava a controllarla»26. Questa piega avviene soprattutto al livello psichico dell’immaginario (chiamo lacanianamente immaginario lo specchio che rinvia una immagine del mondo, una verità che costruisce le nostre soggettivazioni, una autorappresentazione idealizzata) col quale solo in parte l’ordine simbolico – le rappresentazioni e identificazioni nei ruoli sociali – coincide. Questo doppio livello, immaginario e rappresentativo, che è perciò il luogo elettivo dell’agire politico e delle sue modificazioni, è sempre in frizione, in attrito, e non esaurisce mai il corpo-soggetto stesso, mai coincidente né con l’immaginario idealizzato e potenziante, né con il ruolo sociale: reale rispetto ad essi. La produzione di soggettività si dà così, malgrado il biopotere, come potenza di espressione dell’eccedenza: l’anomalia selvaggia spinoziana. Eccedenza che crea spazi di autovalorizzazione, potenza contro il potere. Ma fare perno sulla potenza (la parola potere viene lasciata a designare l’assoggettamento) del corpo, esaltandola, non ci riconduce esattamente al tema del capitale umano nel tardo liberalismo? Non si tratta di quel tipo di soggettivazione in termini di imprenditorialità, di rischio, di autorealizzazione? Non è questo l’immaginario neoliberale di una potenza sempre ‘interna’ ai dispositivi che la suscitano, la incitano sì, ma anche la gestiscono, la orientano, la assoggettano al loro codice? 25 26

M. FOUCAULT, La Volontà di sapere, cit. e ID., Non au sexe roi, in Dits et Ecrits II, Gallimard, Paris 2001, pp. 264-265, traduzione mia. Ibidem.

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Dispositivi e soggettivazioni

Certamente, come afferma ancora Foucault, la potenza, «la padronanza, la coscienza del proprio corpo non si sono potute raggiungere che per l’effetto dell’investimento del corpo da parte del potere [...] nella linea che conduce al desiderio del proprio corpo attraverso un lavoro insistente, ostinato, meticoloso che il potere ha esercitato sul corpo dei bambini, dei soldati, sul corpo in buona salute. Ma, dal momento che il potere ha prodotto questo effetto, sulla stessa linea delle sue conquiste emerge inevitabilmente la rivendicazione del proprio corpo contro il potere [...] ciò stesso per cui il potere era forte diventa ciò da cui è attaccato [...] il potere si è addentrato nel corpo, esso si trova esposto nel corpo stesso [...] come risponde il potere? Attraverso lo sfruttamento economico (e forse ideologico) dell’erotizzazione, dai prodotti abbronzanti fino ai films pornografici [...] come risposta alla rivolta del corpo, troviamo un nuovo investimento che non si presenta più sotto la forma del controllo-repressione ma sotto la forma del controllo-stimolo»27. Che si può trascrivere in altre parole. Il corpo potente, potenziato e reso più attivo e produttivo esercita la sua potenza e libertà piegandosi al codice del mercato: sia per potenziare se stesso, sia per esercitare la sua libertà. In questa ambivalenza è possibile leggere sia, come fa Foucault, la capacità del potere di stimolare e ricomprendere in se stesso una resistenza che ne rafforza la logica, sia, come fa il femminismo di Braidotti o la teoria negriana dei Commons, la vitalità naturalistica, una energia sottostante al biopotere che – riattivata all’interno del codice di governo – sfugge alla colonizzazione per «fabbricare altre forme di piacere, di relazioni, di convivenze, di legami, di amori e d’intensità»28. Torniamo alla scena di oggi: l’immaginario di potenza non meno della rappresentazione di assoggettamento governato lasciano in ombra qualcosa: sono entrambi riduttivi. È necessario individuare cortocircuiti, ambiguità, contraddizioni di questo immaginario e di queste rappresentazioni che marcano i segni sul corpo, per produrre degli elementi di opposizione, per individuare gli snodi in cui la capacità prensile dei meccanismi di potere si allenta e diventa più fragile. Quale potenzialità possiamo individuare che non appartenga già alla logica biopolitica che organizza e orienta questi corpi? Quale logica si sottrae all’utilitarismo del mercato e alla cecità della fitness? Senza cadere nel vitalismo naturalistico, però. 27 28

M. FOUCAULT, Potere e corpo, in ID., Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, Einaudi, Torino 2001, pp. 150-151. M. FOUCAULT, Non au sexe roi, cit., p. 261.

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Non credo che la battaglia possa limitarsi alla bandiera del diritto – ordine della rappresentazione simbolica – anche se è fondamentale tenerla alta e cercare di far fronte con essa alla pressione biopolitica che aggira i controlli democratici e la partecipazione politica, attraverso appelli all’emozione, alla morale o al popolo. Bisogna penetrare piuttosto nelle nuove forme di regolamentazione giuridica della governance, proprio in quelle logiche che segnano, discriminano, regolamentando in modo differenziale: all’interno di quelle sta la partecipazione che viene sollecitata nei tavoli di concertazione diseguali della governance stessa, una partecipazione che attiva le differenze locali, che mobilita i corpi nella gestione di se stessi. È importante accogliere la sfida della presente attenzione al corpo vivente e se possibile radicalizzarla. Forse è lo stesso corpo a cui dobbiamo rendere più che la potenza e la biopotenza, la complessità che i saperi economici e biologici tendono a ridurre ad una mancanza da saturare con beni e con cose. Il corpo vivente, l’unità psicofisica è ben complicata. I corpi – questa è la fondamentale intuizione postmarxiana e postfreudiana di Foucault – si governano attraverso i loro desideri. E il discorso del desiderio – il marketing lo indovina appena, un po’ sì un po’ no – è complesso e spesso sorprendente. Quando si organizza attorno al feticcio del benessere, della salute, nasconde ansie, fantasmi cui bisognerebbe rendere la parola. La logica utilitaristica che governa e marca l’adattamento biologico ed economico, la fitness, spingendoci alla conservazione e all’empowerment, si presenta come naturale. Ma, forse è non-tutto. Forse c’è dell’altro. 3. La gestione dell’erotismo Dispositivi che si istallano sulla vita Perché parlare della sessualità come di un “dispositivo biopolitico”? Che significato ha questa espressione – dispositivo biopolitico – e in che modo essa taglia trasversalmente i discorsi psicobiologici, antropologici, sociologici, etici, culturali, religiosi, giuridici, oggi presenti nell’arena comunicativa? La diffusione del termine biopolitica è legata alla constatazione dell’impasse in cui si trovano le categorie giuridiche e politiche tradizionali, imperniate su soggetti giuridici formali e sulla separazione liberale di pubblico e privato. Sembra a prima vista impossibile, attraverso la sola prospettiva giuridica, dare conto di una selva di poteri che si innestano direttamente sul vivente, spesso sollecitati a farlo dagli individui stessi, i quali entrano

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Dispositivi e soggettivazioni

in gioco sempre più come corpi viventi e sempre meno come cittadini. In questa tarda modernità la politica sembra aver preso in carico la gestione della vita biologica inserendola in un programma di protezione e di incremento che sconfina nella produzione dell’umano e in quella che Sloterdijk ha chiamato la domesticazione dell’essere. Cosa tanto più evidente nelle tematiche centrate sulla relazione tra scienza biotecnologica e medica e sfera della condotta relativa alla vita, alla riproduzione, alla identità sessuale che sono fatte oggetto di riflessioni, prescrizioni, suggerimenti, regole in chiave decisamente normativa “alla luce di valori e principi morali”. Una analisi in chiave biopolitica mira a evidenziare in questi “discorsi autorevoli di verità sulla vita”, il vettore di potere che li regge e la modalità con cui agisce. Muoviamo dalla costatazione dell’ambivalenza dell’attuale gestione biopolitica dei corpi e della sessualità tra immaginario autonomistico e eteronomia pastorale delle expertise. Si rende necessario un passo indietro per fare luce sul dispositivo della sessualità in chiave foucaultiana e sulla modalità che lo rende efficace, per poi tornare all’attualità chiedendosi, in dialogo con Butler, se, a fronte di una governamentalità naturalizzante e biopolitica, sia possibile recuperare spazi di autonomia e di agency tramite i diritti, pur essendo consapevoli della loro criticità. Potenzialità biotecnologiche autogestite e eteronomia dei ‘pastori del soma’. Le istituzioni di potere – se è vera l’intuizione di Foucault – veicolano il controllo attraverso una volontà di sapere e una ‘verità’ che, lungi dall’essere puramente teorica, struttura dispositivi di potere capaci di organizzare e disciplinare i corpi e le menti dei soggetti. La nuova governance neo-liberista inaugura, in questa commistione di verità e potere, una inquietante ambivalenza, un regime di paradossale eteronomia/autonomia. C’è un mondo popolato di individui che pensano se stessi ‘liberi’, autonomi, titolari di bisogni, di desideri, di diritti, di interessi e di scelte, ma costoro, per poter agire, devono essere formati, guidati, indirizzati da autorità competenti che li mettano in condizione di esercitare la propria libertà. L’immaginario condiviso esalta una autogestione delle vite e delle scelte che va molto al di là del passato: la sfera del destinale, di ciò che ci è toccato in sorte e che è immodificabile, si restringe notevolmente: sterilità, impotenza, frustrazione, angosce, malattie, e, non ultimo, il destino del sesso ‘naturale’, tutto può essere modificato e non subìto passivamente. E l’incremento della vita e del benessere, vero imperativo ossessivo della nostra epoca, non è affatto gestito da un potere statale paternalista, ma demandato alla responsabilità di ciascuno invitato a pianificare la propria vita, i rischi, le chance. Ciascuno a sua volta, però, per scegliere ha biso-

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gno di una rete – come evidenzia Nikolas Rose – di aziende private come cliniche della fertilità e della sessualità, multinazionali bio-tecnologiche, gruppi professionali come le associazioni mediche (regolate a loro volta da complessi sistemi di certificazioni, di standard, di valutazione delle prestazioni, dei bilanci) fino alle lobbies che organizzano la domanda di cure specialistiche: dai comitati bioetici, alle agenzie morali e religiose29. La riorganizzazione postwelfarista dei poteri politici e statali devolve la responsabilità nella gestione del corpo, della riproduzione umana ad un proliferare di centri di potere nei quali è assente la legittimazione democratica e che hanno un ambiguo profilo giuridico, ma cui è riconosciuta – tramite anche la visibilità mediatica – l’autorevolezza della competenza: l’expertise appunto, e una posizione gerarchica inedita nel vecchio diritto liberale egualitario e astratto. La mediazione normativa dello Stato è sottoposta a continue pressioni da parte di questi enti ‘autonomi’ e di queste authority presunte indipendenti, che promuovono l’agenda, monitorano i risultati, e per le quali viene allocato il budget necessario ai diversi obiettivi, assecondando quelle expertise considerate più adeguate al governo dell’insieme. Il nuovo modello di potere mette in relazione gli esperti, le scienze dell’empowerment, con gli eventi che attraversano la vita del singolo affinché, orientato e guidato, elabori una strategia per affrontare e prevenire la sterilità, il disagio sessuale, la solitudine, la malattia. La dimensione del potere governamentale è più che mai contemporaneamente pastorale e immanente, poiché il riconoscimento della autorevolezza di questi poteri è condiviso e introitato. Un controllo capillare, efficacissimo perché transita all’interno della soggettività e orienta verso una comprensione di se stessi in quanto viventi e consumatori. Questa congerie di poteri – difficilmente controllabili con il tradizionale metodo della legge astratta e generale, sostituita qui da regolamenti specifici e differenziali – si tiene insieme, paradossalmente alla enfasi sull’autocondotta, sull’autonomia delle scelte individuali circa il proprio corpo e la propria vita, cioè la capacità di realizzare i propri desideri nella vita secolare e di determinare il corso della propria esistenza attraverso le scelte personali. Raramente emerge un governo coerente: la natura incerta, aleatoria del controllo è origine del paradosso di vite assoggettate ad un’attività prescrittiva, incessante, minuziosa, premurosa sempre nel registro della benevolenza, e d’altra parte sollecitate all’inseguimento delle possibilità biotecno29

N. ROSE, La politica della vita, cit.; per i Governmentality studies, cfr. ID., Power of Freedom, Cambridge University Press, Cambridge 1999.

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logiche che realizzino l’immaginario personale. Da una parte i discorsi sul bios sono gestiti dai ‘pastori del soma’, dall’altra offrono chance di potere alle soggettività che ne vengono forgiate e che disordinano le tradizionali categorie del genere e della stessa identità sessuale. Non a caso alcune interpretazioni della biopolitica mirano a rivelare la potenza affermativa della vita stessa, e le potenzialità costruttive racchiuse in una sua gestione libera, autonoma e ‘creativa’. Donna Haraway, per esempio, pur muovendo dalla critica del biopotere, discorso dominante che governa sessualizzando, si spinge al di fuori delle dicotomie, in primis sessuali, attraverso le quali esso governa, in direzione della pluralità e costruttività delle identità sessuali30. Come anche in Butler, emerge l’uso ostentato di un atteggiamento ironico, anche parodistico nei riguardi dell’identità sessuale: poiché il linguaggio di chi resiste alla pervasività dei discorsi di verità/potere non può che essere, foucaultianamente, catturato dal biopotere, è necessario aggirarlo, ironizzarlo, farlo slittare. Come, d’altronde, è possibile – e opportuno, da questo punto di vista – lo slittamento dei corpi sessuati inchiodati nella logica binaria e dicotomica ‘naturale’, verso le figure rispetto ad essa eccedenti e multiple dei transgender. Si assume dunque il pieno riconoscimento dell’efficacia della biopolitica che ci governa, della sua influenza su processi di soggettivazione in termini di sessuazione, radicalmente modificati dai saperi biotecnologici, ma c’è anche la piena accettazione di questo processo che annulla le frontiere tra natura e artificio. Gli innesti biotecnici diventano componenti costitutive dello stesso corpo. Il cyberfemminismo di Haraway esalta ostentatamente, non senza ironia, la produttività del biopotere ipertecnologico: la biopolitica non si limita a governare e orientare, crea soggetti nuovi, produce letteralmente il cyborg, il mito del vivente artificiale, alfiere di una umanità post-umana. Il potere manipolativo, biopolitico per eccellenza, non deve essere demonizzato, perché esprime una potenzialità, una chance di vita, che i dispositivi biotecnologici offrono e che ciascuno può “interpretare”, in modo vantaggioso. La sessualità come dispositivo Questi effetti ambivalenti, che oscillano tra governamentalità eteronoma e creatività autogestita di identità sessuali – discorsi come quelli sulla donna cyborg di Haraway o sulla identità nomade di Braidotti31 – provocatori 30 31

D. HARAWAY, Manifesto cyborg, cit. R. BRAIDOTTI, Nomadic Subjects, Columbia University Press, New York 1994.

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e utopistici (soprattutto se si pensa all’Italia) hanno alle spalle sempre la concezione foucaultiana della sessualità come dispositivo biopolitico. Ed è dunque ad essa che dobbiamo tornare per capire meglio. Non è possibile affrontare il tema della gestione biopolitica della sessualità senza muovere da Foucault. Perché, ci chiediamo, volendo ricostruire il nesso della verità con il potere – che, diversamente che nelle teorie classiche non è di estraneità e di antitesi, ma al contrario di reciprocità – Foucault scrive una storia della sessualità32? Perché, a suo avviso, è la scientia sexualis ad essere stata individuata da quella modalità di potere moderna che è la biopolitica, come terreno privilegiato dei dispositivi di produzione della soggettività. Le verità sul sesso producono tecniche di formazione della soggettività che intensificano e rafforzano le istituzioni di potere (intese in senso lato, non solo come istituzioni politiche, ma anche mediche, giuridiche, religiose, educative ecc.) rendendole pervasive, immanenti, coinvolte nella gestione delle vite dei governati. Un dispositivo è esattamente questa commistione di saperi e poteri positivi: una trama ‘positiva’ concreta, «irriducibilmente eterogenea che comporta dei discorsi, delle istituzioni [...] delle decisioni regolamentari, delle leggi, delle misure amministrative, degli enunciati scientifici, delle proposizioni filosofiche, filantropiche, in breve del dicibile e del non dicibile»33: questa rete – cui aggiungerei, con Butler, le convenzioni linguistiche – dispone, regolamenta cose e persone, ripartisce ruoli e ha effetti sulle vite, organizzando gerarchie ed esclusioni. La grande intuizione foucaultiana, post freudiana e post marxista, sta nell’aver individuato nella gestione della sessualità il luogo nel quale il potere – i diversi poteri – hanno costruito una forma di dominio nuovo, minuzioso e pervasivo, solo apparentemente repressivo, ma in realtà moltiplicatore dell’intervento di sollecitazione, di sorveglianza, di supporto. Effetti tutti che hanno ampliato a dismisura il campo d’azione della dominazione. Un potere che è essenzialmente governo dei processi di soggettivazioni, del nostro modo di divenire soggetti, forgiandoci attorno ad una coscienza, una verità su noi stessi, sui nostri segreti, sul nostro sesso. È al sesso – dice Foucault – che siamo indotti «a porre la domanda: chi siamo? E non tanto al sesso-natura (elemento del sistema vivente, oggetto di

32 33

M. FOUCAULT, La Volontà di sapere, cit.; sono rilevanti nel nostro discorso anche Non au sex roi, cit. e Della natura umana, cit. M. FOUCAULT, Il gioco, in “Millepiani”, 2, 1977, pp. 25-51.

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una biologia), ma al sesso-storia, al sesso-significato, al sesso-discorso»34. Soggettivazione come sessuazione. Una doppia intuizione dunque. Innanzitutto la positività e materialità del biopotere che si innesta sui corpi oscillando tra la loro genericità e la loro differenziazione. La sessualità è esattamente il luogo dove si incrociano il controllo dell’individuo e il controllo della popolazione. La sessualità appare «un punto di passaggio particolarmente denso per le relazioni di potere: fra uomini e donne, fra giovani e vecchi, fra genitori e figli, fra educatori e alunni, fra sacerdoti e laici, fra un’amministrazione e una popolazione», uno tra gli elementi «dotati della più ampia strumentalità, che possono essere usati per il maggior numero di manovre e servire da punto di appoggio, da cardine per le strategie più varie»35. Il sesso assume una importanza centrale come «oggetto dello scontro politico: esso è l’elemento di connessione di due assi lungo i quali si è sviluppata tutta la tecnologia politica della vita. Da una lato partecipa delle discipline del corpo: dressage, intensificazione e distribuzione delle forze, adattamento ed economia delle energie. Dall’altro partecipa della regolazione delle popolazioni attraverso tutti gli effetti globali che induce. S’inserisce simultaneamente sui due registri; dà luogo a sorveglianze infinitesimali, a controlli istante per istante, ad organizzazioni dello spazio di estrema meticolosità, ad esami medici e psicologici interminabili, a tutto un micropotere sul corpi; ma dà luogo anche a misure massicce, a stime statistiche, ad interventi che prendono di mira l’intero corpo sociale o gruppi presi nel loro insieme. Il sesso è contemporaneamente accesso alla vita del corpo e alla vita della specie»36. Si esplicita la funzione ‘biopolitica’ di un sapere – il sapere della sessualità – che nelle istituzioni religiose, nelle forme pedagogiche, nelle pratiche mediche, nelle strutture familiari, produce effetti di soggettivazione tanto negli individui – indotti a scoprire in se stessi la forza segreta della sessualità e a temerne quelle perversioni classificate “contro natura” – che nelle popolazioni, dove il sesso e la sua gestione nella riproduzione fa da raccordo tra individuo, specie e macropolitica demografica. La sessualità è il punto di snodo tra l’individuo e la specie, tra il corpo e la sua anatomia e la popolazione, con i suoi processi biologici di specie. E in questo duplice ruolo di soggettivazione assoggettata del singolo e gestione ortopedica della specie, il dispositivo della sessualità si incrocia, dice Foucault, con il dispositivo delle ‘alleanze’, cioè delle istituzioni sociali che devono so34 35 36

M. FOUCAULT, La volontà di sapere, cit., p. 70. Ivi, p. 92. Ivi, p. 129.

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stenerlo e inquadrarlo: «valorizzazione del matrimonio legittimo e della fecondità, esclusione delle unioni consanguinee, prescrizioni di endogamia sociale e locale»37. La sessualità «diventa la cifra dell’individualità, quel che permette contemporaneamente di analizzarla e di renderla docile e utile. Ma la si vede anche diventare tema di operazioni politiche, d’interventi economici (attraverso incitazioni e freni alla procreazione) di campagne ideologiche di moralizzazione o di responsabilizzazione»38. Un dispositivo chiamato a sollecitare e orientare il desiderio e i suoi complessi meccanismi di attivazione attraverso l’interdetto – per produrre comportamenti vissuti come ‘naturali’ e in linea con la soggezione alla guida eteronoma e pastorale. Il modello è infatti il governo pastorale delle anime del cristianesimo. La sapienza psicologica, la gestione delle ansie e delle colpe oscillante tra condanna e perdono, connessa peraltro alla stimolazione del desiderio sessuale – l’intera area costruita dal dispositivo della sessualità – mostra la potenza di un potere nuovo, che controlla i soggetti attraverso la loro costituzione in quanto oggetti di un discorso vero. Il desiderio nel processo di soggettivazione e la sua normalizzazione tramite la natura. È questa infatti la seconda cruciale intuizione che rende molto importante la genealogia della sessualità per capire i nuovi dispositivi di potere sul vivente: governare la sessualità significa governare i desideri e dunque – ampliando enormemente lo spazio di influenza – penetrare nel meccanismo antropogeno. Il desiderio è infatti la chiave d’accesso ai processi di soggettivazione39. Se, in un’epoca di tramonto dell’interdetto della morale e di diffusione di un codice consumistico e consensuale non si vuole – o non si ritiene efficace – un controllo giuridico ed esterno, allora è esattamente il meccanismo del divenire soggetti che occorre gestire ed orientare. Meccanismo delicato che abbiamo visto oscillare oggi, tra un immaginario di autogestione responsabile della propria vita e una effettiva eteronomia fatta di affidamento ad esperti di tutti i tipi: esperti in morale (comitati bioetici e agenzie dogmatiche e religiose), esperti del nostro benessere (medici, dietisti, genetisti), esperti di economia e di rischio (dal marketing alle assi-

37 38 39

Ivi, p. 108. Ivi, p. 129. J. BUTLER, La vita psichica del potere. Teorie della soggettivazione e dell’assoggettamento, tr. it. Meltemi, Roma 2005.

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curazioni): agenzie tutte sempre meno statali e sempre più eterogenee che assumono la guida e l’orientamento delle scelte sul nostro corpo. Il disciplinamento che aveva caratterizzato l’intervento sui corpi in direzione di una normalizzazione viene, nella seconda metà del xx secolo, tradotto in termini di scelta e desiderio personale40. Ed è allora doppiamente centrale il dispositivo della sessualità. Se gli studi sulla sessualità di Foucault avevano individuato i processi di soggettivazione come processi aventi per oggetto il corpo vivente, in quanto energia desiderante, nella attuale governamentalità del tardo liberalismo e del mercato la salute, il benessere, la pienezza sessuale sono beni di consumo resi appetibili attraverso la sollecitazione e l’assecondamento del desiderio di tutti e di ciascuno. Se il desiderio è la molla antropogena della personalità, in una società che del desiderio del consumatore fa la molla trainante della vita sociale, la sfera del desiderio e la sessualità che lo governa non possono che accrescere la loro importanza. Il sesso acquista sempre più autonomia isolato dal resto del corpo per divenire luogo di anomalie, debolezze, patologie che richiedono l’intervento di potenziamento, di correzione, di medicalizzazione. Perché tutto questo possa essere accettato, il dispositivo deve essere costruito attorno alla verità sul sesso, il che significa la sua naturalità. L’ordine naturale è sempre stato visto come portatore di una normatività implicita, che funge da riferimento alla comunità politica, sociale e culturale degli uomini. La densità del concetto di natura sta proprio in questo sdoppiamento o raddoppiamento dal piano ontologico a quello morale e normativo, che lo rende il medium elettivo di ogni tentativo di riassetto della realtà sociale e politica. E una volontà di riordino sociale e culturale sembra essere il motivo della riproposizione, energica e autoritaria, da parte delle istituzioni religiose, della tradizione aristotelico-tomista41 con la ripresa della centralità della verità onto-teologica dogmaticamente intesa che legittima la governamentalità pastorale. Logica pastorale che converge con l’attuale ambiguo progetto biopolitico e che implica che le vite si auto-amministrino ma riferendosi ad autorità esperte, competenti, meglio se extrastatuali, depositarie di autorevolezza morale e veritativa, che possono 40 41

Cfr. L. BAZZICALUPO, Il governo delle vite, cit. Cfr. ad es. Congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione su alcune questioni di etica sessuale. Persona Humana, in Enchiridion Vaticanum, Edizioni Dehoniane, Bologna 1981, V, 1717-1745; Istruzione sul rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione. Donum vitae, X, 1150-1253. GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Evangelium vitae, XIV, 2167-2517. E. SGRECCIA (a cura di), Il dono della vita, Vita e Pensiero, Milano 1987, ID., Manuale di bioetica, vol. I., Fondamenti ed etica biomedica, Vita e Pensiero, Milano 1999.

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essere rappresentate tanto dal clero che da comitati di bioetica42. In entrambi i casi, come abbiamo accennato all’inizio – esperti scientifici o esperti di dogma – le decisioni politiche, valide erga omnes e riguardanti il governo dei corpi viventi e, in specie, sessuati vengono affidate ad un ceto separato di guide della morale che, come nell’epoca d’oro della gestione pastorale ed eteronoma delle condotte, si assume il peso e la responsabilità di scelte che la comunità politica nel suo complesso non riesce a determinare coerentemente e sulle quali è negata a ciascuno più che la libertà nominale, la competenza necessaria per deliberare in modo autonomo. Il dibattito sulla bioetica dunque appare poco permeabile alle voci e alle domande dei cittadini: come è proprio di una gestione biopolitica eteronoma, viene demandato a una élite, per definizione, esperta e depositaria di verità (religiose o scientifiche), la quale, a questo punto, svolge una funzione di chiarificare e stabilizzare il sensus communis circa i problemi della vita e dell’identità dei corpi. La risposta pastorale si sovrappone sull’afasia della comunità politica, rimuovendo forzosamente la esasperata frammentazione delle opinioni attraverso la rivitalizzazione volontaristica di istituzioni che sono, in realtà, in profonda crisi trasformativa. E il richiamo all’ordine naturale – per esempio nella famiglia biologica e genitoriale, o più generalmente nella riproduzione – legittima la tacitazione di istanze differenti, di percorsi non conformi ma diffusi che valorizzano, al di là del biologico, legami affettivi e relazioni scelte e responsabili. Alle spalle dei temi dicotomici quali sacralità della vita/qualità della vita, identità sessuale/libera scelta del singolo, deontologia/valutazione economica, si delinea la sovrapposizione di centri di potere e di autorità su un ethos comune sempre più frammentato e difficilmente individuabile. Questo slittamento della decisione dalla singolarità del cittadino ai comitati di esperti, sacrali o scientifici, ribadisce l’ipotesi che questo ritorno alla natura sia funzionale ad un progetto politico di organizzazione dei ruoli e di posizionamento di ciascuna delle vite coinvolte all’interno dello schema gerarchico giuridico e politico. Il che è esattamente la caratteristica di una governamentalità biopolitica: alle spalle della bioetica si delinea dunque una potente biopolitica. Evidentemente il concetto di natura umana e di sessualità naturale, nella loro eventuale dimensione ontologica, risultano un punto saldo su cui fare leva per organizzare o riorganizzare il sociale, un costrutto discorsivo funzionale a determinate pratiche sociali. Non si vuole con questo affermare che le verità scientifiche, sociologiche o religiose non siano cercate con serietà e rispetto dei criteri di prova o di verità e con intenti manipolativi. 42

N. ROSE, La politica della vita, cit., pp. 10 ss.

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Dispositivi e soggettivazioni

Piuttosto si inseriscono in un complesso epistemico pratico che lega il sapere alle relazioni di potere di una certa epoca. Da esso deriva il supporto giustificativo e il quadro metafisico che invera l’azione di governo delle vite. L’esito del dispositivo di sessualità non è dunque soltanto l’imposizione di una “norma” sessuale (incarnata dalla coppia eterosessuale feconda) e nella repressione-medicalizzazione delle anormalità sessuali con lo sviluppo parallelo di identità sessuali dichiarate “minoritarie” e problematiche per l’accesso ad una serie di diritti civili. L’esito è anche la naturalizzazione e immodificabilità di un binarismo sessuale che fa da logica normalizzante per escludere e marginalizzare il diverso.

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Agency e uso performativo dei diritti Per valutare il peso della naturalizzazione nel dispositivo della sessualità oggi, è utile fare riferimento a Judith Butler, pensatrice certo radicale, ma capace proprio attraverso le sue lucide provocazioni teoriche, di fare spazio a nuove logiche nell’analisi del dispositivo della sessualità. Prendendo le distanze dal femminismo differenzialista, Butler individua nell’obbligatorietà del binarismo e dell’eterossessualità (piuttosto che nella logica patriarcale e maschilista) la struttura portante del dispositivo di controllo della sessualità. È la scansione binaria della sessualità a fornire la cornice veridica entro la quale le posizioni diverse dei transgender, degli omosessuali, dei transessuali o queer diventano inesorabilmente minoritarie e costrette ad una logica di subalternità nell’accesso ai diritti. Butler – la cui posizione emerge in tutta la sua dirompente forza destabilizzante nel famoso Gender Trouble – decostruisce il postulato tradizionale che fa risalire la causa del desiderio sessuale alla dicotomia egemone dei sessi43. Muovendo da questa matrice binaria di fatto diventano in-intellegibili i generi che sfuggono alla regola della coerenza tra sesso biologico (maschile o femminile a seconda della dotazione genitale), genere (le strutture di senso e le condotte ‘da uomo’ o ‘da donna’ appropriate all’ethos culturale), desiderio (che si orienta verso il proprio o verso l’altro sesso) e pratiche sessuali. Inintellegibili, dunque, cioè strani, perversi, minoritari e medicalizzabili: con conseguenze sull’accesso ai diritti. Evidentemente, poiché è naturalizzato, il binarismo del dispositivo della sessualità agisce sulla soggettivazione e dunque sull’identità sessuale, operando in senso non solo descrittivo, ma performativo e assiologico e determinando una gerarchia nella quale la 43

J. BUTLER, Scambi di genere. Identità sesso e desiderio, tr. it. Sansoni, Firenze 2004.

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pratica egemone e maggioritaria eterosessista determina asimmetrie di posizione. Transgender è invece una categoria che contribuisce a scardinare o disordinare questo legame normativo tra gender e dicotomia maschile/ femminile; usare quella categoria, afferma provocatoriamente Butler, aiuta a decostruire quei concetti normativi che all’interno delle verità religiose, legali, scientifiche, politiche sono utilizzati per interpretare la differenza sessuale. Evidentemente in questa prospettiva, che sviluppa l’intuizione foucaultiana, il gender (preferito al sex) è tutt’altro che un dato di natura: è un complesso processo di costruzione della corporeità materiale e psichica che passa attraverso la replica incessante di pratiche normative, quella che Butler chiama ‘performatività di genere’44. Espressione che indica la ripetizione di comportamenti, gesti, stili e linguaggi: stereotipi attraverso i quali i singoli “mettono in scena” il proprio genere, in modo tale che il proprio sesso, sex biologico, acquisisca il significato culturale e il posto nella società che a quel genere è riconosciuto, acquisendo cioè una identità maschile o femminile. La sessuazione maschile-femminile non è un dato, un essere o un avere, ma un processo normativo attraverso cui il soggetto si struttura all’interno dell’identità che sarà riconosciuta al suo corpo da una data cultura. Il fatto che qui interessa richiamare è che questo processo non è interpretato da Butler – a mio avviso giustamente – come un processo di soggettivazione del tutto passivo e assoggettato. Perché il processo riesca, occorre una adesione attiva del soggetto ai modelli di identità che mette in scena. In questo spazio, certo non ampio né facile di non coincidenza tra l’assoggettamento e la soggettivazione e dunque di distanza tra l’identificazione culturale e lo scarto soggettivo, diventano possibili pratiche di agency. Agency è, appunto, una ripetizione non meccanica, attiva delle pratiche che costituiscono il genere. Se d’altra parte il genere, come abbiamo visto, assume il profilo di identità performativa, costruita storicamente e culturalmente, allora esso è re-interpretabile in modo nuovo e più duttile. È possibile una dislocazione, una mobilità che, all’interno della universalità dei diritti di libertà e di uguaglianza45, produca identità nuove, non previste, allargando lo spazio delle differenze: non solo uomini e donne eterosessuali, ma una gamma di posizioni che esprimono un diverso modo 44 45

J. BUTLER, Corpi che contano. I limiti discorsivi del sesso, tr. it. Feltrinelli, Milano 1996. J. BUTLER, Rimettere in scena l’universale: l’egemonia e i limiti del formalismo, tr. it. in J. BUTLER, E. LACLAU, S. ŽIŽEK, Dialoghi sulla sinistra. Contingenza egemonia, universalità, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 13-45, del quale mi permetto di rinviare su Butler alla mia introduzione all’ed. italiana.

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Dispositivi e soggettivazioni

di articolare il maschile e il femminile. Nel concetto di agency è incluso un auto-posizionamento all’interno del quadro normativo e giuridico del soggetto agente che si assume la responsabilità giuridica ed etico-politica dell’azione e hegelianamente ‘incarna’ nella propria soggettività sessuata, nella differenza materiale, l’universale concreto. Non a caso la posizione di Butler, inizialmente scettica su qualsiasi possibilità di ‘abitare’ il linguaggio normativo della cultura occidentale senza rafforzarne le dinamiche di esclusione e di dominio, progressivamente si è volta a rivalutare l’attività del soggetto che, all’interno di un uso strategico del diritto formale e dunque incapace di dire fino in fondo la differenza sessuale, disloca le identificazioni sociali e culturali ampliando lo spettro dell’agency e ribaltando le connotazioni dominanti. “Sono giunta ad attribuire al vocabolo [universalità] una grande utilità strategica proprio come categoria aperta e non sostanziale [...] ho capito che l’asserzione dell’universalità può essere prolettica e performativa, perché evoca una realtà che non esiste ancora”46. In questa chiave è allora possibile la difesa, paradossale in una prospettiva critica e decostruttiva post-foucaultiana, della nozione di diritti umani47. Le norme eterosessiste esistono solo in virtù del loro essere riprodotte continuamente: è dunque possibile alterarle sia attraverso pratiche corporee che attraverso rivendicazioni giuridiche. È possibile: il vocabolo usato da Butler è, come sottolinea Olivia Guaraldo, viability, possibilità e vivibilità insieme, che comporta una sfida a mettere in gioco politicamente la sessualità, rispetto alla quale ciascuno è “fatto/done” all’interno del genere e dipendente dalle sue norme, ma rispetto alla quale ciascuno ha anche la possibilità di “essere disfatto be undone”, rifacendo se stesso in modo autonomo48. È dunque necessario, per chi è portatore di una identità minoritaria nel dispositivo di dominio della sessualità, attivare il riconoscimento e la protezione delle istituzioni democratiche. Il che richiede peraltro stabilire alleanze con altri soggetti esclusi e contrastare lo strapotere di quelle expertise morali e tecniche, la cui caratteristica è esattamente sottrarsi alla legittimazione democratica e giuridica. Non è, come sappiamo, cosa facile.

46 47

48

J. BUTLER, Scambi di genere, cit., pp. XXI. J. BUTLER, Vite precarie, tr. it. Meltemi, Roma 2004; sull’itinerario di Butler verso una apertura sui diritti cfr. L. BERNINI, Riconoscersi umani nel vuoto di Dio, in L. BERNINI, O. GUARALDO (a cura di), Differenza e relazione. L’ontologia dell’umano nel pensiero di Butler e Cavarero, ombrecorte, Verona 2009. J. BUTLER, La disfatta del genere, tr. it. Meltemi, Roma 2006, p. 130, di cui vedi la preziosa introduzione di O. Guaraldo.

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4. La rappresentazione della vecchiaia

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Invecchiare e rimanere attivi. Una promessa o una minaccia? La vecchiaia o come si dice più pudicamente l’invecchiamento non gode buona fama in una società segnata da un imperativo giovanilista che trova nell’immaginario culturale egemonico una spinta determinante e condivisa. È comprensibile dunque che, nell’ambito dei virtuosi progetti di maturazione della coscienza civile e sociale dei suoi cittadini che l’Unione europea si impegna a promuovere, ci sia stato nel 2012 un anno dedicato all’invecchiamento ‘attivo’ e alla solidarietà tra le generazioni. Anno che si è appena concluso con un carico di lodevoli iniziative, ma certo non con un cambiamento di quell’immaginario culturale, piuttosto paradossale della vita anziana, che resta dominante: una difesa affermativa della vecchiaia, che però si pretende che non sia tale. Non ha giovato certo alla efficacia dell’anno celebrativo il fatto che sia caduto nel pieno di una crisi economica così dura che ha razionato gli interventi sociali di potenziamento delle strutture e di creazioni di nuove possibilità. E d’altronde non sono state poche comunque, le iniziative sperimentali che sono state varate in nome di un ripensamento della vita anziana in una chiave che la valorizzasse. Ma l’impressione di una certa dose di paradossalità non viene meno. Valorizzare la vecchiaia nel segno della sua capacità attiva è, almeno in questo momento storico, direttamente proporzionale alla sostanziale svalutazione dei giovani stessi nei posti di lavoro e nei centri decisionali che rimangono saldamente in mano a uomini di età avanzata, spesso molto avanzata. In questo senso il passo indietro compiuto dal papa Ratzinger, dovuto ufficialmente al peso dell’età che rendeva troppo onerosa la guida della Chiesa in un momento difficilissimo, è sembrato una salutare e sorprendente presa d’atto della realtà che vede stagioni della vita inesorabilmente più deboli, forse ancora attive, ma certo dedicate ad occupazioni meno pesanti e stressanti; dunque anche uno smascheramento della retorica dell’invecchiamento attivo e dei suoi impliciti paradossi. Il tema ha, in ogni caso, una legittimità di fondo. Sarebbe impossibile oggi rappresentare l’invecchiamento come periodo terminale della vita, irrilevante o marginale per l’economia della società. Ho appena ricordato i ruoli decisionali che persone assai avanzate di età hanno nella nostra società, ai vertici della politica, del sistema finanziario ed industriale, nei ruoli educativi e anche creativi e artistici. Se questo è vero, non può non essere sorprendente però che si parli di quel periodo che comunque si affaccia sulla morte (innominabile nella cultura della vita oggi dominante) nei termini

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di massima produttività qualitativa e culturale (addirittura di un surplus produttivo), come recita trionfalmente un progetto AEDE Europa (Gruppo di Stroncone). Nulla da dire sulla serietà del progetto. Ma ci chiediamo quale idea o, con parola obsoleta ma efficace, quale ideologia sia sottesa all’attuale salutare enfasi sull’invecchiamento attivo. C’è un dato di partenza di ineludibile importanza: la popolazione anziana si appresta a divenire nei prossimi anni ‘maggioranza relativa’ dell’intera società. E questo implica un inevitabile ripensamento di status e ruoli, ma – ed è a questa esigenza che rispondeva il suddetto progetto europeo – anche una ridefinizione dell’immaginario relativo alla vecchiaia. La parola vecchio designa individui e popolazioni attraverso la loro biologizzazione: è lo stadio di vita, la condizione biologica, l’indicatore attorno a cui si organizzano i dispositivi che, a partire da fragilità, rischi, problematiche che emergono da questa designazione di carattere biologico, attribuiscono e dispensano diritti, protezioni, soluzioni di problemi e assicurazioni. La specifica biografia dei soggetti in qualche modo viene inghiottita dalla biologia e dalla genericità delle sue classificazioni. Si tratta dunque di un evidente caso di ‘biopolitica’, se chiamiamo così la tendenza dell’attuale politica a prendere in carico gli uomini in quanto specie vivente e a istallare le tecnologie di governo direttamente sulla vita. È forse il caso di soffermarsi brevemente sulla specificità di un simile potere politico che, in modo più o meno oblativo e pastorale, assume la gestione del vivente in quanto vivente. I dispositivi biopolitici governano le vite a partire da una verità relativa ad essi – il loro status biologico, la loro condizione economica – che li oggettiva o li classifica nella prospettiva della loro governabilità, dunque nell’ottica di rendere soddisfacibili le loro esigenze, migliorabili le loro condizioni, gestibili le loro debolezze. Si possono governare i vecchi (ma anche i malati, oppure i giovani in quanto tali, le donne in quanto genitrici, o altri gruppi di popolazione statisticamente rilevabili) se li si conosce e li si descrive nei loro caratteri di potenzialità o di rischio. Questi caratteri sono infatti governabili tramite una logica economica di ottimizzazione. Una logica strategica e problem solving: questa è la logica biopolitica. Nulla di male, intendiamoci. Le singolarità di ciascuno, le storie differenti sono come attraversate da questo denominatore biologico che le ordina per identificarle e prendersene cura, per stimolare le potenzialità che si ritiene sarebbero funzionali al benessere del governato. Questa logica gestionale, propria della governamentalità biopolitica è stata evidente nel periodo del welfare. La vecchiaia era una categoria che individuava una popolazione – quella di coloro che erano usciti dal periodo centrale e cruciale della vita, quello del lavoro – e avevano il diritto (legato

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all’età biologica o a problemi di salute) di godere il tempo del riposo e della pensione. Al godimento di questo diritto corrispondeva anche un sostanziale accantonamento sociale, una marginalità accettata come inevitabile e ‘naturale’, e una totale irrilevanza nell’ economia della società. La solidarietà sociale verso i vecchi, tramite l‘assicurazione, la previdenza e così via, era un onere che la società attiva si assumeva, come d’altronde aveva fatto a sua volta il pensionato quando lavorava: un peso, un obbligo che sottolineava massimamente la debolezza, la fragilità della vita che era presa in carico dallo stato sociale. Chi non serve più (o, come il giovanissimo, chi non serve ancora) viene assistito, ma socialmente ‘non conta’. Ovviamente questo genere di governo delle vite biologiche tende a ignorare le singolarità e specificità: è, come abbiamo detto, una logica problem solving che si orienta sulla statistica, sulla generalizzazione biomedica e sulla prevedibilità dei suoi rischi e dei suoi bisogni e la gestisce in modo burocratico e manageriale. L’impianto welfaristico del trattamento della vecchiaia, essendo frutto di lotte durissime, adopera il linguaggio dei diritti, ma questi ultimi sono intesi in modo da escludere la partecipazione democratica e paritaria dei coinvolti, affected, alle decisioni che li riguardano. I vecchi sono per definizione, fruitori passivi delle erogazioni dello Stato sociale in termini pensionistici, sanitari, assistenziali. Se d’altra parte la gestione della popolazione anziana opera secondo una logica strategica volta alla soluzione dei problemi e al contenimento dei rischi, raggiungerà più efficacemente il suo obiettivo affidandolo a scelte esperte, al management competente che ottimizzi i risultati, riducendo i costi. Lasciamo da parte il doloroso capitolo della concreta inefficienza e disfunzionalità che invece la gestione burocratica delle politiche sociali spesso ha comportato; il fatto è che certo la dimensione attiva di cittadini, che partecipano al governo di sé e assumono le decisioni che li concernono, non è un obiettivo del governo biopolitico welfarista. Che eroga assistenza, ma non promuove auto-governo, agency, cittadinanza. Sappiamo tutti la crisi profonda che ha travolto progressivamente l’immaginario welfarista e il patto sociale che lo sosteneva. E si determina l’attuale e ormai trentennale spostamento di segno a proposito della vecchiaia. Se da una parte si indebolisce la protezione sociale e l’erogazione delle prestazioni di servizio, dall’altro si erodono le classificazioni e identificazioni anche biologiche che popolavano quell’immaginario e la sua scansione rigida dei tempi della vita: l’istruzione nella giovinezza, il lavoro nella vita adulta con la pienezza delle scelte, e la vecchiaia con la pensione. Tempo del lavoro e tempo ‘libero’, ma in realtà vuoto: ben divisi dalla scansione del lavoro. Quando quel lavoro comincia ad essere

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letto attraverso il paradigma del capitale umano, per il quale ciascuno è imprenditore di se stesso, quella scansione si dissolve: l’intera vita è ‘produttiva’, messa a frutto. Tutti, giovani e vecchi si affacciano sul mercato per scambiare le proprie produzioni in termini di servizi, di relazioni, di saperi. Chi vuole e può acquista sul mercato compagnia, servizi, relazioni sociali, affettività, ma anche supporti alla salute, alla vigoria fisica, al desiderio declinante. Le vite sono considerate tutte responsabili di sé, del proprio patrimonio umano e biologico e del proprio potenziale produttivo. E se questo potenziale evoca una energia produttiva imprenditoriale non è un caso che sia veicolato anche da un immagine, più che giovane, giovanile, una immagine di potenza, di capacità di rischio e di inventività o almeno di prolungata produttività. Gli anziani sono spinti anch’essi ad assumere questa identificazione: devi essere attivo, non un peso, ma un vettore di potere e di scambio. Attivo appunto nella capacità di scambio delle proprie prestazioni sul mercato – mentre si prolunga l’età pensionabile – e sul mercato l’anziano si affaccia con gli strumenti che ha: dalla cultura, se ce l’ha, all’esperienza, alle capacità inventive, alle energie fisiche e mentali. E vale tanto quanto ha da offrire. Dunque deve avere cura del proprio capitale biologico, gestire responsabilmente la propria salute, la propria capacità relazionale, l’aggiornamento nelle tecnologie digitali che corrono vorticosamente. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad una forma di biopolitica, perché l’indicatore biologico è ancora cruciale: ma innanzitutto non si tratta di una biopolitica che come nel welfare gestisce e cura, anche se a prezzo della passività: piuttosto la gestione e il governo è affidato a ciascuno, con tutti i rischi e gli apparati sicuritari che avrà saputo procurarsi. E poi il corpo di quest’immaginario neoliberale non può essere che scattante, potente, efficiente, forte. E se il corpo del vecchio non fosse compatibile con questo modello e fosse segnato dalla fragilità, allora dovrebbe avere altre fonti di potenza: la solidità economica innanzitutto, e poi il prestigio, il potere, l’influenza sociale. E chi non ha le doti fisiche sufficienti alla competizione del mercato, e chi non può supplire con il danaro, con le relazioni di potere? guai ai vinti! Sono di questi giorni le cronache luttuose di suicidi di gente anziana, sola, travolta dalla indigenza, che non ce la fa a competere, a trasfigurarsi. C’è stata una trasformazione dunque che ha rovesciato in pretesa di forza e potere la immagine in cui ciascuno di noi si specchia. Guai ad essere troppo stanchi per continuare a lavorare, guai a non poter pagare l’assistenza, la cura, la palestra; guai a sentirsi addosso la depressione e non aver voglia di essere in forma e felici!

