Danilo Dolci e l'utopia possibile
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GIUSEPPE CIPOLLA

Danilo Dolci e l'utopia possibile

SALVATORE SCIASCIA EDITORE Caltanissetta-Roma 2012

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA ©

Copyright 2008 by Salvatore Sciascia Editore s.a.s. C altan issetta-Roma

e-mail: [email protected]

ISBN 978-88-8241-397-2

Stampato in Italia l Pn'nted in Italy

A Enzina� mia moglie� e a Claudio� il più giovane dei nostri nipotz: sicuri che sia orgoglioso nel ricordarci per il nostro lascito di speranza e di lotta.

PREMESSA

Danilo Dolci nasce a Sesana (Trieste) nel 1 924 , ma si trasferisce presto a Milano. Prossimo alla laurea in Architettura, colto da una sorta di conver­ sione, entra dapprima nella comunità di Nomadelfia, ma nel 1 952 la Sicilia occidentale diventa il suo terreno operativo, con i centri direzionali colloca­ ti a Trappeto e a Partinico dove fonda il Borgo di Dio e poi il Centro Studi e Iniziative per la Piena O ccupazione. Memorabili le sue azioni per il riscat­ to dalla miseria di tanta parte della popolazione siciliana attraverso la consa­ pevole partecipazione popolare e la collaborazione di uomini, sindacati e partiti più sensibili alle impellenti istanze sociali. Partecipazione dal basso e metodo non violento caratterizzano le lotte promosse da Dolci, che sono ri­ maste memorabili e che allora ebbero il sostegno dell'opinione pubblica, non solo nazionale, e della più impegnata intellettualità. Ma Dolci è anche uno scrittore e un pensatore di notevole spessore. Le sue più importanti opere vennero diffuse in quasi tutti i paesi del mondo. Numerosi poi i rico­ noscimenti e i premi ricevuti. Tra questi segnaliamo: il Premio Lenin per la Pace nel 1 958; il Premio Socrate di Stoccolma per «l'attività in favore della pace e per i contributi di portata mondiale nel settore dell' educazione», nel 1 970; in Danimarca, presso l'Università di Copenaghen, nel 1 97 1 , il Premio Sonning «per il suo contributo alla civilizzazione europea»; in India, nel 1 989 , il Premio Gandhi. Parecchi i premi letterari, tra cui il Premio Viareg­ gio per Inchiesta a Palermo nel 1 958, e per la sua produzione poetica nel 1 977 e nel 1983 . Riceve infine tre lauree honoris causa in Pedagogia: nel 1 968 dalle Università di Berna e di Roma, e nel 1 996 dall'Università di Bo­ logna. Dolci muore a Partinico il 3 0 dicembre 1 997 .

Danilo Dolct ebbe una personalità poliedrica} e cioè dai molteplici interessi. Egli era una figura di intellettuale la cui cultura abbracciava i vari rami del sapere} alla stregua dei grandi umanisti del passato che fu­ rono uomini di lettere} filosofi e scienziati al tempo stesso. Danilo poi

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fu anche un uomo di azione, sociologo impegnato non solo a conoscere la realtà sociale, ma anche a denunciarne i suoi malesseri e a mutar/a. Tale impegno fu costante in tutta la sua vita e fa si' che le dimensioni varie della sua personalità di sociologo, filoso/o, educatore, poeta, si tengano stretti tra di loro nel perseguire il medesimo fine. In Dolcz� cioè, {{tutto si tiene" attorno alla sua speranza e fiducia nel­ la possibile utopia della costruzione di una società umana più giusta e nonviolenta. La sua utopia non è perciò il /rutto di un fantasticare e scrivere a tavolino intorno a una {{città ideale". Essa, cio� non salta la necessaria fase della sua costruzione, che esige appunto una rivoluzione, per Dolcz: pacifica e nonviolenta. Da qui anche lo stretto rapporto tra pensiero e azione, che caratterizza anche la sua personale vicenda di combattente per un mondo migliore. La città ideale, ào� si costruisce giorno per giorno/ ma tutto dò esige chiarezza intorno ai fini e ai mezzz: consapevolezza delle patologie accumulate nei secolz: ma anche le anali­ si e le proposte per superar/e, il rz'ascolto delle voci' dei grandi del passa­ to, ma anche di quelle critiche e propositive dei nostri contemporanei. Da qui il carattere di colloquio di gran parte delle sue opere, di cui sono una spz'a le frequenti citazioni. La centralità del suo pensiero utopico emerge in tutti i suoi scrittz: e perciò abbz'amo voluto sottolinear/a sin dal titolo che abbz'amo voluto dare al presente saggio. Tale centralità assicura gli intrinseci rapporti tra le sue analisi filosofiche, pedagogiche, sociologiche e la sua stessa produzione poetica. La filosofia utopica di Dolcz: in/attz: respingendo la diffusa tendenza al nichilismo e la sfiducz'a nelle utopie dopo il crollo delle grandi {{narrazioni" delle ideologie ottocentesche e del primo No­ vecento, dichz'ara possibile la costruzione di una vera democrazz'a cen­ trata su uno stretto rapporto tra etica e politica e sulla reale partecipa­ zione di tutti i cittadinz:· dichz'ara possibile il dz'alogo e la convivenza pa­ cifica tra gente di etnz'a, religione e cultura diverse,· possibile risolvere pacificamente i conflitti senza il ricorso alle armz:· possibile un nuovo rapporto non violento tra l'uomo e la natura finora rovinoso per en­ trambi. Ma questi obiettivz: precisati e abbondantemente analizzati da Dolci nelle sue opere, vanno perseguiti non solo da una nuova politica, ma anche da una sociologt'a critica e da una nuova educazione che colti­ vi la socz'alità e l'immaginazione, e perciò anche dalla poest'a. Infatti per Dolci «se l'uomo non immagina, si spegne».

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La complessità anche disciplinare del pensiero e delle opere di Dolci forse è la causa della mancanza finora di un saggio critico che l'affron­ tasse e ne evidenziasse insieme l'organica unitarietà; m o nografie e scritti vari ne hanno rilevato soprattutto singoli aspetti anche impor­ tanti: quello letterario, Fontanellz:· quello pedagogico, Mangano; quello biografico e bibliografico, Barone. Voglia perciò il lettore perdonare il nostro ardire e apprezzare, se non altro, lo sforzo di o/frirgli un comple­ to quadro d' insiem� da cui emerga non solo l'unitarietà e la coerenza che hanno gli scritti di Dola: ma anche l'attualità del suo messaggio negli anni che stiamo vivendo, che per certi aspetti non solo con/erma­ no le critiche di Dola: ma anche evidenziano i primi segnali positivi di quella «svolta epocale» che egli si augurava. G. C.

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PARTE PRIMA CONOSCENZA E AZIONE LO SCRITTORE E IL PROMOTORE DELLA SOCIETÀ CIVILE

CAPITOLO I

«NUOVO CIELO E NUOVA TERRA>>. I PRIMORDI RELIGIOSI DEL PENSIERO UTOPICO DI DOLCI

Che la conoscenza debba precedere e guidare l'azione è un prin ­ cipio che Dolci conquistò in lunghi anni di lettura di libri di vario ge­ nere. Egli stesso nello scritto Ciò che ho imparato, in Inventare il fu­ turo, racconta che si alzava la mattina alle quattro, e prima di iniziare la giornata comune di ogni studente, per tre ore, nel silenzio - dice­ «incontravo i miei» : Platone, Euripide, Shakespeare, Goethe, e poi ancora la Bibbia, le Upanisad, i Discorsi di Buddha, Dante, Galilei, Tolstoj. A venticinque anni credette di aver compreso «cosa gli uomini avevano capito ed espresso attraverso i migliori». Ma si era anche ac­ corto che gli uomini non seguivano gli insegnamenti dei grandi e si mostravano distratti incoerenti superficiali, «persino usavano la co­ noscenza del Vangelo come strumento di affermazione personale» . Il giovane Danilo, invece traeva da quegli insegnamenti la fiducia nei possibili cambiamenti della nostra condotta personale, ma anche del­ l'intera società. Aspirava, com'egli scrive, a «nuovo cielo e nuova ter­ ra»; e fu talmente forte tale ispirazione profetica da fargli troncare l'insegnamento, la promettente carriera di architetto (era allievo pre­ diletto di Bruno Zevi e già aveva al suo attivo la pubblicazione di due manuali sulla scienza delle costruzioni) ma anche quella di poeta e scrittore (nel 1 947 era entrato nella rosa dei finalisti del Premio Libe­ ra Stampa di Lugano) . E così, nel 1 95 0, abbandonò tutto e andò a vivere a Nomadelfia, una comunità di accoglienza per bambini sbandati dalla guerra, fon ­ data da don Zeno Saltini nell' ex campo di concentramento nazifasci­ sta di Fossoli. Qui apprese come la vita di gruppo, la vita comunita­ ria, fosse «un indispensabile strumento di verifica e di costruzione personale e collettiva». Ma dopo un anno e mezzo in cui - dice - si 13

era come «ripulito ed essenzializzato» , sentì Nomadelfia «come un'isola, un nido caldo che rischiava di compiacersi di sé». E gli si pose imperiosa la domanda: «E il resto del mondo?». Decise perciò, agli inizi del 1 952 , di partire per Trappeto, dove era stato per qual­ che mese, tra il 1 940 e il 1 94 1 , al seguito del padre, che era dipen­ dente delle Ferrovie dello Stato, e con la famiglia. Certamente erano in lui presenti le immagini, che aveva avuto da ragazzo, della estrema miseria in cui versava allora quel borgo marinaro della provincia di Palermo. E ne volle fare subito, insieme alla vicina Partinico, la base operativa di quella che si può definire la sua missione civile . Il termine "missione " (dal latino mittere, «mandare» , da cui an ­ che «messo» «mandato») nella sua connotazione religiosa non ci sembra usato in modo improprio per il giovane Danilo, che si sentì investito di un compito non di predicazione ma di realizzazione di quanto è testimoniato nel Vangelo . L'utopia nel giovane Danilo si esprime e si colora di espressioni e termini attinti dai testi sacri cri­ stiani, ma si concretizza nell'azione quotidiana, nella obiettiva realiz­ zazione di cambiamenti . Questo linguaggio e questi propositi sono testimoniati dagli stessi abitanti di Trappeto . All'inizio due pescatori del luogo gli chiesero: «Chi viniste a fare?»; e lui rispose «chi vulia fare com'era chiù meghiu vivere da fratelli», «chi vinni a lu Trappitu pi ghiccarisi insemmola co li puvureddi» . «lddu ci dicia chi lu Signu­ re vulisse chi lu munnu è fatto per vivere da fratelli, chiddu chi ca­ mora lu munnu nun fa; ca si tutti fusseru fratelli gli uni con gli autri, tutti 'sti cosi tinti non succidissero(guerre, gente che ammazza, gente che ruba, disoccupazione che aumenta, i picciriddi che moreno de fame, gente che butta la roba picchì n un sa soccu fare)». 1 Non soltanto in qu es te testimonianze si documen ta l 'uso di espressioni religiose, ma anche negli scritti dello stesso Dolci, almeno sino a Banditi a Partinico che è del 1 955 . E ciò, a cominciare dai pri­ mi sedici «Frammenti del poema» che risalgono agli anni 1 95 1 - 1 953 , e cioè tra l'esperienza di N omadelfia e quella iniziale di Trappeto. In tali poesie la divinità non è un Dio lontano dalle pene e dalle gioie degli uomini, e si può riconoscere soprattutto nei sofferenti, nei po­ veri a cui si contrappongono le sinistre espressioni del male: 1 Cf. Due pescatori siciliani raccontano la storia del Borgo di Dio, TI Gallo , Milano 1 954 , pp. 1 1 - 14.

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Ho visto i demoni di carne: hanno gradi di caporale, di maresciallo, di comandante sulle braccia, sulla testa, sulle spalle o nascosti nel cuore; hanno sul petto grandi croci d'oro pesanti anelli d'oro sulle dita; e dicono: io sono il superiore voi dovete servire, essere quieti e vi daremo tutti i nostri avanzi se ci ringrazierete. [ . . . ] E ho visto il popolo che si nutre solo di Dio il popolo che bacia i figli con la bocca piena di Dio il popolo dai baci nutrienti il popolo che si fa fecondare le viscere da Dio. 2

E perciò, per Dolci, sono «figli di Dio sofferenti» tanti degli ahi­ tanti dei quartieri poveri di Trappeto e di Partinico .3 Espressioni reli­ giose ricorrono persino nei numerosi inviti alle autorità regionali e nazionali per intervenire subito in aiuto di quelle popolazioni; Dolci supplica in «nome di Dio» e prende commiato col saluto «Vostro in Dio». In una lettera all' on . Giuseppe Alessi, personaggio politico di spicco della Democrazia Cristiana, già capo del governo regionale, nel denunciare l' «estrema miseria» di tanta parte della popolazione di Trappeto, confessa che «la pena maggiore non è nemmeno per la sofferenza fisica» ma nel constatare che essa «consuma, come una tu­ bercolosi, la possibilità di essere pienamente figli di Dio». Addirittura arriva a dichiarare: «Ubbidisco alle disposizioni che salva­ guardano l'esistenza di tutti, ma non riconosco al disopra della mia co­ scienza - e della coscienza della comunità degli uomini di buona volontà­ alcun' altra autorità: umana. n codice è valido finché coincide con la legge di Dio, quando la contraddice è abuso di autorità. Non riconosco, cioè, per legge, che la volontà di Dio, la quale si manifesta nel nostro intimo in preghiera e nella comunità degli uomini che cercano Dio sinceramente».4 2 Cf. D. Dolci, Poesie, Canevini Editore, Milano 195 6 , pp . 50-5 1 . 3 Cf. D . Dolci ( a cura di) , Quanti altri s'impiccheranno. Quanti altri impazziranno. Quan­ ti altri morranno disgraziati a Partinico?, Luxograph, Palermo 1 954, p. 4 . 4 Cf. D . Dolci, Fare presto (e bene) perché si muore, De Silva, Torino 1 954 , pp . 1 08 - 1 09 .

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È più probabile che in tali affermazioni ci sia più il Dolci obiettore di coscienza che un Dolci semplicemente credente. Che nella prima fa­ se della sua attività in Sicilia ci sia però un'ispirazione religiosa è co­ munque certo, e in larga parte questa va attribuita al suo apprezzamen­ to dei valori evangelici e all'eredità di don Zeno Saltini, il fondatore di N omadelfia. Tale eredità è evidenziata anche nella denominazione che volle dare al centro da lui fondato e costruito a Trappeto, e cioè «Borgo di Dio», che ricorda la Nomadelfia di don Zeno, altrimenti definita la «città di Dio», dove la fraternità è legge. Nel Borgo di Dio, già dagli ini­ zi del 1 953 Danilo cominciò a ospitare trenta bambini tra i più bisogne­ voli di aiuto, figli di genitori ammalati di tubercolosi, orfani figli di banditi o di vittime del banditismo, a cui «s'insignano quand'uno li ca­ fudda [picchia] a rarici [darci] 'na vasatedda». Per Danilo poi in tutti coloro che si adoperano, con enormi sacrifici, ad accudire volontaria­ mente a questi bambini, e in tutti i "cristiani" mossi da pietà, solidarietà e impegno nel mutare la triste realtà presente «è Dio che si muove».5 Per Dolci, dunque, Dio non è un Dio lontano, un Dio del cielo, perché ha la sua «dimora con gli uomini»; è il «Dio - con - loro», che asciuga «ogni lacrima dai loro occhi». 6 Le suggestioni verbali e ideali ricevute da Danilo dalla lettura del­ l'Apocalisse non ci riportano dunque a una interpretazione del testo giovanneo centrata su eventi mitici futuri, al di là della storia, ma alle terribili realtà del nostro tempo (queste sì apocalittiche) certamente non volute da Dio, e di cui sono responsabili soprattutto gli uomini che dominano la politica, l'economia, la società in modo iniquo e violento. C'è un modo dunque per Dolci di "far venire presto " il Si­ gnore sulla terra, ed è quello di fare le cose che egli ha detto nel Van ­ gelo . Soltanto in questo "fare" è la fede. Il resto non conta . Tanto è vero che per il Danilo di alcuni anni dopo si può pure fare a meno, testimoniando con le opere, di pronunciare la stessa parola "Dio " .7 Con le opportune precisazioni si potrebbe attribuire a Danilo Dolci l' affermazione di McEwan secondo cui «a salvarci non verrà nessuno. Dovremo pensarci da soli».8 La sua utopia infatti si andrà 5 Cf. Due pescatori siciliani raccontano la storia del Borgo di Dio, cit . , pp. 2 9-3 0 . 6 Cf. Apocalisse, 2 1 , 3 -4 . 7 Intervista a D. Dolci nella rivista «Témoignage chrétien», gennaio 1 962 . 8 Cf. Ian Mc Ewan Blues della fine del mondo, Einaudi, Torino 2008, p. 47 .

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sempre più definendo spoglia del linguaggio mistico-religioso, di re­ more ideologiche e sempre più aperta e dipendente dalla iniziativa e dalla partecipazione umana . A contatto con la miseria, il carattere dommatico delle idee scompare. Sui problemi concreti noi arriviamo a concludere una unione di forze derivanti da differenti dottrine. I tecnici, gli awocati, gli studenti che la­ vorano con noi mettono da parte le loro opinioni, quali che esse siano.9

Nei primissimi anni comunque la sua attività a Trappeto e a Parti­ nico si caratterizza per quella solerzia proprie di chi si sente investito di un compito urgente, da una sorta di missione salvifica per la quale si dichiara disposto persino a sacrificare la propria vita. Egli stesso usa il termine "missionari" . Missionari che aiutino questo popolo ad aprirsi nella chiara esigenza del sapere come stanno veramente le cose. Missionari tecnici che valorizzino e potenzino le naturali possibilità locali: quante possibilità si sprecano perché chi mangia non si muove e chi non mangia non sa muoversi: e gli uni aspettano gli altri. 10

Contro l'immobilismo, la rassegnazione, l'insensibilità umana e sociale, la difesa dei meschini interessi di chi sta bene, gli sprechi, spicca il dinamismo del giovane Danilo che non appena arrivato a Trappeto per «sapere» come meglio stavano le cose, si sbraccia e fa vita comune con gli ultimi, con gli sfruttati, con i sofferenti, gli esclu­ si e dimenticati persino dalla Chiesa, che non li cerca e nella quale essi non possono andare perché non hanno scarpe e vestiti decenti, o perché «quando uno ne ha tante, sta a pensare alla Chiesa?»1 1 Per «sapere» o conoscere una realtà sociale come quella che gli si presentava, e nello stesso tempo sostenersi, nei primi mesi del suo ar­ rivo a Trappeto, Danilo lavora come manuale muratore o come brac­ ciante a zappare la terra. Tale esperienza ha senza dubbio un alto va­ lore di testimonianza che ricorda un 'altra figura di intellettuale, quel­ la di Simone Weil, che nel 1 93 6 aveva abbandonato l'insegnamento 9 Cf. D. Dolci nella intervista a «Témoignage chrétien», cit. 1° Cf. D. Dolci, Fate presto (e bene) perché si muore, cit. , p. 1 03 . 11 Ib. , p. 36.

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per vivere direttamente la condizione operaia; o quella più diffusa nel secondo dopoguerra dei cosiddetti «preti-operai» , che proprio in quegli anni in gran parte abbandonavano il primitivo proposito, so­ stenuto dalla Chiesa in Francia, di ricristianizzazione del proletaria­ to, in nome di una condivisione non solo della dura vita di lavoro, ma delle loro lotte, partecipando anche agli scioperi indetti dai sin ­ dacati di ispirazione marxista . La Chiesa finì per condannare tali svi­ luppi e nel 1 954 impose il ritiro dei preti operai dalle fabbriche. La stessa cosa si verifica con Danilo Dolci, all'inizio seguito con una certa attenzione dal clero locale, ma osteggiato nel momento in cui, proprio nel 1 954 -55, comincia ad imprimere alla sua azione umanitaria una più decisa caratterizzazione politica con la definizio­ ne di progetti di sviluppo che implicano e interessano soprattutto la CGIL, i comunisti e i socialisti. Da questo momento gli è contro il potere ecclesiastico, ma non quella parte del mondo cattolico di ispi­ razione evangelica e democratica. Da parte sua Danilo considera sin dagli inizi i rappresentanti di quel potere «non "assetati di giustizia" perché non vivono tra gli oppressi, non aspirano " a nuovi cieli e nuo­ ve terre " perché sono sistemati nel mondo» .12 Ma procediamo con ordine. Attraverso il lavoro comune e la con ­ versazione con muratori, contadini, pescatori che divenivano via via suoi amici, Danilo apprendeva tante cose dalla loro esperienza ma anche della loro triste condizione di sfruttati . Per esempio, in quegli anni un bracciante agricolo per una giornata di fatica di circa 1 0 ore guadagnava 250 o 3 00 lire quando c'era lavoro. E un pane di un chi­ lo costava 120 lire .13 Non diversa la situazione dei pescatori colpiti dai motopescherecci fuorilegge che impoverivano il mare del Golfo di Castellammare «distruggendo con le paranze in ogni stagione le uova al fondo e usando anche reti con maglie troppo strette» .14 La condizione di estremo abbandono in cui versava una parte consistente della popolazione più povera di Trappeto era sotto gli occhi di tutti, e specialmente di quella che abitava nelle casupole prospicienti il cosiddetto vallone in cui scorreva una fogna a cielo aperto. Tali condizioni materiali di vita vengono documentate nella 12 Ib. , p . 9 . 13 Cf. D. Dolci Banditi a Partinico, Laterza, Bari 1 955 , p. 286. 14 Ib. , p . 2 1 7 .

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prima inchiesta di Danilo e dei suoi collaboratori condotta nel 1 953 che porta il titolo Fare presto (e bene) perché si muore. Riassumiamo­ le. Le case sono quasi tutte costituite da un locale e da un'alcova e prendono luce dalla porta e da una finestra in alto. Il tetto è quasi in tutte di canne e tegole, che in più punti lasciano passare l'acqua pio­ vana. Il pavimento in cemento o in terra battuta o acciottolato . Per gabinetto un buco per terra o sul muro . Tali abitazioni sono tutte prive di acqua corrente e di fognatura . Arredo poverissimo costituito di solito da un letto matrimoniale, da qualche pagliericcio, da un ar­ madietto, con tavolo e poche sedie . Quanto alla biancheria: qualche coperta in cattivo stato, lenzuoli rappezzati e vestiti «quelli che han ­ no indosso». Quanto alle stoviglie : qualche bottiglia e pochi bicchieri coltelli e forchette . In qualche casa qualcuno "usa anche le dita" , o per il coltello va in prestito dai vicini . Disastroso lo stato di salute di bambini e adulti in tale situazione di carenza nutritiva e igienica (molti sono privi di assistenza e non si curano perché le medicine non le possono comprare) . Molti i casi disperati di vedove senza pensione, di famiglie col padre carcerato e senza alcun sussidio . Alta la mortalità infantile. Il 14 ottobre del 1 952 segna una svolta nell'attività di Dolci, in Si­ cilia, e cioè il suo ingresso in quella che possiamo definire la sua vita pubblica, e cioè la risonanza della sua azione al di fuori dello stretto ambito di un infelice e povero borgo marinaro e quindi la conquista di una notorietà che si estenderà nell'arco di pochissimi anni in tutto il mondo. Qualche giorno prima era morto un ennesimo bambino di stenti e di fame. Danilo decide di iniziare per protesta un digiuno (il primo) che cesserà soltanto quando si sarà provveduto per gli inter­ venti più urgenti . Ma prima lancia il suo SOS da Trappeto : alle auto­ rità, agli amici, ad alcune personalità di rilievo . C 'è un delitto di omissione verso questi nostri fratelli, di cui dobbiamo pentirei e redimerei. C 'è un atto di amore da compiere subito per salvarli e salvarci. C 'è da muoversi subito. A estremi mali estremi rimedi. Voglio fare peni­ tenza perché tutti si diventi più buoni. Prima che muoia un altro bambi­ no di fame, intanto, voglio morire io. Da oggi non mangerò più finché non ci saranno arrivati i trenta milioni necessari a prowedere subito il lavoro ai più bisognosi e l'assistenza più urgente agli inabili . . .

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Subito. Non si può aspettare. Aspettare significa far cadere altre vittime. Se, io vivo, non provvederà l'amore, provvederà, io morto, il rimorso. Vostro in Dio Danilo15

Dopo otto giorni di digiuno arriva l'impegno delle autorità regio­ nali ad aiutare subito il paese. Parte da qui la copertura del vallone della vergogna, e via via altre opere riguardanti soprattutto la costru ­ zione della rete fognaria e la pavimentazione di qualche strada. Resteranno comunque gravi le condizioni della povera gente di Trappeto e dei paesi vicini . E ciò spinge Dolci, ora che la fama acqui­ sita e la solidarietà gli procura l' aiuto di collaboratori e le offerte ne­ cessarie ad avviare la costruzione del caseggiato del Borgo di Dio, a condurre un lavoro di documentazione da pubblicare perché tutti sappiano come vive la zona in cui nasce il banditismo in Sicilia.

15 Cf. D. Dolci, Fate presto (e bene) perché si muore, cit. , p. 1 1 .

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CAPITOLO II

QUALI "BANDITI" A PARTINICO?

Banditi a Partinico è l'inchiesta pubblicata nel 1 955 che nasce dal­ la stessa urgenza conoscitiva e di denuncia di Fate presto (e bene) per­ ché si muore. Era stata preceduta l'anno prima da un opuscolo dal ti­ tolo altrettanto perentorio nel richiamare l'urgenza di un intervento pubblico diretto a sanare quell'altro pozzo di miseria e di abbando­ no in cui vivevano migliaia di esseri umani nei quartieri più poveri di Partinico: Quanti altri s 'impicch eranno, quanti altri impazziranno, quanti altri morranno disgraziati a Partinico? Parte delle pagine di questo volumetto confluiranno in Banditi a Partinico, l'anno dopo . Rispetto a Fate presto e bene perché si muore quest'ultima inchie­ sta allarga la visuale e la documentazione all'intero territorio che si affaccia nella parte est del Golfo di Castellammare, ai centri abitati di Trappeto, Partinico e Montelepre, e cioè a quel «triangolo male­ detto», così apostrofato dai giornali del Nord, in cui negli anni im­ mediatamente precedenti aveva scorrazzato la banda Giuliano . Un territorio malfamato, dunque, e infestato dal banditismo, secondo una diffusa convinzione, per la "natura violenta" della popolazione che l'abitava. Banditi a Partinico però non è uno studio storico-politico sul ban ­ ditismo, ma una documentazione sullo stato di arretratezza economi­ ca, di vera e propria miseria, in cui vivevano fette consistenti della popolazione del luogo, dell'abbandono in cui era tenuta dai poteri dominanti. La mancanza di lavoro, i bassi salari, l'estrema povertà, la vera e propria fame, l'assenza dei minimi requisiti igienici delle abita­ zioni, della rete fognaria e idrica, sono causa di grave deperimento e di malattie come la tubercolosi . Frequenti poi i casi di depressione che determinano il suicidio . Tali condizioni generali incidono sul­ l' evasione dall'obbligo scolastico . Scalzi, malnutriti e senza libri, i

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bambini o non vengono iscritti regolarmente alla frequenza della pri­ ma classe delle elementari o vengono scoraggiati a frequentare la scuola. Né le autorità intervengono a farne rispettare l'obbligo prov­ vedendo anche alla fornitura di libri e degli indumenti di cui i bam­ bini sono sprovvisti . Dimenticata da tutti questa povera gente, priva di istruzione, di lavoro, di servizi sanitari efficienti e di protezioni sociali,ossessionata dalle difficoltà quotidiane non s'interessa del mondo, è disinformata di quanto succede in Italia e in altri paesi dove pure scoppiano guer­ re. E a una delle domande in cui si strutturano le inchieste di Dolci: «come fate a interessarvi di quanto capita nel mondo?», danno rispo­ ste simili a quella che dà Vincenza N. : «Queste cose nun ci interessa­ no a nuatri.Cà la guerra c'è sempre, dalla mattina alla sera : ne dispe­ ramu eu li picciriddi. Nuatri che sapemu sti discursi? Sentemu dire qualche vota, ma che sapemu di ste cose de l'Italia?»1 Disinteresse? O esclusione dalla comunità nazionale e internazionale, dai diritti di cittadinanza? Dolci era consapevole delle responsabilità politiche del fenomeno del banditismo, della carenza di interventi economici e sociali di risa­ namento e di sviluppo dell'intera area dove maggiormente si era ma­ nifestato, e ciò anche negli anni successivi alla repressione e alla sconfitta della banda di Giuliano . Carenze o ritardi che produceva­ no, ancora nella metà degli anni Cinquanta, episodi diffusi di piccola criminalità che vedevano protagonisti non poche figure di disperati, che in gran parte finivano col rovinarsi la vita tra un carcere e l'altro, quando non anche la salute, spesso compromessa dalle torture a cui venivano sottoposti dai metodi sbrigativi della polizia e dai carabi­ nieri dell'epoca . Si legga, per esempio, il racconto di E. A. , in Inchie­ sta a Palermo o in Racconti siciliani, sulla dettagliata descrizione della tortura chiamata «la cassetta». Significativo inoltre il racconto di Ni­ colò A. , disoccupato e colto, nel 1 944 , a far contrabbando di grano . Accusato ingiustamente dai carabinieri di collaborare con i banditi, viene sottoposto a supplizi e bastonate da cui esce, a trent'anni, con «la spina dorsale lesionata» e costretto quindi a muoversi con le stampelle, a chiedere l'elemosina, con tanta «vergogna», ma nello 1 Cf. D. Dolci, Banditi a Partinico, cit . , p. 1 03 .

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stesso tempo con l'amara consolazione che a lui non possono dire «Va' a lavorare!», ma anche con tanta rabbia dentro nel pensare a quanto prima era «buono» in salute.2 In Banditi a Partinico, Dolci, sulla base dei dati raccolti con l' aiu­ to dei suoi collaboratori, sostiene la tesi che «se si fosse intervenuti a dar lavoro, nessuno avrebbe fatto il bandito».3 Suscitano scandalo nell'inchiesta i dati riguardanti gli anni di istruzione scolastica dei banditi, in gran parte braccianti e "vaccari" , rapportati agli anni di carcere a cui sono stati condannati . A Partinico, nel solo quartiere della Via Madonna, su 1 6 1 carcerati o uccisi la frequenza scolastica ammonta a soli 296 anni scolastici, cioè a meno di due anni ciascuno di scuola elementare (e quale scuola!) . Però - commenta Dolci - «la medesima società [ . . . ] li ha poi "educati" e li sta " educando " , ancora oggi con 7 1 4 anni e 1 0 mesi di carcere : oltre a due ergastoli, oltre le condanne che ancora sta impartendo, oltre a 83 anni di confino, ol­ tre a 43 anni di amnmonizione, oltre le torture e le pallottole» . A Montelepre su 147 "fuorilegge " il totale degli anni di scuola frequen­ tati sono 350, a fronte di 1 .032 anni e 7 mesi di carcere, 94 anni e 4 mesi di confino. Senza contare le ammonizioni e le centinaia di car­ cerazioni sotto i sei mesi, gli avvelenati in carcere, i più di 40 uccisi. Dolci ricorda che per la sola Montelepre lo Stato spese per la re­ pressione del banditismo circa mezzo miliardo, cifra che se fosse sta­ ta spesa per opere pubbliche «si sarebbe potuto trasformare questo piccolo paese dandogli una spinta di vita per secoli» , senza seminare morte e disperazione. Un piccolo paese: purtroppo la solita ventura del mondo. Alcuni, o mol­ ti, si ribellano, non vogliono soffocare, morire: talvolta, spesso, non san­ no che per uscire dalla morsa del bisogno, delle cose, della mancanza di libertà, è necessario diventare i signori delle cose, dell'universo: usandosi a fondo per tutti in Dio: perfettamente. Sono ancora, spesso, figli di Dio acerbi, malati. Nel muoversi infastidiscono o nuocciono: e gli altri, invece di faticare per rispettarli o guarirli, cercano di toglierli di mezzo [ . . . ] Gli uomini non comprendendo veramente di essere creature malate da guari­ re, insistono con gli stessi mezzi impropri, di morte e non di vita.

2 Cf. D. Dolci, Inchiesta a Palermo, Einau di, Torino 1 97 1 [1957 ] , pp. 82 -85. 3 Cf. D. Dolci, Banditi a Partinico, cit . , p . 5 1 .

