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Italian Pages 530 [331] Year 2004
Le carte aragonesi
ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI SUL RINASCIMENTO MERIDIONALE
LE CARTE ARAGONESI Atti del convegno Ravello, 3-4 ottobre 2002 A cura di Marco Santoro
PISA · ROMA
ISTITUTI EDITORIALI E POLIGRAFICI INTERNAZIONALI MMIV
ATTI · 2
ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI SUL RINASCIMENTO MERIDIONALE
LE CARTE ARAGONESI Atti del convegno Ravello, 3-4 ottobre 2002 A cura di Marco Santoro
PISA · ROMA
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* Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2004 by Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale isbn 88-847-38-3
INDICE Marco Santoro, Presentazione Marco Santoro, Cronaca delle giornate di studio (Ravello 3-4 ottobre 2002)
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Giovedì 3 ottobre Ennio Cortese, Lo Studio di Napoli e la scienza giuridica dei tempi aragonesi Michele Cataudella, Le presenze di letteratura in volgare nella Biblioteca degli Aragonesi Paolo Cherchi, I volgarizzamenti della Biblioteca aragonese María de las Nieves Muñiz Muñiz, Le traduzioni spagnole della letteratura italiana all’epoca della corona d’Aragona: saggio di un catalogo sistematico Antonio Gargano, Poeti iberici alla corte aragonese di Napoli (Carvajal, Romeu Llull, Cariteo) Isabella Nuovo, Potere aragonese e ideologia nobiliare nel De obedientia di Giovanni Pontano Raffaele Rinaldi, Un problematico autografo del De fortitudine di Giovanni Pontano
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Venerdì 4 ottobre Gennaro Toscano, Opere fiamminghe nelle collezioni di Alfonso il Magnanimo 65 Marco Santoro, Stampa e cultura: il contributo aragonese 9 Emilia Ambra, Alfonso e la scrittura. Frammenti della Biblioteca aragonese alla Nazionale di Napoli 207 Carmela Reale, L’incunabulistica napoletana e il Panormita: le Epistolae familiares 225 Paola Zito, Un testo tanto caro al Sacratissimo Rè. Il Liber de homine e il sodalizio Del Tuppo-Geraldini 237 Liliana Monti Sabia, Una poco nota lettera di Laudivio Zacchia a Giovanni Pontano (Cod. Urb. Lat. 1401, c. 2v) 245 Giuseppe Germano, Due sconosciuti endecasillabi del Cantalicio in un quinterno autografo della Biblioteca Nazionale di Napoli. (MS. V E 62) 25 Antonietta Iacono, Il monoscritto Burney 343 della British Library di Londra nella tradizione manoscritta del Parthenopeus di G. Pontano 283 Michele Rinaldi, Due miscellanee astrologiche mediolatine annotate da Giovanni Pontano 297 Indice dei nomi (a cura di Samanta Segatori)
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Marco Santoro PRESENTAZIONE
Insediatisi a Napoli nel 442 con Alfonso il Magnanimo, gli Aragonesi, come è noto, governarono il Regno per circa mezzo secolo con tale incisiva autonomia da determinare la nascita di una nuova identità civile e culturale e i caratteri chiaramente riconoscibili dell’Umanesimo e del Rinascimento napoletani. Se Alfonso per primo cominciò a raccogliere codici latini e a promuovere la rinascita della vita culturale napoletana, Ferrante dette un impulso decisivo alla crescita culturale della città, disegnò e realizzò una monarchia razionalizzata e moderna, che finì con l’assegnare a Napoli un ruolo di spicco anche al di fuori dei confini del regno e non soltanto nell’ambito degli studi umanistici. Si è spesso sostenuto che a Napoli l’umanesimo fu d’importazione: ma questa teoria non può essere condivisa. Vero è che alcuni prestigiosi umanisti giunsero nella Capitale al seguito di Alfonso, come Lorenzo Valla, ad esempio, o il Beccadelli; ma l’umanesimo partenopeo al tempo di Ferrante trovò la sua via, la sua identità e celebrò la sua grande stagione. Basti pensare a Giuniano Maio, Pontano, Galateo, Carafa, Masuccio, Del Tuppo, solo per citare alcuni protagonisti. Alla luce della produzione di questi ultimi e di altri è agevole riscontrare non solo una vasta e autorevole presenza di umanisti indigeni, ma anche il carattere di autonomia del loro apporto speculativo e creativo rispetto a quelli elaborati a Firenze o a Ferrara o nelle altre corti peninsulari. In relazione a quanto sinteticamente detto è nata in seno al Consiglio direttivo dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale, su proposta di chi scrive, la decisione di programmare le due Giornate di studio sulle “Carte Aragonesi”, delle quali si presentano qui gli “Atti”, tese da un canto a rintracciare nelle fonti sorgive più gelose e segrete (documentazione archivistica, la biblioteca di Alfonso, le carte di Ferrante, ecc.) l’origine e i motivi dell’identità dell’umanesimo napoletano e, dall’altro, ad investigare ruolo e funzione rivestiti dagli Aragonesi per la promozione e la circolazione del documento scritto, al quale i sovrani attribuirono peculiare importanza anche sotto il profilo socio-politico. Va per
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Marco Santoro
altro aggiunto che nelle aspirazioni e nei propositi del promotore delle giornate era ben radicata l’istanza di disporre su di un piano realmente interdisciplinare il confronto e l’approfondimento delle problematiche suindicate. Da qui il non casuale coinvolgimento di eminenti studiosi italiani e stranieri non solo del settore della letteratura, ma anche della storia, del diritto, della storia dell’arte, ecc.; da qui, per altro, l’invito a partecipare rivolto anche ad archivisti e bibliotecari, cioè a coloro ai quali è affidato il compito di tutelare e di valorizzare le testimonianze scritte del cammino della civiltà. Questi “Atti” si sostanziano dunque di sedici saggi afferenti ad aree investigative diverse (dalla letteratura alla storia dell’arte, dalla storia dell’editoria alla filologia, ecc.) eppure convergenti su di un preciso obiettivo: contribuire ad una sempre più documentata e sistematica conoscenza del quattrocento partenopeo. Va subito posto in adeguata evidenza che le due giornate di lavoro sono state vieppiù arricchite da due magistrali relazioni di Guido D’Agostino (Napoli capitale aragonese) e di Gianvito Resta (Un’inedita orazione per Alfonso d’Aragona), i cui testi purtroppo non è stato possibile includere in questi “Atti”. Colgo l’occasione per rinnovare qui i ringraziamenti ad entrambi i Colleghi per la loro gradita e autorevole partecipazione. Che a Napoli gli studi giuridici abbiano tradizionalmente beneficiato sia prima che durante l’epoca aragonese di considerevole e scaltrita attenzione, con approdi documentari di estremo interesse, è noto. Ci è sembrato quindi quanto mai opportuno inserire nel programma delle “Giornate” un intervento apposito, affidato al maggiore esperto in materia, Ennio Cortese, il quale ha posto in evidenza, tramite il sapiente e documentato ricorso a pregnanti fonti, la vivacità e lo spessore speculativo dell’ambiente forense e dello Studio napoletano del Quattrocento. Accanto allo Studio, un’altra realtà culturale, oltre che politica, si impose nel panorama del secolo xv, la Corte, che tra l’altro promosse e impreziosì una delle raccolte librarie più ammirate all’epoca ma, come si sa, andata dispersa. Non a caso, quindi, sulla celebre “biblioteca aragonese” si sono incentrate le relazioni di vari studiosi: da Michele Cataudella (che ha per altro posto in adeguato rilievo la valenza di “status symbol” della ricca raccolta) a Paolo Cherchi (che, focalizzandone la montante presenza dei volgarizzamenti in toscano, ha enucleato la progressiva affermazione della lingua letteraria dominante a Napoli) ad Emilia Ambra (che,
Presentazione
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sottolineata la sopravvivenza a Napoli di un piccolo ma significativo nucleo di codici afferenti alla prestigiosa raccolta, si è soffermata sulla cronaca di Gaspar Pelegrì e sul noto Libro d’ore, appartenuto al primo sovrano aragonese, uniche testimonianze degli anni alfonsini presenti nella Biblioteca Nazionale partenopea). Affrontare il tema delle “carte” nella e dell’epoca aragonese non poteva naturalmente non implicare riflessioni e approfondimenti legati all’incunabulistica partenopea: da qui le relazioni di Marco Santoro (che ha tra l’altro rilevato lo spiccato e mirato interesse di Ferrante nei confronti della nuova arte), di Carmela Reale (che si è occupata dell’esemplare delle Epistolae del Panormita presso la Biblioteca Nazionale di Napoli) e di Paola Zito (che, nell’esaminare il Liber de nomine di Girolamo Manfredi, si è soffermata sulla dedica di Francesco Del Tuppo a Bernardino Geraldini, autorevole magistrato vicino a Ferrante, ponendo in adeguata evidenza l’importanza di questa componente paratestuale). D’altro canto i documenti aragonesi, in termini di fonti letterarie e archivistiche, consentono anche di ricostruire vicende, eventi, itinerari, le cui tracce sono state spesso cancellate da accadimenti storici di varia natura. È il caso, ad esempio, dell’ammirata collezione di opere fiamminghe raccolta da Alfonso, che Gennaro Toscano, grazie appunto all’accurato utilizzo di “carte” pregnanti, ha “ricomposto”, ponendo per altro in rilievo come i capolavori fiamminghi acquisiti dal Magnifico abbiano lasciato una significativa impronta sulla produzione pittorica napoletana del tempo. Considerati gli stretti rapporti non solo politici fra Spagna e Napoli non ci si poteva certo privare di ulteriori ricognizioni volte a investigare in modo puntuale i reciproci influssi fra due realtà culturali del tempo così interessanti. A riguardo, quindi, Antonio Gargano e Maria de las Nieves Müniz Müniz hanno recato un contributo assai significativo. Il primo, tramite i casi concreti di Carvajal, Romeu Llull e Benet Garet (Cariteo), ha ripercorso l’incontro di tradizioni poetiche diverse presso la corte aragonese di Napoli, specie per quel che concerne gli effetti che detto incontro produsse nei poeti iberici. La seconda ha tracciato una documentata panoramica della ricezione della letteratura italiana in Spagna, basandosi sulle traduzioni iberiche dell’epoca aragonese, corredando per altro il suo saggio di una preziosa Appendice, costituita da un catalogo sistematico delle traduzioni manoscritte e a stampa in lingua castigliana e catalana.
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Marco Santoro
Un ultimo filone di indagine al quale si è inteso dare comprensibile spicco è stato costituito dalla figura e dall’opera di Giovanni Pontano, sul quale si sono incentrati, sia pure secondo approcci e finalità diverse, ben sei interventi. È stato così accuratamente esaminato il De obedientia da parte di Isabella Nuovo e di Liliana Monti Sabia; del De fortitudine si è occupato Raffaele Rinaldi; sull’influsso pontaniano sul Cantalicio si è soffermato Giuseppe Germano; sul Parthenopeus si è concentrata l’attenzione di Antonietta Iacono; infine, Michele Rinaldi ha illustrato la lectura pontaniana di due miscellanee astrologiche del xiii secolo, offrendo altresì la prima edizione critica di alcune postille dell’umanista ivi presenti. Come si conviene, questa Presentazione non può che chiudersi con i doverosi ringraziamenti a coloro che, grazie alla loro preziosa collaborazione, hanno consentito che il progetto delle giornate di studio si concretizzasse e approdasse alla presente pubblicazione. In primo luogo, quindi, ho il gradito dovere di ringraziare i Colleghi e amici del Consiglio direttivo dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale, in specie il Presidente, Michele Cataudella, per avere accolto con entusiasmo la mia proposta di promuovere il convegno e per avermene affidato l’organizzazione scientifica e logistica. Determinante, ai fini dell’esito dell’iniziativa, è stato l’apporto del Centro Universitario Europeo per i Beni Culturali di Ravello, che ha posto a disposizione della manifestazione non solo la sua sede prestigiosa ma anche risorse umane ed economiche. Sono naturalmente oltremodo grato a tutti i Relatori sia per avere aderito all’invito sia per avere consentito con la loro puntualità la tempestiva realizzazione di questi “Atti”: grazie ai loro interventi ritengo che questa miscellanea si qualifichi come uno dei contributi più convincenti e stimolanti nell’ambito dei recenti studi legati alla complessa realtà napoletana dell’epoca aragonese. Infine un caloroso ringraziamento alla dott.ssa Samanta Segatori per essersi fatto carico di redigere l’Indice dei nomi, compito, si sa, certamente non facile.
CRONACA DELLE GIORNATE DI STUDIO (RAVELLO, 3-4 OTTOBRE 2002) Giovedì 3 ottobre Nella Sala conferenze della Villa Rufolo a Ravello, sede del Centro Universitario Europeo per i Beni Culturali, si sono aperte, alla presenza delle Autorità politiche e accademiche, con la partecipazione di un nutrito pubblico, composto da numerosi docenti universitari italiani e stranieri, da docenti della scuola, da bibliotecari e da studenti universitari, le due giornate di studio su “Le carte aragonesi”, promosse dall’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale in collaborazione con il Centro Universitario Europeo per i Beni Culturali e con il patrocinio della Provincia di Salerno. Dopo il Saluto delle Autorità, i lavori della seduta antimeridiana sono iniziati, sotto la presidenza di Paolo Cherchi, con la relazione di Guido D’Agostino (Napoli capitale aragonese), a cui ha fatto seguito quella di Ennio Cortese (Lo Studio di Napoli e la scienza giuridica dei tempi aragonesi). La prima parte della seduta pomeridiana, presieduta da Maria de las Nieves Müniz Müniz, si è aperta con la relazione di Michele Cataudella (Le presenze di letteratura in volgare nella biblioteca degli Aragonesi), seguita da quella di Paolo Cherchi (I volgarizzamenti della biblioteca aragonese). Nella seconda parte della sessione, presieduta da Ennio Cortese, sono intervenuti Maria de las Nieves Müniz Müniz (Le traduzioni spagnole della letteratura italiana all’epoca della corona d’Aragona: saggio di un catalogo sistematico), Antonio Gargano (Poeti iberici alla corte aragonese di Napoli (Carvajal, Romeu Llull, Cariteo), Isabella Nuovo (Potere aragonese e ideologia nobiliare nel De obedientia di Giovanni Pontano), e Raffaele Rinaldi (Un problematico autografo del De fortitudine di Giovanni Pontano). Venerdì 4 ottobre Nella prima parte della seduta antimeridiana della seconda giornata, presieduta da Antonio Gargano, hanno tenuto le proprie relazioni Gennaro Toscano (Opere fiamminghe nelle collezioni di Alfonso il Magnanimo) e Marco Santoro (Stampa e cultura: il contributo aragonese). Nella seconda parte, sotto la presidenza di Gianvito Resta, si sono avuti gli interventi di Emilia Ambra (Alfonso e la scrittura.
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Cronaca
Frammenti della biblioteca aragonese alla Nazionale di Napoli), di Carmela Reale (L’incunabulistica napoletana e il Panormita: le Epistolae familiares) e di Paola Zito (Un testo tanto caro al Sacratissimo Re. Il Liber de homine e il sodalizio Del Tuppo-Geraldini). Nel pomeriggio, articolato in due sessioni, presiedute rispettivamente da Marco Santoro e da Michele Cataudella, hanno tenuto i propri interventi prima Gianvito Resta (Un’inedita orazione per Alfonso d’Aragona) e Liliana Monti Sabia (Una poco nota lettera di Laudivio Zacchia a Giovanni Pontano) e, successivamente, Giuseppe Germano (Due sconosciuti endecasillabi del Cantalicio in un quinterno autografo della Biblioteca Nazionale di Napoli), Antonietta Iacono (Il monoscritto Burney 343 della British Library di Londra nella tradizione manoscritta del Parthenopeus di G. Pontano) e Michele Rinaldi (Due miscellanee astrologiche mediolatine annotate da Giovanni Pontano). Il Presidente dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento Meridionale, Michele Cataudella, ha poi chiuso i lavori.
GIOVEDÌ 3 OTTOBRE
Ennio Cortese LO STUDIO DI NAPOLI E LA SCIENZA GIURIDICA DEI TEMPI ARAGONESI . È il mio vizio d’origine – quello d’essere uno storico del diritto – a consigliarmi di non mittere falcem in messem alienam e di guardare allo Studio di Napoli soltanto dall’angolo visuale dei problemi del diritto e dei giuristi. Quanto poi al tema, so bene ch’esso potrebbe sembrare estraneo a quello di un convegno intitolato alle ‘carte aragonesi’, in cui sarebbe logico attendersi più discorsi su documenti e libri, su archivi e biblioteche che non su questioni di scienza e di scuole. Ma vorrei dire súbito che una giustificazione della scelta c’è, e sta nel fatto che notizie nuove, precisazioni e correzioni di disegni storici tradizionali verranno proposte sul filo di un tipo di ‘carte’ piuttosto inconsuete, il cui uso si vorrebbe qui appunto presentare. La storiografia ne ha notizia, certo, ma pochi storici le hanno frequentate: alludo ai codici scolastici di recollectae o reportata dei corsi seguíti dagli scolari negli Studia. Erano, diremmo noi, dispense delle lezioni; le predisponevano per lo più i maestri e via via durante l’anno le trascrivevano gli allievi, che poi annotavano nei margini episodi di vita studentesca o avvenimenti politici e mondani, talvolta esprimevano giudizi sui docenti e si cimentavano in disegni di stemmi, di ritratti, di paesaggi o di sconcezze. Ora, proprio per la Napoli quattrocentesca i libri di recollectae davvero non mancano, io stesso ne ho visti e utilizzati un paio di dozzine sparsi tra la biblioteca Nazionale di Napoli, quella di Parigi, la Vaticana e il Collegio di Spagna di Bologna; sono codici talvolta curati, ma per lo più disordinati e scritti in fretta, che hanno seguíto le peripezie accademiche dello scolaro e . Di tutti ho tenuto conto nel mio studio Sulla scienza giuridica a Napoli tra Quattro e Cinquecento, in Scuole, diritto e società nel Mezzogiorno medievale d’Italia, a cura di M. Bellomo, Catania 985, ora anche nei miei Scritti, a cura di I. Birocchi e U. Petronio, Spoleto 999; quanto in particolare alle recollectae dei manoscritti del Collegio di Spagna, le ha descritte D. Maffei, Manoscritti giuridici napoletani del Collegio di Spagna e loro vicende fra Quattro e Cinquecento, nel medesimo Scuole, diritto e società, pp. -29, ora anche nei suoi Studi di storia delle Università e della letteratura giuridica (Bibliotheca Eruditorum, ), Goldbach 995, pp. 323-34.
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Ennio Cortese
riproducono quindi pezzi di parte del suo curriculum pluriennale. L’esistenza di fonti tanto preziose, testimoniata da inventari e cataloghi antichi, è stata talvolta segnalata di seconda mano già dall’erudizione napoletana settecentesca. 2 Ma non per utilizzarne il contenuto. La storia dello Studio partenopeo, come si sa, non ha goduto mai di grande considerazione, se non tra qualche storico locale. Per i tempi moderni ha certo pesato il giudizio sbrigativo e negativo dato oltre centocinquant’anni fa dal Savigny, 3 che peraltro dei giuristi napoletani conosceva poco o niente: la mancanza di autonomia imposta dal carattere statuale dell’istituzione federiciana, a fronte della sfrenata libertà creatrice delle altre scuole, sarebbe stata un macigno al collo che le avrebbe sempre impedito di prendere il volo. In effetti non si può negare che la sua tradizione appaia discontinua e scialba se riferita ai modelli dell’Italia superiore, pochi maestri famosi, pochi prodotti scientifici di pregio; se ne descrive per di più un decorso punteggiato di chiusure e riaperture che nella sola epoca sveva avrebbe conosciuto ben quattro ‘rifondazioni’: 4 interventi in realtà limitati e di scarsa efficacia. Fu invece di sicuro più incisiva la rifondazione di Carlo i del 266, 5 essa propiziò alcuni decenni di un’attività decorosa e segnata da nomi illustri di docenti. Basti pensare che sfilarono sulle cattedre partenopee personaggi come Guido da Suzzara, Andrea Bonello, Bartolomeo da Capua, Andrea d’Isernia e Iacopo di Belviso: grandissimi giuristi, ma se qualcuno ha lasciato tracce della propria attività scolastica, i più hanno tramandato o nulla o qualche riga scarna. Poi furono soltanto sprazzi, qua e là, di discreti insegnamenti impartiti da docenti talvolta non spregevoli, ma di cui si conoscono per lo più soltanto i nomi. Il fatto è che i maggiori affidarono la loro fama piuttosto alle magistrature che allo Studio: e questa è cosa da tenere a mente. 2. Si vedano ad esempio le numerose recollectae di Antonio d’Alessandro indicate da L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, i, Napoli 787 = Bologna 970, p. 44. 3. Geschichte2, iii, 329 s., trad. Bollati, i, p. 626. 4. Quelle federiciane del 234 e del 239, quelle di Corrado iv e di Manfredi del 254 (seguíta al trasferimento del 252 a Salerno) e del 258 (G. Arnaldi, Fondazioni e rifondazioni dello Studio di Napoli in età sveva, in Università e società nei secoli XII-XVI, Pistoia 982, pp. 8-05, in particolare p. 86). 5. Datato 24 ottobre 266, ripubblicato da G. M. Monti, L’età angioina, in Storia dell’Università di Napoli, Napoli 924, p. 35 s.
Lo Studio di Napoli e la scienza giuridica dei tempi aragonesi
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Di tra il buio dell’ultima età angioina il Quattrocento si affaccia con un episodio che, in mancanza d’altro, appare luminoso, e sul quale si è fatto, pur con qualche ragione, molto chiasso: l’istituzione formale del Collegio dei dottori da parte di Giovanna ii nel 428. 6 Era un’iniziativa che presupponeva un fallimento della scuola; la regina stessa la tacciava d’esser sterile perché incapace di creare un numero sufficiente di dottori, doveva quindi considerarla inefficiente. Il provvedimento voleva costituire un’iniezione di serietà: veniva istituito un ufficio di controllo sulle lauree a garanzia della loro affidabilità, si predisponeva così uno strumento di verifica della preparazione delle nuove leve di alti funzionari e, di riflesso, si sperava d’incentivare la riqualificazione dell’insegnamento. Nel collegio del ’28, i dottori scelti e nominati dalla sovrana furono parecchi; le recollectae danno notizie inedite su tre di loro. Il più vecchio era un Giovanni Crispano che ricoprìva la cattedra episcopale di Teano – la ebbe nel 48 e la tenne fino alla morte nel ’43, l’anno in cui Alfonso entrò in Napoli – ma era altresì giurista stimato; nel Cinquecento il Grammatico e le stampe del Liber Augustalis adottarono alcune sue additiones a leggi federiciane. 7 La sua formazione giovanile pareva svanita nel nulla, ma ecco farsi avanti le recollectae di un ignoto e attestare un episodio della sua vita di brillante studente: era infatti scolaro quando, forse ancóra negli ultimi anni di re Ladislao e comunque non oltre i primi di Giovanna, fu invitato a tenere repetitiones su un paio di difficili passi del Digesto e, a detta del reportator, si comportò con onore. Colpisce che conoscesse meglio i francesi Jacques de Revigny e Pierre de Belleperche che i luminari delle grandi scuole italiane: si tratta di una rara testimonianza della fedeltà della Napoli angioina all’antica scuola di Orléans. Una notizia nuova è che i corsi si svolgevano
6. Il privilegio d’istituzione del Collegio dei dottori in leggi e canoni, emesso da Giovanna il 5 maggio 428, è edito da E. Cannavale, Lo Studio di Napoli nel Rinascimento, Napoli 895 = Sala Bolognese 980, pp. iv-ix, doc. , ed è stato ritrascritto dal Monti, L’età angioina, pp. 38-43. Qui (pp. 43-50), oltre che nel Cannavale (doc. 2, pp. ix-xvii), anche il privilegio della stessa Giovanna, datato 8 agosto 430, istitutivo del Collegio dei dottori in medicina. 7. L’elenco delle additiones del Crispano in B. Capasso, Sulla storia esterna delle costituzioni del Regno di Sicilia promulgate da Federico II, in Atti dell’Acc. Pontaniana, 9 (869), p. 97 dell’estr.