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Una situazione di grande ambiguità, dunque. Ci sono testimonianze diffuse di esperienze davvero innovative che hanno assunto la spinta all’autogoverno, la responsabilità su se stessi in modo significativo, evidenziando autodeterminazione e capacità propositive interessanti, vitali, che confrontate con il vecchio quadro di passività assistita, fanno sperare in un arricchimento di tutta la società. In condizioni agevolate gli anziani cercano di contrastare la cosiddetta cultura del declino e quello che sembra più interessante è l’emergere di una volontà di partecipazione ai processi deliberativi che li riguardano. Quasi che la nuova immagine ‘attiva’ fosse la leva per contrastare quel tratto eteronomo e passivo che era tipico del welfare burocratizzato e riappropriarsi della loro vita. Invecchiamento attivo viene allora a significare essenzialmente auto-determinazione, piuttosto che assistenza e passività, coraggio e inventiva piuttosto che dipendenza ed eteronomia. Ma l’ambiguità che accompagna queste immagini così positive da sembrare sketch pubblicitari, sta nell’indebolita cultura dei diritti di cittadinanza che stanno dietro la nuova welfare society neoliberale, certo disposta a stimolare l’agency, ma non nel quadro dei diritti, quanto piuttosto in quello della convenienza economica e del contenimento dei costi. Se al lavoratore si chiede di dilazionare al massimo il momento della pensione, è evidente che non lo si fa nella prospettiva di prolungare la sua agency, ma di ridurre i costi sociali. Niente di male, ma, ovviamente non sono pochi i casi in cui questo pesa su vite logorate e usurate dal bisogno. Un soggetto che sa di doversi procurare pagando servizi di cura e di assistenza e che dunque economicizza – ma già il welfare era su questa strada – le relazioni affettive tradizionali, si sta adattando ad un legame sociale s-legato, a relazioni calibrate sul saldo del debito, piuttosto che sulla solidarietà e questo forse raggela il cuore di chi – comunque – è prossimo alla morte. E ancora: l’assunzione della responsabilità di se stessi, della propria vecchiaia da garantire tramite sistemi di assicurazione, condotte salutari e comportamenti prudenziali, da un lato esibisce la gestione attiva della propria vita, dall’altra ovviamente costringe ciascuno e il vecchio in particolare a ricorrere a tecnici che orientino le scelte, ad esperti che gestiscano le soluzioni adeguate alle proprie esigenze. Così l’affidamento e l’eteronomia che erano il marchio negativo dell’assistenza nel welfare, si ripresentano con altrettanta crudezza. Anche maggiore, essendo poi tanti e sempre di più nella congiuntura della crisi, i vecchi che non riescono a corrispondere a quell’immagine stereotipa vincente, a quell’ingiunzione paradossale ad essere sani, capaci, a prolungare la potenza e

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l’efficienza. Diverse le vecchiaie e diverse le possibilità di difendersi dalle sue fragilità. Quello che sarebbe necessario non è risolvere una ambiguità strutturale, dal momento che solo la specificità dei singoli può dare ragione dei momenti attivi e di quelli di debolezza di ciascuno, ma è riconoscere la debolezza e la ricchezza insieme di chi ha vissuto a lungo. 5. La nascita tra evento e dispositivo

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Ambiguità di un concetto Mettere insieme la nascita come evento – e questo fa pensare ad una sua indeducibilità, una irriducibilità singolare – e il carattere biopolitico, che rimanda ad un dispositivo, ad un effetto di potere: qualcosa che si misura nella sua condizionabilità, nel suo essere governabile e prevedibile, è un paradosso. Quale è dunque la vera natura della nascita, sotto il profilo della filosofia politica? Cosa si può dire su un evento che coinvolge una esperienza che va molto al di là della dimensione politica, e che implica una riflessione antropologica ben più vasta della riflessione politica? Eppure in qualche modo – sia da un punto di vista metaforico, sia in modo più concreto e diretto – la nascita è stata da sempre implicata nel discorso della politica. Intendiamoci, nella considerazione della politica sembra prevalere ed essere primaria l’idea di morte, di mortalità e dunque di possibile sopravvivenza il cui compito è affidato tradizionalmente appunto alla politica soprattutto a partire dalla modernità hobbesiana. Ciò nonostante la nascita, in modo meno esplicito, ha un suo peso molto significativo. Evidente se si pensa ai termini dalla nascita derivati: natura, diritti innati, nazione etc. La politica dunque istalla i suoi dispositivi sul dato, sul fatto della nascita. Come se, il fatto di nascere, il fatto che nuovi uomini e nuove donne vengano al mondo aggiungendosi ai precedenti, occupando nuovi spazi e avviando nuove catene di iniziative, fosse una sfida cruciale alla politica e al potere. Una sfida alla politica come coesistenza organizzata di molti uomini che devono far posto ai nuovi venuti; e sfida al potere come influenza che produce effetti e – foucaultianamente – li produce all’interno di un quadro discorsivo e pratico, il cui perno sta nella definizione dell’umano vivente, e dunque nella sua “natura”.

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Nascita e natura Il tramite dell’ingresso della nascita nella politica avviene dunque attraverso un dispositivo di sapere e di potere che è la ‘natura’, strettamente collegato con il nascere, con l’essere nati dotati di determinate caratteristiche. Definire queste caratteristiche alla nascita, il ‘naturale’ dell’umano, è la posta in gioco della politica. Aggiungerei che appartiene al gioco politico anche il gesto apparentemente preliminare di segnare il confine di ciò che pertiene al pubblico e dunque può essere discusso e modificato pubblicamente e ciò che invece ne è fuori, complessivamente designato col termine ‘privato’, o idiotes. In realtà il confine che taglia le due aree, e dunque che per esempio segnala la nascita come evento pre-politico o privato, è già di per sé un gesto sommamente politico, in quanto significa che sottrae alla discussione pubblica e alla modificabilità politica un pezzo del vivente: con l’effetto, da una parte di salvaguardarlo dall’intromissione del potere, dall’altra lasciandolo in balia di poteri sociali e privati non controllabili che di fatto lo gestiscono. In questo senso il fatto stesso che non si parli molto di nascita nella teoria politica, non significa affatto che l’evento sia escluso dall’attenzione politica, piuttosto esso appartiene alla sfera del ‘lasciar vivere’, che significa lasciar orientare dai poteri sociali all’interno dei quali l’evento nascita avviene. L’uso piuttosto, assai più frequente, addirittura cruciale in politica, del concetto di natura rivela in modo corrispettivo, gli effetti della divisione politica tra ciò che è politico e ciò che non lo è: effetti attribuiti, attraverso appunto la definizione del naturale, alla zona che viene sottratta alla diretta gestione politica e ha il potere di limitarlo, di condizionarlo. La modalità di queste linee che vengono tracciate, il regime di verità che le organizza hanno ‘effetti’ politici cruciali. Se – come dice Aristotele – si nasce con tratti animali specifici e differenti dagli altri animali, con una disposizione al politico-sociale, mediata dalla funzione, anch’essa specifica e naturale, del linguaggio, allora la politica, la destinazione all’organizzazione plurale e articolata della politica, sarà implicita nell’evento stesso della nascita: si nasce, per Aristotele, in un contesto sociale diseguale, ma ordinato, destinati a quella forma di vita che è bios politikos49. In questa prospettiva il fatto stesso del nascere sarebbe carico di un grande patrimonio di legittimazione immanente alla nascita stessa, un patrimonio di cui ciascun nuovo nato sarebbe titolare, di per sé, “naturalmente”. Il problema è che siamo consapevoli che la tematica della nascita (di nuovi uomini e donne) è sempre sottoposta ad una qualche 49

ARISTOTELE, Politica, in Opere, Laterza, Roma-Bari 2007, 1254b, 24.

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mediazione simbolica: non si appiattisce mai sulla immediatezza fattuale. Questa densità simbolica ha un peso speciale nell’ambito del politico, per il quale i viventi umani sono al centro di giochi di potere complessi che prevedono (e giustificano) esclusioni, dissimmetrie, gerarchie: innanzitutto rispetto agli animali e agli dei, ma anche rispetto ad altri uomini, che nascono in luoghi e in posizioni diverse50. La naturalizzazione dell’uomo aristotelico, comporta evidentemente la sottrazione alla modificabilità politica di un profilo identitario storicamente determinato (l’uomo dabbene, cittadino ateniese) definito attraverso la contemporanea quasi-animalizzazione di altri viventi come le donne, gli schiavi, gli stranieri-barbari, che non si allineano allo stesso modello antropologico. La macchina antrolopologica e la conseguente collocazione della nascita con il suo corredo di definizioni veritative non è mai neutrale e innocente: produce confini e gerarchie, discriminazioni e modelli normativi. Evocare la categoria della nascita, più densa di esperienza e di enigma, rispetto a quella espressamente codificata dai saperi antropologici di ‘natura’, conferisce ai discorsi politici una maggiore concretezza, quasi fossimo di fronte al fattuale, all’evento: il dato del semplice nascere, venire al mondo. Ma la potenza performativa, per quanto meno evidente, non è meno grande. Il significante ‘nascita’ – proprio per la sua concretezza fattuale – appare utilizzabile per fondare, per ordinare e produrre, o per mettere in questione, la politica. Le immagini con cui ci rappresentiamo la nascita e la dote di cui nascendo siamo portatori (che può andare dall’anima immortale, al peccato originale, al patrimonio genetico delle scimmie), condiziona, come diceva già Gehlen51 e come sostiene Foucault52, il nostro comportamento, le nostre scelte o il nostro processo di soggettivazione: assoggettato, in-formato, da queste verità dense di potere. Questa densità simbolica e performativa varia a seconda che la categoria di nascita sia percepita come vita naturale pre-politica, vita nascente non ancora qualificata, assolutamente naturale, oppure come satura sin dall’inizio, di processi tecnici culturali e dunque politici: a seconda dunque di dove venga collocato il limite tra politico e ciò che non lo è.

50 51 52

Cfr. M. VEGETTI, L’umano fra natura, norma e progetto nelle antropologie antiche, in M. FIMIANI, V. KUROTSCHKA, E. PULCINI (a cura di), Post-umano. Potere sapere etica nell’età globale, Editori Riuniti, Roma 2004, p. 338. A. GEHLEN, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, tr. it. Feltrinelli, Milano 1983, p. 35. M. FOUCAULT, Della natura umana, cit., pp. 12-13; cfr. anche S. CATUCCI, La ‘natura’ della natura umana, in “Forme di vita”, 1, 2004, pp. 80-81.

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Per usare i termini dell’ossimoro iniziale, la vita nascente è evento ma anche sempre dispositivo biopolitico, qualunque sia la forma del sapere che ne parla: dal religioso, al biomedico, dall’esperienziale, al sociologico. Nell’atto stesso di pensare la nascita, descrivendola, sottolineandone il ruolo di significante, sottintendiamo decisioni che producono effetti di potere, di divisione, di articolazione e riattivazione dell’agire politico umano. Si nasce zoon politikon e logon exon, per riprendere il citatissimo Aristotele, perché si è assunta come dote della nascita, carattere naturale in-nato, quella forma di vita sociale e politica che era già storicamente sviluppata in una certa area sociale ateniese, e che la differenziava da schiavi, barbari e donne, che non ‘nascevano’ con questi caratteri. Documento acquistato da () il 2023/04/04.

Nascita e politica moderna La nascita nella modernità diventa un nodo di cruciale importanza, contestualmente alla accresciuta importanza del bios, della dimensione vitale e corporea che individualizza gli uomini e li rende capaci di competere e di incrementare la propria vita e il proprio benessere. Ovviamente entrando in rotta di collisione con un potere politico che è costretto ad inclinare sempre più verso il sociale, ad ascoltarne l’esigenza di autorappresentazione e di sviluppo autonomo. Cresce dunque il ‘dominio’ sottratto al confine politico e definito ‘naturale’. La nascita diventa il perno delle teorie contrattualistiche che esattamente lavorano alla definizione di quel limite e all’arricchimento e specificazione delle caratteristiche interne al cosiddetto privato: i diritti naturali che come tali non risultano disponibili e vanno lasciati all’autonomo governo di ciascuno o del sociale. Inutile ricordare che Locke inserisce nella dote della nascita, innati e perciò imprescrittibili e non politici, i diritti della triade life, liberty and property. Di essi la politica non dispone. La nascita dunque è, per usare un termine psicoanalitico e lacaniano, forclusa dalla politica (lo stesso Hobbes lascia escluso dal potere assoluto del Leviatano il diritto sulla vita, in quanto logicamente indisponibile in un patto dettato dalla convenienza e dall’esigenza di sopravvivere). In realtà ci accorgiamo che ciò che diventa fantasmatico e spettrale in politica, è esattamente, nella teoria liberale, il pilastro che regge l’ordine. I diritti di nascita fondano l’ordine sociale proprio quando sembrano svanire nella dimensione del privato53. Economia, coscienza e vita privata sono il tesoro 53

Non a caso Locke nella redazione della Costituzione della Carolina del 1699 dirà che ogni uomo libero avrà potere e autorità assoluta sui propri schiavi neri, cfr.

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nascosto rispetto al quale un governo liberale deve limitarsi alla custodia dello status quo, dei mutamenti che i singoli e le istituzioni sociali ‘private’ come la famiglia, l’impresa, le credenze religiose e morali vorranno imporre, senza che queste rules siano oggetto di discussione e valutazione pubblica. Basti pensare al ruolo della donna e alla sua cancellazione dal tavolo politico all’ombra della dichiarata eguaglianza nella neutralità giuridica, in realtà forgiata sullo standard del solito maschio adulto eterosessuale e proprietario, che il femminismo ha denunciato e continua a denunciare. Nella politica democratica la nascita esce dal dominio dell’indisponibile e del privato per diventare invece la connotazione dell’appartenenza politica. Come si vede, si tratta di disporre altrimenti il confine. Il cittadino è ‘nato’ nella ‘nazione’ e appartiene alla patria comune. Iniziano a moltiplicarsi gli ossimori: la nazione, come afferma Foucault, implica la statalizzazione del biologico54, la presa in carico della vita biologica da parte della politica, ma anche la sua ‘cattura’: il nuovo nato esce dalla rete dei poteri familiari e sociali e la sua identificazione – Althusser avrebbe detto, la sua ‘interpellazione’55 – il nome che gli viene dato, è direttamente e immediatamente una collocazione politica, un posizionamento nella scena dei poteri asimmetrici dello Stato. Nella nazione, e in modo esasperato nella nazione razzista del nazionalsocialismo, il criterio di cittadinanza è frutto di un dispositivo che include la nascita in un luogo, in una etnia e poi in una razza, come elemento dirimente. Mentre nelle esperienze democratiche nazionali, per esempio della Francia post-rivoluzionaria, la nascita è la legittimazione della disponibilità dello Stato ad accogliere e a proteggere, e la comunità di sangue e di suolo è anche la comunità di appartenenza, nel regime nazista, è la posizione nella gerarchia delle razze che fa della nascita un valore (o un disvalore) per l’accesso alla cittadinanza e un fondamento biologico della cittadinanza. La nascita cioè si trasforma in indicatore politico dopo essere stata valutata e preformata biopoliticamente. Sulla inclinazione biopolitica del potere moderno per il quale la vita – e dunque la riproduzione e la nascita – è al centro dell’interesse di governo, torneremo a breve. In quello schema infatti la biologizzazione della politica come la politicizzazione del biologico sono due facce di un intreccio

54 55

Y. MOULIER-BOUTANG, Dalla schiavitù al lavoro salariato, tr. it. Manifestolibri, Roma 2002, p. 173. M. FOUCAULT, Bisogna difendere la società, cit. L. ALTHUSSER, Ideologia e apparati ideologici di Stato, in ID, Freud e Lacan, tr. it. Editori Riuniti, Roma 1977.

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non più solo metaforico e simbolico, ma concreto: il corpo sociale diventa «una realtà biologica e un campo di intervento medico»56.

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La nascita evento Ma vorrei riprendere la dimensione simbolica della nascita. Per costruire su di essa una polarità, una dicotomia priva di possibile conciliazione sintetica, naturalmente. La dimensione simbolica della nascita ha avuto un eccezionale rilancio nella teoria di Arendt. Come si sa, Arendt eredita la centralità del concetto di nascita, come metafora della capacità umana di iniziare qualcosa di nuovo, di libero, di politico in contrasto con un operare tecnico ed esecutivo, dalla religione cristiana e da Agostino. Nascita e incarnazione sono gli eventi, i miracoli, che spezzano la deducibilità e la catena casualistica così determinante in altre culture, a cominciare da quella giudaica. Poiché per Arendt l’agire politico è legato indissolubilmente al novum, è l’evento, che dà senso al tempo e al passato: «La grande importanza che il concetto di inizio e di origine ha per tutti i problemi strettamente politici deriva dal semplice fatto che l’azione politica, come ogni azione è essenzialmente sempre l’inizio di qualcosa di nuovo»57. La suggestione arendtiana è grande: attraverso la centrale metafora della natalità, l’agire politico si fa evento esso stesso, irriducibile e indeducibile e spezza la catena del condizionamento eteronomo. Intendiamoci, Arendt consapevolmente sottrae quell’agire alla dimensione teoretica, al sapere che ridurrebbe l’emergenza ai fattori che la rendono possibile: la prassi è an-archica, non ha principi. Si manifesta come evento appunto, come la nascita. La citazione non può che essere da Agostino, il più esperienziale dei padri della cristianità. Initium ut esset homo creatus est. Anche Arendt però, costruisce la sua rete simbolica perché la metafora della nascita come evento e come libertà sia efficace e affascinante: anche lei costruisce un racconto sul bios, per ricavarne effetti di potere. E, peraltro, non manca a più riprese di sottolineare il carattere difettivo e dipendente della libertà simboleggiata dalla nascita, la memoria che è iscritta nell’assoluta contingenza dell’essere nati58. Ma resta importante 56 57 58

M. FOUCAULT, L’evoluzione della nozione di individuo pericoloso nella psichiatria legale del XIX secolo, in Archivio Foucault 3, cit., p. 49. H. ARENDT, Comprensione e politica, in ID., La disobbedienza civile e altri saggi, tr. it. Giuffré, Milano 1985, p. 107. H. Arendt nel Der Liebesbegriff bei Augustin, sua dissertazione di dottorato, accosta natalità e ricordo grato, rapporto di rammemorazione, forse di solidarietà e

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evidenziare il potente significato performativo che assume, nella sua teoria, l’aver definito l’evento nascita come initium. E – in quanto inizio – prova della capacità umana a non essere (totalmente?) condizionata dalla catena degli eventi passati. Simbolo dunque del novum; e perciò prova della possibile libertà umana. Grande suggestione: grande e originale ripresa dell’invenzione e della creatività come luoghi della soggettività umana irriducibile al continuum. Ma naturalmente noi tutti sappiamo che nessuno è meno libero di chi nasce, che non chiede di essere messo al mondo, e che, pur trovandosi ad essere titolare di una serie di diritti, è carente, in modo assoluto e totale, di libera gestione dell’evento di cui è protagonista: ‘gettato lì’ in un luogo di eteronomia profonda, non controllato né controllabile dal soggetto che ne è titolare. Judith Butler, sulla scia di Melanie Klein, Laplanche, ma anche di Foucault, ha elaborato con grande finezza questa condizione di vulnerabilità assoluta alla nascita che definisce il processo incipiente di soggettivazione in termini di assoluta dipendenza e abusabilità: «Nessun soggetto emerge senza un attaccamento appassionato nei confronti di coloro dai quali dipende in maniera fondamentale [...] la formazione della passione primaria durante uno stato di dipendenza rende il bambino vulnerabile alla subordinazione e allo sfruttamento»59. Richiamare le belle pagine agostiniane di Arendt sulla libertà della nascita e sul nuovo inizio, non può non ricordarci come esse siano impostate su un registro tutto simbolico: nascita è novum, è libertà? Nascita e biopolitica Al polo opposto di questa dimensione simbolica della nascita – capace di influenzare, sia pure marginalmente, come modello metaforico, la teoria e la prassi politica – c’è la rappresentazione della nascita nei saperi biologici. Quei saperi cioè, che sono il riferimento, il quadro di verità carico di effetti di potere, della biologizzazione dell’umano e del suo governo biopolitico. Il sapere biologico è il darwinismo (prima di Darwin, i riferimenti sono Cuvier e Lamarck): cioè l‘evoluzionismo, la storicità del vivente, la catena delle trasmissioni biologiche ereditarie. Qui la rappresentazione della nascita, di chi nasce, viene ricondotta totalmente ai vincoli biologici

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gratitudine tra i quali si è inseriti nella nascita. Comunque una memoria che non perviene ad una relazione di causazione storica. J. BUTLER, La vita psichica del potere, cit., pp. 12-13.

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Dispositivi di rappresentazione: discorsi di verità e effetti di potere

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ereditari: nessuno può sfuggire al proprio destino (salvo manipolare il codice genetico). Ciascun vivente che nasce è legato alla catena che lo lega inesorabilmente a ciò che viene prima di lui, al patrimonio genetico dei genitori, dei nonni, nessuno veramente sceglie la propria vita: la stessa biopolitica – prima delle nuove manipolazioni genomiche, ancora in fieri – non agisce sul nuovo nato, ma sull’ambiente che condiziona la vitalità del nascituro o del neonato, in base al principio che ciò che è modificabile, sta nella relazione del geneticamente determinato con l’ambiente cui si deve adattare per sopravvivere e per riprodursi a sua volta. Allora la libertà, la impredicibilità e irriducibilità singolare di ciascun nuovo nato, non è altro che fitness, adattamento, il principio che orienta il vivente selezionando la sua maggiore o minore capacità di sopravvivere in un ambiente. Il sapere biologico che fa perno sulla ereditarietà – sapere che è impossibile sottovalutare dal momento che costruisce il quadro di verità scientifica di ciò che è pensabile e dicibile nel nostro tempo – lavora per “oggettivare”, come si usa dire, l’inoggettivabile, l’emergenza di un nuovo essere vivente. D’altra parte, si tratta di un’esperienza di ‘riduzione’ dell’imprevisto, dell’ignoto, propria del vivente uomo – come ci dice l’antropologia contemporanea e il già citato Gehlen – e anche a livello del quotidiano e non della scienza, a livello del senso comune, possiamo constatare che, quando nasce un bambino – per addomesticare la sorpresa di una nuova vita, sconosciuta, imprevedibile nel suo sviluppo, per compensare e contenere l’inquietudine segreta che la potenza di un novum genera, l’ansia di una novità che scompenserà gli equilibri – cerchiamo i tratti di famiglia, le somiglianze che ci rassicurano. Compensiamo l’ansia con un sapere, assai poco scientifico, ma che riduce il nuovo al noto: certo sostenuti dall’affetto, affetto che, peraltro, il sapere biologico ci assicura essere prestato dalla sapienza dell’evoluzione che difende il cucciolo finché ha bisogno di cure, perché possa poi perpetuare la specie. Il dispositivo della nascita, inquadrata nel sapere biologico, fa della vita nuova il risultato di qualcosa che la precede e la determina. Certo all’entusiasmo del determinismo e del riduzionismo del mirabolante Progetto Genoma, succede oggi un dibattito molto serrato all’interno del neodarwinismo tra teorie deterministiche alla Dawkins e considerazioni più plastiche e più complesse sulla specificità e originalità del processo evolutivo dell’Homo sapiens sapiens, ma comunque l’eredità genetica resta legge, forza e fatto: legge del fatto non ulteriormente discutibile che

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Dispositivi e soggettivazioni

rende chi nasce corrispondente alla propria fatticità. Come icasticamente afferma Esposito: il bios è causa del nomos60. L’immaginario della nascita, che nelle infinite immagini di natività della nostra arte e della nostra cultura, era stata esaltato come luogo di incrocio col divino, di trasformazione, di salvezza, di redenzione, diventa sempre più una ecografia del più previsto, monitorato, governabile, luogo del governo biopolitico. Il libro, (influenzato dalle tesi dell’antimedicina di Ivan Illich) di Barbara Duden, Il corpo della donna come luogo pubblico. Sull’abuso del concetto di vita61, testimonia la artificialità della relazione ormai mediata dagli strumenti di monitoraggio, tra la madre, diventata l’ambiente uterino per l’approvvigionamento di un feto, e quest’ultimo. Riproduzione e nascita sono gli snodi della politica della vita, della politica della salute e della possibilità di incremento e miglioramento: luoghi della governamentalità. Determinato e prevedibile per le leggi genetiche di ereditarietà – una volta nato, il corpo del neonato, monitorato da sùbito, è sistema di sistemi, collegato ad ambienti esterni modificabile attraverso di essi, immunologicamente, produttivamente e psicologicamente flessibile, in connessione diretta con dispositivi di computazione, da procedure preventive e sicuritarie della società del liberalismo avanzato. Un volto enigmatico Che dire, allora, di queste due rappresentazioni opposte, quella arendtiana e quella biopolitica? Innanzitutto vorrei tornare all’immaginario della natività. L’initium, esaltato da Arendt, chiamato a testimoniare la irriducibilità dell’uomo a ciò che condiziona la sua vita – se è smentito dalla somiglianza di madre e figlio, dalle leggi ferree dell’ereditarietà – trova una problematizzazione nell’atteggiamento di cura della madre verso il figlio, che in parte conferma, in parte smentisce quell’immaginario. La nascita è infatti, anche, il luogo di emergenza della cura62. La diseguaglianza oblativa tra le due figure è una traccia di governo, di dipendenza bienfaisant, di relazione di assoggettamento orientata alla soggettivazione. È uno snodo che è cruciale per tutto il discorso della biopolitica: che trova un significante molto efficace nella nascita. 60 61 62

R. ESPOSITO, Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004. B. DUDEN, Il corpo della donna come luogo pubblico. Sull’abuso del concetto di vita, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1994. L. BAZZICALUPO, La diseguaglianza oblativa, in E. DE CONCILIIS (a cura di), Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno, Mimesis, Milano 2007.

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Dispositivi di rappresentazione: discorsi di verità e effetti di potere

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Esposito interpreta la nascita come un topos concettuale che si contrappone al razzismo selettivo della soppressione anticipata della nascita, voluto dalle pratiche di sterilizzazione naziste. Contro queste pratiche la nascita è chiamata, per Esposito, a essere segno dell’accoglienza dell’altro, dell’indebolimento del meccanismo reattivo e autoconservativo dell’autoimmunizzazione che uccide l’estraneo, lo elimina. La gestazione e la nascita sarebbero la prova di un blocco della reazione immunitaria e dunque testimonierebbero la possibilità di una vita che esercita un potere positivo sulla vita63. Non sono sicura che questo sia sufficiente alla politica. A me sembra che la doppia dimensione fattuale e simbolica della nascita sia portatrice di messaggi complessi, non univoci. Posta sotto il segno della dipendenza e della eteronomia, lega il neonato alla catena delle determinazioni genetiche, ma anche alla catena forse non meno significativa dei debiti e delle gratitudini. A quell’attaccamento appassionato ed abusabile di cui parlava Butler. Se rendiamo alla nascita il suo spessore complesso vi vediamo emergere il processo di soggettivazione. Non si nasce soggetti, lo si diventa. E lo si diventa attraverso processi di cura e di condizionamento. Vogliamo dire di assoggettamento? Ricordiamoci che, stretto nel rischio di un circolo vizioso di eteronomia delle resistenze possibili, Foucault – che mai ha voluto compiere il passo verso la natura assiomatica e ontologica (ha sempre pensato che le verità fossero decostruibili e ne valessero gli effetti) – avanza una distinzione tra i procedimenti di pastorato, di ascendenza cristiana, e la produzione della soggettività di tradizione greca: i primi possono svuotare il soggetto, negargli i desideri antropogeni, iniettandogli un sapere di sé estraneo, oppure, nella tradizione della epimeleia heauton, mobilitare i processi di soggettivazione, attraverso esempi che ne sollecitano la libertà. Può bastare? Il mistero di un viso mutevole e chiuso di un bambino appena nato, prelude alla difficile emergenza di un soggetto. Lo scarto, la differenza, che un soggetto è, si manifesta nel suo scontento, nel suo attrito verso il mondo. Nel fatto che urla, protesta e solo per comodo pensiamo di poterne saturare la scontentezza con una qualche cosa.

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R. ESPOSITO, Bios, cit., pp. 185-200.

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IV. DISPOSITIVI DI PRODUZIONE

1. Produttività dei dispositivi biopolitici: bioeconomia

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Produttività L’affermarsi del paradigma biopolitico al fine di illuminare il potere moderno che si annoda alla vita in modo immanente, apre lo spazio ad un approfondimento del suo carattere positivo, nel senso letterale del porre e del produrre. Carattere, dotato di alcune specificità su cui val la pena riflettere e che danno ragione della straordinaria socializzazione e condivisione della biopolitica stessa. La positività o produttività dei dispositivi biopolitici si riferisce a quella sezione della famosa definizione foucaultiana di un potere che “fa vivere”, che prende in carico la vita. Ovviamente escludendo, ovviamente selezionando una vita dall’altra, orientando verso qualcosa e negando, disincentivando altre potenzialità1. A mio avviso, è proprio dando il giusto rilievo alla categoria chiave di produttività che è possibile sottrarsi alla prevalente lettura del lemma biopolitica in termini strettamente biologistici, con la conseguente focalizzazione dei fenomeni razzisti e della metafora del campo come epitome della biopolitica contemporanea. È evidente come quest’ultimo profilo sia denso di fascino e indirizzi l’indagine filosofica sulla sfuggente definizione di natura. Fascino che, per quanto vada riaffermata la consapevolezza della rovesciabilità reciproca delle due facce, probabilmente manca al percorso positivo del biopotere. Potremmo rappresentarci questa ambivalenza attraverso la tensione teorica tra economico e biologico che difendendo e promuovendo la vita e il suo benessere apre alla selezione biologica e alla deriva tanatologica. La regolazione biopolitica, che avviene tramite dispositivi, è una forma della riorganizzazione dell’azione governamentale del potere in campi 1

M. FOUCAULT, Bisogna difendere la società, cit., pp. 212 ss.

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Dispositivi e soggettivazioni

prima inimmaginabili e direttamente innestati sulla vita biologica. Il senso “produttivo” di questa regolazione ne segna la dimensione più autentica e illumina la complessità della sua dinamica, la potenza della sua efficacia, la doppiezza dei processi di soggettivazione che induce: potere «di incitazione, di rafforzamento, di controllo, di sorveglianza, di maggiorazione e di organizzazione delle forze, a farle crescere e ordinarle, piuttosto che a bloccarle, a piegarle, a distruggerle»2. Un potere che intende svolgere una funzione produttiva e affermativa rispetto alle aspettative, ai bisogni, ai desideri. Un potere che implica una radicale ridefinizione: dalla mera conservazione della sopravvivenza dei corpi alla promozione attiva delle condizioni del loro benessere materiale. L’epoca in cui emerge e il suo nesso con l’utilitarismo, legano questo tratto all’idea moderna di progresso. Questo legame iscrive, in modo sconcertante, le stesse tragiche esperienze biopolitiche novecentesche (come il totalitarismo nazista) entro una dimensione di produttività e di crescita che non toglie, anzi accresce l’angoscia; ma che permette, di intendere la doppiezza dell’idea di miglioramento, di progresso e di produzione sulla quale fa perno la storia dell’Occidente. La dimensione quotidiana, materiale, pragmatistica e calcolistica del biopotere: i servizi sociali, il sistema sanitario, la legislazione del lavoro, la proliferazione di saperi statistici e regolativi, i dibattiti su ciò che è pubblico e ciò che è privato, sul punto in cui inizi la vita e la sua tutela, le transazioni tra assistenza e non assistenza, tra dipendenza e indipendenza o rischio, (cioè l’attuale definizione della governamentalità amministrativa oggi residuale) e tutto il campo delle scelte economiche di politica del lavoro, di organizzazione del consumo, di distribuzione delle risorse e di valorizzazione del capitale umano: tutto questo è l’orizzonte di senso del dispositivo biopolitico positivo nella cui trama concettuale bonaria e vagamente banale, transluce il nodo di scelte di potere che affondano nelle vite e nei corpi, al di qua della esasperata evidenza delle selezioni biologiche, ma su una stessa lunghezza d’onda, in una logica, strumentale ed economica, che li accomuna. La produttività del potere nei confronti della vita non si riferisce solo alla istanza di legittimazione che la vita e il suo incremento – salute, salvezza e benessere – assumono in una società secolarizzata. Su di essa ci siamo già soffermati. Più radicalmente si presenta come una strutturazione attiva dell’ambiente biologico. La naturalità, il bios, è il piano di immanenza dove si intersecano individui che lavorano, vivono, consumano strutturati da dispositivi (complessi eterogenei di discorsi, istituzioni, architetture, 2

M. FOUCAULT, La volontà di sapere, cit., p. 120.

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Dispositivi di produzione

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leggi, relazioni contrattuali, misure di polizia, proposizioni psicologiche o filosofiche) che agiscono su di loro e sui quali a loro volta essi agiscono. Questi dispositivi evocano il bios, la vita, come un piano di bisogni, di desideri, di scarsità e di fame: dunque una soglia di vita manchevole e minacciata. Alle spalle del dispositivo produttivo sta sempre, nella logica biopolitica, un margine oscuro; la vita si staglia su uno sfondo di morte; la produzione e l’incrementazione, sullo sfondo di scarsità. L’ontologia e antropologia della mancanza sono lo sfondo delle pratiche occidentali del potere maggiorativo. Scarsità e fame, che corrispondono, nell’ordine della governamentalità economica, al caos e violenza che limitano e costituiscono la società politica moderna hobbesiana. In relazione a questo sfondo, la finalità – la vita che afferma la difesa e l’incremento di se stessa – resta l’elemento qualificante positivo e dà luogo ai dispositivi disciplinari ad essa funzionali; dunque ne struttura la logica strategica e il criterio valutativo che – piuttosto che giustizia e ordine, categorie della giuspolitica moderna – non può che essere l’effettualità, la flessibilità adeguata allo scopo e che sullo scopo si modella. Il ruolo centrale che vi svolge la categoria di produttività, per contenere ed orientare, attraverso i dispositivi, tutti i campi del sociale (produzione politica di ordine e sicurezza, produzione economica di sussistenza e benessere, produzione culturale di soggettività, educazione, autorealizzazione, produzione e riproduzione tecno-scientifica della vita) manifesta l’opzione tecnica e biopoltica della modernità. La produttività, d’altronde, è categoria eminentemente economica. Dunque la biopolitica positiva è essenzialmente un’economia. Nel duplice senso della parola economia. La logica del governo delle vite è economica, strategica, ottimizzante. Ogni volta che il potere, prende per oggetto la vita assume un’economia di salvezza. Questo significa che un potere che ha uno scopo esterno che lo orienta e lo struttura – il quale scopo, nel moderno, è la salvezza, la salute, il benessere – implica l’adozione di una logica o economia che lo renda efficace, adeguato alla vita stessa che prende in carico. La biopolitica poi, come emerge chiaramente dalla genealogia foucaultiana, non solo è una pratica economica, ma ha contemporaneamente per proprio oggetto privilegiato l’economia propriamente detta. La sfera dell’economico si innesta sulla vita: se la vita percepisce se stessa, è perché sente la fame, la sete, la stanchezza, la paura, nonché, ovviamente la soddisfazione, l’adempimento. Una teoria dei bisogni e dei desideri, è presupposta da ogni economica, che orienta, motiva l’azione umana. È nello iato tra sensazione organica e sua mediazione culturale che si innestano i regimi

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Dispositivi e soggettivazioni

di sapere e di potere. A partire da quel sentire si mette in moto un agire orientato alla soddisfazione delle esigenze naturali strutturati secondo una logica di massimizzazione al minor costo possibile. Questo campo prasseologico mirato alla produzione, con il fine primario della soddisfazione del desiderio è l’economia. Prassi funzionale alla vita: dunque costitutivamente implicata nel suo governo e logica di ottimizzazione della stessa vita. A Foucault si deve la genealogia di un paradigma economico gestionale, il cui problema non è legittimare il no, ma «savoir comment dire oui, comment dire oui à ce désir»3, un paradigma d’incentivazione, adattivo e flessibile si è opposto e intrecciato al paradigma politico derivato dalla secolarizzazione teologica. Ma Foucault, che annuncia la biopolitica e parla di governamentalità, non chiarisce a fondo il nesso della governamentalità con l’economia, nesso che le pratiche su cui si sofferma evidenziano e che nel liberismo contemporaneo diventa di perfetta coincidenza. Non spiega la problematicità del corto circuito immanentista e l’aprirsi della vita alla sua trasformabilità, tra la vita come è e la vita prodotta. Foucault attiva l’attenzione sul «sapere economico-amministrativo» in Bisogna difendere la società4. È l’annuncio di una ipotesi non giuridica ma economica del potere. L’orientamento si accentua in Sécurité, territoire, population. Il corso si apre annunciando l’obiettivo di parlare di biopolitica ma slitta sulla governamentalità, considerandola dunque un sinonimo. L’oggetto di questo corso è l’economia, l’arte di esercitare il governo nella forma dell’economia, e il successivo, Naissance de la biopolitique, è interamente strutturato sul government économique del liberalismo, inteso come tecnica biopolitica. Recuperando pratiche pre-moderne5, il governo appare un modus, più complesso rispetto alla secca dicotomia sovranosudditi, che trasforma il suo oggetto governandolo, cioè oggettivandolo in vista di una soggettivazione, in un progetto di crescita che ne massimizzi le possibilità vitali. L’idea di governo è articolata: non un completo dominio, ma un’influenza temporanea finalizzata allo scopo produttivo, che riconosce un certo grado di indipendenza e attività al governato, oggetto di tutela per il suo bene. Un certo grado di potere – si governa solo uomini liberi – se non antagonista, deuteragonista, che viene orientato verso una direzione e dunque disincentivato verso altre scelte. Il regime di veridizione che struttura questo piegamento è: «la droite disposition des choses, desquelles

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M. FOUCAULT, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 75. M. FOUCAULT, Bisogna difendere la società, cit., p. 116. M. FOUCAULT, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 119 ss.