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Perché, quando una parte della società vede un'altra parte malata, per­ ché non pone subito i suoi medici migliori ad aiutarla? È una vecchia storia ormai, di cui tutti dovremmo avere esperienza: alla vita perfetta non si resiste, solo la vita risolve. Potremo sbagliare per ec­ cezione, per peccato, ma il piano sistematico dovrebbe essere ormai chia­ ro. Chi per dare vita si muove contro la vita, è fuori di ogni realtà.4

L'ultima parte del libro è il Diario per gli amici che ci documenta su tutta l'attività febbrile e incessante di Dolci durante tutto l'anno 1 954 . Per prima la costante denuncia della pesca di frodo che toglie­ va il pane a 8.000 persone che costituivano le famiglie dei pescatori di Trappeto e di Balestrate; denuncia che coinvolgeva direttamente «le autorità competenti» che non osavano muoversi contro i ricchi armatori, p roprietari dei motopescherecci fuorilegge . «Anche le guardie di finanza, oltre il Maresciallo di marina - scrive Danilo sorridono scettiche al nostro tentativo di eliminare la pesca fuorileg­ ge. Ripetono che nessuno può riuscire a vincere la mafia del mare».5 Dolci scrive al Comandante della Capitaneria di Porto di Palermo e non ha peli sulla lingua: Lei sta diventando, forse, un bandito molto più pericoloso degli ingenui e sprovveduti di queste zone [ . . . ] Qui i banditi della zona rubano e uc­ cidono per lo più per miseria e ignoranza: mentre lei ha fisso uno stipen­ dio più che sufficiente e ha potuto studiare almeno per una quindicina di anni. I banditi di qui per lo più vanno contro le leggi dello Stato per difendere il loro diritto alla vita. Lei difende, più o meno consapevole, i forti ingordi, uccidendo (si può uccidere per omissione) , con la miseria e la sfiducia, intere popolazioni già misere». 6

Scrive a Giorgio La Pira allora deputato al Parlamento nazionale inviandogli una documentazione sulla pesca di frodo e invitandolo a interessarsi presso il ministro competente. La Pira si rivolge al Mini­ stro della Marina Mercantile, Tambroni, che per iscritto gli assicura di aver «disposto perché sia intensificata la vigilanza a Trappeto». Ma i motopescherecci continuano indisturbati a pescare entro tre miglia 4 Ib. , pp. 65 -66. 5 Ib. , pp. 235 e 242 . 6 Ib. , pp. 245-246.

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dalla costa contravvenendo giornalmente a questa e altre imposizioni di legge. Danilo commenta : « È triste constatare come "la legge " , quando si tratta di difendere i più poveri, sia impotente e irrisa».7 Dolci inoltre non si stanca di denunciare come tanti bambini a Trap­ peto e a Partinico evadano l'obbligo scolastico nell'indifferenza dei po­ teri costituiti, come le famiglie dei carcerati siano prive di una previden­ za stabile candidando così le giovani generazioni a perpetuare il bandi­ tismo. Ma la sua azione non è soltanto di denuncia e di critica ma di co­ struzione educativa e civile. Col sostegno dei comitati che in varie città italiane sorgevano per appoggiare le sue iniziative si allarga il Borgo di Dio, sorgono più aule per l'asilo, un salone più ampio per l'Università popolare dove si tengono assemblee, conferenze, concerti ecc. Nel mese di agosto, sempre del 1 954 , Dolci affitta una casa in una viuzza del quartiere Spine Sante di Partinico che diventa per parec­ chi anni la sua base operativa in questo grosso borgo, ma anche il luogo dove qualche maestro del posto fa il doposcuola ai bambini in difficoltà, e dove Danilo la sera inizia le sue "conversazioni" maieuti­ che con gruppi costituiti dalla povera gente del quartiere . Dolci ora si circonda di persone che anche per periodi brevi di vacanza vengono dalle varie parti d'Italia ad aiutarlo . Sono per lo più studenti e docenti universitari, medici, ingegneri, scrittori, artisti . L'impatto di Danilo con la popolazione e con le autorità locali è diverso, di simpatia e di apertura da parte della prima e di diffiden­ za, quando non anche di ostilità da parte delle seconde. L'abbiamo già accennato, ma si legga quanto egli scrive sul suo incontro con il sindaco democristiano di Partinico. Ho visto finalmente il Sindaco. Ignorava che a Spine Sante ci sia un par­ ticolare numero di malattie mentali, che il banditismo sia nato soprattut­ to per miseria: fame, immaturità culturale e spirituale. Pensa che più di così non è possibile fare, perché quanto si fa è il massimo disponibile. L'impegno per far vivere tutti lo ritiene d'altronde una questione finan­ ziaria, non morale. Sinceramente ha detto, sottolineandolo spesso, che ci pensava «in mala fede, senza i piedi per terra, con fini oscuri» (non na­ scondeva molto di pensarci cripto- comunisti) . Si è messo però a disposi­ zione: è schiettamente gentile. 8 7 Ib. , p. 249 . 8 Ib. , p. 27 1 .

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Si diffondeva così l'accusa che Dolci facesse «il gioco dei comuni­ sti». Al che egli rispondeva che «la verità» non «fa il gioco di nessu­ no» e che è anzi «la salvezza di tutti» .9 E diffondeva tra la povera po­ polazione del luogo la fiducia che le loro tristi condizioni potessero cambiare, la sua speranza nell'utopia possibile. Quando dico ai pescatori che, dopo la pubblicazione di questo libro, i motopescherecci non verranno più, fuori legge, o quasi più, mi guarda­ no, tacendo, increduli: dispiace a loro contraddire la mia speranza. Così quando dico ai contadini che arriverà l'acqua e potranno lavorare, che morranno meno bambini, che ci si può volere più bene, che tutti i bam­ bini potranno andare a scuola, anche quelli che hanno il papà all'erga­ stolo. O assassinato. Ché sono figli di Dio pure loro. Arriverà persino un giorno, e presto, in cui i maestri verranno regolar­ mente a scuola, dico. Impareremo a vivere liberi insieme. C'è anche chi canzona o disapprova: certe volte quasi tutti. Ma posso credere altrimenti? malati tutti, sì, cadaveri tutti, no. E molti innamorati di guarire, anche se di teste diverse, e tutti innamorabili. E mi pare che il dubbio cominci a screpolare le loro tristi persuasioni. E le mie. Forse incominciamo a credere davvero che, a seminare piselli, nascono piselli.10

9 Ib. , p. 287 . 10 Ib. , pp. 287-88.

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CAPITOLO III

L'ESORDIO POLITICO DEL METODO DELLA NONVIOLENZA. LO SCIOPERO ALLA ROVESCIA DEL 1956

N el Diario per gli amici, che come abbiamo visto chiude la ricerca Banditi a Partinico, Dolci accenna allo spirito che doveva animare i suoi collaboratori nella conduzione dell'inchiesta, che si effettuò tra la fine del 1 954 e gli inizi del 1 955 . lnnanzitutto la ricerca doveva es­ sere partecipata, e da parte del ricercatore e da parte di coloro «di cui ci s'interessa». È la " comunione" , cui accenneremo meglio più avanti e che annulla il distacco con la povera gente e i suoi problemi, e la frattura tra il dire e il fare, per la quale la conoscenza, «il sape­ re», scade in «curiosità», in una «profanazione» e «non può dire il vero». In secondo luogo «lo studio - aggiungeva Danilo - deve ap­ profondire i modi di risoluzione: scoprire le cose come stanno per ri­ solver/e subito». 1

Per "risolvere " il problema grave della disoccupazione, elevare i livelli dei redditi complessivi, e perciò anche quelli civili della popo­ lazione dell'intera area della valle dello Jato, Dolci aveva pensato già alla costruzione di una grande diga che convogliasse le acque del­ l' omonimo fiume, la cui utilizzazione avrebbe consentito la diffusio­ ne delle colture irrigue, più produttive e variegate. Ma si trattava di una grande opera che, tra progettazione e realizzazione, richiedeva tempi lunghi. Bisognava invece agire «subito» , e l'unica soluzione più realistica per fronteggiare la disoccupazione era l' avvio di neces­ sarie opere di pubblica utilità . Danilo cioè continuava a rivelare quella «interna energia» che ri­ scontrava in lui Carlo Levi nell'estate del 1 955 , quando venne a tra­ vario per la prima volta a Partinico e a Trappeto. «Interna energia» 1 Cf. D. Dolci, Banditi a Partinico, cit . , p. 250.

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che, per l'autore di Cristo si è fermato a Eboli, traboccava «anche nei minimi gesti all'azione». A Levi non sfuggiva anche un'altra qualità di Dolci, quella «di un uomo che ha fiducia negli altri (una fiducia gene­ rale nell'uomo) , e fa sorgere la fiducia intorno a sé, e con quest'arma sola sente di poter far nascere la vita dove parrebbe impossibile».2 Quando nell'autunno del 1 955 , dopo la pubblicazione di Banditi a Partinico, che riscosse un enorme successo, Danilo cominciò a pen ­ sare a una iniziativa che sfruttasse quel successo letterario in un van ­ taggio soprattutto a favore dei disoccupati e dei poveri di Partinico, capì che bisognava imprimere alla sua azione una direzione diversa da quella umanitaria e tutto sommato individuale, quale era stata quella del suo primo digiuno dell'ottobre del 1 952 a Trappeto . Da al­ lora erano trascorsi tre anni impiegati nell'indagine e nell'azione, ma priva quest'ultima, di addentellati con le forze politiche e sindacali che erano interessati a reali processi di cambiamento. Spinto da questa nuova convinzione di promuovere un 'azione consistente «dal basso», e cioè largamente partecipata soprattutto da braccianti e operai disoccupati, Dolci, che aveva già cominciato a stabilire contatti sia pure isolati con esponenti del mondo politico e sindacale, concordò con la Camera del Lavoro di Partinico di effet­ tuare una grande manifestazione che sarebbe stata preceduta da pe­ riodici digiuni collettivi. La manifestazione venne definita uno «scio­ pero alla rovescia» perché i disoccupati avrebbero lavorato e senza compenso in una strada rurale chiamata «trazzera vecchia» bisogne­ vole di essere riattata. Già da questi primi cenni si deduce che si trattava di una iniziati­ va di tipo nuovo e destinata a fare clamore. Una iniziativa che rom­ peva quell'immobilismo che gravava nelle aree, come quella della Valle dello Jato, non beneficiate dalla riforma agraria perché a strut­ tura proprietaria di piccoli e medi agricoltori. Qui anche i ripetuti scioperi indetti dalla Camera del Lavoro, per esempio per l' attuazio­ ne della legge sull'imponibile di mano d'opera nelle campagne, si ri­ solvevano in rituali e inutili marce di poche centinaia di braccianti disoccupati. Occorreva allora puntare sui lavori pubblici. A Partini­ co, come a Trappeto e a Montelepre, non solo molte strade erano an 2 Cf. Carlo Levi, Le parole sono pietre, Einaudi, Torino 195 5 , pp. 12 1 - 122.

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cora a fondo naturale, senza fognatura e rete di distribuzione idrica, ma anche le strade rurali, le cosiddette " trazzere " , erano sconnesse e strette. E ciò era un ostacolo non solo per il trasporto su mezzi tradi­ zionali (i " carretti" ) ma anche per l'incipiente motorizzazione . Lo sciopero alla rovescia del 2 febbraio 1 956 era poi una novità perché si presentava non soltanto come una manifestazione sindacale ma anche politica. Essa, infatti, in opposizione con la politica gover­ nativa che disattendeva principi fondamentali della Costituzione ita­ liana, ne rivendicava l'attuazione, a partire dal suo primo articolo, se­ condo cui «l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavo­ ro». Tale priorità accordata al lavoro dai padri costituenti è in ragio­ ne del valore che è da attribuirgli. Senza il lavoro e le tutele sociali per i disoccupati viene meno infatti una conquista fondamentale del­ la stessa democrazia, e cioè l'uguaglianza dei cittadini e il rispetto di ciascuna persona umana che mediante il lavoro si realizza e si integra nel tessuto produttivo, civile e culturale della comunità . Ecco per­ ché, in ragione del valore del lavoro, la Costituzione nel suo articolo 4 esplicita con chiarezza i doveri della Repubblica democratica e quelli del cittadino : la prima «riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo dirit­ to» ; il secondo «ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibili­ tà e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al pro­ gresso materiale o spirituale della società». Ma nello sciopero alla rovescia del febbraio 1 95 6 a Partinico la novità fondamentale era data dall'introduzione di metodi non violen­ ti nella lotta politico-sindacale, sulla scia della nonviolenza teorizzata e predicata da Gandhi e in Italia ripresa da Aldo Capitini. Quest'ul­ timo è il filosofo che nell'ottobre del 1 952 scrisse a Dolci invitandolo a desistere dal lungo digiuno che egli si proponeva e di non lasciarsi morire inutilmente. Da allora e fino al 1 968 , anno della sua morte, Capitini si mantenne in costante rapporto con Danilo, tanto che a detta di quest'ultimo non ci fu «decisione di fondo nel nostro lavoro a Partinico e nella zona, che non sia stata verificata anche con lui» .3 Nel caso dello sciopero alla rovescia nella cosiddetta "trazzera vec­ chia" di Partinico erano, appunto, le iniziative e le modalità non violen3 Cf. Il messaggio di Aldo Capitini. Antologia degli scritti, a cura di Giovanni Cacioppo , Lacaita editore, Manduria 1 97 7 , p . 5 05

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te a fare la differenza rispetto «al classico arsenale che da sempre aveva armato e sorretto la tradizionale lotta di classe».4 Lo sciopero alla rovescia e il digiuno collettivo parvero perciò al­ tra cosa rispetto alla tradizione marxista e a quella stessa del cattoli­ cesimo sociale. Un 'altra cosa soprattutto rispetto alle più tradizionali e violente insurrezioni popolari, qualche volta anche pilotate dai ceti possidenti locali che dirigevano le masse affamate e inferocite all' as­ salto dei municipi e delle esattorie. A Partinico l'ultima di tali insur­ rezioni si era verificata nel marzo del 1 944 , e si era conclusa con inu ­ tile spargimento di sangue e con l a condanna a molti anni di galera ai più esposti degli insorti, poveri diavoli come sempre. Ma in questo quadro nuovo determinato dalla volontà di parteci­ pare insieme con Dolci a una manifestazione così complessa come lo sciopero alla rovescia non mancarono contrasti, dibattiti, sospetti, ri­ serve nell' ambito della sinistra sindacale e politica. Qui di seguito ac­ cenniamo alle reazioni e alle decisioni prese in piena autonomia dai comunisti a Partinico . Nei mesi precedenti lo sciopero alla rovescia del 2 febbraio 1 956 ci furono vivaci dibattiti nella sezione del P.C .I. di Partinico , che già da alcuni anni aveva conosciuto una crescita quantitativa e qualitativa di consensi e di adesioni che si rifletteva an ­ che nei livelli del dibattito interno che quella manifestazione e l'ac­ cordo con Dolci provocavano. Ecco la testimonianza di Gaetano Ferrante, oggi professore nell'Università di Palermo e allora giovane studente partecipe a quel dibattito e alla stessa manifestazione del 2 febbraio nella quale venne arrestato : «La discussione si concentrava su un punto: come possono dei rivolu­ zionari che hanno un progetto di presa del potere, anche con violenza se necessario, collaborare con Danilo che era portatore di idee non violen­ te, sostanzialmente aclassista, subito definite gandhiane? La discussione su gandhismo e marxismo durò un bel po' , ma nel frattempo maturò una posizione realista: a Danilo andava dato tutto l'appoggio possibile, perché si trattava di una persona venuta da fuori animata solo dalla vo­ lontà di fare azioni positive per la gente del luogo. Non sostenerlo veni­ va considerato come una colpa enorme che avrebbe delegittimato Parti­ nico, la sua gente, e chi pretendeva di rappresentarne gli interessi. Nello 4 Cf. Francesco Renda, Storia della Sicilia dalle origini ai nostri giorni, Sellerio , Palermo 2 006, vol. III, p. 13 65 .

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stesso tempo, l'appoggio a Danilo doveva awenire nella più completa autonomia culturale e ideale (ad esempio, non si facevano i digiuni men­ tre ci si adoperava per assicurare il successo delle manifestazioni che li prevedevano) . Solo Turiddu Termine, il capo della Camera del Lavoro, tenne una posizione più incline all e impostazioni di Danilo, partecipan­ do qualche volta ai digiuni programmati.5

I principi costituzionali per i quali si battevano Dolci e la sinistra politica e sindacale che lo appoggiava non erano purtroppo quelli se­ guiti dal governo di allora e dai suoi organi periferici che, soprattutto attraverso la questura di Palermo, erano mobilitati per impedire lo sciopero all a rovescia e ancor prima i digiuni collettivi . Ed era questo un segno di quanto ancora pesasse nell'apparato statale di quegli an­ ni l'eredità della dittatura fascista. Quale motivo , infatti c'era di ricorrere alla forza e fin an co alla provocazione contro circa 2 00 lavoratori e contro le loro guide, che alle ingiunzioni della polizia opponevano una resistenza passi­ va continuando a lavorare, o se deprivati dell' attrezzo e dichiarati in arresto buttandosi per terra come pesi morti? Lo sciopero alla rovescia del 2 febbraio 1 95 6 fu troncato con la forza e con l'arre­ sto di Danilo Dolci, del segretario della Camera del Lavoro di Par­ tinico Salvatore Termine, e di Speciale Ignazio, Abbate Francesco, Ferrante Gaetano (attivisti comunisti) , Macaluso Domenico (sin­ dacalista della Confederterra) , Zanini Carlo (collaboratore di Dol­ ci) . Le accuse più gravi vennero mosse ai primi tre ed erano quelle di resistenza a pubblici ufficiali nei cui confronti avrebbero sferra­ to calci, e di averli oltraggiati con l'espressione «chi va contro i la­ voratori è un assassino» .6 Che nel Governo di allora sia prevalsa, anche nei confronti di una manifestazione che si annunciava all'insegna della nonviolenza, quel­ la linea repressiva anche cruenta che si era messa in atto in quegli an ­ ni e in quei giorni contro manifestazioni del movimento operaio e contadino particolarmente nel Sud Italia, era una ulteriore prova del­ la insensibilità e rozzezza di quella "Repubblica della forza" che ave5 Cf. Gaetano Ferrante, Lo sciopero alla rovescia di Danilo Dolci, «Segno», n. 272 , feb ­ braio 2006, Palermo. 6 Cf. Verbale di denuncia del 3 febbraio 1956 del Commissario di P. S . di Partinico , in Processo all'articolo 4, Einaudi, Torino 195 6, pp. 43 -46.

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va caratterizzato gli anni di Scelba e che continuava a caratterizzare quelli dei suoi immediati successori. Danilo e i suoi collaboratori, negli scritti già pubblicati, e ora an ­ che negli appelli alle massime autorità dello Stato precedenti lo scio­ pero alla rovescia, sottofirmati da centinaia di persone, avevano de­ nunciato e denunciavano la miseria in cui versava tanta parte della popolazione partinicese, che continuava a subire, per dirla con Nor­ berto Bobbio, «l'indifferenza, l'incuria, il cinismo, la prepotenza di coloro, grandi e piccoli, che reggono le sorti dello Stato».7 Affidare l'incarico di risolvere i rapporti tra lo Stato e i disoccupati di Parti­ nico alle forze di polizia era come ripetere l'errore di contrastare il banditismo con le armi e la repressione piuttosto che con il lavoro . Ciò nel linguaggio di Danilo significava scegliere la violenza, l' «as­ sassinio», perpetuare le condizioni di miseria che era un'altra forma di " condannare " a morte. E se il 2 febbraio del 1 95 6 non venne sparso sangue lo si doveva soprattutto alla "forza " della nonviolen ­ za, che, come sosteneva Gandhi e raccomandava Danilo ai disoccu­ pati nelle assemblee alla Camera del Lavoro, avrebbe "disarmato " i poliziotti . L e provocazioni di questi ultimi non furono soltanto fisiche ma anche morali. I capi del movimento vennero apostrofati come «so­ billatori», accusati di dare calci e pugni, e falsamente, come poi ri­ sultò dalle testimonianze di alcuni componenti delle stesse forze di polizia. Ad un operatore cinematografico venne fracassata la mac­ china da presa, i cui filmati avrebbero semmai dimostrato la falsità dell'impianto accusatorio . Ma poi, anche il disprezzo nei confronti di Danilo Dolci, la cui statura intellettuale e morale avrebbe dovuto incutere rispetto. Disprezzo che, sulla scia del rapporto del Com­ missariato di P.S . di Partinico del 3 febbraio 1 956, induceva il Con ­ sigliere Istruttore Mercataio, in data 2 1 febbraio , a rigettare l'istan ­ za di scarcerazione provvisoria, presentata dai difensori di Dolci, per la sua «attività criminosa» manifestata «capeggiando l'arbitra­ ria invasione di una trazzera demaniale», e per «le condizioni di vi­ ta individuale e sociale» considerate «manifesti indici di una spic­ cata capacità a delinquere». 8 7 Cf. Norberto Bobbio in Introduzione a Danilo Dolci, Banditi a Partinico , cit. 8 Cancelleria Centrale del Tribunale di Palermo n. 43 6/56 del Registro Generale .

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Dalla pubblicazione di Banditi a Partinico, insomma, si era messa in atto una strategia repressiva che puntava alla distruzione dell' ope­ ra di Dolci. Tale strategia era confermata anche da altri atti che colpi­ vano alcuni dei suoi più validi collaboratori, personaggi di spicco nella cultura italiana, allora giovanissimi, U go Piacen tini e Goffredo Pofi: al primo il Comune di Trappeto respingeva «il cambio di resi­ denza dal Comune di Savona in questo [ . . . ] non risultando giustifi­ cata la sua permanenza costì da una comprovata attività remunerata né da un altro plausibile motivo»;9 il secondo, proveniente da Gub­ bio, veniva «rimpatriato» in data 4 febbraio 1 956 con foglio di via obbligatorio, perché «capeggiatore di uno sciopero, senza mezzi di sussistenza e senza fissa dimora, nonché diffidato dal rimettere piede nel territorio di Partinico» .10 N el dibattimento processuale, come affermava Piero Calamadrei, che assunse la difesa di Dolci e degli altri imputati insieme ad altri grandi avvocati, si scontravano due diversi modi di intendere il dirit­ to; da un lato quello secondo cui le leggi esprimono un oggettivo or­ dine costituito tutelato dal testo unico di pubblica sicurezza del tem­ po fascista, e dall'altro secondo cui le leggi sono «esse stesse correnti di pensiero. Se non fossero questo, non sarebbero che carta morta [ . ..] E invece le leggi sono vive» perché in esse «bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, !asciarvi entrare l'aria che respiriamo, mettervi dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue e il nostro pianto». 1 1 La contrapposizione tra le due concenzioni del diritto denunciava, dunque, da un lato il suo asservimento alla difesa del privilegio dei pochi, il suo indurre i molti all'assuefazione e alla rassegnazione a una realtà immutabile; dall'altro il richiamo alla nuo­ va legalità, promessa dalla nostra Costituzione, restituiva ai cittadini, e in particolare a quelli tra loro più sfortunati, la fiducia, che un nuo­ vo mondo è possibile. Tutto l'iter p rocessuale andava sempre più rivelando l'inconsi­ stenza di tutto l'impianto accusatorio, tanto da indurre Piero Cala­ mandrei a definire, quello che si stava celebrando, un processo pena­ le: «N el processo penale il pubblico concentra i suoi sguardi sul han 9 Cf. Processo all'articolo 4, cit. , p. 3 3 . 10 Ib. , p. 48. 11 Ib. , pp. 3 04-305 ..

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co degli imputati, perché crede di vedere in quell'uomo, anche se è innocente, il reo, l'autore del delitto : l'uomo che ha ripudiato la so­ cietà. che è una minaccia per la convivenza sociale [ . . . ] Ma questo non è un processo penale: dov' è il reo, il delinquente, il criminale? Dov'è il delitto, in che consiste il delitto, chi lo ha commesso?»12 La vera imputata in quel processo appariva in realtà la Costituzio­ ne italiana, e in particolare il suo art. 4 . Lo rilevava, tra gli altri, l' avv. Nino Varvaro che così chiudeva la sua arringa: «Quelli che in questo genere di processi si suoi chiamare facinorosi o ribelli o sobillatori, sono invece i creatori del benessere sociale e saranno per certo i co­ struttori di una società nuova . Noi difendiamo qui il lavoro, la cultu ­ ra e la libertà. Difendiamo la Costituzione della Repubblica Italiana. E chiediamo che sia assolta». 13 IL processo si concluse il trenta marzo del 1 956 con una condan ­ na a un mese e venti giorni di reclusione per il reato di invasione di terreno pubblico. Ma il Tribunale nello stesso tempo riconosceva che questa fu «ispirata da motivi di alto valore morale e sociale» . Quanto al reato di resistenza a pubblici ufficiali, il Collegio giudicante assol­ veva gli accusati con la motivazione «che la mera ubbidienza e la co­ siddetta resistenza passiva [ . . . ] non concretano l'ipotesi delittuosa di cui all' art. 337 C.P.» . Riconosceva anzi le intenzioni pacifiche di Dol­ ci manifestate anche negli appelli che avevano preceduto lo sciopero alla rovescia. Anzi si aggiungeva che «non c'è parola del Dolci che possa ingenerare il benché minimo dubbio di una sua condotta vio­ lenta» e che «tutto ciò che egli ha scritto non è che un anelito alla pa­ ce, alla fratellanza, alla giustizia in un mondo migliore» . Circa l'im­ putazione di oltraggio, il Collegio giudicante precisava che la parola " assassinio " «ricorreva frequentemente nel linguaggio del Dolci, il quale se ne serviva per esprimere in modo figurato e con drammatica crudezza, l'incuria delle autorità responsabili la quale, secondo il suo convincimento, avrebbe dato causa alla disoccupazione». Si aggiun ­ geva che tale parola o frase di analogo significato «si incontrano so­ vente nel libro di Dolci, Banditi a Partinico, nel quale i miseri, bandi­ ti da ogni benessere materiale e morale, sono dal Dolci considerati " condannati a morte "». [ . . . ] «Non essendo perciò quella parola e 12 13

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Ib. , pp. 2 92 -93 . Ib. , p. 274.

quelle frasi dirette ai verbalizzanti e contenendo una mera protesta contro una situazione non dipendente dalla condotta di costoro, non costituisce reato di oltraggio».14 Ad una valutazione complessiva dello sciopero alla rovescia del 1 956 non si può sottacere il giudizio che ne da' lo storico Francesco Renda, per il quale quello sciopero «fu uno dei punti deboli del­ l' opera di Dolci»; da tale manifestazione infatti sarebbe cominciato il suo «declino» . Dolci cioè avrebbe dovuto limitarsi a fare digiuni o a manifestare insieme a quegli «intellettuali, scrittori, pittori, prove­ nienti da ogni parte d'Italia» per marciare per la pace e per il lavoro . Ma l'interpretazione di Renda, che negli anni Cinquanta ricopriva tra l'altro cariche di importante responsabilità politica e sindacale, de­ nuncia preoccupazioni non ben chiare e più o meno sottaciute nel­ l' ambito della dirigenza comunista siciliana di fronte all' «incognita» Dolci . Come interpretare infatti la " confessione" di Renda secondo cui «i dirigenti siciliani trassero un sospiro di sollievo» quando, nel­ l' episodio dello sciopero alla rovescia, si accorsero che «Danilo face­ va quel che loro erano soliti fare?»15 Ma a parte i " sospetti " e i " sospiri di sollievo " della dirigenza co­ munista, che poi anche in seguito, nelle battaglie per la costruzione delle dighe e a favore dei terremotati del Belice, fu sempre solidale e partecipe alle iniziative di Dolci, ciò che rileviamo, a parte alcuni er­ rori di Dolci che Renda cita non senza ragione, è l'incomprensione della singolarità della personalità di Dolci che non è riducibile a quella dell'intellettuale, che di fronte alla miseria e alle guerre si limi­ ta ai digiuni o alle marce di protesta insieme ad altri intellettuali, scrittori, pittori. Dolci, cioè, come già s'è visto e vedremo in seguito, è un uomo di pensiero e di azione nello stesso tempo. Il suo «decli­ no», se tale si può chiamare, arriverà tardi ma non sarà imputabile al suo pensiero e alla sua capacità creativa che saranno fertili sino alla morte e tuttora di attualità, e nemmeno alla loro coniugazione con l'azione, anche se quest'ultima, nelle mutate condizioni politiche, so­ ciali e culturali degli anni Ottanta e Novanta, si volge soprattutto al­ l' ambito educativo.

14 Ib. , pp. 3 1 6-3 7 . 15 F. Renda, Storia della Sicilia dalle origini a i nostri giorni, cit . pp. 1 3 66-65 .

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CAPITOLO IV

DA "INCHIESTA A PALERMO" A "SPRECO" I "RACCONTI SICILIANI"

Si può senz'altro affermare che la volontà, se non i piani, di colpi­ re Dolci e il movimento che si era formato attorno a lui e alla Camera del Lavoro di Partinico, era fallita tramite anche le risultanze del processo. Ciò era motivo per Dolci di continuare a lottare secondo chiare direttive, pratiche e ideali, attraverso il continuo coinvolgi­ mento popolare. Tali propositi venivano da lui enucleati in una di­ chiarazione alla stampa il 3 O marzo 1 956, il giorno stesso della fine del processo e della scarcerazione degli imputati . Si moltiplichino e approfondiscano gli studi organici di valorizzazione, degli uomini e della terra, dal basso, esattamente, in modo che la realiz­ zazione dell'intelligente e pieno impiego awenga per sana economia. Non lasciar respirare, esprimersi, lavorare, ordinatamente vivere gli altri, secondo l'alta dignità dovuta a ciascun uomo, è malattia [ . . . ] Oggi non possiamo più sistematicamente tradire, fuori da ogni fanatico dogmati­ smo, i contributi essenziali del cristianesimo, del liberalismo, del gandhi­ smo, del socialismo, affatto antitetici nel loro nucleo vitale. Non vorremo per anima alcun odio, ma risoluto e intelligente amore, e profondamente coordinato, per tutti. Più scendiamo a vivere sotto, indi­ vidui e organizzazioni, tra le vittime più mortificate, più paralizzate: e più e meglio la gente prosegue libera, coi suoi piedi; le sane riforme di strutture awengono quando il popolo si muove con limpida forza a con­ quistarle. La nuova coscienza darà la forza di risolvere i problemi. Non basta l'idea del lievito a far lievitare il pane: occorre proprio il lievito, e nella pasta. E i domani verranno, anche se oggi quasi non par vero . 1

1 Cf. Processo all'art. 4 , cit. , p. 3 4 1 .

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Il quinquennio che va dal l 956 al l 960 è per Dolci altrettanto im­ pegnato e importante del periodo precedente, nonostante alla fine emergano difficoltà nel suo stesso gruppo di lavoro . In questo perio­ do si amplia il suo terreno operativo, che ora non è più limitato al­ l'area del partinicese ma si estende a quasi l'intero territorio della Si­ cilia occidentale . Il problema della disoccupazione, causa fondamen ­ tale della miseria e dell'arretratezza in cui vive una parte consistente della popolazione meridionale, viene affrontato poi nel contesto am­ pio delle politiche nazionali e puntando democraticamente sulla par­ tecipazione popolare. Questo periodo è segnato nell'inizio e nella sua fine dalla pubbli­ cazione di due opere importanti, Inchiesta a Palermo del 1 956 e Spre­ co del 1 960. Ambedue queste opere, come del resto Banditi a Partini­ co, sono complesse nel senso che in esse confluiscono, sintonizzan ­ dosi, l'indagine socio-antropologica e il gusto e il proposito lettera­ rio . In esse l'indagine sociologica non esclude il coinvolgimento del ricercatore, né l'interesse letterario si macchia di intenti estetizzanti . Inchiesta a Palermo e Spreco sono prevalentemente opere lettera­ rie nel senso che in esse si dà uno spazio più consistente a singole persone stimolate da Danilo a raccontare ciascuno la propria vita, «la storia sua, di quello che ha passato» . E ciò senza più la "gab ­ bia " prefissata di domande a cui rispondono via via gli intervistati come in Fate presto e bene perch é si muore o nella prima parte di Banditi a Partinico. In quest'ultima opera, nella parte finale anterio­ re al Diario per gli amici, troviamo i primi racconti, che insieme ad altri di Inch iesta a Palermo e di Spreco confluiscono nel volume Racconti siciliani che Dolci pubblica nel 1 963 su «suggerimento dell'amico l tal o Calvino»,2 a significare la consapevolezza dell'auto­ nomo valore letterario . Resta però che tali racconti siano anche una testimonianza storica importante per comprendere la società siciliana (e non soltanto nella componente più subalterna) e gli eventi del cinquantennio che va dai primi anni del Novecento agli inizi di quelle trasformazioni, che sia pure in ritardo, cominciarono a toccare pure la Sicilia, a partire so­ prattutto dagli inizi degli anni Sessanta . 2 Cf. D. Dolci, Gente semplice, La Nuova Italia, Firenze 1 998, Introduzione.

