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Italian Pages [523] Year 2009
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Remo Bodei DESTINI PERSONALI L’età della colonizzazione delle coscienze Feltrinelli
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© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione nella collana “Campi Del Sapere” novembre 2002 Prima edizione nella collana “Universale Economica Saggi Rossi” gennaio 2009 ISBN edizione cartacea: 9788807720901
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Introduzione
Nella corsa della filosofia vince chi sa correre più lentamente. Wittgenstein, 1938
L’io e il noi Nel guardare indietro al nostro passato, siamo talvolta colti da una sensazione nota, eppure perturbante: ci meravigliamo di essere la stessa persona che ricordiamo differente nei tratti fisici, nei pensieri e nei sentimenti. Com’è possibile – ci domandiamo, increduli e inquieti – che siamo identici e, insieme, diversi, ma dotati di una coscienza generalmente capace di riconoscere la sua continuità, di sopravvivere a un corpo in costante modificazione e a un tempo che a ogni istante precipita nel nulla? Non meno paradossale è l’impressione di sorprendente ovvietà che ci afferra quando pensiamo alle trasformazioni del mondo che abbiamo attraversato. Dove sono i sistemi politici, le istituzioni, le forme di convivenza, i modelli culturali, le persone, gli eventi che ci hanno accompagnato nel corso della nostra esistenza? Possiamo ricostruire le tracce che questi stampi del “noi” hanno impresso nel nostro condiscendente o riluttante “io”? Siamo davvero vissuti – incalza il nostro stupore, con un crescente estraneamento – allorché esistevano regimi e stati di cose ormai consegnati alla storia? 5
Interrogativi ingenui, che evaporano rapidamente. La meraviglia e l’inquietudine cessano infatti presto, lasciando come residuo fisso il blando o intermittente desiderio di approfondirli in altra occasione. Impresa, per lo più, sempre rinviata o rimossa, poiché si scontra con la difficoltà di impostare un discorso articolato a partire da un’impressione che, per la sua vaghezza, sembra sconfinare nella rêverie. A questa perplessità si aggiunge poi, come deterrente complementare, un inconfessabile e insolubile sospetto rivolto al futuro: venuti al mondo senza volerlo, in circostanze per noi accidentali, la nostra vita non assume forse, nel suo avanzare, i contorni della necessità, a causa del carattere irreversibile del passato e della progressiva chiusura dell’avvenire, che restringe inesorabilmente il cono dei possibili, condannandoci a una sempre più rigida identità? Ce n’è abbastanza per bloccare ogni velleità di indagine su argomenti il cui interesse è per noi direttamente proporzionale all’oscurità. Ci accontentiamo di sapere che continueremo a fare valanga su noi stessi, accumulando altro tempo e assistendo a ulteriori metamorfosi del mondo, finché questo proseguirà senza di noi. Interrogativi ingenui, forse, ma spontanei e inaggirabili, che inseriscono la preoccupazione per il destino di ognuno in un orizzonte di senso più ampio e comune. A queste domande la tradizione cristiana occidentale ha offerto risposte lungamente elaborate e largamente ammesse. Poggiavano su due robusti pilastri, incessantemente consolidati e difesi contro ogni forma di miscredenza e di eterodossia, su due idee sistematicamente instillate nelle menti e nei cuori: l’immortalità dell’anima e la Provvidenza. Il senso comune ha cioè assorbito nel tempo una duplice 6
certezza: che ogni essere umano è dotato di un’anima, intesa, filosoficamente, come “sostanza”, sostrato e letto di scorrimento permanente delle nostre esperienze e, religiosamente, come entità individuale, immateriale, semplice, indivisibile (e, proprio per ciò, incorruttibile); che Dio interviene nella storia secondo i suoi imperscrutabili disegni, lasciando agli uomini – come diceva Lessing – il compito di scrivere le cifre, ma riservandosi il diritto di tirare le somme. Accettate simili premesse, le risposte diventano quasi ovvie: siamo identici e diversi, perché l’anima sorregge unitariamente ogni differenza, sopporta il peso dei mutamenti, ordina e sintetizza la molteplicità dei vissuti; i poteri terreni ci condizionano, ma, alla fine, non riusciranno a scalfire la nostra essenza imperitura, che non appartiene a questo mondo, destinato invece a finire. Quando la fede nell’anima immortale e nel soccorso divino diventa incerta e implausibile, questi sostegni della coscienza e della società vengono faticosamente sostituiti con altre nozioni portanti, quali identità personale e storia fatta dagli uomini. La fiducia nella consistenza dell’anima e nell’ininterrotto permanere della coscienza di sé viene scossa da un terremoto filosofico, poco avvertito dai contemporanei, ma in grado di propagare onde d’urto sino a noi. La sua data può essere fissata con esattezza al 1694, quando John Locke affronta il problema della personal identity nella seconda edizione del Saggio sull’intelletto umano, coniando l’espressione stessa. Da allora, per oltre tre secoli, la questione della consapevole permanenza nel tempo del proprio io durante l’arco di un’unica vita (accanto a quella del significato da accordare, fuori da ogni ipoteca religiosa, al succedersi degli avvenimenti collettivi, aspetto 7
su cui non mi soffermerò) ha ossessionato le filosofie dell’Occidente, incidendo sull’immagine che innumerevoli individui hanno avuto – e hanno – di se stessi. L’identità personale si rivela erede e surrogato dell’anima, risultato della segreta elaborazione del lutto per lo scadere della garanzia cristiana che assicurava all’individuo una durata senza fine. Una volta oscurata o negata – sul piano teorico – la sostanzialità dell’anima, sembra infatti venir meno il fondamento stabile dell’io, l’unità dei suoi flussi di coscienza, che avrebbero dovuto prolungarsi oltre le barriere della morte. Allontanata la prospettiva dell’eterno, il singolo si trova progressivamente immerso nel tempo irredimibile della caducità. La riduzione della vita cosciente ai granelli di attimi dello shakespeariano “ banco di sabbia del tempo”, con la conseguente contrazione delle aspettative alla sola esistenza fisica, gli rivela la propria intrinseca fragilità, il suo essere esposto al pericolo sempre incombente della disgregazione e dell’oblio di sé (un rischio che egli tenta di schivare attribuendo alla memoria la funzione vicaria di testimoniare le tappe del suo irripetibile passaggio nel mondo e al futuro e alla storia fatta dagli uomini la missione salvifica di intrecciare sensatamente le sue vicende con quelle di tutti gli altri). Per trapiantare le radici dell’io dal solido e immutabile terreno dell’aldilà nel friabile e transeunte suolo del proprio corpo, della propria biografia, delle istituzioni politiche e della storia, è stato necessario approntare una mole imponente di inedite strategie teoriche. Nell’aprire il cantiere di una delle più colossali imprese della modernità, si affollano perciò nuovi interrogativi, che coinvolgono una crescente quantità di persone: come inibire, dirottare e 8
compensare diversamente il loro slancio verso un’immortalità a lungo promessa, verso una meta che riscatti il rassegnato procedere, passo dopo passo, in direzione della morte? Come consegnare fiduciosamente la propria vita all’infida mutevolezza del mondo, rinunciando a un saldo appiglio fuori di esso e trovando soltanto in sé la stella polare e il motore della propria storia personale? Come far rifluire i desideri insaturi di illimitata felicità entro il tempo della vita irrimediabilmente chiusa, spesso miserabile, di chi si scopre candidato al nulla? Come dare compattezza, unità e coerenza a un io che sembra dissolversi in un confuso pulviscolo di stati d’animo vorticosamente trascinato dal soffio degli eventi? E, infine, come rapportarsi responsabilmente – in linguaggio weberiano – “al demone che tiene i fili” della nostra vita, ricomponendo la trama dei legami transindividuali che ci congiungono alle anonime potenze naturali e storiche da cui siamo, per lo più inconsapevolmente, condizionati, senza ignorarle, ma anche senza sottostare passivamente al loro comando, facendo appello all’incondizionatezza in ultima istanza, alla risposta ai contesti che non è contenuta nei contesti stessi? È oggi difficile rendersi conto di quanto intimamente radicate fossero le concezioni e le passioni religiose riguardanti l’anima e la sua destinazione futura e quanti sforzi siano stati necessari per resistere alle vigorose controffensive delle chiese, che si riorganizzarono e approfondirono spesso la loro presa spirituale, ma che non esitarono ad agitare contro i reprobi i lugubri vessilli della morte e della dannazione perpetua accanto alle celesti insegne della speranza. Né il senso della fine, né le promesse di vita eterna riuscirono, tuttavia, a fermare – dal Settecento 9
in poi – lo slancio verso la riconsacrazione del mondo e del corpo e il conseguente abbandono, da parte di molti, della condizione di “anfibi”, di esseri capaci di vivere in due mondi: nell’al di qua dell’esperienza e nell’al di là dell’attesa, con lo sguardo alternativamente rivolto in avanti, alla propria sorte terrena, e in alto, al Regno dei cieli (attraverso preghiere ed esami di coscienza, esercizi spirituali che hanno ulteriormente scavato in direzione dell’interiorità). Nell’unico mondo sorto dall’incastro e dalla ricomposizione di queste due metà, il tempo umano proiettato verso un futuro di salvezza e redenzione collettiva all’interno della politica e della storia rivendica allora il primato sulla dimensione filosofica e religiosa dell’eterno, strappandole però, con sofferta rinuncia e più modesta ambizione, attimi intermittenti di plenitudo vitæ, capaci di illuminare a sprazzi la prosa dell’esistenza e di riscattare – con le promesse di un avvenire migliore – travagli e dolori ormai privi di ricompense ultraterrene. Si inasprisce così l’impegno paradossale di conservare la trascendenza nell’immanenza, di assegnare all’io quel marchio di irriducibilità al mondo prima attribuito all’anima e a Dio, di negargli lo statuto di semplice oggetto, di cosa tra le cose, raffigurandolo di nuovo come un anfibio, ma di un’altra specie, che sta anch’esso dentro e fuori dal mondo, soggetto nel mondo e soggetto per il mondo (e, comunque, costitutivamente inseparabile da esso, per quanto sembri non appartenergli). Nello scoprirsi residuo non assorbibile dall’oggettività, la coscienza si qualifica come presenza a se stessa, insistentemente riaffermata nel suo attuale sussistere e insistentemente intimidita dalla sua possibile dissoluzione. Perduto il punto archimedeo dell’anima, che solleva ogni 10
uomo da questa valle di lacrime allo splendore del paradiso, diventa sempre più urgente farsi una ragione dell’emorragia di senso provocata dal tramonto di questa antica certezza. Avvitandosi nella sua precarietà, concentrandosi su di sé nel tentativo di salvarsi dalla dissipazione, temendo il proprio annientamento come preludio alla scomparsa di tutte le cose, la coscienza rischia di diventare talmente rarefatta che alle prove dell’esistenza di Dio si sostituiscono le prove dell’esistenza di un irreperibile io. Se davvero, con Descartes, la prima modernità è caratterizzata “dall’interesse esclusivo per l’io” e dalla “perdita di mondo” (ma il dubbio è lecito), la fase successiva mira piuttosto, in alcune delle sue più rilevanti espressioni, all’acclimatazione del soggetto alla “fertile pianura dell’esperienza” condivisa e al terreno accidentato della storia collettiva. Questa impresa s’intreccia con lo sviluppo del giusnaturalismo, che lega il singolo uomo a tutti gli altri in un patto politico artificiale, sottraendolo così al suo isolamento e spingendolo verso l’universalità. Quando l’incubo della dannazione non angoscia più di tanto e l’idea di caducità si stempera o si sedimenta negli animi, diventando rispettabile, aumenta, pertanto, il coinvolgimento della coscienza nella realtà “esterna”. Il “retrobottega” dell’io si trasforma allora da tranquillo rifugio dagli affari e dai crucci del mondo in temporaneo luogo di sosta per ritemprare le forze prima di riprendere una strada che non si sa dove porti. Non si esorta più l’anima, alla maniera di Platone, “a raccogliersi e a concentrarsi in se stessa” per contemplare le essenze immutabili: la si stana dalla sua clausura e la si fa passare sotto le forche caudine della mutevole realtà effettuale, in 11
modo da saggiarne la resistenza e i limiti. L’“infinita avidità” del soggetto, che vorrebbe hegelianamente raccogliere ogni ente all’interno del puro io, è costretta a venire a patti con le “dure repliche” della storia, con concatenazioni di eventi che, sovrastandolo, gli svelano il carattere trascurabile dei suoi disegni nell’economia complessiva del mondo. La parabola dell’identità È questa la provvisoria tela di fondo, dipinta a larghe pennellate, su cui intendo inizialmente far campeggiare il problema dei destini personali, per inquadrarlo poi entro specifici contesti, storici e teorici. Analizzando le configurazioni assunte dall’io, dalla coscienza e dall’identità personale eviterò di trasformarle in sostanze e di separarle dai processi che le creano. Metterò quindi in relazione gli “stampi sociali”, le forme astratte di interiorizzazione dei rapporti di potere, il funzionamento degli ordinamenti normativi e degli apparati di donazione di senso con le strategie di individuazione di volta in volta operanti, senza considerare, da un lato, tali stampi come modelli preesistenti al loro effettivo incarnarsi e, dall’altro, l’individuo come ente già costituito (grazie a un misterioso principium individuationis) o semplice riflesso di potenze impersonali. Mostrerò quindi non solo in cosa consista la costruzione dell’io, della coscienza e dell’identità personale, ma anche come sia stata realizzata. Tratterò questi temi in forma di parabola, nel duplice senso di una figura geometrica, che indica il tracciato di una curva – con un punto d’inizio, uno zenit, un declino – e di un racconto esemplare, che contiene un insegnamento, teorico e storico, sulle reciproche implicazioni della relazione tra la coscienza e i suoi orizzonti politici e storici. 12
L’intero arco espositivo si estenderà dall’età di Locke alle soglie dell’attualità, ma l’esame più esauriente e quantitativamente più esteso si concentrerà sul tratto mediano della curva, quello che coincide con la fase di conclamata denuncia della frammentazione dell’io e con i successivi progetti autoritari di ricostruirlo, rendendolo politicamente compatto e obbediente mediante una violenta invasione e colonizzazione delle coscienze. Parlerò, dunque, di “coscienza”, in opposizione non tanto all’“inconscio”, quanto all’incoscienza, nel senso che il termine ha nel linguaggio comune, di un procedere senza riflettere o senza voler riflettere, di uno scarico di responsabilità da parte di chi delega la propria vita ad altri o al corso degli eventi. È necessario attribuire nuovamente all’idea di coscienza un valore positivo e attivo, in contrasto con gli effetti perversi involontariamente provocati dai “maestri del sospetto” (Marx, Nietzsche e Freud) e dai loro più incauti e fanatici seguaci. Infatti, con un crescendo che inizia da Schopenhauer e culmina nella prima metà del Novecento, la coscienza è stata spesso considerata come un’illusione o un miraggio, una variabile dipendente e insignificante delle forze anonime – economiche, fisiologiche o psichiche – che agiscono potentemente alle spalle degli uomini. Quelle che erano, almeno in parte, condivisibili messe in guardia contro il primato idealistico, da “mosca cocchiera”, assegnato alla coscienza, diventano (nelle loro volgarizzazioni ideologiche e politiche) strumenti di delegittimazione e di negazione dell’autonomia intellettuale e morale dell’individuo. Riconoscendo il ruolo e la potenza di tali forze, occorre però ‘decolonizzare’ lo spazio, anche minimo, aperto all’iniziativa dei singoli, ampliandone l’orizzonte di coscienza e 13
rafforzando, quindi, la padronanza di sé, ossia la capacità di decidere e di ancorarsi nuovamente alla realtà in movimento, sfuggendo il vuoto dell’interiorità compiaciuta di se stessa. La parte centrale di questa parabola copre cronologicamente gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento, un periodo di intensa esplorazione della mirabile complessità della materia vivente e, insieme, di prepotente affacciarsi delle masse alla vita pubblica, una fase che va, politicamente, dal 1871 al 1945, dalla Comune di Parigi alla caduta del fascismo. È l’età in cui (per effetto della convergenza di diversi saperi, soprattutto biologici, medici e psicopatologici, alimentati dalle ricerche di Taine, Ribot, Janet e Binet) all’io viene negata l’unità e la continuità, assegnando invece a ciascun “dividuo” una pluralità originaria e discreta di poli di coscienza, i quali convivono sotto l’egida di un “io egemone”, che non è l’unico ma soltanto il più forte. Questo mantiene nel tempo il suo malfermo potere finché non s’indebolisce e declina: a quel punto, la precedente coalizione degli io si scioglie, la coscienza si scinde e le personalità si moltiplicano, innescando, da ultimo, la follia. Tali aspetti patologici mettono in evidenza le virtuali fratture presenti anche negli individui fisiologicamente sani. Forniscono così una lente d’ingrandimento e un’ulteriore conferma a due opposte convinzioni. La prima – assai sentita in un’epoca che si considera di décadence – insiste sull’ordinaria fragilità e discontinuità dell’io; la seconda, invece, su come il formarsi di embrioni di personalità multiple, almeno sul piano della normalità, corrisponda all’allentarsi di costrizioni sociali che volevano l’individuo 14
monolitico e ancorato a ruoli rigidamente assegnati. Da un lato, le filosofie di Nietzsche, di Bergson e di Simmel, affiancate dalle opere letterarie di Proust e di Pirandello, indirizzano quindi il singolo verso prospettive – esaltanti o sconvolgenti – di potenziamento del proprio io, oppure di vivere nella realtà o nell’immaginazione altre vite diverse o parallele, di schiodarsi da un destino segnato in anticipo, di custodire in sé, in forma di abbozzate personalità multiple, una ricchezza di possibili sviluppi, non bloccati, almeno nel desiderio, dalle scelte compiute nel passato; dall’altro, l’insofferenza verso il sottrarsi dell’individuo al legame sociale e il diffondersi – in nome dell’eguaglianza – del rifiuto delle gerarchie esistenti spingono molti (tra cui Le Bon, Sorel, Mussolini e Gentile) a progettare la massificazione, l’ottundimento o l’omologazione della coscienza vigile delle moltitudini grazie a diverse strategie: alla sua immersione nella folla, all’uso del mito o all’incardinamento dell’“Io” nel “Noi” dello Stato etico. Non mi limiterò, peraltro, a descrivere e interpretare le concezioni di tutti questi autori. Cercherò anche di ‘squadrarle’ – seguendo i loro latenti piani di sfaldatura – al fine di trovare degli addentellati di senso per inserirle in una compagine teorica atta a salvare i fenomeni e i processi. Attraverso lo sviluppo delle dottrine e delle tecniche psicologiche e psicopatologiche (teoria delle personalità multiple, ipnotismo, isteria, psicologia delle folle), l’io è, dapprima, smembrato nelle sue componenti ed esibito nel suo sfinimento, poi consegnato alla politica per una pubblica terapia d’urgenza. La disarticolazione della sua unità fornisce il cavallo di Troia a interventi tesi al controllo, per linee interne, della coscienza e della volontà dei 15
cittadini. Questa peculiare scissione dell’atomo (nella doppia specie dell’anima-sostanza e dell’individuo) rende infatti pensabile e possibile la costruzione artificiale dell’“uomo nuovo”. Nel corso di meno di un secolo, con un netto slittamento dalla dimensione psichica a quella fisica, si passa così dai ciclopici programmi miranti a fabbricarlo industrialmente con gli strumenti standardizzanti della “metallica” disciplina, del terrore e dell’ortodossia ideologica, tipici di alcuni regimi novecenteschi, all’attuale prospettiva post-human di connetterlo a un corpo geneticamente modificato, in grado di varcare i confini tra l’organico e l’inorganico, tra il biologico e il macchinico, sfuggendo non solo al destino naturale delle malformazioni, malattie o insufficienze individuali, ma anche alla struttura fisica direttamente ricevibile per eredità. A tale corpo – che sarà presto pluritrapiantato, assistito da nuovi farmaci e provvisto di numerose protesi progettate per incrementarne le funzioni e le prestazioni – corrisponde però, spesso, una coscienza che rischia di subire supinamente rapporti di dominio, che, per quanto soft, non sono meno livellanti e opprimenti di quelli tradizionali. L’uso politico delle tecniche e dei media pone in discussione le tradizioni dell’umanesimo europeo con i suoi valori di dignità e libertà (ristretti, certo, finora alle élite), minacciando di introdurre nuove forme di pianificato assoggettamento gregario. Esiste cioè il rischio di creare uomini e donne d’allevamento, procurando loro la soddisfazione, in termini soprattutto quantitativi, di bisogni primari e secondari cui per millenni la maggior parte dell’umanità non aveva avuto pieno e garantito accesso (cibo, sesso, divertimento). L’acclimatazione a questo 16
sistema di potere e di cultura si paga però con l’anestetizzazione e la banalizzazione dell’esperienza, anche a causa dell’inflazione dei desideri così scatenata e del corrispondente bisogno di gestire le inevitabili frustrazioni. Nello stesso tempo, se esercitato in forme non oligarchiche, lo stesso uso delle tecniche e dei media spalanca enormi potenzialità, consente a tutti di scaricare le fatiche più pesanti e ripetitive sulle macchine, di uscire dalla morsa dei condizionamenti sociali, di far fruttare l’eredità culturale delle generazioni precedenti (che cambia molto più rapidamente di quella biologica), di disancorarsi da ruoli fissi, di acquisire consapevolezza, cultura e informazione su scala mondiale e di conseguire una più duratura soddisfazione. Partecipando a più sfere sociali eccentriche, ritagliandosi spazi di autonomia, allargando il suo sguardo sul mondo, ciascuno può inventarsi sconosciute combinazioni d’identità. Nasce, agli inizi del secolo scorso, un individualismo delle differenze, che, dapprima limitato a cerchie privilegiate, resterà a lungo in stato di ibernazione, frenato in Europa da due guerre mondiali, da una crisi economica catastrofica, da tre sistemi dispotici maggiori, finché non potrà prendersi la rivincita – in Occidente e negli ultimi decenni del Novecento – sfoggiando, in consistenti strati sociali, colorate vesti “narcisistiche” o assemblando la personalità in forma di modular me, di io componibile, o di io patchwork (modelli che, lungi dal rappresentare una costante del “postmoderno”, sembrano ormai avviati a un lento declino). Già nel periodo d’incubazione dei “totalitarismi” – una categoria povera, che userò con le debite cautele – l’inconsistenza, ormai endemica, dell’individualità aveva 17
scatenato un brutale attacco ai raggiunti livelli d’indipendenza e integrità delle coscienze in nome della gerarchia o, per converso, di una tragica caricatura dell’eguaglianza. In diversi paesi il lascito lockiano, fatto fruttare dal pensiero e dalla prassi liberale e democratica, viene abbandonato a favore della tesi che l’individuo è incapace di autogoverno. Deve perciò esser posto sotto la tutela da un “io egemone” esterno, rappresentato dal meneur des foules, da un capo che agisce, per sua stessa ammissione, alla stregua di un ipnotizzatore di masse inerti e manovrabili. La richiesta di maggiore libertà ed eguaglianza degli individui si incrocia e si scontra in tal modo con l’opposta volontà di risucchiarli nell’“anima delle folle”. Alla figura del vecchio demagogo subentra così quella dello psicagogo, del politico che si pone alla guida delle masse invadendo l’interiorità dei singoli, indotti all’obbedienza mediante la fede suscitata nella sua indiscutibile superiorità. Il potere riconosciuto al meneur (termine che ha il suo calco linguistico in Duce, Führer, Caudillo o Conducator) di organizzare e indirizzare l’energia erogata dalle folle promuove l’introduzione di tecniche di human engineering tese a espugnare quell’isola di autonomia individuale e di diritti inalienabili che Locke aveva laboriosamente cominciato a strappare al mare dell’assolutismo. Diversamente da altre campagne di metodica infiltrazione e occupazione della coscienza manu militari (come quelle condotte dalla Riforma o dalla “Controriforma”), la campagna ‘scientificamente’ progettata ed eseguita dai regimi dispotici del Novecento viene facilitata dal fatto che la coscienza era rimasta sguarnita dinanzi agli attacchi di chi la sviliva, giudicandola semplice efflorescenza del corpo e 18
del cervello, commento a un testo inconscio, manifestazione illusoria di un essere sociale senza volto, “invenzione ebraica […] come la circoncisione”. Questo fa sì che nei subordinati il possesso di virtù di per sé nobili, quali la fedeltà o l’onore, venga reciso da altri valori, come l’autonomia e il pensiero critico, che rimangono esclusivo monopolio dei capi. La parossistica politicizzazione della coscienza individuale e delle sfere – in passato relativamente autonome – della famiglia e della società civile fonda rigide gerarchie interiori ed esteriori, assoggettate al controllo dello Stato e del Partito. Cadono così i criteri di autoselezione che Nietzsche aveva assegnato agli “uomini superiori” o che Proust faceva scaturire dall’educazione al gusto e dai raffinati rituali di una società che sta per estinguersi. L’eco delle domande Questa introduzione ha il solo compito di sensibilizzare il lettore alle questioni che verranno in seguito vagliate nel dettaglio, di lasciar echeggiare – tenendole in sospeso – le domande che orienteranno il discorso: a quale campo di aspettative, implicite o esplicite, corrisponde la richiesta di identità personale o di coscienza di sé? Come dar senso al divergere irrelato di tanti destini individuali che accettano o rifiutano l’omologazione promossa dalle istituzioni? Come varia nel tempo il bisogno di dire “io” o “noi”, di presupporre un orizzonte di senso proprio e relativamente unitario, soprattutto ora in un mondo che si “restringe” e che mette in contatto diretto civiltà prima differenti o indifferenti tra loro? È possibile scollare la coscienza dal corpo e dagli eventi che la hanno plasmata? Come sfuggire a una storia idealistica del soggetto, evitando di ignorare i conflitti, i condizionamenti materiali, fisici o economici, 19
l’agire alle sue spalle di forze sicuramente orientabili, ma – almeno per ora – inestirpabili? Come incrementare il potere dell’individualità in modo da non cadere in varianti del superomismo, che legittima spietate gerarchie sociali, o di narcisismo, che mura l’individuo in se stesso? Come insegnare a masse corrotte dai totalitarismi o dai conformismi, avvezze al primato del “noi”, ad apprendere a dire “io”, senza iattanza e con sobrio senso del reale e del possibile? Una volta che ci si sia resi conto delle procedure adottate dagli apparati di coercizione e di persuasione nell’attività di sagomazione delle coscienze, come riformulare e orientare la propria vita, diventando il più possibile consapevoli e responsabili del proprio destino, nel quadro del succedersi delle generazioni? Come raccogliere e incrementare un’eredità che resista all’inevitabile scomparsa fisica dei singoli e al mutare e tramontare delle istituzioni? Concetti quali “identità personale”, “io”, “soggetto”, “coscienza” si sono evidentemente caricati di significati diversi e difficilmente integrabili, che cercherò di dipanare. Occorre, tuttavia, far fruttare questa ambiguità, piuttosto che trascurarla o affrettarsi a respingerla, poiché questi termini formano tra loro costellazioni in cui ognuno chiarisce e integra il senso degli altri, servendo da punto di riferimento. Non ho, del resto, alcuna intenzione di descrivere i contenuti empirici della coscienza individuale in determinate congiunture storiche, ma di focalizzare le particolari procedure filosofiche, scientifiche e politiche della sua costruzione, del suo mantenimento e della sua riformulazione, intrecciando idee ed eventi a soluzioni teoriche che saranno rese esplicite alla fine (cfr. pp. 280292). 20
Oggi che l’attenzione per la coscienza o per l’identità personale sembra essersi spostata sul terreno delle neuroscienze o delle scienze cognitive e che l’ipertrofia dell’io sembra ridimensionata, è giunto il momento di guardare a questi temi con maggior disincanto, ma con immutato interesse. Parallelamente, ora che l’intervento sul singolo dei principali agenti e titolari dei processi di individuazione (stati, chiese, famiglie, istituzioni giuridiche, partiti) appare in molti paesi meno opprimente, ora che l’ultima ondata di colonizzazione delle coscienze va smorzando il suo impeto, bisogna ripercorrere e riannodare consapevolmente i negletti ma mai recisi fili di questi rapporti per non perdere i contatti con la ricchezza dell’oggettività, per non cadere vittime dell’illusione di una incondizionata libertà o di una pacifica convivenza con se stessi e per fare approssimativamente il punto sulla rotta della propria navigatio vitæ. Questo vale, soprattutto, per gli esponenti di quei popoli e ceti che hanno oltrepassato le preoccupazioni per l’immediata sopravvivenza e di quelle nazioni in cui vige una democrazia più o meno imperfetta. Il denunciato deperimento, mutamento o variazione d’uso delle idee di “coscienza”, “io”, “identità personale”, “individuo”, disarticolandone gli elementi e mettendone allo scoperto i dispositivi di sostegno, permette di misurare meglio la distanza che ci separa dalle loro precedenti formulazioni e di ipotizzare altri scenari. Tutte queste nozioni non costituiscono, peraltro, nuclei metastorici, dotati di una loro ontologica fissità: rappresentano costrutti interpretativi, modelli e rimedi elaborati nel tempo, anche per rispondere alla perdita di sostanzialità dell’anima. Non basta tuttavia dire quando nascono, come si sviluppano o 21
dove si diffondono: è necessario capire perché esperienze e attitudini – in precedenza irriflesse, inavvertite o tacitamente accolte come risapute – vengono a un certo punto messe a fuoco, elaborate e discusse. L’esplorazione del campo problematico che così si apre aiuta a comprendere il senso della coesistenza, della lotta, dell’integrazione o dell’ibridazione dei possibili modelli ed esperimenti di umanità. E a capire meglio noi stessi nella nostra storia. Questo libro ha avuto una lunga gestazione. La sua originaria cellula tematica, limitatamente ai capitoli 3 e 4, è frutto di un corso tenuto alla New York University nella primavera del 1985, i cui contenuti sono parzialmente confluiti nel saggio The Broken Mirror, in “Differentia”, II (1988), pp. 4370. Con fasi di minore o maggiore intensità, il lavoro è poi proseguito sino a oggi, in tempi e luoghi diversi, intersecandosi con la stesura di altri due volumi, che, accanto a questo, rappresentano, nelle mie intenzioni, una specie di trittico sulla genesi e la struttura del moderno individuo occidentale e sul ruolo svolto nella sua costruzione dalle istituzioni erogatrici di senso: Scomposizioni (Torino, Einaudi 1987) e Geometria delle passioni (Milano, Feltrinelli 1991 [20006]). Contro il diffondersi del fast food intellettuale, ho cercato di comporre un’opera che non sia di rapido consumo, ma di meditata, graduale e, possibilmente, sapida e non penitenziale riflessione, che poggi su idee e analisi thick, dotate cioè di spessore teorico e storico, e non su nozioni sottili, thin, su dati esili e su generalizzazioni avventate. Soprattutto ai nostri giorni, non si può più pretendere da nessuno la paziente attesa di illuminazioni interiori preparate da lenti processi d’apprendimento, come Platone suggerisce, nella Settima lettera, a chi voglia accostarsi alla filosofia: “Solo dopo una lunga frequentazione e convivenza con il suo contenuto essa si manifesta nell’anima, come una luce che subitamente si accende da una scintilla di fuoco, per nutrirsi poi di se stessa” (341 c-d). È, tuttavia, lecito invitare chi si accinge a leggere questo volume a non avere fretta, a prepararsi a un disteso viaggio di scoperta per tappe successive, dove incontrerà alcune di quelle forme o vicende che lo hanno fatto diventare quello che è, grazie alle istituzioni che lo hanno plasmato (o loro malgrado). Per quanti non sono interessati a esplorare le note, il viatico è costituito dal fatto che il libro è impostato in modo da rendere il testo indipendente da qualsiasi ulteriore riferimento. Per chi vuole approfondire le questioni, il rapporto testo-note è invece pensato come un contrappunto: troverà nelle note non solo il risultato di un lungo lavoro di ricerca, ma anche i contenuti e le tracce per poterlo eventualmente prolungare di persona. Gli si chiede il piccolo sforzo di cercare i riferimenti non a piè di pagina, ma nella parte finale del volume.
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Sigle
Il numero di pagina di un testo citato si riferisce a quello dell’edizione in lingua originale o, se esiste, della traduzione italiana. Nel caso di alcuni classici si dà prima il riferimento all’edizione in lingua originale, poi a quello della traduzione italiana. Adorno, Theodor Wiesengrund: GS = Gesammelte Schriften, 20 voll., Frankfurt a.M. 1970-1986. FTPFP = Freudian Theory and the Pattern of Fascist Propaganda, in GS, vol. VIII; trad. it. La teoria freudiana e il modello di propaganda fascista, in Contro l’antisemitismo, Roma 1994. MM = Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Frankfurt a.M. 1951; trad. it. Minima Moralia. Riflessioni sulla vita offesa, Torino 1979. ND = Negative Dialektik, Frankfurt a.M. 1966; trad. it. Dialettica negativa, Torino 1970. Arendt, Hannah: BPF = Between Past and Future: Six Exercises in Political Thought, New York 1961; trad. it. Tra passato e futuro, Milano 1991. EJ = Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil, New York 1963; trad. it. La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Milano 1964. EJEL = Eichmann in Jerusalem. An Exchange of Letters between Gershom Scholem and Hannah Arendt [1964], in The Jew as Pariah, New York 1978; trad. it. Eichmann a Gerusalemme. Uno scambio di lettere tra Gershom Scholem e Hannah Arendt, in Ebraismo e modernità, Milano 1986. HC = The Human Condition, Chicago-London 1958; trad. it. Vita activa, Milano 1989. OT = The Origins of Totalitarianism, New York 1966; trad. it. Le origini del totalitarismo, Milano 1967. WP = Was ist Politik?, München 1993; trad. it. Che cos’è la politica?, Milano 1995. Arist. = Aristotele: AO = Aristotelis Opera, edidit Academia Regia Borussica. Aristoteles Græce ex recognitione I. Bekkeri, Berolini 1831 (rist. Berlin, 1960-1963). Met. = La metafisica, trad. it. Torino 1974. Pol. = Politica, trad. it. Bari 1966. Rhet. = Retorica, trad. it. Roma-Bari 1973. August. = Agostino d’Ippona: PL = Opera, in Patrologiae Cursus Completus, Series Latina, a cura di J. Migne, 217 tomi (= PL, voll. XXXII-XLV), Paris 1861-1862. NBA = Nuova Biblioteca Agostiniana: Opere di Sant’Agostino, edizione latino-italiana, Roma 1969 sgg. Conf. = Confessiones, in PL, vol. XXXII; trad. it. Le confessioni, Torino 1984. De civ. Dei = De civitate Dei, in PL, vol. XLI; trad. it. La Città di Dio, Milano 1984. De Trin. = De Trinitate, in PL, vol. XLII; trad. it. La trinità, in NBA, vol. IV. Barrès, Maurice:
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CdM = Le culte du moi [1888-1891], Paris 1986. Bergson, Henri: ŒB = Œvres, Édition du Centenaire, Paris 1959. OB = Bergson, Opere 1889-1896, Milano 1986. CV = La conscience et la vie, in ŒB. EC = L’évolution crétrice, in ŒB. EDI = Essai sur les données immédiates de la conscience, in ŒB; trad. it. Saggio sui dati immediati della coscienza, in OB. ES = L’énergie spirituelle, in ŒB. IM = Introduction à la métaphysique, in PM, in ŒB. IPh = L’intuition philosophique, in PM. M = Mélanges, Paris 1972. MM = Matière et mémorie, in ŒB; trad. it. Materia e memoria, in OB. PC = La perception du changement, in ŒB (conferenza di Oxford del 1911 confluita in PM). PM = La pensée et le mouvant, in ŒB. SP = Le souvenir du présent et la fausse reconnaissance, in ŒB. Binet, Alfred: AP = Les altérations de la personnalité, Paris 1892. DC = On double consciousness, Chicago 1890. Broch, Hermann: KW = Kommentierte Werkausgabe, a cura di P.M. Lützeler, 13 voll. in 17 tomi, Frankfurt a.M. 19751978. TV = Der Tod des Vergils [Zürich 1958], in KW, vol. IV; trad. it. La morte di Virgilio, Milano 1993. Canetti, Elias: MM = Masse und Macht, Hamburg 1960; trad. it. Massa e potere, Milano 1972. Descartes, René: AT = Œuvres de Descartes, a cura di Ch. Adam et P. Tannery (Paris 1897-1913), Nouvelle présentation, a cura di B. Rochot, P. Costabel, J. Beaude e A. Gabey, Paris 1964-1974. OP = Opere, Torino 1994, 2 voll. M = Meditationes de prima philosophia, in AT, vol. X, 1; trad. it. Meditazioni sulla filosofia prima e Obiezioni di alcuni dotti uomini contro le precedenti meditazioni con le risposte dell’autore, in OP, vol. I. R = Regulae ad directionem ingenii, in AT, vol. X; trad. it. Regole utili e chiare per la guida dell’ingegno nella ricerca della verità, in OP, vol. I. Dilthey, Wilhelm: GS = Gesammelte Schriften, 21 voll., Leipzig-Stuttgart, poi Göttingen 1922-1997. A = Der Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, in GS, vol. V; trad. it. La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, in CdRS. B = Beiträge zur Lösung der Frage vom Ursprung unseres Glaubens an die Realität der Aussenwelt und sein Recht [1890], in GS, vol. V; trad. it. Contributi alla soluzione del problema circa l’origine e il diritto della nostra credenza alla realtà del mondo esterno, in Per la fondazione delle scienze dello spirito. Scritti editi e inediti: 1860-1896, Milano 1985. CdRS = Critica della ragione storica, Torino 1954. F = Plan der Fortsetzung zum Aufbau der geschichtlichen Welt in den Geisteswissenschaften, in GS, vol. V; trad. it. Nuovi studi sulla costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, in CdRS. Fichte, Johann Gottlieb: GA = Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, a cura di R. Lauth e H. Jacob, Stuttgart-Bad Cannstatt, 1964 sgg.
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SW = Sämtliche Werke, a cura di I.H. Fichte, Berlin 1845-1846 (rist. Berlin 1971). EE = Erste Einleitung in die Wissenschaftslehre [1797], in SW, vol. I; trad. it. Prima introduzione alla Dottrina della scienza, in “Rivista di Filosofia”, XXXVII (1946). GWL = Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre, in GA, I, 2. Foucault, Michel: DE = Dits et écrits, 4 voll., Paris 1994. MMP = Maladie mentale et personnalité, Paris 1954. SP = Surveiller et punir, Paris 1975; trad. it. Sorvegliare e punire, Torino 1976. SdS = Le souci de soi, Paris 1984; trad. it. La cura di sé, Milano 1985. UP = L’usage des plaisirs, Paris 1984; trad. it. L’uso dei piaceri, Milano 1984. Freud, Sigmund: GW = Gesammelte Werke, Frankfurt a.M. 19693. OSF = Opere di Sigmund Freud, Torino 1966-1980. MP = Massenpsychologie und Ich-Analyse, in GW, vol. XIII; trad. it. Psicologia delle masse e analisi dell’io, in OSF, vol. IX. NFV = Neue Folge der Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse, in GW, vol. XV; trad. it. Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), in OSF, vol. XI. V = Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse [1916-1917], in GW, vol. XI; trad. it. Introduzione alla psicoanalisi, in OSF, vol. VIII. Gentile, Giovanni: OF = Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Milano 1991. Op. = Opere, Firenze [pubblicate prima dalla casa editrice Sansoni, poi da Le lettere] 1936 sgg., 1957 sgg. FFD = I fondamenti della filosofia del diritto, Firenze 1937. FM = La filosofia di Marx [Pisa 1899], ora anche in OF. GSS = Genesi e struttura della società, Firenze 1987, in Op., vol. IX. ODF = Origine e dottrina del fascismo, Roma 1934. RDH = La riforma della dialettica hegeliana, Firenze 1954, in Op., vol. XXVI. SCR = Sul carattere religioso dell’idealismo italiano (conferenza tenuta a Praga nel 1935), in OF. SL = Sistema di logica come teoria del conoscere, Firenze 1959, in Op., vol. V, t. 2. TGS = Teoria generale dello spirito come atto puro, in OF. Goethe, Johann Wolfgang: WA = Weimarer Ausgabe, edita su incarico della granduchessa Sophie von Sachsen, Weimar 18871919. DW = Aus meinem Leben, Dichtung und Wahrheit, in WA, voll. XXVI-XXIX; trad. it. Dalla mia vita. Poesia e verità, 2 voll., Torino 1966. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich: GW = Gesammelte Werke, in collegamento con la Deutsche Forschungsgemeinschaft edizione a cura della Rheinisch-Westfälische Akademie der Wissenschaften, Hamburg 1968 sgg. Phän. = Phänomenologie des Geistes, in GW, vol. IX; trad. it. Fenomenologia dello spirito, 2 voll., Firenze 1963. PhdR = Grundlinien der Philosophie des Rechts, Hamburg 19554; trad. it. Lineamenti di filosofia del diritto, Bari 19653. PhdWG = Vorlesungen über die Philosophie der Weltgeschichte, Leipzig 1919-1920; trad. it. Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze 1941-1963. WdL I = Wissenschaft der Logik. Erster Band. Die objektive Logik (1812/13), in GW, vol. XI; trad. it. Scienza della logica, Bari 1968 [vol. I]. WdL II = Wissenschaft der Logik. Zweiter Band. Die subjektive Logik oder die Lehre des Begriffs
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(1816), in GW, vol. XII; trad. it. Scienza della logica, Bari 1968 [vol. II]. Heidegger, Martin: GA = Gesamtausgabe, Frankfurt a.M. 1975 sgg. N = Nietzsche, Pfullingen 1961; trad. it. Nietzsche, Milano 1994. SZ = Sein und Zeit, Tübingen 1927; trad. it. Essere e tempo, Milano 1970. V = Vorträge und Aufsätze, Pfullingen 1954; trad. it. Saggi e discorsi, Milano 1976. Horkheimer, Max (e Adorno, Theodor Wiesengrund): DA = Dialektik der Aufklärung, Amsterdam 1947; trad. it. Dialettica dell’illuminismo, Torino 1972. Hume, David: PhW = The Philosophical Works, a cura di T.H. Green e T.H. Grose, London 1874-1875 (e varie ristampe). OF = Opere filosofiche, Roma-Bari 1987, 4 voll. T = A Treatise of Human Nature, in PhW, voll. I-II; trad. it. Trattato sulla natura umana, in OF, vol. I (il libro e capitolo sono indicati, rispettivamente, con un numero romano e uno arabo, mentre il segno = rinvia al volume, in numeri romani, e al numero di pagina, in cifra araba, della traduzione italiana). Huysmans, Joris-Karl: AR = À rebours, Paris 1884; trad. it. A ritroso, Milano 1989. James, William: PP = Principles of Psychology, New York 1890 [Chicago 1980, 2 voll.]; trad. it. di A. Ferrari, Princìpi di psicologia, Roma-Milano-Napoli 19093. Janet, Pierre: AE = De l’angoisse à l’extase, 2 voll., Paris 1926-1928 [ried. Paris 1975]. AP = L’automatisme psychologique [1889], Paris 19137. EM = L’évolution de la mémoire et la notion du temps, Paris 1928. EPP = L’évolution psychologique de la personnalité [1929], nouvelle édition, Paris 1984. FFP = La force et la faiblesse psychologique, Paris 1930. NIF = Névroses et idées fixes, Paris 1898. OP = Les obsessions et la psychasthénie, Paris 1903. PCM = La psychologie de la croyance et le mysticisme, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, XLIV (1936). SEP = Les stades de l’évolution psychologique, Paris 1926. SV = Le sentiment du vide, in “Journal de psychologie”, XXIV (1927). Jünger, Ernst: A = Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt [Hamburg 1932] Stuttgart 1981; trad. it. L’Operaio. Dominio e forma, Parma 1991. SG = In Stahlgewittern, Berlin 1920, ora anche in Sämtliche Werke, parte I, Tagebücher, vol. I, Stuttgart 1978; trad. it. Tempeste d’acciaio, Milano 1966. TM = Die totale Mobilmachung, Berlin 1931, ora anche in Sämtliche Werke, vol. V, Essays, Stuttgart 1960; trad. it. La mobilitazione totale, in “Il Mulino”, n. 301 (1985). ÜL = Über die Linie, Frankfurt a.M. 1951; trad. it. in E. Jünger-M. Heidegger, Oltre la linea, Milano 1989. Kant, Immanuel: KGS = Kants Gesammelte Schriften, Akademie Ausgabe, Berlin-Leipzig, poi Berlin 1900 sgg. Anthr. = Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, in KGS, vol. VII; trad. it. Antropologia pragmatica, Roma-Bari 1985. KdrV = Kritik der reinen Vernunft, in KGS, vol. IV (A, seguito dal numero di pagina, indica la prima edizione originale del 1781; B la seconda); trad. it. Critica della ragion pura, Bari 1966. KpV = Kritik der praktischen Vernunft, in KGS, vol. V; trad. it. Critica della ragion pratica, Bari 1979.
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Le Bon, Gustave: Aph. = Aphorismes du Temps présent, Paris 1913. HS = L’Homme et les Sociétés. Leurs origines et leur histoire, Paris 1881 [rist. 1988]. LPSEP = Les lois psychologiques de l’évolution des peuples, Paris 1894. OC = Les opinions et les croyances, Paris 1911. PF = Psychologie des foules, Paris 1895; trad. it. Psicologia delle folle, Milano 1970. PE = Psychologie de l’éducation, Paris 1902. PP = La psychologie politique, Paris 1911. PS = La psychologie du socialisme, Paris 1898. Leibniz, Gottfried Wilhelm: NE = Nouveaux Essais sur l’Entendement Humain, in Philosophische Schriften, a cura di C.I. Gebhardt, Berlin 1875-1890 [rist. Hildesheim 1965]; trad. it. Nuovi saggi sull’intelletto umano, RomaBari 1988. Locke, John: E = An Essay concerning Human Understanding, edizione critica a cura di P.H. Niddith, Oxford 1975, con cui è stata confrontata la precedente trad. it. Saggio sull’intelletto umano, Bari 1972 (il libro, capitolo e paragrafo sono indicati con numeri arabi, mentre il segno = rinvia al volume, in numeri romani, e al numero di pagina, in cifra araba, della traduzione italiana). TTG = Two Treatises of Government, a cura di P. Laslett, Cambridge, Mass. 1988; trad. it. Due trattati sul governo, Torino 1982. Marcus Aurelius Antoninus: P = Pensées, texte établi et traduit par A.I. Trannoy, Paris 1983. Montaigne, Michel de: OC = Œuvres complètes, texte établi par A. Thibaudet et M. Rat. Introduction et notes par M. Rat, Paris 1962. ES = Essais, in OC; trad. it. Saggi, a cura di F. Garavini, 2 voll., Milano 1982. Mussolini, Benito: OO = Opera Omnia, 36 voll., a cura di D. e E. Susmel, Firenze 1951-1954. TM = Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani, a cura di F. Perfetti, Bologna 1990. Nietzsche, Friedrich: KWB = Briefwechsel. Kritische Gesamtausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, Berlin 1975 sgg.; trad. it. Epistolario, Milano 1975-1995. KGW = Kritische Gesamtausgabe, Werke, a cura di G. Colli e M. Montinari, Berlin 1967 sgg. [saranno indicati, per le opere, il volume e il tomo, seguiti dal numero di pagina dell’originale tedesco e (preceduto dal segno =) da quello dell’edizione italiana: OFN = Opere di Friedrich Nietzsche, ed. it. condotta sul testo critico originale stabilito da G. Colli e M. Montinari, Milano 1964 sgg. La numerazione dei volumi e dei tomi dell’edizione italiana coincide con quella dell’edizione tedesca]. AC = Der Antichrist, in KGW, vol. VII/3 = L’Anticristo, in OFN. EH = Ecce Homo, in KGW, vol. VI/3 = Ecce Homo, in OFN. FV = Fünf Vorlesungen. Der griechische Staat, in KGW, vol. III/2 = Cinque prefazioni. Lo Stato greco, in OFN. FVP = La volontà di potenza. Frammenti postumi ordinati da Peter Gast e Elisabeth Förster Nietzsche, nuova edizione italiana a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Milano 1992. FW = Die fröhliche Wissenschaft, in KGW, vol. V/2 = La gaia scienza, in OFN. GD = Götzendämmerung, in KGW, vol. VI/3 = Il tramonto degli idoli, in OFN. GM = Zur Genealogie der Moral, in KGW, vol. VI/2 = Genealogia della morale, in OFN. GS = Der griechische Staat, in KGW, vol. III/2 = Lo Stato greco, in OFN. GT = Die Geburt der Tragödie, in KGW, vol. III/1 = La nascita della tragedia, in OFN.
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HW = Homers Wettkampf, in KGW, vol. III/2 = Agone omerico, in OFN. JGB = Jenseits von Gut und Böse, in KGW, vol. VI/2 = Al di là del bene e del male, in OFN. M = Morgenröthe, in KGW, vol. V/1 = Aurora, in OFN. MA = Menschliches, Allzumenschliches, in KGW, vol. IV, 2 = Umano, troppo umano, in OFN. NF = Nachgelassene Fragmente, in KGW = Frammenti postumi, in OFN [vengono indicati: il volume in numero arabo, seguito dai due numeri d’ordine; non viene indicato il tomo perché la numerazione dei frammenti è progressiva all’interno di ciascun volume]. NNG = Von Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, in KGW, vol. III/1 = Sull’utilità e il danno della storia per la vita, in OFN. PHG = Philosophie im tragischen Zeitalter der Griechen, in KGW, vol. III/2 = La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, in OFN. SE = Schopenhauer als Erzieher, in KGW, vol. III/1 = Schopenhauer come educatore, in OFN. WL = Über Wahrheit und Lüge im außermoralischen Sinne, in KGW, vol. III/2 = Verità e menzogna in senso extramorale, in OFN (solo in questo caso preferisco servirmi della traduzione di P. Ferraro: Su verità e menzogna fuori del senso morale, Napoli 1998). Z = Also sprach Zarathustra, in KGW, vol. VI/1 = Così parlò Zarathustra, in OFN. Parfit, Derek: RP = Reasons and Persons, Oxford 1984; trad. it. Ragioni e persone, Milano 1989. Pascal, Blaise: P = Pensées, in Œuvres complètes, édition établie et annotée par J. Chevalier, Paris 1954 (viene indicato, dopo il segno “=”, anche il numero del frammento nell’edizione Brunschvigc); trad. it. di P. Serini, che segue sostanzialmente il testo dell’edizione Brunschvigc, Pensieri, Torino 1962. Pirandello, Luigi: AMB = L’avemaria di Bobbio, in N, I. BS = Il berretto a sonagli, in MN/NE, I. Car. = La carriola, in N, II. Ch. = Il chiodo, in N, II. LG = Lettere giovanili da Palermo e da Roma (1886-1889), a cura di E. Providenti, Roma 1993. MN = Maschere nude, 10 voll., Milano 1958. MN/NE = Maschere nude, in OP/NE, voll. I e II. MP = Il fu Mattia Pascal, in R, vol. II. N = Novelle per un anno, a cura di C. Alvaro [1957], Milano 198513, in OP, vol. II (in due tomi: I e II). OP = Opere, Milano 1957 sgg. OP/NE = Opere di Pirandello, nuova edizione diretta da G. Macchia, 1984 sgg. PO = Il piacere dell’onestà, in MN/NE, I. QEM = Quand’ero matto, in N, II. R = Tutti i romanzi, 2 voll., a cura di G. Macchia con la collaborazione di M. Costanzo, Milano 1984, in OP/NE, voll. I e II. RLG = Rimedio: la Geografia, in N, I. SGO = Quaderni di Serafino Gubbio operatore, in R, II. SPSV = Saggi, poesie e scritti vari, Milano 1960, in OP, VI. TH = Taccuino di Harvard, Milano 2002. TS = Taccuino segreto, Milano 1997. VG = I vecchi e i giovani, in R, II. U = L’umorismo [1908], seconda edizione aumentata, Firenze 1920 [se ne veda ora l’edizione, curata da E. Ghidetti, in L. Pirandello, L’umorismo e altri saggi, Firenze 1994]. UNC = Uno, nessuno e centomila, in R, II.
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Plato = Platone Pol. = Politico. Resp. = Repubblica. Thaet. = Teeteto. Plot. = Plotino Enn. = trad. it. Enneadi, 2 voll., Torino 1997 (i passi verranno indicati con la numerazione standard per enneade, trattato e capitolo). Prince, Morton: DP = The Dissociation of a Personality. A Biographical Study in Abnormal Personality [1905], LondonNew York-Toronto 19309. Proust, Marcel: R = À la recherche du temps perdu, a cura di J.-Y. Tadié, 4 voll., Paris 1987-1989. RI = Alla ricerca del tempo perduto, trad. it. a cura di G. Raboni, Milano 1993. AD [I e II]= Albertine disparue, in R, vol. IV; trad. it. Albertine scomparsa, in RI. CSB = Contre Sainte-Beuve précédé de Pastiches et Mélanges et suivi de Essais et Articles, Paris 1971; trad. it. (per il solo Contre Sainte-Beuve), Contro Sainte-Beuve, Torino 1974. CG = De côté de chez Guermantes, in R, vol. II; trad. it. Dalla parte di Guermantes, in RI. CS = De côté de chez Swann, in R, vol. I; trad. it. Dalla parte di Swann, in RI. JF = À l’ombre des jeunes filles en fleur, in R, vol. II; trad. it. All’ombra delle fanciulle in fiore, in RI. P = La Prisonnière, in R, vol. III; trad. it. La prigioniera, in RI. SFP = Sentiments filiaux d’un parricide, in CSB; trad. it. Sentimenti filiali d’un parricida, in Giornate di lettura, Torino 1965. SG = Sodome et Gomorrhe, in R, vol. III; trad. it. Sodoma e Gomorra, in RI. TR = Le temps retrouvé, in R, vol. IV; trad. it. Il tempo ritrovato, in RI. Ribot, Théodule: EIC = Essai sur l’imagination créatrice [1900], Paris 19012. EP = Essai sur les passions, Paris 1907. HER = L’hérédité. Étude psychologique sur ses phénomènes, ses lois, ses causes, ses conséquences, Paris 1873. LS = La logique des sentiments, Paris 1905. MdM = Les maladies de la mémoire, Paris 1881. MdP = Les maladies de la personnalité, Paris 1885. MdV = Les maladies de la volonté, Paris 1883. PALC = La psychologie allemande contemporaine [1879], Paris 1885, deuxième édition corrigée et augmentée. PANC = La psychologie anglaise contemporaine [1870], Paris 1875. PhS = La philosophie de Schopenhauer, Paris 1874. PS = La psychologie des sentiments [1896], Paris 1905. VPAA = La volonté comme pouvoir d’arrêt et d’adaptation, in “Revue philosophique de la France et de l’Étranger”, XIV (1882), pp. 63-79; trad. it. La volontà come potere d’arresto e di adattamento, in Th. Ribot, Scritti di psicologia (1879-1894), a cura di V.P. Babini, Bologna 1996, pp. 59-77. Sartre, Jean-Paul: EN = L’être et le néant, Paris 1943; trad. it. L’essere e il nulla, Milano 1965. IM = L’imagination, Paris 1936; trad. it. L’immaginazione, in L’immaginazione. Idee per una teoria delle emozioni, Milano 1962. IPPI = L’imaginaire. Psychologie phénoménologique de l’imagination, Paris 1940; trad. it. Immagine e coscienza, Torino 1948.
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TE = La transcendence de l’Ego. Esquisse d’une description phénoménologique, Paris 1988. Schopenhauer, Arthur: SW = Sämtliche Werke, a cura di A. Hübscher, 7 voll. [Leipzig 1937-1941], Wiesbaden 19723. E = Ergänzungen zu “Die Welt als Wille und Vorstellung”, in SW, vol. III; trad. it. Supplementi al Mondo come volontà e rappresentazione, in Il mondo come volontà e rappresentazione, Milano [I Meridiani Mondadori] 19774 (verranno indicati il libro, il capitolo e il numero di pagina della traduzione italiana). G = Gespräche, a cura di A. Hübscher, Stuttgart-Bad Cannstatt 1971; trad. it. Colloqui, Milano 1995. HN = Handschriftlicher Nachlaß, 5 voll., a cura di A. Hübscher, Frankfurt a.M. 1966-1975 [rist. München 1985], vol. III. MG = Metaphysik der Geschlechtsliebe, in SW, vol. IV; trad. it. Metafisica dell’amore sessuale. L’amore inganno della natura, Milano 1997. P = Parerga und Paralipomena. Kleine philosophische Schriften, in SW, voll. VI-VII; trad. it. Parerga e paralipomena, Torino 1963. W = Die Welt als Wille und Vorstellung, in SW, voll. II-III; trad. it. [condotta sulla terza edizione: Lipsia 1859] Il mondo come volontà e rappresentazione, Milano 1991 (verrà indicato il paragrafo e, dopo il segno “=”, il numero di pagina della traduzione italiana). Sidis, Boris: MP = Multiple Personality. An Experimental Investigation into the Nature of Human Individuality, New York 1904. Simmel, Georg: GA = Gesamtausgabe, a cura di O. Rammstedt, H.-J. Dahme, D. Frisby, A. Cavalli et alii, Frankfurt a.M. 1989 sgg. (nel 1999 è uscito il vol. XIII). A = Das Abenteuer, in PhK; trad. it. L’avventura, in M. ÄBG = Die ästhetische Bedeutung des Gesichts [1901], in BT, ora in GA, vol. VII; trad. it. Il significato estetico del volto, in VR. BD = Buch des Dankens an Georg Simmel. Briefe, Erinnerungen, Bibliographie, a cura di K. Gassen e M. Landmann, Berlin 1958. BFdI = Die beiden Formen des Individualismus, in “Das Freie Wort. Frankfurter Halbmonatsschrift für Fortschritt auf allen Gebieten des geistigen Lebens”, Frankfurt a.M., vol. I, 1901-1902; trad. it. Le due forme dell’individualismo, in LIaS. BL = Böcklins Landschaften, in “Die Zukunft”, XII (1895), poi in Zur Philosophie der Kunst. Philosophische und kunstphilosophische Aufsätze, a cura di Geltrude Simmel, Potsdam 1922, ora in GA, vol. V; trad. it. I paesaggi di Böcklin, in VR. BR = Der Bildrahmen. Ein ästhetischer Versuch, in PhK, ora in GA, vol. VII; trad. it. La cornice, in VR. BT = Brücke und Tür. Essays des Philosophen zur Geschichte, Religion, Kunst und Gesellschaft, a cura di M. Landmann e M. Susmann, Stuttgart 1957. FA = Fragmente und Aufsätze aus dem Nachlass und Veröffentlichungen der letzten Jahren, a cura di G. Kantorowitz, München 1923. FdA = Filosofia dell’amore, a cura di M. Vozza, Roma 2001. FL = Fragment über die Liebe, in PhSG; trad. it. Frammento sull’amore, in FdA. FPhdL = Fragmente einer Philosophie der Liebe, in PhSG; trad. it. Frammenti di una filosofia dell’amore, in FdA. GS = Grundfragen der Soziologie (Individuum und Gesellschaft) [Berlin und Leipzig 1917], Berlin 1970. HF = Die historische Formung, in FA; trad. it. La formazione storica, in G. Simmel, La forma della storia, a cura di F. Desideri, Salerno 1987. HP = Die Hauptprobleme der Philosophie, Leipzig 1910; trad. it. I problemi fondamentali della filosofia, a cura di F. Andolfi, Roma-Bari 1996.
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Parte prima Strategie d’individuazione
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1. I due traguardi: Locke e Schopenhauer
Lavorare se stessi In questo capitolo, che funge da invito ai successivi, mi limiterò ad attraversare rapidamente il tratto iniziale della curva: lo stadio che (filosoficamente) va da Locke a Schopenhauer – dalla costruzione dell’io come soggetto di coscienza, intelletto e volontà autonomi al suo essere ceduto a potenze estranee – e (storicamente) dalla difesa dell’individuo e della sua autonomia a una fase di rinnovata negazione del loro ruolo. Per quanto vengano considerate da un’angolazione diversa da quella qui proposta, alcune tratte di questo cammino sono, isolatamente, abbastanza note. Non verranno pertanto ripercorse in maniera particolareggiata: compariranno, in forma stilizzata, solo alcuni elementi, come pietre miliari di una via che sfocia in un itinerario dal tracciato insolito e dagli esiti non scontati. Locke e Schopenhauer fungono da “traguardi”, nel senso che il termine ha in ottica: di strumenti destinati a mettere a fuoco la vista di un oggetto tra due punti di mira. In altre parole, costituiscono i riferimenti preliminari per tratteggiare due linee divergenti di sviluppo: quella dell’individuo e della sua autonomia e quella dell’eliminazione o della denigrazione del principium individuationis. La posta in gioco è costituita dalle 34
giustificazioni metafisiche profonde dell’individualismo e dell’anti-individualismo, dell’esistenza o meno di destini considerati realmente individuali nella cultura occidentale. La prima traiettoria, caratterizzata da una progressiva differenziazione, arricchimento e problematizzazione dell’individualità, conduce da Locke a Nietzsche, da Proust a Simmel, da Pirandello ai sociologi anglosassoni contemporanei; la seconda, segnata dalla volontà di cancellare o riassorbire le differenze individuali, da Schopenhauer a Le Bon e da Gentile ai totalitarismi del Novecento. Si tratta di assumere una prospettiva che consenta di esprimere un giudizio pertinente e ponderato su alcuni temi fondamentali: il valore dell’autonomia dell’individuo, la sua sacrificabilità a potenze anonime (come lo Stato, la Razza, il Partito, la Chiesa); l’articolazione delle sue facoltà e sfere di vita per effetto della modernizzazione e della divisione del lavoro; il loro riassorbimento nella dimensione collettiva dei regimi totalitari della prima metà del Novecento o la loro fluttuante emancipazione nelle più recenti forme di individualismo. È, appunto, un Locke dai toni barocchi a inaugurare la drammaturgia concettuale incentrata sul tema della personal identity e a segnalare il rischio della cancellazione delle nostre rappresentazioni, quale sinistra anticipazione della scomparsa fisica di ognuno: “Le idee della nostra giovinezza, non meno dei nostri figliuoli, spesso muoiono prima di noi. In ciò il nostro spirito somiglia a quelle tombe alle quali ci avviciniamo: si vedono il bronzo e il marmo, ma il tempo ha cancellato le iscrizioni, e le immagini cadono in polvere. Le immagini tracciate nel nostro spirito sono dipinte con colori che svaniscono: se qualche volta non le 35
rinfreschiamo passano e scompaiono interamente” (E, 2, 10, 6 = II, 76). Il mantenimento dell’identità personale non è dunque spontaneo: costa fatica, scaturisce dal lavoro del “rinfrescare” idee e ricordi mediante le “operazioni della mente”, le cui deboli tracce rischiano di svanire al pari di inconsistenti immagini di sogno. In tale concezione evolutiva e temporale dell’identità, solo l’impegno a rinnovarsi, che ciascuno – implicitamente o esplicitamente – assume, consolida una riconquista di sé destinata a restare sempre incompleta. L’apparente immediatezza della riflessione poggia, in realtà, sui sedimenti di innumerevoli atti di ricostruzione del proprio panorama mentale. Ci comprendiamo solo in quanto riusciamo a gettare dei ponti attraverso le discontinuità, superando le lacune dell’oblio e le incertezze dell’attesa. Se questo sforzo viene meno, le nostre idee “sbiadiscono molto presto, e spesso si cancellano per sempre dall’intelligenza, senza lasciar più traccia, o maggiori segni di sé delle ombre [delle nuvole] che scorrono sopra i campi di grano, e accade che esse non siano nello spirito più che se non vi fossero mai state” (E, 2, 10, 4 = II, 75). Del “misterioso sostegno” che sorreggerebbe la nostra identità noi non abbiamo riscontro, mentre percepiamo intuitivamente la nostra coscienza “in modo così evidente e certo che essa né ha bisogno, né è suscettibile di alcuna prova”.1 Dalla coscienza morale non ci giunge, tuttavia, nessuna voce per ammonirci o guidarci, così come nessuna luce interiore rischiara dall’interno la “camera oscura” della mente.2 Conosciamo, infatti, l’immortalità dell’anima solo grazie alla rivelazione divina (cfr. E, 4, 3, 6 = IV, 25, 28) e questo ci esime dall’interrogarci sulla natura dell’anima 36
stessa, dal chiederci se sia sostanza materiale o immateriale. Non possiamo però provare l’ininterrotta continuità della coscienza attraverso il tempo (ad esempio, il suo persistere anche nello stato di sonno profondo o di amnesia totale). E ciò per due ragioni: perché a essa è stata sottratta la consistenza ontologica in precedenza attribuita all’anima in quanto “sostanza indivisibile di un essere razionale”, secondo la classica definizione di Boezio, e perché la coscienza individuale deve dimostrare la sua durata nel tempo, a differenza delle forme o essenze universali, che sono eterne.3 Locke sostituisce la fondazione ‘verticale’ dell’identità poggiante sull’anima sostanza o sul cogito (quale cartesiano fundamentum inconcussum) con una fondazione paradossalmente ‘orizzontale’, che – a partire dalla coscienza di sé – scorre retroattivamente e prospetticamente lungo l’asse del tempo. L’identità dell’“uomo” persiste pur nelle variazioni della materia o del corpo, al pari di una giovane pianticella di quercia e un puledro, che restano tali anche nel crescere. Diversa è l’identità della “persona”, “essere intelligente e pensante, che possiede ragione e riflessione” e che può considerare se stesso come un “io”, ossia come “cosa pensante e consapevole […] che è sensibile o consapevole di piacere e dolore, capace di felicità o infelicità, e perciò, fin dove giunge quella consapevolezza, si preoccupa di se stessa”. Tale persona è, appunto, giuridicamente responsabile delle proprie azioni, che le vengono imputate solo se consapevoli (cfr. E, 2, 27, 11 e 1920 = II, 337, 345-346). L’identità personale non consiste, quindi, né nell’identità della sostanza, né in quella del corpo, bensì nell’identità della “coscienza” (la parola 37
consciousness, relativamente recente rispetto a conscience, e attestata dal 1632, indica in Locke la percezione di ciò che accade nella mente d’un uomo e di ciò che si conserva pur nella differenza dei suoi stati). Infatti, “se la coscienza se ne andasse col mignolo quando questo viene tagliato, esso diventerebbe quello stesso io che ieri si preoccupava di tutto quanto il corpo […]” (E, 2, 27, 20 = II, 346). La coscienza non si limita al presente, ma si estende al passato, nella forma della memoria, e al futuro, nella forma della preoccupazione o della cura, del concern of, per la propria eterna felicità. È quindi sbagliato ridurre la coscienza alla successione dei ricordi, cancellando l’idea di responsabilità dell’“individuo”, che non si riferisce soltanto alla punibilità delle azioni passate, ma anche al suo presentarsi a Dio nel giorno del Giudizio universale (la resurrezione riguarda la stessa coscienza e non necessariamente lo stesso corpo).4 Locke sa perfettamente che il filo della nostra memoria è interrotto dall’oblio, che l’identità è sempre intermittente: “Non c’è un solo momento della nostra vita”, dice, nel quale “noi abbiamo presente davanti agli occhi, in un quadro solo, tutto il concatenamento delle nostre azioni passate” (E, 2, 27, 12 = II, 338). Ciò che costituisce, in ultima istanza, l’identità personale è la consapevolezza attuale di un legame di continuità tra due o più eventi seriali e non la visione globale di un passato che si prolunga nel presente, una biografia priva di lacune. L’identità personale si estende sin dove giunge la consapevolezza (il termine mind o “mente”, dal latino mens, che ha la stessa radice di memini, “ricordare”, non va confuso con “anima” o “spirito”, ed è proprio per questo 38
che Locke può collegare la coscienza alla memoria come “aspetti correlativi”).5 Se, per ipotesi, due individui separati nel tempo da secoli o da millenni potessero congiungere i loro ricordi all’interno di un’unica coscienza, essi sarebbero la stessa persona. Per converso, se lo stesso uomo – a causa di una perdita di memoria o, aggiungeremmo oggi, dell’encefalite letargica e del morbo di Alzheimer – non riuscisse a riferire la sua esistenza presente a quella passata, se fosse dotato di “due coscienze distinte e incomunicabili in tempi diversi, non v’è alcun dubbio che, in quei tempi diversi, […] farebbe persone diverse” (E, 2, 27, 22 = II, 348).6 Lo scandalo di questa soluzione lockiana si attenua, se poniamo mente al fatto che si può guardare allo stesso fenomeno secondo criteri e punti di vista differenti. Anche se non siamo favoriti dal linguaggio comune, che equipara i due termini, l’“uomo”, in quanto corpo vivente organizzato, è lo stesso prima o dopo l’amnesia, mentre la “persona” (che Locke specifica essere un forensic term, un termine giuridico), l’essere pensante, consapevole e responsabile, può essere diverso.7 In tempi differenti lo stesso uomo può assumere differenti personæ, come se – etimologicamente – cambiasse maschera. L’identità personale si preserva solo dipanando le fasi della coscienza lungo il filo del tempo, quello della memoria, rispetto al passato, e quello della cura, rispetto al futuro. In tal senso, l’“invenzione della coscienza come concetto filosofico” spetta a Locke, non a Descartes,8 dato che, per quest’ultimo, “l’anima pensa sempre”. Locke introduce invece nella mente l’elemento temporale, storico, la discontinuità e lo sforzo per superarla, per stabilire un nesso tra i diversi stati di coscienza – recuperati dalla memoria, 39
che li misura dopo che sono stati misurati dalla durata – lungo un flusso, train o succession.9 All’orizzonte di simultaneità della consapevolezza egli sostituisce la serialità del tempo, il susseguirsi sensato dei momenti. Analogamente alla proprietà dei beni economici, che Locke esamina nel Secondo trattato sul governo,10 anche la proprietà di se stessi (la libertà dell’individuo pensante e agente in quanto opposta alla schiavitù o, comunque, alla dipendenza dalla volontà altrui) non viene ereditata per diritto di nascita, come accade invece per i beni della nobiltà feudale, il cui uso parassitario risulta duramente condannato, in quanto anche chi non avrebbe bisogno di lavorare è “per la legge divina obbligato a fare qualcosa”. L’“individualismo proprietario”, attribuito al filosofo inglese in campo politico,11 richiede un incessante lavoro di rinnovamento della vita psichica e di mantenimento del benessere e della gioia in questo mondo, in vista della salvezza nell’altro. È come se l’individuo, senza fare affidamento sull’eredità ricevuta, si dichiarasse figlio di se stesso, della propria intraprendenza che lo porta a trasferirsi dove si trova il lavoro, trasformato in una nuova forma di cura di sé. Da “sedentaria”, legata a determinati parametri sociali, politici e geografici, l’identità diventa mobile, si sposta dovunque ciascuno può realizzare meglio se stesso. Oltre che alla richiesta di libertà di coscienza introdotta dalla Riforma, la ricerca dell’identità personale è connessa all’acquisizione della piena padronanza intellettuale e morale di sé, alla rivendicazione del pensare con la propria testa, così come si vede con i propri occhi, alla possibilità di tracciare piani di vita che siano frutto di scelte ponderate e che non dipendano dalle imposizioni degli altri o dalle loro 40
opinioni. L’auspicato controllo sul proprio intelletto non si estende però al proprio corpo, sottratto al dominio dell’individuo e a quello dello Stato, in quanto esso appartiene a Dio, che ne è proprietario e che gli consente di durare finché piace a Lui. Seguendo il tradizionale principio di diritto canonico nemo dominus est membrorum suorum, Locke separa così il corpo dalla coscienza di sé e dalla politica, facendogli perdere quell’importanza centrale che Hobbes gli attribuiva anche in campo politico. Il problema dell’identità personale e dell’importanza dell’io quale camera di compensazione e di scambio tra crescenti desideri di libertà individuale e minori richieste di sottomissione da parte dello Stato viene avvertito da Locke quando – per effetto della Glorious Revolution – si consente al singolo un’iniziale emancipazione dalla rigida catena di comando delle società strettamente gerarchiche e, parallelamente, una maggiore autonomia, garantita dalle leggi e non dall’arbitrio di chi comanda: “La libertà degli uomini sotto un governo consiste nell’avere una norma fissa secondo cui vivere, comune a ciascun membro di quella società, e fatta valere dal potere legislativo in essa istituito” (TTG, II, 22 = 244). La diminuzione dei poteri coercitivi dello stato e il complementare aumento delle prerogative dell’individuo, già temprato dai rigori dell’assolutismo e da un periodo di sorda o aperta ribellione nei suoi confronti, conduce alla ricerca di equilibri più favorevoli ai singoli. La consapevolezza di questa nuova libertà e la diffidenza nei confronti di eventuali poteri illegittimi induce Locke a elaborare una nascosta utopia del soggetto, che si trasforma in isola per salvaguardare le sue prerogative appena conquistate. Egli crea così attorno a ognuno una zona di 41
rispetto, che segnala lo spazio di “inalienabilità” di determinati diritti, ivi compresa l’inviolabilità della persona. Per effetto di tale presa di distanza – sia dal proprio corpo, che dall’onnipervasività dello stato – Locke ottiene due obiettivi strettamente intrecciati, garantiti dallo sforzo di conservarli: l’autonomia e la continuità della coscienza di sé. Il conseguimento dell’autonomia non riguarda però tutti gli uomini: alcuni perché la loro esistenza è “logorata dalla fatica per procurarsi di che vivere”, così che non c’è “da attendersi che un uomo il quale si arrabatta per tutta la vita in un mestiere faticoso conosca più della varietà delle cose che si fanno nel mondo, di quel che possa conoscere della geografia di un paese un cavallo da soma che sia costantemente portato avanti e indietro, per un sentiero stretto o per una strada sudicia, soltanto al mercato”; altri perché, pur avendo abbondanti ricchezze o tempo libero, sono succubi delle opinioni altrui, della moda o di un’ottusa pigrizia che li induce a non far uso del proprio intelletto e a non accorgersi così che “chi è cieco sarà sempre condotto da chi vede, o, altrimenti cadrà nel fosso; e, senza dubbio, il più soggetto, il più schiavo, è colui che è cieco nel proprio intelletto” (E, 4, 20, 3 e 6 = IV, 258, 263). L’incognita Le difficoltà teoriche della posizione di Locke sono molteplici, ma sintomatiche del disorientamento scaturito dall’abbandono dell’idea dell’anima-sostanza e dall’incerta tenuta dei suoi sostituti (Locke, del resto, aveva acutamente osservato che i problemi della filosofia nascono dalla uneasiness, dal disagio, e non dallo stupore o dalla meraviglia, come per gli antichi).12 Prendendo una veloce rincorsa prima di giungere alle questioni da affrontare 42
analiticamente, le due principali difficoltà della soluzione lockiana consistono notoriamente, da un lato, nel presupporre la coscienza dell’identità personale per spiegare l’identità personale stessa (ed è l’obiezione di Joseph Butler, nel 1736) e, dall’altro, nell’impigliarsi in contraddizioni qualora si considerino separatamente i vari ricordi di un individuo (ed è la critica di Thomas Reid, nel 1785).13 Le varie soluzioni poi escogitate nel tratto di parabola che intendo ancora concisamente percorrere, al solo scopo di una preliminare rammemorazione, sfociano tutte nella scoperta dell’impossibilità di provare teoricamente la persistenza e la consistenza dell’io. Si tratta, rispettivamente, della teoria del “fascio delle percezioni” o del “teatro” dell’io in Hume; della “X” dell’appercezione trascendentale, che dovrebbe in Kant “accompagnare” come un’ombra tutte le mie rappresentazioni e del modello di Selbstbewußtsein del primo Fichte, considerato come tentativo di saldatura circolare della coscienza con se stessa. Ciò che alla fine di questo percorso sembra incontrarsi è soltanto un “fantasma”, un’entità evanescente: non solo priva di “nocciolo”, di centro separato dal fluire delle esperienze, ma anche di un accertabile continuum temporale. Il nostro mondo psichico non sembra possedere, in conclusione, alcun sistema gravitazionale costante, alcun Sole identitario fisso attorno al quale ruotino i contenuti della coscienza. Nel primo libro del Trattato sulla natura umana, Hume abbandona il lockiano filo della memoria e dell’attesa quale garante dell’identità personale e lo sostituisce – come si sa – con il “fascio” delle percezioni attuali, non senza aver precedentemente tolto alla questione dell’identità la sua 43
presunta evidenza. In un brano giustamente famoso, il filosofo scozzese osserva, infatti, che “quando mi addentro più profondamente in ciò che chiamo me stesso, m’imbatto sempre in una particolare percezione: di caldo o di freddo, di luce o di oscurità, di amore o di odio, di dolore o di piacere. Non riesco mai a sorprendere me stesso senza una percezione e a cogliervi altro che la percezione. Quando per qualche tempo le mie percezioni sono assenti, come nel sonno profondo, resto senza coscienza di me stesso e si può dire che realmente, durante quel tempo, non esisto” (T, IV, 6 = 264). Anche al di fuori di queste prove notturne d’incontro col nulla, la nostra vita psichica cosciente è segnata da intermittenze, intervallata da punti ciechi, caratterizzata dalla disomogeneità e dalla mancanza di coerenza temporale. Sono proprio questi i vuoti che cerchiamo di mascherare ricorrendo a finzioni di continuità che hanno il nome di “anima”, di “io” o di “sostanza”. Il tempo, agostinianamente inteso come distensio animi, elastico espandersi e contrarsi dell’animo (cfr. Conf., XI, 26, 33), si mostra ora simile a un ventaglio pieno di buchi: “Infatti ben poche sono le azioni passate di cui serbiamo memoria. Chi è, per esempio, che può dirmi quali furono i suoi pensieri, le sue azioni al 1° di gennaio del 1715, l’11 di marzo del 1719 e il 3 di agosto del 1733? O vorrà egli affermare, perché ha completamente dimenticati gl’incidenti di quei giorni, che il suo io presente non è la stessa persona di quel tempo; e capovolgere, in tal modo le più accettate nozioni sull’identità personale?”. Noi crediamo di essere gli stessi, ma non è certo la memoria a generare l’identità (Hume presuppone pur sempre un “io” che unifica e tiene insieme il fascio delle percezioni): “Da questo lato la 44
memoria non tanto produce, quanto scopre l’identità personale, mostrandoci la relazione di causa ed effetto fra le nostre diverse percezioni. A coloro che affermano che la memoria produce interamente l’identità personale incombe l’obbligo di trovare la ragione per cui noi possiamo estendere l’identità al di là della memoria” (T, IV, 6 = 274). Dal punto di vista teorico, manca però ogni unità o fattore di coagulazione e di stabilizzazione della coscienza. Tutto è drammaticamente effimero, poiché “un pensiero ne caccia un altro, trascina con sé un terzo, dal quale è a sua volta espulso” (T, IV, 6 = 273). La coscienza è un “teatro” dove si succedono varie rappresentazioni, che appaiono e scompaiono, sebbene noi possiamo concepire l’illusione di una loro continuità, come quando, guardando il roteare di un tizzone infuocato, cogliamo la forma di un cerchio e non la successione dei singoli punti in cui esso di volta in volta, separatamente, si trova.14 Questa identità fittizia è una “repubblica”, una federazione le cui parti mutano incessantemente assieme alla sua costituzione. Viene a mancarle l’elemento metafisico della semplicità, che assicurava all’anima una durata eterna e priva di lacune (infatti, ciò che è composto si dissolve nei suoi elementi, mentre quel che è semplice permane immutabile). L’immagine di un’identità fittizia dell’io ha calamitato per lungo tempo l’attenzione dei pensatori e degli interpreti di Hume. Oggi sappiamo che essa – basata esclusivamente sul primo libro del Trattato – deve essere integrata e corretta da altre parti della stessa opera. Bisogna, cioè, leggere questi passi in parallelo con la prima parte del secondo libro (dove si esaminano le passioni dell’orgoglio e dell’umiltà) e con la prima sezione della terza parte del terzo libro (dove si 45
affronta la questione del carattere). L’io riferito all’orgoglio e alla responsabilità morale è diverso dall’io trattato in sede teorica, in quanto l’integrità, il voler conservare la stima di se stessi e la persistenza del carattere avallano, sul piano emotivo, quella continuità dell’io che non si poteva invece ottenere a livello speculativo, dove sarebbe stata necessaria un’identità personale ipostatizzata, indispensabile a una morale che ha “bisogno di un soggetto eterno e immutabile a cui far pagare colpe e attribuire premi”.15 Un regalo alla metafisica che Hume non è disposto a fare. Sin da Montaigne, del resto, il soggetto non nasce quale Minerva armata dalla testa di Giove: è fragile e inafferrabile come l’acqua.16 In Kant, poi, l’io è dichiaratamente privo di contenuto proprio e oggetto di un sapere trascendentale che non può diventare conoscenza. In quanto “veicolo”, unità sintetica che “accompagna” tutte le mie rappresentazioni, l’io non è una rappresentazione, sebbene sia il presupposto di ogni rappresentazione. So che io sono, ma – dal punto di vista fenomenico – non so cosa e come sono. Posso pensarmi (ich denke mich è espressione ricorrente), ma non conoscermi. E così – anche in Kant – ciò che appare più nostro, la presunta base rocciosa dell’identità, finisce per sgretolarsi (pur lasciando sempre la sua impronta).17 Non riuscendo ad abbracciare il nostro io al di fuori del rapporto con le cose o con gli altri, rischiamo allora di avvolgerci in un “perpetuo circolo” (KdrV, A, 348 = B, 406), di rincorrere inutilmente in tondo noi stessi. L’io tolemaico che vorrebbe insediarsi in un universo copernicano (restare cioè incardinato in se stesso mentre salpa dal porto dell’interiorità e ricevere, inoltre, precise garanzie di un periodico ritorno a sé) trova nell’idealismo 46
classico tedesco la sua più grandiosa espressione. Il tentativo di Fichte di identificare il nucleo ignoto dell’io nella forma dell’identità, dell’Io = Io, è tuttavia destinato a incontrare inaggirabili difficoltà. Una volta che si separi l’io che pensa dall’io che è pensato, vi è, infatti, il rischio che questa operazione venga reiterata all’infinito (la riflessione su se stessi non può infatti diventare, a sua volta, oggetto di riflessione, se non a costo di un’inarrestabile inflazione dell’io). Quando l’io soggetto, diventando ricorsivamente oggetto, si moltiplica senza fine, come in una galleria di specchi, si produce, inevitabilmente, una “cattiva infinità”, un circolo vizioso (cfr. GWL e EE) che, a partire dal 1798, Fichte cerca di spezzare sperimentando differenti strategie teoriche. In diversi articoli, ma, soprattutto, nelle varie stesure della Dottrina della scienza successive a questa data, indica, dapprima, l’“intuizione intellettuale”, unità originaria di io soggetto o di io oggetto, quale fondamento all’autocoscienza; considera poi l’autocoscienza stessa come un occhio interno e teorizza l’incomponibilità di essere e sapere; avendo, da ultimo, riconosciuto che il pensiero presuppone l’esistenza, intesa quale manifestarsi di Dio, e che l’esistenza è indeducibile dal pensiero stesso, rinuncia a configurare l’“autocoscienza” come entità autosufficiente, mitico serpente che si morde la coda. E, dato che la chiusura del circolo mira, sul piano etico e politico, a soddisfare l’esigenza che ciascuno conquisti, assieme alla consapevolezza di se stesso, anche l’autonomia, le energie interiori per non piegarsi alla presunta forza delle cose (questo è il senso originario della parola “idealismo”), il pericolo è ora rappresentato da una rivincita postuma del suo opposto, del “realismo”, dall’indebolimento delle difese 47
immunitarie dell’io, lasciato nuovamente in balia di padroni esterni ai quali può difficilmente sfuggire. La voce che rimbomba Questo esito temuto, alla fine, si realizza. Il fallimento dei tentativi di risolvere l’equazione kantiana dell’io, identificandone l’incognita, o di fondare l’autocoscienza su se stessa porta, infatti, Schopenhauer a rivendicare il primato di un’alterità che alberga nel soggetto, di un’estraneità insediata nel cuore di quanto crediamo più familiare. Proprio in ciò che dovrebbe costituire il nucleo dell’io, in quel che ci appare come il focolare dell’identità, si annida l’assoluto “non-io”. Per questo, non appena tentiamo di conoscere il nostro io “e, volgendo il lume dell’intelletto verso il nostro intimo, cerchiamo di essere pienamente consci di noi, ci perdiamo in un vuoto senza fondo, come se fossimo in una cava sfera di vetro, dal vuoto della quale parli una voce di cui non sia possibile trovar la causa entro la sfera; mentre cerchiamo di afferrare noi stessi, non stringiamo, con raccapriccio, che uno spettro inconsistente” (W, § 54 = 319 n.). Al centro del soggetto, della presunta patria dell’individuo, non vi è che l’inane rimbombare di una ‘voce di dentro’, che non ci appartiene perché custodisce la parola di un Ignoto. Del nostro io non abbiamo alcun reale possesso: non siamo noi i proprietari, i titolari della nostra esistenza, che trascorre, anzi, per la maggior parte, in uno stato di torbida inconsapevolezza, tanto che della nostra vita non sappiamo molto di più “che di un romanzo letto una sola volta molto tempo fa”.18 L’io, l’individuo, l’identità personale (come attributo della coscienza) sono soltanto capricci estemporanei della volontà di vivere, manifestazioni effimere dell’indifferenziata 48
energia che permea ogni essere del mondo e che, malgrado il nome, non ha nulla a che vedere con i processi deliberativi umani. L’individualità è illusoria e intrinsecamente priva di valore; costituisce un prodotto in serie, a buon mercato, facilmente sostituibile, che esce con monotona abbondanza dalle manifatture della natura: “Gli uomini in effetti non sono nient’altro che orologi! Caricati che siano, camminano senza sapere il perché; ogni atto di concepimento e di generazione rappresenta l’orologio della vita umana che si ricarica di nuovo per riprendere ancora una volta, frase per frase, misura per misura, con variazioni insignificanti, il suo ritornello, ripetuto già un numero infinito di volte” (W, § 58 = 363). Ciascun essere non è altro che “un’immagine fuggitiva”, disegnata dalla volontà sull’immensa lavagna dello spazio e del tempo e subito cancellata per far posto ad altre (ivi). Sebbene gli uomini appaiano tra loro diversi, essi si comportano come le maschere di Carlo Gozzi, “dove sono presenti sempre gli stessi personaggi, con le loro stesse passioni, con lo stesso destino; i motivi e gli avvenimenti cambiano, è vero, nei vari drammi, ma lo spirito degli avvenimenti è peraltro sempre il medesimo. E come le persone di un dramma non sanno nulla dei precedenti in cui rappresentarono pure la loro parte; così, nonostante le esperienze dei drammi anteriori, Pantalone non è tuttavia più abile né più generoso di prima, Tartaglia non ha uno iota in più di coscienza, né Colombina di moralità” (W, § 35 = 221). Non esiste, dunque, alcun destino personale, alcuna vita dotata di irripetibili ed esclusivi caratteri individuali. Il soggetto non può conoscersi (cfr. W, § 2 = 51; § 54 = 323-324) ed è, quindi, incapace di ricongiungersi circolarmente a se stesso nell’autocoscienza: può, per 49
contro, conoscere la volontà. Schopenhauer è sempre stato colpito dall’osservazione di Kant, secondo cui il soggetto del conoscere conosce senza essere conosciuto, mentre il soggetto del volere è conosciuto ma non conoscente. Questo “miracolo” che consente all’io di racchiudere in sé due soggetti differenti rende evidente la sostanziale eterogeneità di conoscere e volere. In questa scoperta Schopenhauer si sente simile a Lavoisier, che aveva scomposto un’unica sostanza, l’acqua, in idrogeno e ossigeno.19 Nel suo essere scisso in se stesso, l’uomo ha nel proprio corpo due poli in perpetua tensione: quello del cervello, del mondo come rappresentazione, e quello dei genitali – “cassa di risonanza del cervello” (HN, I, 195) –, del mondo come volontà, che è, in senso chimico, il “radicale dell’anima”.20 Allo stesso modo, anche la sua vita è doppia, divisa tra l’immersione inconsapevole nel flusso dell’esistenza (ciclo infinito di nascite e morti, di dolore e illusione) e il ritirarsi nelle calme vette della riflessione, da cui vede ogni cosa, compreso se stesso, su scala ridotta: “La posizione dell’uomo di fronte al bruto è simile a quella del navigante, che si dirige con l’aiuto della sua carta marittima, della bussola e del quadrante, e conosce a ogni momento la sua posizione in mare, di fronte all’equipaggio ignorante che non vede se non il cielo e il mare. Ne risulta un fatto notevole, anzi meraviglioso: l’uomo, accanto alla sua vita in concreto, vive sempre una seconda vita in abstracto. Nella prima si trova esposto a tutte le tempeste della realtà e all’influsso del presente: deve lottare, soffrire e morire, come il bruto. Ma la sua vita in abstracto, quale si presenta dinanzi alla meditazione della sua ragione, è il tranquillo riflesso dell’altra e del mondo in cui vive; è appunto quello schizzo 50
in scala ridotta di cui dicevamo. Qui, nelle tranquille altezze della riflessione, tutto ciò che nell’altra vita lo possedeva per intero e lo agitava con violenza, gli appare freddo, scolorito, e, almeno per un momento, estraneo; egli è qui un semplice spettatore e osservatore” (W, § 16 = 124). L’ineffabilità dell’individuo ricco di determinazioni, la sua irripetibilità e unicità vengono da Schopenhauer degradate ad apparenza. Il principium individuationis è l’illusione alla quale l’uomo seriale si appiglia nella speranza di sfuggire ai pericoli del mondo, la fragile navicella con cui affronta il mare in tempesta (cfr. W, § 63 = 394). Il sottrarsi al principium individuationis consente, tuttavia, di raggiungere tre decisivi traguardi. Permette, in primo luogo, di comprendere la verità, poiché solo la “soppressione dell’individualità del soggetto conoscente” eleva all’altezza delle idee (W, § 30 = 207 sgg.). Distrugge, poi, l’egoismo, perché “l’odio e la malvagità si fondano sull’egoismo, il quale, a sua volta, proviene da un’intelligenza prigioniera nel principium individuationis”. In effetti, continua Schopenhauer, “un uomo, cui riesca di sollevare il velo di Maya, di penetrare il principium individuationis fino a sopprimere qualsiasi distinzione egoistica fra la persona propria e l’altrui; un uomo che senta le sofferenze degli altri non meno che le proprie; che dunque, non soltanto si mostri soccorrevole fino all’estremo grado, ma sia pronto a sacrificare il proprio individuo, se ciò si richieda per salvare molti individui estranei; un tal uomo, riconoscendo in tutte le creature se stesso, il più intimo, il più vero se stesso, riterrà come sue le pene infinite di tutti gli esseri viventi, e farà suo tutto il dolore dell’universo” (W, § 68 = 420-421). Infine, è proprio l’abbandono del principio 51
d’individuazione a liberarci dalla paura della morte: “La morte dissipa l’illusione che separa la coscienza individuale dall’universale […]. Ciò che temiamo nella morte, in realtà, è la distruzione dell’individuo, che nella morte ci si rivela evidente” (W, § 54 = 324-325). Il congedo dalla nostra individualità ci convince dell’intimo legame tra morte e riproduzione: non esiste l’una senza l’altra (cfr. HN, I, 409). Desiderare l’immortalità significa rimanere vittime di un miraggio, confondere il cieco impulso alla perpetuazione della specie con l’autonoma spinta all’autoconservazione dell’individuo, le cui passioni vengono strumentalizzate dalla volontà allo scopo di perpetuare se stessa. Lo stesso amore, come fenomeno psicologico, ha la propria origine nella sessualità, a sua volta al servizio della continuazione della specie: “La crescente attrazione di due innamorati è propriamente già la volontà di vivere del nuovo individuo, che essi possono e vorrebbero generare; anzi, già nell’incrociarsi dei loro sguardi bramosi si accende la nuova vita di quell’essere” (MG, 74).21 Il sacrifico supremo della vita, cui talvolta giunge l’innamorato, dipende dal fatto che la “parte immortale” dell’amante desidera l’amata più di se stesso. L’amore esprime quindi, nella maniera più radicale, la voluttà di perdere il principium individuationis e, più in generale, di ritrovarsi identici in tutti gli individui, presenti, passati e futuri: “Quel vivo o addirittura ardente desiderio diretto verso una determinata donna è, quindi, un’ipoteca immediata della indistruttibilità del nocciolo del nostro essere e del suo perpetuarsi nella specie” (MG, 109). La velleità di prolungare il proprio io per un tempo infinito è colpa da espiare con la castità, gradino della scala che 52
conduce alla liberazione finale dal volere. Emancipandosi dal principium individuationis, ogni uomo entra in contatto, attraverso il suo corpo (e non attraverso la sua anima) con l’eternità del volere. Il corpo proprio è, infatti, il modo in cui la volontà – di per sé invisibile, ubiqua e irrappresentabile – si manifesta visibilmente. Dentro di sé, ciascuno si sente un tutto, in quanto è volontà, e un “quasi nulla”, in quanto è fenomeno, oggetto tra gli oggetti della rappresentazione.22 Il parassita del corpo Siamo dunque gelatinosamente inconsistenti nel nostro fenomenico “quasi nulla”? Sì, se ci fermiamo al soggetto conoscente in quanto “puro occhio del mondo”; no, se cogliamo, per suo tramite, anche l’espressione del volere, autentico fondamento dell’identità personale. Il filo di continuità del soggetto non è dato né dalla memoria, né dalla coscienza, ma dalla volontà. Alla domanda “Su che cosa si basa l’identità della persona?”, Schopenhauer replica così: “Non sulla materia del corpo: nel giro di pochi anni essa si rinnova completamente. Non sulla forma del corpo: essa muta nell’insieme e in tutte le sue parti […]. Questo qualcosa che resta sempre e interamente lo stesso, senza mutare e senza invecchiare con noi, è appunto il nucleo sostanziale del nostro essere, che non si trova nel tempo”. L’identità della persona si fonda, infatti, sull’identità della volontà, per quanto, “in virtù della nostra relazione con il mondo esterno, noi siamo abituati a considerare come nostro io autentico il soggetto del conoscere”. Tuttavia, continua Schopenhauer, un simile soggetto “rappresenta soltanto la funzione cerebrale, non è il nostro io più intimo. Il nostro vero io, il nucleo della nostra essenza è ciò che si 53
nasconde dietro a quel soggetto conoscente e che, di fatto, sa soltanto volere e non volere, essere soddisfatto o insoddisfatto, con tutte le modificazioni della cosa che vengono chiamate sentimenti, emozioni, passioni” (E, II, 19, 1044 sgg.). La coscienza è “condizionata dall’intelletto, che è un mero accidente della nostra essenza: esso è infatti una funzione del cervello, il quale, insieme con i nervi e il midollo spinale che ne dipendono, è soltanto un frutto, un prodotto, o addirittura un parassita del resto dell’organismo, in quanto non s’inserisce direttamente nei congegni interni di quest’ultimo, ma serve lo scopo dell’autoconservazione, semplicemente regolandone i supporti con il mondo esterno” (E, II, 19, 992). L’intelletto, consapevolezza a livello simbolico delle proprie rappresentazioni e operazioni, è dunque soltanto la luce che la volontà si accende per consentire alla conoscenza di svolgere il suo servizio. Il mondo è rappresentazione di ogni essere vivente, ma solo l’uomo ne ha coscienza, poiché questo “parassita” che presiede agli scambi con il mondo esterno si insedia, con capacità enormemente accresciuta di autoriferimento, solo nell’organismo umano.23 Al pari dell’indistruttibile entelécheia goethiana – frammento di eternità che gli anni non intaccano24 – la volontà costituisce l’incosciente e universale essenza di ciascun uomo, che (malgrado ogni apparenza) non ubbidisce mai all’intelletto, poiché quest’ultimo “non è che il consiglio dei ministri di quella sovrana” (E, II, 19, 1023). È grazie a tale “parassita” che la volontà prende coscienza di se stessa. Per spiegare – non senza difficoltà e acrobazie logiche – come questo avvenga, il filosofo di Danzica si 54
serve di una metafora ottica. La sensibilità, diffusa in tutto il corpo, si concentra in un punto focale, che è il cervello: “punto che non cade però all’esterno come negli specchi concavi, bensì all’interno come in quelli convessi”. La volontà diventa così consapevole di se stessa “in quanto questo fuoco dell’attività cerebrale, o del soggetto conoscente, concepisce se stesso come identico con la sua base, dalla quale è derivato, ossia con il soggetto volente, e così ha origine l’io” (E, II, 22, 1096).25 Tale punto focale dell’attività del cervello è semplice, sebbene non sia “una sostanza (anima), bensì una mera disposizione” (ibid.). L’io coglie la propria dipendenza dalla volontà in maniera intuitiva, proprio perché la volontà è l’unico oggetto conosciuto da un soggetto che, per contro – come sappiamo – non può avere se stesso come oggetto e non può, di conseguenza, conoscersi (cfr. E, II, 19, 993). Alla radice della divisione del soggetto in homo duplex, che conosce e che vuole, vi è pur sempre la volontà stessa, lacerata al suo interno, “affamata” divoratrice di se stessa, perché nulla esiste al di fuori di lei.26 È la volontà che crea nell’uomo la sua controparte: “Essa sola è immutabile e assolutamente identica, e ha prodotto per i suoi scopi la coscienza […]. Senza la volontà l’intelletto non avrebbe una maggiore coscienza di sé di quanto ne abbia uno specchio sul quale si presentano successivamente ora questa, ora quella immagine […]. Essa tiene insieme tutti i pensieri e tutte le rappresentazioni come mezzi per i suoi scopi, li dipinge con i colori del suo carattere, del suo umore e dei suoi interessi, controlla l’attenzione e tiene in mano il filo dei motivi, la cui influenza mette infine in azione anche la memoria e l’associazione di idee: in fondo si sta sempre parlando della 55
volontà quando, in un giudizio, compare la parola ‘Io’” (E, I, 5, 913). Diversamente da Locke, è la volontà anonima, espressa dal corpo proprio, e non la coscienza o la memoria dell’individuo, a stabilire paradossalmente l’identità personale, a mostrare dietro il velo dell’illusione una sorta di secondo io, privo di consapevolezza riflessiva: “Sì, è addirittura meraviglioso che, in mezzo a questo miscuglio così eterogeneo di frammenti, di rappresentazioni e di pensieri, incrociantisi senza posa nella nostra mente, noi non ci smarriamo del tutto, ma riusciamo sempre a orientarci e a stabilire tra quei frammenti un adattamento reciproco. È chiaro che dovrà esistere un unico filo, lungo il quale tutto si dispone ordinatamente: ma qual è? La memoria non è sufficiente a tale scopo perché ha delle limitazioni essenziali […] ed è inoltre molto imperfetta e infida”.27 La scoperta della volontà come paradossale base dell’identità personale, del suo carattere eterno rispetto alla fugacità degli individui non prelude, tuttavia, alla sua glorificazione. Una volta conosciuta l’essenza della volontà, bisogna, infatti, allontanarsene e, rovesciando i naturali rapporti di forza, iniziare l’ascesi che conduce alla sua negazione: “Per Schopenhauer, l’eternità di ogni Essere è il più terribile di tutti i pensieri, giacché significa per lui l’assoluta impossibilità di liberazione, la interminabilità del processo del mondo, del quale già ogni momento singolo è tormento senza senso. Poiché se qui non c’è liberazione entro l’esserci, l’eternità è l’esatto contrario logico del solo pensiero, in cui Schopenhauer può trovare una consolazione e un senso dell’esistenza: la sua negazione psichica e l’annientamento metafisico”.28 56
Nel prendere la strada dell’annullamento della volontà, (difficile perché, se è vero che velle non discitur, “non s’impara a volere”, a maggior ragione, non s’impara a non volere) Schopenhauer si ispira notoriamente al pensiero e ai miti dell’India. Vede nell’induismo e nel buddhismo una forma di saggezza parallela alla sua filosofia, una religiosità destinata a restare insensibile all’evangelizzazione cristiana e a trovare invece adepti in Occidente: “Al giorno d’oggi noi, pietosi, mandiamo clergymen inglesi e fratelli moravi ai bramini, per insegnar loro qualcosa di meglio e informarli che furono creati dal nulla, di che debbono esser lieti e riconoscenti. Ma accade come a chi tira una palla contro una roccia. In India, le nostre religioni non prendono e non prenderanno mai radici; la saggezza originaria del genere umano non si ritira dinanzi ai fatterelli che accaddero in Galilea. La saggezza indiana rifluisce invece verso l’Europa, e vi produrrà una trasformazione radicale nella nostra scienza e nel nostro pensiero”.29 Se la filosofia di Schopenhauer non ha, in genere, implicazioni politiche dirette,30 talvolta le sue premesse metafisiche si estendono però alla sfera statuale, come quando egli collega la difesa della monarchia al corpo del sovrano, il cui potere si trasmette appunto biologicamente, per generazione. Il ruolo del re non si limita, tuttavia, a rappresentare l’hegeliano “puntino sulla i”, l’avallo puramente formale alle leggi dello stato, che ha in se stesso la propria sostanza etica. Il monarca costituisce, al contrario, “la chiave di volta di tutto l’insieme, che senza di lui crollerebbe” (G, 116) e gode di un’autorità che – proprio perché fondata biologicamente – non necessita della legittimazione che promana dal consenso ragionato degli 57
individui. L’insistenza sulla dimensione del corpo come polo alternativo alla coscienza (cui viene negato il privilegio di rappresentare il culmine della vita umana) e il rifiuto del principium individuationis (che pure apre nuove prospettive di ricerca, segnando il pensiero occidentale da Taine a Nietzsche e da Freud a Horkheimer) favorisce la perdita di autonomia del soggetto e, involontariamente, la sottovalutazione o il disprezzo per l’esistenza dei singoli in quanto tali, che possono salvarsi solo rinunciando a se stessi.31 Da qui i tentativi che si avranno in seguito di individuare lo sconosciuto soggetto della volontà in noi: la “bestia”, il corpo, l’Es; da qui la proclamata bancarotta dell’io. Si è, dunque, esaurita la spinta che portava l’individuo lockiano a fare di se stesso il prodotto della propria attività? In che modo il porre l’accento sulla coscienza ha occultato, a partire da Locke, il valore della corporeità quale base dell’individuazione e, per converso, quali conseguenze ha avuto, a partire da Schopenhauer, la svalutazione dell’individualità e la denigrazione della coscienza, denunciate come illusorie dalla cultura e dalla politica europea tra Otto e Novecento? Che senso attribuire, quindi, a quelle voci dell’alterità che – da Taine a Nietzsche, da Pirandello a Freud – ci mettono in guardia contro la nostra superbia, condannando la rivendicazione del primato dello “spirito” sul corpo e ricordandoci, in termini sartriani, che “non siamo padroni della coscienza” (TE, 77)?
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2. In principio era il caos: dalla citologia alla filosofia
Percorsi e diramazioni Continuando idealmente a traguardare Locke e Schopenhauer – indici, rispettivamente, del valore attribuito all’identità personale e alla negazione del principium individuationis, o, anche, alla coscienza e alla cieca volontà di vivere –, inizierò l’esplorazione sistematica dei territori che si estendono, cronologicamente, dagli ultimi decenni dell’Ottocento alla Grande Guerra e, in forma più concisa, dall’epoca dei totalitarismi ai giorni nostri. Analizzerò la crisi dell’identità personale, il sorgere della psicologia delle folle, l’incubazione dei regimi reazionari di massa, la diffamazione dell’io e della coscienza e le forme dell’individualismo contemporaneo in rapporto ai processi politici e storici che li condizionano, fornendo alla fine una chiave di lettura teorica di questi fenomeni. Seguirò un percorso – in gran parte finora non tracciato e dagli esiti imprevisti – che conduce da modelli scientifici alla filosofia, alla letteratura e alla politica. In maniera apparentemente curiosa, all’origine di questa vicenda si pone un sapere lontano tanto dalla filosofia, quanto dall’esperienza comune: la citologia. Con la scoperta da parte di Matthias Jakob Schleiden e Theodor Schwann 59
della cellula come unità fondamentale di ogni organismo vegetale e animale e con l’affermazione da parte di Rudolf Virchow che ogni cellula deriva da un’altra cellula (Omnis cellula a cellula, 1855), la teoria cellulare diventa, per quasi mezzo secolo, il paradigma di maggiore influenza, dapprima per la spiegazione dei fenomeni della vita e, successivamente, per l’interpretazione dei processi psichici e sociali. Sul piano biologico, dato che la cellula è (erroneamente) considerata un individuo sempre dotato di vitalità propria, due questioni vengono sollevate con insistenza: come si passa dagli organismi monocellulari a quelli pluricellulari e come si connettono e si coordinano tra loro le cellule negli organismi pluricellulari.1 La prima questione è tradotta in termini spenceriani, intendendo il passaggio quale evoluzione dal semplice al complesso e dall’omogeneo all’eterogeneo. Con l’aggiunta di una clausola fondamentale: poiché lo stato d’equilibrio raggiunto dai composti è instabile rispetto al maggiore equilibrio degli elementi semplici, ossia degli esseri monocellulari, quanto più differenziate saranno le sue cellule, tanto più esso sarà esposto alla dissoluzione. Tutti gli esseri viventi sono cioè composti da cellule, ma l’instabilità degli organismi pluricellulari aumenta con la loro complessità. Tali problemi travalicano la sfera della fisiologia per essere trattati in modo analogico nell’ambito di altre scienze o, ben presto, di altre ideologie, mediante una estrapolazione dei risultati che conduce, in pochi decenni, molto lontano dalle premesse. Già da Spencer, infatti (che, a sua volta, si appoggia sulle ricerche biologiche di Von Baer), la dissoluzione e la labilità sono dichiarate il destino sia degli 60
organismi biologici che delle società umane complesse.2 Quando un organismo o una società si trovano dinanzi a sfide che non riescono a risolvere grazie a un incremento di differenziazione evolutiva, quando cioè essi non sono capaci di superare un ulteriore gradino di complessità, allora – non potendo stare fermi – tornano indietro, si decompongono in aggregati più semplici e primitivi. Evoluzione e dissoluzione sono termini complementari e il progresso non esclude il regresso (“il verme è nel frutto”, cantava Verlaine nei Poèmes saturniens). Ogni organismo animale o sociale incapace di svilupparsi ulteriormente è così condannato a regredire a stadi precedentemente attraversati. Ciò che è più antico (in quanto più semplice, più elementare, non composito) è anche più persistente e durevole. In altri termini: il passato è più forte del presente e condiziona, in misura tanto determinante quanto inappariscente, lo svolgersi degli eventi organici, psichici e sociali. Sul terreno della fisiologia il passaggio dal semplice al complesso si configura come un crescendo di coordinazione tra le varie cellule che vengono gradualmente private della loro indipendenza e sottoposte a un comando centralizzato (ed è questa la risposta alla seconda questione). Dalla cellula, in quanto individuo, si procede verso organismi più complessi, anche perché la cellula – a differenza dei cristalli – non è in grado di oltrepassare una determinata dimensione.3 Il limite è costituito dal fatto che, superata una certa grandezza, la cellula non cresce più. Può solo sdoppiarsi o moltiplicarsi. È questa una delle ragioni per cui gli organismi di una certa dimensione sono tutti pluricellulari, mentre nel regno minerale si possono trovare cristalli piccolissimi o enormi. Dato che ciascuna cellula 61
viene a lungo considerata un individuo, ogni organismo pluricellulare è concepito come una pluralità di individui. Questa posizione, largamente diffusa, è dimostrata falsa agli inizi del Novecento, quando ormai è servita agli scopi più diversi e ha, comunque, prodotto i suoi effetti. La terminologia giuridica e politica è applicata alla fisiologia ancor prima che la politica possa utilizzare alcuni risultati estrapolati dalla fisiologia stessa. Il potere delle singole cellule – si dice – è “confiscato” a favore di un centro “egemone”, cui è deputato il coordinamento della pluralità delle cellule. Esse si aggregano in “federazioni”, in “colonie” e persino in “falansteri”. Formano, in generale, alleanze basate sul “consenso” implicito delle parti. Nell’ascesa progressiva dagli organismi monocellulari a quelli pluricellulari, le prerogative di ogni singola cellula vengono perciò assunte da un potere centrale egemone (ad esempio, il sistema nervoso centrale, il midollo spinale o, negli organismi superiori, il cervello), che riceve una “delega” a rappresentarla. Tale centro – che, a livello umano, dà luogo alla coscienza, all’io – non esiste quale entità indipendente. Non possiede, infatti, alcuna autonomia al di fuori del sistema di deleghe concesso dai singoli individui di cui è composto.4 A testimoniare questa teoria vengono scelti i polipi corallini (polypes agrégés o corallaires à polypier), organismi che vivono in gruppi o colonie. Se si sfiora uno di questi esseri – simili a minuscoli fiori ondeggianti tra le correnti marine –, esso si rinchiude immediatamente nella sua guaina o teca calcarea, i cui depositi successivi formano le barriere coralline. E ciò è normale. Sbalorditivo apparve invece il fatto che, assieme al polipo toccato, miriadi di suoi simili 62
rientrano simultaneamente nei loro gusci tubiformi. Come comunicano tra loro a distanza tramite i minuscoli canali che attraversano le barriere rocciose? Sono dotati di un qualche rudimentale sistema di coordinamento, analogo al sistema nervoso centrale? Sottoposti a questi interrogativi, a tali animaletti è toccata la discutibile fortuna di diventare, per qualche decennio, paradigmatici, di fornire un modello utilizzato poi in più direzioni.5 Essi assumono ironicamente un ruolo simile a quello che spettò nella cultura del Settecento ad altri “polipi”, alle idre d’acqua. Allorché il naturalista ginevrino Trembley scoprì che, tagliandole a pezzi, da ogni parte nasceva un nuovo individuo e attaccando opportunamente due individui in poco tempo se ne formava uno solo, fiorirono, infatti, varie metafisiche del ringiovanimento e dell’immortalità degli esseri viventi. Alla fine del secolo successivo, il clima intellettuale risulta significativamente cambiato: i “polipi” e gli aggregati animali servono ormai a mostrare come, al di fuori della “colonia”, non prevalga l’unità e l’immortalità dell’io, reincarnazione laica dell’anima, bensì la sua pluralità, fragilità e impotenza. Il paradigma coloniale rende inoltre maggiormente plausibili la teoria dell’“orda primitiva” di Darwin e quella del carattere gregario delle mandrie elaborata da suo cugino, Francis Galton. In un’epoca piena di fermenti liberali e individualistici, gli studiosi più illustri sono concordi nel constatare la prepotente presenza nell’uomo di tendenze gregarie, preindividuali.6 Negli scritti di Espinas, Perrier e Binet sulle “colonie animali” e sulla “vita psichica dei micro-organismi”, nonché in numerose opere successive, si ipotizza la rinuncia a se stesso da parte di ciascun individuo della colonia e il 63
passaggio delle consegne a un sistema di coordinazione che trascende le singole cellule. Si genera in tal modo una coscienza collettiva, risultante dall’aggregazione di una molteplicità di coscienze individuali che hanno abdicato alla loro sovranità e si sono poste sotto la protezione e il controllo di un organismo centrale. Diventa tuttavia difficile, in quest’ottica, stabilire il rapporto tra unità e pluralità. Si domanda Virchow: “Qual è l’individuo? Qual è l’organo? Gli stessi organi sono individui? L’intero è una sola raccolta d’individui? Una famiglia, una colonia, o addirittura, come dice Vogt, un falansterio? […] Dovremmo forse davvero accettare questi animali-piante come termini di paragone per la nostra individualità, compatta e del tutto unitaria? Dobbiamo confrontare la nostra natura con creature tanto inferiori?”.7 Aurore boreali Ma la nostra individualità è davvero così “compatta e del tutto unitaria” rispetto alle cellule, a questa popolazione di individui su scala ridotta, oppure è situata in posizione dominante rispetto alle “creature tanto inferiori” a noi che vivono in colonie? Il primo dubbio viene seminato nel 1870 dal De l’intelligence di Hippolyte Taine, che assieme a Renan è stato il pensatore più influente della Terza Repubblica e il maestro di due generazioni di francesi. Negli ultimi decenni dell’Ottocento tre médecins philosophes, che ebbero un peso rilevante nella cultura del loro tempo – Théodule Ribot, Pierre Janet e Alfred Binet – vanno oltre, dividendo la personalità, nel campo della psicopatologia, in una molteplicità coloniale. I risultati sono, alla lettera, rivoluzionari. Taine, Ribot, Janet e Binet contribuiscono, infatti, in maniera decisiva al ribaltamento di diffuse 64
concezioni del senso comune e di radicate tradizioni religiose e filosofiche.8 Attraverso le loro ricerche, in cui i dati scientifici acquistano una notevole articolazione e autonomia filosofica, l’io, l’anima, la coscienza cessano di essere un’unità monolitica, una sostanza semplice e immortale, per diventare un composto instabile, un arcipelago di ilôts de conscience, una conscience de coalition non dissimile da quella dei polipi corallini. L’io degli individui psicologicamente ritenuti normali è soltanto il più forte, non l’unico. La sua egemonia si basa su un sistema di alleanze e di equilibri psichici costruiti, non naturali, che richiedono un continuo dispendio di energia. In poco tempo tali teorie diventano talmente popolari da essere riportate su riviste e giornali e da venire recepite soprattutto da scrittori, politici e giuristi (giustamente preoccupati, questi ultimi, dal problema della responsabilità individuale nel caso di personalità multiple). Un poeta come Jules Laforgue – che peraltro era stato allievo di Taine all’École de Beaux Arts – può così riferirsi a questi temi, usando espressioni tecniche, in Ballade: Udite, fisicamente e moralmente, Io non sono che una colonia di cellule Casuale; e questo messere a cui do il titolo Di Io, non è, mi dicono, che un fatale polipaio! […] Quando organizzo una discesa nell’Io, Riconosco che laggiù trovo, seduta a banchetto, Una compagnia un po’ promiscua, Mai vista alle mie dogane. […].9
Il primo a riconoscere “scientificamente” la frantumazione dell’io è, appunto, Taine. Scomponendo la coscienza in miriadi di sensazioni, immagini e idee, egli ne denuncia dinanzi al grande pubblico dei suoi lettori la 65
natura fragile e inconsistente di aggregato mutevole. Di questa molteplicità, che si manifesta a ciascuno di noi in forma di combinazioni e nebulose di elementi sparsi, non riusciamo dapprima a cogliere che gli aspetti più grossolani.10 Le testimonianze immediate della coscienza, imbevute di “illusioni numerose e invincibili”, sono perciò del tutto dubbie. Solo ripercorrendo dal basso le filiere di processi che conducono alla parte emersa dell’io o risalendo dagli effetti evidenti alle cause nascoste, si scoprirà la sua natura di terminale di sensazioni e impulsi rudimentali in partenza dai segmenti del midollo e dai gangli nervosi. Il risultato – conseguito da Taine prima di Emil Du BoisReymond, di Eduard von Hartmann, di Nietzsche e di Freud – è che “la maggior parte di noi stessi resta al di fuori della nostra portata e l’io visibile è incomparabilmente più piccolo dell’io oscuro”.11 Taine costruisce l’uomo e il suo esprit – al pari di Condillac – a partire dalla sensazione, “evento interiore primordiale”. A differenza di quest’ultimo, tuttavia, le sensazioni non riflettono per lui alcuna realtà oggettiva. Quel che avvertiamo in esse è unicamente un polypier d’images, una fantasmagoria caleidoscopica di figure evanescenti, conseguenza del lavorio di tutte le cellule del corpo che si trasforma in scariche, “vibrazioni” e flussi nervosi (un fenomeno fisiologico al quale gli studi sul “magnetismo animale” e sull’elettricità avevano dedicato molta attenzione a partire dalla fine del Settecento). La psiche si scompone dunque in immagini, così come il corpo in cellule. In tale prospettiva, il polypier d’images non è altro – per così dire – che un aggregato d’immagini monocellulari. Queste costituiscono le forme elementari e la 66
trama della vita psichica: “Che cosa c’è, al punto di partenza, nell’uomo? Delle immagini, o rappresentazioni degli oggetti, ossia quel che gli fluttua nell’interiorità, sopravvive per un po’ di tempo, si cancella, e ritorna, quando ha contemplato un certo albero, un certo animale, in breve una cosa sensibile”.12 La coscienza appare come un teatro in cui vengono rappresentate simultaneamente diverse scene, una sola delle quali è però inquadrata come un “fuoco d’artificio prodigiosamente multiplo e complesso, [che] sale e si rinnova incessantemente attraverso miriadi di razzi”, di cui, però, “noi non percepiamo che la cima”,13 mentre il resto rimane nascosto al di là della linea d’orizzonte dell’io. Ciascuno di noi costituisce in questo scenario una gerbe lumineuse, un “mazzo” o “fascio” di scariche elettriche. Se si guarda attorno, si rende conto di essere un comprimario, assieme a tutti gli altri esseri viventi, di un più vasto e complesso spettacolo di fuochi d’artificio che s’innalzano, brillano per un attimo e poi cadono sullo sfondo buio di una natura indifferente: “Una infinità di razzi, tutti della stessa specie, che a diversi gradi di complicazione e di altezza, si lanciano e ridiscendono incessantemente e eternamente nel nero vuoto: ecco gli esseri fisici e morali; ognuno di essi non è che una serie di eventi di cui niente dura se non la forma, e si può rappresentare la natura come una grande aurora boreale”. In quest’ottica, le rappresentazioni perdono il loro “pesante” rapporto con il mondo esterno e si riducono a macchie o a punti, quasi immateriali, di luce e di colore (come avverrà poco più tardi nell’Impressionismo e nel pointillisme).14 Allucinazioni e deliri 67
I flash d’immagini non si originano da una qualche ‘immacolata percezione’ provocata dalla mera presenza di agenti esterni. Sorgono dal corpo per effetto di stimoli esterni non coordinati, ma tendono poi spontaneamente a trasformarsi in allucinazioni incontrastate. Non bisogna pertanto definire l’allucinazione quale percezione esteriore falsa, quanto, piuttosto, considerare la percezione esteriore come un’“allucinazione vera”, affermando così – con linguaggio anacronistico – che ogni percezione è anche una proiezione. La “realtà”, che la sensazione e l’esprit dovrebbero rispecchiare, non ha valore in sé, non esiste come qualcosa cui l’intelletto debba semplicemente adeguarsi. È il risultato, di volta in volta conseguito, della repressione costante delle allucinazioni sensibili e dei deliri mentali ottenuta grazie agli sforzi ininterrotti dei “riduttori antagonistici” delle immagini. Frenandone e limitandone la primitiva coesistenza e arbitrarietà, questi eliminano la precedente compatibilità tra rappresentazioni contraddittorie. Mostrano, ad esempio, l’impossibilità di pensare una figura con tre lati e, nello stesso tempo, con quattro, un oggetto rosso e, nello stesso tempo, blu. Quando le rappresentazioni contraddittorie “arrivano a contatto”, si produce una loro negazione parziale, e il confronto continua fino a quando non si stabilisce fra loro una qualche coerenza o contrappeso reciproco. Nella sua primitiva irruenza, ogni immagine tende automaticamente a generare “un certo stato che è l’allucinazione, il falso ricordo e il resto delle illusioni della follia. Ma è fermata su questa strada dalla contraddizione di una sensazione, di un’altra immagine o di un altro gruppo d’immagini. Il mutuo arresto, lo stiramento a strappo reciproco, la repressione costituiscono nel loro 68
insieme un equilibrio […]. Questo bilanciamento è lo stato di veglia dotato di ragione. Non appena cessa per l’ipertrofia o l’atrofia di un elemento, noi siamo pazzi, in tutto o in parte”.15 Solo attraverso un duro lavoro di rettifica e depurazione degli errori sarà possibile avere una conoscenza relativamente razionale di noi stessi, salire su quell’“alto Belvedere” che la scienza innalza nel corso delle generazioni.16 Per spiegare il fenomeno dei riduttori antagonistici delle immagini, Taine si riallaccia a Spinoza, il filosofo che – assieme a Hegel – era stato alla base della sua formazione giovanile.17 L’autore dell’Etica aveva sostenuto che un fanciullo, il quale immagini un cavallo alato, finché “non percepisce nulla che escluda l’esistenza del cavallo, considererà necessariamente il cavallo come presente e non potrà dubitare della sua esistenza, benché non ne sia certo”.18 Anche in Spinoza, dunque – traducendo la sua problematica in termini tainiani – si crede alla realtà di un’immagine finché non intervengono dei riduttori antagonistici ad annullarne l’assolutezza irrelata ponendola a contatto con altre immagini. La “realtà” è ciò che rimane, una volta regolato il turbinio spontaneo delle immagini, o – il che è lo stesso – una volta eliminata “l’ipertrofia o l’atrofia di un elemento”. Come più tardi in Pierre Janet (relativamente al mantenimento della fonction du réel, che è il culmine nella vita psichica e perciò l’elemento più vulnerabile e degradabile),19 anche in Taine l’impegno dell’individuo di permanere costantemente allo stato di veille raisonnable rappresenta il compito più duro, la diuturna fatica cui si sfugge solo se si imboccano i sentieri abituali del sogno o quelli più rischiosi della follia. La ragione (che, al pari della salute, è “una riuscita 69
momentanea, un bell’accidente”, cfr. HLA, 158) ha come meta mai raggiunta la metamorfosi incessante delle allucinazioni caotiche in percezioni corrette, in allucinazioni vere, e dei deliri scomposti in ragionamenti sufficientemente ordinati. L’allucinazione e il delirio precedono e non seguono la percezione corretta e la ragione, non sono, in origine, sinonimo di malattia, ma di normalità. Parafrasando il Vangelo di Giovanni: in principio era il Cháos, non il Lógos. Il caos patologico non è altro che la restaurazione dello status quo ante per effetto di uno choc, la ridistribuzione dei contenuti già acquisiti secondo vecchi schemi. La percezione corretta e l’intelligenza – non essendo altro, rispettivamente, che allucinazione e delirio addomesticati – ritornano non appena si cancella la sottile linea di demarcazione che le separa dalla loro origine, il confine duramente conquistato e normalmente difeso contro le incursioni, intrusioni e invasioni psichiche di ciò che era stato una volta scacciato. Ma la coscienza, la veglia ragionevole, la scienza, la razionalità, poiché costano molta energia a causa dell’immane opera di contenimento delle minacce alla loro esistenza (che vengono dall’interno), sono vulnerabili dinanzi alle potenze più antiche e provvisoriamente esorcizzate che giungono agguerrite dal proprio interno. Filogeneticamente e storicamente la follia precede la salute mentale, come l’allucinazione il senso della realtà. Normali sono il disordine e la malattia, che soltanto un precario equilibrio di forze contrapposte mantengono a bada. La follia e l’allucinazione rappresentano quindi il comune stadio di partenza della vita psichica, mentre la salute 70
mentale e la percezione corretta costituiscono un risultato che non a tutti è dato necessariamente di raggiungere. La conquista della razionalità è, infatti, sempre provvisoria. Dallo stato di “veglia ragionevole” si può a ogni momento ripiombare nel delirio, che appare non solo come un dérèglement des passions – alla maniera di Esquirol – ma come un dérèglement di tutte le delicate costruzioni della coscienza. Di fronte a choc e a difficoltà insuperabili, queste, una volta colpite, fanno di nuovo sprofondare l’anima di ciascuno nel baratro della sua condizione originaria, che è poi quella, filogeneticamente, dell’umanità delle origini. Tale condizione è per Taine “simile a un lago profondo e oscuro, di cui la luce rivela solo la superficie; al di sotto vi è un intero mondo di animali e piante, che una tempesta o un terremoto può improvvisamente portare alla superficie dinanzi alla coscienza”.20 Scendendo fino a questi abissi, l’uomo civilizzato riscopre in sé la bête humaine: “La zoologia ci mostra che l’uomo ha dei canini; stiamo attenti a non provocare in lui l’istinto carnivoro e feroce. La psicologia ci mostra che la ragione, nell’uomo, ha per supporti le parole e le immagini; stiamo attenti a non provocare in lui l’allucinato e il folle. L’economia politica ci mostra che vi è sproporzione tra popolazione e sussistenza, non dimentichiamo mai che, anche durante la prosperità e la pace, lo struggle of life persiste, e stiamo attenti a non esasperarlo aumentando le difficoltà reciproche dei concorrenti. La storia ci mostra che gli stati, i governi, le religioni, le chiese e tutte le grandi istituzioni sono i soli mezzi grazie ai quali l’uomo animale e selvaggio acquisisce la sua piccola parte di ragione e di giustizia. Stiamo attenti a non distruggere il fiore tagliando la radice”.21 71
La civiltà – è convinzione diffusa nel suo tempo, ma di cui Taine è largamente responsabile – è una “mano di vernice sottile”, come diceva Lombroso, sotto la quale si trovano ancora intatti gli istinti e le passioni primitive dell’animaleuomo, i cui caratteri si trasmettono ereditariamente, come un destino che attraversa le generazioni.22 Se ne deduce allora che, per conservare la civiltà stessa, è necessario l’uso della forza, onde reprimere la ricorrente tentazione di un massiccio ritorno all’indietro. Solo i “gendarmi armati” – sostiene Taine – riescono a tenere sotto controllo il brigante, il selvaggio, il pazzo chiusi dentro di noi, addormentati e incatenati, ma sempre pronti a uscire dalla caverna del nostro cuore. Il viaggio della vita L’io, funzione sintetica per eccellenza, è ora minacciato di scissione o di dissipazione, virtualmente sbriciolato in stati di coscienza o in immagini incoerenti che ne provocano talvolta il rifiuto (in gioventù Taine stesso ha conosciuto un simile stato: “Vi sono dei giorni in cui sono così stanco di me, che vorrei vomitarmi”).23 La normalità è il risultato di costante allerta, di reiterata vittoria contro le latenti potenze della disgregazione. È un composto estremamente instabile. L’idea della nostra persona è costituita da un gruppo di elementi coordinati, le cui reciproche associazioni, incessantemente attaccate, incessantemente trionfanti, si mantengono durante la veglia, allo stesso modo in cui la ragione si mantiene durante la salute e la vita. Al pari della perdita di memoria, che minaccia in Locke l’identità personale, la follia è in Taine sempre “alla porta dello spirito, come la malattia è sempre alla porta del corpo; giacché la combinazione normale non è che una riuscita; 72
essa non giunge a compimento e non si rinnova se non attraverso la disfatta continua delle forze contrarie. Ora queste sussistono sempre; un accidente può dar loro la preponderanza; manca poco che se la prendano; una leggera alterazione nella proporzione delle affinità elementari e nella direzione del lavoro di formazione porterebbe a una degenerazione. Morale o fisica, la forma che chiamiamo regolare può ben essere la più frequente: è attraverso un’infinità di deformazioni che essa si produce”.24 Secondo uno schema ricorrente, il rischio e il conflitto sono sempre presenti e, con essi, la complementare paura di ricadere nell’amorfo. L’edificazione dell’io è, infatti, un lavoro estremamente delicato, che non può subire nessuna interferenza, senza correre il pericolo di trasformarsi in qualcosa di mostruoso. Il centro dell’io è vuoto e disabitato. Siamo ignoti a noi stessi. Quel che siamo è soltanto una costruzione prodotta da ininterrotte operazioni di arginamento delle allucinazioni sensibili e del delirio. L’attività del nostro io, intrinsecamente debole e soggetto a decomporsi e a regredire, viene paragonata alla condotta di uno schiavo che, nel mondo antico, doveva attraversare con un uovo in mano l’arena piena di leoni ormai stanchi e di tigri già sazie, ma pur sempre pericolose. Se arrivava in fondo otteneva la libertà.25 Allo stesso modo, nel viaggio della vita, l’io può giungere intatto sino al termine del suo cammino, ma la sua integrità è una conquista non garantita, poiché esso è delicato come quell’uovo. In termini freudiani, si direbbe che il soggetto non è più “padrone a casa propria”, o, nel linguaggio del Mallarmé di Igitur, che vi è tollerato solo nelle vesti di semplice “ospite”. Proprio nell’interior domus 73
dell’anima, il luogo di rifugio per eccellenza nella tradizione classica, viene a mancare la sicurezza e il riposo. Di se stessi non resta che il pallido e caduco ricordo di un ospite con cui si è stati insieme un unico giorno. Non solo l’io ha deposto la pretesa di essere il garante di ogni certezza, ma – di nuovo come in Mallarmé o nei personaggi di Pirandello – ha bisogno di guardarsi allo specchio per assicurarsi della propria esistenza.26 Il precetto delfico “Conosci te stesso!”, che da Socrate a Hegel ha costituito la vetta della ricerca filosofica, si rivela impraticabile o non remunerativo. La presenza a se stessi non è più considerata il presupposto della verità e il soggetto comincia ad apparire abbandonato alla “deriva esistenziale”.27 Così, mentre l’autocoscienza hegeliana sfuggiva alla “cattiva infinità” ritornando ogni volta a se stessa dalla relazione con gli altri e con il mondo (e godeva di sé nelle “domeniche della vita”, ossia nei momenti di pausa e ristoro spirituale), alla fine del secolo la strada del ritorno a se stessi appare bloccata. E mentre Hegel garantiva l’arricchimento della personalità contro i pericoli e le contraddizioni che ne minacciavano l’integrità orientandola sulla “stella polare” del movimento complessivo della realtà effettuale e sincronizzandola con esso, ora nessuno crede più all’esistenza di un processo di avanzamento oggettivo del mondo. Il senso, l’ordine, la coerenza vengono dichiarati prodotti della volontà umana, strumenti di sopravvivenza della specie, benefica illusione. Se è la volontà a dare ordine e significato al mondo, tramonta quindi anche l’idea di una verità come adæquatio. Solo il sentimento del corpo mantiene l’unità dell’io: se le condizioni fisiche si modificano, se le sensazioni o il loro 74
coordinamento si alterano, cambia inevitabilmente anche l’io,28 il quale tuttavia, di norma, “va generalmente ingrandendosi, a somiglianza d’un corso d’acqua, che, per nuovi fiumi che immettono in esso, ingrossa sempre, a misura che s’allontana dalla sorgente”.29 Proprio perché radicato nel corpo, l’io, illusorio in senso metafisico (Taine arriva a definirlo “un teorema che cammina”),30 non lo è tuttavia in senso ordinario: “Non lo si può dichiarare vuoto, qualcosa gli corrisponde, qualcosa di analogo a quello che, secondo la nostra analisi, costituisce la sostanza del corpo”.31 È vero, dunque, che l’io ha un carattere virtuale, che è simile a “un punto matematico” al quale giungiamo e dal quale non possiamo staccarci se non qualche minuto per effetto di un’estasi (Di, II, 201), ma è anche vero che, di norma, quando esso supera i pericoli che incontra continuamente lungo la strada, la sua unità è assicurata dal funzionamento coerente degli organi corporei. L’io non cessa di essere un aggregato, ma è un aggregato i cui elementi collaborano tra loro, sebbene il suo flusso non assuma mai una forma continua e prevedibile.32 Qualora le nostre nuove sensazioni non riescano a concatenarsi con le precedenti si diventa tuttavia altri, ci si sdoppia. Taine trova conferma a questa sua ipotesi nell’opera del dottor Maurice Krishaber, un laringologo, autore del volume De la névropathie cérébro-cardiaque,33 che viene utilizzato a partire dalla terza edizione del De l’intelligence, del 1878. Avendo avuto il permesso di consulter le journal même de ses observations, Taine s’imbatte in “una malattia nella quale si vede benissimo come si fa e si disfa l’idea dell’io” (Di, II, 465 e n.). Krishaber – che attribuisce questo morbo a una probabile contrazione 75
dei vasi sanguigni che alimentano la zona del cervello in cui si producono le sensations brutes – è il primo a descrivere con precisione il senso di straneamento (étrangeté) che colpisce i suoi pazienti.34 Il sentimento di “non esistenza” che li attanaglia impedisce loro, ad esempio, di guardarsi allo specchio, pur assistendo continuamente – quasi dall’esterno – allo spettacolo disinteressato del proprio agire o pensare, come se ciò che accade loro non li riguardasse affatto. Un paziente, un giardiniere svizzero, descrive in questi termini la sua condizione: “Spesso mi sembra di non essere di questo mondo”.35 Altri si sentono immersi in un’atmosfera che può essere descritta ricorrendo alla parola tedesca dumpf (che significa pesante, spessa, smorta, spenta), in completo isolamento da ciò che li circonda. Provano allora un costante stupore, come venissero al mondo per la prima volta, come se tra il momento che precede una sensazione e quello successivo vi fosse “un intervallo immenso di durata, una distanza come dalla terra al sole”.36 Il paziente è simile a un “bruco, il quale, conservando tutte le sue idee e i suoi ricordi di bruco, diventasse di colpo farfalla. Fra lo stato primitivo e quello attuale, fra il primo io, quello di bruco, e il secondo io, quello di farfalla, vi è una scissione profonda, una completa rottura. Le sensazioni nuove non trovano più alcuna serie anteriore in cui possano inscatolarsi; il malato non può più interpretarle, servirsene; non le riconosce più; sono per lui sconosciute. Da qui due strane conclusioni, la prima che consiste nel dire: Io non sono; la seconda, di poco successiva: Io sono un altro”. Riportando la testimonianza di un paziente di Krishaber, Taine accetta la metamorfosi degli io: “C’era in me un essere 76
nuovo e un’altra parte di me stesso, un essere vecchio, che non s’interessava affatto all’altro” (Di, II, 471). Appunto: Je ne suis pas o Je suis un autre.37
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3. L’arcipelago degli io: i médecins philosophes
Tre profili Non appena questo modello della coscienza coloniale viene trasportato dagli ambiti della fisiologia e della zoologia a quelli della psicologia e della psicopatologia, i risultati appaiono sorprendenti. I protagonisti di questa transizione sono Théodule Ribot, Pierre Janet e Alfred Binet, i cui libri conobbero un enorme successo. Vennero, in particolare, venduti a decine di migliaia di copie alcuni volumi di Ribot come Les maladies de la mémoire [MdM], Les maladies de la volonté [MdV] e Les maladies de la personnalité [MdP] (pubblicati a Parigi, rispettivamente, nel 1881, nel 1883 e nel 1885). Ebbero però larga diffusione anche L’automatisme psychologique [AP] di Janet (Parigi 1889) e Les altérations de la personnalité [AP] di Binet (Parigi 1892). I nomi di questi médecins philosophes sono oggi quasi dimenticati. Eppure erano famosi fra i contemporanei come campioni di una lotta contro la psychologie pétrifiée ufficiale o la “piccola psicologia all’acqua di rose” che discettava sulle facoltà dell’anima trasformate in enti metafisici.1 Passati dagli studi filosofici alla patologia dell’anima senza mai perdere il contatto con la loro disciplina d’origine, hanno lasciato tracce indelebili nelle opere di autori che si sono nutriti del loro pensiero, accettandolo o, più 78
raramente, respingendolo. Molte idee di Nietzsche, Bergson, Sorel, Proust, Pirandello (per non dire di Freud) sarebbero inconcepibili senza l’insegnamento di Ribot, Janet e Binet, così come risulterebbero scarsamente perspicui tutti gli sviluppi politici che si diramano dalla psicologia delle folle di Gustave Le Bon. Le figure di questi medici-filosofi – certo più modeste rispetto a quelle che l’humus delle loro idee ha contribuito a generare – meritano perciò di essere inquadrate più da vicino e sottratte, almeno in parte, all’oblio. Il caposcuola è Théodule Ribot (1839-1916), dapprima professore alla Sorbona e poi al Collège de France, la cui carriera accademica inizia con lo studio della psicologia inglese, francese e tedesca (Bain, Spencer, Stuart Mill, Hartley, Taine, Wundt) e con la traduzione – compiuta nel 1875 in collaborazione con Espinas – dei Principles of Psychology di Spencer.2 Dal suo apprezzamento delle tradizioni intellettuali britanniche deriva il rifiuto – al quale non sempre resterà fedele – sia dell’introspezione, sia dell’approccio speculativo, che si manifesta anche nella dichiarazione di preferire i “piccoli fatti” alle “grandi teorie” (Binet, DC, 7). Nel 1876 fonda la “Revue philosophique de la France et de l’Étranger”, che Nietzsche ha definito, assieme a “Mind”, la migliore rivista di filosofia del mondo.3 Ed è proprio sulle pagine di questa rivista che passano numerose discussioni sulla teoria della personalità, sulle allucinazioni, sull’isteria o sull’ipnosi, considerate dal punto di vista teorico. Particolare rilievo assume nell’evoluzione delle teorie di Ribot la stesura del libro La philosophie de Schopenhauer, in cui il tema della volontà e del suo cieco impulso vitale 79
(Drang zum Leben)4 s’intreccia con quello del soggetto, “che tutto conosce e non è conosciuto da niente”. Ribot tenta di gettare un ponte tra lo Schopenhauer filosofo e lo Schopenhauer fisiologo, studioso di Cabanis e di Bichat. Il corpo e il “polo del cervello” (ma non il “polo dei genitali”, la sfera della sessualità, di cui Ribot non si occupa, mentre sarà determinante per la riflessione di Freud) vengono così posti al centro dell’attenzione e sembrano costituire l’elemento di maggiore attualità del filosofo tedesco.5 Con metafora militare, il cervello è presentato da Ribot come “una sentinella posta nella testa dalla volontà per sorvegliare il mondo esterno dalla finestra dei sensi” (PhS, 72). Della produzione successiva (da L’hérédité. Étude psychologique sur ses phénomènes, ses lois, ses causes, ses consequénces [1873] fino a La psychologie de l’attention [1888], a La psychologie des sentiments [1896] e all’Essai sur les passions [1907]) si dirà tra breve. Pierre Janet (1859-1946), nipote del filosofo Paul Janet, professore alla Sorbona, studia all’École Normale Supérieure nello stesso periodo di Bergson e di Durkheim. Com’era allora consentito ai normaliens, sostituisce il servizio di leva con un congruo numero di anni d’insegnamento nei licei di provincia. Sostiene, nel 1889, la sua tesi di dottorato in filosofia su L’automatisme psychologique, nella quale assegna alla coscienza una funzione di ordine e di sintesi, mentre considera invece il “subcosciente” (termine da lui coniato nella forma di “idee subcoscienti”) fattore di désagrégation e di dégénérescence psicologica. Ancor prima della laurea in medicina, conseguita nel 1893, Charcot gli affida la direzione del laboratorio di psicologia alla Salpêtrière e Ribot, nel 1895, la 80
supplenza del suo corso al Collège de France, dove Janet ottiene infine una cattedra nel 1902.6 Per quanto nel 1840 fosse stato segnalato in Europa il caso di una ragazza con doppia personalità, caso che gli fece una grande impressione,7 si attribuisce a Janet la prima analisi clinica concreta della dissociazione della personalità. Uno dei periodi più fecondi per la ricerca è certamente quello iniziato a Le Havre nel 1893, quando ottiene dall’Hôpital Général una stanza per esaminare “tutti i neuropatici di Normandia”, pazienti preziosi, perché ancora “ingenui”. Infatti, essi non erano stati ancora manipolati e appositamente preparati per le spettacolari esibizioni cui Charcot sottoponeva i “grandi isterici” della Salpêtrière, dove il famoso clinico aveva fondato un “museo patologico vivente”, un laboratorio attrezzato per provocare osservazioni, per rendere visibili e catalogare sintomi, per modellare – non senza artifici – la figura stessa dell’isteria, “Proteo che si presenta sotto mille forme senza assumerne alcuna”.8 Diversamente da Charcot o da Ribot, Janet evita di ipostatizzare la personalità dei pazienti, trasformandola in sostanza metafisica. La considera soltanto quale “oggetto intenzionale delle condotte di personalizzazione”. Parallelamente e significativamente, non esistono per lui individui, ma solo condotte d’individuazione.9 Janet è l’unico dei tre médecins philosophes con cui Freud si sia confrontato e con il quale abbia polemizzato. Janet, dal canto suo, pur opponendosi a “Monsieur Freud”, riconosceva nella psicoanalisi una parziale continuazione delle sue teorie (che, nel campo delle personalità multiple, si prendono oggi una rivincita postuma contro quelle del loro rivale).10 Tra i suoi allievi diretti si possono annoverare nomi 81
di prestigio – Piéron, Claparède e Piaget –, mentre, tra quelli indiretti, meritano di essere ricordati Ernesto De Martino e il giovane Foucault. Il concetto di “funzione del reale” e il libro De l’angoisse à l’extase hanno svolto un ruolo determinante nell’interpretazione che Ernesto De Martino ha dato della magia e della crisi della “presenza”. Nel suo primo libro, Maladie mentale et personnalité, Michel Foucault, dopo aver notato in Janet la presenza delle Croonians Lectures (1874) di Jackson, si domanda poi – in termini janetiani – se la disintegrazione psichica costituisca l’esatto rovesciamento dei meccanismi d’integrazione della personalità e se la malattia mentale sia una regressione pura e semplice. Certo – riconosce – “la nevrosi è un’archeologia spontanea della libido” (MMP, 26) e la malattia può disfare la trama dell’evoluzione, giungendo a minare, nelle forme acute, anche gli strati più arcaici. Essa, tuttavia, non si limita – aggiunge di suo – a distruggere o a riportare l’individuo al passato arcaico della specie. È anche capace di mostrare aspetti nuovi: “Non bisogna leggere la patologia mentale nel testo troppo semplice delle funzioni abolite: la malattia non è perdita della coscienza, addormentamento di questa o quella funzione, obnubilazione di questa o quella facoltà […]. In effetti la malattia cancella, ma sottolinea anche; essa abolisce, da un lato, ma è per esaltare dall’altro; l’essenza della malattia non è soltanto nel vuoto che scava, ma anche nella pienezza positiva delle attività sostitutive che vengono a colmarla” (MMP, 20). Nella malattia, quindi, la personalità non scompare mai interamente. Vi sono punti di coesione che assicurano al malato l’unità vivente della sua coscienza. Per questo, la scienza della patologia mentale non può essere che la scienza della personalità malata, in quanto la 82
malattia mette in causa la totalità di un individuo e l’intero orizzonte del suo mondo. Il terzo di questi médecins philosophes, Alfred Binet (nato a Nizza, nel 1857, quando ancora la città apparteneva al Regno di Sardegna, condiscepolo di Babinski e fondatore nel 1894 della “Revue psychologique”),11 è quello che ha avuto una carriera accademica meno brillante degli altri due, ma il cui lavoro ha lasciato, per certi aspetti, l’impronta più durevole, sia attraverso l’influenza diretta che Les altérations de la personnalité12 ebbero su Pirandello (e l’insieme delle sue opere tanto su Jung – che si recò a Parigi a seguire le sue lezioni nel 1902 –, quanto sulla psicopatologia anglosassone), sia attraverso gli studi sull’intelligenza dei bambini e i metodi e i quozienti per misurarla, che sono tuttora adottati. Negli Stati Uniti le storie della psicologia ufficiali citano in genere, fra i tre, soltanto lui, perché (diversamente da Ribot e, in parte, da Janet) non è stato solo un library psychologist, ma anche un notevole studioso sperimentale. Vi è tuttavia un’altra ragione per l’affermarsi delle sue concezioni in America: con il libro On Double Consciousness, apparso solo in inglese a Chicago nel 1890, Binet ha dato un impulso decisivo agli studi americani sulle personalità multiple.13 Non è senza significato – pensando a Pirandello e alla letteratura del suo tempo – che Binet sia stato anche un autore di pièces teatrali e che abbia usato una metafora teatrale per esaminare la relazione tra l’“io normale”, che sta alla ribalta, e l’“io oscuro”, nascosto dietro le quinte.14 In collaborazione con André de Lorde, aveva, infatti, composto diverse opere, tutte di taglio psicopatologico e ambientate talvolta in manicomio: L’obsession (1905), 83
L’expériment orrible (1909), L’homme mystérieux (1910), Les invisibles (non datata), che vennero rappresentate in pubblico al Théâtre Sarah Bernhardt e al Grand-Guignol. Nel 1923 André de Lorde mise in scena a Londra, con grande successo, A Crime in the House of the Insane, di cui Binet – a suo dire – sarebbe stato coautore15 e che potrebbe aver costituito il remoto modello di Psycho per l’allora giovane Alfred Hitchcock. Il monarca insidiato Tramite Ribot, Janet e Binet si afferma l’idea che l’io sia plurimo, composto – al pari delle colonie animali – di una molteplicità originaria di io, i quali si sottomettono successivamente a un “io egemone” che, in maniera ‘democratica’, diventa una specie di presidente di un governo di “coalizione” oppure, in maniera ‘autocratica’, una sorta di Luigi XIV, di Moi Soleil. L’io è una relazione, un modo di coordinarsi tra un primus inter pares e i suoi simili (da cui ha ricevuto la delega a rappresentarli) o tra un sovrano e i suoi sudditi. L’equilibrio raggiunto non è però assicurato per sempre. Infatti – come sappiamo – quel che è più complesso è anche più labile, mentre ciò che è atavico risulta più forte, incrollabile, roccioso. A essere colpite per prime, in occasione di qualsiasi choc o trauma, sono perciò le facoltà superiori, quelle che hanno sede nella corteccia cerebrale, organo filogeneticamente più giovane.16 Da qui le malattie della personalità, della volontà e della memoria. Quando la funzione coordinatrice o egemonica dell’io non è più in grado di resistere a nuove sfide, accogliendo in sé ulteriori incrementi di complessità, la personalità (che, di norma, è già scarsamente coesa e priva di quell’unità, 84
semplicità e identità che la tradizione filosofica e religiosa attribuisce all’anima, ora esaminata secondo categorie “scientifiche” e non più teologiche o metafisiche) si scinde in entità indipendenti. La volontà non riesce allora a mantenerne l’identità, lacerata com’è dalla pluralità di desideri contrastanti su cui non ha potere. Il tas de petites consciences (Ribot, MdP, 154) o il tout de coalition si sfalda. L’io egemone, terminale di tutte le deleghe e “deleghe di deleghe” (MdP, 161), è allora costretto a rassegnare il proprio mandato o ad abdicare. Caduto il governo o rovesciato il trono, la federazione di anime si scioglie e lo stato assolutistico della psiche si dissolve.17 Non appena l’io egemone s’indebolisce, gli io in precedenza abbandonati o esclusi rientrano in forze dall’esilio e restaurano un proprio parziale potere. Ci si accorge allora che essi non sono degli alieni, degli sconosciuti, quanto, piuttosto, delle vecchie conoscenze ripudiate e fin troppo note – sebbene consapevolmente o inconsapevolmente ignorate –, che hanno potuto fino ad allora esprimersi solo attraverso i sogni, le rêveries o i deliri. Questi io non sono, dunque, altro da noi, perché erano già in noi, anzi già noi. Solo che in precedenza restavano subordinati a una gerarchia psichica che offriva loro pochi spazi d’indipendenza. Quando si ridestano, può sembrare di essere posse-duti da potenze estranee, ma in realtà ciò che sembra invaderci sono parti di noi al plurale, che rientrano dalla diaspora e non ci raggiungono più soltanto nella libera uscita notturna del sogno. In linguaggio lockiano, ciascuno resta il medesimo “uomo”, ma in differenti “persone”. Il declino o la caduta del delegato al potere centrale, rivelatosi incapace di gestire situazioni di emergenza, 85
conduce a una rifeudalizzazione o ‘decolonizzazione’ (nel duplice senso, zoologico e politico) dell’apparato psichico. Le coscienze parziali riprendono la loro primitiva autonomia, dando spesso luogo – sul piano patologico – a personalità multiple, compresenti o alternanti, nel medesimo individuo. Il solitario protagonista è così surrogato da una quantità variabile di ex comprimari, che, di volta in volta, aspirano a calcare la scena come attori principali. La molteplicità di poli di coscienza, che costituiva una ricchezza di possibilità in un governo di coalizione psichica, diventa ora un fattore di disgregazione. Il grande apparato psicologico-psichiatrico in grado di affrontare il problema della scissione e della moltiplicazione della personalità si mobilita quando la debolezza dell’io viene avvertita come fenomeno che rischia di diventare epidemico, di estendersi al di là della sfera patologica sino a coinvolgere l’intera società, caratterizzata dalla décadence, soprattutto perché il disorientamento e l’irresolutezza contraddistinguono attualmente molti caratteri (cfr. Ribot, MdV, 36). L’interesse per questi temi non resta quindi circoscritto entro la sfera degli studi specialistici. A partire dalla tesi di Claude Bernard secondo cui la malattia è “un esperimento stabilito dalla natura” – che mostra, in forma macroscopica, ciò che accade, in misura meno avvertibile, anche negli individui sani –,18 Ribot crea una nuova disciplina, la psychologie morbide, dedicata allo studio “delle anomalie e delle mostruosità”,19 che ha il compito di indicare gli scarti rispetto alle norme. Le malattie mentali, in particolare, costituiscono un terreno fertile per questo genere di ricerche, in quanto esibiscono una sorta di dissoluzione spontanea dell’apparato psichico nei suoi 86
elementi primi, frutto direbbe Jackson di un reversal of evolution, dimodoché – osserva Pierre Janet – “se si conoscessero bene le malattie mentali, non sarebbe difficile studiare la psicologia normale”.20 La novità nelle teorie di Ribot e degli altri médecins philosophes (termine già applicato agli idéologues Cabanis e Destutt de Tracy) non consiste tanto nell’aver individuato simili patologie e denunciato l’esistenza di personalità multiple, quanto nell’aver posto la pluralità e la separazione dei poli di coscienza all’inizio della coscienza stessa, relegando la loro unificazione, sempre provvisoria, a fasi successive. In maniera oscura, il fenomeno delle personalità multiple era, infatti, noto da tempo. Alcuni lo fanno addirittura risalire all’episodio dell’indemoniato raccontato nel Vangelo di Marco (5, 1-13), che, alludendo agli spiriti da cui era posseduto, esclama: “Il mio nome è legione, perché siamo molti”. Paracelso, a sua volta, aveva descritto l’ostessa di una taverna come dotata di “secondo Sé”. È, tuttavia, solo a partire dall’inflazione di “doppi” di cui è costellata la letteratura dell’Ottocento che questa patologia diventa conclamata. Ricorre, infatti, con insistenza: dai Racconti di Hoffmann allo William Wilson di Edgar Allan Poe, dallo Strano caso del Dottor Jekill e del signor Hyde di Robert Louis Stevenson al Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (questi ultimi romanzi, rispettivamente del 1886 e del 1891, dipendono già dalle opere di Ribot). Il primo caso clinicamente descritto di dissociazione della personalità viene però segnalato nel 1815 dal medico statunitense John Kearsley Mitchell, che espone la storia di una ragazza, Mary Reynolds, la cui personalità si scisse completamente tra i 87
diciannove e i trentacinque anni, finendo per assestarsi sulla sua seconda personalità. Nel 1840 l’espressione “personalità multiple” comincia a entrare nel linguaggio medico, grazie al dottor Despine di Aix-en-Provence,21 finché, nei decenni successivi, l’osservazione sistematica del sonnambulismo e l’uso metodico dell’ipnosi (che può provocare uno sdoppiamento indotto della personalità) forniscono abbondanti materiali alla teoria degli io multipli.22 Dopo aver individuato un caso di tripla personalità (Lucie III, che aveva coscienza anche di Lucie I e II, cfr. AP, 87), Janet consegue il peculiare record di tracciare la biografia multipla di una donna dotata di ben sedici personalità. Si tratta di Madeleine Lebouc (il nome vero era Pauline Lair Lamotte), la cui vita misera e travagliata ha conosciuto condanne per prostituzione e vagabondaggio, fino a quando – consegnata dalla polizia ai medici e rinchiusa in clinica – cade in preda di visioni mistiche, durante le quali s’identifica con santa Teresa o con le possedute dal demonio a Loudon.23 Tale moltiplicazione delle personalità, evidente sul piano patologico, viene presupposta anche su quello fisiologico, nelle persone considerate normali, tanto che – come scrive Paulhan – “è impossibile sapere il numero degli io che un individuo contiene […] questi differenti io si incrociano, e si associano talvolta gli uni con gli altri e gli uni contro gli altri […] ma non si riconducono a una unità; l’io, dal punto di vista psichico, non è che un’astrazione, che non esiste in natura e che non ha alcuna realtà sostanziale o fenomenica”.24 Restaurazione di un ordine antico L’apparato psichico, dunque, si “altera” e si spezza in frammenti non abilitati a concedere deleghe interne al 88
sistema stesso. Il Moi Soleil si eclissa e il governo di coalizione cade. Ma poiché – secondo un’immagine di Le Bon – l’unità dell’io “è tanto fittizia quanto quella di un esercito”, venendo decapitato lo stato maggiore, i soldati si trovano allo sbando e, come si direbbe oggi, gli io dispersi formano subpersonalities.25 Questo non significa però che la detronizzazione o le dimissioni della personalità egemone debbano essere concepite come puro caos. Succede, al contrario, che “la disorganizzazione si organizza”26: a livello meno complesso, ma si organizza. Nella vita psichica, infatti, le crisi d’egemonia non producono mai un vuoto di potere, bensì la dissoluzione di rapporti maggiormente complessi e instabili e il prevalere di una volontà divisa e, perciò stesso, debole ma stabile nella sua frattura (cfr. Ribot, MdV e VPAA, 65 sgg.). Tale dissoluzione, a sua volta, dà luogo a sintesi e relazioni psichiche più limitate ma più persistenti, in cui gli io della vecchia coalizione si riconfiguano e si riposizionano diversamente. Il restringimento del raggio di coscienza comporta la parallela riduzione del potere di formare alleanze più larghe attorno a un io capace di attrarre a sé contenuti lontani. Ciò che non cade nel campo gravitazionale di un determinato polo di coscienza è catturato nell’orbita di un altro oppure vaga, attraversando tutto lo spazio psichico del malato, in cerca di connessioni più stabili. Secondo un’espressione di Binet, la crisi di egemonia agisce comme un dyaliseur,27 un dializzatore che separa i contenuti psichici, trattenendone alcuni in specifici agglomerati di coscienza e respingendone altri. In ogni uomo, sano o malato, la coesione della personalità dipende dai livelli della sua coordinazione: “L’unità dell’io, in senso psicologico, è dunque la coesione, durante un dato 89
tempo, di un certo numero di stati di coscienza chiari, accompagnati d’altri meno chiari e da una folla di stati fisiologici che, senza essere accompagnati da coscienza, come i loro congeneri, agiscono tanto e più di questi. Unità vuol dire coordinazione. L’ultima parola di tutto questo è che il consenso della coscienza, essendo subordinato al consenso dell’organismo, fa sì che il problema dell’unità dell’io sia, nella sua forma ultima, un problema biologico” (Ribot, MdP, 170-171). Al livello più basso, ma fondamentale – poiché l’io viene dal basso e non dall’alto – si situa quindi il “senso del corpo”, “la coscienza generale dell’organismo”, la percezione incessantemente avvertita dall’io che il proprio corpo gli appartiene. Da un lato, tale nozione è analoga alla cenestesia, definita come “il tono dei nervi sensibili o la percezione dell’attività media in cui essi si trovano costantemente quando non sono sollecitati da alcun’impressione interna”,28 dall’altro, è imparentata con la tradizione sensistica e persino spiritualistica francese, ossia con il sentiment fondamental de l’existence o con il sentiment de l’existence sensitive di Maine de Biran. Ribot sa che alla base della personalità si pone “questa coscienza oscura che è il risultato di tutte le azioni vitali”, questo pre-riflessivo “sentimento della vita” che, in quanto si ripete senza tregua, resta normalmente al di sotto della soglia di coscienza (cfr. MdM, 84). Accetta così l’insegnamento di Moritz Schiff secondo cui “tutta la nostra coscienza dell’io risiede nella cenestesia” (da cui consegue che il sentimento della nostra unità non ha più bisogno di alcun sostrato). Infatti, “non è la coscienza che serve di base al pensiero; è, al contrario, sempre il pensiero che, in certi casi, evoca la coscienza. Non è […] la coscienza che accompagna il pensiero, poiché, se la 90
coscienza presente cessasse e non fosse immediatamente sostituita da un’altra, ciò che resterebbe all’esprit sarebbe non la coscienza (come un quadro di cui si è cancellata l’iscrizione), ma nulla: la nostra individualità, la nostra coscienza interiore sarebbe scomparsa. La coscienza dell’io non è dunque continua, ma interrotta […]. Il suo contenuto varia e non è immutabilmente uguale a se stesso […]. L’io di un momento dato è sempre incompleto”.29 Per Ribot, dunque, “porre l’essenza della nostra personalità in un modo d’esistenza (la coscienza) che si dissolve durante almeno un terzo della nostra vita” (MdP, 100) rappresenta un capovolgimento dell’ordine naturale delle cose. Egli si situa qui – ma solo parzialmente – lungo la linea di ricerca di quanti considerano l’“inconscio cerebrale” quale fondamento della coscienza. Tale teoria, elaborata da Laycock tra il 1840 e il 1845, nasce dalla scoperta della continuità tra midollo spinale e cervello, dalla constatazione che entrambi rispondono agli stimoli mediante riflessi automatici. In linguaggio tecnico, viene cioè stabilita “un’unificazione funzionale dell’asse cerebro-spinale” e “un’estensione al cervello dei processi riflessi messi in evidenza dapprima sul solo midollo spinale”.30 Con Jackson, discepolo di Laycock, si compie un altro passo avanti verso la svalutazione della coscienza, dichiarata illusoria e degna di perdere il suo tradizionale primato, perché, se l’asse cerebro-spinale è predominante, essa deve rinunciare alla propria autosufficienza. Pur essendo contrario a ogni separazione dell’io dalla corporeità, Ribot lo è anche a ogni riduzione immediata del primo alla seconda. Contro Bain, il quale sostiene che la coscienza è “come un getto di luce che esce da una 91
macchina a vapore e la rischiara, senza avere la minima efficacia sul suo movimento” – tanto che, sopprimendo la coscienza, le funzioni fisiologiche continuano imperterrite il loro corso (cfr. Binet, DC, 20) –, Ribot afferma l’esistenza di un facteur nouveau, che segna una tappa capitale nello sviluppo degli esseri viventi sulla Terra (MdP, 17 sgg.) e appoggia la tesi spinoziana secondo cui l’anima è l’idea del corpo, così che anima e corpo non sono che un phénomène à double face.31 La coscienza è vulnerabile, virtualmente disintegrabile, ma non è un fuoco fatuo, un epifenomeno. Negli organismi inferiori il sentimento fondamentale dell’esistenza s’identifica con l’individualità psichica tutta intera. Ma più si sale lungo la scala degli esseri, più il suo ruolo esplicito perde d’importanza. Nell’uomo e negli animali superiori esso resta come una specie di basso continuo, appena avvertibile. In loro “il rumoroso mondo dei desideri, delle passioni, delle percezioni, delle immagini, delle idee, ricopre questo fondo silenzioso: tranne che per intervalli, lo si dimentica perché lo s’ignora. Succede qui qualcosa d’analogo a quel che avviene sul piano dei fatti sociali. I milioni di esseri umani che compongono una grande nazione si riducono per essa stessa e per gli altri a qualche migliaia di uomini che ne sono la coscienza chiara, che ne riassumono l’attività sociale in tutti i suoi aspetti: politica, industria, commercio, cultura intellettuale. Tuttavia sono proprio questi milioni di esseri ignorati, dall’esistenza limitata e locale, che vivono e muoiono senza strepito, che fanno tutto il resto: senza di loro non c’è niente. Essi costituiscono questo serbatoio inesauribile dal quale, mediante una selezione rapida o brusca, alcuni salgono alla superficie; ma questi privilegiati del talento, del potere o 92
della ricchezza non hanno che un’esistenza effimera. La degenerazione fatalmente inerente a tutto ciò che si innalza abbasserà anche loro o la loro razza, mentre il sordo lavoro di milioni di ignorati continuerà a produrne altri e a imprimere loro un carattere”.32 Tale sentimento costituisce, anche nell’io umano, la trama silenziosamente tessuta senza la quale svanirebbe il principio d’individuazione (da interpretarsi come qualcosa di profondamente diverso dall’idea di un sostrato amorfo che sorregge tutte le modificazioni e gli stati della coscienza). L’io si mantiene attraverso successive sintesi temporali di stati di coscienza: “L’io, come appare a se stesso, consiste in una somma di stati di coscienza. Ve n’è uno principale, attorno al quale si raggruppano degli stati secondari che tendono a soppiantarlo e che sono essi stessi spinti da altri stati appena coscienti. Lo stato che occupa il ruolo principale, dopo una lotta più o meno lunga, recede ed è rimpiazzato da un altro, attorno al quale si costituisce un raggruppamento analogo […]. Il nostro io d’ogni momento, questo presente perpetuamente rinnovato, è in gran parte alimentato dalla memoria, ossia allo stato presente si associano altri stati già respinti o localizzati nel passato, che costituiscono la nostra persona come appare a ogni istante” (MdM, 83). Vi è, tuttavia, antagonismo tra vecchi e nuovi punti d’attrazione, tra vecchi e nuovi io. Le coalizioni, come in tutti i governi, o le classi dirigenti, come in tutti i paesi, possono disfarsi. La coscienza rappresenta la classe dirigente (o, dalla prospettiva del corpo, l’aristocrazia delle cellule della corteccia cerebrale), che governa poggiando sul lavoro di numerose funzioni corporee ignorate, eppure tra loro cooperanti, assimilabili al proletariato delle cellule. Ma le 93
élite – al pari di tutto ciò che si innalza dal suo stato primitivo – sono instabili e costantemente minacciate dalla dissoluzione, mentre ciò che sta in basso, che vive e muore senza strepito, è più durevole, sia sul piano psicofisiologico sia su quello sociale. La stabilità non ha, tuttavia, valore per se stessa: “Se la stabilità desse la misura della dignità, il primo posto sarebbe assegnato ai minerali” (MdP, 15). A rigor di termini, l’io è soltanto una relazione, ma una relazione che, nella maggior parte degli uomini, si conserva, soprattutto quando essi non si allontanano molto dall’originario “senso del corpo” e non si perdono in speculazioni astratte. Il “vero io”, infatti, è “quello che sente, pensa e agisce, senza darsi in spettacolo a se stesso; poiché esso è per natura, per definizione, un soggetto; e, per diventare un oggetto, deve subire una riduzione, un adattamento all’ottica mentale che lo trasforma e lo mutila” (MdP, 94). La conservazione di un durevole equilibrio psichico sembra quindi più facile tra gli individui che si arrestano a un livello di coscienza meno complesso. In questo senso, la maggior parte degli uomini sono tendenzialmente capaci di elaborare la propria personalità senza bisogno di diventare dei virtuosi nella conoscenza di se stessi o nella ricomposizione delle scissioni dell’autocoscienza: “Il bambino, il contadino, l’operaio, i milioni di persone che percorrono le strade e i campi, che non hanno mai sentito parlare di Fichte o di Maine de Biran, che non hanno mai letto dissertazioni sull’io e sul non-io e neppure una riga di psicologia, posseggono ciascuno la propria personalità ben netta e in ogni momento l’affermano istintivamente. A partire da quell’epoca dimenticata in cui il loro io si è costruito, e cioè si è formato 94
come un gruppo coerente in mezzo agli eventi che lo assalgono, questo gruppo si mantiene incessantemente, incessantemente modificandosi”.33 Il fatto è che la maggior parte degli uomini ha, appunto, scordato la lotta terribile attraverso cui si è costituita in ciascuno di essi la coalizione degli io e si è instaurata l’egemonia di uno di essi. La loro personalità procede poi normalmente – come si direbbe oggi in gergo informatico – per default, così che si accorgono d’essere plurimi solo quando un forte choc altera gli equilibri raggiunti. In questa prospettiva, a differenza del modello di autocoscienza attribuito a Fichte, le parti dell’io restano tra loro virtualmente autonome. La coordinazione fra i poli di coscienza non passa cioè attraverso il potenziamento dell’autoriflessione, ma attraverso l’incremento di complessità della relazione stessa. La scissione della coscienza è inoltre costitutiva, come nell’idealismo classico tedesco. Non sfocia, tuttavia, in una ricomposizione di sé ottenuta grazie a sdoppiamenti (Entzweiungen), bensì grazie a equilibri instabili, sempre esposti alla disgregazione e alla regressione. Ribot non si sforza quindi né di congiungere circolarmente la coscienza con se stessa nel Selbstbewußtsein, né di innalzare “piramidalmente”, alla maniera di Goethe, la struttura della soggettività.34 Egli scava, discende in profondità, per ricominciare poi a costruire l’io ab imis fundamentis, da ciò che vi è in esso di più rudimentale, dalle formes élémentaires sino ai più alti livelli di complessità. Non cerca la “luce della coscienza”, ma i suoi presupposti; non vuole comprendere la ragione in se stessa, ma nel corpo. Considerando la coscienza quale fenomeno dipendente dall’attività cerebrale, finisce però per 95
naturalizzarla, sottraendola alla storia e privandola della consistenza e delle specificazioni impresse dalle istituzioni. Verso il passato Quando la coscienza più forte, che non era l’unica (ma ricopriva soltanto le premier rôle: MdM, 83), s’indebolisce e si spegne, si scopre che anche le volontà e le memorie parziali non sono in grado di convivere come alleate. Infatti, non è soltanto l’io a sdoppiarsi o a moltiplicarsi in forma morbosa, ma lo sono, appunto, anche la volontà (che entra in conflitto con se stessa) e la memoria (che si rende autonoma in ciascun polo di coscienza). Poiché gli strati organici più elementari e arcaici sono i meno soggetti alla dissoluzione, i ricordi più antichi si conservano meglio dei più recenti, in conformità a quella che ancor oggi è nota come “legge di Ribot”, in riferimento a una caratteristica forma di amnesia senile.35 Ciò che è complesso scompare più facilmente rispetto a quel che è più semplice o meno ancorato all’esperienza della ripetizione. Accanto alla memoria psicologica, bisogna perciò presupporre una “memoria organica” (concetto introdotto nel 1867 da Henry Mausdley per designare la memoria diffusa in ogni parte del corpo, persino “nelle cellule nervose disseminate nel cuore e nelle pareti intestinali”),36 che stabilisce associazioni dinamiche altrettanto stabili quanto le connessioni anatomiche primitive. Se non esistesse, tutto si ridurrebbe a vestiges e traces (MdM, 27). Nei casi patologici si formano tante memorie separate, simultanee o successive, quante sono le personalità, alternanti o seriali, che vengono a crearsi e che s’ignorano a vicenda (nel 1882, il dottor Herbert Mayo cita un caso di memoria quintupla).37 Ogni memoria, in quanto vision dans 96
le temps, corrisponde a una vita: nel caso delle amnesie periodiche la doppia memoria trova riscontro in una double vie (MdM, 34, 82), mentre, a loro volta, le memorie plurime corrispondono a una molteplicità di vite. Si può giungere a una disgregazione tale che in un individuo, come Gilles de la Tourette dice di uno dei suoi pazienti, Louis V., chaque page de sa vie est indépendante des autres38 (questa è, del resto, la nota definizione che Bourget dava della décadence in campo letterario).39 In quanto composto instabile, l’io può ricombinarsi in maniera diversa rispetto alla norma e assumere così – secondo l’espressione di Myers – una “cristallizzazione allotropica”.40 Gli manca ormai l’energia per svolgere quel lavoro costante che Locke esigeva per il mantenimento dell’identità personale, per indirizzare, in maniera quasi spontanea, il passato verso il futuro. Il ruolo della memoria, accanto a quello della cenestesia, è strategico nel mantenimento dell’identità personale. Serve a evitare che il mondo, in quanto “collezione di fenomeni senza substratum”, si dissolva. Essa è – dice Ribot in polemica con Mill – il filo della collana che impedisce alle singole perle di disperdersi.41 Nella fase critica di dissoluzione del potere spontaneamente esercitato dall’io egemone il pensiero razionale s’indebolisce, poiché “la coscienza normale si trova destituita di una parte del capitale psichico accumulato in essa”.42 Proprio la ricaduta della personalità in forme più antiche e semplici di organizzazione, che posseggono però una maggior tenuta rispetto alla coscienza “normale”, rende la follia così difficile da combattere. Il ritorno al passato dell’atavismo, il viaggio filogeneticamente a ritroso nel tempo dell’individuo verso 97
stadi già attraversati da lontani progenitori, si compie grazie al rinnovato prevalere della “logica dei sentimenti” (secondo il titolo del volume di Ribot apparso nel 1905, La logique des sentiments). I sentimenti si dividono in “stati emotivi”, “emozioni” e “passioni”. I primi indicano semplici condizioni (come l’aver sete); le seconde “uno choc, una rottura d’equilibrio brusca e transitoria”43; la passione, “equivalente affettivo della volontà stabile” (EP, 181), si oppone, infine, “all’emozione a causa della tirannia o della predominanza di uno stato intellettuale (idea o immagine), a causa della sua stabilità e della sua durata relative. In una parola […] la passione è un’emozione prolungata e intellettualizzata” (EP, 6-7). Se l’emozione è paragonabile allo stato acuto in patologia, la passione lo è a quello cronico, con l’ulteriore specificazione che esistono passioni propulsive o espansive verso ciò che è desiderabile (amore, ambizione, avarizia) e passioni negative, che fanno soffrire, basate su un movimento repulsivo o una tendenza alla distruzione (odio, gelosia). Ribot accetta esplicitamente, a questo proposito, la proposta di Kant nell’Antropologia: “L’emozione agisce come un fiotto che rompe la diga; la passione come una corrente che scava sempre più profondo il suo letto. L’emozione è come un’ebbrezza, che si smaltisce; la passione invece è come una malattia per intossicazione o per deformazione […]” (Anthr., III, § 74, p. 142). La logica delle emozioni o delle passioni, pur dotata di una sua interna coerenza, conduce tuttavia alla violazione del principio di contraddizione, una scoperta che diventerà cruciale quando, dalla psicologia individuale si passerà – con Le Bon, Sorel o Mussolini – alla psicologia delle folle e alla prassi politica (cfr. più avanti, pp. 189 sgg., 211 sgg., 98
237 sgg.). In Ribot tale logica dei sentimenti è caratterizzata dal fatto che i suoi giudizi sono sostanzialmente “giudizi di valore”, anche quando si presentano sotto veste intellettuale. Essi sono costituiti dalla sintesi di due diversi fattori: “L’uno rappresentativo, costante, invariabile; per questo aspetto somiglia ai concetti puramente intellettuali. L’altro emotivo, variabile, instabile, a carattere dinamico” (LS, 36). Mentre la logica razionale mira a una conclusione, quella emotiva mira a un fine, è carica della tendence che trascina tutti gli individui (anche se, in mancanza di idee, la passione smette di crescere e di consolidarsi). Per quanto intrecciate, queste logiche “occupano ognuna un terreno che le è proprio. Esse si sviluppano secondo procedure differenti che sono determinate dai loro fini; hanno la loro psicologia, le loro condizioni di esistenza, le loro ragion d’essere come espressione di due tendenze opposte della natura umana” (LS, 186-187). La maggior parte degli uomini sono dotati di “passioni mediocri, senza forza, senza durata, senza portata”, perché i tre elementi di cui la passione è composta (affettivo, motorio e intellettuale) non hanno autonoma consistenza o non si coordinano adeguatamente tra loro (cfr. EP, 182). Anche Janet considera le emozioni un ritorno a fasi più arcaiche della vita psichica, all’indeterminatezza elementare, dove il linguaggio articolato viene meno. Diversamente da Ribot, tuttavia, l’energia psichica, quando non trova sbocco a livello superiore, non si adagia in forme più elementari ma maggiormente strutturate: si scarica disordinatamente nell’angoscia, nel sentimento del vuoto (PCM, 405), che è all’origine di tutto: “L’assenza crea la memoria, crea la 99
morte, crea il tempo, ossia crea i tre quarti della vita umana […]. Gli uomini hanno cominciato ad avere la nozione di morte prima di avere quella di tempo. La morte deriva dalla nozione di assenza” (SEP, 200 e cfr. EM, passim). La memoria sorge da un vuoto riempito, è la presenza di un’assenza, il frutto, dirà Sartre, di un magico atto di evocazione.44 I sentimenti rappresentano uno stadio in divenire della psiche umana, ancora sottoposto a metamorfosi. Rispetto alle più consolidate forme della razionalità, essi costituiscono “una regione instabile, analoga alle faglie della crosta terrestre, in cui si raggruppano le eruzioni vulcaniche e i terremoti. Sono zone incompiute del nostro globo sulle quali si producono ancora i fenomeni di cedimento, di corrugamento, di sprofondamento. Si può anche, e forse più giustamente, paragonare questa regione dello spirito a quelle specie vegetali o animali che sono ancora in mutazione, che possono diventare il punto di partenza di specie nuove in progresso e che possono anche dar luogo ad anomalie, degenerazioni e mostruosità” (OP, I, 220 sgg. e cfr. AE, II, 31-89 e passim; SV, 861-867). Neppure Janet rinuncia, però, all’idea di regressione, seppure scandita da parametri differenti da quelli di Ribot, per il quale, ad esempio, nella vita affettiva scompaiono prima le “emozioni disinteressate”, estetiche o intellettuali, poi quelle altruiste ed “ego-altruiste” (secondo la terminologia di Spencer), infine quelle egoiste (PS, 426 sgg.). Sprofondata in questa angosciosa dissoluzione dell’io, la vita perde, per Janet, ogni senso e ogni valore. Allora, lucrezianamente, nel soggetto surgit amari aliquid: il mondo è devitalizzato e ogni contatto con la realtà interrotto.45 Lo 100
stato così raggiunto non è la calma, la serenità di una semplice vacanza da se stessi, ma lo svuotamento completo, l’assenza di passioni. Quando la “crosta terrestre” dell’apparato psichico si è fin troppo raffreddata, l’uomo – la cui essenza è anche per Ribot, spinozianamente, appetitus e cupiditas –46 esaurisce quasi completamente ogni forza vitale. Un paradigma persistente La teoria della disgregazione della personalità e, più in generale, della perdita dell’identità personale e dell’impoverimento dell’io rappresenta il contributo specifico che la psicologia e la filosofia francesi di fine Ottocento offrono alla cultura europea e americana. Ora, per la prima volta, si è in grado di sostenere, su basi “scientifiche” e “sperimentali”, che l’individuo umano è “dividuo”, divisibile, composito, che è un aggregato di isole di coscienza virtualmente separabili, tenuto insieme da un sistema di alleanze psichiche suscettibili di dissoluzione e da un corpo che determina e guida la coscienza stessa. Si capovolge la visione del senso comune: il nostro “io”, la nostra personalità, non formano più un’unità naturale, destinata poi a frantumarsi nella follia (secondo il modello della “schizofrenia” elaborato da Bleuler nel 1907). Noi siamo plurimi già come punto di partenza e l’unificazione è una conquista, un risultato non sempre garantito a tutti. La follia – e non più l’amnesia, come in Locke – minaccia ora l’identità personale: non si perde soltanto l’unico filo della memoria, ma anche il controllo della pluralità degli io che normalmente coabita in noi. La follia, in quanto disgregazione della personalità, scioglimento del tout de coalition, serve non solo da pietra di paragone per 101
distinguere la personalità normale, ma da spettro di una condizione che minaccia tutti nella forma raccapricciante del monito posto all’ingresso di certi cimiteri: “ero quel che sei, sarai quel che sono”. Simili teorie contribuiscono a una svolta epocale, a un mutamento di paradigma, a un Gestalt-switch nel modo di guardare alla coscienza e all’individuo, obbligato ad abbandonare con crescente forza di convinzione l’illusione della semplicità e dell’immortalità. La scienza e l’esperienza mostrano che l’uomo – dotato, secondo Valéry, di un’âme opposable –47 non ha un io unitario (e perciò suscettibile di frantumarsi e di scindersi per effetto di uno choc, del sonnambulismo o di un comando ipnotico), ma plurimo sin dall’inizio. La persona, ossia “l’individuo che ha una chiara coscienza di se stesso e agisce di conseguenza” (MdP, 1), si costruisce secondo Ribot non per aggregazione o somma di stati di coscienza, ma per riduzione, per selezione. Nel linguaggio di Taine: di fronte alle allucinazioni permanenti, alla fantasmagoria delle immagini che sorgono dal corpo, essa sceglie e prefigura la direzione del suo essere (ma la sua natura è pur sempre condizionata dall’organismo ed è incoerente o unificata, semplice o complessa, in rapporto al corpo di cui è espressione). La domanda che ora s’impone è come l’io possa formare coalizioni relativamente stabili tra poli di coscienza originariamente autonomi, producendo vittoriosamente e senza tregua la propria unità, generando se stesso, concependosi come attività normalmente in grado tanto di resistere all’incombente disgregazione, quanto di sviluppare se stessa (anche se, ogni volta che questo sforzo è costretto a un rallentamento o a un infiacchimento, la sintesi psichica 102
risulta seriamente compromessa). Attraverso questi studi di psicopatologia e la loro diffusione a livello di un pubblico colto, ma non specialistico (se Maupassant e pochi privilegiati seguivano le lezioni di Bernard o di Charcot, erano decine di migliaia i medici, gli avvocati e le persone provviste di un certo livello di scolarizzazione a leggere le opere di Taine, Ribot, Janet o Binet), comincia l’erosione di massa dei sostituti dell’anima, degli idoli della metafisica moderna: l’io, il soggetto, la coscienza, l’identità personale. Da sponda a sponda In seguito alla pubblicazione nel 1890 di On Double Personality di Alfred Binet e dei Principles of Psychology di William James, il problema delle personalità multiple trova una fervida accoglienza anche negli Stati Uniti, dove continua a destare interesse persino dopo che in Francia e in Europa comincia a venire trascurato.48 Ciò dipende, oltre che dagli intensi scambi tra le due rive dell’Atlantico, in particolare tra Parigi, Berlino o Lipsia e Boston,49 dalla radicata attenzione americana alla psicologia individuale e dal fatto che – da un punto di vista epistemologico – le questioni legate allo studio delle personalità multiple vengono considerate nella cultura d’Oltreoceano, secondo l’insegnamento di Francesco Bacone, experimenta lucifera, che illuminano cioè molti altri aspetti della vita psichica normale e patologica.50 La trattazione sistematica del tema delle personalità plurime dall’altra parte dell’Atlantico ha inizio (per l’aspetto che ci interessa) con Morton Prince.51 Nella sua opera principale, The Dissociation of a Personality. A Biographical Study in Abnormal Psychology, apparsa nel 1905, Prince 103
analizza dettagliatamente il caso di Miss Beauchamp (un nome ovviamente fittizio, che diventò famoso anche a Broadway con una commedia dal titolo How a Girl lived Four Lives52: in realtà, nel corso della lunghissima terapia, le personalità, alternanti e successive, femminili e maschili, divennero sei: Christine, Chris, Sally, Santo, Donna, Diavolo). Nel momento in cui la cura ebbe inizio, nel 1898, Christine aveva già avuto da tempo l’esperienza di uno sdoppiamento della personalità (sin dall’infanzia si era, infatti, sentita osservata da un alter ego, Sally). Dalla personalità principale, quella di Christine, è poi sorto per dissociazione anche Chris. Ora sono tre le persone, provviste di un proprio carattere e di una propria memoria, che non si conoscono fra loro, tranne una di esse che, di volta in volta, sa chi sono le altre due. Seguono, infine, in seguito al dipartirsi di rivoli psichici from the main stream of consciousness,53 anche gli altri successivi personaggi. Le neoformazioni scaturiscono da combinazioni nuove e non da “vecchie memorie e persino funzioni e facoltà”, che possono invece andar perdute (DP, 475). Notevole è anche l’opera di Boris Sidis, Multiple Personality. An Experimental Investigation into the Nature of Human Individuality,54 che lega esplicitamente, sin dalle prime pagine, il problema dell’individualità e delle personalità multiple allo sviluppo degli organismi coloniali. Analizzando i casi dell’hydra fusca, un polipo d’acqua dolce che può essere fatto a pezzi e generare poi da ogni pezzo un nuovo individuo, o quello del codonocladidium umbrellatum, un protozoo coloniale, che ha le stesse caratteristiche dell’hydra fusca, Sidis si pone la domanda fondamentale: What is individuality? (MP, 3 sgg.), giungendo alla 104
conclusione che l’individualità è costitutivamente multipla, poiché la “controparte della vita psichica” è il sistema nervoso, formato da una “struttura sistemica multipla di organizzazione neuronale”, la quale assume tratti sempre più coerenti – senza mai diventare unitaria – quanto più si sale lungo la scala evolutiva degli esseri.55 Quali strategie teoriche di rafforzamento dell’io vengono messe in opera di fronte alla scoperta della sua fragilità e disgregabilità? Come si interpreta l’idea di una pluralità radicale, costitutiva del soggetto e come si reagisce a essa? Prenderò in esame, di seguito, cinque risposte sintomatiche, date rispettivamente da Nietzsche, Bergson, Proust, Pirandello e Simmel.