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on prend charge pour les conduire jusqu’à fin convenable»6. La convenienza (convergenza di potenzialità soggettive e metodo adeguato) implica un obiettivo dinamico, espansivo. Si indeboliscono le problematiche della legittimità, a favore dell’efficacia, Wirklichkeit (messa in opera, werk). L’essere è pensato come essere in opera: «una relazione di potere è un modo di azione che non agisce direttamente e immediatamente sugli altri. Al contrario agisce sulle loro azioni: un’azione su un’azione, su azioni attuali oppure su azioni eventuali e future»7. Governare significa strutturare il campo di azioni possibili di un altro: la dimensione prasseologica è determinante per sottrarre il discorso all’ossessione della cosiddetta natura umana. Emergono processi produttivi di differenziazione e trasformazione; ed emerge il grado di razionalizzazione rispetto al fine di massimizzazione della vita: l’efficacia in funzione del possibile costo. Quale logica e quali dispositivi rendono il percorso che va dal governo premoderno all’economia politica e all’attuale anarchia del mercato, se non un continuum, una processualità genealogicamente coerente? La genealogia di questo gruppo di dispositivi risale alla stagione premoderna del pastorato cristiano, nella connessione propria del diritto canonico, di potestas et benevolentia. È un potere che è «al servizio» dei governati, uno per uno: il che implica tecniche personalizzate, molteplicità di iter gestionali, scavo nelle biografie, nelle psicologie, nei corpi8. Stimola il processo dell’individualizzazione in direzione del conformismo, ma anche della meritocrazia, «une économie des mérites et des démérites»9. La gestione pastorale produce soggettivazioni formate su discorsi veridici. Chi sa la verità? Nel regime pastorale, vera è la pronoia/provvidenza che disegna un’economia di salvezza spirituale e fisica. Nella Polizei, è il sovrano che sa la verità e agisce legittimato da essa. Necessari sono oggetti e metodi delle scienze statistiche: il numero dei consociati, i loro bisogni vitali, l’alimentazione, la salute, i rischi, i mestieri, gestire i quali implica conoscenze e decisioni sottratte ad ogni contrattazione, primarie, vitali. Nella fase fisiocratica e poi liberale si ha il capovolgimento: la veridizione non appartiene al sovrano; la verità è nella natura, nel bios e nel desiderio (materiale e generico come la popolazione) che insegue il proprio interesse. La verità sta nella sua autoregolazione immanente, sta nei meccanismi 6 7 8 9

Ivi, p. 99. M. FOUCAULT, Il soggetto e il potere, in H.L DREYFUS, P. RABINOW (eds.), La ricerca di Foucault, tr. it. Ponte alle grazie, Firenze 1989, p. 248. Cfr. anche di M. FOUCAULT, Omnes et singulatim, in “Lettera internazionale”, 15, 1988, pp. 35–42. M. FOUCAULT, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 167.

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spontanei del mercato che il sovrano – Foucault lo sottolinea con energia, facendone la condizione della libertà liberale – non conosce10. Questa rivoluzione del sapere è una rivoluzione del potere: implica la socializzazione della politica, il ruolo attivo della società civile rispetto allo Stato. Il criterio di veridizione diventa l’economia, test di attendibilità dei governi statuali: in tensione tra interventismo – dove l’economia politica promuove il potenziamento delle popolazioni secondo bisogni che lo Stato conosce meglio dei singoli – e la fisiocrazia e poi il liberalismo, dove i saperi economici strutturano soggetti attivi, contropoteri, che chiedono meno governo, più autoregolamentazione. Anche se poi paradossalmente avranno bisogno di più governo per gestire in sicurezza, la propria libertà di agire. Che ne è, a questo punto, della equazione economia-governamentalità biopolitica che organizzava il vivente in un codice doppio di dipendenza, di cura, ma anche di potenziamento e capacitazione e che si subordinava ad una logica efficientista? Quando la veridizione economica si scioglie dalla dipendenza dal sovrano e rivendica l’autogoverno, si autorappresenta come un universo di individui autonomi capaci di scelte razionali. Autogoverno, parola chiave dell’ultimo Foucault, significherebbe immanenza del circuito di nomos e bios, di soggetto e oggetto della effettualità: eppure quest’ultima, riaprendo il movimento di trascendenza, viene posta sotto il segno della scelta razionale, piuttosto che del desiderio11. Forse è opportuno – procedendo oltre Foucault, – problematizzare, nel senso deleuziano del termine. L’immanenza del corto circuito bios/nomos nella governamentalità economica, come nell’autogoverno del mercato, è problematica, perché l’economia moderna non nasce sotto il segno della pura sussistenza; non è concepibile anzi se non quando la pura sopravvivenza si allenta e si apre all’interno del corto circuito bisogno-soddisfazione un movimento dinamico di accrescimento della vita, un potenziamento. L’economia moderna è cremastica: ossessionata dall’eccedenza di profitto che permette il ciclo produttivo in una spirale di crescita, e dall’eccedenza del bisogno che innesca la spirale del consumo. Questo dinamismo è forse un portato secolarizzato della provvidenzialità cristiana o è riconducibile all’homo faber e alla sua temporalità attiva, tecnica e prometeica. In entrambi i casi replica nel governo economico delle vite, la potenza mitica dell’idea di progresso: quella singolare legge economica che, saturata la necessità, persegue la ricchezza come condizione per soddisfare futuri bisogni ancora negati. Ma, 10 11

M. FOUCAULT, Nascita della biopolitica, cit., pp. 18 ss. Cfr. L. BAZZICALUPO, Il governo delle vite, cit.

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quale che sia la pulsione o l’ascendenza culturale che stimola la rincorsa, in quel più vita, o più di vita, si inserisce il potere, la gestione biopolitica dell’accrescimento stesso; si inserisce un vettore simbolico, che allenta il circolo non-mediato di urgenza del bisogno-riequilibrio della sussistenza, se mai un simile circolo naturale fosse pensabile.

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Bioeconomia: governamentalità acefala La mia ipotesi è che vada approfondita l’analisi del comportamento economico moderno per cogliervi i caratteri persistenti di governamentalità delle vite, anche al di là del dirigismo economico da parte dello Stato, cioè al di là della gestione politica, welfarista, dell’economia cui si riferisce la fase disciplinare della biopolitica12. Può essere questa la strada per recuperare la densità problematica della forma positiva e produttiva del biopotere, evitando il riduzionismo manicheo che guarda al solo risvolto tragico e che ne occulta la funzione ambivalente nei processi di soggettivazione tra dipendenza e autonomia, tra cura e eccedenza. Mettendo in dubbio anche l’eccesso opposto: un vitalismo biologico che esalta la Potenza affermativa della vita immediatamente espressiva. Per Foucault – che pure ha illuminato il nodo concettuale di biopotere, governo e economia – l’economico/ amministrativo è interamente ricondotto all’istituzione. Quando l’economia propriamente detta, crescendo, si rende autonoma, essa diviene test di attendibilità del governo statale stesso. La esternità di veridizione economica liberista e luogo politico della governamentalità è, in Foucault, la chiave di lettura della attuale fase biopolitica liberale che mira all’essere meno governati. Non viene preso in considerazione il governo strategico dell’economia (genitivo soggettivo): quelle prassi di individui, organismi e istituzioni economiche che a loro volta sono investiti, nella nuova assoluta deregulation del mercato, del compito di autogoverno e esercitano dunque poteri – talvolta antagonisti del potere statale, talaltra bisognosi della sua protezione – ma comunque poteri e governo, su di sé, in quanto autocura e autopromozione, e sugli altri in quanto organizzazione e servizio, nella terziarizzazione dell’economia. Viene sottovalutata, anche, la socializzazione che sostiene e accompagna la crescita della nuova prassi economica, cioè la introitazione dei fini di crescita che oggi incrementa smisuratamente il potere biopolitico. La governamentalità liberale appare in Foucault, strutturata sulla limitazione, tramite la veridizione economica, dell’eccesso di 12

N. FRASER, From Discipline to Flexibilization? Rereading Foucault in the Shadow of Globalization, in “Constellations”, 2, 2003, pp. 160–171.

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politica (intesa come politica istituzionale e statuale), con la conseguente contraddizione immunitaria: il costo delle libertà di scambio sono i dispositivi di sicurezza che reprimono la libertà invocata. Foucault dedica il corso del ‘78-‘79, Nascita della biopolitica, non al welfare e all’economia politica, ma alle teorie anti-welfariste che maturano nell’ambito delle scuole economiche neoclassiche, tedesca e americana, il cui liberalismo, flessibile e polimorfo, può tanto difendere l’autonomia dell’agente economico e del mercato, quanto richiedere l’intervento regolativo per il ripristino della concorrenza13. Quello che sembra interessare Foucault è in ogni caso il classico antagonismo di economia e politica, mercato e governo, in chiave libertaria, antistatalista. Il discorso foucaultiano, ripreso sommariamente nell’ottica che ci interessa, offre un contributo decisivo alla comprensione della ratio economica della governamentalità biopolitica14, ma lascia molte questioni aperte: la cesura istituita tra prassi governamentale di ascendenza pastorale e economia moderna, cesura che non problematizza l’autorappresentazione moderna dell’economia. Così come sono aggirate, in una tonalità libertaria, affascinata dalla scoperta della energia anti-governamentale del liberismo, le ambiguità della ratio economica che, se da una parte si afferma come logica utilitarista di qualsivoglia potere, dall’altra manifesta la persistenza dei caratteri di dipendenza, di norma interna, di regolarizzazione extragiuridica, di relazioni gerarchiche fondate sulla competenza e la fiducia. Se l’obiettivo di Foucault mirava a studiare gli effetti di potere dei regimi di veridizione, sfugge alla sua presa la eccedenza di senso del mercato concreto, che contraddice tanto la lineare logica di ottimizzazione del mercato teorico quanto la presunta indipendenza degli agenti dei quali mostra piuttosto di strutturare in modo complesso e imprevedibile i processi psico-socio-antropologici. La rappresentazione neoliberista (ripresa da Foucault), di fatto scioglie il mercato stesso dal nodo decisivo – biopolitico – con il vivente, dai suoi bisogni o dai suoi desideri e dalla sua creatività, in direzione della secca relazione tra governare e essere governato, orientando l’analisi contro l’eccesso di governo. Varchi nell’immanenza Una volta accolta la sfida che nasce dalla constatazione che gran parte del consenso oggi si gioca nel cerchio vitale di sopravvivenza-produzio13 14

M. FOUCAULT, Nascita della biopolitica, cit., pp. 77 ss. Ivi, p. 229.

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ne-riproduzione-benessere, ripartiamo dal fatto che l’economia moderna presenta una configurazione non orientata alla sopravvivenza ma alla incrementazione della vita. In realtà quello che chiamiamo vita è un discorso sulla vita. La biopolitica economica apre il fatto vita, già spontaneamente inconcluso a causa della sua radice desiderante e lo sottopone alla gestione che lo potenzia. Il corporeo, i bisogni, la popolazione non sono che una serie di processi, costellazione di fatti e di energie in sé opachi, penetrabili solo a condizione che le linee di gestione siano ponderate, appropriate, flessibili come l’oggetto cui si riferiscono. Ecco la persistenza del quadro pastorale biopolitico, ancora oggi. Il governo economico delle vite deve adeguarsi alla norma interna delle vite, pena un circolo degenerativo e inefficace. Ma questa norma che si presenta come interna è un sapere oggettivante: costruisce la genericità nei corpi singoli, individua e stabilizza la omologazione dei bisogni, indovina e costruisce le equivalenze, le regolarità comportamentali attraverso un governo sociale che opera sollecitando, coinvolgendo. La sua autorevolezza conserva le tracce della pastoralità nella sapienza dei fini (il regime di verità senza il quale nessuna biopolitica ha senso) e nell’atteggiamento di cura, di induzione di dipendenza, di adempimento del desiderio che sembra inserire la sfera economica in un codice biopolitico che una prospettiva psicanalitica definirebbe materno: anche se la sua autorappresentazione nega la oblatività del codice materno – cura, dipendenza, godimento gestito dall’altro – a favore del codice paterno (non paternalistico) dell’autonomia, del differimento del godimento, della competizione. Autorevolezza come competenza, ma anche come augmentum, incremento: la gestione del potere economico avviene in nome e dalla parte dei governati – utenti, consumatori, lavoratori – per premiarne gli sforzi, per assentire ai desideri. La grande strategia disciplinare benthamiana-foucaultiana si dissolve in una miriade di agenzie che stimolano la nostra condotta di consumatori affidabili e creativi. Siamo attirati nel cerchio produzione-consumo, guidati, sollecitati da influenze che parlano in nome dei nostri interessi, che mirano ad aumentare la nostra produttività e a realizzare, come consumatori, i nostri bisogni-desideri. Nessuno ci costringe, qualcuno ci aiuta a scoprire le potenzialità e i desideri sopiti nella nostra carne15. La governamentalità descritta da Foucault sperimenta oggi una nuova attualità. Non nell’interventismo economico dello Stato, ma nel principio, annunciato dalla rivoluzione marginalista, della sovranità del consumatore, colui ai cui desideri si dice sì, governandone in modo 15

G. DELEUZE, Poscritto sulle società di controllo, in ID., Pourparler, tr. it. Quodlibet, Macerata 2000, pp. 234-241.

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soft e personalizzato le esigenze: un governo plurale, disseminato in cui talvolta siamo noi a muovere, talvolta siamo mossi, sempre nel dubbio che qualche potere autorevole, benevolente abbia a sua volta in-formato i nostri bisogni/desideri. Tipico dei dispositivi governamentali anche il regime di verità, che conferisce autorità agli esperti, coincidendo con una norma immanente tale che la condotta conforme sia spontanea. Le scelte degli investitori avvengono sotto la guida di agenzie di rating, di promoters e di intermediari, la cui competenza consiste nel precedere le scelte della popolazione, seguendole. La prassi, personalizzata come esige il marketing, si modella sul cliente (come un tempo sul governato) per assecondarne la norma immanente e sollecitarne le esigenze, i sogni, le possibilità. Sono relazioni di potere dove, come nel pastorato, è centrale l’affidamento, la expertise, la competenza, ma dove il contenuto di verità è esattamente nella fiducia di colui che ad esso si affida. La complessità del gioco messo in atto dalla logica economica e dall’attuale piega del mercato in direzione dell’autogovernamentalità e, insieme, della manipolazione, evidenzia come il problema della produttività biopolitica pieghi in direzione dei processi di soggettivazione, più o meno assoggettata, dei singoli. 2. Economia come logica di governo In che senso: economia? L’economia non è più soltanto una sfera differenziata del mondo moderno, ancorché molto invadente. Non è più nemmeno la struttura che condiziona le sovrastrutture politiche culturali e sociali. Più radicalmente la logica economica è diventata nell’ultimo trentennio la logica della tecnica governamentale neoliberale che definiamo bioeconomica perché produce le nostre soggettivazioni, le forme di vita, l’immaginario e il simbolico lasciando residui di Reale difficili da rintracciare. Come è avvenuto tutto questo? Quali sono le categorie filosofiche per problematizzare questo dato? L’ipotesi di fondo è che ci sia nella storia occidentale un paradigma teologico-economico che affianca quello più rappresentato della politica. In esso l’economia adempie il ruolo, che oggi giunge a pieno compimento, di logica di governo funzionale che non si esaurisce nella economia propriamente detta, dunque, nella sola materialità della produzione, ri-produzione e distribuzione dei beni. In questo percorso la svolta verso la produzione bioeconomica delle vite è segnata dalla prospettiva marginalista che sostituisce la centralità dei bisogni con il nodo del desiderio. E del suo gover-

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no razionale. Vanno messe poi a fuoco le dinamiche della soggettivazione all’interno del codice economico, acefalo luogo di controllo dei poteri sociali apparentemente anarchici, perché si possano rinvenire in esse spazi per un ripensamento.

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Teologia politica e teologia economica L’economia eccede la sua definizione corrente. Il ruolo insieme necessario e ancillare che la tradizione a lungo le attribuisce giustifica forse quella strana opacità che avvolge le radici cristiane dell’economia, quella teologia economica sulla quale solo di recente, sollecitati dagli studi foucaultiani sul pastorato, si comincia a guardare. Non che non fossero noti tutti i passaggi teorici e pratici di questo percorso, ma è illuminante evidenziare come quel percorso commisto di teologico e di terreno, parallelo rispetto alla parabola della teologia politica e della sua secolarizzazione, fornisca le categorie per problematizzare filosoficamente l’economia oggi, quella economia che si autorappresenta in modo laico, scientifico e naturalistico. Le ricerche foucaultiane rappresentano un punto di avvio molto importante per la valorizzazione dell’intreccio della pratica economica con quella di governo e per la sua ascendenza nel pastorato cristiano; ma rappresentano anche una aperçu sulla bioeconomia contemporanea neoliberale che sembra (ma solo in parte è) così lontana dal governo pastorale, che infatti Foucault vede rovesciato in pratiche di autogoverno16. Lasciando però molti interrogativi in sospeso. C’è uno snodo sul quale indaga Agamben alla ricerca delle radici cristiane dell’economia intesa come governamentalità: la teologia politica cristiana acquisisce attraverso la lettura patristica dell’incarnazione del Cristo e del dogma trinitario una valenza ‘economica’ che trasforma il criterio escludente proprio dell’ontologia politica, in quello inclusivo governamentale e promozionale della vita e della salvezza. E lo inserisce in un grande progetto di natura pragmatica, non inerente all’essere ma alle condotte, non all’ontologia, all’etica e al diritto ma all’economica: una economia di salvezza, mediata dal Cristo, invisibile divenuto visibile17. La natura trinitaria del monoteismo così non esclude la pluralità ma la tiene nel proprio seno, articolandola in un modo inclusivo e gerarchico, governamentale, 16 17

M. FOUCAULT, Sicurezza, territorio, popolazione, cit.; ID., Nascita della biopolitica, cit. Cfr. su questo doppio registro, G. AGAMBEN, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo, Neri Pozza, Vicenza 2007 e L. BAZZICALUPO, Il governo delle vite, cit.

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che insegue la pluralità nei percorsi pratici dell’economia. L’incarnazione del principio di verità non si limita a manifestarsi nella carne del Cristo, ma si dispiega come opera di mediazione e salvazione, scendendo dalla verticalità dell’essere al tortuoso iter delle cose da fare, nella pluralità e nella casistica di provvidenze differenziate che si misurano nell’efficacia dell’opera, non nella sua ‘somiglianza’ alla sfera del bene. È un dispositivo a tre poli: ai soggetti destinati all’invisibile piano provvidenziale, si presenta – cioè si fa visibile e concreto – un potere che non è l’Imperscrutabile, l’assoluto, ma auctoritas, l’adattatore, il gestore del piano di incremento della vita. Una figura, quella del potere-che-serve, che fa da pastore, che non parla a nome di se stesso ma che si subordina ad una verità per un compito pratico. Il punto è che così si trasforma la logica del potere piegato alle opere plurime e quotidiane di governo delle vite all’interno di un grande piano funzionale alla salvezza completamente sbilanciato sull’adattamento alle vite di ciascuno, omnes et singulatim, e misurato sulla coppia successo/ fallimento piuttosto che sulla giustizia; sulla cura del particolare e dell’eccezione più che sulla coerenza e generalità della legge. La sua chiave sta nella “motivazione”, nel fine, che prevale sull’essenza stessa. Risulta evidente che il termine chiave che – attraverso il tempo – sostiene questo immenso dispositivo governamentale, che avrà una influenza cruciale nella civiltà occidentale, è proprio l’economia. Questa è la logica dell’economia cioè del governo economico. Il potere perde l’arcana trascendenza del sacro: la genealogia ecclesiale, già a partire da S. Paolo, iscrivendo l’essere divino nell’icona, copia terrena dell’immagine del Cristo, assume la forma dell’opera nella gestione del quotidiano compito di salvezza, di cura, di governo degli uomini18. La pratica sovrasta l’ontologia: la provvidenza e la salvazione, che si secolarizzeranno nel progetto economico laico, di incremento del benessere vitale sono la vera legittimazione del potere. Così come – in un universo infinitamente diverso da allora – il mercato e la crescita economica sono il criterio di legittimazione della politica. L’immateriale dell’economia Perché interrogarsi su questa vecchia storia? Sulla radice genealogica dell’economia come governo? Penso che Foucault ci abbia offerto strumenti per allargare drasticamente la prospettiva strettamente economicista 18

Sulla crisi dell’iconoclastia a Bisanzio cfr. M.-J. MODZAIN, Immagine, icona, economia. Le origini bizantine dell’immaginario contemporaneo, tr. it. Jaca Book, Milano 2006.

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di pensare l’economia, aprendola ad un orizzonte più problematico che coglie in essa quella specifica forma di governo che ha per oggetto la vita, anzi le vite. Non che il governo politico propriamente detto non si istalli a sua volta sulla vita decidendo imperativamente sulla sua uccidibilità o sul suo destino. Ma nel governo economico, che diventa sempre di più governo tout court, il vivente è governato iuxta propria principia, secondo la sua tendenza a conservarsi, a incrementarsi attraverso la produttività. In una parola: questa prospettiva dell’economia come governo è biopolitica e ci dice che il potere è protettivo, incrementativo della vita, anche se poi questo potere nelle ambivalenze della vita può rovesciarsi nel suo opposto di selezione e morte. Ovviamente la figura del pastore cede presto il posto alle forme di governo economico statuali, dalla Ragion di Stato alla Polizei e ai loro apparati disciplinari: ma la logica resta economica, amministrativa e disposizionale. E, non a caso, assume sempre più il controllo di quell’area teorico/pratica caratteristica dell’Occidente, che è la ‘produzione’: il disciplinamento dei corpi è legato strettamente all’incremento della produttività materiale, anche se a lungo coincide con l’incremento e la ricchezza della Nazione piuttosto che dei singoli. L’elemento che lega la struttura triadica del dispositivo: la moneta – dunque il capitale – inserisce, nella relazione di scambio, l’immateriale verità che regge il dispositivo, così come una verità religiosa reggeva quello pastorale autorizzando la posizione gerarchica del pastore. La moneta è infatti credito e dunque fiducia. Se l’economia emerge nella comunità cristiana tanto come piano di salvezza che come pratica di ‘disposizione’ delle cose affidate, amministrazione proficua, una costellazione immateriale preside alla sua efficacia: la fiducia, la fede o il credito fonda un legame tra pastore e governato, rivelando come esso non sia di comando, ma piuttosto oblativo, a vantaggio – diremmo oggi, nell’interesse – del governato secondo una verità che trascende il pastore/gestore, che su quella verità è esperto, competente. La struttura del dispositivo economico, così, è diversa dalla polarizzazione del comando-obbedienza: la relazione tra governato e gestore esperto è mediata da una verità/sapere che avalla tanto l’autorità di quest’ultimo che la collaborazione attiva del primo: una verità sulle cose, una teoria di come esse avvengono e debbono avvenire per il vantaggio del governato. Una verità che, tramite le pratiche di orientamento disciplinare delle condotte, viene interiorizzata e diventa costitutiva della soggettività dei governati. Penso che si debba dare molta importanza a questo polo della verità nel pensare l’economia che pure sembra una scienza tanto terrena e ‘laica’:

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mentre infatti il destino della logica politica segue la secolarizzazione e il suo progressivo svuotamento nichilista che consegna la politica alla contingenza, assai più difficile appare l’erosione delle verità che presiedono alla gestione economica, verità che formalizzano e rendono trascendenti tecniche, condotte e relazioni di potere emerse nella prassi quotidiana dei molti singoli operatori economici. Nel passaggio dalle pratiche economiche empiriche dell’alba del capitalismo al regime di mercato teorizzato da quella scienza moderna che è l’economia politica, la ‘verità’ economica si stabilizza: la battaglia antiprotezionista dei fisiocratici la sottrae alla definizione da parte del sovrano e alle sue decisioni contingenti e la consegna alla ‘natura’, all’armonia spontanea della domanda e dell’offerta nel mercato. La fiducia non si trasferisce al sovrano che tenta di assumerne nel protezionismo la gestione, ma al mercato stesso, nella sua invisibile e dunque inappropriabile ‘mano’, che dal liberalismo fisiocratico ad Adam Smith fino ad oggi, esibisce – ovviamente non senza controcanti e contrasti, decisamente perdenti – un suo criterio di verità, cui le pratiche devono uniformarsi se vogliono essere efficaci. Anche l’economia, anzi l’economia più della politica, essendo governo, è questione di fede. Si ha così una curiosa miscela di aggiustamenti pratici flessibili e particolarizzati, con un regime di verità ‘oggettivo’ naturale, garante dell’incremento delle potenzialità di vite sempre più terrene, e una forma di assoggettamento non coercitivo ma volontario e collaborativo, di uomini liberi di perseguire il proprio ‘vero’ bene o, con termine ‘moderno’, il proprio interesse. L’autorità stessa del pastore prima, dell’intendente amministrativo poi, del consulente commerciale o del manager infine, non è legittimata in modo definitivo, ma rinvia agli effetti del potere esercitato, eseguito, amministrato con successo: legittimata da rapporti di fiducia e di credito. Credito. Parola chiave, scivolata dal campo immateriale della pistis a quello del sistema della moneta e delle sue obbligazioni e saldi che rinviano, senza mai metterlo in gioco direttamente, ad un potere che della moneta garantisca il valore e il regime di proprietà che l’accompagna. La parola credito rinvia a sua volta alla centralità del debito nella organizzazione delle relazioni economiche e ancora una volta al loro ‘governo’ cristiano. Il mercato inteso come scambio di equivalenze sembra mirare al saldo del debito – movimento immunitario rispetto alle forme di appartenenza comunitaria fondata sul munus, sul dono e sul debito19 – ma in realtà è debito 19

R. ESPOSITO, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998.

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che si rinnova e viene organizzato e consolidato nella finanza proprietaria mettendo in atto nuovi meccanismi di assoggettamento soft20. Il nucleo di verità e di fiducia con la sua coppia di debito e credito, definisce la densità immateriale del legame sociale economico: legame capace di dare forma a relazioni (ed investimenti nelle relazioni) pervasive, ordinate e stabili, proprio quando, nel mercato moderno, si autorappresenta come s-legame, come saldo del debito appunto: risuonano le parole sornione di Adam Smith «non è dalla benevolenza del macellaio che ci aspettiamo la fettina di carne [...]». A fronte di una riduttiva rappresentazione che riferisce quel legame al rapporto degli uomini con le cose, appare evidente la sua natura sempre sociale e politica nella misura in cui dispone e governa rapporti di scambio, credito e obbligazioni, debito e investimenti: termini che vengono sterilizzati ma che portano inclusa una carica emotiva, affettiva e libidica di dipendenza concreta, di mimesi e di competizione. Un legame molto solido perché non origina dalla coercizione a riconoscere un potere esterno, attaccabile dal risentimento dei subalterni, ma che assume una verità (e l’adeguamento ad essa) attraverso rapporti fiduciari che si presentano come volontari. L’economia come governo: dal lavoro al desiderio Se l’economia è governo, qual è l’oggetto di questo governo? Ovviamente la vita: un contenuto, meglio, una motivazione percepita insieme come propria e irrinunciabile con tutto il suo carico di esigenze che si rinnovano infinitamente esponendo il vivente al destino produttivo che lo squilibra. La vita, o meglio le vite nella loro concreta pluralità, sono l’oggetto diretto dell’economia che però appunto non le lascia al loro essere, ma le governa: cioè gestisce secondo verità/sapere questo bios irrisolto ed esigente. La storia delle teorie economiche e dei dispositivi che esse hanno inverato è la storia di rappresentazioni che hanno reso governabile, secondo la logica economica, il disordine del bios. Governabile senza coercizione perché governabile secondo i caratteri propri della logica biopolitica: flessibilità della norma, pretesa scientificità dei suoi statuti e autorevolezza degli esperti, motivazione ‘esterna’ benevolente ed effettualità preponderante sulla legittimità, ordine vissuto come oggettivo pur essendo originato

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Cfr. M. LAZZARATO, La fabbrica dell’uomo indebitato, DeriveApprodi, Roma 2012; E. STIMILLI, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2012.

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dalla combinazione dei comportamenti spontanei degli individui che non sanno, non controllano il complesso della organizzazione vitale. Perché sia resa governabile, la vita viene rappresentata nell’economia classica come bisogno, su uno sfondo di oggettiva scarsità. Tra i bisogni e la loro soddisfazione, la mediazione è il valore. Anche se non si può affermare che la teoria di Adam Smith sia centrata sul ruolo del valore-lavoro, come quella di Ricardo e poi di Marx, è a Smith che va attribuita la rotazione di prospettiva che decentra l’empirico bios – bisogni e scambi – descritto dai precursori dell’economia, per i quali il valore d’uso era criterio assoluto per i valori di scambio. Attraverso un colpo d’astrazione, il baricentro diventa la teoria del valore lavoro, che costruisce un sistema di condizionamenti, oggettivi-intersoggettivi (la divisione del lavoro, ma anche le classi antagoniste e interdipendenti) che dà ragione del nesso economia-politica: l’economia è politica e la politica è strutturata nelle relazioni economiche, in un orizzonte filosofico-politico che ne dispiega il senso. La produzione e il lavoro sono un dato quantificabile e governabile. Produttività come incremento: il sovrappiù, il di più, l’eccedenza che diventa reddito e capitale è il cuore del capitalismo ma è anche la forbice su cui si inserisce la sua governamentalità. Il lavoro, organizzato nella cooperazione sociale, massimizza la produttività e diventa il perno del sistema. Certo il lavoro resta incollato ai bisogni, cioè dalla sopravvivenza biologica: i bisogni marchiano la corporeità, la pesantezza che condiziona il lavoro, e del lavoro costituiscono l’obiettivo, l’equivalenza salariale21. La misura del lavoro passa attraverso la sua riduzione a tempo, in sempre identiche ore di fatica, che producono cose. Così la fatica e la pena sono cancellate: spettralizzate nell’oggetto-merce, alienate nelle cose, di cui determinano il valore. Le pagine di Marx sulla dimensione feticistica della merce restano il riferimento ineludibile per capire la strutturazione ‘economica’ assoggettata delle soggettivazioni dei lavoratori. D’altronde proprio la dimensione spettrale, che assume il residuo “umano” nell’oggetto feticcio merce, è la leva della possibile trasformazione delle relazioni sociali economicamente governate. La centralità del lavoro ‘assoggettato’ rende possibile pensare il processo economico come legame che gerarchizza classi e ruoli in un sistema di interdipendenza e di sfruttamento di cui si individuano le traiettorie di potere. Ed è proprio sul lavoro che muove l’attacco del neoliberismo – dal marginalismo fino al monetarismo – per erodere l’assetto di governo delle vite che la teoria economica classica garantiva, da Smith e Ricardo fino a Marx 21

K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, tr. it. Einaudi, Torino 1973.

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la cui critica è interna a quelle basi teoriche. In quella, l’economia non era direttamente governo: per quanto strutturasse i rapporti di forza, la connessione di economia e politica era vissuta nell’ambito di una traducibilità dei linguaggi: come politicizzazione dell’economia ed economicizzazione della politica all’interno di un qualche progetto di coesistenza dotato di senso. È questa traducibilità che nella tarda modernità viene meno, lasciando esplodere la autonomia anarchica dei fenomeni economici che si innestano direttamente sulla vite. Lavoro/bisogni? La vita si manifesta come movimento, motivazione concreta, singolare che si direziona verso la propria soddisfazione. Si possono analizzare le condotte senza far ricorso a leggi o ipotesi metafisiche, risalendo alla direzionalità interna del movimento stesso: c’è un movente ed è l’interesse, il desiderio, la ricerca di soddisfazione di ogni singolo vivente: premessa ontologica che sottende l’operare economico. La scarsità, la mancanza non inerisce alla terra, ma diventa costitutiva dei soggetti: è “fame” di eudaimonia, desiderio di felicità. Questo desiderio – quello stesso principio libidico sollecitato, dice Foucault, dalle pratiche di confessione per penetrare nel processo stesso di soggettivazione dei governati; lo stesso principio cui Freud riconduce la psiche; il principio di legittimazione dei movimenti antiautoritari e anti rappresentativi degli anni sessantasettanta – questo desiderio che oscura la cogenza prevedibile dei bisogni, è il nuovo piano empirico del bios cui la teoria marginalista vuole essere fedele. Senza trascendimenti metafisici. Il piano della vita è quel meccanismo pulsionale che muove alla ricerca di soddisfazione e l’eudaimonia – da tradurre in termini di benessere – rimane l’orizzonte delle motivazioni. Con la verità neoliberale, la soggettività è al centro; l’utilità, cioè la capacità di un oggetto di soddisfare il desiderio individuale viene a dipendere da forze variabili soggettivamente. Le sintesi idealistiche e materialistiche hanno fallito, in particolare il lavoro non può essere il mediatore universale, dal momento che non è che un’impresa come le altre sottoposta al calcolo di costi (il disagio del lavoro stesso) e benefici (il salario/reddito); ma si rinuncia anche a cercare un qualsiasi sostituto della mediazione. Semplicemente non c’è trascendimento dei vettori soggettivi, guidati da logiche strumentali: i flussi di desiderio, sono lasciati al loro spontaneo incrociarsi. Questo intreccio di poteri immanenti è la società, il cui vincolo non è, in nessun caso, ethos oggettivo. Nonostante l’apparente analogia con il mercato smithiano, manca qui la società nel suo complesso. Le funzioni di potere sono lasciate a se stesse, orientate dal calcolo microeconomico degli imprenditori: e tutti gli agenti sono dichiarati imprenditori del pro-

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Dispositivi e soggettivazioni

prio godimento, anche e soprattutto i consumatori22. Non c’è simpatia, né con-vivenza, perché non “serve”, in quanto gli altri entrano nella relazione in modo funzionale al calcolo utilitario: semmai queste affettività possono essere un fine da perseguire sempre con una logica “economica”. Non c’è fine comune: la soggettività individuale è l’unico criterio di valore, unico e sempre differente, an-archico nel senso di “senza principio”. Questa rivoluzione prospettica può datarsi al marginalismo della fine del xix secolo ma il suo compimento è oggi, nell’ultimo trentennio. Ma economia significa governo e dunque il sapere economico non si ferma sulla domanda, soggettivamente determinata da fattori psicologici, ma ne costruisce il controllo. Pareto inserisce la relazione ordinale, il più e meno, e dunque la scala di preferenze: e su quella agisce la scelta. Il desiderio, chiave della soggettività, resta impensato e si oggettivizza nella scelta e la scelta si subordina alla razionalità economica/strategica dell’agente economico. Questi, in qualsiasi direzione si orienti, applica alla scelta che gli conviene la modalità razionale. Il governo delle vite diventa auto-governo. L’economia non significa più, da questo punto in poi, produttività e distribuzione, ma pratica e analisi dell’umana attività di scelta di un soggetto che viene soggettivizzato in modo adeguato, che applica la rational choice. Una rotazione decisiva, che però non ci stupisce perché rinvia proprio a quella matrice governamentale che il termine economia contiene. È uno spostamento cruciale: il governo economico non si occupa dell’anarchia dei desideri, del dato irriducibile delle preferenze, ma è semplicemente la modalità razionale, strategica, cioè economica dell’azione e della scelta. E di colpo la vita, appena liberata dai costrutti idealistici, torna sotto il nomos che non è che la logica interna dell’azione stessa, il regime prasseologico che la governa dall’interno: se agire significa scegliere un fine, se consumare e godere sono azioni volontarie come astenersi dal consumare e dal godere e se queste azioni, opere o astensioni restano insindacabili e incommensurabili, è vero però che ogni azione o omissione volontaria è anche “razionale” rispetto al proprio scopo. Tutti i comportamenti, per quanto diverse possano essere le scelte, sono governati da una logica strategica in relazione al criterio principe della adeguatezza di mezzi e fini. La finalità biopolitica di incremento della vita, si moltiplica e si frammenta nei fini divergenti di individui assoluti. Si crea una circolarità tra l’azione 22

F.A. VON HAYEK, Legge, legislazione e libertà, tr. it. Il Saggiatore, Milano 1986, pp. 314 ss. (§ 10: L’ordine di mercato o catallassi); L. MISES, L’azione umana, tr. it. Utet, Torino 1959, p. 109.

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razionalizzata del singolo e quelle di tutti gli altri aventi fini diversi e eguale razionalità strategica, e l’esito è l’equilibrio dei prezzi: si trova sempre chi compra, se la tua offerta è adeguata alla tua volontà di vendere. Non è un caso dopotutto che la teoria venga detta neoclassica. Ripropone infatti, in uno scenario totalmente rivoluzionato, la pluralità delle preferenze e insieme il loro aggiustamento, attraverso la logica economica, nella stabilizzazione dei prezzi sul livello della convenienza di ciascuno e di tutti. Spostata la governabilità dai fini alla logica che presiede alla scelta, avremo una combinazione tra l’anarchia delle direzionalità individuali e la ferrea coerenza della gestione delle azioni, tale da garantire la previsionalità e l’equilibrio dell’insieme del mercato. Già con Hayek23 è un equilibrio postmoderno, fragile e contingente, frutto della combinazione non volontaria delle volontà autonome, che perseguono, ignorandosi reciprocamente, il proprio solitario interesse, e ciò nonostante punto di coordinamento oggettivo nella catallassi – ordine vivente e complesso, non antitetico alla libertà. Tecnica governamentale e processi di soggettivazione La prima conseguenza – evidente soprattutto nel neoliberismo americano – è l’estensione dell’economia a tutta la prasseologia L’economia diventa la tecnica governamentale del neoliberalismo, più che lo specifico assetto attuale del capitalismo ‘compiuto’. Non si tratta, è evidente, di disconoscere l’aspetto strettamente economico del fenomeno. Al contrario, esso va amplificato e complicato. Il neoliberismo è infatti da considerarsi una razionalità e una tecnica di governo: un insieme di istituzioni, discorsi e pratiche che agiscono sulla realtà e sui soggetti in forme e modi riconoscibili. La logica del capitale è parte integrante di questa costellazione, ma non è la sola. È quell’insieme di discorsi, pratiche e dispositivi che determinano un nuovo modo del governo degli uomini secondo il principio universale della competizione in regime di scarsità. Principio, è superfluo ricordarlo, proprio del darwinismo sociale biopolitico. La specificità di questa tecnica è biopolitica perché produce forme di vita: agisce stimolando il desiderio che è il nucleo stesso della soggettivazione. Sollecita la macchina desiderante alla propria autorealizzazione e la adegua così alla grande trasformazione postfordista del capitalismo, 23

Cfr. F.A. VON HAYEK, Conoscenza ed economia, in ID., Saggi di filosofia della scienza economica tr. it. a cura di S. Zamagni, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1982.

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Dispositivi e soggettivazioni

rovesciando l’immagine del lavoro: quello che prima era lavoro esecutivo, salariale, subordinato diventa lavoro autonomo, anche quando salariato. Lavoro come investimento del proprio capitale umano in una attività che produce il reddito; lavoro che è piuttosto, nella retorica del capitalismo cognitivo, esercizio delle proprie qualità inventive, affettive (se, come sempre più spesso, il lavoro rientra nelle attività relazionali e interpersonali dei servizi); lavoro creativo che mette a ‘frutto’ le disposizioni intellettuali ed emotive, la capacità di avere amici, di sorridere, di esprimere se stessi: tutto è capitale umano e viene ‘messo al lavoro’ e tutto diventa o può diventare redditizio. Le soggettivazioni si plasmano nel nuovo immaginario sul quale da un trentennio si struttura la economia come tecnica di governamentalità. Immaginario di autorealizzazione in incessante reciproca competizione. I soggetti consentono e cooperano: liberi – perché solo su uomini liberi può agire il governo e l’economia liberale – sollecitati alla loro libertà, responsabili delle loro ‘scelte razionali’. L’economia è semplicemente la scienza e la pratica ‘naturale’ del comportamento umano, il modo con cui “gli individui assegnano le risorse rare per fini che risultano alternativi tra loro»24. Gary Becker, premio Nobel per l’economia nel 1992, radicalizza questa estensione a «ogni condotta che risponde in maniera sistematica a modificazioni nelle variabili dell’ambiente», fin le condotte affettive genitore-figlio25. Straordinaria l’ambivalenza del dispositivo, che produce soggettivazioni autonome ma anche assoggettate: da una parte c’è autogoverno, c’è assunzione della responsabilità su se stesso e il tramonto delle gestioni assistenziali del welfare, dall’altra la solitudine, la precarietà, la complessità della scelta generano l’affidamento a nuovi pastori, esperti di management e di potenziamento del proprio capitale. Questa ambivalenza genera consenso sulla verità/sapere su cui poggia e rende difficile aprire spazi di contrasto. Spazi che comunque debbono passare per il cerchio di eterno rinvio della soggettivazione all’assoggettamento, anche quando si praticano resistenze e contro-condotte che si alimentano in quell’ambivalente racconto sull’autogoverno la cui logica economica è divenuta senso comune, blocco egemonico dominante e a lungo indiscusso.