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Molte storie di vita narrate in questi " racconti siciliani" sono di «vittime mortificate» da mille patimenti, a cominciare dalla miseria, dalle offese alla loro dignità umana, dalla esclusione sociale, dallo sfruttamento . . . Ma anche, in alcuni casi, persone che via via supera­ no le avversità della vita, si riscattano dalle abiezioni trascorse e san ­ no conquistarsi una nuova identità caratterizzata dalla consapevolez­ za sociale e dal proposito di «operare per il bene della collettività» . E questo come in quel piccolo "romanzo di formazione " che è il rac­ conto di Gino O. in Inchiesta a Palermo. A quest'ultimo libro Dolci lavorò nel 1 955 e poi agli inizi del 1 956, anche nei due mesi di carcere all'Ucciardone. Non ho mai lavorato tanto come durante quel periodo: le mie giornate erano pienissime, perché volevo documentarmi su tutto quanto accade­ va nel carcere, soprattutto sulle torture che molti carcerati avevano subi­ to. Conobbi là, ad esempio, Vincenzo C . , ventitreenne, cresciuto sulle montagne di Castellammare del Golfo [ . . . ] Assomigliava - e perciò era difficile tradurlo per iscritto - a un personaggio di duemila, tre mila anni fa; un vaccaio intelligente e acuto, ma che non aveva mai saputo cos'è una macchina per scrivere o un paio di scarpe [ ] Vincenzo non rac­ contava, non sapeva raccontare, si limitava a rispondere alle mie doman­ de con grumi di parole; eppure, chi avrebbe saputo meglio riferire i pro­ pri sogni, a parlare della luna, del cielo e delle stelle, come faceva lui?»3 .

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Il racconto di cui si accenna sopra è in Inchiesta a Palermo col ti­ tolo Vincenzo C. , e in Racconti siciliani col titolo Vincenzo nell'ultima edizione di Sellerio del 2 008. Inchiesta a Palermo nella Premessa viene definita da Dolci «uno studio» sui " senza lavoro" , sui disoccupati, su quelli che un lavoro vero non ce l'hanno e che perciò sono costretti a "industriarsi" , ad arrangiarsi come meglio possono per sopravvivere . Tale studio perciò è limitato «a chi paga di persona» in una realtà ambientale quale quella della città di Palermo in cui anche i dati ufficiali confermano l'alto tasso di disoccupazione e le disastrose condizioni di abitabilità. Sono i cosiddetti «catoi» di Palermo composti da uno o due vani, «privi - secondo il Provveditorato regionale delle Opere Pubbliche 3 Cf. Giacinto Spagnoletti, Conversazione con Danilo Dolci, Mondadori, Milano 1977 , p. 23 .

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di quegli anni - dei più elementari servizi igienici, del gabinetto, del­ la cucina, dell'acqua e perfino talvolta della luce artificiale, privi di aria, della luce solare, dove l'umidità, il freddo, la polvere, i cattivi odori delle fogne e dei collettori, l'affollamento, la promiscuità por­ tano ad una degradazione fisica e morale che si può ben ritenere, senza tema di esagerazioni, spaventosa».4 Il massimo della degradazione ambientale a poche centinaia di metri dalla Cattedrale, nel Cortile Cascino che dà sulla ferrovia, lun ­ go la quale, nel fango e nelle sporcizie, tra cui i rifiuti dei pozzi neri, giocano i bambini «nudi» e «sudici». Qui nel 1 945 erano stati accer­ tati dalle autorità igienico-sanitarie 40 casi di tifo petecchiale . Ma da allora non era cambiato niente. Qui, tra l'altro, su circa 130 famiglie tre sole hanno padre e madre che sappiano leggere e scrivere : rispet­ to ai loro genitori, la cui alfabetizzazione era di due coppie soltanto . Di questo passo, commenta Danilo, che ha presente l'altissimo tasso di evasione scolastica ancora esistente, «solo tra circa 2500 anni [ . . . ] tutti gli sposi di qui non saranno più analfabeti».5 Una constatazione che non lasciava venire meno l'impegno di lot­ ta per sollecitare il risanamento delle parti degradate del centro stori­ co di Palermo, e il digiuno di protesta che Danilo effettuava in uno dei catoi del Cortile Cascino nel 1 957 voleva essere da stimolo in tale direzione. Ma una fotografia di Enzo Sellerio con Danilo digiunante steso su un lettino e i volti tristi e pensosi degli astanti (l' avvocato Ni­ no Sorgi, Ignazio Buttitta e Carlo Levi) riflettono l'immagine del mu­ ro di indifferenza, di incultura, di incapacità contro cui cozzava la generosa utopia di Danilo Dolci.6 Documenti etnologicamente rilevanti sono in Inchiesta a Palermo i racconti che ci informano sull"' arte" dei borsaioli : come viene ap­ presa nei " centri di insegnamento " , la loro organizzazione, il loro gergo; sul "mestiere " della prostituzione privata col suo giro di ruf­ fiani, accompagnatori, magnacci. Ma non mancano in queste " occu ­ pazioni " gli aspetti drammatici del bisogno come in Gino O. , affitta­ to da bambino a borseggiare, o come in Zi (un accompagnatore) la preghiera rivoltagli da una donna il cui bisogno costringe a prosti4 Cf. D . Dolci, Inchiesta a Palermo, Einau di, Torino 1 962 [ 1 956] , p . 14. 5 Ib. , p . 76 . . 6 Cf. Fermo immagine. Fotografie d i Enzo Sellerio, Alinari, Firenze 2007 , p. 1 3 7 .

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tuirsi con riservatezza: «- Zu , mi trovi qualche persona straniera . . . di passaggio . . . qualche villano . . . ». Trovato il cliente che gli cerca «na cusuzza di casa, garantita di salute, che non mi conzumi» , Zu lo ac­ compagna: «Stia tranquillo . Unne mi infilo io si infila vossia - E io vado avanti e lui dietro . E se la gente domanda, gli si dice : - È un cu ­ ginu d'u paise, lu zio». Meno drammatici ma sempre iscrivibili al quadro delle occupa­ zioni precarie ma etnologicamente significativi sono i racconti del «tamburinaru» reclamista, dell' «affarista spicciafaccende», dell' «ar­ riffature», del suonatore ambulante di pianino, del chiromante . Nella provincia continua la rassegna di uomini e donne che come nel racconto di Rosario T si «buttano» a fare «tutti i mestieri». Po­ che le giornate lavorative come braccianti nelle campagne o come manovali, e perciò la necessità di «arrangiarsi alla meglio». Rosario T e XXX espongono con precisione come guadagnare qualcosa per so­ pravvivere, mese per mese, a seconda le opportunità che offrono nel­ le campagne, in pianura e nei monti, le variazioni stagionali . E così c'è il tempo per raccogliere origano, capperi, "babbaluce" , e quello dei «cavalicedde», dei finocchi di montagna, delle «vurrane» e delle cicorie; e poi ancora il tempo degli asparagi e delle lumache. A lu ­ glio, dopo la mietitura del grano soprattutto nella zona dei feudi, si va tutta la famiglia a spigolare. Si dorme in qualche pagliaio o «all'al­ bergo delle stelle», ed è questo «l'unico tempo che uno, la famiglia, arriva a saziarsi di pane e di pasta. Che la giornata stessa il mulino lo cambia [il grano} e lo macina». Ma qualche volta si deve contrastare con i padroni che minaccia­ n o questi spigaroli di allon tan arsi perché nei campi già mietuti avrebbero avviato i loro animali per farli ingrassare. E XXX racconta che tre anni prima uno spigarolo che insisteva venne ucciso e l' assas­ sino venne assolto per difesa personale . «Neanche in carcere andò . Come si spiega questo fatto?». Ed è questa la domanda sul proprio destino di poveracci vittime delle ingiustizie sociali, dello sfruttamento, della prepotenza di chi comanda, dei più ricchi . Ma essi quale coscienza n e hanno? Nei " racconti siciliani " di Dolci le risposte sono tante . Ci sono quelle di rassegnazione alla condizione di «cornuti e bastonati» come in Lucia­ no, o come in Donna Nedda, il cui bambino muore avvelenato per un 41

errore del farmacista che gli diede del veleno al posto dello sciroppo per la tosse convulsiva: dopo alcuni giorni «venne uno e disse a mio marito: - Compare Peppino, senza farne discorso, che è peggio per voi . Non ne fate discorso, che voi siete poverello e loro sono ricchi e voi andate sotto. Che andate facendo compare? Se tirano fuori il pic­ colino dal fosso, si paga, e tutte le spese vanno a voi, e loro sono ric­ chi e vincono loro». Ci sono poi le risposte di disperazione come in XXX: L'uomo bisognoso non vede dove va, alle volte va dove ci capita, può andare incontro alle guardie campestri che gli possono fare contravven­ zione e lo portano al Castello, al carcere. Certe volte si diventa ladri, e si perde l'onore, la dignità umana, la fiducia d' essere un uomo onesto. Mentre poi succedono gli omicidi e l'assassino passeggia in piazza, e quello che per bisogno ha rimorchiato una fascina di legna, quello è un delinquente.

O come in Rosario I : Io certe volte quando vedo le stelle la sera, specialmente quando stiamo fuori la notte, per anguille, e penso nella mia testa, e dico: -Vero c'è il mondo? - Non ci credo che c'è il mondo. Quando sono un pochettino calmo a Gesù lo credo, e chi mi dice male di Gesù Cristo l'ammazzassi. Ma c'è momenti che non lo voglio credere nemmeno io a Dio, perché certi momenti facevo: - Se c'è vero Dio, perché non mi dà la fortuna di lavorare? Ma poi penso che ci ho bambini e non mi impicco.

Ci sono poi i rammarichi e i rancori di chi come Vincenzo C. viene «affittato» sin da bambino a badare nei monti agli animali (le pecore, le capre, i bovini) . Privo del minimo d'istruzione, fuori dal consorzio umano, finisce in galera «per due mazza d'erba». Per lui «le bestie . . . sono meglio dei cristiani». Mi capisco più assai con l e vacche, con l e pecore, con l e capre, che con i cristiani. La vacca, se ci do cura, mi frutta, mi dà il latte: io rispetto lei e lei rispetta me. Invece i cristiani non mi fruttano, mi sfruttano. Con que­ sti animali ci so combattere; e invece coi cristiani no, non so presentar­ mi. Con me sono state più buone le bestie che i cristiani [ . . . ] Io sono in­ selvaggito e se scendo nella città nessuno mi guarda. Siamo diversi .

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Quello che sta nella città sa leggere e scrivere, per industriarsi loro, per sapersi comportare con la gente. Uno della città vede i cristiani, nella montagna non vede nessuno. Stare con i cristiani è bello, ma per chi sa parlare, chi non sa comportarsi, lo mandano via a calci, lo ammazzano. Gli fanno tragedie, lo fanno arrestare, in galera, al confino. Lo scarso nessuno lo guarda e il ricco, quello importante, lo guardano tutti. Questi dovrebbero ammazzare, e non noialtri poveri.

Anche per Inchiesta a Palermo Dolci ebbe a subire un procedi­ mento giudiziario, esattamente per la pubblicazione del racconto di Gino O. proposto in anticipo dalla rivista «Nuovi Argomenti» (anno IV, n. 1 7 - 1 8 novembre 1 955 - febbraio 1 956) il cui direttore, Alberto Carocci, venne pure lui incrimin ato per «oltraggio al pudore» e «pubblicazione oscena». La condanna a due mesi di reclusione ven ­ ne però ribaltata nella sentenza di appello che attribuì al racconto un valore scientifico e civile. La vicenda però è da inserire in una campagna di denigrazione che partiva da precisi settori sociali e politici turbati dallo smascheramento delle loro dinamiche di potere compiuto da Danilo Dolci, che dando voce alle vittime rompeva il loro preteso silenzio .7 Così facendo Dolci esplicitava un nuovo metodo di fare ricerca sociologica che prendeva le distanze dalle versioni ufficiali del mondo in nome di una nuova ricerca scientifica che non ignorasse le pene dei vinti e i soprusi dei potenti. E in questa nuova e ribaltata rappresentazione della realtà, «osce­ na», scandalosa, risulta semmai la storia di Bernardo L. , spesso disoc­ cupato, malati lui e la moglie di tubercolosi, con cinque figli piccoli che nessuna autorità civile o religiosa si premura, nonostante le loro insistenze, a sistemarli in qualche istituto, e perciò costretti, marito e moglie, a !asciarli soli e raccomandati ai vicini nei periodi frequenti in cui sono ricoverati al sanatorio . Altrettanto scandaloso in Salvatore G. è lo sfruttamento dei bam­ bini nelle cave dove sono impiegati a trasportare per undici ore al giorno ceste piene di pietre al frantoio : «Camminano sempre storti, quando hanno preso l'abitudine, anche quando non hanno la cesta, sono deformati». 7 Cf. Su tali aspetti si rinvia ad Alessandra Dino, La Sicilia oscena di Danilo Dolci, «Se­ gno» n. 2 63 , 2005 , Palermo.

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Scandaloso è anche il potere politico-sociale dominante, che non solo mantiene nello sfruttamento e nell'abbandono i più poveri e gli ammala­ ti, ma li vuole pure espropriare del diritto di cittadinanza responsabile e autonoma, tentando di comprare il loro voto durante le elezioni con qualche pacco di pasta, o, come in Rosario T, ricattando i mezzadri di votare per chi vuole il padrone, pena: l'essere «buttati fuori dalla terra». Che la campagna di denigrazione contro Dolci coinvolgesse i più importanti rappresentanti del potere dominante, sia politico che reli­ gioso è dimostrato da due interventi . Il primo da parte del Ministro degli Interni, Ferdinando Tambroni, che, subito dopo l'accusa conte­ stata a Dolci di «pubblicazione oscena» per il racconto apparso su «Nuovi argomenti» , gli ritira il passaporto con la motivazione che con i suoi scritti e le sue conferenze diffamava l'Italia all'estero. Il se­ condo, dello stesso tenore, dal cardinale Ernesto Ruffini nella sua Lettera pastorale della Domenica delle Palme del 1 964 , nella quale si affermava che Dolci disonorava la Sicilia «facendo credere che qui, nonostante il senso religioso e la presenza di molti sacerdoti, regnano estrema povertà e somma trascuratezza da parte dei poteri pubblici». Ma non mancano a Dolci attestati di solidarietà della parte più con­ sistente e qualificata della cultura italiana e di numerosi altri paesi, nei quali vengono tradotte e pubblicate le sue opere. Inchiesta a Palermo ottiene poi nel 1958 il prestigioso premio Viareggio; e nello stesso anno a Dolci è attribuito il Premio Lenin per la Pace. Per quest'ultimo, Dol­ ci, accettandolo, rilascia una dichiarazione in cui precisa di non essere comunista né «l'utile idiota di turno». Si è negli anni di una sia pure cauta "destalinizzazione" che ha come protagonista Nikita Chruscev col quale si apre con l'Occidente un periodo di distensione e di dialo­ go . Tutto ciò fece sperare a Dolci un'apertura dell'URSS verso forme ri­ voluzionarie diverse da quelle proprie dell'esperienza sovietica. Si è voluto, se non erro, porre in rilievo due fatti che vanno ben oltre la mia persona ed il nostro gruppo: la validità delle vie rivoluzionarie non­ violente, accanto alle altre forme di azione e di lotta, nell'affrontare la complessa realtà; la continua necessità di un'azione scientifica ed aperta, maieutica, direi, dal basso». 8 8 Dalla dichiarazione di Danilo Dolci rilasciata il 1 6 gennaio 1 958 dopo la comunicazio­ ne ufficiale dell'assegnazione del Premio Lenin per la Pace. Archivio del Centro per lo Svi­ luppo Creativo "Danilo Dolci" , Partinico .

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Tale giustificazione non convince del tutto qualcuno degli amici e sostenitori di Dolci, «gli anticomunisti arrabbiati» che, come Ignazio Silone, la considerano una ingenuità o peggio . 9 Ma la "ferita " si risa­ nerà presto, e per primo lo stesso Silone, poco tempo dopo, in nome della libertà della cultura, prenderà le difese di Dolci e appoggerà le sue future iniziative a favore di una rinascita civile e democratica del­ la Sicilia e del meridione d'Italia. N el frattempo cresce ancora la fama e la stima di D olci in Ita­ lia e in vari paesi eu ropei dove si formano comitati di sostegno che mandano collaboratori e fin anziano tecnici per gli studi e le iniziative che D anilo in traprende per favorire la piena occupa­ zione in Sicilia. Tra tali iniziative e stu di son o importan ti il Con­ vegno a Palermo del 1 957 e quello di Palma di Montechiaro nel 1 9 60 a cui accenn eremo nel prossimo capitolo . Pochi mesi dopo l ' assegnazione ufficiale del Premio Lenin per la Pace , col denaro ricavato Dolci fonda il Cen tro Studi e Iniziative per la piena occu­ pazione a Partinico , e con sedi in alcuni comuni della Sicilia oc­ cidentale. Da questi brevi cenni si può dedurre che la produzione letteraria e sociologica di Dolci si coniuga con un impegno attivo volto a stu ­ diare e proporre nuove opportunità di lavoro e di riscossa civile e de­ mocratica della sfortunata gente di Sicilia. Questa stretta relazione è ancora più evidente nel libro Spreco del 1 960. Questo titolo rinvia a una constatazione che già Danilo faceva sin dal suo arrivo in Sicilia, e che ora precisa nei suoi molteplici aspetti . Si tratta cioè degli sprechi di risorse esistenti in questa isola, che sono tra le cause principali del­ la povertà e dell'arretratezza civile. Questa terra è come una delle tante sue bambine bellissime nei vicoli dei suoi paesi , bellissime sotto le croste , i capelli s carmigliati, nei cenci sbrindellati: e già si intravede come, crescendo lei bene, tra anni quel volto potrebbe essere intelligente, nobilmente vivo; ma pure si intravede come in altre condizioni quel volto potrebbe rinchiudersi patito e quasi incattivito. 10

9 Aldo Capitini - Danilo Dolci, Lettere 1 952- 1 968, a cura di Giuseppe Barone e Sandro Mazzi, Carocci Editore , Roma 2008, p . 126. 10 D. Dolci, Spreco, Prefazione, Einaudi, Torino 1 962 [1 960].

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Ebbene, fuor di metafora, cosa mina il sano sviluppo della Sicilia negli anni in cui Dolci scrive i suoi libri-inchiesta? In una parola : gli sprechi. Lo spreco dell'acqua innanzi tutto, che se raccolta in bacini da costruire potrebbe irrigare migliaia di ettari, introdurre nuove colture, incrementare la produzione e dare lavoro tutto l' anno a tanti braccianti disoccupati. Lo spreco di terra attraverso le frane, che possono essere contrastate attraverso una bonifica montana prevista da apposite leggi, che in gran parte i contadini sconoscono, o sono diffidenti, perché credono che le frane sono «castighi di Dio» e si possono prevenire solo col suo intervento o di quelli degli indiavolati o dei maghi.1 1 Lo spreco o la mancanza di istruzione e di formazione genera spreco di capacità cognitive che porta tanta gente a credere ancora che il tracoma si cura con «l'acqua del bevaio dove cresce l'erba verde» e che «l'orina è un medicinale potente per le ferite». 12 Gli sprechi nascono anche da rapporti arretrati di contrattazione agraria quali la mezzadria e dalla inosservanza da parte dei gabelloti o dei proprietari delle stesse regolamentazioni esistenti . Noi mezzadri lavoriamo [ . . . ] senza amore perché ci levano la terra ogni anno. Non c'è la stabilità sulla terra. Se noi fossimo sicuri di stare sul po­ sto, si metterebbe frutteti, alberi, levare pietre, fare fossi per asciugare l'acqua, aggiustare le frane con le pietre. A metterei alberi si fermano certe frane. Uno ha una terra, la lavora per un anno, e l'anno dopo lo buttano fuori, se la piglia un altro. 13

Degli sprechi non sono responsabili soltanto le popolazioni con le loro superstizioni e il loro fatalismo, ma anche i poteri politici e so­ ciali dominanti che hanno trascurato di intervenire massicciamente per rimuovere le cause della miseria diffusa attraverso una pianifica­ zione democratica. Dolci si chiede : «Come ci si può aspettare che una popolazione, spesso statica da secoli, si muova organicamente per realizzare una nuova vita, se essa non sa che vita diversa, vita nuova, può esistere?». Per lui però «rompere» questo «cerchio chiu­ so» si può, attraverso «valide diagnosi» che aiutino tutti a conoscere 11 12 13

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Ib. , p. 55 . Ib. , pp. 74-75 . Ib. , p. 1 3 3 .

«l'uso più efficace delle risorse disponibili» e la messa a punto di strategie di intervento complesse alla cui elaborazione e realizzazione non siano escluse le popolazioni interessate. 14 Ecco perché Dolci non si limita a un 'opera di denuncia attraverso i suoi libri-inchiesta, ma promuove e anima importanti convegni di studio quali quelli accennati di Palermo e di Palma di Montechiaro su cui ci soffermeremo nel prossimo capitolo . Ma un grande valore conoscitivo oltre che narrativo hanno le testimonianze raccolte da Dolci nel 1 959 in Spreco. In qualche resoconto viene testimoniata la condizione di chi vive nella più completa emarginazione. Ritroviamo così figure di pastori che vivono nelle montagne, fuori dal consorzio umano. Per lo più analfabeti, ma spesso intelligenti: «C 'era mio pa­ dre che era grande, e io creatura, e lui mi diceva : fa così, fa così; que­ sta è la nostra scuola . Il grande regge il piccolo». Fanno vita con gli animali fino a immedesimarli con l'essere umano . Noi ci parliamo con le pecore, basta un grido e voltano sole [ . . . ] Quan­ do si mungono, vogliono scappare, sono come le picciotte schiette, è proprio la stessa cosa, che non si fanno toccare le minnuzze. Che si fan­ no maneggiare? Solo quando sono mature [ . . . ] Quando viene primavera l'animale è più contento, vede l'erba più abbondante, il freddo passa. Come siamo noi? Quando viene il bel tempo siamo più contenti, e l'ani­ male è lo stesso.

Capiscono che la loro vita di pastori potrebbe migliorare attraver­ so l'utilizzazione dell'importante risorsa dell'acqua. Infatti quando viene il caldo la terra è «secca, crepata, dura» e le pecore soffrono . Se invece «ci fossero prati, se l'acqua non si perdesse, ci sarebbe pro­ dotto di più, la vita per loro e per noi sarebbe un 'altra». Sanno alzare anche la testa al cielo, avanzare come i primi filosofi l'ipotesi di un arche', di un principio fisico elementare da cui si sarebbero originate tutte le cose: Di notte ci sono le stelle che pare che cadono per terra, c'è le stelle che camminano paro paro, la stella dell'alba, la stella che è più lucente a due ore di notte. Ci sono le stelle che corrono per l' aria, non sappiamo per-

14 Ib. , Prefazione.

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ché. L'aria è quella che produce tutto, produce l'uomo, produce l' ani­ male, produce il seminato. Tutto. È l'aria che ci produce.15

Lo spreco colpisce anche la vita della donna che non lavora all'in ­ fuori delle mura domestiche, neanche a fare la cameriera perché «la gente sparla . . . ci esce la mala fama coi padroni dove lavora». Da pic­ cole le donne non vanno a scuola o ci vanno soltanto qualche anno perché debbono badare ai fratellini piccoli. Da ragazze non viene lo­ ro in mente che potrebbero studiare per diventare più esperte della vita: «C' è tanti che non ci credono che il razzo è arrivato alla luna, alla luna non ci può arrivare nessuno, solo il Signore ci puÒ» . Quan ­ do una ragazza impara a imbellicchiarsi davanti allo specchio è segno che comincia a guardarsi con qualche giovane. Per mancanza di dote molte «se ne scappano» , e «cominciano a mettere poveredduzzi in mezzo la strada». Maritata non è padrona di «dare ai figli il nome che ci piace perché c'è l'abitudine di darci il nome di nonni e zii». «An che i nomi rimangono gli stessi, da Cicca a Onofria, da Onofria a Cicca. Una cosa nuova è un po' vergognosa . Poi viene la vecchiaia, poi una sta dentro più assai, perché poi non cammina più proprio; si siede in un angolo finché le finisce la vita».16 Come si può dedurre da quest'ultimo racconto, l'autorappresen­ tazione critica delle proprie condizioni di vita fa da controcanto alle testimonianze o fataliste, o superstiziose, o inclini a una passiva ac­ cettazione dal mondo così com'è. Le voci o i personaggi non confor­ misti in Spreco non mancano, a cominciare anche da Sariddu, un uo­ mo che si dichiara «quasi analfabete», ma intelligente e capace di esprimere una critica corrosiva dei regolamenti militari e una con ­ danna delle guerre sulla base della sua esperienza di militare di leva e di richiamato nella seconda guerra mondiale. 17 Ma Spreco è una miniera di testimonianze relative alle lotte conta­ dine nelle occupazioni dei feudi e per la riforma agraria, sugli esiti in parte negativi di quest'ultima, sulle repressioni padronali e mafiose e la lunga scia di vittime a cui non è stata resa giustizia. Tra tali testi­ monianze, quella di un compagno di Accursio Miraglia, segretario del15 16 17

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Ib. , pp. 152-5 7 . Ib. , pp. 2 83 -87 . Ib. , pp. 259-65 .

la Camera del Lavoro di Sciacca, ucciso il 4 gennaio 1 947 , si con ­ traddistingue per la grande efficacia narrativa e poetica popolare . Lui voleva che la gente si organizzasse per avere i suoi diritti [ . . . ] Era bello di parlare . . . non era ciarlatanazzo [ . . . ] Aveva l'idea lontana, che il mondo doveva cambiare, aveva un'idea grande e una veduta molto lon­ tana [ . . . ] L'uomo deve essere perfetto - diceva - l'uomo deve capire [ . . . ] Lui rimaneva male quando c'era tutta la gente che non sapeva fir­ mare [ . . . ] E quando uno non capiva, lui ripeteva.

Poi le cavalcate nelle occupazioni delle terre: La prima cavalcata era a cavallo di un cavallo bianco [ . . . ] Dietro di lui tutta la massa. C 'erano da Menfi, Montevago, Santa Margherita [ . . . ] Pa­ reva Orlando a cavallo, era un piacere vedere questa potenza d'uomo a cavallo, era una persona da guardarlo, era un amore guardarlo, la sua presenza era amorosa [ . . . ]

N el racconto un cenno riguarda uno dei nodi problematici della riforma agraria: quello della conduzione cooperativa delle terre asse­ gnate ai contadini o della conduzione individuale, che è risultata vin ­ cente perché assecondava il tradizionale individualismo isolano . Cooperative noi non ne usiamo, perché devono essere collettive. Non ci riesce a farle, perché falliscono tutte, c'è sfiducia su questo punto. Può attecchire solo la cooperativa perché ciascuno abbia la sua terra, vuole lavorare distinto e separato il personale. Miraglia aveva fatto una propo­ sta di lavorare insieme tutto il feudo e poi si divideva insieme , ma i soci furono tutti contro. Su questo punto non gli hanno dato retta, e lui non ha pressato . Manca la fiducia, la base. Perché questo popolo non ha avuto mai giustizia. 1 8

Anche Placido Rizzotto, altro capo del movimento contadino di Corleone cadde vittima della mafia e delle reazioni degli agrari. An ­ che lui, nella rievocazione di un amico, «pensava che gli uomini in ­ sieme avrebbero potuto e prodotto di più . Per questo incitava tutti a raggrupparsi in cooperative». Anche in questo racconto emerge la 18

Ib. , pp. 3 3 1 -42 .

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sfiducia e la paura diffusa conseguente all'uccisione del sindacalista. La "lunga strage" verificatasi nel decennio che va dal 1 945 al 1 955 aveva appunto come obiettivo quello di decapitare e colpire il movi­ mento contadino, impedire i cambiamenti politici . L'amico di Piaci­ do Rizzotto è chiaro nell'individuarne lo scopo di scoraggiare i pove­ ri . «Per i ricchi il mondo è quello che è, e adoperano tutti i mezzi per tenerlo nello stato in cui si trova . I ricchi, i partiti dei ricchi e la ma­ fia» . Ma anche per la Chiesa, aggiunge, «desiderare cambiamenti, co­ se nuove, è peccato». 19 In Spreco, anche nella sezione Documenti, emergono chiaramente le responsabilità del sistema giudiziario nel lasciare impuniti i man ­ danti, per lo più latifondisti, e gli esecutori dei delitti, i mafiosi gabel­ lati e la loro manovalanza . Nel caso dell'assassinio di Accursio Mira­ glia le indagini affidate a polizia e carabinieri individuarono come esecutori del delitto Curreri Calogero e Marciante Pellegrino, e co­ me mandanti il cav. Rossi Enrico e il gabellato Carmelo Di Stefano . Il Curreri e il Marciante però dinanzi al procuratore di Palermo ri­ trattarono accusando polizia e carabinieri di avere estorto la loro confessione sotto tortura. La Procura prosciolse gli imputati e de­ nunciò gli inquirenti, poliziotti e carabinieri, che vennero a loro volta prosciolti dalla Procura di Agrigento . A questo punto, «delle due l'una: o le violenze ci furono, per cui gli uomini delle forze dell' ordi­ ne dovevano essere condannati; oppure avevano mentito i loro accu­ satori, che quindi non potevano essere assolti dall' accusa di omi ci­ dio . Il minimo che si potesse aspettare era la riapertura delle indagini sul delitto Miraglia . Invece niente . Sulla vicenda cadde un silenzio, che si trascina fino ad oggi» .20 Anche l'efferato delitto di Placido Rizzotto, la sera del 1 0 marzo 1 948, si configurò come un ennesimo delitto politico.mafioso rima­ sto senza colpevoli. La fase risolutiva dell'indagine venne condotta, un anno dopo, dal giovane Capitano dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, il quale riuscì a far confessare ai due indiziati, Pasquale Criscione e Vincenzo Collura, della loro partecipazione al sequestro del sindacalista, la cui uccisione sarebbe stata eseguita da Luciano 19 Ib. , pp . 1 83 -84 . 2° Cf. Dino Paternostro , La lunga strage dei contadini 1 944- 1 965 ) , in Giuseppe Carlo Marino (a cura di) La Sicilia delle stragi, New Compton Editori, Roma 2007 , p. 2 93 .

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Liggio che ne avrebbe buttato il cadavere in una foiba di Roccabu­ sambra. A seguito di tale confessione alcuni resti del povero Rizzotto vennero ritrovati e portati alla luce . Ma i due ritrattarono e anzi ac­ cusarono Dalla Chiesa di avergli estorto le confessioni sotto le tortu ­ re . In seguito vennero assolti in tutti i tre i gradi di giudizio per in ­ sufficienza di prove. Soltanto di recente (marzo 2012) sono state re­ cuperate le ossa del Rizzotto, la cui comparazione del Dna con le os­ sa del padre ha sciolto un mistero durato 64 anni . In tale clima di compattezza del sistema dominante e di violenza re­ pressiva, appariva in tutta la sua realistica forza persuasiva la tradizio­ nale "saggezza" popolare, per la quale «la giusta regola è quella di farsi i fatti suoi» come suggeriscono gli antichi proverbi: «chi non si fa li af­ fari suoi, con la lanterna va cercando i suoi guai». Proverbi che indu­ cono anche a una realistica rassegnazione perché «la quartara con la pietra non ci può truzzare».21 Ma la mafia continuava anche a nascondere il volto truce della vio­ lenza e del malaffare per presentarsi nelle vesti tradizionali del bonario e disponibile «mediatore» nei conflitti paesani .22 Tale si presenta a Dolci il celebre capomafia Giuseppe Genco Russo di Mussomeli. Sono nato così. Senza scopi mi muovo. Chiunque mi domanda un favo­ re io penso di farglielo perché la natura mi comanda così [ . . . ] Viene uno e dice, : - Ho la questione col Tizio, vede se può accordare la cosa -. Chiamo la persona interessata, o vado a trovarlo io, a seconda dei rap ­ porti, e li accordo. [ . . . ] Io mi trovo a braccia aperte con tutte le catego­ rie,. Con la politica? Io sono affinché si possa ricavare un b enessere, senza scopi personali, senza pretese. Rispetto ai parrini? Al massimo, ri­ spetto la religione: cattolico apostolico romano [ . . . ] Questa è la mia vita, signor Danilo, che ci vuol fare? Tante volte le cono­ scenze, le amicizie si acquistano con la predisposizione dell ' animo, e poi viene il caso di domandare una cosa o l'altra [ . . . ] La gente chiedono come votare perché sentono il dovere di consigliarsi per mostrare un senso di gratitudine, di riconoscenza, si sentono all'oscuro e vogliono adattarsi alle persone che gli hanno fatto bene.23

21 Cf. D. Dolci, Spreco, cit . , pp. 14 1 e 1 95. 22 La definizione è di Werner Raith nella Postfazione a Henner Hess , Mafia, Laterza, Bari 1 984. 23 Cf. D. Dolci, Spreco, cit . , pp. 68-69.

