Diotima. Il pensiero della differenza sessuale
 8877383755, 9788877383754

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DIOTI

Il pensiero della differenza sessuale

Adriana Cavarero

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Cristiana Fisther Elvia Franco ' Giannina Longobardi Veronica Mariaux Luisa Muraro Anna Maria Piussi Wanda Tommasi Anita Sanvitto Betty Zamarchi Chiara Zamboni Gloria Zanardo

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La Tartaruga edizioni

INDICE

La differenza sessuale: da scoprire e da produrre di Cristiana Fischer, Elvia Franco, Giannina Longobardi, Veronica Mariaux, Luisa Muraro, Anita Sanvitto, Betty Zamarchi, Chiara Zamboni, Gloria Zanardo La "passione" della differenza Lo "stato della questione" nel sapere La differenza delinea i rapporti delle donne fra loro e con il mondo

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Per una teoria della differenza sessuale di Adriana Cavarero Sulla mostruosità_ del soggetto La domanda dell'essenza L'essenza come esperienza della separatezza L'Altra/altra Il nostro somigliarci: le immagini di Dio Il nostro differire Quasi una conclu,sione

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La tentazione del neutro di Wanda Tommasi

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Donne e potere di Giannina Longobardi

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Visibilità/significatività del femminile e logos della pedagogia di Anna Maria Piussi Del calice ed altre storie Il logos della pedagogia Una divisione del lavoro teorico? Paradigma di educazione al maschile e amnesia del matemo Progettare l'esistenza: tra me e me, tra me e il mondo, una donna

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L'affidamento nel rapporto pedagogico di Elvia Franco L'affidamento nel rapporto pedagogico Il sessismo a scuola e la pseudosoluzione emancipatoria . La rimozione originaria Il mito di Core Il modello Le ragioni del movimento femminista La scuola dell'affidàmento

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Appendice - Cronaca dei fatti principali di "Diotima'·' di Luisa Muraro e Chiara Zamboni Un inizio politico I fogli volanti I foglietti di Adriana I viaggi

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LA DIFFERENZA SESSUALE: DA SCOPRIRE E DA PRODURRE

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cli Cristiana Fischer, Elvia Franco, Giannina Longobardi, Veronica Mariaux, Luisa Murare, Anita Sanvitto, Betty Zamarchi, Chiara Zamboni, Gloria Zanardo

* Copyright by: Presses Universitaires de France (testo scritto

per la Encyclopédie philosophique delle P. U. F., voce: Anthropo-

logie différentielle - la différence sexuelle).

1. La "passione" della differenza "La differenza sessuale rappresenta uno dei l;?roblemi o

il problema che la nostra epoca ha da pensare", è stato scritto nel I984 da Luce Irigaray.1 Noi infatti non abbiamo ricevuto un pensiero della differenza sessuale; la nostra cultura occidentale le cui basi o inizio risalgono ai greci antichi, non ha elaborato in sapere il fatto della sessuazione della specie umana. Il fatto è stato e continua ad essere oggetto di molti discorsi i quali hanno prodotto molte conoscenze. Ma a quei discorsi e conoscenze manca, per costituire un sapere, di rendere conto nella loro forma del fatto che la differenza sessuale affetta il soggetto stesso dei discorsi e delle conoscenze. Così come lo affettano altre sue elementari determinazioni, quali la collocazione spazio-temporale o l'essere individualmente mortale, che hanno ricevuto elaborazione sia nella forma sia nei contenuti del sapere. Il sillogismo, per fare un semplice esempio, è una figura logica che mostra la progressione del pensiero dimostrativo, ossia la temporalità intrinseca a un ragionare che pur non dipende dal tempo per la sua validità. Questo rendere formalmente conto che libera dai limiti reali e produce sapere, è completamente mancato per quel che riguarda la differenza sess11ale, della quale si è cercato di avere scienza, come ·di ogni altra cosa, dal punto di vista di un soggetto neutro, non sessuato. Di conseguenza la differenza tra essere donna/uomo si rappresenta in una falsa ·esteriorità che fa da ostacolo al sapere in quanto rompe la circolarità .tra immediatezza e mediazione separando il nostro essere uomo o donna, che rimane in un'intimità senza parole, dalle sue rappresentazioni sociali. · La mancata elaborazione della differenza sessuale si imputa, non senza ragione, al dominio storico esercitato dagli 9

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uomini sulle donne. Occorre tuttavia notare che l'ottusità verso la potenza simbolica della differenza sessuale si riscontra soprattutto nel sapere filosofico-scientifico e non ha l'uguale in altri ambiti culturali come le mitologie, le religioni (escludendone la teologia) o le arti. Questo fatto indica che il dominio sessista di per sé non ha Jmpedito ogni espressione simbolica della differenza sessuale; l'elaborazione manca soprattutto dove il pensiero umano si applica alla dimostrazione del vero. Una prima spiegazione si può trovare per analogia con fatti dello stesso tipo. Consideriamo, per esempio, che la geometria .euclidea, formulata nel secolo III a.C., fino al secolo scorso è stata considerata l'unica geometria possibile e vera, per incapacità mentale di mediare concettualmente esperienze ed esigenze umane diverse da quelle degli agrimensori. Il non considerare la differenza sessuale si può intendere, a questa stregua, come una specie di decisione semplificatrice. Ma più profondamente dobbiamo vedere che qui l'escluso non sono semplicemente certe esperienze o certi procedimenti a vantaggio di altri. Qui ciò che si trova escluso è l'alterità stessa in cui si costituisce il soggetto umano a causa del sesso. E ·per cui esso soggetto, nell'atto di conoscere, trova fuori di sé e opposto a sé .non soltanto il mondo da conoscere ma se stesso nell'altro sesso. Ciò costituisce innegabilmente una formidabile complicazione per il rapporto di conoscenza. In questo ha giocato il dominio sessista. La subordinazione di un sesso all'altro è una maniera pratica di risolvere il problema del soggetto umano che non è uno ma due. Questa soluzione, usata tradizionalmente per regolare i rapporti tra i due sessi, è stata adottata anche dalla filosofia e dalla scienza per poter attribuire al soggetto conoscente di essere uno e semplice, cioè non toccato dalla particolarità del suo corpo sessuato e come tale opposto all'bggetto molteplice e diveniente del suo conoscere. Questo guadagnare la soluzione teorica passando per la soluzione pratica offerta dallo stato di subordinazione del 10

sesso femminile, è ravvisabile sia nel filosofo G. W. F. Hegel sia nello scienziato Sigmund Freud. Entrambi, infatti, ragionano sulla differenza sessuale usando in funzione dimostrativa elementi del dominio sessista. Uno, in particolare, che è comune ai due pensatori: il fatto che nelle società patriarcali la donna non ha rapporto con gli oggetti sociali di desiderio se non attraverso l'uomo, padre, fratello o marito, cosicché il suo desiderio o si fa virile o si smarrisce nella sua estraneità femminile al sociale. Va detto che in Hegel come in Freud il dominio sessista diventa una visibile interpolazione in quanto in essi il discorso dimostrativo, da astraente e deduttivo qual era nel pensiero classico, si è fatto mediatore e dialettico per comprendere il reale fino alla sua concreta singolarità. E che proprio dalla rivoluzione portata da Hegel con la tesi che la sostanza è soggetto, vengono alcuni termini che consentono di formulare la questione della differenza sessuale. Non è un caso se tale questione si è posta con il femminismo attraverso una politica dal nome inequivocabilmente hege• liana: la pratica dell'autocoscienza. Hegel pone la ragione della differenza sessuale nella famiglia e afferma che oltre la sfera della famiglia, quando cioè il soggetto mira all'universale facendo politica, arte o scienza, allora essa differenza diventa insignificante. "Non progredisce", scrive Hegel.2 Di fatto possiamo ammettere che sia cosi, ma manca àncora una ragione del fatto stesso. La risposta si trova nella lunga trattazione che al medesimo tema il filosofo dedica nella Fenomenologia. 3 Qui egli afferma e argomenta che l'essere umano supera il dato naturale del suo essere donna/uomo e per caso (nascere donna piuttosto che uomo o viceversa è in effetti per caso naturale, almeno ai tempi di Hegel e ancor oggi), grazie alla f!lmiglia dove i due che sono il soggetto umano si spartiscono la differenza della "sostanza etica": la donna prende su di sé la legge divina e l'uomo quella umana, dalla cui dialettica si costituiscono appunto i rapporti tra mogliemarito, genitori-figli, fratello-sorella. Il problema successivo è di intendere come la famiglia 11

esca fuori di sé dando luogo alla vita sociale e culturale. La famiglia infatti tende a riprodurre se stessa poiché riproduce esseri umani a loro volta segnati dalla differenza. Ma dentro la famiglia la differenza si ripresenta in una coppia, fratello e sorella, che non è immediatamente finalizzata alla riproduzione della specie. Perciò Hegel afferma che questa coppia rappresenta la relazione sessuale nella sua forma più alta in quanto pura da subordinazione di un sesso all'altro e di entrambi alla natura. E in essa egli quindi vede il cerchio familiare aprirsi all'ulteriore progresso spirituale. È in questo decisivo passaggio che la differenza sessuale perde la sua ragione di essere. "Questa relazione - scrive Hegel - è il limite raggiunto il quale si risolve la famiglia in sé conchiusa, procedendo oltre sé stessa. Il fratello è il lato secondo cui Io spirito della famiglia diventa individualità che si volge verso altro e passa nella coscienza dell'universalità". Segue una complessa argomentazione volta a dimostrare come l'ingiusta unilateralità di questo esito si risolva in una superiore giustizia. Giustizia che però non può essere apprezzata come tale dalla sorella la quale, restando nella famiglia e diventando moglie, resta vincolata al particolare e quindi non può comprendere i fini universali della comunità sociale. Di questa anzi diventa nemica e irridente. Il che giustificherebbe l'oppressione sociale nei suoi confronti. Questo è, con ogni evidenza, un circolo vizioso. Non inventato, sia chiaro, da Hegel, poiché in realtà anche noi possiamo vedere che l'oppressione del sesso femminile è tale che tende riprodurre se stessa. Hegel vuole, per parte sua, dimostrare come questo circolo non sia vizioso ma rispondente alla ragione. La singolarità ia cui rimane il femminile, egli scrive, è essenziale alla comunità la quale la intrattiene·opprimendola. In questo modo la sostanza etica s'intrattiene nella sua dualità di legge divina e legge umana e però, nello stesso tempo, può uscire dalla dualità e svilupparsi nelle forme dell'universale. Femminile e maschile, spiega Hegel, sono ugualmente essenziali e però non possono sussistere l'uno accanto all'altro perché il loro

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sussistere diversi e ugualmente essenziali contraddice-all'unità del pensiero che si pensa. Come tali perciò tramontano. E si ripresentano nell'unità del pensiero: il maschile come il lato che, consapevole della sua unilateralità, l'ha superata, il femminile come il lato che resta nell'immedi~tezza ed è tenuto all'obbedienza. Così dunque il soggetto supera il dato naturale e accidentale del suo essere donna o uomo grazie alla separatezza del femminile privo di mediazioni fra sé e sé, fra sé e la società. Il femminile separato conserva quello che il progresso spirituale supera. Stante che l'elemento superato si supera in forza della coscienza di sé, esso elemento si conserva come un inconscio. Hegel con ciò non intende affermare che il femminile sarebbe la parte inconscia del pensiero e il maschile quella conscia. Una simile soluzione del problema viene da lui esplicitamente esclusa. Secondo Hegel il maschile e il femminile, quanto al sapere sono entrambi scissi tra conscio e inconscio. Essi hanno però un diverso rapporto con la parte scissa, che si riconosce in ciò: .che l'uomo ne è attirato mentre la donna aspira a uscirne, dando così luogo a un doppio e opposto movimento· da su a giù e da giù a su, rispettivamente, al quale Hegel attribuisce di formare un unico movimento. Ma su quest'ultimo punto è difficile seguirlo perché, secondo il suo stesso testo, l'uomo è attirato verso il basso dal quale si è separato grazie al precedente movimento del suo progresso spirituale mentre la donna non ha che quel movimento di aspirazione verso l'alto. · La teoria hegeliana della differenza sessuale lascia senza soluzione razionale due problemi. Il primo, avvertito dallo stesso Hegel, è l'inevitabile oppressione cui si trova sottoposta la donna all'interno della famiglia. Nei confronti del marito lei perde la libertà spirituale di cui aveva goduto nei confronti del fratello. Che il progresso spirituale debba provocare un simile effetto di perdita di libertà, nel contesto della filosofia hegeliana è un'assurdità; Il filosofo la registra e tenta di esorcizzarla con il celebre 13

passo dove parla del femminile che è "eterna ironia della comunità". Il secondo problema, non registrato da Hegel per motivi di scarsa evidenza sociale, è la contraddizione in cui si trova la donna che esce dalla famiglia ·ed entra nella comunità politica o scientifica. Dalla sua teoria discende che la partecipazione alla vita sociale e culturale domanda al singolo di assumere un carattere virile. Ma questo è un processo in cui il soggetto di sesso maschile perde il suo sesso particolare per ritrovarlo nel servizio dell'universale, mentre il soggetto femminile perde il suo e non lo ritrova entrando così in contraddizione con il fatto di essere donna. Secondo Hegel, come si è visto, il soggt:tto umano sessuato sarebbe la causa prima che il pensiero si scinda tra un conscio e un inconscio. Sigmund Freud, il fondatore della psicoanalisi, non condivide questa tesi. Secondo Freud, il fatto della sessuazione non ha un ruolo determinante nei processi di formazione dell'inconscio. Questo vuol dire che inconscio e differenza sessuale formano l'oggetto di due diverse teorie e dunque che la scienza dell'inconscio non porterà il soggetto conoscente a sapersi nella sua alterità èostitutiva di essere uomo/ donna. Nel pensiero freudiano i fattori della differenza tra donna e uomo sono tre: la biologia, la società e la storia infantile. Come noto, Freud si è concentrato sul terzo fattore e non ha indagato sistematicamente i tre fattori nel loro interagire. Il caposaldo della sua teoria è che la differenza sessuale è irrilevante nella prima infanzia. Il bambino piccolo ha una sua vita sessuale molto forte, sebbene poco appariscente, che è identica nei due sessi. La differenziazione, asserisce Freud, interviene in un secondo tempo, quando la sessualità infantile si organizza sotto il primato del pene o clitoride. In questa fase, chiamata fallica, la differenza cessa di essere irrilevante perché il bambino maschio interpreta l'anatomia· femminile come mancante di organo sessuale, dal che seguirebbe che egli teme di perdere il proprio. In lui nasce così l'angoscia di castrazione che lo induce a rinunciare al suo desiderio di possedere la madre, desid~rio che ora sente

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colpevole -e per il quale teme di essere punito dal padre con la castrazione. Nello stesso tempo anche la bambina fa il confronto anatomico arrivando alle medesime conclusioni, interpretando cioè il proprio sesso come difettoso o mancante. In lei nasce cosi l'invidia del pene per cui prende a detestare la madre che non l'ha provvista di esso e si volge al padre, prima suo rivale nell'amore per la madre, con la speranza di riceverlo da lui. Il complesso di castrazione differenzia gli individui dei due sessi come il loro successivo sviluppo. Quelli di sesso maschile si caratterizzano, fondamentalmente, per l'angoscia di castrazione, quelli di sesso femminile per l'invidia del pene.4 Questa teoria, come spesso le teorie nuove, presenta parecchi punti oscuri o deboli. Essa fu perciò criticata, corretta, arricchita, in parte dallo stesso Freud. Ma gli aggiustamenti successivi non hanno fatto che accentuare il suo inconveniente maggiore e cioè che da essa discende una spiegazione coerente della psicologia maschile mentre quella femminile riceve una spiegazione contorta in cui i fattori biologici e sociali, talvolta chiamati in causa solo per sanare delle contraddizioni, si mescolano confusamente con quelli propriamente psicologici. Ora .questa è una discrepanza che ci è fin troppo familiare per tutto quello che si sa e si dice comunemente dei due sessi. E ciò delude la nostra più profonda aspettativa verso la scienza alla quale non domandiamo di ripresentarci le nostre ovvie chiarezze e le nostre residue oscurità, bensl di risolvere queste ultime a prezzo, se necessario, di sconvolgere le prime, come hanno fatto, per citare due grandi nomi, Copernico e Einstein. Freud· non perviene a questo risultato rivoluzionario per quel che riguarda la differenza sessuale. In lui vediamo che, contrariamente a quello che sosteneva Hegel, l'attrazione dell'uomo per l'inconscio non si combina in un movimento tjrcolare con l'aspirazione della donna all'esistenza libera. In realtà il soggetto entra in circolo con sé medesimo anche quando vuo1è' avere scienza dell'altro da sé.

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Il suo movimento discendente si salda con il movimento ascendente che lo ha portato alla volontà di conoscenza scientifica e se in questo primo movimento il femminile è stato rifiutato, il soggetto conoscente non lo ritroverà se non come ciò che esso stesso ha rifiutato. Al termine del suo ultimo scritto teorico, Analisi terminabile e analisi interminabile,5 del 1937, Freud parla appunto del "rifiuto della femminilità". Si riscontra, egli dice, nell'uomo come ripugnanza ad atteggiarsi passivamente nei confronti dei suoi simili maschi, nella donna come aspirazione alla virilità o, alternativamente, depressione. Questo "tratto cosl sorprendente della vita psichica umana", conclude Freud, per la psicoanalisi è un limite invalicabile, la "roccia basilare" a cui si arresta la sua efficacia terapeutica come la sua scienza la quale lo registra come un "enigma". Da questa incapacità del pensiero umano di conoscersi nella dualità di uomo/donna, viene che la differenza si vive piuttosto nella forma di una passione. Questa passione della differenza sessuale è rintracciabile nell'arte e nella letteratura, specialmente nella grande letteratura femminile del Novecento che la porta fino alla forma del sapere:· Tre esistenze di Gertrude Stein, Gita al faro di Virginia Woolf, Menzogna e sortilegio· di Elsa Morante, Più donne che uomini di lvy Compton Burnett, Rifl,essioni su Christa T. di Christa Wolf, La passione secondo G. H. di Clarice Lispector. È passione - nel senso classico del latino pati - che alla sostanza spirituale, o anima, accada qualcosa a causa del corpo. Cosl a ciascuno accade di essere donna o uomo a seconda del corpo che ha. Ma sarebbe più giusto dire: che è. · La potenza che fa alla coscienza questo torto di renderla pura cosa, è la natura, non la comunità, afferma Hegel. Il misconoscimento della differenza è già presente in questa chiara veduta, che non può essere la veduta del soggetto di sesso femminile al quale la natura fa un " torto" che si prolunga quasi senza soluzione di continuità in oppressione sociale. Tanto che, per l'uomo come per la donna, il torto naturale di cui parla il filosofo si cancella pratica16

mente dietro al torto che la donna sopporta dalla natura e dalla società, indistintamente. La passione della differenza nel pensiero umano comincia con questa confusione tra natura e società circa l'essere donna. In lei quello che può capitare a causa del corpo non è un qualche imprevisto accadimento o la morte finale, ma l'intera vita, per una fatalità socialmente prevista e regolata. E, all'occorrenza, filosoficamente argomentata. Quello che il pensiero dimostrativo, filosofico, scientifico o politico, può riguardare come un problema da risolvere, il pensiero vivente dalla parte femminile soffre come un avere esistenza ma non principio da sé, come un pensarsi pensato fuori da sé e un impedimento a tornare_presso di sé. Ma quando anche il pensiero femminile arriva a emanciparsi dal suo destino di subordinazione e diventa libera attività e fine a se stesso, esso non trova in sé la sua ragione di essere e gode di una finta libertà. Perché essere donna piuttosto che uomo è indifferente ai fini di quello che conta per il pensiero, dimostrare il vero e decidere il giusto. Cosi ora la passione della differenza si vive nella forma del pensiero femminile superfluo. Socialmente, incoraggiato o scoraggiato, considerato o trascurato a seconda di circostanze indipendenti da esso. Internamente, mancante di necessità, di regole, di criteri, di suo incapace di concludere perché privo di elementi costringenti suoi propri. Gli elementi costringenti sono fuori, come il corpo da cui si è distaccato per essere un pensiero libero. E come tale esso non trova prima e contro di sé qualcosa di già accaduto da interpretare, ma soltanto dentro di sé il bisogno che qualcosa accada. Non è come Edipo che, dopo aver ucciso un uomo senza sapere che era suo padre e avere sposato una donna senza sapere che era sua madre, fu costretto a scoprire la verità dalla peste scoppiata a Tebe. Il pensiero che patisce in sé la non saputa differenza è come Melanctha Herbert, in Tre esistenze: "Melanctha Herbert perdeva sempre ciò che aveva, per il bisogno di tutte le cose che vedeva. Melanctha veniva sempre abbandonata, quando non abbandu11ava lei gli al~ri. 17

Melanctha Herbert amava sempre con troppa foga e troppo sovente. Era sempre piena di mistero e di mosse tortuose e di rifiuti e di vaghe sfiducie e di delusioni complicate. Poi Melanctha si faceva repentina e impulsiva e illimitata in qualche entusiasmo, e poi soffriva e si faceva forza per . .,, repruners1 . Esiste un'accomodante veduta, ribattezzata in psicologia con il nome di "bisessualità", secondo cui sarebbe inevitabile e in fondo utile all'avanzamento del sapere umano, che il pensiero dimostrativo, nella sua fatica per far coincidere ciò che di -fatto è con ciò che la ragione comanda di pensare, lasci fuori di sé, oltre a un resto di fatti che non collimano, anche un resto di pensiero che non sa dove andare a parare, svincolato cioè da vero/falso, giusto/ingiusto. Ma questa accomodante veduta trascura che, se anche le cose possono passare per mute e sorde, il pensiero per definizione non lo è. Il pensiero è un io che sente e pensa e, se di esso si dice che è superfluo, esso lo intende. Può intenderlo, intendersi, come un contorno o una riserva ma, tutto al contrario - e niente glielo vieta, stante il suo regime logico di superfluità -, può intendersi come un pensiero condannato. E allora vuole disperatamente vivere, a qualunque prezzo. Quando il pensiero smette di pensarsi, dal suo lato femminile, innocente e superfluo, esso si vive come un urlo trattenuto per paura in un silenzio ormai insopportabile. Questa è la potente immagine che ne dà Clarice Lispector in La passione secondo G. H.: "Tutto si riassumeva ferocemente nel non cacciare mai il primo urlo - un primo grido scatena tutti gli altri, il primo grido, nascendo, scatena la vita, se urlassi io desterei migliaia di essere urlanti che · avvierebbero dai tetti un coro di urla e di orrore. Se urlassi, io scatenerei l'esistenza - l'esistenza di che? L'esistenza del mondo". È l'ultima figura della passione e la sua fine. Perché il dilemma fra un pauroso silenzio e la disperata protesta fa sparire ogni gratuità di cui il pensiero aveva goduto nella donna. Ora lei sa l'accaduto e ne ha paura: se parla, sve18

glierà dal suo silenzio una sofferenza smisurata. Ma dalla sua stessa interna paura il pensiero apprende quale sarà la sua scelta. Storicamente questo ultimo passaggio ha una data, il 1938, anno in cui apparvero Le tre ghinee di Virginia Woolf. In questo libro il fatto della differenza sessuale si presenta al pensiero femminile come la sua questione costringente, la questione in cui esso perde la sua finta libertà e, con ciò stesso, fa perdere al pensiero dimostrativo la sua finta neutralità. Richiesta dai suoi amici impegnati d'impegnarsi pubblicamente in difesa della pace, della libertà e della cultura minacciate dal fascismo avanzante, Virginia Woolf scrisse il libro quando ebbe chiaro che dalla sua interna ripugnanza per ogni forma di sopraffazione, dal suo sincero amore per la cultura non seguiva logicamente una risposta affermativa alle richieste che le venivano fatte. Perché tra queste richieste e il suo interno sentire non esisteva alcuna vera coincidenza. Le richieste venivano da uomini per i quali istruzione e libertà erano requisiti elementari di un essere umano, che giudicavano intollerabile il subire l'altrui sopraffazione e che avevano scelto di difendere la pace essendo disposti a fare la guerra se necessario. Il sentimento di lei nasceva dalla sua estraneità femminile all'esercizio del potere. Era perciò un sentimento radicale e inefficace al tempo stesso. Lo dettava il suo sesso che conosce alcuni effetti delle guerre ma non le ragioni per cui si fanno, che non ha un obbligo sociale d'istruirsi ma appena un diritto faticosamente conquistato, e che della sopraffazione sa quasi unicamente quello che si prova a subirla. Quella era la veduta sociale più elevata, questo era il sentimento di un'esperienza femminile. Virginia Woolf decise che avrebbe ragionato seguendo la sua esperienza. I beni universali che le veniva chiesto di difendere contro la barbarie fascista, lei li conosceva come ciò da cui le sue simili erano state escluse per secoli e di cui a presente avevano un incerto possesso. Come tali dunque andavano difesi: 19

"L'unico modo in cui possiamo aiutarvi a difendere la cultura e la libertà di pensiero è difendendo la nostra cultura e la nostra libertà di pensiero".6 Questa affermazione fece scandalo e continua a farlo. La parte (femminile) che si separa dal tutto, e non per qualche suo interesse particolare ma per difendere il vero e il giusto, parve senza statuto logico. Ma in realtà, separandosi, essa non faceva che metteré allo scoperto la parzialità e il privilegio che si nascondevano sotto le forme del1'universale. E grazie ad essa, parte femminile che dice per sé il suo amore per la cultura e la libertà, queste cessano di essere maschere per diventare contenuti di un pensiero vivente che sa la differenza sessuale e la necessità di saperla. 2. Lo "stato della questione" nel sapere

Il pensiero della differenza si trova di fronte ad un compito complesso. Si tratta, in primo luogo, di districare gli effetti del dominio dell'uòmo sulla donna dalle manifestazioni della loro differenza. Queste e quelli, infatti, si presentano mescolati e quasi non distinguibili alla nostra osservazione nella misura in cui questa ultima manca della necessaria luce teorica, cosicché si tende ad interpretare come differenze originali anche gli effetti del dominio, oppure, in alternativa, a interpretare come effetti del dominio anche le differenze originali. Questa operazione di discernimento teorico ha come suo necessario complemento l'abbandono di tutte quelle opposizioni bipolari, del tipo: attivo/passivo, superiore/ inferiore, forma/materia, cultura/natura, pubblico/privato, tutte risonanti tra loro e tutte in qualche misura ricalcate su maschile/femminile, le quali pregiudicano la percezione della differenza sessuale occultando il carattere asimmetrico del rapporto uomo/ donna. Diventa cosi possibile e necessario aprire le forme del sapere perché mostrino quello che in esse è solidale con un simbolismo sessuato al maschile e perché accolgano

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nuove forme simboliche rispondenti all'esperienza femminile. Forme che sono da scoprire ma anche da inventare, in quanto l'esperienza delle donne si vive spesso senza le necessarie mediazioni per sapersi e significarsi. Espe1:ienza reale ma di fatto consegnata alle mediazioni del pensiero maschile o al lavarlo senza fine dell'immaginazione femminile. Il pensiero della differenza sessuale diventa allora inventore di mediazioni· femminili. Diventa cioè pensiero politico che combatte l'isolamento della donna, tradizionalmente sola nel confinamento della famiglia e ancor più sola quando aspira ad integrarsi nella vita sociale, il suo termine di riferimento essendo costituito, in entrambi i casi, da quello che sente, vuole, giudica, l'uomo. Per questa via il pensiero torna al suo compito iniziale che è di sottrarre la differenza sessuale alla presa del dominio sessista, e lo riaffronta con strumenti concettuali più fini e potenti, manifestando con questo movimento di ripresa la sua fecondità simbolica. Nella scuola psicoanalitica freudiana il dibattito degli anni Trenta sulla teorfa della differenza sessuale mise in evidenza che essa teoria non rendeva conto della sessualità femminile. Freud lo riconobbe e tentò degli approfondimenti, senza per altro correggere la sua tesi fondamentale secondo cui il complesso di castrazione sarebbe il principio di originaria differenziazione tra i due sessi. Da questa tesi si scostano, con diversi argomenti, Karen Horney, Melanie Klein e Ernest Jones. Karen Horney, già negli anni Venti obiettò che l'invidia del pene (versione femminile del complesso di castrazione) è una formazione secondaria e reattiva, preceduta da una originaria esperienza in cui la bambina ha desideri specificamente femminili associati alla sua propria anatomia, in particolare alla vagina. In seguito, approfondendo questa tesi e influenzata dagli antropologi americani, tra cui Margareth Mead e Ruth Benedict, la Horney precisò che ]'invidie del pene va interpretata come sintomo difensivo che la donna sviluppa a causa della posizione sociale svantaggiata.7

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L'intreccio fra determinazioni psichiche e determinazioni socio-culturali, ammesso ma non indagato da Freud, veniva cosl per la prima volta interrogato dall'interno della psicoanalisi. Ma l'esempio della Horney non fece scuola e sarà seguito molto più tardi da Luce Irigaray negli anni Settanta.a Melanie Klein, attraverso l'esplorazione del mondo fantasmatico della prima infanzia, dimostrò l'esistenza nella bambina di un erotismo vaginale precoce che poi viene abbandonato perché fonte di angoscia insopportabile, per essere sostituito da una posizione "maschile" secondaria e reattiva.9 Cade cosl il caposaldo della teoria freudiana che nega l'esistenza di un'esperienza sessuale originariamente differenziata tra maschio e femmina e viene in conseguenza modificato il ruolo e il significato dell'invidia del pene nella sessualità femminile. Volendo accogliere nella teoria freudiana le nuove scoperte di Melanie Klein, Ernest Jones ha avanzato l'ipotesi che nella donna il complesso di castrazione nasconda, più profondamente, la paura di perdere ogni possibilità di piacere sessuale. La donna, cioè, non si caratterizza originariamente per l'invidia dell'organo sessuale maschile bensl per l'angoscia di non trovare risposte corrispondenti ai suoi desideri sessuali.10 Gli psicanalisti che hanno criticato Freud sul punto della castrazione, secondo Jacques Lacan ·non avrebbero compreso il vero ruolo che ha il complesso di castrazione nel pensiero freudiano. Ciò di cui si tratta nella castrazione, afferma Lacan, non è il pene, organo reale, ma il fallo in quanto significante del desiderio. I rapporti tra i due sessi sono comandati da questa funzione simbolica del fallo, nel senso che la donna vuole essere desiderata ed amata per ciò che essa non è (il fallo) e però nello stesso tempo trova il significante del suo proprio desiderio nel corpo dell'uomo cui essa si rivolge per essere an;iata, corpo da lei supposto avere il fallo. 11 In tal modo Lacan ha inteso riproporre integralmente la teoria freudiana della differenza sessuale, pur ammettendo a sua volta che essa lascia parecchie questioni irrisolte per 22

quel che riguarda la sessualità femminile. Diversamente da Freud, Lacan non fa nessun posto, nemmeno ipotetico, ai fattori sociali per se stessi. Egli, anzi, afferma che la teoria psicanalitica della sessualità rende perfettamente conto della posizione che le donne tradizionalmente hanno nelle società patriarcali. Questa "coincidenza" tra ciò che risulta teoricamente sulla donna e la sua subordinazione sociale all'uomo, diventerà per Luce Irigaray il punto di partenza di una vasta interrogazione sui rapporti tra il dominio sessista e le forme del discorso dimostrativo, in filosofia e nelle scienze. Se appaiono tracce, più o meno sfumate, della differenza sessuale nel campo delle scienze così dette "umane", che non hanno una posizione dominante nel complesso del sapere e che ammettono anche· procedimenti socialmente considerati più femminili che maschili, la cancellazione permane ancora forte quanto più si entra nel campo delle scienze esatte (matematica e scienze fisiche matematiche), le quali da quasi due secoli rappresentano il modello di ciò che si deve intendere per scienza e oggettività scientifica. Secondo l'interpretazione tradizionale non si tratta cli cancellazione, ma di superamento, nel senso che quanto più il soggetto si avvicina all'ideale della conoscenza vera e dimostrata, tanto più esso si libera dalle limitazioni del suo punto di vista particolare. Questa concezione della scienza oggi è messa in questione da una parte dell'epistemologia. Ma, più profondamente, il problema è di vedere se la differenza sessuale sia riducibile alla differenza tra punti di vista particolari. Se cioè sia possibile e proficuo al sapere umano essere indifferente alla differenza sessuale. Secondo Evelyn Fox Keller 12 e Luce Irigaray 13 il discorso scientifico non è mai stato indifferente alla differenza sessuale, e tanto meno quando ha preteso di esserlo. Questa pretesa, in realtà, si è sostenuta sulla assolutizzazione del punto di vista maschile. Quando una forma di conoscenza assume prestigio sociale e si fa modello per altre, è dato osservare storicamente che essa tende• ad estromettere il femminile, sia ostacolando l'accesso alle donne, sia nell'im2.3

magine che essa scienza presenta di sé. Keller parla di "metafora sessuale della scienza" per designare il processo culturale che ha modellato il rapporto di conoscenza uomonatura in interazione metaforica con il rapporto uomo-donna e dal quale la scienza risulta connotata come attività virile opposta ad un femminile connotato, per parte sua, come passivo e irrazionale. Sapere la differenza sessuale da parte del soggetto che fa scienza vuol dire dunque sapersi come soggetto sessuato e liberare il rapporto di conoscenza dalla forma del dominio. Il che potrebbe essere il risultato di una partecipazione femminile all'impresa scientifica. Ma questa partecipazione non va senza problemi. Come è stato notato da alcune studiose statunitensi 14 quello che le donne hanno da dire non si può semplicemente aggiungere al discorso scientifico ricevuto, perché tale discorso, nei suoi propri contenuti come nelle sue modalità, non accoglie la diversità del femminile. Di conseguenza la donna che partecipa all'impresa scientifica vi partecipa senza l'immediata disponibilità della sua esperienza umana sessuata. Questa disparità tra essere donna e fare scienza in passato è servita per dimostrare che le donne, tranne casi eccezionali, sono incapaci di oggettività scientifica. I fautori dell'emancipazione femminile, fin dal secolo scorso ed ancor prima, si sono serviti dei "casi eccezionali" per sostenere che le donne sono perfettamente, cioè come gli uomini, capaci di fare scienza. Sebbene opposte, queste due vedute convengono nel giudicare del rapporto tra pensiero femminile e scienza in base alla capacità che quel pensiero avrebbe (o non avrebbe) di assimilare i canoni della oggettività scientifica, mentre la prova di vera competenza sta nella capacità di cambiarli. La coniugazione del pensiero femminile con le imprese scientifiche non può avere luogo senza modificazioni di queste o di quello. Quali· modificazioni è un tema oggi aperto alle esperienze pratiche come alla riflessione filosofica delle donne scienziate. Biologia e neurofisiologia oggi ammettono e, in alcuni

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casi sostengono, la sessuazione degli atti cognitivi sulla base di una organizzazione cerebrale differenziata nei due sessi. Tale diversa organizzazione dei substrati neurali influirebbe su alcuni ambiti del comportamento, quali quelli relativi alle competenze linguistiche, alle abilità spaziali, all'emozione. Secondo questa ipotesi nelle donne linguaggio, funzioni spaziali ed emozioni avrebbero una rappresentazione biemisferica, diversamente dal maschio i cui due emisferi formano sistemi neurologici indipendenti.15 Ma tali acquisizioni, che pure mettono in evidenza una maggiore plasticità funzionale del cervello femminile, di fatto non hanno trovato elaborazione .in un pensiero di valorizzazione della differenza; il ricorso alla biologia è stato storicamente fino ad ora, e ancora rimane, una giustificazione del dominio sessista. L'interpretazione delle differenze tra i sistemi neurologici del maschio e della femmina ha avvalorato l'ipotesi dell'inferiorità biologica del sesso femroioilP., che, data la sua organizzazione cerebrale a rappresentazione biemisferica, avrebbe difficoltà a concentrare la sua attenzione su attività cognitive diverse nello stesso tempo. Non si dà alcun rilievo, in questa posizione, alla specificità di un pensiero femminile in cui interagiscano dinamicamente emozione e linguaggio com~ forze associate. Al contrario la diversità femminile appare come menomazione biologica rispetto all'interezza maschile, menomazione da superare perché la donna possa divenire efficiente ed omologarsi all'uomo. Manca una elaborazione teorica che, opponendosi agli schemi culturali correnti, sappia interpretare e leggere il cervello e il corpo femminile in termini di alterità positiva, perché la specificità del corpo femminile venga decodificata su coordinate di ·pensiero tracciate con autorevolezza dalla donna stessa, indipendentemente da ogni "imprinting" con il pensiero dell'uomo .. Un'analoga difficoltà nell'interpretare i segni della differenza sessuale si ritrova negli studi di linguistica. Nella linguistica strutturale e nella grammatica generativa, che considerano il soggetto come funzione puramente grammaticale, differenza sessuale scompare. La dèterminazione

la

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sessuale del soggetto è invece presente negli studi di sociolinguistica dove esso è considerato non come una categoria astratta, ma come il risultato di un intreccio di variabili descrittive. Tra le variabili (razz-a, età, provenienza, etc.) la distinzione sessuale appare solamente come una tra le altre. Le studiose americane Barrie Thorne e Nancy Henley,16 che si rifanno a questo statuto disciplinare, considerano il linguaggio femminile come quello di un sottogruppo sociale il cui scarto linguistico va misurato rispetto al linguaggio maschile del quale finisce per essere contestata proprio la sessuazione. In questa prospettiva, da un lato emerge la descrizione di una pratica linguistica che riproduce gli stereotipi presenti nelle varie situazioni storico-empiriche, dall'altro, collocandosi in un'ottica emancipatoria, si tende alla neutralizzazione della lingua, richiedendo la totale cancellazione di ciò che marca il femminile nel linguaggio istituzionalizzato, dato che la sottolineatura linguistica del femminile, quando appare nell'ambito pubblico, sembra suonare come svalutativa e derisoria. A supporto di tali posizioni sta la tesi di Marie Ritchie Key ,17 che sostiene la necessità che il linguaggio sia androgino, che ricomprenda cioè in un'unità la differenza sessuale cancellandola totalmente. Altre correnti del movimento femminista, in particolare quello francese, hanno individuato l'affiorare della differenza sessuale negli scarti della lingua, nelle interparole, negli spazi bianchi o nella tonalità della voce,18 scarti e spazi bianchi interpretati anche come smagliature del linguaggio che lasciano intravedere la materialità pulsionale. 19 Quindi di fronte al discorso "tutto esplicitato" dell'uomo, si contrappone il linguaggio della donna come silenzio o scarto. Una strada per mostrare come la differenza sessuale possa essere una categoria di base della conoscenza e della esperienza si apre invece a partire dal problema posto dalla linguistica teorica sulla categoria del genere. Il genere maschile e femminile, presenti in diverse forme in tutte le lingue, sembra essere privo di qualsiasi funzione ed anzi appesantire l'uso stesso della lingua. In contrapposizione alla

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spiegazione tradizionale che giustifica la presenza del genere come fatto arbitrario o tutt'al più come residuo di una pura materialità arcaica, Roman Jakobson sottolinea il valore simbolico del genere, valore simbolico che nella lingua assume una funzione metaforica, ritrovabile anche nel simbolismo onirico.20 Solo secondo questa ipotesi perciò la differenza sessuale diviene strutturante la lingua, a livello simbolico e insieme grammaticale.21 Alla tendenza, ancora perdurante, a leggere il dato biologico in maniera deterministica, l'antropologia ha costantemente opposto la grande varietà di interpretazioni che il dato biologico di fatto riceve nelle diverse culture umane. Ruth Benedict e Margareth Mead, muovendo dal principio teorico del particolarismo storico, dimostrarono che l'individùo è il prodotto della cultura nella quale è inserito.22 M. Mead afferma in particolare che tratti del carattere maschile e femminile sono derivabili dai messaggi culturali appresi ed interiorizzati dagli individui dei due sessi, diversi tra loro non tanto per predisposizione organica, quanto per l'influenza esercitata dalla cultura su di essi. La differenza tra i sessi appare perciò soprattutto come differenza di ruoli che ogni società riproduce e tramanda come stereotipi. Tali differenze divengono via via più sfumate nel passaggio da società primitive ad organizzazioni sempre più complesse ma rimane comunque una costante; al maschio si riconosce la necessità di agire, tanto che la sicurezza del suo ruolo sessuale sembra legata al diritto e alla capacità di praticare attività vietate alle donne, alla femmina è riconosciuta semplicemente la necessità ad essere e ad espletare _la sua funzione sociale nella procreazione, ritrovandosi pienamente nella maternità. Il biologico, associato al femminile, è divenuto progressivamente nella storia della civiltà l'ostacolo da valicare; il maschio ha elaborato ed attuato i suoi progetti di dominio sul mondo cercando di sconfiggere la natura e di annullare i propri limiti fisiologici. Secondo Mead questo progressivo allontanamento dal "naturale" ha svalorizzato la donna e contemporaneamente