24 25

M. FOUCAULT, Nascita della biopolitica, cit., p. 183: analizza l’ordoliberalismo tedesco della Scuola di Friburgo (Eucken, Ropke, Rustow, Hajek, von Mises, ecc.) e quello della scuola di Chicago. G. J. BECKER, Human Capital, Columbia University Press, New York 1964 (3rd ed. 1993).

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La crisi offre una possibilità di attrito rispetto a quello specchio immaginario naturalizzato dell’economia come logica della vita, che, come ogni immaginario spettralizza un residuo che con termine lacaniano, chiamerei Reale. Il fantasma della difficoltà di ciascuno di coincidere con una immagine ideale di imprenditore attivo e vincente, il fantasma della dissipazione depressiva che attanaglia il desiderio sollecitato fuori misura; il residuo di pulsione di morte che traspare, come un’ombra sinistra, nelle frenetiche attività di auto promozione, di coltivazione spasmodica della fitness, del successo; il fantasma infine più importante, che Marx aveva liberato, dello sfruttamento e della disperazione che si annidano nella subalternità del lavoro ‘autonomo’ precario, del quale si esalta la flessibilità, salvo che esso costruisce marginalità e emergenze infinite. Un lavoro difficile ma indispensabile di erosione del costrutto di verità ‘naturali’ sul quale la tecnologia neoliberale ha costruito il governo delle vite, tramite il loro stesso autogoverno. 3. Dispositivi bioeconomici: il controllo delle soggettività al lavoro Governare attraverso il lavoro Queste riflessioni si interrogano su quale sia la forma di governo delle vite, di controllo delle esistenze indotta dal cambiamento del lavoro nella crisi del capitalismo industriale. L’attenzione è dunque mirata al carattere biopolitico o meglio bioeconomico dei poteri che sono implicati nella gestione delle relazioni socio-economiche, nella convinzione che si debba rintracciare la presenza del politico – delle asimmetrie di potere che lo caratterizzano – anche e soprattutto in istituzioni non tradizionalmente politiche o ostentatamente spoliticizzate come quello economiche. Non perciò meno pervasive e strutturanti delle soggettività e del bios. Dopo una breve premessa metodologica e una altrettanto breve esposizione della connessione della forma biopolitica disciplinare con la produzione fordista-taylorista, si vedrà come gli aspetti salienti della nuova economia – la prevalenza del mercato sulla produzione, la svolta comunicativa, cognitiva e il nuovo carattere organizzativo-relazionale dell’impresa – segnino la discontinuità che viene affermandosi nei processi di biocontrollo e di assoggettamento. Questi non possono ricondursi sotto lo schema della sussunzione reale, divenuta totalizzante, del lavoro nel processo di valorizzazione capitalista. Si profila un doppio livello di esercizio di biopotere: un primo grado inclusivo/escludente, che opera nel dispositivo di accesso

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Dispositivi e soggettivazioni

al codice del mercato, condizione del potenziamento della autorealizzazione e interazione sociale, e un secondo livello, in una forma sistemica più complessa, con logiche di condizionamento e di emergenza inedite, meno prevedibili della classica dicotomia capitale/lavoro, produzione/consumo, sfruttatore/sfruttato, logiche dalle quali emergono, forse, significative controfinalità. Le forme di assoggettamento e di soggettivazione che sono lo stretto tema della prospettiva biopolitica qui adottata, risultano una sfida ancora tutta da studiare da parte della teoria politica.

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Prospettiva biopolitica Dal punto di vista della teoria politica si registra una grossa difficoltà a pensare il tema della metamorfosi del lavoro e, più generalmente, a pensare l’economia. Si oscilla tra il polo dell’economicismo – schumpeteriano o eastoniano in cui la logica economica è assunta, non pensata, o di quello redistributivo rawlsiano – e il polo opposto dell’anatema sul mercato, deriva di distruzione del pianeta, causa e sintomo della spoliticizzazione26. Beninteso, la politicità dell’economico resta presidiata dall’ala del neomarxismo, che ribadendo la centralità del concetto di produzione nel processo economico e la valorizzazione/astrazione della merce lavoro, tanto più quando è implicata la globalità della persona del lavoratore cognitivo, rende le relazioni sociali e le soggettivazioni epifenomeni dell’economico: da una parte quest’energico richiamo sottolinea opportunamente – come già aveva fatto a suo tempo Marx, grande pensatore della biopolitica – il carattere concreto, coinvolgente le vite, dunque biopolitico, del potere economico, dall’altro a questa riconferma e ampliamento della sussunzione reale (e in ultima analisi dello sfruttamento), sembra sfuggire qualcosa della nuova specificità del quadro socio-economico27. Una cosa è certa: la natura politica delle relazioni di lavoro non può essere esplicitata dalle categorizzazioni formali politico-giuridiche del lessico corrente della teoria politica, ma esige una prospettiva che ne evidenzi, al di là dello scambio contrattualistico 26 27

Cfr. per es. AA. VV., Défaire le développement, refaire le monde, L’Aventurine, Paris 2003, con testi di I. Illich, S. Latouche, J. Bové, G. Rist, F. Lemarchand, S. Sajay, M. Decaillot e altri. Tra gli altri, P. VIRNO, Grammatica della moltitudine, DeriveApprodi, Roma 2003; di grande acume su “Pubblicità senza sfera pubblica” e “Poiesi e prassi” (pp. 2948); E. LIVRAGHI, Da Marx a Matrix. I movimenti, l’homo flexibilis e l’enigma del non-lavoro produttivo, DeriveApprodi, Roma 2006, specie pp. 115 ss., C. VERCELLONE, Elementi per una lettura marxiana dell’ipotesi del capitalismo cognitivo, in ID. (a cura di), Capitalismo cognitivo, Manifestolibri, Roma 2006.

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formale, che si autorappresenta come solvibile libero e paritario, i flussi di potere e di influenza che governano le vite di quanti sono coinvolti: dunque una prospettiva biopolitica, con Foucault e oltre Foucault. Pensare politicamente l’economia – cioè pensare le relazioni di potere che strutturano lo scambio – significa vedere le diseguaglianze sempre crescenti, ma anche le relazioni sociali, i conflitti, le dipendenze, le iniziative che, nella forma dello scambio economico, coinvolgono le vite; significa vedere i simbolismi e le eccedenze di senso che rendono incerto il calcolo dei flussi di potere; proprio quel calcolo che economisti di tutte le scuole vorrebbero mantenere sotto controllo. Si tratta di biopolitica se e quando il potere si indirizza all’incremento della vita, all’intensificazione delle potenzialità di coloro che esso gestisce, lasciando cadere nell’insignificanza quelle vite che non sceglie di potenziare28. Le pratiche normalizzatrici disciplinari innervano regimi di verità, nel senso che organizzano il quadro di conoscenze e valori, le cose pensabili e le cose possibili rispetto a cui si distribuiscono i ruoli e i poteri sociali, le soggettivazioni e le vite. Questo annodarsi di verità e potere su corpi e menti delle persone è la biopolitica. Non andrebbe dimenticato, per inciso, che la piena modernità vede la socializzazione (più che la democratizzazione) delle istanze di legittimazione e dunque dei regimi di verità che sostengono i flussi di potere. Perciò va sottolineata della biopolitica questo riferimento forte alla promessa di benessere – materiale, biologico – dei consociati, investiti da flussi di potere che ne sollecitano il potenziamento produttivo, per quello, che – nella prospettiva di verità che li ha soggettivizzati – è il loro bene: questo fa l’originalità e l’efficacia di questa modalità di potere e questo rende le dicotomie autonomia/eteronomia, sfruttato/ sfruttatore non obsolete, ma problematiche e rimanda a quello che è il nodo della nostra indagine: la trasformazione della dinamica di soggettivazione/ assoggettamento dalle forme disciplinari a quelle bioeconomiche Produzione e disciplinarietà Nel fordismo il regime di sapere/verità fa perno sulla oggettività e intersoggettività della categoria della produzione/lavoro che rende prevedibile e governabile la relazione economica e sulla quale si organizza l’intera

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I testi foucaultiani di riferimento sono, ovviamente, Bisogna difendere la società, cit.; Sicurezza, territorio, popolazione, cit.; Nascita della biopolitica, cit. Sul diverso senso del termine mi permetto di rinviare al mio Biopolitiche, in “Filosofia e questioni pubbliche”, 1, 2005.

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gerarchia sociale. La centralità della produzione dà luogo ai dispositivi disciplinari ad essa funzionali. La biopolitica, se intesa come specifica modalità di un potere moderno di applicarsi alle vite dei consociati per incrementarne la potenzialità produttiva, utilizza massimamente la categoria della produzione che è infatti la chiave di volta dell’organizzazione sociale fordista. Questo modello di regolazione sociale tiene insieme il taylorismo che organizza la produzione disciplinando i corpi, resi docili alla produzione e al consumo, e la sintesi politico-economica del keynesismo, che garantisce condizioni di stabilità sociale complessiva. Lo Scientific Management, pensato da Taylor e implementato da Ford, ha conseguenze sconvolgenti sulle vite delle persone implicate e sul modo di rappresentare il lavoro stesso29. Ispirato a criteri ingegneristici e meccanici, segue una logica binaria e separa nettamente chi formula il progetto produttivo e dirige (il capitale) e chi esegue (il lavoratore) cui vengono impartite istruzioni dettagliate su gesti e tempi scientificamente parcellizzati al fine di ottimizzare il processo produttivo. Il presupposto di una disciplinarietà produttiva sta nel pensare gli apparati burocratici e produttivi come sistemi razionali – la weberiana razionalità rispetto allo scopo – capaci di porre in atto tecniche e soggettivazioni significativamente orientate al progetto, rispetto al quale sarà possibile istruire, controllare, direzionare le vite e le soggettività. Alla determinazione ex ante del progetto corrisponde la standardizzazione dei movimenti e dei tempi e a questa, a sua volta, corrisponde docilità dei corpi e svuotamento delle menti: l’alienazione descritta dal giovane Marx si attaglia perfettamente alla meccanicità del gesto esecutivo e alla relazione causa-effetto. La sussunzione reale è indiscutibile, il lavoro umano è mercificato; per quanto – ambivalenza della biopolitica! – in una con l’incremento della produttività, migliorano le condizioni di vita e cresce il trend dei consumi privati e – nel welfare – dei servizi pubblici (istruzione, salute, tempo libero, diritti). L’induzione dei consumi e la manipolazione dei bisogni non deve far dimenticare che essi incarnano comunque l’area dei desideri e delle espressioni delle singolarità, nonché della loro relazionalità e dipendenza reciproca, sia pure all’interno del regime di verità che è costitutivo inevitabilmente delle soggettivazioni dei dominati. Sarà proprio il consumo, la necessità di sollecitare la domanda saturata da beni materiali prevedibili, che spingerà, in uno scenario divenuto planetario, la rivoluzione organizzativa e la crisi della modalità fordista.

29

A. ACCORNERO, Era il secolo del lavoro, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 48 ss.

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Predominio del consumo e verità del mercato: primo livello biopolitico, la selezione degli accessi Da un punto di vista biopolitico la complessa trasformazione economica postfordista, dal toyotismo alla new economy, costituisce una potente discontinuità, se, e solo se, si sottolinea il declino della centralità della categoria di produzione sulla quale era concettualmente organizzata la società industriale fordista. Nel momento in cui alla produzione di cose si affianca e subentra nel ruolo di referente centrale delle decisioni un’offerta crescente di servizi interpersonali, nel momento in cui la valorizzazione è prevalentemente riconducibile a processi cognitivi e a relazionalità comunicative e informazioniali – largamente sostenute dalla svolta verso la finanziarizzazione dell’economia e la commercializzazione – il momento produttivo si indebolisce a favore di quello relazionale-organizzativo30. Questo spostamento d’asse induce la destrutturazione delle forme storiche di disciplinamento e di sussunzione legate alla produttività standardizzata e favorisce strategie molto differenziali e personalizzate di responsabilizzazione di coloro che sono coinvolti nella relazione (creativa? informativa? di servizio?) . Non che non si possano definire produzione anche i processi cognitivi e comunicativi che peraltro, oltre ad essere beni e servizi immateriali, terziarizzano la stessa produzione, intensificando l’interazione sociale nel seno stesso del processo produttivo. In realtà la suddivisione convenzionale dei settori non coglie la confusione delle forme che dà vita ad un complesso fortemente relazionale-organizzativo costituito da connessioni, reti, catene, gateways, interfacce tra elaborazione, creazione, scambio e uso. Quello della discontinuità è un tema discusso e irrisolto nel dibattito su questi temi. Sono comprensibili e legittimi i tentativi neomarxiani più o meno ingegnosi di ricondurre alla sussunzione reale le forme di lavoro che insistono sulla relazione comunicativa: riconducendole alla prospettiva produttivista si ripropone lo schema dell’alienazione, che anzi diventa disciplinarietà totalitaria poiché investe la produzione non di merci ma di soggettività tout court.31 Assistiamo a letture stimolanti di qualche pagina di Marx, (soprattutto il Frammento delle macchine), in cui si aprono pro30

31

Cfr. M. AGLIETTA, G. LUGHINI, Sul capitalismo contemporaneo, Bollati Boringhieri, Torino 2001; C. MARAZZI, Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1999 e ID., Capitale & linguaggio, DeriveApprodi, Roma 2002. A. FUMAGALLI, Conoscenza e bioeconomia, in “Filosofia e questioni pubbliche”, 2, 2004.

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spettive sul lavoro vivo e sul General Intellect che eccedono la sussunzione stessa e dunque farebbero ben sperare sulle controfinalità dello sviluppo capitalista.32 Ripeto, niente di sbagliato: ma si abbraccia comunque una prospettiva, quella produttivista e se ne tralasciano altre possibili, che colgano a pieno la specificità della nuova forma organizzativa dell’economia e del cosiddetto metacapitalismo e prendano sul serio la potente ripresa dei giochi dello scambio con i suoi regimi di verità instabile e fluttuante, i sempre più autoreferenziali meccanismi finanziari – credito e Borsa – e soprattutto l’indistinzione crescente tra lavoro e consumo nella nuova domanda, veramente sovrana, di servizi immateriali, attivi. Prospettive che, sole, possono riconoscere pienamente, il ruolo decisivo e relativamente autonomo del capitale umano (creatività, sapere, affettività) nel processo di valorizzazione. L’elemento dirimente sta nel pensare questo insieme con lenti diverse da quelle, biopolitiche-fordiste, del lavoro/produzione nelle quali ogni differenza concreta viene neutralizzata, sussunta a senso unico dal processo di valorizzazione capitalistico. Le nuove caratteristiche del processo economico, che vanno esaminate nella loro singolarità per coglierne l’influenza sui processi di soggettivazione, sono tutte trainate, a partire dagli anni ottanta, dal predominio del consumo, dalla nuova centralità di quell’area – imperiosa, libidica, anarchica – della domanda che chiede prevalentemente servizi e beni immateriali fatti di sapere, di creatività, di divertimento, di strumenti espressivi, di relazioni interpersonali. Rilevante, dal nostro punto di vista, è la inedita indistinguibilità delle logiche della produzione e di quelle del consumo, entrambe assorbite dalla logica ricorsiva della vita33. Non a caso si parla di prosumer, produttore-consumatore. Il consumo – come sostiene Yann Moulier Boutang – diviene una coproduzione just in time e «il mercato precede la produzione che deve integrarsi strettamente con esso»34. Molte delle cose e dei servizi che si comprano, sono strumenti in vista di una espressività personale creativa e pubblica; mentre all’universo produttivo si ascrivono agenti, che, innanzitutto, sperimentano personalmente quelle esigenze comunicative e attive e ne sono portatori nella veste di esternalità positive catturate nell’azienda, e, in secondo luogo, valutano prioritariamente, almeno nei settori di punta del lavoro, la gratificazione personale. Produrre è anche consumare, nel senso di soddisfare un desiderio di au32 33 34

K. MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze1968-70, vol. II, p. 401. Cfr. L. BAZZICALUPO, Il governo delle vite, cit., in particolare parte III. Y. MOULIER BOUTANG, Capitalismo cognitivo e nuove forme di rapporto salariale, in C. VERCELLONE (a cura di), Capitalismo cognitivo, cit., p. 239.

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torealizzazione, di espressione, e consumare è produrre. Come intuito da Deleuze, la macchina desiderante umana, antiedipica, ha una ambigua affinità con la produttività effervescente, indisciplinata del nuovo lavoro35. È richiesto un tipo di cooperazione che mobilita il sé desiderante. La bioeconomia – e possiamo chiamarla così perché nel processo di produzione-consumo è implicata la vita senza residui – agli antipodi del disciplinamento, esalta nel collaboratore le doti relazionali, creative, lo stile, le esperienze della sfera affettiva, la socievolezza, la capacità di ascolto, di cooperazione, di apprendimento flessibile e di disapprendimento degli automatismi e delle rigidità mentali. Queste doti acquisiscono un valore produttivo e contrattuale: senza cessare di esprimere la singolarità. L’espressività e la identità personale passano sotto i codici dell’economico: tutto il privato salta dentro il gioco di potere del mercato. D’altra parte il consumo degli utenti ha significato solo in quanto si trasforma in informazione necessaria a orientare, in tempo reale, la risposta produttiva e organizzativa dell’impresa. Cade la differenza classica del sistema fordista di input e output, dal momento che quelle che erano «le conseguenze indirette degli output si trovano reintegrate nella catena produttiva a titolo di input determinanti per ridurre il rischio di non-realizzazione della merce»36. Anche questo carattere – i molteplici anelli di feed-back che generano ricorsività, reversibilità, contingenza combinatoria – segnala, nel condizionamento, una nuova logica non lineare ma ricorsiva. Il collaboratore, risorsa umana indispensabile, viene scelto in quanto portatore di doti personali, di esperienze esterne al progetto produttivo dell’impresa che ne recepisce le capacità, organizzandole nell’ambito delle volatili richieste del mercato. L’ipotesi che emerge, prendendo sul serio la discontinuità in senso forte, è che la forma primaria di controllo del vivente che si genera, si manifesta non disciplinando ex ante la formazione dei soggetti, ma ex post operando sugli accessi alla comunicazione, alla relazione interpersonale di servizio che sono il cuore del sistema. Un controllo che opera dunque attraverso l’imposizione del codice – il codice dello scambio economico – pena la radicale esclusione dalla comunicazione sociale stessa. Una riedizione dunque della fase prefordista caratterizzata da sussunzione formale, in cui l’onere della soggettivazione e dell’apprendimento non erano orientate e gestite dal capitale, ma erano semplicemente comprate 35 36

G. DELEUZE, F. GUATTARI, L’antiedipo. Capitalismo e schizofrenia, tr. it. Einaudi, Torino 2002, pp. 344 ss. Y. MOULIER BOUTANG, Capitalismo cognitivo, cit., p. 239.

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sul mercato. Le vite sono governate non direttamente – come nella sussunzione reale, fordista e disciplinare – ma a valle, nella regolazione e selezione dell’accesso allo scambio e alla comunicazione. Del biopolitico foucaultiano far vivere e lasciar morire, il far vivere sarebbe qui segnalato dalla crescita di autorealizzazione e incrementazione delle relazioni interpersonali subordinate all’adozione del codice sistemico dello scambio economico, il lasciar morire dalla progressiva marginalizzazione e depauperamento delle facoltà espressive, di parola e di ascolto (paralleli all’abbandono e all’indebolimento fisico, privi di voice e dunque irrilevanti) che emerge dai vissuti personali di esclusione di quanti cadono fuori del mercato, estromessi o mai inclusi. È perciò un controllo meno severo, meno selettivo? La durezza – talvolta anche tragica, quando gli ammortizzatori sociali sono carenti – della selezione bioeconomica che escludendo coloro che non ce la fanno a tradurre la loro soggettività nei termini del codice economico, li esclude anche dallo spazio di autorealizzazione, di possibilità di relazione, di autostima psicologica oltre che di condizioni di vita dignitose, è assai maggiore che nel passato fordista/ welfariano. Il mancato accesso infatti viene avvertito socialmente come una propria inadeguatezza ad entrare nell’agone socio-economico e una diminutio umana e politica. Come vedremo, il discorso relativo a coloro che superano il primo livello e accedono alla codificazione economica della propria soggettività, è più complesso. È necessario, a quel livello considerare il mercato come una forma, quella epocale dominante, di relazione sociale, dove si riproducono dinamiche asimmetriche e dunque politiche che coinvolgono l’intera esistenza. Ciò avviene al di là dell’autorappresentazione che lo vede come sfera autonoma, di libera contrattazione, laddove, ovviamente, essendo il luogo della relazione sociale per eccellenza, è invece carico di ambiguità, di poteri, di ricatti, di passioni dei sé individualisti, narcisisti, calcolatori, competitivi, ansiosi; luogo di poteri eterogenei e diffusi anche se profondamente diseguali, capaci di retroazione e di crescita; poteri che cercano in quella forma che è il mercato, di dare espressione e organizzazione alle proprie relazioni di forza, reciproche e asimmetriche; poteri plurali, interdipendenti e conflittuali, difficilmente governabili: politique d’abord. D’altra parte – e torniamo al primo livello di selezione bioeconomica – è il carattere della verità di mercato, in una economia fortemente dipendente dalla volatilità della domanda e tutta spostata sulle informazioni e comunicazioni che orientano le iniziative imprenditoriali, che determina questa impossibilità di controllo razionale e gestionale, tipico della produzione fordista.

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La mediazione comunicativo/informativa, dunque relazionale e linguistica, costituisce l’asse della riproduzione della società, nel senso che ogni azione socialmente significativa rappresenta una proposta comunicativa relativa l’intero assetto del sistema: la scelta di un bene o di un servizio piuttosto che un altro diventa un indicatore informativo della tendenza e delle aspettative complessive37; il prezzo, per esempio, di ciascun titolo azionario segnala un certo andamento dell’intero mercato. È la comunicazione/informazione – piuttosto che il dato materiale – a definire il significato e il valore dell’atto. Ciascuna di queste proposte comunicative, può essere recepita o rifiutata: se recepita, varrà come autorappresentazione del sistema, se respinta, rappresenterà un tentativo di parte di imporre una determinata lettura dell’insieme38. Quel che conta, se osserviamo la cosa dal punto di vista del potere, è che a decidere in un senso o nell’altro non può essere un qualche soggetto sovrano (nemmeno la Big Corporation) ma solo l’insieme ulteriore degli atti comunicativi di cui vive il sistema. I diversi soggetti si candidano a rappresentare la propria pretesa, ma è solo l’effettiva tendenza manifestata dal sistema a poter confermare e smentire ogni pretesa. I poteri in un sistema comunicativo complesso avanzano pretese di selezione che però sarà l’equilibrio, che insorge in modo immanente dalla loro combinazione, a rendere effettive. Non va sottovalutato il peso delle componenti psicologiche (aspettative, rumore) come di quelle speculative nella costituzione della verità di mercato. La fragilità e incertezza delle basi delle valutazioni in un contesto fortemente concorrenziale rafforza il ruolo dei comportamenti di imitazione e di contagio39. La verità che orienta i comportamenti è inevitabilmente volatile e mobilissima e il benchmarking amplifica questa mobilità. Diventa dunque problematico disciplinare, cioè stabilire a priori quali potenzialità saranno funzionali e addestrare quelle giuste: piuttosto appare vantaggioso lasciare le potenzialità creative a se stesse, e alla piena complessità dei loro messaggi, lasciando cadere volta 37

38

39

Il tratto organizzazionale rinvia al paradigma sistemico comunicativo: può essere fruttuoso in quest’ottica rileggere N. LUHMANN, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale, tr. it. Il Mulino, Bologna 1989. Qui in relazione alla logica probabilistica dell’indeterminazione, ma a condizione di non adottarne la prospettiva criptometafisica che vi è sottesa. «Il concetto di profezia auto realizzatrice […] evidenzia un’idea del tutto nuova: le credenze sono creatrici», A. ORLÉAN, Le pouvoir de la finance, Odile Jacob, Paris 1999, p. 85; ma cfr. anche J.P. DUPUY, Logique des phénomenés collectifs, Ellipses, Paris 1992. J.P. DUPUY, La panique, Delagrange, Paris 1991, su comportamenti mimetici e gregari nella borsa.

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per volta quelle che l’immanente e instabile verità del mercato respinge. Che questo renda la posizione del collaboratore e la sua competenza assolutamente precarie, è evidente. La verità del mercato, d’altra parte, che non ha nulla a che vedere con l’armonia spontanea e la mano invisibile, ma è semplicemente la tendenza del sistema, cui concorrono – è bene tenerlo presente – flussi di potere istituzionali e politici, aggregazioni di volontà casuali e idiosincratiche, reazioni collettive a fenomeni non strettamente economici. Non un parametro oggettivo e misurabile, come forse ancora era possibile nel mercato materiale, ma piuttosto il gioco di risonanza delle diverse comunicazioni tra di loro, il punto di omeostasi tra le pretese e le aspettative, equilibrio instabile, come, appunto, l’andamento dei mercati o quello delle opinioni nei sondaggi. Il prezzo del crollo della governabilità nel quadro sintetico e pianificabile della economia politica, è la flagellante instabilità del mercato del lavoro. In una situazione così, l’obiettivo di ciascun attore – singolo, impresa o istituzione – che sia, non sarà quello di rispecchiare la realtà oggettiva, ma di inserirsi strategicamente, in questi flussi per guadagnare, ad ogni combinazione, il massimo di autorità e di credito, in vista delle comunicazioni ulteriori. Non si può affermare che la realtà sia azzerata a pura virtualità, dal momento che ogni proposta comunicativa si rafforza se confermata dall’esperienza o dal parere di esperti, di agenzie di rating, (nuove forme dell’autorevolezza competente del governo biopolitico). Il sistema è fragile perché fonda sul credito che stabilizza le informazioni e comunicazioni. Dunque ai singoli si chiede innanzitutto, come condizione per l’accesso, per la loro inclusione nel sistema, non una neutrale prestazione di lavoro, ma un apporto di fiducia, di co-interesse, che coinvolge la soggettività psicologica del singolo, chiamato a contribuire attivamente all’acquisizione di credito della proposta comunicativa cui aderisce, agendo come se credesse nell’oggettività – non dipendente dalle pretese di credenza – del sistema40. L’apparente liberi tutti dell’anarcocapitalismo, non più disciplinare, sposta il potere di controllo sulla imposizione del codice della relazione comunicativa. La interrelazione con l’ambiente indeterminato viene favorita e la molteplicità dei sistemi di sapere (con le conseguenti soggettivazioni) viene lasciata essere. Ma essi o esse valgono e possono relazionarsi e crescere solo se tradotti nel codice accreditato, che è quello economico. È funzionale a questa condizione bioeconomica che il prosumer non sia pensato come passivo, ma come agente attivo di potenzialità, responsa40

Sulla “finanziarizzazione delle economie domestiche” e sul ruolo dei fondi pensione, v. le acute osservazioni di C. MARAZZI, Capitale & linguaggio, cit., pp. 56 ss.

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bile del proprio progetto di vita e della propria autorealizzazione rispetto alla quale il servizio, finanziario o non, offre strumenti, agevolazioni per l’esplicitazione di un autonomo produrre l’esperienza stessa, dare forma alla propria soggettivazione. Il sistema non guida, né disciplina il comportamento; nel caso si curi di addestrare collaboratori o management, non mira a contenuti che possono rapidamente divenire superflui, ma a flessibilizzare le psicologie, a renderle duttili e capaci di disapprendere, mimetiche delle istanze esterne. Il punto fermo dell’esercizio del biopotere resta la traduzione dei codici vitali, affettivi e intimistici in quello dello scambio economico. Perciò sposta l’asse della propria attività dalla produzione e innovazione – che viene esternalizzata agli attori che sapranno tradurre le proprie doti e esperienze nel linguaggio dello scambio – alla organizzazione. Organizzazione, servizi e modalità della relazione La qualità, chiamata a sostenere la sfida della crisi della domanda, è per eccellenza una proprietà sistemica, che emerge dalla capacità di cooperazione di attori dell’impresa più che dall’esecuzione di mansioni standardizzate. Dipende da ciò che accade tra quelle mansioni: dalle relazioni appunto e dalla loro qualità. L’organizzazione non va più pensata come semplice strumento di razionalizzazione della produzione (alla Taylor), perché il modo con cui ci si organizza determina la qualità delle relazioni che l’impresa ha l’obiettivo di generare e mettere in forma. La convenienza organizzativa non si può ridurre a un computo di costi-guadagni, ma si valuta su un incremento di relazioni, di interdipendenze, di legami sociali attivati e messi in forma. Ogni organizzazione è contemporaneamente un’autorappresentazione. Anche se ovviamente la produzione non viene meno, il dato simbolico autorappresentativo rilevante è la prevalenza della funzione organizzativa-relazionale con cui l’impresa si presenta e viene percepita41. La stessa espressione fornire servizi viene intesa nel senso di fornire forma organizzativa, capace di potenziale generativo: è importante, dal nostro punto di vista, sottolineare la logica generativa implicata nel concetto sistemico di organizzazione. I servizi sono relazioni che mettono in forma relazioni, cioè producono ciò che sono, la stessa realtà intersoggettiva di cui sono

41

Cfr. K. WEIK, Senso e significato nell’organizzazione, tr. it. Cortina, Milano 1997 e G.F. LANZARA, Capacità negativa, Il Mulino, Bologna 1993.

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costituiti. E, se si vuole generare ulteriore organizzazione, occorre investire sul processo che costituisce i soggetti e le loro relazioni42. La qualificazione relazionale è segnalata dalla compartecipazione degli attori coinvolti, prestatori e clienti, alla formazione dell’eventuale valore aggiunto43. Dunque l’azione è costitutivamente interazione: non può ridursi a prestazione che un agente offre ed eroga, in forma di prodotto, ad un destinatario o cliente. È quell’interazione in cui si genera, si plasma e si trasforma quella realtà squisitamente intersoggettiva costituita di comunicazioni, interscambi, legami sociali e di soggetti che sono tali in quanto condividono questa socialità. Nell’attuale fase economica è evidente che, sempre di più, qualunque bene prodotto si fa veicolo di un servizio, di una relazione sociale generativa di legami, se non di appartenenza ad un mondo comune, almeno di riconoscimento di significati sociali condivisi44. Naturalmente questo carattere si accentua nella galassia di servizi di persone che lavorano per persone e dunque, di flussi di relazioni che si riferiscono alla vita, alla identità, alla cura. Pur essendo spesso considerato un settore povero, l’economia di servizi – istruzione, sanità, assistenza, ma anche divertimento – entra prepotentemente, come modello, nei processi che generano e rigenerano interazioni sociali, soggetti, identità e potenziali conflitti. Esso rende evidente come sia fuorviante l’abitudine produttivista di parlare di prestazioni efficienti, di produttori da una parte e consumatori dall’altra, enti eroganti e utenti. In questo settore specificamente, ma, in realtà, in tutti i settori dove la relazionalità è materia del progetto imprenditoriale – e sono sempre più numerosi – il modo con cui ci si organizza determina la qualità delle relazioni che l’impresa genera e mette in forma, qualità che è dirimente per la scelta dell’utente, ma qualità che si integra anche nel progetto di vita del collaboratore: le sue relazioni interindividuali, il rispetto della sua autonomia e capacità di crescita e espressione, la possibilità che ha di decidere, di orientare i progetti, di rappresentare la sua volontà, la serenità ambientale sono elementi importanti della qualità di vita personale e pubblica insieme45. Il come, l’organizzazione, d’altra parte ne qualifica 42 43 44 45

Cfr. sul tema O. DE LEONARDIS, In un diverso Welfare, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 121 ss. C. DE VINCENTI, A. MONTEBUGNOLI, L’economia delle relazioni, Laterza, RomaBari 1997. M. DOUGLAS, B. ISHERWOOD, Il mondo delle cose, tr. it. Il Mulino, Bologna 1984, parte I, I beni di consumo come sistema di informazione, pp. 17-140. Nell’ampia letteratura di consulenza sul lavoro e management, cfr., A. VITULLO, Leadership riflessive. La ricerca di anima nelle organizzazioni, Apogeo, Milano 2006, pp. 83-106 e il numero di “aut-aut”, Retoriche del management, a cura di G.

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la natura politica permettendo di individuare i flussi di potere e la qualità politica dell’interazione stessa, al di là dell’efficienza e della produttività. Il punto è che questa economia incentiva, o può incentivare, la forma delle relazioni, ivi comprese le capacità autoorganizzative e autoregolative, facendo perno sulla azione e interazione, impredicibile e perciò generativa dei collaboratori e degli utenti: cosa significa questo per le vite di coloro che vi sono coinvolti?

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Il secondo livello: paradossi logici della bioeconomia La confusione osmotica di capitale e lavoro e la ricchezza anarchica di input eterogenei e esternalità, l’organizzazione generativa di relazioni la cui modalità diventa indicatore della qualità anche politica delle performances dell’impresa: tutte queste cose rendono impossibile determinare chiaramente i fattori di efficienza, su cui si misurava il progetto biopolitico di disciplinamento. Come scindere la forza lavoro dalla persona e dai suoi affetti, come separare la fase di addestramento da quella di consumo produttivo/attivo? I fenomeni di indivisibilità e interazione di quest’economia postindustriale, rendono incerti previsionalità e controllo. Una volta praticata la dura selezione biopolitica di accesso al gioco degli scambi, quanti entrano nella relazione bioeconomica accedono ad un livello di condizionamento, di soggettivazione interattiva molto complesso, per il quale sembrano essere più adeguate categorie teoriche non mutuate da modelli meccanici lineari, ma da modelli bioscientifici del vivente, di tipo circolare, ricorsivo, in cui la comprensione rimanda dalle parti al tutto e dal tutto alle parti46. La circolarità fino ad oggi percepita come disagio logico e come paradosso, appare euristicamente fertile; soprattutto se il cerchio stesso è pensato non come trasparente a se stesso, ma segnato da opacità, impurità, indeterminatezza dell’azione, eccedenze, irriducibilità dei residui. Si spezza la traiettoria lineare di potere resa possibile dall’obiettivo certo della produzione che trainava l’apprendimento e il disciplinamento. L’organizzazione pluriversa e complessa di un’economia a vocazione relazionale/ comunicativa dà vita, nella relazione capitale umano-impresa-istituzioni-

46

Leghissa, 326, 2005; in specie il contributo di G. LEGHISSA, Formazione, imprese, controllo: ovvero la pervasività delle retoriche del management, pp. 19-36. Introduttivi al paradigma G. BOCCHI, M. CERUTI (a cura di), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1995, con saggi di Atlan, von Förster, Gould, Morin, Prigogine, Stengers, Varela; cfr. anche E. RULLANI, Complessità e informazione nella scienza economica, in “Pluriverso”, 2, 1996 e T. PIEVANI, G. VARCHETTA, L’impresa come rete che apprende, in “Sviluppo & Organizzazione”, 160, 1998.

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utenti, a effetti e prodotti necessari per la sua stessa causazione: le interazioni producono totalità organizzatrici che retroagiscono sugli individui per co-produrli quali soggetti umani. Ciò che è prodotto e ciò che produce diventano nozioni complesse e si richiamano vicendevolmente, mettendo in forse la unidirezionalità del flusso di dominio tra la soggettivazione e l’assoggettamento, la dipendenza reciproca e complementare di ambiente e singolarità, di apprendimento e creatività. G. Simondon sottolineava la circolarità della relazione sistema/individuo47: tanto più l’interdipendenza globale ha carattere sistemico. Ancora una volta, la prevalenza, epocale e retorica, del tema della vita concentra l’attenzione sulle dinamiche autoproduttive e autopoietiche, anche se esse vanno sottratte all’ipoteca della chiusura omeostatica di alcuni modelli di equilibrio. Nelle molte problematiche che nascono dall’interazione del nuovo lavoro con le prassi, le istituzioni e le soggettività esterne, non andrebbe abbandonata l’idea bertalanffiana secondo la quale la riflessività dei processi omeostatici non solo non esclude l’apertura del sistema verso l’ambiente, ma la implica. Si delinea una relazione complessa tra imprese/collaboratori/giochi dello scambio/istituzioni politiche in cui le interazioni sono orientate da autocorrezioni, adattamenti reciproci, feedback che si riferiscono a contesti ambientali diversificati, innervati da flussi di sapere/potere più o meno istituzionalizzati, normativi e cognitivi, rispetto ai quali l’insieme di cose pensabili e possibili non è più determinabile, come in un contesto omogeneo, ma è contingente e organizzabile solo in modo flessibile o ex post. Perciò le forme organizzative sono lasche, in continuo aggiustamento, elevata reattività e adattività reciproca. Si diffonde la forza dei legami deboli, l’equilibrio instabile che si adatta al cambiamento. La cooperazione avviene attraverso un travaso continuo di esperienze dalla periferia ai centri, attraverso la contaminazione di linguaggi diversi: si passa dalla dominanza della relazione duale domanda/offerta a regimi di azione a più attori e a regimi di azione comune, anche se provvisoria. Caso e disordine sono compatibili con la organizzazione stessa48 e si riscopre, nell’émpasse delle universalizzazioni, la singolarità che genera nuova singolarità, senza peraltro che quest’ultima si possa sottrarre alle implicazioni e alle inter-retroazioni. Ovviamente l’accesso ad un sistema 47

48

G. SIMONDON, Du mode d’existence des objets techniques, Aubier, Paris 1969: «Esiste qualcosa che permette all’uomo di governare: la cultura che ha ricevuto; ed è questa cultura che gli dà dei significati e dei valori; è la cultura che governa l’uomo anche se quest’uomo governa degli altri uomini e delle macchine […] C’è qui una sorta di ricorrenza». J.P. DUPUY, Ordres et Désordres, Seuil, Paris 1982, pp. 253 ss.

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organizzativo siffatto, per quanto instabile e aperto, non riduce l’effetto di vincolo e di potere cui sono sottoposti i vari attori, l’inibizione e il dirottamento di molte potenzialità. Ma nel contempo la relazione organizzativa è generativa di un plus rispetto alla semplice somma delle vite utilizzate: le qualità emergenti degli stessi cooperanti, oltre che alla qualità della performance, sono tali, cioè emergenti perché non sono deducibili logicamente ma constatabili in modo empirico. Centrale è infatti, al fine di problematizzare la dinamica di assoggettamento/soggettivazione, il concetto di emergenza. Le qualità emergenti dall’organizzazione esercitano retroazione sui cooperanti e possono stimolare quest’ultimi ad esprimere potenzialità impreviste: i temi dell’autonomia e della libertà appaiono sotto luce diversa. È la sfida alla teoria politica. La costringe a ripensare il nodo dell’eteronomia che piega il processo di soggettivazione al linguaggio dominante del mercato e sembra forzarlo verso l’alienazione più totalitaria, la resa dell’intera persona alla mercificazione capitalista. Il regime di verità e di sapere plasma la soggettivazione ad esso funzionale. Ma, se il regime di verità stesso è aleatorio, incerto, pluriverso e complesso? Se il residuo di singolarità irriducibile all’ordine diventa una risorsa? Se il progetto di dominio si muove nell’ambito del possibile e non del prevedibile e del controllabile? Forse allora il processo di soggettivazione potrebbe, senza nascondere la sua dipendenza dall’assoggettamento, essere pensato come singolarità organizzazionale, a sua volta capace di generare una coerenza di senso e un plus di autogoverno. La sfida alla teoria politica lanciata dalla forma di lavoro che coinvolge l’intera soggettività, sta nella capacità di pensarla, a causa della logica del vivente – un processo ontogenetico in perpetuo disquilibrio, che contaminandosi con l’alterità apre la strada a sempre nuove emergenze performative, in relazione ricorsiva con l’ambiente49 – come non riducibile al controllo del condizionamento (input-output). Significa spostare l’accento dal problema del controllo da parte di istanze e regimi di sapere/potere che inevitabilmente lo costituiscono, all’eccedenza che la soggettivazione presenta. Evidentemente, l’autonomia – categoria centrale della filosofia politica – non è più pensabile come risorsa trascendentale interiore ma, anch’essa, come risorsa esterna, posizionamento strategico, proveniente dalle possibilità di libertà offerte dalla contingenza e dalla controfinalità del contesto50. 49 50

Per una soggettivazione costruita attraverso continue transizioni e coniugazioni con l’alterità, cfr. F. REMOTTI, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 63. J. BUTLER, La vita psichica del potere, cit.