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4. Il baricentro di Nietzsche
Un gregge e un pastore Malgrado l’evidente sproporzione tra la relativa semplicità teorica delle posizioni di Ribot e la raffinata elaborazione concettuale di quelle di Nietzsche, anche nel filosofo tedesco la problematica della pluralità dell’io si trova esplicitamente o sotterraneamente connessa a ricerche di fisiologia e di psicopatologia.1 E sebbene il “passo di colomba” con cui incedono i suoi pensieri non si adatti pienamente al procedere effettivo del sapere medico (così come il suo sentirsi “una nuance” renda impossibile ogni operazione riduzionistica), il sorgere della sua concezione del soggetto e il primato attribuito alla “grande ragione” del corpo – al “saggio ignoto” che abita in noi – sarebbero impensabili senza tali premesse. L’intarsio di citazioni in questo capitolo serve non solo a valorizzarne l’importanza nel complesso sviluppo dell’indagine, ma anche a mostrarne l’intrinseca funzione nell’economia dell’intera opera. La presenza di temi tratti dalla fisiologia è nota da tempo, per quanto in genere si limiti a sottolineare un solo aspetto, quello della corporeità, proiettando, per giunta, un cono d’ombra sull’attenzione che Nietzsche dedica all’“antica e veneranda ipotesi” dell’anima.2 L’insistenza sulla dimensione del corpo è, peraltro, pienamente legittima. Solo 106
a partire dalla sua prospettiva si possono, infatti, riscoprire le inesplorate potenzialità dell’anima. A patto, però, di sottrarre alla “piccola ragione” di cui essa è veicolo il valore che, sin dai tempi di Socrate, le era stato attribuito: di arma di difesa nei confronti di un’angoscia senza nome derivante da un frainteso e temuto rapporto con gli istinti e l’inconscio, opache energie del corpo.3 Occorre quindi cancellare l’originaria tesi platonica, ripresa dal cristianesimo, per cui il corpo è prigione dell’anima e capovolgerla, dichiarando – con le parole di Foucault, eco di quelle di Nietzsche – che “l’anima è prigione del corpo” (SP, 33). Ora che si è scoperto che “tutto ciò che è semplice è meramente immaginario, che non è ‘vero’” e che “ciò che invece è reale, che è vero, non è né uno né riducibile all’uno” (NF, 8, 15 [118]), ora che che il corpo, grazie alla sua complessità, sta all’anima come “l’algebra alla tavola pitagorica” (NF, 7, 37 [4]), è virtualmente finita l’epoca del suo svilimento, il lungo periodo in cui esso era considerato il semplice involucro, il bozzolo caduco da cui si sarebbe innalzata l’eterna farfalla dell’anima: “In passato l’anima guardava al corpo con disprezzo: e questo disprezzo era allora la cosa più alta: – essa voleva il corpo macilento, orrido, affamato. Pensava, in tal modo, di poter sfuggire al corpo e alla terra. Ma quest’anima era anch’essa macilenta, orrida e affamata: e crudeltà era la voluttà di quest’anima!” (Z, 9 = 6-7). Con le parole di Horkheimer e Adorno, si può dire che Nietzsche ha individuato in tal modo una “storia sotterranea” del corpo che scorre sotto la storia nota dell’Europa: “Essa consiste nella sorte degli istinti e delle passioni umane represse e sfigurate dalla civiltà […]. Colpito dalla mutilazione è soprattutto il rapporto col corpo 107
[…]. Il corpo umano, come ciò che è inferiore e asservito, viene ancora deriso e maltrattato, e insieme desiderato come ciò che è vietato, reificato, estraniato” (DA, 249-251). Noi non abbiamo semplicemente un corpo: siamo anche un corpo, formato – quasi leibnizianamente – di un’enorme quantità di monadi dotate di un qualche grado di psichismo: “Ci sono […] nell’uomo tante ‘coscienze’ quanti sono gli esseri – in ogni istante della sua esistenza – che costituiscono il suo corpo”. Ciò che chiamiamo “coscienza” (ossia l’intelletto in quanto presunta coscienza unica) può mantenere la sua monolitica facciata perché “rimane protetta e staccata dall’infinita varietà delle vicende di queste molte coscienze e, come coscienza di rango superiore, come pluralità e aristocrazia dominante, ha a che fare solo con una scelta di esperienze, per di più solo esperienze semplificate, rese perspicue e intellegibili e dunque falsate – perché l’intelletto continui da parte sua in questo semplificare e rendere perspicuo, e dunque falsare, preparando ciò che si chiama comunemente ‘una volontà’ ” (NF, 7, 37 [4]). In altri termini, l’intelletto semplifica perché soltanto così è possibile evitare la paralisi della volontà. Se non si prendessero decisioni, se non si compissero continui ‘colpi di stato della volontà’, se non vi fosse una coscienza superiorem non recognoscens, se ogni atto di volontà non presupponesse “la nomina di un dittatore”, la specie umana si estinguerebbe. Per funzionare, l’intelletto è obbligato a cancellare i rumori di fondo, escludere dal suo campo percettivo il sordo lavorio dei subordinati: “In ogni essere umano complesso deve esistere una massa di coscienze e di volontà, tuttavia la nostra coscienza suprema tiene solitamente chiuse le altre” (NF, 7, 25 [40]). 108
L’impianto del ragionamento – ma non il suo sofisticato intreccio tematico – è molto tainiano. Per spianare la strada alla volontà, la coscienza (che deve imparare la “modestia”, perché tutto quanto attiene a essa “è solo secondo in ordine d’importanza”: NF, 7, 7 [126]) ha il compito di semplificare e chiarificare il lavoro complesso e oscuro dell’innumerevole colonia di cellule individuali. L’“aristocrazia” delle cellule non va tuttavia confusa con il “dittatore”, con il momento decisionale in cui il delegato temporaneo di questa élite passa all’azione. A partire dalla fisiologia e dall’immagine di un organismo composto da cellule-individui che si uniscono conflittualmente in colonie sempre più vaste e complesse, Nietzsche (lettore di Taine, Espinas e Ribot) trae conclusioni di più ampia portata rispetto alle sue fonti. Afferma così che l’io è “una pluralità di forze di tipo personale, delle quali ora l’una ora l’altra vengono alla ribalta, come ego, e guardano alle altre come un soggetto guarda a un mondo esterno ricco di influssi e di determinazioni. Il soggetto è ora in un punto ora nell’altro”.4 Formulando la stessa idea in altri modi, egli sostiene che la coscienza è formata da “molteplicità di coscienze” (NF, 7, 37 [4]), così come il corpo, a sua volta, da “una pluralità con un senso, una guerra e una pace, un gregge e un pastore”.5 O, ancora, che l’io è “una costruzione societaria di molte anime” (JGB, 27 = 24: Gesellschaftsbau vieler Seelen), un’unità e una pluralità, che si esaltano nell’interazione: “Io comprendo solo un essere che sia al tempo stesso uno e plurimo, che si trasformi e permanga, che conosca, senta, voglia – questo essere è il mio fatto originario” (NF, 7, 5 [243]). La tesi della pluralità degli io svolge un ruolo decisivo 109
nella critica al modello cartesiano dell’ego sostanziale, al quale Nietzsche contrappone l’attività anonima del cogitare. È il corpo che produce l’io: “ ‘Io’ dici tu, e sei orgoglioso di questa parola. Ma la cosa ancora più grande, cui tu non vuoi credere – il tuo corpo e la sua grande ragione: essa non dice ‘io’, ma fa ‘io’ ” (Z, 36 = 34). In tale atto di “fare ‘io’” il pensiero è causa, non effetto dell’io: “Da Cartesio in poi […] da parte di tutti i filosofi, sotto l’apparenza di una critica al concetto di soggetto e di predicato, si perpetra un attentato contro l’antico concetto di anima – vale a dire: un attentato al presupposto fondamentale della dottrina cristiana […]. Una volta, infatti, si credeva all’‘anima’ come si credeva alla grammatica e al soggetto grammaticale: si diceva ‘io’ è condizione, ‘penso’ è predicato e condizionato – il pensare è un’attività per la quale un soggetto deve essere pensato come causa. Si cercò allora, con un’ostinazione e un’astuzia mirabili, se non fosse possibile districarsi da questa rete, ci si domandò se non fosse vero caso mai il contrario: ‘penso’ condizione, ‘io’ condizionato; ‘io’ dunque soltanto una sintesi che viene fatta dal soggetto stesso”.6 Se la “fede nell’io sta e cade con la fede nella logica” (NF, 8, 7 [55]), ciò significa che poggia sul bisogno dell’intelletto di ancorarsi alla logica statica dell’essere. Dato che l’ego è soltanto un’ipostasi, il cogito risulta privo d’interna evidenza: la certezza immediata non esiste, se non altro perché l’io penso “presuppone il confronto del mio stato attuale con altri stati che io conosco a me attinenti, al fine di stabilire che cosa esso sia: a causa di questo rinvio a un diverso ‘sapere’ esso non ha per me, in nessun caso, un’immediata certezza”.7 Soltanto Kant ha confusamente intuito l’inconsistenza del soggetto: “Kant voleva 110
dimostrare, in fondo, che partendo dal soggetto, il soggetto non può essere dimostrato – e neppure l’oggetto: pare non gli sia stata sempre ignota la possibilità di una esistenza apparente del soggetto, quindi dell’‘anima’, quel pensiero, cioè, che come la filosofia del Vedanta già una volta e con immenso potere è esistito sulla terra”.8 Il pensiero è autonomo rispetto all’io e non dipende dalla nostra volontà: “Un pensiero viene quando è ‘lui’ a volerlo, e non quando ‘io’ lo voglio; cosicché è una falsificazione dello stato dei fatti dire: il soggetto ‘io’ è la condizione del predicato ‘penso’. Esso [Es] pensa: ma che questo ‘esso’ sia proprio quel famoso vecchio ‘io’ è, per dirlo in maniera blanda, soltanto una supposizione, un’affermazione, soprattutto non è affatto una ‘certezza immediata’. E infine, già con questo ‘esso pensa’ si è fatto anche troppo; già questo ‘esso’ contiene un’interpretazione del processo e non rientra nel processo stesso” (JGB, 25 = 21). Un Es anonimo, frutto di un nostro atto ermeneutico, risultato imprevedibile degli equilibri mobili delle cellule-individuo e delle semplificazioni costanti dell’intelletto, produce e orienta l’apparenza di individualità. Dopo Schopenhauer, anche Nietzsche prende atto del fallimento di qualsiasi strategia – fondativa o relazionale – del problema dell’identità, rinuncia alla sovranità dell’io e riconosce alla persona il suo carattere etimologico di maschera, di voce che risuona attraverso questo camuffamento del viso. La cultura moderna ha, del resto, ampiamente diffuso tali concezioni, contrapponendo l’Ich (l’io, pronome della prima persona singolare, sinonimo di soggetto, anima, consapevolezza e individualità) all’Es (pronome neutro della terza persona singolare, che si 111
riferisce a un qualcosa di non identificabile che pensa in noi e per noi). Già Lichtenberg aveva affermato, contro Cartesio, che non si dovrebbe dire Ich denke, “io penso”, bensì “Es denkt”, “esso pensa”, così come si dice “Es blitzt”, “lampeggia” (un’affermazione che sarà poi ripetuta, modulandola diversamente, oltre che da Kant, forse come cripto-citazione, anche da Mach, da Lacan e, ovviamente, da Freud).9 Coltivare i pensieri Se la permanenza dell’io risulta dalla continuità delle funzioni dell’Es, compito del filosofo è allora quello di coltivare le conclusioni dei pensieri che germogliano in lui spontaneamente dal grembo di quel “saggio ignoto” che è il corpo, senza però limitarsi ad accoglierle in maniera passiva: “Spuntano in noi da giorni umidi e nuvolosi, dalla solitudine, da due parole, le conclusioni, come fossero funghi: eccole arrivate un bel mattino, chissà da dove, e girano attorno lo sguardo per cercarci, con aria grigia e malcontenta. Guai al pensatore che non è il giardiniere, ma soltanto il terreno delle sue piante”.10 Il corpo è più intimo a me di quanto io lo sia a me stesso, mentre la coscienza è soltanto “una superficie” (eine Oberfläche)11 di un io “diventato favola, finzione, gioco di parole” (GD, 85 = 87), “un più o meno fantastico commento di un testo inconscio, forse inconoscibile, e tuttavia sentito” (M, 111 = 91-92). Essa rappresenta solo il terminale di un lungo processo, una parvenza di io e di unità: “Tutto ciò che entra nella coscienza costituisce l’ultimo anello di una catena, una chiusura. Che un pensiero sia immediatamente causa di un altro pensiero, è cosa solo apparente. I veri avvenimenti concatenati si svolgono al di 112
sotto della nostra coscienza: le serie e successioni di sentimenti, pensieri, eccetera, che si producono, sono solo sintomi del vero accadere” (NF, 8, 1 [61]). Più in dettaglio, Nietzsche precisa: “La coscienza è l’ultimo e più tardo sviluppo dell’organico e di conseguenza anche il più incompiuto e depotenziato […]. Si pensa che qui sia il nocciolo dell’essere umano: ciò che di esso è durevole, eterno, ultimo, assolutamente originario! Si considera la coscienza una stabile grandezza data! Si negano il suo sviluppo, le sue intermittenze! La si intende come ‘unità dell’organismo’! Questa ridicola sopravvalutazione, questo travisamento della coscienza hanno come corollario un grande vantaggio, consistente nel fatto che con ciò è stato impedito un troppo celere perfezionarsi della medesima. Perché gli uomini ritenevano di possedere già la coscienza, si sono dati scarsa premura per acquistarla, e anche oggi le cose non stanno diversamente!” (FW, 56-57 = 44-45). Il ruolo della coscienza è secondario ed essa è “forse destinata a scomparire e a far posto a un completo automatismo” (NF, 8 14 [144]). Sopravvalutando la coscienza, il cristianesimo ci ha attribuito un’anima, abituandoci a considerarla “come qualcosa di indistruttibile, di eterno, d’indivisibile, come una monade, come un atomon; questa credenza deve essere estirpata dalla scienza!” (JGB, 21 = 18). Nietzsche, che ha orrore della “spregevole e meschina assurdità di una sopravvivenza personale dell’individuo” (NF, 8, 11 [255]), che si è dichiarato lieto di “albergare in sé non ‘un’anima immortale’, bensì molte anime mortali” (MA, 22 = 17), non si lamenta, come Faust, di avere due anime che si lacerano in petto, perché ha dentro di sé una folla, una repubblica di 113
persone in continua contrapposizione.12 Convinto che l’esistenza terrena sia l’unica a nostra disposizione, che questa vita sia la vita eterna (Dies Leben, das ewige Leben!),13 aderisce pienamente al dogma fisiologico della pluralità degli organismi in lotta che formano la grande ragione del corpo: “E anche quei piccolissimi esseri viventi che costituiscono il nostro corpo (o meglio: del cui cooperare ciò che chiamiamo corpo è la migliore immagine) non sono per noi atomi spirituali, ma qualcosa che cresce, lotta, si accresce e a sua volta muore: sicché il loro numero muta in modo variabile, e la nostra vita è, come qualunque vita, in pari tempo, un continuo morire”. In questo senso il corpo è concepito quale una “enorme unione di esseri viventi, ciascuno dipendente e sottomesso, e, tuttavia, in certo senso a sua volta imperante e agente con volontà propria” (NF, 7, 37 [4]). Ogni cellula ha dunque una propria volontà e l’insieme innumerevole delle cellule che formano il corpo comanda ed è comandata, sebbene normalmente deleghi il governo dell’intero corpo all’“aristocrazia di cellule”. È questa nobiltà ereditaria che prepara il terreno alla finzione dell’unità, creatura del nostro intelletto, il quale tende a fissare tutto, immobilizzando artificialmente il divenire. Si tratta di una finzione, perché il concetto di “unità” serve solo per contare: abbiamo preso a prestito tale concetto dal “nostro più antico articolo di fede”, l’io come modello di unità, in contrapposizione al molteplice. Una volta consapevoli di tale pregiudizio, potremmo – al limite – anche continuare a pensare all’io come unità, con la rettifica mentale di considerare tale unità come punto di convergenza, mobile e provvisorio, di una pluralità, in quanto l’io rappresenta “qualcosa che diviene 114
[etwas Werdendes]”, qualcosa in continuo mutamento e non qualcosa che è.14 Come capita in tutti gli organismi superiori, la complessità dell’io è anche un fattore di debolezza: espone l’uomo, il più incompiuto di tutti gli esseri, alla malattia mentale e alla dissoluzione della personalità. Nello stesso tempo, tale complessità costituisce anche un vantaggio decisivo, poiché l’uomo è “una pluralità di ‘volontà di potenza’: ciascuna con ‘una pluralità di mezzi di espressione e di forme’”.15 Sono gli uomini migliori, quelli più dotati di sovrabbondanza di forza vitale, a essere particolarmente capaci di accettare gioiosamente il conflitto, a desiderare “la lotta per la lotta” (NF, 7, 26 [276]), a non sottomettere a una unità rigida e mortificante la pluralità di volontà di potenza e di io che è in loro: la considerano non solo un sintomo di décadence, ma anche una matrice di possibili, un fertile terreno per i filosofi-giardinieri. Al pari di Roux – che esordisce citando Empedocle,16 autore caro a Nietzsche grazie all’omonima tragedia di Hölderlin, conosciuta sin dagli anni di Schulpforta –, è attraverso il conflitto e la discordia (neîkos) che si instaurano le forme più alte di libertà e di armonia. Anche in Roux, come in Taine, alla base di ogni fenomeno psichico sta, del resto, un conflitto tra organi corporei e meccanismi antagonistici, che solo attraverso un reciproco contenimento, un pattugliamento armato dei propri confini, riescono a salvaguardare la loro relativa indipendenza e a rintuzzare la reciproca volontà di assimilazione e sopraffazione. La normalità dell’organismo e la pace dell’“anima” sono il risultato di una pressione e di una tensione permanente, che danno luogo alla gerarchia delle 115
funzioni e a forme d’obbedienza che non si riducono mai a completa passività.17 Non appena una cellula o un organo s’indeboliscono, gli altri ne approfittano. Analogamente, quando l’io egemone (in termini nietzscheani quello che si trova in un dato momento alla “ribalta” della coscienza) abbassa la guardia, subito rispuntano le personalità emarginate. Il richiamo a Empedocle implica in Nietzsche il volersi mettere alle spalle di Socrate per andare avanti, il reculer pour mieux sauter. Con la sua morale e la sua dialettica (che invita i deboli non a obbedire al più forte, ma a discutere), l’Ateniese ha contribuito a far “venire a galla la plebe”, insegnandole la strada del risentimento e della vendetta immaginaria. Ha creato così una coalizione dietro la quale si nascondono “1) l’istinto del gregge contro i forti e gli indipendenti; 2) l’istinto dei sofferenti e dei mal riusciti contro i felici; 3) l’istinto dei mediocri contro gli uomini d’eccezione”.18 Dallo specchio al baricentro Laddove esiste sovrabbondanza di energia, la lotta si riproduce a tutti i livelli, anche nell’interior domus dell’animo, in quella dimora dove “cessano tutti i gradini” verso il basso. Ma al vertice, a controllare questo conflitto, non vi è un io quale “monarca assoluto”, bensì una struttura impersonale e polimorfa di molte anime, una “rappresentanza”, “il baricentro […] qualcosa di mutevole”.19 La pluralità degli io, nella sua forma ottimale, produce infatti un loro “spostamento coerente” secondo un modello dinamico rappresentato dal variare del centro di gravità, in funzione del quale si dislocano incessantemente gli io di volta in volta in primo piano, ma non in nostro 116
possesso. Essi costituiscono il baricentro della mutevole distribuzione dei pesi psichici, i terminali degli equilibri complessivi del corpo, gli indicatori dei variabili rapporti di forza risultanti dal conflitto tra gli organi e tra le cellule. Più che di coalizioni relativamente stabili, secondo il modello ‘parlamentare’ di Ribot, la personalità egemone è qui il risultato del continuo formarsi in modo agonistico del “soggetto come pluralità” e dell’apparire “di forze di tipo personale”.20 La meta di Nietzsche è quella di mantenere, alla maniera di Spinoza, il conatus, la vis existendi, la potenza di esistere degli individui, al livello più alto, o di cercare, almeno, di non diminuirla.21 Si direbbe che lo scindersi della coscienza o il prevalere delle malattie nel corpo corrisponda, più che a uno stato di anarchia, a uno slittare troppo frequente e brusco del baricentro, causato da una perdita di “saggezza” del corpo, a una caduta di potenziale psichico. Da questo punto di vista, Nietzsche non è mai venuto meno al suo ideale giovanile di ascesa: “Stanotte ho sognato che mi facevo rilegare tutto nuovo e bello il Gradus ad Parnassum; questo simbolo del farsi rilegare lo capisco bene, anche se è banale. Ma è una verità! Ogni tanto bisogna in certo modo farsi rilegare, stando insieme a uomini più forti, altrimenti si perdono singole pagine, e disanimati ci si sfascia sempre di più. E che la nostra vita debba essere un Gradus ad Parnassum, è anche una verità che ci si deve ripetere sempre più spesso”.22 Nell’elaborare il modello del baricentro degli io Nietzsche non solo scardina indirettamente tutte le precedenti teorie filosofiche sulla coscienza e la soggettività, ma mette anche anticipatamente in crisi alcune concezioni elaborate dopo di lui. Senza tematizzare esplicitamente questa svolta, 117
abbandona, infatti, la tradizionale metafora ottica della riflessione, mostrando in modo indiretto l’impraticabilità del percorso intrapreso dal primo Fichte per venire a capo del problema della costituzione e della continuità dell’io. Lo sdoppiamento del soggetto in un io che osserva e in uno che è osservato, che si sarebbero poi dovuti ricongiungere circolarmente tra loro,23 comporta infatti un’insanabile iterazione all’infinito (nel senso che l’io che pensa può essere, a sua volta, ricorsivamente trasformato in oggetto di pensiero).24 Il vantaggio del paradigma nietzscheano consiste nel fatto che aggira questo circolo vizioso, senza cadere nella fissità naturalistica del “cogito pre-riflessivo” (cfr., più avanti, pp. 282-285). Questa soluzione – compatibile nei risultati con quella di Montaigne, in quanto salvaguarda l’incessante variabilità dell’io – permette di considerare l’identità in termini dinamici, come interazione sempre provvista espressa da un punto di gravità, con il conseguente rifiuto dei modelli statici e dissipativi. Il delfino e la tigre Al pari del corpo, anche il soggetto muta continuamente l’intensità della sua potenza di esistere (che cresce o diminuisce), pur restando sempre al centro di un orizzonte che non cessa di spostarsi. Poiché il “soggetto è ora in un punto ora in un altro” (NF, 5, 6 [70]), nel teatro della coscienza si assiste a un avvicendamento degli io, così che ciascuno di quelli che sta sul proscenio rappresenta, di volta in volta, anche gli altri che restano dietro le quinte. L’io è “una pluralità dietro la quale non è necessario porre un’unità: basta concepirla come una reggenza” o pensarlo come una molteplicità di spiriti in lotta – simili in questo 118
agli animali marini, ai delfini dei miti – per trasportare l’io sul loro dorso (cfr. NF, 7, 40 [38]). Anche la coscienza, dunque, al pari del corpo, è opaca a se stessa, perché sorretta nel suo movimento da quel “delfino” che è il corpo. È quindi estremamente difficile obbedire al precetto delfico di conoscere se stessi. Si giunge, al massimo, al “presentimento” di essere trascinati da forze selvagge: “Che cosa l’uomo sa propriamente di se stesso? Pure se sistemato in una vetrina illuminata, sarebbe egli in grado di percepirsi almeno una volta? La natura non gli tiene forse nascosta la maggior parte delle cose, perfino del suo corpo, per avvolgerlo e rinchiuderlo in una coscienza altezzosamente buffonesca, lontano dai contorcimenti delle viscere, dal rapido flusso della circolazione del sangue, dalle ingarbugliate vibrazioni di fibre! Essa ha gettato via la chiave: e guai alla fatale curiosità, che fosse in grado di guardare, attraverso una fessura, da fuori e da sotto, nella stanza della coscienza avendo in quel momento il presentimento che l’uomo poggia su ciò che è spietato, avido, insaziabile, micidiale, nell’indifferenza del suo non sapere, quasi fosse un sogno, aggrappato sul dorso di una tigre” (WL, 371 = 357 [29-31]). La coscienza, generalmente ritenuta il luogo di massima condensazione dell’individualità, il suo sancta sanctorum, è in realtà anonima e gregaria, nasce per l’esigenza di comunicare tra quegli animali, gli uomini, che sono più esposti al pericolo: “Il mio pensiero è che la coscienza non appartenga propriamente all’esistenza individuale dell’uomo, ma piuttosto a ciò che in esso è natura comunitaria e gregaria […] e che di conseguenza ognuno di noi, con la migliore volontà di comprendere se stesso nel 119
modo più individuale possibile, di ‘conoscere se stesso’, purtuttavia renderà sempre oggetto di coscienza il non individuale, quel che in se stesso è esattamente la ‘sua misura media’; che il nostro stesso pensiero viene continuamente, per così dire, adeguato alla maggioranza e ritradotto nella prospettiva del gregge a opera del carattere della coscienza, del ‘genio della specie’ in essa imperante. Tutte quante le nostre azioni sono in fondo incomparabilmente personali, uniche, sconfinatamente individuali, non v’è dubbio; ma appena le traduciamo nella coscienza, non sembra che lo siano più…” (FW, 274-275 = 222-223). Coloro che sono soltanto gregge e non – insieme e in armonica dissonanza – gregge e pastore di se stessi, appartengono alla massa, che, nelle moderne democrazie, forma un gregge senza pastore, dominato dal miraggio regressivo dell’eguaglianza. La propensione che gli uomini provano per il gregge è più antica – e quindi più potente – di quella che avvertono per l’io. L’io degli individui immersi nella massa vive unicamente in relazione a un “non-io”, a una negazione della loro volontà di dire sì alla vita, alla quale volontà, dapprima, si piegano, per poterla poi eventualmente negare e sentirsi così esistere in modo reattivo, non autonomo, in funzione cioè di quello a cui si oppongono. La dialettica, in quanto negazione della negazione, è quindi, per Nietzsche, segno di risentimento, di servile desiderio di riscatto da uno stato di debolezza e di minorità intimamente accettato. L’ego è perciò raro a trovarsi.25 Non tutti ne sono provvisti: “Alcuni uomini sono anche più persone”, mentre “i più non sono nessuna persona […] l’esser persona 120
sarebbe uno spreco, un lusso” (NF, 8, 10 [59]). Come dirà Adorno – rielaborando questa teoria nietzscheana – “in molti individui appare già una sfrontatezza che abbiano il coraggio di pronunciare la parola ‘io’ ” (MM, 55 = 48). Secondo Nietzsche, per giunta, avere un io è pericoloso: chiunque lo possegga, rifiutando di adeguarsi al ‘così fan tutti’, è guardato con sospetto, mandato al “manicomio” o isolato e sospinto verso il nichilismo. Eppure l’io si può conquistare: “Domina il pregiudizio che si conosca l’EGO, che esso non manchi di farsi sentire continuamente; ma a ciò non si applica né il lavoro né l’intelligenza, – come se, per l’autoconoscenza, un’intuizione fosse sufficiente” (NF, 5, 11 [226]). Pochi, inoltre, sono in grado di trovare se stessi sfuggendo al conformismo dell’educazione ricevuta: “Dato il modo in cui oggi veniamo educati, noi riceviamo in primo luogo una seconda natura: e quando il mondo ci dice maturi, maggiori d’età, utilizzabili, noi la possediamo. Pochi sono abbastanza serpenti da staccarsi un bel giorno questa pelle di dosso, allorquando, sotto il suo guscio, è maturata la lor prima natura. Nei più, avvizzisce il seme di essa” (M, 279 = 223). Dalla ‘pericolosa’ idea darwiniana di selezione naturale, per cui la materia vivente si organizza in maniera spontanea, senza una mente esterna che la progetti, Nietzsche estrae la convinzione che essa conduca all’affermazione dei mediocri, mentre l’“uomo superiore” rappresenta, al contrario, colui che è in grado di autoselezionarsi, di procedere, con i rischi del funambolo, su quella corda stretta che porterà all’Übermensch, senza che vi sia – peraltro – bisogno di distruggere i “piccoli uomini”. Nietzsche non pone l’accento sulle teorie dello sviluppo naturale dell’uomo verso altre 121
versioni di se stesso, quali erano state immaginate da Diderot, Lessing o Herder già nella seconda metà del Settecento, che ponevano l’accento sul sorgere di nuovi sensi o sul fatto che l’uomo attuale è l’anello di una catena che non vede dove pendano gli anelli successivi. Egli è interessato, piuttosto, a un nuovo genere di selezione artificiale, quella che l’uomo superiore compie, appunto, su di sé, crescendo verticalmente su se stesso e diventando pastore del gregge dei propri io. Il passaggio dall’io che si mimetizzava nell’“orda primitiva”, teorizzata da Darwin, all’io dei contemporanei segna solo un’interiorizzazione dello spirito del gregge: “Un tempo l’io si era nascosto nel gregge: e ora nell’io si nasconde ancora il gregge” (NF, 7, 51 [273]). Anche se per Nietzsche, come per la maggior parte dei suoi contemporanei, le scoperte di Darwin accorciano la distanza tra uomo e animale e provocano una svalutazione della coscienza umana, l’ego non si riduce alla semplice unificazione fisiologica che ne è alla base26: implica un processo e un percorso personali e storici nello stesso tempo. La conquista di un Sé relativamente stabile è, infatti, il risultato di uno sforzo lungo, doloroso e ininterrotto, tanto nella storia dell’umanità, quanto in quella di ciascun uomo. Da tale conflitto scaturisce il terrore della dissoluzione dell’io e della ricaduta nell’amorfo. Occuparsi di se stessi, sfidando le accuse di egoismo, è perciò un bene, in quanto “ciò di cui l’umanità soffre è la mancanza di egoismo” (NF, 5, 2 [15]). Questo non significa, tuttavia, chiudersi in se stessi: “Perché avere sempre soltanto l’egoismo del predone o del ladro? Perché non quello del giardiniere? Gioia di coltivare gli altri come un giardino” 122
(NF, 5, 11 [2]). È proprio la paura di ricadere nell’indifferenziato a rafforzare reattivamente l’idea e l’esigenza di un io monolitico e sostanziale, che di fronte al rischio del mutamento continuo, in cui l’assolutamente eterogeneo “scorrerebbe come la pioggia sulla pietra”, cerca di ancorarsi all’assolutamente identico o, a un più alto livello di volontà di potenza, come è il caso degli asceti, all’assolutamente scisso, giacché l’homo religiosus (anello di congiunzione tra l’uomo del gregge e l’uomo superiore) si scompone in “più persone”, così che la religione diventa “un caso di ‘altération de la personnalité’ ” (NF, 8, 14 [124]). L’individuo fugace L’individualismo (richiesta liberale di autonomia) e il socialismo (rivendicazione anti-individualistica di eguaglianza), tradizioni politiche che nascono in diretta opposizione,27 sono, per Nietzsche, segretamente alleate: “L’individualismo è una forma modesta e ancora inconsapevole della ‘volontà di potenza’; qui all’individuo sembra già sufficiente lo sbarazzarsi di un prepotere della società (sia dello Stato, sia della Chiesa). L’individuo le si oppone non come persona, ma soltanto come singolo [in quanto numero]: rappresenta tutti i singoli contro la collettività […]. Il socialismo è semplicemente un mezzo d’agitazione dell’individuo: questi comprende che, per conquistare qualcosa, deve organizzarsi per un’azione collettiva in ‘potenza’” (FVP, n. 784, pp. 421-422 = NF, 8, 10 [82]). Rifiutando la trascendenza, l’andare al di là alla ricerca dell’eterno (anche in senso laico), la cultura moderna della secolarizzazione produce, con il socialismo, individui evanescenti: “La follia politica, della quale io sorrido come i 123
contemporanei sorridono della follia religiosa dei tempi andati, è innanzitutto la secolarizzazione, fede nel mondo ed esclusione dalla mente dei concetti di ‘aldilà’ e di ‘mondo retrostante’. Il suo fine è il benessere dell’individuo FUGACE: per questo il suo frutto è il socialismo, cioè i fugaci INDIVIDUI vogliono conquistarsi la felicità con la socializzazione e non hanno motivo di attendere, come attendono gli uomini con anima eterna in eterno divenire, che si propongono di diventare migliori” (NF, 5, 11 [268]).28 Essere, insieme, gregge e pastore: è questo il difficile compito degli “uomini superiori”, degli “spiriti liberi” o esprits forts, antesignani di quell’Übermensch (superuomo o oltreuomo, individuo in grado di andare al di là dell’“umano, troppo umano”) il cui avvento è bloccato dal prevalere della negazione della vita, tipica dei mediocri.29 Questi uomini liberi non vogliono essere solo gregari (incapaci di governare la molteplicità degli io) o solo pastori (autocrati solitari). La pluralità dell’io produce in loro un concerto (“Seguendo il ‘filo conduttore del corpo’ apprendiamo che la nostra vita è possibile grazie al concerto di molte intelligenze di valore assai diseguale”),30 con successivi direttori d’orchestra che, coordinando l’insieme degli strumenti, aggiungono qualcosa alla loro somma. Essi soltanto sono in grado di abbandonare la mandria, la “colonia”, di sottrarsi al richiamo gregario della specie e, soprattutto, di far fronte al disorientamento che ne deriva. Sanno anzi rinunciare a se stessi, proprio perché hanno superato la nichilistica paura di perdersi,31 la quale colpisce invece gli individui che entrano nella massa, che si rifugiano nel gregge, perché hanno paura dell’individuazione, avvertita “come qualcosa di penoso” (NF, 5 6 [138]). 124
Accettando il caso, l’“innocenza del divenire”, gli uomini superiori giungono a desiderare il proprio dolore per autosuperarsi: “Stimo la potenza di una volontà da quanta resistenza, sofferenza, tortura tale volontà sopporta e sa trasformare a proprio vantaggio”.32 Intendono essere messi alla prova per temprarsi: “le stesse ragioni che producono il rimpicciolimento degli uomini meschini sospingono i più forti e rari fino alla grandezza” (NF, 7, 34 [223]).33 Sin da La nascita della tragedia, la perdita del principium individuationis non rappresenta soltanto un’esperienza orrorosa, ma – per chi è capace di sopportarla – anche un rapimento estatico, un esaltante senso di liberazione, che scaturisce dal non essere più costretti a chiudersi nella prigione-rifugio di un io murato in se stesso per timore di dissolversi. In termini spinoziani, l’individuo sperimenta l’accrescimento della propria potenza di esistere (vis existendi) innalzando la libertà del volere alla “passione della superiorità rispetto a chi deve obbedire. ‘Io’ sono libero; ‘egli’ deve obbedire – la coscienza di ciò è il volere stesso”.34 Gli uomini superiori sono quindi ugualmente capaci di comandare e obbedire a se stessi, fino al punto di trasformarsi in campi di battaglia, di accogliere in sé “più persone” senza esserne distrutti. Nello stesso tempo sentono l’ego non come un “monarca assoluto”, ma come un mobile baricentro, perché non sottomettono la pluralità di io che vive in loro a un’unità fittizia, rigida e mortificante, in cui riconoscono il marchio d’infamia della debolezza o della rinuncia all’espansione della forza vitale. Non rinunciano a se stessi e sono fedeli sino in fondo alla propria storia e alle proprie decisioni: padroni di sé proprio perché non 125
aspirano all’unità di un pastore senza gregge e assolutamente personali perché non hanno bisogno di usare la prima persona singolare del pronome per un solo io. Perdere se stessi significa, per loro, guadagnare tanti altri io, moltiplicare le proprie forze, non dividerle, tendere all’autosuperamento e non alla mera autoconservazione. Giusta è quella volontà di potenza che accumula energia, senza dissiparla, che si difende dal più forte e si avventa gioiosamente sul più debole. La sovrabbondanza di forza vitale, di “salute”, di volontà di transustanziare i conflitti in forza, fa persino nascere il piacere dell’insicurezza, dell’audacia, del viaggio di scoperta, poiché la felicità è legata al superamento delle resistenze e degli ostacoli e al suo spontaneo collimare con l’istinto.35 È la stessa felicità che, ai gradi più alti, si sperimenta nella ricerca e nell’imposizione del vero, in quanto il suo criterio è l’aumento della sensazione di potenza, sebbene la verità in se stessa non sia potenza. Al contrario di quel che pensa “il galante illuminista”, a essa occorre, tuttavia, la potenza, proprio perché non è qualcosa da scoprire, ma da creare e da far durare. Staccarsi dalla rigidità del principio di individuazione non vuol dire annullarsi, ma dire di sì alla vita, negando la schopenhaueriana “volontà” divisa,36 considerando persino il martirio come “un sacrificio offerto alla nostra avidità di potenza” (FW, 59 = 47). Significa congiungere il principio apollineo d’individuazione alla forza dissolutrice e rinnovatrice del principio dionisiaco d’indistinzione, mantenere l’ancoraggio dei fenomeni all’eternità del divenire e rifiutare la “fugacità” dell’individuo. Dopo la morte di Dio (che comporta anche la morte dell’anima e di 126
tutto ciò che è immutabile) anche Nietzsche cerca surrogati di eternità, modi di elaborare e interpretare se stessi, così da raggiungere un’autonomia che eviti all’uomo superiore, quello che meglio degli altri sa lavorare se stesso, di diventare – secondo l’immagine di Locke – simile a una pietra tombale da cui il tempo ha cancellato la scritta. Perdere l’unico se stesso significa guadagnare tanti altri se stessi, salendo lungo una scala di più intensa coordinazione reciproca tra i vari possibili io, in una progressione verso gradi di maggiore individuazione che sfidano l’aritmetica: “Il due nasce dall’uno e l’uno dal due: questo si vede con i propri occhi nella generazione e nell’accrescimento degli organismi più bassi; la matematica viene costantemente contraddetta, controvissuta, se è lecito dir così, dall’esperienza reale” (NF, 7, 40 [8]). Per questo va respinto il concetto di individuo, in quanto entità indivisibile, che piace al pensiero naturalistico (quello che “si sente soprattutto a suo agio con la tavola pitagorica”). Non è del resto sufficiente, come nella tradizione ascetica o nel pensiero dialettico, apprendere la disciplina voluntatis (FW, 271 = 218-219), scindersi in due io in lotta, inventarsi un nemico interiore, sdoppiarsi per poi riconquistare l’unità. L’asceta consegue un più alto livello di volontà di potenza rispetto all’uomo del gregge, perché fa leva sul desiderio di soggiogare impulsi e tendenze per diventare padrone di sé, anche al prezzo di negare la vita. Non si può, tuttavia, conseguire la perfezione grazie a un mero sforzo di volontà, dato che la volontà non può volere contro se stessa. La volontà di potenza è “semplicemente un altro modo di dire la vita”, che è, dunque, nell’essere vivente, soprattutto volontà di superamento di se stessi, un mettersi a 127
repentaglio “per amore di potenza”.37 L’autosuperamento (Selbstüberwindung) e il disciplinamento (Züchtung) non implicano la negazione della volontà, ma, al contrario, il potenziamento di ogni singolo atto di volontà. Parlare di “volontà” è, peraltro, improprio. In Nietzsche, come in Spinoza e in Ribot (cfr. MDV, 2), essa è soltanto una costruzione astratta: non esiste una volontà in senso ontologico, esistono solo singoli atti di volizione (cfr. FVP, n. 692 = NF, 8, 14 [121]). Le idee di volontà e di libertà non hanno origine nella teoria, ma nel bisogno di controllo sociale, nel rendere gli uomini individualmente imputabili delle loro azioni: “Tutta la antica psicologia, la psicologia del volere, ha i suoi presupposti nel fatto che i suoi autori, i sacerdoti posti al vertice delle antiche comunità, vollero creare a se stessi il diritto a irrogare delle pene – oppure vollero creare a Dio il diritto di irrogarle… Gli uomini vennero ritenuti ‘liberi’ per poter essere giudicati e puniti – per poter essere colpevoli: si dovette perciò pensare ogni azione come voluta, e l’origine di ogni azione come situata nella coscienza (– con la qual cosa la più sistematica coniazione di monete false in psychologicis fu eretta a principio della psicologia stessa)”. Ancora oggi – aggiunge Nietzsche – i teologi “continuano ad appestare l’innocenza del divenire per mezzo della ‘pena’ e della ‘colpa’. Il cristianesimo è la metafisica del boia…” (GD, 89-90 = 92). Se si danno unicamente singoli atti di volizione, non esiste, a rigore, neppure una volontà debole o forte. Vi sono soltanto baricentri di volizioni più o meno coerentemente integrate: “Debolezza della volontà: questa è una similitudine che può indurre in errore. Perché non esiste una volontà e quindi né una volontà forte né una volontà 128
debole. La molteplicità e il disgregamento degli impulsi motori, la mancanza di sistema tra loro dà per risultato la ‘volontà debole’; il loro coordinamento sotto la signoria dà per risultato la ‘volontà forte’; nel primo caso si tratta dell’oscillazione e della mancanza di centro di gravità, nel secondo della precisione e chiarezza della direzione” (FVP, n. 46 = NF, 8, 4 [219]). A ogni momento l’ego – ossia la paradossale coordinazione antagonistica degli “io” – si sposta con minori sbandamenti verso un centro di gravità capace di raccogliere in sé, in maniera più stabile, un maggior numero di forze. L’uomo superiore è colui che sa concentrare e coordinare ogni sua energia nell’io che in quel momento rappresenta il baricentro e sa successivamente spostarsi, con la condiscendenza del suo corpo, verso altri io che apportino un ulteriore incremento di potenza.38 Il “peso più grande” (cfr. più avanti, pp. 108-109) può essere sostenuto da chi sa sopportarlo ridistribuendolo su una pluralità di io che si alternano, senza perdere il filo del loro successivo apparire sulla scena. Egli trova il baricentro sempre in sé, mentre il gregge lo ha sempre altrove, nella voce anonima della massa o nel pastore da cui si lascia guidare. L’uomo, si sa, è “un cavo teso tra la bestia e il superuomo, – un cavo al di sopra dell’abisso” (Z, 35 = 34). Eppure, proprio perché dominano i mediocri, sempre indaffarati ad abbassare ciò che è alto, a demonizzare con ogni mezzo i forti e i felici, l’Übermensch potrebbe non vedere (a lungo o mai?) la luce. È deprimente constatare come i valori ostili alla vita prevalgano sempre: “Come fu propriamente possibile? Domanda: perché la vita, la perfezione fisiologica soggiacquero dappertutto? Perché non ci fu una filosofia del 129
sì, una religione del sì?”. Risposta: “Gli istinti discendenti hanno preso il sopravvento sugli istinti ascendenti… La volontà del nulla ha preso il sopravvento sulla volontà di vita” (NF, 8, 14 [137]; 8, 14 [140]). L’ombra di una sconfitta sembra proiettarsi più fitta sulla volontà di vivere, perché pare quasi impossibile arginare la marea dei mediocri, che non devono, comunque, essere sterminati, perché costituiscono la base su cui innalzare la piramide degli individui superiori. La tendenza ostile alla vita, il sentirsi “sprecati” come umanità, e non soltanto come individui, fa apparire ai loro occhi quelli che impongono nuovi valori semplici “punti interrogativi”. Il desiderio del niente è attualmente più impellente di prima, perché “si trova diffidenza a vedere un ‘senso’ nel male e nella sua stessa esistenza” (NF, 8, 5 [71]). Tale percezione acuisce ulteriormente l’inimicizia verso la vita, diffondendo un atteggiamento che tende ad affermarsi all’interno delle società europee in quanto rappresenta la tendenza “numericamente la più forte” nel gregge (NF, 8, 14 [140]). È questa la radice del nichilismo, per quanto il sentimento del nulla costituisca la logica e non la causa della decadenza. In polemica con Darwin e i darwiniani, la selezione naturale non opera per Nietzsche “a fin di bene”, né fa vincere i fittest. Favorisce, anzi, i mediocri. I migliori, invece, plasmano se stessi, lamarckianamente, dall’interno, limitandosi a sfruttare le circostanze esterne (che il darwinismo sopravvaluta), senza seguire i canoni di felicità individuale e di “lotta per la vita” che affascinano Darwin, perché gli derivano da un modello nascosto: dalla feroce competizione e dalla miseria dell’Inghilterra 39 sovrappopolata. Essi gli fanno anche credere che la natura 130
sia dominata dalla scarsità, che viva risparmiando (minimo sumptu, secondo l’espressione di Newton), mentre, al contrario, essa è per Nietzsche prodiga, dissipativa e non bada a spese. Seguendo gli insegnamenti di Tucidide sulla “ragione nella realtà” piuttosto che quelli ascetici di Platone sulla ragione che esiste solo all’interno della ragione, si riesce a trasformare la passività in attività e a inserirsi nei campi di forza del mondo, contrastando, con generoso dispendio di forze, la deriva dell’attuale età di décadence, nella quale gli uomini disimparano ad agire, limitandosi a reagire o attraverso il ressentiment o attraverso il “fatalismo russo”, il lasciarsi andare alla spossatezza e alla morte (cfr. EH, 270271 = 279-281 e NF, 8, 10 [18]). Nell’età dell’“uomo multiplo”, espressione del caos più interessante che sia mai esistito, anche i migliori – come Flaubert – soffrono di spossatezza della volontà, di “volontà di letargo”. Pongono “il désir […] al posto della volontà” (NF, 7, 25 [182]), preferendo l’oscillazione e la mancanza di centro di gravità alla scelta dirimente e attiva. La reattività, il sentimento del gregge, deve dominare solo all’interno del gregge: i capi, i Führer der Herde, i soli capaci di agire liberamente, quali “animali da preda”, non sono tenuti ad adeguarsi alle valutazioni e ai punti di vista dei mediocri.40 Nel prefigurare il futuro rapporto con questi ultimi, si alternano in Nietzsche due prospettive: nei frammenti del 1883, il superuomo, se mai verrà, non opprimerà i mediocri; coabiterà, anzi, con l’“uomo più spregevole”, guardando a esso con lo stesso distacco degli “dèi di Epicuro”: in seguito, si affaccia però anche l’idea di una razza dominatrice, composta da numerosi padroni, che formeranno una specie 131
di casta superiore indiana, in grado di restaurare il ruolo dell’homo hierarchicus in contrapposizione all’homo æqualis della democrazia. L’uomo, comunque, non si avvicina più a Dio, come nella metafisica greca, attraverso la vita contemplativa, l’autosufficienza del pensiero: supera se stesso, si oltrepassa, mediante l’accettazione attiva del divenire, l’azione che non si pente di se stessa. La selezione degli uomini In una fase in cui la soggettività rischia di disperdersi in tanti io che si ignorano a vicenda, la maggior parte degli uomini sente di essere semplicemente ospite della vita, di non saperle dire di sì. La dottrina dell’eterno ritorno di tutte le cose è anche la soluzione al problema di trovare un soggetto che sia una “repubblica”, rifiutando tanto la “monarchia” di un io, quanto la democrazia egualitaria di molteplici io con lo stesso basso livello di vis existendi. Pur essendo la “più scientifica”, in quanto poggia sulle più recenti conquiste del pensiero contemporaneo, l’idea dell’eterno ritorno è, per certi aspetti, la meno dimostrabile, perché riguarda un valore da istituire mediante una decisione suprema. Eppure, anche se si trattasse del semplice pensiero di una possibilità o se, addirittura, questo pensiero fosse falso, una volta assimilato, una volta che avesse impresso sulla vita l’immagine dell’eternità, esso sarebbe in grado di dare agli eventi un senso diverso, di plasmare le convinzioni o le azioni di ciascuno: “Se assimili il pensiero dei pensieri, ti trasformerai. Se per ogni tua azione ti domandi: ‘È ciò che io voglio fare infinite volte?’ – questa domanda è il più grave fardello” (NF, 5, 11 [226]). Dopo essere stato accolto dalla “plebaglia”, questo pensiero guadagnerebbe “a sé per ultimi gli uomini supremi”, 132
producendo nel tempo effetti sconvolgenti,41 analoghi a quelli scaturiti dalla fede cristiana nell’inferno e nel paradiso. Volere l’eterno ritorno significa, infatti, determinare il corso della propria vita, così come accade nel cristianesimo, dove la prospettiva della dannazione o della salvezza eterne orientano ancora i comportamenti effettivi in questo mondo. La differenza tra la fede cristiana nell’aldilà e la decisione anticristiana di sopportare lo spostamento del centro di gravità dal paradiso o dall’inferno all’eterno ritorno terreno è dovuta alla convinzione che quest’ultimo sviluppa maggiormente la vita (anche se, per certi aspetti, rappresenta una condanna), mentre il cristianesimo la deprime. Esso rinvia, infatti, al miraggio di un aldilà che porta alla rassegnazione e alla repressione degli istinti e delle aspirazioni rivolte a questo mondo (atteggiamento riscontrato anche nell’imperatore stoico Marco Aurelio, che credeva di conquistarsi la serenità dell’animo disprezzando gli impulsi, i desideri del corpo e i lussi e gli onori della sua condizione). In quanto esseri viventi, corpi che si corrompono, animali che nascono e muoiono, agli uomini non spetta certo l’eternità in senso cristiano. Il pensiero dell’eterno ritorno permette tuttavia ad alcuni di loro di riconquistare l’eternità nel senso dei classici, in quanto “vita” e “pienezza di vita”, che prescinde dalla durata nel tempo ed è, anzi, sperimentabile nell’attimo in cui si rivela la compiutezza del mondo, “nell’ora del perfetto meriggio” in cui si cade nel “pozzo dell’eternità”, nel tempo del rischiaramento, quando “il sole della conoscenza” è allo zenit, quando ciascuno è chiamato a decidere una volta per sempre.42 Se l’aspirazione più alta degli spiriti liberi è quella di 133
sopportare l’eternità dei propri atti e dei propri pensieri, il credere all’eterno ritorno ripropone il dilemma che, da Agostino in poi, ha tormentato il cristianesimo: se Dio ha deciso tutto ab æterno, dove sta il mio libero arbitrio? Nella versione di Nietzsche: se voglio che tutto ritorni così come è stato, in cosa consiste la mia libertà? La risposta è che la libertà non è tanto rassegnata coscienza a posteriori della necessità, quanto amor fati, volontà di necessità, potenza che piega il divenire all’essere. Anche se l’attimo non è la chiave esclusiva per capire quello che Heidegger definisce l’“unico pensiero” di Nietzsche, ossia la volontà di potenza unita all’eterno ritorno (N, 396), in esso sembra conciliarsi la contraddizione tra schema cosmologico – che esige l’eterno ritorno di ciò che è già accaduto (così che “tutto quanto ‘era’ diventa di nuovo un ‘è’” e “il passato morde la coda al futuro”: NF, 7, 4 [85]) – e schema morale (che richiede invece la volontà come forza creativa del nuovo). Il dilemma tra eternità del mondo e libertà comincia a risolversi se si abbandona l’immagine del tempo come di una retta sulla quale scorre un punto indivisibile e senza spessore, il presente, che separa in modo irreversibile il passato, che si lascia alle spalle, dal futuro che rode, avanzando, il tempo che resta. È proprio l’irreversibilità del tempo lineare a impedire alla volontà di volere “a ritroso”, provocando il risentimento che nasce dall’immodificabilità del “così fu”. Se invece, nell’eterno ritorno, concepiamo l’attimo come punto di raccordo del circolo di passato e futuro,43 “il futuro non è senza influenza sul passato, lo determina nella stessa misura in cui ne è determinato”. L’attimo “non è più semplicemente un punto sulla linea che dal passato conduce al futuro, il quale acquisti la sua fisionomia solo in rapporto 134
agli altri punti e che di per sé non abbia consistenza; esso porta invece con sé tutto il futuro e quindi anche tutto il passato, è in una sorta di rapporto immediato con la totalità del tempo, cioè con quello che Nietzsche intende per eternità”.44 In questo modo passato e futuro, necessità e scelta acquistano senso solo a partire dall’attimo della decisione di dire sì alla vita, punto di svolta di ogni inizio. Nel tentativo di frenare la disgregazione della personalità, della cultura e dell’esperienza è come se si volesse incatenare al soggetto tutto quanto è stato (das Gewesene), per costringerlo all’ordine della ripetizione, a una paradossale identità plurima che perpetuamente muta in sintonia con una volontà di mantenere insieme, di “rilegare” le pagine delle proprie varianti in un ininterrotto Gradus ad Parnassum. Allora, le potenze della scissione non potranno prevalere, perché quella che, in maniera impropria, si potrebbe continuare a definire l’identità personale riproduce ciclicamente se stessa, in quanto volontà di vita. Anche in questo caso, le vere rivoluzioni si svolgono in silenzio. Gli eventi più grandi “non sono le nostre ore più fragorose, bensì quelle senza voce”, che introducono “nuovi valori” attorno ai quali ruota poi impercettibilmente il mondo (Z, 165 = 160). Per questo, insegnando a vivere in maniera da desiderare (e non da sopportare) di vivere sempre di nuovo, si favorisce il mutamento più inavvertito e radicale insieme: si orienta verso l’alto la volontà di potenza di ciascuno, il suo spinoziano conatus, impedendone il crollo, la degradazione o le eccessive oscillazioni: “Non ci sono soggetti atomo. La sfera di un soggetto cresce o diminuisce costantemente; il centro del sistema si sposta continuamente; se il sistema non riesce a organizzare la 135
massa che ha assimilato, si scinde” (NF, 8, 9 [98]). Non sarà facile seguire il precetto di desiderare di vivere sempre di nuovo: si resterà a lungo barcollanti e disorientati, a causa della perdita di quel baricentro al quale il cristianesimo ci aveva, da millenni, abituato: “Se si trasferisce il centro di gravità della vita non nella vita, ma nell’ ‘al di là’ – nel nulla – si è tolto il centro di gravità alla vita in generale” (AC, 215 = 220). Occorre, dunque, acquistare un nuovo baricentro, elegantemente variabile come quello delle marionette di Kleist,45 ma, a differenza di queste, scelto secondo il criterio dell’ego fatum. Nell’eterno ritorno l’uomo superiore (e, in prospettiva, l’Übermensch) prende possesso del divenire ed esercita la sua volontà di potenza, proiettandola simultaneamente in avanti e all’indietro, nel futuro e nel passato: suonando da virtuoso sulla tastiera dei propri io, afferma il “così volli che fosse”. È, infatti, capace di modificare “a ritroso” la percezione della storia e di far sgusciare dai suoi nascondigli e anfratti i “mille segreti” ancora nascosti. Nella formazione della sua paradossale identità personale una e multipla, è capace di sostituire il lockiano filo orizzontale della memoria e dell’attesa con il circolo dell’eterno ritorno decretato dalla volontà. Respinge così ogni teleologismo e provvidenzialismo cristiano e, guardando alle eterne metamorfosi del mondo, impone il suo ordine: sic volo, sic iubeo! In ciò consiste la volontà di potenza: nella capacità del vero filosofo e, in prospettiva, dell’Übermensch (inteso come un individuo ben riuscito e non come “eroe” alla Carlyle, cfr. EH, 298 = 309) di legiferare nel vuoto provocato dalla décadence, che scaturisce dal crollo della fede nella Provvidenza e in un mondo che abbia senso. Nel torcere la parabola negativa del 136
declino nella forma positiva del circolo, l’eterno ritorno, il “pensiero dei pensieri”, mostra tanto la sua natura di “contropensiero”, di antidoto al nichilismo,46 che è anche accettazione del niente, quanto di volontà di donazione di senso al non-senso. La dottrina dell’eterno ritorno funge da “martello in pugno all’uomo più potente” (NF, 7, 27 [80]), capace di scegliere e, nello stesso tempo, di accettare che tutto necessariamente sia come è. Nel suo atteggiamento non vi è contraddizione, in quanto l’affermazione, il dire sì alla vita, include, in maniera dionisiaca, anche l’approvazione del negativo (l’eternità del divenire con il suo non riscattato dolore). Con questo martello il filosofo risveglia dal blocco di marmo l’immagine del superuomo che vi dorme, tempra la coscienza e trasforma il cuore “in bronzo”. Con questa volontà di autocreazione si inaugura, nella cultura occidentale, il progetto – per tanti versi infausto – di produzione dell’“uomo nuovo”. Diversamente da quella cristiana, la dottrina dell’eterno ritorno di Nietzsche non contempla alcun inferno: chi non ci crede non è sottoposto a minacce o ricatti: viene semplicemente abbandonato a una “vita fugace” e – in tal senso – all’estinzione (NF, 5, 11 [350]). Il pensiero dell’eterno ritorno serve ad accentuare quelle distanze gerarchiche che i gregari (tra loro indifferenti) vorrebbero cancellare: “Che cosa fu calunniato? Ciò che separava gli uomini superiori da quelli inferiori, gli istinti che creavano abissi” (FVP, 32 = NF, 8, 6 [25]). Esso è “il grande pensiero disciplinante [der große züchtende Gedanke]”, che separa le razze capaci di sopportarlo, destinate al dominio, da quelle incapaci, votate alla condanna.47 In molti paesi queste ultime sono attualmente costituite dagli appartenenti al “gregge 137
democratico”, da quanti – rosi e autointossicati dal risentimento – risultano incapaci di rischiare il conflitto aperto per potenziare se stessi, da quanti si propongono quindi, seppur inconsapevolmente, il compito di infiacchire le proprie e altrui energie: “Indebolimento dei desideri, dei sentimenti di piacere e di dispiacere, della volontà di potenza, di fierezza, di possesso e di accrescimento del possesso; l’indebolimento come umiltà; l’indebolimento come fede; l’indebolimento come avversione e vergogna di ogni cosa naturale, come negazione della vita, come malattia e debolezza iniziale” (NF, 8 14 [65]). L’atteggiamento positivo di chi, guardando il mondo dall’alto di una società divisa in caste, lo trova “perfetto” e vuole che resti sempre così (AC, 241 = 243) risalta ancora di più splendido su questo sfondo scuro. Poiché il rovesciamento di tutti i valori non è compiuto, si viene necessariamente a creare una sorta d’interregno. La dottrina dell’eterno ritorno cerca di colmarlo attraverso il gesto spinoziano della grande rinuncia, tipico, secondo Goethe, dell’Übermensch (cfr. DW, 29, 9-10 = II, 883-884): quello di rinunciare alle piccole cose per volerne una sola, l’eternità. In Nietzsche questa meta è garantita dalla rinuncia al risentimento che nasce dal pensiero lancinante dell’irriscattabilità del passato: “Redimere coloro che sono passati e trasformare ogni ‘così fu’ in un ‘così volli che fosse’ – solo questo può essere per me redenzione […]. ‘Così fu’ – così si chiama il digrignar di denti della volontà e la sua mestizia più solitaria. Impotente contro ciò che è già fatto, la volontà sa male assistere allo spettacolo del passato. La volontà non riesce a volere a ritroso; non potere infrangere il tempo e la voracità del tempo, – questa è per la volontà la 138
sua mestizia più solitaria […]. Che il tempo non possa camminare a ritroso, questo è il suo rovello; ‘ciò che fu’ si chiama il macigno che la volontà non sa smuovere. E così fa rotolare sassi piena di malumore e di rovello, e si vendica contro tutto quanto non prova il suo stesso rovello e malumore”.48 L’idea dell’eterno ritorno è anche un farmaco sia contro l’impossibilità di redimere religiosamente in un’altra vita i dolori e i rimpianti dell’esistenza terrena, sia contro la malinconia e la meditatio mortis della tradizione filosofica. È un’accettazione del principio spinoziano: philosophia non mortis, sed vitæ meditatio est, una redenzione dell’inreparabile tempus, che ne espunge la terribilità: “Ogni ‘così fu’ è un frammento, un enigma, una casualità orrida – fin quando la volontà che crea non dica anche ‘ma io così voglio, così vorrò’ ” (Z, 177 = 172). Qualora si riuscisse a trasformare compiutamente il “così fu” in “così volli che fosse”, il mondo riceverebbe un nuovo ordine, indispensabile da quando la “morte di Dio” ha seppellito le vecchie, rigide forme di donazione di senso alla realtà, lasciando però un vuoto, che gli uomini – orfani di una fede che riempiva la loro esistenza – non sono ancora in grado di colmare. Per questo l’idea dell’eterno ritorno ci aiuta a sopportare l’assenza di Dio senza cadere nel nichilismo reattivo, nell’autofagia della vita. Innalza “muri di protezione contro la morte di Dio”, tanto più indispensabili in quanto il suo assassinio è stato perpetrato, ma quest’azione risulta troppo grande per “l’uomo folle” che l’ha compiuta.49 Il grido “Dio è morto e noi lo abbiamo ucciso” non è un grido di giubilo: scarica sugli uomini la tremenda responsabilità di dare senso a un mondo privo di 139
stabili punti di riferimento. Anche per questo l’eterno ritorno concede, a chi è capace di sopportarne il peso, una grazia, un dono di valore più alto di quello che meritano i propri atti, un di più rispetto al perdono cristiano. Scambia, infatti, il bene con il male senza chiedere in compenso la remissione dei debiti propri e altrui, come invece prevede il rapporto di reciprocità tra creditori e debitori stabilito dal Padre nostro.50 L’eterno ritorno è anche l’antidoto alla morte di Dio. Da filologo, Nietzsche non ignora certo che l’eterno ritorno, in senso letterale, è una teoria ben nota ai pitagorici e, soprattutto, agli stoici, una tesi che nella Città di Dio (XII, 14) Agostino discute, tentando di confutarla. Dalle sue letture si evince, poi, che conosce le opere di Vogt, di Nägeli e di Blanqui, in cui il tema è affrontato a diversi livelli.51 Per lui, tuttavia, eterno ritorno significa caducità trasfigurata e resa eterna, volontà di potenza apparentemente proiettata all’indietro, ma in realtà legata al momento della decisione. Cristallizzare il mutamento, “imprimere al divenire il carattere dell’essere – è questa la suprema volontà di potenza” (FVP, n. 617 = NF, 8, 7 [54]), il farmaco per combattere il nichilismo e sopportare virilmente il dolore: “Io apprezzo l’uomo a seconda della quantità di potenza e di pienezza della sua volontà, non secondo la debolezza o l’estinzione di questa volontà; io considero una filosofia che insegna a negare la volontà come una dottrina che la svilisce e la calunnia. […] Io non rinfaccio all’esistenza il suo essere cattiva e dolorosa, ma spero anzi che un giorno diventi più cattiva e più dolorosa di quanto sia mai stata finora…”.52 L’eterno ritorno è un contributo a portare a compimento e a superare la dissoluzione dell’attuale civiltà immersa nella 140
décadence. È un modo per far dimenticare a ciascuno il proprio “fantastico ego” e per far sprigionare dall’individualità chiusa in se stessa potenziali effetti liberatori, additandole la figura dell’“uomo superiore” che, attraverso le asprezze dell’esistenza, si eleva a un’altezza tale da esser più facilmente raggiunto dal “fulmine” dell’Übermensch (cfr. Z, 355 = 350). È come se Nietzsche volesse sottomettere l’identità plurima, in incessante mutamento, alla perpetua ripetizione dei valori affermativi della vita, così da sottrarla alla banalizzazione introdotta dalla civiltà di massa, all’accettazione della fugacità dell’individuo, al risentimento e all’“avversione della volontà contro il tempo e il suo ‘così fu’”. Legando il singolo all’“aurea catena” di questo circolo, si segue il precetto di Pindaro, tanto apprezzato da Nietzsche, del “diventa quel che sei!”. Tagliando, con un atto d’imperio, il nodo gordiano della regressione all’infinito, l’eterno ritorno porta a compimento per mezzo della volontà il progetto incompiuto (e fallito) di Fichte di congiungere l’autocoscienza con se stessa, sottraendo, nello stesso tempo, l’individuo alla schopenhaueriana volontà anonima e alla negazione della vita. Nietzsche non pretende però – come accade nella dialettica hegeliana – di sopprimere l’alienazione53 e di giungere alla conoscenza di sé, ma soltanto di negare il dover-essere, ripudiando la cattiva infinitità del desiderio: “ ‘Volere’ qualcosa, ‘aspirare’ a qualcosa, avere in vista un ‘fine’, un ‘desiderio’ – tutto ciò io non lo conosco per esperienza diretta. Anche in questo momento guardo al mio futuro – un vasto futuro! – come a un mare liscio: nessun desiderio lo increspa. Non voglio in alcun modo che 141
qualcosa sia diverso da com’è; io stesso non voglio diventare diverso…”.54 Anche per diventare quel che si è, senza malinconici rimpianti e snervanti attese, occorre disciplina, attitudine a un’egemonia degli io ben diversa da quella basata sulle “coalizioni” teorizzate da Ribot. La maggiore libertà dell’io di volta in volta “pastore e gregge” dipende, infatti, non da un più ampio consenso delle parti, ma da una più dura e cruda gerarchizzazione iniziale delle istanze psichiche. Questa culmina nell’accoglimento del vincolo dell’eterno ritorno, della clausola che impone al soggetto di “danzare in ceppi”, seguendo l’abituale prassi del ballerino, che ottiene una più elevata libertà espressiva e una maggiore scioltezza di movimenti sottoponendosi all’obbligo della continua e faticosa ripetizione di monotoni esercizi. La disciplina dell’eterno ritorno obbliga il pensiero a ruotare incessantemente attorno all’asse del divenire, unica realtà, per quanto spesso impercettibile a occhio nudo: “Se la tua vista fosse più acuta, vedresti tutto in movimento: come la carta che brucia si curva, così tutto di continuo perisce e intanto si curva” (NF, 5, 15 [48]). L’eterno ritorno non è solo la ripetizione dell’identico, ma anche (e soprattutto) la selezione e l’elezione di coloro che sanno restare fedeli al “sentimento supremo” di desiderare di rivivere le proprie decisioni (cfr. NF, 5, 11 [268]). È il riaffiorare costante di un presente sempre diverso per contenuti, il percorrere come una freccia, lungo la linea retta dell’irreversibilità e della mortalità, il circolo formalmente sempre uguale dei giorni e degli anni. Poiché l’“identità personale” si riproduce ciclicamente all’interno di una molteplicità voluta (e non soltanto subita), le potenze della 142
scissione pura vengono sconfitte, omeopaticamente, con le loro stesse armi e non possono più prevalere. Gli io che, di volta in volta, vengono “alla ribalta”, sottoposti alla “danza in ceppi” dell’eterno ritorno, ottengono un incremento di potenza grazie, appunto, a questa artificiale spontaneità. Mentre l’idea di irreversibilità del tempo espressa dai risentiti trasforma la memoria e la storia in un percorso luttuoso, in una vera e propria via crucis, quella dell’eterno ritorno esalta il ruolo della volontà nel capovolgere la clessidra del tempo, sostituendo il volere – quale cemento temporale della personalità – al filo d’Arianna della memoria. Si tratta di una concezione opposta a quella di Droysen, Ranke o Dilthey, che inflazionano l’io nel fargli rivivere per procura – grazie alla fruizione di opere letterarie – altre vite immaginarie, utilizzando la storia quale succedaneo di una tradizione spezzata. Lo storicismo tedesco dell’Ottocento manifesta il suo lato di morbosa impotenza, poiché, da una parte, non è in grado di creare nuovi valori, dall’altra, non crede più intimamente a quelli vecchi. Soffre, secondo le indirette critiche di Nietzsche, di un’elefantiasi del senso storico, che lo porta ad assumere un atteggiamento reverenziale nei confronti del passato, veicolo di passività e d’inazione (ciò dimostra come i dotti tedeschi non discendano da “una casta dominante”, capace di distruggere per creare). In realtà, la posizione di Dilthey (formulata però dopo il 1883) è più complessa e plausibile. L’io di ciascun individuo – irripetibile punto di annodamento di forze reali – si potenzia e acquista concretezza grazie al suo inserimento nella storia, oggettivazione del pensiero e dell’attività umana di tutte le generazioni trascorse.55 In maniera simile 143
all’operazione dello scrivere, in cui la spiritualità dell’uomo si estrinseca e si materializza, anche le res gestæ si consegnano al mondo, passano dalla soggettività all’oggettività. Analogamente alla lettura, poi, l’interpretazione o decifrazione dei documenti storici riporta di nuovo, con movimento inverso, la ricchezza del mondo all’interno della soggettività, fluidificando quanto si era reificato e trasformando le res gestæ in comprensione o in historia rerum gestarum. Grazie alla ricostruzione di specifiche memorie, lo storicismo di Dilthey unisce, mantenendoli in tensione, il “mistero della persona” – il fondo potenzialmente inesauribile di ogni io (F, 321) – e il deposito di senso, ugualmente inesauribile, del mondo storico. A partire dal libro Sull’utilità e il danno della storia per la vita sino al secondo saggio della Genealogia della morale, in Nietzsche è l’oblio, più che la memoria, a risultare indispensabile all’azione. Il chiudere “ogni tanto le porte e le finestre della coscienza” crea il clima entro il quale può irrompere il nuovo. L’incapacità di dimenticare (e non quel che sarà la freudiana rimozione) è, invece, tipica del risentito, che non riesce a trasformare in attività la sua reattività, le tracce che gli eventi lasciano in lui. A differenza dell’uomo nobile, la cui reazione è istantanea e senza memoria, egli “sa bene cosa sia il tacere, il non obliare, l’aspettare, il momentaneo farsi piccini, farsi umili”.56 Affezionandosi al pensiero dell’eterno ritorno cessano i risentimenti e i rimpianti. Non ci si strugge più nel desiderio di vivere altre vite parallele, terrene o ultraterrene, diverse dalla nostra attuale. Vogliamo solo non alia sed hæc vita sempiterna! (NF, 5, 30 [9]). Il tempo instaurato da questo 144
pensiero salva e redime ogni attimo rendendolo significativo, dice di sì all’esistenza di ogni essere, introduce automatismi analoghi a quelli che, nel tardo Nietzsche, regolano l’acquisizione delle virtù macchinali dell’abitudine, quelle, appunto, che rendono in prospettiva inutile la coscienza e facilitano l’incuria sui.57 Il ragno e il chiaro di luna L’eterno ritorno non va inteso nel senso del nano, dello “spirito di gravità” raffigurato nel capitolo La visione e l’enigma dello Zarathustra, il quale prende “alla leggera” il “peso più grande” dell’eterno ritorno, riportandolo a una affermazione fattuale di presunto valore scientifico. L’eterno ritorno è legato alla volontà umana, che – per amore della vita – vuole che si ripetano anche gli eventi dolorosi e sgradevoli.58 Esso non costituisce un obbligo o una necessità, ma la risposta a una ipotetica sfida, nel senso del paragrafo 341 della seconda edizione della Gaia scienza, intitolato Das größte Schwergewicht, da tradursi (o, meglio, da pensarsi) più che con Il peso più grande con Il baricentro più grande, ossia capace di ridistribuire un carico massimo sul punto in cui, tecnicamente, passa la retta d’azione del peso complessivo. L’inizio dell’aforisma è, significativamente, al condizionale, “E se un demone […]”. Se un demone mi proponesse di rivivere la mia vita infinite volte, con gli stessi dolori e piaceri e persino con “questo ragno e questo chiaro di luna tra gli alberi”; se “l’eterna clessidra dell’esistenza” venisse “capovolta sempre di nuovo – e tu con essa, granello della polvere”, malediresti questo demone, digrignando i denti oppure sperimenteresti “l’attimo immenso” in cui accetteresti la sua offerta? Qualora tale pensiero acquistasse 145
potere su di te, ti trasformerebbe rispetto a quel che sei e forse ti stritolerebbe. Infatti, “la domanda per qualsiasi cosa ‘Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?’ graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! [würde als das größte Schwergewicht in deinem Handeln liegen!, da intendere nel senso che opererebbe sul tuo agire come centro di gravità di tutte le tue forze, determinandone fatalmente l’orientamento]. Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita per non desiderare più alcun’altra cosa che questa eterna sanzione, questo suggello!” (FW, 249-250 = 201-202). L’esperienza dell’eterno ritorno conserva in Nietzsche il sapore di un ricordo, di un déjà vu e di una sospensione del tempo. “‘E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna, e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti – non dobbiamo tutti esserci stati un’altra volta? – e ritornare a camminare in quell’altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via – non dobbiamo ritornare in eterno?’ […] E improvvisamente, ecco, udii un cane ululare. Non avevo già udito una volta un cane ululare così? E il mio pensiero corse all’indietro. Sì! Quando ero bambino, in infanzia remota: – allora udii un cane ululare così. E lo vidi anche, il pelo irto, la testa all’insù, tremebondo, nel più profondo silenzio di mezzanotte, quando i cani credono agli spettri: – tanto che ne ebbi pietà. Proprio allora la luna piena, in un silenzio di morte, saliva sulla casa, proprio allora si era fermata, una sfera incandescente, – tacita sul tetto piatto, come su roba altrui […].”59 Non si è obbligati a prendere su di sé questo carico (che implica anche l’idea ripugnante dell’eterno ritorno del 146
“piccolo uomo”, meschino e reattivo). Chi ha la forza di reggerlo dice, tuttavia, sì alla vita coltivando il pensiero della sua eternità, del suo sottrarsi così a ogni malinconia a causa di quanto inevitabilmente muore ed è sottoposto alla caducità. Egli non vuole una vita migliore, ma identica. Ha vinto quell’acuto sentimento della morte che ha caratterizzato la prima età moderna e che trova la sua espressione figurativamente più pregnante nel quadro di Holbein Gli ambasciatori, dove fra i ritratti di giovani belli, ricchi e potenti si nasconde – raffigurato con la tecnica dell’anamorfosi e quindi quasi invisibile – un teschio o nel dipinto di Poussin Les bergers d’Arcadie dove i pastori scoprono nell’idillio bucolico, nel tipo di vita considerata più serena, la presenza della morte. Coloro che soffrono della “malattia storica” adorano invece il passato, perché non sono in grado di dire sì alla vita, di creare nuovi valori. L’abnorme importanza attribuita al senso storico li induce ad assumere un atteggiamento ossequiente e reattivo nei confronti degli eventi. Non si rendono conto che l’Übermensch, il cui avvento è legato alla volontà e non a fiacchi desideri, non è soltanto una meta, ma qualcosa che sempre ritorna: “Non solo l’uomo, anche il superuomo ritorna eternamente!” (NF, 8, 27 [23]). Nell’istituire il mito dell’eterno ritorno, che rende paradossalmente possibile sia l’avvento del nuovo,60 sia la liberazione – mediante il “così volli che fosse” – dai vincoli del passato che ancora trattengono l’uomo attuale (cane invecchiato alla catena),61 Nietzsche sa anche che pochissimi riescono a sopportare questo grande spostamento di baricentro. La maggior parte degli individui sente con malcelata gioia il passaggio del tempo distruttore, gode della 147
caducità di tutte le cose e non sopporta la spontaneità costruita, l’anarchia organizzata di chi sperimenta e vuole dispiegare nella ruota del tempo tutti i suoi molteplici ego. E mentre l’uomo del risentimento non solo secerne involontariamente la décadence, ma la desidera come punizione destinata a colpire tutti, dato che egli ne è la prima vittima, lo “spirito libero” vuole invece inasprirla: “Nessuno ha la libertà di essere gambero. Non giova a nulla: si deve andare avanti, voglio dire un passo dopo l’altro più oltre nella décadence (questa è la mia definizione del moderno ‘progresso’) […]. Si può e si deve intralciare questo sviluppo e, intralciandolo, arginare, concentrare, rendere più veemente e improvvisa la degenerazione stessa: di più non si può”.62 Nietzsche è certo “attratto dalla fosforescenza che la decadenza emana; sa però che si tratta di una luce che assorbe, ma è insufficiente a illuminare. È figlio della decadenza, eppure lotta e protesta contro di essa”.63 Diversamente dal duca Jean des Esseintes, il protagonista del romanzo-emblema della cultura del decadentismo, À rebours di J.-F. Huysmans,64 non vuole procedere sempre “a ritroso”, come i gamberi, verso la degenerazione, ma neppure trionfalmente in avanti, come prescrive l’ideologia positivistica del progresso. Vuole ritorcere la décadence su se stessa, assumerla fino alle estreme conseguenze, curvare la parabola del declino sino a trasformarla, appunto, nel cerchio, scelto e costruito, dell’eterno ritorno. Rifiuta di sprofondare nella décadence e di tenere a distanza la società di massa alla maniera di Huysmans o di Wilde, che la esorcizzano attraverso l’esaltazione dello snobismo o l’ostentato sottrarsi ai gusti e alla sensibilità dei 148
contemporanei. Non intende, infatti, presentarsi come l’ultimo raffinato esteta di una società in procinto di essere travolta dai grands Barbares blancs.65 Non porta il lutto per l’irreversibilità del passato, né mostra nostalgia per le epoche di tramonto delle civiltà. In ciò si situa agli antipodi di Des Esseintes, spregiatore dei classici come Virgilio e Cicerone, lettore dei poeti latini minori della tarda antichità, organizzatore di un banchetto funebre che celebra l’inizio della sua impotenza sessuale (con piatti e cibi rigorosamente neri). Pur detestando la natura gregaria delle masse, Nietzsche spera che le nuove generazioni possano aprire la strada all’Übermensch, mentre Des Esseintes non vede sbocco positivo alla décadence e odia indiscriminatamente “con tutte le sue forze le nuove generazioni, figliate di ignobili tangheri che hanno bisogno di parlare e di ridere forte nei ristoranti e nei caffè, che vi urtano senza domandarvi scusa sui marciapiedi, che vi gettano tra le gambe, senza il minimo cenno di scusa o di saluto, le ruote di una carrozzina da bambini” (AR, 55). Nietzsche è ugualmente lontano dai modelli di uno scrittore che a lui si ispirerà, del D’Annunzio del Trionfo della morte, il cui protagonista, Giorgio Aurispa – malgrado i conati di riscatto, cfr. più avanti, pp. 338, 367 – non è capace di conseguire la volontà di potenza e di autocontrollo della quale va in cerca per uscire dalle incertezze e inadeguatezze della sua esistenza. Avverte, infatti, “una forza estranea” che si impadronisce di lui, togliendogli ogni capacità di autocontrollo: “Io sfuggo a me stesso. Il senso che ho del mio essere è simile a quello che può avere un uomo il quale, condannato a restare su un piano di continuo ondeggiante e pericolante, senta di 149
continuo mancargli l’appoggio”. Secondo schemi ispirati alla psicologia di Ribot, il protagonista del romanzo dannunziano viene descritto come un uomo attraversato “da un mero flusso di sensazioni, di emozioni, di idee” che ruotano attorno a precari centri di attrazione, a “un’associazione provvisoria di fenomeni” e che abbozzano un essere evanescente colpito da una “malattia della volontà”, dalla “paralisia psichica”.66 Carbone e diamante In Nietzsche, al contrario, la volontà di potenza e l’eterno ritorno sono propriamente degli antidoti contro le ribotiane “malattie della volontà” e contro la décadence, intesa come disgregazione e perdita d’unità, nel senso di Bourget.67 Quando la pluralità degli io sfocia nella dissipazione psichica, alimentando passioni di debolezza travestite da ideali di eguaglianza (ira impotente, invidia, risentimento), bisogna salvare l’umanità dalla degradazione causata dal livellamento: “Mi trovo costretto a ristabilire la gerarchia nell’epoca del suffrage universel, cioè nell’epoca in cui ciascuno ha diritto di erigersi a giudice di tutto e di tutti” (FVP, n. 854 = NF, 7, 26 [9]). La gerarchia, l’altezza, il Gradus ad Parnassum, servono a evitare che la vita venga svilita e umiliata, impedendole di “edificare se stessa in alto con pilastri e gradini”, mentre “verso vaste lontananze essa vuole mirare e ancora al di là verso bellezze beate, – per questo essa ha bisogno di altezza! E poiché ha bisogno di altezza, ha bisogno anche dei gradini e della contraddizione tra i gradini e coloro che salgono! Salire vuole la vita, e salendo superare se stessa” (Z, 126 = 121). Sia i predicatori cristiani dell’eguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio (che maneggiano incautamente questa idea-“dinamite”), sia 150
gli apostoli socialisti della giustizia sociale (le “tarantole”), non fanno che diffondere ideali intrisi nel veleno del ressentiment. Al pari di altri suoi contemporanei – come Taine, Renan o Sorel –, anche Nietzsche ha orrore della stagnazione sociale, della mediocrità, dell’appiattimento, dell’egualitarismo. La doppia equazione, da un lato, tra dislivelli energetici e vita e, dall’altro, tra livellamento energetico e morte (che deriva da interpolazioni della seconda legge della termodinamica), viene applicata da Sorel al mondo sociale in base a un’accattivante analogia. Senza dislivelli tra le masse d’acqua – nell’idraulica – o senza una differenza di calore e di potenziale – nella termodinamica e nell’elettricità – non vi sarebbe, infatti, alcun movimento, alcuna erogazione di energia: i liquidi nei vasi comunicanti, i fiumi, i fluidi elettrici ristagnerebbero inerti. Similmente, qualora prevalessero i fautori di un perpetuo armistizio nella lotta di classe, lo stesso accadrebbe alle collettività umane, destinate a impaludarsi e a estinguersi (cfr., più avanti, pp. 213 sgg.). Secondo uno stato d’animo dominante tra le élite, ben riassunto dalle parole di Renan, i segni della futura decadenza ci sono già: “Il nostro secolo non va né verso il bene, né verso il male; va verso il mediocre”.68 Le società contemporanee, in particolare quelle più sviluppate, tendono al livellamento a causa dell’attenuarsi delle benefiche diseguaglianze tra gli uomini. Nietzsche pone un problema serio, quello del rimpicciolimento degli uomini, enunciato nello Zarathustra (cfr. Z, 205-206 = 203-204). Ha scoperto e denunciato le tecniche di disciplinamento e di allevamento cui l’umanità è stata sottoposta nell’arco dei millenni dalla religione e dalla 151
politica, con la conseguente riduzione dell’individuo a membro di un gregge o di una mandria. Si chiede così se è possibile favorire l’uscita del singolo da questa deprimente promiscuità per produrre esemplari di uomini potenziati mediante una selezione artificiale autoprovocata dal pensiero dirimente dell’eterno ritorno. Pur rifiutando il valore scientifico del secondo principio della termodinamica (perché, se fosse vero, lo stato di omeostasi avrebbe dovuto verificarsi nel corso del tempo infinito già passato), egli accetta implicitamente le conseguenze ipotetiche della sua applicazione alla società e si sforza di risalire la china della degradazione dell’energia (quella umana, per lui). Opponendosi ai fiacchi predicatori di eguaglianza e di compassione per i deboli, afferma che la mediocrità si combatte avanzando controcorrente, aumentando artificialmente la distanza tra la nuova aristocrazia degli uomini superiori e le masse, creando, appunto, differenze di potenziale, ossia – in termini politici – gerarchie. All’allungamento della scala gerarchica si potrà, per altro, giungere anche in maniera controintuitiva, ad esempio attraverso l’ulteriore diffusione della democrazia tra il gregge umano, tale da portare a un accresciuto e radicato disgusto per lo spreco delle capacità e delle energie individuali.69 La strada meno lunga e più sicura consiste, tuttavia, nel mantenimento, in tutta la sua asprezza, della moderna schiavitù del lavoro salariato. Sono, pertanto, da condannare quanti divulgano tra la classe operaia il segreto dello sfruttamento, che non caratterizza le società corrotte o ingiuste, ma l’essenza stessa della vita, che è “appropriazione, offesa, sopraffazione di tutto quanto è estraneo e più debole, oppressione, durezza, imposizione di 152
forme proprie […] perché vita è precisamente volontà di potenza” e, a sua volta, la volontà di potenza è “volontà di vita”.70 I socialisti, che hanno osato rompere questa congiura del silenzio, seminano infelicità tra quanti pretendono di difendere: “Disgraziati seduttori, che hanno distrutto con il frutto dell’albero della conoscenza lo stato di innocenza dello schiavo!” (GS, 259-260 = 224). Loro è la responsabilità di aver reso invidiosi gli operai, di averli sottratti al torpore di un lavoro che non richiede oggi alcuna riflessione: “Chi odio io maggiormente tra la plebaglia di oggi? La plebaglia socialista, gli apostoli dei Ciandala, i quali sovvertono lentamente l’istinto, il piacere, quel senso, nel lavoratore, di modesto appagamento del suo piccolo essere – i quali lo rendono invidioso, gli insegnano la vendetta…” (AC, 242 = 251). Se vogliono davvero conservare una certa capacità di appagamento, i lavoratori devono quindi, da un lato, rinunciare al miraggio dell’eguaglianza – giacché “la capacità di gioire si atrofizza a causa della volontà di essere uguali” (NF, 5, 1 [16] e cfr. 5, 3 [144]) –, dall’altro, non imitare i “borghesi”, mostrandosi superiori a loro per la mancanza di bisogni. La democrazia parlamentare, il socialismo e – nei suoi effetti di più lunga durata – il cristianesimo sono i principali responsabili della decadenza attuale. Attraverso le parole d’ordine “eguaglianza”, “fraternità”, “giustizia” o “amore per il prossimo” hanno espunto dalla società e dalle coscienze il senso della positività dei conflitti e dell’espansione delle forze vitali, riconducendo gli uomini al livello dell’orda animale, della massa indifferenziata e preparando l’avvento dei moderni “barbari”, che “si mostreranno e si consolideranno solo dopo immense crisi 153
socialiste” (NF, 8, 11 [31]). Cercando di inoculare nella coscienza dei fortunati il disagio e la vergogna per la miseria altrui, istituzionalizzando la mediocrità, i socialisti disperdono il lievito dello sviluppo, ritorcono contro se stessa l’inibita volontà di potenza degli individui. Tra cristianesimo e socialismo esiste, del resto, una profonda affinità, in quanto la rivoluzione socialista non è che una variante secolarizzata del Giudizio universale, la cui attesa addolcisce il rancore dei malriusciti con la promessa di una futura vendetta nei confronti dei ben riusciti.71 Risvegliare il desiderio di eguaglianza senza poterlo soddisfare (giacché, malgrado la proclamazione dell’eguaglianza formale dei diritti e delle pari opportunità, le diseguaglianze continuano inesorabilmente a perpetuarsi)72 significa acuire ancora di più l’invidia dei deboli. Già Aristotele aveva segnalato, nella Retorica, il rapporto tra invidia ed eguaglianza, sostenendo che s’invidiano solo quelli che si ritengono eguali.73 Era stato però Tocqueville a mostrare – con La démocratie en Amérique – come, in maniera apparentemente paradossale, l’invidia si rafforzi in funzione del diffondersi dell’eguaglianza. Quando sono macroscopiche, le differenze sociali vengono, infatti, avvertite poco; quando invece si assottigliano, ognuno comincia a chiedersi per quale ingiusto privilegio gli altri, che in linea di principio dovrebbero essere uguali a lui, siano poi, in realtà, più potenti, ricchi, sani o fortunati. Il problema delle società egualitarie diventa allora, in prospettiva, quello di gestire le frustrazioni che nascono dal fatto che le loro promesse non possono essere esaudite, che le aspettative dei cittadini vengono quasi sempre sistematicamente deluse. In linea di principio, le democrazie 154
sono certamente “aperte” alla realizzazione dei desideri individuali, ma, di fatto, non appaiono in grado di soddisfare la maggior parte dei loro cittadini: “Davanti all’ambizione degli uomini sembra aprirsi un campo immenso e facile, ed essi immaginano volentieri di essere chiamati a grandi destini. Ma è una concezione fallace, che l’esperienza corregge ogni giorno: questa stessa eguaglianza, che consente a ogni cittadino di concepire grandi speranze, rende tutti i cittadini individualmente deboli. Permette ai desideri di espandersi, ma al contempo limita da ogni parte le loro forze”.74 Per quanto Nietzsche citi Tocqueville solo due volte (e con ammirazione), l’idea che le masse democratiche siano dominate dall’invidia e dal desiderio di livellamento delle differenze sociali gli è già in parte nota attraverso i classici greci ed è tornata alla sua attenzione grazie alle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij e, soprattutto, al libro di Raoul Frary, Manuel du Démagogue, che si trova in traduzione tedesca nella sua biblioteca.75 Frary, dopo aver trattato delle passioni atte a essere manipolate dai demagoghi, tra cui la speranza, mostra come l’invidia abbia cessato al suo tempo di essere “bassa e strisciante”, per diventare ardita e ostentata: “Essa non mormora più, declama […]. Non è più una Furia con una capigliatura di vipere: è Nemesi, la dea della vendetta, la sorella maggiore della Giustizia”.76 Il ressentiment (misto di desiderio di vendetta e di consapevole impotenza, di amara volontà di negazione della vita e di autoavvelenamento degli animi, fattore di stravolgimento dei valori e di permanente distorsione del giudizio morale) è per Nietzsche destinato a crescere,77 poiché le differenze sociali appaiono un’offesa cui non si riesce a porre rimedio. Esso è una forma debole di 155
volontà di potenza, un conatus a bassa tensione, che schiaccia le energie dell’individuo, ingorgandole e lasciando loro come unica valvola di sfogo le allucinazioni di un’immaginaria vendetta. Non tollerando ciò che si eleva al di sopra della mediocrità, la coscienza gregaria considera l’“essere zero” del singolo una virtù. L’eguaglianza, che presuppone il confronto sospettoso di tutti con tutti, conduce perciò a negare l’esistenza di qualsiasi superiorità gerarchica fra gli individui e ad abbassare i forti e i migliori allo stesso livello dei meschini e degli invidiosi, i quali considerano tutti gli uomini sostanzialmente uguali, senza pensare che – se la loro materia è la stessa – la loro consistenza è invece profondamente diversa: “‘Perché sei così duro!, disse una volta il carbone al diamante; non siamo forse parenti stretti?’” (Z, 264 = 261). L’aspirazione all’eguaglianza esprime il desiderio di avere sotto di sé degli inferiori, così da esercitare nei loro confronti una gretta volontà di potenza. Se però – in seguito al consolidarsi delle ideologie democratiche e socialiste – non esistono ceti talmente bassi da essere disposti a un’obbedienza servile, allora si denigra chi sta in alto, indebolendo ogni auctoritas, intesa quale riconoscimento spontaneo della superiorità ‘verticale’ di chi detiene il potere. Dove prevalgono l’invidia e il legame ‘orizzontale’ dell’eguaglianza (l’eguaglianza dei diseguali), chi sta ‘in alto’ non è considerato né migliore degli altri, né maggiormente legittimato a comandare. Le cariche elettive, essendo revocabili, dipendono dalla volontà sovrana, ‘orizzontale’, di chi lo ha provvisoriamente innalzato ai vertici.78 Questo livellamento deprime qualsiasi energia tesa allo sviluppo e 156
favorisce il logoramento e la morte della civiltà. Maurras riassumerà, più tardi, in tre dilemmi un credo politico che estremizza posizioni che Nietzsche avrebbe potuto condividere: L’inégalité ou la décadence! L’inégalité ou l’anarchie! L’inégalité ou la mort!79 Diventano così fattori di ristagno quei valori politici e morali di libertà ed eguaglianza che avevano rappresentato per Condorcet e per il pensiero rivoluzionario forze propulsive di crescita, manifestazioni visibili del venir meno dei pesi intollerabili che comprimevano la molla-uomo, impedendogli di espandersi e di accelerare il corso degli eventi.80 La democrazia finisce così per apparire solo come regno della mediocrità, regime in cui uomini resi egualmente insignificanti, “zeri sommati”, lavorano per procurarsi volgari soddisfazioni, tentando inutilmente di vincere l’amaro disagio che deriva dal basso regime della loro volontà di potenza, incapace di salire i gradini di una vita più alta. A raggiera A partire dall’idea, condivisa dalla cultura del tempo, che tutto cominci da un primigenio conflitto di forze selvagge, dal caos o dalla mancanza di senso, la filosofia di Nietzsche racchiude in nuce molti dei problemi che nei decenni successivi verranno dibattuti a livello filosofico, letterario e politico. Espandendo la ricerca a raggiera, nei capitoli successivi analizzerò, dapprima, le strategie elaborate da Bergson, Proust, Pirandello e Simmel per sfuggire all’impoverimento della soggettività e alla disgregazione dell’identità personale, poi quelle perseguite da Le Bon e Sorel per reintrodurre “differenze di potenziale” all’interno della società,81 ristabilendo così la distanza tra capi e gregari o tra proletariato e borghesia. Attraverso la psicologia delle 157
folle e le tecniche di interiorizzazione del dominio affronterò inoltre i tentativi di assoggettamento dell’autonomia individuale nei regimi di massa, in particolare nel fascismo italiano, per concludere con un’analisi delle forme di espansione e contrazione dell’io e dell’identità personale nel nostro tempo.
