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Italian Pages 228 [230] Year 2008
Universale / Film
© 2008 Lindau s.r.l. Corso Re Umberto 37 - 10128 Torino Prima edizione: gennaio 2008 ISBN 978-88-7180-718-8
Luca Malavasi
DAVID LYNCH MULHOLLAND DRIVE
DAVID LYNCH MULHOLLAND DRIVE
A Gloria che s’addormenta…
RINGRAZIAMENTI Grazie ad Andrea Bellavita, Barbara Grespi e Patrizia Pinotti per i preziosi suggerimenti; grazie a Francesca Betteni-Barnes per l’aiuto nella ricerca bibliografica. Un ringraziamento particolare a Pier Maria Bocchi, fonte insostituibile di materiali introvabili e utili consigli.
David Lynch: altro, outsider, freak
Penso che tutti gli artisti siano scherzi di natura. Truman Capote
Il soffio del cinema sulla pittura Nato artisticamente alla metà degli anni ’70, ossia mentre il cinema statunitense vive una delle stagioni più gloriose della sua storia grazie a una nuova generazione di autori (Cimino, Coppola, De Palma, Lucas, Scorsese, Spielberg…), David Lynch, classe 1946, si presenta fin dall’inizio sotto il segno di un’evidente alterità, di cui il primo lungometraggio, Eraserhead - La mente che cancella (Eraserhead, 1976), è un concentrato spiazzante. Nel film, rapidamente dirottato dall’insuccesso commerciale alla lunga vita delle platee dei midnight movies 1, sono inoltre già prefigurate le principali linee di sviluppo di tutta la sua opera: dieci lungometraggi, una serie televisiva e una manciata di corti e mediometraggi realizzati in poco più di trent’anni, fino al
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recentissimo INLAND EMPIRE - L’impero della mente (INLAND EMPIRE, 2006), presentato alla 56a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia in occasione dell’attribuzione al regista del Leone d’oro alla carriera. Altro, del resto, è il percorso che avvicina Lynch al cinema: mentre i movie brats della Hollywood Renaissance vi arrivano in modo più lineare e coerente, armati di un’enciclopedia cinefila e con la consapevolezza anche teorica (sorretta dalla diffusione degli scritti di Andrew Sarris) di un nuovo ruolo per l’autore cinematografico, Lynch, nativo di Missoula, una cittadina di 30 mila abitanti nel Montana, e maggiore di tre figli, comincia come disegnatore e pittore, sviluppando solo più tardi un interesse specifico per l’immagine in movimento – quando il movimento, quasi per caso, soffierà sulla pittura, facendogli desiderare il cinema: È stato uno dei miei quadri. Non ricordo quale ma si trattava di un dipinto quasi completamente nero. C’era una figura che occupava il centro della tela […]. Quindi, mentre stavo osservando la figura nel quadro, ho avvertito un leggero spostamento d’aria e ho colto anche un piccolo movimento. E ho desiderato che il quadro fosse realmente in grado di muoversi, almeno per un po’. 2
L’arte diventa un’occupazione centrale nella vita del giovane Lynch dopo il trasferimento della famiglia nello stato di Washington, dove frequenta la Corcoran School of Art e affitta uno studio assieme al suo migliore amico, Jack Fisk, l’«Uomo del pianeta» in Eraserhead, scenografo per
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Una storia vera (The Straight Story, 1999) e Mulholland Drive (id., 2001) e regista di alcuni film, tra cui Raggedy Man (1981). Influenzato profondamente dalla lettura di Lo spirito dell’arte di Robert Henri (maestro, tra gli altri, di Edward Hopper), Lynch dipinge soprattutto «scene di strada, in stile borghese», mentre Fisk si dedica all’astrattismo. Dopo un anno deludente alla Boston Museum School e un viaggio – altrettanto deludente – in Europa, che dovrebbe durare tre anni, al modo dei Grand Tour ottocenteschi, e invece si conclude dopo due settimane (solo Parigi soddisfa le aspettative dei due «giovani americani»), Lynch e Fisk si iscrivono alla Pennsylvania Academy of Fine Arts di Philadelphia. È il 1965, e finalmente l’ambiente e il profilo dei corsi corrisponde ai desideri dei due aspiranti pittori; il secessionismo viennese, l’astrattismo degli action-painters e il realismo di Hopper, Rousseau, Kokoschka e soprattutto Bacon costituiscono le stelle fisse della loro ricerca. Fine del primo tempo, o quasi. Perché se il debutto nella «pittura in movimento», con Six Figures Getting Sick (1967), è vicinissimo, Lynch, anche nel momento in cui sarà soprattutto un regista, non smetterà mai di essere anche un pittore e addirittura un fumettista, realizzando, accanto a quadri e disegni, le strisce «pop» di The Angriest Dog in the World (Il cane più arrabbiato del mondo) 3, sospeso tra Haring e Magritte, in cui l’immagine è sempre identica, fatto salvo per la variazione di dominante cromatica (bianca o nera, secondo un principio di intermittenza luminosa comune a molti i suoi film), mentre cambiano i contenuti delle «nuvolette» (ma il cane non parla mai: è solo arrabbiato). La pittura, in effetti, accompagna il cinema, evolve e si tra-
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sforma con esso, secondo uno sviluppo al tempo stesso autonomo e relazionale, anche se sarebbe ingenuo accostare semplicemente le due storie alla ricerca di somiglianze, rimandi, analogie, magari usando il pittore per capire meglio il regista (perché se ciò che dicono nelle interviste non è molto diverso, il pittore appare decisamente più loquace). Non è questa, del resto, la sede per approfondire lo studio delle due «carriere» e la complessa trama della loro interazione; varrà tuttavia la pena notare come, sotto la superficie di un’inevitabile singolarità estetica, si agitino preoccupazioni e interessi simili se non identici, dall’articolazione dello spazio e del tempo, sia raffigurato sia «materiale», con riferimento alle superfici e ai limiti fisici imposti alla scrittura, al trattamento delle distanze e delle proporzioni tra gli oggetti in rapporto tra loro e in relazione ai referenti reali, dalla sperimentazione sulla luce e il colore alla valorizzazione della dimensione plastica, tattile e sensibile delle figure. Ma, soprattutto, cinema e pittura cammineranno per qualche anno assieme, convocate sulla stessa scena creativa all’interno di film misti e impuri, in cui passato e futuro convivono felicemente. Il «desiderio di movimento», infatti, non si traduce subito in cinema «puro»: Six Figures Getting Sick (a volte erroneamente denominato anche Six Men Getting Sick o semplicemente Six Figures), film painting non dissimile, nella logica, dai due successivi, è un loop di pellicola della durata di un minuto (destinato a essere proiettato su uno schermo scolpito) in cui alcune immagini si deformano a poco a poco – gli stomaci si riempiono di sangue fino a esplodere, le teste si incendiano, alcuni grafismi invadono il quadro
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articolando una relazione instabile tra i singoli elementi («L’idea era dare l’impressione di un dipinto vivo» 4). C’è molto Bacon, come anche in The Alphabet (1968), della durata di quattro minuti, girato con una Bolex usata e interpretato dalla prima moglie Peggy Reavey, sposata in quello stesso anno (e da cui Lynch avrà una figlia), e come pure in The Grandmother (1970), il più lungo e complesso dei tre (34’), in cui comincia a essere più chiaramente esplorato un tema molto caro al regista, quello dello smembramento dei corpi e della loro «atomizzazione», tra organico e inorganico, con memorie pittoriche e fotografiche di ascendenza surrealista. The Alphabet, in particolare, è un film di animazione in cui cinema e pittura si incontrano senza contaminarsi fino in fondo, e l’immagine fissa prende vita attraverso classiche dissolvenze e passaggi meno morbidi, distorta dal fuori fuoco di un eccessivo avvicinamento o tagliata da una luce assente o accecante; The Grandmother – ancora una volta sintesi di animazione e azione «live» con, in più, alcune sequenze realizzate secondo la tecnica detta pixillation, con l’effetto di produrre un’immagine a scatti – è invece un incubo già pienamente lynchiano, il primo dei suoi numerosi interni famigliari scossi da un sottotesto oscuro; qui, un’esile trama tiene insieme alcuni quadri allucinati, governati dal tema della procreazione e della generazione, in una confusione respingente di umano e vegetale, in cui Mike, il piccolo protagonista, si consola dalle angherie di genitori che abbaiano e camminano come cani partorendo una grandmother da un ammasso confuso di terra «piantato» al centro del suo letto. Ma l’aspetto forse più interes-
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sante dell’opera – almeno in rapporto alla filmografia successiva – riguarda il lavoro compiuto da Lynch sul sonoro (tutto post-sincronizzato), che già ricorre come elemento cruciale del racconto: vi lavora per due mesi accanto ad Alan Splet, con cui collaborerà fino a Velluto blu (Blue Velvet, 1986), circondando il film di un’orchestrazione sinistra e disumana 5. Intanto, nel 1970, Lynch si è straferito con Peggy e la piccola Jennifer a Los Angeles, iscrivendosi – su consiglio di George Stevens jr., direttore dell’American Film Institute – al Center for Advanced Film Studies che l’AFI aveva inaugurato da poco, mentre The Grandmother partecipa, spesso trionfando, a numerosi festival, americani ed europei. I progetti a cui Lynch mette mano durante il suo primo anno di corsi sono due: Gardenback, «una storia di adulterio che ha molto a che fare con i giardini e gli insetti» 6, e che non sarà mai realizzata, e Eraserhead, scritto, in forma di cortometraggio, nel 1971 e girato a partire dalla metà dell’anno successivo ma concluso soltanto nel 1976. Negli anni, il film cresce e cambia, e l’idea originaria evolve fino a trasformarsi nella prima «opera mondo» del regista, perfetta introduzione, ancora in bianco e nero, alla Lynchtown cromaticamente enfatica e figurativamente inquieta definita una volta per tutte con Velluto blu. Intanto, anche da spettatore, la frequentazione del cinema si è fatta più importante, senza però assumere pieghe cinefile o prendere traiettorie sistematiche (anche in questo risiede un tratto distintivo di Lynch a confronto con la generazione di autori a lui contemporanea): ammira Fellini (I vitelloni [1953], La strada [1954] e soprattutto Otto e mezzo [1963], «per il
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modo in cui Federico Fellini è riuscito a ottenere in un film ciò che fa la maggior parte dei pittori astratti, ossia comunicare un’emozione senza mai dire o mostrare niente in modo diretto, senza mai spiegare nulla, solo attraverso una specie di sottile magia» 7), Bergman (Persona [id., 1966]), Kubrick (Lolita [id., 1962], 2001: Odissea nello spazio [2001. A Space Odyssey, 1968]), «lo stupefacente sguardo che Jacques Tati rivolge alla società» 8, Viale del tramonto (Sunset Boulevard, 1950, di Billy Wilder) e La finestra sul cortile (Rear Window, 1954, «per il modo brillante in cui Alfred Hitckcock riesce a creare – o, meglio, a ricreare – un intero mondo all’interno di parametri molto ristretti» 9), mentre in forma sottocutanea ma non meno evidente agisce sull’immaginario del regista il cinema «colorato», in cinemascope e ideologicamente stabile degli anni ’50, quello della sua infanzia e giovinezza – Il mago di Oz (Wizard of Oz, 1939, di Victor Fleming), per esempio, riaffiora continuamente, da Cuore Selvaggio (Wild at Heart, 1990), a Mulholland Drive 10. Di adulterio, come Gardenback, parla anche Eraserhead, girato in 35mm (The Grandmother è ancora in 16mm) negli spazi inutilizzati dell’AFI, dove Lynch allestisce un piccolo studio di produzione privato, grazie al quale la lavorazione può protrarsi, quasi indisturbata, per cinque anni. Il film – come i precedenti più descrivibile che raccontabile – rappresenta una specie di ossatura di tutto il cinema a venire, introducendo il tono principale e l’atmosfera diffusa che caratterizzeranno anche le opere successive; la «stranezza» dello stile lynchiano, frutto di un lavoro sistematico che investe ogni aspetto della messa in scena e in cui il linguaggio cinematografico risulta forzato oltre ogni con-
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suetudine senza tuttavia approdare mai a una completa depravazione o irriconoscibilità estetica, offre qui il suo primo saggio compiuto. Allo stesso tempo, si precisano per il futuro ossessioni tematiche, costanti figurative e procedure stilistiche che diverranno caratteristiche del classicismo aberrante del regista, fondato su un impasto passionale di perturbante, mistery e horror. Ma, certo, Eraserhead è un film che fa ancora troppo poco i conti con il cinema inteso come istituzione culturale e dispositivo comunicativo; non a caso, finisce per diventare un classico midnight movie, sottratto idealmente al suo autore da un’appropriazione feticistica: la «risciacquatura» stilistica imposta dalla realizzazione del successivo Elephant Man (The Elephant Man, 1980) sarà cruciale per liberare il mondo di Lynch dalla visione ancora troppo privata e autoreferenziale in cui galleggia il primo lungometraggio, aperto, non a caso, dalla testa-pianeta del protagonista sospesa nel vuoto.
Prove generali: il cinema, quello vero Alla regia della storia vera di John Merrick, l’uomo elefante vissuto nell’Inghilterra dell’800 e affetto da neurofibromatosi, Lynch arriva grazie all’interessamento del produttore Stuart Cornfeld, col quale tenta inizialmente di trovare un finanziatore per un progetto ancora molto caro al regista ma mai realizzato, Ronnie Racket, «la storia di un bravo omettino alto un metro che cammina a corrente alternata a 60 watt e che ha dei problemi psichici» 11. Nell’impresa viene coinvolto Mel Brooks, che ha da poco inaugu-
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rato una sua casa di produzione: Eraserhead sconcerta il comico ma, al tempo stesso, lo rassicura sulla possibilità che Lynch porti a buon fine il progetto, per il quale esiste già una sceneggiatura firmata da Christopher DeVore e Eric Bergren. Il budget è finalmente quello di un film «vero», sei milioni di dollari; gli attori non sono più amici e parenti ma star del calibro di Anthony Hopkins, John Hurt, Anne Bancroft e Sir John Gielgud; il personaggio è un freak, la vicenda una storia di conflitti tra normalità ed eccentricità ma, soprattutto, il disegno complesso di un gioco di sguardi: tutto perfettamente intonato alle inquietudini lynchiane. Elephant Man sigla inoltre l’incontro tra il regista e uno dei più talentuosi direttori della fotografia inglesi, Freddie Francis, con cui collaborerà di nuovo per il successivo Dune e, quindici anni dopo, per Una storia vera. Girato in bianco e nero e in Panavision 2.35:1 (formato che Lynch adotterà fino a Una storia vera compreso 12), Elephant Man esce nel 1980, ottenendo buoni incassi e otto candidature agli Oscar, tra cui quelle per miglior film, regia e sceneggiatura, senza vincere neppure una statuetta 13. Si tratta, in effetti, di un oggetto scivoloso e disturbante, che dissimula continuamente le sue apparenze di film storico e «realista» attraverso una serie di scarti visivi e narrativi, a partire dalle scelte fotografiche: un bianco e nero fuligginoso, privo di tentazioni estetizzanti, al tempo stesso astratto e materico, a ricordare, prima di ogni contenuto, la matrice culturale e ideologica dell’epoca vittoriana. Coerentemente, l’impianto sonoro, pur tarato su un funzionamento mimetico e «verosimile», non evita del tutto di au-
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tonomizzarsi rispetto all’immagine, arricchendola di effetti ed echi e «disturbi» delocalizzati in rapporto al mondo del racconto oppure inaspettatamente intensificati o, ancora, sfigurati e distorti, con la conseguenza di evocare altre dimensioni, altre vite, altre realtà dentro ciò che vediamo e ascoltiamo, o provenienti da un altrove prossimo e al tempo stesso irraggiungibile o impensabile. Questo principio di foratura della trama compatta del racconto, di piegatura sottile ma insinuante della verosimiglianza della rappresentazione, di distorsione qualitativa dei valori neutri della messa in scena (dalla scenografia alla recitazione), si perfezionerà fino a diventare, in termini generali, il tratto più caratteristico dello stile del regista, i cui mondi narrativi appaiono perennemente sospesi tra riconoscimento e straniamento, referenzialità e astrazione. La scrittura lynchiana, dettagliata, calcolatissima e inafferrabile, sfalda più o meno vistosamente la «trama» del racconto, e rosicchia, più che mordere o fare a pezzi, la compattezza, la coerenza e l’unità narrativa e percettiva della rappresentazione, grazie al ricorso a un set di procedure anti-mimetiche destinate a sfumare la tenuta dei principi astratti (lo spazio e il tempo) e degli elementi concreti (la dimensione materiale della raffigurazione) che partecipano alla costruzione della scena. Da questo film che, come ha osservato acutamente Serge Daney analizzando la sequenza della rivelazione del «mostro», insiste soprattutto sulla paura di fare paura, sulla paura di vedere la paura negli occhi di chi ci guarda, Lynch passa alla fantascienza di Dune (1984), dopo essere stato contattato da George Lucas per dirigere il terzo epi-
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sodio della prima trilogia di Guerre stellari, Il ritorno dello Jedi (Return of the Jedi, 1983, di Richard Marquand), e dopo aver sottoposto il progetto di Ronnie Rocket a Francis Ford Coppola, immediatamente prima del fallimento della Zoetrope a causa dell’insuccesso di Un sogno lungo un giorno (One From the Heart, 1982). È facile immaginare la curiosità e l’attesa che fin da subito circondano la realizzazione del film, in cui lo «strano» regista di Eraserhead e di Elephant Man incontra un romanziere di culto (che benedirà la produzione battendo il primo ciak nel marzo del 1983), autore di uno dei più celebri e amati libri di fantascienza, pubblicato in rivista tra il 1963 e il 1964 sotto forma di due storie in tre parti, Dune World e Prophet of Dune, raccolte in un unico romanzo l’anno successivo 14. Della sfortunata lavorazione di Dune, durata quasi quattro anni e costata più di 50 milioni di dollari, dei conflitti tra Lynch e Raffaella De Laurentiis, della follia di un set messicano in cui si gira contemporaneamente Conan il distruttore (Conan the Destroyer, 1984, di Richard Fleischer), del pingpong infinito tra le richieste del regista e i diktat imposti dalla produzione a un prodotto che non nasconde la sua matrice blockbuster, si sa ormai tutto, e, anzi, i molti racconti legati alla sua realizzazione costituiscono probabilmente il «vero» film. Quello uscito nelle sale è invece un’opera monca, irregolare, attraversata sì, qua e là, da lampi lynchiani, ma complessivamente soffocata dall’urgenza di recuperare i tanti, troppi milioni investiti. Una produzione sporcata all’origine dalla vanagloria del suo produttore e affetta da un malinteso gigantismo che si traduce, nei risul-
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tati, in un prodotto «piccolo» e insoddisfacente, in cui l’Autore annaspa tra un compromesso e l’altro. Sotto molti aspetti, Dune segna un punto di non ritorno, e una scuola preziosa per il futuro: d’ora in poi Lynch pretenderà (e otterrà) il final-cut dei suoi film e si rivelerà sempre meno disposto a farsi coinvolgere dall’esterno in produzioni «da studio». Nel 1986, non a caso, deciderà di scrivere da solo e dirigere Velluto blu, a partire da una vecchia idea maturata già ai tempi di The Elephant Man e tradotta in sceneggiatura prima della realizzazione di Dune. I soldi – «solo» 5 milioni di dollari – li mette, più che altro per ragioni contrattuali, ancora De Laurentiis, che concede il final-cut a patto che Lynch non sfori il budget e accetti mezza paga come regista e sceneggiatore. Nasce così il suo film più bello e personale, e insieme una delle opere più significative del decennio: La sua influenza è incalcolabile, e la lista dei film che ne portano i segni sono davvero tanti. Non solo Cuore selvaggio, Twin Peaks e Fuoco cammina con me non sarebbero stati possibili senza questo precedente, ma anche Barton Fink, Hellraiser, Il silenzio degli innocenti, Strange days, Seven, Fuga dalla scuola media, per non parlare della figlia di Lynch, Jennifer, con l’oltraggioso Boxing Helena. La «linea di sangue» corre poi, direttamente, alla televisione e alle bizzarrie post-Blue Velvet come The X-Files e The Kingdom di Lars von Trier. I video musicali, la TV commerciale e i programmi satirici si sono ispirati allo stile e ai contenuti lynchiani. E poi la narrativa, con, tra gli altri, James Ellroy, Breat Easton Ellis, Tim Lucas, e la musica dei Nine Inch Nails, P.J. Harvey, Portishead e Chris Isaak, hanno preso in prestito la «voce» del film. 15
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Velluto blu segna inoltre una specie di atto di (ri)nascita, dopo le prime prove, di un autore destinato a segnare i successivi vent’anni con poche ma fondamentali pellicole: una costellazione di piccole opere-mondo che, complessivamente, disegna uno degli universi figurativi ed estetici più coerenti e compatti del cinema contemporaneo, un mondo possibile e parallelo, autarchico e privato ma, al tempo stesso, sintonizzato sulle frequenze più basse della società americana, di cui Lynch ha saputo intercettare il brusio di fondo, inquieto e rumoroso: un segnale disturbato che è filosofia dissimulata o forse inconsapevole, e che soltanto un altro regista americano, John Waters (come Lynch nato nel 1946), ha saputo cogliere e tradurre nei segni mobili di un unico affresco complesso e ambizioso. Sono, quelle di Lynch e Waters, due versioni diversamente aberranti, ma ugualmente autonome, presenti e siderali, della realtà sociale, antropologica e culturale degli ultimi trent’anni; per questo, le più vere, disturbanti, compiute.
Velluti, stanze, strade Nell’itinerario del giovane Jeffrey Beaumont, interpretato da un attore feticcio di Lynch, Kyle MacLachlan (il Paul Atreides di Dune e il futuro ispettore Cooper di Twin Peaks), tra mezze-trame diurne di impronta gangster e affondi nella depravazione on the road di una notte senza tempo orchestrata dal respiro affannoso e dalle tendenze sado-maso di Frank/Dennis Hopper, il regista mette in scena, più compitamente che in passato, uno dei nodi che
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saranno al centro di tutto il cinema successivo: quello in cui si intrecciano e convivono, spesso all’interno di cornici spazio-temporali sottratte a un principio di verosimiglianza, le fratture e le prospettive molteplici, tra negazione e affermazione (Jeffrey Beaumont), scoperta annichilente e resistenza morale (Laura Palmer), razionalità e istintualità (Fred Madison), socialità e affettività (Alvin Straight), che si agitano appena al di sotto dell’involucro fragile dell’identità. Il cinema di Lynch scava (ma più spesso scivola) in profondità e percorre, senza un traguardo predefinito, le misure che eccedono una definizione univoca di essere umano, guidato da una forte impronta morale, libera però da moralismi od orientamenti ideologici o tesi sociologiche da dimostrare. Coglie così, portando alla luce il conflitto e incorporandolo nel linguaggio stesso del cinema, la duplice radice della soggettività e i disturbi – di senso e di rappresentazione – che sprigionano da uno sguardo contemporaneamente rivolto verso «le foglie che attingono la loro forza vitale nel cielo e quelle che, al contrario, traggono il succo della propria esistenza nella terra profonda» 16. Metafora che, da un lato, incontra felicemente le parole di Lynch sulla sua fondamentale attrazione per l’incessante movimento, superficiale e sotterraneo, della natura («Tutto ciò in un certo senso mi dà i brividi: il terreno, e le piante che spuntano, e poi le creature che vi strisciano sopra, il lavorio di un giardino: tantissimi intrecci» 17), mentre, dall’altro lato, coglie non soltanto l’apertura del suo cinema verso polarità opposte, ma anche la traiettoria tipica delle sue storie: il narratore di Velluto blu offre un saggio esem-
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plare di questo duplice slancio e di questa doppia ricerca già nella sequenza d’apertura, planando dal cielo blu verso terra, per poi affondare nel sottosuolo in cui si agita la vita combattiva di alcuni insetti, orchestrando così, in un movimento idealmente unitario, un passaggio figurativo, un progresso scopico e una variazione sonora da un estremo all’altro 18. Velluto blu rappresenta inoltre il primo esplicito confronto del regista con la tradizione del cinema classico, col suo sistema di formule, figure e stereotipi visivi e narrativi, subito dopo – e non casualmente – Dune, episodio isolato riferibile a una produzione «di genere». In realtà, l’irregolarità della formazione cinematografica di Lynch e il suo patrimonio visivo del tutto personale e idiosincratico, spostano immediatamente il confronto sul piano dell’allusione e del riferimento «atmosferico» o di dettaglio o, come accade in Cuore selvaggio in rapporto a Il mago di Oz, sulla riutilizzazione diegetica, in chiave ossessiva e persecutoria, di un testo che finisce per appartenere al vissuto della protagonista, Sandy. Nelle mani di Lynch il sistema dei generi si disfa immediatamente e finisce per funzionare a regime ridotto come repertorio di forme, strutture e figure già polverizzate e svuotate di istruzioni; e se proprio si vuole parlare di generi in rapporto alla sua produzione, lo si deve fare coinvolgendo un secondo termine: è infatti «lo stile a dominare sul genere, ed è in base a un certo assommarsi di caratteristiche stilistiche che si possono ricondurre i suoi film a questo o a quel genere» 19. Il genere diventa, per certi aspetti, modernariato, arredamento, memoria, ma anche paccot-
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tiglia narrativa e ciarpame estetico. Ma, a un altro livello, è a partire dal confronto con i codici della tradizione – soprattutto quelli narrativi e figurativi – che la scrittura lynchiana libera le sue qualità perturbanti, disfacendo la trama ordinata e l’ornato prezioso della classicità in rovine e macerie, per un verso ancora riconoscibilissime ma sostanzialmente inerti; di questa tradizione che sembra sopravvivere soprattutto come testimonianza di un rapporto ormai incrinato tra l’immagine cinematografica e la società americana 20, il genere è un «caso» al tempo stesso esemplare e particolare: ricorda qualcosa, senza poterlo (più) essere. Ed ecco allora il melò-gangster di Velluto blu, il road movie di Cuore selvaggio, il melò-noir di Strade perdute (Lost Highway, 1996), e poi i film sul cinema, Mulholland Drive e INLAND EMPIRE: abbagli, rifrazioni e intermittenze, archeologia culturale e pre-visioni inscritte, nonostante e prima di tutto, sulla pagina bianca dello schermo. Non diversamente funziona Twin Peaks, prima e compiuta esperienza televisiva del regista dopo l’episodio di Le Cow-Boy e le Frenchman, uno dei cinque corto/mediometraggi della serie Les Française vu par…, realizzata nel 1988 per festeggiare il decimo anniversario del settimanale parigino «Figaro Magazine» (con Lynch vengono coinvolti Jean-Luc Godard, Werner Herzog, Luigi Comencini e Andrzej Wajda). Prodotto dalla ABC (la stessa emittente all’origine del progetto di Mulholland Drive) e in onda a partire dall’aprile del 1990, Twin Peaks mescola eventi tipici della soap-opera (le tresche amorose, la preminenza accordata al fattore economico, l’ambientazione
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ristretta a un paese, alla Peyton Place) a elementi che identificano il serial come una detective story (l’assassinio, la presenza dell’agente, le indagini). Fin dalla sequenza dei titoli di testa, Twin Peaks si colloca sotto il segno della doppiezza e dell’ambiguità. 21
Ma è soprattutto l’incontro tra le «stranezze» del cinema lynchiano, della sua regia e dei suoi mondi, e un materiale seriale volutamente grezzo a produrre uno scarto eclatante, e a trasformare la serie (trascinata dal tormentone: «Chi ha ucciso Laura Palmer?») nel più importante evento della neo-televisione, sia in America (dove però gli ascolti diminuiscono abbastanza rapidamente), sia in Europa. Lo stile del regista – che da tempo desiderava sperimentare il formato televisivo, affascinato dall’idea di «continuare ad avere degli inizi e degli sviluppi, e sviluppare la storia per sempre» 22 – intacca a poco a poco l’universo chiuso, culturalmente e cronologicamente sospeso della piccola cittadina di Twin Peaks (un frammento d’America fuori dal tempo, come lo era quello di Velluto Blu, teso tra immaginario anni ’50 e fenomenologia contemporanea), inquinando lo spazio aereo, solare e assopito della provincia americana con la metà oscura programmaticamente rimossa dalla sua (auto)rappresentazione. Come chiarirà, un anno dopo, il prequel Fuoco cammina con me (Twin Peaks: Fire Walk with Me, 1992), «un feuilleton da tubo catodico che diventa catalogo di fantasmi della coscienza» 23, il dramma di Laura Palmer coincide con quello di una doppiezza rivelata, destinata a riflettersi nel mondo che la circonda, spalancandone le contraddizioni: perché Laura Palmer è la
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superficie in cui si specchia, rivelandosi, Bob, vale a dire il principio deformante del male. Come una femme fatale di provincia o un martire freudiano o un angelo dannato (angelica, del resto, è la sua ultima apparizione nella Red Room, appena prima di ascendere al luogo da cui probabilmente è venuta), Laura cammina col fuoco, e lo porta per le strade di Twin Peaks: camminare con Laura fino alla fine, fino al termine della notte, è del resto l’idea del film 24. E nella traversata di questo tedoforo demoniaco, che brucia e acceca e al tempo stesso illumina, finisce stanata l’anima oscura del mondo che la circonda: gli incubi affiorano fino a rendersi palpabili, e s’incontrano con la loro metà solare, sulla stessa scena. Due anni prima, sempre a Cannes (presidente della giuria Bernardo Bertolucci), Lynch aveva ricevuto ben altra accoglienza con Cuore selvaggio, vincitore, non senza polemiche, della Palma d’oro. Sceneggiato dal regista a partire da un romanzo di Barry Gifford – che in seguito scriverà per Lynch due episodi di Hotel Room (il primo, Tricks, e il terzo, Blackout 25) e Strade perdute – il film, dopo Velluto blu e a cavallo tra i due Twin Peaks, offre l’ennesimo ritratto spericolato di «giovani americani» (ma questa volta siamo a sud, prima «da qualche parte nei pressi del confine tra Nord e Sud Carolina», poi a New Orleans). Le inquietudini di Sailor e Lula si collocano giusto a metà tra quelle di Jeffrey, Sandy e Laura, combinando ribellismo giovanile, scoperta del sé e disvelamento del cuore selvaggio del mondo («This whole world’s wild at heart and weird on top», dice Lula), di questo «strano mondo» che già sopraffaceva Sandy; come Jeffrey – la cui avventura cominciava
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con l’annuncio: «Vado a fare due passi» – e Laura, anche i due innamorati camminano, anzi corrono in macchina, inseguiti da altri fuochi – quelli in primissimo piano dei cerini, quelli delle pistole di chi vorrebbe uccidere Sailor per ordine di Marietta, quelli dei flashback di Lula, in cui si rinnova dolorosamente la notte dell’incendio in cui morì il padre. Sporcato dalla violenza visionaria ma soprattutto verbale di Gifford (la sequenza della mancata seduzione di Lula da parte di Bobby Peru/William Dafoe rappresenta uno dei momenti più disturbanti del film), Cuore selvaggio contamina il polveroso e assolato realismo dello scrittore americano, fatto di dialoghi secchi, brevi porzioni descrittive e molta non-azione, tra una detonazione di follia e l’altra, con la ricerca lynchiana di un cinesinfonico, una sorta di meta-genere che proprio con questo film assume un profilo più definito, e che caratterizzerà tutti i film successivi; un cinema non psicologico, tattile e fisico, con echi mitici ma al tempo stesso quotidiano e familiare, liberato dai codici della «trama» e caratterizzato da un certo numero di costanti: L’utilizzazione di contrasti più forti di quelli che si era concesso fino ad allora; la messa in evidenza (invece di renderla invisibile) della discontinuità della struttura generale; un largo impiego del suono Dolby e delle sue risorse in termini di contrasto, spazio e potenza sonora; e una mescolanza più ardita di toni e atmosfere. 26
Soprattutto, il cinema del futuro, a partire da Strade perdute, si definirà come quello della duplicità rivelata, sia
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dal funzionamento delle strutture narrative (che in Velluto blu e Twin Peaks ancora «tengono», e semmai deviano o scavano in profondità per poi risalire, senza però allontanarsi mai del tutto da una successione degli eventi fortemente unitaria), sia dalla corrosione della coerenza figurativa della diegesi, popolata di segni tra i quali sussistono relazioni spesso improntate a logiche molteplici e paradossali, irriducibili a un realismo cognitivo anche debole; deriva da qui, agli elementi della scena, una variazione del loro spessore semantico, della loro congruenza in rapporto alla totalità del testo e della loro referenzialità. I regimi esistenziali del rappresentato si moltiplicano e confondono, le «famiglie» delle immagini si contaminano 27 , mentre il principio astratto della duplicità, di volta in volta caricato di valori diversi, prende corpo senza produrre per questo veri e propri doppi (copie, sogni, proiezioni, incubi etc.) ma strutture complesse, organismi plurali e indivisi. Non fa eccezione neppure Una storia vera: una specie di controcanto delle opere precedenti, un «volto opposto e complementare» – «dopo l’immagine de-composta dall’urto con la velocità […] non poteva che esserci l’immagine ricomposta nel tempo della contemplazione» 28 – che mette in scena, scivolando questa volta su una superficie piatta e apparentemente senza profondità, chiaramente delimitata dall’unica linea dritta che separa terra e cielo, il processo contrario al centro dei film precedenti e successivi. Alle forze contraddittorie, pulsionali e disgreganti che si liberano dai Fred e dalle Betty, popolando il mondo che li circonda di una complessità senza grammatica e sintassi, che tro-
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va senso e ragione solo in rapporto al loro sguardo e alle loro passioni, agisce nel film un solo, preciso desiderio: rimarginare un’unità perduta, composta da Alvin e suo fratello, percorrendo una nuova strada di cui però, questa volta, si vede tutto (dopo le visioni notturne e intermittenti di Twin Peaks, Cuore selvaggio e Strade perdute, e prima di quelle di Mulholland Drive), e tessendo, a poco a poco, la trama che unisce due mondi lontanissimi. È, in fondo, il desiderio di tutti i personaggi dei film di Lynch ma, non a caso, a realizzarlo ci riesce soltanto il primo e unico vecchio del suo cinema, appartenente a un’altra America, ad altri racconti e soprattutto a un’altra storia del cinema, quella dei Sam Wood, degli Archie Mayo e degli Howard Hawks, con cui Richard Farnsworth comincia la sua carriera alla fine degli anni ’30. È, infine, anche il desiderio, necessariamente frustrato, di Nikki Grace, protagonista di INLAND EMPIRE, emblema di «un certo vivere sociale e civile, tutto contemporaneo, tutto di testa, sintomo di un malessere psico-fisico dell’uomo» 29: perché il cinema di Lynch è anche, complessivamente, la diagnostica spietata dell’uomo contemporaneo, «dello sfinimento e della sparizione del soggetto» 30, delle sue difficoltà di raccontarsi senza balbettii per consegnarsi, in una forma compiuta, alla storia e alla morte. Il ritratto femminile, «ben fatto» e dalla torsione manierista (si tratta della Beatrice Cenci di Guido Reni), appeso nel corridoio della casa di zia Ruth è, non a caso, uno dei segni più inquietanti di Mulholland Drive: osserva (e ascolta) i tentativi impacciati di Betty e Rita di ritrovare una storia («come in un film»), e sorride beffardamen-
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te – specchio del desiderio, immagine di un guardare senza incertezze, di una tecnica dell’osservazione 31 ormai perduta – dallo spazio finito del quadro e dalla saldezza materiale della sua cornice. E contro la possibilità stessa di un principio unitario – anche «fisico» e fotografico – di tenuta del racconto e delle identità, narrative e attoriali, da cui esso prende vita, muove INLAND EMPIRE, in cui la conversione (parrebbe definitiva) del regista al digitale 32 segna un passo ulteriore verso la conquista di un oltre-narrativo liberato dalle trame e dai codici della narrazione, in viaggio spericolato verso un’idea e un’immagine della realtà sottratta alle routine della sua percezione e rappresentazione cinematografica. Per testimoniarne le fratture ma, al tempo stesso, per (ri)trovare un altro ordine, o un ordine altro, in cui si nascondono, forse, le soluzioni ai misteri che già spingevano Jeffrey a uscire di casa, a fare quattro passi.
Sul «meta-genere» dei midnight movies, e con riferimento a Eraserhead, si vedano Jim Hoberman, Jonathan Rosenbaum, Midnight Movies, Harper & Row, New York 1983, e il documentario Midnight Movies. From the Margin to the Mainstream (2005, di Stuart Samuels), edito in Italia dalla Dolmen. 2 Chris Rodley (a cura di), Lynch secondo Lynch, Baldini&Castoldi, Milano 1998, pp. 61-62. 3 La serie di The Angriest Dog in the World è apparsa tra il 1983 e il 1992, pubblicata in diversi giornali americani. 4 David Lynch, in Laurent Tirard (a cura di), L’occhio del regista. Visioni del cinema di venti registi contemporanei, Holden/Rcs, Milano 2004, p. 169. 5 Da Twin Peaks in poi, l’interesse di Lynch per la dimensione sonora si 1
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tradurrà in una partecipazione sempre più attiva al sound design e alla composizione delle musiche dei suoi film. Non a caso, proprio nel 1990 realizza con Angelo Badalamenti uno spettacolo musicale, Industrial Symphony no. 1. The Dream of the Broken-Hearted (dal titolo di una serie di lavori realizzati quando studiava alla Pennsylvania Academy of Fine Arts), messo in scena presso la Opera House della Brooklyn Academy of Music e interpretato da Julee Cruise, la cantante della Roadhouse di Twin Peaks (serie e film), già interprete del brano Misteries of Love per la colonna sonora di Velluto blu (scritto da Lynch e Badalamenti). Lo spettacolo è una specie di centone di figure e temi lynchiani, con il palco invaso di rottami industriali ed elementi propri di una base militare, sul quale, oltre alla Cruise, agiscono principalmente un nano (Michael J. Anderson, «The Man from Another Place» di Twin Peaks e il Mr. Roque di Mulholland Drive), una cervo scuoiato su trampoli, uomini in divisa e alcune danzatrici. 6 Come lo definisce il suo autore in Jim Hoberman, Jonathan Rosenbaum, Midnight Movies cit., p. 228. 7 David Lynch, in Laurent Tirard, L’occhio del regista cit., p. 169. 8 Ivi. 9 Ivi. 10 Per un’analisi approfondita dell’enciclopedia cinefila di Lynch e della possibili influenze esercitate dai film e dagli autori citati sulla sua opera, si veda Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 1995, in particolare pp. 35-40. 11 Ivi., p. 77. 12 Con la sola eccezione di Twin Peaks. Fuoco cammina con me. 13 In futuro, altre candidature (senza statuette) arriveranno per la regia di Velluto blu e Mulholland Drive. 14 A questo primo volume hanno fatto seguito Dune Messiah (1969), Children of Dune (1976), God Emperor of Dune (1981), Heretics of Dune (1984) e Chapter House Dune (1985), una trilogia ufficiale di prequel scritta dal figlio di Frank, Herbert (Prelude to Dune), e una miniserie televisiva per Sci-Fi Channel (2000). 15 Michael Atkinson, Blue Velvet, BFI, London 1997, pp. 72-73. 16 Michel Maffesoli, Note sulla postmodernità, Lupetti, Milano 2005, p. 112. 17 Chris Rodley (a cura di), Lynch secondo Lynch cit., p. 27.
