Diario di bordo sul set di «Cesare deve morire» 8861561829, 9788861561823

Sul set di "Cesare deve morire", vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino nel 2012, Carla Vezzoso ha tenuto un &quo

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Diario di bordo sul set di «Cesare deve morire»
 8861561829, 9788861561823

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Oltre ogni confine 02 (saggi)

Collana diretta da Antonio Carlo Vitti comitato scientifico Enrico Bernard, Antonio Nicasio, Vincenzo Marra, Domenico Palumbo, Daniela Privitera, Gino Tellini, Maria Rosaria Vitti-Alexander, Mimmo Calopresti, Giovanna Taviani

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© 2021 by Metauro Edizioni S.r.l. – Pesaro (Italy) www.metauroedizioni.it [email protected] ISBN 978-88-6156-182-3 È vietata la riproduzione, intera o parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.

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Carla Vezzoso Taviani 

DIARIO DI BORDO SUL SET DI CESARE DEVE MORIRE Postfazione di Antonio Carlo Vitti

metauro

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DIARIO DI BORDO SUL SET DI “CESARE DEVE MORIRE”   

Di Carla Vezzoso Taviani 

Nota dei figli 

  Nel 2011 nostra madre, Carla Vezzoso Taviani, seguì le riprese del film Cesare deve morire (che avrebbe poi vinto l’Orso d’Oro a Berlino) con un suo personale  Diario di bordo, destinato a una stampa familiare, che oggi, grazie al Professor Antonio Vitti, siamo felici di rendere pubblico.   La storia d’amore che legava i nostri genitori era così forte che nostro padre l’aveva sempre voluta sul set, e nostra madre, amatissima insegnante di liceo, lo aveva sempre seguito come segretaria di edizione, pur di poter condividere tutti i momenti della loro vita. Così, anche in questo caso, decise di seguire il film, che metteva in scena il Giulio Cesare di Shakespeare con la compagnia teatrale dei detenuti del carcere di massima sicurezza di Rebibbia, diretta da Fabio Cavalli, attraverso le drammatiche vicende dei protagonisti del film, quasi tutti condannati a fine pena mai.  Fino all’ultimo insieme per raccontare l’incontro tra la loro visione del mondo e il mondo carcerario. Per interrogarsi sulla possibilità di riscatto che l’arte, il cinema, lo studio e la cultura, possono offrire a chi si è perduto.  Lei, che veniva da una lunga esperienza di insegnamento nelle scuole superiori di Roma, come docente di Italiano e Storia; che aveva rivoluzionato la didattica negli anni della contestazione con metodi sperimentali e approcci interdisciplinari nuovi, aveva ritrovato nell’in5 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ferno del carcere il suo amato Dante e aveva rivissuto insieme ai suoi abitanti i tormenti di Paolo e Francesca, del Conte Ugolino e dei figli.   Il rapporto che nostra madre instaurò con i protagonisti del film, fossero loro «adolescenti dallo sguardo innocente», come Lucio, o detenuti veterani dalla «dolce malinconia» come Trebonio, era lo stesso che instaurava con i suoi studenti in classe, fossero loro i figli della agiata borghesia o proletari delle periferie: in entrambi i casi nostra madre, sembrava porre in primo piano la missione più alta dell’insegnante: formare una coscienza collettiva, tramandare un orizzonte comune di valori.    Spesso nel diario si legge di detenuti attori che le si avvicinavano desiderosi di parlarle. La passione comunicativa era la sua forza, come ricordano oggi, a un mese dalla sua morte, tanti ex allievi ormai adulti che ci hanno tempestato di messaggi su fb lettere e telegrammi per esprimerci la loro vicinanza.   C’è chi la ricorda come donna che ha sempre «incoraggiato a lottare per i nostri diritti, sempre disponibile al confronto». «Eravate un gruppo di insegnanti fortissime, indipendenti, intelligenti, siete state per me fonte di ispirazione e ammirazione per anni».   C’è chi scrive che «Dante nelle sue parole diventava arte cinematografica pura». «Passione, intelligenza e un pizzico di follia: questa è stata Carla per me. Le sue letture di Dante, camminando emozionata tra i banchi, sono tra i più bei ricordi della mia adolescenza».   «Lei mi proteggeva con i suoi occhi e mi comunicava serenità», ci ha confidato Salvatore Striano (il Bruto di Cesare deve morire).   Nostra madre era una persona allegra di natura, un’entusiasta dello spirito che credeva nel dialogo e nell’ottimismo della volontà.   Sentimenti che traspaiono anche dalle pagine di questo Diario di bordo, che qui pubblichiamo per ricordare 6 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

nostra madre, ma soprattutto per non dimenticare una grande storia d’amore che in questo volume continua nella voglia di raccontare la bellezza e la grandezza dell’animo umano quando viene a contatto con l’arte.  Roma 6 gennaio 2020  .

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Carla Vezzoso Taviani da giovane

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Carla Vezzoso Taviani

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Carla Vezzoso Taviani

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Il debutto di Carla sul set di La notte, 1980

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Carla con in nipoti sul set di Meraviglioso Boccaccio

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DIARIO DI BORDO SUL SET DI CESARE DEVE MORIRE

LUNEDÌ 9 MAGGIO 2011 In macchina verso Rebibbia, alla periferia di Roma. Qui, pro­prio dentro un carcere, guidati e salvaguardati da funzionari, guardie carcerarie, interventi burocratici, carte e cartellini, i Taviani gireranno il loro nuovo film. Dopo alcuni mesi di preparazione oggi le prime ri­prese. A me il compito di stilare un diario di lavorazione, anzi di bor­do. Ho cercato sempre di seguire il set dei Taviani; questa volta per un motivo in più, il suo cast insolito. Ma ora che sto per cominciare sono presa da un certo sgomen­to. Succede sempre così quando si inizia un film, ma qui scoprire da vicino che cosa significa la parola ergastolo, convivrò con i protagoni­sti dei delitti di mafia, camorra, ndrangheta, Sacra Corona Unita, nella inevitabile memoria dei loro delitti commessi o no, scontati in parte o da scontare. Perché, ancora non l’ho detto, gli attori saranno tutti detenuti nel braccio di Alta Sicurezza, spesso condannati ad una “Fine pena mai”. Affronteranno uno dei testi più coinvolgenti di Shakespeare, il Giulio Cesare. Un incontro e una sfida. Vorrei cogliere il loro rapporto tra l’esperienza carceraria e il momento di relativa libertà che respireranno come attori. Mi inquieta il pensiero della diffidenza con cui mi accoglieranno, proveranno pu­dore e forse ostilità nei confronti del mio ruolo. Comunque la loro tre­ pidazione è uguale alla mia, temo di non trovare i toni 13 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

giusti soprattut­to quando dovranno affrontare scene e battute in cui risuoneranno echi delle loro esperienze passate, quali assassinio e potere, fedeltà e tra­dimento. Corriamo lungo la Tiburtina sempre affollata e in agitazione; ora siamo arrivati. Il lungo muro inaccessibile circonda l’edificio na­scosto all’interno. Ospitale è invece l’entrata. Attraverso il grande cancello si accede a un cortile solatio, circondato da vasi di fiori, so­prattutto rose, che in questi primi giorni di maggio sono sbocciate, come sul mio terrazzo. Mi conforta questo clima disteso, tipico di certi pomeriggi sonnacchiosi di primavera. Mi vengono a mente a contrasto le voci che sento dalla mia casa, di fronte al carcere di Regina Coeli, nel cuore di Roma: chiamate angosciose, ripetute a lungo e invano o urla selvagge di furore e di rivolta, fino a che le sirene le mettono a ta­cere. Qui invece si respira pace e serenità. Apparentemente. Ben presto la situazione cambia. Percorro lunghi corridoi molto chiari, passo attraverso cancelli doppi, aperti con più tornate dalle chiavi appese al cinturone delle guardie. Insom­ma le immagini che ho visto in tanti film carcerari, soprattutto hol­lywoodiane, ma che improvvisamente si fanno concrete, cattive. Un carceriere mi guarda con un mezzo sorriso :«..... ma che si aspetta­va?». Finalmente, di corridoio in corridoio, di cancello in cancello, ecco qualcosa di amichevole, di accogliente: lo sguardo del regista del teatro di Rebibbia, Fabio Cavalli, che ci conduce verso il nostro primo set, il teatro. È a lui e ai suoi spettacoli che i Taviani devono la scoperta di questo mondo. Tutto è iniziato un anno fa, quando una amica cara – raccontano i Taviani – disse di essere stata a teatro e di avere pianto; non le suc­cedeva da anni. Andarono a quel teatro, e quel teatro era proprio in questo carcere di Rebibbia. Una ventina di detenuti avevano scelto al­cuni canti dell’Inferno di Dante e ora – ricordano ancora i 14 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Taviani ­– nell’inferno del loro carcere, ognuno nel suo dialetto, facevano rivive­re i tormenti di Paolo e Francesca, del conte Ugolino e di Ulisse, con­frontandoli con le loro storie. Non so se anche i Taviani piansero, ma dopo pochi giorni pro­posero al regista interno, Fabio Cavalli: «Vorremmo girare a Rebibbia il nostro nuovo film, Giulio Cesare. Abbiamo bisogno della tua, della vostra collaborazione». Fabio rispose con entusiasmo. Si mise subito al lavoro con i carcerati di cui da anni conosce qualità e umori; con lo­ro ha affrontato l’impresa di volgere nei vari dialetti la lingua del testo scespiriano nella riduzione cinematografica di Paolo e Vittorio. Il na­poletano, il pugliese, il siciliano e il romano dovranno restituire ai de­tenuti attori verità e personalità. Entriamo nel teatro che ci stupisce perché non ha niente da in­vidiare a teatri dignitosi che abbiamo incontrato altrove. Abbastanza capiente, con le sue poltrone rosse e un invitante telone di velluto al di là del quale si apre una scenografia povera ma suggestiva: gli scudi dipinti a mano, variegati nella colorazione, sono di vetroresina; u­gualmente in vetroresina sono le colonne che scandiscono gli spazi del nudo palcoscenico e producono un effetto fosforescente di colore ros­so. Questo oggi è il nostro set. Ci vengono incontro una ventina di detenuti in gran parte gio­vani. Vedo anche uno più anziano con i capelli candidi in mezzo a molte teste rasate, altri di età media in gran forma, curati sino alla on­dulazione dei capelli. Non sono come li avevo immaginati, non incon­tro i visi duri né le diffidenze che avevo sospettato, ma il mio sconcer­to forse aumenta perché continuo a chiedermi quali frustrazioni si na­scondano sotto questi sguardi che cercano di esprimere gratitudine, desiderio di rapporto. Mi rendo conto comunque che hanno consapevolezza dell’evento di cui sono protagonisti: usciranno ad 15 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ore determinate dal­le loro celle per interpretare il Giulio Cesare, sotto la direzione di due registi “importanti”. Sarà una operazione cinematografica particolare. Le prove, prima di approdare al palcoscenico, si svolgeranno in tutte le parti del carcere, nelle celle, nei bracci della sezione, nei cunicoli per l’ora d’aria, perfino nella anticappella. Si presentano ad uno ad uno e subito ci sentiamo coinvolti nella stessa avventura.

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SCENE 1-2-3 I registi non perdono tempo, preparano la prima sequenza men­tre Mimmola, la preziosa aiuto regista che da anni segue Paolo e Vit­torio, dà la sua mano esperta alle due assistenti di Cavalli addette ai costumi e alle necessità del set. Adattano gli abiti, mettono a posto le spade, cercano i cinturoni. Tutto sembra pronto e lascia supporre che presto si dia inizio sul palcoscenico a un suggestivo evento teatrale. Invece la regia spezza l’incanto: l’operatore con i suoi assistenti sale con la macchina sul palco, dove in piedi sta Bruto, e va a inqua­drare il suo Primissimo Piano (P.P.P.). Cinema e solo cinema. Per Sasà la prima inquadratura. Lo guardo, è davvero quell’animale cinematografico di cui mi hanno detto. Nei suoi occhi che fissano la spada leggo il contrasto di chi ha deciso di uccidersi ma non può, non ne ha la forza. Il ciak: viene ripetuto più volte, ma Sasà non perde la concentrazione. Ora Bruto chiede aiuto e, dolente, quasi divenuto bambino, si rivolge all’amico di sempre, Stratone. Una scelta inaspettata e emozionante, questa di Stratone. Le sue non sono dimen­sioni normali, è un blocco di carne che dal mento e dal petto scende sul suo ventre nudo, gigantesco. L’amico, il fedele servo, il più solida­le compagno di Bruto non regge di fronte al dolore del suo signore. Porge la spada su cui Bruto si trafigge scivolando giù su quella pancia quasi a cercare rifugio nell’alveo materno. La sequenza termina con i due amici stretti l’uno all’altro, inquadrati in Figura Intera (P.I.). Di­sperato e dolcissimo risuona nel silenzio il pianto di Stratone. Lo stop della regia arriva un po’ rauco. Rompe la commozione la voce di Mimmola: pausa, sono ar­rivati i pentoloni con la pastasciutta. Il cestino non è proprio all’altezza del “Gambero Rosso”, anche se a detta di alcuni è «... pur sempre un pranzo speciale 17 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

in onore degli ospiti». Per i detenuti la giornata di lavorazione, la pausa, il pranzo al tavolo con i compagni di lavoro, tutto questo dà loro la sensazione di essere liberi. E anche noi della troupe ci sentiamo sollevati dall’ansia del primo giorno. Mi passa davanti Bruto. Vinco la mia esitazione, ho molte cose da dirgli, da chiedergli: che è stato bravo, ma anche che cosa hanno significato per lui gli anni nella sezione di Alta Sicurezza, ora che ne è uscito per il condono. Subito mi pento di avere osato tanto, ma Sasà mi sorride e mi risponde con una naturalezza che mi toglie ogni imba­razzo. «È semplice, forse banale: ho riflettuto su di me e sulle persone a cui devo chiedere perdono... C’è altro da dire? – e aggiunge con in­tenzione –... o che voglio dire?». Riprendo coraggio. «Stai interpretando, Sasà, il personaggio più suggestivo della tragedia, il più moderno, fiero e fragile, quasi amleti­co nel compiere la sua missione politica». Sasà mi guarda e ora è lui che ha una esitazione. È uscito dal tunnel della malavita, è giovane, intelligente, pieno di speranze per il suo futuro, non si sente fratello di Amleto: «Chi deve compiere un o­micidio politico di così alto valore non può cercare nel suicidio la so­luzione dei suoi dilemmi. Il suicidio è sempre un atto di viltà». «Alt, il suicidio è giusto e sacro» – si avvicina a noi uno dei giovani detenuti-attori – «Bruto è troppo titubante, chi è davvero forte non si fa troppe domande. Mi presento, nel film sarò Metello». Il suo aspetto quasi militaresco ha un che di sdegnoso, di perentorio. Si al­lontana. Lo seguo con lo sguardo, inquieta, immaginando altre regole oscure, altre obbedienze nel suo passato. Mimmola ci richiama in teatro. I registi stanno preparando le orazioni funebri di Ottavi o e Marcantonio. Sono troppo lunghe e auli­che, i Taviani provano dei tagli. 18 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Si può piazzare la macchina su Bruto morto, disteso sugli scudi colorati, poi sui due oratori. Una più forte coloritura dialettale restitui­sce credibilità alla solennità dei loro discorsi. Infine il primo campo lungo della giornata, il totale del palco­scenico. Sì, il cinema che riprende il teatro. Di fronte a tutti gli attori schierati Cesare prende per mano Bruto con un accenno di sorriso, a dimostrare al figlio traditore rispetto e amore e con Cassio si avvicina al proscenio. Seguiti da tutti gli altri, con professionalità accademica si inchinano agli applausi, prima timidi poi sempre più sonori, di un pubblico ammirato e commosso. «Un momento – suggerisce la regia agli attori creando un po’ di sconcerto – lasciate più liberi i vostri sentimenti». Dopo un attimo di silenzio con improvviso mutamento di ritmo gli attori esplodono in una irrefrenabile danza di gioia: saltano, si ab­bracciano, salutano, mandano baci al pubblico, si stringono l’un l’altro con incoscienza infantile. Rimaniamo ammutoliti dalla violenza di tanta felicità liberatrice. Ma non c’è un minuto da perdere, il piano di lavorazione non dà requie e la regia concerta con il direttore della fotografia, l’operatore, e Mimmola una situazione opposta: chiede, a forte contra­sto, silenzio e penombra. Ora la platea è deserta; una dopo l’altra sul palcoscenico si spengono le luci colorate, distruggendo l’ultima magia teatrale, mentre gli attori si spogliano dei loro semplici abiti di scena. Sei guardie car­cerarie salgono sul palco e li sospingono fuori. Lo spettacolo è davvero finito. I nostri attori rivestiti con le loro magliette tornano ad essere detenuti e le guardie per la prima volta as­sumono il ruolo di attori, facendo la parte di se stessi. Realtà e finzio­ne coincidono creando una suggestione che in tutti noi ridesta il senso 19 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di pietà. I detenuti lo avvertono e a uno dei registi che chiede una ca­denza più stanca dei loro passi il detenuto con i capelli bianchi rispon­de: «...forse questa è la volta che ci riesce bene». La prima giornata di lavoro è finita. Solo l’équipe della fotogra­fia si appresta a salire sull’altissimo deposito dell’acqua per inquadra­re i totali del carcere di Rebibbia che serviranno durante il montaggio. Noi torniamo a casa e a me sembra di averla lasciata da molto tempo.