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5. Risorgere da se stessi: Bergson e Proust
La crescita a stelo In Bergson e Proust, il progetto di sfuggire alla frantumazione dell’io e di rivitalizzare in tal modo l’esperienza individuale assume un ruolo primario. Oltre che dall’impianto complessivo della loro opera, lo si può constatare analizzando, da questa prospettiva, i loci classici del primo e i “feticci” del secondo.1 Per Bergson riprendere possesso di sé significa opporsi alla deriva che ci spinge costantemente a preferire la passività, la dispersione e la frammentazione della coscienza alla sua più ardua ricomposizione dinamica e al rinnovamento della nostra personalità: “La maggior parte del tempo viviamo esteriormente a noi stessi e percepiamo soltanto il fantasma scolorito del nostro io, ombra che la pura durata proietta sullo spazio omogeneo. La nostra esistenza si svolge quindi nello spazio più che nel tempo: viviamo per il mondo esteriore piuttosto che per noi; parliamo piuttosto che pensare; ‘siamo agiti’ piuttosto che agire noi stessi” (EDI, 151 = 134). Questo perché confondiamo i nostri stati di coscienza – simili a “esseri viventi, incessantemente in via di formazione” – con l’esteriorità reciproca delle cose inerti, considerate stabili, malgrado la loro instabilità, e distinte, 159
malgrado la loro mutua compenetrazione. Continuiamo, infatti, a credere a un “sostrato” della coscienza, a “un io amorfo, indifferente, immutabile, sul quale sfilerebbero o si infilerebbero gli stati psicologici” (EC, 497). Sostituiamo l’“io rifratto” e molteplice a un io i cui stati fluidi non sono sottoponibili a enumerazione. Usando ossimoricamente le rigide categorie dell’intelletto, potremmo anche dire che siamo una “unità multipla” o una “molteplicità una”. Avremmo così “un’imitazione approssimativa” della continuità che esperiamo in noi stessi. A causa di un equivoco, dividiamo poi quantitativamente il tempo psichico in parti uguali, modellandolo sullo spazio omogeneo. Trasformiamo così la coscienza in una cosa, attribuendole le caratteristiche dell’esteriorità e facendola dipendere dall’imperativo sociale di proiettarsi nell’azione. Diversamente da questa temporalità astratta, la “durata” – dimensione propria della coscienza – consiste invece in un incessante variare qualitativo, eterogeneo, irreversibile, intensivo: è “creazione continua, sgorgare ininterrotto di novità”, vita che si mantiene proprio perché si trasforma, divenire permanente che conosce l’essere immobile solo come astrazione. E mentre il tempo cronologico è unico e lineare, il tempo della durata è multiplo, elastico, indivisibile, complesso, privo di un monotono ritmo. La vita della coscienza è simile a “un’unica frase […] piena di virgole, ma non tagliata in nessuna parte da punti” (ES, 858). Risorge dalla sua dissipazione riscoprendo nello “spessore” del sentimento della durata, ossia nella “coincidenza del nostro io con se stesso” (EC, 665), la sorgente della propria libertà: “Se dunque, in tutti i campi, il trionfo della vita è la creazione, non dobbiamo supporre che 160
la vita umana ha la sua ragion d’essere in una creazione che, a differenza di quella dell’artista e dello studioso, può perseguirsi in ogni momento in tutti gli uomini: la creazione di sé da parte di sé, l’ingrandimento della personalità mediante uno sforzo che trae molto dal poco, qualcosa dal niente, e accresce incessantemente quel che c’era di ricchezza nel mondo?” (CV, 833). Gettando uno sguardo sul “registro” dove si segna il tempo di ogni essere vivente (cfr. EC, 508), sintonizzandosi con l’impulso unico che permea la vita in tutte le sue manifestazioni – omologo dell’intuizione della durata nella coscienza umana e che procede sempre impetuosamente in avanti (nonostante gli arresti, le deviazioni e i regressi) – si comprenderà che la vita psichica dell’uomo è uno zampillare costante di nuova, imprevedibile spontaneità. La coscienza, infatti, “si addormenta quando non vi è movimento spontaneo e si esalta quando la vita imbocca la direzione dell’attività libera” (ES, 822). L’impresa di rinnovarsi risulta, tuttavia, ardua. La spazializzazione della durata, il vivere come fantasmi scoloriti è il prezzo che ciascuno deve pagare alla sopravvivenza della specie e all’esigenza sociale dell’azione, che ci impongono di attribuire alle cose, alle persone e agli eventi dei contorni fissi per poterli poi manipolare più agevolmente. Con una metafora sartoriale, che allude alle linee tracciate con il gessetto sui tessuti per indicare la direzione del taglio, Bergson pensa che l’immobilizzazione e la giustapposizione delle parti dei corpi e dei concetti dipenda dal loro essere “ritagliati nella stoffa della natura da una percezione le cui forbici seguono, in qualche modo, il tracciato delle linee su cui potrebbe passare l’azione” (EC, 161
504). Per essere efficace, questa deve riprodurre le silhouettes del mondo secondo linee di possibile intervento, richiamando alla mente i ricordi di cui ha, di volta in volta, bisogno per superare determinate difficoltà. Queste stesse forbici operano dei tagli anche nella nostra personalità. La scissione dell’io è, infatti, virtualmente in agguato in ciascuno di noi, giacché differenti e non sempre ben suturati tra loro sono stati, nel corso dell’esistenza, i poli d’aggregazione delle nostre esperienze psichiche. La personalità di ciascuno si è negli anni concentrata attorno a diversi nuclei, a ilôts de conscience, che poi si sono, a loro volta, organizzati in coalizioni successive, in arcipelaghi di coscienza con capitali diverse. Ci siamo così trovati spesso al bivio, abbiamo scartato possibilità di sviluppo in altre direzioni, emarginato o cercato di annientare gli io potenziali che si stavano formando e che ci disturbavano. La nostra è stata una crescita a stelo: pur facendo ciascuno “valanga su se stesso”, ogni scelta è stata una vittoria su alternative che, prima della decisione, avevano ancora qualche probabilità di diventare effettuali. Qualsiasi sviluppo avviene quindi per dissociazione e sdoppiamento di tendenze che non possono coesistere oltre un certo tempo e limite, per ramificazioni, per diremptions, e non per accumulazione, per armonizzazione. Ciascuno di noi è costretto a periodiche ‘potature’ dell’io, così da costringerlo a svettare in altezza, a favorirne la non definitiva unità, a sua volta generatrice di nuove differenziazioni (anche se gli io amputati si fanno talvolta sentire alla maniera degli arti fantasma). La nostra psiche attuale assomiglia a un albero che conserva le cicatrici dei rami tagliati, delle possibilità asportate, ma non private 162
definitivamente della capacità di ricrescere. I punti stessi di condensazione del fluire della coscienza, le immagini, non sono che “nodosità” e “sospensioni”, forme di epoché, che possono permanere o scomparire. Bergson esprime con efficacia questo concetto: “Ognuno di noi, con un colpo d’occhio retrospettivo sulla propria storia, constaterà che la sua personalità da bambino, per quanto indivisibile, riuniva in sé persone diverse, che potevano restar fuse insieme perché erano allo stato nascente: questa indecisione piena di promesse è uno dei maggiori fascini dell’infanzia. Ma le personalità che ci compenetrano divengono, col crescere, incompatibili e, poiché ciascuno di noi non vive che una sola volta, è costretto a fare una scelta. Noi scegliamo, in realtà, incessantemente e incessantemente abbandoniamo molte cose. La strada che percorriamo nel tempo è coperta dalle macerie di tutto ciò che cominciavamo a essere, di tutto ciò che avremmo potuto diventare” (EC, 579-580). Eppure, tutto quello che effettivamente siamo diventati per effetto della coscienza – che è “sinonimo di scelta” (ES, 823) – condensa a ogni istante la nostra storia, il passato che ci segue come un’ombra. Tale insistenza sulla differenziazione, giocata contro le filosofie dell’identità (una posizione che accomuna Bergson a Simmel e che non sarà dimenticata da Deleuze e Derrida), implica l’instaurazione di un nuovo rapporto tra virtualità e realtà, nel senso che il reale è più ampio dell’attuale: l’attualità è solo la punta dell’iceberg dei possibili e non uno stato o un dato che si può isolare contrapponendolo diametralmente allo squalificato campo dell’ineffettualità.2 Questo pathos anti-associazionistico, con il conseguente primato delle idee di divergenza, scarto, frammentazione si 163
ritrova anche nelle ipotesi fisiologiche di Bergson, allorché – contro la teoria del “mosaico” di Wilhelm Roux – sostiene che “molto probabilmente non sono le cellule che hanno fatto l’individuo mediante l’associazione, quanto piuttosto l’individuo che ha fatto le cellule mediante la dissociazione”.3 In linea di principio, vale dunque per Bergson l’assioma che non l’associazione, ma la dissociazione costituisce “il fatto primitivo” (MM, 304 = 270). Ogni dialettica basata sulla virtuale convergenza delle contraddizioni verso una soluzione che le superi risulta pertanto impossibile. Il problema diventa allora quello di tendere a forme mobili di sviluppo che salvaguardino ed esaltino la forza propulsiva della differenziazione e della complessità. L’elemento di unificazione non si situa soltanto in avanti, nel télos dello slancio vitale, ma anche nella “sorgente” stessa, nell’origine, in ogni fase che precede la scissione. Il contrasto fra l’individualità e la sua dissoluzione è presentato come conflitto tra fluidità e solidificazione, tra tempo e spazio, tra neo-lamarckismo (per cui l’evoluzione è il risultato di un bisogno interno di differenziazione) e darwinismo (per cui l’evoluzione stessa è mossa dalla lotta per la sopravvivenza). Fluidità, movimento, bisogno sono i concetti-cardine della filosofia bergsoniana, ma anche quelli che provocano più resistenze nella coscienza comune, tolemaica. A causa della percezione, che imprigiona le cose in schemi, e del linguaggio, che le fissa in concetti, la coscienza non è abituata a maturare mutando, a intendere l’immobilità come pura apparenza, analoga a quella di viaggiatori i quali, procedendo su due treni paralleli che viaggiano alla stessa velocità, si credono fermi: “Dinanzi allo 164
spettacolo di questa mobilità universale, alcuni di noi saranno presi da vertigini. Il fatto è che sono abituati alla terraferma; non possono avvezzarsi al rollìo e al beccheggio. Hanno bisogno di punti ‘fissi’ ai quali appendere il pensiero e l’esistenza. Essi credono che se tutto passa, niente esista; e che, se il reale è mobilità, esso non è già più nel momento in cui lo si pensa, è sfuggito al pensiero. Il mondo materiale, dicono, viene a dissolversi e lo spirito ad annegare nel flusso torrentizio delle cose. Si tranquillizzino! Se consentiranno a guardarlo direttamente, senza veli interposti, il cambiamento apparirà loro ben presto come ciò che può esservi al mondo di più sostanziale e di più durevole” (PM, 1385 e cfr. PC, 1378 sgg.). Sebbene Bergson sostenga di non aver abbandonato l’idea di sostanza e di non riconoscersi nell’eraclitismo (cfr. IM, 1420 e n.), il concetto tradizionale di sostanza è, in effetti, sostituito da quello di cambiamento, che esiste senza cose che mutino. Tale genere di cambiamento, costitutivo della realtà, non esige infatti una sostanza: “Non c’è né un substratum rigido immutabile, né degli stati distinti che passano come attori su una scena. C’è semplicemente la melodia continua della nostra vita interiore, – melodia che prosegue e proseguirà, indivisibile, dall’inizio alla fine della nostra esistenza cosciente. La nostra personalità non è che questo” (PC, 1384). Nelle Gifford Lectures tenute a Edimburgo nel 1914 (lo stesso anno in cui le sue opere vennero messe all’indice dal Sant’Ufficio) e nelle conferenze di Madrid del 1916 Bergson affronta direttamente il problema della personalità.4 In esse contrappone all’informe Proteo dell’io volgare l’io creatore continuo di se stesso, in grado di articolarsi e di prodursi da sé, scegliendo e abbandonando molte possibilità, 165
diventando libero, agendo invece di “essere agito”. Opponendosi alle teorie positivistiche relative al presunto determinismo dell’ereditarietà o a quelle dei médecins philosophes, secondo cui si viene necessariamente aspirati verso l’arcaico, Bergson mette invece l’accento sul futuro, sul nuovo, sul possibile, sulla libertà che non nasce – come in Locke – dal lavorare se stessi, ma dal lasciar rifluire in sé la propria spontaneità, già prigioniera di paralizzanti schemi esteriori. In particolare, contro la giustapposizione degli io in Ribot, in Janet (suo antico compagno all’École Normale Supérieure) e in Binet, egli sottolinea lo slancio vitale, la proiezione in avanti, che congiunge gli io spazialmente separati lungo il filo di una “melodia”, in cui ciò che segue non ha senso se non contiene ciò che precede. Il fatto è – come insegnano Ribot, Janet e Binet e come sa bene anche Pirandello – che nella vita psichica queste scelte e queste esclusioni non sono mai definitive e che, per conseguenza, le ricadute patologiche sono pur sempre possibili. Bergson condivide uno dei dogmi più radicati della scienza del suo tempo, quello della conservazione integrale del passato, che era stato presentato dai fisiologi come basato sull’altissimo numero di cellule cerebrali e l’ancora più elevata possibilità di sinapsi e che era presente – a livello psicologico – tanto nel volume di Janet L’automatisme psychologique, quanto in tutta l’opera di Freud.5 Il passato non passa mai e gli abbozzi di io precedentemente abbandonati talvolta ritornano. Sebbene Bergson non si sia mai occupato direttamente di questioni di psichiatria,6 ha sempre evitato di identificare le malattie psichiche con lesioni di determinate zone cerebrali, che certamente esistono, ma non spiegano i disturbi 166
correlati, più di quanto il cervello, “organo di attenzione alla vita”, bureau téléphonique central che smista i messaggi, possa essere identificato con i loro contenuti. La scissione della personalità si manifesta però (in alcuni casi come il déjà vu, in cui ci si guarda vivere dall’esterno) proprio a causa di un allentamento dell’attention à la vie, del distacco da una realtà divenuta ostile o indifferente. Lo slancio vitale risulta allora bloccato (SP, 928 sgg.). La scissione della personalità può, del resto, essere anche causa di un piacere regressivo, di un tornaconto secondario: cessa, infatti, per suo tramite l’enorme dispendio d’energia necessario alla conservazione della soggettività libera (cfr. EC, 500) o, nella terminologia di Ribot, la fatica che serve a mantenere il potere dell’io egemone. Gli “io di ricambio” Anche Proust, vissuto in un ambiente in cui i problemi della consistenza dell’io e quelli delle personalità multiple erano ampiamente dibattuti, ha frequentato questo tipo di letteratura: dai testi di Ribot, prima apprezzato e poi condannato senz’appello,7 a quelli di psicopatologia, letti sistematicamente soprattutto nel 1905 (quando, dopo la morte della madre, venne ricoverato per circa due mesi in una clinica per malattie nervose), ma non ignoti sin dagli anni giovanili.8 Le tracce di queste opere presenti nella Recherche mostrano come essa non costituisca affatto un semplice “romanzo bergsoniano”. Proust elabora un’altra strategia di salvezza dell’io dalla dissipazione e di presa di possesso di noi stessi grazie alla rammemorazione dei diversi io che, nel tempo, hanno accompagnato la nostra vita. È, infatti, possibile rievocarli narrativamente, facendoli risalire dagli strati più profondi in 167
cui sono rimasti oppressi dal peso dell’ultima personalità dominante, quella attuale. Nell’estrarli, se ne incontrano alcuni che hanno subìto un processo di cristallizzazione, che li ha salvati dalla distruttiva voracità del tempo, rendendoli capaci di veicolare – mediante la successiva agnizione di altri io dimenticati – “l’enigma della felicità” (TR, 446 = 216). Questa strategia di liberazione si ritrova all’opera in diversi episodi della Recherche, dove gli io si rinnovano per effetto di choc improvvisi o del trascorrere cumulativo del tempo, che frana alla fine sotto la sua stessa mole. Nella Fuggitiva si passa così dall’“io luttuoso”, formatosi in seguito alla morte di Albertine, a quello che s’accorge all’improvviso di poter inaugurare un’inedita fase dell’esistenza: “Il nuovo essere che avrebbe sopportato facilmente di vivere senza Albertine aveva già fatto la sua comparsa in me, dal momento che, in casa di Madame de Guermantes, avevo potuto parlare di lei con parole accorate, ma senza sofferenza profonda. Il possibile sopraggiungere di questi nuovi io, il cui nome sarebbe stato diverso dal precedente, mi aveva sempre spaventato, a causa della loro indifferenza verso ciò che amavo”. L’io narrante si accorge ora che tale opera di cambiamento è misericordiosa: “Ora, invece, quell’essere tanto temuto e tanto benefico che era semplicemente un io di ricambio, uno dei tanti che il destino tiene in serbo per noi e che nostro malgrado, senza dare ascolto alle nostre preghiere più d’un medico illuminato e proprio per questo autoritario, sostituisce con opportuno intervento a un io davvero troppo ferito, quell’essere mi portava, assieme all’oblio, una soppressione quasi completa della sofferenza, una possibilità di benessere. Questo ricambio, d’altronde, avviene di tanto in tanto, come l’usura 168
e la rigenerazione dei tessuti; ma noi ci facciamo caso solo se il vecchio io conteneva un gran dolore, un corpo estraneo e offensivo che ci meravigliamo di non trovare più, stupiti come siamo d’essere diventati qualcun altro, un altro per cui la sofferenza del predecessore non è più che una sofferenza altrui, della quale possiamo parlare impietosendoci perché non la proviamo più” (AD II, 174-175 = 214-215). Con simili “io di ricambio”, con la varietà di possibili nuovi centri di aggregazione dell’esperienza che il fato ci offre, muta sia il nostro tono affettivo, sia il nostro modo di comprendere le cose. Il lutto e la perdita (di persone, di luoghi o di ideali, di quanto cioè ci sta a cuore e serve a stabilizzare la nostra identità) si manifestano infatti come eventi il cui senso è eccedente rispetto all’orizzonte e alla recettività della nostra coscienza attuale. Ci costringono pertanto a trasformarci radicalmente, a riformulare il nucleo dei nostri interessi e delle nostre aspettative, a riquadrare i nostri vissuti e i nostri pensieri innalzandoli al livello di un nuovo punto di vista, di un altro io che espianta il vecchio, senza ereditarne direttamente l’ammontare degli affetti. Allontanando la sofferenza e diminuendo l’intensità dell’amore che legava l’“io luttuoso” ad Albertine, il nuovo io resta in contatto con il precedente, ma si comporta come un amico delegato a ricevere le condoglianze: “Quell’io manteneva ancora, probabilmente, qualche contatto con il vecchio, allo stesso modo che un amico, pur essendo indifferente a un lutto, ne parla ai presenti con l’adeguata tristezza, e di tanto in tanto va nella camera dove il vedovo, che l’ha incaricato di ricevere le visite in vece sua, continua a far sentire i suoi singhiozzi” (AD II, 175 = 215-216). Non sempre gli “innumerevoli e umili io che ci compongono” 169
sono a conoscenza dei cambiamenti intervenuti nella realtà: devono ricevere una notifica, soprattutto quelli che non si rivedono “da parecchio tempo” (AD I, 14 = 18-19). Il nuovo io che scaturisce dal vecchio non può essere fedele alla memoria dell’essere amato, perché non l’ha conosciuto e, dunque, non lo ricorda se non per interposta persona: “Mentre cresceva all’ombra del vecchio, il mio nuovo io aveva sentito parlare spesso di Albertine; tramite suo, attraverso i racconti che quello gli faceva, era convinto di conoscerla, gli era simpatica, l’amava; ma non era che una tenerezza di seconda mano ” (AD II, 175 = 216). Tali apparenti infedeltà derivano dal fatto che gli “io di ricambio” si succedono attraverso automatismi che sfuggono alla volontà e alla consapevolezza dei singoli. Il nostro essere individuale è, infatti, un “polipaio” (di nuovo la colonia di polipi, i corallaires à polypier di Espinas e di Laforgue, come emblema della pluralità degli organi del corpo o degli io), in cui ciascun elemento opera senza che il sistema di coordinamento centrale ne sia cosciente: “Avevo un bel considerare da sempre il nostro essere individuale, in un momento determinato del tempo, come un polipaio il cui occhio, organismo indipendente sebbene associato, se avverte della polvere sbatte senza bisogno del comando dell’intelligenza, e il cui intestino, parassita nascosto, addirittura si infetta senza che l’intelligenza lo venga a sapere, e parallelamente per l’anima, ma anche nella durata della vita, come un succedersi di io giustapposti ma distinti, destinati a morire l’uno dopo l’altro o magari ad alternarsi fra loro, come quelli che a Combray si sostituivano per me l’uno all’altro quando veniva la sera” (TR, 516 = 300). Le teche dell’oblio 170
I momenti degli io del passato che non abbiamo elaborato e asservito all’io attuale si sottraggono però al destino di morte o alla “memoria ghiacciata” in cui conserviamo solo ciò che ci è utile. Lo scopriamo nell’attimo in cui un ricordo sepolto nell’oblio viene attratto e riacceso da una fortuita scintilla del presente. È il caso famoso, di cui molteplici implicazioni e sfumature restano però ancora da cogliere, dell’episodio di Balbec, dove si rievoca la sera in cui, nel chinarsi per slacciare il primo bottone del suo stivaletto, il Narratore si rende pienamente conto, in forma affettiva, di ciò che il suo intelletto sapeva solo astrattamente: che la nonna, abituata a compiere quel gesto quando lui era bambino, è morta da circa un anno. Si rompe improvvisamente la diga che separa la mera registrazione degli eventi dalla loro piena compenetrazione emotiva: “E così, soltanto in quell’istante – più d’un anno dopo il suo funerale, a causa dell’anacronismo che tanto spesso impedisce al calendario dei fatti di coincidere con quello dei sentimenti –, in quel desiderio folle di precipitarmi tra le sue braccia, avevo scoperto che era morta” (SG, 153 = 190). La comprensione intellettuale e la comprensione affettiva del medesimo fenomeno, prima divergenti, ora coincidono. Non si crea più alcuna sfasatura tra il sapere distaccato dai sentimenti e la coinvolgente agnizione di quel che è stato. La nostra vita, che è piena di lastre fotografiche non sviluppate, passa, in questi istanti dal “negativo” al positivo, al rivelarsi della latenza (cfr. TR, 474 = 250). Lo “sviluppo” di noi stessi avviene, in questo caso, grazie alla memoria affettiva, a un ricordo gonfio di un amore resuscitato, capace, nella sua grandezza, di accogliere in sé un io che si è perduto: “L’essere che accorreva in mio aiuto, che mi salvava 171
dall’aridità dell’anima, era lo stesso che, parecchi anni prima, in un momento di sconforto e di solitudine identici, in un momento in cui io non ero più io, era entrato e m’aveva restituito a me stesso, giacché era me e più di me (il contenente che è più del contenuto, e veniva a portarmelo)” (SG, 153 = 190). La memoria emotiva salda istantaneamente due io distanti e separati nel tempo: “Ora, poiché quello che io ero improvvisamente ridiventato non era più esistito dalla lontana prima sera in cui la nonna, al mio arrivo a Balbec, m’aveva aiutato a svestirmi, fu con assoluta naturalezza, non già dopo l’attuale giornata (che quell’io ignorava), bensì – come se ci fossero, nel tempo, delle serie distinte e parallele – immediatamente dopo quella sera, senza alcuna soluzione di continuità con essa, che aderii all’attimo in cui la nonna s’era chinata su di me. L’io che io ero allora, e che da tanto era scomparso, m’era di nuovo così vicino che mi sembrava ancora di sentire le parole pronunciate subito prima e che, tuttavia, non erano più che un sogno, così come un uomo non ancora ben desto crede di percepire proprio accanto a sé i rumori del suo sogno che svanisce” (SG, 154 = 191-192). Al riconoscimento dell’io scomparso si accompagna il dolore per la perdita della persona amata. Ma all’interno di questo sentimento di perdita si cela ciò che merita di essere conosciuto: “Di un’impressione tanto dolorosa e, per il momento, incomprensibile, una sola cosa potevo sapere: non, certo, se ne avrei estratto un giorno un po’ di verità, ma che se mai fossi riuscito, quel po’ di verità, a farlo emergere, sarebbe stato sicuramente da lì, da quell’impressione così particolare, così spontanea, non attenuata dalla mia pusillanimità e tracciata, anziché dalla mia intelligenza, dalla morte stessa, dalla brusca rivelazione della morte, che, simile 172
alla folgore, l’aveva scavata in me secondo un grafico soprannaturale, disumano, come un solco duplice e misterioso” (SG, 156 = 194). Mantenendo in tensione i vari io e limitando l’invadenza monocratica dell’io attuale grazie alla memoria involontaria, la percezione puntuale della natura non monolitica o semplicemente cumulativa della nostra identità fa nascere un senso di emancipazione dai vincoli dell’attualità e induce a dimenticare la brevità, le vicissitudini e le mediocrità della vita, colmando l’animo – come nell’amore – di un’essenza preziosa. Le esperienze veicolate dalla memoria involontaria (che attinge al fondo oscuro dell’indimenticabile, di ciò che ha valore anche se si può ricordare solo accidentalmente e a strappi) sono possibili perché viviamo secondo ritmi sincopati, in quanto la continuità che l’io attuale vorrebbe imporre al passato, per renderlo interamente disponibile, non riesce ad affermarsi. La nostra memoria (che, al pari dei nostri affetti, procede per intermittenze, per lampi discontinui) è così scandita da vuoti, custodita da teche di oblio che sigillano il passato invece di cancellarlo: “Ai disturbi della memoria, infatti, sono legate le intermittenze del cuore” (SG, 153 = 191). Solo in momenti eccezionali alcuni di questi vuoti necessari vengono affettivamente colmati, risvegliando un io trascorso che si ricongiunge all’io presente senza tuttavia confondersi con esso. Si avverte uno choc nel ritrovare se stessi nel proprio doppio, in un io del passato conservatosi paradossalmente intatto sotto la “cenere” dell’oblio. In quest’attimo ci appare un altro io non logorato dalle modificazioni psichiche successive, protetto dalle intrusioni della memoria volontaria: “Sì, se il ricordo, grazie all’oblio, non ha potuto contrarre nessun 173
legame, gettare nessuna catena fra sé e l’istante presente, se è rimasto al suo posto, alla sua data, se ha mantenuto le sue distanze, il suo isolamento nella profondità d’una valle o in cima a una vetta, ci fa respirare di colpo un’aria nuova per la precisa ragione che è un’aria respirata in altri tempi, quell’aria più pura che i poeti hanno cercato invano di far regnare nel paradiso e che non potrebbe dare la sensazione profonda di rinnovamento che ci dà se non fosse già stata respirata, giacché i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduti” (TR, 449 = 219). Qualcosa si sottrae al micidiale scorrere lineare del tempo. L’incontro fortuito tra due istanti appartenenti a “serie distinte parallele” produce una folgorazione di senso che illumina la nostra vita, mostrando la possibilità di non rimanere per sempre, in termini bergsoniani, “fantasmi scoloriti”. L’indifferenza conseguita nei confronti del futuro, della morte, della caducità non nasce da alcun ragionamento, ma, almeno in un primo momento, dalla percezione “stereoscopica” della perfetta sovrapposizione di un momento del passato, rimasto integro, con uno del presente, dal riconoscimento del loro convergere pur nella diversità dei momenti. Scopriamo successivamente che non è la visione sinottica dell’analogia di passato e presente a procurarci questa felicità inaspettata e intensa. E non è solo il fatto che le cose e gli eventi insignificanti per l’intelligenza vengano da essa scartati, scampando così al suo potere attualizzante, generalizzante e livellante. A renderci felici è, appunto, “la sensazione profonda di rinnovamento”, l’incipit vita nova che si accompagna al colpo d’occhio su due differenti epoche della vita finalmente illuminate, insieme, dall’intelligenza. Le “resurrezioni della memoria”, 174
talvolta soltanto annunciate, talvolta effettivamente avvenute, creando un cortocircuito tra il vecchio e il nuovo, generano però una verità nuova: “Ma un attimo dopo, avendo ripensato a queste resurrezioni della memoria, mi resi conto che qualche volta – e già a Combray, dalla parte di Guermantes – impressioni oscure avevano in altro modo sollecitato, come quelle reminiscenze, il mio pensiero, ma nascondendo non una sensazione d’altri tempi bensì una verità nuova, un’immagine preziosa che cercavo di scoprire con sforzi dello stesso genere di quelli che facciamo per riportarci alla mente qualcosa, come se le nostre idee più belle fossero come arie musicali che ricordassimo senza averle mai sentite prima e che ci sforzassimo di ascoltare, di trascrivere” (TR, 456-457 = 228-229). Frammenti di eternità L’identità normale è in Proust di tipo metaforico. Consiste cioè – etimologicamente – nel trasportare, traslocare, trascinare tutti i nostri io del passato in quello attuale, nell’asservirli ai compiti del presente. Per impedire che essi – a causa dell’urgenza dell’agire – vengano retrocessi o strumentalizzati, perdendo così la loro alterità rispetto all’ultimo io egemone, la memoria involontaria blocca la metaforizzazione, recupera gli “scarti”, rivaluta gli elementi non metabolizzati, colleziona fossili preziosi di noi stessi.9 Non essendo funzionale all’attualità, permette a un passato immune dalla caducità di ritornare con il profumo e il gusto di una volta. A differenza di quella volontaria, la memoria involontaria non riguarda perciò l’immediato futuro dell’azione, ma la totalità della nostra vita, che rientra in se stessa dalla dissipazione, concentrandosi in una zona extraterritoriale al tempo. Si riferisce così a un passato che 175
non passa, perché non si è logorato e a un presente che non dimentica se stesso nell’affannosa corsa verso l’avvenire. Assistendo al subitaneo risveglio di un io trascorso, con cui il suo io attuale si ricongiunge, al Narratore sembra di essere prossimo a decifrare “l’enigma della felicità”. Compie sforzi successivi per focalizzarlo, per toglierne a uno a uno gli strati di opacità senza poter tuttavia mai giungere al suo nucleo. Tale enigma, più trasparente nelle agnizioni riuscite (nelle “icone”: la piccola madeleine, lo stivaletto di Balbec, i campanili di Martinville, il pavimento sconnesso del cortile dei Guermantes, symbola nel significato etimologico di ricongiungimento di parti di noi stessi temporalmente separate e divenute estranee), mantiene impenetrabile il suo segreto in quelle non riuscite (come nell’episodio dei tre alberi, cfr. più avanti, pp. 130-131). Le esperienze di felicità offerte dalla memoria involontaria hanno in comune la precisa sensazione di essere sottratte alla signoria del tempo: “in verità, l’essere che assaporava allora in me quell’impressione l’assaporava in ciò ch’essa aveva di comune in un giorno trascorso e ora in ciò che aveva di extratemporale: un essere che appariva soltanto quando, grazie a una di tali identità fra il presente e il passato, gli era dato di stare nel solo ambiente in cui potesse vivere e godere dell’essenza delle cose, ossia al di fuori dal tempo” (TR, 450 = 220). Come nel caso della durata in Bergson, queste estasi atemporali, che si sperimentano tuttavia nel tempo, non coincidono con l’eternità in senso moderno, quanto piuttosto con l’aión di Plotino, che è, non un tempo infinito, ma zoé, vita che nel suo divenire si mantiene e si accresce (cfr. Enn., III, 7, 3 sgg.) o, nel senso più pregnante di Boezio, plenitudo vitæ o interminabilis vitæ 176
tota simul et perfecta possessio (De consolatione philosophiæ, V, 6). Anche per Proust in quei fuggevoli istanti si sente e si intuisce la vita in tutta la sua pienezza, ci si sottrae all’emorragia del tempo che è perdita, dissipazione, distruzione, impoverimento di questa stessa vita.10 Procedendo più a fondo nell’introspezione, si scopre che non è la mera coincidenza di passato e presente a provocare la gioia dell’extratemporalità, bensì “qualcosa che, comune al passato e al presente, è molto più essenziale di entrambi” (TR, 450 = 221), qualcosa che è in grado di risvegliare “il nostro vero io” sotto le molteplici maschere degli “io di ricambio”, qualcosa di più profondo, un’allusione di eternità, che balena per un istante, intravisto con maggiore acume dall’artista, “cittadino di una patria sconosciuta”, come luogo da sempre bramato: “Ma basta che un rumore, un odore, già sentito o respirato un’altra volta, lo siano di nuovo, a un tempo nel presente e nel passato, reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti, ed ecco che l’essenza permanente e abitualmente nascosta delle cose s’è liberata, e il nostro vero io che (da molto tempo, a volte) sembrava morto, ma non lo era del tutto, si sveglia, si anima ricevendo il nutrimento celeste che gli viene offerto. Un istante affrancato dall’ordine del tempo ha ricreato in noi, per sentirlo, l’uomo affrancato dall’ordine del tempo”.11 Una situazione analoga a quella dello stivaletto di Balbec era stata sperimentata dal Narratore alla vista, da una carrozza, dei due campanili di Martinville, rischiarati dal sole del tramonto, che si allontanavano e si avvicinavano, in funzione delle curve della strada, a quello di Vieuxvicq: “Constatando, registrando la forma della loro guglia, il dislocarsi dei loro contorni, l’effetto del sole sulla superficie, 177
sentivo di non arrivare al fondo della mia impressione, che c’era qualcosa dietro quel movimento, dietro quella luminosità, qualcosa che essi sembravano nello stesso tempo contenere e nascondere […]. Presto le loro linee e le loro superfici illuminate dal sole si lacerarono, quasi fossero una specie di scorza, qualcosa di ciò che in esse mi si nascondeva apparve, ebbi un pensiero che per me un istante prima non esisteva e che si articolò in parole nella mia testa, e il piacere che la loro vista m’aveva appena fatto provare ne fu talmente accresciuto che, preso da una sorta di ebbrezza, non potei più pensare ad altro”. Il nuovo pensiero fermenta, senza che tuttavia il lettore sia messo al corrente della sua traduzione in parole: “Proseguimmo il nostro itinerario; avevamo già lasciato Martinville da un po’ di tempo e il villaggio, dopo averci accompagnato qualche secondo, era già scomparso, quando, rimasti soli all’orizzonte a guardarci fuggire, i suoi campanili e quello di Vieuxvicq agitarono ancora in segno d’addio le loro cime lambite dal sole”. Questa impressione – che ritorna nel saggio Journées en automobile – è stata talmente forte e coinvolgente che la voce narrante confessa di averne dato un resoconto scritto, traendone una immensa gioia (CS, 178-179 = 218-220). I tre alberi L’enigma della felicità può tuttavia restare irrisolto, anche se il suo ricordo ci insegue, aleggiando in noi come un’intimazione a cercare ancora. Vi sono, infatti, situazioni in cui sembra di essere sul punto di venirne a capo senza però, alla fine, riuscirvi. Resta allora la nostalgia per una meta che si sottrae, lasciando dietro di sé la gioia mista al disagio di una promessa non mantenuta (il ricordo di certe immagini non è, infatti, che il rimpianto di determinati 178
istanti). Siamo di nuovo trasportati in campagna, su una carrozza: “Avevo notato, un po’ discosti dal tratto di strada a schiena d’asino che stavamo percorrendo, tre alberi che dovevano segnare l’inizio di un viale coperto e formavano un disegno su cui i miei occhi non si posavano ora per la prima volta; non riuscivo a ricordare il luogo da cui erano come ritagliati, ma sentivo che, un tempo, mi era stato familiare […]. Guardavo i tre alberi, li vedevo bene, ma dentro di me sentivo che nascondevano qualcosa su cui non riuscivo a far presa, come quegli oggetti troppo lontani che le nostre dita, allungandosi in fondo al braccio proteso, arrivano soltanto a sfiorare per un attimo, in superficie, senza afferrarne alcunché […]. Come ombre, sembrava mi chiedessero di portarli via con me, di restituirli alla vita. Nel loro gesticolare ingenuo e appassionato riconoscevo l’impotente rimpianto di un essere amato che ha perso l’uso della parola e sa di non poterci dire le cose che vorrebbe e che noi non riusciamo a indovinare […]. Vidi gli alberi allontanarsi agitando disperatamente le braccia, come se dicessero: Quello che non riesci a sapere oggi, non lo saprai mai più. Se ci lasci ripiombare in fondo alla strada dalla quale cercavamo di issarci fino a te, tutta una parte di te stesso che noi stavamo portando cadrà per sempre nel nulla”.12 Come in un rebus, il messaggio di desolato abbandono – e non d’addio, come nel caso dei campanili di Martinville – che essi affidano alle loro braccia di legno si spazializza e si materializza in figure da decifrare. Si fissa nel muto gesto dell’indicare (che non riesce a tradursi neppure in baudelairiane confuses paroles), nel cenno del rinvio a un senso ulteriore, infinito, di cui si sfiora soltanto l’involucro 179
esterno. Nonostante la tristezza che suscitano, queste figure risvegliano nuclei latenti ed enigmatici di verità, così eccedenti e incontenibili da inibire, nel soggetto che le esperisce, la loro stessa comprensione. Essi sono, infatti, troppo vicini alla sorgente del senso, alla zona da cui sgorgano e si diramano pensieri e sentimenti. A causa della loro natura inesauribile, appaiono inespugnabili e opachi all’intelligenza. Del loro incontro resta, con le parole di Dante, solo “il dolce” del loro ricordo, una sensazione simile a quella che si prova talvolta in sogno, allorché la soluzione di un assurdo problema pare all’improvviso rivelarci la raggiunta meta dei nostri desideri, finora vanamente inseguiti lungo la serpeggiante schiera dei giorni. L’aroma di eternità che ci sembra allora di cogliere non può, infatti, durare a lungo, poiché l’“inganno ottico che metteva accanto a me un momento del passato incompatibile con il presente” (TR, 452 = 222-223) evapora presto: “Così, in ciò che l’essere tre o quattro volte resuscitato dentro di me aveva appena assaporato potevano esserci certo frammenti d’esistenza sottratti al tempo; ma tale contemplazione, sebbene d’eternità, era fuggitiva. E tuttavia io sentivo che il piacere ch’essa m’aveva dato, a rari intervalli, nel corso della mia vita, era il solo piacere fecondo e vero” (TR, 454 = 225). Questa eternità che subito dilegua non ci proietta in un altro mondo, proprio perché i soli paradisi sono quelli perduti, i paradisi del tempo ritrovato e solo momentaneamente sottratto al suo inesorabile processo di autodistruzione. Il piacere che essa ci procura dipende da una sorta di anamnesi interna al tempo della coscienza insediata nel mondo, al richiamo che la memoria involontaria compie di tempi lontani e non consunti dagli 180
anni, come quando, inciampando nel “selciato alquanto sconnesso” del cortile dei Guermantes, al Narratore ritornano in mente altri episodi: “Ma nel momento in cui, recuperando l’equilibrio, posai il piede su una selce che era un po’ meno alta della precedente, tutto il mio avvilimento svanì davanti alla stessa felicità suscitatami, in periodi diversi della mia vita, dalla vista d’alberi che m’era sembrato di riconoscere durante una passeggiata in carrozza nei dintorni di Balbec, dalla vista dei campanili di Martinville, dal sapore della madeleine intinta in una tisana, da tante altre sensazioni di cui ho parlato e che m’erano parse sintetizzate nelle ultime opere di Vinteuil. Come nel momento in cui assaporavo la madeleine, ogni inquietudine riguardo al futuro, ogni dubbio intellettuale erano dissipati […]. Ma stavolta ero ben deciso a non rassegnarmi a ignorarne il perché, come avevo fatto il giorno in cui avevo assaggiato una madeleine intinta in una tisana. La felicità che avevo appena provata era, in effetti, la stessa provata mangiando la madeleine, e delle cui cause profonde, allora, avevo rinviato la ricerca” (TR, 445 = 214-215). In seguito, all’interno della dimora dei Guermantes, nel giro di pochi intensi minuti, il Narratore è sottoposto ad altre esperienze di resurrezione della memoria, simili alla visione fulminea di un “oceano verde e azzurro come la coda di un pavone”, che – al pari di un quadro di Magritte – sembra rilucere dalla finestra del palazzo parigino, evocato per lontana analogia dalla consistenza di un tovagliolo che ricordava “lo stesso genere di rigidità e di inamidatura dell’asciugamano con cui, il primo giorno del mio arrivo a Balbec, avevo fatto tanta fatica ad asciugarmi” (TR, 447 = 217). Il miracolo di questo incontro fra il passato e il presente, 181
che produce qualcosa di diverso da entrambi, di nuovo e di antico insieme, è dato dall’istantaneo convergere di ciò che la sensazione e l’immaginazione escludono dal loro ambito (rispettivamente la presenza e l’assenza dell’oggetto): “Tante volte, nel corso della mia vita, la realtà mi aveva deluso perché, nel momento in cui la percepivo, la mia immaginazione, che era il solo organo di cui disponessi per godere della bellezza, non poteva applicarsi a essa, in virtù della legge inderogabile secondo la quale si può immaginare solo ciò che è assente. Ed ecco che gli effetti di questa dura legge erano stati improvvisamente neutralizzati, sospesi, da un meraviglioso espediente della natura, che aveva fatto balenare una sensazione – rumore della forchetta e del martello, stesso titolo di libro, ecc. – contemporaneamente nel passato, il che permetteva alla mia immaginazione di assaporarla, e nel presente, dove la scossa effettiva data ai miei sensi dal rumore, dal contatto del tovagliolo, ecc. aveva aggiunto ai sogni dell’immaginazione ciò di cui essi sono abitualmente sprovvisti, l’idea di esistenza” (TR, 451 = 221222). Presenza e assenza, vicinanza e lontananza, passato e presente si sommano senza confondersi, così che il soggetto possa godere del vantaggio di entrambi. Infatti, l’essere che rinasce in tali occasioni e che si alimenta dell’essenza delle cose “langue nell’osservazione del presente dove i sensi non possono fornirgliela, nella considerazione di un passato dissecato dall’intelligenza, nell’attesa di un futuro che la volontà costruisce con frammenti del presente e del passato cui, perdipiù, sottrae parte della realtà, non conservandone che quanto conviene al fine utilitario, strettamente umano, ch’essa attribuisce loro” (TR, 451 = 222). Nella sua traslitterazione artistica, la percezione è anche 182
capace di congiungere il vicino al lontano, di ricombinare metaforicamente le sensazioni e la loro coscienza.13 A chi sa educare i suoi sensi alla “gioia del reale ritrovato”, la percezione (che risale controcorrente il flusso dell’introspezione) trasmette un mondo vivo che si rivela nelle esperienze dell’arte e della natura. È il caso del “piccolo lembo di muro giallo” (“dipinto così bene da far pensare, se lo si guardava isolatamente, a una preziosa opera d’arte cinese, d’una bellezza che poteva bastare a se stessa”), che spicca nella sua luminosa vibrazione tra gli edifici della Veduta di Delft di Vermeer e che viene contemplato da Bergotte poco prima della morte14 o del paesaggio campestre nei pressi di Combray, colto quando, “nel corso di caldi pomeriggi, vedevo un unico soffio giunto dall’estremo orizzonte inclinare le messi più lontane, propagarsi come un’onda per tutta l’immensa distesa e venire a spegnersi, tiepido e mormorante, ai miei piedi, fra la lupinella e il trifoglio” (CS, 144 = 177). Pensare in figure Noi decifriamo come “segni”, dietro cui si nasconde qualcos’altro, l’“impressione” che gli oggetti materiali producono in noi. Consideriamo le cose come geroglifici che custodiscono nella loro figura pensieri in forma pittografica: “Ricordai […] come già a Combray io fermassi con attenzione davanti alla mente qualche immagine che aveva attratto con forza il mio sguardo, una nube, un triangolo, un campanile, un fiore, un sasso, sentendo che sotto quei segni c’era forse qualcosa d’affatto diverso che dovevo sforzarmi di scoprire, un pensiero di cui essi erano la traduzione, al modo di quei caratteri geroglifici che sembrano rappresentare soltanto oggetti materiali” (TR, 457 183
= 229). La vita comunica le sue verità in tale maniera allusiva, con l’aiuto di figure, obbligandoci a leggere il significato della nostra esistenza attraverso immagini sensibili, lettere mute da cui estrarre quello spirito che noi stessi vi abbiamo proiettato (i tre alberi, i campanili di Martinville). L’io, che è rivolto tanto verso l’esteriorità, quanto verso l’interiorità, opera una continua traduzione reciproca tra le due dimensioni: condensa inconsapevolmente su oggetti materiali i suoi turbamenti e le sue più recondite aspirazioni per dar loro un supporto espressivo da cui rimontare alla soluzione dei problemi, così da riconvertire la sensazione nel suo “equivalente intellettuale”. Nel sentire “lo sforzo di salire verso la luce”, la soluzione emotiva dell’enigma della felicità si ottiene quando si riesce a far collimare l’elemento sensibile, esterno, con la sua versione in termini di pensiero, d’interiorità, secondo una determinata “proporzione di luce e d’ombra, di rilievo e d’omissione, di ricordo e d’oblio che la memoria o l’osservazione coscienti non riconosceranno mai” (TR, 458 = 230). Soltanto negli oggetti sensibili, materiali, nelle impressioni immediate, istantanee (che riceviamo e che restano “per metà” incorporate nell’oggetto e per metà prolungate in noi stessi), è contenuta quella verità intellegibile che ciascuno deve dapprima tradurre in termini personali, per renderla poi, eventualmente, comunicabile: “Solo l’impressione, per misera che ne sembri la materia e inafferrabile la traccia, è un criterio di verità, e per questo lei sola merita d’essere appresa dall’intelletto, perché lei sola è capace – a patto ch’esso sappia estrarne quella verità – di condurlo a una perfezione maggiore e di dargli una gioia più pura […]. Ciò che non abbiamo dovuto decifrare, chiarire 184
col nostro sforzo personale, ciò che era già chiaro prima di noi, non ci appartiene. Viene da noi solo quanto traiamo dall’oscurità che è in noi ed è ignoto agli altri” (TR, 458-459 = 231). Ognuno ha impresso in sé un “libro interiore di segni sconosciuti”, di caratteri figurati, sensibili, che si ha il compito di decifrare, perché è il solo importante che la realtà abbia impresso in noi, quello che ci permette di cogliere fuggevolmente le “essenze”. In questo processo di traduzione si trova l’antidoto alla disseminazione degli io, la possibilità del rinvenimento dell’unico “vero io”, diverso in ciascuno di noi. È questo il dono di verità e di “gocce di luce” (CSB, 309 = 107-108) che l’artista fa agli altri, servendosi dei segni, del tempo e della memoria come strumenti. Il compito della decifrazione, per tutti improrogabile, si deve svolgere prima che sia troppo tardi: prima che si consumi l’“essenza varia e individuale della vita”, prima che il tempo – di per sé incolore, invisibile e inafferrabile – si materializzi negativamente nelle deformazioni del corpo e dello spirito; prima che la morte ci faccia sprofondare nell’abisso in cui precipitano tutte le cose e tutti gli io del passato (cfr. P, 522 = 7); prima che venga distrutto il cervello, “ricco bacino minerario”, di cui ciascuno è “l’unico minatore” in grado di sfruttare i giacimenti15; prima che la memoria, contraendosi con l’età e nascondendo dispettosamente i propri contenuti, trascini nella sua rovina anche il soggetto. Un trionfo della morte sembra dominare le parti finali del Tempo ritrovato, con le sue scene di degradazione morale, di perversione e di inquinamento delle gerarchie sociali, in una Parigi mostrata sotto la luce livida della guerra e dei bombardamenti.16 Le minuziose 185
descrizioni dei diversi effetti dell’invecchiamento sulle persone (che marchent vers la mort en regardant la vie”) anticipano la danza macabra in cui sprofonda un mondo che nel passato si era strenuamente difeso dalla rozzezza borghese e dalla società di massa con il raffinato senso delle distinzioni.17 Eppure anche la teoria della pluralità degli io ha un effetto catartico e consolatorio, quasi senechiano. La morte giunge bensì a lambirci, ma non è da temere, se si pensa che i nostri io sono già morti altre volte: “Quelle morti successive, così temute da un io che esse erano destinate ad annientare, così indifferenti, così dolci una volta che s’erano verificate e chi le aveva temute non era più là per sentirle, mi avevano aiutato da qualche tempo a capire quanto poco saggio sarebbe stato aver paura della morte” (TR, 615 = 421). Pur aprendosi, come Bergson, alla fragile ipotesi che l’anima possa sottrarsi alla dissoluzione,18 è all’arte che Proust affida non solo una debole forza di redenzione dalla voracità del tempo (pur sapendo che le stesse opere muoiono, al pari dei loro creatori), ma anche la testimonianza che “esiste qualcosa d’altro che il niente” e che c’è la possibilità che tutti hanno di “uscire da sé” e consegnare agli altri il proprio libro decifrato, il distillato del “vero io” di ciascuno, quale specifico exemplar humanæ vitæ che può aiutare gli altri a interpretare la propria.19 Se raggiunge forma artistica, il libro non appartiene, infatti, più al suo autore: “Ma per tornare a me, io pensavo al mio libro più modestamente, e sarebbe anzi inesatto dire pensando a chi l’avrebbe letto, ai miei lettori. Infatti non sarebbero stati, secondo me, lettori miei, ma lettori di se stessi, non essendo il mio libro che una sorta di quelle lenti d’ingrandimento 186
come ne offriva a un cliente l’ottico di Combray; li avrei muniti, grazie al mio libro, del mezzo per leggere in se stessi” (TR, 610 = 414-415).
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6. Lo spontaneo artificio: Pirandello e la costruzione del soggetto
Il pozzo dell’anima Proprio perché maturato attraverso dolorose esperienze private di lacerazione interiore, Pirandello è stato sensibile ai temi proposti da Binet ne Les altérations de la personnalité.1 A partire dai giovanili Dialoghi tra il Gran Me e il piccolo me, composti tra il 1895 e il 1906 (cfr. N, II, 10541071), egli ha spinto sino al virtuosismo l’analisi delle scissioni dell’io, ha descritto il prodursi di personalità sdoppiate o multiple, esercitando il ‘dubbio iperbolico’ nel trattare le fratture e le deformazioni psichiche. Ha così sperimentato le configurazioni della coscienza scissa di un individuo, simultaneamente o alternativamente sedotto dalla tranquillizzante sicurezza di essere “uno”, dall’angoscia e dallo sconcerto di accorgersi di essere “centomila” e dal sollievo derivante dall’ascetica decisione di azzerarsi per essere “nessuno”. Ben sessanta opere di Pirandello – tra racconti, romanzi e drammi – trattano della scissione (duplicazione o moltiplicazione) e della perdita (vera o simulata, come nel romanzo Il fu Mattia Pascal) della personalità presuntamente unica e monolitica. Oltre all’illustre esempio di Uno, nessuno e centomila, è sufficiente ricordare le novelle L’avemaria di Bobbio, Quand’ero matto 188
o Stefano Giogli, uno e due. Pur restando fedele ai conflitti e alle aporie che si generano dalla disintegrazione del soggetto, Pirandello ha tuttavia voluto anche esplorare la natura delle vie paradossali che riconducono a se stessi, rendendo drammaturgicamente accettabili forme non convenzionali di identità. Nel 1900, anno in cui pubblica Scienza e critica estetica, lo scrittore siciliano focalizza con maggior precisione quanto la sua stessa ‘ragione osservativa’ e Binet gli avevano insegnato: che “la presunta unità del nostro io non è altro in fondo che un aggregamento temporaneo scindibile e modificabile dei vari stati di coscienza più o meno chiari” e che dall’io ritenuto normale può scaturire un’altra personalità rimasta a lungo celata: “Questa seconda personalità, nata dalla scissione degli elementi costitutivi dello spirito, non è soltanto fornita d’una coscienza a parte, ma anche – si noti – d’intelligenza; talché veramente può dirsi che due persone vivono, agiscono a un tempo, ciascuna per proprio conto, nel medesimo individuo. Con gli elementi del nostro io possiamo perciò comporre, costruire in noi stessi altre individualità, altri esseri con propria coscienza, con propria intelligenza, vivi e in atto”.2 Le personalità alternative che si vengono a costituire non sono, dunque, delle semplici maschere che l’io egemone si limita di volta in volta a indossare (senza per questo mutar natura) e che restano poi inerti nel periodo in cui non sono portate. Coesistono tutte anche dopo il loro abbandono, restando anzi in tensione o in conflitto fra loro. Solo se si trova un punto di equilibrio relativamente stabile in cui esse si compensano e si elidono, ciascuna personalità è in grado di accettare un pactum unionis o un pactum subjectionis delle personalità 189
subordinate all’io egemone. Nel saggio L’umorismo, del 1908, la seconda personalità o le personalità multiple (trattate di nuovo con un rinvio ai “meravigliosi esperimenti psicofisiologici” riferiti da Binet) sono descritte sotto il profilo dinamico. La personalità più recente non cancella le precedenti, che risorgono quando la coscienza dominante subisce un qualche colpo che ne modifica e indebolisce la struttura. Allora uno degli io retrocessi, ma non dimentichi del loro antico ruolo egemonico, è in grado di riassumere la parte del protagonista, organizzando la propria presenza sulla scena psichica in modo più coerente, anche se più elementare, dei suoi rivali. Le tracce degli io trascorsi continuano a esistere non tanto a livello cognitivo, quanto affettivo: “Certi ideali che crediamo ormai tramontati in noi e non più capaci d’alcuna azione nel nostro pensiero, su i nostri affetti, su i nostri atti, forse persistono tuttavia, se non più nella forma intellettuale, pura, nel sostrato loro, costituito dalle tendenze affettive e pratiche”. Al pari di Ribot, anche Pirandello è convinto che vi sia una logica delle passioni distinta da quella della ragione e che ciascuno di noi oscilli tra questi poli della personalità, che lo rendono, costitutivamente, un homo duplex: “E appunto le varie tendenze che contrassegnano la personalità fanno pensare sul serio che non sia una l’anima individuale. Come affermarla una, difatti, se passione e ragione, istinto e volontà, tendenze e idealità, costituiscono in un certo modo altrettanti sistemi distinti e mobili che fanno sì che l’individuo, vivendo ora l’uno ora l’altro di essi, ora qualche compromesso fra due o più orientamenti psichici apparisca come se veramente in lui fossero più anime diverse e persino 190
opposte, più e opposte personalità?”.3 Anche in Pirandello, come nel Binet di Les altérations de la personnalité, non vi è dunque un’anima unitaria, bensì un véritable émiettement des consciences,4 una pluralità di coscienze “diverse” o addirittura “opposte” che coagula in sé – anche negli individui sani – gli elementi disgregati dell’io, sebbene l’io stesso non ne abbia coscienza. Per illustrare in forma intuitiva queste idee e per mostrarne la realizzazione artistica, mi servirò – come esempio preliminare – del racconto L’avemaria di Bobbio, del 1902, ripubblicato in seguito nella raccolta La rallegrata delle Novelle per un anno.5 Il protagonista è il notaio Marco Saverio Bobbio, il quale, raggiunta una certa età, nei momenti d’ozio ama dilettarsi di filosofia. Diventa così per convinzione intellettuale un razionalista dichiarato, uno di quei tipici miscredenti, anticlericali o massoni diffusi nell’Italia postunitaria, specie tra i rappresentanti delle professioni liberali. Negli anni della fanciullezza, tuttavia, Bobbio era stato molto religioso: “Ogni mattina andava alla messa con la mamma e le due sorelline e ogni domenica si faceva la santa comunione nella chiesetta della badiola del Carmine” (AMB, 464-465). Le sue convinzioni di adulto appaiono saldissime e irrinunciabili (confortate come sono dalla filosofia e dalla scienza) fino a quando, un giorno, non viene colto da un terribile mal di denti, che non si decide a passare in nessuna maniera e che gli fa nascere il pensiero che tutto nel mondo sia mostruoso, atroce, assurdo. Deciso a estirpare l’origine del male con gli strumenti della scienza, si reca allora in carrozza dal dentista. Durante il tragitto avverte all’improvviso “un tremore, un tremito di tenerezza angosciosa per se stesso, che soffriva, oh Dio, soffriva da 191
non poterne più. La carrozza passava in quel momento davanti a un rozzo tabernacolo della SS. Vergine delle Grazie, con un lanternino acceso, pendulo innanzi alla grata, e Bobbio, in quel fremito di tenerezza angosciosa, con la coscienza sconvolta, senza saper più quello che si facesse, aveva fissato lo sguardo lagrimoso a quel lanternino, e… ‘Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con Te, benedetta tra tutte le donne, e benedetto il frutto del Tuo ventre, Gesù. Santa Maria, madre di Dio, prega per noi peccatori, ora e nell’ora della nostra morte. Così sia’. E, all’improvviso, un silenzio, un gran silenzio gli s’era fatto dentro; e anche fuori, un gran silenzio misterioso, come di tutto il mondo: un silenzio pieno di freschezza, arcanamente lieve e dolce” (AMB, 466-467). Il mal di denti è passato. Il sentimento del corpo, il mutamento cenestetico provocato da quell’intenso dolore ha fatto risorgere un’altra personalità, abituata ad affrontare prove e dolori con le armi della fede, un altro polo di coscienza che Bobbio aveva ormai ripudiato e abbandonato da decenni. Teoricamente non era del tutto impreparato a questa eventualità: “Ciò che conosciamo di noi è però solamente una parte, e forse piccolissima, di ciò che siamo a nostra insaputa. Bobbio anzi diceva che ciò che chiamiamo coscienza è paragonabile alla poca acqua che si vede nel collo d’un pozzo senza fondo. E intendeva forse significare con questo che, oltre i limiti della memoria, vi sono percezioni e azioni che ci rimangono ignote, perché veramente non sono più nostre, ma di noi quali fummo in altro tempo, con pensieri e affetti già da lungo oblio oscurati in noi, cancellati, spenti; ma che al richiamo improvviso d’una sensazione, sia sapore, sia colore o suono, possono 192
ancora dar prova di vita, mostrando ancor vivo in noi un essere insospettato”,6 che giunge inatteso, quasi un fantasma o un revenant. L’emergenza sembra finita e la personalità principale e recente rassicurata, allorché il mal di denti ritorna. Non senza un intimo sentimento di vergogna, Bobbio recita un’altra Avemaria: dapprima il dolore non accenna a scomparire e tinge il mondo di nero, poi, quando Bobbio arriva davanti alla porta del dentista, esso è di nuovo passato. Il notaio-filosofo ha un soprassalto di orgoglio e sente il dovere di testimoniare in favore della ragione. Rifiuta di convertirsi alla vecchia fede (già respinta sulla base di argomenti pensati a mente serena, senza il subdolo ricatto del dolore) e di lasciare di nuovo spazio al più maturo io che ritorna. A un amico, che lo vede incerto dinanzi allo studio del dentista, racconta che aveva sì mal di denti, ma che gli è passato. La novella si chiude in forma sdrammatizzante, sul registro di un’ironia paradossale: “– E che fa lì? – Io? Niente… avevo un dente che mi faceva male… – Le è passato? – Già… da sé… – E lo dice così? Sia lodato Dio! Bobbio lo guardò con una grinta da cane idrofobo. – Un corno – gridò. – Che lodato Dio! Vi dico da sé, da sé! Ma perché vi dico così, vedrete che forse, di qui a un momento, mi ritornerà! Ma sapete che faccio? Non mi duole più; ma me li faccio strappare lo stesso! Tutti me li faccio strappare […]. Non voglio di questi scherzi… non voglio più di questi scherzi, io! Tutti, a uno a uno, me li faccio strappare! E si cacciò, furibondo, tra le risa di quell’amico, nel portoncino del dentista” (AMB, 470). L’assurda volontà di coerenza in un mondo privo di senso intrinseco è una delle chiavi artistiche ed esistenziali 193
dell’opera di Pirandello, il luogo di confluenza del tragico e del comico. Le trappole della vita La società ci incatena al principio di individuazione perché vuole vincolarci alle nostre azioni e ai nostri pensieri (in quanto preludi all’agire), identificarci con un unico e permanente io. La natura fissa ciascuno in determinate fattezze corporee, attribuendogli determinate ascendenze familiari; la società pretende poi di classificarlo secondo propri parametri. Entrambe cospirano nel trasformarlo in un “individuo”, perché lo vogliono – alla lettera – indivisibile e sempre uguale a se stesso, ossia ‘integro’, cosciente, responsabile. Lo stato usa perciò il suo nome (designatore rigido dell’identità e punto di annodamento di tutta la rete di vicende e di ruoli in cui resterà impigliato) in modo da attribuire la responsabilità di ogni atto al suo unico e permanente io anagrafico. Non si esce dalle “trappole della vita”: “tempo, spazio, necessità” e, in più, “sorte, fortuna, caso”.7 Per tutti, come per il protagonista della novella La carriola, l’intreccio, dapprima accidentale, delle vicende si irrigidisce in catene di onerosi condizionamenti, naturali e sociali: “Quando tu, comunque, hai agito, anche senza che ti sentissi e ti ritrovassi, dopo, negli atti compiuti; quello che hai fatto resta, come una prigione per te. E come spire e tentacoli t’avviluppano le conseguenze delle tue azioni”.8 Nessuna decisione per l’eterno ritorno riesce, alla maniera di Nietzsche, a liberarci dal peso del passato. Tutti noi rappresentiamo il risultato di un evento analogo a quello descritto da Pirandello in un testo pubblicato postumo, Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla terra. Siamo cioè venuti al mondo precipitandovi senza 194
nome e identità: “Una notte di giugno caddi sotto un gran pino solitario in una campagna d’olivi saraceni affacciata agli orli d’un altipiano d’argille azzurre sul mare africano”. Non possiamo ovviamente evitare di essere quel che siamo, nascendo e crescendo in una determinata epoca, in un determinato paese, frutto di determinate cause o circostanze. Non possiamo sfuggire, secondo il simbolo che Pirandello trae da Pascal, al fatto di avere un certo naso e una certa forma.9 Del resto, il cognome del protagonista di una grande opera pirandelliana, Mattia Pascal, non è quello dello stesso filosofo e matematico? E Blaise Pascal, uno degli inventori del calcolo delle probabilità, non è lo scopritore di quella curva detta cicloide o roulette, cui si applica – con ben altri intenti – Mattia Pascal al Casinò di Montecarlo?10 Non è Pascal il filosofo dei “tre gradi di latitudine” che cambiano le leggi e le mentalità dei popoli e l’autore dell’affermazione, ripetuta da Pirandello, “non c’è uomo […] che differisca più da un altro che da se stesso nel corso del tempo” (U, 212)? Non accettare il proprio io così come è divenuto vuol dire rifiutare i comuni criteri di identificazione (nome, spazio, tempo, causa), ma significa anche porsi al di fuori del consorzio umano, essere dichiarati pazzi o irresponsabili, portare il berretto a sonagli, essere messi al bando, condannati alla solitudine, cancellati dal registro dei vivi (oppure, come nel caso del fu Mattia Pascal, indotti a cambiare il proprio nome e a ricostruirsi una nuova identità). Nessuno è interamente qualificabile attraverso singoli episodi, soprattutto se uno solo di essi lo marchia d’infamia per tutta la vita. Nel giudicare un uomo da una singola azione non si tiene infatti conto né della lotta d’anime che si 195
svolge in lui, né della possibile, momentanea vittoria del suo double ignoble che coabita – in forme animalesche, delittuose, barbariche o “degenerate” – con l’io normalmente egemone: “Ecco un alto funzionario che si crede, ed è, poveretto, un galantuomo. Domina in lui l’anima morale. Ma un bel giorno l’anima istintiva che è come una bestia originaria acquattata in fondo a ciascuno di noi, spara un calcio all’anima morale, e quel galantuomo ruba. Oh, egli stesso, poveretto, egli per primo, poco dopo ne prova stupore, piange, domanda a se stesso disperato: – Come, come hai potuto far questo? Ma, sissignori, ha rubato. E quell’altro là? Uomo dabbene, anzi, dabbenissimo: sissignori, ha ucciso […]”.11 E Marco di Dio, un personaggio minore di Uno, nessuno e centomila, non è forse un uomo ingenuamente esaltato che, desiderando mettere in pratica la scena di una scultura del suo ammirato maestro, Il satiro e il fanciullo, scambia il modello per una “visione fantastica”, e, mentre il “fanciullo vero” grida, viene scoperto dalla gente “in un atto ch’era della bestia sorta in lui d’improvviso in quel momento d’afa” (UNC, 809)? Giustamente, dal suo punto di vista, la società condanna le alterazioni della personalità consueta – virtualmente dannose per gli equilibri della civile convivenza – e, giustamente, rafforza i meccanismi mimetici dell’identità, difendendo la rispettabilità e l’onore della persona in quanto maschera rigida. L’anatema morale colpisce chi non ha saputo tenere a freno la “bestia” acquattata in fondo al cervello, un organo – come scrive il diciannovenne Pirandello in una lettera alla sorella del 31 ottobre 1886 – in cui si produce “un vuoto nero, orribile, raccapricciante, 196
come il misterioso fondo del mare popolato da mostruosi pensieri che guizzano, passando minacciosi” (LG, 149). Quando ci accoglie nel suo seno, la società ci identifica attraverso un nome che ha già una storia e che ci deve stabilizzare in un ruolo, trasformare in individui. Ma il nome – e l’io permanente che esso dovrebbe aiutare a costruire – si adattano solo alle cose morte, non agli esseri viventi: “Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita” (UNC, 901). Il nome non è altro che uno dei molteplici meccanismi di produzione e mantenimento dell’identità e della personalità, costruzione sorta dai materiali che ciascuno trova (cfr. UNC, 778). Anche per Pirandello, vichianamente, verum ipsum factum: “Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar forma” (ibid.). Ciascuno, tuttavia, dà forma a se stesso e agli altri in modo diverso: “[…] inevitabilmente noi ci costruiamo. Mi spiego. Io entro qua, e divento subito, di fronte a lei, quello che posso essere – mi costruisco – cioè, me le presento [sic: forse riferito a senso a ‘costruzioni’, detto in seguito] in una forma adatta alla relazione che debbo contrarre con lei. E lo stesso fa di sé anche lei che mi riceve. Ma, in fondo, dietro a queste costruzioni nostre messe così di fronte, dietro le gelosie e le imposte, restano poi ben nascosti i pensieri nostri più segreti, i nostri più intimi sentimenti, tutto ciò che siamo per noi stessi, fuori delle relazioni che vogliamo stabilire” (PO, 570). Con simili affermazioni, Pirandello non inventa un tópos letterario: è già in sintonia con la cultura filosofica più avanzata del suo tempo. I suoi non sono dei paradossi 197
barocchi, ma variazioni artistiche su problemi epistemologici ampiamente dibattuti, che si sviluppano dall’assunto secondo cui non esiste una realtà oggettiva, ontologicamente garantita. Ogni nostra conoscenza del mondo è – nei termini di Marchesini – una “finzione”.12 In sé la “realtà” è un limite inconoscibile e privo di senso: solo le nostre astrazioni danno significato al mondo. Ma a esse non corrisponde nient’altro che la nostra volontà di costruzione, l’atto poietico che le crea. Solo le nostre costruzioni danno significato al mondo. Ciò presuppone però che siano fragili, arbitrarie, non garantite da alcuna autorità morale o religiosa riconosciuta come superiore. L’humus locale e le tradizioni campanilistiche di cui Pirandello è erede lo spingono alla ricerca del paradosso e alla logica degli opposti: Agrigento è la patria di Empedocle (il filosofo delle metamorfosi e del conflitto cosmico tra neîkos e philía)13 e la siciliana Lentini, la Leontini classica, è la città del sofista Gorgia, capace di dimostrare ogni cosa e il suo contrario (ed è proprio il “sentimento del contrario” a caratterizzare l’umorismo [PO, 226] e, più in generale, tutta l’arte di Pirandello). Vitangelo Moscarda sa appunto di possedere un “animo disposto a pensare e a sentire anche il contrario di ciò che poc’anzi pensava e sentiva, cioè a scomporre e a disgregare” in sé “con assidue e spesso opposte riflessioni ogni formazione mentale e sentimentale” (UNC, 780). Dio non è più la Verità e la Vita. Dio non è morto, per Pirandello, ma divenuto anziano e impotente, come nel racconto Il vecchio Dio delle Novelle per un anno. Nella visione del signor Aurelio che si era addormentato in chiesa, egli apparve, infatti, allegoricamente trasformato in un 198
vecchio “curvo, cadente, reggendo a fatica su le spalle la testa enormemente barbuta e chiomata del sacrestano della chiesa; gli sedette accanto e cominciò a sfogarsi con lui come fanno i vecchietti seduti sul murello davanti ai gerontocomii: – Mali tempi, figlio mio! Vedi come mi son ridotto? Sto qui a guardia delle panche. Di tanto in tanto, qualche forestiere. Ma non entra mica per Me, sai! Viene a visitar gli affreschi antichi e i monumenti […]. Hai sentito? hai letto i libri nuovi? Io, Padre Eterno, non ho fatto nulla: tutto si è fatto da sé, naturalmente, a poco a poco […]”.14 Con l’invecchiamento di Dio, il declino dei valori assoluti e l’indebolirsi dell’idea di verità, la storia umana rischia di diventare nuovamente quella torre di Babele, che Yahweh aveva fatto crollare, imponendo legge e ordine. Per questo, il mondo è ora in balia di forze indeterminate, anonime e incomprensibili, cui gli uomini si sforzano di assegnare un senso. Il cemento della volontà Sottrarsi all’indistinto significa affidarsi a una forma che organizza e struttura l’“estraneo” che vive dentro di me, ma “senza di me” e di cui tendo a dimenticare la natura fittizia. Ma dietro ogni forma c’è una forza, più o meno intensa: “La realtà che io ho per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto. Ah, voi credete che si costruiscano soltanto le case? Io mi costruisco di continuo e vi costruisco, e voi fate altrettanto. E la costruzione dura finché non si sgretoli il materiale dei nostri sentimenti e finché duri il cemento della nostra volontà. E 199
perché credete che vi si raccomandi tanto la fermezza della volontà e la costanza dei sentimenti? Basta che quella vacilli un poco, e che questi si alterino d’un punto e cangino minimamente, e addio realtà nostra! Ci accorgiamo subito che non era altro che una nostra illusione. Fermezza di volontà, dunque. Costanza nei sentimenti. Tenetevi forte, tenetevi forte per non dare di questi tuffi nel vuoto, per non andare incontro a queste ingrate sorprese. Ma che belle costruzioni vengono fuori!” (UNC, 779). Le illusioni sono costruzioni abbandonate, che non corrispondono più ad alcun sentimento o volontà attuale, che non sono più tenute insieme da alcun “cemento”. La personalità è, di conseguenza, tanto più durevole quanto meno si “sgretola” il materiale dei sentimenti e quanto più costante è la volontà di conservare se stessi inalterati. Ogni forma è, insieme, un’ancora di salvezza e un ceppo, un principio di individuazione e una condanna all’individuazione. L’essere deve venir “intrappolato” nella sua forma, finché questa resiste, e adattarsi a essa, pagandone il fio (cfr. UNC, 798). Vi sono però dei momenti, in cui ciò che rappresenta un’ancora di salvezza non regge dinanzi alle tempeste della vita, manifestando così la sua natura di finzione. La vita e la realtà sono un flusso indistinto, che solo per comodità dividiamo in parti e sottoponiamo al dominio delle astrazioni. Ma non si tratta in Pirandello del flusso di coscienza bergsoniano, dello stream of consciousness jamesiano o di un qualche lavacro purificatore di ogni scoria, bensì di un fiume infernale e primigenio, che, con rovinose ondate di piena, travolge le “case” faticosamente innalzate: “La vita è flusso continuo che noi cerchiamo faticosamente di arrestare, di fissare in 200
forme stabili e determinate, dentro e fuori di noi, perché noi siamo già forme fissate, forme che si muovono in mezzo ad altre immobili, e che però possono seguire il flusso della vita, fino a tanto che, irrigidendosi man mano, il movimento già a poco a poco rallentato non cessi. Le forme, in cui cerchiamo di arrestare, di fissare in noi questo flusso continuo sono i concetti, sono gli ideali cui vorremmo serbarci coerenti, tutte le finzioni che ci creiamo, le condizioni, lo stato in cui tendiamo a stabilirci. Ma dentro di noi stessi, in ciò che chiamiamo anima, e che è la vita in noi, il flusso continua, indistinto, sotto gli argini, oltre i limiti che noi imponiamo, componendoci una coscienza, costruendoci una personalità. In certi momenti tempestosi, investite dal flusso, tutte queste nostre forme fittizie crollano miseramente; e anche quello che non scorre sotto gli argini e oltre i limiti, ma che si scopre a noi distinto e che abbiamo con cura incanalato nei nostri affetti, nei doveri che ci siamo imposti, nelle abitudini che ci siamo tracciate, in certi momenti di piena straripa e ci sconvolge tutto. Vi sono anime irrequiete quasi in uno stato di fusione continua, che sdegnano di rapprendersi, di irrigidirsi in questa o quella forma di personalità. Ma anche per quelle più quiete, che si sono adagiate in una o in un’altra forma, la fusione è sempre possibile: il flusso della vita è in tutti” (U, 214). Al flusso non si sfugge, se non quando la vita – che è “vento”, “mare”, “fuoco” – si irrigidisce in forme disseccate, quando, alla fine, la morte ci distacca da questo scorrere. Sotto l’aspetto dell’impaludamento interiore, Pirandello condivide così la paura della stagnazione, che permea la cultura europea del suo tempo: “Ma che vuol dire, domando io, darsi una realtà, se non fissarsi in un sentimento, 201
rapprendersi, irrigidirsi, incrostarsi in esso? E dunque, arrestare in noi il perpetuo movimento vitale, far di noi tanti piccoli e miseri stagni in attesa di putrefazione, mentre la vita è flusso continuo, incandescente e indistinto?” (La trappola, in N, I, 682). Questi passi, così densi, hanno un parallelo in un brano di Uno, nessuno e centomila, in cui si mostra come la canalizzazione della “gran fiumana” non sia sufficiente, nelle fasi di piena, a evitare lo straripamento rapinoso delle acque oltre gli argini stabiliti, buoni soltanto in tempi normali: “È bene che lei anzi si turi gli orecchi per non udire il terribile fragore d’una certa rapina sotto gli argini, oltre i limiti che lei, da buon giudice, s’è tracciati e imposti per comporre la sua scupolosissima coscienza. Possono crollare, sa? in un momento di tempesta come quello che ha avuto la signorina Anna Rosa. Che rapina? Eh, quella della gran fiumana, signor giudice! Lei l’ha incanalata bene nei suoi affetti, nei doveri che s’è imposti, nelle abitudini che s’è tracciate; ma poi vengono i momenti di piena, signor giudice, e la fiumana straripa, straripa e sconvolge tutto. Io lo so. Tutto sommerso, per me, signor giudice! Mi ci sono buttato e ora ci nuoto, ci nuoto. E sono, se sapesse, già tanto lontano! Quasi non la vedo più” (UNC, 897). Le alternative sembrano essere quelle o di venir trascinati e di affogare nella “gran fiumana” in cui affetti, regole di condotta e abitudini si sciolgono, o di far rapprendere l’anima in una forma plumbea e triste oppure, infine, di impossessarsi delle immagini altrui dando loro asilo nei nostri ricordi, che nessuno può toglierci (e questo vale soprattutto per i morti, come nella novella I pensionati della memoria, dove la voce narrante afferma che i morti li seppelliamo soltanto in noi: 202
“Ma perché, – voi dite, – non se ne ritornano alle loro case, invece di venirsene a casa vostra? Oh bella! Ma perché non hanno mica una realtà per sé, da poter andare dove lor piace. La realtà non è mai per sé. Ed essi l’hanno, ora, per me, e con me dunque per forza se ne debbono venire. Poveri pensionati della memoria, la disillusione loro m’accora indicibilmente!” [N, II, 122]). Costruire se stessi è uno “spontaneo artificio interiore, frutto di segrete tendenze o di incosciente imitazione” (U, 206). Da notare l’espressione ossimorica “spontaneo artificio”: la costruzione dell’identità è spontanea, non solo in quanto inconscio prodotto interiore dell’organismo e dell’anima, ma anche come risultato delle forze di sagomazione sociale, del precipitato di immagini che gli altri si sono fatti di noi, di “imitazione” nel senso di Tarde. Ed è artificiale in quanto non corrisponde ad alcuna “natura umana” rigida e normativamente vincolante. Di per sé, ognuno è un niente, un nessuno che prende la natura del suo recipiente, la forma: “Volete essere? C’è questo. In astratto non si è. Bisogna che s’intrappoli l’essere in una forma, e per alcun tempo si finisca in essa, qua o là, così o così” (U, 208). Sono gli uomini più esposti alla scoperta delle illusioni a sgretolare il “cemento della nostra volontà”, a scompaginare il contenuto degli affetti più saldi e a far vacillare l’artificiale costruzione inconscia dell’io. Già nell’infanzia, alcuni traumi e lutti fanno dolorosamente scoprire il disgregarsi delle illusioni per effetto di un repentino cambio dei sentimenti. È il caso della voce narrante della novella Il ritratto, quando scopre che l’amore della madre le era stato sottratto dall’arrivo di un intruso, il nuovo fratellino: “Sono convinto che non c’è altra realtà 203
fuori dalle illusioni che il sentimento ci crea. Se un sentimento cangia all’improvviso, crolla l’illusione e con essa quella realtà in cui viviamo, e allora ci vediamo subito sperduti nel vuoto. Questo avvenne a me a sette anni, per il cangiare improvviso d’un sentimento che, a quella età, è tutto: quello, ripeto, dell’amore materno”.15 Quando si scopre questa spontaneità e innocenza animale della costruzione (come di formiche o di termiti), allora tutto crolla ed è possibile scorgere l’amorfo, il caos da cui ogni forma s’innalza come ordine o protezione nei suoi confronti. Allora, tanto le “anime irrequiete quasi in uno stato di fusione continua”, quanto quelle quiete, “che si sono adagiate in una o in un’altra forma”, ma che sono scosse da qualche evento che le altera, pervengono a un punto in cui sono indotte a non fingere più di credere nelle finzioni. Giunge allora il tempo di confessare a se stessi l’esistenza di un’altra realtà, che si intravede solo per un istante, non appena si squarcia il velo che nasconde l’orrore del vivere, il mondo mostruoso che la ragione umana respinge perché incapace di inquadrarlo: “In certi momenti di silenzio interiore, in cui l’anima nostra si spoglia di tutte le finzioni abituali, e gli occhi nostri diventano più acuti e penetranti, noi vediamo noi stessi nella vita, e in se stessa la vita, quasi in una nudità arida, inquietante; ci sentiamo assaltare da una strana impressione, come se, in un baleno, ci si chiarisse una realtà diversa da quella che normalmente percepiamo, una realtà vivente oltre la vista umana, fuori dalle forme dell’umana ragione”. In questa fase ek-statica, in cui ci sembra di uscire dal normale scorrere del tempo e di osservarci dall’esterno, il vuoto dell’esistenza, la mancanza di significato di tutte le cose si rivela a noi di colpo: 204
“Lucidissimamente allora la compagine dell’esperienza quotidiana, quasi sospesa nel vuoto di questo nostro silenzio interiore, ci appare priva di senso, priva di scopo; e quella realtà diversa ci appare orrida, nella sua crudezza quasi impassibile e misteriosa, poiché tutte le nostre fittizie relazioni concrete di sentimenti e di immagini si sono scisse e disgregate in essa. Il vuoto interno si allarga, varca i limiti del nostro corpo, diventa vuoto intorno a noi, un vuoto strano, come un arresto del tempo e della vita, come se il nostro silenzio interiore si sprofondasse negli abissi del mistero. Con uno sforzo supremo cerchiamo allora di riacquistare la coscienza normale delle cose, di riallacciar con esse le consuete relazioni, di riconnetter le idee, di risentirci vivi come per l’innanzi, al modo solito”. Pirandello utilizza qui il linguaggio della mistica per parlare del manifestarsi di quella dimensione profana “a cui l’uomo non può affacciarsi, se non a costo di morire o di impazzire”.16 Parla di rivelazione improvvisa, “in un baleno”, di una “realtà diversa”, di un “vuoto strano”, di “un arresto del tempo e della vita”: tutte immagini, sensazioni, idee frequenti nelle estasi mistiche (in particolare in Meister Eckhardt e nei mistici renani), in cui il flusso temporale viene repentinamente sospeso e si avverte, nel silenzio e in un gran vuoto, il numinoso, il terrifico. Questa scoperta ci modifica e ci fa scoprire la scarsa importanza della vita e la difficoltà di portarle “rispetto” (è questo un elemento che caratterizzerà ambiguamente tutta la cultura, anche politica, tra i due secoli, divisa – soprattutto dopo l’esperienza della Grande Guerra – tra il culto vitalistico dell’esistenza e l’attrazione per la morte, tra la compassione e la pietas per le creature e il piacere o l’indifferenza per la 205
distruzione e l’autodistruzione): “Ma a questa coscienza normale, a questo sentimento solito della vita non possiamo più prestar fede, perché sappiamo ormai che sono un nostro inganno per vivere e che sotto c’è qualcos’altro, a cui l’uomo non può affacciarsi, se non a costo di morire o di impazzire. È stato un attimo; ma dura a lungo in noi l’impressione di esso, come di vertigine, con la quale contrasta la stabilità, pur così vana, delle cose: ambiziose o misere apparenze. La vita allora, che si aggira piccola, solita, fra queste apparenze ci sembra quasi che non sia più per davvero, che sia come una fantasmagoria meccanica. E come darle importanza? come portarle rispetto?”.17 La passione di essere un altro Che fare dopo che si è scoperto l’inganno, dopo che una crepa, anche minima, si è prodotta nella nostra “casa”, nel nostro “spontaneo artificio”? Gran parte dell’opera di Pirandello ruota ossessivamente attorno a questo tema, con una costanza e un accanimento che si estendono dai primi scritti giovanili alla morte. Del resto, non si tratta, per lui, di un problema esclusivamente estetico o espressivo, ma di una domanda esistenziale inaggirabile: “Non ero una persona; ero dei personaggi in cerca di persona”, confesserà Pirandello.18 La piena presa di coscienza di tale condizione (peraltro non del tutto ignorata) produce una svolta nella vita, ne mostra inequivocabilmente la fragilità, l’instabilità, l’improgrammabilità. In Non si sa come Pirandello dice: “E poi è sempre così: tutto incerto, sospeso, volubile; vacilla tutto; la volubilità della vita non rispetta neanche i muri fermi delle case nelle strade. E quando credi d’esserti fatta una coscienza e hai stabilito che ogni cosa è così o così, ci 206
vuol così poco a farti riconoscere che questa tua coscienza era fondata su nulla, perché le cose, quelle che tu credi più certe, possono esser altre da quelle che credi; basta farti sapere una cosa, il tuo animo cangia d’un tratto, addio coscienza, diventa subito un’altra, e hai un bel tenerti fermo a tutte le tue certezze di prima: dove sono? Io credo che, quando ci saremo liberati della vita, forse la più grande sorpresa che ci aspetterà sarà quella delle cose che non c’erano, che ci pareva ci fossero e non c’erano: suoni, colori; e tutto ciò che vi sentimmo, e tutto ciò che vi pensammo” (MN, IX, 29-30). Nelle situazioni più gravi – come in quella del protagonista malato di cancro de L’uomo col fiore in bocca – accade che non si desideri più “essere”, che si respingano le affettuose cure delle persone più vicine, persino della propria moglie, “una di quelle cagne sperdute, ostinate, che più le si piglia a calci, e più le si attaccano alle calcagna”. La sofferenza di questa donna è riconosciuta, ma provoca solo fastidio e stizza perché vorrebbe coccolare il consorte tenendolo chiuso nell’ordine, nel lindore e nel silenzio “costruito” della casa: “Questo vorrebbe! Io domando ora a lei, per farle intendere l’assurdità… ma no, che dico l’assurdità! la màcabra ferocia di questa pretesa, le domando se crede possibile che le case d’Avvezzano, le case di Messina, sapendo del terremoto che di lì a poco le avrebbe sconquassate, avrebbero potuto starsene lì tranquille sotto la luna, ordinate in fila lungo le strade e le piazze, obbedienti al piano regolatore della commissione edilizia municipale […]. Mi lasci dire! Se la morte, signor mio, fosse come uno di quegli insetti strani, schifosi, che qualcuno inopinatamente ci scopre addosso… Lei passa per via; un altro passante, all’improvviso, lo ferma e, cauto, con 207
due dita protese le dice: – ‘Scusi, permette? lei, egregio signore, ci ha la morte addosso’. E con quelle due dita protese, gliela piglia e gliela butta via…” (MN, III, 15-16 e cfr. La morte addosso, in N, I, 950). Una volta intravista la possibilità di una vita diversa, molti personaggi pirandelliani si dimostrano esitanti e restano prigionieri dei precedenti condizionamenti, rassegnati al dominio del passato. Alla fine, però, reagiscono sostanzialmente in quattro modi, spesso tra loro ibridati (a meno che non si riesca a esercitare acriticamente il jamesiano will to believe, ad affezionarsi rapidamente a nuove illusioni, dopo che sono cadute le precedenti). Il primo modo – il più diffuso e banale, ma non per questo meno sofferto – consiste nell’adeguarsi alla pressione sociale, alle forze e agli stampi che ci hanno modellato nel corso dell’esistenza o nell’accettare di venir foggiati dalle proiezioni degli altri, nell’essere “come tu mi vuoi”, secondo uno schema ripetuto che trova la sua concisa espressione nella maniera in cui, nel racconto Stefano Giogli, uno e due, il protagonista viene plasmato dalla futura moglie: “Per tanti segni, man mano più precisi, Stefano Giogli dovette accorgersi che la sua Lucietta, nei tre mesi di fidanzamento, durante i quali il fuoco, ond’egli era divorato, lo aveva ridotto a una pasta molle a disposizione di quelle manine irrequiete e instancabili, di tutti gli elementi dello spirito di lui in fusione, di tutti i frammenti della coscienza di lui disgregati nel tumulto della frenetica passione, si era foggiato, impastato, composto per suo uso, secondo il suo gusto e la sua volontà, uno Stefano Giogli tutto suo, assolutamente suo, che non era affatto lui, non solo nell’anima, ma perdio neanche quasi nel corpo!” (N, II, 208
1181). Il pericolo o, per altri versi, l’opportunità di assumere – una volta che i sentimenti si siano raffreddati – una forma diversa per sé e per gli altri cresce nelle fasi in cui la passione disgrega e fonde al calor bianco la forma rigida che ciascuno si era dato. Alla maniera di Taine, prima di calmarsi o di spegnersi, le passioni scompaginano la coscienza del singolo dividendola in turbinose sequenze d’immagini: “Nello scompiglio della coscienza, una moltitudine d’immagini si ridestavano tumultuosamente: l’una chiamava l’altra e insieme si raggruppavano in balenanti scene precise e subito si disgregavano per ricomporsi in altre scene con vertiginosa rapidità” (Il dovere del medico, in N, I, 393). Solo che, molte volte, l’anima senza passioni si irrigidisce in una forma inerte e pesante: “La fusione… già! Ma per mantenere l’anima, come voi dite, in codesto stato di fusione, ci vuole il fuoco, caro amico! E quando, dentro di voi, il fornellino è spento?” (VG, 198). Il secondo modo di reagire dinanzi alla scoperta delle illusioni consiste nell’accettarle, trasformandole con consapevole virtuosismo in realtà d’ordine superiore, in strumento di sopravvivenza da utilizzare non appena il proprio mondo diventa intollerabile. Bisogna cioè imparare a comportarsi come se fossero vere. Nella novella Rimedio: la Geografia, del 1922, Pirandello presenta una delle sue tante paradossali procedure di elaborazione e trascrizione cosciente del reale nell’immaginario. Spostandosi con la fantasia in altri mondi, in spazi distanti e orizzonti aperti, definisce così un’ennesima variante del desiderio ineffettuale di “vite parallele”. Esso non sorge da recriminazioni dirette nei confronti del presente, né dal dichiarato rimpianto per occasioni mancate o per congiunture d’eventi che avrebbero 209
potuto assumere una diversa configurazione. E neppure dalla fantasia di mettersi al posto degli altri, di sostituirsi alle loro vite. Secondo la voce narrante, infatti, tutti cercano normalmente “una vita diversa, altrove”, per sfuggire alle tristezze. Sbagliano però nello scegliere la linea di fuga, nell’aspirare a una vita diversa, poiché – se essa fosse davvero tale – anche i nostri pensieri e i nostri desideri sarebbero differenti: “Ma io non dico di porre voi stessi con l’immaginazione altrove, né di fingervi una vita diversa da quella che vi fa soffrire. Questo lo fate comunemente, sospirando: ‘Ah, se non fosse così! Ah, se avessi questo o quest’altro! Ah, se potessi esser là’ ”. Tale desiderio di scambiare la propria vita con quella d’altri, qualora potesse realizzarsi, non offrirebbe alcuna via d’uscita alle difficoltà e alle angosce dell’individuo: “E son vani sospiri. Perché la vostra vita, se dovesse veramente esser diversa, chi sa che sentimenti, che speranze, che desiderii vi susciterebbe altri da questi che ora vi suscita per il solo fatto che essa è così! Tanto è vero, che quelli che sono come voi vorreste essere, o che hanno quello che voi vorreste avere, o che sono là dove voi desiderereste, vi fanno stizza, poiché vi sembra che in quelle condizioni da voi invidiate non sappiano essere lieti come voi sareste. Ed è una stizza – scusatemi – da sciocchi. Perché quelle condizioni voi le invidiate perché non sono le vostre, e se fossero, non sareste più voi, voglio dire con codesto desiderio di essere diversi da quello che siete” (RLG, 224). Bisogna saper rinunciare alle aspirazioni a essere differenti da quel che si è, alla passione dell’alterità, al desiderio di vivere altre vite parallele e di trovare così una soluzione alle proprie sofferenze. L’unico rimedio a esse 210
consiste nell’abbandonarsi a estasi improvvise e temporanee, a momenti nei quali, in maniera automatica, quasi in trance, emigriamo mentalmente in luoghi che solo il caso ci regala, trasferendoci con “spontaneo artificio” in altri mondi possibili, ritagliati su una parte del mondo “reale”. Alla fine essi si sovrapporranno quasi automaticamente al mondo condiviso dagli altri, diventando delle semi-realtà o, in termini jamesiani, “sub-universi di realtà” (ossia mondi, come quello del sogno, del mito o della follia che hanno le proprie regole di coerenza interna e i propri specifici criteri di rilevanza, cfr. W. James, PP, 185, 645-650) in cui regolarmente o eccezionalmente ci insediamo. Le illusioni e i fraintendimenti non rappresentano più un mero surrogato del mondo reale, ormai declassato a uno dei tanti mondi possibili, bensì il quotidiano riscatto dalla sua prepotenza (sullo sfondo resta però sempre la vita come sconfitta annunciata). A questo nuovo mondo, al quale ci si aggrappa come naufraghi appena scampati da mortali pericoli, si arriva casualmente. Al protagonista del racconto pirandelliano la rivelazione della sua esistenza giunge durante una notte di profonda afflizione, mentre veglia l’agonia della vecchia madre: “Disperato, cascai a sedere davanti alla scrivanietta della più piccola delle mie figliuole, la nipotina che faceva ancora i còmpiti di scuola nella camera della nonna. Non so quanto tempo rimasi lì. So che a giorno chiaro, dopo un tempo incommensurabile, durante il quale non avevo avvertito minimamente né la stanchezza, né il freddo, né la disperazione, mi trovai con un trattatello di geografia della mia figliuola sotto gli occhi, aperto a pagina 75, sgorbiato nei margini e con una bella macchia d’inchiostro cilestrino sull’emme di Giamaica”. In questo 211
luogo geograficamente remoto, impreziosito da fulgenti immagini di felicità evocate dal nome, il personaggio trova un provvisorio rifugio: “Ero stato tutto il tempo in quell’isola di Giamaica, dove sono le Montagne Azzurre, dove dal lato di tramontana le spiagge si innalzano grado grado fino a congiungersi col dolce pendio di amene colline, la maggior parte separate le une dalle altre da vallate spaziose piene di sole, e ogni vallata ha il suo ruscello e ogni collina la sua cascata”. Nella tensione dei momenti di crisi il potere della fantasia si acuisce sino a prendere il sopravvento sulla percezione: “Avevo veduto sotto le acque chiare le mura delle case della città di Porto Reale sprofondate nel mare da un terribile terremoto; le piantagioni dello zucchero e del caffè, del grano d’India e della Guinea; le foreste delle montagne; avevo sentito e respirato con indicibile conforto il tanfo caldo e grasso del letame nelle grandi stalle degli allevamenti; ma proprio sentito e respirato, ma proprio veduto tutto, col sole che è là su quelle praterie, con gli uomini e con le donne e coi ragazzi come sono là, che portano con le ceste e rovesciano a mucchi sugli spiazzi assolati il raccolto del caffè ad asciugarsi; con la certezza precisa e tangibile che tutto questo era vero, in quella parte del mondo così lontana; così vero da sentirlo e opporlo come una realtà altrettanto viva che mi circondava là nella camera di mia madre moribonda” (RLG, 226-227). Una volta compiuta la scoperta della possibilità di delocalizzarsi, di astrarsi da una realtà che ferisce, lo schema di condotta diventa ripetibile ed estendibile all’infinito. Il segreto di questo metodo è però racchiuso nell’incerta credibilità della sua formula, basata sul “come se”, sul 212
vahingeriano als ob. Per essere efficace, bisogna dimenticare di averla applicata, fingere che essa non esista. Tale operazione raggiunge vette di virtuosismo quando ogni traccia dei precedenti legami con la “realtà” viene cancellata, quando s’instaura un sistema automatico di risposta codificata agli eventi, che ricompaiono riformulati in un altro linguaggio, apparentemente privo di senso. Attraverso l’esercizio costante e l’abbandono di ogni proposito di opporre la realtà all’immaginazione, tale procedura alla fine raggiunge il proprio scopo, “così, senza alcun nesso, neppure di contrasto, senza alcuna intenzione, come una cosa che è perché è, e che voi non potete fare a meno che sia” (RLG, 227). A ogni pensiero triste e doloroso o a ogni persona che provochi fastidio o angoscia viene attribuito il nome di una parte del mondo: “Mia moglie, per esempio, è la Lapponia. Vuole da me una cosa ch’io non le posso dare? Appena comincia a domandarmela, io sono già nel golfo di Bòtnia, amici miei, e le dico seriamente come se nulla fosse: – Umèa, Lulèa, Pitèa, Skelleftèa… – Ma che dici? – Niente cara. I fiumi della Lapponia. – E che c’entrano i fiumi della Lapponia? – Niente, cara. Non c’entrano per niente affatto. Ma ci sono, e né tu, né io possiamo negare che in questo preciso momento sboccano nel golfo di Bòtnia. E vedessi, cara, vedessi come vedo io la tristezza di certi salici e di certe betulle […]. – Ma che diavolo dici? Sei pazzo? Io ti sto domandando… – Sì, cara. Tu mi stai domandando, non dico di no. Ma che triste paese, la Lapponia!…” (RLG, 227-228). Non è dunque il tempo, come in Bergson o in James, a conciliare l’io con se stesso, a fornire il “rimedio” per contrastare la disgregazione della coscienza, bensì lo spazio, 213
la geografia, la creazione di un reticolo di luoghi e di nomi che hanno una fittizia corrispondenza biunivoca con gli elementi di invivibilità del mondo condiviso. A ogni punto di una realtà avvertita come spiacevole viene associato, nella cartografia psichica, una zona peculiare dell’universo geografico quale appare nei trattati scolastici dei ragazzi. Freud aveva osservato che gli isterici si creano un proprio atlante anatomico, che non coincide con quello della scienza ufficiale. Qui è l’atlante geografico che stabilisce i luoghi da investire psichicamente, distribuendo, attraverso una terapia dell’immaginazione, dolori e gioie. Un sistema simbolico privato, con parametri rigorosi articolati in meridiani e paralleli, riorganizza l’esperienza, rendendo vivibile l’invivibile e tenendo a distanza l’indesiderato. I protagonisti di Rimedio: la Geografia e di un’altra novella, La carriola, non si riconoscono nella propria vita e vedono la realtà come un sogno rovesciato: dubitano, cioè, di quel che è empiricamente e logicamente più certo e sentono invece vera la rêverie dei desideri inappagati. Raccontando un viaggio in treno, la voce narrante de La carriola esprime con precisione il vago sentimento dell’improvviso richiamo di una vita non vissuta, la pungente nostalgia per tutte le possibilità non realizzate: “Lo spirito mi s’era quasi alienato dai sensi, in una lontananza infinita, ove avvertiva appena, chi sa come, con una delizia che non gli pareva sua, il brulichìo d’una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto essere sua, non qua, non ora, ma là, in quell’infinita lontananza; d’una vita remota, che forse era stata sua, non sapeva come né quando; di cui gli alitava il ricordo indistinto non d’atti, non d’aspetti, ma quasi di desiderii prima svaniti che sorti; con 214
una pena di non essere, angosciosa, vana e pur dura, quella stessa dei fiori, forse, che non han potuto sbocciare; il brulichìo, insomma, di una vita che era da vivere, là lontano lontano, donde accennava con palpiti e guizzi di luce; e non era nata; nella quale esso, lo spirito, allora sì, ah, tutto intero e pieno si sarebbe ritrovato; anche per soffrire, non per godere soltanto, ma di sofferenze veramente sue” (Car., 715716). Giunto a casa, ancora turbato da simili pensieri, si guarda dall’esterno senza riconoscersi nei simboli di ciò che effettivamente era diventato, nell’esistenza sino ad allora trascorsa: “Io vidi a un tratto, innanzi a quella porta scura, color di bronzo, con la targa ovale, d’ottone, su cui è inciso il mio nome, preceduto dai miei titoli e seguito da’ miei attributi scientifici e professionali, vidi a un tratto, come da fuori, me stesso e la mia vita, ma per non riconoscermi e per non riconoscerla come mia. Spaventosamente d’un tratto mi s’impose la certezza, che l’uomo che stava davanti a quella porta, con la busta di cuojo sotto il braccio, l’uomo che abitava là, in quella casa, non ero io, non ero stato mai io. Conobbi d’un tratto d’esser stato sempre come assente da quella casa, dalla vita di quell’uomo, non solo, ma veramente e propriamente da ogni vita. Io non avevo mai vissuto; non ero mai stato nella vita; in una vita, intendo, che potessi riconoscer mia, da me voluta e sentita come mia” (Car., 716). Diversamente da Nietzsche, che indica nell’amor fati e nella disposizione a diventare quel che si è la via d’uscita dalla sensazione di trascinare la propria esistenza come una “cosa morta”, il protagonista di questo racconto di Pirandello non è capace di dire sì alla vita, ma solo di rimpiangere quel che non è: “Ora la mia tragedia è questa. 215
Dico mia, ma chi sa di quanti! Chi vive, quando vive, non si vede: vive… Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina […]. Il mio caso è anche peggiore. Io vedo non ciò che di me è morto; vedo che non sono mai stato vivo, vedo la forma che gli altri, non io, mi hanno data, e sento che in questa forma la mia vita, una mia vera vita, non c’è stata mai. Mi hanno preso come una materia qualunque, hanno preso un cervello, un’anima, muscoli, nervi, carne, e li hanno impastati e forgiati a piacer loro, perché compissero un lavoro, facessero atti, obbedissero a obblighi, in cui io mi cerco e non mi trovo” (Car., 718). Il fiume orrendo, che scalza ogni nostra costruzione, ogni “spontaneo artificio” che si scambia per realtà, è la vita stessa, che non si può solidificare, rapprendere, senza morire. Quando, infatti, la corrente vitale si congela, ciascuno si sente inesorabilmente assimilato a un attore che recita un ruolo di routine. Privo di entusiasmo e di coinvolgimento negli eventi, ridotto a una “marionetta” foggiata da sé o da altri (UNC, 859), si guarda allora vivere dall’esterno. Gli sembra così che tutto quanto gli succede sia già accaduto, come nel fenomeno psicologico del déjà vu, sintomo di scissione in atto della personalità. Questa perturbante impressione di vedersi vivere come un automa, Pirandello, sin dagli anni giovanili, l’aveva sperimentata tanto spesso da fargli confessare, in una intervista all’“Illustrazione italiana” del 23 giugno 1935, che – davanti a uomini e paesaggi che vedeva per la prima volta – sapeva contro ogni evidenza di averli già incontrati prima: “Io ho sempre riconosciuto tutto”. Oppure gli sembra che egli stesso sia un altro, un estraneo (come nella novella Il chiodo, 216
in cui il protagonista uccide a New York, senza intenzione, una bambina dai capelli rossi con un chiodo casualmente raccolto nelle strade di Harlem [cfr. Ch., 886-890]). Anche quest’ultimo personaggio, “dopo l’interrogatorio, ascolta, curvo sulla seggiola, e con una cupa maraviglia negli occhi, le mani gracili sui ginocchi, segnate da sgraffii che forse lui stesso s’è fatti senza saperlo. Ascolta le ragioni che gli altri escogitano per spiegare il suo atto. La sua maraviglia è che possano esser tante, queste ragioni, mentre lui non sa vederne nemmeno una; tante, e tutte parer vere e probabili sia quelle escogitate in suo favore, sia quelle contro di lui” (Ch., 887). Simile è l’atteggiamento di Romeo di Non si sa come, il quale, in un impeto d’ira – compiendo il delitto come se si trovasse impigliato nella trama di un sogno – ammazza un ragazzo di campagna perché aveva appena ucciso una lucertola (“senza prima vederla da vicino, negli occhietti vivi e acuti fino allo spasimo, nel palpito dei fianchi, nel fremito del verde corpicino”).19 Per inciso, i motivi dell’idiosincrasia di Croce nei confronti di Pirandello (manifestata sin dal 1909, discutendo il saggio L’umorismo, con la definizione dello scrittore siciliano come “filosofo a ore” e del Fu Mattia Pascal come “un trionfo dello stato civile”)20 dipendono dall’ambiguità e dal carattere proteiforme dei suoi personaggi, dalla loro costitutiva diffidenza e ritrosia ad accettare il corso del mondo nella sua intrinseca razionalità, dai loro inconcludenti amletismi e nichilistici sofismi (espressi anche, a livello teorico, dalla rivendicazione pirandelliana del “riferimento intellettuale” che dovrebbe essere presente nell’arte, e, dunque, in netto contrasto con la riduzione dell’arte stessa a “intuizione pura” o a 217
“conoscenza dell’individuale”), e, non da ultimo, dalla mancanza di intima “dignità” attribuita alla vita. Lo sforzo di Croce – come educatore politico – mira alla “religione delle opere”, all’irrobustimento della concretezza del conoscere e del fare, all’accettazione serena dei limiti effettivi posti dalle cose e dai rapporti di forza alla propria azione. Questi limiti sono per lui modificabili solo se si è in grado di abbandonare il luttuoso e paralizzante sentimento di rimpianto per quel che poteva essere diversamente e non è stato, di rifiutare – secondo gli insegnamenti convergenti di Machiavelli, di Spinoza, di Hegel e di Marx – qualsiasi sentimento di tenerezza o di rimpianto per le possibilità astratte e non realizzate. In questo senso, Croce arriva a respingere non solo ogni ragionamento controfattuale sul piano storico, ma anche ogni interrogativo personale su cosa sarebbe accaduto se avessimo agito diversamente. Tale domanda, infatti, non è per lui che un “giocherello che usiamo fare dentro noi stessi, nei momenti di ozio o di pigrizia, fantasticando intorno all’andamento che avrebbe preso la nostra vita se non avessimo incontrato una persona che abbiamo incontrata, o se non avessimo commesso uno sbaglio che abbiamo commesso; nel che con molta disinvoltura trattiamo noi stessi come l’elemento costante e necessario, e non pensiamo a cangiare mentalmente anche questo noi stessi, che è quel che è in quel momento, con le sue esperienze, i suoi rimpianti e le sue fantasticherie, appunto per aver incontrato allora quella data persona e commesso quello sbaglio: senonché, reintegrando la realtà del fatto, il giocherello s’interromperebbe senz’altro e svanirebbe”.21 Esercizi di disidentificazione 218
Il terzo modo di far fronte al manifestarsi della mancanza di senso intrinseco e di giustificazione di tutte le forme della vita consiste nell’esercizio dell’eroico furore di “inetti” quali Vitangelo Moscarda, che sfocia nella sua finale determinazione di essere “nessuno”. Uno, nessuno e centomila è l’ultimo romanzo pubblicato da Pirandello nel 1925, anche se il suo progetto, in quanto opera di “scomposizione della vita”, risale a tredici-quindici anni prima. Conclude, infatti, la lunga, tenace e persino testarda riflessione sulle esperienze di crollo e caduta degli “argini” in una persona la cui esistenza sembrava trascorrere normalmente. Rappresenta, dunque, il frutto più maturo della sua produzione (e anche per questo, forse, tra i più popolari), una vera e propria summa poetica. Come ebbe a dire il suo autore: “C’è la sintesi completa di tutto quello che ho fatto e che farò”. L’alterazione della propria identità induce Vitangelo Moscarda, attraverso prove e choc successivi, ad aprire gli occhi su aspetti della vita propria e altrui che non era mai riuscito a scorgere in precedenza, pur avendoli, letteralmente, sotto il suo naso storto. Si innesca così in lui una inarrestabile reazione a catena. Dopo una breve fase di smarrimento, cade in preda a una furia iconoclastica. Dinanzi alla disimmetria tra il vedere e l’essere visto, dinanzi all’inattesa moltiplicazione delle figure riflesse nella galleria di specchi deformanti delle menti altrui, decide di fare a pezzi tanto le immagini che gli altri si sono forgiati di lui, quanto quelle che egli andrà scoprendo in se stesso nel suo voler provare a ritrovarsi “centomila”. La scoperta che né la rappresentazione che egli ha di se stesso collima con quella di tutti gli altri, né quella degli altri con la sua, viene ora 219
attribuita all’assurda “presunzione” che Dio ci conservi sempre uguali e che la realtà qual è per gli altri debba necessariamente essere la stessa che per noi. Inizia per Moscarda il doloroso apprendistato dell’autodissoluzione regolata e, insieme, del programmatico scompaginamento dell’idea che gli altri si fanno di lui. Il processo di voluta disidentificazione comincia dalla moglie, da cui esige la rinuncia al ridicolo vezzeggiativo familiare che lo aveva trasformato in un “fantoccio” chiamato Gengè. Il processo continua con la pubblica abiura della sua consolidata immagine di proprietario assenteista (e facilmente ingannabile) della banca ereditata dal padre e, in seguito, incautamente affidata a due soci. Questi, che sicuramente prendono Vitangelo per uno sciocco, hanno abbondantemente approfittato della mancanza di qualsiasi controllo e verifica per arricchirsi in maniera illecita, visto che il padrone passa solo sporadicamente in quella che dovrebbe essere la sua sede di lavoro e solo per apporre delle firme ai documenti che gli vengono sottoposti (e quando arriva gli impiegati non alzano “nemmeno gli occhi dai loro registri”). Questa volta però – con tecniche di ‘dissimulazione onesta’ – Moscarda intende dimostrare di essere lui a comandare. Per rendere inclassificabile la sua persona e il suo comportamento, esegue dapprima una sorta di ispezione nella banca: lancia insinuazioni che vanno a segno nei confronti dei suoi “amici”, li maltratta, li offende, ne afferra uno per il bavero. Giunge persino a mimare il furto di un incartamento dai suoi stessi polverosi uffici e a schiacciare, con allegorica voluttà di distruzione, uno “scarafaggio non ben sicuro sulle gambe” che in quell’istante sbuca dallo scaffale. Ora è in grado di compiere 220
un atto che apparirà agli altri d’ignobile prepotenza, mentre per lui rappresenta un gesto di paradossale compensazione delle disgrazie altrui e, insieme, d’autoumiliazione. Di fronte a una folla ostile e tumultuante, sfratterà dalla miserabile catapecchia di sua proprietà Marco di Dio e famiglia, per poi regalargli una casa accogliente e una considerevole somma di denaro. Riuscirà così nel suo doppio, contraddittorio intento: di confermare alla gente di essere, in pubblico, un “usurajo” come suo padre (il cui esempio, peraltro, Vitangelo non ha mai seguito e la cui immagine continua intimamente a ignorare e a non elaborare) e, in privato, un ambiguo e generoso benefattore (condotta che produce il sicuro effetto di farlo apparire folle dinanzi all’intera cittadinanza). Placata la collera e l’indignazione, subentra in lui la serena rinuncia a un mondo non più condiviso. Scoperta la propria inettitudine a essere “uno”, assaporato il disgusto del trasformarsi in “centomila”, si dimette da se stesso e, abbandonando la folla di immagini proiettate sul suo unico nome, esce dal gioco delle parti e lascia il campo di battaglia tra i diversi io che gli altri proiettano su di lui. Nella sua “stanza della tortura”, Pirandello mira alla sperimentazione delle possibili combinazioni entro cui si articola la triplice coscienza di poter diventare “centomila”, di essere costretti a restare “uno” e di azzerarsi per essere “nessuno”. Quelli di Pirandello non sono princìpi di una filosofia che proclama semplicemente l’“inconsistenza dell’oggettività”,22 intesa come relativismo teso a cancellare ogni distinzione (poiché deriva dalla presenza di molteplici e inconciliabili punti di vista, quante sono le persone che in ciascun momento considerano qualcosa o qualcuno). Simili 221
paradossi, da un lato, scavano impietosamente nel terreno del quotidiano per mostrare come nella sua presunta normalità si spalanchino gli abissi delle questioni ultime, quelle che normalmente evitiamo di porci, dall’altro riformulano acutamente problemi epistemologici allora ampiamente dibattuti a livelli di alta sofisticazione. Sul piano filosofico, a essere messa in crisi è l’idea di mente quale specchio che riflette un’unica realtà, in maniera tanto più esatta, quanto meno è turbata da punti di vista arbitrariamente soggettivi e, parallelamente – sul piano artistico –, l’idea di mimesi in senso ‘positivisticofotografico’. Non solo l’unica realtà si divide in “subuniversi di realtà” (il sogno, il mito, il lavoro, la religione, la follia),23 ma la vita stessa è più ricca di ogni immaginazione: “Perché la vita, per tutte le sfacciate assurdità, piccole e grandi, di cui beatamente è piena, ha l’inestimabile privilegio di poter fare a meno di quella stupidissima verosimiglianza, a cui l’arte crede suo dovere obbedire. Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer verosimili perché sono vere. All’opposto di quelle dell’arte che, per parer vere, hanno bisogno d’esser verosimili”.24 Certo, le modalità con cui gli altri ci guardano e con cui noi li consideriamo, uno per uno, sono inconciliabilmente molteplici nella loro irrelata reciprocità. Si potrebbe dire, rovesciando la prospettiva leibniziana, che ai personaggi di Pirandello manca qualsiasi armonia prestabilita. Diversamente – ad esempio – dal modello del Bildungsroman del classicismo goethiano o della Fenomenologia dello spirito di Hegel – le contraddizioni non conducono alla crescita piramidale della personalità, non la rafforzano facendole attraversare indenne il loro cerchio di 222
fuoco. Prevale piuttosto in lui (e ciò contrasta con la vecchia immagine denigratoria di un suo preteso irrazionalismo assoluto) la lucida, conseguente, puntigliosa logica poetica della ricerca delle forme di incongruenza, delle ragioni della costitutiva discrasia dei simultanei punti di vista tra individui diversi e di quelli successivamente opposti nella medesima persona. Tali prospettive inconciliabili coesistono in maniera apparentemente normale, almeno fino a quando minuscole anomalie, che nella loro pretesa insignificanza prefigurano conclamate linee di frattura (come il naso che pende “verso destra” di Vitangelo), non ne pongono in rilievo l’intrinseca precarietà. Rifiutando sia la labile costruzione spontanea di se stesso in quanto dotato di unità sostanziale, sia i molteplici fantasmi proiettati dalle immagini altrui, Moscarda diventa così, una volta per tutte, maschera nuda, spogliata degli orpelli e attributi esteriori che aiutano ipocritamente a sopravvivere alle proprie repliche fallite (una maschera dietro la quale, tuttavia, non si scorge un volto, ma solo la coscienza della perdita del principio di individuazione). Vi è in lui un tratto francescano, analogo a quello che si ritrova nel protagonista della novella Quand’ero matto. Anch’egli, lettore dei Fioretti di San Francesco (QEM, 163), si priva di tutti i beni e raggiunge un appagante sentimento di pace unicamente nell’abbandono dell’inutile inseguimento dei suoi molteplici io e degli idoli che gli altri si fabbricano di lui (nel suo testamento Pirandello dichiara sintomaticamente di volersene andare dal mondo sul carro dei poveri, con un semplice lenzuolo addosso). Parafrasando Max Weber, si può dire che egli indichi, in questo caso, i gradini di una sorta di “ascesi intramondana”, 223
di monachesimo laico. O, ancora, che scelga la via schopenhaueriana della rinuncia a se stessi e al principio di individuazione, piuttosto che la dannunziana versione del superuomo di Nietzsche (i personaggi pirandelliani intraprendono però la via dell’ascesi, della negazione della volontà di vivere attraverso una scandalosa forzatura delle convenzioni sociali). Una volta deposta la volontà d’individuazione, a chi ormai può rivolgersi Vitangelo Moscarda dicendo ‘io’? Quale centro e punto di riferimento trovare? “A toccarmi, a strizzarmi le mani, sì, dicevo ‘io‘; ma a chi lo dicevo? e per chi? Ero solo. In tutto il mondo, solo. Per me stesso, solo. E nell’attimo del brivido, che ora mi faceva fremere alla radice i capelli, sentivo l’eternità e il gelo di questa infinita solitudine. A chi dire ‘io’? Che valeva dire ‘io’, se per gli altri aveva un senso e un valore che non potevano mai essere i miei; e per me, così fuori degli altri, l’assumerne uno diventa subito l’orrore di questo vuoto e di questa solitudine?” (UNC, 862). Ora non si è più riempiti – come in Quando ero matto – di tutti gli ‘io’ altrui interiorizzati: “Quand’ero matto non mi sentivo in me stesso, che è come dire: non stavo di casa in me. Ero infatti divenuto un albergo aperto a tutti. E se mi picchiavo un po’ sulla fronte, sentivo che vi stava sempre gente alloggiata […]. Non potevo dir io, nella mia coscienza, che subito un’eco mi ripeteva: io, io, io… da parte di tanti altri; come e avessi dentro un passerajo” (QEM, 161). Vitangelo Moscarda non è più ospite di se stesso come in un albergo, è padrone in casa sua, solo che, adesso, la casa è vuota. La sua coscienza, per riprendere la metafora del Fu Mattia Pascal, cessa simultaneamente di essere sia una 224
“piazza” frequentata, sia un solitario “castello” (cfr. MP, 424). Demolita intenzionalmente la propria rispettabilità per non aver dissipato i sospetti e le mormorazioni relative alla sua avventura con Anna Rosa, Vitangelo dilapida agli occhi della moglie e della città ogni suo avere, per istituire, con i proventi delle vendite, un ospizio di mendicità. Diventa – a suo modo – l’idiota dostoevskiano, senza averne la sublime bontà. La sua “liberazione” nasce, infatti, più dall’“orrore di rimanere qualcuno, proprietario di qualcosa”, che non dalla generosa abnegazione nei confronti di chi è stato fisicamente e socialmente sfavorito dalla sorte. Prova perciò a perdersi per ritrovarsi, a essere nessuno per accedere all’esperienza della metamorfosi; dissolve la propria identità per vivere nell’inconsistente mutevolezza e provvisorietà di ogni stato del divenire. Ma per essere veramente uno, per non avere il rimpianto del precedente io sclerotizzato, bisogna prima essere molti, “centomila”, spogliarsi sino in fondo di ogni forma rigida, di qualsiasi determinatezza anelastica. Anche in questo caso, il rifugio è l’incertezza, esistenziale e persino economica (vendere tutto, donare tutto, e persino lasciarsi derubare): “Quest’incertezza che in me rifuggiva da ogni limite, da ogni sostegno, e ormai quasi istintivamente si ritraeva da ogni forma consistente come il mare si ritrae dalla riva […]” (UNC, 892). Per chi riesce a sollevarsi alle sue altezze o, per il senso comune, alla sua assurdità, tale incertezza, oltre che orrorosa, è tuttavia liberatoria. Pur restando fedele ai conflitti e alle aporie che si generano dalla disintegrazione del soggetto agli occhi di se stesso e degli altri, Pirandello ha, infatti, voluto esplorare anche le strade che possono ricondurre (senza soluzioni armonicistiche, conciliatorie o 225
convenzionali) alla propria “liberazione”. Lacrimæ rerum Il quarto modo di reagire alla scoperta delle illusioni consiste, dunque, nella ferma decisione di essere nessuno, nella “depersonalizzazione”, secondo l’accezione datane da Louis Dugas, nella rinuncia a rimirarsi allo specchio per tentare l’esperimento impossibile di vedersi nelle infinite immagini riflesse dagli occhi altrui.25 Il rischio di questa scelta consiste nella completa perdita di sé. Svuotato del sentimento d’appartenenza, cosa è, infatti, l’individuo? “Niente. Nessuno. Un povero corpo mortificato”, in attesa che qualcuno se lo prenda.26 Nel dramma Quando si è qualcuno, il personaggio indicato con tre asterischi si rivolge così mentalmente, con tenerezza, alla giovane Veroccia: “QUALCUNO, VIVO, NESSUNO LO VEDE. [Pausa] Tu mi hai potuto vedere perché per te non ero qualcuno; ma uno che volevi vivo, come staccato da me, nel tuo momento: e io TUTTO QUAL ERO, io QUALCUNO, che ero diventato? eh, un fantoccio per te, a cui potesti perfino tagliare i capelli; tant’è vero che tu vivo come QUALCUNO non mi vedesti mai; e non mi potevi vedere: mi domandavi perfino stizzita: ‘Perché ne soffri?’. Ora lo sai perché ne soffro; e non t’importa più di saperlo. Mi hai visto finalmente QUALCUNO; e per te NON SONO PIÙ VIVO” (MN, IX, 322-323). In tutte le sue varianti, è questa la via, in negativo, del morire da vivi, il destino di coloro che abbassano la soglia delle loro pretese di senso e di felicità sino al punto da preferire, per non essere ulteriormente feriti o umiliati, l’annullamento interiore ancor prima della morte fisica.27 Essi non sono in grado di mantenere sufficientemente tesa la 226
coscienza nella sua qualità di “piazza” aperta a tutti, e non di “castello” isolato e autosufficiente, di rete elastica che lascia sfuggire la follia quando si allenta.28 È la “corda pazza” del Berretto a sonagli, che ciascuno ha come corde d’orologio in testa e che subentra talvolta alla “corda civile”, quella che permette la ragionevole convivenza tra gli uomini, frenando il prevalere degli istinti.29 O, ancora, è la “terribile pazzia ragionante” della signora Nene Cavalena dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, che scatta quando ci si confronta con la vita come “oggetto da studiare”, astrazione priva di consistenza e di valore.30 La strategia più riuscita sembra, tuttavia, essere quella della perdita dell’identità (anagrafica, fisica o psichica). Si pensi al mutamento di nome e di connotati di Mattia Pascal – che si rade la barba e si fa operare l’occhio storto – o al delirio in cui, nel Berretto a sonagli, Ciampa trova rifugio, di nuovo schopenhauerianamente, all’invivibilità della propria esistenza.31 Più in generale, tale liberazione consiste nella fusione e fluidificazione delle determinatezze della coscienza, nel gustare il piacere di non doversi più costruire faticosamente: “Ah, non aver più coscienza d’essere, come una pietra, come una pianta! Non ricordarsi più neanche del proprio nome! Sdrajati qua sull’erba, con le mani intrecciate alla nuca, guardare nel cielo azzurro le bianche nuvole abbarbaglianti che veleggiano gonfie di sole; udire il vento che fa lassù, tra i castagni del bosco, come un fragor di mare” (UNC, 774).32 E ancora: “Ah, perdersi là, distendersi e abbandonarsi, così tra l’erba, al silenzio dei cieli; empirsi l’anima di tutta quella vana azzurrità, facendovi naufragare ogni pensiero, ogni memoria!”(UNC, 896). 227
Il naufragio pirandelliano è dolce non perché, alla maniera di Leopardi, il “pensiero” si perda nel comparare lo spazio e il tempo presenti al ‘buio oltre la siepe’ e alle “morte stagioni”, ma proprio perché legato all’abbandono del principio d’individuazione, alla fusione panica con la natura. Di tale sentimento fa una breve esperienza anche Dianella ne I vecchi e i giovani: “Il silenzio attorno era così attonito, e così intenso e immemore il trasognamento della terra e di tutte le cose, che a poco a poco se ne sentì attratta e affascinata. Le parvero allora gravati da una tristezza infinita e rassegnata quegli alberi assorti nel loro sogno perenne, da cui invano il vento cercava di scuoterli. Percepì, in quella intimità misteriosa con la natura, il brulichìo delle foglie, il ronzio degli insetti; e non sentì più di vivere per sé; visse per un istante quasi incosciente, con la terra, come se l’anima le si fosse diffusa e confusa in tutte le cose della campagna. Ah, che freschezza d’infanzia nell’erbetta che le sorgeva accanto! E come appariva rosea la sua mano sul tenero verde di quelle foglie! Oh, ecco un maggiolino sperduto, fuor di stagione, che le scorreva sulla mano… Com’era bello! Piccolo e lucido più d’una gemma” (VG, 138-139). La bellezza della natura non umanizzata, della campagna (popolata di erbe e piante, di lucertole e asinelli, che vivono senza trascinarsi il peso della coscienza e dell’individuazione) dipende dal fatto che, in essa, si è fuori dalla città, “da un mondo costruito: case, vie, chiese, piazze; non per questo soltanto, però, costruito, ma anche perché non ci si vive più così per vivere, come queste piante, senza saper di vivere; bensì per qualche cosa che non c’è e che vi mettiamo noi; per qualche cosa che dia senso e valore alla vita: un senso, un valore che qua, almeno in parte, riuscite a 228
perdere, o di cui riconoscete l’affliggente vanità. E vi vien languore, ecco, e malinconia. Capisco, capisco. Rilascio di nervi. Accorato bisogno d’abbandonarvi. Vi sentite sciogliere, vi abbandonate” (UNC, 774). Il deconcentrarsi della volontà dall’opera di mantenimento degli “argini”, con la connessa rinuncia al bisogno di un’identità rigida, può tuttavia concepirsi anche come una conversione (più che un rafforzamento) della volontà stessa. Non si è più obbligati a costruirsi una volta per tutte, a difendere a oltranza – con uno sproporzionato dispendio di energia rispetto agli iniziali vantaggi – l’inconsistente fantasma di un io unico e sovrano. La persona che rinasce attimo per attimo sente sollievo nel trasportare con sé leggere tende da nomade ed è lieta di essere esentata dal fabbricare pesanti edifici. Solo chi ha raggiunto questo stadio, chi ha rinunciato alla zavorra di rigidi concetti, può assaporare la freschezza del nascere e del morire in ogni momento, del vedere ogni cosa che “s’avviva nell’apparire”. Egli non si chiude più nella “prigione del tempo”, che – creato a ogni istante – non passa più, ma zampilla ininterrottamente, senza che la modificazione continua della coscienza abbia modo di ricadere in patologiche altérations de la personnalité. Nel quadro di una mistica naturalistica, fuori da ogni religione, Uno, nessuno e centomila termina – ma “non conclude”33 – con un mirabile passo sulla volontaria reclusione del protagonista nell’istituto di beneficenza che egli stesso ha fondato. Dalla campagna in cui è isolato, con lo spirito “fresco d’alba”, Vitangelo Moscarda ammira una natura priva di uomini, cercando di cogliere l’aspetto (e quasi il respiro) delle cose che si trasformano nel loro 229
graduale schiudersi alla luce. Il suo sguardo si posa dapprima su “quelle nubi d’acqua là pese plumbee ammassate sui monti lividi, che fanno parere più larga e chiara, nella grana d’ombra ancora notturna, quella verde plaga di cielo. E qua questi fili d’erba, teneri d’acqua anch’essi, freschezza viva delle prode”.34 Vaga poi su “quell’asinello rimasto al sereno tutta la notte, che ora guarda con occhi appannati e sbruffa in questo silenzio che gli è tanto vicino”. Dal lento o quasi impercettibile moto delle nuvole e del mondo vegetale e animale, passa infine a considerare la sofferenza delle cose, espressa nel loro muto linguaggio, come quello delle carraie incassate “tra siepi nere e muricce screpolate”, che si snodano “su lo strazio dei loro solchi” (UNC, 901). In questo cangiante stato di coscienza, che si è lasciato alle spalle ogni volontà di costruzione, Vitangelo – Lazzaro miracolato dalla propria scelta – risuscita a nuova vita, abbandonandosi allo sgranarsi di istanti senza ritenzione del passato e senza protensione verso il futuro. Incastona così l’eternità nel presente: “E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo” (UNC, 901-902). Annullando la barriera tra l’eterno e il transeunte, fissando il divenire piuttosto che l’essere, Vitangelo sfugge alla malinconia che scaturisce dall’idea del passare del tempo. A chi è giunto al suo livello di coscienza non servono più né l’irrigidimento della personalità nella corazza dell’“uno” – intessuta dalle maglie d’acciaio di una memoria che pretende di sconfiggere la fugacità dell’esistere trasformando il passato in presente –, né il complementare e 230
compensatorio sperpero di sé, la divisione in centomila, in spiccioli di personalità utilizzati per acquistare maschere effimere e per sfuggire a un destino comunque inevitabile: “Pensare alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori” (UNC, 902). Il supremo virtuosismo teorico e letterario di Pirandello consiste, in questo caso, nel rovesciare il significato dei dispositivi di esclusione o di autoesclusione della coscienza singola dalla società: da strumenti di sofferenza e di lacerazione si convertono in mezzi che procurano una gioia che non è di questa (o di altre possibili) civiltà, ma neppure di un mondo ultraterreno. Nello spogliarsi d’ogni ricchezza derivante dal denaro, Vitangelo ripete laicamente la scelta di san Francesco nei confronti del padre, così come questi aveva – a sua volta – imitato Gesù, ripetendo la paolina kénosis dell’Inno a Cristo contenuto nell’Epistola ai Filippesi (2, 6-8), accettando cioè lo “svuotamento” completo, la rinuncia a ogni pretesa di maestà o di glorificazione del proprio io individuale. Con l’abbandono di simili forme di cura di sé, anche Moscarda entra nella casa di riposo per anziani, palese luogo di transito da questo mondo all’altro. Più in generale, l’uomo di Pirandello, optando per la marginalità sociale, l’isolamento e l’apparenza di follia, riesce a schiodarsi dall’individuazione, strumento di tortura che – alla maniera della kafkiana Colonia penale – marchia ciascuno nella carne. Il livello più alto di liberazione che il personaggio pirandelliano riesce a raggiungere è, dunque, quello della perdita della memoria, del pensiero e della 231
coscienza, del sereno lasciarsi andare al divenire e al caos della vita senza più porsi delle domande.35 Dopo il dissolversi delle illusioni spontanee, ma forse con la costruzione di una nuova, seppur più innocua, illusione, solo così questo può avvertire il rinascere in ogni momento, la vita come “alba” perpetua (metafora di quella parte del giorno in cui i viventi e le cose escono dall’oscurità e cominciano ad assumere i primi, incerti, contorni, quasi avessero paura a manifestarsi). Così Mauro Mortare ne I vecchi e i giovani vede “quella prima luce del giorno che pareva provasse pena a ridestare la terra alle fatiche; guardò la distesa vasta dei campi, da cui tardava a diradarsi l’ultimo velo d’ombra della notte; poi si voltò a guardare il mare, laggiù, d’un turchino fosco, vaporoso, di tra le agavi ispide e i pingui ceppi glauchi dei fichidindia, che sorgevano e si storcevano in quella scialba caligine” (VG, 121). Come il protagonista di Canta l’Epistola, si può adorare la vita nelle sue forme più umili, provare “tenerissima pietà per tutte le cose che nascono alla vita e vi durano alcun poco […]. Quanto più labili e tenui e quasi inconsistenti le forme di vita, tanto più lo intenerivano, fino alle lacrime talvolta. Oh! In quanti modi si nasceva, e per una volta sola, e in quella data forma, unica, perché due forme non erano uguali, e così per poco tempo, per un giorno solo talvolta, e in un piccolissimo spazio, avendo, tutt’intorno, ignoto, l’enorme mondo, la vacuità enorme e impenetrabile del mistero dell’esistenza. Formichetta, si nasceva, e moscerino, e filo d’erba. Una formichetta, nel mondo! nel mondo, un moscerino, un filo d’erba. Il filo d’erba nasceva, cresceva, fioriva, appassiva; e via per sempre; mai più, quello; mai più!” (N, I, 448-449). Verso queste creature (il filo d’erba, 232
l’asino e persino le cose inanimate, veri e propri oggetti transazionali per adulti che, intenerendo, salvano dalla sofferenza) si può provare affetto, desiderio di protezione. Il giovane di Canta l’Epistola aveva seguito con apprensione il crescere lento di un filo d’erba, “lo aveva veduto sorgere dapprima timido, nella sua tremula esilità […]. E ogni giorno, per una o due ore, contemplandolo e vivendone la vita, aveva con esso tentennato a ogni più lieve alito d’aria; trepidando era accorso in qualche giorno di forte vento, o per paura di non arrivare in tempo a proteggerlo da una greggiola di capre” (N, I, 449).36 Ritirandosi nell’ospizio e contemplando le cose nel loro apparire alla luce lattiginosa dell’alba, Vitangelo Moscarda evita di riflettere sulla morte in quanto fine di tutto, perché ogni cosa incessantemente muore per rinnovarsi. Unicamente in questo modo può godere dell’avvivarsi dell’apparenza e trasformare l’illusione da simbolo barocco della caducità in un fulgore cangiante di fenomeni, nella voce muta o inarticolata, ma sommamente espressiva, di tutti gli esseri privi di parola e di pensiero che si sforzano, congelando le cose in concetti e immagini fisse, d’esorcizzare l’inesorabilità della fine. Il prezzo è alto: volontaria segregazione dal contesto sociale, allontanamento da tutte le conquiste della civiltà (nel doppio senso della città e della cittadinanza in quanto appartenenza a un consorzio umano), desiderio di non vivere più dentro se stessi, bisogno “vegetale” di diventare piante o pietre e di voltare le spalle alla coscienza. Questo bisogno è sintomaticamente acuto anche in D’Annunzio, che mira però a creare una “vita superiore”: “Forse, eccola la vita superiore: una libertà senza confini; una solitudine fertile e 233
nobile che mi avvolga nelle sue emozioni più calde; camminare tra creature vegetali come tra una moltitudine d’intelligenze; sorprenderne il pensiero occulto e indovinarne il sentimento muto che regna sotto le scorze; rendere successivamente il mio essere conforme a ciascuno di quegli esseri e sostituire successivamente alla mia anima gracile e obliqua ciascuna di quelle anime semplici e forti; contemplare con tal continuità la natura da giungere a riprodurre in me solo il palpito concorde di ciò che è creato; mutarmi, infine, per una laboriosa metamorfosi ideale, nell’albero eretto che assorbe con le radici gli invisibili fermenti sotterranei e imita con l’agitazione delle sue cime il mare. Non è forse questa la vita superiore?”.37 L’individuo si scioglie o si rattrappisce nelle manifestazioni minori della natura. Scopre una morte, un dolore, una malattia, una perdita di senso non più riscattati da remunerazioni terrene o ultraterrene. Pensa – per usare fuori contesto un’espressione schopenhaueriana – che la vita non sia altro che “un prestito fattoci dalla morte” (cfr. Schopenhauer, P, 939), un uscire dal nulla per ripiombare nel nulla: in questo senso, Pirandello è realmente “il cantore funebre dell’individuo”.38 Annullata la distinzione tra tempo ed eternità, il tempo gli si presenta, infatti, come distruzione irrevocabile e l’eternità come un mistico istante di sospensione del tempo, uno spiraglio che apre la possibilità della sua continua rinascita solo a chi si adatta a vivere alienato da tutto, rinunciando a coordinare la propria memoria e la propria temporalità con la dimensione cronologica pubblicamente condivisa. Pur sospettando la finale inanità di questo sforzo, solo così Vitangelo Moscarda è capace di cambiare segno alla caducità e alla disgregazione 234
della coscienza, di accettare quale strumento – non di dolore ma di gioia – la metamorfosi del tempo, lasciandolo semplicemente scorrere. Pietà per la vita La differenza tra Nietzsche e Pirandello – al di là d’ogni riscontro filologico (non sembra che lo conoscesse molto e le uniche volte che Pirandello lo cita, lo fa polemicamente, come esempio di adesione alle mode)39 – consiste proprio nel fatto che Moscarda vuole perdere se stesso. Al pari di Mattia Pascal diventato Adriano de Meis (e che dice dapprima di sentirsi solo, ma “sciolto nel presente d’ogni legame e d’ogni obbligo, libero, nuovo e assolutamente padrone di me, senza più il fardello del mio passato, e con l’avvenire dinanzi, che avrei potuto foggiarmi a piacer mio” [MP, 404]), Moscarda esce dal “gregge” rinunciando però a qualsiasi volontà di potenza e d’autoaffermazione, diventando appunto “nessuno”. Quest’atteggiamento, per decenni variamente modulato, mostra tutta l’ambigua complessità dei motivi che spingono Pirandello – al di là delle sue personali convinzioni politiche – ad aderire al fascismo. Gli episodi principali di questa scelta sono noti. Già in un articolo sull’“Idea nazionale” del 23 ottobre 1923, lo scrittore siciliano dichiara di ammirare il capo di questo movimento, perché, da una parte, “Mussolini sa, come pochi, che la realtà sta soltanto in potere dell’uomo di costruirla e che la si crea soltanto con l’attività dello spirito”, ma, dall’altra, egli ha anche “chiaramente mostrato di sentire questa doppia e tragica necessità della forma e del movimento”, ossia di plasmare e di dissolvere le forme nello stesso tempo.40 Con un suo tipico gesto, Pirandello aveva 235
inoltre preso la tessera del Partito Nazionale Fascista proprio nel momento in cui molti la nascondevano e la stracciavano, quando cioè Mussolini veniva pubblicamente incolpato di essere il mandante dell’assassinio di Matteotti. Eppure, appena un anno dopo l’iscrizione al Fascio, Pirandello (pur non ripudiando il suo credo politico) porta a compimento la figura, politicamente antieroica, di Vitangelo Moscarda, peraltro già abbozzata nel 1910. Si tratta di un essere che rinuncia a qualsiasi velleità di costruire o decostruire se stesso e gli altri e che vuole, per contro, demolire deliberatamente l’idea stessa di costruzione. Anche in questa circostanza Pirandello aderisce al “sentimento del contrario”, al fascino per la mistica unitaria di una nazione che vedeva corrotta e dilaniata in fazioni – atteggiamento ereditato dalle tradizioni filorisorgimentali di entrambi i rami della sua famiglia – e alla simultanea attrazione per il cupio dissolvi, per l’immersione in quella corrente infernale la cui vista può anche far morire o impazzire. Come dice in una lettera alla figlia Lietta del 30 luglio 1931: “Il mio animo è ormai alienato da tutto e non trova più contatto con nulla né con nessuno”. Certo è che, in Pirandello, la ribellione dei personaggi al disagio sociale non assume quasi mai dimensione politica. Resta, per lo più, incapsulata nei drammi della vita privata, in cui ciascuno è inchiodato ai parametri di una realtà casuale, non scelta. Pirandello accoglie la décadence nel suo nucleo più inquietante, nell’idea che alla base di tutto vi sia il caos orrendo e primigenio, che può essere contemplato – come nel mito di Perseo e la Gorgone – solo se riflesso nel lucido scudo dell’arte. Diversamente da quanti restano 236
immersi nella vita irriflessa, preda delle illusioni, Pirandello sa che tutte le forme e le strutture d’ordine non sono altro che stratagemmi, costruzioni artificiali della civiltà, prodotti dell’animale uomo, cui è necessario credere per vivere. Una volta ammesso questo principio (che a uno sguardo retrospettivo si mostra come l’assunzione più profonda comune a tutta la cultura finora esaminata) si introduce nella vita un potente corrosivo, un nichilistico generatore d’insicurezza e d’entropia, per cui ogni progetto di dar senso a un mondo, dichiaratone costituzionalmente privo, manifesta la sua irriducibile arbitrarietà. Pirandello scopre precocemente che morte, sofferenza, malattie, miseria restano irredente, non riscattate da alcuna remunerazione, politica o metafisica. Mostra così pietà per la vita, anche nelle sue manifestazioni apparentemente più ridicole, come quando constata che “quella vecchia signora” dai capelli ritinti, “tutti unti non si sa di quale orrida manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili”, non prova forse alcun piacere a presentarsi “come un pappagallo”. Anzi, “forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei” (U, in SPSV, 127). Questa pietà trova le sue radici nel comune destino di degradazione di tutte le cose belle e preziose: “[…] La vita ti diventa / un libro morto; l’amor ti diventa / una povera donna, e tutto il mondo / ti diventa una misera casetta. / Vivi in quella ma più non costruire” (TS, 17 [c. 7v]). Le lacrimæ rerum inondano non solo i viventi, ma anche la realtà inanimata: “La malinconia che invade le case di campagna verso sera; dove si sa che il lume che tra poco si 237
dovrà accendere è scarso, lume a petrolio, che si porta a mano da questa stanza a quella, come si vede da lontano, sparire da una finestra e ricomparire dall’altra” (TS, 71 [c. 35r]). Come già in Schopenhauer, tale pietà si accompagna tuttavia a una finale mancanza di rispetto per la vita, considerata “una molto triste buffoneria”, risultato di fragili costruzioni illusorie: “Chi ha capito il gioco, non riesce più a ingannarsi; ma chi non riesce più a ingannarsi non può prendere né gusto né piacere alla vita. Così è. La mia arte è piena di compassione amara per coloro che si ingannano; ma questa compassione non può non essere seguita dalla feroce irrisione del destino, che condanna l’uomo all’inganno” (L. Pirandello, Lettera autobiografica, in SPSV, 1286). Nell’eroico esercizio di discesa nel baratro dei conflitti dell’esistenza, Pirandello acquista una sempre più acuta consapevolezza del dolore di vivere, che assottiglia, sin quasi a scomparire, la distinzione tra animali e uomini, tutti in cerca di una nicchia o di una tana adatta e protetta: “Siamo ragni, lumache e molluschi di una razza più nobile – passi pure – non vorremmo una ragnatela, un guscio, una conchiglia – passi pure – ma un piccolo mondo sì, e per vivere in esso e per vivere di esso. Un ideale, un sentimento, una abitudine, un’occupazione – ecco il piccolo mondo, ecco il guscio di questo lumacone o uomo – come lo chiamano. Senza questo è impossibile la vita”.41 Se manca un habitat confacente, se si rimane come “un uccello senza nido”, appare allora inevitabile comportarsi alla maniera di Vitangelo Moscarda (o dei protagonisti delle novelle Il filo d’erba, Canta l’Epistola o L’uomo dal fiore in bocca): confondersi con la natura nei suoi aspetti più umili, 238
diventare nuvola e vento, rinunciare ai progetti di differenziazione e articolazione dell’io all’interno della società, voltare le spalle alla coscienza e alla vita.42 Tanto – come è detto in un appunto del Taccuino di Harvard – l’enigma dell’esistenza non ha risposta: “Noi spesso chiediamo a le stelle il perché della vita e della morte; ma le stelle col loro incessante tremulo palpitìo par che invece lo chiedano a noi, a noi povere minuscole creature della Terra” (TH, 122-123 [c. 64v]).
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7. L’individualismo delle differenze: Georg Simmel
Combinazioni d’identità In direzione opposta rispetto a Pirandello si muove la ricerca di Simmel, tutta tesa a liberare l’individuo dalle “trappole della vita” e a trasformare i condizionamenti sociali in possibili occasioni di crescita personale. In età moderna, infatti, l’individuo occidentale si è per lui emancipato dalla sua precedente chiusura entro cerchie ristrette e difficilmente valicabili (caste, ceti, corporazioni) ed è uscito dall’incapsulamento in sfere di vita sostanzialmente concentriche e gerarchicamente ordinate (famiglia, professione, stato, chiesa). Non più inchiodato a un ruolo fisso, come membro di un clan, di una classe o di un mestiere, si differenzia ora grazie alla partecipazione ad ambiti sociali eccentrici, aperti e lontani tra loro, ciascuno dei quali dà adito ad altre esperienze e veicola nuovi percorsi. In particolare, l’individuo metropolitano – intreccio variabile di realtà date e di possibilità costruite – è inquadrato dallo specifico e complesso intreccio delle comunità e associazioni cui afferisce: “I gruppi ai quali appartiene il singolo formano per così dire un sistema di coordinate, tale che ogni nuovo gruppo che si aggiunge determina il singolo nel modo più preciso e univoco. 240
L’appartenenza a un solo gruppo per volta lascia ancora un ampio margine all’individualità; ma quanto più si accresce il loro numero, tanto più improbabile è che altre persone mostrino la stessa combinazione di gruppi e che le numerose cerchie si incrocino ancora una volta in un solo punto” (SD, 122 e cfr. 119 sgg.). Pur avendo in comune con i suoi simili le singole cifre della combinazione, l’individuo diventa tanto più se stesso, quanto più ingloba tratti di universalità condivisi dai suoi simili, quanto più allarga il ventaglio delle possibili componenti della propria personalità, senza però esaurire la sua “unità non analizzabile, non deducibile da altro, non riconducibile ad alcun concetto superiore, posta all’interno di un mondo per il resto indefinitamente scomponibile, calcolabile, soggetto a leggi generali” (FL, 187). L’identità è mantenuta “dalla combinazione delle cerchie, che può essere diversa a seconda dei casi. La civiltà avanzata allarga sempre più la cerchia alla quale apparteniamo […] ma in compenso responsabilizza in maggior misura l’individuo, privandolo di alcuni sostegni e di alcuni vantaggi della cerchia ristretta e chiusa: allora ogni creazione di cerchie e di consociazioni, nella quale può ritrovarsi una quantità qualsiasi di uomini interessati a uno stesso scopo, equilibra quell’isolamento della personalità che scaturisce dalla rottura con i limiti ristretti di condizioni precedenti” (SD, 126). Il singolo si autonomizza, raggiunge una propria riconoscibile stilizzazione, ma non può conseguire né l’assoluta originalità (cosa peraltro assurda), né l’assoluta omologazione o conformità agli altri (non si scioglie completamente nella folla o in qualsiasi entità collettiva). Le minori costrizioni cui l’individuo moderno è sottoposto possono, tuttavia, 241
produrre effetti indesiderati e lasciare “un margine maggiore alle formazioni e alle deformazioni estreme dell’individualismo, all’isolamento misantropico, alle forme di vita barocche e capricciose, all’egoismo crasso” (SD, 62). Eppure, malgrado gli inconvenienti, i vantaggi di questo processo di liberazione dell’individuo dall’oppressione della collettività sono incontestabili. Durante il Rinascimento italiano, il distacco del singolo dalle sfere comunitarie medioevali si manifestò dapprima in maniera apparentemente bizzarra: a Firenze, ad esempio, per alcuni anni ciascuno affermò se stesso vestendosi alla sua propria maniera, senza seguire alcun modello. Intendeva “fare colpo, voleva presentarsi in modo più favorevole, più degno di attenzione di quanto fosse possibile nelle forme usuali. Ciò che qui entra in gioco è l’individualismo della distinzione, connesso all’ambizione dell’uomo rinascimentale, al suo imporsi senza riserva alcuna, all’enfatizzazione del valore dell’essere-unico” (IF, 42 e cfr. I, 63). Una volta sottolineata, l’individualità si inserisce di nuovo, anche simbolicamente, nella collettività, favorendo nel tempo la maturazione di un “individualismo della diversità” (IF, 51). Se l’individuo diventa virtuale luogo d’incontro tra più sfere sociali reali, solo conoscendo la particolare cifra della sua combinazione si riesce a comprenderlo e ad “aprirlo” come una cassaforte. La sua forma è, infatti, il risultato della particolare intersezione di più aree comuni, il prodotto caratteristico di una imprevedibile simbiosi di elementi sottoposti a peculiare elaborazione. Andando contro una consolidata tradizione filosofica, la forma non è connessa in Simmel all’universale, ma all’individuale: “Forma è individualità […]. La forma, 242
questa vera unicità metafisica, individualizza il suo contenuto concreto”.1 L’individualità stessa non è sussumibile sotto una qualsiasi legge, proprio perché in età moderna si è progressivamente sottratta alla dipendenza diretta dai macrosoggetti collettivi (stato, chiesa, nazione, stirpe, classe) che avevano preteso di assorbirla in condizioni di monopolio o di oligopolio politico, religioso ed etico. Non ubbidisce né a una logica totalizzante, in grado di subordinarla a imperativi di valore universale, né a una logica puramente conflittuale, di esclusione e di isolamento dal contesto della società. Sul piano morale, questo significa che non ha bisogno né di sottomettersi kantianamente a una legislazione universale, a un imperativo categorico astratto, né di cadere nell’anomia soggettivistica più estrema. Per quanto l’espressione appaia controintuitiva, deve seguire unicamente la propria “legge individuale”.2 Questa ha la sua icona nel volto inconfondibile di ognuno, il luogo simbolico più espressivo che si conosca, dotato di sfumature che possono moltiplicarsi all’infinito e in cui i più piccoli movimenti riescono a modificare il tutto: “Non c’è […] nel mondo visibile, alcuna struttura che, come il volto umano, riesca a convogliare una così grande varietà di forme e di superfici in una così incondizionata unità di senso”.3 Un corrugamento della fronte, un arcuarsi delle sopracciglia, un impercettibile contrarsi delle labbra, un allentarsi delle mandibole: tutto è significativo secondo un’ermeneutica che abbiamo appreso sin dall’infanzia, prima ancora del linguaggio parlato. Nel viso si depositano i segni che l’età, l’abitudine, i caratteri vi hanno impresso, quanto dell’individuo “è disceso nel fondamento della sua vita ed è diventato in lui un insieme di tratti permanenti” (S, 243
552), concentrando per lo sguardo un massimo di tempo in un minimo di spazio. A differenza dell’orecchio, che registra soltanto fenomeni temporali, l’occhio offre anche l’aspetto durevole dell’essenza dell’uomo, “il precipitato del suo passato nella forma sostanziale dei suoi tratti, cosicché noi vediamo, dinanzi a noi, per così dire, la successione della sua vita in una contemporaneità” (ibid.). Il volto permette di leggere, nella dimensione del simultaneo e del globale, il successivo che si è depositato, rivelando una storia (Historie), diversa da tutte le altre, che “isola proprio le singole serie, respinge la totalità della vita, nella quale ogni serie si intesse con l’altra, e simula in qualche modo una vita i cui contenuti sono allineati sul filo di un unico concetto” (HF, 66). Nel cuore della periferia Avendo l’opportunità di comporre se stesso a partire da un ampio spettro di combinazioni e di contingenze, il singolo può realizzarsi sia stringendo, sia allentando i propri legami con gli altri. Può dunque aprirsi a ulteriori sfere sociali o isolarsi, scegliere – se e quando vuole – tra un più intenso coinvolgimento e un più accentuato distacco dai propri simili. Le società moderne gli mettono a disposizione istituzioni e gruppi suscettibili di soddisfare la maggior parte delle sue inclinazioni, ma gli concedono anche, nello stesso tempo, oasi di solitudine tra i più trafficati crocevia degli scambi interpersonali. Ognuno è così in grado di dosare il suo coefficiente di intima partecipazione alle vicende collettive o di misurare la sua presa di distanza da esse. Non gli si chiede, in assoluto, né di sincronizzarsi con la grande Storia, né di fuggirla, ma, piuttosto, di intrecciare la sua esistenza agli eventi mentre accadono, di inserirsi nella 244
corrente della vita, accettandone l’incessante mutevolezza. La moda, sismografo e allegoria delle rapide trasformazioni dei tempi moderni, rappresenta le forze composite che spingono tutti a immergersi nel vortice dell’attualità: “La rottura con il passato […] rende sempre più acuta la coscienza del presente. Questa accentuazione del presente è evidentemente allo stesso tempo un’accentuazione del cambiamento” (MO, 37-38). Nel modulare se stessi attraverso la combinazione dei possibili, si ottiene un virtuale incremento della libertà dell’individuo. I condizionamenti e le obbligazioni, ovviamente, non scompaiono, ma il loro peso viene ripartito su piani diversi, lasciando al singolo un margine discrezionale più ampio nella scelta della propria collocazione: “In una parola, libertà e vincolo si distribuiscono in modo più omogeneo quando la socializzazione, invece di costringere le componenti eterogenee della personalità in una cerchia unitaria, garantisce piuttosto la possibilità che l’elemento omogeneo si ricomponga partendo da cerchie eterogenee” (SD, 128). Ed è, appunto, la molteplicità elastica di legami e di forme di dipendenza che permette all’individuo di destreggiarsi e di ritagliare al loro interno nuovi spazi di autonomia. Aggirando l’opposizione di Benjamin Constant tra antichi e moderni, la libertà non consiste più nell’attiva partecipazione alla vita politica o nella strenua difesa della sfera privata dall’interferenza di quella pubblica, ma nella partecipazione a una pluralità di cerchie, con la clausola di non essere interamente assorbiti da alcuna o leali esclusivamente a essa (il che significa, fra l’altro, che la sociologia simmeliana non privilegia, alla maniera di Comte 245
o di Durkheim, la società nei confronti dell’individuo, né, alla maniera di Weber, l’individuo rispetto alla società).4 In questo nesso, continuamente riformulabile, tra identità personale e differenziazione sociale la personalità perde il suo immaginario carattere monolitico, perché non le si chiede più di ancorarsi a modelli esclusivi, ‘monoteistici’, ma anche di non rinunciare ai legami sociali (anzi di moltiplicarli). In questo, Simmel, come per altri versi William James, differisce da Le Bon e dalla nascente psicologia delle folle: riconoscendo la differenziazione e la libertà della coscienza individuale, rifiuta la sua manipolazione dall’alto (cfr. più avanti, pp. 197 sgg.). Eppure, come sempre in Simmel, non esistono processi univoci o monocausali. Alla differenziazione si oppongono, in controtendenza, energie che inducono al livellamento, tipico della civiltà di massa: “Nessuno disconoscerà che lo stile della vita moderna, proprio per il suo carattere di massa, per la sua molteplicità precipitosa, per la sua tendenza a eguagliare al di là di ogni limite innumerevoli caratteristiche prima conservate, ha condotto a inauditi livellamenti proprio della forma personale della vita”.5 La libertà stessa nasce dal conflitto tra appiattimento conformistico e desiderio di essere se stessi, con vittorie e sconfitte, di distinguersi da tutti gli altri pur attraversando, eventualmente, un’analoga molteplicità di sfere di vita. Essendo priva di centro, l’identità personale moderna si forma in maniera meno spontanea rispetto al passato, diventa una lunga campagna di conquista di se stessi, con vittorie e sconfitte destinata a rimanere sempre incompleta, asintotica, in divenire, ma appunto per questo più indipendente. 246
Ormai nessuno, del resto, si contenta facilmente di quello che è: cerca la pienezza e il significato della propria esistenza anche in un altrove insituabile nella serie dei luoghi e degli eventi in cui si trova normalmente implicato, ossia nell’avventura, dove l’io riesce tanto più ad articolarsi e a espandersi, quanto più diventa indeterminato. L’avventura è infatti un impaziente abbandonarsi al caso, accompagnato dalla sensazione di crescente rinnovamento di se stessi: in una sorta di incipit vita nova, ci si guarda con meraviglia, stupiti dal constatare che si stanno vivendo in prima persona esperienze che sembrano appartenere a qualche altro (cfr. A, 16). Diventando provvisoriamente irriconoscibile rispetto al passato, contraendo molteplici eventi in lassi di tempo apparentemente brevi, accorgendosi di essere nomade e sradicato da se stesso, l’io si potenzia e si esalta. Ciò lo rende simile a Venezia, che “ha l’equivoca bellezza dell’avventura, che ondeggia nella vita senza radici, come un fiore strappato dal mare” (V, 195). La forma dell’avventura consiste “nell’uscir fuori dall’insieme concatenato della vita” (A, 15), da un’esistenza stagnante, priva di scopi e di intima soddisfazione. Abbandonarsi all’avventura significa aborrire il ristagno della propria vita, consegnandola a una magnifica incertezza agitata da inconsuete passioni, entrare in una specie di ékstasis o di parentesi temporale, in grado di proiettare l’individuo fuori di sé e di isolarlo dalla monotona successione di attimi opachi, di risarcirlo del suo essere obbligato a vivere nel mondo senza sorprese della routine, mettendolo però di fronte, grazie proprio all’eccezione, alla “vita nella sua totalità”.6 L’avventura attrae perché unisce provvisoriamente due aspirazioni contraddittorie: fa sentire 247
a proprio agio in un mondo estraneo e al centro quando ci si spinge nella periferia della vita: “È una felicità indicibile essere di casa in qualche luogo straniero. Questa situazione è, infatti, una sintesi di entrambe le nostre nostalgie: quella dell’andare e quella del ritorno, una sintesi di divenire e essere” (T, 21). Con una logica estemporanea dell’improbabile – che ha tratti morfologici analoghi a quella utilizzata da Freud nell’Interpretazione dei sogni – è appunto ciò che è straordinario a dover rappresentare la norma e quel che appare altrimenti marginale a essere percepito come decisivo per la propria rigenerazione e rinascita. Nell’avventura l’individuo avanza con una “sicurezza da sonnambulo” (T, 21), segue una voce che vibra nelle cavità della sua coscienza, ma che pare giungere a lui da un io più grande e – in parte – estraneo al suo. Da qui la meraviglia che si avverte dinanzi al realizzarsi di possibilità ritenute remote e il fascino che promana dall’osservare come, con doppio movimento, i nostri interessi e desideri, in precedenza emarginati, si spostano verso il centro, proprio mentre la nostra vita abituale retrocede verso la sua periferia. L’aspirazione a vivere in tempi e spazi virtuali si accoppia con l’oscura e paradossale consapevolezza che l’altrove è già qui, che l’ad-ventura, il muoversi verso le cose future, è contenuto nel presente, nel fulmineo trascorrere delle esperienze, e che ciò che si dimostra dapprima estraneo o straniero è già in noi, è anzi noi. Si aggira così la normale estraneità che proviamo dapprima nei confronti di ogni altro individuo umano, da cui siamo separati da un “profondo scarto metafisico”, un’estraneità che ci fa sentire la solitudine anche nei confronti delle persone che ci sono 248
più vicine, che è però vinta dall’amore, in quanto esso “non elimina l’esser per sé dell’io né quello del tu, anzi, ne fa il presupposto in base al quale si compie l’eliminazione della distanza, del ripiegarsi egoistico della volontà di vivere su se stessa” (FL, 161). L’essenziale si annida nell’inessenziale, così che il centro dei nostri interessi gravita nella periferia della vita consueta. Un provvisorio appagamento, un ubi consistam, si incontra solo nell’ulteriorità cui siamo, a ogni momento, rinviati e dove siamo provvisoriamente invitati a sostare, prima di riprendere il cammino: nelle esperienze laterali, nell’eccentrico, nelle possibilità insature che ci vengono incontro senza alcun ordine.7 Ecco perché l’arte – al pari dell’avventura o del denaro – rappresenta per Simmel l’elemento fittizio, virtuale, in grado di introdurre a mondi racchiusi, in absentia, dentro la materialità dei supporti (tela, marmo, carta-moneta). Attraversando spazi logicamente intransitabili, varchiamo la parete dello specchio che separa il reale dall’immaginario, penetrando in un mondo senza spessore che appare più sensato di quello in cui, tridimensionalmente ed effettivamente, viviamo. Si aprono impreviste e improbabili finestre di senso, ritagliate nella stessa realtà, che – con la verosimiglianza attribuita loro dai desideri – mettono a dura prova l’affidabilità dei nostri abituali parametri di riferimento. Siamo sospinti verso un settore di irrealtà verace (o di derealizzazione) che soddisfa, verso un’illusione più vera di ogni realtà che ci circonda (non vera in senso percettivo o logico, ma in quanto ci sta maggiormente a cuore, dato che la intuiamo come meta di aspirazioni inestirpabili, categoriche). L’ambito della virtualità indica zone di esperienza possibile 249
che ci sono, come nel sogno, stranamente familiari pur non avendole mai esperite. In questo senso, l’avventura è imparentata al sogno, a situazioni che – ponendosi al di fuori di una continua e riconoscibile catena di eventi – indeboliscono, simultaneamente, sia la consapevolezza dell’io, sia il suo sentimento della realtà. I sogni, infatti, si dimenticano rapidamente perché non si incastrano tra loro in configurazioni significative di senso, non riescono a formare una storia coerente, anche se intercalata da interruzioni, come accade invece nella vita da svegli. L’avventura ha dunque carattere onirico, proprio in quanto le sue connessioni con il resto dell’esistenza sono più labili e meno numerose.8 Anche in questo caso – come nei fenomeni di depersonalizzazione o nel déjà vu –, l’impressione di irrealtà che essa sprigiona pare alludere a un’esperienza emotivamente più piena e a un soggetto inconsueto, che stenta a riconoscere se stesso. Nel nostro temporaneo avvertirci stranieri o in esilio in questo mondo, tendiamo ai non-luoghi dell’avventura come a una patria lontana. Siamo sempre in transito, in itinere, solo che in tale cammino manca qualsiasi télos. Per questo l’umanità moderna, nel suo insieme, sembra in Simmel costituire un’agostiniana civitas peregrinans, che però non sa dove dirigersi, che cerca “il punto di passaggio di un vagabondare che dall’indeterminato procede verso l’indeterminato, che ama le vie senza le mete e le mete senza le vie”.9 Il sentirci nel sogno (di cui siamo sì gli involontari registi, ma di cui non decidiamo né il testo né lo svolgimento) identici a noi stessi eppure estranei, la meraviglia che ci coglie percorrendo le anomalie dall’avventura, l’alterità inglobata ma non consumata dello “straniero” che è in noi10: 250
tutte queste premonizioni alludono a un’altra vita più degna, a una gemma incastonata nel quotidiano, a enclaves di extraterritorialità rispetto alla vita normale. Analogamente alla cornice, che svolge simultaneamente la funzione di sintesi e di esclusione, estromettendo dal quadro lo spazio non artistico e creando un altro spazio e un altro tempo racchiusi in se stessi (cfr. BR, 101-102), anche le esperienze davvero significative si difendono dall’ingerenza della banalità ritagliandosi delle ‘riserve’ di senso, allacciando altrimenti la normale trama dei fili della sensazione, del pensiero e dell’emozione per poi ritesserli a un diverso livello di complessità. Si entra in un paradossale “terzo regno” (cfr. MI, 167), che non è né interiorità né esteriorità, né dentro il mondo né fuori dal mondo (caratteristica, questa, significativamente assegnata al corpo umano, che sta all’anima come la cornice sta al quadro, cfr. MI, 105).11 La ricerca di uno spazio virtuale nella vita del singolo non rappresenta soltanto una compensazione per il peso opprimente dell’oggettività nel mondo moderno. Esprime anche l’accresciuto bisogno di consumazione dei possibili in “uno spreco suntuoso”, in una sorta di dépense nel senso di Bataille: “Il fascino che innumerevoli esperienze di vita esercitano su di noi” sembra “sia determinato nella sua intensità dal fatto che per esse lasciamo inesplorate infinite possibilità di altri godimenti e di occasioni per affermare noi stessi. Non soltanto nel passarsi accanto degli uomini nella loro separazione dopo un breve contatto, nella completa estraneità verso innumerevoli esseri a cui potremmo dare, che ci potrebbero dare moltissimo; in tutto ciò non si manifesta soltanto uno spreco suntuoso, una incurante grandeur dell’esistenza. Da questo valore specifico del non 251
godimento scaturisce anche un fascino nuovo, più intenso e più concentrato nei confronti di ciò che effettivamente possediamo, il fatto che proprio questa si sia realizzata tra le tante possibilità della vita le attribuisce un tono di vittoria, le ombre della ricchezza inespressa e non goduta della vita formano il suo corteo trionfale” (PhG, 229-230). Questo significa, però, che ogni realizzazione è accompagnata anche da fallimenti, che trascina nella sua marcia una lunga fila di vinti e sconosciuti. In un periodo in cui la tecnica segna il dominio della “periferia della vita” (PhG, 678), moltiplica cioè i sistemi di oggettivazione delle attività “spirituali” strappate al diretto controllo del soggetto, cresce anche l’indeterminazione degli individui e – assieme a essa – la frammentazione incomponibile dei dati dell’esperienza, la “dissoluzione dei contenuti saldi nell’elemento fluido dell’anima, che viene depurata da ogni sostanza e le cui forme sono soltanto forme di movimenti”.12 L’indeterminazione coincide con una possibile estensione dell’area della libertà, o, per lo meno, è analoga al denaro, fattore di potenzialità a largo spettro, emotivamente attraente, proprio perché non si è ancora realizzata, ma il cui perseguimento richiede l’elaborazione di precise strategie. Se libertà e vincoli assumono la forma simbolica del denaro e della sua dinamica universalità, l’apertura verso i possibili può sussistere solo fino a quando essi rimangono condensati nella loro “spendibilità” chiusa in se stessa. Il denaro è, virtualmente, tutte le cose, l’epitome di ogni desiderio, “l’unico prodotto culturale che è pura forza”, ma rappresenta anche una metafora dei processi di dissoluzione inerenti alla vita e del distacco dell’oggettività dalla dimensione personale.13 In questo senso, denaro, arte, 252
sogno, avventura costituiscono per il singolo forme ambigue di ricchezza che non producono necessariamente un maggior benessere. Possono – e in ciò sta il loro aspetto tragico – condurlo anche alla rovina. Sebbene sia “sorprendente quanto poco del dolore degli uomini sia entrato nella loro filosofia” (T, 20), il tragico si affaccia anche al livello del pensiero puro, della logica. Ma lo fa in forma rovesciata rispetto al denaro: “Ciò che si potrebbe chiamare il tragico della formazione umana dei concetti: che il concetto più alto debba pagare l’ampiezza con cui comprende un crescente numero di particolari con il vuoto crescente del suo contenuto, trova nel denaro la sua perfetta, pratica immagine invertita, cioè la forma di esistenza, i cui lati sono la validità generale e la mancanza di contenuto, è divenuta nel denaro una potenza reale, il cui rapporto con tutta la contraddittorietà degli oggetti di scambio e dei loro annessi spirituali va spiegato in ugual misura come servire e come dominare” (T, 323). Il mondo è gremito di possibilità abortite, sprecate o non adeguatamente sfruttate, di aspettative deluse, stravolte o negate. Nella capacità o incapacità di attivare ciò che esiste in lui soltanto in modo latente l’individuo manifesta tanto la cultura, quanto “la tragedia della cultura”, ossia, in questo caso, l’impossibilità di realizzare in misura sufficiente i desideri verso cui tende. Proprio perché la tastiera dei possibili è talmente estesa, ciascuno ha l’opportunità – non sempre colta, non sempre felice – di realizzarsi.14 Per sfuggire alla vertigine della modernità, senza cadere nello scetticismo più radicale, occorre (dice Simmel all’inizio di un abbozzo autobiografico incompiuto) cercare la stabilità nella rete delle mutevoli azioni reciproche: “L’attuale 253
dissolvimento di tutto ciò che è sostanziale, assoluto ed eterno nel flusso delle cose, nella possibilità storica di mutamento, nella realtà puramente psicologica può però essere garantito contro un soggettivismo e uno scetticismo sfrenati, soltanto se si colloca al posto di quei valori stabili e sostanziali il vivente agire reciproco di elementi che a loro volta soggiacciono allo stesso dissolvimento all’infinito. I concetti centrali di verità, di valore, di oggettività, ecc. si mostrarono a me come azioni reciproche, come contenuti di un relativismo, che ora non significavano più l’allentamento scettico di ogni cosa stabile, quanto piuttosto la sicurezza contro questo, tramite un nuovo concetto di stabilità” (BD, 9). Non trovando più “qualcosa di definitivo al centro dell’anima”, l’individuo cerca nel marginale quei momenti d’essere, quel calore della soggettività cui invano aspira restando nel freddo mondo dell’oggettivazione. Avverte così la tragedia dello spirito, che ha toccato il suo culmine in età moderna, allorché la parte è cresciuta a dismisura rispetto al tutto in cui era inserita: “Il singolo desidera essere una totalità, mentre la sua appartenenza a una totalità più grande gli concede soltanto un ruolo secondario. Noi sperimentiamo il nostro centro contemporaneamente fuori di noi e in noi, perché noi stessi, e la nostra opera, siamo meri elementi di totalità che richiedono una specializzazione unilaterale in conformità alla divisione del lavoro, mentre noi vogliamo essere e creare qualcosa di compiuto e di indipendente” (PhL, 73). Questo vorticante mondo di possibili ancora nella mente dell’io non implica soltanto un affollarsi di candidature all’effettualità. Esistono desideri del possibile che non si 254
concreteranno mai, come l’aspirazione ad abitare gli spazi e i tempi simbolici intravisti grazie alle opere d’arte, in cui la virtualità precipita nell’hic et nunc di una strana e paradossale oggettivazione soggettiva, che appartiene alla materialità sensibile del colore o del marmo, ma rinvia a ciò che è atemporale e spazialmente insituabile. Nei paesaggi di Böcklin, ad esempio, “tutto è come negli istanti del meriggio estivo, quando la natura trattiene il respiro, quando il corso del tempo si coagula. La sfera nella quale ora ci sentiamo non è l’eternità nel senso di una durata immensa, dunque non è l’eternità in senso religioso; ma è semplicemente il cessare delle relazioni temporali. Allo stesso modo diciamo eterna una legge di natura non perché esista da gran tempo, ma perché la sua validità non ha assolutamente nulla a che fare con il prima e con il poi”.15 In tutti i quadri di Böcklin traluce, più in generale, la quiete, l’immobilità, la compiutezza di un eterno presente o di un’eterna giovinezza.16 Anche per loro tramite, comprendiamo il fascino dell’arte nel presentarci una specie di non-luoghi, dove è possibile liberarsi dalle catene del mondo, senza tuttavia sfuggirlo. Secondo una tradizione leibniziana e goethiana, in essi ciascuno sente di non appartenere interamente e definitivamente a questo mondo, intuisce che la propria coscienza ha la natura di una monade, semplice e indistruttibile, eterna, di un’entelécheia, o, in termini schopenhaueriani, che la propria identità personale si fonda sulla volontà, che è fuori dal tempo, dallo spazio e dalla concatenazione di cause ed effetti.17 Al pari del sogno e dell’avventura, l’arte ci situa “al di là della vita intesa come realtà” (A, 17), ci fa giungere sempre al suo cuore, giacché essa – di nuovo con un’espressione di 255
Schopenhauer – è “ovunque alla meta”, rappresenta una totalità in sé conchiusa, un altro mondo, separato da quello reale, eppure allusivamente legato a esso, in un gioco di reciproche trasformazioni da cornice in quadro e da quadro in cornice. Arte, sogno, avventura ‘schiodano’ il singolo dalla sua identificazione con un ruolo sociale e da forme di individuazione rigida, mostrandogli il carattere polimorfo e mutevole della vita oltre lo stadio di volta in volta raggiunto. La realtà vera è nella derealizzazione. Parafrasando Pirandello, si potrebbe dire Rimedio: l’avventura.18 Nell’allontanarsi periodicamente da quella vita cui è legato, intimamente avvertita come accidentale, l’individuo riassume più vite possibili. Da qui, forse, anche l’interesse ‘agonistico’ di Simmel per Schopenhauer (filosofo che considera l’individualità come puro fenomeno); da qui i suoi richiami alla plausibilità psicologica della teoria della trasmigrazione delle anime, come sintomo della resistenza a credere che la nostra “anima” attuale abbia in sé la sua ragion d’essere e come generalizzazione e bizzarro specchio deformante di vissuti banali. Questa teoria, infatti, non è altro che “un’amplificazione grottesca, una concezione più radicale e più assoluta, di una esperienza quotidiana della vita consueta. Le modificazioni che avvengono in noi nel corso della nostra vita fra la nascita e la morte sono a volte non meno lontane l’una dall’altra di quanto siano fra loro l’esistenza umana e alcune esistenze animali” (TU, 166). I generi dell’io Simmel – unico filosofo moderno a mettere in luce la differenza di genere nella formazione dell’individualità e a prendere filosoficamente in esame la novità epocale dei processi di emancipazione della donna19 – ha visto nel 256
mondo femminile, e nella sfera dei sentimenti che lo contraddistinguono, un esempio eminente di nuova, ardua scansione dei possibili.20 Con la mente forse rivolta anche ai personaggi di Fontane e di Ibsen, egli osserva come la donna realizzi la propria emancipazione in maniera diversa dall’uomo. Attraverso la tecnica, in particolare grazie alla diffusione di alcuni meccanismi ausiliari dei lavori domestici (la prima macchina da cucire entra in produzione intorno al 1845, mentre gli elettrodomestici fanno la loro comparsa all’inizio del Novecento), la donna si sente esonerata, in determinati strati sociali, dalle mansioni più pesanti o da quelle che richiedono maggior dispendio di tempo. Le si spalancano così, all’improvviso, opportunità inattese, lunghi intervalli di tempo privi di impegni pressanti, dei quali non sa però ancora avvalersi. Da qui, anche, il ricorrente fenomeno del bovarismo, il diffondersi dell’avventura erotica al femminile, il raffinarsi della civetteria come “velatura spirituale”, di cui la donna si serve per giocare con gli uomini e con se stessa, promettendo e tirandosi indietro, attraendo e respingendo, negandosi e offrendosi, decidendo ed esigendo di mantenere aperta la rinegoziazione dopo ogni decisione, perché in lei “il sì e il no si mescolano inseparabilmente” (cfr. K, 74-79; MB, 36-37). Nelle società contemporanee il matrimonio, in quanto istituzione che si oggettiva in norme e obblighi, non si è evoluto alla stessa velocità dello spirito soggettivo dei coniugi, più insofferenti dei vincoli che si sono imposti nel passato e più inclini a pensare che “il primo dovere dell’amore è di non far derivare da esso alcun diritto” (MB, 97). Nella relazione tra i sessi – che è la più tragica di tutte, perché avvolge la vita nelle rutilanti vesti dell’ebbrezza e 257
dell’illusione e perché l’amore “si accende solo di fronte all’individualità e s’infrange di fronte all’insuperabilità di essa” (FL, 207) – la donna avverte un maggiore disagio, anche perché la liberazione dalle fatiche domestiche non si è tradotta in una maggiore soddisfazione soggettiva, in aumento del tempo di vita sensata: “Moltissime donne della classe borghese hanno visto sfuggire il contenuto attivo della vita senza che con altrettanta rapidità altre attività o altre mete siano subentrate nel posto rimasto vuoto: la frequente ‘insoddisfazione’ delle donne moderne, l’inutilizzabilità delle loro forze che retroagendo provocano tutta una serie di turbamenti e di distruzioni, la loro ricerca, in parte sana e in parte morbosa, di conferme in un ambito esterno alla casa, è il risultato del fatto che la tecnica nella sua oggettività ha preso un cammino proprio, più rapido della possibilità di sviluppo delle persone. Da una situazione di questo tipo deriva il carattere spesso insoddisfacente del matrimonio moderno […]. Per usare una formula, lo spirito oggettivo del matrimonio si sarebbe sviluppato più lentamente dello spirito soggettivo” (PhG, 654-655). Simmel giunge persino a formulare l’ipotesi per cui lo “spirito soggettivo”, non trovando più il suo corrispondente nell’attuale istituzione del matrimonio, sarà nel futuro spinto a superarla, alla ricerca di altri valori dell’amore al di là della sua durata: “Sulla base di alcuni sintomi, si sarebbe piuttosto indotti a concludere che il processo di differenziazione della cultura moderna separerà sempre più nell’amore la qualità della durata dalle altre, e concederà a queste ultime un’esistenza sempre più indipendente da quella. Se fosse vero, ciò costituirebbe forse l’elemento più intimo e profondo che spinge a una trasformazione della nostra forma odierna di 258
matrimonio, probabilmente in vista di nuove configurazioni la cui natura oggi nessuno può presagire, né tanto meno profetizzare, così come all’epoca della schiavitù, nell’antichità classica, non si sarebbe potuto immaginare il lavoro salariato dell’industria meccanica” (FPhdL, 55). Di per sé la donna sarebbe più propensa a far durare i legami personali, più a suo agio nell’“essere” che nel “divenire”, perché, in termini goethiani,21 Simmel pensa che la donna – per costituzione organica, in rapporto cioè alla maternità, e per plurimillenario condizionamento culturale – è più legata alla dimensione intensiva della chiusura in se stessa, che comprende anche la nuova vita che porta potenzialmente in sé, di quanto lo sia invece l’uomo, più abituato a realizzarsi nell’oggettività, a espandersi verso l’esterno, ad autonomizzare le proprie sfere di vita, le proprie facoltà e i propri vissuti: “Se mai si può esprimere con un’immagine la peculiarità della donna, la formulazione è questa: che la sua periferia è più strettamente collegata con il centro, le sue parti sono più solidali con il tutto di quanto non avvenga nella natura maschile”. Quest’ultima, al contrario, rende “la periferia indipendente dal centro”, dando autonomia a interessi e attività non direttamente collegati a fattori coagulanti (WK, 127-128, 132). La differenziazione e l’articolazione delle sfere psichiche – effetto principale della divisione del lavoro sociale ed essenza della modernità – appare indubbiamente più avanzata nell’uomo, anche se questo non autorizza affatto a proclamarne la superiorità sulla donna. Certo, in termini popolari, il valore del frutto (del maschio) appare superiore a quello del fiore (della donna), ma “ciascuno stadio dello sviluppo, in quanto è uno stadio determinato, ha in sé la 259
propria norma, in base alla quale si misura il grado del suo compimento, e non subordina tale norma a uno stadio diverso semplicemente perché è successivo e in qualche modo mutato” (WK, 129). Dobbiamo, dunque, acquisire un altro linguaggio per definire il carattere unitario dell’essenza del femminile, “che forse esprimiamo con concetti negativi come indifferenziazione, mancanza di obiettività e così via, solo perché nei loro aspetti fondamentali la lingua e la formazione dei concetti sono modellate sull’essenza maschile” (WK, 131). Dato che le donne sono più “astoriche”, più restie a separare e isolare aspetti della propria vita o della propria interiorità dal carattere unitario della loro personalità, in esse l’adulterio ha una natura “più totale”. Coinvolge, in genere, tutto il loro essere, a meno che non succeda – come nel Rinascimento – che l’individualità femminile si sia talmente rafforzata e diversificata da avvicinarsi al tipo maschile, anch’esso allora in fase di sviluppo, e da non coinvolgere più la sua intera personalità.22 La donna gode del vantaggio e del fascino dei capolavori artistici, proprio perché manca in essa, di norma, quel “dualismo che scinde le radici dell’esistenza” maschile (RAPG, 102): “Come l’opera d’arte, pur essendo una parte della totalità del mondo, a causa della sua compiutezza si pone tuttavia in opposizione a essa e rimanda in tal modo a un inesprimibile elemento metafisico che fonda questa uguaglianza di forma, così anche la compiutezza dell’essenza femminile sarà la ragione per cui da sempre intorno alla donna è spirata un’aura di simbolismo cosmico, come se ella avesse la facoltà di prescindere da tutti i particolari concreti per instaurare una relazione con il fondamento e con la totalità 260
delle cose in quanto tale” (RAPG, 119). Anche nella relazione uomo-donna vale per Simmel l’“individualismo della differenza” e non quello dell’eguaglianza. Nell’età dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese si ritenevano perfettamente compatibili gli ideali di libertà e quelli di eguaglianza, senza rendersi conto che essi sono destinati a scontrarsi. Lo sviluppo non impedito della personalità individuale, pur eliminando diseguaglianze di classe o comunque dovute a fattori esterni, rischia infatti di produrne molte altre, inedite ed egualmente ingiustificabili (anche perché il principio di fratellanza sembra affiancarsi istintivamente agli altri due, quasi come rimedio agli effetti perversi del loro intreccio). Una volta tolti gli ostacoli, la libertà individuale non sempre segue percorsi virtuosi: ha, infatti, “messo subito capo a una nuova oppressione: dei più stupidi a opera dei più furbi, dei deboli a opera dei forti, dei timidi a opera degli audaci” (IF, 47). Nel corso dell’Ottocento l’endiadi di libertà ed eguaglianza si spezza, dando luogo a due tendenze divergenti, “all’uguaglianza senza individualità e all’individualità senza uguaglianza” (BFdI, 34), vale a dire, rispettivamente, al socialismo e al nietzscheanesimo. Nella prospettiva di un processo infinito – poiché qualsiasi progresso rispetto all’eguaglianza rilancia la ricerca delle differenze (cfr. SD, 117 e MO) –, si tratta ora di coniugare individualità e differenza tra sessi, secondo il criterio di un’eguaglianza che non significhi appiattimento. Ogni essere umano rappresenta “un compendio dell’umanità”, ma “in una forma particolare, incomparabile” (SD, 35). Così che l’individuo compiuto ha anche bisogno di congiungere in sé le qualità dell’elemento maschile e di quello femminile: “Il 261
divenire e l’essere, la differenziazione e la globalità, l’abbandonarsi al corso del tempo e il sottrarsi a esso elevandosi a una sfera ideale o sostanziale” (WK, 150).23 Lo spirito nella macchina Quando gli elementi soggettivi si riversano rapidamente in stampi oggettivi (in istituzioni, rapporti interpersonali, macchine o cose) o quando quelli oggettivi sorreggono e orientano efficacemente la condotta dell’individuo, succede che, a ogni accrescimento del ruolo della soggettività, si produca – come contraccolpo – una dilatazione della sfera dell’oggettività (e viceversa). In questi casi, la vita come autotrascendimento da parte dell’uomo, “essere confinario che non ha confini” (cfr. L, 222-223), celebra il suo trionfo.24 Dato però che tra la soggettività e l’oggettività i dispositivi di sincronizzazione non sempre funzionano, il metronomo della storia individuale rallenta: i singoli, allora, non mantenendo il passo con l’incalzare degli eventi, perdono la capacità di cogliere in tempo utile il mutare delle forme e, con essa, di dare senso alla propria vita. Il sentimento di inadeguatezza verso la vita viene provocato più da una simile sfasatura temporale, che non dall’oggettivazione. Per diversi aspetti, anzi, questa fornisce benefici non trascurabili. L’uomo è, infatti, l’unico animale che – pienamente e continuamente – si oggettiva e perfeziona la sua oggettività. In campo etico, separa, ad esempio, le maniere di considerare e trattare le cose dal sentimento e dalla volontà soggettivi, creando un mondo comune di valori non monopolizzabili: “Quanto più i valori trapassano in tale forma oggettiva, tanto più spazio c’è in essi, come nella casa di Dio, per ogni anima. Forse il deserto e l’amarezza della concorrenza moderna non sarebbero in 262
generale sopportabili se non procedessero parallelamente a questa crescente oggettivazione dei contenuti della vita, imperturbabile nei confronti di tutto l’ôte-toi que je m’y mette” (PhG, 420). L’oggettività si configura perciò quale meccanismo di compensazione, che produce in abbondanza ricchezze culturali e morali di cui tutti possono fruire. Il denaro stesso (generalizzando il senso della frase di Dostoevskij, secondo cui esso è libertà coniata) rappresenta un fattore oggettivo di emancipazione e di accresciuta indipendenza anche per l’operaio salariato, in quanto egli non si sente più suddito come persona, ma fornisce una prestazione stabilita con esattezza. E la prestazione è stabilita con tanta precisione proprio perché ha un equivalente in denaro, che lascia tanto più libera la personalità come tale, quanto più essa stessa – e l’esercizio che essa comporta – è oggettiva, impersonale e tecnica (cfr. PhG, 479-480). Spesso i processi di oggettivazione sfociano in una razionalità priva di coscienza, che conserva però l’impronta permanente della soggettività, così che la tecnologia inglobata dalla macchina da cucire prende il posto dell’abilità, della capacità, dell’attenzione, della consapevolezza della donna, che con l’ago e con il filo eseguiva in precedenza le medesime operazioni. Ora questi movimenti risultano incorporati nelle parti metalliche, in cui appaiono, letteralmente, come spirito dentro la macchina, ghost in the machine: “L’operaia della macchina ricamatrice, per esempio, esercita un’attività assai meno spirituale della ricamatrice a mano, mentre lo spirito di questa attività è per così dire trapassato nella macchina, si è oggettivato in essa” (SD, 136). 263
La razionalità oggettiva, veicolata dalle istituzioni, dai saperi e dalle forme di vita, si affida a meccanismi ‘giroscopici’ di auto-regolamentazione, che certo transitano attraverso la coscienza individuale, ma solo in forma di automatismi anonimi, respingendo – per loro natura – l’intervento di un pensiero non preventivamente piegato a una tecnica, non instradato su percorsi virtualmente già programmati e preordinati. Senza un supplemento di energia soggettiva, ogni tentativo imprevisto di modificazione, di reinterpretazione e di riquadramento delle procedure o dei contenuti specifici in contesti di senso diversi o più articolati (ossia ogni ri-soggettivizzazione dell’oggettività) rischia di venire ignorato o penalizzato.25 L’individuo moderno è così costretto ad abbandonare le sue esorbitanti pretese di essere depositario di una razionalità poggiante sull’autocoscienza, centro tolemaico dell’universo. Quanto più la razionalità emigra dalla coscienza soggettiva verso automatismi e supporti materiali (come nella macchina o nel denaro), tanto più tende a diventare priva di senso e tanto più il singolo vede le proprie facoltà inesorabilmente assorbite da dispositivi anonimi. Avverte così il pesante deficit soggettivo di senso, proprio mentre il tasso di razionalità oggettiva invade celermente le sfere sempre più numerose e capienti della sua vita. S’indebolisce o si ottunde in lui la capacità di elaborare e controllare i processi di scambio tra il livello delle strutture razionali oggettive e quello delle modalità di comprensione e di ideazione soggettiva, stabilendo tra loro canali di comunicazione efficienti. Il primo livello ha indubbiamente una consistenza e una durata molto superiori al secondo e difficilmente si lascia intaccare da isolate intrusioni 264
soggettive. L’addensarsi di consistenti spinte soggettive sottopone tuttavia a torsioni la struttura dell’oggettività, generando, di norma, crisi passeggere di “irrazionalità” o, nei casi più gravi, mutamenti rivoluzionari (quando le tensioni accumulatesi raggiungono la massa critica, la “vita” si stacca, infatti, dalle sue “forme” irrigidite e trascina nella caduta anche obsolete strutture oggettive di razionalità). Per ipercompensare la situazione di disagio prodotta dall’ipertrofia dei possibili e dalla minaccia di atrofizzazione dell’io a causa di un’oggettività che non si lascia ritradurre in soggettività, i singoli individui possono tentare di riprendersi la vita che passa, ricostruendone il significato. Pur restando razionalmente consapevoli della “superiorità della tridimensionalità sulle ombre” (FPhdL, 53), ossia del reale sull’immaginario, sono, comunque, in grado di bilanciarli in maniera più equa assegnando un’importanza crescente all’arte e all’avventura; possono, al limite, persino caricarsi di quel sentimento di eccitazione, descritto da Cromwell, quando ha detto che “nessuno sale mai così in alto come quando non sa dove va”. Senza rivoltarsi contro l’inarrestabile sviluppo della tecnica, della scienza e dell’oggettivazione dei prodotti dell’economia e della “cultura”, si attengono al divieto di intaccare il patrimonio di razionalità oggettiva (per quanto “fredda” e anonima) del calcolo, del denaro, della scienza e della tecnica.26 Riconoscono così che l’effettuale è solo uno stadio dei possibili, suscettibile di svilupparsi in ulteriori configurazioni: “La cerchia della nostra esistenza dal punto di vista estensivo è occupata principalmente da possibilità; ciò che noi siamo come realtà della coscienza pienamente sviluppata è sempre soltanto il centro di quella cerchia; e 265
una vita che si limitasse a questo centro, a questa realtà, sarebbe inconcepibilmente diversa e immiserita. Infatti noi siamo anche quelle potenzialità, esse non restano in un semplice stato di prigionia o di morte apparente, ma agiscono continuamente in noi” (WK, 130-131). L’atteggiamento di Simmel appare, a questo proposito, molto diverso da quello di altri “filosofi della vita”, come Dilthey o Bergson, che rivitalizzano l’individuo attingendo ai depositi di senso dello “spirito oggettivo” o alle profondità della durata. La sua principale preoccupazione non consiste, infatti, nel rafforzare l’interiorità o la spiritualità soggettive a spese dell’oggettivazione, dell’incarnarsi cioè della ragione nel denaro, nelle istituzioni o nella macchina (mostri altrettanto “gelidi” quanto lo stato secondo Nietzsche).27 Simmel riconosce, al contrario, che il trasferimento della spiritualità entro automatismi oggettivi e acoscienziali lascia, da un lato, un più ampio spazio di possibile libertà agli individui, mentre dischiude loro, dall’altro, abissi di tragicità (in quanto il tragico non giunge dall’esterno, ma scaturisce dal dissidio, quasi schopenhaueriano, dell’uomo e della civiltà con se stessi).28 Il problema che ossessiona Simmel non è quello di garantire all’uomo moderno, come sarà per Heidegger o per Anders, la sopravvivenza nell’età della tecnica, ma di suggerirgli – per così dire – strategie teoriche per evitare la ‘sotto-vivenza’, il fermarsi più in basso della soglia delle opportunità paradossalmente sprigionate da ciò che dovrebbe svuotarlo, ossia dall’oggettivazione della razionalità nelle istituzioni e nelle macchine. Attraverso leve sociali o individuali, Simmel indica i modi di mettere gli uomini in condizione di sfruttare sia l’indeterminata 266
ricchezza della propria soggettività, sia la rigorosa e vincolante articolazione dell’oggettività. Un’impresa, questa, rispetto alla quale egli oscilla tra i toni lievi e disincantati dell’apologia dei possibili e i cupi richiami alla tragedia della cultura.29 Ben diversa, per contrasto, è la sua posizione da quella di Max Weber, il quale – pur teorizzando l’esistenza di una gamma continua di gradazioni tra necessità e libertà nelle umane decisioni30 –, limita drasticamente le possibilità degli uomini allo spazio ristretto della “gabbia d’acciaio” capitalistica, dove l’elusione della razionalità e dei condizionamenti oggettivi si presenta come un’impresa disperata. Simmel fa invece leva su una diversa concezione del futuro e dell’apertura ai possibili, basata anche sul fatto che l’avvenire non costituisce per lui un assoluto e inconoscibile aldilà, isolato dal momento attuale: “Il futuro non è rispetto a noi terra vergine, separata da un netto confine dal nostro presente: al contrario noi viviamo, per così dire, sempre in una zona di confine che comprende il presente e il futuro. Tutte le dottrine volontaristiche esprimono questo: l’esistenza spirituale vive oltre il suo presente, la sua vera realtà è solo il futuro” (TL, 20). Diversamente dal senso comune e dalla tradizione filosofica classica, il futuro non è dunque caratterizzato dall’orizzonte dell’attesa, ma da quello della volontà, che supera l’opposizione di presente e futuro gettando tra essi un ponte.31 È la fiducia nel potere della volontà e nella possibilità di ‘lievitazione’ della soggettività a instillare in Simmel la fiducia nelle virtù taumaturgiche dell’avventura e dell’arte, a fargli cogliere i vantaggi e gli svantaggi dell’economia monetaria dispiegata. La differenziata fioritura dell’individualità che Simmel 267
prevedeva verrà però stroncata – almeno per l’immediato – dai rigori della nuova fase politica di incubazione dei “totalitarismi” (che vede come protagoniste le masse, guidate dei loro meneurs) e dall’inatteso scoppio della Grande Guerra, che introduce modelli psichici e sociali basati sulla subordinazione gerarchica ad autorità esterne, piuttosto che sull’autonomia dei singoli. Solo mezzo secolo dopo la morte di Simmel, negli anni sessanta del Novecento, le sue proposte acquisteranno una rinnovata attualità.