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L’altro carattere che, assieme all’emergenza, segna la logica complessa di questo nuovo assoggettamento biopolitico, sta nel paradosso del centro erogatorio dell’influenza biopolitica: l’organizzazione economica e sociale appare, in uno stesso tempo, acentrata (funziona in modo anarchico attraverso interazioni spontanee e imprevedibili) policentrica (caratterizzata da numerosi centri di controllo) e centrata (dispone cioè di un centro di decisione sia pur variabile o parziale): anche questo tratto non può non avere riflesso sulla politicità delle azioni. Il tratto di governamentalità bioeconomica delle vite non va, nonostante queste problematizzazioni, sottovalutato. Non desidero mettere in luce la qualità ricorsiva e eccedente della logica di assoggettamento delle vite al secondo livello – quelle cioè che sono dentro al sistema e non sono della schiera delle brutalmente escluse, delle vite lasciate morire ai margini del mercato – al fine di esaltarne una presunta creatività, libertà o addirittura partnership politica e civile. Ma mi sembra d’altronde una mancanza di immaginazione quella di supporre che una così potente leva sulle qualità attive di quanti collaborano costitutivamente – nella forma del mercato – ai giochi relazionali dello scambio, non possa produrre controfinalità e iniziative politicamente significative. E l’immaginazione, per Arendt, era la più indispensabile delle virtù politiche. 4. Il governo della vita delle donne nel dispositivo del lavoro La doppia vita delle donne La prospettiva attraverso la quale osserviamo i dati del rapporto tra donne e lavoro, tempi di vita e tempi di produzione, dunque il tema della conciliazione, è quella della biopolitica. Il senso di questa parola, ormai d’uso frequente, non è mai stato così calzante come in questo caso. Questa prospettiva concentra infatti il fuoco dell’attenzione sulla dimensione, appunto biopolitica, del potere istituzionale e sociale, che nella modernità fa presa sulle vite delle donne e degli uomini, per governarle, per dirigerle, ma anche per potenziarle. Nella prospettiva biopolitica il lavoro viene pensato come dispositivo di governo e di controllo. Dopo aver brevemente chiarito come la biopolitica della tarda modernità neoliberista si eserciti nella forma bioeconomica, metterò in evidenza il senso che la cosiddetta femminilizzazione del lavoro, assume all’interno del nuovo dispositivo socioeconomico del lavoro postfordista. Sarà necessario a questo punto il riferimento alle forme di lavoro nuovo, con una attenzione speciale alla

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prevalenza dei servizi e alle forme di cura, che rappresentano, tutte ma in special modo quest’ultime, un luogo privilegiato dell’intreccio vita-lavoro, che presenta un implicito e ambivalente potenziamento, empowerment sia per chi eroga che per chi riceve il servizio. Il significato politico si accentra, a questo punto, sui processi di soggettivazione delle donne coinvolte in queste ambivalenze. La tesi muove da una decisa de-essenzializzazione delle identità (con conseguente possibile intercambiabilità dei ruoli di cura), per riconoscere, però, che dalla valenza esperienziale, “raccontata” dalle protagoniste coinvolte nel dispositivo vita quotidiana-lavoro, emergono esigenze complesse e non facilmente generalizzabili, che esigerebbero un adeguato spazio (politico) per la voice, la domanda. Solo questa può esprimere insieme alla flessibilità delle esigenze, la “formazione” della soggettività e in specie della soggettività politica e rovesciare l’assoggettamento biopolitico in un percorso di autonomia e di crescita. Dispositivi bioeconomici tra passività e potenziamento. Il concetto di biopolitica – elaborato da Foucault nel corso degli anni Settanta e sviluppato dai Governamentality studies51, in relazione alla forma di potere governamentale moderno che, prendendo in carico la vita dei governati, ne struttura attraverso regimi di verità/potere le soggettività – si attaglia, al di là delle stesse intuizioni foucaultiane, alle trasformazioni sociali dell’epoca postfordista. La biopolitica pur avendo al suo centro, ancora e sempre, i vettori di influenza e di assoggettamento che denominiamo potere, ne sottolinea il carattere relazionale, generativo, con una inversione di senso e di scala. La vita è curata, protetta orientata tramite dispositivi. Usare un termine come dispositivo per indicare, nel nostro caso, il lavoro ci permette di includere in esso una costellazione di elementi “positivi” cioè concreti, strategicamente orientati. Non si limita alla prestazione d’opera autonoma o salariata, ma include discorsi, istituzioni giuridiche, spazi, misure di tutela, proposizioni morali e psicologiche, decisioni regolative eterogenee che hanno effetti di potere sulle vite delle persone implicate. La scelta di questa prospettiva ci permette di prenderne in considerazione lo spessore complesso, denso di saperi e di regimi di verità e la funzionalità strategica di concreta organizzazione della vita. Ed 51

M. FOUCAULT, Nascita della biopolitica, cit.; cfr. G. BURCHELL, C. GORDON, P. MILLER (eds.), The Foucault Effect. Studies in Governamentality, Chicago University Press, Chicago 1991.

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è particolarmente rilevante per la questione del lavoro delle donne: doppio lavoro che sia sul versante produttivo sociale, che su quello riproduttivo “privato” è direttamente e potentemente implicato nel bios. Entrambi questi “lavori” evidenziano, in quanto dispositivi, una complessità nuova e relazionale, aprendo la passività, l’assoggettamento ad una possibile crescita della soggettività. Nell’influenza che il dispositivo esercita “formando” le soggettività al lavoro, si genera anche un empowerment, un potenziamento del soggetto governato che viene abilitato, all’interno di un codice di relazioni e di verità, ad una maggiore autorealizzazione. Diventa cioè soggetto mentre viene implicato nel dispositivo socioeconomico del lavoro: la sua libertà dipende dal dispositivo organizzativo e “formativo” entrando nel quale diventa possibile. Vorrei richiamare l’attenzione sul carattere del dispositivo/lavoro relativo alle pratiche di cura, di allevamento, di servizio, orientate al potenziamento di figli e famiglia che da sempre attengono al ruolo femminile nella divisione del lavoro. È infatti un carattere che – nel passaggio su cui ci fermeremo tra breve, dalla dimensione domestica alla economia dei servizi attuale – viene confermato. Sviluppando quindi, un doppio empowerment, di chi è destinatario della cura e di chi la eroga. In un mercato globale che si presenta come una rete di poteri e di flussi acefala e policentrica, il potenziamento, la cura – domandata e offerta – viene rinviata alle singole donne implicate in una microfisica di poteri e contropoteri, in una pluralità di rapporti di forza e di influenza che percorrono i dispositivi sociali in punti diversi, dalla casa al luogo di lavoro, alla scuola ai luoghi di cura. Nonostante le asimmetrie che si riproducono all’interno del dispositivo di lavoro, domestico o sociale, la rete di saperi e di concrete relazioni che vi si esercita ha effetti di soggettivazione, intensifica, cioè, il ruolo attivo delle donne che vi sono implicate. In questa fase di mercato neoliberista i “discorsi” e i “saperi” presentano un invito pressante a fare, a intraprendere, ad essere gestori di sé e responsabili della propria formazione, per rispondere alle richieste, sui fronti professionali e familiare, di governo adeguato delle vite altrui, ma anche contemporaneamente di cura di sé, di soddisfazione personale52. La società dà sempre più peso alla qualità della vita, resa possibile proprio dalla prevalenza dell’attività di cura e di servizio, intesa dunque non solo come accudimento di bambini e anziani, manutenzione della casa (anche se è esattamente da questo esempio che trae la sua modalità, i suoi tempi, il suo modello), ma come sollecitudine profusa in ciascun contatto con l’utente e cliente, quella sollecitudine che 52

S. BOLOGNA, A. FUMAGALLI, Il lavoro autonomo di seconda generazione, Feltrinelli, Milano 1997.

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trasmette calore, ascolto, interesse alle persone che vi sono coinvolte53. Il paradosso è che la cura, pur essendo modello e forma di una qualità della vita potenziata e densa di senso, è dequalificata sia socialmente che economicamente. La piega del lavoro – di tutti i lavori – in direzione della modalità di cura e di servizio, evidenzia il paradosso di essere indispensabile alla vita “potenziata”, ma scarsamente valutata e desiderabile. In realtà, come è proprio della ambivalenza del dispositivo biopolitico, il serviziocura che contraddistingue l’attuale modalità del lavoro, manifesta una natura relazionale complessa: è intessuto di reciprocità, si può e si sa curare solo se si è ricevuto cura, se si è avuto cura di sé. Il lavoro assume un tratto di co-produzione, di scambio in cui i due poli non sono indipendenti e contrapposti, ma c’è un percorso comune di sviluppo e di espressione delle potenzialità che si possiedono. Queste, forse troppo lunghe, annotazioni possono essere propedeutiche alla considerazione dell’ambigua situazione indotta dal dispositivo socioeconomico del lavoro delle donne. Racconti al singolare e diritti “moderni” Che il corpo e in particolare il corpo della donna sia al centro dell’attenzione del potere è fin troppo evidente: ma evidente è anche che si tratta di una fase di transizione in cui persistono, spesso con un fondamentalismo che ne disvela la natura volontaristica e difensiva-reattiva, pressioni regressive a legare al corpo sessuato e dunque in grado di servire alla riproduzione, il ruolo della maternità; mentre e contemporaneamente, con significativa incoerenza, il sistema resta sordo e cieco alle esigenze che la società proclama come prioritarie: quelle della riproduzione di se stessa, della cura e formazione primaria. Anche quando si interviene per promuovere la conciliazione di tempi, lo si fa in nome dei diritti delle lavoratrici, senza includere nell’argomentazione un riconoscimento adeguato delle convenienze generali del sistema. È una schizofrenia che viene pagata dalle vite delle donne che vi si trovano coinvolte. Ho parlato di transizione, perché a queste schizofrenie regressive si affianca una serie di interventi all’insegna delle politiche sociali e delle pari opportunità, che si ispirano ad una concezione moderna-tradizionale della parità stessa e pensano in termini di emancipazione, all’interno di modelli che risultano inadeguati. Che solo un bambino su dieci trovi posto negli asili nido e un terzo delle neomamme abbandoni il lavoro entro il primo anno di vita del 53

L. BAZZICALUPO, Il governo delle vite, cit., parte III.

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Dispositivi e soggettivazioni

figlio, rende ovviamente indispensabile l’intervento delle istituzioni (e il loro linguaggio giuridico in termini di diritti) per incrementare le strutture. Ma i pur meritori interventi di un residuale welfare che le agenzie istituzionali tentano di varare, ribadiscono un quadro contraddittorio e in continuo mutamento, nella speranza di alleviarne le incoerenze. E ciò dipende largamente dal lessico politico, tipico della tradizione “moderna”, in cui si codificano: si muovono infatti tra soggetti e diritti di notevole rigidità formale, andando inevitabilmente a configgere non soltanto con i diktat del mercato, ma, quando si tratta di vite differenziate, di singolarità non generalizzabili, con altri diritti, altre soggettività, altre norme, spesso a tutela degli stessi lavoratori. Il lessico moderno e la sua portata metafisica, seppur ricca di non aggirabili vantaggi in termini di emancipazione, si rivela poco adeguato alla nuova realtà bioeconomica e spesso genera trappole in cui le donne sono destinate a cadere. E infatti è di questo che ci narrano i loro racconti; ed è per questo che sempre di più le donne scelgono la biografia per dare “forma” e visibilità alla propria vita che si trova stretta, soffocata o tradita da silhouette formali. Non è certo un caso se il pensiero femminista ha virato verso la decostruzione delle identità essenzialiste, fornendo un contributo teorico decisivo al ripensamento di tutte le lotte delle “minoranze” o delle figure debolmente rappresentate. Dunque ci si muove da racconti. Un racconto, molti racconti per dire la stessa condizione ansiosa, inquieta, di donne strette tra diritti e doveri di un dispositivo di lavoro (che coinvolge sempre di più il tempo della vita, la disponibilità, la flessibilità) e maternità, cura, accudimento che non cessano di richiedere tempi non flessibili, tempi di massima eteronomia. Mentre i progetti istituzionali sulla conciliazione creano forme, soggettività generiche, queste biografie trovano con difficoltà punti di continuità. La precarietà che spesso li caratterizza, è essa stessa difficilmente riconducibile ad una relazione causale e necessaria. È indeterminatezza e oscillazione: queste biografie narrano esperienze di disorientamento, evenienze non controllabili. Il carattere “singolare” dell’esperienza è forse il dato comune: comune è questo sentirsi singolarità, questo vivere esperienze non immediatamente generalizzabili. Dire donne è dire una moltitudine di singolarità e di differenze54. Ma è proprio di fronte a questa singolarità dei soggetti e delle situazioni, questa eterogeneità e variabilità che viene meno ogni continuità del racconto che dia il senso di una costruzione col54

C. BONDERÌAS, Strategie della libertà, tr. it. Manifestolibri, Roma 2000, specie pp. 57- 83.

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lettiva orientata, dunque politica. Il senso di queste esperienze singolari può essere rinvenuto solo risalendo alle modificazioni strutturali dei processi produttivi postfordisti, ma contemporaneamente alle nuove modalità di vivere la coppia, l’onere dei figli, l’autorealizzazione. Infatti anche il progetto delle famiglie cambia, e in esso alla soggettività singolare di ciascuno, in particolare della donna, viene tributata un’attenzione e una cura inedita, che sia pur lentamente rivoluziona profondamente il senso della famiglia, a sua volta pensabile in termini di dispositivo sociale. E in questa doppia fenomenologia le singole soggettività hanno un ruolo centrale che assolutamente non avevano nella società disciplinare fordista, quando questi termini esprimevano l’antagonismo politico all’organizzazione del lavoro, la rivendicazione di una esistenza non alienata allo sfruttamento. Oggi singolarità e soggettività fanno parte cruciale della produzione e l’organizzazione tende a mettere a profitto esattamente la soggettività del lavoratore. Doti affettive e relazionali, capacità di ascolto, di elaborazione delle esigenze altrui, capacità di innovazione e di adeguamento al cambiamento – dunque la intimità e la socialità dei soggetti – sono messe in produzione, e diventano centrali per la riuscita dell’impresa. Si stringono in un nodo non dissolubile soggettività e lavoro. E questa metamorfosi di enorme importanza è stata denominata femminilizzazione del lavoro! In che senso? Femminilizzazione del lavoro. Ambivalenza di cura e servizi: il tempo Che nella bioeconomia sia in atto un importante spostamento dalle attività produttive di modello fordista, seriali e generalizzate, alla centralità del momento organizzativo e di servizio, è fin troppo noto. Come è noto che questa centralità ha cambiato, e profondamente, sia il consumo che il lavoro, rendendo addirittura labili i loro confini. Come l’ambivalenza della biopolitica preannunciava, cambia tanto la vita di chi è destinatario di tanta attenzione (in quanto la cura, il servizio incidono sulla sua vita potenziandola e incrementandola) che la vita di coloro che erogano la prestazione di servizio e di cura (in quanto il lavoro di cura e di servizio implica il coinvolgimento della dimensione affettiva relazionale, delle persone addette, e anche una disponibilità di tempi e di emozioni che un tempo erano state appannaggio della vita privata): Chi possiede una millenaria esperienza di questa flessibilità della propria attenzione, di questa messa a lavoro della propria anima, chi possiede questa capacità di ascolto più delle donne che accumulano da sempre espe-

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rienza nella gestione di quell’accudimento della casa e dei parenti cui non si dava neanche il nome di lavoro? La femminilizzazione del lavoro è ambivalente. Definisce un nuovo modello produttivo attivo, centrato sul capitale umano e sull’autogestione di sé da parte di chi lavora e orientato all’attenzione e alla gestione dei bisogni altrui, il quale modello è contestuale all’incremento quantitativo delle donne nel mercato del lavoro. Ma questa prospettiva “positiva” rischia di liquidare ambiguità e contraddizioni. La messa al lavoro della vita implica una eccedenza, il coinvolgimento non più solo di ore stabilite, ma di vita in senso pieno55. Questo dato evidenzia (quasi lo scoprisse e gli desse un nome) lo speciale spessore, vivo, della prestazione d’opera della donna nel suo ruolo di madre e di caregiver, si suppone volontario adempiuto con soddisfazione, ma comunque eccedente la meccanicità misurabile delle prestazioni, tale da sbilanciare la soggettività, nella erogazione di cura, rispetto al baricentro del Sé autonomo. È come se la società si trovasse – nelle nuove forme di lavoro “vivo” – di fronte alla generalizzazione di una esperienza femminile della temporalità, un tempo vivo e mobile, flessibile fino all’estremo, che si traduce in una risorsa di senso e di desiderio, un tempo “di qualità” che vale ben oltre le scansioni dell’orologio aziendale e che confonde l’ordine sociale e simbolico. È come se la donna si trovasse, nel mercato del lavoro di fronte ad un prolungamento, ad una generalizzazione e una economicizzazione delle sue abituali logiche di cura56. Se nel nuovo mondo del lavoro postfordista (sia per uomini che per donne al lavoro) il tempo produttivo dei servizi non si presta ad essere misurato e sembra sempre così esigente, l’esperienza su cui esso si ritaglia è quella antica e persistente delle donne e della loro vita di riproduzione e di cura. Si ripete, generalizzata, quell’esperienza di un lavoro che riproduce nella sfera sociale un contesto relazionale privato e nella sfera privata un contesto comunicativo, nel quale irrompono esistenza e storia vissuta. Contaminazione di contesti che, nell’esperienza delle donne, è stata sempre carica di intensità emotiva e di senso, oggi attribuibili, anche se in forma alienata, anche alla sfera sociale. Se quando parliamo di lavoro femminile non ci soffermiamo sulla nozione teorica, falsamente neutra, di lavoro delle donne, ma, seguendo quei racconti singolari/plurali, poniamo attenzione al modo femminile reale, concreto, di vivere la propria vita e, vivendo, lavorare, potremo scoprire 55 56

C. MARAZZI, Il posto dei calzini, cit. S. ONAGRO, Dalla riproduzione produttiva alla produzione riproduttiva, in AA.VV., Divenire donna della politica, Manifestolibri, Roma 2003.

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una dimensione diversa di tempo. Delle vite femminili fanno parte gravidanze, maternità, assistenza degli anziani, che costringono le donne ad entrare ed uscire di continuo dal mercato del lavoro: allo stesso modo è generalizzata nel nuovo lavoro la disponibilità mobile, flessibile, spesso marginale tipica delle donne. Tempo frantumato, disponibilità a correre rischi, a reinventarsi di continuo, il senso di vulnerabilità e l’ansia prodotta da rapporti di lavoro tanto flessibili quanto precari che la normazione giuridica non riesce a formalizzare adeguatamente, o spesso quando ci riesce diventa un boomerang. Emerge, dai racconti di progettualità femminile, che le donne sono portatrici di una visione diversa del tempo sociale che tende ad «essere rappresentato come acentrato, non gerarchico, più simile all’immagine della rete che a quello della piramide. Una pluralità di tempi intrecciati lo compone, ciclici e lineari, qualitativamente disomogenei ma globalmente accomunati dal loro carattere ‘vissuto’, mai solo oggettivo»57. È questa esperienza di temporalità a rete che sorregge la capacità – o la pretesa – di conciliare due ambiti che sono stati a lungo lontani e logicamente non omogenei: la relazionalità (comprensione, ascolto, creatività) e l’autonomia, il privato e il pubblico, il servizio e l’autorealizzazione. Le attività relazionali implicano la disponibilità a rendere flessibili i confini del tempo personale accogliendo, nel proprio tempo, il tempo di coloro cui la cura è rivolta. In parallelo enfatizzano le dimensioni temporali qualitative e extraeconomiche. La sfera dell’autonomia invece, richiedendo individualismo e mobilità, sottolinea l’indipendenza, il carattere quantitativo del tempo e, in ultima istanza, il suo valore economico. Ambiti, universi simbolici, diversi e ordini temporali non conciliati, che, nella tradizione moderna, si riferivano a dimensioni separate e che il dispositivo complesso bioeconomico confonde e intreccia in una temporalità bifronte, ambivalente: la temporalità delle donne. E dire temporalità significa dire esistenza concretamente vissuta. La donna sembra sempre sul limes, sulla soglia contemporaneamente di due mondi, con un doppio sguardo e una doppia temporalità, sempre in tensione tra il mondo del bios, della vita riproduttiva e affettiva e il tempo eteronomo che viene richiesto, e il tempo dell’autonomia della indipendenza, dell’autogoverno. Ma se i due tempi, per tutti e non solo per la donna si confondono, se il dispositivo del lavoro, del pubblico/sociale è pregno di vita, di richiesta d’ascolto, di indeterminatezza che richiede mobilità? Tutte le figure rigide

57

C. LECCARDI, Il progetto femminile tra autonomia e affiliazione, in AA.VV., Donne, denaro e dedizione, Guerini, Milano 1997.

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della scena, l’autonomia e l’eteronomia, la vita e la razionalità, la donna e l’uomo, non si presentano nella nuova fenomenologia come separabili.

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Dare voce alla domanda: produzione di soggettività politica Quale senso politico emerge da questo straordinario intreccio di esperienze? Se è vero che la riproduzione e la primissima cura sono specifiche della donna, dovrebbe cominciare ad essere riconosciuto il senso di un vantaggio anche maschile e sociale nella riproduzione. Questo riconoscimento, insieme alla caduta del limes dicotomico sulle due temporalità, potrebbe portare con sé innanzitutto un riposizionamento globale del discorso della riproduzione e della cura all’interno degli obiettivi di una società: è interesse di tutti la riproduzione sociale e tutti devono collaborare. Non è solo un diritto della donna, ma un’esigenza – primaria – di tutta la società. In relazione a questo, l’essenzialità dell’identità femminile può essere decostruita. Si fanno i figli, ma uomini e donne sono ugualmente in grado di curarli; la riproduzione è un onere sociale e politico come e più della produttività economica. Decostruita l’essenzialità di genere del caregiver, resta da scardinare – ma all’interno di una più complessa visione non soltanto relativa al lavoro femminile, ma di tutti i lavoratori flessibili e precari – il rapporto di necessità tra lavoro e strutture di reddito che garantiscano la qualità della vita58. E perché questo avvenga bisogna che le donne, ma anche i padri, possano parlare, avere voice a proposito delle proprie esigenze. Possano cioè formulare la domanda che li aiuta a definire i propri desideri, li costringe a scegliere, a non nascondersi dietro quelli che una politica sociale inevitabilmente generica attribuisce loro. La voice non si concede, si prende, si rivendica, proprio perché costruisce l’identità del richiedente e la fa uscire dalla passività dell’erogazione biopolitica paternalistica. Potremmo avere molte sorprese, dato il profilo bifronte del lavoro vivo e data la qualità viva, espressiva, autorealizzante del lavoro “femminilizzato”. Insicurezza, mobilità, rischio, ma anche potenzialità, vita densa di senso, liberazione dalla routine, dalla ripetizione, dai modelli chiusi, possibilità di approfittare di nuove occasioni, di nuove esperienze. Le donne si sentono invase dal lavoro, avvertono l’impossibilità di separare tempo di 58

Cfr. PH. VAN PARIJS (ed.), Arguing for Basic Income, Verso, London 1992; A. FUMAGALLI, M. LAZZARATO, Tute bianche. Disoccupazione di massa e reddito di cittadinanza, DeriveApprodi, Roma 1999.

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lavoro dal tempo di vita, ma percepiscono anche questa coincidenza come una premessa di una vita intensa, piena, non scissa, autorealizzante. Lo specifico equilibrio tra lavoro e vita che ciascuno sta imparando ad immaginare per sé, è molto diverso da persona a persona, da contesto a contesto: dipende dal carico di responsabilità personali, dall’età dei figli, dal tipo di cultura e di identità, dalla distribuzione dei ruoli nella famiglia, dal grado di investimento nella realizzazione professionale, dalle reti di prossimità e di vicinato (che sempre meno sono reti familiari ma piuttosto di affinità di idee e di preferenze); e infine da componenti psicoculturali meno facili da analizzare, che pure influiscono potentemente nelle scelte esistenziali e sulle scale di priorità. Una volta che il lavoro perde la rigida connotazione fordista, esso entra a far parte di un calcolo di equilibri e di senso nei quali la maternità (unica attività specificamente femminile) assume un peso diverso a seconda del “sapere”, del regime di verità che la sostiene. Il balancing and weaving, cioè le strategie delle donne nell’equilibrare e intrecciare il lavoro con la famiglia anche alla luce di questa variabile, evidenzia una grande varietà di combinazioni possibili dei fattori coinvolti nelle scelte: reddito, ore lavorative, ore divise col partner, ore dedicate alla cura personale, ore di cura che è possibile acquistare sul mercato, ore ottenute da servizi pubblici. Ma evidenzia pure che nella combinazione di tutti questi fattori non sembra prevalente un razionale (nel senso di prevedibile) calcolo costi-benefici. E questo significa che gli obiettivi possono essere molto divergenti, e molto dipende da una personale valutazione della qualità della vita. Le strategie si rivelano poco prevedibili (e dunque scarsamente prevedibili anche da parte della politica sociale eteronoma) perché l’equilibrio sembra il risultato, piuttosto che di una scelta definitiva, di un processo di decisioni e di aggiustamenti che tiene conto di aspetti soggettivi, culturali, emotivi, mutevoli: idea di maternità manipolabile dal sapere” ritenuto veridico, maggiore o minore fiducia nella capacità educativa e nella ricchezza affettiva del personale addetto al servizio pubblico o privato di accudimento, valutazione dei propri bisogni economici, grado di soddisfazione della propria espressione professionale. Senza per questo che alcuni aspetti, che chiamerei oggettivi, perdano di importanza: opzione di lavorare part-time, opzione di lavorare a casa, condivisione dell’allevamento con un compagno, presenza di adeguati asili nido: cose quest’ultime che potemmo immaginare rientranti in una “domanda” generica di politica istituzionale. La quale, dunque, va combinata con un momento attivo e autoidentificativo di domanda che ecceda dalla erogazione biopolitica di assistenza, così come il nuovo lavoro eccede un tempo lineare e anonimo.

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Una formulazione “in proprio” della domanda che sia affermazione di autonomia, segno del proprio profilo identitario. La narrazione biografica conferma una grande varietà di equilibri di conciliazione e una sempre maggiore de-essenzializzazione dell’identità femminile in essi, mettendo in guardia di fronte ai tentativi di ridurre gli atteggiamenti e le aspettative delle donne con famiglia a figure sociali preconfezionati e stabili, pure utili ad orientare sul terreno minato dei diritti in conflitto. I modelli sono poco efficaci e questo spiega la difficoltà per le politiche di welfare, ad interpretare con certezza la domanda e la debolezza di risposte troppo standardizzate, come ad esempio gli orari rigidi degli asili nido e lo stesso part-time, interpretato, dal sindacato, come “lavoro a metà tempo per le donne”. In realtà la domanda delle donne, quando emerge, è di “flessibilità”: dunque, perfettamente analoga, anche se con priorità diverse, dalla flessibilità che – per il prevalere dei servizi nel postfordismo – viene dal lavoro. Il termine flessibilità però non esprime con chiarezza la complessità e varietà di esigenze, di domande, le quali piuttosto che in direzione di specifiche misure flessibili, è domanda di cambiamento, di innovazione dei modi di lavorare, in direzione di maggiore autogoverno e autonomia personale, di una più ampia possibilità di scelta rispetto al dove, al quanto, e al quando lavorare59. L’obiettivo di chi ha responsabilità familiari sembrerebbe quello, a partire dalle proprie preferenze ideologiche, di allargare la gamma di opzioni organizzative per poter meglio costruire la propria specifica “combinazione di conciliazione”: sulla traccia d’altronde della capacità di gestione flessibile e autonoma del tempo che ha a lungo caratterizzato il lavoro quotidiano domestico60. Nella realtà, ci si scontra con una modalità rigida dell’organizzazione del lavoro, che ancora si riferisce al tempo esteso e concentrato del fordismo. Anche se, come abbiamo visto, essa potrebbe essere evitata in molti impieghi di lavoro vivo, tecnico, amministrativo o di servizio. D’altra parte in questi settori dove la modularità sarebbe assai più possibile, la priorità è segnata dalle 59 60

AA.VV., Progettare il tempo. Manuale per la progettazione degli orari di lavoro, Edizioni Lavoro, Roma 1999. Gli equilibri vita-lavoro che A. HATTERY (Women, Work and Family. Balancing and Weaving, Sage, Thousand Oaks 2001) definisce innovativi, prevedono intrecci – personalizzati e autogestiti – di reddito-spazio-tempo: lavorare molte ore e pagarsi un aiuto a casa, lavorare fuori quando i figli sono a scuola, lavorare full-time ma in tempi inversi col partner, intraprendere un’attività di cura a casa propria. Quando l’autogestione del tempo appare impensabile, le preferenze si orientano su orari meno lunghi, compatti e prevedibili.

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esigenze di cura e di servizio degli utenti che, chiedendo continui adattamenti, entrano in contrasto con i bisogni della conciliazione61. Colpisce comunque di fronte ad una così generale e pressante esigenza di cambiamento dell’organizzazione del lavoro, la invisibilità dei bisogni che emergono dalla vita, dall’altra faccia del tempo, quello di vita quotidiano. Il tema diventa dunque quello dell’espressione, rappresentanza e negoziazione di questi bisogni: la voice. È proprio questo momento di autonoma espressione dei bisogni e costruzione del proprio sé, che, in una realtà biopolitica, è invisibile e passivizzato. Le pratiche che segnalino l’esigenza di una conciliazione dei tempi sono scarse. Le donne fanno fatica a rendersi visibili, in quanto donne, nella società, ad incidere sul contesto politico e anche a negoziare la loro cittadinanza nel lavoro62. Perché? Forse il nostro lessico politico fatica a ammettere nel discorso politico i bisogni personali, la vita affettiva, il benessere psicofisico63. D’altra parte l’equilibrio vitalavoro che ciascuno vuole raggiungere fa riferimento a scelte basate su opinioni e assunti ideologici personali, circa la maternità e il suo valore, l’interpretazione dei ruoli familiari, la condivisione della cura e il significato che si dà al lavoro, al grado di commitment al lavoro scelto. Questo privato, pur sempre più importante e stimolato dalla nuova cultura del sé, ha difficoltà di manifestarsi, né il linguaggio tradizionale del sindacato è di aiuto. Ne deriva la difficoltà per le donne di emergere come soggettività politiche, di legittimare le proprie richieste con un linguaggio adeguato, di utilizzare cioè, l’opzione voice, rispetto alla quale ancora tante scelgono la via dell’exit64. 5. Il mercato come forma di governo del sociale Il legame-slegame del mercato L’economia di mercato è un legame di governo sociale e politico, dunque un dispositivo complesso per governare le vite degli uomini. Il lessico 61 62 63 64

Le proposte aziendali o istituzionali sono banali e rigide. Evidentemente se le lavoratrici sono più autogestite, si creano problemi di controllo, molto più sofisticato del cartellino orario, e inoltre spesso la modularità diviene costosa. S. GHERARDI, Il genere e le organizzazioni, Cortina, Milano 1998. A. MELUCCI, Passaggio d’epoca, Feltrinelli, Milano 1994. A.O. HIRSCHMAN, Exit, Voice and Loyalty, Harvard University Press, CambridgeLondon 1970.

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moderno vede il mercato come luogo di slegame, luogo anti-sociale. Questa visione slegata accomuna politica ed economia: è quello che chiamerei un orientamento alla neutralizzazione del bios, inteso come complessità, anarchia della vita, che rende rischiose le relazioni tra uomini. C’è una riduzione persistente del legame economico e di quello politico a legame sterilizzato, neutralizzato (si potrebbe dire, spoliticizzato) e perciò reso prevedibile e controllabile. Questo significa che viene fatta astrazione delle componenti libidiche che – giusto quanto sosteneva Freud – ne sono, invece, la effettiva strutturazione; lo slegame immunitario astrae, dunque rimuove dalla scena visibile, dalla rappresentazione, un legame libidico, il cui disordine, la cui potenza pericolosa fa scattare la rappresentazione neutralizzata. Il mercato è stato, ed è, una delle istituzioni che, insieme al diritto, hanno ordinato, sterilizzandolo, il legame sociale per impedire che prevalessero rapporti spontanei disordinanti e pericolosi. Nel mercato vige una relazione che salda il debito, che conclude la dipendenza. Una relazione che esclude valori differenziali e affettivi e mira ad un contatto fondato sulla sola convenienza del prezzo, giudicato da ciascuno, liberamente. L’ideologia del mercato, il suo immaginario, è slegame: porta cioè dentro di sé, negandolo, il legame necessario tra gli uomini che vivono in reciproca dipendenza: non tanto e soltanto biologica e materiale, ma più radicalmente in una relazione di riconoscimento, attaccamento, identificazione, sfida esistenziale e così via. Se cioè ripercorriamo le forme dell’economia moderna capitalista e la loro auto rappresentazione, il dispositivo simbolico di trascrizione nell’ordine di verità, cogliamo lo sforzo incessante di immunizzare, di governare – lo chiamerei governo biopolitico – il legame sociale: l’economia moderna è sempre economia politica. Questo governo del desiderio emerge dalle teorie economiche del valore/lavoro e assume una forma decisamente nuova nella rivoluzione marginalista imperniata sul desiderio e sulla domanda che con alcuni aggiornamenti domina oggi l’immaginario economico, lo slegame. In quest’ultima versione il desiderio è dirottato verso la deriva di godimento consumistico di oggetti. Seguiremo brevemente questo percorso. Vorrei infine misurare la validità delle intuizioni su feticismo delle merci e spettralità, nella fase attuale di capitalismo immateriale, cognitivo e fictionale. Rilevando in questo processo il ruolo non univoco, ambiguo, dell’immaginario e dell’immaginazione. Le teorie economiche, questi dispositivi di verità che hanno ordinato il sociale, ordinando l’economia, già con Smith e tanto più con Ricardo e

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Marx, si sforzano di razionalizzare relazioni in atto – di produzione e di scambio – consapevoli della eccedenza di senso, o, se volete, del surplus di godimento di quelle relazioni (non è un caso se Smith, accompagna il saggio sulla Ricchezza delle nazioni, con un geniale Trattato sui sentimenti). L’obiettivo è dare forma accettabile ad uno scambio denso di eccedenza psichica, in modo che esaurisca il debito, che saldi il munus, la dipendenza. La stessa enfasi della frase famosa di Smith: «non è dalla benevolenza del macellaio che ci aspettiamo la fettina di carne»; esprime insieme la consapevolezza e la presa di distanza dalla potenza del legame asimmetrico tra chi ha e chi non ha potere, dalla dipendenza, dal debito che l’equivalenza del prezzo o del salario immunizza! Il prezzo (e il salario), sono l’unico punto di contatto tra domanda (dunque, bisogno, desiderio il quale nasconde desiderio di riconoscimento, di amore) e offerta (che oscilla tra potere e alienazione, sacrificio, essendo entrambe le cose). Tutte queste forme, così opache e complesse, si razionalizzano attraverso la mediazione del valore e del suo equivalente universale, la moneta. Il danaro non solo rimanda al necessario contesto politico e fiduciario che lo garantisca, ma diventa il mediatore universale della costruzione sociale, il luogo astratto, immaginario delle equivalenze, dell’intercambiabilità dove si dissolve – si liquefa – lo spessore concreto, fisico delle differenze. Una rappresentazione che fa perno sul desiderio Per governare il sociale attraverso l’economia, questa auto rappresentazione, che è l’immaginario dell’economia politica classica, deve far perno sulla produzione, che pure logicamente avrebbe dovuto essere subordinata al consumo. Ma il consumo si riferisce a desideri anarchici e poco prevedibili, mentre lavoro e produzione sono processi controllabili, regolabili. Perciò appare rivoluzionaria, e lo è, la svolta del marginalismo che rovescia la rappresentazione simbolica e la sorregge con un potente rivolgimento dell’immaginario. Il marginalismo – liberista, soggettivista, anarcoide – è il quadro teorico che, con alcuni aggiornamenti, fa da sfondo all’attuale fase bioeconomica, e sostiene il deciso predominio dell’economia nel governo delle vite, nella organizzazione del loro legame sociale. Per prima cosa, sgretola il costrutto metafisico del valore, misurabile in termini di ore di lavoro salariato, sul quale si costruiva un legame sociale e politico . Sposta il fulcro del dispositivo simbolico e del suo immaginario sul bios, sulla disposizione psicologica dei soggetti, sul desiderio. Desiderio di soddisfazione e dunque consumo e domanda.

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Questo non significa che le teorie economiche neoclassiche siano capaci, o abbiano voglia, di “pensare” il desiderio. Non è questo, l’obiettivo. L’obiettivo è dare vita a una società acefala, di insocievole socievolezza, in cui ciascuno è autonomamente responsabile delle proprie scelte, preferenze, rischi e costi: una società di tutti capitalisti, detentori di capitale umano da mettere in gioco nella competizione concorrenziale, nell’intrapresa economica in vista dello scambio e dell’eventuale profitto. Vae victis! Guai a chi non riesce a star dietro alla competizione, a chi non ce la fa ad accedere allo spazio del mercato, se ha voglia o necessità di scambiare per vivere. Il legame sociale è uno slegame, un luogo an-archico, privo di progettualità comune, dove si intersecano i mille vettori di potere, di iniziativa, di innovazione e di valorizzazione di ciascuno. Ciascuno, d’altra parte è invitato a valorizzare se stesso, spinto alla autorealizzazione, al miglioramento del proprio talento o capitale, incoraggiato al rischio. Certo il primo passo è schiodare l’economia dalla prevedibilità dei bisogni e mettere al centro la scatenata anarchia delle motivazioni e dei desideri. L’imperativo della sovranità del consumatore significa l’attenzione alla domanda. Non è un caso che domanda è termine sia economico che psicoanalitico. Domanda dunque soddisfazione, saturazione, riempimento del vuoto del desiderio (che come tale sarebbe sempre desiderio che vuole scavare nella mancanza dell’altro, è sempre richiesta d’amore all’altro) che viene spostato – a questo servono le tecniche di marketing e la pubblicità – sull’infinità di oggetti il cui godimento, senza sesso, è a portata di mano, asociale, oggettuale, solitario, senza alterità: dal desiderio – da cui si era partiti – al godimento. Un saggio di Fornari paragonava l’immaginario dell’imprenditore capitalista al regime del Padre, del desiderio differito, dell’ascesi antropogena e il consumismo assistenziale, lanciato nella corsa all’indefinita soddisfazione della domanda, al regime materno, infantilizzante, regime di godimento che non lascia crescere nel desiderio il processo di identificazione. Qui i due regimi si fondono e, naturalmente ci stanno tutte le critiche radicali alla trasformazione di ogni relazione sociale nel lessico economico delle cose: dai francofortesi al discorso del capitalista – forma rinnovata del discorso del padrone, in Lacan. Naturalmente le cose sono molto complesse, forse più ambivalenti. C’è questo, evidentemente. Ma non solo questo. Spettralità del mercato Occorre fare un passo indietro in direzione dell’immaginario che sostiene il codice simbolico dell’economia capitalista. E, quindi in direzione

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di un fantasma, di uno spettro che in questa auto rappresentazione viene forcluso, ma sostiene l’insieme e può sempre ritornare. È Marx che – più degli altri costruttori del tempio della teoria economica – evidenzia quanta politica, quanto potere, quanta asimmetria di posizioni vi fosse in quel più o meno irenico (Ricardo meno, Smith di più) ordine naturalizzato del mercato. Marx ci sorprende: introduce un linguaggio inusuale, spia della consapevolezza di un non detto. Marx parla di feticismo delle merci, di valore fantasmatico delle cose, della capacità della merce di spettralizzare di altro. Questo è l’avvio della critica del Capitale. La merce è il feticcio – la cosa per la persona – del lavoratore. Lo sguardo di Marx attraversa la consistenza materiale della merce e vi vede ciò che nella merce, nell’oggetto manipolato, trasformato, non si vede più: la fatica, la alienazione di chi ha prodotto quelle cose; fatica, godimento differito e plus godimento afferrato da altri, vita che è alienata in quegli oggetti, reificata. Marx è ossessionato dalla natura spettrale, fantasmatica del mondo delle merci, e, pur non disponendo di una teoria del simbolico, né di una teoria psicoanalitica, spalanca il doppio fondo immaginativo/immaginario dell’economia capitalista. “Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano”, evoca la dimensione immaginaria, fantasmatica come il tratto costitutivo dei rapporti tra uomini che si manifesta nei rapporti tra cose, spettralizzando la relazione di subalternità e di sfruttamento che il processo di valorizzazione produce. Fetish, feticcio è l’oggetto investito di significato simbolico, immagine di altro. Ma è inevitabile leggerlo, psicoanaliticamente, anche come l’oggetto che prende il posto dell’oggetto d’amore. Come è inevitabile evocare la sensazione di inquietudine, di impotenza di fronte a questi eventi ‘arcani’. Come nelle società arcaiche, gli oggetti non sono considerati per ciò che sono (valore d’uso) ma per ciò che valgono, ossia per la loro capacità di permutarsi con il denaro che, come il mana dei primitivi, si diffonde sugli oggetti mascherando il loro corpo: «la merce, allora, non è più né tavolo, né casa, né filo»65, ma immagine del loro valore economico. Il feticismo non sacralizza gli oggetti: anzi ne neutralizza la natura concreta, per lasciar vagare lo spettro, il fantasma del valore di scambio. Dunque si tratta di una storia di fantasmi. Una storia che evoca per la prima volta, nella fantasmagoria delle merci, lo spettro, il forcluso del Re65

Cfr. K. MARX, Il denaro: genesi e essenza, tr. it. Editori Riuniti, Roma 1990.