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SCENE 4 b-c-d-e-, 5 Prima di affrontare la seconda giornata devo fare una precisa­zione. Quando ho raccolto a fine film gli appunti di questo diario mi sono convinta che per la chiarezza del racconto non era possibile se­guire la cronologia del piano di lavorazione. Per le consuete conve­nienze produttive e per le esigenze logistiche della vita del carcere l’ordine delle scene è stato posposto e abbiamo girato in un continuo, e faticoso, andare avanti e indietro. È solo un caso se il primo capitolo del diario ha coinciso con le prime scene del film. Non sarà così per la seconda e per le altre gior­nate perché seguirò la narrazione secondo il progredire della sceneg­giatura. Darò testimonianza di quale lavoro e di quanto tempo siano occorsi per trasformare le pagine del copione in sequenze cinemato­grafiche, scena dopo scena, secondo la loro giusta numerazione, rag­gruppandone alcune, sorvolando sulle meno significative. All’esterno del teatro ma sempre all’interno del carcere, Andrea l’operatore prepara la macchina a mano, si piazza con forza sulle gambe e esegue una panoramica – sventagliata che parte dal gruppo del pubblico sulle scale dell’uscita e arriva, dalla parte opposta, ai de­tenuti attori che salgono altre scale, quelle che li riportano alle loro celle. In silenzio tra loro e i parenti passano segni e sguardi di saluti. Il cancello rosso che li divide si chiude seccamente. L’inquadratura è fatta, tutto è andato bene... salvo quel rosso del cancello che non convince i due registi. Che ne faranno? Scortata dalle guardie la troupe, chi nel grande ascensore chi per le scale, sale al braccio di Alta Sicurezza, isolato da tutte le altre sezioni. Per noi è la prima volta che entriamo nel vero e proprio carcere. Nel lungo braccio con un grande finestrone 21 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sul fondo si affacciano le celle dei nostri attori e di altri detenuti, tutti, non riusciamo a scordar­lo, condannati a pene gravi o a “pena fine mai”. Mi sento a disagio per questo silenzio e questo ordine innaturale: al di là di quelle doppie porte di ferro c’è gente che odia ordine e silenzio e la mia prima rea­zione è quella di tutti loro, fuggire via da qua. Una guardia apre la prima porta di una gabbia: quanti uomini sono chiusi lì dentro? Contro le sbarre della porta interna facce di vecchi e giovani ci guardano, al­cuni fanno un muto cenno di saluto. I nostri detenuti-attori attraversano la rotonda centrale ed entra­no nel braccio di Alta Sicurezza. Si gira il ritorno dei tre protagonisti nelle loro celle dopo lo spettacolo. Il sovraffollamento del carcere ha creato qualche problema ma ci è venuto incontro come sempre il Di­rettore e in qualche modo risolviamo. Cesare per primo entra accompagnato dal secondino. Le porte si richiudono alle spalle. Stessa entrata per Cassio; ultima per Bruto, che sulla soglia ha una esitazione, guarda per un attimo il sorvegliante e sparisce all’interno. Ho notato che i Taviani non hanno dato agli attori alcuna indi­cazione di regia. Per pudore, credo. È un rientro che i tre conoscono anche troppo bene. A questo punto il film subisce un trauma: dal colore si passa al bianco e nero. È stata una scelta molto dibattuta dai Taviani. Di tutto ciò che si svolge sul palcoscenico il cinema esalterà le luci e i colori del teatro; le prove dello spettacolo invece e la vita degli attori detenu­ti nei loro corridoi e nelle loro celle avranno la drammaticità del bian­co e nero. Un bianco e nero che Simone Zampagni, il direttore delle luci, affronta con la sua giovane fantasia,così aperta alla sperimenta­zione cinematografica.

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Grandangolo: la macchina da presa (m.d.p.) inquadra in bianco e nero l’infilata verticale dei finestroni semiciechi che si aprono sulle pareti del carcere. In sovrimpressione apparirà un cartello ”SEI MESI PRIMA”. Le prime sequenze infatti che vi ho raccontato – la morte di Bruto, a Filippi dopo l’uccisione di Cesare – sono una anticipazione in sintesi delle scene finali del film. Credo che i Taviani non volessero iniziare con le immagini consuete e alla fine ricattatorie della vita del carcere, ma col momento vitale di una comunità oscura e prigioniera che sul palcoscenico ritrova la sua libertà.

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SCENA 6 Ci siamo messi stamattina più in ordine del solito perché entra in scena un personaggio nuovo e autorevole, il Direttore del carcere. Su una pedana, insieme al regista teatrale interno, si presenta ai detenuti in piedi di fronte a lui. È un uomo di forte struttura, con grandi occhi e baffi neri. Ha confidato ai registi che da ragazzo, ve­dendo Padre padrone, ha maturato una passione sempre crescente per il cinema e poi per il teatro. I Taviani, è naturale, lo hanno molto simpatico, al di là della stima per il suo lavoro severo ma aperto alle iniziative sociali e culturali. Ora i registi gli stanno dimostrando la loro gratitudine per la stringatezza efficace e cordiale della sua presentazione del progetto te­atrale. In sequenze come questa la noia e il didascalismo sono sempre in agguato. Lo sa bene Fabio Cavalli che avrebbe una gran voglia di parlare del Giulio Cesare, dei suoi significati e dei suoi valori ma che sotto lo sguardo dei registi arriva presto alla sintesi: «Molti di voi lo conoscono. Giulio Cesare è il generale romano che fece grande Roma con le sue battaglie e i suoi libri ma che per ambizione voleva farsi imperatore. I suoi stessi soci politici, repubblicani, per questo lo uccisero.... Potremo riflettere molto insieme su questa tragedia... L’assassinio... la libertà...». Un altro sguardo dei registi. «Da domani – conclude Fabio – chi vuole può iscriversi ai provini». È pausa e i detenuti finalmente possono sgranchirsi le gambe. Non è stato facile trovare un luogo per questo incontro, finché il Cap­pellano del carcere ci ha dato una mano mettendoci a disposizione la sua ampia anticappella. In poche ore è stata trasformata, via gli arredi sacri, le panche chiesastiche. Anch’io mi muovo e mi guardo intorno. Cerco di capire quale effetto può aver fatto sui detenuti la propo24 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

sta per una tragedia che in qualche modo tocca le loro esistenze. Vengo colpita da un giovane forte e tatuato, totalmente rasato e pur bello; mostra nei modi una al­legria sotterranea che sfiora la ferocia. È Decio, condannato per traf­fi co internazionale di droga. Forse è proprio lui che cerco. Mentre gli offro una pizza che lui cordialmente accetta, gli chiedo che effetto gli ha fatto la presentazione del Giulio Cesare: Shakespeare considera l’assassinio di Cesare un fatto politico, la dife­sa del popolo di Roma dal pericolo di una dittatura, un sacrificio più che un delitto. Gli chiedo se la mafia secondo lui pretende ancora di avere nel suo codice una qualche giustificazione etica per l’omicidio. Decio con la sua aria beffarda mi risponde: «Ragioni etiche?... l’appartenenza alla mafia ha le sue regole e l’ubbidienza al padre, per esempio, è già un fatto morale. Ma le nostre ragioni sono altre, direi che noi agiamo per andare contro una giustizia brutale che condanna alla stessa pena spaccio e omicidio. Vista la parità di condanna, uno spacciatore per salvarsi può essere spinto all’omicidio». È tanto con­vinto di dire parole giuste che non riesco a nascondere il mio disap­punto. Intuitivo com’è , reagisce: «Mi credi spregevole o cinico? Ti do la risposta di sempre: è la giustizia, anzi il carcere che mi rende cini­co». E ride. «Certo – aggiunge un suo compagno, un uomo di circa qua­rant’anni, dal tono salottiero e dai modi quasi raffinati forse per la sua passata consuetudine con casinò e case da giuoco... – il vero nemico è la giustizia che non difende il cittadino e che per la spiata di un delatore condanna un innocente... Io, cara signora, avrei commesso un delitto mentre ero chiuso in carcere... divertente, no?». Devo difendermi dal loro pessimismo. Mi viene in aiuto Cosi­mo che nel film interpreta Cassio. Sui sessan25 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ta, una testa leonina su un corpo ben conservato dagli esercizi quotidiani, in un angolo, apparta­to, sembra triste. «Non sono triste – ha colto il mio sguardo e ora mi rassicura con una certa ironia... – ..semmai sono concentrato». Credo di capire che ha voglia di parlare, di confidarsi magari con una persona estranea al carcere. Con me forse, anche perché sono una donna. «Ho sentito le domande che ha fatto agli altri. A me doveva far­le che sono qua dentro da più di trenta anni; la mia condanna si chia­ma.... fine pena mai». Forse si è pentito di avere parlato. Invece no. Riprende con forza: «Trenta anni sono una vita, si­gnora, e per i primi dieci anni non volevo accettarli. Sono passato da un tentativo di fuga all’altro e ogni volta sono stato ripreso, riportato in cella. Di isolamento. È stato in quei giorni e in quelle notti – tante, troppe – che ho riflettuto pensando a quello che ero stato e a quello che non volevo più essere. Il teatro mi ha salvato, esagero lo so, ma quei drammi, quei personaggi delle tragedie o dell’Inferno dantesco tocca­vano la mia, le nostre vite. Alcuni non hanno voluto riconoscersi, io invece ho lavorato perché il teatro qui dentro crescesse e ho formato la prima compagnia. Per molto tempo – ora le sembrerò ingenuo – mi sono rifiutato di interpretare personaggi malvagi perché non volevo che la gente mi ritrovasse come ero». E con un sorriso come per scu­ sarsi: «lo sono stato un grande criminale. Ho fatto molti orfani». Cerco di nascondere il brivido che mi percorre. Cosimo lo av­verte e prova a rasserenarmi «Oggi non è più così. Mi sono liberato dentro, ho accettato queste mura, sono diverso. Vorrei mi credesse». Voglio sapere di più di lui. La guardia carceraria mi conferma: «È stato uno dei boss della camorra nella Napoli di trenta anni fa. Ed è rimasto un boss anche qui, ma di altro segno. Cerca 26 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di mantenere tol­lerabile la convivenza nella Sezione. Il teatro, lo ha visto, no? è la sua passione. Prima o poi le regalerà i libri che ha scritto qua dentro. In questi trenta anni non ha avuto mai un permesso, non è uscito nem­ meno per un’ora da queste mura. Sa perché? Non ha mai voluto fare il nome del camorrista che con lui ha compiuto uno dei suoi omicidi. Per questo i suoi compagni lo rispettano e lo seguono». Usciamo, le riprese sono finite. Mi ritrovo per strada improvvi­samente leggera e, sfidando ogni senso di colpa, respiro l’aria che mi sembra più chiara del solito.

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SCENA 9 C’è più animazione stamattina sul set: è il momento dei provi­ni. Gli aspiranti attori compatti e tesi aspettano l’arrivo della regia per capire in che cosa consista l’annunciata stranezza dei provini dei Ta­viani. È il metodo che hanno usato in quasi tutti i loro film. Seduto dietro a un piccolo tavolo in un angolo della ex sala di riunione, Fabio oggi riveste il ruolo di poliziotto. Di fronte a lui, con­tro un muro su cui si disegna l’ombra delle grate, si presenteranno, uno alla volta, i candidati. Si tratta di una presentazione di se stessi. In un immaginario posto di frontiera il detenuto dovrà dare le sue generalità, nome co­gnome paternità nascita indirizzo. La particolarità consiste nel tono che sarà prima dolente perché poco distante la sua donna lo vede parti­re, poi di fronte alle impazienze del poliziotto diventerà violento, ran­coroso. Possibilmente con un solo ciak. I Taviani, preoccupati che i detenuti debbano rivelare le loro reali generalità, li rassicurano. «Non siete tenuti alla verità dei dati. Usate nomi fittizi, se preferite. Siete liberi». Prima sorpresa: tutti, nessuno escluso, hanno voluto che il loro nome fosse il proprio e che autentica fosse la loro presentazione. «Si meraviglia ? – mi chiede sottovoce uno di loro – ma noi con questo film possiamo gridare al mondo la nostra esistenza e ricordare a chi lo ha dimenticato che noi siamo qui, tra queste mura, vivi». Il primo a presentarsi è un uomo sui quarant’anni che denuncia l’origine borghese nella gentilezza dei modi, saluta la moglie lontana con misurata dolcezza, risponde alle domande con dignità. Improvvi­samente, diventa rabbioso, sprezzante: sotto la sua compostezza si na­sconde una rabbia che una volta liberata esplode con furore. 28 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Ecco ora Decio, meno spavaldo del solito, meno baldanzoso. Ridacchia di continuo per l’imbarazzo e stenta a trovare la sua verità. Quasi involontariamente la rivela quando dal fondo del suo sguardo emerge una amarezza che viene da lontano. Ho avuto l’impressione di essere di fronte a un uomo che si considera “destinato” al carcere o magari a una vita libera ma colpevole per l’influenza di una persona amata. Il padre, forse? un boss venerato e intoccabile. Non so se ho diritto a simili pensieri. Ma questo è il vero Decio, umile e indifeso, il Decio che mi è caro. A poco a poco, con sempre maggiore emozione, ci rendiamo conto che i detenuti attori evocano di fronte ai nostri occhi volti, voci della loro gente, della loro terra, degli amori, degli odi, dei delitti. «Sono di un piccolo paese della Sicilia, Altofonte... sì...– annui­sce Vincenzo ai registi – sì, quello della Cavalleria Rusticana». La sua voce è bassa quasi impercettibile, dolce e ambigua come la sua fi­gura che mi ricorda i corpi seminudi dei giovanetti di Caravaggio. «Ma la mia giovinezza non l’ho conosciuta». Vincenzo è entrato qua dentro a vent’anni e ora ne ha trenta, condannato a “Pena fine mai”. Alterna a malinconie e rimpianti momenti di una freddezza ostinata, di chi non rinnega niente del suo passato. Ai registi che gli chiedono: «..vai bene... guarda se riesci a piangere...» la sua risposta è gelida: «La mafia non piange». E non ha pianto.1* Per un attimo mi distraggo per un componente della troupe che mi chiede il copione, quando un sonoro e selvaggio «Va’ a fa’ in culo» fa sobbalzare me e la regia cui è rivolto. Con questo garbo Marco Le­tizia, faccia da boxeur, naso schiacciato mostra la sua impazienza. 1 Quando, dopo un anno, abbiamo incontrato Vincenzo, gli ab­biamo ricordato la sua battuta «la Mafia non piange». Vincenzo ha riso e ha negato; ha negato e ha riso.

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A contrasto gli fa eco il pianto lungo di Pasquale Crapetti, un pianto che non aspetta consolazione. Ha i capelli bianchi, è vecchio e il provino sembra anche troppo vero. So che non è razionale, ma in questo momento mi appare assurdo che un uomo così anziano debba vivere qui ad aspettare... Brutti pensieri. Arriva l’ultimo dei detenuti. È un tipo strano, forse un mago o un matto ma con molto “metodo” nella sua matteria, direbbe Shake­speare. Declina ad alta voce nome e cognome ma subito dopo si pro­tende verso la macchina, porta il dito davanti alla bocca e guardandosi intorno misteriosamente chiede silenzio. Silenzio. Sssss..... I provini sono finiti. I detenuti sono schierati di fronte alla macchina da presa. Sono stati scelti i protagonisti, a ciascuno un primo piano. Noi sappiamo che su questi volti apparirà una scritta: il delitto, il giorno dell’incarcerazione, la pena inflitta e, per alcuni, la scritta più brutale: “Fine pena mai”. Anche loro lo sanno. Hanno firmato la liberatoria consapevoli che il loro passato sarà ricordato al pubblico. Ma io li vedo intristirsi e mi sento quasi in colpa. Non oso parlarne con nessuno, ma la sera in macchina chiedo a Paolo e Vittorio se anche loro hanno sofferto per questa inquadratura. Noi, mi rispondono, non possiamo permetterei que­sta sofferenza. Nascondere la verità significherebbe fare dei nostri protagonisti volenterosi e compiaciuti attori di una qualche filodram­matica. Il film invece può e deve rappresentare il dramma di questa lo­ro duplicità. Non troppo consolata ma convinta continuo a dirmi che tutti hanno letto e riletto la sceneggiatura e che tutto è già pubblico. Ma non avevo mai immaginato la violenza che può scaturire dallo scher­mo cinematografico.

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SCENA 10 Oggi è davvero un altro giorno. Dimenticati i dubbi, riprendia­mo con alacrità il lavoro. Mimmola si sta dedicando all’arredo dello stanzone prove. Si devono sistemare le panche abbastanza lunghe ma troppo leggere per certi attori come Stratone. Cesare, il capo macchi­ nista, in un’ora costruisce dei perfetti supporti di resistenza. Ho prova­to sempre ammirazione per questi artigiani del cinema che hanno im­parato la loro arte dai padri dei padri. Quando tutti sono seduti, si chiude il tendone dell’unica fine­stra. Buio. Si accendono due proiettori e un occhio di bue piazzati ai lati delle panche e manovrati da tre detenuti. I registi hanno approntato questo tipo di illuminazione per rendere meno squallido il set delle prove, visto che il teatro è ancora inagibile. Mi ero ripromessa di non parlare mai dei rapporti personali tra i due registi ma per una volta, una sola volta, questa ve la voglio rac­contare. Un piccolissimo problema creato dai tre fasci di luce provoca tra i fratelli una divergenza di opinioni che a poco a poco – mi sembra insensatamente – rischia di degenerare in litigio, di fronte al silenzio attonito di tutta la troupe. I due si bloccano. Si guardano intorno. Uno dei loro dogmi “Mai litigare sul set” sta per infrangersi. Si lanciano uno sguardo infuocato. Poi come se nulla fosse si avvicinano ai due proiettori e con ostentata calma riprendono i loro ruoli. In tutto questo c’è qualcuno che si è divertito, gli attori che si sono presi la soddisfazione di vedere due mostri di equilibrio come Paolo e Vittorio Taviani sdrucciolare su una foglia di fico come tutti. Inizia la prima scena, l’incontro per strada di Giulio Cesare con l’indovino che lo esorta a diffidare delle “Idi di marzo”. 31 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Fabio ricorda a tutti di dire le battute nei loro dialetti e tutti di­chiarano le loro regioni – Sicilia Puglie Lazio Campania... – con entu­siasmo. Anzi, con allegria. Sì, c’è allegria in questo semibuio locale della Sezione di Alta Sicurezza, tra questi uomini dalle gravi colpe. È sempre tutto diverso da come si immagina. Anch’io mi trovo a ridere quando l’Indovino ricorda a Fabio di voler dire la battuta co­me la direbbero nel suo profondo sud gli indovini «che sono sempre un po’ pazzarielli!». Dopo aver pronunziato in falsetto la profezia si china su se stesso, si protende in avanti (lo avevamo già visto ai pro­vini) e si porta l’indice sulla faccia a chiedere silenzio a ciascuno e a nessuno, con uno sguardo ilare che sta tra la minaccia e il mistero. Le risatine degli altri sanzionano l’approvazione della regia. Si sorride anche quando Cesare fa fatica a trovare il tono della sua risposta in romanesco: troppo da plebeo, troppo da senatore. Casca non sta da meno, dichiara a Fabio che non può usare il dialetto perché lui è “cittadino del mondo” e a dimostrazione si esibisce in acrobatici passi di danza americana e poi australiana, anzi maori. Nell’angolo più buio Metello fa un gesto di insofferenza. È vero, in alcuni di noi si sta insinuando un certo disagio, qua­si un senso di colpa nei confronti di Shakespeare... E Shakespeare entra in campo con l’autorevolezza della sua opera. L’atmosfera cam­bia, Bruto e Cassio devono rimanere soli perché dal loro dialogo inizia davvero il cammino della tragedia. La m.d.p. nel silenzio ora di tutti sta sui loro Primi Piani. Cassio cerca di sondare l’animo dell’amico, combattuto tra l’amore per Cesare e il sospetto che Cesare voglia farsi tiranno. Il dialogo continua: Sasà e Cosimo, ciascuno nella sua cella col copione in mano, cercano di appropriarsi dello spirito della battuta. Grazie a un’idea fantasiosa e azzar32 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

data della regia, alternando i due Primi Piani, il dialogo sembra continuare viso a viso. Ma sull’ultima battuta di Cassio che invita Bruto a fidarsi di lui l’incanto si rompe con una inaspettata panoramica che da Cassio va a scoprire un altro magrissimo detenuto nella cella. Sta giocando sul ta­volino un triste solitario. «Non ti fidare, grande attore – gli dice – ­Guarda me che mi sono fidato e dove sono finito». Con questa amara ironia la sequenza si chiude e tutto sembra sia andato per il meglio. Ma i due registi sembrano agitati, non si ac­contentano. «La chiarezza prima di tutto» ripetono a noi tutti e a se stessi, ricordando il consiglio – «...ossessivo!» mi hanno detto – avuto da Monicelli. Si consultano, decidono. «Presto! Qua i proiettori... Simone!». Piazzano la macchina nel corridoio a metà della parete su cui si aprono le porte delle due celle, ora sbarrate. Una lenta panoramica dall’una all’altra idealmente le u­nisce. Speriamo che l’idea non sia troppo azzardata. In macchina mi sembra di cogliere nei loro discorsi qualche sospetto e molta speran­za...