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Ma considerati i rapporti stretti che in quegli anni egli intratte­ neva con i personaggi più in vista della Democrazia Cristiana, non senza finalità di incremento consistente del suo iniziale modesto patrimonio , il ruolo paternalistico di «mediatore» e di consigliere che egli si attribuiva, corrispon deva nella realtà ali ' esercizio, da padrino, di «un potere di controllo sociale parallelo a quello uffi­ cialmente esercitato dalle pubbliche autorità [ . . . ] ai fini del man ­ tenimento dell'ordine, ovvero delle reiterate affermazioni elettorali della DC» .24 E questa esaltazione del ruolo d'ordine della mafia viene accettato come un fatto positivo in un altro racconto di Spreco, quello di una persona di Mussomeli che loda Genco Russo senza nominarlo e indi­ candolo solo col pronome «lui» , che non può essere altri che il capo­ mafia dell'entroterra siciliano successore di don Calogero Vizzini di Villalba. Prima lui l'avevano messo in carcere perché non lo conoscevano, poi ha cominciato a farsi conoscere e si sono messi d'accordo con le autorità. La mafia fa un servizio importante, non perché la popolazione ha paura, ma perché comandano loro . . . perché questi comandanti sono tutti un gruppo, e tengono la disciplina nel paese. La mafia di Mussomeli e la popolazione sono d'accordo. La mafia, le autorità, i parrini della chiesa, la polizia accordano tutto, e se qualcuno sgarra, ci pensano l'autorità e lui, che sono un solo gruppo, logico.25

Ad una valutazione letteraria e sociologica dei " racconti siciliani" di Dolci non è di secondaria importanza, trattandosi di narrazioni suscitate da un interlocutore che pone domande, definirne il ruolo e lo stile di comunicatore. È Danilo stesso che ci aiuta a capire, in Spre­ co, ma le sue precisazioni valgono anche per i racconti delle opere precedenti. H o raccolto ogni racconto con estrema cura, trascrivendo fedelmente parola per parola, segnando esattamente pausa per pausa, rispettando gli anacoluti come erano dettati. Solo il dialetto chiuso è stato man ma­ no, nella trascrizione stessa tradotto. 24 Cf. Giuseppe Carlo Marino , I Padrini, New Compton Editori, Roma 2006 , p. 257 . 25 Cf. D. Dolci, Spreco, cit . , p . 67 .

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La maggiore difficoltà in questo lavoro è realizzare un rapporto intimo, sincero, in cui chi dice è consapevole della necessità di esprimere il vero. Naturalmente le domande, talvolta frequenti, attente a guidare verso il maggior approfondimento possibile, badavo non fossero di tal natura per cui il racconto potesse diventare una variazione conscia o inconscia di un mio tema. La gente qui capisce se una cosa è pulita, oppure spor­ ca; e quando c'è confidenza consapevole, il trascrivere poi non dà alcuna noia a chi racconta. Ho sempre trovato fiducia, o almeno accorta genti­ lezza: anche il capomafia, pur naturalmente diffidente, mi ha risposto. Troppo facile sarebbe, guidando opportunamente il racconto, e tagliuz­ zando poi con mestiere, combinare «testi lirici»: qui si è voluto badare al sodo, e se chi parla talvolta si esprime quasi liricamente, è perché questa gente è viva così, uno per uno, non sono prodotti stereotipi di s erie. Hanno dentro da scoprire una vita originale spesso grande anche s e quasi sempre inespressa.26

La «confidenza consapevole» e la sicurezza che Danilo ispira nei suoi interlocutori non vanno perciò a scapito della verità quanto cru ­ da essa possa rivelarsi . Dolci cioè, come scrittore e come sociologo, è mosso da un bisogno profondo di trascrivere la realtà, perché soltan ­ to se si parte da un quadro sia pure complesso ma obiettivo della re­ altà sociale e culturale, si possono mettere a punto interventi appro­ priati di cambiamento. Le storie di vita raccolte da Dolci, i suoi " racconti siciliani" , non sono soltanto uno spaccato sociale, ma anche un documento tipico della storia letteraria italiana, che è stata sempre polifonica, e nei mo­ menti di più verace realismo, aperta a dar voce agli ultimi, ai poveri, agli sconfitti, a coloro che protestano e hanno sete di giustizia, e che esprimono dolore e rabbia, rassegnazione e speranza, nelle parlate locali. Danilo registra tali voci e le traduce con pochi ritocchi, che la­ sciano immutato l'italiano regionale siciliano, le sue originali modali­ tà narrative e la loro carica poetica . Sotto il p rofilo letterario Dolci è un erede del verismo della se­ conda metà dell'Ottocento senza però la filosofia pessimistica del Verga, ed è uno degli epigoni della stagione del neorealismo italiano del secondo dopoguerra senza però il ricorrente populismo, che nel26

Ib. , Prefazione.

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la definizione data da Asor Rosa sarebbe «la convinzione, sia pure espressa attraverso gradazioni diverse, che il popolo contiene in sé valori positivi, da contrapporre di volta in volta alla corruttela della società, alle ingiustizie del destino e degli uomini, alla violenza bruta della disuguaglianza».27 Anche Dolci tra i tanti scrittori neorealisti, da Pratolini a Scotellaro, va "verso il popolo" , ma senza alcun «tra­ vestimento e manierismo pseudo contadino e operaio» attraverso cui «si è consumata sovente la parabola dell'impegno di tanti intellettuali contemporanei».28 Ma la letterarietà dei "racconti siciliani" di Dolci, di per sé aperta a istanze sociologiche e antropologiche, non si può valutare appieno senza i riferimenti al contesto di cui fanno parte, alle schede informa­ tive di essenziali quadri ambientali entro cui si dispiega ogni singolo racconto . Senza tali riferimenti si rischia di esprimere giudizi inesatti, quali quelli di Asor Rosa, che tra l'altro definisce Dolci un «esteta». Una categoria, questa, che gli è completamente estranea, sia perché in lui non c'è l'esaltazione esclusiva dei valori dell' arte e della bellez­ za, né quella di sé come protagonista, né ancora quella esotica della gente siciliana; e ciò secondo moduli propri di tanta arte e letteratura dell'età del decadentismo . L'illustre storico della letteratura italiana dedica qualche pagina del suo saggio a Danilo Dolci, a cui attribuisce una duplice rappre­ sentazione del popolo . Da un lato si tratterebbe di una «massa infor­ me, brulicante d'istinti elementari, fornita di una psicologia da infan ­ te ma di appetiti da adulto»; dall'altro «i contadini, i pescatori, gli ar­ tigiani, i proletari del Sud tornerebbero nei racconti di Dolci «a con­ figurarsi come umili, nella migliore tradizione del pensiero cristia­ no». Da qui il «paternalismo intellettuale» di Dolci, il suo muoversi entro il limite individuale di carattere pedagogico o di missionario laico [ . . . ] in cui il richiamo alla bontà, alla fratellanza, alla solidarietà verso i poveri assume toni singolarmente confessionali» .29 Lasciamo stare il giudizio sulla «massa informe» che ogni lettore attento può contestare facilmente data l'evidente composita galleria di personaggi, ma anche il definirli «umili» non corrisponde né alla n Cf. Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo, Einaudi, Torino 1 988 [ 1 965] , p . 54 . 28 Cf. Giuseppe Fontanelli, Danilo Dolci, La Nuova Italia, Firenze 1984 , p. 40. Cf. Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo, cit. , pp . 1 95 -96.

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maggior parte dei personaggi dei "racconti siciliani" di Dolci, né so­ prattutto alla supposta compiacenza di quest'ultimo di vederli cri­ stianamente nell'attesa del premio celeste . L'asserito «paternalismo» di Dolci si scontra poi con la sua volontà e la sua grande capacità di entrare in un rapporto empatico che annulla le distanze con i vari personaggi, nei quali cautamente sollecita e stimola quei processi di autoanalisi attraverso cui far acquisire consapevolezza critica delle proprie condizioni. Ed infine «il limite individuale di carattere peda­ gogico o di missionario laico» non impedisce a Dolci, come s'è visto e come si vedrà anche appresso, di uscire dall'isolamento, di far fron­ te comune con movimenti politici e sindacali, con economisti ed esperti in varie discipline, a fini di studio e di azione sociale, per av­ viare radicali interventi per migliorare di molto le misere condizioni del Mezzogiorno d'Italia e della Sicilia. Un discorso a parte merita il linguaggio di Dolci che per Asor Ro­ sa «assume toni singolarmente confessionali». Riportandoci a quanto abbiamo affermato nelle pagine precedenti, il linguaggio di Dolci fi­ no a Banditi a Partinico testimonia l'uso di espressioni attinte ai testi sacri del cristianesimo e non a quelli ecclesiastici, e perciò più che «confessionale» si può definire evangelico, con implicite o esplicite reazioni polemiche nei riguardi del clero o dei cattolici che, ben «si­ stemati» nel mondo, dimenticano le parole del Vangelo . Ma il discorso non riguarda soltanto il linguaggio ma anche la spi­ ritualità e il pensiero. Dolci finisce di usare deliberatamente la parola «Dio» agli inizi del 1 955 ; l'ultima volta che la usa nella frequente corrispondenza con Aldo Capitini è in una lettera della fine di gen­ naio del 1955 , che si conclude col consueto commiato «Tuo in Dio». Ma non smetterà di citare espressioni tratte dai testi sacri del cristia­ nesimo. E così il 1 6 . 1 1 . 1 955 , sempre a Capitini, che invita a parlare n ella su a Università popolare di Trappeto e di Partinico , scrive : «Avrai un pubblico di " assetati di giustizia" e di "nuovi cieli e nuove terre" come a Roma ti è difficile trovare».30 E sempre, sin quasi alla fine della sua vita, esalta l'etica cristiana che si propone come norma «l'amore attivo che mira a costruire nuovo cielo e nuove terre».3 1 3° Cf. Aldo Capitini - Danilo Dolci, Lettere 1 952-1 968, cit . , pp . 3 7 e 53 . 31 Cf. D. Dolci, Nessi fra esperienza etica e politica, Piero Lacaita Editore, Manduria-Ba­ ri-Roma 1993 , pp. 13 - 14.

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Il piano del linguaggio non contraddice in Dolci quello del pen­ siero che si avvia verso una concezione monistica, che annulla ogni frattura tra Dio e il mondo, tra Dio e gli uomini. Infatti per Dolci, sin dall'inizio, Dio è con coloro che non si rassegnano a vivere in un mondo violento e ingiusto, e insieme si adoperano per realizzare l'utopia di una nuova società umana, di un mondo nuovo , di una nuova età.

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CAPITOLO V

LE INIZIATIVE PER LA PIENA OCCUPAZIONE I CONVEGNI DI PALERMO E DI PALMA DI MONTECHIARO

Da quanto s'è detto finora emerge non soltanto l'indagine socio­ logica di Dolci, ma anche la sua attiva volontà volta a combattere la disoccupazione e la miseria diffusa nel suo terreno operativo che da Trappeto e Partinico si estende via via a tutta la Sicilia occidentale. Ma Dolci era ben consapevole che aree depresse esistevano anche in tutto il Mezzogiorno d'Italia, e anche in qualcuna delle regioni set­ tentrionali. Il problema della occupazione e della disoccupazione era cioè nazionale, e come tale occorreva affrontarlo a livello generale conoscitivo e di precisi interventi politici ed economici. L'Italia in questo campo era in grave ritardo rispetto ad altri paesi europei che pure avevano subito i disastri della guerra . L'Inghilterra del conser­ vatore Churchill, per esempio, commissionava e accoglieva negli anni finali della guerra i progetti di assistenza e di assicurazioni sociali e il famoso Piano sulla piena occupazione di Sir William Beveridge, il quale era consapevole che il Welfare State e la piena occupazione «non rientrano nelle possibilità delle imprese» , e perciò «devono es­ sere affrontate dallo Stato, sotto il controllo e la pressione che la de­ mocrazia esercita attraverso il Parlamento».1 Era chiaro che in Italia nel 1 95 7 , anno del Convegno di Palermo, non si partiva da zero. Superato il primo periodo del dopoguerra, impegnato nella difficile prova della ricostruzione e della ripresa eco­ nomica, i governi e il Parlamento, trovandosi di fronte a un Paese an­ cora solcato da frontiere discriminatrici, sia pure in ritardo, avviaro­ no nel 1 953 un'indagine di tipo conoscitivo condotta dalla Commis­ sione parlamentare d'inchiesta sulla miseria in Italia,e nel 1 954 ela1 La citazione è di Lucio Villari Un lord tra gli operai, «la Repubblica>> , 08 . 04 .2004 .

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borarono il cosiddetto Piano Vanoni, che prevedeva interventi stra­ ordinari per affrontare e risolvere, nel giro di un decennio, la disinte­ grazione e l'inferiorità economica e civile del nostro Paese. Data la persistenza, soprattutto nelle regioni meridionali e in Sici­ lia, di condizioni diffuse di miseria, e perciò di disoccupazione, parve opportuno a Dolci promuovere, come già si è accennato, il «Con ­ gresso sulle iniziative nazionali e locali per la piena occupazione» te­ nutosi a Palermo nei giorni l , 2 e 3 novembre 1 957 . Al convegno parteciparono con le loro relazioni oltre a Dolci, insigni personalità del mondo dell'economia, della politica, del sindacato, tra cui Mi­ chele Pantaleone, Francesco Renda, Alessandro Molinari, Sergio Ste­ ve, Alfred Sauvy, Paolo Sylos Labini, Antonio Pesenti, Bruno Tren ­ tin, Federico Caffè, Riccardo Lombardi. 11 17 novembre in una affol­ lata manifestazione, parlando al Teatro Politeama di Palermo, Carlo Levi, in un appassionato discorso, riassumeva i risultati del conve­ gno . Gli atti di quest'ultimo, con qualche increscioso taglio, vennero pubblicati da Einaudi nel volume del 1 958 Una politica per la piena occupazione, a cura di Danilo Dolci . A voler riassumere i temi del convegno vanno tenuti presenti in­ nanzitutto alcuni dati ricordati da qualcuno degli intervenuti che ri­ guardano i livelli della disoccupazione e del reddito pro-capite del Nord e del Sud . In ambito nazionale lo schema Vanoni prevedeva una riduzione della disoccupazione per 1 958 di 400.000 unità. Alla fine del 1957 , e in un periodo di congiuntura favorevole, la riduzione della di­ soccupazione era di sole 150.000 unità. Lo stesso Piano Vanoni preve­ deva che attraverso un'energica politica di investimenti si poteva eleva­ re il reddito pro-capite del Sud, che nel 1954 , anno del Piano Vanoni, era del 44 per cento rispetto a quello delle regioni centro-settentriona­ li . Dopo tre anni tale divario anziché ridursi si era ulteriormente aggra­ vato risultando il 43 per cento di quello del Nord.2 Al persistere di una intollerabile situazione di arretratezza e di mi­ seria emergevano nette le responsabilità di un potere politico che nel passato anche recente non era intervenuto adeguatamente in più di­ rezioni per sostenere lo sviluppo del Sud . Alessandro Molinari ricor­ dava a tal proposito che «fino al 1 950 i Comuni del Mezzogiorno 2 Cf. D. Dolci (a cura di) , Una politica per la piena occupazione, Einau di, Torino 1 958, Prefazione.

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avevano speso per opere pubbliche ed investimenti nei servizi pub­ blici di base (infrastrutture: strade, scuole, fognature, ospedali, ecc.) la terza parte, riferita ad abitante, di quanto si spendeva, per abitan­ te, allo stesso titolo al Nord». Ma anche negli anni Cinquanta i Co­ muni poveri con insufficienti servizi stentavano ad avvalersi delle stesse leggi per costruire strade e scuole. Una delle conseguenze, no­ tava lo stesso Molinari, era che nell'intero Mezzogiorno, che costitui­ sce il 40 per cento della Nazione per superficie e popolazione, «le strade comunali, vicinali e poderali che aprono la via alla civiltà, agli scambi, alla produttività hanno una estensione di 1 1 .820 chilometri, inferiore a quella del solo Piemonte che copre 1'8 per cento del terri­ torio e della popolazione italiana . E per di più nel Sud lo stato di conservazione è deplorevole».3 Michele Pantaleone poi, per la Sicilia, denunciava le inadempien ­ ze dei 32 Consorzi di Bonifica istituiti a seguito della Legge di Rifor­ ma agraria dell'Assemblea Regionale Siciliana del 27 dicembre 1 950 n. 104 . Le opere obbligate a tali Consorzi comprendevano : a) Costruzione e sistemazione di strade principali e secondarie;

h) costruzione di borghi rurali e case coloniche; c) potenziamento e sviluppo della meccanizzazione agricola; d) rinnovamento e potenziamento del patrimonio zootecnico; e) sistemazione e bonifica dei terreni; f) approvvigionamento e utilizzazione delle sorgenti; g) consolidamento e rimboschimento di vaste piaghe lasciate incolte e a pa­ scolo; h) potenziamento e sviluppo di tutte le attività accessorie all'agricoltura.

In particolare, per quanto riguarda il primo di tali punti, il Panta­ leone denunciava che delle 25 strade principali e secondarie preven ­ tivate dal Consorzio di Bonifica del Salito, in provincia di Caltanis­ setta, al 3 1 dicembre 1 956 solo una era stata completata e collaudata. E precisava: Dette strade avrebbero aperto la via alla bonifica di ben 3 1 feudi, per una estensione complessiva di circa 60. 000 ettari di terra, ancora oggi

3 Ib. , p. 192.

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coltivati a coltura estensiva; inoltre alla esecuzione delle opere di bonifi­ ca avrebbe fatto seguito la trasformazione, in virtù della quale la mano­ dopera in atto impiegata sarebbe stata aumentata di almeno 8 giornate lavorative per ettaro - pari a 1 .3 00.000 giornate lavorative l'anno.4

Tali inadempienze, che rivelavano l'insufficienza di una pianifica­ zione «dall'alto», ponevano come necessaria una pianificazione «dal basso», che non avrebbe sostituito quella «dall' alto» e che con le va­ rie forme in cui si poteva esprimere l'avrebbe sollecitata e aiutata a trovare un terreno favorevole di realizzazione e di adeguamento alle esigenze delle singole comunità . Al convegno vennero presentate alcune inchieste-relazioni da vari studiosi riguardanti altrettante realtà locali con le loro esperienze di progettazione e di realizzazione di attività produttive e di conseguen­ te incremento dei livelli occupazionali. Allo stato di progetto di imminente realizzazione rimaneva quello riguardante quattro comuni del Polesine (Rosolina, Donada, Contari­ na e Porto Tolle) inclusi nel Comprensorio di Riforma del Delta Pada­ no, per il quale il Parlamento aveva stanziato 20 miliardi e 500 milioni per l'attuazione di programmi di bonifica dei terreni. C'erano buoni motivi per ritenere che tale intervento avrebbe risolto i problemi della disoccupazione bracciantile e aperto anche prospettive di sviluppo dell'industria del turismo con la sistemazione della spiaggia che si estende dalla foce dell'Adige sino al cosiddetto Porto di Caleri.5 Già in stato di avanzata realizzazione, sempre nell'Italia setten­ trionale, era un esempio singolare di pianificazione dal basso pro­ mosso nel Canavese da un illuminato capitan o d'industria, l'ing. Adriano Olivetti. Per iniziativa di quest'ultimo nel 1 954 venne fon­ dato l'I.R.U .R. (Istituto per il Rinnovamento Urbano e Rurale) col compito di creare o sviluppare concrete attività artigiane, industriali e agricole. Nell' arco di due anni tale istituto fondò alcune fabbriche dislocate ad Ivrea e nei comuni vicini. Non meno attivo del Servizio industriale dell'I.R.U .R. , fu il Servi­ zio agricolo, non solo per l'opera diffusa di consulenza, ma anche per la promozione di alcune cooperative e consorzi per l'irrigazione, 4 Ib. , pp. 79-81 . 5 Ib. , pp. 84-98.

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per l'uso comune di macchine agricole e per la produzione di pro­ dotti tipici. Tali realizzazioni comportavano un' azione educativa mi­ rante non soltanto alla elevazione di capacità tecniche e culturali dei singoli lavoratori, ma anche al maturare, nello spirito della "filosofia " olivettiana, di quelle responsabilità comunitarie legate non soltanto al miglioramento di quella «comunità di lavoro» costituita dalla sin ­ gola azienda, ma anche a quello della più vasta comunità sociale a cui si appartiene. 6 Un esempio di abbinamento di iniziative di carattere agricolo e di carattere industriale venne offerto al Convegno dalla relazione di Franco Bonifati: Aspetti economici e aspetti umani di una iniziativa agricolo-industriale nella zona di Policoro . Il territorio di riferimento era quello di Montalbano Jonico, in provincia di Matera, e ad una delle sue frazioni, quella di Policoro . Una zona, quest'ultima, tradi­ zionalmente povera, in cui il 7 0 per cento circa della popolazione non era in grado di leggere e scrivere. Due eventi misero in moto un processo di cambiamento, che sia pure non concluso, nel 1 95 7 , prometteva bene ai fini di un migliora­ mento complessivo delle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori locali in gran parte dipendenti da un solo grande proprietario terrie­ ro. Il primo fu l'iniziale esproprio da parte dell'Ente di Riforma agra­ ria per la Puglia, Lucania e Molise del 50 per cento di questa grande proprietà e l'assegnazione a ciascun avente diritto di lotti di circa 3 ettari. Il secondo evento, contemporaneo al primo, fu la decisione della Società Zuccherifici Meridionali di costruire uno zuccherificio nel comune di Montalbano Jonico . Si pose cioè l'oggettivo problema di cambiamenti colturali che fornissero prodotti, come la barbabie­ tola da zucchero, al suddetto stabilimento industriale . Ma bisognava far fronte a due difficoltà . La prima era quella d'addestrare gli asse­ gnatari, in parte pastori o boscaioli o gli stessi braccianti, ad essere bravi agricoltori, a usare i concimi, a praticare la rotazione, ecc.; la seconda riguardava l'irrigazione ancora insufficiente. Ma per la pri­ ma di tali difficoltà provvedevano gli stessi tecnici agrari dello zuc­ cherificio; per la seconda i tempi di soluzione erano imminenti per­ ché era in costruzione, sempre nel 1 95 7 , un sistema di canali che 6

Ib. , pp. 1 1 9- 1 3 3 .

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avrebbero portato l'acqua a Policoro dalle due dighe sul fiume Agri e sul Sinni.7 La suddetta relazione si concludeva con accenti ottimistici, notan ­ do che «la popolazione della zona sta incominciando a uscire dalla secolare situazione di sottomissione, sta acquistando poco a poco co­ scienza della propria importanza economica e sociale».8 Tali accenti non troviamo invece nella relazione di Danilo Dolci e dei suoi colla­ boratori che riguardava la possibilità di piena occupazione in dieci paesi siciliani, non perché tali possibilità non ci fossero, ma perché le condizioni di partenza erano più gravi nei termini di una miseria più diffusa tra le popolazioni, dell'arretratezza dei sistemi colturali dei grandi proprietari e dei piccoli, della presenza della mafia, delle ina­ dempienze dei poteri dello Stato e della Regione, ma anche della ostilità con cui venivano guardati e trattati coloro che si adoperavano per il cambiamento e il miglioramento della realtà esistente . Tutto in Sicilia era più difficile per coloro che agivano " dal basso" ai fini di far prendere coscienza dei problemi da affrontare e risolvere tramite una convinta partecipazione popolare e democratica. Danilo ricorda­ va che «talvolta si è ostacolati, e inspiegabilmente, anche da parte della polizia (non solo braccati, come ormai ci è abituale: siamo " sor­ vegliati speciali ")». Il territorio oggetto dell'indagine era quello di dieci comuni della provincia di Palermo : Corleone, Roccamena, Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato, San Cipirrello, Contessa Entellina, Bisacquino, C ampofiorit o , Giuliana , Chius a S clafani. Un territorio di circa 66 .000 persone, di cui 10.754 iscritti nell'elenco dei poveri . Qui an­ cora, come a Partinico, lo Stato trattava la popolazione «come fosse in gran parte patologicamente criminale». Anche in questi paesi la «sistemazione dell'ordine» era affidata alle «mani esperte di manette e di tortura», come era documentato dalle cifre che vedevano, per esempio, la sola popolazione di Corleone di 1 6 .47 8 persone «con cento armati addosso». Dolci e i suoi collaboratori a questo punto si chiedevano quanti condotti agrari, quanti assistenti sociali, corrispondevano a questa ci­ fra. La Riforma agraria laddove era arrivata era costata un'enorme 7 Ib. , pp. 99- 1 06. 8 Ib. , pp. 1 04 - 1 05 .

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spesa dato il gran numero di impiegati, in parte «borghesucci prove­ nienti per lo più dal liceo classico» arrivati agli uffici dell'ERAS (En ­ te Riforma Agraria Siciliana) «per raccomandazioni di politici loca­ li». Impiegati che per la loro incompetenza tecnica non imprimevano alla Riforma un cambiamento qualitativo. Dolci e i suoi collaboratori sottolineavano che c'era una diffusa ignoranza dei problemi della produzione e dell'impiego . E non solo a livello della popolazione più povera che poteva lamentarsi perché " sentiva di stare male " , ma non aveva quegli strumenti culturali per acquisire l'idea del lavoro dovere-diritto e liberarsi di un certo fatali­ smo che soffocava la sua capacità d'iniziativa. Anche i partiti, al di là dei loro meriti, erano «in mano soprattutto di avvocati» e operavano «quasi solo in vista delle elezioni» in una lotta «astratta, sfocata, de­ magogica». Essi cioè trascuravano i problemi tecnici del cambiamen ­ to e il principio economico e sociale secondo cui il fine della piena occupazione era in stretto rapporto con l'aumento della produzione. Che tale rapporto lo trascurassero i grandi proprietari terrieri corri­ spondeva ai loro interessi e alla loro miope cultura di tipo feudale. Ed infatti, «il padrone di molta terra ha quasi lo stesso utile, sia fa­ cendo coltivare bene, che male : che gliene importa che, coltivando bene la terra, possano lavorare più uomini?». Ma era nell'interesse di tutti, persino dei grandi latifondisti, a cui la Riforma agraria lasciava una parte consistente delle loro proprietà terriere, abbandonare il si­ stema della coltura estensiva . E il tempo farà sì che non pochi eredi della vecchia classe feudale siano diventati oggi titolari di moderne aziende agricole. Il pregiudizio contro le innovazioni era speculare e coinvolgeva parecchi disoccupati a dar la colpa alle macchine se rimanevano sen ­ za lavoro: «Il proprietario si coltiva l 00 ettari e si prende tutto lui; ara con l' aratrice, semina con la seminatrice, miete con la mietitrice, trebbia con la trebbiatrice, trasporta con i camion , e noi stiamo a guardare». La relazione di Dolci e dei suoi collaboratori si concludeva con i seguenti auspici e suggerimenti. La piena occupazione innanzitutto dipendeva per loro dalla valorizzazione di quanto finora si era spre­ cato: dalle acque dei fiumi attraverso la costruzione di dighe, all'im­ piego del letame che in alcuni paesi veniva bruciato . Necessaria era 63

poi la trasformazione delle " trazzere" in rotabili . All a realizzazione di una storica conversione colturale erano inoltre indispensabili l' as­ sistenza tecnica e una nuova sensibilità e consapevolezza dei proble­ mi concreti da parte dei partiti, dei sindacati, delle amministrazioni locali, degli educatori, degli enti di bonifica. Tale conversione sareb­ be stata caratterizzata dalla trasformazione di una parte dei seminati­ vi in vigneti-oliveti o in orto-frutteti; dalla sostituzione nei terreni se­ minativi della semina a spoglio con la semina a riga, con la concima­ zione e ripetute zappature; dall'impianto di mandorleti dove la terra è più petrosa; dall'allevamento di bovini stabili . Un impulso positivo avrebbe ricevuto da tale trasformazione la nascita di caseifici, il po­ tenziamento e la qualificazione degli oleifici e della piccole industrie vitivinicole.9 Come già si è accennato, col ricavato del premio Lenin, nel 1 958, Dolci fonda il Centro Studi e Iniziative per la Piena Occupazione a Partinico, con sedi in alcuni comuni della Sicilia Occidentale, in cui venivano operando animatori sociali suoi collaboratori e tecnici spe­ cializzati; questi ultimi pagati dai Comitati di sostegno di vari paesi europei . Si devono a questi tecnici alcune monografie che Dolci pub­ blica in Spreco nel 1 960, tra cui quella del tecnico agronomo Michele Mandiello titolata «Spreco di acqua a Menfi» e quella titolata «Spre­ co di acqua nella Sicilia occidentale» dell'agronomo Pasquale Malpe­ de . Quest'ultima indagine riguarda lo spreco di acqua che era uno dei principali freni che impediva allora la realizzazione di quella con­ versione colturale che avrebbe dato lavoro a parecchie migliaia di di­ soccupati e sottoccupati della Sicilia occidentale e avviato condizioni generali di vita più civili . La Sicilia era nel 1 960 in grave ritardo da quanto progettato, sin dagli inizi della istituzione del governo auto­ nomistico del 1 947 , dal Piano Ovazza che prevedeva la costruzione di alcune decine di dighe nell'Isola .10

9 Ib. , pp. 27 -28. Alla ricerca e alla relazione «Iniziative locali e indagini particolari per la piena o ccup azione» collaborarono con Danilo Dolci: Lorenzo B arbera, San dra Di Meo , Goffredo Pofi, Franco Fontana, Grazia Fresco, Domenico Galliano, Luigi Guastamacchia, Carlo Ravasini, Ida Sacchetti, Giorgina Vicquery. 1° Cf. Nicola Cipolla, Clientele e grandi affari con l'acqua dei siciliani,«la Repubblica Palermo», 1 1 .07 .2009.

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I suddetti agronomi sintetizzarono le loro ricerche al «Convegno sulle condizioni di vita e di salute in zone arretrate della Sicilia Occi­ dentale» che si tenne a Palma di Montechiaro nei giorni 27 , 28 e 29 aprile del 1960. Di questa importante assise rimane un dattiloscritto curato da Pasqualino Marchese e Romano Trizzino del Centro Studi e Iniziative per la Piena Occupazione di Partinico . Dopo la pubbli­ cazione di Spreco, che uscì qualche mese dopo il Convegno, dove tra l'altro venne pubblicato anche il testo integrale dell' "Inchiesta igieni­ co-sanitaria a Palma di Montechiaro" del prof. Silvio Pampiglione, Danilo Dolci, che era soltanto uno degli organizzatori del Convegno, e probabilmente il suo editore Einaudi, non avrebbero avuto interes­ se a pubblicarne gli atti . Né un interesse o una iniziativa in tal senso manifestarono il Comitato civico di Palma, che era tra gli organizza­ tori del Convegno, o i politici e gli esponenti della cultura locale, su cui non poteva non agire come freno un'opinione diffusa, anche anni dopo, per la quale il Convegno avrebbe "diffamato " Palma. Diamo qui succintamente i dati riferiti al Convegno dall' agrono­ mo Pasquale Malpede del Centro Studi e Iniziative di Partinico e ri­ guardanti cinque comprensori di bonifica: l ) della fascia costiera del Golfo di Castellammare (zona di Partinico) ; 2 ) dell'Alto e Medio Be­ lice (zona di Roccamena e Corleone); 3 ) del Basso Belice e Carboi; 4 ) delle valli del Platani e Tumarrano; 5 ) del Verdura e del Magazzolo . Queste zone che hanno un'estensione territoriale di circa 400.000 et­ tari, avevano nel 1 960 una popolazione di circa mezzo milione di abitanti, dedita in prevalenza all'agricoltura. Alla stessa data, i terreni irrigati con sistemi più o meno antiquati e con irrigazioni saltuarie erano all'incirca 6 .000 ettari su 400 .000. Cifra che si sarebbe potuta elevare sino a 43 .000 ettari con lo sfruttamento di tutte le acque inva­ sate e di quelle che si potevano ulteriormente invasare attraverso la costruzione di nuovi serbatoi artificiali dello Jato e del Bruca. In que­ ste zone dove era prevalente la monocoltura, la coltura estensiva di grano e fave o grano e sulla, si poteva rapidamente sviluppare una ri­ voluzione colturale che con la diffusione degli agrumeti, dei frutteti, dei vigneti, degli ortaggi, delle foraggere, ecc . poteva creare 15mila nuovi posti di lavoro, incrementare il reddito di lavoro e il valore del­ la produzione lorda vendibile. Anche per Palma di Montechiaro la realizzazione del progetto per l' invasamento delle acque del fiume 65

Palma avrebbe dato un contributo sia pure modesto alla difficile so­ luzione del problema della disoccupazione, che per l'agronomo Mal­ pede, ma anche per altri relatori, richiedeva trovare altrove, nello svi­ luppo dei vicini complessi industriali o nella valorizzazione dei feudi dell'entroterra, i canali di assorbimento .11 Ma come ebbe ad affermare Giorgio Napolitano nel suo interven ­ to al Convegno, ciò che faceva di Palma di Montechiato «un caso estremo», «un caso limite» della stessa grave situazione del Mezzo­ giorno d'Italia, era il suo collocarsi ai livelli infimi di tutti i parametri che valutano e classificano in generale e analiticamente le condizioni di vita materiale e civile di una popolazione. 12 Scandalosi erano in tal senso i dati riguardanti l'analfabetismo . N el 1 95 1 gli analfabeti della popolazione in età su peri ore ai sei anni erano il 24 ,5 % in Sicilia, il 28,3 o/o nella provincia di Agrigento, ed il 44,7 % nel comune di Palma. E quest'ultima percentuale non si era granché modificata sulla base della ricerca compiuta per il Convegno di Palma da Lidia Morante, docente di Psicologia all'Università di Palermo, per la quale circa il 63 o/o della popolazione scolastica fre­ quentava le due prime classi elementari, mentre le altre tre classi ve­ nivano frequentate solo dal 3 7 o/o . 13 Ma una relazione da brivido fu quella di Silvio Pampiglione, pa­ rassitologo di fama internazionale, che al convegno riferì sui risultati della sua inchiesta che, come si è detto, in quei giorni era in corso di pubblicazione nel volume Spreco di Danilo Dolci, e che era stata ef­ fettuata nei mesi di agosto, settembre e ottobre del 1 95 9 . L'inchiesta era intesa ad accertare le condizioni igieniche e sanitarie in particola­ re di 600 famiglie tra le più povere di Palma, nella stragrande mag­ gioranza col capofamiglia bracciante agricolo o manovale o pastore. Si trattava di 3 .404 persone su un totale di 20.552 degli abitanti di Palma. Un primo dato accertato era l' alto indice della mortalità infantile di per sé indicativo delle cattive condizioni di igiene, di salute e di 11 Cf. Pasqualino Marchese e Romano Trizzino (a cura di) , Convegno sulle condizioni di vita e di salute in zone arretrate della Sicilia occidentale, Atti del Convegno di Palma di Mon­

techiaro (dattiloscritto) , pp. 63 -66. 12 Ib. , p. 1 98. 13 Ib. , pp. 1 04 e 134.