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Per un’eccellente analisi dell’ouverture di Velluto blu si veda Bruno Fornara, Geografie del cinema. Viaggi nella messinscena, Holden/Rcs, Milano 2001, pp. 128-141. 19 Alberto Boschi, Alessandra di Luzio, Lynch: la ricerca del sublime nell’imperfezione, in AA.VV, David Lynch, Paravia, Torino 2000, p. 27. 20 In questo senso sembra funzionare la memoria del cinema in rapporto alla biografia del regista, come si evince dalla lettura di Chris Rodley (a cura di), Lynch secondo Lynch cit. 21 Riccardo Caccia, David Lynch, Il Castoro, Milano 2004, pp. 73-74. 22 David Hughes (a cura di), The Complete David Lynch, Virgin, London 2001, p. 237. 23 Paolo Cerchi Usai, «Segnocinema«, n. 58, novembre-dicembre 1992, p. 34. Cerchi Usai è stato uno dei pochi sostenitori della pellicola, quasi unanimemente stroncata dalla critica, in Italia come altrove, già all’indomani della sua presentazione al Festival di Cannes. È l’accoglienza peggiore ricevuta da Lynch dai tempi di Dune, ma per motivi opposti: «Per Dune si criticava la situazione di un giovane autore con le mani legate dai vincoli del sistema e di una produzione enorme; per Fuoco cammina con me, al contrario, si accusa Lynch di giocare all’autore viziato e di credere che tutto gli sia permesso, quando non di disprezzare il suo pubblico», Michel Chion, David Lynch cit., p. 170. 24 Ivi, p. 171. 25 Hotel Room rappresenta l’ideale prosecuzione della sperimentazione del formato televisivo da parte di Lynch. Il film viene infatti commissionato dalla HBO, una delle più prestigiose televisioni via cavo americane, e accanto a Barry Gifford viene chiamato, in qualità di sceneggiatore, Jay McInerney, il più talentuoso romanziere – assieme a Bret Easton Ellis – della sua generazione (quella sbrigativamente etichetta come «minimalista»). L’episodio di McInerney, Getting Rid of Robert, non viene diretto da Lynch ma da James Signorelli, regista per la televisione (in particolare del Saturday Night Live) e, in una sola occasione, per il cinema, con lo strampalato Elvira (Elvira, Mistress of the Dark, 1988). A unire i tre segmenti che compongono Hotel Room (ambientati rispettivamente nel 1969, nel 1992 e nel 1936), la costante dell’ambientazione: una stanza d’albergo, la numero 603. 26 Michel Chion, David Lynch cit., p. 139. 18
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Per un «albero genealogico» delle immagini, si veda Jean-Jacques Wunenburger, Filosofia delle immagini, Einaudi, Torino 1999, in particolare il primo capitolo. 28 Giuseppe Gariazzo, Come una goccia d’acqua: la visione «rallentata» da «Eraserhead» a «Una storia vera», in AA.VV., David Lynch cit., p. 134. 29 Pier Maria Bocchi, INLAND EMPIRE, «Cineforum», n. 459, p. 47. 30 Bruno Fornara, Geografie del cinema cit., p. 275. 31 Il riferimento è a John Crary e ai suoi Techniques of the Observer. On Vision and Modernity in the Nineteenth Century, MIT, Cambridge-London 1992, e Modernizing Vision, in Linda Williams (a cura di), Viewing Positions. Ways of Seeing Film, Rutgers University Press, New Brunswick 1995. L’analisi di Crary prende le mosse dalla camera oscura rinascimentale, per misurare, a partire da lì, le trasformazioni occorse nei secoli successivi, e in particolare lungo il ’900, in rapporto al ruolo dello sguardo dell’osservatore: il detour fondamentale – sintetizzando molto – sarebbe rappresentato dall’ingresso del corpo dell’osservatore (con tutto ciò che questo porta con sé in termini di soggettività) nello spazio neutro della prospettiva quattrocentesca. 32 Cfr. Luca Malavasi, «Cineforum», n. 462, pp. 9-10: il numero dedica un ricco speciale al film. 27
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Titolo originale: Mulholland Drive Origine: Usa/Francia Anno: 2001 Regia: David Lynch Soggetto e sceneggiatura: David Lynch Fotografia (colore): Peter Deming Montaggio: Mary Sweeney Scenografia: Jack Fisk Costumi: Amy Stofsky Suono: David Lynch Musica: Angelo Badalamenti Effetti speciali: Gary D’Amico Casting: Johanna Ray Interpreti: Naomi Watts (Betty Elms/Diane Selwyn), Laura Elena Harring (Rita/Camilla Rhodes), Justin Theroux (Adam Kesher), Ann Miller (Coco Lenoix), Dan Hedaya (Vincenzo Castigliane), Angelo Badalamenti (Luigi Castigliane), Patrick Fischler (Dan), Michael Cooke (Herb), Mark Pellegrino (Joe), James Karen (Wally Brown), Maya
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Bond (zia Ruth), Michael J. Anderson (Mr. Roque), Melissa George (Camilla Rhodes), Wayne Grace (Bob Brooker), Lafayette Montgomery (il Cowboy), Rebekah Del Rio (se stessa), Brent Briscoe (Neal Domgaard), Robert Forster (Harry McKnight), Casa di produzione: Les Films Alain Sarde, Studio Canal Plus, Asymmetrical Produttore: Neal Edelstein, Tony Krantz, Michael Polaire, Alain Sarde, Mary Sweeney. Produttore esecutivo: Pierre Edelman Co-produttore: Joyce Eliason, John Wentworth Formato: 1.85 Distribuzione: 01 Durata: 146’
Le vicende produttive Nelle intenzioni della ABC, finanziatrice del progetto originario, Mulholland Drive avrebbe dovuto essere una specie di spin-off a distanza di Twin Peaks, per sviluppare il quale viene affiancata al regista una delle sceneggiatrici di punta della rete, Joyce Eliason, autrice, tra le altre cose, della miniserie The Last Don (ma la collaborazione si interrompe quasi subito). Nelle intenzioni di entrambi, invece, la serie avrebbe dovuto siglare una specie di nuovo inizio, foriero di ulteriori sviluppi: i rapporti tra la ABC e Lynch si erano infatti interrotti bruscamente dopo che il calo d’ascolti di Twin Peaks aveva convinto i dirigenti del network a sospendere la programmazione della seconda serie e poi a
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riprenderla ma in seconda serata, e soprattutto a causa della decisione di ridurre a soli tre episodi lo show, previsto in sette puntate, On the air 1: il regista si era vendicato a modo suo, dipingendo una tavola con la scritta «Non lavorerò mai più in televisione». Ma da allora sono passati molti anni, le persone sono cambiate e la Disney, già distributrice di Una storia vera, è diventata proprietaria del canale. Così, nel 1998, sembra possibile sia alla ABC sia a Lynch tornare a lavorare insieme. Tutti sembrano entusiasti, le premesse appaiono ottime; Steve Tao, vicepresidente della programmazione, dichiara al «New Yorker»: Twink Peaks era simile a un giovane rockettaro che muore in un incidente d’aereo – la sua prematura scomparsa crea un desiderio ancora maggiore di ascoltarne la musica. Speriamo di alimentare questo desiderio anche con Mulholland Drive. Detto francamente, c’è una pletora di cose simili o identiche in televisione. La televisione di Lynch è completamente diversa. 2
Da parte sua, il regista è attirato dall’opportunità di tornare a sperimentare un racconto «in profondità»: Con una serie hai la possibilità di continuare a iniziare e a sviluppare le cose, senza fine […]. Ero allettato dal forte desiderio di raccontare una storia continuativa, nella quale puoi penetrare sempre più a fondo in un mondo fino a perderti in esso. 3
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Le prime immagini di Mulholland Drive (quelle che corrispondono grosso modo all’incidente in cui è coinvolta Rita), presentate nell’agosto del 1998, convincono i dirigenti della ABC a finanziare con 7 milioni di dollari la realizzazione di un pilot, con la clausola di filmare anche un finale, così che, nel caso in cui la messa in onda della serie fosse fallita per qualche ragione, la Disney avrebbe potuto distribuirlo come feature. Nel gennaio del 1999 la sceneggiatura è pronta, e le riprese prendono il via il mese dopo a Los Angeles. Con l’arrivo dei giornalieri cominciano le tensioni con la produzione, ma è la visione del pilot montato, in aprile, a scatenare la crisi. I dirigenti della ABC sono perplessi e chiedono – ma di fatto impongono, pena la cancellazione del progetto – una lunga serie di cambiamenti, tra cui una riduzione della durata, dai 125 minuti previsti dal regista allo standard di 88. Lynch reagisce a quest’ultima richiesta facendo semplicemente terminare il film trentasette minuti prima, e conservando il resto per il secondo episodio: non è esattamente la richiesta del network. Di fronte all’ipotesi di compromettere l’intero lavoro, torna sui propri passi e riduce il film al formato richiesto, accettando inoltre di accelerare in molti punti l’azione (la prima versione del pilot era apparsa eccessivamente lenta). Ma alla fine l’ABC, che aveva previsto di programmare la serie il martedì sera, in modo da fare concorrenza alla NBC e ai suoi Friends e ER, decide comunque di bloccare la produzione e varare quella di Wasteland, una nuova sitcom del creatore di Dawson Creek Kevin Williamson, con protagonisti sei ragazzi alle prese
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con la vita di tutti i giorni a New York (che si rivelerà un sonoro insuccesso). Per Mulholland Drive si pensa dapprima ad alcuni di aggiustamenti in vista di una seconda programmazione a metà stagione, poi alla trasformazione del materiale in un film televisivo di due ore, col quale recuperare almeno gli investimenti fatti fino a quel momento. Lynch rigetta quest’ultima ipotesi e pensa che Mulholland Drive sia definitivamente perduto. Ma nel marzo del 2000 si fa avanti Canal Plus, che paga 7 milioni di dollari alla ABC per i diritti e ne stanzia altri 2 per riprendere la produzione e dare al materiale fin lì girato la forma di un film. Così, tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre di quell’anno Lynch torna a girare, richiamando cast e crew: le riprese durano nove giorni e riguardano scene assenti dalla sceneggiatura originale del pilot. Accanto ai vecchi e ai nuovi materiali viene infine recuperato il finale girato ma mai montato durante la prima fase di riprese. Mulholland Drive viene presentato al Festival di Cannes nel 2001, dove si aggiudica la Palma d’oro per la migliore regia, ex aequo con Joel Coen per L’uomo che non c’era (The Man Who Wasn’t There, 2001, di Joel ed Ethan Coen). Il film è dedicato alla memoria di Jennifer Syme, assistente di Lynch per Hotel Room e attrice, anche se in un ruolo marginale, in Strade perdute. Compagna di Keanu Reeves, è morta a soli ventinove anni in un incidente stradale, nell’aprile del 2001.
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«Mulholland» un, due, tre: appunti di filologia Benché non abbia avuto alcuna diffusione ufficiale, il pilot realizzato per la ABC (quello da 88 minuti) circolò ai tempi dell’uscita del film nel mercato «sommerso» dei collezionisti, mentre con maggiore facilità è stato fin da subito possibile procurarsi una copia della sceneggiatura, che però si riferisce alla primissima versione di Mulholland Drive, quella da 125 minuti, rimontata a seguito della richiesta della ABC di ridurre il girato a un formato standard 4. Questi due «avantesti» del lungometraggio rappresentano, per molti versi, poco più che una curiosità (e non fanno che acuire il rammarico per la cancellazione della serie): la diversa destinazione dei due Mulholland Drive (pilot e feature) suggerisce infatti di non considerarli legati da un processo di successiva elaborazione, all’intero di un progetto organico, ma di vedervi semmai una specie di doppio, composto di due testi dotati di esistenze indipendenti, o, se accostati, come un unico testo dall’esistenza multipla. E se proprio ci si volesse lanciare in un piccolo esperimento di filologia del cinema (branca tra le più trascurate dei film studies), l’analisi dovrebbe compiersi in primo luogo tra le due diverse versioni del pilot, la prima ricostruibile sia grazie alla sceneggiatura, sia attraverso le scene girate ma poi tagliate da quello «ufficiale», e in alcuni casi riutilizzate nel lungometraggio (come, per esempio, tutta la sequenza ambientata al Winkie’s). L’analisi delle varianti presenti nel feature rispetto al pilot, infatti, finisce quasi sempre per rivelare all’opera un’azione di parziale cancellazione o mascheramento dei valo-
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ri «prospettici» di scene e personaggi 5: l’inevitabile chiusura delle possibilità di sviluppo narrativo prodotta dalla trasformazione del primo episodio in un film «finito», impone una diversa economia nella distribuzione dei segni e una loro generale riduzione, qualora si tratti di elementi o eventi destinati a inaugurare semplicemente l’inizio di qualcosa o a svilupparsi troppo rispetto all’asse, narrativamente portante, costituito dalla vicenda di Betty e Rita. A farne le spese sono in particolare la trama gialla e il suo versante investigativo che, si intuisce, avrebbero probabilmente avuto un ruolo importante, similmente a quanto già accadeva in Twin Peaks, anche se la caratura dei due detective di Mulholland Drive è ben diversa da quella dell’agente Cooper: nel pilot, per esempio, subito dopo la scena del «provino» in cucina tra Betty e Rita, successiva all’incontro tra Adam e il Cowboy (in entrambi i casi, non vi sono significative differenze tra pilot e film), si assiste alla seguente conversazione (sospesa, quasi rallentata e sottilmente parodistica) tra Neal Domgard e Harry McKnight: Int. Hollywood Police Station – Day Detective Neal Domgaard throws two wallets down on the desk in front of Detective Harry McKnight. Harry pauses in the middle of a large bite of grilled cheese sandwich with bacon and tomato. He looks down and studies the wallets. DETECTIVE HARRY MCKNIGHT (biting in and chewing): Nice wallets. DETECTIVE NEAL DOMGAARD: Handstitched Italian. Filled with phony credit cards… off the two guys in the Caddy.
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DETECTIVE HARRY MCKNIGHT: The one of ‘em still alive? DETECTIVE NEAL DOMGAARD: Yeah… just… Dr. Scott’s got ‘im. You remember Dr. Scott. DETECTIVE HARRY MCKNIGHT: Oh yeah. DETECTIVE NEAL DOMGAARD: Well he said… you know in his way… you know what I mean? Besides the guy gettin’ rolled up under the kids car which busted him up pretty bad, there was this little knife-like torn piece of metal, you know, off the car body, rolled out and slid up through this guy’s neck and just kinda slit his aorta, you know, but they didn’t find it right away, so the guy’s losin’ a lot of blood, you know, to the brain – all this time cause it was just like this thin little puncture wound on the surface of his neck that kinda sealed itself, he said, while inside the aorta is bleedin’ pretty steady all that time. So, Dr. Scott’s laughin’ you know like he does ‘cause he knows we want to talk to this guy. He’s laughin’ you know and shakin’… Son of a bitch couldn’t stop laughin’… It was kinda contagious ‘cause pretty soon we were all laughin’… the nurse was laughin’. You know how he is. DETECTIVE HARRY MCKNIGHT: Find out who they are? DETECTIVE NEAL DOMGAARD: Nope, not yet. Their fingerprints don’t match up anywhere. DETECTIVE HARRY MCKNIGHT: (another big bite, chewing) Interesting. DETECTIVE NEAL DOMGAARD: Yeah… and they both use the same address. DETECTIVE HARRY MCKNIGHT: Where at? DETECTIVE NEAL DOMGAARD: Palmdale. DETECTIVE HARRY MCKNIGHT: Damn, that’s a long drive. 6
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Scompaiono invece del tutto – e sempre per ragioni di economia narrativa – alcuni personaggi presenti nel pilot e verosimilmente destinati a intrecciare le loro storie a quella di Betty, Rita, Adam: per esempio, il giardiniere orientale di casa Adam, che del resto già assottigliava la sua presenza nel passaggio dallo script – in cui è protagonista di un breve scambio di battute con il regista – all’episodio pilota, dove si limita a salutarlo mentre lascia la casa dopo aver scoperto il tradimento della moglie; ma, soprattutto, scompare il personaggio di Wilkins – di cui, nel feature, rimane soltanto la traccia sineddotica delle feci del suo cane di cui si lamenta Coco accogliendo Betty –, il cui appartamento sta sopra quello di zia Ruth e che verosimilmente sarebbe andato incontro a uno sviluppo ulteriore, considerato soprattutto il suo rapporto con Adam, che lo chiama nel cuore della notte quando la sua vita sta rapidamente crollando verso il disastro (nel film, rispetto al pilot, proprio il «mondo» di Adam è quello più limato a favore della vicenda di Betty) 7. La scena in questione si innesta sulle soggettive che, nel lungometraggio, introducono il personaggio di Louise Booner: all’interno dell’appartamento di zia Ruth, Betty e Rita stanno cercando Sierra Bonita su una mappa, quando sentono qualcuno bussare; lo spettatore si è avvicinato a poco a poco, ma vede Louise Bonner solo assieme a Betty, quando la ragazza va ad aprire. Nel pilot, invece, le soggettive, anziché «bussare», si «sollevano» – senza mai incarnarsi in un personaggio – e si introducono in un appartamento illuminato al piano di sopra, dove squilla un telefono e un giovane biondo (Wilkins, appunto), seduto in poltrona, risponde e parla per qualche secondo con Adam. Di
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fronte a lui – nella forma tipicamente lynchiana di una stranezza perturbante – siede il suo terrier, che fissa immobile, quasi fosse una statua, il padrone: Ext. Courtyard 1612 Havenhurst – Late evening – Almost dark We move off the door of Aunt Ruth’s apartment and crane slowly up to the apartment above hers – Wilkins – the one with the wayward dog. We move closer to Wilkins’ apartment and as we move in we hear a phone ringing. Dissolve to: Int. Wilkins’ apartment – A moment later Wilkins still in his pajamas, bathrobe and slippers from morning slouches in an enormous stuffed chair and matching ottoman, surrounded by piles of papers and coffee cups. His Jack Russell Terrier wakes and stands at the sound of the phone ringing on a side table next to Wilkins. Wilkins comes out of a deep thought and picks up the receiver as he runs his hand through strange, matted tufts of dirty blonde hair. WILKINS: Hello. Adam. How’s it going? No, it’s okay. Yeah, I’m working, but… they wanted this script a week ago. What? What’s wrong with your house? The poolman? Sure, you can have the couch. No, it’s no problem..it’s just I gotta… I gotta work. Any chance you could bring some food. No, I got plenty of money – I just haven’t gone out for awhile. Groovy man! WILKINS (cont’d): Murphy and I’ll be glad to see you. No, no, no, he’s got plenty of food. 8
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Curiosamente, questa scena compare nello script originale solo verso la fine, appena prima dell’ultimo dialogo tra Betty e Rita, visto che al suo posto – come nel film – è presente l’incontro con Louise Booner; in compenso, nello script – e soltanto in questo – è citato un secondo inquilino della residenza di zia Ruth, che riconosce Rita vedendola mentre esce dall’appartamento assieme a Betty (sono dirette a Sierra Bonita); nel dialogo che ne segue, Cornell Dumont accenna a un tale di nome Sol, che Rita dovrebbe conoscere, e a un night. La situazione è raccordata alla fuga di Betty dal set di Adam attraverso una canzone non utilizzata nel film (ma neppure nel pilot), Except the New Girl di Chris Isaak, un cantautore molto amato da Lynch e coinvolto anche in veste di attore nel Twin Peaks cinematografico: Courtyard – 1612 Havenhurst – Day Chris Isaak song segues to the sounds of a blues saxophone. Betty and Rita come out of Aunt Ruth’s apartment. Betty is laughing, pulling on Rita. BETTY: C’mom. There’s nothing to be afraid of. Across the courtyard Cornell Dumont, a strikingly handsome young black musician, is on his balcony playing the saxophone. He stops playing when he sees the girls. He stands and looks as if recognizing someone. CORNELL DUMONT: Hey!
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Betty and Rita stop and look up, shielding their eyes from the sun. CORNELL DUMONT (cont’d): Hey, how’s Sol? BETTY: Sol? CORNELL DUMONT: No… not you… (to Rita) I’m sorry… I forget your name. RITA (almost inaudible): Rita. CORNELL DUMONT: Yeah. Well, I haven’t seen Sol lately. Tell him to come by the club. Rita nods… biting her lip. Cornell smiles and picks up his sax. BETTY: And what’s your name? CORNELL DUMONT (big smile): Cornell Dumont. He begins to blow some sweet jazz that flows smooth as syrup. BETTY (whispering): Ask him who Sol is… Rita hurriedly starts for the gate. BETTY (cont’d): Maybe he could help… Betty follows Rita through the gate to the waiting cab. They get in and the cab pulls away. 9
Stesso destino per un altro personaggio maschile, «a boy with a broken leg», a cui si accenna una prima volta durante una telefonata di Betty al «Grandpa» 10 (immediatamente precedente a quella – conservata nel pilot e nel film – con zia Ruth):
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Int. Aunt Ruth’s apartment – Later day Betty is stretched out on the big leather couch in the living room. A half eaten sandwich and chips are on a plate on the coffee table next to her. She is talking on the phone. BETTY: No Grandpa, you wouldn’t believe it. It’s more beautiful than I ever dreamed… no she left me a lot of food. The refrigerator’s full… Aunt Ruthie said she’d call me when she got settled… it was real smooth. I sat next to a lady who gave up her first class seat to a boy with a broken leg. She was so nice to me. She invited me to her house sometime. It’s in Bel Air which is a place where people have a lot of money… I will. Everybody’s telling me to be careful, but I sure love it here Grandpa. Thank you for helping me get here… yeah, it’s long distance. I love you. Say hello to Grams. Give her a big kiss for me. Okay, I love you Grandpa… bye. 11
Il personaggio del ragazzo (che riporta alla memoria il ragazzino mascherato del Twin Peaks cinematografico), di cui questa volta si sottolineano i «brilliant, luminous blue eyes which are at once innocent and filled with wisdom», è citato una seconda volta in una scena, anche in questo caso tagliata sia dal pilot che dal feature, precedente la telefonata di Betty al Dipartimento di polizia, per sapere se la notte prima c’è stato un incidente su Mulholland Drive. Ext. Hollywood residential street – Day
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Betty and Rita walk along. Birds are chirping in the trees which line both sides of the street. Betty is smiling and once again looking around at everything. Her good mood and excitement about life lifts Rita’s spirits. Coming toward them on the sidewalk are two people – a middle-aged woman and a young boy around 10 years old. The boy is very thin and something is wrong with him as he is walking awkwardly on crutches. As the two groups pass each other on the sidewalk Betty is struck deeply by the boy’s brilliant, luminous blue eyes which are at once innocent and filled with wisdom. After they pass each other Betty turns back and sees the boy and the woman enter 1612 Havenhurst. Betty and Rita continue up the street. 12
Per quanto riguarda invece la progressiva stilizzazione di certi personaggi o, addirittura, la loro riduzione a pure «funzioni» narrative, secondo una procedura sottrattiva che risente dell’impossibilità di darne ulteriore sviluppo, si possono citare numerosi casi: si tratta di piccoli dettagli rivelatori, come nella scena che ha per protagonista Joe, il maldestro killer biondo interessato al «libro nero» che contiene la «storia del mondo in numeri telefonici». Nel pilot, quando deve finire la cicciona che ha ferito accidentalmente e ha trasportato tra le urla nell’ufficio di Ed, prima di spararle «a freddo» vuole che sia voltata di spalle per non guardarla negli occhi; così, quando questa reagisce, dopo aver già preso la mira, è costretto a una seconda lotta per metterla faccia al muro e poterle finalmente sparare: un dettaglio che racconta qualcosa in più del personaggio, aggiungendo alla sua scarsa perizia di killer una quo-
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ta di umanità. Così rimontata, inoltre, la scena, nel lungometraggio, risulta complessivamente più fluida e rapida: l’effetto di «sintesi» e ripulitura a cui vanno incontro numerose sequenze del pilot rientra infatti, almeno in parte, in una strategia complessiva di velocizzazione dei tempi, testimoniata dal confronto puntuale tra le scene conservate in modo pressoché identico nei due testi, da cui si evince come Lynch – anche se magari di poco, o pochissimo – tenda sempre e comunque a «tagliare» qualcosa o ad accelerare il ritmo del montaggio nel caso del Mulholland Drive cinematografico. Tornando al destino di certi personaggi, per quanto riguarda Coco il pilot non presenta significative varianti rispetto al film – solo qualche battuta in più 13 – mentre è interessante notare come nella sceneggiatura originale la donna, interpretata da un’icona del cinema classico, Ann Miller, abbia con Betty un istruttivo scambio di battute (scritto «addosso» all’attrice, sembrerebbe) sul luogo in cui si trova la ragazza, sull’identità di un personaggio secondario, Louise Booner, su quella degli altri inquilini e, non da ultimo, sul mondo del cinema: Coco returns with the key and opens the screen door inhaling a huge drag off her cigarette. She starts off into the courtyard and Betty picks up her bags and follows. As Coco speaks smoke comes out of her with every word. COCO: I guess it was your grandfather, was it… he called me to check in, said you were on your way and for you to call when you get in. Nice man… farmer I hear.
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BETTY: Yes, he is. He raises corn. COCO: Damn lot of corn raised in Hollywood these days too. BETTY: Well, I… COCO: You don’t have to tell me. It’s written all over that pretty face of yours. You came here to be an actress. I just hope you’ll remember there’s never been a great poem called «tits and ass.» BETTY: I… COCO: You probably don’t remember her, but Louise Bonner lives right over there in number 29. When she isn’t drunk she runs a damn good acting class. BETTY: Have many famous actors and actresses lived here? I was meaning to ask you that. COCO: Honey, all the great ones came through here at one time or another. A haunting music begins to swell. COCO (cont’d): People say in the springtime when the wind blows the smell of the jasmine you can still feel the presence of everyone of them. BETTY: I guess I’ve come to quite a place. COCO: Sweetheart, you don’t know the half of it. The music fades. Coco looks down suddenly. On the cobblestone courtyard in front of her she sees a fresh product of waste from a dog. She angrily turns up to an apartment on the second level.
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COCO (cont’d, yelling up): Wilkins! … (no answer) … That dog craps once more out here and I’ll bake his butt for breakfast! 14
E lo stesso si può dire dei fratelli Castigliane: il pilot, anticipando futuri sviluppi, li rende maggiormente protagonisti, attraverso un paio di brevi «raccordi» e l’esplicita ricerca di Adam, dopo lo scontro presso gli uffici della Ryan Entertainment; diversamente montata è la scena del loro incontro con il regista, e al posto del banale «shit» del film, Angelo Badalamenti, nel pilot, reagisce al pessimo caffé con un italianissimo «porca miseria» (ma che suona «porco miseria»). Al termine dell’incontro, poi, non è Adam a lasciare l’ufficio ma i due fratelli, e tra i presenti si svolge il seguente dialogo: ADAM (screaming): You’d better fix this, Ray! RAY: I’ll speak to someone. ADAM (turning to his manager): And you’d better speak to someone too… or find yourself another client!! This smells like a set-up to me! (back to Ray) And by the way, Ray, I don’t know who these guys are kidding, but every foot of film I’ve shot is in a vault at the lab that only I can access. No one’s getting that film! ROBERT SMITH: This is a catastrophe… (turning toward Ray) you told me they might insist on a girl, that’s all. ADAM: Why didn’t you tell me, Robert? That’s what I mean… you set me up! I woulda never come here. (standing) I’m leaving. I’m a director you don’t want to lose… you guys better fix this!!
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Adam storms out of the room. RAY (standing): Well… I didn’t know that was going to happen. 15
La cancellazione di questa «coda» di dialogo dal film trova giustificazione non soltanto, come abbiamo visto finora, nella strategia di riduzione dei dettagli a margine, soprattutto se riferiti a personaggi secondari o «accessori»; questa chiusura senza «fronzoli» né ulteriori complicazioni narrative e il rapido passaggio a un altro momento testimoniano di una seconda strategia di riscrittura dei materiali salvati dal pilot, con riferimento al piano diacronico e sintattico. Il lavoro di lima di Lynch si concentra in questo caso, e particolarmente, sui ponti e i raccordi, visivi e narrativi, che il pilot istituisce tra una scena e l’altra, intervenendo sia sull’ordine in cui queste ultime si succedono, sia sulla presenza di espliciti «ganci»; accade insomma che, mentre dal punto di vista semantico i tanti sub-plot e personaggi che, nel caso della serie, sarebbero andati prevedibilmente incontro a uno sviluppo ulteriore, più o meno dipendente dal dramma di Betty, non scompaiono quasi mai dal film ma riducono la loro rilevanza e complessità, dal punto di vista sintattico si assiste a una «ritrazione» narrativa di scene e sequenze, con l’effetto di assottigliare o addirittura sospendere i legami tra le parti – quei legami che nel pilot, per quanto ancora embrionali, sono comunque ben presenti. Ne deriva complessivamente una natura del racconto fortemente «molecolare» ma tutt’altro che posticcia o «inevitabile», e anzi perfettamente intonata alla scrit-
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tura lynchiana. In questo senso (ma solo in questo senso), il pilot può essere allora visto come una specie di avantesto «creativo» del film: rivela, infatti, come lo stile lynchiano sia spesso il frutto di un «levare» in termini di nessi narrativi e logici, di congruenza tra le parti e di contiguità sintattica che, al contrario, il progetto di un serial di prima serata chiede, almeno in parte, di omaggiare. E in effetti, come già rivelava la serie di Twin Peaks, il carattere di originalità del Lynch televisivo – a differenza del regista cinematografico – si fonda soprattutto su un montaggio «ordinario» di fatti straordinari (tenuto in gran conto il contesto visivo e «culturale» proprio del piccolo schermo). Tornando a un’analisi più dettagliata, alle cose «in meno» finora considerate fanno da contraltare alcune cose «in più»: non soltanto le scene girate ex novo per trasformare il pilot in lungometraggio (corrispondenti grosso modo a tutta la seconda parte e alla sequenza del jitterbug), ma anche la «contrazione», diciamo così, del ruolo e della funzione di certi personaggi, che il pilot si limita a presentare e che il film trasforma in veri e propri protagonisti, anticipandone idealmente l’importanza. È il caso, in particolare, di Mr. Roque, che nell’episodio pilota già si annuncia come una specie di deux ex machina del racconto, o un suo narratore occulto, ma che ancora non possiede la centralità che gli assegna il film. E questa differenza di spessore si rivela in primo luogo sul piano delle «competenze» cognitive e percettive del personaggio. Nel film, infatti, Mr. Roque anticipa tutti, perché sembra sapere già tutto: subito dopo l’incidente di Rita, dà av-
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vio alla catena di telefonate sulla ragazza «still missing» e poi, durante la riunione tra Adam, i produttori e i fratelli Castigliane, sembra partecipare direttamente, sembra essere lì, presente anche se assente, attraverso due inquadrature che lo ritraggono nel suo ambiente naturale, immobile, in ascolto. Nel pilot, invece, Mr. Roque è piuttosto «informato dei fatti»: durante la riunione non vede e non sente nulla, e deve aspettare che Ray lo raggiunga e gli parli anche se, certo, sembra già sapere molto. Ma la sua presenza è senza dubbio meno invadente e decisiva, più umanamente limitata, anche, in rapporto agli eventi che si sviluppano al di fuori di quella specie di acquario o stanza iperbarica in cui vive; e del resto, mentre nel film egli sembra essere dovunque e in nessun luogo, una presenza immateriale e sfuggente, nel pilot viene «collocato» con precisione, presso il palazzo della Ryan Entertainment, grazie a una serie di inquadrature che riprendono Ray mentre si reca da lui, e che sono così descritte nello script: Int. Office building – Day Ray crosses a carpeted closed area. He mounts a flight of stairs. At the top of the stairs there’s a plain blonde wood door. Ray punches in a code on a security panel next to it. The door opens automatically. Ray passes through and goes down a narrow hall. At the end of the hall there is a small elevator. Again Ray punches in a code. The elevator opens and Ray goes in. The elevator door closes, but the elevator does not move. Ray waits. Finally, a woman’s voice comes through a speaker.
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WOMAN’S VOICE: Who is it please? RAY: Raymond Harris… 20743. The elevator begins to move up. When it stops, the door opens and Ray walks into a windowless reception area where a beautiful Italian woman sits behind a large, blonde, modern, built-in desk. RECEPTIONIST (very quietly): You may go right in, Ray. Ray crosses to a blonde wood double door and waits. The receptionist pushes a button behind her desk – chimes sound as the double doors open to an enormous office with no windows. Heavy rich brown curtains line the walls. Ray enters and the doors close behind him. Ray takes a few steps forward, then stops. There is a solid glass wall that we now notice running the width of the office. Cut into the glass wall is a small speaker microphone apparatus. Beyond the glass off in the center of the room is a man sitting in a very plain, blonde, wood, modern, yet not motorized, wheelchair. The man is paralyzed except for his right hand and head. His head appears small in relation to the size of his body. His suit is immaculate and one of the finest we’ve ever seen. His manservant stands in the shadows behind him. RAY: Good afternoon Mr. Roque (pronounced Rowk). 16
Di qui in poi il dialogo continua come nel film. Inoltre, coerentemente con la diversa rilevanza, e il minore potere, del personaggio, le telefonate, nel pilot, non possono che
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essere successive alla conversazione con Ray. Al proposito, un dettaglio all’apparenza irrilevante ma che ci introduce a un altro ordine di riflessioni 17. La sequenza delle telefonate contiene una significativa variante per quanto riguarda l’ultima inquadratura: nel film, come si capisce grazie alla seconda parte, essa raffigura una porzione della camera da letto di Diane – abat-jour rossa, telefono nero, posacenere colmo di sigarette – mentre nel pilot compare un sofisticato apparecchio elettronico, azionato da un’anonima mano femminile, così descritto nella sceneggiatura: Int. A Blue table – Somewhere – Simultaneously The surface of this table is high gloss ultra smooth material. A very modern phone sits on this table and begins to ring softly. A hand enters frame – a woman’s hand. The skin is pale white, almost translucent. The fingers are long and seem slightly too large. At the ends of the fingers and thumb are stretched tapered high gloss red fingernails which slightly curve downward. The forefinger of the hand presses a button on the phone. A small tone sounds – followed by a very modern sounding coded signal. 18
Si tratta di uno dei rari casi in cui le scene girate per dare forma di lungometraggio a Mulholland Drive entrano nel corpus di immagini del pilot; per il resto, fatte salve le strategie di trasformazione, rimontaggio 19 e riscrittura e i casi particolari sopraindicati, il pilot viene conservato con una certa fedeltà, e la «seconda metà» di film ne discende direttamente, a partire da una serie di rapporti che avremo mo-
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do di discutere a partire dal prossimo capitolo, innestandosi all’altezza della fine del «primo» Mulholland Drive. Il pilot, per l’esattezza, si chiude sulla scena della «trasformazione» di Rita da bruna a bionda, seguita da un classico cliffhanger televisivo: una veloce panoramica sui soldi estratti dalla borsa della ragazza e poi dentro, nel nero della borsetta, dove si trova la chiave blu; poi si passa a quello che nel film è riconoscibile come il retro del Winkie’s (ma la sequenza che ha per protagonisti Herb e Dan, pur presente nello script originario, scompare nel pilot), dove siede, tra i rifiuti e una luce intermittente, quella specie di barbone che compare anche alla fine del film. Solo che qui non tiene tra le mani la scatola blu, né dal sacchetto di carta ai suoi piedi spuntano i due vecchietti che Betty ha incontrato sull’aereo per Los Angeles: il «bum» si limita a chiudere l’episodio guardando dritto in macchina 20: Ext. Denny’s restaurant – Hollywood – Night We drift along the red bricks past the payphone, along the wall until we come to the corner. Slowly we round the corner and move to a dark alley. There amongst the dumpsters and trash cans is the dark silhouette of a figure. We move closer to the figure. It is the bum and the bum sits. We move closer and the bum’s face fills the screen. Its face is black with fungus. Its eyes turn and they seem to be red. 21
A proposito dei due anziani coniugi, invece, il pilot cancella quasi del tutto la loro presenza (si vede solo Irene accanto a Betty mentre scendono le scale mobili dell’aeropor-
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to di Los Angeles), mentre nello script essi «recitano» tutta la scena dell’aeroporto, come accade nel film (ma non è prevista l’inquadratura della loro limousine, un altro esempio di aggiunta a posteriori di nuovi materiali al girato dell’episodio pilota, giustificata in primo luogo dalla centralità che assumono i due personaggi). Si tratta quindi di un caso di recupero di scene girate ma non montate nell’edizione definitiva del pilot e, in rapporto al feature, non diversamente da quanto accade alla figura di Mr. Roque, di un’espansione dell’azione e della funzione dei due personaggi (per una discussione dei quali si rimanda ai capitoli successivi) che, nella fattispecie, finiscono per aprire e chiudere il film, trasformandosi nei segni più stabili – anche se profondamente enigmatici – di tutto il racconto. Il film, dunque, si innesta sul pilot nel momento in cui Betty e Rita tornano a casa dopo aver scoperto il cadavere di Diane Selwyn; vi si innesta, dopo averlo debolmente riscritto, per continuarlo e al tempo stesso concluderlo, riprendendo con una scena che sembra celebrare implicitamente la rottura del vincolo contrattuale con la ABC: quella della notte di sesso e d’amore tra le due ragazze, che mai avrebbe potuto figurare, per la sua concentrazione erotica e la sua spudoratezza visiva, in un serial americano di prima serata. E poi, subito dopo, la lunga sequenza del Club Silencio: che appare a questo punto non soltanto quel fondamentale luogo teoretico che tutta la critica, anche se per ragioni spesso diverse se non opposte, ha indicato, ma anche una specie di passaggio obbligato – per Lynch e il suo film –, foriero di un nuovo inizio, per poter approdare a una fine.
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Sceneggiato da Lynch assieme a Mark Frost e Robert Engels (gli stessi di molti episodi di Twin Peaks), On the Air è una miniserie che racconta le disavventure della rete televisiva ZBC nell’America del 1957, durante la messa in scena di un programma «live», il Lester Guy Show. 2 David Hughes, The complete Lynch, Virgin, London 2001, p. 237. 3 Ivi. 4 Quanto al finale che Lynch, per contratto, ha dovuto girare e consegnare all’ABC, si sa molto poco. Tra le fonti più affidabili, Ted Friend, che in Creative Differences («New Yorker», 30 agosto 1999) scrive: «the closed ending features a Blue Lady and a magician who explodes in blue flames». Si tratta dunque di inquadrature verosimilmente confluite nella sequenza del Club Silencio e nel finale del lungometraggio. 5 Unica eccezione l’architettura sonora, ridisegnata quasi ex novo nel lungometraggio, senza quasi nulla derivare dal pilot; del resto, la destinazione a un diverso spazio di visione (la sala), dotato di specifiche e più sofisticate peculiarità riproduttive (oltre che di modalità di fruizione ben diverse da quelle del contesto televisivo), non poteva non influenzare in primo luogo proprio la dimensione sonora, anche in considerazione della particolare cura che Lynch è solito prestare a questo aspetto del linguaggio cinematografico. 6 (Int., Stazione di polizia di Hollywood – giorno). Il detective Neal Domgaard getta due portafogli sulla scrivania del detective Harry McKnight. Harry si ferma a metà di un grosso morso al suo sandwich al formaggio grigliato con bacon e pomodori. Guarda in basso, studiando i due portafogli. DETECTIVE HARRY MCKNIGHT (mangiando e masticando): Bei portafogli. / DETECTIVE NEAL DOMGAARD: Manodopera italiana. Pieni di carte di credito false… sono dei due ragazzi nella Cadillac. / DETECTIVE HARRY MCKNIGHT: Qualcuno di loro è ancora vivo? / DETECTIVE NEAL DOMGAARD: Sì… il dottor Scott se ne sta occupando. Ti ricordi del dottor Scott. / DETECTIVE HARRY MCKNIGHT: Oh sì. / DETECTIVE NEAL DOMGAARD: Beh, ha detto… alla sua maniera… sai cosa voglio dire, no?... Oltre al fatto che il tipo è stato tirato sotto dall'auto dei ragazzi, che l'ha conciato davvero male, c'era anche questo pezzo di metallo simile a un coltello, partito dalla carrozzeria dell'auto verso il collo del tipo, e gli ha tranciato l'aorta, ok?, ma non se n'è accorto subito, e così il tipo perdeva molto sangue, al cervello – tutto questo tempo perché 1
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sembrava che quella piccola puntura al collo fosse soltanto superficiale e si dovesse cicatrizzare da sola in breve tempo, diceva, mentre all'interno dell'aorta sanguinava di continuo. Quindi il dr. Scott sghignazzava come fa sempre, perché sa che vogliamo parlare con questo tipo. Rideva a crepapelle… quel figlio di puttana non la piantava di ridere… tanto che a un certo punto abbiamo cominciato a ridere anche noi… anche l'infermiera rideva. Sai com'è fatto, lui… / DETECTIVE HARRY MCKNIGHT: Scoperto chi sono? / DETECTIVE NEAL DOMGAARD: No, non ancora. Le loro impronte non corrispondono a niente. / DETECTIVE HARRY MCKNIGHT (un altro grosso morso, masticando): Interessante. / DETECTIVE NEAL DOMGAARD: Già… ed entrambi usano lo stesso indirizzo. / DETECTIVE HARRY MCKNIGHT: Quale? / DETECTIVE NEAL DOMGAARD: Palmdale. / DETECTIVE HARRY MCKNIGHT: Accidenti, è a una bella distanza. 7 In verità Wilkins, interpretato da Scott Coffey, figura nel feature tra gli invitati al party di Camilla (del resto, è un amico di Adam), seduto proprio accanto a Diane; tuttavia, mancando dalla prima parte, la sua apparizione è del tutto «insensibile» e la sua figura anonima. Inoltre, visto che nella telefonata Adam chiede ospitalità a Wilkins, è facile intuire che la compresenza del regista e di Betty presso lo stesso palazzo avrebbe prodotto qualche intreccio, forse di ordine sentimentale, tra i due personaggi (dopo il loro primo incontro, anche se solo di sguardi, sul set). 8 (Ext., 1612 Havenhurst, cortile – tarda sera – quasi buio). Ci allontaniamo dalla porta dell'appartamento di zia Ruth e saliamo lentamente verso l'appartamento sopra il suo – i Wilkins – quello con il cane capriccioso. Ci avviciniamo all'appartamento dei Wilkins e mentre vi entriamo, sentiamo uno squillo telefonico. (Dissolvenza su: Int. appartamento di Wilkins – un attimo dopo). Wilkins è ancora in pigiama, accappatoio e pantofole, quelle da bighellonamento mattutino, in un enorme sedia imbottita e relativa ottomana, circondato di pile di carta e di tazze da caffè. Il suo Jack Russell terrier si alza al suono del telefono su un tavolo vicino a Wilkins. Wilkins sembra uscire da un pensiero profondo e solleva il ricevitore come se passasse la sua mano tra uno strano intrico sporco di riccioli biondi. WILKINS: Ciao. Adam. Come va? No, è ok. Sì, sto lavorando ma… volevano lo script una settimana fa. Cosa? Cosa non va con la tua casa? L'uomo della piscine? Certo, puoi avere il divano. No, non è un problema… è solo che… è solo che devo lavorare. Puoi
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portare del cibo. No, sono pieno di soldi – è solo che non non vado fuori da un po'. Bravo! WILKINS (proseguendo): Io e Murphy saremo molto felici di vederti. No, no, no, lui di cibo ne ha quanto ne vuole. 9 (Ext., 1612 Havenhurst, cortile – giorno). La canzone di Chris Isaak sfuma nel suono blues di un sassofono. Betty e Rita escono dall'appartamento di zia Ruth. Betty sta ridendo, spingendo Rita. BETTY: Forza. Non c'è niente di cui aver paura. / Dall'altra parte del cortile Cornell Dumont, un giovane musicista nero, sorprendentemente bello, è al balcone che suona il sassofono. Smette di suonare quando vede le ragazze. Si ferma e guarda come se avesse riconosciuto qualcuno. CORNELL DUMONT: Hey! / Betty e Rita si fermano e guardano in alto, riparandosi gli occhi dal sole. CORNELL DUMONT: (proseguendo) Hey, come sta Sol? / BETTY: Sol? / CORNELL DUMONT: No… non tu… (verso Rita) Mi dispiace… ho dimenticato il tuo nome / RITA (quasi impercettibilmente): Rita. / CORNELL DUMONT: Ah già. Non ho visto Sol di recente. Digli di passare dal club. / Rita annuisce… mordendosi le labbra. Cornell sorride e torna al suo sax. BETTY: E qual è il tuo nome? / CORNELL DUMONT: (un grande sorriso) Cornell Dumont. / Comincia a suonare un jazz dolce che si diffonde armonioso come sciroppo. BETTY (sussurrando): Chiedigli chi è Sol… / Rita si dirige in fretta verso il cancello. BETTY (proseguendo): Forse può aiutarci… / Betty segue Rita dal cancello al taxi in attesa. Salgono e il taxi parte. 10 Al nonno fa riferimento anche una parte del dialogo che, nello script, si scambiano Betty e Coco, mentre attraversano il cortile dirette all’appartamento di zia Ruth (si veda oltre, nel testo). 11 (Int., Appartamento di zia Ruth – giorno inoltrato). Betty è distesa sul grande divano in pelle in salotto. Un sandwich mezzo mangiato e delle patatine in un piatto sul tavolino da caffè vicino a lei. Sta parlando al telefono. BETTY: No, nonno, non ci crederesti. È più bello di quanto avrei mai potuto sognare… no, mi ha lasciato molto cibo. Il frigorifero è pieno… zia Ruth mi ha detto che mi avrebbe chiamato non appena si fosse sistemata… è andato liscio. Ero seduta accanto a una signora che aveva lasciato il suo posto in prima classe a un ragazzo con la gamba rotta. È stata molto carina con me. Mi ha invitata a farle visita a casa sua. È a Bel Air, un posto dove tutti hanno i soldi… Ci andrò. Tutti mi dicono di fare attenzione, ma sono sicura che starò bene, nonno. Grazie per aver-
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mi aiutato a venire qui… sì, è vero, è molto distante. Ti voglio bene. Saluta la nonna. Dalle un gran bacio da parte mia. Okay, ti voglio bene nonno… ciao. 12 (Ext., Una strada residenziale di Hollywood – giorno). Betty e Rita camminano lungo la strada. Gli uccelli cinguettano negli alberi che ornano entrambi i lati della strada. Betty sorride e per l'ennesima volta si guarda attorno. Il suo buon umore e la sua eccitazione per ciò che le sta accadendo sollevano lo spirito di Rita. Dalla stessa parte della strada, dirette verso di loro, avanzano due persone – una donna di mezza età e un ragazzino di dieci anni. Il ragazzo è molto magro e sembra che ci sia qualcosa che non va nel suo modo di camminare, goffo come se portasse le stampelle. Nel momento in cui i due gruppi si incrociano Betty resta colpita dagli occhi incredibilmente azzurri e brillanti del ragazzo, al tempo stesso innocenti e pieni di saggezza. Dopo averli superati, Betty si volta indietro e vede che il ragazzo e la donna entrano al 1612 di Heavenhurst. Betty e Rita continuano per la loro strada. 13 Prima di lasciare Betty, già dentro la casa di zia Ruth, Coco l’avverte che dal tetto dell’edificio è possibile vedere la scritta Hollywood («You can see the Hollywood sign from there»). 14 Coco torna con la chiave e apre la porta con la zanzariera facendo un profondo tiro dalla sua sigaretta. Attraversa il cortile e Betty la segue con le sue valigie. Quando Coco comincia a parlare, il fumo le esce dalla bocca accompagnando le sue parole. COCO: Era tuo nonno, no… mi ha chiamato per controllare, mi ha detto che stavi arrivando e di dirti di chiamarlo quando fossi arrivata. Uomo simpatico… agricoltore, se ho ben capito. / BETTY: Esatto. Coltiva il grano. / COCO: Un sacco di grano viene coltivato oggi anche a Hollywood. / BETTY: Eh, io… / COCO: Non devi dirmi niente. È scritto su tutta la tua faccia graziosa. Sei venuta qui per fare l'attrice. Spero solo che ricorderai che non è mai esistito un grande poema intitolato «tette e culo». / BETTY: Io… / COCO: Tu probabilmente non la ricordi, ma Louise Bonner vive proprio qui, al 29. Quando non è ubriaca, è una gran brava attrice. / BETTY: Ci sono stati molti attori e attrici che hanno vissuto qui? Avevo proprio intenzione di chiederglielo. / COCO: Tesoro, tutti i grandi passano di qui, prima o poi. / Comincia a diffondersi una musica evocativa. COCO (proseguendo): Si dice che in primavera, quando il vento diffonde il profumo del gelsomi-
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no, puoi ancora sentire la presenza di ognuno di loro. / BETTY: Credo proprio di essere arrivata in un gran posto. / COCO: Tesoro, non conosci neppure la metà di questo posto. / La musica sfuma. Coco guarda in basso improvvisamente. Su un ciottolo del cortile, proprio di fronte a lei, ci sono dei freschi escrementi di cane. Arrabbiata, guarda in alto, verso un appartamento al secondo piano. COCO (proseguendo, urlando): Wilkins! (nessuna risposta) … Se quel cane fa ancora una volta i suoi bisogni in cortile giuro che mi cucino le sue chiappette per colazione! 15 ADAM (gridando): Faresti meglio a sistemare questo, Ray!!! / RAY: Parlerò con qualcuno. / ADAM (voltandosi verso il suo agente): E anche tu faresti meglio a parlare con qualcuno… o trovati un altro cliente! Sento puzza di imbroglio (di nuovo verso Ray) e comunque, Ray, non so chi stiano prendendo in giro, questi due, ma ogni singolo metro di pellicola che ho girato è in un magazzino del laboratorio a cui solo io posso accedere. Nessuno avrà questo film! / ROBERT SMITH: È una catastrofe… (voltandosi verso Ray) tu mi avevi detto che avrebbero insistito un po' su una ragazza, tutto qui. / ADAM: Perchè non me l'hai detto, Robert? È questo che voglio dire… mi hai ingannato! Non sarei mai venuto fin qui. (in piedi) Me ne vado. Sono un regista che non potete perdere… dovete sistemare questa cosa! / Adam esce come una furia dalla stanza. RAY: Ecco… non potevo proprio sapere che sarebbe andata così. 16 (Int., Palazzo di uffici – giorno). Ray attraversa un'area chiusa, ricoperta di moquette. Sale una rampa di scale. In cima alle scale c'è un'insignificante porta di legno chiaro. Ray digita un codice in un pannello di sicurezza accanto alla porta, che si apre automaticamente. Ray entra e scende in una stanza stretta, alla fine della quale si trova un grande ascensore. Di nuovo, Ray digita un codice. L'ascensore si apre e Ray vi entra. Le porte si chiudono ma l'ascensore non si muove. Ray aspetta. Alla fine, la voce di una donna lo raggiunge attraverso un altoparlante. VOCE DI DONNA: Identificarsi, prego. / RAY: Raymond Harris... 20743. / L'ascensore comincia a salire. Quando si ferma, la porta si apre e Ray procede verso una reception area priva di finestre, dove una bella donna italiana siede dietro una scrivania ampia, chiara e dal design moderno. RECEPTIONIST (molto lentamente): Può entrare, Ray. / Ray raggiunge una porta di legno chiaro, a doppia anta, e aspetta. La receptionist spinge un bottone dietro la sua scrivania – un suono quando la porta si apre
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su un enorme ufficio senza finestre. Delle tende pesanti, marrone scuro, circondano i muri. Ray entra a la porta alle sue spalle si chiude. Ray fa alcuni passi avanti, poi si ferma. C'è un muro di vetro spesso che ci accorgiamo adesso correre per tutta la larghezza dell'ufficio. Inserito nel muro di vetro c'è un piccolo altoparlante. Oltre il vetro, al centro della stanza, c'è un uomo seduto in una sedie a rotelle, semplice, chiara, moderna ma non motorizzata. L'uomo è paralizzato a eccezione della sua mano destra e della testa. La sua testa sembra più piccola in rapporto alla taglia del corpo. Il suo abito è immacolato e di fattura straordinariamente elegante. Il suo servitore è in piedi nell'ombra, dietro di lui. RAY: Buon pomeriggio, Mr. Roque (pronunciato Rowk). 17 Un altro curioso dettaglio, nella scena della riunione di produzione, riguarda la ragazza «raccomandata» dai fratelli Castigliane. Essa ha, come nel film, il nome di Camilla Rhodes, e con questo nome, e con il volto dell’attrice Melissa George, partecipa al casting di Adam sia nel film sia nel pilot. Ma in quest’ultimo, nella foto che i fratelli passano ai produttori, è ritratta un’altra ragazza bionda. 18 (Int., un tavolo blu – da qualche parte – contemporaneamente). La superficie del tavolo è lucente e levigata. Sul tavolo c'è un telefono molto moderno che comincia a squillare piano. Una mano entra nell'inquadratura – la mano di una donna. La pelle è bianchissima, quasi traslucida. Le dita sono lunghe e sembrano leggermente troppo larghe. Le dita e il pollice terminano con delle unghie affusolate laccate rosse leggermente curvate verso il basso. L'indice pigia un bottone sul telefono. Un breve suono – seguito da un moderno rumore di segnale. 19 Nell’analisi abbiamo volutamente trascurato di soffermarci sul processo di rimontaggio a cui va incontro la sezione corrispondente al pilot una volta inclusa nel lungometraggio perché più che di una vera e proprio ridistribuzione delle parti, guidata da una diversa logica, la struttura finale appare come il «resto» delle operazioni di eliminazione e aggiunta in buona parte descritte. 20 Nello script, il Winkie’s è Denny’s. 21 (Ext., Ristorante Denny’s – Hollywood – notte). Ci muoviamo lungo i mattoni rossi oltre il telefono a gettoni, rasenti al muro fino all'angolo. Lentamente giriamo l'angolo e avanziamo verso un vicolo scuro. Qui, tra spazzatura e lattine vuote, si intravede la silhouette di qualcuno. Ci
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avviciniamo. È il barbone, seduto. Ci avviciniamo ancora e la faccia del barbone riempie lo schermo. Ha la faccia sporca. I suoi occhi si voltano e sembrano rossi.seduto. Ci avviciniamo ancora e la faccia del barbone riempie lo schermo. Ha la faccia sporca. I suoi occhi si voltano e sembrano rossi.