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SCENA 13 Una accecante luce bianca riempie tutta l’inquadratura. Arre­trando il carrello scopre i contorni della grande finestra sbarrata. Da fuori arrivano clamori. L’ambiente intorno è in penombra e verso la luce entrano in campo Bruto e Cassio. Guardano al di là della sbarre e idealmente assistono all’evento che si sta verificando giù nel Foro. Antonio per tre volte porge la corona a Cesare che per tre volte ipocri­tamente la respinge, con una gran voglia invece di “mettersela in ca­po”. I due compagni guardano, soffrono, si scontrano. Bruto è dilania­to tra la fedeltà a Cesare e quella ai suoi ideali repubblicani, Cassio sempre più convinto di voler salvare Roma dalla tirannide cesariana. Ma vedo i Taviani che fanno il loro meeting segreto: la sequen­za è troppo lineare, bisogna spezzarla con alcuni incidenti, del resto già previsti in sceneggiatura. Si procede con Fabio che interrompe la scena e invita Sasà a trovare una posizione più adatta a esprimere il suo tormento. Sasà si piega sulle ginocchia, la schiena a Cassio, lo sguardo a terra. Il suo silenzio in quella posizione da escluso è più e­loquente di ogni parola. Altra interruzione, Cassio sta guardando fuori per lanciare la sua invettiva: «Ah, Roma, città senza vergogna!» ma ha un attimo di incertezza. Guarda i registi che gli fanno un cenno col capo: ma si! continua con l’altra invettiva, più personale, forse troppo... ma bene così! Cosimo abbassa il tono della voce con desolazione: «Ma anche tu, Napoli mia, sei diventata una città senza vergogna... Scusatemi, ma a me sembra che questo Scespir abbia camminato per le strade del­la mia città...» e ride senza allegria. A contrapporsi al totale della stanza con i due amici davanti al­la finestra entrano in PP Marcantonio con Cesare, che si ferma a guar­dare di sottecchi Cassio. 34 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Cambiando improvvisamente registro poetico Shakespeare, in­vece di presentarci un Cesare impegnato in discorsi di alta strategia, gli affida un tono prosastico e anche un po’ pettegolo: non gli piace quel Cassio troppo poco in carne, studia troppo, si macera... «Parlami nell’altro orecchio – si stizzisce con Antonio che vuole rassicurarlo – ­da questo sento poco o niente». I Taviani non vogliono perdere nemmeno un accento di questa ironia, anche perché rende più inaspettata e quasi metafisica la rifles­sione di Cassio rimasto solo: «E intanto tu, Bruto, pensa al mondo». Finite le riprese, vedo Antonio dirigersi verso di me, curioso ma diffidente. Mi chiede che cosa sto facendo con questo mio quader­no su cui scrivo tanto, un diario? «Una specie...». «E ora vorresti par­lare con me?» «Sì, scusami – gli dico – ma mi succede sempre così. Provo disagio se devo condividere la mia giornata e lavorare con per­sone che non conosco e che non mi conoscono». Mi mette subito in guardia, ha accettato di partecipare al teatro, ma niente dovrà mai trapelare della sua vita privata. Rispetterò la sua esigenza. È un uomo ancora giovane, forte, eppure i suoi occhi cupi sembrano guardare verso una lontananza da cui vorrebbe fuggire. Più tardi è stato Fabio che ha accennato a una storia circondata da mistero. Forse non è vera, ma si dice che a Napoli Antonio fosse pizzaiolo, una vita semplice come quella di molti gio­vani della sua età, finché un giorno una storia d’amore lo travolge e lo spinge sulle strade della criminalità. Non è più tornato indietro. Ora è lui che vuole parlare, ma solo del teatro che lo appassio­na. Prima dell’inizio del film gli è stato offerto il ruolo di Bruto. Ha incontrato i registi che venivano da un sopralluogo e lui, che trascinava un carrello pieno di biancheria, li ha abbordati: «Sono Bruto», l’occhio acceso di entusiasmo. Poi è rientrato Sasà fino a due anni 35 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

prima dete­nuto a Rebibbia, ora libero per il condono che gli ha annullato una parte della pena. Sasà, Salvatore Striano, era stato già acclamato nella Tempesta. La scelta ha sacrificato Antonio. Quando ha incontrato di nuovo i registi il suo sguardo non era più acceso, esprimeva la rasse­gnazione di chi sa che la vita non gli è amica. «Sarai un magnifico Marcantonio!» gli hanno detto i due registi (così mi hanno raccontato) con un entusiasmo eccessivo che tradiva il loro senso di pena, se non di colpa.

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SCENA 14 Dopo tante tensioni la scena di oggi sembra farci dimenticare i drammi di Bruto e Cassio. Siamo nel teatro ancora in fase di allesti­mento, parte delle poltrone non sono fissate al parquet, su una torretta lavorano due operai detenuti. L’intervento un po’ agitato di Fabio che viene a controllare lo stato dei lavori suscita la loro irritazione. Niente di particolare in questa scena, ma le facce dei due operai mi sorprendono. Scopro che uno dei due è quel vecchio doloroso e piangente del provino. Ora è un altro, spigoloso e aggressivo quando risponde a Fabio: «Ma cosa cerchi da noi? Noi qua siamo solo schia­vi!» Sta solo recitando? vorrei chiederlo al terzo operaiodetenuto che sta lavorando alle poltrone. Riconosco la sua faccia di boxeur, è lo stesso che nel provino, preso da collera, manda brutalmente la regia a quel paese. Ora invece con delicatezza lavora intorno al velluto di una poltrona e con delicatezza vi si siede con un sospiro. La regia non si stacca da quella immagine e richiama la mac­china da presa che già sta lasciando il set. Ha un breve colloquio col detenuto, sottovoce. Poi l’obbiettivo va a cogliere il dettaglio della sua ruvida mano che sfiora sensualmente il velluto del sedile, mentre la voce mormora: «... qui forse si siederà una femmina...». Esasperato, si alza ed esce di campo. Anche lui sta solo recitando? La risposta potrebbe darla ogni carcerato, la più semplice. Al di là della perdita della libertà, la mancanza del rapporto con la compa­gna è la pena più insopportabile. Non mi è mai capitato di sentire astio verso l’infedeltà della propria donna. Per ciascuno di loro la moglie che ha resistito è un dono, quella che non ha saputo o voluto aspettare è solo vittima di un rapporto già tradito dalla condotta del compagno.

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SCENE 15-16-17 Dal volto del boxeur a quello di Sasà sdraiato sul letto della sua cella, gli occhi al soffitto, lo sguardo sprofondato forse negli stessi de­sideri. Sul set il silenzio è ancora più intenso. Sasà non resiste, lo spezza. Si alza, prende il copione in alto, sulla sua mensola: «Provia­mo la scena noi due, da soli?». «Da soli?» fa Vincenzo – Lucio, anche lui sdraiato e smanioso sul suo letto. Iniziano così le riprese della sequenza della congiura. La notte che precede le Idi di Marzo è lunga per Bruto nell’attesa dei congiura­ti. Con loro, sciolti gli ultimi dubbi, stringerà il patto: Cesare ha da murì, domani. Ma io non riesco a distogliere lo sguardo da Lucio. Asseconda gli ordini di Sasà con l’innocenza di un adolescente che fa fatica a svegliarsi. Eppure io ho ancora nelle orecchie il tono glaciale della sua voce durante i provini (forse lo ricordate – «La mafia non piange»). È difficile che rida, sorride. Parla con i compagni, ma sottovoce. Par­tecipa, ma improvvisamente scompare. Ti racconta fatti crudi del suo passato, il giorno dopo la versione è un’altra. Molte storie ho sentito mormorare su di lui qua nei bracci del carcere, ma alcune mi sembra che abbiano il sapore delle leggende metropolitane. Come quella che lo vedrebbe autore di un omicidio multiplo, che provoca da parte di al­tri affiliati la sua fucilazione. Lo credono morto, non è morto. Riesce a trascinarsi in salvo, le conseguenti vendette lo portano alla “fine pena mai”. Ma il soffitto della sua cella è affrescato da lui con colori lim­pidi, trasparenti, il celeste soprattutto e il rosa. Suona, non molto bene in effetti, l’armonica e ora qui, nell’inizio della sequenza delle prove con Sasà, trova con istintiva naturalezza i tempi e l’estro della com­ media dell’arte, tra serio e faceto. Bruto si concentra nella sua decisione. Manda Lucio a vedere che giorno è. Solo, si aggira nella cella per ripete38 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

re la parte. I dubbi sono stati superati ma questo assassinio in nome della libertà continua a perseguitarlo: «Ha da murì mò mò». Bruto non smette di mormorare le sue battute nemmeno quando seguito dalla m.d.p. esce dalla cella e sale le scale che portano al corti­le. I gradini sembrano corrispondere alla salita di Cesare al potere, mentre l’intervento sarcastico di due detenuti che lo incrociano per le scale ci riporta alla vita del carcere. Nessuna soluzione di continuità nell’ultimo tratto di strada che Bruto compie. Ora lava il pavimento del corridoio e ripete. Questa e­stensione degli spazi che Bruto percorre, questa dilatazione delle bat­tute nel tempo rendono l’ossessione di Bruto e la decisa volontà di te­ner fede ai suoi ideali. Eppure nel viso concentrato di Sasà mi sembra di leggere un’inquietudine in più, la mancanza di motivazioni sacre con cui erano state compiute le azioni del suo passato.

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SCENE 18-20 Oggi sul set trovo una strana inquietudine. Al centro della ro­tonda le guardie di sorveglianza sono più silenziose del solito; attra­verso la grata di una cella vedo un gruppetto di detenuti che parlano segretamente tra loro; all’entrata i controlli sono stati più minuziosi. Non oso chiedere a nessuno ma per fortuna vedo arrivare Dona­tella Palermo, preziosa coproduttrice del film. Mi viene incontro con uno sguardo che vuole essere rassicurante. È vero, qualcosa è succes­so e mi racconta di un coltello trovato dove non doveva essere. Si è investigato, in silenzio, e il caso ora sembra chiuso. In che senso non è dato sapere. Stavo dimenticando che siamo in un carcere di Alta Sicu­rezza. Donatella sta seguendo la lavorazione con una intelligenza che riesce a far sue le ragioni del film. Nei momenti difficili sostiene la troupe con spirito critico e operativo, ma le faccio torto se non dico dei suoi occhi ridenti. Me lo ha confessato: questo lavoro sempre più la emoziona e la rallegra. È entrata nello staff produttivo quando per ragioni personali Grazia Volpi non ha potuto seguire direttamente il set. Forse non è i­nutile ricordare chi è Grazia: prima a fianco di Giuliani – il magnifico partigiano produttore, l’amico dei fratelli – poi da sola, ha condiviso per quaranta anni la loro avventura cinematografica. Intanto la vita del carcere ha ritrovato il suo ordine quotidiano. Mi affaccio alla soglia della cella di Bruto ma non posso entra­re perché Paolo e Vittorio stanno discutendo con Bruto e Lucio la sce­na. Sono le nove e mezzo di mattina e dalla porta della doccia esce un detenuto con un secchio in mano e l’asciugamano sulla spalla. I carcerati stanno scendendo per l’ora d’aria. Sbircio attraverso le sbarre della finestra: 40 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

camminano a due a due percorrendo da un lato all’altro lo spazio rettangolare dove si giuoca a palla a volo. Camminano, alcu­ne coppie parlando fitto come seri uomini d’affari, altre come se si confidassero qualche segreto. Una, dieci, cento volte fanno lo stesso tragitto. Muovo qualche passo nel corridoio. Scopro una cella più ampia delle altre. Non ci sono letti ma solo un tavolo lungo intorno al quale cinque o sei detenuti hanno scelto di dedicarsi allo studio. Qualcuno presto si laureerà. Mi sorride un giovane che ancora non avevo avvicinato. Si chiama Giacomo, ha un viso bello e pulito di chi sembrerebbe cascato qua dentro per caso. Non è stato per caso. Ha già scontato molti anni di carcere, anche lui per spaccio di droga. Mi informa che si sta appli­cando agli studi di legge. Cambiando il tono di voce aggiunge che la famiglia non lo ha mai abbandonato. La moglie è riuscita a tenere lon­tano i due figli dalla strada del padre. Uno sta per compiere diciotto anni. «Ma – mi dice commosso – li festeggerà solo quando io uscirò da qua... tra cinque anni!». E sorride. Un altro detenuto attore sembra desideroso di parlarmi. Lo ri­cordo durante i provini, il più silenzioso, a tratti quasi assente. In silen­zio mi porge alcune pagine dattiloscritte. Leggo imbarazzata in dieci fogli la sua vita. Figlio di poveri, non volle più stare tra i poveri. «Sta­rò tra i primi» – scrive di se stesso con freddo stupore – «ero preso da una smania di potenza». All’inizio fu la proposta di un amico partico­lare, poi il gruppo, poi la cosca, poi le estorsioni, le rapine, il delitto. I delitti, sino in fondo, sino al silenzio di una cella. «Sono come un cane in un box, insieme ad altri cani, tutti di razze diverse. In un angolo me ne sto accucciato, pensando se tornerò mai nelle mie Puglie». Queste confessioni da una parte gratificano il mio ego, dall’altra mi lasciano il solito senso di colpa. Come mi permetto di en­trare così addentro nelle loro coscien41 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ze? Eppure, mi dico, sono loro stessi che lo vogliono. E allora, avanti, vado a seguire la scena seguen­te nella cella di Bruto. L’ambiente è immerso in una semioscurità. Costretti a girare le sequenze notturne solo di giorno, i macchinisti hanno sistemato ten­doni neri alle finestre e ai finestroni. Temevamo la reazione impaziente degli altri detenuti e invece niente: di fronte alla inconsueta avventura tutti collaborano, nessuno protesta per il buio e sembra sia passata una segreta parola d’ordine, fare silenzio. «Stanno arrivando» dice Lucio quasi spaventato a Bruto, rien­trando nella cella. Bruto va incontro ai congiurati, ma sulla soglia si ferma, appoggia la testa al muro, di spalle alla m.d.p. Il tempo del dubbio è finito, comincia quello dell’azione. Sappiamo i suoi pensieri: «...il tempo che passa tra il primo impulso a un’azione terribile e af­ferrare l’arma e colpire, è un’attesa angosciosa... n’incubo». Così dice Shakespeare, ma sottovoce Bruto mi suggerisce un’altra espressione nel suo napoletano viscerale: «... è nu suonn’ ammalorato». Mentre Cassio e Bruto si appartano per una loro intesa, nel corridoio assistiamo a qualcosa di particolare. I registi mi hanno mes­so sull’avviso. Nel corso delle prove di questa sequenza sono affiorate riflessioni critiche dei detenuti nei confronti del testo, bizzarre osser­ vazioni che hanno messo in luce aspetti impensati dei nostri attori. Paolo e Vittorio non hanno voluto rinunciarvi e, dopo averle elaborate, le hanno inserite nella sceneggiatura. Trebonio, per esempio, il più an­ziano caratterizzato dalla sua dolce malinconia (non sono riuscita a capire di quale delitto sia stato incriminato, certamente grave, tanto ne parla con vergogna e rimorso) in carcere riesce a fare convivere la sua ritrosia con una timida giocosità. A Cinna che irridendo al «signor Scespir» sostiene che «in questa scena i congiurati risultano quattro fessi perché mentre organizzano l’uccisione del 42 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

loro capo baccagliano per stabilire dove nasce il sole», Trebonio risponde: «No, anzi! dice bene questo Scespir: fessi siamo uno poco tutti quanti, e pure iddi, i congiurati. E meno male, così il mio personaggio mi pare chiù uguale a mia, mi fa sentire meno in soggezione...». Solo Shakespeare nei momenti più imprevedibili riesce a stupirci e a rallegrarci con queste capriole surreali. La sequenza incalza. Bruto assume il suo ruolo di capo, ora stabilisce i tempi dell’azione, ora si rivolge alla coscienza di ciascuno. D’impeto Sasà alterna l’accusa contro i tiranni e i ruffiani alla rifles­sione angosciosa: «Il nostro non è un assassinio, è un sacrificio». Si avverte un’ansia nella sua invettiva che sembra rivolta ad altri che non sono qui ma affollano la sua memoria. «... ah, se si potesse strappa‘ ’o spirito del tiranno senza squarcià ‘o petto suo... Ah, se si potesse...». Si interrompe. E qui, improvviso, lo strappo che ci fa sobbalzare: «Ma che vuoi tu da me?!». Con brutalità Sasà si rivolta contro Fabio che gli chiede se abbia dimenticato le battute. «Sono cose mie – ripete minac­cioso –... mie, mie...». Certo, anche in questo caso tutto è stato previsto dalla sceneg­giatura. La battuta di Shakespeare ha provocato durante le prove ri­cordi personali in alcuni dei detenuti tra i quali Sasà. Le confessioni sono state raccolte. Tutto previsto, dunque, ma non questa improvvisa esplosione di una violenza che mette sulla bocca di Sasà la battuta ol­traggiosa sino alla volgarità: «Ma che vuoi tu da me?!». E anche ora che Sasà chiede scusa a Fabio con umiltà e dolcez­za ci chiediamo dove stia il confine tra l’uomo e l’attore. Quattro rintocchi di campana; in extremis è stata trovata una ciotola di metallo su cui battere i colpi. Sottovoce i congiurati si salu­tano con la promessa di Decio: domani con l’arte della lusinga porterà Cesare in Senato. Bruto rientra nella cella e fissa con tenerezza il sonno di Lucio. Dal mio angolo anch’io guardo il giovane che 43 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

forse davvero si è ad­dormentato, come cercando nell’innocenza del sonno quella dignità di cui l’altro giorno mi ha detto: «La dignità non è qualcosa che si perde e poi si può riconquistare. Quando sei al processo, davanti ai giudici e all’avvocato, sei uno che la dignità l’ha persa per sempre, e allora non sei più un uomo, sei solo il delinquente che attende la sua condanna».