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nell’hospitium de Scillatis, un albergo appartenente o appartenuto alla ricca famiglia di quel nome. 8 2. Non solo singole repetitiones, come nel caso del Crispano, ma persino cicli di lezioni si vedono tenuti da studenti, e non limitatamente alle facili Istituzioni giustinianee, che ovunque potevano affidarsi a mo’ di borsa di studio a laureandi meritevoli, ma addirittura sul Digesto vecchio, ch’era invece materia fondamentale gestita ovunque, rigorosamente, da professori ordinari. Che si consentisse a giovincelli d’insegnarlo parrebbe mossa disperata di una scuola incapace di reperire o di stipendiare veri maestri, ma lascia perplessi di leggere in un manoscritto del bolognese Collegio di Spagna che nel tardo 43 un Matteo Calabrese scolaro si cimentava sul Digestum vetus 9 mentre pontificavano doctores come Girolamo Miroballo il quale, per di più, quell’anno spiegava proprio il Vetus. Forse insegnavano anche Michele Riccio senior di Castellammare e Gurello Caracciolo, la presenza dei quali è sicura però solo dal ’33 e, rispettivamente, dal ’34. Personaggi davvero non da poco: il Miroballo e il Caracciolo erano stati nominati da Giovanna nel Collegio dei dottori del ’28; nel ’49 il Miroballo farà parte, proprio con Michele Riccio oltre che con Cicco Antonio Guindazzo, della triade di luminari della scuola chiamata da Alfonso a integrare il cosiddetto primo Sacro regio Consiglio. 0 8. Ms. Vat. lat. 2625, 22r-23r (repetitio su D. 2.4.27.2. Un’altra rep. del medesimo Crispano su D. 2.6. si legge a c. 23r-233v, con conclusione a c. 28r), cfr. E. Cortese, Sulla scienza giuridica a Napoli tra Quattro e Cinquecento, p. s. Il Giustiniani suggerisce che fosse nato intorno al 380 (L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali, I, p. 275), si sa che fu vescovo di Teano dal 48 fino alla morte nel 443, e appartenne a una famiglia ch’ebbe un Pietro docente di diritto nel 338 (Monti, L’età angioina, p. 82), un Landolfo maestro razionale deceduto nel 372 (N. Toppi, De origine omnium tribunalium, i, Neapoli 655, p. 63 nr. 7), un Matteo professore nonché luogotenente del Camerario nel 382 (Monti, pp. 84, 0). Quanto allo svolgimento dei corsi nell’hospitium de Scillatis, ne fa cenno, oltre che il ms. vaticano, il ms. 73, 82r del Collegio di Spagna di Bologna a proposito di lezioni tenute nel 433 da Gerolamo Miroballo. 9. Collegio di Spagna, ms. 73, 375r-384v, recollectae su D. 7..-2, cfr. E. Cortese, Sulla scienza giur. a Napoli, p. 4 e Maffei, Manoscritti giuridici napoletani, p. 8. 0. Nell’ottobre del medesimo 43 il Miroballo cominciò un corso sul XII libro del Digesto che un suo allievo di buona famiglia, Leonetto Cicinello (Maffei, Manoscritti giur. napoletani, p. 20 s.), trascrisse nell’attuale ms. 73 del Collegio di Spagna (337r-370v). Al Miroballo, ch’era in quegli anni colonna portante dello Studio, è dedicata peraltro la maggior parte del volume: nell’ottobre 433 egli avvia un’im-
Lo Studio di Napoli e la scienza giuridica dei tempi aragonesi
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Se dal punto di vista della produzione romanistica, e della conseguente fama nel regno e soprattutto fuori, non si può contestare che lo Studio partenopeo dell’ultima età angioina fosse una scuoletta provinciale, le recollectae lo mostrano tuttavia nelle mani di maestri tutti investiti di alte magistrature, e quindi giuristi di prim’ordine. Forse erano pochi. Forse, ricoprendo importanti cariche pubbliche, non potevano dedicarsi continuativamente all’insegnamento. A ogni modo viene da pensare che uno Studio affidato a magistrati nell’esercizio delle loro funzioni doveva essere diverso da quelli centrosettentrionali coevi retti da sapienti a tempo pieno. E questo fa concludere che non si può valutarlo alla stessa stregua. Dopo la morte di Giovanna nel ’35 e il pandemonio che ne conseguì è lecito immaginare, nell’assenza completa di notizie, che la scuola abbia o chiuso i battenti o funzionato a ritmi ridottissimi. L’arrivo di Alfonso il Magnanimo in città il 26 febbraio del 443 non cambiò le cose. Difficile dire se l’avvenimento abbia o non alimentato nell’ambiente dei giuristi speranze di rilancio della scuola. Era portante lectura sui libri vi, vii e viii del Codice giustinianeo (cc. 82r-282v), lo stesso ottobre 433, ma l’indizione indica puttosto il ’35, comincia un corso sui primi 6 titoli del ii libro del Codice (5r-34v), corso che verrà completato da Michele Riccio di Castellammare senior (34v-57n, tit. 7-9); un ulteriore frammento, sul iv libro sempre del Codice, richiama l’anno 434 e l’indizione del 435, uno squarcio di lettura non datata sul l. vi ricorre anche a cc. 63r-79v. Il Miroballo si era addottorato a Bologna nell’agosto del 423 (Il «Liber secretus Iuris Caesarei» dell’Università di Bologna, a cura di A. Sorbelli, ii, Bologna 942, p. 2). Quanto a Michele Riccio senior (da non confondere con il più giovane omonimo seguace di Carlo viii e Luigi xii di Francia morto a Parigi nel 505), il ms 73 (34v-57v) lo presenta come sostituto del Miroballo sul ii libro del Codice nel ’33-’34, mentre il ms 76 riporta alcune sue lezioni del 435 sui primi due titoli del libro xii del Digesto (95r-234v). Il medesimo ms. 76 del Collegio di Spagna (39r-72v) ci mostra anche Gurello Caracciolo impegnato in un corso sul libro v del Digestum vetus tra il ’33 e il ’34. Si noti che il Miroballo nominato da Giovanna II, insieme con il Crispano e il Caracciolo, nel Collegio dei dottori legisti del ’28 è ovviamente personaggio diverso dall’omonimo monaco olivetano diventato abate generale nel ’7 e autore di un De spirituali monachorum e di una Apostolica tuba (N. Toppi, Biblioteca napoletana, Napoli 678 = Bologna 97, p. 59). Alfonso nominò il Guindazzo, il Miroballo e il Riccio «utriusque iuris professores consiliarios fideles nobisque dilectos» nell’edictalis provisio del 3 agosto 449 con la quale diede le massime funzioni giurisdizionali a un gruppo di sei consiglieri (è l’ordinatio a lungo ritenuta la norma istitutiva del Sacro Regio Consiglio, detto poi di Santa Chiara, il massimo tribunale del regno: ma cfr. G. Cassandro, Sulle origini del Sacro Consiglio napoletano, negli Studi in onore di Riccardo Filangieri, ii, Napoli 959, ora anche nella raccolta dei suoi scritti [Lex cum moribus. Saggi di metodo e di storia giuridica napoletana, i, Bari 994, in particolare p. 590 n. 3]).
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un re non solo notoriamente amante delle lettere e della cultura, ma che sembrava ben disposto verso i grandi Studia. In Sicilia ne aveva istituito uno a Catania nel 434, il Siculorum Gymnasium, e per di più, nel novembre dello stesso anno, aveva concesso il placet per farne un altro a Messina. Ma di Alfonso si sa pure che, per quanto riguardava le discipline scolastiche, aveva un qualche interesse personale per la medicina e per la teologia, mentre la preparazione dei giuristi locali non era in cima ai suoi pensieri: probabilmente perché i dottori in iure servivano sopratutto a dirigere la burocrazia, e il re preferiva assegnarne gli alti gradi piuttosto a connazionali che a napoletani. Cosa che suscitava in città, com’è ben noto, irritazione e rivolte. Fu dunque alla medicina e alla teologia che, dopo otto o nove anni di regno, egli finì col pensare per prime. Nel 450-5 istituì a Napoli una cattedra per ciascuna delle due materie, le affidò entrambe a spagnoli e le remunerò con stipendi elevati: 300 ducati al teologo Ludovico Cardona e 200 a Diego Ispano fisico. 2 Dal secondo dei due provvedimenti di nomina si apprende che il re si piccava di avere in quegli anni ‘ricostituito’ lo Studio: 3 è ben possibile che tutta l’istituzione fosse stata in quiescenza dal tempo delle guerre per la successione a Giovanna e il sovrano l’avesse riavviata, ma può anche darsi che a tacere fossero state le ‘facoltà’ di medicina e teologia e Alfonso avesse inteso procurare la loro resurrezione con due cattedre. Naturalmente a nessuno potrebbe passare per la testa che l’intervento del Magnanimo fosse stato una solenne ‘rifondazione’ anticipatrice di quella del 465. 4 . Che poi i buoni propositi nei confronti di Messina sfumassero (v. ora A. Romano, Prefazione a D. Novarese, I Capitoli dello Studio della Nobile Città di Messina, Messina 990, p. ix s.) è sorte non rara di quei placet: ne saprà qualcosa, nel Regno di Napoli dei tempi di Ferrante, la città dell’Aquila (cfr. infra, su n. 42). 2. E. Cannavale, Lo Studio di Napoli nel Rinascimento (cit. a n. 6), p. xviii, nrr. 5 e 6. Se entrambi i documenti sono datati 45, xiv indizione, il secondo – quello che riguarda il medico Diego Ispano e che contiene il cenno alla fantomatica ‘istituzione’ alfonsina dello Studio – è del 24 dicembre, e va quindi spostato al 450: come peraltro fa correttamente l’indice del registro della Sommaria edito dallo stesso Cannavale (ivi, doc. 4). 3. Il diploma di nomina di Diego Ispano medico lo destina a leggere «in studio generali nuper per nos in hac urbe constituto». 4. R. Filangieri, L’età aragonese, nella Storia dell’Università di Napoli, Napoli 924, p. 55, parla di una generica «riapertura dello Studio», precisando solo che non poté avvenire prima del 45.
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Viene spontaneo invece di supporre che l’improvviso interessamento per lo Studio, di cui per anni si era disinteressato, gli fosse stato ispirato da qualche ninfa egeria che si potrebbe persino ravvisare nel suo nuovo influente confessore, il domenicano Enrico Lugardo di Palermo, inquisitore generale del regno di Sicilia e già professore di filosofia morale a Pavia: guarda caso proprio tra il 45 e il 453 lo si vede occupare per nomina regia l’ufficio di rettore dello Studio di S. Domenico. 5 In realtà, se Alfonso non perdeva di sicuro il sonno per il rilancio della scuola, si sa quanto l’appassionavano invece le sue collezioni di libri e di umanisti. Amava Antonio Beccadelli, il Panormita, fin da quando l’aveva accolto a Gaeta nel 435, si preoccupava molto della biblioteca regia che, allocata dapprima in Castel Capuano poi in Castel Nuovo, era stata scelta dal Panormita come sede dei suoi quotidiani commenti, spesso svolti in presenza del sovrano, di Tito Livio e di altri classici. Partecipava anche ai litigi tra umanisti, favoriva il Panormita contro il Valla perché l’attraeva nel primo l’inclinazione alla poesia e la fantasia innovatrice, mentre lo respingeva nel Valla l’erudizione da grammatico pedante che sapeva di vecchiume: 6 e il Valla finì col lasciare Napoli già nel 448. Ma il cenacolo umanistico restò folto: si pensi al brulicare di personaggi come, per non parlare d’altri, Bartolomeo Facio, Porcelio Pandone e Giovanni Pontano, più tardi Costantino Lascaris e Giuniano Maio. Un’accademia brillantissima. Era logico che agli occhi di Alfonso, che aspirava a imitare i príncipi italiani rinascimentali, ne risultasse oscurato l’interessamento allo Studio. Certo è che le chiamate, nel ’50-’5, del medico e del teologo spagnoli paiono collocarsi a metà strada tra la consapevole politica e il capriccio di un re. Una vena capricciosa sembra percorrere anche 5. Sul quale ha attirato l’attenzione D. Maffei, Di un inedito “De modo studendi” di Diomede Mariconda, con notizie su altre opere e lo Studio di Napoli nel Quattrocento, in Riv. intern. di dir. comune, 2 (99), pp. 6-8, ora anche nei suoi Studi di storia delle Università e della letteratura giuridica. Enrico di Palermo sarà poi vescovo di Policastro e arcivescovo di Matera fino al 482, data della morte. La sua comparsa come «magister regens Studii S. Dominici de Neapoli» è stata segnalata da T. Kaeppeli, Scriptores Ordinis Praedicatorum Medii Aevi, Roma 970-980, ii, p. 2 e da D. Maffei, Di un inedito “De modo studendi”, p. 4 n. . Era dunque rettore di uno dei tre auditorii: a quello di S. Domenico si aggiungevano infatti all’epoca le sedi di S. Liguori e di San Pietro a Maiella (Cannavale, Lo Studio di Napoli nel Rinascimento, p. 24). 6. R. Filangieri, L’età aragonese, p. 56 s.
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la sua tardiva preoccupazione per il diritto con la chiamata su nuova cattedra, nel 454, del padovano Francesco de Pellatis, legista e canonista insieme, celebrato come grand’uomo e gratificato dell’enorme remunerazione di 500 ducati, che nessun altro professore aveva mai né avrebbe più conseguita. Doveva essere in realtà giurista di mediocre levatura venuto chi sa come nelle grazie del re. Comunque non ebbe fama né ha lasciato tracce. Il De Frede giudica la chiamata del padovano un segno della decadenza del diritto a Napoli, dove non si sarebbe trovato un giurista degno di cattedra o disposto a occuparla. 7 In realtà sin dall’anno precedente v’erano tra i professori due legisti napoletani che, con lo stipendio di 00 ducati – non così modesto da far pensare a impegni temporanei di poco conto, ma abbastanza da suggerire che percepissero compensi maggiori nelle magistrature –, non dovevano certo essere di qualità inferiore a quella del padovano. Erano Giovanni Antonio Carafa, legum doctor almeno dal 433, 8 che la successiva carriera fa ritenere esperto anche di diritto canonico, e Cicco Antonio Guindazzo luminare del civile; nel ’55 si accompagnerà loro Tommaso Vassallo con uno stipendio maggiore, di 200 ducati. Tutti magistrati dalla carriera brillante: il Guindazzo aveva fatto parte della triade dei professori nominati da Alfonso nel Sacro regio Consiglio al momento della sua istituzione nel ‘49, era Presidente di Camera dal ’5 ed era stato ambasciatore a Firenze nel ’53; 9 Tommaso Vassallo avrà anch’egli la presidenza della regia Camera della Sommaria ed entrerà nel Sacro Consiglio ai tempi di Ferrante. Tra tutti era il Carafa, anch’egli regio consigliere dal dicembre del ’49, il personaggio di maggiore spicco per la carriera pubblica e per la produzione scientifica. Secondo l’opinione corrente, gli interventi di Alfonso non sarebbero riusciti a impedire la chiusura dello Studio a partire dal ’56, ossia due anni prima della scomparsa del Magnanimo, fino alla riapertura del ’65. 20 Non è vero. Checché sia successo in séguito alle 7. C. De Frede, Studenti e uomini di legge a Napoli nel Rinascimento, Napoli 957, p. 43. 8. Maffei, Manoscritti giuridici napoletani (cit. a n. 3), p. 8 e n. 2. Nel 433 infatti, all’età di 25 anni, si presenta con il titolo di legum doctor a tenere nell’arcivescovado napoletano una solenne disputatio (tramandata dal ms. 73 del Coll. di Spagna, c. 282v). 9. G. Origlia, Istoria dello Studio di Napoli, i, Napoli 753 = Bologna 973, p. 242. 20. L’ipotesi è dedotta dalla mancanza di cedole di pagamento (Filangieri, L’età aragonese, pp. 58, 60), ch’è indizio incertissimo.
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rivolte e alle guerre scoppiate nel ’59, almeno fino a quell’anno lo Studio è illuminato da una personalità di grande levatura, Antonio d’Alessandro, giovane professore addottoratosi a Bologna il 27 aprile del ’54 2 e destinato a brillare nel firmamento del diritto tardoquattrocentesco partenopeo. Parente del celebre autore dei Geniales dies, il più giovane Alessandro (46-523), 22 e fratello del Iacobaccio barone di Cardito che re Ferrante avrà a commensale abituale, 23 Antonio compare l’anno stesso della laurea bolognese, nell’autunno, su una cattedra dello Studio partenopeo, e spiega taluni titoli del Digestum vetus 24; due anni dopo, nel ’56, terrà un corso sull’Inforziato. 25 È fresco di un dottorato di pregio, conseguito all’estero in una buona scuola; la sua formazione è tradizionale, esegetica di Giustiniano, e tale resta il suo insegnamento secondo regole che vigono da secoli. Sebbene l’esercizio dell’avvocatura gli possa facilitare ogni tanto puntate nella prassi, il contenuto della sua didattica rimane dunque vecchio. Ma il livello teorico e tecnico è più che dignitoso. Sempre negli anni in cui si pretende la scuola fosse inattiva, vi compie in realtà i suoi studi un altro giurista destinato a fare molta strada, Andrea Mariconda. Da scolaro, tra il 457 e il ’58, è incaricato di un corso e, non osando dettare reportata propri sullo spinoso titolo de verborum obligationibus del Digesto (D. 45.), riferisce quelli del maestro senese Tommaso Docci. 26 Il 25 ottobre del ’60 Andrea Mariconda si laurea solennemente avendo giudici le due stelle che si sono viste brillare nel fòro e nella scuola, il Guindazzo e il Carafa. 27 2. C. Piana, Il «Liber secretus iuris Caesarei» dell’Università di Bologna 1451-1500 [Orbis Academicus, 1], Milano 984, p. 30. La notizia della laurea ferrarese (Giustiniani, Memorie istoriche [cit. a n. 2], i, p. 39) è erronea. Panorama bio-bibliografico nella voce di F. Petrucci nel dbi, 3 (985), pp. 733-735; aggiunte in E. Cortese, Sulla scienza giuridica. a Napoli [cit. a n. ], pp. 37 s. e n. 3-4, 52 s. e n. 46-47, 70. 22. D. Maffei, Alessandro d’Alessandro giureconsulto umanista (1461-1523), Milano 956, in particolare p. 30 s. 23. G. Cosenza, La chiesa e il convento di S. Pietro Martire, in Napoli nobilissima, 9 (900), p. 6. 24. Coll. di Spagna, ms. 259, r-46v, recollectae su D. 29.2 rubr.-35. 25. Coll. di Spagna, ms. 77, 5r-52r, recollectae sul D. .-4 e sul libro ii. Il ms. era noto al Giustiniani, Memorie istoriche, I, p. 44. 26. Coll. di Spagna, ms. 259, 77r-64v. 27. Il privilegio dottorale di Andrea Mariconda, già edito nel Seicento dal Recco,
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3. Erano anni duri quelli in cui il giovane Mariconda si affacciava alla vita professionale. Nel tardo giugno del 458 era morto Alfonso. I natali illegittimi di Ferrante avevano creato difficoltà alla sua successione, per qualche settimana persino Callisto iii Borgia, nel passato amico della casa di Aragona, aveva impedito l’ascesa del bastardo al trono. Fu circostanza fortunata per l’aspirante alla corona che il papa scomparisse a sua volta nell’agosto, e gli succedesse al Soglio Pio ii, molto più malleabile. Ma il peggio era venuto dall’opposizione angioina che aveva rialzato la testa, dal tentativo d’invasione di Giovanni d’Angiò, dalla rivolta di Giovanni Antonio Orsini principe di Taranto e dalle ribellioni varie che le si erano collegate. Il regno ne era stato a tal punto sconvolto che il ricordo del nefasto tempus guerrarum continuò ad affiorare ossessionante persino in opere giuridiche. Perché la città e il paese si risollevassero occorreva dunque attendere la pace. Questa si profilò dopo la vittoria di Troia del ‘62; quando, nel ’65, la flotta del Requesen inviata da Giovanni d’Aragona, zio di Ferrante, spense a Ischia l’ultima fiammata delle ribellioni, già da qualche mese si era pensato alla rifondazione dello Studio. Si era prima chiamato Giovanni Antonio Carafa a prepararla; poi ci si era rivolti al Pontefice Paolo ii, il veneziano Pietro Barbo, perché instaurasse formalmente a Napoli il nuovo Studium generale: si era fatto ricorso al pontefice forse per catturarne la benevolenza, forse per attestare l’amicizia col papato che si era rinsaldata dopo l’investitura regia, forse per imprimere nella nuova istituzione il crisma dell’universalità. La relativa bolla, data a Roma in S. Marco il 8 gennaio 465, previde cattedre di teologia, diritto canonico e civile, medicina, arti liberali, lettere latine e greche. Il 2 dicembre di quell’anno un’altra bolla concesse a professori e studenti il privilegio del fòro. 28 è stato ripubblicato dal Filangieri, L’età aragonese (cit. a n. 4), p. 96 s. Sul noto personaggio si sono soffermati il De Frede, Studenti e uomini di leggi (cit. a n. 7), pp. 4446, e il Maffei specialmente nello studio ch’egli ha dedicato al figlio di Andrea, l’altrettanto celebre Diomede (Di un inedito “De modo in iure studendi” di Diomede Mariconda [cit. a n. 5], soprattutto p. n. 8). Il fatto che la cerimonia si sia svolta nella casa del Carafa non deve stupire: anche il Sacro regio Consiglio, che in presenza del re si adunava in Castelnuovo, in sua assenza si riuniva in casa del vicecancelliere (Cassandro, Sulle origini del Sacro Consiglio, ora in Lex cum moribus, i, p. 593 [cit. a n. 0]). 28. La bolla del gennaio, istitutiva dello Studio generale, è edita dal Filangieri, L’età aragonese (cit. a n. 4), p. 97 s.; della seconda bolla del dicembre il Filangieri dà invece solo notizie ricavate da lettere papali (p. 6).