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ale, che è la fatica, il lavoro (naturalmente qui il lavoro è sempre e soltanto salariato, dipendente, alienato), l’uomo vivente, indicandoci la deconcretizzazione delle cose, per diventare puro segno, immagine del valore economico, risucchiate dall’unica potenza che determina questo valore: il denaro, la relazione di scambio. Il denaro testimonia la sostituibilità di tutte le cose, la loro intercambiabilità, e questo ne decreta la svalutazione. E qui va detto subito, che la posizione di Marx è ontologica e simbolica. Il concreto è causa dell’immaginario: si può togliere lo schermo, si può vedere ciò che c’è dietro, è possibile pervenire ad un disincantamento e ad una emancipazione. Si può uscire dal valore di scambio – quello scambio degli equivalenti che equipara vite umane e merci – e pervenire alla verità del valore d’uso: espressione non alienata della vita, sognando la fine della logica strategica, dello scambio senza legame, del saldo del debito, la fine dell’asociale legame-slegame. Ma è il sogno di una cosa, appunto, come dice Nancy: un legame sociale che non sia governato dalla mediazione simbolica dello scambio è un mito. Il rapporto tra uomini non è mai trasparente. Lo spostamento – ma siamo ormai fuori da Marx – è strutturale, costitutivo, in quanto “non vi è soggettività vivente immediata, che poi venga espropriata”. Torniamo alla merce come feticcio e come immaginario. Questa cosa acquista un senso maggiore, ma diverso, se pensiamo nell’attuale fase bioeconomica postfordista: l’economia conferma ed amplifica i caratteri di slegame sociale: e lo fa, mobilitando un potentissimo immaginario a sostegno di identificazioni simboliche ego-centrate cui abbiamo fatto cenno; lo fa, abbiamo detto, sostenendosi su una feroce ingiunzione superegoica al godimento, priva di argini e di interdetti. Lo fa quando svolta verso un capitalismo cognitivo, relazionale, immateriale, una economia dei beni simbolici, non solo nel senso di produrre beni sempre più immateriali, ma anche nella simbolizzazione dei beni concreti, di cui è il brand, il marchio, la potenza simbolica ad essere determinante del valore e del prezzo, assai più che le ore di lavoro per produrre l’oggetto. L’immaginario umano, l’astratto, il feticcio è, direttamente, l’ambito produttivo. Lo statuto della merce è esclusivamente quello di segno-valore, che attiva i desideri lasciandoli scorrere su binari immaginari, brandizzati, feticci. Il collasso della potenza simbolica degli oggetti/merce si evidenzia nella loro totale intercambiabilità: si produce un oggetto mediale narrato dal brand e codificato negli stili di vita diffusi nei gruppi. Il suo prezzo è nel brand stesso, nel segno che ha valore in sé, nel suo manifestarsi, privo di rimandi, che produce godimento (jouissance). Questo godimento è radicalmente vissuto, se è vissuto, in relazione all’immaginario che aggrega in

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modo labile gruppi che condividono stili di vita e non rimanda all’ordine simbolico, ma al suo vuoto, alla sua assenza. È la stagione dell’epidemia dell’immaginario che ha fagocitato il simbolico. Si tratta di un passaggio dal registro del simbolico, dove il simbolo/ divieto adombra l’oggetto perduto, ad un immagine senza rimandi, all’oggetto che sta là a portata di mano di tutti, in una falsa democrazia di accesso ai beni, di godimento a portata di mano. Universo psicotico. Attraverso il sistema di soggettivazioni, di produzione di desideri e di forme di vita virtuale della bioeconomia, siamo dentro la rete dell’estrema trasformazione del simbolico. Dobbiamo chiederci se essere dentro rende possibile scavare una distanza, un essere contro. Se il lavoro soggettivo, vivo – che produce valore attraverso creatività, emozioni, immaginazione messe al lavoro per creare nuove emozioni, immagini – crei un qualche attrito, una non coincidenza con l’universo paranoico. È la spettralità della scena, allora, che ci viene in soccorso. Lo spettro dimora anche nella produzione virtuale, nello spettacolo immaginato e immaginario, nella esperienza di vita che domina chi l’ha vissuta e prodotta: il fantasma che l’immaginario collettivo oscura e che però ritorna, il dato osceno della espropriazione del vivente, della sua creatività. Dunque c’è l’immaginario più il fantasma. Quest’ultimo è il reale che permetterà la distanza, la non coincidenza. In questo immaginario, “senza lavoro, ma tutti capitalisti”, che fa perno sulla creatività, sulle doti relazionali, sull’immaginazione, ovviamente non c’è cenno a spettri e forclusioni: la mercificazione è vista come investimento volontario di sé e non c’è alienazione. Ma, nell’iperrealismo di questa visione (iperrealismo perché è una scena di completo disincanto, senza rimandi, cinicamente dentro la consapevolezza dei rapporti sociali come strategici), qualcosa viene escluso, qualcosa resta spettrale ed osceno: per esempio il dolore, la malinconia, l’imprevedibilità del desiderio perverso, la pulsione distruttiva: sintomi della soggettività residuale dell’immaginazione che sta dentro lo stereotipo, ma fa anche un po’ attrito, si piega in altra direzione, si fa distrarre da altre immagini che disordinano il progetto economico di investimento del proprio capitale vivo. Per ripoliticizzare l’economia è necessario che ciò che è forcluso, lo spettro, nell’immaginario collettivo venga lasciato circolare. Fondamentale è scorgere, in quelle pieghe dell’immaginazione, lo spettro della colonizzazione della logica di mercato, la quale, tra i suoi effetti, provoca l’immaginaria sensazione di essere sfere autonome, capaci di scelte libere. Diventano fantasma non solo le relazioni di subordinazione, l’azione selettiva del mercato sulle vite che non hanno la capacità di accesso o che in

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esso vengono precarizzate, marginalizzate, ma anche – nel rovescio delle immaginarie libertà, potenze e soggettivazioni – il rimosso di relazioni di dominio, di subalternità, di sofferenza. Toccare con mano lo spettro, ascoltare le voci concrete dei coinvolti, calde di affettività, di ansia, significa rendere peso all’esistenza in un universo di simulacri. Se il termine lavoro è quasi in disuso (e si parla di professionalità, di intrapresa) allora il fantasma è il salario, la dipendenza, l’eteronomia: l’osceno della scena imprenditoriale che ha cancellato l’antagonismo e la subalternità. L’immaginario delimita la visione e letteralmente esclude quelli che non riescono ad avere accesso alla scena economica, che non riescono a tradurre le loro vite in quel linguaggio. L’immaginario esclude quelli che perdono, ma anche – esaltando la imprenditorialità, il coraggio, la sfida – non vede le ombre di quelli che non ce la fanno a raccogliere quella sfida, o che perdono la competizione. Ombre, spettri, non morti e non vivi, zombi dell’immaginario economico. Se l’immaginario economico capitalista è diventato il gioco di verità naturalizzato, forse non resta che de-naturalizzarlo, evocare i fantasmi, farli entrare in scena, ascoltare la loro voce. 6. Anche la crisi è un dispositivo? Un crollo di proporzioni gigantesche Possiamo considerare la bioeconomia come un complesso dispositivo biopolitico di governo delle vite secondo la logica economica, che produce soggettivazioni interne al dispositivo stesso, ma ambiguamente eccedenti. Muoviamo dalla ipotesi che le categorie lacaniane del simbolico, dell’immaginario e del reale, possano essere utilizzate per illuminare efficacemente il nodo strutturale che caratterizza la governamentalità bioeconomica liberale nella costruzione delle soggettività, negli spostamenti impressi all’ordine simbolico (naturalizzato/performativo), nell’immaginario sociale e singolare. In questa chiave, la spettralità del reale del capitalismo è il residuo non detto della costruzione sociale. L’opportunità di ricorrere a queste categorie psicoanalitiche, abbastanza inusuali nello studio filosofico-politico, deriva sia dalla centralità dei processi di soggettivazione (dal momento che la svolta postfordista in direzione del capitalismo immateriale richiede una forma di consenso, di partecipazione libera/spontanea che era estranea alla vecchia forma produttiva fordista dicotomica e esecutiva), sia dalla complessità irriducibile di questi stessi processi

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che non possono essere ricondotti ad una tradizionale, marxiana relazione di causazione ideologica: il paradigma psicoanalitico (qui in veste filosofica) allarga l’orizzonte ontologico includendo forme di relazione tra identificazione immaginaria, ruolo simbolico e fantasma che chiariscono meglio i rovesciamenti, le dinamiche di differimento e di sacrificio e il loro risvolto di potere nell’impresa economica, l’attaccamento all’assoggettamento, la pulsione di morte implicata nell’ingiunzione narcisistica al godimento e all’autorealizzazione; caratteri tutti che sono oscurati dalla visione pacificamente utilitarista, centrata sul solo principio del piacere, che ‘motiva’ la scena dell’economia liberale. In effetti questo ricorso al lessico psicoanalitico (non alla psicoanalisi nel suo complesso terapeutico e spesso metafisico) è motivato dalla natura libidica dell’investimento nel mercato, inteso qui come legame sociale e come luogo di relazioni il cui senso eccede l’economia stessa: mercato che la scienza economica orienta in direzione dello s-legame, del saldo del debito, sterilizzando e neutralizzando lo scambio proprio per difendersi dalla densità libidica e emozionale che minaccia il legame sociale. Ogni economia è perciò, economia politica, essendo l’economia (e il mercato) un legame sociale, che, come tutti i legami, ha natura libidica. E i legami libidici sono assoggettati alla dinamica, non voluta, non conscia, tra ordine simbolico, investimento immaginario e Reale: quest’ultimo – rovescio non simbolizzabile di ogni simbolizzazione e sostegno segreto dell’investimento nell’immaginario – torna come spettro, come fantasma. Oggi, per parlare di bioeconomia, non si può partire che dal racconto della crisi, del grande tracollo finanziario che ha trascinato con sé l’economia reale e che ora travolge, nella sua risacca, il lavoro, l’occupazione, le vite sempre più precarie di tanti. Il momento critico, quando le mura della casa scricchiolano e vacillano, è il momento in cui dalle crepe escono i fantasmi: scivolano via impalpabili, ma implacabili gli spettri che da sempre abitano segretamente la casa stessa. Dunque questa è una storia di spettri. La crisi è l’occasione: quando la raccontiamo, quali fattori vengono in rilievo e quale nucleo traumatico non viene detto – come osceno, pericoloso, non pertinente – oppure viene detto in modo alleggerito, quasi per neutralizzarne l’apparizione spettrale che terrorizza, il fantasma che genera ansia e ossessiona? Certo l’immaginario collettivo neoliberista, che, dagli anni ottanta, fa da quadro indiscusso dei dispositivi sociali e politici, sembra subire un impatto durissimo, quello che si dovrebbe considerare un trauma. Un evento che potrebbe riattivare il trauma originario dell’economia politica capitalista e materializzare un fantasma allontanato, cacciato o rimosso. Ma è così?

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La spettralità della merce Riordiniamo gli strumenti interpretativi. L’immaginario collettivo è una scena che struttura e legittima i comportamenti, i ruoli, le scelte, anche al di là, ma non indipendentemente, dalle identificazioni simboliche sociali (il nostro essere per esempio lavoratori dipendenti, le prospettive di pensione che ci vengono garantite, l’avere capitali, case). Cosa significa che non coincide con l’ordine simbolico, pur dipendendone? Significa che è frutto di un investimento fantasmatico, immaginario, che sostiene il desiderio e la soggettività, orientando verso oggetti concreti quel senso di vuoto, di non corrispondenza che è originato dalla stessa identificazione sociale: questo immaginario ha una funzione enorme nell’orientamento del desiderio. Non è la semplice realizzazione allucinatoria di un desiderio, ma è quella fantasia che fornisce le coordinate trascendentali al desiderio e «ci insegna come desiderare»66. Dunque fornisce lo schema secondo cui alcuni oggetti concreti fungono da oggetti del desiderio, riempiendo gli spazi vuoti aperti dalla struttura simbolica. È al livello di questo immaginario sociale che le mie riflessioni tagliano questo dispositivo complesso che è la bioeconomia. L’immaginario sociale assume l’organizzazione del mercato capitalista come ‘naturale’ e offre il quadro della pensabilità, della visibilità, della possibilità di scelte, e, nello stesso tempo, oscura, rimuove o forclude un reale, un antagonismo, un attrito, che pure di questa rappresentazione è il sostegno, la condizione. Che il legame economico avesse natura fantasmatica e il mercato avesse densità simbolica e immaginaria è stata, come abbiamo appena visto, l’intuizione del Marx della tesi del feticismo delle merci, per quanto ancora racchiusa in un orizzonte ontologico e causalistico. È Marx che per primo, come abbiamo visto, ci dice che questa storia di materialità, di dominio e di sfruttamento, ma anche di straordinaria capacità di traslazione metaforica, è una storia di fantasmi. Benjamin poi, nei suoi visionari Passages parigini, indovina nella metafora della natura spettrale, fantasmatica delle merci, l’investimento libidico di un inconscio collettivo, tra sogno e veglia, che dà vita a immagini che sfuggono alle maglie della semiotica. Nel ‘nuovo sempre uguale’67 coglie la ‘morte’, come persistente, spettrale abitatore di quei passages.

66 67

S. ŽIŽEK, L’Epidemia dell’immaginario, Meltemi, Roma 2004, p. 19. «Il valore come specchio ustorio naturale della parvenza storica va al di là del significato. La sua parvenza è più difficile da distruggere ed è peraltro la più nuova», W. BENJAMIN, Parigi, capitale del XIX secolo, Einaudi, Torino 1986, p. 380.

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Benjamin indovina cioè, la pulsione di morte che è sottesa al ripetitivo godimento oggettuale, autistico e solitario. È Debord invece che coglie la spirale unitaria che lega la dimensione passiva, della jouissance e della spettacolarità, all’opera frenetica, gelida e calcolistica della produzione. Così la vecchia figura del feticismo si proietta sul futuro, oggi attuale, del capitalismo. Ma si può possedere, afferrare uno spettro? Non si è da lui afferrati, posseduti? In verità, non si può cancellare il fantasma per vedere la realtà. Il feticismo marxiano rinviava alla utopia di un rapporto sociale trasparente. Ma il rapporto tra uomini non è mai trasparente. Lo spostamento – ma siamo ormai fuori da Marx – è strutturale, costitutivo, in quanto «non vi è soggettività vivente immediata, auto consapevole, che sia intestataria della credenza incarnata nelle cose e poi ne venga espropriata»68. «Il nostro accesso a questa realtà è sempre-già mediato dal processo simbolico» – suggerisce Žižek sulle orme di Lacan69. Non appena c’è produzione per un mercato c’è feticismo, idealizzazione, automizzazione, de materializzazione, incorporazione spettrale. Né nello slittamento verso la totalità de realizzata del mercato attuale è possibile tornare alla presenza autentica, al tempo reale, vivente contro quello del simulacro70. Nell’ironico commento di Žižek, Matrix è la matrice simbolica, il grande Altro lacaniano, il discorso che ci struttura, quello che, al modo dei francofortesi, chiama “la Sostanza sociale”, cioè il capitalismo nella sua ultima versione new economy, digitale, immateriale. Siamo dentro. Attraverso il sistema di soggettivazioni, di produzione di desideri e di forme di vita virtuale della bioeconomia, siamo dentro la rete dell’estrema trasformazione del simbolico. Dobbiamo chiederci – stimolati dalla incertezza del sistema a seguito della crisi – se essere dentro rende possibile scavare una distanza, un essere contro. Ci vengono in soccorso ancora il feticismo e la spettralità della scena. Lo spettro dimora anche nella produzione virtuale, nello spettacolo immaginato e immaginario, nella esperienza di vita che domina chi 68 69 70

S. ŽIŽEK, L’Epidemia dell’immaginario, cit. 154. Ivi, p. 143. Provocatoriamente, rovesciando l’assunto comune che vede il reale soccombere all’egemonia del segno, Baudrillard mostra che ciò che è andato perduto è il segno, a vantaggio del reale assoluto, dell’iper-reale. La dissoluzione della trascendenza del segno, travolta dalla liberalizzazione vertiginosa trascina tutto «l’universo della significazione e della comunicazione che subiscono la stessa liberalizzazione che pervade i mercati mondiali». Universo psicotico. L’unico giudizio residuale resta quello della valorizzazione, assolutamente intercambiabile, del mercato. J. BAUDRILLARD, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano 2009, pp. 9-10.

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l’ha vissuta e prodotta: il fantasma che l’immaginario collettivo oscura e che però ritorna, il dato osceno della espropriazione del vivente, della sua creatività. Dunque l’immaginario più il fantasma, questo è il reale che permetterà la distanza, la non coincidenza.

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E veniamo ad oggi Nella fase di capitalismo immateriale che fa leva sulla produttività dell’immaginazione, del sapere, della relazionalità, l’immaginario è il discorso del “capitale umano”, dell’imprenditorialità, della creatività, della gestione anarchica di ciascuno della propria stessa vita come capitale: immaginario acefalo, parzialmente condiviso dagli stessi antagonisti dell’organizzazione capitalista del lavoro, e dunque naturalizzato, sottratto alla politica. Converge su questo immaginario produttivista e creativo, quel progressivo svuotamento della capacità simbolica dell’immaginario/merce – intravisto da Marx come de-concretizzazione, annunciato da Benjamin nella natura allegorica della merce che galleggia su se stessa, morte e immanenza, vissuto oggi, come godimento consumistico passivizzante, oggettuale, privo di rimandi e di spettri segreti. Entrambi questi tratti di proliferazione dell’immaginario dovrebbero essere problematizzati, sia risalendo all’ambiguo ruolo dell’immaginazione come luogo di un soggetto che non può pervenire a se stesso e che dunque non si risolve mai nella realtà simbolica, sia non abbandonando, in una fuga utopica, la scena che ci struttura e alla quale apparteniamo, ma tenendo fermo il fantasma, lo spettro che comunque si riproduce nel rovescio dell’immaginario oggettuale e progettuale. Solo così è possibile ri-politicizzare l’economia. Ma procediamo con ordine. Abbiamo definito bioeconomica la società attuale proprio perché il lessico economico definisce direttamente le soggettivazioni e le vite e, più in generale, l’accesso al legame sociale. E questo stesso codice fa perno sulla centralità del consumo e sulla spinta all’accesso immediato alla soddisfazione soggettiva: una società singolarizzata, post-edipica nella quale l’immaginario dominante è quello di una autorealizzazione che, mentre esalta la componente narcisistica nella de-regulation e nella valorizzazione della creatività espressiva individuale devia il desiderio dall’interdizione antropogena e simbolizzatrice verso la immediata soddisfazione, assecondando l’ingiunzione superegoica al godimento: nella

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bioeconomia questo mix di investimento narcisistico e godimento oggettuale è fattore politico71. Orientare il desiderio non verso il differimento e la sublimazione (matrici delle soggettivazioni edipiche, disciplinari), ma verso la saturazione immediata, comporta una spirale di crescita illimitata72. Un gesto come quello di investire la pensione futura in azioni che promettono ampi profitti, de-stabilizzando il ruolo sociale di chi lo compie, dalla posizione di dipendente a quella di capitalista che gioca in borsa, che guadagna, subito e senza sforzo, sui titoli e quindi è coinvolto nella loro fortuna speculativa, è possibile solo se sostenuto da un immaginario che ci vede tutti gestori diretti del nostro piano di vita, ma anche ci ingiunge di godere subito, adesso, questa vita. È possibile solo all’interno di un ‘senso comune’ che legittima le scelte sul narcisismo, il godimento e l’autorealizzazione. Ma la funzione dell’immaginario non è solo quella di sostenere con l’investimento emotivo l’adeguamento alla vita e all’ordine sociale, ma anche quella di occludere l’antagonismo, l’attrito: è il racconto fantasmatico che nasconde alcuni punti morti originari, oscurando l’antagonismo strutturale che attraversa la società e apre crepe in ciascuna delle soggettività che ne dipendono. Immaginiamo ora una rappresentazione complessa, ma relativamente coerente del sistema sociale, come quella neoliberista. La scena racconta di poteri soggettivi che si intrecciano ‘liberamente’ in un sistema di scambi, orientati dall’interesse economico di ciascuno e di tutti, verso la soddisfazione soggettiva e immediata. Tutti sono portatori di capitale umano: l’espressione con la quale si designa, nella fase del capitalismo post-fordista, la potenza produttiva, creativa di ciascuna ‘vita al lavoro’73. Il lavoro, chiave di volta del precedente immaginario fordista, viene ripensato come libera agency, produttiva o comunicativa, organizzativa e relazionale che viene messa in gioco, valorizzata per la propria convenienza. Si è trattato, come si può intuire, di un radicale ripensamento del dispositivo economico che aveva retto nel Novecento la vita sociale con una potentissima incidenza sulla dimen-

71 72 73

S. ŽIŽEK, Il godimento come fattore politico, tr. it. Cortina, Milano 2000, p. 114. Cfr. L. BAZZICALUPO, Soggetti al lavoro, in L. DE MICHELIS E G. LEGHISSA (a cura di), Biopolitiche del lavoro, Mimesis, Milano 2008; C. GALLI, Spazi politici, Il Mulino, Bologna 2001. Mentre col nome di capitale sociale ci riferiamo alla vita in comune, al general intellect – linguaggio, gusto, forme espressive, creatività sociale – che, fluttuando nello spazio aperto reale e virtuale della città, nutre e dà forma a queste singole vite.

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sione umana e sociale74. Il vecchio quadro di senso fordista e welfarista – che ha tratti biopolitici molto rilevanti – è stato evocato più volte in questa crisi, come si evoca un fantasma gotico messo da parte da una realtà più moderna, il quale però, nella tragedia, ritorna come un convitato di pietra. A mio avviso, però, non era quello il fantasma: certamente quel quadro è portatore di istanze che sono state occultate, rimosse, e che oggi riappaiono, ma non ha la funzione di ciò che è forcluso e sorregge, svanendo, la rappresentazione: non ha lo spessore dello spettro, del marxiano spettro che si aggira per il mondo, mettendo in questione l’intero quadro di verità e di pensabilità. Perché? Quali ne erano i caratteri che sostanzialmente non vengono smentiti dal nuovo ordine? L’immaginario fordista dipende dalla centralità dell’idea di produzione. La intersezione tra servizi sociali distribuiti dallo Stato e che integrano la retribuzione del lavoro e economia produttiva – tra Stato e mercato – modella i processi di soggettivazione, i margini segreti della vita, incatena il desiderio, la cura alla prevedibilità e alla gestione distributiva. Il quarantennio che va dal New Deal americano alla Grosse Koalition tedesca degli anni sessanta, può certo essere pensato nella chiave di un grande patto sociale, in cui la politica offre il senso del legame sociale ad una economia che le riconosce la funzione di guida. Ma a coloro, che ne sanno cogliere la trasformazione antropologica e biopolitica75, non sfugge lo spettro che nondimeno ossessiona la scena social-democratica dello Stato sociale: la sussunzione pressoché totale delle relazioni umane fondamentali all’interno delle logiche burocratiche del welfare. La cura, la salute, l’assistenza di bambini e di vecchi, la relazione di mutuo sostegno, i processi di formazione e di educazione, la gestione del tempo libero, la distribuzione degli spazi, la sicurezza del futuro: la riproduzione della vita, nella sua interezza rientra nella logica della produzione. Il non detto di questo gigantesco dispositivo welfarista biopolitico – certamente persuasivo dal punto di vista della crescita e del progresso, dell’‘incremento di vita’ – lo spettro rimosso è la fine della gratuità di queste relazioni fondamentali, la loro economicizzazione, il loro trapassare nella sfera del lavoro organizzato. Economicizzazione che – come corollario, ugualmente rimosso – oscura, rimuove appunto, la diseguaglianza e il conflitto sociale, dislocando la lotta antagonistica sulla questione della equa distribuzione del surplus. 74 75

M. LAZZARATO, Lavoro immateriale, ombrecorte, Verona 1997; L. BOLTANSKY, E. CHIAPELLO, Le nouvel esprit du capitalisme, cit.; F. CHICCHI, Lavoro e capitale simbolico, Franco Angeli, Milano 2003. Z. BAUMAN, Memorie di classe, tr. it. Einaudi, Torino 1987; K. OFFE (ed.), Contradictions of the Welfare State, Mit Press, Cambridge 1993.

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La separatezza antagonistica dei corpi che segnava la scena pre-welfarista – i corpi di chi aveva e godeva di più, rispetto a quelli di chi cedeva il controllo del proprio corpo e della propria forza lavoro – si svuota nella negoziazione della redistribuzione e nell’accesso generale al consumo. Un doppio livello di relazione sociale dunque si spettralizza: i legami di reciprocità oscurati da relazioni contrattuali calcolabili, impersonali, e la sfera autonoma di resistenza politica che si scioglie nelle pratiche negoziali sul grado e tipo di consumo-servizio nel quale si incarnano i diritti sociali dei lavoratori. Queste osservazioni, che nulla tolgono alla complessa valutazione del welfare, ci servono a capire quanto – in alcun caratteri, e in specie quelli spettralizzati e esclusi dalla autorappresentazione condivisa – non ci sia soluzione di continuità rispetto alla gigantesca trasformazione post-fordista. Tutto ciò che non era pensato e non era rappresentato rimane tale e sostiene il nuovo immaginario liberista e postfordista. Molti tratti sono distrutti (la garanzia del lavoro, la sicurezza dei servizi, la indefinita prospettiva di crescita dei salari); ma altri, più sommessi e fantasmatici, si confermano, né potrebbe essere altrimenti perché solo la loro “assunzione”, l’attraversamento del fantasma, potrebbe permetterne una ricollocazione che rinnovi radicalmente le coordinate del discorso. Gli effetti destabilizzanti non sono certo invisibili: de-regolazione dei rapporti sociali, carattere servile delle relazioni di lavoro, lotta spasmodica per l’occupazione, de-socializzazione ulteriore: e la crisi li enfatizza. Eppure la destabilizzazione sembra avere ambigue potenzialità emancipative, che fanno leva sulla liberazione della responsabilità sulla propria vita: liberticida e liberogena, avrebbe detto Foucault. E perfino nell’area antagonista l’immaterialità sembra avvicinare, a portata di mano (come non mai, quando si trattava di industria pesante e di capitale duro) il possibile rovesciamento palingenetico, psicologico e sociale della valorizzazione stessa76: evidenziando come godimento e creatività (retti da logiche opposte) siano due facce della stessa medaglia nell’immaginario bioeconomico. Il quale immaginario ha la luminosità di una liberazione: sburocratizzazione, anticentralismo, de-verticalizzazione e decentramento manageriale, rifiuto delle logiche della pianificazione, cooptazione di forze eterogenee nella governance, smantellamento del gigantismo industriale e mitizzazione di piccoli garage dove la genialità creativa in scarpe da ginnastica lancia idee che cambiano il mondo: agilità, leggerezza e flessibilità nell’organizzazione, divertirsi lavorando e lavorare divertendosi. Profonda 76

A. NEGRI, M. HARDT, Moltitudine, Rizzoli, Milano 2004, pp. 84 ss.

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e martellante la trasformazione del ‘senso comune’ in senso privatistico, de-regolamentato. La potenza persuasiva di questo immaginario è altissima: fa leva sulla percezione della differenza come valore, frutto estremo della soggettivazione moderna; fa leva sulla stanchezza per la eteronomia conformista della gestione amministrativa statuale, fa leva sul coinvolgimento – e la storia dei mutui subprime ce lo testimonia chiaramente – dei singoli, omnes uti singuli, nel gioco del diseguale arricchimento potenziale, garantito solo da se sessi, fa leva infine sulla pulsione al godimento, alla de-individuazione che è poi pulsione di morte, quando ci si perde nelle cose, nelle immagini della società-spettacolo. Ma tutto questo radicalizza il carattere feticistico e spettrale della scena capitalista. C’è un lato oscuro, un rovescio non detto, della rivoluzione privatistica – esaltata da un immagine di agency, di intraprendenza, di profitti crescenti. Il non detto, il risvolto, avviato già nella fase di welfare, è la economicizzazione delle relazioni umane interpersonali, ombra ossessiva nelle vite di ciascuno, e la perdita di autonomia a favore della negoziazione economica. Si può vivere, anche euforicamente, la propria libertà di capitale umano, la propria relazione mercantile con gli altri, si può mettere a rischio in borsa il passato e il futuro, seguìti e anche eccitati da un’ombra ansiogena e inquietante. Finché non esplode la crisi. E tutto – entrambi i livelli – dovrebbero venire alla luce: perdi tutto, da solo, e non hai come pagare le relazioni, i servizi, gli aiuti che si negoziano solo economicamente; non ci sono reti spontanee, amicali di protezione: sei solo. E c’è un lato oscuro anche nella ingiunzione al godimento (e dunque nella caduta della interdizione antropogena e soggettivatrice del desiderio, che dava spazio alla dinamica del simbolo) e nel proliferare in un immaginario immanente e senza rimandi. Lo spettro è la de-concretizzazione delle cose, che diventano puro segno, immagine del valore economico, risucchiate dall’unica potenza che determina questo valore: il denaro, la relazione di scambio. Ma le cose – e oggi le immagini, gli spettacoli, le cure, i servizi – non erano spettri di persone, di viventi? l’ombra lunga della deconcretizzazione si estende dalle merci ai produttori, ai viventi, replicanti, intercambiabili e svalutati. Gli spettri rimossi tornano all’improvviso. La crisi e come la raccontiamo L’immaginario occlude proprio i punti morti originari. Ciò che viene forcluso nella rappresentazione è una serie di fantasmi che sostengono la scena: l’alienazione e mercificazione delle relazioni umane, la perdita della

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posizione esterna, antagonistica che pensi e desideri fuori dello schema del mercato; lo spettro della diseguaglianza sociale, della distribuzione ineguale dei rapporti di forza, gli effetti di violenza e di deprivazione materiale attraverso i quali essa si riproduce e infine la svalutazione delle persone, delle vite stesse tanto esaltate, risucchiate nell’intercambiabilità, dell’esperienze, delle creazioni, bruciate nella depressione del desiderio. Chi vive questa esperienza sulla propria pelle vede nella crisi l’evento, la rivelazione di questi spettri: dovrebbe chiedere visibilità e a sua volta, vedere il confine flessibile tra dentro e fuori, ossessionare gli inclusi con il proprio lamento, la propria protesta. Ma questo non avviene o avviene solo in modo decentrato, mentre al centro dell’evento si produce piuttosto un falso movimento. Un po’ come è stato con la crisi delle torri gemelle, che non ha segnato un vero ripensamento del sistema, ma una rappresentazione aggiustata sulla gestione del rischio. Al centro di questa rappresentazione della crisi continua ad esservi l’idea di autonomia della economia. Il sistema viene rappresentato come un organismo autonormativo, con una sua natura compulsiva e cumulativa, che riflette ed è riflesso dell’ingiunzione al consumo e al godimento. Per quante macerie ecologiche e soprattutto umane costeggino la rappresentazione in questi termini dell’economia, essa sorregge la convinzione che l’economia abbia in sé i suoi correttivi. Che le crisi e le catastrofi che genera, da essa stessa determinate, non richiedano che soluzioni tecniche, di politica tecnica. I giovani bloccati nei progetti di vita in un precariato che ha perso il suo smalto ideologico, per mostrare il volto dell’ansia, della dipendenza, dell’incertezza strutturale; gli immigrati che hanno a lungo sostenuto la produzione e che si trovano per primi respinti come concorrenza scomoda che va eliminata a colpi di intolleranza razziale, l’ondata di fame che come una risacca travolge le zone più fragili del pianeta; le fabbriche che hanno chiuso i battenti; le manifestazioni motivate dalla paura della disoccupazione, l’impressione che il «sistema» non risponda più né ai bisogni né alle aspirazioni – così tanto esaltate e percepite come un diritto – della maggior parte della popolazione. Tutto questo dovrebbe essere visibile ora: visibile la diseguaglianza, la subalternità, il disagio di vite. Se l’immaginario collettivo dà forma alle soggettività, collocandole in una bolla delirante e autoreferenziale, la durezza traumatica della realtà – avere fame, avere ansia, essere incerti, avere paura – ha la natura di evento che ristabilisce un contatto con il fantasma rimosso: dovrebbe costringerci a guardarlo negli occhi. Ma il simbolico, lo sappiamo, è fortemente indebolito, dilaga l’immaginario di simulacri la cui dimensione temporale è solo

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il presente, le immagini, lo spettacolo da cui siamo investiti e che parossisticamente contribuiamo a produrre, non rinviano a nessun Altro o Altrove. Al loro meglio, quando possiamo chiamarle arte, disordinano il reale, mostrano la macchia, il buco nero del reale spettrale, del nostro essere soggetti barrati, irrisolti, soggetti capaci di immaginazione. Le categorie psicoanalitiche ci frenano da interpretazioni troppo euforiche, dionisiache, trasparenti di questa immaginazione. Il ruolo dell’immaginazione sembra essere piuttosto dislocante, disordinante, che romanticamente creativo. Rimanda piuttosto alla irriducibilità dei soggetti alle soggettivazioni performative del sistema: il residuo di disordine che permane nell’assoggettamento alla logica dello scambio, che fa attrito e genera disagio. Dunque, ancora una volta è lo spettro del fallimento strutturale della soggettivazione. Spettrale e prezioso è il disagio, la non corrispondenza, l’eccedenza, il residuo, la macchia nel diluvio di una comunicazione all inclusive. Ed è proprio quanto va custodito, difeso, ascoltato. La crisi, a questo punto, può tanto essere intesa come una deviazione del percorso di sviluppo e di incremento, deviazione da ‘curare’, rischio da gestire con tecniche biopolitiche di normalizzazione. Ma la crisi può essere letta invece come il riaffiorare del Reale, di quella relazione sociale di dominazione che non era, non poteva essere, rappresentata nell’ordine del mercato, ma che nondimeno ne era il contenuto fuori della scena (osceno) costitutivo. O il riaffiorare di quel frammento di disagio, di sintomo di malessere che è spia, perversa, isterica del non-tutto del sistema. In questo senso la parola crisi non rinvia più al lessico medico, ma a quello psicoanalitico: la crisi come sintomo, non da guarire, ma da accettare come riconoscimento della scissione della società che segretamente la attraversa e la costituisce. Una scissione che non va coperta, colmata, suturata con una nuova valanga di consumi, di cose, di servizi, ma che va riconosciuta, attraverso la presa in carico del processo di soggettivazione economico capitalista e neoliberale. Quel processo che ha formato ciascuno di noi, occultando la crepa, la diseguaglianza, non solo all’esterno nelle relazioni con gli altri, ma anche al nostro interno: crepa che si rivela nel sintomo – adattamento e disagio insieme – manifestazione dell’essere fuori dai cardini, del non corrispondere all’identificazione nel potente capitale umano. Considerare la crisi un sintomo del trauma significa riconoscere nel disordine la chiave per accedere al funzionamento. Significa prendere atto della dimensione politica dell’economia, riconoscere il legame sociale del mercato e, in esso, nel suo doppio ideologico, un elemento spettrale e che la politica di gestione del rischio continua a non voler vedere: la miseria del presente e insieme la sua accettazione come non modificabile, quasi-naturale. La verità di una

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situazione emerge solo a partire dall’antagonismo che la squilibra. Nella crisi la realtà spettrale del capitalismo mostra l’atto che la fonda e che viene occultato. E allora la parola crisi acquista il senso che aveva in Tucidide, come risoluzione decisiva che dipende dal contingente comportamento umano: diventa giudizio, politica. La temporalità sequenziale si spezza e si spezza la danza immobile; forse ci si può muovere davvero. 7. La scarsità come dispositivo per governare l’ambiente

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Ecologia e ambiente La crisi attuale rilancia progetti e pratiche ambientaliste, in un modo che non può non suscitare sospetti. Se da una parte non si può non salutare favorevolmente la svolta americana di Obama in direzione della green economy e la rapida conversione di settori industriali in crisi profonda verso produzioni di energia alternativa e di dispositivi ecologici, dobbiamo riflettere sulla sostanziale continuità che si evidenzia tra la esaltazione dello sviluppo e della crescita ad ogni costo che contraddistingue la economia globale e la enfatica riconversione ambientalista che viene oggi proclamata, salvo ovviamente eccezioni e riserve. Non mi riferisco al fatto che potrebbe trattarsi di un fuoco di paglia o che dopo tutto si tratta di investire in un settore di risparmio energetico e di dispositivi ecologici, che viene incontro alla necessaria riduzione del consumo di energia. Vorrei invece evidenziare come in entrambi i comportamenti, prima e dopo la svolta ambientalista, l’impianto ideologico dell’economia rimanga invariato. Il rovesciamento non tocca il nodo che fa da fondamento ad entrambi i discorsi. Perfino alcune delle teorie ambientaliste sulla decrescita, che dunque si oppongono all’idea ibrida dello sviluppo sostenibile, condividono lo stesso presupposto assiomatico. Ripeto, non è mia intenzione equiparare i diversi discorsi in un cinico “è tutto eguale”, tipico del catastrofismo che non considera le differenze e annega tutte le vacche in una notte nera. Il problema è che, di fatto, quel nodo pratico-simbolico che regge i due dispositivi della crescita forsennata senza cura dell’ambiente o della svolta ecologica (nella forma dello sviluppo sostenibile o della decrescita) resta lo stesso e questo non può non avere conseguenze se l’obiettivo è ripensare radicalmente l’economia e la sua relazione con l’ambiente. Il nodo di cui sto parlando è la scarsità e il ruolo che questo concetto gioca in entrambi i dispositivi.

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L’economia come funzione politico-sociale L’individuo dell’economia politica – diversamente dal suo omologo, l’individuo del contratto sociale, autonomo, autosufficiente, indipendente, razionale – è una esistenza radicalmente incompleta, carente. La grandezza del suo successo sta forse proprio nel bagno di realtà cui si sottopone, che sottrae l’ordine al sogno di onnipotenza ipercostruttiva. I primi economisti, padri dell’economia politica, mettono a fuoco con una consapevolezza che verrà presto oscurata dalla scienza economica, la scarsa sicurezza del sé di questo individuo come la sua diffidenza verso l’ordine sociale, la sua disperata necessità degli altri per costruirsi una identità e il suo insocievole legame con questi stessi altri. Soprattutto: i primi economisti hanno piena consapevolezza della funzione politico-morale della relazione economica. Mentre l’individualismo metodologico riduzionista costruisce modelli di individui in base al fine da raggiungere, in modo tale, che il fenomeno economico risulti un effetto, razionalmente prevedibile, di composizione, le interpretazioni dell’economia politica derivano da un’altra logica il cui obiettivo esplicito è la funzione sociale, politica dell’economia. Esattamente per questa ragione esse muovono dalla costruzione/costatazione che c’è sempre una carenza nella specificazione di partenza degli individui. L’economia è chiamata, appunto, a colmare questa insufficienza attraverso una interdipendenza reciproca innanzitutto simbolica, cioè politico-sociale e, solo in subordine a questo fine primario, materiale. La macchina mercato è il dispositivo appunto materiale-simbolico, matrice di relazioni sociali e di soggettivazioni che sopperiscono a questa mancanza che si presume originaria77. Vorrei richiamare per l’ennesima volta la pesante critica alle teorie economiche dell’individualismo e della scelta razionale, su quanto sia del tutto fuorviante e ideologico, per l’economia, fare un discorso autoreferenziale sull’economico, come se si potesse regolarlo in base a principi immanenti. Quando Mary Douglas e Baron Isherwood si chiedono con finta ingenuità come mai nessuno sa perché la gente vuole i beni (o i servizi), la loro risposta non può che riprendere la eccedenza di senso delle relazioni economiche così bene evidenziata dai primi teorici dell’economia, rispetto al riduzionismo razionalista78. I due antropologi, nel vuoto di una trattazione

77 78

S. ŽIŽEK, ‘Concesso e non dato’, in G. BOUCHER, J. GLYNOS, M. SHARPE (eds.), Traversing the Fantasy: Critical Responses to Slavoj Žižek, Aldershot, London 2005, p. 241. M. DOUGLAS, B. ISHERWOOD, Il mondo delle cose, cit., p. 17.

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esplicita, vedono insinuarsi due idee implicite, sottese: la teoria dei bisogni fisici riduttivamente materialistica, e la teoria della mancanza psico-sociale o dell’invidia. In entrambi i casi: la mancanza, la scarsità, che si riflette nel concetto di bisogni. A sua volta, la teoria dei bisogni/mancanza si sdoppia, come sostiene Luc Boltanski, in un manicheismo biologico, con bisogni fisici necessari e bisogni artificiali, falsi, di lusso, superflui (vagamente immorali!)79. Anche nei teorici dell’economia politica una teoria dei bisogni, della mancanza fa da pilastro portante del gioco economico, pur essendo assai più sapiente ed articolato il gioco delle motivazioni. Perché dunque questa costante della scarsità, della mancanza, del bisogno, sia nella teoria economica classica, che in quella individualista, marginalista e paretiana, certamente meno legata a livelli di sopravvivenza? Sembra che l’invenzione del dispositivo della scarsità trovi la sua ragione d’essere come pivot di ancoraggio di un pensiero dell’economia al progetto di ordine sociale: nell’economia politica, in modo esplicitamente morale-sociale; nell’economia neoclassica, attraverso uno spostamento dell’attenzione al di fuori della necessità naturale, ma nondimeno in direzione di una nozione di desiderio-preferenza-scelta che sottintende a sua volta la scarsità e genera così la risposta di governamento sociale attraverso il mercato. Dunque è sempre un progetto d’ordine, anche se fondato su un immaginario sociale profondamente diverso. La differenza è, semmai, che l’economia politica mette in esplicito rilievo la funzione eccedente, relazionale dell’economia stessa che invece nel neoclassicismo è ideologicamente oscurata. Il processo è contemporaneo al formarsi delle istituzioni politiche moderne unitarie e, in qualche modo, parallelo ad esse. Come quello politico, anche il progetto economico deve, ripeto, risolvere un problema di ordine sociale: soluzione che, come si sa, viene raggiunta attraverso la prospettiva di complessiva interdipendenza che è il mercato. Ma facciamo un passo indietro e torniamo sul presupposto. Una volta afferrato il legame che lega la scarsità e i bisogni materiali alla possibilità della violenza reciproca, oppure la scarsità e i bisogni artificiali alla possibilità, attraverso l’invidia, di un deragliamento distruttivo della società, cos’è questa carenza, questa incompletezza che sembrano alludere ad una definizione oggettiva di scarsità-bisogni? Quali significati possiamo trovarvi?

79

L. BOLTANSKI. Taxinomies populaires, taxinomies savantes: les objets de consommation et leur classements, in “Revue Française de Sociologie”, XI, 1970, pp. 33-34.