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Parte seconda La colonizzazione delle coscienze
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8. Conduttori d’anime
Le Bon o dell’elemento immateriale che guida il mondo Ripensando al corso della sua vita, Gustave Le Bon sembra ritrovare l’origine delle proprie convinzioni in un indelebile ricordo d’infanzia. Quando era bambino giunse nel suo paese un imbonitore avvolto in vesti dorate e accompagnato da un corteo di suonatori dalle scintillanti armature. Novello dottor Dulcamara, vendeva a poco prezzo un elisir, che non si limitava a guarire tutte le malattie, ma era anche capace di assicurare la felicità ai suoi acquirenti. Il farmacista locale, uomo “segaligno, magro e severo”, ebbe un bel dire che si trattava di una semplice mistura di acqua e zucchero: “Ma, vi prego, che valore potevano avere le dicerie di questo bottegaio geloso, contro le affermazioni di un mago coperto d’oro, dietro il quale imponenti guerrieri suonavano i corni? […] Quel che il mago vendeva era l’elemento immateriale che guida il mondo e che non può morire: la speranza. I preti di tutti i culti, i politici di tutti i tempi, hanno mai venduto qualcosa di diverso?”.1 Da adulto, Le Bon crede di essersi reso conto del perché le arti dell’imbonitore prevalgono, in genere, sulla sobria argomentazione razionale del farmacista: chi fa leva sui desideri più profondi degli uomini ha sempre la meglio sui penitenziali sostenitori del principio di realtà e 270
sugli aridi difensori di una ragione sospettosa e arcigna. Nel 1895, data di pubblicazione della Psychologie des foules, in cui quest’intuizione giovanile viene compiutamente articolata, Le Bon ha cinquantaquattro anni ed è già un autodidatta di successo, autore di numerose opere.2 Schierato da sempre in difesa del sapere scientifico positivo, si è a lungo impegnato in studi di medicina, d’igiene e di epidemiologia, soffermandosi su questioni alla moda, come la morte apparente in rapporto ai rischi d’inumazione precoce, il colera o gli aspetti antropologici della criminalità. Per un certo periodo si è anche intensamente dedicato all’analisi degli effetti degenerativi del tabacco e dell’alcol, cui attribuisce la responsabilità del vertiginoso incremento delle manifestazioni di decadenza fisica e psichica: “Le malattie mentali, il rammollimento del cervello, le paralisi generalizzate e progressive compiono, da qualche anno, degli spaventosi avanzamenti […]. A che attribuire tali risultati? Al tabacco e all’alcol, indubbiamente, poiché si vede crescere il numero delle malattie con il consumo di queste sostanze”.3 La fase successiva – quella che precede immediatamente le ricerche sulla psicologia delle folle – è invece dominata da spiccati interessi per l’antropologia e la psicologia dei popoli. Con l’appoggio finanziario del ministero della Pubblica Istruzione e del presidente della repubblica francese, Sadi Carnot, suo lontano parente, Le Bon ha l’opportunità di dedicarsi a viaggi in terre lontane e di trarre, in termini comparativi, conclusioni generali sulla natura delle civiltà e delle razze umane.4 Dell’esperienza di tali viaggi restano – pregevoli testimonianze letterarie, corredate da una ricca documentazione fotografica – volumi 271
come L’Homme et les Sociétés. Leurs origines et leur histoire (Paris 1881), La civilisation des Arabes (Paris 1884), Les Premières Civilisations (Paris 1889), La civilisation des Indes (Paris 1893) e Les lois psychologiques de l’évolution des peuples (Paris 1894). Collaboratore della “Revue philosophique de la France et de l’Étranger” di Ribot (sin dal 1877, appena un anno dopo la sua fondazione), Le Bon ne condivide le premesse, accettando il parallelismo tra natura e società: “È generalizzando la legge scoperta dal fisiologo Baer, che presiede allo sviluppo dell’uovo degli esseri viventi, che uno studioso eminente, Herbert Spencer, è riuscito a dimostrare che lo sviluppo di un organismo individuale e quello di un organismo sociale avvengono mediante un meccanismo identico: meccanismo che consiste nel passaggio, per mezzo di differenziazioni successive e crescenti, da una struttura omogenea a una struttura eterogenea; o, in altri termini, nel passaggio graduale da uno stato costituito dalla riunione di elementi simili tra loro a uno stato in cui le parti divengono sempre più differenti” (HS, 57). Le Bon giunge così a scrivere la Psychologie des foules (dedicata a Ribot, “in affettuoso omaggio”), avendo alle spalle l’idea di un’evoluzione parallela degli organismi biologici e di organismi sociali, accompagnata dalla consapevolezza – comune ai suoi maestri – che, quando un essere vivente o una collettività non riescono a superare un determinato gradino di complessità, all’evoluzione subentra la dissoluzione e a una maggiore differenziazione succede una regressione a forme più elementari dello sviluppo. L’empire de soi La Psychologie des foules è pensata nella prospettiva di 272
un’evoluzione bloccata degli organismi sociali, dell’impossibilità per i componenti delle folle di determinate civiltà di innalzarsi con successo verso il dominio di sé. Occorre privilegiare tale contesto interpretativo, anche perché, al di là delle intenzioni e delle convinzioni politiche di Le Bon, il suo libro ha finito per apparire, in maniera esclusiva, come il perfetto manuale dei tiranni del Novecento. È vero che il Duce del fascismo ha esplicitamente dichiarato: “Ho letto tutta l’opera di Le Bon, e non so quante volte abbia riletto la sua Psicologia delle folle. È un’opera capitale alla quale ancor oggi spesso ritorno”. Ed è anche vero che tracce consistenti del pensiero di Le Bon si rinvengono in Hitler.5 Queste liaisons dangereuses non rendono, tuttavia, Le Bon un diretto “precursore” del fascismo.6 E questo per tante ragioni: egli è stato oggetto di ammirazione anche da parte di illustri rappresentanti della democrazia, come il presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt7; le sue convinzioni, che nei decenni successivi alla pubblicazione della Psychologie des foules circolano in forma anonima e ubiqua, vengono fortemente rielaborate da parte dei politici, sia “totalitari” sia democratici; la storia non tiene normalmente conto della filologia (ci si può appropriare dell’eredità altrui e attribuirsi antenati intellettuali senza chieder loro il permesso). Il motivo più importante è però costituito dal fatto che Le Bon è, a certe condizioni, un convinto sostenitore dei regimi rappresentativi: “Nonostante tutti gli inconvenienti del loro funzionamento, le assemblee parlamentari rappresentano lo strumento migliore che i popoli abbiano sinora trovato per governarsi e, soprattutto, per sottrarsi il più possibile al 273
giogo delle tirannie personali” (PF, 246-247). In quest’ottica, il suo ideale è rappresentato dalle “razze anglosassoni”, caratterizzate da “un’energia indomabile, da una grandissima iniziativa, da un dominio assoluto su di sé, da un sentimento d’indipendenza spinto sino all’eccessiva insocievolezza, da una possente attività, da sentimenti religiosi vivissimi, da una saldissima moralità, da una nettissima idea di dovere” (LPSEP, 108). Tali qualità, già possedute dai Romani, sono andate purtroppo perdute nei “popoli latini”, ormai soggetti all’estenuazione e all’inettitudine della décadence, incapaci di superare positivamente quel livello di complessità che permetterebbe l’integrazione delle folle moderne nei precedenti schemi politici. Con il suo libro Le Bon offre un tetto teorico a una convinzione già diffusa nell’Europa del tempo: non si può estendere alle masse né il processo di individualizzazione, rendendo autonomi e responsabili i suoi singoli componenti, né quello di un’armonica socializzazione entro forme statuali compatibili con il mantenimento degli attuali standard di civiltà. Per questo bisogna respingere come impraticabili – e combattere come pericolosi – i tentativi di auto-organizzazione delle masse, promossi, soprattutto, dai socialisti. Quale antidoto al loro inserimento, che comunque procede, e alla degradazione culturale e sociale che ne consegue, Le Bon ritiene necessaria un’educazione diffusa e approfondita, in grado di permettere ai singoli una riscossa, una riconquista dell’empire de soi, almeno da parte di un’élite ristretta: “L’uomo che sa governarsi da sé non domanda di essere governato da altri, poiché possiede allora 274
una disciplina interiore che lo dispensa da ogni disciplina esteriore. È il dittatore di se stesso. Niente rimpiazza una simile dittatura”.8 Se il valore dell’individuo razionale non riuscirà ad affermarsi anche tra i popoli latini, la soluzione inevitabile alla loro crisi sarà la comparsa di un meneur des foules, di una guida e di un manipolatore delle folle (che costituisce, dunque, solo un’alternativa subordinata o una seconda scelta in caso di fallimento dei programmi d’istruzione).9 Lo stato patologico delle società latine potrebbe essere superato – ma Le Bon ne dubita – unicamente se le loro élite diventeranno consapevoli del metodo adatto e della disciplina necessaria ad affrontare la minaccia del possibile dominio di folle ineducabili. Non si deve rispondere a tale sfida allargando semplicemente la sfera della rappresentanza, mediante l’estensione del suffragio fino al punto di renderlo universale, permettendo così l’accesso delle masse e dei loro rappresentanti ai processi di decisione politica. Grazie alla creazione d’adeguati miti sociali, occorre, piuttosto, mantenere le folle o a uno stadio prepolitico, lontane dai centri del potere, oppure condurle su un terreno in cui siano inserite nella vita politica in forma indiretta, come massa di manovra che non incide autonomamente sulle decisioni. A temibili maggioranze organizzate o potenzialmente organizzabili bisogna contrapporre o il meneur des foules oppure minoranze organizzate (élite, nel senso di Gaetano Mosca, non caratterizzate, come le folle, dall’uso della violenza e della brutalità).10 La folla è come la Sfinge dell’Edipo re: bisogna risolvere il suo enigma o rassegnarsi a venire divorati. E la risposta giusta non è “l’uomo”, ma il capo, la guida, il 275
pastore. Il dramma dei ceti subalterni alla ricerca di una fuoriuscita dalla miseria, dall’oppressione e dall’ignoranza verso una maggiore dignità e un adeguato peso politico resta del tutto estraneo all’autore della Psychologie des foules, che vede nelle masse solo un fattore di pericolo sociale e di mortale minaccia per la civiltà. Il ragionamento di Le Bon è semplice ed efficace: se la massa, portatrice di nuova “barbarie”, non è in grado di prendere decisioni libere e consapevoli, bisogna allora metterla sotto tutela, come appare quasi inevitabile nelle nazioni latine. Anche per ragioni personali un simile esito non dispiace a Le Bon: brucia ancora in lui il ricordo degli orrori visti e dei pericoli personalmente corsi a Parigi ai tempi della Comune11 e non si è ancora spenta l’ammirazione per il generale Boulanger, che pure giudica un fanatico di modesta intelligenza. Nutre, poi, diversi dubbi sulle capacità di autogoverno delle moltitudini dei paesi latini, dei “barbari interni”, come venivano chiamati. Il loro potere dipende, infatti, dall’attuale debolezza delle classi dirigenti, che non perdono occasione per manifestare la loro riluttanza e inettitudine al comando della società: “Le classi dirigenti moderne hanno perduto la fede in tutte le cose […] persino nella possibilità di difendersi contro il fiotto minaccioso dei barbari che le circonda da tutte le parti” (LPSEP, 128). In simili circostanze, l’avvento del meneur des foules rappresenta l’unica alternativa al rassegnarsi “a subire il regno delle folle poiché mani imprevidenti hanno rovesciato una dopo l’altra tutte le barriere che potevano trattenerle” (PF, 41). Nel suo attuale decadere, la civilizzazione percorre in senso inverso il naturale cammino del progresso, la strada 276
che dall’inconscio sale alla coscienza e che – dall’alto del livello di consapevolezza di volta in volta raggiunto – si deposita nuovamente nell’inconscio, in quanto sedimentazione e ristrutturazione delle acquisizioni più recenti. Attualmente si va invece dalla consapevolezza, duramente conquistata ma divenuta labile e indifesa, agli istinti inconsci, più oscuri ma più potenti. Le Bon privilegia unilateralmente il secondo momento dello schema spenceriano, quello involutivo: una volta scontratosi con un ostacolo insormontabile, lo sviluppo di una comunità non procede più dal semplice al complesso e dall’omogeneo all’eterogeneo: non potendo andare avanti, torna infatti indietro. Le folle rappresentano così il blocco del processo di differenziazione della società e la causa della sua regressione a fasi maggiormente omogenee. Con il crescere dell’importanza delle folle nelle società moderne, l’azione inconscia e automatica si sostituisce dunque “all’attività cosciente degli individui”, con il conseguente predominio di forze ignote che bisogna imparare a comprendere e a imbrigliare (cfr. PF, 33). In termini fisiologici, l’agire delle folle è posto sotto l’influsso della “vita midollare”, piuttosto che della “vita cerebrale” (prevalgono cioè in essa i riflessi automatici a spese degli atteggiamenti dettati dall’analisi delle situazioni, cfr. PF, 49 sgg.). In termini culturali, è avvenuta una rivoluzione silenziosa, che ha mutato il modo di pensare e di sentire delle moltitudini, erodendo dalle fondamenta le credenze, le opinioni e le idee in cui esse precedentemente si riconoscevano e preparando così le più profonde trasformazioni del “pensiero umano” (PF, 36). Due fattori, in particolare, stanno devastando il vecchio mondo: “Il 277
primo è la fine delle credenze religiose, politiche e sociali da cui derivano tutti gli elementi della nostra civiltà. Il secondo è la nascita di condizioni di vita e di pensiero interamente nuove, che risultano prodotte dalle moderne scoperte delle scienze e dell’industria” (PF, 36). Incrinata la fede nei dogmi della chiesa e dello stato, nessuna autorità riesce ormai a imporsi: una volta prevalso il desiderio di penetrare i misteri dell’autorità religiosa e di quella civile, di sottrarre a Dio e al Leviatano i loro più riposti segreti e la loro terribile maestà, la volontà di credere e di far credere si allenta. Il meneur des foules deve perciò restaurare artificialmente la capacità di credere delle masse, riempiendo l’attuale vuoto di potere e scongiurando il propagarsi dell’anarchia tra quanti, senza avere capacità di governo e di autogoverno, si preparano a ricoprire posti di responsabilità (cfr. PF, 155 sgg.). L’impresa è possibile solo a chi sa penetrare nell’anima delle masse, poiché un gregge ha bisogno di una guida avveduta. Altrimenti procede testardamente lungo sentieri che non si lasciano modificare da argomentazioni puramente razionali: “La persona convinta, dominata da una qualsiasi idea, religiosa o no, è inaccessibile a qualsiasi ragionamento, per quanto intelligente si possa concepire”.12 Assieme alla capacità di credere, abilmente reintrodotta, può nuovamente tornare in auge una politica legata agli arcana imperii, all’esercizio di un potere sostanzialmente sottratto alla sfera pubblica e imperniato su sofisticati modelli di simulazione e dissimulazione, in quanto le sue affermazioni non possono, per principio, essere pubblicamente verificate da cittadini retrocessi al rango di sudditi. Diversamente dai tempi dell’assolutismo, la politica 278
che si elabora segretamente nel moderno “gabinetto del Principe” segue e non precede il diffondersi delle idee e delle istituzioni democratiche. I nuovi sudditi non stanno più, come prima, ai margini, ma al centro del campo visivo del potere. Solo che – nella prospettiva del XX secolo – non si torna alla ragion di stato, in senso cinquecentesco e seicentesco, ma alla ‘ragion di partito’. L’età delle folle Seppur con soluzioni originali, Le Bon si inserisce in un vivace dibattito in corso. È noto come il comportamento delle folle durante la Rivoluzione francese abbia colpito i contemporanei e la generazione immediatamente successiva agli eventi, a partire, almeno, da Madame de Staël sino a Michelet.13 Ma è subito dopo la Comune di Parigi che, in Francia, il fenomeno torna prepotentemente d’attualità ed entra nel più ampio circuito del dibattito pubblico, soprattutto grazie a Taine. I tumulti e le crudeltà dei Comunardi, sommandosi alla feroce repressione operata dalle truppe governative di Thiers, tracciano un solco di sangue che per decenni divide profondamente la società francese (e la cultura europea) in due campi avversi. L’uccisione, l’imprigionamento e l’esilio di ben centomila parigini da parte dei Versagliesi esprime un feroce atteggiamento di classe che è ben esemplificato da questo episodio: “Un giornalista inglese raccontò di un ufficiale che sparò in faccia a un prigioniero dopo avergli chiesto la sua professione, dicendo: ‘Ah, così adesso sarebbero gli scalpellini a comandare!’”.14 In società ossessionate dalla paura che le plebi emergano con violenza dai bassifondi e dalla “feccia” della società, le folle (che sono tali solo se viste dall’alto come massa 279
indistinta) appaiono ora, prevalentemente, nel loro aspetto bestiale, quali orde sfrenate di selvaggi, di malati mentali e di donne isteriche ed esaltate.15 È soprattutto Taine a dar voce al timore di un imminente cedimento strutturale della civiltà per effetto dei colpi assestati dalle moltitudini, portatrici di allucinazioni non sufficientemente trasformate in percezioni e di deliri non sufficientemente elaborati in ragionamenti. Dato che in tutti gli uomini gli strati organici e psichici più elementari e arcaici sono i più resistenti (quest’argomento ritorna sempre con insistenza), la ragione, ossia la conquista più recente della specie umana, è inevitabilmente esposta al dominio degli istinti, delle passioni e degli interessi. Se davvero tutto ciò che è più recente è anche più labile, allora la civiltà è condannata a essere soltanto un sottile strato di humus che può essere dilavato da qualsiasi acquazzone storico. Taine decreta in tal modo lo strapotere del fondo roccioso arcaico, della natura prima nell’uomo. La ragione, infatti, non è per lui che “un subalterno comodo, un avvocato domestico e perpetuamente subordinato, che i proprietari impiegano a perorare le loro faccende; se le cedono il passo in pubblico, è per buona creanza”.16 Ai più risulta estremamente difficile innalzarsi (e rimanere) a livelli elevati d’intelligenza o di moralità: “Si interroghi la psicologia: la più semplice operazione mentale, una percezione dei sensi, un ricordo, l’applicazione di un nome, un giudizio consueto è il gioco di una meccanica complicata, l’opera comune e finale di parecchi milioni di ruote che, simili a quelle di un orologio, tirano e spingono alla cieca, ciascuna per sé, ciascuna condotta dalla sua forza, ciascuna mantenuta nel suo ufficio da pesi e contrappesi. Se 280
la lancetta segna l’ora pressoché esatta, è per effetto di un incontro che è una meraviglia, per non dire un miracolo, e l’allucinazione, il delirio, la monomania, che abitano alla nostra porta sono sempre sul punto di entrare” (OFC, I, 178). Se tali livelli di complessità non vengono mantenuti in misura sufficiente, la regressione colpisce tutta la società. Allora “dal contadino, dall’operaio, dal borghese, pacificati e addomesticati da una civiltà antica, si vede tutt’a un tratto uscire il barbaro, peggio, l’animale primitivo, la scimmia sanguinaria e lubrica, che uccide ghignando e facendo capriole sui suoi guasti” (OFC, I, 35). In questo senso, anche le élite sono fragili. Devono paradossalmente coniugare il futuro con il passato, la nuova forma di egemonia con la regressione imposta alle masse, lo slancio in avanti che smuova fragorosamente le acque morte della stagnazione con la docile obbedienza di folle manovrabili. Le folle cui si guarda, tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento, non sono soltanto quelle che si radunano a scopi politici. Da quando la Madonna è apparsa a Bernadette Soubirous nel 1858, uno dei fenomeni più rilevanti nella Francia e nell’Europa è rappresentato dalle masse di credenti e d’ammalati che accorrono a Lourdes, che invadono la già tranquilla cittadina pirenaica di appena novemila abitanti, trovandovi una stupefacente “temperatura dell’anima”.17 Zola – che ha studiato con rispettosa delicatezza la personalità di Bernadette – non vede in lei che una “irrégulière de l’hystérie”, un’allucinata capace di attrarre tutti quelli che sperano in un miracolo per uscire dalle proprie miserie fisiche e spirituali e per cambiare radicalmente l’orientamento della propria vita. 281
In genere, le reazioni nei confronti di un mondo che sembra dominato dalle folle e dalla loro “irrazionalità” sono negative, di ripulsa. Guy de Maupassant, ad esempio, osserva: “Ho orrore delle folle: non posso entrare in un teatro né assistere a una festa pubblica. Provo subito un disagio bizzarro, insostenibile, uno snervamento spaventoso, come se lottassi con tutte le mie forze contro un’influenza irresistibile e misteriosa. E lotto, in effetti, contro l’anima della folla che cerca di penetrare in me”.18 Sebbene in tutte queste analisi non si risalga quasi mai alle cause profonde dei comportamenti collettivi, le ragioni di preoccupazione, di sconcerto e di repulsione per i moti delle folle sono numerose. Uno degli episodi più terribili, sebbene rari (che colpì lo stesso Zola in Germinal, dove è raccontato) è quello della Défenéstration de Decazeville, un villaggio di minatori nell’Aveyron, in cui, nel gennaio del 1886, un rappresentante della miniera fu buttato giù da una finestra, pestato e castrato dalla folla inferocita.19 Tale sensazione di pericolo si accresce ulteriormente, nel periodo immediatamente precedente la pubblicazione della Psychologie des foules. Per effetto della recrudescenza del terrorismo anarchico, si assiste infatti, tra il 1892 e il 1894, a una fitta sequenza di attentati dinamitardi e di assassinii, alcuni a opera del famigerato Ravachol, che insanguinano la Francia.20 La chimica dell’anima A partire dal titolo del libro di Le Bon, occorre subito osservare che già l’espressione “psicologia delle folle” costituisce, per l’epoca, una contraddizione in termini o un ossimoro, in quanto la psicologia aveva in precedenza riguardato, per definizione, un individuo e non un insieme 282
di individui (tranne nel caso dell’anima mundi, con cui ci si riferiva però all’universo come organismo individuale). Le Bon perimetra con la sua opera un campo d’indagine intermedio tra la psicologia, che studia l’individuo, e la sociologia, che studia la società. Il punto di partenza per l’analisi della folla è in lui, comunque, sempre rappresentato dall’individuo, di cui osserva le metamorfosi regressive allorché si integra nell’“anima collettiva”: “Ciò che più ci colpisce di una folla psicologica è che gli individui che la compongono – indipendentemente dal tipo di vita, dalle occupazioni, dal temperamento o dall’intelligenza – acquistano una sorta di anima collettiva per il solo fatto di appartenere alla folla”.21 L’individuo sta alla folla come la singola cellula sta all’organismo vivente, alla colonia, cui le cellule delegano coscienza e volontà. Per effetto di una strana reazione chimica, istantanea e a catena22 (che produce un salto dalla quantità alla qualità) o per una sorta di transustanziazione mondana, le “anime” degli uomini che si trovano insieme, soprattutto in situazioni di tensione, generano questa entità collettiva anonima: l’“anima delle folle”. In essa le anime degli individui si modificano, regredendo – sia pur provvisoriamente – a stadi arcaici, in cui il pensiero dei singoli si elide, proprio mentre i sentimenti si sommano (per il fatto che “l’intelligenza progredisce”, ed è quindi più volatile, “mentre i sentimenti non cambiano”, e sono quindi più stabili).23 Ciò vale soprattutto per le folle dei paesi latini: “Le folle sono dunque femminili, ma le più femminili di tutte sono le latine. Chi si appoggia a esse può salire molto in alto e molto in fretta, ma sfiorando sempre il ciglio della rupe Tarpea e con la certezza di precipitare un giorno nell’abisso” (PF, 283
67). La folla non è un aggregato, una somma di anime individuali, ma una neoformazione in cui la razionalità è inibita proprio dalla coalizione dei sentimenti.24 Tale neoformazione dà luogo alla “massa” o alla “folla” propriamente detta, all’interno della quale le coscienze degli individui si modificano e s’intorpidiscono, divenendo, almeno provvisoriamente, suscettibili di manipolazione. Il termine “massa” deriva, infatti, dal greco mãza, pasta per fare il pane (da cui ancora lo spagnolo massa, “elemento informe, malleabile ed elastico”).25 Analogamente “folla” deriva dal latino follare, che significa torcere e battere i vestiti per lavarli. L’idea di “massa” e quella di “folla” implicano, dunque, l’attività di plasmare e di premere. In Le Bon, in particolare, la folla o la massa sono materia modellabile nelle mani di un capo politico, che guida gli uomini entrando nel loro animo, ascoltandone le esigenze, comprendendone i sogni e sembrando rispondere a essi come a un’eco rafforzata dei loro propri pensieri e desideri. Le folle non si accorgono così di essere comandate da una volontà estranea: hanno piuttosto l’impressione che il capo dia voce alle loro tacite aspettative e forma ai loro nebulosi sentimenti. Il comando del meneur des foules si mimetizza sotto specie di vox populi, quando non di vox Dei. O, meglio, diventa quello di un io egemone esterno, che sostituisce efficacemente l’io egemone interno. Quest’ultimo, troppo debole per governarsi da sé, trova sostegno sia nel capo, sia nella folla dei suoi pari, anch’essi individui “privati” (nel senso etimologico di mancanti di qualcosa, in questo caso dell’autonomia). Il meneur des foules, offrendo a personalità 284
deboli una via di fuga dall’isolamento e dalla décadence, diventa l’oracolo, la bocca della verità. In assenza della separazione dei poteri tipica dei regimi liberali, il meneur è contemporaneamente la sorgente dell’esecutivo, del legislativo e del giudiziario. In termini classici si può dire che rappresenti, nello stesso tempo, il lógos di chi comanda, il bouleutikón o la capacità deliberativa di chi fa le leggi e la phrónesis o prudentia di chi amministra la giustizia. Avendo constatato come, almeno nei paesi latini, lo sforzo dell’individuo liberale lockiano per conseguire l’autonomia e il senso di responsabilità non abbia toccato se non un piccolo strato della popolazione e sia rimasto estraneo alle folle e alla maggior parte degli esponenti delle élite, egli sa che la voce del padrone è sempre ascoltata dal gregge. E, poiché “la folla è un gregge”, essa “non può fare a meno di un padrone” (PF, 156). Il principio d’irrealtà La Psicologia delle folle, apparsa nello stesso anno in cui viene inventato il cinema (la prima proiezione dei fratelli Lumière ha infatti luogo il 28 dicembre 1895), fa continuamente riferimento al potere delle immagini e alla creazione di illusioni che coinvolgono simultaneamente tutti i componenti di una folla. Ovviamente, Le Bon si riferisce ancora agli effetti del teatro e alle tecniche della lanterna magica: “Le folle, riuscendo a pensare solo per immagini, si lasciano anche impressionare solo dalle immagini. Sono queste che possono terrorizzarle o sedurle, e indirizzarle nei comportamenti. Ecco perché le rappresentazioni teatrali, le cui immagini risaltano in forma molto netta, hanno sempre enorme influenza sulle folle […]. Nulla colpisce l’immaginazione popolare più di un’opera teatrale. Tutta la 285
sala prova nello stesso tempo le stesse emozioni, e se queste non si trasformano subito in atti, è perché lo spettatore più incosciente non può ignorare di essere vittima di illusioni, e di aver riso o pianto, assistendo ad avventure immaginarie” (PF, 99). In modo analogo all’attore, ma producendo maggiori effetti di realtà, il meneur des foules deve rapportarsi al suo pubblico, sintonizzandosi emotivamente e discorsivamente con esso, perché intuisce che, nell’età dei giornali (e fra pochissimo del cinema e della radio), l’ampia visibilità e udibilità può diventare più importante del potere economico o militare.26 Nell’oscura caverna platonica del teatro o della sala di proiezione del diorama la logica dell’irreale e dell’inverosimile prende il sopravvento, confermando una legge di validità molto più estesa: “Nella storia l’apparenza ha sempre avuto un ruolo molto più importante della realtà. L’irreale predomina sul reale” (ibid.). Che l’irreale predomini sul reale non significa affatto che i sogni collettivi non siano veri: al contrario essi costituiscono la “sostanza immateriale che guida il mondo” della politica, lo strumento attraverso il quale non solo si produce il consenso, ma quello con cui le emozioni si trasformano direttamente in azione politica, in prassi. Ciò è vero soprattutto in un’epoca in cui “le grandi idee fondamentali di cui hanno vissuto i nostri padri appaiono sempre più barcollanti e nello stesso tempo le istituzioni, che su tali idee poggiavano, sono profondamente scosse” (PF, 91-92). È questa un’età in cui l’assenza di salde convinzioni religiose lascia paradossalmente maggiore spazio a credenze ancora più bizzarre e fluttuanti e spinge alla ricerca del nuovo: “Noi siamo in uno di quei periodi della storia in cui, per il 286
momento, i cieli restano vuoti. Solo per questo fatto, il mondo deve cambiare” (LPSEP, 133). Quando le strutture portanti delle grandi idee non sorreggono più l’edificio della società e tutto si sminuzza in “piccole idee transitorie”, si impongono alle folle solo idee semplicissime, suscettibili di venire tradotte in immagini: “Infatti, nessun legame logico, d’analogia o di suggestione, collega tra loro queste ideeimmagini; esse possono pertanto sostituirsi l’una all’altra come lastre della lanterna magica che l’operatore toglie dalla scatola dove erano conservate una sull’altra” (PF, 92). Rovesciando un famoso detto di Eraclito, i meneurs des foules tendono a creare un mondo comune dei dormienti o dei sonnambuli: “Le folle si trovano press’a poco nelle condizioni del dormiente, le cui facoltà razionali, momentaneamente sospese, lasciano nascere nella mente immagini di estrema intensità, che presto si dissiperebbero se intervenisse la riflessione. Le folle, essendo incapaci sia di riflettere sia di ragionare, non distinguono l’inverosimile: orbene, le cose più inverosimili sono generalmente quelle che colpiscono di più l’immaginazione. Ecco perché il meraviglioso o leggendario degli eventi è quello che più colpisce le folle. Il meraviglioso e il leggendario sono, in effetti, i veri sostegni d’una civiltà” (PF, 98-99). Oltre che all’attore, il meneur des foules, è paragonato al medico-ipnotizzatore, che applica alla coscienza coloniale delle masse, regredite a una fase più primitiva rispetto agli individui isolatamente presi, i metodi di suggestione e di cura delle maladies de la personnalité. In quanto ipnotizzatore collettivo e sistema nervoso centrale della folla-colonia, ne confisca le coscienze singole, ricevendone la delega incondizionata. Convinto che l’individuo nella folla è 287
svuotato della sua intelligenza e volontà e ha il cervello “paralizzato” in balia del suo ipnotizzatore, egli può artificialmente indurre alla regressione la grande massa dei suggestionabili. Dato che il forte io egemone esterno del meneur des foules riflette in sé, potenziandole, le aspirazioni del debole io egemone interno, si instaura tra loro una relazione che mira al cortocircuito tra la coscienza osservante del capo, trasformata in occhio interiore, e la coscienza osservata del gregario.27 Il capolavoro dei meneurs del Novecento è stato, appunto, quello di far partecipare gli svegli a un sogno comune, di coordinare le loro emozioni e immagini nelle grandi rappresentazioni pubbliche del teatro della politica totalitaria, in cui la logica dell’inverosimile e dell’irrealtà facevano aggio sulla logica della realtà, attribuendo ai miti un carattere onirico, così da essere accolti con la stessa passività con cui si subiscono i sogni notturni. L’importanza della suggestione è stata compresa a pieno da Le Bon nel progetto di condizionare scientemente l’inconscio, in quanto réservoir d’énergie (Aph., 117) e testa di ponte per la ristrutturazione ingegneristica della coscienza e del consenso. Quando la coscienza malata, decadente, entra in rapporto diretto con la sua proiezione fantasmatica, ossia con l’io egemone esterno del capo, non fa più appello alla ragione, ma alle emozioni e agli istinti che l’uomo ha in comune con gli animali. Dichiarando ingovernabile l’arcipelago degli io, sostenendo che l’individuo non è più in grado di guidare se stesso, al dominio interiore si sostituisce, mimeticamente, quello esteriore,28 producendo quel tipo di obbedienza che il domatore ottiene dalle belve.29 Gli ideali classici di 288
autocontrollo dell’individuo (libero grazie alla parte razionale dell’anima secondo Platone e Aristotele o alle difese della “cittadella interiore” secondo gli Stoici) vengono abbandonati ai popoli anglosassoni e a ristrettissime minoranze latine. Il falegname di Galilea La tesi della prevalenza dell’irreale sul reale è giocata da Le Bon in aperta polemica con l’atteggiamento illuministico volto a distruggere le illusioni e le credenze infondate. Esso è ritenuto responsabile dell’attuale incontrollato dominio delle folle, della loro proterva volontà di partecipare direttamente alla vita politica o della loro immatura pretesa di condizionare le élite tradizionali vincolandole a elezioni e deleghe. Tale immane delegittimazione di tutto quanto non è in grado di giustificarsi dinanzi al tribunale della ragione, riunito in seduta permanente, prosciuga le sorgenti della vita, le energie che avevano permesso alle società umane di esistere e di crescere: “I filosofi dell’ultimo secolo si sono consacrati con fervore al compito di distruggere le illusioni religiose, politiche e sociali di cui per centinaia di anni avevano vissuto i nostri padri. Distruggendole, hanno inaridito le fonti della speranza e della rassegnazione. Dietro le chimere immolate, hanno ritrovato le forze cieche della natura, inesorabili per i deboli e ignare di pietà” (PF, 147). Le pretese dell’Illuminismo sono deleterie, in quanto introducono nella politica un intollerabile tasso di entropia, dimenticando che le illusioni sono indispensabili e che è, pertanto, compito della politica e dei “grandi capi” “creare la fede […] in un’opera, in una persona, in un’idea” (PF, 157), presentando così all’adorazione delle folle un “feticcio: personaggio, dottrina o formula” (Aph., 49). Dato che le 289
“illusioni sono necessarie ai popoli, questi vanno per istinto incontro ai retori che gliele offrono, così come un insetto va incontro alla luce. Il grande fattore di evoluzione dei popoli non è mai stato la verità, ma l’errore. E se il socialismo vede crescere oggi il suo potere, è perché rappresenta la sola illusione ancora operante” (PF, 147). Un’illusione pericolosa, in quanto – per ridurre le diseguaglianze sociali – restringe, secondo Le Bon, i margini di libertà (PS, 344 sgg.), un valore, questo, che la democrazia non difende abbastanza, impegnata com’è a inseguire il debole miraggio di un progresso ininterrotto. Senza accorgersi di preparare la propria rovina, tanto la democrazia quanto il socialismo (spesso guidato da veri e propri appartenenti alla “grande famiglia dei degenerati”, cfr. PS, 114-115) stanno conducendo una campagna di regressione delle moltitudini allo stadio in cui saranno ancora più pronte ad abbracciare la volontà di chi comanda. Poiché il meneur des foules deve tener conto delle illusioni dominanti e della loro efficacia, non può governare a suo piacimento le folle di cui si erge a guida. È, a sua volta, plasmato dall’interazione con i bisogni delle masse. In Le Bon, tuttavia, l’invito a ricondurre a una arrendevole passività le masse che si stanno organizzando non potrebbe essere più esplicito. Per i popoli in cui l’istruzione non è riuscita a creare nei singoli un sufficiente autocontrollo, il prezzo dell’ingresso nella scena politica consiste nell’affidare a un capo la guida dell’anima collettiva. Il progetto di costruire illusioni apparentemente comuni ai dominanti e ai dominati apre un’inedita fase politica. Tale compito è agevolato dal fatto che la verità e la ragione contano poco, e non solo per le masse: “Non è con la 290
ragione, ma spesso contro la ragione che nacquero sentimenti quali l’onore, l’abnegazione, la fede religiosa, l’amore della gloria e della patria, rimasti fino a oggi le potenti molle di ogni civiltà”.30 Tesi, questa, condensata in una lapidaria affermazione: “Gli uomini non si governano seguendo i dettami della ragion pura” (PF, 43). La ragione non è, infatti, capace di competere con la forza dei sentimenti, delle passioni e delle “chimere”. Al pari di Nietzsche e di altri suoi contemporanei, Le Bon non svaluta la coscienza e la razionalità in quanto tali: le considera però fragile possesso dei pochi che ne sanno fare buon uso. Ne mina così quei contrafforti rappresentati dalla convinzione che esse costituiscano il legittimo patrimonio di tutti gli uomini, una fiducia che, nella storia della cultura occidentale, ha tenuto a bada per lungo tempo le forze distruttive. Il bisogno di “sentimenti quali l’onore, l’abnegazione, la fede religiosa, l’amore della gloria e della patria” cresce enormemente in un’epoca in cui la loro assenza apre spazi rischiosi a incontrollabili inclinazioni individuali e collettive. Da qui la conclusione che bisogna imporre nuovamente la volontà di far credere, perché solo le illusioni della fede, e non le dimostrazioni della ragione, sono in grado di produrre i grandi sommovimenti della storia: “Sembrerebbe inverosimile che un ignorante falegname di Galilea possa esser diventato per duemila anni un dio onnipotente, nel cui nome sono state fondate importanti civiltà; inverosimile che poche bande di arabi uscite dai deserti siano state capaci di conquistare la maggior parte dell’antico mondo grecoromano, fondando un impero più vasto di quello di Alessandro; inverosimile infine che, in un’Europa ormai 291
vecchia e gerarchicamente ordinata, un semplice tenente di artiglieria sia riuscito a regnare su una folla di popoli e di re” (PF, 153). Le civiltà nascono da “una polvere d’uomini, casualmente riuniti dalle emigrazioni, dalle invasioni e dalle conquiste”, che trovano poi nel tempo una loro unità e una tradizione e formano una “razza” che non è solo biologica, ma popolo cementato da ideali, credenze e “sogni” (PF, 252). Il ritorno minaccioso delle folle indica che l’attuale civiltà sta di nuovo polverizzandosi, secondo una legge che Le Bon enuncia a conclusione della Psicologia delle folle: “Passare dalla barbarie alla civiltà inseguendo un sogno, poi declinare e morire quando il sogno è finito, tale è il ciclo della vita di un popolo” (PF, 255). La forza delle illusioni consiste nella loro inestirpabilità. Ripetute esperienze testimoniano che ogni tentativo di dimostrarne la falsità è destinato a fallire: non solo non si riesce a scalzarle, ma, spesso, neppure a intaccarle. Succede, anzi, che dai loro tronchi recisi esse rifioriscano più rigogliose che mai. Il razionalismo dominante (che ha contribuito a insidiare la fede nei dogmi della Chiesa e a svelare gli arcana imperii dell’autorità politica) non si accorge di quanto abbia contribuito a rendere le coscienze intellettualmente e moralmente inconsistenti. Per aver passato il limite, saturato la tollerabile dose di assorbimento della razionalità da parte dei singoli, ha finito per renderli permeabili a ogni suggestione, sordi a qualsiasi autorità che continui a far appello a principi universali, alla voce della coscienza. Le folle sono, infatti, radicalmente conservatrici anche quando svolgono il ruolo di protagoniste di sporadici scoppi d’incontenibile furore: “Credere che nella folla predominino 292
gli istinti rivoluzionari significa commettere un grave errore psicologico. L’inganno può nascere solo perché le folle sono violente. Ma le esplosioni di rivolta e di distruzione sono sempre molto effimere. Le folle sono troppo guidate dall’inconscio e troppo sottomesse, di conseguenza, all’influenza di eredità secolari per non mostrarsi estremamente conservatrici. Abbandonate a se stesse, le vediamo presto stancarsi dei loro disordini e orientarsi per istinto verso la servitù” (PF, 84). Esse non domandano che di poter credere in articoli di una fede elementare, in racconti adeguati al livello di primitività della coscienza collettiva e coloniale di cui fanno parte: “Per il solo fatto di appartenere a una folla, l’uomo scende dunque di parecchi gradini la scala della civiltà” (PF, 19).31 Elaborando grandi illusioni, il meneur des foules, restaura artificialmente la capacità di credere delle masse, frena l’involuzione delle civiltà, che non sopravvivono certo grazie alla forza palingenetica delle rivoluzioni. Esse, infatti, non rappresentano il trionfo della ragione sui privilegi e l’oscurantismo, né l’esplosione di bisogni materiali o di giustizia a lungo repressi. Segnalano, piuttosto, l’esaurimento di determinate fedi e la sopraggiunta esigenza di sostituirle con altre. Servono cioè a eliminare quelle convinzioni fiacche e prossime a essere respinte che solo il giogo dell’abitudine impedisce di abbandonare del tutto: “Le rivoluzioni che cominciano sono in realtà credenze che finiscono” (PF, 183). Le piccole e, soprattutto, le grandi credenze non si limitano a svolgere un’opera di persuasione, ma spingono ad agire chi le accoglie, modificandone, nello stesso tempo, la personalità. In questo hanno più forza dei semplici ragionamenti, che restano ineffettuali finché non 293
diventano fede collettiva. Il bisogno di certezza è negli uomini, infatti, più prepotente del bisogno di verità. Le folle non creano le opinioni, ma danno loro forza, incidenza, contagiosità, irresistibilità.32 Le eclissi parziali dell’io Utilizzando l’energia regressiva delle folle, il meneur le trasforma in comparse che si credono protagoniste. Comanda la loro anima senza confondersi con essa (mantenendo il ruolo di coscienza egemone proprio mentre gli altri io che compongono la folla regrediscono alla fase coloniale). La ricerca dell’identità individuale si trasforma così nelle personalità subalterne, dotate cioè di un io egemone debole o inconsistente, mosso dall’ansia di identificazione, dall’esigenza di appoggiarsi a qualcuno, a un solido punto di riferimento, a un individuo capace di incarnare, in concreto, bisogni, aspirazioni e ideali. Le astrazioni non si prestano, infatti, a trasformarsi in molle per far scattare il meccanismo della credenza, della fede. Il corpo politico si unifica in un “Noi” solo attraverso l’identificazione con uno specifico “Io” [userò le maiuscole ogniqualvolta si presenti tale polarità], che è sineddoche, ossia pars pro toto, del “Noi” stesso. Le Bon risolve così, a suo modo, uno dei grandi paradossi della democrazia: come legittimare in una società di eguali l’autorità di chi comanda? Se essa non discende più ‘verticalmente’ al sovrano da Dio, dalla natura (il sangue) o dal patto sociale, chi ha allora diritto di governare, in quanto orwellianamente “più uguale” degli altri? Per sottrarre l’autorità di coloro che detengono il potere effettivo al mimetismo democratico ‘orizzontale’ (che li spingerebbe a camuffarsi da uomini comuni), occorre restituire 294
nuovamente all’autorità stessa un’aureola di prestigio ‘verticale’. Poiché le tradizionali armi della natura o della religione appaiono ormai spuntate e il patto sociale implica uno scambio politico esplicito basato sul calcolo delle convenienze (ciò che nuoce alla pretesa di un’autorità assoluta), è necessario inventare una formula politica in grado di saltare ogni visibile negoziazione e di identificare immediatamente i singoli con un capo, che promette, sul piano dell’immaginario collettivo, di controllare il destino dei popoli, di garantire l’ordine e di assicurare gloria e onore a chi lo segue ad ventura, nel suo avanzare verso il futuro. Egli è uno psicagogo, oltre che un demagogo: guida le anime, dando loro, demiurgicamente, forma dall’interno: “La folla è un essere amorfo, incapace di volere e d’agire senza il suo meneur. La sua anima sembra legata a quella di questo meneur” (Aph., 48). È così che la politica si psicologizza, che la richiesta di consenso invade la coscienza. Del resto, “i signori del mondo, i fondatori di religioni o di imperi, gli apostoli di qualsiasi fede, gli uomini di Stato eminenti e, in una sfera più modesta, i semplici capi delle piccole comunità umane, sono sempre stati, inconsciamente, psicologi, possedendo una conoscenza istintiva, spesso molto sicura, dell’anima delle folle. E di questa sono pertanto diventati facilmente i padroni” (PF, 41-42). Tale dominio è reso possibile dal fatto che il meneur stesso è stato, a sua volta mené e envahi, guidato e invaso, da un’idea ossessiva, di cui è diventato il propagatore. Se il demagogo è, etimologicamente, colui che guida e smuove il dêmos o, in termini moderni, le folle; e se lo psicagogo è colui che guida, smuove e agita l’anima delle folle, allora il compito del meneur des foules è proprio quello di indurre 295
all’azione i suoi seguaci mediante le leve del mito e di passioni “rozze” (paura o speranza) ma fondamentali. La riflessione e l’autocoscienza rappresentano un pericolo per il meneur, in quanto introducono un cuneo nell’identificazione immediata tra l’io egemone interno dell’uomo della folla e quello del capo, incrinando la fiducia indotta nella sua superiorità. Al pari dello scienziato, che impone i suoi schemi al mondo della materia, o del filosofo di stampo nietzscheano, che modella i concetti con il “martello”, egli plasma l’animo degli uomini a sua immagine e somiglianza. Attraverso la psicologia delle folle e grazie a tutta una serie di scienze, di tecniche e di pratiche, si pongono le basi per far entrare rapidamente la politica vigente – per la prima volta in maniera programmatica e sistematica – nelle coscienze e nei loro recessi. In tal modo, procedure come i saperi psichiatrici e psicopatologici (prima riferiti a persone facilmente suggestionabili, ai deboli di mente e ai folli) vengono ora applicati con successo all’intera società. Nella sua dimensione più opaca e recettiva, la coscienza è occupata e colonizzata secondo nuove tecniche, in grado però di ricuperare e riformulare insegnamenti che derivano dall’esperienza politica e religiosa del passato, ossia dalle precedenti ondate di colonizzazione, magari altrettanto violente o capillari (come la Rivoluzione francese e la Riforma), ma meno poggianti su criteri presuntamente o effettivamente scientifici. Le idee-forza utilizzate per cementare e mobilitare le folle vengono attinte da credenze refrattarie a ogni esame critico, capaci di rendere omogenee le anime eterogenee dei singoli. Il loro essere scarsamente confutabili dal ragionamento e 296
dall’osservazione empirica non va ascritto unicamente alle arti propagandistiche del meneur des foules. La loro forza giunge da lontano: depositate nello smisurato réservoir d’énergie dell’inconscio, esse hanno progressivamente accumulato tutto il peso del passato, inglobando il potenziale dinamico della tradizione veicolata dai morti. L’anima dei trapassati forma, infatti, il sostrato dell’anima delle folle, l’elemento stabilizzatore e semplificatore delle convinzioni più profonde, trasmesse a ognuno dall’ininterrotta catena dell’atavismo: “Infinitamente più numerosi dei vivi, i morti sono di loro infinitamente più potenti. Essi governano l’immenso dominio dell’inconscio”, tanto che un popolo è guidato più dai suoi morti che dai suoi vivi e che “i morti sono i soli padroni incontestati dei vivi” (LPSEP, 15). La folla risulta così intimamente composta da morti viventi, da zombie. Non per somma, ma per sottrazione di ciò che è evolutivamente più recente, dagli individui vivi si ottiene un’anima che appartiene al passato remoto della “razza”, a un’epoca che precede i singoli processi di individuazione: “Possiamo comparare una razza all’insieme delle cellule che costituiscono un essere vivente. I miliardi di cellule hanno una vita molto breve, mentre la vita dell’essere formato dalla loro unione è relativamente molto lunga; esse hanno dunque una vita personale, la loro, e una vita collettiva, quella dell’essere di cui costituiscono la sostanza” (LPSEP, 14). La comunità dei morti sta a fondamento dell’“anima della razza”, dell’insieme dei caratteri nazionali durevoli di un popolo, di ciò che ne regola l’evoluzione: “La razza deve essere dunque considerata come un essere permanente, indipendente dal tempo. Questo essere 297
permanente non è soltanto composto da individui viventi […] ma anche dalla lunga serie dei morti che furono gli antenati” (LPSEP, 15). Diversamente dal Marx che cerca di scuotere di dosso ai vivi il carico dei morti che grava sul loro cervello e li condiziona, dal Marx che sostiene il primato del futuro sul passato, il tradizionalista Le Bon accentua il preponderante e inaggirabile ruolo del passato sul presente. La modernità si mantiene, per lui, solo a patto di far vivere nel passato psichico grandi masse umane, mettendo in contatto i vivi e i morti; dura a spese dell’anacronismo psichico di ingenti masse umane che affondano le proprie radici e assorbono la propria linfa dal sottosuolo dei cimiteri. Così, mentre Marx progetta l’uomo nuovo in grado di emanci-parsi dal passato, Le Bon riscopre l’uomo vecchio, quello che compie un viaggio all’indietro nel tempo ogni volta che s’immerge nell’anima della folla. Da Michelet a Fustel de Coulanges, da Le Bon a Barrès il tema dei morti e della loro potenza ossessiona il pensiero francese. La loro memoria si trasforma in un culto laico, staccato dal riferimento cristiano all’aldilà e fermamente impiantato sulla Terra, quale poderosa arma simbolica agitata sia contro il primato socialista del futuro (del “Sole dell’avvenire”), sia contro gli ideali di sradicamento dal passato diffusi dal mito democratico di un progresso instancabile. All’alba della Terza Repubblica, già Renan aveva, del resto, accusato il nuovo regime di ignorare il valore della continuità storica e di plasmare una nazione fondata sul principio per cui una generazione non impegna la generazione successiva. Tutto ciò nega il legame tra vivi e morti e finisce per costruire “una casa di sabbia”.33 298
È questo un addebito destinato a diventare presto comune. Lo si ritrova, ampiamente modulato, negli anni tra il 1888 e il 1891, in Maurice Barrès, che identifica la patria con il cimitero in cui dormono gli antenati e fa del binomio la terre et les morts la base della sua ideologia letteraria e della sua proposta politica. Avversario dell’intellettualismo e della democrazia, è un convinto difensore dell’individuo che scopre la sua essenza nel passato. Nel periodo “barbarico” in cui si trova a vivere (caratterizzato dalla disintegrazione della morale, della religione e del sentimento nazionale), a Philippe, protagonista del ciclo di romanzi Le culte du moi, non resta – inizialmente – che appoggiarsi “all’unica realtà, all’io”, in attesa che rinascano in lui altre certezze.34 Soltanto grazie all’identificazione con la sua razza, con la sua terra e con la sua tradizione – definita “unità nella successione” (CdM, 299) –, egli può alla fine rinvenire il saldo ancoraggio dell’io, la zavorra che ne mantiene l’assetto e ne evita l’inconsistenza, giacché l’io non è per natura immutabile: “Bisogna difenderlo ogni giorno e ogni giorno crearlo” (CdM, 20). Il progetto di Barrès è così dapprima, in Sous l’œil des Barbares, quello di spingere chi ne è capace a développer soimême pour soi-même (CdM, 92), opponendosi agli altri ed espandendosi sino “a fondersi nell’Inconscio” (CdM, 23). In seguito, già in Un homme libre, prevale in Philippe il desiderio di abbattere i confini dell’egoità, di curare l’“anemia” dell’io mediante il suo completo abbandono all’esperienza religiosa, in modo da avere “una via tracciata senza alcuna responsabilità di me su me” (CdM, 151, 137). Persino gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio, comodamente praticati nella solitudine di un vecchio monastero in 299
abbandono, contribuiscono a sanare le fratture dell’io, vincolandolo alla dimensione dell’eternità e alle meditazioni sulla morte e sui morti: “Io coltivavo in me l’eterno e questo mi portò a sviluppare un metodo per godere di mille frammenti del mio ideale. Era un modo di darmi mille anime successive; perché una nasca, un’altra deve morire; soffro di questa dissipazione. In questa successione di imperfezioni, aspiro a riposarmi di me stesso in una abbondante unità”.35 L’io si frammenta allo scopo di godere di rapide emozioni, senza però perdere il controllo del loro flusso: “Mi sono sminuzzato in un gran numero di anime. Nessuna è un’anima di sfiducia; esse si concedono a tutti i sentimenti che le attraversano. Le une vanno in chiesa, le altre in posti malfamati […]. Mi sono d’altronde procurato la garanzia che le mie diverse anime non si conoscano che in me, di modo che, non avendo altro punto di contatto che la mia chiaroveggenza che le ha create, esse non possano complottare insieme […]. Oh io, universo di cui possiedo una visione, popolo che mi obbedisce a bacchetta […], somma crescente senza posa di anime ardenti e metodiche, non descriverò più i tuoi sforzi!” (CdM, 248-249). Questa libera e “abbondante unità”, ottenuta mediante la rottura dei legami personali non scelti, rischia di dissiparsi se non trova un ubi consistam nella fusione interiore di ognuno con la propria razza. Partito da una sensazione di estraneità nei confronti del proprio io (“Alienus! Straniero al mondo esterno, straniero io stesso al mio passato, straniero ai miei istinti”: CdM, 252), Philippe diventa gradualmente consapevole dei danni provocati dall’educazione laica e razionalista cui è stato sottoposto, un’istruzione (nella realtà quella repubblicana promossa dal 300
ministro Jules Ferry) che rende gli individui moralmente e intellettualmente esangui. A contatto con il mondo “reale” delle passioni, degli istinti e della politica di massa, il suo io inizia finalmente una nuova vita,36 riconoscendo la necessità, per risvegliare gli istinti gregari, di fare leva sulle “qualità che una folla condivide, e che sono sempre le più infime: l’odio, la paura o la stupidità”. La Francia si potrà rigenerare, pensa, sfruttando opportunamente queste emozioni e attitudini elementari, e non certo grazie alla tolleranza razionalista e allo scientismo positivistico della Terza Repubblica. Il viaggio di Philippe in Lorena, terra francese annessa alla Germania nel 1871, rappresenta non solo una ricerca delle origini della propria stirpe, ma anche un modo per mostrare riconoscenza ai propri morti, massa di sconosciuti alla cui fatica e ingegnosità egli deve quel che è: “Una razza che prende coscienza di se stessa si afferma nel momento in cui onora i suoi morti” (CdM, 183).37 Reciso il legame con la storia collettiva dell’umanità, restano solo i propri morti, rievocati sino a oscurare il proprio io.38 Con il loro corteo di defunti, l’ereditarietà e l’atavismo si insediano nello spazio dell’inconscio, dove il passato guida il presente. Sorel o la macchina del mito La psicologia delle folle di Le Bon e il sindacalismo rivoluzionario di Sorel hanno un’origine in parte comune. Entrambi ripudiano il valore della rappresentanza politica, tipica della democrazia parlamentare, schierandosi a favore, rispettivamente, dei meneurs des foules dei paesi latini e dell’azione diretta, spontanea e violenta della “classe dei produttori”. Nel primo caso, le folle, che appaiono come un insieme indistinto, svolgono una funzione di sostegno e di 301
cassa di risonanza delle decisioni dei capi (l’enfasi cade su chi comanda); nel secondo, la classe dei produttori è invece completamente autonoma e capace di autostrutturarsi (l’accento cade sui lavoratori educati e selezionati dal lavoro stesso). Tanto in Le Bon che in Sorel, si spezza ogni forma di comunicazione razionale fra la base e il vertice: non resta che il linguaggio mitico e la mobilitazione emotiva. Sia i teorici della psicologia delle folle, sia Sorel sostituiscono così agli istituti rappresentativi – che, in linea di principio, deliberano pubblicamente in maniera argomentata – le adunanze di grandi conglomerati umani, i quali agiscono sotto l’azione di impulsi inconsci, di passioni e di immagini. Dalla rappresentanza al capo politico carismatico, dal parlamento alla piazza, dal pensiero razionale al mito: questa sembra essere la parabola del nuovo pensiero politico tra fine Ottocento e inizio Novecento. Si inverte quel processo di lunga durata che aveva gradualmente condotto la democrazia dei moderni a negare le pratiche dell’assolutismo, fondate sulla sottrazione della sfera pubblica alla visibilità e al controllo collettivo. Parallelamente, viene incrinata anche quella tradizione filosofica e civile, che da Locke a Stuart Mill aveva attribuito all’individuo le insegne dell’autonomia e della razionalità, considerandolo (per natura o per volontà politica) libero da legami di dipendenza personale e in grado di soppesare il pro e il contro di ogni scelta. Si apre per le moltitudini l’epoca della revoca delle libertà, della consapevole manipolazione scientifica e della rivendicazione, da parte di chi comanda, del diritto di governare indipendentemente da ogni effettivo mandato della maggioranza dei cittadini. La negazione della rappresentanza e delle pratiche di 302
formazione del consenso “razionale” danno luogo a posizioni divergenti: nei teorici della psicologia delle folle all’allungamento della scala gerarchica e allo sfruttamento dell’emotività in funzione degli interessi e degli scopi di chi si pone al di sopra delle folle; in Sorel, al tentativo di rendere più compatte le classi sociali, rialzando artificialmente il livello della lotta di classe e impedendo con ciò l’attenuarsi dei conflitti. Si vuole evitare che l’esaltazione della “mediocrità” democratica porti – attraverso il diffondersi degli ideali di eguaglianza39 – al declino e alla caduta della civiltà moderna nel suo complesso, con la conseguente rovina di tutte le classi, come avvenne alla fine dell’Impero romano. Il cosiddetto “spontaneismo” di Sorel deriva dal rifiuto della mediazione (che qualsiasi rappresentanza politica esprime), considerata un freno nei confronti della violenza, cui viene assegnata la missione salvifica di innalzare il tono della lotta di classe per evitare la stagnazione e la morte della civiltà. Contro l’idea di rappresentanza non milita, dunque, solo la corruzione dei ceti dirigenti borghesi e socialisti (idea condivisa dal Le Bon della Psychologie du socialisme e da Pareto) o la convinzione che le masse siano in grado di agire in modo generoso e disinteressato senza alcun intervento dall’alto, ma quella che per Sorel è un’obiezione capitale: la rappresentanza non è conciliabile con lo “spirito di scissione”. È, infatti, necessario scindere la totalità sociale in quegli elementi antagonistici che la politica e lo stato falsamente conciliano. Per produrre questi effetti occorre uno strumento, il mito, che sin dal saggio del 1894, L’ancienne et la nouvelle métaphysique, l’ingegner Sorel concepisce come una 303
macchina, la quale, al fine di produrre movimento, cattura e ricombina diversamente le energie inconsce e le emozioni degli uomini.40 Con terminologia attuale si potrebbe dire che il mito è un dispositivo il cui input è rappresentato dalle energie psichiche individuali e il cui output dalle azioni collettive orientate. Nella “nuova metafisica” dell’età moderna il mito è efficace solo in quanto funziona, in quanto produce degli effetti, ma non è né vero, né falso. Mentre i teorici della psicologia delle folle utilizzano il mito al servizio dei meneurs o delle élite tradizionali, in Sorel esso viene inteso come strumento di azione violenta e diretta di massa, tesa alla distruzione creatrice dell’esistente e alla formazione di una aristocrazia di produttori, forgiati dalla lotta e provvisti di una rigorosa moralità. Una macchina funziona tanto meglio – dice Sorel nel volume Le illusioni del progresso –, quanto più è formata da parti semplici e geometriche (come sfere, coni o cilindri: si pensi, per comodità, ai cuscinetti a sfera), quanto più le combinazioni fra i componenti entrano in contatto diretto e quanto minore è l’attrito prodotto.41 Analogamente, il mito, quale “sistema di immagini”, è tanto più capace di mobilitare le masse, quanto più è costituito da immagini perspicue e facilmente afferrabili dalla mente (come un cerchio e un triangolo per la percezione visiva o una melodia elementare per quella uditiva) e quanto meno suscita ambiguità e dubbi. Allorché tali immagini sono ben raccordate, posseggono incisività: esercitano il massimo di pressione su una minima superficie (come lo spillo, che perciò buca facilmente).42 Con Sorel – ma già con Nietzsche e James – viene rovesciata l’ipotesi che il pensiero abbia una struttura 304
isomorfa rispetto alla realtà, che ne rispecchi cioè il movimento e le contraddizioni. Dalla convinzione che la prassi umana debba limitarsi ad assecondare processi oggettivi, che si farebbero comunque strada autonomamente, si passa alla tesi che non esiste alcuna corrispondenza ontologica tra pensiero e realtà e che unicamente i miti della volontà (la volontà di lotta, la volontà di potenza o la volontà di credere) danno senso a un mondo che in se stesso ne è privo. Nei termini di una specifica meccanica razionale della società, il mito si presenta come una strutturazione creativa di energie, in grado di superare l’opposizione tra macchina e anima e tra meccanicismo e finalismo. In questo senso, i miti politici del Novecento non assomigliano ai vecchi: sono il prodotto di una consapevole e, talvolta, sofisticata ingegneria sociale, di apparati propagandistici burocraticamente organizzati secondo schemi di razionalità rispetto allo scopo e capaci di autoperpetuarsi. A differenza dell’utopia, che presuppone un controllo a posteriori della sua realizzazione, il mito non è ancorato ad alcuna prova di realtà o di coerenza logica, ma solo alla coerenza fantastica, al rispetto dei desideri di riscatto, delle passioni, delle aspirazioni e delle lotte delle moltitudini: “Gli uomini che partecipano ai grandi movimenti sociali si raffigurano la loro prossima azione sotto forma di battaglie, da cui uscirà il trionfo della propria causa. Io proponevo di chiamar ‘miti’ tali costruzioni, la cui comprensione è di così alta importanza per lo storico: in questo senso, lo sciopero generale dei sindacalisti e la rivoluzione catastrofica di Marx sono miti […]. Volevo dimostrare che è assurdo pretender di analizzare quei sistemi di immagini, allo stesso modo che 305
si decompone una cosa nei suoi elementi; e che, invece, bisogna prenderli nel loro insieme, come energie storiche; e guardarsi, soprattutto, dal confrontare i fatti compiuti con le rappresentazioni fantastiche formatesi prima dell’azione”.43 L’utopia è irenica, genera una nostalgia di futuro che non impegna all’azione, mentre il mito divide, produce varianti divergenti, diremptions (diramazioni operate dalle scelte, scismi più che scissioni). Il mito ha il compito di rendere visibile, di far spiccare un’idea o un evento capace di sfociare nell’azione: “Anche se i rivoluzionari si fossero ingannati del tutto, facendosi un quadro immaginario dello sciopero generale, questo quadro potrebbe aver avuto, nel periodo di preparazione rivoluzionaria, un’efficacia di prim’ordine, purché avesse compreso pienamente tutte le aspirazioni del socialismo, e dato all’insieme dei pensieri rivoluzionari una precisione e una fermezza, che un’altra impostazione non avrebbe potuto fornire” (RV, 182). Al pari della contemporanea filosofia del “come se” (als ob) di Vahinger, il mito è “poesia sociale”, ma funziona come se fosse vero. L’importante è crederci, in quanto esso è legato non alla ragione, ma all’anticipazione, nel presente, di un avvenire indeterminato (i miti sono, infatti, “futuri immaginati”), a una fede incrollabile nonostante tutte le sconfitte pratiche e tutte le smentite teoriche. Malgrado non corrisponda alla realtà, il mito del crollo del capitalismo, della catastrofe della sua civiltà, è lo strumento più adeguato per rendere possibile il “cammino verso la redenzione” e per far penetrare nelle coscienze l’ammaestramento fondamentale del socialismo, “il principio della separazione delle classi”,44 e per dare così forma alle aspirazioni degli oppressi. 306
Proponendo una dialettica di pura contraddizione, rifiutando l’intreccio di mediazione e immediatezza e di contraddizione e sviluppo, la teoria soreliana rovescia, su un punto centrale, il modello hegeliano e marxiano. Mentre Hegel e Marx mostrano, infatti, lo spontaneo prodursi della scissione all’interno della “cosa stessa”, Sorel la programma in anticipo, facendo scomparire la mediazione. Lascia in tal modo che la contraddizione campeggi solitaria, introdotta nella realtà attraverso la tensione morale, l’energia della volontà, la lotta e il sacrificio di quanti si oppongono al compromesso tra le classi. La scissione, che in Ribot e nei médecins philosophes è sintomo di debolezza, diventa ora fulcro per risollevare la civiltà. I giardinieri della storia La paura di Sorel, come pure dei teorici della psicologia delle folle e di molti contemporanei, è che la stagnazione diventi la premessa della dissoluzione, il brodo di coltura dei mediocri compromessi che deprimono le energie potenziali dello sviluppo, impedendo l’evoluzione verso stadi più alti di convivenza tra gli uomini.45 Le contraddizioni, le tensioni e i dislivelli introdotti artificialmente dal mito costituiscono l’antidoto più efficace contro l’invecchiamento dei sistemi sociali, da combattersi “forzando” lo svolgersi spontaneo degli eventi per piegarli nella direzione voluta: quella dello scontro sociale. Il termine forcer – come chiarisce Sorel parlando di Lenin che “vuole forzare la storia, al pari di Pietro il Grande” – è qui preso in un senso “vicinissimo a quello che gli danno i giardinieri”.46 Forzare la storia significa quindi far maturare in fretta i conflitti nella serra riscaldata del mito, che assume in tal modo una funzione anti-darwiniana, in quanto 307
introduce una selezione artificiale nel corso storico, una diremption degli uomini in base alla loro capacità di mobilitarsi grazie a miti volti a generare un Übermensch di massa e a sottrarsi, per principio, a qualsiasi critica e discussione sulla propria verità e attuabilità. Tali “sistemi” o “organismi” di immagini permettono agli individui e ai gruppi di raggiungere gli strati profondi della vita psichica, di scendere sino a quella “coscienza creatrice” che – nei termini dell’Étude sur Vico – ha per radice la “logica dell’immaginazione”, basata sull’incapacità dei primitivi a “separare la cosa dal simulacro” e, per contro, sulla loro attitudine a credere a quel che immaginano (vichianamente: fingunt simul creduntque). Il mito poggia sui “mondi fantastici”, sulla fantasia poetica, produttiva e prelogica. Attinge all’“animo perturbato e commosso”, prendendo, in età di crisi, il predominio sulla “mente dispiegata” e ringiovanendo così le civiltà giunte all’ultimo stadio della corruzione.47 Il potere fascinatorio della “logica poetica” del mito continua ad agire anche negli adulti, oltre che nei fanciulli, e nelle civiltà evolute, oltre che in quelle primitive,48 in quanto in Sorel, come in Ribot, gli strati più arcaici della coscienza non scompaiono con il sorgere di quelli più evoluti. Di fronte al tramonto dell’“antica metafisica” dell’adæquatio, che concepiva la mente quale mirror of nature; dinanzi alla trasformazione del kósmos, come ordine e misura naturale in cháos, disordine e nulla per noi, l’idea soreliana di ordine fittizio (o fattizio) da imporre ai fenomeni si nutre, ancora una volta, del contributo di Vico, il quale aveva mostrato, nella Scienza nuova, come, all’alba della storia umana, il mondo venga organizzato a partire da 308
costruzioni fantastiche che ottengono un avallo e una sanzione politica. Sono, infatti, le “genti maggiori”, i potenti, a stabilire un ordine originario e artificiale, dettato dall’immaginazione, mediante istituzioni – foscolianamente “nozze, tribunali ed are” – che stabiliscono ‘poieticamente’, secondo una logica generatrice di senso, le norme della convivenza umana e i rapporti di potere. E lo fanno fissando leggi e principi che non corrispondono a nient’altro che a una volontà di ordine nata dall’osservazione della regolarità dei movimenti celesti in contrasto con la disordinata promiscuità della vita umana nell’ingens sylva del mondo. Alla stessa maniera in cui stelle diverse vengono riunite in costellazioni a formare figure arbitrarie, che si vedono solo dopo che sono state costruite e legittimate, così anche le istituzioni umane sono costrutti mitici, nati dall’immaginazione che ha preso il potere. Solo a posteriori se ne può eventualmente misurare la razionalità e l’utilità sociale, quando – crescendo a valanga su se stesse e diventando più ‘prensili’ per la ragione – possono essere finalmente sottoposte a critica. Oltre a non costituire spontanee creazioni fantastiche, i miti moderni hanno in Sorel una funzione eminentemente pratica: “I miti debbono esser presi quali mezzi per operare sul presente: ogni discussione sul modo di applicarli materialmente, al corso della realtà, è priva di significato. Soltanto l’insieme del mito è ciò che importa; le singole parti non hanno importanza, se non per la luce che proiettano sui germi di vita, racchiusi in quella costruzione” (RV, 182). Si potrebbe paragonare il mito a una lastra fotografica in negativo, in cui si intravede per contrasto la vittoria sulle forze antagonistiche da parte di coloro che credono in un 309
determinato ideale, una lastra però che, esposta alla luce solare della ragione, non verrebbe sviluppata, ma perderebbe anzi ogni immagine. Esso ha, per gli uomini, una funzione analoga a quella che Bergson assegna all’istinto degli animali (soluzione altrettanto “elegante” quanto l’intelligenza): quella di condurre speditamente alla meta, aggirando le ribotiane “malattie della volontà”, che paralizzano (o, comunque, interferiscono con) il conseguimento dello scopo. La redenzione dai tormenti dell’incertezza e la fuoriuscita dai labirinti dell’intellettualismo vengono perciò trovate nell’azione, nel bergsoniano “colpo di stato della volontà”. Il mito serve a trasformare gli uomini da spettatori in attori.49 È, infatti, una costruzione della volontà, non dell’intelletto, un tutto non scomponibile in parti, refrattario all’analisi della razionalità. A differenza dell’utopia, che è “un congegno smontabile”, ed è quindi sottoponibile sia a un esame di fattibilità a priori, sia a un’analisi di efficacia a posteriori, il mito è inattaccabile dall’intelligenza, circondato com’è da un’aura di sacralità che lo trasforma in tabù, inibendo la critica: “Bisogna fare appello a un insieme di immagini, capaci di evocare in blocco e con la sola intuizione, prima di ogni analisi riflessa, la massa dei sentimenti, che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra impegnata dal socialismo contro la società moderna” (RV, 177 e, cfr., per il mito dello sciopero generale, RV, 183). Il mito si basa sul fanatismo della volontà di credere, su atti di fede. L’avversione di Sorel nei confronti degli esponenti del ceto intellettuale (il cui campione negativo, come per Nietzsche, è rappresentato da Socrate)50 dipende dal fatto 310
che essi, al pari dei socialisti “pavidi di una rivoluzione”, denigrano e mettono in ridicolo il mito dello sciopero generale, senza rendersi conto che esso è l’unico dispositivo per concentrare e mobilitare l’energia dei produttori, uno strumento per dar loro coscienza della propria forza, per attivarne i sentimenti e le idee in vista della “lotta decisiva”. Quel che conta, del resto, non è lo sciopero generale in sé, ma i risultati attesi grazie alla sua minaccia o alla sua attuazione. Rispetto a Marx, Sorel privilegia, quindi, il compito della formazione mitica della coscienza e dell’autoeducazione del proletariato sull’analisi scientifica della “realtà”. Nell’imminenza di grandi e radicali sconvolgimenti, i miti costituiscono forme di rapida erogazione dell’energia volitiva, spronano le masse – anche per Sorel tendenzialmente conservatrici e sempre pronte a seguire un Cesare – a educarsi alla lotta di classe e alla violenza rivoluzionaria. Benito Mussolini ha chiaramente individuato, nel 1912, il cuore della dottrina di Sorel, considerando il mito “una favola” non dimostrabile, un “atto di fede del proletariato”.51 Anche più tardi, quando si tratterà di stabilire con uno slogan i tre comandamenti principali del fascismo, il “credere” precederà sia l’“obbedire” che il “combattere”, mostrando come la fede soggettiva nella validità del comando impartito da un’autorità riconosciuta sia il fattore essenziale della politica. In cammino verso l’ignoto Abbandonato il criterio della distinguibilità razionale di vero e falso, l’avvenire diventa improgrammabile, in quanto risultato della forza imprevedibile della volontà. Paragonato all’utopia, il mito è importante proprio perché spinge verso 311
un futuro irrappresentabile e sconosciuto all’intelligenza, perché indica una meta ignorata dalla tradizione illuministica e razionalistica. In questo senso, da un lato, “il capitalismo ha una funzione analoga a quella che Hartmann attribuisce all’Incosciente nella natura, perché esso prepara l’avvento di forme sociali che non si propone di creare” (RV, 135), dall’altro “il socialismo ha sempre atterrito, per l’enorme ignoto che racchiude” (RV, 196). Si viaggia in direzione di terræ incognitæ anche quando, per altri versi, si continua a rimanere nell’ambito della normalità: “L’esperienza ci prova che le costruzioni d’un avvenire, indeterminato nel tempo, possono avere una grande efficacia e presentare pochissimi inconvenienti, quando abbiano una certa natura. Ciò accade quando si tratta di miti, che racchiudono le tendenze più spiccate d’un popolo, d’un partito, d’una classe; che, con la tenacia propria degl’istinti, si presentino allo spirito, in tutte le circostanze della vita; che, infine, diano un aspetto di piena realtà alle speranze di prossima azione, su cui si fonda la riforma della volontà. Noi sappiamo, del resto, che questi miti sociali non impediscono punto all’uomo di saper trar partito da tutte le osservazioni ch’egli fa nel corso della sua vita e non sono d’ostacolo, a che egli adempia le sue occupazioni normali” (RV, 180). Diversamente dalle utopie, che rinviano l’azione al futuro, i miti consentono immediatamente agli uomini di “prepararsi alla distruzione di ciò che esiste” (RV, 83), trovando un clima favorevole al loro attecchire, perché la storia è fatta più da uomini scontenti del presente e avidi di un futuro sconosciuto, che da quanti amano cercare nella storia sentieri tracciati in anticipo.52 Le sconfitte, poi, non distruggono i miti. Sembra, anzi, che li rafforzino: “I 312
cattolici non si sono mai scoraggiati nelle prove più dure, perché immaginavano che la storia della Chiesa fosse una sequela di battaglie tra Satana e la gerarchia sostenuta da Cristo; ogni difficoltà nuova è un episodio di questa guerra, e deve fatalmente menare alla vittoria del cattolicesimo” (RV, 74). Come per i primi cristiani il detto di Gesù “il mio regno non è di questo mondo” divenne la radicale negazione delle istituzioni e delle forme di vita del loro tempo, allo stesso modo anche il moderno “produttore” deve credere che il suo regno futuro in Terra non appartenga al mondo storico in cui vive. A differenza dei cristiani, deve però praticare la violenza, imitando gli anarchici, che hanno insegnato agli operai a non vergognarsi dell’azione diretta, perché la violenza è una componente essenziale degli scioperi e non una loro degenerazione (cfr. RV, 90). Persino la mafia e la camorra (fenomeni cui Sorel dedica particolare attenzione) mostrano come organizzazioni paramilitari relativamente piccole siano in grado di tenere in scacco lo stato e rappresentino, quindi, un modello su scala ridotta di possibile ribellione nei confronti dei poteri costituiti.53 Contro la filosofia borghese, la quale sostiene invece che “la violenza sarebbe un rimasuglio di barbarie, destinato a sparire col progresso della cultura” (RV, 125), occorre sottolineare il fatto che la violenza – al pari della guerra in Proudhon – costituisce una forza civilizzatrice, levatrice di nuove forme sociali: “Tutto può essere salvato se, con la violenza, si giunge a irrobustire la divisione in classi, e a rendere alla borghesia una parte delle sue energie” (RV, 148). Le violenze proletarie “sono puri e semplici atti di guerra, hanno valore di dimostrazioni militari, e servono a 313
mettere in rilievo la separazione delle classi. Tutto ciò che appartiene alla guerra si compie senz’odio e senza spirito di vendetta” (RV, 169). La borghesia in declino, in cerca di compromessi con i nemici di classe, non avverte più una spontanea propensione alla violenza, tanto che è diventato necessario spingervela di nuovo: “Se, di fronte a una borghesia ricca e avida di conquiste, si leva un proletariato unito e rivoluzionario, la società capitalistica raggiungerà la perfezione storica” (RV, 141). Non si deve avere paura di incutere paura, perché così si rendono i propri nemici più duri e motivati allo scontro di cui l’umanità ha bisogno per evitare la propria degradazione: salus ex inimicis. Anche in questo caso, Mussolini, interpretando Sorel, aveva tratto la conclusione che è necessario costringere la borghesia ad alzare il tono dello scontro: “Noi non vogliamo raccogliere il patrimonio della borghesia di un periodo di decadenza. Per gli interessi universali della pianta uomo preferiamo di avere di fronte a noi una classe borghese agguerrita, audace, conscia della propria missione, una borghesia che raggiunge l’apice della sua potenza e cade sotto al colpo decisivo dello sciopero generale […]. Questo stato di guerra permanente fra borghesia e proletariato genererà nuove energie, nuovi valori morali, uomini nuovi che si avvicineranno agli antichi eroi”.54 Occorre rendere alla massa la “ferinità” dell’aristocrazia nietzscheana, fare di ciascuno una “belva fulva”, il leone simbolo di energia e di lotta generosa: “Si sa con quale forza Nietzsche abbia celebrato i valori creati dai dominatori, da quell’alta classe di guerrieri, che, nelle proprie spedizioni, sono pienamente indipendenti da qualsiasi costrizione sociale; ritornano alla semplicità della 314
coscienza delle belve; ridivengono mostri trionfanti, che ricordano sempre ‘la belva fulva e fiera, in cerca di prede e di stragi’, e presso cui ‘un fondo nascosto di ferinità ha, di tanto in tanto, bisogno di prorompere’. Per ben comprendere queste tesi, non bisogna star troppo alle formule, che, talvolta, sono state esagerate deliberatamente, bensì ai fatti storici. L’autore ci dice che egli pensava ‘all’aristocrazia romana, a quella araba, germanica o giapponese, agli eroi omerici, ai vichinghi scandinavi’ ” (RV, 306-307). Al pari di Nietzsche, anche Sorel cerca un rimedio alla décadence, ma nella classe dei produttori, paradossali Übermenschen di massa.55 Unisce Marx a Nietzsche, facendo della violenza proletaria, destinata a rovesciare l’oppressione di classe, un mito di guerra, che serve ad affrontare efficacemente la durezza dello scontro sociale e a fortificare gli animi. Il produttore-soldato che funge da modello è un uomo che non guarda al proprio interesse, ma alla gloria e a un futuro migliore e diverso. È l’erede dei Trecento di Leonida alle Termopili, dei legionari romani, dei martiri cristiani, dei guerrieri degli eserciti napoleonici e – in maniera a prima vista curiosa – degli eroi solitari del Far West americano: “Io sono convinto che, se Nietzsche non fosse stato così fortemente dominato dai ricordi di professore di filologia, avrebbe visto che il dominatore vive tuttora e sotto i nostri occhi; e, nell’ora che corre, fa la straordinaria grandezza degli Stati Uniti. Nietzsche sarebbe stato colpito dalle singolari analogie tra lo yankee, dall’attività multiforme, e l’antico marinaio greco, pirata, colono, mercante. Egli, soprattutto, avrebbe stabilito un parallelo tra l’eroe antico e l’uomo che si slancia alla 315
conquista del Far West” (RV, 308). Più che un “socialismo aristocratico”, quello soreliano è un socialismo eroico, una variante delle molte strategie per risalire la china della decadenza, per non affogare nell’“oceano” della democrazia. I produttori – solo in parte assimilabili ai nuovi barbari o ai “bestioni” vichiani – devono passare, nel loro marxismo, non “dall’utopia alla scienza”, come voleva Engels, ma dalla scienza al mito (l’enorme influenza esercitata da Marx sui ceti popolari è infatti dovuta, ripete ancora Sorel, non alle sue teorie, ma ai suoi miti).56 Si tratta di distruggere le civiltà corrotte, le successive incarnazioni di Cartagine: “Se noi siamo riconoscenti ai soldati romani d’aver sostituito a civiltà abortite, deviate o impotenti una civiltà di cui noi siamo ancora gli alunni per il diritto, la letteratura e i monumenti, quanto l’avvenire non dovrà essere riconoscente ai soldati russi del socialismo!”.57 L’iniziale marxismo di Sorel risponde a due problemi: come “sapere ciò che accadrebbe in un’economia in decadenza” (RV, 141); come operare rivoluzioni o passaggi di civiltà in tempo di crisi, un aspetto su cui Marx non ha riflettuto a sufficienza: “Marx comparava il passaggio da un’èra a un’altra a una successione civile: i tempi nuovi si fanno eredi degli acquisti precedenti. Se la rivoluzione si producesse durante un periodo di decadenza economica, l’eredità non sarebbe fortemente compromessa?” (RV, 142). Le grandi svolte di civiltà avvengono appunto, per Sorel, quando la decadenza compromette la trasmissione ereditaria della civiltà da una forma sociale all’altra. È proprio l’interruzione della tradizione che consente il sorgere di nuove forme. Solo che, in questo caso, la rivoluzione non procede assecondando il movimento storico, accelerando le 316
doglie del parto, cavalcando l’onda lunga degli eventi, ma andando controcorrente, grazie a forze artificialmente suscitate dal basso. Da questo punto di vista, il ruolo dei sindacalisti rivoluzionari rispetto al socialismo è analogo a quello degli ordini mendicanti nel XIII secolo, nel periodo di decadenza della Chiesa.58 Il mito della violenza costituisce quindi un antidoto alla décadence, in quanto spinge le classi in lotta a promuovere lo sviluppo della civiltà e l’individuo a ritrovare nella diremption la forza per ridarsi consistenza.
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9. Gerarchia e sacrificio: Mussolini e Gentile
Una strada nel bosco Il meneur des foules è un politico che ha appreso a muoversi nell’ambito della décadence (ossia del frammentario, del caduco, del disorganico, del morboso, del “femmineo”, del “vecchio”). Ne riconosce i sintomi e sa indicarne la cura: sgravare l’io da penose responsabilità inserendolo nella massa; trovargli obiettivi con cui identificarsi; additargli quei nemici che la cultura del tempo ha già messo all’indice quali responsabili della degradazione dell’esistenza. Questi capri espiatori si possono dividere in tre gruppi. Il primo è rappresentato dai socialisti, dai democratici e dai cristiani, da quanti, predicando l’eguaglianza, danneggiano la crescita dell’intera società e sviliscono i migliori. Il secondo dai veicoli umani della “degenerazione” (concetto nato in ambito zoologico senza dirette implicazioni politiche,1 che assume ora tratti marcatamente negativi, sino a trasformare i “degenerati ereditari” – malati di mente, criminali, alcolizzati, sifilitici – in intollerabili remore del progresso, in avvelenatori e potenziali distruttori dell’intero genere umano).2 La presunta necessità di difendersi dai malriusciti o dai viziosi giustifica la messa al bando di ogni compassione, giudicata 318
inutile e dannoso sentimentalismo. Una nuova disciplina medica, l’“eugenetica”, nasce così con il dichiarato obiettivo politico della loro sterilizzazione coatta.3 Ma nella propaganda di alcuni circoli intellettuali e in alcuni strati del senso comune circola già la proposta, ben anteriore alla “soluzione finale”, di sterminarli tutti. Si ascoltino, ad esempio, le parole di un personaggio di Čechov: “Le nostre cognizioni e l’evidenza ci dicono che un pericolo minaccia l’umanità da parte degli individui moralmente e fisicamente anormali. Se è così, lottate contro gli anormali. Se non avete la forza di elevarli alla norma, vi basta però la forza e la capacità di renderli innocui, cioè sopprimerli”.4 Il terzo bersaglio è, infine, rappresentato dagli esponenti della degenerazione psicologica in campo letterario. Max Nordau ne elenca le manifestazioni, secondo la versione fin de siècle, in Dostoevskij, Tolstoj, Bourget, Zola, Huysmans: attenzione esasperata per il proprio io; “sfinimento”; “impotente disperazione di un malaticcio che si sente morire oncia a oncia in mezzo alla natura che gli sopravvive fiorente ed eternamente altera”; “invidia dell’uomo sensuale, vecchio e ricco che vede una giovane coppia di amanti muovere il passo verso un angolo silenzioso del bosco”.5 Quanto più l’io appare labile e la civiltà esposta al rischio della decomposizione, tanto più imperioso diventa il bisogno di ancorarsi a saldi punti di riferimento, esterni alla coscienza di individui ormai intimamente rassegnati a restare nel disorientamento e nell’impotenza. Allorché la debolezza dell’io diventa conclamata e di massa, il sapere psicologico-psichiatrico, dopo aver fornito la diagnosi, consegna la terapia alla politica. La disgregazione dei singoli io, non riassorbibile per linee interne nell’“io egemone” di 319
ciascuno, viene gerarchicamente subordinata a un suo omologo esterno: il capo politico, che, giunto al potere, sostituisce l’“io egemone” di individui ormai stremati – e, proprio per questo, dotati di fortissima “volontà di credere” – con un io egemone esterno: il suo. Una simile mossa gli permette di raggiungere vari traguardi in un solo colpo: di dare consistenza a ectoplasmi di io, annunciando la buona novella della loro redenzione da una vita svuotata di senso e abbandonata ai flutti della storia; di puntellare i fragili aggregati di Io, consolidando il Noi e facendosene l’unico rappresentante (fino a giungere alla radicale affermazione di Goering, “Io non ho coscienza, la mia coscienza è il Führer”); di rinsaldare, mediante l’omogeneizzazione delle “masse”, il senso d’appartenenza dei singoli a un mondo condiviso, quale antidoto al progressivo allentamento dei vincoli tradizionali, familiari e sociali; di restaurare l’autorità ‘verticale’ grazie a una nuova gerarchia, che ristabilisce formalmente, sottolineandole, le diseguaglianze tra gli uomini; di proclamarsi salvatore dell’Occidente, opponendosi strenuamente al suo “tramonto”. Tutti gli elementi destabilizzanti, sia per gli equilibri individuali (ribellione degli io marginali all’io egemone, fattori di disgregazione della personalità quali follia o alcol), sia per gli equilibri collettivi (socialismo, anarchia, ribellismo, criminalità, devianza) vengono sottoposti, dapprima in teoria e poi in pratica, all’autorità e all’arbitrio del meneur. Invocato e atteso da molti come un Messia politico destinato a riportare ordine nella società, egli attrae su di sé gli investimenti affettivi che i singoli disperdevano prima in molteplici persone e ideali. Capitalizza in tal modo l’energia di legame resasi disponibile dai disinvestimenti 320
frazionati su più obiettivi. Grazie all’immagine del meneur (che, insediatosi nella sfera più intima della personalità, provoca l’apparente ritorno delle coscienze individuali a una sorta di organizzazione “coloniale”, in cui esse sono chiamate a concedere una delega globale e irrevocabile a chi le rappresenta) l’io del capo si carica del potere delle masse, mentre quello dell’individuo si stabilizza ancorandosi a un punto fisso. A partire da Le Bon, ma con un crescendo nei primi decenni del Novecento, si attribuisce alla politica un carattere salvifico, fondato sull’identificazione tra la figura del capo e il processo storico e sulla partecipazione di milioni di uomini a progetti politici in grado di capovolgere il corso degli eventi, di allontanare lo spettro di un incombente collasso della civiltà. Confermando l’assioma della Psychologie des foules secondo cui nella storia l’irreale domina sul reale, il meneur suscita nelle masse una fede politica tanto robusta da sfidare impunemente sia la logica, sia la prova di realtà. Mostra come l’efficacia della prassi politica non si fondi sulla verità, ma su fedi, credenze e illusioni, da inventare e rinfocolare giorno per giorno. Da un lato, risponde così all’avvertita insufficienza dell’etica e della politica di stampo liberale, chiuse in se stesse e inadatte a dirigere le folle in un’epoca in cui è criminoso ignorarle; dall’altro, sfrutta i collaudati metodi delle religioni, esperte da millenni nel condurre e nell’organizzare le masse degli “umili”. In un periodo storico in cui gli individui, per quanto deboli, non possono essere tenuti ai margini delle scelte che riguardano la loro vita, il meneur ha capito che l’ossequio formale all’autorità non è più sufficiente a garantire la tenuta degli stati e che bisogna, quindi, 321
introdurre un tipo di sovranità in grado di estendersi anche al mondo interiore, facendo del capo politico anche il capo di una nuova chiesa, il Partito, parte che vuole diventare Tutto. Comincia così quella fase storica di capillare infiltrazione e occupazione delle coscienze che ha caratterizzato il Novecento. La comunità dei morituri I meneurs des foules della prima metà del XX secolo non si sentono i continuatori della tradizione cesaristica e bonapartistica dell’Ottocento, arbitri fra blocchi politici antagonistici con uguale potere di minaccia e di reciproca distruzione. Memori dell’esperienza dei sindacati e dei partiti operai, che avevano segnalato la necessità di far uscire le masse dallo “spontaneismo”, dando forma organica alla loro “anima” evanescente e momentanea, essi non vogliono porsi unicamente alla guida di folle amorfe, in cui la voce del gregge sovrasta, senza mediazione alcuna, quella della coscienza singola. La figura del nuovo meneur des foules – Duce, Führer, Caudillo o Conducator, termini tutti che ricalcano quest’espressione francese – e, più in generale, i “totalitarismi”6 risultano però incomprensibili se isolati dall’esperienza della Grande Guerra, quale spartiacque tra le folle momentanee e fluttuanti, descritte da Le Bon (o tenute insieme, in Sorel, dal solo “spirito di scissione”) e le masse organizzate e disciplinate dall’esperienza bellica. Questo conflitto imprime un’improvvisa accelerazione ai progetti, già impostati, di esorcizzare l’inconsistenza della psiche individuale per ridurre la fragilità delle compagini sociali e assicurare alle élite la continuità del potere proprio nell’età delle masse. 322
La formazione dell’identità personale del soldato che ha preso parte attiva alla Prima guerra mondiale è segnata da un accumulo di choc in precedenza impensabile. Chi, nelle trincee, ha visto da vicino la morte, chi ne ha sentito costantemente l’odore, chi ha assistito allo strazio e alla mutilazione dei compagni d’arme, unici amici dopo il distacco dal “mondo di ieri”, ha definitivamente abbandonato il precedente “io egemone” di pace. Uscito vivo dal fango dei martoriati campi di battaglia, dalle insidie delle profondità marine o dal rischio di precipitare dall’alto di un cielo appena conquistato alle nuove tecnologie, è diventato un altro uomo, spesso ignoto a se stesso. L’esercito, comunità di tutti i possibili morituri, lo accoglie entro un immenso collettivo, una numerosa famiglia autoritaria e anonima, che tempra la sua individualità attraverso ordini e divieti proprio mentre ne dissolve l’autonomia: “Ciascun individuo assisteva a un ampliamento del proprio io, non era cioè più una persona isolata, ma si sapeva inserito in una massa, faceva parte del popolo, la sua persona trascurabile aveva acquisito una ragion d’essere”.7 Il combattente che si accorge, con stupore, di aver superato prove che gli sembravano dapprima impossibili, si rende anche conto che deve la propria sopravvivenza e l’eventuale vittoria del suo esercito unicamente alla disciplina, all’organizzazione e allo spirito di sacrificio degli ufficiali e dei soldati. Terminata la guerra, il fante non dimentica l’esistenza rintanata trascorsa nelle trincee, simile a quella di “talpe” o “vermi”, l’attesa e la paura – nell’oscurità e nella sporcizia – che un’ulteriore “tempesta d’acciaio” possa colpire la sua vulnerabile carne con l’insensibile metallo dei proiettili (cfr. 323
E. Jünger, SG). Alla mente del marinaio o dell’aviatore si ripresentano poi, inevitabilmente, quei momenti in cui, sorretti da (o appesi a) elementi infidi e pericolosi, come l’acqua e l’aria, sono stati esposti al pericolo di essere inghiottiti dai gorghi o di schiantarsi al suolo. Tali esperienze, che hanno acuito il senso della precarietà di tutte le cose, che hanno messo ognuno a contatto con l’idea dell’intercambiabilità della sua funzione e con la potenza eguagliatrice della morte (circa la metà dei caduti risultano non identificati o non identificabili alla fine del conflitto), hanno anche contribuito a togliere valore alla vita individuale, al cui ostentato spreco si è dovunque assistito. Unica garanzia di sopravvivenza e di sostegno emotivo dei combattenti rimangono i commilitoni, fidati perché hanno affrontato insieme gli stessi rischi. Con chi ha condiviso gli ‘anni di apprendistato’ al mondo che sorgerà dalla guerra s’istituiscono durevoli vincoli di cameratismo, di fratellanza d’armi, di virile amicizia. Ma non di eguaglianza. L’esperienza della terra di nessuno psichica, della discontinuità rispetto all’esistenza precedente nella vita civile, suscita il bisogno di colmare il vuoto. In situazioni in cui gli orizzonti di senso sono confusi, in cui i rapporti umani tradizionali si allentano, la guerra offre a molti quell’avventura che Simmel cercava nelle periferie della vita, quel surrogato del sacro sul terreno orizzontale dell’immanenza che invano si era cercato nella dimensione verticale delle religioni. È questa una forma mentis che induce molti – a guerra finita e sotto la pressione dell’incalzante crisi economica e sociale – a sognare nuove imprese sotto il comando di autorità indiscutibili, a rischiare la propria esistenza ancora una volta alla lotteria della morte 324
e della storia. Le virtù della vita militare vengono così velocemente trapiantate nella vita civile: disciplina, abnegazione, esecuzione pronta e automatica degli ordini, disponibilità al sacrificio di sé. Con il sangue di milioni di caduti – e con le migliaia di monumenti loro dedicati – si rinsalda il legame simbolico tra la terre e les morts, già teorizzato da Barrès in termini mitici (e da lui ripreso nella leggenda dei morti che risorgono per combattere a fianco dei loro commilitoni, Debout, les morts!) o dai poeti che hanno cantato lo struggente, spettrale ritorno dei caduti alle loro case.8 Per nazioni sconfitte, come la Germania – o convinte, come l’Italia, di aver ottenuto una “vittoria mutilata” –, il sangue versato esige, come pegno di futuro risarcimento, altro sangue. L’ebbrezza di essere sempre schierati su qualche fronte, disposti a combattere e a mettere in gioco la vita propria e altrui, diventa un eccitante cui difficilmente si rinuncia. Il ricordo della guerra continua perciò a fermentare anche dopo che i combattenti si sono trasformati in reduci (soprattutto nei volontari, nei graduati e in quanti, giovanissimi, si sono improvvisamente trovati a comandare decine, centinaia o migliaia di uomini, diventandone responsabili). I borghesi rimasti a casa a curare i loro affari, ma, soprattutto, gli operai “rossi”, esaltati dai socialisti e dai bolscevichi, appaiono ora come “imboscati”, persone che – pur non avendo partecipato alla guerra e, anzi, generalmente detestandola – ne hanno indebitamente e indegnamente goduto i vantaggi in termini di sicurezza. La loro sbiadita esistenza, il loro incatenamento alla routine della quotidianità e della razionalità economica, diventa l’incubo di quanti si vedono costretti a regredirvi. Se 325
confrontato con la tragica e magica pienezza dei giorni di guerra, con il loro alternarsi di esaltazione e di disperazione, questo stile di vita appare miserabile. Per l’io ‘militarizzato’, che cerca paradossalmente di rendere normale l’eccezione, che ha in mente la continuazione della guerra con altri mezzi, la gerarchia, non solo non impedisce l’iniziativa individuale, la libertà, ma la rende, anzi, più efficace. Da qui l’irrequietezza, la propensione all’illegalità, il “me ne frego” ricamato attorno al teschio dei gagliardetti, il culto della morte in quanto tale, l’orgoglio di accettarla e rivendicarla con indifferenza (e più tardi il grido falangista “¡viva la muerte!” o i funerei e disperati canti dei militi della Repubblica Sociale Italiana); da qui le peculiari forme di aggressività melanconica dei fascisti, il nichilismo incrociato con la volontà di costruire un nuovo ordine, la spendibilità e persino l’acuta percezione della superfluità della vita individuale, l’esasperato esibizionismo della violenza e il pathos per la Patria, la comunità e l’identità collettiva. Macchine di mobilitazione Attraverso l’ordinamento gerarchico delle folle e il passaggio dal paradigma psicopatologico delle personalità multiple, tipico del periodo della décadence, all’ideale di compattezza eroica dell’individuo forgiato dalle prove della Grande Guerra, la politica compie un apparente balzo nel passato remoto, che sembra ridurre il singolo a mero esponente dell’orda. In effetti, è la moderna pluralità delle anime a essere irreggimentata sotto la dittatura di un io esterno, da cui riceve “quadratura” e disciplina. Sfioriscono così le ricche individualità, di cui già Proust aveva mostrato il declino, e si riduce drasticamente, nello stesso tempo, il numero delle simmeliane sfere di appartenenza 326
dell’individuo (stretto nuovamente d’assedio, ad anelli concentrici, dalla famiglia prolifica, dalla fabbrica, dalla corporazione di mestiere e dal Partito “dai mille occhi”). Non si tratta però di un mero ritorno al passato, della restaurazione di un’immaginaria comunità solidale, ma di un paradossale avanzamento regressivo, di un’innovazione guidata dall’alto per sfruttare politicamente le energie “primitive” provenienti dal basso, dalle folle. Il passato viene ora utilizzato come combustibile per bruciare le tappe del cambiamento, per affrettare spietatamente la costruzione delle nuove macchine totalitarie, che si servono, simultaneamente, del recupero della tradizione e del culto della modernità, del mito e della ragione, dell’odio per il nemico e della solidarietà per il Noi, della civiltà industriale e del mondo contadino, del martello e della falce, dell’alta tecnologia e delle idee antiquate.9 Le rivoluzioni che accompagnano o seguono immediatamente il Primo conflitto mondiale aggiungono così alla crudeltà di tutte le guerre civili l’odio che deriva dalle ideologie. Sebbene non siano “caduti dal cielo”, i nuovi regimi condotti da un meneur ricombinano e incrementano in forma inedita l’eredità del passato, introducendo una cesura rispetto alle fasi storiche immediatamente precedenti.10 Rimane però in essi un’incancellabile ambiguità di fondo, alimentata dalle contraddittorie esigenze di una società formata da “individualisti di massa”, i quali – come già aveva osservato Tocqueville – aspirano simultaneamente alla dipendenza e all’autonomia.11 Il bisogno di guida e protezione si accresce ulteriormente con l’aumentata complessità dei sistemi sociali, per quanto ciascuno esiga ormai che il consenso gli venga richiesto, perché si rende 327
oscuramente conto della sua forza potenziale, del fatto che, nelle società di massa, anche i deboli, coalizzandosi, costituiscono un blocco di potere con cui accordarsi. La regola democratica dell’eguaglianza politica, espressa dalla formula “una testa, un voto”, assieme al privilegio di esercitare la propria scelta nel segreto della cabina elettorale perdono il loro fascino. Con i propri seguaci il meneur stipula pubblicamente un patto ineguale, che sembra però coinvolgere ognuno personalmente in un vincolo d’immaginaria dipendenza reciproca: “Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi, se muoio vendicatemi!”, faceva scrivere Mussolini sui muri delle città e dei paesi d’Italia. Così, mentre la strada maestra della civiltà europea e americana di orientamento liberale e democratico conduceva – almeno sul piano ufficiale – verso l’espansione della razionalità politica, grazie all’elaborazione di un sistema capace di articolare ulteriormente il legame amorfo, ereditato dall’assolutismo, tra i detentori del potere e i sudditi (mediante i parlamenti, l’opinione pubblica, le elezioni), nei regimi totalitari si creano luoghi deputati a favorire la trasformazione programmata dell’anima individuale nell’anima “cellulare” di folle deresponsabilizzate o, meglio, fortemente responsabilizzate verso un solo uomo e un solo Partito. Si preparano “adunate oceaniche” davanti a Palazzo Venezia, sfilate diurne e notturne a Norimberga o a Berlino, parate nella piazza Rossa. Opportunamente manipolati, desideri, passioni, sistemi di simboli ad alta pregnanza emotiva entrano così come fattori essenziali delle strategie politiche. Sono tanto più necessari, quanto più incerto è diventato il tradizionale rispetto religioso nei confronti dell’autorità. Il consenso 328
deve essere conquistato e confermato giorno per giorno. Mediante tecniche di “colonizzazione interna”, i singoli vengono perciò fusi al calor bianco nella folla. Le pubbliche manifestazioni mettono a punto rituali – come nell’Italia di Mussolini – che servono a suscitare il comune sentire: “Il regime fascista italiano, in concorrenza con la Chiesa e la famiglia, vuole che i suoi cittadini trovino un sé totale, pubblico e privato, nella piazza”.12 È come se l’intera società (uomini, donne, bambini, anziani) sia stata improvvisamente arruolata nell’esercito e sottoposta a una stretta disciplina, ricompensata dal miraggio di radiosi destini, dalla promessa di un ritorno dell’anima individuale a una durevole compattezza e dalla prospettiva di un inserimento armonico dell’Io in un Noi che lo sostiene, lo rafforza e lo esalta. In quanto espressione di una massa organizzata, il singolo vale ora, non per se stesso, ma per le sue virtù gregarie (onore, fedeltà, spirito di sacrificio).13 Simmetricamente, ordine, gerarchia e disciplina vengono spacciati come sollievo per uomini stanchi di una libertà da cui non hanno tratto vantaggi, disgustati dagli abusi compiuti in suo nome e intimamente attratti dal desiderio di perderla. Così, mentre i regimi liberali e democratici mantengono la separazione tra individuo pubblico e individuo privato, quelli totalitari cercano di fonderli nel crogiuolo del partito e dello stato. Non è più sufficiente lasciare che l’anima delle folle si generi spontaneamente, per semplice e occasionale “contagio”. Occorre una “macchina”, al servizio del capo, che la organizzi e la orienti, un dispositivo politico sempre più perfezionato che trasformi gli individui in elementi intercambiabili e funzionali all’insieme. L’uniforme, il 329
seriale, l’anonimo si sostituiscono all’unico, al determinato, all’individuale, come accade nella prosa visionaria di Ernst Jünger, dove gli uomini appaiono indifferenziati all’interno della massa, perdono i tratti distintivi della loro fisionomia, acquistano volti simili a maschere metalliche, si dispongono, come formiche, in colonne marcianti e identificano la libertà con l’obbedienza.14 L’individuo, che in Simmel sembrava ormai avviato a una maggiore autonomia, è invece ora standardizzato per mezzo di colossali programmi di riconversione delle coscienze e dell’inconscio (da piegare sistematicamente alle nuove direttrici dell’economia e della politica). La produzione in serie del nuovo “tipo” umano non avviene però solo negli stati totalitari. Alla sua diffusione contribuiscono anche altrove l’affermarsi della fabbrica taylorista-fordista (con l’esattezza dei suoi ritmi di lavoro, con l’ascesi alimentare del proibizionismo e con quella sessuale ottenuta grazie al controllo della vita domestica),15 la pianificazione economica pluriennale promossa dall’alto secondo schemi keynesiani, i colossali programmi di opere pubbliche per combattere la disoccupazione e la depressione (metropolitane, autostrade, centrali elettriche, Tennessee Valley Authority). Diversamente dalle altre società industriali, nei regimi totalitari – soprattutto in quello nazionalsocialista e in quello sovietico – tali cambiamenti hanno però luogo con costi umani spaventosi: mediante l’imposizione di una disciplina ferrea, del lavoro forzato e di onnipresenti apparati politici volti a trasformare e omogeneizzare rapidamente i modi di pensare, di agire, e di sentire delle masse. Nello svolgere quest’ultimo compito, Mussolini si 330
considera un artista, capace di operare con gli strumenti complementari del mito e dell’organizzazione razionale. Guarda a se stesso come a un demiurgo o a un fabbro politico che forgia l’anima e il corpo delle folle, “materiale umano per la nuova storia”.16 Anche in lui, l’artificialismo politico, che caratterizza ogni regime totalitario, non mira solo a e-ducare (etimologicamente a “trarre fuori”) la natura umana da un’essenza preesistente, ma a costruirla, a creare l’“uomo nuovo”. Per ottenerlo, bisogna sottrarre agli individui consistenti quote di autonomia, trasformandoli in morbida creta nelle mani del vasaio della politica. In tal modo, la razionalità strumentale, weberianamente orientata “rispetto allo scopo”, rimane intatta, occupando settori sempre nuovi della vita, sottomettendo violentemente alle sue esigenze la sfera dei rapporti interpersonali e trasformando l’uomo esclusivamente in mezzo e non anche in fine per se stesso. A essere oggetto delle tecniche non è più soltanto la materia inerte: anche quella vivente, pensante e senziente viene ridotta a “materiale da costruzione”, a “nuda vita” che è lecito manipolare e distruggere (e non solo perché la tecnica sfugge al controllo dell’uomo “antiquato”, come sostiene Anders, ma perché vi è un disegno politico coerente da perseguire).17 A sostegno di questo atteggiamento sta infatti la convinzione, riassunta chiaramente da Spengler, che la massa è funesta, finché resta soltanto amorfo materiale da costruzione: “La massa respinge fondamentalmente tutto quanto è civiltà, tutte le forme che alla civiltà sono congenite. Essa rappresenta l’assolutamente informe, che perseguita con odio ogni specie di forma, ogni differenza di rango, la proprietà ordinata, il sapere organizzato. È il nuovo nomadismo delle 331
cosmopoli, per il quale gli schiavi e i barbari del mondo antico, i çûdra dell’India e, infine, qualsiasi tipo di uomo si dissolvono in egual misura in alcunché di ondeggiante completamente disgiunto dalle origini, non riconoscente più il proprio passato né possedente un futuro. Con il che il Quarto stato diviene l’espressione della storia che trapassa nella non-storia. La massa è la fine, il nulla radicale” (UdA, 1204). In dono allo Stato Non entro nella pur rilevante discussione sulle affinità o le divergenze tra totalitarismi fascisti e comunisti, perché la storia di questi ultimi ha radici e prospettive in gran parte diverse rispetto ai temi qui specificamente affrontati. Lasciando sullo sfondo lo stalinismo e il nazionalsocialismo, concentrerò l’attenzione sul meneur del fascismo italiano, “latino” nel senso di Le Bon.18 Proprio perché ha conosciuto la décadence – cui attribuisce, come Nietzsche e Nordau, caratteri femminei –, Mussolini intende reagire alle sue seduzioni con l’esaltazione della compattezza, della durata, dell’organizzazione, dell’ordine, della gerarchia; con il pathos per il corpo, la salute, l’esercizio fisico, la giovinezza, la virilità.19 La degenerazione (che sul piano della specie e dell’ereditarietà è l’equivalente della disgregazione dell’identità individuale)20 può essere arrestata e superata mediante una nuova civiltà, qualora il capo riesca a scolpire personalità integre, centrate, “sane”, “giovani”, ardenti di fede, capaci di trasformare l’odio e l’intolleranza in virtù, pronte al sacrificio al solo udire “la parola d’ordine di una suprema volontà”.21 Sebbene ripreso da un precedente canto goliardico, lo stesso inno Giovinezza, giovinezza, esprime l’ideale della lotta 332
contro la decadenza, sotto la guida di un uomo che rappresenta l’Italia “maschia e guerriera” di Vittorio Veneto, di un politico che nel 1922, a trentanove anni, diventa il più giovane presidente del consiglio che l’Italia abbia mai avuto.22 In Mussolini l’esaltazione del superuomo (nella versione da lui attribuita a Nietzsche in base alla lettura della traduzione italiana del Così parlò Zarathustra, nelle edizioni Bocca, e dell’originale tedesco della Genealogia della morale) è presente sin dal periodo giovanile. In questa fase, tale immagine eroica è inserita nella cornice di una violenta polemica contro il cristianesimo, ritenuto il principale responsabile della decadenza, il fautore di quell’infiacchimento della volontà e di quel disprezzo del corpo che conduce all’etica gregaria della compassione e della rassegnazione: “Col cristianesimo è la morale della rinuncia e della rassegnazione che trionfa. Al diritto del più forte – base granitica della civiltà romana – succede l’amore per il prossimo e la pietà […]. E per 20 secoli la follia cristiana ha imperversato. Non più il riso, la gaiezza del vivere, la serenità del morire, la lotta, la conquista; ma lunghe teorie di peccatori dai nervi sfiniti, dalle anime angosciate, dai corpi lacerati attraverso il cilicio, la penitenza, la flagellazione – uomini che alla vita non chiedevano se non la preparazione per il pauroso e misterioso al di là. L’amore del prossimo ha dato venti secoli di guerre, i terrori dell’inquisizione, le fiamme dei roghi e soprattutto – non dimenticatelo! – l’europeo moderno, questo mostricciattolo gonfio della propria irrimediabile mediocrità, dall’anima incapace di ‘fortemente volere’, non abbastanza reazionario per difendere il passato feudale, non 333
abbastanza ribelle per giungere alle estreme conseguenze della rivoluzione, piccino in ogni suo atto e superbo del sistema rappresentativo che chiama la grande conquista del secolo, dal momento che permette una vita politica a base di clientele elettorali e l’appagamento delle inconfessabili vanità”.23 A tale stato di decadenza e di corruzione (in cui è coinvolta per intero anche “la fungaia socialista” dei riformisti, favorevoli “non più alla rivoluzione sociale”, opera di minoranze organizzate, ma “alla metà più uno dei balordi di Montecitorio”) si potrà reagire con l’avvento di un superuomo, portatore di un “maggior grado di malvagità” e fautore della follia contro il buon senso: “Il ‘superuomo’ ecco la grande creazione Nietzscheana. Quale impulso segreto, quale interna rivolta hanno suggerito al solitario professore di lingue antiche dell’università di Basilea questa superba nozione? Forse il tedium vitæ… della nostra vita. Della vita che si svolge nelle odierne società civili dove l’irrimediabile mediocrità trionfa a danno della pianta-uomo […]. Ma il superuomo – questo essere che ‘supererà’ l’uomo come l’uomo ha ‘superato’ la scimmia – dovrà combattere con dei nemici: la Plebe e Dio. Contro quest’ultimo la lotta non sarà pericolosa […]. La plebe offrirà ostacoli maggiori allo sviluppo del superuomo. La plebe sufficiente [sic] cristianizzata e umanitaria non comprenderà mai che possa essere necessario un maggior grado di malvagità perché prosperi il superuomo”.24 In questo senso Mussolini fa appello sia alla disciplina dei subordinati, sia all’esigenza che i capi si assumano decisioni impopolari (“Noi, a Pilato preferiamo Erode”).25 Giunto al potere come incarnazione del superuomo, il 334
“Duce” assegna a se stesso la missione rivoluzionaria di “distruggere l’inutile che ci asfissia per riabilitare il necessario del quale siamo stati costretti a fare a meno” (TM, 385), di temprare cioè uomini che, imitando i capi, siano immuni dall’attaccamento alla vita degradata, in cui il superfluo psichico ha preso il posto dell’essenziale. Disciplina, obbedienza, senso del dovere e della necessità di raggiungere uno scopo, eroismo, sacrificio, dono gratuito della vita intesa come missione sono i valori promossi dal fascismo, capace di definire se stesso solo per via negativa, opponendosi, da un lato, al marxismo, dall’altro, al liberalismo. Della tradizione socialista e dell’ideologia comunista sorta con la Rivoluzione d’ottobre Mussolini contesta il ruolo passivo attribuito agli individui. Con parole di Gentile, che riflettono pienamente il suo pensiero, sostiene infatti che il fascismo ripudia “il materialismo storico, per cui gli uomini non sarebbero che comparse della storia, che appaiono e scompaiono alla superficie dei flutti, mentre nel profondo si agitano le vere forze direttrici”. Del liberalismo – che condivide con la prospettiva marxista della società senza classi le aspirazioni alla piena libertà e prosperità dei singoli – il fascismo nega, invece, il concetto materialistico di felicità. Lo abbandona “agli economisti della prima metà del Settecento”, perché “crede ancora e sempre nella santità dell’eroismo, cioè in atti nei quali nessun motivo economico – lontano o vicino – agisce”. Rifiuta quindi con forza “la equazione benessere-felicità, che convertirebbe gli uomini in animali di una cosa sola pensosi: quella di essere pasciuti e ingrassati, ridotti, quindi, alla pura e semplice vita vegetativa”.26 All’interno di tale concezione, decisamente antiedonistica 335
e antindividualistica, il singolo trova posto solo se abbandona i suoi personali piani di vita, consegnandosi senza residui a uno stato, che non lascia del resto – in linea di principio – alcuna zona franca alla sua autonoma espressione: “Giacché per il fascismo tutto è nello Stato e nulla di umano e di spirituale esiste e tanto meno ha valore fuori dallo Stato” (tesi, questa, si dice, che non implicherebbe alcun atteggiamento ostile allo spirito della democrazia, che aleggerebbe anche nel fascismo, “se il popolo è concepito, come dev’essere, qualitativamente e non quantitativamente, come l’idea più potente perché più morale, più coerente, più vera, che nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi, anzi di Uno, e quale ideale tende ad attuarsi nella coscienza e volontà di tutti”).27 Per fortuna, viene da aggiungere, nessuno stato totalitario consegue per intero i suoi scopi, così che l’individualità dei molti non si annulla sempre in quella dei “pochi” o dell’“Uno”: lascia residui inassimilabili e oppone resistenze non riassorbibili. È, infatti, “quasi impossibile” costruire un regime completamente corazzato, refrattario a ogni intervento dal basso: “Ma questo ‘quasi’ è importante”, poiché al completo dispiegarsi del totalitarismo “hanno fatto da freno, in maggiore o minor misura, l’opinione pubblica, la magistratura, la stampa estera, le chiese, il sentimento di umanità e giustizia”.28 Anche al livello dell’interiorità, sebbene tenti programmaticamente di colonizzarla, il fascismo è costretto a lasciare al singolo delle zone franche, alcune protette dalla Chiesa cattolica e dalla monarchia, altre dalla vischiosità stessa della tradizione. In compenso, non esige “le confessioni della carne”, ammette e favorisce deroghe rispetto all’etica religiosa dell’amore per il prossimo 336
e della continenza sessuale.29 Il ripudio del paolino “uomo vecchio” in vista della creazione dell’“uomo nuovo” avviene tutto sul piano dell’immanenza. La santità laica, l’ideale di perfezione gregaria proposto all’individuo si concreta in una fede integerrima e in un’obbedienza “cieca, pronta, rispettosa e assoluta”, che si manifesta esemplarmente rinunciando “alla propria volontà per sottostare a quella di coloro che sono delegati a comandare per un interesse superiore a quello dei singoli”.30 Il gregario sublime Un doppio scambio politico stabilisce la natura dei vincoli tra capo e gregari. Da un lato, il meneur deve pubblicamente promettere ai propri seguaci benefici sia reali (sicurezza, vantaggi), sia simbolici (rispetto, prestigio, onore, gloria, valori certificati dalla concessione di paradossali patenti di nobiltà di massa: agli eredi di Roma imperiale, agli Ariani o agli operai e ai contadini). Dall’altro, i gregari sono tenuti a promettergli, in grandi manifestazioni plebiscitarie, lealtà incondizionata e obbedienza totale (accompagnate dall’inconfessabile riserva mentale dei più tiepidi o dei meno coraggiosi di scaricare a posteriori sui capi eventuali fallimenti, con il pretesto di aver semplicemente obbedito agli ordini). Dopo il primo input impresso da una violenza che ciclicamente si ripropone, i rapporti totalitari di subordinazione non sono mai il frutto esclusivo del terrore o di una congiura dall’alto, di un ben congegnato, astuto e onnipotente progetto d’assoggettamento, ma anche di una coercizione e di un conflitto cui l’obbedienza pone fine con una resa, di una manifesta o tacita negoziazione, di una reciprocità asimmetrica nelle relazioni di potere, di 337
un’ambigua ripartizione di quote di responsabilità, di viltà e di coraggio. Eppure, persino il dominio assoluto non troverebbe obbedienza se fosse basato unicamente su fattori negativi, quali l’esclusione o la paura, se fosse privo di una qualche forma di sinistra fascinazione e se non assicurasse l’appagamento di interessi vitali o di desideri più o meno consapevoli (promettendo la semplice sopravvivenza, l’immunità dal dolore e dall’emarginazione politica, il compimento dell’aspirazione pirandelliana a perdere la coscienza, grazie alla metamorfosi dell’individualità in “nuvole e vento” o alla scelta del gregario di rendere eroicamente sublime la propria persona mediante il sacrificio). Il potere, come insegna Max Weber, si basa anche su un interesse personale all’obbedienza, sul riconoscimento dell’autorità di chi comanda (cfr. WuG, IV, 47 e I, 208), sulla fede nella sua legittimità, ma – bisogna aggiungere – anche sulla sua attuale ineluttabilità, sull’aura di invincibilità di cui ha saputo circondarsi. Nei rapporti di potere, del resto, l’obbedienza stessa non è assicurata, resta una chance, il cui realizzarsi dipende dalla disposizione ad accettare e condividere intimamente gli ordini. Il vincolo dell’obbedienza è, in ultima analisi, legato a una scelta sofferta, come mostrano quei casi estremi di individui che, con eroica determinazione rifiutano, in condizioni tragiche, di abdicare al loro libero assenso. Il potere, infatti, aggiunge Weber, “non significa che una irresistibile forza della natura si apra in qualche modo la strada, ma che c’è un riferimento dotato di senso dell’agire dell’uno (‘comando’) all’agire dell’altro (‘ubbidienza’), e viceversa in modo corrispondente, tale che in media si possa far conto sul verificarsi delle aspettative in vista delle quali l’agire di 338
entrambi è orientato” (WL, 523-524). I totalitarismi coltivano, inoltre, l’emulazione dei subordinati, invitandoli non solo a obbedire a un capo, ad appiattirsi verso il basso, ma anche a imitarlo, a proiettarsi verso l’alto, sin quasi a porsi – anche qui il “quasi” è importante – al suo livello, secondo la perversa variante della legge morale kantiana espressa dalla massima nazista “Agisci in modo che, se il Führer ti vedesse, approverebbe la tua azione”. Alimentato dai miti eroici della tradizione militare, religiosa e sociale del passato, rinvigorito dalle lotte del proletariato industriale e dalla Grande Guerra, si sviluppa ora un nuovo genere di sublime, un sublime politico, molto diverso da quello introdotto nel Settecento, sul piano estetico, dal Burke dell’Inchiesta sul bello e sul sublime o dal Kant della Critica del giudizio. Allora il singolo uomo, privato della certezza di possedere un’anima immortale, cercava una maggiore consistenza, una più alta dignità e un’accresciuta autostima nel contrapporsi a una natura che lo umiliava con la sua immensa grandezza (il cielo stellato) o minacciava di distruggerlo con la sua incalcolabile potenza (emblematicamente rappresentata da luoghi desolati e ostili alla vita: vulcani, oceani, montagne, foreste, deserti). Contemplando a distanza o in posizione di sicurezza il cratere del Vesuvio in eruzione, il mare in tempesta, le rocce incombenti delle vette, il brulicare della vita animale e vegetale della giungla, il susseguirsi monotono di dune senza un filo d’erba, quest’uomo accettava la sfida rischiosa di un confronto. Metteva così alla prova, traendone piacere misto a timore, la sua capacità di resistere in un ambiente fisico che, come ora sospetta, non è stato certo creato da Dio per la sua felicità. Si rendeva conto della 339
propria piccolezza e fragilità, ma – con uno scatto di orgoglio – si convinceva anche che la coscienza e il pensiero lo rendevano superiore alle sterminate dimensioni e alle potenti e devastanti energie del cosmo. In linguaggio pascaliano, riconosceva di essere una canna, ma una canna che pensa (e che vuole). Ora il confronto non ha più luogo con la natura, ma con la figura sublime del Capo – incarnazione della Storia, dello Stato, del Partito, della Classe, della Razza, della Patria –, una figura che attrae e respinge con la sua maestà, che è insieme scostante e seducente, capace di calamitare rispetto e amore e di fondere, distanza e prossimità. L’orgoglio di diventare partecipi della sua potenza e dei suoi progetti, di assorbirne magicamente le energie, di avere un ruolo riconosciuto al suo fianco nella costruzione dell’avvenire, eleva l’animo e irrobustisce l’adesione di molti – e non sempre dei più ingenui – ai regimi totalitari (è questo un aspetto costantemente sottovalutato dagli interpreti). Sebbene dal confronto con il capo scaturisca soltanto il desiderio sempre insoddisfatto di eguagliarlo, per suo tramite l’individuo misura la propria insignificanza e si esercita ad allontanarsene. Sullo sfondo della disposizione a una morte sacrificale, che, con la sua terribile maestà, restituisce un tono funestamente solenne alla politica e all’etica, in periodici e organizzati slanci di partecipazione mistica viene concesso al singolo di partecipare alla comunione emotiva con il capo, di innalzarsi idealmente al suo livello e, insieme, di scalare se stesso sino a giungere a un punto d’osservazione dal quale i valori democratici di libertà e di eguaglianza non possono che apparire grigi, dimessi, prosaici, privi di eroica verticalità. 340
Questo desiderio di sublime – che rischia talvolta di cadere nel ridicolo, ma che spesso s’intreccia con tragiche forme di generoso autoinganno, di vanità per interposta persona o di ottusa comprensione degli eventi – viene fomentato dal capo stesso attraverso la continua creazione di miti (uno solo, quello soreliano dello sciopero generale, non basta e, del resto, non è ormai più gradito). Se il mito è simile a una macchina e quel che importa è soltanto il suo funzionamento, allora anche lo scopo diventa indifferente: il meneur può capovolgerlo, passando dall’emancipazione dei produttori alla loro sottomissione. Con l’ausilio dei nuovi strumenti offerti dalle tecniche e dagli apparati propagandistici, egli si rivolge di proposito – con contenuti “moderni” – non solo alla parte razionale dell’uomo, ma anche a quella atavica, all’animo perturbato e commosso. Ha cura, tuttavia, di rivestire i suoi messaggi di argomenti speciosi, di collocarli in una zona intermedia, di ibridazione tra il razionale e l’irrazionale, tra l’intellettuale e l’emotivo, tra la rivelazione e il mistero, tra la luce e l’ombra. In questo artificiale clima da serra, credenze e miti attecchiscono e prosperano rapidamente nell’anima delle folle, creando una vegetazione talmente fitta e lussureggiante da impedire la distinzione, pubblicamente argomentabile, del vero e del falso.31 La “verità” deve, infatti, essere comunicata soltanto a pochi, come sostiene, con paragoni da alcova, lo stesso Mussolini: “Ammesso che la verità sia femmina, come riteneva Nietzsche, è certo che come femmina ha i suoi pudori. Non è possibile, non è consigliabile di esibirla subito al grande pubblico: bisogna ricercarla nel segreto, nella discrezione, nel silenzio, possederla al buio, e poi offrirla al pubblico préalablement iniziato” (L’impresa 341
disperata, in OO, VI, 48). Eppure, l’idea classica per cui “il volgo vuol essere ingannato” è altrettanto falsa e unilaterale quanto la nozione complementare di un permanente complotto di potenti per ingannarlo. Non si danno, in effetti, né passiva accondiscendenza al plagio, né cospirazione allo stato puro, bensì, in misura variabile, un amalgama mentale e politico che contiene elementi opposti: accettazione con riserva di imposizioni esterne e programmato intervento dall’alto; realtà e desiderio; volontà di dare concretezza alle proprie aspettative e, insieme, di essere guidati in questa ricerca. Sebbene tali fattori siano in genere ripartiti in misura ineguale a vantaggio di chi ha maggior potere, i miti e le ideologie su cui vengono innestati costituiscono il risultato di dispositivi a feed-back, di anelli di retroazione che rettificano e calibrano i messaggi politici sondando il loro grado di accoglienza o di rifiuto in coloro cui sono diretti e aggiustando, di conseguenza, il tiro. Mettono alla prova la tenuta adeguata dei dispositivi di negoziazione – in parte consapevoli, in parte inconsci – tra chi sembra emettere a suo piacimento messaggi e ordini e chi sembra soltanto recepirli supinamente. Persino le più sfacciate illusioni, i più immodesti desideri dell’uomo-massa (al pari delle più bieche manifestazioni della propaganda) sono meno che realtà, ma più che apparenza. O, meglio, sono apparenza che manifesta in forma conclamata l’interazione continua tra le tecniche di dominio e le risposte che incontrano. Una gerarchia senza gregge La “mobilitazione totale” della società, e non soltanto degli eserciti e dei “soldati del lavoro” (cfr. Ernst Jünger, TM), ha per conseguenza la politicizzazione accelerata di 342
gruppi e ceti tradizionalmente esclusi dalla politica. Quanti, sin dal mondo antico, appartenevano alla sfera domestica (donne e bambini) o a ceti non politicamente strutturati (come i contadini) vengono ora stanati dal loro isolamento e spinti d’autorità fuori dalla casa o dai campi dentro gli ingranaggi dello stato totalitario. Nell’Italia fascista si tratta di organizzazioni come i Balilla, le Giovani Italiane o le Massaie Rurali. Al loro interno gli ex segregati sociali, chiamati a partecipare alla vita pubblica in maniera sostanzialmente passiva, come “ornamento delle masse”,32 sono però inseriti in un orizzonte di senso in cui i loro sentimenti, le loro passioni, le loro idee subiscono necessariamente una metamorfosi, con contraccolpi sulla forma dell’identità personale e, soprattutto, sulla natura della politica.33 Plasmando le pulsioni inconsce e gli orientamenti coscienti, tale politica spinge gli individui all’obbedienza in base al semplice principio di autorità, a un ipse dixit politico. Già il Mussolini socialista, non senza significative oscillazioni,34 aveva sorelianamente teorizzato l’esigenza di una disciplina di partito basata su convinzioni indimostrabili: “Che importa al proletariato di capire il socialismo come si capisce un teorema? E il socialismo è forse riducibile a un teorema? Noi vogliamo crederlo, noi dobbiamo crederlo, l’umanità ha bisogno di un credo. È la fede che muove le montagne perché dà l’illusione che le montagne si muovano. L’illusione è, forse, l’unica realtà della vita”.35 Confiscando agli individui quote di io e di responsabilità, ma rimodellando incessantemente la loro identità e irrobustendo il loro senso di appartenenza, il Duce del 343
fascismo tende a plasmare una folla gerarchizzata, pur senza essere passiva, che si mobiliti non solo per fede, ma anche per calcolo: “La massa, per me, non è altro se non un gregge di pecore, finché non è organizzata. Non sono affatto contro di essa. Soltanto nego che possa organizzarsi da sé. Ma se la si conduce, bisogna reggerla con due redini: entusiasmo e interesse. Chi si serve soltanto di uno dei due corre pericolo. Il lato mistico e il politico si condizionano. L’uno senza l’altro si disperde nel vento delle bandiere”.36 Il ricorso a queste due redini è parallelo al disuguale dosaggio di teoria e azione a netto favore di quest’ultima (da giustificarsi poi, eventualmente, a posteriori).37 La coscienza non viene semplicemente invasa da un invasato, ma da qualcuno che, proprio perché rischia personalmente, non è disposto a guidare folle incontrollabili.38 Per questa ragione il controllo delle coscienze, opportunamente addottrinate, è più importante del controllo dei corpi ed è complementare a un eventuale controllo dell’inconscio. Per questo, inoltre, l’ideologia svolge un compito decisivo in tutti i regimi novecenteschi, trasformando teorie filosofiche e scientifiche, impoverite e private del loro nucleo critico, in articoli di fede esplicitamente enunciati. Data la scarsità delle risorse materiali disponibili o il bisogno di uscire da una crisi economica e politica, il ricorso all’entusiasmo, al mito e alla seduzione serve anche a chiamare a raccolta la maggior parte delle energie umane disponibili. Il fascismo italiano e, ancor più, il nazionalsocialismo tedesco sono, infatti, caratterizzati dalla sindrome del secondo o del terzo (ma non dell’ultimo) arrivato. Per raggiungere in breve tempo posizioni di rispettata preminenza e occupare quote adeguate della 344
superficie del pianeta pari a quelle delle grandi potenze coloniali europee (Inghilterra e Francia) e degli Stati Uniti, per rimuovere le denunciate prepotenze o rendite di posizione delle potenze egemoni, tali regimi innescano accelerati processi di modernizzazione e di riarmo, che esigono dagli individui dedizione assoluta e tensione costante.39 Il fascismo – che ama presentarsi come portatore di ideali di solidarietà e di cooperazione nazionale contro le divisioni e gli odi di classe del passato – fa perciò costantemente leva sull’orgoglio ferito, sulla “vittoria mutilata”, sull’“Italia proletaria” che deve finalmente alzarsi in piedi e pretendere il proprio posto al sole. Sono concetti che ancora riecheggiano nel discorso con cui, il 10 giugno 1940, Mussolini annuncia l’ingresso dell’Italia in una guerra presentata come un episodio nella “lotta di classe fra le nazioni”: “Questa lotta gigantesca non è che una fase di sviluppo logico della nostra rivoluzione; è la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della Terra; è la lotta dei popoli fecondi e giovani contro i popoli isteriliti e volgenti al tramonto; è la lotta tra due secoli e due idee” (OO, XXIX, 404). Credere all’incredibile Mediante la mobilitazione del “credere” Mussolini si sforza di evocare illusioni, di risvegliare quelle antiche riserve di energia che la modernità sembrava aver metabolizzato o esaurito, ma che possono invece incarnarsi in nuovi miti, sorelianamente intesi come “sistemi di immagini”, né veri, né falsi, ma semplicemente funzionanti. Già in un articolo sull’“Avanti!” del 18 luglio 1912, intitolato Da Guicciardini… a Sorel, il futuro Duce è 345
esplicito nel confermare le sue convinzioni: “Sorel ci aveva presentato un socialismo decisamente antiintellettualistico, religioso anzi. Il mito dello sciopero generale nel socialismo terribile, grave, sublime di Sorel (secondo la testuale aggettivazione dell’autore) è un mito, cioè una favola, qualcosa di non dimostrabile, di non effettuabile, che deve essere un atto di fede, l’atto di fede del proletariato. Bisogna credere nello sciopero generale come i primi cristiani credevano nell’apocalisse. Non indagate. Non sottoponete il mito alla vostra critica razionalista. Non rompete il sublime incantesimo” (OO, IV, 173). Creando miti viventi, trasportando la fede dal cielo della religione nella terra della politica e da Dio o i santi in un uomo, si combatte la moderna cultura del dubbio, che ha rafforzato lo spirito critico ma indebolito le convinzioni, accrescendone quindi il bisogno. Sottraendo i singoli alla deriva dell’incertezza, la gerarchia svolge una funzione stabilizzatrice, in quanto assegna loro un posto e una funzione precisa, di cui il capo si fa garante. Proprio perché fondato sulla fede, il rapporto gerarchico tra il capo e i gregari non prevede alcun contratto sociale, con i suoi espliciti calcoli di convenienza, dal basso, e gli impegni e le promesse vincolanti, dall’alto. Come ai tempi del feudalesimo, il legame personale di fiducia costituisce l’unica garanzia effettiva. E come ai tempi della Riforma protestante la fede aveva preso il sopravvento sulle altre due virtù teologali (la speranza e la carità), così ora il “credere” diventa il presupposto indispensabile per l’“obbedire” e il “combattere”. A differenza del passato, tuttavia, sono ora le tecniche a venire potentemente in soccorso ai miti. Grazie ai loro frutti, il moderno psicagogo è, infatti, in grado di 346
esercitare a distanza una moltiplicata influenza. La parola dei demagoghi del passato si estendeva nello spazio quanto la potenza della loro voce. Ora invece, con la “radio circolare” (che sostituisce nel 1922 quella “bilocale”, da stazione emittente a ricevente),40 essa giunge lontano ed è fruibile da tutti, in particolare da un pubblico non alfabetizzato, non in grado di leggere i giornali, fino ad allora unici mezzi di comunicazione di massa. La conquista dell’interiorità trova così il suo pendant nell’invasione dello spazio privato della casa, le cui pareti diventano permeabili alle voci e, successivamente, anche alle immagini della politica. Da “gladiatore della parola”,41 da uomo che aveva svolto parte della sua carriera come giornalista, Mussolini possiede l’indubbia capacità di esprimere plasticamente, in titoli di articoli o in slogan politici, l’interpretazione dei fatti e di fissare incisivamente la direzione da imprimere agli eventi in corso.42 È, inoltre, estremamente attento ad adattare le sue idee, in maniera pragmatica e spregiudicata, alle quotidiane variazioni di assetto della politica, nella fiducia che le posizioni contrarie sostenute nel passato verranno dimenticate o capite in base al criterio da lui difeso che “un uomo intelligente non può essere una cosa sola […]. Deve mutare. Non si può essere sempre socialisti, sempre repubblicani, sempre anarchici, sempre conservatori. Lo spirito è soprattutto ‘mobilità’. L’immobilità è dei morti […]. Quell’etichetta [di ‘socialista’] che io ho cancellato non mi legava, ma tuttavia oggi mi sento più libero. Libero di essere a volta a volta me stesso, soltanto me stesso, nient’altro che me stesso”.43 Il senso della fluidità delle cose e della necessità per 347
l’“uomo intelligente” di adattarvisi era già presente, in forma di eraclitismo popolare, nel giovane Mussolini, precocemente influenzato dal Lassalle della Filosofia del malinconico Eraclito d’Efeso.44 L’eraclitismo si trasformerà poi in criterio di governo, quando, dopo la Marcia su Roma, il Duce del fascismo teorizzerà l’ineludibile esigenza della politica di adeguarsi alle trasformazioni degli uomini, materia viva “in istato di movimento”. A chi è capace di mantenere la rotta nel generale disorientamento provocato dal divenire, non sarà difficile governare gli altri, in un’epoca in cui gli individui – privi di solidi punti di riferimento – sono catturati senza sforzo da qualsiasi fede e ideologia venga loro suggerita o imposta: “Solo la fede smuove le montagne. Non la ragione. Questa è uno strumento, ma non può essere la forza motrice delle masse. Oggi, meno di prima. La gente, oggi, ha meno tempo per pensare. La disposizione dell’uomo moderno a credere ha dell’incredibile”.45 In nome della sostituzione della fede nell’incredibile alla verità logicamente o empiricamente dimostrabile si produce però un accecamento collettivo. L’abbandono dell’idea di verità pubblicamente controllabile produce effetti disastrosi, rendendo sostanzialmente tutto lecito ai capi e tutto relativamente oscuro ai gregari. La fede conserva tuttavia il vantaggio di guarire la paralisi della volontà, di offrire motivazioni e obiettivi all’agire. Tutte le metafisiche della volontà tra fine Ottocento e inizio Novecento (da Nietzsche a James, da Sorel a Gentile) manifestano sintomaticamente il desiderio presente in molti di fuoriuscire dal chiuso della coscienza e di riversarsi nel mondo, intrecciando stretti legami con esso. L’incremento di potenza, l’azione, la fede, la guerra, il mito, l’obbedienza 348
a un capo finiscono quindi, spesso, per apparire come una liberazione dalle strettoie della coscienza morale, di cui i meneurs – come Hitler in Mein Kampf – tendono a negare l’esistenza, definendola “un’invenzione ebraica” e “una deformazione come la circoncisione”.46 Non più rinchiuso entro il carcere dell’interiorità, ciascuno può ora, finalmente, abbandonarsi al flusso degli eventi, avvertendone, sotto la guida altrui, la mobile apertura al nuovo. Elias Canetti (uno dei pochi teorici che abbia guardato alle folle senza pregiudizi, come qualcosa che “non è né buona né cattiva, ma semplicemente esiste”) ha acutamente osservato che Hitler è riuscito a imporsi perché ha individuato nell’estrema malleabilità degli uomini dell’età delle masse il ventre molle, l’elemento di maggiore vulnerabilità delle società moderne: “Ha per così dire scoperto il punto debole della realtà, il punto in cui essa è sommamente fluida e dinanzi al quale arretra la maggior parte di coloro che temono la massa. Perciò egli non ha molto rispetto per l’altra realtà, la realtà statica”.47 Anche la tesi di Hannah Arendt, per cui nei totalitarismi “tutto è possibile”, va tendenzialmente nella stessa direzione: una volta dissolta la tradizione e spezzati i legami di solidarietà tra gli individui, il potere poggia su una serie ininterrotta di iniziative per piegare la realtà alle ideologie e per giustificare, in questo modo, se stesso.48 La posta in gioco di cui il meneur des foules deve a ogni costo appropriarsi diventa la volontà degli altri di credere in lui. Nella sua mutevolezza ‘eraclitea’, egli vuole perciò apparire loro graniticamente immobile, rappresentare la stella polare che li orienta nel continuo trasformarsi delle situazioni. Oltrepassando la dimensione religiosa e 349
assumendo il carattere d’idolatria di un uomo, il credere diventa la precondizione dell’obbedire e del combattere, l’elemento essenziale – e non semplicemente decorativo – del dominio totalitario, che in Italia si rifà esplicitamente alla tradizione di obbedienza gerarchica instaurata dal cattolicesimo. Mediante psicotecniche capillari (rafforzate da minacce, pressioni e violenze), l’apparato di potere suscita nelle masse la volontà di credere, indirizzandola sulla persona del capo, trasformato in dogma vivente, in figura sempre all’altezza del proprio mito. In parte per convinzione, in parte per vezzo, Mussolini attribuisce la fede nell’infallibilità dei capi “alla pigrizia mentale delle moltitudini” (TM, 415), trascurando però il fatto che è proprio tale credenza, artificialmente fomentata, a tenere in vita tutti i regimi totalitari del Novecento49 e a suscitare descrizioni iperboliche e, talvolta, sinceramente commosse, del ruolo e del significato sacrale dei meneurs: “Un Capo è tutto: origine, fine, causa e scopo, punto di partenza e di traguardo […] se cade, dentro si fa una solitudine atroce”.50 Lo spirito di sacrificio di cui i singoli si mostrano dotati non dipende soltanto dalla loro identificazione proiettiva con l’io egemone esterno dei capi, ma, in maniera complementare, dalla sorda percezione o dal rimosso sospetto che, nelle condizioni in cui si trovano, il loro io non abbia alcun valore intrinseco e sia perciò sacrificabile.51 L’isolamento esistenziale dell’individuo, che deriva anche dall’allentarsi dei precedenti vincoli di solidarietà, viene compensato dalla sua intensa e forzata politicizzazione, risultato di una ossimorica persuasione autoritaria, che fa seguito a una fase di pura violenza ed è accompagnata da incessanti manifestazioni d’intimidazione.52 Dal rassicurante 350
sentimento provocato dall’affidarsi a qualcuno, dalla forza che emana dall’appartenenza a un gruppo potente, rispettato e temuto, nasce così la nuova consistenza dell’individuo, promossa sin dall’infanzia.53 Dato che il credere – ancor più che l’obbedire – non s’impone con la sola forza, bisogna gradualmente passare a più duttili tecniche di consenso psichico. Mussolini le fabbrica non solo con gli strumenti ‘frontali’ della moderna propaganda, ma anche con mezzi indiretti, ‘trasversali’, miranti a garantire contemporaneamente il benessere dei cittadini e le esigenze politiche dello stato (come l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, l’Opera Nazionale Dopolavoro o le colonie marine per ragazzi).54 Questi strumenti sono tanto più efficaci, quanto meno appaiono di parte e tanto più bene accetti, quanto più soddisfano gli interessi e le aspirazioni degli individui (mentre risultano, nello stesso tempo, perfettamente funzionali all’orientamento politico del regime di accrescere la popolazione e di incrementare la produzione). Analogamente a ciò che accade negli altri stati totalitari, anche il fascismo introduce quella che appare una libertà positiva sui generis, sebbene ne costituisca una negazione diametrale, perché manca l’elemento caratteristico e inespungibile della libertà: la spontaneità. Permette, infatti, agli individui di partecipare attivamente alla vita politica, di essere presenti sulla scena, ma solo in quanto numero, componenti di una totalità gerarchicamente ordinata per fasce d’età, categorie, gradi di autorità. Ognuno è così legato agli altri sia da rapporti orizzontali di solidarietà nazionale, di partito o di corporazione (dal “cameratismo”), sia da rapporti verticali di comune dipendenza dal capo. La vita 351
privata perde virtualmente la propria autonomia (i risultati non sono, tuttavia, sempre entusiasmanti per il regime), ma la storia collettiva penetra effettivamente con minori mediazioni nell’esistenza di ognuno. Un paragone ellittico In che modo, oltre che con la forza bruta o con motivazioni immediatamente politiche ed economiche, è stata giustificata dal fascismo italiano o dal nazionalsocialismo tedesco la necessità dell’obbedienza cieca a un capo? Quali teorie sono state maggiormente sfruttate per legittimarla o renderla plausibile? Un paragone ellittico tra due modelli volutamente eterogenei (e diametralmente lontani per il pubblico cui si rivolgono e per capacità argomentativa: l’ideologia di Hitler e la filosofia di Gentile) aiuta a comprendere, ai margini estremi, alcune macroscopiche differenze tra i due regimi, soprattutto nella loro fase iniziale. Sintetizzando drasticamente, si può dire che senza riserve appare in Hitler l’adesione al darwinismo politico e all’antisemitismo, l’ossessione per la purezza della razza, la fede in una crudele lotta per l’esistenza che esige la massima compattezza e la più spietata disciplina da parte delle stirpi superiori, unite attorno a un capo, contro quelle inferiori (composte da “sub-umani”, Untermenschen, che minacciano di inquinare il sangue degli Übermenschen, trascinandoli nella degenerazione). Insistente e ossessivo si presenta in lui il richiamo alla natura e alle sue presunte inesorabili leggi, retaggio di un passato che non passa e che la storia non altera: “La natura […] pone l’essere vivente sul globo terracqueo per poi assistere al libero gioco delle forze. Il più forte, quello che ha più coraggio e perseveranza, si vede 352
quindi aggiudicare, quale suo figlio prediletto, il diritto al dominio su ciò che esiste”.55 È una lotta spietata che non lascia scampo ai deboli (“Un essere beve il sangue dell’altro. E la morte dell’uno permette all’altro di alimentarsi. Inutile vaneggiare di umanitarismo”)56 e in cui l’esistenza individuale – con echi di schopenhauerismo, cui manca però qualsiasi “compassione” – risulta assolutamente priva di valore. Ciò che conta, negli uomini come negli animali, è la propagazione della specie, trasformata in un feroce idolo cui immolare gli individui: “Non si deve dare eccessivo valore alla vita individuale, se l’esistenza di uno di noi fosse indispensabile, essa non sarebbe soggetta alla morte. Una mosca depone milioni di uova che scompaiono tutte. Ma le mosche rimangono. Non le invenzioni e le scoperte del singolo debbono sopravvivere, ma la sostanza biologica da cui esse derivano”.57 Nel periodo del massimo consenso, lo stato nazionalsocialista viene incontro agli interessi degli individui proprio nel punto di tangenza con quelli della propagazione della specie.58 Il Führer si preoccupa cioè di creare un particolare Welfare state, in cui – accanto alla soddisfazione dei bisogni elementari di sussistenza – venga garantita ai “puri Ariani” una libertà sessuale prima sconosciuta (pubblicamente indifendibile nell’Italia fascista, firmataria del Concordato, per quanto ufficiosamente praticata nella forma gaddiana del binomio Eros e Priapo). In Germania, la nudità paganamente esibita e l’aiuto economico dato alle madri di figli nati fuori dal matrimonio diventano dichiaratamente funzionali al culto del corpo e alla proliferazione dell’Herrenvolk. Solo in questo senso, “lo Stato nazionalsocialista non è l’opposto dell’individualismo 353