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impoverito l'umanità, negando lo sviluppo delle peculiarità dei due sessi. La divisione sociale del lavoro ha consentito agli uomini di valorizzare le proprie capacità creative e produttive, mentre ha assegnato alle donne solo il compito di continuatrici della specie, sottraendo loro ogni altro ruolo. Nello sviluppo della civiltà è rimasto ignorato e trascurato quel particolare tipo di comprensione femminile che le donne acquisiscono attraverso gli strumenti connaturati alla maternità, ovvero l'abilità intuitiva di afferrare sinteticamente, e si è prodotto cosi un sapere scientifico unilaterale, frutto di una mente maschile protesa all'analisi e al dominio della materia più che al mondo delle relazioni umane, in cui si richiede l'uso socializzato dell'intuizione. In questo processo di cancellazione delle differenze la civiltà si è progressivamente depauperata e, attraverso la sopravvalutazione del ruolo maschile, ha fatto sì che entrambi i sessi trascurassero parte delle loro prerogative umane. La stessa esigenza di un recupero dell'integrità della personalità maschile e femminile nella prospettiva etica della costruzione di un nuovo ordine sociale, ove l'alienazione e J>opptessione siano eliminate, è espressa nel messaggio di alcune teologhe americane, la cui elaborazione teorica è volta a costruire una teologia della liberazione femminista. Così come in tutti i campi del sapere umano ove più alta è la mediazione simbolica, anche nella scienza del divino il femminile è stato cancellato. La teologia classica riproduce l'impostazione sessista che ha caratterizzato tutta la storia umana: il sessismo si è sacralizzato nella religione come modello normativo dei rapporti umani: il maschio capo famiglia incarna il modello di Dio padre e patriarca ed egli solo perciò ne possiede l'immagine. Questo da un lato spiega come le donne siano state tenute lontane dallo studio e dall'insegnamento della teologia alla quale hanno avuto accesso solo negli ultimi venticinque anni; d'altro lato spiega anche la totale mancanza di una tradizione alternativa, mentre è possibile trovarne frammenti ed elementi ripercorrendo sistematicamente la teologia patriarcale, dalla Bibbia e la Patristica fino all'età moderna. 28

La necessità di una teologia femminista si pone secondo Rosemary Radford Ruether a partire dal principio che Dio "il terreno dell'essere e del nuovo essere, sottostà, include, sopporta e promuove l'essere/donna come l'essere/uomo. La donna non è subordinata o 'inclusa nel' ma equivalente come imago Dei".23 L'autentico messaggio e significato della teologia è quindi la redenzione dal sessismo e la restaurazione di una umanità intera nei due sessi e nel rapporto con la natura e la società. Ma nella prospettiva di Ruether non vi è teologia della liberazione femminista se le donne non assumono se stesse come punto di partenza, se non credono cioè fortemente nel valore della loro personalità umana che deve diventare fonte di normatività e di modelli nella costruzione di una tradizione alternativa a quella teologica classica. Assume cosl un senso la .ricomposizione dei frammenti, il recupero di quelle tracce del femminile nella parola dei profeti, dei mistici, nelle voci soppresse dei gruppi minoritari e dissidenti, nella immagine del divino insieme maschio e femmina delle religioni non cristiane e precristiane. Una tradizione si costituisce quando esiste una coscienza del sé, e cioè solo a partire dal bisogno di darsi memoria in quanto soggetti umani non più annullati in un apparente isomorfismo. La spiritualità femminista si è costituita come prospettiva etica sottintendendo questa volontà di affermazione di un umano donna in una tensione verso una società redenta, ove buona novella significhi liberazione dal patriarcato e ritrovamento di tutti i potenziali valori della vita umana presenti simbolicamente nel mito di una armonia originaria ma ormai dispersi in una reale esistenza distorta. Non si tratta quindi di ipotizzare, esteticamente, il ritorno ad una armonia primigenia, di cui la donna sarebbe portatrice, attraverso forme rituali dedicate al culto della Dea Madre: il canto sacro non serve a squarciare il falso mondo delle contraddizioni, cosl come credono e praticano alcune comunità femministe americane. D'altra parte Ruether, in un'analisi sul linguaggio divino 24 distrugge l'antico mito di un matriarcato originario legato al simbolo femminile della 29

divinità. Costruire comunità di base femminile è sì necessario ma perché ogni teologia della liberazione deve cominciare da una Chiesa, intesa come contesto per discutere questioni di rito, credo, azione e perché le Chiese istituzionali, che devono rimanere interlocutori e "campi di missione", sono profondamente legate ad un simbolismo sessista. Nel campo degli studi storici, infine, va delineandosi una tendenza secondo cui le nozioni di genere e di differenza sessuale, tradizionalmente usate per descrivere determinati oggetti d'indagine, vengono invece assunte fra ·le categorie storiografiche, come nozioni teoriche capaci di ordinare e spiegare i fatti indagati. Questa tendenza vuole raccogliere i frutti e, al tempo stesso, superare i limiti delle molte ricerche - di storia femminista come di storia sociale - che hanno centrato la loro attenzione sulle donne. In polemica con la storiografia dominante, la storiografia femminista nata negli anni Settanta ha lavorato a rendere visibile la presenza delle donne nella storia umana. Oggetto d'indagine sono le donne per se stesse; in questa luce sono state valorizzate figure femminili esemplari, insieme alle epoche e agli ambienti che le hanno viste protagoniste, così come si è cercato di indagare la vita di donne anonime, e in generale di ricostruire le tracce di una cultura femminile. Scopo di questi lavori è di offrire alle donne una memoria di sé e quindi una fonte di identità. La storiografia femminista ha effettivamente assolto questa funzione rimediando almeno in parte al preesistente vuoto di dati e notizie sulla parte femminile della storia umana. Ma, per la sua stessa in:ipostazione, essa rischia di configurare una "storia separata", un "supplemento" di storia che semplicemente completa o arricchisce le storie politiche e sociali convenzionali, senza rimetterle in discussione. Anche le ricerche svolte nell'ambito della storia sociale hanno contribuito a illuminare il passato delle donne, contro la tendenza a una loro cancellazione. Ma nemmeno questo 30

approcciò è andato alla radice del problema. La storia sociale, sussumendo le donne a oggetto d'indagine secondo categorie formulate per analizzare processi sociali o economici che toccano indifferentemente uomini e donne, finisce per far apparire le donne come un gruppo sociale subalterno accanto ad altri (operai, schiavi, minoranze razziali, ecc.). D'altra parte, il fatto stesso di una storiografia che sposta l'attenzione sulla parte femminile del corpo sociale, unitamente alle nuove conoscenze storiche che ne sono derivate, ha finito per imporre la questione della differenza sessuale nella storiografia. Non si può continuare a fare la storia delle donne senza interrogarsi sulla parzialità sessuata dei soggetti storici, uomini e donne. Lo spostamento di attenzione sulla parte femminile non consiste, essenzialmente, nel mutare oggetto d'indagine, le donne invece degli uomini, il privato invece del pubblico, la vita quotidiana invece della vita politica, quanto nel ripensare i concetti stessi con cui noi pensiamo l'essere donna/uomo e, quindi, interpretiamo il passato.25 Occorre dunque fare delle nozioni di genere e differenza sessuale, dei concetti teorici e delle categorie storiografiche. Da questi concetti, secondo le statunitensi Natalie Zemon Davies e J. Kelly-Gadol,26 viene modificata la storia politica e la stessa storia del potere. Uno studio separato delle donne o una visione dettata dallo schema di opposizione semplice dominio-subordinazione, affermano concordamente le due studiose, non permette di comprendere le forme storiche prese dal potere. È necessario domandarsi come il politico costruisca la nozione di differenza dei sessi e come la differenza dei sessi produca il politico. Fare storia delle donne non si può senza indagare questo nesso. La sfera privata nella quale spesso le donne appaiono relegate, è in realtà una creazione della sfera pubblica e partecipa alla definizione dei rapporti di potere. Infatti chi apparentemente tace dice eloquentemente il senso del potere e partecipa alla formazione della storia. Per la stessa ragione, non si può fare storia senza indagare quali fossero, in un particolare 31

periodo e in una determinata. società, le relazioni determinanti fra i due sessi, ossia senza far emergere la struttura sessuata dell'autorità sociale, economica e politica. ; . La differenza delinea i rapporti delle donne fra loro e con il mondo

Dalla rassegna appena fatta, sebbene incompleta, risulta chiaramente che l'indagine sulla differenza sessuale procede con l'elaborazione simbolica della differenza stessa da parte del pensiero che indaga. Questo nesso è evidenziato dai legami storici e teorici che collegano le ricerche sul tema della differenza sessuale ai movimenti femministi. I movimenti femministi si sono sviluppati dalla fine degli anni Sessanta nei paesi occidentali e occidentalizzati in seguito al fallimento della politica di emancipazione delle donne. L'offerta di uguali opportunità alle donne soddisfa un'esigenza di giustizia sociale ma non risponde a un bisogno sociale di presenza femminile, né potrebbe fintanto che la differenza sessuale risulta insignificante nella realizzazione dei fini sociali oltre l'ambito della famiglia. Da ciò viene che la partecipazione femminile alla vita sociale rimane priva di una sua intrinseca ragione cosicché le donne si trovano spezzate tra un'attività sociale modellata sugli scopi e i mezzi di coloro, gli uomini, che alla vita sociale partecipano per diritto e dovere del loro sesso, da una parte, e dall'altra l'esigenza di ritrovare l'intimità con il proprio corpo sessuato. Di fatto, dunque, l'emancipazione non poneva fine alla passione femminile della differenza sessuale ma ne cambiava soltanto i termini: dall'inferiorità discriminante ad un'integrazione mutilante. I movimenti femministi hanno messo in luce questa contraddizione e il peso che essa ha nell'esperienza delle singole donne. Attraverso una diffusa presa di coscienza collettiva ("pratica dell'autocoscienza") è emerso che la donna soffre di dipendere dall'uomo per la sua esistenza materiale e simbolica. Non c'è dubbio che il singolo, sia esso maschio

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o femmina, si trova a dipendere necessariamente da altri per la sua esistenza materiale come per il senso di essa. Ma nella nostra cultura l'esistenza di una donna riceve questo necessario riconoscimento attraverso un discorso che la dice e insieme la nega perché, a causa del suo non essere un uomo, la dice come mancante, come altro, come negativo. Le donne vivono cosi l'esperienza di essere dette e al medesimo tempo negate. La loro consistenza ontologica, il loro esserci, risulta scisso tra la rispondenza al discorso che le dice, e uno stare presso di sé, senza parole. Presso di sé, ovvero quell'intimità muta che Virginia Woolf descrive in Gita al faro e che chiama "cuneo d'ombra". Con il separatismo femminista viene preso atto di tale scissione che è patita dalle donne a causa che la differenza sessuale non è iscritta nel simbolico. Carla Lonzi, in un manifesto politico del 1970, Sputiamo su Hegel,Z1 sostiene che tra il mondo degli uomini e quello delle donne esiste una irriducibile asimmetria: "La donna non è in rapporto dialettico col mondo maschile. Le esigenze che essa viene chiarendo non implicano un'antitesi, ma un muoversi su un altro piano" (p. 32). La differenza dal mondo degli uomini non può quindi definire quello che le donne sono per sé. Seguendo un diverso filo teorico Luce Irigaray ridice la medesima impossibilità già accennata da Carla Lonzi. Per delimitare la propria identità a partire dall'altro occorre vedere se stessi all'esterno di sé e riconoscersi. Ciò riesce agli uomini. Le donne non si vedono. E quindi esse o si ritrovano in un'intimità invisibile a sé e alla società o si perdono nei loro oggetti d'amore. Sono molti i testi, sia teorici sia politici, prodotti dal movimento delle donne che ripropongono il problema di fondo della differenza sessuale: come può significarsi l'essere donna, come può uscire dalla sua intimità senza parole, in un ordine insieme sociale e simbolico che definisce il soggetto di sesso femminile per opposizioni e somiglianze con il soggetto maschile, e questo per se medesimo? La soluzione di questo nodo è nel pensiero stesso della

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differenza sessuale. E cioè che la differenza, da oggetto pensato, si renda significante, si faccia pensiero pensante. Il sapersi diversa dall'uomo, si è visto, non basta alla donna per sapersi. La mediazione maschile, come indirettamen te riconosce Freud, si risolve in un rinnegamento del femminile da parte di donne o uomini. Perché il femminile possa circolare nel discorso della scienza e della politica, occorre dunque che la donna disponga di una mediazione femminile per rapportarsi a sé e all'altro da sé. Nel sistema dei rapporti sociali mancava però una struttura simbolica adeguata a ciò, e anzi ne era espressamente esclusa. In proposito Freud hon potrebbe essere più esplicito quando, nella sua lezione su La femminilità 28 teorizza che per diventare normale la donna deve distaccarsi dalla madre e convertire in ostilità il suo amore per lei. L'invenzione di questa struttura simbolica mancante è l'opera teorica e politica del pensiero della differenza sessuale. Il movimento delle donne, procedendo dal suo iniziale separatismo, per la necessità di regolare i rapporti tra donne in assenza di uomini, ha elaborato la struttura simbolica della mediazione femminile che mancava nel sistema dei rapporti sociali. Su questa soluzione convergono sia i testi del movimento politico sia i testi di ricerca teo1ica. Adrienne Rich parla del "mondo comune delle donne": un mondo nel quale non circola solo solidarietà, ma viene messa in gioco "la forza storica dei rapporti tra donne".29 Rich lo rappresenta senza un'esistenza sociale acquisita. Tuttavia, là dove tale mondo possiede un'esistenza sociale, se pure parziale, possiamo individuarne due assi portanti: a) il rapporto dialettico con l'altra donna; b) la sintonia tra sé e sé e il fuori di sé. a) Il mondo delle donne non è un mondo di identiche. L'identità tra donne è solo il risultato di essere "altro" nei confronti del mondo maschile. Né identità generica tra donne, dunque, né, il che è il suo speculare contrario, differenza seriale indifferenziata, che in realtà si pone ancora una volta sotto il segno dell'identità. 34

La serialità dell'identità e della differenza generica è interrotta dal rapporto io (donna)/tu (donna). Può esserci il pericolo che questo io/tu tra due donne risulti una mutua chiusura, che affonda nel "senza forma". Si ha una forma aperta e praticabile là dove corre quel che Irigaray chiama la moneta simbolica di scambio tra due donne.30 Tale moneta di scambio si basa sul fatto che sia riconosciuto e riconoscibile il di più di valore tra le donne. Il testo collettivo Più donne che uomini 31 mostra come questa moneta di scambio circoli là dove è praticata la disparità tra donne e l'antico rapporto con la madre è tradotto in un rapporto sociale di "affidamento" femminile. Anche Luce Irigaray indica nel riconoscimento di un di più tra donne la riattivazione di un rapporto non indifferenziato tra madre e figlia. Per Adrienne Rich attingere a tale di più suscita una trama di rapporti intrecciati, misti e molteplici tra donne, che riproducono il rapporto originario della madre e de!Ia fìglia.32 Si può anche dire: il rapporto dialettico tra due donne sta nel riconoscimento ad una donna di un valore che la rende voce autorevole per un'altra. Tale di più tra due donne assume una di queste forme e forse altre. Ognuna di queste forme risponde a una esigenza comune: quella cioè di produrre e di mostrare un valore circolante tra donne. In ciò sta la forza di tale rapporto. È questo di più che fa uscire la differenza dal suo essere reciproca, chiusa e senza forma. La rende invece differenza concreta, non seriale e non indifferenziata. Cosl da risultare principio di produzione simbolica. Il rapporto dialettico dispari tra due donne crea le condizioni per una esistenza ontologica non scissa. Il riconoscimento (autorevole) dell'altra (la mediazione) permette l'uscita dell'immediato e l'amore di sé. Senza avere così la necessità di rifugiarsi nel "cuneo d'ombra", in quell'intimità che è l'unico luogo senza luogo, nel quale per una donna è posibile ritrovarsi quando il simbolico usuale la 35

dice e la nega allo stesso tempo. Lo spazio intimo si articola tra sé e sé e con il fuori di sé. Esso diventa dimora. b) La trama dialettica tra donne fornisce la condizione per cui una donna articola autonomamente lo spazio tra sé e sé e con l'esterno. La condizione per cui essa estende il corpo proprio in modo da avere sintonia affettiva ed intellettuale tra sé e il mondo. Si tratta del secondo asse del "mondo comune delle donne". Adrienne Rich ne accenna in Segreti, silenzi, bugie, quando traduce la sintonia tra sé e sé con il fuori di sé nella fedeltà delle · donne alla loro esperienza. Questa fedeltà diviene testimonianza della loro realtà e risulta cosi patrimonio acquisito non solo per un'etica personale, ma per lo stesso "mondo comune delle donne". Silvia Montefoschi 33 parla della medesima sintonia: essa non nasce dalla confusione con il proprio oggetto d'amore, o con la propria esperienza. È all'opposto il risultato della elaborazione della distanza dal proprio oggetto. Si tratta di una distanza sorretta da "eros", inteso quale "vuoto in movimento". È proprio tale distanza a permettere che "eros" sia coniugato alla riflessione, alla produzione simbolica e alla conoscenza. In prospettiva ribaltata: solo nella sintonia sorretta da "eros" la distanza simbolica diviene conoscenza. Secondo Luce Irigaray il corpo di una donna è aperto ad una doppia soglia: quella della maternità e quella del corpo proprio, che si dispone all'incontro con l'altro rivestendosi di quelli che possono essere gesti minimi, ma sempre rigorosamente in sintonia con sé. Le due soglie non vanno confuse. Irigaray nomina questa sintonia tra sé e il fuori di sé come l'" abitare eticamente" a partire dal corpo. La cifra di tale sintonia è il godimento. Nel testo collettivo Più donne che uomini si parla di "sessualizzare i rapporti sociali", di dare cioè visibilità sociale alla differenza di essere donna/uomo. Il criterio portato è quello dell'agio, ossia la possibilità di frequentare i commerci sociali con piena accettazione del femminile. 36

L'agio può essere considerato la traduzione nel sociale di quel che Irigaray ha chiamato godimento. L'interno (il godimento) e l'esterno (l'agio) non sono più scissi, ma si scambiano e si alimentano reciprocamente. La fecondità simbolica della differenza sessuale rimane ancora uria promessa. Lo indica il fatto stesso che noi parliamo, ormai comunemente, di "mondo delle donne" e di "mondo degli uomini", come se donne e uomini non abitassero lo stesso mondo gli uni insieme alle altre. Ma in realtà questo "abitare insieme" non si è dato nella storia dei rapporti tra i due sessi e la figura dei due mondi si giustifica con la necessità di creare un intervallo che consenta alla donna, come all'uomo, di sapersi .per sé e in rapporto all'altro. In considerazione di ciò la nostra conoscenza della differenza sessuale deve dirsi ancora molto imperfetta. Il suo avanzamento, occorre ripetere ancora una volta, non dipenderà essenzialmente dalle scoperte di questa o quella scienza, bensl dal senso che le scoperte riceveranno e dunque dal fatto che la differenza sessuale, per usare il termine hegeliano, "progredisca". Poiché sapere la differenza sessuale altro non è, fondamentalmente, che il sapersi sessuato da parte del soggetto umano.

NOTE 1

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37

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1982.

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PER UNA TEORIA DELLA DIFFERENZA SESSUALE

di Adriana Cavarero

1. Sulla mostruosità del soggetto

All'" io" del discorso, quello stesso discorso che ora (io) sto pensando e scrivendo in lingua italiana, àccade che il suo essere di sesso maschile o femminile non lo riguardi. Esso quando venga sostantivato è di genere maschile ma, straordinariamente, non gli compete una sessuazione. "Io sono donna", " io sono maschio": ecco che l'" io" sopporta e accoglie indifferentemente la sessuazione, essendo di per se stesso neutrale. Il discorso filosofico può così legittimamente affermare l'" io penso" e fare di questo soggetto neutrale un universale. E può anche eliminare il "penso" e dire semplicemente l'" Io", poiché è appunto in esso che l'universale si rende presente. Eppure quel genere grammaticale maschile che l'" io" porta in sé in qualche modo irrita e incrina questa rappresentazione di universalità. L'" io" accoglie dunque negli enunciati "io sono donna" "io sono uomo" indifferentemente la sessuazione, ma nel secondo enunciato ciò che si predica dell'" io" sembra corrispondergli con maggiore esattezza, a partire dal comune genere maschile che appartiene ai due termini dell'enunciato. Sembra insomma che nell'accogliere la. sessuazione maschile l'" io" pervenga ad una sua intima completezza, precisando nella sessuazione quel maschile che il suo genere già annunciava, pur mantenendolo come neutralmente disponibile ad ambedue le sessuazioni. Quell'annuncio era allora un avvertimento, un segno del maschile portato dal neutrale e dall'universale. Anche "uomo" è nella mia lingua termine pregno di avvertimenti. In prima istanza uomo/donna, come maschio/ femmina, compaiono come tranquille coppie bipolari. Ma nel discorso che dice, ad esempio, l'uomo è mortale, l'uomo di cui qui si parla è anche donna. Anzi, non è né uomo né

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donna, ma il loro neutro universale. (L'enunciato" la donna è mortale" susciterebbe invece la logica conclusione che, allora, l'uomo è immortale. E in questa conclusione c'è del vero). Uomo vale dunque innanzitutto come sessuato maschile, ma vale anche, e proprio per questo, come neutro universale del sesso maschile e di quello femminile. Questi annunci e questi avvertimenti rivelano così il segno dell'autentico soggetto del discorso: un soggetto di sesso maschile che assume se stesso ad universale. L'uomo, come sessuato maschile, porta infatti in sé la finitezza, e tuttavia, con ùna straordinaria parabola logica, esso, attraverso una dinamica ascendente, assolutizza tale finitezza facendola assurgere ad universalità, di modo che tale universalità, attraverso una dinamica discendente, possa anche comprendere (specificarsi) sia quel maschile finito che l'ha generata sia l'altro sesso, il quale ora compare per la prima volta, assente dal processo logico e tuttavia da esso raccolto, inglobato, assimilato. In questo itinerario l'uomo percorre la parabola del medesimo: esso si ritrova e si riconosce come particolare della sua universalizzazione. Alla donna .capita invece di trovarsi solamente come particolare, come l'altro finito compreso nel neutro-universale uomo. Così la donna è l'altro dell'uomo e l'uomo è l'altro della donna, ma , '.i una alterità diversamente fondata: l'alterità dell'uomo nei confronti della donna si fonda infatti nell'uomo stesso che, ponendosi preliminarmente come universale, poi anche ammette se stesso come uno dei due sessi nei .;_. :a!i l'universale si specifica. L'alterità della donna viene invece a fondarsi in negativo: l'universale-neutro uomo particolarizzandosi come "uomo" sessuato al maschile si trova di fronte l'uomo sessuato al femminile, e lo dice appunto altro a partire da sé. Questo stare di fronte della donna all'uomo è, in questa logica, un mero e irriducibile stare di fronte. Infatti nel processo logico di universalizzazione del maschile-finito il femminile-finito è assente, e solo alla fine viene trovato al di fuori del processo e in questo inglobato. Sul perché di

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tale inglobamento di una alterità irriducibile ed ongmaria può rispondere la storia, ma la logica tace. La logica del discorso assume infatti tale alterità come qualcosa di assente eppure precompreso dall'universale e quindi da esso controllato. La donna è così un che di previsto dallo specificarsi dell'universale uomo in uomo e donna. Il discorso porta dunque in sé il segno del suo soggetto, il soggetto parlante· che in esso si dice e dice il mondo a partire da sé. C'è allora del vero nell'immortalità dell'uomo prima annunciata fra parentesi, quasi per uno scherzo: nell'universalizzare la finitezza ·della sua sessuazione l'uomo la travalica e si pone come una essenza che appartiene necessariamente alla "oggettività" del discorso. La storia della filosofia registra infatti, e in vari modi, la finitezza che la creatura pensante, proprio in quanto tale, porta in sé, ma è straordinariamente cieca rispetto alla finitezza della differenza sessuale. Tale differenza rimane, per la filosofia, qualcosa di impensato, un superfluo determinarsi dell'uomo in uomo e donna, come se il trovarsi sessuato che ognuno di noi necessariamente esperisce, l'essere a.ltro così e non altrimenti, fosse un accadimento banale per la fatica del concetto, un accadimento buono tutt'al più per le discipline biologiche. Così, ciò che il discorso testimonia e la filosofia, ovviamente, ribadisce, è la fondamentale insignificanza della differenza sessuale, la quale viene, né si potrebbe fare altrimenti, registrata ma non pensata nella sua originarietà. Infatti quel finito sessuato al maschile che, assolutizzandosi, si universalizza, in tale processo di autoassolutizzazione celebra il suo sesso ma ignora la differenza che in questo si radica, il differire in cui questo consiste. La differenza sessuale viene dopo, come il tranquillo specificarsi dell'universale, ma in questo venir dopo, la sua originarietà è già stata perduta. Si suggerisce qui l'ipotesi di due filosofie possibili: l'una che pensa l'esser uomo e l'esser donna come qualcosa di originario che richiede una concettualizzazione duale, un duale assoluto, una sorta di paradosso per la iogica dell'unomolti; l'altra che pensa l'uomo universale neutro (il bam45

bolotto? !) e in questo accoglie l'esser uomo e l'esser donna come due casi ininfluenti per la tenuta del concetto neutrouniversale. La filosofia occidentale ha percorso la seconda ipotesi: essa traspira dai pori del linguaggio ed è la vera gabbia d'acciaio che la differenza sessuale deve spezz.are per pensarsi. Ciò non vuol dire che il linguaggio e la filosofia non attribuiscano senso all'esser uomo e all'esser donna, 1 anzi questo senso, nelle sue millenarie evoluzioni, è ben conosciuto dalle donne come storia di lacrime e sangue, ma è un senso derivato e conseguente alla assunzione dell'universale uomo come originario. In questa assunzione fondamentale c'è poi qualcosa di mostruoso, poiché la logica di assolutizzazione del finito paga con la mostruosità il suo ardire: già il neutro (non ancora sessuato) o l'ermafrodito (già sessuato sia così che così) sono mostri non dappoco. Ma il vero mostro che si rivela nel processo logico è il maschio-neutro, un mostro irraffigurabile, eppure così familiare a chiunque dica: l'uomo è un animale razionale, l'uomo è figlio di Dio ecc. Ma per la filosofia l'esser uomo o l'esser donna, l'esistere come necessariamente sessuato, è piuttosto un accidente, tanto gravido di conseguenze quanto ignorato dalla teoria. 2 Questa dice l'essenza dell'universale uomo (è mortale, pesante, una fragile canna ecc.), e poi anche prende in considerazione gli accidenti temporali (i cosiddetti condizionamenti storici); fra questi ultimi pare rientri il caso di nascere uomo oppure donna, questo secondo indubbiamente un caso sfortunato. Il concreto riconoscersi dell'uomo e della donna nel neutro-universale uomo comporterebbe, a rigor di logica, l'aggiunta della differenza sessuale a tale neutro-universale. Ne deriverebbero così due concetti composti: uomo+ sessuazione maschile= uomo, e uomo + sessuazione femminile = donna. Tale riconoscimento giocherebbe dunque la sua stessa possibilità tutta sulla aggiunta. Dunque nel neutro universale uomo, l'uomo e la donna non ci sono e quindi

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non potrebbero riconoscersi, nella aggiunta della differenza sessuale il riconoscimento è possibile ma è però tutto consegnato all'aggiunta stessa: in questo secondo caso tuttavia il contenuto dell'universale e quello della aggiunta sono vicendevolmente dei superflui, poiché il neutro universale è l'essenza alla quale poi capita di veicolarsi in individui sessuati e la sessuazione di tali individui è qualcosa di esterno che non riguarda l'essenza. Qualcosa di straordinario capita però al concetto neutro universale di uomo, lo straordinario è che la logica aporetica del riconoscimento sopra descritta è vera solo per la donna. L'uomo invece si riconosce pienamente nel neutro universale senza il bisogno di alcuna aggiunta, proprio in grazia di quella mostruosità che fa convivere nell'universale uomo un neutro e un maschio. Infatti, nella dinamica di universalizzazione del finito attraverso la categoria del medesimo, il riconoscimento dell'uomo sessuato nell'uomo universale-neutro fonda la sua possibilità proprio in quella finitezza della sessuazione maschile che viene assunta ad universale. Cosl in questo universale (nel soggetto, nell'io della filosofia) l'uomo c'è con tutta la concretezza del suo essere un intero, un vivente sessuato e non un uomo + sessuazione maschile, e poiché c'è si riconosce, si dice, si pensa, si rappresenta. La mostruosità di quell'universale che è insieme neutro e maschio non lo sconvolge poiché essa viene dalla "generosità " logica di una finitezza che si sobbarca il peso di valere anche per la finitezza dell'altro sesso. Dicendosi e pensandosi l'uomo parla il suo linguaggio e pensa il suo pensiero, i quali devono tuttavia per forza obliare, a causa della costitutiva dinamica di universalizzazione del finito, questo suo che li fa appartenere ad un sessuato finito: essi sono così il linguaggio ed il pensiero, semplicemente. Ne consegue per la filosofia che la differenza sessuale non viene pensata, poiché uno dei due sessi viene assunto ad universale, senza che mai diventi tema dell'indagine intorno

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al vero l'originario differire nel sesso che ciascuno si porta nella carne come il vivere e il morire. Ne consegue per la donna che essa non può riconoscersi nel pensiero e nel linguaggio di un soggetto universale che non la contiene ed anzi la esclude, senza rispondere di tale esclusione: tale universale infatti, pretendendo di valere anche per il sesso escluso, cancella Io spazio logico del differire originario trasferendolo a valle come differire conseguente. Cosl la donna è l'universale uomo con "in più" il sesso femminile. Sappiamo bene come questa aggiunta non potenzi l'universale, ma anzi Io depotenzi: infatti il "di più" è p·iuttosto, e coerentemente, un "di meno", ossia il neutro universale uomo meno il sesso maschile che è appunto il reale contenuto e la vera genesi di tale universalizzazione. Il compito di pensare la differenza sessuale è così un compito arduo poiché essa giace nella cancellazione sulla quale il pensiero occidentale si è fondato ed è cresciuto. Pensare la differenza sessuale a partire dall'universale uomo significa pensarla come già pensata, ossia pensarla attraverso le categorie di un pensiero che si regge sul non pensamento della differenza stessa. Come un "di più " la donna è già, a partire dal piano logico, un "di meno". La filosofia occidèntale ha recentemente civettato con il valore positivo che questo" di meno" può simboleggiare nel momento in cui l'universale neutro, appunto il soggetto, è entrato in crisi. Per l'uomo che si è posto e riconosciuto per millenni come soggetto forte recuperare quella debolezza generosamente lasciata in custodia al "di più di meno" della donna è appunto la civetteria di un soggetto che non scardina i fondamenti della propria rappresentazione (e perché dovrebbe?) ma rigioca liberamente le categorie della sua logica. Per quanto affascinanti possano talora apparire queste civetterie della filosofia, la via del pensiero debole non è la via attraverso la quale la donna possa giungere a dirsi, a pensarsi e a rappresentarsi: sia per ragioni strettamente

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logiche, sia perché è veramente patetico il voler dirsi come soggetto debole quando manca alla donna un linguaggio che la dica, per lo meno, come soggetto.3 Un soggetto infatti può dirsi tale a partire da sé e non a partire da un neutro che è l'universalizzazione che l'altro fa di sé, proponendosi però non già come l'altro, ma come il tutto. E qui sta il nocciolo del problema: io stessa, come tutte, sto ora scrivendo e pensando nel linguaggio dell'altro, che è semplicemente il linguaggio, né potrei fare altrimenti. Questo linguaggio, poiché donna io mi trovo ad essere, mi nega come soggetto, si regge su categorie che pregiudicano il mio autoriconoscimento. Come posso allora dirmi attraverso ciò che strutturalmente non mi dice? Come pensare la differenza sessuale attraverso e in un pensiero che si fonda sul non pensarla?

2. La domanda dell'essenza

La donna non è il soggetto del suo linguaggio. Il suo linguaggio non è suo. Essa perciò si dice e si rappresenta in un linguaggio non suo, ossia attraverso le categorie del linguaggio dell'altro. Si pensa in quanto pensata dall'altro. Infatti il soggetto di questo linguaggio si è sin dall'inizio definito come identico al linguaggio stesso: "l'uomo è un animale razionale" ci tramanda una tradizione che erroneamente (ma in questo errore sta una profonda verità) traduce il greco "l'uomo è un vivente che ha il linguaggio". Linguaggio come logos che è insiem~ pensiero e linguaggio. L'uomo è dunque colui che dice le cose e il mondo e dice se stesso come il dicente. Pensa il tutto e pensa se stesso come il pensante. Il pensiero identico all'essere, e, oltre al pensiero, nulla. Infatti il nulla non è. Nell'affermazione di Parmenide viene alla parola un destino: la molteplicità, l'alterità, la differenza sono dichiarate inesistenti ed impensabili. Solo la totalità una e compatta dell'identico che 49

non ammete l'altro, è. Una totalità paralizzante che rischia di bloccarsi eternamente in questa autoaffermazione. Ma la filosofia presto riconosce questo rischio e Io supera: la differenza continua ad essere impensata come originaria, ma trova spazio a valle, come differenza determinata. L'uno si diversifica a partire da sé, ammette il molteplice e ne controlla le differenziazioni, classificandole è dominandole. Logos è dunque correttamente traducibile con ragione, se ragione è pensiero che ordina, rendendola omogenea e controllabile, la differenza. L'uomo è colui che dice determinatamente ed ordinatamente il mondo. La differenza sessuale, che il pensante porta nella sua carne, viene cosi compresa e detta nell'ambito dell'ordinato differire, differenza fra le altre, e molto meno importante delle altre, per la teoria di ciò che massimamente è. Ad un primo approccio logico sembrerebbe che qui i due sessi versino nella medesima dillìcoltà: se il pensiero della identità originaria pone come secondaria ed inessenziale la differenza sessuale, sia la donna che l'uomo ritrovano la propria sessuazione come già detta e controllata in un ambito secondario rispetto alla definizione della loro essenza. La loro essenza è di essere viventi razionali, e poi anche si dice che tali viventi si dividono in maschi e femmine. Tuttavia è propriamente l'uomo (che non a caso compare come soggetto nella definizione dell'essenza) il concreto e storico parlante che produce l'occultamento della differenza originaria e la sua trasposizione a differenza secondaria. Cosi l'uomo, senza apparente dillìcoltà, può dirsi come vivente razionale sessuato al maschile, dove sessuato al maschile è effettivamente una aggiunta superflua, poiché appunto il soggetto, nella sua mostruosa valenza neutramaschile, contiene già l'indicazione del suo sesso. E allora gli basta dirsi vivente razionale. È ben noto come la storia, al di fuori· della pura logica, si preoccupi di confermare questo meccanismo teorico. La donna rappresenta l'irrazionale, il passionale ecc. La differenza sessuale, come differenza secondaria e controllata

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dall'essenza, diventa in effetti un "di meno" rispetto all'essenza stessa: se questa corrisponde ad un neutro-maschile, il femminile più che una aggiunta è una diminuzione. Una specie di incompletezza rispetto all'essenza universale. Cosl la risposta alla domanda "che cos'è la donna" non può che aprire tragiche aporie. La domanda chiede dell'essenza della donna, ma la risposta è già pregiudicata dal farsi avanti di quella essenza universale che l'uomo si è modellato addosso. La risposta più ovvia sarebbe "un vivente razionale sessuato al femminile", ma, essendo il vivente razionale un universale nel quale è il sesso maschile ad autorappresentarsi, il senso della risposta è tutto consegnato a quella aggiunta (sessuato al femminile) che, detta cosl, non è altro che una constatazione empirica, oltre tutto già compresa nella domanda che chiedeva appunto l'essenza della donna. Evidentemente il senso cruciale della domanda viene alla luce quando sia una donna a porsela. Infatti la filosofia, e la cultura in genere, hanno già risposto a questa domanda (la madre, l'abisso di voluttà, la donna è mobile ecc.) ma all'interno di una logica strutturata sulle categorie maschili, che è poi semplicemente la logica del linguaggio occidentale. In altri termini la crucialità della questione sta nella possibilità della donna di dirsi, pensarsi ed autorappresentarsi come soggetto in senso proprio, ossia come soggetto che si pensa a partire da sé e quindi si riconosce. Cosl la questione della domanda sull'essenza non si traduce nel ricorso ad un impianto metafisico ormai obsoleto, ma risponde al bisogno di riconoscimento. La domanda "che cos'è la donna", suona infatti per ognuna di noi nella quotidiana esperienza: "che cosa sono io?". Ad essa evidentemente non possiamo rispondere prescindendo dal fatto che siamo innanzitutto delle donne. È utile soffermarsi brevemente su questo "innanzitutto". Esso indica appunto l'essenziale. Infatti il linguaggio ci mette a disposizione molte categorie neutre per rispondere al "che cosa sono io" prescindendo dalla sessuazione femminile di questo io che si interroga. Ad esempio: una studiosa 51

di filosofia, un'impiegata statale ecc., oppure: un'estroversa, una caparbia ecc. È facile intuire come la neutralità di queste categorie sia più logica che storica, ciò che ognuna di noi può quotidianamente esperire nell'ambiente di lavoro, dove essere un'impiegata è del tutto diverso dall'essere un impiegato. Ma non è questo il punto. Il punto è invece che la neutralità di queste categorie copre precisamente l'essenziale, di modo che l'indicibile, il non rappresentabile è proprio l'esser donna. Un vissuto, dall'inizio e fino all'ultima ora, non detto, o meglio, detto nel suo linguaggio da chi, dall'inizio e fino all'ultima ora, donna non è ma uomo. Questo destino di indicibilità è palese proprio nella più antica definizione, quella greca che definisce l'uomo come vivente che ha il linguaggio. Se basandoci su questa noi volessimo rispondere alla domanda cruciale, potremmo dire che la donna è il vivente sessuato al femminile che ha il linguaggio. Ma questa sarebbe una clamorosa menzogna se quell'avere ha un senso di appartenenza profonda al soggetto che appunto "ha". La donna non ha un linguaggio suo, ma piuttosto utilizza il linguaggio dell'altro. Essa non si autorappresenta nel linguaggio, ma accoglie con questo le rappresentazioni di lei prodotte dall'uomo. Cosl la donna parla e pensa, si parla e si pensa, ma non a partire da sé. La lingua mater.O:a nella quale abbiamo imparato a parlare e a pensare è in effetti la lingua del padre. Non c'è una lingua materna poiché non c'è una lingua della donna. La nostra lingua è per noi una lingua straniera appresa non però per traduzione dalla nostra lingua. Eppure appunto non nostra, straniera, sospesa in una distanza che poggia sulla lingua mancante. Ciò che noi percepiamo in questa lingua straniera, che pure siamo e non possiamo non essere, è cosl la distanza che ci separa da essa, essa nella quale ci diciamo non dicendoci, essa nella quale ci troviamo, ma non ci ritroviamo. In questa distanza si conserva come possibilità la lingua mancante, un bisogno di traduzione che giace nella lingua straniera come desiderio di ritorno alla lingua tradotta, e tuttavia mancante, presente solo nella 52

traduzione come un originale non perduto, ma piuttosto mai concesso. In questa esperienza di distanza della lingua, trovano spazio vie di fuga a noi ben note: il silenzio, il residuo non detto, il corpo piuttosto che il pensiero. Eppure la storia che ci riguarda è da sempre storia di silenzi, di reticenze, di corpi muti portati al mercato! L'unica via possibile e insieme reale è invece quella che si radica con necessità nell'esperienza quotidiana: l'essere un pensiero che non si è, eppure l'essere imprescindibilmente in questo pensiero, il parlarsi e il dirsi fo una lingua straniera. Infatti la fuga dal linguaggio è tanto impossibile quanto vivo simbolo di una estraniazione ritenuta insopportabile. Se io sono il linguaggio dell'altro, decido di negare questa estraniazione negando me stessa; piuttosto che dirmi in un linguaggio straniero, allora il silenzio. Simbolo impotente, perché nel silenzio ancor meglio mi parlo e mi penso sempre all'interno di quella rete concettuale che ha suoni da me non profferiti. Nel silenzio tace il suono, non la parola. Certo la tragicità di questo sapersi estraniate nella parola appartiene soprattutto alla filosofi.a. Il discorso poetico o narrante ha strumenti più duttili e raffinati per evocare attraverso la lingua straniera i sensi possibili della lingua mancante. C'è infatti una letteratura di donne che parla alle donne; in essa il linguaggio straniero si trasfigura e attinge significati nuovi e inusitati eppure per noi subito famigliari. La filosofia ha però una strada più dura, essa deve sobbarcarsi la fatica del concetto, a partire dal1a rete concettuale presente e dalla storia logica che questa conserva . e manifesta. Questa storia ha il suo più potente baluardo proprio nella pretesa neutralità del pensiero: un pensiero oggettivo, universale che, come tale, non escluderebbe nessuno, anzi, includerebbe gli uni e le altre indifferentemente nella sua verità. Svelare la falsa neutralità di tale pensiero e la sua valenza di estraniazione della donna, è allora il primo passo necessario verso un pensiero che contempH la donna come soggetto, e precisamente come soggetto pensantesi. 53

Se dunque è impossibile per la donna, come per qualsiasi altro parlante, uscire con un atto di volontà dal proprio linguaggio, è però per lei possibile dire attraverso di esso la sua estraneità ad esso. In questo dire la propria estraneità al linguaggio, la donna riproduce in atto la estraniazione stessa: il linguaggio col quale essa si dice estranea al linguaggio è infatti il medesimo. Essa è così il luogo di tale estraniazione che, cogliendosi, si riproduce come tale. Sembra un ben misero guadagno riconoscere come unica possibilità di autorappresentazione il dirsi una estraniata che in questo dirsi conferma e perpetua appunto il proprio straniamento. Ci si può chiedere allora se il pensiero della differenza sessuale sia bloccato sin dall'inizio dall'intrascendibile struttura del pensiero, ossia di un pensiero che la prevede impensata e la conferma impensabile. Ma ci si può chiedere anche, se questo estraniantesi pensiero dell'estraniamento sia solo una figura logica contemplata dalla filosofia occidentale (e sicuramente lo è se no non potrei dirla) o sia anche l'espressione concettuale di una esperienza radicata nell'esser donna. Alla domanda "che cos'è la donna" si può così, per ora, rispondere: la donna è un vivente che ha il linguaggio nella forma dell'autoestraniazione .