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La scarsità: un concetto moderno Presupporre la natura come il negativo è una caratteristica centrale, tipicamente moderna del pensiero occidentale, assai simile in area economica e in area politica. La negatività della natura che determina la necessità dei bisogni viene pensata tanto in termini di violenza originaria, che in termini di insoddisfazione, penuria, opacità, affinché l’artificio razionale possa essere a sua volta pensato come il dispositivo in grado di superarne le deficienze e creare un ordine più-che-naturale di coesistenza pacifica. Come la violenza offre, nella teoria politica moderna, il fondamento sacro, rispetto al quale ha origine il processo di costruzione artificiale e tecnica dello Stato, così, per poter giungere all’opzione economico-politica di interdipendenza cooperativa nel mercato, il presupposto deve essere un significante negativo: la scarsità, la mancanza di cose per vivere la quale adempie la funzione di un tabù sacro, un vortice caotico che, come la violenza, distruggerebbe la vita. Dunque un luogo simbolico da circoscrivere, trattare, controllare con comportamenti avveduti che salvaguardano sopravvivenza e vita. Perciò la scarsità. Non è certo un caso che etnologi e antropologi hanno mille volte evidenziato la difficoltà di una definizione interculturale della povertà. Se nelle diverse comunità si riscontra la scarsità di alcuni beni materiali (anche vitali, come l’alimentazione, l’acqua, il ricovero) questo non significa che si possa parlare di povertà, come percezione della scarsità. La distinzione tra ciò che è scarso e ciò che non lo è, non dipende dalla quantità o dalla forma delle risorse, ma dal modo in cui la società e gli individui interpretano se stessi e le proprie creazioni. Dipende, cioè, dall’idea di ciò che si ritiene vitale, indispensabile alla conservazione della propria identità. Questa matrice culturale iscritta nel quadro di ciò che è vero in un gruppo sociale, e che circoscrive anche ciò che è desiderabile, può non essere affatto chiarita e determinata. Le teorie economiche, con il termine scarsità o penuria o bisogni, evocano semplicemente il significate vuoto di questa mancanza che minaccia l’esistenza: il termine circoscrive un’area che può avere determinazioni storiche diversissime. La scarsità è dunque un topos retorico, un concetto cieco, costruito, inventato per reggere un dispositivo, simbolico e materiale insieme, destinato a colmarla: mercato o distribuzione imperativa che sia. Non c’è mai stata una scarsità reale 80 e quindi una oggettività del principio economico: il concetto di scarsità ha sempre funzionato come discorso 80

M. SAHLINS, Tribal economics, in G. DALTON (ed.), Economic Development and social Change, Natural History Press, Garden City (N.Y.) 1971.

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di verità, che mette in opera un dispositivo di controllo del sociale, compensandolo con l’abbondanza, anch’essa concetto astratto. C’è una evidente cesura tra l’economia premoderna e quella moderna, proprio a proposito della relazione con la natura. La ricchezza viene intesa come artificio prodotto, nelle società umane, per migliorare le condizioni di sopravvivenza che la natura stessa non garantisce in modo stabile. L’economia è potenziamento che mette a frutto energie e risorse percepite come superflue per la semplice sopravvivenza e che sono invece uno strumento di potenza che espande in modo dinamico la primitiva reazione statica di uomo e ambiente. Il segnale che mette in movimento il potenziamento è dunque una sensazione di pericolo, di rischio per la sopravvivenza. La centralità del concetto di scarsità, come sfondo dell’economia politica, rimanda ad una risposta di tipo difensivo. Che si rovescia in un processo di potenziamento. Il moderno è caratterizzato proprio da questo rovesciamento teorico, dal negativo ad una positività intesa come positum, fatto, dis-posto, prodotto in modo da reagire alla negatività con un surplus di potenziamento. E l’economia oscilla tra spettro della scarsità e esaltazione dell’abbondanza: fasi negative, dove la scarsità si profila reale e concretamente minaccia le vite, e fasi espansive, nelle quali sembra svanire il suo fantasma e la mancanza viene eccitata, iperstimolata nella forma del desiderio, piuttosto che del bisogno. In entrambi i casi, il movente del comportamento economico fonda su questo vuoto ontologico così caratteristicamente moderno. La mancanza, il negativo è la matrice, hegeliana, ma anche psicoanalitica, del soggetto, del suo desiderio, del suo agire, del suo lavoro e della sua tecnica, della sua economia come della sua politica. Ricardo disegna l’interdipendenza economica mediata dal lavoro/valore, a partire da una minaccia di scarsità che obbliga a questa interdipendenza. Così nel cupo scenario maltusiano, mancano e mancheranno sempre, cose necessarie alla sopravvivenza. Il bisogno è il correlato soggettivo della scarsità, oggettiva, della natura: bisogni che non dipendono dalla percezione individuale, ma sono appunto oggettivi anch’essi: e perciò prevedibili nei piani produttivi dell’industria nascente. La scarsità è originaria e costante. L’ontologia e antropologia della mancanza apre il cammino salvifico della tecnica e dell’economia e condiziona la svolta biopolitica moderna in quanto lega il potere alla vita, in un vincolo di necessità fisiche e materiali. Essa giustifica la catena di necessità strutturali e prevedibili. Il lavoro è necessario per la sussistenza: il rapporto con l’ambiente naturale è diffidente, aggressivo, come per strappare cose che sono nascoste. L’ambiente è una risorsa che occorre saccheggiare per prendere ciò che serve e che scarseg-

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gia: pena la vita. L’economia – scienza triste – organizza i suoi modelli a partire dall’ontologia della carenza fondamentale e della finitudine umana. Se da una parte questa può considerarsi una significativa accettazione del limite, dall’altra si configura come la legittimazione di una aggressività e di una ostilità senza pari tra l’uomo e il suo ambiente, una ostilità senza precedenti non solo nelle altre specie animali, ma anche nella precedente relazione tra uomo e natura. Dalla scarsità si deduce il necessario peso del lavoro che affatica i viventi e la centralità teorica, nella scienza economica, del concetto di produzione: il bios, la vita si colloca nel mezzo della coppia bisogno (scarsità)/lavoro. Né questa centralità è minimamente scalfita da Marx: piuttosto è lanciata in una escatologia del riscatto che, comunque, rimane legata al carro della produzione come compensativo della scarsità: determinismo economico, legge di necessità biologica, naturalizzazione dell’esistenza, condizionamento dell’ambiente materiale come carente. Perfino nella svolta marginalista il bios è pensato come mancanza, anche se il bisogno si traduce nel lessico del desiderio e assume la distanza simbolica che permette la dilazione, la tassonomia in un paniere di preferenze. La presenza di desideri in luogo dei bisogni – segno certo di un’età espansiva dell’economia – non implica affatto la soddisfazione, ma anzi rende strutturale la Mancanza di appagamento, la scarsità. L’attenzione progressivamente crescente, a partire da queste teorie marginaliste psicologiche, verso il consumo, il desiderio, il paniere delle scelte, in una società sempre più opulenta, non toglie (hegelianamente) la posizione cruciale della mancanza, anzi, se possibile, la enfatizza, la rende strutturale riconoscendola come psicologicamente insaziabile. Nell’abbondanza, la Mancanza appare come inquieta dilatazione del desiderio: il supplizio di Tantalo evocato da Illich81; nei periodi di crisi, invece – come quello odierno, ma come altre volte in passato – la scarsità si erge come lo spettro fondante della convivenza, il sacro tabù da interdire e da evitare. Lo sfondo rimane sempre quello della ontologica e antropologica finitezza, così come il godimento – la juissance – rimane l’orizzonte incolmabile delle motivazioni, das Ding della pienezza. Se si indebolisce, nei momenti di espansione economica, la necessità, la cogenza dei bisogni, cresce la inquietudine di un desiderio che ignora la propria natura mimetica e relazionale, la propria eccedenza di senso, la propria funzione semiotica di relazioni sociali e si perde nelle cose, nelle merci, nelle incessanti forme metonimiche del significante vuoto. Questo desiderio viene gestito, governato dal sapere economico attraverso un 81

I. ILLICH, Némésis médicale. L’expropriation de la santé, Ed. du Soleil, Paris 1975.

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calcolo delle convenienze, presumendolo, con Walras e Pareto, isolato, disconnesso completamente dalla originaria relazione sociale economicopolitica.

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La crisi e la svolta ecologica Nei periodi di crisi, la minaccia della scarsità viene evocata con forza; percorre come un brivido le vite di tutti. Non avere la casa di proprietà appariva negli Stati uniti di solo qualche anno fa, insopportabile; perderla, profila l’abisso della povertà; quella povertà che Majid Rahnema, definisce modernizzata, anticamera della miseria materiale e morale: il faccia a faccia col mostro della scarsità, della mancanza che si mangia gli uomini, esclusi, marginalizzati dalla crisi82. Così si invoca il ritorno dell’economia politica che su questo concetto centrale di scarsità aveva costruito il suo modello di cooperazione/interdipendenza. Contro l’espansione senza fine dei consumi, della ricchezza fondata sul niente della speculazione finanziaria, si invoca il ritorno all’ancoraggio materiale dell’economia a quel suo centro fondante: la scarsità, che sostiene e supporta un ordine socio-politico che con l’espansione si era perduto. La scarsità è il solo concetto che può implicare e legittimare la ripresa, la crescita della produzione; si cercano settori di innovazione che rianimino gli investimenti: la ecologia è dietro l’angolo; a lungo disattesa, diventa business, possibilità di crescita, di sviluppo sostenibile, di nuovo, magari con la promessa di risparmio energetico. Ripeto, nulla di male: anzi. Ma bisogna essere consapevoli che nulla cambia, in questo modo, nel rapporto dell’uomo col suo ambiente. Bisogna essere consapevoli che si tratta di un falso movimento. Nella crisi infatti non emerge forse, in un diluvio di interventi accorati, la necessità di risuscitare, drammatizzare l’economia politica come struttura schermo? «Il capitale – dice con ironia sferzante Braudillard, riferendosi alla vecchia crisi del petrolio anni settanta, ma potrebbe adattarsi anche a quella attuale – diventa nostalgico del suo periodo etico, quello in cui produrre aveva un senso, l’età dell’oro della penuria e dello sviluppo delle forze produttive. Per rimettere in piedi le finalità, per riattivare il principio dell’economico, bisogna rigenerare la penuria»83. La fragile legittimazione

82 83

M. RAHNEMA, Quando la povertà diventa miseria, tr. it. Einaudi, Torino 2005, p. 219. J. BAUDRILLARD, Lo scambio simbolico e la morte, tr. it. Feltrinelli, Milano 2007, p. 47.

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del mercato ancorato ad una mancanza evanescente e forse immorale a causa dell’artificialità di bisogni/desideri, cerca un consolidamento nella riproposta del fondamento materiale della scarsità/bisogno materiale: Saremo poveri! Un brivido, non privo di eccitazione: poi tutti più alacremente al lavoro nel mercato, con meno grilli per la testa. E così rientra nel discorso delle grandi potenze, l’ecologia che, dalla minaccia della scarsità assoluta, della crisi della produzione ricava una etica della conservazione delle energie ambientali, del loro uso oculato. Il sistema trae giovamento per il proprio rinnovato slancio, dalla crisi delle risorse, dallo spettro del blocco dell’agricoltura – la fame – che promette di rinviare una immagine speculare più seria, più drammatica, diversa da quella della deriva speculativa, vuota e impazzita: una immagine con la quale riproporsi legittimamente come sistema di produzione, come sistema che si riferisce al codice etico di una economia che soddisfa bisogni e necessità primarie. Gran parte della più recente svolta ecologista, ormai largamente condivisa in sedi istituzionali, lavora nel senso di una rigenerazione di un sistema, che, avendo perso sempre più la propria identità e il proprio costrutto ideologico fondato sullo spettro della scarsità, cerca nel riproporre quel fantasma, attraverso la crisi, di accreditarsi si nuovo. La svolta ecologica offre una legittimazione alla produzione, sullo sfondo della scarsità, che gli stessi studi ambientalisti avallano. Ritorna la possibilità, che aveva mosso il primo sapere economico, di pensare una necessità naturale cui rispondere con la produzione, la tecnica. Il fondamento presunto naturalistico dell’economia si ripropone, mentre si affievolisce la coscienza del carattere relazionale, sociale e politico del dispositivo. Allora? Scarsità, decrescita e il nuovo gioco del capitalismo immateriale Georgescu-Roegen84, studioso della crescita economica e dello sviluppo tecnologico, usa il termine bioeconomia per indicare l’implicazione della natura vivente nel ciclo produttivo. Laddove la società contadina è caratterizzata da una scarsità non teorica, non concettuale, né avvertita come tale, in cui la natura segna la quantità di risorse che devono bastare, la società industriale immagina una quantità sempre strutturalmente scarsa dei beni di consumo, tra i quali scegliere, e una produzione tendenzialmente illimitata, se le materie prime sono disponibili. L’incremento produttivo, spinto dalla percezione di 84

N. GEORGESCU-ROEGEN, Bioeconomia. Verso un’economia ecologicamente e socialmente sostenibile, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

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bisogni sempre più ampi in relazione alla scarsità della natura, implica un utilizzo di quantità maggiori di materie prime ed energia, con un pesante impatto entropico sull’eco-sistema. Il circolo: scarsità naturale, bisogni e desideri, produzione, distruzione di risorse naturali, sempre più scarse, comporta la degradazione entropica che nessuna tecnologia dello sviluppo può risolvere. Unica soluzione possibile, la decrescita. E un’importante parte del movimento ecologista teorizza infatti la decrescita85. A partire, ripeto, dalla scarsità. La persuasività del circolo, scientificamente fondato, sottrae il discorso alla impostazione economico-politica, cioè alla considerazione del costrutto culturale sia della scarsità che dei bisogni, e oscura la sua funzione politicosociale e la sua natura di dispositivo simbolico-materiale per il governo di ambiente e umani. L’ipotesi di decrescita è interna al discorso scientifico e economico. Si tratta di una ipotesi di tutto rispetto che a sua volta deve affrontare assiomi della ridistribuzione fordista, difficili da scalfire, come quello che l’incremento della produzione sia la sola garanzia per una crescita del benessere, misurato ovviamente sulla quantità di beni goduti, ed è inevitabile la resistenza alle istanze di questo tipo di ecologia. Ma ciò che vorrei sottolineare qui è il fatto che essa, comunque, opta per la decrescita come salvagente del pianeta e della natura, ma condivide l’impianto ideologico centrato sulla scarsità: ed è costretta a ricorrere all’argomento poco appassionante della priorità di responsabilità nei confronti dell’ambiente e del futuro. Forse qualcosa cambia quando il capitalismo entra nella svolta linguistica del capitalismo86. Si tratta di una vera e propria rivoluzione qualitativa che opera a livello globale. Si passa da un sistema di organizzazione capitalistica centrato sull’industria, quindi di produzione materiale, che, da un punto di vista ecologico comporta effetti entropici, (di dissoluzione di materia, di energia, di impatto ambientale), ad un capitalismo fondato su conoscenza, comunicazione, linguaggio, saperi: un capitalismo «cognitivo» o «immateriale». Le tecnologie meccaniche finalizzate alla produzione di beni materiali, quantitativi, tangibili fisicamente e costosi entropicamente, cedono all’utilizzo di tecnologie quasi totalmente immateriali, le tecnologie del linguaggio, comunicazionali/relazionali. Il loro cuore, pur producendo delle merci come utensili elettronici, è digitale, cioè produce linguaggi artificiali. Il valore sta nel servizio che chi acquista l’utensile è in grado di produrre a sua volta, attraverso la tecnologia immateriale della quale lo strumento, i-pad, pc, masterizzatore, videocamera, è portatore. Sciogliendosi dal valore materiale dello strumento digitale, 85 86

S. LATOUCHE, La Megamacchina, Bollati Boringhieri, Torino 1995. C. MARAZZI, Il posto dei calzini, cit.

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il valore del linguaggio utilizzato tende a moltiplicarsi in modo creativo, perché si tratta appunto di strumenti, rispetto ai quali il consumatore cessa di essere passivo e distruttivo, diventando a sua volta produttore di immagini, di saperi, di comunicazioni. C’è una moltiplicazione di valore, semiotica, simbolica senza distruzione di ambiente, o almeno senza che le risorse ambientali vengano direttamente poste in trazione e se ne senta la scarsità. L’unica risorsa in gioco è l’intelligenza, la fantasia, la creatività, i saperi e le emozioni umane: delle quali si avverte la potenza e che nell’impiego tendono a moltiplicarsi e a crescere e non decrescono. Questa svolta in direzione del linguaggio si lega al crescente peso economico di servizi, piuttosto che di beni, anch’essi fondati su attività di comunicazione, di relazione che anch’essa risponde ad una domanda (e la crea a sua volta) assai più prossima alla matrice sociale, politica, relazionale dell’economia. Una domanda di beni relazionali (servizi alla persona, cura, benessere, assistenza), ma anche servizi culturali, artistici, intersoggettivi, che, nell’esercizio, possono implicare una qualità di vita sociale, di partecipazione, di libertà che investe e trasforma l’immaginario collettivo. La matrice sociale dell’economia quindi viene messa a fuoco per via diversa rispetto al classico feticismo reificante delle merci. Fermo restando, si intende che si tratta di una parte soltanto dell’intera produzione e che un discorso, molto importante, ma da compiere in altra sede, è quello della messa a lavoro, dello sfruttamento di questa creatività e della vita mentale tutta del lavoratore. La svolta attuale del capitalismo, rende comunque problematica, almeno in questo settore di peso crescente, la soluzione della decrescita che si innestava ancora una volta nella centralità della scarsità. Il concetto di capitale umano, di individuo produttore, attraverso la propria risorsa intellettuale, di immaginazione, sapere, relazioni che nel prodursi non si dissolvono ma si moltiplicano, è incompatibile con l’idea di scarsità e forse ne decreta la fine, come supporto del discorso economico. E di una proposta ecologica. Pensare l’ecosistema senza la scarsità? La scarsità è dunque un dispositivo teorico creato per allontanare lo spettro del conflitto e dell’invidia. Non è un caso che quando si pensano altre economie sorprende l’immaginario irenico che le sottende, che sottende, cioè, le scelte pauperistiche o della decrescita. Perché è difficile, nei nostri regimi di verità, pensare desideri non originati dalla mancanza, e coesistenze non obbligate dalla scarsità, che non oscillino tra la minaccia di esserne inghiottite e una abbondanza che provo-

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ca sempre nuova povertà, e che inoltre non placa la percezione che ci manchi qualcosa. Come è difficile per noi, pensare la pluralità o la moltitudine al di fuori della sintesi, dell’uno. Eppure alcuni tratti dell’immaginario economico attuale, che emergono dalla svolta del capitalismo cognitivo e dalla domanda di beni relazionali, con la sua figura centrale dell’individuo imprenditore di se stesso, o con espressione odiosa, capitale umano – figura, carica di ideologia, carica di ambivalenze – aprono, tuttavia, varchi a forme diverse di autorappresentazione sociale e economica. Innanzitutto sono sempre meno rari comportamenti economici che disegnano percorsi non conformistici, né governati dal marketing, ma volti a sperimentare forme di relazionalità cui l’eccedenza di senso del tradizionale mercato mirava, ma in modo meno distorto e perverso: parlo di reti di prossimità, di convivialità87, di rapporto stretto col territorio locale dove la dimensione sociale politica relazionale dell’economia trova una più diretta soddisfazione, senza lasciarsi pervertire dalla partecipazione vuota a riti collettivi della moda. La figura discussa e certamente ambigua dell’uomo imprenditore di se stesso, capitale umano, se ovviamente non indebolisce la spinta produttiva e la socialità, se carica il singolo della responsabilità dell’accesso al sistema di scambi, va pensata anche nel senso della consapevolezza di essere ciascuno imprenditore del proprio godimento, attivo nella scelta delle strade e delle modalità della propria soddisfazione. Che potrebbe essere pensata attraverso registri meno aggressivi nei confronti dell’ambiente e della catena del vivente. È vero che quella fantasia di autogoverno, appare come una ennesima riproposizione del mito dell’autonomia e dell’individualismo ad oltranza, ma è vero anche che, nello sciogliere il legame della dipendenza strutturale dal sistema culturale, economico globale, nello sciogliere il nodo del lavoro dipendente correlativo a quello dominante del capitalista, apre percorsi più attivi, meno eteronomi rispetto ad una realtà industriale che il fordismo disegnava come necessaria. Come è senz’altro possibile pensare questa figura come effetto del declino delle dinamiche di riconoscimento e di reciprocità che, nell’economia politica, sostenevano la relazione sociale nel mercato, così potrebbe essere segno di una diminuita portata formativa, soggettivizzante della scarsità, del mi manca chiamati a giocare un ruolo minore, mentre la soggettività è pensata an-archica, senza principio, potente. Il lessico subisce uno slittamento che sembra far leva piuttosto che sul desiderio come mancanza, sull’immaginario di potenza, di creatività, 87

I. ILLICH, La convivialità, Mondadori, Milano 1974, p. 14.

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Dispositivi e soggettivazioni

di emergenza del nuovo. Il desiderio d’altra parte sempre più spesso appare difficilmente valutabile e prevedibile, al di fuori della governamentalità statistica dell’industrialismo fordista, per quanto le agenzie di marketing tentino di riacciuffarlo. Il segnale che mette in moto il movimento di potenziamento che è l’economia, potrebbe diventare sempre meno difensivo, ma di potenza. In verità, mi rendo conto che le mie parole sono sbilanciate dalla speranza, e non penso che la via sia segnata: ma qualcosa è mutato, in una eterogenesi dei fini che non rende prevedibili gli esiti. Il desiderio si interroga sempre più spesso nella sua radice animale, ecologica, ambientale. Ovviamente con controfinalità e esiti eterogenei rispetto alle aspettative. L’ecologia apre una serie di ambivalenze; soprattutto quando riconduce il discorso all’eccedenza di senso delle relazioni economiche e alla natura complessa dei desideri. La connessione recente con le teorie neospinoziane del desiderio come potenza – affrancato dalla metafisica della mancanza, e con un concetto di pluralità a sua volta sottratta all’ipoteca dell’Uno e dell’intero, propria dell’economia politica – apre davvero uno scarto, una discontinuità interessante, nella misura in cui riesca a divenire senso comune. Diversamente dal discorso solo apparentemente innovativo della svolta verde come soluzione della crisi economica, un discorso ecologico che ricostruisce il legame con l’ambiente nella prospettiva della ridondanza, della potenzialità immanente, risulta di rottura. E può far leva sulle numerose ambivalenze che l’attuale immaginario economico, per quanto assoggettato al sistema, genera. Un’opera importante spetta alla riflessione decostruttiva di quella credenza (illusione, immagine) che vede il sistema capitalistico passare incessantemente da una strategia della scarsità ad una strategia dell’abbondanza. Si tratta, come ho detto, di due aspetti reversibili della stessa metafisica, che possono agevolmente includere una forma di produzione più rispettosa dell’ambiente senza per questo abbandonare il distorto, ideologico rapporto dell’uomo con le cose e attraverso le cose, con gli altri uomini, e che ha disastrose ricadute sull’ambiente. Non c’è opposizione reale tra scarsità e abbondanza. Se l’ecologia rientra in questo gioco, non presenta alternativa alcuna: al contrario ribadisce e legittima la riproduzione del sistema stesso, non a caso agendo attraverso la neutralizzazione di ogni antagonismo politico, destra o sinistra che sia, come esercizio di potere che si presume neutrale. La creatività, il sapere, la comunicazione non sono beni scarsi: al contrario nel diffondersi si moltiplicano. Sono beni immateriali che crescono su base sociale, «comune»: energia, sarebbe il caso di dire, rinnovabile. Ciò

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che diventa produttivo è per larga parte lavoro di gruppo, cooperazione sociale, più o meno consapevolmente messa a frutto e che utilizza sempre più i beni comuni: relazioni, spunti creativi, idee e racconti, percorsi istruttivi. La loro contiguità con l’ambiente, con la vita concreta, vissuta apre la possibilità che venga ri-orientata la relazione con l’ecosistema, con il vivente tutto. O no?

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V. SOGGETTIVAZIONI

Come si è visto i dispositivi hanno un ambivalente effetto di governo, assoggettamento, ma sempre anche di potenziamento. La governamentalità si esercita solo su uomini liberi stimolando, nella fase attuale neoliberale, libertà e responsabilità sia pur nell’eteronomia del sistema. Per capire problemi e limiti delle soggettivazioni che emergono dai dispositivi è necessario ancora una volta ripartire da Foucault e dunque dal tema soggettivazione/assoggettamento che emerge da quelle pratiche che hanno trovato il modello nel pastorato oblativo. L’anima, dice Foucault in un passo famoso di Sorvegliare e punire, dà forma al corpo1 e questo sembra significare che il processo di soggettivazione orientato dal potere debba passare per un movimento che lascia apparire il soggetto proprio quando assorbe il corpo stesso. Ma il senso di una disciplina o di una cura che produce gli stessi corpi su cui si esercita, non può andare in direzione di alcuna natura presupposta al processo stesso2, poiché la natura appare sempre come ciò che è già disintegrato, dissolto nella dinamica di soggettivazione. Dunque gli spazi di resistenza (o di coscienza riflessiva o di critica) sono immanenti al piano della normalizzazione oppure insistono sul piano del discorso che pur presente nella normalizzazione ne eccede l’obiettivo, o ancora, più spesso nell’attuale tarda modernità, attiene al piano della diversificazione e complessità dei discorsi che cooperano alla soggettivazione: nessuno è formato da un solo discorso, ma al contrario le influenze si combinano e si intrecciano con esiti non prevedibili. 1 2

M. FOUCAULT, Sorvegliare e punire, cit., «l’uomo di cui ci parlano e che siamo invitati a liberare è già in se stesso l’effetto di un assoggettamento ben più profondo di lui […] l’anima prigione del corpo», p. 33. Questo il nodo che differenzia il pensiero francese del secondo Novecento dal dispositivo di pensiero ancora dialettico della scuola francofortese. Cfr. G. RAMETTA, Biopolitica e coscienza. Riflessioni intorno all’ultimo Deleuze, in “Filosofia politica”, 1, 2006, 1, p. 31.

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Dispositivi e soggettivazioni

Comunque sia, queste resistenze sono sempre interne allo stesso potere cui si contrappongono. Questo circolo molte volte sottolineato dagli interpreti foucaultiani evidenzia l’impasse, di cui Foucault è perfettamente consapevole, di resistenze prodotte dalla stessa radice di potere contro cui si sollevano. Su questa linea, Žižek sostiene che in Sorvegliare e punire e Volontà di sapere «il concetto di Potere rimane confinato all’interno delle procedure di disciplina-confessione-controllo che presero forma nel primo Cristianesimo» – e dunque «quando in alcune interviste più tarde (Foucault) parla di potere e di contropotere, egli cambia impercettibilmente il terreno sul quale si muove e adotta una specie di ontologia generale del potere di tipo nietzscheano: il potere è a questo punto dappertutto e in ogni cosa; esso costituisce l’aria stessa che respiriamo, l’essenza della nostra vita. Questa ontologia generale del potere comporta anche un concetto diverso di soggetto come piega del potere; questo soggetto non corrisponde più al Sé che, mentre si aspetta di essere liberato dal potere repressivo, viene in realtà da esso costituito»3. Žižek legge dunque la svolta foucaultiana dei suoi ultimi anni, in direzione delle «arti di vivere» dell’uomo libero dell’Antichità, in chiave mitica fantasmatica. Cosicché la soggettivazione nei lavori foucaultiani sulla cura del sé sarebbero ridotti ad un tentativo di evadere dal circolo vizioso di potere-resistenza. Ora, gli scritti estetico-etici foucaultiani, che significativamente riprendono il concetto di cura strappandolo al potere dell’Altro e volgendolo all’askesis e al disciplinamento del sé, da una parte ribadiscono la necessità del processo di soggettivazione come disciplinamento riflessivo, così come nelle pratiche di educazione, dall’altra cercano, più esplicitamente che non nel caso delle controcondotte tipiche del misticismo ascetico medievale, le tracce di una libertà come pratica, come esercizio e testimonianza che non è fondabile (cioè deducibile) in modo positivo e ontologico, ma ‘insiste’ sul piano ontico dei comportamenti. La libertà slitta così sul piano delle prassi e degli stili4. Occorre immaginare che, a fronte di un processo di sog3 4

S. ŽIŽEK, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, Cortina, Milano 2003, p. 313. Valorizza decisamente il déplacement dell’ultimo Foucault de L’usage des plaisirs in direzione della «question du sujet» e della condotta individuale etico-estetica, J. RAJCHMAN, Erotique de la vérité. Foucault, Lacan et la question de l’éthique, Puf, Paris 1994, pp.11-23 e 113 ss. Su questa linea, l’interpretazione “anarchica” di R. SCHURMANN, Costruire se stesso come soggetto anarchico, cit.; M.P. FIMIANI, (L’arcaico e l’attuale. Levy-Bruhl, Mauss, Foucault, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 262 ss.) approfondisce il senso singolarizzante ed etico della stilizzazione in Foucault. Queste tracce di libertà divengono visibili in quel piccolo libro molto importante (forse più degli ultimi volumi della Storia della sessualità), Il pensiero

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Soggettivazioni

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gettivazione economica promosso dai dispositivi del lavoro e dall’impianto finanziario dell’attuale capitalismo, che è comunque eteronomo, e che viene appropriato dal discorso sociale e pastorale, si dia una prassi estetica (l’estetica rinvia al sentire e all’esprimere) che rivela nella modalità del suo darsi – cioè attraverso il gesto del parresiasta o della cura di sé – la traccia etica di una libertà del vivente uomo. Una libertà che è costretta a non potersi definire se non tradendo l’apertura, il fuori della libertà, e assumendo la giostra delle identificazioni simboliche e culturali necessariamente assoggettate. Uno schellinghiano presupposto di libertà come pura apertura ontologica, sempre daccapo resistente alle soggettivazioni pur necessarie, assoggettate. Documento acquistato da () il 2023/04/04.

Soggettivazioni emergenti nella governamentalità neoliberale Ma se non ci fermiamo al movimento del singolo che trova il coraggio parresiastico di contrapporsi al discorso dominante, in una dimensione che può diventare politica solo se il gesto parresiasta viene raccolto come exemplum da altri che ne sono contagiati, quali soggettivazioni sono formate dai dispositivi della governamentalità neoliberale? Lo schema governamentale biopolitico illumina la scena in modo ambivalente e molto diverso da come lo faceva il paradigma sovrano: il potere c’è, anche nei governati, ed è un potere sempre plurale, disseminato e relazionale. I soggetti si dislocano e si perdono nelle relazioni di potere. Il racconto del soggetto può essere raccontato in modo diverso con nuovi protagonisti. Due tradizioni si fronteggiano: quella rivoluzionaria continentale (dei diritti, universalistica, statalista) e quella radicale anglosassone (degli interessi, pluralistica). O forse con più coerenza possiamo parlare di due logiche diverse, quella politica/identitaria e quella economica/governamentale. Quest’ultimo paradigma che è quello che qui prendiamo in esame e che agisce attraverso dispositivi – antitetico, ma non sostitutivo del format sovrano – pensa il potere come produttivo, come transitività generatrice di potere, come relazionalità che attiva la spirale inconclusa di un assoggettamento soggettivizzante, per cui la libertà trova la sua radice nel governo e lo modifica a sua volta. La governamentalità – tecnica della inclinazione biopolitica della modernità, insorgente quando la società capitalista attiva un regime di verità estraneo alla parola del sovrano e del quale il sovrano deve tener conto se vuole del fuori: quel fuori, dove sconfina il discorso dei folli o dei poeti. (tr. it. SE, Milano 1998).

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Dispositivi e soggettivazioni

governare con efficacia – diventa, nella fase neoliberale egemonica da trent’anni, la razionalità specifica del potere politico. È al suo interno dunque, nelle sue ‘pieghe’ che dobbiamo cercare il soggetto politico: ed è paradossale perché la sua ‘ideologia’ è orgogliosamente antistatale e del politico immagina se non la fine, il ridimensionamento. Meglio: la fine delle sue caratteristiche moderne e l’affermarsi di nuove. Le soggettività emergenti si collocano nel piano di immanenza del sociale, non lo trascendono. L’istituzione Stato, pur declinando nella forma sua sovrana, continua ad orientare con consapevolezza e progettualità decisamente politica, questa deresponsabilizzazione del centro e accentuata responsabilizzazione dei governati (tutti: non il tutto). Lo Stato non monopolizza il potere, fa politica ma non da solo. Fanno politica le soggettività multiple e multilevel della governance: tutti vettori di potere che influenzano altri poteri meno forti, impongono regole e condotte, inducono, come è proprio del potere biopolitico, forme nuove di soggettivazione. Non c’è sintesi. O almeno, non si vede il gesto che decide l’ordine e sintetizza i rivoli di attività. Ma, anche questo è un ordine: scelto, politico dunque, voluto, presentato come se fosse spontaneo e naturale. Organizzato in questa forma e non libero di assumere altre forme di produzione, per esempio, o di distribuzione. Anzi ‘costretto’ nel codice del mercato che è tutelato e promosso politicamente: il suo limite fondante. Mentre il discorso di verità proclama il governo dei liberi: solo su uomini liberi, lo sappiamo, si può governare biopoliticamente. La popolazione è il nuovo soggetto politico collettivo, bersaglio di questa tecnica che, operando sul ruolo attivo dei governati, muta la verticalità sovrano-sudditi in una rete orizzontale, sistemica dove le strategie di governo si confondono nella vita del corpo politico, dilagando in contraddizioni irrisolte, compresenti, e/e: lo Stato minimo richiede lo Stato provvidenza, l’autonomia della società dipende dalla gestione governativa, la libertà esige protezione e controllo, la naturale razionalità economica richiede pesanti artifici politici e cognitivi. Al centro sta la popolazione: «come nuovo soggetto collettivo del tutto estraneo al pensiero giuridico e politico dei secoli precedenti»5 ed estraneo perché quella rappresentazione giuridica mirava, in nome dell’ordine, ad azzerare le differenze interne al popolo, mentre la popolazione è un insieme disarticolato, cui viene riconosciuta una propria dinamica, opaca agli occhi del sovrano, generatrice di un nuovo tipo di ordine dissonante e competitivo, ma statisticamente descrivibile e tecnicamente regolabile. Sottolineerei in questi processi la contestualità di quella opacità ‘vitale’, naturale, col 5

M. FOUCAULT, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 43.

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Soggettivazioni

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suo rovescio tecno-scientifico che la rende governabile. Il perno ideologico è in una ontologia affermativa: il desiderio, che si rappresenta come naturale impulso a preservare la vita e soddisfarsi, ma che anch’esso viene semplificato e diventa gestibile. Questo significa che la forma di soggettivazione tipica del moderno, tramite l’interdetto antropogenico al desiderio e conseguente soggettivazione antagonista – modello hegeliano, confermato dallo scontro edipico freudiano – è depotenziata. Le popolazioni/ soggettività vengono invitate a utilizzare la corrente di potere, che il governo (maternamente?) sollecita e indirizza, e a realizzare nel polimorfismo più assoluto, i propri desideri. Che questi desideri possano essere soddisfatti nel codice del mercato mostra la netta demarcazione dal modello precedente, il cui centro era un soggetto ‘politico’ generato da un desiderio di riconoscimento da parte della Legge e incessantemente proiettato sulla ridefinizione di quest’ultima in senso più ‘giusto’. La tecnica governamentale ci regala al suo apice la questione della diffusa rinuncia a soggettivazioni antagoniste, ‘proprie’. Per difficoltà pratica e impossibilità teorica. È vero che quell’atteggiamento ‘politico’ di riconoscimento, era ambiguo, sempre accompagnato da una ombra. Ma la tecnica nuova, insidiando il fondamento stesso dell’autorità simbolica – lo Stato non è che “peripezia di governo” tra le altre – da una parte rende possibili atteggiamenti libertari di assoluta sovversione, dall’altra mobilita energie sempre interne al sistema stesso. Il desiderio – matrice ontologica, anche, delle ontologie antirappresentative degli anni settanta – non trova interdetto, ma stimolo e slitta verso il godimento ripetitivo: immanente è il potere che si genera dall’uno all’altro capo della relazione e che forma l’oggetto stesso sul quale esercita influenza. “L’uomo di cui ci parlano e che siamo invitati a liberare è già in se stesso l’effetto di un assoggettamento più profondo di lui” che dunque coopera al gioco. Il soggetto è una ‘piega’ del potere dal quale è costituito. Non ci sono, dal punto di vista teorico, strumenti per antagonizzare gli interventi del potere, che piuttosto sono proliferativi. Non resta, come dice Butler sulla scia di Foucault, che ri-significare i meccanismi di potere che producono soggettivazioni. Ma, non dimentichiamolo, l’assoggettamento produce soggettivazione solo all’interno di un dispositivo che libera la potenza naturale dei governati. Naturalità, spontaneità sono modi di dire la indisponibilità ad interventi sovrani, forzati. L’intervento persiste, anzi si fa più pervasivo a patto di subordinarsi alla verità extra politica “naturale” che detta regole, solo seguendo le quali c’è efficacia: verità ‘naturale’ che funziona politicamente. Sembrerebbe che non ci sia trascendimento, ma – ecco il rovescio – questa natura si identifica con la scienza economica che la definisce, suddividendola in componenti di cui si può

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Dispositivi e soggettivazioni

cogliere la regola, per ottenere le condotte volute. Cede l’unitarietà sovrana, ma non recede il potere (statale o non) abile, competente che agisce in modo coordinato con il nuovo soggetto-oggetto politico, la popolazione. Questo non significa affatto trasferire la sovranità al popolo: piuttosto una forma nuova – biopolitica – di esercizio del potere ‘sui’ molti, attivando ‘dei’ molti la potenza. Non il ‘corpo politico’ di sudditi, non il populus della tradizione, né il popolo democratico delle carte rivoluzionarie, né l’individuo liberale: o tutti costoro ma come vettori della popolazione, che è il centro effettivo dell’azione: non meno soggetto politico, dello Stato. La popolazione è un universale, ma concreto, un trascendentale ma disperso nell’empiria, un soggetto libero continuamente condizionato, una potenza sempre ‘impiegata’. C’è sempre un ‘soggetto supposto sapere’, da cui dipende la politica delle sue scelte. A fronte di una retorica dell’immanenza non mediata, non c’è nessuna immediatezza nella biopolitica. Filtrata da una rappresentazione tanto ideologicamente pervasiva da non apparire come tale: la presa in carico della popolazione è cosa ambigua, il suo ‘come’, fa riemergere il termine democrazia e la logica della politica. Dissolta la piramide di deleghe e di autorizzazioni, le soggettivazioni si rivelano non orientate esclusivamente al riconoscimento o allo status giuridico, ma disperse in pratiche porose tra economia, religione, morale e privatismo. Per Butler sono pratiche di slittamento dei significati, che spostano i limiti dell’universalità giuridica, senza puntare allo scontro finale. «Esisterà [...] un’azione riflessiva del soggetto, e questa azione sarà provocata dalla razionalità stessa rispetto alla quale il soggetto tenta di conformarsi o perlomeno di venire a patti»6. Per l’area postcoloniale, non solo si dispiegano all’interno del quadro governamentale di verità e potere, ma non esisterebbero se non fossero state sollecitate da essa. Eppure ridefiniscono il senso dei diritti e le posizioni di potere. Accogliendo l’invito dell’immaginario neoliberale alla autoresponsabilizzazione, il soggetto non si contrappone alla soggettivazione ma emerge dal processo che lo produce: vulnerabile, decentrato, privo della compattezza animale e della possibilità di sintesi, consapevole – come già in Adorno, Levinas, oggi in Butler, Critchley – del fallimento di ogni identificazione simbolica. Un soggetto corporeo, pragmatico e addirittura parodistico, privo dell’arroganza del Soggetto, che, nel caso di Butler e di Critchley, piega verso la de-soggettivazione per sottrarsi alla Realtà sistemica, laddove le più prosaiche (ma speculari) “politiche dei governati” di Chatterjee sono fatte di impercettibili passi avanti o laterali per migliorare le proprie condizioni di 6

J. BUTLER, Critica della violenza etica, tr. it. Feltrinelli, Milano 2006, pp. 159-160.

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vita. In entrambi i casi però la modificazione è mobilitata dallo stesso dispositivo di governo e, al suo interno, ne sfrutta lo spazio di agibilità, piegando a nuovi usi discorsi e risorse. Il presupposto teorico è che il segno (il Nome, la Rappresentazione) non adempia il suo senso, e che la ripetizione si ripete dislocando la sua origine, presupposti comuni alla strategia egemonica: una universalità fatta di interazione tra particolarità. Per Butler, come per i post colonial studies e per Spivak, il lavoro di reiterazione, che altera e disloca i codici tradizionali, mostrandone la dimensione retorica discorsiva-materiale, è agency politica. L’universale non può essere che la versione egemonica della universalità, sempre concreta e parziale. La questione è piuttosto la politicità o meno di queste pratiche. La storiografia postcoloniale sottolinea piuttosto l’eccedenza dalle categorie – cittadino, partito, società civile – del pensiero politico occidentale e la capacità di modificare localmente le relazioni di potere, senza dedurne la possibilità da una problematica autonomia del soggetto. Popolazioni che non sono classificabili negli standard della modernità liberale, perché eterogenee, residuali, per di più riluttanti verso il classico schema ‘antagonista-dialettico’, operano «la politica popolare nella gran parte del mondo»; «i cittadini – aggiunge Chatterjee – abitano la teoria, le popolazioni il campo delle politiche». Politiche sociali prodotte dal welfare che prende in carico le popolazioni, offrono uno spazio negoziale e quelle rispondono con pratiche estemporanee, immerse in una dimensione di democrazia fisica, materiale, corporea, affettiva-amicale – è il caso del soggetto politico di Samaddar –, infrapolitica, dunque o semi-politica o forma elementare della politica. Se invece ci confrontiamo con la governance occidentale, dove il welfare cede a gestioni privato-pubblico neoliberali, la politicità delle nuove soggettività è ben più problematica: la cosiddetta democrazia partecipativa si delinea in senso neocorporativo e apre lo spazio a lobbies che assumono decisioni di rilievo pubblico. Pratiche che oscillano tra lo stretto economicismo – Stato minimo/Stato regolatore – e un dispositivo politico post-democratico, neocorporativista di partecipazione orizzontale non paritaria, che coinvolge nella negoziazione le parti interessate (stakeholders), saperi esperti e terzietà amministrative. Cresce certamente il numero di soggetti impegnati nella mediazione non giuridica e nemmeno partitica, ma politica sì. Soggetti che si formano nel processo stesso partecipativo: diseguali. Esperienze queste che pongono la questione di cosa sia pubblico e politico, se siano presenti i caratteri che per esempio una teoria deliberativa riconosce come pubblici: la risalita in generalità delle argomentazioni, la trasparenza dei soggetti, la definizione dei beni comuni, la terzietà; o, nel prevalere di caratteri privatistici e neocorporativi, se piuttosto ci sia

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Dispositivi e soggettivazioni

dimensione politica, in quanto potere e decisioni esercitati sui molti se non su tutti. La giustificazione di queste pratiche utilizza i criteri universali della teoria deliberativa, ma la disseminazione dei centri decisionali, la struttura multilivello, orientata a problemi specifici e urgenti, gli obiettivi parziali, non condivisi, anche se negoziabili, aggirano consapevolmente la normatività pubblica-deliberativa che, legata al diritto moderno, non coglie il fatto. La negoziazione, centro modale del dispositivo, orizzontale ma non paritaria, inclusiva rispetto alle rigidità della politica, rimanda al nucleo logico originario, che non è politico, ma economico e di scienza della organizzazione. Questa matrice teorico-pratica incide lentamente ma profondamente sulle nozioni della democrazia formale: Stato/società, governo/amministrazione, pubblico/privato. Una logica problem solving, logica delle differenze, ci dice Laclau. Che però, a certi livelli, influenza le vite di molte persone, adattandole alle richieste del sistema: politica nell’economia dunque. Si tratta di soggettività politiche anche se non democratiche? L’autorappresentazione ideologica libertaria antistatalista, che sostiene tutte queste esperienze gode, fino ad oggi, di un consenso larghissimo, sul quale convergono paradossalmente ideologie economiche catallattiche, il rifiuto antitotalitario di una rappresentazione unitaria e sovrana, l’immanentismo delle forme di biopolitica affermativa, e l’esplosione di soggettività differenziali postmoderne. La compresenza di movimenti – la mitica moltitudine, potere costituente spontaneo della biopotenza affermativa – e di soggettività infragovernamentali, problematiche sotto il profilo dell’istanza ugualitaria, lascia molte domande inevase. Soggetti partecipanti: lobbies e ‘società politica’ In verità, questa metamorfosi delle tecnologie di governo è certo cosa nota da tempo nelle forme di governance, con tavoli di concertazione, rappresentanze non elette, esponenti di associazioni private, di comitati, presenza di esperti e tecnici come di amministratori locali e statali: la multilevel governance nella quale si concretizza la biopolitica governamentale e la natura partecipativa e orizzontale dei poteri. Apre certamente gli spazi a forme di gestione in chiave schiettamente privatistica, lobbies che governano settori della produzione e della società, dove le posizioni deboli che sono coinvolte non riescono a far valere le loro istanze a fronte di expertise specialistiche, a organizzazioni dei poteri forti finanziari e industriali, e studi legali che maneggiano a vantaggio di pochi con estrema tecnica le possibilità di difesa attiva, che pure il diritto offrirebbe a tutti. Della faccia opaca della partecipazione lobbistica, sappiamo tutti anche troppo.