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SCENA 21 Dal sonno di Lucio affiora un’immagine serena, una marina in­contaminata che sembra suggerire speranze. È il sogno di Lucio­ Vincenzo che ritorna al suo mare di Sicilia? Forse, ma una lenta pano­ramica scopre il grande pannello marino che abbellisce l’ampio locale, dove è sistemata la biblioteca del reparto di Alta Sicurezza. L’ha volu­ta il Direttore del carcere, disponibile a favorire la cultura anche nel reparto dei detenuti a lungo termine che, per ragioni di controllo, non possono avere accesso alla Biblioteca grande di Rebibbia. Per il film rappresenta la casa di Cesare. Tutti ci aspettiamo molto da questa scena in cui Cesare rivela i suoi dubbi sulla partecipazione alla seduta del Senato. In realtà i dub­bi toccano nel profondo proprio il protagonista della sequenza. È la prima giornata di vera recitazione per Giovanni e Giovanni appare in­certo,così diverso dall’Arcuri che ho conosciuto finora. L’eleganza del comportamento, il tono quasi salottiero nel rapportarsi ai registi e a tutti noi, la dignità che gli deriva dall’aspetto solenne grazie alla sua alta e corpulenta statura, alla fine la sicurezza di chi non ha dimenti­cato la propria estrazione borghese, tutto questo sembra offuscato da una timidezza strana. Nei giorni passati abbiamo molto parlato, con fierezza mi ha detto della sua famiglia capace di accettare la sconfitta del figlio “birichino”. Da parte sua cerca di ricompensarli studiando in carcere Michelstaedter e prendendo la laurea in Lettere. Un comporta­ mento, ne è convinto, che è già un segno di riscatto. Lo deve a loro. Ora, sotto l’occhio della macchina da presa, Arcuri stenta a tro­vare il giusto tono, la sua recitazione appare paludata. Non lo ha certo aiutato l’assenza nella scena di Calpurnia, la moglie che gli ha confi­dato il suo sanguinoso sogno profetico, scongiurandolo di non anda45 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

re al Senato. Grosso interrogativo si sono posti Paolo e Vittorio a propo­sito di Calpurnia. In un carcere di Alta Sicurezza le donne non hanno accesso né i Taviani intendono travestire un detenuto, come già era stato fatto in altri spettacoli di Rebibbia. Ma se in teatro la lontananza degli attori dal pubblico può permettere il travestimento, nel cinema no, la macchina da presa indaga i volti, gli sguardi, disvela, documen­ta. Travestimento significa alla fine, in ruoli drammatici, falsità, e spesso irrisione al posto della nudità del vero. La risoluzione del pro­ blema è dolorosa ma semplice, Calpurnia non compare, una rinuncia dura per i Taviani che amano quella scena. Cesare stesso racconterà a Decio la notte angosciosa della moglie. Ma la preparazione della sequenza continua a rivelarsi faticosa e amara risuona la battuta di Cosimo all’invito di Fabio di non perdere tempo: «Sto qui da più di venti anni e tu mi chiedi di non perdere tem­po». Le interruzioni sono più frequenti, ora è il rumore del fon usato dai detenuti nelle docce attigue, ora l’uscita di una sezione per l’aria, ora il richiamo dei detenuti a ritirare il proprio pranzo. Anche noi cogliamo di buon animo l’ordine di andare in pausa. Ho detto di buon animo, e invece sento qualcosa di diverso, oggi, anche in me, una sensazione nuova, di insofferenza. Sto rien­trando nel corridoio del set e faccio fatica a rinchiudermi in questi spazi, l’atmosfera surreale del carcere sembra soffocarmi. Devo fuggi­re, non ha senso ma devo fuggire. Non dico niente a nessuno e nessu­no si accorge di me. Una guardia mi fa da scorta, mi accompagna giù in ascensore, svolgo le operazioni burocratiche dovute, varco i cancelli e sono fuori da quelle mura. A piedi percorro la strada fiancheggiata dal muraglione. È di­sabitata, non un autobus, non un passante. 46 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Ho quasi paura in questa zona che non conosco e sono spaesata, cammino svelta sotto la pog­gia. Per un attimo credo di provare lo stesso smarrimento di chi dopo anni esce o fugge da lì e si ritrova tra queste strade ostili. Ho anche il rimorso di avere lasciato quei ragazzi ai quali mi sono affezionata ma più forte è il bisogno di allontanarmi da loro, da questo luogo dove ho immagazzinato il dolore che adesso mi rende aliena. Nessun rimorso, ho solo la voglia di arrivare alla metro, lasciare i pensieri dietro di me, raggiungere casa, togliermi sotto la doccia l’odore del carcere. Domani riprenderò a pensare a loro. Oggi non posso, godo la mia libertà, non l’ho mai apprezzata tanto. Il giorno dopo. L’interruzione mi ha fatto bene. Sono di nuovo io e riprendo con forza il mio lavoro. Anche perché oggi la sequenza è fondamenta­le: per Cesare segna l’inizio del suo martirio, per i congiurati l’inizio della sanguinosa impresa con tutte le sue drammatiche contraddizioni, e non solo nella finzione dello spettacolo. Il primo scontro si accende tra Decio e Cesare, che si rifiuta di andare al Senato per gli incubi sanguinosi di Porzia. Decio è determi­nato a farlo recedere dalla sua decisione grazie alle sue arti. La regia non ha fatto fatica a spiegargli le intenzioni del suo raggiro. Josè entra nella stanza con l’energia di un serpente velenoso, persuasore perfido nella sua sdolcinatezza. Il suo impeto contagia Giovanni che ritrova tutta l’autorevolezza di Cesare e la sua dialettica. Sempre più stringente si fa il dialogo tra i due finché il confron­to si trasforma in affronto. Approfittando di una battuta ambigua del testo, il detenuto Giovanni prende il posto del personaggio Cesare e insulta Decio che torna ad essere Juan. «Sono fatti loro» mormora 47 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Co­simo-Cassio agli attori-detenuti che interdetti assistono alla ripresa. Furiosi i due raggiungono la porta e spariscono nel corridoio. A tratti la m.d.p. li coglie mentre appaiono e scompaiono al di là della por­ta, guizzanti di odio. «Fabio, falli smettere, o qui ci fanno chiudere tut­ta la baracca!» incalza esasperato Lucio-Vincenzo. Ma tutto in silen­zio, non un grido, una imprecazione. Finché Cosimo, da boss quale era nella sua Napoli di allora, riprende qui a Rebibbia il ruolo di capo e con un cenno della testa rassicura Fabio: tutto è a posto. I due arrab­ biati, a testa bassa, rientrano e riassumono i loro ruoli. Tutto vero, come sempre, e tutto ricostruito. La solidarietà tra di noi – ci raccontano i detenuti – non è così pacifica. I rancori si pla­cano sul momento per poi scoppiare in maniere e toni inaspettati, ma che le voci non si alzino mai, che tutto rimanga entro le mura delle lo­ro celle. Con una precisazione di Juan: in uno scontro come questo lui, e non solo lui, avrebbe tirato fuori il coltello. «Ma sempre in silen­zio...» lo interrompe ironico Giovanni, di tutt’altro temperamento. Ho guardato Juan mentre recitava, era padrone del ruolo, ma sotto affio­rava la sua furia, il carattere negato a ogni compromesso, il figlio di un padre che era anche il suo boss. Difficilmente riesco a identificarlo con quel Decio che sia pur raramente ha saputo fare autocritica riguar­do al suo passato. Mi vengono in mente certe frasi: «È la giustizia in­giusta che ci rende delinquenti. È il carcere che ci rende cinici». Si riprende a girare, il P.P. di Lucio mette fine alla sequenza. Lo sguardo del ragazzo è lontano da tutti, lontano dalla recita. Guarda fisso davanti a sé il grande pannello marino, forse un’immagine della sua Sicilia. Sottovoce Paolo e Vittorio gli chiedono se vuole esprimere anche con una frase il sentimento che sta provan­do. Il ragazzo continua a guardare, mentre la m.d.p. si avvicina sempre di più a quel mare che a poco a poco si fa azzurro. 48 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Appena percettibile affiora la sua voce :«...voglio tornare a’ mare... a’ mare voglio torna­re». Anche i più duri dei compagni hanno un moto di tenerezza. Ma conoscendo i Taviani credo che alle parole di Lucio preferiranno il si­lenzio.

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SCENA 22 Oggi la sceneggiatura ha subito un trauma: vengono depennate le scene 22-28 che erano destinate agli incontri dei Taviani con i pa­renti dei detenuti. All’inizio Paolo e Vittorio hanno immaginato che la verità dei nostri attori sarebbe emersa con più forza a confronto con la verità di chi li ama o li ripudia, di chi li aspetta e perdona, di chi inve­ce vuole dimenticarli. Tutto è stato predisposto e la produzione ha or­ganizzato i viaggi, gli incontri, quando stamattina a sorpresa i Taviani entrano sul set e annunciano: non si parte più. Sconcerto della troupe e malumore nella produzione. Che cosa è successo? I perché sono due. Il primo, alla vigilia della partenza i Taviani hanno prefigurato i loro incontri. Madri, figli, fratelli, amici tutti quasi sicuramente avrebbero cercato di difendere l’immagine del loro fami­liare o avrebbero voluto allontanarlo dalla loro esistenza. Le verità più oscure e profonde ognuno le avrebbe tenute per sé. Secondo moti­vo, per superare questo ostacolo, sarebbe stato necessario forzare l’in­timità di persone toccate dal dolore. I due fratelli – da come li cono­sciamo – non l’avrebbero mai fatto. Ma io posso rivelare un terzo perché. Privilegio di moglie e di cognata, arrivo sempre sul set nella macchina della regia. Il simpatico autista della troupe ha ascoltato per una settimana i due fratelli che si sono arrovellati su questo interrogativo, interviste sì, interviste no. Fin­ché non ha retto: «Volete rovinare il vostro film? – ha esclamato con tutta la sua partecipazione emotiva – Lasciate fare queste cose alla te­levisione!» I Taviani prima si sono guardati, poi sono scoppiati in una risa­ta, poi hanno deciso: non si parte. Mi rendo conto del coraggio della loro decisione, anche perché da qualche giorno, data la mia confidenza con i detenuti, ho parlato con loro di questi eventuali 50 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

incontri con i familiari. Le reazioni sono state contrastanti, imprevedibili. Di nuovo categorico e cupo il rifiuto di Antonio, niente della sua vita privata deve trapelare fuori dal carce­re. Mi viene spontaneo sospettare perentori divieti imposti dal suo clan di provenienza. Diversa, quasi infantile l’adesione di Ligorio, il giovane che sembra oggi un cane addomesticato. Vorrebbe che i suoi incontrassero la troupe, ma io ricordo bene quello che mi ha detto la guardia sui pe­ricoli di morte che lo minacciano. Arcuri ha accettato, orgoglioso di mostrare da quale famiglia discenda e con quale civiltà madre e figlia abbiano accettato il dram­ma che ha coinvolto l’onore della casata. La risposta più sorprendente me l’ha data Pizzetto. Conoscen­do il suo carattere amicale mi aspettavo da lui pieno assenso all’iniziativa. Sulle prime così è stato, si è rallegrato all’idea che po­tessimo conoscere sua madre. Poi, d’un tratto si rabbuia in volto. Cambia tono, mi guarda con occhi tristissimi: «No, mi scusasse ma io, ma mia madre... No, non potete andare». Accenna un sorriso tra timido e ironico: «Vedi, mia madre ha dieci figli, dieci... tutti in car­cere. Dieci carcerati. Rischierebbe di confondermi con un altro!». Non ho potuto trattenermi dal ridere ma Pizzetto ha continuato a scusarsi e io avrei voluto nascondermi. Pizzetto, amato da tutti nel reparto per la sua remissività, non si illude di avere permessi o condoni che sono l’anticamera di sconti. Ha commesso delitti e ora sconta l’ergastolo cercando di rendersi utile, lavora alla mensa, aiuta come può le varie attività del carcere. Uscire? Gli farebbe paura. Sa che vivrebbe con la taccia di assassino, non si redime il delinquente quando esce. Il carce­re è un distintivo sulla giacca. Ambigua la risposta di Vincenzo-Lucio. Certo, dice, gli farebbe piacere che incontrassimo i suoi genitori, ma... Mi rendo conto che mi nasconde qualcosa e nello 51 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

stesso tempo vorrebbe dirla. Sì, esiste una persona molto vecchia che lo segue con amore, lo ha sempre se­guito sin da allora, dai banchi della scuola. È la sua maestra elemen­tare. Dove sta? lontano, conosceva il suo indirizzo ma ora fa fatica a ricordarlo. Oppure non ce lo vuole dire, e il suo sguardo si fa freddo. «Comunque se qualcuno di voi andrà dalle mie parti avvertitemi, do­vrà essere scortato da chi vi dirò io». Intanto sul set Paolo e Vittorio, con energia rinnovata dal capo­volgimento del programma, ci mettono al corrente del nuovo piano. Oggi si dà concretezza a quanto indicato nella sceneggiatura: “Scena 22. Notte inquieta”. Una sequenza notturna da girare all’interno e all’esterno del carcere, in notte americana. All’inizio siamo presi da sconcerto. Come fare senza un copio­ne da seguire? Mimmola, fiduciosa come sempre e pronta a capire il lato poetico di una improvvisazione, passa alla pratica. Fa oscurare l’ambiente, prepara lenzuoli e guanciali, raduna i detenuti convocati mentre Simone sta piazzando le sue luci notturne. Mai così presto ab­biamo iniziato le riprese. Il primo è Carusone l’indovino, la testa sul guanciale, gli occhi fissi al soffitto. Non è più il folletto, il pazzariello che irride in questa atmosfera come di confessionale: «Guardatori di soffitti ci avete a chiama’, no carcerati. Quasi tutto il giorno distesi sul letto, gli occhi all’insù...» mormora la sua voce che viene registrata fuori campo. Anche Leonardo-Ligorio sul suo letto fissa il soffitto, cercan­do inutilmente di farvi affiorare l’immagine del figlio da cui la madre lo sta allontanando. E Juan, con gli occhi sbarrati, furiosamente si ri­volta su se stesso e schiaccia il volto contro il cuscino. La “notte delirante” continua in un angolo dove i detenuti en­trano ad uno ad uno in una specie di tenda. Nell’oscurità li attendono il fonico e la regia. Ciascuno cerca di esprimere l’angoscia notturna con un pensie52 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ro, un grido di richiamo, il ritmo di una nenia, un sin­ ghiozzo che si vuoI soffocare. È una prova che all’inizio sembra una gara, un giuoco a chi è più bravo, ma che a poco a poco suscita in tutti una tristezza feroce. Altre voci, altri sentimenti, altre desolazioni vengono registrate mentre – una volta scesi giù in esterno – la macchina inquadra le sbar­re delle celle, dove «...in cinque si può avere la diarrea». Sappiamo che in montaggio tutti questi suoni si sommeranno sino a formare il coro della “notte di Rebibbia”, da cui emergerà il volto di Cesare, che nella luce del giorno delle Idi di marzo sta andan­do al Foro.

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SCENA 29 Siamo giunti alle Idi di Marzo. La troupe si sta preparando nel Senato, dove Cesare verrà ucciso. Il luogo scelto è impressionante: sono i cubicoli dove i detenuti vengono accompagnati per l’ora d’aria. Strane gabbie rettangolari cui si accede da un lungo corridoio che un muro divide in due parti paral­lele, separando le gabbie di destra da quelle di sinistra. Luoghi senza tetto salvo quelli per i detenuti pericolosi che per tetto hanno un‘ulteriore inferriata. Assoluta nudità scenografica per questo Senato; solo un piccolo podio di tre scalini costruiti in fretta indica il luogo del sacrificio. Il ri­gore non deve trasformarsi in rigorismo, insistono i Taviani. Resta ancora da sistemare Cesare. La sua entrata solenne deve avere un segno particolare che lo distingua dagli altri. Una toga? Era il tratto distintivo d’obbligo, ma non deve essere quella delle sartorie teatrali, piuttosto qualcosa che le assomigli senza averne le prerogative maestose. Viene tagliata e costruita dalle aiutanti sotto la guida di Cavalli che ha trovato la stoffa adatta nelle attrezzerie residue del teatro. Ora la tunica è sulle spalle di Cesare ma gli scivola via. Come fermarla al collo? Una spilla da balia! «E le spade? – irride Mimmola – con che lo ammazzano, que­sti?». Le spade in legno sono state preparate, ma l’abitudine di vedere i nostri attori senza costumi ha fatto dimenticare lo strumento primo dell‘uccisione. Si cerca di provvedere al più presto, ma ci interrompe l’arrivo trafelato di uno dei nostri. Ha ascoltato al cellulare: alle elezioni am­ministrative la sinistra sta vincendo. Ce lo aspettavamo ma la gioia è irrefrenabile. Più leggeri ma anche più agguerriti torniamo alla mac­china da presa e ci troviamo a passare davanti a una fila di pugni 54 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

alzati in segno di vittoria. Sono i detenuti di Rebibbia, attori e non, che in si­lenzio ci dicono la loro solidarietà. Avanza Cesare tra la folla che lo saluta. Gli si fanno incontro Artemidoro che inutilmente cerca di fermarlo e l’Indovino, come sempre giocoliere e demone, che gli rammenta la profezia. Autorevole e autoritario, Cesare entra nella cella della sua morte, irremovibile di fronte alla supplica di Metello che tra i detenuti sembra il più intransi­gente. A fatica accetta di inginocchiarsi davanti al tiranno, perché «... un generale non si piega mai». Vengono precisate le posizioni dei congiurati, Cesare in mezzo e i compagni in semicerchio intorno a lui; un po’ distante su un gradi­no della pedana il congiurato amato come un figlio, Bruto. Tra una emozione e l’altra ci troviamo alla fine della mattinata senza accorgercene. È pausa e andiamo a mensa come sempre tutti insieme, quando mi sento chiamare. Giuliano, mio figlio, il musicista del film, inaspettato ospite è venuto ad assistere alla morte di Cesare. Leggo sul suo viso la sorpresa di trovarsi in un luogo strano dove i Romani antichi sono coperti da magliette scure su cui è stampato Su­perman e hanno le braccia tatuate. Gli chiedo la sua impressione. «... come di spaesamento e di perdita d’identità» mi dice. Sono io ora che rimango sorpresa. Mi rendo conto che mi sono abituata a stare in questo luogo, con questi compagni di lavoro e non sento più alcuna stranezza nei loro atteggiamenti o nei loro occhi. Alla fine del pranzo mi volto e vedo Giuliano che sembra aver perso ogni diffidenza e cordialmente discorre con un gruppo di dete­nuti, curiosi gli uni degli altri. «Ma uno di loro – mi dirà al momento di andarsene – ha uno sguardo che mi lascia addosso una strana inquietudine... – e conclude – comunque da oggi so quale musica io e Carmelo andremo a cerca­re». 55 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