Suddivisione in sequenze
Sequenza 1 Quattro coppie di ballerini danzano il jitterbug. Vi si sovrappongono prima l’immagine di una giovane ragazza bionda e sorridente stretta tra due anziani, poi il primo piano della sola ragazza (commentato da un rumore di applausi), infine, mentre il groviglio dei danzatori lascia il posto a un fondo nero, le due immagini affiorano simultaneamente. Una macchina da presa mobile perlustra l’oscurità: scivola su un letto dalle lenzuola cremisi per poi tuffarsi in un cuscino. Dissolvenza al nero. Sequenza 2 Dal buio della notte emerge il cartello stradale «Mulholland Dr.», lampeggiante. Spunta una limousine nera e partono i titoli di testa; la macchina da presa segue la lenta corsa della vettura attraverso una serie di dissolvenze incrociate, alternandole ad alcune inquadrature, dall’alto, della città di Los Angeles. All’interno della macchina siede una giovane e attraente ragazza bruna
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(Rita). Davanti, accanto all’autista, un secondo uomo. Inaspettatamente, la macchina si ferma («What are you doing? We don’t stop here», protesta Rita). Intanto, dalla direzione opposta, sopraggiungono due macchine lanciate a folle velocità. Mentre a Rita viene intimato di scendere sotto la minaccia di una pistola, una delle due auto invade la carreggiata dove si è fermata la limousine. L’impatto è tremendo ma la ragazza ha la forza di uscire dall’auto e di incamminarsi verso la città che scintilla, immensa, sotto di lei. Ha una leggera ferita alla testa. Impaurita, corre lungo Franklin Avenue per poi finire in Sunset Boulevard. Quando avvista un ragazzo e una ragazza, cerca rifugio dietro un’aiuola, dove si addormenta quasi subito. Sequenza 3 Sul luogo dell’incidente sono intanto sopraggiunti pompieri e polizia. Il ritrovamento di un orecchino di perle fa supporre a due investigatori il coinvolgimento di qualcun altro, fuggito prima del loro arrivo. Sequenza 4 In dissolvenza incrociata si torna a Rita, addormentata dietro un cespuglio. È giorno: si sveglia improvvisamene udendo una porta che sbatte e la voce di una donna (Ruth) che, poco dopo, esce dal cancello alla sinistra di Rita, seguita da un tassista. Mentre i due sistemano i bagagli, la ragazza si introduce in casa di Ruth. E si addormenta di nuovo, questa volta sotto il tavolo della cucina.
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Sequenza 5 Da Winkie’s, in Sunset Boulevard. Un uomo sulla quarantina, Herb, e un ragazzo, Dan. Quest’ultimo racconta un sogno – ripetutosi identico per due volte – che ha per protagonisti loro due e quel locale. Nel sogno, egli vede un uomo che lo terrorizza, spuntando dal nulla sul retro del locale. L’altro gli suggerisce di andare a verificare. Si recano dunque all’esterno e, giunti sul luogo dell’apparizione, quella specie di mostro si manifesta davvero, spaventando a morte Dan. Sequenza 6 Rita continua a dormire sotto il tavolo della cucina di Ruth. Sul fondo di un stanza circondata di tende violette e il cui solo arredamento è costituito da una scrivania rossa sulla quale è accesa una lampada blu e da uno piccolo schermo sospeso dalla parte opposta, un nano, Mr. Roque, compone un numero telefonico. Risponde un anziano ripreso di spalle, a cui Mr. Roque comunica: «The girl is still missing». L’uomo riaggancia e compone subito un numero. Squilla un telefono – curiosamente illuminato da un’alogena a forma di cerchio – in una casa fatiscente. Risponde un secondo uomo (di cui si vede soltanto il braccio mentre afferra la cornetta). Gli viene detto: «The same». Riaggancia e compone una specie di sequenza. Suona un terzo telefono – nero, posato su un tavolino di legno accanto a una lampada rossa e a un posacenere pieno di sigarette. Sequenza 7 Aeroporto di Los Angeles. Una ragazza bionda e sorridente, Betty, cammina a braccetto di un’anziana, Irene.
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Una volta in strada, si salutano: l’anziana le augura di avere successo nel cinema e le raccomanda di fare attenzione. Identiche parole dal marito di Irene: sono i tre personaggi introdotti all’inizio del film sull’esibizione jitterbug. Betty sale su un taxi, diretta al 1612 di Hayvenhurst, mentre i due anziani si allontanano a bordo di una limousine nera. Entrambe le vetture si direbbero dirette a Hollywood, come suggerisce un’inquadratura del celebre «cartello» sulla collina. Sequenza 8 Ancora piena di meraviglia ed eccitazione, Betty prende possesso della casa della zia Ruth e fa la conoscenza di Mrs. Lenoix o, come tutti la chiamano, Coco, la responsabile del complesso. Entrando in camera da letto, viene attirata da alcuni indumenti abbandonati: appartengono a Rita, che Betty, subito dopo, scopre nuda nella doccia. Le fa qualche domanda (pensa si tratti di un’amica o una collaboratrice della zia), ma poi la lascia e torna a sistemare i bagagli. Rita si rende conto di non ricordare nulla, neppure il suo nome, che sceglie traendolo dalla locandina del film Gilda appesa accanto allo specchio del bagno. Rita raggiunge Betty in camera da letto e cominciano a parlare. Betty le confessa il suo sogno di diventare una star del cinema, ma Rita sembra assente; ha uno svenimento e, scostando i capelli, rivela una ferita alla fronte. Betty le suggerisce di chiamare un medico ma l’altra risponde che ha solo bisogno di dormire. Si stende sul letto e chiude gli occhi.
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Sequenza 9 Alcune panoramiche di Los Angeles. Due uomini (i fratelli Castigliane) entrano nel palazzo della Ryan Entertainment, dove hanno appuntamento con i produttori (Ray e Darby) e il regista (Adam Kasher) di un film in lavorazione; Mr. Roque, dalla sua stanza, assiste alla riunione. Prima dell’arrivo dei Castigliane, l’agente di Adam gli consiglia di avere uno «spirito aperto» nei confronti dei suggerimenti che gli verranno, ma quando uno dei fratelli (entrati e sedutisi senza salutare), getta sul tavolo la foto di una ragazza, Camilla Rhodes, si intuisce che non c’è spazio per la discussione. Adam domanda il perché di quella foto; gli viene detto che si tratta di una «raccomandazione» per l’attrice protagonista. No, correggono i Castigliane, non si tratta di una semplice raccomandazione: «This is the girl», senza possibilità di scelta. All’ennesima protesta del regista – e dopo che uno dei fratelli ha sputato il suo espresso su un fazzoletto trovandolo una «merda» – la situazione precipita: «questa è la ragazza» e il film non è più di Adam. Una volta fuori, in strada, egli si vendica colpendo con una mazza da golf la limousine nera dei due fratelli. Sequenza 10 Mentre Betty si assicura che Rita, ancora addormentata, stia bene, Ray si reca da Mr. Roque e, da dietro il vetro che isola la stanza, lo informa che «il suo nome è Camilla Rhodes» e che il regista non è d’accordo. Dunque: tutto da sospendere? Mister Roque non risponde. Ma il suo silenzio fa concludere a Ray che il progetto va fermato. Dissolvenza al nero.
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Sequenza 11 In un ufficio due giovani uomini, Joe e Ed, parlano e ridono. Si riferiscono a un incidente stradale. Ma poi l’attenzione di Joe viene attirata dal «famoso» libro nero di Ed: «La storia del mondo, in numeri telefonici», commenta l’altro, prima di essere freddato da una pallottola. Mentre sistema la scena affinché sembri un suicidio, Joe spara per errore un proiettile che, attraverso il muro, ferisce una grassona nella stanza accanto. L’uomo la preleva e la trascina nell’ufficio, per poi finirla. E dovrà uccidere anche un uomo delle pulizie che ha assistito alla scena. Infine, per spegnere, sparandogli, l’aspirapolvere che è rimasto acceso, fa scattare l’allarme antincendio del palazzo. Alla fine, però, riesce a fuggire con il «libro nero». Sequenza 12 Betty al telefono con zia Ruth. Parla di alcune battute da imparare per un provino, poi le dice della «sua amica» Rita. Ma la zia non conosce nessuno con quel nome. Betty chiede dunque spiegazione a Rita, risvegliatasi nel frattempo: in lacrime, le confessa di non ricordare niente, neppure il proprio nome. Betty le suggerisce allora di aprire la borsa per cercare dei documenti: ma, a sorpresa, la borsetta contiene soltanto cinque mazzette di banconote da 100 dollari e una strana chiave blu. Sequenza 13 Fuori da Pink’s, Joe con una prostituta e a un uomo vestito di pelle nera. Joe le chiede se ha visto per strada qual-
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che «ragazza nuova», e in particolare una bruna con qualche livido addosso. Sequenza 14 Intanto Betty aiuta Rita a ricordare, domandandole dei soldi e della chiave, ma senza successo. Sequenza 15 Adam, in macchina, al telefono con la segretaria, Cynthia, che lo informa che Ray ha licenziato tutti e chiuso il set. Ma Adam non ne vuole sapere; ripete soltanto: «Sto andando a casa». Sequenza 16 Nel salone, in casa di zia Ruth, Betty e Rita continuano a dialogare. La prima le sta domandando dove stesse andando, quando la seconda ricorda improvvisamente un nome: «Mulholland Drive». Decidono di fare una telefonata anonima alla polizia per verificare se c’è stato un incidente su quella strada. Sequenza 17 Adam arriva a casa, dove scopre la moglie, Lorraine, a letto con un altro uomo, Gene. Senza aprire bocca, si vendica cospargendo i gioielli della donna di vernice fucsia. Alle grida di Lorraine, sopraggiunge Gene, che prende a calci e a pugni Adam, sbattendolo fuori casa. Sequenza 18 Prima di uscire, Betty e Rita nascondono la borsa coi
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soldi dentro una cappelliera. Si recano presso una cabina telefonica fuori dal Winkie’s della sequenza 5 e, chiamando il dipartimento della polizia di Los Angeles, vengono a sapere che, effettivamente, la sera prima c’è stato un incidente su Mulholland Drive. Ne cercano notizia sui giornali all’interno del locale, ma non trovano niente. Una cameriera di nome Diane serve loro del caffé: Rita resta come attonita di fronte alla ragazza. Improvvisamente ricorda un nome: Diane Selwyn, forse il suo. Tornate a casa, controllano sulla guida telefonica e trovano un «D. Selwyn». Provano a chiamare. Risponde la voce di una donna incisa su una segreteria. Non è quella di Rita, ma è sicura di conoscerla. Sequenza 19 Un gorilla dei fratelli Castigliane si reca a casa di Adam, ma vi trova soltanto la moglie e Gene, con cui ha un scontro. Sequenza 20 Adam si è rifugiato al Park Hotel, stanza 16, gestito da un uomo di nome Cookie, che sembra conoscere da tempo. È questo a informarlo che sono appena stati lì due rappresentanti della sua banca per comunicargli che i conti di Adam sono a secco e il suo fido è stato revocato. In preda al panico, il regista chiama la segretaria, già avvertita della bancarotta. Cynthia lo informa inoltre che un tale, detto il «Cowboy», vuole vederlo in cima al Beachwood Canyon, presso un corral.
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Sequenza 21 Betty e Rita consultano una cartina alla ricerca del luogo in cui vive Diane Selwyn. È poco distante da lì, a Sierra Bonita. Ma Rita è spaventata, non è sicura di volerci andare. Bussano alla porta: Betty va ad aprire e si trova di fronte una strana donna, Louise Bonner, vestita con un manto nero che le copre anche la testa. Dice: «Qualcuno, qui, è nei guai». Betty si presenta e le dice di essere la nipote di Ruth ma Louise risponde che «non è vero, non è quello che mi ha detto lei. Qualcuno, qui, è nei guai! Sta per succedere qualcosa di terribile!». Sopraggiunge Coco, che cerca di calmare Louise. Intanto, consegna a Betty alcune pagine di un copione arrivate via fax per il provino del giorno dopo. Sequenza 22 Notte. Adam si reca all’appuntamento. Giunto presso il luogo che gli è stato comunicato, fa la conoscenza di un uomo vestito da Cowboy, introdotto dall’improvvisa accensione di una lampada. Il discorso del Cowboy è oscuro ed enigmatico. Culmina in una specie di indovinello: «Qualche volta c’è una carrozza. Quanti guidatori ci vogliono per una carrozza?». «Uno», risponde Adam. «Allora diciamo che io sto guidando questa carrozza, e se lei corregge il suo atteggiamento, può salire accanto a me». Poi ordina ad Adam di tornare sul set l’indomani e di continuare i provini per l’attrice principale. Ma quando vedrà la ragazza di cui, quel pomeriggio, gli è stata mostrata una foto nel corso della riunione, dovrà dire: «È lei la ragazza». Poi lo lascia con una minaccia in linea con l’ambiguità del discorso: «Lei mi rivedrà soltanto un’altra volta se farà il
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bravo; lei mi rivedrà altre due volte se farà il cattivo». Augurata la buonanotte, scompare, mentre la lampadina si spegne. Dissolvenza al nero. Sequenza 23 Dissolvenza in apertura sulla collina di Hollywood. L’indomani mattina Betty e Rita, in vestaglia, recitano la scena per il provino del pomeriggio. Poco dopo sopraggiunge Coco che, avvertita da Ruth, vuole capire chi è la Rita di cui le ha parlato la nipote. Betty inventa una storia poco credibile a cui Coco non finge neppure di credere; ma non sembra arrabbiata: solo, la mette in guardia dai guai predetti da Louise. Poi Betty esce di casa per recarsi al provino. Fuori, in strada, passa una macchina con a bordo due uomini dallo sguardo minaccioso: osservano l’ingresso del complesso in cui si trova l’appartamento di zia Ruth. Sequenza 24 Betty viene accolta con molto calore al provino; il suo partner è l’attore Woody Katz. Oltre al produttore, Wally Brown, e alla sua assistente, Martha Johnson, ci sono Jack Tuckmann, il regista Bob Brooker, Julie Chadwick e l’agente Lynney James con la sua assistente, Nicki. L’esito è molto positivo. Lascia l’ufficio di Wally assieme a Lynney, che desidera presentarla a un regista. Sequenza 25 Lynney, Nicki e Betty raggiungono lo studio cinematografico in cui si tiene il provino per l’attrice protagonista del film di Adam, Sylvia North Story. Lynney saluta affet-
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tuosamente Ray, mentre Betty viene subito notata da Adam. Finito il provino di un’attrice di nome Carol (che, in abiti anni ’50, ha cantato Sixteen Reasons Why I Love You), è la volta di Camilla Rhodes. Seguendo le indicazioni ricevute dal Cowboy, Adam chiama un tale Jason e gli comunica «this is the girl»; Ray, sopraggiunto nel frattempo, si complimenta per la scelta. Adam ha un ultimo scambio di sguardi con Betty prima che questa fugga via, ricordandosi all’improvviso dell’appuntamento con Rita. Sequenza 26 Betty e Rita si recano in taxi all’appartamento di Diane Selwyn; passandovi accanto Rita confessa di non ricordare nulla, ma è sconvolta dalla vista di due uomini in una macchina ferma davanti all’edificio. Chiedono allora al tassista di procedere, e poi scendono in strada sul retro. Si introducono nel complesso; l’appartamento di Diane è il numero 12. Si fermano spaventate alla vista della macchina parcheggiata adesso all’interno del condominio, ma non c’è nulla da temere: uno degli uomini sta aiutando una donna a caricare delle valigie. Giunte all’appartamento di Diane, Betty bussa; sembra non esserci nessuno ma poi la porta si apre: una ragazza bruna, dai modi bruschi, le informa che Diane si trova al numero 17 perché hanno scambiato l’appartamento. Dice di non vederla da qualche giorno e si offre di accompagnarle quando viene richiamata all’interno dal telefono che squilla. Intanto, per il fatto di non essere stata riconosciuta, concludono che Rita non può essere Diane Selwyn.
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Sequenza 27 All’appartamento 17 non risponde nessuno. Betty decide comunque di entrare attraverso una finestra. Una volta dentro – le tende sono tirate, regna l’oscurità – le due donne sono sopraffatte da un odore sgradevole; nel frattempo, l’inquilina del 12 esce di casa per raggiungere Betty e Rita, le quali scoprono in camera da letto un cadavere in decomposizione. Escono impaurite, mentre la ragazza bruna, non trovandole, ha fatto ritorno al proprio appartamento. Sequenza 28 Tornate a casa, Rita, in lacrime, comincia a tagliarsi furiosamente i capelli; Betty la ferma: le dice di capire che cosa ha intenzione di fare e desidera aiutarla. Poco dopo, Rita ha una nuova acconciatura: capelli biondi e corti, appena sotto l’orecchio. Ma si tratta di una parrucca. Sequenza 29 A casa di Ruth, notte. Betty invita Rita a raggiungerla a letto anziché dormire, per la seconda notte, sul divano, e la vicinanza dà luogo a un rapporto sessuale; Betty le confessa di essersi innamorata. Poco dopo, ancora addormentata ma come in trance, Rita pronuncia le parole: «Silencio, silencio, silencio. No hay banda, no hay banda. No hay orquesta. Silencio…». Betty si sveglia e la scuote e quando Rita si riprende le chiede di accompagnarla in un posto. Subito. Sequenza 30 Betty e Rita in strada, chiamano un taxi e raggiungono il club Silencio. Dal palco assistono all’esibizione di un pre-
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sentatore che, dopo aver esclamato più volte «No hay banda. There is no band. Il n’y a pas de orchestra», fa entrare la cantante Rebekah Del Rio, che esegue Llorando. Ma poco dopo cade svenuta, mentre la canzone continua, rivelando il play-back (il presentatore aveva detto: «Tutto è registrato»). Rita e Betty ascoltano commosse fino alle lacrime; quest’ultima, frugando nella borsetta, ne estrae un cubo blu con, su uno dei lati, un’apertura triangolare. Sequenza 31 Tornano di corsa a casa: la fessura sul cubo sembra fatta apposta per accogliere la chiave trovata assieme ai soldi nella borsetta di Rita. Ma una volta in camera da letto, Betty scompare. Dopo averla chiamata diverse volte, Rita decide di aprire il cubo. Gira una volta la chiave, verso destra. L’interno è nero. La macchina da presa vi si immerge. Sequenza 32 La scatola cade sul pavimento della camera da letto. Attraverso un complicato gioco di dissolvenze incrociate, si passa dall’appartamento di zia Ruth a una stanza da letto in cui dorme una donna, di spalle; entra il Cowboy dicendole di svegliarsi. Dissolvenza. Di nuovo il Cowboy. Dissolvenza. Qualcuno bussa. Un’immagine simile ma non identica alla precedente: cambia la luce e sul letto sembra esserci un’altra donna (bionda anziché bruna) vestita diversamente (con un négligé grigio anziché nero). La ragazza di sveglia, si direbbe Betty ma il suo nome è Diane: così la chiama la ragazza bruna di Sierra Bonita (sequenza 26), a cui apre dopo averla fatta bussare a lungo; una vol-
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ta dentro, preleva alcune cose sue rimaste nell’appartamento. Sul tavolino si nota una chiave blu. Sequenza 33 Mentre si prepara un caffé, Diane crede di vedere una donna bruna e attraente, ma è solo una visione. Sembrerebbe Rita ma si chiama Camilla. Sequenza 34 Subito dopo, un flashback: Camilla, seminuda, stesa sul divano. Anche Diane, adesso, è seminuda; si baciano ma Camilla le dice di smettere. L’altra protesta pregandola di non dire mai più una cosa del genere, ma Camilla ribadisce la sua intenzione di interrompere la loro relazione. «È a causa di lui?» chiede Diane. Sequenza 35 «Lui» è il regista del film di cui Camilla è l’interprete principale e Diane una comparsa. Sul set, il regista – Adam – spiega all’attore una scena in cui deve baciare la ragazza. Adam chiede a tutti di uscire, ma Camilla ottiene che Diane, poco distante, resti. Adam e Camilla si baciano con passione, e poco prima che il regista chieda di spegnere le luci, Diane scoppia a piangere. Sequenza 36 Diane, sulla porta, spinge Camilla fuori dal suo appartamento: «It’s not easy for me», le grida, in lacrime. Rimasta sola, disperandosi, si masturba.
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Sequenza 37 Suona il telefono in camera da letto; è lo stesso telefono nero, con accanto una lampada rossa e un posacenere pieno di sigarette, della sequenza 6. Parte la segreteria: è il messaggio («Hallo, it’s me, leave a message») udito da Rita e Betty nella sequenza 18. Diane va a rispondere, vestita con un elegante abito nero, pronta per uscire. Camilla le dice che l’auto la sta aspettando per portarla al 6980 di Mulholland Drive. Diane spegne la luce. Nero. Sequenza 38 Il cartello stradale con l’indicazione Mulholland Dr. Una limousine nera procede nella notte: musica e modalità di montaggio ricordano da vicino quelle della sequenza 2; e come Rita nella sequenza 2, Diane, sorpresa dal percorso, esclama: «What are you doing? We don’t stop here». L’autista le annuncia una «sorpresa»: aprendo la portiera, vede spuntare dal buio Camilla, che l’accompagna alla villa di Adam attraverso un «passaggio segreto». Giungono mano nella mano e ad aspettarle c’è il regista; brindano all’amore prima di essere richiamati da Coco, la madre di Adam, identica alla custode del complesso residenziale in cui vive Ruth. Sequenza 39 A tavola, poco dopo, Diane risponde alle domande di Coco: le racconta di essere nata a Deep River, in Ontario, di aver sempre desiderato trasferirsi a Hollywood, di aver vinto un concorso di danza che l’ha poi condotta verso la recitazione, e di aver ricevuto in eredità un po’ di soldi la-
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sciatigli da una zia che abitava lì, a Hollywood, e che lavorava nel cinema. Diane spiega di aver conosciuto Camilla sul set di Sylvia North Story (è il titolo del film per cui fa i provini Adam nella sequenza 25), diretto da Bob Brooker (lo stesso del provino di Betty della sequenza 24). Alla festa si trovano altri personaggi già incontrati precedentemente: uno dei fratelli Castigliane, Camilla Rhodes (che dice qualcosa all’orecchio di Camilla prima di darle un bacio sulla bocca), il Cowboy. Adam richiama l’attenzione degli invitati, per annunciare che lui e Camilla… Diane rovescia una tazzina. Sequenza 40 Diane, al Winkie’s della sequenza 5 e 18 assieme a Joe (già visto nella sequenza 11), si volta di scatto: qualcuno ha fatto cadere qualcosa. Una cameriera di nome Betty versa loro del caffé. «This is the girl», dice Diane porgendo una foto di Camilla (dalla foto apprendiamo che il nome completo è Camilla Rhodes, lo stesso della «ragazza» che i fratelli Castigliane hanno cercano in precedenza di imporre ad Adam). Il killer mostra a Diane una chiave blu, identica a quella della sequenza 31: le dice che quando tutto sarà finito la troverà a casa sua. Sul fondo del locale Diane scambia un occhiata con Dan (protagonista della sequenza 5). Dissolvenza incrociata Sequenza 41 In un angolo di strada pieno di fumo, illuminato in modo intermittente di rosso e di blu, un uomo malvestito, con i capelli lunghi e il volto deturpato (simile al «barbone» so-
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gnato e poi visto da Dan), rigira tra le mani un cubo blu, prima di infilarlo in un sacchetto di carta che lascia poi cadere. All’immagine in primissimo piano del cubo nel sacchetto si sovrappone quella di Irene e di suo marito: a dimensioni ridotte, e muovendosi in modo accelerato, escono dal sacchetto ridendo come di consueto. Sequenza 42 La chiave blu sul tavolino a casa di Diane. Sembra di essere tornati alla sequenza 32 (il posacenere non c’è più; Diane veste l’accappatoio che aveva indossato alzandosi da letto; ma adesso fuori è buio, mentre prima era giorno). Qualcuno bussa; Diane, di soprassalto, si volta, ma non può vedere i due anziani in «formato ridotto» che penetrano nel suo appartamento dalla fessura tra la porta e il pavimento. Qualcuno bussa ancora e ancora; intanto, comincia a lampeggiare un’innaturale luce azzurra. Diane si alza di scatto, mentre sale il rumore (anch’esso «esterno») di grida femminili: i due anziani, con i loro sorrisi stampati in volto, sono adesso a grandezza naturale e inseguono la ragazza. Diane fugge, grida, si dispera. Cade sul letto, allunga una mano verso il cassetto del comodino, estrae una pistola e si spara in bocca. Silenzio, fumo, luce blu intermittente. La scena scompare dietro una spessa cortina azzurrina. In dissolvenza incrociata si sovrappongono il volto del barbone, un esterno di Los Angeles dall’alto, un primo piano di Diane sorridente, un secondo primo piano dove è accanto a Camilla (con la parrucca bionda), altrettanto felice.
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Sequenza 43 La dissolvenza termina sul palco del club Silencio. Una donna con una vistosa parrucca blu – che nella sequenza 30 si intravedeva per un istante seduta, da sola, in un palco – sussurra «Silencio». Dissolvenza al nero.
Mille e una critica
Critica alla critica Il destino critico di Mulholland Drive possiede qualcosa di sottilmente ironico: a quella specie di avvertimento o consiglio su cui si chiude il film – Silencio –, ha infatti risposto il rumore a dir poco assordante di un fiume di parole (perlopiù scritte) che lo hanno a poco a poco circondato, fino a soffocarlo, di una fitta coltre di commenti e interpretazioni ormai inseparabili dal film stesso. A rispettare il silenzio – fedele a un codice di comportamento ormai abituale – è stato soltanto il regista. Il quale, tuttavia, consapevole forse (dell’ironia) della sorte a cui sarebbe andato incontro il film, una volta tanto si è concesso qualcosa di più del solito commento evasivo, regalando agli spettatori dieci indizi inseriti poi tra gli extra della special edition del Dvd 1. Dieci indizi che però, in fondo, non servono a nulla, se non a produrre l’effetto contrario, ossia a moltiplicare i dubbi e a rilanciare con maggior forza l’invito al silenzio: perché, come si chiarisce proprio all’inizio del film, gra-
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zie ai due investigatori ebeti richiamati sul luogo dello scontro tra la limousine su cui viaggia Rita e una macchina lanciata a folle velocità, il metodo indiziario (già sbeffeggiato in Strade perdute) ha scarse possibilità di arrivare a dire qualcosa sul mistero di Mulholland Drive (la strada e il film). Quei dieci indizi, in fondo, servono soltanto a confermare l’esistenza di un mistero, che è poi ciò che preme a Lynch («Per me il mistero è una calamita»). Non mettono su nessuna pista giusta né indicano un metodo alternativo. A ben vedere, suggeriscono soltanto di prestare attenzione ai particolari (Fai caso…, Hai sentito…); di guardare e ascoltare meglio, di esercitare più profondamente la vista e l’udito, di richiamare all’appello tutto il potere dell’occhio e dell’orecchio. Invitano insomma a restare raccolti nell’indagine visiva e sonora e nell’incanto della contemplazione, a prolungare il tempo della domanda e, forse, a disattendere quello della risposta. Forse, addirittura, a sospendere il giudizio, ad allentare le trame del ragionamento e a rimandare le conclusioni. A fare silenzio, appunto. Il mistero, almeno in parte, deve restare irrisolto, sospeso nella moltiplicazione delle curve delle soluzioni possibili. Perché il mistero, in Lynch, non sfocia mai nella chiusura «razionale» di un intrigo complesso o sfuggente o, in termini funzionali, non si risolve semplicemente nell’innesco della curiosità e dell’attenzione dello spettatore. Piuttosto, essa assume la forma di una matrice attiva, di un’apertura al senso continuamente rilanciata e di una condizione esistenziale, per il racconto e i suoi elementi, sottratta alla possibilità, cognitiva ed etica, della soluzione, o almeno di una soluzione giusta, e una soltanto.
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Il problema, poi, con Mulholland Drive (e con buona parte dei film del regista) è che i misteri sono molti, non uno soltanto (dieci indizi, allora, non possono certo bastare); troppi, forse, e di natura diversa 2: ci sono misteri interni al film, che interessano il piano della storia e si originano, a cascata, dal tentato omicidio di Rita (attorno al quale si sviluppano numerose sottotrame più o meno irrisolte); ci sono misteri che riguardano il piano del racconto e chiamano direttamente in causa il funzionamento del linguaggio cinematografico, a partire dall’opacità con cui si incastrano e rimandano la prima e la seconda parte del film; ci sono, ancora, diverse modalità di costruzione del mistero: per sottrazione o per ellissi di informazioni o porzioni della storia, per incongruenza logica, per un’ambiguità diffusa dei personaggi e degli eventi, per il mancato o eccentrico funzionamento di classiche strategie discorsive del cinema. Ci sono, infine, forme del mistero diverse: dal più tradizionale whodunit ai più profondi cortocircuiti cognitivi, che interessano direttamente le modalità con cui lo spettatore è abituato a processare e articolare il racconto dell’esperienza, dentro e fuori la sala cinematografica. Di fronte a una simile declinazione del misterioso in forme molteplici e dalla portata differente, l’urgenza del commento, della spiegazione e della riduzione del film a un’unità afferrabile e comprensibile si impone quasi subito, e Mulholland Drive diventa soprattutto un film da capire o, meglio, da risolvere, fronteggiando in primo luogo – e spesso esclusivamente – la sua trama rompicapo; ma, dall’altra parte, sembra affacciarsi con altrettanta forza e legittimità ermeneutica un’attrazione tipicamente modernista
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per il rispetto dell’oscurità semantica, che tanto più nel caso di prodotti (audio)visivi dovrebbe scoraggiare dalla verbalizzazione (sempre un po’ riduzionista), incoraggiando invece tutta una serie di pratiche di lettura più «rispettose», dalla contemplazione partecipativa alla celebrazione a un silenzioso godimento estetico sbilanciato verso il piano del sensibile, anziché del cognitivo. A spartirsi il campo, insomma, sono due opposti atteggiamenti estetici, due diversi modelli di relazione tra spettatore e film e, non da ultimo, due differenti idee sul ruolo della critica e del commento nella ricezione e «divulgazione» del film (non soltanto quello di Lynch). Ma spesso, in entrambi i casi, sui fronti opposti della lettura «sensibile» e dell’ossessione per la comprensione esaustiva della fabula, quel che manca è proprio l’interpretazione: non a caso, «le analisi migliori di Mulholland Drive sono giochi di equilibrismo», in «perfetto bilanciamento tra ricchezza sensoriale, mistero e comprensibilità narrativa» 3. Il mistero di Mulholland Drive finisce insomma per ribattersi sulle dinamiche originarie e fondamentali della relazione estetica tra opera e fruitore: solleva, prima di tutto, un problema relativo alle strategie con cui avvicinarsi al testo, appropriarsene e parlarne, ponendo in secondo luogo la questione della definizione dell’opera e del suo godimento. Perché non v’è dubbio che anche il «piacere» dello spettatore (non dello spettatore lynchiano, che possiede una storia, un profilo e un’attrezzatura interpretativa già ampiamente spuntati dai precedenti) finisce per oscurarsi un po’, senza però perdersi, non risiedendo in tradizionali meccanismi di identificazione/proiezione, sfuggendo il ri-
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torno accomodante e soddisfacente di figure, schemi narrativi e atteggiamenti morali, e narcotizzando la vibrazione di un contenuto passionale univoco e prevedibile. Il piacere deriva semmai dal «lavoro» cooperativo – straordinario per forma e durata – che Mulholland Drive domanda (ma in fondo impone) al suo spettatore: il film si deve interpretare fin da subito, mentre ancora scorre davanti a noi, richiamandoci a un impegno analitico e a una partecipazione cognitiva non comuni, per profondità e tempistica, e senza troppo aiutarci sulle manovre più giuste da compiere e senza mai pronunciarsi sulla maggiore o minore felicità delle conclusioni. Lavoro di «testa» a cui però s’affianca – talvolta dirottandolo o distraendolo – un richiamo altrettanto forte a un piacere tutto di «pancia» 4, avvolgente e trascinante, fondato sulla particolare pienezza sensoriale dell’immagine lynchiana. Il film, del resto, lancia la sua sfida emerneutica in modo esplicito, non soltanto globalmente, ma anche attraverso la presenza di veri e propri spazi «teoretici», sospesi e narrativamente isolati, come la prima scena presso il Winkie’s, l’incontro tra Adam e i finanziatori del film e, soprattutto, la sequenza del Club Silencio: momenti in cui Lynch sembra, tra le altre cose, giocare con se stesso e con i moduli più codificati del suo cinema (perché Mulholland Drive è anche questo: un centone di figure e stilemi lynchiani); «punti di vibrazione» del testo – per dirla con Paolo Bertetto – che chiamano direttamente in causa lo spettatore e sembrano offrirgli una possibile chiave d’accesso (ma dalla forma e dal colore inusuali) alla comprensione del film. Il solo tentativo di riassumerlo 5, per esempio, im-
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pone già una scelta interpretativa forte e in fondo definitiva. Ma mentre la impone (nel momento stesso in cui la impone), il film – come detto – sembra anche sottrarsi a una lettura preferenziale: gli indizi, in fondo, sono troppi, e di natura diversa, come i misteri. La pluralità di Mulholland Drive ne fa insomma un classico testo aperto (o forse, e meglio, non chiudibile): non dunque, come troppo spesso si vuole intende con questa etichetta, un testo irrisolto o abbandonato a se stesso, a cui il motto di Valéry – Il n’y a pas de vrai sens d’un text – si adatterebbe alla perfezione, suggerendo che dell’opera in questione si può fare e dire qualsiasi cosa; ma, al contrario, un testo in cui la sorte del proprio lettore è prevista all’incrocio tra dirigismo autoriale e libera avventura interpretativa; un testo in cui, per quante interpretazioni siano possibili, l’una finisce col riecheggiare l’altra, senza produrre fenomeni di esclusione ma di rimando e rinforzo reciproco 6. Come a dire, per altro verso, che non esiste un’interpretazione «giusta» ma una gradualità interpretativa che conosce i propri limiti, sia verso il basso sia verso l’alto, e che però, al tempo stesso, non li afferma ed esplicita né, di conseguenza, li impone allo spettatore, come accade di norma nel quadro del consumo di prodotti di massa quali sono i film. Un buon modo per cominciare a fare i conti con Mulholland Drive sembra allora quello di comprendere meglio in quali termini si realizza questa apertura, quali elementi garantisco al testo la sua particolare articolazione, su quali appigli finisce per scivolare – perché il testo aperto è, per definizione, scivoloso, imprevedibile, irregolare. L’avven-
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tura interpretativa, di fronte a Mulholland Drive, deve partire da qui, dal «disegno irregolare delle sue vene», per citare una bella e calzante immagine di Roland Barthes relativa alla resistenza che certi testi dispiegano nei confronti del loro lettore: non per ridurne la complessità, sorvolare sulle deviazioni meno evidenti e lavorare necessariamente per via analogica, facendo di un modello apparentemente rizomatico e caotico una struttura semplice e ripulita, vicina e familiare (perché in fondo, restando al piano delle vicende rappresentate, «almeno una ipotesi narrativa capace di contenere la maggior parte degli elementi raccontati è individuabile in tutti i film dell’autore» 7). Si tratta, al contrario, di confrontarsi direttamente con l’irriducibilità di una lettura uniformante e con l’apparente imprendibilità del testo e interrogarsi sulle ragioni che le fondano. Si tratta, in altre parole, di volgere una domanda alle strategie su cui si regge la poetica del mistero che circonda Mulholland Drive, piuttosto che affrettarsi a risolvere i misteri che lo attraversano, e lasciare, almeno in parte, il film alla sua lontananza e alla sua apertura, ma non per questo rinunciare all’analisi – meglio, all’interpretazione – e assecondare una «poetica» (spettatoriale) del silenzio: qualsiasi tentativo di descrizione-costruzione esplicita di un enunciato, dal più piccolo al più grande, ne postula la leggibilità 8. Accettare la sfida dell’intelligibilità di certe opere, infatti, non significa negarne la specificità poetica o culturale. Significa, semmai, ipotizzare un’intelligibilità altra: questa, per lo spettatore e per il critico, è la sfida sottintesa da Mulholland Drive. Ed è così che il film può infine trasformarsi da semplice «testo da analizzare» in vero e proprio
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banco di prova per l’analisi stessa, per i sentimenti che la animano e guidano e, secondo Claudio Bisoni, per la sua stessa validità o presunzione di esaustività: Sul piano dell’interpretazione […] il film scatena l’impulso ermeneutico, il desiderio di reperire significati e di svelare gli enigmi, legittima questo desiderio per poi negarlo, per denunciarne tutta l’inadeguatezza. 9
Di fronte a Mulholland Drive, qualsiasi pista metodologica e qualsiasi raccolta di dati, per quanto minuziosa, finiscono infatti per risultare insoddisfacenti, incapaci di coprire tutto (o tutti) il mistero del film o, se non sfiorate dal dubbio di un’incompiutezza quasi ontologica, per imporre al testo torsioni eccessivamente autoritarie. «Magnete che restituisce alla teoria l’immagine della sua incompletezza e parzialità» 10, Mulholland Drive va percorso con la prudenza sventata dell’equilibrista, stando in bilico sulle sue corde tese. Il che non significa promuovere un atteggiamento di relativizzazione «bipartisan» ma, al contrario, postulare, per la critica, una specie di «mimesi comportamentale» delle oscillazioni materiche, dimensionali e di sguardo caratteristiche del mondo del film; il che, tradotto in pratica, invita a una spigolatura «locale», ma non per questo parziale, sulla scena estetica e (meta)teorica di Mulholland Drive: invita a testimoniare della sua pluralità e multidimensionalità (magari proprio attraverso lo scacco dell’incompletezza), sfuggendo al contempo la trappola del metodo e l’abbaglio dell’esaustività. Far avanzare il film, facendo seguire tutto il resto:
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nel rispetto dei suoi misteri, compreso quello della sua interpretazione.