competitivo, ma il suo complemento. Il regime libera tutte le forze dell’egoismo brutale che i paesi democratici hanno cercato di contenere e combinare con l’interesse della libertà”. Le masse non sono quindi unificate da una coscienza comune, ma “composte da individui, ognuno dei quali segue i suoi interessi più primitivi”, ossia il “mero istinto di conservazione, che è uguale in ognuno di loro”.59 “In fondo all’Io c’è un Noi” Diametralmente opposta all’esaltazione della lotta biologica tra razze e alla conseguente accentuazione del peso del passato atavico, del sangue e del suolo è la giustificazione filosofica che Giovanni Gentile offre del fascismo, sottolineando la necessità di obbedire a un capo in nome delle esigenze dello “Spirito”, degli obblighi del presente e della funzione dello Stato etico.60 In tacita polemica con gli apologeti delle remote glorie di Roma, il pathos per il presente e per l’avvenire assorbe in lui completamente quello per il passato, così come le energie dinamiche della storia cancellano l’inerte dimensione della naturalità: “Perché l’uomo vive di domani, di attesa, di fede nel futuro […]. Il passato non ci interessa più: esso è la voragine in cui la vita vissuta è precipitata e sparita, e non potrà essere più ripresa per essere rivissuta. Il presente sì è tutto […] il presente è vita se è inizio d’una durata che si prolunga come futuro” (GSS, 141). In questo senso, l’“attualismo” è svalutazione del tempo trascorso (segnato in Italia dal servilismo dei letterati e dei cortigiani) a beneficio del presente e del futuro e, conseguentemente, esaltazione della volontà, dell’azione pensata che fluidifica il mondo: “Lo spirito non conosce altro che il presente, che non è altro se non questa attualità sua” (RDH, 249). Solo in quanto ci 354
sintonizziamo – grazie al pensiero, che è di tutti (cfr. SCR, 893) – con tale presente che avanza a grandi passi, partecipiamo all’eternità del mondo (cfr. TGS, 574), a un’immortalità che non coincide né con l’estensione del tempo, né con l’elemento empirico del ricordo: “Niente si ricorda e tutto si ricorda; niente è immortale, se la immortalità si vuol riconoscere dal segno dell’empirico ricordo […]; la memoria, come conservazione del passato mummificato e sottratto alla mente lungo la serie stessa degli elementi del tempo, è un mito”.61 Non la memoria, ma il pensiero (nel suo “ardere e fiammeggiare spirituale”) rappresenta l’insoddisfazione perpetua e la perpetua realizzazione della brama di eternità. Questa, infatti, non si riferisce alla mitica immortalità dell’anima predicata dalle religioni: morire è soltanto staccarsi dalla propria immediata particolarità, rientrare nella dimensione universale rappresentata dal pensiero umano o in quella storica rappresentata dalla comunità. È dunque necessario, all’occorrenza, negare la propria individualità: “Immortalarsi, non restare attaccati a se stessi come l’ostrica allo scoglio” (GSS, 157). In Gentile, al pari dello Heidegger di Essere e tempo, l’individualità si manifesta soltanto nella decisione suprema di proiettarsi nell’annullamento, nell’“essere-per-la-morte”. Nemmeno la morte, tuttavia, appartiene all’individuo: non costituisce, infatti, l’heideggeriano “sempre-mio” (Jemeiniges) per eccellenza, non è l’irripetibile evento che tocca in sorte a ogni essere vivente: rappresenta un fatto sociale, poiché si muore sempre per qualcuno. Se il singolo scompare, resta però quel che gli sta più a cuore, “Dio o un nostro figliolo, o la nostra madre, o il frutto dell’opera nostra […] tutto ciò 355
che vale per noi, ha un valore, in quanto il suo valore trionfa dei limiti della nostra vita naturale oltre la morte, nell’immortalità” (TGS, 576). L’etica del sacrificio acquista così un principio metafisico e non solo politico o, sarebbe meglio dire, un fondamento che dalla metafisica si trasferisce alla politica. Si diventa autentici individui solo se si cura e si rafforza il legame del singolo con l’universale: “Perciò l’individuo, coscienza e possesso della universalità, non esiste immediatamente; non è un dato. Non basta, per essere individuo, nascere; nascono anche il coniglio e la gallina, che non saranno mai individui” (GSS, 22). Già il pensare, sottraendoci alla nostra limitata individualità e portandoci – dentro il tempo – nella dimensione dell’eterno, realizza l’intreccio dialettico d’universale e particolare: l’individualità, appunto. Ci rendiamo eterni proprio in quanto partecipiamo al pensiero in atto, alla verità: “L’eternità del vero importa l’eternità del pensiero in cui il vero si manifesta […]. Ma sentire in sé la verità non può essere altro che sentire in sé l’eterno, o sentirsi partecipi dell’eterno, o comunque altrimenti si voglia dire” (TGS, 574). Questa partecipazione è resa possibile dal fatto che il pensiero vero è quello “che non pensa per me solo, ma per tutti” (SCR, 893). L’eternità che si coglie nell’atto non consiste dunque nella durata indefinita nel tempo: è partecipazione a quel pensiero e a quella verità che, proprio perché si altera nelle metamorfosi del divenire, riafferma incessantemente se stessa e rivive in ciascuno senza mai consumarsi. L’attività spirituale, in genere, e le opere d’arte, in particolare, dimostrano in maniera palese come la temporalità non si prolunghi per loro tramite, ma si blocchi 356
e venga oltrepassata: “In tale mondo, né prima, né dopo. Il tempo si ferma. Anzi è fermato nel pensiero che lo abbraccia, lo comprende e lo circonscrive dentro di sé. Non è più l’innumerabilis annorum series del perpetuo; ma è il periodo in cui il pensiero racchiude una favola (un giorno, un anno, o più, dal principio del ciclo poetico alla conclusione); è il periodo di un’epoca, di un avvenimento, di un popolo storico, dalle sue origini al momento presente, o al suo disparire” (GSS, 153). Il pensiero – che è anche fantasia, passione, sensazione consapevole e non solo logica astratta – incastona il suo “altro tempo” nell’eterno. Si esamini, propone Gentile, un poema, ad esempio l’Orlando furioso. La sua eternità non è oggettiva, cosale, naturalisticamente intrinseca al corpus dell’opera, ma incessantemente prodotta da chiunque, leggendola e appropriandosene, la fa riapparire. Mediante un’estetica della recezione ante litteram, per il filosofo siciliano l’eterno, attribuito alla grande poesia, “non dura, sottratto alla vicenda del tempo, immoto e immobile. Questo eterno che una volta esploso rimanga sempre identico, e possa perciò scoprirsi e riscoprirsi dai posteri, in perpetuo, è un mito inconsistente. Il poeta è sempre nuovo nel lettore; e anche il mondo della poesia è una creazione eterna come quella di Dio. Esiste in quanto torna a crearsi ex novo” (GSS, 154). A contatto con quest’eternità e universalità del pensiero giunge a dissoluzione l’idea di un’individualità già costituita, preesistente al processo che la crea nel momento stesso in cui la conosce, di una persona autonoma, padrona di se stessa, disancorata dal suo legame con lo stato. L’individuo isolato e la società come suo ambiente esteriore sono da Gentile considerati vuote generalizzazioni, perché, fuori e 357
prima della sintesi attuale tra io e mondo, c’è soltanto il nulla, il vuoto, “che è tanto il mondo senza di noi, quanto noi senza il mondo” (GSS, 35). Famiglia, scuola o stato rappresentano gli agenti principali di socializzazione, le sostanze etiche che modellano l’identità personale e rendono effettiva l’appartenenza dell’Io al Noi.62 Lo Stato interiore Nel riflettere sull’universalità in cui è immerso e che lo costituisce (anche attraverso la lingua “che è sua e non sua”), l’individuo si accorge che “in fondo all’Io c’è un Noi”, che ciascuno è intimamente partecipe di “una sorta di originale socialità” (GSS, 32), capace di ancorarlo a se stesso attraverso l’inscindibile rapporto con la comunità. L’Io, infatti, in quanto tale, è instabile e privo di autonoma consistenza: “L’Io è questo essere che non è, ma è non essendo” (SL, 61). Ciascun individuo è solo una minima parte della societas: anche volendo, non riuscirebbe a essere un io isolato, un Unico nel senso di Stirner. Ogni pensare e volere, infatti, è un dialogare con un socius, che non si riduce a ospite passeggero, non abita soltanto in noi, ma è noi: “L’individuo è massima particolarità in quanto è massima universalità. Più è lui, e più è tutti” (GSS, 19). Gentile riprende in questo modo quel problema che la filosofia moderna ha rimosso con Cartesio, considerando l’Io o l’anima sostanza metafisicamente separata non solo dal corpo, ma dalla società, dal Noi. Non lo affronta insistendo, alla maniera di Heidegger, sulla co-appartenenza dell’Esserci o del soggetto umano al mondo, quanto, piuttosto, calcando l’accento sulla “co-implicazione” dell’Io e del Noi. Ponendosi sul terreno di una peculiare forma di intersoggettività, Gentile avrebbe forse approvato la recente 358
formula di sostituire il cartesiano ego sum con ego cum,63 ma l’avrebbe, a sua volta, sbilanciata in favore del cum, del legame istituito dal Noi a detrimento dell’ego. L’endiadi di Io e Noi sfocia nel ritrovamento dell’universalità concreta nello Stato, sostanza etica indissolubile dall’individuo, irriducibile a potenza, a monopolio della forza legittima, a pura violenza extramorale. Esso è forma universale assunta da una comunità storica, base spirituale di ogni trasformazione, così che “si sviluppa l’individuo, e si sviluppa lo Stato” (ODF, 47). Può sembrare che lo Stato calpesti la libertà dell’individuo, ma “l’autorità non deve recidere la libertà, né la libertà pretendere di fare a meno dell’autorità. Perché nessuno dei due termini può stare senza l’altro” (GSS, 60). Tra Io e Noi, tra individuo e Stato, esiste una tensione permanente: lo Stato rischia di vivere in una “sterminata solitudine” se perde il contatto con la coscienza del singolo e questo, a sua volta, avverte l’alterità del socius che incarna l’universale nel momento in cui questo pone sbarramenti alle sue aspirazioni egoistiche: “L’alterità va superata; ma ci dev’essere. E deve essere vinta. Prima l’opposizione, poi la conciliazione e l’unità” (GSS, 103). Senza questa lotta contro la metà complementare di se stessi, quella più idiosincratica, non vi è possibilità di crescita, né per il bambino, né per l’adulto. La conquista di sé, la libertà, non può aver luogo senza un’ininterrotta battaglia contro l’ineliminabile momento della passività e della servitù, presente dentro ciascuno di noi: “Maestro-scolaro, genitori-figliuoli, educatore-educando, padrone-schiavo, popoli dominanti per superiore civiltà indice di una superiore potenza (o viceversa!) – popoli dominati, sono altrettante originarie, 359
fatali opposizioni che l’attività spirituale supera e concilia” (GSS, 104). In linguaggio agostiniano, Gentile afferma che lo Stato non vive inter homines, ma in interiore homine (FFD, 158159). Si potrebbe anche aggiungere che esso è – al pari di Dio – interior intimo meo e superior summo meo (Conf., III, 6, 11), più intimo a me stesso di quanto lo sia io e più alto dell’altezza cui io posso giungere. È “etico” nell’educare l’individuo, a lui immanente, ma è, rispetto a esso, trascendente e intrascendibile, irriducibilmente transindividuale, per quanto si manifesti nell’individuo. È un Dio immortale e non soltanto un “Dio mortale”, come voleva Hobbes: fino a quando ci saranno uomini, essi vivranno in questa eternità in divenire (Deus manet in nobis). Dire che lo Stato esiste in interiore homine non conduce, tuttavia, a una deriva esclusivamente coscienzialistica o semplicemente mistica. Significa solo che esso dipende dall’intima adesione degli individui alle istituzioni politiche. Essendo il prodotto dell’attività di tutti e di ciascuno, lo Stato deperisce se non è realmente sorretto da un tacito plebiscito quotidiano (ciò vale soprattutto nel caso di uno stato nuovo, come quello fascista, dove è il consenso interiore, da consolidare costantemente, a mantenerlo e farlo crescere).64 Composta in poche settimane e conclusa nel fatale settembre 1943, Genesi e struttura della società è l’ultima, tragica opera di Gentile, quella in cui il filosofo s’interroga, tra le righe, sulle ragioni che hanno portato alla caduta del fascismo, ridotto ora a “esperimento”, e non più a modello, di regime politico. Se lo Stato etico vive davvero in interiore homine e se è il cambiamento nell’animo degli uomini a 360
provocarne il mantenimento o la rovina, che significato attribuire al 25 luglio e all’8 settembre del 1943? Perché non accettare la caduta del regime, come segno palese della fine del consenso? Ricordando la disfatta di Caporetto e come l’Italia riuscì a superarla grazie alla concentrazione delle sue energie morali e materiali, Gentile fa prevalere in lui il bisogno di fedeltà, il rifiuto di partecipare allo sgretolamento dell’unità nazionale mentre tutto vacilla e va in frantumi.65 Per questo combatte energicamente l’illusione che lo Stato sia qualcosa di estraneo ai singoli: credere che ciascuno possa individualmente salvarsi dalla catastrofe collettiva incombente è un errore e una manifestazione d’incoscienza. Lo si può constatare proprio ora, quando la minaccia di annientamento della patria fa sentire a tutti che è in gioco la vita stessa di ognuno, “anche se questi si era in passato potuto illudere che fosse in pericolo lo Stato, non lui stesso”.66 Viene qui clamorosamente alla luce il sofisma o l’autoinganno che ha – forse inconsciamente – orientato il pensiero di Gentile sin dall’avvento del fascismo e che lo ha condotto a equiparare lo Stato come apparato di forza (rappresentato da quell’“Uno” che ne è a capo) allo Stato quale universalità che abita in interiore homine.67 In diametrale opposizione implicita con la simmeliana “legge individuale”, l’individualità non si concilia in lui con l’universalità: ne viene piuttosto fagocitata, dissolta sia al livello della filosofia che dello Stato. Il culto dello Stato, nato anche come formazione reattiva alla paura della sua fragilità nella storia italiana, spinge Gentile ad accettare, per ipercompensazione, che il suo controllo sui singoli sia totale e che venga esteso anche alle sfere sociali e familiari, 361
trasformate sorelianamente in una specie di serra, dove le coscienze sono “forzate” a crescere rapidamente. Allorché la comunità solidale – basata sulla presunta identità monolitica di particolare e di universale, di autorità e di libertà, di Noi e di Io – finisce per sgretolarsi, gli elementi di ciascuna coppia si scindono e restano isolati rispetto alle precedenti combinazioni. Mostrandosi impari alle sue promesse e votato alla distruzione, quel Noi che aveva confiscato gli Io non è ora più capace di trattenerli dalla ricerca di un nuovo inizio, possibile grazie a una riconquistata, difficile libertà.68
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10. Orizzonti dell’io
Il mistero doloroso e il mistero gaudioso dell’obbedienza Riconsiderando gli eventi del Novecento, risuonano con insistenza, eco di uno scandalo non sopito, interrogativi forse destinati a restare senza risposta (hier ist kein warum, “non c’è perché”, ripeteva Primo Levi, parlando dei campi di sterminio). Ne ricordo alcuni: l’inaudita ferocia dei crimini commessi o tollerati da milioni di persone costituisce la prova di quanto lontana sia ancora l’uscita degli uomini dal kantiano “stato di minorità”, che ciascuno deve “imputare a se stesso” allorché accetta passivamente “la guida di un altro”?1 La “banalità del male” deriva dal progressivo stravolgimento della “vita della mente”, dalla distorsione delle nostre tre irriducibili facoltà (il pensare, il volere e, soprattutto, il giudicare, inteso come capacità di distinguere il bene dal male)?2 A indurre all’obbedienza cieca è stata la quantità di violente esperienze, di penosi comandi e obblighi, l’accumulo di “spine”, che, conficcandosi nella carne e nello spirito di tanti individui, li hanno talmente coperti di ferite da impedir loro di “pensare ad altro” o di “sentire altro”?3 Ipotesi acute e plausibili, che non possono tuttavia spiegare a fondo come mai siano stati così numerosi coloro che hanno scelto di perdere, spesso senza eccessivi traumi, 363
la propria autonomia. Ci scontriamo con due ‘misteri’ gemelli dell’obbedienza: un mistero doloroso e un mistero gaudioso. Il primo, da solo – così come viene accentuato da Étienne de La Boétie nel Discorso sulla servitù volontaria o da Spinoza quando osserva che in certi regimi gli uomini sono indotti “a combattere per la propria schiavitù come se combattessero per la propria salvezza” (TTP, 3) –, non è sufficiente a chiarire il loro comportamento. Occorre pensarlo assieme al secondo. Nel subordinarsi agli altri, molti, infatti, soffrono e godono nello stesso tempo, quasi che, nel dimenticare se stessi, riproducano la condizione infantile di tormentosa dipendenza da un’autorità esterna, ma anche di sgravio dal peso, per loro insostenibile, della responsabilità. Il duplice mistero si attenua, senza scomparire, se abbandoniamo il presupposto che lo sottende, ossia che il comportamento di questi uomini dipenda unicamente da cupidigia di servilismo, paura, fascinazione o obnubilamento della coscienza. Esorcizzando il male, attribuendogli cause oscure e del tutto impenetrabili, finiamo per trascurare il ruolo determinante svolto proprio dalla coscienza, dal calcolo razionale degli interessi, dalla forza della convinzione o dall’impulso di passioni coltivate con cura quali odio, invidia o speranza (sedimentate e ideologicamente razionalizzate da lunghe tradizioni di antisemitismo e di nazionalismo, nonché da attese messianiche di rivoluzione sociale o di restaurazione di un ordine turbato).4 Bisogna, tuttavia, aggiungere che gli interessi, le convinzioni e le passioni si instradano weberianamente su “binari” materiali e ideali (cfr. WuG, I, 240) ed è proprio sugli scambi e sui percorsi di questi binari che agiscono tutti i regimi politici (e i totalitarismi in specie) 364
nel trasformare l’obbedienza in disciplina schematica e uniforme, che estende all’intera società il modello dell’esercito. Un ulteriore motivo complica il giudizio sui regimi totalitari. La maniera specifica con cui hanno invaso le coscienze dipende da una fase storica di turbolenza, caratterizzata dal tentativo di adeguare forzatamente le strutture psichiche degli individui alle esigenze delle società di massa che hanno già dovuto riassorbire milioni di reduci e inserire uomini e donne in processi accelerati di industrializzazione e modernizzazione forzate. Dove la democrazia ha radici profonde e le risorse economiche sono relativamente abbondanti non si avverte la necessità di bruciare i tempi, di prendere scorciatoie storiche a spese dell’individualità. Dato che essa non costituisce una minaccia da affrontare manu militari, resiste – non senza significative oscillazioni – il modello prefigurato da Montaigne, Descartes, Locke, Leibniz o Kant, sostanzialmente basato sul progetto di sottrarre i singoli – interiormente o anche esteriormente – a vincoli politicamente oppressivi e razionalmente ingiustificabili. Postulare una sfera di autonomia del pensiero, della coscienza o della ragione rispetto ai meri rapporti di potere, un leibniziano “mondo a parte” che rifiuta di sciogliersi nel corso degli eventi, continua qui a rappresentare la concessione di un rifugio per l’individualità. Parafrasando Lutero, si direbbe che in alcuni paesi eine feste Burg ist mein Ich, il mio io è una rocca fortificata, un santuario relativamente intangibile (o invaso in maniera più accorta e negoziata), mentre altrove i totalitarismi sono riusciti a espugnare e a profanare la cittadella interiore della 365
coscienza. È vero, però, che tutti i regimi novecenteschi – in misura diversa e con mezzi meno violenti – ne hanno indebolito le difese immunitarie. Se i totalitarismi si affermano, se l’homo hierachicus soppianta l’homo æqualis, ciò dipende anche dal fatto che – nel panorama di macerie lasciato dalla guerra, sotto la minaccia del terrore e sotto la spinta dell’opportunismo o dell’interesse – l’individualità, già debole patrimonio di pochi, subisce una metamorfosi kafkiana a rovescio, tesa a far emergere l’“uomo nuovo” dal bozzolo dell’animalità. Quando gli individui vengono ridotti a tabula rasa, abbassati al grado zero dell’umanità, togliendo loro il privilegio esclusivo della parola articolata, prevale la costrizione a obbedire a semplici ordini, a comandi che precedono il linguaggio (tanto è vero che anche i cani li capiscono).5 Scatta allora nuovamente il riflesso condizionato della sottomissione a un Noi arcaico, più antico – come sapeva Nietzsche – della coscienza singola. Con l’abbassamento o lo sgretolamento delle dighe metafisiche e religiose che separavano l’io dalla realtà sociale e naturale (dagli altri, dal proprio corpo e dall’ambiente fisico e politico), il singolo, superando le remore personali, si riversa nel mondo dell’immanenza. Esce dall’eremo della coscienza, riconsacra solennemente la “realtà esterna”, ma viene anche trascinato dal fiume ‘eracliteo’ d’incessanti trasformazioni. Privato dei residui sostegni della tradizione e delle risorse dell’interiorità, perde più facilmente l’orientamento, diventa sempre più incline a mimetizzarsi sullo sfondo e nelle pieghe dei mutevoli contesti storici e politici, sempre più sensibile alle lusinghe e alle minacce del potere, sempre più disposto a farsi guidare da ideologie 366
contingenti che pretendono di avere spiegazioni semplici per tutto, sempre più rassegnato a trasformarsi in ingranaggio acoscienziale. Allo stesso modo in cui “il grande magazzino ha espropriato il negozio speciale di una volta”, così – secondo Horkheimer e Adorno – anche la “piccola azienda psicologica”, ossia “l’individuo”, è spinta a chiudere bottega (DA, 216). Se vuol sopravvivere, deve entrare nella catena della grande distribuzione o pagare, per essere protetta, una pesante tangente politica. Si manifesta qui, drammaticamente, il vuoto teorico ed etico lasciato dai semplificatori del pensiero dei “maestri del sospetto” (Marx, Nietzsche e Freud), di quanti cioè, esasperando la giusta polemica anti-idealista contro il primato assoluto della coscienza, hanno unilateralmente favorito l’idea che contassero solo quelle forze che agiscono alle spalle degli uomini: le potenze economiche, la “grande ragione” del corpo, l’Inconscio o l’Es. In questo modo, essi hanno delegittimato il ruolo della coscienza e deresponsabilizzato gli individui, ponendoli alla mercé di potenze anonime o di capi che non rispondono a nessuno delle loro decisioni. Dall’uniforme al molteplice Quali trasformazioni subisce l’Io quando si ferma, in Occidente, l’invasione violenta delle coscienze? Con la caduta degli stati totalitari e l’ingresso dei loro cittadini nell’area della democrazia parlamentare e dell’economia di mercato l’individuo abbandona davvero il carcere-rifugio del Noi per rinascere differenziato, molteplice, libero, capace di ricostruire la propria cittadella interiore dalle ceneri del precedente “tipo” umano? Esce disintossicato dalla cupa fabbrica che ha forgiato gli uomini secondo 367
stampi ideologici che dovevano accentuarne la metallica compattezza, la neutra uniformità e la disumana durezza? L’abitudine a un Noi in vario grado onnipresente e onnipotente non è facile da abbandonare. Due date – il 1945 (con il crollo del regime fascista in Italia e di quello nazionalsocialista in Germania) e il 1989 e il 1991 (con la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica e del Blocco socialista) – segnano, per innumerevoli persone, l’inizio di lunghi anni d’apprendistato dell’io, il momento in cui imparano a sillabare le regole di un gioco politico dimenticato o mai praticato. Due testimonianze possono concisamente riassumere, stilizzandolo, il senso di molte altre. La prima, dello scrittore e filosofo austriaco Hermann Broch, segnala la natura impervia del percorso che deve ricondurre le masse corrotte dai sistemi politici totalitari alla pratica di un’effettiva democrazia. Broch, che ha scritto romanzi e saggi sulla degradazione e i deliri delle folle,6 sa che gli uomini, anche quando godono di più ampia libertà, per la maggior parte avanzano nel mondo alla maniera dei sonnambuli: restano prigionieri di opachi bisogni e di elementari desideri, pur aspirando – in maniera oscura e intermittente – a un improvviso risveglio della coscienza, a squarci di comprensione del proprio stato. Per questo, egli chiede a ciascuno di attingere nuovamente alle sue risorse morali, di non cedere alla logica spietata del potere politico, di non rinunciare alla “pietà dell’anima individuale”, alla compassione nei confronti degli altri, la sola in grado di farci sentire l’appartenenza a un Noi che non conosce sopraffazione, a una patria comune, a un luogo insituabile la cui esistenza balena fin dalle struggenti melodie ascoltate 368
nella culla. Nel suo capolavoro, La morte di Virgilio, composto tra il 1936 e il 1945, con il pensiero rivolto alle masse che osannano Hitler, Broch descrive l’arrivo a Brindisi, al seguito di Augusto, del poeta febbricitante. Invece del nobile popolo romano idealizzato nell’Eneide, Virgilio trova davanti a sé una plebaglia scomposta, che nel princeps cerca soltanto l’erogatore di cibo, aiuto, sicurezza e godimenti. Si accorge allora, con pungente rimorso, di aver scritto la sua opera con l’intento di compiacere ed esaltare l’imperatore, adulandolo come discendente di Enea e incarnazione del destino. Matura così la decisione, rafforzata nei giorni seguenti, di bruciare il poema, dove l’arte è posta al servizio della menzogna e la bellezza subordinata al potere. La visione della folla lo rende sgomento: “Non era odio ciò che egli sentiva per la massa e nemmeno ripugnanza e disprezzo, né ora né mai egli intendeva separarsi dal popolo né tanto meno innalzarsi sopra di esso, ma era accaduto qualcosa di nuovo, qualcosa che egli non aveva mai voluto riconoscere […] e cioè l’abissale empietà del popolo in tutta la sua ampiezza, la decadenza dell’uomo che si fa plebe di grande città, e con ciò il pervertimento dell’uomo, in qualcosa che è contrario all’umano per svuotamento, per una metamorfosi dell’essere ridotto ai meri appetiti della superficie, recise le radici della sua origine e da questa stessa reciso […]”. Nell’osservare i portatori della sua lettiga, che fendono la folla, “conosceva il sangue che pulsava nelle loro vene, la saliva che dovevano inghiottire, e conosceva non poco dei pensieri che s’erano perduti in queste voraci macchine di carne, goffe, maldestre e sfrenate” (TV, 54-55, 66). Che diritto si ha, pensa Virgilio, di disprezzare questi uomini 369
sfortunati che chiedono pane e sicurezza con la stessa disperata volontà di vivere insita in ciascuno di noi? Ma, nello stesso tempo, pur non rinunciando alla pietas nei confronti di simili conglomerati di organi, di appetiti e di pensieri, perché condividere la loro incoscienza animale, se si è riusciti ad attingere la netta premonizione di valori più alti? Avvicinatosi il “minuto infinito del morire”, quando le immagini del passato ritornano nella tonalità di una dolce malinconia, gli appare, infatti, finalmente chiaro che la bellezza senza verità non ha senso e che il singolo perde la sua vita mettendola al servizio di una causa in grado di procurargli vantaggi e onori, ma che appare incommensurabilmente inferiore e volgarmente meschina se paragonata alla più alta destinazione che ciascuno intuisce in sé. Ho scelto la seconda testimonianza tra quelle più recenti, riferibili alla fase storica successiva alla disgregazione del Blocco socialista. Mostra, in breve, quanto sia arduo lo sforzo del singolo per imparare a dire nuovamente “Io”, per sentirsi abbastanza autonomo e consapevole da sfidare il conformismo del Noi; quanto sia faticoso troncare di netto l’abitudine a ricevere il lavoro, i mezzi di sostentamento, le informazioni, i divertimenti o le vacanze direttamente dal Partito-Stato; quanto costi inibire il ricorrente riflesso condizionato dell’acquiescenza acritica (e della menzogna per proteggere se stessi e i propri cari) o del suo opposto speculare, il comando sprezzante verso coloro che vengono considerati gerarchicamente inferiori.7 Chi è uscito bambino dall’esperienza dello stato totalitario ha dovuto apprendere a passare, nel rapporto con i genitori e con la scuola, dall’obbedienza alla negoziazione dei ruoli e dal 370
conformismo al contrastato esercizio di una maggiore libertà.8 Chi, invece, in quegli anni era già adulto è stato obbligato a vincere dentro di sé la residua nostalgia per la dimensione comunitaria, rutilante, eroica, assoluta e metafisica della politica, che la democrazia – con la sua sobrietà ‘smilitarizzata’ e la sua quotidiana e prosaica esigenza di rinnovato consenso, fatto di mediazioni e di compromessi – non è in grado di erogare. Anche perché questo regime, come aveva già notato Tocqueville, raramente soddisfa il bisogno di comunità: “L’eguaglianza pone gli uomini fianco a fianco, senza un legame comune che li unisca” (DA, II, 593). La rottamazione dell’io Se l’indebolimento dell’io è stata una delle premesse per il sorgere dei regimi totalitari, si può dire che nella sua storia – iniziata in età moderna – esso sia sempre stato così solido e consistente come lo si è voluto raffigurare? Ripercorrendo con un colpo d’occhio le vicende della centralità e della successiva (presunta) caduta dell’io, si può dimostrare come in realtà esso sia stato un’entità fragile sin dalle sue prime formulazioni teoriche, elaborate nel momento in cui si spalanca una lacuna simbolica tra l’accresciuta coscienza che l’individuo ha di sé e la percezione che il suo corrispettivo Noi sia sempre più lontano, debole o latitante. In Europa, il primo habitat favorevole ad accogliere la domanda di autoriferimento dell’io si costituisce, infatti, nel periodo delle guerre di religione e, più in generale, nell’arco di tempo compreso tra la nascita della Riforma e la pace di Westfalia. La divisione all’interno delle autorità ecclesiastiche e politiche, il nuovo ruolo assegnato ai “tribunali della coscienza” da parte della 371
Chiesa cattolica con l’aumentata frequenza del sacramento della confessione e con la nascita del Santo Ufficio, nel 1542, nonché il sorgere dell’assolutismo spingono molti a cercare rifugio nell’interiorità e nella vita privata, inducendo i dissenzienti alla dissimulazione (più o meno “onesta”) e i libertini a separare l’ossequio esteriore alle leggi e ai costumi vigenti dall’effettiva condotta, il foris ut mos est dall’intus ut libet. Chiamato a svolgere una funzione strategicamente decisiva nel momento in cui la tradizione s’incrina, facendo vacillare tutte le autorità che a essa si appoggiano, l’io è indotto ad assumere il ruolo dell’Atlante che sorregge un mondo ormai privo della sua ovvietà. Che non avesse spalle abbastanza larghe per assolvere a questo immane compito e per garantire all’individuo diritti inalienabili nei confronti delle pretese di interferenza dello stato e delle chiese risulta subito chiaro, anche se la rivendicazione della libertà individuale nella Glorious Revolution, l’apologia del pensiero critico nell’Illuminismo o la codificazione dei “diritti dell’uomo e del cittadino” nelle costituzioni degli Stati Uniti e della Francia di fine Settecento forniscono il fertile terreno per la sua crescita in alcune oasi filosofiche e politiche lussureggianti. Tutto ciò anche perché (lo ha recentemente dimostrato Yves Charles Zarka in L’autre voie de la subjectivité, Paris 2000) il giusnaturalismo procede in direzione opposta – e complementare – alla chiusura della coscienza nell’interiorità. Esso apre, infatti, il singolo all’universale, lo spinge a trovare pubblicamente un accordo con tutti gli altri uomini che formano una comunità. Non cessano però, tra Locke e Kant, i generosi tentativi per puntellarlo, per sgravarlo di parte del suo peso, abbassandone le pretese e stabilendone i limiti. Lo scopo 372
principale è quello di difendere l’irrinunciabile funzione critica della coscienza nei confronti di qualsiasi autorità esterna che non sia capace di giustificarsi dinanzi al “tribunale della ragione”. Ma l’indecifrabilità e relativa debolezza dell’io, sul piano ontologico, non può essere nascosta più a lungo. Lo stesso Kant riconosce, quindi, che questo giudice togato, legislatore del mondo fenomenico, non è – per la ragion pura teorica – che una maschera, una “X”; Schopenhauer risolve, a sua volta, questa incognita denunciando l’io come illusione, mentre Taine, Ribot e Nietzsche spostano infine il sostegno e il baricentro dell’identità personale dalle svuotate facoltà dell’anima o della mente al “consenso” delle cellule e degli organi corporei. Negli ultimi decenni dell’Ottocento proprio il suo carattere di faticosa costruzione annidata in un corpo fornito, per contrasto, di mirabili automatismi, rende manifesta la vulnerabilità dell’io (e, indirettamente, il venir meno della sua esigenza iperdifensiva di separarsi dal mondo e dagli altri io). La sua obsolescenza e imminente scomparsa viene allora solennemente dichiarata. A partire da Mach, che considera l’io unrettbar, “non salvabile”, cresce costantemente la sua denigrazione: Musil lo raffigura come un “buco” da colmare al più presto con materiali tratti dal mondo esterno; Freud lo dipinge come una specie di Arlecchino servitore di tre padroni (il mondo esterno, il Super-io e l’Es); Lévi-Strauss lo definisce un pauvre trésor e un insupportable enfant gâté.9 La ricerca dell’anonimo soggetto, della “X” che si cela dietro l’io si fa incalzante nella seconda metà del Novecento, quando si insiste sulla sua dipendenza da fattori universali e senza volto. Così lo stesso 373
Lévi-Strauss e gli “strutturalisti”, seguiti da alcuni teorici del linguistic turn, privilegiano la funzione del linguaggio o delle regole impersonali che presiedono agli scambi sociali; Althusser pone l’accento sull’esistenza di processi “senza soggetto” che premono alle spalle degli uomini, processi che in Habermas assumono la veste di agire comunicativo; Gadamer sostituisce o privilegia la “tradizione” rispetto alle pretese di autonomia dell’io; la psicoanalisi di Lacan vede nell’io un effetto del registro dell’immaginario; la filosofia analitica anglossassone, sospettosa di ogni forma di interiorità e di esperienza privata, lo rifiuta spesso con forza.10 Solo Foucault passa – nelle ultime opere – dalla tesi della “morte del soggetto” alla riflessione sulle modalità di produrlo mediante apposite “tecnologie del sé”. Egli abbandona cioè la domanda improponibile sul ‘chi è’ il soggetto e si chiede invece quali siano le procedure che lo vincolano a se stesso e alle istituzioni. In particolare, nell’ultimo periodo della sua vita, l’indagine ruota con insistenza attorno alla peculiare struttura della coscienza dell’uomo occidentale, obbligato dal cristianesimo a cercare la verità dentro di sé, a entrare nelle pieghe del proprio animo e a conoscersi meglio per potersi purificare, autoaccusandosi davanti a un Dio onnisciente e misericordioso e a un sacerdote che generalmente lo assolve da tutti i peccati, ma è tenuto a salvaguardare il segreto della confessione.11 Agli occhi della maggior parte di questi interpreti, l’uomo occidentale ha accumulato per secoli un patrimonio progressivamente corroso dall’inflazione e ha continuato a prostrarsi dinanzi a un tirannico ed esigente feticcio (nel significato etimologico di idolo che egli stesso ha fatto). Le 374
teorie di tali critici, credibili nel descrivere alcuni fenomeni salienti, risultano però fuorvianti nelle conclusioni. Sfugge loro il fatto che – una volta esaurita la fase fondativa della modernità – il ruolo dell’io cambia, ma non scompare. Perde, infatti, la sua natura ipertrofica, ma non la sua ineliminabile funzione vitale. Avendo da tempo cessato di essere sostanza, pura res cogitans, è diventato un cantiere aperto, un luogo di accumulo di risorse, intaccate ma non consumate dai totalitarismi o dai meccanismi dell’economia, della società o delle tecniche, da tutte le forze, cioè, che agiscono alle “spalle degli uomini”. Unicamente nell’io si può rinvenire quel potere critico, quella capacità di innovare (analoga alla saussuriana parole), quell’assunzione di responsabilità che nessun meccanismo anonimo è in grado di possedere. Valgono ancora, come ammonimento, le parole di Adorno: “L’individuo isolato, non turbato da ukase, può talvolta cogliere l’oggettività più chiaramente di un collettivo, che ormai non è che l’ideologia dei suoi dirigenti. La frase di Brecht che il partito ha mille occhi, l’individuo soltanto due, è falsa come mai lo è stata una verità da quattro soldi. L’esatta fantasia di un dissenziente può vedere più di mille occhi” (ND, 41). Se l’interesse per l’io sembra conservare il suo valore, altrettanto, forse, non può dirsi per il significato della sua continuità nel tempo. Se ne parla certamente molto, anche a livello di senso comune, ma il pathos che accompagnava l’idea di identità personale – specie nel periodo compreso tra Locke e Schopenhauer – non pare raggiungere oggi un’analoga intensità. La cultura contemporanea ha, in genere, riassorbito il lutto per la perdita dell’anima immortale, sostituendolo con l’interesse per la politica, la 375
storia e l’immanenza. Uno Schopenhauer ‘urbanizzato’ sembra così essersi preso la rivincita sui suoi avversari attraverso Derek Parfit, il quale – con echi vagamente buddhisti – ha definito trascurabile la questione dell’identità personale: identity does not matter. Una volta liberi dall’ossessione di una continuità psicologica futura del nostro essere, finisce infatti, con l’importanza attribuita a quest’idea, anche l’angoscia di fronte alla morte. Se, invece di dire: “Sarò morto”, dicessi: “Non ci sarà alcuna esperienza futura che sia collegata in certi modi alle mie esperienze presenti”, il pensiero della mia morte diverrebbe “meno deprimente” (cfr. RP, 277 sgg., 359). L’identità viene disancorata dalla permanenza del soggetto nel tempo, dall’infondabile speranza dell’immortalità religiosa. Si riduce al semplice sganciamento delle mie esperienze dalla continuità psicologica con il mio passato e, soprattutto, con il mio futuro: “Quando credevo che la mia esistenza fosse quel fatto ulteriore, io mi sentivo imprigionato in me stesso. La mia vita mi sembrava un tunnel di vetro in cui, anno dopo anno, mi muovevo sempre più velocemente, e alla fine del quale c’era il buio. Quando cambiai opinione, le pareti del mio tunnel di vetro scomparvero. Ora vivo all’aria aperta. C’è ancora una differenza tra la mia vita e quella degli altri, ma una differenza minore. Gli altri mi sono più vicini. Io mi interesso di meno del resto della mia vita e mi interesso di più della vita degli altri” (RP, 358).12 Ma il ruolo dell’identità personale si riduce solo a questa liberazione dalla paura della morte? Riflessi sull’acqua Le diagnosi relative all’irrilevanza dell’io o dell’identità personale sembrano, peraltro, contraddette dal recente 376
diffondersi del “narcisismo di massa” e delle teorie di autoassemblaggio dell’io, quasi a dimostrazione di come il pendolo della storia si sia mosso, in Occidente e nell’ultimo mezzo secolo, in direzione opposta a quella dell’assorbimento totalitario dell’Io nel Noi.13 Al limite estremo di tale oscillazione, la volontà di autonomia sembra presentarsi nelle vesti di un “io mongolfiera”, gonfio di sé, desideroso di felicità e insofferente della tradizionale gerarchia dell’anima (platonicamente fondata sul primato della parte razionale sulle altre due parti desideranti, dell’auriga del cocchio alato sul cavallo bianco, che asseconda l’ascesa, e sul cavallo nero, che la contrasta). Ma questo io è consistente e autonomo? E l’identità personale che esso esprime continua a essere vincolata alla memoria del passato e al concern per un futuro non immediato? La comparsa dell’odierno Narciso – descritto da filosofi e sociologi come ripiegato su se stesso, intento ad allentare i suoi rapporti con gli altri, incline a non affrontare e padroneggiare le proprie crisi d’identità, apatico, indifferente a tutto, tranne che a se stesso, pronto ad assumere un atteggiamento mimetico nei confronti dell’ambiente sociale circostante – mi sembra significativamente coincidere con il tramonto delle grandi attese collettive, dei progetti di futuro condiviso, laico e religioso. Nell’erigere confortevoli utopie private e nel ritagliarsi consistenti “fette di cielo” dalle speranze comuni, Narciso prende congedo non solo dalle mete politiche della “società senza classi” o del “regno della libertà”, ma, spesso, anche dall’aspirazione all’aldilà comunitario delle religioni tradizionali. La sua ricerca della salvezza personale, confusa e sottilmente angosciata, trova facile conforto nei culti New 377
Age, i quali ripropongono, banalizzandola, l’idea gnostica di un “Sé ontologico” che attende fin dall’eternità di ricongiungersi al nostro attuale io.14 L’interesse prevalente per la propria persona porta il narcisista di massa ad abbandonare il terreno della storia in quanto intreccio di destini comuni. Rifiutando impegni non direttamente legati all’autorealizzazione, abituandosi a pretendere dei diritti senza contropartita, si aspetta che anche gli altri si comportino allo stesso modo. Fa così valere, nell’epoca dell’après-devoir, l’idea che ci si debba sentire svincolati da doveri e promesse, che sia giusto indulgere a non-binding commitments (impegni che non impegnano, rinegoziabili e, all’occorrenza, revocabili a piacere da parte di uno qualsiasi dei contraenti). Come se le precedenti decisioni fossero state prese da qualche altro, ogni impegno è assunto con l’arrière-pensée di una sua futura revisione in base al mutare, anche minimo, delle circostanze.15 Sebbene non sempre esplicitamente ripudiata, l’etica della coerenza, sorella dell’etica della responsabilità, viene così diluita per favorire un mutamento endogeno e ‘morbido’ del sistema di preferenze individuali, essiccando le socratiche ragioni di una “vita esaminata”. L’identità personale non è così più saldamente ancorata alla memoria delle scelte passate, né tenuta a mantener fede ai progetti. Nell’essere infedeli a tutto e a tutti, persino a se stessi, nell’ibernazione dei rapporti sociali, si manifesta il progressivo isolamento dell’individuo, privato dei sostegni e dei punti di riferimento affettivi una volta importanti (famiglia allargata, comunità di vicinato, solidarietà di ceto o di classe). Il narcisismo, vera e propria “diserzione dalla sfera sociale e pubblica”, allontana il singolo dalla comunità, inducendolo a sciogliere il legame 378
sociale (o a farne un uso quasi esclusivamente strumentale) e a lasciare, per contro, vasto spazio alle passioni acquisitive, che sostituiscono quelle generose della tradizione aristocratica.16 In contrasto con l’uomo progettato dai regimi totalitari, il narcisista non è coinvolto in alcuna “mobilitazione totale” in favore di un Noi che si vuole monolitico; non sente obblighi stringenti di lealtà e di solidarietà nei confronti dei propri simili; scambia per autonomia il proprio isolamento. Il narcisismo di massa e i non-binding commitments sono il segno del recedere della politica dallo spazio interiore della coscienza, l’annuncio che l’ordinanza d’invasione emessa a suo tempo dai totalitarismi è stata finalmente revocata? No, perché, in realtà, la coscienza individuale è stata e sarà sempre inevitabilmente invasa e colonizzata, specie durante le grandi svolte di civiltà: a variare sono i modi (soprattutto il tasso di violenza o di persuasione), le forme e i contenuti. In particolare, per quanto riguarda l’attuale fase storica, l’infiltrazione e l’occupazione, sempre più capillari, della coscienza avvengono attraverso il controllo della mente e dei corpi, un controllo, propiziato da una panoplia di saperi e tecniche, che esige l’intima partecipazione e la connivenza passiva o attiva dei soggetti, la cui libertà, autorealizzazione o benessere sono in molti paesi promossi dal Welfare state. Per comprendere il senso del narcisismo di massa, bisogna abbandonare la tesi della recente “caduta dell’uomo pubblico” e – guardando più indietro nel passato – esaminare gli effetti a lunga scadenza del crollo dell’ordine gerarchico, tipico di società in cui la supremazia politica è dettata dalla monarchia di diritto divino, dalla nobiltà ereditaria o dalle teocrazie. Se, nei paesi 379
a regime liberale e democratico, tutti hanno formalmente accesso agli stessi diritti politici e tutti coltivano aspettative commisurate agli ideali di libertà ed eguaglianza, come gestire le frustrazioni e le depressioni che nascono dall’impossibilità che la maggior parte degli individui realizzi le proprie speranze (cfr. supra, pp. 113-115)? Le società tradizionali erano dotate di collaudati strumenti per compensare gli uomini degli eventuali svantaggi della loro condizione e per legittimare le diseguaglianze in nome di presunte gerarchie naturali o di un ordine voluto da Dio. L’accettazione delle barriere sociali e delle privazioni personali trovava, infatti, un indennizzo, considerato congruo, nella prospettiva religiosa della ricompensa dopo la morte, così che di rado veniva in mente ai più sfavoriti di aspirare ai gradini elevati della scala sociale. Le società democratico-egualitarie moderne hanno eliminato i dispositivi che abbassavano la soglia delle aspettative nei confronti di questo mondo. Decretando solennemente il diritto di tutti all’effettiva eguaglianza e mettendo al bando gli impedimenti che potrebbero limitarla, sollecitano l’ambizione di ciascuno a puntare, partendo da pari condizioni, ai vertici della ricchezza, delle cariche pubbliche o del prestigio (non più monopolio di una casta ereditariamente privilegiata). Di fronte alla facile previsione che la maggioranza non riuscirà mai a far collimare le proprie aspirazioni con la realtà, il narcisista cerca preventivamente in se stesso un rifugio che lo sottragga all’algido mondo dei suoi simili e lo protegga dall’eventuale scacco dei suoi desideri. A garanzia di un pacifico isolamento, ha però bisogno dell’appoggio delle istituzioni, smentendo il pregiudizio comune che, 380
parallelamente al diffondersi del narcisismo, si verifichi anche un “deperimento della politica”.17 Questa ha semplicemente cambiato forma e trovato altri modelli d’interazione e di equilibrio tra il Noi e l’Io. Il marketing dell’identità Osservata più da vicino la conquista dell’identità attraverso strategie narcisistiche costituisce una parentesi, una condizione storicamente transitoria, che viene spesso assolutizzata, come se la corrispondente versione dell’io costituisse una costante della modernità. In diverse aree della nostra cultura essa rinvia certo a un esemplare umano diffuso, che ritiene gradevole vivere con un io multiplo e malleabile, che alterna con disinvoltura l’una all’altra versione di se stesso, che desidera esperire più ‘vite parallele’ senza alcun obbligo di rafforzare la propria identità o di declinarla con coerenza, che si propone di assaporare meglio la propria esistenza frequentando molteplici “mondi vitali” o inserendosi in differenti sfere di appartenenza (non solo eccentriche, alla maniera di Simmel, ma discontinue e provvisorie). Nella sua forma pura, l’idealtipo del Narciso ricalca la figura dello yuppie (young urban professional), una persona ben pagata, di cultura universitaria, che vive e lavora dentro o nelle vicinanze di grandi città), ma, più in generale, fa parte di una più ampia famiglia, i cui componenti, privi di un’identità forte, sono caratterizzati dal possesso di un “io modulare” (modular me), facilmente assemblabile alla maniera di un meccano,18 di un io dossier ottenuto dalla spillatura di tanti altri (feuillettage) o di un io patchwork, simile a una coperta formata dalla ricucitura di pezzi diversi, ricavati da scampoli di tessuto.19 Tutte queste espressioni di umanità non 381
sentono alcun bisogno di un “io autentico”, di un’immaginaria “gruccia” – per usare la metafora di Goffman – su cui appendere gli io indossati in altri tempi e circostanze. Venendo a mancare ogni discriminante tra l’autentico e il non-autentico (sebbene il fittizio non coincida con il falso, ma con il “fatto”, il socialmente costruito), si abbandona quell’esigenza di autenticità che aveva avuto nello Heidegger di Essere e tempo il suo principale sostenitore.20 Da quando non le è più concesso di appoggiarsi, metafisicamente, a una sostanza spirituale o materiale (a un’anima, a una res cogitans o a un corpo), l’identità è obbligata a ricostruirsi o a rigenerarsi a ogni momento, diventando una funzione, un’attività. A differenza di quel che accade in Fichte, essa non scaturisce però dal reiterato sdoppiamento e dalle successive riunificazioni di un io soggetto che pensa e un io oggetto che è pensato. La sua struttura è alquanto più complessa di quella espressa dal segno di eguaglianza nell’enunciato “Io = Io”. Si avvolge in “nodi” inestricabili o in strani circuiti, strange loops, i quali rinviano a zone opache, non riverberanti, della coscienza e dell’inconscio, che impediscono il ritorno riflessivo a sé della coscienza (per inciso, la difficoltà di riportare l’identità sotto il segno dell’autocoscienza spinge molti filosofi, sociologi e psicoanalisti a privilegiare il modello narrativo dell’identità in quanto récit, storia che può essere raccontata in diversi modi, ricostruzione di una trama biografica attraverso la reintegrazione di disseminati frammenti del vissuto entro uno schema di relativa continuità e intellegibilità). Una volta che i fattori istituzionali di socializzazione – lo 382
stato e la chiesa, la famiglia e la scuola, l’esercito e il sindacato, il partito o i codici etici – abbiano dovuto spartire e sminuzzare i propri poteri, diluendo la loro specifica influenza, la questione dell’identità personale è stata ricondotta alle diverse “presentazioni del sé”, alla “teatralizzazione” della vita o, addirittura, al look che ciascuno si crea, montando e ricombinando modelli d’identità spacciati da consulenti, esperti, psicoterapeuti e mezzi di comunicazione di massa (vere e proprie agenzie di marketing d’“identità prefabbricate”).21 Il complessivo allentarsi delle costrizioni lascia più spazio all’iniziativa individuale, ma, insieme, anche alla casualità delle scelte, tanto che l’io dei contemporanei appare come “un edificio pericolante che noi costruiamo con frammenti, dogmi, traumi infantili, articoli di giornale, osservazioni accidentali, vecchi film, gente odiata e gente amata”.22 In quest’ottica, la differenza tra l’individuo “moderno” e quello “postmoderno” consisterebbe nella sua riformulabilità: “Nel caso dell’identità come in altri casi, la parola chiave della modernità era creazione; la parola chiave della postmodernità è riciclare. Oppure si può dire che, se ‘il medium che era il messaggio della modernità’ era la carta fotografica (pensiamo agli album di famiglia che ingrossano implacabilmente, documentando pagina dopo pagina ingiallita il lento aumentare di eventi che portano all’identità, eventi irreversibili e non cancellabili), in ultima analisi il medium della postmodernità è il videotape (cancellabile e riutilizzabile) […]. La modernità è costruita in acciaio e cemento. La postmodernità in plastica biodegradabile”.23 Le società occidentali sviluppano modelli di coscienza 383
componenziale e aperta, di io assemblati con parti smontabili e suscettibili di continua ricombinazione e revisione. Non sempre, tuttavia, gli individui reggono allo sforzo di sostenere le dissonanze cognitive, morali ed esistenziali che questa situazione comporta: nel subire gli effetti spaesanti della modernità, sperimentano pertanto profonde crisi di rigetto nei confronti di un “mondo senza cuore”.24 Per proteggere la loro nuova e inebriante libertà sfumano così i confini tra sé e il mondo, passano dal tradizionale differimento delle soddisfazioni, dal trattenere per ottenere, all’inseguimento di godimenti immediati. Considerando la realtà come specchio dei propri desideri, coltivano un “io minimo”, preoccupato della propria sopravvivenza; vivono la quotidianità come terreno di caccia e, insieme, come accumulo di “piccole emergenze”; cercano appoggio nel possesso delle cose, le sole in grado di stabilizzare la loro identità, perché inerti e manipolabili, occasioni di prendersi cura del mondo senza impegnarsi in rapporti personali di reciprocità.25 La debolezza dell’io si manifesta ora nella sempre più accentuata metamorfosi dell’individualità in nodo di una rete planetaria, punto di transito e di smistamento mentale e affettivo di eventi che accadono in aree vaste, crocevia di passeggeri flussi di coscienza e di desiderio. Tale anonimo world wide web delle coscienze – espandibile, aperto al caso, configurabile in maniera sempre diversa, privo di un unico centro di sovranità – riduce il soggetto narcisista a uno dei tanti snodi che insistono nel considerarsi esclusivamente come centri. Sono, peraltro, avvertibili ambigui segnali di controtendenza. Il narcisismo e il bisogno di radicamento nel Noi coabitano e si alimentano a vicenda grazie a 384
involontari meccanismi di connivenza antagonistica. Da un lato, infatti, in alcune zone del mondo economicamente e socialmente privilegiate, si moltiplica il numero di individui free-floating, che tendono a svincolarsi dai condizionamenti della tradizione e dalla precedente collocazione familiare e sociale (diventando, ad esempio, più disposti a cambiare partner e, spesso involontariamente, anche lavoro); dall’altro, si sviluppano, soprattutto – ma non solo – fuori dei paesi occidentali, forme di personalità desiderose di stabilizzare la propria identità ancorandola a istituzioni ed entità tradizionalmente forti (ritenute, fino a poco tempo fa, “premoderne” e superate, perché sconfitte dall’Illuminismo, dalla Scienza o dal Progresso). Si crea così un’inedita combinazione di antico e moderno. Chi smuoverà l’Acheronte? Come si è trasformata l’identità, passando dalla forma rigida dell’età dei totalitarismi alla forma fluida del nuovo Narciso, che non riconosce nella propria immagine l’impronta degli stampi collettivi e non si rende conto che la qualità della sua stessa esistenza è dovuta a radicali mutamenti storici? Non si accorge, infatti, di essere stato segnato dal passaggio dalla durezza e dalla scarsità di beni del periodo tra le due guerre alla fase di massimo benessere che l’umanità abbia conosciuto (una “trentina d’anni di straordinaria crescita economica e di trasformazione sociale”) e da civiltà relativamente stanziali dominate dall’agricoltura, durate “sette o otto millenni”,26 a nuove forme di articolazione dell’economia e di vertiginoso incremento della mobilità sociale. Il mondo relativamente compatto del passato si dissolve, lasciando intravedere molteplici, rivedibili e inediti piani di vita, invece di destini 385
sociali già fondamentalmente tracciati di generazione in generazione. Con il formarsi di questa favorevole “nicchia ecologica”,27 torna alla ribalta – dopo un lungo periodo di latenza – anche la sindrome delle personalità multiple, già inquietante rovescio della Belle Époque.28 Sul piano giuridico, il primo segnale di questo rinnovato interesse è costituito da un processo che appassiona e sensibilizza l’opinione pubblica agli inizi degli anni sessanta del secolo scorso: quello contro William (Billy) Stanley Milligan, la prima persona riconosciuta non colpevole di omicidio da un tribunale americano perché fornito di personalità multiple. L’imputato era giunto, in effetti, a possedere ben ventitré personalità, di cui dieci permanenti e tredici soppresse (da Arthur, che parla con accento e flemma inglese e che è ateo e capitalista, a uno jugoslavo esperto di karatè, sino a Christine, di tre anni e a Christopher, di tredici).29 Al livello dell’immaginario, sintomatico è invece il successo del romanzo I tre volti di Eva,30 che apre la strada a tutto un filone di testi letterari, autobiografie e film. La svolta decisiva ha tuttavia luogo attorno al 1970, sia in ambito medico sia sul terreno della letteratura e dei mezzi di comunicazione di massa.31 Il fenomeno delle personalità multiple, ritenuto raro dagli anni venti agli anni sessanta del Novecento, appare ora in netto sviluppo, almeno negli Stati Uniti, dove sono stati identificati, raccolti e analizzati, centinaia di casi.32 L’eziologia di questo disturbo psichico è tuttora controversa: alcuni studiosi la riconducono a fantasie infantili, al trasformarsi di immaginari compagni di solitudine in autonomi alter ego33 o, più in generale, alla 386
delusione e all’insoddisfazione per essere quel che si è in un determinato tempo e luogo34; altri, ad alterazioni di natura organica, a traumi e conflitti intrapsichici; altri ancora, all’influsso di nuclei familiari patogeni.35 Per quanto ci riguarda, è sufficiente osservare come, al di là dei casi clinici, la presenza latente di personalità multiple in ciascuno di noi (ossia di divergenti o conflittuali opzioni e piani di vita a livello psichico, di poli di coscienza non strettamente coordinati o debolmente sottoposti al controllo di un io egemone) non venga attualmente avvertita nei toni drammatici usati da Pirandello, in cui più intensa e angosciosa era la lotta per tenere paradossalmente insieme la triplice coscienza del potersi trasformare in centomila, del mantenersi nella finzione di essere uno e dello scegliere di diventare nessuno. Nelle società occidentali (o assimilate) la conservazione di un’identità rigida, inflessibile e compatta non costituisce più un obbligo, come lo era al tempo dei totalitarismi. Quasi nessuno appare ora disposto a farsi schiacciare da un Noi oppressivo e uniforme e quasi nessuno si lascia inchiodare in un ruolo sociale prestabilito (nei cui confronti prende anzi, ostentatamente, le distanze). Stiamo attraversando una fase di smussamento dei conflitti, di maggiore indisponibilità a smuovere le acque del nostro privato Acheronte? Sono tramontate le drammatiche esigenze di fare i conti con se stessi poste da Nietzsche, Pirandello o Proust? Prevale il desiderio di una torpida esistenza, narcotizzata dall’assunzione di massicce dosi di mediocri soddisfazioni istantanee? È tempo di ricordare ciò che dovrebbe essere ovvio: che i problemi d’incompatibilità tra le parti del Sé o di 387
bilanciamento dell’Io e del Noi (per stilizzare in questi termini complesse relazioni storiche e teoriche) non si sono volatilizzati e non hanno perduto la loro drammaticità. L’ossessiva attenzione ai fenomeni del narcisismo e dei “mondi vitali” ha ridotto e banalizzato le dimensioni dell’io, trasformando, nello stesso tempo, la pluralità delle sfere di vita in una mera festa delle possibilità. Si scambia così – ripeto – un fenomeno sintomatico, ma storicamente e geograficamente limitato, con una costante della “postmodernità”, dimenticando inoltre che tale proliferazione delle differenze coesiste con la presenza di gerarchie che, pur assumendo un volto friendly o pur rendendosi maggiormente invisibili, non per questo cessano di esistere. Siamo realmente privi di legami sociali, incapaci di tenere fede alle nostre promesse, gelatinosi, di “plastica”, nomadi e nemici di ogni stabilità, invertebrati morali, arrivisti aridi e vanitosi? Oltre a sottovalutare le insospettate risorse dell’“uomo comune”, dotato da sempre di ingegnosi mezzi per resistere alla pressione dei durkheimiani moules sociaux, e a separare l’individuo presuntamente già costituito dai processi di individuazione che lo formano e che sono da lui inseparabili,36 quest’immagine del narcisista o dell’io modulare accredita – generalizzandola – la discutibile idea che la debolezza e la frammentazione dell’io siano monopolio esclusivo degli individui della “seconda modernità”,37 mentre dipendono anche dal riprodursi, con variazioni storiche significative, di “nicchie” idonee, ossia di favorevoli congiunture storiche, individuali e collettive.38 Da Montaigne a Locke, da Hume a Simmel esiste, infatti, una linea di pensiero filosofico che considera l’io composito, 388
fatto “di pezzetti”, appeso al sottile filo della memoria e dell’attesa, teoricamente irreperibile, evanescente prodotto di una delicata arte combinatoria (e non certo, comunque, costruito in “acciaio e cemento”).39 Bisogna dunque articolare diversamente la dicotomia che oppone l’individuo “moderno” a quello “postmoderno”, spezzando il circolo autoreferenziale dell’Io e ricostruendo un Noi capace di rafforzare il legame sociale senza attentare all’autonomia degli individui, in grado cioè di interiorizzare l’esigenza di comunità senza cancellare le differenze individuali (come accade in Gentile). Accogliendo gli schemi di Bauman o dei sociologi del narcisismo, si creano, altrimenti, trappole concettuali da cui è poi difficile uscire. Dal Platone del Parmenide sino allo Hegel della Scienza della logica, risulta infatti chiaro che il rapporto tra concetti o determinazioni opposte (uno e molti, identità e differenza, durezza e fragilità) non può essere risolto se non abbandonando l’irrelato isolamento di uno dei due termini o il gioco interminabile del loro pendolare rinvio. La relazione tra la presunta unità monolitica dell’io “moderno” e la fragilità dell’io postmoderno non deve essere, quindi, intesa come un’opposizione assoluta. È vero che l’io narcisista o l’io videotape rappresentano un fenomeno raro o sconosciuto nel passato, ma dove collocare nella rigida dicotomia moderno-postmoderno la continua riformulabilità del moy di Montaigne e dell’identità personale di Locke o la volatilità, sul piano teorico, dell’io di Hume? La differenza con il passato è che oggi, a questo livello, ci si interroga raramente su ciò che tiene unita la coscienza nel tempo. Persino in Hume, invece, il “fascio” che lega il contenuto delle percezioni rinvia a una 389
debole attività unificante, così come la “repubblica” degli io presuppone, a sua volta, una comune cittadinanza. In maniera analoga, anche la moltiplicazione patologica della personalità descritta dalla cultura europea e americana tra Otto e Novecento, è ancorata a forme di organizzazione fisiologica primitiva, addirittura più strutturate di quelle recenti (cfr. supra, pp. 54, 60, 69, 72 e sgg.). I teorici della fine del XX secolo – da Berger a Goffman, da Luckman a Lasch – ignorano o spingono invece il tema dei vincoli interni all’io talmente sullo sfondo da farlo quasi scomparire. Nella loro prospettiva pluralistica non è infatti chiaro se il transito da un io all’altro, nessuno dei quali è “autentico”, presupponga dei metri, delle procedure, dei percorsi di convertibilità o di traducibilità fra i diversi moduli o fogli di dossier dell’io stesso. L’opzione di fondo sembra però essere quella della rinuncia a un nucleo d’identità riconoscibile attraverso tutte le metamorfosi: esaltati dalla vertigine dei possibili, essi non si chiedono quale sia la forza centripeta che tiene (o sembra tenere) insieme i vissuti individuali nel tempo. Oggi, l’aspro conflitto tra l’inflazione di sé e l’obbligo di rivestire un ruolo fisso, tra il mantenimento di un’identità forte e le spinte alla scissione e alla moltiplicazione della personalità appare per lo più disinnescato. Spesso, tuttavia, le ferite della coscienza si tamponano al prezzo di anestetizzarla e di usare qualsiasi diversivo per impedirle di guardare quella “fiumana” che, pirandellianamente, preme sugli argini della vita di ognuno. Specie nei paesi occidentali, ma non solo, la banalizzazione dell’esistenza, l’assottigliarsi dell’esperienza religiosa e dell’impegno politico, il consumo relativamente diffuso di beni, l’uso di 390
alcol, droghe o tranquillanti, la dipendenza dai mezzi di intrattenimento di massa sembrano offrire a molti sedativi all’inquietudine. Si è forse chiuso un grande ciclo di utilizzazione del dolore, del conflitto come fattore agonistico, radice viva di costruzione e ricostruzione della propria personalità? Il dolore e il conflitto, mitici castighi dell’umanità irredenta, si presentano, comunque, quale fonte di energia obsoleta, come il carbone vegetale. È questo un vantaggio, una liberazione da un assurdo pedaggio pagato alla tradizione? Laddove la lotta per la mera sopravvivenza è sostanzialmente finita, laddove si propaganda la sdrammatizzazione dell’esistenza, sembra sorgere una nuova specie di battery men, di uomini d’allevamento. Ritorna, in versione aggiornata, il modello platonico di politica, che assimila il buon re al buon pastore capace di pascolare e selezionare il suo gregge (Pol., 265 c-d). Al paternalismo della tradizione politica o alla versione religiosa cristiana del Buon Pastore, che si preoccupa anche dell’ultima delle sue pecorelle ed è disposto a sacrificarsi per essa, si sono storicamente intrecciati metodi di privilegiamento della violenza, come nel caso dei meneurs des foules totalitari, che hanno sovrapposto la figura del lupo a quella del Pastore. Ai classici mezzi repressivi si vanno invece attualmente affiancando o sostituendo quelli seduttivi, alla paura della morte, come minaccia permanente del potere, si abbina così l’interesse della politica per la vita, il benessere e la salute dei cittadini, nonché la disponibilità di pascaliani divertissements di massa (di benaccetti divertimenti o diversivi che sviano dalla riflessione). Quali strumenti vengono oggi usati per governare e 391
plasmare gli individui? In che modo sono invase le coscienze? Dopo l’esperienza dei regimi totalitari nel Vecchio Continente “che cosa addomestica ancora l’uomo, quando l’umanesimo come scuola di addomesticamento ha fallito?” Anche se poco osservata, è sotto gli occhi di tutti la lotta titanica – combattuta mediante sofisticate “antropotecniche” – tra impulsi di addomesticamento e impulsi di abbrutimento,40 tra l’uso di metodi hard di controllo psichico e fisico e quello di dispositivi soft miranti alla disattivazione emotiva e ideale della coscienza. Gli individui appaiono sempre più sottilmente eterodiretti, esposti al gioco degli stimoli casuali e legittimamente interessati al prolungamento della vita e alla conservazione della salute grazie all’intervento dello stato sociale o alla previdente capacità di muoversi tra le insidie e le promesse del mercato. L’hegeliano “regno animale dello spirito” si è trasformato, da una parte, in giungla e, dall’altra, in Disneyland? Ritorna, trasfigurato, il dilemma suggerito da Nietzsche: se si debba continuare a privilegiare l’allevamento di piccoli uomini – come quello che ha reso l’uomo europeo esponente di “una specie rimpicciolita, quasi ridicola, un animale da gregge” (JGB, 81 = 70) – o assecondare, invece, la creazione di uomini potenziati? E se si sceglie quest’ultima soluzione, qual è il suo prezzo? Può una democrazia selezionare programmaticamente persone capaci di una più salda individualità senza scavare un pericoloso baratro rispetto agli altri cittadini, necessariamente sottomessi, degradati o abbandonati a se stessi? Può il favorimento delle condizioni che servirebbero all’autocreazione di individui compiuti, di liberi animali da 392
preda, coesistere con l’addomesticamento di massa? È evidente che, in un regime democratico, questa strada è impraticabile, poiché nega lo sviluppo di una comune umanità, reintroducendo intollerabili forme di dominio, di crudeltà e di discriminazione. La pluralità degli io e l’eccentricità delle sfere di vita in cui l’individuo era inserito hanno perduto il potenziale emancipatorio che pure si celava dietro il rifiuto dell’identità rigidamente monolitica e della chiusura ‘tolemaica’ del singolo entro cerchie soffocanti? Come si modifica, in prospettiva, la grana dell’identità dal momento in cui la sua stabilizzazione non dipende più dal primato della paramount reality, del “mondo vitale” quotidiano,41 scandito dall’‘ordine del giorno’ delle normali mansioni e, soprattutto, dal lavoro organizzato secondo il modello del posto fisso? Ossia, da quando l’economia impone all’“uomo flessibile” di cambiare più volte mestiere nel corso dell’esistenza e da quando il tempo di lavoro diminuisce drasticamente rispetto al tempo libero,42 la frammentazione patologica della personalità, denunciata ai tempi di Ribot, è stata realmente derubricata a zapping dell’io, a passaggio veloce e senza traumi da una versione all’altra di se stessi o da un “mondo vitale” all’altro? O non si è, piuttosto, trasformata l’insicurezza in una situazione di sottile angoscia di fondo, senza oggetto specifico, la quale provoca, come spontaneo antidoto, il moltiplicarsi dei punti di fuga? Tanti interrogativi, che attendono ancora un’adeguata formulazione e articolazione. Il corpo plasmabile Un solo aspetto dei possibili metodi di modellamento e di eventuale addomesticamento dell’individualità può qui 393
essere, in breve, messo a fuoco: quello delle tecniche in grado di incidere direttamente sulla vita stessa. Le “macchine” totalitarie sono state smontate, ma non per questo è tramontato il potere dei grandi apparati, stampi e ordinamenti di condizionare pesantemente l’esistenza e le decisioni dei singoli. Già Heidegger e Jünger avevano attribuito alla “tecnica” un dominio incontrastato sulle società contemporanee. Si aggiunge oggi che essa obbligherebbe a riformulare radicalmente concetti come “identità personale”, “individuo” o “libertà”. Ne favorirebbe, infatti, l’implicita delegittimazione, in quanto – al pari della macchina e del mito in Sorel – non ha di mira la verità, ma il puro funzionamento dei suoi dispositivi. La tecnica contribuisce indubbiamente alla diffusione di una mentalità strumentale, basata sul primato dei mezzi efficaci e sulla conseguente indifferenza rispetto ai fini, sviluppando un’immane potenza, che non si arresta tendenzialmente dinanzi ad alcun ostacolo etico o politico: lasciata a se stessa, fa tutto quello che le è possibile fare.43 L’assegnazione alla tecnica dell’attributo dell’onnipotenza coglie un aspetto importante della sua natura e mette in luce il rischio mortale che essa rappresenta non solo per chi fosse capace di impossessarsene senza effettivi controlli, ma anche per le vecchie forme retoriche di umanismo. Eppure, questo suo potere non è irresistibile e, del resto, da oltre un secolo, essa è strettamente intrecciata alla scienza, da cui non può prescindere, come è accaduto a lungo nel passato. È possibile – e persino doveroso – contrastarlo con una politica all’altezza dei problemi emergenti e con modelli culturali basati sulla conoscenza delle sue specifiche procedure, in grado cioè di non farla entrare in rotta di 394
collisione con la crescita della soggettività, della libertà personale o della democrazia. Proprio perché è diventata l’“ambiente” naturale in cui oggi vive gran parte dell’umanità, appare ancor più necessario rispondere alla sua sfida. L’attuale evoluzione delle biotecnologie e delle tecniche mediche e farmaceutiche è la prova di come le società contemporanee possano non solo subire la prepotente violenza della “tecnica”, ma riuscire anche, in linea di principio, a piegarne faticosamente il corso, indirizzandolo verso un ampliamento delle chance dell’io, dell’identità personale, dell’individuo e della libertà. Appunto perché non si applicano alla materia inerte, ma al corpo vivente (o, attraverso gli psicofarmaci, all’“anima”, con il rischio politico del possibile controllo delle emozioni e del comportamento), esse trasformano la natura della soggettività, mettendola di fronte a situazioni inedite e, appunto, non prive di pericoli. In quanto costituiscono i principali strumenti e, insieme, la posta in gioco attualmente più alta dei biopoteri, il loro ruolo è ambiguo: diversamente dai regimi totalitari che volevano plasmare gli individui con la violenza, la disciplina e l’ideologia, le biotecnologie sono oggi effettivamente in condizione di creare – con mezzi non politici e, magari, con scopi filantropici – l’“uomo nuovo”, denaturalizzato: selezionato geneticamente, mantenuto in vita in circostanze in cui altrimenti sarebbe morto, dotato in prospettiva di molteplici protesi, risultato di processi combinati, fisiologici e bioingegneristici. La costruzione dell’uomo nuovo è oggi virtualmente possibile, sia nella direzione della sua manipolazione eterodiretta (come se la raffigurava Huxley in Brave New World, quando ipotizzava 395
una società di caste geneticamente selezionate), sia in quella della sua emancipazione. Il confronto, iniziato da appena pochi decenni, sarà lungo e coinvolgerà direttamente tanto la tecnica, quanto la politica (in gioco sono pur sempre i poteri di dare, modificare o togliere la vita e quelli di far sorgere, secondo determinati progetti educativi e culturali, l’individuo dalla dimensione corporea “preindividuale”). Le biotecnologie pongono in discussione convinzioni, abitudini e idee di durata millenaria, ritenute fondate sulla roccia di evidenze incrollabili o sull’autorità della rivelazione divina. Niente è apparso finora più evidente del fatto che un individuo viene al mondo secondo i vecchi e collaudati metodi della riproduzione sessuata naturale, con un corpo e una mente soggetti a malattie e a deformità congenite, che soffre, gode e muore assieme a tutti i suoi organi. Le biotecnologie ci obbligano a riformulare rapidamente, anche a livello di senso comune, molti parametri grazie ai quali la vita quotidiana e il pensiero filosofico e scientifico si sono orientati nel succedersi delle generazioni. Con la loro diffusione, muta la rete delle relazioni di parentela (anche attraverso le “tecnologie povere”, come la fecondazione artificiale assistita con donatore esterno); varia il ruolo della sessualità (per effetto del suo programmato scindersi dalla procreazione, grazie ai contraccettivi chimici, e dalla figura parentale, grazie al ricorso a banche del seme, al prelievo di ovociti e all’impianto di embrioni nell’utero di madri surrogate); muta il sistema dei sentimenti, la grana, la varietà e l’intensità di quelle determinate passioni che scandiscono i momenti più solenni dell’esistenza umana (la nascita, la paternità e la maternità); con l’introduzione di protesi, scompare l’idea di corpo come organismo formato dalla sola 396
materia vivente e, con i trapianti, da parti indissolubili: i singoli organi possono ora passare da un corpo all’altro, mettendo in relazione esistenze e storie umane differenti che si incontrano oltre la morte. Tra le conseguenze macroscopiche di queste innovazioni si possono elencare: l’indebolimento dei legami naturali, di sangue (ai vincoli “ascrittivi” si stanno lentamente sostituendo quelli “elettivi”, con il conseguente variare del senso dell’identità personale in quanto legato al patrimonio biologico, fatto anche di somiglianze di famiglia e di una storia naturale racchiusa nel DNA di entrambi i genitori conosciuti); la possibile scomparsa di molte malattie ereditarie; lo sfumare dei confini tra specie e specie negli organismi geneticamente modificati. Cambia persino la configurazione dell’immaginario in quanto condizionato dai precedenti limiti biologici o mentali e dal complementare desiderio di eluderli. Ciò che appariva imposto dalle dure leggi della necessità o dall’imperscrutabile volontà di Dio si trasforma in oggetto di scelta, in “antidestino” (e, quindi, in maggiore libertà). Per effetto di molteplici fattori, dai trapianti d’organo agli interventi sul genoma, dall’innesto di protesi inorganiche nel corpo alla scelta del sesso del nascituro, dai limiti posti alla “lotteria naturale” alla pratica, appena inaugurata, di procreare bambini su ordinazione, design babies (allo scopo di risultare esenti da determinate malattie genetiche), si altera, soprattutto in prospettiva, la coscienza che ciascuno possiede del proprio corpo e della propria identità personale, legati anche alla loro proiezione oltre la morte, all’idea dei figli e dei pronipoti.44 Ogni individuo resta biologicamente un unicum (anche nel caso di gemelli omozigoti). La plasticità del suo cervello lo rende 397
ulteriormente diverso da ogni altro, ma – in prospettiva – la composizione della sua identità cambia anche con gli eventuali interventi di modificazione genetica, i trapianti o le protesi. L’equilibrio Io-Noi Se si escludono le mutilazioni, gli esercizi e le pene corporali, nel passato, più che attraverso modificazioni somatiche, le strategie d’individuazione messe in opera dalle società umane si sono tradizionalmente basate sull’applicazione di pratiche disciplinari o sulla creazione – per mezzo dell’imitazione o degli stampi sociali – di tecniche di apprendimento, credenze, miti, abitudini e costumi. Ciascuno è, infatti, plasmato da strutture linguisticoconcettuali anonime e preesistenti, inserito in nuclei familiari, in tradizioni e organizzazioni varie (ecclesiastiche, scolastiche, professionali, culturali, politiche o militari), all’interno delle quali può conquistarsi uno spazio più o meno ampio di libertà e di originalità. L’identità è frutto tanto della particolare costituzione fisica del singolo, quanto di una costruzione-costrizione storica e politica che intreccia e salda gli elementi necessari e quelli casuali (“traumi infantili, articoli di giornale, osservazioni accidentali, vecchi film”). In lunghi archi di tempo è stata approntata una panoplia di tecniche di embedding e disembedding, per incanalare o far deviare dal proprio alveo le coscienze e l’inconscio di persone che, in grado diverso, accondiscendono o resistono alla pressione delle istituzioni. Il conseguimento dell’identità personale e di una sufficiente coerenza dell’io rappresenta un processo arduo, che si ripete a ogni infanzia, in quello spazio tra “carne” e “spirito”, tra individuo e comunità definibile attraverso la 398
preposizione francese entre, che rende bene la compresenza del nostro “dentro” e del nostro “fra” ed elimina, con ciò, almeno grammaticalmente, l’opposizione tra corpo e mente, tra Io e Noi o tra autonomia e costrizione. L’identità non si riduce, dunque, a una formula semplice, come Io = Io, ma non si appiattisce neppure sulle condizioni storiche ed empiriche in cui l’individuo viene a trovarsi.45 Ognuno costituisce una sintesi irripetibile di fattori fisici, sociali e storici, in cui la già ricordata plasticità del cervello umano (la struttura più complessa dell’universo, per quanto oggi sappiamo) e la natura dell’organismo nella sua storia evolutiva rappresentano il presupposto inaggirabile, la dote naturale e specifica, per l’emergere della coscienza e lo sporgere culturale dell’io o dell’identità personale. È peraltro chiaro, e persino banale, che non esiste un Io senza un Noi o un Noi che non sia formato dall’avvertito senso di coappartenenza dei molteplici Io, dai sedimentati ma attivi processi transindividuali di individuazione: varia solo l’accento che cade sull’uno o sull’altro termine o il grado della loro ibridazione reciproca (oggi rafforzato da forme di potere che si annidano direttamente nella soggettività attraverso lo sviluppo dei media e, sin dall’epoca dei meneurs des foules, dal tendenziale abbassarsi della soglia che separa l’interiorità dall’esteriorità, le convinzioni private e il carattere del singolo dai moules sociali e politici). La complementarietà dell’ego cum e del “noi altri” resta lo sfondo stabile della condizione umana. Del resto, nella sua genesi, l’Io viene ritagliato dalla coppia Io-Tu della madre e del bambino e, successivamente, da quella Io-Noi (com’è noto, inoltre, il bambino comincia a riferirsi a se stesso in terza persona). Sino al Seicento, poi, non esisteva neppure la 399
nozione corrispondente al nostro “individuo”: il termine individuum era certo già in uso, ma indicava, nel latino della logica scolastica e della grammatica medioevale, il singolo esponente di una qualsiasi specie (mosca, triangolo o rosa).46 Individuum, che traduce il greco átomos, ciò che è indivisibile, allude, in effetti, a una duplice indivisibilità, logica e ontologica: logica perché è una species infima, non ulteriormente scomponibile e caratterizzata, per giunta, dall’accidentalità (“sostanza prima” la chiama Aristotele, ossia soggetto logico che non può essere predicato di qualsiasi altro soggetto, cfr. Met., 1036 b); ontologica perché, già a partire dalla famosa disputa sugli universali, alcuni filosofi ne sostengono l’esistenza di per sé – nihil est præter individuum, diceva Roscellino –, mentre altri la negano. Soltanto con Leibniz (e, indirettamente, con Spinoza pensatore delle res singulares), grazie all’unità interna delle monadi, l’individuo acquista piena consistenza ontologica e comincia ad avere un valore di per sé. Quel che varia – storicamente e teoricamente – è il senso dell’io in quanto individualità e l’“equilibrio [o bilancio] Noi-Io”, la Balance Wir-Ich, descritta da Norbert Elias. A partire dal Medioevo (e, soprattutto, direi, tra Montaigne e Kant) quest’ultima passa in Occidente dal primato del Noi a quello dell’Io, per spostarsi nuovamente, nella prima metà del Novecento, verso la restaurazione autoritaria della supremazia politica del Noi. In età moderna, l’io si riconnette tanto più a se stesso lungo il proprio asse temporale, in forma cioè di personal identity, quanto più diventa consapevole del sostegno che ottiene dagli elementi “preindividuali” (sia di carattere organico, come le potenzialità del corpo, del cervello o dei 400
sensi, sia di carattere universale, culturale, come il linguaggio; nessuno di tali elementi può, tuttavia, essere pensato come unità e neppure come identità, sostanza, forma o materia).47 In particolare, sino alla scoperta dei cadres sociaux de la mémoire, da parte di Maurice Halbwachs nel 1925, ben pochi si accorsero del fatto che la memoria individuale, che sembra l’unica esistente, dipende dalla memoria collettiva, la quale appare invece un’astrazione. La memoria del singolo non è, infatti, organizzata solo dalla trama dei ricordi soggettivi: è resa possibile, in ultima analisi, da protesi esterne (linguaggio, segnali, scrittura, commemorazioni, riti, monumenti, manuali scolastici) che la sorreggono e la perpetuano. Non si dà, quindi, memoria privata al di fuori dei sistemi di coordinate sociali che servono a fissare e a ritrovare i ricordi personali. Il Noi si cela, quindi, nel cuore stesso dell’Io e della sua memoria, addirittura nei ricordi più intimi, quelli che non hanno avuto testimoni estranei.48 Vorrei qui estendere il valore teorico dei “quadri sociali” oltre i limiti loro assegnati da Halbwachs. Li considero, infatti, essenziali per comprendere le modalità di costruzione dell’io. E questo persino quando vengono ignorati, come nel caso del wirlose Ich, dell’“Io privo di Noi” attribuito a Cartesio, la cui filosofia distilla l’ego cogito solo a patto di dimenticarne le molteplici relazioni con il Noi (il fatto, ad esempio, che egli abbia ereditato, come lingua madre, il francese e appreso, come lingua dotta, quel latino con cui formula lo stesso cogito).49 Vale la pena, tuttavia, precisare che (al pari di altri modelli influenti elaborati dal pensiero filosofico) il cogito non perde la sua attualità per il solo fatto di trascurare i 401
condizionamenti del Noi. Le grandi idee si disincagliano dai loro presupposti iniziali e cominciano a brillare di luce propria, fornendo punti di riferimento imprescindibili al dibattito successivo, anche quando mutano le cornici teoriche o i contesti storici all’interno dei quali sono state enunciate. Proprio perché unilateralmente wirlos, perché scolla l’Io dal Noi (oltre che dal corpo), il cogito rafforza la rivendicazione di un’autorità basata sull’esame razionale del mondo da parte del soggetto. In maniera analoga, la lockiana “invenzione della coscienza”, pur sfociando nei paradossi segnalati da Butler e Reid, consente di focalizzare maggiormente questioni quali la permanenza del Sé nel tempo o la libertà dell’individuo. Sbaglierebbe, quindi, chi volesse schiacciare sulla loro epoca i singoli progetti di costruzione dell’identità, ma compirebbe un errore simmetrico anche chi intendesse considerarli scoperte che illuminano tratti immutabili della natura umana. Così, ad esempio, si ingannano quanti sostengono che l’aspirazione all’autonomia è costante in quell’animale razionale chiamato uomo; che l’azione di forze anonime alle spalle della coscienza dura da sempre allo stesso modo; che i casi di personalità multipla sono noti sin dagli albori della preistoria o che alla maggior parte degli uomini non è mai importato nulla dell’identità personale. Si potrebbe replicare, nell’ordine, che è precisamente il progetto di elaborare se stessi rafforzando il ruolo della coscienza, della memoria e dell’attesa a creare quel paradigma filosofico che, a cominciare da Locke, avrà un peso rilevante in campo storico, politico e pedagogico, accompagnando il sorgere dell’Illuminismo, del liberalismo e della democrazia e impostando la discussione moderna sui diritti dell’individuo 402
in quanto uomo e in quanto cittadino; che le passioni, le azioni o i pensieri umani sono stati certo frequentemente considerati il risultato dell’azione di forze demoniche o divine insediatesi in lui, ma che tali concezioni non coincidono con il ruolo che Schopenhauer assegna alla volontà; che l’esperienza delle personalità multiple descritta nel Vangelo – laddove l’indemoniato afferma “il mio nome è legione, perché siamo molti” (Marco, 5, 9) – non è assimilabile all’analisi del sintomo psichiatrico (cfr. supra, p.71); che dichiarare irrilevante la questione dell’identità, alla maniera di Parfit, non serve tanto a giustificare la condotta di chi elude questo problema, quanto a mostrare, ad esempio, come la perdita della speranza cristiana nell’immortalità dell’anima possa condurre – invece che alla disperazione – alla serena accettazione della caducità dell’esistenza. Fra le strategie, i modelli, le tecniche, le tradizioni che hanno orientato e orientano gli sforzi individuali e collettivi di dar senso alla vita umana nel suo nascere, trascorrere e finire, le idee di identità personale,50 di coscienza,51 di individualità52 o di soggettività53 rappresentano i principali costrutti simbolici che, nelle loro contaminazioni, ibridazioni e intrecci storicamente determinati, hanno permesso alla cultura occidentale di porre in rilievo e interpretare fenomeni e progetti di senso marginalmente noti anche in precedenza o altrove, ma disseminati, sfuocati o appiattiti sul fondo indistinto dell’ovvietà, non percepiti secondo configurazioni e articolazioni perspicue. Il prezzo di un simile balzare all’evidenza è stato spesso quello dell’oscuramento dei fattori anonimi che stanno alla base dell’individuazione: quelli rivendicati da Schopenhauer, 403
Darwin, Taine, Ribot, Nietzsche (per quanto riguarda il corpo), da Le Bon (per quanto riguarda l’“anima delle folle”) e, più tardi, da Lévi-Strauss, Althusser o Habermas (per quanto riguarda le istituzioni familiari, i processi senza soggetto e il linguaggio). Sottratti all’indeterminatezza a causa di anomalie e difficoltà pratiche o teoriche che li hanno resi problematici,54 questi concetti di identità personale, coscienza, individualità e soggettività entrano nel campo visivo del pensiero filosofico, dove vengono dibattuti (smembrati, ricomposti, confutati, parzialmente accolti), innescando una tradizione riflessa, di secondo livello: quella della filosofia e della sua storia, vale a dire della costruzione e delimitazione dei quadri problematici entro cui i concetti si tramandano e vengono criticamente valutati da una comunità di specialisti. Spesso, tuttavia, si finisce per scambiare, naturalisticamente, questi teoremi reificati (tesi, appunto, a salvare i fenomeni dell’identità personale, della coscienza, o della soggettività) con sostanze dotate di autonoma consistenza ontologica o per concepirli, al contrario, in termini nominalistici, come invenzioni arbitrarie e semplici miraggi. La permanenza nel tempo della consapevolezza di essere lo stesso individuo esiste, ovviamente, nella maggior parte delle culture umane (sebbene ve ne siano alcune in cui il cambio rituale di nome impone la credenza magica in un cambio di personalità), anche perché si innesta su funzioni cerebrali quali la memoria, la coordinazione delle percezioni o la concatenazione dei pensieri e degli stati d’animo. Dal momento in cui la durata dell’io nel tempo perde la sua ovvietà – perché non c’è più l’anima-sostanza che la 404
sorregge – inizia tuttavia un nuovo percorso: diventato oggetto di discussione e di riflessione, il problema dell’identità personale serve a inquadrare, comprendere o giustificare altri concetti o valori. In ogni stagione teorica o storica si tratta perciò di ridefinire il campo problematico di una nozione, rispondendo a domande inespresse o mutile con soluzioni che stabiliscano un salto di livello rispetto alle questioni tacitamente o esplicitamente poste. Ad esempio, non sembra oggi interessarci più di tanto – se non in termini di storia delle idee – il modello nietzscheano di Übermensch, almeno com’è stato interpretato nel passato. Ci sta invece a cuore, e molto, mantenere viva l’aspirazione a un’identità che sia, insieme, forte e libera, coerente e aperta a ulteriori sviluppi, in grado di opporsi al culto di un io rigido e, nello stesso tempo, alle pulsioni gregarie o dissipative di una civiltà di massa che tende a cloroformizzare l’esistenza. Ci importa ripensare lo statuto dell’identità e della coscienza in società pluralistiche, che hanno sollevato o spostato altrove i cardini teorici su cui ruotava l’esistenza dei singoli (Dio e l’anima immortale) e che – per una sorta di autofagia – hanno così assottigliato “i cuscinetti di grasso” della tradizione. Consumando queste riserve di energia autoregolativa in favore di processi riflessivi di modernizzazione e di razionalizzazione, hanno costretto l’individuo a fare i conti con se stesso, in maggiore solitudine, ma anche con maggiore libertà.55 La difficoltà di assolvere un simile compito ha però indotto molti a rinunciare a ogni sforzo di autosovversione per lasciarsi andare a meno impegnativi comportamenti mimetici o per chiudersi narcisisticamente in sé. Anche la lotta tra le spinte verso l’autonomia riflessiva 405
e quelle verso l’abdicazione del soggetto a ogni legame cosciente e responsabile tra l’Io e il Noi resta oggi quanto mai aperta. Esercizi di perplessità Eppure, le forze storiche che attualmente ci modellano sembrano premere con maggior forza verso l’assunzione di un altro tipo di identità personale: in direzione di una coscienza adeguata al raggiunto orizzonte planetario, capace cioè di assumersi – anche se in maniera dapprima riluttante – il peso di memorie, di aspettative e di storie che le erano estranee e di attivare risorse morali latenti per estendere il raggio della sua sfera di comprensione e di coinvolgimento pratico ad aspetti di comune umanità sempre più ampi. Situarsi in questa prospettiva non significa voler abbracciare il mondo nella sua inesauribile complessità, pretendere – con una sorta di delirio di onnipotenza – di elevarsi alla padronanza di culture, lingue, costumi o codici etici ignorati. Vuol dire semplicemente decidere di compiere un salto di scala, adottare pertinenti criteri di rilevanza, utilizzando cornici mentali in grado di inquadrare nuove latitudini di pensiero e di eticità. Ma significa anche deterritorializzarsi, dislocarsi, abbandonare gradualmente una cultura incentrata sull’idea di confini identitari rigidi, di proprietà intoccabili, di bastioni di difesa accerchiati. Ora che, nei paesi occidentali, la pressione diretta e convergente delle tradizionali agenzie di individuazione è diventata meno invasiva, si è maggiormente interiorizzata o ha assunto un aspetto diverso, cambia anche la “nicchia” che rendeva possibile la vita delle identità precedenti e muta, di conseguenza, il tono e il significato delle domande che dobbiamo rivolgerci e che, per inerzia, continuiamo a 406
formulare alla vecchia maniera. Quali scenari d’identità cominciano a delinearsi? Non si tratta di anticipare il futuro, ma di prepararsi a interrogarlo cominciando a eseguire preliminari esercizi di perplessità sui segnali del presente, mettendoci più spesso al posto degli altri (sorgenti da cui scaturisce il nuovo), per poi provare a immaginare diversamente noi stessi e il nostro mondo. Consapevoli dello scarso impatto pratico di questi sforzi, almeno a breve termine (fino a quando non si trasformeranno in abitudine irriflessa, in costume diffuso e anche, eventualmente, in prassi politica), possiamo comunque ingaggiare un periodico confronto con un’alterità che virtualmente ci modifica e ci riposiziona, obbligandoci a valutare in maniera più precisa il nostro ruolo e a uscire da forme d’identità tendenzialmente autarchiche, prima di esserne forzatamente espulsi. Il solo fatto di riflettere seriamente sull’esistenza di sei miliardi di individui, che popolano attualmente il pianeta (distribuiti in circa duecento stati) e che aspirano tutti al proprio riconoscimento, produce un salutare effetto di straniamento. Pur restando sul piano dell’immaginazione, la facoltà di giudicare si aguzza, precisa i contorni di ciò che vagamente intuiamo, pone ognuno dinanzi alla concreta constatazione dell’ovvia ma rimossa esistenza di tanti destini personali divergenti, di una moltitudine di esseri in cerca di una vita migliore, attenuando così la spontanea presunzione di rappresentare l’ombelico del mondo. Da un lato, non possiamo uscire dalla nostra pelle, negare di essere – in quanto individui determinati – effettivamente al centro di quell’unico orizzonte che è il nostro, segnato dal tipo di civiltà che abbiamo ereditato; dall’altro, siamo però anche 407
capaci di relativizzare la nostra posizione, di sottoporla idealmente a un capovolgimento di sguardo, che mostri la nostra dipendenza da un contesto globale e apra possibilmente gli occhi di fronte alla tragica lacerazione che attraversa (e non da oggi) l’intera specie umana, spaccando il mondo in due: tra chi “sottovive”, sperimentando i rigori della fame, delle malattie, della miseria e della violenza, e chi gode, almeno, del privilegio di non subire crudeli disagi, regimi apertamente oppressivi o guerre endemiche e, soprattutto, di non provare l’illimitata rassegnazione e l’infelicità senza desideri cui è esposta una moltitudine di esseri umani priva di ogni speranza e costretta a lasciare inattivo, sprecato, mutilato, umiliato, mal investito il suo immenso potenziale di vita, d’intelligenza, di affetti e d’azione: “L’assenza di desiderio nei confronti di ciò che va al di là dei propri mezzi può non rispecchiare una mancanza di apprezzamento, ma solo un’assenza di speranza e una paura dell’inevitabile delusione. Il perdente viene a patti con le diseguaglianze sociali adeguando i suoi desideri alle possibilità di realizzazione”.56 Quanto incide la consapevolezza della situazione mondiale sul costituirsi di nuove, possibili forme allargate e non gregarie di identità? Quali sono, in prospettiva, i processi d’individuazione, gli stampi, i sistemi normativi che sagomeranno diversamente le persone e che è giusto approntare? Quale incidenza ha, al di fuori di ogni semplificazione ideologica o cronachistica, l’attuale diffusa rinascita dei “particolarismi”, “localismi” o “fondamentalismi” sullo sfondo dei cambiamenti in atto a livello globale? Non è, infatti, ozioso chiedersi se, e in quale misura, essi favoriscano l’arroccamento dell’identità 408
individuale e collettiva in se stessa (senza dimenticare che, per la maggioranza degli esseri umani, la preoccupazione di costruirsi un’identità personale autonoma, sottratta alle pesanti ingerenze del Noi, rappresenta attualmente un lusso insostenibile o un obiettivo che resta fuori dal suo orizzonte culturale e religioso); se il loro sorgere costituisca una formazione reattiva all’inserimento di civiltà, popoli e classi sociali nella rete a maglie sempre più strette (e per alcuni opprimenti e discriminanti) dei rapporti mondiali di interdipendenza e subordinazione; se essi non esprimano e alimentino, in forme paradossalmente moderne o “postmoderne”, l’acuto e doloroso senso di inferiorità o il rancore di quanti sono meno abituati ad ammortizzare gli choc della modernizzazione stessa o meno disposti a venire a patti con processi che passano attualmente al di sopra delle loro teste; se essi non fomentino, accanto al ripudio di una omologazione imposta e al rifiuto della globalizzazione in atto, anche il sospetto di una ingiusta retrocessione e la certezza di una perdita di sovranità; se non rappresentino, infine, una reazione – ipercompensata, per debolezza e per eccesso di legittima difesa, mediante l’esaltazione dei propri valori, fedi, costumi – a minacce vere o presunte all’integrità e agli interessi di determinate comunità. Mentre il mondo si “restringe” in quanto le sue parti entrano in una trama di relazioni sempre più fitte,57 sembra radicalizzarsi la volontà di separazione dall’insieme da parte di popoli, gruppi, culture e sub-culture che non riconoscono gli attuali rapporti di egemonia o non si sono ancora adattati a quei giganteschi processi che – nel giro di qualche generazione, fuori e dentro l’Occidente – hanno proiettato miliardi di individui da forme di vita regolate secondo il 409
ritmo lento delle tradizioni locali a condizioni di esistenza rette da rapidi processi planetari di cui ognuno coglie alla rinfusa solo dispersi e caotici frammenti di senso. Anche nel passato le concezioni del mondo e gli orizzonti di coscienza erano di per sé ben lontani dall’essere perspicui, ma gli uomini non venivano sottoposti con gli stessi ritmi alle attuali richieste di urgente adeguamento a situazioni sempre nuove.58 Il rischio di un virulento recupero del Noi a spese dell’Io (che può colpire anche l’Occidente attraverso restrizioni della libertà in nome della sicurezza) si accompagna oggi alle frequenti ibridazioni fra culture, rese possibili dalle massicce migrazioni di centinaia di milioni d’individui, che configurano un vasto meticciato dell’identità e segnalano l’accresciuto ruolo dei moules transnazionali, annunciando il bisogno di passare dalla prevalenza dei diritti del cittadino a quella dei diritti dell’uomo, dalla cittadinanza dello stato-nazione a una lontana, e per ora improbabile, cittadinanza globale che faccia da pendant e da argine alla “funzione ordinatrice” complessa, mista, pluricefala, tipica di un sistema reticolare privo di un unico centro di sovranità direttamente identificabile, che sembra ora imporsi a livello planetario.59 In una situazione storica in cui le grandi civiltà della Terra continuano ancora a non riconoscersi sufficientemente nei loro peculiari valori, la biforcazione tra processi centripeti di globalizzazione e processi centrifughi di isolamento, lo strabismo tra integrazione e frammentazione, il conflitto tra le spinte egemoniche globali e le resistenze e i patteggiamenti cui esse localmente danno luogo sta producendo inedite forme d’identità, che poggiano sulla contrastata ricomposizione di memorie divise e sull’intreccio 410
di aspettative oscillanti tra paura e speranza. Non siamo ancora diventati un “pianeta di naufraghi”, di sradicati portatori di culture disomogenee, malamente innestate in luoghi e climi diversi da quelli di provenienza,60 perché gran parte dell’umanità è ancora radicata nella ‘terraferma’ dei propri luoghi, stati e istituzioni. Il panorama delle culture attuali rende ancora più evidente un fenomeno rimasto in ombra presso i teorici dell’individualismo e del narcisismo, ossia che il pathos per l’emancipazione dell’individuo dagli stampi sociali e delle istituzioni collettive di senso (tradizioni, religione, famiglia, classe o stato) deriva dal ricordo delle lotte in virtù delle quali, in particolari tempi e luoghi, ne è stata rivendicata l’autonomia. La pugnace determinazione, con cui alcuni popoli europei e americani e alcune classi sociali oppresse si sono vittoriosamente sottratti alla dominazione esterna e all’arbitrio altrui, ha così finito per cancellare il ricordo dei vincoli rimasti e di quelli nuovamente imposti. L’idea di “libertà dei moderni”, prima di ammantarsi di retorica, conteneva infatti (cfr. supra, pp. 40-41) un pesante nucleo di concretezza: il rifiuto della servitù e di qualsiasi forma di dipendenza personale, che si trasforma poi nella difesa di una sfera inalienabile di “diritti dell’uomo”, naturali e perciò indisponibili e intangibili da parte dello stato, e nella conseguente presa di distanza dell’individuo dalle istituzioni politiche ed ecclesiastiche. Accade così che – soprattutto negli Stati Uniti, rimasti esenti dai totalitarismi ed eredi di una cultura che aveva originariamente tagliato i ponti con alcune tradizioni feudali e gerarchiche europee – le ragioni del Noi vengano talvolta ideologicamente rimosse (o accampate in situazioni di emergenza, quando sembra in 411
gioco la vita della comunità o la politica estera del paese), favorendo la nascita di quell’individualismo democratico che costituisce la premessa storica dell’attuale narcisismo.61 Il fatto che molti cerchino oggi di ridefinire se stessi innestandosi su identità forti di origine premoderna (di carattere soprattutto religioso), serve a ricordare non solo che in molte parti del mondo manca a questo modello occidentale il crisma dell’universalità, ma anche che l’aggancio dell’Io al Noi non è mai venuto meno da nessuna parte e che le zavorre stabilizzatrici istituzionali ne modificano solo il peso e ne spostano il baricentro. La possibilità di conoscere la varietà delle forme assunte dall’identità personale in rapporto ai corrispondenti moules sociaux (senza separarle dalla ancor più grande varietà delle coscienze singole) ci permetterebbe di ripercorrere le trame della loro formazione e di situarci idealmente all’interno degli orizzonti di senso concessi a ogni persona. Una meta evidentemente irraggiungibile, ma che deve rimanere impressa come monito per non dimenticare l’irriducibile complessità di ogni tentativo di comprensione (su cui solo la dettagliata ricerca storica può gettare discontinui lampi di luce). Chiavi teoriche Giunti quasi al termine del nostro percorso dobbiamo chiederci come mai i concetti utilizzati per comprendere il rapporto tra continuità e discontinuità dell’Io, tra Io e Noi, tra unità e molteplicità, appaiano, insieme, incompatibili e irrinunciabili. Per rispondere qui in modo necessariamente sintetico – rinviando ad altra occasione un esame più puntuale e distinguendo l’aspetto teorico da quello storico – mi servirò di tre schemi analogici, da integrare in un unico 412
modello e da implementare, sostanziare e specificare analiticamente riferendoli retrospettivamente, come chiavi interpretative, all’intera vicenda fin qui esposta. Il primo schema è offerto dalla rielaborazione dell’idea freudiana di “condensazione”, enucleata dal suo specifico contesto – dove rinvia al meccanismo psichico per cui figure diverse si sovrappongono, senza confondersi, su una stessa immagine, come succede scattando varie fotografie sulla medesima lastra62 –, e dalla connessa figura retorica della metafora. Così inquadrata, l’identità personale si presenta come grande condensazione, ossia quale sovrapposizione di differenti io (concepiti sincronicamente come poli di coordinazione psichica, dotati di una certa permanenza, che ciascuno acquisisce nel corso della vita). In una prospettiva diacronica, invece, lo stesso fenomeno di condensazione si presenta quale effetto di trascinamento e di trasloco, metaphoré, degli io trascorsi (del susseguirsi cioè dei punti di vista che hanno ordinato i flussi di coscienza in determinate fasi dell’esistenza dell’individuo) nel mobile orizzonte del’io attuale, che, riflettendoli, li conserva nella loro reciproca distinzione. Pur con fasi d’improvvisa accelerazione o di momentaneo stallo, tale trasferimento è continuamente ripreso al di là delle intermittenze, perché siamo tutti emigranti nel tempo e ci spostiamo dal presente noto verso un futuro ignoto. Ogni istante serve da ponte e, insieme, da cesura rispetto al successivo: si migra, si trasloca, “metaforizzando” il nostro io, spostandolo su orizzonti e punti di vista sempre diversi, che devono però misurarsi spesso con ciò che è stato. Abbiamo bisogno del permanere dell’identità nel tempo, della conservazione del passato nella sua irrimediabilità, ma anche, e indissolubilmente, 413
dell’apertura al nuovo e al possibile, cui si accede a partire dalla discontinuità rispetto a quel che eravamo, dall’oblio e dalle tracce lasciate dalla consumazione delle precedenti configurazioni dell’identità. Costretti a bruciare incessantemente i vascelli alle spalle, senza per questo perdere il contatto interiore con la terra d’origine, dobbiamo guardare avanti e, insieme, custodire il ricordo delle versioni abbandonate di noi stessi. L’equilibrio è precario, eppure – di norma e grazie al persistere della relativa integrità delle funzioni cerebrali e corporee – riusciamo a bilanciare continuità e discontinuità e a ritrovare il tortuoso cammino che riconduce a tutte le nostre successive incarnazioni psichiche in una sola vita. In base al secondo schema, variamo costantemente il nostro “baricentro”. Non più nel senso nietzscheano di processi d’interazione che coinvolgono le cellule e le aristocrazie delle cellule, bensì in quello di una assidua redistribuzione dei vissuti e dei pensati attorno all’io quale loro mobile e provvisorio punto di equilibrio tra molteplici fattori in costante trasformazione, risultante dalla convergenza di un insieme di forze (che, se poco integrate fra loro, possiamo anche immaginare, con una ripresa della drammaturgia psichica tardo-ottocentesca, personificate in una pluralità di io). Tale opera di puntuale e temporaneo riassesto si produce nella veglia e nel sogno, in modo conscio e inconscio, nell’orizzonte del presente e lungo l’asse della memoria e delle attese.63 Rispetto al modello idealistico di autocoscienza non è in gioco soltanto il meccanismo della riflessione, della vuota forma dell’io soggetto che pensa reiteratamente un vuoto io oggetto, ma dell’intera coscienza ‘piena’ che si trova, di volta in volta, a 414
essere riportata al centro di gravità dei suoi contenuti del momento, reggendone il peso complessivo e dando loro forma adeguata. Il terzo e ultimo schema interpreta la nozione di identità personale mediante l’estensione, oltre il loro ambito originario, dei concetti di “eterotopia” ed “eterocronia”, che designano la giustapposizione di spazi e tempi tra loro incompatibili, ma complementari (virtuali, eppure reali, come negli specchi o nel succedersi delle scene teatrali e cinematografiche) e che, da un altrove spaziale o temporale, rinviano a un luogo e a un tempo presenti. In quest’ottica, lo specchio (dispositivo utilizzato in maniera diversa rispetto all’idealismo fichtiano e reso in tal modo compatibile con il modello del baricentro) è, appunto, da un lato, un’utopia, un luogo senza luogo, dato che “mi vedo là dove non sono, in uno spazio irreale che si apre virtualmente dietro la superficie”; dall’altro funziona, invece, “come un’eterotopia nel senso che restituisce il posto che occupo nel momento in cui mi guardo nel vetro, un posto assolutamente reale, connesso a tutto lo spazio che lo circonda, e al tempo stesso assolutamente irreale, perché, per essere percepito, deve passare da quel punto virtuale che sta laggiù”.64 Anche all’identità personale può essere attribuito un carattere eterotopico (ed eterocronico). Essa, infatti, non rappresenta un semplice miraggio, non è lacanianamente una fuggevole illusione atta a smentire la certezza cartesiana del cogito (je pense où je ne suis pas, donc je suis où je ne pense pas).65 Tuttavia, non si riduce neppure a qualcosa di concreto, di tangibilmente reale, a corpo, cervello, rete neuronale. In quanto coscienza che dura, non è né mero epifenomeno del corpo o del cervello, né qualcosa che può 415
esistere di per sé. Per parafrasare Merleau-Ponty, il sorriso è indubbiamente una contrazione di muscoli, ma, se lo riduciamo al mero dato fisiologico, ne defalchiamo tutti i significati affettivi e sociali. Questi però, a loro volta, non esistono isolatamente, non rappresentano un sorriso senza il corpo, come quello del Gatto del Cheshire in Alice nel paese delle meraviglie. Non si devono, dunque, appiattire l’io, la coscienza, l’identità personale, l’individualità sulle funzioni cerebrali o corporee in genere, pur riconoscendo che non esisterebbero senza di esse. Non si devono, tuttavia, neppure staccare gli aspetti universali della coscienza, dell’io e dell’identità personale dalla concretezza di ciò che sta al di qua dello specchio, l’oggettività dalla soggettività. Si tratta di differenti livelli di descrizione di fenomeni concomitanti che – nell’attuale fase della ricerca – risultano ancora difficili da articolare in un unico discorso fruttuoso e convincente.66 L’identità è – simultaneamente e sotto forma di antagonismo collaborativo, di nec tecum, nec sine te – coscienza e cervello, mente e “carne”, universalità e individualità, Noi e Io, qualcosa che sta fuori del mondo e qualcosa che sta nel mondo. Tutti gli elementi di queste coppie coesistono nella loro reciproca disgiunzione e nel loro ineludibile rapporto di complementarietà, di concavo e di convesso. Senza l’immagine virtuale di ciascuno proiettata nello spazio e nel tempo della memoria collettiva e della storia di tutti, senza l’insediarsi nell’ubique et semper del pensiero anonimo o del linguaggio pubblico, senza il sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda propria della coscienza umana in generale, senza il punto di vista del Noi, senza lo scindersi e il ricomporsi dell’io tramite la riflessione nessuno potrebbe conoscere e situare se stesso, considerarsi come 416
individuo che si trova, in prima persona, sempre ed esclusivamente al centro di un mutevole orizzonte di senso, avvertito come indubitabilmente proprio. Per converso, senza il corpo reale dell’individuo determinato e irripetibile nell’hic et nunc, senza i vissuti direttamente attribuibili a “questo singolo”, senza la “coscienza fenomenica” con i suoi aspetti soggettivi e qualitativi (i qualia), senza il cogito préréflexif (cfr., più avanti, p. 285), ogni rispecchiamento virtuale risulterebbe impensabile. L’identità personale appare, dunque, sia in maniera riflessa e universalizzata, come una fra tante nel tempo e nello spazio della società e del mondo, sia in maniera immediata, nel tempo reale e nello spazio corporeo del singolo, nel tactus intimus (cfr., più avanti, pp. 284, 286) in un rapporto di unitàopposizione che permette a ciascuno di fare il punto sulla rotta della propria vita (mediante meccanismi a feed-back, scambi simbolici e aggiustamenti complementari di prospettiva, grammaticalmente espressi con “io”, “tu”, “noi”, “loro”, “qui”, “altrove”, “dentro”, “fuori”, “ora”, “poi” e simili). Già Hegel aveva compreso che l’io non costituisce un prius assoluto, dato che presuppone tanto il processo della sua genesi – esposto nella Fenomenologia –, quanto lo “spirito”, interpretato più tardi quale “lavoro universale del genere umano” o il pensiero visto come ‘patrimonio comune’ (Gemeingut) di tutta l’umanità. Così, ad esempio, per pensare l’io è necessario il pensiero, ma per pensare il pensiero è, a sua volta, necessario l’io. Solo quando l’io si rende conto del suo carattere universale può – quasi ‘eterotopicamente’ – sciogliere il paradosso della sua duplice dimensione: “L’io è anzitutto questa pura unità riferentesi a 417
sé, e ciò non già immediatamente, sibbene in quanto esso astrae da ogni determinatezza e contenuto e torna nella libertà dell’illimitata uguaglianza con se stesso. Così l’Io è universalità, unità, la quale solo per quel contegno negativo, che apparisce come l’estrarre, è unità con sé, e così contiene risoluto in sé ogni essere determinato. In secondo luogo l’Io come negatività riferentesi a se stessa è altrettanto immediatamente singolarità, assoluto esser determinato, che si contrappone ad altro e lo esclude, personalità individuale”.67 Anche Pirandello aveva, a suo modo, intuito che l’io – o l’identità personale – è una paradossale costruzione istintiva, uno “spontaneo artificio interiore” (U, 206). A causa del suo farsi generalmente inavvertito, simile in questo al battito del cuore o al ritmo del respiro, spesso ci dimentichiamo di esserne dotati. Percepiamo – direbbe Sartre – solo il nostro “sapore insipido”, che ci accompagna a ogni istante, in quanto cogito pré-réflexif (tradotto nella terminologia di Bertrand Russell: avvertiamo sempre con noi la discreta presenza di un’acquaintance, di una persona conosciuta). Si tratta di un oscuro sentimento vitale, cenestetico, legato al corpo, di cui Ribot aveva constatato la natura “intermittente”, ma che era già stato filosoficamente scoperto nell’antichità da Aristippo in forma di “contatto interno” (tactus intimus nella traduzione ciceroniana).68 Solo quando ci guardiamo come se fossimo fuori di noi, ci accorgiamo di ciò che siamo. In termini mitici, ci sentiamo quali dovettero sentirsi, secondo la Bibbia, Adamo ed Eva dopo aver commesso il peccato originale: “Allora si aprirono gli occhi di ambedue e conobbero di essere nudi” (Genesi, 3, 7). In termini filosofici, come quell’individuo, 418
descritto da Sartre mentre è interamente assorbito da quanto vede ed è improvvisamente costretto a prendere coscienza di sé dallo sguardo altrui (che lo sorprende, magari, in situazioni imbarazzanti, chino a guardare furtivamente una scena dal “buco di una serratura”, cfr. EN, 328-339). Con repentino scambio di prospettiva, dall’immersione irriflessa nel mondo e dal lasciarsi semplicemente vivere, ciascuno rientra in sé, incredulo talvolta nel constatare ciò che è (“allo specchio dirai, e ti parrà d’esser altri – ‘Quale anima ho oggi, perché così non fui ragazzo, e perché a questo cuore non torna il volto intatto?’”).69 Grazie all’azione combinata dei tre paradigmi, qui sommariamente (e provvisoriamente) presentati, è possibile rinunciare, da un lato, alla riduzione della coscienza a mero cogito pré-réflexif e, dall’altro, alla sua chiusura nella gabbia della “riflessione”, nel senso della teoria attribuita al primo Fichte e all’idealismo tedesco in genere. La recente disputa tra coloro che privilegiano l’autocoscienza in quanto ritorno consapevole a se stessa dal suo sdoppiamento in osservatore e osservato e coloro, invece, che sostengono l’esistenza di un “cogito tacito”,70 si risolverebbe grazie a uno switch gestaltico, simile a quello per cui, in una figura ambigua come il calice di Rubin, si può vedere un vaso bianco su sfondo nero o, per converso, due visi neri su sfondo bianco, ma non si possono simultaneamente cogliere entrambe le configurazioni (come suggerisce Valéry, tale operazione di cogliere alternativamente aspetti complementari esige “l’impiego sistematico dell’Io come Lui” o la contrapposizione metodica dell’Ego all’“Antego”, cfr. C, IX, 139; XXI, 72 = Œ, I, 847). Il paradigma dell’eterotopia e 419
dell’eterocronia permetterebbe quindi di considerare le due divergenti prospettive dell’immediatezza e della riflessione non come false o, con uno sbrigativo giudizio, vere soltanto a metà, bensì come casi particolari di una teoria più generale (a condizione che la riflessione non pretenda di generare l’io, ossia che lo specchio non s’inventi l’immagine e, parallelamente, che il pensiero e il linguaggio non si considerino quali facoltà puramente private). L’identità personale può, dunque, essere traguardata in due modi: come spontaneamente ancorata, grazie a una specie di forza di gravità, al centro di noi stessi, al luogo “naturale” in cui si smorzano tutte le oscillazioni e si ricompongono tutte le traslazioni dell’io o degli io; oppure come vuoto, calco lasciato da una presenza che costantemente si sottrae, secondo le già ricordate parole di Valéry, “l’IO sfugge sempre dalla mia persona, che tuttavia disegna e stampa mentre la sfugge” (Œ, II, 572). L’io si coglie – aggiunge ancora Valéry – solo in quanto si duplica e, in questo dédoublement diventa coscienza incapace di fissarsi nella pura unità dell’identico: “Io sono lo Stesso in quanto sono Due” (C, VIII, 594).71 Mantenendo in tensione gestalticamente la complementarietà degli sguardi, niente, tuttavia – tranne in casi patologici –, ci impedisce di avvertire la nostra vita come un tutto che ha una storia “metaforica”, tormentata e sincopata, riflessivamente ricostruibile in maniera abbastanza coerente grazie a categorie universali, ma saldamente ancorata all’esistenza di un corpo che – diversamente da tutti gli altri – avverto come esclusivamente mio e a varianti individuali, inarticolate e inespresse del cogito (pre-riflessivo), sum. Per quanto un’identità personale matura sia difficile da 420
conseguire, giacché si tratta di un bene aleatorio e labile, ciascuno oscuramente avverte l’irrefutabile scorrere (apparentemente automatico, ma frutto di lungo esercizio) dei propri flussi di coscienza, sbadatamente seguito da quell’istanza di monitoraggio in stand by chiamata “io”, pronta – se allertata – a intervenire, in forma riflessiva, qualora le situazioni lo richiedano. Come spiegare altrimenti il ritorno a noi stessi dopo aver sperimentato l’alterità del sogno o i vuoti di coscienza? Come ignorare che vi è, di regola, una qualche fisiologica continuità dell’esperienza significativa, un lavorio incessante e inconsapevole di ricerca e ritrovamento di un baricentro, di un ubi consistam, che ridistribuisce, spesso per default, percezioni, pensieri, ricordi e affetti attorno a un punto centrale e mobile capace di travalicare le cesure dell’oblio, così che, per lo più, sappiamo di essere gli stessi di ieri e speriamo di riconoscerci, anche domani, come quelli di oggi? È solo quando perdiamo il senso dell’evidenza naturale, quando si ottunde il tactus intimus, quando – come certi personaggi pirandelliani – ci guardiamo vivere esclusivamente dall’esterno, che finiamo per interrogarci su ciò che ci appariva ovvio e per staccarci dall’immediata aderenza alla centralità dell’io. Questo fenomeno diventa più comprensibile se pensiamo per analogia al fluttuare degli astronauti nello spazio cosmico. Al livello di senso comune, eravamo abituati a credere che la forza di gravità possedesse una validità assoluta e necessaria tale da trattenere con i piedi per terra anche gli abitanti degli antipodi, senza sospettare che la sua assenza, pur non negandola, desse luogo al levitare dei corpi.72 Similmente, quando riflettiamo, quando ci spiamo in maniera 421
eterotopica, finiamo per liberarci mentalmente da quella ‘forza di gravità’ psichica che ci assicurava immediatamente e indissolubilmente al nostro io, alla nostra storia: guardiamo allora noi stessi da un punto di vista insituabile, impersonale, anonimo, il solo, tuttavia, che ci collochi al nostro posto e ci individualizzi ubicandoci in un campo di tensioni tra l’universalità del pensiero e la particolarità di ogni determinato io.73 Come in un arco voltaico, si formano due poli, “positivo” e “negativo”, collegati da una corrente, ma in rapporto di tensione e di reciproca esclusione. Il “cogito tacito” continua pertanto a esistere, ma viene periodicamente ridimensionato dal cogito riflesso, dallo specchio eterotopico, che contrappone alla sua specificità spaziale e temporale l’immagine dell’io quale prodotto di anonimi moules sociaux e di tecniche generali di costruzione del Sé (pratiche di soggettivizzazione che iniziano, per ognuno, sin dalla prima infanzia). Ponendoci di nuovo nell’ottica iniziale dei “due traguardi” (cfr. supra, pp. 37-52), si capisce ora meglio come mai, a partire da Locke, l’interesse per l’identità personale, per il lavoro di costruzione cosciente di se stessi si concreti in filosofie e pedagogie volte a creare individui giuridicamente e moralmente indipendenti, relativamente isolati e protetti dagli influssi esterni che vorrebbero condizionarne l’autonomia, in grado di raggiungere una certa autosufficienza perché abituati, sin da bambini, a coltivare l’ideale della padronanza di sé.74 Ma si capisce anche come mai, nel mettere in evidenza questi aspetti, si nascondano gli elementi preindividuali e automatici legati alla dimensione del corpo e si sottovaluti, per legittima difesa da tentazioni assolutistiche o per paura del 422
relativismo, l’importanza dello stato e delle istituzioni nel forgiare la coscienza e quella della storia nel condizionarla. Analogamente, si può ora intendere meglio come mai, a partire da Schopenhauer, l’abbandono del principio di individuazione conduca al dominio di potenze anonime, al discredito della coscienza e della vita del singolo o a progetti ascetici di diventare “nessuno”. In quanto margini estremi di una banda di oscillazioni posta tra l’affermazione assoluta e la negazione assoluta del principium individuationis, entrambe le posizioni presentano un lato teorico di legittimità, sebbene, appunto, ciascuna escluda la pretesa di assolutezza dell’altra. Solo traguardandole in maniera eterotopica, mantenendole in incomponibile tensione, si può alternativamente concepire la loro conflittuale coimplicazione e aprire uno spazio di pensiero, sgombro e non ibrido, entro cui impostare diversamente i problemi. Non possiamo cioè rinunciare a queste due posizioni, emblematicamente indicate con i nomi di Locke e di Schopenhauer, ma non possiamo neppure sommarle o eliderle. Il dispositivo eterotopico presuppone infatti – al di qua dello specchio, nella parte ‘tridimensionale’ dello spazio – un individuo ‘lockiano’, portatore di una fragile ma preziosa coscienza in grado di conservarsi nel tempo della caducità (e, aggiungo, di intrecciarsi con la storia, una coscienza da rivendicare) e, al di là dello specchio, nella parte virtuale, la presenza di potenze anonime ‘schopenhaueriane’ ‘eterne’ – insensibili al tempo –, incoscienti (nel senso che non possono essere afferrate interamente dalla coscienza, perché l’eccedono) o, comunque, capaci di travalicare l’individuo e la sua coscienza (potenze, da non negare, che rappresentano in 423
astratto quelle forze e quegli stampi impersonali o prepersonali che provocano i processi di individuazione). Bisogna vedere queste posizioni nei loro effettivi rapporti, allontanandoci dall’idea che esistano, da un lato, individui già formati e, dall’altro, stampi in sé, slegati dal loro concreto operare. Solo una simile prospettiva permette di abbandonare sia il modello di anima-sostanza, sia la sostanzializzazione dei suoi surrogati (io, soggetto, identità personale). Continuando a traguardare i nostri due margini ideali, si può infine dire che in Locke prevale la volontà di autonomia, di progettazione di se stessi, una possibilità aperta, peraltro, soprattutto a chi ha la possibilità materiale di realizzarsi (cfr. supra, p. 42 e Locke, E, 4, 20, 3 = IV, 258; implicitamente, non vi è tuttavia, neppure per lui, alcuna differenza, alla nascita, tra il “filosofo” e il “facchino”, che diventeranno tali, secondo Adam Smith, a causa della divisione del lavoro). In Schopenhauer prevale, invece, l’aspetto automatico, la cieca volontà di perpetuare se stessi, comune a tutti gli esseri viventi (erbe, piante, animali), sottoposti a un impulso che è più forte di loro. Una volta dichiarata implausibile la fondazione verticale dell’identità personale sul sostrato dell’anima-sostanza e constatata l’impercorribilità della strada che mira alla sua fondazione orizzontale (lineare o circolare, alla maniera di Locke, di Hume o di Fichte), non è più necessario schierarsi a favore delle soluzioni che propongono di cancellare il ruolo dell’io o di mettere in castigo questo insupportable enfant gâté: dalla schopenhaueriana voce che rimbomba in una cava sfera di vetro all’“insalvabile” io di Mach, dal musiliano “buco” da riempire all’heideggeriana uscita 424
dall’inautenticità anonima del Si (Man) per mezzo di una “chiamata” (Ruf), anch’essa anonima, grazie alla quale la coscienza ri-sveglia il “se-Stesso” del singolo.75 Non siamo, di conseguenza, tenuti ad abbandonare, teoricamente, il principium individuationis (a patto che lo si concepisca come progetto di costruzione nel suo farsi e non come sostanza), correndo, moralmente, il rischio che una simile mossa riapra la strada al disprezzo della vita e della coscienza dell’individuo a esclusivo vantaggio della specie, della razza, del corpo, delle forze economiche, dell’Inconscio o di qualsiasi Noi-Moloch.76 L’uso dei due traguardi e del modello eterotopico-eterocronico non implica affatto, in termini teorici ed etici, che si sia esentati dal prendere posizione e che ci si debba accontentare, pilatescamente, di oscillare tra due alternative complementari. Al contrario, quanto più la coscienza individuale si rende conto delle potenze anonime e collettive che l’hanno plasmata, quanto più si orienta nel mondo delle forze che, pur segnandola, la trascendono, tanto più si amplia il suo potenziale raggio d’intelligenza e d’azione. Solo sfruttando tale spazio intermedio dei rinvii tra l’Io e il Noi a proprio vantaggio, l’Io di ciascuno può uscire sia dalla solitudine della coscienza puramente autoreferenziale, sia dall’immedesimazione con un Noi che lo fagocita; solo così può trovare la propria strada tra tante, rendere più acuminate le sue capacità critiche e assumersi responsabilità precise; solo così può sviluppare ulteriormente i processi d’individuazione e di differenziazione evolutiva che – in linea di principio – non si arrestano mai nel corso dell’esistenza. Parafrasando De Saussure, ognuno realizza se stesso 425
valorizzando l’eredità comune ricevuta (il langage e la langue) per essere poi in grado di promuovere l’inconfondibile individualità della parole, l’unico strumento per prolungare e innovare la vita dell’elemento universale delle lingue e delle istituzioni. Si è, di conseguenza, tanto più liberi e creativi, quanto più si è capaci di attingere ai depositi di senso collettivi, di interpretarne, apprenderne e arricchirne i codici e le regole, di rielaborarne ed esplicitarne le ancora inespresse possibilità. Dopo opportuno (e lungo) apprendistato, bisognerebbe saper operare alla maniera dei protagonisti dell’arte del Novecento, che si sono allontanati dalla tradizione sino a ripudiarla proprio perché l’avevano assimilata a fondo e conoscevano le regole da violare o integrare. Diventando sempre più consapevoli del lato di universalità che è in noi (anche in termini fisici, in quanto rappresentanti di una specie animale) e dei molteplici moules storici e sociali che ci hanno formati, la nostra peculiare individualità, l’unica che può assumere attivamente questo ruolo, si espande e si articola. Sfugge così a quello che appare un destino imposto e che non è altro, in parte, se non il risultato della nostra inerzia statica, della nostra incapacità di autosovversione. Anche se, di fatto, senza l’ausilio dei miti nessuno giunge a caricarsi il peso del nietzscheano ego fatum, larga è la gamma dei gradi di libertà compresi tra l’assoluta passività e la pretesa di poter sfuggire ai condizionamenti oggettivi, così come grande è il ventaglio tra subordinazione alla necessità e autonomia in cui ognuno può situarsi e muoversi. Si evita, in questo modo, tanto l’unilateralità dei teorici della tradizione e del comunitarismo (che esaltano i legami pregressi del Noi a scapito della possibile libertà del 426
singolo), quanto quella dei liberals (che considerano spesso l’individuo in termini ontologici, come qualcosa che preesiste alla storia e alla società e che possiede caratteristiche e diritti di origine essenzialmente “naturale”). Si è posti di fronte a responsabilità e a scelte che dipendono, in ultima istanza, soltanto da noi. Certo, i condizionamenti esistono e vanno compresi e ricostruiti secondo una logica e una storia al condizionale basata sul “se… allora” (“se esiste la situazione X, allora il mio agire può estendersi fino a Y”; “se accade questo, allora potrà succedere anche quello”). Il principio di realtà va onorato e tenuto in debito conto contro il primato di una coscienza vuota e stantìa, non sufficientemente ossigenata dal contatto con il mondo, il solo capace di sottrarla alla muffa. I contesti sono indubbiamente importanti e senza di loro l’azione rischia di non aver presa sul corso degli eventi. Tutto questo però non basta. Occorre reintrodurre nella nostra ragion pratica e nella nostra condotta effettiva degli obiettivi ab-soluti, ossia – in senso non retorico – slegati da una dipendenza diretta e meccanica dai contesti e dalle circostanze, come ad esempio il perseguimento, malgrado ogni ostacolo, dei diritti e della dignità di ogni uomo. Accanto a una logica preparatoria al condizionale, soprattutto al momento dell’agire occorre praticare un’etica all’incondizionale; accanto alle leggi necessitanti che eterotopicamente ci situano in una dimensione di calcolabilità, il singolo deve immettere nel mondo il novum incalcolabile ma universabilizzabile del suo autonomo agire, dando una risposta ai contesti di partenza che non è contenuta nei contesti stessi. Per converso, tale ‘legge individuale’ sui generis dell’agire, proprio perché in grado di 427
assorbire il senso dei condizionamenti e di trovare specifiche soluzioni, finisce per alimentare l’universalità delle norme di condotta e rafforza, nello stesso tempo, la propagazione dei diritti (che non appartengono a una presunta natura umana, ma che debbono essere voluti e costruiti per ridurre le sofferenze e i disagi degli uomini, per sottrarli all’angoscia e alla miseria materiale e spirituale, per consentir loro di godere dell’esistenza nella sua brevità e incertezza; per questo tali diritti sono tanto più preziosi, quanto più sono fragili e insidiati). Ora che è scaduta la garanzia di una storia che marcia automaticamente e inevitabilmente verso il regno della libertà o la società senza classi, non si può tuttavia abbandonare il corso degli eventi al caso, deresponsabilizzando e lasciando andare alla deriva i singoli e i gruppi organizzati. Soprattutto dinanzi al profilarsi di disastri annunciati, è necessario che ciascuno imprima alla vita personale e collettiva un orientamento e una direzione, che si apra una strada tra necessità e libertà, tra calcolabilità e incalcolabilità, mettendo continuamente a confronto il tribunale della sua coscienza con il tribunale del mondo, conoscendo la spietata durezza di quest’ultimo senza rinunciare alle fondate speranze del primo, mantenendo le energie di una interiorità che non soffra delle malattie del ricambio con il reale e l’ancoraggio a una realtà che non diventi impermeabile agli sforzi della ragione per comprenderla e della prassi per modificarla. Se pare poco, vi sono soluzioni migliori? Le lunghe estati delle Esperidi In questo libro ho analizzato e ricostruito alcuni dei modelli influenti che hanno caratterizzato la civiltà europea 428
tra Otto e Novecento, pensandoli implicitamente sullo sfondo di un triplice regime temporale: il tempo “quasi immobile” dell’ambiente fisico (e, aggiungerei, del formarsi del nostro codice genetico); quello “lentamente ritmato” delle istituzioni, della vita dei popoli e dei gruppi; quello, infine, della storia événementielle degli individui, contraddistinto da “oscillazioni brevi, rapide, nervose”.77 Mantenendo un rapporto tacito con il primo e il terzo livello di temporalità, mi sono normalmente situato al secondo, quello della durata delle istituzioni e delle idee, di cui anche la filosofia è espressione. All’interno di questa zona intermedia tra il tempo immemorabile dello sviluppo della nostra corteccia cerebrale o del nostro Dna (che precede in larga misura i processi di ominazione) e il tempo corto concesso agli individui, l’arco di storia e i settori di spazio geografico presi in esame costituiscono solo una tappa nella genealogia dei modelli di identità personale e nell’avvicendarsi degli stampi e delle tecniche che li informano.78 Gli esponenti delle generazioni che in Europa e in Occidente sono state plasmate dagli stampi più antichi e dalle tecniche più violente, che ne hanno elaborato, adottato, subìto o contrastato la forza, sono quasi tutti scomparsi: della maggior parte non restano che ossa e ceneri; dei rari sopravvissuti, memorie sbiadite (le generazioni si succedono e cadono, secondo la malinconica similitudine omerica, come le foglie degli alberi). Questi modelli rappresentano per noi ben poca cosa – si dirà – rispetto all’unica prospettiva che conta: la nostra, di individui vivi e interessati all’avvenire. Poca cosa, in apparenza, se li si osservano dall’alto dei proustiani 429
“trampoli” del tempo, che, allungandosi ogni anno, finiscono per distanziarci vertiginosamente dall’accaduto. Poca cosa, certo, se non fosse che ci riguardano direttamente e che le forme di coscienza e gli schemi faticosamente costruiti per dar senso alla vita dei singoli e al loro mondo non scompaiono facilmente. Al pari della lingua o delle idee, hanno vita più lunga degli individui; continuano a fermentare e ad agire impercettibilmente nel “tempo quasi immobile” della specie e in quello “lentamente ritmato” delle istituzioni (familiari, scolastiche, politiche o culturali); innervano le norme, gli stili di vita, le logiche di potere e gli ideali (etici, giuridici, politici, religiosi, estetici); non si consumano di colpo, non rimangono per sempre sigillati entro limitate zone del pianeta; non scompaiono nel corso di alcune generazioni, in quanto costituiscono l’humus necessario alla formazione di ogni individuo e allo spuntare del nuovo. Ci piacerebbe, forse, condividere le aspettative quasi messianiche di Hegel e considerare anche la nostra come “un’età di gestazione”, dal cui grembo l’epoca successiva uscirà all’improvviso, simile a un bambino che, con “un salto qualitativo”, interrompe al primo respiro la sua lenta crescita interiore (Phän., 14 = 8-9). All’orizzonte si profilano indubbiamente nuovi esperimenti di umanità e di “post-umanità”, in cui individui geneticamente modificati, pluritrapiantati, forniti di protesi che ne potenzieranno le funzioni e le prestazioni naturali, romperanno le barriere che separano la materia vivente dalle macchine, diventeranno un amalgama di organico e inorganico e supereranno le frontiere mentali (e persino fisiche) che dividono i sessi o gli uomini dagli altri animali.79 Non ci è dato sapere quali saranno gli esiti di 430
simili metamorfosi e, parallelamente, del problematico incontro fra culture finora essenzialmente separate a livello mondiale (come diceva Keynes “l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre”). Ciascuno dovrà, tuttavia, in termini weberiani, scoprire quale sia il “demone che tiene i fili della sua vita”,80 ricostruendo consapevolmente e responsabilmente la trama dei legami sociali, politici e storici da cui è emerso e che hanno contribuito a renderlo quel che è, per orientare così il suo ulteriore cammino e decidere quali siano le forme della “vita buona” per lui. Ciascuno dovrà ‘decolonizzare’ e far fruttare quel terreno di libertà che è rimasto abbandonato e incolto per effetto della pretesa di esautorare la coscienza singola della sua autonomia e responsabilità in favore di potenze collettive e anonime – economiche, fisiologiche o psichiche – ritenute ineluttabili anche perché agirebbero a sua completa insaputa. Bisognerà attendere ancora per assistere al consolidarsi di altre forme di umanità, di identità e di coscienza, che esistono in germe, in quanto ogni nuovo mondo è preceduto da messaggeri, ma ha bisogno dell’agire degli uomini per diventare reale. Matureranno certo, non come prolungamento, secondo linee tratteggiate, del nostro presente nel futuro immaginato, ma con cadenze “lentamente ritmate” o con scarti e curvature impreviste e, comunque, in modo presumibilmente diverso rispetto alle nostre proiezioni, speranze e paure. Sorgeranno attraverso altri conflitti e ibridazioni, opacità e asperità. Ma questa eventuale lunga maturazione, in fondo, potrebbe rivelarsi vantaggiosa, tanto per l’umanità, quanto per gli individui, poiché 431
Nessuna vita è sferica Tranne le più ristrette; Queste son presto colme, Si svelano e hanno termine. Le grandi crescon lente, Dal ramo tardi pendono: Son lunghe le estati delle Esperidi.81
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Note
1. I due traguardi 1 E, 4, 9, 3 = IV, 133 e cfr. J. Bennett, Substratum, in “History of Philosophy Quarterly”, IV (1987), pp. 197-215. Per Locke la sostanza è una supposition che unisce qualità della percezione attribuendole a un support, cfr. E, 2, 23, 2 = II, 282-283. Sulla complessa storia del concetto di sostanza si veda, da ultimo, la ricca voce Substanz; Substanz / Akzidenz nell’Historisches Wörterbuch der Philosophie, vol. X, Basel 1998, coll. 495-553. Sul tema dell’identità in Locke, cfr. A. Flew, Locke and the Problem of Personal Identity, in “Philosophy”, XXVI (1951), pp. 53-68 (ripubblicato, con variazioni, in Locke and Berkeley. A Collection of Critical Essays, a cura di C.B. Martin e D.M. Armstrong, Melbourne 1968 [da cui cito]); Id., Locke and Personal Identity. Again, in “The Locke Newsletter”, X (1979), pp. 33-42; J. Mackie, Problems from Locke, Oxford 1976, pp. 140-203; R.C. Tennant, The Anglican Response to Locke’s Theory of Personal Identity, in “Journal of the History of Ideas”, XLIII (1982), pp. 73-90; U. Thiel, Lockes Theorie der personalen Identität, Bonn 1983; Id., Individuum und Identität. Essay II 27, in AA. VV., John Locke. Essay über den menschlichen Verstand, a cura di U. Thiel, Berlin 1997, pp. 149168; Ch. Fox, Locke and the Scriblerians: Identity and Consciousness in Early Eighteenth-Century Britain, Berkeley 1988; M. Ayers, Locke, 2 voll., London 1991; M.B. Bolton, Locke on Identity. The Scheme of Simple and Compounded Things, in AA. VV., Individuation and Individuality in Early Modern Philosophy, a cura di J.J.E. Gracia e K. Barber, Albany, N.Y. 1994; É. Balibar, Introduction. Le traité lockien de l’identité a J. Locke, Identité et différence. L’invention de la conscience, présenté, traduit et commenté par É. Balibar, Paris 1998, pp. 9-101. Come già aveva osservato Leibniz, la coscienza non è l’unico criterio per stabilire l’identità personale: vi sono le testimonianze altrui, le percezioni indistinte ecc. (NE, capitolo XXVII). 2 Cfr. H.D. Kittsteiner, Die Entstehung des modernen Gewissens, Frankfurt a. M. 1995, p. 241. Cfr. J. Locke, E, 2, 11, 17 = II, 92: “Non posso far altro che confessare, ancor qui, che la sensazione esterna e quella interna sono le sole vie che io possa trovare per le quali la conoscenza passa all’intelligenza. Queste soltanto, a quanto io riesco a scoprire, sono le finestre per le quali la luce riesce a penetrare in questa camera oscura. Poiché, a mio credere, l’intelligenza non è molto dissimile da una stanzuccia del tutto chiusa alla luce, nella quale sono state lasciate soltanto alcune piccole aperture da cui possono entrare le forme visibili esterne, e le idee delle cose esterne […]”. 3 Cfr. U. Thiel, Individuum und Identität. Essay II 27, cit., p. 150. Era il problema che già Cartesio si poneva nella seconda delle Meditazioni metafisiche: “Io sono, io esisto: questo è certo. Quanto a lungo invero? Di certo per tutto il tempo che penso; potrebbe infatti anche forse accadere che, se il pensiero si spegnesse in me, all’istante cessassi anche di essere” (M, 21 = 200). È la continuità del pensare che garantisce, dunque, la permanenza dell’ego, “che si sostituisce all’ousía come termine ultimo di riferimento e di costituzione del corpo delle scienze” (J.-L. Marion, Sur l’ontologie grise de Descartes: science cartesienne et savoir aristotélicien dans les Regulæ, Paris 1981, p. 31). 4 Cfr. E, 2, 27, 15-17 e 26 = II, 340-345, 346-347. Per l’identificazione di coscienza e memoria, cfr. A. Flew, Locke and the Problem of Personal Identity, cit., pp. 159 sgg. Per l’attenzione posta sulla proiezione religiosa della persona verso il futuro, cfr. U. Thiel, Lockes Theorie der personalen Identität, cit., pp. 150
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sgg. Sebbene Locke non usi la parola “memoria” (cfr. H.W. Noonan, Personal Identity, London-New York 1989, p. 52), la coscienza mantiene una continuità con il passato, oltre che con l’avvenire dell’“individuo” (termine che uso nell’accezione corrente, sebbene in Locke esso si riferisca all’invarianza degli organismi viventi e non all’essere singolare, ma vedi supra, p. 272). 5 É. Balibar, Glossaire a J. Locke, Identité et différence. L’invention de la conscience, cit., pp. 219-220. È lo stesso Locke a introdurre in forma sostantivata il Self, avendo forse in mente le moy di Pascal (cfr. ivi, pp. 249-250). 6 Questo non significa che l’io lockiano sia “puntiforme”, ossia privo di relazioni, distaccato da ciò che lo costituisce, come sostiene Charles Taylor (cfr. Sources of the Self. The making of Modern Identity, Cambridge, Mass. 1989; trad. it. Le radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Milano 1993, pp. 70, 624). In quanto l’io assorbe il mondo nella forma dell’esperienza metodicamente ordinata, più pertinente risulta la caratterizzazione degli intenti di Locke offerta da U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima, Milano 2001, pp. 68-69, 73: “Non più l’anima nel corpo e il corpo nel mondo, ma il corpo e il mondo nell’anima tramite la rappresentazione che essa se ne fa, seguendo quei metodi in cui si articola la costruzione dei saperi […]. Come orizzonte che include tutte le cose, l’anima si offre come il limite estremo oltre il quale non si dà nulla”. A proposito della perdita di memoria e di identità, significativa è l’esperienza – raccontata da Oliver Sacks e per noi ormai paradigmatica – di un gruppo d’individui, ammalatisi di encefalite letargica nel periodo immediatamente successivo alla Prima guerra mondiale, che avevano vissuto per decenni come “vulcani spenti” e che (per effetto di una medicina, la L-dopa) si erano risvegliati in circostanze drammatiche, riannodando il filo del presente a quello di un interrotto passato (cfr. O. Sacks, Awakenings, New York 1987; trad. it. Risvegli, Milano 1987). 7 Ciò non implica alcun “relativismo” nella posizione lockiana, come sostiene invece V. Chapelle, Locke and Relative Identity, in “History of Philosophy Quarterly”, VI (1989), pp. 69-83. Già Montaigne aveva sostenuto, peraltro, che “il mio io di adesso e il mio io di fra poco siamo certo due (Moy à cette heure et moy tantost sommes bien deux)” (ES, 3, 9, 941 = II, 1285). 8 Cfr. É. Balibar, Introduction. Le traité lockien de l’identité, cit., pp. 11, 13. Contro Descartes, Locke nega inoltre che lo spirito non possa pensare senza sapere di pensare. 9 Cfr. E, 2, 14, 3 = II, 120: “La riflessione su questo apparire di varie idee, una dopo l’altra, nel nostro spirito, è ciò che ci fornisce l’idea della successione; e la distanza fra le varie parti della successione è ciò che chiamiamo durata”. 10 Su cui, cfr., da ultimo, M.H. Kramer, John Locke and the Origins of Private Property, Cambridge 1997. 11 Ma per una critica a questo noto concetto di C.B. Macpherson (espresso in The Political Theory of Possessive Individualism: Hobbes to Locke, Oxford 1962; trad. it. Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese. La teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke, Milano 1982) cfr. J. Tully, An Approach to Political Philosophy: Locke in Context, Cambridge 1993, il quale giustamente sottolinea il fatto che il possesso di se stessi non è soltanto di carattere giuridico ed economico, ma anche morale e politico. La dissertazione di J.Th. Peters, Der Arbeitsbegriff bei John Locke. Im Anhang: Lockes Plan zur Bekämpfung der Arbeitslosigkeit von 1697, Münster 1996, riprende invece la tesi del primato dell’economia nella prospettiva lockiana di considerare il lavoro come completamento umano della creazione divina. Utile il volume di J.-F. Spitz, John Locke et les fondaments de la liberté moderne, Paris 2002, perché sottolinea il fatto che l’individualismo lockiano è un individualismo della responsabilità, radicato in una morale comune che ha nella natura la sua fondazione ultima. 12 Cfr. H. Blumenberg, Lebenswelt und Technisierung unter Aspekten der Phänomenologie, in “Filosofia”, XIV (1963), pp. 855-884; trad. it. Mondo della vita e tecnicizzazione dal punto di vista della fenomenologia, in Id., Le realtà in cui viviamo, Milano 1987, p. 11. 13 Attraverso il filo della memoria – ragiona Butler – ciascuno può congiungere due diversi episodi della sua vita, proprio perché è rimasto lo stesso (e non viceversa). Formuliamo inoltre l’ipotesi, incalza Reid, che un ufficiale sia stato frustato in gioventù per aver rubato della frutta e che, alla sua prima battaglia, abbia mostrato uno straordinario coraggio. Più tardi, la stessa persona è nominata generale.