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Non so quanto sia vero che fosse nelle intenzioni di Ferrante, sin dalla rifondazione dello Studio, di potenziare l’insegnamento delle leggi e di anteporre «ai magniloquenti e pomposi umanisti i più pratici e attivi ‘dottori’ addestrati al maneggio del diritto». 29 Al diritto, è vero, era stato preparato egli stesso – sebbene in misura minore che nelle humanitates – avendo avuto nel 448 a maestro Paride Dal Pozzo. Per una sorte fortunata possiamo ancóra oggi scorrere un quadernetto autografo dell’allora duca di Calabria, in cui una selezione di leggi tratte dal Corpus iuris appare corredata di elementari summae di ciascuna. 30 Paride aveva continuato a stare accanto al principe nei tempi duri; dopo la scomparsa del padre gli aveva suggerito, per aggirare l’ostacolo giuridico che i natali illegittimi frapponevano all’investitura del regno, di farne richiesta al papa «ut homo novus» anziché «iure successionis». 3 Era stato un problema angoscioso, quello della successione al trono. Il principe bastardo aveva messo la questione nelle mani di giuristi, dopo la morte di Callisto iii aveva spedito Antonio d’Alessandro e Colantonio da Capua ambasciatori al papa al fine d’impetrare da lui l’investitura; il d’Alessandro non solo l’aveva ottenuta, ma, a quanto narra la leggenda, gli sarebbe stato consentito di redigere addirittura il testo della relativa bolla. 32 Un successo pieno che doveva avere impressionato bene il re almeno quanto doveva avere alimentato l’invidia degli umanisti cortigiani: più tardi il Pontano, acceso di gelosia e di astio, non si tratterrà dal contestare l’opinio29. De Frede, Studenti e uomini di leggi a Napoli (cit. a n. 7), p. 2. 30. Ms. Paris, B.N., lat. 4564, in 8° grande, è qui che una nota di Pascual Diaz Garlón, allora bibliotecario del duca di Calabria, dà notizia dell’inizio degli studi giuridici del diciassettenne Ferrante l’8 ottobre 448 (nota riprodotta fotostaticamente da T. De Marinis, La biblioteca napoletana dei re d’Aragona, Suppl. II, Verona 969, tav. 52 B). 3. Paride Dal Pozzo, De feudorum reintegratione, c. 30 Sacerdos investitus pro se, nr. 0, ed. Neapoli 544, 79vb, ed. Noribergae 677, 288b: «Et ita consului magno Principi, qui erat naturalis, quod non peteret novam investituram ut heres patris, sed faceret se investiri non ut heres vel successor patris sed ut novus homo, de principatu concessionem obtineret a summo Pontifice». 32. La leggenda, comunemente riferita, lo è anche da F. Petrucci, nella v. dedicata ad Antonio d’Alessandro nel dbi. Va aggiunto che Antonio d’Alessandro, a quanto narra Gregorio Grimaldi, avrebbe capeggiato la seconda ambasceria accreditata presso Enea Silvio dopo il fallimento della prima inviata a Callisto iii, ch’era stata composta di Francesco del Balzo duca d’Andria e del dottor Cicco Guindazzo (G. Grimaldi, Istoria delle leggi e magistrati del Regno di Napoli, iv, Napoli 752, pp. 37938).
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ne che i dottori giuristi fossero particolarmente adatti alle faccende diplomatiche, ne rileverà anzi velenosamente l’inefficienza decantando al contempo l’efficienza propria, che pure non si avvaleva di titoli dottorali. 33 Gli stessi umanisti testimoniano tuttavia che Ferrante era più sensibile del padre al mondo delle leggi. A sentire il Panormita, sarebbe stato un assiduo frequentatore dei tribunali, pronto ad accogliere all’uscita dalle aule, insieme con le acclamazioni, anche le suppliche del popolo. 34 Un’immagine, è vero, frutto di piaggeria cortigiana e desunta dal tópos del sovrano dispensatore di giustizia, ma che poteva anche nascondere una punta di verità. Stanno d’altronde a confermarla, specialmente nella seconda parte del regno, le sue manifestazioni non solo di attaccamento alla giustizia, ma di vivo apprezzamento degli studi giuridici. 35 Insomma, il nuovo sovrano si volgeva al diritto con benevolenza di certo maggiore di quanta ne avesse avuta il vecchio. Ma che la sua rifondazione dello Studio nel ’65 mirasse a far virare gli indirizzi culturali dell’alta società napoletana dalle umanità, per le quali non nutriva più l’entusiastica e ingenua passione di suo padre, 36 per orientarli sulle leggi, almeno a prima vista, non traspare. 4. Il Carafa, consigliere regio e organizzatore del nuovo Studio in cui ricopriva anche l’ufficio di vicecancelliere, era civilista e canonista. Dal ’53 aveva continuato a ricoprire cattedre legistiche, e si sa che ne occupava una ancóra il primo anno della scuola ripristinata. 37 Poi, almeno dal ’69 ma probabilmente prima, 38 si convertì 33. E. Percopo, Vita di Giovanni Pontano, Napoli 938, p. 64; C. De Frede, Studenti e uomini di leggi a Napoli, p. 22 s. 34. Antonio Panormita, Liber rerum gestarum Ferdinandi regis, ed. G. Resta, Palermo 968, 75, cfr. C. De Frede, Note sulla vita dello Studio di Napoli durante il Rinascimento, in Arch. stor. per le prov. napoletane, n. s. 34 (953-54), p. 39 s. 35. Un esempio: fu Ferrante a indirizzare Francesco Del Tuppo allo studio delle leggi. Usò significative parole che Francesco riproduce nella dedica al sovrano dell’edizione dei Riti della Vicaria curata nel 479. 36. Come ripete E. Pontieri, Per la storia del regno di Ferrante I d’Aragona re di Napoli, Napoli, s.d., pp. 28-3. 37. Il ms. Napoli, bn, iii. A. 55 (C. Cenci, Manoscritti francescani della Biblioteca Nazionale di Napoli, Quaracchi-Grottaferrata 97, i, p. 76 s.) ci tramanda una sua lettura del ’65-’66 sul ii (r-59v, 65r-68v, 74r-89v) e iii libro del Codice (96r-63v). 38. Nato intorno al 408, consigliere regio dal ’49 e dallo stesso anno giudice della Sommaria, a dare retta a una sua lettera-consilium databile al 470, avrebbe cominciato a insegnare da studente addirittura nel 425 (Coll. di Spagna H, 5v: «Inter quos
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totalmente ai canoni. Era legato alla corte aragonese, era certo tra i personaggi di maggiore spicco nella Napoli studiosa e le sue propensioni canonistiche, quindi l’attenzione alla filosofia e alla teologia e alle arti, favorirono probabilmente l’avvio di uno Studium generale davvero nuovo, complesso ed effettivamente articolato in omnibus facultatibus. Certo è che a guardare i rotuli del primo anno dopo la rinascita colpisce la struttura poderosa dell’istituzione fondata su almeno 22 insegnamenti, di cui la stragrande maggioranza umanistici, teologici, filosofici, medici. Il numero di cattedre legistiche appare tutto compreso contenuto, e a ricoprirle sono per lo più i vecchi docenti dell’età di Alfonso. Si rivedono quindi, Antonio d’Alessandro e Giovanni Antonio Carafa; Andrea Mariconda cambia la veste di studente che portava ancóra alla morte del Magnanimo in quella di professore, dopo essere stato favorito nelle magistrature da Isabella di Chiaramonte ai tempi della sua luogotenenza; l’unico nome nuovo è quello di Nicolò Capograsso salernitano, il quale però sale una cattedra secondaria poco remunerata e non sembra conservarla oltre quell’anno. I giuristi non appaiono dunque privilegiati nei confronti degli umanisti, dei quali anzi sembra si faccia particolare, ostentato sfoggio. Il gruppo che aveva attorniato Alfonso è nel ’65 ben rappresentato nella scuola; Ferrante fa mostra di continuare l’incarnazione paterna del principe rinascimentale con una visione anzi più larga, dato che mira a estendere il raggio d’azione della nuova cultura dalla corte alla scuola. Non solo l’Accademia del Panormita resta viva e vegeta e riceve i suoi statuti dal Pontano, il nuovo presidente, ma lo Studio rifondato arruola e retribuisce – non molto, occorre riconoscere – Porcelio Pandone, Costantino Lascaris, Giuniano Maio. Solo quest’ultimo, è vero, continuerà a insegnare a lungo seppure con una remunerazione tanto bassa da dimostrare che il suo impegno nella scuola pubblica, checché se ne sia detto, era [cioè tra i professori anziani] ego sum qui quatraginta quinque annis continue legi»). Un preannuncio della conversione al diritto pontificio si ebbe nel ’63, quando insegnò insieme diritto civile e canonico e divenne vicecancelliere dello Studio (Filangieri, L’età aragonese [cit. a n. 4], p. 69); poi i rotuli, che per qualche anno lo ricordano senza specificare la materia che insegnava, a partire dal 469-70 ce lo danno definitivamente canonista. Quando scoppiò la congiura dei baroni, nell’86, Ferrante lo volle tra i giudici e i carnefici di Francesco Coppola e dei Petrucci, ma egli venne a morte il giorno di Natale di quell’anno stesso.
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scarso. Porcellio e il Lascaris danno l’impressione di essere intervenuti ad pompam l’anno dell’inaugurazione, lasceranno comunque presto la città e sin dall’anno seguente saranno sostituiti da personaggi di minore spicco. Ai nostri occhi solleva qualche interrogativo l’ulteriore potenziamento della schiera dei medici, per l’offesa che parrebbe portare alla città di Salerno, al primato da lei acquisito da secoli nella disciplina e al diritto esclusivo che Federico II aveva sanzionato in suo favore. 39 Chissà come la prese la città. È vero che proprio Salerno si apprestava dal canto suo a violare il monopolio napoletano nel diritto, instaurando corsi legistici di un certo rilievo documentati dalle solite recollectae. 40 Ma a quest’insulto alla capitale Ferrante reagirà richiamando Salerno all’ordine, 4 e nel ’90 ribadirà che gli studi legali erano riservati a Napoli. Si avvicinava allora al termine della vita e poteva fare finta di dimenticare che nel ’58 e nel ’64 aveva concesso il placet all’apertura di uno « Studium cuiuscunque doctrinae et scientiae» anche all’Aquila. 42 O, più semplicemente, quel placet se lo rimangiava. 5. Col tempo i giuristi riconquisteranno nello Studio le loro posizioni di potere e la supremazia. Ma per un po’, dopo il ’65, sembra 39. Con la Utilitati speciali (Liber Augustalis iii.45) che condizionava l’esercizio della professione medica al previo accertamento da parte dei maestri del collegio di Salerno. 40. Il patrizio salernitano Nicola Capograsso, per esempio, è presentato dal ms. 70 del Collegio di Spagna come «regens in civitate Salerni» nel ’79. Non è sicuro sia lo stesso che nel ’65-’66, primo anno dopo la rifondazione dello Studio, aveva insegnato a Napoli accanto ad Antonio d’Alessandro con l’esiguo stipendio di 30 ducati (che esclude la cattedra ordinaria) Nemmeno è certa l’identificazione con il personaggio che entrerà nel Sacro regio Consiglio nel ’94 secondo il Toppi (De origine tribunalium [cit. a n. 8], II, p. 24), nel ’95 secondo il Tafuri (Istoria degli scrittori nati nel regno di Napoli, ii.2 = iii, Napoli 744, p. 344), il quale lo vuole altresì trasferito nell’Università di Napoli nel ’92 (quando le cedole di pagamento tacciono e si sospetta la chiusura dello Studio). 4. Un diploma del 25 giugno 490 proibisce che si leggano a Salerno altre materie che la medicina, pena la confisca dei beni, un altro diploma dell’ ottobre dello stesso anno ribadisce il diritto esclusivo dello Studium di Napoli d’insegnare le leggi (G. Origlia, Istoria dello Studio di Napoli [cit. a n. 9], p. 269, Filangieri, L’età aragonese [cit. a n. 4], p. 65). 42. La grazia del ’64 è ricordata dall’Origlia, i, p. 269, e dal Filangieri, p. 65. Quella del ’58 è ricordata da L. A. Antinori nelle note apposte alla Cronaca di Francesco d’Angeluccio di Bazzano pubblicata dal Muratori nelle Ant. It. M. Ae., vi, Mediolani 742 = Bologna 965, col. 895, e ne tratta ora A. Clementi, L’Università dell’Aquila dal placet di Ferrante I d’Aragona alla statizzazione. 1458-1982, Bari 992, p. 0.
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che siano essi a subire il fascino dei letterati. In genere i vecchi legisti e canonisti che per tutta Italia, dal Trecento, si erano lasciati sedurre dalle imprese umanistiche avevano relegato le loro avventure filologico-letterarie in una sorta di seconda vita, vissuta nelle pause degli otia; a parte rari casi avevano evitato sbavature di erudizione extragiuridica nel commentare leges e canoni. Si sa che solo più tardi, quando la filologia umanistica s’introdurrà programmaticamente nell’interpretazione del diritto romano, tra Quattro e Cinquecento, il metodo dialettico tradizionale della giurisprudenza lascerà il posto – ma solo in certi giri di dotti e in certe scuole – all’umanesimo giuridico. Lasciando in pace gli esempi centrosettentrionali noti, come quello del famoso e discusso Ludovico Bolognini, anche nello Studio di Napoli dopo la rifondazione si coglie qualche preannuncio, se non addirittura qualche fugace scintilla, di umanesimo giuridico. A farne scoccare una è un certo Leonardo de Lama (o Della Lama), allievo dimenticato di quell’Antonio d’Alessandro che fu maestro fecondo, ed ebbe alunni del calibro di Matteo d’Afflitto e di Iacobuzio De Franchis. Leonardo si lanciò anch’egli presto in una carriera brillante nella scuola e poi nelle magistrature, le sue lecturae ci sono tramandate da quattro manoscritti 43 di cui ben tre ci vengono dalla biblioteca del re: il che è segno della fama che lo circondò ai suoi tempi. Ma forse la morte prematura, forse la circostanza che nessun’opera giuridica fu mai data alle stampe decretarono la sua condanna a un rapido e quasi completo oblio. Fu alunno solerte, abbastanza da far parte dello sparuto gruppo di sei studenti presenti, il giovedì 3 luglio 466, alla chiusura del primo corso tenuto dal d’Alessandro nella scuola rinnovata. 44 43. Paris, bn, lat. 4447, ra-340rb, Lectura Institutionum, mutila, a. 468-69, esemplare appartenuto al re. // Napoli, bn, xi C. 88, r-435r, Lectura Institutionum, a. 46970, scriptor Ioannes de Cava, esemplare appartenuto ai Cappuccini di Napoli (C. Cenci, Manoscritti francescani [cit. a n. 37], p. 872 s., n. 522). // Paris, bn, lat. 4507, ra52ra, Lectura Dig. 2.-3.5, a. 474-75, scriptor Ioannes Gaetanus, esemplare appartenuto al re per confisca a Giovanni ii Caracciolo duca di Melfi. Il ms. contiene anche la lectura extraordinaria di Dig. 45. tenuta quello stesso anno da Andrea Mariconda, collega di Leonardo (G. Mazzatinti, La biblioteca dei re d’Aragona in Napoli, Rocca S. Casciano 897, p. 76 n. 23 e sopratutto T. De Marinis, La biblioteca napoletana dei re d’Aragona, Suppl. i, Verona 969, p. 50 s.). // Paris, bn, lat. 4555, rb-227rb, Lectura Cod. 6.-6.30, scriptor Ioannes Gaetanus, esemplare appartenuto al re (De Marinis, La biblioteca napoletana, p. 4 s.). 44. La nota in proposito, riportata dal ms. Napoli, bn, iii.A.55, 353v, è stata ritra-
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Ancóra da scolaro, nel ’68-’69, ebbe l’incarico dell’insegnamento delle Istituzioni, retribuito con modesto stipendio, e se la cavò molto dignitosamente. 45 Lo ripeté l’anno successivo, ma senza stipendio. A mo’ di chiusura di queste seconde recollectae scrisse – ed è il primo segno dei suoi gusti letterari – una decina di versi latini pomposi e ricercati, alla maniera umanistica, in cui non mancò di accennare amaramente al fatto di non essere stato pagato per la sua fatica.46 Poco più tardi conseguì il dottorato e continuò a dare letture tra il ’72 e il ’74; 47 quest’ultimo anno il sovrano lo chiamò a una cattedra ordinaria. Spiegò allora il Digestum vetus dopo aver proluso solennemente in presenza di molte autorità; 48 l’anno successivo proseguì con il Codice, come la regola voleva, ma già nel gennaio-febbraio del ’76 dovette interrompere il corso perché il re lo investì di una prima commissio nell’avellinese: si fece sostituire temporaneamente da Antonio Palmieri, un giurista di vaglia che, tempo dopo, sarebbe entrato nel Sacro regio Consiglio. Non sembra il de Lama abbia proseguito nell’insegnamento. Mancano i rotuli del ’76-’78 e Leonardo non compare più in quelli successivi, intorno all’80 è registrato tra i presidenti della Sommaria, nell’82 è Avvocato del Fisco e commissario del re, 49 e poi scompare, colpito probabilmente da morte prematura. scritta da C. Cenci, Manoscritti francescani, I, p. 76 s. n. 74 e, con il suggerimento della lettura diversa di taluni nomi, in E. Cortese, Sulla scienza giuridica a Napoli [cit. a n. ], p. 53 n. 47. 45. L’insegnamento è registrato dal Cannavale, Lo Studio di Napoli (cit. a n. 6), pp. 46 e liii, doc. 393 (remunerazione di 0 ducati). Dal Cannavale attinge la notizia il Filangieri, L’età aragonese, p. 9. La lectura copre il ms. Paris, bn, lat. 4447. 46. Napoli, bn, x.C.88, 435 r. I versi sono solo in parte trascritti dal Cenci, Manoscritti francescani, II, p. 873 n. 522, la parte ove ricorre il cenno all’esecuzione gratuita del lavoro è riprodotta nel mio Leonardus de Lama. Diritto e umanesimo nella Napoli del tardo Quattrocento, in Satura Roberto Feenstra sexagesimum quintum annum aetatis complenti ab alumnis collegis amicis oblata, Fribourg Suisse 985, p. 492 n. 5, ora anche nei miei Scritti, a cura di I. Birocchi e U. Petronio, Spoleto 999. 47. Cannavale, Lo Studio di Napoli, 48 s. e lxxxvii doc. 86, xc doc. 849, remunerato con rispettivamente 45 e 30 ducati. 48. Paris, bn, lat. 4507, con solenne oratio di apertura a c. rab. Il seguente anno 475, l’ultimo giorno di ottobre, cominciano i reportata sul vi libro del Codice del ms. Paris, bn, lat. 4555, anche qui a c. ra un’oratio, ma più contenuta e di tono più familiare di quella recitata l’anno precedente. Alle cc. 7va-93rb le lezioni del sostituto Antonio Palmieri (C. 6.9-6. pr.). 49. A porre il de Lama tra i presidenti della Sommaria, ma senza precisare la data, è il Toppi, De origine tribunalium [cit. a n. 8], I, p. 22; come avvocato fiscale e com-
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Se la giurisprudenza che fu la sua specialità non gli garantì il ricordo dei posteri, fu il suo gusto letterario a lasciare qualche modesta memoria di lui nella storiografia moderna. Tre suoi sonetti in volgare compaiono infatti in una raccolta – appartenuta alla biblioteca reale ed edita oltre un secolo fa dal Mazzatinti 50 – di rime in vernacolo firmate da personalità napoletane quattrocentesche. Il gusto per le lettere doveva essere penetrato con una certa enfasi tra i giuristi, seminando tra l’altro la consueta maldicenza tra colleghi: uno dei pezzi del de Lama è rivolto a svillaneggiare un anonimo «iuritico poeta» i cui sonetti sarebbero stati tanto oscuri da non bastare il Filelfo a commentarli, e i significati ancóra più nascosti di quelli dell’Apocalisse. 5 Non è dubbio che il gusto letterario abbia contagiato la scolaresca di Leonardo de Lama: un paio di componimenti in versi appaiono trascritti da un suo allievo in capo a due manoscritti delle recollectae dei suoi corsi sul Digesto e sul Codice. 52 missario regio compare nelle cedole del 482 segnalate da N. Barone, Le cedole di tesoreria dell’Archivio di Stato di Napoli dall’anno 1460 al 1504, in Arch, stor. per le prov. napol., 9 (884), p. 422. 50. Rimatori napoleani del Quattrocento, con prefazione e note di Mario Mandalari. Dal cod. 1035 della Bibl. Nazionale di Parigi per cura dei dottori Giuseppe Mazzatinti ed Antonio Ive, Caserta 885, pp. 49-52. Gli altri autori della raccolta sono Francesco Galeota, consigliere di Ferrante; Francesco Spinelli, gentiluomo del Seggio di Nido; Pietro Iacopo de Gennaro, figlio di Giorgio magister rationalis; Cola di Monforte, un omonimo del famigerato conte di Campobasso; Michele Richa, estensore della sentenza di morte dei baroni ribelli nel 486; Colletta dell’Amandolea, legis doctor presente all’emanazione di quella sentenza; Giovanni Troccoli, commissario regio nella Basilicata e in ciò collega del de Lama; un misterioso An. Ci. che potrebb’essere più facilmente identificato con Antonio Cicinello, sfortunato luogotenente del sovrano all’Aquila, che con i personaggi suggeriti dal Mandalari. Ampia trattazione e arricchimenti ulteriori tratti da manoscritti di Monaco e di Firenze in F. Torraca, Rimatori napoletani del secolo decimoquinto. Discussioni e ricerche letterarie, Livorno 888, pp. 2-92; chiarimenti e correzioni in T. De Marinis, La biblioteca napoletana dei re d’Aragona, ii, Milano 947, p. 44. Il manoscritto ora parigino appartenne anch’esso al re, il che può essere preso come un segno del pregio in cui si teneva il contenuto: è forse troppo severo il moderno giudizio sprezzante del Torraca (Rimatori napoletani, 87: «quei primi scrittori del Napoletano fan la figura di poveri scolarelli»). 5. Cfr. il sonetto Io ho calculato et visto el pianeta del de Lama edito in Mazzatinti e Ive, Rimatori napoletani, p. 5 s. 52. Si tratta dello strambotto Colli occhy molli lachrimosi e basse (due strofe di 8 endecasillabi a rime alternate di genere amoroso) del ms. Paris, bn, lat. 4555, c. [iv]v, e delle 9 terzine in onore della Vergine del Paris, bn, lat. 4507, c. [iii] ra, che ritorna, con varianti, nel Vat. lat. 773, 55v-56v (inc. Ave del cielo regina e della terra).