.3. L'essenza come esperienza della separatezza Ma tale risposta è solo provvisoria. Essa va verificata nell'esperire e non a questo avvicinata solo per analogia. La questione, come si è detto, verte intorno all'essenza della donna. Infatti la filosofia ha risposto in modo essenziale alla domanda "che cos'è l'uomo": essa recita "l'uomo è il vivente che ha il linguaggio" e non invece "l'uomo è un vivente bipede, implume e senza corna". Questa seconda definizione elenca qualità caratteristiche, ma non essenziali, caratteristiche che possono valere per una rappresentazione esterna e superficiale. Con esse l'uomo direbbe come è ma non che cos'è. Dicendosi invece come vivente che ha il 54

linguaggio, l'uomo produce la sua essenza riconoscendosi in questo produrre: egli si pensa pensante. Cos}, per l'uomo, avere il linguaggio è parimenti l'essere il linguaggio. Poiché la donna partecipa a questa essenza attraverso la sua sussunzione nel neutro universale uomo, anch'essa è il linguaggio. È il linguaggio dell'altro. L'essere della donna consiste dunque in una straniazione. Non solo essa si pensa pensata, ma appunto nel suo pensarsi è già da sempre pensata, rinchiusa e costretta in concetti estranei. In tale pensarsi essa produce tuttavia una estraniazione in atto che la differenzia essenzialmente dall'altro sesso. Pur se tale differenza essenziale può apparire come una miseria, poiché il consistere nella straniazione è tradizionalmente un negativo, tuttavia è singolare il fatto che di essa la filosofia non faccia menzione. Quasi un riguardo "pietoso" per la sfortuna di chi nasce donna. Invece di riflettere su questa differenza essenziale, che essenziale è nel suo radicarsi nella definizione dell'essenza dell'uomo, la filosofia tace, non tanto per pietà, quanto per una logica che prevede impensabile appunto la differenza sessuale. In quanto partecipa dell'essenza neutra-universale dell'uomo, la donna è appunto "umana", e tanto le basti. Anche se la filosofia teoretica non ha di queste preoccupazioni, essa che forse più di ogni altra scienza si libra nel puro ~pazio del neutro oggettivo, la tradizione culturale si affatica invece spesso intorno alle rappresentazioni del femminile. Queste riguardano in genere il corpo della donna e le "funzioni" ad esso connesse. Sembra che qui si affacci finalmente la differenza sessuale, e si affaccia in effetti in modo prepotente. L'essenza della donna sono i suoi organi di riproduzione: la donna è colei che genera, la madre. Ma gli stessi organi sono anche fonte di piacere: e allora la donna è puttana, l'abisso dei sensi, ecc. Qui l'essenza universale neutra dell'essere-linguaggio è obliata. La rappresentazione della madre ammette amore, trepidazione, dolore, dedizione, morte. Non le è invece connaturato il pensare, se non nella forma del ricordare, del raccontare, del recitare

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filastrocche. La madre ha voce (dolce) ma non parola. La rappresentazione del corpo erotico ammette moltissime varianti ma è addirittura l'opposto del pensiero (il riposo dal pensiero): la voce non è neppure più racconto o filastrocca, ma gemito e grido. La differenza sessuale è allora qui qualcosa di originario (si dice la "natura" della donna), straordinariamente incompatibile con quella essenza universale di razionalità che definisce l'umano per eccellenza. Anzi l'incrocio fra la "natura" della donna e l'essenza umana depotenzia, come si è detto, la seconda. Per quanto ormai dolorosamente insopportabile sia per molte donne pensarsi a partire dalla maternità, dopo secoli di esclusione dal potere poiché la nostra "Ratura" ci lega ai bambini, all'allevamento, al cibo, alla casa, e per sentimentalismi giocati sul sangue e sulla morte che è indecente persino menzionare, il pensiero della differenza sessuale non può esimersi da questo tema, però nell'ambito di una concettualizzazione dove sia la donna a pensare la maternità e ad elaborare intorno ad essa un simbolico di autoriconoscimento. Nell'economia del presente discorso è tuttavia utile per ora ancora soffermarsi su questa contraddizione fra "natura" ed essenza umana razionale. La contraddizione è una fra le tante. Anche la donna madre e la donna puttana sono incompatibili, così come lo è la donna manager e la regina della casa. Gli esempi sono tanti quante sono le rappresentazioni della donna che lo sviluppo culturale ha prodotto nei secoli. L'accelerazione recente di tale produzione (neila generale sovrapproduzione dei modelli nella quale anche il soggetto si è smarrito fra tante maschere incompatibili) rende ora più evidente quella estraniazione che la logica ha sin dall'inizio decretato. L'essenza deila donna consiste così per essa nel suo trovarsi addosso molte rappresentazioni inessenziali: infatti essenziali non sono, se sono incompatibili. · Pertanto quando la donna si pensa, rispondendo alla domanda "che cos'è la donna", si trova addosso molteplici

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rappresentazioni del femminile fra le quali si spartisce in un gioco di equilibrismo a volte straordinario, ma essendo tuttavia costretta a negarne qualcuna o quasi tutte per desiderio di semplicità, è spesso vittima di un sentimento di incompletezza. Tale sentimento di incompletezza, lungi dall'essere un superficiale ed irriflesso sentire, è invece il segno vero di un'esperienza essenziale. In primo luogo, poiché ciascuna delle definizioni di sé che la donna trova nel linguaggio le vengono appunto da un linguaggio non suo, la donna è costretta a pensarsi in un movimento logico di interiorizzazione dell'esterno-estraneo. In altri termini, nel rispondere a che cos'è la donna, la donna trova risposte già dette (rappresentazioni già date) da un linguaggio che non la contempla, anzi, la nega come soggetto, linguaggio che è però anche il suo linguaggio, pur essendo appunto non suo. Così la donna pensandosi è una pensata. Definendosi accoglie una definizione di lei detta dall'altro. E pur tuttavia è essa stessa, né potrebbe fare altrimenti, ad attivare questa interiorizzazione dell'esternoestraneo. C'è dunque un interno, che è un esistente concreto, un vivente sessuato parlante, che si pensa nell'esterno, e, pensandosi, riproduce la separatezza fra pensante e pensato. Separatezza che consiste appunto interamente nell'atto di autopensarsi di questo soggetto. Cosicché ciò che alla donna costitutivamente appartiene, ciò che essa come soggetto esperisce nel linguaggio a lei esterno, nonostante, e, anzi, proprio in quanto linguaggio esterno che non la contempla come soggetto, è la separatezza stessa. Ci stiamo avvicinando forse ad una definizione più precisa: la donna è la vivente che ha il linguaggio nella forma della separatezza. E l'avere ha qui un senso compiuto. Non stupisce allora il suo avvertire una certa incompletezza nella scelta di una, o di alcune, delle definizioni fornitele dalla tradizione: ciò che la donna avverte non è la mancanza di qualcuna di esse, ma quello spazio logico di scissione che le appartiene come sua stessa essenza. C'è infatti, nella quotidiana esperienza della donna, un sentimento di incompletezza accompagnato dalla impellente 57

necessità di "riempire" dei vuoti per giungere appunto ad un completamento, ad una identità che coinciderebbe con l'aver interpretato fino in fondo tutti i ruoli che c'erano da interpretare, fino a corrispondere alla totalità delle rappresentazioni del femminile presenti nel linguaggio. Ovvio constatare che tali rappresentazioni sono spesso incompatibili e quasi sempre "a tempo pieno", ma non è questo il punto. Il punto è invece die- quella completezza che sembra consistere nella somma di tutti i ruoli, ossia nel riuscire ad esser donna secondo tutti i sensi che all'esser donna il linguaggio attribuiscé~ l~ngi dall'essere una completezza è invece una forma di approfondimento dell'essenzial~ esperienza della separatezza. Così la scissione che la donna in sé porta e rinnova nel suo pensarsi, da un lato innesca un desiderio di "suturazione" che si rivolge all'esterno e tenta di ricucire in una impossibile compattezza tutte le rappresentazioni ricevute dal linguaggio, d'altro lato, in questa stessa operazione, non fa che confermarsi approfondendosi: infatti ricucendo l'esterno non per questo si colma lo spazio di scissione che lo separa dall'interno. È l'intimo consistere come separati dell'interno e dell'esterno ciò che sempre si mostra e chiede di essere colmato, un;interno ed un esterno che non stanno ciascuno per sé in un ambito autonomo per poi incrociarsi in determinate circostanze, ma che stanno l'uno nell'altro indissolubilmente nell'esser donna. Nell'esperienza del pensarsi pensata i due termini coincidono in una separatezza costitutiva. Può sembrare che la ricerca dell'essenza della donna radicata nella categoria della differenza sessuale dovesse dare risultati, per così dire, più alti, rispetto a ciò che ora abbiamo raggiunto, ossia una specie di constatazione di che cosa la donna al presente è. E dire "al presente" non è dire poco, poiché significa riferirsi alla lunga storia di sopraffazione che ha prodotto tale presente femminile, storia che appunto emerge in tutta la sua valenza negativa nella 58

definizione della essenza della donna come esperienza di un'intima e costitutiva separatezza di sé da sé. Questa difficoltà (o delusione) nasce tuttavia da un malinteso significato di ciò che abbiamo chiamato essenza. Se infatti l'essenza è un contenuto immobile e fuori del tempo, una verità custodita dalla mente di Dio, un essere cosl da sempre e per sempre, allora davvero non è questa che abbiamo trovato, poiché non è questa che andavamo cercando. Il desiderio di una essenza di tal genere anima talvolta i percorsi di alcune ricerche di tipo storico o antropologico: è il desiderio di scoprire le tracce di un femminile "originario" che la storia ha sconfitto e occultato, affinché la donna possa riappropriarsi dopo l'occultamento, e nonostante l'occultamento, di quello che le era giustamente appartenuto all'origine. Queste ricerche sono ovviamente legittime, ed hanno inoltre l'utilità delle rappresentazioni utopiche per la costruzione di una nuova immagine, e tuttavia rischiano di dilatare il nostro bisogno di una teoria di autoriconoscimento nella lontananza di una nostalgia dolorosa. Se è cosl legittima una archeologia che rievochi ed interpreti l'irruzione nella storia di un destino ormai compiuto, essa non può tuttavia dimenticare che l'essere donna è ora questo stesso destino e necessariamente in esso si esperisce e si pensa. Pensarci in quella essenza che è stata cancellata, oltre che impossibile in quanto il pensarci stesso si struttura sulle categorie della cancellazione, significa anche un volontario cancellare il nostro essere, qui ed ora, una differenza sessuale pensantesi: nella rappresentazione di una essenza perduta possiamo rimpiangerci, non ritrovarci. Il pensiero della differenza sessuale non può essere infatti che il pensarsi, qui ed ora, di un vivente storico sessuato al femminile. La definizione dell'essenza della donna è reale solo se io, donna, riconosco in essa il mio esperirmi quale sono e. non quale avrei potuto essere in un improbabile giorno ormai tramontato. Se tale autoriconoscimento non av:viene, ancora una volta si riproduce la separatezza fra

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interno ed esterno, e, riproducendosi, ancora una volta la separatezza stessa si mostra come l'essenziale esperirmi. L'essenza che andiamo cercando è allora l'essenza storica di un soggetto reale che vuole comprendersi a partire da sé. C'è in tale sforzo di autocomprensione un aspetto attivo che è legato alla decisione della donna di produrre appunto la rappresentazione del proprio essere come sogg~tto, e c'è anche un aspetto, per cos1 dire, passivo, consistente nella fiducia di ascoltarsi cercando il proprio valore non fra le rappresentazioni che "valgono" in un linguaggio che le è straniero, ma nell'accogliersi quale essa è, carica di un destino non ancora felice. Anche se può sembrare grondante di miseria, l'essenza che in questo modo viene trovata dall' autointerrogarsi della donna intorno al suo "che cosa sono", è mille volte migliore di uno scimmiottamento di quelle luminose sorti del soggetto maschile, che per secoli l'hanno relegata nell'oscurità, nutrendosi di questa tenebra. L'essenza trovata nel pensarsi è dunque l'esperienza della separatezza. E subito allora si affaccia il desiderio: questa separatezza deve essere colmata. Ed è un desiderio prepotente, ma forse, in questa prepotenza, cieco rispetto al guadagno già raggiunto: l'esperienza della separatezza non più muta, ma venuta alla parola, e quindi concettualizzata, rappresentata, non è separata dal soggetto che la pensa pensandosi, che la concettualizza e la rappresenta. In questo pensiero la pensante si riconosce. Essa è in atto il suo pensiero di sé. 4. L'Altra/altra Che ne è allora di quelle categorie maschili che strutturavano il pensare ed impedivano alla differenza sessuale impensata di pensarsi? Come ha potuto una parlante dirsi, a partire dallo specifico della sua sessuazione, in un linguaggio fondantesi sulla neutralizzazione del senso di questa specificità? Ebbene ha potuto dirsi non per miracolo, o per aver scoperto una zona ancora intatta del linguaggio,

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ma per aver riconosciuto come suo specifico la cancellazione della sua specificità. Il linguaggio ha infatti universalizzato la specificità del parlante maschile e, così facendo, si è proposto come un neutro comprensivo anche dell'altro sesso. Ma_l'altro sesso, così come non è entrato nel processo logico di questa universalizzazione, altrettanto in essa è rimasto e si è conservato però come estraneo. Nella dinamica del medesimo attraverso il medesimo, il sesso maschile ha pensato l'altra come lo specificantesi al femminile di quel neutro universale che egli stesso è. Ma l'altra è rimasta l'Altra. Il linguaggio infatti può concettualmente cancellare la differenza sessuale, ma non può eliminare la presenza del suo semplice esserci, Di fatto la differenza sessuale femminile non è lo specificarsi di un mostruoso neutro-maschile. La teoria dice spesso: tanto peggio per i fatti! e, in effetti, è così che avviene. Né qui vogliamo appellarci alla biologia, anche se proprio dalla biologia ci aspettiamo discorsi sulla differenza sessuale. Qui siamo invece venute a toccare un punto sensibilissimo per il pensiero femminile, un punto che è in genere nominato come "residuo". Nei discorsi fra donne questo termine annuncia frequentemente l'irrompere di una produzione linguistica affannata ed insieme felice, l'aprirsi di un immaginario che sollecita e appaga momentaneamente il desiderio di autorappresentazione. Qui vogliamo tentare una analisi che renda ragione degli straordinari effetti della parola ''residuo" e insieme pervenga ad una sua concettualizzazione nell'ambito di una teoria della differenza sessuale. Dicevamo dunque che l'altra del discorso non può impedire all'Altra· di esserci, ogni volta e in ogni donna, come una presenza sia pure impensata. Questa Altra è allora, per Io meno, un corpo sessuato così e non altrimenti, e però un corpo pensante: infatti l'esistente che si trova ad essere sessuato al femminile e pensante è, di fatto, un intero, un vivente individuale. Non occorrono ricerche archeologiche

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per reperire questa Altra qui nominata: ognuna di noi e una vivente, pensante, sessuata al femminile; se non che, quando ci pensiamo, il vivente intero che noi siamo, si spacca: il nostro pensiero si struttura su categorie che .rendono impensata la differenza sessuale nella sua originarietà (nel suo esserci sin dall'inizio, così e non altrimenti nel vivente intero donna) e la riducono invece a differenza secondaria (l'altra) a partire e all'interno di una rappresentazione di noi come intero che, molto problematicamente, dovrebbe più o meno corrispondere a: "Uomo neutro + (-) sessuazione femminile". Pertanto la ·donna è portatrice di una doppia alterità: essa è l'altra assimilata nel linguaggio (io, soggetto universale parlante, che si specifica in maschio e femmina, ciascuno dei quali è l'altro dell'altro, ambedue compresi - previsti! dall'io), essa è però anche l'Altra, una esistente alla cui interezza appartiene costitutivamente la differenza sessuale, che il processo di universalizzazione del maschio non ha contemplato come tale, ma che pur tuttavia è "materialmente" sopravvissuta riproponendosi come presenza che si offre ad una attribuzione di senso da parte del pensiero. Anche se tale offrirsi per secoli si è rinnovato come testimonianza della perdurante cecità del linguaggio nei suoi confronti. Infatti, nel suo processo di universalizzazione, l'Altro (quel vivente maschio alla cui interezza inerisce parimenti il differire) si ritrova nell'altro come il medesimo, vi coincide, appaesandosi a tal punto in tale ritrovarsi, da non potersi più interrogare sul suo essere l'Altro. Cosl.la differenza sessuale maschile, nell'atto del suo celebrarsi come universale, si perde: rimane un presupposto inindagato, appagantesi nei fasti della sua assolutizzazione. In questo stesso processo di universalizzazione, l'Altra, al contrario, non può ritrovarcisi perché non c'è mai stata, e si trova appunto solamente come l'altra. Si trova e però non si ritrova. Essa è l'Altra che si pensa come l'altra, e in questo pensarsi esperisce quella separatezza dell'altra dall'Altra, che è precisamente l'estraneità del pensiero stesso

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dall'Altra. Estraneità che in una pensante, che è in sé Altra-altra, si manifesta come separatezza, nel Sé, del Sé da sé. Il miracolo di costringere il linguaggio a dire quella che non dice, è cosl piuttosto il nominare l'estraniazione che il linguaggio stesso produce costringendo l'Altra a dirsi come l'altra. Irrappresentata ed irrappresentabile nel linguaggi.o straniero l'Altra si è pensata come l'altra con·servandosi come presenza offrentesi ad un pensiero cieco, come presenza muta, muta non perché non avesse parola, ma perché la parola la trasformava nell'altra separandola da se stessa e costringendola a consistere in questa separatezza. È allora forse qui che si cela la straordinaria fascinazione che la parola residuo provoca su di noi: il residuo non è tanto un cantuccio incontaminato del nostro essere sottrattosi, caparbiamente o per divina sorte, al linguaggio maschile, ma l'ineliminabile presenza di una intierezza costretta ad autorappresentarsi nella sua mutilazione. Nel dirsi come esperienza della separatezza ora l'Altra può affacciarsi in una rappresentazione che la comprende. Infatti la separatezza nomina l'Altra come uno dei due termini che insieme consistono separati. Non c'è nella teoria, poiché non c'è nell'attuale esperirsi della differenza sessuale femminile, una rappresentazione che restituisca, in un puro· e libero pensarsi, l'Altra a se stessa senza che essa passi attraverso l'altra. È l'Altra che si esperisce come Altra-altra quella che qui si rappresenta. La sua rappresentazione, se veramente vuole essere sua, non può che restituirle ciò che essa è. Ma in questa restituzione, per la quale la donna si rappresenta come in sé separata, la donna stessa coincide alla sua rappresentazione. L'originarietà della differenza sessuale viene dunque qui a chiarire il suo significato: non è una originarietà astratta, coglibile fuori della storia, come se qui ed ora io potessi decidermi a pensarmi come l'Altra prescindendo dal mio intrascendibile essere un qui e un ora. L'Altra, che pure 63

io sono, mi si rende presente nella mia attuale esperienza della separatezza. Nominando tale esperienza io dico l'originarietà del mio essere l'Altra come ciò che si è conservato nonostante la cancellazione e quindi corrie ciò che può trovare autorappresentazione solo nella forma del suo conservarsi fin qui.

5. Il nostro simigliarci È ora necessario fare una precisazione metodologica. Si è appena detto èhe una pura e libera rappresentazione del1'Altra che la restituisca a se stessa senza passare attraverso l'altra, q:>n la quale essa consiste nella separatezza, non è possibile. Pèr riprendere una figura poco sopra esplicitata, ciò equivarrebbe a poter, immediatamente e felicemente, parlare nella lingua mancante, prescindendo dal suo esistere, come da sempre già tradotta, nella lingua straniera. O, più semplicemente: ignorando che una lingua è mancante appunto perché manca. Si è sin qui infatti privilegiata una via "realistica" di indagine, ossia una via, indubbiamente faticosa e priva di archi trionfali, ~ttraverso la quale la donna può arrivare a comprendere che cosa essa è e perché è così come è, e non che cosa essa vorrebbe essere. Una via di consapevolezza e non di puro progetto. E ciò, da una parte per evitare salti in avanti, nel vuoto, che rischiano di impattarsi contro un pieno di rappresentazioni maschili, semplicemente immaginate, ma non concretamente lasciate alle spalle, e, d'altro lato, per meglio conoscere la chiave di 'una logica che prevede come impensata la differenza sessuale, logica con la quale la differenza stessa deve dunque fare i conti se vuole . ,, . pensarsi. e " uscirne II problema sta appunto nell'uscita: non si esce da un pensiero semplicemente pensando di uscirne, almeno finché quel pensiero dell'uscita si struttura sulle medesime categorie del pensiero dal quale vuole uscire. C'è allora bisogno di uno spazio di transizione, appunto affrontare la fatica di

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analizzare, scomporre, ricombinare quelle categorie per trovare attraverso di esse e, necessariamente, a partire da esse, più che un'uscita magica, uno spiraglio stretto. Soltanto un inizio, ancora ingombro di strettoie mortificanti. Ma appunto un inizio. Su questo inizio è allora meno rischioso (e frustrante) raccogliere qua e là, con le cautele logiche del caso, le possibilità di un progetto, le possibilità per costruire un voler essere. Qui possono rientrare, con tutta la loro carica positiva, le indagini archeologiche alle quali si era fatto cenno: dal punto di vista ora raggiunto la "verità" dei loro reperti non si misura tanto sulla acribia documentale· (ci fu o no, storicamente un matriarcato?) ma sulla loro capacità di funzionare come immagini progettuali, dove il perduto è ciò che si vuole ancora trovare. E non solo le indagini archeologiche in senso stretto, ma anche tutte quelle in grado di fornire alla donna un simbolico di forte valenza autorappresentativa: immagini nelle quali la differenza sessuale si renda visibile all'Altra che in esse si guarda. Fra tutte queste discipline, la. filosofia è forse la p1u lenta, proprio per il suo misurarsi con le categorie logiche per le quali le pareti dello spiraglio di uscita si fanno più strette. Alle discipline in grado di creare immagini essa può però utilmente fornire un'indagine intorno allo statuto dell'immagine non disgiunta dalla fenomenologia del suo presentarsi nell'ambito del pensiero occidentale. In. questa prospettiva l'indagine che ora ci interessa è quella della simiglianza fondata nell'immagine. L'esser simili fra loro di tutte le creature umane, quella simiglianza su cui si basa l'etica della compassione, viene fondata nel libro della Genesi sul simigliare della creatura umana a Dio. Leggiamo infatti "E Dio disse: facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza ... Dio creò l'uomo a sua immagine; / a sua immagine Dio lo creò; / maschio e femmina li creò" (1, 26-27). È tuttavia noto come questo passo, che suggerisce la contemporanea creazione dell'uomo e della donna entrambi simiglianti in 65

immagine a Dio, venga poco dopo contraddetto dalla affermazione che l'uomo era solo: "Non è bene che l'uomo sia solo, gli voglio fare un aiuto che gli sia simile" (2, r8). A tale scopo Dio crea, a dire il vero per la seconda volta, gli animali, "ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull'uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all'uomo, una donna e la condusse all'uomo. Allora l'uomo disse: questa volta essa / è carne della mia carne / e osso delle mie ossa. / La si chiamerà donna / perché dall'uomo è stata tolta" (2, 20-23).4 Questa contraddizione è di estrema importanza. Nella prima ipotesi abbiamo infatti la creazione dei due sessi nella differenza che fonda la possibilità di due livelli di simiglianza: sia l'uomo che la donna sono simili a Dio e sua immagine, perciò, nel rimando dell'immagine a ciò di cui è immagine, ossia a Dio, anche sono simili l'uno all'altra pur essendo differenti. Questo è il primo livello di simiglianza, fondata in un trascendente che "contiene" ambedue i sessi, visto che ciascuno dei due è sua immagine. Il secondo livello di simiglianza è quello fondato sulla differenza originaria delle due creature sessuate: per essa le donne sono delle simili in Eva, e gli uomini in Adamo. Questo livello di simiglianza è secondo perché dipende dal primo essendo però nel primo già contenuto: infatti la differenza che permette un simigliarsi in essa delle creature differentemente sessuate è già presente in Dio corrispondendovi in immagine. Secondo questo passo della Genesi insomma la differenza sessuale si fonda originariamente nel trascendente, è un duale originario dove ciascuno dei due sessi si assomiglia in Dio e perciò nessuno dei due assimila l'altro a partire da sé fondando il somigliare dell'altro a sé in questa assimilazione. Il secondo passo della Genesi ha invece un significato del tutto diverso, non solo la donna è simile all'uomo in quanto tolta dalla sua carne e quindi derivata in secondo grado da quel simigliare a Dio che l'uomo conserva, ma 66

anche l'uomo le da il nome, così come aveva già nominato gli animali, mostrando in tale nominazione l'eccellenza del suo simigliare a Dio, ossia il possesso della parola nominante come immagine del verbo creatore. Anche la donna, tolta dall'uomo, avrà la parola, ma non nominante, parola ripetitiva di quei nomi imposti dall'uomo: "allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all'uomo, per vedere come li avrebbe çhiamati: in qualunque modo l'uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome" (2, 19). Nella tradizione cristiana la versione biblica più frequentemente citata è la seconda: la prima compare infatti in Matteo (19, 4), mentre la seconda compare in Paolo (1 Cor. n, 8-12) il quale sottolinea che la donna fu creata dall'uomo e quindi per l'uomo, e in Agostino (De Civ. Dei, xn, 21) per il quale è fondamentale il fatto che l'uomo sia stato creato "unum ac singulum" contrariamente agli animali.5 La maggiore utilizzazione del passo veterotestamentario che prevede la donna senza immagine nel trascendente è del resto confermata nella rappresentazione neotestamentaria dell'incarnazfone del divino: Gesù Cristo è uomo. Dio si incarna nel _corpo maschile come il Figlio. Che tale incarnazione redima nella Croce non solo gli uomini ma anche le donne è la conferma di un principio già manifestantesi nella logica della creazione della donna come simile all'uomo. Se è infatti l'uomo quel medio che trasmette alla donna il suo proprio simigliare a Dio, l'incarnazione del divino nell'uomo sarà "in grado di trasmettere il suo valore di salvazione anche alla donna che è stata creata come sua simile.

In altri termini: sia il secondo passo della Genesi sia il mistero dell'incarnazione contemplano una corrispondenza di immagine fra l'uomo e Dio.· Poiché è del tutto sciocco pensare che Dio abbia voluto incarnarsi in un corpo maschile piuttosto che in un corpo femminile scegliendo a caso o per capriccio, conviene invece interrogarsi sul significato di tale scelta. E appunto tale scelta ha, per gli umani che 67

decidano di interrogarsi su di essa, delle ragioni coerenti rintracciabili nella lettura del secondo passo della Genesi. In esso l'uomo, "unum ac singulum" come nota Agostino, è la più alta delle creature fatta da Dio a sua immagine e somiglianza, e poiché Dio crea la donna simile all'uomo (e dall'uomo nominata) anche alla donna si estende, come immagine dell'immagine, quel somigliare fondato, per l'uomo, nel divino. Il referente diretto della donna, per il suo essere una simile fra i membri del genere umano, è l'uomo, non Dio. L'uomo come medio da Dio e verso Dio. L'incarnazione di Dio nell'uomo redime perciò l'uomo immediatamente e la donna mediatamente. Donna che è differentemente sessuata da quel corpo che sanguina sulla Croce, eppure simile ad esso a partire da esso, poiché cosi Dio ha voluto crearla.6 Anche qui, come già si è notato per il pensiero filosofico, la valenza universale della figura maschile paga il suo scotto. Infatti, mentre nel duale originario del primo passo della Genesi, la differenza sessuaie compare nelle due immagini parimenti somiglianti a Dio, essendo anzi il nucleo logico di quel duale, ed è perciò visibile in quanto concettualmente significante, nel secondo passo invece la differenza sessuale all'inizio non compare, è concettualmente inesistente, e compare solo in un momento successivo, non rapportata però a Dio nel somigliarGii, ma rapportata all'uomo che ha bisogno di una creatura a lui simile, e, in questo secondario apparire, è resa concettualmente insignificante in rapporto al trascendente, oltre che "tendenzialmente" invisibile. Infatti, nel secondo passo, quando l'uomo è solo, non c'è alcun altro sesso da cui il maschio possa differire. Non essendoci, essa è per forza impensabile, invisibile. La differenza sessuale diventa visibile quando Dio plasma una creatura simile all'uomo ma diversamente sessuata; la differenza sessuale stessa è però, in questa fase secondaria, insignificante per l'economia dell'immagine del divino, o meglio significante per il suo rivelare che quell'immagine,

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ossia l'uomo, che non appariva sessuata, era invece sessuata al maschile. All'immagine originaria (maschile) del divino accade allora qualcosa di straordinario: essa è insieme non portatrice della differenza sessuale e portatrice della differenza sessuale al maschile; ma lo straordinario stesso è ancor!! dipanab1le logicamente come la capacità della sessuazione maschile di essere invisibile nell'immagine del _divino e visibile invece in rapporto alla sessuazione femminile: ciò del resto rafforza la sua capacità di valere per l'universale. Anche se si tratta, di nuovo e anche qui, di un universale ambiguo e sostanzialmente mostruoso: un esser già sessuato (ma ancora invisibile) che si mostra tale solo in un secondo tempo, nella sua raffrontabilità, per differenza, all'altra creatura da lui "derivata". Gli effetti di tale invisibilità si incontrano nuovamente nel mistero dell'incarnazione: Gesù Cristo è uomo, e quindi è ovviamente sessuato al maschile. Il solo concentrare il nostro pensiero sul sesso di Cristo è però, per la nostra cultura, un atto osceno: il sesso del Figlio sulla Croce è di fatti invisibile in questa cultura, esso si sottrae alla vista non tanto per un "naturale" pudore, quanto per il fatto che è concettualmente irrappresentato. Il corpo di Cristo è il corpo di un uomo, ma sulla Croce è il simbolo di una incarnazione concettualmente neutra in quanto universale nel suo effetto di redenzione per uomini e donne. La valenza ai fini di un autoriconoscimento in essa delle creature è naturalmente diversa per gli uomini e per le donne: mentre infatti per il cristianq tale autoriconoscimento è immediato, in quanto è un suo simile, simile in Dio e Dio egli stesso che è vivente immagiI?-e di questa simiglianza, quello che sta soffrendo sulla Croce, per la cristiana invece l'autoriconoscimento passa attraverso la mediazione del patire. Nelle esperienze mistiche femminili c'è infatti una yiva identificazione della donna con il corpo sofferente di quest'uomo diverso dagli altri uomini, uomo inerme, oggetto di violenza fisica e, a causa di ciò esaltato,

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innalzato sulla Croce. Le sofferenze fisiche del crocefisso sono così presenti in tutte le mistiche, piccole o grandi, fino a Virginia Maria de Leyva, la monaca di Monza, e fino alle povere donne di paese che il venerdì Santo sfilano nella cerimonia del bacio della croce. Se pertanto, da un punto di vista logico, il riconoscersi della donna nel corpo dell'uomo che soffre sulla croce, sembra richiedere da parte di lei una denegazione della specificità del proprio corpo, in effetti tuttavia la sofferenza di quel corpo straziato innesca una identificazione fra quel patire e il patire di lei, cosicché tale denegazione della specifìcità del suo c:orpo si attua davvero · nella cristiana, ma in quanto fortemente patita e solo patita: questa passione lega 1a donna alla passione del crocefisso. Ovviamente per la cristiana questa identificazione nella passione è tanto più facile quanto più essa non si pensa nella differenza sessuale, consegnandosi a quella denegazione della specificità del proprio corpo alla quale è stata storicamente costretta da una cultura che prevede appunto impensabile la differenza sessuale. Se però da parte della cristiana la differenza sessuale viene pensata, ecco che al posto dell'autoriconoscimento subentra il problema di una redenzione incompleta conseguente ad una incarnazione del divino attuatasi nella parzialità e finitezza del corpo sessuato maschile, problema centrale dell'eresia guglielmita.7 Da questa breve analisi condotta nell'ambito della teologia possiamo affermare, ossia confermare, che l'immagine dell'essenza della donna, quella che rappresenti per la donna il suo essere innanzitutto così e non altrimenti, non trova fondazione nel discorso intorno alla trascendenza, oppure trova eccellente fondazione in quel concetto di duale originario dell'uomo e della donna parimenti somiglianti in Dio nella loro differenza sessuale che, non a caso, la tradizione ha trascurato. Per noi ora è necessario da un lato, e questo è compito delle studiose di teologia, ripensare quel passo biblico· intorno al duale originario nelle sue possibilità inespresse, 70

d'altro lato, e in ogni caso, pensare una immagine dove il nostro dirci delle simili trovi in noi, e non nell'altro, fondamento.