Tre per due: i misteri dell’interpretazione Il tratto più appariscente della poetica del mistero su cui si regge Mulholland Drive riguarda la sua (apparente) struttura duale, la cui spiegazione ha stimolato, tra l’altro, il ricorso a teorie fisiche, matematiche e filosofiche, alla ricerca, talvolta felice, altre volte solo curiosa, di modelli alternativi alla logica euclidea, grazie ai quali descrivere la particolare composizione dell’universo spazio-temporale del film 11. Mulholland Drive, in effetti, dopo poco meno di due ore – dopo la sparizione di Betty e l’ingresso della macchina da presa nel nero della scatola blu, immediatamente dopo la sequenza ambientata al Club Silencio –, sembra ricominciare e in parte ripetersi sotto un’altra forma, a causa del ritorno, variato, di personaggi, scene e situazioni, ma anche di frasi e inquadrature, già visti o uditi in precedenza. Si impone dunque, tra le due porzioni del racconto, un rapporto e la possibilità di una relazione, fondata però su principi e logiche sfuggenti, riconducibili all’ampio spettro tipologico della ripetizione. Problema non di sostanza (che cosa si ripete) ma di forma: si va infatti dalle sfumature del déjà-vu (il Cowboy, i fratelli Castigliane o la «prima» Camilla Rhodes, presenti nella seconda parte come risonanza pura di un effetto-ritorno), a un quasi come enigmatico e enigmistico (le modalità di regia delle due sequenze am-
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bientate al Winkie’s), dal rinnovamento del ruolo o della funzione di elementi plastici e figurativi già incontrati (Coco) alla variazione analogica di un modello, come in un test di psicologia visiva (le due chiavi blu) 12. Al tempo stesso, finisce per assumere valore anche tutto ciò che non si ripete o non si trasforma, ma semplicemente si perde: Mr. Roque e la trama mafiosa legata al mondo del cinema, oppure la storia del «libro nero». La via di fuga privilegiata di fronte a questa vertiginosa declinazione della duplicità – comune, del resto, ad altri film di Lynch, anche se in Mulholland Drive, per la prima volta, essa assume caratteri così pronunciati e, al tempo stesso, indecifrabili – imbocca normalmente la soluzione di un rapporto sogno/realtà tra i due segmenti del racconto, anche in virtù delle cerniere figurative (peraltro ambigue) di un soggetto addormentato e forse sognante che aprono e chiudono il primo (sequenze 1 e 32). A sostegno di questa ipotesi concorrono inoltre sia la ben nota insistenza di Lynch sul valore del sogno quale esperienza originaria dell’atto creativo e la parentela, più volte rimarcata dal regista, tra scrittura cinematografica e dimensione onirica 13, sia l’esempio del precedente Strade perdute, dalla struttura affine, almeno all’apparenza, a quella di Mulholland Drive, e per il quale si è parlato altrettanto volentieri di un rapporto di rispecchiamento tra una prima parte «reale» (fino al momento in cui Fred viene arrestato) e una seconda parte onirica o allucinatoria, coincidente con la sua trasformazione in un doppio «attivo», Pete 14. All’interno di questo quadro interpretativo, la prima parte di Mulholland Drive, più esattamente, rappresente-
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rebbe uno sbandamento onirico governato – in termini ricoeuriani – da una riconfigurazione desiderativa degli eventi, innescata dal senso di colpa di Diane per aver commissionato l’omicidio di Camille; la realtà sarebbe invece raffigurata nella seconda, e riordinata per mezzo di una serie di flashback. Per accogliere tale soluzione appare necessaria soltanto un piccola contromossa strategica: superare l’impasse retorica di una dispositio poco comune, col sogno o la proiezione che non seguono lo svolgimento del racconto «reale», né vi si incuneano come accade normalmente 15, ma lo precedono e lo doppiano, sviluppandosi smisuratamente e in assenza di una segnaletica tradizionale. La torsione, dal piano narrativo, si rilancia poi a quello cognitivo, costringendo lo spettatore a un specie di rewind mentale, dato che la prima parte sarebbe la «logica» trasfigurazione di ciò che è rappresentato nella seconda. Per comprendere quest’ultima è dunque necessario, giunti a un certo punto del racconto, tornare indietro 16, rimestare nella sintesi memoriale a cui è andata inevitabilmente incontro la visione/lettura del film fino a quel momento (forzatamente orientata dallo svolgimento lineare della pellicola) e procedere a una ricomposizione dagli esiti tutt’altro che univoci 17. A suggerire questa possibilità contribuisce proprio la logica oscura con cui numerosi elementi testuali (nomi, personaggi, situazioni, luoghi, dettagli biografici…) si riaffacciano, nel segno della ripetizione differente, dalla prima alla seconda parte, in presenza di un significativo cambiamento di registro e tono che non lascerebbe dubbi sul maggiore «realismo» della seconda. La quale, inoltre, serve, dal
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punto di vista semantico e narrativo, la prima: sembra infatti illuminare – almeno superficialmente – i rapporti tra i tanti episodi dispersi da una sintassi ellittica e apparentemente attrattiva, anziché causale, dipendente da una grammatica del desiderio, sussultoria e privata, caratteristica di una scrittura onirica o allucinata. Il sogno emerge dunque come strategia di traduzione e riscrittura, in positivo, delle frustrazioni di Diane, attrice mediocre e amante rifiutata. L’onirismo si sostituisce alla realtà, liberando un orizzonte di possesso e soddisfazione: Camilla diventa Rita, non semplicemente innamorata di Betty ma letteralmente dipendente da lei a causa della sua condizione amnesica, mentre il successo d’attrice appare ormai scontato dopo il sorprendente provino sostenuto davanti a Bob Brooker (il regista che, come racconterà Diane nel corso del party a casa di Adam, l’ha relegata a un ruolo secondario, preferendole Camilla per la parte principale di Sylvia North Story). In breve, il primo e più lungo segmento del film ospiterebbe il sogno di un nuovo inizio – una nuova città, una nuova casa, una nuova amica/amante, una nuova carriera – contro la putrefazione della realtà (a cui rimanda drammaticamente il cadavere nella casa di Camilla Rodhes), in cui tutto, al contrario, sta per finire, o è già finito, nell’omicidio o nel suicidio, ma anche nel futuro matrimonio tra Camilla e Adam. Tutto, nel sogno, si trova di conseguenza riarrangiato secondo una melodia più gradevole (come i temi sonori che commentano l’esplorazione stupefatta di Los Angeles da parte di Betty o la sua intimità con Rita), attualizzando un orizzonte di virtualità che, nella dimensio-
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ne della veglia, si trova ormai marchiato da un evidente certificato di impossibilità 18: così, per fare solo qualche esempio, la madre di Adam diventa l’autoritaria ma affettuosa Coco, un uomo di passaggio al party si trasforma nell’enigmatico Cowboy, la chiave blu – segno che Camilla è stata uccisa – è adesso un curioso oggetto che apre una scatola a forma di cubo, mentre l’odiato Adam viene punito attraverso una lunga serie di umiliazioni, sia coniugali sia lavorative… Ammettendo questa soluzione, la ricostruzione della fabula sembra non incappare in alcun ostacolo, e diventa facile riordinare il tempo della storia secondo una sequenza logica che, nel distinguere tra sogno e realtà, ristabilisce i legami tra le due parti, riposizionando dimensione onirica e dimensione reale secondo rapporti genetici e funzioni tradizionali. Riassumere non pone più alcun problema: Una giovane donna di nome Diane, arrivata a Hollywood per tentare la carriera d’attrice, si innamora di Camilla, che ha più fortuna di lei nell’ambiente e che in un primo momento la ricambia; quando poi quest’ultima si mette con un giovane regista di grido e ha tutta l’aria di volerla scaricare, Diane, in preda a gelosia e disperazione furibonde, assolda un killer per ucciderla; a omicidio compiuto, travolta dal senso di colpa e dalla convinzione di essere già una fallita, «bruciata», dopo un lungo sogno in cui ha rivissuto la storia con Camilla in un trionfo di sostituzioni, condensazioni, transfert, premonizioni e qualcosa d’altro, incalzata dai suoi fantasmi si uccide. 19
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Il «punto di crisi» del film sarebbe dunque rappresentato da una discrepanza non comune (perché non ordinata e non marcata secondo procedure tradizionali, e neppure assimilabili a certe libertà che ormai caratterizzano – senza più sorprendere – il cinema contemporaneo, d’autore e non) tra la sequenza testuale degli eventi e il loro ordine cronologico. La chiave di volta di questa impalcatura diventa, nella seconda parte, il flashback (figura molto cara a Lynch, che ne ha fatto spesso un uso eccentrico 20): dopo il risveglio dal sogno che occupa la prima, e subito dopo l’allucinazione che, per un istante, le fa credere di vedere Camilla nel bungalow, sorridente di fronte a lei, come se nulla fosse accaduto, Diane dà vita a un lungo flashback spezzato che giustifica il sogno, lo motiva e lo decifra, fino al ritorno al presente, in cui si compie il suicidio finale. Così, ad esempio, segmenta il racconto Paolo Bertetto 21: 1) Varie coppie di ballerini danzano il jitterbug; 2) Sogno di Diane; 3) Risveglio di Diane; 4) Allucinazione: Diane vede per un attimo Camilla nel bungalow; 5) Flashback: Camilla lascia Diane; 6) Flashback: sul set Adam bacia Camilla; 7) Flashback: serata da Adam. Adam e Camilla annunciano l’intenzione di sposarsi; 8) Flashback: Diane incarica un killer di uccidere Camilla; 9) Suicidio di Diane. Ne deriva la seguente fabula, ricomposta secondo l’ordine cronologico degli eventi:
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1) Varie coppie di giovani ballerini danzano il jitterbug; 2) Set del tournage del film. Camilla e Adam si baciano provando un ciak, sotto gli occhi di Diane; 3) Camilla rifiuta di far l’amore con Diane e la lascia; 4) Diane sente suonare il telefono e di notte va in auto da Camilla alla cena di annuncio del matrimonio tra Camilla e Adam; 5) Diane, abbandonata da Camilla, decide di farla uccidere e incontra un killer professionista a un Winkie’s; 6) Diane dorme a casa sua e fa un lungo sogno, che corrisponde alla prima parte del film; 7) Diane si risveglia e parla con la vicina di casa. La chiave blu sul tavolino rivela che l’uccisione di Camilla è stata effettuata; 8) Diane d’improvviso vede Camilla nell’appartamento: ma è soltanto un’allucinazione; 9) Diane disperata cade in preda a nuove allucinazioni e si suicida. Non diversamente, anche se all’interno di un orizzonte metodologico improntato alla semiotica greimasiana e nel quadro di una temporalizzazione degli eventi assai più complesso, ricompone il tempo della storia Pierluigi Basso Fossali nella sua recentissima monografia dedicata al regista: il presente sarebbe segnato dal sonno di Diane e dal suo risveglio finale, e articolato da un recupero «archeologico» del passato (la vittoria alla gara di jitterbug, il set di Silvia North Story, l’inizio del rapporto tra Diane e Camilla, il party a casa di Adam Kasher…) e da una prospettazione del futuro chiusa dal suicidio 22.
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Ma, posta questa articolazione, l’autore avverte giustamente che ricostruire banalmente la fabula, derealizzando tutto quello che lo spettatore ha visto per la prima metà del film, significa non comprendere affatto come quel (contro)sogno sia un percorso di salvezza simbolica (una redenzione da condividere idealmente con l’amata) che ha il potere posizionale di reinterpretare e risemantizzare la propria archeologia esistenziale. 23
Il tempo della lettura e della comprensione dovrebbero insomma assestarsi su una contemplazione altrettanto «veritiera» delle possibilità prefigurate e del passato rievocato, senza porle alle dirette dipendenze cronologiche e significanti di un reale «presente». Pur ammettendo un’articolazione binaria del film, Basso invita dunque a non appiattire la complessa trama temporale e modale del racconto (biografico) di Diane, mantenendo in vita tutto lo spettro delle virtualità narrative messe in gioco e in contrasto. L’indicazione è preziosa e funziona come una critica esplicita rivolta a quelle interpretazioni che, pur accogliendo concordemente la scansione sogno/realtà, corrono il rischio, da un lato, di ridurre tutta la prima parte del film a un prontuario psicoanalitico, attardandosi magari a definire l’esatta condizione «clinica» di Diane, e, dall’altro, di anestetizzarne completamente la portata semantica e «poetica», isolandola ermeticamente – e in deroga alle soglie deformi che la delimitano – come semplice fuga psicogena.
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Lo spettatore che mira a riconquistare il piano del presente – scrive ancora Basso – è esattamente quello che Mulholland Dr. prende di mira […] La gestione del senso procede su tutta la diffrazione possibile dei piani della sua sperimentazione (ricordi, sogni, prefigurazioni, modelli stereotipici introiettati, ecc.) e la narrazione esistenziale è esattamente ciò che non si racconta monodimensionalmente, in una concatenazione discorsiva di stati e trasformazioni. 24
L’ipotesi del sogno, in effetti – almeno in una sua versione «light» – è quella che, più di ogni altra, «monodimensionalizza» la partitura irregolare di Mulholland Drive, garantendo l’accettabilità logica e drammaturgica di tutta la prima parte, caratterizzata da un’organizzazione altrimenti inspiegabile degli eventi, sia al suo interno, sia in rapporto al seguito del film; e non diversamente appiattiscono le irregolarità del testo quelle letture che suggeriscono di sostituire la follia al sogno, individuando nello sdoppiamento del personaggio femminile interpretato da Naomi Watts la manifestazione di una condizione schizofrenica e rileggendo tutta la prima parte come la configurazione del delirio di Diane. Spiegazione che arriva dritta da Strade perdute, in cui lo slittamento identitario da Fred a Pete al centro del film è stato spesso descritto come la manifestazione delirante della «volontà di potere» del primo, che lascerebbe così una condizione passiva per abbracciarne una attiva 25. La popolarità di questo modello interpretativo è più che comprensibile (soprattutto da parte dei detrattori del regista o dello spettatore preoccupato di «non averci capito
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niente» 26), ma nel momento in cui si assume la scansione sogno/realtà come unico principio distintivo, non soltanto si attenta – come detto – alla complessa stratificazione del film e alla sua temporalità volutamente «impressiva» e decronologizzata, ma si finisce anche per isolare Mulholland Drive rispetto ai precedenti lynchiani, in cui l’onirismo assume di rado la forma pura (e semplice) del sogno, e in cui il rapporto tra veglia e sonno non si riduce mai a un passaggio di consegne simbolico di elementi in transito – problematico – dalla prima al secondo. A partire da Velluto blu Lynch ci ha piuttosto abituati a mondi dreamlike, governati da un’instabilità narrativa e da un’eccentricità figurativa che rimandano anche alla libertà grammaticale e visiva della dimensione onirica, senza tuttavia accontentarsi di una scrittura semplicemente «sbandata» o visionaria, e in cui sembra difficile se non impossibile (e comunque riduttivo e, in fondo, poco interessante) setacciare la rappresentazione allo scopo di isolarne i singoli elementi in vista di una sistemazione ordinata sulla base del loro «peso specifico» in termini di realismo. Il particolare e a volte paradossale arrangiamento dei mondi del cinema di Lynch si regge piuttosto sulla convivenza indeterminata (in termini relazionali) di una pluralità di modi di esistenza dell’immagine, e i loro personaggi, da Jeffrey a Betty, sperimentano, in praesentia, un ampio spettro di possibilità esistenziali e morali, e lo spettatore, con loro, una fenomenologia della «cosa» caratterizzata da una somma di percezioni concorrenti. Questa sorta di stereoscopia visiva e percettiva dell’azione non può che realizzarsi contro il dettato del tempo cronologico: il gesto che
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strappa il reale alla sua natura plurale e opaca, sottomettendolo all’ordine della «forma», è infatti già autorità, ideologia, scrittura in senso barthesiano (scrittura, cioè, come Legge, «registro legale di contrassegni indelebili, destinati a trionfare sul tempo, sull’oblio, sull’errore, sulla menzogna» 27). Lynch, al contrario, sembra muoversi (in modo inevitabilmente con-fuso) su un piano pre-categoriale, risalendo verso l’inizio, alla bruma delle sensazioni, delle emozioni e delle percezioni da cui prende forma la possibilità di una immagine (bruma informe che prende letteralmente corpo nel film, attraverso la nebulosa del Club Silencio e quella che inghiotte, alla fine, Diane); e così il tempo smette di contare e si allarga, spazializzandosi lungo l’asse orizzontale delle alternative possibili o delle metà invisibili o delle alterità nascoste. Torneremo più avanti su questi aspetti, precisandoli in rapporto a Mulholland Drive; vale però la pena di anticipare come il cinema di Lynch lavori esplicitamente verso una sottrazione del tempo del racconto alla cronologia orientata della successione (magari, proprio come accade in Mulholland Drive, introducendo una temporalità ritmica e non narrativa), sostituendolo con un principio della co-esistenza, in cui l’azione non si consuma, semplicemente, scorrendo, ma si manifesta come momentanea realizzazione in risonanza con ciò che non è ancora o ciò che è già stato, vale a dire con l’orizzonte delle rappresentazioni concorrenti e delle possibilità negate dalla realizzazione di un certo profilo della cosa, e uno soltanto. Non a caso, tutto il cinema di Lynch – e Mulholland Drive in particolare – è popolato di figure dell’apparizione e della sparizione, della
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manifestazione e della scomparsa, della presenza e dell’assenza, a indicare la fragilità dell’immagine in rapporto al reale, la sua costante ri-apertura, il conflitto tra le determinazioni del significare e il perenne sconfinamento del mostrare: l’immagine è «già da sempre aperta e, quindi, anche già da sempre fessurata: presenza come apertura e presenza come ciò che si dà in quanto aperto a» 28. A questa prima tendenza d’ordine psichico o mentale, e nei risultati linearizzante (sia sotto il profilo concettuale che in virtù dell’operazione di ricostruzione che compie in rapporto alla fabula), in cui l’interpretazione finisce per rintracciare, meglio che in altri casi, una coerenza testuale e che però, al tempo stesso, corre il rischio di comprimere la complessità del film 29, se ne può affiancare una seconda, più rispettosa della pluralità del testo e in fondo meno preoccupata di far tornare i conti. Un tendenza d’ordine ontologico, improntata, contrariamente alla precedente, a un regime della complessità, in cui al riduzionismo si sostituisce la contemplazione il più possibile «intatta» della caoticità del film e un’operazione concettuale di segno opposto: anziché adeguare il racconto a un modello comprensibile e familiare, trattandolo come gioco enigmistico o rompicapo, si tratta in questo caso di ammettere l’operatività di logiche e strutture altre, non necessariamente riferibili all’esperienza comune, non immediatamente descrivibili. Modelli matematici e oscillamenti filosofici sono i benvenuti. L’idea più ricorrente, in questo caso, è quella di un’organizzazione en abyme del racconto: per testare il funzionamento stesso del cinema, in equilibrio tra realtà e finzione,
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tra un fare «per gioco» e un fare «per davvero», dentro un grande jeu de piste in cui il cinema è soprattutto – ricorda Michel Chion sulle pagine di Positif – una «forma d’espressione tale che non importa che cosa, nell’opera, potrebbe costituirne la chiave definitiva, il dettaglio significante, il punto in cui le cose si intrecciano». In abisso, fino al punto in cui il film incontra se stesso, attorcigliandosi e chiudendosi ad anello. Per Olivier Joyard e Jean-Marc Lalanne dei «Cahiers du cinéma», per esempio, Mulholland Drive è soprattutto un dramma «strutturale», in cui all’ultima inquadratura potrebbe tranquillamente seguire la prima, poiché il film sembra poggiare su un’architettura circolare, ad anello. All’interno di questo specchiarsi dinamico, di questo riflettersi di spalle dell’identico, i personaggi incontrano se stessi, magari il proprio cadavere, e la sintassi del cinema si contrae in una sola figura: oggetto e soggetto coincidono, lo sguardo e l’immagine diventano una sola cosa. Il film assume, in breve, le fattezze di un nastro di Moebius, in cui «le due facce del nastro si voltano come le due facce interscambiabili di una sola e identica realtà, e la fine incontra l’inizio in una circolarità infinita» 30. Di qui, alcuni significativi décalage interpretativi verso l’esoterico o lo spiritico, con i fantasmi che lasciano il lessico psicoanalitico per prendere corpo e forma, aiutati magari dal ricorso alla teoria della trasmigrazione e sostenuti concettualmente dall’ormai nota frequentazione da parte del regista di pratiche di meditazione trascendentale. Tutta la lettura di Hervé Aubron 31 – che in realtà contro questa deriva in odore di new age si scaglia nelle prime pagine del suo saggio – rimanda a una dimensione popolata di es-
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seri immateriali; chiama i fantasmi «anime», la trasmigrazione «metempsicosi» ma l’immagine complessiva a cui rinvia la sua analisi è quella di un mondo inquieto di apparizioni in cui si celebra soprattutto il conflitto tra materiale e immateriale, spiriti-membrane e corpi-immagine, reale e virtuale. Il ricorso a Leibniz (via Deleuze) e all’immagine (opportunamente rivista e corretta) del «tessuto d’anime» offre a Aubron uno spessore speculativo grazie al quale l’interpretazione si allarga quasi subito, lasciando il piano testuale per intercettare più ampie questioni d’ordine filosofico come, per esempio, il conflitto tra paradigma virtualista e paradigma ecologista. Questa seconda tendenza – al di là della validità e dell’interesse offerto da alcuni spunti interpretativi – sconta, tra le altre cose, una debolezza argomentativa molto pronunciata: preso così, Mulholland Drive finisce spesso per consumarsi nel gioco dell’eterno rimando (magari a se stesso) o nel piacere, anche un po’ gratuito, della «confusione» o nell’ammirazione per un certo virtuosismo narrativo, o, ancora, e viceversa, per trasformarsi nel testimone tutto sommato indifferente di una speculazione filosofica che lo eccede. Il testo – il film, le sue storie, i suoi personaggi, e insomma il dettaglio – sfuma progressivamente nell’indistinto di un discorso aleatorio e generico, più che generale (non a caso, l’analisi dei «Cahiers» associa Mulholland Drive a Millennium Mambo [id., 2001, di Hou Hsiao-hsien]), fino a non valere quasi più nulla, se non, trasversalmente, come testimone o mediatore. Una parziale fuga dal testo, e da una certa tradizione critica, che finisce inoltre per legittimare qualsiasi discorso, senza il riferimento a un oriz-
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zonte di strumenti e metodi che, almeno in parte, possa certificare la validità dell’analisi e, soprattutto, sia in grado di connettere i risultati della ricerca al più ampio territorio dell’interpretazione filmica. Vorremmo citare, infine, una terza tendenza d’ordine più direttamente ideologico, che finisce per trattare il testo come se fosse – anche sotto il profilo narrativo e figurativo – un film «qualsiasi», provando ad assumere tutte le sue aritmie come inscritte in un continuum spazio-temporale, e impegnandosi – a differenza dell’orizzonte analitico appena descritto – in un close reading del testo. L’interesse analitico sorpassa insomma il valico tortuoso della struttura duale di Mulholland Drive, assorbendola nel quadro di una lettura uniformante. In un certo senso, e per contrasto, ricadono in questa terza categoria anche gli atti di rinuncia: a capire, ad analizzare, a risolvere. Il film emerge allora come una specie di monolito impenetrabile (anzi: inutilmente penetrabile) a cui abbandonarsi come di fronte a un tutto da assumere o rifiutare in blocco. Che lo si consideri uno scherzo o un gioco, un’opera-mondo da contemplare o un capolavoro intraducibile e inesportabile al di fuori del suo atto di presenza materiale ed estetico o, ancora, l’ennesimo deragliamento di un autore ormai «perduto» in una sorta di onanismo creativo 32, poco importa: l’interpretazione esce di scena a favore di una prensione totalizzante. Di ideologico – ma forse di dogmatico – c’è soprattutto lo scacco nei confronti dei ruoli (spettatore, critico, saggista…) e delle istituzioni (il cinema, la critica…) e la sospensione di un principio dialettico e interlocutorio tra oggetto e sguardo.
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L’intervento che più di ogni altro legittima questo terzo orizzonte di possibilità interpretative è il saggio di Martha P. Nochimson, «All I Need is the Girl»: The Life and Death of Creativity in «Mulholland Drive» 33, nel quale «la ragazza» e la sua progressiva decadenza vengono assunte come emblema della disintegrazione dell’industria hollywoodiana. Secondo la Nochimson, già autrice del fondamentale The Passion of David Lynch: Wild at Heart in Hollywood 34, il film conterrebbe al suo interno una specie di conflitto incontrollabile tra i desideri dell’Autore (Lynch, o forse meglio i suoi simulacri enunciazionali) e la forza contraria e distruttrice di Mr. Roque, che appare qui come il centro ordinatore delle trame che a poco a poco circondano e soffocano Betty/Diane e della definitiva putrefazione a cui sono desinati il musical di Adam, il corpo della «ragazza» e Mulholland Drive stesso. Il film risulta dunque una «revisione di ciò che aveva già attirato l’attenzione di Wilder [in Sunset Boulevard]: la transizione dalle umane speranze alla putrefazione» 35. Nel quadro di un continuità narrativa, Diane non è un’altra rispetto a Betty ma ne rappresenta una specie di «resto», incarnando la rovina di quest’ultima una volta stritolata dalle perverse macchinazioni di Mr. Roque, la cui vittoria sarebbe segnata – per fare un solo esempio – dall’invisibilità e dalla funzione che assume il Cowboy come stage manager di Diane. Betty diventa Diane procedendo verso una trasformazione disastrosa, attraversando uno spazio oscuro e dalla logica vicina a quella del sogno piuttosto che muoversi sulle linee certe di un plot causale. Mulholland Drive appare così una specie di morality play in
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cui Lynch mette in scena il conflitto tra la sconfitta e la speranza nel quadro della putrefazione del processo creativo all’interno dell’industria del cinema americano, «un’industria di vuoti e buchi neri creati dal potere nella ricerca del potere» 36. La lettura della Nochimson, senza prendere tangenti esoteriche o impantanarsi in sottili distinguo formali, è una delle poche che tenta di concepire il racconto come un percorso unitario, individuando tra l’altro una corrispondenza interna e stringente tra forma e contenuto: se il film prende le distanze dal classico plot strutturato attorno a un regime di causa/effetto, ciò è dovuto a una sorta di proibizione ammonitrice che arriva dritta dalle manovre di Roque e che ha di mira una vera e propria devastazione delle interconnessioni che determinano una percezione sicura e stabile della realtà. Dalla scatola blu, a un certo punto, non emergerebbe un altro film o la realtà ma un aspetto del racconto rimasto fino a quel momento invisibile, e che si annuncia solo adesso, sancendo la vittoria di Roque e la capitolazione dei sogni e della libertà degli altri personaggi (e, in fondo, dello stesso Lynch, impedito a dare una svolta diversa al suo film). Certo, il travestimento metaforico a cui la Nochimson sottopone l’analisi dei singoli elementi del film conduce talvolta a esiti poco condivisibili o a eccessi interpretativi, come quando intende l’azione di Roque, in quanto mediata dai fratelli Castigliane e dal Cowboy, come l’emblema della morte della cultura popolare in quanto forza vitale. Ma, d’altra parte, il deciso spostamento verso gli intrighi di Roque, vero e proprio narratore visibile soltanto allo spettatore e giustamente assente dalla
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seconda parte (il suo «lavoro» è ormai concluso), ha il vantaggio di porre al centro dell’analisi alcuni aspetti spesso trascurati, e particolarmente quelli relativi alla rappresentazione dell’industria hollywoodiana e alla natura metacinematografica del film 37. Aspetto che, valorizzato da altri studiosi, offre inoltre un’ennesima chiave d’accesso al trasformismo identitario dei personaggi principali: per Stephen Holden, ad esempio, Mulholand Drive è soprattutto una riflessione attorno all’allure hollywoodiana e al gioco di ruoli e di auto-invenzione che l’esperienza del cinema promette attraverso il processo (o, meglio, il sogno) dello star-making 38. Nella lettura della Nochimson tutto si tiene, spesso sorprendentemente, e se l’onirismo gioca ancora una volta un ruolo importante, non si arriva mai a parlare di sogni o incubi veri e propri: quello di Mulholland Drive è, semmai, un mondo dreamlike, progettato però attentamente, con estrema lucidità e razionalità, dall’alto del potere luciferino di Roque, in cui il controllo dell’autore si perde e l’immagine del corpo in putrefazione di Diane Selwyn – memento mori per la cultura popolare – si impone come effige dell’intero racconto.
I dieci indizi sono stati originariamente donati dallo stesso Lynch al quotidiano inglese «The Observer» che, nel gennaio del 2002, ha indetto un concorso tra i suoi lettori, invitandoli a riassumere in non più di trecento parole il senso del film. Gli indizi sono: 1) Presta particolare attenzione all’inizio del film: almeno due indizi vengono mostrati prima dei titoli di testa; 2) Fai caso alla comparsa dell’abat-jour rossa; 3) Hai
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sentito il titolo del film per il quale Adam Kasher sta facendo i provini delle attrici? Viene menzionato di nuovo?; 4) Un incidente è un evento spaventoso… Nota il luogo in cui avviene; 5) Chi dà la chiave, e perché?, 6) Fai caso all’accappatoio, al portacenere, alla tazza; 7) Che cosa viene percepito, realizzato e compreso al Club Silenzio?; 8) Camilla è stata aiutata solo dal proprio talento?; 9) Presta attenzione a quel che succede intorno all’uomo che si trova dietro al Winkie’s; 10) Dov’è la zia Ruth? 2 A proposito delle diverse forme che può assumere il mistero nel cinema di Lynch, si veda l’analisi di Roy Menarini nel suo Il cinema di David Lynch, Falsopiano, Alessandria 2002, pp. 16-17. L’autore propone una tripartizione che, in parte, si sovrappone alla nostra, distinguendo tra misteri di tipo sostanziale, che funzionano come motori di un’intera vicenda; misteri di tipo occasionale, ovvero elementi inspiegabili in grado di turbare gli eventi; misteri intesi come nonsense e circoscritti a una sequenza o a un comportamento anomalo. 3 Claudio Bisoni, Straight story/lost highway. «Mulholland Drive» e le sfide dell’interpretazione, in Claudio Bisoni (a cura di), Attraverso «Mulholland Drive». In viaggio con David Lynch nel luogo di un mistero, Il Principe Costante, Pozzuolo del Fruili 2004, pp. 14 e 28. 4 Su questa distinzione in rapporto al cinema contemporaneo, anche se con valori leggermente diversi, si veda Laurent Jullier, Il cinema postmoderno, Kaplan, Torino 2006. 5 «Mulholland Drive ne se résume pas… Essayez…»: così comincia il bel saggio di Georgy Katzarov interamente dedicato al film, L’invention du rêveur, Inventaire/Invention, Paris 2002, p. 7. 6 Su queste questioni, cfr. Umberto Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Bompiani, Milano, 1979, in particolare il terzo capitolo. 7 Roy Menarini, Il cinema di David Lynch, cit., p. 16. 8 Cfr. Jacques Geninasca, La parola letteraria, Bompiani, Milano, 2000, p. 192 sgg. 9 Claudio Bisoni, Straight story/lost highway, cit., p. 28. 10 Ivi. 11 Al di là della critica «ufficiale», il vero e proprio luogo di proliferazione delle teorie attorno a Mulholland Drive è rappresentato da Internet. Al sito
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www.mulholland-drive.net, per citare solo il più interessante e ricco di contenuti, si può leggere un gran numero di ipotesi, divise tra quelle «miste» («Dream & Reality»), quelle sbilanciate solo verso uno dei due poli («All dream e All real») e quelle orientate in chiave metafisica («Metaphysical Explanations»). Tra le più curiose, vale la pena segnalare quella che vede in Rita la reincarnazione del figlio abortito da Diane, e quella che considera lo sdoppiamento dei due personaggi femminili come il frutto di un patto col diavolo, a cui entrambe chiederebbero di cambiare le cose. 12 Un censimento delle diverse forme che assume la ripetizione all’interno del film (fondato però su un principio del «che cosa») si trova anche in Riccardo Caccia, «È lei la ragazza». Ripetizioni e ritorni in «Mulholland Drive», in Claudio Bisoni (a cura di), Attraverso «Mulholland Drive». In viaggio con David Lynch nel luogo di un mistero, Il Principe Costante, Pozzuolo del Fruili 2004, pp. 53-67. 13 Nel 2006, in occasione del Leone d’oro alla carriera assegnatogli dalla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, Lynch ha pubblicamente dichiarato di essere un adepto della meditazione trascendentale da oltre trent’anni. Il racconto della sua esperienza e un concentrato della disciplina si trovano in David Lynch, Catching the Bigh Fish. Meditation, Consciousness, and Creativity, Penguin, New York 2006. 14 Anche se, limitandoci al panorama italiano, la lettura più interessante (offerta da Pietro Montani in L’immaginazione narrativa. Il racconto del cinema oltre i confini dello spazio letterario, Guerini e Associati, Milano 1999, pp. 92-99) tende a escludere una simile bipartizione, rintracciando in Pete – che a un certo punto si sostituisce a Fred – un’istanza attanziale prodotta dalla necessità di quest’ultimo di riconfigurare la propria condizione di passività. Il segmento che ha per protagonista il giovane e attraente meccanico viene dunque inteso da Montani come il racconto del delirio di gelosia del musicista. Per una lettura sbilanciata invece sui valori percettivi e sensibili, di cui il film rappresenterebbe al tempo stesso un’indagine e una rivelazione in rapporto al mezzo cinematografico, si veda Guy Astic, Le purgatore des sens. «Lost Highway» de David Lynch, Rouge Profond, Pertuis 2004. Per una sintesi del dibattito critico attorno a Strade perdute (e per una proposta d’analisi sbilanciata verso l’allucinazione) si veda il recente Enrico Carocci, Tormenti ed estasi. «Strade perdute» di David Lynch, Lindau, Torino 2007.
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In realtà, chi ammette questa soluzione tende a riconoscere nel movimento di macchina che segue la scena del jitterbug la manifestazione del «dispositivo» narrativo (onirico) incarnato da Diane; dunque i «margini» del sogno sarebbero chiaramente segnati, fino al punto in cui la scatola blu cade dalle mani di Rita/Camilla, cominciando il risveglio di Diane, reso esplicito dall’ingresso del Cowboy che la invita ad alzarsi. 16 Il rewind in quanto strategia cognitiva, prima ancora che come procedura estetica, è una pratica ormai sempre più diffusa nel cinema contemporaneo: si pensi a Il sesto senso (The Sixth Sense, 1999, di M. Night Shyamalan) o a The Others (id., 2001, di Alejandro Amenabar), ma anche a Femme fatale (id., 2000, di Brian De Palma) o a Funny Games (id., 1997, di Michael Haneke), che lo visualizzano apertamente. 17 Si può notare che, anche nel caso in cui ci si allontani da questa proposta di interpretazione, resta vero che tutto ciò che segue la caduta della scatola blu, per il fatto di richiamare più o meno esplicitamente situazioni, elementi e soprattutto personaggi visti in precedenza a partire da una relazione di identità spesso puramente figurativa (mente cambiano i tratti definitori superficiali: nomi, psicologia, ruoli etc.), innesca un procedimento di rilettura a posteriori di quanto fin lì visto. Solo che, al di fuori della ratio ordinatrice della logica sogno/realtà, resta problematico il senso di questo ripescaggio memoriale, l’utilità dell’operazione e la sua architettura complessiva. Sui temi del tempo della lettura e della memorizzazione, si veda Cesare Segre, Le strutture e il tempo. Narrazione, poesia, modelli, Einaudi, Torino 1974, pp. 15-19 e, per un quadro più generale, alcuni dei saggi compresi in Robert C. Holub (a cura di), Teorie della ricezione, Einaudi, Torino 1989. 18 Quando, qui come in seguito, utilizzeremo i termini di «attualizzazione» o «virtualizzazione» (ma anche di «potenzializzazione» e «realizzazione»), lo faremo con riferimento agli studi di Jacques Fontanille (per una sintesi, si veda Jacques Fontanille, Claude Zilberberg, Valence/Valeur, Pulim-Presses Universitaires de Limoges, Limoges 1996). 19 Adriano Piccardi, Il tempo d’un sogno, «Cineforum», n. 413, aprile 2002, p. 3. 20 Mi permetto di rimandare al mio Sull’uso del flash-back nel cinema postmoderno: «Cuore selvaggio» di David Lynch, «Cineforum», n. 408, dove già si nota come il flashback si apra a usi non convenzionali: il ritorno all’in15
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dietro smarrisce le proprie marche enunciative per ripresentarsi e volutamente confondersi (un po’ come accadeva nel cinema delle origini, e un po’ come accade nella produzione d’avanguardia) con figure parenti come l’allucinazione, lo shining, la premonizione, la fantasticheria. 21 Paolo Bertetto, L’analisi interpretativa. «Mulholland Drive» e «Une femme mariée», in Paolo Bertetto (a cura di), Metodologie di analisi del film, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 233. Il saggio di Berretto, dopo aver dato ampio spazio a questa possibilità interpretativa (un sogno e un mondo in cui si mescolano presente e passato), ne elenca più succintamente altre: due sogni, due deliri di diversa intensità psicotica, due mondi paralleli, due mondi potenziali. 22 Cfr. Pierluigi Basso Fossali, Interpretazione tra mondi. Il pensiero figurale di David Lynch, ETS, Pisa 2006, in particolare pp. 397-455. 23 Ivi, p. 400. 24 Ivi. 25 Cfr. nota n. 14. 26 Sulle difficoltà che il cinema di Lynch, e non solo Mulholland Drive, pone sia al critico che allo spettatore, si veda, oltre ai testi già citati, Michele Marangi, Oltre «Twin Peaks». Fuoco sulle solite visioni, in AA.VV., David Lynch, Paravia, Torino 2000, pp. 113-123. 27 Roland Barthes, Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, Einaudi, Torino 1999, pp. 41-42. 28 Claudio Fontana, Prefazione a Mikel Dufrenne, L’occhio e l’orecchio, Il Castoro, Milano 2004, p. 13. 29 O moltiplicare esponenzialmente il gioco, come fa Georgy Katzarov nella prima parte del suo L’invention du rêveur, cit., in cui, ammettendo la biforcazione, sposta l’attenzione verso il problema del soggetto: l’interpretazione non è dunque più rivolta a stabilire che cosa è sogno e che cosa non lo è, ma a chiarire l’identità del sognatore (o, meglio, dei sognatori). Ma nella seconda parte del libro l’autore abbandona questa prospettiva per accoglierne una più interessata all’analisi dei dispositivi narrativi. 30 Thierry Jousse, «Cahiers du cinéma»: alla figura del nastro di Moebius («bucherellato», però) è ispirata anche la lettura, in chiave formalista, contenuta in Giudo Ferraro, Antonio Santangelo (a cura di), Semiotica: nel testo e oltre, Arcipelago, Milano 2003, pp. 201-244.
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Hervé Aubron, «Mulholland Drive» de David Lynch, Yellow Now, Crisnée 2006. 32 Sensazione che si è fatta più forte, in chi già la provava, dopo INLAND EMPIRE. Scrive per esempio Bruno Fornara, «Cineforum», n. 458, ottobre 2006: «Con Mulholland Drive molti cercarono di far quadrare i conti e ricomporre i pezzi del puzzle, avanzando ingegnose quanto vacue soluzioni. In realtà, già quel film era un puro elenco di luoghi lynchiani che non costruivano né un racconto né una mappa ma solo una galleria di visioni, spostamenti e incroci. In INLAND EMPIRE (tutto maiuscolo) la scelta è ancora più esplicita. L’impero interiore è borgesiano, lo si può cioè riprodurre soltanto così com’è, in scala 1:1, non va né interpretato, né reso intelligibile […] Lynch in tal modo si autoconsuma fino a rendere evidente il cul di sac dove finisce, quello di un cinema che porta al niente, che non porta a niente se non a visitare labirintici sotterranei che potrebbero continuare ad libitum, per film e film e film. Il gioco lynchiano è dichiaratamente e sovranamente sterile…». 33 In Erica Sheen, Annette Davison (a cura di), The Cinema of David Lynch. American Dreams, Nightmare Visions, Wallflower Press, London 2004, pp. 165-181. 34 Martha P. Nochimson, The Passion of David Lynch: Wild at Heart in Hollywood, University of Texas Press, Austin 1997. 35 In Erica Sheen, Annette Davison (a cura di), The Cinema of David Lynch, cit., p. 170. 36 Ivi, p. 171. 37 Vi ha insistito anche Roy Menarini in David Lynch Drive. Il Mulhollandrompicapo nel paese del cinema, in Claudio Bisoni (a cura di), Attraverso «Mulholland Drive», cit., pp. 45-52. 38 Stephen Holden, Hollywood: a Funhouse of Fantasy, «New York Times», 6 ottobre 2001. 31
Fratture narrative: la fine di un inizio
Un serial in due puntate in un film Il dato della duplicità del film, comunque lo si voglia interpretare, non può essere aggirato, e la precedente tripartizione, a differenza di altri tentativi di sistematizzazione dell’imponente produzione critica stimolata da Mulholland Drive, lo ha posto volutamente al centro. Basterebbero i titoli di coda a renderlo fragrante e, anzi, a imporlo. Naomi Watts e Laura Elena Harring vi si trovano infatti accreditate due volte, rispettivamente per i ruoli di Betty e Diane Selwyn, Rita e Camilla Rhodes, nettamente separati e distanziati dall’ordine di apparizione in cui sfilano. La deviazione rispetto alla norma (riunire tutti i personaggi interpretati da un singolo attore) non può essere sottovalutata, almeno non nel caso di Lynch. Di primo acchito, una simile scelta «separatista» sembrerebbe suggerire l’esistenza di quattro diversi soggetti, rimandando l’immagine di una vera e propria doppiezza e non semplicemente di uno sdoppiamento (dell’attore in più perso-
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naggi). Suggerisce, forse, l’esistenza di due storie ben distinte, di due film o parti di film, riuniti per qualche ragione in un unico «contenitore». Questa impressione possiede qualcosa di profondamente seducente, non da ultimo per via delle vicende produttive che hanno caratterizzato la lavorazione del film 1. Mulholland Drive potrebbe anche essere descritto come la prima e l’ultima puntata di una serie senza nulla in mezzo: nell’oscurità della scatola blu e nelle molte dissolvenze (incrociate e al nero) che segnano il passaggio dal primo e più lungo segmento al secondo, si inabisserebbe il progetto iniziale di un racconto in più episodi, del quale resta una serie in due puntate che Lynch si sarebbe limitato a iniziare e a concludere (così come, del resto, aveva iniziato e concluso Twin Peaks, lasciando ad altri la regia delle puntate intermedie 2). E se i conti non sempre tornano – soprattutto per quanto riguarda l’incastro tra gli elementi e i personaggi che compaiono, identici ma con significative variazioni, sia nella prima sia nella seconda parte – questo si dovrebbe proprio a una mancata o insufficiente articolazione del racconto, a un arco drammaturgico debole o monco: un deficit di sviluppo esplicitamente mostrato, una frattura esibita, e insomma un atto di denegazione – ossia, in senso freudiano 3, non una semplice negazione ma una vera e propria rivelazione «al negativo». Mancherebbe dunque – e questo vale soprattutto per il personaggio interpretato da Naomi Watts – il tempo della trasformazione, compreso tra un inizio e una fine; un tempo rimosso e al tempo stesso fatto intravedere, una smentita che mostra attraverso la negazione.