SCENA 30 Torniamo sul set. Trovo i registi circondati dal gruppo degli at­tori; parlano tutti sottovoce. «Siete dei congiurati in nome della libertà ma ora dovete trovare in voi stessi la forza dell’omicidio. Dovete sen­tirvi degli assassini che stanno tradendo e uccidendo il loro capo e a­mico». I Taviani si mordono la lingua e si lanciano uno sguardo preoc­cupato, nella tensione della ripresa si sono dimenticati chi sono i loro attori e da quale passato arrivano. Nella troupe un attimo di smarri­mento e insieme lo stupore per il tono dignitoso che i detenuti assu­mono. Il sorriso tra ironico e solidale di Cosimo rassicura la regia. Come altre volte i carcerati ci hanno detto, recitare per loro non signi­fica nascondersi. Anzi Metello ha scritto alla moglie: «Ti prego, vieni a vedermi recitare perché quando recito mi sembra di potermi perdo­nare». Sempre Cassio, il padre adottivo di tutti loro, riesce a restituire la concentrazione necessaria: «Guardiamoci l’un l’altro e non dimenti­chiamo che siamo uniti in un progetto terribile e necessario». La luce sta cambiando e Mimmola sollecita la ripresa. I congiurati si stringono sempre più intorno a Cesare; nei loro volti scrutati dalla m.d.p. si legge la consapevolezza, come attori e come individui, dell’atto da compiere. Le loro richieste di condono si fanno minacciose, ma il capo resta irremovibile. Giovanni Arcuri non è stato mai così concentrato tra razionalità e delirio: «Tra la folla brulicante di uomini, uno solo io vedo fermo come una roccia. E quell’uno sono io». A contrappeso di tanta sicu­rezza i Taviani chiedono ad Arcuri un attimo di stupore, di sgomento se non di paura, di fronte al silenzio cupo dei suoi uomini. Il primo a decidere di colpire è Casca, il sudamericano balleri­no ora trasformato in sacro vendicatore. Tutti insieme gli altri colpi­scono. Cesare cade in ginocchio 56 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

di fronte a Bruto... anche tu, Bruto, figlio mio... Bruto straziato non regge a quello sguardo, china la testa. Ma quando la rialza i suoi occhi sono feroci, colpisce e si avvinghia al corpo di Cesare come se lo volesse finire e insieme accoglierlo pieto­samente tra la sue braccia. Più volte si ripete il gesto e non importa che la sua spada di le­gno alla fine si sia spezzata e si mostri ora lì, sul ventre di Cesare. La regia dà lo stop solo dopo un tempo che sembra lunghissimo. Anche Pizzetto pur non avendo alcun ruolo nella scena appare emozionato. Sottovoce risponde al mio sguardo solidale: «Ci fa male certo questa scena, perché non dircelo? Significa per molti di noi ri­tornare al passato. Ma questa è la verità e per questo siamo qui». Si siede accanto a me nel breve momento di pausa: «La sera nelle celle parliamo di questi personaggi e ci viene spontaneo confron­tarli con noi stessi... Io non so usare tante parole... Tra noi mi viene più facile... con te mi piace parlare ma ho soggezione». Interviene Leonardo-Artemidoro: «Io non ho soggezione. In altro tempo, in altro luogo avrei ucciso senza pensarci due volte, sì, avrei ucciso. Ora sono diverso, non mi vengono certi pensieri. Si cambia e neanche te ne ac­corgi». Bisogna rialzarsi in fretta perché è il momento della massa dei detenuti, impazienti di scatenarsi nella parte del popolo romano che fugge impaurito. La m.d.p. li riprende dall’alto mentre si disperdono nei cubicoli, nei corridoi. Sembrano un formicaio impazzito. Recitano con tale slancio che la regia deve usare i megafoni per frenarli, mentre «Non fuggite! non fuggite» urlano Cinna, Cassio, Bru­to. Vengono in primo piano a gridare parole di libertà e di giustizia. Inquadrati contro l’inferriata che sta sopra le loro teste esprimono con violenza la contraddizione tra la libertà che esaltano e la prigionia che consuma la loro vita, tra le regole oscure del loro passato e i valori che ora qui invocano. 57 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Penso in particolare a Cosimo Rega, consapevole che il senso di una riabilitazione perseguita per anni si realizza anche qui, nella sincerità della sua recitazione. E improvvisamente su tanto sconvolgimento si levano le parole di Shakespeare che fanno silenzio e ci portano in altri spazi, in altri tempi, quando la morte di Cesare si rinnoverà su altri palcoscenici, in lingue non ancora inventate, in regni ancora non nati, «... o come qui, oggi, nel nostro carcere di Rebibbia» mormora Sasà. Nel cubicolo ai piedi della pedana il cadavere di Cesare giace riverso. Arriva Antonio, l’incontro con i congiurati, la falsa pacifica­zione tra nemici. Proprio questo incontro incuriosisce qualcuno che sta assisten­do alle riprese e che la m.d.p. con una insolita panoramica scopre in alto sul ballatoio. Sono i due sorveglianti di guardia cui si aggiunge un terzo che viene a sollecitare l’ora del rientro. Ma i primi vogliono ve­dere l’esito dello scontro tra i due Romani; parteggiano uno per Bruto e uno per Marcantonio, coinvolgendo alla fine anche il terzo con una certa ironia da stadio. Anche questa volta i Taviani durante le prove hanno colto nei sorveglianti, oltre al rigore, un genuino interesse per lo spettacolo e con Fabio hanno proposto loro di improvvisare un breve dialogo. Ora lo stanno recitando e sotto il ballatoio i nostri attori, forti della loro esperienza, stanno col naso all‘insù ad ascoltarli. Si scam­biano sorrisini e sguardi critici ma alla fine li gratificano con un ap­plauso cordiale.

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SCENA 31-32 Cesare è morto. Bisogna deporre il suo cadavere, trovare in Re­bibbia un credibile spazio. I Taviani hanno cercato a lungo, hanno scartato spazi anche sportivi troppo grandi o troppo generici. Alla fine hanno dovuto indicare un luogo, ma l’inquietudine non li ha lasciati. Il caso ancora una volta, e i Taviani credono nel binomio volontà-­ caso, gli viene incontro. Grazie a una breve deviazione su un ballatoio scoprono dall’alto uno spazio di media grandezza, a cielo aperto, un rettangolo squadrato da alte pareti di cemento crudo, il pavimento se­gnato da bianche linee geometriche. Sotto il sole quasi un luogo dell’assurdo, è invece il campo di palla a volo: questo è il Foro. Si avvicinano al cadavere di Cesare, adagiato a terra e coperto da un lenzuolo, prima Bruto e poi Marco Antonio. Avanzano in con­troluce, due nere sagome umane di cui solo i P.P. scoprono i volti, lo sguardo, la bocca. Sono qui per parlare al popolo, per placarlo o per farlo insorge­re. La regia sa bene che le orazioni dei due tribuni sono tra le inven­zioni teatrali più geniali di Shakespeare. Tutti i grandi attori le hanno affrontate, basta ricordare il nome di Marlon Brando. Ma non importa, si va avanti, comunque, come se fosse la prima volta. Il cinema ha al­tre mille fantasie. È solo e piccolo Bruto in mezzo al campo e si rivolge al popo­lo. Cavalli ha suggerito di radunare tutti i mille settecento detenuti di Rebibbia qui, davanti ai due oratori. Certo, i carcerati devono essere coinvolti nel maggior numero possibile in questo evento di morte, consumato in nome della libertà. Ma i Taviani li vedono aggrappati al­le sbarre delle loro celle, li inquadrano in piedi sui loro letti, arrampi­cati sugli stretti davanzali. Cercano di vedere, di ascoltare, di capire e di gridare le loro rispo59 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ste, il loro dolore e il loro sdegno sino al grido finale: «Ci ribelleremo! ci ribelleremo!». Le mura di Rebibbia diventa­no protagoniste con Bruto e Antonio dell’evento. Oggi Sasà è arrivato sul set silenzioso, compreso dell’impegno che lo aspetta. Nessuno qui intorno parla più del necessario. In dispar­te guardo Paolo Vittorio e Sasà che mormorano parole che certo non sento, ma vedo tre uomini coinvolti in una stessa sfida e in una stessa ansia. Pochi ciak vengono battuti per Sasà. L’orazione di Bruto, il confronto col popolo romano dietro le sbarre creano una emozione crescente perché nella voce di Sasà, nel suo sguardo si avverte, al di là della forza del talento e del possesso del ruolo, l’eco di una segreta di­sperazione che fa fatica a spegnersi. Il sole picchia forte ma noi non ce ne accorgiamo. Oggi è dav­vero una buona giornata. Qualcosa invece si inceppa. Marco Antonio, sempre così atten­to e pronto, ora invece è assente: viene per esaltare il suo amico Cesa­re e invece il suo tono ha la cadenza indifferente di un estraneo. I Ta­viani sono perplessi, anche un po’ smarriti. Lo prendono da parte con dolcezza ma senza infingimenti. Poi mi raccontano: «Antonio, guarda­ci – gli hanno detto – tu oggi non sei qui, vero?». «No, non ci sono. Non è la memoria, la parte la so anche troppo bene. Da ieri ho un gran mal di testa. Scusatemi, ma faccio fatica anche a parlare con voi». I Taviani credono di capire. Oggi Antonio non riesce a uscire dalla sua identità di carcerato, con le sue colpe e le sue condanne. L’altra sua identità, quella di attore, reale ma provvisoria, è cancellata; l’equilibrio tra le due si è spezzato per qualche evento di cui non pos­siamo sapere. I Taviani non insistono. Antonio si siede. È l’ora dell’aria per i detenuti di un’ala della Sezione. Passano in fila, in silenzio, a due a due come automi. 60 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Attraversano il set, lanciando sguardi fuggitivi a quel mondo libero e diverso da cui sono e­sclusi. Passano anche davanti a Antonio che li osserva quasi con stu­ pore e diffidenza, come se per la prima volta vedesse la triste proces­sione. Sembra risvegliarsi, tra qualche giorno sarà di nuovo uno di lo­ro. Guarda verso la m.d.p. che lo aspetta e che per un mese gli ha con­cesso una libertà limitata ma pur sempre libertà. La sua identità oggi può essere un’altra, quella dell’attore, quella di Marcantonio, del suo Marcantonio. (Forse tutto questo è soltanto ciò che io ho creduto di capire). Comunque Antonio si alza e, inseguito dalla voce della regia: «Castellamare! Ricorda la tua parlata di Castellamare!», raggiunge il centro del campo, fa un cenno all’operatore; è ritornato. Più tardi qualcuno ci sussurra che la scena ha evocato in lui un evento persona­le che da sempre tiene segreto. E a me viene in mente il suo sguardo sfuggente quando una settimana fa discutevamo con i suoi compagni della differenza tra un omicidio politico e un assassinio di mafia. An­tonio allontanandosi disse a mezza voce di non averci mai pensato e di non volerci pensare. Antonio è di nuovo padrone di sé, solenne e tenero ad un tem­po. Il suo dialogo con il popolo dietro le sbarre è sempre più stringente e appassionato sino alla rivelazione del testamento e alla scoperta del cadavere che accendono la fiamma della rivolta. Le ultime parole che Antonio sussurra chinato su Cesare annunciano la sua vittoria: «La ri­volta è in cammino. Quello che ha da essere sia».

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SCENA 33 La sequenza precedente si è chiusa in modo convulso. In questa i Taviani cercano, come sempre nei loro film, un tono diverso, non pa­tetico né comico, piuttosto ironico. Bisogna attuare un cambiamento di situazione, inserire nella cella un terzo inquilino che sia estraneo al cast degli attori e lontano dalla nostra cultura. Con l’aiuto del capoguardia e di Fabio Cavalli i fratelli si rivol­gono agli extracomunitari che hanno avuto occasione di incontrare nel reparto. La scelta non è difficile. Si presenta un giovane, nerissimo, al­to e forte, un nigeriano che ora vediamo nel letto accanto a Bruto e a Lucio. Non rivela nessun imbarazzo e soprattutto sembra interessato a quel che succede nella tragedia: «...e poi come è andata a finire?». Sempre in sintonia con la regia anche Sasà sente il bisogno di scrollarsi di dosso almeno per un momento l’odore della tragedia. Con aria scanzonata come se raccontasse una favola, grazie all’uso di certe parole come «un macello, un ammazza ammazza», dà alla sua risposta il timbro di una storia popolare. Ma agli occhi del nigeriano si affaccia l’immagine della sua terra, e con la sua terra le case distrutte e le stra­gi; oggi come ieri. Il suo tono si fa serio. Se ne rende conto Lucio che con la sua sensibilità mormora: «Allegria, allegria» e riprende a suona­re l’armonica. Bruto resta muto, ad occhi aperti. La storia, i giorni, gli anni corrono veloci, i carcerati sono fissi nel loro presente. Invecchiano, lontani dai figli e dalle mogli, come mi ha detto Trebonio, il congiura­to dai capelli bianchi. Mi ha consegnato uno scritto rivolto ai nipotini: «Voi siete le vittime di una situazione brutta. Il nonno non vi porterà a spasso, non vi addormenterà. Io pago le mie pene e voi pagate le mie. Vi chiedo perdono». 62 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

SCENA 34 Lo spazio del palcoscenico, più confortevole di quello delle cel­le, e il fervore degli ultimi preparativi infondono una certa allegria. È vicina la presentazione dello spettacolo e si stanno risolvendo gli ul­timi problemi scenografici. Due detenuti preparano un cartellone «Battaglia di Filippi», altri allestiscono le tende, una per Bruto e Cas­sio, l’altra per Antonio e Ottavio. «Ecco Ottavio!» annuncia Fabio Cavalli agli attori. Dal fondo del teatro, di corsa, arriva un giovane magro, piccolo di statura, com­pletamente rasato. La sua scelta, mi raccontano i registi, è stata trava­gliata. All’inizio si è presentato per la parte un altro detenuto, bello e spavaldo. Lo mettono alla prova e l’ottimismo iniziale si trasforma in perplessità. In particolare la difficoltà nell’accentare le parole provoca la crisi e il verdetto è drastico: non può fare Ottaviano. Cala il silenzio, sguardi complici tra i detenuti, sguardi obliqui verso la regia. Finché Fabio ricorda i patti stabiliti prima delle riprese: la scelta definitiva degli attori proposti spetta solo ai registi del film. Gli sguardi ora vanno al loro vero capo, Cosimo, che dopo una lunga e significativa pausa, rammenta agli “estranei” che qua dentro niente è facile. Indignato Fabio lascia il teatro. I Taviani dichiarano che sono venuti per realizzare insieme uno spettacolo giusto e rispettoso della verità, senza compromessi, senza polemiche. Se non è possibile, si ri­tireranno. Cinque giorni i Taviani hanno passato nelle loro case in attesa, come due prigionieri. Solo il sesto giorno, dopo riunioni e conciliaboli dei detenuti, Fabio Cavalli telefona. Quando Paolo e Vittorio entrano nel teatro un attimo di silenzio, poi un grande applauso. Cosimo an­nuncia che da oggi in avanti i detenuti attori accettano senza riserve la direzione dei fratelli, «... 63 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

perché sono uomini che guardano diritto ne­gli occhi». Nel cast viene inserito quell’Ottavio che Fabio ha presentato ai compagni dopo che i Taviani lo avevano notato. Non è un detenuto, ma ha una lunga esperienza con i carcerati perché tiene un corso di re­citazione teatrale in un’altra ala di Rebibbia. Sul palcoscenico ci si prepara per la prossima guerra tra Ottaviano e Bruto; si scontreranno a Filippi. Un detenuto con un mantello in mano cerca Antonio. Antonio non si vede. Lo chiamano, non risponde. È seduto in fondo alla platea, ripiegato su se stesso, lo sguardo perso nel vuoto. «Lascialo stare – mormora Pizzetto – oggi non è giornata. È u­scito ora dal colloquio».

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SCENA 36 Unica luce una candela accesa nella tenda di Bruto. I Generali lo salutano alla vigilia della battaglia. È notte sulla piana di Filippi. Bruto rabbrividisce per il freddo. Si avvicina a Lucio che sta per addormentarsi e gli sorride: «Se resto vivo mi ricorderò di te». Lucio si addormenta e Bruto resta solo. Seduto al tavolo fissa la fiamma della candela che comincia ad oscillare. Per i tecnici della troupe si pone un problema: la regia vuole una fiamma più misteriosa, quasi luciferina. Si cercano e si trovano ventagli di varia natura, cartoni, giornali... Niente da fare, l’effetto del­la fiamma non è inquietante. Arriva Stratone, l’amico di Sasà con il suo dolce viso e la sua grande pancia nuda. Si china sulla fiamma, raccoglie tutto il fiato, sof­fi a, e la fiamma della candela si torce come invasata. Fisso sulla fiamma è lo sguardo di Bruto, che di nuovo trema. È il momento dell’apparizione del fantasma di Cesare. Mi do­mando come sarà possibile rendere credibile l’apparizione di un morto con così pochi effetti speciali. Gli esempi che ricordiamo sono quasi tutti accademici o inutilmente provocatori. Vedo Arcuri-Cesare che si avvicina alle spalle di Bruto, ma la macchina non lo inquadra. Come accade spesso nel cinema dei Tavia­ni le difficoltà vengono superate attraverso le vie più semplici. Cesare sta dietro la m.d.p. e avanza a passi felpati a fianco dell’operatore. Non compare, di lui si sente solo la voce. Il dialogo è sussurrato: «...mi rivedrai domani nella piana di Filippi». «Sì, nella battaglia, Ce­sare...». Bruto rimane solo con i suoi pensieri di colpa e di morte. Con un grido di spavento Lucio si risveglia: l’ombra di Cesare ha penetrato il suo sonno. Dolcemente Bruto lo rassicura. «Stavo sugnando...» mormora quasi con 65 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

pietà per se stesso. È solo un attimo; la sua voce si alza alta e dura nella notte: «Vegliate! Vegliate!...».