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Quando era giovane ufficiale, quest’uomo ricordava le frustate, mentre da vecchio generale le ha dimenticate. Si tratta di due individui diversi? Secondo Locke, chi è stato frustato a scuola è lo stesso che ha compiuto l’azione di valore e questi è lo stesso che è stato nominato generale. Ne segue che il generale è la stessa persona che è stata frustata a scuola. Ma il generale non ha più coscienza di essere stato frustato, dunque è la stessa e non è la stessa persona. Vi è quindi differenza tra essere gli stessi e sapere di essere gli stessi. Sulle discussioni relative all’identità personale tra i contemporanei e i successori di Locke in Gran Bretagna, cfr. U. Thiel, Lockes Theorie der personalen Identität, cit., pp. 67127, 175-201; per le generazioni immediatamente successive, nell’ambito europeo, sino alla fine del Settecento (Leibniz, Hume e Tetens), si veda anche Ch. Hauser, Selbstbewußtsein und personale Identität, Stuttgart-Bad Cannstatt 1994. 14 In versione riveduta e corretta e con altri scenari di sfondo, ma per alcuni aspetti analoga a quella di Hume, è la proposta di Daniel C. Dennett. A partire dalla tesi per cui “lo spirito è il cervello” e i pensieri sono “il filo di perle nel cervello”, egli intende sostituire il “teatro cartesiano” della mente e dell’io, dove tutto avviene sotto lo sguardo di uno spettatore che dà un senso centripeto all’insieme degli eventi, con quello di “finzione”, macchina virtuale creatrice di abbozzi multipli (multiple drafts), Pandemonium of Homunculi. Si tratta, come egli stesso riconosce, “solo di una guerra di metafore”, ma le metafore non rappresentano solo metafore: sono “strumenti del pensiero” (D.C. Dennett in Consciousness Explained, Boston-Toronto-London 1991; trad. it. Coscienza, Milano 1993, p. 508 e, per le implicazioni più generali di questa impostazione, cfr. Id. Darwin’s Dangerous Idea. Evolution and the Meaning of Life, New York 1995; trad. it. L’idea pericolosa di Darwin. L’evoluzione e i significati della vita, Torino 1997. 15 Cfr. E. Lecaldano, L’io, il carattere, e la virtù nel Trattato di Hume, in Filosofia e cultura nel Settecento britannico, a cura di A. Santucci, Bologna 2001, vol. II, p. 157. E cfr. ivi, p. 166: “La realtà dell’io che coincide con il nostro carattere, la sua continuità e identità non potrà essere concepita come un riflesso di qualcosa di distinto e diverso per se stesso esistente, ma piuttosto come il ripetersi, la continuazione, l’aspettativa e la ricerca di una emozione di piacere. È questa emozione che costituisce l’io: non è solo il piacere riflesso dell’orgoglio per le proprie qualità moralmente apprezzate, ma è anche il senso della propria integrità, ovvero il piacere atteso dalla continuazione di un certo modo di vita in cui si manifesteranno le stesse qualità e lo stesso carattere già in precedenza apprezzato”. A integrazione di questa prospettiva si vedano i testi di J. McIntyre, Personal Identity and Passions, in “Journal of the History of Philosophy”, XXVII (1989), pp. 545-557, di C. Montaleone, L’io, la mente, la ragionevolezza. Saggio su David Hume, Torino 1989, di A. Beier, A Progress of Sentiments. Reflexions on Hume’s Treatise, Cambridge, Mass. 1991, di W. Waxman, Hume’s Theory of Consciousness, Cambridge 1994 e di E. Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, Roma-Bari 19982, pp. 63-75. 16 Cfr. M. de Montaigne, ES, II, XII, 586 = I, 801: “Non c’è alcuna esistenza costante, né del nostro essere, né di quello degli oggetti […]. E se, per caso, fissate il vostro pensiero per voler afferrare il suo essere, sarà né più né meno come se voleste afferrare l’acqua”. Cfr. ES, III, II II, 782 = II, 1067: “Il mondo non è che una continua altalena […]. La stessa costanza non è altro che un movimento più debole”. 17 Con le parole di Valéry si potrebbe dire che “l’IO sfugge sempre dalla mia persona, che tuttavia disegna e stampa mentre la sfugge (MOI s’enfuit toujours de ma personne, que cependant il dessine ou imprime en la fuyant)” (Œ, II, 572). Notevole in Valéry l’accento sugli “anelli di retroazione” che costituiscono l’io nel diventare risultato delle sue stesse azioni e reazioni, nella sua crescita a valanga su se stesso: “Io sono la reazione a ciò che sono” (Œ, II, 1356 e, per un commento a questa tesi, cfr. J. Starobinski, Action et Réaction. Vie et adventures d’un couple, Paris 1999; trad. it. Azione e reazione. Vita e avventure d’una coppia, Torino 2001, pp. 221-228). 18 A. Schopenhauer, HN, 612. Sulle origini medioevali e il senso proprio del principium individuationis, cfr. J.J.E. Gracia, Introduction in the Problem of Individuation in the Early Middle Ages, Wien-München 1984. 19 Cfr. S. Barbera, Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer: Introduzione alla lettura, Roma 1998, pp. 64-65. Su questi aspetti della filosofia di Schopenhauer si vedano inoltre i
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volumi di L. Casini, La riscoperta del corpo. Schopenhauer, Feuerbach, Nietzsche, Roma 1990; di A. Hübscher, Denker gegen Strom. Schopenhauer: Gestern-Heute-Morgen, Bonn 1973, trad. it. Arthur Schopenhauer. Un filosofo controcorrente, Milano 1990; di R. Safranski, Schopenhauer und die wilden Jahren der Philosophie. Eine Biographie, München 19882, trad. it. Schopenhauer e gli anni selvaggi della filosofia. Una biografia, Scandicci 1997; di A. Bellingeri, La metafisica tragica di Arthur Schopenhauer, Milano 1992; di P. Welsen, Schopenhauers Theorie des Subjekts: ihre transzendentalphilosophischen, anthropologischen und naturmetaphysischen Grundlagen, Würzburg 1995 e di M. Segala, I fantasmi, il cervello, l’anima. Schopenhauer l’occulto e la scienza, Firenze 1998. 20 Cfr. W, § 60 = 371. Proprio perché ha un corpo e non è “un’alata testa d’angelo senza corpo” l’uomo è in grado di non rinchiudersi solo nell’universo della rappresentazione e di cogliere anche l’essenza della volontà. Sul soggetto schopenhaueriano, “cittadino dei due mondi”, spettatore e insieme attore della sua propria vita, in quanto appartiene simultaneamente al fenomeno e alla cosa in sé, cfr. G. Simmel, SN, 42. Sulla lacerazione della volontà in se stessa, cfr. P. Vincieri, Discordia e destino in Schopenhauer, Genova 1993, in particolare pp. 11-35. Analogamente alla kantiana “cosa in sé”, la volontà è divisa anche in un altro senso: da un lato, nel suo manifestarsi nello spazio e nel tempo (ad esempio come corpo proprio) e, dall’altro, nel suo normale nascondersi, cfr. B. Negroni, L’essenziale ambiguità della volontà in Schopenhauer, in “Schopenhauer-Jahrbuch”, LXIX (1988), pp. 139-154. Sulla divergenza di volontà e intelletto e la polemica di Schopenhauer con Spinoza su questo punto, cfr. O. Schulz, Wille und Intellekt bei Schopenhauer und Spinoza, Frankfurt a. M.-Berlin-Bern-New York-ParisWien 1995, in particolare pp. 101-163. Critico su alcuni aspetti di questa distinzione di volontà e intelletto, che viene vista come erede della dicotomia kantiana di fenomeno e cosa in sé, è Ch. Janaway, Self and World in Schopenhauer’s Philosophy, Oxford 1989. 21 Simmel si oppone a tale riduzionismo, in quanto, nell’amore, la vita si emancipa dalle sue origini e diventa più-che-vita: “Che all’impulso dell’accoppiamento, funzionale soltanto alla riproduzione della specie, faccia seguito l’amore che non si cura affatto di essa, questa è un’immensa redenzione dalla vita” (FL, 198). E cfr. FL, 205-206: “Può darsi che l’amore cerchi l’eterno nell’individuo, ma esso può anche cercare l’individuo nell’eterno, può altrettanto bene far coincidere l’orientamento essenziale dell’uomo verso l’assoluto e il sopraindividuale con il dato definitivo di un fenomeno individuale e del rapporto con esso”. 22 L’esperienza estetica ci libera dai condizionamenti spazio-temporali, ci strappa dalle relazioni che, in quanto individui, ci avvincono al mondo. L’idea – dice Schopenhauer – è l’unità che si trasforma in pluralità per mezzo dello spazio e del tempo; il concetto, invece, è l’unità che l’intelletto ricava per astrazione dalla molteplicità. Il concetto si potrebbe definire unitas post rem, l’idea unitas ante rem. La morte separa la volontà eterna e indistruttibile dall’intelletto caduco, legato al principium individuationis. 23 La volontà, di per sé, non ha coscienza, ma non per questo la coscienza si riduce a epifenomeno del corpo. È, tuttavia, il corpo umano a possedere coscienza e la coscienza è lo strumento grazie al quale conosco, nel mio corpo, l’esistenza della volontà. Infatti mentre il soggetto è “ciò che tutto conosce, senza essere conosciuto da alcuno”, la volontà – come già sappiamo – è conosciuta, ma non è conoscente. L’idea del cervello, dei nervi e del midollo spinale come parassiti dell’organismo, nutriti da esso, viene elaborata da Schopenhauer a partire dalla fisiologia del suo tempo (in particolare dalle opere di Xavier Bichat, di L.C. Treviranus o di Marshall Hall) e dall’osservazione che i neonati acefali possono sopravvivere per un certo tempo. Ponendosi in rapporto con l’ambiente esterno e fornendo le opportune informazioni, il cervello paga il suo debito all’organismo che lo ospita. Cfr., su questi aspetti, M. Segala, Fisiologia e metafisica in Schopenhauer, in “Rivista di filosofia”, LXXXV (1994), pp. 35-66 e F. Grigenti, Natura e rappresentazione. Genesi e struttura della natura in Arthur Schopenhauer, Napoli 2000, pp. 357-396. 24 Cfr. R. Bodei, Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, Torino 1987, pp. 153-154. 25 Anche i genitali sono il “punto focale” della volontà. Pur in un contesto divulgativo, il libro di S. Möbuß, Schopenhauer für Anfänger. Die Welt als Wille und Vorstellung, München 1998; trad. it. Il Mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer. Guida e commento, Milano 1999, pp. 191 sgg., è riuscito a individuare chiaramente questo aspetto del rapporto intelletto/volontà nei
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Supplementi. 26 Non vi è dissidio solo all’interno dello stesso individuo, ma anche tra gli individui della stessa specie e fra le diverse specie. Per questo, in politica, l’autoscissione o Selbstentzweiung della volontà assume il volto dell’homo homini lupus. Con un’immagine che verrà ripresa da Taine, Schopenhauer sostiene, infatti, che “nel cuore di ciascuno si nasconde un animale selvatico, che attende solo l’occasione di scatenarsi e d’infuriare, con l’intenzione di far del male agli altri, e se questi gli si oppongono, di annientarli” (P, I, 284). Per il conflitto interspecifico, cfr. G, 201: “Tutte le specie animali e vegetali, compresa la specie umana, sono talmente prive di mezzi per bastare a se stesse, sono condannate a una tale brama e a una tale difficoltà di vivere, che ogni essere è costretto a lottare per strappare agli altri, con gli artigli e con i denti, il suo brandello di vita. Non è solo l’uomo che guerreggia contro l’uomo e l’animale contro l’animale. No, nella foresta tranquilla, che sembra sognare in disparte, nella prateria che allieta lo sguardo del poeta, tutto è guerra intestina, sterminio implacabile, da albero ad albero, da filo d’erba a filo d’erba, da fiore a fiore. Ogni radice si estende silenziosamente nell’ombra per rubare alla sua vicina l’atomo che la nutra. Il muschio e l’edera si avvinghiano intorno alla quercia per succhiarle la linfa. Osservate questa povera pianta secca e smorta: è stata soffocata, è stata uccisa da quelle che l’attorniavano con la loro folle gelosia. Ah, mio caro signore: le piante sono tutte ancor più feroci degli uomini, e io non posso passare senza orrore nei boschi: ne vengono fuori esalazioni di continui delitti”. 27 E, I, 5, 912. È questa la fonte dell’idea nietzscheana del “filo conduttore” del corpo, per la quale cfr. supra, p. 95. Pur avvicinandosi con il concetto di “cosa in sé” alla nozione di volontà, neppure Kant è giunto alla soluzione del problema: “Il principio di Kant ‘L’io penso deve poter accompagnare tutte le nostre rappresentazioni’ è insufficiente perché l’Io è una grandezza ignota, è cioè esso stesso un mistero. Ciò che conferisce unità e connessione alla coscienza, continuando a esserne, attraverso tutte le sue rappresentazioni, la base e il supporto costante, non può a sua volta esser condizionato dalla coscienza, non può quindi essere una rappresentazione: dev’essere piuttosto ciò che precede la coscienza, la radice dell’albero di cui la coscienza è il frutto” (E, I, 5, 912). 28 G. Simmel, SN, 29 e cfr., sul tema, O. Most, Zeitliches und Ewiges in der Philosophie Nietzsches und Schopenhauers, Frankfurt a.M. 1977. Le vie per la negazione della volontà di vivere sono, com’è noto, l’arte, la giustizia, la compassione e il Nirvana. È proprio il tema della compassione (quello che più ha colpito Tolstoj, grande lettore di Schopenhauer, di cui conosceva tutta l’opera, cfr. H. Troiat, Tolstoï, Paris 1965, p. 387) a provocare il distacco di Nietzsche dal pensiero del filosofo di Danzica. Che l’interpretazione negativa del Nirvana fosse una deformazione “occidentale” di Schopenhauer è già chiaro a Max Nordau, Die Krankheit des Jahrhunderts. Roman, Leipzig 1889; trad. it. La malattia del secolo, Piacenza 1914, p. 106: “Nirvana, non è come sembrano crederlo i buddhisti europei, il nulla, la cessazione della coscienza e del desiderio, ma all’opposto è la massima coscienza, è l’allargamento dell’esistenza individuale fino all’esistenza universale”. 29 A. Schopenhauer, W, § 63 = 398. Sulla diffusione delle filosofie orientali e del buddhismo (il termine è coniato solo nel 1817) in Europa, cfr. U.W. Meyer, Europäische Rezeption indischer Philosophie und Religion dargestellt am Beispiel von Arthur Schopenhauer, Bern-New York 1994; W. Scholz, Arthur Schopenhauer, ein Philosoph zwischen westlicher und ostlicher Tradition, Frankfurt a. Main-New York 1996 e R.-P. Droit, Le Culte du Néant: les philosophes et le Bouddha, Paris 1997. Sulle differenze e le affinità rispetto alla filosofia indiana, nella prospettiva di fondare un’etica della compassione (aspetto preso in esame anche da Horkheimer), cfr. G. Song, Schopenhauers Ethik des Mitleids und die indische Philosophie, Freiburg-München 2000. L’apprezzamento del buddhismo da parte di Schopenhauer non contrasta con il rispetto per il cristianesimo del passato, in particolare quello di Lutero e del suo “Croce, croce! Dolore, dolore!”: “Sì, il buddhismo e il cristianesimo sono le due sole religioni veramente religiose dell’umanità, perché tutte e due hanno glorificato il culto del dolore, tutte e due hanno le sante amarezze, tutte e due propongono dogmi che fanno rabbrividire ogni carne viva! Oggi, indubbiamente, neocristiani insulsi, presi dallo spirito borghese ed effeminato del secolo, grattano come una ruggine questo vecchio colore sacro di un culto di sacrificio per farne una miserabile devozione d’amore” (G, 197). 30 Sulle posizioni politiche di Schopenhauer, cfr. L. Lutkehaus, Schopenhauer. Metaphysischer Pessimismus und “soziale Frage”, Bonn 1980.
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31 Schopenhauer non rivendicò l’importanza del corpo perché voleva fondare “una nuova religione dell’al di qua”, ma perché si proponeva di “spazzar via l’illusione che fosse possibile sottrarsi allo strapotere del corpo” (cfr. R. Safranski, Schopenhauer und die wilden Jahren der Philosophie. Eine Biographie, cit., p. 330). Sulla cultura francese fin de siècle e su Nietzsche in rapporto a Schopenhauer, si veda più avanti, pp. 311, 330-331. Che il filosofo di Danzica sia stato la fonte filosofica principale di Freud – il quale, da parte sua, ammetteva di aver tratto da Schopenhauer la distinzione tra Ich ed Es – è ormai chiaramente dimostrato (cfr. P.-L. Assoun, Freud, la philosophie et les philosophes, Paris 1976 e M. Zentner, Die Flucht ins Vergessen. Die Anfänge der Psychoanalyse Freuds bei Schopenhauer, Darmstadt 1995, in particolare pp. 1-46, dove si tratta dell’interesse di Schopenhauer per la psichiatria e il delirio). Sulla gioia che si prova nella perdita del principio d’individuazione hanno insistito – sulla scia di Schopenhauer e di Freud – anche Horkheimer e Adorno nel capitolo Odisseo, o mito e illuminismo di Dialettica dell’illuminismo. Per le necessità dell’autoconservazione l’umanità ha infatti dovuto reagire al pericolo di dissolversi nel tutto della natura – rappresentato dal canto delle Sirene – accentuando il momento dell’identità della coscienza con se stessa (cfr. M. Horkheimer-Th.W. Adorno, DA, 52-89). La “preistoria del soggetto” è segnata dalla separazione traumatica dalla natura, interna ed esterna, e dalla creazione di un centro di resistenza interiore al desiderio di regredire allo stadio iniziale dell’indistinzione tra il soggetto e l’oggetto: “L’umanità ha dovuto sottoporsi a un trattamento spaventoso, perché nascesse e si consolidasse il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell’uomo, e qualcosa di tutto ciò si ripete in ogni infanzia. Lo sforzo di tenere insieme l’io appartiene all’io in tutti i suoi stadi, e la tentazione di perderlo è sempre stata congiunta alla cieca decisione di conservarlo […]. L’angoscia di perdere il Sé, e di annullare, con il Sé, il confine tra se stessi e il resto della vita, la paura della morte e della distruzione, è strettamente congiunta a una promessa di felicità da cui la civiltà è stata minacciata in ogni istante” (Th.W. Adorno, ND, 165). Questa drammatica teoria della conquista dell’identità contrasta con altre diffuse visioni armonicistiche, le quali concepiscono il Sé più come un’orchestra, costituita da sé multipli coordinati da un direttore, che come uno strumento difficile da accordare (per questa immagine, cfr. J. Beahrs, Unity and Multiplicity, New York 1982).
2. In principio era il caos 1 Per un inquadramento della fisiologia e della citologia dell’Ottocento, cfr. Th.S. Hall, History of General Physiology [1900], Chicago and London 1969, vol. II, pp. 178 sgg.; M. Klein, Histoire des origines de la théorie cellulaire, Paris 1936; K.E. Rotschuh, Geschichte der Physiologie, Berlin-GöttingenHeidelberg 1953, in particolare pp. 91-224; A. Hughes, A History of Citology, London and New York 1959; R. Watermann, Theodor Schwann. Leben und Werk, Düsseldorf 1960; M. Florkin, Naissance et déviation de la théorie cellulaire dans l’œuvre de Theodor Schwann, Paris 1960; G. Canguilhelm, La théorie cellulaire, in La connaissance de la vie, Paris 1967, pp. 43-80, trad. it. La teoria cellulare, in La conoscenza della vita, Bologna 1971, pp. 73-121; W. Coleman, Biology in the Nineteenth Century. Problems of Form, Function, and Transformation, Cambridge 1971, in particolare pp. 16 sgg.; G. Buchdal, Leading Principles. An Introduction: The Methodology of Matthias Jakob Schleiden, in AA. VV., Foundations of Scientific Methode: The Nineteenth Century, a cura di R.N. Giere e R.S. Westfa, Bloominstore-London 1974, pp. 23-52; A. Morescalchi, La cellula e le origini della vita, Firenze 1979; H. Grunze-A.I. Spriggs, History of Clinical Citology: A Selection of Documents, Darmstadt 19832; B. Fantini, La teoria cellulare, in Storia della scienza moderna e contemporanea, a cura di P. Rossi, Torino 1988, 3 voll., vol. II, pp. 379-394; F. Duchesneau, Comment est née la théorie cellulaire, in “La Recherche”, XXII (1991), pp. 1288-1297; A. Orsucci, Dalla biologia cellulare alle scienze dello spirito. Aspetti del dibattito sull’individualità nell’Ottocento tedesco, Bologna 1992; L. Otis, Membranes. Metaphors of Invasion in Nineteenth-Century Literature, Science and Politics, Baltimore and London 1999. Per un inquadramento delle ricerche recenti sulla cellula, cfr. B. Albers et alii, Molecular Biology of the Cell, New York 1996; trad. it. Biologia molecolare della cellula, Bologna 1999; E. Boncinelli, Biologia dello Sviluppo – Dalla cellula all’organismo, Roma 20012. Si deve a F. Le Dantec – in La définition d’individu, in “Revue philosophique de la France et de l’Étranger”, XXVI (1901), t. LI, pp. 13-35, 151172 e in L’individualité et l’erreur individualiste, Paris 1905 – la dimostrazione della falsità della tesi che identifica le cellule con i protozoi e definisce l’organismo quale un aggregato di più individui. La proprietà di essere individui è indipendente dalla struttura cellulare semplice o complessa di un essere
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ed è legata a un’unità morfologica totale ed ereditaria. Con ciò crollano, da un punto di vista meramente “scientifico”, i concetti di individualità plurime sin dalle origini. Si veda, più in generale, J. Rostand, Le problème biologique de l’individualité, Paris 1955 e H. Barreau, Le Même et l’Autre. Recherches sur l’individualité dans les Sciences de la Vie, Paris 1986. La tesi erronea della cellula come individuo ha, in questo caso, paradossalmente prodotto effetti di verità. 2 Spencer generalizza, a partire dal 1851-1852, l’idea di Von Baer secondo cui ogni organismo si sviluppa passando da un’omogeneità strutturale a una eterogeneità strutturale, cfr. K.E. von Baer, Untersuchungen über die Entwicklungsgeschichte der Tiere, Königsberg 1828; B. Raikov, Karl Ernst von Baer 1792-1876. Sein Leben und Werk, Leipzig 1968; K. Boegner, Der Lebensgang Karl Ernst von Baers, in K.E. von Baer, Entwicklung und Zielstrebigkeit in der Natur, Stuttgart 1983 e S. Poggi, Neurology and Biology in the Romantic Age in Germany: Varus, Burdach, Gall, Von Baer, in AA. VV., Romanticism in Science. Science in Europe 1790-1840, a cura di S. Poggi e M. Bossi, Dordrecht 1994, pp. 143-160. Nel 1857, con il saggio Il progresso: la sua legge e la sua causa e con i lavori immediatamente successivi, Spencer aggiunse a tale concezione la tesi dell’instabilità dell’omogeneo e della dissoluzione che rappresenta il destino complementare di ogni evoluzione (su questo aspetto si veda anche D. Becquemont, Herbert Spencer: progrès et décadence, in “Mil neuf cent”, XIV [1996], pp. 69-88, che sottolinea come l’Inghilterra vittoriana abbandoni, dopo la metà del secolo, la sua precedente fede nel progresso). Soltanto cenni su tale punto si trovano in E. Morselli, La teoria dell’evoluzione secondo H. Spencer, Milano 1896 (su questo autore è da vedere il libro di P. Guarnieri, Individualità difformi. La psichiatria antropologica di E. Morselli, Milano 1982); in W.H. Simon, Herbert Spencer and the Social Organism, in “Journal of the History of Ideas”, XXVI (1960), pp. 294-299; in D. Wiltshire, The Social and Political Thought of Herbert Spencer, Oxford 1978, pp. 225 sgg. e in M.A. Toscano, Malgrado la storia. Per una lettura critica di Herbert Spencer, Milano 1980, pp. 61 sgg. Notevoli sono le conclusioni, in senso antievoluzionistico, che ne trae André Lalande, sia ne La dissolution opposée à l’évolution dans les sciences physiques et morales, Paris 1899, sia ne Les illusions évolutionnistes, Paris 1930. Per un primo inquadramento, non privo di implicazioni ideologiche, dell’opera di Lalande in questo campo e in rapporto a Spencer, cfr. P. Tort, La pensée hiérarchique et l’évolution, Paris 1983, pp. 432-522. Sull’idea di décadence cfr. i classici studi di E.R. Curtius, Entstehung und Wandlung der Dekadenz, in “Internationale Monatsschrift für Wissenschaft, Kunst und Technik”, XV (1921), pp. 147-166, di E. von Sydow, Die Kultur der Dekadenz, Dresden 1922, di A.E. Carter, The Idea of Decadence in French Literature, 1830-1900, Toronto 1958, di K.V. Swart, The Sense of Decadence in Nineteenth-Century France, The Hague 1964, in particolare pp. 139-192, e si vedano le analisi di AA. VV., Niedergang. Sprache und Geschichte, a cura di R. Koselleck e P. Widner, Stuttgart 1981. 3 Sulla cellula che è un Individuum cfr. già M.J. Schleiden, Beiträge zur Phytogenesis, in “Archiv für Anatomie, Physiologie und wissenschaftliche Medicin”, 1838, p. 137; Th. Schwann, Mikroskopische Untersuchungen über die Übereinstimmung in der Struktur und dem Wachstum der Thiere und Pflanzen, Berlin 1839, p. 2. Per il rapporto con la precedente teoria degli “infusori” nell’ambito della generazione spontanea, cfr. D. Boccardi, Per una filosofia della scienza sperimentale. La controversia Pasteur-Pouchet, Pisa 1993, pp. 32-35. Per il grande medico Claude Bernard l’individualità non può esistere tra i cristalli, ma solo a partire, in un crescendo, dagli organismi viventi: “Nel regno minerale, poiché manca la differenziazione degli individui, non esistono cristalli individuali. L’individualità è solo una differenza di grado, una frazione della specie, esiste solo negli esseri viventi e, via via che l’essere si forma, l’individualità si moltiplica, accentuandosi sempre di più” (C. Bernard, Principes de Médicine expérimentale, Paris 1947, p. 144). 4 È stato il liberale e “progressista” Rudolf Virchow ad applicare al campo della citologia metafore politiche, come quella dell’organismo in quanto società, federazione o repubblica di cellule (o come Stato libero, non dispotico, non centralistico, non poliziesco, quale invece considerava la Prussia), nel senso che la vita deriva, nello stesso tempo, sia dall’indipendenza reciproca delle cellule che dalla loro dipendenza dal tutto, cfr. Cellular-Pathologie, in “Archiv für pathologische Anatomie und Physiologie und für klinische Medicin”, VIII (1855), p. 25; Alter und neuer Vitalismus, ivi, IX (1856), p. 35; Die Kritiker der Cellularpathologie, ivi, XVIII (1860), p. 9; Atome und Individuen, in Vier Reden über Leben und Kranksein, Berlin 18623, p. 55. Secondo Virchow, a causa della percezione del nostro io, di “noi stessi come un qualcosa di semplice e di unitario”, abbiamo difficoltà nel concepire gli organismi viventi
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come una pluralità organizzata (cfr. R. Virchow, Die Cellularpathologie in ihrer Begründung auf physiologische und pathologische Geweblehre, Berlin 1858, p. 257). Dovremmo piuttosto sforzarci di comprendere il fatto che “l’Io del filosofo è solo una conseguenza del ‘Noi’ del biologo”, della pluralità delle cellule che collaborano tra loro a formare l’organizzazione dell’io (R. Virchow, Vier Reden über Leben und Kranksein, cit., pp. 72-73 e cfr. A. Orsucci, Dalla biologia cellulare alle scienze dello spirito. Aspetti del dibattito sull’individualità nell’Ottocento tedesco, cit., pp. 73 sgg.). Su questo punto, oltre al volume dell’Orsucci, cfr. P.P. Weindling, Theories of the Cell State in Imperial Germany, in AA. VV., Medecine, Biology, and Society 1840-1940, a cura di Ch. Webster, Cambridge 1981, pp. 99-155 (che tratta anche della diffusione di questo paradigma); R.G. Mazzolini, Stato e organismo, individui e cellule nell’opera di Rudolf Virchow negli anni 1845-1860, in “Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento/Jahrbuch des italienisch-deutschen historischen Instituts in Trient”, IX (1983), pp. 153-293. Su Virchow, cfr. anche E.H. Ackerknecht, Rudolf Virchow. Doctor, Stateman, Anthropologist, Madison 1953; G. Mann, Medizinisch-biologische Ideen und Modelle in der Gesellschaftslehre des 19. Jahrhunderts, in “Medizinhistorisches Journal”, IV (1969), pp. 1-23; F. Duchesneau, Genèse de la théorie cellulaire, Montréal 1987; R. Bodei, The Broken Mirror. Dissociation of the Subject and Multiple Personality. Pirandello and Late Nineteenth-Century French Psychopathology, in “Differentia”, II (1988), pp. 43-70; L. Otis, Membranes. Metaphors of Invasion in Nineteenth-Century Literature, Science and Politics, cit., cap. I: Virchow and Koch. The Cell and the Self in the Age of Miasm and Microbes, pp. 8-36; note, pp. 175-179. Tra le poche traduzioni recenti in italiano delle opere di Virchow si veda Vecchio e nuovo vitalismo, a cura di V. Cappelletti, Bari 1969. Metafore politiche analoghe a quelle di Virchow sul rapporto tra cellule e organismi centrali si ritrovano anche in Taine, per cui i centri spinali sono prefetti che ricevono informazioni da autorità locali e le trasmettono ai ministeri, cfr. H. Taine, Géographie et mécanique cérébrales, in “Revue philosophique de la France et de l’Étranger”, IV (1878), pp. 329-343 e M. Meletti Bertolini, Il pensiero e la memoria. Filosofia e psicologia nella “Revue philosophique” di Théodule Ribot (1876-1916), Milano 1991, p. 163. 5 Lo dimostrano (oltre alle descrizioni di S. Belloc, Les îles corallines, in Le tour du monde, Paris 1861, pp. 151-159) il libro di Alfred Espinas, Des sociétés animales. Étude de psychologie comparée, Paris 1877, quello di Edmond Perrier, Les colonies animales et la formation des organismes, Paris 1881 e i saggi di Alfred Binet su La vie psychique des micro-organismes, in “Revue philosophique de la France et de l’Étranger”, XII (1887), t. XXIV, pp. 449-489, 582-611 e Le mouvement de manège chez les insects, in “Revue philosophique de la France et de l’Étranger”, XVII (1892), t. XXXIII, pp. 113-135. Espinas, ivi, p. 29, sostiene che presso gli animali subordination et organisation c’est la même chose. Su quest’autore, le cui opere ebbero enorme risonanza in quanto voleva studiare la vita collettiva degli animali “come propedeutica alla sociologia umana”, cfr. A. Lalande, La vie et l’œuvre d’Alfred Espinas, in “Revue Internationale de Sociologie”, XXXIII (1925), p. 117. È significativo, a questo proposito, il fatto che Espinas sia il primo sociologo universitario della Terza Repubblica (cfr. G. Davy, Sociologues d’hier et d’aujourd’hui, Paris 1950) e colui che ha diffuso il concetto di gregarietà. 6 Cfr. F. Galton, Gregariousness in cattle and men, in “Mcmillan’s Magazine”, XXIII (1871), pp. 353357. Sui polipi di Trembley si vedano A. Vartanian, Trembley’s Polyp; Lamettrie and Eighteenth-Century French Materialism, in “Journal of the History of Ideas”, XI (1950); J.R. Baker, Abraham Trembley of Geneva. Scientist and Philosopher (1710-1784), London 1952 e F. Todesco, Il polipo di Trembley (1740) e la “catena della verità”. Note di ricerca, in “Giornale critico della filosofia italiana”, LXIX (1990), pp. 342-365. Si discute da oltre mezzo secolo sulla struttura di subsistemi autonomi che possono spiegare, senza bisogno di una coordinazione esplicita, il funzionamento di un tutto, come nel caso delle colonie di termiti, in cui ogni “casta” svolge il suo lavoro, cfr. E.N. Marais, The Soul of the White Ant, London 1937; trad. it. L’anima della formica bianca, Milano 1984. 7 R. Virchow, Atomen und Individuen, in Id., Vier Reden über Leben und Kranksein, cit., pp. 66-67 e cfr. A. Orsucci, Dalla biologia cellulare alle scienze dello spirito, cit., p. 74. 8 Cfr. Th. Ribot, Maladies de la personnalité [1885], Paris 1894 [= MdP], pp. 139 sgg.; Id., Maladies de la mémoire [1881] Paris 1914 [= MdM ], p. 85. Su Ribot, Janet e Binet vedi supra, pp. 66 sgg. 9 J. Laforgue, Ballade [1888], in Des fleurs de bonne volonté, in Œuvres complètes, Lausanne 1995, vol. II, p. 1988 (trad. it. Ballata, in Laforgue, Poesie e prose, Milano 1998, p. 207): Oyez, au physique
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comme au moral, / Ne suis qu’une colonie de cellules / De raccroc; et le sieur que j’entitule / Moi, n’est, diton, qu’un polypier fatal! / […] / Quand j’organise une descente en Moi, / J’en conviens, je trouve là, attablée, / Une société un peu bien mêlée, / Et que je n’ai point vue à mes octrois. / […]. 10 H. Taine, De l’intelligence (= Di) [prima edizione 1870], Préface, 2 voll., Paris 1906 [mi servo dell’undicesima edizione, che segue sostanzialmente la quarta del 1883], vol. I, p. 3. Per un commentoriassunto a De l’intelligence, cfr. L. Weinstein, Hippolyte Taine, New York 1972, pp. 28-50. Su Taine si veda: A. Chevrillon, Taine. Formation de sa pensée, Paris 1932; J.-Th. Nordmann, Taine et le positivisme, in “Romantisme. Revue du XIXe siècle”, n. 21-22 (1978), pp. 21 sgg.; C. Mongardini, Storia e sociologia nell’opera di Hippolyte Taine, Milano 1965; A. Codazzi, Taine e il progetto filosofico di una storiografia scientifica, Firenze 1985; J.-Th. Nordmann, Taine et la critique scientifique, Paris 1992; R. Pozzi, Hippolyte Taine. Scienze umane e politica nell’Ottocento, Venezia 1993 (della stessa autrice si veda anche Alle origini della psicologia delle folle: Taine e Les origines de la France contemporaine, in AA. VV., Folla e politica. Cultura filosofica, ideologia, scienze sociali in Italia e Francia a fine Ottocento, a cura di M. Donzelli, Napoli 1995, pp. 23-32); E. Gasparini, La pensée politique d’Hippolyte Taine: entre traditionalisme et liberalisme, Aix-en-Provence 1993; H. Nias, The Artificial Self: the Psychology of Hippolyte Taine, Oxford 1999. 11 In tal modo “l’uomo totale si presenta come una gerarchia di centri di sensazione e di impulsi, ciascuno dotato della sua propria iniziativa, funzioni e dominio, sotto il governo di un centro più perfetto che riceve da loro le novità locali, invia loro ingiunzioni generali e non differisce da loro che per la sua organizzazione più complessa, la sua azione più estesa e il suo rango più elevato” (Di, I, 7-8). Su Du Bois-Reymond, cfr. F. Vidoni, Ignorabimus! Emil Du Bois-Reymond und die Debatte über die Grenzen wissenschaftlicher Erkenntnis im 19. Jahrhundert, Frankfurt a. M.-Bern-New York-Paris 1991. 12 H. Taine, Histoire de la littérature anglaise, Paris 1866, vol. I, p. XIX. Nel trattare della scomponibilità delle immagini, Taine è debitore di Helmholtz, il quale non solo aveva dimostrato come ogni sensazione ritenuta semplice si divida a sua volta in altre sensazioni, ma aveva soprattutto diffuso l’idea di una scomponibilità all’infinito della vita psichica. Le esperienze di Helmholtz, osserva Ribot, “sono servite da base alle interpretazioni ingegnose di Taine e di Spencer” (Th. Ribot, PALC, XXIII). Anche Eduard von Hartmann nella Kategorienlehre, Leipzig 19232, e nella Philosophie des Unbewußtseins [Berlin 1871], Leipzig 190411, pp. 224 sgg., aveva seguito, su questo punto, l’impostazione helmholtziana. Tali concezioni scientifiche erano penetrate anche al livello della letteratura. Barbey d’Aurevilly scrive nel 1884 che c’est avec la moelle épinière et des nerves que nous expliquons l’homme tout entier (citato da A.E. Carter, The Idea of Decadence in French Literature, cit., p. 62). Da un punto di vista della sensazione interpretata come allucinazione, Taine si inserisce, in modo originale, nella polemica sviluppatasi attorno alla metà del secolo dai grandi psichiatri Esquirol, Moreau de Tours e Baillarger. Esquirol aveva interpretato l’allucinazione come un turbamento della credenza, in cui la coscienza indebolita diventa vittima dei fantasmi prodotti dall’immaginazione e dalla memoria; Moreau de Tours aveva parlato di uno “stato primordiale” di abbassamento della guardia psichica, che consente il sorgere delle allucinazioni, e Baillarger (di cui Taine aveva seguito le lezioni alla Salpêtrière) aveva distinto tra rappresentazioni xenofantiche, di origine estranea, e psico-sensoriali, che prevedono la mobilitazione dell’apparato percettivo (cfr. J. Paulus, Le problème de l’hallucination et l’évolution de la psychologie d’Esquirol à P. Janet, Liège 1941; P. Bercherie, Genèse des concepts freudiens. Fondements de la clinique II, Paris 1983, p. 133). Sul problema teorico dell’allucinazione una buona messa a punto per i suoi contemporanei è quella di A. Binet, L’hallucination, in “Revue philosophique de la France et de l’Étranger”, IX (1884), t. XIII, pp. 377-412. 13 Di, I, 7 sgg. e cfr. Di, I, 124 sgg. Questa metafora dello spirito o della coscienza come fuoco d’artificio o luce intermittente (che tornerà in Bergson) viene da Taine ampiamente elaborata. 14 Di, I, 9. Piuttosto che parlare dell’influenza diretta di De l’intelligence sugli impressionisti (in particolare su Signac, dove è evidente, ma anche su Pissarro) bisognerebbe pensare a letture comuni sia a Taine che a questi pittori, come, ad esempio, quelle di Helmholtz o del libro di Eugène Chevreuel, De la loi du contraste des couleurs (cfr. J.-Th. Nordmann, Taine et la critique scientifique, cit., pp. 362-363). 15 Di, I, 124. Sulla teoria delle immagini e dei “riduttori antagonistici” delle immagini come strumenti
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della conoscenza, cfr. J. Maldidier, Les “reducteurs antagonistes” de Taine, in “Revue philosophique de la France et de l’Étranger”, XXX (1905), t. LIX, pp. 474-486 (critica Taine affermando l’esistenza di più sensazioni contemporanee ma non contraddittorie, cfr. ivi, p. 479: “Per esempio un leggero grattamento della mia penna sulla carta o il tic-tac di questo orologio a pendolo e il fracasso della pesante vettura che passa nello stesso momento sotto la mia finestra”); E. Reeb, Les images de Taine à Binet, Diss. Nancy 1938. Sandro Barbera e Giuliano Campioni riassumono efficacemente il problema: “La dottrina tainiana delle sensazioni come ‘allucinazioni vere’ ritaglia il campo della percezione corretta della realtà come un caso particolare, eccezionale e precario del processo morboso dell’allucinazione. La costituzione della personalità come centro saldo di percezione realistica dipende dall’obbedienza a regole e a critiche socialmente costruite che i grandi fenomeni di disgregazione della civiltà (di cui le ‘convulsioni di Parigi’ sono un esempio terrificante che la Comune ha messo sotto gli occhi di tutti indicando i confini labili di ragione e follia) spazzano via dissolvendo l’unità di stile percettivo e di comportamento che costituisce la persona umana […]. Negli Essais [Essais de psychologie contemporaine, Paris 1883, pp. 73-74] Bourget assegnava a Parigi una forza disgregante rispetto alla personalità: ‘Questa città è il microcosmo della nostra civilizzazione […]. Dite ora se è possibile conservare una unità di sentimenti in questa atmosfera sovraccarica di correnti elettriche, in cui le informazioni multiple e circostanziate volteggiano come una popolazione di atomi invisibili. Respirare a Parigi è bere questi atomi’ ” (S. Barbera-G. Campioni, Il genio tiranno. Ragione e dominio nell’ideologia dell’Ottocento: Wagner, Nietzsche, Renan, Milano 1983, pp. 19-20). 16 Cfr. Di. I, 6-7. Il pathos di Taine e di molti suoi contemporanei ha proprio un valore difensivo contro gli attacchi alla ragione e alla vita cosciente portati da avversari più antichi e più radicati nel corpo e nella mente degli uomini. 17 Cfr. O. Engel, Der Einfluß Hegels auf die Bildung der Gedankenwelt Hippolyte Taines, Stuttgart 1920; D.D. Rosca, L’influence de Hegel sur Taine théoricien de la connaissance et de l’art, Paris 1928; E. Scolari, Un’ipotesi su Taine, in AA. VV., Arte, critica, filosofia, Bologna 1965, pp. 269-325; C. Evans, Taine. Essai de biographie intérieure, Paris 1975, passim. Taine comincia a leggere Hegel nell’inverno 1851-1852 e poi nel corso del 1852. Studia con passione a Nevers la Scienza della logica (ma anche la Fenomenologia dello spirito) di Hegel, il quale “è uno Spinoza moltiplicato per Aristotele”, come scrive in una lettera a Prévost-Paradol del 16 novembre 1851 (cfr. H. Taine, Sa vie et sa correspondence, 4 voll., Paris 1902-1907, vol. I, p. 154). Giudizio ripetuto più tardi: “Ho letto Hegel, tutti i giorni, durante un anno intero; è probabile che non ritroverò mai delle impressioni uguali a quelle che mi ha dato […]. È Spinoza, moltiplicato per Aristotele, e in piedi su quella piramide delle scienze che l’esperienza moderna costruisce da trecento anni a questa parte” (H. Taine, Les philosophes classiques du XIXe siècle en France, Paris 1868, pp. 132-133). Sullo spinozismo in Francia, con un breve cenno a Taine, cfr. P. Janet, Le spinozisme en France, in “Revue philosophique de la France et de l’Étranger”, VII (1882), t. XIII pp. 109-132. 18 Cfr. Spinoza, E, II, prop. XIL, schol. = 225-227. Per il significato del tema in Spinoza, cfr. M. Gueroult, Spinoza, L’âme (Éthique 2), Paris 1974, pp. 504-505. Questo stesso passo di Spinoza è ripreso da James dei Principles of Psychology (che dipende su questo punto verosimilmente da Taine). Spinoza è importante in tale contesto anche per altre due ragioni. In primo luogo perché l’idea che la mente sia soggetta a forze estranee (immagini, passioni) costituisce uno dei punti fermi del suo pensiero. In secondo luogo perché è stato il primo a considerare il corpo (e quindi l’anima) come composto da una pluralità di parti individuali: Corpus humanum componitur ex pluribus (diversæ naturæ) individuis, quorum unumquodque valde compositum est (E, II, post., I = 146-147). Tale idea viene poi ripresa, nell’età romantica e nella Goethezeit, oltre che da Tieck e da Novalis in forma poetica, anche da Goethe: Jedes Lebendige ist kein Einzelnes, sondern eine Mehrheit; selbst insofern es uns als Individuum erscheint, bleibt es doch eine Versammlung von lebendigen selbständigen Wesen, die der Idee, der Anlage nach, gleich sind, in der Erscheinung aber gleich oder ähnlich, ungleich oder unähnlich werden können [“Ogni vivente non è un singolo, bensì una molteplicità; sebbene ci appaia come individuo, rimane tuttavia una raccolta di esseri viventi indipendenti, che sono uguali secondo l’idea, secondo la struttura [o disposizione], ma che possono diventare uguali o simili, disuguali o dissimili nel loro apparire fenomenico”] (J.W. Goethe, Die Absicht eingeleitet [1807], in Sämtliche Werke, vol. XXIII, Stuttgart 1895, p. 4; citato da R. Virchow, Vier Reden über Leben und Kranksein, cit., p. 75). Tale idea si trova
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esposta anche in forma poetica, come finzione non argomentata: Freut euch des wahren Scheins / Euch des ernsten Spieles; / Kein Lebendiges ist Eins, / Immer ist’s Vieles [“Gioite del vero apparire / Del gioco serio: / Nessun vivente è uno, / È sempre molti”] (J. W. Goethe, Epirrhema [1819], in Sämtliche Werke, vol. II, Stuttgart 1893, p. 148). La differenza di Goethe rispetto a Taine e ai suoi seguaci è che questi ultimi ritengono di poter appoggiare questa pluralità sulle basi “scientifiche” della citologia, della zoologia e della fisiologia, che si tratti di “colonie” o “falansteri” di io. 19 Cfr. P. Janet, L’état mental des hystériques, Paris 1911 (è la seconda edizione, con varie aggiunte, di quella che era stata la sua tesi in medicina nel 1893-1894). 20 H. Taine, OFC, I, 70. 21 H. Taine, Lettera a François Guizot del 1873, in H. Taine, Sa vie et sa correspondence, cit., vol. III, p. 247. Per la concezione tainiana della décadence che ha colpito la Francia, cfr. J.-F. Dunyach, Histoire et décadence en France à la fin du XIXe siècle. Taine et Les origines de la France contemporaine, in “Mil neuf cent”, XIV (1996), pp. 115-137. Sulla cultura francese del periodo, alcune interessanti osservazioni in Th. Zeldin, France 1848-1945, vol. I, Ambition, Love and Politics, Oxford 1973; vol. II, Intellect, Taste, and Anxiety, Oxford 1977 (nell’ambito della Oxford History of Modern Europe). Sulle metafore politiche di Taine, cfr. V. Collina, Dire la politica con le metafore: Taine tra scienza e lettere, in AA. VV., Dire il politico / Dire le politique. Il “discorso”, le scritture e le rappresentazioni della politica, a cura di B. Consarelli, Padova 2001, pp. 139-161. 22 Per Lombroso si veda l’ampia documentazione raccolta in C. Lombroso, Delitto, genio, follia. Scritti scelti, a cura di D. Frigessi, F. Giacanelli, L. Mangoni, Torino 1995. Dopo Darwin, egli aveva riconosciuto Taine come suo maestro, cfr. C. Lombroso, Quelques Opinions sur l’œuvre de H. Taine, in “Revue blanche”, 13 (1897), p. 283 (numero in onore di Taine). Oltre alla trattazione, nel ciclo dei Rougon-Macquart di Zola, delle tare psichiche secondo i modelli degenerativi dell’ereditarietà descritti da Ribot, come sintomo di una diffusione capillare di queste idee in Europa, si può ricordare quanto nel 1891 aveva osservato Francesco de Sarlo, che lavorava in quel periodo all’Istituto Psichiatrico di Reggio Emilia: “D’altra parte non solo i criminologi e i [sic] psichiatri hanno fermato la loro attenzione sull’inconscio, ma anche alcuni romanzieri moderni, facendo l’analisi dei sentimenti di alcuni dei loro personaggi e studiandone gli atti, hanno sentito il bisogno di accennare a quel fondo oscuro, a quello strato bestiale, a quel peccato originale, da cui è germogliata la nostra vita cosciente. Nulla di più facile, leggendo questi romanzi, di imbattersi in espressioni [tratte da Zola, La bête humaine] come questa: ‘l’ignoto si sveglia e un’onda selvaggia sale dai visceri e invade la testa’; ‘in quell’istante ella ebbe come una brusca ispirazione. Non ragionò più, non discusse: le veniva come un impulso istintivo dalle profondità oscure dell’intelligenza e del cuore. Se avesse discusso non avrebbe fatto niente’ […]. Di qui emerge chiaro il concetto di un’attività mentale autonoma, fornita di tutti i principali poteri (intelligenza, volontà, ecc.), la quale elabora e sintetizza una quantità di elementi psichici, e per quello solo è incosciente, perché funziona indipendentemente dalla sintesi mentale superiore e complessa che costituisce la coscienza individuale ordinaria” (F. de Sarlo, L’attività psichica incosciente in patologia mentale, in “Rivista sperimentale di freniatria e di medicina legale”, XVII [1891], pp. 98-99). Sulla medicalizzazione del crimine si veda P. Darmon, Médecins et assassins à la Belle Époque, Paris 1989. Il problema di invertire la tendenza verso la décadence si poneva – in campo medico – al livello della régénérescence o dell’“eugenetica”, come tentativo di sfuggire socialmente alle conseguenze dell’ereditarietà, concepite altrimenti come un destino fatale che, dopo la scoperta delle leggi di Mendel, non sta più, per l’individuo, nelle stelle, ma nei geni (cfr. J. Léonard, Médecins, malades et société dans la France du XIXe siècle, Paris 1992, pp. 156 sgg.). Ma già “l’alienista cristiano Joseph Grasset rimprovera a Vacher de Lapouge [sostenitore dell’eugenetica] de vouloir substituer à Liberté, Égalité, Fraternité le tryptique Déterminisme, Inégalité, Sélection” (ivi, p. 170). Sull’eugenetica, cfr. supra, p. 220 e, più avanti, p. 373. La teoria per cui i caratteri regressivi si trasmettono per via ereditaria – soprattutto in malattie come la tubercolosi o la sifilide – è messa in crisi, ma non in maniera sufficiente, dalla scoperta del bacillo di Koch e del trepomema pallido, che stabiliscono le vie del contagio di diverse malattie (cfr. ivi, p. 158). Sulla questione dell’ereditarietà e le sue mitologie, cfr. J. Borie, Mythologies de l’hérédité au XIXe siècle, Paris 1981.
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23 H. Taine, Lettera a Édouard de Suckau del 16 marzo 1832, in H. Taine, Sa vie et sa correspondence, cit., vol. I, p. 221, cit. in P. Bürger, Das Verschwinden des Subjekts. Eine Geschichte der Subjektivität von Montaigne bis Barthes, Frankfurt a.M. 1998, p. 139 n. 24 Di, II, 230-231. La decadenza di un popolo, al pari della malattia dell’individuo è sempre in agguato. Sull’idea di decadenza dei popoli in Taine, cfr. R. Stadelmann, Taine und das Problem des geschichtlichen Verfalls, in “Historische Zeitschrift”, CLXVII (1943), pp. 116-135. La decadenza si ripresenta per Taine in varie epoche ed è particolarmente devastante nel Medioevo: “Guardando le vetrate, le statue delle cattedrali, i dipinti primitivi, sembra che la razza umana sia peggiorata, che il suo sangue si sia indebolito; santi tisici, martiri dalle articolazioni assai mobili, vergini dal seno poco pronunciato, dai piedi troppo lunghi e dalle mani nodose, eremiti rinsecchiti e come svuotati di ogni sostanza, Cristi che sembrano dei lombrichi calpestati e sanguinanti, processioni di personaggi smorti, intirizziti, tristi, nei quali si sono impresse tutte le deformità tipiche della miseria e tutti i timori generati dall’oppressione” (PhA, 347). 25 Cfr. Di, II, 231. Allo stesso modo dello schiavo, aggiunge Taine, anche lo spirito avanza “attraverso l’accozzaglia dei deliri mostruosi e delle follie urlanti, quasi sempre impunemente, per insediarsi nella coscienza veridica e nel ricordo esatto”. Quest’immagine dello schiavo nell’arena era già stata utilizzata da Jules Michelet in La révolution [1847], Paris 1898, p. 75 (cfr. C. Evans, Taine. Essai de biographie intérieure, cit., p. 279 n.). Per Taine, le traversate della vita temprano o indeboliscono il carattere, così che “nel lungo e tempestoso corso della vita, i caratteri, a seconda dei casi, fungono da pesi o da galleggianti: una volta ci fanno affondare, un’altra, invece, ci tengono a galla”. 26 Cfr. M. Tison-Braun, L’introuvable origine. Le problème de la personnalité au seuil du XXe siècle. Flaubert, Mallarmé, Rimbaud, Valéry, Bergson, Claudel, Gide, Proust, Genève 1981. Per Pirandello, cfr. supra, p. 160. 27 Cfr., a proposito di Valéry, l’analisi di J. Derrida, Marges de la philosophie, Paris 1972; trad. it. Margini della filosofia, Torino 1997, pp. 353-392. 28 Cfr. Di, II, 474 e, come anticipazione di questi temi, H. Taine, Note sur les éléments et la formation du moi, in “Revue philosophique de la France et de l’Étranger”, I (1876), t. I, pp. 289-294. È interessante osservare come Freud utilizzi per la prima volta il termine “metapsicologia” nel contesto di una lettera a Fliess del 13 febbraio 1896 (cfr. S. Freud, Briefe an Wilhelm Fließ, 1887-1904, Frankfurt a.M. 19752, n. 87. Ma si veda, in inglese, l’edizione integrale delle lettere: The Complete Letters of Siegmund Freud to Wilhelm Fliess, 1887-1904, Translated and Edited by J. M. Masson, Cambridge, Mass. and London 1985, p. 172; trad. it. Lettere a Wilhelm Fliess 1887-1904, edizione integrale a cura di J.M. Masson, Torino 1986, p. 201), in cui dice di aver letto De l’intelligence di Taine, che gli è piaciuto moltissimo. Si veda anche P. Bercherie, Genèse des concepts freudiens. Fondements de la clinique II, cit., p. 136. 29 Cfr. G. Tarantino, Saggi filosofici, Napoli 1885, pp. 307-308. Giuseppe Tarantino è stato uno dei primi in Italia a recepire gli insegnamenti di Taine e di Ribot per mostrare come l’illusione della sostanzialità della coscienza presupponga l’esistenza di questa unità fisiologica, che “non è nulla di assoluto”, ma che, se viene meno, trascina nella disgregazione “anche l’edifizio psicologico, che su d’essa è stato costruito” e fa sì che la coscienza cada spesso a brandelli “a guisa di logoro abito” (ivi, pp. 308309, 329). E questo perché, una volta perduto il primato dei centri superiori di coordinamento, come il cervello, dominano quelli inferiori, come il midollo spinale. 30 H. Taine, Les philosophes français du XIXe siècle, Paris 1857, p. 354. 31 Di, II, 217. È un insegnamento – come vedremo – che Nietzsche terrà ben presente. Taine non avrebbe tuttavia accettato la posizione interamente riduttiva di Thomas Henry Huxley, secondo cui la coscienza è un epifenomeno, qualcosa di superfluo che si aggiunge ai fenomeni organici, che non reagisce su di essi più di quanto farebbe l’ombra di un individuo sull’individuo stesso. Si può sopprimere la coscienza e le funzioni fisiologiche continuano il loro corso (cfr. A. Binet, DC, 20). Huxley, tuttavia, è così onesto da riconoscere la difficoltà di ridurre i fenomeni psichici alla fisiologia: “Come avvenga che qualcosa di così notevole come uno stato di coscienza sia il risultato della
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stimolazione del tessuto nervoso è tanto inspiegabile quanto la comparsa del Genio della favola, quando Aladino strofina la lampada” (T.H. Huxley, Lessons in Elementary Physiology, London 1866, cit. in M. Di Francesco, La coscienza, Roma-Bari 2001, p. 40). Sui contributi della cultura psico-fisiologica inglese al dibattito europeo, cfr. L.J. Danston, British Responses to Psychophysiology 1860-1900, in “Isis”, LXIX (1978), pp. 192-208. 32 Il flusso sembra in effetti procedere non “orizzontalmente” e in maniera costante, bensì attraverso intermittenze, salti di livello, discontinuità, che la vita psichica è costretta ogni volta a reintegrare secondo i criteri dell’ultimo punto di vista raggiunto. Tale ricostituzione dell’unità e della coerenza dell’io all’interno del “flusso”, della corrente che trascina e fonde insieme ogni più minuto frammento psichico, non può avvenire che in una prospettiva dinamica, di movimento e di turbolenza ininterrotta. Date le premesse, ne consegue che non si resta mai se stessi, neppure in condizioni considerate normali. Siamo soggetti a continue, anche se spesso impercettibili modificazioni. Lo sapranno, in seguito, anche Bergson e James, che porranno l’accento, rispettivamente, sull’immobilità come illusione ottica e sul movimento di ciò che appare fermo, distinguendo momenti di relativo riposo e momenti di moto più rapido del flusso (per Bergson, cfr. supra, pp. 120-121). Per quanto riguarda James, cfr. W. James, PP, 192-193: “Quando diamo un’occhiata generale alla meravigliosa corrente della nostra coscienza, ciò che ci colpisce prima è la diversa velocità che mostrano le diverse parti di essa. Simile alla vita di un uccello, essa sembra essere un’alternativa di voli e di riposi. Questo è espresso bene nel ritmo del linguaggio, [così] che ogni pensiero è espresso in una proposizione, ogni proposizione è chiusa in un periodo. I punti di riposo sono ordinariamente occupati da pensieri di relazioni, statiche o dinamiche, che si formano per la maggior parte fra i fatti considerati nei periodi di relativo riposo. Chiamiamo punti di riposo le ‘parti sostantive’, e punti di volo le ‘parti transitive’ della corrente del pensiero”. 33 Cfr. Dr. Krishaber, De la névropathie cérébro-cardiaque, Paris 1873. 34 Cfr. De la névropathic cérébro-cardiaque, cit., p. 10 sulla étrangeté poussée jusqu’à l’absurde de certaines impressions accusées par les névropathes. Questo senso di straneamento è alla radice della “depersonalizzazione”, cfr. L. Dugas-F. Moutier, La dépersonalisation, Paris 1911, pp. 9 sgg., 23 sgg. Dilthey si era interessato del problema, cfr. W. Dilthey, B, 117-125 = 255-263. Sulla cenestesia, cfr. Th. Ribot, che la definisce consensus d’actions vitales (MdM, 83-86). 35 Dr. Krishaber, De la névropathie cérébro-cardiaque, cit., p. 30. 36 Cfr. Dr. Krishaber, De la névropathie cérébro-cardiaque, cit., osservazione n. 38 e Di, II, 469. Il mondo sfugge e si perde, sembra che parti del corpo (le gambe, ad esempio) non appartengano al soggetto senziente. Non ci si sbaglia – sostiene Taine – dicendo di essere un altro: in effetti “un io differente si è sostituito al primo” (Di, II, 474). 37 Cfr. Di, II, 466. La celebre affermazione contenuta nella lettera di Rimbaud a Paul Demeney del 15 maggio 1871 (Je est un autre) precede di due anni il libro di Krishaber e di sette la seconda edizione di De l’intelligence. È del tutto improbabile che Krishaber e Taine conoscessero questa tesi di Rimbaud (per cui anche nel Bateau ivre l’io non è più un auriga sobrio che governa i due cavalli alati, come nel mito platonico, ma, appunto, un Je bateau), mentre forse Rimbaud conosceva la prima edizione di De l’intelligence.
3. L’arcipelago degli io 1 Cfr. Th. Ribot, PANC, 32. L’espressione “petite psychologie à l’eau de rose” è di Charcot, che è molto favorevole a una psicologia che, come quella di Ribot, si leghi agli studi di patologia quali lui praticava (cfr. P.-H. Castel, La Querelle de l’hystérie, Paris 1998, p. 44). La nascita della psicopatologia di Taine, Ribot, Janet e Binet ha luogo in una situazione in cui “sotto la bandiera ufficiale di uno spirito positivo, la psicologia si costituisce a partire da un’alleanza tra dei filosofi liberatisi dalle costrizioni dello spiritualismo e dei medici”. Ma da chi era composto, a uno scalino più basso, il nucleo dei seguaci maggiormente coinvolti? “Si dimentica spesso di dire che parecchi di questi dottori erano un po’ letterati, nostalgici dei filosofi o dei poeti che avrebbero potuto essere. Alla fascinazione degli uni per le scienze ha risposto quella degli altri per le lettere” (J. Carroy, Les personnalités doubles et multiples. Entre science et fiction, Paris 1993, p. X).
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2 Cfr. Th. Ribot, PANC; Id., H. Taine et sa psychologie, in “Revue philosophique de la France et de l’Étranger”, II (1877), t. IV, pp. 17-46; PALC. Per la traduzione, cfr. H. Spencer, Principes de psychologie (viene tradotta la seconda edizione inglese del 1870-1872), 2 voll., Paris 1875. Alle spalle delle ricerche di Ribot sta una costellazione culturale complessa (Spinoza, Hume, Schopenhauer, Maine de Biran, Taine, Spencer, Bain). Anche la sua dissertazione (Quid de consociatione idearum David Hartley senserit) rispecchia gli interessi dominanti in questo periodo. Sull’opera di Théodule Ribot, che fu tra l’altro il primo a ricoprire in Francia una cattedra di psicologia sperimentale e comparata nel 1888 (per il clima culturale dell’epoca si veda J.E. Lesch, Science et Medicine in France. The Emergence of Experimental Psychology, Cambridge, Mass. 1984), cfr. R. Lenoir, La psychologie de Ribot et la pensée contemporaine, in “Revue de Métaphysique et de Morale”, XXVI (1919), pp. 739-763; L. Dugas, La philosophie de Th. Ribot, Paris 1924; G. Poyer, L’œuvre de Ribot, in AA. VV., Centenaire de Th. Ribot. Jubilé de la psychologie française, Agen 1939, pp. 115-130; M. Meletti Bertolini, Imagination créatrice et connaissance selon Théodule Ribot, in “Revue philosophique de la France et de l’Étranger”, CXVIII (1983), t. CLXXXIII, pp. 11-25; Ead., Il pensiero e la memoria. Filosofia e psicologia nella “Revue philosophique” di Théodule Ribot (1876-1916), cit., pp. 26 sgg; C. Bénichou, Ribot et l’hérédité psychologique, in AA. VV., L’ordre des caractères. Aspects de l’hérédité dans l’histoire des sciences de l’homme, Paris 1989, pp. 72-94; M. Innamorati, La psicopatologia di Théodule Ribot. Cenni introduttivi, in “atque”, n. 20-21 (dicembre 1999-novembre 2000), pp. 136-152. Si attende l’uscita dell’annunciato libro di Jacqueline Carroy, Ribot et les origines de la psychologie scientifique en France. Come sintomo della conoscenza, anche in Italia, dei testi di Ribot si possono citare le numerose traduzioni: Le malattie della memoria, Milano s.d.; Le malattie della volontà, Palermo 1904; La psicologia dell’attenzione, Milano 1905; Le malattie della personalità, Palermo 1906; Saggio sulle passioni, Città di Castello 1907; La psicologia dei sentimenti, Palermo 1923. 3 Sulla fondazione della rivista, cfr. J. Thirard, La fondation de la Revue philosophique, in “Revue philosophique de la France et de l’Étranger”, CI (1976), t. CLXVI, pp. 401-413; M. Meletti Bertolini, Il pensiero e la memoria. Filosofia e psicologia nella “Revue philosophique” di Théodule Ribot (1876-1916), cit., pp. 11-27. Sull’atmosfera intellettuale che la vede sorgere, cfr. J.-L. Fabiani, Les philosophes de la République, Paris 1988. Per il giudizio di Nietzsche, cfr. KWB, vol. II/5, p. 267 = vol. III, pp. 241-242. Per una testimonianza sulla presenza della tradizione psicopatologica francese in Nietzsche, documentata altrove anche dall’uso dell’espressione altération de la personnalité, cfr. la lettera a Malwida von Meysenbug del 4 aprile 1877, nonché vari passi del Caso Wagner e del Crepuscolo degli idoli. Si veda anche supra, p. 94. 4 Cfr. Th. Ribot, PhS, dove si cita la teoria schopenhaueriana della “indistruttibilità” della volontà, nonché il motto spinoziano sentimus experimurque nos æternos esse. Da Schopenhauer, oltre che dagli schemi spenceriani della dissoluzione, sembra derivare a Ribot una certa diffidenza nei confronti dell’idea di progresso e la sottolineatura del fatto che la storia umana appare al filosofo di Danzica riassunta nelle parole Eadem sed aliter (PhS, 168). L’opera di Ribot è un contributo importante alla diffusione – non incontrastata – delle idee di Schopenhauer in Francia. Tale diffusione era stata favorita anche dalla traduzione francese della Philosophie des Unbewußten di Eduard von Hartmann (Philosophie de l’inconscient, 2 voll., Paris 1877) e dall’antologia Pensées, maximes et fragments de Schopenhauer (traduit, annoté et précédé d’une vie de Schopenhauer par J. Bourdelau, Paris 1880). La casa editrice Germer Baillière et C.ie aveva inoltre dato una spinta decisiva alla conoscenza di Schopenhauer pubblicando L’essai sur le libre arbitre; Le fondement de la morale; Pensées et fragments; Aphorismes sur la sagesse de la vie e De la quadruple racine du principe de raison suffisante. Le monde comme volonté et comme rapprésentation, invece, dopo essere apparso in francese a Bucarest e Lipsia, venne pubblicato a Bordeaux e distribuito a Parigi nel 1890. Preoccupazioni per l’incidenza del pensiero di Schopenhauer e di E. von Hartmann sulla cultura francese sono espresse presto, in particolare dopo la sconfitta della Francia da parte prussiana (su cui cfr. C. Digeon, La crise allemande de la pensée française 1870-1914, Paris 1959), cfr. J. Huret, Enquête sur l’évolution littéraire, Paris 1891, p. 37. Sulla presenza di Schopenhauer in Francia, cfr. A. Baillot, L’influence de la philosophie de Schopenhauer en France (1860-1890), Paris 1927 e, per il periodo precedente, dal 1854 al 1870, R.-P. Colin, Schopenhauer en France, Lyon 1979. 5 Su Schopenhauer fisiologo e studioso di Cabanis e Bichat, cfr. P. Janet, Schopenhauer et la
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physiologie française: Cabanis et Bichat, in “Revue des Deux Mondes”, Paris 1880, pp. 35-59; A. Schmidt, Physiologie und Transzendentalphilosophie bei Schopenhauer, in “Schopenhauer Jahrbuch”, LXX (1983), pp. 41-58 e M. Segala, Filosofia e metafisica in Schopenhauer, cit. 6 Su Janet, cfr. F. Kerris, Integration und Desintegration der Persönlichkeit bei Janet und Mc Dougall, Diss. Bonn 1938; E. Minkowski, Pierre Janet (Essai sur l’homme et l’œuvre), in AA. VV., Centenaire de Th. Ribot. Jubilé de la psychologie scientifique française, cit., pp. 199-230; G.E. Morselli, Quelques remarques sur la conception janettienne des personnalités alternantes, in “Évolution psychiatriques”, 1950, pp. 405-409; L. Schwarz, Les névroses et la psychologie dynamique de P. Janet, Paris 1955; J. Piaget, L’aspect génétique de l’œuvre de Pierre Janet, in “Psychologie française”, II (1969), pp. 111-122; H. Ellenberger, The Discovery of the Unconscious. The History and Evolution of Dynamic Psychiatry, New York 1970, trad. it. La scoperta dell’inconscio, Torino 1976, pp. 387-481; C.M. Prevost, La psychophilosophie de Pierre Janet, Paris 1973; Id., Janet, Freud et la psychologie clinique, Paris 1973; M. Meletti Bertolini, Bergson e la psicologia, Milano 1985, pp. 71-73, 78-85; V.P. Babini, Il “behaviorisme élargi” di Pierre Janet, in Ead., La vita come invenzione. Motivi bergsoniani in psichiatria, Bologna 1990, pp. 43120. L’importanza di Janet e la sua distanza da Ribot vengono ampiamente sottolineate da P.-H. Castel, La Querelle de l’hystérie, cit., pp. 117-183. La differenza sta, ad esempio, anche nell’atteggiamento antimetafisico di Ribot, che finisce per essere, a suo modo, metafisico: “Ribot intendeva cacciare un fantasma metafisico: il soggetto puro delle facoltà (volontà, intelletto, ecc.) che non soltanto avrebbe abbassato la psicologia scientifica a psicologia spiritualistica, ma avrebbe impedito di pensare le alterazioni caratteristiche della follia […]” (ivi, p. 122). Inoltre, mentre Ribot è attratto da anormalità e mostruosità incomparabili, Janet si limita a confrontare tra loro le malattie, i quadri clinici (ivi, pp. 120124). 7 Cfr. H.S. Decker, The Lure of Non-materialism in Materialist Europe: Investigating of Dissociation Phenomena 1880-1915, in AA. VV., Split Brains: Historical and Current Perspectives, a cura di J. M. Quen, New York 1986, p. 42 e O. van der Hart-R. Horst, The Dissociative Theory of Pierre Janet, in “Journal of Psychiatric Trauma Stress”, II (1989), pp. 397-412. Sulle “allucinazioni autoscopiche” come sdoppiamento della personalità, cfr. P. Janet, OP [seconda edizione: Paris 1908], 319-322. L’originalità di Janet – secondo Michel Foucault – consiste nel dare “come tema alla psicologia, non delle strutture ricostituite né delle energie presunte, ma la reale condotta dell’individuo umano” (M. Foucault, La psychologie de 1850 à 1950, in DE, I, 125-126). 8 Cfr. più avanti, p. 316 e P. Briquet, Traité clinique et thérapeutique de l’hystérie, Paris 1859, p. 5 e cfr. J.-M. Charcot, Préface a P. Richer, Études cliniques sur la grande hystérie ou hystéro-épilepsie, Paris 1881, p. VII. Su Charcot cfr. Bouville et Regnard, Iconographie photographique de la Salpêtrière, 3 voll., Paris 1876-1880, trad. it. Tre storie d’isteria, a cura di A. Fontana, Venezia 1982 (si tratta della prima documentazione fotografica dei fenomeni di isteria, da parte di due allievi di Charcot, nel “laboratorio” della Salpêtrière); G. Rummo, Iconografia fotografica del Grande Isterismo-Istero-Epilessia, Omaggio al Prof. J.-M. Charcot, Clinica Medica Propedeutica di Pisa-Napoli 1890; G. Guillian, J.-M. Charcot. Sa vie, son œuvre (1825-1893), Paris 1955; P. Bailey, J.-M. Charcot (1825-1893). His Life, His Work, London 1959; H. Ellenberger, Charcot and the Salpêtrière School, in “American Journal of Psychotherapy”, XIX (1965), pp. 253-257; J.A. Miller (et alii), Some Aspects of Charcot’s Influence on Freud, in “Journal of American Psychoanalytic Association”, XVII (1969), pp. 608-623; A.R.G. Owen, Hysteria, Hypnosis and Healing: The Work of J.-M. Charcot, London 1971; G. Didi-Huberman, Invention de l’hystérie. Charcot et l’iconographie photographique de la Salpêtrière, Paris 1982; P. Bercherie, Genèse des concepts freudiens. Les fondements de la clinique II, cit., in particolare pp. 59-101; P.-H. Castel, La Querelle de l’hystérie, cit. Castel pone il problema del paradosso dell’isteria, analogo a quello del mentitore cretese: non esiste vera isteria, ma i suoi sintomi patologici e la sofferenza che essa provoca sono reali. Attorno al 1878, con Charcot, “si costituì la coppia epistemologicamente decisiva della Grande Isteria e della sua nevrosi sperimentalmente simmetrica, il Grande Ipnotismo. Il suo principio era il seguente. Se posso suggerire a un soggetto ipnotizzato la riproduzione esatta dei sintomi che osservo, immediatamente dati, presso un soggetto isterico, allora l’isterico non è altro, almeno nel caso ideale, che ‘un sonnambulo in stato di veglia’ [Charcot, Œuvres complètes, Paris 1888-1894, X, 450], e io dispongo così dell’eziopatogenesi tanto cercata” (P.-H. Castel, La Querelle de l’hystérie, cit., p. 27). Si veda anche M. Micale, Hysteria’s Histories: A Study of Disease and Its Interpretative Traditions, Princeton 1994.
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9 Cfr. C. M. Prevost, La psycho-philosophie de Pierre Janet, cit., p. 49. 10 Cfr. Psychoanalysis. Rapport par M. le Dr. Pierre Janet, Collège de France (International Congress of Medecine, Section XII: Psychiatry, I, Discussion n. 2, London 1913, p. 14). Freud si era opposto alla concezione janetiana delle personalità multiple perché riteneva “di dover scomporre non il conoscitore […], ma il conosciuto in due (il conosciuto consciamente e il conosciuto inconsciamente)” (D. Sparti, Identità e coscienza, Bologna 2000, p. 177). Ma per una rivalutazione delle posizioni di Janet nei confronti di Freud riguardo al problema delle personalità multiple, cfr. Ph. Mollon, Multiple Selves, Multiple Voices. Working with Trauma, Violation and Dissociation, Chichester-New York-BrisbaneToronto-Singapore 1996, p. 40: “La concettualizzazione operata da Janet del trauma e della dissociazione, ammettendo la possibilità di una coscienza multipla, con memorie incompletamente elaborate che formano isole di coscienza come ‘idee fisse’ che s’infiltrano automaticamente, risulta più coerente con ciò che attualmente si capisce delle psicopatologie basate su un trauma. La teoria di Janet è compatibile con i disturbi da personalità multipla, mentre quella di Freud non lo è”. Su Freud e Janet, cfr. M. MacMillan, Freud and Janet on Organic and Hysterical Paralyses: A Mystery Solved?, in “International Review of Psychoanalysis”, XVII (1990), pp. 189-203; J. Maître, Une inconnue célèbre. Madeleine Lebouc / Pauline Lair Lamotte (1863-1918), Paris 1993, pp. 135-163. Anche uno dei più importanti filosofi contemporanei, Donald Davidson, ha indirettamente ripreso, contro Freud, le posizioni di Janet. Per spiegare incongruità e conflitti intrapsichici, egli ipotizza, infatti, compartimenti mentali in cui desideri o credenze diverse od opposte possano tra loro coesistere senza che il comportamento del soggetto possa essere definito irrazionale. Così, mentre Freud stabilisce il confine tra sottosistemi “ ‘geograficamente’, sulla base del paese cui è assegnato lo stato mentale (la registrazione della sua presenza, in altre parole, varia in base al variare del grado di coscienza che se ne ha), per Davidson il criterio di cittadinanza è invece dato dal tipo di interazione fra desideri, credenze e altri stati ed eventi mentali. […] È solo il grado di combinabilità o di isolamento funzionale degli stati e degli eventi mentali a tracciare la frontiera fra l’appartenenza a sottosistemi (in linea di principio posso consciamente nutrire due credenze contraddittorie, purché le tenga a distanza l’una dall’altra)” (D. Sparti, Identità e coscienza, cit., p. 179). Per Davidson, cfr. D. Davidson, Paradoxes of Irrationality, in AA. VV., Philosophical Essays on Freud, a cura di E. Wollheim e J. Hopkins), Cambridge 1982, pp. 289305; Id., Division and Deceptions, in AA, VV., The Multiple Self, a cura di J. Elster, Cambridge 1986; trad. it. L’io multiplo, Milano 1991, pp. 79-92. 11 Su Alfred Binet, cfr. G. Gley, Recensione a Les altérations de la personnalité, Paris 1892, in “Revue philosophique de la France et de l’Étranger”, XVIII (1893), t. XXXV, pp. 512-520; E. Claparède, Alfred Binet, in “Archive de psychologie”, XI (1911), pp. 37-88; M. Robert, Alfred Binet, Diss. Paris 1924; F.L. Bertrand, Alfred Binet et son œuvre. Avec une bibliographie complète, Paris 1930 (bibliografia alle pp. 317-330); E.J. Varon, The Development of Alfred Binet’s Psychology, in “Psychological Monographies”, XLIII (1935), pp. 1-129; A. Marzi, Alfredo Binet, Brescia 1946; G. Avanzini, Alfred Binet et la pédagogie scientifique. La contribution de Binet à l’élaboration d’une pédagogie scientifique, Paris 1969; Th. Wolf, Alfred Binet, Chicago 1973 (assai informato: l’autrice ha lavorato anche sugli epistolari e gli inediti, ma la sua attenzione è rivolta quasi esclusivamente agli aspetti biografici e all’opera di Binet nell’ambito della misurazione dell’intelligenza nei bambini). 12 Il libro è dedicato a Ribot, che ha del resto coniato l’espressione altération de la personnalité. 13 Cfr. A. Binet, DC. Janet e Ribot contribuirono in America, con alcuni articoli, anche a un volume collettivo sui fenomeni inconsci, cfr. H. Münsterberg-Th. Ribot-P. Janet-J. Jastrow-B. Hart and M. Prince, Subconscious Phenomena, Boston 1910. Sulla teoria delle personalità multiple nella cultura americana vedi supra, pp. 81-82, 263-264. 14 Cfr. A. Binet, Les altérations de la personnalité, in “Revue des Deux Mondes”, 1891, pp. 839-855 [si tratta di un articolo che anticipa l’omonimo libro che apparirà l’anno successivo]. La psicologia di Binet era partita con l’intenzione di trasformarsi in una scienza esatta come la fisica o la chimica. Ma, poi, nel corso dell’indagine egli si era reso conto che “le cose si erano svolte in modo diverso e che nell’inventare i suoi oggetti la nascente psicologia, sia sperimentale che clinica, si avvicinava più al teatro che al laboratorio e che lo stesso laboratorio era un teatro” (Y. Brès, L’individuo nella tradizione teatrale e medica alla fine del XIX secolo, in AA. VV., Figure dell’individualità nella Francia tra Otto e Novecento,
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a cura di M. Donzelli e M. Fimiani, Genova 1993, p. 101). 15 Cfr. Th. Simon, Souvenirs sur Alfred Binet, in “Bulletin de Psychologie”, n. 415 (1954), pp. 342360. Su questo genere d’opere teatrali, cfr. A. de Lorde, Théâtre d’épouvante, Paris 1909. Sul teatro francese in quel periodo, cfr. C.H. Bissel, Les conventions du théâtre bourgeois contemporain en France, 1887-1914, Paris 1930. 16 Sulla storia delle localizzazioni cerebrali delle funzioni psichiche, cfr. H. Hécaen-G. Lanteri-Laura, Histoire des doctrines et des connaissances sur les localisations cérébrales, Paris-Liège 1978 e F. Schiller, Paul Broca, Berkeley-Los Angeles-London 1979. 17 Si procede ora in direzione opposta rispetto alla fase precedente, quando dalla frammentazione si andava verso la centralizzazione: “Questa coscienza coloniale, per quanto intermittente e debolmente coordinata possa essere all’origine, segna un momento capitale nell’evoluzione. Essa è il germe delle individualità superiori, della personalità. Passerà a poco a poco al primo posto, confiscando a proprio profitto tutte le individualità particolari. Nell’ordine politico, un’evoluzione analoga si produce nei paesi fortemente centralizzati. Il potere centrale, dapprima assai debole, appena riconosciuto, spesso inferiore ai suoi subordinati, si è rafforzato a loro spese e li ha lentamente ridimensionati con l’assorbirli” (MdP, 157). Vale la pena ricordare che tracce dell’idea della mente come colonia si ritrovano ancora in D. Hofstadter, Gödel Escher Bach, New York 1979; trad. it. Gödel Escher Bach, Milano 1984, pp. 299-364. 18 Già Taine aveva condiviso con Claude Bernard il principio che solo la malattia permette di conoscere lo stato di normalità, solo il patologico conduce a un’adeguata comprensione del fisiologico: “Bisogna vedere l’orologio guasto per distinguere i contrappesi e le ruote che non notiamo nell’orologio che va bene” (Di, I, 17). Per questo la storia del sonno e della follia “dà anche la chiave della storia della veglia e della ragione” (Di, II, 63). Sull’epistemologia di Bernard, cfr. J.M. Dand-E.H. Olmstes, Claude Bernard and the Experimental Method in Medecine, New York 1961 (rist.); J. Schiller, Claude Bernard and the Cell, in “The Physiologist”, IV (1961), pp. 62-68; Id., Claude Bernard et les problèmes scientifiques de son temps, Paris 1967; E. Wolff-C. Fouchet et alii, Philosophie et méthodologie chez Claude Bernard, Paris 1962; M. Di Giandomenico, Filosofia e medicina sperimentale in Claude Bernard, Bari 1968; A. Prochianz, Claude Bernard. La révolution physiologique, Paris 1990; M.D. Gremk, Claude Bernard entre le matérialisme et le vitalisme: la nécessité et la liberté, in AA. VV., La nécessité de Claude Bernard, a cura di J. Michel, Paris 1991, pp. 117-139; Id., Claude Bernard et la méthode expérimentale, Paris 1993; C. Baune, La notion de “pathologie” chez Claude Bernard, in AA.VV., La nécessité de Claude Bernard, cit., pp. 287-298; P. Gendron, Claude Bernard. Rationalisation d’une méthode, Paris-Lyon 1992. 19 Ribot parafrasa Bernard quando sostiene che “la malattia è una sperimentazione di ordine sottilissimo, istituita dalla natura stessa, in circostanze ben determinate e attraverso procedure di cui l’arte non dispone: essa attinge all’inaccessibile” (Th. Ribot, Psychologie, in AA. VV., De la méthodologie des sciences, Paris 1909, p. 252). Ancora: “I disturbi morbosi dell’organismo che implicano disordini intellettuali, le anomalie, i mostri nell’ordine patologico, sono per noi esperienze preparate dalla natura, tanto più preziose in quanto qui la sperimentazione è più rara” (Th. Ribot, PANC, 42-43). 20 P. Janet, AP [Paris 18932], 5. Anche secondo Nietzsche e Freud le scissioni latenti nella personalità sana si rivelano in forma più macroscopica in quella malata. Cfr. F. Nietzsche, NF, 8, 14 [65]: “Il valore di tutti gli stati morbosi sta nel mostrare attraverso la lente di ingrandimento certi stati che sono normali, ma che, come normali, non sono ben visibili. Salute e malattia non sono niente di essenzialmente diverso, come credevano i vecchi medici e come ancor oggi credono alcuni praticanti. Non se ne devono fare princìpi o entità distinti che si disputino l’organismo vivente facendone il proprio campo di battaglia. Queste sono vecchie chiacchiere e dicerie che non servono più a nulla. In realtà, tra queste due forme di esistenza ci sono differenze di grado: l’esagerazione, la sproporzione, la disarmonia dei fenomeni normali costituiscono lo stato di malattia”; S. Freud, NFV, 171-172: “D’altro canto siamo avvezzi all’idea che la patologia possa rendere evidenti, ingigantendole e rendendole più vistose, condizioni normali che altrimenti ci sarebbero sfuggite. Dove essa ci mostra una frattura o uno strappo, normalmente può esistere un’articolazione. Se gettiamo per terra un cristallo, questo si frantuma, ma non in modo arbitrario; si spacca secondo le sue linee di sfaldatura in pezzi i cui contorni, benché invisibili, erano tuttavia determinati in precedenza dalla struttura del cristallo. Strutture simili, piene di strappi e di fenditure, sono anche i malati di mente”.
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21 Su questo tema, cfr., per ora, J. Carroy, Les personnalités doubles et multiples. Entre science et fiction, cit.; I. Hacking, Rewriting the Soul: Multiple Personality and the Science of Memory, Princeton 1995; trad. it. La riscoperta dell’anima. Personalità multipla e scienze della memoria, Milano 1996. Secondo H. Ellenberger (The Discovery of the Unconscious. The History and Evolution of Dynamic Psychiatry, cit., vol. I, p. 148), il primo caso moderno di personalità multipla sarebbe stato osservato nel 1791. Bisogna distinguere la scissione della personalità nella forma del doppio (su cui cfr. AA. VV., Il sosia perturbante: note sul “Doppio” di Otto Rank, a cura di E. Funari, Milano 1994 e M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, Scandicci [Firenze] 1998) dalle personalità multiple, su cui cfr. E. Hilgard, Divided Consciousness, New York 1977; A. Crabtree, Multiple Man. Explorations in Possession and Multiple Personalities, New York 1985; H.S. Decker, The Lure of Non-Materialism in Materialist Europe: Investigating Dissociation Phenomena 1880-1915, in Split Minds/Spit Brains, a cura di J.M. Quen, cit.; G. Miti, Personalità multiple, Roma 1993. Sul problema delle personalità multiple, cfr. supra, pp. 71 sgg., 81 sgg., 263-264. Occorre, inoltre, separare tra la tematica della pluralità degli io, originata dalla psicopatologia di fine Ottocento (su cui rinvio a R. Bodei, The Broken Mirror, cit.) e quella del multiple self, più collegata nella letteratura recente alla tematica sartriana della “malafede”, quale appare soprattutto nell’Essere e il nulla. Si vedano, a questo proposito, i saggi raccolti da J. Elster con il titolo, appunto, di The Multiple Self. Modernization and Consciousness, cit. (in particolare gli articoli di D. Pears, Obiettivi e strategie dell’autoinganno, di D. Davidson, Inganno e divisione, dello stesso J. Elster, Inganno e autoinganno in Stendhal: alcuni temi sartriani e di A. Oksenberg Rorty, Autoinganno, akrasia e irrazionalità). In questa prospettiva (sebbene resti fuori dal nostro tema) interessante è la discussione che si svolge tra gli economisti e i teorici della rational choice di considerare le decisioni non sulla base di un set rigido di preferenze tese alla massimizzazione dell’utilità attesa da parte di un agente monolitico, ma lungo l’asse temporale in relazione alle variazioni dell’io, che può magari condizionarsi in anticipo secondo il modello dello stesso Elster della bounded rationality, comportandosi cioè come Odisseo che si fa legare all’albero della nave per udire il canto delle Sirene senza poter però lasciarsi effettivamente sedurre da loro. Nelle decisioni di ogni giorno ciascuno agisce nel presente come se il suo io fosse diviso: “La gente si comporta come se avesse due ‘sé’, uno che vuole polmoni puliti e vita lunga e l’altro che adora il tabacco, o uno che vuole il corpo snello e l’altro che vuole il dessert, o uno che desidera migliorarsi leggendo ciò che Adam Smith ha scritto sul dominio di sé (nella Teoria dei sentimenti morali) e l’altro che vorrebbe piuttosto guardare la televisione” (T.C. Schelling, The Intimate Contest for Self Command, in Choice and Consequence. Perspectives of an Errant Economist, Cambridge, Mass. 1984, p. 58). In relazione a questi ultimi due decenni andrebbero presi in esame i lavori di P. e B. Berger, The Homeless Mind, Harmondsworth 1973, pp. 32 sgg. e 165 sgg. sul concetto di modular me (attraverso i suoi referenti all’indietro rappresentati dalla teoria dei “sub-universi” di realtà di William James – cfr. pp. 645-650 – e dei “mondi vitali” di Alfred Schütz, come appare nei vari articoli dei Collected Papers, The Hague 1971-1973), nonché il dibattito che ha coinvolto il B. Williams di Problems of the Self (Cambridge 1973; trad. it. Problemi dell’io, Milano 1990), il Th. Nagel di Mortal Questions (Cambridge 1979) e il D. Parfit del saggio Personal Identity, in “Philosophical Review”, LXXX (1971), n. 1, trad. it. Identità personale, in “Iride”, n. 2 (gennaio-giugno 1989), pp. 151-169. Anche su questi punti, cfr. più avanti, nota 22. Sulle premesse letterarie della tematica del “doppio”, cfr. cfr. M. Myoshi, The Divided Self: a Perspective on the Literature of the Victorians, London 1969; C. F. Keppler, The Literature of the Second Self, Tucson 1972; J. Hawthorn, Multiple Personality and the Disintegration of Literary Character. From Oliver Goldsmith to Sylvia Plath, New York 1983; K. Miller, Doubles: Studies in Literary History, Oxford-New York 1985. 22 Cfr. P. Janet, AP, passim. Sullo sdoppiamento della personalità indotto dall’ipnosi cfr. E. Morselli, Magnetismo animale, la fascinazione e gli stati ipnotici, Torino 1886; Dr. E. Azam, Hypnotisme, double conscience et altération de la personnalité, Paris 1887 (che descrive un caso divenuto famoso, quello di Félida); Id., Hypnotisme et double conscience, Paris 1893; Th. Flournoy, Des Indes au Planet Mars, Paris 1900; trad. it. Dalle Indie al pianeta Marte, Milano 1985. L’uso dell’ipnotismo divise quanti come Theodor Meynert, uno dei maestri di Freud, temevano che l’ipnosi degradasse gli uomini ad automi privi di ragione e di volontà e quanti invece, come Bernheim e Freud stesso, ne difendevano l’uso terapeutico, negando che gli individui, anche nella fase del sonno indotto, perdessero completamente le loro facoltà. Il termine “ipnotismo” è relativamente recente: venne introdotto da James Braid, cfr. Neuhypnology, or the Rationale of Nervous Sleep Considered in Relation with Animal Magnetism,
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London 1843. Per la storia e l’interpretazione di questi temi, cfr. D. Barrucand, Histoire de l’hypnose en France, Paris 1967; E. Trillart, Histoire de l’hystérie, Paris 1986 e H. Beauchesne, Histoire de la psychopathologie, Paris 1986; J. Carroy, Hypnose, suggestion et psychologie, Paris 1991 e N. Edelman, Voyantes, guérissantes et visionnaires en France, 1785-1914, Paris 1995. In particolare, sulla diffusione dell’ipnotismo nella cultura italiana in campo psichiatrico, cfr. P. Guarnieri, La psiche in “trance”. Indagini sull’ipnotismo, in “Rivista sperimentale di freniatria”, CXIV (1990), pp. 370-385. Sul fenomeno della doppia personalità si era soffermato anche Hoffmann, cfr. E.T.A. Hoffmann, Die Elixiere des Teufels [1815-1816]; trad. it. Gli elisir del diavolo, in Romanzi e racconti, a cura di C. Pinelli, 3 voll., Torino 1969, vol. I, pp. 446-447: “Per un gioco crudele di un caso capriccioso, il mio ‘io’, confuso con una personalità estranea, vagava alla deriva in balia degli eventi imperversanti su di me come marosi infuriati […]. Ero colui che sembravo, e non sembravo colui che ero. In quella duplice personalità non riuscivo a comprendere, a ritrovare me stesso”. E ancora: “È curioso: i pazzi sembrano essere in più stretto contatto con lo Spirito; sono più recettivi, quantunque inconsciamente, dei pensieri e degli stati d’animo altrui; vedono le cose nascoste in noi e le riecheggiano, le ripetono in modo singolarissimo, dandoci la sconcertante sensazione di udire la voce paurosa di ‘una nostra seconda personalità’” (ivi, p. 453). In vario modo Hoffmann allude anche alla divisione dell’io in più parti, dotate di una propria coscienza. 23 Cfr. J. Maître, Une inconnue célèbre. Madeleine Lebouc / Pauline Lair Lamotte (1863-1918), cit. 24 F. Paulhan, Les variations de la personnalité à l’état normal, in “Revue philosophique de la France et de l’Étranger”, VII (1882), t. XIII, p. 646. Paulhan paragona l’io a un organetto di Barberia, che può suonare diverse arie, ciascuna dotata della sua unità, ma in cui la somma delle arie non produce un’unità (cfr. ivi, p. 649). In termini generali, bisognerebbe comunque distinguere l’identità numerica (idem numero) dall’identità qualitativa, nel senso che il fanciullo e la ghianda sono qualitativamente diversi dall’adulto o dalla quercia che ne risultano, ma numericamente sono gli stessi. 25 G. Le Bon, Aph., 3. Per l’espressione subpersonalities, cfr. J. Rowan, Subpersonalities. The People inside Us, London-New York 1990 (l’autore, che ha cominciato la sua carriera studiando Spinoza e Hegel, sottolinea l’interdipendenza “dialettica” tra l’uno e i molti, tra quello che ribotianamente si potrebbe chiamare l’io egemone e le personalità multiple che emergono dalle sue dimissioni). 26 Th. Ribot, MdP, 140. Canguilhelm ha osservato come in Ribot la malattia mentale disorganizzi, ma non trasformi: “Elle révèle sans altérer” (cfr. G. Canguilhelm, Le normal et le pathologique, Paris 1966, pp. 70-71). Non potendo andare avanti, si va indietro, ma non si resta mai fermi. Ribot segue qui il modello di Jackson, secondo cui la dissoluzione costituisce il destino e il processo inverso e complementare dell’evoluzione, cfr. J. Delay, Le jacksonism et l’œuvre de Ribot, in Id., Études de psychologie médicale, Paris 1953, pp. 83-100 (su Jackson, cfr. anche H. Ey-J. Rouart, Essai d’application des principes de Jackson à une conception dynamique de la neuro-psychiatrie, Paris 1938 e P. Bercherie, Genèse des concepts freudiens. Fondements de la clinique II, cit., pp. 187-191). 27 Cfr. F.-L. Bertrand, Alfred Binet et son œuvre. Avec une bibliographie complète, cit., p. 226. 28 Cfr. J. Henle, Allgemeine Anatomie, Leipzig 1841, p. 728. Nel linguaggio filosofico, il termine si ritrova già in Hamilton; in seguito, in campo psicologico, è utilizzato in particolare da Griesinger e Mausdley. Informazioni dettagliate sulla storia del problema nella tesi di A. Bertrand, L’apperception du corps humain par la conscience, Thèse de l’Université de Paris, 1880-1881. Sulla cenestesia, cfr. alcuni accenni importanti in J. Starobinski, Breve storia della coscienza del corpo, in “Intersezioni”, I (1981), n. 1, pp. 27-43; Id., La cénesthésie – Les sensations corporelles: théorie et poésie, Genève 2000. 29 A. Schiff, La cénesthésie [in Dizionario delle scienze mediche, Milano 1871], poi in Recueil des mémoires physiologiques, Lausanne 1894, vol. I, pp. 476, 479-480. Appoggiando l’articolo di Taine, Note sur les éléments et la formation du moi, cit., A. Herzen figlio individua la continuità e l’identità dell’io nella cenestesia e, soprattutto, nella memoria (cfr. De la continuité et de l’identité de la conscience du moi, in “Revue philosophique de la France et de l’Étranger”, I [1876], t. II, p. 381). Sulla cenestesia, come sentimento del corpo, “insieme di tutte le sensazioni” (interne ed esterne) che dona consistenza all’io, cfr. M. Schiff, Recueil des mémoires physiologiques, cit., vol. I, pp. 469-481 (su cui si veda J. Starobinski, Le concept de cénesthésie et les idées neuropsychologiques de Moritz Schiff, in “Gesnerus”, XXXIV
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[1977], pp. 2-20). Per le analogie tra la cenestesia e il sartriano cogito pré-réflexif, cfr. supra, p. 284. 30 M. Gauchet, L’inconscient cérébral, Paris 1992; trad. it. L’inconscio cerebrale, Genova 1994, p. 26. Questa scoperta viene così raccontata: “Fin dal 1840, Thomas Laycock, allora giovane medico di 28 anni, parla nel suo Treatise of the Nervous Deseases of Women del cervello come ‘soggetto alle leggi dell’azione riflessa’ [Th. Laycock, Treatise of the Nervous Deseases of Women…, London 1840, p. 107]. Ritorna sull’argomento in un articolo del 1845 intitolato On the reflex function of the brain, che ha come polo di interesse di consegnarci l’inferenza anatomica da cui fa dipartire, concretandola, la sua constatazione: ‘Quattro anni sono passati – scrive – da quando ho pubblicato la mia idea […] che il cervello, anche se organo della coscienza, era sottomesso alle leggi dell’azione riflessa, e che, da questo punto di vista, non differiva dagli altri centri del sistema nervoso. Sono stato condotto a questa idea dal principio generale che i centri all’interno del cranio, costituendo un prolungamento del midollo spinale, devono di norma essere regolati dalla loro reazione a fattori esterni da leggi identiche a quelle che presiedono ai centri spinali’ [On the Reflex Function of the Brain, in “British and Foreigners Medical Review”, XIX (1845), pp. 298-299]” (ivi, p. 38). Per Laycock, aggiunge ancora Gauchet, “la coscienza è un accompagnamento, un di più. Essa non è una fonte” (ivi, p. 52). Da Laycock e dai successivi sviluppi di questa teoria in ambito tedesco (Helmholtz, Du Bois-Reymond e Carl Ludwig) discende l’opera di Ivan Michailovič Sečenov, Refleksy golovnogo mozga [I riflessi encefalici], del 1866, che provocò un grande dibattito in Russia e l’interesse, in parte polemico, di Dostoevskij. Sečenov, combattendo i fantasmi dell’interiorità e appoggiandosi all’idea di riflesso, cerca di spiegare i processi psichici su basi fisiologiche, “prendendo atto del fatto che l’identità personale, la mente, la coscienza non sono proprietà a sé stanti, bensì manifestazioni apparenti di atti riflessi, risposte a forze che ci fanno agire. La soggettività ha dunque la sua base nell’oggettività delle azioni riflesse: anche se ‘prendere coscienza’ è un atto riflesso” (S. Tagliagambe, Il sogno di Dostoevskij. Come la mente emerge dal cervello, Milano 2002, p. 15 e cfr. pp. 23-30). Dostoevskij accetta l’idea che la dimensione psichica non coincida con la consapevolezza, sa che gli uomini cambiano a partire dal “sottosuolo” dell’anima, sconosciuto al soggetto, e che la coscienza viene colta di sorpresa dalle modificazioni, dalle svolte radicali e dalle resurrezioni avvenute senza il suo concorso. Non esiste una “generazione automatica dell’io” e la psicologia non dipende dai riflessi encefalici, anche se non viene negato il suo rapporto con il corpo e il cervello. La sfida di Dostoevskij è “incentrata sul tema del cambiamento, della rinascita, della capacità che gli esseri umani mostrano di trovare, anche nelle situazioni più disperate e a prima vista prive di sbocchi – quella di vuoto, di senso di colpa, di difficoltà a rintracciare sia un senso della propria esistenza, sia un qualsiasi punto di contatto con gli altri – una via d’uscita che li riappacifichi con la vita, intesa come armonia con se stessi e col mondo” (ivi, p. 37). 31 Cfr. Th. Ribot, MdP, 159 (dove si afferma che “l’individualità psichica non è che l’espressione soggettiva dell’organismo”) e MdP, 20 n. (dove sono citate le proposizioni 13 e 15 del II libro dell’Ethica; trad. it., pp. 131, 149). In questi passi il filosofo olandese sostiene appunto che “l’oggetto dell’idea che costituisce la mente umana è il corpo […] e nient’altro” e che “l’idea che costituisce l’essere formale della mente umana non è semplice, ma composta da moltissime idee” (cfr. anche il rinvio allo scolio della proposizione 17 e Th. Ribot, PALC, XI). Da osservare, per inciso, che Ribot rende il termine spinoziano mens con âme. L’individualità psichica non è che l’espressione dell’organismo: “infimo, semplice, incoerente o complesso e unificato” (MdP, 3). Nella Psychologie anglaise contemporaine Ribot cita con approvazione il giudizio che Heine dà di Spinoza in De l’Allemagne: “La lettura di Spinoza ci prende come l’aspetto della natura nella sua calma vivente: è una foresta di pensieri alti come il cielo, le cui cime fiorite si agitano in movimenti ondulatorii, mentre i loro tronchi irremovibili affondano le radici nella terra eterna: si sente nei suoi scritti aleggiare un soffio che ci commuove in maniera indefinita: si crede di respirare l’aria dell’avvenire” (PANC, 20). È dunque vero – come sottolinea M. Meletti Bertolini, Bergson e la psicologia, cit., pp. 72, 87 – che Ribot insiste sui condizionamenti organici della coscienza e della personalità e sulla peculiare dinamica temporale che le caratterizza, ma i suoi sforzi per presentare la vita spirituale come “tappezzeria” della “trama organica” sono temperati da questi assunti spinoziani. 32 MdP, 21. Ribot insiste sul fatto che l’individuazione appartiene al mondo dei fenomeni e ricorda Byron (Are not the mountains, waves and skies a part / Of me and my soul, as I of them?) e il Veda (Hæ omnes creaturæ in totum ego sum, et præter me aliud ens non est). La metafora organismo/società è
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sviluppata anche in PANC, 182, quando si paragona la struttura nervosa e l’asse cerebro-spinale degli animali superiori al parlamento, ai ministri, agli sceriffi e ai giudici inglesi, tutti “animati da uno stesso pensiero e obbedienti a un impulso comune”. 33 MdP, 90-91. D’altro lato, è frequente la constatazione che anche i malati mentali meno colti e più semplici possono somigliare a dei filosofi professionisti nel loro discettare sull’io e la sua perdita, cfr. P. Janet, EPP, 53 sgg. 34 Per la posizione di Goethe, cfr. R. Bodei, Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, cit., pp. 138 sgg. 35 Cfr. MdM, 164-165: “Abbiamo dimostrato che la distruzione della memoria segue una legge […]. È una regressione dal più nuovo al più antico, dal complesso al semplice, dal volontario all’automatico, dal meglio organizzato al meno organizzato. L’esattezza di questa legge di regressione è verificata dai casi assai rari in cui la dissoluzione progressiva della memoria è seguita da una guarigione: i ricordi ritornano in ordine inverso alla loro perdita”. Louis Dugas obietterà a Ribot che a essere colpiti non sono tanto i contenuti della memoria, ma la forma della loro organizzazione, l’architettura che li distribuisce, cfr. L. Dugas, La mémoire brute et la mémoire organisée, in “Revue philosophique de la France et de l’Étranger”, XIX (1894), t. XXXVIII, pp. 461 sgg.; Id., La mémoire et l’oubli, Paris 1917. Per gli ulteriori sviluppi di questo tema, cfr. F. Dal Sasso-A. Pigatto, L’anziano e la sua memoria, Torino 2001. In Ribot la memoria e il tempo si possono decomporre in tante memorie e tempi (cfr. MdM, 107: La mémoire se resout en des mémoires, tout comme la vie d’un organisme se resout dans la vie des organs, des tissus, des éléments anatomiques qui le composent). 36 H. Mausdley, Psychology and Pathology of the Mind, London 1867, p. 182. 37 Cfr. H. Mayo, Appendix to the Report on Mesmerism, in “Proceedings of the Society for Psychical Research”, I (1882), p. 288; P. Janet, AP, 67 sgg. e passim. 38 G. Gilles de la Tourette, L’hypnotisme et les états analogues du point de vue médico-legal, Paris 1887, p. 220. Più in generale si veda A. Gauld, The History of Hypnotism, Cambridge 1993. Sulle alterazioni della personalità in relazione all’ipnosi, cfr. Dr. E. Azam, Hypnotisme et double conscience, cit. (e cfr. supra, nota 22) Sulla formazione e la funzione dello psichiatra nella società francese del tempo, cfr. J. Goldstein, Console and Classify. The French Psychiatric Profession in the Nineteenth Century, Cambridge 1987. 39 Cfr. il passo di P. Bourget, Essais de psychologie contemporaine, Paris 1883, p. 25, che contiene la famosa definizione di “decadenza”: “Uno stile di decadenza è quello in cui l’unità del libro si decompone per lasciare posto all’indipendenza della pagina, in cui la pagina si decompone per lasciare posto all’indipendenza della frase, la frase a sua volta all’indipendenza della parola”. Su Bourget, cfr. M. Crouzet, La mode, le moderne, le contemporain chez Paul Bourget: une lecture des “Essais de psychologie contemporaine”, in “Saggi e ricerche di letteratura francese”, XXVI (1987), pp. 29-63; M. Di Maio, Individuo come stile: su Paul Bourget, in Figure dell’individualità in Francia tra Otto e Novecento, cit., pp. 175-187. 40 Cfr. Cfr. F.W.H. Myers, Automatic Writing, in “Proceedings of the Society for Psychical Research”, III (1887), p. 235. 41 Cfr. PANC, 158-159: “Se anche l’esprit è ridotto a una collezione di stati di coscienza senza sostanza alcuna, non si trova più niente di solido dove ci si possa afferrare, né in noi, né fuori di noi […]. Voi riducete l’io a una serie di stati di coscienza, ma c’è bisogno di qualcosa che leghi tra loro questi stati. Se avete una collana di perle e se togliete il filo, che cosa resta? Delle perle sparse e non una collana”. È però anche vero che Mill è, alla fine, costretto a fare ricorso alla memoria, seppure come ancorata alla continuità dell’organismo: “Il nostro autore sembra ammettere che il legame, l’‘unione organica’, che esiste tra la coscienza presente e la coscienza passata, costituendo la memoria, costituisce anche l’‘io’ ”. Del resto, per Ribot, la memoria è essenzialmente un fatto biologico e “accidentalmente” un fatto psicologico. 42 G. Tarantino, Saggi filosofici, cit., p. 319.
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43 EP, 186. Cfr. EP, 6: “Si tratta della reazione improvvisa, brusca, dei nostri istinti egoisti (paura, collera, gioia) o altruisti (pietà, tenerezza, ecc.) costituita soprattutto di movimenti o arresti di movimenti”. Si veda anche ivi, p. 187: “Più complessa, più tarda e, di conseguenza più elevata, nella vita dello spirito è la passione. Essa si oppone all’emozione come ciò che è stabile all’instabile; malgrado la sua permanenza, essa subisce variazioni secondarie che l’emozione non conosce”. Tra le due scuole (quella “intellettualista” di Herbart, che considera i sentimenti “intelligenza confusa”, e quella “fisiologica” di Bain, Spencer o James, che li ritiene invece “primitivi, autonomi, irriducibili all’intelligenza, in quanto possono esistere al di fuori di essa e senza di essa”), Ribot si schiera decisamente per la seconda, cfr. PS, VI-VII. 44 Cfr. J.-P. Sartre, IPPI, 193: “L’atto d’immaginazione […] è un atto magico. È un incantesimo destinato a far apparire l’oggetto pensato, la cosa desiderata, in modo che se ne possa prender possesso. In tale atto, c’è sempre qualcosa di imperioso e di infantile, un rifiuto di tener conto della distanza, delle difficoltà. Così il bimbo, dal suo letto, agisce sul mondo per mezzo di ordini e di preghiere. A questi ordini della coscienza gli oggetti obbediscono: appaiono”. Pur nel contesto di riferimenti polemici, non andrebbe trascurato, a favore di Husserl, l’apporto della psicologia di Ribot e Binet nella formazione delle teorie sartriane, cfr., in particolare, IM, passim. 45 P. Janet, AE, II, 156 sgg. e Lucrezio, De rerum natura, IV, 1134. Cfr. inoltre P. Janet, AE, II, 446 ed E. Minkowski, La notion de la perte de contact avec la réalité, Thèse Université de Paris, 1926. Nelle psicoastenie si incrina la fonction du réel e si è, appunto, tormentati da un “sentimento di irrealtà”. Tale funzione, rinvenuta da Janet in Moreau de Tours e in correlazione con l’indebolimento del libero arbitrio, consiste nella capacità di fissare e coordinare le idee salvaguardandone la complessità (cfr. anche N. Lalli, Introduzione a P. Janet, La passione sonnambulica e altri scritti, Napoli 1996, p. 5). Essa è definita come l’insieme “delle operazioni psicologiche che permettono all’uomo di entrare in rapporto con la realtà, di agire su di essa e di cogliere la sua esistenza con certezza. La funzione del reale, con le operazioni della volontà, il sentimento del reale, il sentimento del presente, occupa il primo posto nella gerarchia dei fenomeni psicologici e il suo studio è importante tanto per la metafisica che per la psicologia” (P. Janet, Les obsessions et la psychasthénie I, Paris 19082, p. XI e cfr., per un quadro dei sintomi che colpiscono la volontà, l’intelligenza e le emozioni, pp. 440-441). Lo stato diametralmente opposto, la perdita della funzione del reale o il sentimento della sua assenza, è quello della disgregazione mentale, che si manifesta con l’estraneità nei confronti del mondo e del presente e con la formazione di personalità successive o simultanee nel medesimo individuo, che gli s’impongono togliendogli la libertà. 46 Cfr. Th. Ribot, PS, 444 e B. Spinoza, E, III, prop. IX, schol. 47 Cfr. P. Valéry, Mauvaises pensées et autres, in Œ, 864: “Si dice che il pollice opponibile è ciò che differenzia più nettamente l’uomo dalla scimmia. Bisogna aggiungere a questa proprietà quell’altra che abbiamo, di dividerci contro noi stessi, la nostra facoltà di produrre l’antagonismo stesso. Noi abbiamo l’anima opponibile […]”. 48 Cfr. P. Janet, EPP, 271 sgg., 279 sgg. William James aveva legato la tematica delle personalità multiple al loro riconoscimento da parte dell’io attuale, nel senso che i vari io che sono in noi, al pari dei ricordi più recenti, appaiono contraddistinti da un “marchio”. Li identifichiamo come nostri solo se conservano il “calore” che vi abbiamo lasciato in precedenza. Questa teoria viene incisivamente espressa da James mediante l’accorpamento di due immagini. La prima, molto ‘americana’ e addirittura western, dipinge una scena all’aria aperta; la seconda rinvia invece al raccoglimento di una pratica religiosa: “Dal gregge lasciato libero durante l’inverno in qualche larga prateria, quando viene primavera il proprietario sceglie e assortisce quegli animali in cui trova impresso il proprio marchio. Il marchio del gregge è, per le diverse parti del pensiero, quel certo calore animale cui abbiamo accennato. Questo calore le pervade tutte, come il filo corre attraverso il rosario, e ne fa un tutto, che trattiamo come un’unità, per quanto queste parti possano differire grandemente tra loro. Si aggiunge a questo carattere l’altro, che i diversi Io ci appaiono come se fossero stati per lunghi tratti di tempo continui fra loro, e i più recenti di essi continui col nostro Io del momento presente” (W. James, PP, 243). Quali esempi della diffusione di questa tematica in Germania, si vedano le analisi di Max Dessoir, Das Doppel-Ich, Leipzig 18962 e quelle di Karl Jaspers, relative sia al professore di chimica Staudenmaier (autore di Die Magie als experimentelle
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Wissenschaft, Leipzig 1912) e alle sue varie “personificazioni”, sia a un altro paziente che dice di sé: “Fino al 23 dicembre 1901 non potevo identificarmi nel mio io attuale. L’io di allora mi appare come un piccolo nano che sta dentro di me” (K. Jaspers, Allgemeine Psychopathologie, Berlin 1913; trad. it. Psicopatologia generale, Roma 1964, pp. 139-141, 136). 49 Sulla tradizione medica e psichiatrica di Boston e del New England, cfr. G.T. Parker, Mind Cure in New England, Hanover, N.H. 1972 e, più in generale, B. Sichelman, The Quest for Mental Health in America 1870-1917, New York 1980. Per alcuni sviluppi, cfr. F. Kleiner, Das Problem der Persönlichkeit in der amerikanischen Psychologie, München 1961. Sulla filosofia e la psicologia all’università di Harvard e a Boston in genere, cfr. B. Kuklick, The Rise of American Philosophy: Cambridge, Mass. 1860-1930, New Haven-London 1977 e, sul retroterra sociale e la formazione di queste élite, cfr. R. Story, The Forging of an Aristocracy, Harvard and Boston Upper Class 1800-1870, Middletown 1980. 50 Cfr. W.S. Taylor-M. Martin, Multiple Personality, in “Journal of Abnormal and Social Psychology”, XXXIX (1944), p. 297. 51 Nato nel 1854, dopo aver studiato medicina alla Boston University e a Harvard ed essersi graduato nel 1879, si reca per un anno a Parigi, Strasburgo e Vienna. In quest’occasione conduce la madre – sofferente di disturbi nervosi – alla Salpêtrière da Charcot. Alla sua formazione precedente in campo medico, fisiologico e psicologico (con Henry Mausdley, William Carpenter, Alexander Bain, Herbert Spencer) si aggiunge così la lezione della cultura europea continentale. Attorno al 1890, partecipa a riunioni informali, dove discute – con uno scelto gruppo di amici e di colleghi – temi di psicologia e di psicoterapia. Vi sono dei nomi illustri: i filosofi William James e Josiah Royce, lo psicologo di origine tedesca Hugo Münsterberg, trapiantato a Harvard dal 1892, il più noto neurologo di Harvard, James Jackson Putnam, e lo psichiatra Boris Sidis. Nel 1893 Prince è di nuovo in Europa, dove visita Hyppolite Bernheim e accetta le posizioni della Scuola di Nancy sull’ipnotismo. Divenuto professore di malattie del sistema nervoso a Boston e successivamente di neurologia al Tuft College Medical Center, fonda nel 1906 il “Journal of Abnormal Psychology”. Dal 1898 alla morte, avvenuta nel 1929, Prince studia il problema delle personalità multiple, appoggiandosi molto (almeno sino al 1927) alle teorie francesi della personalità come un complesso di elementi in precedenza separati. Su M. Prince, cfr. D.M. Casey, La théorie du subconscient de Morton Prince, Paris 1945; O. Max, Morton Prince and the Dissociation of Personality, in “Journal of the Behavioral Sciences”, VI (April 1970), pp. 120-130; N. G. Hale Jr., Introduction a M. Prince, Psychotherapy and Multiple Personality: Selected Essays, a cura e con introduzione di N.G. Hale Jr., Cambridge, Mass. 1975. Per gli interventi di James e di Royce in questo dibattito, cfr. l’appendice alla relazione di M. Prince, Some of the Relevations of Hypnotism [1890], in M. Prince, Psychotherapy and Multiple Personality, cit., pp. 37-55 (dibattito, pp. 55-60). 52 M. Prince, DP. Il caso era stato sinteticamente presentato a Parigi nel 1900, in occasione del Congrès International de Psychologie, con il titolo The Problem of the Multiple Personality, e pubblicato nei “Proceedings of the Society for Psychical Research”, XV (1900-1901), pp. 466-483 (ora ristampato, con il titolo The Development and Genealogy of the Miss Beauchamp. A Preliminary Report of a Case of Multiple Personality, in Psychotherapy and the Multiple Personality: Selected Essays, cit., pp. 139-157). A questioni analoghe sono dedicati i sette volumi di AA. VV., Studies in Abnormal Psychology, a cura di M. Prince, con la collaborazione di J.E. Donley e E. Jones, Boston 1910-1917 e la lezione tenuta da Morton Prince il 17 dicembre del 1924 alla Clark University: The Problem of Personality. How Many Selves have We? Su un altro caso da lui trattato, quello indicato con le sigle B.C.A., cfr. B.C.A, My Life as a Dissociated Personality, Introduzione di M. Prince, Boston 1909 e H.C. Kaufman, Redefining the Woman: An Analysis of Morton Prince, the Theory of Dissociation and the Significance of the B.C.A. Case, s.l. 1992. Un altro Prince ha trattato un argomento analogo: W.F. Prince, The Doris Case of Multiple Personality: A Biography of Five Personalities in Connection with One Body and a Daily Record of a Therapeutic Process Ending in the Restoration of the Primary Member to Integrity and Continuity of Consciousness, 3 voll., New York 1915-1917. 53 DP, 17. Viene citato spesso Janet, per il caso di Madame B. (cfr. DP, 4, 6, 69-70, 121, 146 n., 232), e meno frequentemente il Binet di Les altérations de la personnalité, tradotto in inglese nel 1896. Janet, a sua volta, aveva reso omaggio a Prince con il saggio Memories which are too Real: the Problem of Personality, apparso negli Studies in Honour of Morton Prince, London 1925.
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54 L’opera è dedicata a William James, che aveva attirato l’attenzione dell’autore su questi fenomeni. 55 Cfr. MP, 8 sgg.; 58 sgg. (sulla personalità plurale); 356-363 (sulla personalità dissociata); 364-386 (sulle personalità secondarie); 387-434 (sulle personalità multiple).
4. Il baricentro di Nietzsche 1 Nietzsche afferma di essersi dedicato, dopo il suo periodo di filologo a Basilea (dove, per inciso, era collega del paleontologo neolamarckiano L. Rütimer), a studi di “fisiologia, medicina e scienze naturali”, cfr. EH, 323 = 334. Una grande importanza per la definizione della sua filosofia ha avuto un allievo di Virchow e di Haeckel, Wilhelm Roux, con il suo libro Der Kampf der Theile im Organismus. Ein Beitrag zur Vervollständigung der mechanischen Zwecksmässigkeitslehre, uscito a Lipsia nel febbraio del 1881 (su cui si veda S.J. Gould, Ontogeny and Philogeny, Cambridge, Mass. 1977, pp. 194-202). La presenza di Roux è già riscontrabile a partire dai frammenti della primavera-autunno del 1881 (cfr. W. MüllerLauter, Der Organismus als innere Kampf. Der Einfluss von Wilhelm Roux auf Friedrich Nietzsche, in “Nietzsche Studien”, VII [1978], pp. 189-223). Si veda, ad esempio, questa annotazione della primavera-autunno del 1883: “Oggi si è riscoperta ovunque la lotta, e si parla di lotta delle cellule, dei tessuti, degli organi, degli organismi” (NF, 5, 11 [128]). Sul tema cfr. anche D. Henke, Nietzsches Darwinismuskritik aus der Sicht gegenwärtiger Evolutionsforschung, in “Nietzsche Studien”, XIII (1984), p. 199; più in generale cfr., sempre di W. Müller-Lauter, Nietzsche. Seine Philosophie der Gegensätze und die Gegensätze seiner Philosophie, Berlin-New York 1971. In questa prospettiva, previo rifiuto di qualsiasi forma di finalità nella natura, lo sviluppo degli organismi è visto come risultato di una lotta per l’assimilazione e la sopraffazione (così come accade per tutto ciò che è “buono” e “durevole”), come una “sovracompensazione rispetto al consumo”. Mediante tale conflitto, la disomogeneità delle cellule e degli organi consegue infine nell’organismo sano un proprio equilibrio autoregolantesi, che non deve però mai irrigidirsi, pena la degradazione e la morte del corpo. Le cellule e gli organi diventano, infatti, in rapporto al tutto, “semplici funzionari, che non hanno più alcun interesse per se stessi, ma si dedicano completamente al servizio, senza di esso non sanno più vivere e dopo il pensionamento si atrofizzano, come accade frequentemente ai vecchi funzionari” (cfr. W. Roux, Der Kampf der Theile im Organismus. Ein Beitrag zur Vervollständigung der mechanischen Zweckmässigkeitslehre, cit., pp. 64, 224-225). Tra le letture nietzscheane di questo periodo vi sono J.R. Meyer, Die organische Bewegung in ihrem Zusammenhang mit dem Stoffwechsel, del 1845, e M. Forster, Lehrbuch der Physiologie, del 1881. Su Nietzsche, la biologia e la medicina, anche in rapporto al concetto di salute, cfr. É. Blondel, Nietzsche, le corps et la culture, Paris 1986; Thomas A. Long, Nietzsche’s Philosophy of Medicine, in “Nietzsche Studien”, XIX (1990), pp. 112-128; A. Orsucci, Dalla biologia cellulare alle scienze dello spirito. Aspetti del dibattito sull’individualità nell’Ottocento tedesco, cit. e G. Moore, Nietzsche, Biology and Metaphor, Cambridge 2002. 2 Cfr. JGB, 63 = 53: “L’anima umana e i suoi confini, l’estensione in generale fino a oggi raggiunta dalle umane intime esperienze, le altitudini, le profondità e le distanze di queste esperienze, l’intera storia, sinora vissuta, dell’anima e le sue non ancora fino in fondo esaurite possibilità: tutto ciò è la predestinata zona di caccia per uno psicologo nato e un amico della ‘caccia grossa’”. E si veda C. Papparo, La passione senza nome. Materiali sul tema dell’anima in Nietzsche, Napoli 1997, pp. XXIIXXIII: “La ripresa dell’ipotesi dell’anima deve, per Nietzsche, rappresentare un vero rovesciamento del platonismo, che non può consistere in una mera inversione di valori, ma, al contrario, nel mostrare qual è il dispositivo all’opera tale da produrre l’inversione dell’esperienza, il passaggio dal visibile all’invisibile, dall’intreccio inestricabile della vita e della morte al registro dell’immortalità. E quindi il rovesciamento del platonismo non si risolve in un’apologia del corpo, rispetto al quale l’anima non sarebbe altro che una zavorra metafisica di cui bisognerebbe al più presto liberarsi; rovesciare il platonismo significa, al contrario, riannodare l’anima al corpo, far vedere, con e contro Platone, che, se al fondo dell’anima c’è il corpo, al fondo di quest’ultimo si trova ancora il corpo”. Sul peso che ha avuto la nietzscheana rivalutazione del corpo nella filosofia del Novecento, in particolare nella cultura francese contemporanea, cfr. J.-L. Nancy, Corpus, Paris 1992; trad. it. Corpus, Napoli 1995 e S. Berni, Per una filosofia del corpo. Heidegger e Foucault interpreti di Nietzsche, Siena 2000, in particolare pp. 37 sgg. 3 Cfr. GD, 66 = 67: “Se si sente la necessità di fare della ragione un tiranno, come fece Socrate, non
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deve essere piccolo il pericolo che qualche altra cosa si metta a tiranneggiare. A quel tempo si indovinò nella razionalità la salvatrice; né Socrate, né i suoi ‘malati’ erano liberi di essere razionali – era de rigueur, era il loro rimedio ultimo. Il fanatismo con cui tutto il pensiero greco si getta sulla razionalità tradisce una condizione penosa; si era in pericolo, non c’era scelta: o andare in rovina o… essere assurdamente razionali […]. Si deve essere saggi, perspicui, chiari a ogni costo; ogni cedimento agli istinti, all’inconscio, porta a fondo…”. 4 NF, 5, 6 [70]. Sulla conoscenza che Nietzsche aveva del libro di Espinas, Des sociétés animales, presente in traduzione tedesca nella sua biblioteca, cfr. già Ch. Andler, Nietzsche, sa vie sa pensée, Paris 1958, vol. II, p. 535. Sulla recezione di Taine da parte di Nietzsche, cfr. G. Campioni, Nietzsche, Taine und die décadence, in AA. VV., Nietzsche. Cent ans de réception française, Paris 1999, pp. 31-45. Su Nietzsche lettore di Ribot, in particolare di Les maladies de la volonté, le cui argomentazioni vengono talvolta riprodotte quasi alla lettera (ad esempio sull’annientamento della volontà nei mistici o nel buddhismo), cfr. H.E. Lampl, Flaire du livre. Friedrich Nietzsche und Théodule Ribot, in “Nietzsche Studien”, XVIII (1989), pp. 573-586 (che contiene, alle pp. 578-579, anche un prospetto della presenza di autori, francesi o no, di opere di fisiologia e psicopatologia); Id., Flaire du livre, Zürich 1988, in particolare pp. 42-44 (alcune parti di questo libro sono apparse nell’articolo prima citato). Si veda anche il recente libro di I. Haaz, Les conceptions du corps chez Ribot et Nietzsche, Paris 2002. La lettura delle opere di Ribot da parte di Nietzsche era già stata notata, di passaggio, da Ch. Andler, Nietzsche, sa vie sa pensée, cit., vol. II, pp. 533-534. Sul mutamento continuo a cui la pluralità è sottoposta, cfr. NF, 7, 34 [123]. Il ruolo degli autori francesi nella filosofia di Nietzsche, già sottolineato da Mazzino Montinari, è stato ulteriormente approfondito da Giuliano Campioni, che nel suo ultimo volume riporta in appendice l’elenco di tutti i libri francesi presenti nella biblioteca del filosofo, cfr. Nietzsche, Descartes et l’esprit français, in G. Campioni, Lectures françaises de Nietzsche, Paris 2001. 5 Cfr. Z, 35 = 34: “eine Vielheit mit einem Sinne, ein Krieg und ein Frieden, eine Heerde und ein Hirt”. In generale, l’uomo “è una pluralità di forze ordinata secondo gerarchia” (NF, 7, 34 [123]). Sulla struttura del Sé nel giovane Nietzsche, cfr. O.J. Most, Das Selbst des Menschen in der Sicht des jungen Nietzsche, in “Philosophisches Jahrbuch”, LXXIII (1965/1966), pp. 105-136. 6 JGB, 71 = 60 e cfr. JGB, 23-24 = 20: “Se scompongo il processo che si esprime nella proposizione ‘io penso’, ho come una serie di asserzioni temerarie, la giustificazione delle quali mi è difficile, forse impossibile – come per esempio che sia io a pensare, che debba esistere un qualcosa, in generale, che pensi, che pensare sia un’attività e l’effetto di un essere che è pensato come causa, che esista un ‘io’, infine, che sia già assodato che cos’è caratterizzabile in termini di pensiero – che io sappia che cos’è ‘pensare’”. Ciò che posso dedurre dal cogito non è l’ego. Posso solo affermare: cogito ergo cogitationes sunt. Per inciso, al pari di molti altri interpreti, anche Nietzsche confonde il cogitare con il “pensare” mentre – come risulta chiaro dalla seconda delle Meditazioni di Cartesio – non si tratta di puro pensiero, perché colui che cogita “è una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole e che non vuole, che immagina anche, e che sente” (M, 28 = 675). Sul senso del cogitare come co-agitare, si veda già Agostino, Conf., X, 11, 18. Sull’anima come sostanza, cfr. R. Descartes, Réponse aux troisièmes objections, in AT, IX, 136 = 779-780. Ma cfr. A. Kemmerling, Ideen des Ichs. Studien zu Descartes’ Philosophie, Frankfurt a. M. 1996 e K.S. Ong-Van-Kung, Descartes a-t-il identifié le sujet et la substance à l’ego?, in AA. VV., Descartes et la question du sujet, a cura di K.S. Ong-Van-Kung, Paris 1999, pp. 133165. 7 JGB, 24 = 21. Su Nietzsche critico di Cartesio si è giustamente osservato: “L’astratta indubitabilità di me, che assorbe la stessa forza del dubbio iperbolico che la vorrebbe mettere in questione, e la trasforma nella propria arma invincibile, si circonda di difese apparenti, trincerandosi in un’immediatezza che non ha luogo, se non nel vuoto di un’esperienza puramente verbale […] nessuno è mai se stesso come presenza a sé. Piuttosto ciascuno è sempre in cammino verso se stesso […]. L’io di ciascuno – doverosamente minuscolo, a questo punto – è così sempre in transito verso un sé che non è mai, anziché costituire un punto di certezza assoluta” (M. Ruggenini, La fede nell’io e la fede nella logica. La questione onto-logicogrammaticale dell’io nel pensiero di Nietzsche, in AA. VV., Il destino dell’io, a cura di G. Severino, Genova 1994, p. 114). Sulle implicazioni “grammaticali” del dire io, cfr. E. Holenstein, Menschliches Selbstverständnis. Ichbewußtsein. Intersubjektive Verantwortung. Interculturelle Verständigung, Frankfurt a.M. 1985, pp. 59-76.
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8 JGB, 71 = 60. Nell’“appercezione” kantiana (coscienza di sé, distinta dalla “percezione” in quanto rappresentazione cosciente) si spezza l’equazione cartesiana: l’“io penso” non coincide più con l’“io sono” e neppure conduce a esso. È, appunto, una “x” vuota di contenuto (un “io, egli, o esso [Es] (la cosa) che pensa”, cfr. KdrV, A 346 = B 404). Sull’“io penso” come ciò che “deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni” cfr. K. Cramer, Über Kants Satz: Ich denke, muß alle meine Vorstellungen begleiten können, in Theorie der Subjektivität, a cura di K. Cramer, H.F. Fulda, R.-P. Hortstmann e U. Pothast, Frankfurt a. M. 1986, pp. 167-202. Secondo J. Rogozinski, Der Aufruf des Fremden. Kant und die Frage nach dem Subjekt, in Die Frage nach dem Subjekt, a cura di M. Frank, G. Raulet e W. van Reijen, Frankfurt a. M. 1988, p. 203, ciò che manca a Cartesio è l’idea kantiana di “personalità” come coscienza dell’identità in tempi diversi. Considerare l’io come sostanza è un paralogismo, il primo esaminato da Kant: “Anima immortale, soggetto assoluto, identità della persona – tutte espressioni senza senso. Del ‘soggetto’ non rimane niente, se non, nel migliore dei casi, il suo significato logico o grammaticale. Ma della categoria ontologica di soggetto non è più possibile alcun uso critico o regolativo”. 9 Cfr. G.Ch. Lichtenberg, Aphorismen, a cura di A. Leitzmann, Berlin 1908, vol. V, p. 128. Per Mach cfr. supra, p. 255. Per Lacan, cfr. supra, pp. 256, 282. Analogie su questi pensieri che vengono da sé, senza essere chiamati, si possono riscontrare in Dostoevskij, cfr. S. Tagliagambe, Il sogno di Dostoevskij. Come la mente emerge dal cervello, cit., p. 228. 10 M, 250 = 203-204. In maniera analoga, si potrebbe dire che le opere di Taine, Espinas o Ribot hanno rappresentato per Nietzsche il suolo dal quale, come “giardiniere” ha fatto crescere le sue piante. Per altre immagini della figura del “giardiniere”, come colui che si prende cura di qualcuno o di qualcosa, cfr. F. Semerari, Il predone, il barbaro, il giardiniere. Il tema dell’Altro in Nietzsche, Bari 2000. 11 Cfr. EH, 292 = 302. Sulla funzione dell’inconscio e degli strati profondi della coscienza, cfr. C.R. Weismüller, Das Unbewußte und die Krankheit. Eine kritische kommentierte Darstellung der “Philosophie des Unbewußten” Eduard von Hartmanns in Hinblick auf den Krankheitsbegriff, Essen 1985; F. Gerratana, Der Wahn jenseits des Menschen. Zur frühen E. von Hartmann-Rezeption Nietzsches (18691874), in “Nietzsche Studien”, XVII (1988), pp. 391-433 e L. Cormann, Nietzsche psychologue des profondeurs, Paris 1982; M. Haar, La critique nietzschéenne de la subjectivité, in Genèse de la conscience moderne, a cura di R. Ellrodt, Paris 1983, pp. 334-360; M. Gauchet, L’inconscient cérébral, cit., pp. 112130. Pur non apprezzandone la personalità morale, di Eduard von Hartmann Nietzsche valuta positivamente la Filosofia dell’inconscio. Scrive, infatti, a Rohde l’11 novembre 1869: “Lo leggo molto, perché sa bene tante cose ed è capace di intonarsi a dovere all’antichissimo canto delle Norne sulla maledizione dell’esistenza” (KWB, II/1, 73 = 71). 12 Sulle implicazioni psicologiche del tema della pluralità delle “anime” in Nietzsche, cfr. H.M. Zöllner, Die Aspektvielfalt der seelischen Welt. Nietzsches Bedeutung für die Psychologie, Zürich 1972. 13 NF, 5, 11 [183]. La numerazione dell’edizione tedesca non corrisponde a quella italiana. 14 Cfr. J. Paumen, Trois rédemptions du moi. Pascal, Nietzsche, Proust, Bruxelles 1997, p. 111. Per valutare il pathos che il corpo suscita nella riflessione di Nietzsche, si veda NF, 7, 37 [4]: “Non si finisce mai di ammirare, considerando come il corpo umano sia divenuto possibile; come una tale enorme unione di esseri viventi, ciascun dipendente e sottomesso, e tuttavia in certo senso a sua volta imperante e agente con volontà propria, possa vivere, crescere e sussistere per qualche tempo come un tutto; e ciò avviene chiaramente non grazie alla coscienza!”. 15 NF, 8, 1 [58]: eine Vielheit von “Willen zur Macht” jeder mit einer Vielheit von Ausdrucksmitteln und Formen. Non esiste dunque la volontà di potenza: esistono tante volontà di potenza. Cfr. anche F. Moiso, La volontà di potenza di Friedrich Nietzsche. Una riconsiderazione, in “aut-aut”, n. 253 (1993), pp. 119-136. 16 Cfr. W. Roux, Der Kampf der Theile im Organismus. Ein Beitrag zur Vervollständigung der mechanischen Zweckmässigkeitslehre, cit., p. 1. 17 Cfr. NF, 7, 34 [123]: “L’uomo è una pluralità di forze che sono ordinate secondo una gerarchia, sicché ci sono elementi che comandano; ma anche chi comanda deve fornire a coloro che obbediscono
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tutto ciò che serve alla loro conservazione, ed è pertanto egli stesso condizionato dalla loro esistenza. Tutti questi esseri viventi devono essere di specie affine, altrimenti non potrebbero in tal modo servirsi e obbedirsi a vicenda; coloro che servono devono, in un certo senso, essere anche coloro che obbediscono, e in casi più sottili i diversi ruoli si scambiano provvisoriamente tra loro e colui che di solito comanda deve talvolta ubbidire. Il concetto ‘individuum’ è falso. Questi esseri non vivono affatto isolatamente […]”. 18 NF, 8, 9 [159] e cfr. NF, 8, 2 [104]: nel mondo greco aristocratico “si comandava e basta”. E cfr. anche PHG, 37 sgg. = 41 sgg.; GD, 63-64 = 64-66 (sulla “malvagità da rachitico” di Socrate e sulla dialettica come una forma di “vendetta”). Si veda, inoltre, FV, 259-260 = 224. Per alcuni di questi passi, cfr. A. Massolo, La storia della filosofia e il suo significato, in La storia della filosofia come problema, Firenze 1967, pp. 41 sgg. Il risentimento contiene anche il desiderio represso di essere riconosciuti dall’altro e, quindi, la confessione della propria inferiorità. In questo senso il risentimento è l’emozione provata da chi, volendo imitare un modello, non riesce a raggiungere la meta alla quale anche l’altro aspira, quella “risacca del desiderio” – come la chiama René Girard –, del “ritorno cioè su noi stessi del nostro desiderio di essere secondo l’altro” (S. Tomelleri, Introduzione a R. Girard, Il risentimento. Lo scacco del desiderio nell’uomo contemporaneo, Milano 1999 [raccolta di tre saggi: Pour un nouveau procès de l’étranger, Système du délire (Paris 1976) e Eating Disorders and Mimetic Desire, © R. Girard 1996], p. 16). Pur riconoscendo che Nietzsche ha avuto “il merito di staccare il desiderio da qualunque oggetto”, Girard gli rimprovera di averlo considerato al di fuori del quadro mimetico, del suo essere sempre desiderio di un desiderio altrui: “Di fronte al risentimento, Nietzsche pone un desiderio originale e spontaneo, un desiderio causa sui che lui chiama ‘volontà di potenza’. Ma se il desiderio non ha alcun oggetto che gli sia proprio, su che cosa potrà mai esercitarsi la volontà di potenza? A meno di non ridursi a degli esercizi di sollevamento di pesi mistico, si eserciterà necessariamente su oggetti valorizzati dal desiderio altrui” (R. Girard, Pour un nouveau procès de l’étranger, cit.; trad. it. L’anticonformista, in Id., Il risentimento. Lo scacco del desiderio nell’uomo contemporaneo, cit., pp. 97-98). Dato che il desiderio mimetico è insito nel rapporto originario di ogni uomo con l’altro, anche il risentimento – sostiene Girard contro Nietzsche – non è prerogativa dei deboli e degli schiavi. 19 NF, 7, 34 [123]: “das centrale Schwergewicht. […] etwas Wandelbares” e cfr. W. Müller-Lauter, Der Organismus als innerer Kampf. Der Einfluss von Wilhelm Roux auf Friedrich Nietzsche, cit., p. 217. 20 Aggiunge Nietzsche che si tratta, certo, di “una aristocrazia di pares che sono abituati a governare tra loro e sanno comandare” (NF, 7, 40 [42]) e che non sono necessariamente sottoposti a un monarca assoluto, all’unità monolitica del soggetto. 21 Cfr. R. Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Milano 20006, pp. 315 sgg. 22 Lettera a M. von Meysenbug, 5 aprile 1873, in KWB, II/3, 143 = II, 446. 23 Cfr. J.G. Fichte, Versuch einer neuen Darstellung der Wissenschaftslehre [1797], in GA, Sezione I, vol. IV, pp. 275 sgg., su cui cfr. D. Henrich, Fichtes ursprüngliche Einsicht, Frankfurt a.M. 1967, pp. 14 sgg. (il quale però sostiene che “tutta la coscienza è determinata dalla coscienza immediata del nostro Sé”) e A. Ferrarin, Autocoscienza, riferimento all’io e conoscenza di sé. Introduzione a un dibattito contemporaneo, in “Teoria”, XII (1992), pp. 111-152. 24 Che l’uomo pensasse anche senza sapere di saperlo, che vi fosse – per usare un’espressione di Merleau-Ponty – un cogito tacite era un tema già trattato da Platone (Theaet., 165 b; 197 b-198 d) e da Plotino (cfr. Enn., IV, 3, 30: “Una cosa è pensare, un’altra percepire il proprio pensiero. Noi pensiamo sempre, ma non percepiamo sempre il nostro pensiero”). Lo stesso Plotino è stato il primo a riconoscere nella nóesis noéseos, nel “pensiero del pensiero” del Dio di Aristotele, una duplicazione all’infinito, cfr. Enn., II, 9, 1. Già Goethe, del resto, si vantava di non aver mai considerato il pensiero oggetto del suo pensiero (cfr. G. Simmel, KuG, 23). Nella Wissenschaftslehre nova methodo (del 1798, un anno dopo il Versuch einer Darstellung der Wissenschaftslehre) Fichte, riaffermando che l’autocoscienza si coglie come un’attività e non come un dato inerte, nega che nel suo sistema si produca un’iterazione all’infinito o che, comunque, essa abbia un qualche rilievo, dato che l’unità di soggetto e oggetto nella coscienza ha luogo grazie all’intuizione intellettuale di un io che agisce in se stesso.