6. Il nostro differire Infatti, come già si è visto, il nostro dirci delle simili trova una rappresentazione solo in negativo. Il simigliare alle altre di ogni creatura umana ha infatti un doppio significato relativo ad un distinto referente: altro è l'esser simile della creatura in riferimento alla specie umana, altro è il suo esser simile alle creature segnate dalla medesima differenza sessuale. Il primo tipo di simiglianza, secondo la versione biblica più utilizzata, e, in ultima analisi, secondo la cultura occidentale in genere, si fonda sul simigliare a Dio dell'uomo trasmesso alla donna per il simigliare di lei all'uomo. C'è insomma un concetto di umanità rappresentato dalla figura t.iomo-immagine-di-Dio che si estende alla donna in quanto creata a simiglianza della figura stessa. Se ci si sposta dal1'ambito teologico a quello filosofico lo schema si ripete: è "il vivente che ha il linguaggio", ossia l'uomo, a disegnare il concetto dell'umano, e poiché la donna utilizza tale linguaggio, anch'essa è umana, una simile all'interno della specie umana. Il secondo tipo di simiglianza, quello fra creature sessuate nella medesima differenza, pone maggiori problemi, almeno per le donne. Mentre infatti per l'uomo il dirsi un simile di ogni altro uomo è un dire che si appoggia sulle medesime rappresentazioni bibliche o filosofiche sopra citate, la mancanza di una fondazione "in positivo" della differenza sessuale al femminile, crea per le donne una difficoltà a reperire il parametro del loro dirsi delle simili. C'è, in effetti, un parametro fondato "in negativo": le donne fondano il loro simigliarsi l'una all'altra nel simigliare della prima donna al primo uomo, ma è un parametro solo in apparenza utilizzabile, infatti quel simigliare della prima 71

donna al primo uomo si gioca appunto tutto sul primo uomo, ossia sulla creatura che è sessuata in modo opposto rispetto a quelle che sono costrette a ricorrere ad essa per il loro simigliarsi. Il discorso sembrerebbe facilmente risolvibile con la semplice decisione di introdurre un fatto empirico: la sessuazione è, infatti, un fatto empirico, e possono pertanto dirsi delle simili tutte le donne, semplicemente in quanto sono ugualmente sessuate. Ma i fatti, come meri fatti, alla filosofia dicono molto poco, e, in generale, non dicono niente se non assurgono al simbolico. Infatti io posso facilmente dirmi simile a mia madre, ad una amica, a tutte le donne, in quanto sono sessuata come loro, ma questo dirmi simile sembra reggersi più sulla constatazione che su di contenuti di pensiero. Posso, è vero, sollevarmi dal mero piano della constatazione dicendo che condivido con loro un comune destino legato al nostro sesso, ma i contenuti cosi trovati si trasformano piuttosto in un problema: non poggia forse questo stesso destino sul mancato pensamento di quella differenza sessuale che si trova ad esso legata? Davvero simili allora siamo tutte noi nel nostro portarci addosso (essere) come impensata quella differenza sessuale che fonda il nostro simigliarci. In altri termini, ancora una volta, la differenza sessuale che "ci portiamo addosso" è empiricamente una immediatezza non assurta al simbolico, è una presenza che si offre sulla soglia della parola. L'esperienza della separatezza che abbiamo definito come essenza della differenza sessuale femminile, è dunque un primo passo verso la costruzione di un simbolico che possa dare rappresentazione al fondamento del nostro essere delle simili. Un primo passo soltanto, l'indicazione di un progredire che non sia un vagare. Una parola iniziale, per un discorso che contempli la donna come soggetto: il primo passo oltre la soglia della sua parola. Questo discorso, la casa del linguaggio della donna, non ha direzioni obbligate, o, almeno, ha .direzioni non ancora perfettamente rintracciabili a partire da qui, da questo povero inizio, ma pos72

siamo sin da ora prevedere che esso dovrà, prima o poi, cimentarsi con la questione della maternità, nonostante il nostro frequente desiderio di reticenza. È tuttavia utile per ora vagliare fino in fondo le possibilità che il discorso fin qui condotto viene ad aprire. Fra queste è fondamentale sottolineare che il nostro poterci dire delle simili fonda parimenti la possibilità di nominare correttamente il nostro reciproco differire. Infatti il pensiero della differenza sessuale può tradursi perniciosamente nella teoria di uno spartiacque assoluto che confina l'estendersi dell'opaca palude dell'uguaglianza: nella differenza sessuale, che segna il nostro esserci come un differire dagli uomini, non più differenza alcuna e di nessun genere, bensì tutte uguali. Così la differenza sessuale farebbe di noi non tanto delle simili, ma delle indifferenti. Essa precisa invece la logica di un diverso differire. La mancanza del pensiero della differenza sessuale dispiega infatti la possibilità di un solo tipo di differire: in quanto io sono una simile all'interno del genere umano è nei confronti della totalità di questo che io devo misurare il mio differire. Sarò così più intelligente di Filippo e meno creativa di Caterina, senza che il mio differire da Filippo e da Caterina sia di tipo diverso. In base al pensiero della differenza sessuale tuttavia io differisco da Filippo essenzialmente e, altrettanto essenzialmente sono uguale a Caterina. Uguale per essenza a Caterina, ma non uguale per intelligenza, carattere, esperienza personale ecc. Queste differenze segnano un mio differire da Caterina che è del tutto diverso dal mio differite essenziale da Filippo. Ad opera di tale differire essenziale, che è in pari tempo il mio essenziale essere uguale ad ogni altra donna, anche il differire per caratteristiche individuali, che sembrava prima indistinguibile nel suo rapportarsi all'uno o all'altro sesso, può ora essere rivisto: esso è per definizione inessenziale, ma assume un significato diverso a seconda del sesso nei cui confronti si verifica. Fra donna e uomo è un differire inessenziale all'interno di un differire essenziale cosicché significa ben poco, visto che il differire essenziale fra donna 73

e uomo rende superfluo il senso di ogni altro differire. Fra donna e donna è un differire inessenziale all'interno di una uguaglianza essenziale, cosicché esso assume il significato di un dispiegarsi di differenze determinate poggiantesi su una comune essenza che fa delle due donne, appunto, delle simili. È dunque necessario cogliere il significato concettuale che distingue l'esser simili dall'essere uguali. L'essere uguali per essenza si riferisce infatti al nostro comune esser donne, ossia risponde a quella cruciale domanda "che cosa sono io?", la quale si mostrava necessariamente radicata nel1'" innanzitutto in quanto donna". In questa domanda l'io non è un neutro, ma neppure un astratto. L'io che qui si interroga sulla propria essenza è infatti un'individua, carica àella sua insopprimibile singolarità, che non può semplicemente coincidere con questa essenza, ma che vuole comprendere la sua singolarità a partire da questa essenza che le fa da fondamento. Tale fondamento, definendo l'esser donna di ogni donna, è per ogni donna uguale, ma poiché ogni donna è questa singola donna, l'uguale fondamento si rivela sempre e necessariamente incarnato in infinite esistenti singolari le quali per esso si simigliano, ma non in esso coincidono come la monotona replicazione di una matrice che non ammette varianti. Il simigliarsi segna infatti una tensione fra un uguale e un differire, e, se si risolve totalmente nell'uno o nell'altro, si dissolve. Il simigliarsi è così strutturalmente il medio che tiene insieme l'uguale e il differire e dà a ciascuno di essi un significato che è tale solo in questa relazione. Al di fuori di questa relazione concreta, l'uguale è un astratto e il differire è un indeterminato. Il "mito" dell'uguaglianza fra donne si rivela cosl una assolutizzazione del fondamento del loro simigliarsi e innesca la possibilità di molti rischi. Il rischio maggiore diventa evidente sul piano politico dove i termini uguaglianza e differenza riferiti al problema del potere assumono un significato immediatamente carico di conseguenze: le doti 74

particolari di alcune vengono mortificate o represse, non solo per una dinamica di gruppo, ma anche per autocensura. Altro rischio è; che la differenza sessuale, che ci farebbe tutte perfettamente uguali, diventi un muro al di là del quale sopravvivono le differenze inessenziali, inessenziali appunto, ma le uniche che non è necessario negare, cosicché il determinato differire proprio di ogni individua finisce col misurarsi, e quindi col significare qualcosa, solo nei confronti dell'altro sesso. Il terzo rischio, forse filosoficamente il più pernicioso, è quello che si radica nello stesso . concetto di uguaglianza astratta: l'uguale che non ammette differenze non lascia spazio alla mediazione. Solo il simigliare, come tensione fra l'essere uguali e tuttavia differenti, rende possibile l'autoriconoscimento dell'una che è un passare attraverso l'altra per cogliersi come differente nella comune essenza, affinché appunto siano salvaguardati, ma non assolutizzati, i due lati del differire e dell'essere uguali nella categoria mediatrice del simigliarsi. Il pensiero della differenza sessuale si rivela dunque fondamentale non solo per la rappresentazione di una essenza che fondi logicamente il nostro simigliarci, ma anche per indicarci la direzione di una teoria che non sostituisca una gabbia nuova alle vecchie gabbie. In altri termini, il simbolico che andiamo cercando non è una bella immagine alla cui fissità ognuna di noi debba perfettamente coincidere nel suo singolo rispecchiarsi, ma una immagine che alla singola restituisca la sua essenza rimandandole però la ricchezza della sua individualità. Di modo che ogni donna nell'immagine, riconoscendosi, si conosca.

7. Quasi una conclusione Qui, dove il nostro intento di pensare la differenza sessuale ha potu~o trovare un non agevole inizio, non c'è spazio teorico per una conclusione. C'è però forse la possibilità di un intravvedere le vie possibili di un futuro sviluppo di questo pensiero che è ora solo all'inizio. La temporanea

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conclusione è così piuttosto un paziente raccogliere quei nodi teorici che si sono venuti dipanando nel discorso dell'inizio. Fra questi la necessità del duale. La filosofia si interroga sull'originario, ma, appunto perché si interroga su di esso, non lo costituisce bensl solo lo trova e tenta di scoprirne il senso. Tale originario è pertanto un esserci già, una presenza che si offre ad una attribuzione di senso da parte del pensiero, affinché il pensiero possa dire che cos'è questo esserci già. Compito secondario dunque, quasi ancillare, quello del pensiero, eppure così potente nel suo poter decidere l'essenza di ciò che ad esso si offre nella sua semplice presenza e consegna tutto il suo destino all'atto indifeso di questo suo offrirsi. Già presente è così il mondo, nell'infinita molteplicità e varietà del suo offrirsi, e, nel mondo, mondo essa stessa, la creatura pensante, tina presenza presupposta al suo pensarsi, offrentesi a11a potenza del suo pensiero: essa è ciò che il pensiero decide che essa sia. Ma essa è innanzitutto fin da sempre e per sempre questo semplice esserci già. Un originario fattuale, nella sua accezione minima, un originario offrirsi al proprio senso, nella sua accezione massima. Quest J originario esserci già della creatura umana ha in sé precise connotazioni, ed è nella totalità di queste che si offre al proprio senso: essa è vivente, mortale, sessuata, pensante. Il pensiero decide infatti, ad esempio, sulla più dolorosa di queste connotazioni, la morte; dice che cosa essa è e giunge persino a trasfigurarne la presenza nel concetto di immortalità dell'anima, ma appunto a partire da questa presenza, dall'essere necessariamente già da sempre mortale della creatura umana, così e non altrimenti. Una morte impensata rimarrebbe appunto una semplice presenza, un improvviso inaspettato morire, ogni volta singolarmente esperito in stupito silenzio. Ma ciò non è possibile! certo, è un assurdo. . Perché? perché la morte è visibile. È una presenza che continuamente si offre agli occhi e perciò si consegna ad una interrogazione sul proprio senso. Altrettanto la vita

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e il linguaggio. Infatti i greci dissero: "l'uomo è un vivente che ha il linguaggio", e nel ·termine vivente era, meno dolorosamente, compreso anche il morire, quel morire che da protagonista risuonava nella loro più antica denominazione degli umani, " i mortali". Perché non la differenza sessuale allora? Non appartiene alla offrentesi presenza della creatura umana l'essere già da sempre sessuata nella differenza cosl e non altrimenti? Forse perché il pensiero è veramente potente, a tal punto da negare la visibilità a quella presenza che gli si offre costitutivamente senza difesa e perciò ammette che fra i possibili sensi ad essa attribuibili ci sia anche quello della propria cancellazione. Così è successo che alla offrentesi presenza della differenza sessuale non è stato attribuito dal pensiero nessun senso: la cecità ha prodotto la sua invisibilità. Le creature umane erano, e sono ancora, là: l'originaria presenza, rinnovantesi in ogni singolo di nuovo apparire, connotantesi come vivente, mortale, sessuata, pensante, una presenza che come intero si offre alla definizione del "che cos'è", e ogni volta risuona in questa definizione come un intero mutilato, o meglio come un mostruoso neutro sessuato al maschile. La presenza si offre nella differenza sessuale, essa ripete instancabilmente nel suo esserci già "io siamo due: o l'uno o l'altra", ma, nel migliore dei casi, il pensiero le risponde "tu sei un genere, e come genere neutro ti definisco, poi anche ammetto che ti specifichi nell'uno e nell'.altra". Cosl l'originaria presenza nell'intero della sua sessuazione non ha senso per il suo proprio essere, in quanto intero, un sessuato nella differenza, o l'uno o l'altra: esso è uno per essenza, una essenza che non contempla il due, anche se ammette (constata) di veicolarsi, per un astuto meccanismo riproduttivo, nell'uno e nell'altra, a seconda della fortuna. Il duale originario della creatura umana non è perciò una trovata, non del tutto nuova, partorita dalla fantasia, una specie di gioco (abbiamo provato con l'uno, adesso proviamo col due) ma è il tentativo di dare senso ad una presenza che non si è mai stancata di offrirsi al pensiero.

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Il pensiero della differenza sessuale, riconoscendo il duale originario come un intrascendibile presupposto, esclude una logica di assimilazione delI'Altro. Per il pensiero femminile della differenza, l'Altro è teoreticamente un non ancòra indagato, e probabilmente un indagabile solo nei modi consentiti da una logica duale per ora solo prospettata come corretta e necessaria, ma non ancora sviluppata. Tale logica ci si presenta tuttavia fin da ora come conflittuale rispetto a quella logica dell'uno che ha soffocato la sua possibilità storica. È un conflitto che non si svolge a colpi di randelli (forse, non so), ma richiede piuttosto una sospensione di fiducia, un diffidare del pensiero, nei confronti dell'intiero castello concettuale della logica dell'uno. Noi donne siamo per ora dentro e non fuori di questo castello: è dunque necessario affinare anche l'arma dell'autodiffidenza. Ciò significa non paralizzarci nell'autocensura, e neppure, per carità, paralizzare le altre al grido di "maschilista" o epiteti affini. Significa invece diffidare della pretesa neutralità del linguaggio, della sua oggettività scientifica, e anche della sua bellezza. Affinché in questa bellezza l'esser donna non sia più l'incanto di una creatura muta di fronte alla parola.

NOTE 1 Un'indagine puntuale su questo senso, condotta attraverso una analisi critica dei testi dei maggiori filosofi (Platone, Aristotele, Cartesio, Hegel, Freud ecc.) si trova nelle opere di LucE lRIGARAY, pensatrice alla quale questa mia ricerca, e qualsiasi ricerca filosofica intorno al tema della differenza sessuale, deve molto. 2 Una eccezione a questa ignoranza della teoria la possiamo trovare in Hegel e Freud e, per certi versi, nella Repubblica di Platone (453 be segg.). Sul significato e i limiti di questa eccezione si vedano, in questo stesso volume, le considerazioni del primo saggio. 3 Cfr. Rosr BRAIDOTTI, Modelli di dissonanza: donne e/in filosofia, in Le donne e i segni, a cura di P. Magli, Il lavoro editoriale, Urbino 1985, pp. 24-37. ' Nel testo greco di Gen. 1, 26-27 troviamo per "simiglianza" il termine homoiosis, ripetuto nel secondo passo (Gen. 2, 21) dove "simile" è homoios. In Gen. 2, 18 tuttavia, che la traduzione italiana rende con "gli voglio fare un aiuto che gli sia simile", abbiamo nel greco l'espressione kat'auton che indica piuttosto il concetto di

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relazione e di corrispondenza. Ciò è confermato dal testo ebraico nel quale troviamo in Gen. 1, 26-27 il termine dmwt, e in Gen. 2, 18 il termine neged, il quale indica nell'uso più antico il concetto di controparte e anche di corrispondenza. Sembra così che si possa trovare una conferma sul piano lessicale di questi due diversi significati del simigliare, dove il secondo è un simigliare della donna all'uomo per corrispondenza derivata. ' Utilizzo una nota, ed il suo materiale di citazione, compilata da HANNAH ARENDT, Vita activa, Bompiani, Milano 1964, p. 3.54, la quale aggiunge però, in riferimento ai due passi biblici, che la loro "differenza indica assai più che una diversa valutazione dell'importanza della donna": questo assai più si riferisce alla connessione fedeazione e fede-salvezza. Questa notazione è del resto in armonia con lo stile neutro di indagine presente nel volume: ad esempio il problema del potere dispotico del padrone di casa su donne e schiavi viene ritenuto degno di approfondimento in riferimento agli schiavi ma non alle donne. La logica del pensiero neutro che così nel volume si evidenzia è tanto più significativa quanto più si veicola in una pensatrice la cui qualità è, per unanime riconoscimento degli addetti ai lavori, davvero eccellente. • Cfr. LursA MuRARO, Guglielma e Maifreda. Storia di una eresia femminista, La Tartaruga, Milano 198.5, pp. 138 e segg. 7 Richiamo aricora l'eccellente lavoro di LUISA MuRARO, Guglielma e Maifreda, cit. In esso si dimostra come l'eresia guglielmita, nel suo principio o Ursache che è Guglielma, nasca dal pensiero che l'incarnazione di Dio nell'uomo Gesù Cristo fu incarnazione nella differenza sessuale, incarnazione veramente umana nella parzialità sessuata, che comanda quindi di pensare l'incarnazione nel sesso femminile, secondo Guglielma (probabilmente) realizzata in ogni donna, secondo i suoi seguaci in lei personalmente. La mostruosità di un uomo neutro (Gesù Cristo che incarna tutta l'umanità, essendo soltanto uomo) è uscita dalla mente maschile. Nel pensiero guglielmita Dio sa la differenza sessuale e non produce mostri; la sua incarnazione è della differenza sessuale e soltanto in questa form~ tutta l'umanità sarà salva. I Guglielmiti affermavano infatti che i non cristiani saranno salvi grazie a Guglielma: la non riconosciuta parzialità dell'incarnazione divina in Gesù Cristo era dunque per loro la causa per la quale molti restavano fuori dalla Chiesa.

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LA TENTAZIONE DEL NEUTRO

cli Wanda Tommasi

Là dove si ha a che fare con il pensiero, soprattutto là dove esso raggiunge la massima generalità possibile, la massima astrazione, come nelle scienze e nella filosofia, là affiora la questione del neutro; o, come potrei dire, forse più efficacemente, là non affiora la questione della differenza sessuale. L'oggettività e la verità del pensiero in questi campi fanno tutt'uno con la loro neutralità rispetto al sesso dei soggetti parlanti, soggetti di scienza e di filosofia; questa neutralità del sapere appare così ovvia che non viene, per la verità, neppure dichiarata ed esplicitata, se non di fronte a critiche che del sapere contestino, appunto, la neutralità e l'uni-versalità. Si intende infatti che la differenza sessuale del parlante sia già compresa nell'insieme di quelle determinazioni particolari - avere i capelli biondi o scuri, essere alti o bassi ecc. - che lo stesso processo di astrazione deve ricomprendere-superare (secondo il duplice significato, filosoficamente pregnante, di aufheben) per giungere alla generalità, al concetto filosofico: così come è indifferente rispetto all'essere - filosoficamente inteso - che io sia bionda o bruna, è altrettanto indifferente che io sia una donna o un uomo. Cosl nell'essere io - donna - sono già contemplata, ricompresa, e solo come specificazione, inessenziale tuttavia rispetto alla verità, come aggiunta superflua, non pertinente rispetto al piano dell'essere, posso specificare che "io sono un essere umano sessuato al femminile": che tale concetto generale, astratto - l'essere umano - comprenda questa mia particolarità, che tuttavia non è tale in quanto inerisce all'essenza, perché "io sono innanzitutto una donna" ,1 e la comprenda solo nella forma del superamento e non della ricomprensione - tenendo fede quindi solo ad uno dei lati dell'Aufhebung - il "metter fine", il "toglier via" -, risulta evidente ad un'analisi più accurata. Questa in parte è stata 8.3

già fatta ed è stato soprattutto merito dell'analisi teorica vicina al femminismo 2 se è stata denunciata la falsa neutralità di un soggetto, di un essere e di un sapere che si pretendono universali, ma che sono in realtà frutto di una astrazione operata a partire dal solo essere umano sessuato maschile, astrazione che può "ricadere" sulle donne, ricomprenderle, solo in seconda istanza, nel processo di qualificazione sessuata della specie umana, nella sua specificazione in generi - maschile e femminile, appunto. Succede insomma la strana cosa che il pensiero dell'essere sia frutto di un'astrazione dell'essere umano maschile - nel duplice senso del genitivo, soggettivo e oggettivo: nel senso cioè che l'astrazione è stata fatta da soggetti (filosofi) di sesso maschile e che essa ha avuto come oggetto, come orizzonte quello aperto dal punto di vista maschile - e che solo secondariamente tale pensiero dell'essere possa convenire anche agli esseri umani di sesso femminile. Infatti i due sessi appaiono come specificazioni - generi - di un'unica specie - appaiono quindi come speculari, opposti, persino contraddittori - ma non appaiono mai come i due poli di un'asimmetria irriducibile, irriducibili l'uno all'altro nello statuto della loro differenza. La radicale asimmetria dei due sessi solo ora comincia ad essere pensata.3 Se il processo di astrazione si è realizzato in questa forma, se l'astrazione è stata fatta dal soggetto maschile, che storicamente l'ha prodotta, e che ha costruito l'orizzonte della astrazione stessa a partire dal suo solo e medesimo punto di vista; cosa d garantisce che il frutto di quell'astrazione convenga altrettanto bene alle donne? Alle donne che non hanno prodotto quel processo di astrazione, né hanno condiviso quel punto di vista, quella prospettiva di osservazione del mondo, se non come oggetti del discorso, sempre oggettivate, appunto, sempre ricomprese in quell'orizzonte, sempre altre dal Medesimo e ricondotte quindi al Medesimo, sempre notte rispetto al giorno, irrazionali contro la razionalità, natura contro cultura e cosl via all'infinito, sempre a partire da quella fondamentale opposizione-specularità di 84

maschile/femminile, ongme - spesso occultata - di ogni contrapposizione, di ogni coppia di opposti? Che cosa ci garantisce che il neutro delle scienze e della filosofia convenga altrettanto bene alle donne che agli uomini? Questo sospetto è stato avanzato già in psicanalisi, scienza• che, basando larga parte del suo discorso sulla questione della sessualità, ha dovuto in qualche modo occuparsi anche della differenza sessuale. Il neutro per Freud si dà nelle prime fasi dello sviluppo sessuale dell'essere umano, quando, prima del complesso di castrazione, maschi e femmine presenterebbero una vita sessuale sostanzialmente identica. Neutra, indifferenziata cioè nei due sessi, è per Freud anche la libido; ma questa viene definita, più appropriatamente, maschile; 4 si svela in tal modo che, in realtà, il modello di funzionamento della sessualità viene trovato a partire dal corpo e dal desiderio maschili. In psicanalisi insomma abbiamo, più chiaramente che in altri campi, un neutro che si rivela in realtà maschile: di qui la grande difficoltà di spiegare - spiegazione che viene data infatti in modo piuttosto contorto - !'"enigma" della sessualità femminile, a cui quel paradigma non conviene interamente. La critica a questo paradigma in psicanalisi è già stata fatta. 5 Ma le cose diventano ben più complicate quando ci avviciniamo al neutro del sapere :filosofico-scientifico: che la verità a cui esso perviene sia universale e che le forme e le modalità del discorso filosofico e scientifico siano neutre sono presupposti difficili da mettere in discussione. A questa difficoltà se ne aggiunge un'altra, che ci tocca più da vicino; che tocca più da vicino quante di noi, avendo avuto accesso alla filosofia o al sapere scientifico, avendoli profondamente amati ed avendo speso energie e passione per impadronirsene, ne sono ora impregnate (pur conservando sempre, di fronte all'oggettività di quel sapere, una sottile quanto sgradevole sensazione di estraneità); se ab-

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biamo compiuto quel percorso, siamo ora coinvolte in quel neutro-universale del sapere, al punto che ci riesce difficile pensare che ciò per cui tanto abbiamo faticato non ci possa convenire interamente, non ci si adatti come una seconda pelle, ma ci rimanga sempre un po' largo o un po' stretto, comunque lontano. Eppure l'esperienza stessa, vissuta da molte, dell'estraneità rispetto a quel sapere anche quando sembra di poterlo padroneggiare - quando si possiedono tutti gli strumenti per poterlo padroneggiare -, il fatto di non riuscire a diventare che delle buone allieve, delle buone divulgatrici, ripetitrici del pensiero altrui, il fatto di non riuscire a scrivere che dei buoni - talvolta ottimi - commenti, delle esegesi accurate, dovrebbe dirci qualcosa ... In effetti il pensiero filosofico si dà a noi - donne, filosofe -- come qualcosa che viene da altrove, qualcosa di estraneo, giunge a noi già formato, già interamente pensato; non solo perché sono trascorsi millenni di storia della filosofia, ma perché la filosofia stessa si presenta a noi - donne - come qualcosa che è stato già elaborato altrove, di cui vogliamo impadronirci, che vogliamo capire. Lo sforzo di capire è stato cosi grande che ci è difficile pensare che, una volta raggiunta una certa competenza nel campo che ci interessa, ciò che otteniamo non sia altro che, appunto, la capacità di capire, più o meno bene, di commentare, e poi ripetere, ripetere all'infinito. Eco, la ninfa: come l'altra ninfa, diversa nel nome e nella storia, Lara, ma identica nel destino, non può che ripetere il detto da altri, non arrivando mai alla dignità del Dire. Eco usa il linguaggio, ma, secondo la punizione inflittale da Giunone, ne fa un uso molto limitato: può so~o ripetere le ultime parole o le ultime sillabe di discorsi detti da altri, non può. assumere l'iniziativa del discorso; amando infelicemente Narciso, gli si avvicina appunto cogliendo e ripetendo quelle parole di lui che possono significare il suo amore non ricambiato. Così Lara, ma, secondo un'altra versione del mito, La-la 86

(la-léo in greco vuol dire ciarlare, ma prima di tutto balbettare) non arriva alla dignità di una vera parola, ma solo a una parola balbettata, ripetitiva, a una minuscola eco nel seno stesso del discorso.6 Eco, affranta per il suo infelice amore per Narciso e destinata ormai a ripetere solo le sillabe del suo dolore, alla :fine perde il corpo, si confonde con la montagna, con cui il suo corpo, sempre più smagrito e sofferente, :finisce con l'identificarsi; del suo corpo femminile non resta che un puro suono, una voce che non ha la dignità del Dire, ma che ripete solo e sempre, all'infinito. Questo frammento di mito mi accompagna in questa riflessione, là dove la tentazione del neutro mi attira come un canto di Sirene: l'accesso al pensiero universale è possibile, mi annuncia il mito, a patto che io divenga un essere neutro, asessuato, che perda, come Eco, la ninfa, il mio corpo, che possa dimenticare e far dimenticare la mia differenza sessuale. La beffa che il mito mi fa intravedere sta nel sospetto che questo sacrificio del corpo, questa sua cancellazione - ma è davvero possibile? - a vantaggio del pensiero non produca l'attesa trasfigurazione del linguaggio, del pensiero, che dovrebbe esser capace, finalmente, a prezzo di questo sacrificio, di autonomia e di fecondità. Il mito comincia con la perdita del linguaggio, della dignità del Dire, e a questa perdita ritorna, alla fine, dopo aver attraversato la trasformazione del corpo in una roccia, in un neutro; il mito mi dice che, proprio uniformandomi al neutro, avrò, alla fine, parola come l'avevo all'inizio, parola cioè servile e ripetitiva. Se il neutro è comunque una tentazione, se la possibilità di acquisire e di padroneggiare il pensiero neutro, unico, universale, esercita - sulle donne stesse - una notevole fascinazione, non resta che muoversi in una pericolosa e insieme necessaria prossimità con esso, mostrandone l'ambiguo fascino e insieme l'estremo pericolo che in esso si cela.

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Come si declina il neutro nella filosofia contemporanea, neutro che appare a Irigaray talvolta la soluzione ultima al problema della differenza sessuale,7 talvolta, rispetto a questo stesso problema, come una sotto-soluzione, da rifiutare, perché il neutro sarebbe sterile, infecondo, "terra di. nessuno che non realizza l'alleanza né fa la festa?" .8 Una versione sufficientemente complessa e, tutto sommato, esauriente delle possibilità del neutro ce la forniscono Blanchot e Lévinas.9 In questi autori il termine neutro viene usato a diversi livelli: io stessa scelgo qui di giocarlo in molti modi, scivolando da un contesto all'altro e da un significato all'altro attraverso piccole variazioni. Di fatto il termine neutro compare in questo mio testo secondo numerose accezioni: come il discorso neutro della filosofia, come il "residuo" fra i sessi, come il "tertium non datur" sempre espunto dalla logica del discorso, come il segno dell'assenza, come l'indifferenziato ... Pur consapevole di tale varietà di significati e della loro diversità, scelgo tuttavia di tenerli insieme, là dove è possibile, e di passare gradualmente dall'uno all'altro, nella convinzione che, operando quei tagli che, pure, forse, sarebbero utili per restringere il campo di significazioni della parola neutro, ne perderei però la complessità, che fa di questa parola insieme una tentazione ed un pericolo. Il neutro appare innanzitutto a livello grammaticale: nelle lingue in cui esso compare (greco, latino, tedesco, inglese), il genere neutro è il terzo dopo il genere maschile e quello femminile; agli albori della cultura occidentale, troviamo nel "to" greco, nell'articolo neutro, una delle sue prime manifestazioni. Nella nostra lingua invece non esiste il genere neutro; solo alcune forme, come il "si" impersonale, ne portano ancora il ricordo, ne recano traccia. Cosl per noi, che ·parliamo questa lingua, il neutro compare solo come segno dell'assenza, come traccia di qualcosa che è scomparso, che ora non c'è più; come traccia di una modalità del pensiero e del linguaggio che non è stata sviluppata, che è stata subito cancellata.

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Il "to" greco forse la annunciava: ma la filosofia, che

fin dall'inizio parla greco, se da un lato pretende di costruire un .sapere neutro, universale, dall'altro non sa che farsene del ne-uter, del "né l'uno né l'altro", che è sempre escluso dal pensiero e dalla logica della non contraddizione. Raccogliere con un gesto filosofico l'eredità del neutro avrebbe dovuto significare rifiutare, o almeno non considerare come esclusiva, la logica dell'opposizione, dell'aut-aut, del "o questo o quello"; avrebbe dovuto significare non considerare come unica modalità del dire quella del taglio inferto fra · corpo e pensiero, del taglio, o del silenzio, sulla differenza sessuale, sulla differenza qualitativa, sulla reciprocità, sullo scambio, sulla fluidità ... 10 Sappiamo bene che non è stato cosl: 1; filosofia fin dall'inizio parla greco, ma non tiene fede al ne-uter, a quel piccolo "to" greco, procede al contrario secondo una logica binaria, la logica dell'opposizione, della non contraddizione e del terzo (neutro) escluso: a partire da una separazione originaria, da un primo taglio fra il soggetto filosofico e la natura, fra il corpo e il pensiero, il linguaggio della filosofia perpetua questa scissione originaria in infinite coppie di opposti, simmetrici e speculari: sl/no, dentro/fuori, buono/ cattivo, vero/falso, essere/non essere, e cosl via all'infinito.11 È sulla base di questi opposti, sempre speculari fra loro e tali che ciascuna coppia pretende di esaurire, relativamente al proprio ambito, l'intera realtà, che si finisce col pensare che non vi sono resi_dui, resti di tali contrapposizioni, che non vi sono asimmetrie, ma che vi sono solo opposizioni speculari di cui la logica binaria sa sempre render .conto. Dimenticando il neutro, la filosofia ha scattato il terzo escluso, ha accantonato l'argomentazione che rifiuta di procedere per contraddizioni (dialettiche o meno), ha svilito chi tenta di dire "né l'una né l'altra" di due possibilità contrapposte che vengono prospettate, e che rifiuta di scegliere forse proprio perché quelle due possibilità non· esauriscono l'intera realtà, non rendono ragione di tutte le possibilità dell'esperienza; la filosofia ha tacciato di tendenza alla 89

confusione chi ha tentato di dire, di fronte a due opposti, "sia l'uno che l'altro", conferendo proprio con questa affermazione paradossale ai due opposti pari dignità, mostrando con ciò stesso di ritenere che essi non sono interamente riducibili l'uno all'altro, né totalmente speculari. La filosofia ha dimenticato insomma il pensiero che non ragiona solo per identità e per opposizioni, ha fatto della sua logica binaria l'unica possibile: il taglio dell'aut-aut ha certo consentito la potenza dell'argomentazione filosofica, ma ha anche impoverito l'esperienza di cui il sapere può render conto. Non è tanto importante qui, tuttavia, lamentare la perdita di potenzialità del discorso che avrebbero potuto esser feconde ma che non hanno avuto modo di svilupparsi, quanto piuttosto sottolineare che il neutro è prima di tutto traccia di qualcosa che è scomparso; ma, con il neutro, cos'è realmente scomparso, oltre a una modalità del pensiero che possiamo segnalare solo in negativo, indicando gli spazi rimasti vuoti? Ora, il termine neutro, nella filosofia contemporanea, viene usato al posto di essere: a quale cancellazione allude il neutro piuttosto che l'essere? Come nel sintomo, che maschera e insieme svela indirettamente ciò che _vuole tacere, la parola .neutro, usata al posto di essere - parola, quest'ultima, ben più carica di tradizione filosofica - occulta e insieme allude a ciò' che è stato cancellato: la differenza sessuale, l'irriducibile asimmetria tra maschile e femminile, che è stata ridotta a una uni-versalità priva di differenze, a un discorso unico che, tuttavia, se viene nominato come ne-uter, allude perlomeno a quei due, a quella dualità originaria di cui solo un lato ha potuto svilupparsi, pretendendosi però come l'unico possibile. La parola neutro al posto di essere allude, cosl, perlomeno, a quel polo del ne-uter - il femminile-, che è stato superato (ricompreso) nel soggetto universale, in un soggetto che però ha semplicemente superato (cancellato) que90

sto polo, contemplandone la possibilità solo alla fine, come una sua specificazione inessenziale. · L'essere ricomprende, certo, la donna, ma solo in via subordinata, alla fine del suo percorso; all'origine dell'astrazione lei non era contemplata. Il neutro, pur essendo per molti versi vicino all'essere - soprattutto a quello heideggeriano, ma Heidegger in ciò è erede di millenni di filosofia -, ne svela l'opacità, l'impersonalità, l'obbedienza che non è richiesta da nessun volto umano: come accade per il sintomo, che allude alla malattia pur tentando di nasconderla, il neutro, pur tentando di nuovo di cancellarla, allude a quella differenza sessuale rispetto a cui quello neutro è, grammaticalmente, solo il terzo genere, dopo i primi due, che in esso vengono taciuti. È necessario quindi tenersi in una pericolosa prossimità col neutro, svelando l'occultamento che in esso si opera, ma di cui pure esso reca traccia: il neutro anziché l'essere allude infatti alla differenza sessuale occultata; è necessario tenersi sul confine del neutro, portando alla luce e facendo parlare la differenza sessuale cancellata, che, pure, il termine stesso neutro evoca. Di~e che il femminile - non il neutro - è ciò che è stato dimenticato dal pensiero filosofico è in realtà forse più vero: storicamente e teoricamente. Ma se, con un'ulteriore movenza filosofica, dovessimo dire e definire cos'è il femminile occultato, non potremmo, ripetendo con ciò un gesto millenario, che oggettivarlo, assumerlo ad oggetto, a tema, e precludergli quindi - sia pure solo in linea teorica - ancora una volta la possibilità di Dire, di parlare come soggetto: muovendoci pur sempre all'interno del linguaggio neutro-universale, dovendo definire il femminile, non potremmo che dirlo come altro da quel linguaggio, assente, estraneo, lontano da esso, non come la possibilità di un altro linguaggio, che comincia ora a dirsi, a parlare. Il neutro invece, come segno dell'assenza, non si può oggettivare, assumere come tema; non consente l'eterno gioco di riconduzione al Medesimo di ogni alterità che la 91

filosofia ha sempre posto in atto; permette che l'assenza rimanga ·assenza, senza venir tematizzata e riportata alla presenza dalla filosofia del Medesimo. Quale oggetto infatti, quale tema, può corrispondere al neutro, se nella nostra lingua ci sono solo nomi di genere maschile e nomi di genere femminile, se il neutro non è che traccia - memoria - di qualcosa che è scomparso, perché il nostro linguaggio non vi ha tenuto fede? Allora l'evocazione del neutro è l'evocazione di quel terzo escluso che è entrato in filosofia solo e sempre come l'escluso, l'assente. È l'evocazione dell'assenza. A quale assenza allude? I due generi - maschile e femminile - sono stati entrambi nominati dalla filosofia: ma sono stati nominati appunto solo come generi di una medesima specie. Ma il sesso non è una differenza specifica qualunque; certo si situa accanto alla divisione logica in generi e specie; ma non è in quel senso che può render conto della differenza dei sessi. La differenza sessuale è una differenza che condiziona la possibilità stessa della realtà come multipla (duale), contro l'unità dell'essere che si impone nel luogo greco della filosofia a partire da Parmenide. 12 La differenza dei sessi è stata pensata solo come contraddizione, e in tal modo ha permesso la riconduzione dell'altro (altra) al Medesimo, non ha lasciato essere la distanza, l'asimmetria; oppure è stata pensata come complementarità, che presuppone sempre un tutto preesistente, una fusione originaria; ancora tutta da pensare è la dualità insormontabile degli esseri, la radicale asimmetria dei sessi, irriducibili l'uno all'altro nello statuto della loro differenza, in un'alterità che rimanga tale e non venga riportata all'altro - dal- Medesimo, al Medesimo dunque, in definitiva. I due generi poi - maschile e femminile -, indicati come generi di una medesima specie, non hanno conservato pari dignità: uno, quello maschile, ha parlato, ha nominato, si è posto come soggetto; l'altro, il femminile (sempre altro dal maschile), è stato assunto come oggetto e tema del discorso, 92

ricondotto ad esso, assimilato e ricompreso nel Medesimo, nell'Unico. Fra i due è rimasto tuttavia un residuo, un terzo, sempre escluso, assente dal discorso: questa assenza storicamente si è data nella forma del silenzio femminile; questo silenzio voleva dire che le due possibilità, contrapposte quanto al sesso, non esaurivano tutto il campo del possibile. Non esaurivano tutto quanto alle possibilità di parola del femminile, che nel discorso era detto solo come l'altro dal maschile, oggetto del discorso, tema, mai capace di arrivare alla dignità del Dire. Maschile-femminile come generi non esaurivano tutte le possibilità del discorso, perché il femminile non arrivava alla possibilità di dirsi nella sua alterità irriducibile, come soggetto esso stesso, non complementare, non contraddittorio, ma irriducibile nella sua differenza; segnato, come soggetto esso stesso, da una radicale asimmetria. Ora che questo soggetto comincia a dirsi, può evocare pre-liminarmente il neutro come segno di qualcosa che è scomparso, come mancanza del linguaggio: ciò che dal linguaggio è sempre stato assente è la possibilità del femminile di Dire come soggetto, di parlare in prima persona; questa possibilità ,di significazione che ancora non ha saputo improntare di sé il linguaggio è rimasta come potenzialità irrealizzata, segno di un'assenza, di un'eredità finora non raccolta. Ora che le donne cominciano a dirsi, a Dire come soggetti, e, con questo stesso atto, già dicendo "io sono innanzitutto una donna", rompono l'uni-versum nella direzione di una dualità originaria,13 il terzo escluso, il sempre assente, l'eredità ancora non raccolta dal linguaggio tenta di aver parola: non di essere oggetto del discorso, ché allora rientrerebbe ancora nell'uno-unico, ma di Dire, a partire dalla costituzione della sua soggettività, il dispiegarsi delle sue modalità di parola nel discorso stesso. Se i due generi - generi, appunto, non asimmetrici, anzi speculari, complementari l'uno all'altro •- hanno finora coperto nel discorso teorico tutte le possibilità dell'umano 9.3

il maschile come soggetto che non compare nel discorso, ma che si distende nella trama di significazioni e nell'orizzonte aperto dal suo punto di vista, il femminile come tema, oggetto del discorso-, non resta ora, pre-liminarmente, che evocare il neutro, il terzo escluso, né l'uno né l'altro (perché l'uno e l'altro erano in realtà le due facce dello stesso Uno); non resta - inizialmente - che evocare il neutro come ciò che è stato sempre escluso. Evocare il neutro dunque non come tendenza alla neutralizzazione delle donne nel pensiero universale - ché, anzi, contro questo ci si batte nel momento in cui si vuole parlare filosoficamente da donne, come soggetti, questo si rifiuta quando si ha in mente Eco, la ninfa, privata del corpo e pure non capace di vero linguaggio -, ma una pericolosa e insieme necessaria prossimità al neutro. In un duplice senso: in .primo luogo mostrando quel Iato del neutro a cui la filosofia avrebbe dovuto tener fede - né l'uno né l'altro, sia l'uno che l'altro, modalità sempre rifiutate dal discorso - e a cui invece non ha tenuto fede; in secondo luogo sottolineando che, con la parola neutro - dicendo neutro invece che essere - viene tracciata e cancellata insieme la differenza sessuale. Nella filosofia contemporanea il neutro esibisce questa cancellazione più di quanto faccia l'essere, vi allude, poiché il neutro è, innanzitutto, il terzo genere dopo il maschile e il femminile, che, pure, vengono in esso canceIIati, come inessenziali per la filosofia. · Il neutro si lega anche indissolubilmente alla sçrittura: scrivere è al neutro perché scrivere è legarsi all'esteriorità, all'alterità, all'assenza. Già Platone, intentando nel Fedro il ben noto processo contro la scrittura, la riconosce come traccia statica, priva di identità, figlia orfana del padre logos, in cui solo abiterebbero il sapere e la verità; al contrario della parola orale, a cui la vivente presenza del parlante porta assi&tenza, la parola scritta· è orfana; chi potrebbe difenderla è assente, è sempre altrove. La scrittura è neutra perché rimanda all'assenza, è parola, testo, 94

da cui lo scrivente si è assentato: noi lo leggiamo quando colui che ha scritto è assente. C'è una complicità delle donne con la scrittura: molte di noi scontano la difficoltà di comparire e di parlare in pubblico, di parlare assumendosi la piena responsabilità dell'enunciazione, di farsi riconoscere una competenza a giudicare,14 di affrontare le critiche, gli scontri verbali ... Anche da tali difficoltà nasce forse la propensione per la scrittura, spesso personale, diaristica, introspettiva; è un modo per tenersi fuori dal mondo, a distanza ... È un modo per dichiarare la propria estraneità rispetto al linguaggio: servirsi della scrittura, servitrice cieca dai movimenti maldestri ed erranti, è un modo per ribellarsi al grande maestro, al logos, alla sua potenza. Per il logos colui che si rifugia nella scrittura è colui che non sa parlare con piena competenza e padronam:a, colui a cui è difficile rispondere alle obiezioni perché non sa fare un uso pieno e consapevole del linguaggio: la scrittura come consoJazione, compensazione, rimedio per la parola debole, che non sa rispondere di sé. La complicità del femminile con la scrittura sarebbe dunque complicità con l'assenza del femminile dal linguaggio: complicità con quella forma parlante di silenzio che è la scrittura - scrittura come silenziosa obiezione alla uni-vocità del linguaggio, alla coerenza seO:Za residui del logos, presa di distanza da esso, sintomo di estraneità e di disagio. Che il femminile si ritrovi spesso nella scrittura ci segnala, anche se in modo ancora tutto negativo, come carenza, che le donne si riconoscono soprattutto nelle forme che, nel linguaggio, alludono maggiormente all'assenza; questa complicità del femminile con l'assenza ci dice almeno l'estraneità delle donne al linguaggio, da loro, certo, usato e parlato, ma spesso come una lingua appresa, che viene loro da altrove. Nel momento in cui il femminile comincia a porsi come soggetto, prima di affermarsi come tale, prima di Dire in prima persona, pronto a portare assistenza vivente alla sua parola, ricorre ancora alla scrittura, alla traccia: tende a ritrovare le tracce dell'assem:a, della sua assenza dal linguaggio, praticando, come movenza pre-liminare, una peri95

colosa ma insieme necessaria prossimità al neutro - l'assenza, il silenzio, il vuoto -, ascoltando in quel silenzio la sua parola cancellata, ritrovando le tracce dell'assenza per poter arrivare alla prima parola. La prossimità col neutro è quindi una movenza pre-limlnare, un percorso al di qua della soglia: si tratta di ascoltare le tracce della cancellazione di sé nel linguaggio, nella scrittura, per arrivare a una parola non neutra, ma consapevole di quei silenzi, parola che può cominciare a parlare quindi a partire dalla differenza sessuale. Sulla soglia dell'ontologia la tentazione del neutro si fa meno attraente, svela molte delle sue ambiguità, parla attraverso metafore che, assumendo il femminile come oggetto e tema del discorso, non ne rispettano l'alterità, ma lo riconducono ancora una volta al Medesimo, come altro dal Medesimo. Se la filosofia è stata finora e sempre, fin dalle sue origini greche, costruzione del_ luogo del Medesimo, a cui ogni alterità è stata ricondotta, in nome di una relazione impersonale in un ordine universale, il neutro non è qui che l'impersonalità di quell'ordine, in cui gli esseri, nella loro concretezza, nella loro umana finitezza e nella differenza sessuale che li affetta, sono stati ricondotti al neutro dell'idea, dell'essere e del concetto. Il gesto filosofico si identifica in questo senso con il gesto di cancellazione di tutto ciò che è refrattario all'ordine universale della somiglianza tra gli elementi molteplici: grazie ad esso trionfa l'ordine del neutro, di cui l'essere e il concetto sono i garanti. Tentando di allontanarsi da questo luogo greco, luogo del Medesimo che non lascia spazio all'alterità, la filosofia contemporanea nomina il femminile attraverso delle metafore; 15 essa si svela però così, ancora una volta, capace di pensare il femminile solo come oggetto e tema del discorso, e non come alterità capace a sua volta di Dire; si svela capace di pensare il femminile ancora e sempre come altro dal Medesimo, e mostra così di muoversi, di nuovo, all'interno dell'economia del Medesimo. ·