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SCENA 37 Siamo alla fine del film. Una sola inquadratura per l’ultimo sa­luto di Bruto e Cassio, all’alba, prima della battaglia di Filippi. È il loro testamento. La regia ha scelto il luogo. Non spiega perché, ma deve essere a cielo aperto, in contrasto con lo spazio chiuso della cella e del palco­scenico. Anzi il passaggio deve avvenire in modo brusco e nel cielo devono agitarsi i venti. Arriviamo nel grande cortile. Viene costruita una impalcatura su cui salgono Bruto e Cassio, con i loro mantelli rossi sul petto nudo. Ma il cielo è piatto e non c’è ombra di vento. L’elica preparata dalla produzione risulta inutilizzabile, il rumore disturba la presa diret­ta. Non ci si arrende, a grande richiesta ritorna Stratone, con due aiu­tanti e con grandi scatoloni da imballaggio. Il vento arriva e smuove i capelli dei due eroi, mai così belli, così suggestivi. Le nuvole tempestose evocate da Cassio, «Soffia vento! Arrivi la tempesta!», non appaiono in un cielo sempre più piatto. Ma la regia incalza. Non importa. C’è energia, c’è tensione. Va bene così, va bene così! giriamo! Le parole di Cassio e Bruto che domani alla fine della battaglia forse non si rivedranno e, se si rivedranno sorrideranno di questo ad­dio, queste parole di Shakespeare ognuno di noi le sente sue e siamo grati ai due attori, ai nostri registi, che le fanno risuonare qui, in mez­zo a un cortile deserto.

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SCENA 38 Fuori dal carcere sin dal primo pomeriggio una piccola folla paziente attende sotto il sole il momento di entrare. Parenti dei detenu­ti attori, mogli, fratelli, figli, padri, e cittadini interessati alle attività di Rebibbia sono stati controllati nei giorni precedenti dalla polizia car­ceraria. Ora vengono per fare il “pubblico” nelle sequenze che si svol­gono sul palcoscenico e che portano alla conclusione tragica del Giu­lio Cesare. Comparse volontarie di qualità che fanno il loro ingresso da un’entrata particolare che ha colpito la regia. In un lato della faccia­ta due grandi portali d’acciaio lucente si aprono lentamente con duro fragore. La m.d.p. piazzata nel buio dell’interno riprende lo spazio dove la polizia carceraria controlla di nuovo gli invitati. Mentre i por­tali di acciaio si richiudono alle loro spalle, con altrettanto fragore si aprono altri due grandi portali, anch’essi di acciaio che immettono fi­nalmente nel vero interno del carcere. Sono come enormi sipari che si aprono con fascino teatrale, solo che la dolcezza del velluto rosso è sostituita dalla durezza del metallo. Di nuovo il film cerca di proporre un’immagine bifronte e contraddittoria: l’emozione di uno spettacolo che sta per cominciare e al tempo stesso l’oppressione della prigionia. Sotto l’occhio vigile di Fabio Cavalli sul palcoscenico alcuni detenuti ripropongono scene della tragedia mentre le m.d.p. sono pun­tate sui volti dei familiari per coglierne le reazioni. Anch’io cerco di vedere quanti genitori sono presenti. Voglio conoscerli, voglio mettere a confronto le notizie che avrò da loro con quelle che i nostri attori mi hanno dato. Vedo un gruppo intorno a una signora dignitosa e fiera, come se partecipasse a un evento festoso. Ha vicino a sé un figlio di età adulta e una giovinetta di circa diciotto anni e sembra voler dare ai figli l’esempio di un 68 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

amore che sa superare il disagio di una sventura familiare. È la famiglia di Arcuri. Mi avvicino con incertezza e invece la madre mi accoglie con un sorriso. Parliamo di Giovanni, della sua par­tecipazione al teatro, dell’affetto grande per la figlia; anche del suo passato, che la signora giudica con severità e senso della giustizia. Mi volgo verso la figliola, una ragazza che appare spersa in un vuoto di attese frustrate. Ascolta con pudore e quando la madre conclude: «Chi sbaglia deve pagare e Giovanni pagherà», mi sussurra: «Ha già paga­to, tanto. Ora basta». Sta piangendo. Poco lontano scorgo un altro gruppo. È la famiglia di Cosimo Rega, il boss, il duro, l’uomo che continua a definirsi un capo. Lo stesso che con inaspettata tenerezza mi ha parlato della moglie, rievo­cando la sua grande storia d’amore. Quando ha imboccato strade pe­ricolose, la moglie si è dedicata ai figli dando loro quei valori morali che il marito ha ripudiato. E a lui condannato a “fine pena mai” ha det­to quasi con durezza: «Non sarà un muro di cinta carcerario a impe­dirci di continuare a vivere il nostro amore». Le poche parole che ci scambiamo mi confermano la forza di questa donna, da anni Segreta­rio Comunale molto apprezzata, prima a Roma poi a Caserta. Mentre si spengono le luci guardo le facce rassegnate di chi i­nutilmente ha cercato di vedere tra coloro che sono entrati una figura amata.

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SCENA 44-49 Si apre il sipario sulla scenografia che abbiamo visto nella prima inquadratura del film. La fosforescenza del materiale resina e­salta il colore che, a contrasto con le sequenze in bianco e nero girate sino a ieri, assume un tono dinamico, quasi festoso. Stiamo per affrontare sul palcoscenico la battaglia di Filippi. La proposta teatrale di Fabio è stata laboriosa; in un primo tempo Cavalli ha suggerito di approfittare dei grandi spazi esterni del carcere, trattati a prato, recuperando anche i cavalli che pascolano numerosi nella zo­na. Ma secondo i Taviani solo la suggestione del teatro con la sua sacralità e le sue magie può dare ai detenuti attori la sensazione di una vittoria, anzi di una conquista raggiunta con un lavoro duro e anche troppo coinvolgente. All’inizio il buio, su un lontano rullio di tamburi. Poi un urlo selvaggio si leva e si trasforma in coro. Uno di fronte all’altro, uno contro l’altro, a destra e a sinistra del palcoscenico, appaiono i due schieramenti di Bruto e di Marco Antonio, immobili ma frementi nell’attesa di attaccare. Forse ormai sono un po’ condizionata, ma a me sembra di co­gliere nei volti, nei gesti, nelle loro voci un furore troppo a lungo re­presso e che qui finalmente può liberarsi da una soggezione carceraria che rischia di soffocare vite che vogliono ancora essere vissute. Non è stato facile trovare una sintesi filmica-teatrale tra le varie fasi della battaglia. Con la sua inventiva Fabio mette in campo tre pas­serelle che vengono alzate verso il pubblico sulle spalle dei detenuti più forti, eccezionali cariatidi, e su cui salgono i vari guerrieri a grida­re le fasi della battaglia, le prime vittorie, l’ultima sconfitta. È duro sorreggere queste passerelle, ma nessuno si sottrae. Tutti stanno dando se stessi al ritmo eccitato 70 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

della rappresentazione. Vedo Cinna che deciso sale sulla pedana, allarga drammaticamente le braccia, grida: «Agli scudi! Agli scudi!». È lo stesso Cinna che duran­te le prove per sei volte ha preso la rincorsa, ha spalancato le braccia, ha aperto la bocca, ma per sei volte nessun suono ne è uscito. Blocca­to. Tra le risate e gli incoraggiamenti degli altri ogni volta ha sorriso come un bambino che si stupisce della sua inettitudine e chiede scusa. Forse è a Metello che si deve il momento più emozionante. Il campo è perduto, tutti fuggono, ma Metello corre su, in cima alla pe­dana e grida al mondo: «Il sole di Roma è tramontato. Il nostro giorno è finito, compagni miei! Onore ai compagni caduti». Con un gesto im­provviso si china su se stesso e inginocchiato si nasconde il volto con un braccio. Paolo e Vittorio non possono fare a meno di andare da lui per dirgli che il suo gesto è bello e che li ha commossi. Deciso a non fin­gere mai, Metello risponde che ne è convinto e che il gesto se lo sono inventati lui e Decio durante la preparazione della sequenza. Questa è la tensione morale che coinvolge tutti. Coinvolge anche Cosimo Rega che si appresta a girare la se­quenza del suo suicidio.

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SCENA 50 Dall’oscurità e dal silenzio della sconfitta emerge la figura di Cassio che deve dare il suo addio alla vita. La regia cerca di intonare questo commiato a toni epici e al tempo stesso mesti, come di chi ri­flette sull’esito perdente della sua lotta ma non della sua vita. I guerrieri dietro i loro scudi translucidi, disposti in linea oriz­zontale, si aprono e Cassio avanza verso il proscenio. Consapevole della sua responsabilità di protagonista, Cosimo si concentra e riesce a liberarsi da ogni inflessione aulica. Le ultime parole hanno il suono della verità, anche perché, se posso azzardare, rispecchiano il suo temperamento: nella lunga per­manenza nel carcere non si è mai rifugiato nel vittimismo o nello ste­rile rimpianto, ma ha vissuto e vive le sue giornate di prigioniero co­me l’espiazione di chi ha sbagliato.

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SCENA 52 Siamo arrivati alla morte di Bruto che segna la fine della trage­dia e ci avvia alla fine della nostra lavorazione, e questo mi riempie di malinconia. È passato solo un mese da quando ci siamo incontrati con degli sconosciuti che oggi sono i nostri compagni di lavoro, uomini non liberi che hanno sconvolto le nostre certezze di uomini liberi. Ca­rissimi, dolcissimi carcerati che con noi hanno conosciuto la gioia e la fatica di un’opera collettiva dove ciascuno lavora per sé e per il frutto finale. Strana atmosfera oggi sul set: c’è un che di sacro nella posizio­ne di Bruto seduto a terra, senza mantello, la spada sul dorso nudo. La sequenza è la stessa che abbiamo visto all’inizio del film. Ma allora i Taviani hanno creato una sintesi della sua morte, chiudendola con Stratone, l’unico compagno che lo aiuta a morire. Ora la sua morte si legge sui volti dei compagni: su quello di Trebonio dai capelli bianchi, sconsolato come un padre impotente; su quello di Casca, divenuto giudice severo; di Metello che si rifiuta con cupa indignazione; e Cinna e infine Decio. In nome della comune infanzia Bruto gli chiede aiuto – «eravamo nello stesso banco, ricordi?» – e Decio, nella nostal­gia di una innocenza perduta, abbandona la abituale fierezza e come un bambino spaurito gli mormora: «Salviamoci». Un solo compagno è rimasto, Stratone, e Bruto, inquadrato ora in P.P.P., lo guarda e, fissandolo, fissa la propria morte. Abbiamo già vissuto questa emozione un mese fa, ma oggi è più duro per noi ascoltare il pianto di Stratone.

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SCENA 53-54 La disfatta di Filippi, la morte di Bruto e Cassio, la fine dell’utopia. Il corpo di Bruto steso sul giaciglio di scudi, i guerrieri che fanno ala al cadavere, le luci non troppo fosforescenti creano intorno alla sua morte l’aria solenne di un rito o di un sacrificio. Dal buio verso la luce avanzano Cesare e Cassio, di un biancore estremo in volto. Così li vuole la regia e per questo effetto, in una la­vorazione che non ha mai conosciuto il reparto trucco, gli assistenti hanno dovuto per un giorno improvvisarsi truccatori. Ma ora quel biancore rende più dolce l’accenno di sorriso con cui Cesare aiuta l’amato figlio che lo ha ucciso ad alzarsi. Il pubblico comincia ad applaudire e gli attori avanzano al pro­scenio con inchini di prammatica e sguardi compunti. Ma per una più entusiastica esplosione di consenso i nostri detenuti spezzano la loro compostezza e si rivelano improvvisamente bambini, si abbracciano, ridono, saltano al ritmo del tamburo di uno Stratone scatenato. Li guardo e credo che tale esplosione nasca dalla consapevo­lezza di aver realizzato uno spettacolo bello e dalla gioia di condivi­derne il successo con le mogli, i figli, le madri, quasi un atto di riscat­to. Ma è anche l’esaltazione di chi ha conquistato, sia pur per un breve tempo, una identità diversa da quella di carcerato. È a Shakespeare che lo devono, e loro lo sanno. Tanto è pieno di suoni il finale in teatro quanto è silenzioso e gelido il set della nuova inquadratura, in un contrasto che rende ancora più brutale lo scontro tra i due mondi. Le doppie porte e lo spioncino si chiudono. Solo nella sua cella Cosimo lascia per sempre alle sua spalle Cassio e si guarda intorno quasi smarrito. 74 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Viene verso la macchina da presa e per la prima e unica volta nel film fissa l’obbiettivo e si rivolge al pubblico: «Da quando ho co­nosciuto l’arte questa cella è diventata una prigione». È un pensiero che nei loro primi incontri i Taviani hanno senti­to esprimere proprio da Cosimo Rega e che ha rappresentato – mi hanno detto – uno dei primi impulsi a fare questo film. Dà angoscia questa frase per la sua ambiguità: attraverso il lin­guaggio dell’arte il detenuto intravede orizzonti più ampi, diversi da quelli oscuri in cui si sono maturati i suoi errori e le sue condanne, ma nello stesso momento in cui li scopre si rende conto di esserne esclu­so. È così chiara nella sua lucidità che i Taviani hanno avvertito il pericolo che suonasse apodittica, sfiorando la retorica. È stato diffici­le decidere. Hanno pensato di toglierla. Ma poi no: in nome di questa confessione – mi hanno detto – vale la pena di cedere un po’ del nostro rigore. La giornata sta finendo e Cosimo torna ai suoi gesti abituali. Sulla mensola prende la sua moka e si prepara il caffè. Come ieri, come domani.

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8 GIUGNO 2011 Oggi è il nostro ultimo giorno in Rebibbia. Ci riuniamo tutti nello stanzone per salutarci. Ci diciamo arrivederci e sappiamo che per molti invece è un addio. Brindiamo, ci abbracciamo... Il mio diario di bordo finisce qui. Ci sono momenti nella vita che appartengono solo a noi stessi.

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Rivivere la realizzazione di Cesare deve morire dei fratelli Taviani attraverso il Diario di Bordo sul set, di Carla Vezzoso Taviani1 di Antonio Carlo Vitti

Cesare deve morire è un film del 2012 di 76 minuti, scritto e diretto da Paolo e Vittorio Taviani distribuito dalla Sacher.2 Gli interpreti sono i detenuti del carcere romano di Rebibbia che assumono i seguenti ruoli: Cosimo Rega: Cassio Salvatore Striano: Bruto Giovanni Arcuri: Cesare Antonio Frasca: Marcantonio Juan Dario Bonetti: Decio Vincenzo Gallo: Lucio Rosario Majorana: Metello Francesco De Masi: Trebonio Gennaro Solito: Cinna Vittorio Parrella: Casca Pasquale Crapetti: legionario Francesco Carusone: indovino 1  Carla Vezzoso è stata segretaria d’edizione nelle produzioni cinematografiche e in questa veste conobbe Vittorio. Poi con i due fratelli Taviani è stata a lungo sul set collaborando in diversi ruoli. Ha dato contributi alle sceneggiature ai film diretti dal marito e dal cognato, tra i quali: La masseria delle allodole, Luisa Sanfelice e Resurrezione. 2  Il film è stato realizzato con il contributo e il patrocinio della direzione generale per il cinema-ministero per i beni e le attività culturali, con il sostegno della regione Lazio-fondo regionale per il cinema e l’audiovisivo e dell’assessorato alle politiche culturali e centro storico di Roma capitale.

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Paolo e Vittorio Taviani

Vittorio Taviani

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La morte di Cesare nel film dei Taviani

Girato in digitale in uno stile tra documentario e rappresentazione, apparentemente narra la messa in scena del Giulio Cesare di William Shakespeare da parte dei detenuti di Rebibbia che avevano recitato in un dramma diretto dal regista teatrale Fabio Cavalli.3 Il filmato 3 «La coppia di registi pisani, è stato notato, pareva adagiata da decenni, su un cinema piuttosto accademico, mentre Cesare deve morire [...] è indubbiamente uno dei loro lavori più sperimentali e curiosi. I due fratelli ultraottantenni si sono imbarcati in un film piccolo e agile. Non hanno solo ripreso le prove e la messa in scena di un Giulio Cesare di Shakespeare con i detenuti di Rebibbia, ma hanno contaminato realtà e finzione, rielaborando le reazioni degli “attori” davanti all’arte, sfruttando l’energia e il transfert di queste vite nel dramma. Il successo di critica (italiana) e la vittoria a Berlino ci dicono forse un paio di cose, sul cinema italiano e non solo. La prima riguarda la possibilità e la necessità di un cinema «leggero». I Taviani hanno intuito che una delle poche vie praticabili, oggi in Italia, sono le produzioni poco ingombranti, che permettano un confronto con la vita senza subire i contraccolpi di una realtà produttiva sempre più in crisi. [...] Che, nel film dei Taviani, le battute di Shakespeare in bocca a condannati per associazione mafiosa o spaccio suonino credibili, ci conferma che le tragedie moderne sembrano stare di casa più tra sottoproletarie marginali che in ambienti piccolo o alto-borghesi [...]. Dopo tutto, in un altro carcere, a Volterra, un grande teatrante visionario come Armando Punzo crea da oltre vent’anni spettacoli belli e importanti mettendo in scena proprio questo dualismo. Una realtà che contraddice Aristotele quando sosteneva che la

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è scritto e diretto dai fratelli Taviani quasi interamente in rappresentazione della messa in scena del dramma di Shakespeare in modo da amplificare l’adesione intima e dolorosa dei detenuti ai loro personaggi e ai sentimenti privati e provati.4 Il film-documento ha vinto l’Orso d’oro5 al Festival di Berlino 2012,6 riconoscimento che tragedia, diversamente dalla commedia, deve raccontare persone ‘migliori di noi’». (Emiliano Morreale, «Venerdì di Repubblica», 2 marzo 2012). 4  Il titolo di questo mio scritto nasce dal fatto che Salvatore Striano il detenuto che fa la parte di Bruto, uscito dal carcere si è dato alla recitazione e da quello che ho appreso dal diario di bordo. 5  I film dei Taviani hanno ricevuto molti riconoscimenti prestigiosi: San Michele aveva un gallo ottenne il premio Interfilm a Berlino; La notte di San Lorenzo ha vinto numerosi premi nazionali e internazionali tra cui il Gran premio della giuria e il Premio della giuria ecumenica al Festival di Cannes, cinque David di Donatello (miglior film, miglior regia, miglior direttore della fotografia, miglior montaggio e miglior produttore) e i Nastri d’Argento per la regia e la sceneggiatura; Padre padrone vinse la Palma d’Oro e il Premio della critica al Festival di Cannes 1977, oltre a un David speciale e al Nastro d’Argento per la miglior regia. Kaos vinse David di Donatello e Nastro d’Argento per la sceneggiatura, scritta insieme a Tonino Guerra. E infine Cesare deve morire conquistò l’Orso d’Oro a Berlino 2012. 6  Si era già capito alla proiezione per il pubblico berlinese che i fratelli Taviani si sarebbero portati a casa qualcosa. L’Orso d’Oro è stato una bella sorpresa per tutti. Non un premio alla carriera, come ha insinuato la stampa tedesca, ma un riconoscimento meritato e in linea con il festival tedesco. Che nulla ha che a vedere con l’età di Paolo e Vittorio Taviani, rispettivamente 81 e 83 anni. E neanche con la tipologia della storia, per qualcuno superata. Bensì un lavoro straordinario e spiazzante, che rielabora uno schema a vantaggio di un’operazione artistica di altissimo livello. Cesare deve morire, in sala per la Sacher, titolo ostico per un progetto difficile, è un dramma carcerario ambientato in prigione, tra le mura del Rebibbia di Roma. Detenuti e un regista (Fabio Cavalli) e la rilettura di Giulio Cesare di Shakespeare. Che i carcerati-attori adattano e reinterpretano infarcendolo del loro vissuto: ecco lo scarto, l’idea che permette di annullare la distanza tra rappresentazione e realtà. Quando si schierano contro Cesare, il leader che si fa dittatore, le parole tradimento e lealtà hanno un significato universale e calzante allo stesso tempo. Sono “uomini d’onore”, dice Antonio (Antonio Frasca) degli assassini di Cesare, nel duplice senso che conosciamo: alcuni di loro stanno effettivamente scontando la pena per reati mafiosi. Si entra e si esce dal palcoscenico virtuale del carcere, la recita si mescola con la vita, così scopriamo che Bruto (bravissimo Salvatore Striano) è fuori da Rebibbia e si è dato alla recitazione.