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In effetti i due racconti o episodi o, con più cautela, le due porzioni relativamente autonome di cui risulta composto Mulholland Drive, si rivelano chiaramente costruiti, a un’analisi più approfondita, attorno a un moto inaugurale (il primo) e a un andamento conclusivo (il secondo). La vicenda di Betty non smette mai di cominciare: una nuova città, una nuova casa, una nuova amica (poi amante), un nuovo lavoro (lo stupefacente successo al provino con Bob Brooker non lascia molti dubbi sul suo futuro professionale). Del suo passato, per contro, non sappiamo nulla, e l’unico legame parentale – quello con la zia Ruth – risulta narrativamente ininfluente. Come Alice nel paese delle meraviglie, Betty non fa altro che attraversare soglie, seguire indicazioni, incontrare nuovi personaggi; portata dagli eventi e dal rapido realizzarsi del suo sogno (diventare una brava attrice, e magari una movie star), scivola fluidamente in un mondo che non oppone resistenze, segnato ossessivamente dalla segnaletica (presentandosi per la prima volta, tutto ha un nome) e dalle indicazioni di rotta, e abbracciato dall’alto, nella sua interezza e virtualità – uno spazio infinito di possibilità, con un taxi sempre pronto a condurla dove desidera. Coerentemente, l’atteggiamento del personaggio è tutto sbilanciato verso l’osservazione: Betty si immerge nello spazio aperto del suo sguardo, come aperto dal suo sguardo. Si «accomoda», con aggiustamenti progressivi, nelle soggettive di una scoperta continuamente rinnovata. Il senso della conquista è duplice, e il cinema lo rende esplicito: la conquista di un soggetto (e di un’identità) attraverso la soggettiva. Le «soggettive senza soggetto» 4 che punteggiano la prima parte del film (e che non a caso scompaiono completa-
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mente dalla seconda) somigliano in effetti a configurazioni scopiche in attesa di realizzarsi nell’incontro con il proprio supporto percettivo, marcando un’esitazione intonata al percorso inaugurale di Betty e all’ingresso del personaggio nella realtà di un mondo tutto nuovo, che l’attende. Si veda, per esempio, l’arrivo della ragazza presso l’edificio in cui vive zia Ruth: la sequenza è aperta da una soggettiva non ancora attribuita (fig. 1), in cui poco dopo entra Betty (fig. 2), dando vita di lì in poi a una più classica alternanza di soggettive (fig. 3) e oggettive (fig. 4); lo schema si ripresenta subito dopo quando, fatta la conoscenza di Coco, la ragazza entra per la prima volta nell’appartamento della zia. Altrettanto coerentemente, il termometro passionale che accompagna l’ingresso e l’esplorazione da parte di Betty del suo paese delle meraviglie si assesta su un regime di perenne stupefazione: la fisionomica è quasi da trattatistica settecentesca, la maschera ben calcata nei tratti, con gli occhi spalancati, la bocca sospesa tra il sorriso e l’aperta incredulità, i movimenti lenti e incerti (fig. 30); in quella soggettiva, del resto, non sta entrando soltanto uno sguardo ma un insieme di percezioni e l’azione di un corpo. Attorno a Betty, poi, altre storie ai blocchi di partenza: la ricerca della vera identità di Rita, l’indagine poliziesca in merito all’incidente in cui è stata coinvolta, il mistero del «libro nero», la complessa trama mafiosa che circonda la produzione, appena cominciata (anche in questo caso siamo ancora al casting), del nuovo film di Adam Kesher. Un segmento aperto e chiuso dal movimento di un’auto (la limousine nera su cui viaggia Rita e il taxi che con-
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duce le due ragazze al Club Silencio) e complessivamente percorso, attraversato, messo in movimento temporale e spaziale, prima ancora che narrativo. Gesti ed eventi che ne rilanciano continuamente di nuovi, lungo un orizzonte di possibilità d’azione a cui corrisponde una pluralità di set, a comporre un’ouverture complessa e a suo modo classica. Nel secondo segmento, al contrario, Betty – che adesso è e si chiama Diane – è già completamente dentro una storia, chiusa nel suo appartamento da cui, di fatto, non uscirà più: tutte le scene in esterni successive al suo risveglio (sequenza 32) sono riferite a momenti passati e hanno la forma «scontata» (niente più indici e segnali) del recupero analettico. Si trova sola e disperata, malamente vestita, senza trucco; niente più azione ma solo riflessione, gioco di ombre, sfarfallii nella messa a fuoco e allucinazioni. Niente più stupore, ma solo un malessere profondo che le avvelena lo sguardo (fig. 31) e le infetta perfino la pelle: l’immagine (fig. 12) della putrefazione che campeggia sul film come una sorta di sintesi figurativa (dopo essere stata preannunciata dal cadavere di Diane Selwyn) si sostituisce adesso a quella ideale, inorganica e cosmetica – riflessa, fotografata, inquadrata – della star, che offre invece il modello di riferimento agli sguardi e ai corpi della prima parte. Ogni cosa è già stata, e l’azione di Diane, tutta e soltanto di testa, si traduce adesso nella ricomposizione lineare e causale degli eventi passati, alla ricerca di un’origine per la sua condizione presente: l’avvio e la conclusione della relazione con Camilla e il suo «tradimento» con Adam (che forse sposerà), le frustrazioni a cui è andata incontro la sua
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professione d’attrice (piccoli ruoli procuratigli proprio da Camilla, secondo una logica di dipendenza simmetrica e opposta a quella che lega Betty e Rita), e poi la scelta di vendicarsi facendo eliminare l’ex amante, ponendo così fine al suo tormento. Diane è un puro dispositivo memoriale, un punto d’arrivo oltre il quale non c’è più nulla. Siede in attesa della fine, che si realizza proprio attraverso il ricordo: la catena degli eventi (i flashback corrispondenti alle sequenze dalla 34 alla 39), con la sua sproporzione eclatante tra la felicità iniziale e il dolore per la conclusione del suo rapporto d’amore, le ricordano perché deve morire. Mentre l’amica e amante è già morta: una doppia fine, parallela al doppio inizio dell’altro segmento, in cui anche Rita – involucro svuotato della propria identità – doveva, suo malgrado, (ri)cominciare tutto, radicalmente, a partire dalla ricerca di un nome. Per altro verso, il processo memoriale proiettato da Diane serve a colmare alcune lacune del racconto: scopriamo per esempio che il provino (sequenza 24) non è andato poi così bene, visto che Bob Brooker, alla fine, ha scelto Camilla (appena prima di cominciare, Jimmy dichiara di volerla «fare stretta», come con l’altra ragazza dai capelli neri: «I want to play this one close, Bob. Like it was with that girl, what’s her name, with the black hair. That felt good. Whadd ya think?»). La quale, nel frattempo, ha ricordato tutto, a partire dal proprio nome; l’amicizia amorosa tra le due è continuata, almeno fino a quando Rita non si è innamorata del suo regista (liberatosi nel frattempo della moglie infedele). La zia Ruth è morta, mentre Adam ha risolto i suoi problemi con la produzione dopo aver accettato
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«la ragazza», e i suoi rapporti con i fratelli Castigliane e il Cowboy sono ormai civili, tanto che essi figurano tra gli ospiti invitati alla cena in cui ha intenzione di annunciare il matrimonio con Camilla. Betty, in tutto questo, è diventata un’altra. Adesso è (o si fa chiamare) Diane (fig. 32). Quanto tempo è passato? Che cosa è successo? Quante storie e fatti si incuneano tra la prima e la seconda parte, tra l’inizio e la fine? Una cesura (un aborto «produttivo») allontana i primi vagiti del racconto dalla loro conclusione. Le domande, a questo punto, non si rivolgono più soltanto all’analisi dei rapporti tra i due segmenti di cui sembra composto il film ma, accettando l’ipotesi di un avvio e di una conclusione affiancati in una sequenza carente di termini intermedi, si sposta necessariamente verso lo spazio e il tempo che li separa, verso l’origine e il significato della frattura che sembra spaccare in due il film. Frattura da cui deriva, in primo luogo, la sostituzione di una logica della giustapposizione a una grammatica del processo, senza che, per questo, un confronto di sapore enigmistico sia legittimato come pratica di lettura privilegiata di fronte allo scacco (anche interpretativo) mosso nei confronti di una drammaturgia tradizionale degli eventi e dei concetti. Da questo punto di vista (e come sembra di fatto essere accaduto in termini produttivi), Mulholland Drive sarebbe insomma la fine di un inizio; una serie in due puntate in un film. La sintesi – inevitabilmente schizofrenica – di una vita, col tempo dell’azione e della visione contratto nel suo prologo e nel suo epilogo: Lynch misura una distanza, senza mediazioni, raccontando un processo senza seguirne lo sviluppo. Si comporta un po’ come Egon Schiele (allievo
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del suo amato Kokoschka), che dipingeva ritratti di bambini con mani d’anziano. La contrazione finisce con l’avvicinare il lontano, realizzando una sintesi che, sorvolando sulle richieste e i codici civili del racconto, affianca i due principi essenziali della narrazione. Ma una volta giustapposti e avvicinati a dispetto di un programma narrativo di trasformazioni controllate, i due termini estremi del corso di Betty/Diane finiscono per accedere a un diverso regime esistenziale: l’opposizione introduce infatti una condizione di contemporaneità, e l’evidenza di una frattura tra i due segmenti di cui risulta composto il film si sostituisce al gioco probabilistico della relazione diretta, mentre l’orizzonte infinito delle congetture, pur restando aperto, si chiude su una condizione di vibrazione immobile. Con una sola immagine – rubata al Fedro – si potrebbe parlare di «delirio del tempo», di ibridazione tra la successione e l’eternità, tra il vuoto e il pieno assoluti, di «un divino straniarsi dalle normali regole della condotta». Tra l’inizio e la fine della vicenda si tende un arco, ma si tratta di un segno di congiunzione problematico, un’unione forzata dalla distanza semantica dei mondi accostati. Eppure, proprio perché risulta sfibrata ogni possibilità di colmare – in termini logici e narrativi – tale distanza (anche grazie al gioco imperfetto delle ripetizioni), la frattura si impone come il principio costitutivo del rapporto tra le parti del film, rovesciandosi, in positivo, in una procedura «sensata», con la sostituzione di un regime di causalità a uno di consecutività. Così, le due porzioni del racconto finiscono per sovrapporsi idealmente o, come nell’interpre-
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tazione vulgata, per incastonarsi la prima nel tempo (vuoto) della seconda, di cui rappresenterebbe il risvolto onirico. Il detour è propriamente cognitivo: nell’assenza di una anche minima traccia di relazione causa/effetto tra due distanze abissali, la relazione di consecutività tende a narcotizzare ogni possibile congiunzione diretta, promuovendo una spiegazione fondata sull’opposizione. O, per dirla diversamente, in un regime misto di somiglianze e differenze (come quello che imparenta la prima e la seconda parte del film), la prevalenza delle seconde, la loro natura mista e ambigua 5 e l’assenza di segni di trasformazione scoraggiano l’ipotesi di un’evoluzione organica e impongono il conflitto; a una logica dello sviluppo si sostituisce insomma una logica dello scontro tra due realtà incommensurabili e inassimilabili. Ciò naturalmente non esclude la relazione – che la differenza comunque istituisce – ma mette fuori gioco una spiegazione lineare, «positivistica», fondata sulla co-appartenenza dei segni a uno stesso universo di riferimento modulato in termini di crescita e sviluppo. L’interpretazione onirica rischia però – oltre a quanto si è già detto nel capitolo precedente – di impoverire l’incastro (prendendo la scorciatoia più «logica») e di rendere meccanico l’incontro del riflesso dei personaggi, delle loro azioni e ragioni della prima parte con il loro «altro da sé» nella seconda. Riflesso od ombra, il segmento iniziale, in questa prospettiva, sembra non possedere alcuna «realtà» di senso, configurandosi come la versione ludico-desiderativa delle azioni compiute nella seconda e ricostruite dai flashback di Diane.
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Rieccoci dunque al punto di partenza, quello dell’irriducibile dualità – comunque la si voglia mettere – di Mulholland Drive. Ma qualche passo avanti è stato fatto: in primo luogo, evitando di sottomettere (in chiave onirica) il racconto iniziale a quello che sembra aprirsi dopo la caduta della scatola blu, abbiamo visto all’opera un doppio principio, rispettivamente inaugurale e conclusivo; in secondo luogo, il profondo contrasto tematico e la natura delle differenze che allontanano i due segmenti del racconto sono apparsi incomprensibili in termini di trasformazione, evoluzione o cambiamento nell’ipotesi di una relazione diretta tra l’uno e l’altro, ma nulla invita a prendere la scorciatoia della sublimazione di una parte del film nel sogno e di uno sdoppiamento dell’unità drammatica rappresentata da Betty/Diane. Anzi, Mulholland Drive sembra chiedere esattamente il contrario: come suggerisce il presentatore all’interno del Club Silencio, tutto va preso per reale, il che significa presente, se non «vero», determinante e vivo (insomma: non si può essere platonici solo a metà…). E se proprio si vuole parlare di sogno, sarebbe forse più corretto farlo in rapporto a tutto il film, come già proponeva Chion scrivendo a proposito di Velluto blu, in contrasto rispetto a coloro che distinguevano tra due estremi reali e un sogno centrale 6. E, quindi, non parlarne affatto. Del resto, come anticipato, il contrasto tra la prima e la seconda parte del film rimanda l’immagine di una struttura dotata di una sua coerenza formale, non priva, inoltre, di una quota di narratività (se non di vera e propria narrazione). Inizio e fine si corrispondono infatti come i principi diametralmente opposti del percorso di Betty/Diane, a
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partire da una solidarietà e da una coerenza semantica che le anse del racconto non arrivano a contestare né a inficiare, ma al contrario a testimoniare: l’opposizione non è un’opposizione «qualunque», e la particolare (anti)struttura del film dà conto, inevitabilmente, della loro totale incommensurabilità, della loro distanza abissale, del loro orientamento contraddittorio; non disegnano semplicemente un’opposizione ma un’alternativa. L’avvio e la conclusione dell’avventura di Betty/Diane convivono nel tempo lineare e orientato – fotogramma dopo fotogramma, scorrimento forzato in avanti da un’inquadratura all’altra – della superficie materiale del film: si sistemano nella premessa (e nella promessa) di un racconto, portandovi la loro compiutezza di universali figurativi e semantici, di possibilità narrative senza sviluppo e di contenuti morali senza dramma. Ancora una volta – come già in Velluto blu e in Strade perdute – la natura aberrante della regia lynchiana si rivela non tanto dipendente da un particolare arrangiamento figurativo dei mondi, più o meno possibili, di cui racconta, ma dalla natura e dalla forma delle relazioni (più o meno possibili) che si creano tra universi paralleli e virtuali (due o più) contemporaneamente presenti nello spazio di una visione unitaria e appartenenti a uno medesimo orizzonte di «realtà» 7. Mulholland Drive rende co-presenti due mondi inassimilabili, dispiegandoli nel quadro forzatamente uniformante dello svolgimento della pellicola-film e nel tempo compatto della percezione dello spettatore: il punto di crisi (e l’oggetto di critica) diventa allora il quadro – bordo dell’istituzione cinema, confine di un accesso al racconto mai del tutto innocente (la
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pagina bianca non esiste, intrisa com’è di codici di scrittura e attese di lettura) e, non da ultimo, simulacro materiale ed estetico di un’organicità ideologica e di una corporeità apparentemente neutra e consolatoria.
Surrealismo classico: una poetica della frattura Il «surrealismo» lynchiano si colloca precisamente a quest’altezza: esso non è una proprietà del rappresentato (che semmai veleggia dalle parti del bizzarro, dello strano o dello stravagante) ma della forma del racconto, dell’irriducibile arrangiamento relazionale in cui si trovano combinati elementi ed eventi appartenenti a universi paralleli o forse solo lontanissimi nel tempo cronologico di una storia, come accade in Mulholland Drive, dove i capitoli più lontani di un’esistenza si trovano giustapposti in una percezione contemporanea, a disegnare il tracciato in scorcio di una vita sottratta al passare del tempo. La pluralità del reale non viene domata da un’emergenza univoca o configurata secondo una tradizionale drammaturgia degli eventi, ma testimoniata attraverso una serie di procedure di volta in volta particolari e significanti, il cui senso profondo risiede però sempre in un gesto di apertura e, al tempo stesso, di perdita o abbandono, che ricade nell’ampio campo (per premesse poetiche e risultati estetici) delle pratiche moderniste di differenziazione individuate da Deleuze. Secondo il filosofo francese, nel passaggio dall’immagine-movimento all’immagine-tempo si realizza, tra le altre cose, un significativo cambiamento in termini di «compat-
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tezza» della rappresentazione: l’intervallo del cinema classico e le sue associazioni causali, fondate su una logica stringente di causa/effetto riferibili alla «sensatezza» dello schema senso-motorio, al concatenamento finalizzato delle percezioni e delle azioni, sono sostituite, nell’immagine-tempo, dall’interstizio, taglio e spaziatura in verticale, e da una profondità incerta tra le inquadrature e i loro contenuti, da cui deriva un effetto di differenziazione tra gli elementi in gioco mentre, sotto il profilo percettivo, si assiste alla ricorrenza di situazioni ottiche e sonore pure, che non si trasformano necessariamente più in azioni; a un principio di uniformazione succede insomma un principio della frizione più o meno rumorosa, eclatante, distruttrice, in cui l’immagine tende a separarsi dalle altre per aprirsi alla propria infinità 8. Tale differenziazione realizza una precisa manovra di stampo moderno: mantenendo aperta la frattura, si scongiurano i pericoli del cinema dell’Uno, del cinema del verbo essere, riflesso del linguaggio in quanto «presa di potere»; il metodo dell’E – questo e poi quello, con sequenze del tipo «e… e… e…» – produce al contrario una liberazione del linguaggio, riconducibile al balbettio creativo. L’immagine sfugge così le costrizioni del meccanismo normativo delle cause e degli effetti, ritrovando le proprie potenzialità sensibili, mentre il cinema si rinnova in quanto dispositivo di «redenzione», contro «il lavoro del cervello umano, di questa immagine particolare che si è assegnata il ruolo di centro dell’universo», e che «ha sequestrato a proprio profitto l’intervallo fra azione e reazione» 9. Nel caso di Mulholland Drive, tale differenziazione si traduce in una vera e propria dissociazione (anche in senso
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psicoanalitico) del corpo del film, ricorrendo sia tra le inquadrature e al loro interno, sia tra porzioni più ampie del racconto, e scontrandosi radicalmente contro i bordi dell’immagine-quadro. L’effetto finale è un’analoga liberazione dalle maglie dell’ordinario, senza l’approdo a una contro-struttura stabile. La frattura resta aperta, l’abisso contemplabile ma immisurabile, a differenza di quanto accade nel cinema contemporaneo, in cui l’interstizio è in genere provvisorio, e un antidoto, presto o tardi, giunge a ristabilire un funzionamento ordinario del racconto 10; per altro verso, l’imporsi di una diversa logica della successione (al posto di una classica drammaturgia degli eventi) indebolisce l’efficacia della traduzione verbale, favorendo, nell’incontro col film, pratiche puramente descrittive o contemplative, in risposta alla rovina dei normali schemi logici e senso-motori di articolazione e percezione causale dei rapporti tra le immagini. È sulla relazione, dunque, che si deve spostare l’analisi, perché è a quest’altezza che prende corpo l’effetto di straniamento e la perdita di orientamento cui vanno incontro il racconto e lo spettatore di Mulholland Drive. Del resto, i mondi possibili che si rincorrono, intrecciano e sovrappongono nei film di Lynch non sono sempre dotati di un carattere individuale, di un’identità inequivocabile e singolare: se in Cuore Selvaggio la ricorrenza di flash e flashback (veri e falsi) si rendeva più esplicita, consentendo, almeno in parte, la loro identificazione e distinzione rispetto alla realtà «presente» del racconto, in Mulholland Drive soltanto un’affermazione d’autorità interpretativa può distinguere nettamente il sogno dal suo contrario, né
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può bastare l’idea di una continua reversibilità tra le due dimensioni, che il testo di fatto non realizza. Il ragionamento va insomma capovolto: in Mulholland Drive è l’impossibilità stessa di stabilire una relazione lineare e di pensare una corrispondenza inequivocabile tra le parti di cui esso è composto a liberare l’immagine di una pluralità di mondi e modi di esistenza contemporaneamente convocati sulla scena di un unico dramma; e questa stessa pluralità non è tanto frutto di un vacillamento ontologico (con l’ampio spettro delle immagini mentali che si oppone, infiltra, contamina con il piano del reale) ma, piuttosto, di un’incertezza liberata dalla crisi di una disposizione dell’azione su un solo asse spazio-temporale, dentro una logica lineare della successione. La differenziazione passa, per l’appunto, attraverso l’allentamento di una più tradizionale grammatica consequenziale a livello dello stacco (tra inquadrature e scene); l’interstizio – incognita spaziale, temporale e narrativa – genera un regime di indecidibilità nel tessuto del racconto, impone una coesistenza impossibile e pur tuttavia presente, accosta il dissimile implicando una relazione incerta senza provvedere vie di fuga tradizionali (cornici oniriche, allucinatorie, visionarie…) o stampelle visive (figure di transito, dissolvenze, effetti di «primo piano» e sfondo…). In breve, Mulholland Drive scioglie le immagini e la loro successione dall’espressività e dal riferimento reciproci, instaurando tra le parti relazioni dal carattere indeciso e mutevole, in cui le singole immagini si (ri)aprono al loro movimento; i mondi del cinema di Lynch sono uno soltanto, messo però a soqquadro, liberato dalla «grammatica dell’Uno»,
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smembrato, rovinato, attraversato da cicatrici impudiche, offerte senza riparazioni allo spettatore. L’operazione – come accade spesso in Lynch, sabotatore della neutralità dei codici – si compie a partire dai modelli offerti dal cinema tradizionale. Il suo surrealismo dal carattere iperrealista si genera – almeno a partire da Velluto blu – attraverso una progressiva decomposizione della tenuta delle strutture classiche, sotto il segno di una certificazione dell’impasse piuttosto che di un azzeramento iconoclasta, nello spettacolo di una perdita, sulla scena di una frattura. La razionalissima aggressione lynchiana si manifesta in forme diverse di sbordatura, ciò che precisamente lo differenzia dal lavoro di altri autori contemporanei: è una pressione contro il quadro percettivamente unitario e culturalmente saldo del prodotto-film; una sbavatura delle linee rette che isolano inquadrature, scene, sequenze, contro l’arbitraggio impositivo della relazione causale e della rispondenza figurativa; un lenta corrosione dei modi di presenza dell’immagine, sottratti alle griglie delle definizioni univoche. È in questo lavoro sul/contro il bordo (del quale resta inevitabilmente traccia), che si coglie, sotto un altro profilo, la modernità del cinema di Lynch e il funzionamento di quel principio generale di corrosione della saldezza dell’«unità», che apre l’immagine e il racconto a diffrazioni inattese: Di qui, forse, un mezzo per valutare le opere della modernità: il loro valore deriverebbe dalla loro duplicità. S’intenda con questo che hanno sempre due bordi. Il bordo sovversivo può
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sembrare privilegiato perché è quello della violenza; ma non è la violenza che impressiona il piacere; la distruzione non lo interessa; ciò ch’esso vuole è il luogo di una perdita, è la faglia, la frattura, la deflazione, il fading che coglie il soggetto nel pieno del godimento. La cultura ritorna quindi come bordo: sotto qualunque forma. 11
Il senso del margine, il profilo delle cose, il disegno riconoscibile di un divieto, tutto questo è l’ordine della cultura, suggerisce Barthes; corrodere i bordi, lottare in bilico su di essi e, al tempo stesso, raccontarne la rovina e rappresentarne la perdita di tenuta e autorità, è invece il tratto essenziale del godimento moderno. La sbordatura è insomma il contrario dell’iconoclastia avanguardista, e si manifesta attraverso il segno ambiguo della perdita, fondato su una duplice presenza: quella, umbratile e fantasmatica, dell’anteriorità delle cose, e quella della loro rovina ambientata in un presente orientato al futuro. Il versante «non-violento» di questa dinamica, raccolto nel godimento di un’assenza che è al tempo stesso lontananza delle cose nel passato e nel futuro, descrive bene il sentimento generale di molto cinema contemporaneo, e il termometro passionale che s’accompagna a questa doppia esposizione, in bilico tra una malinconia creativa e una pressante nostalgia 12. Ma nel caso di Lynch il principio della perdita (che in Mulholland Drive agisce a più livelli, dal piano della narrazione a quello figurativo) non è un punto d’arrivo, né le rovine accedono mai allo statuto di reperto. A interessare Lynch sembra essere il processo, l’azione transitiva della
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perdita, lo spettacolo della senescenza e la rovina, senza moralismi o nostalgie, ma con un interesse da entomologo per le forme che si disfano e, al tempo stesso, si liberano, trascinate da un processo incessante e imprevedibile di creazione e ricreazione. Di qui, per esempio, la ricorrenza mai semplicemente citazionista (come in Scorsese) o denunciata in forma di lezione da aggiornare (come in De Palma) della tradizione del cinema, e particolarmente di quello americano; più ancora, nessuna reale presenza di una storicità del cinema e di una «normatività» stilistica: il classicismo si riduce in Lynch a un repertorio di forme sottratte al principio estetico, temporale e industriale della loro validità e resistenza. Sul piano generale, infatti, non è difficile scorgere al di sotto di Mulholland Drive il palinsesto di un classico film d’avventura «onirica», e in particolare di Il mago di Oz, ossessione personale già omaggiata in Cuore selvaggio attraverso una serie di citazioni puntuali, dalla figura della Strega cattiva a bordo della sua scopa al rito magico delle scarpette rosse battute tre volte per scacciare l’avversario (figg. 5-6). Al di là di una nuova serie di citazioni (e la prima arriva quasi subito, col sonno di Rita protetto da un cespuglio [figg. 7-8]), il film di Victor Fleming offre l’impianto generale di una classica vicenda tra mondi, che Lynch passa poi a decostruire, insistendo soprattutto sui margini che, nel primo, delimitano esattamente, separandole e distinguendole, realtà e sogno/visione, e sulla responsabilità enunciativa delle proiezioni. Il film di Fleming, com’è noto, articola un chiaro passaggio dalla realtà a una sua versione alternativa, identifi-
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cando altrettanto chiaramente quest’ultima come un sogno: Dorothy è stesa a letto, non del tutto cosciente, dopo essere stata colpita da un pezzo di legno portato dall’uragano che l’ha colta di sorpresa mentre era fuori casa col suo cane, Toto. Tutto, dentro e fuori la testa della ragazzina, comincia a girare, fino a produrre uno sdoppiamento inequivocabile, un’uscita da sé che coincide con la proiezione di un secondo narratore, responsabile del racconto onirico (figg. 9-10). Quest’ultimo si distingue nettamente dai segmenti iniziale e finale sia per le sue caratteristiche plastiche (con particolare riferimento all’uso del colore, in opposizione al bianco e nero della realtà), sia per le sue caratteristiche figurative (strani personaggi e curiose abitudini comportamentali). Anche l’uso della musica – di cui abbiamo un primo saggio a inizio film – assume un ruolo diverso, liberandosi da ogni regime di verosimiglianza per diventare puro musical. Il percorso di Dorothy, una volta entrata nell’universo parallelo di Oz, si struttura secondo la più classica drammaturgia del viaggio dell’eroe 13: un oggetto di valore ben preciso (il ritorno a casa) e una serie di prove da superare per potervisi congiungere, con un nutrito manipolo di adiuvanti e opponenti a completare il racconto e ad aprire una serie di sub-plot. La conclusione s’accompagna inoltre a un preciso guadagno morale e cognitivo: Dorothy capisce di non dover andare così lontano (over the rainbow) per cercare la felicità; ce l’ha a portata di mano, nella sua casa, nella vita di tutti giorni accanto ai suoi famigliari e agli amici. Significativamente, infine, l’identità della ragazzina – «Mi chiamo Dorothy» – è più volte messa in discussione duran-
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te il viaggio, scambiata o rinnovata («Devi essere una strega»), prima di essere riconfermata nella scena del risveglio. Il ritorno a casa – chiaramente realizzato il «finale» – coincide con una nuova dissolvenza, parallela a quella che ha segnato inizialmente il passaggio dalla realtà al sogno. Le dissolvenze – codice ordinario del movimento dalla realtà alle sue versioni «alternative» – scandiscono con precisione i salti e delimitano chiaramente i due spazi. Ritornata alla realtà, Dorothy ritrova se stessa e il suo mondo e, al tempo stesso, riconosce i segni di una parziale conformità tra le due dimensioni: il sogno è lievitato a partire dai segni del reale, distorcendoli appena un po’, secondo un’idea ingenua ma convenzionale della produzione onirica come proiezione sotto mentite spoglie della realtà. Nelle mani di Lynch, la struttura ordinata de Il mago di Oz si dissolve a poco a poco, senza smarrirsi del tutto. Il confronto con il cinema classico, e un suo prototipo esemplare, passa attraverso una sottile violenza perpetrata nei confronti della solidità dell’edificio drammaturgico, illusorio e morale architettato da Fleming nel quadro di un patto spettatoriale senza ombre e sullo sfondo di un’industria stabile e in un contesto sociale e culturale di riferimento ben preciso. All’interno di un film che mostra in particolare il lato oscuro del mondo del cinema, fatto di trame mafiose, concorrenza sleale, imposizioni dall’alto, pettegolezzi e spietatezza nei rapporti umani, la sorridente illusione e la vigorosa morale e l’ordine drammatico di Il mago di Oz finiscono necessariamente compromessi e, anzi, la loro stessa deriva culturale ed estetica assume il valore di un lutto senza cordoglio.
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Ma l’operazione lynchiana ha origini più antiche e nobili, affondando in una poetica dell’eversione e della destabilizzazione condotta, anche in passato, attraverso il confronto con una serie di precisi antecedenti riferibili al cinema classico, non per denunciarne semplicemente l’impasse o umiliarne il funzionamento ma, al contrario, per moltiplicarne le potenzialità e rilanciarne, un po’ perversamente, l’uso. Il perturbante lynchiano passa soprattutto attraverso queste operazioni, generali e di dettaglio, compiute sul corpo del cinema classico o «tradizionale» (e dunque su un immaginario che ha storicamente contribuito a dare forma al reale), di cui sbriciola l’ordine, rivelandone al tempo stesso la ricchezza e la minaccia: la prima in rapporto alla realtà di cui esso rappresenta una versione elaborata ed edulcorata, la seconda nel quadro di una poetica che non distingue più e che compie travasi in libertà tra la realtà e le sue versioni concorrenti, all’interno di una scrittura strutturalmente caotica – non confusa, però, ma aperta, come suggerisce l’etimologia greca – e al tempo stesso vuota, popolata di frammenti-rovine e frammenti-abbozzi, su uno sfondo decronologizzato che rifiuta il causalismo e la continuità diacronica, e accoglie invece una compresenza irrelata di «ante» e «post». Come Velluto blu era un attentato al melodramma, infiltrato dal gangster movie e dalla detection, e Cuore selvaggio una torsione delle linee rette del road movie, Mulholland Drive riabita il corpo e la logica del cinema fantastico: la tenuta del tessuto si allenta, la razionalità della scrittura cede il passo a un balbettio disordinato (ma non illogico), i passaggi si fanno incerti e i contorni sfumati. Lynch prele-
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va dal cinema classico gli incubi che esso ha contemporaneamente prodotto, risolto e contingentato, rovesciandoli in uno spazio privo dell’àncora di salvezza della verosimiglianza e del paracadute di un ordine morale senza ombre: forse, per descrivere il suo rapporto con la tradizione cinematografica, gli si addice di più l’etichetta di manierista, per come non sovverte mai completamente l’ordine costituito ma lo lavora, per eccesso o sublimazione, fino a produrre effetti stranianti a partire da codici chiaramente identificati, storicizzati, sedimentati 14. Nel caso di Mulholland Drive, in particolare, Lynch sfigura il ritmo tripartito caratteristico dei regimi fantastici o genericamente surreali, garantito da un avanti e indietro (tra mondi e dimensioni diverse) aperto e chiuso dalle parentesi dell’oggettività (secondo lo schema realtà/nonrealtà/realtà) e vi sostituisce una struttura duale e incerta, compromettendo al tempo stesso la riconoscibilità del genere. Del modello originario resta solo un’eco sottile (che assume magari la forma dell’abbaglio interpretativo…), col ritorno confuso e volutamente «annerito» di due possibili e più tradizionali parentesi figurative: il letto (immagine dell’avvio del sogno, sequenza 1) e il risveglio di Diane (sequenza 32), tra le quali si dovrebbe sistemare il sogno. Ma accogliere questa soluzione significa – ora è più chiaro – conformare Mulholland Drive al modello che mette apertamente in crisi, comportarsi da «tradizionalisti» e chiudere le fratture che esso apre, riducendo così la portata dei suoi contenuti estetici e filosofici. Al contrario, sembra necessario confrontarsi con la vera e propria decapitazione (usiamo il termine di proposito, a significare l’assenza di una «te-
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sta», di un inizio, e al tempo stesso di una sola istanza ordinatrice) a cui Lynch sottopone il modello di riferimento rappresentato da Il mago di Oz, e che lascia in eredità un corpo ancora riconoscibile ma non più chiaramente identificabile; un corpo improvvisamente sottratto a un principio di unità e leggibile solo in termini parziali, come provvisorio assemblaggio di segmenti contemporaneamente solidali e irrelati: l’immagine di una perdita, un paesaggio con rovine. Il residuo di questa operazione chirurgica di sabotaggio di un’integrità drammaturgica in tre tempi è una struttura duale in cui più che un’esondazione di elementi o personaggi, si osserva una reversibilità ontologica dei mondi messi in scena e una loro sostanziale parificazione, senza più alcuna possibilità di sottomettere l’uno alle dipendenze logiche, cronologiche e figurative dell’altro. La relazione, come anticipato, diventa il nodo problematico: l’incastro che, in Il mago di Oz, sigillava il sogno, distinguendolo e assoggettandolo alla realtà (la quale ne giustificava la forma e la ricerca che metteva in scena), si traduce in Mulholland Drive in uno stare accanto provvisorio di due mondi contemporaneamente simili e dissimili, residui di un’articolazione monca, gettati sulla scena di un confronto senza più gerarchie ma uniti da una parentela evidente anche se ormai introvabile all’interno del testo. L’evanescenza liberata dalle aperture di un regime caotico dona al film un’instabilità di senso produttiva, lo frammenta e frattura, lo riconduce a se stesso – a ciò che non è più e ciò che non è ancora – e infine lo predispone a trasformarsi nel luogo di una rivelazione e di un riorientamento del vedere: dal-
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l’intervallo e dalla frattura emergono un destino di vibrazioni relazionali (anziché di rapporti di concatenazione causale) tra le parti, nel segno di un’apertura continuamente rinnovata dell’immagine, e lo schema di una percezione liberata dai codici usurati dell’ordinario.
Paesaggio con rovine: alla ricerca della realtà Crollando un’architettura più tradizionale in grado di orchestrare lucidamente il passaggio da un mondo all’altro (dalla realtà al sogno, al suo contrario, alla sua nemesi etc.), restano dunque sulla scena di Mulholland Drive due «entità» tra cui vibrano sì dei rapporti, istituiti in primo luogo da una fitta rete di rimandi figurativi e tematici, ma il cui incastro complessivo risulta volutamente oscuro; e però, al tempo stesso, il loro stare accanto, in successione, nell’unità percettiva e materiale del film, impone il ritrovamento di una parentela. Tutta la critica a Mulholland Drive, in fondo, ha lavorato attorno a questo mistero, alla ricerca di una sutura dell’intervallo e di una cura della frattura. La tentazione di muoversi in direzione contraria è, a questo punto, molto forte: vale a dire, enfatizzare l’incommensurabilità di questi due «momenti» del film e riconoscere che la parentela che li lega non è tanto una proprietà interna – ai mondi di cui racconta e agli elementi che rappresenta – ma, piuttosto, una formazione discorsiva, prodotta dal loro accostamento, secondo il classico principio della frattura. Un principio che, come anticipato, consente di cogliere meglio la natura non avanguardista del cine-
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ma di Lynch e, subito al di là delle apparenze, la sua fragile relazione con il surrealismo 15 (con cui tuttavia condivide la volontà di affrontare il nodo dei rapporti tra mondo interiore ed esteriore, fantasia e realtà). Nel surrealismo la libertà dell’accostamento e dell’inventiva segue una «scrittura» comunque strutturata, alla ricerca del «funzionamento reale del pensiero» 16, mente in Lynch, oltre ad agire un modello «analitico» dell’interiorità molto diverso, legato alla meditazione trascendentale, la scrittura si mantiene saldamente ancorata al piano del reale, di cui rivela la complessità sfuggente premendo contro la sua cronaca ordinata. Muoversi in direzione contraria, dunque: la coerenza e l’unitarietà del film – qualità distintive del bello – appaiono in effetti come il risultato di un percorso interpretativo (e percettivo) fortemente autoritario e selettivo; con identico diritto, sembra imporsi la possibilità opposta (erede del ciclo pittorico), vale a dire la contemplazione dell’unità che distingue le parti di cui è composta, pur in presenza di evidenti legami tra di esse (cromatici, figurativi ecc). Si tratta, in altre parole, di mantenersi in equilibrio: non ricucire a ogni costo le doppiezze che attraversano e strutturano Mulholland Drive e, al tempo stesso, non ammettere una spaccatura (cosa ben diversa dalla frattura) o una schizofrenia strutturale; pensare il film come una specie di dittico o, se si vuole, come le due ante di un polittico sostenute da una relazione collocata nello spazio della loro lontananza. Il che, naturalmente – come è per l’appunto il caso dei polittici –, non esclude processualità, divenire e insomma racconto, ma li colloca in uno spazio altro, lontano da
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rappresentazioni verosimili o procedure illustrative, coincidente semmai con l’intervallo e la distanza: uno spazio mentale e simbolico costruito dall’accoppiamento ma non inscritto in esso. L’immagine che s’impone è quella di un pensiero duale sottratto alla sintesi: il pensiero di questo e di quello, provvisoriamente accostati, al di fuori delle costrizioni di una logica omogenea e di una grammatica dell’Uno; il pensiero della duplicità senza sutura, offerto per mezzo di una prossemica problematica e nella latenza di un principio di coerenza e omologazione, e fondato su una contiguità puramente fenomenologica, al di là delle orchestrazioni tradizionali del recit cinematografico: su questo punto insiste Mulholland Drive, liberando il pensiero dalla «convenienza» di un racconto e il reale dal paesaggio uniformante del simbolico rinviato da una rappresentazione verosimile. Il film emerge così come punto d’arrivo di una poetica estremamente coerente. A partire da Velluto blu, infatti, l’attenzione di Lynch si è spostata sempre più verso la rappresentazione della natura pluridimensionale dell’esistenza e verso l’indagine dell’identità soggettiva e, parallelamente, della natura dell’immagine, che della realtà è al tempo stesso riproduzione fedele e concreta, scenario narrativo e immaginifico, percezione e sensazione, nella consapevolezza delle ambiguità e delle oscillazioni che s’accompagnano a questa categoria, perennemente tirata tra il concreto e l’astratto, il reale e il pensato, il sensibile e l’intelligibile 17. Il rapporto tra racconto interiore e rappresentazione visiva costituisce del resto il nodo cruciale della contemporaneità (non solo cinematografica): non, banalmen-
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te, perché la società attuale si caratterizza per l’onnipresenza dell’immagine, ma perché l’esperienza individuale si configura prevalentemente come esperienza di e per immagini, in assenza di un criterio ontologico che rimetta a posto le cose, rinviando di volta in volta l’immagine al suo confronto con la realtà (e a una sua filosofia «inequivocabile» e maggioritaria). Se gli esordi – corti, medi e lunghi, almeno fino a Eraserhead – s’ispirano ancora a un principio di integrazione, e la realtà appare lavorata nello spazio ben perimetrato dell’immaginazione onirica, a partire da Velluto blu Lynch, lasciandosi alle spalle l’idea del visibile cinematografico come orizzonte strutturato all’incrocio tra codici culturali e filmici, ha a poco a poco scardinato, scendendo in profondità, la tenuta dei principi di verosimiglianza e di realismo della rappresentazione (dell’immagine ma soprattutto dell’architettura del racconto), senza per questo abbandonarsi agli automatismi «legittimati» di una scrittura completamente indifferente a un principio di realtà. Tutto si gioca, come anticipato, in equilibrio sul bordo delle cose, nel segno di una duplicità ontologica: filosofia dell’«e», reversibilità dello sguardo, annullamento di una prospettiva temporale e spaziale che cronologizzi gli eventi rinviandoli a una grammatica della successione. Il cinema di Lynch si allinea così – senza moralismi o finalità polemiche – al più vasto ambito della ricerca estetica attorno alla derealizzazione dei margini esperienziali, culturali e sociali che distinguono la «realtà» (o, meglio, ciò che si ritiene essere la realtà, ricostruita per via ideologica) dal vasto territorio dell’immagine, contro la reductio ad
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unum della tradizione post-industriale. Il suo cinema, anzi, asseconda la progressiva polverizzazione dei codici uniformanti della società moderna, scorgendovi un luogo di liberazione e rivelazione, per insistere soprattutto sul destino dell’identità soggettiva, che diviene fragile e destrutturata, mentre le identificazioni multiple proliferano esponenzialmente, appoggiandosi ai puntelli offerti proprio dall’orizzonte mutevole dell’immagine e dei suoi circuiti comunicativi e trasformativi 18. Attraverso lo spettacolo di una differenza non elaborata, di una distanza non piegata, di una dissomiglianza esasperata – offerto però nel quadro di una percezione unitaria e sullo sfondo di una scena in cui persiste la memoria, per quanto decomposta in forma di rovina, di una sutura cognitiva e visiva – Mulholland Drive impone dunque di accogliere un metodo d’osservazione, un modello percettivo e una forma del pensiero rinnovati. Anziché concepire – come ancora accadeva, anche se in modo problematico, in Strade perdute – un percorso deviante e rizomatico ma in fondo compiuto nella retorica di un ritorno impossibile (con quella frase, «Dick Laurent è morto», che si ripresentava alla fine del film), con Mulholland Drive Lynch sembra interessato soprattutto a realizzare il disegno ordinato di un processo di separazione, apertura e divaricazione, mantenendo contemporaneamente in vita l’ombra di ciò che si perde o non è più, è stato o forse sarà in futuro, e la puntualità di un presente sopraffatto da quelle stesse ombre, e per questo irriconoscibile. Un percorso perfettamente opposto alla rete di sensazioni ed eventi che Alvin Straight, a poco a poco, lentamente, ricomponeva lungo il suo
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viaggio, unendo due punti lontanissimi sulla carta geografica della sua memoria. E se l’urto contro il diagramma emozionale e narrativo disegnato da Mulholland Drive è tanto violento e disturbante, e non possiede analoghi nell’ambito del cinema contemporaneo, lo si deve proprio alla sua inscrizione profonda negli strati più bassi e apparentemente inviolabili del funzionamento dei codici cinematografici. Il film, infatti, non rappresenta semplicemente, ma realizza l’immagine di una relazione interrotta, di un’unità perduta: la percezione del film, dal momento in cui esso sembra ricominciare, si sdoppia in una contemplazione al tempo stesso parziale e unitaria, in una chiarezza locale e in una opacità generale, infettando la visione con l’incertezza di una presa complessiva, mentre esso scorre davanti a noi, leggibile e chiaro. Il cinema – il film, nella sua materialità sensibile e nei suoi meccanismi di base – si trasforma così nella superficie su cui si inscrive la diagnostica di una «crisi» che passa soprattutto attraverso il difficile ritrovamento di un principio di unità. Mulholland Drive s’impone come il punto d’arrivo di una progressiva rarefazione delle strutture vincolanti del linguaggio e del dispositivo cinematografico nella costruzione di un universo di senso compatto: un processo che non ha tanto a che fare con una perdita di credibilità o fiducia poetica ma, come anticipato, in una volontà di liberazione dell’immaginario convocato e strutturato dal cinema – col suo orizzonte di figure «classiche» ormai dislocate in uno spazio sbordato –, in una contemplazione della doppiezza della perdita, alla ricerca di un racconto non ancora (o non più) intrappolato nei codici della narrazione. A
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ben vedere, in effetti, lo scarto lynchiano mira all’incontro con una condizione sfuggente, ma senza dubbio più compiuta e attuale, della realtà del soggetto, della sua esperienza e della sua identità: la rinuncia alla verosimiglianza mira al ritrovamento di un realismo più «vero». Lynch, insomma, non soltanto non è un avanguardista – il punto d’arrivo delle sue procedure di destrutturazione dei codici non è mai, semplicemente, un anti-racconto – ma, al contrario, è il più realista dei registi contemporanei, così come Don DeLillo lo è tra gli scrittori – anche se le apparenze, come nel caso di Lynch, sembrerebbero indicare il contrario. Entrambi si muovono tra la verifica di ciò che è reale, secondo un’inevitabile inclinazione «meta» della loro ricerca, e la costruzione di un principio di descrizione della realtà che finisce per sostituire a un modello positivo e uniformante un modello interrogativo e aperto: come DeLillo, Lynch destabilizza profondamente il problema della verosimiglianza e della rappresentazione: non si limita a inscenare la pantomima dei codici, a intrecciare le mille trame semiotiche che corrono tra segni e referenti, rappresentazioni e oggetti rappresentati, ma pone un dubbio radicale sulla stessa definizione ontologica del presunto orizzonte di riferimento. 19
Da questo dubbio, che nasce da un profondo bisogno di realtà e, al tempo stesso, dalla consapevolezza che i codici del realismo cinematografico rappresentano un luogo di falsificazione e nascondimento, e dalla forma che assume la ricerca di una risposta, prende origine – proprio come
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accade tra le pagine di DeLillo – il sentimento perturbante che circonda i racconti lynchiani. Lynch forza la superficie compatta e la tenuta referenziale degli elementi del suo mondo, rivelando in primo luogo come ciò che è quotidiano, familiare è già di per sé inquietante in quanto nasconde, dietro l’apparenza del tranquillizzante, un nucleo di senso che lo rende sconosciuto, perturbante perché profondamente ignoto. 20
Ma è proprio in questo groviglio, contro e a dispetto della superficie nominabile e riconoscibile della cose, che si afferma la possibilità di conquistare il reale: spezzare «la circolarità semiotica di un mondo prigioniero dei segni e delle rappresentazioni di se stesso» 21 è il primo atto di una ricerca della realtà, che da qualche parte, «anche se avvolta in una ragnatela di immagini, codici, informazioni», esiste. Una realtà che esiste «come una cosa perduta, scomparsa, verso cui tendere e lottare, qualcosa che si sporge oltre il bordo estremo dell’oblio e del non detto e che tocca solo alla scrittura (ri)conquistare» 22. La perdita, di nuovo, come effige temporanea di un procedimento di (ri)conquista, come scena duplice di un’attesa, tra il bagliore di ciò che non è più e l’annuncio di un possesso inseparabile della ricerca stessa. Con Mulholland Drive, lasciando aperte e visibili le fratture che scuotono la compostezza del racconto, Lynch compone insomma il suo film più astratto e, insieme, realista: perché non si limita, come ha fatto in passato, a enunciare la pluridiscosività dell’esistenza, la sua matrice com-
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plessa, fatta di condizioni contemporaneamente presenti e latenti, attuali e virtuali, materiali e immaginarie, ma ne mostra la difficoltà dell’incastro, lo psichismo non conforme, voltando ogni singolo atto di rinuncia nel primo tempo di una ricerca più radicale. E proprio il cinema si qualifica come lo spazio di rivelazione di una contraddizione diversamente inafferrabile, o soggetta alle riduzioni – che sono già pensiero – della parola: nel quadro dell’immagine cinematografica e dello sviluppo materiale e cronologico della pellicola Lynch individua il perimetro ideale per un’epifania altrimenti impossibile, consapevole che l’effetto del «verso libero» si coglie pienamente solo nella parodia – nel senso di stare accanto e contemporaneamente contro – delle regole della retorica. Dal punto di vista figurativo, dunque, le fratture sintattiche e le oscillazioni materiche di Mulholland Drive non soltanto non rimandano a una grammatica onirica o a una scrittura surrealista, ma testimoniano una ricerca in corso attorno allo statuto del reale (alla sua «prendibilità» estetica e alla sua ontologia) in rapporto al racconto dell’identità e nel quadro della soggettività incarnata. Il film lascia intravedere il groviglio degli elementi che partecipano alla definizione del reale, al di fuori di un’organizzazione categoriale e di un principio d’unità, sotto forma di narratori, storie, immagini in conflitto: i codici segreti di Mr. Roque, le soggettive e i flashback di Diane, le oggettive del narratore, le oggettive irreali 23 che si «staccano» dallo sguardo di quest’ultimo, ma, anche, la presenza di materiali eterogenei come le miniature impalpabili dei due anziani che spuntano da un sacchetto di carta per
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introdursi poi nell’appartamento di Diane e assumere una forma umana. L’instabilità, la frammentazione e l’eteronomia di Mulholland Drive rimandano in definitiva l’immagine dell’organizzazione caotica di un mondo indifferente ai codici del realismo (scolpiti dalla grammatica e dalla sintassi della tradizione classica), e della ricerca di un modello al tempo stesso cognitivo, percettivo e visivo in grado di scrivere la realtà. Lungo l’asse di questa ricerca, Betty/Diane si impone come elemento privilegiato: sguardo, superficie carnale e spazio di esperienza e memoria, la «ragazza» (lei, un’altra) è il luogo di passaggio e di inscrizione di un dramma al tempo stesso biografico e universale, di una pluralità sostanziale e immanente. Un dramma senza soluzione o sutura o verità, perché Betty/Diane è la frattura che spacca la storia, l’identità, la narrazione, inalberando a diversi livelli principi e dialettiche contraddittori e opposti, e lasciandoli convivere in uno spazio privo di contraddizioni e opposizioni. La ricerca della realtà passa attraverso l’incontro con la sua negazione: «la più grande verità legata a qualsivoglia cosa è e non è allo stesso tempo» 24.