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alimentazione in cui vivevano le gestanti. Relativamente alle 600 fa­ miglie oggetto dell'indagine si rilevava che i vani di abitazione erano in tutto 700, con una media di affollamento di 4 ,86 persone per va­ no. Tali vani, in parte privi di finestra e con insufficiente areazione e illuminazione, manifestavano segni evidenti di umidità nel pavimen ­ to e nelle pareti . Le piazze-letto per i 3 .404 abitanti erano 1 .972 : 1 ,7 persone per piazza-letto. Il tipo di letto maggiormente in uso era co­ stituito da tavole sostenute da due supporti in ferro . I materassi era­ no costituiti da sacconi ripieni di crine vegetale o di paglia. 823 per­ sone su 3 .404 dormivano per terra, cioè il 24,2 o/o della popolazione esaminata: «Dicendo "in terra " si vuole significare proprio in terra, tutt' al più con interposizione di uno strato di paglia o di sacchi vuoti da imballaggio, stracci o simili». Sulle 600 famiglie esaminate solo 82 erano fornite di gabinetto co­ stituito da una tazza in ceramica del tipo cosiddetto inglese . I restanti gabinetti (5 1 8 ) erano del tipo primordiale costituito da un semplice foro nella parete, e talvolta nel pavimento e collegato col pozzo nero . Nel paese infatti era appena all'inizio la costruzione di una regolare rete di fognature, ma questa procedeva a lotti e lentamente perché comportava una spesa ingente per l'amministrazione comunale . An ­ ch e il servizio comunale dello smaltimento delle immondizie era estremamente carente . Esso era affidato a pochi netturbini, in parte invalidi per anzianità e mal retribuiti, che tentavano di liberare la cit­ tà dagli escrementi umani ed animali con attrezzi rudimentali; le im­ mondizie così raccolte venivano gettate a poche decine di metri dal­ l'abitato, ove restavano ammucchiate intere stagioni diventando «ni­ do e rifugio di miliardi di insetti, sorgente inesauribile di infezioni».14 In queste disastrose condizioni igieniche interne alle abitazioni ed esterne, Pampiglione sottolineava la minaccia delle parassitosi inte­ stinali da vermi, che a Palma in modo particolare continuava a grava­ re sulla salute umana. Il fecalismo ambientale è la regola: l'impregnazione dello strato superfi­ ciale del terreno, con residui fecali ricchi di uova di vermi per non parla­ re di cisti di protozoi, batteri, virus, ecc. fa sì che le polveri che si solleva­ no nell'aria e che poi si posano sugli oggetti, sui cibi, sulle persone, siano 14

Ib. , p. 3 0 .

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fortemente contaminate. Quando si pensa che molte di queste uova di vermi possono vivere nell'ambiente esterno anche molti mesi, ed anche un anno, si capirà qual è il pericolo per gli abitanti di Palma di contagiar­ si. Le condizioni di affollamento e di promiscuità nelle case, la coabita­ zione con gli animali domestici di ogni specie, la presenza di roditori e di parassiti diffusori in tutte le abitazioni, la difettosa alimentazione rappre­ sentano altri fattori di questa minaccia, tradotta spesso in realtà. 15

Pampiglione inoltre documentava l' alto numero dei cardiopatici, dei bronchitici cronici, degli anemici, delle malattie articolari. Alto, infine, il numero dei ciechi, per cecità totale, sia da tracoma che da cataratta, da esiti di infortuni, da glaucoma. Denunciava poi l'inesi­ stenza di un ospedale e persino di un ambulatorio comunale con do­ tazione moderna ed efficiente . Ed infine, il fatto che per i 5 000 iscrit­ ti all'elenco dei poveri (un quarto dell'intera popolazione) i due me­ dici condotti non potevano prescrivere le medicine necessarie perché il Comune era indebitato con le farmacie di oltre 4 milioni . Concludeva ricordando che «la salute dei cittadini rappresenta il più prezioso, in senso umano ed economico, dei patrimoni di cui di­ spone una nazione», e citava l'articolo 3 2 della Costituzione : «La Re­ pubblica tutela la salute come fondamentale diritto dei cittadini ed interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». E perciò lasciare la popolazione di Palma di Montechiaro nella situa­ zione in cui era non rappresentava solo «vergogna», ma anche «cri­ mine» . 16 Da qui il caloroso appello alle rappresentanze politiche, sin ­ dacali e culturali massicciamente presenti al convegno . Di fronte alla «realtà di miseria e di sofferenza che è Palma» per Leonardo Sciascia, intervenuto al convegno, tutto sembrava «dar ra­ gione allo scetticismo e allo astoricismo» di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, i cui antenati avevano fondato Palma e l'avevano tenuta in signoria. Tutto sembrava «avvalorare la visione» che l'autore del Gattopardo aveva della Sicilia come «di un mondo totalmente e irri­ mediabilmente disancorato dalla storia, sottratto all'umano divenire e progredire» . Ma per Sciascia l'avere svelato con la forza della scrit­ tura e dei sentimenti la miseria antica e recente di Palma faceva sì 15 Ib. , p. 34 . 16 Ib. , p. 35 .

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che essa non poteva più essere «ignorata e dimenticata» attraverso quella «omertà» del potere che nascondeva le piaghe della nazione. Sciascia si opponeva anche a chi nel convegno aveva chiesto per Pal­ ma una «caritatevole attenzione» perché «l'Italia non si può reggere sulla carta della carità, quando ha conquistato col pensiero e col san ­ gue la sua carta di diritti, la sua Costituzione». E auspicava un patto di alleanza «tra gli uomini di cultura e le classi popolari», come si era avuto nella migliore esperienza del neorealismo nell'Italia del dopo­ guerra. 17 Era, quello di Sciascia, anche un indiretto riconoscimento dell'im­ portanza degli scritti e dell'azione di Danilo Dolci, che si prodigava in una inedita battaglia per il diritto al lavoro, alla salute e all'istru ­ zione in Sicilia. N ella sua relazione Dolci ridefiniva «dal basso» il ri­ lancio di un piano di sviluppo economico e sociale . Ciò significava, per esprimerci con le parole di Girolamo Li Causi : «fare acquistare coscienza, dovendo fare, di come fare». 18 Per Dolci operando in una zona arretrata e statica in cui non si sa che lo sviluppo può esistere, occorre: «Penetrare come amici nella vita della popolazione in modo che si pigli coscienza, con la popolazione, dei suoi problemi», e in modo che la popolazione stessa prenda via via coscienza che lo sviluppo è possibile. Istituire " centri pilota " che abbiano il compito di elevare il livello tecnico culturale dei lavoratori . Avviare "iniziative comunitarie " in modo che la gente sperimenti i vantaggi della collaborazione; e questo è fondamentale soprattut­ to in una realtà sociale tradizionalmente chiusa. Formare " gruppi di lavoro " per affrontare e risolvere i problemi che possono essere affrontati da noi stessi. Creare " gruppi di pressione" per affrontare i problemi che sono più grandi di noi, come quello della costruzione di una diga e «per ottenere dallo Stato quello che lo Stato deve fare» . Ma in tutto questo era fondamentale per Dolci la formazione e l'opera di «animatori, sociali e tecnici [ . . . ] che sappiano promuove­ re, sollecitare l'iniziativa locale», realizzare «un lavoro di sviluppo di 17 18

Ib. , pp. 17 0-73 . Ib. , p. 1 82 .

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comunità che apra la popolazione ai problemi della pianificazione democratica».19 Proprio in tali indicazioni e proposte di Dolci, al Convegno di Palma si realizzò una "unità d'intenti " che, per Francesco Renda, ac­ cantonava le discriminazioni ideologiche anche a livello delle rappre­ sentanze politiche e governative della Regione e dello Stato . Al rilan ­ cio di un piano di sviluppo economico e sociale che trovasse consen ­ si e cooperazione nella sua definizione e partecipazione «dal basso», era favorevole anche un giovane deputato regionale della Democra­ zia Cristiana, Raffaello Rubino, partecipe attivo allo stesso convegno . Rubino accoglieva l'idea dello «sviluppo di comunità» di Dolci, con ­ ciliandola ed esprimendola nei termini in cui la riscontrava in Luigi Sturzo. E ciò soprattutto in una sua pubblicazione del 1 966 , in cui l'idea sturziana, secondo cui la coscienza collettiva è la coscienza di ciascuno di noi che si riflette in quella degli altri per la ricerca e l' at­ tuazione di un fine comune, non gli sembrava realizzata per la sussi­ stente prevalenza delle finalità individuali su quelle collettive . Que­ sto giudizio negativo veniva espresso quattro anni dopo la promulga­ zione della legge speciale per Palma e Licata che portava il suo nome oltre a quello di Giuseppe La Loggia, legge che stanziava 1 1 miliardi per opere infrastrutturali e produttive, la cui pianificazione e realiz­ zazione era affidata a un comitato cittadino. Sembrava che con tale decisione si desse spazio alla comunità di decidere, invece il comitato non era espressione della comunità, e non seppe agire per sviluppare la comunità. Il risultato fu che il comitato si riuniva per litigare, e non fu nemmeno capace di spenderli tutti quei miliardi che erano stati assegnati per Palma .20 Nonostante ciò Palma via via si sollevò dallo stato di miseria in cui si trovava negli anni dell'inchiesta e del convegno . E ciò non sol­ tanto perché col "miracolo economico " l'Italia tutta cresceva, e i co­ muni del meridione e della Sicilia poterono via via realizzare opere riguardanti i servizi primari, ma anche perché attraverso la stessa 19 Ib. , pp. 60-63 . 2° Cf. Raffaello Rubino , Palma e Licata. Esperienza di sviluppo comunitario, Andò, Paler­ mo 1966; Gaetano Gucciardo , Danilo Dolci e la Sicilia dello spreco, in «Segno» , n. 263 , mar­ zo 2005 , Palermo; Michela Morello , Intervista a Danilo Dolci, in Raccontare Danilo Dolci, a cura di Salvatore Costantino, Editori Riuniti, Roma 2003 .

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emigrazione di numerosi lavoratori, dei successivi rientri e dell'inve­ stimento nei paesi di origine dei loro risparmi, l'economia di questi ultimi ne traeva benefici. Dolci si rammaricava di non aver aperto un Centro per la piena occupazione a Palma di Montechiaro «perché era troppo distante da Partinico e non eravamo in grado di seguirlo».21 Ma anche i Centri che aveva aperto in altri comuni della Sicilia occidentale vennero chiusi nel corso degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta, ad ec­ cezione di quello di Partinico . Figure importanti di questi Centri era­ no stati da una parte quelle dei tecnici, e dall'altra degli animatori che promuovevano e sollecitavano l'iniziativa locale, lo sviluppo di comunità. A partire dagli inizi del 1 959 si verificarono nei vari comi­ tati dei contrasti tra chi voleva «supertecnicizzare» e chi considerava «diabolico un lavoro anche tecnico» , come lo stesso Danilo scriveva ad Aldo Capitini nella lettera del 07 .01 . 1 959. Ma Capitini, che aveva avuto sentore di tali contrasti, nella lettera del 05 .01 . 1 959 gli aveva scritto di ascoltare tutti «e specialmente i collaboratori più immedia­ ti».22 I dissidi anche se sordi continuarono per qualche anno, ma do­ po il Convegno di Palma i tecnici lasciavano Danilo perché avevano terminato il loro lavoro di ricerca finanziati dai comitati esteri. Restavano però ancora in piedi e sovvenzionati dai comitati soste­ nitori italiani ed esteri i Centri della Valle del Belice e la complessa struttura del Centro Studi e Iniziative per la Piena occupazione di Partinico. E su quest'ultimo citiamo la testimonianza del medico Vincenzo Borruso, uno dei più importanti collaboratori di Dolci . Il Centro si era strutturato in settori di lavoro e fra essi quello agricolo, interessato soprattutto alla diffusione di moderni sistemi di coltivazione e alla organizzazione di cooperative; quello per l'istruzione, impegnato nella lotta all'analfabetismo con azioni sulla scuola pubblica e doposcuo­ la per i bambini più poveri; quello sanitario con un ambulatorio per le mamme e i bambini, a Partinico e a Roccamena, e con un lavoro che an­ dava dall'assistenza medica farmaceutica e infermi eristica agli adulti, al­ l'aiuto alimentare per i lattanti, alla educazione sanitaria e alimentare.23 21 Cf. Michela Morello, Interoista a Danilo Dolci, in Raccontare Danilo Dolci, op. cit. , p. 152 . 22 Aldo Capitini Danilo Dolci, Lettere 1 952- 1968, cit . , p. 148. 23 Cf. Vincenzo Borruso, Per una storia del volontariato in Sicilia e la sua influenza sul volontariato isolano, «Mondo solidale», Speciale 2009, Palermo . -

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Questa complessa struttura dimostrava la vitalità del Centro Studi e Iniziative di Partinico e delle sue diramazioni nella Valle del Belice. Essa obbediva non soltanto a finalità di tipo assistenziale, ma al più importante obiettivo dello «sviluppo di comunità». Il Centro Studi di Dolci, cioè, dava l'esempio del superamento della tradizionale po­ litica paternalistica, coinvolgeva le classi popolari, i lavoratori e i pro­ prietari di piccole e medie aziende, in un 'opera di diffusa e comples­ sa presa di coscienza dei loro diritti e doveri e della loro partecipa­ zione allo sviluppo dell'intera comunità, tramite il conseguimento di più qualificate tecniche produttive, dello spirito associativo, delle prassi democratiche . Ma nonostante queste lodevoli iniziative, che si accompagnavano, come vedremo, a quelle per la costruzione delle dighe sullo Jato e sul Belice, e a quelle sulla lotta alla mafia, Dolci non incideva abbastanza nell'orientare il processo di crescita, che ci fu, verso un generale svi­ luppo di comunità. Tale sviluppo era impedito infatti dalla carenza degli interventi pubblici nei settori vitali della educazione, della coo­ perazione, della razionale e democratica pianificazione . Era impedito dalla incapacità dei politici e delle classi dirigenti locali e nazionali, dalla corruzione e dai condizionamenti mafiosi che determinarono nei decenni che seguirono, tra l'altro, mostruosità urbanistiche come il sacco di Agrigento e quello di Palermo, la devastazione delle coste, la precarietà degli assetti idro-geologici delle colline .

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CAPITOLO VI

LA COSTRUZIONE DELLE DIGHE SULLO JATO E SUL BELICE. QUANDO I..:UTOPIA DIVENTA REALTÀ

Nel suo intervento al Convegno di Palma di Montechiaro, Dolci tra i punti da tenere presenti perché un «lavoro dal basso» possa ave­ re esiti positivi ricordava la continuità degli sforzi per raggiungere un obiettivo, per la realizzazione di un'opera. Non esiste solo il Convegno, questo è una tappa, non dico la prima tappa perché tante se ne sono svolte prima: è un momento ma è importante guar­ dare a poi. Occorre resistere alla fatica nel tempo e alle centinaia e migliaia di difficoltà di ogni genere che si intromettono: un pioppo per formarsi voi lo sapete - richiede almeno 6 anni , e per mettersi in moto un paese, non c'è da meravigliarsi se può richiedere anche 4 o 5 anni di uno sforzo organico, di uno sforzo profondo. Che disse "u surci a la nuci" ?

Uno sforzo «organico» e «profondo» che ebbe i suoi frutti dopo alcuni anni Danilo lo profuse per la costruzione della diga sullo Jato nella piana di Partinico . Cominciò a porre il problema sin dagli inizi del suo arrivo a Trappeto, quando, conversando con i contadini co­ me si potesse cambiare la grave situazione esistente, riuscì con la sua comunicazione maieutica a far trovare a uno di loro, un zù Natale, il modo che l' acqua non si sprecasse d'inverno e venisse utilizzata d 'estate per p rodurre meglio e di più; a tal fine, diceva, occorreva raccoglierla in un grande «bacile». Era il suo modo per dire che oc­ correva costruire una diga. Ricordando questo episodio, in una inter­ vista di parecchi anni dopo, Danilo aggiungeva che l'idea della diga serviva «a fare stare insieme, ad aggregare la gente sull'interesse, così che organizzandosi diventi una forza».1 1 Cf. Michela Morello, Intervista a Danilo Dolci, in Raccontare Danilo Dolci, op. cit. , p. 151.

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La costruzione della diga Jato rientrava nei piani regionali di svi­ luppo sin dalla promulgazione della legge di Riforma agraria e della istituzione del Consorzio di bonifica della fascia costiera del Golfo di Castellammare. Alla costruzione della diga erano interessati i comuni di Partinico, Balestrate, Trappeto, Borgetto, S . Giuseppe Jato e S . Ci­ pirrello, con una popolazione residente complessiva di 54 .754 rileva­ ta nel censimento del 1 96 1 . Ma una spinta decisiva alla sua realizza­ zione, non solo attraverso i suoi scritti ma soprattutto attraverso le sue iniziative per l'occupazione e i suoi con tatti diretti con i tecnici e i dirigenti dell'E.R.A.S . , la diede Danilo Dolci. Tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi dei Sessanta l'opera sembrava di imminente realizzazione dopo la redazione dei progetti da parte dell'E.R.A. S . e la loro approvazione da parte della Cassa per il Mezzogiorno . Attraverso le normali gare si arrivò persino ad attri­ buire l'appalto alla ditta Vianini. A questo punto si sviluppò una campagna avversa alla costruzione della diga che vedeva come prota­ gonisti non solo alcuni proprietari di pozzi che vendevano a caro prezzo l' acqua ai contadini di varie contrade, ma anche quella del Consorzio degli espropriandi, il cui presidente, Gaspare Centineo, puntando a una vantaggiosa valutazione del terreno degli associati da espropriare, non era estraneo a manifestare una certa arroganza ma­ fiosa.2 In tale clima non mancarono anche vere intimidazioni e atten ­ tati di tipo mafioso, quale quello ai danni del socialista Fi.fì Fiorino, alla cui casa di campagna venne appiccato il fuoco . Ma nella difficile situazione si mostrarono al meglio il proposito di Dolci di «aggregare la gente sulla base dell'interesse» e anche la sua capacità di costruttore della società civile . Quest'ultima si avvale­ va della sua capacità di favorire quell' ascolto reciproco «di cui si nu ­ triva la sua sociologia, la sua mirabile "osservazione partecipante" ».3 Dolci poi confidava sul fatto che battersi per la realizzazion e di un'opera che si configurava come un bene comune non avrebbe do­ vuto trovare opposizioni nella variegata composizione della società civile. L'impegno appassionato di Danilo fece allora proseliti non sol­ tanto nell' ambito della sinistra politica e sindacale, già attiva e solida2 Cf. Franco Alasia in Danilo Dolci, Chi gioca solo, Einaudi, Torino 1966, pp. 85-86 e 97-98. 3 Cf. Nando Dalla Chiesa, Prefazione a Danilo Dolci, Il potere e l'acqua , Melampo Edito­ re , Milano 2 0 1 0.

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le sin dallo sciopero alla rovescia del 1 956, ma anche in larghi strati della popolazione e in un'opinione pubblica giovanile che si espresse favorevolmente anche attraverso fogli e giornaletti locali. Una consa­ pevolezza nuova maturò gradualmente attraverso l'efficace lavoro di informazione e di persuasione operato dal Centro Studi e Iniziative per la piena occupazione, le campagne di stampa, le pressioni sul go­ verno nazionale e regionale e sulla Cassa del Mezzogiorno. I mesi decisivi furono quelli di agosto e settembre del 1 962 , nei qua­ li scese in campo anche il Comune col sindaco Domenico Cataldo che accolse le proposte del Centro Studi di Dolci di avviare un'azione uni­ taria e democratica «che impegnasse tutte le forze che credono nella di­ ga» e mobilitasse «le masse rese coscienti del proprio diritto al miglio­ ramento delle condizioni di vita e quindi vere protagoniste del processo di rinnovamento e di trasformazione della zona».4 Da qui l' adesione di tutti i partiti e sindacati e della stessa associa­ zione degli espropriandi, che tramite le grandi manifestazioni di po­ polo delle giornate del 2 e del 9 settembre 1 962 a Partinico vedevano rivalutate le stime dell'indennizzo per i loro terreni. Soprattutto per quest'ultima data, il giornale «L'Ora» del 1 O settembre così riferiva: Giornata di grande passione civica ieri a Partinico, contrassegnata non solo dalle preannunciate manifestazioni popolari di protesta per il ritar­ do nella costruzione della diga sullo Jato ma anche, nell'ambito della unità d'intenti sulla finalità da raggiungere, da un intenso, vivace, a volte anche nervoso dibattito su alcuni temi di portata più generale: esiste la mafia? Come si manifesta il suo potere antisociale? Perché la burocrazia italiana è così lenta e impacciata? Che si deve fare per promuovere l' ar­ monico sviluppo economico di una zona destinata ad essere trasformata radicalmente da una grande opera pubblica? Tutta la giornata ha avuto interlocutori d'eccezione: due uomini di governo (Bino Napoli e Fasi­ no) , una decina di parlamentari regionali e nazionali (tutti di sinistra) , rappresentanti della cultura nazionale (tra cui Bruno Zevi) , giornalisti si­ ciliani di ogni tendenza e inviati di grandi quotidiani e settimanali del continente, le autorità comunali, i locali esponenti dei partiti, sindacati e associazioni, la giovane intelligenza, migliaia di persone . . . Non sono mancati momenti di tensione. 4 Ciclostilato n. 228 e del l O agosto 1962 del Centro S tudi e Iniziative per la piena o ccu­ p azione di Partinico.

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Ma quanto l'ostilità nei confronti di Dolci continuasse da parte so­ prattutto della Democrazia Cristiana si rivelava in un articolo dell'8 settembre 1962 dell'organo di stampa di questo partito, «Il Popolo», dove si minimizzava quella che oggettivamente era allora la vittoria di Danilo e si continuava a fare della becera ironia sul Dolci «utile idio­ ta» e «digiunatore». Stravolgendo la realtà l'articolista sosteneva la te­ si che le manifestazioni unitarie di quei giorni si sarebbero organizza­ te «sotto la spinta della D.C.» e che «il compagno Danilo Dolci» era «ai margini» delle iniziative di quei giorni. Nei quali «la presenza del filosofo digiunatore la cui dieta [era] già in corso» lo poneva «alla pa­ ri di qualsiasi altro esponente di associazione, sindacato o corrente politica» senza essere «in alcun modo» condizionante . Risolta la questione dell'indennizzo agli espropriandi i lavori per la costruzione della diga ebbero inizio nel febbraio del 1 963 . Nel corso dei lavori veniva precisato il progetto che nel 1 965 prevedeva l'irrigazione di un comprensorio di 1 0 .400 ettari. Successivamente il progetto subì delle modificazioni a seguito della richiesta di destina­ re parte del volume invasato al rifornimento idrico potabile di Paler­ mo che rese necessario il ridimensionamento del programma irriguo . Ciò portò alla contrazione del comprensorio irrigabile a 9000 ha.5 Uno dei grandi meriti di Dolci fu quello di essersi adoperato per assicurare che la gestione dell'esercizio irriguo fosse attribuita alla " Cooperativa irrigua Jato " che egli stesso contribuì a costituire nel­ l'anno 1 97 1 con l'adesione di 1 .5 00 soci . I compiti previsti della Cooperativa: distribuzione dell'acqua; manutenzione della rete idri­ ca; fissare il prezzo dell'acqua. Avrebbe assolto a tali compiti un Consiglio di Amministrazione composto da 1 1 membri e di un orga­ nico costituito di l direttore tecnico; l direttore amministrativo; 6 operai fissi; 12 operai avventizi assunti nei quattro mesi di maggiore carico lavorativo.6 Per tutto il lungo periodo della costruzione della diga, l'azione di Dolci e dei suoi collaboratori (Franco Alasia, Franco La Gennusa e Pino Lombardo) fu di sprone per affrettare il tempo dei lavori anche 5 Cf. Aa. Va. , Per lo sviluppo della Valle dello Jato. L'agricoltura del Partinicese. Quader­ no n. 2 del Centro Studi e documentazione «Giuseppe Di Vittorio». Supplemento del perio­ dico «Sindacato» della Camera del Lavoro di Palermo, Palermo 1 98 1 , p. 4 1 . 6 Ib. , p . 54 .

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per la costruzione della rete di distribuzione, per garantire agli agri­ coltori un qualificato servizio di assistenza tecnica e per rintuzzare i tentativi della politicheria locale rivolti a mettere le "mani" sul Con ­ sorzio di irrigazione. Ma qui è opportuno sottolineare come la costruzione della diga sullo Jato rientrasse nella sua filosofia utopica che non si riduceva soltanto all'ideale della nonviolenza . Per questo scriveva che «le pro­ spettive vaste l non devono impedirci di vedere l vicino». Per Dolci anche la realizzazione di precisi progetti hic et nunc che migliorino le condizioni di vita di una precisa popolazione che ha lottato per essa può infonderei la fiducia che «il nuovo può esistere» e "affascinati " farci affermare: «non esisteva, esiste, ci ho creduto»J Negli anni immediatamente successivi si intensificarono le lotte per la costruzione della diga sul Belice, presso Roccamena-Corleone, che videro protagonisti Danilo Dolci e Lorenzo Barbera. Anche qui convegni, sollecitazioni all'Ente per la Riforma Agraria in Sicilia e al Presidente del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, on . Giulio Pastore, e lettere anche al Presidente della Repubblica, marce, digiu ­ ni collettivi e quello di Dolci per 1 0 giorni nell'ottobre-novembre 1 963 , manifestazioni varie e campagne di stampa. Tutto ciò servì a sollecitare gli Enti interessati (E .R.A.S . , Cassa del Mezzogiorno, Mi­ nistero Lavori Pubblici) , a superare più rapidamente gli ostacoli di natura amministrativa e tecnica che bloccavano la realizzazione di un'opera che giustamente veniva considerata «il cardine principale dello sviluppo economico della valle del Belice».8 L' opera venne realizzata nel corso degli anni successivi, nei quali sorsero anche numerose cantine sociali «frutto di un impegno certo­ sino e faticosissimo dei collaboratori del Centro di Danilo Dolci, tra i quali, all'epoca, lavorava come un pazzo Lorenzo [Barbera] . . . Canti­ ne cooperative, alle quali molti produttori portano ancora adesso le uve per produrre vini da pasto o da taglio». Tale testimonianza è di Carola Susani, scrittrice e autrice di un commovente reportage rievo­ cativo degli anni del terremoto che nel 1 968 ebbe il suo epicentro 7 Cf. D. Dolci, Il limone lunare. Non sentite l'odore del fumo, Bari 1 972 [ 197 0] , pp. 56 e 2 03 -204 . 8 Comunicato del 25 .01 . 1 964 del Centro Studi e Iniziative per la piena occupazione di Partinico , in Aldo Capitini-Danilo Dolci, Lettere 1 95 7- 1 968, cit., pp. 209- 10.

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nella valle del Belice, e per la quale quelle cantine ancora esistenti appaiono «un simbolo di riscatto». 9 E tali erano insieme con le dighe nelle aspettative di Danilo Dolci . Ci domandano spesso l cosa vogliamo per le nostre valli. l Non voglia­ mo l che i fiumi si disperdano nel mare l e le montagne aride si erodano l rimanendo allagati a ogni piovasco [ . . . ] Vogliamo l valorizzando tutto

il nostro impegno l le vallate perennemente verdi l foreste ombrose cre­ scere dai monti l sui vasti laghi delle nuove dighe l mentre il mare rima­ ne ancora mare l e sulle spiagge luccica la sabbia l . . . E acque democra­ tiche vogliamo l - e come l'acqua ogni fonte di vita - non di mafia, di­ rette dalla gente l organizzata in nuove iniziative: l consorzi non fascisti l cooperative e sindacati aperti l nuove forme di collaborazione, l af­ frontando i conflitti necessari l non da fiere, da uomini coscienti. l Vo­ gliamo materiale da museo l i mafiosi e i residui parassiti, l memorie an­ tiche di un tempo incredibile. 1 0

N egli anni successivi alla realizzazione della diga, a partire dagli inizi degli anni Settanta, Dolci si occupò soprattutto dei problemi educativi e della costruzione della scuola sperimentale di Mirto, come vedremo nella seconda parte di questo lavoro . Ma non mancò mai di vigilare con i suoi collaboratori sull'andamento dei lavori relativi alla rete di distribuzione e poi al funzionamento della Cooperativa. Che le acque venissero gestite dai rappresentanti eletti dagli stessi contadini, e da questi ultimi nelle assemblee, era una conquista democratica che per lui non si doveva dissociare dalle lotte democratiche per la costru­ zione della diga. Anche la crescita economica per Dolci doveva essere occasione per uno sviluppo di forme associative/ cooperative tra i pro­ duttori. Le dighe e la loro gestione così come invertivano il tradizio­ nale controllo dell'acqua da parte dei proprietari dei pozzi spesso ma­ fiosi, potevano anche invertire la tradizionale in termediazione parassi­ taria, spesso mafiosa, nella vendita degli stessi prodotti agricoli. L' ac­ qua per Dolci diveniva così «non soltanto occasione per elevare la produttività e il reddito, ma anche leva per un cambiamento struttu­ rale, per un cambiamento della struttura del potere». 11 9 Cf. Carola Susani, I:infanzia è un terremoto, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 3 0. 1° Cf. D. Dolci, Il limone lunare. Non sentite l'odore del fumo, cit . , pp. 1 66-67 . 11 Cf. D. Dolci, Il potere e l'acqua , cit. , p. 43 .