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L’emergere di queste manie poetiche volgari non può più essere considerato ai nostri giorni, come lo era in altri tempi, fenomeno di ‘arte popolare’ diverso e separato dalla fioritura umanistica paludata, fedele al latino e circoscritta a giri dotti e raffinati. Si tratta di due indirizzi che procedono dandosi la mano negli stessi ambienti culturali. 53 Il de Lama, peraltro, nelle recollectae del ’68-’69 contenute nel ms. parigino 4447 e dettate quand’ancóra era studente, si attiene alle citazioni solo giuridiche nel testo, com’era regola, ma nel proemio, ov’era lecito fare sfoggio di cultura personale, non solo allega oltre leges e legisti anche canoni e canonisti, ma spazia tra i grammatici tardo latini, cari alle vecchie Arti, e tra poeti e scrittori classici. Si mette per esempio a spiegare i termini che indicano titoli imperiali allegando per Caesar Nonio Marcello, per Augustus il commento di Macrobio al Somnium Scipionis, Festo Pompeo, Prisciano, Servio, Svetonio, Orazio ed Ennio. Poi passa al termine institutiones ed evoca Valerio Massimo, Quintiliano, Lattanzio, Orazio nonché il Valla delle Elegantiae. A onor del vero il Valla, celebrato come illustris orator, doveva fornire al de Lama più di una chiave d’accesso a quella cultura antiquaria che il giovane professore teneva un po’ troppo a ostentare, probabilmente per impressionare l’uditorio. Oggi comunque siamo invogliati a intravedere, nei suoi modesti conati, una prima velleità di umanesimo giuridico a Napoli. 6. Col passare degli anni persiste la varietà degli insegnamenti. Il diritto non vede aumentare il numero delle proprie cattedre, e tuttavia sembra muoversi più delle altre discipline e avventurarsi in iniziative originali. Il quadro generale dà il regno di Ferrante come epoca molto creativa per la giurisprudenza; con la complicità dell’introduzione a Napoli della stampa intorno al ’70 e con le importanti edizioni giuridiche di Sisto Riessinger e di Francesco del Tuppo comincia infatti a sbocciare quella fioritura di opere che più tardi, nel Cinquecento spagnolo, darà i ricchi frutti che tutti conoscono. È naturale che la scuola reagisca, e mostri anch’essa i germi della trasformazione che caratterizzerà il secolo seguente, ossia l’indebolimento dell’esegesi romanistica e il potenziamento delle 53. P. O. Kristeller, The Philosophical Significance of the History of Thought, nel Journal of the History of Ideas, 4 (943), p. 62, ora nei suoi Studies on Renaissance Thought and Letters, i, Roma 956 (e 984), p. 4.
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cattedre d’istituzioni e di materie di attualità, come i feudi e il processo. Alla via tutta teorica dell’umanesimo culto che sarà preferita in Francia – ma solo mezzo secolo più tardi e limitatamente a certi centri come Bourges –, si contrappone a Napoli piuttosto il gusto concreto per il diritto vivo, si sottolinea la valenza pratica dell’arte e si nutrono preoccupazioni tecnico-professionali. A dissodare questo terreno, nella scuola del tardo Quattrocento aragonese, nessuno appare più efficace di Matteo d’Afflitto. Scolaro come il de Lama di Antonio d’Alessandro, egli comincia a venir remunerato dalla Regia Camera nel 467-68 54 per un insegnamento non specificato. Si trattava probabilmente di una delle letture delle Istituzioni giustinianee ch’era uso affidare a studenti bravi; l’emolumento è minimo, 0 ducati, e il dottorato è prossimo: lo conseguirà infatti in diritto civile il 22 giugno proprio del ’68. L’anno successivo l’insegnamento gli viene confermato e lo stipendio raddoppiato, nel ’70-’7 scende nuovamente a 0 ducati, nel ’73-’74 risale a 20, nell’87-’88, dopo un prolungato silenzio dei rotuli, giunge a 30: sono remunerazioni basse, convengono a incarichi transitori, non a cattedra ordinaria. Eppure a lui si debbono ardite iniziative. Sono tentativi di allargare la didattica oltre il Corpus giustinianeo; si avverte nella scelta dei temi la voglia di orientare l’insegnamento verso fonti e problemi locali, ch’è cosa per lo meno insolita. Il primo corso inconsueto, che intraprese su consiglio degli anziani della scuola, fu iniziato da Matteo nel giugno 468 55 e riguardò il diritto feudale. Tra il 475 e il 480 – ma i rotuli tacciono in quegli anni il suo nome o tacciono del tutto –, sempre «legendo usus feudorum stipendiis regis Ferdinandi primi» 56 egli compose il suo grande commento dei Libri feudorum. 54. Cannavale, Lo Studio di Napoli (cit. a n. 6), p. 46. 55. Il 22 giugno secondo quanto dice Matteo stesso nell’opera feudale (ii, de investitura in maritum factam, pr., nr. , ed. Lugduni 560, 49va). Ma T. De Marinis la corregge nel 29 giugno (Nuovi documenti per la storia dello Studio di Napoli nel Rinascimento. Per nozze Padoa-Sacerdoti, Firenze 904, 9, doc. 0). Si ricordi che il 22 giugno Matteo aveva conseguito il dottorato e quello stesso anno aveva preso in moglie Orsina, figlia di Giovanni Antonio Carafa, allora il giureconsulto partenopeo più in vista. Si può dire dunque che si trattò di un anno cruciale nella vita del D’Afflitto. 56. Com’egli stesso avverte nel proemio delle sue Decisiones pubblicate nel 509, nr. 4. La prima edizione conosciuta del commento feudale è quella veneziana del 543-47; sebbene ne siano seguíte altre fino al ’600, l’opera fu più criticata che lodata.
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Era, a dire il vero, solo una mezza novità, perché da quando il codice feudale lombardo era stato introdotto come decima collatio in appendice alle Novelle giustinianee la sua lettura era occasionalmente entrata nei programmi degli Studia: già nel 30-302 un corso feudistico era stato tenuto magnificamente da Iacopo di Belviso proprio a Napoli. Si trattava di materia corrente nella prassi, disciplinata da costituzioni federiciane e di casa nei tribunali, di modo che attirava sopratutto i pratici: tra Due e Trecento il monarcha feudistarum Andrea d’Isernia aveva redatto il suo maestoso commentario non dalla cattedra, ma rubando tempo alle alte magistrature in cui era impegnato. Nella prima età aragonese non mancavano certo feudisti attivi nel fòro. Nicola Antonio Delli Monti, per esempio, celebre Avvocato del Fisco nel 449 e luogotenente del Gran Camerario dal 450, era esperto della materia feudale e rendeva consilia; nel secolo seguente il Grammatico lo definirà «magnus practicus et feudista». 57 E poi v’era Paride Dal Pozzo. Stella di prima grandezza, maestro di Ferrante, non si sa se abbia anche insegnato nello Studio. Ma lo influenzò di certo. È lui che assecondò il fenomeno del ritorno ad Andrea d’Isernia feudista compilando un Breve compendium del mastodontico commentario di Andrea in usus feudorum; il definitivo trionfo dell’opera sarà assicurato dalla stampa di Sisto Riessinger del 477. La specialità di Paride era il problema della reintegrazione dei feudi. Aveva accumulato un ricco patrimonio di esperienza su quel tema in séguito alle reiterate commissioni di cui era stato investito da Alfonso e da Ferrante; verso il 480 58 distillò quest’esperienza in un libro singolare, il De reintegratione feudorum che, fondato com’è sulle questioni che aveva esaminate in veste di giu57. Il Grammatico, Decisio , nr. 23, ricorda in particolare un consilium feudale del Delli Monti conservato in una raccolta ad pennam di vari autori ch’egli possedeva. Redatto al tempo di Ferrante per un’importante causa tra Antonello Sanseverino principe di Salerno e Barnaba Sanseverino conte di Lauria, il consilium era stato utilizzato e condiviso da Francesco Accolti. 58. Per datare l’opera di Paride v’è l’unico argomento, per la verità assai labile, che l’opera appare sconosciuta a quella di Matteo d’Afflitto, che pure di Paride si proclama a più riprese amicissimo. Dal canto suo neppure Paride cita il lavoro di Matteo, sicché viene spontaneo d’immaginare che abbiano scritto nello stesso giro d’anni. La prima edizione del De reintegratione è quella napoletana del 544, che stampa anche un lessico feudale di Paride e il suo Compendium dell’opera feudistica di Andrea d’Isernia.
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dice, fornisce un bel quadro dei problemi concreti del mondo feudale dei suoi tempi. Si sostiene che quel mondo, malgrado le concessioni fatte da Alfonso nel parlamento di S. Lorenzo del marzo ’43, stava subendo una crisi di potere dovuta alla decadenza di molte famiglie nobili e all’invadenza del ceto forense. 59 Paride Dal Pozzo rivela che uno dei maggiori effetti, e al contempo una delle cause, di quella decadenza stava nello spezzettamento progressivo dei feudi e nella conseguente minaccia di una polverizzazione del sistema. Il degradare del feudo verso regimi privatistici, e quindi l’intensificata circolazione mediante strumenti successori, o dotali, o altrimenti alienativi che il requisito dell’assenso regio non bastava a frenare, minacciava infatti di sconvolgere l’assetto giuridico di larga parte del territorio, e ne pregiudicava l’efficiente controllo da parte del potere centrale. Sicché la reintegrazione nella consistenza originaria dei feudi menomati era questione che stava a cuore al sovrano ancor più che ai baroni; era d’altronde preoccupazione diffusa da tempo nel Mezzogiorno. Anche i vecchi re aragonesi dell’isola di Sicilia, all’indomani dei Vespri, avevano temuto il moltiplicarsi di piccoli feudi; il Mazzarese Fardella ha rilevato che persino il famigerato cap. Volentes, con cui Federico ii nel 296 aveva liberalizzato pericolosamente le alienazioni, era stato attento a mantenere l’integrità dei domíni baronali e a impedire la loro frantumazione. 60 Specchio dunque di quesiti genericamente politici e comunque pratici, il diritto feudale radicava la scienza forense nel secolo e nel territorio. Agli interessi della scienza forense guardò Matteo cercando di ricondurli al testo di quei Libri feudorum ch’erano, sì, norma vigente, ma venivano da mondi lontani e non si rivelavano sempre in sintonia con l’ordinamento e i problemi del regno. 7. Sicché non stupisce che il commento feudale del d’Afflitto segua metodi prossimi a quelli dei canonisti, più attenti dei legisti alle 59. De Frede, Studenti e uomini di leggi (cit. a n. 7), p. 9 s. Quanto al parlamento di S. Lorenzo, è nell’ultima tornata (9 marzo 443) che Alfonso, da poco insediatosi a Napoli, s’impegnò a rilasciare privilegi di concessione del mero e misto impero a tutti i feudatari (G. Vallone, Iurisdictio domini. Introduzione a Matteo d’Afflitto ed alla cultura giuridica meridionale tra Quattro e Cinquecento, Lecce 985, pp. 2-2), consegnando loro di fatto la giustizia penale e l’immenso potere che ne conseguiva. 60. E. Mazzarese Fardella, I feudi comitali di Sicilia dai Normanni agli Aragonesi, Milano 974, pp. 66-68.
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vicende della vita contemporanea, e non sia lontano in particolare dal metodo di Paride Dal Pozzo, peraltro buon amico di Matteo. Colpisce l’attenzione che quest’ultimo presta, in tema di feudi, agli episodi di fatto e al sistema normativo meridionale, e colpisce il suo sforzo interpretativo delle norme tutto rivolto a ridimensionare quelle minacciose giurisdizioni feudali 6 che proprio la monarchia aragonese, con Alfonso, aveva contribuito pericolosamente a dilatare. L’immagine ch’egli disegna del feudo è quella di una realtà concreta, colorata di problemi locali, e non l’astratto distillato esegetico di un testo scolastico. La didattica si andava così aprendo sempre più al ius Regni. Se ne hanno segni ulteriori in qualche manoscritto scolastico in cui si leggono note alla cost. Maiestati nostrae quorundam del Liber Augustalis 62 e alla cost. Sancimus, 63 una norma che si rispecchiava nel ius congrui delle consuetudini di Napoli e toccava significativamente il regime del mercato immobiliare. Si trattava di una traduzione tardo-duecentesca in lingua latina d’una Novella bizantina, probabilmente emanata intorno al 920 da Romano Lacapeno, che concedeva una prelazione nell’acquisto di beni immobili a chi avesse vantato una coniunctio con quei beni, specialmente parenti del dante causa e vicini. L’aggiunta di un pezzo coniato nella prima età angioina ne aveva fatto un nuovo componimento normativo che, attribuito a Federico II, sarà inserito nel Cinquecento in calce alla raccolta dei capitoli di Roberto d’Angiò. Lo studente che aveva scritto nelle sue recollectae scolastiche la nota sulla Sancimus (de iure prothomiseos) era forse uno di quegli scolari che, poco dopo la metà degli anni ’70, sollecitarono il d’Afflitto, che leggeva sui feudi, a dedicare alla costituzione pseudofedericiana un altro dei suoi corsi anomali. Ne venne fuori un bel trattatello; dopo l’editio princeps veneziana del 496, il numero di stampe e l’introduzione nei Tractatus universi iuris del 584 testimoniano il singolare successo di quest’opera. Matteo, che peraltro non era stato mai impegnato nello Studium 6. G. Vallone, Iurisdictio domini, pp. 3-60. 62. Liber Augustalis iii.83 nell’ed. Stürner 996 dei mgh; iii.92 de adulteriis coercendis nelle edd. antiche. 63. Ms. Napoli, bn, i.h., 26r-27v e 29r (Cenci, Manoscritti francescani [cit. a n. 37], i, p. 36 nr. 33). Qualche notizia ulteriore, particolarmente sulla Sancimus, nel mio Sulla scienza giur. a Napoli (cit. a n. ), p. 68 s. n. 96.
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a tempo pieno e aveva vissuto prevalentemente per e nella prassi, compì all’età di circa quarant’anni l’usuale balzo dei buoni giuristi verso i grandi tribunali e si allontanò, a quanto pare, dalla scuola. Lo si trova alla Vicaria nel 488 o ’89, nel 49 alla Sommaria e nel 495 lo si vede salire l’ultimo gradino e ascendere al Sacro Regio Consiglio: forse in riconoscimento della fedeltà dimostrata agli aragonesi e degli atteggiamenti antiangioini assunti, in quello stesso ’95, nei pochi mesi dell’occupazione di Carlo viii. Nel Sacro Consiglio rimase soltanto fino al 50, ma la pur breve esperienza gli consentì qualche anno dopo d’inaugurare una produzione che avrà enorme successo non soltanto a Napoli: la raccolta delle decisiones di quell’alto tribunale, ch’egli fu il primo a redigere, costituisce infatti il nuovo genere che coniugò al meglio scienza e fòro. Non si trattò di una sorta di prontuario di sentenze, ma di una silloge delle argomentazioni avanzate dal massimo collegio giudicante nella discussione di fattispecie significative. Talvolta le rationes che Matteo offre come risolutive non lo furono nel fatto, talvolta le decisiones da lui proposte non sono quelle adottate realmente dal collegio: in parte la cosa lascia intravedere un autore presuntuoso e inaffidabile, ma in parte essa conferma che il suo scopo era di ridurre a quaestiones scientifiche le discussioni svolte in sede giudicante, e non di compilare un catalogo di precedenti giudiziali. La raccolta del d’Afflitto, stampata nel 509 64 e imitata negli anni successivi dalle sillogi di Antonio Capece, di Tommaso Grammatico e poi di uno stuolo di giuristi, aprì per la prima volta in Italia 65 64. L’editio princeps fu a lungo indicata in un’inesistente stampa del 499. Un errore in tal senso del repertorio bibliografico del Mallinckrodt fu infatti diffuso da quelli del Maittaire e del Panzer, rispettivamente nella prima e nella seconda metà del Settecento, ed ebbe l’avallo dello Hain (364) e sopratutto del Reichling (ii, 5) che pretese di aver trovata una copia di quell’incunabolo a Palermo (è in realtà un esemplare dell’edizione del 509). Il dubbio sull’effettiva esistenza della stampa del 499 è stato tuttavia insinuato dalla perentoria negazione di Eustachio d’Afflitto (Memorie degli scrittori del Regno di Napoli, i, Napoli 782, p. 8 e n. a) e ha serpeggiato nella storiografia moderna (F. Nicolini, Saggio d’un repertorio biobibliografico di scrittori nati o vissuti nell’antico regno di Napoli, Napoli 956, p. 573) fino alla documentata conferma che ne ha data G. Vallone, Le ‘decisiones’ di Matteo d’Afflitto, Lecce 988, pp. 33-38. Qui anche (pp. 38-207) accurate notizie sulla fortuna dell’opera, le tante edizioni e le additiones che meritò per tutto il Cinquecento. 65. È ben noto che l’uso di raccogliere le decisiones dei grandi tribunali, inaugurato dalla Rota avignonese, fu importato tra Tre e Quattrocento nei parlements di
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un filone scientifico di cui ormai la storiografia riconosce appieno la grande rilevanza. Gli ultimi anni della vita di Matteo furono tristi. Allontanato dal Sacro regio Consiglio e trasferito alla Sommaria, nel 506 incorse in un misterioso incidente che indusse Ferdinando il Cattolico, il 5 dicembre di quell’anno, a espellerlo dagli uffici. Nei suoi confronti non restò traccia di benevolenza, da parte dei colleghi si scatenarono maldicenze, circolò la voce ch’egli non fosse più nel possesso delle piene facoltà mentali. Forse è per dimostrare la falsità dell’accusa ch’egli compose tra il 50 e il 53 il mastodontico commentario al Liber Augustalis. Malgrado le critiche ch’ebbe, l’opera segnò uno straordinario ritorno di Federico ii legislatore sulla scena scientifica. 8. Se le due ultime opere di Matteo furono composte fuori dalla scuola, e sono quindi espressione di quella ‘scienza di giudici’ che affiancava da sempre la ‘scienza dei professori’, le due prime aprirono invece le porte all’ingresso della ‘scienza dei giudici’ nelle aule scolastiche. Non per la prima volta, certo, ma ora nei modi che le fonti – specialmente le solite recollectae – per la prima volta documentano. Con il grosso commentario feudale Matteo aveva sperato di meritare quella cattedra ordinaria che non ottenne mai. Fu tutto sommato una fortuna per la scuola: perché le cattedre ordinarie, ancorate com’erano alla lettura del Digesto e del Codice, erano incatenate a programmi stantii che le anchilosavano. Il gusto per il moderno, la mobilità degli interessi, l’ansia per il nuovo potevano trovare sfogo, nello Studio partenopeo, piuttosto nei numerosi incarichi temporanei d’insegnamento. All’epoca di Ferrante era la loro elasticità, di cui profittò appunto il d’Afflitto, a consentire al magistero universitario di scendere dai cieli sulla terra. Stupisce che questo fenomeno non si sia verificato più decisamente e più precocemente, perché le fonti rivelano che a Napoli Francia; la silloge delle decisioni del Parlamento del Delfinato, che ottenne una straordinaria diffusione in tutta Europa, fu curata da Guy Pape tra il 444 e il 46 (L. Chabrand, Etude sur Guy Pape (1404?-1477), Thèse, Paris 92, p. 44). Un minuzioso elenco delle raccolte italiane di decisiones, tra le quali numerose le napoletane, aperto dalla collezione del d’Afflitto e disposto secondo l’ordine cronologico delle edizioni, si legge in M. Ascheri, Tribunali, giuristi e istituzioni dal Medioevo all’età moderna, Bologna 989, pp. 22-235.