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all’epoca mancava al cinema italiano dal 1991, quando il premio era stato assegnato a La casa del sorriso di Marco Ferreri. Inoltre, il film dei Taviani ha ricevuto otto candidature ai David di Donatello 2012, tra le quali quelle per miglior film e miglior regista e ne ha vinti cinque, compresi i due citati, produzione, montaggio e fonico di presa diretta ed era candidato anche per miglior sceneggiatura, fotografia e musica. Il film è stato scelto come candidato italiano alla selezione del premio Oscar come miglior film in lingua straniera.7 Partendo dalla rappresentazione teatrale del regista Fabio Cavalli nel carcere di Rebibbia del Giulio Cesare 7  «I Taviani e il teatro di Shakespeare. Trasformato in cinema - in un grande cinema - con la trovata geniale di far rappresentare uno dei suoi drammi più celebri, il Giulio Cesare, da detenuti di un carcere romano, quello di Rebibbia. Si comincia a colori. Con la ricerca fra i detenuti di quelli che potrebbero recitare in uno spettacolo che dovrà svolgersi tra le mura del carcere. Poi, in uno splendido bianco e nero esaltato dal digitale, inizia il dramma. Con i suoi interpreti che, scortati, lasciano le loro celle per partecipare alle prime prove in un palcoscenico improvvisato: le parti imparate a memoria, le battute dei primi atti, con un’altra splendida trovata, quella di lasciare che i singoli ‘attori’ si esprimano nei loro dialetti d’origine, in maggioranza meridionali, non solo non sminuendo quel testo quasi sacro ma, anzi, dotandolo di una vitalità e di sapori di cronaca dal vero di cui doveva far sfoggio quasi soltanto quando si recitava al Globe Theatre nell’inglese del Seicento. Allo snodarsi di fronte a noi della vicenda raccontata da Shakespeare, Paolo e Vittorio Taviani hanno qua e là accompagnato l’enunciato di piccoli casi privati di questo o quel detenuto coronati, a un certo momento, dalla constatazione che alcuni di loro fanno sulla contemporaneità di situazioni, per qualcuno anche personali, incontrate in un testo pur distante secoli da loro: quasi a testimoniare dell’eternità dell’arte. Si segue con il fiato sospeso. Certo, grazie a Shakespeare, ma anche per quella interpretazione diretta, anzi, addirittura nuda che, nonostante queste o forse proprio per questo, ad ogni svolta, ad ogni battuta è di una intensità sempre lacerante. Specie quando, per rappresentarci il coro dei Romani prima e dopo l’uccisione di Cesare, non si muovono masse in scena, ma si fanno ascoltare le invettive e le grida di altri detenuti affacciati numerosi da finestre con le sbarre. [...] L’ultimo ‘Giulio Cesare’ che ho visto al cinema è stato quello di Mankiewicz, nel ‘53, con Marlon Brando. Da oggi ricorderò con altrettanta ammirazione quello dei fratelli Taviani, con Antonio Frasca». (Gian Luigi Rondi, «Il Tempo Roma», 2 marzo 2012).

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di Shakespeare recitato dai detenuti all’interno di un programma del Centro Studi Enrico Maria Salerno, i Taviani assorbono l’evento e tutta la preparazione, nella loro riduzione cinematografica: provini, prove e spettacolo, con la collaborazione di Fabio Cavalli che insieme ai carcerati affronta l’impresa di volgere nei vari dialetti la lingua del testo, utilizzando il napoletano, il pugliese, il siciliano e il romano per ottenere dai detenuti/attori verità e personalità oltre alla più spontanea immedesimazione. L’idea cinematografica dei Taviani viene annunciata dalla stampa come dimostra questo breve annuncio del due marzo 2012: Si svolge in un reparto di sicurezza del carcere romano di Rebibbia e racconta la messa in scena di una tragedia scespiriana recitata da un gruppo di detenuti, sotto la guida del regista Fabio Cavalli da dieci anni impegnato in questa attività, ma non è un documentario, e non è neppure teatro adattato per lo schermo: è un puro distillato del cinema e delle tematiche dei Taviani. [...] Ottimo il sintetico taglio drammaturgico del meraviglioso testo, felice l’idea [di Cavalli] di far parlare gli attori nei loro dialetti; indovinata squadra di interpreti (fra cui straordinari Striano e Vega), la cui vita spericolata alimenta di lacrime e sangue il gioco recitativo; emozione colma di quando si toccano corde umane profonde.8

Idea era nata dallo spettacolo che i Taviani avevano visto in cui una ventina di detenuti avevano scelto alcuni canti dell’Inferno di Dante ognuno nel proprio dialetto ed erano riusciti a far rivivere i tormenti di Paolo e Francesca e del conte Ugolino e di Ulisse confrontandoli con le loro storie. Da questo spettacolo è nata l’idea del film e la collaborazione con Fabio Cavalli con lo scopo di restituire ai detenuti verità e personalità.9 Cesare deve 8  Alessandra Levantesi Kezich, «La Stampa», 2 marzo 2012. 9  «Shakespeare a Rebibbia, interpretato dai detenuti della sezione alta sicurezza. Il Giulio Cesare sembra scritto per loro, che conoscono la violenza.

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morire diventa così un film che dall’ambientazione stessa mette in risalto i confini e i limiti con il mondo esterno che per i detenuti è diventato irraggiungibile oltre che impossibile da scorgere se non dalle finestre a sbarre che lasciano filtrare soltanto la luce. Altri limiti sorgono nel confine tra documentario e fiction, e rappresentazione della messa in scena e identificazione e recitazione. Cesare deve morire dilatando queste contraddizioni è anche sovrastrutturalmente un film politico nella sua ricerca di scavare il rimosso dalle coscienze umane e nel porre domande sulle punizioni imposte ai detenuti e sul delitto politico. Cesare deve morire è anche un film sul dubbio. Il dubbio degli stessi registi che dichiarano di essersi sentiti in lotta con i loro sentimenti nei confronti di persone; i detenuti/interpreti, diventate care ma comunque colpevoli di reati gravissimi. Il dubbio su cosa sia veramente “redenzione” dilemma centrale anche nell’opera shakespeariana nonché sul valore salvifico dell’arte. Ma è anche un dubbio che nasce spontaneo negli spettatori del film di fronte alle curatissime e dettagliate inquaChe conoscono il potere. Orso d’Oro a Berlino, il film dei fratelli Taviani sembra il punto zero di molti gangster movies che raccontano l’avvicendamento delle cupole, l’eliminazione di capi scomodi, i tradimenti. ‘Cesare non deve morire’ è (anche) la scarnificazione del cinema di genere, riportato su un palcoscenico assoluto, quello di una galera. Il luogo più estremo, dove la libertà è preclusa e restano solo le pulsioni essenziali. La forza del film è nell’aver messo in scena il dramma inglese senza soluzione di continuità: gli attori lo declamano nella loro cella, durante l’ora d’aria, sul palco. Non c’è confine tra la loro vita e la ‘finzione’, perché la rappresentazione è la prima forma di analisi e l’autocoscienza è tutto ciò che può ridare fiato all’esistenza. Girato in digitale, in un bianco e nero su cui irrompe a tratti un teatralissimo colore, ‘Cesare deve morire’ è costellato di immagini potenti. Specie quando la macchina da presa scruta le grate del carcere, o distaccata lo osserva dall’esterno, come se Rebibbia fosse un’astronave atterrata per caso sulla terra. In quella astronave ci sono gli elementi primari della vita. In ogni vita c’è la lotta, in ogni vita c’è una galera. Splendida colonna sonora di Giuliano Taviani e Carmelo Travia, preziosa nel sottolineare la forza dello sguardo». (Eleonora Battocletti, «Il Fatto Quotidiano», 1° marzo 2012).

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drature, e nell’alternarsi tra bianco e nero per indicare il passato e il colore che marca il presente. Ed è qui che per alcuni spettatori potrebbe sorgere il dubbio che forse la ricerca della realtà viene offuscata dalla ricerca stessa di essa, se la commovente evasione sentimentale che i detenuti inseguono non sia stata sin troppo bilanciata da un rigore formale che imbavaglia il loro impeto in una preventiva riflessione a monte. Nell’insieme ne nasce un film formalmente perfetto ma che potrebbe essere recepito come freddo, e fa nascere il dubbio sul fatto che si possano cambiare le cose rintracciando il rimosso oppure il dimenticato degli esclusi dalla società per aver commesso crimini imperdonabili e sorge anche il dubbio che i detenuti attori si siano sentiti incarcerati anche dalla sceneggiatura e dalla messa in scena. Dopo questi miei brevi commenti, suggestioni e riflessioni, assieme alle reazioni di alcuni critici italiani al film che ho riportato nelle note, ho riletto il testo che mi era stato dato a Middlebury College nel Vermont, Stati Uniti, nel luglio del 2012 in occasione della cerimonia della Laurea Honoris Causa assegnata a Vittorio Taviani.10 10  Renowned Italian film director and screenwriter Vittorio Taviani to receive honorary degree July 19, 2012 - Award-winning Italian film director and screenwriter Vittorio Taviani will receive an honorary Doctor of Arts degree from Middlebury College on July 25. Michael Geisler, vice president for Language Schools, Schools Abroad and graduate programs, will present Taviani with the degree at a ceremony on campus. His daughter, Giovanna Taviani, was a faculty member at the Italian School during the Middlebury Language Schools’ 2011 summer session. “Middlebury is honored to welcome the notable director Vittorio Taviani,” said Geisler. “He and his partner and brother Paolo are known as two of the most prolific film collaborators in the world and the ‘maestri’ of Italian cinema.” Working closely with his brother Paolo on every project, Vittorio Taviani has been making films since the 1950s. Their established creative method is to write screenplays together and then take turns directing alternate scenes. The Taviani brothers have received several awards for their films,

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Vittorio Taviani alla cerimonia della Laurea Honoris Causa

including the Palme d’Or, or top prize, at the Cannes International Film Festival in 1977 for “Padre Padrone.” In 1982 they were awarded the Grand Prix du Jury at Cannes for “‘The Night of the Shooting Stars,” which was also voted best film by the National Society of Film Critics in 1983. The Tavianis’ films often focus on corruption, abuse of power, poverty, divorce, war, and the clash between modernity and tradition. Frequently they are based on works of fiction. In 1987, the brothers made their first American film, “Good Morning Babylon,” which the New York Times called “a perceptive homage to Hollywood’s salad days.” Born in San Miniato, Italy ― Vittorio in 1929 and Paolo in 1931 ― the Tavianis are the sons of a lawyer who under the Fascist dictatorship encountered the hostilities of the regime for his political ideas. The brothers attended the University of Pisa; Vittorio studied law while Paolo studied literature and humanities. In 1954, they abandoned their university studies and, together with their future collaborator Valentino Orsini, began work on a series of documentaries concerning contemporary social issues largely inspired by Neorealism. Their most recent film, “Caesar Must Die,” won the Golden Bear, or top prize, at the Berlin International Film Festival in 2012.

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Nel diario di bordo Carla Vezzoso Taviani racconta come i fratelli Taviani, che avevano scoperto il mondo dei reclusi che recitavano negli spettacoli teatrali diretti da Fabio Cavalli, girano, interagiscono e riescono a collaborare con i detenuti. Come menzionato tutto era iniziato un anno prima andando ad uno spettacolo teatrale nelle carceri e dopo aver deciso assieme al direttore dello spettacolo di volgere in dialetto la lingua del testo scespiriano, per poter cogliere più approfonditamente la verità e le personalità dei vari interpreti nella sezione di alta sicurezza. Carla Vezzoso Taviani che aveva sempre cercato di accompagnare i fratelli Taviani durante la lavorazione dei loro film, come esperta segretaria d’edizione è consapevole che questa sarà una nuova avventura, una consapevolezza che appare dal titolo; Diario di bordo, difatti inizia come in ogni diario segnando la data: 9 maggio 2011 a cui fa seguito il viaggio in macchina verso l’insolito set cinematografico. Come esperta segretaria d’edizione, è consapevole del compito che sta per affrontare: l’incontro con attori detenuti coinvolti nella sfida di dovere affrontare uno dei testi più coinvolgenti di Shakespeare e nella differenza tra il lavoro fatto nel passato stilando un diario di lavorazione dal diario di bordo che sta per iniziare a scrivere. Prova sgomento non soltanto a causa dell’ansia di una nuova prova cinematografica ma dal fatto che sarà in un carcere di massima sicurezza e con detenuti che hanno commesso delitti tra cui ci sono anche quelli condannati a una pena senza fine. Al primo incontro con i detenuti è sorpresa dal loro aspetto: non hanno visi duri e diffidenti e sospettosi come aveva immaginato ma queste sorprese non mitigano il suo sconcerto nel cercare di capire che cosa si nasconde sotto i loro sguardi che esprimono desiderio di rapporto. Dalla prime pagine è chiaro che questo suo diario non si prefigge soltanto di documentare quello che accadrà 86 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

ma vorrebbe anche cogliere il rapporto tra l’esperienza carceraria e il momento di relativa libertà che i detenuti sperimenteranno come interpreti. La sua inquietudine iniziale è anche dovuta alla paura di non riuscire a trovare i toni giusti per superare una loro possibile ostilità iniziale e nel cercare di capire come potrebbero reagire i detenuti nell’affrontare scene e battute che potrebbero far ricordare oppure fare risuonare echi delle loro esperienze passate e in particolare concetti come fedeltà, tradimento e assassinio. Sin dal primo incontro è evidente che nel diario di bordo, l’autrice sta riflettendo sul fatto che i detenuti/attori hanno dovuto firmare una delibera in cui rivelano al pubblico le colpe commesse. L’esporsi ha riaperto una ferita già nell’aver dovuto constatare di non essere attori e poi perché nell’interpretazione dovranno e potranno vivere e rivivere la loro duplicità, soprattutto nel momento in cui dovranno rievocare di fronte agli occhi degli spettatori e dei parenti, gli amori, i dolori e gli odi dei loro delitti. Inoltre, salvare Roma dalla tirannia, potrebbe scatenare in loro per la prima volta una vera riflessione sulla differenza tra delitto politico, cieca ubbidienza e infedeltà. L’immedesimazione nei ruoli dei personaggi avrebbe potuto promuovere delle riflessioni sui delitti commessi per motivazioni ben diverse, e di conseguenza scatenare dei sentimenti nuovi nelle proprie coscienze, insieme ai ragionamenti sul sacrificio, sulla dignità che si perde e non si riacquista e sulla mancanza di riscatto. Ci sono momenti nel diario in cui si sente la sofferenza dell’autrice e la sua profonda sincerità, a partire dai provini. Fabio Cavalli riveste il ruolo del poliziotto, ha di fronte un muro su cui si disegnano le ombre delle grate e uno alla volta si presenteranno i candidati aspiranti interpreti. Devono presentare sé stessi, possibilmente in uno solo ciak, e in questo caso ogni detenuto che vorrà far parte del film, dovrà dare le sue generali87 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

tà: nome, cognome, paternità, nascita e indirizzo. Il tono deve essere inzialmente dolente perché deve trasmettere l'idea che sta per allontanarsi dalla propria donna, poi davanti al poliziotto dovrà dimostrare violenza e rancore. I Taviani avevano rassicurato i detenuti di essere liberi e non tenuti a rivelare le loro vere generalità; a loro sorpresa tutti rivelano le proprie vere identità come unico modo per ricordare a tutti di esistere e per non essere dimenticati; aggiungerei anche l’intento di ricordare al proprio clan di esistere e di essere ancora fedeli. Durante i provini emergono personalità contrastanti: come Vincenzo che si rifiuta di piangere affermando che la mafia non piange, in contrasto al vecchio Pasquale Crapetti che si perde in un pianto interrotto durante il provino, al punto da commuovere l’autrice del diario e portarla a riflettere sulla brutalità del cinema, fino a confrontarsi con la fermezza dei registi che alla domanda sulla sofferenza provata dai detenuti/attori rispondono di non poter permettersi sentimentalismi in quanto il film in programma deve rappresentare la duplicità dei detenuti senza nascondere la verità e la realtà della loro esistenza. Dopo l’incontro con i detenuti, reso possibile dal cappellano del carcere che aveva messo a disposizione l’anti-cappella, durante la pausa Carla vorrebbe capire il possibile effetto sui detenuti della proposta di una tragedia che tocca la loro esistenza. Inizia quindi con un condannato per traffico internazionale di droga mentre consumano una pizza offerta da lei. L’autrice del diario si ripromette di discutere con alcuni detenuti la differenza tra un assassinio politico e quello mafioso per potere arrivare a capire se dalla loro prospettiva esista una possibile moralità nella mafia stessa. Con sua sorpresa scopre il cinismo dei detenuti che accusano la giustizia di confondere spaccio e omicidio, lo spacciatore che uccide per salvarsi dall'omicida vero e proprio; sco88 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

pre che essi credono che il carcere renda cinici, oppure credono che il vero nemico sia la giustizia; ma anche conosce un condannato che dice di non voler più essere quello che era stato – e difatti le confessa di essersi liberato del passato attraverso il teatro – anche se costui gode il rispetto degli altri carcerati per non aver mai voluto fare il nome del camorrista con cui aveva commesso uno dei suoi omicidi.11 Sdrucciolare su una foglia di fico come tutti. Carla rivela anche come i due fratelli registi lavorino assieme e svela anche quello che si era ripromessa di non rilevare: il patto tra i due di non litigare mai sul set, quando un problema sorto sull’utilizzo di tre fasci di luce provoca una divergenza di opinioni ed essi sfiorano il litigio, ma riescono a superare lo scontro aperto e salvare il loro accordo. Rivela che gli attori si sono divertiti nel vedere due mostri di equilibrio sdrucciolare nel preparare le riprese per l’incontro di Cesare con l’indovino, scena in cui il detenuto/attore decide di dire una battuta come le direbbe nel suo profondo sud; l’opposto accade nel trovare il tono giusto per fare parlare Cesare. Interessante leggere anche i commenti sulle decisioni di regia riguardo ai movimenti di macchina e le riprese. Oltre alle sue riflessioni esistenziali e filosofiche Carla Vezzoso Taviani riesce a farci sentire e percepire il soffocamento che si percepisce nei luoghi ostili, chiusi, impenetrabili, l’atmosfera umida, buia ed opprimente delle carceri. Lei sa che non ha senso fuggire ma scappa dalla prigione e il lettore capisce meglio il suo primo smarrimento e l’odio che si prova verso il chiuso delle carceri, e 11  Mantenere un segreto, la reazione di Vincenzo e la sua affermazione mi portano a pensare che i detenuti nel volere rivelare le loro vere identità, colpe commesse e pene da scontare volessero confermare chi erano e ricordare ai propri clan di essere ancora orgogliosi e fieri della loro appartenenza, dei delitti commessi e di non dimenticarsi di loro. Un atto di orgoglio, ubbidienza e fedeltà come il rifiuto di piangere.