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25 Cfr. NF, 5, 11 [185] [non corrisponde alla numerazione dell’edizione italiana]: “L’egoismo è tardo e pur sempre qualcosa di molto raro: i sentimenti del gregge sono più forti ed antichi!”. In contrasto con l’atteggiamento mimetico dei molti, Oscar Wilde aveva colto, alla sua maniera, il bisogno di un io da affermare attraverso tutti i suoi mutamenti: “Lo scopo della vita è lo sviluppo del proprio io. Il completo sviluppo di se stessi – ecco la ragione d’essere di ognuno di noi. Gli uomini oggi hanno paura di se stessi. Hanno dimenticato i doveri più sacri; quelli che si hanno verso di sé […]. Ma anche il più coraggioso di noi ha paura di se stesso. Le automutilazioni del selvaggio si ritrovano tragicamente nell’autorepressione che martirizza la nostra vita. Siamo puniti per quel che rifiutiamo a noi stessi. Ogni impulso che tentiamo di soffocare, germoglia nella mente, e ci intossica” (O. Wilde, The Picture of Dorian Gray [1891], in Works, a cura di R. Ross, London-Paris 1908, vol. XIV; trad. it. Il ritratto di Dorian Gray, Milano 1989, pp. 52, 53). 26 Cfr. NF, 8, 1 [72]: “Il fatto che il gatto uomo cada sempre sulle sue quattro zampe, volevo dire sulla sua unica zampa ‘io’, è solo un sintomo della sua ‘unità’, o piuttosto ‘unificazione’, fisiologica; non un motivo per credere a una ‘anima unitaria’”. Sulla radicale svolta imposta da Darwin al pensiero umano con la teoria della selezione naturale rispetto a quanti (Locke e Hume compresi) non riuscivano a concepire il mondo senza una mente che lo avesse progettato e creato, cfr. D.C. Dennett, Darwin’s Dangerous Idea. Evolution and the Meaning of Life, cit., pp. 31-40. 27 Per la storia di questo concetto, cfr. S. Lukes, Individualism, Oxford 1971; R. Bodei, Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, cit.; L. Bayerl, Individualität und Individuation im deutschen Idealismus, Essen 1988; A. Laurent, Histoire de l’individualisme, Paris 1993; trad. it. Storia dell’individualismo, Bologna 1994; E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita dei legami sociali, Torino 2001. Lukes, in particolare, mostra come il termine “individualismo” compaia, verso la fine degli anni venti dell’Ottocento, contemporaneamente in De Maistre e in Saint-Simon per definire, rispettivamente, la chiusura egoistica dell’uomo in se stesso e l’opposto speculare del “socialismo”. In origine, dunque, esso designa tutto ciò che nega il socialismo e la solidarietà tra gli uomini. Ma è con Tocqueville che questo vocabolo ottiene la sua piena legittimazione, nel secondo volume di La démocratie en Amérique (1840), in cui si registra la seguente definizione: “Termine recente, originato da un’idea nuova. I nostri padri non conoscevano che l’‘egoismo’”. A differenza di quest’ultimo, “antico quanto il mondo”, l’individualismo è “un sentimento ponderato e tranquillo, che spinge ogni singolo cittadino ad appartarsi dalla massa dei suoi simili e a tenersi in disparte con la sua famiglia e i suoi amici; cosicché, dopo essersi creato una piccola società per conto proprio, abbandona volentieri la grande società a se stessa” (A. de Tocqueville, DA, II, 569). 28 Sebbene spesso gli operai vengano considerati i barbari moderni, essi non sembrano a Nietzsche in grado di assumere quelle caratteristiche che li porteranno a costituire una futura aristocrazia. Non sono, infatti, abbastanza barbari, come lo è sempre ogni casta aristocratica, che, ai suoi inizi, si avventa sui più deboli per asservirli, cfr. W. Müller-Lauter, La volonté de puissance comme organisation, mise en forme, machinalisation, in Id., Nietzsche. Physiologie de la Volonté de puissance, Paris 1998, pp. 172-173. Sulla “crudeltà”, rappresentata dal “barbaro”, cfr. F. Semerari, Il predone, il barbaro, il giardiniere. Il tema dell’Altro in Nietzsche, cit. In base a una personale lettura delle discussioni contemporanee sull’atavismo, la crudeltà si conserva negli individui come un elemento arcaico: “Gli uomini che ora sono crudeli devono essere da noi considerati come gradi residui di civiltà precedenti: la giogaia dell’umanità mostra qui per la prima volta apertamente le formazioni più profonde, che rimangono di solito celate. Sono uomini arretrati il cui cervello, per tutti i possibili casi nel decorso del processo ereditario, non ha continuato a svilupparsi così delicatamente e molteplicemente. Essi ci mostrano ciò che eravamo tutti, e ci fanno spaventare; ma essi stessi sono così poco responsabili, quanto un pezzo di granito lo è per il fatto di essere granito. Nel nostro cervello devono trovarsi anche solchi e piegature che corrispondono a quel modo di sentire, così come si dice che nella forma di alcuni organi umani si trovino ricordi del nostro stato di pesci. Ma questi solchi e piegature non sono più il letto in cui scorre attualmente il fiume del nostro sentimento” (MA, I, 64 = 52). 29 “Come si spiega che proprio la volontà di potenza soccomba di fronte agli istinti gregari?” (M. Ferraris, Storia della volontà di potenza, Postfazione a F. Nietzsche, FVP, 582). 30 NF, 7, 37 [4]. Sul “filo conduttore del corpo” cfr., in generale, H. Schipperges, Am Leitfaden des
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Leibes. Zur Anthropologie und Therapeutik Friedrich Nietzsches, Stuttgart 1975 e P. Wotling, Nietzsche et le problème de la civilisation, Paris 1995, pp. 83-108. 31 Cfr. NF, 5, 11 [21] (con numerazione 11 [39] nell’edizione italiana): “Trasformare il sentimento dell’io! Indebolire l’inclinazione personale!”. Sull’Übermensch si vedano, da ultimo, G.K. Lehmann, Der Übermensch. Friedrich Nietzsche und das Scheitern der Utopie, Berlin 1993 e A. Pieper, “Ein Seil geknüpft zwischen Tier und Übermensch”. Philosophische Erläuterungen zu Nietzsches erstem “Zarathustra”, Stuttgart 1990; G. Visser, Nietzsches Übermensch. Die Notwendigkeit einer Neubesinnung auf die Frage nach dem Menschen, in “Nietzsche Studien”, XXVIII (1999), pp. 100-124. Il termine Übermensch non è spiegato da Nietzsche perché esisteva già nella tradizione. Compare infatti in Germania sin dal 1664 con Heinrich Müller e si ritrova poi in Herder, Jean Paul e Goethe, cfr. W. Kaufmann, Nietzsche Philosopher, Psychologist, Antichrist, New York 1968, p. 307. 32 NF, 8, 10 [118]: “und sich zum Vortheil umzuwandeln weiß”. 33 Da qui, malgrado il fatto che la potenza (Macht) non sia violenza (Gewalt), il trasformarsi talvolta di Nietzsche in un “Attila metafisico” (questa definizione di Nietzsche è stata data nel 1927 da Léon Daudet, cfr. G. Campioni, Nietzsche, Descartes e lo spirito francese, in AA. VV., La trama del testo. Su alcune letture di Nietzsche, a cura di M.C. Fornari, Lecce 2000, p. 4 [il testo, lievemente rielaborato, si trova anche in edizione francese: Nietzsche, Descartes et l’esprit français, in G. Campioni, Lectures françaises de Nietzsche, cit., pp. 9-50]). E questo a causa della sua esaltazione della guerra e della propensione a sacrificare “molti uomini”, dato che le sofferenze dei mediocri non si sommano, dando zero come loro risultato (cfr. H. Mann, The Living Thought of Nietzsche [New York-Toronto 1939; ed. ted. Nietzsches unsterbliche Gedanken, Berlin 1992]; trad. it. Nietzsche, Milano 1993, pp. 45-48). Jean Améry, che aveva conosciuto ad Auschwitz cosa fosse la crudeltà, definisce Nietzsche “l’uomo che sognava una sintesi del bruto con il superuomo”. E aggiunge, in Intellettuale ad Auschwitz: “Gli devono rispondere coloro che sono stati testimoni dell’unione del bruto con il subumano; essi erano presenti nel ruolo di vittime quando una certa umanità celebrava gioiosamente la festa della crudeltà, come Nietzsche stesso la definì” (citato in J. Glover, Humanity, © Jonathan Glover 1999; trad. it. Humanity, Milano 2002, p. 62). 34 JGB, 26 = 23. Cfr. JGB, 26-27 = 23: “Noi siamo allo stesso tempo chi comanda e chi obbedisce”. 35 NF, 8, 11 [414]. Sulle metafore nautiche riferite al rischio e all’imbarcarsi in Nietzsche e in generale, cfr. H. Blumenberg, Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinsmetapher, Frankfurt a.M. 1979; trad. it. Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell’esistenza, Bologna 1985, pp. 42 sgg. (e l’introduzione al volume di R. Bodei, Distanza di sicurezza, pp. 17 sgg.). 36 A tal proposito meritano di essere riportate alcune acute osservazioni di Simmel: “Ma tra Schopenhauer e Nietzsche c’è Darwin. Mentre Schopenhauer si arresta alla negazione del fine ultimo e perciò solo la negazione della volontà di vita in genere può rimanere come conseguenza pratica, Nietzsche rintraccia nel fatto dell’evoluzione del genere umano le possibilità di un fine, che permette che la vita si affermi di nuovo”. In Schopenhauer “l’assenza di ogni pensiero dell’evoluzione confina il mondo e l’umanità in una desolata e perenne uniformità”, per questo egli “conosce solo un singolo, assoluto valore: non vivere, così Nietzsche parimenti ne conosce soltanto uno: vivere” (SN, 20, 24, 197). Sul senso che la filosofia di Schopenhauer assume per Nietzsche, si veda, da ultimo, Ch. Janaway, Self and World in Schopenhauer’s Philosophy, cit., pp. 317 sgg. 37 M. Montinari, Che cosa ha detto Nietzsche, a cura e con una nota di G. Campioni, Milano 1999, p. 134 e cfr. M, 322-323 = 259. 38 Solo in questa prospettiva Heidegger ha ragione nell’affermare che per Nietzsche “la volontà non è altro che volontà di potenza, e la potenza non è altro che l’essenza della volontà. La volontà di potenza è allora volontà di volontà, cioè è volere se stesso” (N, 49). Sulla volontà di potenza si veda supra, pp. 95 sgg. 39 Cfr. F. Nietzsche, NF, 8, 7 [25]: “Darwin sopravvaluta fino all’inverosimile l’influsso delle ‘circostanze esterne’; l’essenziale del processo vitale è proprio l’enorme potere creatore di forme dall’interno che usa, sfrutta le ‘circostanze esterne’”. In natura, infatti, “non è l’estrema angustia a
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dominare, ma la sovrabbondanza, la prodigalità spinta fino all’assurdo”. La “lotta per la vita” è solo un’“eccezione”, che si verifica là dove la “volontà della vita” deve affermarsi in circostanze più difficili (H. Althaus, Nietzsche. Eine bürgerliche Tragödie, München 1985; trad. it. Nietzsche. Una tragedia borghese, Roma-Bari 1994, p. 395). Nietzsche, osserva ancora Althaus, “era straordinariamente sensibile alla teoria dell’ereditarietà, per via delle sue origini e della sua situazione personale. Essa poteva contribuire a chiarire la storia della sua vita e delle sue sofferenze fisiche. Così, egli non poteva aver dubbi circa il carattere ereditario dei suoi mal di testa, dato che suo padre era morto, a quel che si diceva, per una malattia cerebrale. La teoria darwiniana dell’ereditarietà offriva nuove idee, allora assai di moda, come dimostra proprio la ‘scuola del naturalismo’. Ciò che Nietzsche, risoluto antinaturalista, sfrutta della teoria darwiniana della selezione per il suo Zarathustra era perfettamente all’altezza dei tempi ed era legittimato, dal punto di vista darwiniano, dall’idea dell’‘allevamento selettivo’, nel senso di una accentuata selezione. Se con i ‘naturalisti’, con Ibsen, Zola, Strindberg, egli condivide l’idea del matrimonio borghese come fenomeno di decadenza, come istituzione che aliena l’uomo da sé, non ne vede però colpito il matrimonio in sé, purché, invece di propagare l’uomo orizzontalmente, lo propaghi verso l’alto, in una specie più elevata” (ivi, p. 458). Per l’interpretazione nietzscheana di Darwin, cfr. C. Dong-Ho, Nietzsches Auseinandersetzung mit dem darwinistischen Evolutionismus in seinen Bemühen um die Gewinnung eines neuen Menschenbildes (Inaugural-Dissertation), Freiburg i.B. 1980 e, più in generale, A. Kelly, The Descent of Darwin. The Popularization of Darwinism in Germany, 1860-1914, Chapel Hill 1981 e P. Bowler, The Eclipse of Darwinism. Anti-Darwinian Evolution Theories in the Decades around 1900, Baltimore and London 1985; B. Stiegler, Nietzsche lettore di Darwin, in AA. VV., La trama del testo. Su alcune letture di Nietzsche, cit., pp. 283-328. 40 Cfr. NF, 7, 7 [21]. A chi vorrebbe “il livellamento dell’umanità, grandi formicai”, Nietzsche contrappone, nella primavera-estate del 1883, un suo progetto: “Il mio movimento è, al contrario, l’inasprimento di ogni contraddizione e scissione, l’eliminazione dell’uguaglianza, la creazione di superpotenti. Quel movimento genera l’ultimo uomo. Il mio superuomo. Il fine NON è assolutamente quello di concepire i secondi [i superuomini] come i signori dei primi [gli uomini, gli appartenenti ai formicai]: le due specie devono sussistere l’una accanto all’altra – il più possibile separate; l’una, come gli dèi di Epicuro, non curandosi dell’altra” (e cfr. P. Wotling, Nietzsche et le problème de la civilisation, cit., pp. 342-344). Nietzsche è ovviamente contrario sia al principio cristiano che tutti gli uomini sono “uguali davanti a Dio”, sia alle sue successive riformulazioni dell’eguaglianza in chiave politica. Perché qualcosa abbia valore occorre un gradino inferiore su cui possa elevarsi. Contro ogni retorica egualitaria si deve sempre distinguere la qualità degli uomini: “Che l’anima di ogni povero diavolo, di ogni piccolo straccione e mentecatto debba avere lo stesso valore metafisico di quella di Michelangelo e Beethoven, questo è il punto di separazione delle concezioni generali del mondo” (ivi, p. 216). Quale differenza con le posizioni di Hegel, che – pur esaltando l’opera degli individui che hanno impresso il loro sigillo sulla storia del mondo – non manca di aggiungere che “la religiosità, la moralità di un ristretto tipo di vita – quella di un pastore, di un contadino –, nella sua concentrata interiorità, nel suo restringersi a pochi e affatto semplici rapporti di vita, ha un valore infinito, lo stesso valore di quello proprio della religiosità e moralità di un’esperienza evoluta, di un’esistenza ricca di relazioni e d’azioni” (PhdWG, I, 88 = I, 102)! 41 Cfr. NF, 7, 16 [63]: “Il pensiero più grande produce il suo effetto nel modo più lento e tardivo! Il suo effetto più immediato è un surrogato della fede nell’immortalità: aumenta la buona volontà di vivere? Forse quel pensiero non è vero: – che altri lottino con esso”. E cfr. NF, 5, 11 [268]: “La mia teoria dice: vivere in modo tale che tu debba desiderare di rivivere, questo è il compito – e in ogni caso rivivrai!”. Già Jaspers aveva attirato l’attenzione sulla funzione di selettore del pensiero dell’eterno ritorno: Nietzsche “ritiene che, sotto il peso del pensiero dell’eterno ritorno, si attui una separazione: coloro che non lo sopportano periranno, mentre coloro che davanti a esso pervengono al loro incondizionato sì alla vita saranno costretti a elevarsi” (K. Jaspers, Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Denkens [Berlin 1935], Berlin-New York 1974; trad. it. Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Milano 1996, p. 327). Sul ruolo della volontà, cfr. anche G. Abel, Nietzsche. Die Dynamik des Willens zur Macht und die ewige Wiederkehr, Berlin-New York 1984. All’eterno ritorno aveva accennato – tra i tanti autori – anche G. Le Bon in L’homme et les sociétés, Paris 1881 (cfr. Ch. Andler, Nietzsche, sa vie sa pensée, cit., vol. II, pp. 421 sgg. e W.D. Williams, Nietzsche and the French, Oxford 1952, pp. 109 sgg.; non esistono prove, tuttavia, che Nietzsche avesse
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effettivamente letto questo libro di Le Bon). Mazzino Montinari ha giustamente osservato che “non si può affermare con sicurezza che Nietzsche ‘credesse’ nell’eterno ritorno delle stesse cose. Nei manoscritti la certezza si alterna al dubbio; nello Zarathustra la teoria viene, più che dimostrata, enunciata in forma di simboli” (M. Montinari, Che cosa ha detto Nietzsche, cit., p. 122). Per Montinari i concetti di eterno ritorno o di volontà di potenza sono “idee-limite”, che non bisogna sistematizzare a ogni costo, altrimenti si finisce per non capire più nulla. Occorre, anche nel senso di Heidegger, tener conto del fatto che “l’eterno ritorno dell’eguale rimane bensì per Zarathustra una visione, ma enigmatica. Essa non si lascia dimostrare né confutare su basi logiche o empiriche. Questo vale fondamentalmente per ogni pensiero essenziale di ogni pensatore: visione, ma anche enigma: degno d’interrogazione [fragwürdig; alla lettera: problematico]” (M. Heidegger, Wer ist Nietzsches Zarathustra?, in VA, 78 e cfr. S. Giametta, Nietzsche, il poeta, il filosofo, il moralista. Saggio su “Così parlò Zarathustra”, Milano 1991, pp. 90-95). Certo, come è stato messo in rilievo da diversi studiosi, Nietzsche ritiene – attraverso le letture di Vogt, di Nägeli e, più tardi, di Blanqui – che “il mondo delle forze” non subisce diminuzione, che non sta mai in equilibrio, per cui tutto è eterno e le stesse combinazioni si sono ripetute innumerevoli volte. In ogni caso, vale la pena ricordare le avvertenze che Nietzsche elenca per l’interpretazione di questo concetto, in particolare la seguente: “Guardiamoci dal pensare come divenuta la legge di questo circolo, secondo la falsa analogia dei movimenti circolari dentro l’anello. Non vi è stato prima un caos e poi, gradualmente, un movimento più armonico e infine uno stabilmente circolare di tutte le forze: piuttosto tutto è eterno, indivenuto: se vi fosse stato un caos delle forze, sarebbe stato eterno anche il caos e sarebbe tornato in ciascun anello. Il corso circolare non è nulla di divenuto, esso è la legge originaria, allo stesso modo che la quantità di energia è la legge originaria, senza eccezione e prevaricazione” (NF, 5, 11 [258]) [la numerazione italiana del frammento non corrisponde a quella tedesca]). E cfr. NF, 8, 14 [188]: “Il mondo sussiste, esso non è niente che divenga, niente che perisca. O piuttosto: diviene, perisce, ma non ha mai cessato di divenire e non ha mai cessato di perire – si conserva nelle due cose… Vive di se stesso, si nutre dei suoi escrementi”. Tra le fonti di Nietzsche da non trascurare è lo Schopenhauer del § 54 del Mondo come volontà e rappresentazione, laddove il tempo viene paragonato a una ruota che gira, in cui la metà discendente rappresenta il passato, quella ascendente il futuro, mentre il punto di tangenza con il terreno è il presente indivisibile, che non è trascinato dalla rotazione. 42 Cfr. K. Schlechta, Nietzsches großer Mittag, Frankfurt a. M. 1954; trad. it. Nietzsche e il grande meriggio, Napoli 1981. 43 Cfr. Z, 196 = 192: “Guarda, continuai, quest’attimo! Da questa porta carraia che si chiama attimo, comincia all’indietro una via lunga, eterna: dietro di noi è un’eternità. Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse aver percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere già essere accadute? E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia – esserci già stata? E tutte le cose non sono forse annodate saldamente l’una all’altra, in modo tale che questo attimo trae dietro di sé tutte le cose avvenute? Dunque – anche se stesso?”. In particolare, per gli aspetti cosmologici dell’idea di eterno ritorno, si veda P. D’Iorio, La linea e il circolo. Cosmologia e filosofia dell’eterno ritorno in Nietzsche, Genova 1995, pp. 27-175. Come ha notato Graziano Biondi, la funzione dell’attimo nella struttura complessiva del capitolo La visione e l’enigma è subordinata alla vittoria sulla repulsione per il serpente e alla riaffermazione del valore della vita, pur con tutto il suo carico di sofferenza. Il morso della serpe e il successivo sorriso del pastore “esprime, in forma drammatica, la prova iniziatica della morte, costituita dall’incontro con la serpe, senza la quale non può esservi la rinascita. Il pastore sputa infatti la testa del serpente, perché il serpente non significa l’eterno ritorno, ma il veleno della morte. Rifiutando la morte, il pastore può rinascere e tornare ad amare la vita: impara a gustare le cose a partire dall’esperienza di un disgusto completo” (G. Biondi, L’enigma della serpe secondo Nietzsche, Roma 2001, p. 183). Sull’eterno ritorno come volontà di potenza proiettata apparentemente in avanti, ma in realtà rivolta all’indietro, dato il carattere circolare del movimento del divenire, la cui natura Nietzsche cerca di preservare attraverso questa vertiginosa idea, cfr. E. Severino, L’anello del ritorno, Milano 1999. 44 G. Vattimo, Nichilismo e problema della temporalità, in Id., Dialogo con Nietzsche. Saggi 1961-2000, Milano 2000, p. 40. Questa soluzione, che considera l’attimo come ciò che dirime, piuttosto che ciò che unifica, le tre dimensioni del tempo (passato, presente e futuro), mi sembra preferibile a quella, pur
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estremamente acuta, di Deleuze, cfr. G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, Paris 1962; trad. it. Nietzsche e la filosofia, Milano 1992, pp. 76-77: “L’attimo non potrebbe mai passare se non fosse nel contempo passato e presente, presente e futuro. Se il presente non contemplasse di per sé un passare ma avesse bisogno di un nuovo presente per diventare passato, mai potrebbe il passato costituirsi nel tempo, né il presente potrebbe passare. Non ha perciò senso parlare di attesa: affinché l’attimo passi (a vantaggio di altri attimi) è necessario che esso contempli al proprio interno il presente, il passato e il futuro, ossia che il presente coesista con se stesso in quanto passato e in quanto futuro. Il rapporto sintetico che l’attimo ha con se stesso in quanto presente, passato e futuro fonda il rapporto con altri attimi. L’eterno ritorno è così la risposta al problema del passare; esso non va perciò interpretato come ritorno di qualcosa, di uno o di un medesimo”. Tale interpretazione verrà in seguito ulteriormente elaborata dallo stesso Deleuze (e da Foucault) in Differenza e ripetizione: “Concepire l’eterno ritorno come pensiero selettivo, e la ripetizione dell’eterno ritorno come l’essere selettivo, costituisce la prova più alta. Bisogna vivere e concepire il tempo fuori dai suoi cardini, il tempo in linea retta che elimina spietatamente coloro che vi si imbarcano, che non ripetono se non una volta per tutte […]. Non soltanto l’eterno ritorno non fa tutto tornare, ma fa perire coloro che non sopportano la prova […]. L’eterno ritorno è l’identità interna al mondo, il Caosmo […]. Come credere che [Nietzsche] cadesse nell’idea insulsa e falsa di un’opposizione tra un tempo circolare e un tempo lineare, un tempo antico e uno moderno?” (G. Deleuze, Différence et répétition, Paris 1968; trad. it. Differenza e ripetizione, Bologna 1971, pp. 473-474). Così Foucault ritraduce efficacemente il pensiero di Deleuze: “Il tempo è ciò che si ripete; e il presente – trafitto da questa freccia dell’avvenire che lo porta deportandolo di continuo da parte a parte – non cessa di ritornare. Ma di ritornare come singolare differenza; ciò che non torna è l’analogo, il simile, l’identico. La differenza torna; e l’essere che si dice nello stesso modo della differenza, non è il flusso universale del Divenire, non è neppure il ciclo ben centrato dell’Identico; l’essere è il ritorno sciolto dalla curva del cerchio; è il Rivenire […]. Nella sua frattura, nella ripetizione, il presente è un lancio di dadi” (M. Foucault, Theatrum philosophicum, Introduzione a G. Deleuze, Différence et répétition, cit., p. XXII). Per alcuni aspetti della lettura deleuziana di Nietzsche, cfr. J. Winfree, The Repetition of Eternal Return, or the Disastrous Step, in “Pli: The Warwick Journal of Philosophy”, XI (2000), pp. 12-31. 45 Da notare che il ritrovamento spontaneo del “centro di gravità” è ciò che caratterizza per Kleist il movimento elegante e inconscio (non “turbato dalla coscienza” e governabile a partire da questo stesso centro) delle marionette che danzano rispetto alla goffaggine degli atteggiamenti umani (cfr. H. von Kleist, Über das Marionettentheater, in Sämtliche Werke und Briefe, München 1974, vol. V, pp. 71-78). Kant non avrebbe certo condiviso una simile prospettiva, dato che la libertà dell’individuo nel mondo è garantita solo se l’uomo non è una “marionetta, un automa di Vaucanson, fabbricato e caricato dal maestro supremo di tutte le arti” (KpV, 265 = 123). Da un’altra angolazione, il rapporto tra Nietzsche e Kleist è stato colto da G. Pasqualotto, Saggi su Nietzsche, Milano 1988, pp. 101-113, secondo il quale i movimenti della marionetta – che, danzando, sfiorano appena il terreno invece di posarvisi – non hanno niente di affettato. Si ha, infatti, affettazione solo quando l’anima (vis motrix) si trova “in qualche altro punto che nel centro di gravità del movimento”. In questo senso la linea tracciata dallo spostarsi del centro di gravità è der Weg der Seele des Tänzers, “il cammino dell’anima del danzatore”. Si veda anche R. Troncon, Studi di antropologia filosofica, Milano 1991, pp. 35-71. 46 Cfr. M. Heidegger, N, 361. E cfr. N, 371: “Il pensare il pensiero come superamento del nichilismo. Ciò significa: il trasporsi nella necessità della situazione che emerge con il nichilismo; questa costringe a una meditazione su ciò che è dato in dote e a una decisione su ciò che è dato come compito. La situazione di necessità stessa altro non è che ciò che il trasporsi nell’attimo apre […]. L’eterno ritorno dell’uguale è pensato soltanto se è pensato nichilisticamente e secondo l’attimo”. 47 Cfr. NF, 7, 26 [376]. Non si tratta dunque, in questo caso, di una selezione di tipo biologico, come spesso si è inteso. 48 Z, 175-176 = 170-171. Maurizio Ferraris ha colto un punto significativo: “Volontà di potenza come capacità affermativa, come trasvalutazione delle angustie e del risentimento che affliggono il volere (la volontà di potenza avvilita e negata) dell’ultimo uomo”. Ne segue, in linea con l’interpretazione di Deleuze, che “si apre la via a una seconda dimensione dell’eterno ritorno: non ogni cosa ritorna, non ogni risentimento e debolezza, ma solo ciò che è dotato di una potenza affermativa, e che merita di
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ripetersi” (M. Ferraris, Nietzsche e la filosofia del Novecento, Milano 1989, p. 53). 49 Cfr. Ch. Türcke, Der tolle Mensch. Nietzsche und der Wahnsinn der Vernunft, Frankfurt a. M. 1989, pp. 142, 144. Da notare che Nietzsche considera il cristianesimo, con tutto il suo carico di risentimento, opera non di Gesù, ma di san Paolo e delle prime comunità cristiane (cfr. AC, 207-208, 210 = 203-204, 209-210). Gesù, dostoevskijanamente, è un “idiota”, incapace di concepire la vendetta contro i suoi persecutori, sensibile – come Buddha – ai mali del mondo, cfr. G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, cit., p. 173 e G. Strumiello, Il logos violato. La violenza nella filosofia, Bari 2001, pp. 203205. Anche l’esclamazione del pazzo (“Dio è morto!”) non va intesa come un grido di giubilo, ma di preoccupazione: saranno gli uomini “rimpiccioliti” all’altezza del compito che li attende? 50 Cfr. NF, 4, 44 [4]: “Posto che qualcuno abbia avuto a soffrire per una maligna lettera anonima: la cura abituale è quella di liberarsi della propria sofferenza arrecando dolore a qualcun altro. Noi dobbiamo smettere questa sciocca specie di antichissima omeopatia: è chiaro che, nel caso supposto, se uno scrive subito una lettera anonima, con la quale procura un beneficio o una gentilezza a un altro, potrà guarire della sua sofferenza”. 51 Per i pitagorici, cfr., ad esempio, Porphyr., Vita Pythagoræ, 19 (D.-K., 14, 8a). Per gli stoici, cfr., ad esempio, Nemesius, in Stoicorum Veterum Fragmenta, a cura di J.V. Arnim, vol. II, Leipzig 1903, fr. 625: “Socrate e Platone e ogni individuo vivranno ancora, con gli stessi amici e concittadini. Ripercorreranno le stesse esperienze e svolgeranno le stesse attività. Ogni città, ogni villaggio e campo ritornerà com’era. E questa restaurazione dell’universo non avrà luogo una sola volta, ma sempre di nuovo, per tutta l’eternità, senza fine”. Per Agostino, cfr. De civ. Dei, XII, 14 sgg. A questa dottrina Nietzsche aveva fatto riferimento nella Seconda inattuale, accennando al fatto che Cesare sarebbe stato ucciso infinite volte e che Colombo avrebbe scoperto l’America sempre di nuovo (cfr. NNG, 257 = 276). Sui contemporanei di Nietzsche (Vogt, Nägeli, Lange, Du Bois-Reymond, Dühring, Balfour Stewart), cfr. P. D’Iorio, La linea e il circolo. Cosmologia e filosofia dell’eterno ritorno in Nietzsche, cit. Su tempo ed eterno ritorno in Nietzsche, cfr. K. Löwith, Nietzsches Philosophie der ewigen Wiederkehr des Gleichen, Stuttgart 1956, trad. it. Nietzsche e l’eterno ritorno, Roma-Bari 1982; J. Granier, Le problème de la vérité dans la philosophie de Nietzsche, Paris 1966, pp. 557-602; J. Stammbaugh, Untersuchungen zum Problem der Zeit bei Nietzsche, Den Haag 1959; M.C. Sterling, Recent Discussions of Eternal Recurrence. Some Crirtical Comments, in “Nietzsche Studien”, VI (1977), pp. 261-291; J.O. Most, Zeitliches und Ewiges in der Philosophie Nietzsches und Schopenhauers, Frankfurt a. M. 1977; L.J. Hatab, Nietzsche and the Eternal Recurrence: The Redemption of Time and Becoming, Washington D.C. 1978; M. Djurić, Die antiken Quellen der Wiederkunftlehre, in “Nietzsche Studien”, VIII (1979), pp. 1-16; AA. VV., Crucialità del tempo. Saggi sulla concezione nietzscheana del tempo, Napoli 1980; M. Ferraris, Ontologia, in AA. VV., Nietzsche. Etica, Politica, Filologia, Musica, Teoria dell’interpretazione, Ontologia, Roma-Bari 1999, pp. 262-275; K. Galimberti, Nietzsche. Una guida, Milano 2000, pp. 114-131. 52 FVP, n. 381 = NF, 8, 9 [22] e cfr. FVP, n. 54, = NF, 8, 15 [13]: “Io insegno a dir di no a tutto ciò che indebolisce – che esaurisce. Io insegno a dir di sì a tutto ciò che rafforza, che accumula energia, che giustifica il sentimento della forza”. È evidente la sottintesa polemica contro Schopenhauer e la sua negazione della volontà. 53 Cfr. G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, cit., pp. 38-40. 54 EH, 295 = 306: “La mia formula per la grandezza dell’uomo è amor fati: non volere nulla di diverso, né dietro né davanti a sé, per tutta l’eternità. Non sopportare, e tanto meno dissimulare, il necessario – tutto l’idealismo è una continua menzogna di fronte al necessario – ma amarlo…”. E l’amore è, appunto, mantenimento gioioso dei contrasti: “Che altro è l’amore se non comprendere e gioire che un altro viva, agisca e senta in maniera diversa e opposta alla nostra? Per poter superare i contrasti con la gioia, l’amore non li deve sopprimere né negare. Persino l’amore di sé contiene la non mescolabile dualità (o pluralità) in una stessa persona” (MA, II, 44 = 33). 55 Si veda, ad esempio, A, 236: “Dalla partizione degli alberi in un parco, dall’ordine delle case in una strada, dallo strumento del lavoratore manuale fino alla sentenza in tribunale, tutto è intorno a noi, a ogni ora, storicamente divenuto”. Per il ruolo dell’individualità in Dilthey, si veda M.A. Pranteda, Individualità e autobiografia in Dilthey, Milano 1991.
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56 GM, 238. Cfr. G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, cit., pp. 143-144: “L’uomo del risentimento è un cane, che reagisce soltanto alle tracce (segugio), per cui lo stimolo si confonde localmente con la traccia ed egli non può più agire la propria reazione”. Il risentito non dimentica niente, il suo ricordo è infetto, è “una piaga in suppurazione” e per lui “la memoria delle tracce è in sé e per sé fonte di odio”. Egli è dotato di una grande memoria, incapace di quel sovrano oblio offerto dalla starke Gesundheit, dalla robusta salute degli uomini superiori, cfr. G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie, cit., pp. 130-131 e C. Crawford, Nietzsche’s Mnemotechnics, the Theory of Ressentiment, and Freud’s Topography of the Psychical Apparatus, in “Nietzsche Studien”, XIV (1985), pp. 281-297. Sul rapporto di Freud e Nietzsche, cfr. P.-L. Assoun, Freud et Nietzsche, Paris 1980; A. Venturelli, Nietzsche in Berggasse 19 e altri studi nietzscheani, Urbino 1983; R. Lehrer, Nietzsche’s Presence in Freud’s Life and Thought, Albany 1995; R. Gassner, Nietzsche und Freud, Berlin-New York 1997. Sulla reattività dei deboli e dei ribelli per debolezza, come gli anarchici, in rapporto alla mancanza di risentimento dei forti, cfr. J. Starobinski, Action et Réaction. Vie et adventures d’un couple, cit., pp. 273-278. Sulla funzione della memoria e dell’oblio in Nietzsche, cfr. H. Thüring, Geschichte des Gedächtnisses. F. Nietzsche und das 19. Jahrhundert, München 2001. 57 Cfr. W. Müller-Lauter, La volonté de puissance comme organisation, mise en forme, machinalisation, cit., pp. 177-179. 58 Un accenno in questa direzione si trova in C. Gentili, Nietzsche, Bologna 2001, pp. 303-308. L’eterno ritorno non può essere ridotto né alla “forma universale di una legge scientifica” (per cui, secondo le parole del nano, “ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo”), né “al grande anno delle religioni pre-elleniche”, all’eterno ciclo della vegetazione, come vogliono gli animali di Zarathustra, l’aquila e il serpente. È la volontà di chi sa reggere questo peso a fondare l’eterno ritorno nella consapevolezza che “il disgusto per l’uomo” è superato nell’accettazione che fa Zarathustra del ritorno anche del “piccolo uomo”. Ciò toglie all’Übermensch lo “spirito di vendetta” che altrimenti lo avrebbe schiacciato. Tale interpretazione va integrata con le osservazioni di G. Biondi, per cui il serpente che soffoca il pastore è il simbolo della metamorfosi, della prova che si deve affrontare per vincere il disgusto della vita. Esso così “non significa solo la comunicazione della dottrina dell’eterno ritorno, ma indica un’iniziazione alla conoscenza della vita […]. Il serpente rappresenta la morte, poiché il suo veleno uccide, ma anche la vita, poiché il suo contatto è fecondo. Unitariamente, indica il ciclo di nascita e di morte, il cammino che sorge dalla terra e vi ritorna, per poi sorgere di nuovo” (G. Biondi, L’enigma della serpe secondo Nietzsche, cit., pp. 31, 43). 59 Z, 196-197 = 192-193. In proposito, Jaspers osserva che è “irrilevante sapere se Nietzsche, nei suoi stati d’animo non comuni, avesse già provato ciò che è noto con il nome di déjà vu: vivere il presente come se tutto fosse stato già vissuto in modo perfettamente uguale fin nei più piccoli particolari” (K. Jaspers, Nietzsche. Einführung in das Verständnis seiner Philosophie, cit., p. 323). Eppure queste forme di anomalia del tempo sono importanti per comprendere Nietzsche e la cultura del suo tempo, cfr. NF, 5 11 [260]: “C’è una parte della notte di cui io dico ‘ora il tempo è cessato!’. Dopo tutte le veglie notturne, soprattutto dopo viaggi, camminate di notte, si prova uno strano sentimento riguardo a questo lasso di tempo: è sempre stato troppo breve o troppo lungo, il nostro senso del tempo avverte un’anomalia. Può darsi che anche nella veglia noi si debba espiare il fatto che di solito trascorriamo quel tempo nel caos temporale del sogno! Basta!, dall’una alle tre non abbiamo più orologio nel cervello. Mi sembra che proprio questo fosse espresso dagli antichi con intempesta nocte e ἐν ἀωρονυκτί (Eschilo): ‘In quel punto della notte dove non esiste il tempo’” (cfr. anche NF, 8, 4 [5] e, per il commento, C. Papparo, La passione senza nome. Materiali sul tema dell’anima in Nietzsche, cit., pp. 103-107). Sul sentimento del déjà vu nella cultura dell’Ottocento e del primo Novecento, cfr. R. Bodei, Walter Benjamin: modernità, accelerazione del tempo e “déjà vu”, in “Studi Germanici”, nuova serie, XXIX [1991, ma stampato 1995], pp. 157-172. Il cane e il serpente sono animali degli Inferi, “vita vinta” (Z, 164). L’ululato del cane rinvia al vento e “indica l’ora in cui la vita è alla fine” e la luna, che compare sempre assieme al cane, rinvia ai morti e agli spettri del passato. Il ragno, poi, rimanda nello Zarathustra alla “visione del viandante di fronte alla ragnatela della sua vita violata dalla sofferenza, di fronte allo specchio della propria riflessione finita nella rete di pensieri atroci e funerei, fra l’abbaiare di un cane spaventato e una luna gelida e spettrale […]. Con la tela tessuta dal ragno sembra chiudersi il sepolcro; con la visione del ragno, intento alla tessitura, sembra di sprofondare in un sogno, in cui tutto diventa apparenza e il ricordo della
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propria esistenza dipinge una spettrale vacuità” (cfr. G. Biondi, L’enigma della serpe secondo Nietzsche, cit., pp. 82, 95, 98, 101). 60 Cfr. G. Vattimo, Nietzsche et la philosophie comme exercice ontologique, in AA. VV., Nietzsche, Actes du Colloque de Royeaumont [luglio 1964], Paris 1967, p. 215: “Ciò che si tratta di fondare e di garantire, per Nietzsche, è la possibilità dell’istituzione di nuovi valori, cioè la possibilità della novità e del divenire autentico della storia”. 61 Per sopportare la conoscenza delle cose occorre, infatti “un temperamento buono, anima salda, mite e in fondo allegra, uno stato d’animo che non ha bisogno di stare in guardia contro perfidie ed esplosioni improvvise, e che nelle sue manifestazioni non abbia in sé nulla del tono ringhioso e dell’accanimento: le note fastidiose caratteristiche dei cani e degli uomini invecchiati che sono rimasti a lungo legati a una catena” (MA, I, 51 = 42). 62 GD, 138 = 143. Cfr. S. Barbera-G. Campioni, Il genio tiranno. Ragione e dominio nell’ideologia dell’Ottocento: Wagner, Nietzsche, Renan, cit., p. 21 e, soprattutto, A. Horn, Nietzsches Begriff der décadence. Kritik und Analyse der Moderne, Frankfurt a.M.-Berlin-Bern-Bruxelles-New York 2000. 63 F. Volpi, Il nichilismo, Roma-Bari 1997, p. 42. 64 Su Huysmans, cfr. B. Croce, Varietà di storia letteraria e civile, serie 2 a, Bari 1949; H.J. Greif, Huysmans’ “À rebours” und die Dekadenz, Bonn 1971; F. Zayed, Huysmans. Peintre de son époque, Paris 1983. Cfr. più avanti, pp. 363-364. 65 Secondo l’immagine diffusa da Verlaine nei versi della poesia Langueur (apparsa originariamente su “Le Chat Noir” del 26 maggio 1883, poi raccolta in Jadis et naguère): Je suis l’Empire à la fin de la décadence / Qui regard passer les grands Barbares blancs, / En composant des acrostiches indolents / D’un style d’or où la langueur du soleil danse. 66 G. D’Annunzio, Il trionfo della morte, in Prose di romanzi, vol. I, Milano 1940, pp. 671, 733, 814, 960 e Id., Della mia legislatura, in “Il Giorno”, 29 marzo 1900 [poi in G. D’Annunzio, Pagine disperse, a cura di A. Castelli, Roma 1913, p. 595]. Cfr. G. Tosi, Il personaggio di Giorgio Aurispa nei suoi rapporti con la cultura francese, in AA. VV., Trionfo della morte, Atti del III Convegno Internazionale di studi dannunziani, Pescara 1983, pp. 96-113 e G. Baldi, L’inetto e il superuomo. D’Annunzio tra “decadenza” e vita ascendente, Torino 1996, pp. 66-67. La lotta di Aurispa si rivela infine perdente: “Qual è la causa della mia impotenza? Io ho una brama ardentissima di vivere, di svolgere in ritmo tutte le mie forze, di sentirmi completo e armonioso. E ogni giorno invece io perisco segretamente; ogni giorno la vita mi sfugge da varchi invisibili e innumerabili” (G. D’Annunzio, Il trionfo della morte, cit., p. 734). Alla fine, egli tenta anche la strada dionisiaca del superuomo (nella versione che D’Annunzio ne offre). Cerca così di seguire il modello dell’“Ellèno antico”, che non aspirava ad altro “se non ad espandere la sua esuberanza e ad esercitare con efficacia il suo nativo istinto di dominazione”. Infatti, “il sentimento religioso della gioia di vivere […] la venerazione e l’entusiasmo per tutte le energie fecondanti, generative e distruttive; l’affermazione violenta e tenace dell’istinto agonistico, dell’istinto di lotta, di predominio, di sovranità, di potenza egemonica, non erano questi i cardini incrollabili su cui si reggeva l’antico mondo ellenico nel suo periodo ascensionale?”. Il superuomo moderno, predicato dallo Zarathustra di Nietzsche, è così “il dominatore forte e tirannico”, “franco dal giogo d’ogni falsa moralità, sicuro nel sentimento della sua potenza, […] determinato ad elevarsi sopra il Bene e il Male per pura energia del volere, capace pur di costringere la vita a mantenergli le sue promesse […]” (ivi, pp. 950, 954). 67 Com’è ormai ampiamente noto, per la formulazione dell’idea di décadence è stata determinante in Nietzsche l’opera di P. Bourget. Cfr., ad esempio, Essais de psychologie contemporaine, cit., pp. 24-25: “par le mot décadence, on désigne volontiers l’état d’une société qui produit un trop grand nombre d’individus impropres aux travaux de la vie commune. Une société doit être assimilée à un organisme. Comme un organisme, en effet, ELLE SE RÉSOUT EN UNE FÉDÉRATION D’ORGANISMES MOINDRES, QUI SE RÉSOUVENT EUX-MÊMES EN UNE FÉDÉRATION CELLULAIRE. L’individu est la cellule sociale. Pour que l’organisme total fonctionne avec énergie, il est nécessaire que les organismes composants fonctionnent avec énergie, mais avec une énergie subordonnée. Si l’énergie des cellules devient indépendante, les organismes qui composent l’organisme total cessent pareillement de subordonner leur
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énergie totale, et l’anarchie qui s’établit constitue la décadence de l’ensemble”. Sulla presenza di Bourget in Nietzsche, cfr. H. Platz, Nietzsche und Bourget, in “Neuphilologische Monatsschrift”, VIII (1937), pp. 177-186. Sulla psicologia della decadenza, ancora interessante W. Wiegand, Zur Psychologie der Décadence, München 1893. Su Nietzsche e la cultura francese, cfr. W.D. Williams, Nietzsche and the French, cit., e, più scolastico, B. Bludau, Frankreich im Werke Nietzsches. Geschichte und Kritik der Einflußthese, Bonn 1979. Sulla recezione francese di Nietzsche cfr. J. Le Rider, Nietzsche en France. De la fin du XIXe siècle au temps présent, Paris 1999. 68 E. Renan, La poésie de l’exposition, in Œuvres complètes, 10 voll., a cura di H. Psichari, Paris 19471961, vol. II, p. 251. 69 Il fatto che il modello d’individuo sia aperto al cambiamento o che la volontà di potenza implichi la sua liberazione e il parallelo avvento dell’“oltreuomo di massa” non dimostra né la propensione di Nietzsche verso la democrazia, né la compatibilità del suo pensiero con questo regime (come invece sostengono, rispettivamente, A.D. Schrift, Nietzsche for Democracy, in “Nietzsche Studien”, XXIX [2000], pp. 220-233 e G. Vattimo, Il soggetto e la maschera, cit., pp. 350 sgg.; Id., La saggezza del superuomo, in Dialogo con Nietzsche, cit., p. 192). La questione, del resto, non si pone per Nietzsche in termini strettamente politici. A più riprese, egli si è, infatti, dichiarato apolitico e ha considerato le più significative epoche della cultura come periodi di decadenza politica (cfr. GD, 101 = 102). Sulle idee che Nietzsche ha della democrazia, si veda, comunque, U. Marti, Der große Pöbel-und Sklavenaufstand. Nietzsches Auseinandersetzung mit Revolution und Demokratie, Stuttgart-Weimar 1993. 70 JGB, 217-218 = 177-178 e cfr. GM, 229-230 = 276: “Ogni accadimento del mondo organico è un sormontare, un signoreggiare e […] a sua volta ogni sormontare e signoreggiare è un reinterpretare, un riassettare, in cui necessariamente il ‘senso’ e lo ‘scopo’ esistiti fino a quel momento devono offuscarsi o del tutto estinguersi […]. Ma tutti gli scopi, tutte le utilità, sono unicamente indizi del fatto che una volontà di potenza ha imposto la sua signoria su qualcosa di meno potente e gli ha impresso, sulla base del proprio arbitrio, il senso di una funzione […]”. Nietzsche elabora la concezione della volontà di potenza e di autosuperamento anche per contrastare l’idea di “adattamento” diffusa nelle scienze biologiche: “Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho anche trovato volontà di potenza; e anche nella volontà di colui che serve ho trovato la volontà di essere padrone […]. E la vita mi ha confidato questo segreto: ‘Vedi, disse, io sono il continuo, necessario superamento di me stessa’ ” (Z, 144 = 139). 71 Cfr. E. Nolte, Nietzsche und der Nietzscheanismus, Frankfurt a. M.-Berlin 1990, p. 165. 72 Nel gregge l’invidia sembra ereditaria: “Presunzione intristita, invidia rattenuta, forse la presunzione e l’invidia dei vostri padri: da voi erompe come fiamma e demenza della vendetta. Ciò che il padre ha taciuto, prende la parola nel figlio; e spesso ho trovato che il figlio altro non era, se non il segreto denudato del padre” (Z, 125 = 120). 73 Cfr. Arist., Rhet., II, 9, 1387 sgg. La tradizione filosofica ha dedicato poca attenzione – prima di Nietzsche – alla problematica dell’invidia e del risentimento e, soprattutto, alla loro funzione sociale. Da vedere, comunque, fra le poche eccezioni F. Bacon, On Envy, in The Essays of Counsels, Civil and Moral, a cura di S.H. Reynolds, Oxford 1890, pp. 56 sgg. e A. Schopenhauer, P, II, §§ 114 e 242 e, in particolare, § 242, p. 491 = 1158: “L’invidia è appunto l’anima dell’alleanza dovunque fiorente e tacitamente stipulata, senza previa intesa, di tutti i mediocri contro il singolo individuo eccellente di qualsiasi specie”. 74 DA, II, 629. Si veda anche supra, p. 259. 75 Cfr. R. Frary, Handbuch des Demagogen. Aus dem Französischen übersetzt von B. Ossmann, Hannover 1884. Una scelta di passi del Manuel du Démagogue è stata pubblicata con il titolo Du bon usage de la mauvaise foi, Paris 1981. Recentemente sono state indicate come fonti di Nietzsche per la teoria dell’invidia e del risentimento nella Genealogia della morale la lettura delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij in traduzione francese e il libro di Eugen Dühring, Der Werth des Lebens, Breslau 1865, cfr. A. Orsucci, Genealogia della morale. Introduzione alla lettura, Roma 2001, pp. 58-65. 76 R. Frary, Du bon usage de la mauvaise foi, cit., pp. 153-154. Sull’invidia, cfr. ivi, pp. 143-154. 77 I problemi relativi all’invidia e al risentimento nei cristiani, democratici, socialisti o rivoluzionari
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attendono di essere studiati a fondo in Tocqueville, Nietzsche e Scheler. Qualche cenno, a proposito di Nietzsche e di M. Scheler, si può trovare in R. Wiehl, Ressentiment und Reflexion, in “Nietzsche Studien”, II (1973), pp. 61-90, e, in relazione al saggio di Scheler, Das Ressentiment im Aufbau der Moralen, in A. Pupi, L’uomo risentito secondo l’analisi di Max Scheler, in “Rivista di filosofia neoscolastica”, LXIII (1971), pp. 575-604. Secondo Nietzsche, in una civiltà antagonistica come quella greca, l’invidia non è percepita come una macchia morale, bensì quale prodotto di una divinità benefica (HW, 281 = 249). Solo nel desiderio di abbassare gli uomini al livello dei mediocri sorge la gioia per i mali altrui (cfr. MA, II, 198-199 = 152). 78 Il carattere revocabile dell’autorità rischia di indebolirne la natura e il prestigio. Talvolta – come aveva osservato Max Weber – chi sta in alto viene mantenuto in questa posizione a patto di essere disprezzato e umiliato: “Ancora fino a quindici anni fa, se si domandava agli operai americani perché si facessero governare da uomini politici che dichiaravano di disprezzare, si otteneva questa risposta: ‘Preferiamo avere per funzionari persone sulle quali sputiamo, piuttosto che, come da voi, una casta di funzionari che ci sputa addosso’” (M. Weber, PB, in PB/WB, 94). 79 Ch. Maurras, Enquête sur la monarchie, Paris 1925, p. 79. 80 Cfr. R. Bodei, La storia congetturale. Ipotesi di Condorcet su passato e futuro, in “Mélanges de l’École Française de Rome (Italie et Méditerranée)”, t. CVIII (1996), n. 2, pp. 457-468. 81 Tale prospettiva implica, per inciso, l’abbandono dell’ideale di un comune progresso di masse ed élite che era alla base sia del Più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco (il cui autore è Hegel o Hölderlin), sia del frammento giovanile hegeliano La contraddizione sempre crescente… (su cui cfr. R. Bodei, Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, cit., pp. 4-58).
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5. Risorgere da se stessi: Bergson e Proust 1 Per la lista dei “feticci” proustiani, dalla madeleine in poi, cfr. S. Beckett, Proust, London 1931; trad. it. Proust, Milano 1978, p. 4. 2 Cfr. P.A. Rovatti, Un tema percorre tutta l’opera di Bergson, Introduzione a G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, Torino 2001, pp. XII, XIV: “Il virtuale è la dimensione indefinita e senza frontiere di ciò che poteva, può e potrà realizzarsi. Non un doppio fondo della realtà, bensì la sua superficie effettiva e perciò potenziale, quella che Deleuze nel suo lessico filosofico chiama ‘campo di immanenza’ e rispetto alla quale ogni atto, ogni attuale, si ritaglia come un punto o la punta del qui e ora rispetto al ‘non ancora’ […]. Nel luogo di maggiore intensità filosofica di Le bergsonisme [Paris 1966; trad. it. in questo stesso volume, pp. 3-103] troviamo, ripetuta da Deleuze, la seguente formula condensata: ‘reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti’. Cerchiamo di farla nostra, ricordando innanzi tutto, come fa Deleuze stesso, che questa potrebbe essere ‘la formula migliore’ che Proust ci suggerisce per definire gli stati di virtualità […]. Il virtuale, che secondo Deleuze, accompagna ogni evento e ne detta l’unico senso possibile, contiene più realtà di qualunque atto”. 3 EC, 715. Sulla teoria di Roux dello sviluppo qualitativo, “a mosaico”, delle cellule, cfr. W. Roux, Gesammelte Abhandlungen über die Entwicklungsmechanik der Organismen, vol. I, Leipzig 1895. Sul tema della compenetrazione o della separazione numerica degli stati di coscienza, cfr. S. Poggi, Il tormento della distinzione e il flusso della coscienza. Spencer, Bergson e i fatti della psiche, in “Rivista di filosofia”, nuova serie, XXII-XXIII (1982), pp. 122-169. Sulla natura e le modalità della coscienza, cfr. V. Jankélévitch, Henri Bergson, Paris 1959; A. Pessina, Il tempo della coscienza. Bergson e il problema della libertà, Milano 1988. 4 Cfr. il testo in inglese delle lezioni di Edimburgo, pubblicate postume, Onze conférences sur “la personnalité” aux Gifford Lectures d’Edinburgh, in M, 1049-1071 e il testo di quelle di Madrid, ivi, pp. 1215-1231. Cfr. anche M. Tison-Braun, L’introuvable origine. Le problème de la personnalité au seuil du XXe siècle. Flaubert, Mallarmé, Rimbaud, Valéry, Bergson, Claudel, Gide, Proust, cit., pp. 139-158. Non si dimentichi il fatto che Bergson, oltre allo spiccato interesse giovanile per Spencer e i suoi Principles of Psychology, continuò ad attribuire al filosofo inglese un notevole ruolo nei corsi del 1904-1905 e 19061907 al Collège de France. 5 Sui “miliardi di cellule nervose” cfr. le osservazioni, anche a livello divulgativo, di Th. Meynert, Über den Wahn, in Sammlung von populär-wissenschaftlichen Vorträgen über den Bau und die Leistungen des Gehirns, Wien und Leipzig 1892, pp. 83 sgg. Sulla psichiatria e la neurologia di Theodor Meynert (al cui laboratorio lavorò Freud), cfr. E. Leski, Die Wiener medizinische Schule im 19. Jahrhundert, Graz 1965, pp. 373-405. Sull’attività conservatrice dello spirito e la permanenza dei ricordi, cfr. P. Janet, AP, 485-486. Sulla conservazione integrale del passato in Bergson, cfr. MM, 291 sgg. = 258 sgg. Cfr., in particolare, ES, 886: “Ma, dietro i ricordi che vengono a posarsi sulla nostra attività presente e a rivelarsi per suo tramite, ce ne sono migliaia e migliaia d’altri, in basso, al di sotto della serie illuminata dalla coscienza. Sì, credo che il nostro passato è là, conservato fin nei minimi dettagli, e che tutto ciò che abbiamo percepito, pensato, voluto dal primo risveglio della nostra coscienza, persiste indefinitamente”. Si veda anche M. Meletti Bertolini, Bergson e la psicologia, cit., p. 76. Ancora nel 1928 Pierre Janet poteva così ragionare fantasticando: “Non sono del tutto certo che il passato sia interamente morto e scomparso, e ho un debole per il romanzo di Wells La macchina del tempo; verrà un giorno in cui l’uomo saprà passeggiare nel passato come comincia a passeggiare nell’aria, un giorno sapremo trasferirci nel tempo e cercheremo nel passato gli avvenimenti scomparsi e i personaggi morti per riportarli nel presente, cosa che darà vita a romanzi d’avventura più fantastici di quelli di Jules Verne e di cui i nostri romanzieri di oggi, poveri d’immaginazione, non hanno alcuna idea” (AE, II, 81). 6 Malgrado ciò, la sua filosofia è stata fonte d’ispirazione costante per Pierre Janet, Eugène Minkowski e Ludwig Binswanger, cfr. V.P. Babini, La vita come invenzione. Motivi bergsoniani in psichiatria, cit.; I. Zanzanaini, Il pensiero di Bergson e la medicina psichiatrica francese, in “Giornale critico della filosofia italiana”, LXXIX (1991), pp. 485-494. 7 E questo sebbene Proust, dopo aver elogiato Ribot per Les maladies de la volonté nella prefazione
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alla traduzione francese di Sesame et les lys di Ruskin, lo giudicherà poi “un philosophe de 25e ordre” (cfr. M. Proust, Lettera a Walter Berry, 14 marzo 1919, in Correspondence, texte établi et présenté par Ph. Kolb, 21 voll., Paris 1970-1993, vol. XIX [Paris 1990], p. 140). Questa affermazione trova il suo contrappasso nelle parole, altrettanto dure e ingiuste, di Jean-François Revel: “Credendo di raggiungere l’eterno e l’imperituro [attraverso i ricordi della memoria involontaria], Proust non giunge nemmeno a legare le scarpe di Théodule Ribot […] i passi di Proust che mi piacciono meno, quelli che leggo con minore curiosità, sono proprio quelle resurrezioni che sgorgano appunto dalla sua ‘seconda memoria’ – a cominciare dalla storia della ‘maddalena’, che mi ha sempre fatto pensare a un tema di quarta ginnasio” (J.-F. Revel, Sur Proust. Remarques sur À la recherche du temps perdu, Paris 1960; trad. it. Su Proust, Firenze 1969, pp. 15, 16). 8 Cfr. G.D. Painter, Marcel Proust, London 1965; trad. it. Marcel Proust, Milano 19702, pp. 378-382. Le tracce di temi relativi alla medicina e alle malattie sono frequenti nella Recherche (il padre di Marcel, Adrien, era, come si ricorderà, professore alla facoltà di medicina dell’università di Parigi e anche il fratello, Robert, era medico). Su questi aspetti, cfr. C. Blondel, La psychographie de Proust, Paris 1932; R. Soupault, Marcel Proust du côté de la médicine, Paris 1967; S. Béhar, L’univers médical de Proust, Paris 1970; B. Straus, Maladies of Marcel Proust. Doctors and Disease in his Life and Work, New York-London 1980; F.H. Fladenmuller, Le nerveux dans l’œuvre de Proust, Chapell Hill 1983 (tesi di PhD); Ch. Bouazis, Ce que Proust savait du symptôme, Paris 1992. 9 Sul più famoso episodio di memoria involontaria in Proust, cfr., da un punto di vista filologico, Les avant-textes de l’épisode de la madeleine dans les cahiers de brouillon de Marcel Proust, présentés par L. Keller, Paris 1978 e, per un inquadramento, R. Shattuck, Proust’s Binoculars. A Study of Memory, Time and Recognition in “À la recherche du temps perdu” [1963], New York 1967; G. Poulet, Essay sur le temps humain. IV: Mesure de l’instant, Paris 1968; S. Dubrovsky, La place de la réalité chez Proust, Paris 1978; H.R. Jauss, Zeit und Erinnerung in Marcel Prousts “À la recherche du temps perdu”. Ein Beitrag zur Theorie des Romans [1955], Frankfurt a.M. 1996; G. Henrot, Délits/délivrance: thématique de la mémoire proustienne, Padova 1991 e D. Mabin, Le sommeil de Marcel Proust, Paris 1992. Bergson aveva trattato dei “ricordi spontanei”, mostrando come essi si rivelino par des éclairs brusques e scompaiano “al più piccolo movimento della memoria volontaria” (cfr. MM, 233 = 207). Proust stesso cita, tra i suoi modelli letterari di memoria involontaria, oltre alla Sylvie di Gérard de Nerval e alle opere di Baudelaire, “una delle due o tre frasi più belle” dei Mémoires d’outre-tombe di Chateaubriand: “Un odore fine e soave d’eliotropio esalava da un campicello di fave in fiore; a portarlo sino a noi non era una brezza della patria, ma un vento selvaggio di Terranova, senza rapporto con la pianta esiliata, senza simpatia di reminescenza e di voluttà. In quel profumo non respirato dalla bellezza, non depurato dal suo seno, non sparso sulle sue tracce, in quel profumo che aveva mutato aurora, cultura e mondo, c’erano tutte le malinconie del rimpianto, dell’assenza e della giovinezza” (R. de Chateaubriand, Mémoires d’outretombe, a cura di M. Levaillant e G. Moulinier, Paris 1951, p. 211 e cfr. Proust, TR, 498 = 278-279). 10 Secondo la tradizione platonica, esposta nel Parmenide (156 c-d), è nell’istante improvviso, nell’exaíphnes incollocabile e inclassificabile (átopos) nella serie degli eventi, che si esce fuori dal tempo. Chissà se Proust, così affascinato in gioventù dalla filosofia di Platone, ha avuto indirettamente presente questa problematica, filtrata, peraltro, da una lunga tradizione sull’idea di “improvviso” (oggetto del saggio di K.-H. Bohrer, Plötzlichkeit. Zum Augenblick des ästhetischen Scheins, Frankfurt a. M. 1981)? Per misurare la distanza tra Proust e Bergson, si pensi che quest’ultimo sosteneva di non aver tratto la sua idea di durata da quella di “eternità degli antichi”, ma di avere, al contrario, fatto discendere l’eternità dalle vette in cui era stata posta per trasformarla in una durata che sempre si accresce (cfr. la lettera a Kallen del 28 ottobre 1915, citata da M. Barthélemy-Madaule, Bergson, Paris 1967, p. 41). Questo, tuttavia, è proprio uno degli aspetti dell’eternità in quanto “vita”, così come Plotino la descrive. Per la presenza di Plotino in Bergson, cfr., da un’altra angolazione, M. Mossé-Bastide, Bergson et Plotin, Paris 1960. Sull’annoso problema del rapporto tra Proust e Bergson e Proust e la filosofia, cfr. J.N. Megay, Bergson et Proust. Essai de mise au point de la question de l’influence de Bergson sur Proust, Paris 1976; S. Poggi, Gli istanti del ricordo. Memoria e afasia in Proust e Bergson, Bologna 1991, pp. 86-98, 131-137 e AA. VV., Marcel Proust und die Philosophie, a cura di U. Link-Heer, Frankfurt a. M. 1996. 11 TR, 451 = 222. L’esistenza di un “vero io” pone il problema del suo rapporto con la molteplicità
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degli io su cui Proust si è spesso soffermato. Esiste dunque un io profondo che non viene esaurito dalle successive apparizioni degli “io di ricambio”? H. Bonnet, in Le progrès spirituel dans l’œuvre de Marcel Proust, 2 voll., Paris 1946-1949, vol. II, pp. 16 sgg. accenna a una molteplicità di io che si manifestano, di volta in volta, in maniera discontinua come diverse personalità. È tuttavia indubbio che l’io narrante riconosce le proprie metamorfosi, testimoniate dalla memoria (volontaria e involontaria). La permanenza dell’io profondo è dunque garantita dalla coscienza, non dall’inconscio (come osservano, giustamente, H.R. Jauss, in Zeit und Erinnerung in Marcel Prousts “À la recherche du temps perdu”. Ein Beitrag zur Theorie des Romans, cit., e S. Poggi, in Gli istanti del ricordo. Memoria e afasia in Proust e Bergson, cit., pp. 21-22). Eppure, nemmeno la somma degli io di ricambio esaurisce il “vero io”, che si coglie per qualche istante fuori dal tempo e che racchiude i caratteri geroglifici di quel libro che ciascuno dovrebbe decifrare per conoscere se stesso (cfr. supra, p. 135). Per un confronto ellittico con Husserl sugli aspetti fenomenologici della ricerca dell’“io perduto”, cfr. M. Jaramillo-Mahut, E. Husserl et M. Proust: à la recherche du moi perdu, Paris 1997. 12 JF, 77, 79 = 352, 353, 356. Su questi passi proustiani si veda, da differente angolatura, É. Boucquey, Les Trois Arbres d’Hudismesnil, souvenir retrouvé, in “Bulletin de la Société des Amis de Marcel Proust”, n. 38, Paris 1988, pp. 137 sgg. e pp. 148 sgg. In un altro contesto, sul “messaggio importante ed elusivo come quello dei tre alberi che suscitarono la compassione di Proust”, si veda S. Kracauer, The Last Things Before the Last, New York 1969; trad. it. Prima delle cose ultime, Casale Monferrato 1985, pp. 7, 62-63. Sull’insistita presenza del mondo vegetale in Proust (alberi, ma, in particolare, fiori), cfr. J. Geffriaud Rosso, L’univers floral de Marcel Proust, Pisa 1995. 13 Sul valore dominante della sensibilità e della percezione, cfr. J.P. Richard, Proust et le monde sensible, Paris 1974. 14 P, 692-693 = 200-201 e cfr. Ph. Boyer, Le petit pan de mur jaune. Sur Proust, Paris 1987. 15 TR, 614 = 419. Sulla paura di essere colpito da un ictus cerebrale e sulle conoscenze mediche che Proust aveva di questo fenomeno, cfr. S. Poggi, Gli istanti del ricordo. Memoria e afasia in Proust e Bergson, cit., pp. 99-130. 16 Sull’immagine che Proust ha della società francese del suo tempo, si vedano, da ultimo, J. Canavaggia, Proust et la politique, Paris 1986 e M. Sprinker, History and Ideology in Proust: À la recherche du temps perdu and the Third French Republic, Cambridge 1994. 17 Per l’attenzione ai segni di degradazione fisica, si veda già il saggio Sentiments filiaux d’un parricide: “Se in un corpo a noi caro sapessimo discernere il lento lavoro di distruzione perseguito dalla dolorosa tenerezza che lo anima, vedere gli occhi spenti, i capelli rimasti a lungo indomabilmente neri vinti poi come il resto e incanutiti, le arterie indurite, i reni occlusi, il cuore stanco, il coraggio dinanzi alla vita spezzato, il passo reso più lento, appesantito […] forse chi sapesse discernere tutto questo, in uno di quei tardivi intervalli di lucidità concessi anche alle esistenze più stregate da chimere, dacché persino quella di Don Chisciotte ebbe il proprio, indietreggerebbe dinanzi all’orrore della propria vita, come Henri van Blarenberghe dopo aver finito a pugnalate sua madre, e si getterebbe su un fucile, per morire subito” (SFP, 159 = 171-172 e cfr. M. Bongiovanni Bertini, Redenzione e metafora. Una lettura di Proust, Milano 1981, p. 46). 18 La speranza di immortalità non nasce come in Bergson dalla constatazione che la coscienza deborda dall’organismo, ma dall’affiorare nell’animo nostro di “obblighi, che non trovano sanzione nella vita presente” e “sembrano appartener a un mondo diverso, fondato sulla bontà, lo scrupolo, il sacrificio, un mondo totalmente diverso da questo, e dal quale usciamo per nascere a questa terra prima forse di tornarvi a rivivere sotto il dominio di quelle leggi sconosciute cui abbiamo obbedito perché ne portavamo l’insegnamento dentro di noi senza sapere chi ve le avesse tracciate” (Proust, P, 188 = 202). 19 Occorre completare l’opera in modo che si risolva il dilemma tra l’impossibilità di comunicare e il desiderio di compiere una sortita da se stesso (cfr. G. Picon, Lecture de Proust, Paris 1995, pp. 89 sgg.). Sul significato attribuito da Proust alla sua opera cfr. V. Descombes, Proust: philosophie du roman, Paris 1987 e P. Citati, La colomba pugnalata: Proust e La recherche, Milano 1995.
6. Lo spontaneo artificio: Pirandello 472
1 È abbastanza nota, anche se non ben compresa o inquadrata, l’importanza che ebbe per Pirandello l’opera di Binet Les altérations de la personnalité, peraltro ricordata da Gaetano Negri nel volume Segni dei tempi. Profili e bozzetti letterari, Milano 1893. Cfr. i riferimenti in G. Andersson, Arte e teoria. La poetica del giovane Pirandello, Stockholm 1966, pp. 150-154, 225 sgg.; in C. Vicentini, L’estetica di Pirandello, Milano 1970; in R. Barilli, La linea Svevo-Pirandello, Milano 1972, pp. 244-247; in G. Macchia, Pirandello o la stanza della tortura, Milano 1981, pp. 149-161; in G. Nava, Arte e scienza nella saggistica di Pirandello, in AA. VV., Pirandello saggista, Palermo 1982, pp. 180 sgg. e in E. Gioanola, Pirandello e la follia. Nuova edizione integrata con saggi su Liolà e Sei personaggi, Milano 1997, pp. 42 sgg. Sull’incidenza degli studi di psicologia sulla cultura letteraria italiana dell’epoca, cfr. P. Rossi, 18901900: alcuni letterati italiani e la loro immagine della scienza, in Id., Immagini della scienza, Roma 1977, pp. 185-225. 2 L. Pirandello, Scienza e critica estetica, in “Il Marzocco”, 10 luglio 1900 (questo testo è stato poi in parte rielaborato nel primo saggio di Arte e scienza, Roma 1908) e cfr. M. Ermilli, Vita, arte e società nei primi saggi di Pirandello (1893-1908), in AA. VV., Pirandello saggista, cit., p. 325. 3 U, 211-212. Cfr. quanto affermato da E. Morselli, Manuale di semeiotica delle malattie mentali, 2 voll., Milano, s.d. (ma 1894-1898), vol. II, p. 49: “Nel corso di una lunga vita un uomo attraversa un numero indefinito di personalità, tante quante sono le modificazioni apportate al suo Io. Quelle che si succedono nello stesso individuo sono talvolta tanto dissimili, che se ciascuna fase, abbastanza lontana, della vita potesse incarnarsi o impersonarsi in individui distinti che si facessero vivere contemporaneamente, si vedrebbe risultarne un gruppo il più eterogeneo: la dissimiglianza giungerebbe anzi a mostrarci le ‘persone’ più opposte nell’indole, nei sentimenti, nei pensieri e nelle azioni […]. I cangiamenti che avvengono in un individuo normale riguardano soltanto i fenomeni più complicati dello spirito, quelli che possono dirsi secondari, quali sarebbero i ricordi meno necessari, le credenze, i giudizi astratti, le inclinazioni, i desideri, gli affetti […]. Se il cangiamento fosse troppo repentino o troppo profondo, in modo da impedire la sintesi sistematica che in noi si era formata o si va formando tra gli strati di coscienza, allora la variazione della personalità acquisterebbe i caratteri morbosi, e diventerebbe una vera e propria alienazione mentale: è questo, appunto, che si verifica nei pazzi e nei neuropatici”. 4 Cfr. A. Binet, AP, 315. Alcuni di questi temi derivano, peraltro, a Binet dalle ipotesi formulate da P. Janet in L’automatisme psychologique (cfr. la recensione che ne scrive Binet sulla “Revue philosophique de la France et de l’Étranger”, XV [1890], t. XXIX, pp. 186-200). 5 Cfr. AMB, 464-470. Il Taccuino segreto conserva l’abbozzo di una prima versione di questo testo, intitolata più seccamente Bobbio. Il taglio è qui maggiormente filosofico rispetto alla novella del 1902 e alle successive rielaborazioni. Vi si trovano, da un lato, meditazioni sul rapporto tra la coscienza dell’uomo (dotata del dubbio privilegio di sapere con certezza l’inevitabilità della propria morte) e quella degli animali (ignari di tutto e che non sbagliano mai perché seguono la propria natura) e, dall’altro, acute considerazioni sul rapporto tra fede e morte, ragione e mistero: “L’ombra c’è, perché c’è il lume: spento il lume, non ci sono più neanche le ombre. Bobbio si domandava: Ma qual è il lume che bisogna spegnere, perché spariscano anche le ombre […] il lume che si dovrebbe spegnere non può essere altro che quello della ragione. Se non che – tornava a interloquire il libro aperto sulla scrivania – chi ti dice questo, se non la ragione. E può stare che la ragione consigli a se stessa di spegnersi? Questo non poteva stare” (TS, 10 [c. 4r-c. 4v]). Sul dubbio come cifra della poetica pirandelliana ha scritto acutamente Corrado Alvaro: “Una delle vie per cui opera Pirandello è l’Amletismo; tutti i suoi personaggi hanno in sé qualcosa di Amleto […]. Come Amleto, i suoi personaggi sono in un mondo di tradizioni consunte portando in sé qualcosa di essenziale, e il sapore della morte, e il demone del pensiero in confronto con la debolezza della volontà” (C. Alvaro, Prefazione a L. Pirandello, N, I, 39-40). 6 AMB, 464 (si tratta di un’aggiunta del 1915 alla prima edizione del 1902; si ritrovano in questa novella, quasi con le stesse parole, idee già espresse nel 1908, cfr. U, 211-212). Nella metafora del pozzo si è voluta vedere una reminiscenza di un passo di Nietzsche, tratto dallo Schopenhauer come educatore: “Ma come possiamo ritrovare noi stessi? Come può l’uomo conoscersi? Egli è una cosa oscura e velata […]. Inoltre è un inizio tormentoso, rischioso scavare in se stessi in tal modo e discendere con violenza per la via più breve nel pozzo del proprio essere. Quanto facilmente, nel far ciò, egli può ferirsi in modo tale che nessun medico potrà guarirlo” (F. Nietzsche, SE, 336 = 362 e A. Andreoli, Nel laboratorio di
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Pirandello, postfazione al Taccuino segreto, cfr. TS, 158-160). Sciascia ha notato giustamente che l’invocazione (“oh Maria! oh Maria!”) sgorga a Bobbio, come dice Pirandello, “con voce non sua, con fervore non suo” (L. Sciascia, Alfabeto pirandelliano, Milano 1989, p. 15). Riflessioni analoghe a quelle esposte nell’Avemaria di Bobbio si ritrovano già nel romanzo L’esclusa, composto nel 1893 e pubblicato nel 1901 (“Non sentiva forse ciascuno guizzar dentro, spesso, pensieri strani, quasi lampi di follia, pensieri inconseguenti, inconfessabili, come sorti da un’anima diversa da quella che normalmente ci riconosciamo?”: L’esclusa, in R, I, 33) e nel racconto L’uscita del vedovo (“A mano a mano che andava, sopite immagini, impressioni rimaste nella sua coscienza d’altri tempi, non cancellate, sì svanite a lui per il sovrapporsi d’altri strati di coscienza opprimenti, gli si ridestavano, sommovendo e disgregando, a poco a poco, con un senso di dolce pena, la triste compagine della coscienza presente”: L’uscita del vedovo, in N, I, 427). 7 UNC, II, 798. Sulla gestazione di Uno, nessuno e centomila e l’intervista a “Epoca”, cfr. M. Guglielminetti, Le vicende e i significati di “Uno, nessuno e centomila”, in AA. VV., Il romanzo di Pirandello, Palermo 1976. 8 Car., 719. In simili affermazioni si può individuare anche un atteggiamento “anarchico” (in senso non politico) nella mentalità di Pirandello, cfr. G. Baldi, L’inetto e il superuomo. D’Annunzio tra “decadenza” e vita ascendente, cit., p. 59: “Alla base di tutta l’opera pirandelliana si può scorgere infatti un rifiuto delle forme della vita sociale, dei suoi istituti, dei ruoli che essa impone, un bisogno disperato di autenticità, di immediatezza, di spontaneità vitale. Anche se la sua esistenza si svolge sui binari di un perbenismo esteriore, Pirandello è nel suo fondo un anarchico, un ribelle insofferente dei legami della società, contro cui scaglia la sua critica corrosiva”. Tale anarchia scaturisce però – a me sembra – non dall’impossibile bisogno di “autenticità”, ma dalla consapevolezza che le esigenze e le aspirazioni dell’individuo non potranno mai essere soddisfatte dalla vita sociale. 9 G. Mazzacurati, Pirandello nel romanzo europeo, Bologna 1987, capitolo V: Ombre e nasi: da Tristram Shandy a Vitangelo Moscarda, pp. 269-303 (per l’ascendenza shandiana della storia del naso, già intravista, da Giovanni Macchia in Pirandello o la stanza della tortura, cit., p. 76, in cui, dopo aver alluso al Saggio sull’umorismo, dice: “Altrove egli riconosceva nello Sterne colui che nell’infinitamente piccolo vedeva regolato tutto il mondo”. Nello stesso testo di Macchia si trova il saggio del 1980, Binet, Proust, Pirandello, pp. 149-161). Si veda anche G.P. Biasin, Lo specchio di Moscarda [1972], in Malattie letterarie, Milano 1976, pp. 125-155. Sul concetto pirandelliano di umorismo, cfr., da ultimo, G. Patrizi, Pirandello e l’umorismo, Roma 1997 e M. Cantelmo, L’isola che ride: teoria, poetica e retorica dell’umorismo pirandelliano, Roma 1997. 10 Cfr. MP, 371: “Lei sola, là dentro, quella pallottola d’avorio, correndo graziosa nella roulette, in senso inverso al quadrante pareva che giocasse” sotto gli occhi supplici dei giocatori che sembrava che dicessero: “Dove a te piaccia di cadere, graziosa pallottola d’avorio, nostra dea crudele!”. 11 U, 213. A proposito della “degenerazione” occorre ricordare che Pirandello era un lettore di Max Nordau, i cui libri Die Krankheit des Jahrhunderts, cit., ed Entartung, 2 voll., Berlin 1893, vennero anche tradotti in italiano: Degenerazione, Milano 1893-1894, e La malattia del secolo, cit. (cfr. supra, pp. 220221). 12 Cfr. U, 208 n.: “Mi avvalgo di alcune acute considerazioni contenute nel libro di Giovanni Marchesini, Le finzioni dell’anima, Bari, Laterza, 1905”. Marchesini, che si appoggia alle analisi di James Sully, definisce la finzione “un prevalere dello stato di coscienza, per cui, per dirla molto in breve, si dà corpo alle ombre, proiettandosi nel mondo reale un prodotto dell’immaginazione. Diciamo pure finzione quell’artificio per cui si dà forma di obiettiva verità a credenze che sono dovute a un singolare disporsi dell’anima per effetto di intimi bisogni, di segrete tendenze, e che si stabiliscono e seducono senza che il soggetto penetri veracemente l’essere e il moto del proprio spirito” (ivi, p. 7). Poiché nell’anima individuale vivono “i frantumi della storia trascorsa” di tutta la specie e le sue “aspirazioni non tramontate mai definitivamente” durante tutto il “corso procelloso” della sua evoluzione (cfr. ivi, p. 14), le illusioni del genere umano si affiancano a quelle dei singoli. Ne consegue che “il midollo della coscienza scientifica” consiste nel riconoscimento della “finzione come necessaria” (ivi, p. 59). Leggendo Marchesini, ci si accorge però di quanto più radicale e drammatica sia la posizione di Pirandello. Su Marchesini, cfr. il numero monografico a lui dedicato dalla “Rivista critica di storia della filosofia”,
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XXXVII (1982), fasc. IV. Marchesini si situa nella tradizione di pensiero che fa capo, oltre che a Sully, anche a Lange, Paulsen e Vahinger. Sulle concezioni filosofiche pirandelliane, cfr., da ultimo, E. Cerasi, Quasi niente, una pietra: per una nuova interpretazione della filosofia pirandelliana, Prefazione di E. Severino, Padova 1999. Più in generale, sulle letture di Pirandello, cfr. G. Bussino, Alle fonti di Luigi Pirandello, Firenze 1979 e A. Barbina, La biblioteca di Pirandello, Roma 1980. 13 Della casualità del vivere e del morire aveva, appunto, trattato duemila e cinquecento anni prima di Pirandello questo suo illustre concittadino: “Gli uomini, dal breve destino, scrutano solo una piccola parte della vita / con le loro esistenze, e innalzandosi come fumo dileguano, / solo affidati a quel poco che ciascuno incontra a caso, / mentre vagano per ogni dove […]” (Empedocle, Poema fisico, Fr. 2 Diels-Kranz = fr. 1 Gallavotti, vv. 30-34). 14 L. Pirandello, Il vecchio Dio [1926], in N, II, 130. Si veda la poesia Credo [1901], in Fuori di chiave, in OP, vol. VI, SPSV, p. 205, vv. 14-27: “Se Dio vuol farmi credere ch’Egli è / dovunque / e che / veglia su tutti, e dunque / pure su di me; / ch’Egli d’una giustizia è dispensiere / la qual col nostro metro / non si misura né intender ci è dato, / dovrò dargli per questo dispiacere? / gli crederò: / il mondo, bene o male, ha camminato, / almeno un po’; / Egli non sa mutar l’antico andare, / povero Vecchio, ed è rimasto indietro”. La fede in Dio, che cementa il mondo dandogli un senso fittizio, è quella a cui s’appoggia il principe di Laurentano in I vecchi e i giovani: “Monarchie, istituzioni civili e sociali: cose temporanee; passano; si farà male a cambiarle agli uomini o a toglierle di mezzo, se giuste e sante; sarà un male però possibilmente rimediabile. Ma se togliete od oscurate agli uomini ciò che dovrebbe splendere eterno nel loro spirito: la fede, la religione? Orbene questo aveva fatto il nuovo governo [del Regno d’Italia]! E come poteva più il popolo starsi quieto tra tante tribolazioni della vita, se più la fede non gliele faceva accettare con rassegnazione e anzi con giubilo, come prova e promessa di premio in un’altra vita? La vita è una sola? questa? le tribolazioni non avranno un compenso di là, se con rassegnazione sopportate? E allora per qual ragione più accettarle e sopportarle? Prorompa allora l’istinto bestiale di soddisfare quaggiù tutti i bassi appetiti del corpo” (VG, 10-11). Uno dei problemi posti da Pirandello è appunto quello di mostrare le conseguenze inevitabili di una vita senza premi e punizioni nell’aldilà. 15 L. Pirandello, Un ritratto, in N, II, 676. Come esempio di analogo trauma infantile si veda anche La veste lunga, in cui la sedicenne Didì ha la vita spezzata dalla morte della madre e dalla percepita estraneità degli altri familiari: “Tuttora Didì ne sentiva [della precedente intimità familiare] un desiderio angoscioso, che la faceva piangere insaziabilmente, inginocchiata inanzi a un’antica cassapanca, ov’erano conservate le vesti della madre. L’alito della famiglia era racchiuso là, in quella cassapanca antica, di noce, lunga e stretta come una bara; e di là, dalle vesti della mamma, esalava, a inebriarla amaramente coi ricordi dell’infanzia felice. Tutta la vita s’era come diradata e fatta vana, con la scomparsa di lei; tutte le cose pareva avessero perduto il loro corpo e fossero diventate ombre” (N, I, 621). Su questi testi si veda L. Lugnani, L’infanzia felice e altri saggi su Pirandello, Napoli 1986, pp. 103 sgg. 16 Sui temi variamente connessi alla questione della personalità e della malattia mentale, cfr. U. Cantoro, Luigi Pirandello e il problema della personalità, Bologna 19542 [prima edizione: Verona 1939]; J.M. Gardair, Pirandello, fantasmes et logique du double, Paris 1972; J.-P. D’Anna, La psychiatrie actuelle devant le théâtre de Pirandello, Thèse Université de Paris III, 1973; Y. Bouissy, Réflexions sur l’histoire et la préhistoire du personnage “alter ego”, in AA. VV., Lectures pirandelliennes, Abeville 1978; E. Gioanola, Pirandello e la follia, cit. 17 U, 215-216 e cfr. L. Klem, Certi momenti di silenzio interiore, in Pirandello e l’oltre. Atti del XXV Convegno Internazionale, a cura di E. Lauretta, Milano 1991, pp. 313-324. 18 Testimonianza di Giovanni Catrufulli in una lettera del 1946 ad André Maurois, citata in F. Rahut, Der junge Pirandello oder das Werden eines existentiellen Geistes, München 1964, p. 296. Sull’idea di “persona” e “personalità” in Pirandello, cfr. A. Bouissy, Réflexions sur l’histoire et la préhistoire du personnage “alter ego”, cit.; C. Donati, “Persona” e scrittura in tre romanzi di Pirandello: Pascal, Gubbio e Moscarda interpreti dell’io, in AA. VV., La “persona” nell’opera di L. Pirandello. Atti del XXIII Convegno Internazionale, a cura di E. Lauretta, Milano 1990. 19 MN, IX, 37. L’episodio corrisponde esattamente alla novella Cinci delle N, II, 806-812. Lo stato di
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sogno e quello di veglia si distinguono, del resto, tra loro, solo nel caso in cui la veglia sia contraddistinta dalla regolarità dell’esperienza: “Mi disse che Cartesio, scrutando la nostra coscienza della realtà, ebbe uno dei più terribili pensieri che si siano mai affacciati alla mente umana: – che, cioè, se i sogni avessero una regolarità, noi non sapremmo più distinguere i sogni dalla veglia! – Hai provato che strano turbamento, se un sogno si ripete più volte? – Riesce quasi impossibile dubitare che non siamo di fronte a una realtà. Perché tutta la nostra conoscenza del mondo è sospesa a questo filo sottilissimo: la regolari-tà delle nostre esperienze. – Noi, che abbiamo questa regolarità, non possiamo immaginare quali cose possano essere reali, verosimili, per chi viva fuori d’ogni regola, come quell’uomo lì!” (PO, 563). 20 B. Croce, “L’umorismo” di Luigi Pirandello [1909], in Conversazioni critiche, Serie I, Bari 1939, pp. 43-48 e cfr. B. Croce, Luigi Pirandello, in Letteratura della nuova Italia. Saggi critici, vol. VI, cap. 54, Bari 1945. 21 B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Bari 1939, p. 15. 22 Alludo qui al titolo del libro di G. Querci, Pirandello: l’inconsistenza dell’oggettività, Bari-Roma 1992. 23 Mi servo di una nota espressione di William James contenuta nel XXI capitolo dei Principles of Psychology (cfr. PP, 645-650). 24 Avvertenza sugli scrupoli della fantasia, in appendice all’edizione del Fu Mattia Pascal pubblicata a Firenze da Bemporad nel 1921. 25 UNC, 748-749. Cfr. anche il racconto La trappola, in N, I, 680-686. Sulla domanda di Valéry “Che cosa ho a che fare io con quel signore che sta nello specchio?”, cfr. V. Magrelli, Intorno all’inaccettabilità dell’Io, in AA. VV., Identità alterità doppio nella letteratura moderna, a cura di A. Dolfi, Roma 2001, pp. 52 sgg. 26 UNC, 889. È sintomatico che Pierre Janet in un frettoloso riferimento a Pirandello, relativo ai Sei personaggi in cerca d’autore, ritenga che secondo il commediografo “la personalità non esista, sia una chimera e che soltanto il pazzo la possegga, in quanto racconta continuamente la stessa storia e si definisce mediante tale ripetizione” (cfr. EPP, 293-294). 27 Questo sentimento di morte, di distacco progressivo dal mondo, è espresso, in forma letteraria, dallo stupendo racconto Di sera, un geranio, in N, II, 813-815. 28 Su questo tema, cfr. G. Bàrberi Squarotti, La tragedia carnevalesca di Enrico IV, in Le sorti del tragico, Ravenna 1978, pp. 173-199. 29 BS, 646. Questa metafora è all’origine del saggio di L. Sciascia, La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia, Torino 1970. 30 SGO, 664, 662. Su una simile prospettiva, cfr. R. Tagliacozzo, La depersonalizzazione: crisi di rappresentazione del Sé nella realtà esterna, in “Rivista di psicoanalisi”, XXII (1976), n. 3. 31 Cfr. A. Schopenhauer, W, § 36 = 232: “Ebbene: quando una tale afflizione, quando il dolore causato da un tal pensiero o ricordo diviene così crudele da riuscire assolutamente insopportabile, facendo soccombere l’individuo, allora la natura, presa in simile angoscia, ricorre alla follia come all’unico mezzo che le resta per salvare la vita; lo spirito torturato rompe, per così dire, il filo della sua memoria, colma le lacune con finzioni, e trova in tal modo nella follia un asilo di salvezza contro il dolore morale che oltrepassa le sue forze; proprio come quando si amputa un membro incancrenito e lo si sostituisce con uno di legno”. Un accenno a questo paragrafo si trova in F. Ferrucci, Pirandello e il palcoscenico della mente, in “Lettere italiane”, 1984, n. 2, p. 225. 32 Con le stesse parole, ma con aggiunte significative, questi ragionamenti ritornano in Canta l’Epistola, in N, I, 446, 447: “Non aver più coscienza d’essere, come una pietra, come una pianta; non ricordarsi più neanche del proprio nome; vivere per vivere, senza saper di vivere, come le bestie, come le piante; senza più affetti, né desiderii, né memorie, né pensieri; più nulla che désse senso e valore alla propria vita […]. Tutte le illusioni e tutti i disinganni e i dolori e le gioje e le speranze e i desiderii degli uomini gli apparivano vani e transitorii di fronte al sentimento che spirava dalle cose che restano e sopravanzano ad essi, impassibili. Quasi vicende di nuvole gli apparivano nell’eternità della natura i
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singoli fatti degli uomini”. 33 È questo il titolo sia del paragrafo di UNC, sia di un saggio pirandelliano del 1909, ora pubblicato in Appendice a L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, a cura di G. Mazzacurati, Torino 1994, pp. 199202. Sul tema cfr. G.L. Lucente, “Non concludere”. Narrative Self-Consciousness and the Voice of Creation in Pirandello’s “Il fu Mattia Pascal” and “Uno, nessuno e centomila”, Baltimore-London 1986; AA. VV., Nuvole e vento. Introduzione alla lettura di “Uno, nessuno e centomila”, a cura di S. Milioto, Agrigento 1989. 34 UNC, 901. Cfr., per questo sentimento di immedesimazione con la natura nei suoi aspetti più umili, il passo di Di sera, un geranio: “Quel verde… Ah come, all’alba, lungo una proda, volle esser erba lui, una volta, guardando i cespugli e respirando la fragranza di tutto quel verde così fresco e nuovo! Groviglio di bianche radici vive abbarbicate a succhiar l’umore della terra nera. Ah come la vita è di terra, e non vuol cielo, se non per dar respiro alla terra” (L. Pirandello, Di sera, un geranio, cit., p. 815). La natura rappresenta anche un inatteso e commovente rifugio dalla massacrante vita sotterranea delle miniere di zolfo in Ciàula scopre la luna: “E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore” (N, I, 1278). 35 Cfr. la poesia La mèta [1909], in Fuori di chiave, cit., pp. 194-19, vv. 14-24: “Mettiti a camminare, / va’ dove il piè ti porta, / piglia la via più corta / e più non dimandare. // Andar dove che sia, / nel dubbio della sorte, / andar verso la morte / per un’ignota via: // ecco il destino. E dunque / fa’ quel che far si deve. / Procura che sia breve. / Tanto, è lo stesso ovunque”. Su Pirandello, scrittore – come Pessoa – cui “interessano le anime in pena” per guardare dentro le loro “botole” e “vivere tante vite, le più vite possibili, / perché la più nobile aspirazione / è di non essere noi stessi, o meglio, / è esserlo essendo altri, / vivere in modo plurale, com’è plurale l’universo”, cfr. A. Tabucchi, Il signor Pirandello è desiderato al telefono, in Id., Dialoghi mancati, Milano 1999, pp. 18, 19, 32. 36 La psichiatria moderna conosce e analizza questo desiderio di diventare nessuno, cfr. R.D. Laing, The Divided Self, London 1959; trad. it. L’io diviso, Torino 1969: “Entrambi i pazienti si sentivano sempre più convinti che il tentativo di essere qualcuno fosse soltanto una finzione, e che l’unica via onesta da intraprendere era di diventar nessuno, perché questa era la cosa che essi ‘realmente sentivano di essere’ ” (citato da R. Dedola, Pirandello e il filo d’erba, in Id., La musica dell’uomo solo. Saggi su Luigi Pirandello, Primo Levi, Leonardo Sciascia e Giovanni Orelli, Firenze 2000, p. 59). “Essere qualcuno con una falsa identità oppure, rinunciando ad essa, diventare nessuno: questo è il dilemma da cui si sentono dilaniati i pazienti di Laing […]. L’identità è nel poter sentire ancora di essere: è il sentimento di sé, il percepire di valere qualcosa, almeno quanto un sasso, una pianta – anche un semplice filo d’erba –, che dà un senso all’esperienza psichica, un’esperienza che non ha nessun riscontro diretto con la realtà esterna. Non è minacciata qui la coerenza e la consistenza dell’io e quindi il suo livello superiore di organizzazione: la razionalità, la morale, la capacità di giudizio, l’ideologia. È invece posta in questione la stessa vitalità dell’io, il ‘sentirsi vivere’ ” (ivi, p. 59). 37 Un elemento panico di “intimità con le cose” si trova anche nella novella Quand’ero matto: “Penetravo anche nella vita delle piante e, man mano, dal sassolino, dal fil d’erba assorgevo, accogliendo e sentendo in me la vita di ogni cosa, finché mi pareva di divenir quasi il mondo, che gli alberi fossero mie membra, la terra fosse il mio corpo, e i fiumi le mie vene, e l’aria la mia anima: e andavo un tratto così, estatico e compenetrato in quella divina visione. Svanita, restavo anelante, e come se davvero nel gracile petto avessi accolto la vita del mondo” (QEM, 164). Su questo passo, in rapporto a D’Annunzio, cfr. A.R. Pupino, La vita superiore tra D’Annunzio e Pirandello, in Id., La maschera e il nome. Interventi su Pirandello, Napoli 2000, pp. 107-120. Oltre che in D’Annunzio e, più in generale, nelle arti figurative dello Jugendstil o del Liberty, questa attenzione per il mondo vegetale e animale, per la spontaneità panica della natura, si trova, a livello europeo, nel romanzo Pan di Hamsun, del 1894. “L’aria risplende di insetti in volo, di miriadi di ali vibranti. Là, ai margini del bosco, ci sono felci e aconiti, l’uva ursina è in fiore, amo i suoi piccoli fiori […]. Ma adesso, nelle ore notturne, sono sbocciati all’improvviso grandi fiori bianchi nel bosco: i loro stigmi sono aperti e respirano. E pelose sfingi del crepuscolo si posano
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nelle loro corolle e fanno tremare l’intera pianta […]. Un brindisi esultante al gatto selvatico che si acquatta sulla gola e prende la mira e si prepara a balzare su un passero nel buio, nel buio! […] Questo silenzio che mi bisbiglia all’orecchio è il sangue ribollente della natura universale, Dio che intesse il mondo e me. Vedo una tela di ragno scintillare alla luce del mio falò, sento un rumore di remi nel porto, un’aurora boreale si leva nel cielo, a nord” (K. Hamsun, Pan, Oslo 1984; trad. it. Pan, Milano 2001, pp. 54, 55, 122-123). 38 S. Satta, Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova 1968, p. 422. 39 Quando ad esempio dice che si usano occhiali con un “Nietzsche biconcavo in un occhio, Ibsen biconvesso in un altro”, cfr. G. Corsinovi, Pirandello e l’espressionismo, Genova 1979, p. 25. 40 Sul fascismo di Pirandello, cfr. G.F. Vené, Pirandello fascista, in Il capitale e il poeta, Milano 1982 e AA. VV., Pirandello e la politica [Atti del XXVIII Convegno Internazionale di Studi Pirandelliani del 1991], Milano 1992; E. Providenti, Pirandello impolitico: dal radicalismo al fascismo, Roma 2000. 41 Lettera alla sorella del 31 ottobre 1886, in LG, 148 e cfr. G. Giudice, Luigi Pirandello, Torino 1963, pp. 94-95. Sulla frequenza delle immagini di animali, cfr. E. Becchereti, L’“animalesca filosofia”. Appunti sul “bestiario” pirandelliano, in I segni e la storia. Studi e testimonianze in onore di Giorgio Luti, Firenze 1996, pp. 161-191. Da rilevare l’insistenza di Pirandello su “la bestia” che è in noi e l’attribuzione all’uomo della qualifica schopenhaueriana di “animale metafisico (che appunto vuol dire UN ANIMALE CHE SA DI DOVER MORIRE)” (Il marito della moglie, in N, I, 1161). 42 Oppure sognare il consolante ritorno a un universo tolemaico, dove – alla maniera del Novalis di Cristianesimo o Europa – la centralità della Terra e dell’uomo offra salde certezze. Si veda l’invettiva contro Copernico di Mattia Pascal, ancora bibliotecario all’inizio del romanzo: “Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni; e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai, le nostre. Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra, poverina, stanca di girare, come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo moto d’impazienza, e ha sbuffato un po’ di fuoco per una delle sue tante bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degli uomini, che non sono stati mai così nojosi come adesso. Basta. Parecchie migliaja di vermucci abbrustoliti. E tiriamo avanti. Chi ne parla più?” (MP, 324).
7. L’individualismo delle differenze: Georg Simmel 1 TL, 27. Dal privilegio della forma individuale deriva quel metodo tipicamente simmeliano che si suol maliziosamente definire “impressionistico”, frutto di una generica ed evanescente “filosofia della vita”, ma che è invece del tutto coerente con rigorosi assunti teorici. Se la sociologia cessa di essere – secondo lo schema comtiano – la scienza della totalità sociale, ricostruibile mediante leggi universali, e si trasforma invece in un genere di conoscenza che prende sul serio il problema della straordinaria differenziazione dei singoli nelle società moderne, solo l’individualità esprime trasversalmente la complessità dei fenomeni sociali. A loro volta, unicamente i fattori di differenziazione sapranno rendere comprensibile l’innumerevole variare delle combinazioni individuali. Simmel non mira quindi né alla conoscenza di leggi astratte, indipendenti dall’individuo e dalla sua psicologia (come in Durkheim), né a un’individualità del tutto isolata e anarchica (come nel caso dell’Unico di Stirner), ma alla gamma di configurazioni specifiche e di tensioni reciproche che si viene a stabilire tra questi estremi. Le interpretazioni del metodo simmeliano che si limitano a constatare la psicologizzazione dei rapporti sociali (che verrebbero in tal modo privati di autonomia) o la sociologizzazione dell’apparato psichico (che verrebbe così intimamente condizionato dall’esteriorità e dall’accidentalità) non gli rendono giustizia. Questo stile di pensiero ha il suo ‘scandaloso’ punto di forza proprio dove sembra più debole: nell’analisi dei residui refrattari a ogni generalizzazione, in ciò che è irriducibile tanto alla pura interiorità della psicologia individuale, quanto all’esteriorità dei rapporti sociali. Non si può, comunque, appiattire l’analisi dettagliata di tali residui su mere impressioni soggettive o su didascalie di leggi generali che esisterebbero comunque al di là del cumulo d’intuizioni e di casi particolari.
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2 Simmel denuncia “il sostanziale fallimento” dell’imperativo categorico e della morale formale di Kant in un’epoca, come quella moderna, che “ha reso infinitamente flessibile e variabile la legge universale rispetto all’azione singola”. Se non si può fare a meno della legge, è tuttavia “un’ingenua presunzione dell’intellettualismo ritenere che in generale ogni contenuto vitale possa essere elevato a universalità concettuale; dimenticare che l’essenza autentica di innumerevoli impulsi e situazioni interne è legata al loro carattere individuale, che anche logicamente è impossibile allargare a concetto universale la loro personale importanza e coloritura” (KA, 186, 187). Non è chiaro quanto Simmel sia consapevole del fatto – già messo in evidenza da Hegel nella Fenomenologia dello spirito – che l’individuale è ineffabile e si può, al limite, mostrare solo col dito. Infatti, se si parla e si pensa, ogni “qui” e ogni “ora” sono universalmente validi per tutti i “qui” e tutti gli “ora”. La legge individuale si rivelerebbe una legge universale, se non si aggiungesse che i concetti generali fungono in Simmel “da cornice” per inquadrare specificità individuali, universali concreti che solo in tal modo perdono il loro carattere astratto. Anche sul piano metodologico, inoltre, il partire “dal basso”, piuttosto che “dall’alto”, modifica la prospettiva e privilegia l’esistente, che è composto da individui. Simmel ovviamente non nega che l’individuo sia il risultato dell’interazione con la pluralità delle relazioni sociali. Esso, infatti, “pone le basi della coscienza di sé, del mondo e di sé nel mondo, attraverso la molteplicità dei rappori di interazione. Da questa esperienza deriva la consapevolezza di essere egli stesso determinato da questi, ma, nello stesso tempo, di determinarli […]. Essere per sé ed essere sociale formano un insieme, l’individuo nella sua totalità, che non può prescindere, per la sua stessa esistenza, da queste due appartenenze […]” (PhG, 157). 3 ÄBG, 44, 48. A differenza dei pittori italiani del Rinascimento, che marcano e sottolineano l’individualità del volto dei personaggi proprio perché solido è il riferimento a modelli universali, in Rembrandt l’adesione alla legge individuale del ritratto è piena e priva di residui, perché l’individualità accoglie in sé le contingenze della vita: “Si è rimproverata a Rembrandt la ‘mancanza di forma’, perché si è formulata semplicisticamente l’equazione forma = forma generale, lo stesso errore che avviene in campo morale quando si identifica la legge con la legge universale, senza riflettere sulla possibilità che a una realtà individuale corrisponda una legge individuale, un ideale che valga proprio per questa esistenza nella sua totalità e particolarità. La forma, in cui Rembrandt l’elabora, corrisponde esattamente soltanto alla vita di questo individuo, vive e muore con lui, con una solidarietà che non gli consente nessuna validità ulteriore, generale, in grado di tollerare altre individualizzazioni” (RE, 158-159). È sintomatico che il filosofo ebreo Simmel si soffermi a più riprese su un autore come Rembrandt, che era stato presentato nel 1890 da Julius Langbehn come “puro ariano”, come un modello al quale l’arte tedesca deve ispirarsi (cfr. J. Langbehn, Rembrandt als Erzieher, Weimar 1922, p. 280; questo libro raggiunse nel 1905 la tiratura di novantamila esemplari). Sull’individualità nel ritratto italiano del Rinascimento, cfr. G. Boehm, Bildnis und Individuum. Über den Ursprung der Porträtmalerei in der italienischen Renaissance, Münster 1986. Sull’interpretazione simmeliana di Rembrandt, cfr. A. Kolbl, Das Leben der Form: Georg Simmels kunstphilosophischer Versuch über Rembrandt, Wien 1998. Sul progetto autoriflessivo, di conoscenza di sé nel tempo, presente negli autoritratti di Rembrandt, cfr. F. Bianco, La pittura come autobiografia: il caso Rembrandt, in “Colloquium Philosophicum”, V-VI (19981999 e 1999-2000), pp. 43-63 (con 32 tavole) e, più in generale, S. Schama, Rembrandt’s Eyes, London 1999; trad. it. Gli occhi di Rembrandt, Milano 2000. Sul viso, la sua storia, la sua ermeneutica, cfr. J.-J. Courtine, Histoire du visage, XVIe début XIXe siècle, Paris 1988; AA. VV., Le visage. Dans la clarté, le secret demeure, Paris 1994; D. McNeill, The Face, © Daniel McNeill 1998, trad. it. La faccia. Storie e segreti del volto umano, Milano 1999; J.-L. Nancy, Le regard du portrait, Paris 2000, trad. it. Il ritratto e il suo sguardo, Milano 2002. Il volto rinvia all’importanza decisiva che Simmel attribuisce alla superficie delle cose: “Non ciò che si trova dietro l’immagine scientifica delle cose – l’oscuro, l’in sé, l’inafferrabile – è al di là della conoscenza, ma viceversa proprio l’immediato, l’immagine pienamente sensibile, la superficie a noi rivolta delle cose. Non al di là, ma al di qua della scienza cessa il conoscere. Il fatto che proprio ciò che vediamo, tocchiamo, viviamo, noi non possiamo esprimerlo in concetti, non possiamo riprodurlo come tale nelle forme della conoscenza, lo spieghiamo affatto erroneamente, come se dietro i contenuti di queste forme ci fosse qualcosa di misterioso e di inconoscibile” (T [ed. tedesca], 12). 4 Per quest’ultima osservazione, cfr. M. Schroer, Das Individuum der Gesellschaft, Frankfurt a.M. 2000, p. 291. In relazione a Constant, si potrebbe, per inciso, osservare che egli avrebbe visto nella posizione di Simmel una forma deleteria di quel fenomeno che – poco più tardi, attorno al 1828 – De
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Maistre e i saint-simoniani avrebbero, appunto, chiamato “individualismo”: “Quando ognuno è il proprio centro, tutti sono isolati. Quando tutti sono isolati, non vi è che polvere. Quando arriva la tempesta, la polvere diventa fango” (B. Constant, Préface a De la Religion, considérée dans sa source, ses formes et ses dévéloppements, Paris 1824; trad. it. parziale in B. Constant, Antologia di scritti politici, a cura di A. Zanfarino, Bologna 19822, p. 198). 5 S, 642. Sull’interesse del giovane Simmel per Le Bon e Tarde, cfr. le recensioni a G. Tarde, Les lois de l’imitation (Paris 1890), in GA, vol. I, pp. 248-250 e a G. Le Bon, Massenpsychologie (Psychologie des Foules, Paris 1895), in GA, vol. I, pp. 353-361. Simmel si mostra molto interessato alle teorie di Tarde, di cui cita, con approvazione, sia l’approccio al problema dell’imitazione nella prospettiva della forma, piuttosto che dei contenuti, sia questo passo: L’état social comme l’état hypnotique n’est qu’une forme de rève [sic], un rève de command et un rève d’action. N’avoir que d’idées suggérées et les croire spontanées: telle est l’illusion propre au sonnambule et aussi bien à l’homme social. Più critico appare invece nei confronti di Le Bon, di cui rileva subito l’attacco contro la democrazia e il socialismo assieme all’identificazione di folla e istinti più bassi. L’opera di Le Bon è considerata un sintomo dello sviluppo dell’egoismo che dal Settecento ha inserito in maniera precipitosa individui incapaci di sopportare il peso delle loro responsabilità in posti di comando dell’economia e della politica. Ciò avrebbe provocato un contraccolpo, per cui, da un lato, le masse vorrebbero avocare a sé ogni forma di autoorganizzazione, dall’altro, vorrebbero sottrarre all’individuo ogni diretta responsabilità mediante la socializzazione di tutti i principali contenuti della vita. Sulla formazione di Simmel, cfr. K.Ch. Köhnke, Der junge Simmel – in Theoriebeziehungen und Sozialbewegungen, Frankfurt a.M. 1996. Sull’individualismo simmeliano, cfr., da ultimo, N. Ebers, Individualisierung: Georg Simmel, Norbert Elias, Ulrich Beck, Würzburg 1995 e J. Schwerdtfeger, Das Individualitätskonzept Georg Simmels, Heidelberg 1999. La massificazione, nota Simmel con un’analisi che conserva integralmente la sua attualità, si manifesta anche nella dinamica dei consumi: “L’allargamento del consumo è collegato però alla crescita della cultura oggettiva, perché quanto più oggettivo e impersonale è un prodotto, tanto più numerosi sono gli uomini ai quali si adatta. Affinché il consumo del singolo possa trovare un materiale così ampio, questo deve essere reso accessibile a moltissimi individui e risultare attraente per tutti; non può quindi tener conto delle differenze soggettive dei desideri, mentre d’altra parte solo la differenziazione estrema della produzione è in grado di fabbricare gli oggetti a buon mercato richiesti dal consumo di massa” (PhG, 642-643). 6 Rispetto a Simmel, Gadamer privilegia nell’avventura la continuità dell’esperienza. Essa, infatti, “rompe bensì il corso normale delle cose, ma è legata positivamente e significativamente a quell’insieme che essa viene a rompere. L’avventura fa venire in luce così la vita nella sua totalità, nella sua ampiezza e forza […]. L’avventura è quindi qualcosa che si ‘supera’, come un cimento o una prova” (H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode, Tübingen 1960; trad. it. Verità e metodo, Milano 1983, pp. 96-97). 7 In Kierkegaard l’uomo estetico ha già alcuni tratti dell’avventuriero simmeliano: “Lo stato d’animo di chi vive esteticamente è sempre eccentrico, perché egli ha il suo centro nella periferia. La personalità ha il suo centro in sé, e chi non possiede se stesso è eccentrico […]. Chi vive esteticamente non fa che vedere ovunque possibilità, queste costituiscono per lui il contenuto del futuro […]. Chi vive esteticamente attende tutto dal futuro” (S. Kierkegaard, Enten-Eller; trad. it. Aut-Aut, Milano 1984, p. 107). Jankélévitch, prendendo spunto proprio da Simmel, cerca di distinguere l’avventuriero, un professionista e un opportunista dell’avventura, dall’uomo “avventuroso”, che gioca seriamente con il dominio dei possibili, mettendo ora l’accento sulla serietà, la cui posta finale è la morte, ora sul gioco (perché “la vita è l’insieme dei casi favorevoli che ci sottrae quotidianamente alla morte”). Se si elimina l’elemento ludico, l’avventura si trasforma in tragedia; se, invece, viene meno la serietà, l’avventura diventa un passatempo fatuo e ridicolo. Occorre che vi sia nell’avventura la vertigine e l’urgenza, un inizio stabilito da una volontà “evasiva” e una serie di tappe inaspettate nel futuro prossimo (cfr. V. Jankélévitch, L’aventure, in Id., L’aventure l’ennui le sérieux, Paris 1963; trad. it. L’avventura, in L’avventura, la noia, la serietà, Genova 1991, pp. 9-37). 8 Sul senso di estraneità, comune sia al sogno che all’avventura, cfr. A, 16: “Quanto più un’avventura è ‘avventurosa’, quanto più dunque soddisfa il suo concetto, tanto più è ‘onirica’, essa si distacca a tal punto dal centro dell’io e da quello svolgimento del tutto vitale che quest’ultimo tiene unito, che è facile pensare all’avventura come a un’esperienza vissuta da un altro”.
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9 RO, 213. Dinanzi a simili posizioni, la domanda più radicale (lasciata qui fuori campo) alla quale rispondere è se davvero possiamo contentarci dell’“equivoca bellezza” dell’avventura o se non abbiamo invece delle ragioni e delle prospettive sufficientemente lungimiranti per preferire, con qualche successo, vie provviste di mete e mete provviste di vie. 10 Lo straniero è il medesimo individuo che potremmo essere noi in circostanze mutate, “colui che oggi viene e domani rimane”. È “il viandante potenziale che, pur non avendo continuato a spostarsi, non ha superato del tutto l’assenza di legami dell’andare e del venire” (S, 580). Egli ha invertito i rapporti prossemici tra persone: “L’unità di vicinanza e distanza, che ogni rapporto tra uomini comporta, è qui pervenuta a una costellazione che si può formulare nella maniera più breve nei termini seguenti: la distanza nel rapporto significa che il soggetto vicino è lontano, mentre l’essere straniero significa che il soggetto lontano è vicino” (S, 580). Ed è vicino anche nella sua carenza di oggettivazione, che si manifesta nell’erranza, nell’assenza di legami con la terra analoga alla povertà, all’esser privi di proprietà. In quest’ottica anche il filosofo, “avventuriero dello spirito” per eccellenza (A, 20), è straniero in una realtà oggettiva fortemente strutturata. Tratta, infatti, problemi aperti, imponderabili, eccezionali, insolubili come se fossero risolvibili, tenendo così desti la libertà e il senso del possibile. Il suo pensare nomade, che sperimenta combinazioni di senso, è complementare e opposto al calcolo, agli automatismi del sapere e delle pratiche oggettive che non impegnano la soggettività a uscire da schemi consolidati. Anche nella filosofia, come nell’avventura, “tagliamo i ponti dietro di noi e ci inoltriamo nella nebbia” (A, 20), verso un ignoto che non si è ancora cristallizzato in forme ben individuabili e ripetibili. Sull’immagine dello straniero in Simmel, cfr. D. McLemore, Simmel’s Stranger. A Critique to the Concept, in “Pacific Review”, XIII (1970), pp. 86-94. Sulla conoscenza storica come conoscenza dell’alterità e di ciò che è estraneo, cfr. F. Fellmann, Historisches Erkennen als Fremderfahrung bei Simmel, in “Archiv für Geschichte der Philosophie”, LIX (1977), pp. 56-72. Sull’immagine dell’ebreo come legato alla dimensione dell’estraneità, si veda qualche cenno in H. Liebeschütz, Von Georg Simmel zu Franz Rosenzweig. Studien zum Jüdischen Denken im deutschen Kulturbereich, Tübingen 1970, pp. 103 sgg., 112 sgg. Su Simmel e la sua personale percezione di essere, in quanto ebreo e filosofo sui generis, uno straniero nelle università tedesche, cfr. L. Coser, The Stranger in the Academy, in Georg Simmel, a cura di L. Coser, Englewood Cliffs, N.J. 1965. 11 Il “terzo regno” è specialmente quello della filosofia, in quanto il filosofo non esprime nell’opera semplicemente le sue inclinazioni psicologiche personali, ma dà voce a ciò che è comune nello spirito umano: “Vi deve esser dunque nell’uomo un ‘terzo’, al di là tanto della soggettività individuale, quanto del pensiero universalmente dimostrativo e logicamente obiettivo, e questo ‘terzo’ deve essere il terreno su cui germoglia la filosofia, anzi l’esistenza della filosofia esige, come suo presupposto, che vi sia un tal ‘terzo’” (HP, 17). Il filosofo, come gli altri uomini, attinge al fondo universale in cui si sono depositati i risultati esemplari di innumerevoli individui: “Nella storia del genere umano si è sviluppata una lunga serie di creazioni che, sorte per la genialità o il lavoro psicologico soggettivo, in seguito acquistano una tipica, oggettiva esistenza spirituale, al di sopra dei singoli spiriti che le hanno originariamente prodotte e che di nuovo le riproducono. A queste creazioni appartengono le proposizioni di diritto, le prescrizioni morali, le tradizioni in ogni campo, la lingua, le produzioni dell’arte e della scienza, la religione” (HP, 50). Su alcuni aspetti di questo tema cfr. V. D’Anna, Il denaro e il terzo regno: dualismo e unità della vita nella filosofia di Georg Simmel, Bologna 1996. 12 RO, 213 e cfr. D. Frisby, Fragments of Modernity. Theories of Modernity in the Work of Simmel, Kracauer and Benjamin, Cambridge 1985; trad. it. Frammenti di modernità. Simmel, Kracauer, Benjamin, Bologna 1992, pp. 49-156 (in particolare p. 68) e A. Dal Lago, Il conflitto della modernità. Il pensiero di G. Simmel, Bologna 1994. E. de Conciliis coglie la difficoltà con cui Simmel deve confrontarsi: “Con il passaggio dall’individualità come particolarizzazione dell’umano all’individuo come frammento, il singolo appare impoverito, privato dell’universalità, e confinato nei limiti angusti della sua unicità, che non è più percepita come ricchezza, ma come carcere. L’individualismo moderno (espresso anche dalla filosofia di Simmel) è la reazione a tale impasse. Attraverso una spasmodica ricerca di stabilità esistenziale, di originalità e di Erlebnisse (esperienze vissute), il soggetto reagisce all’impossibilità di creare un’armonia tra universale e individuale, fra singolarità e collettività” (E. de Conciliis, L’aristocratico metropolitano. Simmel e il problema dell’individualismo moderno, Napoli 1998, p. 22).
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13 Cfr. H. Blumenberg, Geld oder Leben. Eine metaphorologische Studie zur Konsistenz der Philosophie Georg Simmels, in Ästhetik und Soziologie um die Jahrhundertwende: Georg Simmel, a cura di H. Böhringer e G. Gründer, Frankfurt a. M. 1976, pp. 121-134; trad. it. Denaro o vita: uno studio metaforologico sulla consistenza della filosofia di Georg Simmel, in “aut-aut”, n. 257 (1993), pp. 21-34. Si veda anche G. Simmel, “Geld allein macht nicht glücklich”, in MB, 25-26. È stato osservato come gli esiti perversi dell’oggettivazione non derivino, in Simmel, da cause esterne, ma da ragioni endogene, da “forze distruttrici” insite nel profondo della struttura sociale, cfr. R. Racinaro, Georg Simmel, la vita come oggettivazione, in Id., Il futuro della memoria, Napoli 1985, pp. 233-234. Sulla Filosofia del denaro cfr., da ultimo, P. von Flotow, Geld, Wirtschaft und Gesellschaft. Georg Simmels Philosophie des Geldes, Frankfurt a. M. 1995 [di taglio sostanzialmente economico] e V. D’Anna, Il denaro e il terzo regno: dualismo e unità della vita nella filosofia di Georg Simmel, cit., pp. 47-77; G. Poggi, Danaro e modernità, Bologna 1988. 14 Simmel segue più il paradigma leibniziano dell’ars combinatoria dei possibili che non i modelli estetizzanti dell’epoca dello Jugendstil. Se si dovesse indicare nella cultura contemporanea un erede di Leibniz, questo sarebbe Simmel. Persino il saggio L’avventura non va letto – per misurarlo sulla scala culturale italiana – in chiave dannunziana, come un “andare verso la vita”, né – su scala francese – in chiave bergsoniana, come slancio vitale o fuga in avanti verso l’ignoto. In maniera più sobria di quanto comunemente si pensa, Simmel invita l’individuo alla sperimentazione, al tâtonnement, allo sforzo di ritagliarsi, nel flusso multiforme della coscienza, nella ridda e nella fantasmagoria dei possibili, un proprio percorso selettivamente ordinato mediante esclusioni, inclusioni e combinazioni (sul flusso di coscienza in Simmel e sulle sue differenze rispetto ad altri filosofi contemporanei, cfr. P. Gorsen, Zur Phänomenologie des Bewußtseinsstroms. Bergson, Dilthey, Husserl, Simmel und die lebensphilosophischen Antinomien, Bonn 1966). Per far risaltare il contrasto fra l’individualità moderna occidentale descritta da Simmel e il comportamento rigidamente codificato dei singoli si vedano le analisi di Marcel Mauss relative agli indiani Pueblo o agli Aborigeni australiani in Une catégorie de l’esprit humain: la notion de personne, celle du “moi”, in “Journal of the Royal Anthropological Institute”, LXVIII (1938); trad. it. Una categoria dello spirito umano: la nozione di persona, quella di “io”, in M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, Torino 1965, pp. 351-381 (in particolare, pp. 355-366). 15 BL, 86. Cfr. anche L. Boella, Dietro il paesaggio. Saggio su Simmel, Milano 1988, pp. 66-69. 16 Cfr. anche BL, 87: “Fra tutte le età della vita la gioventù è quella che per il suo modo di sentire più si avvicina all’atemporalità, dato che non conosce ancora l’importanza del tempo, non considera ancora il tempo come una potenza e un limite con cui fare i conti. Perciò la gioventù è così eminentemente astorica, commisura le cose all’infinito, è così libera dal condizionamento dei limiti dell’effettiva realtà temporale”. Non si dimentichi che il termine, “eternità” (αἰώѵ, in greco ed ævum in latino) significa originariamente culmine o fiore dell’età, pieno e giovanile dispiegamento delle potenzialità di ogni essere, cfr. E. Benveniste, Expression indo-européenne de l’Éternité, in “Bulletin de la Société Linguistique de Paris”, XXXVIII (1937), pp. 103-112; G. Dumézil, Jeunesse, éternité, aube, in “Annales d’histoire économique et sociale”, X (1938), pp. 298-311 e E. Degani, AIΩN da Omero ad Aristotele, Padova 1961 (e cfr. supra, p. 128). Simmel aveva intitolato Istantanee sub specie æternitatis alcuni brevi saggi per la rivista “Jugend” (se ne veda la recente raccolta in G. Simmel, Momentbilder sub specie æternitatis = MB, 15-20). Tale concetto si potrebbe esemplificare, con duplice paradosso simmeliano, nell’esperienza che si prova in “giorni turgidi, traboccanti, nei quali si crede di sperare ancora ogni passato, di ricordare già ogni gioia futura” (BL, 87). 17 Cfr. A. Schopenhauer, E, II, 19, pp. 1044 sgg. Simmel articola questa posizione riferendosi anche ad altri classici, a Schiller e a Friedrich Schlegel. Del primo cita questa frase: “Ogni individuo porta in lui, secondo le sue disposizioni naturali e la sua destinazione, un uomo puro, ideale, e il grande compito della sua esistenza consiste nel conformarsi alla sua natura immutabile. Questo uomo puro si manifesta più o meno distintamente in ogni soggetto”; del secondo l’affermazione secondo cui “ciò che è primordiale ed eterno nell’uomo è precisamente l’individualità, la personalità non ha tanta importanza. Consacrarsi al compito supremo di formare e sviluppare questa individualità sarebbe un egoismo divino” (GS, 84, 94 e cfr. F. Léger, La pensée de Georg Simmel. Une contribution à l’histoire des idées au début du XXe siècle, Paris 1989, pp. 204-205). Simmel non dice quale valore attribuisca a questo
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sentimento di eternità, se lo consideri cioè una sorta di illusione veicolata dall’arte o se vi veda invece qualcosa di più profondo, una “natura immutabile” che l’arte si limita a rivelare. 18 Per il riferimento a Pirandello, cfr. supra, pp. 149-152. Per un confronto con Pirandello sul rapporto vita-forme, cfr., anche se riprende una tematica ormai abbandonata, M.R. Luongo, Il relativismo di Simmel e di Pirandello. L’opposizione delle forme e della vita, Napoli 1954. 19 Cfr. A. Dal Lago, Il conflitto della modernità. Il pensiero di G. Simmel, cit., p. 123 e G. Simmel, WB. 20 Sui molti testi di Simmel che riguardano la condizione femminile, cfr. L. A. Coser, Georg Simmel’s Neglected Contribution to the Sociology of Women, in “Signs”, II (1977), pp. 869-876, e l’Introduzione di G. Oakes alla raccolta di saggi G. Simmel, On Women, Sexuality, and Love, New Haven 1984. Sull’attenzione simmeliana per gli aspetti emotivi nelle relazioni personali, anche in rapporto alla differenza tra i sessi, cfr. B. Nedelmann, Georg Simmel – Emotion und Wechselwirkung in intimen Gruppen, in “Kölner Zeitschrift für Soziologie und Sozialpsychologie”, Sonderheft, XXV (1983), pp. 174-209; M. Vozza, Il sapere della superficie. Da Nietzsche a Simmel, Napoli 1988, pp. 99-102; M. Ulmi, Frauenfragen, Männergedanken: zu Georg Simmels Philosophie und Soziologie der Geschlechter, Zürich 1989 e G. Turnaturi, Flirt, seduzione, amore: Simmel e le emozioni, Milano 1994. 21 Per Goethe, cfr. R. Bodei, Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, cit., pp. 138-174. 22 Cfr. PsW, 10, 11, 22. L’attenzione di Simmel per l’individualità nel Rinascimento è di chiara matrice burckhardtiana, cfr. J. Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien, Wien s.d., pp. 188-195; trad. it. La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze 1996, pp. 301-321. 23 Una tesi analoga era stata proposta da John Stuart Mill, cfr. N. Urbinati, John Stuart Mill on Androginy and Ideal Marriage, in “Political Theory”, XIX (1991), pp. 626-648. 24 La vita è continuo autotrascendimento anche in senso spirituale, perché l’uomo è un essere che ha innata la tendenza a oltrepassare i confini. Si legga l’intero passo da cui è tratta la citazione nel testo: “Noi viviamo questo presente che non possiamo esprimere, abbiamo questa vita infinita e siamo solo in questo momento […]. Detto in termini paradossali: l’uomo è l’essere confinario che non ha confini. Il confine è determinato, ma il singolo confine è superabile e superato. Ed è questa la ragione della ‘mescolanza’ tra la mancanza di forma e la forma, tra il tutto e il singolo, tra l’infinità interiore e la realizzazione” (G. Simmel, L, 222-223 e cfr. B. Accarino, La democrazia insicura. Etica e politica in Georg Simmel, Napoli 1982, pp. 28-29). L’individuo vive – senza alcuna sosta, senza pausa festiva – nell’ininterrotto compito feriale dell’oltrepassarsi, ritrovando la propria provvisoria identità in ciò che appare come estraneo e che ancora non è: “La vita è l’eterno trascendere del soggetto nell’alterità, è l’eterno creare l’alterità” (TL, 35). 25 Lo “spirito assoluto” hegeliano conosceva ancora se stesso solo nel ritornare “presso di sé” dall’estrinsecazione nello “spirito oggettivo”. Ora il ciclo continuo di riconversione dell’oggettività in soggettività e della soggettività nuovamente in oggettività appare spezzato proprio a causa dell’eliminazione dello spirito assoluto. 26 Si fraintende la filosofia della vita simmeliana quando si sostiene che nega le determinatezze della realtà e del sapere, che vuole incrinare e delegittimare le strutture di senso della razionalità oggettiva. Essa si fonda, al contrario, proprio sulla separazione tra necessità oggettiva e possibilità soggettive. L’enfasi posta sulla vita dipende proprio dall’inclassificabilità eccentrica della soggettività moderna, che scarica la determinatezza e la rigidità sul mondo oggettivo, cercando di distinguersene senza negarle. Al pari del denaro, la vita è dotata, al suo interno, di una logica rigorosa e unificante (cfr. HF, 158). Dal punto di vista del soggetto, l’abbondanza di toni sfumati, vaporosi, con cui la vita si presenta in età moderna dipende dalla relativa assenza di costrizioni sociali ritenute assolutamente insuperabili. Diversamente da quanto sosterrà Günther Anders (che il Prometeo moderno è solo “il nano di corte del suo parco macchine”, cfr. supra, p. 228), per Simmel la tecnica non rappresenta il male assoluto: è anche una fonte di opportunità. 27 Sui rapporti di Simmel con il pensiero di Dilthey, cfr. U. Gerhardt, Immanenz und Widerspruch. Die philosophischen Grundlagen der Soziologie Georg Simmels in ihrem Verhältnis zur Lebensphilosophie
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Wilhelm Diltheys, in “Zeitschrift für philosophische Forschung”, XXV (1971), pp. 276-292. Più in generale, sulla filosofia della vita si veda, da ultimo, A. Sendlinger, Lebenspathos und Décadence um 1900: Studien zur Dialektik der Décadence und der Lebensphilosophie am Beispiel Eduard von Keyserlings und Georg Simmels, Frankfurt a.M.-New York 1994. Sul rapporto con Nietzsche, che è stato certo il pensatore che maggiormente ha segnato la formazione di Simmel (per quanto in SN, 30 venga considerato inferiore a Schopenhauer: “E questo è il tragico della personalità di Schopenhauer: egli difende con le migliori energie la causa peggiore. Poiché, paragonato a Nietzsche, egli è senza dubbio filosofo più grande”), cfr. K. Lichtblau, Das “Pathos der Distanz”. Präliminarien zur Nietzsche-Rezeption bei Georg Simmel, in Georg Simmel und die Moderne. Neue Interpretationen und Materialien, a cura di H.-J. Dahme e O. Rammstedt, Frankfurt a.M. 1984, pp. 231-281. 28 Cfr. FL, 174-175: “Se il tragico non significa semplicemente la collisione di forze o di idee, di volontà o di esigenze contrapposte, ma significa piuttosto che quanto distrugge una vita è sorto da una necessità essenziale di quella vita stessa, che la ‘contraddizione tragica’ con il mondo è in ultima analisi un’autocontraddizione, allora ne è affetto tutto ciò che risiede nella sfera dell’ ‘idea’. Ciò che supera il mondo o vi si oppone non riceve il proprio aspetto tragico dal fatto che il mondo non può sopportarlo, che lo combatte e magari lo annienta, ma dal fatto che esso stesso, in quanto idea o in quanto rappresentante dell’idea, ha attinto la forza per la sua nascita e la sua conservazione proprio da quel mondo nel quale non trova posto”. Si veda anche T, 38-39 e, sul tema dello sdoppiamento e dell’opposizione, costante nel pensiero di Simmel (i cui prototipi sono l’antagonismo vita-forma, uomodonna), cfr. R. Mahlmann, Homo duplex: die Zweiheit des Menschen bei Georg Simmel, Würzburg 1983. 29 All’attenzione dedicata al tragico hanno contribuito, nel tardo Simmel, sia l’esperienza della Grande Guerra, sia (e ancora prima) le dure critiche rivoltegli dal suo allievo G. Lukács nel saggio Metafisica della tragedia, in A lélek és formák, Budapest 1910; trad. ted. Die Seele und die Formen, Berlin 1911; trad. it. L’anima e le forme, Milano 1963, pp. 307 sgg. Le riflessioni di Lukács erano già entrate in risonanza e in contrasto con alcuni temi esposti da Simmel in Zur Metaphysik des Todes, in “Logos”, I (1910-1911) e Der Begriff und die Tragödie der Kultur, ivi, II (1911-1912), pp. 1-25; trad. it. Metafisica della morte, in Arte e civiltà, Milano 1976, pp. 67-73 e Il concetto e la tragedia della cultura, ivi, pp. 83109. 30 Cfr. R. Bodei, Il dado truccato. Senso, probabilità e storia in Max Weber, in “Annali della Scuola Normale Superiore”, serie III, vol. VIII, 4 (1978), pp. 1415-1433. Su Simmel e Weber, cfr. S. Segre, Weber contro Simmel. L’epistemologia di Simmel alla prova della “sociologia comprendente”, Genova 1987; K. Lichtblau, Gesellschaftliche Rationalität und individuelle Freiheit. Georg Simmel und Max Weber im Vergleich, Hagen 1988; W. Schluchter, Zeitgemäße Unzeitgemäße. Von Friedrich Nietzsche über Georg Simmel zu Max Weber, in Id., Unversöhnte Moderne, Frankfurt a. M. 1996; trad. it. L’attualità degli inattuali. Da Nietzsche a Weber attraverso Simmel, in “Intersezioni”, XII (1997), pp. 4363. 31 Questa metafisica della volontà – presente anche in Nietzsche, Bergson, James e Sorel – non ha più in Simmel il significato che gli attribuiva Schopenhauer. Esprime ora i dispositivi di sofisticato controllo dell’imponderabile in grado di guidare la vita oltre se stessa.
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8. Conduttori d’anime 1 PP, 134-135 e cfr. V. Petrucci, Dalla sociologia all’interpsicologia: il diritto in Gabriel Tarde, in AA.VV., Folla e politica. Cultura filosofica, ideologia, scienze sociali in Italia e in Francia a fine Ottocento, cit., p. 128 n. 2 Quest’opera ebbe un enorme successo. Venne, infatti, ristampata venticinque volte in trentaquattro anni, ma anche gli altri libri di Le Bon (una quarantina) raggiunsero nel complesso una tiratura, per quei tempi stupefacente, di parecchie centinaia di migliaia di copie (circa mezzo milione di esemplari, secondo R.A. Nye, The Origins of Crowd Psychology. Gustave Le Bon and the Crisis of Mass Democracy in the Third Republic, London 1975, pp. 178-179, ma la cifra è stata corretta, sulla base della documentazione esistente, a 367.730 copie, un numero, comunque, notevole, cfr. B. Marpeau, Gustave Le Bon. Parcours d’un intellectuel 1841-1931, Paris 2000, p. 348). 3 Cfr. G. Le Bon, La mortalité des enfants en France, in “Les Curiosités scientifiques de l’année 1867”, Paris 1868, p. 126; cfr. Id., Fumée du tabac, recherches physiques et physiologiques, Paris 1880 e B. Marpeau, Gustave Le Bon. Parcours d’un intellectuel 1841-1931, cit., p. 32. La dissoluzione dell’io non passa più, tuttavia, attraverso discriminanti esclusivamente sociali. Non predilige una classe o una professione in particolare: può colpire tutti, seppur in modo diverso. Già Morel nel 1857 aveva osservato il diffondersi dei fenomeni degenerativi indotti da cause esterne (alcol, oppio, tabacco, contagio venereo) anche tra ceti una volta parzialmente immuni, “tra gli operai e gli abitanti delle campagne”, mentre prima essi sembravano un appannaggio esclusivo de la classe riche et blasée (cfr. B.A. Morel, Traité des dégénérescences physiques, intellectuelles et morales de l’espèce humaine et des causes qui produisent ces variétés maladives, Paris 1857, p. VIII). Dato, però, che l’ereditarietà tende a moltiplicare questi casi soprattutto tra le “classi pericolose”, è necessario lanciare un articolato programma di “moralizzazione delle masse”. Sul tema dell’alcolismo come fenomeno sociale e pericolo politico proveniente dalle classi popolari (che, accanto alla demenza ereditaria o alla violenza sfrenata, costituisce una delle più serie minacce alla perpetuazione e alla sanità della razza) si vedano D. Nourrison, Le buveur du XIXe siècle, Paris 1990; E. Weber, France Fin de Siècle, Cambridge, Mass. 1986; trad. it. La Francia “fin de siècle”, Bologna 1990, pp. 38-39 (il quale segnala come la Francia fosse, all’epoca, al primo posto nel mondo per produzione di alcolici e numero di alcolizzati) e, più in generale, R.A. Nye, Crime, Madness, and Politics in Modern France: The Medical Concept of National Decline, Princeton 1984 e J. Léonard, Médecins, malades et société dans la France du XIXe siècle, cit. Sulla formazione e l’opera di Le Bon, cfr. E. Picard, Gustave Le Bon et son œuvre, Paris 1909; M. Motono, Gustave Le Bon et son œuvre, Paris 1914; A. Delatour, L’œuvre de Gustave Le Bon, Paris 1925; E. Flammarion, Les déjeuneurs hebdomadaires de Gustave Le Bon, Paris 1928; D. Cartellieri, Gustave Le Bons Psychologie der Massen und die Massenphänomene der Gegenwart, München 1958; R.A. Nye, The Origins of Crowd Psychology. Gustave Le Bon and the Crisis of Mass Democracy in the Third Republic, cit.; A. Widner, Gustave Le Bon, the Man and His Work, New York 1979; Y.-J. Thiec, Gustave Le Bon, prophète de l’irrationalité de masse, in “Revue française de sociologie”, XXII (1981), pp. 409-428; C. Vlach, Sociologie et lecture de l’histoire chez Gustave Le Bon, thèse de troisième cycle, Paris [Maison des Sciences de l’homme], 1981-1982; C. Rouvier, Les idées politiques de Gustave Le Bon, Paris 1986; R. Queneau, Gustave Le Bon, Texte inédit présenté par C. Debon, Limoges 1990; B. Marpeau, Gustave Le Bon. Parcours d’un intellectuel 18411931, cit. 4 Si tratta di “razze storiche” e non razze naturali o originarie, sebbene Le Bon teorizzi una “embriologia sociale” che segue le stesse leggi dell’embriologia animale, cfr. G. Le Bon, Les Premières Civilisations, Paris 1889, pp. 15-16. 5 B. Mussolini, Intervista del 1926 alla rivista “La science et la vie”, ora in OO, XXVI, 156. Sull’interesse di Mussolini per Le Bon e Sorel, certamente mediato dalle sue personali esperienze di tribuno, di giornalista e di Duce del fascismo, cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista, vol. II, Torino 1968, pp. 298 n., 367-369. Si veda, inoltre, P. Chanlaine, Mussolini parle, Paris 1932, p. 61. Per Hitler, cfr. A. Stein, Adolf Hitler und Gustave Le Bon, in “Geschichte in Wissenschaft und Unterricht”, VI (1955), p. 366. La Hofbibliothek di Vienna – che Hitler frequenta tra il 1908 e il 1910 – compra l’opera di Le Bon
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in traduzione tedesca nel 1908: non si sa se il futuro Führer l’abbia consultata, ma vi sono molteplici paralleli con quanto affermato nel Mein Kampf. Su Lenin, che l’ha letta a Parigi nel 1895, cfr. C. Rouvier, Les idées politiques de Gustave Le Bon, cit., p. 85. 6 Per quest’interpretazione, cfr. Z. Sternhell, La Droite révolutionnaire. Les origines françaises du fascisme 1885-1914, Paris 19847. Contro simili tesi ha messo recentemente in guardia B. Marpeau, Gustave Le Bon. Parcours d’un intellectuel 1841-1931, cit., pp. 119 sgg. In realtà, le folle sono per Le Bon manipolabili tanto dalla destra che dalla sinistra. 7 Per Theodore Roosevelt si veda il brano della lettera di Le Bon a Étienne Lamy, del 25 giugno 1918, in cui si dice che il pubblico elogio del presidente americano alla sua opera (“un libro da cui non si separava mai e che aveva orientato tutta la sua politica”) gli aveva procurato l’invidia e l’ostilità degli ambienti accademici, cfr. B. Marpeau, Gustave Le Bon. Parcours d’un intellectuel 1841-1931, cit., p. 214. La principessa Bibesco, vicina a Le Bon, ha ipotizzato che la sua presa sui politici dipendesse dal fatto che egli “forniva loro delle formule ed è di questo che i politici vivono, come i cuochi di ricette” (Princesse Bibesco, Images d’Épinal, Paris 1937, pp. 47-48 [capitolo: Le Doctor Faust de la rue Vignon]). Una simile interpretazione è però riduttiva, in quanto Le Bon seppe attirare nella sua cerchia anche personaggi poco inclini alle formule e alla politica, come, ad esempio, Paul Valéry. 8 G. Le Bon, L’évolution de l’Europe vers des formes diverses de dictature, in “Les Annales politiques et littéraires”, 2 marzo 1924, p. 232. Anche in vista di questo compito Le Bon diventa direttore, nel 1902, della collana di Flammarion Bibliothèque de philosophie scientifique, che nel 1931, anno della morte di Le Bon, ha già pubblicato circa duecento titoli. 9 In occasione del dibattito che porterà alla riforma dell’insegnamento superiore, l’educazione viene, appunto, presentata da Le Bon come “l’arte di far passare il conscio nell’inconscio”, di trasformare cioè il sapere critico e cosciente in automatismo e sentimento, ossia in immediatezza irriflessa (cfr. G. Le Bon, PE [la Psychologie de l’éducation è l’altra sua opera che ottiene la massima diffusione tra il pubblico] e A. Gérard, Gustave Le Bon, la foule et la race, in AA. VV., Folla e politica. Cultura filosofica, ideologia, scienze sociali in Italia e in Francia a fine Ottocento, cit., pp. 45-46). L’attesa di un meneur des foules e di un Salvatore, soprattutto dopo l’esperienza del biondo eroe, il generale Boulanger, infiamma l’immaginazione di molti francesi, come si può vedere anche dal poema drammatico Tête d’Or, scritto da Paul Claudel attorno al 1890, in cui un giovane esaltato invita i propri seguaci a uscire “dall’ombra”, ad abbandonare “le noiose settimane” e ad andare con lui verso la gloria (cfr. R. Girardet, Le sauveur, in Id., Mythes et mythologies politiques, Paris 1986, pp. 66-67, 92). 10 Cfr. G. Mosca, Elementi di scienza politica [1896], Torino 19232, p. 56. Viene così propagandata l’idea che il mondo proceda da sempre grazie a minoranze organizzate, o – guardando il problema da un’ottica complementare ed estremizzandolo, come farà Mussolini – che la libertà si riduca con l’avanzare della civiltà: “Se c’è un dato storico è che tutta la storia dall’uomo delle caverne all’uomo civile, o sedicente civile, è tutta una limitazione progressiva della libertà” (B. Mussolini, discorso a Milano, 4 ottobre 1924, in OO, XXI, 94). 11 Le Bon aveva partecipato alla guerra franco-prussiana lavorando nel corpo del personale sanitario delle ambulanze. Rientrato a Parigi con le truppe dei Versagliesi, i Comunardi gli sparano addosso, mancandolo per poco. Quest’esperienza di guerra civile e di caos accresce in lui il senso di vivere in un’epoca di decadenza, che colpisce specialmente le nazioni latine. Parlando della Parigi ‘liberata’ dalle truppe governative, afferma infatti: “Qui è l’abominio, la desolazione. Requisizioni, decreti, fucilazioni, ecc. Bisogna, ahimè, credere che la sorte dei popoli segue fatalmente il corso delle cose: nascere, crescere e morire. Se per la razza latina è suonata l’ora di perire, essa perisce tristemente” (Lettera di Le Bon al Barone Larrey, datata domenica 28 [aprile] 1871, cit. in B. Marpeau, Gustave Le Bon. Parcours d’un intellectuel 1841-1931, cit., p. 48). 12 LPSEP, 104. Cfr. ivi, 5: “È stato solo in un’epoca avanzata della sua storia che l’umanità, immersa nel mondo della credenza, scoprì quello della conoscenza”. La svalutazione del ruolo della razionalità e della coscienza è dovuto in Le Bon anche alla convinzione, condivisa dalla scienza e dalla filosofia del suo tempo, che la ragione è un’acquisizione evolutiva recente e che è, di conseguenza, più labile e meno importante degli impulsi e comportamenti inconsci, quali paura, fascinazione o aggressività, cfr. A.
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Gérard, Gustave Le Bon, la foule et la race, cit., pp. 33-51. 13 Cfr. R. Bodei, Geometria delle passioni, cit., pp. 372 sgg. Per una serie di testimonianze tratte da tutti i tempi e da tutte le latitudini, si veda il classico studio di Ch. Mackay, Extraordinary Popular Delusions and the Madness of Crowds, London 1841 [rist. Ware, Herfordshire 1995]. 14 R. Magraw, France 1815-1914. The Bourgeois Century, London 1987; trad. it. Il “secolo borghese” in Francia 1815-1914, Bologna 1987, p. 215. Sulle immense perdite umane provocate dalla conquista di Parigi da parte dei Versagliesi e dalla seguente repressione, cfr. J. Rougerie, Procès de Communards, Paris 1964. Sulle folle della Comune, cfr. anche J.-B. Laborde, Les hommes et les actes de l’insurrection de Paris devant la psychologie morbide, Paris 1871 e D. Cochart, Les foules et la Commune – Analyse des premiers écrits de psychologie des foules, in “Recherches de psychologie sociale”, IV (1982), pp. 49-60. 15 Cfr. S. Barrow, Distorting Mirrors. Views of the Crowd in Nineteenth-Century France, New Haven and London 1981; trad. franc. Miroirs déformants. Réflexions sur la foule en France à la fin du XIXe siècle, Paris 1990, p. 11 (il titolo di questo libro allude alle paure dei borghesi proiettate sul proletariato: al loro vedere violenza, degenerazione e follia dovunque). È un paragone, quello dello specchio deformante, già proposto alla fine del Settecento (cfr. C. Paine, The Philosophers and the People, New Haven and London 1976), solo che ora viene rafforzato attraverso saperi antropologici e medici che si presumono più avanzati e scientifici. 16 H. Taine, OFC, I, 178-179. 17 J.-K. Huysmans, Les foules de Lourdes [1908], Paris 1951, pp. 99, 184 (per una descrizione delle manifestazioni di folla a Lourdes, cfr. ivi, in particolare pp. 86-98). L’opera è del celebre autore di À rebours, che, in seguito a una crisi personale, aveva fatto professione di oblato in un convento benedettino e si era trasformato in apologeta del cristianesimo. Già in precedenza, Huysmans aveva espresso un giudizio negativo sull’opera di Zola, da cui, peraltro, aveva imparato molto: “I suoi eroi erano privi d’anima, diretti solo da impulsi e da istinti, cosa che semplificava assai il lavoro dell’analisi. Si agitavano, compivano alcuni atti sommari, popolavano di profili molto decisi delle scenografie che diventavano i principali personaggi dei suoi drammi. E in tal modo egli celebrava i mercati, i negozi di mode, le ferrovie, le miniere, e gli esseri smarriti in questi ambienti vi rappresentavano solo parti secondarie e da figuranti. Ma Zola era Zola, cioè un artista un po’ massiccio, ma dotato di polmoni potenti e pugni duri” (J.K. Huysmans, AR, 17). Interessante il raffronto tra la noiosa ripetizione che Des Esseintes attribuisce alla natura (che “ha fatto il suo tempo” con il suo “monotono negozio di prati e di alberi” e con la sua “banale agenzia di montagne e di mari”) e la società di massa caratterizzata dalla tirannia del sempre identico, dal dominio “dell’ovvio, del certo, del risaputo, del già visto” (G. Franck, Ibridazione e dismisura. Joris-Karl Huysmans e l’epifania del corpo perverso, in AA. VV., Pathos. Scrittura del corpo, della passione, del dolore, Bologna 2000, p. 49). Per un inquadramento delle tematiche di Huysmans, cfr., da ultimo, J. Sanger, Aspekte dekadenter Sensibilität. J.-K. Huysmans’ Werk von “Le drageoir aux épices” bis zu “À rebours”, Frankfurt a. M.-Bern-Las Vegas 1978; F. Livi, J.-K. Huysmans. À rebours et l’esprit décadent, Paris 19913; P. Jourde, Huysmans – À rebours: l’identité impossible, Genève 1991; Ch. Maingon, La médecine dans l’œuvre de J.-K. Huysmans, Paris 1994 e S. Brugnolo, L’impossibile alchimia. Saggio sull’opera di J.-K. Huysmans, Fasano (Brindisi) 1997. 18 Maupassant, citato da S. Sighele, Mentre il secolo muore, Milano-Palermo 1899, p. 36. 19 Cfr. D. Laye, Histoire complète des grèves de Decazeville, sous la date lugubre du 26 janvier 1886, Toulouse 1886. “Non lo farà più!”, urla la folla di donne inferocite in Zola dopo aver castrato un droghiere e portato in trionfo i suoi genitali in occasione di uno sciopero di minatori, cfr. É. Zola, Germinal, in Les Rougon-Macquart, Paris 1964, vol. III, p. 1414 e si veda anche P. Rossi, Bambini, sogni, furori. Tre lezioni di storia delle idee, Milano 2001, p. 149. 20 Per il fenomeno, cfr. E. Sernicoli, Gli attentati contro sovrani, principi, presidenti e primi ministri, Milano 1984. L’allarme sociale nei confronti degli anarchici e delle folle cresce in Francia dopo che la Terza Repubblica, con Jules Ferry, decreta nel 1885 la libertà di stampa e l’abolizione dell’insegnamento religioso nelle scuole, abrogando così ogni credo ufficiale. 21 PF, 53. L’esistenza di un’anima delle folle era già stata adombrata da Maupassant. Nel diario Sur
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l’eau, alla data 11 aprile 1889, egli parla di un episodio in cui le persone, per il solo fatto di essere assieme (pur differenti come mentalità, passioni ed educazione), diventano un essere speciale, dotato di anima. E aggiunge: “Lotto realmente contro l’anima della folla che cerca di penetrare in me. Quante volte ho accertato che l’intelligenza si accresce e si eleva allorché uno vive solo, e che s’impicciolisce e si abbassa quando uno si caccia di novo tra gli omini!” (G. de Maupassant, Sur l’eau; trad. it. Sull’acqua, Firenze 1900, pp. 128 sgg., e cfr. J. van Ginneken, Crowds, Psychology, and Politics, 1871-1899, Cambridge 1992 [su Le Bon, pp. 130-187], il quale sostiene che è stato trascurato il libro di H. Furnial, Psychologie des foules. Considérations médico-judiciaires sur les responsabilités collectives, Lyon-Paris 1892). 22 Enrico Ferri, nel volume I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale, Bologna 1881, aveva già osservato che gli aggregati umani (assemblee, giurì, comizi) si comportano come i composti chimici, perché i caratteri degli individui, invece di sommarsi, danno luogo a qualcosa di diverso. 23 OC, 9. Seguendo Sighele, Pasquale Rossi ha sintetizzato questa posizione, trasformandola in una delle tre leggi fondamentali della psicologia collettiva, secondo la formula: “Nella folla il pensiero si elide e il sentimento si somma” (Sociologia e psicologia collettiva, Roma 1904, p. 203 e cfr. A. Mucchi Faina, L’abbraccio della folla. Cento anni di psicologia collettiva, Bologna 1983, p. 77). Scipio Sighele aveva accusato Le Bon di avergli rubato le idee. In effetti, La folla delinquente di Sighele (Torino 1891) precede di quattro anni La psychologie des foules. Ma il taglio di Le Bon è profondamente diverso (del resto, se si volessero trovare immediati predecessori, basterebbe guardare a I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale, cit., di Enrico Ferri, che aveva toccato la questione della delinquenza delle folle e aveva forgiato l’espressione “psicologia collettiva”, oppure al Tarde della Philosophie pénale [Paris-Lyon 1889]). In Sighele l’accento cade sul fatto che la folla, aggregato eterogeneo, scopre all’improvviso uno “scopo comune”. 24 “Diversamente da Herbert Spencer – e ci meravigliamo che un filosofo tanto profondo lo possa pensare – nell’aggregato di una folla non vi è affatto somma o media di elementi, ma combinazione e creazione di elementi nuovi. La stessa cosa accade in chimica. Le basi e gli acidi, per esempio, si combinano per formare un corpo nuovo dotato di proprietà diverse da quelle dei corpi che hanno servito alla sua formazione” (PF, 54). Max Weber si occupa incidentalmente di Le Bon per osservare che determinate passioni come l’entusiasmo o la rabbia si manifestano quando l’individuo si sente parte di una folla, mentre non si produrrebbero “in uno stato d’isolamento” (cfr. WuG, I, 20). 25 Cfr. A. Mucchi Faina, L’abbraccio della folla. Cento anni di psicologia collettiva, cit., p. 19. Della stessa autrice si veda Psicologia collettiva. Storia e problemi, Roma 2002, che fa il punto sull’evoluzione della disciplina. 26 Sulla riconoscibilità dei personaggi politici grazie alla stampa popolare e al suo uso di illustrazioni, cfr. J.-P. Seguin, Nouvelles à sensation. Canards du XIXe siècle, Paris 1959 e R. Schenda, Der Lesestoff der kleinen Leute. Studien zur populären Literatur im 19. und 20. Jahrhundert, München 1976. Il meneur des foules sa mescolare adeguatamente il fattore affettivo con il fattore rappresentativo, secondo tecniche descritte da Ribot, cfr. LS, 186-187, ma che hanno la loro origine in Wundt, cfr. B. Karsenti, L’homme total. Sociologie, anthropologie et philosophie chez Marcel Mauss, Paris 1997, pp. 22-24. 27 Sul rapporto tra ipnosi e suggestione e sul sonnambulismo, cfr. E. Apfelbaum, Entre la volonté et la contrainte: de l’hypnose à l’influence, l’histoire d’un évitement, in Studies in the History of Psychology and Social Science, Proceedings of the Third European Meeting of Cheiron, a cura di S. Bem, H. Rappard, W. van Hoorn, Leiden 1985, pp. 95-108; D. Barrucand, Histoire de l’hypnose en France, cit.; E. Trillart, Histoire de l’hystérie, cit.; J. Carroy, Hypnose, suggestion et psychologie, cit.; N. Edelman, Voyantes, guérissantes et visionnaires en France, 1785-1914, cit. Su un caso di omicidio che sarebbe stato compiuto sotto ipnosi, cfr. R. Harris, Murder and Hypnosis in the Case of Gabrielle Bompard: Psychiatry in the Courtroom in the Belle Époque, in AA. VV., The Anatomy of Madness, 3 voll., London 1985, vol. II, pp. 197 sgg. Per quanto riguarda la cultura italiana del periodo, cfr. C. Gallini, La Sonnambula meravigliosa. Magnetismo e ipnotismo nell’Ottocento italiano, Milano 1983. Il rapporto tra ipnosi e psicologia delle masse viene ricondotto da Freud alla sua forma elementare, duale: “Possiamo anche dire che la relazione ipnotica è – se tale espressione ci è consentita – una formazione collettiva a due […]. Di ciò che
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costituisce la complicata compagine della massa essa isola per noi un elemento: il comportamento del singolo membro nei riguardi del suo capo” (MP, 302-303). 28 Le Bon riprende dal Tarde di Les lois de l’imitation ([Paris 1890] Paris-Genève 1979) le idee d’imitazione e di contagio, assimilandole all’ipnosi. Si veda, ad esempio, questa affermazione (di un periodo successivo, ma espressa in maniera più chiara): “È sufficiente che qualcuno lanci una pietra, un grido, cominci a intonare un canto: subito tutti gli altri seguiranno” (G. Tarde, OP, 150). L’imitazione non è altro che “la riproduzione volontaria o involontaria di un modello o anche la trasformazione di un essere sotto l’azione di questo modello. Essa è quasi un’empreinte de photographie inter-spirituelle […]. L’imitazione è il fattore sociologico determinante che spiega il passaggio caratteristico dal comportamento individuale al comportamento collettivo. Essa non è la causa, ma la condizione di ogni fenomeno sociale” (M. Donzelli, “Fragments” dal lessico filosofico di Gabriel Tarde, in Figure dell’individualità nella Francia tra Otto e Novecento, cit., p. 289). E si veda la seguente affermazione di Sighele: “Un grido o un gesto di un solo forzano a quel grido o a quel gesto tutti gli altri. Il contagio dell’applauso o della disapprovazione è fulmineo, come in una volata d’uccelli il minimo sbatter d’ali produce in tutti un panico irresistibile” (S. Sighele, Mentre il secolo muore, cit., p. 36). 29 Cfr. PF, 168. In Psicologia delle masse e analisi dell’io, del 1921, Freud manifesta esplicite riserve (non sempre giustificate) nei confronti di Le Bon proprio sul punto delle masse considerate come bestie selvagge, prive di grandi ideali e di slanci propriamente umani. Esse sono “però anche capaci di prestazioni elevate, quali l’abnegazione, il disinteresse, la dedizione a un ideale. L’interesse personale è di rado una molla potente presso le masse, mentre costituisce la molla quasi esclusiva dell’individuo isolato. Si può parlare di una moralizzazione del singolo tramite la massa” (cfr. S. Freud, MP, 265 n., 269). La mancata distinzione tra folle temporanee e folle organiche, denunciata dallo stesso Freud, verrà più tardi ripresa da S. Ciacotin, Le viol des foules, Paris 1952; trad. it. Tecnica della propaganda politica, Milano 1964, p. 145: “Sembra oggi puerile mettere sullo stesso piano una folla che si scatena in un linciaggio, un esercito che sfila in parata e una seduta della Camera dei Comuni in Inghilterra”. 30 PF, 154. In tutt’altro contesto anche Leopardi aveva difeso il bisogno di “illusioni” miranti all’autoconservazione della specie umana, allo slancio generoso verso il bene pubblico, ossia a quella che gli antichi chiamavano “virtù”. In età moderna, la “ragione” si è sviluppata invece alleandosi con l’egoismo (con il ristretto, calcolatore e meschino senso di autoconservazione, che nega i valori della solidarietà tra gli esseri umani). Diversamente dall’egoismo, il bene pubblico, e persino quello privato, sono purtroppo razionalmente infondabili, ingiustificabili e improgrammabili. Di conseguenza, la socialità e la solidarietà umane costituiscono ormai solo illusioni fiacche, che si tenta inutilmente di “puntellare” con macchinosi ragionamenti: “Tolte le illusioni e le credenze naturali, non c’è ragione, non è possibile né umano, che altri sacrifichi un suo minimo vantaggio al bene altrui” (Zibaldone, 22-29 gennaio 1821, p. 574 dell’autografo). 31 L’idea che il comportamento delle folle sia irrazionale viene attualmente contrastato attraverso il ricorso ad alcune esperienze: “Ad esempio, un’indagine recente (Donald e Canter 1992) ha ricostruito la dinamica dei comportamenti messi in atto durante l’incendio che si è sviluppato nel 1987 nella stazione della metropolitana di King’s Cross, a Londra. Sulla base della loro ricerca, gli autori sostengono che, in contrasto con l’ipotesi di trasformazione psichica formulata da Le Bon, le persone, anche quelle morte nell’incendio, si sono comportate in quel caso in maniera del tutto razionale. In pratica, in una situazione collettiva di emergenza come quella, gli individui non si sono mossi sulla base di una comune e irrazionale ‘psicologia della folla’, sviluppando un panico collettivo, ma hanno agito come avrebbero fatto individualmente in circostanze del tutto normali” (A. Mucchi Faina, Echi della psicologia collettiva ottocentesca nella psicologia sociale contemporanea, in Folla e politica. Cultura filosofica, ideologia, scienze sociali in Italia e in Francia a fine Ottocento, cit., p. 75). 32 PF, 121. Anche le opinioni, del resto, non sono, per Le Bon, che “delle piccole credenze in via di formazione, e, di conseguenza, non ancora stabilizzate” (Aph., 25). 33 E. Renan, Reforme intellectuelle et morale de la France [1871], in Œuvres complètes, cit., vol. I, p. 375 e passim e cfr. M. Battini, L’ordine della gerarchia. I contributi reazionari e progressisti alla crisi della democrazia in Francia 1789-1914, Torino 1995, pp. 171 sgg. Per inciso, ai giorni nostri, l’identità personale non viene simbolicamente più inserita – come nel passato – all’interno di un’identità familiare
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più vasta, di una sequenza ideale che lega i morti ai non nati grazie all’uso di dare ai bambini i nomi dei nonni o dei familiari, cfr. F. Zonabend, Pourquoi nommer? (Les noms de personnes dans un village français: Minoten-Chatillonnais), in L’identité. Séminaire dirigé par Claude Lévi-Strauss, Paris 1977, pp. 257-279. 34 Cfr. M. Barrès, Sous l’œil des Barbares [prima parte di CdM], p. 47 e cfr. p. 18. I “barbari”, si specifica, sono, in termini fichtiani, “il non-io, ossia tutto ciò che può nuocere o resistere all’Io” (ivi, p. 21). Nel romanzo, essi vengono, tuttavia, presentati anche nella forma più consueta di componenti stranieri delle legioni romane della tarda antichità, barbari “dai caschi di bronzo e dalle spade che risuonano a ogni passo”, i quali permettono “ai fanatici che accorrono, feroci, sotto pelli d’animale e con le lance” di distruggere il tempio di Serapide ad Alessandria (ivi, p. 75) [l’allusione è anche alla filosofa e sacerdotessa pagana Ipazia, straziata dalla folla inferocita dei cristiani]. Con implicito parallelo al suo tempo, già Taine dipinge a tinte fosche, nella Filosofia dell’Arte, il processo di decadenza innescato, prima, dalle infiltrazioni e, poi, dalle invasioni barbariche nei domini di Roma: “Nel giro di quattrocento anni, l’impero, snervato e spopolato, non ebbe più uomini ed energie sufficienti per respingere i Barbari. Questi, con il loro impeto, simile a quello di un’onda, dilagarono rompendo le dighe, e a una prima ondata ne seguì un’altra, poi un’altra ancora, e così via di seguito per cinquecento anni. È impossibile descrivere il male che essi provocarono: popoli sterminati, monumenti distrutti, campi devastati, città incendiate, industrie, patrimonio artistico e scientifico mutilati, degradati, dimenticati” (PhA, 153). 35 M. Barrès, Le Jardin de Bérénice [terza parte di CdM], p. 289. Il passo è citato anche, in una traduzione un po’ libera, in J. Neubauer, The Fin-de-Siècle Culture of Adolescence, New Haven-London 1992; trad. it. Adolescenza fin-de-siècle, Bologna 1997, p. 86. 36 Anche per questo Barrès ammirava la mistica della violenza nella Spagna dell’Inquisizione e delle corride, “dove l’uomo ridiventa uomo, vuole vedere il sangue, mordere, artigliare”, dove la verità non promana “dall’intelletto, ma dalla stirpe e dalle origini, perché ‘i nostri morti ci danno ordini ai quali dobbiamo obbedire’” (cit. in R. Magraw, France 1815-1914. The Bourgeois Century, cit., pp. 292-293). Di Barrès è da vedere anche il romanzo Les déracinés, che si può accostare, nella sua condanna del razionalismo, a Le disciple di Paul Bourget. 37 Da Barrès deriva il desiderio di Giorgio Aurispa, protagonista del Trionfo della morte di D’Annunzio, di ancorare la sua incerta personalità alle “radici della grande razza indigena” dei contadini abruzzesi da cui discende, sintonizzando la propria anima con “l’anima diffusa”: “Non debbo io, per ritrovare tutto me stesso, per riconoscere la mia vera essenza, non debbo io pormi a contatto con la razza da cui sono uscito? Risprofondando le radici del mio essere nel suolo originario, non assorbirò io un succo schietto e possente che varrà a espellere tutto ciò che è in me fittizio ed eterogeneo, tutto ciò che ho ricevuto consapevole e inconsapevole per mille contagi?” (G. D’Annunzio, Il trionfo della morte, cit., pp. 960, 867 sgg., e cfr. G. Tosi, Il personaggio di Giorgio Aurispa nei suoi rapporti con la cultura francese, cit., pp. 96-113 e G. Baldi, L’inetto e il superuomo. D’Annunzio tra “decadenza” e vita ascendente, cit., p. 93). Anche il personaggio di un’altra opera dannunziana, Tullio, è dotato di una pluralità di anime: “Silenziose onde di sangue e d’idee facevano fiorire sul fondo stabile del suo essere, a gradi o a un tratto, anime nuove. Egli era multianime” (G. D’Annunzio, L’innocente, in Prose di romanzi, vol. I, cit., p. 395). 38 Come traccia persistente di un simile atteggiamento, si veda quanto dice Proust, a proposito di un personaggio della Recherche, Saint-Loup: “Doveva verificarsi, in quei momenti che certo non si ripetevano che una volta ogni due anni, un’eclissi parziale del suo io, in coincidenza col passaggio della personalità d’un antenato che proiettava su di lui la propria ombra” (CG, 693 = 487). 39 Sulla presenza di Tocqueville in Sorel a proposito della critica all’eguaglianza livellatrice, cfr. C. Goretti, Sorel, Milano 1928, pp. 100-104. Anche Le Bon aveva però considerato la mediocrità come caratteristica delle folle, cfr. PF, 56. In Le illusioni del progresso Sorel accusa Marx di aver sottovalutato il ruolo della mediocrità nella storia, per quanto riconosca che “l’ora presente non è favorevole all’idea di grandezza; ma altri tempi verranno […]. In attesa dei giorni del risveglio, gli uomini avveduti devono lavorare ad acquisire lumi, a disciplinare il loro spirito e a coltivare le forze più nobili della loro anima, senza preoccuparsi di quello che la mediocrità democratica potrà pensare di loro” (IP, 179). 40 Cfr. G. Sorel, L’ancienne et la nouvelle métaphysique (apparso in “Ère nouvelle”, II [1894], pp.