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Il neutro è infatti, per Lévinas, l'impersonalità del concetto filosofico, ma è anche indistinzione, fusionalità, esistenza senza esistente, esistenza anonima prima dell'emergere del soggetto: viene definito il y a, c'è, esistenza informe che precede l'ipostasi del soggetto, esistenza a cui ci troveremmo di fronte se potessimo immaginare il ritorno al nulla di tutti gli esseri; in tale situazione-limite non troveremmo il nulla, ma ci accorgeremmo che e'è ancora qualcosa, in una forma anonima e priva di distinzioni: il neutro. Emerso dal neutro, dall'indistinto, il soggetto lo ha sempre presente come pericolo di ricaduta nell'informe, nell'anonimo: il neutro è quindi anche, con la sua fusionalità, il maggior pericolo per il soggetto. Ma di quale soggetto si tratta? Se dobbiamo giudicare dalle metafore che vengono usate per descriverne l'ipostasi, dobbiamo affermare che si tratta di un soggetto essenzialmente maschile, di cui il femminile prepara e consente la nascita e la formazione. Due momenti-chiave della nascita della soggettività sono infatti descritti attraverso il ricorso a metafore del (sul) femminile: si tratta delle figure dell'Amata e della Madre. La figura dell'Amata compare sulla scena dell'eros, là dove la sua fragilità e la sua vulnerabilità sono il_ segno di un nascondimento che non può essere violato ·neppure dalla profanazione più empia, là dove proprio l'estrema vulnerabilità dell'Amata e la sua passività impongono il rispetto, esigono l'ingresso del soggetto. nell'etica, fanno abbassare gli occhi che avrebbero voluto carpire il segreto. Il femminile consente così, con la figura dell'Amata, l'uscita dal neutro in direzione dell'etica; e tale uscita è possibile solo a partire da un preliminare raccoglimento nella casa, nel godimento, in cui il soggetto si sottrae all'anonima minaccia del neutro informe per riconfermare se stesso e riconoscersi nelle cose; anche qui è la figura femminile, custode della casa, presenza rassicurante con il suo silenzioso andirivieni, a consentire tale raccoglimento in vista dell'ipostasi della soggettività e della nascita dell'etica. Anche se si tratta solo di metafore, abbiamo il diritto 97

di interrogarle: il femminile è dunque ciò che prepara l'ipostasi del soggetto, che consente l'avvento dell'etica, senza tuttavia riuscire a diventare soggetto, senza poter accedere all'etica. Ancora più evidente è la paradossalità di questa situazione quando incontriamo la metafora del femminile nella figura della Madre: vera maestra dell'etica, la madre Io è in quanto, nell'accogliere il figlio nel proprio corpo, accetta di esere significazione per l'altro, responsabilità che arriva fino alla sostituzione (nell'accoglimento del corpo dell'altro nel proprio); nel corpo materno la soggettività :filosofica si metaforizza come ciò che si apre all'esodo verso l'altro di cui il soggetto è interamente responsabile, chiamato a rispondere all'appello senza averlo scelto. Eppure, paradossalmente, la madre, capace di una così sublime etica, è incapace di accedere all'etica, di Dire l'etica. Anche la madre, pur portatrice di un'etica che arriva fino alla sostituzione, non fa che preparare l'ingresso nell'etica, nel regno delle significazioni, del soggetto (maschile). Ciò accade forse proprio perché il femminile, in queste metafore, è pensato come ciò che, nell'umano, è più prossimo al neutro: nel volto deM'Amata, nella sua fragilità, traspare anche un'animalità irresponsabile, infantile, che ricorda molto da vicino la fusionalità del neutro, di ciò che precede la nascita della soggettività; ancora più chiaramente il corpo materno, che si fa esso stesso segno senza saper Dire ciò di cui porta significazione, è come la materia informe, neutra, di cui un altro - il soggetto - sa decifrare il senso. Secondo queste metafore, il femminile prepara l'ingresso del soggetto (maschile) nel linguaggio e nell'etica senza potervi accedere, perché, essendo prossimo al neutro, custodisce l'animalità del soggetto (maschile) e, grazie a tale custodia, permette l'esplicarsi della razionalità e del discorso etico. 16 In queste metafore il femminile, troppo vicino al neutro, è pensato solo come mezzo e tema del discorso; appare prossimo al neutro innanzitutto perché non gli è conferito lo statuto di soggetto. In tal modo, essendo ancora una volta oggettivato, viene riconosciuto incapace di parlare in proprio, di Dire: custode della soglia - tra natura

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e cultura, tra animalità ed etica -, prossimo al neutro e suo ~omplice, è visto come perenne pericolo - per il soggetto - di ricaduta nell'indistinto, nel fosionale.17 Naturalmente si. tratta solo di metafore; anzi ciò che forse più sconcerta è il fatto che non vi sia, addirittura che sia negato, qualsiasi riferimento alle donne reali in questa metaforizzazione della soggettività al femminile: ma è possibile almeno. dire che, con queste metafore, al femminile non viene riconosciuta la possibilità della soggettività; che al femminile non viene attribuita un'autentica alterità, ma che esso viene descritto, ancora una volta, solo come altro dal Medesimo; che ad esso viene fatto cadere addosso il peso di un'animalità, di una fusionalità, di una prossimità al neutro che lo relegano ancora una volta dalla parte della natura, del corpo muto, del sapere di carne che non sa farsi parola. Se poi usciamo da queste metafore e andiamo verso le donne (reali, fuor di metafora), vediamo che non solo queste figure del femminile nòn corrispondono loro, ma che, soprattutto, esse hanno già cominciato a Dire come soggetti, a uscire dal neutro, dall'indistinto; con ciò stesso sono destinate a vanificare ogni tentativo di · nominarle solo come oggetti - argomenti, temi - del discorso. Se la prossimità al neutro era stata evocata come movenza preliminare, come percorso obliquo prima della soglia della soggettività femminile, come ascolto delle tracce della cancellazione di sé nel linguaggio, ora, con l'inizio della parola del soggetto-donna, la pericolosa prossimità col margine del neutro ha termine. Se infatti il neutro, a livello ontologico, non è che il niente che si converte in essere, poiché· la negazione dell'essere è possibile solo sul piano dell'esistenza anonima, sul piano dell'essere generalissimo, la soggettività femminile, nel momento in cui comincia a Dire, non può che distaccarsi dal neutro, e Dire a partire dalla sua differenza. Dal neutro ci allontaniamo cosl verso quel versante della differenza sessuale che è il solo a cui abbiamo accesso: quello delle donne. L'atto di costituzione della soggettività

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femminile non è tuttavia un ergersi-contro qualcosa - la natura, il neutro: è, piuttosto, un ti-volgersi-a per poter ritornare a. se stesse, per costruire un luogo proprio e poter acquisire rispetto a sé una preliminare distanza per dirsi. Il ti-volgersi-a che consente di ritornare a sé diventerà allora un rivolgersi all'altra, passerà attraverso la mediazione simbolica al femminile. La mediazione, di cui la filosofia ha mostrato la necessità, si rivelerà qui mediazione sul versante femminile - mediazione indispensabile per il Dire delle donne come soggetti. Sola di fronte al linguaggio, tutto attraversato dal detto, intessuto di significazioni che sono state già elaborate altrove, nel luogo dell'altro, avverto infatti il pericolo del silenzio, dell'afasia; ancora vicina ai bordi pericolosi del neutro, ai suoi limiti, che sono quelli dell'assenza, della non parola, dell'anonimato, volendo portare nella parola il segno della differenza sessuale che non è ancora stata significata, sono sospesa fra la cancellazione della mia differenza sessuale nel linguaggio (neutro) e una parola che tenta di parlare nel vuoto, fra il linguaggio già dato e la lingua mancante, che ancora non ha preso a parlare. Da un lato il peso - che rischia di esser schiacciante - di un linguaggio e di un logos che già da secoli parlano; dall'altro una parola che comincia ora a dirsi, nel vuoto, che lancia la scommessa di significare, insieme agli altri segni dell'umana finitezza - il tempo, la morte-, anche e prima di tutto la differenza sessuale; fra questi due poli, fra il già interamente detto e l'intimità senza parole che cerca di parlare, sta il pericolo dell'afasia, il pericolo di ricaduta nel silenzio. A rompere questo silenzio, giunge la voce dell'altra: le sue parole, le sue rappresentazioni cominciano a formare, incontrandosi con le mie, una tessitura di senso, un ordito di significazioni. Fra il mio silenzio che tenta di aver parola e il già detto del linguaggio si stende, come forma di mediazione, preliminare distanza dall'immediato che, sola, consente la parola, la Terza, finora sempre esclusa dal 100

discorso, la madre simbolica, una trama di rappresentazioni e di significati che vengono scambiati tra me e l'altra e che ci permettono di parlare, di Dire parole non più Eco di una voce lontana. La via d'uscita dal neutro, dopo che se ne siano percorsi i pericolosi confini, è ancora un ne-uter, un terzo escluso, ma al femminile. Sul mio versante della differenza sessuale, infatti, ciè che mi permette di parlare è ciò che mi permette di avvolgermi intorno a me stessa, di riappropriarmi delle 111ie stesse rappresentazioni, attraverso la parola di un altro-donna. Al di sopra dell'io-tu e del gioco dei rispecchiamenti e delle identificazioni, ad evitare la tendenza alla fusionalità, si stende la trama dei significati e delle rappresentazioni, che da me stessa e da altre provengono, ma che man mano acquisiscono autonomia e vita, in proprio: la Terza, finora sempre esclusa dal discorso, compare come forma della mediazione, moneta simbolica di scambio al femminile nel momento in cui la differenza sessuale cerca di dirsi. Compare come madre simbolica, come tessitura di significazioni, prodotta, certo, dalle singole donne ma tale da superarle, da costituire elemento comune di significazione, trama simbolica, linguaggio, dominio di un detto in cui il Dire femminile si è significato. L'io'-tu, il gioco di specchi per cui spesso c1 s1 ritrova solo nella comune oppressione e ci si identifica nella povertà di parola, non costituisce ancora, infatti, una rete di significazioni sufficiente per garantire la possibilità di dirsi e di trapiandarsi della differenza sessuale femminile. Perché la parola delle donne non resti confinata in una solitudine che può anche esser vissuta da molte altre, ma ciascuna sola nel suo isolamento o sola in un mondo che le è estraneo; perché questa parola non sia un ricamo ai bordi di un tessuto che altri ha prodotto, è necessario l'incontro delle parole di donne, il. foro intrecciarsi in maglie sempre più fitte, fino a costituire una rete: tessitura di significazioni, presupposto necessario per il mondo comune 101

delle donne,18 trama simbolica tra l'io e il tu, la mediatrice, la Terza, è indispensabile per dire la propria verità, per non tracciarla ai margini del discorso di altri, traccia che verrebbe subito cancellata e dimenticata. Il soggetto femminile, uscito dalla pericolosa prossimità al neutro, nasce attraverso questo avvolgimento di sé grazie alla rete di significazioni che comincia a prender forma; l'atto di costituzione della soggettività femminile è dunque anche un avvolgersi-intorno: un ritornare a sé con le proprie rappresentazioni e con quelle di altre, mediate dalla rete comune dei significati, dalla Terza finora sempre esclusa dal discorso, che diviene ora garanzia della possibilità stessa della parola, còndizione di dicibilità della differenza ses·suale nel linguaggio.

NOTE 1 A partire da questa affermazione e dallo sviluppo delle sue implicazioni sul piano filosofico si sviluppa il testo di ADRIANA CAVARERO, Per una teoria della differenza sessuale, saggio contenuto in questo volume. 2 L'analisi della non neutralità del soggetto e del sapere, in psicanalisi e in filosofia, è stata efficacemente condotta da LUCE lRIGARAY, a partire da Speculum. L'altra donna,. tr. a cura di Luisa Muraro, Feltrinelli, Milano 1975, fino al più recente Etica della differenza sessuale, tr. di Luisa Muraro e Antonella Leoni, Feltrinelli, Milano 1985. 3 Cfr. LucE !RIGARAY, Etica della differenza sessuale, cit., in particolare pp. 9-47. • "Qualificare la libido come 'femminile' mancherebbe di qualsiasi giustificazione" dice S. FREUD, La femminilità, in Introduzione alla psicanalisi, tr. di F. Dogana e E. Sagittario, Boringhieri, Torino 1969, p. 529; per la "neutralità" o "mascolinità" della libido vedi LUCE lRIGARAY, Speculum, cit., pp. 37-39. • Cfr. ivi, pp. 7-126. • Sulla· sostanziale convergenza, circa l'uso limitato e difettivo del linguaggio, circa la privazione di parola, del mito di Eco e di quello di Lara vedi MARIA TASINATO, L'occhio del silenzio (Encomio della lettura), Arsenale, Venezia 1986, pp. 53-54; a proposito del significato di analoghe costrizioni al silenzio verso figure femminili nello spazio della fiaba, vedi GINEVRA BoMPIANI, Parole e silenzio femminile nella fiaba, in Le donne e i segni, a cura di Patrizia Magli, Il lavoro editoriale, Urbino 1985, pp. 56-63.

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7 Or. LucE !RIGARAY, La doppia soglia (dattiloscritto). • Or. LucE !RIGARAY, Etica della differenza sessuale, cit., pp. 17-18. ' Intorno al neutro ruota l'intera opera, sia narrativa che saggistica, di M. BLANCHOT (vedi in particolare L'infinito intrattenimento, tr. di R. Ferrara, Einaudi, Torino 1977) e di E. LEVINAS (vedi De l'existence à l'existant, Vrin, Paris 1977). 10 Che in un linguaggio più conforme alle donne possano trovar posto, al di là della identità e della non contraddizione, anche la differenza qualitativa, la reciprocità, lo scambio, la fluidità, categorie finora mai sviluppate dal pensiero, è suggerito da LUCE lRIGARAY, Parler n'est ;amais neutre, Minuit, Paris 1985 (in particolare nel saggio Le langage de l'homme, ivi, pp. 281-292). 11 Cfr. ivi, pp. 307-321 (Le suiet de la science est-il sexué?). 12 Cfr. E. LEVINAS, Le temps et l'autre, Fata Morgana~ Montpellier 1979, pp. 77-78. Pur criticando la filosofia per non aver riconosciuto la differenzà dei sessi se non come opposizione o specularità, Lévinas poi, di fatto, come si cerca di mostrare nel seguito di questo saggio, non tiene.fede alle sue premesse, in quanto oggettiva ancora una volta il femminile, lo assume, attraverso delle metafore, solo come tema ed oggetto del discorso, lo riconduce quindi al Medesimo, al discorso dell'Uno. 13 Cfr. ADRIANA CAVARERO, Per una teoria della differenza sessuale, cit. · 14 Una convincente analisi della difficoltà delle donne a fare un uso pieno del linguaggio si trova in MARINA SBISÀ, Fra interpretazione e iniziativa, in Le donne e i segni, cit., pp. 38-49. 15 Una critica efficace alla metaforizzazione del femminile che si trova in alcune tendenze della filosofia contemporanea (Foucault, Deleuze) è condotta da Rosi BRAIDOTTI, Modelli di dissonanza: donne e/in filosofia, ivi, pp. 23-37. 16 Cfr. GINEVRA BOMPIANI, Parola e silenzio femminile nella fiaba, cit. 17 Cfr. CATHERINE CHALIER, Figures du féminin. Lecture d'Emmanuel Lévinas, La nuit surveilée, Paris 1982, pp. 26 e segg.; in quanto prossimo all'animalità, al neutro, il femminile aprirebbe la strada alla perversione dell'etica. 18 È questo il titolo di un saggio di ADRIENNE R1cH, particolarmente significativo per ciò che riguarda la necessità della mediazione fra donne: Condizioni di lavoro: il mondo comune delle donne, in Segreti silenzi bugie, tr. di Roberta Mazzoni, La Tartaruga, Milano 1982, pp. 143-157.

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DONNE E POTERE

di Giannina Longobardi

Ci sembra necessario nella fase attraversata attualmente dal movimento politico delle donne affrontare un problema negato o esorcizzato: quello del potere. Nel duplice senso cli potere tra le donne e cli potere delle donne. Ritrovarsi qui in una sede istituzionale* a parlare tra donne cli filosofia femminile è già una manifestazione cli potere (o almeno di volontà cli potere). Quanto a rapporti cli potere al nostro interno ciascuna di noi potrebbe rilevarli e anche nominarli ove ne sentisse la necessità. Dare un nome ai rapporti di potere che si vengono a creare tra donne sembra in ogni modo una necessità per la realizzazione dello scopo politico che il movimento delle donne si pone: quello di dar parola alla differenza.sessuale, quello di renderla in ogni sede visibile e significativa. Questa necessità sosterrò, cercando cli dimostrare come l'ideologia dell'uguaglianza che finora è stata dominante nel movimento, non sia più produttiva. La diffidenza delle donne nei confronti dei rapporti di potere ha delle profonde radici storiche: il potere che esse hanno conosciuto è sempre stato un potere che le sottometteva negandole: è stato il potere maschile dei padri, dei compagni,, dei figli, dei padroni o dei capi... Anche il potere delle madri è stato respinto dalle figlie, rifiutato come potere esercitato per delega all'interno della legge patriarcale. Quando le figlie si sono riaccostate alle madri lo hanno fatto su una base di identificazione: le hanno capite come sorelle, negandone il potere e la distanza. Le donne hanno dunque posto un'equazione: potere uguale ad oppressione, a sopraffazione. Pensando ad un

* Il presente testo costituisce l'intervento introduttivo di Giannina Longobardi al Convegno di filosofia femminile tenutosi presso l'Università di Napoli, Dipartimento di filosofia, il 6 dicembre :i:98,. 107

tessuto di relazioni tra donne hanno negato che si potessero produrre in esso rapporti di potere. Quando e dove ne hanno dovuto accertare l'esistenza l'hanno stigmatizzata come "riproduzione di rapporti maschili". La nascita del movimento femminista alla fine degli anni '60 coincide storicamente con lo sviluppo del movimento antiautoritarlo e per alcuni aspetti condivide l'ideologia della partecipazione, della democrazia diretta, del rifiuto della delega che questo movimento ha sviluppato. Nell'esperienza del movimento femminista questi elementi di critica alle forme del politico assumono però altro significato e si affermano con altra necessità. L'organizzazione nei piccoli gruppi di autocoscienza richiedeva effettivamente una forma di partecipazione su base egualitaria: la funzione del gruppo era infatti quella di portare alla luce una situazione comune a tutte le donne, nella quale tutte si potessero ritrovare, in una forma di rispecchiamento reciproco dove quello che contava era quan-to accomunava le donne, non quanto le differenziava . .Il gruppo nel quale ciascuna si esponeva nella sua storia personale presupponeva l'accettazione reciproca, il tatto e non poteva tollerare né forme di giudizio né esplicitazione di disparità. Se rapporti di potere, differenziazioni, leaderships in esso si creavano, come normalmente accadeva, questi venivano taciuti o negati. Il fatto che il "come te", !'"anch'io", fossero vissuti come essenziali all'esistenza, alla coesione del gruppo e alla sicurezza delle singole partecipanti, spiega la persistenza dell'ideologia dell'uguaglianza anche dopo il tramonto dei movimenti assembleari. · La sottovalutazione o la negazione delle disparità anche evidenti all'interno dei gruppi hanno avuto una funzione fino a quando nella strategia del movimento l'esistenza del gruppo separato è stata considerata momento di per sé significativo di lotta politica. L'elaborazione teorica di una forma di potere connotata positivamente si rende invece necessaria di fronte alla maturazione di una nuova proposta politica. Ci riferiamo alla lotta per l'agio e alla critica del separatismo statico proposti

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dal "Sottosopra": Più donne che uomini della Libreria delle donne di Milano. La fase della presa di coscienza e dell'organizzazione del movimento in piccoli gruppi viene considerata storicamente superata e la sua persisteD?.a pericolosa in quanto marginalizzan(e. La separatezza se viet?-e a con.figurarsi quale separazione "dal sociale" rischia di tagliare in due la vita delle donne che. pure nel sociale vivono senza avere parola e di istituzionalizzarne la posizione di "minoranza". Se lo scopo che il movimento politico si dà è quello dell'esistenza femminile nel sociale attraverso una produzione simbolica, la forma adeguata non è più quella del ·gruppo separato costruito su basi egualitarie. La produttività, lo si:ambio simbolico, la contrattualità che debbono instaurarsi nei rapporti tra donne richiedono il riconoscimento e la valorizzazione della dispàrità. Il desiderio femminile, che rimane bloccato e reticente nel gruppo fusionale basato sull'identificazione reciproca, si libera e si esprime solo -iri una dimensione che· permetta di giocare al positivo le differenziazioni e di attribuire ad esse valore in relazione alla realizzazione di wi comune progetto. Viene quindi proposto il passaggio dalla forma gruppo a quella di una pluralità di rapporti duali tra donne cui è stato dato il nome di affidamento. Infatti nel momento in cui il gruppo si dà uno scopo, che va al di là di quello della sua pura sopravvivenza, proponendosi una forma di produttività socialmente visibile, la mancanza della valorizzazione .delle funzioni di guida e di potere che alcune assumono al suo interno ne paralizza . la operatività. Si mettono in moto automaticamente fun. zioni di delega, ma la mancata elaborazione positiva del rapporto .di potere rischia da un lato di inceppare i mecca. nismi di decisione, dall'altro di distruggere altre potenzialità presenti nel gruppo stesso. Nel rapporto duale di affidamento invece la scelta che due donne si rivolgono, in vista della realizzazione di un desiderio, avviene in base al riconoscimento della disparità, del di più che l'una rappresenta agli occhi dell'altra e

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dell'appoggio che questa viene a rappresentare per la prima. , Poiché questo rapporto si instaura in vista di un fine da raggiungere, il maggior valore dell'una appare vantaggioso all'altra, utile invece che minaccioso. Si instaura cosl una sorta di economia, di scambio reciproco nel rapporto tra donne che viene a sostituire quel regime del gratuito o della "rapina" che spesso caratterizza i rapporti tra donne. Poiché il rapporto di affidamento trova la sua misura rispetto agli interessi materiali legati al progetto, esso si configura come un rapporto limitato e parziale, rispetto al quale anche gli elementi di autorità e di dipendenza che lo caratterizzano vengono relativizzati. La proposta politica dell'affidamento come forma di rapporto tra donne privilegia rispetto alla cl.imensione orizzontale del rapporto tra pari (le sorelle), quella verticale del rapporto con una donna che viene investita di particolare autorità, la cui figura potrebbe simbolicamente richiamare quel rapporto con la madre, con la simile che sta all'origine, che stenta a trovare elaborazione positiva nell'immaginario femminile. La mancata rielaborazione del rapporto madre-figlia provoca l'appiattimento delle donne su un'unica dimensione, quella orizzontale della serialità e finisce per impedirne l'autovalorizzazione. Il giudizio di valore sulle eguali essendo poi sempre rinviato all'Altro. L'attribuzione di valore ad una donna da parte di un'altra donna costituisce invece un atto simbolico che le permette di costituirsi quale fonte di giudizio e di potere. Restituisce inoltre un'immagine femminile potente nella quale rispecchiarsi. Il potere femminile che cosl si costituisce, pare avere il carattere di un'autorità affettuosa che investe colei che vi è sottoposta,. fornendole l'autorizzazione simbolica a realizzare il suo desiderio. Nella prospettiva dell'affidamento il potere delle donne si realizzerebbe attraverso la costituzione di un reticolo di rapporti privilegiati tra donne nel sociale, che è la forma che la separatezza assume in vista dell'espressione e dell'affermazione sociale del soggetto femminile. 110

Il soggetto politico che si costituisce in una molteplicità strutturata e segmentata di rapporti tra donne mentre in sé si fonda e si mantiene, nello stesso tempo viene ad attraversare, a stringere nelle maglie di una rete, il mondo sociale. La forma politica che pare delinearsi non è quindi quella di un movimento che si costituisce in opposizione all'Altro, con scopi di rivendicazione e di contrattualità che lo manterrebbero in una posizione di subordinazione, ma quella di una soggettività autonoma che per esprimersi e per realizzarsi determina una situazione di conflittualità diffusa la cui posta sono le regole che strutturano il mondo. Sotteponendosi ad un'autorità che esso stesso si è dato e ad un imperativo che gli prescrive di essere, il femminile perde il carattere di superfluità, casualità ed insignificanza che oggi lo caratterizzano nel sociale e acquisisce una sua necessità storica. volontà e il desiderio delle donne acquistano la pos.sibilità di uscire dalla indeterminatezza, misurandosi concretamente con quel mondo culturale e sociale finora ordinato in modo da rispondere ad un unico desiderio, quello maschile.

La

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SIGNIFICATIVITÀ/VISIBILITÀ DEL FEMMINILE E LOGOS DELLA PEDAGOGIA

di Anna Maria Piussi

- Signora maestra, come si forma il femminile? - Partendo dal maschile: alla 'o' finale si sostituisce semplicemente una 'a'. - Signora maestra, e il maschile come si forma? - Il maschile non si forma, esiste.

1. Del calice e altre storie Uno degli esempi più noti, tanto da risultare banali anche agli studenti di una o dell'altra delle scienze umane, riportati dalla Psicologia della Gestalt per illustrare il principio di auto-organizzazione delle forme del mondo fisico e psichico, è quella delle "figure ambigue": si vede o l'una o l'altra delle figure possibili, ma non entrambe simultaneamente. "Quando si vedono le parti nere come figure, non si ha dapprima alcuna nozione d'una forma delle parti bianche; quando queste, a loro volta appaiono come figura, la loro forma desta sorpresa. Questa assenza di forme e di limiti rende meno singolare l'affermazion~ che lo sfondo si stende sotto la figura: essa perde il suo carattere irrazionale nel suo significato negativo. I limiti, effettivamente, appartengono alla figura, non sono affatto limiti comuni allo sfondo e alla figura, nel senso in cui una linea che divide una figura in due figure parziali è il loro limite comune. Figura e sfondo hanno tutti e due la loro unità, ma vi sono due tipi d'unità o di totalità (Ganzheit '): quella della figura, che possiede forma; contorno, organizzazione, e quella dello sfondo, che è una continuità amorfa, indefinita, inorganica" (P. Guillaume, 1963, p. 62). 1

Fin dagli anni, ormai lontani, in cui ero .studentessa di filosofia, ricorro talvolta a meccanismi cognitivi di tipo figurativo (immagini mentali spaziali) quando devo comprendere o rendermi plausibili concetti o parti di teorie. A questa strategia mentale ho fatto ricorso per riflettere più a fondo su un punto teorico fondamentale del pensiero femminile della differenza, il concetto di asimmetria della differenza sessuale, intesa come differenza libera, differenza "come tale", alterità assoluta e irriducibile, e sulla prati. cabilità del concetto di neutro, presente in Irigaray (Etica della differenza sessuale) e discusso da W. Tommasi nel suo La tentazione del neutro. L'esempio cui si riferiscono gli autori della Gestaltpsychologie, tributaria tra l'altro a Goethe per non pochi dei suoi presupposti filosofici, offre all'atto percettivo la vicenda di una figura che, pur in assenza di. forme e di limiti, si impone come tale tra le altre, virtualmente non però simultaneamente, possibili:· come configurazione appunto dotata di forma buona e perciò visibile e significante. Questo movimento di emergenza alla percezione, il rendersi visibile di una parte de1l'intero quadro come figura, è possibile solo a condizione che essa utilizzi e definisca le altre parti come sfondo senza forma, come indifferenziato incapace di strutturarsi in figura, sottraendolo per ciò stesso alla visibilità e all'esistenza in quanto configurazione significante. Nel nostro caso il calice, ad esempio, appropriandosi dei limiti, definisce il quadro complessivo (campo bianco e campo nero, calice + sfondo) come "quadro con calice" (universalizzazione?). Ora, pur avendo indiscutibilmente sia la figura calice, sia le parti nere costituenti· 1o sfondo, una loro propria totalità, la "Ganzheit" del calice è una totalità significante, a differenza dell'altra, destinata ad assumere la funzione di supporto, indispensabile per l'esistenza e la significatività dell'altra, ma non significante essa stessa. Totalità o alterità. dunque, diversamente fondata: l'alterità del calice nei confronti dello sfondo si fonda infatti sul calice stesso che, ponendosi preliminarmente come "univer116

sale", poi ammette anche se stesso come uno dei due campi nei quali !'"universale" si specifica. L'alterità dello sfondo viene invece a fondarsi in negativo: l'"universale" neutro calice, particolarizzandosi come calice, trova sotto di sé lo s,fondo, e lo dice altro appunto a partire da sé (non me ne voglia Adriana per questa - indebita? - traslazione dal suo Per una teoria della differenza sessuale!). L'universale-calice, ponendosi come originario ed autoassolutizzandosi, ignora la sua finitezza di figura, il fatto cioè che esso ha potuto diventare tale dall'essersi circondato dei limiti potenzialmente disponibili e riconosce come derivata da sé, come specificazione pressoché inessenziale, la presenza dell'altro campo, attribuendo ad esso il senso di sfondo, continuità amorfa, indefinita, inorganica. Iscritta in questo neutro-universale, l'altra figura (le facce), che il quadro, definendola ancora come sfondo, mantiene muta e invisibile, è tuttavia pur presente in esso . come traccia, forma ancora latente e virtuale che aspira ad assumere una sua organizzazione compiuta in figura, ad esistere. Ripensavo, a proposito di questa storia del calice, al "destino" di sfondo assunto dall'altra totalità, e allora la storia mi è parsa alludere a qualcosa di assai meno allusivo e molto più letterale: alle troppe storie in cui le donne, a volte anche loro complici, hanno funzionato da indifferenziato amorfo "che sta sotto", da sfondo. Come nel caso, non troppo noto,2 delle donne surrealiste. Nel r929 Breton, fondatore ed animatore del movimento, scriveva che "il problema della donna è il problema che stupisce e turba più di tutti nel mondo", e il Surrealismo non solo assume come assolutamente centrale figura ispiratrice quella femminile, ma annovera al suo interno un folto gruppo di donne artiste e poetesse. Le quali tuttavia, proprio per il fatto di essere donne concrete, in carne ed ossa, e neppur poche e poco dotate artisticamente, passano nella percezione della storiografia e della critica, e perfino nella memoria collettiva, come "un po' prive di sostanza" (W. Chadwick, 1985, p. 7), al punto che ad esse non resta, come infatti è avvenuto, 117

che rappresentare lo sfondo da cui si distinguqno, per levarsi alla luce della gloria e della visibilità, colleghi e compagni maschi. Assenza o presenza sfuocata di forme femminili nell'opera, nella lingua, nel pensiero, nel rapporto con il mondo e con Dio. · E ancor oggi, nella vita e nella scuola - in una scuola che dice di aver smesso di discriminare e da un po' di tempo predica il valore dell'uguaglianza nelle diversità le bambine e le ragazze scontano questa povertà di segni femminili con la difficoltà a definire aspirazioni e desideri di esistenza sociale e professionale futura, con un'impasse dell'immaginario, o con un immaginario smisurato. Nell'universale-neutro del "quadro con calice", perentorio ed autoevidente a causa dell'immediata e totale comprensibilità della buona forma-calice che in quanto tale non dà conto dell'esclusione d~ll'altra/delle altre, queste ultime tuttavia sono presenti come tracce di una mai supposta, sempre ignorata, ma fin dall'origine altra, configurazione. Perché queste tracce, queste forme esistenti di fatto ma non visibili e significanti, si diano come "buone forme" (figure) all'atto percettivo, è necessario che questo, attraverso una improvvisa e illuminante ristrutturazione del proprio campo (insight), attribuisca loro quel senso a cui esse non hanno mai cessato di essere disponibili. Il che desta sorpresa, suscita meraviglia. Ammirazione. Le facce non saranno mai al posto del calice, né questo al loro posto. Irriducibili. Nessuna delle due figure saprà mai che cosa/ come è l'altra. Fin qui ci accompagna la storia del calice: ad altro non può alludere, né altro evocare. L'ammirazione è infatti in questo caso "passione inaugurale" di uno sguardo esterno: non pertiene alle due figure, tra le quali non esiste infatti un intervallo, lo spazio di una possibile meraviglia, ma solo relazione di contiguità. E questa non dà luogo: non dà luogo all'avvento dell'altra, ad esperienze di percezione e di conoscenza che non siano di reciproco possesso, divoramento, assimilazione dell'altra 118

a sé (infatti: l'una o l'altra figura, ma non entrambe contemporaneamente). E perciò non dà luogo neppure alla possibilità, per ciascuna, di interrogarsi e conoscersi se non a partire dall'altra come posta da sé, riflesso speculare di sé, nell'evento di un atto conoscitivo e autoconoscitivo essenzialmente deformante. Né è ipotizzabile l'eventualità di un "né l'una né l'altra (figura)", "l'una e l'altra", cioè di un neutro che comprenda le due totalità o come simultaneamente assenti (non visibili) o come contemporaneamente presenti (significanti) nella loro asimmetria.

2. Il logos della pedagogia Dalla circostanza che le prime e più importanti esperienze di vita di una bambina e di un bambino vengono strutturate da donne, dovrebbe conseguire che nella mente di ragazze e ragazzi si formino rappresentazioni e concettualizzazioni di un reale in cui tutto ciò che è importante, tutto ciò che serve a soddisfare i propri bisogni, tutto ciò che stimola la voglia di apprendere, tutto ciò che ha valore nel mondo e nella vita, porta i segni del sesso femminile. Il che non avviene, oggi come in passato. Rappresentanza delle donne nell'infanzia e nella preadolescenza non significa infatti dominanza del femminile (I. Brehmer, 1982). Non significa neppure reale presenza femminile, in un mondo regolato da sempre dalla legge del padre, in un sociale che da sempre si struttura e funziona secondo l'economia del desiderio e del logos maschile. Sono queste le medesime circostanze che fanno sl che l'espressione "lingua materna" indichi più una sostituzione che una realtà (lrigaray, 1985). Metafora della "parola universale" con cui l'uomo, assimilato a sé-medesimo il femminile, esercita e conferma il suo dominio sul mondo attraverso un discorso che conosce un'unica verità, essa in realtà non è prodotta dalla/dalle madri. Neppure quando si fa creazione attraverso cui l'uomo tenta di ripristinare il rapporto, perduto perché rimosso, con le proprie origini, 119

con il materno. La lingua materna ha infatti incarnato, nel corso della storia, la nostalgia dell'uomo per il luogo primo: natura, ma anche hiogo nativo, Heimat, nazione, spirito originario di un popolo, e ancora, divino-ideale che è in ciascun uomo (non però nella donna), ecc., valori, questi, in nome dei quali è stata ricorrentemente postulata la priorità educativa della lingua materna. La presenza sostitutiva delle donne nelle imprese educative (" assenza" che ha del paradossale, data la loro onnipresenza materiale e simbolica nelle pratiche della riproduzione e nell'immaginario ad esse connesso: simbolico e immaginario, tuttavia, ancora una volta dell'altro medesimo), la loro marginalità-subordinazione nel mondo della produzione e trasmissione culturale, è stata, come si sa, tematizzata e contrastata come discriminazione sessista nei momenti alti della· storia delle donne, come ci testimonia una letteratura ormai relativamente ricca. Le denunce del carattere sessista, oltre che classista, delia scuola e delle istituzioni formative, si sono moltiplicate dall'inizio degli anni '60, in Italia come in altri paesi occidentalizzati, mantenendosi peraltro fedeli alla prospettiva interpretativa dominio/ subordinazione, e postulando quindi come logico - e politico - sbocco la soluzione emancipatoria. Alle rivendicazioni di pari opportunità formative, e, più di recente, di uguali risultati educativi, alle lotte per l'eliminazione di contenuti culturali e di pratiche educative e didattiche sessiste, si sono accompagnate, in forma più o meno esplicita, teorizzazioni inclini a postulare la necessità di andare oltre le diversità di genere, attraverso una sorta di pacificazione-ricomposizione di esse in un potenziato universale umano. Dalla richiesta, ad esempio, di educare bambini e bambine come individui o come persone e non come appartenenti all'uno o all'altro sesso (Gianini Belotti, 1973, 1981), -alla. teorizzazione della personalità androgina come modello formativo per entrambi i sessi, da parte di psicologi e pedagogisti (G. J. Craig, 1982), il passo è stato breve. L'ipotesi della riconciliazione dei due sessi in un maschile120

femminile in grado di potenziare il positivo di entrambi in una superiore unità (neutro-universale come apparente sintesi de "l'uno e l'altro"), è stata del resto una tentazione ricorrente del pensiero femminile, come risulta evidente dal caso notissimo della valorizzazione della mente-scrittura androgina in Una stanza tutta per sé di V. Woolf, cui si deve peraltro il merito di aver, tra le prime, fatto parlare la differenza sessuale, nel successivo Le tre ghinee. Nel percorso che dalla diversità-inferiorità discriminante ha condotto, anche in ambito pedagogico, alla assimilazioneomologazione al maschile (con la conseguente, inevitabile perdita della differenza originaria), il pensiero femminile dell'emancipazione ha pensato la differenza sessuale, senza peraltro giungere ad intravedere la necessità di renderla · parlante e pensante. Differenza sessuale come dato, biologico-naturale e/o culturale - ma comunque esistente -, la cui peculiarità si è creduto di riconoscere nel costituire essa la fonte ed il fondamento della divisione dei ruoli e dei sessi, e della conseguente discriminazione delle donne sulla scena dei processi formativi ed educativi. Questa difficoltà a tematizzare e pensare la differenza sessuale se non a partire dall'altro, il Medesimo, l'Unico, ha condotto non soltanto alla impasse politica che ben conosciamo, in tutti i settori del vivere sociale, contribuendo, ad esempio, a rendere poco plausibile l'obiettivo di una scuola a misura di tutti, maschi e femmine, ma ha comportato anche una pressoché assoluta disattenzione per il problema dell'assenza/cancellazione teorica della differenza sessuale nel discorso della pedagogia e delle scienze del1'educazione. Ma proprio la natura disciplinare della pedagogia di essere scienza (scienze? 3) in cui la componente teoricoprogettuale non è secondaria o accidentale rispetto a quella teorico-esplicativa e nella quale più immediato che per altri ambiti della ricerca teorica .è il riferimento alla sua destinazione pratica, rende interessante un'analisi delle strutture concettuali che "riflettono" e orientano la realtà del rapporto educativo. 121

Dell'immaginario pedagogico e della pedagogia come pratica discorsiva che ha agito/agisce nell'ambito del sapere sull'educazione, andrebbero allora indagati i dispositivi di argomentazione-dimostrazione che hanno reso possibile l'occultamento. o la negazione della differenza asimmetrica donna/uomo, pur all'interno di uno spazio teorico non certo estraneo o insensibile alla differenza sessuale. Questo spazio, eterogeneo a causa di un vario intrecciarsi di definizioni scientifiche (riconducibili a diverse scienze umane), ideologiche, :filosofiche, di senso comune, sembra caratte.rizzato comunque da emergenze teoriche, vecchie e nuove, nelle quali l'attenzione per le determinazioni sessuali dei soggetti umani tende a rarefarsi quanto più il sistema di concettualizzazioni si avvicina allo statuto dell'argomentare/ dimostrare :filosofico. Assai più nella :filosofia dell'educare e nella riflessione teorica della pedagogia, dunque, che nelle discipline scientifiche e nelle tecnologie che hanno come oggetto i processi educativi. Infatti nell'ambito teorico delle scienze e delle tecnologie dell'educazione, il riconoscimento della diversità di genere dei soggetti dei processi formativi è presente, pur se in modo un po' particolare: in un universo come quello dell'educare ci dell'istruire, in cui la riproduzione simbolica delle/ dei più giovani è affidata in larga misura a donne (madri, ma anche insegnanti, educatrici a vario titolo ecc.), e in cui i diritti di cittadinanza non sono certo negati ai soggetti femminili non adulti, la presa d'atto della diversità femmina/maschio è avvenuta, anche se non cessa di far problema. Tema di indagine di alcune, non molte, ricerche empiriche e sperimentali, in cui essa petaltro viene assunta come una delle tante variabili descrittive (età, provenienza sociale, cultura d'origine,· sesso, ecc.) che entrano in gioco nella dinamica dei rapporti educativi e nel farsi dei processi formativi, è destinata a costituire al più l'argomento di un paragrafo o di un capitolo (in genere l'ultimo, dedicato all'apprendimento dei ruoli sessuali o alla formazione 122

della identità di genere) di una trattazione teorica più generale. Nell'universo simbolico delle scienze dell'educazione, la sessuazione della materia corporea, oggettivata in contenuto di conoscenza e di progettualità pedagogica a partire da un 'soggetto apparentemente neutro, ma in realtà sessuato al maschile, si vede assegnato il senso e lo statuto di attributo secondario dell'essere umano, matrice di una delle diversità e neppure delle più rilevanti, anziché della differenza originaria che fonda e rende possibili e significanti le altre. Come tale essa continua ad essere fatta coincidere con un aspetto, probabilmente il più secondario, della condizione umana, la sessualità (da cui, come capitoli a sé, gli studi sullo sviluppo sessuale umano, i progetti di educazione sessuale ecc.), e nello spazio di tale coincidenza il femminile emerge dall'indifferenziato umano, venendo in qualche modo tematizzato. Ma il qualche modo è il modo della parzializzazione maschile, e della sua pretesa di assolutizzarsi come punto di vista teorico, esplicativo, propositivo. La psicoanalisi rappresenta il modello per eccellenza di questa pretesa; ma anche la psicologia dell'età evolutiva, dell'apprendimento, dell'educazione nelle loro diverse direzioni interpretative, o altre scienze quali la sociologia e l'antropologia dell'educazione costituiscono esempi significativi di un pensiero che procede interpretando la differenza sessuale come specificazione secondaria di un umano universalizzato o generalizzato, rispetto al quale all'umano-donna vengono riservate definizioni scientifiche e rappresentazioni simboliche ora nel senso della complementarità ("naturale" o "sociale" incompletezza/inferiorità femminile), ora nel senso della parità/uguaglianza (negazione della differenza nell'assimilazione al maschile). Ma U dove le categorie interpretative e i paradigmi teorici risolvono la differenza di essere donna o come deviazione dal modello neutro (maschile) o come realtà scarsamente comprensibile (come tale definita ininfluente, elemento di disturbo per la teoria, da eliminare 123

o da riassorbire nella logica dell'Uno-Identico: tendenza, questa, presente anche nell'ideologia dell'uguaglianza del moderno. lessico pedagogico), le donne hanno cominciato a reclamare la necessità di una "voce di donna" (Gilligan, 1987).