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apprezza la libertà che lei cerca nella momentanea fuga. Umanamente ci fa sentire il ruolo di Cosimo, che era stato un boss a Napoli, ma soprattutto riesce a comunicare e far vivere la tenerezza che prova verso chi sarà sempre chiuso dentro per scontare un “pena fine mai.” Parole terribili che fanno pensare alle dantesche minacce scritte sulla porta dell’inferno: «Lasciate ogni speranza o voi che entrate». Per poter rendere meglio la freschezza e lo spessore intellettuale di questo diario nelle pagine che seguono mi soffermerò su alcune parti, cioè sulle scene,12 che a mio avviso daranno al lettore il senso ampio della profondità delle osservazioni riportate dall’autrice. Per questo ho scelto di soffermarmi su: l’incontro con i parenti, commenti sull’arte cinematografica dei Taviani e la loro creatività ed ingegno nel risolvere vari problemi, l’angoscia notturna causata dalla struttura delle carceri e delle celle, la recitazione che per i detenuti non significava nascondersi ma vivere le suggestioni che venivano loro dal ruolo interpretato. In Scena 22, il diario racconta del cambio del progetto di incontro tra i parenti dei detenuti e i Taviani. All’inizio infatti i registi avevano immaginato che un incontro dei detenuti con chi li ama e ripudia, oppure aspetta e perdona, oppure li ha dimenticati o vorrebbe farlo, avrebbe fatto emergere le verità nascoste. Carla cerca di scoprire le ragioni di questo cambiamento. Ci rivela due plausibili ragioni: i fratelli Taviani avevano prefigurato che i parenti avrebbero cercato di difendere l’immagine dei loro familiari detenuti, oppure che avrebbero voluto allontanare la loro esistenza. Ognuno avrebbe tenuto le verità più nasconde per sé. Per cui sarebbe stato necessario forzare l’intimità di persone toccate dal dolo12  Dal diario si apprende che non era stato possibile seguire la cronologia del piano di lavorazione per cui l’ordine delle scene è stato imposto per seguire la narrazione secondo il progredire della sceneggiatura.

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re, qualcosa che i due registi secondo lei non avrebbero mai fatto. La narratrice ci rivela un terzo motivo, il più attinente. L’autista dei due registi che per una settimana aveva ascoltato le loro discussioni sul da farsi aveva detto loro di non rovinare il film e di lasciare fare queste cose alla televisione. Carla ci rivela che, dopo aver riso, i Taviani avevano deciso di lasciar perdere. Inoltre, le reazioni dei detenuti erano state contrastanti: loro stessi erano divisi. Per esempio, la narratrice ci racconta di come il detenuto Pizzetto avesse paura che sua madre, avendo dieci figli detenuti, si sarebbe confusa su quale si di loro lui fosse. Un altro detenuto, molto legato alla maestra elementare che lo segue da sempre, non ricordava il suo indirizzo. Carla non demorde e vuole conoscere e confrontarsi con i parenti per verificare le notizie e i fatti riferitile dai detenuti. Scena numero 38 – Fuori i parenti vogliono entrare, la polizia controlla gli invitati, l’autrice del diario è consapevole del fatto che il cinema sta proponendo una doppia immagine: l’emozione dello spettacolo e al tempo stesso l’oppressione della detenzione. La MDP riprende i volti degli spettatori ignara di chi sono e della loro presenza, ignara dell’oppressione della prigionia dei presunti attori. Tra i tanti parenti venuti per lo spettacolo spiccano le storie della moglie di Cosimo Rega, ex boss. La moglie dichiara di aver cresciuto i figli con i valori morali rifiutati dal marito e di continuare ad amarlo e che i muri del carcere non potranno mettere fine al loro grande amore anche se il marito è stato condannato all’ergastolo. Molti dei convenuti restano delusi per non aver visto il loro caro nello spettacolo. La genialità e la creatività dei registi vengono mostrate attraverso dettagli che permettono al lettore anche di cogliere molte particolarità del loro modo di fare cinema. I Taviani riescono a girare una scena iniziando le riprese con una improvvisazione; oscurando l’ambiente 91 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

mentre i detenuti a letto, con gli occhi fissi al soffitto, riescono ad esprimere la continua angoscia notturna con un pensiero, un grido, un richiamo, un singhiozzo che vorrebbero soffocare la tristezza, la solitudine e l’angoscia che nascono dalla notte passata su una branda, fissando il soffitto della cella in Rebibbia; da questa scena emergerà il volto di Cesare che sta andando al Foro il giorno delle Idi di marzo. Senza voler togliere ai lettori il piacere di leggere il diario e di scoprire per conto proprio la ricchezza del testo, ma anche per rendere parzialmente, a chi mi legge, la ricchezza del testo, prendo in esame anche la Scena 13 per dare un’idea della profondità del diario di bordo e del piacere che si prova nel leggerlo. Inizia con una rapida ma attenta descrizione di quello che si sta per riprendere e in aggiunta ci dice esattamente il movimento che il carrello fa per mostrarci i contorni di una finestra sbarrata. Bruto e Cassio entrano in campo per assistere all’evento che si sta verificando giù nel Foro. Antonio tre volte offre la corona a Cesare che la respinge ipocritamente. Bruto è dilaniato tra la fedeltà a Cesare e i suoi ideali repubblicani, Cassio invece è ben convinto di voler salvare Roma dalla tirannide. Cassio guarda fuori per lanciare la sua invettiva contro Roma, ma inaspettatamente inizia a parlare della sua Napoli. I detenuti/ attori cambiano il registro poetico di Shakespeare, ma i Taviani non perdono nulla di quello che nasce e si crea spontaneamente con il cambio di registro linguistico e dalla spontanea immedesimazione con cui i detenuti trasferiscono il loro privato nella recitazione. Trovo Scena 31-32 molto interessante da vari punti di vista per capire la capacità dei Taviani nel risolvere difficoltà organizzative creativamente, inoltre per riflettere sull’effetto che il delitto politico potrebbe avere su chi ha commesso un delitto di mafia. Cesare è stato ucciso ma sorge il problema su dove deporre il suo cadavere. I 92 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

Taviani lo risolvono facendo fede al loro binomio volontà-caso, difatti per caso vedono dall’alto uno spazio di media grandezza usato come campo della palla a volo e intuiscono di poterlo usare come “il Foro.” La sequenza che segue mostra Bruto e Marco Antonio che si avvicinano al cadavere di Cesare per parlare al popolo, consapevoli che le loro orazioni sono tra le invenzioni teatrali più geniali di Shakespeare. Sfortunatamente Antonio, il detenuto che ha la parte di Marcantonio non riesce a recitare la sua parte. Ricorda le parole ma è assente. I Taviani capiscono che non riesce ad uscire dalla sua identità di carcerato che cancella quella momentanea di attore/ interprete. Antonio, seduto, vede i detenuti di un’ala della Sezione che passano in fila per l’ora dell’aria. A quella vista Antonio si scuote e vuole riprendere l’identità di Marcantonio riuscendo a recitare la sua parte. Interessante leggere come Carla interpreti questo cambiamento: Antonio riesce ad interpretare la parte dopo aver visto gli altri detenuti che uscivano per l’ora dell’aria. Inoltre, interpretando la parte Antonio sperimenta la differenza tra omicidio politico e assassinio di mafia, argomento di cui avevano discusso la settimana precedente e a cui il detenuto non aveva mai pensato e non voleva pensare. Scena 36, è notte sulla piana di Filippi prima della battaglia. Bruto ha freddo e Lucio dorme. Bruto fissa la fiamma della candela che oscilla ed espande una luce luciferina con effetto inquietante che scuote e allarma Bruto. Come far apparire il fantasma di Cesare senza effetti speciali? Le difficoltà vengono superate dai Taviani attraverso le vie più semplici: si sente la voce di Cesare ma non lo si vede. Lucio si sveglia, l’ombra, oppure lo spirito di Cesare ha penetrato il suo sonno. Da lettore oltre ad apprendere sul metodo usato dai Taviani nei provini, il diario di bordo mi ha aiutato a capire lo scopo di questo film sperimentale; ma soprattutto leggendo il diario ho colto l’umanità di Carla Vez93 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

zoso Taviani, la sua sofferenza, le sue ansie, il suo continuo interrogarsi, il suo insistere nel cercare un rapporto sincero e diretto con i detenuti. Le sue paure e dubbi sulla crudeltà del cinema mi hanno anche aiutato a capire i lati nascosti che un film non rivela a chi lo guarda. Il candore nel confessare i dubbi, le proprie paure, le insicurezze mi ha confermato molto di quello che avevo percepito quando ho incontrato Carla Vezzoso Taviani, conosciuta a Middlebury; nel leggere il diario ho percepito e rivissuto la sua gentilezza, rivisto il suo sorriso, avvertito la sua intelligenza e il fascino della sua vivace curiosità intellettuale che spesso si manifestava nella sua cortese maniera di fare sempre tante domande. La sua fuga dalla prigione e poi il suo desiderio di incontrarsi con i parenti dei detenuti per confrontarsi con loro e conoscerli e indirettamente confrontare parlando con loro quello che avevano detto i detenuti. Va sottolineato che quello che ci racconta il diario, anche se riletto e riscritto, nasce direttamente dalle sue esperienze in prima persona che possono essere paragonate a quello che hanno scritto gli esperti e alle recensioni ma anche alle interviste dei Taviani stessi, in quanto rivelano considerazioni che il film e i critici non prendono in esame. Tale ad esempio il rapporto tra personaggio e attore che in questo caso è anche un detenuto che per un breve periodo evade dalla propria realtà attraverso la finzione, la quale poi viene vista da parenti, amici e nemici in un ruolo che non avrebbero mai immaginato; al che va aggiunto che dal diario veniamo a conoscere l'effetto dello spettacolo sui partecipanti e i loro parenti. Il suo diario di bordo rivela le sue qualità artistiche e personali e le sue conclusioni sono molto importanti nel senso che oltre a farci capire i meccanismi del cinema e l’arte dei Taviani, ci avvicina a persone dimenticate che si rivelano per non essere dimenticate e per non scomparire nel buio di una cella. Per di più l’autrice riesce anche a sca94 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

vare dentro ognuno di loro per farceli conoscere come veramente sono con le loro contraddizioni, retaggi culturali e vite infrante. Il film dei Taviani aveva lo scopo di cogliere la duplicità senza nascondere la verità e la realtà dell’esistenza dei detenuti, il diario di bordo approfondisce le individualità dei detenuti e ci fa scoprire la loro umanità oltre alla realtà in cui vivono. Il diario indirettamente provoca anche delle riflessioni che vorrei condividere con chi avrà la curiosità di leggerlo. In un carcere è molto comprensibile che l’arte possa essere percepita dai reclusi come l’unica via di fuga da una realtà angosciante e drammatica. Fuori dalle prigioni l’arte permette di concepire l’essenza dell’uomo e la sua capacità di eccellere in una dimensione non materiale. L’arte educa, affina, conforta: dà un senso alla vita al di fuori della sua materialità. Nel carcere l’arte permette anche una evasione momentanea dall’isolamento. Credo che possa anche aiutare i reclusi e gli esclusi a una sorta di rieducazione ma bisognerebbe convincere lo Stato e il sistema giudiziario a introdurre l’arte come sistema di rieducazione e non soltanto per spettacoli isolati. Il diario mi ha anche spinto ad altre considerazioni sull’omicidio, crimine che molti detenuti coinvolti e scelti dai Taviani avevano commesso; difatti una delle sfide del film era di metterli alla prova per vedere se la recitazione avrebbe portato ad un esame interiore e quindi scoprire una nascosta duplicità. Le osservazioni e riflessioni del diario che, come ho già scritto, esaminano tanti di questi aspetti mi portano a fare delle considerazioni sull’aspetto politico del film che all’inizio del saggio ho definito “sovrastrutturalmente politico” nella sua ricerca di scavare il rimosso dalle coscienze umane e nel porre domande sulle punizioni imposte ai detenuti e sul delitto politico. Dalle mie letture sul crimine organizzato ho indirettamente appreso che i mafiosi non si pongono il problema posto 95 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.

apertamente dal film. L’omicidio serve da esempio: chi sgarra paga, come parte di un sistema, primitivo e ferino, fondato sul potere più antico che l’uomo possiede: il potere di portare la morte a chi non segue gli ordini. Penso che sia difficile per un mafioso oppure per una persona appartenente ad un organizzazione criminale come quelle italiane capire l’uccisione motivata dalla ragione di Stato oppure come atto politico, in quanto egli capirebbe che qualcuno uccide per lo Stato, per un bene comune, seguendo una motivazione diversa dalla loro, che uccidono per ragioni appartenenza e per un bene magari più ristretto. Se lo Stato si arroga il diritto di uccidere per tutelare la collettività, questo diventa un concetto discutibile in quanto la collettività è fatta di tante individualità come ha già argomentato Beccaria. È possibile fare del male per arrivare al bene? C’è differenza tra crimine e omicidio di stato? La pena capitale non serve se non ad acuire le violenze, e l’ergastolo? A mio parere una sorte di morte prima della morte. Sappiamo tutti come per esempio la CIA13 oppure il KGB e tanti altri servizi segreti che si focalizzano su operazioni all’estero e anche in patria “assolvendo al compito di studiare e prevenire le attività che possano compromettere la sicurezza statale,” hanno ucciso e continuano a farlo, giustificando l’omicidio come un male per arrivare al bene, cioè la loro sicurezza nazionale e i propri interessi. Tutti sappiamo che lo Stato italiano si è servito della mafia e che ha stipulato accordi/patti con mafiosi per eliminare “gli scomodi” e “risolvere problemi.” L’arte può essere una via di fuga da una realtà angosciante e drammatica e che aiuta a concepire l’essenza dell’uo13 Who killed Che? How the CIA got away with Murder, Michael Tatner and Michael Steven Smith, New York, Or Books New York, 2001. [Gli autori, due avvocati esperti di diritti civili, hanno investigato la morte di Che in Bolivia e nel libro dimostrano che la CIA non solo conosceva e approvava l’esecuzione, ma era stata determinante nell’attuarlo].

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mo e la sua capacità di eccellere in una dimensione non materiale, ma bisogna anche chiedersi con quale senso o con quali scopi si potrebbe parlare di libertà quando ci sono ancora tante fasce di cittadini e anche tante nazioni che hanno difficoltà e vivono come merce e sono sfruttati come consumatori anche per quel poco che hanno e possono acquistare. Il diario di bordo coglie in pieno alcune di queste osservazioni quando scrive che per molti dei detenuti non c’è il lieto fine, Cassio (Cosimo Rega) confessa davanti alla camera da presa: «Da quando ho scoperto l’arte questa cella mi sembra una prigione». Queste parole possono essere lette e interpretate in vari modi e tra essi anche concepire il danno che si è fatto, senza volerlo, a un essere umano educato troppo tardi all’arte da una Stato che non ha fatto nulla per far conoscere l’arte alle masse escluse da certi privilegi.14 Grazie a Carla Vezzoso Taviani per averci fatto riflettere e ai fratelli Taviani che hanno creato l’occasione per un confronto con personaggi che hanno potuto confrontarsi da detenuti con la loro identità passata ma che hanno anche forzato noi spettatori e lettori a riflettere sul destino di tanti esclusi.15

14  Dai dati aggiornati al 2013, l’Italia era terzultima, in Europa per quanto riguardava la spesa per l’istruzione sul PIL, ma dopo anni di tagli, principalmente a causa del periodo di crisi, secondo la ricerca Eurydice, nel 2014 l’Italia ha aumentato il proprio bilancio per l’istruzione dello 0,6% e nel 2015 è stato stanziato oltre un miliardo di euro di risorse per il settore. Questa tendenza è sicuramente positiva, ma permane la differenza nei confronti dell’Europa dove l’aumento di risorse in media è stato maggiore del punto percentuale. 15  Basti pensare che quando è stato girato questo film sono state deportate 3 milioni di persone dagli Stati Uniti, un numero superiore rispetto al passato. Durante lo stesso periodo negli Stati Uniti c’è stato un aumento del 40% dei decessi per overdose di droga e un aumento di quasi il 18% dei suicidi. Per un approfondimento si legga: The Center Did Not Hold. A Biden/ Obama Balance Sheet by Robert Eisenberg.

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Indice

Nota dei figli

5

Diario di bordo sul set di Cesare deve morire

13

Antonio Carlo Vitti Rivivere la realizzazione di Cesare deve morire dei fratelli Taviani attraverso il Diario di Bordo sul set, di Carla Vezzoso Taviani

77

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© 2021 Metauro Edizioni S.r.l. Finito di stampare nel mese di marzo 2021 presso la Digital-Team (Fano - PU) Printed in Italy

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