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Ma l'acqua come bene pubblico, la sua distribuzione governata dagli agricoltori riuniti in cooperativa, e un potere politico garante nella effettuazione dei necessari interventi strutturali, erano una con­ quista di Dolci e della mobilitazione della gente dei paesi della Valle dello Jato che ebbe vita breve . Dopo la morte di Danilo nella Sicilia governata dai Cuffaro vennero meno i necessari interventi pubblici. Un potere politico insensibile agli interessi degli agricoltori potenziò il servizio di erogazione dell' acqua dello Jato potabilizzata ai paesi della fascia costiera che va da Terrasini alla zona ovest della città di Palermo. Non intervenne adeguatamente nelle riparazioni delle «tu ­ bature sforacchiate» o nel rifacimento dell'intera rete idrica di distri­ buzione in alcuni lotti, che così sono rimasti all'asciutto. Non solo, un potere corrotto e mafiosesco "scippò " alla Coopera­ tiva Jato la gestione delle acque, dapprima provvedendo, nel 1 996, alla creazione di nuovi Consorzi di Bonifica a cui fu trasferita la ge­ stione degli impianti irrigui già gestiti dai cosiddetti "vecchi" consor­ zi, tra cui la Cooperativa Jato; e dopo con la conseguente revoca da parte della stessa Regione della concessione già affidata alla Coope­ rativa Jato della gestione degli impianti . La revoca ha ovviamente causato il venir meno dell'oggetto sociale della Cooperativa determi­ nandone la crisi finanziaria e la sua liquidazione . Negli ultimi anni si è verificata cioè una grave inversione di tendenza nel rapporto tra l'acqua e il potere, così come l'aveva impostato Dolci. Quando il po­ tere cioè diventa dominio, l'acqua sfugge al controllo democratico dei cittadini, rischia di essere addirittura affidata alla gestione dei privati. Sul rapporto tra il potere e l'acqua Dolci studiò e meditò abba­ stanza fino agli ultimi anni della sua vita quando, nel 1992 e 1993 , venne invitato a Genova a riferire sulla sua esperienza. Anzi, addirit­ tura, per l'appuntamento del 12 gennaio 1 993 preparò un saggio ti­ tolato Acqua e potere. Il testo di tale saggio, insieme ad altri appunti, rimase tra le carte dei coniugi Giusy Giani e Giordano Bruschi che lo avevano ospitato per diversi giorni; e per loro iniziativa tale mate­ riale venne pubblicato nel 2010 nel volumetto titolato Il potere e l'ac­ qua, che è apparso di grande interesse ed attualità. Innanzitutto esso si presenta come un saggio complesso sull' ac­ qua, in cui cioè vengono citati poeti, filosofi, scienziati. 79

Non soltanto filosofi e poeti hanno provato a intuire l'acqua viva, a in­ tendere l'acqua oracolare: non sorprende che anche teologi abbiano me­ ditato il suo benedicente naturare, il suo sacro potere contro insani mali e aridi peccati. Elemento benefico, rinvigorente, purificante - sapendo valorizzarlo - come l'aria, la terra, il fuoco. 12 In ogni tempo, civiltà e gestione dell'acqua si identificano. Anche Pla­ tone e Aristotele sono attentamente interessati ai problemi e ai metodi della distribuzione dell' acqua: Platone paragona i canali irriganti con le vene del nostro corpo. Gli acquedotti romani sono stati modelli ar­ chitettonici di pubblico diritto ( "la cura delle acque " ) sapientissimo in ampi territori. 13

Dolci cita e loda più volte Leonardo da Vinci per i suoi geniali ar­ tifizi per far comunicare ogni acqua evitando inondazioni. Al grande scienziato si deve poi questa sintetica e poetica definizione del ciclo dell'acqua che Dolci cita : «Con somma ammirazion de' sua contem­ planti, dall'infima profon dità del mare all'altissime sommità dei monti si leva, e per le rotte vene versando, al basso mare ritorna e di nuovo con celerità sormonta». 14 N ella storia non sono mancate contrapposizioni tra potere e popo­ lo per il diritto all'acqua. I Comuni, per esempio, nell'età medievale e oltre, hanno cercato di strappare tale diritto per tutti lottando contro il clientelare dominio di sovrani e feudatari. Passando agli anni in cui vi­ viamo Dolci contesta il concetto di " economia" come «criterio del massimo sfruttamento, della massima rapina possibile» e lo riformula come il perseguimento di «necessarie valorizzazioni». Egli constata che nel mondo l'acqua c'è, ma è mal valorizzata e mal distribuita. Per esempio, in quelle parti del mondo in cui si soffre e si muore di fame solo il l0-12 per cento dei terreni coltivati viene irrigato . Per il futuro, l'approvvigionamento dell'acqua alle più diverse parti del mondo richiederà pianificazioni urbanistico-territoriali non solo di pro­ spettiva finanziario-produttiva ma etico- economico-ecologico-politica [ . . .] 12 13 14

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Ib. , p. 26. Ib. , p. 3 8 . Ib. , pp. 40-4 1 .

Scienziati e tecnici possono aiutarci a studiare notevoli risparmi di acqua e energia, a elaborare progetti per una ottimale politica dell'energia: da­ gli impianti di riscaldamento fino ai piani energetici per grandi indu­ strie, con enorme vantaggio per tutti. In Danimarca si sta sperimentando la produzione di energia elettrica prodotta da idroturbine sommerse per sfruttare l'intenso moto ondoso del Mare del Nord. Oltre ogni mito e ogni liturgia, arduo riconquistarci pura l'acqua: al fon­ do, è maturare un nuovo mondo valido a tutti, valido di ognuno . Gange, Danubio, Reno, Volga, Nilo, Mississippi, Rio de la Plata (Fiume d'argento) : un tempo divinità purificatrici, così non rischiano di divenire fogne micidiali? Nell'Oceano fetente e impetroliato dai nostri scoli, co­ me alcuno potrebbe riconoscere un aspetto lustrale? Occorre che riusciamo a sviluppare un nuovo modo di pensare affinché anche il rapporto con l'acqua, escludendo ogni dominio, risulti di reci­ proco adattamento creativo: tra il potere dell'acqua e il potere dell'uo­ mo. La vita e la sua evoluzione non dipendono da questi nessi, dall'im­ parare a risolvere questi problemi? N el difendere l'acqua, mi difendo. 15

15 Ib. , pp. 60-6 1

e

64-65 .

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CAPITOLO VII

LA MAFIA TRA ANALISI SOCIO LOGICA E DENUNCIA

Dolci dunque aveva sperato che i fatti nuovi quali le costruende dighe sullo Jato e sul Belice e la costituzione via via delle cooperative contribuissero ad aprire la popolazione a esperienze e prospettive so­ ciali e culturali nuove, a un graduale superamen to della sudditanza al fatalismo tradizionale e al potere mafioso, alla conquista di un mag­ giore protagonismo sulla scena sociale e politica. Le prove di una con­ sistente partecipazione, sia nella zona di Partinico che in quella della Valle del Belice, lasciavano ben sperare . Ma il cammino era ancora lungo se persino la costruzione di una diga, quale quella dello Jato, frutto di lotte popolari e del sostegno della migliore cultura nazionale, si potesse trasformare persino in un affare per la mafia. È Danilo stes­ so che lo ricorda in un suo componimento poetico del 1 970. Non si può mai pensare di aver vinto. l Ricordo quando alcuni anni ad­ dietro, l eravamo riusciti ad ottenere l l'inizio dei lavori alla diga: l dopo scioperi duri mesi e mesi l - fame, minacce, denunce, galera -, l dopo anni di pressione popolare l contro sbirri, burocrati paurosi l ambigui magistrati, l isolando i mafiosi - tutti contro -, dimostrando quanto era assurdo, infame l sprecare l'acqua a mare ed intanto lasciare l uomini senza lavoro. l n giorno dell' avvio dei lavori l della strada per giungere al futuro l cantiere, siamo andati a vedere: l trenta uomini curvi spicco­ navano l sotto gli occhi di un tipo col cappello, l sotto un grande cartel­ lo: l un mafioso già aveva il subappalto. 1

Era la nuova mafia "imprenditrice" che già da alcuni anni aveva fatto la sua comparsa anche a Partinico . Ma la mafia, vecchia e nuo1 Cf. Danilo Dolci, Il limone lunare. Non sentite l'odore del fumo , cit . , p. 17 .

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va, manifestava una sua costante caratteristica: il suo intreccio con le parti meno sane del potere politico dominante. Era stato sempre co­ sì, la gente lo percepiva e consolidava la sua sfiducia che le cose po­ tessero cambiare: una battaglia vinta, quale quella della costruzione di una diga, non fa vincere una guerra. La mafia, poi, oltre che nelle imprese edilizie, soprattutto a Partinico, aveva la sua parte nella sofi­ sticazione del vino; anzi tale attività per il consistente numero di per­ sone che coinvolgeva, a partire dagli anni Sessanta e fino agli inizi degli anni Ottanta, diffuse la mentalità mafiosa e la sua cultura della illegalità. Il libro di Dolci Chi gioca solo del 1 966 vuoi essere una documen­ tazione minuziosa non solo del persistente convincimento nella gran­ de massa della popolazione della veridicità del detto tradizionale «chi gioca solo non perde mai» , ma anche del favore che godevano i mafiosi da parte del potere politico e anche religioso di quegli anni. Un contadino mi dice: - Chi sono i mafiosi? Perché sono forti? Persone intese sono, che ci si deve portare rispetto. Qua così si ragiona. La forza conta. E la forza di 'sti mafiosi è che quello che hanno deciso, quello fanno. «Tu parli assai, ma io ti spengo. Proprio non ne vuoi sentire ra­ gione e vai camminando di qua e di là dove non ti spetta, non ti fai l' af­ fari tuoi: " astutamu sta cannila" , ti spegnamo» [ . . . ] Poi li trovi 'sti mafiosi a braccetto con gli sbirri, con i preti, li trovi nella Bonomiana, nella Democrazia cristiana, li trovi al Comune, alla Cassa mutua; quando uno ha bisogno di qualcosa se li trova sempre in mezzo. Sono amici di onorevoli: dove c'è politica c' è mafia. E se tu parli, una qualsiasi fesseria, lo vengono sempre a sapere. Capisci come sono forti? Per questo chi sa e vede qualcosa, non sa niente e non vede niente. La gente non si fida più di nessuno; degli sbirri ti devi fidare? Nemmeno dei parenti ! E allora? Meglio farsi i fatti suoi. Chi gioca solo non perde mai. Bene ci si deve stare in mezzo ai cristiani: parlare bene, parlare pulito, perché si dice: una parola male detta, ne viene una vendetta.2

In Chi gioca solo c'è una raccolta di testimonianze che denuncia­ no il connubio tra mafiosi e uomini politici quali Santi Savarino e Gi­ rolamo Messeri candidati al Senato per la Democrazia Cristiana nel 2 Dal Diario di Franco Alasia, in Danilo Dolci, Chi gioca solo, cit. , pp. 86-87 .

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collegio di Partinico, il primo nel 1 953 e il secondo nel 1 958 e nel 1 963 , entrambi col sostegno di Frank Coppola. Quest'ultimo veniva accolto da qualche sacerdote di Partinico con tutti gli onori che si ri­ volgono alle autorità. Nel 1 953 lo stesso Frank Coppola, sempre a Partinico, nella sede degli universitari cattolici (F.U . C .I . ) , veniva fe­ steggiato con la nomina di fucino onorario in presenza dell' assistente ecclesiastico . Gaspare Centineo , presidente del Consorzio espro ­ priandi, a cui abbiamo accennato, nella zona di Partinico era «l'uo­ mo di Frank Coppola», e perciò pure lui legato al senatore Messeri per il quale faceva votare i contadini della locale sezione della Fede­ razione dei coltivatori diretti (la "bonomiana" ) di cui era segretario . Né si poteva dire di non sapere chi fosse F rank Coppola, i cui pre­ cedenti penali negli Stati Uniti ne avevano determinato l'espulsione. Nonostante ciò il senatore Messeri il 9 dicembre del 1 963 veniva no­ minato sottosegretario di Stato al Ministero del Commercio estero, di cui era ministro il compaesano Bernardo Mattarella, carica che gli ven­ ne riconfermata nel luglio del 1 964 nel secondo governo Moro. A questo punto il Centro Studi di Danilo Dolci invia una copia ri­ servata dei documenti sui rapporti Messeri-Coppola ai principali di­ rigenti politici italiani. Tali documenti vengono poi resi pubblici a Roma al Convegno di studio sulla mafia del 3 -4 ottobre del 1 964 pa­ trocinato dalle riviste «Astrolabio», «Espresso», «Nuovi Argomen­ ti» , «Ponte», «Cronache Meridionali», «Politica e Mezzogiorno» . Due mesi dopo, il 6 dicembre 1 964 , il sottosegretario Girolamo Mes­ seri dà le dimissioni «per non chiariti motivi» , ma travolto dallo scandalo denunciato dalla stampa italiana e straniera . Negli stessi mesi e nell'anno successivo si rivelava di che pasta erano gli amici di Partinico del senatore Messeri . Nel gennaio del 1 964 il Tribunale speciale , sezione penale di Palermo, condanna Gaspare Centineo a quattro anni di sorveglianza speciale per avere tentato di monopolizzare - evidentemente non nei modi leciti al normale gioco commerciale - il trasporto della terra alla diga Jato: «dopo essersi inutilmente opposto alla costruzione dell'opera, cer­ cava di trarne profitto». Pochi mesi dopo il sanguinario capomafia di Corleon e , Lu cian o Liggio, viene t ratto in arres to con carta d 'identità intestata a Gaspare Centineo di Partinico . Rintracciato, il Centineo dichiara di averla smarrita in autobus . Ma nel corso delle 85

indagini le autorità di polizia appurano che Luciano Liggio, il Cen ­ tineo e due nipoti di Frank Coppola sono coinvolti nel controllo di centinaia di macchinette mangiasoldi dislocate a Palermo e nei pae­ si della provincia . Il 1 6 febbraio del 1 965 Gaspare Centineo viene arrestato sotto accusa di «associazione a delinquere aggravata da scorrer1a 1n arml». Pochi mesi dopo, il 2 agosto 1 965 , Frank Coppola viene arrestato nel corso di un 'operazione antidroga mossa dalla polizia di Palermo in collaborazione con l'Interpol . Il «don Ciccio di animo gentile», come in una sua lettera il senatore Santi Savarino elogiava il suo compaesano, così veniva presentato nel rapporto di polizia : «Coppo­ la Francesco Paolo (altrimenti detto "Frank tre dita " , o "grilletto fa­ cile" ) . Precedenti penali: omicidi, associazione per delinquere, traffi­ co clandestino di stupefacenti, estorsione, banda armata, espulso da USA nel 1 948 perché ritenuto elemento malavita».3 Più consistente in Chi gioca solo è la documentazione relativa al ministro Bernardo Mattarella e ai suoi rapporti con la mafia, se non altro per il rilievo pubblico del personaggio, il più eletto tra gli uomi­ ni di governo nella Sicilia Occidentale già da un ventennio . Nativo di Castellammare del Golfo, Mattarella in tale lungo percorso ha occu ­ pato, si può dire costantemente, le cariche o di Ministro della Marina mercantile, o dei Trasporti, o delle Poste, o dell'Agricoltura . La do­ cumentazione raccolta da Dolci e dal suo collaboratore «rigoroso e instancabile», Franco Alasia, è costituita da parecchie testimonianze firmate da persone di vari centri della Sicilia occidentale . Danilo ora si muove dietro l'autorevole invito rivoltogli, il 13 novembre 1 963 , dalla Commissione parlamentare antimafia, da poco costituitasi, «a fornire precisa documentazione su fatti e avvenimenti» che riguarda­ no la zona in cui opera il Centro Studi e Iniziative.4 Da tale documentazione risulta come sin dall'inizio la carriera po­ litica di Mattarella si sia avvalsa del sostegno della Chiesa del cardi­ nale Ruffini e della mafia. Come tale convergenza di mafia e chiesa sia potuta sussistere è questione ormai trattata da un 'abbondante pubblicistica. Qui prendiamo atto che alcuni testimoni dichiarano che spesso quando Mattarella si spostava col suo codazzo di mafiosi 3 Cf. Danilo Dolci, Chi gioca solo, cit . , pp. 89- 1 00.

4 Ib. , pp. 243 -44 .

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veniva ricevuto dal capomafia locale, e qualche volta dall' arciprete. Così un testimone di Montelepre. Quando sono arrivati in macchina d a Partinico, erano quattro macchine, sono scesi in piazza Ventimiglia, e si sono presentati all'arciprete, Natale Ferrara, in chiesa. Sono rimasti dentro mezz'ora a chiacchierare, e han­ no avuto un rinfresco in sagrestia: hanno fatto un po' di trattenimento con liquori e qualche pasticcino. Poi sono usciti e sono andati a piedi in fretta, chiacchierando fra loro fino al caffè all ora chiamato Giacopelli. Mattarella camminava col vecchio Filangeri ( considerato il più autorevo­ le dei mafiosi locali) . Mattarella ha parlato dal balcone di Giuseppe Biondo, che l'affittava per i comizi della D.C . : era con Mattarella al bal­ cone il vecchio Filangeri, come a garantirlo a chi non lo conosceva.5 I mafiosi poi «erano di casa» nelle sezioni della Democrazia Cri­ stiana in alcuni centri, tra cui Salemi e Alcamo; e ciò soprattutto nel dopoguerra, quando nelle riunioni «non mancava mai» Giovanni Stellino, allora riconosciuto capomafia della zona . Lo stesso poi era sempre accanto a Mattarella nei suoi comizi sul balcone di Piazza Ciullo di Alcamo. 6 A Sciacca, secondo un'altra testimonianza, per le elezioni del 1 8 aprile del '48 Mattarella è atteso per un comizio in Piazza del Popolo dai mafiosi locali con i quali si in trattiene. Tra essi : il capomafia Francesco Segreto, Carmelo Di Stefano, il mafioso implicato nell' as­ sassinio del sindacalista Accursio Miraglia, e i due indiziati dello stes­ so, Pellegrino Marciante e Curreri Calogero . Gli stessi Di Stefano e Marciante sono riconosciuti al seguito di Mattarella, a Menfi, quindici anni dopo, per le elezioni politiche del 1 963 , da un altro testimone che afferma : «Mi ha impressionato vede­ re le brutte facce che erano con lui, con l' atteggiamento e le precise caratteristiche dei mafiosi d'alto e medio livello : anche se è notorio che Mattarella si appoggi ai mafiosi e ne è appoggiato, molti a Menfi erano stupiti della sua imprudenza in un tempo in cui la Commissio­ ne parlamentare d'inchiesta avrebbe dovuto iniziare la sua attività».7 La corposa documentazione comprende anche altri centri della Si ci5 Ib. , p. 257 . 6 Ib. , pp. 2 6 1 -62 . 7 Ib. , pp. 2 6 1 -62 .

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lia occidentale compresa la città di Palermo, e tocca anche l' on . Ca­ logero Volpe, anche lui famoso per le sue frequentazioni con mafiosi. La documentazione raccolta e presentata alla Commissione Anti­ mafia e le giornate di studio e di denuncia organizzate dal Centro Studi e Iniziative di Danilo Dolci nella stessa Castellammare del Gol­ fo tra la fine del 1 965 e il mese di gennaio del 1 966 , indussero Aldo Moro a escludere Bernardo Mattarella dalla formazione del suo terzo governo nel febbraio del 1 966 . Ma le attestazioni positive che Moro gli esprimeva, in una lettera pubblicata dai giornali il 24 e il 25 di quel mese, che definiscono Mattarella uno dei suoi «più validi colla­ boratori» per la sua «proficua, leale, appassionata opera» di governo, sono la dimostrazione di quanto il partito cattolico che allora gover­ nava l'Italia, fosse restio a una chiarificazione interna e a una con ­ danna aperta dei sistemi clientelari che nel meridione, e in Sicilia in particolare, erano aperti a manifesti rapporti con la mafia. Il problema poi non si poneva nei termini se personalmente gli onorevoli Mattarella o Volpe, e specialmente il primo, fossero mafio­ si. Dolci infatti denunciava un sistema clientelare-mafioso, come lui lo definiva, che era un ostacolo allo sviluppo economico, democrati­ co e civile della Sicilia . Nel mettere a punto le caratteristiche di tale sistema Dolci esprimeva le sue riflessioni quali via via si venivano precisando attraverso non soltanto le autoanalisi popolari proprie delle conversazioni con la gente, ma anche quelle con esponenti del mondo sindacale e politico e con i suoi collaboratori . Ecco come Dolci sintetizzava da un lato le caratteristiche del sistema clientelare e dall'altro quelle del sistema mafioso-clientelare .

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S offermandoci ad analizzare con un minimo di attenzione il sistema clientelare, notiamo che le figure in esso essenziali sono: l'abile «politico», centro pubblico di potenza del gruppo; i «clienti» grandi elettori, che contribuiscono in modo essenziale a determinare il prestigio e la potenza del loro politico; quegli uomini della strada che, non sapendo riconoscere i propri fonda­ mentali interessi, si lasciano illudere dal «politico» e dai suoi «clienti», prestando prestigio e potenza spesso nella direzione opposta ai propri interessi. Alcune caratteristiche evidenti di questo tipo di gruppo, al limite estre­ mo sono:

non si mira alla valorizzazione di ogni individuo; il rapporto tra il «politico» e il «cliente» grande elettore, come tra il «cliente grande elettore» ed il suo «cliente» (e così via in una vera e pro­ pria catena clientelare) , consiste in un sistematico tentativo di sfrutta­ mento reciproco: «tu dai una cosa a me e io do una cosa a te», «tu dai un posto a me e io procuro dei voti per te»; si riesce spesso a contrabbandare questo sistema sotto le sembianze di un sistema democratico. Se ci soffermiamo ad osservare con un minimo di attenzione il sisstema mafioso-clientelare-qualsiasi nobile etichetta esso porti in fronte -, ci ri­ sulta evidente: il «politico» di questo gruppo ricopre del suo prestigio contenuti c rimi­ nali: senza la sua abilità manovriera, senza la sua capacità di far apparire civile quanto normalmente è già considerato incivile, senza il suo inter­ vento tendente a paralizzare l'intervento normale degli organi che ammi­ nistrano la giustizia, il fenomeno mafioso non può sussistere; alcuni dei «clienti», più grandi elettori o meno, sono veri e propri mafio­ si: si riproducono perciò nelle loro catene clientelari, oltre al parassisti­ smo del sistema clientelare, alcune caratteristiche tipiche della mafia co­ me l'imposizione, l'estrema violenza nel procurarsi qualsiasi cosa, e dun­ que il terrore, il segreto, la chiusura - spesso totale - all'esterno.

Circa poi le condizioni che rendevano possibili tali ramificati pa­ rassitismi, Dolci elencava soprattutto i seguenti: il basso livello economico di vaste masse per cui la ricerca del pane o del posto di lavoro è di tale urgenza che tutto il resto diviene loro se­ condario; il basso livello culturale-politico di vaste popolazioni: la ricerca del pro­ prio interesse ad una distanza così ravvicinata per cui lo si esercita egoi­ sticamente, e non in un minimo di prospettiva reale, verso l'interesse di tutti; l'insufficiente capacità cioè ad una nuova vita di associazione-collabora­ zione: terreno fertile ad ogni avventura autoritaria, ad ogni tipo di fasci­ smo, di monopolio, di oligopolio. I sistemi clientelari e mafioso-clientelari sono cioè possibili nella misura in cui i singoli, isolati, non sanno, non sono in grado di farsi valere, si rassegnano a non agire e a non pesare secondo i propri veri interessi. È evidente come sia dunque indispensabile, per valorizzare effettiva­ mente ciascuno, mirare a costruire e ad interrelare nuovi gruppi demo-

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cratici aperti, e nel contempo superare, sciogliere i vecchi gruppi sclero­ tici: ad ogni livello.8

Nella sua lettera del 22 settembre 1965 alla Commissione parla­ mentare antimafia, che accompagnava la documentazione raccolta e sottofirmata da numerosi cittadini, Dolci sottolineava la «particolare gratitudine» che si doveva al loro «pulito coraggio» «inteso a contri­ buire a frantumare il vecchio sistema del clientelismo e delle racco­ mandazioni [ . . . ] sapendo che, al contrario di quanto si pensa nella zona, cioè che è infamia comunicare coi rappresentanti della pubbli­ ca opinione e dello Stato, infamia sarebbe non ricercare e non dire apertamente la verità» .9 Ma la Commissione antimafia, almeno agli inizi, non si mostrò so­ lerte e reattiva nei confronti dei guasti sociali e civili del sistema clien­ telare-mafioso. A sua volta il Tribunale di Roma, a cui sia il Mattarella che il Volpe avevano esposto querela per diffamazione contro Dolci e Alasia, non mostrò un guizzo di reattività civile assolvendo gli impu­ tati che avevano soltanto denunciato il sistema clientelare e le fre­ quentazioni mafiose documentate da testimonianze di decine e decine di cittadini. Anzi li condannò (22 giugno 1 967 ) respingendo in appel­ lo addirittura l'acquisizione di tutte le prove presentate dai difensori di Dolci e Alasia ( 1 2 maggio 1 972 ) i quali revocavano il mandato ai propri avvocati affermando, in una lettera al Tribunale, di non ritene­ re «più possibile che il processo giunga ad accertare tutta la verità» così come era nelle loro aspettative: «A ciascuno le sue responsabilità di fronte all'opinione pubblica di oggi e alla storia di domani». Nel luglio del 1973 , la Corte di Cassazione di Roma confermava la con­ danna d'Appello di Dolci e Alasia alla pena rispettiva di due anni e un anno e mezzo di reclusione, pena che veniva condonata. 10 Da quanto si è esposto finora emerge un 'assenza o una insuffi­ ciente consapevolezza della pericolosità e del danno arrecato dalla mafia alla comunità isolana ma anche alla nazione . Ragioni politiche

8 Cf. Danilo Dolci, Inventare il futuro, Laterza , Bari 1 972 [ 1 968] , pp. 2 1 -23 . 9 Cf. Danilo Dolci, Chi gioca solo, cit . , p. 244 . 1° Cf. Franco Alasia, Cronologia essenziale, in Antonio Mangano , (a cura di) , Frammenti della ((città" futura, Lacaita editore , Manduria-B ari-Roma 1950, pp. 56, 58 e 59.

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e culturali provocavano nelle istituzioni, e tra queste anche la Chiesa, un ritardo nell' azione di contrasto nei confronti della mafia. Nei pri­ mi anni della nostra Repubblica tale azione di contrasto ha avuto co­ me protagonisti soprattutto i sindacalisti socialisti e comunisti deci­ mati dalla lupara mafiosa e banditesca,e poi anche Danilo Dolci, e cioè coloro che si adoperavano per fondamentali riforme e interventi a favore della liberazione della massa dei contadini e dei poveri di Si­ cilia dall'oppressione semifeudale, dalla miseria, dall'analfabetismo e dalla esclusione di fatto da una reale partecipazione alla costruzione della democrazia. Ma Dolci non si stancava di denunciare. Anche la sua ennesima vicenda giudiziaria era l'occasione per sottolineare in una poesia de Il limone lunare che la denuncia non è infamia. Altro è sparlare, e altro è denunciare. Sparlare vuoi dire seminare, alle spall e di un uomo, male chiacchere, è offendere uno che non c'è e non ti può rispondere, quando non si ha il coraggio di chiarire faccia a faccia, pacifiche ragioni. [. ] Un uomo vero non sparla, non vende le persone a spacco e a peso. .

.

È denuncia (ci vogliono far credere vocabolari della borghesia) «deferire all ' autorità competente, far noto nelle forme delle leggi»: ma quali leggi e quali autorità? Quando l'autorità si rappresenta, non rappresenta noi ma i prepotenti i più furbi, i mafiosi, quale senso può avere denunciarli a loro stessi? [ . . .] Lasciamo allora che il boss lasci andare il piscio delle vacche nel canale

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dove i villani lavano verdure da portare al mercato? Lo lasciamo spacciare acqua tinta in bottiglie con l'etichetta VINO? L o lasciamo rubare e assassinare chiudendo gli occhi e standocene zitti? Denuncia è un'opera di sanità pubblica, pur se costa. Denunciare è chiarire nelle piazze su ogni muro, nel vicolo più oscuro dove c'è un uomo, quanto è utile alla collettività: è risvegliare chi è intorpidito, è creare occasione a fronti nuovi. La gente vuol sapere e vuol parlare: un uomo vero sa che denuncia è annunciare, denuncia è seminare verità.

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CAPITOLO VIII

LE INIZIATIVE PER I TERREMOTATI DEL BELICE E LA RADIO DEI "POVERI CRISTI"

La lotta alla mafia per Dolci si coniuga con quella per lo sviluppo socio -economico della Sicilia e di una consapevole partecipazione democratica dei cittadini ai processi di cambiamento . Un momento importante a tal fine è il convegno popolare organizzato dai Centri studi operanti nelle grandi valli del Belice, del Carboi e dello Jato il 5 marzo 1967 , al quale partecipano intellettuali e artisti tra cui Bruno Zevi, Ernesto Treccani, Antonio Uccello, ed esponenti politici, anche di area governativa, tra cui Angelo Ganazzoli, socialista e presidente dell'E. S .A. , e Corrado Corghi, consigliere nazionale della Democra­ zia Cristiana. La relazione di base svolta da Lorenzo Barbera sottoli­ nea la necessità di definire o di avviare la costruzione delle dighe che avrebbero assicurato un incremento di 3 6 . 1 00 posti di lavoro in agri­ coltura. Il Barbera inoltre denuncia il fallimento della riforma agraria anche per via dello scarso reddito dei terreni peggiori assegnati ai contadini, le carenze del servizio scolastico in una vasta area in cui su 3 62 .000 abitanti si contano 1 03 .000 analfabeti . Un momento impor­ tante delle manifestazioni si ha l'indomani 6 marzo con la marcia di protesta e insieme di speranza che si muove da Partanna e percorre vari centri delle tre valli. Ma l'azione di Dolci e dei suoi Centri Studi dislocati nelle tre valli non è soltanto di denuncia o di protesta ma anche di proposta. Na­ sce da questa esigenza al Borgo di Trappeto il «Centro di formazione per la pianificazione organica» . Siamo nei primi giorni del 1 968, quando il 15 gennaio una grande calamità si abbatte su una popola­ zione, quella della Valle del Belice, già stremata da una miseria seco­ lare. Il terremoto di quel giorno (magnitudo 6 ,4 della scala Richter) come sempre e ovunque colpisce soprattutto i poveri, le cui case so­ no di sassi, fango e poca calce. Esso rade al suolo i centri abitati di 93

Poggioreale, Montevago, Gibellina e Salaparuta, e danneggia grave­ mente quelli di Menfi, Partanna, Camporeale. Chiusa Sclafani, Con ­ tessa Entellina, Sciacca, Santa Ninfa, Salemi, Vita, Calatafimi, Santa Margherita Belice. L' emergenza dei primi giorni spinge Dolci e il suo Centro a con ­ tribuire ai soccorsi immediati con la distribuzione alla popolazione disastrata di varie tonnellate di alimenti e indumenti fatti pervenire al Centro dai Comitati amici. Ma il contributo di Dolci e del suo grup­ po sta nell'avere esercitato non soltanto un' azione di denuncia per i ritardi nei soccorsi e nei progetti di ricostruzione, ma nell'avere con tempestività suggerito una «Bozza di piano per lo sviluppo delle valli del Belice, Carboi e Jato» e un modello di ricostruzione discusso e partecipato dai cittadini interessati. E ciò in contrasto a quell' «oblio istituzionale»1 che ha caratteriz­ zato per secoli il nostro Paese e che è stato spezzato con l'istituzione della "Protezione civile " nel 1 976 in occasione del terremoto nel Friuli. E ciò anche in contrasto con la politica governativa che segui­ va criteri verticistici che eliminavano la partecipazione responsabile dei cittadini. Si è dovuto aspettare dieci anni, e cioè fino al 1 978, quando, a seguito sempre di una costante mobilitazione popolare, venne promulgata una legge, sulla scia di quella per il Friuli, che po­ se fine al farraginoso meccanismo burocratico statale, con l'affidare ai Comuni la gestione dei fondi che sarebbero potuti arrivare così più celermente ai singoli sinistrati . La stesura di una «bozza di piano per lo sviluppo delle valli del Belice, Carboi e Jato», a pochi mesi dal terremoto, e la sua discussio­ ne, in numerose assemblee popolari, anche con amministratori locali e rappresentanti delle istituzioni e dei partiti, era di per sé un atto di accusa nei confronti delle fumose ipotesi che venivano avanzate in ambito governativo di un futuro sviluppo industriale della zona ter­ remotata, e un esempio concreto di avviare o accelerare «esatte e rav­ vicinate p rospettive di sviluppo» offerte dalla valorizzazione delle ri­ sorse locali . E ciò anche per frenare l'esodo verso il Nord incentivato dagli stessi governi italiani, che, come Danilo temeva, diminuiva «la potenziale reattività popolare». 1 Cf. Giovanni Pietro Nimis, Terre mobili. Dal Belice al Friulz: dall'Umbria all'Abruzzo, Donzelli editore, Roma 2009 , p. 1 1 .