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erano da sempre i giudici a tenere in mano l’insegnamento. Le assegnazioni di cattedre a professori specializzati nell’insegnamento, a virtuosi della lezione a tempo pieno sul modello centrosettentrionale, sono sporadiche e rare: non si va oltre la chiamata di Guido da Suzzara da parte di Carlo I d’Angiò, quella di Riccardo Petroni canonista e di Iacopo di Belviso civilista da parte di Carlo II – alle quali va aggiunto il tentativo fallito con Dino del Mugello –, infine, ai tempi aragonesi, la nomina del misterioso de Pellatis voluta da Alfonso. Per il resto l’insegnamento del diritto appare in ogni tempo considerato a Napoli pedana di lancio alla carriera giudiziaria o appendice della funzione giudicante, e presto si ritenne la ‘facoltà’ giuridica dello Studio una sorta di feudo delle magistrature: impegnati principalmente nei tribunali, i giudici non le dedicavano che il tempo residuo, ma tenevano ugualmente in mano con autorevolezza la formazione giovanile. Già nell’ultima età angioina l’istituzione nel 428 del Collegio dei dottori, composto interamente di alti magistrati e destinato al controllo delle lauree, sembra costituire un efficace anello di congiunzione tra scuola e tribunali. Anzi, l’approfondito esame e la successiva investitura solenne nella dignità dottorale prendono l’aspetto di una cerimonia di cooptazione dell’ex studente nel ceto dei togati: un ceto di potere, altero ed esoterico, che andava scalzando la nobiltà e si contrapponeva alla passeggera e cortigiana invadenza umanistica. La ‘facoltà’ di giurisprudenza sembra assumere così la funzione di un ufficio subalterno delle magistrature, e funge da sede in cui i giudici, salendo essi stessi in cattedra, provvedono a plasmare e controllare gli aspiranti all’ammissione nel ceto. Il circuito che si forma a questo modo tra magistratura e scuola nell’àmbito cetuale le riduce a costituire strutture della medesima amministrazione. Il legame è solo funzionale, com’è ovvio, perché non è sancito ufficialmente. Ma è tanto intimo da dare allo Studio partenopeo un vólto ben diverso da quello che presentano le scuole dell’Italia superiore. La sua vita va quindi valutata con criteri differenti da quelli generalmente adottati per gli analoghi istituti d’istruzione del mondo comunale. E ad altro metro va misurata anche la storia della sua vera o presunta inefficienza. Università di Roma “La Sapienza”
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Un tipo di documento noto ma poco frequentato, le recollectae delle lezioni impartite nello Studio napoletano quattrocentesco (se ne segnalano un paio di dozzine di codici al Vaticano, a Napoli, a Parigi e a Bologna), offre notizie preziose che precisano e arricchiscono il quadro della cultura giuridica meridionale di quel secolo. Per esempio: nei primissimi anni del Quattrocento ignote repetitiones di Giovanni Crispano testimoniano la perdurante influenza dei vecchi luminari orleanesi Jacques de Revigny e Pierre de Belleperche; emergono tracce dell’insegnamento del grande Antonio d’Alessandro negli ultimi anni di re Alfonso, quando di regola si crede lo Studio fosse chiuso; affiorano corsi di diritto a Salerno nei primi tempi di Ferrante in violazione del monopolio napoletano sancito per legge; tornano alla luce i corsi napoletani del pressoché dimenticato Leonardo della Lama, giurista e poeta apprezzato a corte; s’intravvedono inconsueti interessamenti scolastici alla pseudo-federiciana costituzione Sancimus che preludono al corso di Matteo d’Afflitto sul diritto di protimesi tenuto e pubblicato nella seconda metà degli anni ’70; altri segnali sparsi manifestano il primo aprirsi del magistero accademico al ius Regni. A type of document, known and yet little studied, are the recollectae of classes given at the fifteenth century Neapolitan “studio” (a couple of dozen of manuscripts are extant in the Vatican Library, in Naples, in Paris and in Bologna). These documents offer precious informations which make more precise and rich the picture we have of the juridical culture of Southern Italy in the Fifteenth century. For example: in the very first years of that century, unknown repetitiones by Giovanni Crispano attest a persisting influence of the old Orleanese luminaries Jacques de Revigny and Pierre de Belleperche; we see traces of the teachings of the great Antonio d’Alessandro in the last years of King Alfonso, that is in those years when we usually believe that the “studio” was closed; we find evidence of law courses taught in Salerno at the beginning of Ferrante’s ruling in violation of the Neapolitan exclusive right established by law; we see come back to light the Neapolitan courses by the almost forgotten Leonardo della Lama, a jurist and poet well respected at the Court; we see an unusual interest of the school in the pseudo-Frederick’s constitution Sancimus, an interest that anticipates the course by Matteo d’Afflitto on the right of protimesi published in the Seventies; we see other scattered signals indicating the didactics opening to the ius regni. Les recollectae des cours tenus à l’Université de Naples au xve siècle (on en signale plusieurs manuscrits dans les bibliothèques du Vatican, de
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Naples, de Paris et de Bologne) sont faiblement exploitées par les historiens et offrent pourtant bien des renseignements sur les vicissitudes de la culture juridique dans l’Italie du Sud. Par exemple: au début du xve des répétitions jusqu’à présent inconnues de Giovanni Crispano témoignent de l’influence persistante des anciens professeurs orléanais Jacques de Revigny et Pierre de Belleperche; on a la preuve que les dernières années du roi Alphonse, alors que l’école de droit était censée être fermée, le célèbre juriste Antonio d’Alessandro était titulaire d’une chaire; à Salerne aux débuts du règne de Ferdinand ier on enseignait le droit malgré la loi qui établissait le monopole napolitain; Léonard de Lama, à peine connu comme poète et tout-à-fait inconnu comme juriste, était un professeur de droit apprécié du roi et de la cour; on aperçoit le Studium s’intéresser à la constitution Sancimus attribuée à Frédéric II avant que Matteo d’Afflitto, peu après 475, ne lui consacre, ainsi qu’au droit de protímhsiw, un cours et un traité célèbres; d’autres notices montrent que l’enseignement du droit romain commençait en ce siècle à Naples à s’ouvrir au ius regni. Un tipo de documento conocido pero poco estudiado, las recollectae de las clases impartidas en el Studio napolitano del siglo xv (se señalan un par de docenas de códices en el Vaticano, Nápoles, París y Bolonia), ofrece valiosas noticias que precisan y enriquecen el cuadro de la cultura jurídica meridional de aquel siglo. Por ejemplo: en los primeros años del Cuatrociento unas repetitiones desconocidas de Giovanni Crispano atestiguan la influencia persistente de las viejas glorias de Orleans: Jacques de Revigny y Pierre de Belleperche; emergen huellas de la enseñanza del gran Antonio d’Alessandro en los últimos años del Rey Alfonso, cuando por lo general se cree que estaba cerrado el Studio; afloran cursos de Derecho en Salerno en los primeros tiempos de Ferrante, en clara infracción del monopolio napolitano sancionado por ley; salen a la luz los cursos napolitanos del casi olvidado Leonardo della Lama, jurista y poeta apreciado en la corte; se entrevén insólitos intereses escolásticos en la pseudo-federiciana constitución Sancimus, que preludian el curso de Matteo d’Afflitto sobre el derecho de protimesis dictado y publicado en la segunda mitad de los años 70; otros indicios dispersos revelan la incipiente apertura del magisterio académico al ius Regni. Eine bekannte, aber selten benutzte Quelle, die recollectae der im Studio Napoletano des xv. Jahrhunderts gehaltenen Vorlesungen (ein paar Dutzend Codices sind im Vatikan, in Neapel, Paris und Bologna aufbewahrt), gibt wertvolle Hinweise, die unser Bild der juristischen Kultur des damaligen Süditaliens verschärft und bereichert. Zum Beispiel: In den ersten Jahren des xv. Jahrhunderts bezeugen die bisher unbekann-
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ten repetitiones von Giovanni Crispano den anhaltenden Einfluss der alten französischen Juristen Jacques de Revigny e Pierre de Belleperche; Spuren der Lehrtätigkeit des berühmten Antonio d’Alessandro in den letzten Jahren der Herrschaft Alfonsos (man hat bisher gedacht, das Studio sei damals schon geschlossen) kommen ans Licht; Rechtskurse in Salerno, die gegen das gesetzlich gesicherte Monopol von Neapel verstoßen, in den ersten Jahren von Ferrante tauchen auf ; neapolitanische Kurse des beinahe vergessenen Juristen Leonardo della Lama, ein vom Hof sehr geschätzter Dichter; eine interessante sowie außergewöhnliche Aufmerksamkeit der Schule auf die pseudo-frederianische Konstitution Sancimus, eine Vorwegnahme des Kurses über das Recht von protimesi, gehalten und veröffentlicht in der zweiten Hälfte der 70 Jahren; andere Quellen weisen auf die erste Aktivität des akademischen Magisteriums beim ius Regni hin.
Michele Cataudella LE PRESENZE DI LETTERATURA IN VOLGARE NELLA BIBLIOTECA DEGLI ARAGONESI
Uno studio delle “carte” aragonesi, e “carte” s’intende in senso lato, non può prescindere in buona parte dall’analisi degli inventari di questa biblioteca aragonese, proprio per capirne la consistenza e le direzioni culturali che i mss. e i suoi incunaboli indicavano. Era una biblioteca cospicua e certamente tra le più importanti d’Europa. Con l’entrata a Napoli dei francesi anche la biblioteca, ultimo simbolo del potere aragonese, ebbe la sua diaspora, «gran parte della raccolta approdò in Francia […] una parte più esigua […], arrivò parecchi anni dopo la caduta di Napoli, in Spagna dove viveva Ferrante ii d’Aragona», come ci informa Paolo Cherchi. Esistono più inventari dei mss. e dei libri che da Napoli furono trasferiti prima a Ferrara presso la regina madre, poi a Valencia in San Miguel de los Reyes; notevole soprattutto l’inventario del 527 che Paolo Cherchi ha pubblicato con cura filologica nel 990 nell’«Italia medioevale e umanistica», la prestigiosa rivista di Giuseppe Billanovich; e a Cherchi bisognerà riandare per conoscere l’intricata questione degli inventari e degli spostamenti dei mss. e dei libri che, tra l’altro, con la soppressione delle compagnie religiose passarono da San Miguel de los Reyes alla biblioteca dell’Università di Valencia, decurtati da furti, incendi e da vendite “improvvide”: «pensando que por ser de mano y de lengua toscana no valian nada, y esta venda fue sin numeros ni memoria», 2 così cita Cherchi dall’inventario Gutierrez, che non è nuovo a queste indagini per aver già pubblicato, tra l’altro, uno studio sui codici boccacciani nella biblioteca aragonese; ci informa poi che tutti gli inventari saranno pubblicati integralmente. La biblioteca cominciò a nascere con l’arrivo di Alfonso i il Magnanimo, a Napoli nel 442, che a 46 anni non riuscì o non ebbe voglia di imparare l’italiano e si serviva della lingua spagnola e poi del castigliano più del catalano. Alfonso aveva incluso nei suoi interessi l’arte e l’architettura, ma era soprattutto interessa. Paolo Cherchi, Teresa de Robertis, Un inventario della Biblioteca aragonese, «Italia medioevale e umanistica» xxxiii (990), p. 09. 2. Ivi, p. 0, n. 4.
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to al latino, era arrivato a Napoli con Lorenzo Valla e con Antonio Beccadelli, giusto un segno del mostrare il suo amore per le cose latine, fino alle riunioni giornaliere che teneva dopo pranzo presso la biblioteca e che egli chiamava “l’ora del libro”, nella quale si leggeva Livio. Naturalmente questa sua inclinazione dimostrava il suo scarso interesse per il volgare e così la sua biblioteca cominciò ad arricchirsi di mss. latini, soprattutto di classici. Sarà poi Ferrante, il figlio illegittimo che gli successe al trono, che aprirà alla città, intanto ripristinò lo studio nel 465, come punto laico di formazione intellettuale e come alternativa alla elaborazione culturale della corte. Incluse nello studio la prima cattedra di umanità, sì che si può dire che con Ferrante inizia la grande leva napoletana degli umanisti. Ferrante poi conosceva l’italiano e più il napoletano e così arricchì la biblioteca di testi volgari, specialmente dopo il 470 quando nacque l’arte della stampa che fece segnare un incremento deciso della letteratura in volgare e Ferrante ne incoraggiò lo sviluppo. Per questa via l’incidenza della dinastia sulla vita culturale del paese fu determinante ed è testimoniata, tra l’altro, dalle dediche che Masuccio premise alle novelle del suo libro, non ultima quella a Ippolita Sforza, sposa di Alfonso duca di Calabria nel 465. Federico, che gli successe al trono nel 496, era chiamato il “principe letterato”, dette ancore un maggiore impulso all’interesse per la letteratura in volgare, sì che il pubblico dei lettori di opere in volgare si fa più numeroso e annovera larghi strati della classe media delle professioni e dei mestieri nobili. Se Giuniano Maio fu il primo napoletano maestro di umanità, il Pontano fu il punto più fermo nella cultura napoletana e nel sapere dell’età aragonese per il fatto che ha creato, tra l’altro, il carattere proprio dell’umanesimo meridionale; basti citare alcuni dati fondamentali: il suo discorso non ricorre mai a sostegni o rimandi metafisici, perché per il Pontano la versatilitas è la saggezza che ci accorda con la storia e l’urbanitas è vista come iucunditas, mentre al centro dell’Antonianus e dell’Asinus sta la celebrazione dell’“Accademia”, luogo in cui ha vita la speculazione trasgressiva. Ecco che nell’inventario che pubblica Cherchi il Pontano è ben presente; così descritto: «Opera Pontani, scripto de litera antica in carta bergamena. Miniato nelle prime doe fazate de oro brunito et azuro, con la immagine del Pontano e con le arme Aragonie». 3 Seguono poi tutti i classici cari 3. Ivi, p. 92.
Le presenze di letteratura in volgare nella Biblioteca degli Aragonesi
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ad Alfonso: Virgilio, Lucano, Plauto, Lucrezio, Livio, Valerio Massimo, Sallustio. Nella sezione che raccoglie testi in volgare si ripetono le ripartizioni che già furono adoperate per i testi in latino, si susseguono quindi elenchi di teologi, filosofi, storiografi, oratori, cosmografi e infine i poeti in volgare; tra i filosofi compare poi anche un Plinio novo, Historia naturale «che comenza: Si nisciuna cosa…», testimonianza di volgare napoletano rafforzata, tra il gruppo dei teologi, dall’Incipit di San Hieronimo vulgare: «nisciuna cosa è più felice de lo cristiano». E tra «i philosophi vulgari» mi pare da citare un Juliano Maio: «Comparazione de lo scritto de la exercitio de la caza, comenza: “Soleno li generosi e bene costumati ingegni non nianco inclinati…”», segue il ms. «La vita et fabulae de Esopo vulgare scripto de litera antica de in carta bergamena, miniato nella prima faza de oro macinato et azurro et altri coluri con le arme reale aragonie», probabilmente fonte e stimolo per il Vita et fabulae de Esopo, 49, di Francesco del Tuppo. E ancora un libretto De dubbi de amore di Sibilla Minutola, cioè Ceccarella Minutolo, ad Alfonso Aragonio duca di Calabria, ms. molto importante per la questione testuale della lettere della Minutolo; a questo proposito si veda il bel saggio di O. S. Casale in La critica del testo, pp. 505-57 Roma, 985. Tra gli storiografi una citazione appena allo Svetonio della Vita dei dodici imperatori, ms. che comincia: « Julio cesare perde lo padre rimanendo de età de sedici anni», e naturalmente i mss. di Livio e ancora la Vita de Marco Tullio Cicerone composta da Lionardo de Rezo e aggiunto lo Itinerario di Messer Francesco Petrarca e ancora la Cronaca de Neapolis probabilmente omposta da Giovan Rinaldo Mennio nel 487. Infine la grande sezione dei “poeti vulgari” e intanto va subito citato il ms. che va sotto il nome di Raccolta aragonese, come punto di raccordo tra Napoli e la Toscana; e poi più mss. di Dante, tra cui una Commedia senza commento. La presenza di Dante nella biblioteca aragonese può essere stata motivata dal desiderio di annettere un classico della poesia medioevale, ma anche può essere testimonianza delle venature medioevali presenti in molta parte della letteratura aragonese, in Masuccio, ad esempio, o più ancora in Del Tuppo, che è il ricorso a un gusto di matrice spagnola attestato anche dalla presenza accanto a Dante di Juan de Mena, indicato come Jouan de Mein, che fu anche in Italia e fu noto per scelte di stile retorico medioevale e per il ricorso corrivo all’allegoria. Poi la centrale presenza di Petrarca «un ms. de litera bastarda antica» dove sono tutte le sue rime e la sua vita composta da Lionardo Bruni nel 434 e ancora un ms. di
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tutte le rime «ms. de mezo foglio, scripto de litera bastarda antica in carta bergamena, miniato de historie li sonetti e azuri et coluri» e ancora il ms. «De viris illustribus miniato nella prima faza de oro brunito e azuro», ms. datato 467, indicazione importante se si pensi che la più parte dei mss. di questo inventario sono segnati senza data. È ancora da notare l’esposizione del sonetto 60 del Canzoniere ad opera di Angelo Cato, “philosopho et medico” come è indicato nell’inventario. Certo è una presenza cospicua che discende dalla fama del Petrarca e da una certa aria a Napoli di attesa e di accettazione del messaggio di quel gusto poetico. Anche perché accanto alla biblioteca di corte è da mettere in conto un mercato del Canzoniere; e infatti già nel 477 il Canzoniere e i Trionfi furono stampati da Arnaldo da Bruxelles, l’anno successivo la Commedia. Tant’è che i lirici napoletani dell’età aragonese sono stati fortemente influenzati da Petrarca, non solo nelle occasioni esterne: il ricorso alle endiadi, la sequenza degli accenti, la struttura della canzone, ma anche nelle occasioni interne: la trasfigurazione lirica dei sentimenti, il clima degli ornati, la ricerca del gotico fiorito. Basti appena citare alcuni di questi lirici per riandare con la memoria al loro ritmo, al loro dettato poetico, per esempio Girolamo Perleoni, che si faceva chiamare Rustico Romano, intimo della corte di Ferrante, autore di un Canzoniere del 492, il famoso e molto studiato Pier Jacopo de Jennaro con la sua casistica amorosa, Giovan Francesco Caracciolo di stretta osservanza petrarchesca e perciò stesso lodato dal Sannazaro, il Galeota petrarchista per mediazione del Poliziano, Giosuè Capasso autore anch’egli di Trionfi editi nel 502, e ancora lo spagnolo e catalano Benedetto Gareth, detto il Cariteo, che imita Petrarca alla stessa stregua dei classici. Nella biblioteca seguono i mss. di Boccaccio il Decameron, il Filocolo, l’Elegia di Madonna Fiammetta, la Commedia delle ninfe fiorentine, cioè il Ninfale d’Admeto, tutti «miniati di oro brunito et azuro con un friso a torno con le arme aragonie». Questi codici testimoniano la circolazione del Boccaccio anche fuori dalla corte; tra l’altro sappiamo che Masuccio conosceva il “famoso commendato poeta Boccaccio”, come lo chiamò, ma poi non segue, come promette, “l’ornatissimo idiona e stile” 4 che è un dato positivo per la costruzione del proprium napoletano. Bella mostra di sé fa poi nella biblioteca il ms. «in rima e de sonetti e canzoni vulgari de Lorenzo de’ Medici, scripto de litera cancelleresca in carta bergamena, miniato nella prima fazata con la immagine de Cupido et con un 4. Masuccio, Novellino, Esordio, Bari, Laterza, 940, p. 80.
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friso a torno de oro brunito et azuro con le arme reali aragonie et invenzioni ducali de Calabria». E il ms. «Triumphus Albii Alberti in redictum [sic, al posto di reditum] Ferdinandi post fatale exilium» capitoli in terza rima, e ancora in terza rima «In nome et laude de la illustrissima madonna Ypolita de Aragona Sforza miniato nella prima fazata de un festone con un homo dentro assettato», continuano gli esiti di lingua napoletana, «e nella prima fazata dell’opera miniato de uno friso a torno de oro brunito e azuro». Ed è anche presente nella biblioteca quale testimonianza della rigogliosa stagione di lirici, anche se in questo caso per una finalità encomiastica, un opuscolo compilato da Rustico Romano in terza rima intitolato: «Esilio in laude de la duchessa Hippolita Maria duchessa de Calabria scripto de litera cancelleresca e miniato al principio dell’opera de un friso con le arme aragonie ducali de Calabria». Questi è Girolamo Perleoni che ho citato prima, lirico di spicco e anche cancelliere del re Ferrante. La sua raccolta di rime petrarchesche, intitolata Lo Perleone fu pubblicata nel 492. naturalmente nella biblioteca ci sono anche gli scritti encomiastici come quello di Thomaso Maximo Corvino in prosa e in versi in lode di Ferrante i. Ma c’è anche la presenza di un libretto, una specie di rimario, «de regule de vocaboli da far rime», così è indicato, mentre nell’inventario di Gutierrez è segnato come «un vocabulista de rithmes en toscano». 5 È un segno che la poesia costruiva anche la sua stessa teoria. Credo che da questa rapida esemplificazione due elementi si possono ricavare con certezza: uno che la biblioteca era un vero status simbol per la dinastia aragonese: si pensi all’eleganza delle legature, al fregio (il friso) dell’arme degli aragonesi tra oro brunito e azzurro; era in sostanza un simbolo del potere monarchico. L’altro che la scelta dei libri a parte i classici latini presenti per rigore, delle opere in volgare, raccolte soprattutto da Ferrante e Federico, collocate negli scaffali regi, ricavavano una sua legittimazione e autenticazione, tanto da farci pensare al regno aragonese a Napoli come a una straordinaria stagione di civiltà e cultura. Università di Salerno
5. P. Cherchi, T. De Robertis, Un inventario…, cit.
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L’autore, dopo una breve storia della biblioteca aragonese e della sua diaspora in Spagna seguita alla fine del regno, si ferma ad analizzare i titoli che la compongono, riportando anche i dati esterni ricavati dagli inventari coevi. Un dato emerge con evidenza: la centralità di Petrarca tra i mss. e incunaboli in volgare, autore al quale si richiamarono i lirici dell’età aragonese. La biblioteca è poi considerata dall’autore come lo status simbol del regno. After a brief history of the Aragonese Library and of its diaspora in Spain at the end of the Aragonese ruling, the author dwells on analyzing its holdings, relying also on the external data found in inventories of that time. One fact stands out: the centrality of Petrarch’s presence in manuscripts and in incunabula in Italian, a poet whom the lyrical poets of the Aragonese age imitate. Finally the author considers the Library as a status symbol of the kingdom. Après une brève histoire de la bibliothèque aragonaise et de son démembrement en Espagne à la fin du royaume, l’auteur analyse les titres des livres qui la composent et mentionne aussi les éléments exterieurs puisés dans les inventaires de la même époque. L’élément qui émerge avec évidence est la position centrale occupée par Petrarca dans les manuscrits et dans les incunables en vulgaire, un auteur, ceci, qui a inspiré les poètes lyriques de l’époque aragonaise. La bibliothèque est considerée par l’auteur de l’essai comme le status symbol du royaume. El autor, tras trazar una breve historia de la biblioteca aragonesa y de su diáspora en España hacia el final del reinado, se detiene en analizar los títulos que la componen, aportando también los datos externos recabados de los inventarios coetáneos. Un dato emerge con evidencia: la centralidad de Petrarca en los manuscritos e incunables en lengua vulgar, autor al que se remiten los poetas de la época aragonesa. La biblioteca es, en fin, considerada por el autor como el status simbol del Reino. Nach einer kurzen Darstellung der Geschichte der aragonesischen Bibliothek und ihrer nach dem Ende des Königsreichs erfolgten Diaspora nach Spanien, analysiert der Verfasser die Titel, aus denen sie besteht, und bezieht zusätzlich externe Daten aus zeitgenössischen Inventaren ein. Am schärfsten kommt eine Tatsache ans Licht: Unter den Manuskripten und Inkunabeln in Vulgärsprache ist Tetrarca, ein Autor, auf den sich die Lyriker der aragonesischen Zeit bezogen, zentral. Die Bibliothek wird dann vom Verfasser als Statussymbol des Königreiches gewertet.