Per le quali si rimanda al capitolo «Il film». Più esattamente, Lynch ha girato il pilot, la seconda, l’ottava, la nona e la quattordicesima puntata, tornando alla regia per l’ultima, la ventinovesima. 3 Sigmund Freud, La negazione, Opere, vol. 10, Bollati Boringhieri, Torino 1967-1980 [1925], pp. 197-201. 4 Cfr. Riccardo Caccia, David Lynch, Il Castoro, Milano 2006, p. 131. 1 2
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Per esempio, relativamente ai personaggi, ve ne sono alcuni che variano di pochissimo (Adam), altri che modificano semplicemente il loro ruolo rispetto all’azione, fino a spegnersi nella seconda parte (il Cowboy, i fratelli Castigliane), altri ancora che modificano drasticamente caratteri salienti come il nome (Betty e Camilla). Per un’analisi del gioco delle ripetizioni presente nel film, si veda Riccardo Caccia, «È lei la ragazza». Ripetizioni e ritorni in Mulholland Drive, in Claudio Bisoni (a cura di), Attraverso Mulholland Drive. In viaggio con David Lynch nel luogo di un mistero, Il Principe Costante, Pozzuolo del Fruili 2004, pp. 53-67. 6 Cfr. Michel Chion, David Lynch, Lindau, Torino 1995, pp. 104-107. 7 L’idea dei mondi paralleli suggerisce infatti, quasi automaticamente, di distinguere tra un mondo «più reale» e uno «meno reale», con possibili fughe verso il fantastico. 8 Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1984, e Gilles Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989. Sulla teoria di Deleuze, si vedano gli interessanti commenti contenuti in Jacques Rancière, La favola cinematografica, Edizioni di Cineforum/ETS, Pisa 2006, in particolare pp. 153-172, e i saggi raccolti in Michele Bertolini, Tommaso Tuppini (a cura di), Deleuze e il cinema francese, Mimesis, Milano 2002. 9 Jacques Rancière, La favola cinematografica, cit., pp. 158-159. 10 Ha infatti ragione Roy Menarini, quando scrive che «la Hollywood contemporanea ha, sì, applicato interessanti sperimentazioni alla tradizionale linearità narrativa hollywoodiana (Pulp Fiction, Kill Bill, Memento, Sliding Doors, Ricomincio da capo ecc.), ma pur sempre rispettando la comprensibilità degli avvenimenti. Intendo dire che per questi film si è trattato di impostare nuove regole di riferimento, di comunicarle agli spettatori, e di agire di conseguenza. Per quanto lo spettatore sia infastidito e frustrato da narrazioni che non è abituato a seguire, una volta fatto lo sforzo di adeguarsi a questo nuovo set di regole ritrova facilmente il bandolo della matassa». Nulla a che vedere, dunque, con Mulholland Drive, in cui la «crisi» è rappresentata dalla «caratteristica essenziale di ciò che vediamo». Roy Menarini, David Lynch Drive. Il Mulholland-rompicapo nel paese del cinema, in Claudio Bisoni (a cura di), Attraverso Mulholland Drive. In viaggio con David Lynch nel luogo di un mistero, Il Principe Costante, Pozzuolo del Friuli 2004, p. 47. 5
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Roland Barthes, Il piacere del testo, in Roland Barthes, Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, Einaudi, Torino 1999, p. 78, corsivo mio. 12 Cfr. Franco La Polla, Il nuovo cinema americano, Marsilio, Venezia 1978 (nuova ed. Lindau, Torino 2002), in particolare pp. 133-202. Sulla malinconia in rapporto al momento creativo, si veda Silvana Borutti, Filosofia dei sensi. Estetica del pensiero tra filosofia, arte e letteratura, Raffaello Cortina, Milano 2006. 13 Per il quale i riferimenti obbligati sono: Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, Guanda, Parma 2000, e la sua «volgarizzazione» a uso e consumo degli sceneggiatori, Christopher Vogler, Il viaggio dell’eroe, Dino Audino, Roma 1999. 14 Sull’idea di manierismo cinematografico, si veda Jean-Louis Leutrat, Il cinema in prospettiva: una storia, Lindau, Torino 1997, pp. 94-96. 15 Per un’analisi dei rapporti tra Lynch e il cinema surrealista, si veda Alberto Boschi, Alessandra di Luzio, Lynch: la ricerca del sublime nell’imperfezione, in AA.VV., David Lynch, Paravia, Torino 2000, in particolare pp. 24-27. 16 Cfr. Mario De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano 2003. 17 Cfr. Jean-Jacques Wunenburger, Filosofia delle immagini, Einaudi, Torino 1999, in particolare il primo capitolo. 18 Cfr. Michel Maffesoli, Note sulla postmodernità, Lupetti, Milano 2005, in particolare pp. 41-60. Per un inquadramento generale della società e della cultura occidentale nel passaggio dalla modernità alla postmodernità, si vedano Stephen Kern, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, Il Mulino, Bologna 1995; David Harvey, La crisi della modernità. Riflessioni sull’origine del presente, Il Saggiatore, Milano 1997; Krishan Kumar, Le nuove teorie del mondo contemporaneo. Dalla società post-industriale alla società post-moderna, Einaudi, Torino 2000. 19 Federico Bertoni, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Einaudi, Torino 2007, p. 346. 20 Daniele Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, Le Mani, Recco 2004, p. 140. 21 Federico Bertoni, Realismo e letteratura cit., p. 350. 22 Ivi, p. 350. Corsivo mio. 11
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Per la definizione di oggettiva irreale, si veda Francesco Casetti, Federico di Chio, Analisi del film, Bompiani, Milano 1997, pp. 244-245. 24 Michel Maffesoli, Note sulla postmodernità, cit. 23
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Iniziare, scontornare, decomporre Il processo di decomposizione di una struttura tripartita, identificabile in un preciso modello narrativo ed estetico, di cui la forma duale di Mulholland Drive, come detto nel capitolo precedente, appare una specie di resto problematico, prolunga i suoi effetti anche «localmente», infiltrandosi a ogni livello del tessuto narrativo e linguistico del film. Con maggiore evidenza, e prevedibilmente, l’azione di tale processo influenza soprattutto il «comportamento» di alcune figure o strategie discorsive destinate a segmentare la continuità del racconto e a garantirne la coerenza; figure e strategie di cui il film compromette la tenuta, contaminando la memoria di una funzione più tradizionale con un’operatività nuova ma ambigua, per rimandare in primo luogo lo spettacolo di una spaccatura e di un’impasse. La decomposizione, per l’appunto, s’impone in questo caso come riferimento concettuale e principio organizzativo,
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così come la frattura e la decapitazione in rapporto alla struttura del film: decomposizione come perdita parziale di un’identità certa e distinguibile e di una chiarezza di dettaglio, in presenza di una forma generale ancora riconoscibile; decomposizione come irrigidimento e reificazione, latenza di specificazioni, evanescenza dell’unità. L’immagine della decomposizione, del resto, è direttamente richiamata all’interno del film, posta non casualmente tra l’assenza della materialità corporea (ma non di una traccia antropica, come suggerisce il sonoro fuori campo), la sua presenza piena e la sua dissoluzione umana ma non materiale, cui pone fine lo sparo suicida di Diane, mettendo a tacere il «rumore» della presenza soggettiva (fig. 14). Ma è tutta la sequenza – anche se a distanza – a comporre una specie di grammatica della decomposizione, in cui uno stesso termine figurativamente stabile – il corpo di una donna disteso su un letto – viene ripresentato secondo un principio di progressiva dissoluzione, marcescente oppure molecolarizzato in elementi singolari, rimossi dall’intero. E l’immagine della decomposizione, come vedremo, interessa anche il piano «teorico» del film – tutta la sequenza ambientata al Club Silencio insiste sulla dissoluzione delle unità segniche del linguaggio verbale e sullo svuotamento dei coefficienti «umani» della materia – mentre sul piano figurativo ricorrono immagini legate all’idea del distacco, della rottura e della propagazione, dallo sdoppiamento prodotto dallo specchio al vibrato o allo sfocato che scuotono il profilo delle cose, fino a un passaggio contagioso di elementi liquidi. Se insistiamo su questo punto è per cogliere il senso profondo dell’operazione lynchiana e la coerenza di un ge-
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sto distruttivo (anche se non violento) a cui segue non tanto una (ri)costruzione quanto, piuttosto, una liberazione spontanea e incontrollata di «materia» in vista di nuove possibilità esistenziali e combinatorie. Il venir meno di una valida legislazione formale, culturalmente e artisticamente riconoscibile, passa attraverso un crollo del modello su se stesso e ha la forma contorta dell’ammasso di macerie o della montagna di rifiuti (come quella che fa da sfondo al barbone della sequenza 41): anche a questo proposito, viene di nuovo alla mente l’opera di un altro grande (anti)narratore contemporaneo, Don DeLillo, che sulla problematica nozione di containment 1, e su una sorta di «poetica» dei rifiuti, ha fondato il suo capolavoro, Underworld. Mulholland Drive è il resto di una liberazione seguita a un crollo, la rottura di un argine per troppa pressione interna o per eccessiva debolezza della forma-contenitore: una specie di day-after perturbante, il risultato di un trauma estetico che, stravolgendo un ordine di descrizione e di contenimento, ha liberato ciò che prima si teneva, nascosto oppure rimosso, o semplicemente invisibile perché strutturato. E tutto si dà, contemporaneamente presente, sulla scena di un unico dramma. Alle forme incaricate di marcare una differenza e di erigere un bordo, di stabilire un ordine e di misurare il tempo e lo spazio del racconto, deriva così un’opacità funzionale che non è semplice indistinzione, luddismo postmoderno o caos organizzato, ma molteplicità rivelata su sfondi concettuali diversi. Il caso d’analisi esemplare – rimando al capitolo successivo per alcune osservazioni attorno alle figure del corpo – è quello delle dissolvenze e, più in
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generale, delle figure di passaggio e contenimento che avrebbero il compito di articolare la relazione tra le diverse storie (le loro differenti realizzazioni, i loro istanti lontani) messe in scena – ma forse solo «in fila» – dal film. Come osserva Valentina Re, il film di Lynch sembra cominciare tre volte, in tre mondi che paiono completamente diversi e seguendo modalità, anch’esse, radicalmente differenti. Ma, oltre a essere marcato, l’incipit di Mulholland Drive è visibilmente parcellizzato, frantumato, elusivo […], quasi a inaugurare, riflettendola su se stesso, quella frantumazione che investirà l’intero corpo del film. 2
I tre inizi corrispondono alle sequenze 1 e 2: nella prima l’ouverture del jitterbug seguita dal movimento della macchina da presa che esplora la superficie di un letto per poi tuffarsi nella profondità oscura di un cuscino (dal punto di vista sonoro, si passa dalla musica della danza a uno dei più classici sottofondi lynchiani, reboanti e oscuri, riempito da un respiro umano); nella seconda, al termine dei titoli di testa, si assiste invece all’urto tra la limousine su cui viaggia Rita e un’auto con alcuni giovani a bordo; l’episodio dà avvio all’azione vera e propria del film. Il primo segmento si caratterizza per una marcata continuità: alcune coppie ballano, staccate da una collocazione spaziale verosimile e da una qualsiasi logica di sviluppo temporale; le figure dei danzatori – anticipate nel loro apparire da un ralenti di ombre in movimento emergenti dal nero – si sovrappongono le une alle altre, si moltiplicano (per cui ogni singola coppia è presente sullo schermo in
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più «versioni», con i diversi momenti della danza proposti contemporaneamente), si tagliano e incorporano su un fondo viola, posseggono dimensioni diverse, svaniscono in dissolvenza, si riducono a pure ombre (fig. 15). A esse si sovrappone prima una macchia bianca e tremolante (fig. 16), che si precisa poi come l’immagine di una ragazza bionda e sorridente tra due anziani, un uomo e una donna; sparita questa, emerge in primo piano il volto sorridente e sovraesposto della sola ragazza, il cui ingresso è accompagnato da un rumore di applausi; a questa immagine, ma senza giungere mai a fuoco, si sovrappone di nuovo l’ombra bianca e poco distinguibile della ragazza, circondata adesso di nuovo dai due vecchi sorridenti (fig. 17). Intanto, le silhouette dei ballerini hanno lasciato il posto alla prima inquadratura del film, perfettamente visibile dopo qualche secondo, quando svaniscono, sempre in dissolvenza, anche le altre due immagini «scontornate». Più che di immagini, a ben vedere, si tratta di formazioni visive o di oggetti – privi però di peso e consistenza – assemblati aleatoriamente in uno spazio privo di coordinate spazio-temporali; in effetti non esiste neppure una vera e propria inquadratura: nessuna cornice, nessuna logica di campo e fuori campo, nessuna profondità, nessun effetto di tridimensionalità «reale»; a contenere lo spazio, soltanto i bordi materiali del quadro. Anche la logica della sovrapposizione tra gli oggetti non può essere descritta ricorrendo ai più tradizionali termini di assolvenza o dissolvenza: sullo spettacolo dei ballerini che danzano sdoppiati nelle loro ombre oppure in copie di diverso formato, emerge, come fosse una faticosa messa a fuoco, tremolan-
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te e indecisa, l’immagine della ragazza, in un gioco di vibrazioni luminose: la forma gassosa del suo presentificarsi, piatto e anodino (in termini di coerenza figurativa), sullo sfondo della danza, rimanda piuttosto a certe caratteristiche intermittenze lynchiane, di luce e di suono, alla logica dell’accensione e dello spegnimento, della manifestazione e della cancellazione. Si tratta di immagini embrionali, irrisolte sia dal punto di vista cromatico sia plastico, staccate rispetto a uno sfondo, orfane di una storia. Sono, letteralmente, schegge di un’altra storia, elementi sfuggiti al quadro, fuoriusciti dal racconto: ce ne renderemo conto in seguito, quando ritroveremo le figure della ragazza, Betty/Diane, e dei due vecchi all’interno del film, trasformate in veri e propri personaggi, senza con ciò poter archiviare queste prime formazioni visive – pure icone o Immagini in senso deleuziano 3 – come semplici elementi prolettici. Dal punto di vista figurativo, infatti, non appartengono (ancora) al mondo del racconto, ma condividono con questo uno spazio comune, almeno in termini visivi se non proprio narrativi. Il senso del loro stare insieme, poi, l’una dentro l’altra, sovrapposte alla danza dei ballerini, rimanda a una pratica confusiva come quella del collage: tutte le forme di questa prima sequenza appaiono infatti ritagliate, sottratte alla profondità di un set e alla disciplina gerarchica di una forma chiusa. Il fondo viola, a sua volta, rimanda allo spazio piatto e compenetrabile del blue-screen, a un luogo puro e semplice, a uno spazio operativo 4. Che la sequenza del jitterbug possieda una forte valenza meta-teorica è indubbio e, non a caso, assieme ad altri momenti del film (primo fra tutti la scena ambientata al
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Club Silencio), ha attirato l’attenzione di buona parte della critica. Dalle formazioni che si incidono sulla superficie occupata dai ballerini, inoltre, attraverso un complicato gioco di inscrizioni e scancellature, si passa al primo ambiente del film, mentre l’immagine della ragazza affiora ancora una volta, prolungano la nebulosa biancastra della sua epifania nell’inquadratura successiva. Dall’impianto statico, senza profondità né punto di vista della sequenza iniziale, si passa così a un puro movimento di macchina che esplora la superficie di un letto per poi tuffarsi nell’oscurità incalcolabile di un cuscino (fig. 18), mentre alla musica si sostituisce il respiro affannoso di un corpo assente. Dal nero, l’immagine riapre sul cartello stradale di Mulholland Drive (illuminato da una luce fredda e intermittente), facendo scorrere i titoli di testa in parallelo al movimento sinuoso, curva dopo curva, di una limousine nel cuore della notte, mentre il procedimento di disarticolazione di una temporalità e di una spazialità calcolabili, inaugurato con la danza dei ballerini, continua sotto forma di in una serie di dissolvenze incrociate. In effetti, a proposito di questi tre diversi momenti del prologo del film, anziché rimarcare una volta di più le discontinuità prodotte dal loro incastro imperfetto in rapporto alla struttura del racconto (rispetto al quale costituirebbero un incipit imprendibile), varrebbe la pena di segnalare i motivi di coerenza interna: osservati come un’unica, lunga sequenza, i tre frammenti che conducono il film a incontrare i suoi primi personaggi e il suo primo evento somigliano allo spettacolo faticoso, incerto, tremolante di un’incarnazione, di una «messa al mondo» del film nel
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tempo e nello spazio di una storia. L’itinerario procede coerentemente da un piano più astratto (la danza dei ballerini) a uno più concreto (il fluire della limousine), da uno più immateriale a uno più stabile. L’opacità e la sfumatura vi ricorrono in effetti come il dato figurativamente saliente, restituito ora attraverso gli sdoppiamenti dei ballerini e il fluire gassoso di Betty e dei due vecchietti, ora attraverso il fuori fuoco del secondo segmento, infine per mezzo degli incroci morbidi delle dissolvenze. Questo percorso di progressiva messa a fuoco del corpo del racconto si conclude, coerentemente, con un segmento in montaggio alternato, cristallo perfetto di tempo-cinema in cui la logica dell’alternanza per mezzo dello stacco netto si oppone all’incrocio a-grammaticale dell’inizio. L’itinerario seguito dai corpi è del tutto identico: dalle figure bidimensionali del jitterbug al corpo assente (perché incluso nella soggettiva) o mancante del secondo segmento fino a quelli del terzo, di cui l’incidente prova letteralmente la resistenza, facendone morire alcuni e facendone vivere altri. E altrettanto coerentemente, per piccoli passi incerti, si annuncia l’emersione di un’istanza enunciazionale «forte» 5, che nel montaggio alternato trova la sua più classica – e quasi originaria – manifestazione. In questi termini, si rafforza l’impressione – comune alla critica, al di là delle spiegazioni che ne sono state date – che l’incipit di Mulholland Drive sia altro, e valga per qualcos’altro: da un lato, come diremo tra poco, esso assume un preciso valore meta-teorico rispetto al film; dall’altro lato, con riferimento al discorso fin qui fatto, il suo balbettio appare come il malfunzionamento (o la «malscrittura» in
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senso foucaultiano 6) di un procedimento ormai inceppato e di una pratica in via di decomposizione, in parte irriconoscibile, in parte rinnovata; il processo di fatiscenza in cui sembra colare il film – ormai è chiaro – finisce per dotare inevitabilmente la scrittura cinematografica e certi suoi topoi di un risvolto metadiscorsivo. Così le dissolvenze diventano altro, e si comportano diversamente; così l’ingresso nel film emerge soprattutto, e ha valore, come rappresentazione di se stesso: del processo di un inizio, dello spettacolo di un avvio. Anche in questo caso, Lynch prende le distanze da certe abitudini comuni al cinema contemporaneo, in cui l’ingresso dello spettatore nella finzione tende a cambiare di tragitto e procedure 7. Egli, infatti, non si limita né a moltiplicare l’avvio (a cominciare tre volte), né a scorciare i tempi e a rendere più bruschi i modi (come se il film fosse già cominciato); più radicalmente, trasforma l’incipit in un inizio, nella prima cosa che vediamo del film, opacizzandone la referenzialità diegetica rispetto al seguito del racconto e, ancora una volta, sollecitando un conflitto materiale tra il particolare valore posizionale di ciò che vediamo («un inizio») e la sua natura testuale; al tempo stesso, trasforma una struttura nella scena di un processo, un inizio in un iniziare. I codici tradizionali della punteggiatura e della sintassi dell’incipit risultano dunque corrosi e al tempo stesso rinnovati, all’incrocio tra la memoria spettatoriale di una meccanica neutra e lo spettacolo cinematografico della loro decomposizione. Si riafferma così, fin dall’inizio di Mulholland Drive, il vero punto di crisi del film, continuamente rilanciato dal piano micro-strutturale a quello più generale del racconto:
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la frizione tra un’ipotesi cognitiva comunque sollecitata, anche se in tono minore, dal ricorrere di alcune procedure linguistiche abituali, e il progressivo disvelamento della loro impasse estetica e grammaticale, orientata però non in senso meta-critico (come accade di norma nel cinema contemporaneo) ma intesa come il primo passaggio obbligato di una ricerca di ordine superiore, da condurre necessariamente al di là delle routine cognitive e passionali del discorso cinematografico. Non diversamente, infatti, funzionano le tante rime interne che legano la prima alla seconda parte: il ritorno di personaggi ed elementi, di poco o tanto modificati sul piano narrativo o figurativo, non si affida ad alcuno schema riconoscibile (come invece accade, per tornare a Il Mago di Oz, tra i personaggi reali e quelli «travestiti» dal sogno di Dorothy), né il senso della loro successiva apparizione sembra rinviare a un unico principio di funzionamento. La rima si traduce così in assonanza, uno schema di corrispondenze in una serie di allitterazioni del significante: ciò che emerge in primo piano è una relazionalità debole e indecisa, e pur tuttavia presentissima, in cui si afferma un principio di coabitazione di elementi appoggiati a un piano spazio-temporale senza bordi. Il destino «teorico» delle figure che popolano l’universo di Mulholland Drive è del resto anticipato dall’eccentrica matericità dei ballerini del jitterbug: essi non rappresentano tanto la traccia di una nullificazione dello spessore dell’immagine quanto, piuttosto, l’intreccio irregolare di momenti e tempi successivi della loro storicità narrativa ed evidenza oggettuale e corporea (dal «pieno» della figura al vuoto dell’ombra), una sintesi
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di istanti puntuali favorita dal crollo di una precisa collocazione mimetica della loro azione. La pluralità e l’apertura, la lenta decomposizione di una classicità comunque assunta come termine di riferimento, lo spettacolo della senescenza, dell’oblio e della perdita offerto senza alcuno spirito archeologico o collezionistico ma anzi colto nel tempo del suo processo – un tempo altro, sotterraneo e disumano: Mulholland Drive organizza l’immagine di una frammentazione ancora memore dell’unità perduta e tuttavia irrecuperabile; non procede ad alcuna divisione – come accade invece in Il mago di Oz – né ad alcuna disposizione, e riesce così a liberare la complessità ordinaria – perché nascosta, non assente – della realtà, al di fuori di ogni schema di riferimento e contenimento estetico, narrativo, morale. Lynch mette in scacco il principio essenziale del funzionamento della ragione umana, «che può e vuole promulgare l’unità»; si sottrae alle lusinghe del «fantasma dell’uno che appartiene alla tradizione occidentale» 8, e che si ribatte, sul piano discorsivo, in quel «principio dell’Uno» già incontrato nel capitolo precedente attraverso le parole di Deleuze e Rancière. Una solidarietà di pratiche e obiettivi, tra risultati artistici e sfondo sociale e culturale in cui essi sono realizzati e circolano, che conferma la matrice profondamente «attuale» del cinema di Lynch e che proietta l’autore tra i maggiori rappresentati di un possibile «cinema filosofico» 9: l’opera di Lynch costituisce da un ventennio a questa parte – e particolarmente grazie agli ultimi tre film – uno dei termini di confronto più stimolanti per l’estetica e la filosofia contemporanee, per la sua capacità di rilanciare ogni vol-
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ta, e da angolature sempre diverse, il dibattito attorno alle più classiche questioni mobilitate dall’immagine, in generale, e dallo spettacolo cinematografico, in particolare. La ricerca, tuttavia, non è isolata: il lavoro di Lynch si inscrive in un territorio ampio e frastagliato della produzione letteraria e audiovisiva degli ultimi anni, oggetto delle riflessioni contenute nel bel saggio di Michel Maffesoli sulla postmodernità, dedicato in particolare agli stereotipi e agli archetipi della duplicità che percorrono, come un’ossessione trasversale alle culture e ai mezzi d’espressione, il presente, caratterizzandosi, sotto il profilo sociologico, come indici di un desiderio cruciale di fuga nell’immaginale; una produzione che mette in crisi la padronanza del sé tipicamente moderna, per sostituirvi un regime in cui la frammentazione del «me» individuale appare prioritaria e tutto sommato incontrollata. Il fenomeno, se non ricondotto a una cornice mitica, capace di contemplare e al tempo stesso addomesticare lo spettacolo della molteplicità esistenziale, rischia derive preoccupanti, col riaffioramento patologico di condizioni un tempo rinviate alla disciplina della narrazione 10. In fondo, anche se forse in modo maldestro, la produzione letteraria e audiovisiva citata da Maffesoli – da Harry Potter ai serial televisivi su streghe e demoni, fino ai giochi di ruolo in rete – rappresenta una prima tipologia di organizzazione del desiderio contemporaneo di fuga rispetto alla chiusura identitaria: la manifesta e, al tempo stesso, tenta di narcotizzarla. Buona parte del cinema di Lynch, e in primo luogo Mulholland Drive e il recente INLAND EMPIRE, ricade – come abbiamo anticipato nell’introduzione – nel quadro di
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questa attrazione verso l’indagine della dimensione plurale della realtà, liberata per mezzo di «organismi narrativi» che sappiano non soltanto manifestarla ma viverla e testimoniarla, incorporandola come principio di funzionamento. Sotto il profilo estetico e ideologico, l’opera di Lynch, anche se sgravata da certi echi fantapolitici, si avvicina molto anche alla ricerca dei maggiori romanzieri contemporanei, dal già citato Don DeLillo a Thomas Pynchon, Paul Auster e James Ellroy, condividendone in particolare l’interesse per quella «scienza delle forze oscure» che lo stesso DeLillo, in Underworld, definisce dietrologia: una scienza adatta a un «mondo insidiosamente duplice, rifratto, allusivo», in cui sembra che ogni cosa possieda una funzione segreta e un significato recondito, «un mondo di connessioni e di coincidenze apparentemente fortuite ma forse guidate da una misteriosa intelligenza centrale, un Deus absconditus» (ci si ricorderà, in proposito, della lettura a cui la Nochimson sottopone il personaggio di Mr. Roque), un mondo di «complotti, cospirazioni, forze occulte, disegni segreti, codici cifrati, fobie numerologiche, culti esoterici» 11. Un mondo governato dal «mistero di Dio», e che conduce inevitabilmente a sperimentare nuove forme di romance. Di questa ricerca Velluto Blu, primo saggio compiuto di poetica lynchiana, è quasi un testo teorico: il film, modellato in trasparenza sulla mitologia dell’ombra, ruota attorno allo scontro tra l’ideale solare (razionale) e il suo «paredro» notturno, inscenandolo non casualmente all’interno dell’uomo «medio» della modernità capitalistica, Jeffrey, definito dalla sua chiara collocazione sociale su uno solo di
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questi due poli (nella fattispecie, il primo). La filmografia successiva di Lynch non ha fatto altro che approfondire il confronto con i nascondimenti, gli oblii e le contraddizioni necessarie su cui si fonda la costruzione dell’identità e il mistero del reale; come in un panopticon osceno, ha scandagliato la pluralità dell’essere umano (e non semplicemente la multiformità dei mondi che egli abita) e le diffrazioni che da essa originano quando le superfici e i bordi e una certa legislazione comportamentale e morale, prima ancora che sociale o culturale, destinati a contenerla e a identificarla, se la lasciano sfuggire. Quando, cioè, i significanti formali – prima di tutto linguistici – incaricati della denominazione e della segmentazione del reale vacillano, proprio come accade in Mulholland Drive: ne sono un esempio fin troppo evidente gli slittamenti connessi al nome proprio delle protagoniste femminili; ne sono un esempio più interessante e sottile le insicurezze grammaticali di cui si è detto più sopra, riconducibili a un regime della frattura e della decomposizione. Frattura e non semplice frammentazione. Se è senz’altro vero che tutto il cinema di Lynch insiste attorno a un’idea postmoderna di soggetto, intercettandone la complessità al di fuori di un sistema classicamente binario di ordini morali e di esperienze identitarie e corporee univoche, è anche vero che l’elemento distintivo del suo cinema riguarda l’incorporazione estetica di questa condizione: la diagonistica si fonda sulla condivisione della «patologia», condotta attraverso il medium che, meglio di ogni altro – avendo contribuito in prima linea alle trasformazioni più resistenti del soggetto novecentesco 12 –, può documentarne l’esistenza.
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Betty/Diane, o della caduta Il punto d’arrivo di questa riconfigurazione della narratività è la compresenza perturbante di figure 13 – o puri fatti, per come esistono e inter-agiscono al di fuori della «sensatezza» logica e referenziale di un racconto – riunite in uno stesso spazio d’azione e di percezione, secondo rapporti opachi o inintelligibili prodotti da una relazionalità non riconducile ad alcun arco drammaturgico tradizionale o schema concettuale prevedibile. Mulholland Drive non ha quasi (più) nulla da narrare ma molto da presentificare: sono gli istanti incommensurabili di una storia possibile ricondotti al principio puro della narratività e ai suoi momenti cardinali, secondo un movimento non dissimile dalle procedure d’astrazione che staccano, liberandola, la figura dalla figurazione. Il film, scendendo intelligentemente a patti e anzi approfittando della natura analogica dell’immagine cinematografica, procede verso un’astrazione mimetica del farsi storia delle cose: sottraendosi continuamente alla compiutezza del racconto, Mulholland Drive indebolisce logica e cronologia degli eventi, li innalza a puri fatti e così facendo realizza – proprio come accade in certi polittici senza sintassi di Bacon – la coabitazione (ma forse la fluttuazione e il reciproco contagio) di più universi soggettivi, non grammaticalizzandoli attraverso il riferimento a un’identità, a una storia, a una sequenza di azioni, ma sublimandoli nella purezza della sensazione. È esattamente quello che Deleuze, nell’analisi delle coppie ricorrenti nella pittura di Bacon, definisce Matter of Fact: due figure accoppiate – o una sola figura accoppia-
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ta in due corpi – tra le quali, tuttavia, non esistono relazioni illustrative o narrative, e tanto meno logiche: «Si tratta del caso in cui l’accoppiamento delle sensazioni a livelli differenti costituisce la Figura accoppiata (e non l’inverso)» 14. Un’unità visivamente compromessa dallo sfaldarsi della linea – così come, in Mulholland Drive, cedono le linee guida del racconto –, un diagramma il cui tratteggio non unisce che sensazioni; senza il minimo accenno a una storia plausibile, una figura è comune a due corpi e un fatto è comune a due figure. Nella doppia via di un cinema figurativo e di un cinema astratto – ancora una volta, una duplicità co-presente e irriducibile alle sue componenti singole – Mulholland Drive, attraverso la figura complessa di Betty/Diane, mette in risonanza due sensazioni opposte, le fa abbracciare nel quadro di un’esperienza percettiva unitaria a partire dalla frattura che libera il figurativo dal narrativo; non realizza alcuna storia ma istituisce un rapporto, né puramente logico né semplicemente romanzesco, tra due figure incarnate e accostate in un fatto comune. Staccare le immagini dalle loro storie, le storie al loro prevedibile sviluppo drammatico, lo sviluppo agli ordini cardinali del tempo e dello spazio: viene alla mente Magritte, quando scrive che sia nei momenti ordinari della vita, sia in quelli straordinari, il nostro pensiero non manifesta appieno la sua libertà. È incessantemente minacciato o coinvolto in ciò che accade. Coincide con mille e una cosa che lo limitano. Questa coincidenza è quasi permanente. 15
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La liberazione si realizza dunque attraverso un gesto di rottura. Ma i frammenti – come accade in Mulholland Drive – devono restare vicini, sparpagliati sulla stessa scena, a ricordare ciò che si è perduto, l’unità di cui erano parte e dai cui traevano senso e giustificazione: la memoria di un principio di organizzazione urta allora contro l’arrangiamento temporaneo di una nuova realtà e contro il valore assoluto del frammento. C’è un momento nel film in cui le due condizioni, in forma di fatto e frammento, di cui testimonia il percorso di Betty/Diane, si rendono espliciti (non casualmente, attraverso la violazione della grammatica tradizionale del campo/controcampo, ennesimo caso di rottura, «controllata» dall’interno, dei codici del linguaggio cinematografico). Si tratta della sequenza 33. Diane si trova sola in casa, quasi deturpata, nei gesti e nel volto, da un malessere che non l’abbandonerà fino all’epilogo suicida; improvvisamente, mentre prepara un caffé ancora in vestaglia (fig. 19), vede o crede di vedere nel suo contro-campo, per un brevissimo istante – pura figura isolata su uno sfondo blu – Rita/Camilla, sorridente (fig. 20). Ma è una visione, forse un’allucinazione: l’inquadratura torna presto su Diane, che abbandona il sorriso con cui si era rivolta all’amica e amante sussurrandole «Sei tornata», per riassumere la contrazione della sua maschera sofferente (fig. 21). Perché nel controcampo c’è lei (fig. 22) so, meglio, la memoria insopportabile del suo passato amoroso accanto a Camilla, come denuncia la sovrapposizione grammaticale e figurativa, nello stesso spazio immaginale, dei due corpi. La visione coincide infatti con la fugace riappropriazione di un senti-
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re ormai remoto ma non ancora dimenticato, di una relazione interrotta e irrecuperabile se non attraverso la violazione di un principio di scrittura. Ciò che realizzano le due parti di Mulholland Drive è insomma un accoppiamento tra due sensazioni in lotta, «un corpo a corpo di energie» in cui l’impossibilità di una relazione non pregiudica l’esistenza di un rapporto, e in cui l’allentamento dei vincoli narrativi non impedisce la partecipazione a un unico fatto: solleva le figure dal piano del racconto e ne offre una versione sublimata, corrispondente ai ritmi di base della narratività (come abbiamo visto nel capitolo precedente) e al piano del sensibile. Con ciò, non si deve intendere – come troppo spesso è accaduto in rapporto a questo e ad altri film di Lynch, giocando male e senza regole con le idee, tanto di moda, di sensazione, percezione, corporeità – che Mulholland Drive vada «vissuto», «sentito», «sperimentato» anziché visto, seguito, capito 16. Anzi, nella filmografia di Lynch non v’è film più concettuale e «razionale», controllato e ordinato di questo: il percorso di incorporazione linguistica della complessità esistenziale dell’essere umano, alla ricerca di uno sguardo libero se non addirittura ingenuo sul groviglio della realtà, raggiunge in Mulholland Drive una chiarezza di risultati senza precedenti, cristallizzando senza zone d’ombra conflitti, duplicità, immanenze altre volte restituite dal regista all’interno di regimi simbolici meno originali o secondo procedure decisamente più confusive e incontrollate. Per il suo particolare arrangiamento narrativo ed enunciativo, Mulholland Drive rimanda piuttosto lo spettacolo di una risonanza contagiosa di due sensazioni o, meglio,
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l’istantanea degli stadi estremi e conflittuali di una sensazione complessa, in cui la duplicità strutturale sancisce un rapporto (un accoppiamento) senza inalberare una «storia». Il resto, o la rovina, di un ordine grammaticale e delle sue procedure semantiche libera il film dalla narrazione e lo apre a una moltitudine di ipotesi, a un regime cognitivo del forse di cui si avverte molto presente l’inevitabilità ma, anche, l’inessenzialità, se la domanda che segue il dubbio è posta per reintrodurre semplicemente un’organizzazione narrativa «ordinaria». Un regime del dubbio o dell’ipotesi, sospeso e senza conseguenze reali, che si manifesta linguisticamente anche nel film, e in primo luogo nel dialogo – quasi un manifesto di «strategia» – tra i due detective giunti sul luogo dell’incidente che ha coinvolto Rita, infarcito di espressioni dubitative o probabilistiche come «could» o «maybe» (sequenza 3): DETECTIVE HARRY MCKNIGHT: Yeah, they showed me. DETECTIVE NEAL DOMGAARD: Could be unrelated. DETECTIVE HARRY MCKNIGHT: Could be… any of those dead kids wearin’ pearl earrings? DETECTIVE NEAL DOMGAARD: No. Could be someone’s missin’ maybe. DETECTIVE HARRY MCKNIGHT: That’s what I’m thinkin’. 17
La «storia» di Betty/Diane – le sensazioni intrecciate e complesse di cui essa è il momento, la materia presente, l’esperienza, senza accedere mai alla forma organizzata del simbolo o dell’allegoria – rimanda l’immagine di un ritmo duplice, e insieme di una cadenza (poiché solo la musica
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scioglie legami senza stabilizzare gli ossimori, rendendoli al contrario fluidi, compresi in un gioco di flusso e riflusso): il tempo di un movimento forzato, di una melodia di cui la figura – e soltanto la figura – può diventare testimone. Le sensazioni messe in gioco nei diversi corpi – all’origine della lotta e dell’abbraccio, e non viceversa, come già si è notato più sopra a proposito del senso e del valore della frattura – si precisano lungo il film come due movimenti opposti ma contingenti, riuniti nell’ordine provvisorio e forzato del fatto: i movimenti dell’ascesa e della caduta, dell’epifania e della negazione, della nascita e della morte. Due movimenti realizzati sia attraverso il gesto registico, sia attraverso l’azione del corpo di Betty/Diane, e che rinnovano sul piano figurativo quella dinamica (priva di dialettica) di latenze contemporaneamente presenti e di opposizioni o contraddizioni offerte senza mediazione, nell’assenza di una regia del concetto o di un fare decisionale. Un’opposizione salita-discesa, un ritmo attivo e uno passivo, un movimento nascente e uno conclusivo si scontrano dunque nell’orizzontalità del «quadro» e nella linearità dello scorrimento forzato delle immagini, prendendo corpo, e infine significato, attraverso le figure di Betty e Diane, le quali, a loro volta, si traducono nella forma osservabile di un fenomeno altrimenti inafferrabile: il cinema, per Lynch, è anche «un campo performativo, in cui l’astratto, grazie alla macchina, si fa direttamente osservabile», assieme al transito delle forme che partecipano alla definizione della realtà, tra condizioni potenziali e virtuali e condizioni attuali e reali 18. Betty e Diane s’impongono insomma come due principi astratti che, accostati, disegnano un
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arco trasformativo e un’opposizione «sensata» senza tuttavia inaugurare una «storia»: sono, semmai, l’uno la retrogradazione dell’altro, e compongono una melodia reversibile, il cui orientamento è provvisoriamente deciso dalla loro distribuzione testuale. L’unità costituta dall’accoppiamento delle figure di Betty e Diane si stacca dalla scena che le circonda e le contiene per dare forma ai principi opposti di un unico movimento, traducendosi in una superficie di inscrizione di ritmi, tensioni, energie. E mentre la natura discorsiva dei due corpi li sottrae a un principio d’ordine narrativo, etico o morale, l’accoppiamento porta in scena gli istanti incommensurabili di un tragitto sensibile, di una logica della sensazione che ha nella caduta il suo punto di svolta e di massima intensità. Cade la scatola blu: dalle mani di Camilla o forse dallo sguardo del narratore. La traiettoria inaugura il movimento della seconda sezione del film, col corpo di Diane definitivamente precipitato sul letto vuoto dell’inizio. La caduta del corpo è l’effige di questa seconda anta del polittico, anticipata dal crollo di Rebekah Del Rio (fig. 27) sul palcoscenico del Club Silencio (e dalla separazione che così si compie tra la superficie materiale dell’emissione vocale e la produzione immateriale e atmosferica del suono), e rimandata sineddoticamente, già prima, dai simboli delle stoffe e degli abiti caduti: appena entrata in casa di zia Ruth, Betty riconosce un mucchio di panni per terra (quelli di Rita, fig. 26), mentre sul letto, ordinatamente disteso, c’è un vestito da sera che le ha lasciato la zia in vista di qualche soirée (fig. 25). Il transito tra concretezza e astrazione, l’emergenza di un principio della frattura e della decomposizione, l’al-
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lentamento della tenuta semiotica di parole, corpi animati e inanimati e, infine, l’andamento del percorso di Betty/Diane fino all’estremo della caduta nella morte, trovano proprio nella scena del Club Silencio la loro contemporanea manifestazione. Lì Betty assiste alla rappresentazione condotta da un presentatore luciferino come fosse una pura superficie percettiva, su cui si inscrivono, senza alcuna mediazione cognitiva, i segni della luce e la melodia della musica: spossessata, quasi, delle facoltà razionali e ordinatrici, Betty accoglie la legge di un regime puramente sensibile. Condotta nel locale dall’invito meccanico che prende forma attraverso Rita addormentata (un’altra tipologia di possessione, col corpo percorso da una voce e da un ordine che appartengono a un altro vissuto o a un altro personaggio, e che sono pura forza sonora, in anticipo sulle scissioni materiali a cui assisteranno le due ragazze di lì a poco), Betty viene letteralmente travolta dallo spettacolo. È colta prima da un fremito incontrollabile e arcaico, da un’ondulazione sensibile e magica, poi, assieme a Rita, viene trafitta da un dolore puro, fino a piangere lacrime che parlano senza dire nulla, nella pura effusione del senso. Di questo senso, noi non siamo più padroni: ci attraversa per donarsi e perdersi […]. Piangere senza sapere perché, e non lasciar scendere, semplicemente, le lacrime, come se fossimo ancora noi a decidere di loro, ma piangere la tristezza o la gioia, e non più di tristezza o di gioia, piangere nell’oblio del nostro dolore. 19
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Nell’unità della catastrofe, l’uomo scopre il ritmo delle sensazioni, e la loro energia, come pura forza. Nella sequenza del Club Silencio gli oggetti si staccano dai loro referenti e la totalità si decompone. Da un lato, Betty sperimenta il disfarsi dell’unità percettiva: i suoni e le voci si dividono dai loro strumenti di emissione, e l’ordine di ascoltare si traduce, sul palco, nella sinestesia di uno spettacolo cromatico che associa una dominante blu a un rombo sordo simile a un tuono prolungato e, in platea, in una risposta fisica sproporzionata, col corpo – l’intero corpo – sopraffatto dall’ascolto e travolto dai suoni. Dall’altra parte, Betty partecipa a un piccolo saggio di teoria del linguaggio, con particolare riferimento alla natura instabile dei segni, prodotta dall’accoppiamento provvisorio – questione di storia e cultura, uso e tradizione – tra significanti e significati. Il presentatore, infatti, pronuncia la stessa frase tre volte – «No hay banda», «There is no band», «Il n’y a pas de orchestra»: è la stessa frase e, al tempo stesso, si tratta di tre proposizioni diverse; possiedono un senso quasi identico ma tre forme di manifestazione diverse. Rappresentano, in miniatura, una dimostrazione di come l’identico sia abitualmente intrecciato al dissimile, e di come l’unità sia un’organizzazione accidentale e dall’origine segreta e, soprattutto, un dato culturale o una costruzione psicologica, senza nulla di naturale. Le due rappresentazioni coincidono dunque nel segno della frattura: la polverizzazione dell’unità che garantisce la percezione organica del soggetto e lo schema unitario della prensione sensibile del sé e del mondo si riflettono nella fragilità degli accoppiamenti segnici che definiscono
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– nominandolo e innalzandolo al grado di parola – il mondo che ci circonda. L’unità viene messa in discussione in quanto agglomerato temporaneo e instabile di elementi singolari, tra l’astrazione dei significanti, il simbolismo dei significati e la concretezza dei referenti, mentre la frattura – ancora una volta – si impone come regime privilegiato contro i codici dell’Uno, in vista di una liberazione e di una relazione singolare e piena, senza le mediazioni e le pre-visioni del senso, tra il soggetto e gli elementi che si offrono alla sua percezione e che disegnano il profilo della «sua» realtà. I suoni – puri suoni, e per questo così violenti, ridotti all’urto delle loro onde contro la pelle e gli organi dell’ascolto – si liberano della superficie materiale che li produce e distingue (il presentatore, non a caso, specifica con un certo puntiglio a quali strumenti essi appartengono); le voci si staccano dai loro supporti carnali – che spariscono, o si riducono a marionette, o cadono afflosciandosi su se stessi – mentre la parola si spalanca, divaricandosi nel pulviscolo del senso e nella superficie scrivibile/udibile dei significanti. La cadenza del percorso di Betty ha un’origine identica. Si realizza in un movimento prodotto dalla frattura che scardina il racconto e dissemina le sue componenti e, al tempo stesso, colto alle sue estremità, esso rappresenta il principio vitale di quella stessa frattura: perché nella caduta precipitosa della ragazza, senza intervalli o racconti intermedi ma testimoniata dagli istanti cruciali dell’avvio e della conclusione, la duplicità si manifesta e l’opposizione si trasforma nell’istantanea di un’opposizione radicale non ancora piegata a un ordine e a una logica morale o etica.