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Dall'insieme dei documenti redatti dal Centro Studi e dai Comi­ tati cittadini, anche a seguito della presentazione della «Bozza di pia­ no per lo sviluppo delle valli del Belice, Carboi e Jato» , e nei cin ­ quanta giorni di «discussione e pressione» nei mesi di settembre e ottobre del 1 968, la posizione di Dolci e del suo gruppo si può rias­ sumere nei seguenti punti. l ) Il piano per lo sviluppo delle Valli non aveva un solo autore. Danilo nella premessa alla bozza chiariva che la «pianificazione dal basso» non doveva indurre a «una sorta di populismo spontaneista», e cioè a una «mitizzazione delle indicazioni di base». Inventare in una popolazione, con una popolazione, il proprio futuro, è complessa opera d'arte, di scienza, autoeducazione, strategia, organizza­ zione, promozione politica e tanto altro. 2

E perciò la «pianificazione dal basso» nel caso specifico del terre­ moto significava innanzitutto lavorare tra la gente per aiutarla a capi­ re che il terremoto non era un castigo del cielo, che non ci si poteva solo lamentare e che bisognava imparare da quanto era successo per mobilitarsi e denunciare i ritardi nell'avvio della ricostruzione e per uscire presto dalle tende e dalle baracche. Danilo e i suoi collabora­ tori, tecnici ed esperti al più alto livello scientifico, anche in questa occasione fecero un lavoro encomiabile anche nel far comprendere alla popolazione terremotata il Piano di Sviluppo del Centro per ot­ tenere da essa un'attiva partecipazione propositiva . 2 ) Danilo e i suoi si posero nella prospettiva, nei confronti dei po­ teri costituiti, di non chiedere elemosine, ma di invitare le pubbliche autorità a non «perdersi in intrighi e in gelose controversie clientela­ ri». Essi inoltre denunciavano irresponsabilità, ritardi, sprechi, e in­ vitavano le autorità ad accogliere «quanto e di tecnicamente accerta­ to» era stato espresso dalle popolazioni, da gruppi politici e sindaca­ li, e a formulare e realizzare un piano di sviluppo indispensabile alla zona. Dal canto loro il Centro Studi e iniziative di Dolci e i rappre­ sentanti dei Comitati cittadini in un comitato congiunto del 15 set­ tembre 1 968 invitavano le autorità a definire le verifiche geologiche

2 Cf. Danilo Dolci, Inventare il futuro, cit. , pp. 145-46.

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in modo da poter decidere nel più breve tempo possibile dove si po­ teva costruire con la maggiore sicurezza, ad avviare le forze lavoro disponibili alla costruzione delle dighe, e in primo luogo quella del Belice,delle strade, delle scuole, degli ospedali. Infine si auguravano che i fondi stanziati o previsti secondo le leggi venissero spesi «nel modo più produttivo, valorizzando le notevoli risorse disponibili, e non secondo gli interessi mafioso-clientelari» .3 3 ) Per Dolci e i suoi collaboratori il terremoto era dunque l' occa­ sione per rilanciare l'economia, e perciò il lavoro e la produttività delle tre valli, ma anche per ridisegnare il territorio . Essi cioè interve­ nivano sull' annoso dibattito dei modelli da seguire nella ricostruzio­ ne, tenendo presente che per alcuni centri abitati la calamità era stata troppo grave per sostenere il modello della ricostruzione in situ, per ripristinare cioè fedelmente l'identità che si era andata formando nei secoli . Per tali centri era dunque più opportuno seguire il modello della ricostruzione ex nova, dopo però accurate ricerche e analisi geologiche, che venivano perciò sollecitate. Ma la novità di Dolci e dei tecnici e degli urbanisti che lo collabora­ vano era la realizzazione nell'intera area delle tre valli del modello della «città-territorio». Tale modello assecondava, predisponendone l'oppor­ tuna pianificazione e regolamentazione, processi timidamente e disordi­ natamente in corso già dalla fine degli anni Sessanta anche in Sicilia. Es­ so veniva incontro a esigenze sempre più diffuse negli anni successivi, quali quelle della casa singola fuori dai centri abitati e nel verde, della abitazione nella propria piccola o media azienda agricola, della costru­ zione della propria officina, delle piccole industrie, dei centri commer­ ciali fuori dai centri abitati. Tale modello comportava la progettazione e la costruzione delle necessarie opere infrastrutturali quali l'autostrada, le strade a scorrimento veloce, quelle di collegamento intercomunale e quelle di campagna, servizi pubblici di trasporto efficienti che avrebbe­ ro consentito alle popolazioni la riunificazione anche nei luoghi degli antichi borghi ricostruiti e delle città capoluogo con i loro monumenti, i teatri, i musei, gli istituti religiosi e culturali, le università. Entro tale modello era prevista anche la difesa del paesaggio, delle montagne con i loro boschi, delle zone rivierasche, del mare. 3 Ib. , pp. 149-50.

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Il piano dello sviluppo delle valli del Belice, Carboi e Jato, e per­ ciò anche il progetto di città-territorio, a cui avevano lavorato con Dolci l'economista Marziano Di Mai o e l' architetto Giuseppe Carta, vengono presentati su una grande plastico da quest'ultimo e da Bru ­ no Zevi il 19 settembre 1 968 nel capannone-municipio di Monteva­ go, nel corso dei cinquanta giorni di pressione e proposte indetti dai Centri Studi di Dolci e dai comitati cittadini delle zone terremotate. E nei giorni seguenti in altri centri delle tre valli da Danilo Dolci e dai suoi collaboratori Lorenzo Barbera, Francesco Calcaterra e Ora­ zio De Guilmi. Danilo, annotando le reazioni e la partecipazione dei relatori, rife­ risce la seguente esclamazione di qualcuno : «Troppo bello per essere vero». E commenta: «In un mondo così abituato a scelte irrazionali, le soluzioni più semplici, più vere, sembrano impossibili utopie».4 Ma la realizzazione di un'utopia costa impegno diuturno, collabo­ razione tra le forze politiche, sociali e culturali, partecipazione delle masse popolari, maturazione democratica, e quando è necessaria an ­ che la dura protesta. L'azione di Danilo Dolci e dei suoi collaboratori anche in questi cinquanta giorni di «discussione e pressione» mette in atto strategie e tattiche nonviolente : scioperi, digiuni collettivi, cortei, proteste anche a Palermo dinanzi al palazzo del Presidente della Regione, scritte murarie quali: Qui la gente è stata uccisa nelle fragili case da chi gli ha impedito di assicurarsi la vita col lavoro - Si è assassini anche lasciando marcire i progetti nei cassetti - Si può morire anche di burocrazia - Acqua per l'irrigazione non per la sofisticazione.

Ma pur nella durezza delle reazioni, non venne meno nelle inizia­ tive pilotate da Dolci la volontà di discutere e collaborare con i rap­ presentanti delle istituzioni, per avviare la ricostruzione e per soste­ nere lo sviluppo economico e sociale dell'intera area delle tre valli. E fu proprio sul piano del metodo da seguire nei rapporti con le auto­ rità governative e del modo di concepire il ruolo della «pressione» popolare che si consumò, nel 1 968, la rottura con Lorenzo Barbera, che esercitava un ruolo importante o predominante nell'area di Roc­ camena e di Partanna, dove era direttore, sin dal '65 , del Comitato intercomunale per la pianificazione organica della Valle del Belice. 4 Ib. , pp. 15 9-60.

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Le ragioni della divisione erano fondamentalmente politiche, per­ ché mentre Danilo rifuggiva, come abbiamo accennato, da forme di lotta che mitizzavano l' apporto popolare, l'idea stessa di popolo, Lo­ renzo ne esaltava il protagonismo, fino al punto da elevare un 'assem­ blea di centinaia di persone in una sorta di Tribunale del Popolo . L' episodio che suscitò la rottura è stato recentemente ricostruito da Carola Susani che riporta fedelmente le testimonianze dirette di Lorenzo Barbera e quelle di Pino Lombardo, attivo collaboratore di Dolci e sostenitore delle sue posizioni. In una assemblea popolare convocata nella piazza di Roccamena, nell'ottobre 1 968, alla presen ­ za del Ministro dei Lavori Pubblici, il socialista Mancini, del presi­ dente della Regione e di altre autorità, quella che avrebbe dovuto es­ sere soltanto un 'ennesima e importante occasione di documentata denuncia delle inadempienze governative, si trasformava invece in un inopportuno e pericoloso processo, durante il quale il ministro Mancini veniva " condannato " , con moglie e figli, ad abitare per un mese in una tenda con i terremotati . È estremamente improbabile che Dolci sin dall'inizio avesse ap­ provato tale esito della manifestazione, tra l'altro di cattivo gusto . Pi­ no Lombardo nella sua testimonianza lo esclude nella maniera asso­ luta ricordando che l'accordo era sulla denuncia e non sul processo . Dolci, assertore della nonviolenza, non poteva approvare una sorta di contropotere popolare esercitato in una piazza gremita di gente, le cui reazioni potevano sfuggire al controllo dei dirigenti . Dopo questo increscioso episodio si convenne che i Centri di Partanna e Rocca­ mena si staccavano da quello pilota di Partinico, il quale avrebbe mantenuto i suoi legami con quello di Menfi.5 Dopo la scissione il Centro Studi di Partanna diretto da Barbera rinuncia ai digiuni, ma continua a promuovere autonomamente for­ me di pressione nonviolente a favore delle popolazioni terremotate. Due, in particolare, meritano di essere menzionate . La prima riguar­ da l'iniziativa di far detassare i cittadini terremotati, che va a buon fi­ ne dopo un anno in cui il Centro raccoglie le bollette, le spedisce al ministro delle Finanze, Colombo, che puntualmente le rispedisce ai sindaci con la direttiva che le tasse vanno pagate; e questo, per due, 5 Cf. Carola Susani, I.:infanzia è un terremoto, cit. , pp. 62 -72 . .

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tre volte; sino a quando con una leggina ne viene sospeso il paga­ mento. La seconda è la lotta per la sospensione del servizio militare di leva per i giovani della zona terremotata e l'istituzione di un servi­ zio civile alternativo finalizzato alla ricostruzione e allo sviluppo del­ la valle del Belice. La lotta è dura, ma alla fine centinaia di abitanti della valle del Belice si trasferiscono a Roma e organizzano un presi­ dio permanente dinanzi al Parlamento. Dopo dieci giorni e dieci not­ ti di dimostrazioni, la Camera dei deputati approva la legge che rico­ nosce il diritto dei giovani del Belice di partecipare alla ricostruzione evitando di andare al Nord a fare il servizio militare. La loro solleva­ zione è poi una tappa importante che sollecita il Parlamento ad ap­ provare, qualche anno dopo, la legge sull'obiezione di coscienza per tutti i giovani d'Italia .6 Ma il Centro Studi di Partanna e Roccamena non ebbe vita lunga e finì, nel 1972 , logorato dalle discussioni interminabili alla ricerca di una collocazione politica e dai conflitti interni . Né l' allontanamento di Lorenzo Barbera dalla Sicilia, per dare spazio «all'espansione de­ gli altri» , sortì effetti positivi, anzi fece precipitare la situazione che conobbe, oltre alle fughe nel Partito Comunista o nei gruppi della si­ nistra extraparlamentare, anche un episodio che fece collassare quel poco di fiducia che era rimasta: durante l'assenza di Barbera un com­ ponente del direttivo del Centro, a cui era stato intestato un terreno acquistato con il denaro arrivato dai comitati sostenitori dell'Italia settentrionale, «si era venduto il terreno» su cui si sarebbe dovuto edificare la sede del Centro Studi . «Tutto liquidato», commenta lapi­ dariamente Lorenzo Barbera nel suo racconto a Carola Susani sulle vicende trascorse.7 Da quel momento cessano i contributi dei Comi­ tati e il Centro Studi di Partanna e Roccamena chiude. Se ci siamo soffermati su tali ultime vicende è per precisare che nel rapporto tra Dolci e i suoi numerosi collaboratori ci sarà pure stata qualche incomprensione o risentimento, quest'ultimo qualche volta magari per non sentirsi, a ragione o a torto, sufficientemente valorizzati. Le rotture poi esistono in ogni associazione, e qualche volta per cause serie, quali quelle che a un certo punto divisero Dolci e Barbera. Ma da qui ad affermare, come fa Francesco Renda, che 6 Ib. , pp. 93 - 1 02 . 7 Ib. , p. 1 3 2 .

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Dolci fu una «personalità di grande intelletto, ma senza il carisma del grande maestro» e che per tale ragione «uno dopo l'altro i vari disce­ poli si staccarono dal maestro», ce ne corre .8 A riprova di quanto abbiamo detto per la rottura con Barbera, possiamo qui ricordare quella che lo separò dal giovane Goffredo Pofi, alla fine del 1 959. Dolci fu sempre discreto nell'accennare alla causa della rottura con qualche suo collaboratore; in una lettera ad Aldo Capitini del 1 2 gennaio del 1 960 riferendosi a quella con Pofi scriveva: «Mi sarebbe facile difendere una parte del nostro operato, accusando altri: non voglio fare». 9 Pofi, giovane di grande avvenire come scrittore, critico cinemato­ grafico e fondatore di importanti riviste, trascorse circa due anni so­ prattutto nel Cortile Cascino di Palermo manifestando con Dolci e compartecipando ai suoi digiuni . Viveva in una baracca condividen ­ do la vita di estrema povertà e di disagio degli abitanti del Cortile e familiarizzando con i bambini a cui faceva scuola. In una rievocazio­ ne del 1994 ricorda «il senso di comunione con tanti e di dimenti­ canza di sé in questa comunione», e la paragona ad «un 'esperienza mistica». Ma a lungo andare «la crisi sopravvenne» e scoppiò per un banale litigio con alcune madri gelose che lo accusavano di fare di­ scriminazioni tra i bambini privilegiandone alcuni e trascurando al­ tri. La crisi sopravvenne nelle forme più opposte al credo della non ­ violenza: «Mi salì il sangue agli occhi e per la prima volta non mi controllai, afferrai per i capelli Saridda, una delle donne che più mi stimavano e aiutavano, e le sbattei la testa contro la parete della ba­ racca, facendola sanguinare. Calò un improvviso silenzio . Cacciai via i bambini e mi barricai nella catapecchia. Ma la mattina dopo, prima che il Cortile si ridestasse, partii per Trappeto, dove mi rifugiai in ca­ sa di un amico pescatore». Dopo qualche giorno partì per Roma a studiare per assistente sociale. Pofi aveva mitizzato l'esperienza dolciana, non ne aveva compresa l'evoluzione rispetto ai primi mesi di Trappeto, quando dopo la mor­ te di un bambino per fame Dolci si stese sul letto a digiunare deciso a morire pure lui di fame. Pofi in realtà rompeva con questo modo d 'intendere e di aver vissuto l'insegnamento di Dolci . Lo confessa 8 Cf. Francesco Renda, Storia della Sicilia dalle origini ai nostri giorni, cit , vol. m, p. 1367. 9 Cf. Aldo Capitini-Danilo Dolci, Lettere 1 952- 1 968, cit. , p . 159. .

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quasi quarant'anni dopo, e con nostalgia : «Avevo capito quale peri­ colo di inefficienza comporti farsi troppo assorbire, diventare troppo come le persone che dovresti assistere o aiutare a cambiare, abolire ogni distanza, farsi totalmente simile. Eppure, quella del Cortile, è stata l'esperienza più viva, più bella che io abbia vissuto, l'esperienza di un assoluto negarsi in una collettività, di un ' osmosi assiepata, cal­ da, quasi feroce». 10 È poi sbagliato sostenere, come fa Renda, che «verso la fine degli anni Sessanta, Dolci concluse la sua missione» e «si trovò solo con se stesso senza che alcun seguace ne condividesse il tramonto». 11 Renda gioca sempre di anticipo nell'affermare il «declino» di Dolci, che co­ me s'è visto nelle pagine precedenti ne indica l'inizio addirittura nel­ lo sciopero alla rovescia nella «trazzera vecchia " di Partinico nel 1 956. Ma se proprio di «declino» vogliamo parlare, esso ha inizio tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta con il falli­ mento non pedagogico ma vero e proprio finanziario della scuola sperimentale di Mirto, su cui ci soffermeremo nella seconda parte di questo saggio. Se poi si tiene presente l'alto spessore anche civile e sociale che hanno le importanti opere di poesia, di pedagogia e filo­ sofia scritte nell'ultimo e abbondante quarto di secolo della sua vita, ci appare improprio lo stesso termine " declino" . Dolci inoltre in questo lungo periodo non si trovò «solo» perché sostenuto da vecchi e nuovi collaboratori, tra cui spiccavano Franco Alasia e Pino Lom­ bardo, e da un lungo elenco di amici importanti anche stranieri . Va infine respinta la tesi di uno "spartiacque" netto tra il primo e il secondo periodo dell' attività di Dolci . L'azione, che è protagonista nel primo, è pur sempre sostenuta dalla conoscenza e dalla cultura della nonviolenza. La riflessione filosofica, pedagogica e la poesia, protagoniste nel secondo, non lo chiudono in un recinto contempla­ tivo, perché lo vedono attivo nel tentativo di fondare e dirigere una scuola sperimentale, ma anche nella partecipazione a convegni inter­ nazionali, in incontri frequenti con gli studenti nelle scuole di tutta Italia. Vi sono poi opere come Inventare zl futuro, pubblicata in tre edizio­ ni successive tra il '68 e il '72 , in cui le sue " azioni" di questo periodo, 1° 11

Cf. Goffredo Pofi, Cortile Cascino, Edizioni della Battaglia, Palermo 1994 , pp. 14 - 1 5 . . a. Francesco Renda, Storia della Sidlia dalle origini ai nostn giomi, cit. , vol. III, p. 13 67.

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in un preciso territorio, sono narrate in una prospettiva utopica uni­ versale, e cioè in quella della creazione di una società umana più giusta e nonviolenta. Essa cioè via via ci introduce ai temi più profondi sotto il profilo speculativo trattati nelle grandi opere successive proprie del secondo periodo. Si può parlare cioè di una fase di transizione in cui si colloca anche l'esperienza della realizzazione nel marzo del 1 970 della prima radio libera in Italia, la Radio Sicilia Libera. E ciò perché con es­ sa il tema della comunicazione fa un passo avanti fino a diventare cen­ trale nella riflessione e nelle opere successive di Dolci. L' esperienza di Radio Sicilia Libera rompeva di fatto il monopolio dell'etere detenuto dallo Stato in contrasto con l'art. 2 1 della Costi­ tuzione, secondo cui «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di dif­ fusione». Era dunque un retaggio del regime fascista mantenere quel monopolio che di fatto veniva usato o poteva essere usato come stru­ mento di propaganda da parte del potere politico dominante. n pro­ blema della libertà di accesso all'etere era dunque essenziale allo svi­ luppo della società democratica . La Radio Sicilia Libera nasceva poi come la radio dei «poveri cri­ sti», la radio che dava voce a coloro a cui non si era data mai l' op­ portunità di farsi sentire . Essa era legata a un preciso territorio mar­ toriato da sempre, e ora colpito da un terremoto ai cui danni, dopo più di due anni, lo Stato non pensava di riparare attraverso interventi urgenti di ricostruzione e di sviluppo socioeconomico e culturale. Da qui i numerosi S .O.S. lanciati dai programmi di Radio Sicilia Libera che voleva essere la radio della «nuova resistenza». s.o.s.

s . o .s.

Siciliani, uomini di tutto il mondo, ascoltate: si sta compiendo un delitto di enorme gravità, assurdo, si lascia spegnere un'intera popolazione. La popolazione della Valle del Belice, dello Jato e del Carboi, la popolazio­ ne della Sicilia occidentale non vuole morire [ . . . ] s.o.s.

s . o .s.

Qui si sta morendo. Si sta morendo perché si marcisce d i chiacchere e di ingiustizie. Galleggiano i parassiti, gli imbroglioni, gli intriganti, i paro­ lai: intanto la povera gente si sfa.

1 02

s.o.s.

s . o .s.

Qui s i sta morendo. È l a cultura di un popolo che sta morendo: una cul­ tura che può dare un suo rilevante contributo al mondo. Non vogliamo che questa cultura muoia. Non vogliamo la cultura dei parassiti, più o meno meccanizzati. Vogliamo che la cultura locale si sviluppi, si apra, si costruisca giorno per giorno sulla base della propria esperienza. s.o.s.

s . o .s.

Qui si sta morendo. L a nostra terra, pur avendo grandi possibilità, sta morendo abbandonata. La gente è costretta a fuggire lasciando incolti i propri terreni, è costretta a essere sfruttata altrove. s.o.s.

s . o .s.

Qui si sta morendo. Chiunque ascolti questa voce, awerta i propri amici, awerta tutti. La popolazione della Sicilia occidentale non vuole morire. s.o.s.

s . o .s.

Facciamo appello all'GNU e a tutti gli organi internazionali che hanno a cuore la vita dell'uomo e lo sviluppo pacifico del mondo: premano sul Governo Italiano affinché sia costretto ad agire subito e bene. s.o.s.

s . o .s.

Il mondo non può svilupparsi in vera pace finché una parte degli uomini è costretta alla disperazione. s.o.s.

s . o .s.

Qui la voce della Sicilia che non vuol morire.

Il testo di questo drammatico S .O.S. fu spedito prima dell'inizio della trasmissione del 25 marzo 1 970 al Capo dello Stato Italiano, al Capo del Governo e al Ministro degli Interni . Copia di tale testo venne allegata a una lettera inviata ai Comandi delle Forze dell'Ordi­ ne in cui si sottolineava la natura nonviolenta dell'iniziativa e la peri1 03

colosità di una irruzione delle forze di polizia nel Palazzo Scalia, sede del Centro Studi ed Iniziative di Partinico, dove si erano rinchiusi Franco Alasia e Pino Lombardo per mandare in onda il programma. Quest'ultimo era tutto registrato e oltre al S . O . S . che abbiamo ci­ tato in parte conteneva: «la voce della gente delle tre valli: bambini, donne, agricoltori»; la documentazione sulla «non avvenuta ricostru ­ zione» da cui risultava che, a parte il denaro confusamente usato o sperperato, in baracche e assistenza, non un solo miliardo di lire, dei 1 62 stanziati, era stato speso per la ricostruzione a più di due anni dal terremoto; numerosi messaggi di solidarietà tra cui quelli del so­ ciologo Johan Galtung (Norvegia) , dell'Abbè Pierre (Francia) , di Ita­ lo Calvino e di Ernesto Treccani; testi che esprimevano alcuni valori culturali della Sicilia occidentale . Tra questi anche parecchie poesie scritte giorni prima della trasmissione da Danilo Dolci e che conflui­ ranno nel volume Il limone lunare. Poema per la radio dei poveri cri­ sti, pubblicato da Laterza nello stesso anno 1 97 0 e che ottenne il Premio Prato per la Resistenza . Nella Premessa a questo volume è Dolci stesso a riferire come an ­ dò a finire: «Alle ore 22 del 26 marzo [ 1 97 0] , l'irruzione di un centi­ naio di carabinieri e guardie di pubblica sicurezza, attrezzatissimi di potenti mezzi meccanici : in pochi minuti scassavano con innegabile perizia porte e cancelli impossessandosi delle trasmittenti». L' espe­ rienza della prima radio libera in Italia era durata poco più di 24 ore e apriva nuovi strascichi giudiziari a carico di Dolci e dei suoi colla­ boratori.12

12 Il programma di Radio Sicilia Libera, inizialmente inciso su un 3 3 giri ma da alcuni an­ ni rimasterizzato in CD, si può consultare presso l'Archivio del Centro Studi e Iniziative di Partinico. Ma alcuni testi si possono leggere in La radio dei poveri cristi, a cura di Guido Or­ lando e Salvo Vitale , Navarra editore, Marsala, 2008.

1 04

PARTE SECONDA IL FILOSOFO, L'EDUCATORE E IL POETA

CAPITOLO I

LE PAROLE-CHIAVE DEL PENSIERO DI DANILO DOLCI. LA SOCIOLOGIA COME TEORIA CRITICA DELLA SOCIETÀ

Dolci nel panorama culturale del '900 si presenta come una per­ sonalità versatile . Egli infatti è nello stesso tempo uomo di scienza e poeta, filosofo e sociologo promotore di azioni sociali, e pedagogo; senza però che tali interessi o "vocazioni" si sovrappongano, perché trovano una sintesi nella sua personalità, in cui razionalità e immagi­ nazione si connettono, e nel suo pensiero che ne coglie le intercon ness1on1. Non è perciò un caso che nel vocabolario di Dolci ricorrano alcu ­ ne parole-chiave, tra cui, appunto, "nessi" e "struttura" , che per lui individua «la natura dell'interdipendere delle diverse parti». 1 Dolci, cioè, si muove in un ambito scientifico e filosofico che nel Novecen ­ to ruota sul tema della "complessità" : dalle declinazioni varie dello strutturalismo all'epistemologia genetica di J ean Piaget , e all' olismo, soprattutto nella versione ecologica di Edgar Morin . Tali filiazioni sul piano epistemologico, e cioè di una teoria filoso­ fica della conoscenza in generale, lo portano a sostenere il supera­ mento delle cesure tradizionali tra i saperi, all'affermazione della complessità del vivente che in una «prospettiva ecologica» evidenzia come in un sistema le parti interagiscano, siano cioè interdipendenti, complementari . Dolci rientra appieno in questa tendenza: «Per seco­ li - scrive - si è analizzato spezzettando» ; ma per lui «smembrare mutila, deprime, ammattisce : e dai frammenti estraneati scaturisce poi protesta, rifiuto, ribellione» . E perciò invita a «saper leggere nel­ l' apparente caso, scoprire interazioni anche lontane, saper elaborare i risultati dell'osservare [ . . . ] saper scorgere i nessi tra il particolare e .

.

1 Cf. D. Dolci, Nessi/ra esperienza etica e politica, Lacaita Editore, Man duria-Bari-Roma 1 993 , p. 3 3 1

1 07

l'insieme». Per lui «ogni creatura è viva di infiniti nessi da imparare a interpretare, cioè mediare». E poi ancora : «La creatura intimamente generosa unifica illuminando».2 " Nessi" è perciò una importante pa­ rola-chiave del pensiero e dell'attività di Dolci, quella che suscita an ­ che poeticamente il suo "palpitare", appunto, " di nessi " , che è il tito­ lo di una delle sue opere più importanti della maturità. Ma Dolci sottolinea che la "struttura" , in quanto sistema di inter­ relazioni tra le parti che la costituiscono, è anche sistema di comuni­ cazione che assicura alla stessa struttura, e cioè alle sue diverse realtà interne, di connettersi, di evolversi senza frammentarsi. "Comunica­ zione" è perciò un'altra parola-chiave del suo pensiero, che troviamo nei diversi ambiti in cui si dispiega . E poiché " comunicare" per Dol­ ci è un atto altamente pregnante e coinvolgente, necessario a mante­ nere contingenti equilibri, ma anche armonie universali, tra gli uomi­ ni, tra i popoli, tra l'uomo e la natura, non possiamo aspettarci da lui una sociologia (o una filosofia o pedagogia) "fredda" , " analitica" , né un'idea della politica o della scienza scissa dall'etica. Nelle sue inchieste, nei primi anni della sua permanenza in Sicilia, Dolci dà un' eplicitazione personale di cosa significa indagare su una particolare realtà sociale in cui la popolazione, mantenuta nei secoli nell'indigenza e nella arretratezza cognitiva, è nello stesso tempo ric­ ca di tradizioni culturali, di sistemi interni di comunicazione che la rendono coesa e anche solidale . Comunicare con tale popolazione si­ gnifica per lui entrare in "comunione" con essa, rilevarne l' arretra­ tezza ma anche liberarne poteri e valori spirituali, poetici, creativi. E ciò per lui, fautore di un 'azione sociale che promuova partecipazione " dal basso " , è motivo di fiducia nelle possibilità del cambiamento, della costruzione di un futuro migliore per l'umanità . Ma della " comunione " Danilo dà anche una dimostrazione fisica, non solo sposando una povera vedova del luogo e avendone dei figli, ma anche attraverso i suoi frequenti digiuni, che perciò non sono sol­ tanto un mezzo per destare la solidarietà dell'opinione pubblica e per fare intervenire le autorità politiche locali e nazionali a provvede­ re per migliorare le condizioni di vita di quelle popolazioni, ma an ­ che una prova che egli dà di sapere spartire con i più poveri la soffe2 Id. , Palpitare di nessi, Armando. Roma 1 985 , pp. 137-38.

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renza della fame. Ma Danilo entra in " comunione " con i più poveri anche con il dare e il farsi dare il «tu» che, come nota Aldo Capitini è un segno della «pulitezza» dei suoi rapporti umani oltre che della sua fede democratica nella uguaglianza degli uomini.3 Ma proprio in forza di questa sua fede democratica, la sua " co­ munione" non si ferma allo stato della immedesimazione ed evolve presto in un rapporto comunicativo inteso a sollevare la povera gente dallo stato di una minorità intellettuale e civile attraverso un rappor­ to con essa di tipo maieutico . "Maieutica " perciò è un 'altra parola­ chiave del pensare e dell'agire di Dolci, preso in prestito da Socrate, ed è l'arte attraverso cui con opportune domande e sollecitazioni , viene aiutato l'interlocutore a trovare una soluzione a un problema, a "partorire" appunto, da sé una verità. Tutto ciò, se induce da un lato a definire ll suo una sorta di missio­ nariato civile, esclude dall'altro di porlo al di fuori di una sociologia che ricerca e si setve di dati scientifici. Dolci, cioè, è scrupoloso nell' accer­ tare, per esempio in Spreco, l'incidenza delle disastrose condizioni igie­ niche della popolazione povera di Palma di Montechiaro sull'alta diffu­ sione di particolari malattie; o, in Banditi a Partinico, nel rapportare il numero degli anni di scuola frequentati dai banditi, al numero di gran lunga superiore degli anni di carcere che debbono scontare, condannati da un sistema politico-sociale chiaramente iniquo. Da qui la reazione a una sociologia che proclama la sua neutralità rispetto ai dati emersi dalla ricerca e agli scopi degli uomini. Dolci, cioè, non è un analista sociale, ma un sociologo critico che non si li­ mita a spiegare i fenomeni sociali esplicitando «un atteggiamento cri­ tico apertamente valutativo» ed esprimendo «un'intenzione di eman ­ cipazione sociale» .4 Dolci poi non solo è fautore di una ricerca sociologica che pro­ muova azione sociale, ma è egli stesso protagonista di iniziative so­ ciali volte a realizzare singoli progetti e in generale a costruire un fu ­ turo migliore per l'umanità. Ed è questa la singolarità della sua storia personale, di intellettuale che è insieme uomo d'azione. Ma in quan ­ to uomo di pensiero mostra una certa parentela con quei filosofi del­ la Scuola di Francoforte che nei decenni centrali del Novecento attri3 Cf. Aldo Capitini, Danilo Dolci, Manduria (Taranto ) 1958, p . 40. 4 Cf. Arnaldo Bagnasco, Prima lezione di sociologia, Laterza , Roma-Bari 2007, p. 14 1 .

1 09

buiscono alla sociologia una funzione creativa e non più riproduttiva del sistema sociale esistente. Anche la sua è una «teoria critica della società» che mira a evidenziare i rapporti di dominio e a ricercare gli interventi politici e culturali necessari a superarli. Su questa strada anche Dolci afferma il ripristino di un nesso tra so­ ciologia e filosofia, nesso spezzato in nome di uno statuto scientifico della sociologia da salvaguardare dalla contaminazione con una cono­ scenza epistemica della società. Per lui una sociologia che non ignora gli scopi che gli uomini si propongono, non viene meno a criteri di scientificità. Viene meno a tali criteri la medicina quando, una volta tro­ vata la causa di una malattia, ne ricerca la cura per debellarla? Struttura implica co-struire (mirando al futuro) . Pur scienza, essenzial­ mente empirica, la sociologia non rischia di abdicare dallo studio di rap ­ porti, gruppi e strutture se non opera anche alla luce della loro possibile validità? Non si tratta di sproloquiare sui valori. Descrizioni e esplica­ zioni vengono assunte solo in base alle statistiche dell'esistente cosiddet­ ta "realtà" o anche riferite all'individuata inderogabile necessità? [ . . . ] La sociologia che si presume scienza dell'essere, contrapponendosi alla fùo­ sofia del diritto alla filosofia morale e all' etica, non si riduce a scienza del

non essere?5

Sul piano poi di specifiche parentele con precisi sociologi con ­ temporanei, con cui Dolci mantenne rapporti di collaborazione e di amicizia, basta ricordare J ahan Galtung, di cui condivideva la teoria della risoluzione non violenta dei conflitti, e J iirgen Habermas di cui anticipava l'attribuzione di un ruolo fondamentale a quelle interazio­ ni comunicative (linguistiche) orientate all'intesa ai fini della emanci­ pazione da tutte le costrizioni, e di cui il filosofo tedesco avrebbe trattato in modo più compiuto nella grande opera del 1 98 1 , Teoria dell'agire comunicativo .

Un altro termine del linguaggio che ricorre di frequente negli scritti e negli obiettivi dell'azione di Danilo Dolci è quello di "razio­ nalizzazione" , che è poi uno dei temi performativi della sociologia sin dal suo nascere nella seconda metà dell'Ottocento . Tale termine in Dolci, come nei grandi sociologi, è strettamente legato a quello di 5 Cf. D. Dolci, Nessi/ra esperienza etica e politica , cit. , pp. 378-7 9 .