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Soggettivazioni

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Ma si danno anche – in una società così stimolata e così propensa a esporsi direttamente nella gestione dei propri rischi – forme di democrazia partecipativa diverse, sollecitate o da problematiche locali nelle quali gli affected sono direttamente coinvolti e attivamente impegnati a far valere la loro voce e la loro esperienza, i loro saperi direttamente. E si danno, soprattutto se si allarga lo sguardo al ‘grande mondo’, processi di soggettivazione politica attiva, esperimenti di società politica – l’espressione è di Chatterjee – che, all’interno dei dispositivi governamentali e di welfare sperimentano forme innovative di gestione, dal basso. È evidente che il neoliberismo ha disarticolato l’artificiale, ma cruciale gesto politico liberale che distinguendo tra pubblico e privato, definiva ciò che era politico e dunque soggetto a controllo e a pubblica modificabilità; ha reso porosa questa parete divisoria, aprendo così lo spazio a processi di soggettivazione il cui eventuale carattere politico dipende dal contesto contingente piuttosto che non da forme riconoscibili e standardizzate. Sono “posizionamenti” che i soggetti occupano in modo funzionale e contingente. La difficoltà nell’assegnare questi processi di soggettivazione all’ambito del pubblico o del privato, del politico o del morale non dovrebbe spingere a catalogarli come totalmente anarchici o, all’inverso, rafforzativi del sistema di potere. Certamente possono esserlo e spesso lo sono, ma mantengono anche una certa eccedenza rispetto alle identificazioni assoggettate dal cui contesto emergono. E, d’altronde – e su questo va spesa qualche parola – hanno una genealogia filosoficamente significativa, che denuncia l’ambivalenza fin dall’inizio e che si è manifestata anche al livello concreto e storico. Non può sfuggire che in questa democrazia partecipativa, si ripresenta in forme nuove quella potente spinta alla democrazia diretta, all’autogestione degli spazi sociali del 68 e il riferimento alle filosofie antirappresentative e immanentiste. Delle quali bisognerebbe raccogliere le istanze e contrapporre ragionamenti e obiezioni: negoziare con quelle, forse. Una genealogia, quella della democrazia diretta, addirittura contestuale alla nascita della politica ateniese (è ancora Arendt a ricordarcelo) e che riemerge sempre come virtuale e quasi-trascendentale di tutte le esperienze storiche democratiche, ma che in particolare segna l’esperienza della rivoluzione radicale americana, piuttosto che quella continentale francese, assumendo in quel contesto la forma ibrida di pratiche di autogoverno sociale che chiedono non tanto l’abolizione, ma la restrizione al minimo dello Stato/governo. E si iscrivono così in un liberalismo del governo minimo. La democrazia diretta (certo di più che la sua forma spuria dell’autogoverno sociale tramite associazioni) è lo sfondo normativo che sanziona come

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degenere ogni forma istituzionale concreta, legata come è al momento del suo esercizio, alla prassi presente, all’esposizione della pluralità dei cives nello spazio pubblico. Oggi, ancora una volta, con maggiore o minore consapevolezza teorica, ma con una determinazione che non può emergere che dalla delusione del sistema di deleghe e, insieme, da quell’immaginario che ci vuole liberi e padroni del nostro destino, si ripropone nelle manifestazioni di cittadinanza attiva e nelle forme embrionali di ‘politica dei governati’ (anche questa è una espressione di Chatterjee). In modo più euforico e più confuso fu anche al cuore del fenomeno del 68, da ripensare senza pregiudizi, con i suoi limiti che possono aiutarci a capire il suo tracollo e il suo imbastardimento, certo, ma anche con la potenza affermativa di quelle esperienze. Una potenza affermativa, che – giusta la natura assai ambigua dell’immanentismo – è stata raccolta e realizzata in forma diversa-perversa dalla governamentalità biopolitica neoliberale, antistatalista e antirappresentativa. Tutti i viventi, tutta la loro vita emotiva, desiderante, creativa hanno potere e possono affermarlo direttamente, immediatamente. Anche allora la filosofia decostruttiva aveva messo a nudo la violenza valutativa e selettiva del meccanismo metafisico della rappresentazione: il 68 ne fu il passage à l’acte. Contestò la Rappresentazione e l’identificazione simbolica e sociale che l’ordine assegnava a ciascuno: borghesi studenti, aristocrazia operaia, intellettuali o cantanti rock, donne. Il 68 mise in atto un modo diverso di essere in comune. Volle farla finita con i giudizi autorevoli/autoritari, farla finita con la politica gestionale e con il capitalismo7, alla ricerca della verità della democrazia, tradita dalla rappresentanza, delusa dalla mancanza di qualcosa che era stato promesso e che si rivela niente di più che un incremento del benessere, dei consumi, con caste di politici intercambiabili tra destra e sinistra, mentre franava l’ideale comunista nella cupa realtà totalitaria. Anche allora il punto di partenza era proprio la percezione della inadeguatezza della democrazia rappresentativa, formale, rispetto la sua idea vera. Ma questa percezione – a causa del legame di rappresentanza e rappresentazione – ebbe un effetto di radicale sfaldamento sulla forma stessa della rappresentazione. E dunque: esporre, manifestare, agìre la democrazia, piuttosto che delegarla, rappresentarla: la immanenza della vita e delle pratiche agìte in spazi strappati al potere, ‘okkupati’ e aperti alla partecipazione, palcoscenici di democrazia in atto, contro il trascendimento, la selezione e il giudizio. Immaginare un modo nuovo di vivere la politica: lo stare insieme, l’essere in comune, piuttosto che la gestione e 7

J.L. NANCY, La verità della democrazia, tr. it. Cronopio, Napoli 2010, p. 9-10.

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il governo, fosse anche il buon governo. Nietzsche, Heidegger, Foucault, Deleuze, Derrida, Arendt: si dichiara finita l’epoca delle rappresentazioni che tradiscono l’être singulier-pluriel: «Non più il regime di pensiero rappresentazione/concezione (concezione del soggetto e soggetto della concezione, controllo dell’azione e azione di controllo, visione e pre-visione, proiezione e produzione di uomini) non più produrre forme che modellino, ma l’esporre gli obiettivi stessi (l’uomo o l‘umanesimo, la comunità o il comunismo il senso, la realizzazione) ad un superamento di principio. Un infinito in atto. Noi siamo in comune, non progettiamo il comune»8. La sinistra parlamentare e i partiti vedono smentita la loro legittimazione rappresentativa: non ce n’è bisogno. Siamo in comune, significa che mettiamo in atto, subito, in noi stessi e per noi stessi la palingenesi emotiva e vitale che è la comunità: non la predispone, non la propone, ma la espone in se stessa. Al rifiuto della delega corrisponde – spinozianamente? deleuzianamente? – fiducia nella auto-organizzazione dei singoli e delle comuni, legata alla intuizione che la vita si autoregola spontaneamente trovando in se stessa la forma dell’espressività e della potenza e nel desiderio, nella macchina desiderante deleuziana, la sua legittimazione. Il nuovo soggetto politico, il movimento, non ha nulla delle masse che fiancheggiavano i vecchi partiti: è moltitudine di singolarità viventi. Questo immaginario si riproduce abbastanza fedelmente nelle forme di immanentismo degli attuali movimenti altermondisti. Che però, da post-sessantottini, per lo più non cercano lo scontro frontale in vista della Grand Soir, ma guardano con attenzione alla fioritura di quelle forme innovative di società politica, ai processi di gestione delle realtà locali e settoriali – quelli dei già citati studi postcoloniali, degni di essere letti e presi in considerazione da questa nostra sinistra, da Chattejee a Samaddar a Spivak – che tengono insieme la antirappresentatività con le pratiche di autogoverno e dunque non disdegnano di utilizzare tanto il diritto come tecnica di rivendicazione dei consociati, che le risorse della governamentalità stessa, che, infine, ma non da ultimo, uno storytelling, un racconto mitico delle esperienze compiute, che permette loro di essere identificabili, di avere continuità, e di riconoscersi, di allearsi sulla rete, di costruire flessibili e contingenti identificazioni politiche (dunque forme di rappresentazione, nel cuore dell’immanenza!). Allora, nel 68, più che le forze politico-istituzionali fu il sociale stesso, il mercato, il codice dell’equivalenza economica a metabolizzare l’utopia, per la imprevista capacità del capitalismo di assimilare quell’immaginario libertario e creativo (produttivo!), di assorbire quelle nuove soggettività 8

Ibidem.

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anarchiche e nomadi per tradurle nel codice del mercato, per farne la nuova forma di produzione e di consumo che sul desiderio fa perno. Il nuovo spirito del capitalismo postfordista, con capitalisti in jeans e t-shirt, recuperò la retorica antirappresentativa del 68, presentandosi come una rivolta libertaria contro lo Stato e contro le organizzazioni sociali oppressive del capitalismo corporativo e del socialismo reale. Non che la democrazia rappresentativa venga meno, ma (il thatcherismo ne è stata la prima prova) la lotta egemonica viene vinta e stravinta in nome dell’antistatalismo, del rifiuto della totalizzazione della ‘società’, e in nome degli individui, nella loro diversificata posizione nel sociale e nell’economia: i soli vettori di potere e di progetti di autorealizzazione. Il nuovo racconto egemonico afferma la fine dell’alienazione sacrificale (l’orrore per il sacrificio supremo delle tasse!), la fine del trascendimento degli individui nella volontà unitaria del Soggetto politico. Cenni ad una democrazia a venire Ma deve perciò inseguire questo ‘racconto’ o, al contrario, mantenere un ‘attaccamento malinconico’ ai vecchi temi del lavoro dipendente, delle tutele? Abbiamo detto che si tratta oggi, di una spinta partecipativa ambivalente. E ambivalente è il rapporto affermativo verso la nuova realtà, che si trova sia in settori della sociologia di sinistra up date, che nelle fila del partito stesso, a fianco ad esitanti tentennamenti verso modelli più consolidati e tradizionali di lotta sociale. Sia infine come abbiamo visto nel diametralmente distante immanentismo di Negri. Li accomuna l’intuizione che la svolta è così reale da non potersi condurre una battaglia sul filo dell’ideologia e del vero e del falso: si tratta di una trasformazione epocale delle forme di vita. Questa è la sua dimensione biopolitica: un insieme di istituzioni, discorsi e pratiche che hanno orientato i processi di soggettivazione, le forme di vita. Ambivalenza e dunque rischi: rischi di spoliticizzazione, scenari di crude differenze e dislivelli di potere, voci che pesano sul processo deliberativo e sul momento decisionale, che soverchiano quelle meno mediaticamente potenti, che non si sentono, soffocate da pseudo rappresentanze locali. O infine rischi di vittorie effimere, di retorica della democrazia che copre transazioni opache, rischi di privatizzazione della politica. Ambivalenza e dunque possibilità: si tratta di processi nei quali il soggetto agente non è pre-dato ma acquisisce forma attraverso la partecipazione stessa, e affina le sue istanze generalizzandole, aprendo a dinamiche di riconoscimento e

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ritrascrizione politica dei ruoli e delle funzioni. La negoziazione che caratterizza queste pratiche dagli esiti ambivalenti, si svolge su un piano di immanenza, ma proprio questo tratto contingente degli assetti di potere, ne indica la trasformazione possibile. Ma un filosofo come Nancy ci dice che la trasduzione della filosofia immanentista e antirappresentativa in alveo neoliberale ne è la perversione: l’immanenza dell’uomo a se stesso, per cui economia e tecnologia realizzano per se stesse l’essenza dell’uomo, mette in atto in modo perverso quell’essere in comune diretto e immanente che la democrazia diretta antirappresentativa cercava: oggi sono le monadi individuali – unità sigillata in se stesse e autosufficienti – non la relazione originaria della pluralità in comune, a essere in atto. È un immanentismo questo neoliberale, inseparabile dalla metafisica della presenza e del soggetto. Il neoliberalismo è – dice Lazzarato – una ri-privatizzazione della moneta, cioè una ri-privatizzazione del potere di determinare i possibili. Per esempio: un tema ‘biopolitico’ come quello del lavoro, della disoccupazione e del precariato – che, nell’orizzonte della scena neoliberale incrinato da una prolungatissima e disastrosa crisi viene giustamente rilanciato – dovrebbe essere gestito nel quadro, da ritenersi prioritario, di una partecipazione in prima persona dei gruppi coinvolti, affected. D’altra parte, proprio rispondendo al Boltanski del Nuovo spirito del capitalismo, che contrappone i due modelli di critica: quello creativo (che accetta la svolta dell’immaginario di autorealizzazione del capitalismo cognitivo) e la critica sociale dei settori più poveri e meno culturalmente attrezzati, Lazzarato sottolinea che la lotta sempre più globale dei precari – creativi e poveri – insiste su forme di tutela welfaristica sia pur rinnovate, rivendicando e/o negoziando le proprie posizioni. E questo fa pensare che si tratta di una frattura che è possibile ricomporre all’interno della sinistra. Come? Boltanski afferma che nelle esperienze delle democrazie partecipative, di gestione che coinvolgono i destinatari delle decisioni, è cruciale, assieme all’istanza della visibilità/pubblicità (contro l’opacità delle lobbies) quella che lui chiama, con espressione felice, la ‘risalita in generalità’. Per il primo criterio – al di là della schiera degli immanentisti che ho citato – è Arendt a soccorrerci: la visibilità è il processo di portare materie sociali e di interesse vitale dalla sfera privata – protetta dalla privacy, ma anche lasciata alle sue opache dissimmetrie di potere – allo sguardo e all’attenzione, dunque alla discussione aperta che, nel processo di elaborazione, ne trasforma il senso sociale, il modo di definirle e di trattarle, fino alla decisione anch’essa pubblica e visibile. Il carattere comunicativo, manifestato,

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esposto, è un punto chiave, più ancora della materia trattata, che spesso può essere interessi e bisogni di natura settoriale. È il modo della visibilità, il posizionamento manifesto delle parti che fa sì che quel processo possa, o non possa, dare luogo a soggettivazioni politiche e possa dunque parlarsi di democrazia. Il secondo criterio è la ‘generalizzazione’. La posta in gioco – nel clima di sfiducia filosofica oltre che del senso comune verso la rappresentanza come mediazione dei molti e del particolare, in direzione dell’unità o dell’universale – è il lavoro politico, artificiale di orientare il particolare che esprime interessi, intenzioni, pretese, e oggi, sempre di più emozioni e differenze di vita idiosincratiche, verso la generalizzazione. Il lavoro ’politico’ di traduzione di queste domande polverizzate, personali e irriducibili in un significante generalizzato, qualcosa che sia riconosciuto come comune. La risalita in generalità chiama in causa la politica e la costruzione dell’egemonia. Non può trattarsi – poiché stiamo parlando di una stretta relazione del partito rappresentativo con forme di democrazia partecipativa – di una egemonizzazione sovrapposta ma di un lavoro bottom-up: la possibilità di definire politico un certo regime di azione dipende dalla capacità degli attori di vigilare e selezionare i propri argomenti, sulla base di ciò che è comune. Le situazioni sono di disaccordo e conflitto e gli agenti sono sollecitati a manifestare e confrontare le loro pretese, assumendo la responsabilità della loro realizzazione, negoziando alleanze tra domande diverse in nome di interessi generali e beni comuni. Alcuni hanno poca voce, la loro non-visibilità risale nel tempo e nella memoria, le loro storie debbono essere raccolte e preservato l’attrito che provoca la loro sofferenza. La forma, il come – questo pensa Arendt – è la politica. Ci sono poi cose che sono comuni nella percezione di molti se non di tutti, per le quali la risalita in generalità si iscrive all’interno della stessa logica governamentale biopolitica, dove le questioni in gioco affrontano bisogni e sopravvivenza primaria e si fanno carico direttamente della vita, questioni subordinate alla logica dell’efficacia. Logica, come sappiamo, diversa da quella del processo di soggettivazione democratica, dove l’atto stesso di rivendicare la visibilità e l’autogoverno – dunque il come della partecipazione – vale più del cosa. Sono piuttosto processi ibridi tra logiche biopolitiche: funzione vitale dei beni in questione e difesa dal regime di appropriazione di beni riconosciuti come comuni ad una collettività, relativi ad interessi generali e trattati, curati, usati in comune. Diversamente dai beni privati il loro uso non esclude nessuno ed è congiunto: acqua, terra, salute, istruzione, comunicazione, ambiente, per i quali la affectedness (il coinvolgimento di quanti dal dispositivo governamentale sono di-

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rettamente toccati) è presumibilmente molto ampia, se non universale. In questo caso nella logica governamentale si affaccia una istanza pubblica e politica. Va sottolineato che – come dice Castel – nella storia del welfare beni come la salute, l’educazione, la protezione da rischi sociali sono stati riconosciuti e trattati come ‘beni comuni’. È determinante il processo che convoglia su di essi il riconoscimento di questa natura comune, il processo in cui la ‘comunità’ dei beni prende forma. Sarebbe necessario orientare le governance locali e i movimenti di cittadinanza attiva verso la rispazializzazione della democrazia – senza averne paura e senza presumere ruoli direzionali, ma piuttosto quello di empowerment, soggetti capacitatori o facilitatori di dinamiche di inclusione nelle cerchie decisionali: un effetto di rinforzo virtuoso e di difesa contro le possibili concentrazioni di poteri nei tavoli partneriali, contro l’aggravarsi delle dissimmetrie di potere tra gli attori al di fuori di qualsiasi controllo democratico e di rappresentanza. Perché è ovviamente questo il rischio implicito in queste forme di democrazia partecipativa: l’ombra di una gestione da parte degli attori più forti che si presentano come ‘la comunità locale’ ma non sono che poteri più forti di altri, più capaci di essere visibili: dunque delle molte questioni aperte, la più importante è quella dell’eguaglianza. La risorsa di libertà che la partecipazione attiva e diretta mette in gioco richiede un lavoro e un impegno perché si accordi alla richiesta di eguaglianza. Brevi conclusioni Quello che mi preme di sottolineare è che si rende necessaria, a livello filosofico una presa in carico dell’istanza di autogoverno partecipativo, svolgendo in relazione ad essa – che viene portata avanti direttamente dai frammentati poteri sociali coinvolti – il ruolo di potere istituzionale che garantisce l’apertura e la tutela degli spazi e sorregge la modalità visibile della deliberazione e la generalità della istanza. È un punto importante. La teoria deliberativa habermasiana converge certamente su questa pratica di discussione nello spazio pubblico, ma presume la irrealistica anche se auspicabile simmetria delle parti e razionalità delle argomentazioni; e inoltre presuppone i soggetti attori come già dati, laddove la caratteristica di questo dispositivo di biopolitica attiva è piuttosto quello di un processo durante il quale, nella discussione e nel conflitto, come nella negoziazione, ‘si forma’ il soggetto politico. Non un soggetto politico stabile e identitario, ma una soggettività che si raccoglie, per interesse, per bisogno, per opinione, su un mondo comune e lavora su di esso, divenendo una ‘figura’ politica contingente e efficace. Gli attori sono reali, vettori di poteri di-

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seguali e di resistenze reciproche che si rovesciano sia in rinforzi che in contro-condotte, esprimono le opinioni, giudicano, si alleano, depistano le scelte, mettono in allerta, fanno polemica e controversie, tra conflitti e compromessi o negoziazioni: questo significa che fanno politica, e questa è società politica, né società civile, né politica parlamentare, ma politica sì. E il processo politico genera, nel nesso tra azione e rappresentazione, soggetti politici. I rischi, lo abbiamo visto, sono molti. La orizzontalità della rete è più apparente che reale e si dissolve quell’elemento chiave del giuridicopolitico moderno che era la mediazione e l’istituzione come terzo.

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ETEROTOPIE Collana diretta da Pierre Dalla Vigna e Salvo Vaccaro 1.

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2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31.

Nerozzi Bellman Patrizia (a cura di), Internet e le muse. La rivoluzione digitale nella cultura umanistica Vaccaro Salvo (a cura di), Il secolo deleuziano Berni Stefano, Soggetti al potere. Per una genealogia del pensiero di Michel Foucault Carbone Paola (a cura di), Congenialità e traduzione Marzocca Ottavio, Transizioni senza meta. Oltremarxismo e antieconomia Carbone Paola (a cura di), Le comunità virtuali Fadini Ubaldo, Principio metamorfosi. Verso un’antropologia dell’artificiale Mello Patrizia (a cura di), Spazi della patologia, patologia degli spazi Petrilli Susan, Ponzio Augusto, Fuori campo. I segni del corpo tra rappresentazione ed eccedenza Carmagnola Fulvio, La specie poetica. Teorie della mente e intelligenza sociale Deleuze Gilles, La passione dell’immaginazione. L’idea della genesi nell’estetica di Kant De Michele Girolamo, Tiri Mancini. Walter Benjamin e la critica italiana Riccio Franco, Vaccaro Salvo (a cura di), Nietzsche in lingua minore Carbone Paola, Patchwork Theory. Dalla letteratura postmoderna all’ipertesto Ferri Paolo, La rivoluzione digitale. Comunità, individuo e testo nell’era di Internet Foucault Michel, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie Bataille Georges, La condizione del peccato Carbone Paola (a cura di), eLiterature in ePublishing Dal Bo Federico, Società e discorso. L’etica della comunicazione in Karl Otto Apel e Jacques Derrida Deleuze Gilles, Istinti e istituzioni Paquot Thierry, L’utopia ovvero un ideale equivoco Pirrone Marco Antonio, Approdi e scogli. Le migrazioni internazionali nel Mediterraneo Ponzio Augusto, Individuo umano, linguaggio e globalizzazione nella filosofia di Adam Schaff Simone Anna, Divenire sans papiers. Sociologia dei dissensi metropolitani Vaccaro Salvo (a cura di), La censura infinita. Informazione in guerra, guerra all’informazione Artaud Antonin, CsO. Il corpo senz’Organi Moulian Tomás, Una rivoluzione capitalista. Il Cile, primo laboratorio mondiale del neoliberismo Thea Paolo, Il vero cioè il falso. Invenzione, riconoscimento e rivelazione nell’arte Amato Pierandrea (a cura di), La biopolitica. Il potere e la costituzione della soggettività Bertuccioli Manolo, Carlos Castaneda e i navigatori dell’infinito Bonaiuti Gianluca, Simoncini Alessandro (a cura di), La catastrofe e il parassita. Scenari della transizione globale

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32. 33. 34. 35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42.

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Buchbinder David, Sii uomo! Studio sulle identità maschili Cozzo Andrea, Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa Deleuze Gilles, Fuori dai cardini del tempo, Lezioni su Kant Galluzzi Francesco, Roba di cui sono fatti i sogni. Arte e scrittura nella modernità Leghissa Giovanni, Il gioco dell’identità. Differenza, alterità, rappresentazione Maistrini Maria, Il figurale in J.-F. Lyotard Montanari Moreno, Il Tao di Nietzsche Vaccaro Salvo, Globalizzazione e diritti umani. Filosofia e politica della modernità Bazzanella Emiliano, Il ritornello. La questione del senso in Deleuze-Guattari Fabbri Lorenzo, L’addomesticamento di Derrida. Pragmatismo/ Decostruzione Marcenò Serena, Le tecnologie politiche dell’acqua. Governance e conflitti in Palestina Piana Gabriele, Conoscenza e riconoscimento del corpo Prebisch Raul, La crisi dello sviluppo argentino. Dalla frustrazione alla crescita vigorosa Scopelliti Paolo, Psicanalisi surrealista. L’influenza del surrealismo su Hesnard, Lacan, Deleuze e Guattari Vaccaro Salvo, Biopolitica e disciplina. Michel Foucault e l’esperienza del GIP (Group d’Information sur les prisons) Vercelloni Luca, Viaggio intorno al gusto. L’odissea della sensibilità occidentale dalla società di corte all’edonismo di massa Caronia Antonio, Livraghi Enrico, Pezzano Simona, L’arte nell’era della producibilità digitale Dino Alessandra (a cura di), La violenza tollerata. Mafia, poteri, disobbedienza Rodda Fabio, Cioran, l’antiprofeta. Fisionomia di un fallimento Scolari Raffaele, Paesaggi senza spettatori. Territori e luoghi del presente Pastore Luigi, Limnatis G. Nectarios (a cura di), Prospettive del postmoderno Vol.1. Profili epistemici Poidimani Nicoletta, Oltre le monocolture del genere Pastore Luigi, Limnatis G. Nectarios (a cura di), Prospettive del postmoderno Vol.2. Profili epistemici Bellini Paolo, Cyberfilosofia del potere. Immaginari, ideologie e conflitti della civiltà Bazzanella Emiliano, Etica del tardocapitalismo Cuttita Paolo, Segnali di confine. Il controllo dell’immigrazione nel mondo-frontiera De Conciliis Eleonora (a cura di), Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno Di Benedetto Giovanni, Il naufragio e la notte. La questione migrante tra accoglienza, indiffernza ed ostilità Pagliani Piero, Naxalbari-India. L’insurrezione nella futura “terza potenza mondiale” Vaccaro Giovanbattista, Per la critica della società della merce Vinale Adriano (a cura di), Biopolitica e democrazia Demichelis Lelio, Leghissa Giovanni (a cura di), Biopolitiche del lavoro Corradi Luca, Perocco Fabio (a cura di), Sociologia e globalizzazione Bellini Paolo (a cura di), La rete e il labirinto. Tecnologia, identità e simbolica politica

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66. Dalla Vigna Pierre, A partire da Merleau-Ponty. L’evoluzione delle concezioni estetiche merleau-pontyane nella filosofia francese e negli stili dell’età contemporanea 67. Riccioni Ilaria (a cura di), Comunicazione, cultura, territorio. Contributi della sociologia contemporanea, 68. Pasquino Monica, Plastina Sandra (a cura di), Fare e disfare. Otto saggi a partire da Judith Butler 69. Bertoldo Roberto, Anarchismo senza anarchia. Idee per una democrazia anarchica 70. Del Bono Serena, Foucault, pensare l’infinito. Dall’età della rappresentazione all’età del simulacro 71. Dino Alessandro e Licia A. Callari (a cura di), Coscienza e potere. Narrazioni attraverso il mito 72. Farci Manolo, Pezzano Simona (a cura di), Blue lit stage. Realtà e rappresentazione mediatica della tortura 73. La Grassa Gianfranco, Tutto torna ma diverso. Capitalismo o capitalismi? 74. Dalla Vigna Pierre, La Pattumiera della storia. Beni culturali e società dello spettacolo 75. Palumbo Antonino, Vaccaro Salvo (a cura di), Governance e democrazia. Tecniche del potere e legittimità dei processi di globalizzazione 76. Vaccaro Giovanbattista (a cura di), Al di là dell’economico. Per una critica filosofica dell’economia 77. Meattini Valerio, Pastore Luigi (a cura di), Identità, individuo, soggetto tra moderno e postmoderno 78. Dino Alessandra (a cura di), Criminalità dei potenti e metodo mafioso 79. Scolari Raffaele, Filosofi e del mastodontico. Figure contemporanee del sublime della grande dimensione 80. Trasatti Filippo, Leggere Deleuze attraverso Millepiani 81. Manicardi Enrico, Liberi dalla civiltà. Spunti per una critica radicale ai fondamenti della civilizzazione: dominio, cultura, paura, economia, tecnologia 82. Vaccaro Gianbattista, Antropologia e utopia. Saggio su Herbert Marcuse 83. Trasatti Filippo, Filippi Massimo (a cura di), Nell’albergo di Adamo. Gli animali, la questione animale e la filosofia 84. Franck Giorgio, Il feticcio e la rovina. Società dello spettacolo e destino dell’arte 85. Marzocca Ottavio (a cura di), Governare líambiente? La crisi ecologica tra poteri, saperi e conflitti 86. Grossmann Henryk, Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista 87. Pullia Francesco, Dimenticare Cartesio. Ecosofia per la compresenza 88. Bazzanella Emiliano, Religio I. Senso e fede nel tardocapitalismo 89. Foucault Michel, La società disciplinare 90. Palano Damiano, Volti della paura. Figure del disordine all’alba dell’era biopolitica 91. Simone Anna, I corpi del reato. Sessualità e sicurezza nelle società del rischio 92. De Gaspari Mario, Malacittà. La finanza immobiliare contro la società civile 93. Ruta Carlo, Guerre solo ingiuste. La legittimazione dei conflitti e l’America dall’Vietnam all’Afghanistan 94. Frazzetto Giuseppe, Molte vite in multiversi. Nuovi media e arte quotidiana

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Bazzanella Emiliano, Religio II. La religione del soggetto Brindisi Gianvito, de Conciliis Eleonora (a cura di), Lavoro, merce, desiderio Casiccia Alessandro, I paradossi della società competitiva Castanò Ermanno, Ecologia e potere. Un saggio su Murray Bookchin d’Errico Stefano, Il socialismo libertario ed umanista oggi fra politica ed antipolitica 100. Tursi Antonio, Politica 2.0. Blog, Facebook, YouTube, WikiLeaks: ripensare la sfera pubblica 101. Lombardi Chiara, Mondi nuovi a teatro. L’immagine del mondo sulle scene europee di Cinquecento e Seicento: spazi, economia, società 102. Petrillo Antonello (a cura di), Società civile in Iraq. Retoriche sullo “scontro di civiltà” nella terra tra i due fiumi 103. Paolo Bellini, Mitopie tecnopolitiche. Stato, nazione, impero e globalizzazione 104. Palumbo Antonino, Segreto Viviana (a cura di), Globalizzazione e governance delle società multiculturali 105. Bertoldo Roberto, Nullismo e letteratura. Al di là del nichilismo e del postmoderno debole. Saggio sulla scientificità dell’opera letteraria 106. Ruggero D’Alessandro, La comunità possibile. La democrazia consiliare in Rosa Luxemburg e Hannah Arendt, 107. Tessari Alessandro (a cura di), Sindrome giapponese. La catastrofe nucleare da Chernobyl a Fukushima 108. Bonazzi Matteo, Carmagnola Fulvio, Il fantasma della libertà. Inconscio e politica al tempo di Berlusconi, 2011 109. Mario De Gaspari, La Bolla immobiliare. Le conseguenze economiche delle politiche urbane speculative, 2011 110. Bruni Sara Elena Anna, Colavero Paolo, Nettuno Antonio (a cura di), L’animale di gruppo. Etologia e psiconalisi di gruppo. Riflessioni gruppali da un seminario urbinate, 2011 111. Segreto Viviana, «Il padre di tutte le cose» Appunti per una pedagogia del conflitto, 2011 112. Alessandra Dino (a cura di), Poteri criminali e crisi della democrazia, 2011 113. Serena Marcenò, Biopolitica e sovranità. Concetti e pratiche di governo alle soglie della modernità 114. Cosimo Degli Atti, Soggetto e verità. Michel Foucault e l’Etica della cura di sé 115. Pascal Boniface, Verso la quarta guerra mondiale 116. Guido Dalla Casa, L’ecologia profonda. Lineamenti per una nuova visione del mondo 117. Il clown. Il meglio di Wikileaks sull’anomalia italiana, introduzione di Marco Marsili 118. Carlo Grassi, Sociologia della cultura tra critica e clinica. Battaile, Barthes, Lyotard 119. Friedrich Georg Jünger, Ernst Jünger, Guerra e guerrieri. Discorso 120. Emma Palese, Benvenuti a Gattaca. Corpo liquido, pedicopolitica, genetocrazia 121. Anna Simone (a cura di), Sessismo democratico. L’uso strumentale delle donne nel neo liberismo 122. Matthew Calarco, Zoografie. La questione dell’animale da Heidegger a Derrida 123. Luigi Vergallo, Economia reale ed economia sommersa nel riminese in prospettiva storica

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124. Salvo Vaccaro (a cura di), L’onda araba. I documento delle rivolte 125. Valeria Nuzzo, L’immagine per il paesaggio e l’architettura. Percorsi didattici per la scuola 126. Félix Guattari, Una tomba per Edipo. Introduzione di Gilles Deleuze 127. Raffaele Federici, Sociologie del segreto 128. Luca Taddio, Global revolution. Da Occupy Wall Street a una nuova democrazia 129. Enrique Dussel, Indignados 130. James Tobin, Tobin Tax 131. Jean-François Lyotard, Istruzioni pagane 132. Delfo Cecchi, Cibo, corpo, narrazione. Sondaggi estetici 133. Mario Giorgetti Fumel, Federico Chicchi (a cura di), Il tempo della precarietà Sofferenza soggettiva e disagio della postmodernità 134. Spartaco Pupo, Robert Nisbet e il conservatorismo sociale 135. Giuseppina Tumminelli, Strategie di ri-produzione. Aziende agricole e strutture familiari nella Sicilia centro-occidentale 136. Iris Gavazzi, Il vampiresco. Percorsi nel brutto 137. Ferruccio Capelli, Indignarsi è giusto 138. Enrico Manicardi, L’ultima era. Comparsa, decorso, effetti di quella patologia sociale ed ecologica chiamata civiltà 139. Manuele Bellini, Corpo e rivoluzione. Sulla filosofia di Luciano Parinetto 140. Giovan Battista Vaccaro, Le idee degli anni Sessanta 141. Milena Meo, Il corpo politico. Biopotere, generazione e produzione di soggettività femminili 142. Massimiliano Vaghi, L’idea dell’India nell’Europa moderna (secoli XVII-XX) 143. Gianluca Cuozzo, Mr. Steve Jobs. Sognatore di computer 144. Paolo Cuttitta, Lo spettacolo del confine. Lampedusa tra produzione e messa in scena della frontiera 145. Emiliano Bazzanella, Religio III. Logica e follia 146. Emma Palese, La filosofia politica di Zygmut Bauman. Individuo, società, potere, etica, religione nella liquidità del nostro tempo 147. Emma Palese, Mostri, draghi e vampiri. Dal meraviglioso totalizzante alla naturalizzazione delle differenze 148. Matteo Bonazzi, Lacan e le politiche dell’inconscio. Clinica dell’immaginario contemporaneo 149. Eleonora de Conciliis, Il potere della comparazione. Un gioco sociologico 150. L’apartheid in Palestina. Il rapporto Human Rights Watch sui territori arabi occupati da Israele 151. Fulvio Carmagnola, Clinamen. Lo spazio estetico nell’immaginario contemporaneo 152. Francesco Pullia, Al punto di arrivo comune. Per una critica della filosofia del mattatoio 153. Maurizio Soldini, Hume e la bioetica 154. Gianluca Cuozzo, Gioco d’azzardo. La società dello spreco e i suoi miti 155. Andrea Gilardoni, Distruzioni. Potere & Dominio I 156. Andrea Gilardoni, (Dis)obbedienza. Meccanismi, strategie, argomenti. Potere & Dominio II 157. Nicoletta Vallorani, Millennium London, Of Other Spaces and the Metropolis 158. Giuseppe Armocida, Gaetana S. Rigo (a cura di), Dove mi ammalavo. La geografia medica nel pensiero scientifico del XIX secolo

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159. Salvo Torre, Dominio, natura, democrazia. Comunità umane e comunità ecologiche 160. Tindaro Bellinvia, Xenofobia, sicurezze, resistenza. L’ordine pubblico in una città “rossa” (il caso Pisa) 161. Amalia Rossi, Lorenzo D’Angelo (a cura di), Antropologia, risorse naturali e conflitti ambientali 162. Augusto Illuminati, Teologia dei quattro elementi, Manifesto per un politeismo politico 163. Giovanni Leghissa, Neoliberalismo, Un’introduzione critica 164. Anna Sica, Alison Wilson, The Murray Edwards Duse Collection 165. Stefano Cardini (a cura di), Piazza Fontana. 43 anni dopo. Le verità di cui abbiamo bisogno 166. Isacco Turina, Chiesa e biopolitica. Il discorso cattolico su famiglia, sessualità e vita umana da Pio XI a Benedetto XVI 167. Felice Papparo, Perdere tempo 168. Ugo Maria Olivieri, Il dono della servitù. étienne de La Boétie tra Machiavelli e Montaigne 169. Giovanna D’Amia, Milano e Parigi. Sguardi incrociati. 170. Vittorio Morfino (a cura di) Machiavelli: tempo e conflitto 171. Andrea Gilardoni, Potere potenziale 172. Laura Sanò, Donne e violenza 173. Marilena Parlati, Oltre il moderno. Orrori e tesori del lungo Ottocento inglese 174. Damiano Palano, La democrazia e il nemico 175. Andrea Rabbito, Il moderno e la crepa 176. Pierre Dalla Vigna, Estetica e ideologia 177. Paola Gandolfi, Rivolte in atto 178. Chiara Simonigh (a cura di) Pensare la complessità. Per un umanesimo planetario 179. Carmelo Buscema, L’epocalisse finanziaria. Rivelazioni (e rivoluzione) nel mondo digitalizzato 180. Lidia Lo schiavo, Governance Globale, Governamentalità, Democrazia 181. Alessandra Vicentini, Anglomanie settecentesche 182. Francesco Saverio Festa, Un’altra “teologia politica”? 183. Daniela Calabrò, L’ora meridiana. Il pensiero inoperoso di Jean-Luc Nancy tra ontologia, estetica e politica 184. Mimmo Pesare, Comunicare Lacan. Attualità del pensiero lacaniano per le scienze sociali 185. Riccardo Ciavolella, Antropologia politica e contemporaneità. Un’indagine critica sul potere presente 186. Carlo Calcagno, Impotenza. Storia di un’ossessione 187. Marta Sironi, Ridere dell’arte. L’arte moderna nella grafica satirica europea tra Otto e Novecento 188. Gianpaolo Di Costanzo, Assi mediani. Per una topografia sociale della provincia di Napoli 189. Terrence Des Pres, Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte, a cura di Adelmina Albini e Stefanie Golisch 190. Francesca Nicoli, Giù le mani dalla modernità 191. Leonardo Vittorio Arena, La durata infinita del non suono 192. Anselm Jappe, Contro il denaro

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193. Giovanni Comboni, Marco Frusca, Andrea Tornago (a cura di), L’abitare e lo scambio. Limiti, confini, passaggi, 194. Gianluca Cuozzo, Regno senza grazia. Oikos e natura nell’era della tecnica 195. Elisa Virgili, Ermafroditi 196. Flavia Conte (a cura di), Conversazioni sul postmoderno. Letture critiche del nostro tempo 197. Alessandra MR D’Agostino, Sesso mutante. I transgender si raccontano 198. Gianfranco La Grassa, L’altra strada. Per uscire dall’impasse teorica 199. Paolo Mottana (a cura di), Spacco tutto! Violenza e educazione 200. Licia Michelangeli e Vittorio Ugo Vicari (a cura di), Mode società e cultura nella Sicilia del secolo d’oro 201. Roberto Bertoldo, Istinto e logica della mente. Una prospettiva oltre la fenomenologia 202. Giuseppe Raciti, Ho visto Jünger nel Caucaso. Jonathan Littell, Max Aue e Ernst Jünger 203. Furio Semerari (a cura di), Etica ed estetica del volto 204. Leonardo Grimoldi, Storia e utopia. Saggio sul pensiero di Ignazio Silone

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