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Lungo un itinerario figurativo della caduta dei corpi che da Füssli, Ingres, Goya e Coubert conduce fino a Degas e Manet, Betty – ultima incarnazione della ninfa warburgiana, «organismo enigmatico» che declina a poco a poco avvicinandosi ai tempi moderni – è la sede di una dinamica della biforcazione. Il suo stato di clinamen non rimanda soltanto – come etimologia vuole – all’immagine del corpo reclinato o del letto – che pure diventa, nel film, un «accessorio» quasi inseparabile della figura di Betty, telo provvisoriamente teso lungo il tragitto della sua discesa; clinamen riferisce anche, se non soprattutto, della deviazione del movimento che, a ogni istante, minaccia la caduta. Apparentemente rettilinea, condotta dalle forze della gravità, la caduta è invece «un insieme di biforcazioni possibili dove, improvvisamente, agiscono forze in conflitto, tensioni deviate» 20. Spinta al suolo dalla modernità, dopo aver rappresentato la creatura della sopravvivenza in epoca umanistica, la ninfa incontra un destino ulteriore nella rappresentazione lynchiana: dapprima inchiodata al letto, ne sprofonda alla fine, dissolvendosi in uno sbuffo di fumo. Nella conclusione al suo saggio su questa figura, DidiHuberman si chiede fino a che punto può cadere la ninfa moderna; nelle mani di Lynch, essa non accelera o prolunga semplicemente la sua caduta ma sprofonda, dopo aver descritto un arco discendente che ha origine nella rappresentazione erotica del suo corpo «appesantito» dal desiderio – ancora una volta in un letto, accanto a Rita –, primo tempo della decostruzione del suo regime mitico e salvifico, per concludersi in un «disordine di stoffe» che ne è la traccia al tempo stesso sublime e patetica. Fin dove può ca-
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dere la ninfa lynchiana? Inevitabilmente, descrive un movimento fatale di clinamen, nella vocazione a decomporsi, per abbracciare la realtà.
Cfr. Alessandro Portelli, We Do Not Tie it in Twine. I rifiuti, la storia e il peccato in Underworld di Don DeLillo, in Alessandro Portelli, Canoni americani. Oralità, letteratura, cinema, musica, Donzelli, Roma 2004, pp. 273291. In Mulholland Drive, a differenza di quanto accade nel romanzo, non manca neppure l’esibizione del corpo umano morente, «il primo oggetto di waste che non viene lasciato a disfarsi nell’ambiente, ma separato da esso tramite processi biologici o contenitori materiali», p. 280. 2 Valentina Re, Oltre la soglia. Variazioni su un’aria a tre tempi, in Claudio Bisoni (a cura di), Attraverso Mulholland Drive. In viaggio con David Lynch nel luogo di un mistero, Il Principe Costante, Pozzuolo del Friuli 2004, p. 89. 3 Cfr. Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 1995. 4 Ivi. 5 Sull’enunciazione cinematografica, si veda l’ancora fondamentale Lorenzo Cucco, Augusto Sainati (a cura di), Il discorso del film. Visione, narrazione, enunciazione, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1988. 6 Cfr. Michel Foucault, Questo non è una pipa, SE, Milano 1988. 7 Analisi interessanti delle trasformazioni occorse all’«ingresso dello spettatore nella finzione» nel cinema contemporaneo si trovano in Gianni Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Milano 2000. Nella vasta bibliografia dedicata all’analisi degli incipit cinematografici, segnaliamo due interessanti titoli recenti: Valentina Re, Ai margini del film: incipit e titoli di testa, Campanotto, Udine 2006, e Micaela Veronesi, Le soglie del film: inizio e fine del cinema, Kaplan, Torino 2005. 8 Michel Maffesoli, Note sulla postmodernità, Lupetti, Milano 2005, p. 107. 9 Cfr. Mario Perniola, L’arte e la sua ombra, Einaudi, Torino 2000, pp. 4962. 1
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Su questi temi, e con molti punti di contatto con le tesi di Maffesoli, si veda anche Mario Pezzella, Narcisismo e società dello spettacolo, manifestolibri, Roma 1996. 11 Federico Bertoni, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Einaudi, Torino 2007, p. 325. 12 Cfr. Francesco Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Bompiani, Milano 2005. 13 Per una panoramica sulla teoria della figura e del figurale, si vedano Jean-Francois Lyotard, Discorso, figura, Unicopli, Milano 1988; Paolo Bertetto, La figurazione e la visualizzazione nell’immagine filmica, in Leonardo De Franceschi (a cura di), Cinema/Pittura. Dinamiche di scambio, Lindau, Torino 2003, pp. 43-67 e, dello stesso autore, Il figurale tra cinema e letteratura, in Ivelise Perniola (a cura di), Cinema e letteratura: percorsi di confine, Marsilio, Venezia 2000, pp. 49-73; Philippe Dubois, Au seuil du visibile: la question du figural, in Veronica Innocenti, Valentina Re (a cura di), Limina. Soglie del film, Forum, Udine 2004, pp. 137-150. Con riferimento alla letteratura, per un compendio delle definizioni di «figura» tra linguistica, retorica e semiotica, si veda Flavia Ravazzoli, Il testo perpetuo. Studi sui movimenti retorici del linguaggio, Bompiani, Milano 1991, in particolare pp. 185-194. 14 Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 1995, p. 127. 15 Cit. in John Berger, Sul guardare, Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 177. 16 Per un’analisi di questi aspetti in rapporto al cinema, mi permetto di rimandare al mio Di cosa parliamo quando parliamo di corpi (parlando di cinema), «Aut Aut», n. 330, Il Saggiatore, Milano 2006, pp. 94-116. 17 DETECTIVE HARRY MCKNIGHT: Sì, me l'hanno fatto vedere. / DETECTIVE NEAL DOMGAARD: Potrebbe non avere alcun rapporto. / DETECTIVE HARRY MCKNIGHT: Potrebbe… nessuno dei ragazzi morti portava orecchini di perle? / DETECTIVE NEAL DOMGAARD: No. Potrebbero essere di qualcuno che li ha persi. / DETECTIVE HARRY MCKNIGHT: È quello che penso anch'io. 18 Cfr. Flavio De Berardinis, Ossessioni terminali. Apocalissi e riciclaggi alla fine del cinesecolo, Costa&Nolan, Ancona-Milano 1999, in particolare pp. 59-70. 10
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Jean-Louis Chrétien, Corps à corps. À l’écoute del l’œuvre d’art, Les editions de minuit, Paris 1997, p. 142. Traduzione e corsivi miei. 20 Georges Didi-Huberman, Ninfa moderna. Saggio sul panneggio caduto, Il Saggiatore, Milano 2004, p. 17. 19
Hollywood, il desiderio, lo sguardo
Geometrie del desiderio La caduta non è mai un semplice movimento di corpi, e la caduta della ninfa in Mulholland Drive descrive soprattutto un percorso morale. Non ci si può accontentare, per l’ennesima volta, di chiudere il discorso, dopo qualche gioco di prestigio analitico più o meno sofisticato, sull’eccentricità delle visioni lynchiane e sul limite all’interpretazione che esse imporrebbero. Mulholland Drive è soprattutto un morality-play i cui principi costitutivi sul piano del racconto e dello stile – la frattura, la decomposizione, la decapitazione, la perdita – rilanciano un discorso di ordine morale, intrecciandosi direttamente alla questione dell’immagine, della sua verità, ruolo e potere, e a quella, di cui già si è discusso nel capitolo precedente, del ritrovamento della realtà. E appena prima di INLAND EMPIRE, che porta con sé la scelta – parrebbe definitiva 1 – di una conversione al digitale, il film assume anche il valore di una chiusura rispetto a un certo mondo dell’in-
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dustria cinematografica e a un certo modo di fare e pensare il cinema. Gli estremi figurativi ed emozionali violentemente accostati dalla vertiginosa caduta di Betty/Diane definiscono anche, tra le altre cose, l’urto e, contemporaneamente, l’abbraccio tra due ordini del desiderio, alimentati dallo spettro dell’immagine hollywoodiana. Betty vuole diventare great actress ma, anche, movie star («but sometimes people end up being both and that is», spiega a Rita). Dal Canada, è giunta fino a Hollywood per dare corpo a un sogno adolescenziale, che si materializza, appena entrata nella casa di zia Ruth, proprio attraverso Rita, che incarna, letteralmente, il cinema, rubando il nome alla Hayworth (mentre si specchia in bagno, travestendo la nudità della sua condizione amnesica) e portando nella vita di Betty il plot di un film noir da cui sembra appena scappata, salvandosi dallo sparo che avrebbe dovuto ucciderla. Rita è in effetti il prototipo e la maschera della femme fatale, parente stretta della Dorothy (Isabella Rossellini) di Velluto blu e della Renee/Alice (Patricia Arquette) di Lost Highway, e attraverso il suo corpo, i suoi gesti, il trucco e la «posa», gli abiti e le battute, risale la storia del cinema fino a incontrare antecedenti diversi, dai personaggi violenti e seducenti di Gene Tierney a quelli ambigui e pericolosi di Lauren Bacall. Ma Rita è anche l’immagine di un corpo (o forse, più semplicemente, un involucro sensibile 2) posseduto dal cinema, dalla sua storia e dalle sue eroine «nere»: la Hayworth, dall’affiche di Gilda, la guarda e l’attira a sé, nel momento esatto in cui lo specchio rivela l’esistenza di una donna senza abiti e identità (figg. 23-24).
HOLLYWOOD, IL DESIDERIO, LO SGUARDO
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Il triangolo degli sguardi e delle definizioni riproduce nella sequenza 8 la più classica dinamica del desiderio hollywoodiano ma, anche, il principio dell’interpretazione attoriale: un corpo vuoto, la platea dello specchio (in cui anche il proprio sguardo diventa sguardo altrui, coscienza esterna e giudizio), la vita di carta o parole del personaggio-divo: la scatola degli attrezzi e le istruzioni per l’uso del sogno del cinema americano sono riassunti in questa geometrica circolazione tra reale e immaginario, in questa realizzazione dell’immaginario in un reale sottoesposto, che rinuncia temporaneamente a sé per assumere il ruolo di un contenitore inerte e accogliente (i divi «danno corpo ai fantasmi che i mortali non possono realizzare, ma chiamano i mortali a realizzare l’immaginario» 3). Allineamento e scomposizione che rimandano – anticipandola – alla dimostrazione offerta dal presentatore del Club Silencio e alla sua analisi del linguaggio (in senso ampio) di cui si è discusso nel capitolo precedente: nel bagno della casa di zia Ruth, nel momento in cui Rita incrocia e idealmente sovrappone il proprio riflesso nello specchio con l’immagine della Hayworth – superfici che, a loro volta, la osservano –, la situazione sembra offrire uno sguardo interno alla sintassi del divo e ai codici della circolazione tra realtà e universo cinematografico. Realizzare l’immaginario offerto da Hollywood e dai suoi miti, stringere il cerchio degli sguardi, delle possessioni e delle identità, è precisamente l’obiettivo di Betty, laddove diventare un «brava attrice» è solo il primo passo. Il senso della caduta di Betty rinnova, da questo punto di vista, lo scarto tra reale e immaginario cinematografico, indicando-
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ne la differenza soprattutto sul piano della «tenuta» formale e del suo statuto di verità, non di realtà: l’immaginario del cinema è una recita, un mondo supplementare, costruito sullo scambio continuo tra contenuti reali e forme «esogene», prese in prestito da un territorio vicinissimo ma comunque straniero. Sul confine che separa i due territori vi è una dogana valoriale, più che ontologica: Lynch non ripete, una volta di più, che i mondi paralleli del cinema ci hanno colonizzati fino all’ipnosi, rendendoci incapaci di distinguere la realtà dalla finzione, ma che essi – territori appartati e supplementari – hanno concentrato in sé la promessa della felicità, rubando alla realtà i suoi desideri per realizzarli in una cornice priva di estetica o religione, equilibrio o norme, e codificando l’unica, vera mitologia contemporanea. Una felicità d’azione 4, empirica e fenomenologica, che trova proprio nel cinema la sua rappresentazione – l’unica possibile – e nei film il suo lessico, fatto di avventura, libertà, rischi e imprese, amore assoluto e benessere. A questo lessico si adegua Betty appena giunta a Hollywood, perché Hollywood è il modello mediatore del suo desiderio, nell’accezione che a questo termine assegna René Girard 5. Il movimento della caduta prende avvio quando si manifesta l’influenza del mediatore, che ne apre le biforcazioni e impedisce il giudizio; il desiderio secondo l’altro si impone, e in quelle soggettive che «aspettano» Betty all’inizio della sua avventura, appena prima di entrare nell’appartamento di zia Ruth, è (in)scritta una storia del desiderio di cui la ragazza può finalmente diventare protagonista. Così, in un gioco sottile e spesso inconsapevole di proiezioni e imitazioni, Betty s’immerge nel suo so-
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gno a occhi aperti (niente a che fare con l’onirico), trasformandosi nella superficie cedevole e interamente scrivibile della realizzazione dell’immaginario; di questa scrittura del corpo e dello sguardo, il cinema rappresenta il principio ispiratore e la coscienza, e appare alla ragazza un desiderio per sé, pur essendo, all’origine, un desiderio secondo l’altro. Betty s’innamora di Rita perché Rita è, senza troppi nascondimenti, il cinema o, per continuare con il lessico girardiano, l’oggetto del mediatore: è un corpo pieno di memorie divistiche e un motore di potenzialità narrative che sconvolgono, come in un film, la vita della giovane provinciale, schiudendole un orizzonte avventuroso che realizza pienamente la felicità d’azione promessa dall’immaginario cinematografico: con Rita, «It’ll be just like in the movies»; grazie a Rita, giocheranno a essere qualcun altro («We’ll pretend to be someone else»); per strada con Rita, Betty vedrà finalmente Hollywood («I want to walk around anyway. I’m in Hollywood and I haven’t even seen any of it»). L’immaginario cinematografico s’infiltra nel film e nel mondo di Betty in forme molto diverse: attraverso il corpo di Rita, l’abbiamo detto, e a partire dal suo stesso desiderio. Ma anche per il mistero che l’avvolge progressivamente attraverso i simboli evidenti di una trama thriller (una chiave, un mucchio di soldi, una pistola), per mezzo della pressione esplicita del mondo del cinema e dei suoi apparati architettonici e produttivi, per la disseminazione di personaggi incongrui sfuggiti a qualche trama irriducibile alla realtà, come l’indovina Louise e il Cowboy, ma anche attraverso segni sineddotici come la scritta Hollywood e
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l’ingresso «vero» degli studi Paramount (da cui entrava anche Norma Desmond) e, non da ultimo, per mezzo di una citazione vivente come Anne Miller, Coco, celebre interprete di musical e commedie classiche targate MGM, tra cui, anche se in un ruolo secondario, Palcoscenico di Gregory LaCava (Stage Door, 1937), una specie di antecedente di Mulholland Drive, ambientato in un alberghetto dove vive un gruppo di attrici in attesa del successo, e dove la felicità di una (Katherine Hepburn) per l’assegnazione del ruolo della protagonista in uno show molto ambito, coincide con il suicidio di un’altra, definitivamente frustrata e delusa dal mondo dello spettacolo. Solo che nel film di LaCava le attrici sono ancora due. Per non parlare dell’inquilino di cui racconta Coco, proprietario di un canguro pugilatore: una figura esplicitamente cinematografica (un «attore» a riposo), che rimanda a uno dei più celebri filmati Lumière. La cadenza del percorso di Betty ritma dunque un tragitto che parte dalle lusinghe di questo mondo ibrido per chiudersi su un interno domestico senza alternative, con gli «esterni» completamente assenti e circondato da una permeabilità allucinatoria (nell’appartamento di Betty/Diane si entra sia dalla porta, come l’amica che viene a recuperare alcune cose sue, sia da sotto la porta, come le miniature dei due vecchietti nella sequenza conclusiva). Dal punto di vista figurativo, il percorso della protagonista si realizza insomma non tanto in un passaggio da una condizione virtuale a una (più) reale, ma in una staffetta degli sguardi (e dunque delle diverse realtà che essi liberano): alla fine, Betty tocca il suolo, e vi resta, cadavere, spogliata di ogni
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immaginazione perché separata dalla soggettiva immaginifica in cui si è calata appena scesa dal taxi che l’ha condotta di fronte alla casa di zia Ruth. Soggettiva che – finalmente è chiaro – costituisce l’inganno di uno sguardo vissuto soggettivamente ma preso in prestito da un narratore che coincide col desiderio alimentato dall’immaginario cinematografico, con la promessa di un felicità più intensa e di un’ascesa verso una condizione latamente mitica. La spoliazione a cui va incontro Mulholland Drive dopo la caduta della scatola blu e la dimostrazione/rivelazione del Club Silencio, con la chiusura prospettica delle sue trame, la riduzione dei set e l’instaurazione di un principio passivo e memoriale (discusso nella parte iniziale del libro), rimanda infine l’immagine di una condizione privata di ogni alternativa, più o meno mitologica e immaginifica, per quanto riguarda l’esistenza di Betty/Diane; e del resto, in coincidenza con l’apertura e la caduta della scatola, Betty sparisce dallo spazio in cui ha vissuto fino a quel momento, venendone per sempre separata: è infatti lei ad andarsene, in silenzio, improvvisamente, senza lasciare tracce, immagine impropria dentro un mondo più che reale, mentre lo sguardo di cui si era appropriata fino a quel momento, staccandosi da lei, sprofonda (nella scatola blu), anticipando la sua caduta e trasformandosi nell’oggettiva che, spietatamente, la osserverà d’ora in poi, dichiarando, prima di ogni contenuto, il fallimento del suo sogno. Il principio della frattura si ripresenta anche in termini enunciazionali, e se lo spettacolo a cui assiste Betty/Diane al Club Silencio la scuote con tanta violenza, è anche perché nella dimostrazione del rien se tien è scritto il destino del
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suo sguardo e la riapertura del cerchio delle identità e dei desideri in prestito. La prima parte di Mulholland Drive non rappresenta dunque un sogno o una visione o un’allucinazione, ma dà forma a un reale abbellito dalle lusinghe di un immaginario che coincide fatalmente con i desideri di Betty – quelli di essere una grande attrice e una star, e di vestire abiti tutti nuovi, come quello, lungo e promettente, che le lascia zia Ruth sul letto, assieme all’augurio di divertirsi, e che non a caso si sostituisce idealmente a quelli che ha portato con sé e che ritira, ma quasi nasconde, appena arrivata. Nella prima parte di Mulholland Drive la contaminazione tra reale e immaginario è continua, imprevedibile e soprattutto irriducibile a un mero elenco di elementi illusori opposti a un contenuto supposto «reale»; si manifesta come l’incontro tra uno sguardo e l’energia meccanica di un corpo, in una circolazione instabile di impulsi e forze motrici – un corpo portato da uno sguardo che sa e ha già visto tutto, lo sguardo acceso dall’incontro con un corpo vivo e percorso dal desiderio. Il cambiamento di rotta, dopo la caduta della scatola blu, è eclatante: separata dal racconto iscritto nella soggettiva «indossata» dopo il suo arrivo a Los Angeles, Betty smette di essere protagonista e torna a vestire i panni della spettatrice, torna a guardare, soltanto a guardare, e a toccarsi da sola, furiosamente, sognando Rita, la felicità, il cinema e le sue promesse. Seduta sul divano, guarda dentro di sé, indietro nel tempo, e ricorda. Da qualche parte, la realtà dell’immaginario è andata perduta, si è ritirata nel buio di una scatola magica, così come, sul palco del Club
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Silencio, i suoni si separavano dai loro strumenti e la voce di Rebekah del Rio l’abbandonava. La ragazza è tornata ad abitare il proprio sguardo, quello precedente il suo arrivo a Los Angeles: non a caso, alle soggettive della prima parte si sostituisce adesso una sequenza di flashback, che sono ancora delle soggettive ma ormai inviolabili dalla pressione e dalle promesse di uno sguardo esterno 6, perché interne, intime, memoriali e sotterraneamente onanistiche (e così, al rapporto sessuale con Rita, si sostituisce la masturbazione); Betty si riappropria dello sguardo, e dunque della memoria, della storia, dell’identità di Diane. Ricorda a questo punto ciò che ha perduto, ciò che ha sperato o creduto di possedere. Ricorda chi è, e chi è tornata ad essere: tutta la scena a casa di Adam (sequenza 39) somiglia a una specie di confessione (perlopiù estorta), durante la quale, incalzata dalle domande di Coco, Diane riannoda i fili della propria storia, riducendola a una sequenza banale di azioni e sensazioni. Torna a essere, a vedere e a sentire soltanto se stessa, come svela il campo/controcampo in cui occupa entrambe le posizioni (sequenza 33, analizzata nel capitolo precedente). La magia dello specchio e le vibrazioni di un’emozionalità «in prestito» sono sostituiti da una sorta di reificazione del soggetto: immagine perfetta dell’uomo-cosa dell’epoca contemporanea 7, Diane è infine separata da Rita, da Betty e dall’universo di sensazioni che questa ha condotto con sé. La soggettiva seducente che determina il corso della prima parte del film, una volta liberatasi dall’ancoraggio all’esistenza di Betty, assume una forma stabile e osservabile, rovesciando nella realtà di Diane il corpo e l’azione
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del narratore assente che gliel’aveva donata, e cambiando così di segno al senso e al valore della promessa che essa contiene: se non lo possiedi, tale sguardo può trasformarsi in un principio di morte. Rispuntano allora i due vecchietti che avevano scortato Betty fuori dall’aeroporto e dentro il suo sogno («Welcome to Los Angeles»), e che già comparivano, accanto a lei, in occasione del suo primo successo come ballerina di jitterbug nell’incipit del film. A questi due personaggi privi di spessore drammatico – puri simboli di un commento, riflessi della coscienza di Betty e dunque, infine, termini di moralizzazione del suo percorso – la ragazza promette, ai blocchi di partenza della sua avventura, che otterrà il successo per cui è giunta a Los Angeles: OLD LADY (IRENE): It’s time to say goodbye, Betty. It’s been so nice travelling with you. BETTY: Thank you, Irene. I was so excited and nervous. It was sure great to have you to talk to. IRENE: Now, remember I’ll be watching for you on the big screen. BETTY: Okay Irene. Won’t that be the day. IRENE: The best of luck to you, Betty. Take care of yourself and be careful. BETTY: Okay I will. Thanks again. 8
Betty su un taxi, i due vecchietti su una limousine nera identica a quella su cui ha viaggiato Rita la notte prima, si dirigono verso Hollywood. La seguono, le sono accanto, alle spalle: la vegliano da vicino, e aspettano che la promessa venga mantenuta, con un sorriso aperto sul volto, ti-
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rato in modo quasi innaturale, forse deformato dalla consapevolezza della sconfitta. Ancora sorridenti, quasi inchiodati alla loro maschera, i due anziani riappaiono nella scena finale, a certificare il fallimento delle speranze di Betty o, forse, a svelare definitivamente l’inganno in cui ha vissuto e a porre fine allo squallore in cui è precipitata (perché «la verità del desiderio è la morte» 9): come riflesso della coscienza di Diane – e non semplice allucinazione, perché la loro effettualità è pienamente reale – tornano dunque a siglare l’uscita del personaggio dalla storia, così come, all’estremo opposto del percorso del film, ne avevano accompagnato e benedetto l’ingresso.
La babele delle immagini Betty e Diane non sono dunque due diversi ordini di esistenza di uno stesso corpo/personaggio (come ammette una descrizione fondata sull’alternanza tra sogno e realtà) ma, proprio come indicano i titoli di coda, due diversi corpi/personaggi, dotati dello stesso spessore esistenziale e di una comune matrice «reale». Sono – riannodando le fila del discorso – i principi contraddittori di un movimento narrativo di caduta, gli istanti opposti di una sensazione complessa, due diverse forme del desiderio (l’una portata dalle promesse dell’immaginario cinematografico, l’altra ricondotta a un realtà spogliata dal sogno della felicità), due diverse configurazioni scopiche (l’attrice e la spettatrice), l’effetto di due diversi sguardi. Rappresentano, insieme, la condizione duplice, oppositiva e con-
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traddittoria di un reale scoperchiato e assunto nel segno della complessità, al di fuori di un principio d’ordine riconducibile alla garanzie logiche e cognitive della messa in forma narrativa. Mulholland Drive assottiglia il confine che separa e distingue i mondi di invenzione dai loro referenti reali e, all’interno dell’universo del film, parifica i diversi modi di esistenza dell’immagine, concentrandosi sul transito degli sguardi e dello spessore esistenziale di oggetti e figure e sulla coabitazione non gerarchizzata degli opposti, e mettendo così in scacco, prima di tutto, un criterio di ordine ontologico. Tutto, in Mulholland Drive, vive in una condizione tensiva tra realizzazione e sparizione, affermazione e negazione, presentificazione e cancellazione; tutto, in Mulholland Drive, tende a disarcionare la prassi cognitiva dello spettatore e a forzarne la riflessività verso quelle stesse procedure di ordine cognitivo a cui egli si affida normalmente, e inconsapevolmente, nella lettura del reale: Noi vediamo i nostri mondi come unitari e coerenti e, malgrado i nostri slanci di generosità ontologica, arriviamo perfino a trattarli come insiemi economici di enti. E poiché coerenza ed economia potrebbero non reggere a un’indagine approfondita, molto spesso evitiamo ogni tipo di esame ravvicinato. I mondi dei quali parliamo, reali o di invenzione, celano sapientemente profonde fratture e il nostro linguaggio, i nostri testi, ci appaiono a volte come strumenti inequivocabilmente in grado di condurre a questo o a quel mondo. 10
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La frattura, di nuovo. E di nuovo intesa come segno (de)strutturante, insperabile dalla realtà ma, al tempo stesso, rimarginata dalle procedure con cui, dentro e fuori lo spazio di un racconto, spesso del tutto inavvertitamente, l’intelligenza e la coscienza umane tentano di organizzare e pensare in modo unitario i dati dell’esperienza. L’operazione che Lynch svolge nei confronti del cinema tradizionale (come visto nel cap. 5), liberandone l’ordine e la coerenza non verso una caoticità dadaista ma verso una specie di pre-grammaticalità che gli è propria e originaria (e che «la storia» ha il compito di addomesticare), riflette, in piccolo, quell’operazione più generale di allentamento della trama del reale, intesa nel suo uso letterale e cioè «tessile» del termine. La frattura, dunque, non è semplicemente introdotta ma rivelata; in questo film duplice, perché interamente attraversato dalla compresenza non contraddittoria degli opposti, essa si impone dentro e accanto al suo principio opposto, quello dell’ordine della percezione, della cognizione e, non da ultimo, della scrittura. È, la frattura, un principio consustanziale alla realtà, che Lynch lascia affiorare, evitando di sottometterlo all’ordine del discorso, che ne rappresenta invece la cura e la chiusura. Nelle forme «oltre-letterarie» di molti suoi film – e in particolare di Strade perdute, Mulholland Drive e INLAND EMPIRE –, spingendosi al di là della dimensione del racconto tradizionale e del logos che lo sostiene, egli rimanda l’immagine di quell’indefinito «territorio precategoriale» che nutre l’immaginazione narrativa e che, al tempo stesso, testimonia del complesso intreccio da cui prende forma la realtà, appena prima che la nebulosa
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delle duplicità che la nutrono e delle tante storie potenziali che vi si intrecciano venga organizzata in un insieme stabile e chiaramente leggibile 11. In questa prospettiva, il cinema – l’immagine – assume ulteriore valore in quanto dispositivo e tecnologia di un «essere-tra» delle cose, del loro apparire e manifestarsi, tra il dato e il senso: lo rivela bene, per esempio, la doppia esecuzione, a distanza ravvicinata, della scena che Betty deve interpretare al provino. In primo luogo, le due prove – quella in casa della zia Ruth, con Rita che dà le battute, e quella recitata poco dopo nell’ufficio di Wally – sono versioni differenti dello stesso testo, due forme di esistenza contemporaneamente simili e dissimili, in cui un identico contenuto – un’identica sequenza di segni verbali – prende vita in modo diverso, incarnandosi in due «corpi» e due sensibilità quasi opposte, secondo un principio dell’assonanza e dell’analogia che sostiene anche il rapporto tra i personaggi e gli elementi della prima parte e quelli, identici e al tempo stesso diversi, che si ripresentano nella seconda. L’interpretazione cinematografica appare come un principio di funzionamento della realtà, il riflesso dell’incessante mutare delle cose, nel loro passaggio da una condizione virtuale a una attuale. La recitazione non oppone il finto al vero, la realtà alla sua copia, ma illustra l’instabilità costitutiva del reale, perennemente tirato tra realizzazioni molteplici: testimonia, al contrario, di come la realtà sia sempre l’effetto di un processo di traduzione continuamente rinnovato, in cui il dato incontra il senso lungo traiettorie imprevedibili. La superficie osservabile della realtà non è che l’istantanea di uno degli infiniti profili delle cose, una
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delle possibili interpretazioni di un contenuto nascente, come suggerisce lo spettacolo al Club Silencio, insistendo proprio sulle divaricazioni tra la nebulosa del senso e la sua oggettivazione in frasi e suoni. In secondo luogo, i due provini si caratterizzano per un simmetrico ma opposto movimento dalla realtà alla recita, dalla persona al personaggio, dal «fare per gioco» – ma nel senso anche teatrale dell’inglese to play o del francese jouer – al «fare per davvero» (visto che anche la realtà è comunque un processo di traduzione/interpretazione). I confini tra Betty e il suo doppio attoriale, infatti, si assottigliano, fino a produrre un’accentuata ambiguità. Nel primo caso, la prova di fronte a Rita, nella cucina della casa di zia Ruth, comincia con il cambiamento di scena, impedendo allo spettatore di comprendere fin da subito che Betty sta recitando e che Rita le sta dando le battute del personaggio maschile: per qualche secondo essa è, in assenza di prove contrarie, il personaggio descritto dal testo, le cose che dice e le azioni che compie, e non diversamente accade per Rita. Poi, con l’allargamento dell’inquadratura, la situazione si disambigua chiaramente, ma il breve scambio iniziale si posa sulla «realtà» del film come lo spettro di un dialogo al negativo, opposto, nella logica, a quanto sta accadendo tra le due ragazze, ma in anticipo sugli scambi dialogici che caratterizzeranno la conclusione del loro rapporto (quasi un calco del dialogo con cui Diane metterà alla porta Camilla nella sequenza 36): BETTY: You’re still here? RITA: I came back. I thought that’s what you wanted. BETTY: Nobody wants you here! 12
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Presso l’ufficio di Wally Brown, invece, il processo si realizza secondo un andamento opposto: è molto chiaro che si tratta di un provino (la reciteremo «come in un vero film», suggerisce a Betty l’anziano partner, Chadd Everett, il dottor Joe Gannon di Medical Center) ma, a poco a poco, anche grazie alla scelta di Lynch di riprendere la scena in continuità, con pochissimi stacchi (quello centrale conduce dalla mezza figura iniziale al primo piano, isolando ancor di più i personaggi dal contesto), essa, a poco a poco, diventa vera (Bob Brooker, il regista, aveva raccomandato, prima di cominciare: «Don’t play it for real until it gets real»), e vero è il mélange di turbamento, eccitazione e odio che si disegna sul volto di Betty, prima che lo stacco su Wally e il suo applauso entusiasta non riconducano la situazione alla realtà. Le due scene, insomma, emblemi della diversa traduzione di uno stesso testo, sembrano interessare Lynch soprattutto come dimostrazione del transito a tratti inavvertibile tra un piano «reale» e uno immaginario o più semplicemente supplementare, che viene a sostituirsi al primo senza soluzione di continuità, indicandone, in fondo, tutta la fragilità ontologica e «materica», e liberando un vortice di scambi tra i due, idealmente parificati, al di fuori di una classica dialettica realtà/finzione comune al meta-cinema. E proprio il tema del cinema nel cinema, con tutto il suo corteggio di contenuti abituali, qui solo accennato, si farà non a caso centrale nel successivo INLAND EMPIRE, anche grazie al passaggio dalla pellicola al digitale: dopo le fratture e i tagli di Strade perdute e Mulholland Drive, film decapitati e frantumati, Lynch, sulla stessa lunghezza d’onda e
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dentro lo stesso progetto poetico e narrativo, compone con INLAND EMPIRE una sinfonia in cui una storia affonda nell’altra (la «realtà», il film da girare, l’originale perduto, la leggenda zingaresca…) secondo un principio della caduta morbida e della progressiva stratificazione; alle resistenze dell’analogico e alla definitezza dei bordi della figura si sostituiscono infatti la cedevolezza del digitale e la sua «elasticità»: passare da uno spazio all’altro (e magari da una film all’altro: dai Rabbits a INLAND EMPIRE), prolungare un tempo in un altro, sdoppiare un personaggio in due corpi diventa più facile. E al principio della duplicità di Mulholland Drive si sostituisce quello del palinsesto – del testo raschiato via ma ancora visibile, come rivela l’avventura di Nikki (Laura Dern), lettrice/attrice/spettatrice. Non molto diversamente dalle sequenze del provino sembra «valere» la prima ambientata presso il Winkie’s (sequenza 5): si tratta, ancora una volta, della figura di un transito, e in particolare di una conversione segnica, con uno stesso contenuto prima comunicato per mezzo del racconto orale, poi compiutamente realizzato; in scena due diversi stati della materia, due momenti alternativi dell’esistenza delle cose, il movimento dall’immaginazione simbolica alla «durezza» del fatto. Così, il sogno prende letteralmente vita, lievita a poco a poco dal racconto di Dan e a un piano narrativo e visivo se ne sostituisce un altro; le parole – impiegate per razionalizzare l’incubo e consegnarlo a una forma «solare», organizzata, leggibile, grazie alla più classica dinamica di scambio tra un narratore e un ascoltatore incarnata da Herb e Dan – si materializzano, traducendosi inaspettatamente in una realtà presente e tangibi-
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le. Non a caso, l’apparizione della figura del «bum» al centro del sogno di Dan dietro il muro del Winkie’s coincide con la scomparsa del sonoro del sognatore: l’urlo del ragazzo ucciso dall’incontro con il suo incubo è silenzioso, e il suo corpo di narratore, sopraffatto dall’incontro diretto con la sua scrittura onirica, cade a terra senza vita. Il suono è diventato immagine, la parola ha preso forma, e un altro corpo – l’ennesimo all’interno di Mulholland Drive – crolla a terra, sconvolto da un’emozione insopportabile o svuotato delle proprietà e delle certezze che lo animano e «stabilizzano». Più che risolversi nella semplice convivenza di mondi paralleli, Mulholland Drive, una volta liberate le fratture che (dis)articolano il reale e il suo racconto, si impone soprattutto come un universo di segni instabili, sempre pronti a lasciare un piano di realizzazione per deviare, inaspettatamente, verso un altro, al di fuori di un saldo controllo semiotico e di una gerarchica segnica: non solo tutto è contemporaneamente presente nello spazio disorganico del racconto, ma tutto giunge a presentificarsi, facendosi immagine, prima di sparire da dove è venuto. In fondo, da quanto detto nel paragrafo precedente e nel quinto capitolo, lo stesso percorso di Betty/Diane (o forse, a questo punto, sarebbe meglio dire il percorso che conduce da Betty a Diane) pone anche, se non soprattutto, un problema di consistenza (nel doppio senso di solidità e materialità): nella fattispecie, quella di uno sguardo che diventa realtà, realizzando l’immaginario in concorrenza con un’altra realtà, senza innalzare un confine «materico», prima che ontologico, tra i contenuti dell’esperienza.
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Ma è tutto l’universo di Mulholland Drive a presentarsi segnato da un’instabilità semiotica che è la traccia visibile delle fratture aperte e al tempo stesse liberate sulla superficie uniforme del mondo del film: singoli segni – non diversamente dalla struttura generale del film e dal suo impianto narrativo – si aprono, spezzando o indebolendo la tenuta delle convenzioni o la geometria che governa i rapporti tra contenuti significati, elementi di significazione e referenti, segni che a volte rimandano lo spettacolo di questi scivolamenti, altre volte introducono vistose espansioni simboliche nel loro funzionamento «neutro», altre volte ancora si incastrano in modo incongruo sulla scena che li ospita. Si pensi, per esempio, agli escrementi del cane di Wilkins, indice di una presenza di fatto mai rivelata, di una distanza incolmabile tra causa ed effetto; si pensi alla decostruzione del rito del caffé durante la riunione tra Adam, i produttori e i fratelli Castigliane; si pensi, ancora, alla natura aliena della figura del Cowboy. E si pensi, infine, dal punto di vista linguistico, alla complessità dei registri impiegati da Lynch, dalla parlata «quotidiana» al dettato premiologico (Louise, il Cowboy), dagli automatismi nonumani (l’ossessivo «This is the girl» dei fratelli Castigliane; la sequenza di ordini che s’impossessa di Rita addormentata) al silenzio «rumoroso» di Mr. Roque.