1 10

"modernizzazione " . Ciò spinge anche Dolci a una ricostruzione e a un giudizio su quelle trasformazioni epocali avviate, appunto, dall'in­ sorgere dell'età moderna, dai suoi albori nel '500 alla rivoluzione scientifica e filosofica, e via via anche a quella cosiddetta industriale e a quella politica liberale e democratica . Tale ricostruzione non ha una specifica e sistematica trattazione, e occupa maggiore spazio nel­ le ultime due e importanti opere di Dolci : Nessi fra esperienza etica e politica del 1 993 e La struttura maieutica e l'evolverci del 1 996, l'anno prima della sua morte. Nelle opere precedenti, da Spreco a Verso un mondo nuovo e In­ ventare il futuro, il tema della modernità, con le sue conquiste po­ sitive delle innovazioni scientifiche e tecniche e delle idee e istitu ­ zioni democratiche, era il parametro di riferimento per la cosid ­ detta modernizzazione e razionalizzazione, che Dolci perseguiva n ella sua azion e per il rinnovamen to delle strutture economiche sociali e culturali in particolare della Sicilia occidentale . Nelle due ultim e op ere invece la modernità si rivela essa s tess a n ei suoi aspetti p roblematici e n ei suoi esiti di decadimento e di alto ri­ schio per l' avvenire della democrazia e per la salute stessa del pia­ neta nel quale viviamo . M a accenniamo prima al tema della prima fase che possiamo defi­ nire di equazione tra modernizzazione e razionalizzazione . Come il lettore potrà confermare, da quanto abbiamo riferito nella prima parte di questo lavoro, l'azione di Dolci, nella Sicilia degli anni Cin ­ quanta e Sessanta, si può riassumere col dire che è consistita nel ten ­ tativo di farla traghettare da condizioni di vita materiale culturali e politiche anteriori alla modernità, a quelle di un discreto benessere, della emancipazione dall'analfabetismo e da rapporti sociali e politici di sudditanza, di esclusione e della conquista delle capacità di parte­ cipazione democratica . Ciò, come s'è visto, era possibile attraverso una politica di pianificazione dall'alto e dal basso, che era in fondo lo strumento della modernizzazione e della razionalizzazione. Ma gli interessi di Dolci non erano esclusivamente concentrati sulla Sicilia. A partire soprattutto dagli inizi degli anni Sessanta nei suoi frequenti viaggi in varie parti del mondo osservava e studiava le modalità attraverso cui in alcuni paesi si realizzava la modernizzazio­ ne. e perciò la pianificazione. Dolci cioè era mosso dal bisogno, co111

me lui stesso affermava, di evadere dal «chiuso gioco delle parziali realtà», di «acquistare visione d'insieme». È stato facile all'esperienza degli uomini che hanno meditato notare che quanto più ci afferriamo ad un solo frammento della vita [ . . . ] tanto più la vita, che per sua natura è integrale e richiede partecipazione integrale, ci sfugge e ci si spreca. Quando i religiosi dei millenni scorsi hanno detto es­ sere la vita soprattutto anima, spirito, Dio, credo hanno voluto significare appunto questo bisogno dell'uomo di non disperdersi superficialmente, di costruire nel senso della vita sostanziale, che contenga cioè, potremmo an­ che dire, complessità di nutrimenti in giusto equilibrio.6

Nutrirsi dell'esperienza degli altri, confrontarsi con gli altri, è dunque per Dolci una legge della vita, il cui rispetto è necessario alla costruzione comune di «un mondo nuovo» . Dall'esperienza acquisita dai suoi viaggi emerge una visione unitaria, l'unità dei problemi da affrontare, la necessità di rapportarsi . Non era ancora l'interdipen ­ denza della globalizzazione attuale, ma quasi . Non era infatti nato il «villaggio globale»? In tutti i paesi visitati da Dolci si era, cioè, alle prese con i proble­ mi della pianificazione dello sviluppo e dei livelli da assegnare alla partecipazione popolare . Qui ci soffermiamo ad accennare come tali problemi venivano affrontati, a giudizio di Dolci, nell'U.R. S . S . e ne­ gli USA, e cioè nei due paesi più grandi del mondo che fungevano da opposti modelli di riferimento . Nell'Unione Sovietica era da riscontrare l'importanza attribuita alla pianificazione del potere comunista, i cui periodici piani di sviluppo erano tesi a superare il divario economico, tecnologico e industriale con i paesi capitalistici dell'Occidente. Dolci però notava come anche in questo Paese la «pianificazione organica», nonostante le apparenze, era «la scienza nuova» che doveva ancora essere «sviluppata». Da qui an­ che un «ritmo spesso ancora lento e burocratico».7 Quel limite, cioè, della burocratizzazione che, come sappiamo, sarà una delle cause della stessa "implosione" del regime sovietico e della stessa U.R.S .S ., 30 anni dopo le notazioni di Dolci, e nella piena indifferenza popolare. 6 Id., Verso un mondo nuovo, Torino , Einaudi, 1965 , Prefazione. 7 Id., Conversazioni, Giulio Einaudi Editore, 1962 , pp. 1 17 - 19.

1 12

Negli Stati Uniti riscontrava una carenza nell'accettare in modo diffuso la pianificazione. «Si potrà essere costretti a pianificare ma si negherà di farlo» perché «si ha paura che il socialismo si infiltri len ­ tamente senza che ce ne accorgiamo». Per questo «in America l'in ­ tervento statale è ancora considerato l' anormale eccezione». Se, quando in America si arriverà alla pianificazione, il suo posto sarà di­ verso dal posto che ha la pianificazione in Russia: sarà come un mancor­ rente quando si sale una scala, ma da una parte, per non cadere: non uno sfondo, un fine chiaro. Vero è che in questa coscienza che ogni gior­ no un' esperienza nuova deve essere fatta per rinnovare i nostri pensieri, i nostri piani e la nostra vita, sta il maggior antidoto contro il pericolo di pigliare i piani come dogmi. Se, quando gli americani arriveranno alla pianificazione (e lo dovranno fare se vorranno svilupparsi organicamen­ te) , avranno dalla loro tradizione la sapienza di minimizzarli e di non considerarli come importanti in sé. 8

8

Ib. , pp. 1 17 - 1 1 9 .

1 13

CAPITOLO II

LA MODERNITÀ E LE SUE PATOLOGIE

Abbiamo visto come Dolci sociologo sia stato attento anche al­ l' analisi, cara alle scienze sociali empiriche, di specifici problemi; e quelli della mafia e della modernizzazione sono valide esemplifica­ zioni. Ma ciò avveniva in un contesto critico della società attuale che manteneva però viva una prospettiva di emancipazione che si andava allargando alla sfera mondiale. Ed era appunto tale prospettiva con le sue motivazioni utopiche che lo spingeva a cercare nel fluire della storia l'avvento stesso della modernità, nelle sue varie e complesse caratteristiche e nel suo declino nella recente storia del Novecento . Tale ricerca in Dolci, come già abbiamo anticipato, non ha nulla di sistematico e si configura come «un diario di bordo» , di chi, come lui, ha navigato nei secoli alla ricerca di «voci che rischiano di spe­ gnersi alla nostra coscienza». Egli così si fa «maieuta di richiami ina­ scoltati» , comunica con qu an ti «da secoli, millenni» si rivelano «creature profetiche» che nel loro tempo «avviano altra storia». Ap­ prendiamo dunque che la maieutica non è solo una speciale comuni­ cazione tra due o più interlocutori, tra educatore ed educando, ma anche una «maieutica infraepocale». 1 Apprendiamo così che nella storia possiamo certamente distin ­ guere epoche che si caratterizzano per le loro speciali strutture socia­ li politiche economiche e culturali, ma senza con ciò fare distinzioni eccessivamente rigide . Filosofi, fondatori di religioni di epoche pas­ sate possono essere di grande attualità almeno per certi loro insegna­ menti che anticipano il futuro . E così Platone, quando nelle Leggi (857) afferma che coloro che si occupano delle leggi, nel dare norme 1 Cf. D. Dolci, La struttura maieutica e l'evolverci, La Nuova Italia Editrice, S candicci (Firenze) 1996, Premessa.

1 15

ai cittadini debbono nello stesso tempo saperli educare. E così il cri­ stianesimo, che per Dolci «nell'affermare la superiorità dell' amore sulla giustizia, non è mo dern o ma nuovo» . 2 Il n u ovo cioè «non esclude il passato» . La filosofia di Dolci affon ­ da così in un sapere antico che dal punto di vista teoretico e di quel­ lo pratico si può esprimere con la saggezza di uno dei primi filosofi, Eraclito, secondo cui «Tutte le cose sono uno», e secondo cui «la s o­ phia è dire cose vere e farle». Essa ha i tratti di una sapienza matura­ ta nel dialogo con l'intera cultura occidentale e orientale, religiosa e laica, di cui sa raccogliere un'eredità che gli appariva necessaria nella crisi della modernità, per la costruzione di un mondo nuovo . N ella storia del pensiero filosofico la modernità si caratterizza, da Montaigne a Nietzsche, per aver deposto qualsiasi verità assoluta e nell'aver affermato il cosiddetto relativismo, che non è da confonde­ re con il nichilismo che è una negazione dei valori . Il relativismo in ­ vece si limita a contrastare il principio che una supposta verità, una determinata ideologia seguita da una parte dell'umanità, debba esse­ re seguita da tutti . Il relativismo è perciò profondamente legato al principio della libertà religiosa, di pensiero, di stampa, di associazio­ ne che sono altrettante espressioni delle conquiste politiche liberali e democratiche proprie dell'età moderna. Dolci attribuiva una valenza etica a tali conquiste della modernità che la nostra età contempora­ nea non può cancellare se non vuole imbarbarirsi in rapporti oppres­ sivi e violenti anche nei confronti dei singoli e dei popoli di diversa etnia e religione. Un futuro di pace chiama ognuno a progettare responsabilmente la sua vita con gli altri, a superare vuoti patologici. Scelte ancora intentate ri­ chiedono trasparenti bilanci, fonde e complesse valutazioni, as cetiche tensioni. La prova di una verità etica si può ottenere nel laboratorio di una vita, di varie vite in opera comune, nei secoli. Oltre ogni sclerosi moralistica, oltre ogni nichilismo, attenti al relativo, ci occorre fondare un universo etico, sia pure problematico e conflittua­ le, attento ai mutamenti. Come si configurano i valori? Non esistono valori assoluti, avulsi da creature. Non esiste la coscienza assoluta. Non essendo possibile posse-

2 Id. , Nessi/ra esperienza etica

1 16

e

politica , cit. , p. 46.

dere tutta la verità occorre, valorizzando quanto collaudato dai secoli, alimentarci e fecondarci da ogni incontro. Ancora siamo mentalmente condizionati dal modello del sole, a noi fondamentale luce, e troppo ar­ duo pensiamo illuminarci da ogni lume? Ogni fiorire è sempre luminoso, diversamente illumina. Incontrarsi, riu­ nirsi, illumina il futuro.3

Ma nei confronti della modernità Dolci esprime valutazioni com­ plesse e critiche nelle sue ultime opere . In queste egli denuncia una «crisi epocale» della modernità di cui precisa «le caratteristiche es­ senziali» e il «virus tipico». Ingredienti insani della modernità sono soprattutto l'ampia rapina siste­ matica di uomini e natura (non solo "in guerra" come prima era awenu­ to) continuamente anche sul proprio suolo, come è iniziato da Cristofo­ ro Colombo in poi [ . . . ] ; il confondere e ridurre la realtà del potere e del­ la politica al dominio, come codificato da Machiavelli; il ridurre l'organi­ smo a macchina e la natura a megamacchina secondo la razionalità ri­ duttivamente utilitaria di Cartesio.4

Per Dolci, cioè, la modernità si contrassegna per quelle «scissio­ ni» di cui Hegel, tra i primi, ebbe consapevolezza. Nel brano sopra­ citato Dolci accenna a quelle tra uomo e natura, tra politica ed etica, tra scienza-tecnologia e vita, che generano appunto le patologie della modernità. Alla modernità dobbiamo certamente conquiste tra cui lo svilup­ po scientifico e tecnologico e la rivoluzione industriale, che non van ­ no demonizzate ma criticate per le distorsioni dovute in parte alla volontà dei dominatori. Tali distorsioni hanno portato, come notava Leopardi, allo «snaturamento dell'umano» e al lavoro alienato che aliena la coscienza, come nell'analisi di Carlo Marx .5 La modernità ha poi significato sempre più «cultura di massa», produzione di massa, «docile pasta manipolata e pilotata» attraverso la scuola e soprattutto i moderni mezzi di comunicazione fra cui la televisione, «l'abile in du stria della distrazione» che «idiotizza le 3 Ib. , p. 1 4 . 4 Ib. , pp. 42 -43 . 5 Ib. , pp. 46-47.

1 17

"masse " [ . . . ] svuotandone l'anima», finalizzata «a consolidare i de­ spoti, i padroni di questa era».6 Il percorso della modernità è stato accidentato . Da un lato in esso si segnalano importanti conquiste civili e democratiche, sia pure nel­ la conflittualità con i "dominatori" ; dall'altro l' affermarsi di una "vo­ lontà di potenza" , da parte di questi ultimi, che oltre a generare siste­ mi dittatoriali ha scatenato le immani tragedie delle due guerre mon ­ diali nella prima metà del Novecento . Ma anche dopo quel periodo dell'età moderna, che si suol deno­ minare dell' «imperialismo», le guerre e le violenze d'ogni genere non sono cessate, così come non sono cessati la fame nel mondo, gli spre­ chi, il rovinoso assalto alla natura che ne compromette gli equilibri, l'inurbamento incontrollato che produce degli ammassamenti che trasformano parecchie città nelle odierne megalopoli inquinate e in ­ vivibili di oggi, o in quelli che Dolci chiama «omili» «ammorbati dai propri rifiuti».7 Continuando così per Dolci «rischiamo diventare sul pianeta, i pa­ rassiti più pericolosi. Dominando rischiamo il suicidio planetario».8 Il problema non è rendere reversibile la modernità: ma guarire la vita dai suoi virus, in parte antichi e per gran parte inediti. Nel ricercare nuovi equilibri dinamici [ . . . ] La grande svolta , lentamente si evidenzia, può avvenire nel rifiutare l'opinione che l'uomo "ha bisogno di un padrone " ; nel respingere l'opi­ nione che l'uomo è " come un legno storto" da cui "non può uscire nulla di interamente diritto" ; nel rigettare il pregiudizio che il dominio degli uomini è necessario, col relativo rapporto fra comando-comandamento e obbedienza-sudditanza . La grande svolta può avvenire elaborando un'etica la quale affermi necessario che ognuno impari a comunicare, im­ pari a crescere creativo, mentre apprende a coorganizzarsi: un'etica che consideri crimine il dominio, l'assuefare "le masse al dominio" , l'esalta­ zione della volontà di dominio - del Superuomo o dello Stato, sul bran­ co -, mentre l'alternativa cresce dall'apprendere la creatività comunican­ te nelle strutture valorizzatrici. 9 6 Ib. , 7 Ib. , 8 Ib. , 9 Ib. ,

1 18

pp. 14

e

49.

pp. 2 67 , 275 p. 143 . pp. 7 1

e

74.

e

290.

La grande svolta richiedeva perciò fiducia e impegn o diffuso nel perseguire un 'utopia che si riteneva possibile realizzare attra­ verso una coniugazione tra etica e politica e un rinnovato impegno educativo .

1 19

CAPITOLO III

QUEL "DESIDERIO CHIAMATO UTOPIA". DOLCI E IL PENSIERO FILOSOFICO MODERNO E CONTEMPORANEO

Filosofi e scrittori nel corso dei secoli e dei millenni hanno scrit­ to opere in cui descrivono, come afferma Machiavelli, Stati ideali «che non si sono mai visti né conosciuti essere invero» . Tra queste ricordiamo La Repubblica di Platone, La città del Sole di Tommaso Campanella, l' Utopia di Tommaso Moro, che è il coniatore della stessa parola composta «utopia» di derivazione greca, del cui signi­ ficato son o state date due definizioni : la prima, " non luogo " o "luogo che non esiste " , (dalla particella ou, "non " , e dal termine to­ pos , "luogo " ) ; la seconda, "luogo della felicità " , del bene (che in ­ terpreta il termine u come contrazione della particella eu , "bene " ) . Quanto forti siano stati, nel corso del tempo, la suggestione e il de­ siderio dell'utopia, è provato dallo stesso Machiavelli, teorico della scienza politica degli inizi dell'età moderna, che nelle condizioni stori­ co-sociali in cui scrive dichiara di voler andare dietro alla «verità effet­ tuale della cosa» anziché all' «immaginazione di essa» , l ma che nell'ul­ timo capitolo del Principe, agli inizi del Cinquecento, si abbandona agli slanci profetici, che lo inducono a credere possibile, proprio nelle condizioni di divisione, di disgregazione, di ignavia diffusa e di occu­ pazione straniera, l'utopia dell'unità e dell'indipendenza dell'Italia. In Danilo Dolci l'utopia non si manifesta nella costruzione a ta­ volino di una " città ideale" , né nelle non meditate impennate del desiderio. Sebbene le " città ideali" sono la spia di una insoddisfa­ zione delle condizioni presenti della società e del desiderio di cam­ biamento, alla realizzazione di quest'ultimo occorre per Dolci aver chiare le mete e agire con una buona dose di pragmatismo per an 1 Cf. Nicolò Machiavelli, Il Principe, XV, l .

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dare realizzando via via precisi obiettivi nella direzione della crea­ zione di un mondo nuovo . Il pensiero utopico di Dolci ha dunque le sue radici nelle filoso­ fie moderne centrate sul dover essere anziché sull'essere. E precisa­ mente nel pensiero riformistico degli illuministi a cui risalgono i prin cipi di libertà, di ugu aglianza, di democrazia , e con Kant il principio dell' autonomia dalla ragione pu ra pratica che si libera dalla dipendenza da principi assoluti trascendenti. Estraneo a Dolci è invece Hegel, che per porre fine alla trascen ­ denza, e cioè a un Assoluto o a un Dio fuori dal mondo , lo identifi­ ca con la stessa realtà, con ciò che è «assolutamente ora» . E così il suo principio, che fa coincidere il reale col razionale, finisce per esaltare la presenzialità, lo S tato attuale, nel quale si risolvono le varie forme dello spirito assoluto . Hegel così finisce anche per sco­ raggiare non solo la critica del reale, ma anche una proiezione del pensiero e dell'azione umana nella immaginazione e nella costru ­ zione di un futuro diverso dal presente . A riproporre il problema di come uscire dalla prigionia del presen­ te sono, dopo Hegel, i socialisti utopici, Marx e i positivisti . Danilo Dolci accoglie il principio marxiano secondo cui i filosofi finora hanno cercato di spiegare il mondo e che spetta ad essi oggi studiare come si possa cambiare, ma rifugge da un progetto di futuro, il comunismo, la cui realizzazione dipenda da una teoria deterministica, e cioè da pre­ sunte leggi scientifiche che presiedono lo sviluppo dei rapporti di pro­ duzione, da leggi intrinseche allo sviluppo economico e sociale. Allo stesso modo respinge l'utopia positivista basata sull' avven ­ to di un'età della scienza e della tecnica che avrebbe apportato be­ nessere e felicità all'umanità . Come s'è visto, per Dolci la scienza e la tecnica di per sé non determinano una società migliore, la cui co­ struzione dipende dagli esiti di un conflitto in atto tra i fautori da un lato dei rapporti di " dominio " e dall' altro da quelli di "potere " , che sono orientati anche nell'uso della scienza e della tecnica a sco­ pi di asservimento i primi o a scopi liberatori i secondi. Dolci, più in generale, è ostile a quelli che Lowith definisce «i presupposti teologici della storia».2 Tali presupposti si trovano infatti 2 Questa espressione è il sottotitolo dell'edizione italiana dell'opera di Karl Lowith, Signi­

ficato e fine della storia, Est , Milano 1998 [ 1 949] .

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nella filosofia della storia, e si fondano sul «principio per cui gli eventi storici e le loro conseguenze vengono posti in connessione e riferiti a un significato ultimo».3 Si tratta cioè di quelle teorie filosofi­ che per le quali, seguendo la tradizione ebraica e cristiana, la storia avrebbe un significato essendo proiettata verso un futuro che si pre­ senta come il tempo del compimento . Ma a differenza della filosofia cristiana della storia, per la quale tale tempo coincide con l'atteso ri­ torno del Cristo giudice e l'instaurazione del Regno di Dio che por­ ranno fine alla storia terrena, le filosofie della storia dell'Ottocento e del primo Novecento hanno secolarizzato l'aspettativa dell' éschaton (degli " eventi ultimi " ) riponendola chi nel trionfo della scienza, chi del comunismo, chi della libertà. Lo stesso nazismo e il fascismo si pongono come ere conclusive del processo storico nella loro aber­ rante ideologia del dominio totalizzante e decisionista del dittatore carismatico e della razza superiore nel mondo . Anche per Dolci, come per i grandi utopisti del passato, l'utopia ha un 'essenza politica . Ma a differenza di questi ultimi che « "scaval­ cano" il momento della rivoluzione per pensare a una società "post­ rivoluzionaria" radicalmente diversa» ,4 Dolci si qualifica un rivolu ­ zionario, perché promuove mutamenti nel sistema politico attuale in vista della realizzazione, sia pure graduale e proiettata nei secoli, del­ le sue numerose, piccole e grandi utopie. Egli cioè fa suo l'ammoni­ mento di Zarathustra, a cui Nietzsche fa dire : «Il futuro e ciò che sta in remota lontananza sia la causa del tuo oggi».5 Quest'ultimo filosofo, vissuto nella seconda metà dell'Ottocento, è vicino alle problematiche utopiche più di quanto Dolci stesso ebbe a pensare. Egli infatti "certifica" con la sua lapidaria frase «Dio è morto» la caduta definitiva della verità assoluta.6 Ma non si limita a prendere atto di un processo che viene maturando lungo tutto l'arco dell'età moderna, perché ne coglie anche le complesse conseguenze. Egli, cioè, si fa buon profeta nel prevedere l'avvento del nichilismo, che trova una diffusione di massa nei decenni in cui viviamo . "Ni chi­ lismo " è un termine che deriva dal latino nzhil ( ''nulla" ) e che nella 3 Ib. , p . 2 1 . 4 Cf. Fredric Jameson, Il desiderio chiamato Utopia, Feltrinelli, Milano 2007 , p . 34 . 5 Cf. Friedrich Nietzsche, Così parlò Zaratustra, Adelphi, Milano 2003 , p. 68. 6 Id. , La gaia scienza, libro terzo , 125 (L'uomo folle) .

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definizione datane dallo stesso Nietzsche nei Frammenti postumi 1 887 - 1 888 (fr. 9,3 5 ) significa «che i valori supremi perdono valore». E poco più oltre (nel frammento 1 1 , 1 1 9) : «L'uomo moderno crede sperimentalmente ora a questo ora a quel valore, per poi !asciarlo ca­ dere [ . . . ] Alla fine osa una critica dei valori in generale; ne riconosce l'origine, conosce abbastanza per credere in nessun valore; ecco il pa­ thos, il nuovo brivido . Quella che racconto è la storia dei prossimi due secoli». Ma l' annuncio della "morte di Dio " , che «non è determinato da un'insana mania di profanazione»,7 e la stessa diffusione del nichili­ smo, inducono lo stesso Nietzsche a prevedere, non essendoci una morale e un sistema di valori dato e definitivo, che i veri filosofi si sentano «come illuminati dai raggi di una nuova aurora» . Il loro «cuore straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presagio, d'attesa». Ad essi «l'orizzonte torna ad apparire libero»; e così possono di nuo­ vo «sciogliere le vele» delle loro navi «muovendo incontro ad ogni pericolo; ogni rischio all'uomo della conoscenza è di nuovo permes­ so; il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinnanzi; forse non vi è ancora mai stato un mare così " aperto "».8 Al di là di ogni dubbio, in Nietzsche l'uomo della conoscenza, il vero filosofo, è anche il vero "superuomo " che incarna la "volontà di potenza" , «un istinto che proviene dall'impulso stesso della vita a su­ perare continuamente se stessa e quindi a creare, senza indulgere alla coazione a ripetere in cui si accucciano tutte le altre specie viventi». 9 Dolci è in qualche punto fuorviato dagli equivoci interpretativi a cui inducono certe affermazioni contraddittorie di Nietzsche, come quando afferma che «non sa concepire la forza se non come volontà di sopraffazione, volontà di oppressione» . E così Nietzsche a suo giudizio non avrebbe saputo distinguere «la morale come "maschera equivoca, malattia, repressione, narcotico, tossico» dall' " etica della salute" . Infatti per Dolci «altro è accettare vilmente, sistematicamen ­ te, di lasciarsi umiliare -, e altro la coraggiosa umiltà operante (di 7 Cf. Umberto Galimberti, L'ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Mila­ no 2007 , p. 19. 8 Cf. Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, 343 . 9 Cf. Eugenio S calfari, Per l'alto mare aperto. La modernità e il pensiero danzante, Einau­ di, Torino 2 0 1 0 , p. 23 8.

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Gandhi e Einstein , ad esempio)». Rimprovera poi a Nietzsche di non suggerire strade praticabili per operare un cambiamento oltre alla ri­ flessione come mero atto intellettuale. Nietzsche, poi, «avverso al­ l'aggregarsi ( "è stata la debolezza a volere il gregge" ) , non ha saputo che sia il comunicare veramente ( '' ancora non so di nessun amico " ) , sperimentare insieme, crescere creativamente insieme». Critiche che nascono anche da una proiezione di qualità propositive proprie di Dolci su una figura di filosofo e di grande e prolifico scrittore con gravi p roblemi esistenziali, quali la solitudine, l'incomprensione, le malattie. La lettura di Dolci non si ferma però a queste " considerazioni" che si potrebbero definire, per Nietzsche, "inattuali" . Dolci infatti ri­ conosce che, «in fondo, a questo denunciatore inesorabile, una spe­ ranza è insopprimibile [. . . ] . Pur lacerato, ancora spera che la volontà di verità divenga " cosciente di sé" . Ancora spera che dalle paludi delle menzogne e dell'avversione alla vita, la volontà di verità prenda coscienza di sé come problema».10 E allude forse al passo finale della seconda dissertazione della Genealogia della morale, che si conclude con l'accenno all' «uomo dell'avvenire, che ci redimerà [. . . ] dal gran ­ de disgusto, dalla volontà del nulla, dal nichilismo»; e a se stesso co­ me il profeta dell' «uomo redentore» che ora vive la propria «solitu ­ dine» «fraintesa dal popolo, come se fosse una fuga dalla realtà». Nietzsche fu buon profeta nel suo annuncio dell'avvento del nichi­ lismo, che si è espresso nel corso del Novecento in alcune posizioni fi­ losofiche pessimistiche, quale quella di Heidegger con la sua riduzione antologica dell' «esserci» all ' «essere per la morte», che spingeva l'uo­ mo a prendere atto del nulla di senso dei progetti umani e dell'esisten­ za. Si può dire che l'eredità di Nietzsche nel corso del Novecento sia stata accolta spesso fraintendendo il senso di alcune sue espressioni, quali il «superuomo» o la «volontà di potenza», volte a giustificazione di certe condotte decadenti ed estetiste (il D'Annunzio che costruisce la sua vita a misura di un 'opera d'arte), o imperialiste e razziste quali quelle dei regimi dittatoriali di Mussolini e Hitler. Ma la diffusione della tematica del nichilismo a livello di riflessio­ ne filosofica e soprattutto di un vissuto di massa distante dalla fidu 1° Cf. D. Dolci, Nessi/ra esperienza etica e politica, cit . , pp. 3 75 -7 6 .

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eia e dalla pratica dei valori, col quale coincideva per Nietzsche l' av­ vento del nichilismo, sono fenomeni che si verificano a partire dagli ultimi decenni del Novecento . Ed è appunto del 1 979 la pubblica­ zione del volume di Jean -François Lyotard, La condition postmoder­ ne, nella quale la condizione postmoderna si caratterizzerebbe per la fine delle «grandi narrazioni» o " racconti " di emancipazione di varia matrice ideologica. Questi " racconti " sono stati sistematicamente in ­ validati. Quello idealistico, secondo cui "ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale " , è confutato da Auschwitz e da altri luoghi dei crimini nazisti che sono stati reali ma non razionali . Quel­ lo marxista, o del comunismo, è stato invalidato dallo stalinismo, dal­ le insurrezioni e dalle conseguenti repressioni avvenute a Budapest nel 1 956, in Cecoslovacchia nel 1 968, e dal crollo stesso dell'Unione Sovietica. Quello del liberalismo economico, secondo cui il libero gioco della domanda e dell'offerta favorirebbe l'arricchimento gene­ rale, è stato smentito dalle crisi del 1 929, del 1 974-'79 e da quella dei nostri giorni iniziata nel 2008. E così, negli ultimi decenni del Novecento è venuta meno la fidu ­ cia nella storia e si è diffusa «un'ideologia del presente e dell' eviden ­ za che paralizza lo sforzo di pensare il presente come storia, un 'ideo­ logia impegnata a rendere obsoleti gli insegnamenti del passato, ma anche il desiderio di immaginare il futuro». 1 1 Nel dibattito ancora attuale sul moderno, il postmoderno e il ni­ chilismo, Dolci non mostra rimpianti per antiche certezze metafisi­ che, ma si distanzia dai sostenitori del "pensiero debole " , come Gianni Vattimo che si rifiuta di inseguire nuove totalità e nuovi valo­ ri col rischio di rimanere schiacciato in una "filosofia del presente" , che tra l'altro è il titolo di una sua opera . Anche Dolci ritiene una conquista moderna la fine delle certezze assolute, ma non per questo rinuncia a costruire sin da subito un nuovo futuro fondato sul rispetto della persona umana, dell' ambien ­ te naturale, della democrazia e della nonviolenza. La sua poi non è l'attesa inerte di un'utopica alba radiosa che dovrebbe sorgere in un futuro imprecisato e senza un'attiva mobilitazione umana . Se l'uscita dal nichilismo, come lo stesso Nietzsche auspicava, si identifica con 11 Cf. Mare Augé, Che fine ha fatto il futuro. Dai non luoghi al non tempo, Elèuthera , Mi­ lano 2009, p. 88.

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la conquista di valori, non possiamo abituarci, come Vattimo consi­ gliava, «a convivere con il niente». 12 In verità, per Vattimo, l'individuo " debole " dell'età post-moderna che ha abbandonato le ideologie forti del passato, fonti di autoritari­ smi e intolleranze di ogni tipo, risulta meglio in grado di vivere nel mondo fluido e sfaccettato del presente e di sposare la pratica della nonviolenza, della tolleranza e del dialogo . Ma non sono tali condi­ zioni e valori un portato della tradizione cristiana e della modernità non ancora realizzato? E questa mancata o piena realizzazione di quei valori, insieme al superamento di quelle che Dolci ha descritto come sussistenti patologie della modernità di cui oggi si ha diffusa consapevolezza, non autorizzano a scorgere nei nostri anni l'aurora di una nuova epoca? La risposta a questa domanda è positiva, e Dol­ ci nel panorama filosofico dei suoi anni si qualifica come un profeta che non solo annuncia ma anche opera per la costruzione di un nuo­ vo futuro per l'umanità . Chiudiamo questo capitolo con alcune recenti riflessioni di Zyg­ munt Bauman , che sembrano in qualche punto richiamarsi al pensie­ ro e agli scritti di Dolci, anche se non appare che l'illustre sociologo polacco ne mostri conoscenza. Egli si chiede se oggi «siamo di fronte alla fine dell'utopia»; e la risposta non può non essere affermativa «se si considera che le prime utopie moderne prevedevano un punto in cui il tempo si sarebbe fermato; per meglio dire, una fine del tem­ po in quanto storia». Bauman contesta tale modo di intendere l'uto­ pia con la metafora del cacciatore, per il quale la cattura di una lepre non pone fine alla caccia che riprende il mattino seguente, e così sen­ za fine. «Invece di vivere in direzione di un 'utopia, ai cacciatori viene offerto di vivere dentro un'utopia». n E così per Dolci, la cui utopia non pone un traguardo finale, do­ po il quale essa cessa . Le utopie moderne progettavano a tavolino una nuova città dell'uomo che avrebbe posto fine alle loro tribolazio­ ni e insieme a queste alla stessa storia . Per Dolci invece l'utopia non 12 Cf. Gianni Vattimo, Le mezze verità, ed. La Stampa, Torino 1 988, p . 1 1 (citato da Gio­ vanni Fornero in Nicola Ahbagnano, Storia della filosofia. La filosofia contemporanea , vol. 4 , UTET, Torino 2003 , p. 4 17 ) . 13 Cf. Zigmunt Bauman. Modus vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido, Laterza, Bari 2 007 , pp . 123 -2 6 .

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va collocata in un «altrove» remoto, ma nel «qui e ora» perché chi la realizza via via vi vive dentro . Ed è anche vero e corrispondente all'analisi di Dolci, già da noi accennata, sulle patologie della modernità, che molti aspetti della re­ altà in cui viviamo, descritte anche da Bauman, sono definibili come un «inferno»: l'inferno delle metropoli sovraffollate, dei rifiuti, dei disastri ecologici e atomici, della fame di cui soffre più di un miliar­ do di persone, dell'enorme diffusione delle droghe, delle epidemie, delle guerre spietate, del terrorismo . Ma come avviare a mutare tale inferno con una prassi utopica del tipo di quella suggerita dallo stesso Dolci e da Bauman , ce la suggeri­ sce anche Italo Calvino nel discorso che fa pronunciare a Marco Po­ lo nella sua opera Le città invisibili: L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che facciamo stando insie­ me. Due modi ci sono per non soffrirne. n primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. n secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cer­ care e saper riconoscere che e cosa, in mezzo all 'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Ed è questo il cammino suggerito dalla speranza. Su questo cammi­ no Dolci trova validi