Paolo Cherchi I VOLGARIZZAMENTI DELLA BIBLIOTECA ARAGONESE
Quando si parla di volgarizzamenti bisogna prima intendersi e stabilire se ne parliamo in senso tecnico, cioè tenendo presente quel genere di traduzione-adattamento tipico della nostra letteratura due e trecentesca, o se ne parliamo in senso generale come “resa in volgare” di un testo originariamente in altra lingua. Infatti non basta dire “traduzione” – non chiameremmo mai “volgarizzamento” una traduzione dal greco in latino, né una traduzione dall’italiano in latino sarà mai un volgarizzamento, né una traduzione dal toscano in veneziano verrà inclusa tra i volgarizzamenti – ma si deve precisare che si tratta di una traduzione in un “volgare”, cioè di una lingua che non goda di quello statuto proprio delle “lingue grammaticali” o classiche, cioè fissato nei libri, tali come sono il latino, il greco e l’ebraico, lingue che si imparano a scuola e che il volgo non parla. “Volgari”, dunque, sarebbero le lingue romanze e tutte le altre lingue parlate, aventi come caratteristica un alto grado di mutabilità e una diversificazione dialettale che non si dà nelle lingue classiche. Ma quest’idea di “volgare” è tipicamente italiana, tanto che il termine “volgarizzamento” per definire un tipo di traduzione non esiste in altre lingue romanze. Il che si spiega con il ruolo che i volgarizzamenti hanno avuto nella formazione dell’italiano e nella trasformazione del “volgare” in “lingua”. È risaputo, infatti, che i primi volgarizzamenti due e trecenteschi sono prevalentemente condotti su testi in francese, la cui presenza si avverte nei numerosi gallicismi e nei giri sintattici. Questi volgarizzamenti sono molto spesso degli adattamenti, cioè versioni libere che consentono tagli e aggiunte e quindi una certa qual libertà creativa. Le cose cambiano notevolmente quando da una parte Dante offre un modello di lingua che non deve più niente ai francesi, e quando dall’altra parte Petrarca fa del latino la sua propria lingua la quale non è passibile di volgarizzamenti che sarebbe come dire di “degradazioni”. Da una parte, dunque, un decisivo distacco dai modelli francesi, dall’altra un’impossibilità o almeno un divieto di
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tradurre dal latino. Comunque anche allora gli italiani amavano trasgredire i divieti, e vi furono i primi grandi volgarizzamenti dal nuovo modello, cioè dal latino, ad esempio il Valerio Massimo di Dionigi di Borgo Sansepolcro e il Livio di Boccaccio, e specialmente quest’ultimo contribuì a creare quella sintassi latineggiante, che sarebbe diventata una caratteristica della “lingua italiana” per secoli a venire. Accadde così che ci fu un iniziale momento di sospensione dell’attività volgarizzatrice, ma una volta che il volgare acquistò coscienza della propria dignità come lingua, tornò di moda il fenomeno della versione che ora si atteneva con maggiore fedeltà ai testi originali, eliminando tagli e interpolazioni, e nella sostanza consentiva di avere un testo antico in un travestimento linguistico moderno. Nacquero, insomma, le traduzioni vere e proprie. In genere le prime leve di umanisti, ancora impegnati a diffondere il nuovo credo e a scrivere un latino il più elegante possibile, non produssero volgarizzamenti, mentre le generazioni appartenenti al trionfo degli studi umanistici non disdegnavano di tradurre i classici, sia perché i mecenati per i quali molti umanisti lavoravano non avevano familiarità con le lingue antiche, ma erano curiosi di storia e di cultura antica, sia perché l’italiano veniva acquistando prestigio tanto che spesso gli stessi umanisti, ma solo quelli toscani, non si peritavano di usarlo. Questo fenomeno quattrocentesco – nel Cinquecento l’esplosione dei volgarizzamenti sarà tale che il fenomeno richiederebbe un lungo discorso a parte 2 – è presente anche all’interno della storia della Biblioteca Aragonese, la cui situazione particolare poteva spingerlo in direzioni opposte, cioè promuovere una produzione altissima di volgarizzamenti, oppure farne del tutto a meno, o promuovere in misura altissima i volgarizzamenti cosidetti “orizzontali”, cioè dal cata. Sui volgarizzamenti in genere si deve vedere la silloge di testi a cura di Cesare Segre, Volgarizzamenti del Due e del Trecento, Torino, utet, 953. Fondamentale è il saggio di Carlo Dionisotti, Tradizione classica e volgarizzamenti, in Geografia e letteratura, Torino, Einaudi, 9844. pp. 23-78. Per un primo orientamento anche bibliografico, si veda di Roberto Crespo la voce “Volgarizzamenti”, in Dizionario critico della letteratura italiana, Torino, utet, 989, vol. iv, pp. 462-468. Per una visione d’insieme, benché non si occupi di testi italiani, si veda anche il volume miscellaneo Medieval Translators and Their Craft, a cura di Janette Beer, Kalamazoo, Western Michigan University, 989. 2. Si veda per il momento il mio Polimatia di riuso: mezzo secolo di plagio (538588), Roma, Bulzoni, 998.
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lano e dal castigliano in italiano o dall’italiano in catalano e in castigliano accanto o in sostituzione a quelli “verticali”, cioè dal latino e dal greco. 3 Quali elementi rendevano particolare la situazione della biblioteca aragonese, che è come dire della cultura napoletana? Il più ovvio, mi pare, è la situazione linguistica. Infatti, qual’era la lingua d’arrivo presso la corte napoletana per chi intendeva volgarizzare un testo? La lingua dei re aragonesi oppure l’italiano? e se quella dei suoi re, sarà il catalano-valenciano o il castigliano? e se l’italiano, in quale variante dialettale? In altre parole, al problema generale dei volgarizzamenti si aggiunge il problema specifico di una corte di origine straniera e per giunta ubicata a Napoli, vale a dire in una zona non solo linguisticamente estranea ai regnanti ma in una zona che non ha ancora trovato un’identità linguistica propria, che non ha ancora elaborato uno strumento di coesione in una lingua superdialettale. Inoltre: per chi si sarebbe volgarizzata un’opera? per gli utenti napoletani o per un pubblico più largo dei “corregnicoli” o addirittura degli altri parlanti di altre varianti italiane? O si volgarizzava pensando ad utenti iberici presenti a corte o residenti nella loro terra? E chi sceglieva i testi da volgarizzare? La situazione è resa ancora più complessa dal fatto che Alfonso il Magnanimo fosse un bibliofilo il quale arrivava a Napoli con una biblioteca personale e che non avrebbe mai rinunciato all’idea di averne una; senonché questa nuova biblioteca non poteva più riflettere il suo gusto personale “pre-italiano”, diciamo così, né la funzione della biblioteca di un re straniero poteva essere la stessa di un re cresciuto in una cultura diversa. Successe, infatti, che Alfonso presto modificò il proprio gusto e capì che la nuova sede aveva bisogno di una biblioteca diversa tanto nei criteri di collezione quanto nella funzione, e le due cose erano strettamente legate. Data la complessità di questa situazione sembra inutile parlare in termini generali e omnicomprensivi dei volgarizzamenti fatti per o entrati a far parte della biblioteca aragonese perché i risultati sarebbero troppo generici e pertanto inutili, mentre più costruttivo sarà un discorso storico, il più dettagliato possibile, perché solo così potrà dirci qualcosa di utile anche sulla storia della biblioteca aragonese, o quanto meno offrire delle conferme di quanto già sap3. La distinzione in volgarizzamenti “orizzontali” e “verticali” si deve a Gianfranco Folena, Volgarizzare e tradurre, Torino, Einaudi, p. 3.
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piamo. Del resto mi pare che i lavori più recenti su di essa, e cito in particolare i numerosi contributi di Gennaro Toscano, 4 si muovano proprio nello stesso senso, cioè verso una ricostruzione storica della biblioteca; sono lavori di cui si sentiva un grande bisogno specialmente dopo le opere classiche dei Mazzatinti 5 e soprattutto dei De Marinis, 6 ossia di eccellenti studiosi i quali però avevano insistito su un approccio “totalizzante” – almeno nei risultati se non nelle intenzioni –, cioè su uno studio in blocco della biblioteca come se fosse nata tale e quale arrivò ad essere al momento della liquidazione. Per capire questa esigenza, si consideri ad esempio quanto abbiamo detto dei “re stranieri” a Napoli: è un’osservazione generica che dice molto su Alfonso il Magnanimo, il fondatore del regno e della biblioteca, ma dice solo una mezza verità per il figlio Ferrante, e non è più un dato che conti quando si parla dei successori di questo, poiché erano ormai italiani di nascita e di lingua e di educazione. Esaminiamo quindi i fattori menzionati a cominciare dalla biblioteca di Alfonso prima che mettesse piede in Italia. Possiamo ricostruirla grazie a varie lettere di richieste di libri, datate tra il 43 a Barcellona e il 438 a Gaeta, e in particolare grazie ad un elenco di 6 volumi compilato nel 47. 7 È una biblioteca tipica di un’aula regia medievale. Vi sono libri di diritto civile e di diritto canonico, di costituzioni e di codici locali (ad esempio le Partidas di Alfonso il Saggio), le cronache patrie e i libri di falconeria e di caccia. Vi sono i volgarizzamenti in francese delle Vitae Patrum, dei Sette savi, del De consolatione Philosophiae di Boezio, ma anche di Tito Livio;
4. Oltre ai contributi che si segnaleranno in seguito, si vedano La librairie des rois d’Aragon à Naples, «Bulletin du Bibliophile», ii, 993, pp. 265-284; Les bibliotèques des princes de la Renaissance: à propos de l’exposition «Des livres et des rois», ivi, ii, 993, pp. 363-378. 5. G. Mazzatinti, La biblioteca dei re d’Aragona a Napoli, Rocca di S. Casciano, Cappelli, 897. 6. Tammaro de Marinis, La Biblioteca napoletana dei re d’Aragona, Milano, Hoepli, 4 voll., 947-952; La Biblioteca napoletana dei re d’Aragona. Supplemento, Milano, Hoepli 2 voll., 969. 7. Le lettere alle quali alludiamo sono state pubblicate da Ramón D’Alos, Documenti per la storia della biblioteca di Alfonso il Magnanimo, in *Miscellanea Francesco Ehrle. Scritti di storia e paleografia, Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, 924, vol. v (“Biblioteca ed archivio vaticano – biblioteche diverse”), pp. 390-422; l’elenco dei 6 volumi si trova a pp. 394-406.
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volgarizzamenti in catalano delle Heroides di Ovidio, del De regimine principum di Giovanni Colonna, e dei Factorum ac dictorum memorabilium libri di Valerio Massimo; vi troviamo inoltre molti libri di storia (Orosio, Pietro Comestore, Trogo, ecc.) nonché i teologi quali San Tommaso, gli specula di Vincenzo di Beauvais, o il Catholicon di Giovanni Balbi, libri delle ore e salteri, libri sull’educazione del principe, le epistole di Seneca volgarizzate, e perfino le poetriae di Eberhard de Béthune (Graecismus) e un poeta come Machaut. Vi si trova anche un Breviari d’amor di Matfre Ermengau, un sorta di enciclopedia provenzale in cui si tratta dell’amore benché vi sia poco di cortese, e invece vi si trova molta di quella casistica che avrà grande successo presso i grandes rhetoriqueurs e i poeti del cancionero del Quattrocento. 8 In questa biblioteca non esiste un solo libro italiano, originale o volgarizzato; tuttavia sappiamo 9 che Alfonso commissionò ad Andreu Febrer prima del 428 una traduzione “en rims vulgars cathalans” della Commedia, e una volta insediatosi a Napoli commissionerà un esemplare della Commedia in italiano, un codice miniato da Nicolò da Siena e da Giovanni di Paolo (che è l’attuale ms. è il n. 36 della Henry Yates Thompson presso la British Library): segno di un’acculturazione da venire. Nel complesso è una biblioteca tipica di una corte di un principe dei primi del Quattrocento, la cui collezione risponde ad un gusto che diremmo tipico dell’autunno del Medioevo: una biblioteca fatta di testi romanzi, religiosi e narrativi, di poesia goticheggiante, di trattati di falconeria e di caccia, con pochissimi classici e quasi sempre volgarizzati. Tale era la biblioteca di Alfonso il Magnanimo, quasi una biblioteca privata da principe, diversissima da quelle che potevano essere le biblioteche conventuali o anche degli studi universitari del tempo. È importante tener in conto questo precedente perché serve a darci la misura del mutamento che subì
8. Su quest’opera mi permetto di rimandare al mio L’enciclopedia nel mondo dei trovatori – il Breviari d’amor di Matfre Ermengau. in *Atti del congresso Enciclopedismo Medievale, San Giminiano, Ottobre 1992; Ravenna, Longo, 993; pp. 277-29; poi ristampato in L’alambicco in biblioteca: distillati rari, Ravenna, Longo, 2000, pp. 25-37. 9. Ricavo il dato da Gennaro Toscano, La formazione della biblioteca di Alfonso il Magnanimo: documenti, fonti, inventari, in La Biblioteca reale di Napoli al tempo della dinastia aragonese (catalogo della mostra tenuta a Napoli, 30 settembre-5 dicembre 998) a cura di Gennaro Toscano, Valencia, Generalitat Valenciana, 998, pp. 83-27; il dato relativo alla Commedia è a p. 26.
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il gusto del bibliofilismo alfonsino, mutamento dal quale doveva nascere una biblioteca affatto diversa. È quasi certo che nella pianificazione iniziale non fosse ancora presente l’idea di una “biblioteca di stato”, 0 quale sarebbe diventata; tuttavia la biblioteca aragonese prese subito un assetto che la distingueva da quella “biblioteca privata” che il nuovo re aveva fino ad allora conosciuto. È ugualmente fuori dubbio che il modello della biblioteca Viscontea, visitata da Alfonso il Magnanimo a Pavia durante la sua prigionia, abbia costituito un potente stimolo all’imitazione. Ma fu soprattutto la presenza di grandi umanisti a determinare il piano che la biblioteca avrebbe dovuto seguire. Intanto la biblioteca si sarebbe presto arricchita dei volumi prodotti dagli umanisti operanti a corte – come potevano mancare le opere di Lorenzo Valla o di Facio, e delle loro polemiche? – e dei volumi che Alfonso acquistava e commissionava. Un’espansione del genere impose presto la creazione di spazi adeguati per la conservazione e per la consultazione; e creò la formazione di personale specializzato, di curators, sia per rilegare sia per miniare in loco i volumi anziché mandarli ad altre botteghe di Napoli o fuori – fatto importantissimo grazie al quale i volumi collezionati venivano ad acquistare un’impronta particolare, un profilo non confondibile con quello di altri ateliers o di altre biblioteche. L’influenza degli umanisti a corte si fece sentire soprattutto sulla natura della collezione che si orientò decisamente verso il mondo classico e verso problematiche vicine ai loro interessi, ossia etica, storia, politica e filosofia. Si promossero edizioni di classici e di Padri della Chiesa, e si intensificò l’acquisto di manoscritti che anche esteticamente dovevano essere degni di una biblioteca regia. Questo entusiasmo andò a scapito dell’interesse per le letterature romanze e per tutta quella fascia di testi privilegiati dal gusto tardo-gotico che il re e i suoi funzionari iberici si portavano dietro. Quelle letterature ora toccarono il loro nadir. In quest’ambiente il disinteresse per i volgarizzamenti doveva essere totale; e in effetti tale fu, ma solo nei riguardi dei volgarizzamenti romanzi di tipo “orizzontale”, perché la corte aragonese acquistò e produsse già nel periodo alfonsino 0. La definizione è di Armando Petrucci, Biblioteca, libri, scritture nella Napoli aragonese, in Manuscrits del Duc de Calabria, catalogo della mostra di Valencia, 99, p. 0. Materiali utili sulle biblioteche umanistico-rinascimentali si trovano nella raccolta Il libro a corte, a cura di Amedeo Quondam, Roma, Bulzoni, 994.
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una serie di volgarizzamenti “verticali” che ebbero importanti conseguenze. Vediamone alcuni. Alla biblioteca di Alfonso il Magnanimo pervennero i lavori di Pietro Candido Decembrio il quale, oltre a tradurre in latino Appiano, Platone e Diodoro Siculo (questa traduzione è dedicata ad Alfonso il Magnanimo), volgarizzò le opere di Cesare (De bello gallico e il De bello civili) di Curzio Rufo e di Polibio, traducendolo quest’ultimo dalla versione latina apprestata da Leonardo Bruni. E si ricordi il volgarizzamento Storia dei Goti sempre di Leonardo Bruni, che a sua volta rendeva liberamente una parte delle storie di Procopio. Forse ci furono altri volgarizzamenti; comunque quelli ricordati son sufficienti a ridimensionare l’affermazione di Carlo Dionisotti secondo cui la prima generazione di umanisti non volgarizzò alcun testo. Probabilmente il regesto si arricchirebbe alquanto se potessimo stabilire con precisione quando e come testi e traduzioni entrarono a far parte della biblioteca, e se sono traduzioni commissionate o semplicemente acquistate sul mercato, e da chi. Questo è fra i desiderata più pressanti: si vorrebbe avere un catalogo di tutti i libri appartenuti alla biblioteca aragonese organizzato in senso cronologico, cioè indicando la data in cui il libro entrò in biblioteca, perché solo così se ne potrà scrivere la storia puntuale; e anche se in molti casi tale precisione risulta impossibile, si potrebbe tentare di farla almeno per i casi accertabili e procedere per il resto con approssimazioni. In ogni modo abbiamo visto che i pochi volgarizzamenti indicati sono di opere storiche, e del resto il nucleo più ricco di testi raccolti ai tempi di Alfonso il Magnanimo è fatto di opere storiche. La coincidenza è significativa tanto in linea generale – i volgarizzamenti riflettono in linea di massima l’orientamento della collezione – quanto perché rispecchia l’attenzione della prima generazione degli umanisti per la storia rispetto a quello che sarà l’interesse filologico prevalente nella seconda metà del secolo, ed è significativa anche perché riflette l’interesse del re il quale nella storia trovava, oltre al diletto del racconto, insegnamenti preziosi specialmente per lui che fondava un regno e poteva trovare nel passato modelli da imitare. Ma per noi i motivi etici e propagandistici dei volgarizzamenti ricordati sono d’interesse minore rispetto alla funzione che essi finirono per avere nella corte aragonese sotto l’aspetto linguistico, perché sono traduzioni in toscano, e chi conosce la situazione linguistica a Napoli nel Quattrocento capisce al volo l’importanza del fenomeno. È
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risaputo che la corte aragonese costruì la propria identità “italiana” avvicinandosi il più possibile al modello linguistico toscano, perché così facendo entrava a far parte di un contesto italiano dove il toscano era egemonico o predominante. Le traduzioni di cui parlo contribuivano non poco alla realizzazione di quella politica. L’avallo alla politica di “toscanizzazione linguistica” veniva anche dal fatto che i traduttori fossero umanisti e toscani, e gli umanisti di nazione fiorentina non disdegnavano il loro volgare, anzi lo promuovevano a fianco del latino; ma la loro lezione fu recepita a Napoli non come promozione della lingua locale (e, del resto, quale era questa lingua?) bensì del toscano. Sotto il regno di Ferrante le cose mutarono sensibilmente benché in alcuni casi il mutamento fu piuttosto quantitativo che qualitativo. Ad esempio non si interruppe mai l’acquisto o la commissione di opere classiche, né si smise di tradurre in latino dal greco, anzi in questo settore vi furono episodi di vera avanguardia, grazie anche al magistero e allo stimolo di un Marullo. 2 In questo settore un forte incremento fu dovuto all’aggiunta della ricca collezione di classici del Cardinale d’Aragona (m. 485). 3 L’avvento della stampa 4 incoraggiò in parte l’allargamento del canone “umanistico”: a stampa, ad esempio, troviamo autori come Ausonio; e grazie alla stampa la Biblioteca si arricchì di testi diciamo “filologici” che nel periodo alfonsino non erano presenti: parlo non tanto dei repertori che si vennero creando nella seconda metà del secolo, opere come la Margarita poetica di Albrecht von Eyb, o il Cornucopia del Perotto, ma di opere come il commento di Domizio Calderini a Marziale e un numero notevole di lavori simili; e benché le stampe ne rendessero facile l’acquisto, il fatto che la biblioteca li incorporasse significa che viveva all’altezza dei tempi, perché in molti casi si trattava di opere (per esempio quelle citate di Eyb e di . Sulla biblioteca sotto il regno di Ferrante I si veda Gennaro Toscano, La biblioteca di Ferrante, in *La Biblioteca reale di Napoli, cit., pp. 223-232. 2. Sul tema di veda Carlo Vecce, Esercizi di traduzione nella Napoli del Rinascimento, «Annali dell’Istituto Universitario Orientale», sez. romanza, xxxi (989), pp. 309-329. 3. Si veda il saggio di Thomas Haffner, La collezione del Cardinale Giovanni d’Aragona, in *La Biblioteca reale di Napoli, cit., pp. 24-250. 4. Per la stampa a Napoli in particolare, e in qualche modo legata alla cultura aragonese, si veda Marco Santoro, La stampa a Napoli nel Quattrocento, Napoli, insrm, 984.
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Perotto) che erano frutto di un nuovo orientamento culturale verso gli autori dell’età argentea e verso lavori di tipo filologicocompilatorio. Un altro fondo che si espanse notevolmente fu quello dei testi religiosi, soprattuto dei Padri della Chiesa, che arrivarono alla biblioteca con la raccolta di Isabella di Chiaramonte, moglie di Ferrante. 5 Un fattore importante nel modificare l’omogeneità della raccolta alfonsina fu l’incorporazione delle biblioteche dei baroni ribelli, biblioteche certamente ricche ma di fondi che sotto molti aspetti risultavano antiquati, nel senso che erano prevalentemente biblioteche di tipo “principesco”, quindi con attenzione alle opere romanze, alla narrativa romanza medievale più che alla letteratura antica e umanistica. Ad una provenienza del genere si devono forse lo splendido esemplare del Roman de la Rose conservato a Valencia, il volgarizzamento delle Metamorfosi e dell’Ars amandi di Ovidio (Bibliothèque Nationale, ms. ital., 59 592, Mazz., p. 3), e forse la stessa provenienza hanno alcuni testi boccacciani (ad esempio il Teseida: Bibl. Nat., ms. 583) e petrarcheschi (i Trionfi, Bibl. Nat. ms. ital. 06). 6 Ma l’incorporazione di queste opere non costituì un regresso culturale, come potrebbe sembrare; anzi veniva incontro a due tendenze: da una parte quella dello stesso re, molto più aperto del padre alla letteratura in volgare e, diciamo così, alla letteratura di invenzione; dall’altra la tendenza generale italiana, cioè toscana e settentrionale, del secondo Quattrocento a recuperare la narrativa dell’epica medievale e di produrre romanzi. Di conseguenza la biblioteca diventò più moderna, più aperta al mondo contemporaneo. Chi si sarebbe mai aspettato di trovarvi un incunabolo di Guerino il meschino? L’elenco degli incunabuli facenti parte della Biblioteca aragonese ricostruito da Delisle 7 dai fondi della Bibliothèque Nationale è illuminante sotto questo aspetto. E modernità o aggiornamento non significa soltanto acquisto di libri significativi per la cultura del tempo, ma anche la trasformazione della biblioteca in centro di studi, in un centro di opere di consultazione dove gli studiosi potevano vedere 5. Su questa raccolta si veda Gennaro Toscano, I manoscritti miniati per Isabella di Chiaramonte, in *La Biblioteca reale di Napoli, cit., pp. 233-240. 6. Cfr. Mazzatinti, La biblioteca dei re…, cit., p. 3. 7. Léopolde Delisle, Notes sur les anciennes impressions des classiques latins et d’autres auteurs conservées au XVe siècle dans la librairie de Naples, in Mélanges Gaux, Parigi, Thorin, 884, pp. 245-296.