Narratori, volti, corpi L’«oggetto» che, più di ogni altro, manifesta le aperture e le instabilità del racconto di Mulholland Drive è il corpo
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umano. L’idea che attraversa tutta la cinematografia lynchiana è quella di un corpo molecolarizzato, identificato non come unità ma come assemblaggio provvisorio di elementi organici e inorganici: figure complesse, tra scomposizione cubista e performance da body art, in cui l’umano appare come un attributo rimesso continuamente in causa. Il corpo, in particolare, smette di costituire la superficie osservabile dell’interiorità, né rappresenta più il principio stabile di coerenza e manifestazione dell’identità: i principi messi in crisi sono quelli già incontrati nell’analisi dello spettacolo al Club Silencio, vale a dire un principio di coerenza e reversibilità segnica tra interno ed esterno (tra «contenuti» e significanti) e un principio di identificazione referenziale, di presenza certa e osservabile delle cose, di contemplazione dell’unità. Così accade spesso, nel cinema di Lynch, e naturalmente anche in Mulholland Drive, che, da un lato, i corpi siano consegnati a un’esistenza puramente meccanica e carnale, quasi marionettistica, e, dall’altro, che i «contenuti» psicologici, emozionali, sensibili di cui esso dovrebbe farsi carico, manifestandoli all’esterno, affiorino in forme degradate o sineddotiche, secondo un codice visivo che va dall’astratto all’espressionista al grottesco, e in ogni caso deviato rispetto a una grammatica sensibile verosimile, riconducibile, sotto il piano figurativo, all’esperienza dello spettatore 13. L’operazione, che affonda le sue radici nella sperimentazione pittorica 14, intorbida soprattutto una nozione tradizionale di personaggio, ricollegandosi direttamente alle procedure di disarticolazione della «tenuta» narrativa già osservate nei capitoli precedenti rispetto ad altri piani
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della costruzione del racconto: la pelle, legame materiale fra dimensione esterna e dimensione interna e strumento privilegiato attraverso il quale l’Io si costituisce in quanto struttura coerente e differenziata rispetto al mondo percettivo esterno e il mondo psichico altrui, offusca la propria presenza, si rinnova sotto il piano funzionale e assume configurazioni mutevoli, in modo del tutto analogo al lavoro che Lynch compie sulla pelle dell’immagine e del racconto; ciò che risulta indebolito è in particolare il ruolo di struttura di frontiera della superficie carnale, con la conseguenza che i significanti formali di demarcazione a cui essa dovrebbe dare luogo appaiono offuscati 15. Non da ultimo, infatti, il corpo del personaggio finisce assimilato all’oggettualità che preme sul mondo di Mulholland Drive, e trattato alla stregua di una presenza sensibile e puramente materica, senza alcuna apertura verso la sua «profondità». Riassumendo, i corpi del film risultano elaborati all’incrocio tra due assi, al di fuori di una nozione «scontata» di personaggio: da un lato, quello dei rapporti tra piano interiore e piano esteriore, dall’altro, quello dell’unità percettiva e figurativa. Nel primo caso, la rappresentazione si concede vistose oscillazioni tra i poli estremi del puramente meccanico e del puramente sensibile, nel secondo si muove tra la coerenza formale del corpo intero e le configurazioni parziali prodotte dalla sua frammentazione, sia materiale sia sensibile, con alcuni tratti percettivi particolarmente sottolineati rispetto ad altri. In tutti i casi, ciò che si perde, assieme a una definizione tradizionale del personaggio, è lo statuto di persona delle figure che agiscono nel racconto, mentre ciò che il particolare arrangiamento dei
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personaggi del film lascia intravedere è la crisi di una nozione «psicologista» dei principi di identità e umanità: le fratture e le aperture che attraversano e plasmano Mulholland Drive non possono non intaccare anche questo piano del racconto, trattando i personaggi alla stregua di segni instabili e variabili, concrezioni provvisorie e termini intermedi del transito tra organico e inorganico, materiale e spirituale, evenemenziale e sensibile. Facciamo qualche esempio. Un certo numero di personaggi sublima la propria identità in termini puramente visivi, tra lo stereotipo e la maschera. Il Cowboy, per esempio, non rimanda che a se stesso, al proprio costume: gli abiti, (tra)vestendolo, lo definiscono senza ambiguità, egli è ciò che indossa e la sua personalità risulta costruita in termini vestimentari. Coerentemente, la sua apparizione (e successiva sparizione) non si articola secondo un movimento umano – egli, semplicemente, c’è e poi non c’è più, proprio come un abito indossato e poi tolto – ma si materializza (come lascia intuire il montaggio) per mezzo di quella specie di riflettore che illumina la scena. Del resto, in quanto icona cinematografica, egli sembra appartenere a un mondo-set ben perimetrato (il recinto del corral), oltre il quale non possiede alcuna esistenza. Dal punto di vista «operativo», poi, non è che un messaggero: anche in questo, egli non è niente di più delle parole che pronuncia e dell’azione a cui dà luogo; il suo parlare meccanico e l’immobilità del volto e del corpo, che non tradiscono alcuna emozione, restituiscono l’immagine di una specie di automa, di vero e proprio tramite: non un soggetto che parla, dando luogo a una elaborazione cosciente, ma una super-
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ficie parlata da Mr. Roque, l’emissario – il quale, del resto, non parla praticamente mai, come rivela il suo dialogo con Ray. In tal senso, il Cowboy appare un prolungamento funzionale del nano inchiodato alla complicata sedia con cui fa tutt’uno; ne è un’emanazione operativa, un dispositivo simil-umano ma forse soprattutto una protesi, che consente alla sua azione di realizzarsi al di là dei limiti che la sua particolare conformazione gli impongono. In fondo, il Cowboy è una parte di Mr. Roque: la parte attiva, che vive e agisce nel mondo e parla, mentre Mr. Roque si caratterizza per uno sbilanciamento percettivo verso la vista e l’udito, e un malfunzionamento dei «riti» dialogici. Guarda e ascolta, e lascia vuoti gli spazi e i tempi destinati ad accogliere le sue battute; la sua articolazione figurativa, poi, risulta particolarmente complessa e frammentata: egli è tutta la stanza in cui viene ritratto, e definisce la propria unità a partire dai frammenti dispersi e materializzati delle sue proprietà percettive: il suo udito si palesa attraverso il complicato aggeggio (un telefono? un dispositivo per sentire meglio?) che gli circonda l’orecchio, mentre le sue facoltà visive si prolungano e oggettivizzano nel piccolo schermo sospeso – sembrerebbe – nel vuoto, contro la parete di vetro che lo separa dall’esterno. Non diversamente, la presenza muta che gli sta alle spalle, immobile e in piedi, incarna una sorta di principio attivo – contrario alla posizione permanete di Roque, sempre seduto – attraverso il quale egli agisce nel mondo che lo circonda e che si sviluppa al di fuori della stanza a cui sembra condannato. Una costruzione complessa, in cui le facoltà percettive si materializzano in una serie di dispositivi meccanici e in
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cui il corpo risulta ridotto a pura superficie di sostegno di alcune facoltà: il versante organico si polverizza e restringe – letteralmente – fino a diventare puro supporto per la realizzazione di funzioni di registrazione e comando, neutralizzato così ogni tratto di umanità. Mr. Roque è un feticcio caratterizzato dalla selezione e valorizzazione di alcuni tratti, dalla riduzione di un fare antropomorfo a pura operatività narrativa. Con lui, finiscono feticizzati altri personaggi minori: il gigante inviato a casa di Adam dai fratelli Castigliane e poi soprattutto questi ultimi, risultato, tra l’altro, di un processo di «mostruosizzazione diffusa, quasi circense» che popola Mulholland Drive di esseri che comunicano con la loro sola, disturbante presenza corporea. Il finanziatore Castigliane non risponde (dice solo «espresso», «tovagliolo» e «questa è la ragazza»), cioè non usa la bocca per dialogare ma per esprimere approvazione o disapprovazione, introducendo o espellendo liquidi: quando Adam si ribella alle sue prepotenze, Castigliane, come in un riflesso incondizionato, rigetta il caffé sul tovagliolo e se ne va. 16
Di fatto, i fratelli di origine italiana – il tratto funziona come riferimento a un universo stereotipo di intrighi mafiosi e trame delinquenziali, così come gli abiti del Cowboy erano sufficienti a stabilirne l’identità senza ulteriori complicazioni – non comunicano (così come Mr. Roque non dialogava) ma compiono piuttosto una serie di gesti automatici e ripetitivi (l’imbarazzante scena del caffé vomitato, si intuisce, non è che l’ultima di una lunga serie) per cui sembrano programmati e mossi da una forza che li eccede;
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uno ripete ossessivamente la frase «This is the girl», l’altro mette in scena una piccola performance con la tazzina del caffé: all’uno le parole, all’altro i gesti (quando parla al cameriere, quest’ultimo bisbiglia fino all’incomprensione), come fossero un’unità complessa frutto di una separazione delle competenze percettive e comunicative, una coppia comica dai ruoli ben precisi. Il teatro – o meglio, una certa stereotipia da ruolo fisso, in cui il personaggio si definisce soltanto sulla base dell’azione che compie o degli abiti che indossa – influenza anche la «messa in scena» dei corpi femminili, ridotti talvolta alle «pose» di un trattato di fisionomica, come nel caso di Rebeckah del Rio, «una lastra su cui sono dipinte le emozioni, una maschera della sofferenza» 17: come un pierrot postmoderno, la cantante fa tutt’uno con le parole del brano che interpreta (la versione spagnola di Crying di Roy Orbison, cantante di cui Lynch aveva già utilizzato un brano in Velluto blu), e quella lacrima disegnata sul suo viso s’impone come la sintesi figurativa del suo ruolo e del senso della sua apparizione (fig. 29). E come una lacrima – quasi contagiata dalle sue proprietà fisiche e «comportamentali» – Rebeckah cade a metà canzone, «spargendosi» al suolo. Non diversamente, altri personaggi femminili si riducono a maschere dai tratti mostruosi, bloccati e sublimati nell’istante eterno di un solo e preciso movimento emotivo, magari in contrasto con il contesto in cui essi agiscono: Irene, l’anziana signora, è il sorriso quasi deforme che ha perennemente stampato sul volto, e quando ricompare alla fine del film, spingendo al suicidio Diane aiutata dal marito (inchiodato allo stesso destino espressivo), quel
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sorriso dai contorni quasi fumettistici è ancora lì, quasi fosse dipinto; del resto, come accade anche al personaggio di Coco, il trucco si traduce in vera e propria pittura e l’eventuale evoluzione del personaggio resta bloccata nei tratti scultorei del volto: come prima, a proposito di Mr. Roque, abbiamo osservato una sorta di inversione logica e funzionale tra organico e inorganico, a quest’altezza si osserva un rovesciamento analogo – particolarmente inusuale nel caso del cinema – tra organizzazione superficiale dell’emotività, condotta per mezzo del trucco, delle pettinature, degli abiti, e movimenti interiori. Complessivamente, le strategie lynchiane tendono a mettere in crisi una definizione tradizionale e univoca di corporeità, del tutto in linea con quella crisi del rimando referenziale e della «placidità» semantica di cui si è già discusso in precedenza e che attraversa tutto il «corpo» di Mulholland Drive. Lo sfiguramento che colpisce il film finisce inevitabilmente per sfiorare anche il referente principale su cui il cinema ha costruito la sua storia e la sua riconoscibilità 18, nonché la sua logica profonda, come ben rivelano le strategie estetiche e visive formalizzate dal cinema classico. La coppia Betty/Diane rappresenta il caso estremo, perché intacca il perno diegetico del racconto; come si è già discusso altrove, Lynch realizza con la figura interpretata da Naomi Watts un organismo complesso, riunendo in un unico corpo due diverse prospettive esistenziali e identitarie del personaggio, due istanti del suo processo di personificazione, al tempo stesso impiegando (dipingendo) la fisicità dell’attrice come sintomo dei processi percettivi e attanziali in corso.
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Il dato più evidente riguarda il diverso ruolo attribuito alla dimensione corporea in coincidenza con i movimenti ascendenti e discendenti che articolano la caduta di Betty/Diane e ne disegnano il percorso figurativo. Il corpo della prima appare un involucro poroso ed elastico, interamente aperto all’esterno, proiettato verso l’altro da sé, come rivela, per esempio, la sua intensa attività scopica, con quelle soggettive «ingorde» puntualmente enfatizzate dal lavoro di regia, e come manifesta la sequenza del Club Silencio, in cui la superficie carnale della ragazza si lascia scrivere liberamente, senza mediazioni, colpita dalla pura intensità di suoni, musiche e rumori, non sottomessi ad alcun procedimento di traduzione cognitiva, ma vissuti come puro stimolo contagioso. Del resto, il corpo di Betty è come spalancato dalla soggettiva in cui si cala appena giunta a Los Angeles, ridotto a morbida cera in cerca della forma perfetta del modello divistico; alla possessione iniziale si oppone la spossessione finale, in cui la «teoria del gioco» del presentatore del Club Silencio s’appunta, non a caso, sulla fallacia ontologica della percezione e sulla fragilità delle connessioni tra segni e referenti, tra corpi-immagine e corpi-oggetto, tra una certa idea della realtà e la verità – imprendibile – della sua esistenza e manifestazione. All’opposto rispetto al fare attanziale di Betty, sbilanciato verso l’azione e la sensazione, il corpo di Diane appare completamente ripiegato su se stesso, chiuso all’esterno e attraversato da una forza centripeta e distruttrice. Il corpo malato di Diane – a differenza di quello «cosmetico» di Betty – è colpito dalle cicatrici dell’umano, e ricondotto alla sua natura organica di lacrime, rossori e sudori; la carne
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pesa, e il richiamo della carne – della memoria della carne – s’impone in tutta la sua matericità, facendo trasparire sull’epidermide quel processo di putrefazione morale che condurrà la ragazza al suicidio. Del resto, la caduta accelera anche il movimento del tempo e acuisce il suo «sentimento»: all’andamento ascensionale, prospettico e tutto sommato acronico (perché portato dal desiderio e continuamente rilanciato verso la conquista) che contraddistingue l’avventura di Betty, si sostituisce nella seconda parte di Mulholland Drive un tempo cronologicamente terminale, di cui testimoniano la sequenza di flashback proiettata da Diane e il racconto analettico che la ragazza imbastisce, spinta dalla madre di Adam, durante il party. Ma questa specie di «accensione» del reale si coglie anche sotto il profilo vestimentario: alla Betty abbigliata come una teen-ager, con colori tenui e senza trucco, si sostituisce una Diane aggressiva e matura, dal trucco pesante e dai vestiti seducenti o, viceversa, come nelle scene ambientate presso il suo appartamento, miseri e squallidi, del tutto intonati alla sua esistenza vuota. Complessivamente, l’instabilità figurativa di Betty/Diane, lungo il film, può anche essere descritta come un processo di alleggerimento o ispessimento della matrice carnale del personaggio, a partire da un incontro mutevole con il peso delle cose; Betty cade nelle cose, mentre da un lato cerca di sollevarsene: è il conflitto del cinema – come caduta nel peso delle cose, compreso quello del corpo. Il tragitto della ragazza è non a caso compreso tra una prima rappresentazione aerea (Betty trasportata dalle scale mobili, sospesa nell’inquadratura) e una conclusiva materializzazione, coincidente con l’«affronto» suicida ri-
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volto al volto, luogo per eccellenza di inscrizione dell’identità soggettiva. Ma è in rapporto ai processi di enunciazione che la crisi del modello antropocentrico si rende particolarmente fragrante: le instabilità e le fratture che percorrono Mulholland Drive finiscono inevitabilmente per colpire anche il corpo del narratore, esautorandone, da un lato, l’autorità, e, dall’altro, rimandando, anche in questo caso, l’immagine di una pluralità di realizzazioni non ricondotte a una sistema di differenze o definizioni gerarchizzate, e quindi assimilabili a più tradizionali schemi di narrazioni a focalizzazione multipla 19. La plurivocità che contraddistingue Mulholland Drive è piuttosto il frutto di un’alternanza tra presenze diverse, e tra diversi livelli di presenza di un’istanza narrante, secondo un principio della narrazione «debole» che, ancora una volta, accomuna Lynch ad altri narratori contemporanei: non, però, come effetto di una (postmoderna) perdita di controllo ma, all’opposto, come scelta consapevole di una manipolazione dello sguardo condotta attraverso una molteplicità di soluzioni, magari conflittuali, e però liberate da un principio uniformante, idealmente allineate e dunque sottoposte alla «pressione» delle cose. Una differenza eclatante, in proposito, allontana la prima dalla seconda porzione del film: l’avventura di Betty si costruisce infatti come staffetta di sguardi, con particolare riferimento alla dimensione soggettiva, mentre quella di Diane oscilla tra la fissità delle oggettive che raccontano la realtà e la ricostruzione soggettiva – ma di fatto «autentica» – dei suoi flashback. Delle soggettive in cui cade Betty
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si è già detto, e senza attribuirle necessariamente a un personaggio (come fa, anche se trasversalmente, Martha Nochimson, riconoscendovi l’opera dell’anti-narratore incarnato da Mr. Roque 19), predispongono uno spazio visivo ed esistenziale estraneo, riferibile all’immaginario cinematografico, apparentemente assunto da Betty e in cui però, come dimostrerà il suo percorso, la ragazza è in verità sussunta, quasi imprigionata dalle ombre seducenti del suo futuro d’attrice e dal fantasma di Hollywood che incornicia, come una didascalia, il suo arrivo a Los Angeles. Uno sguardo «in prestito» che ne deforma la percezione, accordandosi ai suoi desideri, nell’assenza di un «contro-campo»: accanto a lei, infatti, non c’è che Rita, che ha perduto ogni facoltà narrativa e in primo luogo quella «autoriale» e testimoniale. Orfana di una storia, è portata dagli eventi e dalle trame che Betty – «come in un film» – costruisce a partire da piccole tracce; il metodo è indiziario, come in tutte le ricerche che si rispettino. Ma intanto, e fin dall’inizio, c’è qualcun altro che osserva, sfidando i limiti dello spazio. E non necessariamente a vantaggio dello spettatore: si tratta di una presenza quasi palpabile, vicina alla realtà che riprende, testimoniale come un narratore ma, al tempo stesso, assente e autonoma come un osservatore smarcato dagli eventi, e per questo disturbante; qualcuno che si sente, e che si vede guardare. L’autonomia di questi punti di visione e d’ascolto che sembrano «sapere» e che si muovono liberamente sulla scena del film, e spesso nel vuoto dell’azione, si manifestano come puri sguardi, pure presenze percettive; proprio all’inizio, per esempio, quella leggera panoramica che scivola a
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destra, allontanandosi da Rita o, molto dopo, quel rapidissimo carrello in avanti che marca l’ingresso delle due ragazze nel Club Silencio; ma si veda anche il percorso «tagliato» che conduce Betty dal soggiorno alla camera da letto, in cui, come già in precedenza, la sua ipotetica soggettiva si rivela un’approssimazione, e la definizione del punto di vista resta irrisolta tra un regime semi-soggettivo e uno oggettivo. Ma anche, e forse più di tutto, quello sguardo che perlustra il letto vuoto proprio a inizio film, affondando nel nero del cuscino, portato da un corpo fisicamente assente ma acusticamente vivo. Sguardi liberi, potenti, prodotti di un percorso visivo e cognitivo misterioso, e idealmente «doppiati» dal ritratto di Beatrice Cenci di Guido Reni, che dall’anticamera della casa di zia Ruth spia e sorveglia beffardamente le trame avventurose ed erotiche di Betty e Rita. Ma in questa prima parte di Mulholland Drive – e come spesso accade in Lynch, almeno a partire da Velluto blu – è soprattutto la carnalità del punto di vista, la sua mobilità antropomorfa, la sua sensibilità simil-umana a introdurre un regime disturbante; la strategia trova un suo straordinario punto d’arrivo in INLAND EMPIRE, in cui l’azione (e non il semplice movimento) di certi sguardi in bilico tra l’oggettività di un narratore esterno e la soggettività di un personaggio interno ma assente, arricchisce, grazie al digitale, l’incidenza di questi punti d’ascolto e visione disseminati nel racconto al di fuori della classica staffetta delle focalizzazioni, dotandoli di uno spessore e di un’evidenza fisica nuovi e sorprendenti, e per questo ancora più disturbanti. Lo scambio tra meccanico e umano si fa particolar-
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mente evidente, la tecnologia assume atteggiamenti e forme antropomorfi e racconta la presenza del corpo dietro la macchina, mentre lo sguardo conquista nuove potenzialità ma, soprattutto, smette di essere semplicemente sguardo per diventare la traccia di un passaggio umano, l’azione di un occhio portato da un corpo. La crisi dell’antropomorfismo del punto di vista, della sua autorità e centralità, passa insomma attraverso una disseminazione dello sguardo e una sua realizzazione «carnale»; la distanza del narratore si converte nella vicinanza di un osservatore installato sulla scena degli eventi, accanto agli eventi. Il primo piano, non casualmente, si trasforma nel taglio privilegiato del film, e ancor più centrale si rivelerà in INLAND EMPIRE: un primo piano epidermico, quasi un contatto, fondato su una tensione percettiva contagiosa. Lynch non si limita a guardare, ma sembra voler letteralmente attraversare, o bucare, la sottile membrana della pelle del viso per entrare nel corpo dei suoi personaggi. E, al tempo stesso, si fa notare: lo spettatore, contemporaneamente, vede qualcosa e sente vivo, sulla scena, lo sguardo da cui nasce l’inquadratura; lo spettacolo si raddoppia, e la tensione amorosa tra Lynch e le sue storie e i suoi attori si fa palpabile. Certo, il narratore di Mulholland Drive, di tanto in tanto, dà la sensazione di saperne qualcosa in più dei personaggi, e con lui lo spettatore (ha visto l’incidente e alcune scene in cui si parla della ragazza «still missing»). Un narratore, quello oggettivo e affidabile, allora, forse, c’è. Almeno per un po’, almeno ogni tanto. Perché poi, in realtà, di che cosa stiano esattamente parlando tutti quegli uomi-
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ni che si telefonano (a partire dalla chiamata di Mr. Roque), e che cosa stia dietro gli interessi dei Castigliane e, ancora, che cosa voglia esattamente Roque, questo non si arriva mai a saperlo davvero. C’è un narratore che vede – qualcosa, ogni tanto – ma che non sa: la frattura tra vedere e sapere è eclatante, e se altre volte Lynch (o, meglio, l’istanza autoriale responsabile del racconto) ha solo voluto arricchire le sue storie «principali» con strade morte ma tutto sommato parentetiche (la trama gangster di Velluto blu), in Mulholland Drive egli impone lo scacco cognitivo e narrativo in modo più forte, cifrando la spiegazione (ma occultando comunque la soluzione). Non a caso, per sapere qualcosa in più, dovremo aspettare Diane e i suoi flashback: la responsabilità della ricostruzione di una parte della storia passa attraverso il ricordo di un personaggio, anche se qualcuno, dall’esterno, torna di tanto in tanto a guidarci, come in quel carrello in avanti sul tavolino della casa di Diane, dove a un certo punto non c’è più la chiave; un movimento di macchina marcato, e dedicato esclusivamente a orientare lo spettatore e a suggerirgli che ciò che sta vedendo si riferisce a eventi precedenti rispetto alla scena immediatamente successiva. Ma, a parte questo e altri casi limitati, la responsabilità narrativa di tutta la seconda parte del film resta filtrata dalla memoria – affidabile? – di Diane, dipendente dal suo percorso di recupero un po’ troppo offuscato da sentimenti accesi, d’amore e odio, sempre poco opportuni quando si tratti di rimettere insieme i pezzi di un mosaico; la delega, per altro verso, non fa che confermare l’idea di un’istanza narrante un po’ troppo coinvolta e, al tempo stesso, solo parzialmente
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informata dei fatti. Ma, soprattutto, l’attribuzione d’«autorità» a Diane e il ruolo cruciale che vi gioca il suo sguardo (memoriale e allucinato) lungo tutta la parte finale di Mulholland Drive, rimandano il film al principale mistero che l’attraversa e struttura: quello dell’incontro tra lo sguardo, la realtà e i racconti, anche cinematografici, che tentano di mediare tra l’uno e l’altro, costruendo, per tutti, una storia.
Cfr. Luca Malavasi, «Cineforum», n. 462. Per una distinzione tra corpi e involucri, si veda Jacques Fontanille, Figure del corpo. Per una semiotica dell’impronta, Meltemi, Roma 2004. 3 Edgar Morin, Lo spirito del tempo, Meltemi, Roma 2002, p. 131. 4 Ivi, pp. 153-159. 5 Cfr. René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca. Le mediazioni del desiderio nella letteratura e nella vita, Bompiani, Milano 1965. 6 Tra le più recenti e stimolanti ricostruzioni storiche dell’estetica del flashback, segnaliamo quella di Yannick Mouren, Le flash-back. Analyse et Histoire, Armand Colin, Paris 2005 (con alcune pagine dedicate anche a Lynch, e in particolare a Cuore selvaggio). Si noti come l’uso del flashback assuma in questo contesto anche una specifica valenza di «genere», con riferimento ai meccanismi privilegiati del noir e del melodramma psicologico (cfr. Maureen Turim, Flashbacks in Film: Memory and History, Routledge, New York-London 1989, in particolare il quinto capitolo). 7 Cfr. Mario Perniola, Del sentire, Einaudi, Torino 1991. 8 ANZIANA SIGNORA: È il momento di salutarci, Betty. È stato bello viaggiare con te. / BETTY: Grazie, Irene. Ero così eccitata e nervosa. Mi ha fatto molto piacere parlare con te. / IRENE: Adesso, ricorda che mi aspetto di vederti sul grande schermo. / BETTY: Okay Irene. Non vedo l'ora. / IRENE: Ti auguro tanta fortuna, Betty. Prenditi cura di te e fa' attenzione. / BETTY: Okay, starò attenta. Grazie ancora. 9 René Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, cit. 1 2
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Thomas G. Pavel, Mondi di invenzione. Realtà e immaginario narrativo, Einaudi, Torino 1992, p. 109, corsivo mio. 11 Su questi aspetti, si veda Pietro Montani, L’immaginazione narrativa. Il racconto del cinema oltre i confini dello spazio letterario, Guerini e Associati, Milano 1999. 12 BETTY: Sei ancora qui? / RITA: Sono tornata. Pensavo che fosse ciò che volevi. / BETTY: Nessuno ti vuole qui! 13 Sui rapporti tra «scena» e spettatore in Mulholland Drive (analisi della sequenza del Club Silencio), proprio sotto il profilo della verità delle emozioni, si veda Paolo Bertetto, Lo specchio e il simulacro. Il cinema nel mondo diventato favola, Bompiani, Milano 2007, cap. 3. 14 Si vedano, al proposito, i legami tra cinema e pittura analizzati da Daniele Dottorini nel suo David Lynch. Il cinema del sentire, Le Mani, Recco 2004, in particolare pp. 75-80. 15 La terminologia qui impiegata è ispirata agli studi di Didier Anzieu sull’io-pelle, per i quali si rimanda a Didier Anzieu et al., Gli involucri psichici, Masson, Milano 1997. 16 Barbara Grespi, Mulholland Drive. Frammento di un’analisi di isteria, in Paolo Bertetto (a cura di), David Lynch, Marsilio, Venezia 2008. 17 Ivi. 18 Cfr. Gianni Canova, L’alieno e il pipistrello cit., in particolare pp. 137141. 19 Sulla nozione di focalizzazione e sui «modi» della narrazione in generale, si rimanda al classico Gérard Genette, Figure III. Discorso del racconto, Einaudi, Torino 1976. 20 Martha Nochimson, «All I Need is the Girl»: The Life and Death of Creativity in Mulholland Drive, in Erica Sheen, Annette Davison (a cura di), The cinema of David Lynch. American dreams, nightmare visions, Wallflower Press, London 2004, pp. 165-181. 10
Antologia critica
Tre grandi tipi di interpretazione hanno prevalso. Prima di tutto, un’ipotesi pirandelliana, borghesiana o oulipiana, come si vedrà. Il film sarebbe un cubo di Rubik, una scatola popolata di marionette che si agiterebbero improvvisamente, come si fa con un caleidoscopio, riconfigurando elementi, corpi e ruoli. Questa tesi ha il vantaggio di essere la più elastica, ma conduce a due cul-de-sac. In un caso, assistiamo all’incoronazione di un Lynch illuminato: in questo caso, si regredisce nella religiosità del genio romantico (e della sua sopravvivenza moderna, il surrealismo), che dona troppo potere all’autore e ne toglie altrettanto all’opera. Il secondo cul-de-sac ha a che fare con la sempiterna mise en abyme e fa riferimento al nastro di Möebius – il culto è prima di tutto una mistica dell’hobby, in questo caso l’origami. L’incantesimo del doppio fondo riduce il film a un rompicapo cinese o alle coppie tipiche della «virtualizzazione» – illusione/realtà, virtuale/reale: cerniere grossolane che non fanno che mantenere intatta la nevrosi del realismo. La seconda grande famiglia di ipotesi è piuttosto d’ordine mentale o neurologico. La follia: il film dà a vedere il delirio schi-
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zofrenico di un personaggio, verosimilmente Betty/Diane (era già l’interpretazione più diffusa a proposito di Lost Highway). Il sogno: ipotesi maggioritaria e di fatto la più «coerente». La prima parte sarebbe il sogno troppo luminoso di una Diane depressa, scaricata da Rita a vantaggio di Adam. Esso riconfigura tutte le tappe del dramma della separazione e dell’uccisione di Camilla, che Diane ha commissionato […] L’ipotesi tiene, funziona, ma davvero non si può andare oltre? Infine, terzo tipo di interpretazione: spiritica o esoterica. Il fenomeno che MD descrive s’apparenta all’apparizione spettrale (Rita e Betty potrebbero essere dei fantasmi, la prima morta durante l’incidente, la seconda in putrefazione sul suo letto), alla possessione (Betty ossessionata dall’uomo del Winkie’s), o alla reincarnazione (lo spirito di Betty si proietterebbe nel cadavere del bungalow). Altre declinazioni possono ricondurre alla teoria della trasmigrazione, che designa la capacità di un’anima di passare da un corpo all’altro, senza obbligatoriamente passare per la fase della morte. Questo sottofondo sciamanico non sorprenderebbe in rapporto a Lynch: il cineasta, adepto della meditazione trascendentale, si è dato da fare per la promozione di un guru indiano e ha creato un’inquietante «Fondazione David Lynch per l’Educazione basata sulla coscienza e la pace mondiale». Si vede bene come queste differenti ipotesi sono suscettibili di alternarsi o combinarsi, perennemente soggette a delle fastidiose sofisticazioni e mise en abyme ad nauseam: un pazzo può sognare di reincarnarsi… Hervé Aubron, Mulholland Drive. Dirt Walk With Me, Yellow Now, Crisnée 2006, pp. 23-25.
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Giunto al suo nono lungometraggio, Lynch decide di narrare una vicenda che, seppur originariamente pensata per la televisione, si ambienta per la prima volta nel mondo dei sogni per eccellenza: Hollywood. È significativo che la macchina da presa, seguendo il passo incerto e spaesato di Rita dopo l’incidente, si soffermi sul cartello stradale che reca la scritta Sunset Boulevard. Forse è sin troppo scontata la conclusione che il regista di Missoula abbia voluto realizzare il suo Viale del tramonto – un film, quello di Wilder, tra i pochi che Lynch citi spesso tra i suoi preferiti. Ma è innegabile che la scelta di raccontare una vicenda così tormentata e dolorosa ambientandola a Hollywood, fa riverberare il film di echi «autoriflessivi» che pesano sulla lettura dell’opera. Anche la scelta di fare della protagonista del film un’attrice, ci pare significativa del grande rispetto di Lynch per questa professione, rispetto che Naomi Watts ricambia con un’interpretazione straordinaria. Si veda la scena del provino di Betty davanti ai responsabili del casting e al regista – magistrale prova di recitazione al tempo stesso controllata e sopra le righe –, ma ancor più tutta la seconda parte del film nella quale la Watts diviene irriconoscibile nella sua disperazione che pare modificarne persino i lineamenti solari e gioiosi. Riccardo Caccia, David Lynch, Il Castoro, Milano 2004, pp. 133-134.
L’ultimo film di David Lynch marca una nuova tappa nella sua conquista di uno spazio narrativo libero dalle contingenze della stretta verosimiglianza, spazio mentale in cui le leggi s’apparentano direttamente a quelle del sogno con tanto di scontri, condensazioni, sparizioni e altre sostituzioni […].
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La prima parte di Mulholland Drive prende la forma di una inchiesta in cui le due ragazze vestono i panni delle detective private in cerca della vera identità di Rita. Parallelamente a questa ricerca, una serie di micro-décalage caricano il film di un mistero, di una tensione diffusa, lasciando supporre che questa inchiesta potrebbe portare alla luce un complotto più vasto, articolato attorno ai rapporti complessi tra Hollywood e la mafia. L’insieme dei segni distribuiti aleatoriamente nella prima parte troverà una soluzione nella seconda molto più breve, reinterpretazione generale dei fatti e dei gesti di tutti i personaggi del film, un po’ come se i dati del problema fossero compresi e ridistribuiti d’un sol colpo al solo fine di essere delucidati […]. Mulholland Drive è al tempo stesso un nuovo (avatar) del nastro di Möebius caro a David Lynch, una forma di cui si trova l’abbozzo in Velluto blu e una prima realizzazione in Strade perdute. I due lati del nastro si rispecchiano come le due facce intercambiabili di una sola e stessa realtà, e la fine si congiunge all’inizio in una circolarità infinita. Si potrà sempre dire che l’una delle due facce rappresenta il sogno e l’altra la realtà, ma il contrario potrebbe essere altrettanto sostenibile. Qui, ancora una volta, la dualità dei personaggi femminili, che si ritrovano incarnati in altri ruoli all’interno dell’ultima parte, rinvia direttamente a questa forma affascinante che funziona come un cervello in cui i due emisferi si rispondono senza sosta […]. Qualunque sia la porta che si apre per entrare in Mulholland Drive, si ricade sempre sulla dualità. Da questa dualità, al tempo stesso forma, fondo, soggetto, oggetto dell’ultimo film di David Lynch, nasce una fascinazione che sopravvive a lungo. Thierry Jousse, L’amour à mort, «Cahiers du cinéma», n. 562, novembre 2001.
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Si tratta, per Lynch, in questo film che è il più en abyme che abbia mai fatto, di giocare con il cinema per constatare, come stupefatto, che esso continua a «funzionare». Mulholland Drive abbonda in effetti di scene che, per come Lynch le ha realizzate, sembrano ogni volta «testare» il potere continuamente rinnovato di un piano soggettivo – piani soggettivi sobbalzanti in un modo molto particolare, e che talvolta funzionano da soli, senza un personaggio che li motivi. Testare il potere di un controcampo, testare il fatto che il fuori campo al cinema permette di far sparire qualcuno in un secondo e che ciò funziona, ed è assoluto (la scena della sparizione di Betty e Rita nell’appartamento della zia, che mette paura); testare inoltre, evidentemente, il potere che hanno i suoni di scavare nell’immagine un vuoto, un attesa, e di darle impulso […]. Come un grande jeau de piste, Mulholland Drive abbonda di oggetti e segni misteriosi. Il cinema è una forma d’espressione tale che non importa che cosa, nell’opera, potrà costituirne la chiave definitiva, il dettaglio significante, il punto in cui le cose si chiarificano: qui, la «parola d’ordine» del film è, di volta in volta, una misteriosa scatola cubica, una chiave blu triangolare, un’altra chiave blu ma piatta, il nome di una strada, il cartellino di una cameriera, una ripetizione, «This is the girl», e così via. La proliferazione delle direzioni, come in Twin Peaks, si accompagna a una proliferazione delle figure di «passatori», di «maestri» (l’impagabile «Cowboy», i due registi, il giovane e il vecchio), di «padrini», ecc. Non voglio suggerire, affermando questo, che si tratta di un film «ludico», per impiegare questo aggettivo alla moda. È un film dove si è sulla frontiera tra il «per gioco» e il «per vero», ed è molto serio.
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Michel Chion, Mulholland drive. Play it for real, «Positif», n. 490, dicembre 2001, pp. 80-81.
Mulholland Drive ha come tempo di sottofondo un presente, quello di una donna addormentata e poi in preda ad allucinazioni e ricordi […]. Questa bolla di presente in divenire si apre, innanzi tutto, a monte, verso il passato; di quest’ultimo si tenta una sorta di rifabulazione figurale (il sogno), in grado di redimere l’accaduto, oppure una ricostruzione archeologica (viaggio nei ricordi), al fine di rimotivare i bivi decisionali propri e altrui. Ma il presente si apre anche a valle, verso i destini infausti che sono realmente futuribili (prefigurazioni). Per di più, il film problematizza il fatto che, nella triplicità tipica del presente, i valori attuali esercitano una pressione sulla rievocazione di quelli passati e sulla prospettazione di quelli futuri; in tale prospettiva, per esempio, la lunga sezione del film dedicata al sogno trova al suo interno la rappresentazione delle istanze e dei processi in atto che sono suscettibili di compromettere il sonno o di rompere quell’equilibrio omeostatico che consente la coesione del mondo possibile onirico. La preminenza della prima parte del film sulla seconda si spiega col semplice fatto che le speranze di Diane, perduto il suo oggetto d’amore, si coniugano ormai solo al futuro passato. Così, ricostruire banalmente la fabula, derealizzando tutto quello che lo spettatore ha visto per la prima metà del film, significa non comprendere affatto come quel (contro)sogno sia un percorso di salvezza simbolica (una redenzione da condividere idealmente con l’amata) che ha il potere posizionale di reinterpretare e risemantizzare la propria archeologia esistenziale. Resta, in ogni ca-
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so, un’enorme nostalgia, che si nutre della stessa risonanza paradigmatica che il sogno esercita sulla vita vissuta; dei possibili esistenziali sono stati certamente perduti, ma non meno essi erano a portata di fato: un solo incidente, una sola variazione stucchevole di nome proprio, e forse tutto sarebbe potuto andare altrimenti. Pierluigi Basso Fossali, Interpretazione tra mondi. Il pensiero figurale di David Lynch, Edizioni ETS, Pisa 2006, pp. 399-400.
Il punto sembra essere allora quale atteggiamento decidere di adottare rispetto a film in cui, continuamente, lo spettatore si trova a dover scegliere il frame nel quale collocare una determinata situazione, finendo per non sapere più come comportarsi, quale chiave scegliere nella serie paradossale di mazzi di chiavi che il regista gli ha messo in mano per codificare e, dunque, reagire a ciò che gli è proposto in maniera adeguata (sensata). Sempre ne Lo scambio simbolico e la morte, Baudrillard si chiede: «C’è un’affinità tra il poetico e lo psicoanalitico?». La questione pare essere proprio questa. Lynch è più un poeta espressionista del cinema, da avvicinare senza pretendere di risolvere l’oscillazione continua fra il suono (la bellezza) e il senso, per non rischiare che – con la scelta – scompaia anche la bellezza straniante del suo cinema? Oppure è uno psicoanalista che, animato da un rigore moralistico, pretende dal suo co-autore di avventurarsi nell’enigmistica di un cinema pienissimo di trappole, alla ricerca della soluzione di un teorema, continuamente riproposto, relativo alle insidie future che la condizione postmoderna tenderà alla natura della nostra soggettività?
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La risposta esatta, probabilmente, è che Lynch riesce a essere entrambe le cose. Solo che il privilegio di vivere con distaccata ambivalenza nel regno delle contraddizioni è riservato unicamente a lui. Lo spettatore non può rispondere sì a entrambe queste opzioni alterative e inconciliabili. Lo spettatore deve scegliere in quale poltrona sedersi, a quale atteggiamento ricorrere. Se accettare la sfida, prendendo sul serio la serietà con cui viene posta, o rifiutarla – per la sua impossibilità – come fosse uno scherzo […]. Insomma, Mulholland Drive, vissuto interamente come esperienza estetico-poetica, premendo il pedale dell’acceleratore nelle curve più tortuose, è un oggetto omogeneo che si gode fino in fondo, senza resti o fantasmi. L’altro, quello che fila dritto per la sua scorciatoia simbolico-psicoanalitica verso la casa di un possibile senso, procedendo però alla velocità opprimente di un trattore, incurante del traffico brulicante tutto intorno, rischia di diventare un fantasma fastidioso che tornerà a tormentare la nostra insonnia programmata senza sogni. Giacomo Manzoli, David Lynch, oggetto e soggetto, in Claudio Bisoni (a cura di), Attraverso Mulholland Drive. In viaggio con David Lynch nel luogo di un mistero, Il Principe Costante, Pozzuolo del Friuli 2004, pp. 86-88.
I tre blocchi che costituiscono l’inizio di Mulholland Drive si manifestano immediatamente per la loro estraneità l’uno dall’altro: se l’ultimo è caratterizzato da una sequenzialità narrativa (immediatamente misteriosa e inquietante), i primi due si oppongono sia al terzo sia tra di loro: la sequenza dei ballerini sospesi in uno sfondo di colore, introduce immediatamente, con una sorta di impatto violento, una sospensione della ma-
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terialità dei corpi e dello spazio […] Annunciato senza mediazioni, il carattere spettrale, immateriale del cinema fa spettacolo di sé proprio attraverso una molteplicità di corpi che danzano, che sembrano cioè annunciare nello stesso tempo la loro consistenza materiale. Il blocco immediatamente successivo si sofferma invece, con la sua inquadratura ravvicinata, sulla materialità degli elementi di un letto disfatto: l’occhio della macchina da presa si trasforma in un occhio tattile, che accarezza i tessuti e i materiali che compongono le lenzuola, la coperta e il cuscino. Mulholland Drive si annuncia dunque come film dalle molteplici dimensioni che mette in gioco gli elementi costitutivi del cinema: materialità, immaterialità, narrazione. È infatti un film sul cinema, un film che indaga il cinema in più direzione: l’immagine-movimento come capacità di costituire (contemporaneamente) molteplici mondi che evocano allo stesso tempo il materiale e l’immateriale e il cinema come meccanismo economico, forma di potere capitalistico e straniante (una parte considerevole della narrazione ruota intorno al progetto di un film da fare). Le due dimensioni si intrecciano, si intersecano in profondità. La macchina-cinema hollywoodiana diviene il teatro, la tela dove il territorio del cinema lynchiano si dispiega come interrogazione profonda […]. Il dispiegamento di molteplici inizi rimanda dunque a una interrogazione sulle stratificazioni profonde della materia: del pensiero e dell’immagine come materialità e della sostanza delle cose. Tutto sembra dispiegarsi nel film (e nel cinema di Lynch) come produttività infinita. La realtà stessa produce incessantemente se stessa, biforcandosi, dividendosi, creando spazi, sezioni, stanze e strade. Non si tratta più di un’ontologia del cinema,
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ma di una domanda ontologica che il cinema instancabilmente pone, proprio in virtù del suo movimento incessante. Daniele Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, Le Mani, Recco 2004, pp. 72-74.
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* Vista l’imponente mole di materiali, si omettono le recensioni dei quotidiani.
Indice
7
David Lynch: altro, outsider, freak
33
Il film
65
Suddivisione in sequenze
83
Mille e una critica
115
Fratture narrative: la fine di un inizio
151
Sconfinamenti e cadute
179
Hollywood, il desiderio, lo sguardo
215
Antologia critica
225
Bibliografia
Finito di stampare nel mese di luglio 2010 presso DigitalPrint Service - Segrate (Mi) per conto di Lindau - Torino