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329-351, 461-482, 51-87, 180-205); trad. it. L’antica e la nuova metafisica, in G. Sorel, Scritti politici e filosofici, a cura di G. Cavallari, Torino 1975, pp. 63-179. Per alcuni aspetti del mito in Sorel, cfr. G. De Paola, Sorel, dalla metafisica al mito, in AA. VV., Storia del marxismo, vol. II, Torino 1979, pp. 662-690. Il richiamo alla macchina non è casuale. La riflessione di Sorel si sviluppa infatti nell’arco di tempo che va dalla “grande depressione” (1873-1895) alla Belle Époque (1895-1914), una fase storica segnata economicamente e tecnologicamente dalla “seconda rivoluzione industriale”, che si afferma attraverso un’impressionante serie d’innovazioni tecniche e scientifiche: l’utilizzazione diffusa del petrolio e dell’elettricità (grazie alla turbina, alla dinamo e ai cavi ad alta tensione); l’applicazione industriale della chimica, dei metalli non ferrosi e del caucciù; l’invenzione dell’ascensore, della lampadina elettrica, della macchina da scrivere, del cinema, della radio, della bicicletta e dell’automobile con motore a scoppio, del sommergibile, del carro armato e dell’aeroplano. 41 Cfr. IP, 146: “Le macchine sono dunque apparecchi situati lungo flussi naturali o artificiali di dissipazione di energia, destinati a trattenerne una parte e capaci di spendere a beneficio dell’uomo ciò che hanno trattenuto”. Ha qui la sua sconosciuta radice una posizione analoga riferita alla tecnica in generale e diffusa nel Novecento da Jünger, Heidegger, Anders e poi ripresa, in Italia, da Emanuele Severino e Umberto Galimberti, che così la riassume: “La tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità: la tecnica funziona” (U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano 1999, p. 33). 42 Le immagini sono il corrispettivo delle emozioni, così come erano state presentate da Ribot e, soprattutto, da Le Bon, cfr. G. Sorel, L’antica e la nuova metafisica, cit., p. 111: “Oggi si prende come base della psicologia l’individuo, invece di considerare anzitutto l’uomo come rappresentazione della specie. Si può dire che la formula tipica del momento attuale sia questa: ‘Invasione delle emozioni nel dominio delle rappresentazioni’”. Almeno in un primo tempo, Sorel rifiuta la posizione di Le Bon (recensito nel 1895) per cui nelle folle si produce una regressione collettiva tale da far scendere agli individui parecchi gradini nella scala della civiltà (cfr. G. Le Bon, PF, 59). In seguito, il rapporto tra i due cambia e Sorel prende le difese di Le Bon nelle Réflexions sur la violence: “L’Autore, trattato, alcuni anni fa, da imbecille, dai piccoli pulcinella del socialismo universitario, è uno dei più originali del nostro tempo” (RV, 190 n.). Per un confronto tra i due personaggi, prima distanti, si veda R.A. Nye, Two Paths to a Psychology of Social Action: Gustave Le Bon and Georges Sorel, in “Journal of Modern History”, XXXXV (1973), n. 3, pp. 411-428. 43 RV, 73-74 e cfr. Th.P. Neill, Sorel’s Social Myth, in “The Modern Schoolman”, n. 22 (May 1945), pp. 209-221 e H. Berding, Rationalismus und Mythos. Geschichtsauffassung und politische Theorie bei Georges Sorel, München 1969. Come è stato giustamente scritto, “per Sorel la coscienza può studiare la storia del passato, mentre l’inconscio produce la storia futura” (I.L. Horowitz, Radicalism and the Revolt of Reason. The Social Theory of Georges Sorel, London 1961, p. 180). Alla fine dell’Ottocento si assiste alla larga diffusione di una letteratura che, andando al di là del socialismo e del comunismo utopico di un Fourier o di un Cabet, aveva cominciato a porre l’accento anche sui paradossi e sugli aspetti negativi delle utopie. 44 G. Sorel, Insegnamenti sociali dell’economia contemporanea. Degenerazione capitalista e degenerazione socialista, Milano-Palermo-Napoli 1907, p. 394. La teoria della diremption, esplicitamente sostenuta piuttosto tardi (cfr. V. Petrucci, Socialismo aristocratico. Saggio su Georges Sorel, Napoli 1984, pp. 62-63 e, per il senso nel dibattito politico del periodo, cfr. N. Badaloni, Il marxismo di Gramsci. Dal mito alla ricomposizione politica, Torino 1975, pp. 64-76), spezza i “pregiudizi monistici” e, con questi, ogni indeterminatezza nelle immagini e nei concetti e presenta un mondo di parti eterogenee – dai confini arbitrari ma nettamente segnati – in cui domina il conflitto. Sulle convergenze con James, “l’atleta americano”, cfr. V. Petrucci, Socialismo aristocratico. Saggio su Georges Sorel, cit., pp. 89-102. Sulle posizioni antidemocratiche di Sorel ha invece posto l’accento J.L. Stanley, The Sociology of Virtue. The Social and Political Theories of Georges Sorel, Berkeley-Los Angeles 1981. Sull’evoluzione delle concezioni politiche di Sorel, cfr. anche il monumentale studio di M. Gervasoni, Georges Sorel: una biografia intellettuale. Socialismo e liberalismo nella Francia della Belle Époque, Milano 1997. 45 Secondo Tarde, persino la felicità costante è sinonimo di stagnazione, come mostra nei Fragment d’une histoire future quando descrive l’abitazione dei nuovi trogloditi all’arrivo della primavera.
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46 Cfr. G. Sorel, Plaidoyer pour Lenin, Appendice alla quarta edizione delle Réflexions sur la violence, Paris 1919 (= RV, 371 n.). 47 Sorel ha forse in mente la Conchiusione della Scienza nuova del 1744, dove Vico presenta la logica della corruzione delle società umane al giungere allo stadio della “mente dispiegata”. Qualora i popoli “marciscano in quell’ultimo civil malore”, gli individui (non potendosi accordare neppure se sono in due, “seguendo ognun de’ due il suo proprio piacere o capriccio”), finiscono per produrre “ostinatissime fazioni e disperate guerre civili”. Il risultato è che fanno “selve delle città, e delle selve covili d’uomini”, poiché “le malnate sottigliezze d’ingegni maliziosi” li rendono “fiere più immani con la barbarie della riflessione che non era stata la prima barbarie del senso” (G.B. Vico, Opere, a cura di P. Rossi, Milano 1959, p. 856). Per l’interpretazione di Vico, cfr. G. Sorel, Étude sur Vico, in “Devenir social”, II (1896), pp. 785-817, 906-941, 1013-1046, 1059-1065. Per il rapporto con Vico, si vedano M. Freund, Georges Sorel. Der revolutionäre Konservativismus [1932], zweite erweiterte Auflage 1972, pp. 70-80 e G. Pagliano Ungari, Vico et Sorel, in “Archives de Philosophie”, n. 40 (1977), pp. 267-281. 48 Si capisce così come la filosofia di Vico potesse saldarsi in Sorel con gli insegnamenti di Ribot. Su Sorel seguace di Ribot esiste una testimonianza di Marcel Mauss. Tra quelli che assistevano alle lezioni di Ribot, tra il 1892 e il 1897, vi era “un compagno più anziano, critico di tutto – tranne che di se stesso –, Georges Sorel, ben conosciuto in seguito, teorico della violenza rivoluzionaria (dapprima proletaria, poi nazionalista)” (M. Mauss, Th. Ribot et les sociologues, in AA. VV., Centenaire de Th. Ribot. Jubilé de la psychologie scientifique française, cit., p. 138). A partire dal 1886, Sorel inizia a collaborare, del resto, alla rivista di Ribot con un articolo (incentrato su Fechner e Wundt) dal titolo Sur les applications de la psychophysique, in “Revue philosophique de la France et de l’Étranger”, XI (1886), t. XXII, pp. 363-375. 49 Cfr. RV, 177. Da Bergson Sorel trae il convincimento che solo l’intuizione può penetrare a fondo la realtà: “La realtà non si lascia intuire, non concede un amplesso intellettuale con ciò che ha di più intimo, se non a chi ha conquistato la sua fiducia, per lunga familiarità con le sue manifestazioni superficiali. Non si tratta semplicemente di assimilarsi a fatti salienti; bisogna accumularne e fonderne una massa così enorme, da star certi di neutralizzare in questa fusione, le une con le altre, tutte le idee preconcette e premature, che, a loro insaputa, gli osservatori abbiano potuto deporre in fondo alle proprie osservazioni. Solo allora si distinguono i fatti conosciuti dalla loro bruta materialità” (H. Bergson, IM, 24-25, cit. da Sorel in RV, 185-186). Da Bergson Sorel deriva anche l’idea che il mito-macchina risveglia energie dall’io profondo, convogliandole verso l’esterno. Questo io non è, dunque, un sostrato immobile su cui scorrono le esperienze mutevoli del cambiamento, bensì la sorgente stessa dell’attività. È una presa di possesso di sé nei rari momenti in cui si è effettivamente liberi e creatori, in contrasto con lo stato dell’io superficiale, che è soltanto “un fantasma scolorito” dell’io profondo e autonomo. Cfr. H. Bergson, EDI, in ŒB, 151: “Vi sono due io differenti: l’uno è come la proiezione esteriore dell’altro, la sua rappresentazione spaziale e, per così dire, sociale. Noi raggiungiamo il primo con un ripiegamento profondo, che ci fa cogliere i nostri stati interni, come esseri viventi, continuamente in via di formazione, e refrattari alla misura […]. Ma gli istanti in cui noi cogliamo la nostra individualità sono rari; perciò, raramente siamo liberi”. Sulle immagini in Bergson e l’azione politica in Sorel, cfr. L. Adolphe, La dialectique des images chez Bergson, Paris 1951; J.J. Hamilton, Georges Sorel and the Inconsistence of a Bergsonian Marxism, in “Political Theory”, I (1973), n. 3, pp. 329-340; R. Vernon, Commitment and Change. Georges Sorel and the Idea of Revolution, Toronto 1978. 50 Al pari del Nietzsche della Filosofia nell’epoca tragica dei Greci, anche Sorel attacca violentemente Socrate ne Le procès de Socrate, Paris 1889, in cui il filosofo ateniese appare il distruttore delle virtù eroiche dei contadini-soldati dell’Attica, colui che ha voluto imporre loro il primato dei sapienti, aprendo la strada all’oligarchia. Il socialismo dovrà perciò essere “antisocratico” (e, più in generale, contrario agli intellettuali) anche perché fonda una morale che non scaturisce dalla conoscenza, ma dal mito. 51 B. Mussolini, Da Guicciardini a… Sorel, in “Avanti!”, 18 luglio 1912 (OO, IV, 171-174). Ma si veda supra, pp. 236-237. Da ricordare che, quando Sorel mostrò simpatie per Maurras e i legittimisti della destra francese, Mussolini lo attaccò violentemente, cfr. L’ultima capriola, in “La lotta di classe”, 26 novembre 1910 (ora in OO, III, 271-272 e si veda anche E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Bologna 1996, pp. 74 e 106). Per una valutazione del tutto positiva di Sorel da parte di
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Mussolini si vedano invece La teoria sindacalista e Lo sciopero generale e la violenza, in “Il popolo”, Trento, 27 maggio e 25 giugno 1909 (ora in OO, II, 123-128 e 163-168). Leggendo questi articoli si capisce perché più tardi Mussolini abbia considerato Sorel il suo vero maestro. Sul debito intellettuale di Mussolini nei confronti di Sorel, cfr. J. Roth, The Roots of Italian Fascism: Sorel and Sorelism, in “Journal of Modern History”, I (1967), pp. 30 sgg. Sulla penetrazione del pensiero di Sorel in Italia, cfr. G.B. Furiozzi, Sorel e l’Italia, Messina-Firenze 1975. Sorel muore il 28 agosto 1922 (due mesi prima della Marcia su Roma) e sino alla fine difende il bolscevismo. Le sue simpatie per Mussolini sembrano tuttavia indubbie e, del resto, la sua teoria del mito resta la principale eredità raccolta da Mussolini (cfr. E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo dall’antigiolittismo al fascismo, Bari 1982, pp. 15-18 e G. Cavallari, Georges Sorel. Archeologia di un rivoluzionario, Camerino 1993, pp. 198 sgg.). Michel Charzat ha parlato di “leggenda tenace” a proposito del fascismo di Sorel, distinguendo tra l’esaltazione della violenza, “energia creatrice messa al servizio degli interessi primordiali della civiltà” e la forza, che ha come obiettivo quello d’imporre “l’organizzazione di un certo ordine sociale in cui governa una minoranza”, e ha sottolineato il carattere “proletario” del fascismo della prima ora. Sorel sarebbe stato, inoltre, contrario al culto del capo e all’armonia delle classi sotto l’egida della Nazione (cfr. Sorel et le fascisme. Éléments d’explication d’une légende tenace, in “Cahiers Georges Sorel”, I [1983], pp. 37-51). Il fatto è che, per Sorel, tanto Lenin che Mussolini (da lui considerato “un italiano del XV secolo, un Condottiero”) operano in maniera efficace contro i vecchi regimi liberali o pacifisti, “forzando” le situazioni. Rivelativa l’osservazione di Sorel secondo cui “i socialisti sono trattati dai fascisti come i giacobini furono trattati dai termidoriani” (G. Sorel, Lettres à Paul Delesalle, Paris 1947, p. 219). 52 Cfr. G. Sorel, De l’utilité du pragmatisme, Paris 1921, pp. 190-192. 53 M. Freund, Georges Sorel. Der revolutionäre Konservativismus, cit., p. 63. 54 B. Mussolini, Lo sciopero generale e la violenza, cit., II, 166, 168. 55 Del resto, la concezione soreliana del mito come energia creatrice è legata anche all’interpretazione soreliana della “volontà di potenza”, cfr. M. Battini, L’etica dei produttori e le culture del sindacalismo francese. 1886-1910, in “Critica storica”, XX (1983), pp. 570 sgg., che ne mette in rilievo un elemento trascurato: “La mitizzazione soreliana, lungi da essere una forzatura nell’interpretazione del fenomeno conflittuale che andava espandendosi nella società industriale di fine secolo, corrispondeva al modo come questo avvenimento era intimamente vissuto nell’immaginario collettivo operaio: una frattura nella quotidianità, una festa ribelle che andava oltre i limiti dell’azione sindacale, e che veniva vissuta collettivamente secondo schemi antropologici propri della collettività operaia […] Volontà di potenza come arte, sciopero come festa; il mito dello sciopero generale costituiva una forma nuova della metafora dell’annullamento delle differenze sociali e delle gerarchie di potere, della diffusione di forme di sovversione dell’ordinamento sociale e di perturbazione di tutti i rapporti sociali […]” (ivi, p. 572). 56 Cfr. S. Sand, L’illusion du politique. Georges Sorel et le débat intellectuel 1900, Paris 1985, pp. 15 sgg. Dopo le polemiche suscitate dalle Réflexions sur la violence, Sorel si lamenta con un amico delle incomprensioni degli interpreti: “Il fatto di chiamare illusione quello che io chiamo mito prova un’incomprensione da intellettuale [intellectualiste] indurito; perché vi sia illusione occorre che si possa opporre alla rappresentazione illusoria una rappresentazione vera, suscettibile di essere dimostrata; ora, noi non siamo mai davanti a una simile alternativa tra il mito e la scienza” (Lettera inedita di Sorel all’amico Jean Bourdeau, citata in S. Sand, L’illusion du politique. Georges Sorel et le débat intellectuel 1900, cit., p. 218). Sul sindacalismo rivoluzionario (e la sua vicinanza alla destra nell’esaltazione delle virtù militari dell’operaio e nell’anti-intellettualismo), cfr. P. Stearns, Revolutionary Syndacalism and French Labor, New Brunswick 1971; P. Mazgaj, The Action Française and Revolutionary Syndacalism, Chapel Hill 1979; J. Roth, The Cult of Violence: Sorel and the Sorelians, Berkeley and Los Angeles 1982. 57 G. Sorel, Plaidoyer pour Lenin, cit.; trad. it. in RV, 377. 58 La décomposition du marxisme (Paris 1908) si conclude con questa analogia.
9. Gerarchia e sacrificio: Mussolini e Gentile 1 Sulla storia del concetto di “degenerazione” (Entartung, dégénérescence o, anche, dégénération), cfr. G. Genil-Perrin, Histoire des origines et de l’évolution de l’idée de dégénérescence en médecine mentale,
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Paris 1913; R.D. Walter, What Became a Degenerate? A Brief History of a Concept, in “Journal of the History of Medicine and the Allied Sciences”, XI (1956), pp. 422-429; C. Bénichou, Enquête et réflexions sur l’introduction des termes dégénére(r), dégénération, dégénérescence dans les dictionnaires et encyclopédies scientifiques français à partir du 17ème siècle, in Greco, Histoire du vocabulaire scientifique, Documents pour l’histoire du vocabulaire scientifique, n. 5, Publications de l’Institut pour la langue française, Paris 1983, pp. 1-83. Il termine, che compare per la prima volta in B. Castelli, Lexicon Medicum, Nürnberg 16826, vol. I, p. 244, viene così definito: Degeneratio dicitur, quando res quædam a pristina sua indole & natura recedit & mutatur in detrimentum. Più tardi, in Buffon – nel Discours sur l’âne e nel volume La dégénération des animaux – si indica la variazione e lo scarto di un animale rispetto alla specie e si rinvia all’ipotesi che tutti gli animali (come accade ai muli e ai bardotti nell’incrocio tra asini e cavalli) siano il frutto di ibridazioni che li allontanano da una specie primitiva. A partire dal botanico Guillemin, poi, le degenerazioni, in quanto mostruosità, non sono il risultato di uno scherzo di natura (lusus naturæ), ma semplicemente dei ritorni allo stato primitivo. 2 Con Morel e Virchow l’Entartung o la dégénérescence diventa, appunto, “antagonista del progresso”, cfr. B.-A. Morel, Traité des dégénérescences physiques, intellectuelles et morales de l’espèce humaine, cit. (su cui cfr. P. Burgener, Die Einflüsse des zeitgenössischen Denkens in Morels Begriff der “dégénérescence”, in “Zürcher medizinsgeschichtliche Abhandlungen”, N.R. 16, Zürich 1964; R. Friedlander, Bénédict-Augustin Morel and the Development of the Theory of dégénérescence, Diss. University of California, Berkeley, San Francisco 1973; D. Pick, Faces of Degeneration. An European Disorder, c. 1848-c. 1918, Cambridge 1989). Su Virchow, che è, tuttavia, nettamente contrario all’enfasi sul concetto di “degenerazione”, cfr. R. Virchow, Die Cellularpathologie in ihrer Begründung auf physiologische und pathologische Gewebelehre, cit.; Id., Descendenz und Pathologie, in “Archiv für pathologische Anatomie und Physiologie”, CIII (1886), pp. 1-14. Per i testi relativi al periodo che consideriamo, cfr. E. Morselli, Manuale di semeiotica delle malattie mentali, cit., vol. II, pp. 67 sgg.; G. Sergi, Le degenerazioni umane, Milano 1889; V. Magnan et M.B. Legrain, Les dégénérés, état mental et syndromes épisodiques, Paris 1895; J. Dallemagne, Dégénérés et déséquilibrés, Bruxelles-Paris 1895; V. Magnan, Les dégénérés, Paris 1898 (su cui cfr. F. Castel, Dégénérescence et structures: Réflexions méthodologiques à propos de l’œuvre de Magnan, in “Annales médico-psychologiques”, CXXV [1967], pp. 521-536). Sulla posizione di Freud, cfr. J.-M. Dupen, Freud and Degeneracy: A Turning Point, in “Diogenes”, XCVII (1977), pp. 43-64. 3 Sull’eugenetica, a partire da Francis Galton (che ha fondato nel 1904 la Eugenic Education Society e che, già nel 1883, ha coniato il termine in Inquiry into Human Faculty and Its Development, definendo questa nuova scienza “lo studio dei fattori sotto il controllo sociale che possono migliorare o ostacolare le qualità razziali delle future generazioni sia dal punto di vista fisico sia da quello psichico”) sino ai suoi sviluppi in Danimarca, Stati Uniti e Germania guglielmina e nazionalsocialista, cfr. J. Roger, L’eugénisme 1850-1950, in AA. VV., L’ordre des caractères. Aspects de l’hérédité dans l’histoire des sciences de l’homme, cit., pp. 119-145 e A. Santosuosso, Corpo e libertà. Una storia tra diritto e scienza, Milano 2001, pp. 97-136, 320-324. Il problema di invertire la tendenza verso la décadence si pone anche – in campo medico – al livello della régénérescence, come tentativo di sfuggire alle leggi dell’ereditarietà (cfr. J. Léonard, Médecins, malades et société dans la France du XIXe siècle, cit., pp. 156 sgg.). Nel suo libro L’hérédité. Étude psychologique sur ses phénomènes, ses lois, ses causes, ses conséquences già Ribot sostiene la tesi che l’affetto delle famiglie e lo sviluppo della medicina tengono ora in vita individui deboli e malati, i quali, in altri tempi, sarebbero morti (ciò che, inevitabilmente, contribuisce al propagarsi della degenerazione). 4 A. Čechov, Il duello; trad. it. Milano 1954, p. 119 (cit. in V. Roda, Il soggetto centrifugo. Studi sulla letteratura italiana tra Ottocento e Novecento, Bologna 1984, p. 33, il quale ricorda anche, nello stesso contesto, un passo di A. Strindberg, Inferno; trad. it. Milano 1979, p. 133: “Uccidere i deboli e proteggere i forti! Basta con la pietà che fa degenerare l’umanità!”). Già nel 1871, un personaggio di Renan, Théoctiste, espone una tesi che apre la strada a questa soluzione. Afferma, infatti, che “ogni sacrificio di un essere vivente a uno scopo voluto dalla natura è legittimo”. E poiché la natura non ha alcun interesse agli individui ma soltanto alla specie, essi sono sacrificabili quando impediscono la sana conservazione o il miglioramento della specie, che spetta alla scienza, la quale “assume l’opera nel punto
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in cui la natura l’ha lasciata” e mira alla costruzione di un uomo nuovo e dotato di caratteristiche fisiche e mentali superiori, eliminando gli esemplari difettosi (cfr. E. Renan, Dialogues philosophiques, in Œuvres complètes, cit., vol. I, pp. 602-624 e T. Todorov, Mémoire du mal tentation du bien, Paris 2000; trad. it. Memoria del male, tentazione del bene. Inchiesta su un secolo tragico, Milano 2001, pp. 39-40). Anche Nietzsche, cui i nazionalsocialisti si sono spesso richiamati, aveva scritto: “I deboli e i malriusciti devono perire: questo è il principio del nostro amore per gli uomini. E si dovrà favorire che ciò avvenga. Che cos’è più dannoso di qualsiasi vizio? Agire pietosamente verso tutti i malriusciti e i deboli – il cristianesimo…” (AC, 168 = 169). Per le premesse e gli sviluppi della politica di sterilizzazione forzata e di annientamento della “vita indegna di vita” nel nazionalsocialismo, cfr. G. Bock, Zwangsterilisation im Nationalsozialismus. Studien zur Rassenpolitik und Frauenpolitik, Opladen 1986; H.-W. Schmuhl, Rassenhygiene, Nationalsozialismus, Euthanasie. Von der Verhütung zur Vernichtung “lebensunwerten” Lebens, Göttingen 1987; P. Weingart-J. Kroll-K. Bayertz, Rasse, Blut und Gene, Frankfurt a.M. 1992; É. Conte-C. Essner, La quête de la race. Une anthropologie du nazisme, Paris 1995 (pp. 13-62 anche sul culto del sangue e di Hitler). 5 M. Nordau, Entartung, cit., vol. I, pp. 38, 71, 6-7. Il libro è dedicato a Cesare Lombroso, che aveva dimostrato come molte opere intellettuali della sua epoca fossero caratterizzate da “pazzia morale più o meno pronunciata, da imbecillità o da mentecattaggine” (ivi, vol. I, p. XIII e cfr. anche P. Mazzarello, Il genio e l’alienista. La visita di Lombroso a Tolstoj, Napoli 1998, pp. 32-33). Come molti contemporanei, Nordau, più che uno scienziato, è un ideologo, un agitatore non privo di ciarlataneria, che vuol riportare allo stato di fusione il grande “torrente di lava” dell’umanità che continua a scorrere incandescente sotto la superficie fredda e vetrificata (cfr. D. Pick, Faces of Degeneration. An European Disorder, c. 1848-c. 1918, cit., p. 27). Purtroppo, i tempi non sono favorevoli, perché, per effetto della distruzione delle tradizioni, “l’indomani sembra non voler più avere una concatenazione con l’oggi” e, nel frattempo, “domina un interregno con tutti i suoi spaventi: confusione dei poteri, la folla privata dei capi che non sa quale partito prendere, prepotenza dei forti, comparsa di falsi profeti, oligarchie che tramontano bensì, ma che appunto per questo sono maggiormente tiranniche” (M. Nordau, Entartung, cit., vol. I, p. 12 e cfr. anche L. Mangoni, Una crisi di fine secolo. La cultura italiana e la Francia fra Ottocento e Novecento, Torino 1985, p. 31). In campo letterario preoccupazioni per il crescere dei fenomeni degenerativi si erano già manifestate in Francia. Le docteur Pascal, ultimo romanzo della serie dei Rougon-Macquart di Zola, è, ad esempio, incentrato proprio sul tema della degenerazione (cfr. M. Granet, Le Temps trouvé par Zola dans son roman le Docteur Pascal, Paris 1980 e S. Kellner, “Le Docteur Pascal” de Zola: rétrospective des Rougon-Macquart, livre de documents, Lund 1980). Anche nel romanzo La débâcle Zola aveva già spiegato sia la sconfitta della Francia da parte dei Prussiani, sia gli orrori della Comune, ricorrendo al concetto di degenerazione. In quest’epoca la convinzione dei suoi effetti negativi e dirompenti si consolidò a tal punto che – come dice spiritosamente Janet – on n’osait plus avoir des oreilles sans lobe, mal ourlées (FFP, 271). 6 Il termine “totalitarismo” – coniato, in forma aggettivale, da Giovanni Amendola nel 1923 e, come sostantivo, da Lelio Basso all’inizio del 1925 – viene subito ripreso, con orgogliosa rivendicazione, da Mussolini nel discorso del 22 giugno 1925 al IV Congresso del Partito Nazionale Fascista (“[…] quella meta che viene definita la nostra feroce volontà totalitaria sarà perseguita con ancora maggiore ferocia”) e poi teoricamente consacrato da Gentile, cfr. S. Forti, Il totalitarismo, Roma-Bari 2001, pp. 3-9. Dubbia la tesi di H. Arendt (OT, 357-358) che il fascismo non sia stato, almeno nelle intenzioni, un totalitarismo, ma soltanto una “dittatura nazionalistica”. Per le più recenti analisi comparative sui diversi totalitarismi del Novecento, rinvio a AA. VV., Totalitarismus im 20. Jahrhundert. Eine Bilanz der internationalen Forschung, a cura di E. Jesse, Baden-Baden 1996; AA. VV., The Totalitarian Paradigm after the End of Communism, a cura di A. Siegel, Amsterdam-Atlanta 1998; AA. VV., Nazismo, fascismo, comunismo. Totalitarismi a confronto, a cura di M. Flores, Milano 1998; S. Forti, Il totalitarismo, cit., pp. 41-65. Sull’ambiguità di questo termine insiste, da ultimo, E. Traverso, Il totalitarismo. Storia di un dibattito, Milano 2002. Per non usarlo affatto – in quanto termine “propagandistico” diffuso nel secondo dopoguerra – sono, invece, M. Hardt-A. Negri, Empire, Cambridge, Mass. 2000; trad. it. Impero, Milano 2001, pp. 115, 390. A me pare che, circoscritto alla fase tra le due guerre o al periodo dello stalinismo, il concetto sia utilizzabile proprio nel senso originario di una volontà (o di una velleità) dello stato e del partito di assimilare con la violenza e con gli strumenti delle tecniche, delle scienze e della psicologia
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moderna, ogni aspetto della società e di restringere fortemente le sfere dell’intimità e dell’interiorità. 7 S. Zweig, Die Welt von Gestern, Stockholm 1942; trad. it. Il mondo di ieri, in Opere scelte, Milano 1961, vol. II, p. 806 e cfr., per un’esperienza complementare di depersonalizzazione, E.J. Leed, No Man’s Land. Combat & Identity in World War I, Cambridge 1979; trad. it. Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale, Bologna 1985, p. 53: “In una guerra che durò tanto a lungo, il soldato di linea divenne ‘enigmatico nei confronti di se stesso’ e straniero a ‘uomini e cose’ della sua precedente esistenza; l’adattamento a vivere nella Terra di nessuno, al di là delle categorie e dei valori consueti della vita sociale, familiarizzò il fante al disordine e alle potenze altre che si celavano dietro la rispettabile esistenza civile”. Parlando dei soldati si è potuto sostenere che, “malgrado l’orrore, la stanchezza, il lerciume, l’odio, il prender parte con altri alle sorti di una battaglia aveva il suo aspetto indimenticabile, che nessuno di loro avrebbe voluto perdere” (G.G. Gray, The Warriors: Reflexions on Men in Battle, New York 1959, pp. 44-45). Per il carattere fondante della Grande Guerra nella coscienza delle generazioni che l’avevano vissuta, cfr. P. Fussell, The Great War and the Modern Memory, Oxford 1975 trad. it. La Grande Guerra e la memoria moderna, Bologna 1984. Sui circa venticinque milioni di morti di questa guerra e sul carattere eminentemente distruttivo dei conflitti del XX secolo, cfr. M. Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Torino 2001, pp. 7-9. 8 Sulla leggenda dei morti che risorgono per combattere cfr. M. Barrès, Le blason de France, ou ses traits éternels dans cette guerre et dans les vieilles épopées, in “Proceedings of the British Academy”, VII (1915-1916), pp. 339-358 e J. Winter, Sites of Memory, Sites of Mourning. The Great War in European Cultural History, Cambridge 1995; trad. it. Il lutto e la memoria. La Grande Guerra nella storia culturale europea, Bologna 1998, pp. 292-295. Per il mito del ritorno dei morti alle loro case, cfr. ivi, p. 299, dove è citata una strofa di Quando cade la sera del poeta tedesco Heinrich Lersch: “Quando le ultime ombre del tramonto scivolano sul campo di battaglia, / dalle fosse nei boschi e nelle valli si levano i morti, / dalle fosse nei boschi e nelle valli, / dalle fosse nella brughiera e nelle dune, / stanno accanto ai loro poggi in preghiera, lo sguardo verso casa, in terra straniera. // Un uccello canta nella notte. // Poi rompono le righe, si levano, s’involano verso casa, / sulle città distrutte, sui campi devastati, / sugli eserciti in lotta, / oltre i fiumi scintillanti, avanti, avanti verso la patria”. 9 Prezzolini, ad esempio, ha visto nel Duce del fascismo una personalità composita: egli è italiano nell’uso “delle sagre, delle cerimonie, delle parate, di quell’apparato scenico che su tutti i popoli fa impressione (ciascuno ha un suo special modo di mascherarsi) e che nell’Italia moderna trova il suo precedente diretto nella camicia rossa di Garibaldi”; anti-italiano e moderno nell’essere “l’uomo della velocità, del meccanismo, del capitalismo, che guida l’automobile, che vola in aeroplano, che telegrafa a Spalla per le sue vittorie, che pone lo sport nell’orario della sua giornata”. (G. Prezzolini, Benito Mussolini, Roma 1924, p. 37 e cfr. A. Campi, Mussolini, Bologna 2001, p. 71). Si vedano anche, per l’instaurarsi della leggenda, M. Sarfatti, Dux, Milano 1926, p. 192 (“Mussolini vive così velocemente, che nel presente antecipa il futuro con piena evidenza, anzi gli pare di esservi già. Gli eventi che verranno esistono; quando sono, accade che non lo interessino più”) e, per una valutazione storica, G.L. Mosse, Masses and Man. Nationalism and the Fascist Perception of Reality, New York 1980, p. 182: “Sia Mussolini che Hitler avevano una passione per la velocità. Aerei e potenti automobili offrivano uno sfogo al loro attivismo. Hitler è stato il primo politico tedesco a usare l’aereo per compiere in Germania molte comparse in campagna elettorale nello stesso giorno”. Assi dell’aviazione – come Italo Balbo o Hermann Goering – svolsero notoriamente un importante ruolo simbolico o coprirono posti chiave negli apparati di potere. Ernst Bloch ha spiegato la combinazione di vecchio e nuovo nel nazionalsocialismo facendo ricorso al concetto di Ungleichzeitigkeit, “asincronismo” o “anacronismo”, per cui si vive il presente prendendo a prestito incongrui frammenti di passato (cfr. E. Bloch, Ungleichzeitigkeit und Pflicht zu ihrer Dialektik, in Id., Erbschaft dieser Zeit [1935], in Gesamtausgabe, Frankfurt a. M. 1935, pp. 112, 108, 109 e cfr. R. Bodei, Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, Napoli 1983, pp. 15-53). 10 Tra gli storici prevale attualmente la tendenza a considerare il fascismo come una nuova creazione, piuttosto che come semplice ripresa di precedenti concezioni. Si veda, ad esempio, E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), cit., p. 15. Tuttora ragionevole appare la soluzione data al problema da Giulio Bollati: “Nulla è nel fascismo quod prius non fuerit nella società, nella cultura e nella politica italiana, tranne il fascismo stesso” (G. Bollati, L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come
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invenzione, Torino 1983, p. 121). 11 Cfr. DA, 831: “I nostri contemporanei sono continuamente travagliati da due passioni contrastanti: provano il bisogno di essere guidati e la voglia di restare liberi [da notare: uno è un ‘bisogno’, l’altro una ‘voglia’]. Non potendo liberarsi né dell’uno, né dell’altro di questi istinti contrari, cercano di soddisfarli contemporaneamente”. 12 M. Berezin, Making the Fascist Self. The Political Culture of Interwar Italy, Ithaca and New York 1997, p. 7 (bisognerebbe però aggiungere che la costruzione del “sé totale” è più un progetto ideologico che un’effettiva realizzazione). Imponendo l’ordine, il fascismo rovescia, dalla sua prospettiva, il precedente dominio attribuito alla Piazza sul Palazzo, come era stato inteso da Mario Carli, L’Italiano di Mussolini, Milano 1930, p. 27, allorché – descrivendo l’Italia di quando i treni non arrivavano in orario e gli scioperi e i tumulti imperversavano – dice, appunto, che prima dell’avvento al potere di Mussolini era la Piazza a dominare il Palazzo con i ricatti e l’usurpazione. 13 Il legame con il capo, più che su basi giuridiche, è fondato sulla fedeltà personale, con una ripresa di elementi premoderni e feudali compiutamente espressi nel motto delle SS tedesche “Il mio onore si chiama fedeltà”. 14 Cfr. E. Jünger, A, 92, 109-115, 135. Il lavoro non è soltanto disciplina ferrea, è – soprattutto – rigenerazione, innalzamento dell’uomo a superuomo, “titano” o “Dio”, come appare chiaramente nel romanzo di Goebbels Michael: ein deutsches Schicksal in Tagebuchblättern, München 1929 (cfr. K. Theweleit, Male Fantasies, 2 voll., Cambridge 1929, vol. II, pp. 242-243). È questa una “fuga dalla libertà” nel senso di Erich Fromm? O non traluce anche qui quel tramonto dell’individualità, che – denunciato con forza da Jünger – costituisce il filo conduttore di molte diagnosi della crisi a partire dalla fine Ottocento? Si veda, ad esempio, S. Sighele, La delinquenza settaria, Milano 1897, p. 41: “Oggi l’individuo scompare, – in politica, dinanzi a quell’ente collettivo che è il partito o la nazione – nella scienza, dinanzi a quell’ente collettivo che è la specie”. Sulle macchine politiche, cfr. M. Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, cit., pp. 38-39. 15 Si veda la classica analisi di Gramsci nell’edizione commentata del Quaderno 22: Americanismo e fordismo, a cura di F. De Felice, Torino 1978, in particolare i §§ 1, 3 e 10 (pp. 3-4, 32-35 e 60-63). 16 B. Mussolini, I morti che vivono…, in “Il popolo d’Italia”, n. 8, gennaio 1915, ora in OO, VII, 122. Parallelamente, anche il nazionalsocialismo aveva concepito la propria politica come “opera d’arte totale” (Gesamtkunstwerk), arte plastica dello stato, tecnica di modellamento di un popolo, che diventava creta nelle mani del regime: “La politica è, essa pure, un’arte, forse addirittura l’arte più elevata che esista, e noi, che diamo forma alla politica tedesca moderna, noi ci sentiamo come degli artisti ai quali è stata affidata l’alta responsabilità di formare, a partire dalla massa grezza, l’immagine solida e piena dal popolo” (parole di Goebbels, citate in Ph. Lacoue-Labarthe, La fiction du politique, Paris 1987; trad. it. La finzione del politico, Genova 1991, p. 80). Goebbels stesso aveva difeso la sua funzione politica affermando che, “certo, la propaganda nazionalsocialista è primitiva. Ma primitivo è il pensiero del popolo” (citato in D. Guérin, Sur le fascisme. I. La peste brune, Paris 1965; trad. it. La peste bruna. Sul fascismo I, Verona 1975, p. 112). 17 Come pendant dell’artificialismo politico di Mussolini, si veda quanto afferma Hitler: “Coloro che vedono nel nazionalsocialismo nient’altro che un movimento politico lo conoscono assai poco. Esso è più che una religione: è la volontà di ricreare l’umanità” (cit. in J. Glover, Humanity, cit., p. 399). Sui biopoteri, oltre alle ormai classiche analisi di Foucault sparse in DE (dove mostra, tra l’altro, come esistano due tappe della presa di potere sul corpo: la prima mediante il criterio dell’individualizzazione, la seconda attraverso quello della massificazione, in quanto non si dirige verso il singolo uomo-corpo, ma verso l’uomo-specie), cfr. G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino 1995 e Id., Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Torino 1998. Sull’“uomo antiquato”, che sarebbe incapace di controllare la tecnica che ha creato, cfr. G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen, I, Über die Seele im Zeitalter der zweiten industriellen Revolution, München 1956, trad. it. L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale, Milano 1963; Die Antiquiertheit des Menschen, II, Über die Zerstörung des Lebens im Zeitalter der dritten industriellen Revolution, München 1980, trad. it. L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione
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industriale, Torino 1992. Per la confutazione di questa tesi, che si fonda sulla diffusa ricerca di un’essenza della tecnica (senza distinguere le diverse tecniche) e che vede il livellamento totalitario e il conformismo democratico come risultato della tecnica, cfr. le opportune osservazioni di M. Nacci, Pensare la tecnica. Un secolo di incomprensioni, Roma-Bari 2000, in particolare pp. 47-48, 125-126, 154158. Più condivisibile l’idea andersiana che, per certi aspetti, Eichmann è “uno di noi”, ingranaggio di una macchina burocratico-militare che deresponsabilizza moralmente gli individui, pur non toccando le loro facoltà intellettuali (cfr. G. Anders, Wir Eichmannssöhne, München 1964; trad. it. Noi figli di Eichmann. Lettera aperta a Klaus Eichmann, Firenze 1995). Una concezione analoga, seppure inserita in un contesto di fantasie di carattere biologico, era già stata sostenuta da W. Reich, Massenpsychologie des Faschismus [prima edizione 1933], © 1970 by Mary Boyd Higgins as Trustee of the Wilhelm Reich Infant Trust Fond; trad. it. Psicologia di massa del fascismo, Milano 1971, pp. 13-14: “Il ‘fascismo’ è l’atteggiamento emozionale fondamentale dell’uomo autoritariamente represso dalla civiltà delle macchine e dalla sua concezione meccanicistico-mistica della vita”. 18 Ma, per un paragone ellittico tra fascismo e nazionalsocialismo, cfr. supra, pp. 241-242. Sullo stalinismo si veda la recente messa a punto di A. Romano, Lo stalinismo, Milano 2002. 19 Sulle mitologie della virilità e della guerra nell’età dei totalitarismi, cfr. B. Spackman, Fascist Virilities: Rhetoric, Ideology, and Social Fantasy in Italy, Minneapolis 1996 e G. Mosse, The Image of Man: The Creation of Modern Masculinity, New York 1996; trad. it. L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Torino 1997, pp. 209 sgg. La durezza diventa un valore e viene simbolicamente esibita: oltre il noto caso di Džugašvili che si fa chiamare Stalin (“uomo d’acciaio”), anche Rozenfeld assume il nome di Kamenev (“uomo di pietra”) e Skrjabin quello di Molotov (“martello”). In maniera analoga, anche Hitler mostrava la sua inflessibile determinatezza, insensibilità e crudeltà presentandosi come cuore di ghiaccio e facendosi chiamare in gioventù Herr Wolf, “Signor Lupo”, cfr. J. Hillman, The Soul’s Code. In Search of Character and Calling, © James Hillman 1996; trad. it. Il codice dell’anima. Carattere, vocazione, destino, Milano 1997, pp. 270-271. 20 Questa posizione, già anticipata da Ribot in HER e successivamente amplificata da Féré (cfr., ad esempio, Ch. Féré, Dégénérescence et criminalité, Paris 1888, p. 88: chaque progrès de ce que nous appelons la civilisation, est une nouvelle cause d’épuisement, qui se manifeste avec plus d’intensité sur les individus les plus affaiblis), diventa poi, in certi ambienti, di senso comune. 21 “Apritemi il cuore e vi leggerete una sola parola: Volontà. MUSSOLINI” (scritta murale, riportata in Duce e ducetti. Citazioni dall’Italia fascista, a cura di G. Vettori, Roma 1975, p. 81). 22 “La Marsigliese della quarta Italia” (secondo la definizione del quadrumviro De Vecchi), che veniva eseguita in tutte le occasioni ufficiali, non è originale. Riprende un canto goliardico, composto a Torino nel 1909 con musica di Giuseppe Blanc e testo di Nino Oxilia, riformulato poi varie volte. L’inizio della seconda strofa, nella versione approntata da Salvator Gotta nel 1922, suona significativamente così: “Dell’Italia nei confini / son rifatti gli italiani / li ha rifatti Mussolini / per la guerra di domani”. 23 B. Mussolini, La filosofia della forza (postille alla conferenza dell’on. Treves), in “Il pensiero romagnolo”, nn. 48, 49, 50 (28 novembre, 6 e 13 dicembre 1908), ora in OO, I, 179, 180. L’importanza di questo insegnamento di Claudio Treves sarà sottolineata molti decenni dopo dallo stesso Mussolini nelle conversazioni con Yvon De Begnac: “Vi ho parlato altre volte, Yvon, dei quattro giorni da me trascorsi, nella primavera del 1908, pressoché interamente allato di Claudio Treves impegnato a presentare Nietzsche e la sua opera ai forlivesi. Il Nietzsche da lui interpretato in maniera del tutto nuova, vagamente collegato al modo di comprenderlo di Daniel Halévy, colpì la fantasia dell’uditorio. Da Treves appresi che il filosofo caro alla mia giovinezza era stato tutt’altro che un distruttore della ragione. La definizione mi è rimasta nell’animo. Ciò che ricostruisce la ragione è, sempre, rivoluzione, è, sempre, trasformazione del costume d’un popolo, modificazione assoluta della cultura che precede la rivoluzione e che si oppone a essa […]. Nietzsche mi ha insegnato che esiste una possibilità, sempre drammatica, di avvicinare l’uomo meno indottrinato ai sacri misteri della filosofia e ai profani modi di risolverne la magia. Treves, per esempio, mi insegnò a respingere il luogo comune di un Nietzsche apostolizzante la necessità della violenza. La violenza non esiste come fatto rivoluzionario, come fatto, cioè riguardante il rinnovamento della storia di un popolo. La violenza è un modo. Guai se diviene un
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fine” (TM, 383-384). Per altri debiti intellettuali che Mussolini riconosce a Nietzsche, cfr. TM, 384: “[…] Nietzsche vale per tutti; tutti lo comprendono; i delusi riacquistano coraggio, leggendolo; i rivoluzionari conquistano una fede, vivendolo. Dissi anche che Nietzsche restaura le crepe culturali alle quali ogni autodidatta ritiene di essere incapace di porre rimedio […]. Paradossalmente proprio Nietzsche mi insegnò a diffidare del nazionalismo e dei nazionalismi. Nietzsche è stato un europeo. Un europeo, marxista o fascista che sia, non sarà mai nazionalista, guarderà alla storia con l’occhio alla carta al 500.000”. Questa immagine di Nietzsche filosofo per tutti corrisponde alla formazione di Mussolini autodidatta e al carattere autodidatta che il fascismo stesso sostanzialmente assunse negli anni del potere. 24 B. Mussolini, La filosofia della forza (postille alla conferenza dell’on. Treves), cit., pp. 181, 183. 25 Così B. Mussolini, Ne l’attesa, in “Il proletariato”, n. 41, 11 ottobre 1903, ora in OO, I, 41. Questo atteggiamento è una costante in tutta la vita di Mussolini. 26 B. Mussolini [ma G. Gentile, con postille di Mussolini], La dottrina del fascismo, Roma 1932 [riproduce la voce Fascismo della “Enciclopedia Italiana”, vol. XIV], p. 13. 27 Ivi, p. 5. E cfr. ivi, pp. 19, 22: “Per il fascismo lo Stato è un assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo. Individui e gruppi sono ‘pensabili’ in quanto siano nello Stato […]. Lo Stato fascista è una volontà di potenza e d’imperio”. 28 P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino 1986, p. 33. 29 Mi riferisco all’ultimo libro incompiuto e tuttora inedito di Michel Foucault, Les aveux de la chair, sulle “confessioni della carne”, dedicato in parte al sacramento cristiano della confessione, di cui si attende la pubblicazione da parte di Paul Veyne. 30 Così suona il Decreto dell’8 marzo 1923 con cui si prescrivono i compiti della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, voluta dal fascismo come esercito parallelo. Margherita Sarfatti inserisce la rivalutazione dell’obbedienza nell’ambito “latino” dell’antidoto al ribellismo endemico, all’individualismo estremo e all’incapacità di un dominio completo di sé, che, nella prima fase del fascismo, caratterizza anche lo squadrismo delle Camicie Nere: “Avete osservato che nell’Inghilterra e in America l’eroe popolare delle storie di detectives, da Dupin a Sherlock Holmes, è un poliziotto? Ma in Francia, paese latino, da Vautrin e Jean Valjean ad Arsène Lupin, fa bella figura il delinquente. Questo la dice lunga. Aver reso popolare la figura dell’uomo d’ordine, e posto il fermento giovanile al servizio delle forze dell’ordine, è un tratto di genio […]. ‘Obbedire’ è il motto che Mussolini pose al vertice, dal più vilipeso e obbrobrioso che era. Ha ristabilito la gioia, la dignità, il valore di obbedire; la ‘virtù’, vereconda e guerriera, dell’obbedienza” (M. Sarfatti, Dux, cit., pp. 290, 291). Per Mussolini, l’eguaglianza “non è di questo mondo”, anzi la natura è il “regno dell’ineguaglianza” (cfr. P.G. Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Bologna 1985, p. 198). 31 Quando manca il pane, la fame di miti aumenta. Anche per questo, sostiene Siegfried Kracauer, “la massa in quanto massa va incontro a mezza strada alla ciarlataneria” dei capi, cfr. Masse und Propaganda (Eine Untersuchung über die faschistische Propaganda), in “Marbacher Magazin”, n. XLVII (1988), p. 89. Eppure, anche in questo caso, non si assiste soltanto a una caduta di razionalità, ma a una simultanea, potente attivazione del desiderio di dar senso al mondo, di plasmarlo secondo esigenze effettivamente avvertite, che obbediscono a un’anomala ma ricostruibile logica del delirio, liberandoci dal generico riferimento all’“irrazionalismo” (cfr. R. Bodei, Le logiche del delirio. Ragione, affetti, follia, Roma-Bari 2000). 32 Cfr. S. Kracauer, Das Ornament der Masse, Frankfurt a.M. 1963; trad. it. La massa come ornamento, Napoli 1982, pp. 7-23 (con Presentazione di R. Bodei, “Le manifestazioni della superficie”: filosofia delle forme sociali in Siegfried Kracauer, pp. 7-23). 33 La loro maturazione politica segue cronologicamente quella degli operai e dei contadini nelle trincee della Grande Guerra, su cui cfr. B. Mussolini, Trincerocrazia, in OO, X, 142: “I milioni di lavoratori che torneranno al solco dei campi, dopo essere stati nei solchi delle trincee, realizzeranno la sintesi dell’antitesi: classe e nazione”. E si veda anche Andate incontro al lavoro che tornerà dalle trincee, in OO, XI, 470-471: “I proletari che ritorneranno dalle trincee alle officine e ai campi, non sono più quelli di prima. Sono più ‘grandi’. Hanno la coscienza più o meno oscura di essere stati partecipi di un
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cataclisma favoloso che non ha precedenti nella storia. Ogni soldato ha una accresciuta dignità di uomo; sente che un’epoca è morta e che un’altra è incominciata. Voi non potete nemmeno tentare di rimettere questi uomini nel quadro politico, economico, spirituale di ieri, perché essi, ingranditi dalla guerra e dalla vittoria, sono portati, naturalmente, a superarlo o a spezzarlo […]. Perché la nazione prosperi e grandeggi nel mondo, perché la sua figura morale splenda luminosa nella costellazione universale, è necessario che le masse lavoratrici e produttrici non siano dannate a un regime pre-umano, se non antiumano”. 34 Si veda una posizione divergente in B. Mussolini, Socialismo e socialisti, in “La lima”, n. 19, 16 maggio 1908, ora in OO, I, 137, 138: “È necessario tendere a fare del socialismo una fede ragionata […]. No. Credere non basta. A quelli che ci gridano ‘Credete!’, noi rispondiamo: ‘Dimostrate!’”. 35 B. Mussolini, Da Guicciardini a… Sorel, cit., p. 174. I quadri del fascismo sono, significativamente, “in gran parte provenienti dal sindacalismo […]. Questi uomini avevano una conoscenza abbastanza profonda dei movimenti di massa, sapevano come questi movimenti venivano organizzati […]. Questo loro passato dà loro la possibilità di sapere, meglio di quanto non lo sappiano gli uomini di governo del passato, come bisogna intervenire per controllare le masse” (B. Mussolini, in Y. De Begnac, Palazzo Venezia. Storia di un regime, Roma 1950, p. 184: aprile 1932). Sul tema si veda D. Roberts, The Syndacalist Tradition in Italian Fascism, Manchester 1979. 36 B. Mussolini, in Y. De Begnac, Palazzo Venezia. Storia di un regime, cit., p. 422: aprile 1933 (un concetto analogo era stato espresso da Mussolini nei colloqui con Emil Ludwig, cfr. Colloqui con Mussolini, Verona 1932, p. 121). Il capo – continua Mussolini – dev’essere sì il “termometro” delle passioni della folla (Y. De Begnac, Palazzo Venezia. Storia di un regime, cit., p. 108: luglio 1934), ma deve anche essere capace di andare contro le loro tendenze spontanee: “Questo è ciò che il fascismo vuol fare della massa: organizzare una vita in comune, lavorare e combattere in una gerarchia senza gregge” (ivi, p. 361: aprile 1932). Il fascismo deve mobilitare “masse inerti”, colpite da “letargia alcolica” per imprese collettive, cfr. B. Mussolini, Dopo un anno: il fascismo, in OO, XIV, 379, 381. Nell’attivazione delle masse, chi comanda deve mantenerne il controllo, poiché “la libertà non è un fine; è un mezzo. Come mezzo deve essere controllato e dominato” (B. Mussolini, Forza e consenso, in OO, XIX, 195). Una posizione analoga è espressa da Hitler nel 1931: “Io non ho simpatia per l’‘uomo-massa’. All’uomomassa contrappongo la personalità. Solo gli individui fanno la storia, non le masse. Le masse hanno bisogno di essere guidate. Senza un’energica guida delle masse, le grandi decisioni storiche sono inattuabili. Il popolo deve essere inquadrato in un ordinamento autoritario” (E. Calic, Ohne Maske, Firenze 1969, p. 24). Elias Canetti ha ben descritto la tensione tra massa e strutture gerarchiche e l’esistenza dell’organizzazione solo in funzione di un capo e di una scala gerarchica, come avviene nell’esercito: “L’esercito è un assemblamento di persone, che vengono tenute assieme tramite una determinata struttura di comando perché non diventino massa […]. Alle volte in determinati momenti, nel momento della fuga o di un attacco particolarmente violento, esso può diventare massa, ma l’esercito, in linea di principio, non è affatto, secondo me, una massa” (E. Canetti, in Th.W. Adorno-E. Canetti, Dialogo sulle masse, la paura, la morte [1962], Trascrizione di una conversazione radiofonica, in “MicroMega”, II [1986], p. 208). Negli anni del consolidamento del regime fascista in Italia e di quello bolscevico nell’Unione Sovietica, Ortega y Gasset osserva che l’uomomassa obbedisce a questi regimi perché abdica volentieri alle proprie responsabilità individuali: “Adesso di colpo molti uomini ritornano ad avere nostalgia del gregge. Si abbandonano con passione a ciò che in essi c’era ancora delle pecore. Vogliono marciare nella vita uniti, in cammino collettivo, lana contro lana e il capo chino. Per questo in molti paesi d’Europa si vanno cercando un pastore e un mastino” (J. Ortega y Gasset, La rebelión de la masas, Madrid 1930; trad. it. La ribellione delle masse, Bologna 1974, p. 11 n.). 37 Acuta questa osservazione di Togliatti: “Nulla più dell’ideologia fascista assomiglia a un camaleonte. Non guardate all’ideologia fascista senza vedere l’obiettivo che il fascismo si proponeva di raggiungere in quel determinato momento con quella determinata ideologia” (P. Togliatti, Corso sugli avversari [1935], in Opere, a cura di E. Ragionieri, Roma 1967-1984, vol. III, 2, p. 541). 38 Hitler stesso è consapevole, come dice nel 1931, del fatto che “una lotta ideologica non è sorretta solamente dalla fede, ma anche dalla ragione. Presso la massa dobbiamo fare appello al sentimento di fede, ma nella nostra classe dirigente non c’è posto per le speculazioni sulla fede. Tutto viene
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freddamente vagliato” (E. Calic, Ohne Maske, cit., p. 32). 39 A causa della loro relativa arretratezza sullo scenario del potere mondiale, Italia e Germania gridano all’ingiustizia contro i “primi”, gli Inglesi, i Francesi o gli Americani, che si stanno impossessando della maggior parte delle ricchezze del pianeta, soffocando i popoli giovani e fecondi, capaci di superarli sul piano tecnico e spirituale. Il fascismo coglie la contraddizione fra le democrazie che sono tali in patria e cessano di esserlo nelle colonie o che impediscono alle nazioni arrivate più tardi alla modernizzazione di godere degli stessi diritti. 40 Sulla radio – di cui Mussolini capì subito l’importanza – come mezzo di diffusione del fascismo, cfr. l’ormai classica analisi di F. Monteleone, La radio italiana nel periodo fascista. Studio e documenti 1922-1945, Padova 1976. 41 P. Togliatti, Corso sugli avversari, cit., pp. 582, 583. 42 Cfr. “La folla”, 27 novembre 1924, cit. in Duce e ducetti. Citazioni dall’Italia fascista, cit., p. 23. La fede nelle capacità della parola, dei discorsi infiammati, nel trascinare i popoli è tipica di tutti i regimi totalitari del Novecento. Hitler amava presentare se stesso come cassa di risonanza del proprio popolo. Significativamente Baldur von Schirach, il capo della Gioventù hitleriana, così fa esprimere il Führer in un suo poema: “Siete diverse migliaia dietro di me / e voi siete me e io sono voi. / Non ho pensieri che non siano sorti nei vostri cuori, / al momento in cui parlo non posso che esprimere ciò che già si trova nella vostra volontà, / perché io sono voi e voi siete me / e noi crediamo tutti, Germania, in te” (cit. in R. Girardet, Le Sauveur, cit., p. 80). 43 B. Mussolini, Divagazioni, in OO, XI, 270-272. 44 B. Mussolini, Per Ferdinando Lassalle (nel 40° anniversario della sua morte), in OO, I, 65. In linguaggio più semplice, un concetto analogo viene espresso da un personaggio molto noto negli anni del consenso al regime: il fascismo era un movimento “estremamente fluido […]. Pareva andare avanti a forza di trovate. Ogni giorno una nuova” (E. Radius, Usi e costumi dell’uomo fascista, Milano 1964, p. 188). Sul “sistema di credenze del giovane Mussolini”, cfr. A.J. Gregor, Young Mussolini and the Intellectual Origins of Fascism, Berkeley-Los Angeles-London 1979, pp. 53-58. Già Angelo Tasca aveva attirato l’attenzione sul fatto che definire il fascismo, in quanto fenomeno complesso, “significa comprenderlo in questo divenire”, scriverne la storia, “giungendo ovunque alla cellula, a quel regno del microscopico senza cui anche per la storia non c’è progresso possibile” (A. Tasca, Nascita ed avvento del fascismo, Bari 19713, vol. II, pp. 553 sgg. e Id., Nascita ed avvento del fascismo, Firenze 1950, p. XVI [il passo, inserito nella prima edizione italiana, non è più riportato in seguito]. Si veda anche, su questo punto, R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Roma-Bari 1976, pp. 220, 253. 45 B. Mussolini, Forza e consenso, cit., 195 e B. Mussolini, in Y. De Begnac, Palazzo Venezia. Storia di un regime, cit., p. 184: aprile 1932. Dopo la caduta dei totalitarismi, la capacità di credere sembra oggi ad alcuni in regresso: “Per lungo tempo si è supposto che la capacità di credere fosse illimitata; che bastasse semplicemente creare nell’oceano della credulità isole di razionalità, puntellando le fragili conquiste del pensiero critico. Il resto, considerato inesauribile, poteva essere incanalato verso altri oggetti e altri fini, come l’acqua delle cascate che viene trasformata in energia […]. La capacità di credere si esaurisce. O meglio si rifugia nel tempo libero” (M. de Certeau, L’invention du quotidien. I. Arts de faire, Paris 1990; trad. it. L’invenzione del quotidiano, Roma 2001, pp. 253-254). A me pare, invece, che la volontà di far credere stia tornando, sia a livello politico che religioso (per quest’ultimo campo si veda P. Berger, A Far Glory. The Quest for Faith in an Age of Credulity, New York-Toronto 1992; trad. it. Una gloria remota. Avere fede nell’epoca del pluralismo, Bologna 1994, che mette in evidenza come l’“io solitario”, nell’epoca della moltiplicazione delle fedi e dei valori, sia disorientato dalle scelte e spinto a credere anche a ciò che è meno plausibile). 46 Cfr. W.L. Langer, The Mind of Adolf Hitler, New York 1972; trad. it. Psicanalisi di Hitler. Rapporto segreto del tempo di guerra, Milano 1973, p. 235. Hitler ha sostenuto che l’esperienza della guerra gli è valsa come trent’anni di università, cfr. J.C. Fest, Hitler. Eine Biographie, Frankfurt a. M.Berlin-Wien 1973; trad. it. Hitler, Milano 1974, p. 74. Un’analoga denigrazione o negazione della coscienza sembra necessaria per compiere le azioni più efferate. Un sergente istruttore dei paracadutisti
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sovietici così diceva ai suoi uomini ai tempi dell’invasione dell’Afghanistan: “Ripetete dopo di me! Che cos’è un parà? Risposta: un bruto sanguinario con il pugno di ferro e senza coscienza! Ripetete dopo di me: la coscienza è un lusso che non possiamo permetterci!” (J. Glover, Humanity, cit., p. 76). 47 E. Canetti, Macht und Überleben, München 1972; trad. it. Potere e sopravvivenza. Saggi, Milano 1974, p. 120 (su Hitler, il quale, già nel 1924, aveva detto che “un agitatore, che si rivela capace di infondere un’idea alla larga massa, deve sempre essere uno psicologo, anche nel caso che fosse solo un demagogo. Quindi sarà più idoneo a fare il Capo che un teorico estraneo agli uomini e al mondo. Perché dirigere significa: poter muovere le masse” [A. Hitler, Mein Kampf, München 193337, 2 voll., vol. II, p. 650; trad. it. [del solo II volume] La mia battaglia, Milano 1941, pp. 254-255]). Riferendosi a Machiavelli, Canetti aggiunge: “Mi colpisce il fatto che egli abbia indagato sul potere esattamente come io ho indagato sulle masse. Guarda in faccia il potere senza alcun pregiudizio; i suoi pensieri scaturiscono dalle sue personali esperienze con i potenti e dalle sue letture […]. Per quanto riguarda poi la massa, io ho perduto i miei antichi pregiudizi: per me non è né buona né cattiva, ma semplicemente esiste e mi riesce insopportabile la cecità in cui finora siamo vissuti rispetto a essa” (E. Canetti, Nachträge aus Hampstead. Aus den Aufzeichnungen, 1954-1971, München 1994, trad. it. La rapidità dello spirito, Milano 1996, p. 14). Per questa ragione Canetti manifesta la sua ammirazione nei confronti di Le Bon, mentre critica le idee sostenute da quanti, come il Freud della Psicologia delle masse e analisi dell’io, consideravano la massa da evitare al pari della lebbra (cfr. E. Canetti, Die Fackel im Ohr. Lebensgeschichte 1921-1931, München-Wien 1980; trad. it. Il frutto del fuoco. Storia di una vita (19211931), Milano 1994, pp. 155-156). Enrico Morselli, rileva, dal canto suo, un’altra debolezza nell’analisi freudiana: “Ed è erroneo, come fa il Freud anche solo per analogia, citare qui i Cesari, i Wallenstein, i Napoleoni; questi grandi non furono ‘meneurs’ di folle amorfe, ma d’eserciti solidamente organizzati, e li condussero alla vittoria, non con gesti da spiritati e con concioni tribunizie, altrettanto vuote di contenuto quanto spesso di sincerità, ma per il dominio della loro personalità geniale” (E. Morselli, La psicoanalisi. Tomo 1. La dottrina, Torino 1926, ora in L. Rossi, Enrico Morselli e le scienze dell’uomo nell’età del positivismo. Ricerca antologica su Enrico Morselli, in “Rivista sperimentale di Freniatria e medicina legale delle alienazioni mentali”, CVIII [1984], p. 2291). Una posizione analoga a quella di Canetti aveva già tenuto Siegfried Kracauer, che non condannava affatto la massa come barbarie, causa del declino dell’Occidente o espressione di livellamento conformistico e gregario. Trasformatasi da spettatrice anche in attrice, la massa gode legittimamente della propria attività nel vedersi adeguatamente rappresentata in manifestazioni ginniche, balletti, sfilate, pubblico da stadio, cfr. S. Kracauer, Das Ornament der Masse, cit., p. 103. 48 Cfr. OT, 439 sgg. L’artificialità di questo potere mira, tuttavia, anche a sedimentare una ossimorica tradizione artificiale, in cui il passato pesa solo se assume un carattere mitico, funzionale al presente eroico. Il disfacimento della comunità fa sì che neppure i regimi fascisti possano contare sui meccanismi semiautomatici della “virtù”, ossia su atteggiamenti morali codificati e sanzionati dal costume. In questa prospettiva, tali forme politiche sono “post-virtuose” (nel senso delle tesi esposte da A. MacIntyre in After virtue, Notre Dame 1984; trad. it. Dopo la virtù, Milano 1988). Devono perciò imporre compattezza e cooperazione forzata, ricorrendo a “illusioni” e “miti”, capaci di sublimare problemi reali come la miseria, l’oppressione o il bisogno di identità e di riscatto. 49 Cfr., ad esempio, quanto sostiene Rubasciov in A. Koestler, Darkness at Noon, London 1940; trad. it. Buio a mezzogiorno, Milano 1996, p. 212: “Tu e io possiamo commettere degli errori, ma non il Partito”. È probabile che lo slogan “Il Duce ha sempre ragione” riecheggi, rovesciandone il segno, le polemiche sulla proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia da parte di Pio IX. I regimi totalitari si reggono sulla fede nell’infallibilità del Capo o del partito, fede che va mantenuta anche, e soprattutto, nel momento in cui i dubbi si accrescono, secondo uno schema ben rappresentato dalle parole del comunista britannico Palme Dutt davanti al patto Ribbentrop-Moltov: “Compagni, un comunista non ha opinioni personali. Ossia, non ha un sancta sanctorum di opinioni personali che mantiene al di fuori del pensiero collettivo e delle decisioni collettive del nostro movimento” (cit. in J. Glover, Humanity, cit., p. 344). 50 G. Bottai, Diario. 1935-1944 [1982], Milano 1996, p. 247 e cfr. A. Campi, Mussolini, cit., p. 14. Si veda anche l’osservazione di Margherita Sarfatti: “Tanto l’uomo ha bisogno di Capi, e tanto di rado gli è
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dato di incontrarne uno, che, se ciò avviene, è una miracolosa fioritura di gioia, l’allegrezza quasi fisiologica di un organo spirituale che esce dall’atrofia” (M. Sarfatti, Dux, cit., p. 296). Sul valore del capo, al livello dell’immaginario individuale e collettivo, cfr. L. Passerini, Mussolini immaginario, RomaBari 1991. 51 Cfr. H. Arendt, OT, 437: “L’abnegazione, non come virtù, ma come senso della nessuna importanza del proprio io, della sua sacrificabilità, divenne un fenomeno di massa che non aveva più a che vedere con l’idealismo individuale”. Nei totalitarismi, la paradossale mistura di volontarismo e di necessità storica rende l’individuo quantité négligeable, sacrificabile al presunto corso del mondo. Cfr. OT, 459: “Possiamo dire che il male radicale è comparso nel contesto di un sistema in cui tutti gli uomini sono diventati egualmente superflui. I manovratori di questo sistema sono convinti della propria superfluità non meno che di quella altrui; e i carnefici totalitari sono tanto più pericolosi perché gli è indifferente vivere e morire, esser nati o non aver mai visto la luce”. 52 In questo senso, la dicotomia tra autorità e persuasione, proposta da Hannah Arendt, andrebbe eliminata o attenuata, cfr. BPF, 132: “L’autorità è incomparabile con la persuasione, che presuppone eguaglianza e richiede un processo di argomentazione […] All’ordine egualitario della persuasione si contrappone l’ordine dell’autorità che è sempre gerarchico”. 53 Un grazioso esempio è dato dal Libro di lettura per la II elementare, di Alfredo Petrucci: “Dormi, figlio, non è nulla / c’è la mamma che ti culla / […] Se dal bosco esce una fiera / dille ‘Son camicia nera’” (cit. in Duce e ducetti. Citazioni dall’Italia fascista, cit., p. 86). Il capo fascista offre la sua protezione alle masse, che dirige, non perché sia superiore a esse, ma perché percepisce le tendenze latenti e inconsce della folla, anche ponendosi al suo livello, per cui non deve far altro che “rivoltare verso l’esterno il suo inconscio” (Th. W. Adorno, FTPFP, 86). 54 Cfr. B. Mussolini, Forza e consenso, cit., p. 195: “Il consenso è mutevole come le formazioni della sabbia in riva al mare. Non ci può essere sempre. Né mai può essere totale”. Sulle iniziative non direttamente partitiche di Mussolini, cfr. V. De Grazia, The Culture of Consent. Mass Organization of Leisure in Fascist Italy, Cambridge 1981; trad. it. Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista. L’organizzazione del dopolavoro, Roma-Bari 1981. 55 A. Hitler, Mein Kampf, cit., vol. I, p. 147. 56 A. Hitler, in Adolf Hitler in Franken. Reden aus der Kampfzeit, a cura di H. Preiss, s.l., s.d., p. 144. 57 A. Hitler, Tischgespräche im Führerhauptquartier 1941-1942, Stuttgart 1965; trad. it. Conversazioni di Hitler a tavola, Milano 1970, p. 249. Hitler aveva letto Il mondo come volontà e rappresentazione negli anni della Grande Guerra. 58 Una fase, questa, articolatamente esposta con ricchezza di materiali, da I. Kershaw, Hitler 19361945: Nemesis, London 1945; trad. tedesca Hitler 1936-1945, Stuttgart 2000, pp. 7-182. 59 H. Marcuse, State and Individual under National Socialism [manoscritto]; trad. it. Stato e individuo sotto il nazionalsocialismo (1942), in Herbert Marcuse davanti al nazismo. Scritti di teoria critica 19401948, Roma-Bari 2001, pp. 27, 28. Questa tesi è in parte contraddetta dall’osservazione di George Orwell, il quale – recensendo Mein Kampf nel 1940 – capisce che il bisogno di autoconservazione non spiega il sacrificio: “Gli esseri umani non vogliono soltanto sicurezza, orari di lavoro brevi, igiene, controllo delle nascite e, in generale, ciò cui si aspira con il buon senso; essi vogliono, sia pure saltuariamente, la lotta e il sacrificio, per non parlare di tamburi, trombe e parate come attestazioni di fedeltà” (G. Orwell, The Collected Essays, Journalism and Letters of George Orwell, a cura di S. Orwell e I. Angus, Harmondsworth 1970, vol. II, My Country Right or Left, p. 29). 60 Sui rapporti di Gentile con il fascismo il dibattito è sempre vivace tra coloro che negano l’intima adesione di Gentile al regime e la piena coincidenza del suo pensiero con l’ideologia fascista (come S. Romano, Giovanni Gentile. La filosofia al potere, Milano 1984), coloro che sottolineano il carattere intrinsecamente transpolitico della filosofia gentiliana, la sua incompatibilità con la politica in quanto tale, tipica di ogni autentica filosofia (come G. Sasso, Le due Italie di Giovanni Gentile, Bologna 1998, pp. 263 sgg., 568 sgg.) e coloro, infine, che sostengono una posizione opposta (come A. del Noce, Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna 1990, pp. 283-
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417). Molto sensata sembra questa affermazione di Hobsbawm: “La teoria non era certo il punto di forza di movimenti che proclamavano l’inadeguatezza della ragione e del razionalismo e la superiorità dell’istinto e della volontà […]. Mussolini avrebbe potuto fare a meno senza alcuna difficoltà del filosofo ufficiale del regime Giovanni Gentile, e Hitler probabilmente non era a conoscenza né si interessava dell’appoggio del filosofo Heidegger” (E.J. Hobsbawm, Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991, New York 1994; trad. it. Il secolo breve. 1914-1991: l’era dei grandi cataclismi, Milano 1995, p. 144). Sugli aspetti filosofici e politici, cfr. però S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, Torino 1989, p. 26. È del tutto evidente che le idee principali della filosofia di Gentile si sono formate prima del fascismo e che il suo ruolo, durante il regime, non fu privo di contrasti e di incomprensioni. Una precisa ricostruzione della vita e delle vicende di Gentile – al cui pensiero Mussolini guarda non senza condiscendenza – è data da G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze 1995 e, per l’ultimo periodo e la morte, da L. Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile, Palermo 1985. 61 TGS, 581. Politicamente, questo rifiuto del passato dipenderebbe dal fatto che sono gli homines novi, senza radici e “senza lunga memoria”, a rappresentare i moderni capi delle folle e a essere maggiormente sensibili nell’accelerare e nell’assecondare i ritmi convulsi delle moderne trasformazioni tecniche e sociali (cfr. J. Ortega y Gasset, La rebelión de la masas, cit., pp. 85 sgg.). 62 In Gentile l’idea della sussunzione dell’Io nel Noi prende forma precocemente, nel 1899, a partire dal pensiero di Marx, quello, in particolare, delle Tesi su Feuerbach: “Intanto questo giova notar bene: che, secondo Marx, l’individuo come tale non è reale; reale è l’individuo sociale. Il che equivale ad affermare la realtà originaria della società, cui l’individuo, base della veduta materialistica di Marx, è inerente” (FM, 163). Sull’interpretazione gentiliana di Marx – lodata da Lenin perché usciva dalla dimensione economicistica – cfr. C. Vigna, Gentile interprete di Marx, in AA. VV., Il pensiero di Giovanni Gentile, Roma 1976-1977, pp. 885-899 e F. Balducci, Giovanni Gentile: la lezione di Marx come necessità di immanenza, in “Critica storica”, XIII (1976), pp. 649-659. 63 Cfr. J.-L. Nancy, Être singulier pluriel, Paris 1996; trad. it. Essere singolare plurale, Torino 2001, p. 46. L’espressione nietzscheana “noi altri”, questa paradossale “prima persona al plurale”, unità nella molteplicità (ivi, p. 9), serve a Nancy per marcare non solo l’equilibrio tra Io e Noi, ma anche la presa di distanza simultanea da ognuno dei due termini: “Essere singolare plurale: queste tre parole giustapposte, senza determinazione sintattica – ‘essere’ può essere verbo o sostantivo, ‘singolare’ o ‘plurale’ possono essere aggettivi o sostantivi, si può scegliere la combinazione che si vuole – marcano al tempo stesso un’equivalenza assoluta e la sua articolazione aperta, impossibile da racchiudere in un’identità” (ivi, p. 43). Il rischio teorico di queste forme di neocomunitarismo, aggiungerei, è, tuttavia, proprio quello di lasciare inarticolata – in forma di indifferente coesistenza – la relazione tra “Io” e “Noi” o tra “singolare” e “plurale”. 64 Nel culto dello stato, come preteso fattore di universalità, come socius dell’individuo e artefice della conciliazione tra autorità e libertà, sta la differenza tra le posizioni di Gentile e di parte del fascismo italiano e quella di Hitler, che – sin dal Mein Kampf – considera lo stato solo “come mezzo per raggiungere un fine. Il suo fine consiste nella conservazione e nell’incremento di una comunità di creature fisicamente e moralmente omogenee” (cfr. S. Forti, Il totalitarismo, cit., p. 14). 65 L’atteggiamento di Gentile si può comprendere, per analogia, dai motivi con cui lo storico Roberto Vivarelli illustra – a distanza di oltre mezzo secolo – la sua giovanile adesione alla Repubblica Sociale Italiana: “[…] sentivamo l’8 settembre come un’infamia. Si era compiuto né più né meno un tradimento, che aveva gettato il paese nel disonore e nel caos. Se di questa indignazione spontanea non si tiene conto, e non si tiene conto del profondo disgusto che avvertivamo contro un re fellone e un Badoglio mentitore e codardo; se non si tiene conto dell’ansia di riscatto che sentivamo bruciare in noi per l’onore perduto, della nostra scelta di allora di continuare la guerra al fianco dei tedeschi, non si capisce niente. Ricordo ancora come fosse ieri la commozione profonda di quanti allora mi stavano intorno, ascoltando da radio Monaco le parole con le quali Alessandro Pavolini concludeva il suo appello: ‘Sull’antico tricolore che in una lontana primavera nacque senza stemma sulla parte bianca, noi scriviamo come su una pagina ritornata vergine una sola parola: Onore!’. Avevamo torto? Ancora oggi, malgrado il senno del poi, io non ne sono affatto certo” (R. Vivarelli, La fine di una stagione. Memoria 1943-1945, Bologna 2000, p. 25).
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66 G. Gentile, Ricostruire, in “Corriere della Sera”, 28 novembre 1943, citato in R. De Felice, Autobiografia del fascismo, Bergamo 1978, p. 587. 67 Cfr. S. Zeppi, Il pensiero politico dell’idealismo italiano e il nazionalfascismo, Firenze 1973, p. 163: “Identificando surrettiziamente questi due aspetti dello stato, G. ha buon gioco nell’attribuire allo stato inteso nel secondo modo quella dignità e quei diritti che ovviamente spettano soltanto allo stato inteso nel primo modo; nell’assegnare allo stato in quanto classe governante i caratteri propri dello stato in quanto coscienza e volontà comunitaria che i cittadini albergano nei loro animi”. Da notare: Gentile segue più la tradizione organicistica di Aristotele (cfr. Pol., I, 2, 1253 a: “Per natura lo stato è anteriore alla famiglia e a ciascuno di noi perché il tutto deve’essere anteriore alla parte; infatti soppresso il tutto, non ci sarà più né piede né mano, se non per analogia verbale, come se si dicesse una mano di pietra”), che non l’insegnamento di Hegel, il quale aveva affermato che “il principio degli Stati moderni ha quest’immensa forza e profondità: lasciare che il principio della soggettività si porti a compimento in estremo autonomo della particolarità personale, e, insieme, riportarlo all’unità sostanziale e, così, mantenere questa in esso medesimo” (PhdR, § 260). 68 Per la ribellione contro il Noi e in favore dell’Io, manifestata da diversi filosofi italiani, alcuni dei quali allievi di Gentile, sulla rivista di Bottai “il Primato”, cfr. R. Bodei, Il noi diviso. Ethos e idee dell’Italia repubblicana, Torino 1998, pp. 12-16.
10. Orizzonti dell’io 1 Cfr. M.A. Iacono, Autonomia, potere, minorità. Del sospetto, della paura, della meraviglia, del guardare con altri occhi, Milano 2001. In che misura si è responsabili del male commesso in nome di grandi progetti di costruzione di un presunto “uomo nuovo”? Che ruolo giocano le ideologie? Dice giustamente Aleksàndr Solženicyn che “per fare del male l’uomo deve prima sentirlo come bene o come una legittima, assennata azione. La natura dell’uomo è, per fortuna, tale che sente il bisogno di cercare una GIUSTIFICAZIONE delle proprie azioni. Le giustificazioni di Machbeth erano fragili e il rimorso lo uccise. Ma anche Iago è un agnellino: la fantasia e le forze spirituali dei malvagi shakespeariani si limitavano a una decina di cadaveri: perché mancavano di ideologia […]. Grazie all’IDEOLOGIA è toccato al secolo XX sperimentare una malvagità esercitata su milioni. La malvagità è inconfutabile, non può essere passata sotto silenzio né scansata: come oseremo insistere che i malvagi non esistono?” (A. Solženicyn, Arcipelago Gulag, World Copyright © 1973 by Aleksàndr Solženicyn; trad. it. Milano 1995, 3 voll., vol. I, p. 185). Sulla responsabilità si possono assumere due posizioni altrettanto legittime e sostenute da vittime della violenza. Per Solženicyn in Arcipelago Gulag in fondo è solo per il modo in cui sono andate le cose che gli altri sono stati gli assassini e le vittime no, mentre Primo Levi osserva: “Non so, e mi interessa poco sapere se nel mio profondo si annidi un assassino, ma so che vittima incolpevole sono stato e assassino no; so che gli assassini sono esistiti […] e che confonderli con le loro vittime è una malattia morale o un vezzo estetico o un sinistro segnale di complicità; soprattutto, è un prezioso servigio reso (volutamente o no) ai negatori di verità” (I sommersi e i salvati, cit., p. 35). La maggior parte di quelli che agivano male, dice Levi, non erano dei mostri, ma erano stati educati male (cfr. anche J. Glover, Humanity, cit., pp. 321, 499-500). L’inquietante domanda è cosa farebbe ciascuno di noi, se fosse effettivamente messo alla prova? A quali risorse di coraggio fisico e psichico potrebbe far ricorso? È evidente che Primo Levi ha ragione solo se si prendono in esame uomini educati al dissenso e al dubbio, capaci di disobbedire, oppure di trovare in sé nel momento della decisione o della tortura la forza della dignità, di un “io più grande” di quello che calcola i rapporti tra dolore e piacere. 2 Cfr., ad esempio, H. Arendt, EJ, 290: “Eichmann non era uno Iago né un Macbeth, e nulla sarebbe stato più lontano dalla sua mentalità che ‘fare il cattivo’ – come Riccardo III – per fredda determinazione. Eccezion fatta per la sua eccezionale diligenza nel pensare alla propria carriera, egli non aveva motivi per essere crudele e anche quella diligenza non era, in sé, criminosa; è certo che non avrebbe mai ucciso un suo superiore per ereditarne il posto. Per dirla in parole povere, egli non capì mai che cosa stava facendo”. Si veda anche Ead., EJEL, 227, in cui non si parla più del “male radicale” o della natura demoniaca del male: “Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso ‘sfida’ […] il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla”.
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3 Cfr. E. Canetti, MM, 337: “Un comando è come una freccia: viene lanciato e colpisce […]. Come la freccia, il comando resta conficcato nella persona colpita, la quale dovrà estrarlo e gettarlo oltre per liberarsi dalla sua minaccia”. Si veda ivi, 353: il comando “perdura come qualcosa di isolato, ed è inevitabile che ogni uomo porti in sé un cumulo di spine, isolate così come lo furono i comandi. La loro capacità di ammucchiarsi nell’uomo è straordinaria, e nulla si configge più a fondo, nulla è più difficile da eliminare. Può venire il momento in cui si è talmente colmi di spine da non riuscire più a pensare ad altro, a sentire altro”. 4 Lo ha mostrato, in maniera esemplare, a partire da un caso concreto relativo alla Germania degli anni successivi alla grande depressione del 1929, W.Sh. Allen, The Nazi Seizure of Power. Experience of a Single German Town 1930-1935, Chicago 1965; trad. it. Come si diventa nazisti. Storia di una piccola città 1930-1935, Torino 1968. 5 È questo che, classicamente, caratterizza ogni uomo libero, capace di distinguere, grazie alla parola, il giusto dall’ingiusto, cfr. Aristotele, Pol., I, 2, 1253 a. Per i comandi, cfr. E. Canetti, MM, 331: “L’ordine è più antico del linguaggio, altrimenti i cani non potrebbero conoscerlo. L’addestramento degli animali si fonda proprio sul fatto che essi, pur ignorando il linguaggio, imparano a capire ciò che si richiede loro”. Si veda, a tal proposito, quanto dice Hitler: “Da noi vige soltanto la subordinazione: soltanto l’autorità verso il basso, soltanto la responsabilità verso l’alto […]. Il popolo va prima educato. Ma per creare il nuovo, bisogna far tabula rasa” (cit. in E. Calic, Ohne Maske, cit., pp. 20, 36). 6 Avendo inizialmente come fonti soprattutto Le Bon e Freud, Broch ha composto alcuni brevi saggi sul delirio delle masse, in cui il Führer appare come profeta d’odio, cfr., ad esempio, il Letzter Ausbruch eines Größenwahnes. Hitlers Abschiedsrede (KW, 6, 333-343). Durante il suo esilio americano, Broch aveva anche pensato, nel 1939, di fondare un istituto di ricerca sulle masse, che aveva l’appoggio, tra gli altri, di G.A. Borgese e di A. Einstein (cfr. il Vorschlag zur Gründung eines Forschunginstitutes für politische Psychologie und zum Studium von Massenwahnerscheinungen, in KW, 12, 11-42 e l’Entwurf für Massenwahnartiger Erscheinung, in KW, 12, pp. 43-66) [devo queste informazioni a Pedro Medina Reinón]. Nel secondo dopoguerra, Broch aveva delineato l’idea di un “diritto umano” prescrittivo, che stesse alla politica come la matematica sta alla fisica, che indicasse cioè un modello razionale di condotta e un criterio di giudizio indipendente dalle varianti e dagli attriti della storia. Sulla concezione brochiana delle masse, cfr. H. Venzlaff, Hermann Broch. Ekstase und Masse. Untersuchungen und Assoziationen zur politischen Mystik des 20. Jahrhunderts, Bonn 1981 e R.G. Weigel, Zur geistigen Einheit von Hermann Brochs Werk. Massenpsychologie, Politologie, Romane, Tübingen 1994. 7 Per questa difficile transizione dal “Noi” all’“Io” nell’Europa dell’Est, in rapporto al libro Caffè Europa di Slavenka Drakulič, cfr. F. Cassano, Modernizzare stanca. Perdere tempo, guadagnare tempo, Bologna 2001, pp. 140-141. In Balkan Express la stessa autrice ha osservato come, finito il Noi del comunismo, l’individuo rischia di essere risucchiato in un altro collettivo, quello del nazionalismo: “Il guaio della nazionalità, però, è che mentre prima ero classificata e giudicata in base alla mia educazione, al mio lavoro, alle mie idee, al mio carattere e, sì, anche alla mia nazionalità, ora mi sento privata di tutto questo. Sono un nessuno, perché non sono più una persona. Sono una dei quattro milioni e mezzo di croati” (cit. in J. Glover, Humanity, cit., p. 200). 8 Cfr. P. Büchner, Vom Befehlen und Gehorchen zum Verhandeln. Entwicklungstendenzen von Verhaltensstandards und Umgangsnormen seit 1945, in Kriegskinder, Konsumkinder, Krisenkinder. Zur Sozialisationsgeschichte seit dem Zweiten Weltkrieg, a cura di U. Preuss-Lausitz et alii, Weinheim-Basel 1983, pp. 196-212. Secondo Parsons, abbandonando l’autoritarismo, i genitori non abdicano alle loro responsabilità: si rifiutano, semplicemente, di imporre ai loro figli modelli rigidi in un mondo che cambia con grande rapidità. Non sono, quindi, rinunciatari, ma realisti (cfr. T. Parsons, The Link between Character and Society [1961], in Social Structure and Personality, New York 1964, pp. 212-217). 9 Sull’io unrettbar, cfr. E. Mach, Die Analyse der Empfindungen und das Verhältnis des Physischen zum Psychischen [1886], Jena 1922 (rist. Darmstadt 1985), p. 20 e cfr. K. Düsing, Selbstbewußtseinsmodelle. Moderne Kritiken und systematische Entwürfe zur konkreten Subjektivität, München 1997, p. 9. Sull’io come “buco” nell’Uomo senza qualità di Musil, cfr. P. Berger, A Far Glory. The Quest for Faith in an Age of Credulity, cit., pp. 105-120. Sull’io come pauvre trésor e insupportable enfant gâté, cfr. C. Lévi-Strauss,
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L’homme nu: “Finale”, Paris 1971, pp. 614-615. Per Freud, cfr. NFV, 188: “Un proverbio ammonisce di non servire contemporaneamente due padroni. Il povero Io ha la vita ancora più dura: deve servire tre severissimi padroni, deve sforzarsi di metter d’accordo le loro esigenze e le loro pretese. Queste sono sempre fra loro discordanti e appaiono spesso incompatibili: nessuna meraviglia se l’Io fallisce così frequentemente nel suo compito. I tre tiranni sono: il mondo esterno, il Super-io e l’Es”. 10 Sull’abbandono dell’io e dell’autocoscienza e sul sospetto nei confronti dell’interiorità da parte delle filosofie analitiche, cfr. H. Sluga, “Das Ich muß aufgegeben werden”. Zur Metaphysik in der analytischen Philosophie, in Metaphysik nach Kant? Stuttgarter Hegel-Kongreß 1987, a cura di D. Henrich e R.-P. Horstmann, Stuttgart 1978, pp. 435-456 e AA. VV., Analytische Theorien des Selbstbewußtseins, Frankfurt a.M. 1994, a cura di M. Frank. Per un esame di queste posizioni si veda anche E. Tugendhat, Selbstbewußtsein und Selbstbestimmung. Sprachanalytische Interpretationen, Frankfurt a. M. 1979. Più in generale, cfr. W. Welsch, Identität im Übergang, in Id., Ästhetisches Denken, Stuttgart 1990, pp. 168-200 e K.J. Gergen, Das übersättige Selbst. Identitätsprobleme im heutigen Leben, Heidelberg 1996. Sullo slogan Identität, nein danke!, cfr. J. Straub, Personale und kollektive Identität. Zur Analyse eines theoretischen Begriffs, in Identitäten. Erinnerung, Geschichte, Identität 3, a cura di A. Assmann e H. Friese, Frankfurt a. M. 1999, p. 81 n. Contro coloro che sostengono la deducibilità della coscienza da fattori estranei, persone, per dirla con Fichte, che “sarebbero più facilmente portate a ritenere di essere un pezzo di lava sulla luna che non un io” (GWL, 326 n.), cfr. anche M. Frank, Die Unhintergehbarkeit der Individualität. Reflexionen über Subjekt, Person und Individuum aus Anlaß ihrer “postmodernen” Toterklärung, Frankfurt a. M. 1986; Id., Selbstbewußtseinstheorien von Fichte bis Sartre, Frankfurt a. M. 1991. 11 Una variante attiva e interessante di “narcisismo” (per cui cfr. più avanti, p. 390) inteso come “cura di sé” è offerto dall’ultimo Foucault, cfr. SdS. L’insoddisfazione per l’approssimativo assemblaggio del proprio apparato psichico, a causa d’inadeguate tecniche di produzione del Sé, traspare in vesti estetiche ed etiche insieme, come volontà di dire la verità su se stessi, di scolpirsi come una statua, secondo norme autoimposte. Ciò appare necessario in un periodo storico in cui le leggi e i costumi non proteggono e non orientano più sufficientemente gli individui. 12 Su Parfit, cfr. R. Bodei, La filosofia nel Novecento, Roma 1997, pp. 149-150. Per le attuali tendenze “buddhiste” alla rinuncia all’io e alla sua continuità nel tempo, cfr. S. Collins, Selfless Persons, Cambridge 1982 e S.C. Colm, The Buddhist Theory of “No-self”; trad. it. La teoria buddhista della negazione dell’io, in AA. VV., The Multiple Self, cit., pp. 248-279. 13 Come testi sintomatici di simili tendenze, pur nella diversità delle prospettive, cfr. P. Zweig, The Heresy of Self-Love. A Study of Subversive Individualism, Princeton 1968; trad. it. L’eresia dell’amor di sé. Storia dell’individualismo sovversivo nella cultura occidentale, Milano 1984 (il quale sostiene, cfr. ivi, p. 11, che l’individualismo narcisistico non è tanto “il verme nel frutto della società industriale, quanto il perpetuo avvocato del diavolo rispetto all’anelito comunitario, un arcieretico il cui rifiuto di adattarsi rappresenta quell’aspetto della personalità umana che resiste al sociale e che a esso ha, presumibilmente, sempre resistito. L’eresia dell’amor di sé è la storia di queste resistenze e del tentativo, sempre rinnovato in Occidente, di socializzare”); B. Grunberger, Le narcissisme, essai de psychanalise, Paris 1971; trad. it. Il narcisismo. Saggio di psicoanalisi, Torino 1998 (che interpreta il fenomeno come aspirazione alla pienezza e alla beatitidudine autosufficiente); H. Kohut, The Analysis of the Self, New York 1971; trad. it. Narcisismo e analisi del Sé, Torino 1976; Id., The Restoration of the Self, New York 1977; trad. it. La guarigione del Sé, Torino 1983; C. Lasch, Culture of Narcissism, New York 1979; trad. it. La cultura del narcisismo, Milano 1980; K. Strzyz, Sozialisation und Narzissmus, Wiesbaden 1978; trad. it. Narcisismo e socializzazione, Milano 1981; N. Daruz, Narcisse en quête de soi: étude des concepts de narcissisme, de moi et de soi en psychanalise et en psychologie, Bruxelles 1985; F. Ciaramelli, La distruzione del desiderio. Il narcisismo nell’epoca del consumo di massa, Bari 2000. L’oscillazione del pendolo della storia verso il narcisismo preoccupa quanti auspicano una nuova inversione di tendenza che riconduca l’Io alla dimora del Noi, un Noi senz’altro più accogliente rispetto al passato, pronto cioè a rinunciare alla violenza, ma anche a chiedere che l’Io rinunci, a sua volta, all’illusione dell’autonomia. 14 La New Age costituisce, a questo proposito, il pendant religioso del narcisismo: “Il singolo è invitato a realizzare, nel tempio particolare dell’io, il processo decisivo di trasformazione della coscienza,
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che coincide con un tipico processo di gnosi: scoprire il proprio Sé, corrispondente alla possibilità di ‘creare la propria realtà’ […]. Soggiacente vi è infatti, per quanto polarizzata, l’idea che ogni cosa è significativa, che ciò che conta è ciò che facciamo, che occorre reagire a un tipo di vita priva di senso e frantumata, diventando completamente responsabili della propria vita […]” (G. Filoramo, Millenarismo e New Age. Apocalisse e religiosità alternativa, Bari 1999, p. 87). 15 Cfr. G. Lipovetsky, Le crépuscule du devoir, Paris 1992 e, per i non-binding commitments (espressione usata per la prima volta da Nena e George O’Neill in Open Marriage. A New Life Style for Couples, New York 1972 a proposito della rivedibilità della formula che gli sposi stanno assieme finché morte non li separi), si veda R. Nozick, Philosophical Explanations, Oxford 1981; trad. it. Spiegazioni filosofiche, Milano 1987, pp. 354 sgg., il quale ha teorizzato la possibilità di rigenerare continuamente se stessi modificando le proprie decisioni passate, in modo da non sentirsi mai definitivamente legati a esse. Le scelte, infatti, non si compirebbero sulla base di “ragioni” dotate di un oggettivo peso specifico: dipenderebbe da noi attribuire – di volta in volta – un peso adeguato ai motivi delle nostre decisioni. 16 Cfr. E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, cit., pp. 15, 16, 166. 17 Non ci si rende conto che la debolezza della politica è soltanto apparente. Essa è, infatti, chiamata a governare – anche in questa congiuntura – l’essenziale fragilità degli affari umani, trovando soluzioni sempre imperfette, ma ineludibili, così che il bisogno di politica, anche quando viene negato, risulta necessario, cfr. M. Revault d’Allonnes, Le dépérissement de la politique. Généalogie d’un lieu commun, Paris 1999. 18 Cfr. P. Berger-B. Berger-H. Kellner, The Homeless Mind. Modernization and Consciousness, Hammondsworth 1973. 19 Per il termine patchwork, considerato in un altro contesto caratteristico dell’esperienza moderna, cfr. L. Balbo, Patchwork: una prospettiva sulla società di capitalismo maturo, in L. Balbo-M. Bianchi, Ricomposizioni: il lavoro di servizio nella società della crisi, Milano 1982, p. 26. 20 Contro l’avvertita inautenticità dell’uomo di massa, Heidegger aveva individuato, com’è noto, il senso dell’esistere nell’ékstasis dell’“essere-per-la-morte”, nella proiezione del soggetto verso un futuro che inesorabilmente lo annienterà. L’individuo incontra se stesso unicamente nel prefigurare la propria dissoluzione, nell’anticipare il suo inabissarsi nel nulla, cfr. supra, p. 243. Un interessante tentativo per salvare il concetto di autenticità, in forma riflessiva (appoggiandosi cioè al modello kantiano della Critica del giudizio) e come modo di non separare la fedeltà a se stessi dal perseguimento del bene comune è stato proposto da A. Ferrara in Autenticità riflessiva. Il progetto della modernità dopo la svolta linguistica, Milano 1999. Nel concepire il “bene come autorealizzazione” si apre un potenziale varco tra pulsioni narcisistiche e pretese morali astrattamente universalistiche. 21 Cfr. T. Luckmann and P. Berger, Social Mobility and Personal Identity, in “European Journal of Sociology”, V (1964), pp. 331-334; trad. it. Mobilità sociale e identità personale, in Identità. Percorsi e analisi in sociologia, a cura di L. Sciolla, Torino 1983, pp. 185-201 e, in particolare, pp. 190-191. 22 Cfr. S. Rushdie, Imaginary Homelands, London 1991; trad. it. Patrie immaginarie, Milano 1994, p. 12. Si veda, per una valutazione analoga, ma con segno positivo, quanto afferma Rorty sul ruolo del caso nella formazione dell’identità dal punto di vista della “costellazione interiore” che ciascuno si crea e attraverso la quale si orienta: “Qualunque costellazione di eventi apparentemente casuale può dare tono a una vita, o può essere l’origine di un imperativo a cui questa sarà sottomessa – un imperativo non meno incondizionato per il fatto di essere intellegibile al massimo a una persona sola” (R. Rorty, Contingency, Irony, and Solidarity, Cambridge 1989; trad. it. La filosofia dopo la filosofia, Roma-Bari 1990, p. 49). 23 Z. Bauman, Broken Lives, Broken Strategies [1995]; trad. it. Da pellegrino a turista, in Id., La società dell’incertezza, Bologna 1999, pp. 27-28. 24 P. Berger-B. Berger-H. Kellner, The Homeless Mind. Modernization and Consciousness, cit., pp. 163 sgg.
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25 C. Lasch, The Minimal Self. Psychic Survival in Troubled Times, London 1985; trad. it. L’io minimo. La mentalità della sopravvivenza in un’epoca di turbamenti, Milano 19872. 26 E.J. Hobsbawm, Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991, cit., pp. 17-18, 21. 27 Il concetto di “nicchia ecologica”, applicato a determinati disturbi psichici, si riferisce all’insieme delle condizioni, sufficienti e storicamente determinabili, perché in un certo periodo appaia una specifica malattia mentale, che attira l’attenzione degli psichiatri e del pubblico, per poi scomparire e – magari – riemergere carsicamente in un’epoca successiva, cfr. I. Hacking, Mad Travelers: Reflexions on the Reality of Transient Mental Illness, Charlottsville 1998; trad. it. I viaggiatori folli. Lo strano caso di Albert Dadas, Roma 2000, pp. 23, 67-68. 28 Il DSM III (il Manuale diagnostico e statistico dell’American Psychiatric Association) reintroduce nel 1980, dopo una lunga assenza, le sindromi relative alle personalità multiple sotto la patologia dei disturbi dissociativi. Si veda l’edizione più recente: The DSM-IV Personality Desorder, a cura di J. Livesly, New York-London 1995; trad. it. Manuale Diagnostico e Statistico delle malattie mentali, Milano 1996, dove si propone, peraltro, di sostituire l’espressione di “personalità multiple” con “disturbo dissociativo dell’identità” (Dissociative Identity Desorder), che non prevede più molteplici personalità, bensì un’identità dissociata composta da due o più personality states. 29 La storia è stata raccontata da D. Keyes, The Minds of Billy Milligam, New York 1981. Sulle implicazioni di simili casi, cfr. E.R. Saks, Jekyll on Trial: Multiple Personality Disorder and Criminal Law, New York 1997. 30 C.H. Thigpen-H.M. Cleckley, The Three Faces of Eve, New York 1957; F.R. Schreiber, Sybil, Chicago 1973. Sybil, pseudonimo di Isabel Dorsch, era dotata di diciassette personalità, di cui due maschili, che si svilupparono tra il 1926 e il 1965. Fu trattata con una terapia psicoanalitica, anche perché, secondo Ernest Jones, il caso di Anna O., il primo a essere affrontato da Freud, non era altro – retrospettivamente – che un caso di scissione della personalità, cfr. AA. VV., Anna O. Fourteen Contemporary Reinterpretations, New York-London 1984. Sulla storia di Sybil e su simile letteratura tra il romanzesco e il clinico, cfr. I. Hacking, Rewriting the Soul: Multiple Personality and the Sciences of Memory, cit., pp. 58 sgg. Sull’interesse – e persino sulla moda – delle scissioni della personalità e delle personalità multiple negli Stati Uniti, cfr. M.G. Kenny, The Passion of Ansel Bourne. Multiple Personality in American Culture, Washington, D.C. 1986; K. Castle-S. Bechtel, It’s Time: The Incredible Story of a Woman whose Multiple Personalities were fused into One, New York 1989; J.M. Glass, Shattered Selves. Multiple Personality in a Postmodern World, Ithaca 1993; L. Simon, Dissociated States, © 1993 by Leonard Simon; trad. it. Stati di dissociazione, Milano 1994; M. Borch-Jakobsen, in AA. VV., Supposing the Subject, a cura di J. Copjec, London-New York 1994; C. West, First Person Plural, New York 1999. 31 Per quanto riguarda l’ambito medico, la teoria neo-dissociazionista di E.R. Hilgard, Divided Consciousness. Multiple Controls in Human Thought and Action, New York 1977, ha aperto la strada a una serie di ricerche, da cui gli studiosi – a partire dal 1984 – ritengono di aver finalmente ricavato i materiali empirici e gli strumenti teorici per affrontare “scientificamente” il problema, cfr. E.L. Bliss, Multiple Personality, Allied Desorders, and Hypnosis, New York-Oxford 1986; C.A. Ross, Multiple Personality Desorder: Diagnosis, Clinical Features, and Treatement, New York 1989 e AA. VV., Dissociation. Clinical and Theoretical Perspectives, a cura di S.J. Lynn e J.W. Rhue, New York 1994. Come espressione di queste tendenze, cfr. inoltre A. Crabtree, Multiple Man: Explorations in Possession and Multiple Personality, cit.; J. Rowan, Subpersonalities. The People inside Us, cit.; AA. VV., Multiple Personalities, Multiple Disorders, Oxford 1993; C.A. Ross, The Osiris Complex. Case-Studies in Multiple Personality Disorder, Toronto-Buffalo 1994; S.E. Braude, First Person Plural: Multiple Personality and the Philosophy of Mind, Lanham, Md. 1995. A riprova dell’interesse diffuso per questi fenomeni si può ricordare l’esistenza dell’International Society for the Study of Multiple Personality, fondata nel 1984 a Chicago, e di un gruppo di studio diretto dal dottor Bennett Braun presso il Rush-Presbyterian-St. Luke’s Medical Centre della stessa città. 32 Cfr. J.S. Howland, The Use of Hypnosis in the Treatement of a Case of Multiple Personality, in “Journal of Abnormal Psychology”, CLXI (1975), pp. 138-142 e G.B. Greaves, Multiple Personality 165 Years after Mary Reynolds, in “Journal of Mental Disease”, CLXVIII (1980), pp. 577-596.
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33 Sul gioco infantile di inventare dei personaggi, che può sfociare nella creazione patologica di personalità multiple, si veda questo passo autobiografico di Pessoa: “Bambino, ho avuto la tendenza a creare attorno a me un mondo fittizio, a circondarmi d’amici e di conoscenti che non sono mai esistiti […]. Da quando mi conosco come colui che chiamo io, mi ricordo di aver definito nel mio animo l’aspetto, i gesti, il carattere e la storia di più personaggi irreali, che erano per me altrettanto visibili e mi appartenevano altrettanto quanto gli oggetti che noi chiamiamo, forse abusivamente, la vita reale. Questa tendenza, che risale tanto lontano quanto io mi ricordo di essere un io, mi ha sempre seguito, modificando un poco il genere di musica con cui mi incanta, ma mai la sua maniera di incantare […]. Cose che capitano a tutti i bambini? Certo – o forse. Ma io le ho talmente vissute che le vivo ancora, giacché le evoco così bene che devo fare uno sforzo per persuadermi che non sono realtà” (F. Pessoa, in Pessoa en personne. Lettres et documents, a cura di J. Blanco, Paris 1986, pp. 300-301). 34 Cfr. J.P. Sutcliffe-J. Jones, Personal Identity, Multiple Personality, and Hypnosis, in “The International Journal of Clinical and Experimental Hypnosis”, X (1962), pp. 231-269. 35 Per un’esposizione delle principali teorie, cfr. W.N. Confer-B.S. Ables, Multiple Personality. Etiology, Diagnosis, and Treatement, New York 1983, pp. 24-30 (il libro esamina il caso di un ragazzo ventisettenne, René). Sul problema sono anche da vedere, per il versante psichiatrico, E. Berman, Multiple Personality: Theoretical Approach, in “Journal of the Bronx State Hospital”, II (1974), pp. 99107 e D.R. Smith, Multiple Personality. Theory, Diagnosis, and Treatement: a Case Study, New York 1982. 36 Su questo eroe anonimo, capace di trovare soluzioni impreviste alle imposizioni dall’alto, cfr. M. de Certeau, L’invention du quotidien. I. Arts de faire, cit., pp. 25 sgg. Sul fatto che, per comprendere l’individuo, occorre partire non da preesistenti stampi sociali, ma da incessanti processi d’individuazione, dal “preindividuale” e non dall’individuo, cfr. G. Simondon, L’individuation psychique et collective. À la lumière des notions de Forme, Information, Potentiel et Métastabilité, Paris 1989; trad. it. L’individuazione psichica e collettiva, Roma 2001, p. 27 e, più avanti, nota 47. 37 Per un accenno di messa in guardia teorica nei confronti di questa tendenza, cfr. V. Gerhardt, Individualität. Das Element der Welt, München 2000, pp. 11-12. 38 Per non assolutizzare determinati sintomi come espressione dello spirito di una determinata epoca, bisognerebbe rinunciare all’idea di tempo concepito in termini esclusivamente lineari e approfondire – ma cfr. supra, p. 376 – l’idea di una compresenza di più tempi storici nel medesimo tempo cronologico o la proposta, apparentemente bizzarra, di Hans Magnus Enzensberger per spiegare, in termini matematici, il ripresentarsi anacronistico, in periodi diversi, di eventi o idee simili (cfr. H.M. Enzensberger, Zickzack, Frankfurt a. M. 1997; trad. it. Zig zag. Saggi sul tempo, il potere, lo stile, Torino 1999, pp. 9-20). 39 Come esempio di anticipazione dell’identità in quanto patchwork si veda Montaigne: “Nessuno fa un disegno preciso della sua vita, noi decidiamo pezzo per pezzo […]. Noi siamo fatti tutti di pezzetti, e di una tessitura così informe e bizzarra che ogni pezzo, ogni momento va per conto suo. E c’è altrettanta differenza fra noi e noi stessi che fra noi e gli altri” (ES, II, I, 320, 321 = I, 435). Pochi, peraltro, sono quelli che hanno realmente pensato, come Jünger, di trasformare gli uomini in maschere di ferro o desiderato di temprarsi alla maniera degli stiliti, facendo eroicamente della propria interiorità “una Tebaide, il centro di ogni deserto e rovina”, dove ciascuno conduce la propria lotta contro il mondo (ÜL, 104). 40 Cfr. P. Sloterdijk, Regeln für den Menschenpark. Ein Antwortschreiben zu Brief über den Humanismus, in “Die Zeit”, 16 settembre 1999, ripubblicato come libro: Frankfurt a. M. 1999; trad. it. Regole per il parco umano, in “aut-aut”, nn. 301-302 (gennaio-aprile 2001), pp. 120-139. Le critiche, non prive di giustificazione, che Jürgen Habermas e Manfred Frank hanno rivolto a Sloterdijk, non escludono che egli abbia posto, in prospettiva, un serio problema. Sul “disastro dell’umanesimo occidentale” e su Kakfa come profeta della disumanizzazione, cfr. G. Steiner, Language and Silence, © George Steiner 1967; trad. it. Linguaggio e silenzio, Milano 2001, p. 129: “La metamorfosi di Gregor Samsa, che dai primi che udirono il racconto era stata intesa come un sogno mostruoso, doveva essere il destino preciso di milioni di esseri umani. La parola stessa usata a indicare l’insetto, Ungeziefer, è un
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tocco di tragica chiaroveggenza: con questo termine i nazisti avrebbero indicato le persone uccise nella camera a gas. Nella colonia penale adombra non soltanto la tecnologia delle fabbriche della morte, ma quel particolare paradosso del regime totalitario moderno – la collaborazione sottile e oscena tra vittima e carnefice”. 41 Cfr. A. Schütz, Reflections on the Problem of Relevance, New Haven and London 1970; trad. it. Il problema della rilevanza, Torino 1975, pp. 56, 57. Solo la paramount reality del mondo vitale quotidiano – l’Alltagswelt che Husserl non distingueva dal “mondo della vita”, dalla Lebenswelt – riesce in Schütz a esercitare il dominio sulle altre “province finite di significato”. Per un inquadramento, si veda, a tal proposito, B. Luckmann, The Small Life-Worlds of Modern Man, a cura di Th. Luckmann, Harmondsworth 1971, pp. 275 sgg. 42 Cfr. R. Sennett, The Corrosion of Character. The Personal Consequences of Work in the New Capitalism, New York-London 1999, trad. it. L’uomo flessibile, Milano 20012; W. Rybczynski, Waiting for the Weekend, New York 1992; J. Rifkin, The End of Work, © 1995 by G.P. Putnam and J. Rifkin; trad. it. La fine del lavoro, Milano 1997; A. Accornero, Era il secolo del Lavoro, Bologna 1997. 43 Cfr. U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, cit., p. 33, secondo cui la tecnica impone di “rivedere i concetti di individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo, ma anche quelli di natura, etica, politica, religione, storia, di cui si nutriva l’età pre-tecnologica e che ora, nell’età della tecnica, dovranno essere riconsiderati, dismessi, o rifondati dalle radici”. Per effetto di questa situazione, morirebbe, in particolare, l’individuo, “quel soggetto che, a partire dalla consapevolezza della propria individualità, si pensa autonomo, indipendente, libero fino ai confini della libertà altrui e, per effetto di questo riconoscimento, uguale agli altri. In altri termini non muore l’individuo empirico, l’atomo sociale, ma il sistema di valori che, a partire da questa singolarità, hanno deciso la nostra storia” (ivi, p. 43 e cfr. pp. 525-527). In relazione a Sorel, cfr. supra, pp. 210-211. Sulla difficile arrestabilità degli automatismi della tecnica ha insistito Emanuele Severino, in particolare nel volume Il destino della tecnica, Milano 1998. Sull’esigenza di concepire le tecniche, al plurale, nelle loro dinamiche effettive e senza condanne preconcette, cfr. M. Nacci, Pensare la tecnica. Un secolo d’incomprensioni, cit. 44 Cfr. R. Bodei, Bioetica e biotecnologie, in Frontiere della vita, vol. IV, Roma 1999, pp. 705-713 e Id., Cambiare la vita. Bioetica e biotecnologie, in “Il Mulino”, L (2001), pp. 195-204. Sulle implicazioni etiche e giuridiche del nuovo ruolo giocato dal corpo, si veda, da ultimo, M.M. Marzano Parisoli, Penser le corps, Paris 2002. Sugli effetti delle protesi e dell’ingegneria genetica, cfr. R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Torino 2002, p. 178: “Un fuori portato dentro – questa esattamente è la protesi. O un dentro che sporge fuori: non più trattenuto nei limiti, coincidenti con la pelle, della tradizionale identità soggettiva. Il soggetto – in questo senso – non è più un dato originario, ma un costrutto operativo: il risultato di una mistione con qualcosa che non è soggetto o che è soggetto a un altro statuto ontologico rispetto a quello, classicamente concepito, della soggettività. Che è insieme meno di un soggetto umano – perché gli manca la vita – e più di esso perché, in caso di sostituzione di un organo malato, gli consente di continuare a vivere. Qualcosa di non vivo – che tuttavia serve a conservare la vita”. 45 Tenendo conto di questa indicazione di Wittgenstein, l’importante è non confondere i modelli teorici che servono per comprendere determinati fenomeni con la loro effettiva genesi storica: “Proprio come si illustrava la relazione interna tra cerchio ed ellisse trasformando gradualmente l’ellisse in cerchio, ma non per affermare che una determinata ellisse è scaturita effettivamente da un cerchio (ipotesi evolutiva), bensì solo per rendere il nostro occhio sensibile a una connessione formale” (L. Wittgenstein, Bemerkungen über Frazers “The Golden Bough”, Wittgenstein Nachlass Verwalter 1967; trad. it. Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, Milano 1995, pp. 29-30). 46 Cfr. N. Elias, Die Gesellschaft der Individuen, Frankfurt a. M. 1987; trad. it. La società degli individui, Bologna 1990, pp. 183 sgg. Molte delle moderne ricerche sul rapporto Io-Noi si pongono sulla scia dei pionieristici lavori di Mead e di Wallon, secondo cui il Sé e l’identità personale nascono grazie all’adozione del punto di vista degli “altri significativi” (cfr. G.H. Mead, Mind, Self, and Society, Chicago 1934; trad. it. Mente, sé e società dal punto di vista di uno psicologo comportamentista, Firenze 1966 e H. Wallon, Les origines du caractère chez l’enfant, Paris 1935; trad. it. Sviluppo della coscienza e formazione
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del carattere, Firenze 1967). 47 Sugli elementi “preindividuali” che costituiscono il soggetto, cfr. G. Simondon, L’individuation psychique et collective. À la lumière des notions de Forme, Information, Potentiel et Métastabilité, cit., p. 28: “Per pensare l’individuazione, occorre considerare l’essere non già come sostanza o materia o forma, ma come sistema teso, sovrasaturo, al di sopra dell’unità […]. L’unità e l’identità si applicano soltanto a una delle fasi dell’essere, posteriore all’operazione di individuazione”. 48 Sull’impossibilità di una memoria individuale staccata da quella collettiva, si veda invece M. Halbwachs, Les cadres sociaux de la mémoire [1925], Nouvelle édition, Paris 1952, pp. VII, 143, 24. E cfr. ivi, pp. 38-39. 49 Cfr. N. Elias, Die Gesellschaft der Individuen, cit., p. 226. Attraverso la sua immagine dell’homo clausus della prima modernità, di cui Descartes è un campione (cfr. ivi, p. 227), Elias condivide la tesi di Hannah Arendt, già rintracciabile in Jaspers, secondo cui nel filosofo francese l’uomo sarebbe stato “ricacciato dal mondo trascendente e immanente su se stesso” e “proiettato nella chiusa interiorità dell’introspezione” (cfr. H. Arendt, HC, 271, 239 e, per la valutazione di questa posizione, H. Blumenberg, Die Legitimität der Neuzeit, Frankfurt a.M. 1966; trad. it. La legittimità dell’età moderna, Genova 1992, p. 14). Nelle Ricerche filosofiche Wittgenstein aveva, peraltro, notato che l’accesso privilegiato che il soggetto ha in Cartesio dei propri stati mentali implica un linguaggio privato (che è, secondo Elias, talmente wirlos, privo di noi, da diventare incomunicabile). 50 Chi desiderasse approfondire il problema dell’identità personale sotto il profilo filosofico può vedere, dell’immensa letteratura recente, almeno, S. Shoemaker, Self-Knowledge and Self-Identity, Ithaca, N.Y. 1963; D.J. De Levita, The Concept of Identity, Paris 1965; B. Williams, Problems of the Self, cit. (in particolare il saggio The Self and the Future), pp. 59-78; D. Henrich, Identität – Begriffe – Probleme – Grenzen, in Identität, a cura di O. Marquard e K.-H. Stierle, München 1979, pp. 133-186; Ph. Glaeson, Identifying Identity: A Semantic History, in “Journal of American History”, LXIX (1983), pp. 910-931; S. Shoemaker-R. Swinburne, Personal Identity. Great Debates in Philosophy, Oxford 1984; C. BlackemoreS. Greenfield, Mindwaves. Thoughts on Intelligence, Identity, and Consciousness, Oxford 1987; H.N. Castañeda, Self-Consciousness. Demonstrative Reference, and the Self-Ascription View of Believing, in Philosophical Perspectives I, in “Metaphysics”, 1987, pp. 405-444; Id., The Phenomeno-Logic of the I. Essays on Selfconsciousness, a cura di J. H. Hart e T. Kapitan, Bloomington 1999; A.A. Brenan, Conditions of Identity. A Study of Identity and Survival, Oxford 1988; H. Noonan, Personal Identity, London-New York 1993; S. Ferret, Le Philosophe et son scalpel (le problème de l’identité personnelle), Paris 1993; M. Betzler, Ich-Bilder und Bilderwelt: Überlegungen zu einer Kritik des darstellenden Verstehens in Auseinandersetzung mit Fichte, Dilthey und zeitgenossischen Subjekttheorien, München 1994. 51 Oltre agli inquadramenti semantici e storici di J. Stelzenberg, Syneidesis, Conscientia, Gewissen. Eine Studie zum Bedeutungswandel eines moraltheologischen Problems, Paderborn 1963, di A. Cancrini, Syneidesis. Il tema della “conscientia” nella Grecia antica, Roma 1970; di A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996 e di S. Nannini, L’anima e il corpo. Un’introduzione storica alla filosofia della mente, Roma-Bari 2002, uno sguardo sinottico sul problema della coscienza in rapporto all’identità personale è dato negli ultimi dibattiti, anche sul versante delle scienze cognitive, da D. Sparti, Soggetti al tempo. Identità personale fra analisi filosofica e costruzione sociale, Milano 1996; Id., Identità e coscienza, cit.; da M. Di Francesco, L’io e i suoi sé. Identità personale e scienze della mente, Milano 1998; Id., La coscienza, cit. e dal volume di AA. VV., Bewußtsein. Beiträge aus der gegenwärtigen Philosophie, a cura di Th. Metzinger, Paderborn 2001. 52 Sul problema dell’individualità (“controparte” dell’identità personale, ma i due concetti vanno tenuti distinti), cfr., almeno, N. Luhmann, Individuum, Individualität, Individualismus, in Id., Gesellschaftsstruktur und Semantik. Studien zur Wissenssoziologie der modernen Gesellschaft, Frankfurt a. M. 1989 (per cui “l’individualità non è altro che autopóiesis, ossia la chiusura circolare di autoregolazione del sistema”, ivi, p. 228); E. Rudolph, Odyssee des Individuums. Zur Geschichte eines vergessenen Problems, Stuttgart 1991 e V. Gerhardt, Individualität. Das Element der Welt, cit. 53 Sul tema della soggettività (termine entrato in uso dopo Kant per designare quella che viene
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considerata una caratteristica eminente dell’età moderna, il valore del soggetto nella sua consapevolezza e autonomia individuale o la qualità inerente al soggetto, in quanto dotato di autoriferimento e di coscienza), cfr. R. Bodei, s.v. Subjektivität, in Enzyklopädie der Philosophie, a cura H.-J. Sandkühler, 2 voll., Hamburg 1999, vol. II, pp. 1554-1558 e a H.-J. Busch, Subjektivität in der spätmodernen Gesellschaft, Göttingen 2001. 54 Per questo aspetto si veda M. Foucault, Polémique, politique et problématisation, in Id., DE, IV, 597. 55 In questo senso, l’individuo subisce una metamorfosi simile a quella della “seconda modernità”, che – a differenza della prima – “ha consumato e perduto il suo opposto” e si ritrova “confrontata con se stessa”, diventando una “modernizzazione riflessiva” (U. Beck, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, Frankfurt a. M. 1986; trad. it. La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma 2000, pp. 14-15). Analogamente, l’individualità contemporanea, avendo perso l’appoggio determinante delle istituzioni, diventa direttamente “l’unità riproduttiva del mondo della vita sociale […]. La stessa biografia diventa un progetto riflessivo”, senza che ciò comporti il conseguimento di un’emancipazione ben riuscita, in quanto gli “individui post-tradizionali (freigesetzt) diventano dipendenti dal mercato del lavoro e in tal modo anche dall’istruzione, dal consumo, dalle regole e dai sostegni della legislazione sociale, dalla programmazione del traffico, dalle offerte di consumo e da possibilità e modalità di consulenza e cura medica, psicologica e pedagogica” (ivi, p. 115). 56 A. Sen, The Quality of Life, a cura di M. Nussbaum e A. Sen, Oxford-New York 1993; trad. it. Il tenore di vita. Prima conferenza, Venezia 1998, p. 45. 57 Cfr. G. Elfstrom, Ethics for a Shrinking World, New York 1990. 58 Questo processo, iniziato da tempo, era già stato acutamente analizzato da Walter Rathenau, che osservava, ad esempio, come, aprendo almeno una volta al giorno “la cortina sul gran teatro del mondo”, il lettore moderno apprende attraverso i giornali “in un solo mattino, a colazione, più novità e stranezze di quante ne venisse a conoscere il suo bisavolo in tutto il corso della sua vita”, così che, sotto “la grandine dei fatti, si estingue lo stupore, il rispetto per l’avvenimento, la sensibilità ricettiva, e nello stesso tempo aumenta il desiderio di nuovi fatti, il bisogno di rincarare la dose” (W. Rathenau, Die Mechanisierung der Welt, in Id., Zur Kritik der Zeit, Berlin 1912; trad. it. La meccanizzazione del mondo, in Tecnica e cultura. Il dibattito tedesco fra Bismarck e Weimar, a cura di T. Maldonado, Milano 1979, pp. 196, 197). 59 Cfr. M. Hardt-A. Negri, Empire, cit., p. 294, laddove si suggerisce la ripresa di un modello polibiano trifunzionale aggiornato: “L’Impero con cui attualmente abbiamo a che fare è costituito – mutatis mutandis – da un equilibrio funzionale tra queste tre forme di potere: l’unità monarchica del potere con il suo monopolio globale della forza; le articolazioni dell’aristocrazia attraverso le multinazionali e gli stati-nazione; la rappresentanza democratica dei comitia compresa negli statinazione, nelle Ong, nei media e negli altri organismi ‘popolari’”. Per un inquadramento prospettico del concetto di “Impero” utili le considerazioni raccolte in “Filosofia politica”, XVI (2002), pp. 5-126 [Materiali per un lessico politico europeo: “impero”] e pp. 145-154. 60 Cfr. S. Latouche, La planète des naufrages. Essai sur l’après-développement, Paris 1991; trad. it. Il pianeta dei naufraghi. Saggio sul doposviluppo, Torino 1993. 61 Per la storia e il senso di questo concetto, cfr. S. Lukes, Individualism, cit.; A. Renaut, L’ère de l’individu, Paris 1989 e A. Laurent, Histoire de l’individualisme, cit. L’individualismo – e non l’egualitarismo, come pensa Tocqueville – sarebbe il tratto caratteristico della cultura americana, che ha insegnato ai singoli, alla maniera di Emerson, a “contare su se stessi” e ha creato i miti del cowboy e del detective, eroi solitari che difendono la società senza esservi veramente legati (cfr. R.N. Bellah et alii, Habits of the Hearth. Individualism and Commitment in American Life, Berkeley and Los Angeles, 1985; trad. it. Le abitudini del cuore, Roma 1996, pp. 8, 190-191). 62 La psicoanalisi riconduce la compresenza d’identità e alterità alla “condensazione”, formazione mista che concentra in sé i caratteri di oggetti e di individui che si sanno esser distinti, ma che tuttavia appaiono fra loro conglomerati, come quando nel sogno vediamo X, ma sappiamo che è Y, anche se
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veste come Z (cfr. S. Freud, V, 175 = 343 e R. Bodei, Variationen des Ichs. Personen und Landschaften der Träume, in AA. VV., Die Wahrheit der Träume, a cura di G. Benedetti e E. Hornung, München 1997, pp. 227-247). Nell’unità si conserva la coscienza della propria interna distinzione e nel confuso si mantiene la presenza del separato. La condensazione ha il suo opposto speculare nello “spostamento”, attività psichica per cui elementi comuni, appartenenti a un medesimo insieme, vengono distribuiti in contesti e assi di senso differenti. 63 Per il regime psichico in cui si svolge l’attività durevole, tenace e inappariscente d’incessante rielaborazione di contenuti dal significato insituabile o eccedente rispetto alle capacità di immediata recezione da parte della coscienza, cfr. R. Bodei, Le logiche del delirio. Ragione, affetti, follia, cit., pp. 1417. Come ha osservato Starobinski, sarebbe meglio parlare di “antagonisti” della coscienza, piuttosto che dell’usurata e polisemica nozione di inconscio (a meno che non se ne chiarisca esattamente il senso). L’inconscio è ormai “una balena arenatasi a riva, circondata da migliaia di curiosi” (J. Starobinski, La coscienza e i suoi antagonisti [manca l’indicazione del testo nella lingua originale], © Jean Starobinski; trad. it. Milano 2000, Avvertenza dell’autore, p. 9). 64 Uso il termine, provvisoriamente, nel senso di M. Foucault, Hétérotopies, in “Archictecture. Mouvement. Continuité”, n. 5 (ottobre 1984); trad. it. Eterotopie, in Id., Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. 3, Milano 1998, pp. 310-311 [una versione alquanto diversa, con il titolo Des espaces autres è apparsa in DE, IV, 752-762]. Un altro esempio di eterotopia (e di eterocronia) dato da Foucault è quello dei cimiteri, che costituiscono l’unione/separazione simbolica della città dei vivi e di quella dei morti, “l’‘altra città’ in cui ogni famiglia possiede la sua nera dimora”, il luogo “profondamente eterotopico, perché esso inizia con quella strana eterocronia che è, per un individuo, la perdita della vita, e quella quasi-eternità in cui non smette di dissolversi e di annullarsi” (ivi, pp. 313-314). Si veda anche U. Fadini, Sviluppo tecnologico e identità personale. Linee di antropologia della tecnica, Bari 2000, pp. 200-202. 65 J. Lacan, Écrits, Paris 1966, p. 517; trad. it. Scritti, Torino 1974, vol. II, p. 511. 66 Tra i tentativi recenti e più interessanti di affrontare la questione (almeno sul piano della “coscienza fenomenica” e dei qualia), vale la pena ricordare, almeno, G.M. Edelman, Neuronal Darwinism, New York 1987; trad. it. Darwinismo neuronale. La teoria della selezione dei gruppi neuronali, Torino 1995; Id., Bright Air, Brilliant Fire: On the Matter of the Mind, New York 1992; G.M. Edelman-G. Tononi, A Universe of Consciousness. How Matter becomes Imagination, © Gerald M. Edelman, M.D., PhD e Giulio Tononi, M.D., Phd 2000; trad. it. Un universo di coscienza. Come la materia diventa immaginazione, Torino 2000 e S. Tagliagambe, Il sogno di Dostoevskij. Come la mente emerge dal cervello, cit. Di diversa impostazione, più ‘riduzionista’, ma pieno di idee e spunti interessanti il volume di D.C. Dennett, Darwin’s Dangerous Idea. Evolution and the Meanings of Life, cit. 67 WdL, 17 = II, 658-659 e, per il contesto, R. Bodei, Il desiderio e la lotta, Introduzione ad A. Kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, Torino 1991, pp. VII-XXIX; Id., Le prix de la liberté, Paris 1995. 68 Cfr. Cic., Academica, II, 24. Per Sartre, che ha coniato l’espressione cogito pré-réflexif, cfr. EN, 20 = 18: “La riflessione non ha quindi alcun privilegio nei riguardi della coscienza riflessa: non è la prima che rivela la coscienza a se stessa. Al contrario, è la coscienza non riflessiva che rende possibile la riflessione; c’è un cogito preriflessivo che rende possibile il cogito cartesiano”. Per l’acquaintance, cfr. B. Russell, The Problem of Philosophy [1912], London-New York-Toronto 1957, pp. 49 sgg. Per Ribot e la tradizione legata alla cenestesia, vedi supra, pp. 72-73 e J. Starobinski, Breve storia della coscienza del corpo, cit. Per alcuni aspetti di queste tematiche in Maine de Biran, cfr. M. Piazza, Il governo di sé. Tempo, corpo e scrittura in Maine de Biran, Milano 2001. 69 Horat., Carmina, IV, 10, 7-9, trad. it. di E. Mandruzzato, Orazio, Odi ed epodi, Milano 1985, p. 385 [“Dices: ‘heu’ quotiens te in speculo videris alterum: / ‘Quæ mihi mens est hodie, cur eadem non puero fuit, / vel cur his animis incolumes non redeunt genæ?’ ”]. In termini più prosaici, Valéry ha così espresso questo stesso sentimento di estraneità che talvolta lo coglie nel guardare se stesso: “Guardo il mio viso, le mie proprietà e tutto il resto, come una vacca fa con un treno” (C, VIII, 880 = Œ, I, 94 e cfr. V. Magrelli, Vedere vedersi. Modelli e circuiti visivi nell’opera di Valéry, Torino 2002, pp. 153-154).
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70 Dalla constatazione per cui, affinché vi sia l’atto di riflessione, è necessario presupporre già un io, sebbene opaco e impenetrabile, che serva da base alla crescita esponenziale della riflessione si muove Dieter Henrich, con riferimento a Hölderlin (cfr. D. Henrich, Der Grund im Bewußtsein. Untersuchungen zu Hölderlins Denken [1794-1795], Stuttgart 1992, pp. 622 sgg.; Id., Selbstverhältnisse, Stuttgart 1993, pp. 59 sgg. Alcuni accenni sono però già presenti in Id., Selbstbewußtsein. Kritische Einleitung in eine Theorie. in Hermeneutik und Dialektik. Festschrift für H.-G. Gadamer zum 70. Geburtstag, Tübingen 1970, pp. 270 sgg. Si vedano F. Hölderlin, Urtheil und Seyn, in Grosse Stuttgarter Hölderlin Ausgabe, a cura di F. Beissner, Stuttgart 1943 sgg., vol. IV, pp. 216-217, trad. it. Giudizio, possibilità, essere, in F. Hölderlin, Sul tragico, a cura di R. Bodei, Milano 1989, pp. 75-76 e K. Düsing, C’è un circolo nell’autocoscienza? Uno schizzo delle posizioni paradigmatiche e dei modelli di autocoscienza da Kant a Heidegger, in “Teoria”, XII [1992], pp. 3-29; Id., Subjektivität und Freiheit. Untersuchungen zum Idealismus von Kant bis Hegel, Stuttgart-Bad Cannstatt 2002, pp. 111-140). Tra i più acuti difensori dell’identità pre-riflessiva è oggi da porre Manfred Frank (cfr. M. Frank, Selbstbewußtsein und Selbsterkenntnis, Stuttgart 1991, pp. 9-49 e Id. Die Unhintergehbarkeit der Individualität, cit. Ma si veda K. Düsing, Selbstbewußtseinsmodelle. Moderne Kritiken und systematische Entwürfe zur konkreten Subjektivität, cit., pp. 33-34, il quale, per superare lo scoglio della circolarità, propone un articolato e interessante modello di “autocoscienza asimmetrica”. Su questo punto cfr. supra, p. 389. 71 “Davanti allo specchio […] mi identifico con me stesso identificandomi a un altro, e mi scopro altro osservando il mio io”: P. Tortonese, L’anti-Narcisse: considérations sur quelques miroirs fantastiques, in AA. VV., Autoscopie. Représentation et identité dans l’art et la littérature, a cura di J. Kempf e P. Tortonese, in “Annales de l’Université de Savoie”, n. 24 (1998), p. 144. Sulle questioni sollevate dall’autoscopia in Valéry cfr. l’approfondita e coinvolgente analisi di V. Magrelli, Vedere vedersi. Modelli e circuiti visivi nell’opera di Valéry, cit. e, in particolare, questa annotazione di Valéry: “Colui che si vede nello specchio, si stupisce di essere questo –, questo individuo, – condannato a tale forma e a tale volto – lui, che si credeva universale” (C, XIX, 254 = Œ, II, 1338). 72 Per l’esempio, cfr. W. Blankenburg, Der Verlust der natürlichen Selbstverständlichkeit, Stuttgart 1971; trad. it. La perdita dell’evidenza naturale, Milano 1998, Postfazione dell’autore all’edizione italiana, p. 171. 73 In un diverso contesto e senza la tensione tra le due dimensioni, qualcosa di analogo è sostenuto anche da Thomas Nagel, cfr. T. Nagel, Views from Nowhere, New York-Oxford 1986; trad. it. Sguardo da nessun luogo, Milano 1988. Da punti di vista come questi, cogliamo meglio anche il valore delle affermazioni classiche sul senso del destino personale come intreccio tra condizioni anonime e necessarie del cosmo e specificità della venuta al mondo e dello svolgersi della vita del singolo. Si veda, ad esempio, quanto è sostenuto da Plotino: “Ma cosa sono le sorti? Esse indicano la condizione dell’universo qual era nel tempo in cui le anime vennero nel loro corpo, il loro venire in un particolare corpo, il nascere da determinati genitori e in un certo luogo e, in generale, quelle cose che abbiamo chiamato circostanze esterne. Tutte queste cose che accadono contemporaneamente sono come filate assieme l’una con l’altra, e sono mostrate, tanto nelle loro singole componenti che nella loro totalità, da una delle cosiddette Moire. A Lachesi competono le sorti; Atropo, poi, avvolge queste circostanze nello stretto vincolo della necessità” (Plot., Enn., II, 3, 15). 74 Ciò vale, soprattutto, per gli Stati Uniti, patria di elezione dell’individualismo, prima, e del narcisismo, poi, cfr. R.N. Bellah et alii, Habits of the Hearth. Individualism and Commitment in American Life, cit., pp. 84, 115. E cfr. ivi, p. 188: “John Locke è la figura chiave e una di quelle che più hanno influenzato la cultura americana. L’essenza della posizione di Locke è un individualismo quasi ontologico. L’individuo viene prima della società, che inizia a vivere solo attraverso il contratto di individui che cercano di massimizzare i loro interessi personali”. Per un approfondimento di alcuni punti, cfr. Th.L. Pangle, The Spirit of Modern Republicanism: The Moral Vision of the American Founders and the Philosophy of Locke, Chicago 1988 e N. Urbinati, Individualismo democratico. Emerson, Dewey e la cultura politica americana, Roma 1997. Per l’aspetto pedagogico, si veda J. Locke, Some Thoughts Concerning Education, in Id., Educational Writings, a cura di J.L. Axtell, Cambridge 1968; trad. it. Pensieri sull’educazione, Firenze 1974. 75 Cfr. M. Heidegger, SZ, I, II, 2, § 57, p. 414: “La chiamata non è mai progettata né preparata né
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volutamente effettuata da noi stessi. ‘Qualcuno’ chiama contro la nostra attesa e contro la nostra volontà. D’altra parte la chiamata non proviene certamente da un altro che sia nel mondo-insieme a noi. La chiamata viene da me e tuttavia da sopra di me”. Significativamente, questa voce inarticolata non appartiene a un essere che ne sia il “possessore”. 76 Anche gli eredi di tradizioni rivoluzionarie ‘dure’ sembrano oggi individuare i protagonisti del futuro in personaggi legati a un Noi solidale ma autonomo: nel “volontario” o nel “francescano” esponente di una moltitudine che cerca – alla maniera di Spinoza e del giovane Hegel – di riappropriarsi della vita negatagli da un potere reticolare e senza centro. Si vedano M. Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, cit., e M. Hardt-A. Negri, Empire, cit., pp. 381-382: “C’è un’antica leggenda che potrebbe illuminare la vita futura della militanza comunista: la leggenda di san Francesco di Assisi. Vediamo quale fu la sua impresa. Per denunciare la povertà della moltitudine, ne adottò la condizione comune e vi scoprì la potenza ontologica di una nuova società. Il militante comunista fa lo stesso nel momento in cui identifica nella condizione comune della moltitudine la sua enorme ricchezza. In opposizione al capitalismo nascente, Francesco rifiutava qualsiasi disciplina strumentale, e alla mortificazione della carne (nella povertà e nell’ordine costituito) egli contrapponeva una vita gioiosa che comprendeva tutte le creature e tutta la natura: gli animali, sorella luna, fratello sole, gli uccelli dei campi, gli uomini sfruttati e i poveri, tutti insieme contro la volontà di potere e la corruzione”. Condiviso appare anche, in Hart e Negri, il bisogno di creare “dispositivi cooperativi” e di produrre “comunità” in un mondo dominato da poteri diffusi, che ignorano le esigenze della “moltitudine”. 77 Cfr. F. Braudel, La Méditerranée à l’époque de Philippe II, Paris 1949; trad. it. Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino 1953 e, sulle possibilità degli individui moderni di avvertire – assieme al potere dei condizionamenti da parte di “forze massicce” – la presenza “delle falle, delle giunture malfatte” attraverso cui far passare la propria libertà, cfr. G. Mari, I vocabolari di Braudel. Lo spazio come verità della storia, Napoli 2001, pp. 135 e 136. 78 Anche se – trattando della citologia di Virchow, della fisiologia di Taine e della psicopatologia di Ribot o Pirandello – ci si è riferiti a fenomeni di lunghissima durata, come lo sviluppo degli organismi multicellulari, l’atavismo, la regressione all’istinto o la genesi della corteccia cerebrale. 79 Cfr., per queste prospettive, G. Stock, The Merging of Human and Machines into a Global Superorganism, New York 1993; D. Haraway, Simians, Cyborg, and Women: The Reinvention of Nature, New York 1991; trad. it. Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano 1995; Ead., Modest_Witness@Second_Millennium. FemaleMan_Meets_OncoMouse: Feminism and Tecnoscience, trad. it. Testimone_Modesta@Femaleman_Incontra_Oncotopo. Femminismo e tecnoscienza, Milano 2000; J. Lyon-P. Gorner, Altered Fates: Genes Therapy and the Retooling of Human Life, New York 1995; P. Kitcher, The Lives to Come: The Genetic Revolution and Human Possibilities, New York 1996; M. Dery, Escape Velocity. Cyberculture at the End of the Century, New York 1996; trad. it. Velocità di fuga. Cyberculture a fine millennio, Milano 1997; E.T. Olson, The Human Animal. Personal Identity without Psychology, New York 1997, trad. it. L’animale umano. Identità e continuità biologica, Milano 1999; K.N. Hailes, How We became Posthuman. Virtual Bodies in Cybernetic, Literature, and Information, ChicagoLondon 1999 e R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Torino 2002. 80 Cfr. M. Weber, WB, in PB/WB, 43 e, per il largo uso di metafore legate alla tessitura, F. Rigotti, Il filo del pensiero. Tessere, scrivere, pensare, Bologna 2002. 81 E. Dickinson, The Complete Poems, London 1975, n. 1067, p. 485; trad. it. Tutte le poesie, a cura di M. Bulgheroni, Milano 1997, p. 1115.
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INDICE Introduzione L’io e il noi La parabola dell’identità L’eco delle domande Sigle PARTE PRIMA - Strategie d’individuazione 1. I due traguardi: Locke e Schopenhauer Lavorare se stessi L’incognita La voce che rimbomba Il parassita del corpo
2. In principio era il caos: dalla citologia alla filosofia Percorsi e diramazioni Aurore boreali Allucinazioni e deliri Il viaggio della vita
3. L’arcipelago degli io: i médecins philosophes Tre profili Il monarca insidiato Restaurazione di un ordine antico Verso il passato Un paradigma persistente Da sponda a sponda
4. Il baricentro di Nietzsche Un gregge e un pastore Coltivare i pensieri Dallo specchio al baricentro Il delfino e la tigre L’individuo fugace La selezione degli uomini Il ragno e il chiaro di luna Carbone e diamante A raggiera
5. Risorgere da se stessi: Bergson e Proust La crescita a stelo Gli “io” di ricambio
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Le teche dell’oblio Frammenti di eternità I tre alberi Pensare in figure
6. Lo spontaneo artificio: Pirandello e la costruzione del soggetto Il pozzo dell’anima Le trappole della vita Il cemento della volontà La passione di essere un altro Esercizi di disidentificazione Lacrimæ rerum Pietà per la vita
7. L’individualismo delle differenze: Georg Simmel Combinazioni d’identità Nel cuore della periferia I generi dell’io Lo spirito nella macchina
PARTE SECONDA - La colonizzazione delle coscienze 8. Conduttori d’anime Le Bon o dell’elemento immateriale che guida il mondo L’empire de soi L’età delle folle La chimica dell’anima Il principio d’irrealtà Il falegname di Galilea Le eclissi parziali dell’io Sorel o la macchina del mito I giardinieri della storia In cammino verso l’ignoto
9. Gerarchia e sacrificio: Mussolini e Gentile Una strada nel bosco La comunità dei morituri Macchine di mobilitazione In dono allo Stato Il gregario sublime Una gerarchia senza gregge Credere all’incredibile Un paragone ellittico “In fondo all’Io c’è un Noi” Lo Stato interiore
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10. Orizzonti dell’io Il mistero doloroso e il mistero gaudioso dell’obbedienza Dall’uniforme al molteplice La rottamazione dell’io Riflessi sull’acqua Il marketing dell’identità Chi smuoverà l’Acheronte? Il corpo plasmabile L’equilibrio Io-Noi Esercizi di perplessità Chiavi teoriche Le lunghe estati delle Esperidi
Note
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INDICE Introduzione
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L’io e il noi La parabola dell’identità L’eco delle domande
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Sigle PARTE PRIMA - Strategie d’individuazione 1. I due traguardi: Locke e Schopenhauer Lavorare se stessi L’incognita La voce che rimbomba Il parassita del corpo 2. In principio era il caos: dalla citologia alla filosofia Percorsi e diramazioni Aurore boreali Allucinazioni e deliri Il viaggio della vita 3. L’arcipelago degli io: i médecins philosophes Tre profili Il monarca insidiato Restaurazione di un ordine antico Verso il passato Un paradigma persistente
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23 33 34 34 42 48 53 59 59 64 67 72 78 78 84 88 96 101
Da sponda a sponda 4. Il baricentro di Nietzsche Un gregge e un pastore Coltivare i pensieri Dallo specchio al baricentro Il delfino e la tigre L’individuo fugace La selezione degli uomini Il ragno e il chiaro di luna Carbone e diamante A raggiera 5. Risorgere da se stessi: Bergson e Proust La crescita a stelo Gli “io” di ricambio Le teche dell’oblio Frammenti di eternità I tre alberi Pensare in figure 6. Lo spontaneo artificio: Pirandello e la costruzione del soggetto Il pozzo dell’anima Le trappole della vita Il cemento della volontà La passione di essere un altro Esercizi di disidentificazione Lacrimæ rerum Pietà per la vita 521
103 106 106 112 116 118 123 132 145 150 157 159 159 167 170 175 178 183 188 188 194 199 206 218 226 235
7. L’individualismo delle differenze: Georg Simmel Combinazioni d’identità Nel cuore della periferia I generi dell’io Lo spirito nella macchina
PARTE SECONDA - La colonizzazione delle coscienze 8. Conduttori d’anime Le Bon o dell’elemento immateriale che guida il mondo L’empire de soi L’età delle folle La chimica dell’anima Il principio d’irrealtà Il falegname di Galilea Le eclissi parziali dell’io Sorel o la macchina del mito I giardinieri della storia In cammino verso l’ignoto 9. Gerarchia e sacrificio: Mussolini e Gentile Una strada nel bosco La comunità dei morituri Macchine di mobilitazione In dono allo Stato Il gregario sublime Una gerarchia senza gregge Credere all’incredibile 522
240 240 244 256 262
269 270 270 272 279 282 285 289 294 301 307 311 318 318 322 326 332 337 342 345
Un paragone ellittico “In fondo all’Io c’è un Noi” Lo Stato interiore 10. Orizzonti dell’io Il mistero doloroso e il mistero gaudioso dell’obbedienza Dall’uniforme al molteplice La rottamazione dell’io Riflessi sull’acqua Il marketing dell’identità Chi smuoverà l’Acheronte? Il corpo plasmabile L’equilibrio Io-Noi Esercizi di perplessità Chiavi teoriche Le lunghe estati delle Esperidi
Note
352 354 358 363 363 367 371 376 381 385 393 398 406 412 428
433
523