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sia i repertori di un Eyb o di un Perotto appena ricordati, sia un’opera di geometria come quella di Tomaso Bradwardine, sia di musica come quella di Giovanni Tintore, sia di astrologia come quella di Guido Bonatti. Ma dietro a questo fenomeno ce n’è un altro ancora più importante, ed è lo sviluppo di un umanesimo meridionale che entra in un gioco di equilibri e di sollecitazioni non esistenti al tempo di Alfonso il Magnanimo. Si pensi alla trattatistica sul principe e sull’arte del governare che era stata appannaggio della letteratura umanistica in latino: ora a Napoli affiora in volgare, come vediamo nel Memoriale a Beatrice d’Aragona (476) di Diomede Carafa, e ancora meglio nel De maiestate di Giuniano Maio (493); e sono testi che hanno come sfondo magari Cicerone e Quintiliano, due autori che Giuniano Maio cita esplicitamente, ma in volgare, quando definisce il concetto di “maiestate”. 8 E Giuniano Maio è lo stesso autore che produce una delle opere più alte della filologia umanistica meridionale, cioè il De priscorum proprietate verborum, opera che in parte serve a capire la decisione di scrivere in volgare: l’interesse per la grammatica combinato con una componente platonica doveva creare questo interesse. Si ricordi ancora il Galateo il quale, oltre alle opere in latino, produsse in volgare l’Esposizione del Pater noster. Che accadde dei volgarizzamenti? Era normale che la biblioteca allargasse i fondi anche in questo settore che ai tempi di Alfonso, come abbiamo visto, era limitato prevalentemente ai classici. Ora in questo intensificarsi del “toscanesimo” a corte si vede che la traduzione in latino della Ciropedia di Senofonte fatta da Poggio Bracciolini e dedicata ad Alfonso, viene tradotta ancora in volgare dal figlio Iacopo Bracciolini e dedicata a Ferdinando (Berlino, Hamilton n. 686). 9 Ora vediamo che le Epistole di Falaride, prima tradotte da Francesco Aretino in latino e dedicate ad Alfonso, sono tradotte in volgare da Bartolomeo Foncio. Ora vediamo che l’Aristeas prima tradotto dal greco in latino da Mattia Palmieri di Pisa (da non confondere con Matteo Palmieri fiorentino) viene ora reso in volgare da Bartolomeo Fonzio. 20 Sono libri che hanno valore come “spe8. Cfr. il passo che dal De maiestate riporto nel mio Il re Adone, Palermo, Sellerio, 999, p. 47. 9. Cfr. Mazzatinti, La biblioteca dei re…, cit., p. 82. 20. Per queste traduzioni e per il plagio che Ludovico Domenichi fece della traduzione di Fonzio, si veda Alberto Vaccari, La fortuna della lettera di Aristea in Ita-
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cula regis” più che come opere di storia, ed è probabile che Ferrante le considerasse come opere intese a proiettare indirettamente un’idea della sua politica. Nello stesso progetto di esaltazione della figura regale entra il volgarizzamento fatto da Brandolini del Panegirico a Traiano di Plinio il giovane. A tale criterio sembra ispirarsi una traduzione “orizzontale”, una delle poche fatte dallo spagnolo. È la traduzione della Compendiosa historia hispánica di Rodrigo Sánchez de Arévalo, composta probabilmente nel 469, e tradotta in toscano forse perché era molto elogiativa nei riguardi dei regnanti aragonesi. La parte più nutrita è quella dei volgarizzamenti degli storici. Troviamo fra questi Svetonio, Giustino, Giuseppe Flavio e vari altri, volgarizzamenti che continuano, ma intensificandola, la tradizione avviata ai tempi di Alfonso. Nutrita è anche la serie di volgarizzamenti di opere religiose: le epistole di San Girolamo, alcuni dialoghi di San Gregorio Magno, e altri. Notevoli per frequenza sono anche i filosofi: troviamo, ad esempio, volgarizzamenti della Meteorologia di Aristotele col commento di San Tommaso, Gli elenchi dei sofisti di Aristotele (“Elenco philosophico vulgare”), 2 il De officiis, il De senectute e il Paradoxa stoicorum di Cicerone, e di vari altri. Interessante è un “Tullio de senettute vulgare, in lingua francese” 22 che era probabilmente un volgarizzamento medievale, frutto della confisca delle biblioteche dei baroni. Non mancano i volgarizzamenti “orizzontali”. Ecco il trattato di falconeria di Juan Mercader tradotto dal catalano: Pratica de citreria facta ad peticione et comandamento del serenissimo et invitissimo Prencipe et Signore lo Signore don Ferdinando per la divina gratia re di Sicilia, Hierusalem et Hungria: facta et composta per lo reverendo misser Mathia Mercader archidiacono di Valentia; ecco una traduzione dal francese del trattato di caccia del conte di Gaston de Foix, noto come Phebus; 23 sono entrambi trattati di falconeria, e sembra che
lia, «Civiltà cattolica», iii (930), pp. 308-326, poi ristampato in Scritti di filologia e di erudizione – vol. I: Filologia biblica e patristica, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 952, pp. -23. 2. Se ne veda la descrizione in Paolo Cherchi, Teresa de Robertis, Un inventario della Biblioteca aragonese, «Italia medievale e umanistica», xxxiii (990), pp. 09347, num. 243. 22. Ivi, num. 245. 23. Ivi, num. 253.
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le traduzioni “orizzontali” siano riservate quasi esclusivamente a questo genere di letteratura, sempre presente in una biblioteca signorile e indispensabile in una biblioteca regia. Si pensi che uno dei pezzi più famosi della Biblioteca Aragonese è il volgarizzamento, “verticale” questa volta, che Giovanni Marco Cinico fece di un trattato di falconeria arabo, come ci spiega l’incipit: “Incomincia el libro de Moamym falconario de la scientia de la caccia con falconi et altri uccelli de rapina: a ciò che solatio se habia: et per comandamento di Cesare Theodoro phylosopho lo tradusse de arabico in latino, et Giovan Marco de latino in vulgare” (Biblioteca Laurenziana, Ashburham, n. 246, Mazz. p. 7). Ora il caso del volgarizzamento appena ricordato ci porta al centro di quello che fu il problema più impegnativo per i letterati che si trovavano a corte. I volgarizzamenti che arrivavano da fuori erano per la maggior parte in lingua toscana, e in toscano erano i testi dei poeti o degli scrittori in volgare che trovavano un posto nella biblioteca. Ma se un napoletano scriveva un’opera o se ne volgarizzava una dal mondo antico, in che lingua doveva scrivere? Doveva essere il toscano il cui prestigio ai tempi di Ferrante I veniva rinforzato dalla celebre Raccolta aragonese? Un episodio mette a fuoco il problema, e si tratta proprio di un volgarizzamento. Alludo al ben noto caso del volgarizzamento della Naturalis historia di Plinio fatto da Cristoforo Landino e dedicato al re Ferrante. Questa traduzione spinse il bibliotecario Giovanni Brancati, che era autore in latino, a rendere l’opera pliniana in un napoletano “misto”, 24 e a produrre una specie di manifesto di quello che doveva essere il lavoro del volgarizzatore napoletano, il quale doveva seguire con “fedeltà” l’originale, senza niente togliere e niente aggiungere, e ad allontanarsi il più possibile dalle difficoltà della lingua “etrusca”. 25 Il nuovo volgarizzamento non prevalse su quel24. Se ne ha un’edizione parziale moderna: Caio Plinio Secondo, La storia naturale [libri I-XI] tradotta in “napolitano misto” da Giovanni Brancati. Inedito del sec. XV secolo, a cura di Salvatore Gentile, 3 voll. Napoli, La buona stampa, 974. 25. Il “manifesto” è costituito dalle due lettere che Giovanni Brancati indirizzò a Ferdinando I, pubblicate e studiate da Giovanni Pugliese Carratelli, Due epistole di Giovanni Brancati su la Naturalis Historia” di Plinio e la versione di Cristoforo Landino. Testi latini inediti del secolo XV, «Atti dell’Accademia Pontaniana», n.s., III, pp. 7893. A queste bisogna aggiungere l’epistola dedicatoria alla stesso Ferdinando I premessa alla traduzione della Naturalis Historia. In Mirko Tavoni, Storia della lingua italiana – Il Quattrocento, Bologna, il Mulino, 992, pp. 38-324, si può vedere un campione delle due traduzioni collazionate.
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lo toscano; tuttavia fu molto importante il fatto che si tentasse un’opera del genere, tenendo anche conto della difficoltà dell’impresa, per le vaste risorse lessicali tecniche che richiedeva. Un esperimento simile fu il volgarizzamento della Vita e favole di Esopo di Francesco del Tuppo. 26 Non c’è da meravigliarsi che esperimenti del genere abbiano avuto luogo perché essi coincidono con una nuova identità letteraria che ha al centro quella splendida fioritura dell’umanesimo napoletano e meridionale che abbiamo ricordato, ed è una fioritura alla quale s’aggancia anche la rivalutazione del volgare, di quel volgare che, tanto per intenderci, produsse un’opera come le Novelle di Masuccio Salernitano. 27 La storia, comunque, c’insegna che il toscano finì col prevalere: basti per tutti il caso dell’Arcadia di Sannazaro. Esiste almeno un’eccezione dal punto di vista linguistico, e non solo linguistico. L’eccezionalità si deve forse al fatto che il volgarizzamento in questione fu un dono, e come tale era difficile rifiutarlo: in una collezione come quella aragonese non tutto poteva essere pianificato. Parlo di un volgarizzamento della favola di Psiche e Cupido ricavata dall’Asino d’oro di Apuleio, dovuto a un non identificato Alfonso Tuscano. La favola è dedicata ad Isabella d’Aragona forse subito dopo che si fidanzò con Galeazzo Sforza. Il manoscritto, che si trova oggi a Valencia, ma che deve essere entrato in biblioteca prima del 500, come risulta dall’emblema, contiene un testo che con ogni probabilità fu composto nel 478, quindi si tratterebbe di un volgarizzamento pressoché simultaneo a quello di Boiardo, il quale, però volgarizzò l’intera opera di Apuleio. La lingua è quella “cortigiana”, ossia quella koinè settentrionale, e ha caratteristiche ferraresi, fatto che sembra confermato dall’incorniciatura che secondo De Marinis è di stile ferrarese. Non è una traduzione fedele: molte sono le aggiunte – e molte di più saranno quelle che si trovano in una versione contenuta in ms. della Trivulziana e sicuramente dipendente dalla versione che ci interessa – il tutto sarà consultabile nell’edizione delle due versioni che uscirà 26. Si veda l’edizione di Salvatore Gentile, Vita e favole di Esopo, Napoli, Liguori, 988 (postumo a cura di Francesco Bruni e Alberto Vàrvaro). 27. La letteratura critica sulla letteratura in volgare di questo periodo è alquanto ricca, ma in questa sede può bastare un rimando al lucido e puntuale profilo di Tobia Toscano, La letteratura a Napoli nel periodo aragonese, in *La Biblioteca reale di Napoli, cit., pp. 4-67, con una bibliografia essenziale.
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tra qualche mese. 28 Linguisticamente rimane un campione isolato; e la sua singolarità si estende al fatto che sia un’opera di “finzione”, una favola, raccolta in una biblioteca che è alquanto povera di opere narrative e di diletto rispetto alle biblioteche settentrionali, come quella estense: questo tipo di letteratura era privilegiato dalle lingue romanze e, come abbiamo detto, la direzione che gli umanisti impressero alla raccolta aragonese lasciò questa zona lacunosa. Ciò è vero almeno per il primo periodo di Alfonso il Magnanimo, ma già verso il 480 le cose cambiano e il volgare occupa uno spazio sempre maggiore, prima con i volgarizzamenti storici, poi anche con autori toscani e con volgarizzamenti sempre più vari, specialmente quelli apparsi a stampa. Un volgarizzamento come quello della favola di Psiche e Cupido sarebbe stato impensabile nella biblioteca ai tempi di Alfonso il Magnanimo, soprattutto perché le “favole” potevano andar bene per una biblioteca privata, da principe, ma non in una biblioteca “di stato”. Nella biblioteca dei tempi di Ferrante l’attenzione alla letteratura in volgare rendeva possibile anche l’inclusione di una letteratura per diletto. Basti pensare al già ricordato Guerino il meschino; e questo filone si arricchì vistosamente se vediamo i libri a stampa lasciati dall’ultimo Duca di Calabria al monastero di San Miguel de los Reyes: molti sono libri, come l’Orlando Furioso, acquistati dopo che la Biblioteca Aragonese aveva cessato di esistere, ma l’acquisto tardivo potrebbe esser frutto della tendenza indicata che veniva imponendosi negli ultimi decenni del Quattrocento. Dopo tutto la letteratura sentimentale “romanzesca”, era entrata anche in latino come testimonia la Deploratio de morte Paulae dello stesso Giovanni Brancati che volgarizzò Plinio: è una storia che ha del romanzesco ed è una storia d’amore di fine qualità elegiaca. Per giunta la favola di Psiche e Cupido era stata oggetto di interpretazioni platonizzanti da parte di umanisti quali Filippo Beroaldo, e ciò poteva accrescerne il prestigio agli occhi dei bibliotecari. L’indagine pur sommaria dei volgarizzamenti nella Biblioteca Aragonese ci dice che la storia di questo genere corre parallela a quella della biblioteca, e offre un’angolatura in più per ricostruirne la macrostoria. In generale si può dire che inizialmente i volgarizzamenti privilegiati erano quelli di opere storiche; più tardi si 28. Attualmente uscito col titolo Due volgarizzamenti inediti della favola di Psiche e Cupido, «Letteratura italiana antica» iv (2003), pp. 85-284.
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aggiunsero quelli di opere filosofiche e agiografiche, e infine, ma a lunga distanza per numero di campioni, quelli di opere propriamente letterarie. Un elemento sorprendente è il numero esiguo di opere volgarizzate in senso orizzontale: in una biblioteca fondata da una dinastia aragonese ci aspetteremmo di trovare molte opere spagnole, catalane o castigliane, tradotte in italiano, o anche dall’italiano in una di queste lingue. Invece le traduzioni si limitano ai trattati di falconeria e di veterinaria, e se cerchiamo una spiegazione della scarsezza di volgarizzamenti tra le due lingue possiamo pensare che la vicinanza tra i domini linguistici assolveva in gran parte al bisogno della traduzione. Possiamo anche pensare che la scarsezza sia dovuta alla mancanza di grandi opere da tradurre; il che, però, non è vero: basti pensare a quante opere si tradussero dallo spagnolo in italiano ai primissimi del Cinquecento. Forse la spiegazione più plausibile è che la dinastia degli aragonesi voleva identificarsi sempre più come una dinastia italiana e di cultura italiana, per cui venne meno a quella funzione di tramite culturale che la dinastia angioina aveva avuto in anni passati. La vera funzione culturale che la Biblioteca Aragonese svolse fu quella di portare l’Umanesimo a Napoli, e se poi gli spagnoli legati alla corte ne portarono l’insegnamento in Spagna (ricordo ad esempio la traduzione adattamento del Dialogus de felicitate vitae di Bartolomeo Fazio fatta da Juan de Lucena come Tratado de vita beata), ciò non avvenne per il tramite di volgarizzamenti. Università degli Studi di Ferrara * Lo studio dei volgarizzamenti entrati e/o realizzati presso la Biblioteca Aragonese offre una conferma particolare di quella che fu la sua storia. Inizialmente orientata verso le opere classiche, particolarmente degli storici, la biblioteca si apre gradualmente – secondo il cambio dei regnanti e della situazione culturale – alle grandi correnti della filologia umanistica e alla letteratura in volgare, e quindi anche ai volgarizzamenti. Questi trovano una situazione particolare a Napoli perché normalmente la loro lingua d’arrivo non è il napoletano ma il toscano; in questo senso i volgarizzamenti contribuiscono all’affermazione del toscano a Napoli come lingua letteraria dominante. The study of the “volgarizzamenti” which were collected and/or made at the Corte Aragonese presents a peculiar angle of the Library history.
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The Aragonese Library which was initially oriented towards the classics, especially the historians, gradually became more interested – due to the changes of the Aragonese Kings and the cultural situation – in the great currents of the humanistic philology, in the vernacular literature and consequently in the “volgarizzamenti”. These translations found a peculiar situation in Naples because their language was not the Neapolitan but the Tuscan; therefore they greatly contributed to the diffusion of the Tuscan in Naples as a dominant literary language. L’analyse des “volgarizzamenti” ou traductions produites et/ou acceptées par la Biblioteca Aragonese offre une sanction particulière de l’histoire de cette institution. Orientée d’abord vers les oeuvres classiques, en particulier celles des historiens, cette bibliothèque s’est ouverte graduellement – au long des changements des souverains et de la situation culturelle locale – aux grands courants de la philologie humaniste et à la littérature en volgare, et donc aux traductions. Celles-ci trouvent une ambiance particulière à Naples, puisque la traduction se fait normalement non pas en napolitain mais en toscan. Ainsi ces traductions en volgare contribuent-elles à l’affirmation de la langue toscane à Naples comme langue littéraire par excellence. El estudio de los “volgarizzamenti” (traducciones al italiano) que entraron o que se realizaron en la Biblioteca Aragonesa ofrecen una confirmación particular de lo que fué la historia de esa biblioteca. Orientada inicialmente hacia los clásicos, especialmente los historiadores, la biblioteca se abre gradualmente, según los cambios de los reyes y de la situación cultural, a las grandes corrientes de la filología humanística y a la literatura en vulgar y por consecuencia a los “volgarizzamenti”. Estos encuentran una situación particular en Nápoles porque la lengua en la que se traduce no es el napulitano sino el toscano: bajo este respecto los “vulgarizzamenti” contribuyen a la afirmación del toscano en Nápoles come lengua literaria dominante. Das Studium der “volgarizzamenti”, die an der Corte Aragonese gesammelt oder verfaßt worden, öffnet den Blick auf einen besonderen Aspekt ihrer Geschichte. Die Aragonische Bibliothek, die urspünglich auf die Klassik, besonders die Historiker, orientiert war, entwickelte –entsprechend dem der aragonischen Könige und der kulturellen Situation – ein wachsendes Interesse an den großen Strömungen der humanistischen Philologie, an der wolkstümlichen Literatur, und in ihrem Gefolge an den “volgarizzamenti”. Diese Übersetzungen stießen in Neapel auf eine eigentümliche Situation, weil ihre Sprache nicht das Neapolitanische, sondern das Tosckanische war; infolgedessen trugen sie eherbliche zur Verbreitung des Toskanischen als herrschender Literatursprache in Neapel bei.
María de las Nieves Muñiz Muñiz LE TRADUZIONI SPAGNOLE DELLA LETTERATURA ITALIANA ALL’EPOCA DELLA CORONA D’ARAGONA : SAGGIO DI UN CATALOGO SISTEMATICO
Parlare delle traduzioni della letteratura italiana nel Quattrocento spagnolo vuol dire misurarsi con la questione dell’“umanesimo volgare”, un termine che secondo alcuni contraddice il programma umanistico nei sui principi rettori: il ricuero del latino ciceroniano, la rottura frontale con i modelli del medioevo teologicocavalleresco, il senso combattivo di una nuova visione del mondo fondata sul dialogus con gli antichi, sull’egemonia del letterato nella cosa pubblica, sulla “umana dignità”. Senonché, quando si scende nel particolare, si avverte che quell’umanesimo allo stato puro non si è dato quasi mai e che non solo le posizioni degli umanisti furono tutt’altro che compatte, ma spesso inserirono la tradizione medievale nel nuovo sistema ricuperandone temi, generi e forme. Valida, dunque, la differenza in generale, ma a condizione che si avvertano i punti di intersezione fra il nuovo e il vecchio e che si badi alla realtà storico-sociale dei fenomeni nel suo cronologico evolversi. 2 . Cfr. Lola Badia, L’Humanisme català: formació i crisi d’un concepte historiogràfic, in Actes del V Congrés Internacional de Llengua i Literatura Catalanes, Barcelona, Abadia de Montserrat, 980, pp. 4-70, e Francisco Rico, Petrarca y el “Humanismo catalán” (983), ora in Id., Estudios de literatura y otras cosas, Barcelona, Destino, 2002, pp. 47-78. 2. Un programma abbozzato da Jordi Rubió i Balaguer, nella sua prolusione su Renaixement i Humanisme, al «viii Congreso de Historia de la Corona de Aragón», t. iii, vol. ii, Valencia 973, pp. 9-36: «Voldria encara recomanar la conveniència d’esforçarnos a contemplar les personalitats del retaule de la cultura […] esguardant-les com a element que eren d’un compleix social […]. Cal continuar recollint i classificant indicis, per petits que siguin [...] no solament cara a les novetats, sinó també a les supervivències del món antic, ja que les fronteres de les que en podríem dir línia d’atac i línia de resistència, eren fluctuans, i els canvis de gust o de conducta no són acceptats amb unanimitats efectives», pp. 3-4. In questa linea si situano, mi pare, i lavori di J. N. H. Lawrance, The spread of lay literacy in late medieval Castile, «Bulletin of Hispanic Studies», lxii, 985, pp. 79-94, e Id., On Fifteenth-Century Spanish Vernacular Humanism. in Medieval and Renaissance Studies in honour of Robert Brian Tate, a cura di I. Michael y R. A. Cadwell, Oxford 986, pp. 63-79.
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Da questo punto di vista solo lo studio approfondito dei testi (collatio fra originale e traduzione, comparatio fra diverse traduzioni, 3 analisi dell’intertestualità nelle opere coeve), 4 nonché il chiarimento di problemi cronologici o di attribuzione, e soprattutto la visione d’insieme di periodi definiti in base a criteri coerenti, potrà gettar luce su una questione che rischia di arenarsi nel pro e contro o di incrementare la confusione aggiungendo nuove tasselle a un mosaico informe di dati. 5 Tale la ragione che mi ha spinta a sostituire il discorso iniziale con un più modesto (ma anche più faticoso) censimento delle traduzioni sorretto da tavole classificatorie in base a distinzioni significative: fra tradizione manoscritta e tradizione a stampa, fra traduzioni trecentesche circolanti nel Quattrocento e traduzioni ex novo (Tavola e 2), infine, fra periodi contraddistinti da scelte traduttorie omogenee (Tavole 2, 3, 4, 5). In tale senso mi è parso di poter individuare quattro fasi fondamentali nel progresso del secolo: quella relativa al primo Quattrocento, ancora legata alla messe di traduzioni tardotrecentesche, ma già aperta a una nuova empirica razionalità ; 6 quella dei decenni centrali, coincidente in buona 3. Ancora da sondare il caso della Fiammetta catalana e di quella castigliana: due versioni verbum verbo, che spesso appaiono sovrapponibili, smentendo la tesi secondo la quale il traduttore castigliano si sarebbe comportato più liberamente nei confronti dell’originale. 4. Ma anche delle traduzioni stesse, le cui glosse riservano utili informazioni sulla cultura dell’interprete. Citerò al riguardo un esempio, credo, sfuggito alla critica: Hernando de Talavera nel Proemio alla sua traduzione dell’Invective contra medicum di Petrarca, glossa così il termine militar: «militar. milicia en latin que suena en castellano caualleria, trahe nonbre segun los mas sabios philosofos de malicia porque officio delos caualleros es apartar toda malicia y mal de su comunidad» (f. iv); che non è se non la ripresa quasi testuale dell’accezione bruniana: «miles ipse nichil aliud prestat in communi societate quam uti malum arceat»; «In nomine quoque convenientia est, siquidem militia parum admodum a malitia distat, a malo utraque proficiescens. Hec prima de nomine militis sententia est, meo quidem iudicio concinna et vera» (De militia, in Opere letterarie e politiche di Leonardo Bruni, a cura di P. Viti, Torino, utet, 996, p. 664). 5. Così Badia, riferendosi al caso catalano: «trobem a faltar, tan mateix, un catàleg raonat de les traduccions medievals al català que permeti una autèntica sintesi de la qüestió basada en una cronologia tan segura com sigui possible», Badia, Traduccions al català dels segles XIV-XV i innovació cultural i literària, «Estudi General: llengua i literatura de l’edat mitjana al renaixement», (99 [992]), pp. 3-50 [p. 32]. 6. Per la funzione di Albertano da Brescia nel rinnovamento del pensiero europeo, cfr. *Albertano da Brescia. Alle origini del razionalismo economico, dell’umanesimo civile, della grande Europa, a cura di R. Spinelli, Brescia 996.