Una voce che, capovolgendo i termini della questione (non è lo sviluppo femminile che crea problemi, quanto le rappresentazioni correnti dello sviluppo umano, descritto ed interpretato in funzione dell'unico sesso maschile), denuncia la dissonanza tra le teorie psicologiche e l'esperienza femminile, della quale le prime pretendono di dar conto definendo la natura umana a partire dalla coincidenza di maschile con umano ed in tal modo elaborando teoriçamente le differenze sessuali conie segno dell'inferiorità femminile. Attraverso opzioni metodologiche quali quella di limitare la scelta dei soggetti per l'indagine ai soli maschi, e dai risultati inferire poi, in forza di una proiezione indebita del maschile sull'altro sesso, le differenze di entrambi i generi; oppure attraverso la decisione teorica di considerare le esperienze correlate alla differenza sessuale come irrilevanti rispetto ad altre, assunte come variabili più significative (classe sociale, patterns di socializzazione ecc.), le scienze psicologiche e dell'educazione in genere, hanno dato voce e rappresentazione simbolica ad un'unica esperienza, quella maschile, lasciando sullo sfondo dell'insignificante e dello sconveniente quella degli esseri uman_i di sesso femminile. La quale, non convenendo a quei paradigmi scientifici, non lascia traccia di sé nell'universo simbolico delle scienze dell'educazione. All'esperienza delle donne, ai loro modi di costituzione dell'idea di sé, e delle idee del vero, del giusto, del bello, ai loro modi di relazionarsi agli altri e al mondo, lungo l'intero arco dell'esistenza, a tutti questi fatti a cui è toccato o di non ricevere elaborazione conoscitiva, o di costituire un pensato maschile, le donne vogliono dare una voce che a loro corrisponda, aprendo prospettive teoriche nuove che accolgano la differenza sessuale come categoria 124

fondante l'umano conoscere ed esperire, senza timore di dover, perciò, modificare anche profondamente le vedute scientifiche accreditate e correnti.

3. Una divisione del lavoro teorico? La difficoltà del pensiero umano di conoscere e pensarsi come pensiero sessuato, il suo pretendersi pensiero di un soggetto posto al di qua o sopra la differenza, il suo non poter quindi in realtà corrispondere a" l'uno e l'altro sesso" (ciò che le donne hanno, esse soltanto, patito come mancanza di sintonia tra moneta simbolica corrente e.loro esperienza, come assenza di un "verstandlicher Zusammenhang", o nesso comprensibile, tra le due), si articola in logiche teorico-discorsive diverse rispettivamente nell'universo deJle scienze dell'educazione e nell'ambito della filosofia dell'educazione/ pedagogia teorica, secondo una sorta di divisione del lavoro teorico. Mentre nell'universo delle prime, come ho già accennato, la generalizzazione/ assolutizzazione del punto di vista maschile tocca la differenza sessuale nella forma di diversità derivata e secondaria, una tra le tante, dell'umano-neutro, dando luogo aJla veduta secondo cui i due sessi vanno considerati come determinazioni del genere, specificazioni dell'unica specie umana; nell'ambito dell'elaborazione filosofico-teoretica della pedagogia, invece, al logos neutromaschile spetta il compito di occultare/ignorare la differenza sessuale come alterità originaria, e di trasporla in differenza "che viene dopo", secondaria rispettò all'essenziale. E mentre nel primo orizzonte simbolico la falsa neutralità del pensiero-discorso risulta, per le caratteristiche stesse dei suoi contenuti, relativamente evidente, più radicale e al tempo stesso più difficilmente riconoscibile è invece la neutralizzazione del logos pedagogico ad opera ·del soggetto maschile Il dove il pensiero ed il discorso si cimentano con i problemi fondamentali del senso e delle direzioni dell'espe125

renza educativa, e con i principi generali di essa, ossia nell'ambito della riflessione filosofico-teoretica della pedagogia. I diversi concetti e costrutti teorici con cui dal logos pedagogico occidentale è stato di volta in volta significato il soggetto al quale si riferisce il problema dell'educare (uomo, umanità, natura umana, persona, personalità; individuo, fanciullo, ecc.), oltre che costituire un simbolismo solidale in realtà al soggetto maschile, segnalano un procedere del pensiero che si riconosce in: a) un movimento di duplice cancellazione della differenza femminile, che mi pare aspetto specifico del logos pedagogico, rispetto a quello filosofico o a quello di altri ambiti scientifici. In esso infatti la differenza sessuale risulta due volte non-pensata: una prima volta all'atto della fondazione antropologico-filosofico-teoretica, per esempio, del concetto di "soggetto dell'educazione"; una seconda nel momento della determinazione teoricopedagogica dei fini-obiettivi e delle strutture fondanti dell'esperienza educativa, nonché dei criteri di validità delle scelte e dei risultati ad essa relativi; b) un paradigma di educazione isomorfo alla sessualità maschile, al di là di una sua presunta - ma in realtà impossibile - corrispondenza ad un soggetto umano definito come universale. La divisione del lavoro teorico cui ho accennato può rendere più chiara l'ipotesi della doppia cancellazione del femminile prodotta ad opera del logos pedagogico. Il quale può procedere, come infatti è accaduto nel corso della sua storia o per via razionalistico-deduttiva (v. posizioni essenzialistiche di diverso segno, dalla pedagogia tomista a quella spiritualista, personalista ecc.), che approdano variamente ad una fondazione assiologico-metafisica dell'essenza dell'umanità e della persona come valore perenne; o per vie razionaliste-problematicistiche alle quali l'analisi_ fenomenologico-esistenziale apre una prospettiva critico-regolativa dei principi universali dell'esperienza educativa e dell'umanità come idea trascendentale; o per itinerari dialettici anche di ispirazione marxista, che mettono in luce un ideale di 126

uomo come essere attivo e progettante, o ancora per vie scientifico-pragmatistiche ... Si tratta in ogni caso, e pur con le dovute, profonde distinzioni, di un logos che procede aprioristicamente da, oppure approda criticamente a concettualizzazioni dell'essere umano, della natura umana, dell'uomo, nella cui universalità la differenza sessuale non è pensata, né è resa significante l'alterità originaria dell'essere uomo o donna. Superata/eliminata nell'universalità dei concetti :filosofici "soggetto umano", "natura umana", per definizione neutri, e come tali pensati prima e sopra le differenze di sesso dei soggetti pensanti-parlanti, l'originaria alterità dell'essere sessuato al femminile subisce una prima, radicale cancellazione nella forma del suo mancato riconoscimento teorico, della sua totale assenza dal farsi del procedimento logicodiscorsivo. L'essenziale dell'essere umano, della persona, essendo pensato solo nel movimento di astrazione da qualsiasi determinazione "inessenziale", tra cui, in primo luogo, ia determinazione di avere un sesso. Anche nelle elaborazioni :filosofico-teoriche che più sono attente a dar ragione degli aspetti di incompiutezza, di contraddittorietà e problematicità dei percorsi di sviluppo e di formazione dell'umano, il carattere finito e parziale che la sessuazione conferisce al soggetto pensante rimane un non-pensato, nell'orizzonte di un logos che assolutizza ad universale neutro, "l'uno e l'altro", la finitezza della propria sessuazione al maschile. Il femminile non contribuisce dunque al costituirsi essenziale dei concetti di "essere umano'\ "natura umana", cui partecipa solo a titolo di specificazione non essenziale, al pari di molte altre, vedendo in tal modo cancellata la propria originaria alterità. Lo specificarsi dell'universale-neutro in maschile e femminile pertiene infatti ad una particolarizzazione successiva di esso e per cosi dire esterna alla sua essenza, di modo che le differenze sessuali che da esso derivano possono considerarsi appunto secondarie, accessorie, rispetto alla determinazione della sua verità e del suo essere.

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Per entrambi i sessi? Non pare, dal momento che "essere umano", "natura umana", "persona", sono astrazioni prodotte dall'autoassolutizzarsi di un unico soggetto, quello maschile, che in esse si ri--conosce riconoscendovi la sua essenza. Differenza derivata o secondaria è dunque, a ben vedere, solo quella femminile, a cui infatti accade di essere pensata e parlata dal neutro-maschile, come differenza a partire da, simmetrica rispetto all'Uno-Identico, di suo non significativa, di suo anzi depotenziante l'universale neutro "persona,, , " essere umano,, . Dal momento infatti che questi concetti sono anzitutto assolutizzazioni di un soggetto maschile, e solo in seconda istanza significano un neutro di maschile e femminile, soltanto nell'accogliere la sessuazione maschile la "persona", l'" essere umano", perviene alla sua intima completezza. Il che traduce filosoficamente l'idea piuttosto comune nel mondo degli uomini, che le donne non siano vere persone, persone complete ... oppure, di converso, l'espe-· rienza, diffusa tra le donne, di trovarsi in una situazione di conflitto e di " double bind" per il fatto di volersi affer- . mare intellettualmente e socialmente come persone (maschi?) pur restando fedeli al proprio sesso. Nell'"essere umano", "persona", di ·cui parla il logos della pedagogia, il maschio, soggetto di quel discorso, si trova dunque significato e rappresentato nella sua integrità e completezza di corpo sessuato pensante e parlante essendo quel discorso il campo delle proiezioni e duplicazioni simboliche del sé. E da questa posizione di piena coincidenza di "persona" ed essere sessuato al maschile, l'uomo può procedere sul cammino - solitario o •relazionale, lineare o tortuoso, garantito da un Dio di Verità o affidato alla precarietà di altre ragioni - del terminabile o infinito perfezionamento di sé. Non vista, perduta nel suo statuto di· differenza originaria da un pensiero dell'essere che è Uno. per essenza, la differenza sessuale, ammessa da questo stesso pensiero come specificarsi secondario del neutro-universale "umano" nei

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generi maschile e femminile, viene come tale - differenza appunto derivata - accolta e ri-compresa dal logos delle scienze umane e dell'educazione, che, nel suo procedere generalizzante, tra le molteplici manifestazioni dell'essere incontra anche il duale differire, la diversità di avere un sesso piuttosto che l'altro. Ma neppure qui, differenza tra le tante e nemmeno la più significativa, tra nozioni e categorie interpretative che si sforzano di cogliere nelle tracce individuali ciò che è comune a più/tutti gli esseri umani, da utilizzare come quel generale che diventi fondamento plausibile per i principiguida delle imprese educative, il differire femminile trova i modi di una propria autonoma significazione, capace di rappresentare le individue umane come viventi intere nella loro ricca, piena singolarità, tra loro essenzialmente simili nel manifestarsi delle diversità interindividuali. All'interno di questo universo simbolico il differire femminile si presenta piuttosto come l'indeterminato e inconsistente altro, come sfondo amorfo ed inorganico costituito dal "tra loro uguali" (non distinguibili nel loro concreto relativo differire), pensabile e dicibile non per sé, bensl da e per quel soggetto maschile in cui si incarna (" carne senza carne?", lrigaray r985) la specie umana. Non riconosciute come autonome soggettività viventi, ed esistenti "per procura" della soggettività maschile, ai cui modelli di sviluppo, di pensiero, di relazionalità, di sessualità, di linguaggio, di etica, di costruzione del sé, sono state commisurate, le donne compaiono sl nelle scienze umane e dell'educazione, com-prese tuttavia in .costruzioni simboliche che riflettono nella sostanza l'immaginario maschile, come in parte hanno già ben dimostrato le donne che hanno cominciato a dar voce alla differenza sessuale. In questi universi discorsivi il femminile è presente o come !'assolutamente altro, difficilmente conoscibile, o come l'altro inferiore-complementare, o come !'apparentemente non-diverso, simile/assimilabile al maschile. Sono queste, ~ostanzialmente, le tracce interpretative su cui trova fondamento la seconda cancellazione del femmi-

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nile ad opera del logos pedagogico, dando luogo, nel corso del tempo, a diverse figure di celebrazioni dell'Identico nell'universo dell'educare: a) il femminile come genere "altro" ("razza", genere opposto: da Platone ed Aristotele ed oltre) e perciò non educabile "all'uso della ragione". L'altro del logos, il diverso da esso all'interno di una opposizione dicotomica, è destinato all'espulsione dal dominio dell'umano e alla sua negazione come oggetto/soggetto dell'educare; b) il femminile come genere inferiore, da ricomprendere, attraverso un'educazione ad esso commisurata, nel neutro universale umano, rispetto al quale esso continuerà comunque a rappresentare l'" altro" complementare; c) il "due in Uno" come esito di un'educazione destinata ad "emancipare" il femminile, in un'ottica di eguagliamento al sessuato maschile che neutralizza apparentemente le differenze nella intercambiabilità dei ruoli sociali e dei caratteri naturali, in vista della realizzazione sinergica di un "umano" ideale. All'interno di queste figure dell'educazione come celebrazione dell'Identico, descritte qui nelle loro linee essenziali, si costruiscono e si intrecciano i percorsi attraverso i quali, con un secondo passaggio neutralizzante, il logos fìlosofico-teorico della pedagogia ri-assume al proprio interno, nell'universale dell'ideale educativo, quel differire femminile che il sapere scientifico aveva incontrato sul suo cammino conoscitivo come differenza derivata, da oggettivare accanto ad altre (al pari di?). Determinazione tra le molteplici dell'essere, figura tra le tante della concreta e storica finitezza dell'umano, che il logos pedagogico moderno non ha mancato di registrare, conoscere, simbolizzare (il bambino, il preadolescente, l'anziano, l'handicappato, la donna ... ) nella loro realtà psicologica, sociale, culturale e nel loro dinamismo evolutivo, alla donna viene indicato, come itinerario della propria realizzazione "umana", il superamento o l'inveramento di sé in quell'universale dell'ideale educativo che le diverse teorie pedagogiche hanno 130

diversamente pensato e nominato, ma sempre dentro l'orizzonte del pensiero dell'Uno medesimo. Questo ideale educativo, attualmente espresso, nelle sue definizioni estreme, come idea direttiva (nelle versioni _essenzialistico-spirituali.stiche che lo identificano nella progressiva autenticazione della persona, nello sviluppo dell'uomo fino al grado più elevato della sua umanità ecc.) oppure come idea regolativa (ad esempio, nelle proposte razionaliste-problematiciste, che lo individuano nella differenza, intesa come scelta/possibilità per l'uomo di autotrascendimento continuo nell'immanenza, nel senso del nietzschiano Uebermensch 4), indica direzioni di senso per i percorsi esistenziali e formativi di tutti gli individui umani, dell'uno e dell'altro s~so. Ideali universali per la cui concettualizzazione teorica e validità pedagogica le determinazioni sessuali non rappresentano elementi essenziali, ma solo seèondari, alla pari di altre caratteristiche umane. Sembrerebbe dunque che la scomparsa della sessuazione (neutralizzazione) non fosse, in questa prospettiva, destino esclusivamente femminile, ma dovesse riguardare, a pari titolo, anche l'umano sessuato al maschile: l'uno e l'altro. Il che nol_l accade. I concetti-ideali di "uomo", "umanità", "ragione", "persona'' ecc., essendo assolutizzazioni di un soggetto maschile, valgono come universale neutro dell'uno e dell'altro sesso, proprio in quanto valgono anzitutto come sessuato maschile. Ed è proprio l'alterità originaria di quest'ultimo, e soltanto di esso, che si pensa e si auto-rappresenta, in funzione_ delle sue direzioni e possibilità di sviluppo, di potenziamento e di crescita, in quelle idee-ideali educativi. In essi il soggetto maschile, dicendovi e rappresentandovi l'ideale di sé, potenziato fino alla trascendenza del divino-medesimo, trova anche le direzioni di senso per i propri itinerari di pensiero e di esistenza, al di là dei fasti o delle sconfitte che ad essi storicamente si accompagneranno.

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4. Paradigma di educazione al maschile e amnesia del materno

Perché l'esserci della differenza sessuale femminile, cancellata o negata entro la totalità assolutizzata dell'altromedesimo, possa trasformarsi da sfondo indistinto e indifferenziato in figura visibile perché fornita di forma, contorno, organizzazione, in altre parole di quegli elementi che la rendono percepibile e perciò significante, è necessario che questa presenza si dia i modi di una sua autorappresentazione e di. una sua autonoma assunzione di senso, al di là dei modi astratti e quindi riduttivi con cui finora essa è stata pensata/rappresenta;a dall'altro sesso. In questo percorso, certo non privo di difficoltà, ma al tempo stesso inesauribile e illimitatamente disponibile alla libertà delle donne di inventare forme simboliche, modelli di rapporti, contenuti e modi di conoscenza e di pensiero per significarsi e significare il mondo, le donne si fanno - si vanno facendo - soggetti della propria differenza, legittimandosi com~ fonte autonoma di conoscenza, di sapere, di valore. A questo percorso del manifestarsi e del dirsi della differenza femminile, e come condizione del suo realizzarsi, è indispensabile che le donne si sottraggano alla collocazione in cui le hanno storicamente iscritte la prassi e il pensiero antinomico maschile: luogo di oggetto di un soggetto conoscente (l'uomo), che ha negato loro la possibilità di accesso alla dinamica conoscitiva dell'essere e che ha rimosso dalla sua coscienza la coscienza di essere il conoscente di quell'oggetto (e del mondo oggettivo in generale); e ancora, luogo in cui questa coscienza maschile, scissa e totalizzante, si riproduce sempre identica a sé stessa, e dove l'uomo trasmette, di generazione in generazione, il patrimonio di conoscenze ereditato dalla tradizione dei padri. E tuttavia, a monte di questo percorso, esiste un elemento di contraddizione prezioso e di cui è bene tener conto: la collocazione delle donne nell'ordine del sistema conoscitivo e simbolico dato, è infatti anche conseguente all'atto con il quale fino ad oggi esse hanno affidato all'uomo, e a lui 132

soltanto, la mediazione del loro rapporto con se stesse e con il mondo, privandosi in questo modo della possibilità di ri-conoscere la necessità del loro essere/ci come donne per sé ~ per effetto di sé soltanto (e non più dell'uomo), e dunque negandosi il proprio statuto di libertà. La genealogia patriarcale del femminile, fin qui alimentata e custodita dalle donne stesse attraverso gli infiniti atti del loro affidamento all'uomo, non si spezza dunque se non attraverso un sovvertimento delle regole sia nell'ordine simbolico sia nell'ordine materiale dei rapporti sociali. Il che significa rompere il legame di affidamento all'uomo e decidere di scoprire, produrre, trasmettere nuova conoscenza e nuove forme di coscienza che portino il segno della mediazione sessuata al femminile, attraverso una attribuzione di valore e di autorizzazione a parlare, a pensare, a educare, valore e autqrità che si trasmettono tra donne. Un passaggio importante di rottura della genealogia patriarcale e di inaugurazione di una genealogia femminile riguarda la modificazione dei rapporti educativi e dei paradigmi teorici che in qualche modo li sostengono o li riflettono. Questi paradigmi, pur nella varietà di formulazioni che la storia nel logos pedagogico ci testimonia, tendono comunque a rimandare al modello della relazione Padre-figlio, l'unico storicamente e socialmente legittimato come struttura simbolica di riferimento. La cancellazione della coppia madre-figlia e il non riconoscimento della necessità di una generazione simbolica femminile rappresentano i taciti presupposti di questi paradigmi, che, sotto l'apparente neutralità de1 riferimento all'umano-universale, nascondono l'imposizione alla parte femminile del mondo di percorsi di ·realizzazione di sé e della propria esistenza che impediscono alle donne la costruzione creativa di una soggettività intera corrispondente al loro sesso, la costituzione di un territorio proprio, l'accesso alla coscienza di sé e per sé, ad uno spirituale che attinga dal radicamento con il corpo l'energia e le direzioni per il suo trascendere in-finito (un divino femminile, un

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universalmente umano femminile in sé non-conchiuso, noncompiuto?) (lrigaray, 1985). Momento emblematico della fase storica della costi~uzione della pedagogia in senso moderno, anzi sotto molti punti di vista, della pedagogia tout court come autonomo campo di indagine teorica e scientifica, Emile, il romanzo educativo di Rousseau rappresenta, proprio per i suoi caratteri di radicalità, l'esempio più illuminante di questo paradigma di educazione al maschile come celebrazione dell'identico. Esempio significativo anche per la radicalità con cui la questione della differenza sessuale viene iscritta nell'orizzonte del discorso sull'educare. Amato da intere generazioni di educatori e di educatrici progressisti (nonché da settori consistenti e "avanzati" della pedagogia contemporanea), il pensiero di Rousseau si inserisce autorevolmente in quel percorso che il logos maschile inaugura, nella filosofia e nelle nascenti scienze umane, nominando e pensando l'educabilità dei soggetti infantili entro la più ampia categoria teorica dell'educabilità dei soggetti sociali (con la conseguente perentoria divisione del mondo in educatori e in soggetti da educare). Di qui la nascita della pedagogia moderna e la caratterizzazione pedagogica del pensiero politico moderno come eventi tra loro solidali e solidalmente protesi ad iscrivere il nuovo rapporto pedagogico entro l'operazione teorica di tacitazione/cancellazione della natura (Dal Lago, 1982). Effetto paradossale, in una fase storica che alla natura ha riservato un'attenzione privilegiata? Natura come metafora dell'infanzia e infanzia come metafora della società, sono questi i tre personaggi di un teatro del silenzio in cui la sola voce che ha il potere di parlare e di far parlare è la voce del maschio adulto civilizzato, rappresentante dell'ordine civile, da quegli stessi personaggi legittimata in forza di un tacito ma fondamentale consenso. Voce che si autorizza infine a produrre, in nome di una definizione univoca dell'altro da sé e dei suoi bisogni, nuovi mondi immaginari e simbolici, al punto che natura, infanzia e società diventano i laboratori privilegiati degli 134

esperimenti scentifici, educativi e politici, fino all'esperimento-limite del progetto utopico. Emilio, bambino/homme nature! ha in comune con la natura più grande di lui, cui appartiene, la condizione del1'assenza: assenza di costumi e di parola. Fatto che legittima l'adulto-precettore/l'adulto-scienziato alla ricerca di restituire la voce originaria a queste materie viventi ma non significanti, a "parlare per loro parlando di loro" (Dal Lago, 1982, p. 28). Scoperta maieutica di un originario? In realtà costruzione solipsistica di un soggetto maschile che, in nome di un impegno civilizzatore e dopo aver definito implicitamente come vuoto e assenza la natura, si autorizza a riempire questo contenente di linguaggi, progetti, teorie morali e sociali con i quali egli rappresenta il suo mondo e si auto-rappresenta. Non restituzione, incontro, ma fondazione, edificazione. La natura, e Emilio come natura, rappresentano allora il luogo di passaggio, il tramite del costituirsi dell'amore di sé dell'uomo (Irigaray, 1985), attraverso quella sorta di creazione onnipotente in cui si risolve l'impresa pedagogica totale e totalizzante di Jean Jacques. Tra il precettore ed Emilio non è previsto un intervallo, una distanza che permetterebbe a quest'ultimo di segnalare il suo avvento allo sguardo intenzionale dell'altro, a porsi come differenza non interamente assimilabile, e che obbligherebbe anche l'adulto ad interrogarsi, accettando un'economia di desiderio non divorante. Il rapporto educativo si gioca invece sulla necessità di una relazione conoscitiva dal soggetto che è di più a quello che è di meno, costante e ossessivamente riconfermata, che esclude la comprensione come disponibilità intellettuale ed affettiva fecondata dalla capacità di ammirare (" ammirazione" come passione pedagogica?): di modo che il rapporto di disparità tra simili al maschile si traduce in cattura e inglobamento del minore, e in chiusura e autosufficienza rispetto all'altrodonna. Sguardo troppo prossimo, procedimento di consumazione che ha come premessa la definizione di un polo, Emilio, come oggetto da osservare (la natura va indagata, 13.5

decifrata dall'adulto, perché si riveli al soggetto infantile lo statuto della sua libertà) e come materia da far parlare (preferibilmente attraverso la confessione: "non risparmiate nulla per divenire il suo confidente: solo a questo titolo sarete veramente il suo maestro"... e "il suo padrone"), che è in realtà un parlarsi e uno sdoppiarsi simbolico dello stesso adulto educatore, chiuso nel proprio visibile e significabile, i cui orizzonti vengono dilatati fino all'atto onnipotente di affermarsi come causa autosufficiente del proprio sé ideale. Il precettore, infatti, non educa ma crea, ponendosi come artefice divino di quella natura che egli aveva il compito di far scoprire e rivelare al bambino. In quei;to sistema proiettivo, in cui si costruisce l'amore di sé al maschile, due sono le condizioni, tra loro correlate, di questa impresa educativa come creazione onnipotente, che assume la relazione di disparità educatore/allievo come scena in cui si recita la vicenda del perfezionamento di sé al maschile. La prima condizione è che Emilio sia orfano (" Non importa che abbia padre e madre", e ancora: "Allora lo stringerò al mio seno ... e gli dirò: tu sei il mio bene, mio figlio, la mia opera"). La seconda è che il potere implacabile dell'adulto, pur travalicando - fino al punto da invalidarlo - il patto prestabilito tra i due, quel contratto su cui sembrava fondarsi il rapporto educativo, rimanga costantemente occultato. Un rapporto educativo, che si configura apparentemente come rapporto di affidamento dal soggetto maschile non adulto, in cerca di un proprio individuale itinerario per diventare uomo e guadagnare la propria libertà sociale e morale, al soggetto maschile maturo che, avendo l'autorevolezza di un di più di conoscenza e di esperienza di vita, si autorizza come fonte di valore e di regolazione dello sviluppo di Emilio, ma che in realtà si risolve in costruzione narcisistica di un sé ideale da parte del gouverneur/Rousseau. La libertà morale in cui consiste, in ultima istanza, 'la felicità personale, e a cui dovrebbe condurre il processo di maturazione di Emilio come rivelazione in sé dell'originaria natura umana (ossia del disegno provvidenziale di Dio, di un Dio posto e definito dall'uomo a sua 136

immagine e somiglianza perché dal suo Verbo si generi la definizione essenziale ed eccellente di sé stesso come creatura sessuata al maschile), viene fatta non a caso coincidere con l'impossibilità di distinguere la propria personale volontà dalla volontà della sua guida. Illusione di libertà che si rovescia in piena dipendenza. Emilio, ormai venticinquenne, implora per sé e per Sofia la presenza costante del precettore: "Consigliateci, guidateci, noi saremo docili: finché vivrò avrò bisogno di voi... guidatemi perché possa imitarvi". Il circolo in cui si chiude ossessivamente, entro un'illusoria autosufficienza, il rapporto Jean Jacques-Emilio, at. traverso la mediazione di un Dio-natura al maschile, si genera non a caso dalla rimozione esplicita del maternofemminile dalla scena del processo di formazione e di crescita. Per la buona riuscita del quale si richiede infatti l'allontanamento delle figure femminili (madri, nonne, nutrici), considerate incompetenti e sospette: e ad esse non resta che "affidarsi alla capace guida di un uomo, un professionista in problemi della vita, che inizia con loro un'ambigua competizione sul 'possesso' della creatura da formare", al punto che questi può illudersi perfino di aver "creato" un figlio senza l'intervento di una donna (De Vigili, 1982, pp. 59, 67). Ma la rimozione del femminile come alterità irriducibile, meno esplicita, questa, ma al contempo assai più radicale, riguarda l'intero progetto pedagogico espresso nell'Emile, finalizzato a creare le condizioni perché un soggetto maschile in divenire, Emilio, trovi la perfetta coincidenza con il proprio dover essere, quella pienezza di umanità (" l'arte di saper vivere e di divenire prima di tutto un uomo"), che altro non è che la proiezione dell'identità idealizzata dello stesso soggetto maschile, per il quale, in questo contesto teorico, "natura originaria" significa in primo luogo l'essenza che costituisce il fondamento della sua singolarità di essere sessuato. "Che cosa potrei scegliere di più che essere uomo?", si chiede Emilio adolescente, all'inizio di quel percorso di educazione morale destinato a rappresen1.37

tare, più che una seconda nascita, la vera e propria nascita alla vita, come conquista dell'umanità in sé e come ingresso nell'ordine sociale. A questo progetto fa coerentemente da contrappunto l'altro, formulato in termini di inequivocabile complementarità e strumentalità, dell'educazione femminile.5 Allontanate dalla scena educativa le madri reali, cui vengono riconosciute funzioni allevanti solo per le primissime fasi dello sviluppo (maschile)-umano, Rousseau allontana ancora più radicalmente, al punto da negarne la possibilità teorica, le madri. simboliche. Né la parte femminile del mondo, in generale, né specifiche figure di donne particolarmente esperte e autorevoli, vengono riconosciute come fonte autonoma di valore, terreno primario di significazione e autosignificazione, capaci di costruire, da queste ripetute nominazioni (nominare, come atto di creazione che produce storia, è una possibilità che da sempre gli uomini hanno sottratto alle donne), una propria memoria di donne, una esperienza, un'eredità da trasmettere,6 con cui arricchire e potenziare se stesse e il mondo. Neppure all'interno del rapporto educativo madre/figlia, identificato da Rousseau e da una lunga tradizione pedagogica come il luogo in cui il femminile-materno (un femminile-materno pensato e detto dal discorso maschile) tende a riprodursi uguale a se stesso di madre in figlia, e sempre in funzione di garantirsi come nutrimento gratuito dell'uomo, neppure all'interno di questo rapporto si ammette la possibilità di un materno che non sia necessariamente simbiotico, ma sia simbolico. Difatti, in questa prospettiva, anche quel terreno minimo di simbolico femminile che pure viene dato gratuitamente da una donna come cibo nella relazione educativa, e che è costituito probabilmente da una "parola, non ancora formalizzata, non ancora distaccata dalla carne, ma radicata profondamente nella sua carne e nel. suo corpo" (Irigaray, 1982, p. 17), rimane non visibile e non significante, escluso dal riconoscimento sociale. Come tale questo terreno simbolico minimo non può rappresentare la base per la creazione di una moneta di scambio tra donne e mondo, e tra donna e donna, 138

che potrebbe far uscire i soggetti femminili da rapporti educativi di fusione/ confusione o da modelli di relazionalità pedagogica che si strutturano secondo una logica e un'economia di desiderio maschili, e dunque sulla dimenticanza del· màterno. La chiave di lettura di questa impasse, che priva le donne della possibilità di costituirsi come soggetti autonomi e di garantirsi una genel'azione simbolica propria (mediazione necessaria perché le bambine e le adolescenti possano entrare nel mondo senza rinunciare al proprio sesso), ci viene quasi paradossalmente fornita dallo stesso Rousseau. Il quale, partendo da una interpretazione del femminile come polo complementare della relazione simmetrica uomo-donna, sottolinea poi realisticamente che, se i due soggetti umani maschile e femminile sono fatti uno per l'altro, la loro reciproca dipendenza non è tuttavia uguale, giacché le donne dipendono dall'altro sesso proprio per ciò che è essenziale alla loro esistenza: poter significare se stesse e il mondo in modo autonomo rispetto alla parola già data e autorizzante dell'uomo. Dopo aver premesso che le donne "dipendono dai nostri sentimenti, dal valore che attribuiamo ai loro meriti, dall'importanza che attribuiamo alle loro attrattive e alle loro virtù"; che esse sono "alla mercè dei giudizi degli uomini: non basta che siano degne di stima, bisogna che siano stimate ... non basta che siano sagge, bisogna che siano riconosciute come tali", con la massima lucidità egli conclude: "l'uomo, comportandosi bene, non dipende che da se .stesso e può sfidare il giudizio pubblico; ma la donna, comportandosi bene, non ha eseguito che la metà del suo compito, e quello che si pensa di lei non è meno importante di quello che essa è effettivamente" (Emile, v). Ciò che ovviamente manca a questa incisiva costruzione interpretativa (e non poteva non mancare, dal momento che Rousseau stesso si muove nell'orizzonte teorico dell'UnoMedesimo) è il passaggio costituito dalla rimozione del materno, fondamentale per spiegare la dipendenza storica delle donne dall'"opinione" maschile.

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Costrette a spezzare il legame di continuità-contiguità con il corpo e la parola/non parola delle madri, per entrare nella legge e nel logos paterni, alle donne manca una fonte di legittimazione a significare, a rendere visibile e vincente la propria esperienza e il proprio desiderio nel mondo, che non sia quella maschile. Una fonte femminile che autorizzi ad articolare desiderio e linguaggio, emozione e pensiero secondo modalità proprie, irriducibilmente diverse rispetto ai soggetti. maschili. E questa differenza originaria, che ha in sé la sua necessità e la sua ragione, stenta a trovare i modi di una sua visibilità sociale e di un suo autonomo significarsi, in· modo tale che l'essere donna diventi principio riconosciuto di sapere, di conoscenza, di ordine etico. Separate dal rapporto con le madri, le donne che stanno crescendo, le bambine e le adolescenti, vengono private del fondamento originario per i loro possibili, molteplici e diversi, percorsi di individuazione-per sé (e non per l'altro), come esseri sessuati al femminile. Per costituirsi come soggetti nella propria singolarità concreta e vivente, le donne devono amarsi, elaborare il rapporto con il materno, in modo da uscire dall'indifferenziato popolo delle donne, gigantesco nutrimento gratuito, accedere alla doppia soglia di sé come madre e di sé come donna. Ma l'autoaffezione, intesa come possibilità di (ri)conoscersi, di identificarsi, di amarsi, presuppone il poter disporre di sguardi e di parole di altre donne, di madri simboliche, di maestre, che autorizzino a vivere, a crescere, a progettare la propria esistenza secondo il sesso a cui si appartiene. E il simbolico prodotto dal pensiero e dalla creatività delle proprie simili, secondo un registro di fecondità e generatività che coniuga, anche nel lavoro di conoscenza e di riflessione, intelligenza e sguardo d'amore, rappresenterebbe allora la mediazione necessaria per le operazioni di sublimazione di sé, a partire da sé e per un ritorno a sé come luogo di elaborazione del positivo (Irigaray, r985). Senza una struttura simbolica di riferimento prodotta dalle simili, le donne che stanno crescendo rimangono prive

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di criteri di misura corrispondenti al proprio sesso, cui riferirsi nel percorso di costruzione della propria esistenza e rispetto a cui acquisire una proporzione tra sé e gli altri, tra sé e il mondo, senza cadere nel pericolo di un interminabile "tendere verso", a causa dell'assenza di un luogo proprio. La coppia precettore/Emilio costituisce la figura pedagogica di quel "tra uomini" del logos maschile, che cancella il femminile come alterità assoluta, avendo rimosso il materno-luogo dell'origine che sostenta e nutre, da cui pure l'uomo proviene, ma da cui sembra doversi separare per esistere appunto come uomo. L'unità autarchica educatore/ educando, che ripete se stessa all'infinito, diviene allora il simbolo potente di quel rito con cui l'uomo- consacra i .suoi gesti di edificazione di mondi in cui abitata - a sostituzione della prima dimora definitivamente perduta - e con cui ripete all'infinito i suoi tentativi di costruire le mediazioni educative indispensabili per conservare e potenziare quei mondi. E se con il suo insistente rimando alla natura originaria, provvida e salvifica, quale fondamento e guida del processo educativo, l'utopia rousseauiana rappresenta l'illusorio tentativo del pensiero maschile di pagare il debito simbolico alla madre-matrice (ma la natura resterà, in Rousseau, dimora/ condizione umana pre-sociale astrattamente pensata, proiezione della nostalgia per il materno-femminile per sempre perduto, e non a caso, in una regressione estrema, arriverà a coincidere con il divino-maschile), il logos pedagogico troverà altri modi per esprimere, attraverso i propri modelli di educabilità, la rimozione del· materno. Sia che i modelli accentuino l'ipotesi di educazione come processo governabile dall'esterno del soggetto, sia che insistano sull'idea di educabilità ci:ome sviluppo-svolgimento nella personalità individuale di un'essenza originaria, s:a che tra questi due poli estremi del campo della cultura pedagogica si muovano modelli intermedi e più sfumati, il paradigma cui essi in definitiva rimandano è quello dell'allontanamento dal materno-femminile. 141

L'"oltrepassarsi'' del soggetto educativo, in un orizzonte di immanenza che si richiude nella circolarità del dirsi e del pensarsi del soggetto maschile, oppure, al contrario, in un orizzonte di trascendenza (trascendenza inaccessibile, estranea alla carne, di un processo educativo che nella sua inesauribilità "tende sempre verso"); l'idea-ideale dell'approssimazione progressiva della conoscenza alla verità, sono formulazioni pedagogiche, queste, che riflettono il rapporto che l'uomo ha con il mondo, con lo spazio-tempo, con il divino. Rapporto che, nella verticalità del suo andare-ritornare solipsistico, esclude la possibilità di un incontro con il femminile, in un mondo e in universo socchiusi. E alla luce di questo paradigma pedagogico di celebrazione dell'identico come dimenticanza del materno, che rimanda alla morfologia dei valori maschili (pro-iezione, possesso-assimilazione, verticalità soli?sistica ... ) si può leggere ed interpretare anche la persistenza di modeJli istruzionali e scolastici che altro non sono che la metafora della concezione cumulativa e lineare del procedere ·della conoscenza.7 E cosl pure all'amnesia del materno può alludere in qualche modo anche il processo di radicale perdita di categorie mentali proprie dei primi anni di vita, per l'assunzione di modalità di pensiero e di discorso più evolute e socialmente più condivise, che fa sl che non si possa, in seguito, da adulti, più pensare nel modo in cui usava da bambini. E nella nostra società questo processo di radicale distanziamento avviene prevalentemente attraverso l'apprendimento culturale e sociale scolastico, che enfatizza, fino a renderla esclusiva, una lingua e una intelligenza decontestualizzata, quel pensiero "svincolato", esente da elementi di esperienza e di affettività-preferenza personale, come insieme di abilità mentali che costituiscono l'aspetto dominante delle culture occidentali (Pontecorvo-Pontecorvo, 1986). Di modo che, all'interno di questi modelli, perdono valore e consistenza modalità diverse di conoscenza, come il pensiero non dualistico, il pensiero olistico e relazionale, che si alimenta anche di abilità di intuizione, individuali e

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socializzate, cresciute entro il mondo delle relazioni umane, la conoscenza generatrice che parte dal rapporto con l'altro e che non dimentica il sapere del corpo fecondante. Modalità di rapporto con il pensiero e il linguaggio, in cui la necessaria "prise de distance" fisica e simbolica del soggetto rispetto al conoscere e al sapere non significhi perdita assoluta del contesto o scissione di parti importanti di sé, e permetta di produrre conoscenza generale restando fedeli al proprio sesso.

5. Progettare l'esistenza: tra me e me, tra me e il mondo, una donna

"E da quando mai sono gli uomini che s'immischiano dell'educazione delle ragazze? Chi impedisce alle madri di educarle come piace a loro?" J. J. Rousseau, Emile, v.

La prospettiva della cancellazione teorica del femminile prodotta dal logos pedagogico, che ho tentato nelle pagine precedenti di ricostruire, potrebbe far apparire interessante, per le donne, soluzioni di tipo prossimo al neutro (alternativa consolatoria o "tentazione del neutro"?), che nell'universo dell'educare potrebbero oggi essere rappresentate, rispettivamente, dalla figura della personalità androgina, e dal postulato-ideologia dell'"uguaglianza nelle differenze". Tralasciando per il momento quest'ultima, vorrei analizzare brevemente il modello educativo della personalità androgina, con la sua presunta capacità di rendere conto della differenza di essere uomo/donna. Partendo dall'idea della bisessualità come condizione originaria dell'essere umano a livello ontogenetico, cui in certo modo corrisponde, sul piano filogenetico e della storia umana la :figura mitica dell'androgino e dell'ermafrodito, questa prospettiva teorica indica come esito desiderabile del processo di evoluzione/formazione individuale e specie-specifico, l'androgina, cioè la costruzione di un soggetto dalla conoscenza androgina, in cui le qualità positive maschili e femminili si trovino tra loro integrate in una 143

conquistata unità, e in cui la coscienza possa accogliere le opposte polarità presenti nella psiche accettando il loro libero intergioco (Costa, 1984). La ricostituzione dell'unità della psiche nella personalità androgina, in cui la coesistenza di tratti distintivi del maschile e del femminile positivizzati segni anche un superamento del conflitto maschile/femminile, potrebbe rappresentare un modello ideale per ciascun individuo, uomo o donna, un modello di autosufficienza e di completezza cui aspirare e da perseguire con le opportune mediazioni educative. Il potere di seduzione di guesto ideale sulle donne si può spiegare in base aila ·prospettiva che esso offre di una ricomposizione di. tradizionali scissioni (dualismi di vario segno), e soprattutto di una reintegrazione del femminile in un intero umano, che accogliendolo rappresenterebbe fmalmente il luogo del suo riconoscimento e della sua valorizzazione. Luogo infine della sua visibilità e dell'accesso alla parola e al simbolico? L'immagine dell'androgino presente in molta produzione mitologica e in una lunga tradizione religiosa, filosofica e culturale, entro cui peraltro la dominanza del maschile, tendendo ad oscurare l'armonica interdipendenza dei due sessi, rivela la presenza di una forte matrice patriarcale, è entrata a far parte dell'apparato teorico della psicologia e soprattutto della psicoanalisi, pur con significati diversi (metafora, in Freud, dell'originaria indeterminatezza sessuale, o in Jung della struttura armoniosa della personalità cui conduce il cammino della individuazione e della realizzazione del Sé). Muovendo originalmente proprio da una prospettiva teorica junghiana, Silvia Montefoschi (1986) ha di recente elaborato una proposta dell'androginia come massima valorizzazione del femminile. Attraverso un'ermeneutica del logos umano come storia del dirsi dell'essere, che conduce ad una visione unitaria del sistema umano e del sistema cosmico, del soggetto conoscente e dell'oggetto conosciuto, del maschile e del femminile, dalla ricerca della Montefoschi emerge lo strutturarsi di una nuova forma dell'essere. cor-

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rispondente al salto evolutivo che porrà fine all'attuale ciclo cosmico. Questa forma rappresenta l'unificazione, come conclusione del processo attraverso il quale il femminile dell'essere (di Dio), in quanto conosciuto che non sa di sé come conoscente se stesso, si congiunge al maschile, che è il conoscente cosciente d'essere un conoscente (soggetto riflessivo). E questa unificazione, corrispondente alla forma più alta dell'essere nel suo processo evolutivo tuttavia infinito, è resa possibile proprio dal femminile. Questo infatti, rappresentando la totalità dell'essere che precede la coscienza di essere dell'essere, e rimane dunque separato dall'occhio che lo vede (maschile dell'essere), rappresenta la dimensione oggettuale dell'essere, la cui essenzialità all'esserci dell'essere è stata rimossa dall'uomo della coscienza eristica. Dunque non essendo il femminile solo il già conosciuto-detto, ma anche ciò che deve ancora manifestarsi-dirsi dell'essere, proprio il femminile si propone come tensione motivante il divenire della conoscenza, e dunque come forza evolutiva dell'essere. Dalla figura di Eva, come luogo della riproduzione materiale dell'uomo, a quella di Maria come luogo della sua riproduzione spirituale, il passaggio alla nuova forma dell'essere, che rappresenta l'attuale punto d'arrivo del divenire infinito dell'essere alla coscienza di sé, coincide con l'avvento di una nuova figura femminile, destinata a rendere possibile l'attuale salto trasformativo nel divenire dell'essere. La donna si fa dunque protagonista della dinamica conoscitiva ed evolutiva dell'essere, di una nuova conquista dello spirito umano, e questa volta infrangendo le leggi millenarie della società degli uomini che la vogliono esistente solo per incarnare la funzione di nutrice e custode delle attività dell'uomo. E la nuova figura porta con sé l'essenzialità del femmini]e all'evoluzione del "verbo" (attraverso l'appropriazione della funzione riflessiva, da sempre prerogativa della parte maschile del mondo), la necessità di un suo esserci significativo nel mondo, perché dal proprio prodotto spirituale si generi una nuova coscienza umana.

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Ma qual'è il senso di questo ingresso nella storia della "nuova immacolata", che è tale per aver preso coscienza di "avere in sé oltre al femminile, anche il maschile, oltre all'individualità, anche l'universalità dell'essere"? Il procedere dialettico della riflessione di Montefoschi indica nella ricomposizione dell'essere nell'unità di un maschile e di un femminile u..ì.iversali, e nella nascita dell'ermafroditismo della coscienza - che è l'essenza del nuovo soggetto umano - il compito storico della nuova figura femminile. Lei, che ha congiunto per la prima volta nel femminile l'individuale e l'universale, entrando in relazione con il maschile universale genera una superiore coscienza dell'essere, quel soggetto riflessivo universale, uomo e donna ad un tempo, che è la comune essenza umana nella quale il singolo soggetto - nella propria specifica differenza di individuo vivente e concreto - si fa tutt'uno con l'intera umanità. Pur muovendosi in una prospettiva teorica certamente interessante, la proposta di Montefoschi sembra rimaner legata a categorie di maschile e femminile e ad un'interpretazione del rapporto uomo/donna come relazione speculare e simmetrica, che rimandano alla logica dell'Uno-Identico e al paradigma del pensiero dualistico. In questo modo la prospettiva dialettica qui delineata, pur approdando alla possibilità/necessità teorica e storica di una conciliazione dei due sessi in una superiore coscienza universale, un nuovo soggetto umano all'interno del quale il femminile sembra aver raggiunto una dimensione spirituale di coscienza di sé e per sé e di libertà, questa prospettiva rischia di bloccare il femminile entro l'orizzonte di un pensato e di un detto che ad esso non appartiene. A queste condizioni, che significato assume la fecondità del femminile (la nuova immacolata ha "la facoltà di fecondare il mondo con il proprio prodotto spirituale") e l'incontro creativo tra le due metà del mondo? La fecondità del femminile richiede infatti l'accesso allo spirituale dell'autocoscienza, presuppone che le donne abbiano potuto trovare e dire il proprio senso, il proprio

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versante della significazione (lrigaray, I 98 5), si siano costituite cioè come soggetti a partire da sé e per sé, pur in un rapporto di apertura all'altro da sé. E questo processo domanda che venga attivato un rapporto fecondante tra io donna/tti donna, che la coppia madre (reale o simbolica)/ figlia si faccia matrice fecondante di spiritualità e di rultura (la "spiga" del mito di Demetra e Persefone), generando una trama non indifferenziata di rapporti tra donne, come forma del loro coabitare eticamente un territorio proprio. Dar vita a questo simbolico femminile, costituire un mondo comune delle donne che sia anzitutto "luogo della mente" (Borghi, 1985), diventa la premessa e al contemp~ l'esito di un processo in cui le mediazioni educative risultano fondamentali. E mentre per le bambine questo significa cominciare ad entrare nel mondo attraverso il mondo delle madri, potendo far conto su donne di valore attraverso le cui parole mettere in forma le proprie esperienze e la realtà, "costruire" il mondo e il proprio sé, progettare la propria esistenza secondo un'economia di desiderio e un'etica corrispondente al proprio sesso e alla propria singolare individualità; per le donne adulte questo comporta l'assunzione di un nuovo punto di vista, che è al tempo stesso un punto di guadagno. Significa interrompere la pratica del dono gratuito di sé, cessare in particolare di funzionare come inesauribile nutrimento per l'uomo, e attivare un rapporto di generatività e di cura verso i propri prodotti intellettuali e spirituali. Significa sviluppare anch~ nell'orizzonte dell'educare un dispositivo di alleanza tra donne, dove la pratica di affidamento alle proprie simili (alle altre di maggior valore che hanno con noi responsabilità educativa per professione e/o scelta di vita, alle altre che con i loro prodotti culturali hanno reso disponibile uno sguardo femminile sul mondo) sia di vantaggio al crescere e al formarsi delle bambine e delle donne giovani. E questi processi di crescita e di realizzazione di sé, per i quali è necessaria la liberazione non fittizia di parola e di desiderio corrispondenti al proprio sesso, non si attivano al di fuori del rapporto con una donna autorevole, che

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legittimi le donne non adulte a progettare e costruire la propria esistenza al di fuori dei percorsi già dati. Per questo la .figura dell'androgino, e il modello educativo che ad essa rimanda, rimanendo legata, pur nelle diverse formulazioni, ad una logica dualistica di definizione del maschile e del femminile e delle loro caratteristiche, risulta riduttiva e depotenziante. Uscire da questa logica può significare allora che vogliamo disporre di una ricchezza di percorsi per realizzare e pote11ziare la nostra complessità e una pluralità di costellazioni femminili dell'io. Abbiamo diritto a questa ricchezza, altrettanto quanto di veder riconosciute e legittimate le nostre "qualità" femminili, perché anche queste sono le nostre "sources" (Rich, 1985).·

NOTE

' Al modello ambiguo riportato come esempio da Guillaume, ho sostituito, perché forse più emblematiche, le figure di Rubin. 2 Un contributo alla loro conoscenza è tuttavia stato dato da L. Vergine (1982), e più di recente da W. Chadwick (1985). 3 Sulla pluralità e plurivocità dei profili epistemologici della pedagogia (v. AA. VV., Studi dì epistemologia pedagogica, 1985) esiste una vasta letteratura, che qui non è il caso di ricordare. ' Il riferimento è qui alle recenti proposte di G. M. Bertin (1981) e G. M. Bertin-Maria Grazia Contini (1983), che Vllil!lo meditate per le suggestioni che l'ideale educativo della progettazione esistenziale nell'orizzonte del possibile-utopico e nell'impegno a realizzare in sé e negli altri la differenza, può avere per il nostro tentativo di elaborare un pensiero pedagogico della differenza sessuale. Nella riflessione pedagogica bertiniana la ragione è un'istanza .umana che rifiuta i paradigmi dell'identità totalitaria e si costruisce in percorsi e vagabondaggi sempre nuovi, differenti, complessi, tra i limiti esistenziali dell'uomo e le sue possibilità di "voriibergehen" nell'oltreuomo. Inoltre essa, essendo costituita da una struttura "porosa", è permeabile, continuamente attraversata dalla problematicità nella varietà delle sue forme, e quindi da pluralità e contraddizioni. Una ragione dunque, pur sempre dialettica, ma critica, problematicistica, non sistematica, potenziata in queste sue caratteristiche dall'incontro con le categorie nietzschiane (secondo la lettura bertiniana di Nietzsche) di differenza, demionicità, utopia. 5 Non mi interessa qui insistere su tesi già note circa Ja totale funzionalizzazione dell'educazione della donna a quella maschile nel pensiero di Rousseau, da cui consegue, coerentemente, la negazione di un possibile/necessario percorso autonomo di crescita e formazione per la donna ("Dopo aver cercato di formare l'uomo naturale ... vedia-

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mo come si deve formal'e la donna adatta a quest'uomo", e ancora: "Cosl tutta l'educazione delle donne deve essere relativa agli uomini"). Sarebbe al più da sottolineare la sincerità e la coerenza della proposta rousseauiana, a paragone di altre formulazioni forse più raffinate ma anche più "tentatrici", che nascondono la cancellazione simbolica della differenza sessuale sotto l'indifierenzia:ci.one degli itinerari educativi per i due sessi, teorizzata alla luce di un fine universalmente valido. Anche il rapporto madre/figlia, su cui si incentra, secondo Rousseau, .l'educazione della donna, è stato pensato in un'ottica di complementarità e funzionalità al processo di potenziamento dell'umano maschile e di edificazione della sua grande.zza. In questa relazione educativa madre/figlia, depotenziata a causa del mancato riconoscimento di un suo statuto autonomo, si riflette il paradigma dell'odio verso il materno, su cui si è costruito, con esiti teorici diversi, il logos pedagogico. Per la centralità e l'attualità del modello rousseauiano e del paradigma naturalistico nelJ.a cultura pedagogica italiana ed inter• nazionale, v. Maragliano (198r). • Anziché al singolare, sarebbe più corretto parlare, al plurale, di memorie ed esperienze. Per le particolari caratteristiche ,iella storia delle donne (le quali, come ricorda Irigaray in Speculum, ''assicurano l'Erinnerung della coscienza di sé dell'uomo con la dimenticanza di se stesse") e per le modalità del costituirsi, per ciascuna donna e tra le donne con le loro diversità, della dinamica dell'esperienza e della me.moria, è preferibile parlare di una plur:ilità quantitativa e qualitativa di memorie e di coscienze storiche femminili. Per la fondamentale importanza del costituirsi di una memoria e di un patrimonio di esperienze e di conoscenze che testimonino l'essere delle donne, da trasmettere e comunicare nei rapporti educativi ed istruzionali, v. la conferenza di AnRlENNE R.ICH, Prendere sul serio le studentesse, in Rich (1982). 1 V. Fabbri Montesano-Munari (1984). Gli autori danno indicazioni interessanti circa i limiti del pensiero cli Piaget, che ha rimosso la componente etica e quella erotica - di seduzione reciproca - presenti nel rapporto tra individuo e sapere. Sul paradigma dell'educazione come celebrazione dell'identico si costruisce anche il modello omeostatico piagetiano (conservazione, costanza, energia invariante), nel cui apparato teorico ed euristico, tra l'altro, il soggetto infantile con la sua integralità di corpo mente e parola tende a scomparire, e i concetti di maturazione-maturità, con i valori ad essi connessi, riflettono sostanzialmente un percorso di sviluppo maschile.

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L'AFFIDAMENTO NEL RAPPORTO PEDAGOGICO

di Elvia Franco

a Luisa

L'affidamento nel rapporto pedagogico

Se l'affidamento è stare nel mondo attraverso la media• zione di un'altra donna, l'affidamento pedagogico può diventare una pratica immediatamente reale. L'affidamento in sé richiede stima, affetto e riconoscimento della disparità. La bambina riconosce spontaneamente la disparità della maestra. Con gioia. Nella stima e nell'affetto. L'affidamento vuole l'esperienza più grande di un'altra donna; il suo "di più" oggettivato e praticabile. La scolara che vuole sapere che cosa si può fare nel mondo, mostra questa tensione e su di essa organizza la sua idea di futuro. L'affidamento presuppone un desiderio di esistenza e di protagonismo sociale. Le bambine ambiscono al riconoscimento di sé nel mondo nel quale vogliono esprimere il loro valore. E il loro valore lo esprimono già fin da piccole. Anche se il loro valore non viene ad esse riconosciuto. Le bambine infatti generano facilmente delle forme di relazioni strutturate sulla competenza alla vita sodale: l'ordine, l'accuratezza nelle cose e nel corpo, ]'affettuosità, la capacità di rispettare attivamente le regole del gruppo (più che conformarvisi passivamente), il disinteresse per la lotta, l'interesse più per il gioco centrato sulla collaborazione che per quello organizzato intorno agli antagonismi di squadra, ecc .. , Come si vede, questi sono comportamenti sociali desiderabili. Sono già ben direzionati e meritano un'immediata e positiva valorizzazione. Generalmente però essi vengono messi in secondo piano dall'insegnante che preferenzialmente valorizza il modo maschile di stare nel mondo. 153

Nella bambina che non riceve la giusta attenzione possono subentrare delle trasformazioni involutive di comportamento, come quando, per esempio, il bisogno naturale di ordine diventa un sintomo coatto di relazione con le cose, come succede nella nevrosi ossessiva.

Il sessismo a scuola e la pseudosoluzione emancipatoria La pratica del sessismo a scuola rende l'affidamento pedagogico urgente· e necessario. Ricerche, anche recentissime, mettono in luce i partico• lari privilegi di cui godono i maschi nella classe scolastica. Pur abitando lo stesso spazio e pur frequentando le stesse persone, maschi e femmine vivono in realtà in due habitat diversissimi. Il primo è caratterizzato dalla ricchezza degli stimoli semiotici e comportamentali. Il secondo dalla deprivazione. Non c'è da stupirsi. Il primo e fondamentale fattore di discriminazione fra i sessi è il linguaggio. E la struttura del linguaggio corrente è violenta. È violenta, perché occulta il femminile e direziona la persona verso l'uomo. Basti solo pensare ai morfemi desinenziali o-i. In assenza di variabili intervenienti, essi sembrano assunti dal cervello come stimoli incondizionati di comportamento, che costringono la percezione verso il maschile, già all'interno delle relazioni elementari di orientamento motorio e di movimenti oculari. In questo modo si pone una reazione circolare fra linguaggio e comportamento che annienta la bambina. Il linguaggio è probabilmente l'elemento generatore di sessismo nella scuola. Le forme del sessismo a scuola rilevate dalla ricerca di Myra e David Sadker, due ricercatori dell'American University di Washington, dimostrano che il sessismo viene generato iridipendentemente dalla volontà delle insegnanti, essendo molte di esse impegnate nella battaglia per l'emancipazione della donna. Anche nelle loro classi, la bambina 154

e la ragazza sono delle perdenti senza nome, né relazione propria. Myra e David Sadker hanno cosi smentito un'ipotesi comune a queste insegnanti, secondo le quali maschi e femmine avrebbero partecipato e sarebbero stati coinvolti nella scuola in misura uguale. Nelle comunicazioni orali, i bambini parlavano più delle compagne, secondo un rapporto di tre a uno. Ma anche la qualità delle relazioni subiva una differenziazione negativa verso la scolara. I maschi erano oggetto di maggior attenzione, ricevevano più spesso le lodi dell'insegnante, avevano una probabilità almeno doppia delle femmine di avere conversazioni prolungate con lei. Inoltre ai maschi venivano più spesso fornite istruzioni dettagliate per fare poi le cose da sé, mentre alle bambine in genere le insegnanti finivano per fargliele. Infine le bambine più dei compagni stavano all'interno di quelle comunicazioni monche, in cui manca una corretta e costante informazione di ritorno. Allora se il sessismo è generato indipendentemente dalla volontà dell'insegnante, il sessismo sta in un oggetto esterno che modella l'insegnante stessa, trascinandola addirittura fuori dalle sue intenzioni. Questo oggetto è il linguaggio, con i suoi segni, con il suo movimento sintattico, e con i suoi significati strutturati dal bisogno maschile. Il linguaggio come semio che mantiene in attivazione costante i sistemi dell'uomo di autorappresentazione e di rappresentazione del mondo. Allora se il linguaggio' modella l'insegnante a scapito del suo sesso, la risoluzione del problema non consiste nell'apprendere sic et simpliciter quel linguaggio. L'emancipazione è di per sé una pratica fallimentare, una "inutile tensione". A meno che fra il possesso di quel linguaggio e il suo uso non intervenga un processo di distacco, che consenta di guardare a quel linguaggio come a un oggetto, su cui si può parlare ed esprimere dei giudizi. Ma questo può 155

succedere solo in una posizione cli profonda autenticità con la propria origine. Non credo sia possibile arrivare qui senza imboccare in un modo o nell'altro il percorso dell'affidamento. Il problema cli uscire dal linguaggio dato e quindi dal sessismo, è risolvibile ammettendo che il linguaggio della donna già esiste in nuce e che entra in un processo cli attivazione e cli incremento nel momento in cui si autopercepisce come elemento significante. Ma l'autopercezione di sé come elemento significante non è data da un rapporto solipsistico con se stesso, ma dal contatto con un sistema fuori di sé in grado di avvertirlo. Di sentirlo in sé vitale. Questo sistema è il linguaggio dell'altra donna. O meglio il linguaggio un poco più grande, un poco più sicuro, un poco più fatto dell'altra donna: la madre simbolica e vivissima. Rapporto fra donne dunque; intenso rapporto fra le parole delle donne che vanno verso di sé. Si forma in questo modo l'habitat per la crescita reale deII'alunna.

La rimozione originaria

Parlando una lingua "straniera" (A. Cavarero), la donna perde potenza; perché dice di sé le cose dell'altro, delle motivazioni relazionali proprie dell'altro. Quella lingua inautentica il suo corpo e indebolisce la sua tensione a significare sé e il mondo nelle forme della sua autenticità. Lo sbocco ultimo della lingua "straniera" assunta come lingua originale, sembra essere allora una grave forma di destabilizzazione regressiva di sé e di impotenza politica. Non ci può essere infatti potenza politica senza potenza semiotica autentica. Perciò la pura e semplice emancipazione è una strada che non va imboccata in partenza. Ora si pone il problema di capire che cosa impedisce all'emancipata di accorgersi della sua estraniazione dal 156

linguaggio deli'altro, che pure con tanta fatica ha imparato. Contemporaneamente bisogna anche capire che cosa ostacola la percezione dell'esistenza di un proprio linguaggio, sia pure in tracce; e che cosa fa da impedimento a una pratica di rapporti tra donne che questo linguaggio originale sostengono e incrementano. Queste cose si capiscono appoggiandoci a un'idea sulla formazione dell'identità di gene'.'e. Un modello di formazione del senso (e del non senso) di sé della bambina, potrebbe essere generato da questi avvenimenti. La bambina è orientata geneticamente ad attendersi dalla madre il seno e il significato. Il latte .e la parola, che a lei servono per il suo divenire intimo e collettivo. La bambina, ben presto, avverte una contraddizione: sua madre possiede infatti il latte della carne, ma non il latte della parola. L'aspettativa del seno significante e autorevole subisce una perturbazione. La tensione decade, essendo secca la fonte delle informazioni primarie. La bambina guarda alla madre con disappunto. L'amore e la gratitudine si tramµtano in ambivalenza: l'amore-odio di Sigmund Freud. La bambina, che senza parola non può vivere, perché la specie umana senza la parola non può vivere, vuole allora la parola del padre. E si sposta verso di lui, allontanandosi dalla madre. Lei rimuove la madre, come figura generatrice di senso. E quindi di gioia creativa. Della madre accoglie solamente le relazioni assistenziali. Ma questa madre è una creatur~ monca che addolora e sgomenta. La bambina si sente profondamente frustrata per il fatto di non ricevere dalla madre un'immagine di sé e del mondo, un messaggio di potenza semiotica da conservare e fare crescere. Da custodire e moltiplicare. Apprende che la madre non possiede fa parola, allora rimuove la madre come linguaggio e d'ora in poi si farà dire dal solo padre la verità sul mondo. 157

In questo modo il senso di sé viene fortemente turbato. Generalizza la rimozione dalla madre alla sua simile, a se stessa. Lei stessa si chiude alla· speranza di poter dire una parola nel mondo. E prova disappunto per se stessa, come lo prova per le sue simili. E se a lei capita di esperire il mondo in modo originale, stando nel suo, resiste a questa esperienza, non la vuole dire, non la sa dire secondo il suo modo. Allo stesso modo resiste a un richiamo autentico di un'altra donna. Il mantenimento della rimozione della madre nella parola la obbliga a continui controinvestimenti che fiaccano le sue energie. Questo indebolisce la bambina insieme all'uso della lingua inautentica. Questa rimozione originaria può avere due •esiti. O il ritorno del rimosso. O il trionfo della rimozione. Sappiamo dalla psicoanalisi che il fenomeno della rimozione non è una dinamica psichica che viene stabilita una volta per tutte. Se è vero che la sua natura inconscia la rende resistente all'autosvelamento, è anche vero che nello stesso tempo la fa fragile e disponibile a ritornare alla coscienza, almeno in determinate situazioni: personali o sociali. O addirittura storiche. Forse ora ci troviamo in seno a un momento storico favorevole al ritorno su vasta scala del rimosso originario. Infatti la ricerca dell'altra donna nella parola, o che è lo stesso, il sentimento della necessità di un'organizzazione del discorso che includa l'esserci dell'esistente donna, sono gli esiti già ben delineati di contingenze storico-sociali, ancora da esaminare a fondo, ma oramai, e definitivamente, già avviate. Basti solo pensare alla crisi dei modelli di pensiero e di verità che hanno costituito l'ossatura stessa delle istituzioni del mondo occidentale. Quando il rimosso ritorna, la potenza della speranza riemerge. E con essa il dolore e il senso di solitudine, ma anche l'avventura e l'ardore per un possibile vero. Ritorna la voglia della madre, mentre si precisa il senso di sé. Ritornano le altre donne e il desiderio profondissimo della loro verità. Il tessuto sociale dato perde di attrattiva, per158

ché l'esistenza stessa se ne distacca per muoversi verso cammini suoi. E i significanti del padre vengono restituiti al padre. La seduzione sono le altre donne che rientrano in sé. La politica diventa il luogo dei rapporti veri tra donne e del cambiamento sociale voluto insieme. (Ho provato e qualche volta provo ancora il dolore cocente del lutto per la perdita dei significati, di cui prima vivevo. "La cognizione del dolore" è maturata all'interno di un senso di solitudine asprissima. Qualche volta invidiavo le donne del si dice, del si pensa e del si fa. In questo modo però è avvenuto il distacco; e con il distacco il senso vergine di un'avventura possibile di verità. Sono venute anche le altre donne e poi è giunta la madre simbolica ... ). La rimozione originaria può avere però un altro esito. Potremmo chiamarlo il trionfo della rimozione ed identificarlo con la politica dell'emancipazione, cioè dell'ideale di une vita femminile che si impossessa coh perfetta padronanza del linguaggio dell'uomo. Ammesso che questa perfetta padronanza possa verificarsi, se ne deduce che questo percorso può provocare un'ulteriore scollatura fra il sé e la parola, fra le cose e ciò che di esse si può dire, fra il corpo e il mondo. Ne può venire depressione, scontentezza, oppure rigidità esistenziale da iperdifesa, o efficientismo come mascheramento del lutto di sé. La pura e semplice emancipazione determina anche un più profondo senso di separatezza dalle altre donne. La psicoanalisi di donne fortemente emancipate mette in luce proprio questa situazione. Il più delle volte, però, si ha una formazione di compromesso tra queste due dinamiche: il ritorno del rimosso e il trionfo della rimozione. Core, cioè, che sta con Demetra e Core che sta con Ade ...

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Il mito di Core

Forse questo è il mito del rimosso originario femminile che viene e va. Esso sembra suggerirci che non può trionfare la rimozione primaria della madre. Il padre non può acconsentire a questo esito perché rovinerebbe lui stesso con il suo segno. Core, fanciulla divina, stava con altre fanciulle, le Oceanine, Artemide ed Atena, a raccogliere dei fiori su un prato nei pressi del lago di Pergusa. Ma, mentre nella serenità godeva della natura e di se stessa, dalle voragini della terra giunse il dio degli inferi che la rapì e la portò con sé. Gridò di terrore la bella Core, ma non potè essere udita, né soccorsa da nessuno. Non c'era nessuno che. potesse capire che cosa quelle grida potevano significare. Nemmeno la madre Demetra che la udì poteva capire dove e con chl era sparita la figlia. Sapeva solamente che Core era stata strappata a lei e piangeva cercandola e· soffriva acutamente. Ed era irata. Venne allora la sterilità sulla terra. E questo fu il segno della vendetta di Demetra per la figlia misteriosamente scomparsa. Nemmeno gli dei potevano sentirsi tali, perché gli uomini nulla avevano ·da sacrificare loro. Zeus allora intervenne presso Ade, dio degli inferi, e acconsenti a liberare almeno parzialmente il desiderio di Core per sua madre. Così la fanciulla poteva restare con la madre dall'inizio della primavera alla fine dell'estate. Per il resto dell'anno doveva far ritorno da Ade e la terra si oscurava e ripiombava nell'aridità. Il mito, come pochi, mette in luce la relazione fondamentale della madre con là figlia, diade essenziale generatrice di vita, e il dolore per la perdita di questo rapporto vitale la cui assenza agisce talmente in profondità nel mondo intero da sgretolarne le strutture portanti e da offuscarne lo splendore. Infatti ne viene aridità e miseria. Core è stata inghiottita dal regno di Ade, perché questa era la volontà di Zeus, il padre del cielo. Il padre della

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parola. Infatti la parola viene dal capo che è una zona alta come il cielo. Zeus è il principio organizzatore della parola dell'uomo. Ma questa parola agisce come una tomba che inghiotte e oscura l'altro da sé. Questo aspetto del linguaggio che non è capace di sottolineare né di esaltare la differenza, è espresso da Ade. · Core cade, inciampando nell'inconscia spontaneità. E il linguaggio ne approfitta e la inghiotte in sé. Né vale che Core pianga e si agiti, quando si accorge di sparire fra le ombre della notte. A lei non è consentito di ritornare dalla madre, prima che gli uomini abbiano conosciuto gli effetti funesti del loro sistema di organizzazione del mondo, la loro struttura di parola. Anche allora, a Core sarà concesso di stare con la madre solo per un po'. Un po' con la madre e un po' imprigionata nelle forme delle trame del linguaggio dell'altro. Il mito suggerisce che a un certo punto del farsi del mondo vongono date le condizioni perché il rimosso riemerga; ma questo non significa la stabilizzazione di questo ritorno. Se il linguaggio dell'uomo non può acconsentire a un seppellimento perpetuo della donna in se stesso, non può neanche consentire a una sua liberazione completa. Ma non è alla lingua straniera che compete il compito di svelare un'autenticità femminile da essa stessa oscurata. Questo compito compete alla capacità di Core e di Demetra di parlarsi verament~ quando sono insieme. Ma il mito di Core giace in un campo plurisemantico e va guardato anche sotto un altro aspetto. Esso è in grado di indicarci la natura non neutrale del linguaggio; quel linguaggio che inghiotte Core non è neutro, perché il neutro è capace di mettere in risalto ogni colore e rende evidente la differenza. La struttura del linguaggio occidentale è segnata da una voracità insensata, terribile. Perché è tale un sistema di significanti che si chiude in sé, dopo aver fatto sparire la donna nel regno degli Inferi, ossia in quella zona oscura dell'esistente che non dice. Che non si dice ... 161

Il modello Vorrei ora esplorare la mia ipotesi di lavoro. L'ipotesi da cui parto è la seguente: la bambina è geneticamente programmata ad apprendere dalla madr~ i comportamenti specifici di adattamento dinamico della specie di appartenenza. Presso la specie umana, l'habitat specifico è costituito dalle forme del linguaggio e dalle funzioni di significazione. Se la bambina va nel mondo con la mediazione della madre, ci si può allora aspettare che l'esistente ne venga potenziato, che il potere generativo del .linguaggio venga incrementato, come pure i legami sociali che nel linguaggio hanno i loro strumenti. Se la bambina entra nel mondo priva della mediazione della madre, succede che questa deprivazione agisce mandando in perturbazione la funzione di significazione. Anche il bambino ha bisogno di stare nel mondo con la mediazione della madre, altrimenti risultano monchi il suo sapere e il suo saper fare. Applicando, con audacia e rigore, un modello etologico, si può parlare di sindrome da deficit informazionale determinata sia dal ristagno della funzione simbolica, sia di quella particolare forma di deprivazione di stimolo che va sotto il nome di cattivo allevamento. Questa riflessione sarà oggetto di un prossimo lavoro. Intanto si può dire che le reticenze e le depressioni femminili possono essere lette. alla luce di questi concetti. Nell'affermare queste cose, ho mantenuto costante la fonte primaria per l'attività di apprendimento e ho variato l'ambiente. Per il primo effetto la madre rimane l'elemento essenziale di mediazione fra le/i piccole/i ed il mondo, a prescindere che si tratti di specie animali o della specie umana. Il passaggio specie ·animale - specie umana si appoggia all'idea di necessità della conservazione di interazioni vitali evolutivam~nte economiche. L'apprendimento dall'essere più

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v1C1110 alla/al piccola/o risponde infatti ai requisiti della semplicità e della parsimoniosità. La variabile introdotta è l'habitat. Infatti l'habitat di una/un bambina/o non è lo stesso degli animali. Il primo è costituito essenzialmente da segni, il secondo soprattutto da cose: la terra, l'acqua, le montagne, le erbe ecc. La/il bambina/o risiede, per essenza, nel linguaggio. Qui l'adattamento consiste nella comprensione dei segni, della loro portata esplicativa circa le cose del mondo e della possibilità di gioia collettiva che sono in grado di provocare. Nei luoghi del linguaggio l'adattamento è altamente dinamico e a volte dirompente: spesso porta infatti a delle spaccature creative e a un appassionato lavoro di risignificazione dell'esistente. L'adattamento al mondo per le donne e per gli uomini è risiedere nel linguaggio, ognuno secondo la propria libera affermatività relazionale. La madre ad ogni modo deve esserne la mediatrice. Se ne deriva che un sapere privo di madre è strutturalmente incapace di potenziare l'esistenza. Il sapere non ha altri scopi. La ricerca etologica mostra la madre quale tramite fra la prole e il mondo. Chesler ha studiato l'influenza materna nell'apprendimento per osservazione dei gattini e ha visto che imparavano un compito sperimentale in pochissimo tempo, se potevano osservare la madre che lo svolgeva, non lo imparavano mai se non avevano il modello,. impiegavano tanto tempo ad apprendere se il modello non era la madre. Harlow, studiando le scimmiette rhesus, ha messo in luce il ruolo dell'ancoraggio alla propria madre. L'esserci della madre equivale all'esserci del coraggio, della curiosità, della tensione ad esplorare il mondo, della disponibilità ad apprendere. L'allontanamento della madre causa dei turbamenti emotivi profondi e durevoli e tali da intaccare anche la salute fisica. 163

Anche Hinde ha notato la necessità della madre quale elemento catalizzatore di apprendimento. Infine, tralasciando molti altri ricercatori, ricordo' Spitz e i suoi studi sulla depressione anaclitica da deprivazione materna. A questo punto vanno spese due parçle, verso chi si serve di questi studi per legittimare il proprio .particolarissimo bisogno della donna biberon. Il danno alle strutture relazionali della prole è infatti tanto più grande, quanto più la donna si allontana da sé quale essere pensante dotato di potenza semiotica e relazionale autonoma. Ragionando sulle mie premesse, convalidate dalla ricerca, dico che questa è la àeprivazione che sfalda o altera le strutture cognitive _della/ del piccola/ o. Da qui la proposta politica che ne viene è esattamente opposta a quella della retorica del materno muto e casalingo, come è opposta a quella della neutralità del linguaggio, quale luogo a cui la donna :finalmente può, anzi deve ·accedere. Il problema è un altro ed è legato all'autopercezione della differenza sessuale. Siccome un'autopercezione non è un atto solipsistico, ma relazionale, il luogo delle relazioni in cui una donna può avvertirsi come una donna, è insieme esterno e interno. Per cui la verità di sé viene toccata, ancorandoci contemporaneamente e alle cose della propria interiorità e alla necessità del divenire collettivo delle donne in relazione tra loro. Bisogna cioè saper stare all'interno di quella "trama di riferimenti significativi, cioè sessuati femminili, secondo la doppia dimensione dell'orizzontalità: essere insieme, solidali, accomunate, e della verticalità: precedenza, discendenza, autorizzazione simbolica" (Luisa Muraro). L'accesso qui dentro può segnare allora il nostro primo abitare e alludere al rigoglio delle nostre energie. E al farsi di un nostro potere ... La necessità del modello poggia nel presimbolico, nel biologico. Pullian e Dunford, studiando l'apprendimento che poggia sulla osservazione, postulano l'esistenza di un substrato genetico, comune alle specie più svariate, che

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giiida alla ricerca e all'osservazione dell'esistente che può insegnare. Nel codice genetico allora potrebbe essere codificato un criterio che permette agli organismi di riconoscere altri organismi più esperti. "Imita quelli più vecchi di te"; questo criterio, dicono Pullian e Dunford, potrebbe servire da regola generale. Assieme a questo altro: "Imita solo quelli dotati di istruzioni genetiche simili, preferibilmente identiche". Ragionando ne viene che non esiste l'esistente a sé senza la mediazione di un'/un altra/o esistente. O che è lo stesso, l'esistente realizza il suo pot~nziale relazionale autonomo solo se si trova inserito in una trama di rapporti in cui sia presente e riconosciuta la dimensione della verticalità. Come ho cercato di far vedere, numerose sono le ricerche che individuano la madre quale modello primario per lo sviluppo dell~ strutture cognitive e comportamentali della prole. Ora bisogna estirpare uno stereotipo dal concetto di modello. Comunemente si pensa che l'apprendimento per osservazione sia antitetico alla sistematicità creativa. Ma nell'idea di modello non è implicita nessuna forma di adattamento conservativo. Quando per esempio la piccola può vedere i comportamenti della madre, viene esposta a degli stimoli che hanno una duplice funzione. Allora avviene che la madre insegna un comportamento specifico da attivare ogni volta che si presentano le stesse condizioni in cui è stato osservato al momento dell'apprendimento. Ma questo non succede quasi mai. Tutte le specie sarebbero estinte se la madre dovesse trasmettere informazioni statistiche di questo tipo. · In realtà nell'osservante viene anche attivato il sistema di gestione della variabilità. Cioè l'energia creativa. Questo secondo aspetto è fondamentale ed è quello che determina il grado di successo dell'esistente nel mondo. Esplorando queste idee, per cercare di capire il ruolo della madre umana, se ne deducono due cose.

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Visto che per la spede umana esistere significa saper stare nel linguaggio, alla madre spetta di insegnare alla figlia il suo linguaggio già sedimentato per via di un sistema rappresentativo e di esperienza collaudato, mettendo cosl la figlia in condizione di essere in contatto con la tradizione materna positiva. Contemporaneamente presenta dei segni attivatori della funzionalità creativa e della tensione semiogena in generale. Ci si può aspettare che la particolarità di questi segni venga immediatamente captata dal cervello in tensione dinamica realizzativa. Se si danno questè condizioni, la figlia diventa custode di un'esperienza nel momento stesso in cui diviene capace· di produrne una nuova. Infatti quando il lavoro di attivazione è fatto, la potenza semiotica diventa progressivamente libera e forte. Altrimenti ci si può aspettare un'involuzione regressiva dell'energia dinamica creativa. La natura dei segni attivatori può dipendere dall'azione sinergica di diversi fattori: i potenziali semantici, l'energia dei qualificatori verbali (come l'intensità, il tono, la velocità, lo strascicamento o la fermezza con cui viene condotto un discorso), le forme della struttura sintattica. Questo è un campo vergine, che è bene prendere in considerazione. Esplorando il concetto necessario di trasmissione culturale da parte di madre, ho messo in luce una relazione madre-figlia che in realtà quasi non esiste, ma che mi pare implicita nella natura stessa dell'esistente. Le ragioni del movimento femminista .

Noi sappiamo con dolore grande e grande amarezza di essere prigioniere del linguaggio altrui, come Core lo era di Ade. Sappiamo che la madre reale semioticamente potente non esiste. Lei non ci ha dato il latte della parola, né l'energia che spinge questo latte a sgorgare da sé. Parte delle donne ha risolto la frustrazione dell'origine e la disperazione che ne viene, andando dal padre. Dalla

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parola informata dai bisogni del padre. E sono rimaste intrappolate da un sistema di rappresentazione dell'esistente, in cui alle donne non è concesso di dire: Io sono. Stretta dalle maglie del "lei è" dell'uomo, questa donna è condànnata alla schiavitù. Forma di schiavitù sottilmente mortifera. Forma di schiavitù eticamente ripugnante. Ne viene lutto e pietas verso una ricchezza che non vuole (non può?) essere disseppellita. Ma anche sconforto e rabbia perché queste donne sono le prime ad imbavagliare la bocca di una donna che parla. Il movimento delle donne però ci ha mostrato che l'impotenza semiotica materna non genera necessariamente il deterioramento della funzione simbolica originaria con il conseguente spostamento negli ingranaggi della lingua straniera. Le donne in movimento sono una necessità in senso stretto. Sono il ciò che è, e non potrebbe non esserci, se deve essere data una situazione di parola femminile. Le donne che si parlano, in realtà, nel profondo, sembrano mosse dal bisogno che da sempre ha costretto le specie a cercare l'esperienza della madre. E con essa l'attivazione delle energie originarie, e quindi una reale libertà. Io penso che un simile movente inconscio, presemiotico, motivazione oscura della carne che spinge nella direzione della fecondità, abbia determinato il fenomeno del femminismo, più di qualsiasi forma di condizionamento socioculturale. Io credo che sia stata ,questa irrequietezza mai sopita dell'essere di sé a informare la coscienza della necessità di quei rapporti verticali tra donne, in cui si fa agire la disparità e si riconosce la figura della madre simbolica. Il quadro interpretativo che ho cercato di delineare spiega anche quella particolare ed intensa forma di coinvolgimento fra donne che si viene a creare all'interno delle loro libere relazioni. Non potrebbe essere altrimenti avendo il femminismo catalizzato energie molto vive. Energie biologiche. Energie del corpo che vuole divenire dentro il suo linguaggio. 167

La scuola dell'affidamento Nelle pagine precedenti ho cercato di mettere in luce la forza del presemiotico nella determinazione del fenomeno femminista in termini di relazioni orizzontali, relazioni verticali, generazione simbolica, madre simbolica, autorizzazione a dire, riconoscimento della disparit~, affidamento. Occorre che queste figure vivano in s~o al sociale. La scuola è una delle istituzioni. che dà spazio ai rapporti di affidamento perché qui, come scri~evo all'inizio, il riconoscimento della disparità viene naturalmente. Secondo me tale riconoscimento va visto più come fenomeno della spontaneità che come un effetto di costrizione istituzionale. Tutte noi, credo, portiamo dentro il ricordo di alcune insegnanti particolarmente amate. La scuola dell'affidamento allora, l'affidamento a scuola. Ho provato ad individuare alcuni elementi formali di questo rapporto, che è già una pratica politica delle donne, e me ne è venuta una struttura caratterizzata da alcuni punti nodali. Vorrei segnalarli. - L'insegnante è una donna. Lei sta in rapporto primario di parola e di verifica con altre donne nella coscienza comune della differenza sessuale. - L'insegnante sente la necessità del duale (Cavarero) e desidera affiancare la potenza semiotica femminile alla potenza semiotica dell'uomo. Infatti lei pensa che la difficoltà degli uomini a creare rapporti pacifici sia legata alla struttura stessa delle loro culture. che, invece di cercare le relazioni fra le differenze, cercano l'universale e perciò sono intrinsecamente "uno" e quindi autorespingentisi. L'uno che rigetta J'uno, insomma, perché uno e uno non fanno una relazione (L. Abate). · Le donne vogliono invece essere dalla Dualità originaria e generare del loro. - Perciò l'insegnante ~ontribuisce attivamente a promuovere e ad appoggiare ogni tentativo di semiotizzazione di sé e del mondo da parte delle alunne e nutre .continuamente verso di loro delle aspettative positive.

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Ragiona con loro in modo da formulare insieme un'idea del rapporto pedagogico che escluda ogni forma di maternage e di giustificazionismo del disimpegno, perché "indulgenza. •sentimentale, mancanza di rigore, compiacente incoerenza sono sintomi della tendenza della donna a non valutarsi, a non prendersi sul serio" (Adrienne Rich). - L'insegnante inoltre è presente nella sua funzione di mediatrice intellettuale e mette le alunne in condizione d'impadronirsi gradualmente di tutti quegli strumenti intellettuali (linguistici, storici, biologici, matematici, ecc.) che consentiranno loro di afferrare e giudicare il valore di. qualsiasi figura culturale circolante nella società. - La donna che insegna agisce per quanto possibile anche sul contesto, inventand9 nuovi strumenti di lavoro. Per esempio, testi di studio strutturati diversamente. Di solito succede che l'alunna venga a contatto con gli elementi del protagonismo maschile, con punti di vista che sono dell'uomo, con rappresentazioni delle cose del mondo che sono estranee alla sua esperienza. Rarissimamente la studentessa viene esposta agli sguardi della parola femminile. Allora l'insegnante deve metterla nella condizione di ricevere quel pensiero letterario, storico, scientifico femminile che già esiste. Con il suo lavoro e con la passione di altre insegnanti può realizzare dei testi, per esempio delle antologie,. dove dare spazio al lavoro delle madri simboliche. Le madri simboliche sono tanto più necessarie, quanto più ormai si pone da sé il forte sospetto che i cervelli femminili siano programmati per rispondere con naturalità e vigore, se e solo se, restano in contatto con le parole della differenza sessuale. - La donna di scuolii prova ripugnanza esistenziale ed etica per l'aut aut imposto da quella doppia separatezza a cui è costretta la sua simile che sta sola nel linguaggio dell'uomo. Essendo donna, non può infatti accettare che le donne siano separate da sé, quando vogliono entrare nelle istituzioni sociali, dove sono costrette ~d esprimere se stesse con 169

i codici dell'altro per ottenere pane e ricevere un poco di riconoscimento. Non può neanche accettare che le donne escano dai commerci sociali, per l'esigenza dell'autenticità con l'origine della loro esistenza sessuata. Relazione di autenticità che oltrepassa la sintassi del seno; ma che possiede in questa sintassi presemiotica, biomatema, un primo stadio di linguaggio spontaneo dell'originarietà femminile. Ma il passaggio ad altri stadi di linguaggio dotati di potere significante autonomo e formale che. spazzi via l'inautentico della doppia separatezza, si compie solo nell'ancoraggio a una dimensione collettiva in cui le donne si incontrano con le donne. _Nei luoghi di lavoro. Nelle istituzioni. Ovunque. - Infine la donna insegnante sa che sta educando. anche degli uomini futuri e non agisce mai come se gli studenti non ci fossero. Con il suo bisogno della potenza semiotica femminile, lei porta in classe un "di più": la ricchezza pura della differenza sessuale. Ora a conclusione di questo discorso, sintetizzando, si può dire che, se si danno nel rapporto pedagogico le condizioni di cui ho appena detto e altre che ora non riesco forse a vedere, se insegnanti e alunne rimangono insieme per un certo periodo, allora nella giovane donna che studia a poco a poco si farà più viva e più chiara la sua tendenza ad attualizzare le strutture e le forme di relazione che le sono proprie e nello stesso tempo in lei si svilupperà la potenza di semiotizzare :finalmente se stessa e il mondo. Da padrona. Nella potenza del nome e della sua relazione. E nell'energia che il nome e la relazione liberano. La studentessa va avviata verso questa via con consapevolezza attenta ed affettuosa. E va lasciata intatta, mentre matura la coscienza di sé nella percezione diretta dell'esistenza sessuata che si accorge di esserci.

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Appendice CRONACA DEI FATTI PRINCIPALI DI DIOTIMA

di Chiara Zamboni e Luisa Muraro

Diotima è una comunità filosofica di donne. Queste, alcune interne altre esterne alle istituzioni accademiche, sono unite dall'amore della filosofia e dalla fedeltà a se stesse.

Un inizio politico La storia di Diotima ha inizio a Verona da un gruppo chiamato Fontana .del ferro e nato per dare• seguito alle idee espresse in Più donne che uomini, il "Sottosopra verde" pubblicato nel gennaio r983 dalla Libreria delle donne di Milano. In ·questo testo si afferma, fra l'altro, che per avere esistenza libera le donne devono poter iscrivere nella realtà sociale i loro desideri dando ad essi il segno della differenza femminile, della loro origine s~ssuata femminile. Tra quelle che frequentavano Fontana del ferro, alcune si occupavano di filosofia per passione o per lavoro o le due cose insieme. Lo facevano come gli era stato insegnato, da pènsatori neutri, come se l'appartenenza al genere femminile fosse una particolarità insignificante. Ma lì ora che avevano cominciato a ragionare sulla libertà, si formò in loro il senso di uria ne"èessaria fedeltà a quello che è, più forte del contesto culturale e della filosofia ricevuta che imponevano di cancellare la diffei:enza di essere donne. Come avremmo obbedito a quella necessità cominciò a chiarirsi in seguito a un fatto, una conversazione tra Luisa di Fontana del ferro e Adriana, sua collega nell'Istituto di filosofia. Richiesta da quest'ultima di entrare insieme in un gruppo organizzato da un professore, Luisa rispose che, per guadagnarsi lo stipendio, lei era disposta ad oc~parsi di una filosofia morta ma non ad entrare nel cerchio dei pensieri omosessuali maschili per aiutarla a rinascere. Al che 175

Adriana la replicò: se questa è la tua posizione, facciamo un cerchio di pensieri omosessuali femminili ma vivaddio facciamo filosofia. Il fatto, riferito da Luisa a Fontana del ferro; fu interpretato come favorevole al costituirsi di un gi;uppo di ricerca filosofica femminile. Gli fu dato un nome provvisorio, FF (effeeffe). Era il dicembre r983. Nel gennaio r984 cominciarono le prime riunioni di FF dentro l'università, e insieme a queste i gesti necessari a dargli esistenza visibile: richiesta di un'aula, domanda di finanziamento al Ministero della Pubblica istruzione sui fondi di ricerca -gestiti dalle singole facoltà, inserimento della nostra ricerca nel progetto del futuro èipartirnento di filosofia. Non avevamo grandi esigenze finanziarie, data la natura della nostra ricerca, e di conseguenza la cifra richiesta fu modesta. Si trattava di una cifra "simbolica" in ogni senso del termine. Avanzare quelle richieste fu anche un atto filosofico. Ci presentavamo infatti agli amministratori e ai colleghi dell'università dando evidenza a quello che essi, per accoglierci alla pari, facevano mostra di non notare, mettevamo la differenza al posto della parità, noi di cui si pensa comunemente che in quel luogo siamo entrate grazie al principio di parità. T~e nostre richieste furono accolte senza obiezioni. La oresenza di una comunità filosofica femminile all'interno dell'università ha suscitato meraviglia, qualche reazione ironica e forse suscita altri sentimenti che ignoriamo. Ma non ha dato luogo ad un'aperta opposizione. Questo ci dà modo di andare avanti. Abbiamo infatti bisogno di tempo, di occasioni favorevoli e di verifiche per realizzare fino in fondo che dentro all'istituzione accademica ci troviamo non grazie a un diritto neutro ma in forza di un amore femminile del sapere. La storia di Diotima per una parte notevole è la storia di questa polemica, di natura filosofica e ·politica, fra l'autorizzazione simbolica che ci viene dal'appartenenza al genere femminile e l'autorità di origine maschile. 176

. Caratteristiche e scelte del gruppo hanno sempre obbe~ dito in primo · 1uogo alle esigenze di questa polemica dal cui esito dipende, in effetti; la fortuna del progetto di una filosofia segnata dalla differenza che segna la nostra umanità. Dalla nostra appartenenza al genere femminile dobbiamo, di conseguenza, trarre tutto il necessario, tutto il sufficiente per essere filosofe, liberando così la nostra mente dalla presa del pensiero maschile che l'ha occupata sebbene si tratti di un pensiero rispondente all'esperienza e agli interessi dell'altro sesso. Per cominciare, fu deciso che il gruppo, pur facendo dell'università la· sua sede principale, doveva restare aperto alle amanti della filosofia qualunque sia il loro mestiere, .accettate o respinte a discrezione nostra secondo i criteri del nostro progetto. · Con la prima riunione in università, eravamo una decina abbondante, si pose il problema di come procedere. Fu risolto velocemente. I primi sei mesi dovevano essere considerati di sperimentazione e in questa fase, secondo l'unica proposta avanzata e da tutte condivisa, conveniva produrre noi stesse i testi su cui lavorare, _senza passare attraverso il commento di testi altrui e senza fare riferimento a posizioni filosofiche già definite, ma avvalendoci piuttosto del sapere guadagnato dal movimento politico delle donne. Questa procedura caratterizzò la prima fase, durata fino all'autunno del 1984 e nota come la fase dei fogli volanti.

I fogli volanti Si chiamavano così i brevi testi prodotti dall'una o dall'altra del gruppo, riprodotti in più copie e distribuiti in vista della discussione·· collettiva. I temi trattati erano vari ma ruotavano tutti intorno al problema del linguaggio, del rapporto fra corpo e linguaggio, seguendo le tracce di ricerche già avviate dal movimento delle donne negli anni Settanta. Nel corso di questa produzione filosofica affiorarono due

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atteggiamenti opposti. Alcune pensavano che dalla varietà delle idee espresse la differenza femminile avrebbe preso a significarsi. Altre pensavano che ciò non fosse sufficiente e che in quella produzione, in quell'accostamento gratuito di idee diverse, mancava, per il significarsi della differenza, l'elemento della necessità. Per finire avrebbe prevalso questa seconda posizione, che era minoritaria ma aveva dalla sua il fatto che registrava un'insoddisfazione sentita da tutte. Ma nella fase dei fogli volanti il dissidio andò avanti senza risolversi, anche perché i suoi termini non erano ben chiari. Dominava piuttosto, e in maniera tutta sensibile, un contrasto di atteggiamenti mentali, da una parte accoglienza indiscriminata, dall'altra impazienza e asprezza. I mesi della sperimentazione furono difficili. La situazione era come vuota, eravamo circondate dal vuoto e noi stesse senza peso. Le parole dette, il più delle volte si presentavano nella forma di sensazioni intellettuali che si mescolavano e confondevano fra loro senza dar vita a un discorso che potesse imprimersi nella memoria. Qualche volta suonavano invece nette, ma soltanto perché echeggiavano idee già sentite da altre parti (fenomenologia, strutturalismo, psicanalisi...) e riportate, ll dentro. Nessuna faceva riferimento al pensiero espresso da un'altr:1 e nemmeno si faceva riferimento ai propri pensieri da una riunione all'altra. Ad ogni incontro era un ricominciare tutto da capo; nelle riunioni precedenti, infatti, non si era sedimentato nulla che fosse dotato di forza di gravità per noi. Però tornavamo a riunirci. Quel luogo ci attirava perché, se anche non sapevamo articolare il senso di ciò che ci aveva mosse a costituirlo, quel senso c'era, era proprio H e noi eravamo armate di pazienza e forza. Ci trovavamo disposte fisicamente in circolo. Ci guardavamo in viso, ascoltavamo le nostre parole. Non c'era consistenza filosofica; eravamo un gruppo di donne brave e coraggiose che volevano fare filosofia "da sole" perché la filosofia, finalmente, renda conto della differenza di essere donne piuttosto che uomini.

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Oltre alla regola di non fare riferimenti ad autorità esterne, avevamo un'altra regola negativa, non dare definizioni dei termini adoperati. O questi prendevano senso dal discorso o non prendevano alcun senso. Voleva dire che non potevamo ancorarci al già detto da altre parti se non per quello che ll dentro, al presente, riusciva a ripresentarsi significativamente, Quando quelle due regole furono enunciate e accettate, forse intendevamo dare via libera all'invenzione di pensiero. Di fatto esse servirono a qualcosa di meno grande ma di più importante, che fu di impedire gli echeggiamenti o, meglio, di percepirli subito per quello che erano. In questo modo moriva per noi, e in noi, il nostro ruolo sociale di ripetitrici di parole altrui. In questo modo ci iniziammo ad una filosofia femminile. Sia chiaro, dalla nostra comunità non è stata eliminata la tendenza a imitare o a ripetere; è però una tendenza che ora siamo in condizione di riconoscere e di governare. Nel giugno di quell'anno, r984, ci trasferimmo per due giorni in un albergo di San Zeno di montagna, sul lago di Garda. Fu l'incontro di fondazione, ll si decise che la fase di sperimentazione era terminata, che era terminata positivamente e che ormai non si poteva più tornare indietro. Non avevamo però quasi nient'altro di certo e definito. Dopo aver esaminato alcuni programmi, in sé buoni ma nessuno capace di prevalere sugli altri, la discussione si portò sul senso del nostro progetto, essere donne e pensare filosoficamente. Per Chiara si trattava di una combinazione da mettere alla prova, da verificare. In pratica, si poteva procedere attraversando la filosofia ricevuta per :fletterla alla significazione della differenza femminile, sfruttando eventualmente certi concetti, certi testi, certi autori. Luisa le oppose che questo procedimento, apparentemente ragionevole, sarebbe stato catastrofico perché esponeva a verifica .la significanza della differenza femminile e la consegnava ·cosi a una cultura che ha già decretato il suo destino negativo. Noi dovevamo considerare il nostro 179

essere donne e il. nostro amore della :filosofia non come una combinazione fattuale ma piuttosto come una tautologia o una necessità, e procedere di conseguenza, anche se poteva essere disperante rimanere al suo interno con niente in I)lano, niente in vista e scontrare da ogni parte "muri bianchi altissimi", secondo l'immagine usata da Wanda. Fu il dibattito fra queste due posizioni che ci portò a concludere che la fase sperimentale doveva considerarsi terminata. Nella prima riunione dopo l'estate, il gruppo abbandonò il suo nome provvisorio FF e si chiamò Diotima - si pronunçia Diòtima o Diotlma; noi usiamo la prima forma. Come noto, Diotima di Mantinea è nominata da Socrate nel Simposio di Platone, come colei che gli avrebbe insegnato la maieutica filosofia: "Dirò il discorso su Amore che ho ascoltato una volta da una donna. di Mantinea, di nome Diotima, la quale era sapiente su questa questione e su molte altre. Facendo fare dei sacrifici ritardò la peste di dieci anni; e fu proprio lei che mi istruì nelle cose d'amore ... Mi proverò dunque a riferirvi così da me solo, per quanto mi riuscirà, il discorso che mi tenne lei. Naturalmente, o Agatone - uno dei commensali di Socrate - è bene discutere come tu hai fatto, spiegando per prima cosa chi è Amore, la sua essenza e natura, per passare poi alle sue opere. Ma a me pare più facile parlarne nell'ordine seguito allora dalla straniera di Mantinea, interrogandomi. Perché anch'io le dicevo quasi le stesse cose che ora Agatone dice a me. Lei allora ..." ecc. (20I, d-e). Tradizionalmente considerata un personaggio immaginario, dal I960 la storiografia filosofica è incline a pensare che Diotima sia realmente esistita. In ottobre Elvia presentò al gruppo un suo progetto di ricerca sulla potenza simbolica della differenza sessuale. Da anni Elvia studia i processi di traduzione del biologico in simbolico e, fra tutte noi, è la pensatrice meno segnata dalla " tentazione del neutro". Nel frattempo, fra gli. ultimi fogli volanti, era ·arrivato uno scritto di Adriana sul fondamento di un pensiero della 180

differenza sessuale. Luisa suggerl alle altre di confrontarsi con quest'ultimo testo, rinunciando per il momento sia al progetto di Elvia sia a presentare altri testi individuali. Il suggerimento di Luisa fu accolto ed ebbe inizio cosl una nuova fase.

I foglietti di Adriana La fase dei foglietti di Adriana va dal novembre 1984 al settembre dell'anno seguente. In questa fase si è lavorato con riunioni collettive in cui ciascuna era chiamata ad esporre i suoi commenti, critiche e pensieri suscitati dal testo di Adriana, e con Adriana che ripresentava di volta in volta una nuova versione del suo testo (la cui versione finale compare nella seconda parte di questo libro). Ci aiutò, in questa svolta, il fatto che intanto il movimen7 to politico delle donne aveva cominciato a ragionare sulla disparità e a farne una pratica per la significazione della differenza sessuale. Ci consentì di confrontarci con l'autorità di Luisa e con il primato filosofico di Adriana senza esserne schiacciate né diminuite ma, al contrario, con il pensiero di un possibile guadagno comune e singolare. Un guadagno fu subito avvertito. Il lavoro di gruppo prese un ritmo preciso e i foglietti di Adriana si facevano via via più rispondenti alla ricerca comune. Rispondenza, va detto, mai pacifica né perfetta, ma ora i contrasti avevano degli effetti' che non andavano perduti. Producevano infatti dei cambiamenti coerenti nei foglietti da una versione all'altra o nelle prese di posizione delle singole. Abbiamo cosi sperimentato (e scoperto) la fecondità simbolica della mediazione sessuata femminile. Senza il gesto di Luisa il gruppo non si sarebbe mai impegnato a seguire il discorso di una, perché ognuna di noi viveva in universi paralleli accettanti ma _non parlanti fra loro. Quel gesto rompeva i parallelismi introducendo lo squilibrio dì una

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preferenza la cui forza era molto più evidente delle ragioni che la dettavano. Il gruppo ne fu sorpreso, tanto più che lo stile di pensiero e scrittura di Adriana era in evidente contrasto con lo stile a noi più familiare, da noi considerato più vicino alla materialità del corpo sessuato. Va detto, però, che i testi di Adriana non furono indicati come un modello da seguire ma come qualcosa con cui ciascuna doveva confrontarsi. Non fu sempre facile. L'indicazione era vitale ma produsse anche effetti laterali di autocensura. A momenti sembrava che fosse proibito contraddire a fondo Adriana. O forse l'interna difficoltà di confrontarsi dava luogo a quella sensazione. È certo, in ogni caso, che in quel contesto un pensiero difforme da quello di Adriana, se voleva esprimersi; aveva il diritto di farlo ma nient'altro, né aiuto né incoraggiamento. Nel frattempo una parte di Diotima lavorava sul tema della differenza sessuale per una enciclopedia filosofica in preparazione presso le P.U.F. Il lavoro, che forma la parte iniziale di questo libro, ci era stato affidato da Luce Irigaray e fu coordinato da Betty, con uno stile tutto diverso da quello seguito nelle riunioni plenarie. Ognuna, infatti, ha portato in quel lavoro i suoi interessi e le me competenze, seguendo tuttavia un'impostazione comune c.he era: a) non esiste né può esistere una conoscenza oggettiva sulla differenza sessuale slegata dalla verità soggettiva, poiché la differenza sessuale è una determinazione originaria del soggetto conoscente; b) assumere il pensiero filosofico di Luce Irigaray come riferimento autorevole.

I viaggi Se dovessimo dare un nome alla fase presente, la sua caratteristica dominante sembra essere il moltiplicarsi di rapporti con altre donne e gruppi. Alcune rimpiangono per182

fino il tempo in cui eravamo sconosciute e dedite interamente alla ricerca. In realtà non siamo mai state senza rapporti. Alla prima, piccolissima notizia della nostra esistenza, un trafiletto su "Il Manifesto", subito sono cominciati i contatti e gli scambi, favoriti dal movimento politico delle donne. Il trafiletto comparve dopo il nostro viaggio a Heidelberg, l'u-13 ottobre 1984, per partecipare al terzo simposio della Internationale Assoziation von Philosophinnen (Associazione internazionale delle filosofe). I nostri rapporti privilegiati, al presente, sono con le città di Verona e Napoli. A Verona il Filo d'Arianna, un'associazione culturale di donne, ci ha invitate a tenere dei corsi, uno dei quali dedicàto all'Etica della differenza sessuale di Luce Irigaray. Tenere questi corsi, per quelle che vi si sono impegnate, è stato un incentivo ad approfondire la ricerca e ha dato la possibilità di verificare la sua rispondenza con l'esperienz9. umana femminile. Le filosofe della cooperativa Transizione di Napoli soho da qualche anno le nostre compagne di viaggio con le quali ogni tanto ci diamo convegno per confrontare la strada fatta. Al primo convegno, a porte chiuse, 1'8 giugno 198 5, è seguito un incontro allargato il 6 dicembre dello stesso anno e infine un convegno cui ha partecipato Irigaray il 13-14 giugno 1986. Queste riunioni si sono sempre tenute a Napoli che, fra le città italiane, ci sembra la più accogliente verso chi ama la filosofia. · Fra i nostri rapporti privilegiati dobbiamo mettere anche quello con Luce Irigaray la cui opera costituisce per noi un riferimento costante e un terreno d'incontro già acquisito per gli scambi che abbiamo con altre donne. Ci sono poi i legami con il centro Virginia Woolf di Roma, con gruppi di Bologna, Venezia, Firenze, Modena ... , con donne politiche, teologhe, poetesse, insegnanti. L'amore della filosofia è straordinariamente presente fra le donne e in una forma che potremmo chiamare antica, non separata 183

cioè dalla politica, dalla religione, dalla poesia, dalla vita quotidiana. La scoperta di questo amore femminile per la filosofia ci ha convinte a far conoscere qualche risultato della nostra ricerca. La decisione di pubblicare questo libro fu presa a Torri del Benaco, sul lago di Garda, durante un secondo convegno di verifica, dopo quello di fondazione. A Torri abbiamo pesato "con bilancia d'orefice" il risultato del lavoro comune, essere arrivate a sapere che la differenza sessuale è originaria e intrascendibile. In filosofia, · va detto, il lavoro di anni può produrre in tutto un'idea significabile in una frase - la vocazione filosofica si mi11ura anche da questa capacità di lavorare molto per un risultato apparentemente esig1:10. A Torri fu deciso inoltre çhe la fase dei foglietti di Adriana era conclusa. A partire dall'impostazione comune ciascuna doveva adesso andare avanti esponendo al confronto le sue inclinazioni, il suo stile, i suoi interessi. Come adesso stiamo facendo. Non siamo più un gruppo ma una comunità di donne filosofe. Non lo eravamo forse fin dall'inizio? Sl, certamente. Ma in filosofia la strada non è allontanamento dagli inizi bensl approfondimento del loro senso. Il sapere di questa fedeltà a quello che era fin dagli inizi, è anche la cosa che noi offriamo al movimento politico delle donne dal quale abbiamo preso la forza per iniziare.

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LE AUTRICI

ADRIANA CAVARERO ha condiviso con felicità e convinzione la pratica della ricerca con le compagne di Diotima fino al 1990, quando è stata costretta a lasciare il gruppo per seri motivi di dissenso, sia politici che teoretici. Ha tuttavia continuato ad approfondire il tema della differenza sessuale prendendo contatti e confrontandosi con altre esponenti del femminismo italiano e internazionale. Ispirandosi al pensiero di Hannah Arendt, lavora su un concetto di soggettività incarnata, unica e relazionale, che coniuga le istanze di una politica radicale col pensiero della differenza. Insegna filosofia politica all'Università di Verona e tiene corsi regolari alla New York University. Fra i suoi libri: Nonostante Platone (Editori Riuniti 1991); Corpo in figure (Feltrinelli 1995); Tu che mi guardi: tu che mi racconti (Feltrinelli 1997); con Franco Restaino, Le filosofie femministe (Paravia - Bruno Mondadori 2000); A più voci (Feltrinelli 2002). CRISTIANA FISCHER è poetessa; ha fatto parte di Diotima nei primi anni di vita, per aiutare Luisa Muraro. Allora viveva a Milano, poi ha scelto di vivere in un luogo bello e solitario, dove legge, riceve visite, naviga a volontà, contempla la Maiella e - quando cadono le foglie - può vedere una striscia di mare. ELVIA FRA.Neo. Sono stati anni di grande passione pedagogica, di passione magistrale. Nel mio lavoro di maestra ho condiviso con le bambine e i bambini alcune opere classiche, canto dopo canto: Iliade, Odissea, Inferno, Paradiso, i miti di Ovidio più belli. Ho ragionato con loro di filosofia, li ho avviati alla poesia. È stata, e continua a essere, un'esperienza di gioia impegnativa, di faticosa felicità. Ora sto terminando un libro in cui ho steso come sfondo vivissimo della mia esperienza nel mondo .una Weltanschauung su cui spesso mi fermo a riflettere e che a me deriva dallo studio dei lavori filosofici inediti di Lorenzo Abate, di cui sono ... affamatissima! Da Diotima ho imparato che posso autorizzarmi.a prende~e la parola che desidero dire e la responsabilità che ne

ottende. Non è poco e ne sono grata. Nel pensiero delle donne cerco ncora, e trovo, questa autorizzazione, cerco ancora, e trovo, la mia so:iiglianza e la ~ia differenza, e spesso è bello ... ;!ANNINA LONGOBARDI insegna filosofia e pedagogia in un liceo di Veona; dal momento della nascita di Diotima ha partecipato al lavoro di .uesta comunità, continuando a interessarsi alla riflessione sulle relaioni e sulle pratiche all'interno dei contesti in cui vive e lavora: familia, scuola, città. Una sua riflessione sulla relazione tra generazioni è in .a.Vv., La rivoluzione inattesa. Donne al mercato del lavoro (Pratiche 997); alcune riflessioni sulla scuola sono presenti nei libri di Diotima ,a sapienza dipartire da sé (Liguori 1996) e Il pro/umo della maestra (Liuori 1999). Ha partecipato con amiche e amici alla creazione del moimento dell'autoriforma della scuola. Con altre ha dato vita a un' assoiazione, Ishtar, in cui si incontrano donne italiane e donne provenienda altre parti del mondo. 'ERONICA MARIAUX, nata a Stuttgart in Germania. Dal 1982 insegna la 1a lingua materna all'Università di Verona. Coautrice del libro Al(ini:o di tutto la lingua materna (a cura di Eva Maria-Thiine, Rosenberg & ellier 1998) lavora con Diotima, di cui ha tradotto, tra l'altro, quèsto !sto in tedesco, sin dai primi incontri nel 1983. UISA MURARO, nata nel 1940, è la più vecchia di Diotima, che ha aiu~Lto a formarsi, insieme a Chiara Zamboni, tra il 1984 e il 1985, quando on si chiamava ancora Diotima ma Fontana del ferro e Effe effe (filo>fia femminile). Ha scritto molto, da sola o con altre, sui temi del femtinismo; ha tenuto dietro ai gruppi di donne più che al mondo accaemico. Dal 1985 legge e commenta le scrittrici mistiche, specialmente L1elle dei secc. XIII-XIV, alle quali sono dedicati i suoi ultimi libri: Lin"Ja materna, scienza divina (1995), Le amiche di Dio (2001) e Il Dio del, donne (2003 ). NNA MARIA PIUSSI. Laureata in Filosofia, sono oggi ordinaria di Peda)gia generale all'Università di Verona. Sono stata tra le inauguratrici illa pedagogia della differenza sessuale e tra chi in seguito ha promos> il movimento di autoriforma della scuola. Ho curato per Rosenberg

z: Sellier

Educare nella differenza (1989) e, con Letizia Bianchi, Sapere

i sapere (1995), e ho collaborato con numerosi saggi, riviste e volumi ollettanei, tra cui, recente, Aa.Vv., Con voce diversa (Guerini, 2001). >al far Diotima ho imparato a far rivivere il mio desiderio di politica e i ricerca, e a conciliarmi con la pedagogia, mettendo al centro l'inte!sse per le differenze. Ho così coordinato una ricerca nazionale sull'eucazione ebraica in Italia (v. E li insegnerai ai tuot'/igli, Giuntina 1997,

Presto apprendere, tardi dimenticare. I}educazione ebraica nell'Italia mtemporanea, Franco Angeli 1998). Su pratiche di libertà attorno alla :uola e l'educazione ho uno scambio intenso con altre, italiane e straiere: in Spagna, ad esempio, ho partecipato di recente alla creazione ella rete nazionale «Sof'ìas, relaciones de autoridad en la educaci6n», na nuova invenzione politica. NITA SANVITTO. L'invito alla partecipazione a Diotima è giunto in un tomento della mia vita di ridefinizione e di adattamento, dopo le deluoni nel campo delle scelte politiche, a un vivere fatto di lavoro e prettmente privato. Ha offerto uno.spazio in cui è stato possibile riconciarmi coll'esperienza passata dell'impegno politico e con la ripresa di n vivere più compiuto. ·na felice coincidenza di incroci di vite femminili? No, è stato ed è mol, di più dell'essere accanto alle altre: nel parlarci, nel confrontarci e elio scontro abbiamo mantenuto trasparenza e unicità. C'è stato anche 1 stupore, di fronte al filosofare, per me che ho sempre gestito gli evensecondo la logica dell'azione e dell'empatia, dell'interpretazione delle nozioni più che dell'invenzione, di una modalità di pensiero, di un tccontarsi e di un riflettere su un piano concettuale ... [a quello che m'ha tolto il fiato, per dir meglio, inceppato spesso la pa,la, è stata la percezione netta, mai provata prima così nettamente, di ::>ter contare su donne, forse un po' ruvide, ma profondamente vere e fidabili per l'investiriiento personale nella politica delle donne. omune allora e ora è questo obiettivo; si è aggiunta poi la consapevozza, maturata dall'esperienza del lavoro assieme, che sia da evitare la appola della falsa uguaglianza fra donne che può spingerci a violare il :nso profondo dell'unicità delle singole. iotima è uno stimolo, un incanalamento e riorientamento delle risor:, è un aprirsi a interscambi e a verifiche; è il piacere di vivere il pro-

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cesso di nascita del pensiero femminile, è il terreno solido e vitale in cui si coniugano la gioia del concettualizzare, partendo dall'esperienza, dalla risata, dalle associazioni spontanee, con l'articolare ipotesi e percorsi politici nella quotidianità. WANDA TOMMASI parlava, nel primo libro di Diotima, della «tentazione

del neutro»: denunciare questa tentazione l'ha aiutata a dire addio alla fùosofia «neutra», a cui fino a quel momento si era conformata, e a radicarsi" consapevolmente nella differenza femminile. I suoi lavori più recenti sono volti a valorizzare il pensiero femminile contemporaneo, con particolare attenzione per le autrici in cui è presente un'apertura alla trascendenza (Simone Weil. Segni, idoli e simboli, Franco Angeli, Milano 1993); Simone Weil. Esperienza religiosa, esperienza femminile (Liguori 1997); Etty Hillesum. I.:intelligenza del cuore (Messaggero 2002), o a riattraversare criticamente la storia della filosofia alla luce della differenza sessuale (I filosofi e le donne, Tre lune 2001). È tuttora ricercatrice all'Università di Verona, dove insegna Storia della filosofia contemporanea. Vive a Verona, con la sua gatta Minù. BETTY ZAMARCHI ha lavorato, come cultrice della materia, presso il dipartimento di Filosofia dell'Università di Padova, poi Verona, nel decennio '72-82. Ha condiviso, nella comunità filosofia di Diotima, il desiderio di pensare filosoficamente nel concreto della relazione con altre e con il mondo. Le pubblicazioni che seguono rimandano il senso di questa ricerca: La di/ferenza: da scoprire e da produrre in Aa.Vv., Diotima. Il pensiero della di/ferenza sessuale (La Tartaruga 1987); Perché una

tradizione si affermi e Sapere e rapporti con il sapere. Insegnare a pensare nel lavoro filosofico in Aa.Vv., Educare nella differenza (Rosenberg & Sellier 1989); Donne e scuola: la di/ferenza nella trasmissione dez" saperi in Passaggio di con/t"ne, esperienze di trasmissione tra donne (Dick Peerson S.P.A. 1990); Sete d'armonia in Aa.Vv., Simone Weil, la "provocazione della verità (Liguori 1990); È un procedere arduo in Aa.Vv., Diotima. Il cielo stellato dentro di noi (La Tartaruga 1992); Insegnare a pensare per educare alla libertà in Educazione al femminile: dalla parità alla differen-

za, a cura di Emy Beseghi e Vittorio Telmon (La Nuova Italia 1992); Donne nella scienza: percorsi epistemologici in Aa.Vv., Insegnare scienza (Rosenberg & Sellier 1992); Educare ad essere donne e uomini; in In'RR

treccio tra teoria e pratica, a cura di Eleonora Chiti (Rosenberg & Sellier 1998). Recentemente ha iniziato, dopo un lungo percorso analitico, l' apprendistato alla consulenza filosofica, una relazione d'aiuto che si fonda sull'ascolto e sulla ricerca di sé e dell'altro/a in una dimensione intersoggettiva, in cui la filosofia si dà come un linguaggio per esprimere l' esperienza immediata e la progettualità di sé, in un orizzonte di senso che sappia coniugare interno ed esterno, gli affetti e l'agire. Attualmente vive a Verona e insegna filosofia in un liceo classico. CHIARA ZAMBONI. È stato il ragionare assieme alle compagne di Diotima che ha formato agli inizi il suo percorso; Luce Irigaray e Simone Weil le pensatrici a cui riconosce il debito maggiore. Il senso dell'agire simbolico e l'amore per la lingua rappresentano oggi i due poli d'attrazione delle sue pubblicazioni (tra le altre !}azione perfetta, Roma 1994 e Parole non consumate, Liguori 2001). Vive a Verona, dove insegna filosofia del linguaggio all'università.

è nata e vive a Verona, dove insegna nella scuola media superiore. Ha pubblicato, in volumi collettivi, saggi su Luce lrigaray, Jacques Lacan, Simone Weil. Ha partecipato alla comunità di Diotima fin dagli inizi, trovando nella narrativa il modo suo proprio di pratica filosofica (Presente remoto, Tufani ed. 2000).

GLORIA ZANARDO