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parte con il Regno degli aragonesi a Napoli; quella dello scorcio finale del secolo previo alle prime traduzioni a stampa; infine, quella dell’era della stampa in una Spagna unificata dal matrimonio tra Isabella di Castiglia e Ferrante ii d’Aragona. Il risultato è stato un catalogo che annovera un centinaio largo di traduzioni se si computano quelle replicate in più lingue, quelle indirette, le versioni del Trecento circolanti nel Quattrocento, e quelle manoscritte riprodotte a stampa; una cifra riducibile a 66 ove si eliminino i doppioni e le sopravvivenze del Trecento, ma che resta pur sempre importante e senz’altro molto superiore ai calcoli fatti in passato. 7 Tale catalogo, pur nel suo carattere d’urgenza, 8 può costituire già una base utile di studio per futuri lavori, come cercherò di dimostrare con qualche parola di presentazione. Delle cento traduzioni censite, 4 risalgono alla metà o alla fine del secolo precedente e si concentrano su otto autori: Brunetto Latini (Tresor), Albertano da Brescia (Liber consolationi, De arte loquendi, Liber de amor), Jacopo da Varagine (Legenda aurea), Egidio Colonna (De Regimine principum), Marco Polo, Guido delle Colonne (Historia destructionis Troiae), Petrarca (Griseldis). Uno schema, come si vede, misto di erudizione storica o enciclopedica e di insegnamenti pratici e morali, il quale si ripete parzialmente nei primi decenni del Quattrocento, che vedono apparire la versione catalana completa del Tresor e incrementarsi l’interesse per gl’insegnamenti retorici di Albertano e di Brunetto. La novità di questo periodo, però, risiede nel protagonismo delle “tre corone”, riprese sul versante morale e su quello poetico e narrativo, anche se nel caso di Petrarca la lirica volgare appare minimamente rappresentata. Così, Boccaccio presiede la sfilata con due versioni di grande impegno (il De casibus castigliano, il Decameron catalano), seguito dal Dante della Commedia bitradotto simultaneamente in castigliano e in catalano; e, in subordine, da Petrarca – declassato rispetto alla cen-
7. Cfr. Carlos Alvar ne annoverava «una quindicina» nel saggio Notas para el estudio de las traducciones italianas en Castilla durante el siglo XV, «Anuario Medieval», 2 (990), pp. 23-4. Altre ne aggiungeva passim Ángel Gómez Moreno in España y la Italia de los humanistas, Madrid, Gredos, 994. 8. L’asistematicità della bibliografia esistente, la penuria di edizioni critiche e di studi codicologici per troppa parte dei manoscritti, nonché il carattere anonimo di tante traduzioni, sommano una barriera quasi insuperabile di ostacoli per orientarsi con un minimo di garanzie nel labirinto.
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tralità raggiunta nella Catalogna di fine Trecento 9 – con la traduzione dissimulata di un frammento dell’Africa ad opera di Antoni Canals, e con tre versioni anonime di scarso valore: quella catalana del De remediis (ridotta a 68 sentenze medievalmente semplificate), quella castigliana del De vita solitaria, e la difettosissima resa della Rima 48 tramandata dallo stesso codice che conserva la Commedia castigliana. A sottolineare il dislivello sta anche l’alto valore delle due traduzioni catalane di Dante e di Boccaccio, quella in rima della Commedia fatta da Andreu Febrer, e quella anonima del Decameron contraddistinta dalla naturalezza. Anzi, da questo punto di vista nessun altro lavoro quattrocentesco fu, per mole e per qualità artistica, all’altezza di entrambi i monumenti, ultimati nel 429, a ridosso dalla prima impresa italiana di Alfonso d’Aragona (la spedizione in Sardegna del 420), alla quale prese parte il fior fiore dei letterati spagnoli ( Jordi de Sant Jordi, Ausias March, Iñigo López de Mendoza, poi Marchese di Santillana e lo stesso Andreu Febrer, «algutzir» del Re). Tuttavia, se si bada alla quantità e alla novità dei temi, l’epoca aurea delle traduzioni quattrocentesche andrebbe spostata ai decenni centrali del secolo, lungo i quali si tradusse il 76 % del totale (50 traduzioni su 66), e si recepirono, spesso tempestivamente, le novità prodotte dagli Umanisti italiani, Bruni in testa. Chi guardi attentamente la Tavola 3 avvertirà, infatti, un cambiamento di segno nell’interesse per Dante, Petrarca e Boccaccio, il primo dei quali viene ora colto attraverso i suoi commentatori (Pietro Alighieri e Benvenuto da Imola), il secondo nel pensiero politico e nella polemica antimedievale (Lettera de Regia institutio; Invective contra medicum), il terzo nell’erudizione mitologica, storica e geografica, ma anche nella profonda conoscenza dell’animo umano e dei modelli di comportamento positivi e negativi: un intreccio di realismo e di ideali, di erudizione e di morale, di cultura pagana e cristiana che, in virtù della sua coerenza, finì per assolvere implicitamente a un trascendentale compito pedagogico. Il rovescio della medaglia sarebbe la tavola delle assenze e la marcata tendenza a recepire gli scritti più facilmente compatibili con i valori cavallereschi (il De militia di Bruni preferito al De studiis et litteris; la orazio9. Mi riferisco, ovviamente, alla massiccia presenza del Secretum nel Somni di Bernat Metge (399).
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ne di Manetti a Pandolfo Malatesta, anteposta al De dignitate et excellentia hominis), 0 o al contrario, con il medievale elogio della vita ritirata (il De infelicitate principum di Bracciolini tradotto da Martín de Ávila); si aggiunga l’abuso di traduzioni indirette, spesso toscane, per attingere ai classici, la propensione ad assorbire il nuovo nel noto (Bruni in Aristotele e Seneca), il ricorso al plagio e all’adattamento dissimulato anziché a una elaborazione originale delle idee (caso di Juan de Lucena rispetto al De humanae vitae felicitate di Bartolomeo Facio), e il livello disuguale delle traduzioni, che poche volte raggiungono una lingua agile, precisa ed elegante (ci riesce, in parte, credo, l’anonima traduzione dell’Isagogicon bruniano promossa da Fernán Pérez de Guzmán), e più spesso ricorrono al meccanico sistema verbum verbo o, al contrario, alla amplificatio e all’appiattimento delle sfumature. Il frequente caso di 0. Un equivoco di cui è indizio l’attenzione prestata da Santillana al punto in cui Bruni alludeva di passata al giuramento dei soldati romani come prova della sacralità della milizia, e che lo spinse a scrivere a Cartagena per invitarlo a cercarne la fonte. Mentre il nesso lettere-armi proposto da Bruni a Giovanni ii nella lettera del 435, si prestava a non piccoli fraintendimenti, come dimostrò la predilezione quasi esclusiva di alcuni nobili letterati per le cronache nazionali, e la fortuna ininterrotta della Historia destrucionis Troiae lungo il secolo. Varrà dunque la pena di riprendere i passi più significativi di quella missiva nella traduzione castigliana conservata dal ms. bnm, 022: «pero yo non demando en el rey los estudios de todas las cosas, mas aquellos tan solamente que del rey son propios, es a saber qual quier cosa que perteneçe a la derecha forma del governar, que perteneçen a la justiçia, a la mansedumbre, a los fechos del grand coraçon, a la gloria, a todo esto nos amonestan e enforman las cosas escriptas [...] mas mucho mas aprenda de aquellos viejos muy sabios, los quales a la verdadera razon de la philosophia ayuntaron la claridad e alta manera de escribir [...] Assi le conviene el dezir fermoso e arreado e de real sentençia. Otrossi la ystoria maestra de la vida [...] Assi mesmo conosçer los fundamentos e fechos de los muy poderosos reyes e principes e de los grandes pueblos mucho aprovecha». . Ecco un campionario della varietà di procedimenti adoperati, che vanno dalla castiglianizzazione del termine (calligant oculi = “tiene entelados los ojos”), al latinismo (segnitem = “signicie”, inirascentiam = “inirascencia”), alle coppie parasinonimiche per abbbracciare tutte le sfumature o per rendere più tollerabile il latinismo (dissolutus in acquirendo = “dissoluto y mal apañado”; honorum = “honra e dignidades”; pecuniis = “las pecunias y los algos”; virum... sapientem = “varon savio virtuoso”; voluptatis= “voluptad o detectacion”), alle glosse esplicative per meglio aderire al senso profondo della terminologia bruniana (affectus = “desseos humanos viciosos”; segnities = “segnicies, que quiere dezir una torpedad perezosa e quasi insensible”; vitaque beata = “e vida beata, siquier felicidad politica”; Gravitas vero harum mediocritas est = “De estas es el medio la gravedad, la qual tiene el que por solo uso de virtd sin otro fin le plaze decir la verdad, juzgando la mentira sea muy fea”).
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manoscritti unici, indica peraltro una circolazione dei testi quasi endogamica dove la corte (specie Giovanni ii coi suoi segretari o consiglieri), interagisce con qualche cerchia nobiliare (quella di Santillana soprattutto). A queste debolezze di fondo va aggiunta la crisi politica, sociale ed economica in cui cadde la Catalogna nel secondo Quattrocento, e il crescente predominio della lingua castigliana in tutto il territorio spagnolo: una decadenza di cui è indizio l’alto numero di traduzioni rimaste inedite all’avvento della stampa: fra esse quella del De dictis et factis Alphonsi regis Aragonum et Neapoli di Beccadelli, approntata dal valenzano Jordi Centelles per un alto ex funzionario del Magnanimo, Pere Eixarc, e conservata in un unico, lussuoso manoscritto; oppure la fedele versione dei due trattatelli albertiani sull’amore (Deiphira et Ecathonfila), dedicati da un ignoto catalano a un ignota gentildonna senza lasciare altra traccia di sé; per non parlare del commento di Cristoforo Landino alla Divina commedia, e dell’Expositione dei Trionphi di Bernardo Lapini: casi tutti di traduzioni catalane di fine secolo rimaste, per così dire, nel cassetto. Un computo che potrebbe salire di molto, se si pensa alla paurosa distruzione del patrimonio bibliografico catalano di cui è segno il buco lasciato da certe traduzioni indirettamente note: quella del De claris mulieribus più volte citata negli inventari, quella del Corbaccio, conservata in un unico manoscritto, e della cui stampa è rimasta come sola descrizione la nota d’acquisto di Ferdinando Colombo. Ma lo sfasamento fra il numero complessivo delle traduzioni (un centinaio) e quello delle edizioni cui esse diedero luogo tra il 480 e il primo decennio del Cinquecento (29) è troppo importante per restringerlo alla questione catalana. Uno sguardo alla Tavola 5 mostra infatti quali furono i libri vincenti sul mercato delle lettere: fra le traduzioni trecentesche, il De Regimine principum di Egidio Colonna (versione catalana e castigliana), la Historia descructionis Troiae di Guido delle Colonne (versione anonima castigliana), la Legenda aurea di Jacopo da Varagine (catalana e castigliana); fra le traduzioni quattrocentesche già note, il Fior di Virtù catalano e la sua ritraduzione castigliana; l’Etica aristotelica compendiata da Nuño de Guzmán avvalendosi del latino di Bruni e di un suo volgarizzamento aragonese ; il Quinto Curcio di Pier Candido Decembio tradotto in catalano da Fenollet e ritradotto anonimamente in castigliano; l’Isagogicon di Bruni come appendice alle Epi-
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stole di Seneca, e quattro opere boccacciane, pure nella lingua di Castiglia, a eccezione del Corvatxo smarrito: De mulieribus, De casibus, Decameron, Fiammetta. Quanto alle traduzioni approntate ad hoc per la stampa, furono soltanto sette: la maggior parte di carattere religioso (lo Specchio di Croce di Cavalca, già tradotto nel 450 da Pere Busquets su un originale proveniente dalla regina Maria d’Aragona, e ora ritradotto in castigliano da Alfonso de Palencia; il Fioretto, il Defecerunt di Antonino da Firenze, più la vita di Santa Caterina tratta dal Chronicorum opus dello stesso Antonino), le altre di carattere decisamente profano: otto facezie di Bracciolini comprese in una raccolta esopiana esemplata su quella di Steinhöwel, e dedicata dall’anonimo traduttore a «don Enrique infante de Aragon e de Cecilia», vale a dire al nipote di Alfonso d’Aragona divenuto Vicerè della Catalogna nel 479; la Historia de duobus amantibus di Piccolomini tradotta pure da anonimo sulla scia del romanzo sentimentale ispirato alla Fiammetta; e con un intento ben diverso, la Historia Boemica dello stesso Piccolomini tradotta dal futuro ellenista Fernán Núñez de Guzmán (El Pinciano), che nella prefazione difendeva la funzione celebrativa ed esemplare della storia; infine – ma siamo ormai agli inizi del Cinquecento – il libro di Marco Polo tradotto dal confessore della regina Isabella, Santaella, a ridosso della scoperta dell’America e recando in appendice il De India recognita di Bracciolini. Il resto furono traduzioni indirette di Plutarco compiute alla fine della vita da Alfonso de Palencia, oppure plagi dissimulati in altre opere, come il De humanae felicitate rifuso nel De vita beata di Lucena, il De genealogia di Boccaccio utilizzato come esegesi allegorica nella traduzione catalana delle Metamorfosi di Ovidio (interprete Francesc Alegre). Ma una traduzione emblematica doveva ancora veder tardivamente la luce (509), e fu la versione castigliana dell’Etica a Nicomaco approntata dal principe d’Aragona, Carlo di Viana, per lo zio Alfonso poco prima della sua morte. La quale, dopo aver circolato nelle più alte sfere, era stata spiazzata dal più popolare compendio di Nuño de Guzmán dato alle stampe alla fine degli anni Ottanta e più volte riedito. La letteratura devozionale, i best sellers del medioevo, Aristotele, Seneca ed Esopo sembravano aver ripreso piede a dispetto dell’Umanesimo, ma l’involuzione era solo apparente se si pensa all’interesse dello stesso Valla per le favole esopiche e in generale all’operazione di rilettura cui Bruni e tanti altri avevano sottoposto certi prodotti del medievo: difatti nella Spagna tardoquattrocente-
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sca l’Aristotele di Bruni ritornava a galla recando il Prologo di Carlo di Viana dove questi elogiava le virtù cavalleresche del Magnanimo, ma aspirava anche a gareggiare in sottigliezza semantica con l’Aretino; Seneca toglieva protagonismo all’Isagogicon, ma lo situava in conclusione a modo di sintesi interpretativa (e il tandem dovette piacere al pubblico se le ristampe proseguirono fino al 55); Esopo e Marco Polo convissero con Bracciolini, e Boccaccio con la Historia di Enea Silvio: l’amalgama del nuovo e del vecchio andava, dunque, penetrando a piccole dosi come “letteratura mezzana”: un processo già percepibile nella tradizione manoscritta del de Regimine principum castigliano, di cui si conservano compendi ad usum di un pubblico più largo, o nell’operazione compiuta da Nuño de Guzmán con l’Etica di Bruni, rifusa con un compendio aragonese per renderne più facile l’ingestione al fratello indotto. E che altro fece Joanot Martorell nel Tirant lo Blanc (composto verso il 460 e stampato nel 490), se non una amalgama nutrita di traduzioni circolanti a metà Quattrocento? Un intreccio di voci difficili da individuare precisamente perché accavallantesi per decenni nella memeoria comune: Guido delle Colonne, il Boccaccio della Fiammetta, del Filocolo e del Decameron, il Petrarca dell’epistola ad Acciauoli (trasportata di peso dalla versione anonima catalana nel capitolo 43), Brunetto Latini, Ovidio, Seneca, Aristotele..., 2 e, anche se non è stato sinora notato, l’Albertano da Brescia del Liber consolationis, citato quasi alla lettera nell’argomento a difesa delle donne: «E açò ab tota veritat ho provaré ab dits de la Santa Escriptura... que Jesucrist, com ressuscità, primer aparegué a dona que no a home... Car primer aparegué a la sacratíssima mare sua e a la Magdalena que no als apòstols» (cap. clxxiii), là dove il Libre de consolació (traduzione catalana trecentesca) dice: «la qual cosa pot hom provar per la divina Escriptura... E nostre senyor Jesucrist... 2. Cfr. Josep Pujol, La memòria literària de Joanot Martorel: models i escriptura en el Tirant lo Blanc, Barcelona, Publicacions de l’Abadia de Montserrat, Curial Edicions Catalanes, 2002. Ma si ha l’impressione di trovarsi di fronte alla punta di un iceberg passibile di sempre nuove scoperte, tante sono le citazioni passate nella lingua di Martorell, ad es., certi versi di Dante e di Petrarca divenuti proverbio: « Nessun maggior dolore Che ricordarsi del tempo felice Ne la miseria» Inf. v, 23), come «La major dolor que als mesquins atribula és que en algun temps sien estats benaventurats» (Tirant, cap. ccxii); « S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento?» (Rerum vulgarium fragmenta 32), tradotto addirittura alla lettera: « Si açò no és amor, si no, digau-me què seria» (Tirant, cap. c).
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aprés la resurreccion, primerament se volch manifestar a la fembra que a hòmens, cor primerament se demostrà a Macdalena que als apòstols». Anzi, che altro conteneva la celebre biblioteca del Marchese di Santillana, se non opere volgari del Duecento e del Trecento, miste a volgarizzamenti di umanisti: Il De regimine principum, La Historia destructionis Troiae, il Flos sanctorum di Varagine, Dante, Petrarca e soprattutto Boccaccio? Altre conclusioni si potrebbero trarre dal presente bilancio: nei rapporti fra gli umanisti spagnoli e il regno napoletano di Alfonso d’Aragona i fili non sempre sono diretti: troppo varii risultano gli incroci, troppo mobili i punti di incontro fra i protagonisti culturali del momento. Santillana fu al servizio di Alfonso d’Aragona e combatté per lui nella battaglia di Ponza, ma le sue fonti d’informazione furono molteplici come molteplici furono gli scambi orizzontali fra lui, Cartagena, Villena, Alfonso de Palencia o Nuño de Guzmán (per citare solo alcuni fra i nomi più noti). Un andirivieni di lettere congiunge Bruni, Decembrio, Giovanni II di Castiglia, e Cartagena a ridosso del concilio di Basilea, che permise di intavolare amicizie e dibattiti a livello europeo, fra cui la nota disputa fra Cartagena e Leonardo Bruni sul modo di tradurre l’Etica aristotelica ; 3 Nuño de Guzmán conobbe Bruni, Manetti e Pier Candido Decembrio nella Firenze del 439, l’anno in cui la città accolse il concilio e con esso i il fior fiore dei letterati italiani di altre sedi (Bracciolini, Ficino, Flavio Biondo, etc.). Un decennio dopo Manetti e Decembrio si trasferivano, come tanti altri umanisti italiani, a Napoli, e un alto numero di funzionari spagnoli vi risiedevano in modo stabile o transitorio, ma la savia dell’“umanesimo” circolava ormai attraverso le due penisole in un viaggio pluricentrico di andata e ritorno. Paradossalmente, invece, non sempre i rapporti più stretti e personali con la corte di Alfonso d’Aragona fruttarono risultati di rilievo sul versante delle traduzioni o dell’importazioni delle idee umanistiche: Ausias March fu coppiere del Magnanimo, ma non scrisse una sola riga sul libro dell’umanesimo iberico; la traduzione catalana del De dictis et factis di Beccadelli fu solo un omaggio tardivo al Re defunto promosso da un funzionario in pensione che 3. Lo studio classico sull’argomento rimane quello di Alexander Birkenmajer, Der Streit des Alonso von Cartagena mit Leonardo Bruni Aretino, in Vermischte Untersuchungen zur Geschite der mittelalterlichen Philosophie, Münster, 922, pp. 28-2.
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vedeva nelle conquiste militari la maggiore eredità del sovrano. Eppure tre decenni dopo, quando l’opera di Beccadelli sembrava dimenticata, la ritradusse un valenzano di idee erasmiane, Juan de Molina, che nel dedicarla a «don Alonso de Aragón, Duque de Segorbe», sottolineò il valore universale del libro («este libro entre otros es tal que deve y mereçe ser leydo y es para traerlo en el seno grandes, medianos y chicos, porque para todos hay dotrina en él»), nonostante la figura storica del re fosse ormai sbiadita: «Porque este libro vernà en diersas manos, por aviso para el que no lo sabe, dezimos: que este rey don Alfonso no fue don Alfonso el que mucho antes reynó en Castilla y compuso las tablas que le dizen Alfonsis. Antes éste fue hijo del infante don Hernando que de Castilla vino para reynar en Aragón. Fue assí mesmo hermano de don Enrique, don Pedro y don Sancho, infantes de Aragón tan nombrados, primo hermano del rey don Juan el segundo y tío del rey Católico de gloriosa memoria, etc.». 4 L’uomo era passato, le carte rimanevano. Universidad de Barcelona
4. Libro Delos dichos y hechos del Rey doñalonso / fue compuesto y publicado el presente libro en lengua latina por Micer Antonio Panormitano en Napoles en el Año del Señor m.ccc.lv. Aora nueuamente traduzido. En Valencia: en casa de Juan Joffre impressor, 527.
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APPENDICE I Avvertenza: Si indicano numericamente soltanto le date più sicure o verosimili (il numero romano seguito da m o da fine si riferisce alla metà o alla fine rispettivamente del secolo in questione). La barra inclinata (/) si impiega nei casi di co-autoria sia quando la traduzione includa opere di più autori, sia quando l’autore italiano appaia in veste di commentatore o di traduttore di opere altrui, sia, infine, quando l’interprete spagnolo abbia inserito la versione in un lavoro proprio, adattandola o dissimulandola. L’abbreviatura: